Il buon soldato Sc'vèik
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Universale Economica Feltrinelli

Parte prima e seconda NELLE  RETROVIE  - AL FRONTE

Universale Economica Feltrinelli

Parte prima e seconda NELLE  RETROVIE  - AL FRONTE

Illustrato da Josef Lada

Feltrinelli

Titolo dell’opera originale OSUDY DOBRÉHO VOJÁKA ŠVEJKA 1. V. ZÁZEMÍ. 2. NA FRONTĚ 3. SLAVNÝ VÝPRASK. 4. PROKRAČOVÁNÍ SLAVNÉHO VÝPRASKU

(Klhu, Praha 1955) © Alexandra Věrná e Richard Hašek Traduzione dal ceco di RENATO POGGIOLI (prima parte) BRUNO MERIGGI (seconda parte) © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Parte prima Prima edizione nell’«Universale Economica» novembre 1961 Parte seconda Prima edizione nell’«Universale Economica» novembre 1963 Quarta edizione ottobre 1988 ISBN 88-07-81048-4

Prefazione

Una grande epoca esige grandi uomini. Vi sono degli eroi ignorati ed oscuri, privi della fama e della gloria d’un Napoleone. L’esame della loro indole darebbe ombra perfino alla gloria d’Alessandro Magno. Oggigiorno si può incontrare per le vie di Praga un uomo trasandato, che non sa affatto quanta importanza abbia avuto la propria opera nella storia d’un’epoca grande e nuova come questa. Egli percorre tranquillamente la sua strada, senza che nessuno gli dia noia e senza dar noia a nessuno, e senza essere assediato da giornalisti che gli chiedano un’intervista. Se gli domandaste come si chiama, vi risponderebbe con l’aria più semplice e più naturale del mondo: «Io son quello Sc’vèik…» E quest’uomo cheto, semplice e trasandato è nientedimeno che il vecchio e buon soldato Sc’vèik, perseverante ed eroico, il cui nome al tempo dell’Austria era sulla bocca di tutti i cittadini del Regno di Boemia, e la cui gloria non tramonterà neppure sotto la Repubblica. Io voglio molto bene al buon soldato Sc’vèik, e raccontandovi le sue avventure durante la guerra mondiale sono convinto che tutta la vostra simpatia si rivolgerà verso questo eroe umile ed oscuro. Egli non ha mica incendiato il tempio della dea in Efeso, come fece quell’imbecille d’Erostrato, allo scopo d’apparire sui giornali e nei libri di lettura. E ciò mi pare che basti.  L’Autore

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Si è preferito conservare la grafia originale dei nomi cechi (tranne per il nome del protagonista, Sc’vèik) dato che l’alfabeto ceco è ormai generalmente usato per la trascrizione di molti alfabeti slavi e la sua conoscenza è pertanto largamente diffusa. Per la pronuncia valgano comunque le seguenti indicazioni:

1)  L’accento è sempre sulla prima sillaba di ogni parola. 2)  Le vocali con accento acuto si pronunciano lunghe. 3)  ě si pronuncia iè. 4)  Per le consonanti: d’, t’, ň hanno un suono palatalizzato. c suona sempre z sorda. č suona come c di «cera». g ha sempre suono gutturale di «ghetta, gozzo.  h è una aspirata sonora. ch è una aspirata sorda, come toscano «casa». ř somiglia alla r siciliana di «tri». s è sempre sorda, come in «massa». š suona come sc di «sciocco». z è una s sonora di «rosa.  ž corrisponde a j francese.

B. M.

Parte prima

Nelle retrovie

1 Come ebbe luogo l’intervento del buon soldato Sc’vèik nella guerra mondiale

«Sicché ci hanno ammazzato Ferdinando», disse la fantesca al signor Sc’vèik, che avendo lasciato da qualche anno il servizio nell’esercito per essere stato dichiarato idiota dalla commissione medica militare, ora viveva vendendo degli orribili cani, ibridi mostri pei quali compilava delle fittizie genealogie. Come se questa occupazione non bastasse, era affetto da reumatismi, e proprio in quel momento si stava frizionando i ginocchi con l’unguento di opodeldok. «Quale Ferdinando, signora Müller?» domandò Sc’vèik senza cessare di massaggiarsi i ginocchi. «Io conosco due Ferdinandi: il primo è commesso dal droghiere Prušy, e una 11

volta si bevve per isbaglio una bottiglia di lozione per capelli; e poi conosco anche Ferdinando Kókoška, che raccoglie lo sterco di cane. Per tutti e due non sarebbe un gran male». «Ma nossignore: l’arciduca Ferdinando, quello di Kónopište,1 così grosso e così religioso…» «Gesummaria!» esclamò Sc’vèik. «Questa sì che è bella! E dov’è che gli è capitata questa faccenda, all’arciduca?» «Gli hanno sparato addosso a Sarajevo, con la rivoltella, signor mio, mentre se n’andava in automobile con l’arciduchessa». «Guarda un po’, in automobile, signora Müller. Un tale si permette l’automobile e non va certo a pensare che una girata in automobile vada a finir così male. E come se non bastasse ciò va a capitargli a Sarajevo, che è in Bosnia, signora Müller. La colpa non può essere che dei turchi. Noi abbiamo fatto proprio male a prender loro la Bosnia-Erzegovina. Chi la fa l’aspetti, signora Müller. Così ora il signor arciduca se la riposa nella pace di Dio. Ma ha sofferto molto?» «Il signor arciduca è morto sul colpo, signor mio. Si sa bene che una rivoltellata non è un balocco. Non è mica molto che un signore su da noi al quartiere di Nusle si è messo a scherzare con una rivoltella ed ha ammazzato tutta la famiglia, più il portiere che era salito a vedere chi era che sparava al terzo piano». «Ci son delle rivoltelle, signora Müller, che non vi fanno male neppure se s’impazza perché sparino. Di tali sistemi ce n’è un subisso. Ma si vede che per l’arciduca si son pro­curati qualcosa di meglio, e ci scommetterei, signora Müller, che l’uomo che ha fatto il colpo s’era vestito bene apposta. Si sa che sparare addosso a un arciduca è una faccenda piuttosto difficoltosa, e che si tratta di ben altra cosa di quando un bracconiere tira ad una guardia campestre. E poi ad un signore come quello non ci si può mica presentare vestiti da straccioni; bisogna portare il cilindro, altrimenti un poliziotto vi porta via». «Pare che fossero in parecchi, signor mio». «Questo si capisce da sé, signora Müller», disse Sc’vèik quand’ebbe finito le sue frizioni ai ginocchi. «Anche voi, se vi venisse la voglia d’ammazzare un arciduca o un imperatore, la prima cosa che fareste sarebbe d’andare a chieder consiglio a qualcuno. Più sono le persone, più è il giudizio. Chi propone una cosa, chi un’altra e allora ‘l’opera riesce,’ 1 

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Tenuta arciducale.

come dice il nostro inno nazionale. La cosa più importante è di cogliere il momento giusto, quando un simile personaggio vi passa davanti. Vi rammentate per esempio di quel signor Luccheni che trafisse la nostra defunta Elisabetta a colpi di lima? Era andato a fare una passeggiata con lei. Fidatevi della gente, signora Müller. D’allora in poi non c’è più un’imperatrice che si permetta una passeggiata. E la faccenda capiterà ancora a molte persone. Vedrete, signora Müller, che raggiungeranno anche lo zar e la zarina, e può darsi, che Dio ci salvi, anche il nostro grazioso sovrano, visto che hanno cominciato con suo zio. Il nostro vecchio sovrano ha molti nemici, molti più dello stesso Ferdinando. È quello che diceva pochi giorni or sono un signore all’osteria, che verrà un bel giorno che tutti questi imperatori capitomboleranno l’uno dietro l’altro e che non ci potrà far nulla nemmeno il procuratore generale. Poi non aveva da pagare il conto, e allora l’oste ha dovuto farlo arrestare, ma lui ha dato uno schiaffo al padrone e due all’agente. Allora l’hanno portato in gattabuia perché riacquistasse la memoria. Sicuro, signora Müller, ne succedono delle belle oggigiorno! Tutte perdite per l’Austria. Quand’ero militare, un soldato di fanteria ammazzò il capitano. Caricò il fucile e si recò in fureria. Qui gli dissero che non aveva nulla a che fare, ma lui insisté dicendo di dover parlare col capitano. Allora il capitano uscì fuori e subito gli affibbiò una consegna; lui a sua volta impugnò il fucile e lo colpì proprio al cuore. La palla uscì fuori dalla schiena del signor capitano e fece ancora dei danni in fureria: frantumò una bottiglia d’inchiostro e macchiò tutte le carte d’ufficio». «E quel soldato come finì?» chiese dopo una pausa la signora Müller, mentre Sc’vèik si rivestiva. «S’impiccò con le bretelle», disse Sc’vèik lustrando con forza il suo cappello duro. «Anzi con un paio di bretelle che non erano neppure sue. Se le fece imprestare dal secondino, con la scusa che gli cascavano i pantaloni. Avrebbe forse dovuto aver pazienza fino al plotone d’esecuzione? Si sa bene, signora Müller, che in casi come questi chiunque perderebbe la testa. Il secondino fu degradato e si buscò sei mesi di prigione, ma riuscì a cavarsela: fuggì in Isvizzera, ed ora è predicatore di non so quale chiesa. Oggigiorno c’è poca gente per bene, signora Müller. Io mi figuro che anche al signor arciduca a Sarajevo è successo d’ingannarsi a proposito dell’uomo che gli ha sparato. Ha visto una persona e s’è detto: ‘Costui è certo un buon uomo che vuol gridarmi 13

evviva.’ E invece quell’uomo l’ha abbattuto. Gli ha tirato un colpo solo o più d’uno?» «I giornali dicono, signor mio, che l’arciduca è rimasto bucato come un crivello. Quel tale gli ha sparato addosso tutte le sue cartucce». «Oh, son cose che si fanno alla svelta, signora Müller, terribilmente alla svelta. Io in un caso simile mi comprerei una browning. Ha l’aria d’un balocco: eppure con quel balocco voi potete ammazzare in un paio di minuti una ventina d’arciduchi, grassi e magri. Quantunque, sia detto fra noi, signora Müller, sia più facile cogliere un arciduca grasso che uno magro. Come se per esempio vi ricordate quando ammazzarono il loro re in Portogallo, ch’era altrettanto grosso del nostro arciduca. Ma purtroppo un re come fa ad essere magro? Beh: io me ne vo all’Osteria del Calice; e se venisse qualcuno a ritirare quel cucciolo per il quale ho già riscosso un acconto, ditegli che lo tengo nel mio canile in campagna, che gli ho tagliato da poco gli orecchi e che non è in grado di viaggiare perché non gli sono ancora guariti, e gli prenderebbero freddo. La chiave consegnatela alla portinaia». All’Osteria del Calice c’era un solo cliente. Era l’agente in borghese Bretschneider, che serviva nella sezione politica. L’oste Palivec lavava i bicchieri, e Bretschneider si faceva inutilmente in quattro pur d’attaccare con lui una conversazione di qualche importanza. Palivec era celebre per il suo turpiloquio: in ogni suo discorso una parola su due era cazzo o merda. Come se non bastasse, era un po’ letterato e consigliava a tutti di leggere ciò che aveva scritto riguardo al secondo soggetto Victor Hugo citando la risposta finale fatta agli inglesi dalla vecchia guardia napoleonica nella battaglia di Waterloo. «Che bella stagione che abbiamo!» disse Bretschneider cercando di riattaccare la conversazione «Di qualche importanza». «Non me ne importa una merda», rispose Palivec, riordinando i bicchieri nella credenza. «Ce ne hanno combinate delle belle, laggiù a Sarajevo», riprese a dire con un filo di speranza Bretschneider. «In quale ‘Sarajevo’?» domandò Palivec. «In quella bottiglieria di Nusle? Là si pestano ogni giorno: si sa bene che razza di quartiere è Nusle». «Ma io intendo parlare di Sarajevo in Bosnia, padrone! È lì che hanno ammazzato l’arciduca Ferdinando. Che ne dite?» «Io non m’immischio di tali faccende: e chi me ne voles14

se fare immischiare, venga pure a leccarmi il culo», rispose cortesemente il signor Palivec accendendo la pipa. «Oggigiorno a immischiarsi negli affari altrui si corre il rischio di rompersi il capo. Io son negoziante, e se viene qualcuno e m’ordina una birra, io sono ai suoi comandi. Ma questo o quel Sarajevo, la politica oppure il nostro defunto arciduca, son tutte cose dalle quali non può saltar fuori altro che la gattabuia». Bretschneider si chetò e si mise a guardare pieno di delusione nel locale completamente deserto. «Un tempo qui c’era appeso un ritratto di Sua Maestà l’Imperatore», soggiunse dopo una pausa: «proprio lì dove ora c’è quello specchio». «Sicuro, avete ragione», rispose il signor Palivec; «stava appeso lassù e le mosche ci cacavano sopra, sicché ho dovuto riporlo in solaio. Capite: qualcuno si sarebbe potuto permettere qualche osservazione, e m’avrebbe procurato delle seccature. Come se non ne avessi abbastanza!» «Eh, laggiù a Sarajevo la cosa dev’essere stata brutta, che ne dite, padrone?» A questa pericolosa domanda a bruciapelo il signor Palivec rispose con eccezionale cautela: «Di questa stagione in Bosnia-Erzegovina fa un caldo 15

terribile. Quando io mi trovavo laggiù a fare il soldato, bisognava applicare dei pezzi di ghiaccio sulla testa del nostro colonnello». «In che reggimento avete servito, padrone?» «Chi si ricorda di queste piccolezze: io non mi sono mai occupato di simili porcherie, e non son mai stato troppo curioso», rispose il signor Palivec, e soggiunse subito dopo: «Troppa curiosità non può che nuocere». L’agente Bretschneider si chetò definitivamente, e il suo cipiglio si rasserenò solamente all’ingresso di Sc’vèik, che, appena varcata la soglia, ordinò subito una birra nera, e soggiunse: «Oggigiorno anche a Vienna sono a lutto». Gli occhi di Bretschneider brillarono di speranza, e proferì bruscamente: «Al castello arciducale di Kónopište hanno issato dieci bandiere nere». «Dodici dovrebbero essere», disse Sc’vèik dopo un gran sorso di birra. «Che intendete dire con dodici?» chiese allora Bretschneider. «Per far cifra tonda e perché si conta meglio a dozzine. E poi tutto si compra meglio alla dozzina», rispose Sc’vèik. Regnò allora un profondo silenzio, che fu interrotto proprio da un sospiro di Sc’vèik. «Ora che l’arciduca si trova alla presenza della giustizia divina, che il Signore gli conceda la pace eterna. Egli non è vissuto abbastanza per diventare imperatore. Quando facevo il militare, una volta un generale cadde da cavallo e crepò tranquillamente. Volevano aiutarlo a rimettersi in sella ma s’accorsero ch’era rimasto secco. E dire che avrebbe potuto far tanta carriera da diventare generalissimo. La cosa avvenne nel corso d’una rivista alle truppe. Queste riviste non portan mai nulla di buono. Anche a Sarajevo ci deve esser stato qualcosa di simile. Ora mi ricordo che a una di queste riviste mi mancava una ventina di bottoni alla divisa, e che per questa mancanza mi schiaffarono in cella per quattordici giorni, e per due giorni vi rimasi sepolto come Lazzaro, attorcigliato come una salsiccia. Ma la disciplina nell’esercito è una cosa giusta, altrimenti nessuno farebbe nulla di nulla. Il nostro tenente Makovec ci diceva sempre: ‘La disciplina, razza di canaglie, bisogna che ci sia, se no voi v’arrampichereste come scimmie sugli alberi, e non c’è che l’esercito che sia capace di fare degli uomini da dei mascalzoni come voi!’ Non è forse vero? Immaginatevi un parco, supponiamo quello della 16

Piazza di Re Carlo, e su ogni albero un soldato senza disciplina. È una cosa della quale ho sempre avuto una grande paura». «Laggiù a Sarajevo», insinuò Bretschneider, «sono i serbi che hanno fatto il colpo». «Vi sbagliate di grosso», replicò Sc’vèik, «sono stati i turchi, per vendicarsi della Bosnia-Erzegovina». E Sc’vèik espose il suo punto di vista sulla politica estera dell’Austria-Ungheria nei Balcani. Nel 1912 i turchi avevan perduto la loro guerra con la Serbia, la Bulgaria e la Grecia. Essi avrebbero voluto che l’Austria-Ungheria li aiutasse, e visto che l’Austria non ne aveva fatto nulla, avevano ammazzato Ferdinando. «Vuoi bene ai turchi, tu?» chiese Sc’vèik rivolgendosi all’oste Palivec, «vuoi forse bene a quei cani di pagani? No, vero?» «Cliente vale cliente», disse Palivec, «anche se è un turco. Per noi commercianti la politica non esiste. Pagati la tua birra, siediti a un tavolino e chiacchiera quanto vuoi. Questi sono i miei principi. Che il colpo al nostro Ferdinando l’abbia fatto un serbo o un turco, un cattolico o un musulmano, un anarchico o un ‘giovane cèco’ per me fa perfettamente lo stesso». «È giusto, padrone», osservò Bretschneider, che si sentiva rinascere la speranza di cogliere in fallo almeno uno dei due, «ma mi permetterete di dire che ciò è una grande perdita per l’Austria». In luogo dell’oste rispose Sc’vèik. «Che sia una gran perdita nessuno lo può negare. Una perdita enorme. Un Ferdinando non può esser mica sostituito da un imbecille qualsiasi. Piuttosto egli avrebbe dovuto essere ancora più grosso». «Che intendete dire?» chiese vivamente Bretschneider. «Che intendo dire?» ribatté Sc’vèik con l’aria più tranquilla del mondo. «Semplicemente questo: che se fosse stato più grasso, sarebbe già stato colto da un colpo a caccia di comari a Kónopište quando raccoglievano legna e funghi nella sua bandita, e non sarebbe perito d’una morte così vergognosa. Quando ci ripenso: uno zio di Sua Maestà l’Imperatore che muore ammazzato come un cane! Questo sì che è uno scandalo: i giornali non parlano d’altro. Qualche anno fa da noi a Budějovice durante una fiera uccisero a stilettate un trafficante di bestiame, un certo Luigi Břetislav. Lui aveva un figliuolo di nome Bóhuslav, e quando costui venne a vendere i suoi porci, nessuno volle far acquisti da lui, e tutti quanti dicevano: ‘Costui è il figliuolo di quel tale che fu pugnalato: dev’essere anche lui 17

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un bel farabutto.’ Alla fine non gli rimase altro che gettarsi nella Moldava dal ponte di Krumlov, e dovettero ripescarlo, farlo rinvenire, pompargli fuori l’acqua che aveva ingoiato, finché quel bel tipo tirò l’ultimo fiato tra le braccia del medico che gli stava facendo non so quale iniezione». «Voi fate dei paragoni veramente straordinari», disse con tono significativo Bretschneider, «prima parlate dell’arciduca Ferdinando e poi d’un trafficante di bestiame». «Macché!» ribatté Sc’vèik a sua difesa. «Dio mi guardi dal fare confronti. Il padrone sa bene chi sono. Non è vero che io non ho mai fatto confronti tra una persona ed un’altra? Soltanto io non vorrei trovarmi nei panni della vedova dell’arciduca. Ora che farà, poverina? Ecco che i bambini son orfani, e la proprietà di Kónopište senza padrone. Maritarsi con un altro arciduca? E con chi? E poi rifarebbe con lui un altro viaggio a Sarajevo e tornerebbe vedova per la seconda volta. Qualche anno fa viveva a Zliva presso Hluboka una guardia campestre che si chiamava col buffissimo soprannome di ‘Barilotto.’ I bracconieri l’ammazzarono, e lui lasciò la vedova con due figli. Ma la donna dopo un anno si rimaritò con un’altra guardia campestre, Peppino Ševlovic di Mydlovary. E le ammazzarono anche quello. Allora si risposò per la terza volta e prese anche quella una guardia campestre, dicendo: ‘Tutte le cose buone vanno a tre a tre. Se mi va male anche questa, non so proprio a che santo votarmi.’ Si capisce che le ammazzarono anche quello, e le restarono così sei figliuoli dai suoi tre guardaboschi. Allora chiese udienza nel gabinetto del principe di Hluboka per lamentarsi della sua disdetta con quei tre mariti, e quelli le raccomandarono il guardapesca Járeše degli stagni di Ražichij. Manco a dirlo, s’annegò mentre pescava, appena in tempo per lasciarle altri due figliuoli. Allora si sposò con un castrino di Vodňany, che una bella notte le fracassò la testa con l’accetta e poi se n’andò a costituirsi alla polizia. E quando poi il tribunale distrettuale di Pisk lo fece impiccare, portò via il naso al sacerdote con un morso e dichiarò di non pentirsi di nulla, e disse anche qualcosa di sconveniente riguardo a Sua Maestà l’Imperatore». «E voi sapete che cosa disse?» chiese con voce speranzosa Bretschneider. «Io non posso dirvelo perché nessuno ha mai avuto il coraggio di ripeterlo. Ma doveva esser proprio qualcosa di tremendo e di spaventevole, perché un consigliere del tribunale che s’occupò dell’affare impazzì per averlo sentito, e lo tengono ancora sotto chiave perché la cosa non venga 19

alla luce del sole. Non si trattava soltanto d’un comune reato di lesa maestà, di quelli che scappan di bocca a uno che è ubriaco…» «E quali sono questi reati di lesa maestà che scappan di bocca a uno che è ubriaco?» domandò Bretschneider. «Fatemi il piacere, signori, cambiate registro», esclamò l’oste Palivec; «sapete bene che coteste storie mi vanno poco a genio». «Quali sono i reati di lesa maestà che si commettono durante l’ubriachezza?» ripeté Sc’vèik. «D’ogni genere. Ubriacatevi, fate sonare l’inno austriaco e v’accorgerete da voi stesso che cosa vi salterà in mente di dire. Ve ne verrà tante in testa a proposito dell’Imperatore, che basterebbe la metà fosse vera per farne uno scandalo che durasse tutta la vita. Ma il vecchio imperatore non se lo merita davvero. State a sentire: quand’era nella sua piena forza virile, perdé precocemente il suo figliuolo Rodolfo. La moglie Elisabetta gli fu trafitta con una lima, e poi a Giovanni Orth toccò di scomparire chissà dove. Infine il fratello Massimiliano, imperatore del Messico, glielo fucilarono dietro il muro d’una fortezza. Ed ora che è vecchio, ecco che gli ammazzano anche lo zio. Pover’uomo, bisognerebbe che avesse dei nervi di ferro. E poi qualche ragazzaccio ubriaco va proprio a ricordarsi di lui per bestemmiarlo! Se oggi dovesse venir fuori qualcosa di brutto, io voglio andar volontario a farmi fare in quattro pezzi, pur di servire Sua Maestà l’Imperatore!» Sc’vèik bevve un bel sorso e continuò: «Voi credete che Sua Maestà l’Imperatore lasci correre? Allora lo conoscete poco. Bisogna fare una guerra contro i turchi. M’avete ammazzato lo zio? E io vi rendo pan per focaccia. La guerra è sicura. La Serbia e la Russia saranno nostre alleate. Sarà un gran bel vedere». Nel suo estro profetico Sc’vèik s’abbelliva e si trasfigurava. La sua faccia sempliciona sorrideva come una luna piena e s’infiammava d’entusiasmo. Tutto gli sembrava così chiaro. «Può darsi», proseguì nella sua previsione dell’avvenire dell’Austria, «che in caso di guerra con la Turchia i tedeschi ci assaltino alle spalle, perché i turchi e i tedeschi vanno d’accordo fra loro. Porci simili è difficile ritrovarne al mondo. Ma in compenso noi ci possiamo collegare con la Francia, che fin dal ’70 ce ne deve avere del rancore per i tedeschi. E tutto andrà bene. Avremo la guerra, ve l’assicuro!» Bretschneider s’alzò in piedi e proferì, solennemente: 20

«Ora avete parlato abbastanza, venite con me nel corridoio, che ho qualcosa da dirvi». Sc’vèik seguì l’agente nel corridoio, dove l’attendeva una piccola sorpresa: il suo compagno di tavolo gli mostrò un’aquiletta,2 dichiarandolo in arresto e annunziandogli che l’avrebbe condotto issofatto alla Questura centrale. Sc’vèik tentò di spiegargli che si sbagliava e che lui era completamente innocente, che non aveva detto una sola parola capace d’offendere chicchessia. Bretschneider gli replicò che aveva effettivamente commesso parecchi reati, fra i quali predominava il delitto di alto tradimento. Allora rientrarono nella sala dell’osteria e Sc’vèik disse al signor Palivec: «Io ho in conto cinque birre e un panino con salsiccia. Dammi ancora un grappino, che me ne devo andare, perché sono arrestato». Bretschneider mostrò l’aquiletta anche al signor Palivec, lo guardò un istante e gli chiese: «Siete ammogliato?» «Sissignore». 2 

Contrassegno degli agenti della polizia politica austro-ungarica.

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«È in grado vostra moglie di dirigere in vece vostra l’azienda in caso di assenza?» «Sissignore». «Tutto è in ordine, padrone», disse gaiamente Bretschneider; «fate venire qui la vostra signora, consegnatele tutto, e noi stasera torneremo per voi». «Non te la prendere», lo consolò Sc’vèik; «io vo dentro soltanto per alto tradimento». «Ma perché proprio io?» si lamentava il signor Palivec; «e dire che son sempre stato prudente!» «Perché avete detto che le mosche cacano sopra Sua Maestà l’Imperatore. Vedrete che sapranno ben cavarvelo di testa, Sua Maestà l’Imperatore». Così Sc’vèik lasciò l’Osteria del Calice in compagnia dell’agente, e appena furono fuori, gli chiese con la sua faccia sempre irradiata da un sorriso bonaccione: «Devo scendere dal marciapiede?» «E perché?» «Credevo di non aver più il diritto, essendo in arresto, di camminare sul marciapiede». Quando varcarono la soglia della Questura, Sc’vèik disse: «Com’è passato alla svelta il tempo, nevvero? E dite: voi venite spesso al ‘Calice’?» E mentre introducevano Sc’vèik nell’ufficio del funzionario di servizio, al «Calice» il signor Palivec trasmetteva le consegne del negozio alla moglie che piangeva, e la consolava a suo modo: «Non piangere, non strillare: che vuoi che mi facciano per quello smerdato ritratto di Sua Maestà l’Imperatore?» Fu con questo cordiale e semplice modo di fare che il buon soldato Sc’vèik intervenne nella guerra mondiale. Gli storici saranno sorpresi dalla sua precoce chiaroveggenza. Se poi la situazione si sviluppò altrimenti da ciò ch’egli aveva previsto al «Calice», dobbiamo considerare che Sc’vèik non aveva mai frequentato un corso propedeutico di scienza diplomatica.

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2 Il buon soldato Sc’vèik alla Questura centrale

L’attentato di Sarajevo aveva riempito di numerose vittime i locali della Questura centrale. Le conducevano una dopo l’altra e il vecchio funzionario di servizio diceva con la sua voce benevola: «Il vostro Ferdinando vi costerà caro, amici miei!» Quando Sc’vèik fu rinchiuso in una delle numerose celle del primo piano, vi trovò dentro una compagnia di sei persone. Cinque di loro stavan sedute attorno a una tavola, mentre in un angolo, sul pancaccio, c’era un uomo di mezza età che sembrava voler restare appartato. Sc’vèik si mise subito a interrogarli tutti uno dopo l’altro sulla causa del loro arresto. La risposta dei cinque seduti intorno alla tavola fu perfettamente la stessa: 23

«A causa di Sarajevo!» «A causa di Ferdinando!» «A causa dell’assassinio di S. A. l’Arciduca!» «Per Ferdinando!» «Perché hanno spedito l’Arciduca a Sarajevo!» Il sesto, quello che stava appartato, disse di non aver nulla a che fare coi suoi compagni di cella, e cercò di liberarsi da qualsiasi sospetto, perché lui era dentro soltanto per un tentativo d’omicidio a scopo di furto ai danni d’un contadino di Hólic. Sc’vèik si sedè anche lui al tavolaccio in compagnia dei cinque «cospiratori», che raccontavano già per la decima volta come s’erano fatti cogliere in quella faccenda. A tutti quanti meno che a uno, la cosa era capitata in un locale, o all’osteria o al caffè. L’eccezione era costituita da un signore straordinariamente grasso, con le lenti e gli occhi lacrimosi, che era stato arrestato a domicilio perché due giorni prima dell’attentato di Sarajevo aveva pagato all’osteria di Brejšk il conto per due studenti serbi del politecnico, ed era stato veduto dal poliziotto Brix completamente ubriaco in loro compagnia alla «Taverna Montmartre» in Via delle Catene, dove pure aveva pagato lui il conto, cosa del resto che aveva confermato personalmente con l’apposizione della propria firma in calce al verbale d’interrogatorio. A tutte le domande dell’istruttoria che aveva avuto luogo in Questura, non aveva fatto altro che rispondere con un urlo stereotipato: «Io ho un negozio di cartoleria!» In cambio ne otteneva una replica altrettanto stereotipata: «Ciò non vi giustifica affatto». Un ometto, uno di quelli a cui la cosa era capitata in osteria, era un professore di storia e s’era messo a raccontare all’oste i più celebri attentati di tutti i tempi. Era stato arrestato proprio nel momento in cui chiudeva l’analisi psicologica con le seguenti parole: «L’idea dell’attentato è altrettanto semplice dell’uovo di Colombo». «Com’è vero che vi spetta la prigione», fu così che il commissario di polizia concluse dopo l’interrogatorio la definizione del professore. Il terzo cospiratore era presidente della società di beneficenza l’«Amico del bene», con sede a Hodkovickách. Il giorno in cui fu eseguito l’attentato, l’«Amico del bene» aveva organizzato una festa all’aperto, con musica inclusa. Un brigadiere dei gendarmi era sopraggiunto per ordinare ai 24

partecipanti di sciogliersi, visto che l’Austria era in lutto, e allora il presidente dell’ «Amico del bene» gli aveva detto in confidenza: «Un momentino di pazienza: ci lasci finir di suonare l’Olà, slavi! » 1 Ora stava seduto col capo chino e gemeva: «Ad agosto avremo le nuove elezioni presidenziali, e se non sarò di nuovo a casa mia per quell’epoca, c’è il caso che non mi rieleggano più. Io son presidente per la decima volta. Non sopravviverei a una tale vergogna». Il defunto Ferdinando aveva fatto un brutto scherzo anche al quarto arrestato, uomo d’indole leale e d’immacolata condotta. Per due giorni interi egli aveva evitato qualsiasi conversazione su Ferdinando, finché una sera, mentre giocava una partita a carte in un caffè, proprio quando gli era riuscito di mangiare il re di picche con un sette di cuori, non aveva potuto fare a meno d’esclamare: «Sette palle come a Sarajevo». Il quinto arrestato, proprio quello che aveva detto di trovarsi lì «a cagione di quell’assassinio a danno dell’arciduca a Sarajevo», aveva ancora i capelli e la barba irsuti dalla paura, così che la sua testa faceva pensare a un can barbone. Costui, nella trattoria dov’era stato arrestato, non aveva pronunziato una sola parola, ed era giunto a tale eccesso di prudenza da fare perfino a meno di leggere le notizie sull’uccisione di Ferdinando. Se ne stava seduto solo al suo tavolino, quand’era giunto un signore, gli s’era seduto di faccia e gli aveva domandato a bruciapelo: «Lei ha letto?» «Non ho letto». «Sa che cosa?» «Non lo so». «Ma sa di che si tratta?» «Non lo so e non me ne voglio occupare». «Nondimeno le dovrebbe interessare». «Io non so che cosa mi dovrebbe interessare. Io fumo il mio sigaro, bevo i miei pochi bicchieri di birra, vado a cena e faccio a meno di leggere i giornali. I giornali non fanno che dire bugie. Perché mi ci dovrei rompere il capo?» «Allora l’assassinio di Sarajevo non l’interessa affatto?» «A me in genere non interessa nessun assassinio, sia che avvenga a Praga o a Vienna, a Sarajevo o a Londra. Gli uffici, i tribunali e la polizia ci sono apposta per questo. Se uno si fa ammazzare da un altro in qualche posto, gli sta bene, 1 

Inno nazionale panslavo.

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perché è da stupidi e da imprudenti farsi ammazzare così». Queste furono le ultime parole ch’egli disse in conversazione. Dopodiché non aveva fatto altro che ripetere a gran voce, a intervalli di cinque minuti: «Sono innocente, sono innocente!» Queste parole le gridò anche contro le porte della Questura centrale, e doveva ancora ripeterle durante il trasferimento al tribunale di Praga, ed era destinato a pronunziarle anche quando avrebbe fatto la sua entrata al cellulare. Quando Sc’vèik ebbe inteso tutte queste tremende storie di cospiratori, ritenne opportuno d’illuminare a tutti quanti la loro disperata situazione. «Questo nostro affare è molto brutto», egli cominciò con l’intenzione di dare un po’ di conforto. «Non è affatto vero ciò che dite, e cioè che a voi ed a noi tutti non capiterà più nulla di male. Perché mai esisterebbe la polizia se non per punirci a causa delle nostre linguacce? Se i tempi son così gravi da farci assistere all’assassinio d’un arciduca, non c’è da stupirsi d’essere messi in guardina. Tutto si fa per dar più fastigio e perché l’arciduca possa farsi una buona pubblicità prima del suo funerale. Quanti più saremo, tanto meglio andrà perché staremo più allegri. Quand’ero soldato, qualche volta mettevano dentro metà della compagnia. E quanti innocenti eran puniti! E non vi dico soltanto dell’esercito, ma anche dei tribunali. Mi ricordo che una volta una donna fu condannata per aver strangolato due gemelli appena nati. Per quanto lei spergiurasse che non aveva partorito che una bambina, che del resto le era riuscito di strangolare senza durar troppa fatica, nondimeno fu condannata per duplice infanticidio. O anche quel povero zingaro di Záběhlice che la notte di Natale scassinò quella bottega di pasticciere. Lui giurò che era entrato per riscaldarsi, ma non gli servì a niente. Quando un affare va a finire nelle mani dei tribunali, è un disastro. E non può essere diversamente. Non vuol mica dire che tutti siano delle canaglie, come ci si può figurare; ma a questi lumi di luna come fai a riconoscere un galantuomo da un farabutto, specialmente in giorni così difficili, da assassinare perfino l’arciduca Ferdinando? Quand’ero soldato, a Budějovicích, un tale ammazzò nel bosco dietro la piazza d’armi il cane del capitano. Quando il capitano venne a saperlo, fece fare adunata, ci fece mettere in fila e ordinò che uscissero fuori tutti i numeri dieci. Anch’io, naturalmente, ero un numero dieci, e così restammo tutti sugli attenti senza fiatare. Il capitano ci gira intorno e ci dice: ‘Straccioni, farabutti, 26

canaglie, assassini, jene striate, per quel cane mi verrebbe voglia di mettervi ai ferri, di tagliuzzarvi come spaghetti, di fucilarvi e di ridurvi come pesci in salamoia! Ma perché sappiate che non ho intenzione di risparmiarvi, schiafferò a tutti quanti quindici giorni di rigore!’ Vedete: allora si trattava soltanto di un cagnolino, e ora invece si tratta d’un arciduca addirittura. Perciò bisogna che ci sia un po’ di terrore, altrimenti tanto cordoglio non avrebbe punto valore». «Sono innocente!» ripeteva l’uomo irsuto, «sono innocente!» «Anche Gesù Cristo era innocente», disse Sc’vèik, «ma lo misero in croce lo stesso. Mai in tutto il mondo se la son presa con gli uomini come quando son innocenti. Maul halten und weiter dienen! 1 come ci dicevano al reggimento. Questo resta sempre la cosa più bella e più giusta». Sc’vèik si distese sul pancaccio e s’addormentò tranquillamente. Nel frattempo furon messe dentro altre due persone. Una di loro era un bosniaco. Andava in su e in giù per la cella, 2 

«Chiudere il becco e continuare a servire!»

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digrignava i denti, e ogni due parole bestemmiava un bel: jebenti dúšu3 Lo tormentava il pensiero che il suo paniere di fruttivendolo si sarebbe smarrito al Commissariato. Il secondo nuovo venuto era l’oste Palivec, che appena riconobbe in Sc’vèik una sua conoscenza, lo svegliò e gli annunziò con voce piena di tragicità: «Anch’io son qua!» Sc’vèik gli strinse cordialmente la mano e gli disse: «La cosa mi fa proprio piacere. Io lo sapevo che il signore avrebbe mantenuto la promessa quando ha detto che sarebbe ritornato per voi. La puntualità è una gran bella virtù». Però il signor Palivec fece osservare che una simile puntualità non valeva una merda, e interrogò Sc’vèik a bassa voce per sapere se le altre persone arrestate fossero dei ladri, perché ciò avrebbe potuto arrecargli nocumento nella sua qualità di bottegaio. Sc’vèik gli spiegò che tutti quanti, ad eccezione di uno che si trovava lì dentro per tentato omicidio a scopo di furto ai danni di un agricoltore di Hólic, appartenevano alla banda degli arrestati per l’affare dell’arciduca. Il signor Palivec restò offeso e dichiarò di trovarsi dentro non a causa d’uno stupido d’arciduca ma di Sua Maestà l’Imperatore. E poiché gli altri cominciarono a prendere interesse alla faccenda, fece il racconto di come le mosche avevano contaminato Sua Maestà l’Imperatore. «Me l’hanno proprio sporcato come si deve, quelle bestiacce», così concluse la storia della propria avventura, «e per finire m’hanno mandato in Questura. Non glielo perdonerò mai, a quelle mosche!» soggiunse con voce minacciosa. Sc’vèik si rimise a dormire, ma non poté fare una buona dormita, perché vennero a prenderlo per condurlo all’interrogatorio. E così, salendo la scala che lo conduceva alla III sezione per essere interrogato, Sc’vèik portava la sua croce verso la cima del Golgota, perfettamente inconsapevole del proprio martirio. Quando scorse un avviso che vietava di sputare nei corridoi, chiese al guardiano il permesso di sputare in una sputacchiera, e raggiante di semplicità, entrò nell’ufficio pronunziando le seguenti parole: «Signori, buona sera a tutti quanti». A guisa di risposta un tale gli affibbiò un bel colpo fra le costole e lo piazzò davanti a una tavola dietro alla quale 3 

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Bestemmia serbo-croata.

sedeva un signore dalla gelida faccia di funzionario ed i lineamenti così pieni di bestiale brutalità, che sembrava venuto fuori allora allora dal libro di Lombroso sulla Tipologia criminale. Guardò Sc’vèik coi suoi occhi iniettati di sangue e gli disse: «Smettete di fare lo stupido». «Io non posso farci nulla», rispose Sc’vèik con la sua gravità, «da militare io sono stato riformato per idiozia, e dichiarato ufficialmente idiota da una commissione straordinaria. Io sono un idiota in piena regola». L’uomo dal tipo di criminale digrignò i denti: «Il delitto di cui siete stato accusato e di cui vi siete reso colpevole prova a sufficienza che voi siete nel pieno possesso di tutte e cinque le facoltà». E proseguì il suo discorso enumerando a Sc’vèik una serie completa di svariati misfatti, a cominciare dall’alto tradimento per finire all’oltraggio a Sua Maestà ed ai membri della famiglia imperiale. Al centro della serie splendeva l’apologia dell’assassinio dell’arciduca Ferdinando, da cui rampollava un cespo d’altri delitti, il più elegante dei quali era il reato di sobillazione, in quanto che l’accaduto aveva avuto luogo in un locale pubblico. «E voi che ne dite?» gli chiese trionfalmente l’uomo dai lineamenti bestialmente brutali. «Che son troppi», rispose ingenuamente Sc’vèik: «il troppo stroppia». «Vedete che confessate». «Per parte mia riconosco tutto. C’è bisogno di severità, altrimenti non si raggiungerebbe lo scopo. Io, quand’ero militare…» «Legatevi lo scilinguagnolo!» esclamò il commissario, «e parlate soltanto quando sarete interrogato! Capito?» «Perché non dovrei aver capito?» disse Sc’vèik. «Fo umilmente osservare che io capisco e che sono in grado d’orientarmi in tutto ciò che Vossignoria si degnerà di domandarmi». «In genere chi frequentate?» «La mia padrona di casa, signoria». «Non avete nessuna conoscenza nei circoli politici locali?» «Sì che ne ho, signoria: ogni giorno compro l’edizione serale della Politica Nazionale, quella che chiamano la ‘cagnolina’». 4 4 

Soprannome popolaresco d’uno dei più diffusi quotidiani boemi.

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«Fuori!» proruppe l’uomo dall’aspetto di bestia feroce. Mentre lo trascinavan via dall’ufficio, Sc’vèik trovò ancora il modo di dire: «Buona, notte, signoria». Ritornato in cella, Sc’vèik comunicò a tutti i prigionieri che un interrogatorio come quello non era che uno scherzo. «Vi maltrattano un poco, ma alla fine vi buttano fuori». «Prima», continuò a dire Sc’vèik, «era molto peggio. Una volta ho letto in un libro che gli accusati dovevan camminare sul ferro rovente e inghiottire piombo fuso per dimostrare la loro innocenza. Oppure li costringevano a calzare gli stivali alla spagnuola, o li mettevano al supplizio della ruota, quando non volevano confessare. Qualche volta gli bruciavano i fianchi con delle torce da pompieri, come fecero a San Giovanni Nepomuceno. Ma lui urlava come se lo scorticassero, e non la smise finché non lo scaraventarono giù dal ponte d’Elisabetta dentro un sacco impermeabile. Di casi simili ne capitavano parecchi, e come se non bastasse squartavano e impalavano la gente nelle vicinanze del Museo. Cosìcché quando uno si limitavano a buttarlo dentro la Torre della Fame, lui si sentiva rinascere. «Oggigiorno essere incarcerato non è che uno scherzo», proseguì Sc’vèik con foga, «e non sono più in uso né lo squartamento né gli stivali alla spagnuola: in compenso abbiamo il pancaccio, delle seggiole e un tavolino, si sta abbastanza comodamente, ci danno pane e minestra, ci servono una brocca d’acqua, e la latrina l’abbiamo proprio sotto il naso. In ogni cosa si vede il progresso. L’ufficio del commissario è un po’ lontano, questo è vero; per andarci bisogna far tre corridoi e salire un altro piano, ma in compenso i corridoi sono puliti e animati. Qui c’è uno che vien condotto in un posto e là un secondo in un altro: e si vedono uomini e donne, giovani e vecchi. Fa piacere di non sentirsi troppo isolato. Ognuno va tranquillamente per la sua strada, senza aver paura di sentirsi dire in ufficio: ‘Abbiamo deciso che domani voi siate bruciato vivo o squartato, a vostra scelta.’ Certo che una scelta di questo genere sarebbe molto difficile, ed a me, signori miei, dà l’idea che in un momento simile diversi di noi resterebbero lì istupiditi. Sicuro, oggigiorno le misure di polizia son grandemente migliorate a nostro vantaggio». Aveva appena finito di pronunziare l’elogio del sistema penitenziario vigente, quando un secondino aprì la porta e chiamò: «Sc’vèik, vestitevi per presentarvi all’interrogatorio». «Posso anche vestirmi», rispose Sc’vèik, «non ho nulla 30

in contrario, ma ho paura che vi sia uno sbaglio, perché ci son già stato una volta e m’hanno cacciato fuori. E temo anche che gli altri signori che si trovano qui in mia compagnia s’adireranno con me vedendomi interrogato due volte di seguito, mentre loro non lo son stati neanche una volta in tutta la sera. Non li vorrei ingelosire». «Uscite fuori e smettetela di chiacchierare», così fu risposto alla generosa dichiarazione di Sc’vèik. Sc’vèik si ritrovò dinanzi al solito signore dall’aspetto di criminale, che l’apostrofò senza preamboli, e con durezza spietata: «Confessate tutto quanto?» Sc’vèik posò i suoi buoni occhi celesti sull’inesorabile funzionario, e proferì con dolcezza: «Se a vossignoria fa piacere che io confessi, confesserò pure, tanto a me non potrà fare che bene. Ma se mi vien detto: ‘Sc’vèik, tu non devi confessar nulla’ io me la sbrigherò da me solo a costo di lasciarci la buccia». Il rigidissimo uomo stese un atto e porse a Sc’vèik la penna ordinandogli di firmarlo. E Sc’vèik sottoscrisse il rapporto di Bretschneider, inclusovi il supplemento seguente: «Riconosco per vere tutte le suesposte accuse a mio carico. Giuseppe Sc’vèik». Quand’ebbe firmato, si rivolse all’uomo feroce, e gli disse: «Ho ancora da firmare qualcos’altro? O debbo ripassare domattina?» «Domani mattina sarete deferito al tribunale penale», si ebbe per tutta risposta. «A che ora, vossignoria? Perdiana, non vorrei mica svegliarmi troppo in ritardo». «Fuori!» Sc’vèik si sentì urlare in faccia per la seconda volta nella giornata dall’uomo che stava dall’altra parte del tavolino. Mentre faceva ritorno al suo nuovo domicilio a inferriate, Sc’vèik disse al secondino che lo accompagnava: «Qui va tutto liscio come sulle rotelle!» Quando la porta si fu richiusa dietro di lui, i compagni di prigione lo assalirono con un mucchio di domande, alle quali Sc’vèik rispondeva senza esitare: «Poco fa ho confessato che l’arciduca Ferdinando quasi quasi l’ho ammazzato io». I sei uomini si rannicchiarono risolutamente sotto le coperte piene di pulci. Soltanto il Bosniaco aprì bocca per dire: 31

«Dobro došli».  5 Mentre si coricava sopra il pancaccio, Sc’vèik sospirò: «Peccato che non ci sia una sveglia quaggiù!» Ma la mattina seguente lo svegliarono senza bisogno di sveglia, e alle sette precise lo condussero col carrozzone verde al tribunale penale della città. «Le ore della mattina hanno l’oro in bocca!» disse Sc’vèik ai compagni di viaggio, mentre il carrozzone varcava la soglia della Questura.

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«Benvenuti» (in serbo-croato).

3 Sc’vèik al cospetto dei medici legali

Le pulite e simpatiche stanzette del tribunale penale, con le loro pareti imbiancate e le inferriate verniciate di nero, suscitarono in Sc’vèik la migliore delle impressioni. Gli andò molto a genio anche il corpulento signor Demartini, primo sorvegliante addetto alla detenzione preventiva, ornato d’alamari azzurri e di galloni sul berretto regolamentare. Del resto il colore violetto non è di prescrizione soltanto in quei luoghi, ma anche durante le cerimonie religiose che si celebrano in occasione del Mercoledì delle Ceneri e del Venerdì Santo. In quelle stanze si replicava la storia gloriosa della dominazione romana a Gerusalemme. I prigionieri venivano scarcerati per essere presentati a pianterreno ai Pilati dell’anno millenovecentoquattordici. E i giudici istruttori, questi Pilati della nuova èra, invece di lavarsi onoratamente le mani, 33

si facevan comprare in bottega un piatto di pàprica e della birra di Pilsen, e trasmettevano pratiche sempre nuove al Procuratore imperiale. Là, nella maggioranza dei casi, scompariva ogni forma di senso comune e il trionfatore assoluto era il segno §. § strangolava, § impazziva, § sputava, § rideva, § minacciava: l’unica cosa che non faceva mai era quella di perdonare. I magistrati non erano altro che dei giocolieri della legge, dei sacrificatori alla lettera morta del codice, dei divoratori d’accusati, delle tigri della giungla austroungarica, che misuravano il loro balzo addosso alle vittime a seconda della numerazione dei paragrafi. Nondimeno c’era qualcuno che faceva eccezione (come del resto in Questura) e che non prendeva la legge troppo sul serio, perché non esiste un ambiente dove non si ritrovi almeno un po’ di frumento fra il loglio. Fu davanti a un uomo di questa fatta che Sc’vèik fu condotto per essere interrogato. Era un uomo anziano e d’aspetto benevolo, che quando aveva dovuto istruire il processo del celebre assassino Valeš, non s’era mai dimenticato di dirgli: «Prego, signor Valeš, s’accomodi: c’è una seggiola libera apposta». Quando gli fu condotto Sc’vèik, lo invitò con la sua cortesia innata a sedersi, e gli chiese: «È proprio lei il signor Sc’vèik?» «Credo bene», rispose Sc’vèik, «d’esser proprio lui, perché il mio caro babbo si chiamava Sc’vèik e la mia cara mamma era la signora Sc’vèik. Con ciò non posso far loro l’affronto di rinnegare il mio nome». Un cordiale sorriso aleggiò sul viso del consigliere incaricato dell’istruzione: «Lei ne ha combinate delle belle, e deve averne parecchie sulla coscienza». «Io ne ho sempre parecchie sulla coscienza», disse Sc’vèik con un sorriso ancora più cordiale di quello del consigliere; «forse ancora di più di quante non se ne degni d’avere la coscienza di vossignoria». «Risulta anche dal verbale che lei ha firmato», ripeté il consigliere con tono altrettanto cortese, «ma le è stata fatta forse qualche pressione da parte degli agenti di polizia per indurla a firmare?» «Macché, signoria. Io stesso ho domandato se c’era da firmare qualcosa, e quando me l’hanno ordinato, ho obbedito. Non ci sarebbe mancato altro che mi fossi messo a discuter con loro a cagione della mia firma. La cosa non mi avrebbe certo giovato. Occorre un po’ d’ordine in tutto». 34

«Lei si sente perfettamente sano, signor Sc’vèik?» «Perfettamente sano non sarebbe giusto, signor consigliere. Ho dei reumatismi e mi faccio delle frizioni». Il vecchio signore sorrise ancora con benevolenza: «Lei che ne direbbe se la facessimo visitare dai medici legali?» «Io direi che non sto poi così male da far perdere a quei signori un ritaglio del loro tempo per causa mia, e del resto ho già passato la visita del medico di polizia, per vedere se avevo o non avevo lo scolo». «Senta, signor Sc’vèik, proviamo anche questa dei medici legali. Raduneremo una bella commissione, lei la mettiamo in prigionia preventiva, e intanto si potrà riposare. A proposito, ancora una domanda: è vero ciò che dice il verbale, e cioè che lei avrebbe dichiarato e proclamato che sta per scoppiare all’improvviso una guerra?» «Vossignoria mi permetta, ma scoppierà prima che lei se lo aspetti». «E non la investe mai un qualche attacco di nervi?» «Questo poi no. Una volta soltanto fui investito da una automobile sul Ponte Carlo, ma è già qualche annetto». Con queste parole l’interrogatorio fu chiuso. Sc’vèik porse la mano al signor consigliere, e disse ai suoi compagni, appena rientrato nella stanzetta: «Così, sempre a causa di quell’assassinio dell’arciduca, dovrò passare la visita dei medici legali». «Anch’io ho passato una volta la visita dei medici legali», disse un giovanotto, «quando mi mandarono alle assise per un affare di tappeti. Allora fui riconosciuto ‘debole di mente,’ ed ora che ho sulle spalle un’appropriazione indebita qualificata, non mi possono fare più nulla. Ieri il mio avvocato m’ha detto che se sono stato dichiarato ‘debole di mente’ una volta, ne avrò per tutta la vita». «Io non ho nessuna fiducia nei vostri medici legali», osservò un uomo dall’aria intelligente. «Quando una volta io falsificavo cambiali, a scanso d’ogni eventualità, seguivo i corsi del professore Heveroch.1 Quando m’arrestarono simulai la paralisi proprio come l’aveva illustrata il professore Heveroch. Durante la perizia morsi un medico legale a una gamba, inghiottii tutto l’inchiostro che c’era nel calamaio, e con vostro rispetto, signori, feci i miei comodi in un angolo al cospetto della commissione. Ma per il solo fatto d’aver morso quel tale al polpaccio, mi riconobbero nel pieno possesso delle facoltà mentali, e fui perduto». 1 

Famoso psichiatra.

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«A me la visita di quei signori non fa menomamente paura», dichiarò Sc’vèik; «quando ero militare, ebbi l’occasione di farmi visitare da un veterinario, e la cosa andò ottimamente». «I medici legali sono delle carogne!» esclamò un ometto in sessantaquattresimo. «Tempo fa, chissà come, durante uno scavo in una mia prateria, fu trovato uno scheletro, e i medici legali sentenziarono che quello scheletro era stato ucciso perché colpito alla testa con un oggetto contundente almeno quarant’anni or sono. Io ho trentotto anni d’età e mi hanno arrestato, quantunque sia fornito del foglio battesimale, d’un estratto della fede di nascita e del certificato di origine!» «Io penso che sarebbe bene», disse Sc’vèik, «d’esaminare le cose dal punto di vista della giustizia. Ognuno si può ingannare, e in genere tanto più s’inganna quanto più riflette alle cose. Anche i medici legali sono uomini, e tutti gli uomini sbagliano. A Nusle, una notte che ritornavo dall’osteria Banzet, proprio all’altezza del ponte di Nusle, a cavallo del Botic’, mi s’accostò un signore e m’appioppò un colpo di manganello sul capo; e quando mi vide disteso per terra, accese un fiammifero per guardarmi in faccia, ed esclamò: ‘Un altro sbaglio: non è mica lui!’ E s’adirò tanto d’essersi 36

sbagliato, che mi tirò un’altra bastonata sulla schiena. Ma è nella natura delle cose che l’uomo commetta errori fin che vive. Come quel signore che una notte trovò un cane arrabbiato mezzo morto di freddo, se lo portò a casa sua e lo mise nel letto della moglie. Appena il cane si fu riscaldato e rimesso, azzannò tutta la famiglia, e morse e divorò perfino un fantolino in culla. Vi posso raccontare un altro caso, del bello sbaglio che fece un tornitore che abitava in casa nostra. Credendo d’essere giunto a domicilio, aprì con la chiave la porta della cappella della Madonna di Podole, si spogliò in sacrestia perché l’aveva presa per la cucina, e si coricò sull’altare credendo che quello fosse il suo letto. Poi si mise addosso un paio di paramenti da altare pieni d’iscrizioni liturgiche, e sotto la testa il Vangelo e altre sacre scritture per poterla tenere un po’ sollevata. La mattina dopo lo trovò lo scaccino, e lui, quando si fu riavuto dalla sorpresa, gli disse bonariamente che si doveva trattare d’uno sbaglio. ‘E di che razza,’ disse lo scaccino, ‘se per causa sua noi dobbiamo far riconsacrare la chiesa!’ Quando poi il tornitore passò davanti ai medici legali, quelli gli dimostrarono che era capace di discernimento e in condizioni normali, perché se fosse stato ubriaco non gli sarebbe riuscito d’infilare la chiave nella toppa dell’uscio della cappella. E così quel povero tornitore morì in prigione. Vi potrò raccontare un altro bel caso, di come a Kladno s’ingannò un cane poliziotto, un bel lupacchiotto che apparteneva al famoso brigadiere Rotter. Il brigadiere Rotter ammaestrava quei cani e li faceva esercitare a spese dei girovaghi, in modo che tutti i girovaghi a poco a poco scomparvero senza lasciare più tracce dal circondario di Kladno. Allora il brigadiere dette ordine ai gendarmi di portargli ad ogni costo un uomo sospetto. Così gli portarono un uomo abbastanza ben vestito che avevan trovato a sedere su un ramo nella foresta di Lany. Il brigadiere gli fece tagliare un lembo di panno dal pastrano, lo fece annusare ai cani poliziotti della gendarmeria e poi fece condurre l’uomo in una fabbrica di mattoni dietro la città, e gli sguinzagliò dietro i cani ammaestrati, che lo scovarono e lo riportarono subito. Poi quel disgraziato fu costretto a salire su una scala fino al soffitto, a saltare un muro, e a gettarsi in una vasca, e i cani sempre dietro. Finalmente si venne a sapere che quell’uomo era un deputato radicale cèco, che era venuto nella foresta di Lany a fare un’escursione, perché al Parlamento moriva di noia. È per questo che io dico che tutti gli uomini son fallaci, e che si sbagliano tutti, siano pure persone istruite o stupidoni ignoranti. Che ne penserete se vi dico che si sbagliano perfino i ministri?» 37

La commissione dei medici legali, che doveva decidere se l’orizzonte spirituale di Sc’vèik era o no responsabile di tutti i misfatti di cui era accusato, era composta di tre persone straordinariamente gravi, e piene d’idee cosìffatte, che quelle di ognuno differivano sempre notevolmente dalle idee degli altri due. Essi rappresentavano tre differenti scuole scientifiche, e tre diverse teorie psichiatriche. Se nel caso di Sc’vèik si giunse a un accordo fra i tre diversi orientamenti scientifici, la cosa si spiega soltanto con il senso di disgusto che Sc’vèik suscitò nei tre esaminatori fin dal suo ingresso nella sala di consultazione. Infatti, alla vista di un ritratto del Monarca austriaco appeso alla parete, egli aveva gridato: «Signori, evviva l’Imperatore Francesco Giuseppe I!» L’affare era chiarissimo. La manifestazione spontanea di Sc’vèik risparmiò loro una lunga serie di domande, e rese necessarie soltanto le più essenziali, quelle basate sui sistemi dello specialista Kallerson, del professor Heveroch e dell’inglese Weiking. «Il radio è più pesante del piombo?» «Mi dispiace, ma non l’ho mai pesato», rispose Sc’vèik col suo cortese sorriso. «Credete alla fine del mondo?» «Prima bisognerebbe vederla, questa fine del mondo», rispose Sc’vèik con leggerezza. «Certo che non mi toccherà mica di vederla proprio domani!» «Siete capace di calcolare il diametro del globo?» «Purtroppo credo di no», rispose Sc’vèik. «Ma anch’io vi vorrei proporre un indovinello, signori: c’è una casa a tre piani, e ciascun piano conta otto finestre. Il tetto ha due comignoli e due abbaini. A ogni piano abitano due pigionali. Allora, signori, mi sapete dire a che età è morta la nonna del portinaio?» I medici legali si scambiarono uno sguardo d’intelligenza, ma nondimeno uno dei tre membri volle fare un’altra domanda: «Conoscete la profondità dell’Oceano Pacifico?» «No, mi rincresce», suonò la risposta di Sc’vèik, «ma penso che dev’essere di sicuro maggiore di quella della Moldava sotto la collina di Vyšehrad». Il presidente della commissione domandò seccamente: «Può bastare?» ma uno dei membri volle fare ancora una ultima domanda: «Quanto fa dodicimilaottocentonovantasette moltiplicato per tredicimilaottocentosessantatré?» 38

«Settecentoventinove», rispose Sc’vèik senza batter ciglio. «Ritengo che ciò sia assolutamente sufficiente», disse il presidente della commissione. «Potete rinviare l’accusato alla sua sede d’origine». «Io vi ringrazio, signori», pronunziò Sc’vèik con grande rispetto, «anche per me è sufficiente». Quando se ne fu andato, il collegio dei tre periti concluse che Sc’vèik era un idiota notorio, un idiota secondo tutte le leggi di natura, quelle che erano state inventate dai grandi maestri della psichiatria. Nella relazione rimessa al giudice istruttore, si poteva leggere fra l’altro: «I medici legali sottoscritti, basandosi sulla completa ottusità e il cretinismo congenito del sullodato Giuseppe Sc’vèik, che s’è presentato alla commissione proferendo parole come: ‘Evviva l’Imperatore Francesco Giuseppe,’ esclamazione che basta da sola a rivelare le sue condizioni mentali, propone in conseguenza: primo, che si receda dal procedere giuridicamente contro di lui; secondo, che lo si mandi in osservazione in una clinica psichiatrica per determinare fino a che punto il suo stato mentale possa recar nocumento alle persone che lo avvicinano». Mentre compilavano la relazione, Sc’vèik diceva ai suoi compagni di prigionia: «Di Ferdinando se ne sono infischiati, e non hanno fatto altro che conversare con me delle cose più stupide. Alla fine ci siamo detti che eravamo tutti soddisfatti della conversazione, e ce ne siamo andati ognuno per conto suo». «Io non credo più a nessuno», disse l’omino nel cui praticello avevano scoperto uno scheletro. «Sono una manica di farabutti!» «Anche questa è una cosa che è giusta che ci sia!» disse Sc’vèik coricandosi sul materasso. «Se tutti gli uomini si volessero un gran bene reciproco, non si farebbe altro che prendersi a morsi a vicenda».

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4 Come Sc’vèik fu cacciato dal manicomio

Quando in seguito Sc’vèik raccontava la sua vita al manicomio, lo faceva in termini straordinariamente entusiastici: «Non riesco proprio a capire perché i pazzi s’arrabbino a stare rinchiusi, lì la gente può rotolarsi in terra tutta nuda, urlare come uno sciacallo, far le furie e dar morsi. Se si facesse qualcosa di simile a passeggio, tutti resterebbero stupefatti; lì invece è la cosa più naturale del mondo. Là dentro c’è tanta libertà, che non se la sognano nemmeno i socialisti. Lì una persona può farsi passare per Domineddio o per Maria Vergine, per il Papa o per il Re d’Inghilterra, per Sua Maestà l’Imperatore o per San Venceslao, quantunque quest’ultimo fosse sempre nudo e lo tenessero in isolamento perché pazzo furioso. C’era anche un tipo che 40

diceva d’essere arcivescovo, ma lui non faceva altro che mangiare, e anche qualche cos’altro, con vostro rispetto, che voi sapete bene come fa rima, e senza che nessuno si vergognasse per questo. Poi c’era ancora uno che diceva di essere i santi Cirillo e Metodio, pur d’avere doppia razione. E un altro signore pretendeva d’esser gravido e invitava tutti quanti al battesimo. Fra i reclusi c’erano moltissimi giocatori di scacchi, uomini politici, pescatori, escursionisti, collezionisti di francobolli, fotografi e pittori. Uno era là dentro a cagione di certi vecchi vasi, ch’egli pretendeva di chiamare urne cinerarie. Un altro aveva sempre la camicia di forza perché la smettesse di calcolare quando sarebbe venuta la fine del mondo. Lì io mi sono incontrato anche con qualche professore. Uno mi veniva sempre dietro e mi dimostrava che la culla degli zingari era nelle Montagne dei Giganti; e un altro mi spiegava che nell’interno del globo ce n’è un altro molto più grande di quello esterno. «Ognuno poteva dir ciò che voleva e che gli veniva alla lingua, come se si fosse al Parlamento. Spesso ci si raccontava delle novelle, e si litigava quando succedeva una disgrazia a qualche principessa. Il più furioso era un signore, che diceva d’essere il tomo decimosesto del Vocabolario Otto, e supplicava tutti quanti perché lo sfogliassero e vi cercassero la voce ‘rilegatrice,’ altrimenti sarebbe stato perduto. E si calmava soltanto quando gli mettevano la camicia di forza. Allora era tutto contento di trovarsi finalmente sotto il torchio a stampa, e supplicava di fargli una rilegatura moderna. Ma per lo più si viveva come in paradiso. Al manicomio voi potete stridere, urlare, cantare, piangere, gemere, muggire, saltare, pregare, far capriole, camminare a quattro zampe, saltellare su un piede, fare il girotondo, ballare, galoppare, stare per terra tutto il giorno e arrampicarvi sui muri. Nessuno verrà a dirvi: ‘Signore, queste non son cose da farsi, non è decente: lei si dovrebbe vergognare; è così che si comporta una persona bene educata?’ Ma a dire il vero là dentro si trovano anche dei pazzi molto quieti. Tale era il caso d’un inventore ben educato, che si ficcava continuamente le dita nel naso e gridava una volta ogni ventiquattr’ore: ‘Ho scoperto in questo momento l’elettricità!’ Vi ripeto che ci si stava d’incanto, e quei pochi giorni trascorsi al manicomio restano fra i più bei momenti della mia vita». Effettivamente le accoglienze riservate a Sc’vèik dal manicomio dove fu trasferito in osservazione dal tribunale penale superarono ogni sua aspettativa. Prima lo spogliarono e lo denudarono, poi gli dettero un accappatoio e lo por41

tarono a fare un bagno, sorreggendolo confidenzialmente sotto le ascelle, e nel frattempo uno degli infermieri lo rallegrava raccontandogli delle storielle ebraiche. Nella sala da bagno lo tuffarono in una vasca d’acqua calda, poi lo tirarono fuori e lo misero sotto una doccia d’acqua fredda. Poi si rifecero tre volte da capo e gli chiesero se gli piaceva. Sc’vèik disse che lì si stava meglio che ai bagni pubblici del Ponte Carlo e che a lui piaceva molto bagnarsi. «Se mi taglierete ancora le unghie e i capelli, non mi mancherà più nulla perché la mia felicità sia perfetta», soggiunse con un sorriso di simpatia. Il suo desiderio fu esaudito, e dopo che gli ebbero strofinato la pelle come si deve, lo ravvolsero in un lenzuolo, e lo portarono su un letto del primo reparto, dove lo misero a giacere, gli stesero addosso una coperta e lo pregarono di addormentarsi. Sc’vèik racconta ancora la cosa con tenerezza: «Figuratevi che m’hanno portato, quello che si dice portato, e mi pareva di toccare il cielo con un dito». E s’addormentò nel suo letto con una vera beatitudine. Più tardi lo svegliarono per offrirgli una tazza di latte e un panino. Il panino era tagliato a fettine, e mentre che uno degli infermieri teneva Sc’vèik per entrambe le mani, l’altro inzuppava le fette di pane nel latte e lo imboccava come un’oca da ingrassare. Dopo che l’ebbero nutrito, lo presero sotto le ascelle e lo condussero alla latrina, perché soddisfacesse i suoi piccoli e grandi bisogni corporali. Il racconto che Sc’vèik fa ancora di quel momento è pieno di tenerezza, ma io non posso assolutamente citare le sue parole a proposito di ciò che in seguito gli fu fatto. Posso soltanto dire che Sc’vèik conclude sempre così: «E nel frattempo uno di loro mi teneva in braccio!» Quando l’ebbero riportato indietro, lo rimisero in letto e gli raccomandarono di riaddormentarsi. S’era appena addormentato che lo risvegliarono un’altra volta e lo condussero nella sala di consultazione, dove Sc’vèik, al trovarsi completamente nudo ed in piedi al cospetto di due dottori, si ricordò della gloriosa epoca della leva. Con un involontario sospiro le sue labbra emisero un: «Tauglich!» 2 «Che dite?» gli domandò uno dei medici. «Fate cinque passi avanti e cinque indietro». Sc’vèik ne fece dieci. «Eppure io vi ho ordinato», urlò il medico, «di farne soltanto cinque!» 2 

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Abile, idoneo.

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«Oh, un paio dì passi di più a me non costano nulla!» disse Sc’vèik. Allora i medici lo invitarono a mettersi a sedere, e uno dei due lo batté sopra il ginocchio. Dopodiché disse all’altro che i riflessi eran perfettamente normali, ma il collega scosse la testa e si mise a battere il ginocchio di Sc’vèik per conto suo, mentre il primo gli alzava le palpebre e ne esaminava le pupille. Alla fine fecero ritorno al loro tavolo, e pronunziarono qualche frase in latino. «Ditemi: sapete cantare?» chiese a Sc’vèik uno dei due. «Non potreste mica intonare una canzone per noi?» «Senz’altro, signori», rispose Sc’vèik. «Io sono completamente sprovvisto di voce e d’orecchio musicale, ma procurerò di contentarvi, se vi volete un po’ divertire». E Sc’vèik attaccò: Perché, la fronte in mano, siede il giovane frate e versa piano piano due lacrime salate?

«Non so altro», riprese a dire Sc’vèik, «ma se volete, potrò cantarvi: Quanto male intorno al cuore, che sospiri di dolore! Guardo guardo l’orizzonte: la mia gioia è là dal monte!

«Anche di questa non so altro», sospirò Sc’vèik. «Però so ancora la prima strofa di Dov’è la mia patria? 3 e poi Il generale Windischgraetz e gli altri signori della guerra hanno attaccato battaglia al sorgere del sole, e così pure un altro paio di canzoncine popolari come Proteggici Nostro Signore, Sulla via di Iaromérìce e Mille volte Ti salutiamo!…» I due medici si scambiarono un’occhiata d’intesa e uno dei due chiese a Sc’vèik: «Il vostro stato mentale è stato già esaminato?» «Da militare», rispose Sc’vèik con voce fiera e solenne. «I signori medici militari m’hanno ufficialmente riconosciuto come idiota notorio». «Voi mi avete tutta l’aria d’un simulatore», gridò il secondo dei due. 3 

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Inno nazionale boemo.

«Io, signori», protestò Sc’vèik, «io son tutt’altro che un simulatore, ma un idiota effettivo come vi potranno dire al presidio di Budějovice o all’ufficio di leva del quartiere di Kárlin». Il più anziano dei due medici fece un gesto disperato con la mano, e, additando Sc’vèik, disse agli infermieri: «Restituite gli abiti a quest’uomo e conducetelo al terzo reparto del primo corridoio: poi uno ritorni qua e porti tutti i documenti che lo riguardano in ufficio. E là dite che ce lo sbrighino subito, perché non vogliamo averlo troppo a lungo fra i piedi». I medici lo fulminarono con un ultimo e terribile sguardo, mentre Sc’vèik usciva rispettosamente a ritroso, facendo ogni tanto un inchino di cortesia. All’infermiere che gli chiese perché faceva quelle stupidaggini, Sc’vèik replicò: «Perché non sono vestito, ma nudo, e non voglio mostrare a questi signori nulla che possa far loro pensare che io sono un impudente o un maleducato». Fin dall’istante in cui ebbero l’ordine di restituire gli abiti a Sc’vèik, gl’infermieri cessarono di rivolgergli la menoma attenzione. Gli ordinarono di rivestirsi, e uno dei due lo condusse al terzo reparto, dove gli toccò d’aspettare, e gli fu data la possibilità di finire il suo bravo turno d’osservazione. I medici delusi gli rilasciarono un certificato da cui risultava ch’egli era «un simulatore debole di mente». Ma siccome lo cacciarono fuori prima del pranzo, successe un piccolo incidente: Sc’vèik protestò dicendo che il fatto che si congedi uno dal manicomio non è una buona ragione per lasciarlo senza mangiare. Un agente chiamato dal portiere mise fine allo scandalo, e accompagnò Sc’vèik al commissariato di polizia di Via della Salma.

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5 Sc’vèik al commissariato di polizia di Via della Salma Alle belle giornate solari del manicomio, dovevan seguire per Sc’vèik delle vere e proprie ore di persecuzione. L’ispettore Braun preparò la scena del ricevimento di Sc’vèik con una ferocia degna degli scherani del mansueto imperatore Nerone. Con la stessa fermezza con cui quelli dicevano: Gettate questo cialtrone di cristiano ai leoni!» l’ispettore Braun ordinò: «Ficcatelo in gattabuia!» Né una parola di più né una di meno. Soltanto i suoi occhi sfavillarono per un istante d’una volontà perversa. Sc’vèik sinchinò e disse con finezza: «Io sono pronto, signori. Credo che gattabuia non voglia dire altro che reclusione, il che non è poi una cosa tanto cattiva». 46

«Qui bisogna lasciarci tranquilli», gli fece osservare la guardia carceraria; al che Sc’vèik replicò: «Io son modestissimo e mi contento di qualsiasi cosa farete per me». Nella cella c’era un uomo seduto sul pancaccio. Stava lì con tanta apatia che soltanto a guardarlo si capiva che quando la chiave aveva cigolato nella toppa non gli era neanche passato per il capo che potessero venire a metterlo in libertà. «I miei rispetti, signor mio», disse Sc’vèik sedendogli accanto sul legno. «Che ore saranno?» «Il tempo ormai non ha più valore per me», rispose l’uomo cogitabondo. «Qui non si sta poi tanto male», disse Sc’vèik per riattaccare il discorso, «anche il pancaccio è di legno ben piallato». Invece di rispondere, l’uomo serio s’alzò e si mise a passeggiare rapidamente fra la porta e il pancaccio, come se avesse l’urgenza di mettere in salvo qualcosa. Sc’vèik nel frattempo osservava con interesse le iscrizioni tracciate a carbone sul muro. Ce n’era una in cui un ignoto prigioniero sfidava la polizia a un duello di vita e di morte. Il testo suonava così: Ve la saprò fare inghiottire. Un altro prigioniero aveva scritto: Leccatemi il deretano, pollastri. Un terzo si limitava soltanto a constatare un avvenimento: Io ho trascorso qui la giornata del 5 giugno 1913, e sono stato trattato come si deve. Giuseppe Márecek, negoziante di Vršovic. Più in là ce n’era un’altra che commuoveva per la sua profondità: Pietà, padreterno… e sotto: baciatemi il C. La lettera C. era stata cancellata, ed accanto v’avevano scritto in lettere maiuscole: le code del frack. Lì vicino c’era un’anima poetica che aveva scritto i versi seguenti: Sto seduto qui sul rio, a guardare il sol che muore proprio dove l’amor mio ha le sue dimore…

L’uomo che correva fra il pancaccio e la porta come se volesse vincere una gara di maratona, si fermò tutto anelante e si rimise a sedere al posto di prima; poi s’afferrò la testa fra le mani e gridò all’improvviso: «Lasciatemi andar via!» «Ma no, non mi lasceranno andar via», soggiunse come fra sé, «mai e poi mai! E dire che è dalle sei di stamani che son qui!» 47

Fu invaso da un accesso di confidenza, e s’alzò in piedi per dire a Sc’vèik: «Per caso lei non ha mica con sé una cintura, perché io possa farla finita?» «Se non le occorre altro, posso servirla ben volentieri», rispose Sc’vèik togliendosi la cintura di dosso. «Io non ho ancora visto come fa a impiccarsi con una cinghia la gente che sta in prigione. Il male è», proseguì dopo aver dato un’occhiata in giro, «che qui non c’è neanche un gancio. La maniglia della finestra non sarà capace di sostenere la sua persona. A meno che lei non voglia impiccarsi in ginocchio al pancaccio, come fece quel frate del convento di Emmaus, che si appese a un crocifisso a cagione di una ragazza ebrea. I suicidi sono la mia passione: mettiamoci dunque allegramente all’opera». L’uomo triste contemplò la cintura che Sc’vèik gli porgeva, la gettò in un cantuccio e si mise a piangere, asciugandosi le lacrime con le mani nere ed emettendo gemiti di questo genere: «Io son padre di famiglia, e m’hanno arrestato per ubriachezza e condotta scandalosa. Oh, moglie mia poveretta, Gesummaria! E che mi diranno all’ufficio? Io son padre di famiglia, e m’hanno arrestato per ubriachezza e condotta scandalosa…» e così via all’infinito. Finalmente si calmò un poco, e si recò fino all’uscio, che prese a pugni e a calci. Dietro l’uscio echeggiarono dei passi e una voce: «Si può sapere che cosa volete?» «Lasciatemi andar via!» gemè il disgraziato con la voce di uno che ha ancora ben poco da vivere. «Ma dove?» gli domandarono dall’altra parte. «All’ufficio!» spiegò l’infelice padre e marito, funzionario ubriacone e scioperato. Una risata atroce echeggiò nella quiete del corridoio, e i passi si riallontanarono. «Ho il sospetto che quel signore le voglia male a ridere in quel modo di lei», osservò Sc’vèik mentre lo sciagurato ritornava a sedere accanto a lui. «Un secondino come questo è capace di tutto, quando ha del rancore verso qualcuno. Ma se lei non si vuole più impiccare, rimanga pure tranquillo, e stia a vedere come vanno a finire le cose. Se lei è impiegato, ammogliato e padre di famiglia, la cosa è brutta, lo ammetto. Lei probabilmente suppone che la cacceranno via dall’impiego, se non mi sbaglio». «Che vuole che le dica», sospirò l’altro, «se nemmen io mi ricordo che cosa ho commesso, e so solo che ci hanno cacciato non so di dove e che io volevo rientrare per farmi 48

accendere il sigaro. E dire che la serata era cominciata così bene! Era l’onomastico del nostro caporeparto e lui ci aveva invitati in una bottiglieria; poi siamo andati in un’altra, poi in una terza, poi in una quarta, poi in una quinta, poi in una sesta, poi in una settima, poi in una ottava, poi in una nona…» «Permette che l’aiuti a contare?» domandò Sc’vèik. «Io m’intendo abbastanza della faccenda: una volta ho fatto ventotto locali! Ma non voglio dir bugie: in nessun posto ho bevuto più di tre birre». «Per farla breve», proseguì il povero sottoposto del caporeparto che festeggiava con tanta magnificenza il proprio onomastico, «dopo che abbiamo visitato una dozzina di bettole, ci siamo accorti d’avere smarrito il caporeparto, sebbene l’avessimo legato a una cordicella e ce lo tirassimo dietro come un cagnolino. Allora ci siamo messi a cercarlo dappertutto, ed è successo che ci siamo perduti l’uno con l’altro, finché io mi son ritrovato in un caffè notturno del quartiere dei Vigneti, un locale molto decente, dove mi son bevuto una bottiglia di liquore a garganella. Quello che ho fatto dopo non me lo ricordo più, ma so soltanto che quando m’hanno condotto al commissariato, i due agenti che mi accompagnavano hanno fatto rapporto che io ero ubriaco, che m’ero condotto in maniera ripugnante, che avevo picchiato una signora, tagliuzzato con un temperino da tasca un cappello non mio che avevo preso in un guardaroba; buttato all’aria un’orchestrina femminile; accusato in faccia a tutti il primo cameriere d’avermi rubato venti corone dandomi il resto; mandato in frantumi il marmo del tavolino al quale m’ero seduto; sputato intenzionalmente nel caffè d’un signore vicino. Questo è tutto, o almeno non riesco più a ricordarmi se ne ho commesse ancora dell’altre. Ma mi creda, io sono un uomo ordinato e riflessivo, che pensa soltanto alla propria famiglia. Che ne dice? Io non son mica uno scioperato!» «Le c’è voluta molta fatica per spezzare il marmo del tavolino?» gli chiese con curiosità Sc’vèik invece di dargli una risposta; «oppure lo ha spaccato in un colpo solo?» «In un colpo solo», rispose l’uomo riflessivo. «Allora lei è perduto», disse Sc’vèik sovrappensiero. «Le dimostreranno che lei ci si è preparato con un arenamento quotidiano. E il caffè di quel signore, quello dove lei ha sputato, era un caffè semplice o un caffè corretto?» E senza aspettar la risposta, spiegò: «Se era corretto, la cosa è peggiore, perché costa di più. 49

Al tribunale si calcola e si addiziona tutto, perché ne risulti almeno un reato». «Al tribunale…» mormorò a bassa voce il cosciezioso padre di famiglia, e precipitò a testa china nello stato di chi è divorato dai rimorsi della coscienza.1 «A casa sua lo sanno che lei è dentro», chiese Sc’vèik, «oppure lo sapranno soltanto dai giornali?» «Lei crede che la cosa andrà sui giornali?» domandò ingenuamente la povera vittima del proprio caporeparto. «Nulla di più sicuro», suonò la chiara risposta di Sc’vèik, che non aveva mai l’abitudine di nascondere agli altri i propri pensieri. «E la sua faccenda piacerà moltissimo a tutti i lettori. Anch’io mi diverto molto a leggere la cronaca degli ubriachi e delle loro malefatte. Qualche tempo fa al ‘Calice’ un cliente riuscì addirittura a rompersi la testa con un bicchiere. L’aveva gettato contro il soffitto e ci s’era messo sotto. Lo portarono via e la mattina dopo leggemmo la notizia sul giornale. Un’altra volta a Béndlovec io detti uno schiaffo a un becchino e lui me lo rese. Per farci fare la pace bisognò che ci mettessero dentro tutti e due, e la faccenda venne fuori sulle edizioni del mattino. O crede lei che quando al caffè della ‘Morte Secca’ quel tal consigliere ruppe due tazze, gliela perdonassero? Anche lui il giorno dopo era sopra i giornali. A lei non resta che mandare ai giornali una smentita qui di prigione, dicendo che la notizia pubblicata a suo riguardo non la conosceva affatto, e che lei non ha nessun rapporto né di parentela né d’amicizia con quel signore che si chiama come lei; e di spedire un’altra lettera alla sua famiglia, con la preghiera di ritagliare la notizia e di conservarla, perché lei la possa leggere dopo che avrà scontato la pena». «Non le fa mica freddo?» domandò Sc’vèik con grande interesse quando s’accorse che l’uomo riflessivo batteva i denti. «Abbiamo una fine d’estate piuttosto fredda». «Io sono un uomo impossibile», gemè il compagno di Sc’vèik, «io mi son rovinato la promozione!» «Non c’è dubbio», soggiunse Sc’vèik ben volentieri. «Se quando avrà scontata la pena non la riprenderanno all’ufficio, non credo che lei potrà trovare così facilmente un altro impiego, perché tutti quanti, anche se si trattasse di far servizio presso un castrino, pretenderanno il certificato penale pulito. Guardi un po’ quanto le costa quell’ora d’allegria che lei s’è voluto concedere! Ma sua moglie e i suoi 1  Alcuni scrittori usano l’espressione «róso», invece di «divorato». Io ritengo che questa espressione non sia troppo adatta. Anche la tigre divora l’uomo, ma non lo rode. [N.d.A.]

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bambini hanno di che vivere per tutto il tempo della sua reclusione? Oppure dovrà mendicare o insegnare ai bambini qualche cosa di brutto?» Risuonò un singhiozzo: «Poveri miei bambini, povera moglie mia!» L’incosciente peccatore s’alzò e si mise a parlare dei propri bambini: che ne aveva cinque, e che il maggiore aveva dodici anni compiuti ed era iscritto nei giovani esploratori; per di più non beveva che acqua, e poteva essere d’esempio a suo padre, che s’era condotto così male per la prima volta nella sua vita. «Nei giovani esploratori?» esclamò Sc’vèik. «Io sento parlare molto volentieri dei giovani esploratori. Una volta a Myrlovarech presso Zliva, mandamento di Hluboka, circondario di Budějovice, proprio mentre noialtri dell’ottantunesimo facevamo le nostre esercitazioni, i contadini delle vicinanze organizzarono nel bosco demaniale una battuta ai giovani esploratori che vi s’erano annidati. Ne chiapparono tre. Il più piccino, mentre lo legavano, si dibatteva, gemeva ed urlava tanto che noi, vecchi soldatacci induriti, non potemmo stare a guardarlo e preferimmo andarcene per conto nostro. Mentre li legavano, i tre giovani esploratori morsero otto contadini. Poi, durante il metodico interrogatorio del sindaco, confessarono sotto il bastone che nei dintorni non c’era una prateria che non avessero calpestato mentre si riscaldavano al sole, e che la piantagione di segale già pronta per la mietitura presso Ražic era bruciata per puro caso mentre vi stavano arrostendo allo spiedo un capriolo che avevano ammazzato a coltellate nel bosco demaniale. Nel loro ricovero nel fitto della foresta fu trovato mezzo quintale di ossi ben succhiati di pollame, un mucchio enorme di noccioli di ciliege, un monte di bucce di mele acerbe e d’altre cose buone». Ma il misero padre del giovane esploratore non si lasciò consolare proprio da questo discorso. «Che ho fatto di male?» gemeva. «La mia reputazione è distrutta!» «Proprio così», osservò Sc’vèik con la sua innata gentilezza, «dopo quello che è successo la sua reputazione sarà rovinata per tutta la vita, perché quando la gente leggerà la cosa sui giornali, le sue conoscenze ci metteranno anche loro un po’ di giunta. Succede sempre così, e non serve a nulla pigliarsela. Di persone con la reputazione distrutta o macchiata nel mondo ce n’è dieci volte tante di quelle con la coscienza pulita. È una cosa insignificante». Nel corridoio risuonarono dei passi pesanti, la chiave 51

cigolò nella serratura, la porta s’aprì e un secondino chiamò fuori il nome di Sc’vèik. «Scusate», disse Sc’vèik con grande cavalleria, «io sto qui soltanto dalle dodici del pomeriggio, mentre quel signore aspetta dalle sei di stamani. Io non ho punta fretta». Per tutta risposta la solida mano del secondino trascinò Sc’vèik per il corridoio e lo condusse in silenzio su per le scale del primo piano. Nella seconda stanza stava seduto dietro un tavolino il commissario di polizia, un uomo grasso e di aspetto bonario, che disse a Sc’vèik: «Ah, siete voi il celebre Sc’vèik! Come avete fatto a capitare qua dentro?» «Nel più semplice dei modi», rispose Sc’vèik, «ci son capitato a cagione d’un agente, perché non mi andava giù che mi avessero cacciato fuori del manicomio senza darmi da mangiare. Mi hanno trattato quasi come se fossi una venale donna di strada!» «Statemi a sentire, Sc’vèik», disse con simpatia il signor commissario; «perché qui da noi in Via della Salma ce la dovremmo prendere con voi? Non sarebbe meglio mandarvi alla Questura centrale?» «Lei», rispose Sc’vèik con calma, «è quello che si dice il padrone della situazione: andare così di sera alla Questura centrale è una passeggiatina veramente piacevole». «Son contento che anche voi ne conveniate», disse allegramente il commissario, «non è vero che è meglio trovarsi d’accordo? Nevvero, Sc’vèik?» «Oh», rispose Sc’vèik, «io m’accomodo così facilmente con tutti ! Creda pure, signor commissario, che io le resterò sempre grato della bontà». S’inchinò profondamente, si recò al corpo di guardia con un agente, e un quarto d’ora dopo lo si poteva vedere all’angolo di Via dello Strillo, in compagnia d’un poliziotto che teneva sotto il braccio un enorme libro con sopra la scritta: Arrestantenbuch.2 All’angolo di Via Bruciata Sc’vèik e il suo accompagnatore s’imbatterono in un capannello di persone che si pigiavano intorno a un manifesto che era affisso da poco. «È il proclama dell’Imperatore sulla dichiarazione di guerra», disse il poliziotto a Sc’vèik. «Io l’avevo prevista», osservò Sc’vèik, «ma al manicomio non ne sapevano nulla di nulla, quantunque avrebbero dovuto ricevere la notizia di prima mano». 2 

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Registro degli arrestati.

«Che intendete dire?» gli domandò il poliziotto. «Perché là dentro ci son rinchiusi parecchi ufficiali», spiegò Sc’vèik, e quando giunse all’altezza d’un altro capannello che si pigiava intorno a un nuovo proclama, gridò: «Viva l’Imperatore Francesco Giuseppe! Questa guerra la vinceremo!» Uno della moltitudine esaltata gli calcò il cappello fino agli orecchi, e mentre accorreva folla da ogni parte, il buon soldato Sc’vèik varcò per la seconda volta le soglie della Questura centrale. «Questa guerra la vinceremo senz’altro, ve lo ripeto ancora una volta, signori!» fu con queste parole che Sc’vèik si congedò dalla folla che lo seguiva. Ma chi sa dove, nelle remote regioni della storia, saliva sull’Europa il presentimento che il futuro avrebbe distrutto tutti i piani del presente.

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6 Sc’vèik rompe il cerchio magico e torna a casa

Nell’edificio della Questura centrale soffiava il vento di un’autorità forestiera, che cercava di dimostrare fino a che punto la popolazione s’entusiasmasse per la guerra. Con la eccezione di alcuni individui, che non negavano affatto di esser figli d’una nazione che doveva andare a farsi scannare per degli interessi che non la toccavano menomamente, la Questura centrale era composta d’una magnifica accozzaglia di bestie feroci della burocrazia, che si preoccupavano soltanto del carcere e della forca, con l’esclusiva finalità di difendere quei maledetti paragrafi. Perciò trattavano la loro vittima con velenosa indulgenza, non senza pesare ogni parola. «Mi rincresce davvero», disse una di quelle belve striate 54

di giallo e nero, quando le portarono Sc’vèik, «che siate ricaduto un’altra volta nelle nostre grinfie. Noi credevamo che vi sareste corretto, ma c’eravamo ingannati». Sc’vèik annuì silenziosamente e atteggiò il volto a tanta innocenza, che la belva gialla e nera lo squadrò con aria interrogativa, ed urlò: «Smettete di fare lo scemo!» Ma tornò subito al tono cortese, e riprese: «A noi rincresce sinceramente di trattenervi in prigione, ma vi posso assicurare che a mio parere la vostra colpabilità non è poi così grande, perché, dato il caso della vostra intelligenza ridotta, non v’è dubbio che voi siate stato sobillato da qualcheduno. Ditemi, signor Sc’vèik: chi vi ha consigliato di commettere delle stupidaggini simili?» Sc’vèik tossì e dichiarò: «Mi scusi, ma io non capisco di quali stupidaggini lei intenda parlare». «Non vi sembra una stupidaggine, signor Sc’vèik», disse l’altro con voce falsamente paterna, «almeno secondo quanto risulta dal rapporto dell’agente che vi ha accompagnato, quella di provocare assembramenti intorno a un proclama di guerra affisso a una cantonata e di sobillare la gente con grida sediziose quali: ‘Viva l’Imperatore Francesco Giuseppe! Questa guerra sarà vittoriosa!’?» «Io non ho potuto farne a meno», dichiarò Sc’vèik fissando i suoi occhi bonari nel viso del suo inquisitore, «io non son più riuscito a trattenermi quando ho visto che tutti leggevano il proclama e che non manifestavano punto entusiasmo. Nemmeno un grido d’evviva, un urrà, assolutamente nulla, signor commissario: come se la cosa non li riguardasse affatto. Allora io, veterano dell’ottantunesimo reggimento, non ho potuto sopportare quello spettacolo ed ho gridato quelle parole; ma penso che se lei fosse stato al mio posto, avrebbe fatto né più né meno quello che ho fatto io… Quando c’è la guerra, bisogna vincerla e gridare ‘Evviva Sua Maestà l’Imperatore,’ e nessuno sarà capace di farmi pensare il contrario». Sconfitta e domata, la belva giallonera1 non poté sostenere lo sguardo d’agnello innocente di Sc’vèik, abbassò il volto sulle carte d’ufficio, e disse: «Capisco perfettamente il vostro entusiasmo, ma avreste dovuto manifestarlo in tutt’altre circostanze. Voi sapete bene ch’eravate in compagnia d’un agente, cosìcché una manifestazione di patriottismo quale la vostra poteva e do1 

Il giallo e il nero erano i colori della bandiera austriaca.

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veva agire sul pubblico in modo non tanto patetico quanto grottesco». «Dover seguire un agente», rispose Sc’vèik, «è un momento ben grave nella vita d’un uomo. Ma quando quell’uomo riesce a rendersi conto in un momento così grave di ciò che si deve fare quando c’è la guerra, mi pare che in fondo non sia poi tanto cattivo». La belva giallonera borbottò e guardò Sc’vèik ancora una volta negli occhi. Sc’vèik gli rispose con l’umile, innocuo, tenero e dolce fervore delle proprie pupille. Per un momento i due stettero fissi a guardarsi. «Andate al diavolo, Sc’vèik!» disse alfine quel can barbone di funzionario. «Ma se mi ricapiterete fra i piedi, vi giuro che senza neppure interrogarvi, vi deferirò direttamente al tribunale di guerra, quello che sta insediato al Castello. Ci siamo intesi?» Ma prima che avesse finito, Sc’vèik gli s’accostò, gli baciò la mano e gli disse: «Che Dio gliene renda merito! Se qualche volta le farà bisogno d’un cagnolino di razza, si degni di rivolgersi a me. Io sono commerciante di cani». Fu così che Sc’vèik riacquistò la propria libertà e riprese il cammino di casa. La sua esitazione riguardo all’idea di fermarsi un pochino al «Calice» si risolse in modo che rientrò per quella porta donde qualche giorno prima era uscito in compagnia dell’agente Bretschneider. Nella mescita regnava un silenzio di tomba. Non v’eran seduti che tre o quattro clienti, fra cui il sagrestano di Sant’Apollinare. Tutti quanti erano sovrappensiero. L’ostessa Palivec stava dietro il banco da mescita e contemplava ottusamente i rubinetti della birra. «Eccomi di ritorno», disse Sc’vèik allegramente; «datemi un bicchiere di birra. Dov’è andato a finire il signor Palivec? Non è ancora rientrato a casa?» «Gli hanno dato… dato… dieci anni di prigione… or’è una settimana…» «To’, guarda», disse Sc’vèik; «ha di già otto giorni scontati dietro a sé». «E dire che era così prudente», singhiozzava la signora Palivec, «almeno lui diceva sempre così!…» I clienti della mescita tacevano ostinatamente come se lo spirito di Palivec si librasse sopra di loro e li esortasse a una prudenza ancora maggiore. «La prudenza è la madre della saggezza», disse Sc’vèik 56

sedendosi a un tavolino dietro il suo bicchiere di birra, che aveva tutta la spuma forata per le lacrime della signora Palivec mentre gliela serviva, «e i tempi d’oggi son tali da obbligare la gente alla prudenza». «Ieri abbiamo avuto un paio di generali», cercò di cambiare discorso il sagrestano di Sant’Apollinare. «Vuole dire che era morto qualcuno», osservò il secondo cliente; al che il terzo soggiunse: «Le esequie sono state celebrate col catafalco?» «Mi piacerebbe sapere», disse Sc’vèik, «come faranno ora in guerra a celebrare tanti e tanti funerali militari». I clienti s’alzarono, pagarono e se la svignarono alla chetichella. Sc’vèik restò solo con la signora Palivec. «Non avrei mai creduto», egli disse, «che sarebbero stati capaci di condannare un uomo innocente a dieci anni di prigione. Che un innocente venisse condannato a cinque anni l’avevo sentito dire, ma dieci mi sembra un po’ troppo». «Ma se il mio uomo ha confessato tutto!» gemè la signora Palivec. «Quello che aveva detto qui delle mosche, del ritratto, l’ha ripetuto in Questura e al tribunale. Io assistevo al dibattito in qualità di testimone, ma che vuole che testimoniassi se mi dissero che non potevo attestar nulla in considerazione dei miei rapporti di parentela con l’accusato! Questi rapporti di parentela m’hanno messo addosso tanta paura che non ne avesse a uscire qualcosa di peggio, che io ho rinunziato alla testimonianza, mentre il mio povero vecchio mi guardava in un modo tale che non potrò mai dimenticare quegli occhi finché avrò vita. E poi, dopo il verdetto, quando lo portarono via, era così istupidito che gridò: ‘Evviva il libero pensiero!’ nel corridoio». «E il signor Bretschneider non s’è rifatto più vivo?» chiese Sc’vèik. «Sì, s’è rifatto vedere un paio di volte: s’è bevuto una o due birre, m’ha domandato chi è che frequenta il locale, ed è stato a sentire i clienti che discutevano di calcio. Perché quando lo vedono, tutti quanti si mettono a parlare del giuoco del calcio. E lui allora comincia ad agitarsi come se ogni momento volesse montar sulle furie e sbranare qualcuno. In tutto questo periodo gli è riuscito a cogliere sul fatto soltanto un tappezziere di Via Storta». «È tutta quistione d’esercizio», osservò Sc’vèik; «quel tappezziere era forse uno stupido?» «Una specie di mio marito», rispose la donna senza smetter di singhiozzare. «Quell’altro gli domandò se se la sarebbe sentita di sparare sui serbi. Lui rispose che non sapeva tirare, che era stato una volta sola al tiro a segno, e che non 57

aveva sparato che per una corona. Dopodiché sentimmo tutti che Bretschneider diceva, estraendo il suo taccuino: ‘To’, un altro caso d’alto tradimento!’ e se n’andò via con quel tappezziere di Via Storta, che non s’è fatto più vivo». «Oh, non se ne faranno più vivi parecchi!» disse Sc’vèik. «Datemi un dito di rum». Proprio mentre Sc’vèik inghiottiva il suo secondo rum, entrò nella mescita l’agente in borghese Bretschneider. Gettò un rapido sguardo sul banco di mescita e nell’osteria vuota, poi si sedè accanto a Sc’vèik e ordinò una birra, in attesa di ciò che Sc’vèik avrebbe detto. Sc’vèik staccò un giornale appeso all’attaccapanni, e data che ebbe un’occhiata all’ultima pagina, quella delle «inserzioni», esclamò: «To’, quel Cimpera del numero 6 di Strašk, ufficio postale di Racineves, vende una fattoria di tredici ettari di terreno arativo, con scuola e ferrovia nei dintorni». Bretschneider tamburellò nervosamente con le dita sul tavolo, poi si rivolse a Sc’vèik e gli disse: «Mi sorprende che abbiate un così grande interesse per l’agricoltura, signor Sc’vèik». «Giusto lei», disse Sc’vèik porgendogli la mano; «dapprima non l’avevo riconosciuta: io ho la memoria così debole. L’ultima volta che ci siamo lasciati, se non mi sbaglio, mi pare che fosse nell’ufficio della Questura. Che ha fatto di bello da allora in poi? Viene spesso in questo locale?» «Oggi ci son venuto proprio per voi», disse Bretschneider. «In Questura mi hanno detto che voi vendete cani. Io avrei bisogno d’un cane da sorci o d’un volpino, insomma di qualche cosa di simile». «Io le posso procurare tutto quello che vuole», rispose Sc’vèik; «preferisce un animale di razza o un cagnotto di strada?» «Credo che mi deciderò per un animale di razza», rispose Bretschneider. «E che direste d’un cane poliziotto?» chiese Sc’vèik. «Un cane capace di scovarvi sull’istante qualsiasi oggetto, e di portarvi subito sulle tracce dei malfattori? Un macellaio a Vršovice ne n’ha uno al quale fa tirare il carrozzino; e proprio il caso di dire che quello è un cane che ha sbagliato carriera». «Io vorrei piuttosto un cane da sorci», disse con calma ostinata Bretschneider, «ma che non morda però». «Desiderate allora un volpino sdentato?» domandò Sc’vèik. «Ne conosco uno che appartiene a un oste di Dejvice». 58

«Allora mi piacerebbe di più un cane da sorci», replicò un po’ confuso Bretschneider, la cui competenza cinologica era piuttosto limitata, e che senza ordine espresso della Questura non si sarebbe mai occupato di cani. Ma l’ordine parlava chiaro, forte e netto: attaccare una stretta relazione con Sc’vèik con il pretesto del suo traffico di cani, con il relativo diritto di prescegliersi i propri aiutanti e di disporre di mezzi per il necessario acquisto di cani. «Di cani da sorci ce n’è di grandi e di piccoli; io so dove trovarne due piccoli e tre grandi. Tutti e cinque si lasciano prendere in grembo. Ve li raccomando caldamente». «La cosa mi converrebbe», dichiarò Bretschneider. «A quanto ammonta il prezzo d’ognuno?» «Dipende dalla grandezza», rispose Sc’vèik, «tutto è in relazione alla misura. Ma naturalmente un cane da sorci non è un vitello, e si procede all’inverso: più è piccolo, più costa caro». «Io sto pensando a uno di quelli grandi, che potrebbe servirmi come cane da guardia», rispose Bretschneider timoroso di manomettere troppo i fondi segreti della Sezione politica. «Bene», disse Sc’vèik; «uno di quelli abbastanza grandi glielo posso vendere per cinquanta corone, e uno dei più grossi per quarantacinque. Però ci siamo scordati d’una cosa: devono esser cuccioli o adulti, cagne o cani?» «Per me fa lo stesso», rispose Bretschneider, che aveva a che fare con dei problemi completamente oscuri per lui; «procuratemene uno, e verrò a prenderlo da voi domani alle sette di sera. Siamo intesi?» «Venga pure», replicò seccamente Sc’vèik, «ma in tal caso son obbligato a chiederle una caparra di trenta corone». «Senz’altro», disse Bretschneider pagando in contanti, «e beviamoci sopra un quartino di vino, uno per ciascuno, a spese mie». Quando furono giunti al quinto quartino, Bretschneider, per convincere Sc’vèik che non aveva nulla a temere da lui, dichiarò che quel giorno si trovava fuori servizio, e che poteva parlare tranquillamente di politica. Sc’vèik replicò che lui non parlava mai di politica all’osteria, e che la politica è roba da bambini. Bretschneider invece manifestò le opinioni più rivoluzionarie e disse che tutti gli stati deboli son destinati all’annientamento, e domandò qual era il parere di Sc’vèik a questo riguardo. Sc’vèik dichiarò di non aver mai avuto nulla a spartire 59

con lo stato, ma che una volta aveva avuto in cura un cucciolo di San Bernardo e che l’aveva alimentato con gallette militari, ma che quello era crepato. Quando furono giunti al sesto quartino, Bretschneider si palesò per anarchico e chiese a Sc’vèik in quale organizzazione avrebbe dovuto iscriversi. Sc’vèik disse che una volta un anarchico gli aveva comprato un mastino per cento corone, e che non gli aveva mai pagato l’ultima rata. Al settimo quartino Bretschneider parlò della rivoluzione e protestò contro la mobilitazione generale, ma Sc’vèik si chinò verso di lui per sussurrargli all’orecchio: «È entrato nel locale un altro cliente; non si faccia sentire, che potrebbe avere delle noie. Lei vede bene che la padrona sta piangendo». La signora Palivec piangeva davvero, seduta dietro il banco di mescita. «Perché piange, signora padrona?» le chiese allora Bretschneider. «Fra tre mesi avremo vinta la guerra, ci sarà un’amnistia, suo marito tornerà a casa e faremo baldoria». «Ma voi forse pensate che la perderemo?» domandò rivolgendosi a Sc’vèik. «Ma che stiamo cianciando», disse Sc’vèik, «bisogna vincere e basta, ma ora è meglio andarsene a casa». Sc’vèik pagò le consumazioni e fece ritorno dalla sua vecchia affittacamere, la signora Müller, che rimase molto sorpresa nel vedere che l’uomo che apriva con la chiave l’uscio del suo appartamento era Sc’vèik. «Io credevo, signore, che lei non sarebbe tornato prima di qualche anno», gli disse con la consueta franchezza, «e nel frattempo ho affittato per compassione la stanza al portiere d’un locale notturno, e siccome abbiamo avuto tre volte la perquisizione, e non hanno potuto trovar nulla, hanno detto che lei s’è perduto per troppa malizia». Sc’vèik poté subito constatare personalmente che quell’ignoto intruso s’era messo a posto con tutti i suoi comodi. S’era coricato nel suo letto, e doveva essere un’anima davvero generosa, perché si contentava soltanto d’una metà del giaciglio e l’altra l’aveva ceduta a una creatura dai capelli lunghi, che giaceva tenendolo abbracciato per riconoscenza intorno al collo, mentre in terra s’ammucchiavano alla rinfusa ogni specie di vestimenta da uomo e da donna. Da quel disordine si capiva facilmente che il portiere notturno era rientrato con la sua dama in ottime disposizioni di spirito. «Signore», disse Sc’vèik scrollando l’importuno, «stia attento di non levarsi troppo tardi per il pranzo! Mi rincresce60

rebbe assai che lei andasse a dire che io l’ho cacciato fuori quando non si trova più nulla da mangiare». Il portiere del locale notturno dormiva un sonno così duro che ci volle del buono e del bello per fargli capire che il proprietario era tornato a casa e protestava. Secondo le usanze di tutti i portieri dei locali notturni, anche costui minacciò di rompere il muso a chiunque lo venisse a svegliare, e fece il tentativo di riaddormentarsi. Nel frattempo Sc’vèik raccattò i capi del suo abbigliamento, glieli portò fin sul letto, e scuotendolo con quanta forza aveva, gli disse: «Se lei non si riveste, io le farò vedere che la butto in istrada nudo come sua madre l’ha fatto. Sarà un bel guadagno per lei se uscirà fuori vestito». «Io volevo dormire fino alle otto di sera», disse mentre indossava i pantaloni il portinaio stordito, «alla signora pago due corone al giorno per il letto, e posso portarci anche le ragazze del locale. Alzati, Maria!» Mentre si metteva il colletto e s’accomodava la cravatta, il portiere ritornò in sé così bene da attestare a Sc’vèik che il locale notturno «Mimosa» era effettivamente uno dei migliori ambienti del genere, e vi avevano accesso soltanto 61

le signore che avevano tutti i fogli in piena regola, e invitò cordialmente Sc’vèik a venire a fargli una visita. Ma al contrario di lui, la sua compagna non era per nulla soddisfatta di Sc’vèik, e gli diresse tre o quattro apostrofi delle più fini, tra le quali primeggiava la seguente: «Bastardo di priore!» Quando gli intrusi furono usciti, Sc’vèik andò a cercare la signora Müller per fare un po’ d’ordine, ma non trovò di lei altri resti che un pezzo di carta, su cui erano tracciati a matita i segni d’un’incerta scrittura che esprimevano con straordinaria chiarezza il suo modo di vedere a proposito dell’avventura del portiere del locale notturno che aveva occupato il letto di Sc’vèik. «Il signore mi perdoni se non lo vedrò più, ma io mi getto dalla finestra». «Questa è una bugia», disse Sc’vèik ed attese. Mezz’ora dopo la sventurata signora Müller faceva ritorno alla chetichella in cucina, e dalla sua aria turbata si capiva che essa attendeva da Sc’vèik una parola di consolazione. «Se volete gettarvi dalla finestra», disse Sc’vèik, «recatevi in camera mia, che ho aperto le imposte. Gettarsi da quella di cucina non vi potrebbe giovare, perché c’è da cadere sulle rose del giardino di sotto; rovinereste i boccioli e allora bisognerebbe pagare. Invece dalla finestra di camera mia andate a finire proprio in mezzo al marciapiede, e, se avete fortuna, vi romperete la testa. In caso di disgrazia, correte soltanto il rischio di fracassarvi le costole, le gambe e le braccia ad un tempo, e per di più avrete da pagare il conto dell’ospedale». La signora Müller scoppiò in lacrime, se n’andò zitta zitta in camera a chiudere la finestra, ritornò sui propri passi e disse: «C’era uno spiffero che avrebbe fatto male ai reumatismi del signore». Poi andò a rifare il letto, rimise tutto in ordine con uno zelo inusato, e infine fece ritorno in cucina da Sc’vèik, e gli comunicò con le lacrime agli occhi: «Signore, quei due cuccioli che tenevamo in cortile sono crepati. In quanto al San Bernardo, c’è scappato quando hanno fatto la perquisizione». «Gesù Cristo», esclamò Sc’vèik, «starà fresco ora che gli andrà dietro la polizia!» «Dette un morso a un commissario di polizia che durante la perquisizione voleva tirarlo via di sotto il letto», proseguì a raccontare la signora Müller; «uno di quei signori 62

aveva detto che sotto il letto c’era qualcuno e allora ordinarono al San Bernardo di uscir fuori nel nome della legge, e perché lui non voleva, lo tiraron fuori loro. Prima voleva divorarli, ma poi prese l’uscio e non s’è fatto più vivo. Anche a me hanno fatto un interrogatorio, per sapere chi frequenta la casa, se riceviamo soldi dall’estero; poi mi hanno presa in giro perché avevo detto che qui soldi dall’estero ne arrivan di rado, e che gli ultimi erano stati una caparra di sessanta corone da parte di quel precettore di Brema, per quel gatto d’angora per cui lei fece fare un’inserzione sulla Politica Nazionale, e al cui posto mandò invece un cucciolo cieco di fox-terrier in un canestrino da datteri. Poi si son messi a conversare con me con molta cortesia, e per non star troppo sola, m’hanno raccomandato di prendere in casa quel portiere del locale notturno, proprio quello che lei ha cacciato via poco fa…» «Io ho avuto sempre disdetta con le autorità, signora Müller: vedrete quanti ne verranno a comprar cani», sospirò Sc’vèik. Io non so se la gente che dopo il cambiamento del regime ha ispezionato l’archivio di polizia, ha potuto decifrare i registri dei fondi segreti della Sezione politica, dove si leggeva: SB… 40 corone, FT… 50 corone, CG… 80 corone, e così via; ma hanno certo supposto che SB, FT e CG sono le iniziali del nome di alcune persone che per 40, 50 e 80 corone avevano venduto la nazione cèca all’aquila bicipite. SB vuol dire San Bernardo, FT fox-terrier e CG cane grifone. Tutti questi cani erano stati portati alla Questura centrale da Bretschneider che li aveva acquistati da Sc’vèik. Erano degli orrendi bastardi, che non avevano nulla in comune con quelle nobili origini che Sc’vèik aveva vantato a Bretschneider. Il San Bernardo era l’incrocio d’un can da pagliaio neanche di sangue puro con una cagnetta da strada, il foxterrier aveva gli orecchi d’un bassotto, l’altezza d’un danese e le gambe storte come se avesse avuto il ballo di San Vito. Il grifone ricordava con la sua testa irsuta un can barbone, aveva la coda scorciata, l’altezza d’un bassotto e il deretano nudo, come i famosi cagnetti tosati d’America. Poi venne la volta dell’agente Kalous, che acquistò una bestia mostruosa, che ricordava la jena screziata, con la bocca d’una cane da pastore scozzese, e nei registri dei fondi segreti fu scritto: BD… 90 K. Quella disgraziata creatura recitava la parte di un bulldog. Ma neppure a Kalous riuscì di tirar fuori qualcosa dalla 63

bocca di Sc’vèik. Anche a lui capitò come a Bretschneider. Sc’vèik riconduceva anche le più profonde discussioni politiche alla cura delle malattie canine nei cuccioli, e gli stratagemmi più astuti si risolvevano in modo che Bretschneider doveva portarsi via un altro bastardo inverosimilmente ibrido. Questa fu la fine del famoso agente Bretschneider. Quando ebbe a domicilio sette animali di questa fatta si rinchiuse con essi nella camera di fondo, e li lasciò così a lungo senza mangiare, che alla fine lo divorarono. Fu così generoso da risparmiare allo stato i suoi funerali. Nelle sue note caratteristiche depositate alla Questura centrale, nella colonna «Avanzamenti di grado», furono inserite le seguenti parole piene di tragicità: «Divorato dai propri cani». Quando in seguito Sc’vèik venne a conoscenza di quel tragico episodio, gli venne fatto di dire: «Una cosa mi rode il cervello, come faranno a rimetterlo insieme il giorno del Giudizio universale».

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7 Sc’vèik va alla guerra

All’epoca in cui le boscaglie che costeggiano il fiume Rab in Galizia lo vedevan guadare dall’esercito austroungarico in rotta e che laggiù in Serbia le divisioni della Monarchia riscuotevano sul fondo dei calzoni ciò che da lungo tempo era loro dovuto, il Reale e Imperiale Ministero della Guerra si ricordò anche di Sc’vèik, che venisse lui a cavar l’Austria-Ungheria dai pasticci». Quando gli portarono l’intimazione di presentarsi entro una settimana alla visita medica nell’Isola dei Tiratori, Sc’vèik giaceva in letto, colpito da un nuovo attacco di reumatismi. La signora Müller era in cucina a scaldargli il caffè. «Signora Müller», chiamò dalla camera la fioca voce di Sc’vèik, «signora Müller, venite qui un momentino». 65

Quando l’affittacamere si fermò accanto al letto, Sc’vèik riprese a dire con la stessa voce fioca di prima: «Sedetevi, signora Müller». Nella sua voce c’era un senso d’arcano trionfo. Quando la signora Müller si fu seduta, Sc’vèik proclamò, rizzandosi sul letto: «Io vado alla guerra!» «Maria Vergine!» esclamò la signora Müller. «E che ci vuole andare a fare?» «A combattere», replicò Sc’vèik con una voce sepolcrale, «perché va male per l’Austria. Su a nord stanno per prender Cracovia e più in giù l’Ungheria. Ci trebbiano come grano, chissà dove andremo a finire, è per questo che m’hanno richiamato. Ieri ho letto sui giornali che nere nuvole minacciano la nostra patria diletta». «Ma se lei non si può neppur muovere!» «Non importa, signora Müller, andrò alla guerra in carrozzino. Conoscete quel pasticciere dietro la cantonata? Lui possiede una specie di carrozzino. Qualche anno fa se ne serviva per portare in giro a prendere una boccata d’aria suo nonno, ch’era zoppo e cattivo. Voi, cara signora Müller, con questo carrozzino mi spingerete fino alla guerra». La signora Müller scoppiò in lacrime: «Padrone, non è meglio che corra a chiamare il dottore?» «Voi non correrete in nessun posto, signora Müller: io mi sento da capo ai piedi un sanissimo pezzo di lardo da cannone; e poi, in un’epoca come questa, quando l’Austria va a catafascio, anche i ‘lavativi’ devono fare il loro dovere. Finite di scaldare il vostro caffè in pace». E mentre la signora Müller mesceva il caffè tutta lacrimosa e commossa, il bravo soldato Sc’vèik intonò di sul letto: Il grande Windischgrätz e il suo stato maggiore hanno dato l’attacco al primissimo albore: hop, hop, hop! Hanno dato l’attacco gridando in compagnia: ci aiuti Gesù Cristo e la Vergine Maria, hop, hop, hop!1

La spaventatissima signora Müller, sotto l’impressione di quel tremendo canto guerresco, si dimenticò del caffè, e con le membra tutte scosse dallo spavento, stette a sentire il buon soldato Sc’vèik che cantava dal letto: 1 

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Vecchia canzone militare.

Con la Vergine Maria ad ogni nostro fronte, impianta gli avamposti più solidi, o Piemonte, hop, hop, hop! C’è stata una tremenda battaglia a Solferino, ed il sangue scorreva come un fiume di vino, hop, hop, hop! Ragazzi dell’80, non abbiate paura, che il convoglio vi porta la cinquina sicura, hop, hop, hop!

«Signor padrone, la prego in nome di nostro Signore!» echeggiò lamentosamente una voce dalla cucina, ma Sc’vèik volle lo stesso terminare la sua canzone militare: I soldi sul convoglio, ogni ragazza è nostra, il più bel reggimento l’80 si dimostra, hop, hop, hop!

La signora Müller si precipitò fuori e corse a chiamare un medico. Ritornò un’ora dopo, e trovò Sc’vèik addormentato. Chi lo risvegliò fu un signore corpulento, che gli tenne per un po’ la mano sulla fronte e gli disse: «Non abbia timore: io sono il dottor Pavek del quartiere dei Vigneti… mi dia la mano… si lasci mettere il termometro sotto l’ascella… va bene… mi faccia vedere la lingua… la tiri ancora più fuori… la tenga così… Di che male son morti i suoi genitori?» E così, quando Vienna desiderava che tutte quante le nazionalità dell’Austria-Ungheria dessero i più splendidi esemplari di fedeltà e di devozione, il dottor Pavek prescriveva a Sc’vèik un po’ di bromuro per temperare l’entusiasmo patriottico, e raccomandava al valoroso e bravo soldato Sc’vèik di cacciar via il pensiero della guerra. «Resti a letto fermo e tranquillo; ripasserò domani». Ventiquattr’ore dopo, quando si ripresentò, andò in cucina per sapere dalla signora Müller lo stato del paziente. «Sempre peggio, signor dottore», rispose la donna con accorata franchezza. «Stanotte, quando l’hanno assalito i dolori, con rispetto parlando s’è messo a cantare l’inno austriaco». Il dottor Pavek si vide costretto a reagire contro questa nuova manifestazione di lealtà del paziente aumentando la dose di bromuro. Il terzo giorno la signora Müller gli dichiarava che Sc’vèik andava di male in peggio. «Iersera, signor dottore, mi mandò a comprare una car67

ta geografica della zona di guerra, e stanotte s’è messo a delirare che l’Austria avrebbe vinto». «Ma prende sempre le polverine secondo le mie prescrizioni?» «Ma se finora non ha mandato neppure a comprarle, signor dottore!» Il dottor Pavek se n’andò non senza prima aver rovesciato su Sc’vèik una tempesta d’improperi, compresa l’assicurazione che non sarebbe mai più venuto a visitare un uomo che rifiutava il suo trattamento al bromuro. Mancavano ancora due giorni al termine di presentazione dinanzi alla commissione di leva. Sc’vèik ne approfittò per eseguire gl’indispensabili preparativi. Anzitutto mandò la signora Müller a comprare un berretto militare, e in secondo luogo dal pasticciere dietro la cantonata a farsi imprestare il famoso carrozzino, sul quale costui aveva portato in giro a prendere una boccata d’aria il suo nonno zoppo e cattivo. Poi gli venne in mente che gli occorrevano le stampelle. Per fortuna il pasticciere ne aveva da parte un paio, altro ricordo familiare ereditato dal povero nonno. Non gli mancava altro che il ciuffetto di piume delle reclute. Anche quello dové trovarlo la signora Müller, che gli ultimi avvenimenti avevan fatto dimagrire a vista d’occhio, e che dove andava piangeva. E fu così che un bel giorno si vide per le strade di Praga un esempio di commovente eroismo. Una vecchia donna spingeva dinanzi a sé un carrozzino, su cui stava seduto un uomo col berretto militare e il «franceschiello» 2 luccicante, che agitava un paio di grucce. E sul suo pastrano splendeva un iridescente ciuffetto di piume da recluta. E quell’uomo, agitando incessantemente le grucce, gridava per le strade di Praga: «A Belgrado, a Belgrado!» Gli veniva dietro una gran turba di gente, ingrossava senza posa il piccolo capannello che s’era raccolto dinanzi alla casa, per vedere Sc’vèik che andava alla guerra. Sc’vèik poté constatare che le guardie di polizia di servizio ai crocicchi gli facevano il saluto militare. Sulla piazza di San Venceslao la folla che circondava il carrozzino di Sc’vèik era salita a parecchie centinaia di persone, e all’angolo della via di Cracovia malmenarono un goliardo che gridò a Sc’vèik: «Heil! Nieder mit den Serben!» 3 2  3 

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Fregio metallico applicato sull’uniforme dell’esercito austro-ungarico. Hurra! Abbasso i serbi!

Sull’angolo di Via dell’Acquetta la polizia a cavallo dové intervenire per sciogliere l’assembramento. Quando Sc’vèik mostrò all’ispettore di controllo quel nero sul bianco che gl’intimava di presentarsi alla commissione di leva in giornata, l’ispettore rimase un poco deluso, e per evitare incidenti, fece accompagnare da due agenti a cavallo il carrozzino di Sc’vèik fino all’Isola dei Tiratori. A proposito di questo episodio la Gazzetta Ufficiale di Praga pubblicò il seguente articolo: IL PATRIOTTISMO D’UN MUTILATO

Ieri mattina i cittadini che passeggiavano per le principali arterie di Praga furono testimoni d’una scena, che dimostra eloquentemente come, in tempi grandi e difficili quali quelli che attraversiamo, anche i figli del nostro popolo siano capaci di dare l’esempio più luminoso di fedeltà e di devozione al trono del nostro vecchio sovrano. A noi sembra d’esser tornati all’epoca degli antichi greci e romani, quando un Muzio Scevola si scagliava in battaglia noncurante della sua mano bruciata. I più nobili sensi e sacrosanti entusiasmi furono ieri magnificamente espressi da un mutilato con le sue grucce, che la vecchia madre spingeva verso l’ospedale in un carrozzino da infermi. Questo figlio del popolo cèco, noncurante del suo stato di salute, s’è voluto arruolar volontario, per sacrificare i propri beni e la propria vita per la gloria del suo imperatore. E se il suo grido: «A Belgrado» riuscì ad avere un’eco così profonda per tutte le strade di Praga, ciò attesta ancora una volta che i praghesi danno il più nobile esempio d’attaccamento alla Patria e alla Dinastia.

Nello stesso tenore scriveva anche il Corriere di Praga, che però chiudeva il proprio articolo dicendo che il mutilato volontario era stato accompagnato da una folla di tedeschi, che lo avevan salvato coi loro corpi dal tentativo di linciaggio degli agenti cèchi al servizio della famigeratissima Intesa. Il Bohemia aveva manifestato nel suo articolo il desiderio che il mutilato volontario fosse premiato, ed aveva comunicato che l’amministrazione del giornale avrebbe raccolto tutti i doni che i cittadini tedeschi avrebbero voluto inviare a pro dell’eroe sconosciuto. A sentire questi giornali, la terra cèca non era mai riuscita a dare i natali a un cittadino più nobile di Sc’vèik: ma i membri della commissione di leva non furono di questo parere. Tanto meno l’ufficiale medico superiore Bautze. Costui era un uomo inesorabile che vedeva dappertutto il tentativo fraudolento di sfuggire alla guerra ed al fronte, ai proiettili e alle granate. 69

Una sua frase è rimasta famosa: «Das ganze tschechische Volk ist eine Simulantenbande».4 Dopo una settimana d’attività egli aveva riscontrato diecimilanovecentonovantanove simulatori su ogni undicimila borghesi, ed anche l’undicimillesimo sarebbe rientrato nel mucchio se non avesse avuto la fortuna di esser colpito da un accidente proprio mentre il dottore gli gridava: «Kehrt euch!» 5 «Portatemi via questo simulatore!» aveva detto Bautze dopo essersi accertato che era morto. Quel giorno memorabile Sc’vèik gli si presentò dinanzi completamente nudo come tutti quanti, ma nascondendo castamente la propria nudità con le grucce su cui s’appoggiava. «Das ist wirklich ein besonderes Feigenblatt» 6 disse Bautze; «in paradiso di simili foglie di fico non ce ne devono essere affatto». «Riformato per idiozia», fece osservare un sottufficiale che aveva gettato un’occhiata sugli incartamenti d’ufficio. «Non avete altre mancanze?» gli domandò Bautze. «Fo umilmente notare 7 che sono affetto di reumatismi, ma voglio servire l’Imperatore a costo della vita», disse modestamente Sc’vèik: «ed ho anche dei gonfiori alle ginocchia». Bautze lanciò un terribile sguardo sul buon soldato Sc’vèik ed urlò: «Sie sind ein Simulant!» 8 Poi si volse al sottufficiale e con calma glaciale gli disse: «Den Kerl sogleich einsperren!» 9 Due soldati con la baionetta in canna condussero Sc’vèik al carcere presidiario. Sc’vèik camminava con le grucce e s’accorgeva con terrore che il suo reumatismo stava per abbandonarlo. La signora Müller, che l’aspettava sopra il ponte col carrozzino, a vedere Sc’vèik fra le baionette scoppiò in singhiozzi, e scese dal carrozzino per non far più ritorno a riprenderlo. Ma il buon soldato Sc’vèik proseguì modestamente la sua strada, sempre accompagnato dai due difensori armati dell’ordine costituito.   L’intero popolo cèco è una banda di simulatori.   Dietro front!   Ecco una foglia di fico veramente straordinaria! 7   Formula di rispetto che il soldato austro-ungarico doveva usare parlando coi superiori. 8   Voi siete un simulatore! 9   Mettere subito il merlo in prigione! 4 5 6

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Le baionette scintillavano ai raggi del sole, e nel quartiere della Piccola Parte Sc’vèik, giunto all’altezza del monumento a Radetzky, si rivolse alla folla che lo seguiva, e gridò: «A Belgrado! A Belgrado!» E il maresciallo Radetzky guardava trasognato, dall’alto del suo piedistallo, il buon soldato Sc’vèik che s’allontanava con le piume da recluta sul petto, e zoppicava sulle sue vecchie grucce, mentre un signore dall’aria grave comunicava alla gente d’intorno che portavano dentro un «disertore».

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8 Sc’vèik simulatore

In un’epoca grande come quella, gli ufficiali medici facevano gli sforzi più straordinari per cacciare dal corpo dei simulatori il diavolo dell’ostruzionismo e restituirli in grembo all’esercito. A tale scopo era stato istituito un sistema graduale di torture per i simulatori effettivi ed anche per quelli sospetti, come per esempio i tisici, i reumatici, i malati d’ernia, di nefrite, e di tifo, i diabetici, eccetera eccetera. La tortura cui erano sottoposti i simulatori aveva basi teoriche, ed era così graduata: 1. Dieta assoluta: una tazza di tè al mattino e alla sera per la durata di tre giorni e contemporaneamente una dose d’aspirina per sudare, senza distinzione di malattia; 2. Polvere di chinino, detta anche «leccornia di chinino» 73

a forti dosi perché i malati non si dimenticassero mai che la guerra non è una luna di miele; 3. Due lavaggi quotidiani d’un litro l’acqua calda allo stomaco; 4. Enteroclisma con uso d’acqua insaponata e di glicerina; 5. Impacchi liquidi con lenzuoli inzuppati nell’acqua fredda. C’era della gente così eroica che dopo aver superate tutte e cinque le fasi della tortura, si faceva trasportare al cimitero militare con un funerale di terza classe. Ma c’erano anche dei pusillanimi che giunti al clistere dichiaravano di sentirsi bene e di non domandar nulla di meglio che di partire per le trincee col primo battaglione di linea. Al carcere presidiario Sc’vèik fu assegnato al baraccone dei malati, e si trovò in mezzo ai simulatori vili di cui abbiamo parlato. «Non ne posso più», disse il suo vicino di letto ch’era appena rientrato dalla sala d’operazioni dopo il secondo lavaggio dello stomaco. Quell’uomo simulava la miopia. «Domani io me ne vo al reggimento», decise l’altro vicino di letto, quello che stava a sinistra ed al quale avevano propinato allora allora un clistere, dato che simulava d’esser sordo come un macigno. Sul letto vicino alla porta moriva un tubercoloso, tutto ravvolto in un impacco di lenzuoli bagnati con l’acqua fredda. «È il terzo in sette giorni», osservò il vicino di destra: «e tu che mancamento hai?» «I reumatismi», rispose Sc’vèik, suscitando una allegra risata generale. Rise persino il tisico in fin di vita, quello che simulava la tubercolosi. «Coi reumatismi sei capitato bene fra noi», gli fece osservare gravemente un uomo tarchiato, «qui un reumatismo vale quanto una merda; io sono anemico, ho metà dello stomaco rovinato e mi mancano cinque costole, eppure nessuno mi vuol credere. Qui c’era per esempio un sordomuto, per quattordici giorni l’hanno ravvolto ogni mezz’ora nei lenzuoli bagnati d’acqua fredda, e una volta al giorno gli propinavano un enteroclisma e gli pompavano lo stomaco. Ormai tutti i sanitari s’erano rassegnati e credevano che fosse riuscito a spuntarla e che se ne sarebbe andato a casa, quando il dottore gli ordinò qualcosa per vomitare. Forse la cosa lo avrebbe definitivamente salvato, ma lui si perse d’animo e disse: ‘Non ne posso più di 74

fare il sordomuto; ho riacquistato la favella e l’udito.’ Noi altri ‘lavativi’ ne abbiamo fatte di tutte per convincerlo a non rovinarsi, ma lui è rimasto del parere che sentiva e parlava come gli altri. E fece la stessa dichiarazione anche la mattina dopo, quando passò la visita». «Lui ha resistito abbastanza», osservò un uomo che simulava d’avere una gamba più corta d’un decimetro esatto, «e non ha fatto come quel tale che simulava d’essere stato colpito da un accidente. Bastarono tre dosi di chinino, un clistere e un digiuno di ventiquattr’ore. Confessò fin da prima che gli pompassero lo stomaco, e di quell’accidente aveva perduto perfino il ricordo. Resisté un po’ di più di quello ch’era stato morso da un cane arrabbiato. Urlava e mordeva, e, a dire il vero, lo faceva con arte, ma non riusciva assolutamente a farsi venire la bava alla bocca. Abbiamo fatto l’impossibile per aiutarlo. Quante volte gli abbiamo fatto il pizzicorino per un’ora prima della visita, fino a fargli venire le convulsioni e a farlo diventare paonazzo, ma la bava alla bocca non gli è venuta mai e poi mai. Era una cosa tremenda. Quella mattina che s’arrese alla visita, noi avemmo una gran compassione di lui. Si mise accanto al letto, diritto sugli attenti come un fuso, salutò e disse: ‘Fo umilmente notare, signor maggiore medico, che quel cane che mi ha morso forse non era arrabbiato.’ Il maggiore lo guardò così stupefatto, che l’arrabbiato cominciò a tremare in tutto il corpo, e mormorò: ‘Fo umilmente notare, signor maggiore medico, che non è stato un cane, ma io stesso che mi sono morso la mano.’ Dopo questa confessione l’hanno processato per automutilazione, vale a dire per essersi presa a morsi la mano allo scopo di non andare al fronte». «Tutte quelle malattie dove c’è bisogno della bava alla bocca», disse il simulatore tarchiato, «sono diffìcili a fingersi. Come per esempio il mal caduco. Qui c’era anche uno col mal caduco, che ci diceva sempre che per lui un attacco era una cosa da nulla, e se ne faceva venire una diecina al giorno. Si contorceva nelle convulsioni, stringeva i pugni, sgranava gli occhi, li faceva uscire dalle orbite, si malmenava da sé, tirava fuori la lingua, insomma si trattava d’un buon mal caduco di prima classe, veramente magnifico. Ma ecco che gli vengono all’improvviso dei foruncoli, due sul collo e due sul dorso, e fu finita coi contorcimenti e con le convulsioni sul pavimento, perché non poteva neanche muover la testa, né restare a giacere né seduto. Per di più gli è venuta anche la febbre, e con la febbre addosso rivelò tutto quanto mentre lo visitavano. A noi poi ce la fece veder bella coi suoi foruncoli, perché a causa loro dové restare 75

altre tre giorni in mezzo a noi, e fu trattato con la dieta di seconda classe, vale a dire la mattina caffè e panino, la sua farinata o minestra, mentre noi coi nostri stomachi affamati e ripuliti alla pompa, e obbligati alla dieta completa, stavamo lì a contemplar lui che divorava, faceva schioccare la lingua, se la godeva e russava. Questo spettacolo rovinò altri tre che confessarono come lui. E dire che loro stavano lì per vizio cardiaco». «Il meglio che resta ancora da fare», disse uno dei simulatori, «è sempre quello di fingere la pazzia. Nella camera accanto ci son due membri del nostro corpo accademico, uno dei quali non fa altro che gridare giorno e notte: ‘Il rogo di Giordano Bruno è ancora fumante, fate la revisione del processo di Galileo!’ e il secondo abbaia, dapprima tre volte adagio: bau, bau, bau, e poi cinque volte alla svelta, e di seguito: baubaubaubaubau; poi di nuovo adagio, e così via all’infinito. «Resistono già da tre settimane. Originariamente volevo far da pazzo pur io, fingere d’essere un demente mistico e predicare l’infallibilità del papa, ma alla fine m’è riuscito di procurarmi un cancro allo stomaco da un barbiere della Piccola Parte per il prezzo di quindici corone». «Io conosco uno spazzacamino di Břevnov», intervenne un altro paziente, «che per dieci corone vi fa venire addosso un febbrone da cavalli». «Questo è nulla», disse un altro: «a Vršovice c’è una levatrice che per venti corone vi storpia una gamba così bene che restate zoppo per tutta la vita». «A me hanno storpiato una gamba per cinque corone», proruppe una voce dalla fila di letti vicino alla finestra: «per un pezzo da cinque e tre birre». «Invece la mia malattia mi costa già più di due fogli da cento», dichiarò il suo vicino di letto, asciutto come una canna: «nominatemi un qualsivoglia veleno di cui non abbia fatto uso e non riuscirete a trovarlo. Io sono un magazzino vivente di veleni. Ho bevuto del sublimato, ho fiutato vapori di mercurio, ho inghiottito dell’arsenico, ho fumato oppio, ho preso il laudano, mi son nutrito di pillole di morfina, ho ingerito della stricnina, ho sorseggiato il vetriolo e degli acidi d’ogni genere. Mi son rovinato il fegato, i polmoni, i reni, la milza, il cervello, il cuore e gli intestini. E nessuno riesce a capire quale sia la mia malattia!» «Per me», spiegò uno che stava vicino alla porta, «non c’è nulla di meglio che farsi un’iniezione di petrolio sotto la pelle della mano. Mio cugino fu così fortunato da farsi 76

tagliare il braccio fino al gomito, ed ora per tutta la guerra lo lasciano in pace». «Dunque vedete», disse Sc’vèik, «che ciascuno di noi deve soffrire ogni specie di patimenti per Sua Maestà l’Imperatore. Tanto il lavaggio dello stomaco quanto l’enteroclisma. Anni fa, quando facevo il mio servizio militare, era ancora peggio. Se capitava un ‘lavativo,’ lo legavano come un salame e lo schiaffavano in gattabuia a fare la cura. E lì non c’era né letto, né brande, né sputacchiera, come qui. Un tavolaccio liscio e nudo ed era lì sopra che i ‘lavativi’ dormivano. Una volta uno aveva un tifo autentico e un altro che stava con lui il vaiolo nero. Furon messi ai ferri tutti e due e l’ufficiale medico li prese a calci nel ventre trattandoli da simulatori. Quando poi i due soldati morirono, la faccenda arrivò fino in Parlamento e se ne parlò sui giornali. A noi vietarono immantinenti di leggerli, e ci fecero una perquisizione alle cassette per vedere chi ne teneva in serbo qualcuno. Siccome io son nato sfortunato, in tutto il reggimento non ne trovaron punti fuorché da me. Mi mandarono a rapporto, e il nostro colonnello, una fattispecie di bue, che Dio l’abbia in gloria, si mise a maltrattarmi perché stessi sugli attenti, e poi mi ordinò di dirgli il nome di chi aveva scritto l’articolo, se no mi avrebbe rotto il capo come una mela e m’avrebbe messo dentro finché non fossi diventato nero. Dopo di lui toccò all’ufficiale medico, che mi mise i pugni sotto il naso e mi gridò: ‘Sie verfluchter Hund, sie schäbiges Wesen, sie unglückliches Mistvieh,1 canaglia socialista!’ Io lo guardo fisso negli occhi, senza muovermi e senza dire nulla, con la destra alla visiera, e la sinistra sulla costura dei pantaloni. Loro mi correvano intorno come due cani, m’abbaiavano addosso, ed io sempre nulla. Bocca chiusa, destra alla visiera, sinistra sulla costura dei pantaloni. Dopo essersi sollazzati così per mezz’ora, il colonnello mi saltò addosso e gridò: ‘Sei idiota, si o no?’ ‘Fo umilmente notare, signorsì!’ ‘Ventun giorni di prigione di rigore per idiozia, due digiuni alla settimana, un mese di consegna, quarantott’ore di ferri; mettetelo subito dentro senza dargli da mangiare, legatelo e insegnategli che lo stato non sa che farsene degli idioti come lui. I giornali, noi te li leveremo dal capo, animale!’ così concluse il signor colonnello quando si fu stancato di tutte le sue evoluzioni. Mentre io stavo dentro, in caserma se ne videro delle belle. Il nostro colonnello aveva assolutamente vietato ai soldati di leggere qualsiasi cosa,   Cane maledetto, creatura vergognosa, sciagurato pezzo di merda!

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persino la Gazzetta Ufficiale di Praga, e quelli della cucina non potevano involgere nei giornali né il formaggio né le salsicce. Ma a partire da quel giorno i soldati cominciarono a leggere e il nostro reggimento divenne il più istruito di tutto il Corpo d’Armata. Si leggeva qualsiasi specie di giornali, e in ogni compagnia c’era qualcuno che componeva versi e poesie contro il signor colonnello. E ogniqualvolta succedeva un fatto nuovo al reggimento, in mezzo ai reparti si trovava sempre qualche volonteroso che lo passava al giornale sotto il titolo: Il martirio dei militari. «Ma non bastò. Scrissero ai deputati a Vienna perché sostenessero le loro ragioni, e quelli si misero a fare interpellanze su interpellanze, dicendo che il nostro colonnello era una belva e peggio. Un bel giorno un ministro mandò una commissione d’inchiesta, e un certo Francesco Hentschel di Hluboká si buscò due anni di prigione, perché era lui che s’era rivolto ai deputati di Vienna a proposito di quello schiaffo che s’era preso in piazza d’armi dal signor colonnello. Quando la commissione fu partita, il colonnello fece schierare il reggimento al completo, e ci raccontò che il soldato è soldato, che deve fare il suo dovere e tenere a posto la lingua e se non è soddisfatto di tutto, questo è già reato d’insubordinazione. ‘Voi canaglie v’immaginavate che la commissione v’avrebbe dato retta,’ disse il signor colonnello, ‘e invece v’ha dato retta una merda. E ora ciascuna compagnia sfilerà davanti a me e ripeterà ad alta voce ciò che ho detto.’ Allora siamo sfilati in parata, una compagnia dietro l’altra, facendo l’attenti a destra all’altezza del colonnello e tenendo la mano sulla cinghia del fucile, e abbiamo gridato verso di lui: ‘Noi canaglie, c’immaginavamo che la commissione ci avrebbe dato retta, e invece ci ha dato retta una merda.’ Il colonnello rideva a crepapelle, quando toccò sfilare all’undicesima compagnia. Marcia, batte il passo, ma quando giunge all’altezza del colonnello, nulla, zitti, nemmeno una voce. Il colonnello diventò rosso come un galletto, e fece far dietro front all’undicesima compagnia perché ripetesse l’esercizio. I soldati sfilano un’altra volta, e più zitti di prima ed ogni riga guarda il colonnello fisso fisso negli occhi. ‘Riposo!’ ordina il colonnello, e si mette a camminare in su e in giù per il cortile, si batte i gambali col frustino, sputa, si ferma all’improvviso e comanda: ‘Rompete le righe!’, monta in sella e galoppa via dalla porta. Noi stavamo in attesa di come sarebbe andata a finire quella faccenda, ma non successe nulla di nulla. Aspettammo un giorno, due, un’intera settimana, e mai nulla di nulla. Il colonnello non si fece più vedere in caserma, il che fece 78

gran piacere ai reparti, graduati ed ufficiali compresi. Poi ci fu assegnato un altro colonnello, e del primo si diceva che era stato rinchiuso in una casa di salute, perché aveva scritto a Sua Maestà una lettera manoscritta denunziando che l’undicesima compagnia s’era ammutinata». S’avvicinava l’ora della visita pomeridiana. L’ufficiale medico Grünstein si recava di letto in letto, seguito da un subalterno con un taccuino. «Macuna?» «Presente!» «Clistere e aspirina! Pokorny?» «Presente!» «Lavaggio allo stomaco e chinino! Kovařík?» «Presente!» «Clistere e aspirina! Kotatko?» «Presente!» «Lavaggio allo stomaco e chinino!» E così di seguito, uno dietro l’altro, inesorabilmente, macchinalmente, in un attimo. «Sc’vèik». «Presente!» Il dottor Grünstein dette un’occhiata al nuovo venuto. «Che male avete?» «Fo umilmente notare che ho un reuma!» Nel corso della sua carriera il dottor Grünstein aveva preso l’abito di una fine ironia con cui otteneva un effetto ben più efficace che a forza di grida. «Ah, un reumatismo», disse a Sc’vèik: «la vostra malattia è gravissima. Ed è un caso davvero doloroso quello di acchiapparsi un reumatismo proprio all’epoca della guerra mondiale, quando ognuno deve andare alla guerra. Mi figuro che la cosa dovrà contrariarvi moltissimo». «Fo umilmente notare, signor maggiore, che la cosa mi contraria moltissimo». «Me lo immaginavo. Ciò che vi fa onore è che abbiate pensato proprio a noi coi vostri reumatismi. In tempi di pace un poveraccio come voi galoppa come un capriolo, ma quando scoppia la guerra, gli viene subito un reuma e le ginocchia non servono più. Le ginocchia vi fanno male?» «Signorsì, mi fanno male». «E non vi riesce a chiudere occhio tutta la notte, non è vero? I reumatismi sono una malattia straordinariamente grave, dolorosa e pericolosa. Se Dio vuole qui noi abbiamo fatto ottime esperienze coi malati di reumatismi. La dieta completa e tutto il nostro sistema di cura si sono dimostrati veramente efficaci. Qui voi guarirete prima che alle 79

acque di Pistany, e marcerete per il fronte così veloce da fare alzar la polvere dietro di voi». Poi si rivolse al sottufficiale di sanità e gli disse: «Scrivete: Sc’vèik, dieta completa, lavaggio allo stomaco due volte al giorno, un clistere ogni ventiquattr’ore, e più tardi vedremo. Nel frattempo portatelo in clinica, lavategli lo stomaco, e fategli un clistere che gli faccia tornare la memoria, ma di quelli speciali, in modo che invochi tutti i santi a liberarlo e a guarirlo dei suoi reumatismi». Poi si rivolse a tutti quanti i degenti e pronunziò un discorso tutto fiorito di belle e sagaci sentenze: «Vi sbagliate di grosso se credete d’avere dinanzi a voi un bue che si lasci prendere facilmente per il naso. La vostra condotta non mi fa perdere mai l’equilibrio. Io so che siete tutti quanti dei simulatori e che volete imboscarvi. Ed io vi tratto in conseguenza. Son riuscito a spuntarla con centinaia di soldati come voi. In questi letti son passati dei branchi di persone il cui unico mancamento era l’assenza di spirito militare. Mentre i loro compagni si battevano al fronte, loro s’immaginavano di poter fare la guerra a letto, di ricevere il rancio dei malati, e star lì ad aspettare che venisse la pace. Ma perdio, si son tutti sbagliati, e vi sbagliate anche voialtri, perdio! Anche fra vent’anni griderete dallo spavento le notti che rivedrete in sogno quel che v’è capitato stando qui a simulare con me!» «Fo umilmente notare, signor maggiore», disse una voce fioca da un letto vicino alla finestra, «che io sono guarito, me ne sono accorto stanotte che la mia asma è cessata». «Il vostro nome?» «Kovařik, signor maggiore: io devo ancora subire un clistere». «Benone, il clistere vi sarà dato per viatico», decise il dottor Grünstein, «e perché non possiate dire che qui non vi abbiamo curato. In quanto a tutti i ‘lavativi’ sunnominati, vadano col sottufficiale, così ciascuno avrà il suo». E difatti ciascuno ottenne in giusta dose ciò che gli era stato prescritto. E se molti cercavano di agire sugli esecutori degli ordini a forza di preghiere o con la minaccia d’entrare anch’essi nel corpo di sanità e di vendicarsi sui propri carnefici se mai cadessero nelle loro mani, Sc’vèik invece si comportò coraggiosamente. «Non mi risparmiare», egli disse al soldato che gli somministrava il clistere: «e ricordati del tuo giuramento. Se giacessero qui tuo padre o un tuo fratello carnale, somministra loro il tuo clistere lo stesso senza battere ciglio. 80

Sappi che l’Austria è sorretta da questi clisteri, e che la vittoria è nostra». Il giorno susseguente alla visita, il dottor Grünstein chiese a Sc’vèik se si trovava bene all’ospedale militare. Sc’vèik rispose ch’era un’istituzione edificante e ben fatta. In premio ottenne le stesse prescrizioni della sera prima, e, come se non bastasse, una presa d’aspirina e delle polverine di chinino, che gli furono sciolte nell’acqua perché le inghiottisse subito. Neppure Socrate bevve la cicuta con la serenità con cui Sc’vèik inghiottì il suo chinino, esperimentando così tutto il corso del trattamento Grünstein. Mentre lo ravvolgevano alla presenza del medico in un lenzuolo bagnato, Sc’vèik dette questa risposta quando fu interrogato s’era sì o no soddisfatto: «Fo umilmente notare, signor maggiore, che sembra d’essere in una piscina o ai bagni di mare». «Li avete sempre i reumi?» «Fo umilmente notare, signor maggiore, che non vogliono assolutamente guarire». Ma il povero Sc’vèik doveva essere sottoposto ancora a una nuova tortura. In quei giorni la vedova d’un generale di fanteria, la baronessa di Botzenheim, s’era data un gran da fare per identificare quel soldato su cui il Bohemia aveva pubblicato recentemente la notizia che benché mutilato s’era fatto portare all’ospedale in carrozzino ed aveva gridato: «A Belgrado!», manifestazione di patriottismo che aveva suggerito alla redazione del Bohemia l’idea di invitare i propri lettori a fare una colletta a pro del fedelissimo eroe mutilato. Alla fine, per mezzo d’un accertamento della Questura centrale, fu stabilito che si trattava di Sc’vèik, ed allora trovarlo fu facile. La baronessa di Botzenheim si fece seguire dalla sua dama di compagnia e da una cameriera con un grosso canestro, e si recarono tutti insieme al Castello. Quella poveraccia della signora baronessa non s’immaginava neppure lontanamente che cosa volesse dire esser degente all’ospedale del carcere presidiario. Il suo biglietto da visita le aprì le porte della prigione, in segreteria la trattarono col massimo riguardo, e dopo cinque minuti ella veniva a sapere che der brave Soldate Sc’vèik, da lei ricercato, era degente alla terza baracca, letto numero diciassette. Il dottor Grünstein l’accompagnò tutto scombussolato e trovarono Sc’vèik seduto sul letto, reduce dal trattamento medico giornaliero, e circondato da un branco di simulatori famelici e macilenti, che non intendevano ancora arrendersi 81

e che si battevano eroicamente contro il dottor Grünstein sul fronte della dieta integrale. Chi fosse stato a sentirli, avrebbe creduto di trovarsi in una compagnia di gastronomi, in un istituto superiore di culinaria, o d’assistere alle lezioni d’un corso di buongustai. «Son buoni a mangiarsi anche i ciccioli di sego», stava dicendo uno che era affetto d’un «catarro gastrico cronico», «quando sono ben caldi. Quando il lardo sta per fondersi, si strizzano finché non sono asciutti, si pepano e si salano, ed io vi assicuro che i ciccioli d’oca non li equivalgono». «I ciccioli d’oca lasciateli stare», disse uno col cancro allo stomaco, «che non c’è nulla di meglio. Al loro confronto dove vanno a finire quelli di lardo di maiale! Si sa che devono essere arrostiti fino a che non s’indorano, come li fanno gli ebrei. Loro prendono un’oca grassa, la spellano fino a tirarne fuori il lardo e la fanno arrostire così». «Sapete che vi sbagliate per ciò che si riferisce ai ciccioli di lardo di maiale», osservò il vicino di Sc’vèik; «si capisce da sé che io parlo dei ciccioli al lardo fatti in casa, quelli che proprio per questo si chiamano ‘ciccioli domestici.’ Di colore non devono essere né troppo scuri né troppo dorati. Una sfumatura intermedia. Così pure non devono essere né troppo molli né troppo duri. Soprattutto non devono crocchiare sotto i denti, perché allora sono stracotti. Devono struggersi in bocca, e non vi devono dare l’impressione che il lardo vi coli sul mento». «Chi di voi ha mai mangiato dei ciccioli al lardo di cavallo?» fece una voce alla quale nessuno ebbe il tempo di rispondere perché proprio in quel momento entrò di corsa il sottufficiale di sanità. «Tutti a letto, che viene a fare una visita un’arciduchessa: e che nessuno faccia vedere i piedi sporchi fuori delle coperte!» Nemmeno una vera arciduchessa sarebbe stata capace di fare il suo ingresso con altrettanta gravità della baronessa di Botzenheim. Al suo seguito si muoveva un vero e proprio corteo, del quale faceva parte persino il sergente furiere dell’ospedale, che in questa visita vedeva la longa manus d’un’ispezione, capace di scaraventarlo via dal paese di Bengodi in pascolo alle granate fra i reticolati delle prime linee. Il sergente furiere era pallido, ma il dottor Grünstein era ancor più pallido di lui. Gli ballava ancora dinanzi agli occhi il minuscolo biglietto da visita della baronessa, con la frase: «Vedova del generale…» e con esso tutto ciò che ci poteva essere collegato, come ad esempio conoscenze altolocate, protezioni, proteste, invio al fronte, ed altri accidenti. 82

«Ecco qui il nostro Sc’vèik», disse conservando una calma artefatta mentre guidava la baronessa di Botzenheim verso il letto di Sc’vèik. «È un paziente che si comporta con grande rassegnazione». La baronessa di Botzenheim si sedè sulla sedia che le fu accostata accanto al letto di Sc’vèik, e prese a dire: «Cèco soltato, puono soltato: soltato essere malato, ma coraccioso; io folere molto pene ai austriachi cèchi». Carezzò le guance non rasate di Sc’vèik, e proseguì: «Io afere tutto letto nei ciornali: afere portato foi pappare, manciare, fumare, succhiare: cèco soltato puono soltato. Johann, kommen Sie her!» 2 Il cameriere, che con le sue irsute basette ricordava Bálinsky,3 posò il paniere ricolmo sul letto, mentre la dama di compagnia della baronessa, una grossa signora dal viso tutto rigato di lacrime, si sedeva sul letto e riaccomodava dietro le spalle di Sc’vèik il guanciale sgualcito: poiché essa aveva l’idea fissa che questa è una delle cose che bisogna fare agli eroi infermi. Nel frattempo la baronessa tirava fuori i doni dal paniere, e cioè una dozzina di polli arrosto, ravvolti in carta di seta rosa e legati con un fiocco giallo e nero, e due bottiglie di un liquore bellicoso, la cui etichetta era: Gott strafe England.4 Dall’altra parte invece si vedevano Cecco Beppe e Guglielmone che si tenevan per mano, come se facessero il famoso giuoco: O leprotto solo nella tana, poveretto come mai, tu non scappi via? Come se non bastasse, la baronessa tirò fuori ancora tre bottiglie di vino ricostituente e due scatole di sigarette. Essa dispose il tutto con grande eleganza su un letto vuoto vicino a quello di Sc’vèik, e vi aggiunse un libro ben rilegato e intitolato: Alcuni episodi della vita del nostro Sovrano, opera dovuta alla penna del benemerito redattore capo della Gazzetta Ufficiale di Praga, che adorava il vecchio imperatore. In seguito si ammucchiarono sulla coperta dei pacchetti di cioccolata sempre con l’iscrizione Gott strafe England, come pure coi ritratti dei due imperatori alleati. Ma sopra la cioccolata essi non si stringevano più la mano, ciascuno stava per conto suo e si mostravan la schiena. Fra l’altro c’era perfino un bello spazzolino da denti con due diverse specie di crini, che portava la scritta Viribus Unitis, perché il soldato che si ripulisse i denti con quello spazzolino potesse ricordarsi dell’Austria. Grandioso ed opportu  Giovanni, venite qui!   Figura popolare d’antico rivoluzionario, venuta in proverbio.   Dio punisca l’Inghilterra!

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nissimo dono per il fronte e per le trincee era un servizio completo da manicure. Sul coperchio c’era la figura d’un soldato con l’elmetto che si scagliava all’assalto alla baionetta, mentre gli scoppiava una granata sul capo. Sotto la figurina c’era scritto: Für Gott, Kaiser und Vaterland! 5 Un cestino di frutta secca, in luogo d’una vignetta, recava sul coperchio questi versi: Österreich, du edles Haus, steck deine Fahn aus, lass sie im Winde wehen, Österreich muss ewig stehen!

con la traduzione cèca sul rovescio: Dai al vento, o grande Impero, il vessillo giallo e nero: finché il mondo ritto stia, rimarrà l’Austria-Ungheria.

L’ultimo regalo fu un vasetto di giacinti bianchi. Quando tutta questa roba fu ammucchiata sul letto, la baronessa di Botzenheim non poté trattenere uno sfogo di pianto. Nel frattempo molti dei simulatori affamati si sentivano venire l’acquolina in bocca. La dama di compagnia della baronessa che sosteneva Sc’vèik seduto sul letto, scoppiò a piangere anche lei. C’era silenzio come in chiesa, ma Sc’vèik l’interruppe bruscamente, e proferì a mani congiunte: «Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il nome Tuo, venga il regno Tuo… Vossignoria mi perdoni, così non va bene, io volevo dire: Signore Iddio Padre dei cieli, benedici a noi questi doni di cui godremo per Tua misericordia! Amen». Ciò detto, afferrò un pollo dal letto e si mise a divorarlo sotto gli sguardi stupefatti del dottor Grünstein. «Come gli fa buon pro al soldatino!» mormorò estasiata la vecchia baronessa all’orecchio del dottor Grünstein: «forse è già guarito e può ripartire per il fronte. Son veramente contenta d’avergli procurato questo piccolo piacere». Poi passò di letto in letto, distribuendo sigarette e caramelle di cioccolata, e, finito il suo giro, ritornò ancora una volta da Sc’vèik e lo carezzò sui capelli, dicendogli: «Behüt’euch Gott 6 e uscì dalla camerata con tutto il suo seguito.   Per Dio, l’imperatore e la Patria!   Dio vi protegga!

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Prima che il dottor Grünstein facesse ritorno fin di laggiù dov’era stato obbligato ad accompagnare la baronessa, Sc’vèik aveva distribuito tutti i polli, che furono inghiottiti dai malati con tale sveltezza che al loro posto il dottor Grünstein non trovò altro che un mucchio di ossi portati così a pulimento che pareva che i polli fossero caduti vivi in un formicaio e le carcasse fossero state esposte per qualche mese all’ardore del sole. Era scomparso anche il liquore bellicoso, nonché il vino delle tre bottiglie. Qualcuno s’era bevuto persino la bottiglietta di lozione per le unghie che apparteneva al servizio di manicure, ed aveva assaggiato anche il dentifricio annesso allo spazzolino. Al suo ritorno, il dottor Grünstein riassunse la posa guerresca e tenne un lungo discorso. La partenza della visitatrice gli aveva levato un bel peso dallo stomaco. Il mucchio degli ossi ben succhiati lo rafforzò nell’idea che tutti i suoi pazienti erano dei simulatori incorreggibili. «Soldati», cominciò: «se voi foste stati forniti d’un po’ di raziocinio, avreste lasciata intatta ogni cosa, ed avreste pensato che mangiando ciò che vi è stato portato l’ufficiale medico non avrebbe più creduto alla gravità delle vostre malattie. Con la vostra condotta avete provato una volta di più che non date nessun peso alla mia benevolenza. Io vi fo lavare lo stomaco, vi fo fare dei buoni clisteri, mi do la pena di tenervi a dieta completa, e voi vi riempite lo stomaco. Volete prendervi un catarro intestinale? Vi sbagliate di grosso; prima ancora che il vostro stomaco si provi a tentare di digerire ciò che avete inghiottito, io ve lo farò ripulire così bene, che ve ne ricorderete anche fra cent’anni, e dovrete raccontare ai vostri figliuoli come qualmente una volta vi siete divorati dei polli arrosto ed altre leccornie, ma che non vi rimasero neppure un quarto d’ora nello stomaco, perché ve le pomparono fuori quand’erano ancora calde. Ed ora seguitemi in fila tutti quanti, perché voglio mostrarvi che non sono un somiero come ciascuno di voi, ma anzi un pochettino più furbo di tutti voi messi insieme. Per di più vi comunico che domani vi farò mandare una commissione di controllo, perché mi pare che ormai siate qui da troppo tempo e che stiate tutti benone, visto che siete in grado di rovinarvi lo stomaco ogni cinque minuti, come avete dato la prova. Plotone avanti: marsc’!» Quando giunse il turno di Sc’vèik, il dottor Grünstein lo osservò a lungo, e assalito dal ricordo della strana visitatrice di poco prima, gli domandò: «Voi conoscete la signora baronessa?» 85

«È mia madre illegittima», rispose Sc’vèik, con la sua solita calma, «mi abbandonò in tenera età e mi ha ritrovato solo ora…» Ma il dottor Grünstein lo interruppe bruscamente: «In seguito somministrate a Sc’vèik anche un clistere». Quella sera la tristezza regnò in tutte le brande. Qualche ora prima tutti quanti avevano nello stomaco vivande nutrienti e variate ed ora invece non c’era che tè annacquato e un tozzo di pane. Il numero ventuno sospirò dal suo Ietto accanto alla finestra: «Amici, mi credereste se vi dicessi che il pollo mi piace più in umido che arrosto?» Un tale gridò: «Gettategli addosso una coperta!» ma eran tutti così indeboliti in seguito al banchetto andato a male che nessuno fiatò. Il dottor Grünstein mantenne la promessa. La mattina dopo arrivarono gli ufficiali medici della benedetta commissione. Passarono gravemente di letto in letto, e dalla loro bocca non uscivano altre parole che queste: «Fuori la lingua!» Sc’vèik la estrasse a tal punto che il suo viso fece una brutta smorfia, e gli occhi gli s’annebbiarono: «Fo umilmente notare, signor colonnello, che non posso allungarla più di così». Fra Sc’vèik e la commissione s’intavolò un interessante colloquio. Sc’vèik dichiarò di aver fatto quella osservazione perché non si credesse che al loro cospetto egli volesse celare un pezzo di lingua. Queste parole fecero sì che i membri della commissione si dividessero in due parti a proposito del giudizio su Sc’vèik. Una metà assicurava che Sc’vèik era ein bloeder Kerl,1 mentre l’altra sosteneva che era un imbroglione che non voleva prender sul serio la guerra. «Se il diavolo non ci mette la coda», gridò a Sc’vèik il presidente della commissione, «riusciremo a spuntarla anche con te». Sc’vèik li stava tutti a guardare con la divina ingenuità d’un fantolino innocente. Il colonnello medico di stato maggiore s’accostò ancora a Sc’vèik e gli disse: «Mi piacerebbe sapere, porcellino di mare, che pensieri vi passano per il capo». «Io non penso affatto, fo umilmente notare». «Himmeldonnerwetter!» 8 ululò un altro ufficiale, facen7   8

Un povero scemo.   Bestemmia tedesca, equivalente press’a poco a «tuoni e saette!»

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do tintinnare la sciabola, «lui non pensa affatto. E perché mai, elefante del Siam, non pensate?» «Fo umilmente notare che io non penso perché durante il servizio militare è vietato ai soldati di pensare. Nell’anteguerra, quando servivo al novantunesimo reggimento, il nostro capitano ci diceva sempre: ‘Il soldato non deve pensare. C’è il superiore che pensa per lui. Appena un soldato comincia a pensare, non è più un soldato, ma una specie di sudicio borghese. Il pensiero non porta altro che a…’» «Chetatevi!» urlò il presidente della commissione, su tutte le furie. «Ormai ne sappiamo abbastanza di voi. Der Kerl meint: man wird glauben, er sei ein wirklicher Idiot. 9 Voi, Sc’vèik, siete tutt’altro che un idiota, ma un furbacchione, una canaglia, un farabutto, un vagabondo, un cialtrone, capite?» «Signorsì». «Vi ho detto di chetarvi, avete inteso!» «Fo umilmente notare d’avere inteso che mi debbo chetare». «Himmelherrgott! 10 State zitto! Se v’hanno ordinato di star zitto, vuol dire che dovete tenere la lingua a posto!» «Fo umilmente notare, che saprò tenere la lingua a posto». Gli ufficiali medici si guardarono a vicenda, e chiamarono il sergente furiere. «Voi condurrete quest’uomo in ufficio», disse il colonnello medico di stato maggiore additando Sc’vèik, «ed attenderete il nostro verbale e il nostro rapporto. Il giovanotto è sano come un pesce, finge, chiacchiera troppo e si prende giuoco dei suoi superori. Lui si figura che si stia qui per suo divertimento, e che la guerra sia uno scherzo, una cosa da prendersi in chiasso. Caro Sc’vèik, su al presidio vi faranno vedere che la guerra non è una beffa». Sc’vèik se n’andò in fureria col sergente, e mentre attraversava il cortile si mise a canterellare: Io ritengo che la guerra un giochetto sia: una, due, tre settimane, poi di nuovo a casa mia…

E mentre l’ufficiale di picchetto gridava a Sc’vèik che della gentaglia come lui non restava altro che fucilarla, al piano di sopra, nelle camerate dell’ospedale, la commissio  Il merlo s’immagina che si creda davvero alla sua idiozia.   Altra bestemmia simile alla precedente.

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ne si divertiva a trucidare i poveri simulatori. Di settanta pazienti, ne scamparono soltanto due, un primo che aveva una gamba spezzata da una granata, e un secondo con un cancro alle ossa. Essi furono gli unici che non sentirono la formula sacramentale: Tauglich.11 Tutti gli altri, senza eccettuare tre tisici in fin di vita, furono riconosciuti idonei al servizio di guerra, a proposito del quale il colonnello medico non si lasciò sfuggire l’occasione d’un’allocuzione. Il suo discorso, costellato delle più svariate bestemmie, non brillava eccessivamente per il contenuto. Tutti quanti erano dei cialtroni e del sudiciume, e soltanto nel caso che si battessero valorosamente per Sua Maestà l’Imperatore avrebbero potuto rientrare nel grembo della società umana, in modo che dopo la guerra potessero essere perdonati della loro intenzione di sfuggire al fronte e di fingersi malati. Ma in quanto a lui, non nutriva alcuna speranza ed era certo che non ce n’era uno che non fosse destinato al capestro. Un ufficiale medico giovanino, anima fin allora purissima e immacolata, chiese al colonnello di poter dire qualche parola anche lui. Il suo discorso si distinse da quello del superiore per il suo ottimismo e la sua ingenuità. Egli parlò in lingua tedesca, e si trattenne lungamente sul dovere che aveva ognuno di quelli che stavano per lasciare l’ospedale e per raggiungere al fronte il proprio reparto: il dovere cioè di diventare un eroe e un paladino. Per conto proprio egli era convinto che tutti sarebbero stati valentissimi nella pugna e sul campo di battaglia, ed onorati in tutte le imprese militari e civili. Tutti sarebbero stati dei combattenti invincibili, memori delle glorie di Radetzky e del principe Eugenio di Savoia. E così avrebbero versato ben volentieri il loro sangue sul vasto campo dell’onore in pro della Monarchia, ed avrebbero trionfalmente adempiuto la missione che la storia avrebbe loro affidato. Con temerario ardimento e con disprezzo della vita, sotto le lacere bandiere dei loro reggimenti, avrebbero avanzato verso nuove glorie e nuovi trionfi. Più tardi, quando furono soli nel corridoio, il colonnello disse all’ingenuo ufficiale: «Caro collega, vi posso assicurare che son tutte cose inutili. Da simili canaglie neppure Radetzky o il vostro principe Eugenio sarebbero capaci di tirar fuori dei soldati. Trattarli da angioli o da diavoli, fa lo stesso. È una massa di banditi». 11

  Abile, idoneo.

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9 Sc’vèik al presidio

Il presidio era l’estremo rifugio di chi non voleva assolutamente andare alla guerra. Io ho conosciuto un professore supplente che prestava servizio nella sua qualità di matematico, e che nell’arma di artiglieria rubò l’orologio a un tenente per poter stare al sicuro nel carcere presidiario. Egli aveva agito così dopo matura riflessione, perché la guerra non lo attirava né lo entusiasmava. Sparare sui nemici e uccidere dall’altra parte, a forza di spolette e granate, dei supplenti di matematica altrettanto disgraziati di lui, gli sembrava una bella sciocchezza. «Io non voglio farmi odiare per la mia brutalità», s’era detto, ed aveva eseguito freddamente il furto dell’orologio. Dapprima esaminarono il suo stato mentale, ma quando ebbe dichiarato che l’aveva fatto per arricchirsi, lo rinchiusero nel carcere presidiarlo. Al presidio si trovava gente 90

d’ogni risma, chi per furto e chi per abusi. Idealisti e antidealisti. C’era chi considerava la guerra come una fonte di guadagno, come per esempio i sottufficiali di contabilità che, nelle retrovie come al fronte, avevan lucrato sugli approvvigionamenti e sulla cinquina, e c’erano anche dei ladruncoli di minor conto, mille volte più onesti di quella gente che li aveva fatti mettere dentro. Inoltre c’erano anche molti soldati arrestati per vari altri delitti, puramente di carattere militare, come insubordinazione, tentato ammutinamento, diserzione. Una sezione particolare era quella dei prigionieri politici, l’ottanta per cento dei quali erano completamente innocenti, malgrado ne condannassero il novantanove per cento. L’apparato giuridico era veramente magnifico, quale non può esistere altro che in uno stato alla vigilia della sua decadenza totale, politica, economica ed etica. Lo splendore della potenza e della gloria trascorse veniva conservato a forza di tribunali, polizia, gendarmi e d’una banda prezzolata di delatori. In qualsiasi reparto militare l’Austria aveva le sue spie, che tradivano i compagni che spartivano con loro la pagnotta in camerata o in campagna. Anche la polizia forniva il carcere presidiario d’ottimo materiale, quale ad esempio i sigg. Klima, Slávicek & C. La censura militare vi portava gli autori delle lettere spedite dal fronte a coloro che avevano lasciati a casa immersi nella disperazione, e i gendarmi per parte loro vi conducevano dei vecchi agricoltori che avevano scritto delle lettere al fronte. A questi ultimi il tribunale militare, per qualche parola di conforto e per un po’ di lamenti a proposito delle sciagure domestiche, schiaffava regolarmente una dozzina d’anni di prigione. Dal carcere presidiario del Castello c’era una via che attraverso Břevnov portava alla piazza d’armi di Mótol. In testa, accompagnato da un drappello di soldati, marciava un uomo ammanettato, e dietro di lui una carretta con una bara. E sulla piazza d’armi di Mótol echeggiava il secco comando: «Carica!… Fuoco!» Dopodiché, al cospetto di tutti i reparti, leggevano un ordine del giorno del colonnello, dal quale si veniva a sapere che un altr’uomo era stato fucilato per ammutinamento durante la mobilitazione, e che il capitano aveva dato una sciabolata alla moglie che non voleva separarsi da lui. Su alla prigione presidiaria c’era un terzetto costituito dal capo dei gendarmi Slávik, dal capitano Linhart, e dal sergente furiere Řepa, soprannominato «il Boia», che 91

adempiva la propria missione col massimo zelo. Quanti ne hanno fatti morire in reclusione! Ed è probabile che il capitano Linhart sia ancor oggi ufficiale sotto la repubblica. Sarebbe veramente giusto che gli anni trascorsi presso il carcere presidiario gli valessero per l’anzianità. Ai signori Slávik e Klima della polizia quegli anni hanno molto contato. Řepa è ritornato borghese e ha ripreso il suo mestiere di mastro muratore. Può anche darsi che ora sia membro di qualche associazione patriottica della repubblica. Il capo delle guardie carcerarie Slávik sotto la repubblica s’è dato al furto ed ora è recluso. Il poveraccio col nuovo regime non ha avuto la stessa fortuna degli altri caporioni militari. È facile a capirsi come e perché il capo dei secondini Slavik accogliesse Sc’vèik con uno sguardo pieno di muto rimprovero: «Devi avere la coscienza ben sporca a capitar qui fra noi! Ma noialtri, giovanotto, ti raddolciremo il soggiorno come a tutti quelli che ci cascano fra le grinfie, e t’assicuro che le nostre non son mica come quelle d’una signora!» E per dare più peso al proprio sguardo, piantò il suo pugno grosso e nerboruto sotto il naso di Sc’vèik, e gli disse: «Annusa, canaglia!» Sc’vèik annusò e fece le sue osservazioni: «Non vorrei che m’arrivasse sul naso, perché puzza di cimitero». Le serene e assennate parole di Sc’vèik andarono a genio alla guardia carceraria. «Eh, eh», disse vibrando un pugno sul ventre di Sc’vèik: «tienti dritto sulla vita: o che ti pesa qualcosa nelle tasche? Se hai sigarette, le puoi depositare, e in quanto ai soldi, dalli a me che non te li rubino. Questo è tutto quello che hai? Non hai nient’altro davvero? Non dir bugie, perché qui si pagano care». «Dove lo schiaffiamo?» domandò il sergente furiere Řepa. «Schiaffiamolo al numero sedici», disse la guardia carceraria: «fra quelli in mutande: non vedete che cosa ha scritto il capitano Linhart sul documento? Streng behüten, beobachten.1 Sicuro, sicuro», proseguì trionfalmente rivolgendosi a Sc’vèik, «i farabutti bisogna trattarli da farabutti. Qui, quando qualcuno protesta, lo schiaffiamo in   Da osservare e vigilare severissimamente.

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segregazione cellulare, e là gli rompiamo tutte le costole, e non lo tiriamo fuori finché non è crepato. Del resto ne abbiamo il diritto. Come abbiamo fatto con quel macellaio, non è vero, Řepa?» «O sì, costui era un osso duro da rodere, capo», rispose il sergente furiere Řepa come trasognato, «quello sì che aveva un fisico robusto! Ho dovuto pestarlo per cinque minuti, prima che le costole gli cominciassero a scricchiolare e che sputasse un poco di sangue. E tenne duro per un’altra decina di giorni. Era una specie di diavolo». «Hai visto, canaglia, come si fa da noi quando qualcuno protesta», terminò così la sua conferenza pedagogica il secondino capo, «o quando tenta d’evadere? Questo poi è un vero suicidio e noi lo puniamo ugualmente. Dio voglia che non ti venga in testa, concime, di protestare con qualcuno se si dà il caso d’un’ispezione. Quando giunge un’ispezione e ti chiedono: ‘Non avete mica da fare qualche reclamo?’ allora sì, sudicione, devi metterti sugli attenti, salutare e rispondere: ‘Fo umilmente notare che non ho nulla da reclamare e che son contento di tutto.’ Ripeti come dirai, mascalzone!» «Fo umilmente notare che non ho nulla da reclamare e che son contento di tutto», ripeté Sc’vèik con un tono così dolce che Slavik ne rimase confuso, e lo prese per un segno di buona volontà e di devozione. «Spogliati dunque, e lasciati solo la camicia e le mutande; poi andrai alla cella n. 16», disse con calma, risparmiandogli d’affibbiargli i nomignoli di farabutto, cialtrone e concime, come aveva l’abitudine. Nella cella n. 16 Sc’vèik trovò venti persone in mutande come lui: si trattava di tutti quelli sui cui incartamenti era stata scritta la nota Streng behüten, beobachten, e che erano accuratamente sorvegliati perché non tentassero un’evasione. Se tutte quelle mutande fossero state pulite e non ci fossero state delle belle inferriate alle finestre, si sarebbe potuto credere di trovarsi nello spogliatoio d’uno stabilimento di bagni. Il sergente furiere Řepa dette Sc’vèik in consegna al capo camerata, un giovanottone dalla camicia lacera, che ne trascrisse subito il nome su un pezzo di carta attaccato al muro, e gli disse: «Domani assisteremo a un magnifico spettacolo. Ci porteranno in cappella alla predica. Tutti noialtri in mutande staremo proprio accanto al pulpito. Vedrai che bella festa!» Come in tutti i reclusori e penitenziari, anche lì la cap93

pella del carcere presidiario era l’unica ricreazione dei carcerati. Si sbaglierebbe di grosso chi credesse che la visita obbligatoria alla cappella del carcere potesse avvicinare i prigionieri a Dio, ed istruirli sui cammini della morale. Di simili storie non è neanche il caso di parlare. Il servizio divino e la predica erano per loro le migliori occasioni per distrarsi dalla noia della cella. Ciò proveniva non da una maggiore promiscuità col Signore, ma dalla speranza di trovare negli anditi e nel cortile da attraversare qualche buon mozzicone di sigaro o di sigaretta. A metter Dio completamente in disparte, bastava una piccola cicca che se ne giacesse tutta sola nella sputacchiera o nel polverone dell’impiantito. Quell’oggetto minuscolo e puzzolente aveva molto più forza di Dio e della redenzione dell’anima. Quando poi veniva la predica, quello sì che era un divertimento e uno spasso! Il cappellano militare Otto Katz era un personaggio davvero seducente. Le sue prediche erano talmente vivaci, scherzose e stimolanti nella grigia atmosfera di quell’esistenza! Egli parlava con tanta arte dell’inesauribilità della misericordia divina e sapeva così bene edificare con il conforto della fede quegli uomini colpevoli e disonorati. E con che grazia si congedava dalla predica e dall’altare, dal quale proclamava magnificamente il suo: ite missa est. In quanto poi all’ufficio divino, lo celebrava nella maniera più stravagante, sconvolgendo da capo a piedi l’ordine rituale della santa messa, e quand’era bastantemente ubriaco, inventando perfino una preghiera ed una nuova liturgia, un cerimoniale tutto particolare mai veduto prima di lui. E che ilarità quando il celebrante inciampava e stramazzava col calice, col santissimo e col messale, incolpando a gran voce il chierichetto (che apparteneva sempre alla schiera dei detenuti) d’avergli fatto uno sgambetto intenzionale, e minacciandolo al cospetto del Santissimo Sacramento di schiaffarlo in segregazione cellulare e di farlo mettere ai ferri. E l’accusato era tutto soddisfatto d’aver collaborato anche lui a quella gran festa della cappella, e d’avere assolto con gran dignità l’importante parte assegnatagli nello spettacolo. Il cappellano militare Otto, il più perfetto dei sacerdoti addetti ad edificare l’esercito, era ebreo. La cosa del resto non è poi così stravagante, quando si pensi che era ebreo 94

anche l’arcivescovo Cohen, e come se non bastasse, anche buon amico di Máchar.2 Il cappellano militare Otto Katz aveva dietro di sé un passato ancora più pittoresco di quello del celebre arcivescovo Cohen. Aveva fatto i suoi studi all’accademia commerciale e poi s’era arruolato come volontario d’un anno. E s’era addestrato così bene nel diritto commerciale e nelle cambiali, che in un anno condusse la ditta Katz & C. a un fallimento così glorioso e così ben riuscito che il vecchio Katz emigrò in Nordamerica, dopo aver combinato a loro insaputa un concordato coi suoi creditori, lasciandone all’oscuro anche il proprio consocio che aveva pensato invece a trasferirsi in Argentina. Dopo che il giovane Otto Katz ebbe fatto alle due Americhe il dono superfluo della ditta Katz & C., si trovò nella situazione d’un uomo senza arte né parte, e non sapendo dove battere il capo, si dette alla carriera dell’ufficiale effettivo. Ma prima ancora il volontario d’un anno Otto Katz aveva escogitato una magnifica idea: s’era fatto battezzare, e s’era rivolto a Cristo per farsi aiutare nella carriera, con l’ingenua fiducia che non si trattasse altro che di una transazione commerciale conclusa fra lui e il Figliuolo di Dio. Lo battezzarono solennemente nel monastero di Emmaus. Venne il famoso padre Alban in persona ad aspergerlo di acqua santa sul fonte battesimale. Fu uno spettacolo davvero edificante e il neofita fu assistito durante la cerimonia da un devoto maggiore del reggimento dove aveva servito, da una vecchia zitella appartenente all’Ospizio delle nobili decadute che ha la sua sede al Castello, e da un rappresentante del concistoro, che aveva una faccia che sembrava il grugno d’un mastino e che fungeva da testimonio. L’esame di ufficiale riuscì bene, e il neocristiano Otto Katz entrò così nell’esercito. Dapprima gli parve che quella vita gli andasse a genio, e decise di darsi allo studio dei corsi della scuola di guerra. Ma un giorno s’ubriacò e passò al chiostro, abbandonando la sciabola per indossare la tonaca. Egli si era rivolto all’arcivescovo su al Castello e ottenne d’entrare in un seminario. Alla vigilia di ricevere gli ordini si ubriacò terribilmente in uno di quei locali molto ospitali, con personale femminile, del Vicolo dei Vejvodovic, e fu direttamente da   Scrittore boemo, di tendenza anticlericale.

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questo asilo del piacere e della gioia ch’egli si recò a farsi consacrare. Dopo la consacrazione fece ritomo al proprio reggimento in cerca di protezioni, e appena fu nominato cappellano militare si comprò un cavallo, si mise a girare per Praga, e partecipò allegramente a tutte le ribotte degli ufficiali del suo reggimento. Nel corridoio dell’appartamento dove abitava, molto spesso echeggiavano le maledizioni dei creditori insoddisfatti. Egli ospitava in casa sua anche delle ragazze di strada, e talora ne mandava a cercare qualcuna anche per mezzo del proprio attendente. Gli piaceva molto anche di fare ogni tanto un pokerino, e c’era chi sospettava o supponeva che egli barasse al giuoco, ma nessuno riuscì a scoprire un asso nascosto nelle larghe maniche della sua tonaca ecclesiastico-militare. Nei circoli militareschi lo chiamavano il «santo padre». Egli non preparava mai le sue prediche, il che lo distingueva dal suo predecessore, che aveva pure celebrato gli uffici del culto nel carcere presidiario. Costui era un uomo affetto dalla monomania di migliorare a forza di prediche l’anima dei detenuti. Questo reverendo sacerdote sgranava misticamente gli occhi e asseriva ai reclusi che s’imponeva la riforma della prostituzione nonché quella dell’assistenza alle madri non coniugate, e trattava a lungo dell’educazione dei figli illegittimi. Le sue prediche riuscivano di un carattere troppo astratto, e, sfornite com’erano d’ogni legame con lo stato di cose vigente, annoiavano. Invece il cappellano militare Otto Katz predicava in un modo che rallegrava tutti i presenti. Era veramente un momento solenne quello in cui tutta la camerata numero sedici veniva condotta alla cappella in mutande, perché un abbigliamento completo voleva dire rischiare di perdere per istrada qualcuno dei detenuti. Quei poveri venti angeli in mutande venivan fatti schierare proprio sotto il pulpito. Quelli a cui arrideva la fortuna, nascondevano sotto il palato i mozziconi che avevan trovato per via, privi com’eran di tasche e impossibilitati a nasconderli altrove. Intorno a loro si radunavano anche gli altri reclusi del carcere presidiario, che si divertivano moltissimo a contemplare quelle venti paia di mutande sotto il pulpito, su cui saliva all’improvviso il cappellano militare con un gran tintinnio di speroni. «Fate attenzione!» gridava. «Fate attenzione alla preghiera e ripetete tutti quanti ciò che dico io! E tu in fondo, canaglia, non ti soffiare il naso con le dita, che sei nel tempio del Signore: altrimenti ti fo segregare! Vediamo un po’, 96

vagabondi, se vi ricordate ancora del Paternostro. Dunque proviamo… Lo sapevo che non ci saremmo riusciti. Come potete sapere il Paternostro se non fate altro che impinzarvi di doppie porzioni di carne e fagioli, stare bocconi sulla branda, ficcarvi le dita nel naso e pensare a tutto fuorché a Domineddio? Non vi pare?» Dall’alto del pulpito egli guardava giù in basso i venti candidi serafini in mutande che si divertivano alla pari degli altri, e cioè in modo pazzesco. Quelli in fondo coi loro temperini facevano il giuoco del «macellaio». «Qui si sta benone», disse Sc’vèik all’orecchio del suo vicino, sulle cui spalle gravava l’accusa di aver tagliato con un’accetta tutte e cinque le dita alla mano d’un compagno, per farlo esentare dall’invio in prima linea. «Il meglio viene ora», gli fu risposto: «oggi è sbronzo a puntino, e allora ci farà un bel discorso sul sentiero del peccato e sulle sue spine». Effettivamente quel giorno il cappellano militare era in vena. Senza che neppur lui ne sapesse il perché, non faceva altro che spenzolarsi dal pulpito e pareva sempre sul punto di perder l’equilibrio e cascar giù. «Cantate qualcosa, ragazzi», gridò a quelli in basso: «o preferite che ve l’insegni io una canzonetta nuova? Dunque cantate con me:» Di tutte le dilette la più cara è la mia: ma io non ci vo solo (sarebbe una bugia): da te viene uno stuolo d’amanti, o mia diletta, o Vergine Maria!

«Voi non riuscirete mai ad impararla, canaglie!» esclamò il cappellano; «io son del parere che bisognerebbe fucilarvi tutti quanti: capite? Ve lo affermo da questo santo luogo, buoni a nulla, perché dovete sapere che con Dio non si scherza, e che ne farà vedere di tutti i colori, se voi esitate a rivolgervi a Cristo e preferite percorrere il sentiero spinoso del peccato!» «Eccoci al punto: è completamente ubriaco», osservò gaiamente il vicino di Sc’vèik. «Il sentiero spinoso del peccato, grossi citrulli, è il campo di battaglia con le passioni. Ciascuno di voi è un figliuol prodigo che preferisce di godersela in segregazione, piuttosto che rivolgersi al Padreterno. Dirigete il vostro sguardo più lontano e più in alto, fino alle sublimità 97

celesti, e trionferete, e la pace si stabilirà nelle vostre anime, malandrini. Quelli in fondo lì prego di smetterla di scaracchiare. Qui non ci son mica dei cavalli e non siamo in una stalla, ma nella casa di Dio. Tenetevene per avvisati, miei beniamini. Dunque, dov’eravamo arrivati? Ja, über den Seelenfrieden, sehr gut.3 Mettetevi bene in capo, bestioni, che voi siete uomini, e che avete il dovere di mirare al di là delle tenebre verso lontani orizzonti, e di riflettere che qui sulla terra tutto è effimero, e che soltanto Dio è eterno. Sehr gut, nicht wahr, meine Herren? 4 Bisognerebbe che io pregassi giorno e notte per voi, affinché il Signore misericordioso, bestioni, spandesse la sua indulgenza sui vostri peccati e poteste così appartenergli in eterno, canaglie, e godere per sempre del suo amore. Ma vi siete sbagliati. Io non v’aprirò le porte del paradiso» (il cappellano dové interrompere il suo sermone per un colpo di singhiozzo); «io non ve le aprirò», riprese a dire severamente, «e non farò nulla per voi, non mi passa neppure per il capo, perché voi siete delle canaglie incorreggibili. La Provvidenza divina cesserà di guidare il vostro cammino, il fiato dell’amore celeste non aliterà più su di voi, perché la misericordia di Domineddio non potrà più occuparsi di animali della vostra fatta. Ma state almeno a sentire, voialtri in mutande laggiù?» Venti paia di mutande alzarono gli occhi verso il soffitto e dissero come un sol uomo: «Signorsì, ascoltiamo!» «Ascoltare soltanto non basta», ricominciò a sermoneggiare il cappellano; «il fosco nembo della esistenza non sarà dissipato per voi dal sorriso della grazia divina, perché la bontà della Provvidenza ha anch’essa i suoi limiti; e tu boccalone laggiù in fondo, smettila di muggire, se no ti fo segregare finché non sarai tutto nero. E voialtri costì ricordatevi che non siete in una taverna. Dio è pietosissimo, ma soltanto con la gente bene educata, mica con dei rifiuti della società umana, che non rispettano né il codice né il regolamento militare. Ecco quello che vi volevo dire. Voi non sapete nemmeno pregare e venire alle funzioni è una specie di spasso, come un teatro o un cinematografo. Ma io vi caverò una simile idea dalla testa, e vi farò vedere che non vengo qui per farvi divertire o risuscitare in voi il piacere di vivere. Io vi schiafferò tutti quanti al cellulare, ve lo prometto, canaglie. Io sto a perdere il tempo   Già, sulla pace dell’anima, benissimo.   Ottimamente, nevvero, signori miei?

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con voi, e m’accorgo che non serve a nulla. Nemmeno se venissero qui il generalissimo o l’arcivescovo in persona vi convertireste e tornereste a Dio. Ma verrà un giorno che vi ricorderete di me, e v’accorgerete che io non vi davo che buoni consigli!» Dal cerchio delle venti paia di mutande echeggiò un singhiozzo: il buon Sc’vèik era scoppiato in un pianto dirotto. Il cappellano guardò in basso, e vide Sc’vèik che si asciugava gli occhi coi pugni, circondato da una gaia brigata di camerati. Il cappellano riprese il discorso mostrando a dito Sc’vèik: «Ognuno di voi dovrebbe prendere a modello quest’uomo. Che fa? Piange. Non piangere, ti dico, non piangere. Tu vuoi correggerti? La faccenda non sarà facile, amico mio. Ora tu piangi, ma quando sarai rientrato in camerata tornerai ad essere la stessa canaglia di prima. Tu devi ancora meditare a lungo sulla grazia infinita e la misericordia di Dio, e faticare parecchio perché la tua anima peccatrice possa ritrovare sulla terra la veridica via da percorrere. Ora noi ci troviamo dinanzi a un uomo che singhiozza perché si vuole convertire: e nel frattempo tutti voialtri che fate? Nulla di nulla. Laggiù in fondo vedo uno che biascica come se l’avesse generato una coppia di ruminanti, e dall’altra parte ci sono degl’individui che stanno spulciandosi la camicia nella casa di Nostro Signore. Forse non avete tempo di grattarvi a casa vostra e vi riserbate questa funzione proprio durante l’ufficio divino? Caro il mio signor ispettore carcerario, mi pare proprio che lei non si sia menomamente occupato di questa gente. E dire che siete dei soldati, non mica canagliume borghese! Sarebbe l’ora di comportarsi come si conviene a dei militari, specie quando si trovano in chiesa. Mettetevi alla ricerca di Dio, corpo d’un crocifisso, e le pulci cercatevele in camerata. Col che ho finito, malandrini, e vi raccomando di comportarvi come si deve durante la messa, perché non deve più succedere come l’altra volta che quelli di dietro si scambiavano la biancheria in dotazione contro delle pagnotte, e le sgranocchiavano durante l’elevazione». Il cappellano discese dal pulpito e si ritirò in sacrestia, seguito dall’ispettore. Dopo un istante quest’ultimo riapparve fuori, si accostò direttamente a Sc’vèik, lo trasse dal branco delle mutande e lo condusse nell’interno della sacrestia. Il cappellano stava seduto comodamente su un tavolino 99

e si arrotolava una sigaretta. Quando Sc’vèik fu entrato, fu così che l’apostrofò: «Dunque, eccoti qua. Io ci ho pensato un po’ sopra, e credo d’avere indovinato che tipo sei, ragazzo mio. Oggi è stata la prima volta che uno è scoppiato in lacrime ad una mia predica». Saltò giù dalla tavola, e scuotendo Sc’vèik per le spalle, gli gridò sotto la grande e malinconica effigie di San Francesco di Sales: «Confessa, canaglia, che fingevi di singhiozzare!» Lassù dalla sua cornice San Francesco di Sales osservava Sc’vèik con uno sguardo enigmatico. Dirimpetto, da un’altra cornice, un martire disperato dirigeva esso pure i propri sguardi su Sc’vèik, mentre dei soldati romani gli tagliavano il deretano con una sega. Il volto del suppliziato non esprimeva né la rassegnazione né l’estatica beatitudine dei martiri, ma solo la stupefazione d’uno che si domandava dov’era andato a cascare e che cosa mai gli stavan facendo. «Io fo umilmente notare, signor cappellano», disse solennemente Sc’vèik puntando tutto su una sola carta, «che io riconosco dinanzi a Dio onnipossente e a voi, reverendo padre che ne siete il vicario, che ho pianto solo per chiasso. Io mi sono accorto che alla vostra predica faceva difetto un peccatore pentito. Così le ho voluto procurare questa piccola gioia, anche perché lei non pensasse che non si trova più della gente bene educata. Poi ho voluto anche fare uno scherzo, e cavarmi uno sfizio per conto mio». Il cappellano militare osservò attentamente la faccia sempliciona di Sc’vèik. I raggi del sole giocavano sulla malinconica effigie di San Francesco di Sales e riscaldavano il martire stupefatto della parete dirimpetto. «Mi cominciate a piacere», disse il cappellano rimettendosi a sedere sul tavolino. «A che reggimento appartenete?» E lo riprese ancora il singhiozzo. «Fo umilmente notare, signor cappellano, che io appartengo e non appartengo all’ottantunesimo reggimento, perché non so che faranno di me». «Per quale cagione vi trovate qui dentro?» domandò il cappellano cessando di singhiozzare. Dalla cappella giunse l’eco d’alcuni suoni di armonium, che rimpiazzava l’organo assente. Il suonatore, un maestro detenuto per diserzione, traeva da quello strumento i più mesti canti liturgici. Le sue note alternate coi singhiozzi del cappellano si fondevano in una gamma dorica assolutamente originale. 100

«Fo umilmente notare, signor cappellano, che ignoro effettivamente le cagioni per cui mi trovo qui dentro, ma che non ne sono affatto scontento. Però sono perseguitato dalla disdetta. Io penso ogni cosa per il meglio e alla fine tutto mi va male in peggio, come al martire che si vede in quel quadro». Il cappellano dette un’occhiata al quadro, sorrise e disse: «Voi m’andate proprio a genio; m’informerò di voi presso il giudice istruttore. Per ora può bastare. Vorrei essermi già sbrigato di questa messa benedetta! Kehrt euch! Abtreten!» 5 Quando Sc’vèik riprese il suo posto nell’intima comunella dei detenuti in mutande sotto il pulpito, fu assalito dalle domande di quelli che volevan sapere che cos’era successo in sacrestia fra lui e il cappellano. Ma Sc’vèik rispose con poche parole secche e concise: «È completamente ubriaco». La nuova impresa del cappellano, la santa messa, fu seguita da tutti con grande attenzione e con manifesta simpatia. Uno di quelli sotto il pulpito scommise perfino che al cappellano sarebbe caduto l’ostensorio di mano. Scommise tutta la sua porzione di pane contro due schiaffi, e fu lui il vincitore. Il sentimento che riempiva l’anima di tutti coloro che assistevano alle cerimonie celebrate dal cappellano non era certo il misticismo dei credenti né la devozione dei cattolici osservanti. Si trattava piuttosto d’una disposizione simile a quella in cui ci si trova a teatro, quando s’ignorano le peripezie dei protagonisti e s’aspetta con curiosità lo scioglimento della vicenda. I detenuti s’immergevano con beatitudine nello spettacolo offerto loro con tanta grazia dal cappellano officiante. Essi s’abbandonavano al godimento estetico della contemplazione del paramento indossato a rovescio, e con profonda attenzione e fervore osservavano ogni particolare della funzione. Serviva messa un uomo dai capelli rossi, un disertore proveniente dagli ambienti ecclesiastici, già specializzatosi in piccoli furti presso il ventottesimo reggimento. Costui faceva tutto il possibile per ricordarsi fedelmente ogni particolare della cerimonia, tanto per le parole come per il rituale. Egli infatti esercitava contemporaneamente l’ufficio di suggeritore del cappellano, che confondeva le frasi con   Dietro front! In libertà!

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estrema leggerezza, e che arrivava al punto di leggere nel messale non le preghiere della messa ma quelle dell’Avvento, che intonava fra l’ilarità generale del pubblico. Il cappellano inoltre era completamente sfornito di voce e d’orecchio musicale, e sotto la volta della cappella echeggiava un grugnito gemebondo, che sembrava di essere capitati in un porcile. «È ubriaco fradicio anch’oggi», dicevano con grande compiacimento e allegria quelli vicino all’altare: «altro che fradicio! C’è ricascato ancora una volta: si vede che l’hanno fatto bere in casa d’una di quelle!» E per la terza volta l’ite missa est del cappellano rimbombò dall’altare col fragore del grido di guerra lanciato da una tribù di pellirosse, tanto che ne rintronarono le vetrate. Dopodiché il cappellano dette ancora un’occhiata al santo calice per vedere se non ci fosse restato un gocciolino di vino, fece una smorfia di delusione, e si rivolse all’uditorio: «Ora, canaglie, potete ritornarvene pure in camerata, perché abbiamo finito. Mi sono accorto che non avete mai dato segno d’una devozione sincera, e dire che vi trovate in chiesa al cospetto del Santissimo, malandrini. Così a quattr’occhi con l’Altissimo, non vi vergognate di ridere forte, tossire, far fracasso e strascicare i piedi, e come se non bastasse vi comportate così in mia presenza, io che rappresento qui dentro la Madonna, Nostro Signore e il Padreterno, farabutti. Se un’altra volta ricomincerete da capo, vi tratterò come vi meritate, così saprete che non esiste soltanto quell’inferno di cui vi parlai nella predica dell’altro giorno, ma che ce n’è uno anche qui sulla terra, e ammesso che riusciate a salvarvi dal primo, v’assicuro che non scamperete al secondo. Abtreten! 6 » Dopo aver esercitato così bene la benedetta e decrepita missione di visitare i carcerati, il cappellano si ritirò in sacrestia, si rivestì, si fece mescere un po’ di vino da messa giù dalla damigiana in un bricco, lo bevve, e con l’aiuto del chierico dai capelli rossi inforcò il suo cavallo da sella che aveva lasciato legato per le briglie, in cortile. Ma si rammentò all’improvviso di Sc’vèik, e smontò per recarsi nell’ufficio del coadiutore Bèrnis. Il coadiutore Bèrnis era un uomo mondano, un magnifico ballerino e un festaiuolo appassionato che s’annoiava mortalmente in ufficio, e non faceva altro che scrivere in tedesco versi da album, allo scopo di averne sempre una certa provvista a disposizione. Costui era il più importante   Rompete le righe!

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pilastro di tutto l’edificio della giustizia militare, poiché sul suo tavolino s’ammucchiava una così enorme mole di pratiche in sospeso e di documenti da evadere, da incuter rispetto a tutto quanto il corpo giuridico militare insediato al Castello. Spesso perdeva gli atti d’accusa e li ricompilava fantasticamente per conto proprio. Imbrogliava i nomi, smarriva le prove di colpabilità e ne creava di nuove a piacer suo. Processava i disertori per furto e i ladri per diserzione. Intesseva anche dei bravi processi politici basati completamente per aria. Faceva i giochetti più complicati pur di convincere gli accusati di reati di cui non avevan neanche l’idea. Inventava anche dei reati di lesa maestà, e attribuiva frasi incriminate di sua invenzione sempre a qualcuno i cui atti d’accusa o di prova s’erano smarriti in quell’inestricabile caos di scritture e di documenti. «Riverisco», lo salutò il cappellano militare porgendogli la mano: «come va?» «Mica bene», rispose il coadiutore Bèrnis: «mi hanno ributtato all’aria gl’incartamenti, chi diavolo ci si raccapezza? Ieri mandai su un atto benissimo elaborato a proposito di un giovanotto accusato di diserzione, ma me l’hanno rimandato indietro perché non si tratta d’un caso di diserzione, ma di un furto di scatolette in conserva. Sembra che avessi sbagliato il numero d’ordine: Dio sa come hanno fatto ad accorgersene!» Il coadiutore sputò. «Giuochi sempre a carte?» gli domandò il cappellano. «Oh, con le carte io mi sono perso tutto quello che avevo; ultimamente feci una partita a macao con quel colonnello calvo, che mi mangiò quanto avevo addosso. Però ho da fare con una ragazzetta. E tu che fai, santo padre?» «Io ho bisogno d’un attendente», disse il cappellano; «ultimamente avevo un vecchio contabile sfornito d’istruzione superiore, un bestione di prima classe. Frignava continuamente e non faceva altro che invocare la protezione di Dio, tanto che ho dovuto mandarlo al fronte con un battaglione di linea. Si racconta che il battaglione si sia fatto massacrare fino all’ultimo uomo. In seguito mi hanno assegnato un giovanotto che non faceva altro che passare il tempo in osteria e tutto quello che beveva lo faceva mettere sul mio conto. Lui in complesso era una persona sopportabile, ma però gli sudavano i piedi, sicché ho mandato al fronte anche lui. Oggi durante la predica ho scoperto un bel tipo che è scoppiato in lacrime per farmi uno scherzo. A me farebbe comodo un tipo come questo. Si chiama Sc’vèik ed è detenuto nella camerata n. 16. Vorrei 103

sapere come mai è stato arrestato, e se è possibile far qualcosa perché io me lo porti via». Il coadiutore frugò negli scaffali per vedere se trovava i documenti concernenti il caso Sc’vèik, ma anche questa volta non riuscì a scovar nulla. «Deve averli il capitano Linhart», disse dopo maturo esame; «il diavolo sa come si perdono e dove vanno a finire tanti e tanti atti sul mio tavolino. Probabilmente li ho passati a Linhart. Ora gli telefono subito… Pronto, parla il primo tenente coadiutore Bèrnis. Signor capitano, vorrei pregarla di dirmi se ha costì i documenti che concernono un certo Sc’vèik… Come, Sc’vèik devo averlo io? Mi pare strano… M’è stato passato da lei?… Mi pare strano davvero… È detenuto nel n. 16… So bene che il 16 è assegnato a me, ma io credevo che i documenti di Sc’vèik giacessero nel suo ufficio… Come? mi proibisce di parlare su questo tono? Che da lei non giace nulla?… Pronto, pronto!…» Il coadiutore Bèrnis si rimise a sedere e fece una violentissima requisitoria contro il disordine che regnava in tutto il procedimento istruttorio. Fra lui e il capitano Linhart vigeva già da lungo tempo un’inimicizia, in cui si comportavano entrambi con grande coerenza. Se per caso un documento pertinente a Linhart capitava nelle mani di Bèrnis, Bèrnis lo archiviava in tal modo che poi era assolutamente impossibile di ripescarlo. Linhart agiva con reciprocità coi documenti che appartenevano a Bèrnis. Per esempio, essi si mandavan vicendevolmente in malora gli allegati degli atti d’accusa.7 (L’incartamento Sc’vèik fu ricuperato nell’archivio del tribunale militare soltanto dopo il cambiamento di regime, con questa nota per giunta: «Intendeva gettar via la maschera della menzogna ed agire direttamente contro la persona del Sovrano e la sicurezza dello Stato». I documenti stessi erano confusi con quelli che si riferivano a un tale Giuseppe Kóudela, e sulla copertina che ravvolgeva l’incartamento c’era una crocettina con sotto le parole: «Pratica evasa» e la data.) «Lo Sc’vèik l’ho perduto», disse il coadiutore Bèrnis, «ma lo farò chiamare, e se non confessa nulla lo rilascio in libertà e te lo faccio portar via e penserai tu a sbrigartela col suo reggimento». Dopo che il cappellano militare fu partito, il coadiutore 7   Il trenta per cento dei detenuti al carcere presidiario vi restarono per tutto il periodo della guerra senza aver passato neppure il primo interrogarorio. [N.d.A.]

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Bèrnis fece chiamare Sc’vèik e lo tenne fermo sulla porta, perché proprio in quel momento aveva ricevuto dalla Questura centrale un fonogramma che l’informava che l’incartamento supplementare in riferimento agli atti registrati al numero settemiladuecentosettantasette e concernenti il soldato di fanteria Maixner eran stati rimessi al primo reparto per la firma del capitano Linhart. Nel frattempo Sc’vèik esaminava l’ufficio del coadiutore, e non si può dire che esso, specialmente con le fotografie che stavano appese alle pareti, suscitasse in lui la migliore delle impressioni. Le fotografie illustravano diverse esecuzioni capitali operate dall’esercito in Serbia e in Galizia, ed erano vere e proprie «fotografie artistiche» in cui si vedevano villaggi bruciati ed alberi coi rami che si piegavano sotto il peso eccessivo degli impiccati. Oltremodo interessante era la fotografia d’una località serba, con un’intera famiglia appesa alla forca: padre, madre e un bambino. Due soldati con la baionetta in canna vigilavano l’albero degl’impiccati, e un ufficiale se ne stava in primo piano con un’aria di trionfatore fumando una sigaretta. Nello sfondo si poteva vedere di sbieco una cucina da campo in azione. «Che c’è di nuovo, Sc’vèik?» gli chiese il coadiutore Bèrnis dopo aver rimesso il fonogramma agli atti; «che cosa avete commesso di bello? Preferite confessare od attendere che sia compilato il vostro atto d’accusa? Così non si può più andare. Non crediate di trovarvi in presenza d’un tribunale composto da un consesso d’animali in borghese. Qui da noi c’è un tribunale di guerra, un K. u. K. Militärgericht.8 Può darsi anche che l’unica via di scampo da una pena severa ma giusta sia per voi quella di fare una confessione completa». Il coadiutore Bèrnis aveva un suo sistema particolare che metteva in atto ogniqualvolta aveva perduto l’incartamento d’accusa. Come vedrete, non si trattava assolutamente d’alcunché di speciale, e quindi non c’è da stupirsi che i risultati d’una simile istruttoria e d’un interrogatorio cosìffatto assommassero, senza una sola eccezione, a un bellissimo zero. Il coadiutore Bèrnis si riteneva oltremodo perspicace per il sol fatto che, privo com’era di materiale d’accusa e senza sapere di che cosa un uomo fosse incolpato e perché l’avevano messo in prigione, riusciva a ricostruire da sé, per mezzo dell’esame del comportamento e della fisionomia dell’accusato, le cause del suo arresto e della sua detenzione. 8

  Regio e Imperiale Tribunale Militare.

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La sua perspicacia e la sua. conoscenza degli uomini erano così profonde, che un povero zingaro ch’era stato inviato al carcere presidiario dal suo reggimento per un furto di pochi capi di biancheria era divenuto reo di delitti politici, e precisamente di aver tenuto un giorno all’osteria dei discorsi sediziosi ai soldati, asserendo ch’era imminente la restaurazione dello stato nazionale e indipendente di tutte le terre della corona boema e della nazione slovacca con un re slavo sul trono. «Abbiamo delle prove a vostro carico», aveva detto al povero zingaro: «e non vi resta che confessare in quale osteria l’avete detto, a quale reggimento appartenevano i soldati che vi stavano a sentire, e in che giorno il reato ebbe luogo». Il povero zingaro fu costretto a inventarsi la data, il nome dell’osteria, il numero del reggimento a cui appartenevano gli inesistenti soldati che lo erano stati a sentire, e quando fu congedato dall’interrogatorio, riuscì ad evadere dalla prigione. «Dunque voi non volete confessar nulla», disse il coadiutore Bèrnis a Sc’vèik che conservava un silenzio di tomba; «non ci volete dire perché vi trovate qui e perché v’hanno arrestato. Credo che fareste meglio a dirmelo, prima che ve lo dica io. Vi consiglio ancora una volta di confessare. È nel vostro interesse perché facilita l’istruttoria e mitiga la pena. A questo riguardo si agisce come nei tribunali civili». «Fo umilmente notare», proferì la voce bonaria di Sc’vèik, «che qui al carcere presidiario io mi trovo nelle condizioni d’un trovatello». «Che intendete dire?» «Fo umilmente notare che glielo posso spiegare nel più semplice dei modi. Nella nostra strada abita ancora un carbonaio che aveva un bambino di due anni perfettamente innocente. Un bel giorno questo bambino se n’andò a piedi dal quartiere dei Vigneti al sobborgo di Libně, finché un agente non lo scoprì seduto sul marciapiede. Costui lo condusse al commissariato, dove lo misero in gattabuia come se non si trattasse d’un bambino di due anni. Come vedete quel bambino era un vero e proprio innocente e ciononostante fu arrestato. Ed anche se avesse potuto parlare e qualcuno gli avesse chiesto perché era stato messo dentro, lui non avrebbe saputo rispondere. Anche a me è successo qualcosa di simile: io pure sono un trovatello». Il rapido sguardo del coadiutore squadrò Sc’vèik da capo a piedi, ma si mitigò quando si posò sul suo viso. Era 106

tanta l’innocenza e il candore irraggiato dalla creatura che gli stava davanti, che il coadiutore Bèrnis si mise a passeggiare tutto confuso in su e in giù per l’ufficio, e se non avesse promesso al cappellano di cedergli Sc’vèik, lo sa il diavolo come sarebbe andata a finire. Alla fine riprese posto dietro il suo tavolino. «Ascoltatemi», disse a Sc’vèik che l’osservava con indifferenza: «se mi capiterete ancora una volta fra i piedi, vi farò ricordare di me per un pezzo! Conducetelo via!» Quando Sc’vèik fu reintegrato alla camerata n. 16, il coadiutore Bèrnis fece chiamare l’ispettore carcerario Slavik. «Fino a nuovo ordine», disse seccamente, «Sc’vèik resta a disposizione del cappellano militare Otto Katz. Preparategli il foglio di proscioglimento e fatelo accompagnare da due uomini fino al domicilio del signor cappellano!» «Devo fargli mettere le manette per istrada, signor tenente?» Il coadiutore batté il pugno sulla tavola: «Voi siete un bue. Vi ho detto esattamente di preparargli il foglio di proscioglimento». E quel cumulo di sentimenti che nel corso della giornata aveva sovraccaricato l’anima del coadiutore per il modo di fare del capitano Linhart e di Sc’vèik traboccò come un torrente in piena sulle spalle dell’ispettore carcerario, e si chiuse con queste parole: «Non capite che siete un bel bue coronato?» Quella frase era certo degna d’imperatori e di re, ma un semplice ispettore carcerario, col capo sfornito d’ogni diadema, non ne dové restare troppo soddisfatto. In conseguenza, appena uscito fuori, prese a calci il prigioniero addetto alla pulizia del corridoio. In quanto a Sc’vèik, l’ispettore carcerario decise che avrebbe passato ancora una notte in guardina, tanto per fargli un servizio. Una notte trascorsa al carcere presidiario appartiene sempre ai più graditi ricordi di Sc’vèik. A lato della camerata n. 16 c’era la cella, l’oscuro buco che veniva assegnato ai reclusi in segregazione, donde quella notte echeggiavano i gemiti d’un militare arrestato, al quale il caporale Řepa, in seguito ad una mancanza disciplinare, stava rompendo le costole per ordine dell’ispettore Slavik. Quando il gemito fu cessato, si poté sentire nella camerata n. 16 lo scricchiolio delle pulci che i prigionieri acchiappavano per schiacciarle poi sotto l’unghia. 107

Sopra la porta, in una cavità del muro, stava infisso un lume a petrolio protetto da una piccola inferriata, che spandeva una luce fioca e fumava. Il puzzo del petrolio si fondeva con le naturali esalazioni dei corpi umani non lavati e col sentore del secchio che si riempiva sempre di più col rinnovarsi dell’uso, e che emanava un’altra ondata di lezzo nell’aria mefitica della sedicesima camerata. Il pessimo nutrimento rendeva a tutti difficoltosa la digestione, e la maggioranza soffriva di «colpi di vento», che sprigionavano nel silenzio della notte, e a cui davano per scherzo il valore di battute convenzionali. Nei corridoi echeggiava il passo cadenzato delle sentinelle, di tanto in tanto s’apriva lo spioncino dell’uscio, e un secondino occhieggiava nell’interno della camerata. Sul pancaccio di mezzo si faceva sentire un racconto a mezza voce: «Prima che tentassi di evadere e che fossi mandato qui in punizione, io stavo al numero dodici, dove vengon rinchiusi i casi meno gravi. Una volta ci portano uno con l’aria d’un campagnuolo. Quel pover’uomo s’era buscato quattordici giorni di prigione perché aveva fatto dormire dei militari a casa sua. Dapprima avevano avuto il sospetto che si trattasse d’un caso di complicità in diserzione, ma poi venne in chiaro che l’aveva fatto per guadagnare. Lui avrebbe dovuto andare fra i detenuti per i reati più leggeri, ma siccome la loro camerata era piena zeppa, così invece lo misero nella nostra. Se voi sapeste quanto po’ po’ di roba s’era portato dietro da casa e quello che gli mandarono in carcere, perché, chissà come, gliene avevan concessa l’autorizzazione. Tutta roba da pappare e da fargli passare l’uggia della prigione. Aveva avuto persino il permesso di fumare. Aveva due prosciutti, un enorme filone di pane, uova, burro, sigarette, tabacco; insomma nelle sue due bisacce c’era ogni ben di Dio. E il giovanotto s’illudeva che si sarebbe potuto sbafare tutto quanto per conto suo. Si cominciò col supplicarlo, ma lui faceva l’orecchio da mercante; e col cercar di convincerlo che anche lui doveva spartire le sue provviste con noi come avevano fatto tutti quelli nelle sue condizioni. Ma il giovanotto rispose picche, e disse che doveva star dentro quattordici giorni e che non voleva rovinarsi lo stomaco col cavolo e con le patate marce che ci davano da mangiare. Ad ogni modo lui ci avrebbe ceduto la sua zuppa di patate e di cavolo, con in più il pan secco, per dividersela ogni volta o per mangiarla a turno. Per dirvi quant’era fine, dovete sapere che non faceva mai i suoi bisogni nel secchio e 108

resisteva anche per ventiquattr’ore fino alla passeggiata della mattina dopo, per farli nella latrina del cortile. Era così viziato che era giunto al punto di portarsi dietro perfino la carta igienica. Gli rispondemmo che in quanto all’offerta della razione noi ci sputavamo sopra, e pazientammo uno, due, tre giorni. Il giovanotto non se ne dava per inteso, e divorava il suo prosciutto, spalmava il burro sul pane, sgusciava le sue uova sode, per farla breve, se la passava da re. Fumava sigarette su sigarette e non ci faceva tirare neanche una boccata. Secondo lui noi non avevamo il permesso di fumare, e se il secondino lo avesse scoperto mentre ci dava un mozzicone l’avrebbe messo nella cella dei segregati. Come v’ho detto, pazientammo per tre giorni. Ma la notte del quarto giorno facemmo il colpo. La mattina dopo il giovanotto si sveglia; ma mi son dimenticato di dirvi che tutti i giorni, di mattina, di mezzogiorno e di sera, prima di cominciare a pappare, lui diceva le sue preghiere, e pregava sempre molto a lungo. Così anche quel giorno recitò le orazioni, e poi cercò le sue bisacce sotto il pancaccio. E difatti le trovò, ma così dimagrate e asciutte che parevan due prugne secche. Si mise a gridare che l’avevano svaligiato e che non gli avevan lasciato che la carta igienica. Poi per la durata di cinque minuti egli credè che gli avevamo fatto uno scherzo e nascosto la roba in qualche posto. E diceva con allegria: ‘Lo so che voi siete dei buontemponi, e so anche che mi renderete tutto, ma v’assicuro che è stato un brutto scherzo.’ Fra mezzo a noi c’era un ragazzaccio della periferia, che gli disse: ‘Suvvia, mettete il capo sotto la coperta e contate fino a dieci, e così vedrete quello che succederà delle vostre bisacce.’ Lui si coprì subito come un ragazzino obbediente, e cominciò a contare: ‘Uno, due, tre…’ Ma quello della periferia lo interruppe: ‘Così alla svelta non va, sarà meglio più adagio.’ E quello sotto la coperta ricomincia a contare più adagio, a intervalli: ‘Uno… due… tre…’ Quando fu giunto a dieci, scese giù dalla branda e riguardò dentro le sue bisacce. ‘Gesù mio!’ si mise a gridare, ‘ma se sono più vuote di prima, amici miei!…’ E fece una smorfia tale che scoppiammo tutti in una risata. Ma quello della periferia gliela dà ancora a bere, e gli dice: ‘Provate un’altra volta.’ Voi non ci credereste che fu tanto stupido da riprovare da capo, ma quando vide che non gli era restato nient’altro che la carta igienica, cominciò a dar grandi picchi nell’uscio e a gridare: ‘M’hanno derubato, m’hanno derubato, aiuto, aprite, in nome di Dio, aprite!’ Accorse subito qualcuno, e andarono a chiamare 109

l’ispettore carcerario e il caporale Řepa. Tutti noi come un sol uomo attestiamo che lui era impazzito, che non aveva fatto altro che mangiare tutta la notte e che s’era divorato tutte le sue provviste. Ma lui singhiozzava e protestava continuamente: ‘Ma ci dovrebbero esser restati almeno i minuzzoli!’ Furon cercati i minuzzoli, ma valli a pescare: noi non eravamo stati mica tanto imbecilli. Quello che non avevamo potuto mangiare, l’avevamo mandato su al secondo piano come un pacco postale per mezzo d’una cordicella. Durante tutta la giornata lui fece a meno di mangiare e stava sempre in agguato per coglierci sul fatto nel caso che si mangiasse o fumasse qualcosa del suo. Anche il giorno dopo a mezzogiorno rifiutò la zuppa, ma la sera il cavolo e le patate marce cominciarono ad andargli a genio, però non diceva più le sue orazioni come prima, quando se la passava col prosciutto e con le uova sode. In seguito uno di noi riuscì chissà come a farsi venire di fuori un bel pacchetto di sigarette, e lui che fin allora era stato sempre zitto, riattaccò discorso per chiederci una boccata. Figuratevi voi se l’ottenne». «Io ho avuto quasi paura che gliel’aveste concessa, quella boccata», osservò Sc’vèik: «e così avreste rovinata tutta la storia. Simili generosità avvengono solamente nei romanzi, ma in carcere e in circostanze come queste sarebbero una bella stupidaggine». «E una presa di tabacco non gliel’avete data?» si fece sentire una voce. «A questo non ci abbiamo pensato». Si stabilì una disputa a mezza voce, se quel tale aveva diritto o no ad una presa di tabacco. La maggioranza fu per il sì. La conversazione adagio adagio si chetò. S’addormentarono dopo essersi grattati ben bene sotto le ascelle, sul petto e sul ventre, nei punti preferiti dalle pulci annidate nella biancheria. S’addormentarono dopo essersi scaraventati i guanciali pieni di pulci sul capo, per non venir disturbati dalla luce del lume a petrolio. La mattina dopo alle otto vennero a chiamare Sc’vèik perché doveva esser condotto in ufficio. «Sulla sinistra della porta dell’ufficio c’è una sputacchiera piena zeppa di mozziconi», sussurrò all’orecchio di Sc’vèik uno dei camerati. «Ne vedrai una eguale al primo piano. Siccome avanti delle nove non spazzano mai i corridoi, ci troverai ancora qualcosa». Ma Sc’vèik doveva deludere le loro speranze, perché non gli fu dato di far ritorno al numero sedici. Le dicianno110

ve paia di mutande rimaste fecero le più stravaganti supposizioni. Un militare butterato della territoriale, fornito d una vivacissima fantasia, riferì che Sc’vèik aveva sparato addosso al suo capitano e che lo stavan portando alla piazza d’armi di Mótol per procedere all’esecuzione capitale.

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10 Sc’vèik nelle funzioni di attendente del cappellano militare I Sc’vèik riprese la sua odissea nell’onorata compagnia di due soldati con la baionetta in canna, che dovevano condurlo dal cappellano militare. I suoi guardiani eran due uomini che si completavano a vicenda. Se il primo era lungo come una pertica, il secondo in compenso era piccolo e grasso. Il perticone zoppicava con la gamba destra, e il tombolotto con la sinistra. Essi facevano il loro servizio nella territoriale, perché avanti guerra erano stati assolutamente dispensati da ogni obbligo di leva. I due marciavano gravemente sul marciapiede e gettavano ogni tanto un’occhiata di sbieco su Sc’vèik che 112

li precedeva e salutava tutti quelli che incontrava. I suoi abiti borghesi s’erano smarriti nel deposito del carcere presidiario insieme col berretto da soldato col quale era partito per la guerra. Prima di congedarlo, gli avevan dato in cambio una vecchia uniforme militare che era appartenuta a un garzone più alto un palmo di lui. Il paio di calzoni che indossava avrebbero potuto contenere altri tre Sc’vèik. Le pieghe sterminate che lo ravvolgevano dai piedi fino al petto, sul quale si stringeva con una cinghia, suscitavano senza volerlo lo stupore degli spettatori. Un enorme giubbone rattoppato sui gomiti, unto e bisunto, fiottava su Sc’vèik come un pastrano su uno spaventapasseri. I calzoni gli stavano addosso come la tunica d’un pagliaccio da circo. Il berretto militare, che gli era stato assegnato in presidio, gli calava fino agli orecchi. Sc’vèik rispondeva alle risate dei passanti col sorriso tenero, dolce e caldo dei suoi occhi di bonaccione. E se n’andavano così tutti e tre verso il quartiere di Kárlin e il domicilio del cappellano. Il tombolotto fu il primo a rivolgere la parola a Sc’vèik. In quel momento si trovavano proprio sotto il porticato della piazza della Piccola Parte. «Di dove sei?» gli domandò il tombolotto. «Di Praga». «Non ci scapperai mica?» Il perticone s’intromise nella conversazione. Per un fenomeno degno di studio i tombolotti sono per lo più degl’ingenui ottimisti, mentre invece i perticoni sono piuttosto scettici. Fu per questo che il perticone disse al tombolotto: «Se gli fosse possibile, sicuro che fuggirebbe. «E perché mai dovrebbe fuggire», replicò il tombolotto, «se ora è libero e non si trova più al carcere presidiario? Io porto il suo incartamento su di me». «E che ci può essere in quell’incartamento per il cappellano?» domandò il perticone. «Questo poi non lo so». «Vedi che chiacchieri senza saper nulla di nulla?» Attraversarono il Ponte Carlo nel più assoluto silenzio. Fu solo in Via Carolina che il tombolotto riattaccò discorso con Sc’vèik: «Tu sai perché ti conduciamo dal cappellano?» Per il sacramento della confessione», disse Sc’vèik con leggerezza, «perché domani sarò impiccato. Fanno sempre così, e questo lo chiamano il conforto spirituale». «E perché mai ti dovranno… come dire?…» domandò so113

spettosamente il perticone, mentre il tombolotto guardava Sc’vèik con gli occhi pieni di compassione. Tutti e due erano lavoratori ad opra della campagna, nonché padri di famiglia. «Non ne so nulla di nulla», rispose Sc’vèik con un sorriso bonario, «dev’essere proprio il destino che vuole così». «Tu devi essere nato sotto una cattiva stella», fece osservare il tombolotto con aria saputa e commossa. «Nel nostro villaggio di Iásenna presso Iósefov, fin dal tempo della guerra con la Prussia, un tale fu impiccato proprio così. Un bel giorno lo presero e lo impiccarono a Iósefov senza dargli il minimo schiarimento». «Io credo», disse il perticone inclinato allo scetticismo, «che non è così facile impiccare un uomo per nulla, e che ci deve essere sempre qualche motivazione più o meno precisa». «Sicuro», osservò Sc’vèik, «in tempo di pace non si può procedere senza motivazione, ma quando siamo in guerra non si guarda troppo per il sottile. Bisogna farsi ammazzare sul fronte o farsi impiccare a casa propria. È lo stesso che andare a piedi o in carrozza». «Dimmi, un po’, non sei mica reo di qualche delitto politico?» gli domandò il perticone. Dal tono della sua domanda si sentiva che cominciava a nutrire un debole per Sc’vèik. «Politico, sicuro politicissimo», rispose Sc’vèik con un sorriso. «Non sei mica per caso un socialista nazionale?»1 Ora quello che incominciava a insospettirsi non era il perticone ma il tombolotto, e s’intromise nella conversazione anche lui. «E a noi che ce ne importa?» egli disse. «Guardate piuttosto che c’è un monte di guardie che ci stanno ad osservare. Almeno se passandoci in mezzo potessimo disinnescare le baionette per non dar troppo nell’occhio! Ma tu non scapperai mica? Avremmo delle belle seccature! Nevvero, Tonino?» concluse rivolgendosi al perticone, che osservò a bassa voce: «Le baionette si potrebbero anche disinnescare. Anche lui è uno dei nostri». Aveva dimesso tutto il suo scetticismo e si era lasciato invadere l’anima da una grande compassione per Sc’vèik. Trovarono quel benedetto cantuccio dove poterono levare   Partito nazionale cèco

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le baionette senza farsi vedere, e il tombolotto autorizzò Sc’vèik a camminare al suo fianco. «Tu vorresti fumare, nevvero?» gli disse. «E dimmi un po’, prima di…» Gli voleva domandare se gli avrebbero permesso di fare una fumatina prima dell’impiccagione, ma non terminò la frase, accorgendosi che sarebbe stata una mancanza di tatto. Così fumarono tutti e tre, e i due angioli custodi vollero mettere Sc’vèik al corrente di tutte le loro condizioni familiari laggiù nella città di Cortereale, e parlargli delle loro donne e dei loro figliuoli, dei loro piccoli appezzamenti di terra e del loro bestiame bovino. «Io ho sete», disse Sc’vèik. Il perticone e il tombolotto si scambiarono un’occhiata. «Eh, anche noi andremmo volentieri in qualche posto a bere un bicchiere», osservò il tombolotto indovinando che anche il perticone era dello stesso parere: «ma però in un posto dove nessuno ci venga a pescare». «Andiamocene al ‘Gattino,’ » propose Sc’vèik: «deponete le armi in cucina, l’oste Serabona è iscritto all’ ‘Unione dei Falchi,’ 2 cosìcché non avete a temere di nulla». «C’è sempre qualcuno che suona il violino o la fisarmonica», soggiunse Sc’vèik, «e vi capitano ragazze di strada e un pubblico ottimo ed assortito, tutta gente di quella che non lasciano mai entrare nella sala degli spettacoli municipali». Il perticone e il tombolotto si scambiarono un’altra occhiata, e finalmente il perticone disse: «Andiamoci pure, che tanto prima di arrivare al quartiere di Kárlin c’è ancora un bel pezzo di strada». Cammin facendo Sc’vèik raccontò loro un sacco di storielle, e così varcarono l’ingresso del «Gattino» in ottime disposizioni di spirito. Secondo il consiglio di Sc’vèik, depositarono le armi in cucina, ed entrarono nel locale proprio mentre il violino e la fisarmonica lo riempivan delle note d’una canzonetta alla moda: Proprio sotto la prigione c’è un magnifico viale…

Una ragazza seduta sulle ginocchia di un adolescente vizioso coi capelli tutti lustri di brillantina canticchiava con voce roca: 2   (Sokol). Grandissima organizzazione sportiva cèca, che sotto l’AustriaUngheria ha rappresentato su ben più vasta scala quello che fu per il nostro irredentismo la «Ginnastica triestina».

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Prima avevo una ragazza, ma ora un altro va con lei…

A un altro tavolino sonnecchiava un negoziante di sardine, che ogni tanto si risvegliava, batteva i pugni sul marmo, borbottava: «Così non va!» e si riaddormentava da capo. Dietro il biliardo, tre ragazze stavan sedute sotto uno specchio e gridavano a un giovane macchinista delle ferrovie: «Giovanotto, pagaci un vermouth!» Vicino ai suonatori altri due clienti disputavano a proposito d’una certa Marianna che il giorno prima era stata arrestata dalla ronda. Uno dei due aveva assistito alla scena coi propri occhi, l’altro invece affermava che se n’era andata a letto con un soldato all’albergo Valeš. Vicino alla porta c’era un soldato circondato da alcuni borghesi, ai quali raccontava com’era stato ferito sul fronte serbo. Teneva la mano fasciata ed aveva le tasche piene zeppe di sigarette che gli avevano regalato. Egli asseriva che non poteva assolutamente bere un gocciolo di più, ma uno della compagnia, un vecchietto tutto calvo, lo esortava senza requie nel modo seguente: «Bevete ancora, soldatino, chissà se ci rivedremo. Devo far suonare qualcosa per voi? Vi piace quella canzonetta che comincia: Il fantolino orfano divenne?» Quella canzone era la prediletta del vecchietto tutto calvo, e immediatamente il violino e la fisarmonica l’attaccarono, mentre al vecchietto spuntavan le lacrime agli occhi, e cantarellava con voce commossa: E quando seppe il fantolino parlare, cominciò della mamma a domandare…

Ma da un tavolino s’alzarono delle voci di protesta: «Basta, finitela! Impiccatevi a un chiodo. Ci avete già rotto le scatole col vostro orfanello!» E per far tacere l’orchestra, tutta la tavolata avversaria si mise a cantare: L’addio, il triste addio, ha imparato il cuore mio!

«Cecco!» gridarono al soldato ferito quando si furon chetati anche quelli che avevan zittito la canzone dell’orfanello, «lasciali stare e vieni qui a sedere con noi. Sputaci sopra e manda un po’ di sigarette quaggiù! Perché perdi tempo a divertire codesti animali?» 116

Sc’vèik e i suoi accompagnatori avevan seguito con grande interesse tutta la scena. Sc’vèik si mise a rievocare i ricordi di quando frequentava quel locale prima della guerra. Ogni tanto ci capitava anche il commissario Drašner, che scendeva giù per fare un’ispezione, e le prostitute facevan finta d’aver paura di lui, mentre invece si divertivano un mondo a comporre canzoncine parodistiche alle sue spalle. Una volta avevano avuto il coraggio d’accoglierlo con un grazioso coretto: Quando Drašner quaggiù venne capitò un gran brutto fatto: e ci fu una che sostenne che sembrava mezzo matto.

Proprio in quel momento il tremendo e inesorabile commissario era entrato nel locale seguito dal codazzo dei suoi segugi. Fu come quando un cacciatore vuol tirare ad una pernice. Gli agenti in borghese fecero d’ogni erba un fascio. Anche Sc’vèik rientrò nel mazzo perché con la sua solita disdetta gli era saltato in testa di dire al commissario che l’aveva invitato a mostrargli i suoi documenti: «Lei ha per questo l’autorizzazione della Giustizia?» Sc’vèik si ricordava anche di un poeta che stava sempre seduto nel medesimo cantuccio sotto lo specchio, e componeva sulle note del canto e della musica delle poesie che poi faceva leggere alle prostitute. In quanto ai due guardiani di Sc’vèik, essi non eran toccati da nessuna reminiscenza. Per loro, un locale come quello era una cosa assolutamente inedita, e non poteva far altro che suscitare le loro simpatie. Il primo dei due a trovarsi completamente a suo agio fu il tombolotto, perché gli uomini della sua fatta, oltre ad un innato ottimismo, posseggono una grande inclinazione per le teorie d’Epicuro. Il perticone dovette invece combattere una breve battaglia con la propria coscienza. Ma come prima aveva dimesso le sue consuetudini scettiche, così anche allora perse a poco a poco gli ultimi scrupoli moralistici. «Voglio fare un balletto», disse quando fu giunto alla sua quinta birra, e si accorse che le coppie stavan ballando il trescone. Il tombolotto s’abbandonò senza riserve al piacere dei sensi. Accanto a lui s’era seduta una ragazza che non parlava altro che di porcherie in modo tale da fargli rilucere gli occhi. Sc’vèik si contentava di bere. Il perticone fece altri quattro salti e poi fece ritorno al tavolino accompagnato 117

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dalla propria dama. Poi cantarono, ballarono, bevvero senza risparmio, e ogni tanto davano una tastatina alle loro compagne. In una siffatta atmosfera d’amore mercenario, di nicotina e di alcool, echeggiava incessantemente l’antico motto: «Dopo di noi venga pure il diluvio!» Nel pomeriggio un soldato venne a sedersi al loro tavolino, e propose di far venir a ciascuno un flègmone o un intossicamento nel sangue per il tenue prezzo di cinque corone. Egli portava addosso a tale scopo una siringa da iniezioni, con la quale poteva benissimo iniettare un po’ di petrolio in un braccio o in una gamba.3 Con una simile iniezione sarebbero dovuti stare in letto almeno per un paio di mesi, e se avessero avuto l’avventura d’umettare la piaga con la saliva, la cosa sarebbe anche andata più in lungo, fino a circa mezz’anno, e li avrebbero dovuti rimandare a casa per forza. Il perticone, che aveva completamente smarrito l’equilibrio interiore, accettò l’offerta del soldato e si fece fare un’iniezione di petrolio sotto la pelle d’una gamba. Quando si fu all’imbrunire, Sc’vèik fece la proposta di rimettersi in cammino per l’abitazione del cappellano. Il tombolotto, che faceva già dei discorsi senza capo né coda, cercò di convincere Sc’vèik a trattenersi ancora un momentino. Il perticone si dichiarò dello stesso parere, dicendo che il cappellano poteva anche aspettare. Ma Sc’vèik non aveva più voglia di stare al «Gattino» e li minacciò d’andarsene per conto suo. Fu così che li convinse a fare partenza, ma gli toccò d’acconsentire a dare un’altra capatina in un secondo locale. Si fermarono in un caffeuccio della Via di Firenze, dove il tombolotto vendè il suo orologio d’argento per poter fare ancora un po’ di baldoria. Di là Sc’vèik fu costretto a portarseli via sostenendoli sotto le ascelle, e la cosa gli costò una bella fatica. Le gambe non li reggevan più in piedi, e non facevan che chiedere di fermarsi in qualche altro locale. Ci mancò poco che il tombolotto non smarrisse l’incartamento per il cappellano, così che Sc’vèik fu costretto a prenderlo in consegna lui stesso. Sc’vèik doveva continuamente metterli in guardia quando spuntava all’orizzonte un ufficiale o un graduato 3   Mezzo abbastanza sicuro per farsi mandare all’ospedale. Ma il sentore di petrolio che resta nella piaga tradisce facilmente l’imbroglio. La benzina è più consigliabile, perché l’aroma svapora più presto. In seguito si fecero iniezioni di una miscela d’etere e di benzina, e più tardi si raggiunse una perfezione sempre maggiore.[N.d.A.]

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qualsiasi. E fu a costo di sforzi e di fatiche sovrumane che gli riuscì di condurli fino al Corso del Re, dove stava di casa il cappellano militare. Fu sempre Sc’vèik che rinnestò le loro baionette e a forza di pugni nello stomaco li costrinse a guidarlo invece che a farsi guidare. Al primo piano, quando suonarono all’uscio che portava attaccato un biglietto da visita con su scritto: «Otto Katz, cappellano militare» venne ad aprire un soldato. Dall’interno echeggiava un fragore di voci e un tintinnio di bicchieri e di bottiglie. «Wir… melden… gehorsam,… Herr Feldkurat…» pronunziò faticosamente il perticone salutando il soldato, «ein… Paket… und ein Mann gebracht».4 «Entrate pure», disse il soldato, «come avete fatto a ridurvi in questo stato? Proprio come il cappellano…» e ciò dicendo sputò. Il soldato se n’andò con l’incartamento. I tre attesero a lungo nell’anticamera, finché l’uscio non si riaprì e non entrò, anzi volò nella stanza, il cappellano militare in persona. Il reverendo era in sottoveste e con un sigaro in mano. «Eccovi qui», disse a Sc’vèik. «Vi ci hanno proprio portato. Avete fiammiferi?» «Signornò». «E perché no? Ogni soldato deve essere fornito di fiammiferi per accendere. Un soldato senza fiammiferi è… Ditelo voi che cos’è?» «Un soldato senza fiammiferi, signor cappellano», rispose Sc’vèik, «è un militare privo di fiammiferi». «Proprio così, e un militare privo di fiammiferi non può accendere il sigaro a nessuno. Questo è il primo punto: ed ora passiamo al secondo: non vi puzzan mica i piedi, Sc’vèik?» «Signornò». «E questo è il secondo. Ed ora passiamo al terzo: non bevete mica la grappa?» «Signornò la grappa, ma il rum signorsì». «Benone, e ora fate attenzione a questo soldato. Me lo son fatto prestare per un giorno dal primo tenente Feldhuber, perché è il suo attendente. Lui non beve affatto, è a… a… astemio, e perciò se n’andrà al fronte. Io di gente così non so che farmene. Costui non è un attendente, ma un vitello. Non beve che acqua e mugghia come un bue». 4   Facciamo umilmente notare, signor cappellano… che abbiamo portato un pacchetto ed un uomo…

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«Non ti vergogni d’essere astemio, imbecille?» disse poi rivolgendosi al soldato: «ti meriteresti un paio di ceffoni». Dopodiché il cappellano dedicò la sua attenzione ai due guardiani di Sc’vèik, che nel tentativo di reggersi, vacillavano e si sostenevano coi fucili. «Voi vi siete ub… ubriacati», disse il cappellano militare, «ubriacati durante il servizio e vi farò mettere in pr… prigione. Voi, Sc’vèik, disarmateli, portateli in cucina, e sorvegliateli fino a che non li daremo in consegna alla ronda. Io vo subito a telele… fofona… re in caserma». Fu così che la sentenza napoleonica, secondo la quale «in guerra una situazione può capovolgersi in un istante», ottenne ancora una volta la più completa conferma. Quella mattina al più tardi i due avevan condotto Sc’vèik sotto le loro baionette per il timore di vederselo scappar di mano, poi era stato lui a condurli, ed ora infine, il prigioniero era divenuto la loro sentinella armata. Dapprincipio non si resero ben conto di questo rovesciamento di situazione, e lo capiron soltanto quando si trovaron chiusi in cucina e videro Sc’vèik che li sorvegliava con la baionetta inastata. «Io avrei voglia di bere qualcosa», sospirò il tombolotto ottimista, mentre invece il perticone, ormai riconvertito al suo scetticismo di prima, affermava che quello non era altro che un vergognoso tradimento. E si mise a rimproverare Sc’vèik ad alta voce, dicendo ch’era stato lui a ridurli in quelle condizioni, e rinfacciandogli d’averli presi in giro con la storia dell’impiccagione imminente che non era stata altro che una pura e semplice invenzione. «Siamo stati due somari!» gemeva il perticone. Alla fine, dopo che li ebbe lasciati sfogare, Sc’vèik fece la seguente dichiarazione: «Almeno avrete imparato che il servizio militare non è una luna di miele. Io faccio il mio dovere. Io sono capitato in questi stessi vostri impicci anche se, come si suol dire, mi ha arriso un po’ di fortuna». «Io avrei voglia di bere qualcosa», ripeteva disperatamente l’ottimista. Il perticone s’alzò e si diresse con passo esitante verso l’uscio. «Lasciaci andare a casa, camerata», disse a Sc’vèik: «perché vuoi fare lo stupido?» «Levati di torno», ribatté Sc’vèik: «io sono la vostra sentinella, ed in questo momento la nostra amicizia non ha più valore». Il cappellano militare si fece vedere sull’uscio: «Non c’è assolutamente maniera di mettersi in comunicazione con 121

la caserma. Andatevene a casa e te… tenetevi bene a mente che in servizio è vietato ub… ubriacarsi. Marsch!» Per rendere giustizia al signor cappellano militare, va detto che in caserma lui non aveva affatto telefonato per la buona ragione che in casa non aveva il telefono, e s’era limitato a gridare dentro la lumiera d’una lampada elettrica.

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II Eran già passati tre giorni che Sc’vèik si trovava al servizio del cappellano militare Otto Katz, e in tutto questo periodo di tempo non l’aveva veduto che una volta. Il terzo giorno l’attendente del tenente Helmich venne a chiamare Sc’vèik perché venisse a prendere il cappellano. Cammin facendo, gli disse che il cappellano aveva avuto una disputa col tenente ed aveva rotto una pianola, e che ora si trovava ubriaco fradicio e che non era assolutamente in condizione di recarsi a casa da solo. Del resto anche il tenente Helmich si trovava nel medesimo stato, ed aveva scaraventato nel corridoio il cappellano militare, che era rimasto seduto a sonnecchiare sulla soglia. Appena giunto sul luogo, Sc’vèik si mise a scrollare violentemente il cappellano, e quando costui brontolando aprì gli occhi, lo salutò e gli disse: «Fo umilmente notare, signor cappellano, d’esser giunto fin qui». «E che cosa volete?» 123

«Fo umilmente notare che son qui per portarla via, signor cappellano». «Siete qui per portarmi via? E dove andremo?» «Nella vostra abitazione, signor cappellano». «E perché dovrei recarmi alla mia abitazione? Forse che qui non sono in casa mia?» «Fo umilmente notare, signor cappellano, che voi siete in casa d’altri, e precisamente in un corridoio». «Ma… e che ci son mai… venuto a fare?» «Fo umilmente notare che il signor cappellano è venuto in visita». «Macché… macché… io non son venuto in vi… visita. Voi vi… vi sbagliate». Sc’vèik rimise il cappellano in piedi e lo appoggiò al muro. Il cappellano barcollava da ogni parte, e ricascava su Sc’vèik, senza mai cessare di dirgli: «Temo di cadervi addosso». «Addosso», ripeté ancora con un sorriso idiota. Ma alla fine Sc’vèik riuscì ad appoggiarlo contro il muro, e sentendosi sorretto il cappellano ricominciò a sonnecchiare. Sc’vèik lo risvegliò. «Che cosa desiderate?» disse il cappellano effettuando il disperato tentativo di lasciarsi scivolare lungo la parete e di sedersi in terra. «Che c’è di nuovo?» «Fo umilmente notare», rispose Sc’vèik rimettendolo al muro, «che sono il vostro attendente, signor cappellano». «Ma io non ho nessun attendente», proferì a fatica il cappellano, eseguendo un altro tentativo di gettarsi addosso al povero Sc’vèik, «e anzi non sono neppur cappellano! Sono un porco», soggiunse con la franchezza dei beoni, «lasciatemi andare, signore, che io non vi conosco». La breve lotta si chiuse con la completa vittoria di Sc’vèik, che ne approfittò per trascinare il cappellano per le scale fin giù sull’andito, dove il vinto oppose una nuova resistenza per non farsi buttare in istrada. «Io non vi conosco, signore», ripeteva continuamente nel corso della contesa, senza levargli gli occhi di dosso: «Voi non conoscete Otto Katz? Sono io». «Io mi son recato dall’arcivescovo», urlò agguantandosi al battente dell’uscio. «Il Vaticano s’interessa di me, non capite?» Sc’vèik aveva dimesso ogni formula di rispetto e parlava col cappellano in tono estremamente confidenziale. «Lascia l’uscio, ti dico», gridava, «o ti rompo il muso. Andiamo a casa, e chiudi il becco!» Il cappellano lasciò l’uscio e crollò addosso a Sc’vèik: 124

«Andiamo pure in qualche posto, ma non alla fiaschetteria Šcuha, perché ci ho lasciato un chiodo». Sc’vèik lo trascinò, riuscì a tirarlo fuori dall’uscio, e tentò d’indirizzarlo sul marciapiede alla volta del suo domicilio. «Chi è questo signore?» domandò uno spettatore. «È mio fratello», rispose Sc’vèik: «ha ottenuto una licenza, è venuto a farmi visita e s’è ubriacato dalla gioia perché credeva che fossi morto». Il cappellano, che fischiettava in maniera irriconoscibile un’aria d’operetta, comprese queste parole e si rivolse agli spettatori: «Se c’è un morto fra di voi, venga a far la sua dichiarazione di decesso al Corpo d’Armata nel corso di tre giorni, perché la sua spoglia possa essere aspersa d’acqua benedetta». E si rinchiuse nel più completo mutismo, facendo sforzi d’ogni genere pur di battere il naso sul marciapiede, malgrado che Sc’vèik continuasse a trascinarlo verso casa sorreggendolo sotto le ascelle. Con la testa che gli spenzolava davanti e con le gambe strasciconi all’indietro come quelle d’un gatto con le reni fracassate, il cappellano canterellava: «Dominus vobiscum… et cum spirito tuo… Dominus vobiscum…» Ad un posteggio di carrozze, Sc’vèik appoggiò il cappellano al muro e si mise a contrattare la corsa coi vetturini. Uno di loro dichiarò che conosceva molto bene il signore, che lo aveva portato in carrozza un’altra volta, e che non ne avrebbe più fatto di nulla. «Mi vomitò dappertutto», s’espresse con grande franchezza, «e non mi pagò neanche la corsa. Lo scarrozzai per due ore prima che si ricordasse l’indirizzo di casa. Solo una settimana dopo, quando m’ero già recato ben tre volte da lui, si decise a far pari con cinque corone». Dopo lunghe trattative uno dei vetturini acconsentì a scarrozzarli. Sc’vèik rivolse i suoi passi verso il cappellano, che si era addormentato. La sua bombetta nera (egli infatti abitualmente usciva vestito in borghese) era scomparsa: si vede che qualcuno gliel’aveva tolta di capo e se l’era data a gambe. Sc’vèik lo risvegliò e con l’aiuto del vetturino riuscì ad accomodarlo in carrozza. Appena seduto, il cappellano sprofondò nell’ottusità più assoluta, e prese Sc’vèik per il colonnello Just del settantacinquesimo reggimento di fanteria. Ogni tanto ripeteva: «Camerata, non t’adirare se ti do del tu. Io sono un porco». 125

Per un momento sembrò che il rotolio della carrozza sull’acciottolato lo richiamasse alla ragione. Si mise tutto diritto sul seggiolino e intonò il ritornello d’una canzonetta mai sentita; probabilmente doveva trattarsi d’un parto della sua fantasia: Mi ricordo quando tu stavi sul mio sen come un bambin, ed allora tu dimoravi a Domažlic presso Merklín…

Ma un attimo dopo risprofondò di nuovo nell’incoscienza più sorda e, rivoltosi a Sc’vèik, gli chiese, strizzando l’occhio: «Come la va, mia signora? Vi seccate forse in villeggiatura?» riprese dopo una breve pausa. Ma siccome vedeva tutto doppio, domandò ancora: «Lei ha già un figlio adulto?» E mentre parlava, indicava Sc’vèik con il dito. «Mettiti a sedere!» gridò Sc’vèik al cappellano che voleva salire a cassetta: «sta’ bene attento perché t’insegnerò io a comportarti come si deve!» Il cappellano ammutolì e coi suoi occhietti porcini si mise a guardare fuori dal finestrino, assolutamente incapace di raccapezzarsi in tutto ciò che gli succedeva. Cammin facendo, finì di perdere anche gli ultimi resti di senso comune, e rivoltosi a Sc’vèik, gli disse proprio così: «Signora, mi dia una prima classe!» e fece il gesto di togliersi i calzoni. «Riabbottonati, porco!» gli gridò Sc’vèik: «sei conosciuto da tutti i vetturini per aver vomitato nelle carrozze; non ci mancherebbe altro che questa. T’assicuro che oggi non riuscirai a piantare un chiodo, come facesti l’ultima volta!» Il cappellano militare si prese con aria di grande mestizia la testa fra le mani, e si mise a cantare: «Non son più amato da un’anima al mondo…» ma s’interruppe subito per fare la seguente osservazione: «Entschuldigen sie, lieber Kamerad, sie sind ein Trottel, ich kann singen was ich will». 5 Probabilmente voleva mettersi anche a fischiettare un motivo, ma invece di note si sprigionò dalla sua gola un fortissimo prr! ch’ebbe l’effetto di far fermare il cavallo. Quando poi su ordine di Sc’vèik la carrozza riprese la sua corsa, il cappellano tentò di accendere il proprio bocchino da sigarette. «Non prende», urlava disperatamente dopo aver spre5   Mi scusi, caro collega, ma lei è un farabutto, ed io posso cantare quello che mi pare e piace.

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cato l’intera scatoletta di fiammiferi: «siete voi che mi soffiate sopra!» Ma perse di nuovo il filo del discorso, e scoppiò a ridere come un matto. «Che cosa buffa! Siamo noi due soli in tranvai, signor collega?» E si frugò le tasche con disperazione. «Ho perso il biglietto!» gridava: «fermate che devo ritrovare il biglietto!» Ma agitò la mano con rassegnazione, e concluse: «Andiamo pure». Poi si mise a delirare: «Nella maggior parte dei casi… Sì, tutto è in ordine… In qualsiasi circostanza… Voi siete in errore… Il secondo piano?… Ma questo non è che un pretesto… Non si tratta di me, ma piuttosto di voi, mia gentile signora… Il conto!… Io ho preso un caffè…» Nel dormiveglia disputava con un avversario inesistente che gli contestava il diritto di sedersi accanto alla finestra in trattoria. Poi prese la carrozza per un treno, e sporgendosi fuori del finestrino, gridò in cèco e in tedesco nella strada: «Per Nimburgo si cambia!» Ma Sc’vèik lo rimise al suo posto, e allora il cappellano si scordò del treno e prese a imitare le voci dei più diversi animali. Si dedicò al gallo con zelo maggiore di tutti, e il suo chicchirichì echeggiò trionfalmente dalla carrozza. In qualche momento era così vivace e irrequieto che rischiava di cadere dalla carrozza, e trattava di malandrini la gente che passava per istrada. Buttò in terra il fazzoletto e voleva che il vetturino fermasse la carrozza perché aveva perduto i bagagli. Poi si mise a fare un racconto: «A Budějovice c’era un tamburino; un bel giorno si sposò, e un anno dopo morì». E sghignazzava dicendo: «che è una bella storiella?» Durante tutta la corsa Sc’vèik trattò il suo superiore con una severità aliena da ogni riguardo. Al minimo accenno da parte del cappellano di fare qualche giochetto, come ad esempio quello di cadere dalla carrozza, o di rompere il seggiolino, Sc’vèik gli applicava dei buoni pugni nelle costole, che il cappellano incassava con la più ottusa delle pazienze. Una volta sola egli mise in atto un vero e proprio tentativo di ribellione, il che avvenne quando non voleva viaggiare più, perché a sentir lui, s’era accorto che il treno era diretto a Pódmorkli invece che a Budějovice. Nel corso di un minuto Sc’vèik fu in grado di liquidare completamente l’ammutinamento, e lo costrinse a riprendere il suo vecchio posto sul seggiolino, facendo attenzione che non 127

si riaddormentasse di nuovo. La frase più cortese con cui l’esortava a star sveglio era la seguente: «Non t’addormentare, pezzo di carogna!» Il cappellano fu preso da un nuovo accesso di malinconia e scoppiò in lacrime, domandando a Sc’vèik se viveva ancora sua madre. «Amici, io son solo al mondo», gridava dalla carrozza: «prendetemi con voi!» «Non mi fare un altro scandalo», l’ammonì Sc’vèik: «finiscila, se no tutti vedranno che sei sbronzo». «Io non ho bevuto affatto, amico mio», replicò il cappellano: «io sono completamente astemio». Ma mentre diceva così, s’alzò all’improvviso, salutò e disse: «Ich melde gehorsamst, Herr Oberst, ich bin besoffen».6 «Io sono un maiale», ripeté dieci volte come fra sé con preplessa e solenne disperazione. E rivoltosi a Sc’vèik, si rimise a pregarlo e a supplicarlo con insistenza: «Fatemi uscir fuori da questa automobile. Perché mi portate con voi?» Si mise a sedere e borbottò: «Intorno alla luna si formano degli aloni. Lei, signor capitano, ha fede nell’immortalità dell’anima? Un cavallo può guadagnarsi il paradiso?» Scoppiò in una fragorosa risata, ma in un secondo s’oscurò, fu ripreso dall’apatia, dette un’occhiata a Sc’vèik ed osservò: «Se il signore permette, io l’ho già veduto in qualche luogo. Non è mai stato a Vienna? Mi ricordo di lei fin dagli anni del seminario». Per un altro po’ di tempo si divertì a recitare versi latini: «Aurea prima satis aetas, quae vindice nullo» Poi soggiunse: «Non ne so più. Mandatemi fuori! Perché non volete? Non mi farò mica male!» «Ma se cadrò voglio battere in terra col naso», dichiarò con voce decisa. «Signore», soggiunse subito dopo con tono supplichevole, «carissimo amico, datemi un ceffone». «Uno solo o più d’uno?» domandò Sc’vèik. «Due? Eccovene due…» Il cappellano contò ad alta voce i ceffoni ricevuti, con una faccia felice. «Mi giovano moltissimo», disse, «soprattutto riguardo allo stomaco, che digerisce meglio. E ora datemi un pugno sul muso». «Grazie mille!» esclamò quando Sc’vèik ebbe rapida6

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Fo umilmente notare, signor colonnello, che sono sbronzo.

mente eseguito: «ora son veramente soddisfatto. Laceratemi la sottoveste, ve ne prego». Il cappellano manifestò i desideri più stravaganti, chiese a volta a volta che Sc’vèik gli staccasse una gamba, lo strangolasse per un momentino, gli tagliasse le unghie e gli estraesse i denti davanti. Palesò anche la vocazione del martire chiedendo che lo decollassero e gettassero nel fiume con la testa chiusa in un sacco. «Oh, come mi s’addice un’aureola di stelline intorno al capo», esclamava nell’estasi: «ma me ne occorrerebbero dieci!» Poi attaccò a parlare delle corse al galoppo, e passò rapidamente al tema del ballo, dove pure non si trattenne troppo a lungo. «Ballate la czardas?» chiese a Sc’vèik. «Conoscete la danza dell’orso? Ecco qua…» S’era appena messo a balzellare che cascò addosso a Sc’vèik, che gli dette una breve lezione di pugilato e l’obbligò a stare ancora seduto. «Io voglio una cosa», gridò il cappellano, «ma non so di che cosa si tratta. Neppure voi lo sapete?» E chinò il capo, in preda a un profondo sentimento di rassegnazione. «E se voglio una cosa, che me ne importa?» disse con gravità: «e, signor mio, non deve interessare neppure a voi. Io non vi conosco. Perché v’intestate a guardarmi così fisso? Sapete tirare di scherma?» Queste parole lo riscaldarono e tentò di scaraventare Sc’vèik giù dal seggiolino. Ma in seguito, quando Sc’vèik l’ebbe calmato col levargli ogni dubbio riguardo alla sua preponderanza fisica, il cappellano si limitò a domandare: «Oggi è lunedì o venerdì?» Inoltre ebbe la curiosità di sapere se s’era di dicembre o di giugno, e dette prova di essere grandemente fornito della facoltà di fare le più diverse interrogazioni: «Siete ammogliato? Vi piace il cacio coi bachi? Avete cimici a casa? Come va la salute? Il vostro cane non è stato mica malato?» Così s’abbandonò alle confidenze e raccontò che doveva ancora pagare un paio di stivaloni, un frustino e una sella, e che qualche tempo prima era stato affetto da una blenorragia che aveva curato col permanganato. «Non avevo né il tempo né la possibilità di curarmi altrimenti», mormorò il cappellano, «benché la cura vi possa sembrare abbastanza penosa. Ma ditemi un po’: che cosa 129

avrei dovuto fare, eh? Scusatemi se vi racconto queste faccende». «Termos», continuò già dimentico di quello che aveva detto un attimo prima, «termos si chiama quello strumento che conserva le vivande e le bevande alla loro temperatura iniziale. Ditemi un po’, caro collega: qual gioco è più onesto, il terziglio o il sette e mezzo?» «Non c’è dubbio che io vi ho visto in qualche posto», esclamò tentando di abbracciare Sc’vèik e di baciarlo con le labbra bavose. «Noi due siamo stati compagni di scuola». «Carino mio», disse con tenerezza carezzandosi un piede, «come sei cresciuto dall’ultima volta che ci siamo veduti. La gioia di rivederti mi compensa dei patimenti passati». Lo colse l’estro poetico e si mise a celebrare il ritorno ai raggi del sole dei volti beati e degli ardenti cuori. Poi s’inginocchiò e recitò un’Avemmaria, e mentre pregava era scosso da un riso irrefrenabile. Quando la carrozza si fermò dinanzi alla sua abitazione, farlo discendere risultò un’impresa difficilissima. «Non siamo ancora arrivati», si mise a gridare: «soccorso! Mi voglion rapire! Io devo continuare!» Dovettero estrarlo dalla carrozza letteralmente come una ostrica dal guscio. A un certo momento credettero di averlo fatto a pezzi, perché i piedi gli eran rimasti conficcati fra le gambe del seggiolino. Durante i loro sforzi lui rideva a crepapelle e diceva: «Voi mi volete fare a pezzi, signori». Dovettero ancora trascinarlo attraverso le scale e il vestibolo fino al suo appartamento, dove lo scaricarono come un sacco sul divano. Qui giunti, dichiarò che lui si rifiutava di pagare un’automobile che non aveva ordinato, e protestò per un quarto d’ora, finché non gli ebbero fatto capire che si trattava d’una carrozza. Ma non acconsentì neppure allora, sostenendo che lui non viaggiava altro che in calessini. «Voi mi volete prendere in giro», dichiarò il cappellano, strizzando l’occhio con aria molto significativa a Sc’vèik ed al vetturino; «noi siamo andati a piedi». Ma all’improvviso, con uno slancio di generosità, gettò il suo borsellino al fiaccheraio: «Prenditi tutto, ich kann bezahlen».1 Io non guardo a pochi centesimi di più». Sarebbe stato molto più esatto se avesse detto che lui non guardava alla misera somma di trentacinque centesimi, che era tutto il contenuto del borsellino. Per fortuna il   So contare.

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fiaccheraio ebbe l’idea di eseguire una diligente perquisizione e lanciò la promessa di un paio di schiaffi. «Tirameli pure», replicò il cappellano: «cosa credi, che io non sarei capace di sopportarli? Puoi arrivare benissimo a cinque». Ma il fiaccheraio riuscì a scovare un pezzo di cinque corone nel taschino della sottoveste del cappellano, e se n’andò maledicendo il destino e quel cliente che gli aveva fatto perdere tanto tempo per così poco. Il cappellano militare s’addormentò adagio adagio, perché per lungo tempo non fece altro che accarezzare dei grandiosi progetti: voleva divertirsi fino all’impossibile, suonare il piano, prender lezioni di ballo e friggersi una manciata di pesciolini. Poi promise a Sc’vèik di dargli in isposa una sorella che non aveva. Dopodiché manifestò il desiderio di esser trasportato nel suo letto, dove finalmente s’addormentò, non senza aver prima dichiarato che pretendeva d’essere trattato come una creatura umana, in nulla inferiore a un maiale.

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III La mattina dopo, quando Sc’vèik si permise d’entrare nella camera del cappellano, lo trovò a giacere sul divano, profondamente assorto a pensare com’era potuto accadere che qualcuno l’avesse talmente inondato di un certo liquido che gli faceva così fortemente aderire i calzoni al cuoio del divano. «Fo umilmente notare», disse Sc’vèik, «che stanotte…» In poche parole gli spiegò che si sbagliava all’ingrosso credendo che qualcuno l’avesse bagnato apposta. Ma il cappellano, che si sentiva la testa straordinariamente appesantita, si trovava in una pessima disposizione d’umore. «Non mi capacito», egli disse, «come dal letto son venuto a finire qui sul divano». «Ma se in letto non ci siete mai stato: iernotte, vi posammo sul divano appena arrivati e ci fermammo». «E che cosa ho fatto? Non ho mica commesso qualcosa di brutto? Per caso, non ero mica ubriaco?» «Ubriaco, non c’è che dire, signor cappellano», rispose Sc’vèik, «perfettamente ubriaco. E come se non bastasse, 133

v’è venuto quasi una specie di delirio. Voglio sperare che starete un po’ meglio, quando vi sarete lavato e cambiato». «Mi sembra d’aver qualcosa di rotto», gemè il cappellano: «e poi ho una terribile sete. Iersera non mi sono mica picchiato?» «La cosa non arrivò a questo punto, signor cappellano. In quanto alla sete, non è altro che il seguito di quella di ieri. La sete è una voglia che ci vuol parecchio a cavarsela di dosso. Io conoscevo un falegname che s’ubriacò il trentun dicembre dell’anno 1910, e che la mattina del primo gennaio aveva ancora una sete così tormentosa che si comprò un’aringa e si rimise a bere da capo, e fece così ogni giorno per la durata di quattr’anni di fila, e non c’era rimedio che gli giovasse perché ogni sabato si comprava le aringhe per tutta la settimana. Pareva proprio una giostra, come diceva un sottufficiale anziano del novantunesimo reggimento di fanteria». Il cappellano militare fu colto da uno straordinario mal di testa e da una profonda depressione. Se qualcuno l’avesse allora sentito, avrebbe creduto di trovarsi alla conferenza del professor Alessandri Bat’k sul tema: «Guerra senza quartiere al demone dell’alcool che uccide gli individui migliori», o di star leggendo il suo opuscolo intitolato: Cento aforismi morali. Però, a dire il vero, il cappellano li citava con qualche variante. «Se almeno si bevesse dei liquori generosi, come l’arac, il maraschino e il cognac, ma io ieri sera non bevvi altro che pessima grappa. Mi meraviglio persino d’essere stato capace d’inghiottirla, con quel sapore così rivoltante. Almeno fosse stata della griotta. La gente inventa porcherie d’ogni genere e se le beve come acqua di fonte. Quella specie di grappa è priva di colore e di gusto, e non fa altro che bruciare la gola. Fosse stata almeno di quella autentica, distillata secondo le regole, come ne bevvi una volta in Moravia. Ma la grappa d’ieri sera doveva esser tratta dalla scorza d’albero e dal petrolio. Sentite che rutti!…» «L’acquavite è un veleno», concluse, «e deve essere garantita e brevettata, non mica di quella fabbricata a freddo dai giudei. Proprio così come il rum. Il rum veramente buono è una rarità». «Se ci fosse qui un po’ di vermouth alla noce vomica», sospirò, «potrei un po’ ristorarmi lo stomaco: ci vorrebbe un po’ di quello che beveva il capitano Snàbl quand’era a Bruska!» Si frugò nelle tasche e ispezionò il borsellino. «Mi son rimasti trentacinque centesimi in tutto. Che ne 134

dite se vendessi il divano?» disse come per chiedere consiglio. «Troverò chi lo voglia comprare? Al padrone dirò che l’ho dato in prestito, o che qualcuno me l’ha rubato. No: il divano lasciamolo stare. È meglio che mandi voi dal capitano Snàbl perché mi presti cento corone. L’altro giorno fece una bella vincita al giuoco. Se vedrete che non c’è nulla da fare, andate alla caserma di Vršovice e chiedetele al tenente Mahler. Se anche qui non avrete successo, recatevi dal capitano Fišer al Castello. Ditegli che ho da pagare il foraggio per il cavallo, e che mi son bevuto gli assegni. Se non otterrete nulla neppure da lui, mettiamo in pegno il pianoforte, e staremo a vedere quello che succederà. Io vi scriverò un paio di righe per ciascuno di quei signori: non vi lasciate metter nel sacco. Dite che mi trovo in un periodo di bisogno, e che non ho un soldo in tasca. Inventate quello che volete, basta che non torniate a mani vuote, se no vi mando al fronte. Domandate al capitano Snàbl dove ha comprato quel liquore alla noce vomica. Acquistatene due bottiglie». Sc’vèik eseguì la commissione a puntino. La sua semplicità e il suo aspetto sincero gli conquistarono un’assoluta fiducia nella veridicità delle sue affermazioni. Egli ritenne opportuno di non far parola né col capitano Snàbl, né col capitano Fišer, né col tenente Mahler, di quel foraggio per il cavallo che il cappellano avrebbe dovuto pagare, ma appoggiò la sua richiesta col pretesto che il suo padrone doveva passare gli alimenti ad una ragazza sedotta. Così ottenne senz’altro e dovunque i denari. Quand’egli fece gloriosamente ritorno dalla sua spedizione e poté far mostra dei suoi tre fogli da cento, il cappellano militare, che nel frattempo s’era lavato e vestito, restò stupefatto. «Ho preso tutto in un sol colpo», disse Sc’vèik; «così né domani né doman l’altro dovremo andare in cerca di denaro. La cosa è andata abbastanza liscia, ma dinanzi al capitano Snàbl mi son dovuto mettere in ginocchio. Che razza di mostro, costui! Ma quando gli ho detto che abbiamo da passare gli alimenti…» «Gli alimenti?…» ripeté il cappellano fuori di sé dalla sorpresa. «Sicuro, gli alimenti, signor cappellano, per accontentare la ragazza. Voi mi avete detto d’inventare una scusa qualsiasi, ed io non son riuscito a trovare nulla di meglio. Nel nostro casamento c’era un calzolaio che pagava gli alimenti a cinque ragazze e la cosa lo disperava tanto che chiedeva in prestito a tutti, e ognuno credeva sul serio che lui si 135

trovasse in quella penosa situazione. M’hanno domandato tutti di che ragazza si trattava, e io ho detto che è molto carina e che non ha ancora compiuto quindici anni, e allora m’hanno chiesto tutti l’indirizzo». «Me l’avete fatta bella, Sc’vèik», sospirò il cappellano, e si mise a passeggiare in su e in giù per la stanza. «Un altro scandalo, e di che razza», disse prendendosi il capo fra le mani: «almeno mi dolesse meno la testa». «Io ho dato loro l’indirizzo d’una vecchia sorda che sta di casa nella nostra strada», spiegò Sc’vèik. «Volevo giungere in fondo, perché un ordine bisogna eseguirlo. Io non mi son fatto metter nel sacco, e ho dovuto inventare qualcosa di speciale. Debbo anche dirvi che in anticamera ci sono dei facchini per portar via il pianoforte. Io li ho fatti venire per poterlo mettere in pegno, signor cappellano. Non sarà poi un gran danno di non averlo più qui. Ci sgombrerà un po’ di spazio, e metteremo insieme un po’ più di denari: così per qualche giorno potremo stare tranquilli. E se per caso il padrone ci domanda che cosa ne intendiamo fare, gli dico che ci son dei tasti rotti e che lo mandiamo in fabbrica per farlo riparare. In quanto al portiere, l’ho già avvertito, così non gli darà troppo nell’occhio quando lo vedrà portar via e caricare. In quanto al divano, son riuscito a scovare un acquirente. È una mia vecchia conoscenza, un negoziante di mobili usati, e si farà vedere oggi nel pomeriggio. Oggigiorno un divano di cuoio si paga abbastanza caro». «Non ne avete fatte altre, Sc’vèik?» chiese il cappellano con la faccia piena di disperazione e il capo sempre fra le mani. «Fo umilmente notare, signor cappellano, che di quel vermouth alla noce vomica usata dal signor capitano Snàbl, ne ho comprato cinque bottiglie invece di due, perché in casa non ci manchi qualcosa da bere. Posso far portar via il pianoforte a quella gente prima della chiusura del Monte di Pietà?» Il cappellano fece un gesto disperato con la mano, e un attimo dopo il pianoforte era già caricato sul carrozzone. Quando Sc’vèik fece ritorno dal Monte, trovò il cappellano seduto dinanzi a una bottiglia già stappata del famoso vermouth, che vociferava perché a mezzogiorno gli avevano servito una costoletta non ancora cotta a puntino. Il cappellano era ritornato completamente in sé, e dichiarò che a cominciare dal giorno dopo avrebbe cambiato vita. Bere bevande spiritose era una forma di crasso mate136

rialismo, e invece bisognava condurre una esistenza dedita soltanto alle cose dello spirito. Parlò di filosofìa per quasi mezz’ora. Mentre stappava la terza bottiglia, si presentò il commerciante di mobili usati, e il cappellano gli vendè il divano per una bagattella. Poi l’invitò a trattenersi a discorrere un po’ di tempo insieme, e rimase molto male quando il commerciante si scusò dicendo che doveva andare altrove per acquistare un comodino. «Che peccato che io non ne possegga neppur uno», disse con tristezza il cappellano: «l’uomo non può pensare a tutto». Dopo che il commerciante di mobili fu partito, il cappellano s’abbandonò a un’amichevole festicciola in compagnia di Sc’vèik, e si bevvero insieme un’altra bottiglia. Una notevole parte della conversazione fu dedicata alla particolare inclinazione del cappellano per le donne e per il giuoco. Passarono molto tempo così, e la serata li colse in un cordialissimo scambio d’idee. Ma le cose cambiarono durante la notte. Il cappellano ritornò nello stato in cui si trovava il giorno prima, prese Sc’vèik per un altro e gli disse: «Non vi fo assolutamente partire; vi ricordate di quell’allievo ufficiale dai capelli rossi che una volta incontrammo in quel convoglio?» L’idillio durò per un pezzo, finché Sc’vèik non si decise a parlare così al cappellano: «Ora basta: ora mettiti a letto e russa, hai capito?» «Vo a letto, amico, vo a letto; non t’arrabbiare!» borbottò il cappellano. «Ti ricordi quando eravamo in quinta e ti facevo i compiti di greco? Voi avete una villa a Sbráslav, e potete andarvene in vaporetto sulla Moldava. Sapete che la Moldava è un fiume?» Sc’vèik lo costrinse a cavarsi gli stivaloni e a spogliarsi, e il cappellano obbedì, protestando con degli spettatori inesistenti. «Vedete, signori», diceva rivolto all’armadio ed al cassettone, «come mi trattano i miei parenti? Io non li riconosco più per parenti», concluse improvvisamente mentre si stendeva nel letto. «Anche se il cielo e la terra me ne scongiurassero, io non li riconoscerò più…» E la camera echeggiò del russare del signor cappellano.

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IV Fu proprio in quei giorni che ebbe luogo la visita di Sc’vèik alla sua vecchia affittacamere, la signora Müller. Nell’appartamento Sc’vèik non trovò altro che una cugina della sua vecchia proprietaria che gli raccontò fra i singhiozzi che la signora Müller era stata arrestata la sera stessa che aveva condotto Sc’vèik alla guerra. Il tribunale militare aveva processato la vecchia signora, e poiché non l’avevano potuta convincere di nessun reato, l’avevan mandata al campo di concentramento di Steinhof, donde le aveva scritto una lettera. Sc’vèik s’impossessò di quella reliquia domestica, e lesse: «Cara Annetta, qui si sta molto bene e ci troviamo tutti quanti in ottima salute. La mia vicina di letto è affetta da macchie di ––––– e qui si trovano anche dei casi di ––––– nero. Il resto va benissimo ––––– vitto ce ne danno abbastanza e raccattiamo le ––––– di patate per la minestra. Ho sentito che il signor Sc’vèik è stato –––––; guarda di sapere dov’è 138

sepolto, perché quando la guerra sarà finita, gli si possa far infiorare la tomba. Mi son dimenticata di dirti che in un remoto cantuccio del granaio ci deve essere una scatola con dentro un cane da sorci, un cucciolino. Non ha più avuto da mangiare fin dal giorno che mi vennero ad –––––. Mi figuro che ormai sarà troppo tardi e che anche il cagnolino sia già –––––». La lettera era solcata trasversalmente da un timbro nero con la dicitura in tedesco: «Censurato dall’imperiale e regio Campo di Concentramento in Steinhof». «Il cagnolino era effettivamente morto», singhiozzò la cugina della signora Müller, «e in quanto al vostro appartamento, ora non lo riconoscereste più. L’ho affittato a delle sarte da donna, che ne hanno fatto una sala di mode. Le pareti son piene dei figurini e c’è un vaso da fiori suldavanzale». Sc’vèik non riusciva a consolarla, tanto più che essa attraverso i gemiti e i singhiozzi riuscì a fargli capire che sospettava in lui un disertore, capace di farle ancora del male e di rovinarla. Infine lo trattò come un miseravile avventuriero. «Questa sì che è bella», disse Sc’vèik, «e mi va straordinariamente a genio. Per vostra norma, signora Kèir, vi dirò che avete colpito nel segno e che son davvero fuggito dal fronte. Ma per riuscire a tanto ho dovuto ammazzare quindici fra sergenti e gendarmi. Ma mi raccomando: acqua in bocca!» E Sc’vèik abbandonò la sua abitazione divenutagli così inospitale non senza aver fatto la seguente dichiarazione: «Signora Kèir, io ho ancora qualche colletto e qualche camiciola dalla lavandaia: fatemi il favore di ritirarli perché abbia da mettermi addosso qualcosa quando ritornerò dalla guerra alla vita borghese. Fate pure attenzione che nell’armadio le tignole non mi rodano tutti i vestiti. In quanto alle ragazze che ora dormono nel mio letto, salutatele da parte mia». Poi Sc’vèik si mise in cammino per recarsi a dare un’occhiata al «Calice». Appena lo vide, la signora Palivec dichiarò che non avrebbe mai servito un disertore. «Mio marito», si rimise a piagnucolare la sua vecchia storia, «era sempre così prudente, eppure l’hanno messo dentro: e ora, poveretto, sta in prigione senza aver commesso nulla di nulla. E dire che c’è della gente che diserta e che passeggia sempre alla luce del sole. Anche l’altra settimana son venuti a cercare di voi». «Noi siamo molto più prudenti di voi», concluse il suo 139

discorso, «eppure ci troviamo malissimo. Non tutti hanno la fortuna che avete voi». Un uomo anziano che aveva assistito a tutta la conversazione, s’accostò a Sc’vèik e gli disse: «Vi prego, signore, aspettatemi fuori un momento, che ho da parlare con voi». Quando furono in istrada, egli s’aprì con Sc’vèik, che, secondo le parole di raccomandazione della signora Palivec, considerava effettivamente un disertore. Gli disse che anche lui aveva un figlio ch’era fuggito dal fronte e che si nascondeva nella casa della nonna ad Iásenna presso Iósefov. Senza badare al diniego di Sc’vèik d’essere anche lui un disertore, gli mise in mano un pezzo da dieci corone. «Questo per i primi bisogni», gli disse tirandoselo dietro la cantonata d’una bottiglieria, «io vi capisco così bene, di me non dovete avere timore». Sc’vèik rientrò a casa a notte inoltrata, e vide che il cappellano era ancora fuori. Questi fece ritorno al mattino, svegliò Sc’vèik e gli disse: «Domani andremo a celebrare una messa da campo. Preparatemi un caffè corretto. O, meglio ancora, un bel grog».

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11 Sc’vèik si reca col cappellano a servire la messa al campo I

Non c’è massacro d’uomini i cui preparativi non abbiano avuto luogo nel nome di Dio o ad ogni modo d’un supposto ente supremo che l’umanità ha partorito dalla sua fantasia. Prima di decapitare un prigioniero di guerra, gli antichi fenici celebravano un solenne servizio divino simile a quello celebrato dai loro posteri più giovani di qualche migliaio di anni, prima d’entrare in battaglia e d’annientare i loro nemici col ferro e col fuoco. Gli antropofaghi delle isole della Polinesia e della Nuova Guinea, prima di divorare solennemente i loro prigionieri di guerra o la gente che non serve a nulla come i missionari, gli esploratori, i rappresentanti di commercio o dei semplici curiosi, sacrificano ai loro dèi eseguendo i più svariati riti liturgici. Poiché il nostro civilissimo costume dei paramenti non è ancora giunto fra loro, essi adornano i loro fianchi con ciuffi di piume d’uccelli selvatici. La Santa Inquisizione, prima di mandare al rogo le sue vittime, celebrava la più solenne delle cerimonie religiose, vale a dire una gran messa cantata. All’esecuzione d’un delinquente assiste dovunque qualche sacerdote che lo tormenta con la sua presenza. In Prussia è il pastore che guida il poveraccio sotto la scure, nell’Austria è il prete cattolico che lo conduce alla forca, come pure in Francia alla ghigliottina. Allo stesso modo, in America è un sacerdote che l’accompagna alla sedia elettrica, e in Ispagna alla garrotta; in Russia è un pope barbuto che presenzia l’esecuzione dei rivoluzionari. In ogni paese i sacerdoti brandiscono il crocifisso come per dire: «Ti taglieranno la testa, t’impiccheranno, ti scanneranno, ti faranno attraversare da quindicimila volt, ma non avrai mai sofferto come Lui». L’immane scannatoio della guerra mondiale non avrebbe potuto agire senza la benedizione ecclesiastica. I cappel141

lani militari di tutti gli eserciti pregavano e officiavano per la vittoria del paese di cui mangiavano il pane. Alle esecuzioni dei soldati ammutinati si poteva vedere un sacerdote, che non mancava neanche all’impiccagione lei legionari cèchi caduti in mano degli austriaci. Nulla era cambiato dall’epoca in cui il bandito Adalberto, che più tardi doveva essere canonizzato, aveva attivamente concorso, con la spada nella destra e il crocifisso nella sinistra, al massacro e all’annientamento degli slavi baltici. In tutta Europa gli uomini marciavano come greggi allo scannatoio dove li conducevano, in una con gli imperatori, i re, gli altri potentati e i generali in grembiule da macellaio, i sacerdoti di tutte le confessioni che li benedivano e li facevano falsamente giurare che «in terra, in mare e in aria» ecc. ecc.. La messa si celebrava in due occasioni diverse. Prima quando un reparto partiva per il fronte, e poi al fronte stesso, in anticipazione di qualche mischia sanguinosa e di una strage. Mi ricordo che una volta durante una di queste messe un aeroplano nemico lasciò cadere una bomba proprio sull’altare da campo, e del povero cappellano non rimasero altro che dei miseri resti sanguinolenti. Allora i giornali lo descrissero come un martire, mentre i nostri aeroplani preparavano una fine altrettanto gloriosa al cappellano militare della parte opposta. Quest’avventura ci rallegrò moltissimo, e sulla croce provvisoria piantata sul luogo dove avevano sepolto i rimasugli del cappellano, apparì nel corso della notte la seguente epigrafe funeraria: «È a te e non a noi che hanno fatto la festa. Ci promettevi il cielo come fosse una pacchia. T’è caduta una tegola dal cielo sulla testa. T’ha schiacciato e non resta di te che questa macchia».

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II Sc’vèik preparò un magnifico grog, che superava di gran lunga quelli che san preparare gli stessi lupi di mare. Il cappellano militare ne rimase entusiasta. «Dove avete imparato a fare una tale delizia?» gli domandò». «Anni or sono, quando viaggiavo», rispose Sc’vèik, «me lo insegnò a Brema una vecchia canaglia di marinaio, che diceva sempre che un grog dev’esser così forte che se uno cade in mare lo tenga a galla da una riva all’altra della Manica. Invece con un grog debole in corpo uno va giù come un cucciolo». «Con un grog come questo in corpo, caro Sc’vèik, serviremo ottimamente la santa messa», osservò il cappellano, «e penso che potrò dir meglio ai soldati un paio di parole d’addio. Una messa da campo non è mica un giochetto come quello di servir messa al carcere presidiario o di fare una predica a quei farabutti. In un caso come questo l’uomo deve fare attenzione con tutti e cinque i sensi. L’altare da campo ce l’abbiamo. Si può smontare e rimontare, un vero formato tascabile». 143

«Gesummaria, Sc’vèik!» urlò picchiandosi il capo: «che animali che siamo! Sapete dove l’avevo deposto il mio altare smontabile? nel divano che abbiamo venduto». «Una bella disgrazia, signor cappellano», disse Sc’vèik: «io conosco bene quel commerciante di mobili usati, ma ieri l’altro incontrai sua moglie che mi disse che l’hanno messo dentro a motivo di non so che armadio rubato, e che il nostro divano si trova in casa d’un maestro elementare del quartiere di Vršovicích. Che malanno quell’altare da campo! Sarà meglio che ci si beva su un altro grog e ci si metta subito in cerca, perché mi dà l’idea che per servire una messa da campo non se ne può fare assolutamente a meno». «È proprio quella l’unica cosa che ci manca», disse il cappellano sovrappensiero; «tutto il resto è già pronto in piazza d’armi. I falegnami hanno già messo su il piedistallo. L’ostensorio ce lo prestano i frati di Břevnov. In quanto al calice, devo averci il mio, ma dove s’è…» S’interruppe per riflettere, e disse: «Supponiamo d’averlo perduto. Ci faremo imprestare la coppa trofeo del tenente Witinger del settantacinquesimo reggimento di fanteria. Prima della guerra vinse qualche gara di corsa per il circolo il ‘Favorito dello Sport.’ Era un buon corridore. Percorreva i quaranta chilometri del tragitto ViennaMoedling in un’ora e quaranta minuti, e se ne vanta ogni giorno con noi. Ieri combinai tutto con lui. Bisogna essere un bell’animale come son io per rimandar tutto all’ultimo minuto. Perché poi, che bestione, non ho dato un’occhiata al divano prima di lasciarlo andar via?» Sotto l’influsso del grog preparato secondo la ricetta del vecchio lupo di mare, il cappellano cominciò a maltrattarsi e a darsi i titoli più offensivi del mondo. «Sarebbe l’ora di mettersi alla ricerca di quel benedetto altare da campo», suggerì Sc’vèik, «finché siamo ancora in tempo. Non mi resta che indossar l’uniforme e berci su un altro grog». Finalmente si decisero a uscire. Mentre si dirigevano verso l’abitazione della moglie del commerciante di mobili usati, il cappellano raccontò a Sc’vèik che il giorno prima aveva fatto una bella vincita al giuoco, e che alla prima occasione avrebbe ritirato il pianoforte messo in pegno al Monte di Pietà. Le sue intenzioni avevano tutta l’aria di quelle offerte sacrificali che i pagani promettevano ai loro Dei alla vigilia di qualche impresa. Dalla moglie del commerciante di mobili usati ancora mezzo assonnata riuscirono a sapere l’indirizzo del maestro elementare di Vršovicích, il nuovo proprie144

tario del divano. Il cappellano fece mostra di una generosità eccezionale: le tirò il ganascino e le carezzò il mento. S’incamminarono per Vršovice a piedi, perché il cappellano voleva prendere un po’ d’aria fresca che gli alleviasse un poco gli affanni. A Vršovicích, nell’abitazione del maestro di scuola, li attendeva una brutta sorpresa. Avendo rinvenuto l’altare da campo nel divano, il vecchio signore s’era immaginato che si trattasse d’un miracolo divino, e ne aveva fatto un presente alla sagrestia della chiesa della parrocchia, dopo aver fatto applicare sul rovescio dell’altare smontabile la seguente iscrizione: «Donato per l’onore e la gloria di Dio dal signor Kolařík, maestro elementare in pensione. Nell’anno del Signore 1914». Era un po’ imbarazzato anche perché s’era fatto trovare in mutande dal signor cappellano. Da un breve scambio di parole con lui, risultò chiaro che il vecchio maestro aveva considerato quel ritrovamento come un miracolo ed un avvertimento divino. Fin da quando aveva acquistato il divano, una voce interiore gli aveva detto: «Guarda che cosa contiene la cassapanca del canapè». Come se ciò non bastasse, in sogno gli era apparso un angiolo che gli aveva dato l’ordine perentorio: «Aprì la cassapanca del canapè!» E lui aveva obbedito. Ma quando aveva scoperto il minuscolo altarino smontato in tre pezzi con un baldacchino per tabernacolo, era caduto in ginocchio dinanzi al divano, aveva pregato lungamente e con devozione, aveva lodato il Signore ed aveva considerato come un segno del cielo l’idea di adornare la chiesa di Vršovice. «La faccenda non ci va giù», disse il cappellano militare; «un oggetto che non v’apparteneva avreste fatto meglio a portarlo in Questura piuttosto che in una maledetta sagrestia». «A cagione del vostro miracolo», soggiunse Sc’vèik, «potreste buscarvi anche qualche grana. Voi avete comprato un divano, e non mica un altare di dotazione militare. Un segno di Dio come questo può anche costarvi caro. Andate a raccontarlo agli angioli. Una volta un contadino di Zhorja mentre arava il proprio podere vi scoperse un calice che v’era stato sepolto per nascondere un furto sacrilego in attesa di tempi migliori, quando non se ne sarebbe più ricordato nessuno. Anche lui considerò quel ritrovamento come un segno divino e invece di farlo fondere, lo portò dal signor parroco per farne un dono alla chiesa. Ma il curato sospettò che lo avessero spinto a questo passo i rimorsi della coscienza, denunziò la cosa al sindaco, il sindaco 145

fece chiamare i gendarmi, e quel tale, benché innocente, fu processato per furto sacrilego, dato che non aveva fatto altro che chiacchierar di miracoli. Lui cercò di cavarsela e si mise a raccontar certe storie sugli angeli e tirò in ballo anche Maria Vergine: insomma in tutto si buscò dieci anni di prigione. Sarà meglio che veniate insieme con noi dal curato della parrocchia per farci restituire un oggetto che è di dotazione militare. Un altare da campo non è mica un gatto né un cucciolo, che si regala al primo venuto». Il vecchio maestro si rivestì battendo i denti e col corpo che gli sussultava tutto dalla paura: «Vi giuro che non ho avuto nessuna brutta idea e nessuna cattiva intenzione! Mi figuravo soltanto d’obbedire a un disegno della Provvidenza facendone dono alla nostra povera chiesetta di Vršovice». «Alla barba del bilancio dell’esercito, naturalmente», disse Sc’vèik con recisa durezza. «Dio ci scampi e liberi da simili disegni della Provvidenza. Anche un certo Pivoňka di Chóteboře aveva creduto al dito di Dio, quando gli capitò sottomano il collare d’una vacca non sua». Il povero vecchietto fu talmente turbato da questo discorso che non aprì più bocca, e non pensò ad altro che a vestirsi al più presto per poter rimediare quella complicata faccenda. Il curato di Vršovice stava ancora dormendo il sonno del giusto: svegliato dal fracasso, si mise a gridare anche lui, supponendo nel dormiveglia di doversi recare al capezzale d’un moribondo. «Quando mi lasceranno in pace con questo benedetto olio santo!» borbottava mentre si rivestiva di malavoglia. «Si ricordano tutti di morire quando un disgraziato sta dormendo il suo miglior sonno, per poi vederli lesinare perfino sull’onorario». L’abboccamento ebbe luogo nell’anticamera. Da una parte c’era il vicario di Cristo presso i cattolici borghesi di Vršovice, e dall’altra il rappresentante di Dio in terra presso la contabilità dell’esercito. In una parola si trattava d’un conflitto fra un civile e un militare. Il curato sosteneva che un divano non è il ripostiglio più adatto per un altare da campo, e il cappellano argomentava che un simile altare s’addice tanto meno alla sagrestia d’una chiesa frequentata esclusivamente da elementi borghesi. Sc’vèik intervenne nella disputa con due o tre osservazioni particolari, sottolineando soprattutto che per una misera chiesuccia è molto facile arricchirsi alle spalle dell’ammini146

strazione militare. Procurò anche di pronunziare l’aggettivo «misera» come se fosse scritto fra virgolette. Alla fine si recaron tutti quanti alla sagrestia della chiesa, e il curato restituì l’altare da campo, previa regolare ricevuta: «Dichiaro d’aver ripreso in consegna un altare capitato fortuitamente nella chiesa di Vršovice. Il cappellano militare Otto Katz» Il famoso altare da campo usciva dal laboratorio della ditta ebraica Moritz Mahler di Vienna, che fabbricava ogni specie di oggetti necessari alla messa e articoli di devozione, come rosari e santini. L’altare si componeva di tre parti, riccamente addobbate d’una falsa doratura, come ogni pompa ecclesiastica. Senza una buona dose di fantasia era impossibile rendersi conto che cosa rappresentassero effettivamente le immagini dipinte a trittico sopra l’altare da campo. La verità è che quell’altare avrebbe potuto servire abbastanza bene ai pagani dello Zambesi o agli sciamani dei buriati e dei mongoli. Decorato con colori sgargianti, da lontano aveva tutto l’aspetto d’una di quelle tavolette colorate che i medici delle ferrovie adoprano per scoprire gl’impiegati affetti di daltonismo. Nella massa spiccava una sola figura: un uomo nudo con un’aureola, il corpo verdastro come la pelle d’un’oca che puzza e che già si trova in istato di avanzata putrefazione. A quel santo nessuno faceva nulla di male. Però accanto a lui si vedevano due creature alate, incaricate di rappresentare due angeli, e lo spettatore aveva l’impressione che il sant’uomo, tutto nudo nutrisse un grande spavento riguardo ai due angioli custodi che l’accompagnavano. Infatti le due creature celesti avevan tutta l’aria di mostri favolosi, o meglio d’un qualcosa d’intermedio fra un gatto selvatico fornito di ali e il drago dell’Apocalisse. Il pannello dirimpetto doveva raffigurare la SS. Trinità. Per ciò che riguarda la colomba, così all’ingrosso, il pittore aveva poco da perdere. Aveva dipinto un volatile incerto, che poteva essere con altrettanta ragione una colomba che una gallina faraona. Ma il Padreterno sembrava uno di quei feroci banditi del Far-West, che amano presentare al nostro pubblico i sanguinari produttori del film americano. 147

Il Figliolo era invece un uomo giovane e gaio, con una bella pancia, e indossava un capo di biancheria che aveva tutta l’aria di un paio di mutandine da bagno. L’insieme dava l’impressione di trovarsi dinanzi a uno sportivo, e la sua mano reggeva la croce con la grazia d’una racchetta. Visto da lontano il complesso si confondeva in una macchia confusa e faceva l’effetto d’un treno che arriva alla stazione. In quanto al terzo pannello, era impossibile raccapezzarsi che cosa volesse rappresentare. I soldati ne discutevano sempre e facevano l’impossibile per risolvere quel rebus. Ci fu persino un tale che suppose che quello fosse un paesaggio della valle della Sásava. Il fatto è che sotto vi si poteva leggere quest’iscrizione: Sancta Maria, Mater Dei, miserere nobis. Sc’vèik caricò con garbo l’altare su una carrozzella, montò a cassetta accanto al vetturino, il cappellano si mise a sedere coi piedi comodamente appoggiati sulla SS. Trinità. Sc’vèik ammazzava il tempo discutendo della guerra insieme col vetturino. Il vetturino era un sovversivo, e commentava così le vittorie dell’esercito austriaco: «In Serbia ve le hanno date sode, non c’è che dire», e così via. Quando attraversarono la linea daziaria, l’impiegato domandò se non trasportavano nulla da dichiarare. Sc’vèik rispose: «La SS. Trinità e la Madonna col mio cappellano». Nel frattempo, lassù in piazza d’armi, le compagnie destinate al fronte aspettavano con impazienza l’inizio della cerimonia. Ma dovettero attendere ancora per un bel pezzo. Infatti il cappellano e il suo attendente prima dovettero recarsi dal tenente Witinger per la famosa coppa sportiva, e poi al convento di Břenov per farsi dare l’ostensorio, il ciborio ed altri accessori occorrenti alla messa, inclusavi una bottiglia di vin santo. Il che dimostra che officiare una messa da campo non è poi la più semplice cosa del mondo. «È un lavoro alla carlona», disse Sc’vèik al vetturino, ed aveva ragione. Quando infatti arrivarono in piazza d’armi e furono giunti accanto al piedistallo di legno che sosteneva l’altare, si accorsero che il cappellano s’era dimenticato del chierichetto che serviva la messa. Per il solito gli serviva la messa un soldato di fanteria, che aveva preferito passare al genio telegrafisti e che era stato mandato al fronte. «Non fa nulla, signor cappellano», disse Sc’vèik, «io posso sostituirlo benissimo». 148

«Ma sapete servir messa?» «Non mi ci son mai provato», rispose Sc’vèik, «ma bisogna provarsi a fare di tutto. Siamo in guerra ed ora la gente fa delle cose che prima non gli sarebbero neppure passate per il capo. Sarò sempre capace di ribattere con un et cum spirito tuo il vostro Dominus vobiscum. E poi quale difficoltà c’è a girare intorno a voi come un gatto intorno a un bel piatto fumante di patate? Oppure lavarvi le mani e versarvi il vino dal calice…» «Bene», disse il cappellano, «basta che non mi versiate dell’acqua. È meglio che mi versiate un po’ di vino anche dal secondo calice. Per il resto vi dirò tutto io, se dovrete girare a destra o a sinistra. Se farò adagio un sol fischio, vorrà dire a destra, se ne farò due, a sinistra. In quanto al messale non c’è bisogno che vi diate troppa pena. Tutto il resto è un giochetto. Avete paura?» «Io non ho paura di nulla, signor capellano, neppure di servir messa». Il cappellano aveva ragione a dichiarare che tutto il resto non era che un giochetto. Tutto filò come per incanto. L’allocuzione del cappellano fu estremamente concisa. «Soldati! Vi abbiamo radunati qui perché prima di partire per il fronte rivolgiate i vostri cuori a Dio, onde ci dia la vittoria e ci mantenga in salute. Io non voglio trattenervi troppo e vi faccio i miei migliori auguri». «Riposo!» comandò il vecchio colonnello dal battaglione di sinistra. La messa da campo si chiama così appunto perché è sottomessa alle leggi della strategia come una campagna di guerra. Durante le lunghe battaglie manovrate della guerra dei trent’anni, anche le messe da campo durarono in proporzione. In accordo alla tattica moderna, che vuole rapidi e agili movimenti degli eserciti, anche le messe da campo devono avere un’agilità e una rapidità equivalente. Questa durò dieci minuti esatti, e i soldati che eran vicini all’altare si stupirono grandemente a sentire che il cappellano fischiava durante la messa. Sc’vèik eseguiva rapidamente i segnali, volteggiando ora a destra ed ora a sinistra, senza dir altro che et cum spirito tuo. Tutto questo armeggio aveva l’aria d’una danza indiana intorno alla pietra del sacrificio, ma aveva questo di buono, che dissipava il tedio ispirato nell’anima dei soldati da quella triste e polverosa piazza d’armi, mal alberata, piena 149

di latrine che sostituivano col loro sentore il mistico aroma d’incenso delle cattedrali gotiche. Tutti quanti si divertivano come matti. Gli ufficiali che facevan cerchio intorno al colonnello si raccontavano delle storielle allegre. Tutto procedeva in ordine, e ogni tanto si sentiva qualcuno della truppa che diceva: «Fammi tirare una boccata». E come il fumo d’un rogo consacrato, salivano su dalle bocche verso il cielo le nuvole azzurre delle sigarette. Tutti quanti i gradi si eran messi a fumare fin da quando avevan veduto che il signor colonnello aveva acceso un sigaro. Quando echeggiò il comando «Pregate!» il polverone turbinò e il pittoresco quadrato delle uniformi si genuflesse dinanzi alla coppa sportiva del sottotenente Witinger, vinta da lui nella corsa da Vienna a Moedling organizzata dal «Favorito dello Sport». Il calice era ricolmo, e il giudizio generale provocato dalla manipolazione del cappellano fu espresso nella seguente frase, che corse subito nelle file: «Che garganella!» La manovra fu messa in esecuzione una seconda volta. Al che seguì un altro comando di «Pregate», mentre la musica attaccò insieme l’ouverture e il finale del Dio proteggi la patria. «Raccogliete tutti questi aggeggi», disse il cappellano a Sc’vèik additando l’altare da campo; «bisogna restituirli a chi ce li ha prestati». E così ritornarono col loro vetturino e resero tutto fino all’ultimo oggetto, ad eccezione soltanto della bottiglia di vin santo. Tornati a casa, dopo aver rimandato quel disgraziato di vetturino a farsi pagare dal comando il prezzo della lunghissima corsa, Sc’vèik disse al cappellano: «Signor cappellano, vorrei sapere se chi serve messa dev’essere della stessa confessione di chi la celebra». «Perbacco», rispose il cappellano, «altrimenti non sarebbe più valida». «Allora, signor cappellano, è successo un gran brutto affare», esclamò Sc’vèik, «perché io non appartengo a nessuna confessione. Ho sempre avuto una grande disdetta!» Il cappellano guardò un po’ il viso di Sc’vèik, stette un po’ zitto e poi gli batté una mano sulla spalla e gli disse: «Bevete pure il vin santo che è rimasto nella bottiglia, e ritenetevi già riammesso nel grembo della Chiesa».

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12 Dibattito religioso

Spesso succedeva che Sc’vèik stava giorni interi senza rivedere quel pastore di anime militari. Il cappellano alternava i doveri del suo ufficio con la bisboccia, e ogni tanto faceva ritorno al suo domicilio sudicio e non lavato come un gatto in amore che ha fatto le sue escursioni su per i tetti. In occasione di questi ritorni, quando era in vena di conversare, prima d’addormentarsi chiacchierava con Sc’vèik di mete elevate e di nobili entusiasmi, e soprattutto delle pure gioie del pensiero. Qualche volta si provava perfino a parlare in versi e citava Enrico Heine. Sc’vèik ebbe l’occasione di servire un’altra messa da campo col cappellano, dinanzi a un reparto di zappatori. 151

A quella messa era stato invitato per isbaglio un altro cappellano, fin allora insegnante di catechismo, un uomo straordinariamente pio, e che fece le gran meraviglie a vedere che il suo confratello l’invitava a bere un sorso di cognac dal bottiglione ricolmo che Sc’vèik si portava dietro per ogni evenienza in ciascuna di simili cerimonie religiose. «È un’ottima marca», disse il cappellano Katz; «bevetene e tornatevene a casa. Io mi sbrigherò da solo, tanto più che mi farà bene prendere un po’ d’aria fresca: anch’oggi mi fa un po’ male la testa». Il pio cappellano se n’andò scuotendo il capo, e Katz eseguì perfettamente, come sempre, le proprie funzioni. Quella volta a trasmutarsi nel sangue del Signore toccò a un vinello frizzante, e la predica durò più a lungo del solito, perché ogni tre parole intercalava un «certamente» e un «eccetera». E come se non bastasse, il suo «certamente eccetera» echeggiò anche dall’altare, alternato col nome di Dio e con tutti i santi. Pieno di entusiasmo e d’estro oratorio, il cappellano esaltò fra i santi perfino il principe Eugenio, che avrebbe protetto i soldati del genio mentre costruivano i loro ponti attraverso i fiumi. Ciononostante la messa terminò senza ulteriori incidenti, fra l’allegria e il divertimento degli spettatori. Gli zappatori se la godevano magnificamente. Sulla via del ritorno non li volevano far salire nel tram col loro altare smontabile. «Ti tiro il santissimo sul capo», dové dire Sc’vèik al controllore. Quando finalmente giunsero a casa, s’accorsero d’aver perduto il tabernacolo per istrada. «Non fa nulla», disse Sc’vèik: «gli antichi cristiani celebravan la messa anche senza tabernacolo. Se noi denunziamo lo smarrimento, l’onesto uomo che lo ritroverà ce lo restituirà certamente. Se si trattasse di soldi, allora forse non si troverebbe più l’onest’uomo, benché al mondo esista anche della gente di questa specie. Quando io facevo il militare a Budějovice, c’era un soldato, un così bravo bestione, che una volta trovò seicento corone per via e le andò a riportare al commissariato. Allora i giornali scrissero di lui come d’un galantuomo, e lui non ne ritrasse altro che seccature. Nessuno voleva parlare con lui, tutti gli dicevano: ‘Imbecille; che stupidaggine hai fatto? Dovresti vergognartene fino a morire, se tu avessi ancora un briciolo d’onore in corpo.’ Aveva una ragazza, ed anche lei 152

cessò di parlare con lui. Quando tornò a casa in licenza, per questa ragione i suoi compagni lo cacciaron via dall’osteria durante un concerto. Allora lui cominciò a deperire, a montarsi la testa e alla fine si buttò sotto un diretto. Un’altra volta un sarto che abitava nella nostra strada trovò un anello d’oro. Tutti lo misero sull’avviso perché non lo andasse a consegnare alla polizia, ma lui non volle dare ascolto a nessuno. In polizia fu ricevuto con straordinaria gentilezza, dichiarandogli che v’era già stato denunziato lo smarrimento d’un anello d’oro con brillanti; ma poi esaminaron la pietra e gli dichiararono: ‘Amico, questo è un vetro e non un brillante. Dite un po’: quanto ve l’hanno pagato? Ne conosciamo parecchi di questi atti di onestà.’ Finalmente si poté spiegare la cosa, perché si presentò un altro signore che aveva perso un anello col brillante falso, qualcosa come un ricordo di famiglia, ma ad ogni modo il sarto dové restar dentro tre giorni perché nell’ira s’era lasciato scappare degli insulti all’indirizzo degli agenti. Naturalmente riscosse la ricompensa regolarmente del dieci per cento, vale a dire una corona e venti centesimi, perché il gioiello valeva dieci corone, ma lui la ricompensa regolamentare la scaraventò sulla faccia del proprietario, che gli fece querela per ingiurie, e il povero sarto si buscò dieci corone di multa. In seguito a questa faccenda non faceva che dire a tutti che chiunque si comporti da uomo onesto con un oggetto trovato si merita di ricever venticinque colpi di bastone sulle chiappe, e che gli siano applicati con tanta forza da fargliele diventar paonazze: e che ne sia data pubblica esecuzione, perché la gente ne prenda nota e si sappia regolare in conseguenza. In quanto al nostro tabernacolo, credo che nessuno ce lo riporterà indietro, anche se si scoprirà sul rovescio il distintivo del nostro reggimento, perché con la roba che appartiene all’esercito non c’è un cane che voglia avere a che fare. Per risparmiarsi delle seccature, il meglio è gettar quella roba nell’acqua. Iersera all’osteria della ‘Corona d’Oro’ ho conversato con un campagnuolo, un uomo di cinquantasei anni, che s’era recato al capitanato distrettuale di Nova Paka a domandare perché gli avevan requisito il barroccio. Sulla via di ritorno, perché al capitanato s’eran limitati a scaraventarlo fuori, egli scorse un convoglio ch’era appena giunto e che s’era fermato in una piazza. Un giovanotto gli chiese il favore di guardargli per un istante i cavalli, che trasportavano delle conserve per l’esercito, e non si fece più rivedere. Quando si rimisero in cammino, a lui toccò d’andarsene con loro, e così arrivò fino in Ungheria, dove un bel giorno 153

anche lui trovò uno che gli fece il favore di far la guardia ai cavalli, e soltanto così poté salvarsi dall’andare a finire giù in Serbia. Ha fatto ritorno a casa tutto sconvolto ed ha giurato di evitare il minimo rapporto con qualsiasi effetto di pertinenza militare». La sera essi ricevettero la visita di quel pio cappellano militare che era venuto la mattina a celebrare la messa da campo per gli zappatori. Si trattava d’un fanatico che voleva accostare a Dio tutte le anime che gli capitavano sotto mano. Quando era stato insegnante di catechismo, ispirava il sentimento religioso nei ragazzi a furia di schiaffi, e di quando in quando se ne dava notizia sulle più svariate pubblicazioni periodiche: «Un bruto in veste di chatechizzante», «Un insegnante di religione schiaffeggiatore». Costui era convinto che il catechismo si rivela ai fanciulli nel modo migliore col concorso del manganello. Il cappellano zoppicava da una gamba, in conseguenza della spiegazione che una volta aveva avuto col padre d’un alunno ch’era stato schiaffeggiato per aver espresso dei dubbi a proposito della Santissima Trinità. Il ragazzo s’ebbe tre schiaffi, il primo in nome del Padre, il secondo del Figlio e il terzo dello Spirito Santo. Costui era venuto dal collega Katz allo scopo di toccargli l’anima e di ricondurlo sul retto cammino, ed infatti cominciò il proprio discorso con la seguente osservazione: «Mi meraviglio di non vedere il crocifisso in casa vostra. Dove leggete il breviario? Non una sola immagine sacra adorna le pareti della vostra camera. Che cos’è quell’affare che tenete sopra il guanciale?» Katz sorrise e rispose: «Susanna al bagno, e quella donna nuda lì sotto è una mia vecchia conoscenza. A destra, c’è una stampa giapponese che rappresenta il coito d’un vecchio samurai con una gheisha. Molto originale, non vi pare? In quanto al breviario, uso tenerlo in cucina. Sc’vèik, portatemelo qua e apritelo alla pagina 3». Sc’vèik uscì, e dalla cucina echeggiò per tre volte di seguito l’esplosione del tappo d’una bottiglia di vino spumante. Il pio curato restò addirittura di sasso quando scorse sul tavolo le tre bottiglie di vino. «È un vino da messa molto leggero, mio reverendo collega», disse Katz: «un vino nostrale di prima qualità. Il suo sapore lo fa quasi sembrare vino della Mosella». «Io non ne berrò», dichiarò austeramente il pio curato; «io son venuto qui per toccarvi l’anima». «Allora, reverendo collega, vi si seccherà l’ugola», osser154

vò Katz: «bevete pure, che io vi starò a sentire. Io sono un uomo straordinariamente tollerante e posso dare ascolto anche alle opinioni altrui». Il pio curato bevve un sorso, e sgranò gli occhi. «Un vino indiavolato, non è vero, reverendo?» Il fanatico replicò con durezza: «Vi faccio osservare che voi bestemmiate». «È un’abitudine», spiegò Katz: «qualche volta mi sorprendo io stesso a bestemmiare. Sc’vèik, versatene ancora al signor curato. Per di più vi posso assicurare che dico anche ‘per il Padreterno, Gesù in croce, e Sacramento.’ Ritengo che quando avrete servito nell’esercito quanto me, farete lo stesso anche voi. Non c’è nulla di difficile né di complicato, e per noi religiosi è un affare di tutti i giorni: cielo, Dio, croce e santissimi sacramenti; non suona forte e bene in bocca nostra? Ma bevete, reverendo!» L’ex catechizzatore beveva macchinalmente, si vedeva bene che avrebbe voluto dir qualcosa, ma non era in grado di aprir bocca: stava raccogliendo i propri pensieri. «Reverendo», riprese a dire Katz, «sursum corda: non statemi lì così imbronciato come uno che dev’essere impiccato fra cinque minuti. M’hanno raccontato che voi una volta, di venerdì, avete ordinato per isbaglio una cotoletta di maiale, poiché credevate che fosse giovedì, e che siete andato al gabinetto per mettervi le dita in gola allo scopo di vomitare, temendo che il Signore v’incenerisse. Io non ho nessun timore né dell’inferno né di mangiare carne nei giorni di digiuno. Bevete ancora, vi prego. Dite un po’: non vi par di star meglio così? A proposito dell’inferno: voi avete certamente delle idee progressiste e seguirete senza dubbio lo spirito dei nostri tempi e le opinioni dei riformisti». Laggiù, invece delle solite caldaie piene di zolfo, per i poveri peccatori ci sono delle vere e proprie pentole di paprica, delle caldaie sottomesse alla pressione di molte atmosfere, ed i peccatori vi vengono arrostiti alla margarina, li friggono con la corrente elettrica, e per milioni di anni. I dentisti si occupano con macchine speciali del digrignamento dei denti, i gemiti vengono incisi al grammofono, e i dischi vengon mandati lassù in paradiso per rallegrare i beati. In paradiso son continuamente in azione dei grandi spolverizzatori d’acqua di Colonia, e la Società filarmonica vi suona tanto e tanto di quel Brahms, da far dare la preferenza all’inferno e al purgatorio. Gli angioletti portano sul di dietro delle eliche d’aeroplano, per non stancar troppo le ali. Bevete, reverendo; e voi, 155

Sc’vèik, versategli un po’ di cognac; non vedete che non sta troppo bene?» Quando il pio curato si fu un po’ rimesso, mormorò: «La religione non è altro che un problema di ragionamento. Chi non crede all’esistenza della Santissima Trinità…» «Sc’vèik», lo interruppe Katz, «versate un altro cognacchino al signor cappellano, per vedere se si rimette. E ditegli qualcosa, Sc’vèik». «Le fo umilmente notare, signor cappellano», disse Sc’vèik, «che nei dintorni di Vlašim c’era un priore a cui era fuggita la vecchia perpetua con il loro ragazzo e i suoi soldi, e che ora teneva soltanto una donna di servizio. E questo priore in vecchiaia si dedicò tutto allo studio di Sant’Agostino, di cui si dice che faccia parte dei Santi Padri, e fu in Sant’Agostino che lesse che chi crede agli antipodi dev’essere senz’altro dannato. Allora chiamò la sua donna di servizio e le disse: ‘Statemi a sentire: una volta voi mi avete detto che vostro figlio è meccanico e che è emigrato in Australia. Ma allora si troverebbe agli antipodi, e Sant’Agostino ha detto che chiunque crede agli antipodi non può che esser dannato.’ ‘Reverendo,’ gli risponde la donna, ‘ma dall’Australia mio figlio m’invia lettere e soldi.’ ‘Ma è un inganno diabolico,’ le dice il priore, ‘secondo Sant’Agostino non esiste affatto un’Australia, e codeste non possono essere altro che tentazioni dell’Anticristo.’ E la domenica dopo la maledisse pubblicamente e dichiarò dal pulpito che l’Australia non esisteva, cosìcché lo condussero direttamente dalla chiesa in manicomio. E gente di questa specie ce ne dovrebbero rinchiudere ancora di più. Al Convento delle Orsoline conservano una fiala col latte di Maria Vergine, quello con cui allevò il Bambino Gesù, e nell’orfanotrofio di Bénesciov, una volta che vi fecero venire l’acqua di Lourdes, gli orfanelli si beccarono una diarrea quale il mondo non ne ha mai vista». Nel frattempo il pio cappellano vedeva formarsi dei grandi cerchi intorno agli occhi, e cercò di tornare in sé con l’aiuto di un altro cognac, che invece fu proprio quello che doveva andargli alla testa. Sbattendo le palpebre, domandò a Katz: «Voi non credete all’immacolata concezione della Vergine Maria? Voi non credete all’autenticità del dito di San Giovanni Battista conservato nel monastero dei Piaristi? Voi non credete affatto in Domineddio? E se non credete, perché vi siete fatto fare cappellano?» «Reverendo», gli rispose il buon Katz battendogli familiarmente le mani sulle spalle, «finché lo stato riterrà 156

necessario che i soldati che vanno a farsi ammazzare in battaglia ricevano a tale scopo la benedizione divina, quella del cappellano militare resterà sempre una professione convenientemente pagata, e neppure eccessivamente faticosa. Per me sarà sempre meglio che scorrazzare in piazza d’armi e dover prendere parte alle grandi manovre… Allora io non facevo che ricevere ordini dai superiori, mentre ora faccio invece quello che mi piace e pare. Rappresento uno che non esiste e recito da me solo la parte di Dio. Quando mi salta in testa di non perdonare a qualcuno i propri peccati, non glieli perdono neppure se mi viene a supplicare in ginocchio. Del resto di gente simile se ne trova diabolicamente di rado». «Io voglio un gran bene a Domineddio», esclamò il pio cappellano in mezzo ai singulti, «gli voglio un grandissimo bene. Datemi ancora un po’ di vino». «Io lo tengo in gran conto, Domineddio», riprese a dire, «lo tengo in gran conto e in grandissima stima. Non c’è alcuno che io veneri al pari di lui». E tirò un pugno sul tavolo, in modo che le bottiglie tintinnarono. «Dio è una sostanza sublime, qualcosa di sovrumano. È onorabilissimo in tutte le sue relazioni. È come un’apparizione solare, nessuno me lo potrà mai negare. Io ho grande stima di San Giuseppe, e di tutti i santi in genere, eccettuato San Serapione, per il suo nome così ripugnante». «Potrebbe fare una petizione perché glielo cambiassero», osservò Sc’vèik. «Io ho grande stima anche di Santa Ludmilla e di San Bernardo», riprese a dire l’ex catechizzatore, «colui che ha salvato tanti viandanti sul San Gottardo. Porta al collo una bottiglia di cognac e cerca la gente sepolta sotto la neve». La conversazione cambiò improvvisamente di tono. Il pio cappellano faceva d’ogni erba un fascio. «Io ho grande stima anche degl’Innocenti, che hanno il loro giorno festivo in data 28 dicembre. Odio soltanto il re Erode. Se la gallina dorme, non avrete mai un uovo fresco». Dopodiché scoppiò in una grande risata e intonò l’inno: Santo Dio, santo, portentoso. Ma s’interruppe ad un tratto, e si rivolse a Katz per domandargli severamente: «Voi forse non credete che il 15 agosto è la festa dell’Annunziata Maria Vergine?» Lo spasso era giunto al diapason. In tavola apparvero dell’altre bottiglie, e ogni tanto si faceva sentire la voce di 157

Katz che diceva: «Di’ che tu non credi più a Domineddio, altrimenti non ti verso più neanche un goccio di vino». Pareva si fosse tornati all’epoca delle persecuzioni dei primi cristiani. L’ex catechizzatore aveva intonato un inno già cantato dai martiri nelle arene romane, e gridava: «Io credo in Domineddio, e non lo rinnegherò. Tienti pure il tuo vino. Posso farmelo comprare per conto mio». Finalmente lo misero a letto. Prima d’addormentarsi dichiarò, con la mano alzata come per un giuramento: «Io credo in Dio Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Portatemi il mio breviario». Sc’vèik gli pose in mano un libro che giaceva sul comodino, e così il pio cappellano s’addormentò col Decamerone di messer Boccaccio sul petto.

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13 Sc’vèik somministra l’estrema unzione

Il cappellano militare Otto Katz stava assorto con aria meditabonda su una circolare che gli avevan recato allora allora dalla caserma. Era una comunicazione confidenziale del Ministero della Guerra. «L’Imperiale e Reale Ministero della Guerra sopprime per tutta la durata del conflitto tutte le prescrizioni concernenti la somministrazione dell’estrema unzione ai soldati dell’esercito, e stabilisce le seguenti norme per tutti i cappellani militari: 1° al fronte, l’estrema unzione è abolita; 2° non è permesso ai soldati gravemente feriti o ammalati di allontanarsi dalla prima linea allo scopo di farsi somministrare l’estrema unzione. I cappellani militari son tenuti a denunziare immediatamente simili casi alle autorità competenti per i necessari provvedimenti penali; 159

3° negli ospedali militari delle retrovie è permesso di somministrare l’estrema unzione collettivamente, previo nulla osta dei medici militari, sempre nel caso che la suddetta estrema unzione non rechi nessun nocumento al mantenimento della disciplina; 4° in casi eccezionali la direzione degli ospedali militari delle retrovie può concedere anche ai singoli la somministrazione dell’estrema unzione; 5° i cappellani militari son tenuti su invito della direzione degli ospedali militari delle retrovie a somministrare l’estrema unzione agli individui designati dalla direzione suddetta». Dopo la circolare il cappellano militare lesse ancora un allegato, dove gli si comunicava che il giorno seguente doveva recarsi in Piazza Carlo all’ospedale presidiario per somministrare l’estrema unzione ai feriti gravi. «Dite un po’, Sc’vèik», gemè il cappellano, «non è una porcheria? come se in tutta Praga non ci fossero altri cappellani militari che il sottoscritto! Perché non ci mandano quel pio curato che l’altro giorno passò la notte da noi? Dunque bisogna andarsene a somministrare i sacramenti in Piazza Carlo. Io non mi ricordo nemmeno come si fa». «Compreremo subito un catechismo, signor cappellano: là ci dev’essere», disse Sc’vèik; «si tratta d’una specie di Baedeker per pastori spirituali. Nel monastero d’Emmaus lavorava un aiuto giardiniere, e siccome costui voleva raggiungere il grado di frate laico ed ottenere una tonaca allo scopo di non consumare i suoi abiti borghesi, così dové comprarsi un catechismo e imparare in che modo si fa il segno della croce, chi è l’unica creatura scampata dal peccato originale, che cosa vuol dire avere la coscienza pulita ed altre bagattelle di questa fatta, dopodiché si mise a vender di nascosto una buona metà dei pomodori dell’orto conventuale e fu cacciato con grande scandalo dal monastero. Quando l’incontrai, ebbe a dirmi: ‘Avrei potuto vendere i pomodori anche senza rompermi il capo per il catechismo.’ » Quando Sc’vèik ebbe fatto ritorno col suo catechismo acquistato di fresco, il cappellano lo sfogliò un poco e poi disse: «Guarda un po’: l’estrema unzione non può esser somministrata che da un sacerdote e soltanto con olio consacrato dall’arcivescovo. Voi, Sc’vèik, per esempio, non potete mai somministrare questo sacramento. Leggetemi un po’ come si deve fare per somministrarlo». Sc’vèik lesse: «Si somministra così: il sacerdote unge l’infermo sui singoli sensi mentre prega nel modo se160

guente: ‘Che per mezzo di questa santissima unzione e della sua clementissima misericordia Iddio ti perdoni tutti i peccati che tu hai commesso con la vista, con l’udito, col gusto, con l’odorato, con la favella, il tatto e la locomozione.’ » «Mi piacerebbe sapere, caro Sc’vèik», esclamò il cappellano militare, «quale peccato si può commetter per mezzo delle mani. Voi me lo sapreste spiegare?» «Parecchie cosette, signor cappellano: per esempio ficcarle nelle tasche degli altri, o divertirsi mentre si balla: voi sapete meglio di me come vanno simili cose». «E per mezzo della locomozione?» «Quando si fa finta di zoppicare per impietosire la gente che passa». «E per mezzo dell’odorato?» «Quando si fiuta un sentore che non ci piace». «E per mezzo del gusto, Sc’vèik?» «Quando ci vien voglia di mangiare qualcuno». «E per mezzo della favella?» «Questo è un peccato che va insieme a quello dell’udito, signor cappellano, e la cosa avviene quando qualcuno non fa che ciarlare, e un altro stare in orecchi». Dopo queste dissertazioni filosofiche il cappellano rimase un po’ zitto, ma poi riprese subito a dire: «Dunque ci occorre l’olio benedetto dall’arcivescovo. Eccovi dieci corone: compratene una bottiglietta. Al commissariato militare non ce ne dev’esser punto in deposito». Sc’vèik si mise subito in cammino alla ricerca dell’olio benedetto dall’arcivescovo. La ricerca d’un liquido cosiffatto è molto più difficile di quella dell’acqua vivificante nelle fiabe di Boženy Němcové.1 Si recò nelle più svariate drogherie, ma non finiva di dire: «Vorrei una bottiglietta di olio benedetto dall’arcivescovo», che i commessi ridevano a crepapelle oppure si nascondevano subito sotto il banco. Eppure Sc’vèik faceva sempre la faccia più compunta possibile. Alla fine si decise a tentare la sorte nelle farmacie. Nella prima lo fecero cacciar fuori dall’inserviente. Nella seconda furon sul punto di telefonare a un posto di pronto soccorso e il direttore della terza gli disse che non c’era altro che la ditta Pólak di Via Lunga, grande rivendita di colori e di vernici, capace d’avere sicuramente in deposito l’olio desiderato. La ditta Pólak di Via Lunga era davvero una ditta ben   Scrittrice boema.

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organizzata. Non c’era acquirente ch’essa lasciasse andar via senz’averne accontentato i desideri. A chi chiedeva un balsamo di copaiva davano una bottiglia di trementina, e tutto andava per il meglio. Quando Sc’vèik fu entrato ed ebbe ordinato le sue dieci corone d’olio benedetto dall’arcivescovo, il direttore disse al commesso: «Signor Tauchen, versategli un decilitro d’olio di ricino, n. 3». E il commesso, incartandogli la bottiglietta, disse a Sc’vèik con la dovuta cortesia commerciale: «È una merce di primissima qualità, e se avrete bisogno di pennelli, colori e vernici, favorite rivolgervi qui. Vi serviremo col massimo di convenienza». Nel frattempo il cappellano andava ristudiandosi sul catechismo quello che non gli era mai entrato in testa quand’era in seminario. Gli andavan moltissimo a genio molte frasi straordinariamente spirituali, ben atte a risvegliare la sua allegria, quali ad esempio queste che seguono: «La denominazione ‘estrema unzione’ proviene dal fatto che essa è normalmente l’ultimo dei sacramenti che la Chiesa somministra ai fedeli». Oppure: «Può esser partecipe dell’estrema unzione ogni cristiano di religione cattolica che si trovi gravemente infermo e che sia giunto all’età della ragione». «Il sacramento deve essere somministrato per quanto è possibile quando l’infermo è in perfetta conoscenza». Poco dopo giunse un’ordinanza che portò una missiva in cui si comunicava al signor cappellano che il giorno seguente, alla cerimonia della estrema unzione, nell’ospedale, avrebbe assistito anche l’Associazione fra Nobildonne pro Educazione Religiosa del Soldato. Questa associazione era composta di vecchie dame isteriche che andavan distribuendo per tutti gli ospedali militari immagini di santi e raccontini edificanti, il cui protagonista era sempre un soldato cattolico che si faceva ammazzare per Sua Maestà l’Imperatore. Quei raccontini consistevano in fascicoletti con una copertina colorata che rappresentava un campo di battaglia. Dovunque giacevan cadaveri umani e carogne di cavalli, e tutto un mucchio di carrette di munizione arrovesciate e di cannoni. Sullo sfondo si vedeva un villaggio in pianura e granate che scoppiavano, mentre in primo piano c’era un soldato disteso e moribondo, con una gamba fracassata, sul quale un angelo s’inchinava per porgergli una ghirlanda fornita d’un nastro con l’iscrizione: «Ancor oggi tu sarai con me in paradiso». 162

E il moribondo sorrideva beatamente, come se gli avessero offerto un gelato. Quando Otto Katz si fu reso conto del contenuto della missiva, scaracchiò con forza mentre rifletteva dentro di sé: «Domani sarà un altro giorno». Egli aveva imparato a conoscere quella «banda», come la chiamava, qualche anno prima, alla Chiesa di Sant’Ignazio, quando vi teneva le prediche per la truppa. A quei tempi egli predicava con grande fervore, e l’Associazione prendeva posto alle spalle del colonnello. Due lunghissime megere in abito nero e munite di rosario gli si erano attaccate addosso subito dopo la predica e per due ore non avevan fatto altro che parlargli dell’educazione religiosa del soldato, finché lui non era uscito dai gangheri e non aveva detto: «Le signore mi scusino, ma il signor capitano mi aspetta per una partita di carte». «Ora abbiamo anche l’olio», esclamò trionfalmente Sc’vèik reduce dalla ditta Pólak: «olio di ricino n. 3 della migliore qualità. Con esso potremo ungere tutto il battaglione. È una marca serissima, e vendono anche colori, pennelli, e vernici. Ora non ci manca che il campanello». «Il campanello? E per che farne, Sc’vèik?» «Dobbiamo farlo squillare per istrada perché la gente si scopra al passaggio di Domineddio, signor cappellano, vale a dire dell’olio di ricino n. 3. Si fa sempre così, e c’è stata della gente a cui la cosa non è entrata in testa e che sono stati messi dentro per non essersi levato il cappello. Una volta a Zižkov un curato bastonò di santa ragione un povero cieco che aveva fatto a meno dì scoprirsi in una simile occasione, che per di più fu condannato, e al processo gli spiegarono che lui non era sordomuto, ma soltanto cieco, e che aveva potuto sentire il tintinnio del campanello e cionondimeno aveva suscitato grande scandalo, benché il fatto fosse successo di notte. Lo stesso avviene durante le feste del Corpus Domini. Altrimenti la gente non ci farebbe nessuna attenzione, mentre così dovranno levarsi il cappello al nostro passaggio. Se voi non avete nulla in contrario ve lo porto subito, signor cappellano». Mezz’ora dopo ottenuto il permesso, Sc’vèik portò anche il campanello. «È quello della porta dell’Albergo della Crocetta», egli disse: «m’è costato cinque minuti di tremarella, e ho dovuto stare un bel pezzo in attesa, perché non faceva altro che passar gente davanti». «Io me ne vo al caffè, Sc’vèik: se venisse qualcuno, fatelo aspettare». 163

Non era ancora passata un’ora quando comparve un signore anziano e canuto, dal portamento diritto e lo sguardo severo. Il suo aspetto esteriore sprizzava la testardaggine e la malignità. Lanciava degli sguardi come se il destino gli avesse affidato la missione di annientare il nostro misero pianeta e di cancellare perfino le tracce che potessero restarne nell’universo. Il suo linguaggio era tagliente, secco e spietato: «Non è a casa? Se n’è andato al caffè? Io dovrei starlo ad aspettare? Bene, lo aspetteremo fino a domani mattina. Per il caffè ce n’ha, ma per pagare i debiti no. Ed è un prete: puah!» Così dicendo emise un grosso sputo in cucina. «Signore, faccia a meno di sputare qui dentro!» lo redarguì Sc’vèik esaminandolo con uno sguardo particolare. «Un’altra volta voglio sputare; ecco, così», disse con accanimento il signore severo, sputando ancora sull’impiantito: «non si vergogna neppure. Un cappellano militare: che scandalo!» «Se lei è una persona educata», lo ammonì Sc’vèik, «allora guardi di perder l’abitudine di sputare in un domicilio altrui. Forse crede di potersi permetter tutto perché siamo in tempo di guerra mondiale? Lei deve comportarsi come una persona per bene e non come una canaglia. Deve agire come si deve, parlare educatamente e non fare quello che fa un ragazzaccio di strada; ha capito, miserabile borghese?» L’uomo severo s’alzò dalla seggiola, tutto furente di collera, e gridò: «Chi le dà il diritto di dire che io sono una persona maleducata? Ripeta quello che io sono…» «Un cafone», replicò Sc’vèik guardandolo fisso negli occhi: «lei sputa sull’impiantito come se fosse in tranvai, in treno o in qualsiasi località pubblica. Mi ha sempre fatto meraviglia perché in simili luoghi tengono appesi cartelli con la proibizione di sputare, ed ora mi accorgo che dev’essere a cagion sua. Dappertutto devon sapere molto bene che razza d’uomo lei sia». L’uomo severo montò in collera e proruppe in una valanga di repliche e invettive all’indirizzo di Sc’vèik e del cappellano militare. «Ha finito il suo discorso?» gli chiese tranquillamente Sc’vèik dopo che fu echeggiata l’ultima frase (‘siete due canaglie messe insieme: tale il padrone e tale il servitore!’): «non ha nient’altro da aggiungere prima di volar giù per le scale?» 164

Poiché ormai il signore severo s’era tanto diffuso e non gli veniva più in mente nessun insulto adatto, ed ora taceva esaurito, Sc’vèik considerò il suo silenzio come un invito a eseguire la minaccia. Allora aprì l’uscio, depose il signore severo sulla soglia tenendolo col viso rivolto verso il basso, e gli affibbiò una tale pedata che non avrebbe fatto vergogna neppure al miglior giocatore della prima squadra internazionale di calcio. E la voce di Sc’vèik inseguì il signore severo fino in fondo alle scale: «La prossima volta, quando lei farà un’altra visita in casa di gente per bene, saprà comportarsi come si deve». Il signore severo passeggiò a lungo in su e in giù sotto le finestre in attesa del cappellano. Sc’vèik aprì la finestra e si mise a guardarlo. Finalmente il cappellano fece ritorno, e introdotto il visitatore in camera sua, lo fece accomodare su una seggiola di faccia a sé. Sc’vèik portò in silenzio la sputacchiera e la depose ai piedi del visitatore. «Che fate, Sc’vèik?» «Fo umilmente notare, signor cappellano, che poco fa qui ha avuto luogo un piccolo incidente con questo signore a proposito della sua abitudine di sputare sull’impiantito». «Lasciateci soli, Sc’vèik, che dobbiamo regolare una pendenza fra noi due». Sc’vèik salutò militarmente e disse: «Fo umilmente notare, signor cappellano, che vi lascio soli». E si ritirò in cucina, mentre in camera si svolgeva un’interessantissima conversazione. «Lei è venuto a riscuotere i soldi per quella cambiale, nevvero?» domandò il cappellano al visitatore. «Sicuro, e voglio sperare…» Il cappellano sospirò. «All’uomo capita spesso di trovarsi in situazioni tali che non gli resta altro che sperare. Com’è bella questa breve parola ‘spera!’ che appartiene a quella triade di virtù che sostengono l’uomo nel caos dell’esistenza: fede, speranza e carità!» «Io voglio sperare, signor cappellano, che quella somma… «Ma sicuro, mio caro signore», lo interruppe il cappellano, «anzi voglio ripeterle che quella paroletta ‘speranza’ fortifica l’uomo nella sua lotta per l’esistenza. E mi raccomando: lei non perda la speranza. Com’è bello avere un 165

ideale fermo, e sentirsi una creatura pura e innocente, che presta denaro su cambiali e confida d’essere rimborsata alla scadenza! Sperare, sperare sempre che vi restituisca milleduecento corone quando non ho in tasca neppure un foglio da cento!» «Allora lei…» balbettò il visitatore. «Sicuro, proprio così», rispose il cappellano. Il viso del visitatore riassunse l’aspetto ostinato e malvagio di prima. «Signore, questa è una truffa», esclamò, alzandosi in piedi. «Ma si calmi, mio caro signore!» «È una truffa», gridava testardamente; «lei ha abusato della mia fiducia». «Signore», ordinò il cappellano, «a lei occorre assolutamente cambiare aria: qui fa troppo caldo per lei». E rivolto verso la cucina, gridò: «Sc’vèik, questo signore desidera andare a prendere una boccata d’aria fresca!» «Fo umilmente notare, signor cappellano», echeggiò una voce dalla cucina, «che il signore l’ho già cacciato una volta fuori di casa!» «Ripetere l’esercizio!» ordinò la voce del cappellano con grande energia. «Ecco fatto, signor cappellano», disse Sc’vèik quando ebbe fatto ritorno dalle scale: «meno male che ce lo siamo sbrigato prima che riuscisse a fare uno scandalo. A Málescize c’era un oste letterato che aveva sempre sulla bocca citazioni della Santa Scrittura, e quando qualcuno abbisognava del bastone, non faceva che dire: ‘chi risparmia la sferza odia il figlio suo; ma chi lo ama, di quando in quando lo punisce… t’insegnerò io ad attaccare brighe nella mia osteria.’ » «Avete visto, Sc’vèik, che cosa capita agli uomini che non rispettano il sacerdote?» osservò con un sorriso il cappellano. «San Giovanni Crisostomo ha detto: ‘Chi onora il prete, onora Cristo, chi fa offesa al prete, offende Nostro Signore, perché il sacerdote non è altro che il suo vicario.’ Ma dobbiamo prepararci il meglio possibile per domani. Fatemi una frittata al prosciutto, riscaldatemi un ponce al vino, e poi ci dedicheremo alla meditazione, così com’è detto nella preghiera serale: ‘Che la grazia divina tenga lontane da questa casa tutte le tentazioni del demonio!’ » Al mondo esistono degli uomini invincibilmente testardi, e il signore espulso due volte dal domicilio del cappellano era di quella razza. Infatti, proprio quando la cena fu pronta, qualcuno suonò il campanello. Sc’vèik andò ad aprire, 166

e tornò sui suoi passi per dichiarare al padrone: «Rieccolo qui, signor cappellano. In attesa di meglio l’ho chiuso nel bagno, così potremo almeno cenare in pace». «Voi avete fatto male, Sc’vèik», osservò il cappellano. «Un ospite che viene in una casa vi è sempre mandato da Dio. Nei tempi antichi i signori facevano rallegrare i loro conviti con l’assistenza dei buffoni. Conducetelo qua, che ci farà divertire». Sc’vèik ritornò quasi subito con l’uomo ostinato, che guardava sospettosamente innanzi a sé. «S’accomodi», gli disse con cortesia il cappellano: «noi stiamo terminando di cenare. Abbiamo mangiato aragosta e salmone, e poi, come vede, una frittata con prosciutto. Sicuro, noi ce la godiamo, finché c’è della gente che ci presta denari». «Voglio sperare che lei non mi avrà fatto venir qui per prendermi in giro», disse il personaggio ostinato: «oggi è la terza volta che son qui, voglio sperare che ora metteremo tutto in chiaro». «Fo umilmente notare, signor cappellano», osservò Sc’vèik, «che questo signore è quasi altrettanto testardo che un certo Boušek del quartiere di Libn’. Una sera fu espulso diciotto volte dalla birreria Exner, e ciascuna volta gli riuscì di rientrarci con la scusa d’avere lasciato la pipa. Vi rientrò per l’uscio e per la finestra, attraverso la cucina e il retrobottega, la mescita e la cantina, e probabilmente vi sarebbe ancora penetrato per mezzo del camino se i pompieri non lo avessero fatto cader giù di sul tetto. Con una simile perseveranza sarebbe potuto diventare ministro o deputato. È certo che fu fatto quanto fu potuto». Il personaggio ostinato non se ne dette per inteso e ripeteva testardamente: «Io voglio metter le cose in chiaro e pretendo d’esser ascoltato». «Che le sia concesso», consentì il cappellano, «dica pure, signor mio. Parli finché ne ha voglia: nel frattempo noi due termineremo la nostra cenetta. Voglio sperare che io non la disturberò nella sua confessione. Sc’vèik, sedetevi pure». «Lei sa bene», attaccò a dire il personaggio ostinato, «che siamo in tempo di guerra. Quella somma io gliela ho prestata prima della guerra; e se la guerra non ci fosse, io avrei fatto a meno di sollecitarla per la restituzione. Però in questi giorni ho avuto delle brutte esperienze». Estrasse un taccuino di tasca e proseguì: «Sta tutto scritto qui. Il tenente Iánata mi doveva settecento corone, ed ha avuto il coraggio di morirmi sulla Drina. Il sottotenente Prášek è caduto prigioniero sul fronte russo quand’ancora mi do167

veva duemila corone. Il capitano Wichterle, che mi doveva la stessa somma, s’è fatto massacrare dai suoi soldati a Ravaruska. Il tenente Mašek, prigioniero in Serbia, mi deve millecinquecento corone. E ce n’è molti altri nelle stesse condizioni. Uno cadde sui Carpazi con una mia cambiale non ancora pagata, un altro vien fatto prigioniero, un terzo muore affogato in Serbia, un quarto decede in un ospedale in Ungheria. Lei capirà il mio giustificatissimo timore di andare in rovina con questa guerra, se non saprò essere energico e inesorabile. Lei potrà ribattermi che chi sta nelle retrovie non è minacciato da nessun pericolo imminente o diretto. Ma stia a vedere». E ciò dicendo mise il suo taccuino sotto il naso del cappellano: «Guardi qui: una settimana fa il cappellano militare Matyáš di Bruna è morto in un lazzaretto. C’è da strapparsi i capelli; un uomo che mi deve milleottocento corone e che va in una baracca di colerosi a somministrare la estrema unzione al primo venuto!» «Era suo dovere, signor mio», replicò il cappellano: «anch’io domani vado a somministrare». «Sicuro; anche noi in una baracca di colerosi», soggiunse Sc’vèik: «perché non viene con noi per imparare un po’ che cosa significa sacrificio?» «Signor cappellano», insistè il creditore ostinato, «lei deve credermi: io mi trovo in una situazione disperata. Mi sembra quasi che questa guerra sia fatta apposta per cancellar dalla faccia del mondo tutti i miei debitori». «Quando anche lei sarà richiamato e andrà al fronte», volle soggiungere Sc’vèik, «il signor cappellano ed io celebreremo una messa per lei, affinché Nostro Signore faccia in modo che la prima granata la riduca a pezzettini». «Ma signore, è una cosa molto seria», esclamò il disgraziato rivolgendosi al signor cappellano; «io la prego di non fare immischiare il suo attendente nei nostri affari, altrimenti non arriveremo mai ad una conclusione». «Permetta, signor cappellano», osservò Sc’vèik: «favorisca darmi l’ordine perentorio di non immischiarmi nei suoi affari, altrimenti io non potrò fare a meno di difendere i suoi interessi, come spetta a un buon soldato. Il signore ha pienamente ragione nel volere uscir di qui con le proprie forze. Del resto anche a me vanno poco a genio certi modi di fare, e mi sento un uomo socievole». «Sc’vèik, la faccenda mi comincia ad annoiare», disse il cappellano facendo finta di non accorgersi della presenza del visitatore: «io credevo che questo signore ci avrebbe te168

nuti allegri, e ci avrebbe raccontato qualche bella storiella, mentre invece pretende che io vi ordini di non immischiarvi nei miei affari, benché già per due volte abbia avuto a che fare con voi. In una sera come questa, quando ci attende un compito religioso di tanta importanza e noi dovremmo rivolgere tutti i nostri pensieri a Dio, costui viene a disturbarmi con la meschina storiella di milleduecento miserabili corone, e con ciò mi distrae dal mio esame di coscienza e dalla contemplazione del divino, e mi costringe a ripetergli ancora una volta che per ora non gli darò nulla di nulla. Non voglio parlar più oltre con voi, altrimenti questa santa serata si guasterà. Diteglielo voi in mia vece, caro Sc’vèik: il signor cappellano non vi darà nulla!» Sc’vèik eseguì l’ordine urlando a gran voce quella frase nelle orecchie del visitatore. Ma il personaggio ostinato restò zitto e fermo, senza muovere un dito. «Sc’vèik», riattaccò il cappellano: «domandategli quanto tempo intende ancora di rimanere». «Non me ne andrò finché non avrò avuto il mio!» esclamò con testardaggine il disgraziato. Il cappellano s’alzò, andò alla finestra e disse: «In tal caso rimetto la cosa nelle vostre mani, Sc’vèik. Fate di lui ciò che volete!» «Venga con me, signor mio», disse Sc’vèik afferrando il malcapitato per le spalle. «Non c’è due senza tre…» E ripeté il suo solito esercizio con rapidità ed eleganza, mentre il cappellano tambureggiava una marcia funebre sul vetro della finestra. Quella serata consacrata alla meditazione attraversò molte fasi diverse. Il cappellano s’accostò a Dio con tanta penetrazione e con tanto entusiasmo, che a mezzanotte dal suo appartamento echeggiava ancora il seguente cantico: Quando i soldati marcian sulle piazze, ai davanzali piangon le ragazze…

E il buon soldato Sc’vèik l’accompagnava. Nell’ospedale militare erano due i soldati che avevan chiesto l’estrema unzione: un vecchio maggiore e un impiegato di banca, ufficiale di complemento. Tutti e due s’eran buscati una palla nel ventre sui Carpazi e giacevano in due letti vicini. L’ufficiale di complemento aveva sentito l’obbligo di farsi somministrare il sacramento dei moribondi soltanto perché il suo superiore aveva domandato l’estrema unzione. Non farsi somministrare quel sacramento gli 169

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sarebbe sembrato un vero e proprio reato d’insubordinazione. Il pio maggiore invece l’aveva fatto per furberia, immaginandosi che una preghiera piena di fede fosse capace di risanare un infermo. Ma la notte prima morirono tutti e due, e la mattina dopo, quando giunse il cappellano militare con Sc’vèik, essi giacevano sotto un lenzuolo col viso annerito come tutti quelli che muoiono per soffocamento. «Ci siamo dati tanta pena per nulla, signor cappellano», osservò Sc’vèik corrucciato, quando in direzione fu loro comunicato che i due pazienti non avevan più bisogno di nulla. In quanto alla «pena» Sc’vèik aveva detto la pura verità. Avevan preso una carrozza, e Sc’vèik scampanellava, mentre il cappellano teneva in mano la bottiglia con l’olio santo involtata in un tovagliolo, e benediva con volto austero tutti i passanti che si scappellavano. A dire il vero non eran troppi, malgrado che Sc’vèik si desse un gran da fare allo scopo di produrre col suo campanello il massimo fracasso. Dietro la carrozza correva un branco di simpatici monelli, e quando uno di loro s’attaccava alla carrozza, gli altri gridavano in coro: «Dietro! Dietro!» Sc’vèik scampanellava con più forza e il vetturino dava una frustata all’indietro. In Via dell’Acquetta una portinaia, iscritta alla Congregazione di Maria, raggiunse trottando la carrozza, si fece benedire, si segnò, e infine sputò con spregio, dicendo: «Portan via Nostro Signore come se fossero diavoli. A rincorrerli c’è da buscarsi una polmonite», e tutta affannata, fece ritorno al suo posto. Lo squillo del campanello eccitava in special modo il cavallo, che doveva certo risuscitare dentro di lui antiche reminiscenze, perché volgeva continuamente il muso all’indietro e accennava di quando in quando il tentativo di fare un passo di danza sul selciato. Ecco in che cos’era consistita la gran «pena» di cui parlava Sc’vèik. Il cappellano colse l’occasione per farsi regolare il lato finanziario del suo incomodo, e rimise al sergente furiere un conto secondo il quale l’amministrazione militare gli doveva centocinquanta corone per spese di trasporto e olio santo. Ciò dette seguito a una controversia fra il direttore dell’ospedale e il cappellano militare, nel corso della quale il cappellano batté più volte il pugno sul tavolo esclamando: «Non dovete credere, signor capitano, che l’estrema unzione si somministri gratuitamente. Quando un ufficiale di cavalleria è comandato ad assistere a un parto equino nelle scuderie, gli viene pagata sempre un’indennità. Mi 171

rincresce sinceramente che i due pazienti non abbiano potuto fruire dell’estrema unzione. L’affare vi sarebbe costato un supplemento di prezzo di cinquanta corone». Nel frattempo Sc’vèik attendeva il suo padrone al corpo di guardia, dove la bottiglietta d’olio santo suscitava il più vivo interesse. Un tale fece notare che con un olio di quella specie si sarebbero potuti ripulire ottimamente i fucili e le baionette. Un soldato dell’altipiano boemo-moravo che credeva ancora in Domineddio, supplicò i compagni di non profanare le cose sacre con certi discorsi: «Perché noi cristiani dobbiamo aver fede». Un anziano della Territoriale dette una occhiata al coscritto e gli disse: «Bell’affare sperare che una granata ti spacchi la testa. Ci hanno messo in mezzo, hai capito? Una volta al nostro paese è venuto un deputato clericale e ci ha parlato d’una pace divina che si libra sulla terra, e ci ha detto che il Padreterno riprova la guerra e desidera che tutti gli uomini vivano in pace e si trattino come fratelli. Ed ecco, bestione, che appena scoppiata la guerra in tutte le chiese si fanno preghiere per il successo delle proprie armi, e del Padreterno si parla come d’un generale di stato maggiore che guida e dirige la guerra. In questo ospedale militare di funerali ne ho già visti parecchi, e carrette che portan via carichi di gambe e di braccia spezzate!» «E i militari li seppelliscono nudi», osservò un altro soldato: «le uniformi sono indossate da un altro, e così via». «Fino a che non avremo riportato la vittoria», disse Sc’vèik. «Quale guerra vuol vincere uno scarpone della tua specie?» esclamò un caporale dall’angolo dove stava rincantucciato. «Vorrei vedervi al fronte e nelle trincee, e gettarvi all’assalto contro le baionette nemiche, i reticolati, le zone minate e le mitragliatrici. Ognuno di voialtri cerca di svignarsela nelle retrovie, e nemmeno vuol lasciare la pelle sul campo di battaglia». «Per ciò che mi riguarda anch’io son del parere che non c’è niente di più bello che farsi bucare da una baionetta», disse Sc’vèik: «e non è brutto neppure buscarsi una palla nel ventre, o, meglio ancora, farsi mettere in pezzi da una granata mentre si vede le gambe e la pancia andarsene per conto proprio, e quello che più mi sorprende, senza lasciarci neanche il tempo di farci spiegare che cosa ci è accaduto». 172

Il soldatino sospirò profondamente, compiangendo forse la propria età giovanile, e domandandosi perché mai fosse nato in un secolo così idiota, per farlo trucidare come un bue mandato al macello. Perché era destinato di finire così? Un soldato che da borghese faceva il maestro elementare fece osservare, come se avesse indovinato i pensieri del compagno: «Alcuni scienziati spiegan la guerra con l’apparizione delle macchie solari. Ogni qualvolta si dà l’apparizione d’una macchia solare, succede sempre qualche terribile calamità. L’espugnazione di Cartagine…» «Lascia stare la tua erudizione», lo interruppe il caporale, «guarda piuttosto di spazzare la sala, che oggi tocca il tuo turno. Noi non abbiamo nulla a che fare con queste stupidissime macchie solari. Anche se ce ne dovesse essere una ventina, io non darei nulla per loro». «Eppure queste macchie solari hanno un enorme significato», sostenne Sc’vèik: «una volta io assistei all’apparizione d’una simile macchia, e il giorno stesso mi presi delle buone botte all’osteria Banzet nel quartiere di Nusle. D’allora in poi, ogni qualvolta avevo intenzione di recarmi in qualche luogo, ho sempre letto nel giornale se non s’era data l’apparizione d’un’altra macchia solare. E appena se n’è mostrata una, per Dio e per la Madonna, non sono andato in nessun posto e son rimasto chiuso in casa. Quella volta che il vulcano di Mont-Pelé distrusse tutta quanta l’isola della Martinica, un professore scrisse nella Politica Nazionale che lui, già da molto prima, aveva messo in guardia i lettori con l’annunzio d’una nuova grande macchia solare. Ma purtroppo la Politica Nazionale non poté giungere a tempo in quell’isola, e così i disgraziati isolani dovettero pagare». Nel frattempo il cappellano s’era imbattuto al piano di sopra con una signora dell’Associazione fra Nobildonne pro Educazione Religiosa del Soldato, una vecchia e ripugnante megera, che fin dalla mattina girava per l’ospedale distribuendo a tutti delle immagini sacre, che i feriti e i malati scaraventavano immediatamente nelle sputacchiere. Nel corso della sua passeggiata, col suo stupido chiacchierio essa esortava tutti i soldati a pentirsi sinceramente dei propri peccati e a cercare di perfezionarsi, affinché nell’oltretomba Iddio misericordioso potesse conceder loro la salute eterna. Divenne pallida appena poté conversare col cappellano, e poté dirgli che quella guerra abbrutiva i soldati invece di nobilitarli. Al pianterreno i coscritti le mostravan la lin173

gua e la chiamavano mascherona e vecchia bacchettona. «Das ist wirklich schrecklich, Herr Feldkurat, das Volk ist verdoben».2 E si mise a spiegargli in che modo essa concepiva l’educazione religiosa del soldato. L’uomo del popolo avrebbe combattuto valorosamente per il proprio sovrano se avesse creduto in Dio e fosse fornito di sentimento religioso, in modo da non temere la morte sapendo che il paradiso l’attende. La vecchia chiacchierona continuò ad emettere altre simili stupidaggini, manifestando la decisa intenzione di trattenere chissà per quanto il cappellano, che fu obbligato a congedarsi a costo di mancare ai più elementari doveri della galanteria. «Andiamo a casa, Sc’vèik!» gridò verso il corpo di guardia. Durante il percorso inverso, non si dettero affatto la famosa «pena» di prima. «Un’altra volta vada pure chi vuole a somministrare la estrema unzione», osservò il cappellano; «per ogni anima che vogliamo salvare, bisogna sempre mercanteggiare sul prezzo. Non vedono che la loro contabilità, quelle canaglie!» Vedendo in mano a Sc’vèik la bottiglietta dell’olio santo, corrugò le ciglia e disse: «Faremo meglio, caro Sc’vèik, a usar di cotesto olio per pulire le scarpe». «Proverò anche a ungere la serratura», soggiunse Sc’vèik. «Non fa che strider la notte, quando lei rientra in ritardo». Così ebbe termine un’estrema unzione che non fu mai somministrata.

  È terrìbile, reverendo, il popolo s’è guastato.

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14 Sc’vèik diventa attendente del tenente Lukáš I La felicità di Sc’vèik ebbe breve durata. Un crudele destino mise fine alle sue amichevoli relazioni col cappellano. Se finora il cappellano ci è rimasto sempre un personaggio simpatico, purtroppo ciò che più tardi doveva commettere è tale da togliere dalla sua effigie la maschera della simpatia. Infatti il cappellano vendè Sc’vèik al primo tenente Lukáš, o, per meglio dire, lo perse giocando alle carte. Anticamente in Russia facevano altrettanto coi servi della gleba. La cosa successe all’improvviso. In casa del primo tenente Lukáš c’era una bella compagnia, e si stava giocando al «ventuno». 175

Il cappellano militare aveva perduto tutto quello che aveva, e si decise a fare la seguente proposta: «Quanto m’imprestate sul mio attendente? È un imbecille colossale e un tipo interessantissimo, qualcosa di non plus ultra. Son sicuro che non avete mai avuto un attendente di questa fatta». «Ti presterò cento corone», gli rispose il tenente Lukáš. «Se doman l’altro non le avrò riscosse, m’invierai la tua rarità. La mia ordinanza è un uomo ripugnante. Non fa che lamentarsi e scriver lettere a casa, e ciò nonostante mi ruba tutto ciò che gli capita fra le mani. L’ho anche picchiato, ma non è valso a nulla. Lo schiaffeggio ogni qualvolta mi viene fra i piedi, ma senza nessun effetto. Una volta gli fracassai un paio di denti davanti, ma lui non si corresse affatto». «Siamo intesi!» proferì con leggerezza il cappellano: «vada per domani l’altro: o cento corone o il mio Sc’vèik». Naturalmente perse anche quelle cento corone e si diresse tutto triste a casa. Egli sapeva senza avere il minimo dubbio che entro due giorni non sarebbe stato capace di procurarsi cento corone e che aveva vergognosamente e meschinamente venduto il suo fedele servitore. «Almeno gli avessi chiesto duecento corone», gemè; ma quando cambiò di tranvai e prese una linea che doveva condurlo a casa in un attimo, fu assalito ad un tratto dai rimorsi e dal pentimento. «È stata una cosa indegna di me», pensava mentre sonava il campanello del suo appartamento: «come farò a sostenere lo sguardo dei suoi occhi di bestiolina innocente?» «Caro Sc’vèik», gli disse appena fu entrato, «oggi mi è successo un avvenimento straordinario. Ho avuto una disdetta fenomenale giocando a carte. Mi scappava tutto di mano: dapprima un asso, poi un regio, e il banco, che non aveva altro che un fante, è riuscito prima di me a fare ventuno. Per parecchie volte di seguito io ho sempre avuto l’asso od il regio, e il banco m’ha fatto sempre lo stesso scherzetto. Ho perduto tutto quello che avevo». Dopo una pausa, riprese: «Alla fine ho perduto anche voi; vi ho dato in pegno per cento corone, e se domani l’altro non le restituirò, voi non appartenete più a me ma al primo tenente Lukáš. Me ne rincresce davvero». «Io ho ancora cento corone», disse Sc’vèik, «e ve le posso prestare». «Datele qua», disse con un sospiro di sollievo il cappellano, «le porterò subito a Lukáš. Non saprei più perdonarmi di dovermi separare da voi». 176

Lukáš si mostrò vivamente sorpreso quando vide di ritorno il cappellano militare. «Son venuto a pagare il mio debito», disse il curato guardandosi intorno con aria di trionfo; «datemi un’altra carta». «Faccio banco», si lasciò scappare di bocca quando toccò la sua mano. Ma soggiunse: «Ho sballato per un sol punto». Anche alla seconda mano il buon cappellano voleva far saltare il banco. «Faccio venti», dichiarò il tenitore del banco. «Io ho diciannove in tutto», proferì a bassa voce il cappellano, pagando al banco le ultime quaranta corone delle cento che Sc’vèik gli aveva imprestato allo scopo di farsi riscattare dal tenente Lukáš. Durante il cammino verso casa nel cappellano si maturò la coscienza che tutto era finito, che non c’era più nessuna possibilità di salvare Sc’vèik, e che ormai era destinato che egli servisse in qualità d’attendente il tenente Lukáš. E quando Sc’vèik gli aprì gli disse: «Tutto è stato inutile, Sc’vèik. Non c’è uomo capace di soverchiare il destino. Vi ho perduto un’altra volta insieme a quelle cento corone. Ho fatto tutto quello ch’era in mio potere, ma la fatalità è stata più forte di me. Io vi ho ceduto agli artigli del tenente Lukáš e sta per suonare l’ora in cui dovremo lasciarci». «Ma il banco era buono?» chiese tranquillamente Sc’vèik: «oppure avete avuto disdetta? Quando le carte non vengono è una disgrazia, ma qualche volta è ancora peggio quando il giuoco va troppo bene. A Zdéraz una volta c’era uno stagnino di nome Vejvoda che giuocava sempre a mariage in un’osteria dietro al ‘Caffè del Secolo.’ Un bel giorno il diavolo gli suggerì di far questa proposta: ‘Se facessimo una partita di ventuno a un soldo al punto?’ Così si misero a giocare a ventuno a un soldo al punto, e lui teneva il banco. Tutti sballarono, e così il banco giunse a dieci corone. Ma il vecchio Vejvoda voleva che anche gli altri avessero un po’ di fortuna, e diceva sempre: ‘Se pesco una carta bassa cedo il banco.’ Non vi potete immaginare che razza di disdetta gli capitò. Non riusciva mai a pescare una carta bassa e il banco cresceva continuamente, finché raggiunse le cento corone. Nessuno dei giuocatori riusciva ad avere mai in mano tanto da farlo saltare, e il povero Vejvoda era tutto sudato. Tutti stavano zitti, ma lui non faceva altro che dire: ‘Se pesco una carta bassa cedo il banco.’ Puntavano il loro 177

pezzo da cinque e lo perdevano regolarmente. Uno spazzacamino si riscaldò, andò a casa a prender soldi appena vide che sul banco c’erano centocinquanta corone, e tentò di farlo saltare. Vejvoda se ne voleva liberare, e avrebbe voluto far magari trenta pur di sballare, e invece pescò due assi. Fece finta di nulla e dichiarò: ‘Calo a sedici.’ E il povero spazzacamino in tutto non aveva che quindici. Non vi pare una bella disdetta? Il vecchio Vejvoda era tutto pallido e sconvolto, tutti s’affollavano intorno a lui e mormoravano che faceva dei trucchi e che già una volta l’avevan picchiato perché colto a barare, mentre invece era il più onesto dei giocatori presenti, così gli s’ammucchiavano dinanzi corone su corone. L’oste non si tenne più: egli aveva preparato allora allora i denari per pagare la fabbrica della birra, ma andò a prenderli, si mise a sedere e puntò subito duecento corone: poi chiuse gli occhi e voltò la seggiola per chiamar la fortuna, dichiarando che si sarebbe portato via tutto il banco. ‘Perché’ soggiunse, ‘non giochiamo a carte scoperte?’ Il vecchio Vejvoda non so che cos’avrebbe dato pur di perdere. Tutti si meravigliarono quando rovesciò la carta e fece vedere un sette e lo trattenne per sé. L’oste se la rideva sotto i baffi perché sapeva d’avere in mano ventuno. Al vecchio Vejvoda toccò in sorte un altro sette, e non rimise in giuoco neanche quello. ‘Ora verrà fuori un asso od un regio, signor Vejvoda,’ disse l’oste con malignità, ‘ed io scommetto la testa che perderete tutto in un colpo.’ Si sarebbe sentito volare una mosca: il vecchio Vejvoda fa le carte ed ecco che pesca il terzo sette. Il padrone divenne come di gesso, perché quelli eran gli ultimi denari che aveva, e si ritirò in cucina. Pochi minuti dopo venne un ragazzo che faceva l’apprendista in quella bottega a pregare i clienti perché venissero a staccare il signor padrone che s’era impiccato alla maniglia della finestra. Lo staccammo, lo rimettemmo in piedi e si riprese a giocare. Nessuno aveva più il becco d’un quattrino, tutto quanto era andato a finire sul banco di Vejvoda che non faceva che dire: ‘Se mi viene una carta bassa cedo il banco.’ E quant’è vero Dio voleva proprio che gli facessero saltare il banco, ma poiché si doveva mettere le carte in tavola e giocare a carte scoperte non poteva far nessun trucco e non gli riusciva mai di sballare. La sua straordinaria fortuna li aveva tutti rimbecilliti, e visto che non avevan più soldi, si ridussero a puntare dei buoni di pagamento improvvisati. Lo spazzacamino doveva al banco già più di mezzo milione, un carbonaio di Zdéraz quasi un milione intero, il portinaio del ‘Caffè del Secolo’ ottocentomila corone, e un medico più di due milioni. Nella sola cassa ce n’erano trecentomila, na178

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turalmente sotto forma di buoni. Il vecchio Vejvoda ne tentava di tutti i colori. Si recava continuamente al gabinetto e cedeva il giuoco a qualcuno dei presenti: ebbene, quando faceva ritorno gli dichiaravano che aveva vinto un’altra volta e che aveva fatto ventuno. Fecero comprare un mazzo di carte nuovo, ma la cosa non servì a nulla. Quando Vejvoda restava sul quindici, l’altro non aveva mai più di quattordici. Tutta la gente lo guardava di sbieco, e più di tutti brontolava un terrazziere che non aveva rischiato più di otto corone. Costui proclamò apertamente che un uomo di quella razza non aveva il diritto di calcar le strade del mondo, e che bisognava prenderlo a calci, cacciarlo via e affogarlo come un cucciolo. Non potete aver la minima idea a che grado di disperazione fosse giunto il povero Vejvoda. Alla fine gli venne in testa un’idea. ‘Io me ne vo al gabinetto,’ disse allo spazzacamino: ‘fate le carte per me, padron mio.’ E a capo scoperto fuggì fuori e corse tutto diritto alla cantonata di Via Mýslikova per cercar degli agenti. S’imbattè proprio nella ronda, e denunziò come qualmente nella tale e tale osteria si facevano giochi d’azzardo. Gli agenti lo invitarono a precederli, che loro l’avrebbero seguito. Appena rientrato, gli dichiararono che nel frattempo il medico aveva perduto più di due milioni e il portinaio più di tre. In cassa c’erano già cinquecentomila corone di buoni. Un attimo dopo gli agenti fanno irruzione nell’osteria; il terrazziere ha un bel gridare: ‘Si salvi chi può!’: non gli servì a nulla. Sequestrarono il banco e li condussero tutti al commissariato. Il carbonaio di Zdéraz oppose resistenza, cosìcché lo dovettero portar dentro per mezzo del carrozzone. Il banco consisteva d’oltre mezzo miliardo di buoni e di millecinquecento corone in contanti. ‘Non m’è mai capitato di veder niente di simile,’ osservò il commissario, alla vista d’una somma così enorme, ‘questo è peggio che a Montecarlo.’ Tutti passaron la notte in guardina meno che il vecchio Vejvoda. Lui fu rilasciato nella sua qualità di delatore e gli fu promesso che avrebbe riscosso la ricompensa regolamentare d’un terzo della somma sequestrata, vale a dire più di centosessanta milioni, tantoché la mattina dopo era impazzito dalla gioia e si mise in giro per tutta Praga a ordinare casseforti corazzate a dozzine. Questo sì che si chiama aver fortuna al giuoco». Dopo il suo racconto Sc’vèik se n’andò in cucina a fare il ponce, e quella laboriosa giornata ebbe fine con la necessaria messa a letto del cappellano, che non faceva che gemere e singhiozzare: «T’ho venduto, mio fedele compagno, ti ho turpemente venduto. Battimi e maledicimi, io sopporterò 180

tutto. Io ti ho abbandonato alla perdizione. Non ho il coraggio di guardarti negli occhi. Calpestami, mordimi, annichilami. Non son degno d’una sorte migliore. Sai chi sono io?» E il cappellano, affondando il volto lacrimoso nel capezzale, disse con voce dolce, mite e bassa: «Io sono un mascalzone senza carattere», e s’addormentò come un masso. Il giorno dopo, evitando lo sguardo di Sc’vèik, uscì di casa la mattina presto e non fece ritorno che a notte, accompagnato da un corpulento fantaccino. «Voi gli farete vedere», disse a Sc’vèik evitandone sempre lo sguardo, «la disposizione della casa e degli oggetti, perché si possa orientare, e gl’insegnerete a fare il ponce. Domattina vi presenterete dal primo tenente Lukáš». Sc’vèik e il nuovo attendente trascorsero la notte allegramente a far ponci. All’alba il corpulento fantaccino si reggeva a malapena in piedi, e canterellò uno straordinario miscuglio delle più svariate canzoni popolari, facendo d’ogni erba un fascio: A Chódova fluisce un ruscelletto… La mia bella vi mesce birra rossa… O montagna, o montagna la tua cima… Van le ragazze sulla via maestra… Il contadino ara la collina…

«Per te non ho nessun timore», disse Sc’vèik: «con le tue inclinazioni farai perfettamente al caso del signor cappellano». E così poche ore dopo il tenente Lukáš fece per la prima volta conoscenza col volto leale e modesto del buon soldato Sc’vèik, che lo salutò con queste parole: «Le fo umilmente notare, signor tenente, che io sono quello Sc’vèik che il signor cappellano ha perduto giocando a carte».

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II L’istituzione degli attendenti al servizio degli ufficiali è d’origine antichissima. Pare che anche Alessandro Magno avesse la sua ordinanza. È provato che all’epoca del feudalesimo tale missione era assolta dai mercenari dei cavalieri. E che cos’era Sancio Pancia, lo scudiero di don Chisciotte? Mi fa meraviglia che ancora nessuno abbia pensato a scrivere la storia degli attendenti. Essa c’insegnerebbe che il duca di Almaviva durante l’assedio di Toledo mangiò per la fame la propria ordinanza senza neppure salarla, episodio riportato dallo stesso duca nelle proprie memorie, dove si racconta che la carne dell’attendente era tenera, morbida e gradevole, d’un gusto intermedio fra quello dell’oca e dell’asino. In un vecchio libro bavarese d’arte militare si trovano delle istruzioni ad uso degli attendenti. L’attendente dei tempi antichi doveva essere pio, virtuoso, veritiero, modesto, coraggioso, ardito, onesto e laborioso. In poche parole doveva essere un modello, un uomo esemplare. I tempi moderni hanno notevolmente modificato questo prototipo. L’attendente all’epoca nostra di regola non è né pio né vir182

tuoso né veritiero. Dice bugie, sfrutta il proprio padrone e spesso ne riduce l’esistenza a un vero inferno. È un perfido schiavo che escogita i più svariati stratagemmi allo scopo di rendere dura la vita al proprio padrone. In questa nuova generazione d’attendenti non è assolutamente possibile ritrovare delle creature dotate di tanto spirito di sacrificio da farsi mangiar senza sale dal proprio padrone, come il nobile Fernardo del duca d’Almaviva. D’altro lato noi vediamo che i padroni dei nostri tempi, combattendo con le proprie ordinanze una lotta di vita e di morte, si valgono d’ogni mezzo pur di salvaguardare la loro autorità. Cosìcché si può dire che vige una specie di regime del terrore. Nell’anno 1912 ebbe luogo a Gratz di Stiria un processo che aveva a protagonista un capitano che aveva ucciso il suo attendente a furia di calci. Per quella volta fu assolto in considerazione che si trattava della prima recidiva. Secondo le idee di questi signori la vita d’un attendente non costa nulla: non è niente più d’un oggetto, o nella maggioranza dei casi un capro espiatorio, uno schiavo, un servitore buono a tutto. Non c’è dunque da stupirsi che un simile stato di cose esiga dallo schiavo l’uso dell’astuzia e l’abito della bugia. La sua situazione sul nostro pianeta si può paragonare soltanto con le sofferenze dei garzoncelli dell’antichità, allevati fino all’età del giudizio a forza di supplizi e di schiaffi. Però ci son dei casi nei quali l’attendente s’innalza fino al grado di favorito, ed allora egli diviene il terrore della compagnia e del battaglione. Tutti i graduati cercano di entrare nelle sue grazie. È lui che decide dei permessi, e che può dare l’assicurazione che tutto andrà bene al rapporto. Questi favoriti durante la guerra venivano decorati con medaglie d’argento e di bronzo, in ricompensa del loro valore. Al novantunesimo reggimento ebbi l’occasione di conoscere parecchi di questi valorosi. Un attendente ottenne la medaglia d’argento soltanto perché sapeva cucinare come un Dio le oche che aveva rubato. Un altro si buscò la medaglia di bronzo perché da casa non faceva che ricevere dei magnifici pacchi di provviste, di cui il padrone si gonfiava talmente quand’era affamato che non era più in grado di muovere un passo. E la motivazione di questa decorazione fu formulata così dal suo ufficiale: «Per aver dato prova in combattimento di coraggio e di valore fuor del comune, e aver rischiato più d’una volta 183

la vita al fianco del proprio ufficiale sotto il fitto fuoco del nemico che avanzava». Tutto il suo valore consisteva nel restare nelle retrovie e nello spopolare i pollai. La guerra cambiò le relazioni dell’attendente col proprio padrone e ne fece l’individuo più esecrabile di tutta la truppa. L’attendente aveva la sua intera scatola di carne in conserva, quando invece una doveva bastare a cinque uomini. La sua borraccia era sempre piena di rum o di cognac. Tutto il giorno cotesta creatura masticava cioccolata e inghiottiva dolciumi da ufficiali, cucinava vivande per ore intere, e portava una giubba fuori d’ordinanza. L’attendente era sempre in intimi rapporti col magazziniere, e gli faceva larga parte dei resti della sua tavola e di tutti i privilegi di cui godeva. A formare un triumvirato s’aggiungeva a loro anche il sergente furiere: e per questo bel tipo che viveva continuamente alle costole dell’ufficiale, le operazioni di guerra e i piani di guerra non avevano nessun segreto. La squadra meglio informata era infallibilmente quella il cui caporale fraternizzava con l’attendente del capitano. Quando costui aveva detto: «Si taglierà la corda alle due e trentacinque», alle due e trentacinque esatte i soldati austriaci «perdevano il contatto» con le truppe nemiche. L’attendente dell’ufficiale era in stretto collegamento con la cucina da campo, girovagava con grande soddisfazione fra le marmitte e ordinava il proprio pranzo come se fosse in trattoria e mangiasse alla carta. «Io voglio una costoletta», diceva al cuciniere: «ieri non mi hai dato che ossi. Mettimi un supplemento di fegato nella minestra, tu sai bene che a me non piace la milza». Ma la specialità dell’attendente era quella di diffondere il panico. Quando le trincee erano sottoposte a un bombardamento nemico, il coraggio gli andava a finire nel fondo dei calzoni. In tali occasioni si rifugiava con i propri bagagli e quelli del padrone nelle zone meglio defilate e ficcava la testa sotto una coperta perché le granate non lo scovassero, senz’avere altro desiderio di quello che il suo padrone fosse ferito e che così lo rinviassero nell’interno, nelle retrovie, alla maggior distanza possibile dal fronte. Per la diffusione del panico l’attendente agiva sempre assumendo delle arie di mistero. «Mi sembra che stiano montando il telefono», suggeriva confidenzialmente passando di reparto in reparto. Ed era felice quando poteva dire: «Lo hanno di già montato!» Nessuno adorava la ritirata come lui; in quel momento 184

giungeva perfino a dimenticarsi che gli sibilavano sul capo le spolette e le granate, e senza lasciare i bagagli s’apriva instancabilmente una strada verso lo stato maggiore, dove avevano stanza i convogli. Voleva un bene matto ai convogli dell’esercito austriaco ed era felice quando si poteva far trasportare. Nei casi di forza maggiore non disdegnava neppure di far uso delle carrette di sanità. Quand’era costretto a marciare, assumeva l’aspetto d’un uomo affranto. In simili circostanze abbandonava il bagaglio del padrone in trincea e non s’occupava di trasportare che la propria roba. Nel caso fortuito che il padrone scampasse dalla prigionia ed egli invece vi fosse caduto, l’attendente non si dimenticava mai di portarsi via ad ogni buon conto i bagagli del proprio ufficiale. Essi diventavano di sua proprietà, ed allora ci teneva con tutta l’anima. Una volta io vidi un attendente prigioniero che insieme ad altri compagni di sventura si recava marciando da Dubno a Darnice per la via di Kiev. Costui oltre il proprio zaino si recava addosso anche il sacco del suo ufficiale, ch’era riuscito ad evitare la prigionia, ed inoltre cinque valigette a mano di varia grandezza, due coperte e un materasso, e come se non bastasse un fagotto sopra la testa. Per di più si lamentava che i cosacchi gli avevan rubato altre due valigie. Io non dimenticherò mai quest’individuo che era stato capace d’attraversare con quel carico tutta l’Ucraina. Costui era un vero furgone da sgomberi fatto uomo, ed io non mi so assolutamente spiegare come poté sostenere e trasportare quel po’ di carico per tante e tante centinaia di chilometri, per giungere infine, senza mai abbandonarlo, a Tasc’kent nel Turchestan nel cui campo di concentramento doveva morire di febbre tifoide alla presenza dei propri bagagli. Ai nostri giorni gli attendenti sono sparpagliati in tutti i cantucci della repubblica cecoslovacca e non fanno altro che raccontare le loro eroiche imprese. Ciascuno di loro ha espugnato Sokal, Dubno, Niš, la riva destra del Piave. Ciascuno di loro è un secondo Napoleone. «Fui io che dissi al nostro colonnello di telefonare allo stato maggiore ch’era giunta l’ora di sferrare l’attacco». Per la più gran parte politicamente essi eran dei reazionari, e le truppe li detestavano. Alcuni facevano anche i delatori, e se la godevano quando potevan vedere qualche soldato sospeso per aria. Essi si svilupparono a tal punto da formare una vera e propria casta, e il loro egoismo non conosceva confine. 185

III Il tenente Lukáš era il prototipo dell’ufficiale di carriera dell’impero austroungarico in procinto di crollare. L’accademia militare era riuscita a fare di lui una specie d’anfibio. In società parlava tedesco, e pure in tedesco teneva la propria corrispondenza, ma leggeva di preferenza libri cèchi, e all’epoca in cui insegnava ai corsi dei volontari d’un anno, tutti cèchi puro sangue, diceva confidenzialmente: «Si sia cèchi quanto si voglia, purché nessuno lo sappia. Anch’io sono boemo». Egli considerava la qualità d’essere boemo come una società segreta da cui è meglio stare alla larga. Per tutto il resto era una buonissima persona: non moriva di paura dinanzi ai superiori e durante le manovre si dava pena perché il proprio plotone fosse convenientemente trattato. Lo faceva sempre accantonare in comodi granai e spesso consumava tutti i suoi modesti assegni per regalare ai suoi soldati un caratello di birra. In marcia gli piaceva molto sentire i suoi soldati che intonavano qualche canzoncina. Essi dovevan cantare sulla 186

via d’andata e di ritorno dalla piazza d’armi. Stava a lato dei suoi uomini e cantava in coro con loro: paraponzi, ponzipò.

Egli godeva di una grande popolarità fra i soldati, perché era uno dei pochi ufficiali giusti e non aveva il costume di perseguitare nessuno. I graduati tremavano al suo cospetto, e gli bastava un mese per cambiare il sergente più furioso nel più mite degli agnellini. Non si può negare che fosse ben capace di gridare, ma non dava mai insulti a nessuno. Egli non usava che locuzioni o vocaboli scelti. «Vedete», diceva, «mi rincresce sinceramente di punirvi, ragazzi miei, ma io non ci posso far nulla, perché il morale e l’efficienza delle truppe si basano sulla disciplina e senza disciplina un esercito è come una canna scossa dal vento. Se voi non tenete l’uniforme in ordine, e i bottoni non sono ben cuciti o addirittura vi mancano, è chiaro che voi trascurate i doveri che vi siete assunti di fronte all’esercito. Può anche darsi che a voi non riesca di capacitarvi come mai vi si punisca con la prigione perché il giorno avanti alla rivista vi mancava un bottone alla giubba, un nonnulla, una piccolezza, che nella vita civile sarebbe passata assolutamente inosservata. Eppure, questa insignificante trascuratezza del vostro aspetto esteriore durante il servizio militare deve avere per conseguenza una punizione. E perché? Perché non ne va del bottone che vi manca, ma dell’assoluta necessità d’adattarsi alle abitudini. Oggi non ricucite il vostro bottone, e date inizio al disordine. Domani Vi rifiuterete di smontare e ripulire il vostro fucile, domani l’altro lascerete la vostra baionetta all’osteria, e tutto questo perché avete cominciato a fare i fannulloni a proposito di quel disgraziato bottone. Così è, ragazzi miei, ed è per questo che io vi punisco allo scopo di risparmiarvi punizioni peggiori per ciò che potreste commettere trascurando adagio adagio ma sempre di più i vostri doveri. Intanto io vi assegno cinque giorni di prigione e voglio sperare che stando a pane ed acqua avrete il modo di riflettere che la punizione non è una vendetta, ma un puro e semplice procedimento educativo, che contribuisce alla correzione e al miglioramento del militare che ha trasgredito». Già da lungo tempo egli avrebbe dovuto passar capitano, ma la sua prudenza al riguardo della questione nazionale non gli fu di nessun aiuto, perché agiva con troppa fran187

chezza nelle relazioni coi suoi superiori, incapace com’era di valersi dell’adulazione nei rapporti di servizio. Pareva che in lui si conservasse qualcosa del temperamento d’un contadino della Boemia meridionale, che gli aveva dato i natali in un villaggio sperduto fra oscuri stagni e foreste. Se nei suoi rapporti coi suoi soldati era giusto e non li seviziava affatto, in compenso il suo carattere era dotato d’un’inclinazione particolare. Detestava cioè gli attendenti, perché la fatalità l’aveva condannato ad averne in sorte gli esemplari più mediocri e più ripugnanti. Applicava loro delle sacrosante labbrate e li schiaffeggiava continuamente, faceva tutti gli sforzi per tentar di correggerli con l’esortazione e con l’esempio, talora non li trattava neanche come soldati. Combatté disperatamente con loro una lunga serie di anni, mutandoli a ripetuti intervalli, e sospirando continuamente: «Sempre la stessa canaglia!» Egli li considerava come la più bassa specie del regno animale. In compenso il tenente Lukáš andava pazzo per le bestie. Aveva un canarino del Harz, un gatto d’angora e un cane barbone. Tutti gli attendenti che l’avevan servito avevan maltrattato quelle povere bestie non certo peggio di ciò che il tenente Lukáš non facesse con loro, ogni qualvolta commettevano qualche sciocchezza. Uno aveva fatto morir di fame il canarino, un altro aveva cavato un occhio al gatto d’angora, e tutti quanti non facevan che strapazzare il povero can barbone ogni volta che capitava loro fra i piedi. Uno di loro – per esser precisi l’immediato predecessore di Sc’vèik – ebbe finalmente il coraggio di condurre il disgraziato a Pánkraz dell’accalappiacani, e a tale scopo pagò senza farsi pregare dieci corone di tasca sua. Dopo questa prodezza dichiarò spudoratamente al proprio ufficiale che il cane gli era scappato via mentre lo portava a passeggio e il giorno dopo per punizione marciava già in piazza d’armi con la sua compagnia. Quando Sc’vèik venne a presentarsi e a prender servizio dal tenente Lukáš, il tenente lo fece entrare in camera e gli disse: «Voi mi siete stato raccomandato dal signor cappellano militare Otto Katz, ed io voglio sperare che non farete vergogna a questa raccomandazione. Io ho avuto una diecina d’attendenti, e nessuno ha troppo riscaldato le panche di casa mia. Vi prevengo che sono molto esigente e punisco severamente la minima mancanza o bugia. Io desidero che diciate sempre la verità e che eseguiate tutti 188

i miei ordini senza discutere. Se vi dico: saltate nel fuoco, voi dovete saltare nel fuoco, anche se a malincuore. Dove guardate?» Sc’vèik contemplava con interesse quel cantuccio della parete dov’era appesa la gabbia del canarino. A quella domanda posò sul tenente i suoi occhi di bonaccione, e proferì, con una mite e soave intonazione di voce: «Le fo umilmente notare, signor tenente, che quello lì è un canarino del Harz». Mentre interrompeva così la fiumana d’eloquenza dell’ufficiale, Sc’vèik manteneva una perfetta posizione d’attenti, con gli occhi fissi in quelli del proprio padrone. Il tenente voleva dirgli qualcosa di salato, ma scoprendo la dolce espressione del volto di Sc’vèik, si limitò a osservare: «Il signor cappellano vi ha descritto a me come un imbecille di prima forza, ed io ritengo che non ha certo sbagliato». «Fo umilmente notare, signor tenente, che il signor cappellano non si è affatto sbagliato. Quando io servivo nelle truppe di linea, fui riformato per idiozia, anzi, per essere preciso, come idiota notorio. Per questo motivo ci congedarono in due dal mio reggimento, me e per di più un capitano, un certo signor von Kaunitz. Costui, signor tenente, con rispetto parlando, quando andava a passeggio si ficcava continuamente un dito della mancina nella narice sinistra, e uno della manritta nella narice destra, e quando veniva con noi in piazza d’armi, ci feceva allineare come per una sfilata e ci diceva: ‘Soldati, eh, non scordatevelo, eh, che oggi è mercoledì, e domani sarà giovedì, eh!» Il tenente Lukáš si strinse nelle spalle come un uomo che non capisce, o non trova parole adatte per esprimere il proprio pensiero. Allora si contentò di passeggiare in su e in giù dinanzi a Sc’vèik, dalla porta fino alla finestra dirimpetto, e ogni qualvolta il tenente giungeva alla sua altezza, Sc’vèik eseguiva l’ «attenti a destra» e l’ «attenti a sinistra» con tanto candore, che il tenente fu costretto ad abbassar gli occhi, ed a guardare il tappeto, mentre diceva qualcosa che non aveva nulla a che vedere con l’osservazione di Sc’vèik a proposito del capitano idiota: «Sicuro, in casa mia ci deve essere ordine e pulizia, e non voglio che mi si raccontin bugie. Io detesto le bugie e le punisco senza remissione, m’avete ben capito?» «Le fo umilmente notare che ho ben capito, signor tenente. Non c’è nulla di peggio d’un uomo che dice bugie. Quando comincia a imbrogliarsi, è bell’e perduto. In un 189

villaggio dalle parti di Pilgram c’era un maestro elementare che si chiamava Márek, che faceva la corte alla figliuola di una guardia campestre di nome Š’pera. Costui gli fece sapere che se l’avesse colto nel bosco insieme con la ragazza gli avrebbe subito sparato sul deretano una carica di crini di cavallo mescolati col sale. Il maestro gli mandò a dire che non era vero che lui andasse nel bosco con la ragazza, ma una volta che stava ad attenderla, la guardia campestre lo colse sul fatto e volle metter subito in atto l’operazione che gli aveva promessa. Ma il maestro gli dette a intendere ch’era venuto soltanto a cogliervi fiori, e un’altra volta sostenne di esser venuto alla ricerca di certi insetti, ma nello scusarsi si confuse talmente per lo spavento che aveva, che giurò e spergiurò ch’era venuto a installare delle tagliuole per lepri. Allora la buona guardia campestre lo arrestò e lo condusse alla stazione dei gendarmi, che lo rimandò al tribunale, dove ci mancò poco che lo mandassero in gattabuia. Se avesse detto la verità pura e semplice, non si sarebbe buscato altro che un po’ di sale e di crine nel deretano. Io son dell’avviso che il meglio è sempre quello di confessare e di esser sincero, e per conto mio quando mi capita di commettere qualche marachella, ho l’abitudine di costituirmi e di dichiarare: ‘Fo umilmente notare che ho commesso questo e quello.’ In quanto all’onestà è effettivamente una bella cosa, e con essa si va sempre molto lontano. Come quando si fanno le gare di marcia. Basta che uno faccia delle irregolarità e si metta a correre, è subito squalificato. La cosa capitò a mio cugino. Un uomo onesto è sempre rispettato e stimato, sempre soddisfatto di sé e si sente come rinato quando la sera va a letto e può dire: ‘Un’altra giornata che mi sono comportato onestamente.’ » Per tutta la durata di questo discorso, il tenente Lukáš era rimasto seduto ed assorto nella contemplazione degli stivali di Sc’vèik e nel seguente pensiero: «Dio mio, anch’io non fo che dire le stesse sciocchezze, e la differenza sta tutta nel modo con cui le dico». Ciononostante, per non perder d’autorità, appena Sc’vèik ebbe finito, gli disse: «Con me bisogna avere sempre gli stivali lustri e l’uniforme in ordine, beninteso con i bottoni ben attaccati: per di più bisogna avere un aspetto marziale, non quello d’una canaglia in borghese. È curioso come vi riesca difficile di avere una tenuta militaresca. Solo uno di tutti i miei attendenti aveva un’aria abbastanza guerresca, ma fu lui a rubarmi la grande uniforme e a vendermela nel quartiere ebraico». 190

Dopo una breve pausa, si mise a spiegare a Sc’vèik tutte quante le sue obbligazioni, insistendo soprattutto sui doveri della fedeltà e della discrezione. «Spesso vengono a farmi visita delle signore», egli soggiunse, «e talora qualcuna passa la notte da me, quando sono libero dal servizio per il giorno dopo. In simili casi ci porterete il caffè a letto appena suonerò il campanello, capito?» «Signor tenente, fo umilmente notare che ho capito, perché se entrassi a servire la colazione prima d’esser chiamato, la cosa, per qualche signora, forse potrebbe essere un poco spiacevole. Una volta ho portato una ragazza a casa mia, e la mia affittacamere ci portò il caffè a letto proprio nel momento in cui ne facevamo di tutti i colori. La buona donna s’impaurì e mi scottò il di dietro col caffè rovesciato, mentre balbettava: ‘Buongiorno, signor padrone!’ So benissimo come ci si comporta quando una signora passa la notte in una casa». «Benone, Sc’vèik, con le signore bisogna sempre agire con un tatto straordinario», disse il tenente rasserenato dall’argomento che riempiva tutti i suoi ozi, dopo il tempo in caserma, in piazza d’armi e al tavolino da giuoco. 191

Le donne erano l’anima del suo appartamento, ed erano loro che ne avevan fatto un accoglientissimo focolare. Ne capitavano a dozzine, e molte di loro consumavano tutto il loro soggiorno per adornare la sua abitazione con i ninnoli più svariati. La tenutaria d’un caffè, che passò quattordici giorni in quella casa, finché il marito non venne a riprendersela, gli ricamò una tovaglia magnifica, fornì tutta la biancheria intima d’un monogramma con le iniziali, e gli avrebbe forse confezionato una tappezzeria murale se il marito non avesse spezzato quell’idillio. Una signorina, che i genitori vennero a recuperare dopo tre settimane, aveva l’intenzione di trasformare la sua camera da letto in un vero e proprio boudoir, istallando in ogni dove ninnoli e vasi dalle fogge più curiose, e appendendogli sul letto l’immagine del suo angelo custode. In tutti i cantucci della camera da letto e della sala da pranzo si scoprivan le tracce d’una mano muliebre che si manifestava perfino in cucina, dove si poteva vedere un’intera collezione di coperti e di utensili culinari, che erano il generoso dono d’amore della moglie d’un fabbricante, che gli aveva portato, insieme con l’ardore della propria passione, una macchina per spezzettare i legumi d’ogni sorta, un apparecchio per triturare la carne e grattugiare le patate, casseruole, teglie, gratelle, pentole, macinini e chi più ne ha più ne metta. Ma in capo a una settimana lo lasciò perché non si poteva dar pace al pensiero che oltre a lei il tenente aveva un’altra ventina d’innamorate, situazione che aveva effetti deleteri sulle sue funzioni di gentiluomo in divisa. Il tenente Lukáš manteneva inoltre una enorme corrispondenza, conservava un album con i ritratti delle sue morose, e un’eclettica collezione di reliquie, perché negli ultimi due anni s’eran manifestate in lui delle tendenze feticiste. Infatti egli possedeva parecchie giarrettiere, nonché quattro paia di splendide mutandine ricamate, tre tenui, leggiadre e diafane camicie da giorno, delle camicette di seta, ed infine un corsetto e qualche paio di calze. «Oggi son di servizio», egli disse, «e rientrerò questa notte: fate attenzione a quanto vi ho detto e mettetemi in ordine l’appartamento. Il mio ultimo attendente oggi paga la sua negligenza marciando con un reggimento di linea verso il fronte!» Dopo aver dato altri ordini concernenti il canarino e il gatto d’angora, egli uscì non senza parlare ancora fin sulla soglia d’ordine e d’onestà. 192

Quando fu uscito, Sc’vèik si fece in quattro per mettere tutto in ordine nell’appartamento, cosìcché quando a notte il tenente Lukáš fece ritorno a casa, Sc’vèik poté dichiarare: «Fo umilmente notare, signor tenente, che tutto è in ordine. Non c’è stato che il gatto che ce ne ha fatta una bella e che s’è divorato il canarino». «Come come?» domandò l’ufficiale con voce tonante. «Fo umilmente notare, signor tenente, che la cosa è accaduta così. Io sapevo che i gatti non amano i canarini e che fanno loro volentieri del male. Così ho voluto che facessero amicizia e li ho messi insieme, e nel caso che il gatto avesse inteso di farne una delle sue, mi prefiggevo di tirargli un po’ il pelo, perché finché fosse vivo non si scordasse come si deve trattare un canarino. Infatti io voglio molto bene alle bestie. Nella casa dove sto io c’è un cappellaio che voleva ammaestrare un gatto, e si fece mangiare tre canarini, dopo però riuscì a condurlo fino al punto di lasciarseli posare sul dorso. Anch’io volevo fare questa esperienza, ed ho tirato il canarino fuori della gabbia, e gliel’ho fatto fiutare, ma quella bestiaccia, prima ancora che me n’accorgessi, gli ha portato via con un morso la testa. Io davvero non l’avrei mai ritenuto capace di tanta brutalità. Passi ancora se fosse un passerotto, signor tenente, ma un canarino del Harz! E come lo mangiò golosamente con le penne, e come sospirava di piacere! Pare che i gatti siano privi d’educazione musicale e non possano sopportare un canarino che canta, perché non ci capiscono nulla. Io l’ho un po’ maltrattato, ma Dio guardi, non gli ho fatto nulla, e ho aspettato che tornasse lei per decidere che s’ha da fare con quella sporca bestiaccia». Durante la narrazione, Sc’vèik guardava con tanta innocenza l’ufficiale negli occhi, che costui frenò la sua minacciosa intenzione di saltargli addosso, anzi fece due passi indietro, si sedè su una seggiola e gli domandò: «Statemi a sentire, Sc’vèik, siete davvero la bestiolina del buon Dio che sembrate?» «Le fo umilmente notare, signor tenente, di sì», rispose Sc’vèik trionfalmente. «Fin da ragazzo ho sempre avuto una straordinaria disdetta. Io voglio sempre far bene e migliorare le cose, e ne vien sempre qualche seccatura per me e per chi mi sta vicino. Io volevo sul serio che il gatto e il canarino facessero amicizia e si amassero a vicenda, e non ci ho colpa se il gatto s’è mangiato il canarino; anche questo sarà stato per far conoscenza. In una casa di Stùpart qualche anno fa un gatto si divorò perfino un pap193

pagallo, perché lo prendeva in giro e gli faceva il verso. Però i gatti hanno la vita dura. Se il signor tenente mi comanda di dargli una lezione, io lo schiaccerò fra i battenti dell’uscio, non c’è altro modo di venirne a capo». E il buon Sc’vèik, con la faccia più innocente e il sorriso più bonario del mondo, iniziò l’ufficiale nell’arte d’uccidere i gatti, ed i particolari della sua esposizione sarebbero stati capaci di mandare al manicomio tutti i membri della Società protettrice degli animali. In questo campo rivelò una competenza talmente specializzata che la collera dell’ufficiale svanì all’improvviso, tant’è vero che gli fece questa domanda: «Voi v’intendete di bestie? Avete amore e comprensione per gli animali?» «Più che altro m’interessano i cani», disse Sc’vèik, «perché sono un commercio fruttifero per chi li sa vendere. Io dapprima non ci riuscivo, perché son sempre stato troppo onesto; e ciononostante la gente veniva da me a protestare d’aver loro venduto una carogna invece d’un cane di razza e in buona salute, come se tutti i cani dovessero essere sanissimi o dei purosangue. E tutti quanti pretendevano una buona genealogia; cosìcché dovetti fare stampare dei pedigrees, e mutare un cagnaccio di sobborgo, ch’era nato in una fornace, in uno dei più rari esemplari usciti dal canile dell’allevatore bavarese Armin von Barheim. E la gente era così contenta d’aver la fortuna di tenersi in casa un animale di razza, che io appioppavo loro un cagnetto di Vérsciovize per un bassotto, e loro si meravigliavano perché un cane così raro, che veniva dalla Germania, fosse peloso e non avesse le gambe storte. Queste son cose che si fanno in tutti i canili, e lei signor tenente non s’immagina con quanti trucchi anche nei più riputati allevamenti si stabiliscono le genealogie. I cani che posson vantarsi d’esser di razza pura sono rarissimi. O la madre o la nonna perse un bel giorno la testa per un mostriciattolo, o hanno avuti parecchi padri, ereditando qualcosa di particolare da ciascheduno: gli orecchi d’uno, la coda e il pelo sul muso d’un altro, il grugno d’un terzo, il piede zoppo d’un quarto e la grandezza d’un quinto; e quando un animale ha avuto una dozzina di padri di questa fatta, il signor tenente si può immaginare che razza di cane verrà fuori. Io una volta comprai un cane cosìffatto, Balaban, che a forza di tanti padri era così brutto che tutti i cani lo schivavano; ed io lo acquistai per fare un’opera di carità, visto ch’era così derelitto. Ma mi stava sempre tutto triste e rincantucciato, fino a che lo dovetti vendere per un can da pagliaio. 194

Mi dette un gran da fare per ritingerlo, e per fargli avere un bel pelame pepe e sale. Così ridotto se n’andò col suo nuovo padrone in Moravia, e d’allora in poi non l’ho più rivisto». Il tenente cominciava a prendere interesse a questa dissertazione cinologica, che Sc’vèik proseguì senza interruzione. «I cani non sono in grado di tingersi le chiome da sé come usano far le signore, ed allora ci deve pensare colui che ha intenzione di venderli. Quando un cane è così inoltrato negli anni da aver tutto il pelame grigio, e volete venderlo per un canino d’un anno, o vi piace addirittura di farlo passare per un cucciolino quando è già nonno, voi non avete che a prendere un po’ d’argento vivo, farlo fondere e ridipingerlo tutto a nero che sembri nuovo. Per ridargli forza nutritelo come un cavallo con delle dosi di arsenico e lustrategli la dentatura con della carta vetrata, di quella buona a ripulire i coltelli arrugginiti. E prima di portarlo dall’acquirente, fategli inghiottire un grappino, perché si riscaldi un poco, e diventi allegro e vivace, latri gioiosamente e festeggi tutti quelli che incontra, come un funzionario ubriaco. Ma la cosa principale è quella di chiacchierare il più che possibile col cliente in modo da fargli perdere completamente le staffe. Per esempio se si presenta uno che vuol comprare un levriero mentre voi in casa non avete altro che un comune cane da caccia, dovete esser capace di fargli cambiar completamente di parere, e far sì che invece del levriero si porti via il cane da caccia. Così pure se per caso non avete che un fox-terrier e qualcuno viene a chiedervi un bel mastino germanico per cane da guardia, gli dovete montar talmente la testa da farlo andar via col cagnolino in tasca invece che col cagnone al guinzaglio. Quando io commerciavo in animali, venne da me una signora che aveva un pappagallo che era scappato in un giardino. Ora c’era una villa con lì davanti dei ragazzi che giocavano agli indiani e che dopo averlo preso gli avevano strappato le penne della coda e se l’erano inalberate sul capo come un piumino da gendarmeria. Il pappagallo s’era ammalato dalla vergogna d’aver perduto la coda, e un veterinario aveva finito d’ammazzarlo somministrandogli certe polverine. Dunque la signora voleva comprare un altro pappagallo, ma ben educato, non così sboccato come quello di prima, che non faceva altro che bestemmiare. Che cosa dovevo fare io che non tenevo un pappagallo, né sapevo dove trovarne uno, mentre invece avevo a casa un brutto mastino che aveva perduto la vista? 195

Fatto sta, signor tenente, che dovetti discutere con quella signora dalle quattro alle sette pomeridiane prima di farle comprare il mastino cieco al posto del suo pappagallo. Fu peggio che un incidente diplomatico e quando lei se n’andò, io le dissi: ‘Si provino con lui a strappargli la coda i ragazzi!’ In seguito non l’ho più riveduta, ma ho saputo che a causa del mastino dové lasciar Praga, perché aveva morso tutti gl’inquilini del suo casamento. Mi creda pure, signor tenente: è un brutto affare procurarsi una bestia come si deve!» «Io voglio molto bene ai cani», disse il tenente: «alcuni miei amici che si trovano al fronte e che hanno con sé il proprio cane, m’hanno scritto che la guerra fatta in compagnia d’un animale così fedele e devoto è molto più sopportabile. Vedo che voi conoscete bene tutte le razze canine, e son sicuro che se io ne avessi uno, voi lo terreste con cura. Secondo voi, quale razza è più consigliabile? Voglio dire nel senso d’un cane che faccia compagnia. Anch’io un tempo avevo un grifone, ma non credo…» «Secondo me, signor tenente, un can barbone è un cane consigliabilissimo. Certo che non piace a tutti, perché ha tutto quel pelo così fitto e dei baffi così ispidi sul grugno, che ha l’aria d’un forzato evaso. È tanto brutto che ciò lo rende quasi bello, e per di più è molto intelligente. Non c’è confronto con un idiota di San Bernardo ed è ancora più intelligente d’un fox-terrier. Io ne conosco uno…» Il tenente Lukáš dette un’occhiata all’orologio e interruppe la dissertazione di Sc’vèik: «È già tardi, e voglio andare a letto. Domani sono ancora di servizio, così potete dedicar tutta la vostra giornata alla ricerca d’un can barbone». E se n’andò a dormire, mentre invece Sc’vèik si distese sul divano di cucina, e si mise a leggere i giornali che il tenente aveva portato dalla caserma. «Guarda un po’», disse Sc’vèik fra sé percorrendo con interesse il notiziario degli avvenimenti del giorno, «il sultano ha decorato l’imperatore Guglielmo con la medaglia al valore, mentre io invece non ho neppure quella di bronzo». Restò un po’ sovrappensiero, poi saltò giù all’improvviso: «All’altra me lo scordavo!…» E si recò nella camera del tenente, che dormiva già della grossa, e lo risvegliò. «Fo umilmente notare, signor tenente, che non ho avuto nessun ordine riguardo al gatto». Il tenente immerso nel dormiveglia si voltò dall’altra 196

parte mormorando: «Tre giorni di consegna!» e si riaddormentò. Sc’vèik fece ritorno in cucina, tirò fuori il povero gatto di sotto al divano, e gli disse: «Tre giorni di consegna: rompete le righe!» E il gatto d’angora si ficcò nuovamente sotto il divano.

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IV Sc’vèik s’accingeva ad uscire per darsi alla ricerca del can barbone, quando una giovane signora sonò il campanello e domandò di parlare col tenente Lukáš. A lato le stavano due grossi bauli, e Sc’vèik fu a tempo a scorgere fra i ferri della ringhiera il berretto di un facchino che scendeva le scale. «Non è a casa», disse seccamente Sc’vèik. Ma la giovane signora era già entrata nell’anticamera, e ordinò categoricamente a Sc’vèik: «Portare i bauli in camera». «Senza l’autorizzazione del signor tenente non va», disse Sc’vèik. «Il signor tenente mi ha ordinato di non far nulla senza di lui». «Siete impazzito?» gridò la giovane signora; «io son venuta a far visita al signor tenente». «Io non ne so nulla», rispose Sc’vèik: «il signor tenente è di servizio, tornerà stasera tardi, ed io ho ricevuto l’ordine di trovargli un can barbone. Io non ho sentito parlare né di bauli né d’una signora. Ora io chiudo a chiave l’appartamento, e la prego d’esser così gentile da andarsene. Non mi è stato annunziato nulla e non posso lasciare 198

nell’appartamento una persona estranea che non conosco. Come quella volta che il pasticciere Bělčiky di questa strada lasciò entrare un uomo, e quello scassinò un armadio e scappò via». «Io non penso male di lei», riprese Sc’vèik quando vide che la signora s’era messa a piangere e a disperarsi, «ma è positivo che lei non può restar qui: lei vede da sé che l’intero appartamento mi è stato affidato, e che io son responsabile d’ogni piccolezza. Perciò la prego ancora una volta, con tutta la gentilezza possibile, di non insistere. Finché il signor tenente non me lo ordina, non riconosco nemmeno mio fratello. Davvero mi rincresce doverle parlare così, ma nell’esercito deve esserci ordine». Nel frattempo la giovane signora s’era rimessa un poco. Tirò fuori un biglietto da visita dalla borsa, vergò due righe a matita, lo mise in una bella bustina, e disse sommessamente: «Portate questo al signor tenente, mentre io aspetterò la risposta. Ecco cinque corone per la vostra ambasciata». «Non serve a nulla», disse Sc’vèik irritato dall’ostinazione dell’inaspettata visitatrice; «lasci andare le sue cinque corone; mettiamole su questa sedia e andiamo insieme alla caserma; mi aspetti là, intanto che io porterò la lettera al signor tenente e gliene recherò la risposta. Ma d’aspettar qui non ne parliamo nemmeno». Così dicendo spinse i bauli nell’anticamera, e facendo tintinnare le chiavi come il custode di un castello, gridò dalla porta in tono significativo: «Si chiude!» La signora varcò con aria disperata la soglia, e Sc’vèik serrò l’uscio e andò avanti. La visitatrice trotterellò dietro di lui come un cagnolino e non raggiunse Sc’vèik se non quando questi si fermò a comprare sigarette ad uno spaccio. Essa gli camminava accanto e faceva l’impossibile per attaccare conversazione: «Ma gliela darete davvero?» «Sicuro, quando ho detto così». «E lo troverete, il signor tenente?» «Questo non lo so». Camminarono per un poco insieme senza dir nulla, ma un momento dopo l’accompagnatrice di Sc’vèik riprese di nuovo a discorrere: «Allora credete di non trovarlo, il signor tenente?» «No, non lo credo». «E dove credete che possa essere?» «Questo non lo so». Qui la conversazione s’interruppe per un intervallo più 199

lungo, ma fu ripresa di nuovo da una domanda della signora: «Non avete mica perso la lettera?» «Finora no». «Allora la porterete al signor tenente?» «Si». «Ma lo troverete?» «Le ho già detto che non lo so», rispose Sc’vèik. «Mi fa sempre meraviglia come ci possa essere della gente così curiosa, che non smette mai di domandarti la medesima cosa. Sarebbe lo stesso che io fermassi per istrada un passante sì e un passante no per domandargli quanti ne abbiamo oggi». Così ebbe termine il tentativo d’attaccar discorso con Sc’vèik, e il resto della strada fino alla caserma trascorse in perfetto silenzio. Quando furono giunti dinanzi alla caserma, Sc’vèik invitò la giovane signora ad attendere, e iniziò coi soldati sulla porta una discussione intorno alla guerra, il che dové fare un immenso piacere alla giovane signora, tanto è vero che prese a passeggiare nervosamente sul marciapiede, oscurandosi in faccia a vedere che Sc’vèik continuava la sua conferenza con un’espressione non meno stupida di quella che si poteva vedere nella fotografia che era apparsa in quei giorni nella Cronaca della Guerra Mondiale, con la dicitura: «Il Principe ereditario austriaco a colloquio con due aviatori che hanno abbattuto un aeroplano russo». Sc’vèik si sedè sulla panca all’ingresso, esponendo come e qualmente sul fronte dei Carpazi gli attacchi dell’esercito avessero fatto fallimento, ma che in compenso il comandante della piazza di Přemysl, generale Kusmanek, avesse già raggiunto Kiev1; come infine ci restassero in Serbia undici centri strategici, e che i serbi si sarebbero presto stancati di correre dietro ai nostri soldati. Poi intraprese una critica serrata delle operazioni in corso, e fece la grande scoperta, nuovo castello in aria, che un reparto circondato da ogni parte non ha altra alternativa che la resa. Quando ebbe chiacchierato abbastanza, gli parve opportuno di uscire sul marciapiede per dire alla povera signora che sarebbe tornato subito e che l’aspettasse; poi salì in fureria, dove trovò il tenente Lukáš proprio mentre stava correggendo il diagramma di una trincea a un sotto1   In realtà, doveva capitolare ed esser fatto prigioniero con la sua guarnigione.

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tenente, e gli dichiarava che non sapeva disegnare e che non capiva un’acca di geometria. «Vedete, è così che si deve disegnare. Quando si vuole tracciare su una data linea retta una linea verticale, si deve disegnarla in maniera che formi un angolo retto con la prima. Comprendete? Solo in questa maniera potete tracciare esattamente le vostre trincee, senza farle andare a finire in mezzo al nemico. Anzi ne resterete distante un seicento metri. Ma così come voi l’avete disegnata, voi fareste penetrare le nostre posizioni nella linea nemica, anzi le vostre trincee starebbero a perpendicolo sul nemico, mentre invece quello di cui avete bisogno è un angolo ottuso. Eppure la cosa è semplice, non vi pare?» E il sottotenente di complemento, da borghese cassiere in una banca, stava tutto perplesso a contemplare quei piani, senza raccapezzarci nulla, quando dette un sospiro di sollievo alla vista di Sc’vèik, che s’accostò al tenente per dirgli: «Fo umilmente notare, signor tenente, che una signora le manda questa lettera e attende risposta». Così dicendo ammiccò in modo confidenziale e significativo. Il tenore della lettera sembrò fare sul tenente un’impressione tutt’altro che buona: «Lieber Heinrich! Mein Mann verfolgt mich. Ich muss unbedingt bei Dir ein paar Tage gastieren. Dein Bursch ist ein grosses Mistvieh. Ich bin unglücklich. Deine Katy».2 Il tenente Lukáš sospirò, fece entrare Sc’vèik nella adiacente fureria, che era vuota, chiuse la porta e si mise a passeggiare in su e in giù. Quando finalmente si fu fermato dinanzi a Sc’vèik, gli disse: «La signora mi scrive che voi siete un bruto. Che cosa le avete fatto?» «Fo umilmente notare che non le ho fatto nulla, signor tenente. Io mi son portato come si deve, ma lei voleva installarsi nell’appartamento. E siccome io non avevo ricevuto alcun ordine da lei, così non le ho permesso d’entrare. E dire che lei era venuta con due bauli come se fosse a casa propria». Il tenente trasse un altro profondo sospiro, e Sc’vèik lo imitò. «Che dite?» gridò il tenente in tono minaccioso. «Fo umilmente notare, signor tenente, che è una brutta faccenda. Due anni fa, in Via Adalberto, una ragazza 2   Caro Enrico, mio marito mi perseguita. Devo assolutamente approfittare della tua ospitalità per un paio di giorni. Il tuo attendente è un bruto. Sono infelice. La tua Cate.

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s’introdusse in casa d’un tappezziere, e siccome non gli riuscì di cacciarla dall’appartamento, così lui e lei furono costretti ad asfissiarsi col gas. Con le donne è un guaio. Io le conosco». «Una brutta faccenda», ripetè il tenente, senza sapere che non aveva mai detto una verità così grande. Il caro Enrico si trovava davvero in una situazione terribile. Una donna maritata perseguitata dal marito era venuta a fargli visita per qualche giorno proprio quando doveva venire la signora Mickova di Třebon, per ripetere nel corso di tre giorni quello che regolarmente soleva fare una volta al trimestre, quando si recava a Praga per fare acquisti. Due giorni dopo doveva arrivare una ragazza. Gli aveva categoricamente promesso di lasciarsi sedurre da lui dopo averci pensato su una settimana, poiché entro un mese doveva andare sposa a un ingegnere. Il tenente rimase a testa china sulla tavola a riflettere, senza trovare alcuna via d’uscita, finché non si risolse di prendere carta e busta e scrisse quanto segue su un formulario ufficiale: «Cara Katy, sono di servizio fino alle nove di sera. Rientrerò alle dieci. Fa’ conto, ti prego, d’essere a casa tua. In quanto a Sc’vèik, il mio attendente, gli ho già dato ordine di soddisfarti in tutto. Il tuo Enrico». «Questa lettera», disse il tenente, «la consegnerete alla signora. Vi ordino di trattarla con onore e rispetto e di adempire a tutti i suoi desideri, che considererete come comandi. Dovete comportarvi da gentiluomo e servirla con rispetto. Eccovi cento corone, di cui mi renderete conto, perché forse vi manderà fuori a comprarle qualcosa. Dovete ordinarle pranzo, cena, eccetera. Le comprerete tre bottiglie di vino ed un pacchetto di sigarette Memphis. Va bene così. Per ora basta. Ora potete andarvene, ma ancora vi raccomando di far per lei tutto quello che potrete capire da voi che ne ha voglia». La giovane signora aveva già perso ogni speranza di rivedere Sc’vèik e fu molto sorpresa quando lo vide uscire dalla caserma e venirle incontro con una lettera. Sc’vèik salutò, le consegnò la lettera e dichiarò: «Per ordine del signor tenente io devo trattarla, gentile signora, con onore e rispetto, e farle tutto quello che posso capire da me che lei voglia. Devo darle da mangiare e comprarle quello che lei desidera. Ho ricevuto a tale scopo cento corone dal signor tenente, ma ci devo comprare tre bottiglie di vino e un pacchetto di Memphis». Appena la signora ebbe letto la lettera, riacquistò subito 202

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tutta la sua energia, che espresse col dare immediatamente ordine a Sc’vèik di chiamarle una carrozza. Quando fu fatto, gli comandò di salire a cassetta col vetturino. Fu così che si recarono a casa. Quando furono nell’appartamento, la signora recitò in modo eccellente la parte di padrona di casa. Sc’vèik dové portare i bauli in camera da letto e battere i tappeti in cortile. Un minuscolo ragnatelo dietro lo specchio la mandò su tutte le furie. Tutto dava a divedere che essa intendeva sul serio di trincerarsi per lungo tempo su quella linea strategica. Sc’vèik sudava. Dopo avergli fatto battere i tappeti, le venne in testa che doveva tirar giù le cortine e pulirle. Poi gli dette l’ordine di lavare i vetri in camera e in cucina. Poi cominciò a fargli spostare i mobili, il che la rese nervosa, e dopo che Sc’vèik. ebbe passato tutto il mobilio da un angolo all’altro, non le andò a genio, fece riarrangiare tutto da capo ed escogitò una nuova disposizione. Così fece mettere tutto l’appartamento sottosopra, finché la voglia di riorganizzare il nido andò in fumo e la scorreria ebbe fine. Dall’armadio essa prese biancheria da letto pulita, mise a posto il guanciale e il piumino, e si capiva che doveva rifare il letto con grande passione, perché quell’oggetto le faceva trascorrere un palpito sensuale sulle narici. Subito dopo mandò Sc’vèik fuori per il pranzo ed il vino. E prima che facesse ritorno, indossò una vestaglia trasparente, che la rendeva oltremodo seducente ed eccitante. A pranzo si bevve una bottiglia di vino, si fumò parecchie Memphis e si mise a letto, mentre Sc’vèik si mangiava con gusto in cucina una pagnotta inzuppata in grappa con lo zucchero. «Sc’vèik!» chiamò dalla camera: «Sc’vèik!» Sc’vèik aprì la porta e scorse la giovane signora in una languida posizione fra mezzo ai guanciali. «Avanti!» Egli s’avvicinò al letto ed essa misurò la corporatura tarchiata e le solide cosce di Sc’vèik con un sorriso singolare. Scostando il velo sottile che copriva e celava le sue grazie, essa disse con voce severa: «Levatevi gli stivali e i calzoni! Fatemi vedere…» Così fu che il buon soldato Sc’vèik fu in grado di dichiarare al tenente, «quando questi fece ritorno a casa dalla ca­serma: «Fo umilmente notare, signor tenente, d’aver adempito a tutti i desideri della giovane signora e d’averla servita con rispetto secondo il suo ordine». 204

«Vi ringrazio, Sc’vèik», disse il tenente; «ne ha avuti molti, di desideri?» «Circa sei», rispose Sc’vèik: «ed ora dorme per la stanchezza della corsa. Io le ho fatto tutto quello che si capiva da sé che ne aveva voglia».

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V Mentre masse d’uomini armati, scaglionati nelle foreste lungo il Dunajec e il Rab, stavano sotto una pioggia di granate, e bocche da fuoco di grosso calibro decimavano e disperdevano nei Carpazi intere compagnie, mentre gli orizzonti di tutti i campi di battaglia avvampavano degli in­cendi di città e villaggi, il tenente Lukáš, in compagnia del suo Sc’vèik, conduceva di mala voglia il suo idillio con la signora che era fuggita dal marito e che ora gli recitava la parte della padrona di casa. Quando la signora fu uscita per la sua passeggiata, il tenente Lukáš tenne consiglio di guerra con Sc’vèik, per vedere come se ne potesse liberare. «Il meglio sarebbe, signor tenente», diceva Sc’vèik, «che quel suo marito da cui lei è scappata, e che la cerca, come dice la lettera che le ho portato, potesse sapere dove si trova, così che venisse a prendersela. Il meglio sarebbe mandargli un telegramma che gli dicesse che è da lei e che può portarsela via. Un caso di questo genere successe in una villa vicino a Všenorich l’anno passato. Ma quella volta fu la signora che mandò lei stessa un telegramma a suo marito, 206

e lui venne e li schiaffeggiò tutti e due. Erano due borghesi, ma nel nostro caso nessuno oserebbe fare lo stesso con un ufficiale. Del resto lei non ci ha nessuna colpa perché lei non ha invitato nessuno e quando questa signora è scappata di casa l’ha fatto di testa sua. Vedrà che un telegramma la servirebbe a puntino. E anche se ci dovesse cascare un paio di ceffoni…» «È un uomo molto intelligente», interruppe il tenente Lukáš, «lo conosco bene, traffica in luppolo all’ingrosso. Bisogna assolutamente che gli parli. Gli manderò un telegramma». Il telegramma che gli mandò era straordinariamente concreto e conciso: «Il presente recapito di sua moglie è…» Seguiva l’indirizzo di casa del tenente Lukáš. Fu così che la signora Katy ebbe un bel giorno la sgradita sorpresa d’imbattersi sulla soglia col trafficante di luppolo. Fu con l’aria più serena e rispettosa ch’egli guardò la signora Katy, quando quest’ultima, senza perdersi di spirito in quel frangente, fece le presentazioni reciproche: «Mio marito… Il signor tenente Lukáš». Non le era venuto in testa di fare altrimenti. «S’accomodi, signor Wendler», invitò cortesemente il tenente Lukáš, e gli chiese, dopo aver estratto di tasca l’astuccio delle sigarette: «Posso offrire?» L’intelligente trafficante in luppolo prese con compitezza una sigaretta, fece uscire dalle labbra una nuvoletta di fumo, e domandò cortesemente: «Parte presto per il fronte, signor tenente?» «Ho fatto domanda d’essere trasferito al novantunesimo reggimento di guarnigione a Budějovice, dove probabilmente mi recherò appena avrò finito il mio servizio con la scuola volontari d’un anno. Abbiamo bisogno ingente di ufficiali ed oggigiorno è davvero un triste fenomeno che pochi giovani non si valgano del loro diritto al volontariato d’un anno. Così preferiscono restare semplici fantaccini, piuttosto che sforzarsi di diventare allievi ufficiali». «La guerra ha danneggiato considerevolmente il commercio del luppolo, ma credo che non possa durare più a lungo», fece notare il trafficante in luppolo mentre osservava ora sua moglie ora il tenente. «La nostra situazione è eccellente», disse il tenente Lukáš: «ormai nessuno dubita che la guerra finisca altrimenti che con la vittoria delle armi delle potenze centrali. Francia, Inghilterra e Russia sono troppo deboli al confronto del granitico blocco austro-turco-tedesco. È vero che abbiamo 207

subìto degli insignificanti insuccessi su qualche fronte. Ma appena avremo rotto il fronte russo fra lo spartiacque carpatico e il medio Dunajec, non v’è il menomo dubbio che vorrà dire la fine della guerra. I francesi sono egualmente minacciati dall’imminente perdita di tutta la Francia orientale e dall’entrata dell’esercito tedesco a Parigi. La cosa è fuori dubbio. Come se non bastasse, le nostre operazioni in Serbia procedono con grande successo, e il ripiegamento delle nostre truppe, che non è in effetto altro che un nuovo spiegamento di forze, va inteso, malgrado le opinioni in contrario, come una prova del sangue freddo con cui si deve diriger la guerra. Da un giorno all’altro vedremo che la nostra manovra sullo scacchiere meridionale avrà portato frutto. Guardi, la prego…» Il tenente Lukáš prese dolcemente il trafficante in luppolo per la spalla, lo condusse dinanzi ad una grande carta del fronte appesa al muro, e indicandogli alcuni punti, spiegò: «I Beschidi orientali sono per noi un’eccellente base di operazione. Nei settori del fronte carpatico abbiamo, come lei può vedere, un ottimo punto d’appoggio. Un potente attacco su questa linea e nessuno ci ferma prima di Mosca. La guerra finirà prima che non ci si aspetti». «E la Turchia?» chiese il trafficante in luppolo, mentre si torturava il cervello per trovare il modo di arrivare a parlare della faccenda per cui era venuto. «I turchi si stanno portando bene», replicò il tenente riconducendo il suo interlocutore verso la tavola. «Hali Bey, il presidente del parlamento turco, è appena arrivato a Vienna in compagnia di Ali Bey. A comandante supremo della armata turca dei Dardanelli è stato designato il maresciallo da campo Liman von Sanders. Goltz Pascià si è recato da Costantinopoli a Berlino, e Enver Pascià, il contrammiraglio Usedom Pascià, e il generale Gievad Pascià sono stati decorati da Sua Maestà. Un numero di decorazioni molto grande in così breve tempo». Rimasero a lungo seduti di fronte in silenzio, finché il tenente non ritenne opportuno di rompere quella situazione penosa con le seguenti parole: «Quando è arrivato, signor Wendler?» «Stamattina presto». «Son davvero contento che mi abbia trovato a casa, perché il pomeriggio vado in caserma e fo servizio di notte. Siccome l’appartamento resta vuoto si può dire tutto il giorno, sono stato in grado d’offrire ospitalità alla signora. Nessuno qui l’ha disturbata nel corso del suo soggiorno a Praga. Per la nostra vecchia conoscenza…» 208

Il trafficante in luppolo tossì: «Katy è davvero una donna straordinaria, signor tenente: e voglia accettare i miei più sentiti ringraziamenti per tutto quello che ha fatto per lei. All’improvviso le salta in testa di venire a Praga per una cura di nervi: io son in viaggio, ritorno, e trovo la casa vuota. Katy è via». Cercando di fare la faccia più convincente possibile, la minacciò col dito e le chiese con un sorrisino forzato: «Probabilmente hai pensato perché anche tu non avresti dovuto essere in viaggio quando ero in viaggio io. Però non t’era venuto in mente…» Quando vide che la conversazione prendeva un giro poco gradevole, il tenente Lukáš ricondusse l’intelligente trafficante in luppolo davanti alla carta del fronte, e additandogli alcune località col nome sottolineato, gli disse: «Mi ero dimenticato di farle notare una particolarità interessante. Guardi questo arco volto a sud-ovest, dove questa catena di montagne forma una testa di ponte. È qui che si appoggia l’offensiva degli alleati. Mediante l’occupazione di questa linea ferroviaria che collega la testa di ponte coi capo-saldi della linea di resistenza nemica, bisogna rompere il contatto fra l’ala destra e l’armata del Nord sulla Vistola. Mi spiego?» Il trafficante di luppolo rispose che la cosa era perfettamente chiara, e poiché, pieno di tatto com’era, temè che quello che aveva detto potesse essere ritenuto un’offesa, tornò al suo posto e disse: «Questa guerra ha fatto perdere al nostro luppolo tutti i suoi mercati esteri. La Francia, l’Inghilterra, la Russia e i Balcani sono ormai perduti per il luppolo. Mandiamo ancora del luppolo in Italia, ma ho paura che anche l’Italia voglia entrare in ballo. Ma quando avremo vinto, saremo noi a imporre i prezzi per le merci». «L’Italia manterrà la neutralità più assoluta», lo consolò il tenente, «vale a dire…» «Ma allora perché non dichiara che è legata all’AustriaUngheria e alla Germania per il patto della Triplice Alleanza?» esclamò bruscamente il trafficante in luppolo, a cui tutto quanto, luppolo, moglie e guerra, ballava allo stesso tempo nella testa; «io m’aspettavo che l’Italia si sarebbe scagliata contro la Francia e la Serbia. Allora la guerra sarebbe finita subito. Invece ora il luppolo mi va a male nei magazzini, le ordinazioni interne sono poche, l’esportazione è ridotta praticamente a zero e l’Italia mantiene la sua neutralità. Allora perché l’Italia ha rinnovato con noi il patto della Triplice nel 1912? E dov’è il ministro italiano degli Affari Esteri, il marchese di San Giuliano? Che fa 209

quel signore? Che stia forse dormendo? Sa lei quale introito annuo avevo prima della guerra e quale introito ho ora?» «Non creda che io non segua gli avvenimenti», riprese fissando uno sguardo furioso sul tenente, che tranquillamente soffiava cerchi di fumo che s’inseguivano e si rompevano. «Perché i tedeschi si son ritirati sulla frontiera quando erano di già davanti a Parigi? Perché hanno ancora luogo quegli accaniti duelli d’artiglieria fra la Mosa e la Mosella? Sa lei che a Combres e a Woévre presso Marche sono bruciate tre fabbriche di birra a cui noi fornivamo ogni anno cinquecento sacchi di luppolo? E che nei Vosgi è stata bruciata la fabbrica di birra Hartsmansweiler, e che un’altra grande fabbrica di birra è stata rasa al suolo a Niederanspach presso Mühlhausen? Questo per la mia ditta vuol dire una perdita annua di milleduecento sacchi di luppolo. Tedeschi e belgi si son battuti sei volte per la fabbrica di birra di Klosterhock, il che vuol dire la perdita di altri centocinquanta sacchi di luppolo all’anno». Poiché l’agitazione gl’impediva di continuare a parlare, si avvicinò a sua moglie e le disse: «Katy, tu verrai subito a casa con me. Vestiti». «Tutti questi avvenimenti m’agitano troppo», disse un istante più tardi in tono di scusa: «prima mi riusciva di essere più calmo». Quando la signora se ne fu andata a vestirsi, egli disse a bassa voce al tenente: «Non è la prima volta che fa così. L’anno passato se ne andò con un professore supplente e non la ritrovai che a Zagabria. Approfittai di quell’occasione per fare un affare di seicento sacchi di luppolo con la birreria municipale di quella città. Be’, il Sud in particolare era per noi una miniera d’oro. Il nostro luppolo arrivava fino a Costantinopoli. Oggi son mezzo rovinato. Se il governo dovesse limitare la produzione locale della birra, sarebbe un colpo mortale». E mentre accendeva la sigaretta che gli era stata offerta, soggiunse in tono perplesso: «La sola Varsavia comprava duemilatrecentosettanta sacchi di luppolo. La più grande fabbrica di birra è lassù l’Agostiniana. Il loro rappresentante veniva a farmi visita tutti gli anni. È una cosa da disperare. Meno male che non ho bambini». La conclusione logica tratta dalle visite annuali del rappresentante della fabbrica di birra l’Agostiniana di Varsavia ebbe l’effetto di far sorridere il tenente, e il trafficante di luppolo se n’accorse, e riprese le sue spiegazioni: «Le fabbriche ungheresi di birra a Sopron e a Gran-Kanisza, per la loro birra d’esportazione, che mandavano fino ad Ales210

sandria, ordinavano alla mia ditta in media mille sacchi di luppolo all’anno. Ora hanno sospeso tutte le ordinazioni per via del blocco. Io offro loro il mio luppolo con uno sconto del 30 per cento, e non ne ordinano neanche un sacco. Depressione, rovina, miseria, e, come se non bastasse, preoccupazioni familiari». Il trafficante in luppolo ammutolì e il silenzio fu rotto soltanto dalla signora Katy, quando, pronta a partire, rientrò e disse: «Come faremo coi miei bauli?» «Li manderemo a prendere, Katy», disse il trafficante in luppolo, rasserenato che la cosa fosse finita senza chiasso e senza scenate. «Se vuoi fare qualche altro acquisto, è ora di andarsene. Il treno parte alle due e venti». I due si congedarono amichevolmente dal tenente e il trafficante in luppolo era così contento che la faccenda fosse ormai finita, che disse al tenente nell’anticamera al momento dei saluti: «Nel caso che, Dio ce ne guardi, lei restasse ferito in guerra, venga a casa nostra che noi la cureremo il meglio possibile…» Quando il tenente fu tornato nella camera da letto dove la signora s’era vestita da viaggio, trovò sul lavandino quattrocento corone ed un biglietto del seguente tenore: «Signor tenente, lei non ha preso la mia parte di fronte a quell’asino di mio marito, un idiota di prima classe. Lei gli ha permesso di portarmi via da casa sua come un oggetto dimenticato in un’abitazione. Per di più lei si è permesso di osservare d’avermi offerto ospitalità. Spero di non averla esposta ad alcuna spesa in eccesso di queste quattrocento corone, che la prego di spartire col suo attendente». Il tenente Lukáš rimase un momento fermo col biglietto in mano, poi, lentamente, lo fece a pezzi. Guardò sorridendo il denaro lasciato sul lavandino, e quando s’accorse che nella confusione la signora aveva dimenticato sul comodino il pettine con cui s’era arricciati i capelli dinanzi allo specchio, lo mise da parte insieme alla sua collezione di reliquie. Sc’vèik fece ritorno verso mezzogiorno. Era stato in cerca del can barbone per il tenente. «Sc’vèik», disse il tenente, «voi siete fortunato. La signora che era qui se n’è andata. Il marito è venuto a portarsela via. Per tutti i servizi che le avete fatto, vi ha lasciato quattrocento corone sul lavandino. Dovete ringraziarla cortesemente, o meglio dovete ringraziare suo marito, perché i denari che lei s’era presa per il viaggio son soldi suoi. Vi detterò una breve lettera». E gli dettò: 211

« ‘Egregio signore, voglia accogliere i miei più sentiti ringraziamenti per le quattrocento corone di cui la sua signora mi ha fatto dono per i servizi che le ho reso durante la sua dimora a Praga. Tutto quello che ho fatto per la signora l’ho fatto volentieri e non posso quindi accettare questa ricompensa, che le rimando…’ «Perché non scrivete, Sc’vèik, che vi prende? Perché vi siete fermato?» «Che le rimando…» fece Sc’vèik con voce tremante e patetica. «Bene: ‘che le rimando con l’assicurazione della mia devotissima stima. Bacio rispettosamente le mani alla signora. Giuseppe Sc’vèik, attendente del tenente Lukáš.’ Finito?» «Fo umilmente notare, signor tenente, che ci manca ancora la data». « ‘Il venti dicembre 1914.’ Ora preparate la busta, portatela alla posta e speditela a questo indirizzo». E il tenente Lukáš si mise a cantarellare un’aria dalla operetta La Divorziata. «Un’altra cosa», disse il tenente quando Sc’vèik s’accingeva a recarsi alla posta: «come va col cane di cui siete andato in cerca?» «Ho già messo l’occhio su uno, signor tenente: una gran bella bestia. Ma non sarà facile averlo. Domani spero di portarglielo. Morde».

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VI Il tenente Lukáš non udì l’ultima parola, che pure era importante. «Quella bestia morderebbe il Padreterno», Sc’vèik avrebbe voluto aggiungere, ma finì per pensare: «Che gliene importa al tenente? Vuole un cane e l’avrà». Evidentemente non basta dire: «Portatemi un cane!» I proprietari di cani li sorvegliano attentamente, e per questo non è necessario che siano dei purosangue. E anche quel povero Fido che non è buono ad altro che a riscaldare i piedi d’una vecchietta vuol bene al suo padrone e impedisce che gli sia fatto del male. Un cane deve temere istintivamente, soprattutto quando sia un cane di razza, d’essere prima o poi portato via al suo padrone. Egli vive ininterrottamente nella paura che potrà essere rubato, che qualcuno dovrà rubarlo. Un cane s’allontana per giuoco, durante la passeggiata, dal suo padrone, e dapprima è allegro e vivace. Fa il chiasso con altri cani, si mette in modo immorale lui su lei, o lei su lui, fiuta le cantonate, in breve sente tanta gioia di vivere e il mondo gli sembra così bello come a un ragazzo che ha passato l’esame di maturità. 213

Ma subito si può osservare che la sua allegria scompare, e il cane s’accorge d’essersi sperduto. È a questo punto che comincia ad assalirlo la vera e propria disperazione. Corre sgomento in su e in giù per la strada, fiuta, guaisce, la disperazione cresce e si mette la coda fra le gambe, rizza gli orecchi e attraversa la strada per precipitarsi nell’ignoto. Se potesse parlerebbe, esclamerebbe: «Gesummaria, mi ruberanno!» Siete mai andati in un canile e vi avete mai visto tutti quei cani spaventati? Son tutti cani rubati. La metropoli ha prodotto una speciale classe di ladri, che vive esclusivamente dei proventi del furto dei cani. Esiste una razza di cagnolini da salotto, di minuscoli maltesi, invisibili come un guanto, che si possono tenere nella tasca d’un soprabito o in manicotto: eppure c’è chi li tira fuori anche di là. Quei malvagi mastini tedeschi che fanno ferocemente la guardia alle ville dei sobborghi, si rubano la notte. I cani poliziotti vengono di solito rubati sotto il naso del poliziotto. Portate un cane al guinzaglio, vi tagliano il guinzaglio in due, ladro e cane spariscono in un battibaleno, e v’accorgete con sgomento che non v’è rimasto che il guinzaglio. Il cinquanta per cento dei cani che incontrate per istrada hanno cambiato padrone più d’una volta, e spesso voi ricomprate ad anni di distanza il vostro cane, che vi avevano rubato da cucciolo, durante una passeggiata. Il maggior rischio d’esser rubati vien corso dai cani quando li portate fuori a soddisfare i loro piccoli e grandi bisogni corporali. La maggior parte dei cani viene perduta soprattutto in quest’ultimo caso. Donde gli sguardi prudenti che un cane getta da tutte le parti nel corso di quell’operazione. Vi sono parecchi sistemi per rubar cani. O il metodo diretto, secondo lo stile del borsaiuolo, o la truffa, o l’imbroglio a danno della povera creatura. Il cane è un animale fedele, almeno secondo i libri di lettura e di storia naturale. Ma fate fiutare al più fedele dei cani una salsiccia di cavallo arrostita, ed è perduto. Dimentica il padrone che gli cammina accanto, si volta, vi segue, versa bava dalla bocca, scodinzola nell’attesa e anticipazione di gustar la salsiccia, e gli tremano le narici di voluttà mentre lo portate via. Nel quartiere della Piccola Parte, presso alla scalinata che conduce al Castello, c’è una piccola birreria. Un giorno vi stavano seduti, verso il fondo, nella penombra, due uomini. Un soldato e un borghese. Chinandosi l’uno verso l’altro, parlavano a voce bassissima, in tono misterioso. Parevano due cospiratori all’epoca della Repubblica di Venezia. 214

«Tutti i giorni alle otto», sussurrò il borghese al soldato, «la donna di servizio lo porta all’angolo di Piazza Hávlicek col Parco. È un bruto e morde senza pensarci due volte. Non si lascia carezzare». E chinandosi ancora più verso il soldato, il borghese gli disse all’orecchio: «E non mangia la salsiccia». «Neppure arrostita?» domandò il soldato. «Neppure arrostita». E sputarono. «Allora che cosa mangia quella bestiaccia?» «Dio solo lo sa. Vi sono dei cani che sono viziati e mal avvezzati come un arcivescovo». Il soldato e il borghese brindarono e il borghese, sempre a bassa voce, riprese a dire: «Una volta, un pomero scuro, che mi occorreva per un canile di Klámovka, non voleva neppure lui la salsiccia. Dopo essergli andato dietro tre giorni, non ne potei più e domandai direttamente alla donna che lo portava a passeggio che cosa dava da mangiare al suo cane, visto che era così bello. La donna abboccò e mi disse che più di tutto gli piacevano le cotolette di vitello. Allora io comprai in trattoria una cotoletta alla milanese, pensando che sarebbe stato anche meglio. Ed ecco che quella canaglia di cane non la tocca neppure, come se non fosse vitello: era stata fatta al sego di porco. Così dovetti comprargli una semplice cotoletta. Gliel’ho data a fiutare, sono scappato, e lui dietro. La donna gridava: ‘Púntik, Púntik!’ Ma a quell’ora il caro Púntik chissà dov’era. Mi corse dietro alla cotoletta fino alla cantonata, dove gli misi un collare, e il giorno dopo era già nel suo canile di Klámovka. Sotto il collo aveva un ciuffo di peli bianchi che gli avevano tinto di nero, in modo che nessuno lo poteva più riconoscere. Ma tutti gli altri cani, ed erano parecchi, son sempre venuti dietro la salsiccia di cavallo arrostita. Tu forse faresti meglio a domandare alla donna di servizio che roba da mangiare piace al suo cane: tu hai l’uniforme ed una bella figura, e te lo dirà volentieri. Io gliel’ho di già domandato, ma mi ha dato un’occhiata come se mi volesse trapassare con lo sguardo, e mi ha detto: ‘Che ve ne importa?’ Non è molto bella, anzi sembra una scimmia, ma con un soldato parlerà». «Ma è un barbone autentico? Il mio tenente non vuole che quella razza». «Un gran bel tipo, barbone autentico, tutto pepe e sale, di razza, come è vero che tu sei Sc’vèik e che io mi chiamo Bláhnik. A me basta sapere quello che mangia per darglielo e portartelo». 215

I due amici brindarono una seconda volta. Anche prima della guerra, quando Sc’vèik viveva nel traffico dei cani, Bláhnik era stato il suo fornitore. Era un uomo esperto, e si diceva che comprava dall’accalappiacani cani sospetti per rivenderli. Una volta aveva avuto la rabbia e all’Istituto Pasteur di Vienna si trovava come a casa sua. Questa volta considerava suo dovere aiutare il guerriero Sc’vèik senza profitto. Conosceva tutti i cani di Praga e dintorni e parlava a voce così bassa per non tradirsi con l’oste, perché mezzo anno prima gli aveva portato via dall’osteria, sotto il pastrano, un cagnolino, un bassotto, a cui aveva fatto bere latte da un poppatoio, al punto che il povero cucciolo l’aveva preso per sua madre, e non s’era neppur mosso quando s’era trovato sotto il pastrano. Bláhnik non rubava che cani di razza ed avrebbe potuto esser perito giudiziario in quel campo. Riforniva tutti i canili ed anche case private, quando si presentava l’occasione: e quando gli capitava di andare per strada, gli correvan dietro tutti i cani che aveva rubato: e qualche volta, quando stava dinanzi a una vetrina, un cagnetto vendicativo alzava la gambina di dietro e gli bagnava i pantaloni. Alle otto di mattina del giorno seguente si sarebbe potuto vedere il buon soldato Sc’vèik passeggiare in su e in giù all’angolo di Piazza Hávlicek e il Parco. Aspettava la donna di servizio col can barbone. Ecco che aveva già finito di aspettare: un cane peloso passò dinanzi a lui con aria battagliera e con gli occhi furbi. Era di buon umore, come sono tutti i cani dopo aver soddisfatto i loro bisogni, e corse dietro a dei passerotti che stavano facendo colazione alla cacca di cavallo. Subito dopo gli passò dinanzi la donna di servizio alle cui cure il cane era stato affidato. Era una ragazza piuttosto anziana coi capelli modestamente intrecciati a corona sulla testa. Fischiava per richiamare il cane, mentre con la mano agitava la catena ed un elegante frustino. Sc’vèik le rivolse la parola: «Scusate, signorina, di qui come si fa a andare a Žižk?» Essa si fermò a guardarlo per vedere se parlava sul serio, ma la benigna faccia di Sc’vèik le disse che il soldato voleva davvero andare a Žižk. Si raddolcì in volto, e gli spiegò come fare per andare a Žižk. «Sono stato trasferito a Praga di fresco», disse Sc’vèik: «io non sono di qui, vengo dalla campagna. Anche voi non siete di Praga?» «Io vengo da Vódnany». 216

«Allora siamo quasi vicini», replicò Sc’vèik: «io vengo da Prótivim». Questa conoscenza topografica della Boemia meridionale, dove Sc’vèik s’era trovato una volta nel corso delle manovre, riempì il cuore della ragazza d’ardore paesano. «Allora conoscete a Prótivim, sulla piazza, il macellaio Pejch?» «Come no! È mio fratello. Da noi tutti gli vogliono bene», disse Sc’vèik: «è così bravo, servizievole: ha buona carne e dà il peso giusto». «Non siete mica uno dei figli di Járeš?» domandò la ragazza che cominciava a sentir simpatia per il soldato sconosciuto. «E di quale Járeš? quello di Kerc’ presso Prótivim o quello di Ražic?» «Di Ražic». «Vende ancora birra?» «Sicuro». «Ma non deve ormai avere sessant’anni sonati?» «Sessantotto questa primavera», rispose Sc’vèik con gran calma: «anzi s’è comprato un cane e se lo porta in viaggio. Il cane siede in calesse con lui. Un cane proprio come quello là, che sta cacciando quei passerotti. Un buon cane, un bell’animale». «Quello appartiene a noi», dichiarò la sua nuova conoscenza: «io sono qui a servizio dal signor colonnello. Voi non lo conoscete, il nostro colonnello?» «Sì, lo conosco: è molto intelligente», disse Sc’vèik: «anche da noi a Budějovice c’era un colonnello come lui». «Il nostro colonnello è molto severo, e l’ultima volta che si è sentito che in Serbia ce le hanno date, è tornato a casa così arrabbiato che ha rotto tutti i piatti in cucina e voleva darmi il congedo», «Così questo cane è vostro», la interruppe Sc’vèik: «peccato che il mio tenente non possa soffrire i cani, mentre a me piacciono molto». E fece silenzio. Ma subito dopo dichiarò a bruciapelo: «Non tutti i cani mangiano di tutto». «Il nostro Lux è molto fastidioso: un tempo non voleva mangiare carne, ma ora ha cambiato». «E che cosa mangia, a preferenza?» «Fegato, fegato cotto». «Di vitello o di maiale?» «Non gli fa differenza», rispose sorridendo la ‘paesana’ di Sc’vèik, che aveva preso quella domanda per una spiritosaggine poco riuscita. Passeggiarono un poco, poi furono raggiunti dal cane, 217

che fu messo a catena. Si comportò con grande familiarità nei riguardi di Sc’vèik: cercò di lacerargli i pantaloni malgrado la museruola e gli saltò addosso, ma all’improvviso, quasi indovinasse le intenzioni di Sc’vèik, cessò di saltare e si mise a camminare davanti a lui con aria triste ed offesa, lanciandogli ogni tanto un’occhiata di sbieco, come per dire: «Che destino m’attende?» Poi la ragazza disse a Sc’vèik che usciva di nuovo col cane ogni sera alle sei e che non aveva più fiducia negli uomini di Praga perché una volta aveva messo un piccolo annuncio sul giornale, e s’era presentato un magnano con una proposta di matrimonio, per poi farsi prestare ottocento corone per una sua invenzione, senza farsi più rivedere. In campagna la gente è, senza confronto, più onesta. Quando volesse sposarsi, avrebbe preso un campagnolo. Essa considerava i matrimoni di guerra come stupidaggini, perché di solito la donna vi resta vedova. Sc’vèik le fece sperare che si sarebbe fatto rivedere alle sei, e se n’andò per informare l’amico Bláhnik che il cane mangiava ogni tipo di fegato. «Io gli offrirò del fegato di manzo», concluse Bláhnik: «fu nello stesso modo che procurai quel San Bernardo al fabbricante Vydra: un cane molto fedele. Domani ti porterò il cane senza fallo». Bláhnik mantenne la parola. La mattina dopo Sc’vèik aveva a malapena finito di ripulire l’appartamento, quando si sentì un cane abbaiare fuori della porta, e Bláhnik tirò dentro il peloso can barbone, col pelo ancora più ritto di quanto non glielo avesse dato la natura. Stralunava gli occhi con uno sguardo così bieco che faceva pensare a una tigre in gabbia affamata, dinanzi a cui stia un ben nutrito visitatore del giardino zoologico. Digrignava i denti e ringhiava come se volesse dire: «Ti sbrano e divoro!» Legarono il cane alla tavola di cucina, e Bláhnik descrisse i particolari del colpo. «Gli son passato accanto, tenendo il fegato cotto avvolto in un pezzo di carta. Lui ha cominciato a fiutare ed a saltarmi addosso. Io non gliel’ho dato e sono andato avanti. Il cane dietro. All’altezza del Parco ho voltato in Via Brédovska, dove gli ho dato il primo pezzo. L’ha mangiato correndo, senza perdermi d’occhio. Allora ho voltato in via Enrico, dove glien’ho data una seconda porzione. E quando l’ha finita di mangiare, gli ho messo la catena e me lo son tirato dietro, attraverso Piazza Venceslao e il quartiere dei Vigneti, fino a Vršovice. Per strada me ne ha fatte di tutti i colori. Quando ho attraversato i binari del tram, s’è messo 218

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a giacere e non si voleva muovere, come se si volesse fare investire. Ti ho portato anche un pedigree in bianco, che ho comprato dal cartolaio Fuchs. Tu devi falsificare il pedigree, Sc’vèik». «Devi scriverlo di tua mano. Metti che proviene dal canile Bülow di Lipsia. Padre: Arnheim di Kahlsberg, madre: Emma di Trautensdorf, figlia di Sigfrido di Busenthal. Il padre ricevè il primo premio per can barboni all’esposizione canina di Berlino nel 1912. La madre fu decorata con la medaglia d’oro della Società per l’allevamento canini purosangue di Norimberga. Che età credi che abbia?» «Secondo la dentatura, due anni». «Scrivi due anni e mezzo. È mal tagliato, Sc’vèik. Guardagli gli orecchi». «Si può rimediare. Glieli rimetteremo a posto quando si sarà abituato a star con noi. Ora non conviene irritarlo di più». Il prigioniero ringhiò minacciosamente e si slanciò da tutte le parti: poi si mise a giacere con la lingua penzoloni, come se se ne aspettasse ancora delle altre. A poco a poco si calmò, ringhiando solo di quando in quando. Sc’vèik gli servì il resto del fegato, che Bláhnik gli aveva consegnato. Il cane non lo degnò di uno sguardo: anzi alzò gli occhi e li fissò come se volesse dire: «Me l’avete fatta una volta: ora pappatevelo voi». Rimase là con aria rassegnata, facendo finta di dormire. All’improvviso gli saltò in testa un’idea, s’alzò sulle gambe di dietro, chiedendo qualcosa con le zampe davanti, con la catena in tirare. Questa scena commovente non fece la menoma impressione su Sc’vèik. «A cuccia!» gridò al poveretto, che s’accucciò di nuovo guaendo lamentosamente. «Che nome devo mettergli sul pedigree?» chiese Bláhnik: «si chiama Lux, e sarebbe bene dargli un nome simile perché capisca». «Allora chiamiamolo Max. Guarda, Bláhnik, come rizza gli orecchi. Ritto, Max!» Il povero barbone, ormai privato del suo nome e del suo domicilio, si rizzò in piedi in attesa di ulteriori ordini. «Sarà meglio scioglierlo», decise Sc’vèik: «stiamo a vedere che cosa farà». Appena l’ebbero sciolto, si diresse dapprima alla porta, dove abbaiò alla maniglia tre volte, come se contasse sulla generosità di quegli uomini cattivi. Ma quando vide che 220

essi non davano alcun segno di comprensione per la sua nostalgia, fece una piccola macchia accanto all’uscio, persuaso che l’avrebbero cacciato via, come gli era successo una volta da piccolo, quando il colonnello, more militari, gli aveva severamente insegnato come tenere la casa pulita. Invece Sc’vèik si contentò d’osservare: «È un cane furbo, è un piccolo gesuita»: poi gli fece sentire la cinghia, e gli ficcò il grugno nella piccola pozza, al punto che dové leccare e leccare. Il cane guaì per l’oltraggio e si mise a correre per la cucina, fiutando disperatamente le proprie impronte, poi si diresse senza un momento d’esitazione verso la tavola, divorò il resto del fegato rimasto sull’impiantito, si distese accanto al forno e s’addormentò sulla sua avventura. «Quanto ti devo?» domandò Sc’vèik a Bláhnik, quando questi prese congedo. «Non ne parliamo nemmeno, Sc’vèik», rispose cortesemente Bláhnik: «farei questo ed altro per un vecchio compagno come te, specialmente quando è in uniforme. Statti bene, ragazzo mio, e non portare il cane nelle vicinanze di Piazza Hávlicek, che non ti capiti qualcosa di brutto. Se tu avessi bisogno di un altro cane, sai dove sto di casa». Sc’vèik lasciò che Max se la dormisse pacificamente, e nel frattempo andò a comprare dal macellaio due etti e mezzo di fegato, che cucinò nell’attesa che Max si svegliasse: anzi gli mise a tale scopo un pezzo di fegato caldo dinanzi al grugno. Max cominciò anzitutto a leccarsi nel sonno, poi si stirò, fiutò il fegato e l’inghiottì. Poi si diresse verso la porta e reiterò il suo esperimento con la maniglia dell’uscio. «Max!» gli gridò Sc’vèik: «vieni qua!» Il cane obbedì con aria diffidente. Sc’vèik lo prese in grembo e lo carezzò. Per la prima volta il cane agitò amichevolmente il suo mozzicone di coda, leccò la mano di Sc’vèik, la prese in bocca e guardò Sc’vèik con aria furbesca, come se volesse dire: «Non c’è nulla da fare, lo so che ho perduto la partita». Sc’vèik continuò a carezzarlo e cominciò a raccontargli con un tenero tono di voce: «C’era una volta un cagnolino che si chiamava Lux e viveva da un colonnello. La donna di servizio lo portò a passeggio, ed ecco venne un uomo che rubò Lux. Lux entrò nel servizio militare, in casa di un tenente, e gli fu dato il nome di Max… Max: qua la zampa! Non vedi, animale, che saremo ottimi amici, se tu sarai bravo e obbediente? Altrimenti t’accorgerai che il servizio militare non è una luna di miele». 221

Max saltò a terra e si mise a saltellargli intorno tutto contento. La sera quando il tenente rientrò di caserma, Sc’vèik e Max eran già ottimi amici. Mentre lo guardava, Sc’vèik pensava filosoficamente: «Tutto considerato, un militare non è altro che un uomo rubato alla sua abitazione». Il tenente restò piacevolmente sorpreso quando vide Max, che per conto proprio manifestò grande gioia a rivedere un militare con sciabola. Alla domanda dove l’avesse preso e quanto fosse costato, Sc’vèik comunicò con perfetta calma al tenente che l’aveva ricevuto in dono da un compagno chiamato alle armi. «Benone, Sc’vèik», disse il tenente giocando con Max: «il primo del mese avrete da me cinquanta corone per il cane». «Non posso accettare, signor tenente». «Sc’vèik», disse severamente il tenente: «quando siete entrato al mio servizio, vi ho spiegato che dovevate obbedirmi alla parola. Quando vi dico che riceverete cinquanta corone, voi ve le dovete prendere e ve le dovete bere. Che cosa farete con queste cinquanta corone, Sc’vèik?» «Fo umilmente notare, signor tenente, che me le berrò secondo il suo ordine». «E se me ne dovessi dimenticare, vi comando, Sc’vèik, di rammentarmi che vi devo cinquanta corone per il cane. Capite? Il cane non ha mica pulci? Sarà meglio che gli facciate fare un bagno e che lo pettiniate. Domani sono di servizio, ma domani l’altro lo porterò a passeggio». Mentre Sc’vèik lavava Max, il suo ex padrone, il colonnello, infuriava per tutta la casa e minacciava di portare chi gliel’aveva rubato in corte marziale, di fucilarlo, impiccarlo, carcerarlo per vent’anni e tagliarlo a pezzi. «Der Teufel soll den Kerl buserieren!» echeggiava nell’appartamento del colonnello in modo che rintronavano i vetri: «mit solchen Meuchlmördern werde ich bald fertig werden».3 Nell’aria stava sospesa una catastrofe minacciosa per Sc’vèik e il tenente Lukáš.

3  Che il diavolo buggeri quella canaglia! Gliela farò vedere a que­ gli assassini!

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15 La catastrofe

Il colonnello Federico Kraus, che era fornito del titolo di von Zillergut, da un villaggio del Salisburghese che i suoi antenati s’erano già pappati nel secolo decimottavo, era un rispettabile idiota. Quando raccontava qualcosa, non faceva parola che delle cose più positive, e subito dopo domandava se i suoi interlocutori comprendessero o no locuzioni di carattere assolutamente elementare: «Proprio una finestra, signori, sicuro, loro sanno che cosa sia una finestra?» Oppure: «Una via che ha ad ambo i lati dei fossi si chiama strada maestra. Sicuro, signori. Loro sanno che cosa sia un fosso? Un fosso è un’apertura nel terreno, a cui lavora un certo numero di persone. È uno scavo. Proprio così. Vi si lavora con badili. Loro sanno che cosa sia un badile?» Soffriva della mania delle spiegazioni e vi si dedicava 223

con l’entusiasmo d’un inventore che parli della propria opera. «Un libro, signori, non è altro che una serie di fogli di carta di vario formato, stampati, riuniti, legati e incollati. Sicuro. Loro sanno che cosa sia la colla? La colla è un adesivo». Era stupido in modo talmente incredibile che gli ufficiali lo evitavano a distanza, per non essere costretti a sentire che il marciapiede si distingue dalla strada, e che è una piattaforma asfaltata e sopraelevata lungo le facciate delle case. E che le facciate delle case son quella parte degli edifizi visibile dalla strada o dal marciapiede, mentre invece il di dietro delle case non è visibile dal marciapiede, del che ci possiamo facilmente convincere se passiamo per istrada. Era sempre pronto a dare immediata dimostrazione di queste interessanti novità. Per fortuna, una volta rischiò di farsi investire, e d’allora in poi rimbecillì ancora di più. Fermava gli ufficiali per strada attaccando interminabili discussioni sulla frittata, il sole, il termometro, i biscotti, le finestre e i francobolli. Era veramente straordinario che questo buffone avesse potuto fare una carriera relativamente rapida, e che avesse l’appoggio di parecchie persone influenti, fra l’altro di un generale in posizione elevata, che lo proteggeva in grazia della sua incapacità militare. Alle manovre eseguiva miracoli col suo reggimento. In nessun luogo arrivava mai a tempo. Conduceva il suo reggimento incolonnato contro il fuoco delle mitragliatrici ed una volta, qualche anno prima, nel corso delle manovre tenute alla presenza dell’Imperatore nella Boemia meridionale, si sperse coi suoi uomini e andò a finire in Moravia, dove continuò a vagare per qualche giorno dopo che le manovre erano già finite, e quando la truppa era rientrata in caserma. La cosa gli fu perdonata. L’amichevole relazione fra il colonnello e il generale in posizione elevata, nonché con altri non meno stupidi dignitari della vecchia Austria, gli valse parecchi ordini e decorazioni, di cui andava enormemente fiero, al punto che si considerava il miglior guerriero sotto il sole e il miglior teorico di strategia e di tutte le altre discipline militari. Quando passava in rivista il suo reggimento, rivolgeva la parola ai soldati per fare la stessa, unica domanda: «Perché il fucile di dotazione del nostro esercito si chiama ‘Fucile Mannlicher’?» Al reggimento l’avevano soprannominato Grullofucile. Era straordinariamente vendicativo, rovinava la carriera 224

dei suoi subalterni, quando non gli andavano a genio, e se uno voleva prender moglie, inoltrava la domanda per via gerarchica con l’aggiunta d’una raccomandazione negativa. Gli mancava metà dell’orecchio destro che da giovane aveva perduto in un duello con un collega, duello causato dalla candida osservazione da parte di quest’ultimo che Federico Kraus von Zillergut era un cretino fuori classe. Se passiamo all’analisi delle sue facoltà mentali, arriveremo alla convinzione che esse non erano né meglio né peggio di quelle che hanno reso celebre quel boccalone di Cecco Beppe quale idiota notorio. La stessa eloquenza, la stessa provvista d’ingenuità ad oltranza. A un banchetto nel casino degli ufficiali, mentre si parlava di Schiller, il colonnello Kraus von Zillergut esclamò all’improvviso quanto segue: «Ieri, signori, ho visto un aratro a motore tirato da una locomotiva. Fate attenzione, signori: da una locomotiva, anzi da due. Vedo il fumo, m’avvicino ed ecco una locomotiva da una parte, e un’altra locomotiva dall’altra. Dite la verità, signori miei, non è buffo? Due locomotive, come se una non fosse bastata». Dopo una pausa, riprese: «Quando finite la benzina l’automobile si ferma. L’ho visto proprio ieri. Eppure c’è chi vi parla della forza d’inerzia. Non va, sta ferma, non si muove, perché non ha più benzina. Non è buffo?» Con tutta la sua ottusità era straordinariamente bigotto. Teneva un altarino nel suo appartamento. Andava spesso a confessarsi ed a far la comunione a Sant’Ignazio, e dallo scoppio della guerra non faceva che pregare per la vittoria delle armi austro-tedesche. Mescolava il cristianesimo coi sogni dell’egemonia germanica. Dio doveva contribuire alla conquista delle ricchezze e dei territori dei vinti. Andava su tutte le furie ogni qualvolta leggeva nel giornale che si erano ancora fatti dei prigionieri. «Perché far prigionieri? Si dovrebbe fucilarli tutti! Nessuna pietà! Ballare in mezzo ai cadaveri! Bruciar vivi in Serbia tutti i borghesi dal primo all’ultimo! Passare i bambini alla baionetta!» Del resto non era peggiore del poeta tedesco Vierordt, che durante la guerra aveva pubblicato dei versi che chiedevano che la Germania, con anima ferrea, odiasse e uccidesse milioni di diavoli francesi: che fino alle nubi, oltre i monti, s’ammucchi l’ossame degli uomini e la carne fumante…

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Dopo aver finito la sua lezione alla Scuola volontari di un anno, il tenente Lukáš se n’andò a passeggio con Max. «Mi permetto di farle notare, signor tenente», disse il cauto Sc’vèik, «che deve stare molto attento, se no il cane le scappa via. Gli può eventualmente venire la nostalgia della sua vecchia abitazione e tagliare la corda, sé lei lo dovesse sciogliere. E la consiglierei d’evitare di portarlo nelle vicinanze di Piazza Hávlicek, perché da quelle parti gira un cagnaccio da macellaio che ha l’abitudine di mordere. Quando vede un cane forestiero nella sua zona, s’ingelosisce perché crede che non ci sia più da mangiare per lui. È proprio come quel mendicante che sta fisso dinanzi alla chiesa di San Castullo». Max cominciò a saltellare, passò fra le gambe del tenente, s’avviluppò col guinzaglio alla sciabola, e manifestò una gioia inconsueta per l’imminente passeggiata. Uscirono, e il tenente Lukáš si mosse col cane alla volta di Via del Fosso. Alla cantonata di Via dei Signori aveva un appuntamento con una signora. Era tutto assorto nel pensiero del servizio. Su che parlare domani al suo corso per volontari d’un anno? Come si dà l’altezza di un monte? Perché l’altezza si dà sul livello del mare? Come si calcola dall’altezza assoluta sul livello del mare l’altezza relativa dai piedi del monte? Accidenti, perché il Ministero della guerra mette tali materie in programma? Va bene per l’artiglieria: e poi ci sono le carte strategiche. Quando il nemico è a quota 32, non c’è bisogno di pensare perché l’altezza vien data dal livello del mare, né di calcolare quale sia la elevazione di quella collina. Si guarda sulla carta, e si vede quant’è. Mentre era assorto in questi pensieri, e s’avvicinava alla Via dei Signori, echeggiò un secco: Alt! Contemporaneamente a questo alt, il cane cercò di liberarsi dal guinzaglio e saltò, abbaiando di gioia, addosso al signore che aveva proferito il secco alt. Di fronte al tenente Lukáš stava il colonnello Kraus von Zillergut. Il tenente Lukáš salutò, si fermò davanti al colonnello e si scusò di non averlo visto. Il colonnello Kraus era noto fra gli ufficiali per la sua passione di fermare i subalterni e di far loro «cicchetti». Considerava il saluto militare come una faccenda da cui dipendeva l’esito della guerra e su cui si basava tutta la forza dell’esercito. «Nel saluto il soldato deve mettere tutta l’anima», era solito dire, con un perfetto misticismo da caporale. 226

Stava bene attento che chi rendeva il saluto lo facesse in ogni menomo particolare secondo le prescrizioni regolamentari, in maniera dignitosa e in stile perfetto. Sorvegliava tutti quelli che gli passavan vicino, da fantaccino a tenente colonnello. Quei poveri fantaccini che salutavano alla carlona, come per dire: «ciao», li conduceva direttamente in caserma per la debita punizione. Non dava nessun valore alla scusa: «Io non l’ho visto». «Un soldato», era solito dire, «deve cercare i suoi superiori in mezzo alla folla e non pensare ad altro che al modo di eseguire tutti i doveri che gli son prescritti dal regolamento di servizio. Quando cade sul campo dell’onore, deve salutare prima di morire. Il soldato che non sa salutare, che fa finta di non vedere o saluta con negligenza, è per me un animale». «Tenente», disse il colonnello Kraus con voce tonante: «un ufficiale subalterno deve sempre rendere il saluto a un superiore. Tale prescrizione è tuttora in vigore. In secondo luogo: da quando in poi si usa che un ufficiale vada a passeggio con un cane rubato? Sicuro, con un cane rubato. Un cane appartenente ad un’altra persona è un cane rubato». «Questo cane… signor colonnello…» balbettò il tenente Lukáš. «Questo cane mi appartiene, tenente», lo interruppe bruscamente il colonnello: «è il mio Lux». E Lux, alias Max, si ricordò del suo vecchio padrone ed espulse completamente dal suo cuore quello nuovo: anzi si liberò, saltò addosso al colonnello e gli manifestò la gioia di un interno di convitto che ha trovato comprensione in un’anima gemella. «Andare in giro con cani rubati, tenente, è incompatibile con l’onore di un ufficiale. Non lo sapeva? Un ufficiale non può comprare un cane se prima non ha la prova che può acquistarlo senza danno!» continuò a tuonare il colonnello mentre carezzava Lux, alias Max, che cominciò a ringhiare con cattiveria e a digrignare i denti verso il tenente, come se il colonnello gli avesse detto, additandogli il tenente: «Addentalo!» «Tenente», proseguì il colonnello, «lei considererebbe corretto montare un cavallo rubato? Non ha visto l’inserzione pubblicata dal Bohemia e dal Corriere di Praga riguardo alla perdita da parte mia di un can barbone? Lei non ha letto l’inserzione messa nel giornale da un suo superiore?» Il colonnello levò le mani al cielo. «Questi giovani ufficiali sono straordinari! Dov’è la 227

disciplina? Il colonnello fa pubblicare una inserzione e il tenente non la legge!» «Ti potessi dare un paio di ceffoni, vecchio fesso», pensava il tenente Lukáš, guardando le basette del colonnello che lo facevano somigliare ad un orang-utang. «Venga un momento con me», disse il colonnello. Così camminando tennero la seguente, gradevolissima conversazione. «Al fronte, tenente, una faccenda di questo genere non le succede due volte. Andare a passeggio nelle retrovie con un cane rubato è certo molto piacevole. Sicuro: a passeggio col cane d’un superiore. Proprio in un momento come questo, quando ogni giorno perdiamo centinaia d’ufficiali sul campo dell’onore. E non si leggono le inserzioni. Sarei potuto andare avanti per cent’anni pubblicando inserzioni che avevo perduto un cane. Per duecento, per trecento anni!…» Il colonnello si soffiò sonoramente il naso, il che nel suo caso era sintomo consueto di un’agitazione fuor del comune, e disse: «Continui pure la sua passeggiata». Sul che fece dietrofront e se n’andò, battendo con aria irritata il frustino sul lembo del mantello. Il tenente Lukáš passò al marciapiede opposto, ma fu ancora in tempo a sentire un altro alt! Il colonnello aveva fermato un disgraziato fantaccino della riserva che stava pensando alla mamma ed a casa, ed era passato senza vederlo. Il colonnello lo portò personalmente a farlo punire in caserma, mentre lo trattava di «maiale di mare». «Che fare di quello Sc’vèik?» pensava il tenente: «gli romperò il grugno, ma non basta. Per quella canaglia sarebbe troppo poco perfino se gli tagliassi la pelle a strisce». Senza preoccuparsi dell’appuntamento che aveva con la signora, tornò diritto a casa. «Lo faccio a pezzi, quel merlo!» mormorò mettendosi a sedere nel tranvai. Nel frattempo il buon soldato Sc’vèik era tutto immerso in una discussione col piantone della caserma. Il soldato aveva portato al tenente dei documenti da firmare e lo stava aspettando. Sc’vèik gli aveva offerto il caffè e l’uno spiegava all’altro che l’Austria avrebbe perso la guerra. Parlavano come se la cosa si capisse da sé. Si trattava di una serie innumerevole di frasi, ciascuna parola delle quali sarebbe stata certamente definita quale alto tradimento in un tribunale militare, e sarebbe bastata a portarli sulla forca tutti e due. 228

«Sua Maestà l’Imperatore a quest’ora dev’essere tutto grullo», diceva Sc’vèik: «non è mai stato troppo furbo, ma questa guerra deve avergli dato il colpo di grazia». «È un grullo», diceva il piantone della caserma con convinzione: «tutto grullo. In quanto alla guerra, non sa neppure che ci sia. Può darsi che si vergognino a dirglielo. In quanto alla sua firma in fondo al proclama alle popolazioni dell’Impero, non è altro che un imbroglio. L’hanno fatto stampare senza che lui lo sapesse: del resto non può pensare a nulla». «È finito», disse Sc’vèik con aria di conoscitore: «se la fa addosso e bisogna dargli da mangiare come a un fantolino. L’altro giorno un signore diceva all’osteria che ha tre nutrici e che l’Imperatore viene allattato tre volte al giorno». E proseguirono la conversazione nello stesso tono, finché Sc’vèik non la concluse pronunziando questo verdetto sull’Austria: «Una monarchia così grulla non dovrebbe nemmeno esistere». Al che l’altro soggiunse, per concretare praticamente quel giudizio generico: «Se mi mandano al fronte, li pianto». Mentre continuavano a rendersi interpreti dell’opi229

nione pubblica cèca rispetto alla guerra, il piantone della caserma ripetè quello che quel giorno aveva sentito dire nella città di Praga: che l’eco del cannoneggiamento era già arrivato a Náchod e che lo zar era in procinto d’entrare a Cracovia. Poi parlarono delle spedizioni di grano cèco in Germania e del fatto che i soldati tedeschi ricevevano distribuzioni di cioccolata e di sigarette. Infine richiamarono alla memoria i tempi delle antiche guerre, e Sc’vèik dimostrò gravemente che anche prima, quando si gettavano orinali pieni in una fortezza assediata, non doveva essere una luna di miele battersi in mezzo a quel puzzo. Aveva letto che una fortezza aveva tenuto duro per tre anni, e che durante tutto l’assedio il nemico non aveva fatto altro che divertirsi in quella maniera alle spalle degli assediati. Avrebbe potuto certamente raccontare altri particolari altrettanto interessanti e istruttivi, se la conversazione non fosse stata interrotta dal ritorno del tenente Lukáš. Con uno sguardo terribile, che pareva volesse schiacciare Sc’vèik, il tenente firmò i documenti, e mentre il soldato usciva, fece cenno a Sc’vèik di seguirlo in camera. Gli occhi del tenente lampeggiavano da far paura. Si sedè su una poltrona, e mentre guardava Sc’vèik, si domandava quando avrebbe potuto dare inizio alla strage. «Meglio cominciare con un paio di ceffoni», pensava il tenente: «poi rompergli il naso e strappargli gli orecchi. Il resto verrà da sé». Di fronte lo fissavano, con uno sguardo sincero e benigno, gli occhi onesti ed innocenti di Sc’vèik, che interruppe il momento di quiete che precedeva la tempesta, con le seguenti parole: «Fo umilmente notare, signor tenente, che deve far senza il suo gatto. Ha divorato la cera da scarpe e s’è permesso di crepare. L’ho gettato in cantina, voglio dire in quella accanto. Non potrà mai trovare un gatto angora più buono e più bello». «Che si può fare con lui?» si chiedeva il tenente nella testa: «per la grazia di Nostro Signore, che faccia d’imbecille!» Ed i buoni e sinceri occhi di Sc’vèik irradiavano mitezza e candore, congiunte con l’espressione di un perfetto equilibrio spirituale, come se tutto fosse in ordine e non fosse successo nulla, o se anche fosse successo qualcosa, tanto meglio, perché tanto qualcosa deve pur succedere. Il tenente Lukáš saltò in piedi, ma evitò di schiaffeggiare Sc’vèik come prima aveva inteso di fare. Si contentò di 230

mostrargli il pugno chiuso dinanzi al naso, ed urlò: «Sc’vèik, quel cane voi l’avete rubato». «Fo umilmente notare, signor tenente, che io non so di alcun caso simile in quest’ultimo periodo di tempo. Mi permetto di farle osservare che questo pomeriggio lei è uscito a passeggio con Max, così io non l’ho potuto rubare. Quando l’ho visto tornare senza cane, ho capito subito che doveva esser successo qualcosa. Quando si dice la combinazione… In Via Bruciata c’è un cuoiaio che si chiama Kúneš, che non è potuto uscire una volta col suo cane senza perderlo. Per lo più lo lasciava in qualche osteria, e glielo rubavano, oppure, glielo prendevano a prestito senza restituirglielo…» «Sc’vèik, idiota, bestione, chiudete il becco! O siete finto tonto o un perfetto citrullo. Avete sempre una provvista di casi da raccontare, ma vi assicuro che con me il giuoco non riesce. Dove avete preso quel cane? Come v’è capitato fra le mani? Non sapete che appartiene al nostro colonnello, che me l’ha ripreso appena ci siamo incontrati? Non capite che è un terribile scandalo? Dite dunque la verità: l’avete rubato o no?» 231

«Fo umilmente notare, signor tenente, che non l’ho rubato». «Non sapevate che era un cane rubato?» «Fo umilmente notare, signor tenente, che sapevo che era un cane rubato». «Sc’vèik, Gesummaria! Dio del cielo, ti sparo, bestia, animale, bue, sudiciume! Ma siete davvero un tale citrullo?» «Fo umilmente notare, signor tenente, d’essere un tale citrullo». «Perché mi avete portato un cane rubato, perché mi avete messo quella bestia in casa?» «Per farle piacere, signor tenente». E gli occhi miti e innocenti di Sc’vèik guardarono in viso il tenente, che sedè sospirando: «Perché Dio mi punisce con un animale di questa fatta?» Il tenente rimase seduto in muta rassegnazione, sentendosi incapace di schiaffeggiare Sc’vèik, anzi perfino di farsi una sigaretta. Egli stesso non seppe perché si decise a mandare Sc’vèik a comprare il Bohemia e il Corriere di Praga, con l’idea di fargli leggere l’inserzione del colonnello a proposito del cane rubato. Sc’vèik tornò col giornale aperto alla sezione piccoli annunzi. La fissava con aria radiosa, ed annunziò con allegro tono di voce: «Eccolo qui, signor tenente. Il signor colonnello descrive così bene il can barbone rubatogli che fa piacere a leggerlo. Dà perfino cento corone di ricompensa a chi glielo riporta. È una bella somma. Di solito non si dà che cinquanta corone. Un certo Božetěch del quartiere di Košiř si guadagnava il pane a questa maniera. Rubava un cane, leggeva negli annunzi chi l’aveva perduto, e ci andava subito. Una volta rubò un bel pomero scuro, e poiché il proprietario non si fece vivo, si provò lui e mise un annunzio nel giornale. Anzi dové metterne cinque, finché finalmente un signore gli fece sapere che il cane era suo, che l’aveva perduto ed aveva pensato che sarebbe stato inutile cercarlo. Perché lui non credeva che ci fossero più delle persone oneste. E che era contento di vedere che invece ce ne erano ancora. Che per principio lui era contrario a ricompensare l’onestà. E per ricordo gli fece omaggio d’un libro scritto da lui sulla cura delle piante in casa e in giardino. Allora il buon Božetěch prese il cane per le zampe di dietro e lo scaraventò sulla testa di quel signore, e d’allora in poi giurò che non avrebbe più messo annunzi sul giornale. Piuttosto li vende all’accalappiacani, nel caso che nessuno si faccia vivo con un annunzio». 232

«Andate a letto, Sc’vèik», ordinò il tenente: «altrimenti direste stupidaggini fino a domani mattina». Andò a letto anche lui, e la notte sognò che Sc’vèik rubava il cavallo del Principe Ereditario e glielo portava e che il Principe Ereditario riconosceva la sua cavalcatura nel corso di una rivista, proprio quando il tenente Lukáš gli passava davanti alla testa della sua compagnia. La mattina dopo il tenente si sentiva come uno che ha passato una notte di bisboccia, nel corso della quale qualcuno gliene ha date di santa ragione. Un’angoscia spirituale insolitamente grave lo opprimeva. Verso l’alba si liberò dal suo incubo, si riaddormentò, ma fu svegliato da qualcuno che bussava alla porta: e s’affacciò il benigno viso di Sc’vèik, che chiedeva a che ora il tenente volesse essere svegliato. Il tenente gemè dal letto: «Fuori, animale! Ma è terribile!» Quando fu pronto e Sc’vèik gli portò la colazione, il tenente fu sorpreso da una straordinaria domanda di quest’ultimo: «Fo umilmente notare, signor tenente, che lei forse potrebbe aver voglia che io le trovassi un altro cane». «Dovete sapere, caro Sc’vèik, che la voglia che avevo io era di deferirvi al tribunale militare», disse il tenente sospirando: «ma vi avrebbero assolto, perché nessuno ha mai visto un grullo così madornale in tutta la vita. Guardatevi allo specchio. Non vi fa male vedere la vostra faccia d’imbecille? Su, dite la verità, Sc’vèik: vi piacete?» «Fo umilmente notare, signor tenente, che non mi piaccio: in questo specchio io sono storto o qualcosa di simile. Una volta dal mercante di roba cinese Stánek c’era uno specchio convesso, e bastava che uno si guardasse che gli veniva la voglia di vomitare. La bocca storta, la faccia come un pitale, la pancia come quella di un canonico ben nutrito, in breve, una caricatura. Una volta il luogotenente generale della città ebbe a passare di là, si guardò allo specchio, e lo fece subito levare». Il tenente si volse da un’altra parte, sospirò e considerò opportuno occuparsi del proprio caffellatte, invece che di Sc’vèik. Sc’vèik s’indugiò in cucina, e il tenente Lukáš lo sentì cantare: Traversa Grenevil la Porta delle Polveri: gli scintilla la sciabola e piangono le vergini.1   Vecchia marcia militare.

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Poi si sentì echeggiare dalla cucina: La vita militare è da signori ci danno le ragazze i loro cuori, molti denari ma pochi pensieri…

«Che pensieri vuoi avere, citrullo?» pensò il tenente, e sputò. Sc’vèik s’affaccio alla porta: «Fo umilmente notare, signor tenente, che le mandano a dire dalla caserma che lei deve andar subito dal signor colonnello. Un piantone l’aspetta». Ed aggiunse con tono confidenziale: «Forse è per l’affare del cane». «Lo so, lo so», disse il tenente nell’anticamera quando il piantone stava per ripetergli il messaggio. Disse quelle parole con voce soffocata, e fulminò Sc’vèik con lo sguardo. Non era stato chiamato a rapporto, ma per qualcosa di peggio. Il colonnello era seduto comodamente in poltrona, quando il tenente entrò nell’ufficio. «Due anni fa, signor tenente», disse il colonnello, «lei fece domanda d’essere trasferito a Budějovice al novantune-simo reggimento. Lei sa dov’è Budějovice? Sulla Moldava, sicuro, sulla Moldava, all’affluenza dell’Eger o di un fiume con un nome simile. La città è grande, per così dire, accogliente, e se non mi sbaglio c’è un lungofiume. Sa lei che cosa sia un lungofiume? È un muro costruito sull’acqua. Sicuro. Del resto questo non ha importanza. Fu là che tenemmo le manovre». Il colonnello fece una pausa, e mentre fissava il calamaio, passò improvvisamente a un altro soggetto. «Da lei il mio cane si è viziato. Non vuol più mangiar nulla. To’: nel calamaio c’è una mosca. È straordinario che perfino d’inverno vi siamo mosche che vanno a finire nel calamaio. Che mancanza d’ordine!» «Ti venga il canchero, vecchio fesso!» pensava il tenente. Il colonnello s’alzò e passeggiò su e giù per la stanza. «Ho pensato a lungo, signor tenente, che cosa avrei dovuto fare affinché non si ripeta quanto è successo, e mi son ricordato che lei aveva fatto domanda d’essere trasferito al novantunesimo reggimento. Il Comando supremo ci ha mandato recentemente comunicazione che al novantunesimo reggimento c’è gran bisogno di ufficiali, perché i serbi li hanno uccisi tutti. Le do la mia parola d’onore che dentro tre giorni lei si troverà al novantunesimo reggimento di 234

Budějovice, dove ora è in corso di formazione un battaglione di linea. Lei non ha ragione di ringraziarmi. L’esercito ha bisogno di ufficiali, che…» E poiché non sapeva più che dire, guardò l’orologio e soggiunse: «Sono le dieci e mezzo. È l’ora di andare a rapporto». Così quella sgradevole conversazione ebbe fine, e il tenente provò un senso di sollievo quando uscì dall’ufficio e si poté recare alla Scuola volontari d’un anno, dove annunziò che fra qualche giorno partiva per il fronte e che offriva un pranzo d’addio alla trattoria Nekázance. Quando fu tornato a casa, domandò a Sc’vèik, in tono significativo: «Sc’vèik, sapete quello che è un battaglione di linea?» «Fo umilmente notare, signor tenente, che un battaglione di linea è una ‘battaglina,’ anzi una ‘battina.’ » Noi cèchi accorciamo sempre così le parole tedesche». «Allora Sc’vèik», disse il tenente con solenne allegria, «vi comunico che voi verrete con me in una ‘battina,’ visto che vi piace usare abbreviazioni di questo genere. Ma non crediate che al fronte vi sarà permesso di fare le fesserie che avete fatto qui. Siete contento?» «Fo umilmente notare, signor tenente, che sono più che contento», rispose il bravo soldato Sc’vèik: «come sarà bello quando cadremo insieme per Sua Maestà e per la famiglia imperiale…»

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Parte seconda

Al fronte

1 Le disavventure dì Sc’vèik sul treno

In uno scompartimento di seconda classe del diretto Praga-České Budějovice si trovavano tre viaggiatori, e precisamente il tenente Lukáš, un signore piuttosto anziano e completamente calvo che gli sedeva davanti, e Sc’vèik, il quale se ne stava in piedi in atteggiamento dimesso presso la porta del corridoio, preparandosi proprio in quel momento a sorbire un nuovo profluvio di tuoni e fulmini da parte del tenente Lukáš, che, infischiandosene della presenza del borghese calvo, per tutto il tragitto era stato a tempestare il povero Sc’vèik dicendogli che era un pezzo d’animale ed altre cose del genere. Si trattava proprio di una quisquilia, cioè del numero delle valigie affidate alle cure di Sc’vèik. «Ci hanno soffiato una valigia», sbraitava il tenente contro Sc’vèik, «si fa presto a dire così, pezzo di cretino!» 239

«Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant», 1 s’azzardò timidamente Sc’vèik, «che in realtà ce l’hanno proprio rubata. Per le stazioni ci sono sempre a bighellonare parecchi di simili mariuoli, ed io mi immagino la cosa così, che ad uno di loro deve essere immancabilmente andata a genio la sua valigia, e che quel tipo deve aver immancabilmente approfittato del momento in cui mi sono allontanato dai bagagli per riferirle che erano tutti a posto. Solamente in quell’istante propizio può averci portata via la valigia. Sono tipi che vanno in cerca per l’appunto di simili istanti. Due anni fa, alla stazione Nord-Ovest, ad una signora rubarono un carrozzino con la bambina in fasce che v’era dentro, però furono così generosi da consegnare la bimba al commissariato di polizia della nostra via, dicendo di averla trovata abbandonata in un androne. Poi i giornali dipinsero quella povera signora come una madre snaturata». E Sc’vèik concluse con enfasi: «Alle stazioni si è sempre rubato e sempre si continuerà a rubare. Non è possibile che sia altrimenti». «Io, Sc’vèik, sono persuaso», replicò il tenente, «che un giorno o l’altro voi farete una bruttissima fine. Non riesco ancora a capire se fate finta di essere un somaro oppure se siete proprio nato somaro. Che cosa c’era in quella valigia?» «A conti fatti non c’era niente, signor Oberleutnant», rispose Sc’vèik senza staccare gli occhi dal cranio pelato del borghese che stava seduto davanti al tenente e, a quanto sembrava, non mostrava il benché minimo interesse per tutta la faccenda, immerso, come era, nella lettura della Neue Freie Presse.2 «In tutta la valigia non c’erano che lo specchio della camera e l’attaccapanni di ferro del vestibolo, così che, in realtà, non abbiamo sofferto alcun danno, dato che sia lo specchio che l’attaccapanni appartenevano al padrone di casa». Vedendo un minaccioso gesto del tenente, Sc’vèik continuò con voce compunta: «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che del fatto che quella valigia sarebbe stata rubata, io, in partenza, non sapevo niente, quanto allo specchio ed all’attaccapanni, ho comunicato al padrone di casa che glieli restituiremo quando torneremo dalla guerra. Nei territori nemici c’è un’enorme quantità di specchi e di attaccapanni, sì che non avremo a patire alcun danno neanche se dovremo ridare quella roba al padrone di casa. Appena avremo conquistato qualche località…»   In tedesco nel testo: «Tenente».   «Nuova stampa libera», giornale nazional-liberale viennese di tendenza reazionaria. 1 2

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«Silenzio, Sc’vèik», esplose a questo punto con terribile voce il tenente; «una volta o l’altra vi sbatterò davanti alla corte marziale. Pensateci bene, siete l’uomo più imbecille che esista sulla faccia della terra. Nessun altro, anche se vivesse mille anni, riuscirebbe a fare tante corbellerie quante ne avete combinate voi nel giro di queste poche settimane. Spero che anche voi ve ne siate accorto!» «Faccio rispettosamente notare che me ne sono accorto, signor Oberleutnant. Io ho, come si suol dire, uno spirito d’osservazione assai sviluppato, quando però ormai è troppo tardi e sta per accadere qualcosa di sgradevole. Ho una scalogna come un certo Nechleba di Nekázanka, il quale veniva all’osteria ‘Al boschetto delle cagne.’ Voleva sempre mettere giudizio e condurre una nuova vita, a partire da sabato, ma sempre, il giorno dopo, ci diceva: ‘Allora, amici miei, all’alba mi sono accorto che mi trovavo sul tavolaccio.’ E questo gli capitava ogni volta che si proponeva di andarsene buono buono a casa sua; alla fine si veniva a sapere che era andato ad abbattere qualche siepe o che aveva staccato i cavalli ad un carrettiere oppure che aveva avuto la pretesa di pulirsi la pipa con la penna della coda di gallo di qualche poliziotto di ronda. Era proprio completamente disperato, e soprattutto gli dispiaceva che quella scalogna si trascinasse da una generazione all’altra. Suo nonno una volta era andato in giro per il mondo…» «Lasciatemi un po’ in pace, Sc’vèik, con tutte queste vostre storie». «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che tutto quello che le sto raccontando è sacrosanta verità. Suo nonno era andato in giro per il mondo…» «Sc’vèik,» si arrabbiò il tenente, «torno ad ordinarvi di non raccontarmi niente, non ho voglia di sentire niente. E quando arriveremo a Budějovice3 faremo i conti come si deve. Lo sapete, Sc’vèik, che vi schiafferò dentro?» «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che non lo so», disse Sc’vèik dolcemente; «non me ne aveva ancora parlato». Il tenente cominciò a battere i denti, suo malgrado; sospirò, tirò fuori dal cappotto la Bohemie 4 e si mise a leggere annunci di grandi vittorie e notizie sull’attività di un sommergibile tedesco della serie «E» nel Mediterraneo; ma   Grossa città della Boemia meridionale. 4  Organo della borghesia nazionalistica tedesca di Praga, anticeco ed antiebraico. 3

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quando fu arrivato all’articolo concernente una nuova invenzione tedesca per far saltare in aria le città mediante una bomba sganciata dagli aeroplani che esplodeva per tre volte di seguito, fu distratto dalla voce di Sc’vèik il quale stava apostrofando il signore calvo: «Scusi, egregio signore, lei non è per caso il signor Purkrábek, funzionario della banca Slavia?» Poiché il signore calvo non rispondeva, Sc’vèik disse poi al tenente: «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che una volta ho letto in un giornale che una persona normale dovrebbe avere in testa, in media, dai sessanta ai settantamila capelli, ma che i capelli neri sono solitamente più radi, come si può constatare in molti casi». Quindi continuò spietatamente: «Poi una volta uno studente di medicina disse al caffè ‘Dei folletti’ che la caduta dei capelli è provocata dai disturbi psichici che si hanno durante il periodo del puerperio». Fu a questo punto che accadde una cosa terribile. Il signore dalla testa pelata balzò in piedi e si mise ad inveire contro Sc’vèik: «Marsch heraus, Sie Schweinkerl», 5 poi lo buttò fuori nel corridoio e, tornato nello scompartimento, procurò una piccola sorpresa al tenente quando gli si presentò. C’era stato un equivoco di niente! L’individuo calvo non era il signor Purkrábek, funzionario della banca Slavia, ma niente di meno che il maggior generale von Schwarzburg. Il maggior generale stava per l’appunto compiendo in borghese un giro d’ispezione per le singole guarnigioni ed ora andava a sorprendere quella di Budějovice. Era il più terribile dei generali ispettori che mai fossero esistiti e, se trovava qualcosa che non era a posto, si limitava a fare al comandante della guarnigione questo discorsetto: «Ha una pistola?» «Ce l’ho». «Bene! Al posto suo saprei sicuramente che farmene, perché quello che vedo qui non è una guarnigione, ma un branco di maiali». Ed in effetti, dopo ogni suo giro di ispezione, in un posto o nell’altro qualcuno si tirava sempre una revolverata, cosa che il maggior generale constatava con soddisfazione: «Così deve essere! Quello sì che è un soldato!» Sembrava proprio che non fosse contento se qualcuno, dopo una sua ispezione, restava in vita. Aveva poi la mania di trasferire sempre gli ufficiali nei posti più rognosi.   In tedesco nel testo: «Fuori di qui, porcaccione».

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Bastava un nulla, perché l’ufficiale fosse costretto a dire addio alla sua guarnigione e venisse sbattuto al confine montenegrino oppure in qualche abbrutita guarnigione di disperati in un lurido angolo della Galizia. «Signor tenente», disse, «dove ha frequentato la scuola per allievi ufficiali?» «A Praga». «Lei dunque è stato alla scuola per allievi ufficiali e non sa neppure che un ufficiale è responsabile dei propri subalterni. Questa sì che è bella! In secondo luogo se ne sta a chiacchierare col suo attendente come se questi fosse un suo intimo amico. Gli consente di parlare senza essere interrogato. Questa è ancora più carina! In terzo luogo gli permette di offendere i suoi superiori. E questa è la cosa più splendida di tutte; da tutte queste circostanze trarrò le conclusioni. Come si chiama, signor tenente?» «Lukáš». «E presso quale reggimento è in servizio?» «Sono stato…» «Tante grazie, non si tratta di dove è stato, voglio sapere dove è adesso». «Al novantunesimo fanteria, signor maggior generale. Mi hanno trasferito…» «L’hanno trasferita? Hanno fatto molto bene. Non le farà male andare al più presto col novantunesimo fanteria e dare un’occhiatina a qualche campo di battaglia». «Questo è stato già stabilito, signor maggior generale». Il maggior generale tenne adesso una concione, dicendo che negli ultimi anni aveva osservato come gli ufficiali parlassero con tono familiare coi loro subalterni, ed asserendo che in ciò scorgeva una pericolosa diffusione di certi principi democratici. Il soldato deve vivere in continua apprensione, deve tremare davanti al suo su-periore, aver paura di lui. Gli ufficiali debbono tenere la truppa a dieci passi di distanza e non consentirle di pensare in maniera autonoma, o perfino di pensare in generale, poiché in questo consisteva il tragico errore de-gli ultimi anni. Prima gli uomini temevano gli ufficiali come il fuoco, ma ora… Il maggior generale agitò la mano in un gesto sconsolato: «Oggi la maggior parte degli ufficiali fa le moine ai soldati. È questo che volevo dire». Il maggior generale riprese il suo giornale e si immerse nuovamente nella lettura. Il tenente Lukáš uscì pallido nel corridoio per fare i conti con Sc’vèik. Lo trovò in piedi presso il finestrino con un’espressione 243

così beata e soddisfatta quale potrebbe avere soltanto un marmocchietto di un mese che, dopo aver bevuto e succhiato a sazietà, s’è messo a fare la nanna. Il tenente si fermò, fece cenno a Sc’vèik e gli indicò uno scompartimento vuoto. Vi entrò dentro dopo di Sc’vèik e chiuse la porta. «Sc’vèik», iniziò con aria solenne, «alla fine è giunto il momento in cui vi buscherete un paio di ceffoni come non se ne sono mai veduti al mondo. Che grillo vi è saltato in testa, di andare ad attaccare quel signore calvo? Lo sapete che è il maggior generale von Schwarzburg?» «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant», replicò Sc’vèik, assumendo un’aria da martire, «che mai in vita mia ho avuto la benché minima intenzione di offendere qualcuno e che non ho alcuna idea né il minimo sentore di un qualche signor maggior generale. Quello è veramente il signor Purkrábek spiccicato, il funzionario della banca Slavia. Costui soleva venire nella nostra trattoria, ed una volta che s’era addormentato sul tavolo un buontempone gli scrisse sulla zucca pelata con la matita copiativa: ‘Con la presente ci permettiamo di offrirle cortesemente secondo l’allegata tariffa III.c il risparmio della dote e la dotazione delle Sue figlie mediante un’assicurazione sulla vita!’ Si capisce che poi se ne andarono tutti quanti ed io restai là solo con lui, e siccome ho sempre scalogna, quello lì, quando si svegliò e si guardò allo specchio, si arrabbiò e pensò che la scritta gliel’avessi fatta io, ragion per cui anche lui voleva darmi un paio di ceffoni». Quell’ «anche» sgorgò dalla bocca di Sc’vèik con un tono così commoventemente dolce e con una tale aria di rimprovero che la mano del tenente ricadde giù. Ma Sc’vèik incalzò: «Per uno sbaglio di così scarso rilievo quel signore non doveva arrabbiarsi, egli dovrebbe avere veramente da sessanta a settantamila capelli, come stava scritto in quell’articolo, e come deve avere una persona normale. In vita mia non m’è mai saltato in testa che potessero esistere dei maggiori generali calvi come quel signore. È questo, come si dice, un tragico errore, che può capitare a chiunque, quando uno fa qualche osservazione ed un altro se la prende subito a male. Qualche anno fa, una volta, il sarto Hývl ci raccontò che stava venendo a Praga, dalla località stiriana in cui esercitava il suo mestiere, passando per Leoben, e che portava con sé un prosciutto cotto acquistato a Marburgo. Mentre dunque viaggiava sul treno, pensava di essere l’unico ceco tra tutti i passeggeri, 244

e quando, a St. Moritz,6 cominciò a tagliarsi una fetta del suo prosciutto, il signore che gli sedeva davanti prese a fare gli occhi teneri a quella leccornia mentre gli veniva l’acquolina in bocca. Quando se ne accorse, il sarto Hývl disse ad alta voce parlando con se stesso: -‘Te lo papperesti, eh, briccone.’ E quel signore gli risponde in ceco: ‘Si capisce che me lo papperei, se me ne dessi un po’.’ E così, prima di arrivare a Budějovice, si divorarono insieme tutto il prosciutto. Quel signore si chiamava Vojtěch Rous». Il tenente Lukáš dette un’occhiata a Sc’vèik ed uscì dallo scompartimento. Quando si fu nuovamente messo al proprio posto, dopo un istante apparve alla porta la faccia franca di Sc’vèik: «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che tra cinque minuti siamo a Tábor. Il treno si ferma per cinque minuti. Desidera forse ordinare qualcosa per colazione? Anni fa qui avevano un’ottima…» Il tenente balzò in piedi infuriato e disse a Sc’vèik sul corridoio: «Vi avverto ancora una volta, quanto meno vi fate vedere, tanto più mi sento felice. Sarei poi contentissimo se non vi vedessi per niente, e state tranquillo che a questo ci penserò io. Non comparitemi affatto dinanzi agli occhi. Sparite dalla mia vista, animale, imbecille». «Agli ordini, signor Oberleutnant». Sc’vèik fece il saluto regolamentare, si voltò con passo militare e se ne andò in fondo al corridoio, dove si mise a sedere in un cantuccio al posto del controllore attaccando discorso con un ferroviere: «Posso chiederle una cosa, per cortesia?» Il ferroviere, il quale evidentemente non aveva alcuna voglia di conversare, assentì con un debole ed apatico cenno della testa. «Veniva spesso da me», attaccò Sc’vèik, «un buon uomo, un certo Hofmann, il quale asseriva sempre che questi segnali d’allarme non funzionano mai, che, per dirla in poche parole, non danno alcun risultato, quando vengono tirati per questa maniglia. Io, a dire la verità, non mi sono mai interessato di questa faccenda, ma giacché adesso m’è capitato qui di notare questo apparecchio d’allarme, sarei curioso di sapere di che cosa si tratta, per il caso che una volta me ne dovessi servire». 6  I dati geografici sono chiaramente sbagliati. Leoben, incrocio ferro­ viario in Stiria, non si trova sulla linea Marburgo-Vienna-Praga; tanto meno vi si trova St. Moritz, la nota località svizzera. Marburgo è la Maribor slovena.

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Sc’vèik s’alzò ed insieme col ferroviere s’avvicinò al freno d’emergenza da usarsi In caso di pericolo. Il ferroviere ritenne suo dovere spiegare a Sc’vèik in che cosa consistesse l’intero meccanismo del sistema d’allarme: «Le ha detto bene che bisogna tirare questa maniglia, ma ha mentito quando ha asserito che non funziona. Il treno deve sempre arrestarsi, dato che questo passa per tutti i vagoni ed è collegato con la locomotiva. Il freno d’emergenza deve sempre funzionare». Mentre parlavano, entrambi tenevano la mano sull’impugnatura della maniglia della leva, e chi sa come accadde, fatto si è che la tirarono ed il treno si fermò. Si capisce che non poterono assolutamente mettersi d’accordo tra loro due su chi l’avesse realmente tirata dando così il segnale d’allarme. Sc’vèik asseriva che non poteva essere stato lui, che non lo aveva fatto, perché non era mica un monello! «Io stesso mi meraviglio», diceva con tono bonario al controllore, «come abbia fatto il treno ad arrestarsi così all’improvviso. Cammina, e tutt’a un tratto si ferma. Dispiace più a me che a lei». Un signore dall’aria seria prese le difese del ferroviere ed asserì di aver sentito il soldato incominciare per primo a parlare dei segnali d’allarme. Sc’vèik, dal canto suo, continuava a proclamare la sua innocenza, dicendo che non aveva alcun interesse a far ritardare il treno, dal momento che andava alla guerra. «Il signor capostazione le spiegherà come stanno le cose», decise infine il controllore, «la faccenda le verrà a costare venti corone». Intanto si potevano vedere i passeggeri che scendevano dai vagoni, il capotreno che fischiava, ed una signora che correva spaventata con la sua valigia attraverso i binari diretta verso i campi. «Questo, a dire il vero, venti corone le vale», disse Sc’vèik con aria seria, conservando la sua olimpica calma, «è ancora a prezzo assai buono. Una volta che sua maestà l’imperatore venne in visita a Žižkov,7 un certo Franta Šnor arrestò la sua vettura mettendosi in ginocchio in mezzo alla strada davanti a sua maestà l’imperatore. Poi il commissario di polizia di quel rione disse al signor Šnor con le lagrime agli occhi che una cosa di quel genere non avrebbe dovuto farla nella zona sottoposta alla sua giurisdizione, doveva invece farla una strada più giù, ove si estendeva   Quartiere orientale di Praga.

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già la competenza del commissario Kraus, là doveva rendere il suo omaggio al sovrano. Alla fine questo signor Šnor venne arrestato». Sc’vèik si guardò intorno, ora che la presenza del capotreno aveva moltiplicato la cerchia degli ascoltatori. «Adesso sarebbe bene ripartire», disse Sc’vèik, «non è mica bello far ritardare i treni. Se si fosse in tempo di pace, male da poco, ma quando c’è la guerra ognuno deve sapere che su ogni treno viaggiano personalità militari, maggior generali, tenenti, attendenti. Ogni simile ritardo è una subdola faccenda. A Waterloo Napoleone ritardò di cinque minuti e fu bell’e fottuto, lui e tutta la sua gloria…» In quel momento il tenente Lukáš riuscì ad aprirsi un varco tra la folla degli spettatori. Era bianco come uno spettro e non fu capace di dire altro che: «Sc’vèik!» Sc’vèik fece il saluto e dichiarò: «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che mi hanno accusato di aver fermato il treno. L’amministrazione ferroviaria ha certi singolari sigilli di piombo ai freni d’emergenza! È meglio non avvicinarcisi neppure, altrimenti può capitare qualche guaio e poi ti vengono a chiedere di sborsare venti corone, come le pretendono da me». Il capotreno era già fuori, dette il segnale ed il convoglio si rimise in moto. I curiosi se ne andarono ai loro posti nei singoli scompartimenti ed il tenente Lukáš, senza dire neppure un’altra parola, se ne tornò anche lui a sedere. Restò soltanto il controllore con Sc’vèik e col ferroviere. Il controllore tirò fuori di tasca un taccuino e si mise a compilare un rapporto sull’intera vicenda. Il ferroviere guardava in cagnesco Sc’vèik, il quale gli chiese con calma: «È da molto tempo che è nelle ferrovie?» Poiché il ferroviere non rispose, Sc’vèik cominciò a raccontare che aveva conosciuto un certo Mlíček František di Uhříněves presso Praga, il quale aveva anche lui tirato una volta un freno d’allarme come quello e s’era preso uno spavento tale che per due settimane era rimasto senza favella e l’aveva ritrovata allorché era andato a Hostivař, in visita al giardiniere Vaněk; lì infatti era venuto alle mani con qualcuno e gli avevano spaccato in testa una mazza. «Questo avvenne», aggiunse Sc’vèik, «nel maggio del 1912». Il ferroviere aprì la porta della ritirata e ci si rifugiò dentro. Con Sc’vèik restò il controllore che tentò di fargli sborsare le venti corone della multa facendogli notare che, in 248

caso contrario, sarebbe stato costretto a consegnarlo al capostazione di Tábor. «Bene», disse Sc’vèik, «io parlo volentieri con le persone istruite e sarò molto lieto di fare la conoscenza di questo capostazione di Tábor». Sc’vèik cavò fuori dalla blusa la pipa, l’accese e, sbuffando l’aspro fumo del tabacco per soldati, continuo: «Alcuni anni or sono era capostazione a Svitava il signor Wagner. Era un tiranno coi suoi sottoposti e li maltrattava ogni volta che poteva, e soprattutto ce l’aveva con un certo Jungwirt, un deviatore, e tanto fece che quel disgraziato, per disperazione, andò ad affogarsi nel fiume. Prima di buttarsi, tuttavia, indirizzò al capostazione una lettera nella quale gli diceva che sarebbe andato a mettergli paura di notte. E quel che dico è verità. Lo fece davvero. Ecco che di notte il caro signor capostazione se ne sta seduto accanto all’apparecchio telegrafico, squilla il campanello, ed il capo riceve un telegramma: ‘Come te la passi, cafone? Jungwirt.’ La faccenda andò avanti per una settimana intera ed il capo cominciò a spedire su tutte le linee, come risposta a quello spettro, telegrammi di servizio del seguente tenore: ‘Perdonami, Jungwirt.’ La notte seguente il telegrafo gli trasmette di rimando la seguente risposta: ‘Impiccati al semaforo del ponte. Jungwirt.’ Ed il signor capostazione gli dette ascolto. Poi per questa ragione arrestarono il telegrafista della stazione davanti a Svitava. Vede, ci sono certe cose tra cielo e terra, di cui non abbiamo neppure la più pallida idea». Il treno entrò nella stazione di Tábor e Sc’vèik, prima di scendere giù accompagnato dal controllore, annunciò secondo le dovute maniere al tenente Lukáš: «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che vengo condotto dal signor capostazione». Il tenente Lukáš non rispose. S’era impadronita di lui una completa apatia verso qualsiasi cosa. Gli era balenata per la testa l’idea che la cosa migliore era buggerarsene di tutto. Sia di Sc’vèik che del maggior generale calvo che gli stava seduto dinanzi. Starsene tranquillamente seduto, scendere a Budějovice, presentarsi in caserma e partire alla volta del fronte con qualche compagnia di linea. Al fronte, eventualmente, lasciarsi ammazzare e liberarsi di questo schifoso mondo per il quale gironzolava ad esempio una carogna come Sc’vèik. Allorché il treno si mise in moto, il tenente Lukáš scorse dal finestrino Sc’vèik, il quale stava in piedi sul marciapiede e s’era ingolfato in una seria discussione col capostazio249

ne. Il soldato era circondato da una numerosa folla nella quale si distinguevano pure alcune uniformi di ferrovieri. Il tenente Lukáš tirò un sospiro. Non era un sospiro di pietà. Si sentiva il cuore leggiero per il fatto che Sc’vèik era rimasto sul marciapiede. Perfino quel maggior generale con la testa pelata non gli sembrava più un mostro così schifoso.

Già da diverso tempo il treno sbuffava verso České Budějovice, ma sul marciapiede il crocchio di persone attorno a Sc’vèik non era scemato. Sc’vèik parlava della sua innocenza, e riuscì a convincere la folla a tal punto che una signora dichiarò: «Ecco qui come tormentano un povero soldato». La folla accettò questa opinione ed un signore si rivolse al capostazione dicendosi disposto a pagare le venti corone di multa al posto di Sc’vèik. Era convinto che quel soldato non fosse colpevole di niente. «Guardatelo un po’», esclamò facendo osservare l’espressione assolutamente candida sul volto di Sc’vèik, il quale, rivolto verso la calca, andava dicendo: «Io sono innocente, gente mia». Comparve poi il brigadiere dei gendarmi, che portò fuori dalla folla un cittadino, lo arrestò e lo condusse via dicendogli: «Di questo dovrà render conto; glielo farò vedere io, sobillare la gente, e dire che se i soldati vengono trattati così nessuno può pretendere da loro che l’Austria vinca». Lo sventurato cittadino non poté fare altro che asserire con tono convincente che egli era un macellaio di Stará brána8 e che non aveva affatto avuto quelle intenzioni. Nel frattempo il buon uomo che era convinto dell’innocenza di Sc’vèik pagò in vece sua la multa nell’ufficio e poi se lo portò nel ristorante di terza classe, dove gli offrì una birra; quindi, avendo saputo che tutti i suoi documenti ed il foglio di viaggio per le ferrovie si trovavano ancora presso il tenente Lukáš, con grande magnanimità gli dette ancora un cinquino per il biglietto e per le spese minute. Nell’accomiatarsi, disse con tono confidenziale a Sc’vèik: «Allora, soldatino, se verrà preso prigioniero in Russia, saluti da parte mia il birraio Zeman di Zdolbunovo.9 Ha   Vecchia porta. 9  Cittadina della Volinia, al centro di una regione in cui si trovavano diverse famiglie ceche trasferitesi in Russia nel XIX secolo. 8

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scritto come mi chiamo, no? E sia furbo, veda di non stare al fronte per molto tempo». «Quanto a questo non abbia alcuna paura», disse Sc’vèik, «è sempre interessante vedere gratis qualche paese straniero». Sc’vèik se ne restò seduto al tavolo, da solo, e, mentre quatto quatto si beveva il cinquino ricevuto dal nobile benefattore, sul marciapiede la gente che non aveva assistito al colloquio tra Sc’vèik ed il capostazione ma aveva osservato soltanto di lontano la folla accalcata andava dicendo che avevano catturato una spia la quale stava fotografando la stazione, asserzione che veniva tuttavia ribattuta da una signora la quale sosteneva che non si trattava affatto di una spia, e che invece aveva sentito dire di un dragone, il quale aveva sciabolato un ufficiale nella ritirata per signore, dato che l’ufficiale era entrato lì dentro a dare fastidio alla sua bella che era venuta ad accompagnarlo. A tutte queste fantasiose congetture, caratteristiche del nervosismo del tempo di guerra, pose termine la gendarmeria che fece sgombrare il marciapiede. E Sc’vèik continuò a bere quieto quieto, pensando con tenerezza al suo tenente. Che cosa avrebbe fatto quando, giunto a Ceské 251

Budějovice, per tutto il treno non avrebbe trovato il suo attendente? Prima dell’arrivo dell’accelerato il ristorante di terza classe si riempì di soldati e di borghesi. Erano in prevalenza militari dei vari reggimenti, delle singole formazioni e delle più svariate nazionalità, che il turbine della guerra aveva scaraventato negli ospedali di Tábor e che adesso partivano nuovamente alla volta del fronte, incontro a nuove ferite, mutilazioni e sofferenze, per andare a meritarsi sulla propria tomba una semplice croce di legno sulla quale, ancora dopo molti anni, nelle desolate lande della Galizia orientale, avrebbe sventolato al vento ed alla pioggia un berretto militare austriaco col «frantík» 10 arrugginito; su di esse di tanto in tanto sarebbe andato a posarsi un triste corvo invecchiato, memore dei pingui conviti di qualche anno prima, quando lì lo attendeva una infinita tavola imbandita di gustosi cadaveri umani e di carogne di cavalli, quando proprio sotto i berretti sui quali si sarebbe posato si trovava il boccone più ghiotto, un paio di occhi umani. Uno di questi candidati alle sofferenze, dimesso da un lazzaretto militare dopo aver subito un’operazione, con indosso un’uniforme inzaccherata da tracce di sangue e fango, si mise a sedere accanto a Sc’vèik. Era bassetto, magrolino e triste. Posò sul tavolo un pacchettino, ne estrasse un borsellino sdrucito e si mise a contare i soldi che aveva. Poi dette un’occhiata a Sc’vèik e gli domandò: «Magyarùl?»11 «Io sono ceco, camerata», rispose Sc’vèik, «non vuoi farti una bevuta?» «Nem tudom, barátom».12 «Non fa niente, camerata», lo incitò Sc’vèik, allungando il suo bicchiere pieno verso il soldato triste, «pensa a bere e non ti preoccupare». Capì, bevve, ringraziò: «Köszönöm szivesen»,13 continuò ad esaminare il contenuto del suo borsellino ed alla fine sospirò. Sc’vèik comprese che quell’ungherese avrebbe bevuto volentieri altra birra ma che non aveva quattrini, pertanto ordinò che gliene portassero una, dopo di che l’ungherese ringraziò di nuovo e cominciò a raccontare a Sc’vèik qualcosa aiutandosi coi gesti e mostrando il suo 10  Diminutivo di František, «Francesco», nome popolare del bottoncino dei berretti militari austriaci con la scritta FJI (Franz Josef I). 11   In ungherese nel testo: «(capisce) ungherese?» 12   In ungherese nel testo: «Non capisco, amico». 13   In ungherese nel testo: «Grazie di cuore».

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braccio ferito, servendosi altresì di un linguaggio internazionale: «Pif, paf, putz!» Sc’vèik faceva col capo cenni di commiserazione ed il bassetto convalescente gli comunicò ancora, abbassando la sinistra a mezzo metro da terra e sollevando poi tre dita, che aveva tre piccoli bambini. «Nincs ham, nincs ham», 14 proseguì, volendo dire che a casa non avevano niente da mangiare, e si strofinò gli occhi, dai quali sprizzavano lagrime, con la sudicia manica del suo cappotto militare in cui si poteva vedere il foro provocato dal proiettile che gli era entrato nel corpo per la gloria del sovrano d’Ungheria. Non c’è da stupirsi se, andando avanti con quel divertimento, pian pianino il cinquino di Sc’vèik si stava volatilizzando e se pian pianino, ma decisamente, si stava precludendo la possibilità di arrivare a České Budějovice, dato che ad ogni bicchiere di birra offerto a se stesso ed al convalescente ungherese diminuiva sempre più la possibilità di acquistare il biglietto a tariffa militare. Per la stazione passò di nuovo un treno diretto a Budějovice ma Sc’vèik continuò a starsene seduto al tavolo e ad ascoltare l’ungherese che andava ripetendo il suo: «Pif, paf, putz! Három gyermek, nincs ham, éljen!» 15 Quest’ultima parola la diceva quando brindavano. «Bevi, bevi, birbante d’un ungherese», rispondeva Sc’vèik, «trinca giù! Voi non ci fareste di certo un’accoglienza come questa…» Al tavolo vicino c’era un soldato che stava raccontando come, quando erano arrivati a Seghedino col ventottesimo reggimento, gli ungheresi li avevano accolti con le mani in alto». 16 Era santa verità, ma questo soldato si sentiva evidentemente offeso per una cosa che poi divenne un fenomeno comune a tutti i soldati cechi e che alla fine fecero gli stessi ungheresi, quando ne ebbero abbastanza di menare le mani per gli interessi del sovrano d’Ungheria.   In ungherese nel testo: «Niente da mangiare, niente da mangiare».   In ungherese nel testo: «Tre bambini, niente dà mangiare, evviva!»  A Seghedino, nell’Ungheria meridionale, venne trasferito all’inizio del 1915 il ventottesimo reggimento di fanteria, composto in gran parte di praghesi. All’inizio del conflitto parte del reggimento venne inviato sul fronte galiziano, il resto in Serbia. Poiché entrambi i distaccamenti ebbero gravissime perdite (fa elevato specialmente il numero dei prigionieri) i na­zionalisti tedeschi ed ungheresi accreditarono l’accusa secondo la quale il reggimento non era leale, dato che i suoi uomini si arrendevano anche quando non ve ne era bisogno. L’accogliere per scherno i soldati del ven­tottesimo con le mani alzate era una evidente allusione a questi episodi. Per parecchio tempo durò il malanimo tra gli uomini del ventottesimo e la popolazione. 14 15 16

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Poi pure quel soldato venne a sedersi con loro e raccontò in qual modo, a Seghedino, avessero messo alle strette gli ungheresi e li avessero cacciati a suon di busse da alcune osterie. Tuttavia ammise con cognizione di causa che anche gli ungheresi ci sapevano fare, e disse di aver ricevuto una coltellata alle spalle a causa della quale avevano dovuto mandarlo a curarsi nelle retrovie. Ma adesso, al suo ritorno, con ogni probabilità il capitano del suo battaglione lo avrebbe sbattuto dentro, perché non aveva avuto il tempo per far pagare come si conveniva quella ferita all’ungherese, affinché pure quello avesse un ricordino da parte sua e l’onore del reggimento fosse salvo. «Ihre Dokumenten,17 fostri tocumento?» in questa maniera Sc’vèik venne apostrofato dal comandante di una ronda, un maresciallo accompagnato da quattro soldati con le baionette in canna, «io fetere voi scetere, nicht fahren,18 scetere, pere, zembre pere, ciofanotto!» «Non ce li ho, bellino», rispose Sc’vèik, «il signor Oberleutnant Lukáš, reggimento numero novantuno, se li è portati con sé ed io sono rimasto qui alla stazione». «Was ist das Wort 19: pelino?» chiese il maresciallo ad uno dei suoi soldati, un vecchio milite della territoriale, il quale doveva divertirsi a fare continui dispetti al suo superiore, dal momento che rispose tranquillamente: «Bellino, das ist wie: Herr Feldwebl». 20 Il maresciallo continuò a parlare con Sc’vèik: «Tocumento afere oghni zoltato, zenza tocumento spatere in catapuia auf Bahnhofs-Militärkommando, den lausigen Bursch, wie einen tollen Hund». 21 Sc’vèik fu condotto al comando militare della stazione, nel cui corpo di guardia si trovavano alcuni uomini i quali avevano il medesimo aspetto dell’anziano milite territoriale che sapeva tradurre così bene in tedesco al suo naturale nemico, sua eccellenza il maresciallo, la parola «bellino». La stanza era adornata con litografie che in quell’epoca il ministero delle forze armate faceva distribuire in tutti gli uffici per i quali transitavano i militari, come pure nelle scuole e nelle caserme. Il buon soldato Sc’vèik venne accolto da un disegno che   In tedesco nel testo (corretto Dokumente): «I suoi documenti».   In tedesco nel testo: «non partire».   In tedesco nel testo: «Cos’è la parola». 20   In tedesco nel testo (corretto Feldwebel): «è come: Signor mare­sciallo». 21   In tedesco nel testo: «al comando militare di stazione, questo pidoc­chioso, come un cane rabbioso». 17

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raffigurava, come spiegava la didascalia, il caporalmaggiore František Hammel ed i caporali Paulhart e Bachmayer dell’imperialregio ventunesimo reggimento di fucilieri nell’atto di incitare le truppe alla resistenza. Dalla parte opposta stava appeso un altro disegno con la scritta: «Il caporalmaggiore Jan Danko del quinto reggimento di ussari honvéd 22 esplora la postazione di una batteria nemica». A destra, in basso, era attaccato un manifesto: «Singolari esempi di eroismo». Con simili manifesti, il cui testo, con eccezionali atti di valore inventati, veniva composto negli uffici del ministero da vari giornalisti tedeschi richiamati alle armi, la vecchia stupida Austria intendeva infondere entusiasmo nei soldati che non li leggevano mai, e quando questi straordinari atti di valore venivano inviati loro al fronte in libretti in brossura, li adoperavano come cartine per sigarette fatte con tabacco da pipa, oppure li impiegavano in maniera ancora più degna, rispondente al valore ed allo spirito degli eccezionali episodi di eroismo descritti. Mentre il maresciallo era andato a cercare qualche ufficiale, Sc’vèik si mise a leggere su uno di questi manifesti:   Territoriali ungheresi.

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Il conduttore Josef Bong I soldati della sanità accompagnavano i feriti gravi alle ambulanze tenute pronte in una gola riparata. Appena una di esse aveva completato il suo carico, partiva alla volta del posto di medicazione. I russi, scoperte queste ambulanze, presero a tempestarle di granate. Un cavallo del conduttore Josef Bong del terzo squadrone conduttori imperialregio venne ucciso da una scheggia di granata. Bong cominciò a lamentarsi: «Povero il mio bianchino, per te è finita!» Ma ecco che anche egli venne colpito da un frammento di granata. Malgrado questo staccò quel suo cavallo e portò in luogo coperto il tiro a tre. Poi tornò a riprendere i finimenti dell’animale morto. I russi continuavano a sparare. «Tirate pure, maledetti cani arrabbiati, i finimenti qui non ce li lascio!» e continuò l’impresa iniziata, borbottando tra sé e sé queste parole. Quand’ebbe finalmente terminato, se ne ritornò alla sua ambulanza con tutta la bardatura. Qui dovette sorbirsi una sgridata da parte dei commilitoni della sanità a causa della sua lunga assenza. «Non volevo lasciare là i finimenti, sono quasi nuovi. Sarebbe un peccato, ho pensato. Non ne abbiamo troppe, di simili cose», si scusò il valoroso soldato mentre si avviava al posto di medicazione, dove soltanto allora si presentò come ferito. Il suo capitano, poi, decorò il suo petto con una medaglia d’argento al valore.

Quando Sc’vèik ebbe terminato di leggere, poiché il maresciallo non era ancora tornato, egli si rivolse ai militi territoriali del corpo di guardia: «Questo è un esempio assai bello di eroismo. Così nel nostro esercito i finimenti per cavalli saranno tutti nuovi; però quando ero a Praga una volta lessi sui Pražské úřední listy23 un episodio ancora più bello di un volontario con ferma annuale, un certo dottor Josef Vojna. Costui si trovava in Galizia, nel settimo battaglione dei cacciatori di linea, e durante un attacco alla baionetta si buscò una pallottola alla testa, ma quando lo portarono al posto di medicazione cominciò ad imprecare contro di loro dicendo che per un graffietto come quello non si lasciava bendare. E volle subito tornare all’assalto col suo plotone, se non che una granata lo raggiunse al malleolo. Di nuovo lo volevano portare via, ma lui cominciò a zoppicare verso la linea del fuoco appoggiandosi ad un bastone e con quel bastone si difese contro il nemico, quand’ecco che arrivò un’altra granata che gli spaccò la mano con la quale reggeva il bastone. Allora si passò il bastone nell’altra mano, si mise a strillare contro l’avversario dicendo che gliel’avrebbe fatta pagare, e chi sa come sarebbe andata a finire se dopo un istante uno shrapnel non lo avesse definitivamente accoppato. Può darsi che, se malgrado tutto 23  «Fogli ufficiali praghesi« (La testata esatta è «Pražské úřední noviny», «Giornale ufficiale praghese«), organo governativo al tempo dell’AustriaUngheria.

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non lo avessero fatto fuori, avrebbe ricevuto anche lui una medaglia d’argento al valore. Quando il colpo lo beccò alla testa, questa, mentre rotolava giù, riuscì ancora a gridare: «Sempre al fedel dovere tienti forte, anche se intorno spira già la morte!» «Ne scrivono di queste cose sui giornali!» disse uno degli uomini, «ma uno di questi redattori nel giro di un’ora ci diventerebbe matto». Il milite territoriale sputò: «Da noi a Čáslav c’era un giornalista di Vienna, un austriaco. Aveva il grado di Fähnrich.24 Con noi non voleva neppure parlare ceco, ma quando lo assegnarono ad una compagnia di linea nella quale si trovavano solo boemi imparò subito il ceco». Apparve sulla porta il maresciallo, che con aria adirata sbottò: «Wenn man esere drei Minuten weg, da hört man nichts anderes als: czeco, czechi». 25 Uscendo fuori, diretto probabilmente al ristorante, disse al caporale dei territoriali, indicando Sc’vèik, di condurre immediatamente quel pidocchioso dal sottotenente, quando questi fosse arrivato. «Il signor Leutnant 26 se la spassa nuovamente con la telegrafista della stazione», disse il caporale dopo l’uscita del superiore, «sono già più di due settimane che le sta appresso, ed ogni volta che torna dall’ufficio telegrafico è su tutte le furie e dice di lei: ‘Das ist aber eine Hure, sie will nicht mit mir schlafen.’ » 27 Anche questa volta doveva essere di umor nero, dato che, allorché arrivò, dopo un istante, lo si sentì sbattere alcuni libri sulla scrivania. «C’è poco da fare, ragazzo mio, bisogna che tu vada da lui», disse con tono di commiserazione il caporale a Sc’vèik, «per le sue mani ne sono già passati tanti, militari vecchi e giovani!» E subito accompagnò Sc’vèik nell’ufficio dove, dietro una scrivania ingombra di scartoffie in disordine, stava seduto un giovane sottotenente, il quale aveva un’aria oltremodo infuriata. Appena scorse Sc’vèik col caporale, fece un «Aha!» che non prometteva niente di buono. Quindi il caporale presen24   In tedesco nel testo: «Alfiere», il più basso grado di ufficiale nell’esercito austro-ungarico. 23   «Esere« e «czeco, czechi» sono parole ceche storpiate in questa battuta in tedesco: «Quando si… tre minuti fuori, non si sente altro che…» 26   In tedesco nel testo: «Sottotenente», 27   In tedesco nel testo: «Ma è proprio una sgualdrina, non vuole dor­mire con me».

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tò il suo rapporto: «Faccio rispettosamente notare, signor Leutnant, che quest’uomo è stato trovato alla stazione senza documenti». Il sottotenente fece con la testa un cenno come se volesse far capire che lo sapeva già da anni ed anni che in quel giorno ed a quell’ora avrebbero trovato alla stazione senza documenti Sc’vèik, perché chiunque l’avesse guardato in quell’istante doveva avere l’impressione che era assolutamente impossibile che un uomo con quella faccia e con quell’aspetto potesse avere indosso dei documenti. Sc’vèik, in quel momento, aveva l’aria di uno che fosse caduto dal cielo, da qualche altro pianeta, e che ora se ne stesse a contemplare con ingenuo stupore il nuovo mondo, dove gli chiedevano, una stupidaggine finora a lui ignota, quali erano per l’appunto questi benedetti documenti. Il sottotenente stette un po’ in forse, mentre guardava Sc’vèik, su quel che doveva dirgli e su che cosa doveva interrogarlo. Alla fine gli chiese: «Che cosa facevate alla stazione?» «Faccio rispettosamente notare, signor Leutnant, che stavo aspettando il treno per České Budějovice, per poter raggiungere il mio novantunesimo reggimento, dove sono attendente del signor Oberleutnant Lukáš, che sono stato costretto ad abbandonare, essendo stato condotto dal capostazione a causa di una multa, dato che mi hanno sospettato di aver fermato il diretto sul quale viaggiavamo per mezzo del freno di sicurezza e d’emergenza». «Questo mi fa diventar matto», esclamò il sottotenente, «ditemi quello che è accaduto in maniera coerente, con poche parole, e senza stare a cianciare tutte queste cretinate». «Faccio rispettosamente notare, signor Leutnant, che fin dal momento in cui ci siamo seduti col signor Oberleutnant Lukáš su quel diretto che doveva condurci e portarci al più presto al nostro novantunesimo imperialregio reggimento di fanteria, abbiamo avuto una scalogna nera. Anzitutto ci è andata smarrita una valigia, poi, per non fare confusioni, un certo signor maggior generale, completamente calvo…» «Himmelherrgott», 28 sospirò il sottotenente. «Faccio rispettosamente notare, signor Leutnant, che, se proprio vuole farmi raccontare tutto per filo e per segno, è necessario considerare in complesso l’intera faccenda,   In tedesco nel testo: «Signore dio del cielo!»

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come soleva sempre dire la buonanima del calzolaio Petrlik, quando ordinava al suo ragazzo di togliersi i pantaloni, prima di cominciare a lisciarlo con la cinghia». E, mentre il sottotenente sbuffava, Sc’vèik continuò il suo racconto: «Dunque, per un qualche motivo, non debbo essere andato a genio a questo signor maggior generale calvo e sono stato mandato fuori nel corridoio dal signor Oberleutnant Lukáš, del quale sono attendente. Nel corridoio, poi, mi hanno incolpato di aver fatto quello che le ho già riferito. Prima che la faccenda fosse chiarita sono rimasto solo sul marciapiede. Il treno era partito, il signor Oberleutnant coi bagagli e con tutte le carte, sue e mie, era anch’egli partito, ed io sono rimasto qui con un palmo di naso, come un orfanello senza documenti». Sc’vèik guardava con un’aria così commoventemente tenera il sottotenente che questi capì perfettamente che quello che gli veniva raccontando quell’uomo, il quale dava l’impressione di essere un cretino nato, corrispondeva alla pura e semplice verità. Il sottotenente si mise adesso ad enumerare a Sc’vèik tutti i treni partiti per Budějovice dopo il diretto, e gli domandò per quale motivo avesse perduto quei treni. 259

«Faccio rispettosamente notare, signor Leutnant», rispose Sc’vèik sorridendo con aria da bonaccione, «che mentre ero in attesa del prossimo treno m’è capitata la disgrazia di sedermi al tavolo e di mettermi a bere una birra dopo l’altra». «Un imbecille come questo non l’ho mai visto», pensò il sottotenente, «confessa tutto. Quanti me ne sono passati qui tra le mani finora, ed ognuno negava, questo qui, invece, dice candidamente: ‘Ho perso tutti quanti i treni perché mi sono bevuta una birra dopo l’altra.’ » Riassunse poi queste considerazioni in una sola frase, con la quale apostrofò Sc’vèik: «Siete un degenerato, ragazzo mio. Sapete cosa vuol dire quando si dice che uno è degenerato?» «Anche da noi, all’angolo tra via Na bojišti e via Santa Caterina, faccio rispettosamente notare, signor Leutnant, c’era un uomo degenerato. Suo padre era un conte polacco e sua madre faceva la levatrice. Di professione spazzava le strade ma nelle bettole non tollerava di essere chiamato altrimenti che signor conte». Il sottotenente pensò bene di farla finita in qualche modo con quella commedia, e per questo disse con tono severo: «Allora vi dico, cretino, pezzo d’imbecille, che adesso andrete alla biglietteria, vi comprerete un biglietto e partirete per Budějovice. Se vi ripesco qui, vi faccio fare la fine che fanno i disertori. Abtreten». 29 Ma poiché Sc’vèik non si muoveva e teneva sempre la mano sulla visiera del berretto, il sottotenente si mise ad urlare: «Marsch hinaus, non avete sentito, abtreten! 30 Caporale Palánek, portate questo idiota alla biglietteria e comprategli un biglietto per České Budějovice!» Il caporale Palánek poco dopo riapparve in ufficio. Dalla porta semiaperta fece capolino dietro Palánek la faccia bonacciona di Sc’vèik. «Cos’altro c’è?» «Faccio rispettosamente notare, signor Leutnant», sussurrò con aria misteriosa il caporale Palánek, «che lui non ha i soldi per la ferrovia e non ce li ho neppure io. Gratuitamente non lo vogliono fare viaggiare, perché non ha i documenti militari attestanti che si reca al reggimento». Il sottotenente non ci mise molto tempo per risolvere con decisione salomonica la questione. «Allora ci vada a piedi», stabilì, «che lo schiaffino dentro   In tedesco nei testo: «Filare!»   In tedesco nel testo: «Fuori di qui… Filarel»

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al reggimento se arriva in ritardo; chi ha voglia di perder tempo con quel disgraziato?» «Niente da fare, camerata», disse il caporale Palánek a Sc’vèik, quando uscì dall’ufficio, «te la devi fare a piedi fino a Budějovice, caro te. Là al corpo di guardia abbiamo un po’ di pane di munizione, te lo daremo per il viaggio». E dopo mezz’ora, quando ebbero fatto bere a Sc’vèik anche del caffè e gli ebbero dato, oltre al pane di munizione, pure un pacchetto di tabacco militare come vettovaglie per la sua marcia verso il reggimento, Sc’vèik uscì di Tábor nella notte fosca che risonava del suo canto. Cantava una vecchia canzone militare: Jaroměř era la nostra meta, chi ci vuole credere ci creda…

E lo sa il demonio come accadde che, invece di dirigersi a sud, verso Budějovice, il buon soldato Sc’vèik si mise a marciare dritto dritto verso occidente. Camminava sulla neve della strada, in mezzo al gelo, avvolto nel suo soprabito militare, come l’ultimo uomo della guardia di Napoleone in ritirata dalla spedizione su Mosca, con questa sola differenza, che cantava allegramente: 261

Me ne andavo a passeggiare nel boschetto verde.

E nei boschi carichi di neve, nella quiete notturna, si spandevano gli echi del canto, finché nei paesetti cominciarono a latrare i cani. Quando il canto gli venne a noia, Sc’vèik si mise a sedere su un mucchio di breccia, s’accese la pipa e, fatta una breve sosta, continuò la sua marcia, verso nuove avventure della sua anabasi di Budějovice.

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2 L’anabasi di Budějovice

Nei tempi antichi ci fu un guerriero, Senofonte, che girò in lungo ed in largo per l’Asia Minore ed arrivò fino a Dio sa dove senza aver bisogno di una mappa. Pure gli antichi goti fecero le loro incursioni senza possedere alcuna cognizione topografica. Marciare sempre in avanti, questo significa anabasi. Aprirsi la strada tra contrade sconosciute. Essere circondato da nemici che ti spiano per approfittare della prima occasione per torcerti il collo. Quando qualcuno ha la testa sulle spalle come l’aveva Senofonte o tutte quelle tribù di predoni che arrivarono in Europa da chi sa quale località del mar Caspio o del mare d’Azov, riesce indubbiamente a fare veri prodigi nella sua marcia. Anche là nel nord, nel mare gallico, dove pure arrivarono le legioni romane di Cesare senza alcuna carta, un giorno dissero che sarebbero tornate a Roma, marciando per 263

un’altra strada, per godersela di più. Ed infatti arrivarono alla loro meta. Fu probabilmente da allora che si disse che tutte le strade conducono a Roma. Allo stesso modo tutte le strade conducono a České Budějovice, come era assolutamente convinto il buon soldato Sc’vèik quando, invece di vedere i paraggi di Budějovice, scorse la campagna di Milevsko. Malgrado tutto continuò ad andare avanti, dato che a nessun buon soldato un qualsiasi Milevsko può impedire in qualunque caso di arrivare a České Budějovice. Ed in questa maniera, dopo aver cantato tutte le canzoni militari che conosceva circa le marce dei soldati, si ritrovò a Kvètov, ad occidente di Milevsko, così che, davanti a Květov, fu costretto ad attaccare di nuovo la canzone: Sfilavamo in colonna tutti quanti, le ragazze piangevano davanti…

Una vecchietta la quale tornava dalla chiesa, sulla strada da Květov a Vraž, che si trova anch’esso verso occidente, attaccò discorso con Sc’vèik dopo avergli rivolto il saluto cristiano: «Buon giorno, soldatino, dove è diretto?» «Vado a Budějovice, mammina, al mio reggimento», rispose Sc’vèik, «vado a fare questa guerra». «Ma così va male, soldatino», fece la nonnina impensierita, «non ci arriverà mai per questa strada che passa per Vraž, se continuasse ad andare sempre in avanti giungerebbe a Klatovy». «Io penso», disse Sc’vèik con rassegnazione, «che anche da Klatovy si può andare a Budějovice. Certo che è una bella passeggiata quando uno ha fretta di raggiungere il proprio reggimento, col pericolo poi di passare qualche dispiacere, malgrado tutta la sua buona volontà di arrivare in tempo». «Anche da noi c’era un bricconcello. Costui doveva andare a Plzeň al corpo territoriale, un certo Toníček Mašek», sospirò la vecchietta, «è un parente di mia nipote; e dunque partì. Dopo una settimana ecco che vennero a cercarlo i gendarmi, dicendo che non si era presentato al suo reggimento. Dopo un’altra settimana tornò lui, vestito in borghese, e ci disse che lo avevano mandato a casa in licenza. Allora il sindaco andò dai gendarmi, e loro vennero a fargli interrompere la licenza. Ora ha già scritto dal fronte che è ferito e che ha perduto una gamba». La vecchietta guardò Sc’vèik con aria compassionevole: «Mi aspetti là in quel boschetto, soldatino, le porterò da 264

casa una minestra di patate, la riscalderà. Di là si vede la nostra casupola, è proprio dopo il boschetto, un po’ a destra. Per il nostro paese, Vraž, è meglio che non passi, ci sono gendarmi che hanno certi occhi cui non sfugge niente. Passato il bosco, proseguirà per Malčín. Di là, soldatino, prenderà la strada per Čížova, che però eviterà. I gendarmi di là sono severissimi, ed acchiappano i disertori. Passerà dunque per il bosco ed andrà direttamente a Sedlec presso Horažd’ovice. Là c’è un gendarme assai buono, che lascia passare tutti quanti. Ha qualche documento?» «No, nonnina!» «Allora non passi neanche per di là, vada piuttosto a Radomyšl, ma veda di arrivarci verso sera, quando tutti i gendarmi sono all’osteria. Là nella via Inferiore, oltre Floriánek, troverà una casetta, dipinta di azzurro in basso, e lì chieda di padron Melichárek. È mio fratello. Gli dirà che gli mando tanti saluti, e lui le indicherà la strada per Budějovice». Nel boschetto Sc’vèik attese la nonnina per oltre mezz’ora, e, dopo che si fu riscaldato con la minestra di patate che la vecchina, poveretta, gli aveva portato in una pentola avvolta in un cuscino affinché non si raffreddasse, la donna trasse di sotto lo scialle una fetta di pane ed un pezzo di lardo, li infilò nelle tasche di Sc’vèik, gli fece in fronte il segno della croce e disse che anche lei aveva due nipoti in guerra. Poi gli ripetè ancora una volta, spiegandogli bene tutti i particolari, quali erano i paesi per i quali doveva passare e quali quelli da evitare. Infine prese dalla saccoccia del suo giubbotto una corona e gliela dette affinché a Malčín si comprasse un po’ d’acquavite per il viaggio, dato che fino a Radomyšl c’era un bel pezzo di strada. Seguendo i consigli della vecchietta, da Čížova Sc’vèik prese per oriente verso Radomyšl, convinto in cuor suo che avrebbe potuto arrivare a Budějovice da ogni parte del mondo, qualunque essa fosse. Quando lasciò Malčín venne insieme con lui un anziano sonatore d’armonica che aveva trovato nell’osteria quando era andato a comprarsi l’acquavite per il bel pezzo di strada che doveva fare fino a Radomyšl. Il sonatore d’armonica aveva scambiato Sc’vèik per un disertore e gli consigliò di venire insieme con lui a Horažd’ovice, dicendogli che aveva là una figlia sposata, il cui marito era anch’egli un disertore. A Malčín, evidentemente, il vecchio aveva alzato un po’ il gomito. «Sono già due mesi che si tiene nascosto suo marito nel265

la stalla», disse a Sc’vèik con l’intenzione di convincerlo, quindi potrà nascondere là dentro pure te e ci starete fino alla fine della guerra. Se sarete in due non ve la passerete poi tanto male». Per il gentile rifiuto di Sc’vèik si irritò grandemente, e prese poi a sinistra per la via dei campi, minacciando Sc’vèik di denunciarlo ai gendarmi di Čížova. A Radomyšl, sul far della sera, nella via Inferiore, oltre Floriánek, Sc’vèik trovò padron Melichárek. Gli portò i saluti da parte della sua sorella di Vraž, ma la cosa non ebbe il minimo effetto su padron Melichárek. Egli insisteva perché Sc’vèik gli mostrasse le sue carte. Era un uomo prevenuto, perché non faceva altro che parlare di masnadieri, di furfanti e di ladri che vagabondavano facendo malefatte per tutta la regione di Písek. «Scappano dall’esercito, non vogliono fare il servizio militare, e poi se ne vanno in giro così per le campagne, e, dove possono rubare, rubano», disse con voce severa fissando Sc’vèik negli occhi, «ciascuno di loro ha l’aria di uno che non sappia contare neppure fino a cinque». «Ma sì, ma sì, per la verità la gente è arciarrabbiata», soggiunse allorché Sc’vèik si alzò dalla panca, «se uno avesse la coscienza pulita se ne starebbe seduto e farebbe vedere le sue carte. Ma se non le ha…» «Allora addio, nonnino». «Addio, e la prossima volta vada ad infinocchiare uno più scemo di me». Quando Sc’vèik fu uscito nelle tenebre, il vecchietto stette a borbottare tra sé e sé ancora per un pezzetto: «Va a Budějovice, dice, al suo reggimento. Da Tábor. Ma prima, birbante, punta su Horažd’ovice, e soltanto dopo si dirige su Písek. Così fa il giro del mondo». Sc’vèik si rimise subito in marcia e camminò per tutta la notte, finché, dalle parti di Putim, trovò una bica in un campo. Mentre si rastrellava un po’ di fieno sentì vicinissimo a sé una voce: «Di quale reggimento sei? Dove sei diretto?» «Del novantunesimo, a Budějovice». «Che ci vai a fare?» «Lì io ho il mio Oberleutnant». Accanto, vicino, si sentirono ridere non una sola, ma tre persone. Quando le risate furono cessate, Sc’vèik domandò di quale reggimento fossero loro. Venne così a sapere che due erano del trentacinquesimo e l’altro era nell’artiglieria, ed anche loro stavano a Budějovice. Quelli del trentacinquesimo se l’erano squagliata un 266

mese prima, quando stavano per essere spediti in prima linea, l’artigliere, invece, stava in giro fin dal tempo della mobilitazione. Era di là, di Putim, e quella bica apparteneva a lui. Di notte ci dormiva sempre. Il giorno prima aveva trovato in un bosco gli altri due, e così li aveva portati con sé nel suo pagliaio. Tutti avevano la speranza che la guerra finisse entro un mese o due. Ritenevano che i russi fossero già oltre Budapest e che avessero raggiunto la Moravia. Questa era la voce corrente a Putim. All’alba, prima che spuntasse il giorno, la mamma del dragone avrebbe portato la colazione. Quelli del trentacinquesimo, poi, sarebbero partiti alla volta di Strakonice, perché uno di loro aveva là una zia, e costei, a sua volta, aveva nelle montagne oltre Sušice un conoscente che era proprietario di una segheria, dove avrebbero potuto comodamente nascondersi. «E tu del novantunesimo, se vuoi», proposero a Sc’vèik, «puoi venire pure con noi. Del tuo Oberleutnant te ne puoi benissimo fregare». «Non si può mica fare così facilmente», rispose Sc’vèik immergendosi e rincantucciandosi profondamente nella bica. Quando si destò, verso il mattino, erano già partiti tutti 267

e qualcuno, con ogni probabilità il dragone, gli aveva messo vicino ai piedi un pezzetto di pane per il viaggio, Sc’vèik passò per i boschi e presso Štěkno incontrò un viandante, un vecchietto che lo accolse come un vecchio amico offrendogli un sorso di acquavite. «Però non andare in giro vestito così», ammonì Sc’vèik, «questa uniforme militare, una volta o l’altra, potrebbe farti passare qualche grosso dispiacere. Adesso ci sono da per tutto un sacco di gendarmi e non puoi mendicare con questa roba indosso. Ormai i gendarmi non danno più la caccia a noi come facevano un tempo, adesso cercano soltanto voi». «Soltanto voi cercano», ripetè il mendicante con un’aria talmente convincente che Sc’vèik pensò che sarebbe stato meglio non dirgli niente del novantunesimo reggimento. Lo prendesse pure per quello che pensava! Perché deludere un buon vecchietto come lui? «E dov’è che sei diretto?» chiese il mendicante dopo un po’ di tempo, quando già si erano accesi entrambi le pipe e stavano passando alla larga da un paesetto. «A Budějovice». «Gesù mio!» si spaventò il mendicante, «là ti impacchettano nel giro di un minuto. Non ti danno neppure il tempo di rifiatare. Devi avere un vestito da borghese tutto stracciato, e devi camminare facendo finta di essere uno sciancato. «Ma non avere paura di niente, adesso andremo a Strakonice, poi a Volyň ed a Dub, e dovrebbe metterci la sua coda il demonio se non riuscissimo a procurarci un qualche vestito borghese. A Strakonice ci sono ancora persone così stupide ed oneste che in certi posti lasciano la porta aperta durante la notte e durante il giorno non la chiudono nemmeno. Adesso che è inverno se ne vanno a fare quattro chiacchiere da un vicino, ed ecco che il vestito per te è bell’e trovato. Di che cosa hai bisogno? Le scarpe ce le hai, dunque ti ci vuole soltanto qualcosa da metterti indosso. Il cappotto militare come è, vecchio o nuovo?» «Vecchio». «Allora te lo puoi tenere. In campagna vanno in giro così. Hai bisogno dei pantaloni e di una giacca. Quando avremo rimediato il vestito borghese venderemo i calzoni e la giacca all’ebreo Herrman che sta a Vodňany. Quello compra tutta la roba dello stato e poi la rivende nei paesi. «Oggi arriveremo a Strakonice», continuò sviluppando il proprio piano. «A quattro ore di cammino da qua c’è il vecchio ovile di Schwarzenberg. Là c’è un mio conoscente, 268

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un pecoraio, un vecchietto come me, dunque staremo da lui per tutta la notte e poi, al mattino, faremo una puntata a Strakonice, per procurarci il vestito in qualche posto». Nell’ovile Sc’vèik trovò un piacevole vegliardo, il quale ricordava ancora i racconti fatti da suo nonno sulle guerre coi francesi. Aveva una ventina d’anni più del vecchio mendicante, e quindi lo chiamava, come pure Sc’vèik: «ragazzo mio». «Vedete, dunque, ragazzi miei», cominciò a narrare loro quando si furono messi a sedere accanto al forno nel quale stavano bollendo delle patate con la buccia, «anche mio nonno, a quei tempi, disertò come questo tuo soldato. Ma lo acchiapparono a Vodňany e gliele dettero sul sedere tanto forte che glielo fecero a pezzi. Tuttavia poté ancora dirsi fortunato. Il figlio di Jareš, nonno del vecchio Jareš, guardiano di un vivaio di pesci, di Ražice, oltre Protivín, per essere scappato dall’esercito si beccò a Písek polvere da sparo e piombo. Ma, prima che lo fucilassero nel ridotto di Písek, dovette correre per la strada dei soldati1 e si buscò seicento colpi di bastone, così che la morte fu per lui un sollievo ed una liberazione. E tu quando hai tagliato la corda?» chiese rivolgendosi a Sc’vèik con occhi gonfi di lagrime. «Subito dopo la mobilitazione, mentre ci portavano in caserma», rispose Sc’vèik, il quale aveva capito che l’uniforme che indossava non poteva minare la convinzione del vecchio pecoraio. «Hai scavalcato il muro?» chiese il pastore con curiosità, ricordando evidentemente un racconto del nonno, il quale era anch’egli scappato scavalcando il muro di una caserma. «Per un’altra via non c’era verso di passare, nonnino». «E le sentinelle erano severe ed hanno sparato?» «Sì, nonnino». «Ed ora verso quale meta sei diretto?» «Ma gli ha dato di volta il cervello», rispose il mendicante al posto di Sc’vèik, «vuole andare ad ogni costo a Budějovice. Sai com’è, un giovanotto, imprudente, si va a mettere nei guai da solo. Bisogna che io gli faccia un po’ di scuola. Ci rimedieremo un abito borghese e poi sarà tutto a posto. Tireremo avanti alla meglio fino a primavera e poi andremo a lavorare da qualche contadino. Quest’anno ci sarà una grande penuria di uomini, avremo la fame, e si 1  Punizione in uso nell’esercito austro-ungarico. Il punito veniva fatto passare attraverso due file di soldati armati di bastoni che lo picchiavano.

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va dicendo che quest’anno manderanno tutti i mendicanti a lavorare i campi. E allora, penso io, se ci si deve andare è meglio andarci volontariamente. Di uomini ce ne saranno pochi. Ne saranno stati ammazzati parecchi». «Tu pensi», chiese il pecoraio, «che quest’anno non finisca? Ed hai ragione, ragazzo mio! Di guerre lunghe ce ne sono già state parecchie. Quella di Napolione, e poi, come ci hanno raccontato, le guerre svedesi, e le guerre di sette anni. Ma la gente se l’è meritate, queste guerre. Perfino Dominiddio non poteva più guardarli, da quanto erano diventati superbi. Neppure la carne di montone gli andava a genio; ormai, ragazzi miei, non ve la mangia più nessuno. Prima venivano qua in processione, a chiedermi che dessi loro sotto mano qualche pecora, ma negli ultimi anni hanno cominciato a non voler mangiare altro che maiale, pollame, e tutto ben condito con burro o con strutto. Così Dominiddio s’è adirato contro di loro per questa loro superbia, ed ora saranno costretti a rimettere giudizio quando ricominceranno a mangiarsi la bietola cotta, come succedeva al tempo della guerra napolionica. Pure il nostro padrone, coi grilli che ha in testa, non sapeva più che inventare. Il vecchio principe Schwarzenberg, lui andava soltanto in carrozza, ma questo giovane rampollo moccioso non puzza d’altro che di automobile. Ma Dominiddio gli ci ingrasserà la bocca con quella benzina!» Si sentiva gorgogliare l’acqua delle patate che si cocevano al forno, ed il vecchio pecoraio, dopo una breve pausa, disse con aria profetica: «Però il nostro signore e imperatore non vincerà questa guerra. Non c’è alcun entusiasmo per questo conflitto perché lui, come dice il signor maestro di Strakonice, non s’è fatto incoronare.2 È inutile che adesso vada a fare l’occhiolino a questo o a quello. Una volta che hai promesso di farti incoronare, vecchio birbante, dovevi mantenere la parola». «Può anche darsi», intervenne il mendicante, «che adesso in qualche modo lo farà». «Faccia quello che vuole, adesso tutti se ne fregheranno», riprese il pecoraio con voce eccitata, «dovresti esserci, quando i vicini si radunano giù a Skočíce. Ognuno ha qualcuno dei suoi al fronte, e dovresti sentire come parlano. Dicono che dopo questa guerra ci sarà la libertà, non ci saranno né corti di signori né Imperatori, e le tenute principesche verranno confiscate. È stato proprio a causa 2  Francesco Giuseppe aveva solennemente promesso nel 1871 che si sarebbe fatto incoronare re di Boemia. La promessa non fu mantenuta.

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di uno di questi discorsi che i gendarmi hanno arrestato un certo Kořínek, con l’imputazione di sobillare la folla. Eh, già, oggi hanno sempre ragione le guardie». «Ce l’hanno sempre avuta, anche prima», intervenne il mendicante, «mi ricordo che a Kladno c’era un capitano dei gendarmi, un certo signor Rotter. Ecco che un bel giorno si mise ad allevare quei cani, come li chiamano, cani poliziotti, i quali hanno lo stesso carattere dei lupi, e sono capaci di ritrovare col fiuto ogni cosa, se vengono opportunamente addestrati. Di questi suoi cani allievi il signor capitano di Kladno ne aveva un fottio. Aveva per essi una speciale casetta, dove questi cani vivevano come conti. Ed ecco che una volta gli venne in mente di fare degli esperimenti coi suoi cani servendosi di noi, poveri mendicanti. Così dette l’ordine ai gendarmi di raccogliere quanti più mendicanti potevano per tutta la regione di Kladno e di consegnarli direttamente a lui. Io dunque un giorno venivo da Lány e m’ero addentrato abbastanza profondamente in un bosco, ma non ci fu niente da fare, non riuscii ad arrivare alla casa del guardiaboschi verso la quale ero diretto, perché mi presero e mi portarono dal signor capitano. Allora, cari miei, non potete neppure immaginarvi, non potete avere neanche la più pallida idea di quello che mi toccò sopportare dai cani del signor capitano. Dapprima mi fece annusare da tutti quanti, poi dovetti arrampicarmi su una scala, e quando alla fine fui arrivato in cima lasciarono libero uno di quei mostri e me lo spedirono su per la scala, e quell’animalaccio mi fece ridiscendere a terra, tanto mi buttò addosso le zampe, ringhiando e digrignando i denti sulla mia faccia. Poi portarono via quella bestiaccia e mi dissero di nascondermi, aggiungendo che potevo andare dove mi pareva. Mi diressi allora alla valle di Kačák verso i boschi, puntando su una forra, ed ecco che dopo mezz’ora mi erano addosso due di quei lupacci, mi fecero cadere per terra e, mentre uno mi teneva per il collo, l’altro corse a Kladno e dopo un’ora arrivò lo stesso signor Rotter coi suoi gendarmi, richiamò il cane e mi dette un cinquino insieme col permesso di mendicare per due giorni nella zona di Kladno. Stava fresco! Mi misi a correre verso la regione di Beroun come se mi inseguisse qualcuno con l’intenzione di farmi la pelle, e dalle parti di Kladno non mi ci hanno più visto. Da lì ci giravano alla larga tutti i mendicanti, perché quel signor capitano voleva fare esperimenti con tutti. Anche a parte questo gli piacevano moltissimo i cani. Si raccontava di lui nelle stazioni di gendarmeria che, quando andava a fare ispezioni, se vedeva un cane lupo non faceva per nien272

te l’ispezione e se la trincava allegramente col maresciallo per tutto il giorno». Poi, mentre il pastore faceva scolare le patate e versava sul piatto latte acido di pecora, il mendicante mise i suoi amici al corrente dei suoi ricordi sulle prepotenze dei gendarmi: «A Lipnice c’era un maresciallo giù sotto il castello. Abitava proprio nella stazione della gendarmeria ed io, vecchio babbeo, dovunque sono stato ho avuto sempre l’opinione che una stazione di gendarmeria si debba trovare in un posto dove possa risaltare, ad esempio in una piazza o in qualche luogo del genere, e non in una qualche sperduta viuzza. Così comincio a battere le zone più remote della cittadina e non bado alle targhe. Passo di casa in casa, ed alla fine capito in un appartamentino al primo piano, apro la porta e mi presento: ‘Prego umilmente un po’ di carità, un povero mendicante.’ Eh, sì, cari miei, le gambe mi diventarono di legno. Era per l’appunto la stazione della gendarmeria. Fucili alla parete, un crocifisso sul tavolo, registri in un armadietto, sua maestà l’imperatore mi punta gli occhi addosso al di sopra della scrivania. E prima che avessi il tempo di farfugliare una qualsiasi scusa, mi zompò addosso il maresciallo e, proprio lì sulla porta, mi appioppò un ceffone tale che volai giù per le scale di legno e non mi fermai prima di arrivare a Kejžlice. Questa è la legge che conoscono i gendarmi». I tre si misero poi a mangiare e quindi andarono presto a dormire nella stanza riscaldata, stendendosi sulle panche, Durante la notte Sc’vèik si rivestì silenziosamente ed uscì fuori. Da oriente stava spuntando la luna, ed alla sua luce scialba Sc’vèik prese a marciare verso est ripetendosi in cuor suo: «Non è mai possibile che io non riesca ad arrivare a Budějovice». Poiché a destra, quando sbucò fuori dai boschi, si vedeva una città, Sc’vèik piegò più a nord, poi a sud, dove di nuovo apparve un’altra città. (Si trattava di Vodňany.) Se ne tenne prudentemente alla larga attraversando certi prati ed il sole mattutino gli dette il buon giorno sui pendii delle parti di Protivín, tutti ammantati di neve. «Sempre avanti», si disse il buon soldato Sc’vèik, «il dovere mi chiama. A Budějovice debbo arrivarci». Ma per un disgraziato caso, invece di dirigersi verso sud, a Budějovice, da Protivín i passi di Sc’vèik si indirizzarono a nord, in direzione di Písek. Verso mezzogiorno Sc’vèik scorse davanti a sé un paesetto. Mentre scendeva giù da un poggetto, Sc’vèik andava 273

rimuginando tra sé e sé: «Così non può andare avanti, bisogna che chieda quale è la strada per Budějovice». Ma, quando entrò nel villaggio, fu molto sorpreso nel vedere il nome del paese su un palo presso la prima casa: Comune di Putim. «Gesù Cristo mio», sospirò Sc’vèik, «allora sono nuovamente a Putim, dove ho dormito nel pagliaio». Ma la sua sorpresa sparì del tutto quando, dalla casetta dipinta in bianco al di là di uno stagno, casetta sulla quale stava appesa una gallina (così si chiamava in qualche posto l’aquila bicipite), sbucò fuori un gendarme, simile ad un ragno che sta di guardia alla sua tela. Il gendarme puntò su Sc’vèik e non chiese altro che: «Dove andate?» «A Budějovice, al mio reggimento». Il gendarme abbozzò un sarcastico sorriso: «Ma voi state venendo via da Budějovice. Budějovice ve la siete lasciata alle spalle», e, detto questo, fece entrare Sc’vèik nella stazione di gendarmeria. Il maresciallo dei gendarmi di Putim era noto in tutti i dintorni come uno che trattava la gente con grande tatto, e, nel medesimo tempo, con acume. Non insultava mai un 274

fermato o un arrestato, ma lo sottoponeva ad un tale fuoco di fila di domande da far confessare anche gli innocenti. I due gendarmi della stazione s’erano abituati al suo modo di interrogare, sì che l’interrogatorio si svolgeva sempre in mezzo ai risolini di tutta la truppa in forza. «La criminologia si basa sull’astuzia e sulla gentilezza», soleva dire il maresciallo dei gendarmi ai suoi sottoposti, «mettersi a strillare contro uno non ha alcun senso. I delinquenti ed i sospetti vanno trattati con delicatezza, ma bisogna nel medesimo tempo fare in modo da farli affogare in un subisso di domande». «Benvenuto, caro il nostro soldatino», esordì il maresciallo dei gendarmi, «dunque accomodatevi a sedere, sicuramente vi sarete stancato durante il viaggio, e raccontateci per benino dove siete diretto». Sc’vèik ripetè che era diretto a České Budějovice, al suo reggimento. «Allora è chiaro che avete confuso la strada», fece sorridendo il maresciallo, «dato che state invece venendo da České Budějovice, come potrei dimostrarvi. Sopra voi sta appesa la carta della Boemia. Guardate dunque, soldato. A sud di noi c’è Protivín. A sud di Protivín c’è Hluboká, e, 275

ancora più giù, ecco České Budějovice. Vedete dunque che non andate verso České Budějovice, ma ve ne allontanate». Il maresciallo guardava con espressione gentile Sc’vèik, il quale disse con calma e con aria dignitosa: «Eppure vado a Budějovice». Fu più forte dell’ «Eppur si muove!» di Galileo, dato che questi, con ogni probabilità, dovette dire la sua frase con una notevole dose di rabbia. «Sapete, soldato», disse a Sc’vèik il maresciallo sempre con la stessa cortesia, «io cercherò di dissuadervi, ed alla fine anche voi arriverete alla conclusione che ogni tentativo di negare non fa che rendere più difficile la confessione!» «Ha pienamente ragione», disse Sc’vèik, «ogni tentativo di negare rende più difficile la confessione e viceversa». «Vedete, dunque, soldato, che ci arrivate da solo anche voi. Rispondetemi quindi con cuore aperto, da dove siete partito quando vi siete diretto verso questo vostro Budějovice. Dico intenzionalmente ‘vostro,’ perché deve evidentemente esistere qualche altro Budějovice che si trova a nord di Putim e che finora non è registrato in nessuna carta». «Sono partito da Tábor». «E che cosa facevate a Tábor?» «Aspettavo il treno per Budějovice». «Perché non siete andato a Budějovice col treno?» «Perché non avevo il biglietto ferroviario». «E perché, dato che siete soldato, non vi hanno dato gratis il biglietto per militari?» «Perché non avevo alcun documento con me». «Eccoci al punto», disse con aria trionfante il maresciallo dei gendarmi ad uno dei suoi uomini, «non è così sciocco come finge di essere, comincia ad ingarbugliare le carte per benino». Il maresciallo riprese l’interrogatorio di nuovo, come se avesse sentito male l’ultima risposta concernente i documenti: «Dunque siete partito da Tábor. E allora verso quale direzione siete andato?» «Verso České Budějovice». L’espressione della faccia del maresciallo assunse un’aria leggermente severa ed il suo sguardo cadde sulla mappa. «Potete indicarci sulla carta quale percorso avete seguito per andare a questo Budějovice?» «Tutti i posti non me li ricordo, e rammento solamente che qui a Putim ci sono già stato una volta». Tutto il personale della stazione di gendarmeria si guardò con occhi indagatori ed il maresciallo continuò: «Dunque 276

a Tábor eravate alla stazione. Avete qualcosa con voi? Fateci vedere». Dopo che ebbero frugato ben bene Sc’vèik in tutte le tasche senza trovare niente altro che la pipa ed i fiammiferi, il maresciallo domandò a Sc’vèik: «Ditemi un po’, come mai non avete niente, ma assolutamente niente?» «Perché di niente ho bisogno». «Oh, signore Iddio», sospirò il maresciallo, «è un tormento interrogare voi! Avete detto che qui a Putim ci siete già stato una volta. Che ci avete fatto?» «Sono passato intorno a Putim per andare a Budějovice». «Vedete dunque che vi confondete. Voi stesso asserite che eravate diretto a Budějovice, mentre proprio adesso vi abbiamo convinto che venite da Budějovice». «Evidentemente debbo aver fatto un giro vizioso». Il maresciallo scambiò nuovamente con tutto il personale della stazione uno sguardo significativo. «Questi vostri giri! A me sembra che vi siate messo a gironzolare qui per i dintorni. A Tábor vi siete trattenuto a lungo alla stazione?» «Fino alla partenza dell’ultimo treno per Budějovice». «E che cosa avete fatto?» «Ho chiacchierato coi soldati». Nuovo sguardo assai significativo del maresciallo dei gendarmi al personale. «E per esempio di che cosa avete parlato, quali domande avete loro rivolto?» «Ho chiesto loro di quale reggimento erano e dove stavano andando». «Ottimamente. E non avete chiesto pure, ad esempio, quanti uomini aveva in forza il loro reggimento e come era suddiviso nei vari reparti?» «Queste cose non le ho chieste, perché da parecchio tempo le so a memoria». «Allora siete perfettamente informato sulla composizione del nostro esercito?» «Certamente, signor maresciallo». A questo punto il maresciallo giocò la sua ultima carta, guardando con aria trionfante i suoi gendarmi: «Sapete il russo?» «Non lo so». Il maresciallo fece un cenno all’appuntato e, quando entrambi furono entrati nella stanza accanto, dichiarò giubilando per la sua completa e sicura vittoria mentre si fregava le mani: «Inteso? Non sa il russo! Furbacchione di tre cotte! Ha ammesso tutto, ma non ha voluto confessa277

re soltanto la cosa più importante. Domani lo spediremo a Písek, al signor capitano distrettuale. La criminologia si basa sull’astuzia e sulla gentilezza. Avete visto come l’ho fatto affogare in un subisso di domande? Chi se lo sarebbe creduto? Ha quell’aria da scemo e da imbecille! Ma è proprio con individui come quello che bisogna agire astutamente. Adesso mettetelo un po’ in qualche posto, mentre io andrò a scrivere il verbale sull’interrogatorio». Nello stesso pomeriggio, verso sera, il maresciallo dei gendarmi si mise a stendere con un amabile sorrisetto il verbale in cui, ad ogni frase, compariva la parola: spionageverdächtig.3 Al maresciallo dei gendarmi Flaňderka, mano a mano che continuava la compilazione dell’atto nello strano tedesco burocratico, le idee si facevano sempre più chiare, e quando terminò con la frase: «So melde ich gehorsam, wird der feindliche Offizier heutigen Tages, nach Bezirksgendarmeriekommando Písek, überliefert», 4 sorrise compiaciuto per l’opera da lui eseguita e chiamò il suo appuntato: «Avete fatto dare qualcosa da mangiare a quell’ufficiale nemico?» «Secondo le sue disposizioni, signor maresciallo, forniamo il cibo soltanto a coloro che sono condotti qui ed interrogati fino alle dodici». «Ma questo è un caso del tutto eccezionale», fece con aria grave il maresciallo, «si tratta di un alto ufficiale, di un ufficiale di stato maggiore. I russi, sa, non mandano qui a fare lo spionaggio il primo caporale che trovano. Mandategli ad ordinare un pranzo alla trattoria ‘Del micetto.’ Se non c’è più niente, cucinino qualcosa. Poi facciano anche del tè col rhum e portino tutto qua. Non dite assolutamente per chi è questa roba. E, in genere, non fate parola con nessuno circa il nostro ospite. Si tratta di un segreto militare. E adesso che cosa sta facendo?» «Ha chiesto un po’ di tabacco, se ne sta seduto nel corpo di guardia ed ha un’aria così beata come se si trovasse a casa sua. ‘Avete un bel calduccio, qui,’ va dicendo, ‘e la stufa non vi manda fumo? Mi piace molto stare qui da voi. E se per caso la stufa vi dovesse fumare, fate ripulire il camino. Ma solo nel pomeriggio, ed in nessun caso quando il sole è a picco sul camino.’ » «È una raffinatezza da parte sua», disse il maresciallo   In tedesco nel testo: «Sospetto di spionaggio».   In tedesco nel testo: «Pertanto mi permetto di comunicare che l’ufficiale nemico verrà tradotto in data odierna al Comando distrettuale della gendarmeria di Písek». 3 4

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con voce piena di entusiasmo, «si comporta come se la cosa non lo riguardasse. Eppure sa che verrà fucilato. Dobbiamo aver rispetto per un uomo come questo, anche se è un nostro nemico. È un uomo che va incontro ad una morte certa. Non so se noi riusciremmo a fare come lui. Forse esiteremmo, cederemmo. E lui invece se ne sta tranquillamente seduto e dice: ‘Avete un bel calduccio, qui, e la stufa non vi manda fumo?’ Questi sì che sono caratteri, caro appuntato. Bisogna che quell’uomo, per comportarsi così, abbia nervi d’acciaio, abnegazione, forza d’animo ed entusiasmo. Se ci fosse in Austria un simile entusiasmo… ma lasciamo correre. Anche da noi ci sono persone piene d’entusiasmo. Avete letto nella Národní politika5 di quel tenente d’artiglieria Berger che è salito su di un alto abete ed ha impiantato lassù, su un ramo, un Beobachtungspunkt? 6 I nostri, poi, si sono ritirati, e lui non è potuto scendere, perché altrimenti sarebbe stato fatto prigioniero. Allora ha deciso di aspettare finché i nostri non avessero a loro volta ricacciato il nemico, e ci sono volute due settimane prima che ciò accadesse. E stato sull’albero per ben due settimane, e, per non morire di fame, ha rosicchiato tutta la cima della pianta e s’è nutrito di rametti e di foglie di abete. E quando i nostri sono tornati era tanto indebolito che non è più riuscito a tenersi aggrappato sull’albero, e così è caduto giù ed è morto. È stato decorato con una medaglia d’oro al merito alla memoria». Ed il maresciallo aggiunse con voce grave: «Questo sì che è spirito di sacrificio, caro appuntato, questo è vero eroismo! – Ecco, come si vede, siamo andati nuovamente fuori argomento; adesso dunque andate ad ordinare quel pranzo, e nel frattempo mandate da me il prigioniero». L’appuntato introdusse Sc’vèik ed il maresciallo gli fece amichevolmente cenno di sedere, poi prese a rivolgergli domande, chiedendogli anzitutto se avesse i genitori. «Non ce li ho». Al maresciallo venne subito in mente che era meglio così, perché in questa maniera non ci sarebbe stato nessuno che dovesse rimpiangere quello sventurato. Si guardò intanto la faccia bonaria di Sc’vèik e, in un improvviso impeto di cordialità, gli batté una mano su una spalla, si chinò verso lui e gli chiese con tono paterno: «Ebbene, vi piace la Boemia?» «Mi piace tutta la Boemia», rispose Sc’vèik, «durante   Politica nazionale», giornale ceco.   In tedesco nel testo: «Punto di osservazione».

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il mio viaggio ho trovato dovunque persone assai buone». Il maresciallo assentì con un cenno di testa: «Da noi la gente è assai buona e cordiale. C’è qualche furtarello o qualche chiassata, ma non si tratta di cose serie. Sono quindici anni che mi trovo qui, e, a conti fatti, ogni anno capita al massimo un tre quarti di assassinio». «Vuol dire un assassinio non completo?» domandò Sc’vèik. «No, non è questo che voglio dire. Il fatto è che in quindici anni abbiamo dovuto indagare soltanto su undici casi di assassinio. Cinque o sei di questi casi erano in connessione con furti, e gli altri erano omicidi comuni, di quelli che non hanno una grande importanza». Il maresciallo fece una piccola pausa e poi ritornò al suo metodo d’interrogatorio: «Ed a Budějovice che cosa intendevate fare?» «Prendere servizio al novantunesimo reggimento». Il maresciallo invitò Sc’vèik a ritornare nel posto di guardia, e rapidamente, per non dimenticare, aggiunse al rapporto da lui preparato per il comando distrettuale della gendarmeria di Písek: «Avendo una conoscenza perfetta della lingua ceca, intendeva tentare di entrare nel novantunesimo reggimento fanteria a České Budějovice». Il maresciallo si fregò le mani soddisfatto, rallegrandosi per l’abbondante materiale raccolto e per gli ottimi risultati del suo metodo d’indagine. Si ricordò anche del suo predecessore, il maresciallo Bürger, il quale non parlava neppure coi fermati, non rivolgeva loro domande, e li spediva immediatamente al tribunale distrettuale con un breve rapporto: «Secondo quanto dichiara l’appuntato è stato fermato per vagabondaggio ed accattonaggio». Era forse un interrogatorio pure quello? Riguardandosi poi le singole pagine del suo rapporto, il maresciallo sorrise con soddisfazione, infine tirò fuori dalla sua scrivania una circolare segreta e riservata del comando territoriale della gendarmeria con sede a Praga contrassegnata dal solito: Strettamente confidenziale e se la rilesse ancora una volta: A tutte le stazioni di gendarmeria si ordina di seguire con la massima attenzione i movimenti di tutte le persone che passano per le zone di loro competenza. Il ripiegamento delle nostre truppe nella Galizia orientale ha avuto come conseguenza che alcuni reparti militari russi, oltrepassati i Carpazi, prendessero posizione nell’interno del nostro impero, così che la linea del fronte è stata arretrata più profondamente verso la parte occidentale dello stato. Questa nuova situazione, dato lo stato fluido del fronte, ha reso possibile alle spie russe di penetrare più profondamente nel

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territorio del nostro stato, specialmente in Slesia ed in Moravia, donde, secondo informazioni confidenziali, un notevole numero di spie russe si è portato in Boemia. È stato accertato che in mezzo a loro figurano molti cechi di Russia, che hanno frequentato le scuole superiori di stato maggiore in Russia, e che, conoscendo alla perfezione la lingua ceca, risultano agenti particolarmente pericolosi, dato che possono svolgere e sicuramente svolgono pure tra la popolazione ceca propaganda qualificabile sotto la rubrica dell’alto tradimento. Il comando territoriale dispone pertanto affinché vengano trattenuti tutti i sospetti ed affinché la vigilanza venga intensificata specialmente nelle località in vicinanza delle quali si trovano guarnigioni, centri militari e stazioni con treni militari in transito. I fermati debbono essere sottoposti ad immediata perquisizione e trasferiti ai comandi superiori.

Il maresciallo della gendarmeria Flanderka sorrise nuovamente con aria soddisfatta e ripose la circolare segreta riservata, «Sekret-servaten», 7 tra le altre che si trovavano nelle cartelle contrassegnate con la scritta Disposizioni segrete. Ve ne erano molte, elaborate dal ministero degli interni in collaborazione col ministero della difesa nazionale, dal quale dipendeva la gendarmeria. Al comando territoriale della gendarmeria di Praga non facevano mai in tempo a ciclostilarle ed a spedirle. C’erano: Disposizioni circa il controllo dell’opinione pubblica della locale popolazione. Istruzioni circa il modo con cui, in conversazioni con la locale popolazione, andavano raccolte informazioni riguardo all’influsso esercitato dalle notizie provenienti dai campi di battaglia sulle sue opinioni. Questionario circa le reazioni della locale popolazione al lancio di prestiti e di raccolte di fondi per lo sforzo bellico. Questionario circa lo stato d’animo dei richiamati e dei precettati. Questionario circa lo stato d’animo dei membri delle amministrazioni locali e degli intellettuali. Disposizioni su un’inchiesta mirante ad accertare al più presto possibile a quali partiti politici appartenesse la locale popolazione e quale era la forza dei singoli partiti politici. Disposizioni circa il controllo dell’attività dei leader dei locali partiti politici e circa la raccolta di informazioni riguardo al grado di lealismo di determinati partiti politici rappresentati presso la locale popolazione. Questionario circa i giornali, le riviste e gli opuscoli che 7   In tedesco nel testo. Sekretservat significa: «Informazione segreta strettamente confidenziale».

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pervenivano nella zona sottoposta alla giurisdizione delle singole stazioni di gendarmeria. Istruzioni relative ad indagini miranti ad appurare con chi erano in contatto le persone sospettate di slealtà, ed in che cosa consisteva la loro slealtà. Istruzioni relative ad informazioni circa il modo di procurarsi tra la locale popolazione confidenti ed informatori retribuiti. Istruzioni circa l’assunzione in servizio da parte delle singole stazioni di gendarmeria di informatori retribuiti scelti tra la locale popolazione. Non trascorreva giorno senza che arrivassero nuove istruzioni, nuove circolari, nuovi questionari e nuove disposizioni. Inondato da questa valanga di geniali pensate del ministero degli interni austriaco, il maresciallo Flanderka aveva un’enorme quantità di pratiche inevase ed ai vari questionari rispondeva con formule stereotipate, assicurando che da lui l’ordine era perfetto e che tra la locale popolazione il lealismo era del grado I.a. Il ministero degli interni austriaco aveva infatti escogitato per classificare il lealismo e l’incrollabile attaccamento alla monarchia i seguenti gradi: I.a, I.b, I.c - II.a, II.b, II.c - III.a, III.b, III.c - IV.a, IV.b, IV.c. Questa ultima cifra romana, con «a», significava alto tradimento e forca, con «b», soggetto da internare, con «c», mettere sotto vigilanza ed arrestare. Sul tavolo del maresciallo dei gendarmi si trovavano tutti i possibili tipi di stampati e di registri. Il governo voleva sapere di ogni cittadino come la pensava sul suo conto. Il maresciallo Flanderka ogni tanto si torceva disperatamente le mani su tutte quelle scartoffie, il cui numero aumentava spietatamente ad ogni arrivo di posta. Ogni volta che vedeva le ben note buste col timbro Portofreidienstlich8 il cuore cominciava a battergli, e durante la notte, mentre rifletteva su tutte le sue incombenze, giungeva alla conclusione che non sarebbe arrivato a vedere la fine della guerra in condizioni normali, che il comando territoriale della gendarmeria gli avrebbe fatto consumare l’ultimo briciolo di cervello e che non avrebbe avuto la possibilità di rallegrarsi della vittoria delle armi austriache, perché avrebbe avuto o una rotella in più o una rotella in meno. E intanto il comando distrettuale della gendarmeria lo bombardava ogni giorno con richieste, perché non fosse   In tedesco nel testo: «Franchigia postale-servizio».

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stato risposto al questionario numero d, come fossero z, quali state evase le istruzioni relative al numero fossero i risultati pratici delle disposizioni impartite meV., e così via. diante il numero Più di tutte lo aveva fatto penare l’istruzione che ordinava di trovare confidenti ed informatori retribuiti in mezzo alla locale popolazione. Alla fine, avendo riconosciuto che era impossibile poter reclutare con questo scopo qualcuno del luogo dove cominciano le Paludi9 e dove gli abitanti avevano tutti la zucca dura, gli era venuta l’idea che avrebbe potuto assumere per quel servizio il pastore comunale, da tutti chiamato «Pepek, salta!» Era questi un cretino, che faceva sempre un balzo ogni volta che gli rivolgevano quell’invito. Uno di quei poveri esseri trascurati dalla natura e dagli uomini, uno storpio, che, per pochi fiorini all’anno e per quel po’ di mangiare che gli davano, si era assunto l’incarico di pascolare il bestiame del comune. Un giorno dunque lo aveva mandato a chiamare e gli aveva detto: «Lo sai, Pepek, chi è il vecchio Procházka?»10 «Beee». «Non belare, e ricordati che così viene chiamato sua maestà l’imperatore. Lo sai chi è sua maestà l’imperatore?» «È sua maestà l’impelatole». «Bene, Pepek! Allora ricorda bene, quando vai in giro di casa in casa, per prenderti il mangiare, se senti dire a qualcuno che sua maestà l’imperatore è un animale o qualcosa del genere devi venire immediatamente da me e riferirmelo. Riceverai venti centesimi, e se senti qualcuno che dice che non la spunteremo, devi ugualmente venire da me, capisci, e devi dirmi chi è stato che ha detto così, in tal modo avrai di nuovo venti centesimi. Se però verrò a sapere che mi tieni celato qualcosa te la vedrai brutta. Ti impacchetterò e ti spedirò a Písek. Ed ora salta!» Quando ebbe saltato, gli aveva dato due pezzi da venti centesimi e tutto soddisfatto aveva scritto il suo bravo rapporto al comando distrettuale della gendarmeria, comunicando di essersi già procacciato un informatore. Il giorno dopo era venuto da lui il signor parroco e gli aveva confidato in grande segretezza che al mattino aveva incontrato fuori del paese il pastore comunale, Pepek Salta, 9   Col termine di «Paludi» (Blata) viene designata una regione della Boemia meridionale ove abbondano gli acquitrini. 10  «Procházka», nomignolo dell’imperatore Francesco Giuseppe I, si­gnifica «passeggiata» o «persona cui piaccia passeggiare»; è inoltre un co­gnome assai diffuso nelle terre ceche.

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il quale gli aveva detto: «Signol palloco, ieli m’ha detto il signol malesciallo che sua maestà l’impelatole è un animale e che non la spuntelemo. Beee! Hop!» Dopo esser stato a confabulare a lungo col signor parroco, il maresciallo Flanderka aveva mandato in gattabuia il pastore comunale che poi, a Hradčany,11 era stato condannato a dodici anni per alto tradimento. L’accusa lo convinse di intrighi pericolosi e di atti di alto tradimento, di sedizione, di lesa maestà e di altri delitti e reati minori. Pepek Salta, al processo, si comportò nella maniera abituale, come se fosse stato al pascolo o tra i compari del vicinato. A qualsiasi domanda belava come una capra e, quando ebbe ascoltato il verdetto, esclamò: «Beee, hop!» e spiccò un salto. Per tale motivo subì un’ulteriore condanna per motivi disciplinari, beccandosi letto duro, cella di punizione e tre giorni di digiuno. Da allora il maresciallo dei gendarmi era rimasto senza informatore e dovette consolarsi inventandone uno, attribuendogli un nome falso, ed aumentando in tale maniera i suoi introiti di cinquanta corone al mese, che andava a bersi all’osteria «Del micetto». Al decimo bicchiere la coscienza gli si annebbiava, la birra cominciava a bruciargli in bocca e sentiva ripetere dai vicini sempre la stessa frase: «Oggi il nostro signor maresciallo è un po’ giù di corda, come se non avesse il suo solito umore». Allora se ne andava a casa, e, dopo che era uscito, c’era sempre qualcuno che aggiungeva: «I nostri debbono aver preso di nuovo una bella batosta in Serbia, se il maresciallo è così musone». Ma il maresciallo, almeno, poteva sfogarsi a riempire a casa sua uno dei soliti questionari: «Stato d’animo tra la popolazione: I.a». C’erano spesso lunghe notti insonni a tormentare il signor maresciallo. Si aspettava continuamente un’ispezione, un’inchiesta tra capo e collo. Durante la notte si sognava la corda con la quale lo conducevano al capestro, e fino a sotto la forca il ministro della difesa nazionale veniva a chiedergli per l’ultima volta: «Wachmeister, wo ist die AntX.Y.Z.?»12 wort des Zirkulärs NO Questo gli era capitato fino ad ora, ma adesso, finalmente, sembrava che in tutta la stazione di gendarmeria riecheggiasse l’antica esclamazione dei cacciatori: «Buona 11

  È il Castello di Praga, sede della massima autorità civile del paese.   In tedesco nel testo: «Maresciallo, dov’è la risposta alla circolare

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Numero

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X.Y.Z.?»

caccia!» Ed il maresciallo della gendarmeria Flanderka non dubitava che il comandante del distretto gli avrebbe battuto una mano sulla spalla e gli avrebbe detto: «Ich gratuliere Ihnen, Herr Wachmeister». 13 Il maresciallo dei gendarmi andava disegnando nella sua fantasia altri allettanti quadri, che spuntavano fuori in qualche insenatura del suo cervello di burocrate: onorificenze, rapido avanzamento alla categoria gerarchica superiore, favorevole apprezzamento delle sue attitudini di indagatore, che gli avrebbero aperto tutta una carriera. Chiamò infine l’appuntato e gli domandò: «Allora questo pranzo è arrivato?» «Gli hanno portato della carne affumicata con crauti e gnocchi, la minestra ormai non c’era più. Si è bevuto il tè e ne vuole un altro». «Gli venga dato, dunque!» acconsentì magnanimamente il maresciallo, «e, quando avrà bevuto quest’altro tè, venga condotto qui da me». «E allora? Era buono il pranzo?» gli chiese il marescial  In tedesco nel testo: «Mi congratulo con lei, signor maresciallo.»

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lo, quando, mezz’ora dopo, l’appuntato introdusse Sc’vèik, ben rimpinzato e soddisfatto come sempre. «Era ancora ancora passabile, signor maresciallo, soltanto ci sarebbero voluti ancora dei crauti. Ma, che farci, so bene che non si aspettava di dovermi ricevere! La carne affumicata era fatta proprio bene, deve essere stata carne di un maiale di allevamento casalingo. Pure il tè col rhum mi ha fatto bene». Il maresciallo dette un’occhiata a Sc’vèik ed incominciò: «È vero che anche in Russia si beve molto tè? Ed il rhum si adopera pure là?» «Il rhum si adopera in tutto il mondo, signor maresciallo». «Adesso non cercare di ricorrere a sotterfugi», pensò tra sé e sé il maresciallo, «dovevi starci attento prima, e badare a quello che andavi dicendo!» Poi domandò con tono confidenziale, chinandosi verso Sc’vèik: «Ci sono belle ragazze in Russia?» «Ragazze belle ci sono in tutto il mondo, signor maresciallo». «Eh, birbantello!» pensò di nuovo tra sé e sé il maresciallo, «adesso ti piacerebbe tirarti fuori in qualche modo da questo impiccio». Poi sparò un colpo da quarantadue14: «Cosa volevate fare al novantunesimo reggimento?» «Volevo partire per il fronte». Il maresciallo guardò con aria soddisfatta Sc’vèik ed osservò: «Giusta anche questa. Sarebbe stato il sistema migliore per tornare in Russia. «Davvero, un’ottima pensata», aggiunse il maresciallo mentre gli occhi gli brillavano, osservando in quale maniera Sc’vèik reagiva alle sue parole. Dai suoi occhi, tuttavia, non riuscì a scorgere niente altro che una perfetta tranquillità. «Quest’uomo non batte ciglio», pensò in cuor suo il maresciallo con un fremito di orrore, «deve essere un frutto della loro istruzione militare. Se io mi trovassi nella sua situazione e qualcuno mi dicesse una cosa del genere, le gambe comincerebbero a farmi giacomo giacomo…» «Domattina vi condurremo a Písek», buttò giù poi come di sfuggita; «ci siete stato già qualche volta a Písek?» «Nel 1910, alle manovre imperiali». Il sorriso del maresciallo dopo questa risposta fu ancora 14  Allusione al famoso mortaio calibro quarantadue che, durante la pri­ma guerra mondiale, costituì una sorpresa della tecnica bellica austro-germa­nica. L’espressione divenne poi proverbiale, col significato di domanda im­barazzante, o di cosa sorprendente in generale.

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più compiaciuto ed esultante. Sentiva in cuor suo che, col suo sistema di porre domande, aveva superato se stesso. «Avete partecipato a tutte le manovre?» «Certamente, signor maresciallo, come soldato di fanteria». E Sc’vèik tornò a contemplarsi il maresciallo con la stessa aria tranquilla di prima, mentre Flanderka non stava più nella pelle per la gioia e non poté trattenersi dal riportare al più presto questo nuovo dato nel suo rapporto. Chiamò pertanto l’appuntato, gli ordinò di condurre fuori Sc’vèik, ed aggiunse nella sua relazione: «Il suo piano era il seguente: Dopo essersi intrufolato nel novantunesimo reggimento fant., voleva partire immediatamente per il fronte e, alla prima occasione, passare alle linee russe, dato che si era accorto che, per effetto della vigilanza degli organi competenti, il viaggio di ritorno sarebbe stato altrimenti impossibile. Che nel novantunesimo reggimento fant. avrebbe potuto trovarsi completamente a suo agio, è cosa perfettamente comprensibile, dato che, secondo quanto egli stesso ha ammesso, dopo uno stringente interrogatorio, già nel 1910 aveva partecipato all’intero svolgimento delle manovre imperiali nei dintorni di Písek in qualità di soldato di fanteria. Da quanto sopra esposto risulta che nel suo campo di attività è altamente qualificato. Faccio ancora notare che le imputazioni raccolte sono il risultato del mio sistema di indagine, basato su interrogatori stringenti». Alla porta apparve l’appuntato: «Signor maresciallo, vuole andare al gabinetto». «Bajonett auf !» 15 sentenziò il maresciallo, «anzi no, conducetemelo qui!» «Volete andare al gabinetto?» disse gentilmente il maresciallo, «non ci sarà sotto qualche trucco?» Ed affissò i suoi occhi sul volto di Sc’vèik. «A dire il vero c’è soltanto un grande bisogno di andarci, signor maresciallo», rispose Sc’vèik. «Speriamo che non ci sia qualche trucco», ripetè con aria tesa il maresciallo, affibbiandosi la pistola di ordinanza, «io verrò con voi!» «È un’ottima pistola», disse Sc’vèik mentre si avviavano, «a sette colpi, e spara che è una delizia». Prima di entrare nel cortile, tuttavia, il maresciallo chiamò l’appuntato e gli disse con aria misteriosa: «Voi mettete la Bajonett auf 16 e, quando sarà entrato dentro, andate di guardia dietro, in modo che non ci scappi passando per il letamaio».

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Il gabinetto era un piccolo, comune edificio di legno, che stava desolatamente in mezzo al cortile, al di sopra di una fossa piena di scoli che venivano giù da un non lontano mucchio di concime. Era ormai un anziano veterano, nel quale avevano fatto i loro bisogni corporali generazioni e generazioni di arrestati. Adesso ci stava dentro Sc’vèik, tenendo con una mano la cordicella della porta, mentre dietro di lui, dal finestrino, gli guardava il sedere l’appuntato, affinché non facesse un buco e non se la scappasse. Intanto gli occhi di sparviero del maresciallo dei gendarmi erano puntati sulla porta, ed il maresciallo pensava a quale gamba avrebbe dovuto sparargli, nel caso avesse tentato una fuga. Invece la porta si riaprì tranquillamente e ne Uscì Sc’vèik tutto soddisfatto, rivolgendosi al maresciallo: «Mi sono trattenuto troppo a lungo? Vi ho forse fatto aspettare?» «Oh, no, no», rispose il maresciallo, pensando in cuor suo: «Che gente delicata, però, che squisitezza! Sa bene a che cosa va incontro, eppure si mette a fare i complimenti! Fino all’ultimo momento è così cerimonioso! Sarebbe capace, uno dei nostri, di fare lo stesso, al posto suo?» Al posto di guardia il maresciallo si mise a sedere accanto a Sc’vèik sul tavolaccio del letto lasciato libero dal gendarme Rampa, il quale fino al mattino successivo aveva, come servizio, l’ordine di andare in giro per i vari paesetti, benché se ne stesse tranquillamente seduto al «Cavallino nero» di Protivín giocando a mariage17 coi mastri calzolai ed andasse dicendo, tra una mano e l’altra, che l’Austria avrebbe senza fallo vinto la guerra. Il maresciallo si accese la pipa, offrì tabacco a Sc’vèik affinché facesse altrettanto, l’appuntato mise altra legna nel fuoco e così la stazione dei gendarmi si trasformò nel più accogliente angolino di tutta la terra, in un posticino pieno di pace, in un tiepido nido, mentre si avvicinava il crepuscolo invernale, quando è così piacevole intrattenersi al buio. Eppure stavano tutti quanti zitti. Il maresciallo seguiva un suo pensiero ed alla fine, rivolgendosi all’appuntato, disse: «Secondo me non è giusto impiccare le spie. Una persona che si sacrifica per il suo dovere, per la sua, diciamo così, patria, deve essere giustiziato in modo onorevole, con polvere da sparo e con piombo, che ne dite voi, appuntato?»   Dal francese, giuoco a carte.

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«Decisamente bisognerebbe fucilarlo e non impiccarlo», convenne l’appuntato, «supponiamo che ci spedissero in missione anche noi e ci dicessero: ‘Dovete cercare di sapere di quanti armi automatiche dispongono i russi nella loro Maschinengewehrabteilung.’ 18 Allora dovremmo cambiarci di abito e dovremmo partire. E soltanto per questo dovrebbero impiccarmi come un qualsiasi brigante ed assassino?» L’appuntato si arrabbiò a tal punto che si alzò ed esclamò: «Io esigo di essere fucilato e seppellito con tutti gli onori militari». «Bisogna dire le cose esattamente come stanno», intervenne Sc’vèik, «se uno ha la testa sulle spalle, non riusciranno mai a provare niente contro di lui». «Altro che se riusciranno a provare quello che vogliono!» replicò il maresciallo con aria severa, «il fatto è che bisogna vedere se anche essi hanno il loro metodo! Ve ne accorgerete voi stesso. «Ve ne accorgerete voi stesso», ripetè ormai con tono tranquillo, accompagnando la sua battuta con un amabile sorriso, «qui da noi non ci sono scappatoie che tengano, non è forse vero, caro il mio appuntato?» 18 

In tedesco nel testo: «Sezione mitragliatrici».

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L’appuntato fece cenno di sì con la testa ed aggiunse che qualcuno aveva già partita persa in partenza, perché neppure la maschera della perfetta calma poteva giovargli, e che quanto più uno sembrava sicuro di sé, tanto più si scopriva. «Si vede proprio che venite dalla mia scuola, caro appuntato», disse con orgoglio il maresciallo, «la sicurezza è come una bolla di sapone, la sicurezza forzata è come un corpus delicti». 19 Poi, interrompendo l’esposizione della sua teoria, si rivolse all’appuntato: «Che cosa abbiamo per cena questa sera?» «Oggi non andrà alla trattoria, signor maresciallo?» A causa di questa domanda si presentò al maresciallo un nuovo difficile problema, che bisognò immediatamente risolvere. E se quel tizio, approfittando della sua assenza notturna, avesse tagliato la corda? L’appuntato era, sì, un uomo fidato, accorto, ma si era già lasciato scappare due accattoni. In realtà la cosa era andata così, che una volta, d’inverno, non aveva avuto voglia di fare con loro la strada sulla neve fino a Písek, e così a Ražice aveva loro dato il via sui campi ed aveva poi esploso un colpo in aria pro forma.20 «Manderemo la donna a prendere la cena e poi andrà a prendere la birra con la brocca», disse il maresciallo risolvendo in questa maniera il gravoso problema, «sarà bene che la vecchietta faccia qualche passeggiatina». E la vecchia Pejzlerka che prestava servizio da loro dovette effettivamente fare più di una passeggiatina. Dopo cena la strada tra la stazione di gendarmeria e la trattoria «Del micetto» fu un viavai continuo. Le frequentissime orme dei pesanti scarponi della vecchia Pejzlerka su quella via di collegamento mostravano come il maresciallo avesse trovato il modo di rifarsi completamente della sua assenza dalla trattoria. E quando alla fine la vecchia Pejzlerka venne a dire nella taverna che il signor maresciallo inviava al padrone i suoi complimenti e desiderava che gli inviasse una bottiglia di kontušovka,21 la curiosità dell’oste non poté non esplodere. «Chi hanno là da loro?» rispose la vecchia Pejzlerka, «un tale, una persona sospetta. Proprio mentre stavo uscendo tutti e due gli erano abbracciati al collo ed il signor maresciallo lo accarezzava sulla testa dicendogli: ‘Caro il mio giovanottino d’oro slavo, piccola mia spiuccia!’ »   In latino nel testo: «Corpo del delitto».   In latino nel testo.   Liquore dolce polacco. La grafia corretta in polacco è kontuszówka.

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Poi, quando la mezzanotte fu passata da un bel pezzo, si poté vedere l’appuntato dormire, russando rumorosamente, disteso sul suo pancaccio, con tutta l’uniforme. Dinanzi a lui sedeva il maresciallo, col resto della kontušovka in fondo alla bottiglia, teneva Sc’vèik abbracciato al collo, le lagrime gli colavano per il volto annerito, i suoi baffi erano appiccicati dalla kontušovka ed egli barbugliava: «Avanti, dimmi che in Russia non c’è una kontušovka così buona, dimmelo, affinché possa andarmene a dormire tranquillo. Ammettilo da uomo a uomo». «E va bene, non c’è». Il maresciallo si buttò addosso a Sc’vèik. «Che grande gioia mi hai dato confessando! È così che si deve fare negli interrogatori. Se uno è colpevole perché dovrebbe negare?» S’alzò e, avviandosi barcollando verso la sua camera con la bottiglia vuota in mano, borbottò: «Se non si fosse messo su una strrrada cattiva, o-ogni cosa avrebbe potuto andare a fi-finire diversamente». Prima di crollare sul proprio letto, con tutta l’uniforme indosso, tirò fuori dalla scrivania il suo rapporto e tentò di completarlo con questa ulteriore informazione: «Ich muss noch dazu beizufügen, das die russische 291

Kontuszówka22 in base al § 56…» Fece una macchia, tentò di cancellarla e, sorridendo con un’aria da ebete, crollò sul letto e s’addormentò come un ghiro. Sul far del mattino l’appuntato di gendarmeria disteso sul letto presso la parete opposta si mise a russare in modo così rumoroso, accompagnandosi con pigolii attraverso il naso, che Sc’vèik venne svegliato. Si alzò, scosse un po’ l’appuntato e tornò a coricarsi. Intanto i galli cominciarono a cantare, e quando poi spuntò il sole venne ad accendere la stufa la vecchia Pejzlerka, la quale aveva anche lei dormito della grossa, per rifarsi di tutte quelle passeggiate notturne. Trovò la porta aperta e tutti quanti immersi in un sonno profondo. La lampada a petrolio nel corpo di guardia mandava ancora un fumo nero. La vecchia Pejzlerka dette l’allarme tirando giù dal letto l’appuntato e Sc’vèik. All’appuntato disse: «Non si vergogna di dormire tutto vestito, come un animale?» ed ammonì Sc’vèik, ricordandogli che doveva almeno chiudersi le brache quando era in presenza di una donna. Alla fine invitò energicamente l’appuntato semiaddormentato ad andare a svegliare il signor maresciallo, dicendo che non andava affatto bene stare a poltrire per tanto tempo. «È caduto proprio in buone mani», borbottò poi rivolta a Sc’vèik, mentre l’appuntato destava il maresciallo, «due spugne uno peggio dell’altro. Sarebbero capaci di giocarsi il naso in mezzo agli occhi a forza di bere. Mi debbono già tre anni di paga e, quando glielo ricordo, il maresciallo non sa dire altro che: ‘Zitta, vecchia, se non vuole che la metta in gattabuia; sappiamo bene che suo figlio è un cacciatore di frodo e va a prendere la legna nelle tenute altrui.’ E così è ormai il quarto anno che mi fanno tribolare». La vecchia tirò un profondo sospiro e continuò a borbottare: «Deve stare attento specialmente al maresciallo, è così untuoso, eppure è un furfante numero uno. Cerca continuamente di far cadere la gente nei suoi tranelli per metterla al fresco». Ci volle parecchio per far svegliare il maresciallo. Ma ancora di più ci volle all’appuntato per convincerlo che era ormai mattina. Finalmente dischiuse gli occhi, se li stropicciò, e cominciò e riordinare le idee confuse sulla serata precedente. All’improvviso gli balenò per la mente un pensiero terribile 22   In tedesco nel testo: «Debbo inoltre ancora aggiungere che la kontuszówka russa…»

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che espresse guardando con aria incerta l’appuntato: «Ci è scappato via?» «Ma che, è una persona a modo!» L’appuntato cominciò a camminare per la stanza, dette una sbirciatina dalla finestra, ritornò nuovamente, strappò un pezzetto di carta dal giornale che stava sul tavolo e prese ad arrotondare tra le dita una pallina di carta. Si capiva benissimo che aveva qualcosa da dire. Il maresciallo gli indirizzava delle occhiate incerte ed alla fine, volendo avere piena conferma di quello che aveva già intuito, disse: «Vi aiuterò, caro appuntato. Ieri debbo aver fatto qualche grossa corbelleria, vero?» L’appuntato guardò il suo superiore con aria di rimprovero: «Se sapesse, signor maresciallo, quante ne ha dette ieri sera, se sapesse che razza di discorsi ha fatto con quello lì!» Chinandosi poi all’orecchio del maresciallo, sussurrò: «Che noi tutti, cechi e russi, siamo un solo sangue slavo, che Nikolaj Nikolaevič 23 la prossima settimana sarà a Přerov, che l’Austria ha il fiato grosso, che, allorché verrà sottoposto ad ulteriori interrogatori, deve preoccuparsi soltanto di negare e di confondere le idee agli inquirenti, per poter resistere fino al momento in cui i cosacchi lo verranno a liberare, che ormai tutto quanto andrà quanto prima a farsi benedire, che succederà come al tempo delle guerre husite, che i contadini andranno a Vienna armati di forconi,24 che sua maestà l’imperatore è un vecchio rincretinito e che al più presto tirerà le cuoia, che l’imperatore Guglielmo è un animale, che quando sarà in prigione lei gli manderà del denaro per migliorare il vitto, ed ancora parecchie altre cose di questo genere…» L’appuntato si scostò dal maresciallo: «Di tutto questo mi ricordo bene, perché all’inizio avevo sbevucchiato poco. Poi sono partito pure io e così non so cos’altro è successo». Il maresciallo lanciò un’occhiata all’appuntato. «Ma di quest’altro mi ricordo io», disse con enfasi, «avete detto che rispetto alla Russia siamo delle schiappe, e dinanzi a quella nostra vecchia vi siete messo a gridare: ‘Evviva la Russia!’ » 23   Nikolaj Nikolaevič Romanov (1856-1929), granduca, parente dello zar, fu il comandante in capo delle truppe russe all’inizio della prima guerra mondiale. 24   Di forconi e di altre rustiche armi erano per l’appunto armati, all’i­nizio, gli eserciti husiti, formati in gran parte da contadini.

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L’appuntato cominciò a camminare nervosamente in su e in giù per la stanza. «Gridavate come un toro», soggiunse il maresciallo, «poi siete crollato sul letto ed avete cominciato a russare». L’appuntato si fermò davanti alla finestra e, tamburellando su di essa con le dita, dichiarò: «Neppure lei, signor maresciallo, se ne è stato con l’acqua in bocca davanti alla nostra vecchia, e rammento che le ha detto: ‘Ricordi bene, nonna, che ogni imperatore, ogni re non pensa ad altro che alla propria tasca, ed è appunto per questo che fanno le guerre, anche se sono vecchi rincitrulliti come il vecchio Procházka,25 che ormai debbono tenere continuamente dentro il cesso, per paura che vada ad insozzare tutto Schönbrunn.’ » 26 «Io ho detto questo?» «Sì, signor maresciallo, lei ha detto questo prima di uscire fuori nel cortile a vomitare, ed ha anche gridato: ‘Nonna, mi ficchi un dito in gola!’ » «Anche voi ne avete sparate di grosse», lo interruppe il maresciallo, «basti pensare che avete affermato una sciocchezza come questa, che Nikolaj Nikolaevič diventerà il re di Boemia!» «Non me ne ricordo», replicò l’appuntato con tono alquanto confuso. «Ci mancherebbe che ve ne ricordaste! Sembravate un sacco ripieno, avevate certi occhietti che somigliavano a quelli di un maiale, e, quando avete voluto uscir fuori, invece che alla porta vi siete trascinato verso la stufa!» Tacquero tutti e due, poi il lungo silenzio venne interrotto dal maresciallo: «Io l’ho sempre detto che l’alcool porta alla rovina. Voi non ne reggete parecchio eppure bevete. Ci pensate se quello ci fosse scappato? Che scusa avremmo potuto trovare? Dio mio, mi ci scoppia la testa al solo pensarci! «Sentite cosa vi dico, caro il mio appuntato», proseguì il maresciallo, «proprio per il fatto che non se l’è squagliata è evidente che si tratta di una persona pericolosa e di un raffinato. Quando lo interrogheranno dirà che qui è rimasto con la porta aperta per tutta la notte, che noi eravamo ubriachi e che avrebbe potuto battersela mille volte, se si fosse sentito colpevole. Fortuna, ancora, che ad un uomo come quello non presta fede nessuno, ed allorché noi dire  Cfr. nota 10 a pagina 59.   È il nome del celebre castello e parco di Vienna, ove risiedeva Fran­cesco Giuseppe I. 25 26

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mo, sotto il vincolo del giuramento prescritto, che quest’uomo si è inventato tutto ed ha detto una spudorata menzogna, neppure Dominiddio potrà aiutarlo, ed avrà un altro paragrafo sul collo. Nella sua situazione, naturalmente, la cosa non avrà la minima importanza. Oh, se la testa non mi facesse tanto male!» Silenzio. Dopo un pochetto si fece sentire il maresciallo: «Fate venire qui la nostra vecchia». «Senta, nonnina», disse il maresciallo alla Pejzlerka, guardandola severamente in viso, «mi trovi in qualche posto un crocefisso con un sostegno e me lo porti qua». Scorgendo lo sguardo interrogativo della Pejzlerka, il maresciallo prese ad urlare: «E veda di far presto!» Il maresciallo trasse fuori dal cassetto della scrivania due candele sulle quali erano visibili tracce della ceralacca per sigillare che gli serviva per le pratiche d’ufficio, e quando alla fine la Pejzlerka tornò pian pianino col crocefisso in mano, il maresciallo mise la croce tra le due candele al margine del tavolo, accese entrambe le candele e disse con aria seria: «Si metta a sedere, nonna». La Pejzlerka sbalordita cadde sull’ottomana e si mise a guardare con occhi sbigottiti il maresciallo, le candele ed il crocefisso. S’impadronì di lei una grande paura, e, poiché teneva le mani sul grembiule, si poteva vedere che le tremavano insieme con le ginocchia. Il maresciallo prese a camminarle intorno con aria severa e, fermatosi davanti a lei al secondo giro, disse con enfasi: «Ieri sera lei è stata testimone di un grande avvenimento, nonna. Può darsi che con la sua stupida mente non arrivi a capirlo. Quel soldato, nonna, è un informatore, una spia». «Gesummaria!» esclamò la Pejzlerka, «vergine santa di Skočice!» «Silenzio, vecchia! Per riuscire a cavargli fuori qualcosa, abbiamo dovuto fare dei discorsi strani. Ha inteso, no? che razza di discorsi abbiamo fatto?» «Si capisce che li ho sentiti», fece la Pejzlerka con voce tremula. «Ma tutti quei discorsi, nonna, avevano un solo scopo, quello di farlo confessare, di fargli avere fiducia in noi. Ed il giuoco ci è riuscito. Gli abbiamo fatto sputare fuori tutto quanto. Lo abbiamo fatto fesso». Il maresciallo interruppe per un istante il suo dire per raddrizzare gli stoppini delle candele, poi continuò con aria grave, guardando severamente la Pejzlerka; «Lei, nonnina, è stata presente alla scena ed è stata messa al corrente di 295

tutto il segreto. Si tratta di un segreto d’ufficio. Di quello che è successo non deve fare parola con nessuno. Neppure sul letto di morte, perché in caso contrario non potrebbe essere seppellita in un cimitero». «Gesù, Giuseppe, Maria!» si mise a piagnucolare la Pejzlerka, «disgraziata me, dal giorno in cui ho messo piede qui dentro!» «Non strilli, nonna, adesso si alzi, si avvicini al crocefisso, tiri su due dita della mano destra. Ora farà un giuramento. Ripeta con me!» La Pejzlerka venne barcollando verso il tavolo senza cessare di lamentarsi: «Vergine santa di Skočice, chi me l’ha fatto fare di metter piede qui dentro!» Ma dalla croce la contemplava il volto sofferente di Cristo, le candele mandavano fumo e tutto questo sembrava alla Pejzlerka qualcosa di raccapricciante, di ultraterreno. In quella sensazione si sentiva tutta perduta, le ginocchia le battevano e le mani le tremavano. Sollevò in su due dita ed il maresciallo dei gendarmi cominciò a dire con voce alta e solenne: «Giuro davanti a Dio onnipotente e davanti a lei, signor maresciallo, che finché sarò in vita non farò parola con nessuno su quello che qui ho udito e visto, anche se ne fossi da qualcuno richiesta. E così aiutami tu, Signore Iddio». «Adesso, nonna, baci ancora il crocefisso», ordinò il maresciallo dopo che la Pejzlerka ebbe pronunciato il suo giuramento in mezzo a penosi singhiozzi e dopo che si fu piamente fatta il segno della croce. «Ecco, ed ora riporti il crocefisso a colui dal quale se l’è fatto prestare, e dica che ne ho avuto bisogno nel corso di un interrogatorio!» La Pejzlerka uscì dalla stanza in punta di piedi tutta abbattuta e, dalla finestra, la si poté vedere, quando era ormai sulla strada, che si voltava continuamente indietro a guardare la stazione di gendarmeria, come se volesse convincere se stessa che non era stato solamente un sogno, e che invece un istante prima aveva davvero avuto la più terribile esperienza della sua vita. Il maresciallo, nel frattempo, stava ricopiando il suo rapporto, che durante la notte aveva completato con tutte quelle macchie, che aveva poi sbavato pure con la scrittura, come se sulla carta fosse stata messa della marmellata. Ora lo rielaborò completamente e ad un certo momento si ricordò che aveva ancora un’importante domanda da 296

fare. Fece dunque chiamare Sc’vèik e gli chiese: «Sapete fotografare?» «So fotografare». «E perché non avete con voi una macchina?» «Perché non ne possiedo alcuna», sonò la sincera e chiara risposta. «Ma se ce l’aveste fareste delle fotografie?» chiese il maresciallo. «Se e se, cosa vuole con tutti questi se», rispose ingenuamente Sc’vèik, sostenendo con grande calma l’espressione indagatrice degli occhi del maresciallo, al quale proprio allora era ripreso così forte il mal di testa che non seppe inventare nessun’altra domanda se non questa: «È difficile fotografare le stazioni ferroviarie?» «È più facile che fotografare qualcos’altro», rispose Sc’vèik, «perché almeno non si muovono e stanno sempre ferme nello stesso posto e non è necessario dir loro di assumere un atteggiamento simpatico». Il maresciallo poté adesso completare il suo rapporto: «Zu dem Bericht, Nr. 2172, melde ich…» 27 E poi si diffuse nei particolari: «Tra l’altro, essendo stato sottoposto al mio stringente interrogatorio, ha ammesso di saper fotografare, e specialmente le stazioni ferroviarie. È vero che non gli è stata rinvenuta indosso alcuna macchina fotografica, ma si ha motivo per credere che l’abbia celata in qualche posto e che non usi portarla con sé per non attirare l’attenzione sulla sua persona, il che viene altresì confermato dalla sua stessa ammissione, che farebbe fotografie, se avesse con sé la macchina fotografica». Il maresciallo, avendo la testa ancora pesante per la bisboccia della sera precedente, si ingolfò sempre più nella sua relazione circa l’argomento fotografico, e continuò a scrivere: «È fuori di dubbio che, secondo la sua stessa ammissione, soltanto il fatto che non disponeva di una macchina fotografica gli ha impedito di fotografare gli impianti ferroviari e, in generale, obiettivi di importanza strategica, ed è altrettanto indubbio che lo avrebbe fatto se avesse avuto con sé la macchina fotografica in questione, che invece ha nascosto. Soltanto alla circostanza che non avesse a portata di mano una macchina fotografica deve essere attribuito il fatto che non gli sono state rinvenute indosso delle fotografie». 27  In tedesco nel testo: «Con riferimento alla relazione No. 2172, co­ munico…»

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«Questo può bastare», si disse il maresciallo apponendo la sua firma. Il maresciallo era pienamente soddisfatto della sua opera e la lesse all’appuntato con grande orgoglio. «M’è proprio riuscita», disse all’appuntato, «vedete, è così che si scrivono i Berichtig.28 Bisogna specificare tutto. Un interrogatorio, corpo di Bacco, non è mica una faccenda così semplice, e la cosa principale consiste nel mettere tutto bene in ordine nel Bericht, affinchè quelli che sono in alto abbiano di che spalancare tanto d’occhi, come cervi. Ora portatemi qui il nostro ospite, in modo da farla finita una volta per sempre». «Così adesso il signor appuntato vi condurrà a Písek», fece con tono serio rivolto a Sc’vèik, «al Bezirksgendarmeriekommando.29 Secondo il regolamento dovrei applicarvi le manette. Tuttavia, poiché ritengo che siate una persona onesta, le manette non ve le metteremo. Sono persuaso che neppure durante il viaggio tenterete di fuggire». Il maresciallo, visibilmente commosso, aggiunse rivolgendo uno sguardo alla faccia sempliciotta di Sc’vèik: «E non abbiate di me un brutto ricordo. Prendetelo, dunque, appuntato, ecco qua il Bericht». «Allora addio», disse Sc’vèik dolcemente, «la ringrazio, signor maresciallo, per tutto quello che ha fatto per me, e, quando ce ne sarà l’occasione, le scriverò, e se per caso mi troverò a passare in futuro da queste parti, le farò una visitina». Sc’vèik uscì per strada in compagnia dell’appuntato, e chiunque li incontrasse, così presi in una amichevole conversazione, li scambiava per vecchi conoscenti che per caso dovessero recarsi nello stesso posto in città, ad esempio in chiesa, diciamo. «Non mi sarei mai creduto», spiegava Sc’vèik, «che questo viaggio a Budějovice dovesse svolgersi con tutte queste difficoltà. Mi sembra come il caso che occorse al macellaio Chaura di Kobylisy.30 Una volta, costui, arrivò di notte a Moráň, là dove c’è il monumento a Palacký,31 e continuò a girare all’intorno per tutta la notte, perché gli sembrava che quel muro non finisse mai. Era completamente disperato; alla mattina, infine, non ce la fece più, e così comin  Dal tedesco Bericht, «relazione, rapporto».   In tedesco nel testo: «Comando distrettuale della gendarmeria.   Sobborgo settentrionale di Praga. 31  František Palacký (1798-1876), autore di una monumentale storia del­ la nazione ceca, fu un esponente politico conservatore, fautore del così det­to «austroslavismo». 28

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ciò a chiamare: ‘polizia!’ quando i poliziotti accorsero, domandò loro quale fosse la strada per Kobylisy, spiegando che erano già cinque ore che camminava lungo un muro il quale non finiva mai. Allora lo portarono via con loro, e lui nella cella di isolamento fracassò ogni cosa». L’appuntato ascoltò la storia di Sc’vèik senza commentarla neppure con una parola, ma pensò tra sé e sé: «Che mi ti metti a raccontare, adesso? Vuoi forse ricominciare a spiattellarmi un’altra favola in cui c’entri Budějovice?» Passavano in quel momento vicino ad uno stagno, e Sc’vèik chiese con interesse all’appuntato se nei dintorni vi fossero molti pescatori di frodo. «Qui tutti quanti sono pescatori di frodo», rispose l’appuntato, «il maresciallo che c’era prima volevano buttarlo in acqua. Il maestro pescatore dal bastione spara loro a setole nel sedere, ma non serve a nulla. Si mettono un pezzo di latta sui pantaloni». L’appuntato cominciò adesso a parlare del progresso, dicendo che gli uomini erano capaci di tutto, e non facevano altro che ingannarsi a vicenda, sviluppando poi una nuova teoria, secondo la quale quella guerra era una grande fortuna per l’umanità, dato che nelle varie battaglie, accanto alle persone per bene, sarebbero stati fatti fuori pure i mascalzoni ed i vagabondi. «C’è troppa gente al mondo», concluse con tono sentenzioso, «ormai ci pigiamo l’uno contro l’altro, e l’umanità s’è propagata in modo spaventoso». Si stavano avvicinando ad una trattoria di campagna. «Oggi tira un vento del diavolo», disse l’appuntato, «penso che un bicchierino non ci starebbe male. Però non dite niente a nessuno, che vi sto conducendo a Písek. Si tratta di un segreto di stato». Davanti all’appuntato ballava l’istruzione delle autorità centrali riguardante le persone sospette e coloro che davano sull’occhio, nonché i doveri di ogni stazione di gendarmeria: «Escludere tali persone dal contatto con la locale popolazione ed evitare nella maniera più rigorosa che, durante il trasferimento ad istanze superiori, si verifichino superflue conversazioni con la gente della zona». «Non si deve rivelare chi siete voi», riprese l’appuntato, «a nessuno deve interessare quello che avete fatto. Il panico non si deve diffondere». «In tempi di guerra, come questi, il panico è una brutta cosa», proseguì, «basta dire una cosa che già si riversa come una valanga per tutti i dintorni. Comprendete?» «E dunque non diffonderò il panico», disse Sc’vèik, il 299

quale poi si comportò effettivamente secondo questo proposito, poiché, quando l’oste si mise a chiacchierare con loro, affermò con aria convincente: «Mio fratello, qui, dice che all’una saremo a Písek». «Allora il suo signor fratello ha un orláb?»32 chiese il padrone ficcanaso all’appuntato, il quale senza neppure batter ciglio rispose spudoratamente: «Gli scade oggi! «Gliel’abbiamo fatta», dichiarò poi a Sc’vèik sorridendo, allorché l’oste se ne andò via, «l’importante è niente panico. Siamo in tempo di guerra». Quando l’appuntato, prima di entrare nella trattoria di campagna, aveva asserito che pensava che un bicchierino non ci sarebbe stato male, era stato un ottimista, perché non s’era preoccupato della quantità, e, quando ne ebbe mandati giù una dozzina, dichiarò con aria del tutto decisa che fino alle tre il comandante della stazione distrettuale della gendarmeria era a pranzo, e che era inutile andarci prima, a parte il fatto che proprio allora stava per cominciare una tormenta di neve. Se fossero arrivati a Písek entro le quattro del pomeriggio sarebbe stato più che sufficiente. Fino alle sei c’era tempo. Ormai avrebbero marciato comunque al buio, a giudicare da come si stava mettendo il cielo. Era assolutamente la stessa cosa mettersi in marcia subito o aspettare un po’. Tanto Písek non poteva scappare. «Possiamo esser lieti di starcene seduti qui al calduccio», disse per concludere, «nelle trincee, quando c’è questo tempaccio, se la passano peggio di noi, che stiamo qui vicino alla stufa». La grande, vecchia stufa a mattonelle sprigionava calore, e l’appuntato si accorse che questo calore esterno poteva essere convenientemente completato con quello interiore, mediante l’aiuto di varie acquaviti dolci e secche, come si dice in Galizia. L’oste, in quella trattoria isolata, ne possedeva otto qualità, si annoiava e non faceva che bere accompagnato dalla bufera che fischiava a tutti e quattro gli angoli dell’edificio. L’appuntato incitava continuamente il padrone a tenere il loro stesso passo, rimproverandogli di bere poco, il che era un palese torto, dato che quello là ormai si reggeva appena in piedi, eppure voleva continuare a giocare a colore e, ad un certo momento, disse che durante la notte sentiva da oriente l’artiglieria, ragion per cui l’appuntato   Deformazione del tedesco Urlaub, «licenza».

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singhiozzò: «Però niente panico. Ci sono istruzioni in proposito». Poi cominciò a spiegare che le istruzioni erano la raccolta delle disposizioni concernenti un medesimo argomento. Nel fare questo rivelò alcune informazioni segrete e di carattere confidenziale. L’oste, ormai, non capiva più niente; riuscì soltanto a dichiarare che con le istruzioni le guerre non si vincono. Era già buio quando l’appuntato decise di mettersi in cammino alla volta di Písek insieme con Sc’vèik. In mezzo alla bufera di neve non era possibile vedere ad un passo di distanza, e l’appuntato non faceva altro che ripetere: «Sempre dritto davanti al naso fino a Písek». Mentre stava dicendo questo per la terza volta, la sua voce ad un tratto non risonò più dalla strada, ma da un punto in basso, dalla scarpata in cui era scivolato, cadendo sulla neve. Aiutandosi col fucile, con grande fatica si arrampicò nuovamente in alto e tornò sulla strada. Sc’vèik lo sentì ridere sommessamente: «Che scivolone!» Dopo un po’, tuttavia, non lo sentì più nuovamente, perché era scivolato una seconda volta giù per il pendio, e si mise a gridare tanto che superò il sibilo del vento: «Cado, panico!» L’appuntato si trasformò in un’alacre formica, la quale, quando casca da qualche parte, tanto si arrampica finché non ritorna fuori. Per cinque volte si reiterarono le cadute dell’appuntato lungo la scarpata, ed alla fine, quando si ritrovò accanto a Sc’vèik, disse, non sapendo più che fare e con voce disperata: «Se continua così potrei benissimo perdervi». «Non abbia paura, signor appuntato», disse Sc’vèik, «meglio di tutto sarebbe legarsi l’un l’altro. Così non ci sarà possibile perderci. Ha con sé le manette?» «Ogni gendarme deve sempre portare con sé le manette», fece l’appuntato con aria seria, inciampando vicino a Sc’vèik, «sono il nostro pane quotidiano». «Ed allora attacchiamoci l’un l’altro», propose Sc’vèik, «avanti, ci provi». Con una mossa magistrale l’appuntato fece scattare una delle manette attorno al polso di Sc’vèik e si infilò l’altra nel polso della mano destra, così che adesso furono legati l’un l’altro come due gemelli. Avanzando per la strada tra continui sobbalzi, non potevano staccarsi e l’appuntato trascinò Sc’vèik tra mucchi di pietra, e, ogni volta che cadeva, se lo tirava appresso. Le manette, però, in questi casi segavano loro le mani, ed alla fine l’appuntato dichiarò che così non poteva continuare, e che dovevano nuovamente 302

sciogliersi. Dopo lunghi e vani tentativi di liberare se stesso e Sc’vèik, l’appuntato dovette sospirare: «Ormai siamo legati per i secoli dei secoli». «Amen»,33 aggiunse Sc’vèik, e continuarono ad avanzare per la faticosa strada. L’appuntato fu preso da un’acuta depressione, e quando, dopo terribili sofferenze, a tarda sera arrivarono a Písek al comando della gendarmeria, sulle scale, ormai completamente disfatto, disse a Sc’vèik: «Adesso ce la vedremo brutta. Non riusciamo a separarci». E se la videro brutta davvero, quando il maresciallo mandò a chiamare il comandante della stazione, il capitano König. La prima cosa che disse il capitano fu: «Fatemi sentire l’alito!» «Adesso capisco», soggiunse poi il capitano, avendo compreso senza ombra di dubbio, grazie al suo acuto ed abituato olfatto, quale era la situazione, «rhum, kontušovka, diavolo, acquavite di sorbe, di noci, di visciole e di vaniglia». «Signor maresciallo», fece quindi rivolgendosi al suo   In latino nel testo.

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sottoposto, «ecco qui un esempio di come un gendarme non deve mai apparire. Comportarsi in questa maniera è un reato tale che dovrà occuparsene il tribunale militare. Legarsi con le manette ad un delinquente. Arrivare ubriaco, total besoffen.34 Presentarsi quassù come un animale! Toglietegliele!» «Di che si tratta?» domandò rivolto all’appuntato, il quale con la mano libera, alla rovescia, faceva il saluto regolamentare. «Faccio rispettosamente notare, signor capitano, che ho qui un Bericht». «Sul conto vostro un Bericht verrà spedito al tribunale», ribatté concisamente il capitano; «signor maresciallo, li metta in cella tutti e due, domani mattina li conduca all’interrogatorio, e quel Bericht di Putim se lo studi ben bene e poi me lo mandi a casa mia». Il capitano di Písek era un uomo assai pignolo, rigidissimo nei rapporti coi dipendenti, ed un campione nelle faccende burocratiche. Nelle stazioni di gendarmeria del suo distretto le burrasche erano all’ordine del giorno. Esse incombevano continuamente e si scatenavano ogni qual volta arrivava un dispaccio firmato dal capitano, il quale, per tutto il giorno, non faceva altro che compilare vari biasimi, richiami ed ammonimenti destinati a tutto il distretto. Dallo scoppio della guerra in poi il cielo sulle stazioni della gendarmeria del distretto di Písek era coperto da dense nuvolaglie. C’era una vera e propria atmosfera di terrore. I fulmini della burocrazia tonavano in continuazione e colpivano i marescialli della gendarmeria, gli appuntati, la truppa, gli impiegati. Per ogni quisquilia c’era pronta un’inchiesta disciplinare. «Se vogliamo vincere la guerra», soleva dire durante le sue ispezioni alle stazioni di gendarmeria, «le ‘a’ debbono essere ‘a’ le ‘b’ debbono essere ‘b’ ed ogni ‘i’ deve avere il suo puntino». Si sentiva circondato dal tradimento e s’era formato la salda convinzione che ogni gendarme del suo distretto avesse sulla coscienza qualche peccato in relazione con lo stato di guerra, che ciascuno si fosse reso colpevole, in un tempo di così grande importanza, di qualche trascuratezza nello svolgimento del servizio. Dall’alto, nel medesimo tempo, lo bombardavano con 34

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In tedesco nel testo: «Totalmente ubriaco».

dispacci, nei quali il ministero della difesa nazionale faceva rilevare che, secondo informazioni fornite dal ministero della guerra, diversi militari originari del distretto di Písek passavano continuamente al nemico. E così gli ingiungevano di indagare sulla lealtà del suo distretto. La faccenda era terribile. Le donne dei dintorni andavano ad accompagnare i loro uomini che partivano per la guerra, ed egli sapeva che quegli uomini promettevano infallibilmente alle proprie donne che non si sarebbero lasciati accoppare per i begli occhi di sua maestà l’imperatore. Sugli orizzonti giallo-neri35 cominciavano ad addensarsi nubi rivoluzionarie. In Serbia e nei Carpazi interi battaglioni passavano al nemico. Il ventottesimo reggimento, l’undicesimo reggimento. Ed in quest’ultimo soldati della regione e del distretto di Písek. In quest’atmosfera afosa, preinsurrezionale, le reclute di Vodňany s’erano presentate al distretto con garofani di organzino nero all’occhiello. Soldati provenienti da Praga, in transito per la stazione ferroviaria di Písek, avevano buttato via sigarette e cioccolate che le dame della buona società locale erano andate ad offrir loro nei carri bestiame. Poi era transitato un battaglione di linea; ed alcuni ebrei del luogo, i quali avevano gridato: «Heil, nieder mit den Serben!» 36 s’erano buscati dei ceffoni bene assestati, sì che per una settimana non s’erano fatti vedere per strada. E mentre si verificavano questi episodi, i quali mostravano chiaramente che, quando nelle chiese gli organi intonavano il «Conservaci, Signore, il nostro imperatore» 37 di altro non si trattava se non di un fallace orpello e di una generale finzione, dalle singole stazioni di gendarmeria arrivavano le ben note risposte ai questionari compilate col sistema in uso a Putim, e secondo le quali tutto era in perfetto ordine, di agitazioni contro la guerra non c’era neppure l’ombra, l’opinione pubblica della popolazione corrispondeva al grado uno romano A, l’entusiasmo ad uno romano a-b. «Voi non siete gendarmi, ma comuni piedipiatti», soleva dire durante i suoi giri di ispezione; «invece di intensificare la vostra vigilanza del mille per cento, piano piano state diventando delle bestie». Fatto questo apprezzamento di natura zoologica, incal  Il giallo ed il nero erano i colori della bandiera imperiale austriaca.   In tedesco nel testo: «Evviva, abbasso i serbi!»   Inizio dell’inno nazionale austriaco.

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zava: «Poltrite comodamente a casa vostra e pensate: ‘Mit ganzem Krieg kann man uns Arsch lecken.’»38 Seguivano poi sempre lunghi elenchi di tutti i doveri incombenti sugli sventurati gendarmi, nonché conferenze sullo stato della situazione generale e sui provvedimenti da adottare affinché le cose si mettessero realmente come dovevano essere. Dopo questa descrizione della fulgida immagine di una gendarmeria perfetta, di niente altro sollecita se non di contribuire al consolidamento dell’impero austriaco, seguivano minacce, inchieste disciplinari, trasferimenti ed ingiurie. Il capitano era fermamente convinto che stava continuamente di fazione, che salvava almeno il salvabile, e che tutti, i gendarmi delle singole stazioni di gendarmeria sottoposte alla sua autorità altro non erano se non un’accozzaglia di poltroni, di egoisti, di vigliacchi, di truffatori, i quali non si intendevano che di acquavite, di birra e di vino. E, poiché i loro introiti erano alquanto modesti, era evidente che, per potersi pagare i loro sbevazzamenti, si lasciavano corrompere, mandando in tal modo alla rovina, piano piano, ma con assoluta certezza, l’Austria. L’unica persona nella quale nutrisse fiducia era il maresciallo alle sue dirette dipendenze al comando distrettuale, il quale tuttavia all’osteria ripeteva sempre: «E così pure oggi quella vecchia carogna mi ha rotto le scatole…»

Il capitano si stava studiando il «Bericht» su Sc’vèik compilato dal maresciallo della gendarmeria di Putim. Davanti a lui stava in piedi il suo maresciallo dei gendarmi, Matějka, il quale pensava che il capitano poteva pure andare a farsi benedire, lui e tutti i suoi Berichti, dato che giù da Otava lo aspettavano per fare una partita a «sessantasei». «Ultimamente, Matějka», cominciò il capitano, «le ho detto che il maggior cretino che io abbia mai conosciuto è il maresciallo dei gendarmi di Protivín, ed invece, con questo Bericht il maresciallo di Putim l’ha messo k.o. Il soldato che è stato condotto da quel furfante di appuntato ubriacone, e col quale era legato come se fossero stati due cani, non è per niente una spia. È sicuramente un volgarissimo disertore. Qui ci sono scritte cretinate tali che pure 38  In tedesco nel testo: «Con tutta questa guerra ci possono leccare il sedere».

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un bambino capirebbe a prima vista che quando scriveva questo era sbronzo come un prelato di curia. «Porti qui immediatamente quel soldato», ordinò poi, dopo aver analizzato per un altro po’ di tempo il rapporto proveniente da Putim. «In tutta la mia vita non ho visto mai una simile congerie di stupidaggini, e per completare l’opera, insieme col sospetto, mi spedisce qui quell’animale del suo appuntato. Questa gente mi conosce ancora molto poco, ma io so essere anche una carogna. Finché non se la fanno nei pantaloni davanti a me per la paura tre volte al giorno, sono proprio convinti che io sia buono come il pane». Il capitano attaccò una tirata lamentando che adesso la gendarmeria si mostrava recalcitrante verso tutti gli ordini ricevuti, e compilava Berichti tali che si vedeva a prima vista che ogni maresciallo prendeva tutto sotto gamba, all’unico scopo di confondere ancora di più le cose. Basta che dall’alto si faccia notare che non è esclusa la possibilità che singole spie gironzolino in qualche regione, che subito i marescialli di gendarmeria si mettono a fabbricarne all’ingrosso, e se la guerra dovesse durare ancora un po’ di tempo ci sarà da diventare matti. Bisogna che dall’ufficio spediscano un telegramma a Putim, ordinando al maresciallo di presentarsi a Písek domani. Ci penserà lui a togliergli dalla testa l’ «enorme avvenimento» di cui fa menzione all’inizio del suo rapporto. «Da quale reggimento siete scappato?» apostrofò Sc’vèik il capitano. «Da nessun reggimento». Il capitano guardò Sc’vèik e scorse nel suo volto tanta tranquillità che gli domandò: «E la divisa come ve la siete procurata?» «Ogni soldato, quando va sotto le armi, riceve una divisa», rispose Sc’vèik con un placido sorriso, «io presto servizio al novantunesimo reggimento, e non solo non sono scappato dal mio reggimento, ma al contrario». Accentuò quell’ «al contrario» in maniera tale che il capitano assunse un’aria mesta e chiese: «Come sarebbe a dire, al contrario?» «Si tratta di una questione semplicissima», si confidò Sc’vèik, «io sto andando verso il mio reggimento, io lo sto cercando, e non ne scappo via. Io non desidero niente altro che arrivare al più presto al mio reggimento. Ormai mi cominciano a venire i nervi, perché evidentemente mi allontano da České Budějovice, mentre penso che là mi aspetta tutto il reggimento. Il signor maresciallo, a Putim, mi ha 307

fatto vedere sulla carta che Budějovice si trova a sud, ed invece mi ha indirizzato verso nord». Il capitano agitò la mano, come volesse dire: «Altro che indirizzare la gente a nord, quello combina ben di peggio!» «Dunque voi non riuscite a trovare il vostro reggimento», disse, «ma siete andato a cercarlo?» Sc’vèik espose l’intera situazione. Cominciò col riferire di Tábor e poi elencò tutte le località per le quali era passato durante la sua marcia verso Budějovice: Milevsko, Květov - Vraž - Malčín - Čížova - Sedlec - Horažd’ovice - Radomyšl - Putim - Štěkno - Strakonice - Volyň - Dub Vodňany - Protivín ed infine Putim per la seconda volta. Con enorme entusiasmo Sc’vèik descrisse la lotta da lui sostenuta contro il destino, spiegando come bramasse ardentemente raggiungere a Budějovice il suo novantunesimo reggimento, a dispetto di qualsiasi ostacolo, ma come tutti i suoi sforzi fossero risultati vani. Parlava con calore, ed il capitano disegnava meccanicamente con la matita su un foglio di carta il circolo chiuso dal quale il buon soldato Sc’vèik non riusciva a portarsi fuori, nella sua marcia verso il reggimento. «È stata una fatica degna di Ercole», disse alla fine, quando ebbe ascoltato il racconto di Sc’vèik, costatando con soddisfazione quanto egli fosse addolorato per essere stato tanto tempo nell’impossibilità di riunirsi al suo reggimento, «deve essere stato uno spettacolo magnifico vedervi girare attorno a Putim». «La faccenda avrebbe potuto già essere risolta da un bel pezzo», fece Sc’vèik, «se non ci fosse stato di mezzo quel signor maresciallo in quel disgraziato paesucolo. Quello lì non m’ha chiesto né il nome né il reggimento cui appartenevo, e tutto quanto gli sembrava assai strano. Doveva farmi portare a Budějovice, ed in caserma glielo avrebbero detto se ero quello Sc’vèik che stava cercando il proprio reggimento oppure un individuo sospetto. Oggi sarei stato già da due giorni al mio reggimento ed avrei potuto fare il mio dovere militare». «Ma perché a Putim non avete fatto notare che si trattava di un errore?» «Perché mi sono accorto che sarebbe stato inutile parlare con lui. Lo diceva anche il vecchio oste Rampa di Vinohrady,39 quando qualcuno non voleva saldargli il conto, che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire». Il capitano non stette a rifletterci tanto, e pensò solamen  Quartiere orientale praghese.

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te che un simile giro vizioso, quando uno vuole raggiungere il proprio reggimento, è solo un segno della più profonda degenerazione umana, dopo di che fece battere a macchina nel suo ufficio, facendo a meno di tutte le norme e di tutte le bellezze dello stile ufficiale, la seguente lettera: All’illustrissimo comando del novantunesimo imperialregio reggimento di fanteria České Budějovice. Allegato alla presente si trasmette Josef Sc’vèik, il quale dichiara di essere fante in forza presso codesto reggimento, trattenuto, secondo quanto egli stesso afferma, dalla stazione di gendarmeria di Putim, distretto di Písek, per sospetta diserzione. Il medesimo sostiene che intende raggiungere il suo reggimento, sopra menzionato. La suddetta persona trasferita è di bassa statura, di corporatura tarchiata, ha volto e naso regolari, occhi azzurri, nessun segno particolare. Nell’allegato B1 si invia il conto relativo al vitto della suddetta persona con preghiera di gentile trasferimento sul conto del min. della difesa naz., lo scrivente chiede inoltre che si accusi ricevuta del trasferito. Nell’allegato C1 si invia per il riscontro l’elenco degli oggetti erariali rinvenuti presso il fermato al momento della cattura.

Il viaggio in treno da Písek a Budějovice fu per Sc’vèik rapido e senza ostacoli. Il suo accompagnatore era un giovane gendarme, un pivellino, il quale non lo perdeva di vista ed aveva una fifa maledetta che Sc’vèik lo lasciasse con un palmo di naso. Per tutto il viaggio fu occupato nella soluzione di un difficile problema: «Se ora dovessi andare a fare i miei bisogni piccoli o grandi, come potrei fare?» Risolse il quesito in questa maniera, che Sc’vèik avrebbe dovuto fargli compagnia. Per tutta la strada dalla stazione ferroviaria fino alla caserma della Vergine Maria di Budějovice, egli tenne i suoi occhi convulsamente fissi addosso a Sc’vèik, ed ogni volta che si avvicinavano a qualche cantonata o a qualche crocevia spiegava a Sc’vèik, come di passaggio, quanti proiettili esplosivi venivano loro assegnati per ogni scorta, al che Sc’vèik rispondeva che era convinto che nessun gendarme si sarebbe messo mai a far fuoco contro qualcuno per strada, nel timore di provocare qualche disgrazia. Il gendarme allora si metteva a discutere con lui, e così arrivarono in caserma. Già dal giorno precedente, in caserma, era di servizio il tenente Lukáš. Questi se ne stava seduto alla scrivania dell’ufficio, senza il minimo presagio di quello che stava per accadere, quando introdussero Sc’vèik con le sue carte. «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che sono nuovamente ai suoi ordini», disse Sc’vèik mentre 309

faceva il saluto militare con la faccia radiosa di esultanza. A tutta quella scena assistè l’alfiere Kot’átko, il quale poi ebbe a raccontare che, dopo la presentazione di Sc’vèik, il tenente Lukáš balzò in piedi, si afferrò la testa con le mani e cadde supino addosso allo stesso Kot’átko, e che poi, quando lo fecero rinvenire, Sc’vèik, il quale per tutto quel tempo era rimasto impalato sull’attenti e salutando, ripetè: «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che sono nuovamente ai suoi ordini!» Fu a questo punto che il tenente Lukáš, tutto pallido e con la mano tremolante, afferrò le carte concernenti Sc’vèik, le firmò, chiese a tutti quanti di uscire, disse al gendarme che andava bene così e si chiuse con Sc’vèik dentro l’ufficio. Così ebbe termine l’anabasi di Sc’vèik a Budějovice. Non c’è dubbio che, se fosse stata lasciata a Sc’vèik libertà di movimento, egli sarebbe arrivato a Budějovice da solo. Se qualche autorità volesse vantarsi di aver inviato Sc’vèik alla sede in cui doveva prestare servizio, si tratterebbe semplicemente di un equivoco. Data l’energia di Sc’vèik e la sua saldissima brama di battersi, l’intervento delle autorità, in questo caso, non aveva fatto altro che mettere bastoni tra le ruote. Sc’vèik ed il tenente Lukáš si guardarono l’un l’altro negli occhi. Gli occhi del tenente brillavano di un bagliore che nel medesimo tempo esprimeva terrore, minaccia e disperazione, mentre Sc’vèik guardava il tenente con tenerezza, indirizzandogli occhiate piene di affetto, quasi si fosse trattato di un’amante perduta e poi ritrovata. Nell’ufficio c’era un silenzio di chiesa. Dal corridoio adiacente si sentivano i passi di qualcuno che andava e veniva. Qualche coscienzioso volontario con ferma annuale, rimasto in caserma a causa di un raffreddore, come si poteva facilmente dedurre dalla sua voce, andava ripetendo con voce nasale una cosa che aveva imparato a memoria: Come debbono essere ricevuti nelle fortezze i membri della famiglia imperiale. Si distingueva chiaramente: «Sobald die höchste Herrschaft in der Nähe der Festung anlangt, ist das Geschütz auf allen Bastionen und Werken abzufeuern, der Platzmajor empfängt dieselbe mit dem Degen in der Hand zu Pferde, und reitet sodann vor». 40 40  In tedesco nel testo: «Appena Sua Altezza Imperiale giunge in pros­ simità della fortezza, le bocche da fuoco su tutti i bastioni e su tutti i ridotti

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«Chiudete il becco», sbraitò il tenente rivolto verso il corridoio, «andate al diavolo. Se avete la febbre, statevene a letto in camera vostra!» Si potè sentire come il diligente volontario con ferma annuale si allontanasse, mentre, come una sommessa eco, giungeva ancora dal fondo del corridoio la sua voce nasale: «In dem Augenblicke, als der Kommandant salutiert, ist das Abfeuern des Geschützes zu wiederholen, welches bei dem Absteigen der höchsten Herrschaft zum drittenmale zu geschehen hat».41 Di nuovo il tenente e Sc’vèik tornarono a guardarsi in silenzio ed alla fine il tenente Lukáš disse con spavalda ironia: «Benvenuto a České Budějovice, Sc’vèik. Chi deve essere impiccato non va certo ad affogarsi. Hanno già emesso un mandato d’arresto, e domani comparirete al Regimentsrapport 42 Ormai con voi il sangue non me lo guasterò più. Me ne avete combinate abbastanza, ora basta, ne ho piene le dovranno sparare una salva, il comandante della piazza riceve Sua Altezza a cavallo con la spada sguainata in mano, poi cavalca avanti». 41  In tedesco nel testo: «Nel momento in cui il comandante porge il suo saluto, le bocche da fuoco dovranno sparare un’altra salva, ed una terza salva dovrà essere esplosa quando Sua Altezza Imperiale lascerà la fortezza». 42   In tedesco nel testo: «Rapporto di reggimento».

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scatole. Quando penso che ho potuto vivere per tanto tempo con un idiota come voi…» Cominciò a camminare in su e in giù per l’ufficio: «No, è proprio terribile. Adesso mi stupisco di non avervi ancora tirato un colpo di pistola. Che mi sarebbe potuto capitare? Niente. Mi sarei soltanto liberato. Lo capite o no?» «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che lo capisco perfettamente». «Adesso, Sc’vèik, non ricominciate con queste vostre fesserie, altrimenti succederà davvero qualcosa. Vi torceremo il collo come si deve. Avete prolungato la vostra idiozia all’infinito, ed alla fine la cosa si è conclusa in maniera catastrofica». Il tenente Lukáš si fregò le mani: «Ormai, Sc’vèik, siete bell’e spacciato». Tornò alla sua scrivania e scrisse qualche riga su un foglietto di carta, poi chiamò le sentinelle di guardia davanti all’ufficio ed impartì l’ordine di accompagnare Sc’vèik dal carceriere e di consegnare quel biglietto. Sc’vèik venne condotto attraverso il cortile, ed il tenente stette a guardare con non celata gioia come il carceriere aprisse la porta sulla quale era appeso un cartello giallonero con la scritta Regimentsarrest,43 come Sc’vèik sparisse dietro quella porta e come, dopo un istante, ne uscisse, da solo, il carceriere. «Dio sia ringraziato», pensò il tenente parlando ad alta voce, «ormai è dentro». Nell’oscuro ambiente della galera della caserma della Vergine Maria Sc’vèik venne calorosamente accolto da un grasso volontario con ferma annuale che poltriva sul pagliericcio. Era l’unico detenuto, ed era già il secondo giorno che si stava annoiando là in completa solitudine. Quando Sc’vèik gli chiese per quale motivo stesse dentro, gli rispose che si trattava di una piccolezza. Aveva affibbiato per sbaglio un paio di ceffoni ad un sottotenente di artiglieria, di notte, in stato di ebbrezza, sotto i portici che danno sulla piazza. A dire il vero non erano neppure stati ceffoni, soltanto gli aveva fatto cadere per terra il berretto. Le cose erano andate così, che quell’ufficiale se ne stava, di notte, sotto i portici, evidentemente in attesa di una prostituta. Gli volgeva le spalle, ed al volontario con ferma annuale era sembrato che si trattasse di un altro volontario con ferma annuale che egli conosceva, un certo Materna František. «Era un cosino alto due soldi di cacio», spiegò a Sc’vèik, «e così mi sono avvicinato a lui di spalle quatto quatto e gli   In tedesco nel testo: «Prigione di reggimento».

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ho buttato per terra il berretto dicendogli: ‘Salute, Franci!’ Ma quell’imbecille si mette subito a fischiare per chiamare la ronda, e così mi hanno portato via. «Può anche darsi», ammise il volontario con ferma annuale, «che nel parapiglia che c’è stato qualche ceffone sia pure volato, ma ritengo che questo non muti la sostanza delle cose, dato che s’è trattato d’un palese equivoco. Lui stesso riconosce che gli ho detto: ‘Salute, Franci,’ mentre il suo nome di battesimo è Anton. La faccenda è del tutto chiara. A me forse può essere di danno soltanto il fatto che sono scappato dall’ospedale, e se scoppia la bomba con quel Krankenbuch…44 «Dovete sapere che quando sono andato sotto», continuò a raccontare, «tanto per cominciare mi sono preso in affitto una camera in città ed ho cercato di farmi venire i reumatismi. Per tre volte di seguito mi sono preso una bella sbornia e sono andato a distendermi fuori città in un fosso, mentre pioveva, togliendomi pure le scarpe. Non è servito a niente. Allora, per una settimana intera, d’inverno, sono andato a fare il bagno di notte nella Malše,45   In tedesco nel testo: «Matricola dei malati». 45  Piccolo fiume che attraversa České Budějovice per gettarsi poi nella Moldava. 44

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ed ho ottenuto l’effetto contrario. Mi sono così temprato alle intemperie, caro mio, che sono stato capace di dormire sulla neve nel cortile della casa in cui abitavo per tutta la notte, e la mattina, quando gli inquilini mi svegliavano, avevo i piedi così caldi che sembrava li avessi tenuti nelle babbucce. Mi fossi beccato almeno un mal di gola, ma niente, non si decideva mai a venirmi. Non m’è riuscito di prendere neppure una volgare blenorragia. Ogni giorno andavo al ‘Port-Arthur,’ 46 alcuni colleghi s’erano già presa una bella infiammazione ai testicoli, avevano dovuto subire dei tagli, ed io rimanevo sempre immune. Una scalogna nera, amico mio! Ma ecco che un giorno, al ristorante ‘Della rosa’ feci conoscenza con un invalido di Hluboká. Costui mi disse di andarlo a trovare una domenica, assicurandomi che il giorno dopo avrei avuto le gambe gonfie come salsicciotti. A casa sua aveva l’ago e la siringa necessaria, ed effettivamente, quando andai a Hluboká, riuscii a mala pena a tornarmene a casa. Quel cuor d’oro non mi deluse proprio. E così, alla fine, mi presi il mio bel reumatismo muscolare. Di filato all’ospedale, ed ormai la cosa si mise molto bene. Poi la fortuna tornò a sorridermi una seconda volta. A Budějovice venne trasferito un mio cognato di Žižkov, il dottor Masák, ed a lui debbo se potei rimanere all’ospedale per tanto tempo. Sarebbe riuscito a portarmi fino ad un consulto, ma rovinai tutto con quel disgraziato Krankenbuch! L’idea era stata tutt’altro che malvagia, anzi, era eccellente. Mi procurai un grosso librone, ci appiccicai sopra un cartellino, e su di questo scrissi con bella calligrafia Krankenbuch des 91. Reg.47 Le rubriche e tutto il resto erano a posto. Ci scrivevo dei nomi inventati, i diagrammi della temperatura, le malattie, ad ogni giorno, nel pomeriggio, dopo la visita, me ne andavo in città spudoratamente, tenendo il libro sotto il braccio. Al portone montavano di guardia quelli della territoriale, così che anche da quel punto di vista non avevo niente da temere. Mostravo loro il libro, e quelli, per di più, mi facevano anche tanto di saluto. Poi mi recavo da un conoscente, un impiegato della ricevitoria delle imposte, mi mettevo in abito borghese ed andavo all’osteria, dove, insieme con un gruppo di amici, si facevano vari discorsi di alto tradimento. Alla fine divenni così impudente che smisi addirittura di mettermi in borghese e cominciai a girare in   Nome di una casa di tolleranza a České Budějovice. 47   In tedesco nel testo: «Matricola dei malati del novantunesimo reggimento». 46

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divisa sia per le osterie che per la città. Me ne tornavo al mio letto d’ospedale soltanto al mattino, e quando di notte mi fermava la ronda non facevo altro che esibire il mio Krankenbuch del novantunesimo reggimento e nessuno mi dava più alcun fastidio. Anche al portone dell’ospedale mostravo sempre il libro senza dire niente, e così, bene o male, al mio letto ci andavo sempre a finire. La mia impudenza era venuta crescendo fino al punto che ritenevo che nessuno ce la potesse con me, quand’ecco che si è verificato questo maledetto equivoco di notte, sotto i portici della piazza, equivoco che ha dimostrato chiaramente che chi più in alto va, cade sovente precipitevolissimevolmente, amico mio. L’orgoglio è l’inizio della rovina. Chi si loda si sbrodola. Pure Icaro si bruciò le ali. L’uomo vorrebbe essere un gigante, ed invece è una merda, camerata. Non bisogna aver fiducia nel caso, ma schiaffeggiarsi da mane a sera ricordandosi che la prudenza non è mai troppa, e che il troppo stroppia. Dopo i baccanali e le orge ci sono sempre lagrime di coccodrillo. Questa è una legge di natura, caro amico. Se soltanto penso che mi sono rovinato il consulto, la visita per la riforma! Che avrei potuto essere feiddienstunfähig!48 Con quel po’ po’ di protezioni che avevo! Potevo benissimo andare a poltrire in qualche ufficio di arruolamento, ma la mia sbadataggine mi ha fatto lo sgambetto». Il volontario con ferma annuale terminò il suo racconto con tono solenne: «È sonata l’ora anche per Cartagine, Ninive fu ridotta in macerie, caro amico, eppure testa in alto! Non debbono pensare che, una volta giunto al fronte, io tiri un solo colpo! Regimentsrapport! Espulsione dalla scuola! Evviva la balordaggine imperialregia. Sono proprio io il tipo che se ne sta tappato nella scuola e dà gli esami! Kadett, Fänrich, Leutnant, Oberleutnant.49 Vadano pure a farsi benedire! Offiziersschule. Behandlung jener Schüler derselben, welche einen Jahrgang repetieren müssen! 50 Paralisi militare. Il fucile si porta sulla spalla sinistra o su quella destra? Quante stellette ha un caporale? Evidenzhaltung Militärreservemänner51 - Himmelherrgott, non ho da fumare, camerata! Non vorreste che vi insegnassi a sputare sul pavimento? Guardate, si fa così. Intanto pensate a qualche desiderio, In tedesco nel testo: «Inabile al servizio di prima linea». In tedesco nel testo: «Cadetto, alfiere, sottotenente, tenente».   In tedesco nel testo: «Scuola ufficiali. Come trattare quegli allievi della medesima che debbono ripetere un anno». 51   In tedesco nel testo: «Tenere in evidenza i militari di riserva». 48 49 50

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ed il vostro desiderio si adempirà. Se vi piace bere la birra, vi posso consigliare quell’ottima acqua che si trova là nella brocca. Se poi avete fame e volete farvi una bella mangiata, vi consiglio il Salone cittadino. Posso anche suggerirvi, quando siete annoiato, di scrivere poesie. Anch’io, da quando mi trovo qui, ho buttato giù un componimento epico: È a casa il carceriere? Egli dorme in caserma, è qui il nerbo dell’armata, finché non viene un ordine da Vienna, che ha ceduto la linea del fronte. Prima che il nemico venga avanti fa una barricata con questi banchi. E dalla bocca gli fluisce, mentre ferve il suo lavoro: ‘L’impero d’Austria non perisce, gloria alla patria, all’imperatore!’52

«Vedete, amico mio», continuò il grasso volontario con ferma annuale, «e poi mi vengano a dire che in mezzo al popolo sta scomparendo la considerazione per il nostro amato impero! Un uomo chiuso in prigione, che non ha niente da fumare e sul quale incombe il Regimentsrapport, offre il più bell’esempio di devozione al trono. Nei suoi canti rende gli onori alla sua più amplia patria,53 che da ogni lato rischia di prendersi un fracco di legnate. Egli è privato della libertà, eppure dalla sua bocca sgorgano versi di irremovibile dedizione. Morituri te salutant, Caesar! 54 I morti ti salutano, imperatore! Ma il carceriere è uno zoticone. Bella marmaglia hai al tuo servizio! Anzitutto gli ho dato cinque corone affinché mi comprasse delle sigarette, e quel disgraziato stamattina m’è venuto a dire che qui è vietato fumare, che potrebbe avere dei fastidi, che quelle cinque corone me le restituirà quando ci sarà la Löhnung.55 Proprio così, camerata, ormai non credo più a nessuno. Le parole d’ordine più belle sono state mandate all’aria. Derubare i carcerati! E, come se non bastasse, quel birbante se la canta tutto il santo giorno: ‘Wo man singt, da leg’ dich sicher nieder, böse Leute haben keine Lieder!’ 56 Buono a nulla, discolaccio, manigoldo, traditore!» 52   Gli ultimi due versi sono una traduzione di un brano dell’inno nazionale (imperiale) austriaco. 53  «Più amplia patria» indicava, secondo la terminologia Ufficiale, tutto l’impero asburgico rispetto alla più piccola patria nazionale. 54   In latino nel testo. «Cesare, coloro che stanno per morire ti salutano!» era la frase detta dai gladiatori prima dell’inizio dei giuochi nel circo. 55   In tedesco nel testo: «Pagamento del soldo». 56 In tedesco nel testo: «Se tu senti cantar mettiti a letto, ai tristi il canto non dà alcun diletto! »

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Il volontario con ferma annuale chiese adesso a Sc’vèik Quale fosse la sua colpa. «Sempre in cerca del reggimento?» disse, «questa sì che è stata una bella fatica. Tábor, Milevsko, Květov, Vraž, Malčín, Čížova, Sedlec, Horažd’ovice, Radomyšl, Putim, Štěkno, Strakonice, Volyň, Dub, Vodňany, Protivín, Putim, Písek, Budějovice. Una vera e propria via crucis. E domani anche voi andate al Regimentsrapport? Allora, fratello mio, ci incontreremo di nuovo sul luogo dell’esecuzione. Il nostro 317

colonnello Schröder sarà contentissimo. Non potete neppure immaginarvi che effetto hanno su di lui questi scandali, al reggimento. Si mette a correre per il cortile come un mastino idrofobo e tira fuori la lingua come una cavalla sul punto di spirare. «E sentire che bei discorsi, che belle ammonizioni! Mentre parla, inoltre, sputacchia attorno a sé come un cammello bavoso. E poi, quando attacca con le sue tirate, non c’è modo di farlo smettere, ed uno si aspetta che da un momento all’altro venga giù tutta la caserma della Vergine Maria. Io lo so bene, perché una volta ci sono già stato ad un simile Regimentsrapport. Mi trovavo con gli stivaletti e col cappello a cilindro in testa, dato che il sarto non mi aveva consegnato in tempo l’uniforme, ero arrivato alla scuola per volontari con ferma annuale sul campo di esercitazioni con gli stivaletti e col cilindro, mi ero messo in fila e così conciato marciavo con loro all’ala sinistra. Il colonnello Schröder, a cavallo, puntò dritto verso di me e fu un miracolo se non mi rovesciò per terra. ‘Donnerwetter,’ 57strillò in maniera tale che sicuramente poterono sentirlo fin nella Šumava,58 ‘was machen Sie hier, Sie Zivilist?’ 59 Gli risposi rispettosamente che ero un volontario con ferma annuale e che partecipavo alle esercitazioni. Avreste dovuto vedere che scena! Fece un lungo discorso per mezz’ora di seguito e soltanto dopo s’accorse che lo salutavo col cilindro in testa. Allora aggiunse solamente che l’indomani avrei dovuto presentarmi al Regimentsrapport, poi spronò il cavallo pieno di rabbia e cavalcò fino a dio sa dove come un cavaliere selvaggio, ma dopo un po’ tornò al galoppo, si mise nuovamente a strillare, a fare il diavolo a quattro, a battersi un pugno sul petto, ed infine ordinò di allontanarmi immediatamente dalla piazza d’armi e di mettermi nella Hauptwache.60 Al Regimentsrapport mi appioppò due settimane di consegna, mi fece indossare la divisa più stracciata che si trovava in magazzino e minacciò di togliermi i galloni. «‘Il volontario con ferma annuale,’ tonò quel cretino del colonnello, ‘è qualcosa di sublime; essi sono gli embrioni della gloria, della dignità militare, sono degli eroi. Il volontario con ferma annuale Wohltat, essendo stato promosso caporale dopo aver sostenuto i consueti esami, si offrì volontariamente di partire per il fronte e catturò quindici   In tedesco nel testo: «Corpo del diavolo!» (lett. «Tempo di tuoni»).   Ampia regione boschiva nell’estremità sudoccidentale della Boemia.   In tedesco nel testo: «Cosa fa qui lei, borghese?» 60   In tedesco nel testo: «Guardina principale». 57 58 59

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nemici, ma, mentre stava per consegnarli, venne dilaniato da una granata. Cinque minuti dopo giunse un’ordinanza, secondo la quale il volontario con ferma annuale Wohltat era promosso cadetto. Anche voi potreste avere un simile brillante avvenire, una promozione sul campo, una decorazione, anche il vostro nome potrebbe essere inscritto nel libro d’oro del reggimento.’ » Il volontario con ferma annuale sputò: «Vedete, camerata, che razza di animali nascono sotto il sole. Me ne frego dei loro galloni da volontario con ferma annuale e di tutti i privilegi: ‘Voi, volontario con ferma annuale, siete un animale’. ‘Come suona bene: ‘Siete un animale’ e non quel volgare: ‘Sei un animale.’ 61 E dopo esser crepati si riceve un signum laudis 62 oppure una grande medaglia di argento. Imperialregi fornitori di cadaveri con e senza stellette. Quanto è più felice un qualsiasi bue! Almeno quello lo ammazzano al mattatoio, ma prima non lo tormentano in piazza d’armi e coi Feldschiessen».63 Il grasso volontario con ferma annuale si buttò sull’altro pagliericcio e continuò il suo dire: «Una cosa è sicura, che prima o poi tutto questo macello deve finire, perché non può durare in eterno. Provatevi a pompare gloria in un maiale e vedrete che alla fine vi scoppia. Se dovessi partire per il fronte, sulla tradotta scriverei così: Con tibie umane concimeremo il pian. Acht Pferde oder achtundvierzig Mann».64

S’aprì la porta ed apparve il carceriere, il quale portò un quarto di razione di pane militare per tutti e due e dell’acqua fresca. Senza neppure alzarsi dal pagliericcio, il volontario con ferma annuale rivolse al carceriere questa allocuzione: «Come è nobile e bello visitare i carcerati, o sant’Anna del novantunesimo reggimento! Salute a te, o angelo di bontà, o tu che hai il cuore pieno di compassione. Vieni carico di 61   Per questa e per precedenti allusioni allo stato del volontario con ferma annuale valgano le seguenti notizie: tali volontari portavano su en­trambe le maniche della giacca un gallone d’oro attraversato da un filetto nero, inoltre prestavano servizio soltanto per un anno invece che per tre (tale era la ferma normale del soldato austriaco) e potevano, a differenza agli altri comuni soldati, raggiungere i gradi di ufficiale. Tra i vari privilegi assicurati al volontario con ferma annuale era il fatto che né gli ufficiali né i sottufficiali potevano dargli del tu. Egli inoltre non poteva essere costretto a pulire i gabinetti, e così via. 62   In latino nel testo: «Segno di lode». Era questa la più bassa deco­razione riservata agli ufficiali dell’esercito imperiale austriaco. 63   In tedesco nel testo: «Esercitazioni di tiro». 64  In tedesco nel testo: «Per otto cavalli o per quarantotto uomini». Tale scritta si trovava nella vecchia Austria sui carri bestiame.

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canestri con cibi e bevande per alleviare il nostro cordoglio. Non ti oblieremo mai, tu che ci ricolmi di benefici. Tu sei un’apparizione luminosa nelle tenebre della nostra prigione». «Al Regimentsrapport vi passerà la voglia di fare tutte queste buffonate», borbottò il carceriere. «Non prendertela così calda, accaparratore», rispose dal tavolaccio il volontario con ferma annuale, «dicci piuttosto come faresti se dovessi mettere sotto chiave dieci volontari con ferma annuale. Non assumere quest’aria da cretino, o padre guardiano della caserma della Vergine Maria. – Ne schiafferesti dentro venti e poi ne rilasceresti dieci, no? mollusco! Gesummaria, fossi io il ministro della guerra, vedresti che razza di vita militare ti farei fare! Conosci quella legge che asserisce che l’angolo di incidenza è eguale all’angolo di rifrazione? Ti prego soltanto di una cosa: indicami e dammi un punto d’appoggio nell’universo e solleverò tutta la terra con te sopra, babbeo!» Il carceriere spalancò gli occhi, si scosse ed uscì sbattendo la porta. «Bisognerebbe fondare un’associazione di mutuo soccorso per l’allontanamento dei carcerieri», disse il volontario con ferma annuale dividendo equamente in due parti la razione di pane, «secondo il paragrafo sedici del regolamento carcerario i reclusi nelle caserme, fino a che non viene emesso il verdetto, debbono essere alimentati col rancio militare, ma qui domina la legge della prateria: fanno a gara a mangiarsi la roba dei carcerati». Seduti sul pancaccio, Sc’vèik ed il suo compagno presero a sgranocchiare il loro pane. «Questo carceriere», continuò il volontario con ferma annuale proseguendo nelle sue considerazioni, «è la miglior prova del fatto che il servizio militare abbrutisce l’uomo. Sicuramente il nostro carceriere, prima di venire sotto le armi, era un giovanotto che aveva degli ideali, un cherubino dai capelli biondi, un essere tenero, pieno di sensibilità, difensore degli sventurati e degli infelici, che era sempre pronto a dare una mano quando c’era qualche baruffa per una ragazza durante la festa del santo nel paesetto natio. Non c’è dubbio che allora era stimato da tutti, ma oggi, ormai… Dio mio, quanto mi piacerebbe dargli una sberla, sbattergli la testa su questo pancaccio, metterlo a capo in giù nella latrina! E questo, amico mio, non è altro che una prova evidente dell’ottenebramento che si ottiene quando si fa il mestiere del soldato». Il compagno di Sc’vèik si mise poi a cantare: 320

Non temeva neppure il demonio, ma la incontrò un artigliere…

«Caro amico», continuò la sua disquisizione, «se consideriamo tutto questo in relazione con la nostra diletta monarchia, dobbiamo arrivare senza fallo alla conclusione che l’amiamo tanto quanto Puškin amava un suo zio che era una carogna, del quale il poeta scrisse: Sospiro e non finiscono i miei guai, in attesa che al diavol te ne vai!»

S’udì nuovamente un tintinnio di chiavi alla porta ed il carceriere accese il piccolo lume a petrolio che si trovava nel corridoio. «Raggio di luce nelle tenebre!» esclamò il volontario con ferma annuale, «ecco l’illuminismo che penetra nell’esercito! Buona notte, signor carceriere, salutatemi tutti i pezzi grossi e possiate sognare qualcosa di bello. Possiate magari sognare di avermi già restituito quelle cinque corone che vi ho dato per acquistare le sigarette e che invece vi siete bevute alla mia salute. Sogni d’oro, mostro che non siete altro!» Si poté sentire il carceriere che borbottava qualcosa riguardo al Regimentsrapport dell’indomani. «Nuovamente soli», disse il volontario con ferma annuale, «adesso voglio dedicare questi minuti che ci dividono dal sonno all’analisi ed alla trattazione dei progressi compiuti di anno in anno dai graduati e dagli ufficiali nel campo delle cognizioni zoologiche. Forgiare nuovo materiale vivo per usi bellici e bocconi dotati di coscienza militare da destinarsi alle fauci dei cannoni, è un lavoro per il quale occorrono profondi studi oppure la conoscenza delle Fonti del benessere economico65 pubblicate da Kočí, in cui ad ogni pagina si trovano parole come: animale, maiale, troia. Negli ultimi tempi, tuttavia, vediamo che i nostri ambienti militari, avendo fatto progressi, hanno introdotto una nuova terminologia per designare le reclute. All’undicesima compagnia il caporale Althof adopera il termine ‘capra dell’Engadina,’ il caporale Müller, insegnante tedesco nella zona di Kašperské Hory66 chiama le reclute ‘puzzoni cechi,’ il sergente Sondernummer usa le espressioni ‘rospo bovino’ e ‘cinghiale dello Yorkshire’ promettendo nel medesimo tempo di conciare per le feste ogni recluta. E lo fa con un 65   Titolo di una specie di enciclopedia popolare compilata da K. L. Kukla e pubblicata dall’editore Kočí di Praga. 66   Paesetto nella Boemia meridionale.

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tale bagaglio di cognizioni tecniche come se provenisse da una famiglia di impagliatori di animali. Tutti i comandanti militari tentano in tal modo di inculcare nei cuori dei soldati l’amore verso la patria servendosi di particolari ritrovati, quali i ruggiti ed i balli intorno alle reclute, le danze di guerra che ricordano i selvaggi dell’Africa quando questi si preparano a scuoiare un’innocente antilope oppure a cuocersi un cosciotto di missionario per un banchetto. Tutto questo, tuttavia, non riguarda i tedeschi. Se il sergente Sondernummer dice qualcosa a proposito di una Saubande,67 aggiunge in gran fretta die tschechische68 affinché i tedeschi non si offendano pensando che si riferisca a loro. Ed intanto tutti i graduati dell’undicesima compagnia sgranano tanto d’occhi e li roteano come un povero cane che, per l’ingordigia, ha mandato giù una spugna intrisa d’olio e non riesce più a cavarsela di gola. Una volta ho sentito il caporale Müller che parlava col caporale Althof sul modo con cui bisogna procedere quando si fa istruzione ai militari della territoriale. Nel corso della conversazione si sentivano di frequente parole come: ein Paar Ohrfeigen69 Sulle prime pensai che loro due avessero avuto da ridire su qualche cosa e che si stesse infrangendo la solidarietà dei militari tedeschi, ma mi sbagliavo di grosso. In realtà il discorso verteva esclusivamente sui soldati. « ‘Quando un simile maiale ceco,’ spiegava accortamente il caporale Althof, ‘non impara neppure dopo trenta nieder70 a star diritto come un fuso, non è sufficiente affibbiargli sul muso un paio di ceffoni fatti bene. Sferragli un bel cazzotto nel ventre con una mano e con l’altra dagli un colpo in testa in modo da fargli scendere il berretto fin sopra le orecchie, poi digli: Kehrt euch!71 e quando si volterà allungagli una pedata nel sedere, e vedrai come filerà, e che belle risate si farà il Fähnrich Dauerling.’ » «Ed ora, camerata, bisogna che vi parli un po’ di Dauerling», continuò il volontario con ferma annuale, «del quale le reclute dell’undicesima compagnia parlano nei medesimi termini con cui una vecchietta sperduta in qualche farm72 in prossimità del confine col Messico può favoleggiare di un qualche famoso bandito messicano. Dauerling ha fama di essere un cannibale, un antropofago di una delle tribù   In tedesco nel testo: «Banda di troie».   In tedesco nel testo: «la boema».   In tedesco nel testo: «Un paio di sberle». 70   In tedesco nel testo: «A terra!» 71   In tedesco nel testo: «Dietro front!» 72   In inglese nel testo: «Fattoria». 67 68 69

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australiane, le quali hanno l’abitudine di mangiarsi gli appartenenti ad altre tribù caduti nelle loro mani. I dati della sua biografia sono proprio brillanti. Non molto tempo dopo la sua nascita, la balia che lo teneva in braccio cadde per terra ed il piccolo Kohrad Dauerling batté la testina sì che ancora oggi sul suo capo si nota un appiattimento, simile a quello che avrebbe potuto provocare una cometa andando a sbattere contro il polo nord. Tutti dubitavano che si potesse fare di lui qualcosa di buono, se anche fosse sopravvissuto a quel fiero colpo al cervello; soltanto suo padre, che era colonnello, non perse tutte le speranze ed asserì che l’incidente non gli avrebbe affatto nociuto dato che evidentemente, quando fosse cresciuto, il giovane Dauerling avrebbe abbracciato la carriera delle armi. Dopo una dura lotta con tutti e quattro gli anni del liceo scientifico inferiore, che fece studiando privatamente, facendo incanutire anzitempo e rincretinire uno dei suoi professori, mentre un altro suo insegnante, per la disperazione, minacciò di buttarsi dal campanile di Santo Stefano73 a Vienna, il giovane Dauerling entrò nella scuola per allievi ufficiali di Hainburg.74 In questa scuola non si è mai badato al grado di istruzione preventiva, poiché nella maggior parte dei casi si tratta di una cosa che non è di alcuna utilità agli ufficiali austriaci in servizio permanente effettivo. L’ideale militare si scorgeva unicamente nell’inclinazione a giocare ai soldatini. L’istruzione influisce sull’animo, che da essa viene ingentilito, cosa che sotto le armi non serve assolutamente a niente. Quanto più rozzi sono gli ufficiali, tanto meglio è. «Come allievo della scuola per ufficiali, Dauerling non brillava neppure in quelle materie nelle quali ciascuno, bene o male, se la cavava. Anche nella scuola di Hainburg si potevano costatare le conseguenze della botta in testa presa da lui quand’era ancora in fasce. «Le risposte da lui date agli esami erano l’evidente riflesso di quell’incidente occorsogli poco dopo esser nato, e rimanevano talmente celebri per la loro insulsaggine ed erano ritenute talmente classiche come esempi di profonda stupidità e di confusione, che i professori della scuola per allievi ufficiali non lo chiamavano altrimenti che unser braver Trottel.75 La sua stupidaggine era così abbagliante che venivano concepite non poche speranze che, dopo qual  Santo Stefano è il duomo di Vienna.  A Hainburg, nell’Alta Austria, c’era una scuola per allievi ufficiali del genio. 75   In tedesco nel testo: «Il nostro valoroso broccolo». 73

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che decennio, egli andasse a finire all’accademia militare di Maria Teresa76 oppure al ministero della guerra. «Quando scoppiò la guerra e tutti i giovanissimi cadetti vennero nominati Fähnrich, pure Konrad Dauerling riuscì ad intrufolarsi nella lista dei promossi di Hainburg, e fu così che venne assegnato al novantunesimo reggimento». Il volontario con ferma annuale riprese fiato e poi continuò il suo racconto: «Tra le edizioni del ministero della guerra uscì un libro, Drill oder Erziehung,77 leggendo il quale Dauerling apprese che i soldati debbono imparare a temere i propri superiori. Il successo dell’istruzione, infatti, è proporzionale al grado di terrore suscitato. E da questo punto di vista egli ebbe sempre successo. I soldati, per non doversi subire le sue sfuriate, si presentavano a marcare visita a plotoni interi, senza per questo ottenere alcun risultato. Chiunque marcava visita si beccava tre giorni di verschärft.78 E sapete bene cosa significava verschärft. Per tutto il giorno si è costretti a fare esercizi in piazza d’armi, e per di più la notte si viene rinchiusi. Accadde così che nella compagnia di Dauerling non vi furono più malati. I Kumpaniemarodi 79 se ne stavano in gattabuia. In piazza d’armi Dauerling coltiva continuamente il disinvolto vocabolario di caserma che comincia con la parola ‘troia’ e finisce con uno strampalato mistero zoologico: ‘cane d’una troia.’ Bisogna però dire che è molto liberale. Lascia ai soldati la libertà di scelta. Dice, per esempio: ‘Che cosa vuoi, pachiderma, un paio di ceffoni sul muso o tre giorni di verschärft?’ E se qualcuno sceglie il verschärft si becca ugualmente due sberle sul naso, dopo di che Dauerling aggiunge la seguente spiegazione: ‘Vigliacco, hai paura per il tuo grugno, eh? Ed allora che farai quando sentirai fioccare l’artiglieria pesante?’ «Una volta che aveva spaccato un occhio ad una recluta dichiarò testualmente: ‘Pah, was für Geschichten mit einem Kerl, muss so wie so krepieren.’ 80 Questo lo diceva pure il feldmaresciallo Konrád di Hötzendorf 81: ‘Die Soldaten müssen so wie so krepieren.’ 82 76   Nel 1752 l’imperatrice Maria Teresa istituì a Wiener Neustadt un’accademia per allievi ufficiali particolarmente dotati, destinati ad occupare in seguito le più alte cariche dell’esercito. 77   In tedesco nel testo: «Istruzione militare o educazione». 78   In tedesco nel testo: «Rigore». 79   Deformazione della parola tedesca Kompaniemaroden, «soldati della compagnia marcanti visita». 80  In tedesco nel testo: «Puah, quante storie per un tizio che tanto deve crepare». 81   Konrád di «Hötzendorf (1852-1925) fu capo di stato maggiore dell’esercito austro-ungarico durante la prima guerra mondiale. 82   In tedesco nel testo: «I soldati debbono crepare lo stesso».

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«Il sistema prediletto ed efficacissimo di Dauerling consiste nel convocare le truppe ceche a certe sue concioni, nel corso delle quali tratta diffusamente dei compiti militari dell’Austria ed illustra i principi generali dell’istruzione militare cominciando col carcere duro per arrivare fino all’impiccagione ed alla fucilazione. All’inizio dell’inverno, prima che entrassi in ospedale, facevamo istruzione accanto all’undicesima compagnia in piazza d’armi, ed una volta, dato il riposo, Dauerling tenne il seguente discorso alle sue reclute boeme:» « ‘So bene,’ esordì, ‘che siete dei mascalzoni e che bisogna farvi uscire dalla testa tutte le vostre pazzie. Col vostro ceco non riuscirete ad arrivare neppure sotto il capestro. Anche il nostro supremo capo militare è un tedesco. Avete sentito? Himmellaudon, nieder !’ 83 «Fa sempre così, dà l’ordine del nieder e, quando stanno tutti distesi per terra, Dauerling si mette a camminare davanti a loro e dice:» « ‘Nieder rimane sempre nieder, anche se, razza di briganti, doveste marcire in mezzo al fango. Il nieder c’era già al tempo dell’antica Roma; allora tutti quanti dovevano prestare servizio militare dai diciassette ai sessanta anni, e si stava al campo trent’anni, non si poltriva come tanti maiali nelle caserme. Allora c’era pure un’unica lingua di comando nell’esercito. I signori ufficiali romani avrebbero proprio voluto vedere che le loro truppe avessero parlato in etrurisch.84 Anche io esigo che tutti quanti rispondiate in tedesco, e non in questa vostra sbrodolatura. Vedete come state bene stesi così nel fango? Ed adesso immaginate che a qualcuno di voi venga voglia di non stare più nel fango e di alzarsi. Che cosa dovrei fare? Gli spaccherei il muso fino alle orecchie, perché sarebbe insubordinazione, ribellione, ammutinamento, infrazione dei doveri del bravo soldato, disordine ed indisciplina, spregio delle ordinanze militari in generale, e, da tutto questo, deriverebbe che ad un tipo simile bisognerebbe mettere la corda al collo ed infliggergli la Werwirkung des Anspruches auf die Achtung der Standesgenossen.’ » 85 Il volontario con ferma annuale tacque un po’ e poi riprese, dopo aver evidentemente riordinato, durante l’interruzione, il quadro delle condizioni esistenti nelle caserme che aveva nella sua mente:   In tedesco nel testo: «Per tutti i fulmini, a terra!»   In tedesco nel testo: «etrusco».   In tedesco nel testo: «Perdita del diritto alla stima dei pari grado».

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«Questa successe col capitano Adamička, che era un uomo completamente apatico. Quando se ne stava seduto nel suo ufficio, di solito, guardava il vuoto avanti a sé come un matto tranquillo, con un’espressione che sembrava dire: ‘Venite pure a mangiarmi, mosche!’ Al Bataillonsrapport 86 pensava dio sa a che cosa. Una volta si presentò a rapporto un soldato dell’undicesima compagnia per lamentarsi del fatto che il Fähnrich Dauerling la sera precedente, per strada, l’aveva chiamato porco ceco. Nella vita borghese faceva il rilegatore, ed era un operaio che aveva coscienza della sua dignità nazionale. « ‘Allora le cose stanno così,’ disse il capitano Adamička a bassa voce, dato che egli parlava sempre a voce bassissima, ‘così vi ha detto ieri sera per strada. Bisogna appurare se avevate il permesso di libera uscita. Abtreten!’ «Dopo qualche tempo il capitano Adamička fece chiamare quel tizio che aveva fatto reclamo. « ‘Allora è stato appurato,’ disse nuovamente con voce sommessa, ‘che in quel giorno avevate il permesso di allontanarvi dalla caserma fino alle dieci di sera. Per tale motivo non sarete punito. Abtreten!’ «Di questo capitano Adamička, poi, cominciarono a dire che aveva il senso della giustizia, caro camerata, e per questa ragione lo spedirono al fronte, mentre al suo posto venne qui il maggiore Wenzl. Questi era un diavolo per quanto riguarda le rivalità nazionali, e fu proprio lui a tagliare la cresta al Fähnrich Dauerling. Il maggiore Wenzl ha per moglie una ceca ed ha una paura matta dei dissidi nazionali. Quando, anni fa, prestava servizio in qualità di capitano a Kutná Hora,87 una volta, essendo ubriaco, offese in un albergo il capocameriere dicendogli che era una canaglia ceca. Bisogna far notare che in società il maggiore Wenzl non parla altro che ceco, così come d’altro canto in casa, e che i suoi figli frequentano scuole boeme. La sua battuta venne notata, e subito fu riferita in un giornale locale; un deputato, inoltre, fece un’interpellanza al parlamento viennese sul comportamento del capitano Wenzl in quel tale albergo. Dall’incidente il capitano Wenzl ebbe grossi dispiaceri, perché esso accadde proprio nel tempo in cui si stava discutendo al parlamento l’approvazione di certi ordinamenti militari, ed ecco che nella questione fu tirato in ballo quell’ubriacone del capitano Wenzl di Kutná Hora.   In tedesco nel testo: «Rapporto di battaglione».   Cittadina della Boemia, a sud-est di Praga.

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«In seguito il capitano Wenzl venne a sapere che quel bel piattino gliel’aveva cucinato un certo Zítko, Kadettstellvertreter88 dei volontari con ferma annuale. Era stato lui a fornire la ghiotta notizia al giornale, dato che tra lui ed il capitano Wenzl non correva buon sangue da quando Zítko, una volta, in comitiva, alla presenza del capitano Wenzl, si era messo a fare determinate considerazioni, ed aveva asserito che, per trarre certe conclusioni, bastava dare qualche occhiata alla natura che Dio aveva fatto, bastava osservare come le nuvole coprivano l’orizzonte, come sullo sfondo si stagliavano alte le montagne e come rumoreggiavano le cascate tra i boschi o come cantavano gli uccelli. « ‘Basta,’ aveva aggiunto il Kadettstellvertreter Zítko, ‘pensare a questo, per dire: cos’è un capitano rispetto alla magnificenza della natura? È uno zero spaccato, così come lo è un qualsiasi Kadettstellvertreter.’ «Poiché tutti i papaveri militari erano allora sborniati, il capitano Wenzl si assunse lui l’incarico di dare una bella strigliata all’infelice filosofo Zítko, come se questi fosse stato un cavallo, e l’inimicizia tra i due venne poi progressivamente crescendo, ed il capitano non si lasciava sfuggire alcuna occasione per rompere le scatole a Zítko, tanto più che la famosa frase del Kadettstellvertreter era diventata proverbiale. « ‘Cos’è il capitano Wenzl rispetto alla magnificenza della natura?’ Lo sapeva tutta Kutná Hora. « ‘Quel mascalzone, io, lo indurrò al suicidio,’ prese a dire il capitano Wenzl, ma Zítko, alla fine, si congedò e tornò ai suoi studi di filosofia. È da allora che è cominciato l’astio del maggiore Wenzl contro i giovani ufficiali. Neppure un sottotenente può considerarsi al riparo dai suoi sfoghi di rabbia. Dei cadetti e degli alfieri, poi, è meglio non parlare. « ‘Li schiaccerò come tante cimici,’ dice il maggiore Wenzl, e guai a quel povero Fähnrich che, per un motivo o per l’altro, cita qualcuno al Bataillonsrapport. Per il maggiore Wenzl hanno valore soltanto le mancanze gravi ed ignobili come sarebbe quando uno si addormenta mentre sta a fare la sentinella alla polveriera oppure quando ne combina una ancora peggiore, ad esempio quando un soldato, di notte, scavalca il muro della caserma della Vergine Maria e s’addormenta sopra il muro, si fa sorprendere di notte dalla ronda della territoriale o dall’artiglieria, insomma se fa cose orrende che disonorano il reggimento. 88   In tedesco nel testo: «Sostituto del cadetto», il più basso grado di ufficiale nell’esercito austriaco.

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« ‘Gesù Cristo mio!’ l’ho sentito una volta urlare nel corridoio, ‘è la terza volta che s’è fatto beccare dalla ronda della territoriale. Mettetelo subito in gattabuia, quell’animale, e bisogna che quel fesso sgombri dal reggimento, che vada nelle salmerie, a trasportare letame. E non ha fatto neanche una scazzottata con loro! Me li chiamate soldati, questi? Spazzini sono! Da mangiare glielo darete soltanto dopodomani, ora portategli via il pagliericcio, sbattetelo in cella di rigore e niente coperte, a quel mascalzone di uno zoticaccio!’ «Ed ora, amico mio, figuratevi che, subito dopo il suo arrivo qui, quel babbeo del Fähnrich Dauerling citò al Bataillonsrapport un uomo che, stando al suo dire, aveva intenzionalmente omesso di fargli il saluto mentre egli se ne passava in fiacchero per la piazza, una domenica pomeriggio, in compagnia di una certa signorina! Quella volta al Bataillonsrapport, come riferirono poi i graduati, si scatenò l’ira di Dio. Il sergente addetto all’ufficio del battaglione se la scappò coi suoi registri fino nel corridoio, mentre il maggiore Wenzl urlava contro Dauerling: « ‘Che non succeda mai più, Himmeldonnerwetter, 89 non lo tollero! Sa, signor Fähnrich, che cos’è un Bataillonsrapport? Un Bataillonsrapport non è mica una Schweinfest ! 90 Come poteva vederla, se lei è passato in carrozza per la piazza? Non sa che lei stesso ha insegnato ai suoi uomini che il saluto regolamentare deve essere tributato ai superiori che si incontrano per strada, il che non significa che un soldato deve mettersi a girare come una trottola, per trovare il signor Fähnrich che passa in carrozza attraverso la piazza? Taccia, per favore. Il Bataillonsrapport è una istituzione assai importante. Se il soldato le ha assicurato di non averla scorta perché proprio là nel corso stava rendendo gli onori a me, rivolto verso di me, comprende, verso il maggiore Wenzl, e pertanto non poteva vedere alle sue spalle il fiacchero sul quale andava lei, penso che gli si possa credere. In avvenire, per favore, non venga a seccarmi con queste quisquilie.’ «Da allora in poi Dauerling ha cambiato registro». Il volontario con ferma annuale sbadigliò: «Adesso dobbiamo farci una bella dormita prima di affrontare il Regimentsrapport. Volevo soltanto spiegarvi almeno in parte come stanno le cose qui al reggimento. Il colonnello Schröder   In tedesco nel testo: «Tuoni e fulmini» (lett.: tempo di tuoni in cielo).   In tedesco nel testo: «Festa di porci».

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non ha simpatia per il maggiore Wenzl, ed è, in generale, un tipo strambo. Il capitano Ságner, cui è affidata la scuola dei volontari con ferma annuale, scorge in Schröder il vero tipo del soldato, benché non vi sia cosa che metta al colonnello Schröder tanta paura quanto l’idea di dover andare a finire in prima linea. Ságner è un furbacchione di sette cotte, e, come Schröder, non ha in simpatia gli ufficiali della riserva. Sul conto loro dice che sono dei puzzoni di borghesi. Considera gli allievi con ferma annuale come animali selvaggi che bisogna trasformare in macchine di guerra, fornirli di stellette e spedirli al fronte, in modo che possano essere massacrati loro invece dei nobili ufficiali in servizio permanente effettivo, i quali debbono essere risparmiati affinché sia perpetuata la stirpe. «E poi, in generale», aggiunse il volontario con ferma annuale, «ogni cosa qui nell’esercito puzza di marcio. Il fatto è che le masse, sbigottite, ancora non sanno orientarsi bene. Partono con gli occhi sbarrati per andare a farsi accoppare e poi, quando arriva una pallottola, non sanno fare altro che sussurrare: ‘Mamma mia…’ Non esistono gli eroi, ci sono solo bestie da macello e macellai negli stati maggiori. Ma prima o poi scoppierà tutto quanto, ed allora ne vedremo delle belle. Evviva l’esercito! Buona notte!» Il volontario con ferma annuale terminò il suo dire, ma poi cominciò a rigirarsi sotto la coperta e chiese: «Dormite, camerata?» «Non ancora», rispose Sc’vèik che era disteso sull’altro tavolaccio, «sto pensando». «A che cosa pensate, camerata?» «A quella grande medaglia d’argento al valore che ha ricevuto un falegname di via Vávrova ai Královské Vinohrady,91 un certo Mlíčko, perché fu il primo del suo reggimento che, subito all’inizio della guerra, ebbe una gamba spappolata da una granata. Gli dettero pure una gamba artificiale, e lui cominciò a vantarsi della sua medaglia dovunque andava, diceva anche che era il primo ed il primissimo storpio di tutto il reggimento in tempo di guerra. Una volta capitò all’ ‘Apollo’92 in Vinohrady e là si mise a litigare con certi macellai del mattatoio, i quali, alla fine, gli staccarono la gamba finta e gliela dettero in testa. Quello che gliel’aveva staccata non sapeva che era artificiale, 91   «Vigne reali», quartiere orientale di Praga, così chiamato perché anticamente vi erano piantate delle viti. 92   Nome di un antico locale notturno ai (Královské) Vinohrady.

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e così svenne per lo spavento. Al commissariato, però, gli riaccomodarono la gamba, ma da allora in poi Mlíčko prese tanto in odio quella sua grande medaglia d’argento al valore che andò ad impegnarla al monte di pietà, dove venne fermato, lui con tutta la sua medaglia. Ebbe in seguito dei fastidi, ed un certo giurì d’onore per gli invalidi di guerra lo condannò alla restituzione della medaglia d’argento, poi lo costrinsero pure a restituire la gamba…» «Come sarebbe a dire?» «Esattamente così. Un giorno venne da lui una commissione la quale gli comunicò che non era degno di portare una gamba artificiale, e pertanto gliela staccarono e gliela portarono via. «Oppure», continuò Sc’vèik, «anche questa è un’altra potente buffonata, quando i parenti di qualcuno che è caduto in guerra ricevono un bel giorno una di queste medaglie accompagnata da una nota nella quale li si informa che la medaglia viene data loro soltanto in prestito, affinché la appendano in qualche punto dove possa fare bella mostra di sé. In via Božetěchova, a Vyšehrad,93 un padre infuriato, pensando che le autorità volessero prendersi giuoco di lui, appese la medaglia nel gabinetto, ed un poliziotto che aveva in comune con lui per l’appunto quel gabinetto sul ballatoio, lo denunciò per alto tradimento, e così quel povero diavolo dovette pagarla cara». «Da questo si può dedurre», commentò il volontario con ferma annuale, «che la gloria è come erba al vento. Adesso a Vienna hanno pubblicato una Agendina del volontario con ferma annuale, dove c’è tra l’altro una commovente poesia che si potrebbe tradurre così: Un volontario valoroso caduto è per la patria, per il re, ai compagni l’animoso mostrò cos’è ardimento, cos’è fé’. Sull’affusto sta il caduto, sul suo petto è appuntata la medaglia, alza preghiere al cielo il labbro muto, per colui che ha schiantato la battaglia…

«Poiché mi sembra», soggiunse il compagno di Sc’vèik dopo una breve pausa, «che il nostro spirito guerriero sia un po’ in decadenza, propongo, caro amico, di attaccare nel buio notturno, nel silenzio della nostra prigione, la canzone del cannoniere Jaburka. Ci risolleverà il morale. Ma   Quartiere meridionale di Praga.

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dobbiamo gridare, in modo che ci sentano in tutta la caserma della Vergine Maria. Propongo quindi di metterci vicino alla porta». E dalla galera, dopo poco tempo, si levò un canto ruggente, che fece perfino tremare le finestre del corridoio: … Presso il cannone stava e sempre cari cari… presso il cannone stava e sempre caricava. Una bomba lo trovò, le due mani gli staccò, ma lui tranquillo stava e sempre cari cari… presso il cannone stava e sempre caricava…

Alla porta si avvicinarono dei passi e delle voci. «È il nostro carceriere», disse il volontario con ferma annuale, «insieme con lui c’è il sottotenente Pelikán, che oggi è di picchetto. È un ufficiale di complemento, un mio conoscente del ‘Circolo boemo,’ da borghese fa il contabile in una compagnia di assicurazione. Ci procurerà delle sigarette. Intanto continuiamo a strillare». E di nuovo si levò il canto: Presso il cannone stava.

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Quando si aprì la porta il carceriere, evidentemente irritato per la presenza dell’ufficiale che faceva il suo giro di ispezione, sbottò aspramente: «Non crederete mica di stare in un serraglio?» «Pardon», rispose il volontario con ferma annuale, «qui c’è una filiale del Rudolfinum,94 si fa un concerto a beneficio dei carcerati. È testé terminato il primo numero del programma: Sinfonia guerresca». «Fatela finita», disse il sottotenente Pelikán con aria apparentemente severa, «penso che sappiate che alle nove di sera dovete coricarvi, e non fare baccano. Il vostro concerto si sente fin dalla piazza». «Faccio rispettosamente notare, signor sottotenente, che non ci siamo convenientemente preparati», disse il volontario con ferma annuale, «e se una certa qual disarmonia…» «Fa così ogni sera», fece il carceriere cercando di porre in cattiva luce il suo nemico giurato, «e debbo aggiungere che, in genere, si comporta in maniera assai poco intelligente». «Prego, signor sottotenente», disse il volontario con ferma annuale, «vorrei dirle una cosa a quattr’occhi. Che il carceriere aspetti di fuori». Quando il suo desiderio venne esaudito, il volontario con ferma annuale soggiunse con tono confidenziale: «Avanti, Franta, scuci le sigarette. – Delle Sport? E come mai, non hai niente di meglio come sottotenente? Per ora ti ringrazio. Ah, ancora i fiammiferi. «Delle Sport», disse con voce sprezzante il volontario con ferma annuale dopo che il sottotenente fu uscito, «anche nella miseria si deve essere dignitosi. Fumate, camerata, e buona notte. Domani ci attende il giudizio universale». Prima di prender sonno, il volontario con ferma annuale non dimenticò di intonare un canto: «Monti, valli ed alte rocce sono amici miei. Non ci ridaranno quel che ci fu caro, fanciullina mia diletta…» Quando il volontario con ferma annuale aveva dipinto il colonnello Schröder come un mostro s’era sbagliato, dato che il colonnello Schröder, al contrario, aveva almeno parzialmente un certo senso della giustizia, che si metteva chiaramente in mostra dopo le notti in cui il colonnello 94   Edificio al centro di Praga, costruito nel 1880 in onore dell’allora principe ereditario Rodolfo; in tale edificio venivano tenuti concerti conferenze, esposizioni. Durante la prima repubblica il Rudolfinum fu sede dell Assemblea nazionale; dopo il 1945, in quanto «Casa degli artisti» è stato nuovamente riservato alla musica.

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Schröder poteva dichiararsi soddisfatto della compagnia con la quale aveva consumato la cena all’albergo. Ma se non era soddisfatto? Mentre il volontario con ferma annuale svolgeva la sua distruttiva critica delle condizioni esistenti nelle caserme, il colonnello Schröder se ne stava seduto all’albergo in compagnia di alcuni ufficiali ed ascoltava il tenente Kretschmann, il quale era tornato dalla Serbia con una gamba infortunata (gli aveva dato una cornata un bue), e raccontava come aveva assistito ad un attacco contro le posizioni serbe dallo stato maggiore al quale era stato assegnato: «Ecco, a questo punto si lanciarono fuori dalle trincee. Per tutta la lunghezza di due chilometri strisciano ora sui reticolati di filo spinato e si scagliano contro i nemici. Bombe a mano alla cintura, maschere antigas, il fucile a tracolla, pronti a far fuoco, pronti ad attaccare. Fischiano i proiettili. Cade un soldato mentre balza su dalla trincea, un secondo cade sul terrapieno sconvolto, un terzo cade dopo pochi passi, ma i corpi dei camerati continuano a lanciarsi in avanti in mezzo agli hurrà, avanti verso il fumo e la polvere. Ed il nemico spara da tutti i lati, dalle trincee, dalle buche aperte dalle granate, e mira contro di noi con le mitragliatrici. Cadono altri soldati. Uno Schwarm95 vorrebbe raggiungere una mitragliatrice avversaria. Cadono tutti quanti. Ma i camerati ormai sono più in là. Hurrà ! Cade un ufficiale. Ormai non si sentono più i fucili della fanteria, sta per succedere qualcosa di terribile. Cade nuovamente un intero Schwarm e si sentono le mitragliatrici avversarie: tratata… tratata… Cade pure… Io, scusatemi, adesso non posso più continuare, sono sbronzo…» Detto questo, l’ufficiale con la gamba ferita tacque e restò a sedere sulla sua seggiola con aria imbambolata. Il colonnello Schröder sorride amabilmente ed ascolta il capitano Spiro il quale, sedendo davanti a lui, batte i pugni sul tavolo come se avesse voglia di litigare con qualcuno, e va ripetendo qualcosa che non ha alcun senso, qualcosa di cui non si capisce assolutamente il significato, così come non si capisce per quale motivo il suddetto capitano si accalori tanto: «Vi prego di considerare bene. Nell’esercito abbiamo gli ulani territoriali austriaci, i territoriali semplici austriaci, i cacciatori bosniaci, i cacciatori austriaci, la fanteria austriaca, la fanteria ungherese, i fucilieri imperiali tirolesi, la fanteria bosniaca, gli honvéd appiedati ungheresi, gli   In tedesco nel testo: «Squadra».

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ussari ungheresi, gli ussari territoriali, i cacciatori a cavallo, i dragoni, gli ulani, gli artiglieri, le salmerie, gli zappatori, la sanità, la marina. Capite? Ed il Belgio, invece? La prima e la seconda schiera dell’esercito costituiscono l’armata operativa, la terza presta servizio nelle retrovie…» Il capitano Spiro dette un altro pugno sul tavolo. «Le truppe territoriali svolgono il loro servizio nel paese in tempo di pace». Un giovane ufficiale che sedeva accanto cercava di dimostrare al colonnello la propria durezza militare e, parlando a voce assai alta, diceva al suo vicino: «I tubercolotici bisogna mandare al fronte, a loro fa bene, e poi è meglio che cadano i malati piuttosto che i sani». Il colonnello sorrideva, ma tutt’a un tratto si rannuvolò, e, rivolgendosi al maggior Wenzl, disse: «Mi sorprende il fatto che il tenente Lukáš ci eviti; da quando è arrivato non è venuto neppure una volta con noi». «Quello sta componendo madrigali», intervenne con voce beffarda il capitano Ságner, «appena è arrivato s’è innamorato della moglie dell’ingegner Schreiter, che ha conosciuto a teatro». Il colonnello, accigliato, guardò davanti a sé: «È vero che sa cantare gli stornelli?» «Già alla scuola ufficiali ci spassava molto con gli stornelli», rispose il capitano Ságner, «e sa certe barzellette che è un piacere starlo a sentire. Non so proprio perché eviti la nostra compagnia». Il colonnello scosse la testa con aria triste: «Oggigiorno in mezzo a noi non c’è più l’antico spirito di cameratismo. Prima, mi ricordo, al circolo ufficiali ciascuno di noi cercava di fare qualcosa per divertire i compagni. Uno, rammento, un certo tenente Dankl, si spogliava nudo, si stendeva sul pavimento, e si metteva nel sedere una coda di aringa per farci l’imitazione della sirena. Un altro, il sottotenente Schleisner, sapeva appuntire le orecchie e nitrire come uno stallone, ed inoltre imitava i miagolii del gatto ed il ronzio del calabrone. Mi ricordo anche del capitano Skóday, il quale, ogni volta che glielo chiedevamo, ci portava al circolo certe ragazze, erano tre sorelle, e le aveva ammaestrate come cani. Le faceva salire su un tavolo, e quelle cominciavano a denudarsi davanti a noi a suon di musica. Aveva una piccola bacchetta, e bisogna francamente riconoscere che era un eccellente direttore d’orchestra. E quante ne combinava con quelle ragazze sull’ottomana! Una volta fece mettere in mezzo alla sala una vasca d’acqua calda e noi, uno dopo l’altro, 334

andammo a fare il bagno con quelle fanciulle mentre lui ci scattava fotografie». Nel rinnovellare questi ricordi il colonnello Schröder sorrideva beato. «E che giochetti facevamo in quella vasca!» soggiunse schioccando la lingua in maniera ributtante ed agitandosi sopra la seggiola, «al giorno d’oggi invece? Ci si diverte più, ormai? Non si fa vivo neppure quello stornellatore. E gli ufficiali più giovani non sanno neanche bere. Non è ancora mezzanotte, ed eccone già cinque, guardateli, ubriachi attorno al tavolo. Ai tempi miei si stava a gozzovigliare per due giorni di fila, e quanto più bevevamo tanto più ci sentivamo freschi, ed ingurgitavamo senza mai smettere birra, vino e liquori. Oggidì non c’è più il vero spirito militare. Solo il diavolo sa perché le cose stiano così. Non c’è più spiritosaggine, soltanto vane ciance a non finire. Vi basti sentire quel che vanno dicendo laggiù a proposito dell’America». All’altra estremità del tavolo si sentiva qualcuno sentenziare con voce grave: «L’America non può scendere in guerra. Americani ed inglesi sono ai ferri corti. E poi l’America non è preparata ad un conflitto». Il colonnello Schröder sospirò: «Ecco le ciarle degli ufficiali della riserva! Proprio il diavolo doveva metterci la coda per cacciarceli tra i piedi. Un tizio come quello ancora ieri faceva lo scribacchino in una banca, oppure preparava pasticcini e vendeva spezie, cannella e lucido per scarpe, o ancora raccontava ai bambini in una scuola come la fame spinga i lupi fuori dai boschi, ed oggi vorrebbe paragonarsi agli ufficiali in servizio permanente effettivo, pretenderebbe di capire ogni cosa ed in ogni cosa vorrebbe metter bocca. E se pure ci capita di avere nella nostra cerchia un ufficiale in servizio permanente effettivo qual è il tenente Lukáš, ecco che il signor tenente non si degna di stare insieme con noi». Il colonnello Schröder ritornò in caserma di umor nero, e, quando si destò al mattino, il suo umore peggiorò ancora, perché nel giornale che scorse stando a letto vide ricorrere più volte, tra le notizie dai campi di battaglia, una frase secondo la quale le nostre truppe erano state trasferite a posizioni già precedentemente approntate. Erano quelle giornate gloriose delle armate austriache, e somigliavano come due gocce d’acqua ai giorni di Šabac.96 96  Città della Serbia sul fiume Sava, che le truppe austriache presero e persero per ben tre volte tra l’agosto ed il novembre del 1914.

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Fu sotto l’impressione di quelle notizie che, alle dieci di mattina, il colonnello Schröder si accinse a compiere l’operazione che forse non a torto il volontario con ferma annuale aveva definito il giudizio universale. Sc’vèik ed il suo compagno di prigione stavano nel cortile in attesa del colonnello. Con loro c’erano già i sottufficiali, l’ufficiale di picchetto, l’aiutante del reggimento ed il sergente dell’ufficio reggimentale con gli incartamenti concernenti i rei sui quali incombeva la scure della giustizia, il Regimentsrapport. Alla fine comparve il colonnello rannuvolato in compagnia del capitano Ságner, direttore della scuola per i volontari con ferma annuale, battendosi nervosamente col frustino i gambali degli stivaloni. Ascoltato il rapporto, girò più volte, in un silenzio di tomba, attorno a Sc’vèik ed al volontario con ferma annuale, i quali eseguivano i «reschtschaut» oppure il «linksschaut» 97 a seconda che il colonnello sbucasse fuori da un lato oppure dall’altro. Eseguivano i movimenti con insolita solerzia, tanto che i loro colli avrebbero potuto anche storcersi, dato che la cosa andò avanti per un bel pezzo. Alla fine il colonnello si fermò davanti al volontario con ferma annuale, il quale si presentò: «Volontario con ferma annuale…» «Lo so!» fece bruscamente il colonnello, «il più scellerato di tutti i volontari. Cosa fate nella vita civile? Studiate filosofia classica? Allora un ubriacone di intellettuale…» «Signor capitano», si rivolse poi a Ságner, «faccia venire qui tutti i partecipanti al corso per volontari con ferma annuale». «Si sa», riprese quindi apostrofando di nuovo il compagno di Sc’vèik, «vossignoria è uno studente di filosofia classica, ed uno come me deve sporcarsi le mani proprio con un tipo come voi. Kehrt etichi Lo sapevo. Le falde del cappotto in disordine, come se foste stato ora ora con una sgualdrina oppure a poltrire in un bordello. Ma adesso ci penserò io a sistemarvi, pezzo di burattino!» Fu a questo punto che il corso dei volontari con ferma annuale fece il suo ingresso nel cortile. «In quadrato!» ordinò il colonnello. Gli allievi si strinsero in file compatte attorno ai due imputati ed al colonnello. «Guardate quest’uomo!» esclamò il colonnello puntando il frustino contro il volontario, «a forza di bere ha mandato   In tedesco nel testo: «Attenti a destri« «Attenti a sinistri«

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a carte quarantotto il vostro onore di volontari con ferma annuale, che siete coloro in mezzo ai quali debbono essere istruiti i quadri di normali ufficiali destinati a guidare le truppe verso la gloria sui campi di battaglia. Ma verso quali obiettivi sarebbe capace di guidare i propri uomini questa spugna? Da un’osteria all’altra. Farebbe fuori alle sue truppe tutto il rhum della razione per scolarselo lui. Potete dire qualcosa in vostra difesa? No che non potete. Guardatelo, non riesce a dire nulla neanche per difendere se stesso, e da borghese studia la filosofia classica. È davvero un caso classico». Il colonnello pronunciò le ultime parole con studiata lentezza e poi sputò: «Un filosofo classico che di notte, ubriaco fradicio, si mette a dare scappellotti agli ufficiali facendo cadere loro il cappello per terra. Mensch! 98 E meno male che si trattava appena di uno di questi ufficialucoli di artiglieria». In quest’ultima frase era concentrato tutto il rancore del novantunesimo reggimento contro l’artiglieria di Budějovice. Guai a quell’artigliere che, di notte, capitava tra le grinfie della ronda del reggimento, e viceversa. Un rancore terribile, implacabile, una specie di taglione, di vendetta del sangue, ereditato da una classe all’altra, accompagnato, in entrambe le parti contrapposte, da raccontini tradizionali, nei quali si narrava in quale maniera i fanti avessero buttato nella Moldava gli artiglieri o viceversa, oppure come se le fossero date di santa ragione al «Port-Arthur», «Alla rosa» e negli altri numerosi luoghi di delizie della metropoli della Boemia meridionale. «Ciononostante», proseguì il colonnello, «un atto come questo deve essere punito in un modo come nessuno ricorda, questo mascalzone deve essere espulso dalla scuola per volontari con ferma annuale, moralmente annientato. Ne abbiamo più che troppi di simili intellettuali nell’esercito. Regimentskanzlei !» 99 Il sergente dell’ufficio del reggimento si avvicinò con aria grave portando gli incartamenti e la matita. Regnava lo stesso silenzio che si nota in un’aula di tribunale, mentre viene giudicato un omicida, quando il presidente annuncia: «L’eccellentissima corte ha deliberato…» E fu proprio con una voce altrettanto solenne che il colonnello annunciò: «Il volontario con ferma annuale Marek viene condannato alla seguente pena: tre settimane di   In tedesco nel testo: «(Caro il mio) uomo!»   In tedesco nel testo: «Ufficio del reggimento».

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verschärft e, dopo aver scontato la condanna, verrà mandato in cucina a sbucciare patate». Volgendosi poi verso gli allievi del corso per volontari con ferma annuale, il colonnello impartì l’ordine di assumere la formazione di marcia. Si poté sentire come si disponevano rapidamente in fila per quattro, dopo di che se ne andarono via, mentre il colonnello faceva osservare al capitano Ságner che non marciavano affatto bene, ragion per cui nel pomeriggio avrebbero dovuto fare nuovamente esercitazioni nel cortile. «Quando camminano debbono fare il fragore di un tuono, signor capitano. Ah, ancora una cosa. Stavo quasi per dimenticarmene. Dica loro che l’intero corso per volontari con ferma annuale resterà consegnato in caserma per cinque giorni, affinché non abbiano a dimenticare questo mascalzone di Marek, loro ex collega». Quel mascalzone di Marek, intanto, se ne stava accanto a Sc’vèik, contento come una pasqua. Meglio di così non gli poteva andare. È decisamente meglio starsene in cucina a sbucciare le patate, a fare gnocchi deformi e grossi come uova, a rosicchiarsi qualche osso, piuttosto che dover gridare con quanto fiato si ha in gola, sotto l’uragano del fuoco nemico: «Einzelnabfallen! Bajonett auf ! » 100 Dopo aver lasciato il capitano Ságner, il colonnello Schröder venne a fermarsi davanti a Sc’vèik e si mise a squadrarlo attentamente. Lo stato d’animo di Sc’vèik era in quel momento rappresentato dalla sua faccia di luna piena, illuminata da un sorriso, con le grandi orecchie che spuntavano di sotto il berretto ben calcato sulla testa. L’insieme dava l’impressione di una assoluta tranquillità, propria di chi fosse completamente convinto di non aver commesso niente di male. I suoi occhi sembravano chiedere: «Scusi, ho fatto forse qualcosa?» I suoi occhi dicevano: «Scusi, è forse colpa mia?» Il colonnello, dal canto suo, condensò i risultati della sua analisi nella domanda che rivolse al sergente dell’ufficio del reggimento: «Scemo?» A questo punto il colonnello vide aprirsi la bocca di quel viso bonaccione che gli stava davanti: «Faccio rispettosamente notare, signor Oberst,101 che sono scemo», rispose Sc’vèik prevenendo il sergente. Il colonnello Schröder fece un cenno con la testa all’aiutante e si appartò con lui. Poi fece venire il sergente e   In tedesco nel testo: «Pronti uno dietro l’altro! Baionetta in canna!»   In tedesco nel testo: «Colonnello».

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si misero ad esaminare l’incartamento riguardante Sc’vèik. «Aha», disse il colonnello Schröder, «si tratta dunque di quell’attendente del tenente Lukáš che, secondo il rapporto da lui presentato, si è smarrito a Tábor. Io ritengo che i signori ufficiali debbano pensare da soli ad educarsi i propri attendenti. Dal momento che il signor tenente Lukáš si è scelto come attendente un simile notorio cretino, se la sbrighi lui. Ha abbastanza tempo libero per insegnargli le buone maniere, dal momento che non va mai in nessun posto. Anche lei, lo ha mai visto nella nostra comitiva? Vede, dunque! Significa pertanto che ha abbastanza tempo libero per scozzonare il proprio attendente». Detto questo, il colonnello Schröder si avvicinò a Sc’vèik e, guardando il suo volto bonario, emise la sentenza: «Stupido bestione, farete tre giorni di verschärft, e, quando avrete scontato la pena, vi presenterete al tenente Lukáš». Fu così che Sc’vèik si ritrovò nella prigione del reggimento col volontario con ferma annuale, mentre il tenente Lukáš ebbe davvero motivo di rallegrarsi quando il colonnello Schröder lo mandò a chiamare per dirgli: «Signor tenente, circa una settimana fa, dopo il suo arrivo al reggimento, lei mi ha presentato un rapporto nel quale chiedeva 339

che le venisse assegnato un attendente, dato che il suo si era smarrito nella, stazione di Tábor. Dal momento però che è tornato…» «Ma, signor colonnello…» fece con voce implorante il tenente Lukáš. «Ho deciso», continuò con enfasi il colonnello, «di metterlo al fresco per tre giorni, dopo di che lo invierò nuovamente a lei…» Il tenente Lukáš uscì barcollando dall’ufficio del reggimento. Durante i tre giorni che Sc’vèik trascorse in compagnia del volontario con ferma annuale Marek se la spassò ben bene. Ogni sera i due amici organizzavano sui loro pancacci manifestazioni patriottiche. Quando scendeva la sera, dalla prigione si sentiva cantare: «Conservaci, Signore, il nostro imperatore» e «Prinz Eugen, der edle Ritter». 102 Canticchiavano anche diverse altre canzoni militari, e, quando arrivava il carceriere, gli davano il benvenuto con queste parole: Il vecchio carceriere, quello non può morire, se proprio lo vuol prendere, Satana ha da venire. Col carro arriverà, e giù lo sbatterà nell’inferno i diavoletti ci faranno un focherello…

Sul tavolaccio, poi, il volontario con ferma annuale tracciò il volto del carceriere e sotto la sua figura scrisse il testo di una antica canzoncina: Andavo a Praga a prender sanguinaccio, ma per la strada incontrai un pagliaccio, non era un pagliaccio, era il carceriere, se non fuggivo me la faceva vedere.

E mentre tutti e due sfidavano in questo modo il carceriere come quando a Siviglia il toro andaluso viene eccitato con un drappo rosso, il tenente Lukáš attendeva con ansia la ricomparsa di Sc’vèik, che gli si sarebbe presentato per annunciargli che riprendeva il servizio. 102   In tedesco nel testo: «Il principe Eugenio, nobile cavaliere». Così inizia un’antica canzone militare austriaca.

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3 Sc’vèik a Királyhíd

Il novantunesimo reggimento si trasferiva a Bruck sulla Leitha-Királyhíd.1 Proprio quando mancavano tre ore perché venisse rimesso in libertà, dopo tre giorni di prigione, Sc’vèik venne condotto insieme col volontario con ferma annuale al corpo di guardia principale e poi avviato alla stazione ferroviaria con una scorta di soldati. «Si sapeva già da parecchio tempo», gli disse cammin facendo il volontario con ferma annuale, «che ci avrebbero mandati in Ungheria. È lì che formeranno i battaglioni di linea, i soldati si eserciteranno ai tiri, si azzufferanno con gli ungheresi, e poi, tutti allegri e contenti, partiremo ver1   Località di frontiera tra Austria ed Ungheria. Da una parte c’era l’austriaco Bruck an der Leitha (Ponte sulla Leitha), dall’altra l’ungherese Királyhíd (Ponte del re)

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so i Carpazi. Qui a Budějovice verrà una guarnigione ungherese ed in questa maniera si mischieranno le razze. C’è già una teoria che dice che violentare le ragazze di una nazionalità diversa dalla propria è il migliore rimedio contro la degenerazione. L’hanno fatto gli svedesi e gli spagnuoli durante la guerra dei trent’anni, i francesi al tempo di Napoleone, ed adesso, nella regione di Budějovice, lo faranno gli ungheresi, senza, naturalmente, che siano necessari volgari stupri. Tutto si appianerà col passare del tempo. Si tratterà di un puro e semplice scambio. Un soldato ceco andrà a dormire con una ragazza ungherese e la povera fanciulla ceca stringerà tra le sue braccia un honvéd, così che tra secoli e secoli gli antropologi avranno un bel da fare per spiegare come mai tra la popolazione sulle sponde della Malše si troveranno individui con zigomi così pronunciati». «Questa faccenda degli accoppiamenti incrociati», osservò Sc’vèik, «è davvero una cosa interessante. A Praga c’è un certo Kristián, un cameriere negro, il cui padre era un re abissino il quale si esibiva a Praga, a Štvanice,2 in un circo. Di lui si innamorò una maestra che scriveva sulla Lada3 poesie ispirate dai pastori e dai ruscelli nel bosco; ebbene, si accompagnò con lui in un albergo e fornicarono, come si dice nella Sacra Scrittura, poi si meravigliò da non dire quando le nacque un bambino completamente bianco. Già, ma due settimane dopo il bimbo cominciò a scurirsi. Scurisci che ti riscurisci, dopo un mese prese a diventar nero. Nel giro di mezzo anno era tutto nero come suo padre, il re abissino. Lo portò in una clinica per malattie della pelle, affinché trovassero il sistema per stingerlo, ma lì le dissero che si trattava proprio di pelle nera da africano e che non c’era niente da fare. Andò a finire che la poveretta ne uscì pazza, cominciò a chiedere a varie riviste cosa si potesse fare per scolorire i negri, ed alla fine dovettero portarla alle Kateřinky,4 mentre il moretto fu ricoverato in un orfanotrofio, dove ci si fecero le matte risate. Poi imparò a fare il cameriere e prese a ballare nei caffè concerto. Oggi nascono da lui con grande successo dei mulatti cechi che non hanno la pelle scura come la sua. Uno studente di medicina che frequentava il ‘Calice’ una volta ci spiegò che però la faccenda non è così semplice. Un sangue misto genera a sua volta altri sangue misti i quali non sono af2   Nell’isola di Štvanice, in mezzo alla Moldava, si trovavano solitamente circhi e baracconi di attrazioni. 3   Rivista femminile. 4   «Caterinette» è il nome di una clinica per alienati mentali che si trovava presso la chiesa di Santa Caterina, in via Kateřinská, a Praga.

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fatto riconoscibili dai bianchi. Eppure tutt’a un tratto, tra i discendenti, in una generazione può apparire nuovamente un negro. Vi figurate che disastro? Immaginate di sposarvi con una ragazza. La birbantella è completamente rosea, ed ecco che, di punto in bianco, vi partorisce un negretto. E se, nove mesi prima, è andata senza di voi al ‘Varieté’5 a vedere qualche incontro di lotta cui partecipava un negro penso che, malgrado tutto, la cosa vi metterebbe una pulce in un orecchio». «Il caso di questo vostro negro Kristián», disse il volontario con ferma annuale, «va esaminato anche da un punto di vista bellico. Supponiamo che il negro sia stato chiamato alle armi. È un praghese, pertanto sarebbe andato a finire nel ventottesimo reggimento. Avete sicuramente sentito dire che il ventottesimo è passato ai russi. Chi sa come si sarebbero meravigliati i russi se avessero catturato anche il negro Kristián. I loro giornali si sarebbero messi sicuramente a scrivere che l’Austria fa scendere in campo le sue truppe coloniali, che non possiede affatto, che l’Austria deve ormai ricorrere alle proprie riserve negre». «Eppure», interruppe Sc’vèik, «si diceva che invece l’Austria le colonie ce le ha, lassù, verso il nord. C’è una certa terra dell’imperatore Francesco Giuseppe…» «Piantatela, ragazzi», disse uno dei soldati della scorta, «oggigiorno è assai pericoloso parlare di una qualche terra dell’imperatore Francesco Giuseppe. Non fate nomi e tanto meglio sarà per voi…» «E allora guardate la carta geografica», intervenne il volontario con ferma annuale, «e vedrete che in realtà esiste una terra del nostro dilettissimo sovrano l’imperatore Francesco Giuseppe. Secondo i dati statistici non c’è che ghiaccio, il quale viene esportato di là mediante dei rompighiaccio che appartengono alle ghiacciaie di Praga. Questa industria del gelo è straordinariamente apprezzata anche dagli stranieri perché si tratta di un’impresa redditizia, tuttavia è assai pericolosa. Il pericolo maggiore si incontra nel trasportare il ghiaccio dalla terra dell’imperatore Francesco Giuseppe attraverso il circolo polare. Ve lo immaginate?» Il soldato borbottò qualcosa che non si capì, ma il caporale che guidava la scorta si avvicinò per ascoltare il volontario con ferma annuale, il quale continuò a spiegare con sussiego.: «Questa unica colonia austriaca può rifornire di 5   Nome di un locale nel rione praghese di Karlín in cui, al tempo dell’Austria, c’era un circo stabile con programmi variati. Oggi nell’edificio in questione si trova un teatro.

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ghiaccio l’intera Europa ed è pertanto un fattore economico di grande rilievo. La colonizzazione, tuttavia, procede lentamente, non solo perché i colonizzatori non sono molto numerosi, ma anche perché quelli che ci vanno restano facilmente assiderati. Tuttavia, mediante opportune modifiche alle condizioni climatiche, cui sono grandemente interessati il ministero del commercio e quello degli affari esteri, si spera che potranno essere convenientemente sfruttate grandi estensioni di ghiacciai. Costruendo alcuni alberghi, inoltre, si potranno attirare intere schiere di turisti. Si capisce che occorrerà anche dare una opportuna sistemazione ai sentieri ed alle strade tra i blocchi di ghiaccio e disporre i segni turistici sul ghiacciaio. L’unica seria difficoltà sono gli eschimesi, i quali ostacolano il lavoro delle nostre autorità locali… «Quei ragazzacci non vogliono imparare il tedesco», continuò il volontario con ferma annuale, mentre il caporale lo ascoltava con grande interesse. Era questi un uomo in servizio attivo, da borghese aveva fatto lo stalliere, e, stupido e screanzato, beveva tutte le cose delle quali non aveva cognizione; il suo ideale era prestare servizio per la «minestra».6 «Il ministero dell’istruzione, signor caporale, ha costruito per loro con grandi spese e con grandi sacrifici, tanto che sono rimasti assiderati pure cinque addetti…» «I muratori si sono salvati», lo interruppe Sc’vèik, «perché si sono scaldati fumando la pipa». «Non tutti», ribatté il volontario con ferma annuale, «a due di loro è capitato un incidente: si sono scordati di tirare e così le loro pipe si sono spente, pertanto hanno dovuto seppellirli in mezzo ai ghiacci. – Alla fine, tuttavia, la scuola è stata edificata con mattoni di ghiaccio e con cemento armato, materiali che insieme reggono assai bene, ma gli eschimesi hanno acceso fuochi tutto intorno all’edificio utilizzando il legname delle navi mercantili rimaste bloccate lassù ed hanno ottenuto quel che volevano. Il ghiaccio sul quale era stata costruita la scuola si è sciolto e l’intera costruzione è calata in fondo al mare insieme col direttore e col funzionario del governo che il giorno seguente avrebbe dovuto assistere alla solenne inaugurazione dell’istituto. S’è potuto soltanto sentire il rappresentante del governo, il quale, quando aveva già l’acqua alla gola, ha esclamato: ‘Gott strafe England’ 7! Adesso, probabilmente, ci spedi6   Nel gergo della caserma questa espressione serviva per indicare i sottufficiali «firmaiuoli». 7   In tedesco nel testo: «Dio punisca l’Inghilterra!»

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ranno delle truppe, affinché mettano giudizio agli eschimesi. Si capisce che la guerra sarà dura. Più di ogni altra cosa i nostri soldati avranno dei guai con gli orsi polari ammaestrati». «Ci mancava giusto questa», commentò con tono sentenzioso il caporale, «già ce ne erano poche di invenzioni belliche di ogni sorta! Prendiamo per esempio la maschera antigas per avvelenare la gente. Te la metti e già sei bell’e avvelenato, come ci hanno spiegato alla Unteroffizierschule».8 «Ve lo dicono soltanto per spaventarvi», intervenne Sc’vèik, «i soldati non debbono aver paura di niente. Anche se, durante un combattimento, uno cadesse in una latrina, non dovrebbe fare altro che darsi una leccata e continuare ad andare al Gefecht 9 quanto ai gas venefici, ognuno deve esserci abituato dalla caserma, quando c’è stata la distribuzione del pane di munizione e dei piselli con l’orzo brillato. Ma adesso dicono che i russi hanno inventato un’arma contro i graduati…» «Saranno probabilmente delle scariche elettriche», completò la notizia il volontario con ferma annuale, «fanno contatto con le stellette del colletto e queste esplodono perché sono di celluloide. Sarà un altro grande macello». Benché da borghese il caporale avesse avuto a che fare soltanto con buoi, alla fine, forse, dovette capire che si prendevano giuoco di lui, cosìcché li piantò e si recò in testa alla pattuglia. D’altro canto si stavano avvicinando alla stazione ferroviaria, dove gli abitanti di České Budějovice davano l’addio al loro reggimento. La manifestazione non aveva carattere ufficiale, tuttavia la piazza prospiciente la stazione s’era riempita di cittadini che aspettavano le truppe in partenza. L’attenzione di Sc’vèik si concentrò sulle due ali di popolo. Come sempre succede, anche allora accadde che i soldati bravi seguivano coloro che venivano tradotti al treno circondati dalle baionette. I soldati bravi, poi, sarebbero stati ammassati nei carri bestiame, mentre Sc’vèik col volontario sarebbero saliti sullo speciale vagone per gli arrestati che veniva sempre agganciato in ogni convoglio subito dopo le vetture riservate allo stato maggiore. In questa carrozza per arrestati c’era sempre posto in abbondanza. Sc’vèik non poté trattenersi dall’esclamare rivolto verso la gente che faceva ala il suo «Salve!» agitando contemporaneamente il berretto. Il gesto ebbe un effetto così sug  In tedesco nel testo: «Scuola allievi sottufficiali».   In tedesco nel testo: «Combattimento».

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gestivo che la folla cominciò a ricambiarlo rumorosamente, ed i «Salve» presero a riecheggiare di bocca in bocca e rimbombarono davanti alla stazione in lontananza, dove si cominciò a dire: «Ecco che vengono!» Il caporale della scorta si sentì impacciatissimo e disse bruscamente a Sc’vèik di tener chiuso il becco. Ma le esclamazioni dilagavano come valanghe. I gendarmi premevano contro le due ali di folla per sgombrare la strada alla scorta ma la gente continuava a gridare: «Salve!» mentre venivano agitati berretti e cappelli. Era una manifestazione coi fiocchi. Dall’albergo di fronte alla stazione alcune dame affacciate alle finestre agitavano fazzoletti e strillavano «Heil!» 10 ai «salve» si mescolavano degli «heil» anche in mezzo alla folla, ed un fanatico approfittò dell’occasione per gridare: «Nieder mit den Serben», 11 ma gli fecero lo sgambetto e lo pestarono un po’ in una ressa tutt’altro che casuale. Come una scintilla elettrica continuava a propagarsi l’esclamazione: «Ecco che vengono!» Il drappello proseguiva la sua marcia, e Sc’vèik, in mezzo alle baionette, agitava amabilmente la mano verso i cittadini ammassati, mentre il volontario con ferma annuale salutava militarmente con aria seria. Così entrarono dentro la stazione e si diressero verso la tradotta militare già pronta, proprio nel momento in cui la banda dei fucilieri, il cui maestro era non poco confuso dall’inattesa manifestazione, stava per attaccare il «Conservaci, Signore, il nostro imperatore». Per fortuna, però, nell’istante giusto comparve con la sua bombetta nera padre Lacina, cappellano militare superiore della settima divisione di cavalleria, il quale cercò di ristabilire l’ordine. La storia di questo padre era assai semplice. Era arrivato a Budějovice la sera prima, lui che era il terrore di tutte le mense ufficiali, uno sbafatore sfondato, un insaziabile mangiatore, e, come per caso, era capitato per prendere parte al piccolo banchetto organizzato per gli ufficiali del reggimento in partenza. Era uno che mangiava e beveva per dieci persone, e poi, più o meno allegretto, se ne andava in qualche mensa ufficiali cercando di strappare ai cuochi qualche avanzo. Ingoiava piatti interi con intingoli e gnocchi, ripuliva gli ossi con la perizia di un felino ed infine si presentava in cucina per rimediare un po’ di rhum che trangugiava fino a farsi venire i rutti, per poi ritornare alla   In tedesco nel testo: «Evviva!»   In tedesco nel testo: «Abbasso i serbi!»

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cena d’addio dove si rimetteva a trincare a tutto spiano. In operazioni di questo genere aveva ricche esperienze, e gli ufficiali della settima divisione di cavalleria finivano sempre per pagare le sue malefatte. Quella mattina gli era venuta l’idea di dover mettere ordine alla partenza dei primi reparti del reggimento, e per tale motivo aveva cominciato ad andare avanti ed indietro per tutta la lunghezza delle ali di popolo schierate e s’era dato da fare alla stazione in maniera tale che gli ufficiali cui incombeva il compito di dirigere le operazioni necessarie per la partenza del reggimento, per evitarlo, s’erano andati a rinchiudere nell’ufficio del capostazione. Così comparve davanti alla stazione proprio nel momento giusto per fermare la bacchetta del maestro dei fucilieri che era impaziente di dare il via alla sua banda per il «Conservaci, Signore, il nostro imperatore». «Alt!» disse, «non ancora, solo quando darò il segnale. Adesso riposo finché non torno». Entrò poi in stazione e si diresse verso la pattuglia di scorta che s’era fermata quando lo aveva sentito esclamare: «Alt!» «Dove siete diretti?» chiese con aria severa al caporale, il quale non sapeva che pesci pigliare nella nuova situazione che s’era creata. Al posto suo rispose con tono bonario Sc’vèik: «Ci conducono a Bruck; se lo desidera, signor Oberfeldkurat,12 può venire insieme con noi». «Ed allora ci vengo», dichiarò con aria solenne padre Lacina, il quale poi, rivolgendosi alla scorta, aggiunse: «Chi lo dice che non posso andarci? Vorwärts, Marsch!» 13 Quando il cappellano militare superiore fu entrato nel vagone degli arrestati, si distese su una panca e Sc’vèik, col suo solito buon cuore, si tolse il cappotto e lo mise sotto la testa di padre Lacina, mentre il volontario con ferma annuale faceva sommessamente notare al caporale più che mai spaventato: «Gli Oberfeldkurati vanno assistiti». Padre Lacina, comodamente disteso sulla panca, cominciò ad ammaestrare i suoi ascoltatori: «Il ragù coi funghi, cari signori, viene tanto più buono quanti più funghi ci si mettono, ma i funghi debbono essere anzitutto soffritti con delle cipolline, e soltanto dopo ci vanno aggiunte foglie di alloro ed altre cipolle…» «La cipolla l’ha già nominata prima», osservò il volontario con ferma annuale, mentre il caporale, che in padre   In tedesco nel testo: «Cappellano militare superiore».   In tedesco nel testo: «Avanti, marsc!»

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Ladna, anche se ubriaco, scorgeva pur sempre un suo superiore, gli indirizzava un’occhiata piena di disperazione. E la situazione del caporale era davvero disperata. «Già», confermò Sc’vèik, «il signor Oberfeldkurat ha pienamente ragione. Quanta più cipolla ci si mette, tanto meglio è. A Pakoměřice c’era un birraio il quale metteva la cipolla pure nella birra, perché, a quanto si afferma, la cipolla fa venire sete. La cipolla, d’altronde, serve per un mucchio di cose. La cipolla arrosto viene adoperata contro la varicella…» Padre Lacina, nel frattempo, sempre disteso sulla sua panca, parlava a mezza voce, come trasognato: «Tutto dipende dalle spezie, dalle spezie che ci si mettono e dalla quantità che si adopera. Niente deve essere troppo pepato e condito con troppo peperoncino…» Parlava sempre più lentamente e con un tono sempre più basso: «Non si de-ve mette-re trop-po ga-ro-fa-no, troppo li-mo-ne, trop-pi o-do-ri, troppa no-ce mo-sca-ta…» Alla fine non partecipò più alla disquisizione perché si addormentò, e prese a russare, o, quanto meno, a fischiare attraverso il naso. Il caporale se lo contemplava allibito, mentre gli uomini della scorta ridacchiavano in silenzio sui loro banchi. «Non si sveglierà tanto presto», osservò Sc’vèik dopo un po’, «è ubriaco fradicio». «C’è poco da fare», continuò Sc’vèik, benché il caporale si sbracciasse per fargli segno di tacere, «non è una cosa che possa essere risolta in quattro e quattr’otto, è ubriaco proprio come si deve. Questo ha il grado di capitano. Ognuno di questi Feldkurati, inferiore o superiore che sia, ha per grazia del Signore questa capacità, che ogni volta che se ne presenta l’occasione riesce ad abboffarsi in una maniera incredibile. Io sono stato anche attendente del Feldkurat Katz, e quello sarebbe stato capace di bersi pure il naso in mezzo agli occhi. Questo che fa costui non è niente rispetto a quello che sapeva combinare quell’altro. Per bere ci siamo venduti l’ostensorio, e forse ci saremmo bevuti pure dominiddio, se avessimo trovato qualcuno disposto a darci qualche soldo in cambio». Sc’vèik si accostò a padre Lacina, lo rigirò e disse con aria da competente: «Questo starà a russare fino a Bruck!» Tornò poi al posto suo, accompagnato da un’occhiata disperata del misero caporale, il quale osservò: «Sarà forse meglio che vada a dirlo a qualcuno». «Neanche a pensarci», disse il volontario con ferma 348

annuale, «voi siete l’Eskortenkommandant.14 Voi non potete allontanarvi da noi. Inoltre, secondo il regolamento, non siete autorizzato a far allontanare nessun uomo della scorta perché vada a riferire il fatto finché non avrete ricevuto un altro di rimpiazzo. Come vedete, è una bella   In tedesco nel testo: «Comandante della scorta».

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gatta da pelare. Potreste almeno pensare di fare venire qui qualcuno sparando un colpo per dare il segnale, ma anche questo non è possibile. Qui, in effetti, non accade niente di anormale. D’altro canto, però, c’è pure una disposizione in base alla quale nel vagone degli arrestati non debbono viaggiare estranei, al di fuori degli arrestati stessi e della scorta che li accompagna. Severamente vietato l’accesso ai non addetti ai lavori. Se poi voleste far scomparire le tracce della vostra infrazione lasciando cadere dal treno durante la corsa il Feldkurat superiore senza dare sull’occhio, neppure questo si può fare, dato che qui ci sono testimoni i quali hanno visto che lo avete lasciato salire sul vagone, dove non ha alcun motivo per stare. È una degradazione sicura, signor caporale». In preda ad una grande confusione, il caporale farfugliò che non era stato lui a far salire sulla vettura il cappellano militare superiore, che lui aveva soltanto acconsentito, e che, alla fin fine, si trattava pur sempre di un superiore. «Qui l’unico superiore siete voi», ribatté con enfasi il volontario con ferma annuale, cui venne a dare man forte Sc’vèik: «Se pure avesse voluto venire con noi sua maestà l’imperatore, non avreste dovuto permetterlo. È come quando si fa la sentinella, ad una recluta sempliciotta si avvicina l’ufficiale di picchetto e le chiede di andargli a comprare le sigarette, e quel poveretto, magari, domanda ancora di quale marca le vuole. Per cose di questo genere c’è la Festung».15 Il caporale provò ad osservare senza essere molto convinto che, dopo tutto, era stato Sc’vèik a proporre per primo al Feldkurat di venire con loro. «Io me lo posso permettere, signor caporale», rispose Sc’vèik, «perché sono scemo, ma nessuno si sarebbe aspettato una simile cosa da voi», «È da molto tempo che siete in servizio attivo?» chiese al caporale come di passaggio il volontario con ferma annuale. «Sono già tre anni. Adesso dovrei avere la promozione a sergente». «Su questo ci potete mettere sopra una bella croce», fece cinicamente il volontario con ferma annuale, «come vi ho già detto, per faccende di questo genere ci scappa fuori la degradazione». «È esattamente la stessa cosa», intervenne Sc’vèik, «ca15 

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In tedesco nel testo: «Fortezza».

dere da graduato oppure da soldato semplice, però, in verità, stando a quel che si dice, i degradati li spediscono dritti dritti in prima linea». Il cappellano militare superiore si agitò. «Dorme della grossa», dichiarò Sc’vèik dopo aver appurato che tutto era in perfetto ordine, «probabilmente adesso sta sognando di farsi una bella scorpacciata. C’è soltanto il pericolo che si faccia qualcosa addosso. Il mio Feldkurat Katz, quando s’era preso una sbornia, durante il sonno non riusciva a trattenersi. Dovete sapere che una volta…» E Sc’vèik cominciò a narrare le esperienze che aveva fatto col cappellano militare Otto Katz in maniera così particolareggiata ed attraente che non si accorsero neppure quando il treno si mosse. Soltanto le urla provenienti dai vagoni che stavano dietro interruppero il racconto di Sc’vèik. Era la dodicesima compagnia, nella quale si trovavano soltanto tedeschi della regione di Krumlov e di Kašperské Hory,16 che strillava: «Wann ich kumm, wann ich kumm, wann ich wieda, wieda kumm». 17

Da un altro vagone un cuore infranto strillava verso Budějovice che si allontanava: Und du, mein Schatz, bleibst hier. Holarjoo, holarjoo, holo! 18

Era così terribile quel canto alla maniera dei tirolesi a base di oilolì oilolà e di ululati, che i commilitoni dovettero allontanarlo dalla porta aperta del carro bestiame. «Mi meraviglio», disse al caporale il volontario con ferma annuale, «che l’ispezione non sia ancora venuta qui da noi. Secondo il regolamento avreste dovuto annunciare la nostra presenza al comandante del treno subito alla stazione, invece di perder tempo con un cappellano militare ubriaco». Lo sventurato caporale rimase ostinatamente zitto guardando fisso verso i pali del telegrafo che fuggivano in direzione opposta alla marcia del treno. «Quando penso che non siamo stati annunciati a nes16  Località della Boemia meridionale, rispettivamente a sud ed a nordovest di České Budějovice. 17   In tedesco (dialettale) nel testo: «Quando io torno, quando io torno, / quando io ri, ritorno». 18   In tedesco nel testo: «E tu, mio tesoro, / resti qui. / Holarjoo, holarjoo, holo!»

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suno», proseguì con implacabile malignità il volontario con ferma annuale, «e che alla prossima stazione sicuramente salirà qua sopra il comandante del treno, mi sento ribollire tutto il mio sangue di soldato. Siamo come…» «Come degli zingari», intervenne Sc’vèik, «oppure come dei vagabondi. Mi sembra quasi che abbiamo paura della luce di Dio e che non dobbiamo presentarci in nessun posto, per il timore di essere arrestati». «A parte questo», soggiunse il volontario con ferma annuale, «in base alle disposizioni del 21 novembre 1879 per il trasporto dei militari arrestati mediante ferrovia è necessario attenersi a queste norme: In primo luogo: Il vagone ad essi riservato deve essere fornito di inferriate. Questa è una cosa chiara più del sole, ed infatti qui siamo a posto con la norma. Ci troviamo dietro ad inferriate perfette. Da questo punto di vista, dunque, staremmo tranquilli. In secondo luogo: In esecuzione della imperialregia disposizione del 21 novembre 1879, in ogni vagone riservato ai militari arrestati deve trovarsi una ritirata. Se essa non c’è, la vettura deve essere dotata di un recipiente coperto che possa servire per il soddisfacimento dei bisogni corporali piccoli e grandi degli arrestati e della scorta che li accompagna. Non possiamo certamente asserire che il nostro è un vagone per militari arrestati fornito di ritirata. Per dirla come sta, ci troviamo in uno scompartimento rivestito di tavole, isolati dal resto del mondo. E non c’è neppure quel recipiente…» «Potete fare i vostri bisogni dal finestrino», arrischiò il caporale pieno di disperazione. «Dimenticate», fece Sc’vèik, «che nessun arrestato può avvicinarsi al finestrino». «In terzo luogo, poi», continuò il volontario con ferma annuale, «è necessario procurare un recipiente che contenga acqua potabile. Anche di questo non vi siete dato pensiero. À propos!19 Sapete in quale stazione verrà distribuito il rancio? Non lo sapete, eh? Ero sicuro che non vi eravate informato…» «Vedete dunque, signor caporale», sentenziò Sc’vèik, «che non è affatto uno scherzo accompagnare sul treno gli arrestati. Di noi bisogna aver cura. Non siamo mica comuni soldati, i quali debbono badare da soli a se stessi! Bisogna portarci ogni cosa fin sotto il naso, poiché ci sono disposizioni e paragrafi cui ciascuno deve attenersi, altrimenti non ci sarebbe alcun ordine. ‘Uno che è carcerato è come un bambino in   In francese nel testo: «A proposito».

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fasce,’ soleva dire un noto furfante, ‘bisogna badare che non si prenda un raffreddore, che non abbia ad arrabbiarsi, che sia contento del suo destino, che non debba subire alcun torto, poveretto.’ «Del resto», proseguì Sc’vèik dopo una piccola pausa, guardando amichevolmente il caporale, «quando saranno le undici, vi prego di volermelo dire». Il caporale rivolse a Sc’vèik un’occhiata interrogativa. «Evidentemente, signor caporale, volevate chiedermi perché dovete avvertirmi quando saranno le undici. Il fatto è che dalle undici in poi ho diritto al carro bestiame, signor caporale», disse con tono grave Sc’vèik incalzando poi pieno di esultanza: «Al Regimentsrapport sono stato condannato a tre giorni. Alle undici ho cominciato a scontare la mia pena, ed alle undici di oggi debbo essere rimesso in libertà. Dalle undici in poi qui non ho più niente da fare. Nessun soldato deve essere tenuto in reclusione più del tempo stabilito, poiché nell’esercito la disciplina e l’ordine vanno rispettati, signor caporale». Il caporale, disperato, stentò a riprendersi dopo questo nuovo colpo, ma alla fine obiettò che non aveva ricevuto alcuna carta in merito. «Caro signor caporale», si fece allora avanti il volontario con ferma annuale, «le carte non vanno da sole dal comandante della scorta. Se le montagne non vanno da Maometto, il comandante della scorta deve pensare lui stesso a procurarsi le carte. Qui adesso la situazione sta per cambiare. Nella maniera più assoluta non dovete trattenere nessuno che ha il diritto di essere rilasciato. D’altro canto, secondo le norme vigenti, nessuno deve abbandonare il vagone riservato ai militari arrestati. Non so proprio come farete a trarvi da questa situazione balorda. Più passa il tempo, tanto più la situazione si complica. Adesso sono le dieci e mezzo». Il volontario con ferma annuale rimise il suo orologio nel taschino: «Non vedo l’ora di sapere, signor caporale, che cosa farete tra mezz’ora». «Tra mezz’ora mi spetta il carro bestiame», ripetè Sc’vèik con aria trasognata, al che il caporale gli si rivolse completamente confuso e distrutto: «Se per voi non sarà di disturbo, penso che qui sia molto più comodo che nel carro bestiame. Io ritengo…» Fu interrotto da un’esclamazione del cappellano militare superiore, il quale gridò nel sonno: «Più salsa!» «Dormi, dormi», disse con tono bonario Sc’vèik, accomodandogli sotto la testa il lembo del cappotto che gli era 353

scivolato giù dalla panca, «e possa continuare a sognare un altro bel festino». Il volontario con ferma annuale, dal canto suo, intonò una canzone: Dormi, fanciulla, chiudi gli occhietti, sopra il tuo sonno dio veglierà, dormi, a baciarti verran gli angioletti.

Il caporale, disperato, ormai non reagiva più. Guardava con aria apatica il paesaggio e lasciava che la completa disorganizzazione nel vagone riservato ai militari arrestati imperversasse liberamente. Gli uomini della scorta, sistematisi in mezzo alle tavole, giocavano a schiaffo del soldato, ed alle loro spalle si sentivano rapidi ed innocenti rumori. Quando dette un’occhiata in quella direzione, si accorse che era puntato proprio verso di lui il provocante sedere di un fante. Il caporale sospirò e si voltò nuovamente verso il finestrino. Il volontario con ferma annuale se ne stette a riflettere per un pochetto e poi si rivolse all’afflitto caporale: «Conoscete per caso la rivista Il mondo degli animali? » 20 «A questa rivista», rispose il caporale palesando in maniera evidente la sua letizia per il fatto che la conversazione si stava avviando su argomenti meno sgradevoli, «era abbonato l’oste del mio paese, perché era appassionato per le capre di Saanen,21 le quali, però, gli crepavano una dopo l’altra. Per questo chiedeva consigli alla rivista». «Caro camerata», soggiunse il volontario con ferma annuale, «quello che adesso vi dirò vi dimostrerà in maniera del tutto evidente che nessuno è esente dagli errori! Sono convinto, signori, che voi laggiù smetterete di giocare a schiaffo del soldato, poiché quello che mi accingo a dirvi sarà per voi di estremo interesse, se non altro per il fatto che non capirete molte espressioni tecniche. Vi racconterò la storia de Il mondo degli animali in modo che possiamo dimenticare tutti quanti questi nostri odierni fastidi militareschi. «Come fossi diventato redattore di questa interessantissima rivista, Il mondo degli animali, fu per me stesso, per un certo tempo, un rebus assai complesso, finché non 20   «Il mondo degli animali» («Svět zvířat«) era il titolo di un periodico pubblicato, dal 1897 in poi, da Václav Fuchs, a Praga; Jaroslav Hašek fu per un certo periodo redattore della rivista, così che la storia narrata dal volontario Marek ha una certa rispondenza nella realtà. 21   Cittadina svizzera a sud di Berna.

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mi convinsi che avevo potuto accettare quell’incarico soltanto in un momento di completo squilibrio mentale, nel quale mi aveva precipitato l’affettuosa amicizia per il mio vecchio compagno Hájek,22 che fino ad allora aveva dignitosamente redatto la rivista, ma si innamorò della figlia del proprietario del periodico, il signor Fuchs, il quale lo licenziò su due piedi imponendogli per giunta di trovargli un redattore come si deve. «Come vedete, i rapporti di lavoro, in quel tempo, erano davvero sorprendenti. «Il proprietario della pubblicazione, quando gli venni presentato dal mio amico Hájek, mi accolse assai garbatamente e mi chiese se avessi una qualche nozione circa gli animali; si mostrò poi molto soddisfatto della risposta che gli diedi, quando assicurai che avevo sempre tenuto in grande considerazione gli animali nei quali scorgevo una fase di passaggio verso l’uomo, ponendo poi in rilievo il fatto che, specialmente per quanto riguardava la tutela degli animali, avevo sempre rispettato i loro voti e le loro brame. 22  Ladislav Hájek Domažlický fu amico di Jaroslav Hašek fin dagli anni giovanili; nel 1925 Hájek scrisse un libro: Dai miei ricordi su Jaroslav Hašek, autore del «Buon soldato Švejk» ed eminente umorista ceco.

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Ogni animale non desidera niente altro che esser messo a morte possibilmente in maniera indolore prima di essere mangiato. «Il carpione, fin dalla sua nascita, nutre l’assoluta convinzione che non è bello da parte della massaia sbuzzargli la pancia da vivo, e l’uso di tagliare il collo ai polli è un ripiego consigliato dalla società per la protezione degli animali, la quale vuole evitare che il pollame venga sgozzato da mani inesperte. «Le pose contorte assunte dai ghiozzi quando vengono messi in padella attestano che essi, mentre stanno morendo, protestano perché li si frigge vivi con la margarina. Correre appresso ad un tacchino… «A questo punto il signor Fuchs mi interruppe per chiedermi se avevo cognizioni nel campo degli animali da cortile, dei cani, dei conigli, dell’apicultura, se possedevo notizie su vari argomenti riguardanti il mondo animale, se sapevo ritagliare da riviste straniere illustrazioni da riprodurre, se sapevo tradurre da giornali esteri articoli tecnici sugli animali, se avevo dimestichezza col Brehm23 e se, insieme con lui, avrei saputo scrivere articoli di fondo ispirati dalla vita degli animali con qualche allusione alle feste cattoliche, ai mutamenti del clima durante l’anno, alle corse di cavalli, alle cacce, all’addestramento dei cani poliziotti, alle festività nazionali ed ecclesiastiche. Insomma, volle sapere se possedessi un’idea del carattere del giornale e se avrei saputo scrivere piccoli editoriali al tempo stesso concisi e densi. «Io dichiarai che avevo già riflettuto a lungo sui sistemi più adatti per dare una giusta impostazione alla direzione di una rivista quale era Il mondo degli animali e che sarei stato in grado di trattare degnamente tutte quelle rubriche e tutti gli argomenti citati, dato che ero padrone della materia in questione. I miei sforzi maggiori, tuttavia, avrebbero mirato ad elevare fino a livelli impensati il tono del periodico. Mi sarei dedicato ad una riorganizzazione sia del contenuto che della forma. «Avrei introdotto nuove rubriche, ad esempio: ‘L’angoletto allegro degli animali,’ ‘Gli animali parlano degli animali,’ e, nel medesimo tempo, avrei tenuto opportunamente conto della situazione politica. «Avrei offerto ai lettori una sorpresa dopo l’altra, in 23   Alfred Edmund Brehm (1829-1884), famoso viaggiatore in Europa, Asia ed Africa, perfetto conoscitore della zoologia, fu l’autore di una celebre opera sulla vita degli animali in immagini, che, pubblicata in prima edizione nel 1869, venne più volte ristampata.

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modo da non farli più raccapezzare da un animale all’altro. La rubrica ‘La giornata degli animali’ si sarebbe alternata con ‘Nuovo programma per risolvere la questione degli animali domestici’ e col ‘Movimento degli animali.’ «Il proprietario mi interruppe nuovamente e mi disse che per lui sarebbe stato più che sufficiente se avessi realizzato la metà delle cose proposte, promettendomi in regalo una coppia di wyangotký 24 nane comparse nell’ultima esposizione di pollicultura tenutasi a Berlino, dove avevano vinto il primo premio e procurato al loro proprietario una medaglia d’oro per l’ottimo accoppiamento ottenuto. «Posso ben dire di essermi sforzato in ogni modo per svolgere il programma di governo da me enunciato nella rivista, di aver dato fondo a tutte le mie capacità, e debbo anche dire che potei pure costatare che i miei articoli erano superiori alle mie stesse capacità. «Nel desiderio di offrire ai lettori delle assolute novità, mi misi ad inventare animali. «Partivo dal principio che ad esempio l’elefante, la tigre, il leone, la scimmia, la talpa, il cavallo, il porcellino, e così via, erano creature già da tempo perfettamente conosciute ad ognuno degli assidui de Il mondo degli animali, e che occorresse eccitare i lettori con qualche novità, con nuove scoperte, pertanto feci un primo tentativo con la balena dalla pancia sulfurea.25 Questa nuova varietà di balena da me inventata aveva le dimensioni di un merluzzo ed era dotata di una vescica ripiena di acido formico e di una speciale cloaca attraverso la quale spruzzava addosso ai pesciolini che voleva mangiare delle nuvolette di acido velenoso e paralizzante, cui poi uno studioso inglese, un certo…, be’, adesso mi sfugge il nome che gli avevo appioppato, aveva attribuito la denominazione di acido balenico. Il grasso di balena era già ben noto a chiunque, ma il nuovo acido attirò l’attenzione di alcuni lettori, i quali domandarono quale era la ditta che lo produceva. «Vi posso assicurare che i lettori de Il mondo degli animali sono in genere assai curiosi. «A brevi intervalli, dopo la balena dalla pancia sulfurea, inventai tutta una serie di altri animali. Tra di essi ricorderò: l’astuto, un mammifero della razza dei canguri, il bue mangereccio, antenato della mucca, il vibrione seppiale, che qualificai come una specie di topo.   Razza di gallinelle americane. 25   Lo stesso Hašek scrisse di un simile presunto pesce ne «Il mondo degli animali». 24

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«Di giorno in giorno i miei animali crescevano di numero. Io stesso avevo di che meravigliarmi grandemente per i successi da me conseguiti in questo campo. Non mi sarei mai immaginato che si dovessero completare così abbondantemente le cognizioni circa la fauna e che Brehm avesse potuto tralasciare tante bestie nella sua nota Vita degli animali. Sapevano niente, Brehm e coloro che lo avevano seguito, del mio pipistrello islandese, il ‘pipistrello remoto’ del mio gatto domestico della cima del Kilimangiaro cui avevo attribuito il nome di ‘gatto-cervo collerico’? «Avevano mai sentito parlare i naturalisti, prima di allora, di una pulce dell’ingegner Khun,26 che avevo scoperto nell’ambra e che era completamente cieca, perché era vissuta addosso alla talpa sotterranea preistorica, cieca anch’essa poiché una sua antichissima antenata si era accoppiata, come scrissi, col proteo sotterraneo cieco delle caverne, che viveva nelle grotte di Postumia, le quali in quel tempo giungevano fino all’attuale oceano baltico? «Quell’episodio di secondaria importanza dette l’avvio ad una grossa polemica tra il Čas 27 ed il Čech,28 dopo che il Čech, in un suo feuilleton dedicato alle curiosità, citando l’articolo sulla pulce da me scoperta, aveva dichiarato: ‘Quel che Dio fa è ben fatto.’ Il Čas, naturalmente, partendo da premesse puramente realistiche, fece a pezzi insieme con la mia pulce anche il reverendo Čech, e, da allora in poi, sembrò che la mia buona stella di inventore e di scopritore di nuove creature mi avesse abbandonato. Gli abbonati de Il mondo degli animali cominciarono ad agitarsi. «La causa diretta di queste agitazioni furono certe mie notiziole brevi dedicate all’apicultura ed all’allevamento degli animali da cortile nelle quali sviluppai teorie innovatrici che arrecarono non poco spavento dato che, dopo i miei semplici consigli, un noto apicultore, il signor Pazourek, venne preso da un colpo e tutto l’allevamento delle api andò in malora nella Šumava e nella zona sotto i Krkonoše.29 Ci fu una moria tra il pollame e, per farla breve, creparono tutti gli animali. Gli abbonati cominciarono a scrivere lettere minatorie ed a respingere la rivista. «Mi buttai allora sugli uccelli che vivono in libertà ed ancora oggi ricordo la polemica che ebbi col deputato cle26   Un ingegner Khún fu un intimo amico di J. Hašek, e si segnalò per numerose traduzioni da varie lingue straniere. 27   «Tempo», organo del partito popolare o «realistico», che faceva capo a T. G. Masaryk. 28   «Il ceco», quotidiano dell’ala più conservatrice del partito cattolico. 29   Catena montana nella Boemia settentrionale.

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ricale Josef M. Kadlčák,30 redattore e direttore del Selský obzor.31 «Avevo ritagliato dalla rivista inglese Country Life 32 la figura di un uccello appollaiato su un noce. Gli detti pertanto il nome di nociaiolo, così come logicamente non avrei avuto alcuna difficoltà ad asserire che l’uccello appollaiato sul ginepro è un gineprino, o eventualmente una gineprina. «Quante ne successero allora! Il signor Kadlčák mi indirizzò una comune cartolina postale sferrandomi un attacco e dicendo che si trattava in realtà di una ghiandaia, e non di un presunto nociaiolo, e che questo termine traduce il tedesco Eichelhäher.33 «Io reagii con una lettera nella quale svolsi tutta la mia teoria circa il nociaiolo e condendo il foglio con numerose offese e con citazioni cervellotiche da Brehm. «Il deputato Kadlčák rispose con un articolo di fondo sul Selský obzor. «Il signor Fuchs, mio principale, se ne stava un giorno seduto, come di consueto, al caffè, e leggeva i giornali provinciali, dato che negli ultimi tempi sempre più di frequente vi cercava menzioni dei miei avvincenti articoli su Il mondo degli animali; quando arrivai mi indicò il Selský obzor che stava sul tavolo e mi disse con voce sommessa, guardandomi con gli occhi velati di tristezza, espressione che le sue pupille avevano stabilmente assunto negli ultimi tempi, di leggere il giornale. «Lessi ad alta voce dinanzi a tutti gli avventori del locale: Spettabile redazione, Ho già fatto osservare che la vostra rivista adotta una terminologia inconsueta ed ingiustificata, che bada troppo poco alla purezza della lingua ceca e si inventa vari animali. Ho citato ad esempio un caso: invece dell’antichissima denominazione della ‘ghiandaia,’ la quale è comunemente usata, il vostro redattore adopera il termine ‘ghiandaiolo,’34 che si basa sul tedesco Eichelhäher - ghiandaia.

« ‘Ghiandaia, dunque’ ripetè disperato il proprietario della rivista. 30   Josef M. Kadlčák (1856-1924) fu veramente deputato cattolico dopo le elezioni del 1911. 31   «Panorama contadino». 32   In inglese nel testo: «Vita di campagna». 33   In tedesco nel testo: «Ghiandaia». 34  Nel testo, in questo punto, c’è žaludník, «ghiandaiolo» (da žalud, «ghianda»); prima Marek ha invece parlato di ořešnik, «nociaiolo» (da ořech, «noce»). Ořešnik in ceco è veramente il nome di un uccello, ma Hašek stesso adoperò nel Svět zvířat il termine žaludník, da lui inventato.

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«Io continuai a leggere con calma: In risposta, dal vostro redattore de Il mondo degli animali ho ricevuto una lettera straordinariamente volgare, impertinente e grossolana, nella quale sono stato definito impudentemente uno stolido bestione, cosa che merita una esemplare punizione. Non è così che si risponde, tra gente per bene, a concreti appunti di carattere scientifico. Mi piacerebbe proprio sapere chi è più animale tra noi due. Forse, e vero, non avrei dovuto muovere quegli appunti per mezzo di una cartolina, sarebbe stato meglio esporli in una lettera, ma, a causa del gran lavoro, non ho badato ad una simile quisquilia; adesso, tuttavia, dopo i villani affronti del redattore de Il mondo degli animali, penserò io a metterlo pubblicamente alla berlina. Il vostro signor redattore prende un grosso abbaglio se veramente ritiene che io sia un animale incolto che non sa come si chiama questo o quell’uccello. Mi occupo di ornitologia da diversi anni, e le mie cognizioni non derivano dai libri, ma da dirette osservazioni della natura, dato che ho nelle mie uccelliere più uccelli di quanti non ne abbia visti il vostro redattore in tutta la sua vita, tanto più che deve essere un uomo che se ne sta rintanato tutto il santo giorno nelle bettole e nelle osterie praghesi. Ma queste sono cose di secondaria importanza, sebbene non sarebbe certamente male che il redattore de Il mondo degli animali si rendesse conto con chi ha a che fare prima che la sua penna attribuisca a qualcuno il titolo di bestia, anche se il suo insulto è indirizzato in Moravia, a Frýdland presso Místek,35 dove fino ad ora la vostra rivista veniva acquistata. Non si tratta del resto di svolgere una polemica personale con un pazzo, ma di una faccenda concreta, e pertanto ripeto ancora una volta che andarsi ad inventare delle denominazioni traducendole da un’altra lingua è inammissibile, quando si ha a disposizione un termine nostro a tutti conosciuto, quale è per l’appunto ghiandaia.

« ‘Già, ghiandaia,’ fece il mio principale con voce ancora più disperata. «Comunque continuai tranquillamente a leggere, senza lasciarmi interrompere: È proprio una mascalzonata, quando si mettono a fare simili cose degli incompetenti e dei villani. Chi mai s’è sognato di chiamare nociaiolo una ghiandaia? Nell’opera I nostri uccelli, a pagina 148, si legge questo termine latino: Ganulus glandarius B. A., per l’appunto questo è il mio uccello, la ghiandaia. Il redattore del vostro periodico ammetterà di certo che io conosco il mio uccello meglio di quanto possa conoscerlo un incompetente. Secondo il dottor Bayer nociaiolo si chiama il mucifraga carycatectes B., ma quel B. non è affatto, come mi ha scritto il vostro redattore, l’iniziale della parola ‘broccolo.’ Gli ornitologhi cechi non conoscono altro che la ghiandaia comune, e non sanno niente di un ghiandaiolo, quale è quello inventato dal signore cui spetta l’iniziale B., interpretato secondo la sua teoria. E le ingiurie da villano non mutano per niente la realtà delle cose. 35 Esistono due villaggi chiamati Frýdland (Frýdlant) in Boemia, ma nessuno in Moravia presso Místek (anche questo termine non è attestato).

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La ghiandaia rimane pur sempre una ghiandaia, anche se a causa sua il redattore de Il mondo degli animali si dovesse ca…re sotto, e resterà appena una prova della leggerezza e della balordaggine con cui talvolta si scrive, anche se il suddetto signore dovesse citare con spudorata sfacciataggine il Brehm. Quel villanzone scrive che la ghiandaia, secondo Brehm, pagina 452, appartiene alla famiglia dei coccodrillidi, mentre nel passo in questione si parla di averla o velia comune (Lanius minor L.). Poi questo ignorante, mi si consenta ormai di chiamarlo direttamente così, cita una seconda volta Brehm per sostenere che la ghiandaia appartiene alla famiglia quindicesima, mentre Brehm attribuisce i corvidi alla famiglia diciassettesima, cui sono imparentati i corvi, della famiglia delle taccole, ed è giunto a tal punto di sfacciataggine da chiamare anche me taccola (colaeus), della specie delle gazze, cornacchie azzurre, sottofamiglia degli scemi imbecilli, trascurando il fatto che in quella pagina si parla delle ghiandaie boscherecce e delle gazze screziate…

« ‘Ghiandaie boscherecce,’ sospirò il proprietario della mia rivista, prendendosi per i capelli, ‘mi dia qua, adesso finirò di leggerlo io.’ «Mi spaventai nel costatare che la sua voce era rauca quando cominciò a leggere: Il girofungaiolo o merlo turco,36 in traduzione ceca, resterà pur sempre girofungaiolo, così come il tordo resterà il tordo.

« ‘Il tordo si dovrebbe chiamare ginepraiolo o gineprina, capo,’ interruppi io, ‘dato che si nutre per l’appunto di ginepro.’ «Il signor Fuchs sbatté il giornale contro il tavolo e rotolò sotto il biliardo, mentre continuava a rantolare le ultime parole che aveva letto. « ‘Turdus, girofungaiolo.’ « ‘Niente ghiandaie,’ strillò di sotto il biliardo, ‘nociaiolo, badate che mordo, signori!’ «Alla fine lo tirarono fuori di là sotto e tre giorni dopo spirò circondato dalla sua famiglia per infiammazione cerebrale. «Le sue estreme parole, pronunciate nell’ultimo momento di lucidità, furono queste: ‘Non si tratta di un interesse mio personale, ma del bene della comunità. Da questo punto di vista vi prego di accettare questo mio giudizio, un giudizio oggettivo, come…’ e fu interrotto da un singhiozzo». Il volontario con ferma annuale tacque e disse malignamente al caporale: « ‘Con tutto questo volevo dire soltanto che qualche vol36   Anche queste denominazioni inventate di sana pianta furono impiegate dallo stesso Hašek ne «Il mondo degli animali».

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ta uno si ritrova in una situazione scabrosa e può facilmente sbagliare!» Tutto sommato, dell’intero sermone il caporale capì soltanto che era un uomo fallace, pertanto si rivolse nuovamente verso il finestrino e si mise a contemplare con aria afflitta la strada che correva via. Un interesse un po’ più vivo il racconto suscitò in Sc’vèik. Quanto agli uomini della scorta, essi rimasero a guardarsi stupidamente tra di loro. Sc’vèik, invece, attaccò: «Al mondo non c’è niente che rimanga nascosto. Tutto quanto viene a galla, come avete sentito, ad esempio si viene a sapere che una stupida ghiandaia non è un nociaiolo. È davvero assai interessante che in cose di questo genere qualcuno si lasci cogliere in castagna. Inventarsi degli animali, a dire il vero, è difficile, ma doversi trovare a parlare di simili animali inventati è davvero più difficile ancora. Una volta, anni fa, c’era a Praga un certo Mestek, il quale aveva trovato una sirena marina e la esibiva a Vinohrady, in piazza Havlíček, dietro un paravento. Nel paravento c’era un’apertura, e chi ne aveva voglia poteva vedere in quella semioscurità un comunissimo divano, sul quale si contorceva una femmina di Žižkov. Aveva le gambe avvoltolate in un velo verde che doveva rappresentare la coda, aveva i capelli verniciati di verde e le mani inviluppate in guanti sui quali erano state applicate delle pinne di cartone, anche esse verdi, sulle spalle c’era un’altra specie di pinna direzionale, fissata con uno spago. I minori di sedici anni non potevano entrare, ma tutti coloro che avevano superato quell’età, se pagavano l’ingresso, si dilettavano molto nel costatare che la sirena aveva un grosso sedere sul quale c’era la scritta A rivederci! Quanto ai seni, invece, non valevano un soldo. Calavano giù fino all’ombelico, come avviene con le baldracche fritte e rifritte. Alle sette di sera, poi, Mestek chiudeva il suo baraccone e diceva: ‘Sirena, è ora di andare a casa’ allora lei si rivestiva ed alle dieci la si poteva già scorgere passeggiare per via Táborksá, che diceva indifferente ad ogni signore che incontrava: ‘Bel signore, andiamo a fare l’amore?’ Siccome non aveva il libretto, una volta, in una retata, il signor Drašner la beccò insieme ad altre della sua stessa professione, e così gli affari di Mestek furono bell’e finiti». A questo punto il cappellano militare superiore cadde giù dalla panca e continuò a dormire per terra. Il caporale osservò la scena con occhi da ebete e poi, in mezzo al generale silenzio, lo risollevò senza che gli altri contribuissero 362

minimamente al suo sforzo e lo rimise sul sedile da solo. Era ormai chiaro che aveva perduto tutta la sua autorità, e quando disse con un filo di voce: «Però mi potreste pure aiutare», tutti gli uomini della scorta continuarono a guardare con aria assente e nessuno di loro mosse un piede. «Avreste dovuto lasciarlo dormire dove stava», fece Sc’vèik, «io, col mio cappellano, facevo lo stesso. Una volta lo lasciai dormire nel cesso, altre volte mi si addormentò su un armadio, in una tinozza in casa altrui, e dio solo sa in quanti altri posti mi si mise a dormire». Il caporale venne improvvisamente colto da un accesso di risolutezza. Voleva far vedere che il padrone, lì, era lui, e pertanto disse bruscamente: «Tenete chiuso il becco e smettetela di dire fesserie! Tutti voi lustrastivali non sapete fare altro che cianciare. Siete proprio delle pittime». «Sì, è vero, e voi, signor caporale, siete come un dio», rispose Sc’vèik con la calma del filosofo il quale vuole realizzare in tutto il mondo la pace terrena e per ottenere questo si imbarca in ardenti polemiche, «voi siete come la madonna dei sette dolori». «Signore dio mio», esclamò il volontario con ferma annuale congiungendo le mani, «riempi il nostro cuore di amore verso tutti i graduati, sì che possiamo guardare verso di loro senza avversione, benedici questo nostro consesso in questa nostra galera sulle rotaie». Il caporale arrossì e balzò su: «Proibisco osservazioni di qualsiasi genere, signor volontario con ferma annuale!» «Non è colpa vostra», continuò dolcemente il volontario con ferma annuale, «in molti generi e specie la natura ha negato agli animali ogni sorta di intelligenza, avete mai sentito parlare della stupidaggine umana? Non sarebbe stato decisamente meglio che foste nato in un’altra specie di mammiferi sì da non dover portare questo sciocco nome di uomo e caporale? Sarebbe un errore grossolano se pensaste di essere la più perfetta e la più evoluta delle creature. Se le vostre stellette andranno a farsi benedire sarete uno zero, uno di quelli che vanno a farsi sparare senza tanti complimenti in tutte le trincee di tutti i fronti. Se poi vi daranno un’altra stelletta facendo di voi l’animale chiamato caporal maggiore firmaiuolo, neppure allora le cose saranno perfettamente a posto. Il vostro orizzonte spirituale si restringerà ulteriormente, e quando su qualche campo di battaglia ci avrete rimesso le vostre cuoia che culturalmente non valgono un fico secco, in tutta Europa non ci sarà una sola persona che vi compiangerà». «Io vi farò sbattere dentro!» gridò disperato il caporale. 363

Il volontario con ferma annuale sorrise: «Probabilmente vorreste farmi sbattere dentro con l’imputazione che vi ho offeso. Ed allora direste una bugia, dato che il vostro livello mentale non può davvero consentirvi di essere sensibile ad offese di qualsiasi genere, ed inoltre sarei pronto a scommettere con voi quello che volete che non ricordate neppure niente di quanto abbiamo detto adesso. Se vi dicessi che siete un embrione, ve ne dimentichereste prima, non dico di arrivare alla prossima stazione, ma prima che ci passi accanto il prossimo palo telegrafico. Siete un intruglio cerebrale atrofizzato. Non riesco neanche ad immaginare che potreste esporre in maniera connessa tutto quello che avete sentito dire da parte mia. Inoltre potete chiedere a chiunque, tra coloro che stanno qui, se nelle mie parole c’è stata la benché minima offesa alle vostre condizioni mentali e se in qualche modo possa avervi mancato di rispetto». «Certamente», confermò Sc’vèik, «qui nessuno vi ha detto neppure una parolina che voi possiate interpretare in maniera ambigua. È sempre brutto quando qualcuno si sente offeso. Una volta stavo seduto in un caffè notturno, il ‘Tunnel,’ e si parlava degli orangutanghi. Insieme con noi c’era un marinaio il quale diceva che spesso non è possibile distinguere un orangutango da un uomo barbuto, dato che questi scimmioni hanno dei menti pieni di peli come… ‘Come ad esempio,’ disse, ‘ecco, quel signore al tavolo accanto.’ Ci rivoltammo tutti quanti, ma il signore con la barba venne dal marinaio e gli dette un ceffone, al che il marinaio gli spaccò in testa una bottiglia di birra, ragione per cui il signore barbuto stramazzò per terra e restò disteso privo di sensi. Dovemmo dire addio al marinaio, dato che questi, quando si accorse che lo aveva mezzo accoppato, si affrettò a mettere la coda tra le gambe. Noi facemmo rinvenire quel signore, e questo decisamente non avremmo dovuto farlo, poiché, appena rinvenne, chiamò la polizia e ci fece condurre tutti quanti al commissariato, benché non gli avessimo fatto assolutamente niente. Dal commissario cominciò a sostenere con calore che lo avevamo chiamato orangutango e che non avevamo parlato d’altro che di lui. Ed insisteva nella sua versione. Noi dicevamo che non era vero, che non era affatto un orangutango. E lui che lo aveva proprio sentito dire. Io pregai il signor commissario di spiegargli come stavano le cose. E lui provò a spiegargli con le buone che si trattava di un equivoco, ma il signore barbuto non accettò la sua versione e disse che non capiva proprio perché egli stes364

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se dalla parte nostra. Allora il signor commissario lo fece mettere dentro affinché gli sbollissero tutte le ire, e noi avremmo voluto tornare al ‘Tunnel,’ ma non ci fu possibile perché mise in gattabuia pure noi. Vedete dunque, signor caporale, che cosa può succedere a causa di un piccolo ed insignificante malinteso di cui non varrebbe neppure la pena di parlare. Anche ad Okrouhlice c’era un tizio che si offese una volta che, a Německý Brod, lo chiamarono anaconda tigrato. Ce ne sono parecchie di simili parole che sono assolutamente innocenti. Ad esempio, se vi dicessimo che siete un topo muschiato, potreste forse prendervela a male con noi per questo?» Il caporale cominciò a gridare. Non si poteva neanche dire che urlasse. Odio, rabbia, disperazione, tutto questo si fondeva in una serie di suoni possenti, e questo numero del programma era accompagnato dai sibili che uscivano dal naso del cappellano militare superiore addormentato. Dopo quegli strilli venne una fase di completa depressione. Il caporale si mise a sedere sulla panca ed i suoi occhi acquosi, inespressivi, si fissarono su lontani boschi e monti. «Signor caporale», disse il volontario con ferma annuale, «ora che inseguite con lo sguardo monti boscosi ed odorose foreste, mi rammentate la figura di Dante. Lo stesso volto nobile di poeta, di uomo dal cuore e dall’animo tenero, aperto ad ogni eletto moto spirituale. Vi prego, restate a sedere così, questo atteggiamento vi si addice tanto! Con quale aria ispirata, mondo da ogni sorta di affettazione e di ricercatezza, affissate gli occhi sul paesaggio! Pensate certo a quanto sarà bello allorché, in primavera, al posto di queste desolate scene si stenderà qui tutto un tappeto di screziati fiori di prato…» «Tappeto solcato da un ruscelletto», aggiunse Sc’vèik, «ed il signor caporale umetterà con la saliva una matita, seduto sopra un ceppo, e scriverà poesiole per il Malý čtenář». 37 Il caporale se ne stava del tutto apatico, mentre il volontario con ferma annuale rincarava la dose dicendo che era sicuro di aver visto il suo capo scolpito in una certa esposizione di scultura: «Scusate, signor caporale, non avete forse fatto da modello allo scultore Štursa?» Il caporale dette un’occhiata al volontario con ferma annuale e disse con tono triste:   «U piccolo lettore», rivistina per gli scolari.

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«Non l’ho fatto». Il volontario con ferma annuale tacque e si distese sopra la panca. Gli uomini della scorta si misero a giocare a carte con Sc’vèik, il caporale, per la disperazione, si mise a guardare le carte, ed ardì perfino di osservare che Sc’vèik aveva fatto male a tirare un certo asso. Non c’era alcuna necessità che facesse trionfo, e doveva lasciarsi il sette per l’ultimo tiro. «Nelle osterie solevano mettere», disse Sc’vèik, «certi bei cartelli contro gli spettatori. Me ne ricordo uno. ‘Spettatore, tieni il becco chiuso, se non vuoi una pacchera sul muso.’ » La tradotta militare entrò nella stazione dove l’ispezione passava per i vagoni. Il treno si arrestò. «Si capisce», disse con tono spietato il volontario con ferma annuale, dando una significativa occhiata al caporale, «c’è già l’ispezione…» E l’ispezione entrò nel vagone. Comandante del convoglio era un ufficiale della riserva, il dottor Mráz, designato dallo stato maggiore. Per simili servizi idioti impiegavano sempre ufficiali della riserva. Il dottor Mráz non sapeva dove sbattere la testa. Contò più volte i vagoni, e ce ne era sempre uno in più oppure uno in meno, benché nella vita borghese fosse professore di matematica al liceo scientifico. Inoltre, all’ultima stazione, il numero degli uomini presenti in ciascun vagone era diverso rispetto a quello registrato alla stazione di Budějovice, dopo che tutti i partenti erano saliti sul treno. Gli sembrò anche, quando controllò i documenti, che per motivi assolutamente inspiegabili risultassero due cucine da campo in più di quelle che avrebbero dovuto esserci. Un fastidioso formicolio cominciò a passargli per la schiena quando dovette costatare che il numero dei cavalli, dio solo sa in quale maniera, era cresciuto. Nella lista degli ufficiali erano segnati due cadetti che non riusciva assolutamente a trovare, per quanto li cercasse con impegno. All’ufficio del reggimento, sistemato nel vagone di testa, cercavano continuamente una macchina per scrivere che non voleva spuntar fuori. Questo terribile caos gli aveva fatto venire il mal di testa, s’era già preso tre compresse di aspirina ed adesso faceva un’ulteriore revisione del treno col volto segnato da un’espressione dolorosa. 367

Quando entrò col suo seguito nello scompartimento degli arrestati, esaminò le sue carte, e, dopo aver ascoltato il rapporto del caporale, il quale lo informò che accompagnava due militari che erano agli arresti e che la sua scorta si componeva di tanti uomini, confrontò ancora una volta con gli incartamenti l’esattezza dei dati ricevuti e si guardò intorno. «Chi diavolo è questo che portate con voi?» chiese con tono severo indicando il cappellano militare superiore il quale dormiva a pancia in giù mentre le sue guance posteriori sembravano fissare con aria insolente l’ispettore. «Faccio rispettosamente notare, signor Leutnant», cominciò a balbettare il caporale, «che noi questo qui…» «Ma che questo qui e questo qui d’Egitto», borbottò il dottor Mráz, «parlate chiaro!» «Faccio rispettosamente notare, signor Leutnant», intervenne Sc’vèik al posto del caporale, «che questo signore il quale dorme a pancia in sotto è un signor Oberfeldkurat ubriaco. S’è unito a noi ed è salito nel vagone, e, dato che è un nostro superiore, non abbiamo potuto mandarlo via, perché sarebbe stato insuperordinazione.38 Con ogni probabilità ha confuso la vettura degli uomini agli arresti con quella del comando». Il dottor Mráz sospirò e dette un’altra scorsa alle sue carte. Nell’elenco non c’era menzione alcuna di un cappellano militare superiore che dovesse viaggiare sul treno fino a Brack. Batté nervosamente un occhio. All’ultima stazione, tutt’a un tratto, s’era visto crescere il numero dei cavalli, ed ora gli spuntavano fuori di punto in bianco addirittura cappellani militari superiori nello scompartimento degli arrestati. Non poté decidersi a fare altro che invitare il caporale a rivoltare il dormiente perché, finché stava a pancia in sotto, non era possibile stabilire la sua identità. Il caporale, dopo molti sforzi, riuscì a mettere supino il cappellano militare superiore, il quale si destò, e, scorto l’ufficiale davanti a sé, disse: «Eh, servus, Fredy, was gibt’s neues? Abendessen schon fertig? » 39 dopo di che chiuse nuovamente gli occhi e si rivoltò verso la parete. Il dottor Mráz riconobbe immediatamente in lui il mangione comparso la sera prima al circolo ufficiali, il ben noto   Nel testo ceco: porušeni superordinace, invece di: porušeni subordinace 39   In tedesco nel testo: «Eh, salve, Fredy, che c’è di nuovo? È già pronta la cena?» 38

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scroccone di tutte le mense ufficiali, ed emise un sospiro sommesso. «Per questa faccenda», disse poi al caporale, «vi presenterete a rapporto». Fece quindi per uscire, ma Sc’vèik lo trattenne. «Faccio rispettosamente notare, signor Leutnant, che io non debbo stare qui. Debbo essere tenuto agli arresti fino alle undici, poiché proprio oggi scade il termine della mia condanna. Sono stato dentro per tre giorni, ed ormai debbo andare insieme con gli altri nel carro bestiame. Dato che le undici sono passate da un pezzo, la prego, signor Leutnant, di farmi scendere, oppure di farmi trasferire nel carro bestiame dove è il mio posto, o infine di consentirmi di presentarmi al signor tenente Lukáš». «Come vi chiamate?» domandò il dottor Mráz, guardando nuovamente le sue carte. «Sc’vèik Josef, mi permetto di far notare, signor Leutnant». «Ehm, voi dunque sareste quel famoso Sc’vèik», disse il dottor Mráz, «in effetti avreste dovuto uscire alle undici. Tuttavia il signor tenente Lukáš mi ha pregato di non mettervi in libertà che a Bruck, dice che è meglio fare così, perché in tal modo, almeno, durante il viaggio non ne combinerete una delle vostre». Uscita l’ispezione, il caporale non poté trattenersi dal fare sarcastiche osservazioni: «Vedete, dunque, Sc’vèik, che vi è servito una merda rivolgervi all’istanza superiore. Se avessi voluto, avrei potuto farvela vedere io, a tutti e due». «Signor caporale», fece il volontario con ferma annuale, «tirare in ballo le merde significa ricorrere ad argomentazioni più o meno attendibili, tuttavia una persona intelligente non deve adoperare siffatte parole, anche se è arrabbiato o se vuole offendere qualcuno. Quanto poi a questa vostra ridicola minaccia, che avreste potuto farcela vedere a tutti e due, perché mai non l’avete fatto, dal momento che vi si era presentata l’occasione per farlo? Questo è certamente un indice della vostra magnanimità e della vostra straordinaria delicatezza». «Ne ho abbastanza di queste storie!» saltò su il caporale. «Potrei mandarvi in galera tutti e due dritti dritti!» «In base a quale imputazione, cocco bello?» chiese il volontario con ferma annuale con aria innocente. «È affar mio», rispose il caporale cercando di infondersi coraggio. «Già, affar vostro», ribatté il volontario con ferma an369

nuale facendo un bel sorriso, «vostro e nostro nello stesso tempo. Come quando si gioca a carte: carta mia, carta tua, quale è più bella, la mia o la tua? Direi piuttosto che vi ha fatto effetto apprendere che dovrete presentarvi a rapporto, ed è per questo che cominciate a fare la voce grossa con noi, senza esserne minimamente autorizzato, si intende». «Siete dei villani», sbottò il caporale, raccogliendo tutto il coraggio che gli rimaneva per assumere un’aria minacciosa. «Vi dirò una cosa, signor caporale», osservò Sc’vèik; «io sono un vecchio soldato, ho prestato servizio già prima della guerra, e posso assicurarvi che le offese non servono mai a niente. Quando facevo il servizio di leva, molti anni or sono, mi ricordo, nella nostra compagnia c’era un firmaiuolo, un certo Schreiter. Stava sotto le armi unicamente per la pagnotta; già da molto tempo poteva tornarsene a casa sua come caporale, ma s’era, come si dice, fissato. Così quel tizio ci stava sempre addosso, a noi soldati, ci stava attaccato come la merda si appiccica alla camicia, benché non ne avesse il Recht40 e fosse contro tutti i Vorschrifti,41 ci importunava in tutte le maniere che poteva e ci diceva: ‘Voi non siete soldati, siete dei Wächter.’ 42 A me un bel giorno questo stato di cose venne a noia, e così mi presentai al rapporto di compagnia. ‘Che cosa vuoi?‘ mi chiede il capitano. ‘Faccio rispettosamente notare, signor capitano, che ho una lagnanza contro il nostro signor Feldwebel Schreiter: noi siamo soldati dell’imperatore, e non dei Wächter. Siamo al servizio di Sua maestà, ma non stiamo a fare la guardia ai frutteti.’ « ‘Bada bene, insetto,’ mi rispose il capitano, ‘a non farti più vedere da me.’ Ma io ribatto pregandolo rispettosamente di mandarmi al rapporto di battaglione. «Al rapporto di battaglione, quando ebbi spiegato all’Oberstleutnant43 che non eravamo affatto dei Wächter, ma soldati dell’imperatore, mi fece mettere dentro per due giorni, ed allora io chiesi di potermi presentare al rapporto di reggimento. Al rapporto di reggimento il signor Oberst, ascoltate le mie spiegazioni, si mise a sbraitare contro di me dicendo che ero un cretino, e che andassi a farmi benedire. Ed allora io: ‘Faccio rispettosamente notare, si  In tedesco nel testo: «Diritto».   Dal tedesco Vorschrift, «Regolamento, prescrizione».   In tedesco nel testo: «Guardiani». 43   In tedesco nel testo: «Tenente colonnello». 40

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gnor Oberst, che desidererei essere mandato al Brigaderapport.’ 44 A questo punto quello ebbe paura e fece subito chiamare in ufficio il nostro firmaiuolo Schreiter, e costui, alla presenza di tutti gli ufficiali, dovette scusarsi con me per aver adoperato quella parola, ‘Wächter.’ Dopo di che mi raggiunse nel cortile e mi assicurò che da allora in poi non mi avrebbe più offeso, ma che in compenso mi avrebbe mandato in fortezza. Da quel giorno in poi cercai di stare attento il più che potevo, ma non riuscii a farla franca. Una volta stavo come Posten 45 al magazzino sul cui muro ogni Posten scriveva sempre qualcosa. O vi disegnava una donna nuda oppure vi scriveva qualche strofetta. A me non venne in mente niente, e così, per ingannare il tempo, scrissi sulla parete ‘Il firmaiuolo Schreiter è un torso,’ e ci aggiunsi sotto una bella firma. E quel bifolco di firmaiuolo andò immediatamente a denunciare la cosa, perché mi puntava come un cane fulvo. Per una disgraziata circostanza, sopra la mia scritta ce ne era un’altra: ‘Alla guerra non vogliam andare, ci vogliam sopra cacare,’ e si era nel 1912, quando sembrava che si dovesse attaccare la Serbia per via di quella storia del console Procházka.46 Fu per questo che mi mandarono a Terezín47 al Landgericht.48 I signori della corte militare fotografarono per una quindicina di volte il muro di quel magazzino con le due scritte e la mia firma sotto, e per dieci volte mi fecero scrivere, per esaminare la mia calligrafia: ‘Alla guerra non vogliam andare, ci vogliam sopra cacare,’ quindici volte dovetti scrivere alla loro presenza: ‘Il firmaiuolo Schreiter è un torso,’ ed alla fine venne un esperto in grafologia il quale mi dettò questa frase: ‘Era il 29 luglio 1897, allorché Dvur Králové sull’Elba conobbe gli orrori dell’impetuoso fiume in piena.’ ‘Ma questo non basta,’ disse l’auditore, ‘a noi interessa soprattutto quella cacata. Gli detti qualche parola in cui ci siano molte c e molte r.’ Così mi venne dettato: ‘Serbo, tugurio, raspo, acciarpare, cherubino, rubino, canaglia.’   In tedesco nel testo: «Rapporto di brigata».   In tedesco nel testo: «Sentinella».   Nell’ottobre del 1912, mentre stavano per scoppiare le guerre balcaniche, Prohaska, console austro-ungarico a Prizren, in Serbia, comunicò al suo governo che le autorità serbe lo ostacolavano nello svolgimento della sua missione. Ne nacque una violenta campagna di stampa, nel corso della quale si disse che il console era stato gravemente ferito, e che per poco non fece scoppiare una guerra. Risultò poi che le accuse erano infondate, e che il console era vivo e vegeto. 47   Fortezza a nord di Praga, traente il suo nome da Maria Teresa. 48   A Terezín c’era solo un tribunale divisionale ed un tribunale di brigata. Il tribunale militare supremo si trovava a Vienna. Il Landgericht, «tribunale territoriale», era a Praga, ma aveva competenza esclusivamente Per cause civili. 44

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L’esperto del tribunale non sapeva più che pesci pigliare e si voltava continuamente indietro, a guardare la sentinella con la baionetta in canna. Alla fine disse che doveva mandare tutto il materiale a Vienna, e mi ordinò di scrivere per tre volte di seguito: ‘Comincia ormai a scottare il sole, fa proprio un bel calduccio.’ Spedirono poi tutto l’incartamento a Vienna, ed alla fine si ebbero questi risultati: le scritte non erano di mio pugno, mia era invece la firma, il che avevo appunto ammesso, per tale motivo ero condannato a sei settimane perché avevo scritto la mia firma mentre ero di guardia, sì che non avevo potuto compiere il mio dovere dato che avevo scarabocchiato il muro». «Da ciò risulta», disse il caporale con voce soddisfatta, «che, malgrado tutto, non l’avete passata liscia, perché siete proprio un criminale. Fossi stato io al posto di quel Landgericht, non sei settimane vi avrei appioppato, ma sei anni». «Non siate così terribile», intervenne il volontario con ferma annuale, «e pensate piuttosto alla fine che farete voi. Proprio or ora l’ispezione vi ha fatto sapere che andrete davanti al rapporto. Ad una simile cosa dovreste prepararvi con la massima serietà, riflettendo sui supremi pensieri di un bravo caporale. Cosa credete di essere rispetto all’universo, se soltanto pensate che la più vicina delle stelle fisse dista da questa tradotta militare 275.000 volte più del sole, sì che il suo parallasse misura un secondo di cerchio! Se voi foste una stella fissa dell’universo, sareste senza dubbio troppo meschino perché vi potessero scorgere i più perfetti strumenti astronomici. A causa della vostra meschinità non c’è modo di definirvi nell’ambito dell’universo. Nel corso di mezzo anno percorrereste nel firmamento un arco di cerchio così minuscolo, e nel giro di un anno un’ellissi che non potrebbe neppure essere espressa in cifre, tanto sarebbe piccina. Neppure il vostro parallasse sarebbe calcolabile». «In tal caso», osservò Sc’vèik, «il signor caporale potrebbe essere orgoglioso del fatto che nessuno riuscirebbe a misurarlo, ed al rapporto, la vada pure come vuole andare, voi dovete restare calmo e non arrabbiarvi, dato che ogni arrabbiatura fa male alla salute, e sotto le armi ciascuno deve badare alla propria salute, poiché queste fatiche belliche impongono a ciascuno di non essere una mozzarella. «Se vi metteranno dentro, signor caporale», continuò Sc’vèik con un amabile sorriso, «se vi faranno un torto di questo genere, non dovrete perdervi d’animo, e se loro ba372

deranno ai fatti loro, anche voi dovete badare ai vostri. Io ho conosciuto un carbonaio, il quale, all’inizio della guerra, era rinchiuso con me alla questura di Praga, un certo František Škvor, imputato di alto tradimento, che forse venne poi giustiziato a causa di non so bene quale prammatica sanzione. Questo tizio, quando gli chiesero, all’interrogatorio, se avesse obiezioni da muovere contro il verbale steso, disse: Sia pure come sia, in qualche modo sia, ancora non c’è stato che in nessun modo è stato.

«Per questo motivo, poi, lo misero in cella di rigore, e non gli dettero niente da mangiare e da bere per due giorni, quindi lo condussero nuovamente all’interrogatorio, ed egli insistè sul suo punto di vista, che sia pure come sia, in qualche modo sia, ancora non c’è stato che in nessun modo è stato. Può darsi che la medesima filastrocca l’abbia ripetuta sotto il capestro, perché lo mandarono a finire davanti ad un tribunale militare». «Adesso, a quanto pare, ne impiccano e ne fucilano parecchi», disse uno degli uomini di scorta, «non molto tempo fa, in piazza d’armi, ci hanno letto un’ordinanza in base alla quale è stato fucilato a Motol 49 un soldato della riserva, un certo Kudrna,50 perché un ufficiale ha dato una piattonata con la sciabola al suo bambino, il quale era in braccio a sua moglie che era venuta a salutarlo a Benešov, e lui si è irritato. I politici, poi, li sbattono dentro come niente. È così che hanno già fucilato un giornalista della Moravia. Il nostro capitano ci ha detto che molta gente sta andando incontro al medesimo destino». «Ogni cosa ha i suoi limiti», disse ambiguamente il volontario con ferma annuale. «Avete ragione», intervenne il caporale, «a questi giornalisti gli sta proprio bene. Sono loro che mettono su la gente. Due anni fa, ad esempio, quando ero ancora soltanto appuntato, era sotto di me un giornalista che non mi chiamava altrimenti che rovina dell’esercito, ma quando gli facevo fare esercitazioni fino a farlo sudare, diceva sempre: ‘La prego di rispettare in me l’uomo.’ Glielo facevo vedere io l’uomo, quando stava nieder, e si inzaccherava a dovere nel cortile della caserma! Lo conducevo sempre davanti ad una pozzanghera, e quel fanello vi doveva cadere dentro in   Sobborgo sudoccidentale di Praga.   Il 7 maggio 1915 Josef Kudrna, soldato del centoduesimo reggimento, venne fucilato a Motol per grave atto di indisciplina, avendo minacciato col fucile un ufficiale. 49 50

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modo da far schizzare l’acqua da per tutto, come in una piscina. Dopo mezzogiorno, poi, doveva essere di nuovo tutto lustro, la divisa doveva essere lucida come uno specchio, e lui, mentre si ripuliva i panni, gemeva e faceva osservazioni, ragion per cui il giorno dopo si ritrovava nel fango, a rotolarsi come una scrofa, mentre io stavo sopra di lui e gli dicevo: ‘E allora, signor giornalista, cosa vale di più, una rovina dell’esercito, o questo suo uomo’? Era un autentico tipo di intellettuale». Il caporale guardò con aria trionfante il volontario con ferma annuale e continuò: «Fu proprio per questa sua ‘intellettualità’ che perse i galloni di volontario con ferma annuale, perché si mise a scrivere sul giornale riguardo ai maltrattamenti dei soldati. Ma come non trattarlo male, se non era capace di togliere al fucile il Verschluss? 51 neppure dopo che glielo avevo spiegato dieci volte, e se, quando gli si diceva: ‘Linksschaut !’ sembrava che facesse a bella posta a voltare la zucca a destra assumendo nel medesimo tempo l’aspetto di una cornacchia, oppure se, all’ordine dei Gewehrgriffi,52 non sapeva cosa prendere per prima, se la cinghia o la giberna, e vi si metteva a guardare come un vitellino spaesato, quando gli facevate osservare che doveva abbassare la mano in giù, lungo la cinghia? Non sapeva neppure su quale spalla va portato il fucile, faceva il saluto militare come una scimmia, quando si marciava e doveva imparare ad andare a passo, ai dietro-front, Dio ce ne scampi e liberi! Quando si dava il comando del dietro-front, era per lui tutt’uno farlo su un piede piuttosto che su un altro, e zacchete, zacchete, zacchete, era capace di andare avanti ancora per sei Schritti 53 prima di voltarsi come un galletto sul suo trespolo; durante la marcia, poi, saltellava come uno che ha la podagra oppure sgambettava come una vecchia peripatetica durante una festa paesana». Il caporale sputò: «Facevo a posta a rimediargli il fucile più arrugginito che ci fosse in modo che potesse imparare a pulirlo, se lo lisciava come fa un cane con una cagna, ma se anche si fosse comprato due chili di stoppa in più non sarebbe riuscito a lustrare un bel niente. Quanto più lo lucidava, tanto più malconcia ed arrugginita appariva l’arma, ed al rapporto il fucile passava da una mano all’altra e ciascuno si stupiva non riuscendo a comprendere come fosse un solo ammasso di ruggine e niente altro. Il nostro   In tedesco nel testo: «Otturatore». 52  Dal tedesco Gewehrgriff, che indica il modo in cui si deve afferrare il fucile in determinate posizioni. 53   Dal tedesco Schritt, «passo». 51

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capitano gli diceva sempre che non sarebbe mai e poi mai diventato un soldato, e pertanto sarebbe stato meglio se fosse andato ad impiccarsi, piuttosto che mangiare a tradimento il pane del governo. E lui, dietro i suoi occhialetti, non faceva che battere le ciglia. Era per lui festa grossa, se non si beccava qualche verschärft o qualche consegna. Era proprio in quei giorni che di solito scriveva i suoi articoletti per il giornale circa i maltrattamenti dei soldati, finché una volta gli ispezionarono la valigia. Avreste dovuto vedere quanti libri ci aveva dentro! Tutti libri sul disarmo, sulla pace tra i popoli. Per questo motivo lo spedirono in fortezza, e da allora in poi non ci dette più alcun fastidio, finché un bel giorno ci ricapitò in ufficio per sistemare le sue cose, e noi dovemmo impartire alla truppa l’ordine di non dargli confidenza. Questa fu la triste fine di quell’intellettuale. Avrebbe potuto diventare qualcuno, se, a causa della sua stupidità, non avesse perduto i diritti che gli derivavano dalla sua condizione di volontario con ferma annuale. A quest’ora avrebbe potuto essere sottotenente». Il caporale sospirò: «Neppure i risvolti del cappotto sapeva sistemarsi, si faceva venire addirittura da Praga varie pomate per pulirsi i bottoni, eppure ogni suo bottone era arrugginito come Esaù. Ma quanto a cianciare, ci sapeva proprio fare, e quando veniva nell’ufficio non faceva niente altro che filosofare. Fin da prima aveva una speciale passione per queste cose. Era, come ho già detto prima, un ‘uomo.’ Una volta che stava facendo queste sue solite considerazioni davanti ad una pozzanghera nella quale doveva buttarsi al mio nieder! gli dissi: ‘Dal momento che lei sta sempre a parlare dell’uomo e del fango, si ricordi che l’uomo stesso è stato creato col fango, e gli dové andar bene per forza.’ » Ora che aveva ultimato il suo racconto, il caporale era soddisfatto, ed aspettava che il volontario con ferma annuale dicesse qualcosa riguardo a quello che aveva narrato. Invece fu Sc’vèik a parlare: «Per delle faccende analoghe, cioè per via di certe angherie, anni fa un certo Koníček del trentacinquesimo reggimento sbuzzò se stesso ed il suo caporale. C’era anche nel Kurýr.54 Il caporale si beccò sul corpo una trentina di colpi di arma bianca, dei quali più di una dozzina erano mortali. Il soldato, poi, si mise a sedere sul caporale morto, ed in quella posizione si trafisse. Un episodio simile avvenne in Dalmazia, anche questo alcuni anni fa, ci fu un caporale 54

«Il corriere», rivista illustrata praghese, di tendenza conservatrice.

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sgozzato, e fino ad oggi non s’è potuto sapere chi l’abbia accoppato. La cosa è rimasta avvolta nel mistero, l’unica cosa certa è che quel caporale si chiamava Fiala ed era di Drábovna presso Turnov. Inoltre so ancora di un caporale del settantacinquesimo, un certo Rejmánek…» A questo punto la piacevole conversazione venne interrotta da grossi gemiti provenienti dalla panca sulla quale dormiva il cappellano militare superiore Lacina. Il padre si stava svegliando in tutta la sua bellezza e dignità. Il suo risveglio era accompagnato dai medesimi fenomeni coi quali si svolgeva il levarsi mattutino del gigante Gargantua, descritti dal vecchio allegro Rabelais. Il cappellano militare superiore scoreggiò e ruttò sulla sua panca, poi cominciò a sbadigliare rumorosamente. Alla fine si alzò mettendosi a sedere e chiese con aria stupita: «Osteria! dove mi trovo?» Il caporale, vedendo che il suo superiore s’era destato, rispose con grande devozione: «Faccio rispettosamente notare, signor Oberfeldkurat, che vossignoria si trova nel vagone degli uomini agli arresti». Un lampo di stupore passò sulla faccia del sacerdote. Se ne restò seduto un istante in silenzio cercando di riordinare le idee. Non ottenne alcun risultato. Tra quello che gli era capitato durante la notte e il mattino ed il suo risveglio nel vagone i cui finestrini erano chiusi da inferriate c’era un mare di nebbie. Alla fine domandò al caporale, il quale continuava a stare davanti a lui con aria assai compunta: «Ma per ordine di chi io, insomma come…» «Faccio rispettosamente notare, signor Oberfeldkurat, che nessuno ha dato alcun ordine». Il padre si alzò e prese a camminare tra le panche, borbottando tra sé e sé che la cosa non gli era chiara. Poi si rimise a sedere dicendo: «Dov’è che stiamo andando esattamente?» «A Bruck, faccio rispettosamente notare». «E perché andiamo proprio a Bruck?» «Faccio rispettosamente notare che è stato là trasferito tutto il nostro novantunesimo reggimento». Il sacerdote si sprofondò nuovamente nei suoi pensieri, tentando di capire che cosa gli fosse in effetti accaduto, come fosse andato a finire in quel vagone e perché stesse viaggiando alla volta di Bruck e proprio col novantunesimo reggimento, accompagnato da una scorta. Mentre la sbronza gli stava passando, cominciò a distin376

guere così bene le cose attorno a sé che riconobbe perfino, tra quanti lo circondavano, anche il volontario con ferma annuale, al quale si rivolse per chiedere: «Lei che è una persona intelligente, può spiegarmi senza tanti fronzoli e senza omettere alcuna circostanza, come mai sono capitato in mezzo a voi?» «Col massimo piacere», fece il volontario con ferma annuale con tono cameratesco, «per dirla come sta, lei stamattina si è aggregato al nostro gruppo mentre stavamo salendo sul treno perché s’era preso una bella scuffia». Il caporale gli lanciò un’occhiata severa. «Così lei è salito sul nostro vagone», proseguì il volontario con ferma annuale, «ed ormai la cosa era bell’e fatta. S’è steso su questa panca ed il nostro Sc’vèik le ha messo sotto la testa il proprio cappotto. Durante il controllo del treno, effettuato alla stazione precedente, è stato inserito nell’elenco degli ufficiali che si trovano sul convoglio. È stata, per così dire, ufficialmente costatata la sua presenza in mezzo a noi, e per tale motivo il nostro caporale dovrà presentarsi a rapporto». «Ecco, ecco», sospirò il sacerdote, «significa dunque che alla prossima fermata mi trasferirò nelle vetture del comando. Non sa se è stato già distribuito il pranzo?» «Il pranzo verrà distribuito solo a Vienna, signor Feldkurat», si intromise il caporale. «E così voi mi avete messo il cappotto sotto la testa?» chiese padre Lacina rivolgendosi a Sc’vèik. «Vi ringrazio di tutto cuore». «Non merito alcun ringraziamento», rispose Sc’vèik, «io mi sono comportato come deve comportarsi ciascun soldato quando vede un suo superiore che non ha niente sotto la testa ed è partito per il mondo dei sogni. Ogni soldato deve aver rispetto per il proprio superiore, anche se questi è in stato anormale.55 Io ho una notevole esperienza coi Feldkuráti perché sono stato attendente del signor Feldkurat Otto Katz. Sono gente allegra e piena di buon cuore». Il cappellano militare superiore ebbe un accesso di spirito democratico per via della sbronza del giorno prima e, presa una sigaretta, la dette a Sc’vèik: «Tieni, prendi e fumatela! «Tu, dunque», soggiunse rivolgendosi al caporale, «dovrai andare a rapporto a causa mia. Non aver alcuna paura, 55   Giuoco di parole intraducibile: nel testo ceco: v jiným (dialettale invece di jiném) stavu può significare «in un altro stato» oppure «in stato interessante».

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ci penserò io a tirarti fuori dai guai, non ti succederà niente. «Quanto a te», si rivolse nuovamente a Sc’vèik, «ti prenderò con me. Ti farò stare tra due guanciali». Gli prese adesso un altro accesso di magnanimità e cominciò a promettere di fare del bene a tutti quanti, al volontario con ferma annuale avrebbe comprato della cioccolata, agli uomini della scorta avrebbe fornito del rhum, il caporale lo avrebbe fatto trasferire alla sezione fotografica presso il comando della settima divisione di cavalleria,56 tutti quanti, poi, li avrebbe fatti mettere in libertà e non si sarebbe mai dimenticato di loro. Cominciò poi a distribuire le sue sigarette a tutti quanti, non solo a Sc’vèik, ed a dichiarare che dava il permesso di fumare a tutti gli arrestati, assicurando nel medesimo tempo che si sarebbe dato da fare per far mitigare a ciascuno la pena, sì che ognuno potesse ritornare alla normale vita militare. «Non voglio», disse, «che di me serbiate un cattivo ricordo. Ho molte conoscenze, e state sicuri che con me non avrete niente da perdere. Mi fate proprio l’impressione di gente per bene, di gente che è cara a Dominiddio. Se anche avete peccato, state espiando la vostra pena, e vedo che sopportate con letizia e volentieri quello che Dio vi ha mandato. «Per quale motivo», soggiunse poi rivolgendosi a Sc’vèik, «siete stato punito?» «Dio mi ha mandato una punizione», rispose con aria compunta Sc’vèik, «mediante il Regimentsrapport, signor Oberféldkurat, a causa di un involontario ritardo nel raggiungere il mio reggimento». «Dio è sommamente misericordioso e giusto», disse solennemente il cappellano militare superiore, «egli sa chi deve punire, dato che in questa maniera non fa altro che dimostrare la sua onniveggenza ed onnipotenza. E per quale motivo è agli arresti lei, volontario con ferma annuale?» «Per il fatto che Dio misericordioso», rispose il volontario con ferma annuale, «si è compiaciuto di mandarmi un reumatismo, ed io sono montato in superbia. Dopo aver scontato la mia pena verrò mandato in cucina». «Quel che Dio dispone è ben disposto», osservò il sacerdote con entusiasmo, sentendo parlare di cucina, «anche là un uomo a modo può far carriera. È proprio in cucina che dovrebbero mandare le persone intelligenti, per via della preparazione dei cibi, dato che non è tanto importante   Tale comando si trovava a Cracovia, ben lontano dal fronte.

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come si cucina, ma piuttosto l’amore con cui ci si dedica a queste incombenze, ai condimenti ed al resto. Prendiamo gli intingoli, per esempio. Una persona intelligente, quando fa una salsa di cipolla, prende tutti i tipi di verdura e li soffrigge nel burro, quindi aggiunge spezie, pepe, altre spezie, un po’ di odori, un po’ di zenzero; un qualsiasi semplice cuoco, invece, si limita a far bollire delle cipolle e vi versa sopra una qualsiasi salsa di farina e sego. Lei, la vedrei davvero volentieri in una mensa ufficiali. Senza intelligenza si può vivere dedicandosi ad una qualsiasi occupazione e tirando a campare, ma in cucina, poi, si vede subito. Iersera, a Budějovice, al circolo ufficiali, ci hanno dato, tra l’altro, dei rognoni al madeira. A chi li ha preparati, possa Iddio rimettere tutti i peccati, era davvero una persona intelligente, ed infatti nella cucina di quella mensa ufficiali c’è un insegnante di Skuteč.57 I medesimi rognoni al madeira, una volta, li mangiai alla mensa ufficiali del sessantaquattresimo Landwehrregiment.58 Ci misero il cornino, proprio come quando si fanno al pepe nelle più comuni trattorie. E volete sapere chi li aveva fatti, che cosa faceva quel cuoco nella vita borghese? L’ingrassatore di bestiame in una tenuta». Il cappellano militare superiore tacque per un po’ e poi indirizzò il discorso sul problema culinario nell’Antico e Nuovo Testamento, quando per l’appunto, in quegli antichi tempi, si badava molto all’approntamento di vivande succulente che servivano per i servizi divini e per le solennità religiose. Poi invitò tutti quanti a cantare qualcosa, e Sc’vèik attaccò, con la sua solita mancanza di tatto: Ecco Marina che viene da Hodonín, la segue il parroco con un baril di vin.

Ma il cappellano militare superiore non si scompose minimamente: «Se ci fosse almeno un po’ di rhum, non avremmo bisogno di alcun barile di vino», disse, sorridendo con un’aria del tutto amichevole, «ed anche di quella Marina potremmo fare a meno, oltre a tutto non può che indurre al peccato». Il caporale mise una mano nella tasca del cappotto con aria circospetta tirando poi fuori una bottiglia schiacciata piena di rhum.   Cittadina della Boemia orientale.   In tedesco nel testo: «Reggimento della territoriale». Il numero è evidentemente sbagliato. I reggimenti della territoriale erano in Austria-Ungheria solo trentasette. 57 58

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«Faccio rispettosamente notare, signor Oberfeldkurat», disse con un filo di voce, dal che si comprese che grande sacrificio stava facendo, «se lei non si offende». «Non mi offendo, ragazzo mio», rispose con voce rischiarata dalla gioia il sacerdote, «berrò al nostro felice viaggio». «Gesummaria», sospirò impensierito il caporale, vedendo che, dopo una sorsata di quelle buone, metà della bottiglia era scomparsa. «Eh, ragazzaccio», disse il cappellano militare, sorridendo ed ammiccando con aria significativa al volontario con ferma annuale, «oltre a tutto lei bestemmia pure. Dominid-dio gliela farà scontare!» Il sacerdote si riattaccò alla bottiglia piatta, poi, passandola a Sc’vèik, gli ingiunse con tono imperioso: «Scolala!» «La guerra è guerra», disse Sc’vèik bonariamente al caporale, restituendogli la bottiglia vuota, che il poveretto si riprese fulminandolo con una strana occhiata luccicante, quale può lanciare soltanto un malato di mente. «Ed ora, fino a Vienna, schiaccerò un altro pisolino», disse il cappellano militare superiore, «e desidero essere svegliato appena saremo arrivati a Vienna». «Voi, poi», aggiunse rivolgendosi a Sc’vèik, «mi farete il piacere di andare nella cucina della nostra mensa, prenderete piatti e posate e mi porterete il pranzo. Direte che è per il signor Oberfeldkurat Lacina. Vedete di rimediare una porzione doppia. Se ci saranno knedlíky59 non prendetene dalla parte della punta, ci si rimette sempre. Inoltre mi porterete dalla cucina una bottiglia di vino, e prenderete un gavettino per farvici versare dentro del rhum». Padre Lacina si frugò nelle tasche. «Sentite», disse al caporale, «non ho spiccioli, prestatemi un fiorino. Ecco qui! Come vi chiamate?» «Sc’vèik». «Ecco qui, Sc’vèik, un fiorino per il viaggio! Caporale, prestatemi un altro fiorino. – Vedete, Sc’vèik, quest’altro fiorino lo riceverete quando avrete sistemato tutto quanto per benino. – Poi, dovete farvi dare pure delle sigarette e dei sigari per me. Se ci sarà una distribuzione di cioccolata fatevene fuori una doppia razione, se poi daranno scatolame, vedete di procurarvi della lingua affumicata o del fegato d’oca. Se distribuiranno formaggio emmenthal fate in modo di non farvene dare dalla parte della punta, ed 59   Tipico contomo della cucina ceca; grosso gnocco o polpettone fatto di mollica di pane che può essere imbottito con carne o con dolciumi.

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anche il salame ungherese, non dalla punta, ma dal mezzo, dov’è più morbido». Il cappellano militare superiore si distese sulla panca e dopo un minuto si addormentò. «Penso», disse il volontario con ferma annuale rivolgendosi al caporale mentre padre Lacina se la russava beatamente, «che siate del tutto soddisfatto del nostro trovatello. Al mondo ci sa proprio stare». «È già svezzato, come si dice, signor caporale», fece Sc’vèik, «ormai si attacca direttamente alle bottiglie». Il caporale lottò per un po’ di tempo con se stesso, e tutt’a un tratto perse tutto il suo servilismo e disse con durezza: «È fin troppo alla mano». «Con quella storia degli spiccioli che gli mancavano», intervenne Sc’vèik, «mi ricorda un certo Mlíčko, muratore che stava a Dejvice.60 Anche quello non aveva mai spiccioli, finché un bel giorno si trovò indebitato fino al collo e venne messo dentro per truffa. S’era mangiato i bigliettoni e non aveva spiccioli». «Al settantacinquesimo reggimento», saltò su uno degli uomini di scorta, «un capitano, prima della guerra, si   Quartiere nordoccidentale praghese.

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bevve tutta la cassa del reggimento e dovette dare le dimissioni, ma adesso è nuovamente capitano, ed un felák 61 che rubò all’erario il panno per le mostrine, facendone fuori più di venti pacchetti, è oggi Stabsfeldwebel,62 mentre un fantaccino è stato poco tempo fa fucilato in Serbia perché s’era mangiato tutta in una volta la sua scatoletta che gli doveva bastare per tre giorni». «Questo non c’entra», dichiarò il caporale, «ma certo che farsi prestare da un povero caporale due fiorini per dare la mancia…» «Rieccovi il vostro fiorino», disse Sc’vèik, «io non voglio arricchire alle vostre spalle. E se mi darà anche quell’altro fiorino, ve lo renderò, affinché non abbiate a piagnucolare tanto. Dovreste essere contento quando un superiore vi chiede in prestito dei soldi a sbafo. Voi siete terribilmente egoista. Qui non si tratta di altro che di due miseri fiorini, ma io vorrei vedervi se doveste sacrificare la vita per un superiore dell’esercito, se egli fosse ferito sul campo, verso le linee avversarie, e voi doveste salvarlo e riportarlo dai nostri con le vostre braccia, mentre quelli tirano shrapnel ed ogni sorta di altri proiettili». «Voi ve la fareste sotto», si difese il caporale, «pezzo di buono a nulla». «Ci sono parecchi che se la fanno nei pantaloni ad ogni Gefecht», 63 intervenne di nuovo l’uomo della scorta, «non molto tempo fa, a Budějovice, un camerata ferito ci raccontò che una volta che vorrückavano64 se la fece sotto per tre volte di seguito. La prima volta quando balzarono su dalle Deckunghe65 per scagliarsi verso il Platz66 davanti ai Drahthindernissi,67 poi quando cominciarono a farli a pezzi, ed infine per la terza volta si riempì i calzoni quando si scagliarono contro di loro i russi con la baionetta in canna gridando ‘hurrà.’ Alla fine cominciarono a scappare ed a ritirarsi nelle Deckunghe, e del loro Schwärm68 non ce n’era nessuno che non se la fosse fatta addosso. Ed un morto, che giaceva in su, sopra una Deckung, con le gambe in basso, un tale cui prima della Vorrückunga69 una shrapnelata aveva staccato metà della testa con tale precisione   Dal tedesco Feldwebel, «maresciallo».   In tedesco nel testo: «Maresciallo di stato maggiore».   In tedesco nel testo: «Combattimento». 64   Dal tedesco vorrücken, «avanzare». 65   Dal tedesco Deckung, «riparo». 66   Dal tedesco Platz, «posto, luogo». 67   Dal tedesco Drahthindernis, «reticolato di filo spinato». 68   In tedesco nel testo: «Schiera». 69   Dal tedesco Vorrückung, «avanzata». 61 62 63

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che sembrava tagliata con un bisturi, anche costui, all’ultimo momento, se ne era fatta addosso tanta che gli colava giù dai calzoni, attraverso gli scarponi, nelle Deckunghe, insieme col sangue. E quel suo mezzo cranio, con tutto il cervello dentro, si trovava proprio sotto. Uno non può neppure sapere come gli capitano certe cose». «Qualche volta, invece», disse Sc’vèik, «al Gefecht ci si sente male, si prova nausea. A Praga, in via Pohořelec, alla ‘Bella vista,’ un ferito convalescente di Przemyšl70 ci raccontò che una volta, ad una Festunga,71 ci fu un attacco alla baionetta, e gli si parò davanti un russo, un omone alto quanto una montagna, il quale cominciò a fare la scherma con lui, ed aveva una grossa goccia sotto il naso. Mentre guardava quella goccia, quel moccio, si sentì subito male e dovette andare al Hilfsplatz,72 dove lo dichiararono contagiato da colera, ragion per cui lo spedirono a Budapest, al lazzaretto dei colerosi, e lì si beccò il colera sul serio». «Era soldato semplice o caporale?» domandò il volontario con ferma annuale. «Era caporale», rispose placidamente Sc’vèik. «Poteva capitare pure ad un qualsiasi volontario con ferma annuale», fece stupidamente il caporale, ma nel dir questo lanciò un’occhiata trionfante verso Marek, come volesse dirgli: «Te l’ho fatta, eh? Cos’hai da dire?» Ma il suo interlocutore restò zitto e si distese sulla panca. Si stavano avvicinando a Vienna. Coloro che non dormivano osservavano dal finestrino i reticolati e le fortificazioni disposte intorno alla capitale, vista che in tutto il treno suscitava evidentemente un senso di angoscia. Se fino ad allora s’era sentito dai vagoni il barrito dei montanari di Kašperské Hory: «Wann ich kumm, wann ich kumm, wann ich wieda, wieda kumm», adesso il canto s’azzittì sotto l’impressione del filo spinato che cingeva Vienna. «Va tutto bene», disse Sc’vèik guardando le trincee, «è tutto perfetto, solo che i viennesi, quando vengono a fare qualche gita da queste parti, corrono il rischio di stracciarsi i pantaloni. Qui bisogna stare attenti». «Vienna, a parte tutto, è una città importante», continuò, «se non altro per tutte quelle bestie feroci che si trovano nel serraglio di Schönbrunn.73 Anni fa, quando stavo   Città della Polonia sudorientale.   Dal tedesco Festung, «fortezza, fortificazione».   In tedesco nel testo: «Pronto soccorso». 73   A Schönbrunn, residenza imperiale, c’era veramente un piccolo zoo, ma qui Sc’vèik allude scherzosamente alla corte. 70 71 72

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a Vienna, la cosa che più mi piaceva era andare a vedere le scimmie, ma quando c’è qualche pezzo grosso che deve uscire dal castello imperiale, mettono i cordoni e non lasciano più passare nessuno. Una volta c’era con me un sarto del decimo distretto, e lo misero in gattabuia perché voleva vedere ad ogni costo le scimmie». «E siete stato pure al castello?» domandò il caporale. «Là dentro è molto bello», rispose Sc’vèik, «io non ci sono mai stato, ma me l’ha raccontato uno che ci è andato. La cosa più carina è la Burgwache.74 Ognuno di loro, stando a quel che si dice, deve essere alto due metri, e quando va in pensione gli danno una tabaccheria. Di principesse, poi, ce n’è una caterva!» Passarono adesso per una stazione, dove il transito del convoglio fu inseguito dalle note dell’inno austriaco, sonato da una banda che era venuta là forse per errore, dato che soltanto dopo un bel po’ di tempo il treno si arrestò alla stazione finale, e lì ricevettero il rancio e le accoglienze solenni. Ma ormai non era più come all’inizio della guerra, allorché i soldati avviati verso il fronte si facevano ad ogni stazione scorpacciate da scoppiare, ed erano accolti da signorine in stupidi abiti bianchi con facce ancora più stupide e con mazzi di fiori terribilmente idioti accompagnati da un discorso ancora più idiota di qualche nobildonna, il cui marito adesso fa magari lo sciovinista ed il repubblicano. Le accoglienze a Vienna erano organizzate da tre appartenenti all’associazione della Croce Rossa austriaca e da due dame di un’associazione bellica di signore e signorine viennesi, nonché da un rappresentante ufficiale della municipalità viennese e da un esponente delle forze armate. Su tutti i volti si scorgeva la noia. Treni pieni di truppe passavano giorno e notte, convogli della sanità carichi di feriti transitavano ogni ora, nelle singole stazioni venivano smistati da un binario all’altro ad ogni istante treni stipati di prigionieri di guerra, ed a ciascuno di questi avvenimenti dovevano essere presenti i membri di tutte quelle svariate istituzioni ed associazioni. Tutto ciò avveniva un giorno dopo l’altro, così che l’iniziale entusiasmo si era trasformato in una barba bella e buona. Nello svolgere quel servizio si davano il cambio, ma ciascuno di coloro che interveniva alle varie cerimonie nelle singole stazioni viennesi aveva la medesima espressione annoiata di quelli 74

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In tedesco nel testo: «Guardia del castello».

che stavano adesso in attesa del treno che trasportava il reggimento di Budějovice. Dai carri bestiame i soldati facevano capolino con l’aria smarrita, simile a quella di coloro che vengono avviati al capestro. Ad essi si avvicinarono le dame distribuendo loro dolciumi con scritte di zucchero quali: «Sieg und Rache», «Gott strafe England», «Der Oesterreicher hat ein Vaterland. Er liebt’s und hat auch Ursache für’s Vaterland zu kämpfen».  75 Si potevano vedere i montanari tedeschi di Kašperské Hory rimpinzarsi di dolciumi, pur non perdendo per questo la loro aria smarrita. Poi giunse l’ordine di andare a prendere il rancio, compagnia per compagnia, alle cucine da campo che si trovavano dietro la stazione. In quel posto si trovava anche la cucina della mensa ufficiali, e fu appunto là che si diresse Sc’vèik col proposito di eseguire gli ordini che gli aveva impartito il cappellano militare superiore, mentre il volontario con ferma annuale restò in attesa di ricevere la sua razione, dato che due della scorta erano andati a ritirare il rancio per tutto il vagone degli arrestati. Sc’vèik eseguì il suo compito a puntino, e, mentre passava da un binario all’altro, scorse il tenente Lukáš, il quale stava passeggiando tra le rotaie, in attesa di vedere se dalla mensa ufficiali gli avrebbero mandato qualche avanzo. La sua situazione era oltremodo sgradevole, poiché per il momento doveva servirsi dell’appuntato del tenente Kirschner. Il giovanotto, a dire il vero, si preoccupava unicamente del suo signore e, quando si trattava del tenente Lukáš, faceva un vero e proprio sabotaggio. «Dove state portando questa roba, Sc’vèik?» domandò l’infelice tenente, scorgendo Sc’vèik che deponeva a terra un bel mucchietto di cibarie che aveva sgraffignato alla mensa ufficiali e che adesso teneva avvolte nel suo cappotto. Sulle prime Sc’vèik rimase sorpreso, ma si riebbe immediatamente. Il suo volto era pieno di esultanza e di tranquillità quando rispose: «Tutto questo è per lei, faccio rispettosamente notare, 75 In tedesco nel testo: «Vittoria e vendetta», «Dio punisca l’Inghilterra», «L’austriaco ha una patria. Egli la ama ed ha anche motivo di combattere per la causa della patria».

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signor Oberleutnant. Soltanto che non so dov’è il suo scompartimento, così come non so se il signor comandante del treno avrà qualcosa da ridire se io vengo con lei. Il comandante è proprio un bel porco». Il tenente Lukáš guardò con aria interrogativa Sc’vèik, il quale, tuttavia, proseguì con aria bonacciona e confidenziale: «È proprio un bel porco, signor Oberleutnant. Quando ha fatto l’ispezione sul treno, gli ho immediatamente annunciato che erano già le undici e che pertanto, avendo ormai scontato la mia pena, dovevo essere trasferito o nel carro bestiame o da lei, ma lui mi ha trattato malamente, dicendomi che dovevo restare dove mi trovavo, perché almeno, così, non le avrei procurato alcun fastidio durante il viaggio, signor Oberleutnant». Sc’vèik assunse un’aria da martire: «Come se poi, signor Oberleutnant, le avessi mai procurato qualche fastidio». Il tenente Lukáš sospirò. «Di figuracce», continuò Sc’vèik, «non gliene ho fatte mai fare, se mai è successo qualcosa, è stato soltanto per puro caso, per semplice disegno divino, come soleva dire il vecchio Vaniček di Pelhřimov mentre stava scontando la sua trentaseiesima pena. Non ho mai fatto niente di male intenzionalmente, signor Oberleutnant, ho sempre voluto fare tutto l’inverso, qualcosa di buono, e non è colpa mia se né io né lei abbiamo mai tratto alcun profitto dalle mie azioni ed abbiamo avuto niente altro che dispiaceri e sofferenze». «Basta che non mi facciate tutti questi piagnistei, Sc’vèik», disse il tenente Lukáš con voce dolce, mentre si avvicinavano al vagone dello stato maggiore, «ci penserò io a sistemare tutto, affinché possiate tornare nuovamente da me». «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che non sto facendo piagnistei. Soltanto m’è venuta tanta pena nel vedere che noi due siamo le persone più disgraziate di questa guerra, e, in genere, le più sventurate fra quante ve ne sono sotto il sole, e che non possiamo farci niente. E proprio un destino infame, specialmente se penso che sono sempre stato così scrupoloso in tutta la mia vita». «Calmatevi, Sc’vèik!» «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che, se ciò non fosse contro la subordinazione, affermerei che non posso calmarmi per niente, ma debbo invece dire, secondo l’ordine che lei mi ha impartito, che sono completamente calmo, ormai». 386

«Allora, avanti, entrate dentro il vagone». «Faccio rispettosamente notare che entrerò dentro, signor Oberleutnant». Sull’accampamento militare di Bruck imperava il silenzio notturno. Nei baraccamenti per le truppe i soldati tremavano dal freddo, ed in quelli degli ufficiali si tenevano le finestre aperte perché i locali erano surriscaldati. Dai singoli impianti militari dinanzi ai quali si montava la guardia si sentivano di tanto in tanto i passi della sentinella, che cercava di scacciare il sonno passeggiando. Giù, verso Bruck sulla Leitha, brillavano le luci dell’imperialregia fabbrica di carne in scatola, dove si lavorava giorno e notte impiegando i vari rifiuti. Poiché da quella direzione soffiava il vento verso i viali del campo militare, arrivavano folate di puzza di tendini, di zoccoli, di unghie e di ossa marce che si bollivano per preparare le minestre in scatola. Da un laboratorio abbandonato, dove prima, in tempo di pace, c’era stato un fotografo che faceva pose ai soldati i quali trascorrevano la loro giovinezza al poligono mili387

tare, si vedeva in giù, nella vallata della Leitha, la rossa luce elettrica del bordello «Alla spiga di granturco», che era stato onorato da una visita dell’arciduca Stefano nel 1908 quando si erano svolte le grandi manovre di Sopron, e che adesso vedeva raccogliersi di giorno in giorno le allegre brigate degli ufficiali. Era la migliore casa di tolleranza, alla quale non avevano accesso i soldati semplici ed i volontari con ferma annuale. Questi ultimi andavano invece alla «Casa della rosa», le cui luci verdi si potevano altresì vedere dallo studio fotografico abbandonato. C’era insomma la stessa suddivisione che si notò poi al fronte, quando l’impero non poté più offrire alle sue truppe altro svago che quello di bordelli mobili assegnati presso i comandi di brigata, i così detti «puff». C’erano dunque i k.u.k. Offizierspuff, i k.u.k. Unteroffizierspuff ed i k.u.k. Mannschaftspuff.76 Brück sulla Leitha splendeva di luci, così come dall’altra parte del ponte riluceva Királyhíd, la Cislaitania e la Translaitania.77 In entrambe le città, quella ungherese e quella austriaca, sonavano delle orchestre zigane, luccicavano le finestre dei caffè e dei ristoranti, si cantava e si beveva. I borghesi e gli impiegati locali conducevano ai caffè ed ai ristoranti le loro signore e le loro figlie adulte; Bruck sulla Leitha e Királyhíd non costituivano altro che un solo grande bordello. In una delle baracche riservate agli ufficiali, al campo, Sc’vèik stava aspettando, a notte fatta, il suo tenente Lukáš, il quale era andato la sera in città per recarsi al teatro e fino ad ora non era ritornato. Sc’vèik stava seduto sul letto rifatto del tenente mentre dinanzi a lui sedeva sul tavolo l’attendente del maggiore Wenzl. Il maggiore era tornato al reggimento dopo che, in Serbia, era apparsa chiaramente la sua assoluta inettitudine sulla Drina.78 Si diceva che avesse fatto smontare e distruggere un ponte di barche quando aveva ancora metà 76 In tedesco nel testo (k.u.k. è l’abbreviazione di kaiserlich und königlich, «i(mperiale) e r(egio)«): «I. e r. puff per ufficiali, i. e r. puff per sottufficiali, i. e r. puff per gli uomini di truppa». 77 In base al compromesso del 1867, mediante il quale l’impero absburgico venne diviso in due parti, austriaca ed ungherese, il fiume Leitha segnava un tratto del confine tra i due territori. Cislaitania e Translaitania vennero pertanto a designare le regioni al di qua ed al di là della Leitha, che scorre ad est di Vienna, e, pertanto, l’Austria e l’Ungheria. 78  Affluente di destra della Sava, al confine tra Bosnia e Serbia. Nel 1914-15 gli austriaci penetrarono in Serbia quattro volte attraverso la Drina e la Sava.

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del suo battaglione sulla riva opposta. Adesso era stato assegnato al poligono militare di Királyhíd in qualità di comandante ed aveva anche le mani in pasta nell’amministrazione del campo. Tra gli ufficiali correva la voce che attualmente il maggiore Wenzl si stesse rimettendo in piedi. Le stanze di Lukáš e di Wenzl si trovavano sul medesimo corridoio. L’attendente del maggiore Wenzl, un certo Mikulášek, un giovanottello col volto butterato dal vaiuolo, dondolava le gambe e sbuffava: «Mi meraviglio proprio di quella vecchia canaglia, che tarda tanto a venire. Mi piacerebbe proprio sapere dove se ne va a gironzolare per tutta la notte quel vecchione! Se almeno mi desse la chiave della stanza, entrerei dentro e mi darei bel tempo. Ha vino a fiumi». «Dicono che ruba», fece con tono indifferente Sc’vèik, mentre si fumava tranquillamente una delle sigarette del suo tenente, il quale gli aveva proibito di fumare la pipa in camera sua, «e tu dovresti saperne qualcosa, come fate a procurarvi tutto questo vino?» «Io vado dove lui mi dice di andare», disse a bassa voce Mikulášek; «mi dà un bigliettino e vado a ritirare per gli ospedali la roba che poi porto invece a casa». «E se ti desse l’ordine di rubare la cassa del reggimento, lo faresti?» chiese Sc’vèik, «alle spalle non fai che rimbrottare, ma davanti a lui tremi come una foglia». Mikulášek ammiccò coi suoi occhietti; «Vorrei pensarci bene sopra». «Non hai un bel niente da pensare, bestiolina che non sei altro!» esclamò Sc’vèik, ma poi ammutolì all’improvviso, perché s’era aperta la porta ed era entrato dentro il tenente Lukáš. Come si poté subito osservare, era di ottimo umore, poiché aveva il cappello alla rovescia. Mikulášek ebbe tanta paura che dimenticò di scendere giù dal tavolo, tuttavia fece il suo bravo saluto d’ordinanza restando seduto, avendo oltre a tutto dimenticato che in testa non aveva il berretto. «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che è tutto a posto», annunciò Sc’vèik, assumendo una perfetta posa militare nella marnerà stabilita dai regolamenti, ma stringendo ancora tra le labbra la sigaretta. Il tenente Lukáš, tuttavia, non notò questo particolare e si diresse immediatamente verso Mikulášek, il quale seguiva con gli occhi sbarrati ogni movimento dell’ufficiale, continuando nel frattempo a salutare ed a sedere sul tavolo. «Tenente Lukáš», si presentò il tenente avvicinandosi 389

a Mikulášek con passo non del tutto sicuro, «e voi come vi chiamate?» Mikulášek restò zitto. Lukáš si accostò una seggiola davanti al tavolo, nel punto in cui stava seduto Mikulášek, si mise a sedere e, guardandolo, disse: «Sc’vèik, portatemi la pistola d’ordinanza che sta nella valigia». Per tutto il tempo che Sc’vèik cercò l’arma nella valigia, Mikulášek tacque limitandosi a guardare atterrito il tenente. Se in quel momento si accorse finalmente di star seduto sul tavolo, la sua disperazione dovette essere ancora maggiore, dato che i suoi piedi toccavano le ginocchia dell’ufficiale che gli stava seduto davanti. «Insomma, volete dirmi come vi chiamate?» esclamò dal basso il tenente verso Mikulášek. Ma questi continuò a tacere. Come spiegò dopo, era stato colto da una sorta di intorpidimento all’improvviso arrivo del tenente. Avrebbe voluto scender giù, ma non ci era riuscito, avrebbe voluto rispondere, ma non gli era stato possibile, avrebbe voluto smettere di fare il saluto, ma non c’era stato verso. «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant», si sentì Sc’vèik, «che la pistola non è carica». «Allora caricatela, Sc’vèik!» «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che non abbiamo cartucce, e che sarà un bell’affare abbatterlo giù dal tavolo. Mi permetto di osservare, signor Oberleutnant, che si tratta di Mikulášek, attendente del maggiore Wenzl. È uno che perde sempre la parola ogni volta che vede qualcuno dei signori ufficiali. Si vergogna proprio di parlare. Come dico, è per l’appunto una meschina bestia, un bolso. Il signor maggiore Wenzl lo pianta sempre nel corridoio quando va in città, e lui gironzola come un derelitto nella baracca passando da un attendente all’altro. Avesse almeno motivo per temere qualcosa, ma invece non ha combinato niente di male». Sc’vèik sputò, e dalla sua voce, e dal fatto che trattava Mikulášek da animale, si avvertiva il suo completo disprezzo per l’inettitudine dell’attendente del maggiore Wenzl e per il suo comportamento tutt’altro che marziale. «Permetta», continuò Sc’vèik, «che gli dia un’annusata». Sc’vèik tirò giù Mikulášek, che continuava ancora a guardare il tenente con occhi inebetiti, e, depostolo a terra, gli annusò i pantaloni. «Ancora no», dichiarò, «ma sta già cominciando. Debbo buttarlo fuori?» «Buttatelo fuori, sì!» 390

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Sc’vèik condusse nel corridoio il tremolante Mikulášek, chiuse la porta alle sue spalle e, nel corridoio, gli disse: «E così, scemo che non sei altro, ti ho salvato la vita! Quando tornerà il signor maggiore Wenzl, come compenso mi porterai quatto quatto una bottiglia di vino. Senza scherzi. Per davvero t’ho salvato la vita. Quando il mio Oberleutnant è sbronzo le cose si mettono sempre male. In quei casi so trattarlo soltanto io e nessun altro». «Io sono…» «Sei una scoreggia», sentenziò Sc’vèik disgustato; «mettiti a sedere qui davanti alla soglia ed aspetta che ritorni il tuo maggiore Wenzl». «Alla fine arrivate», così il tenente Lukáš accolse Sc’vèik, «volevo parlare con voi. Non dovete stare sullo Habtacht 79 con quest’aria da imbecille. Mettetevi a sedere, Sc’vèik, e piantatela col vostro ‘agli ordini.’  Acqua in bocca e state bene attento! Sapete dove si trova Sopronyi utca80 a Királyhíd? Lasciate stare il vostro solito: faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che non lo so. Se non lo sapete, dovete dire semplicemente: non lo so, e basta. Scrivete su un foglietto: ‘Sopronyi utca, numero 16.’ In quel palazzo c’è un negozio di ferramenta. Sapete cos’è un negozio di ferramenta? Herrgott, non dite faccio rispettosamente notare. Dite lo so, oppure non lo so. Dunque, sapete cos’è un negozio di ferramenta? Lo sapete, bene. Quel negozio appartiene ad un ungherese, un certo Kákonyi. Sapete cos’è un ungherese? Insomma, Himmelherrgott, lo sapete o no? Lo sapete, bene. Sopra il negozio c’è il primo piano, ed è là che costui abita. Lo sapete? Se non lo sapete, Gesù Cristo mio, ve lo dico io che ci abita. Vi basta? Vi basta, bene. E se non vi bastasse vi schiaffo dentro. Avete annotato che quel tizio si chiama Kákonyi? Ebbene, domani mattina, verso le dieci, scenderete in città, cercherete quella casa, salirete su al primo piano e consegnerete questa lettera alla signora Kákonyi». Nel dir questo, il tenente Lukáš aprì il portafogli e, sbadigliando, mise in mano a Sc’vèik una busta bianca priva di indirizzo contenente la lettera. «Si tratta di una faccenda di estrema importanza, Sc’vèik», continuò ad istruire il proprio attendente, «le precauzioni non sono mai troppe, e pertanto, come vedete, non c’è neppure l’indirizzo. Io mi fido completamente di voi, e spero che consegnerete questa lettera senza combinare guai.   In tedesco nel testo: «Attenti!» (comando militare).   In ungherese nel testo: «Via Sopron».

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Scrivetevi pure che quella signora si chiama Etelka, pertanto annotatevi ‘signora Etelka Kákonyi.’ Vi ripeto ancora una volta che dovete consegnare con discrezione la missiva ad ogni costo, ed aspettare la risposta. Che aspettate la risposta c’è scritto già nella lettera. Cosa altro volete sapere?» «Se non mi dessero alcuna risposta, signor Oberleutnant, cosa debbo fare?» «Mettetevi bene in testa che dovete avere una risposta a qualsiasi costo», rispose il tenente, spalancando ancora una volta la bocca per sbadigliare, «ma adesso voglio andare a dormire, sono davvero stanco. Quanto abbiamo bevuto! Penso che ognuno si sentirebbe stanco, dopo una serata ed una nottata come queste!» Sulle prime, il tenente Lukáš non aveva intenzione di trattenersi in nessun posto. Sul far della sera era uscito dal campo e si era avviato in città, per recarsi soltanto al teatro magiaro di Királyhíd dove si rappresentava un’operetta ungherese interpretata, nelle parti principali, da attrici ebree grassottelle; lo straordinario pregio di queste attrici era che, quando ballavano, tiravano in su le gambe e si vedeva che non avevano né sottovesti né mutandine, inoltre, per rendersi ancora più attraenti ai signori ufficiali, si erano 393

depilate nelle parti basse come fanno le tartare; dalla cosa non traeva alcun vantaggio la galleria, ma in compenso grande era il diletto degli ufficiali di artiglieria i quali occupavano i posti in platea e, per godersi meglio tutta quella bellezza, si portavano a teatro i binocoli prismatici in dotazione alle batterie. Al tenente Lukáš, tuttavia, quell’interessante porcheria non interessava affatto, perché il binocolo da teatro che aveva preso in prestito non era acromatico e così, invece delle cosce, non vedeva muoversi che delle superfici viola. Durante l’intervallo dopo il primo atto aveva attratto invece la sua attenzione una signora, la quale, accompagnata da un signore di media età, aveva trascinato quest’ultimo verso il guardaroba e gli aveva detto che sarebbero andati immediatamente a casa, perché lei non sarebbe stata a guardare simili spettacoli. La signora aveva parlato a voce abbastanza alta, in tedesco, ed il suo accompagnatore aveva risposto in ungherese: «Sì, angelo mio, andiamocene, sono d’accordo con te. È davvero una cosa disgustosa». «Es ist ekelhaft»,81 aveva risposto la signora con tono indignato, quando il signore le aveva infilato il mantello da teatro. Intanto i suoi occhi avvampavano di sdegno per quell’indecenza, grandi occhi neri, che tanto si addicevano alla sua splendida figura. Aveva guardato anche il tenente Lukáš ed aveva detto ancora una volta con indignazione: «Ekelhaft, wirklich ekelhaft!»82 Questo era stato sufficiente per intrecciare un breve romanzo. Dalla guardarobiera era venuto a sapere che erano i coniugi Kákonyi, e che il signore aveva un negozio di ferramenta in Sopronyi utca numero 16. «Ed abita al primo piano con la signora Etelka», aveva soggiunto la guardarobiera fornendo poi tutti i particolari, come sa fare una vecchia mezzana, «lei è una tedesca di Sopron, e lui è ungherese; qui è tutto mescolato». Il tenente Lukáš aveva ritirato il suo cappotto dal guardaroba e se ne era andato in città, incontrandosi con alcuni ufficiali del novantunesimo reggimento nella grande bottiglieria e caffè «Dell’arciduca Albrecht». Non aveva parlato molto, in compenso aveva bevuto abbondantemente riflettendo a lungo sul tenore della lettera che avrebbe voluto indirizzare a quell’altera e magnifica moralista, che decisamente lo attirava più di tutte le scim  In tedesco nel testo: «È ripugnante».   In tedesco nel testo: «Ripugnante, veramente ripugnante».

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mie che si esibivano sul palcoscenico, come i suoi colleghi ufficiali avevano definito le ballerine. Di ottimo umore si era poi trasferito in un piccolo caffè, «Alla croce di Santo Stefano», e lì era entrato in una piccola chambre separé 83 dalla quale aveva cacciato via una romena la quale si era offerta di spogliarglisi nuda e di fare con lui tutto quello che gli fosse piaciuto, s’era poi fatto portare inchiostro, penna e carta da lettere, aveva ordinato una bottiglia di cognac e, dopo matura riflessione, aveva vergato questa missiva, che gli era sembrata la cosa più graziosa che avesse mai scritto: Gentile signora, assistevo ieri, al teatro civico, allo spettacolo che tanto L’ha irritata. L’ho osservata già durante tutto il primo atto, Lei e Suo marito. Come ho potuto notare…

«Dagli addosso», s’era detto il tenente Lukáš, «che diritto ha quel barbogio di possedere una così amabile donna. Somiglia tutto ad un babbuino spelacchiato!» Così aveva continuato: … il Suo signor marito godeva da perfetto intenditore degli sconci rappresentati sul palcoscenico durante la rappresentazione che in Lei, gentile signora, ha suscitato repulsione, dato che non di arte si trattava, ma di una schifosa eccitazione dei più intimi sentimenti umani.

«Ha un seno quella femmina!» aveva pensato il tenente Lukáš, «avanti, dagli sotto!» Voglia scusarmi, gentile signora, se, benché Lei non mi conosca, mi permetto di essere sincero con Lei. Nella mia vita ho veduto molte donne, ma nessuna mi ha fatto l’impressione che mi ha fatto Lei, dato che i Suoi giudizi e le Sue opinioni coincidono perfettamente coi miei. Sono convinto che il Suo signor marito non è altro che un egoista, il quale La trascina appresso…

«Questo non va», aveva detto a se stesso il tenente Lukáš, così che aveva cancellato «schleppt mit» 84 ed invece di questo aveva scritto: …il quale per proprio diletto, gentile signora, La conduce a spettacoli teatrali che rispondono esclusivamente al suo proprio gusto. Mi piace la sincerità, non desidero affatto immischiarmi nella Sua vita privata, ma gradirei discorrere con Lei di pura arte in una conversazione confidenziale…

«Negli alberghi di qui non è il caso, dovrò rimorchiar  In francese nel testo: «Camera separata».   In tedesco nel testo: «trascina appresso».

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la a Vienna», aveva ancora pensato il tenente; «mi ci farò mandare per servizio». Per tale ragione, gentile signora, oso pregarLa di concedermi un incontro, affinché possiamo fare una più ìntima conoscenza entro i limiti del lecito, cosa che certamente Lei non vorrà negare a chi si appresta ad affrontare, entro brevissimo tempo, i penosi disagi della guerra, ad uno che, nel caso che Lei sia così cortese da acconsentire, conserverà, nell’infuriare della battaglia, il più bel ricordo di un’anima che l’ha capito così come egli ha capito lei. La Sua decisione sarà per me un comando, la Sua risposta sarà nella mia vita un elemento decisivo.

Aveva firmato, s’era scolato il cognac ed aveva ordinato una seconda bottiglia, poi, centellinando un bicchierino dopo l’altro, mentre rileggeva le sue ultime righe gli erano realmente venute le lagrime agli occhi, si può dire dopo ogni frase. Erano le nove di mattina allorché Sc’vèik destò il tetente Lukáš: «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che, dormendo, non ha potuto presentarsi al suo servizio, e che io, ormai, debbo andare a Királyhíd per recapitare la sua lettera. L’ho già svegliato una prima volta alle sette, poi alle sette e mezzo, poi alle otto, mentre le truppe marciavano qui vicino dirette alle esercitazioni, ma lei non ha fatto che voltarsi dall’altra parte. Signor Oberleutnant… Ehi, signor Oberleutnant…» Il tenente Lukáš, a dire il vero, dopo aver borbottato qualcosa, avrebbe voluto rigirarsi su un fianco, ma la manovra non gli riuscì, perché Sc’vèik cominciò a scuoterlo spietatamente urlando con quanto fiato aveva in gola: «Signor Oberleutnant, allora io vado a Királyhíd con quella lettera». Il tenente sbadigliò: «La lettera? Ah, sì, con la mia lettera, si tratta di una faccenda delicata, comprendete? di un segreto tra noi due. Abtreten…» Il tenente si avvoltolò nuovamente nella coperta dalla quale lo aveva tirato fuori Sc’vèik e riprese a dormire, mentre Sc’vèik si metteva in cammino alla volta di Királyhíd. Trovare Sopronyi utca numero 16 non sarebbe stato così difficile se per caso non lo avesse incontrato il vecchio zappatore Vodička, che era stato assegnato al reggimento degli «stiriani», la cui caserma si trovava giù nel campo. Anni prima, a Praga, Vodička era stato di casa in via na Bojišti, così che, essendosi incontrati, ai due non restò da fare altro che dirigersi entrambi verso la trattoria 396

«Dell’agnello nero» di Bruck, dove era cameriera la famosa Ruženka, una ceca con la quale avevano qualche debituccio tutti i volontari con ferma annuale boemi che fossero mai passati per il campo. Negli ultimi tempi lo zappatore Vodička, vecchio intrigante, le faceva da cavaliere, e teneva un elenco di tutte le compagnie di linea che lasciavano il campo, sì che poteva arrivare al momento giusto a ricordare i loro debiti ai volontari con ferma annuale cechi, affinché non si perdessero nel vortice della guerra senza aver saldato i conti. «Dove sei diretto esattamente?» chiese Vodička dopo che ebbero fatto, tanto per cominciare, una bella bevuta di ottimo vino. «È un segreto», rispose Sc’vèik, «ma a te, vecchio camerata, lo confiderò». Gli raccontò tutto quanto per filo e per segno, e Vodička dichiarò che un vecchio zappatore come lui non poteva abbandonarlo in un simile frangente, così che sarebbero andati insieme a consegnare la lettera. Si divertirono un mondo ricordando i tempi trascorsi e poi quando, dopo le dodici, uscirono dall’ «Agnello nero», tutto quanto sembrava loro naturale e facile. 397

Oltre a ciò avevano in cuor loro la ferma convinzione che non dovessero aver paura di nessuno. Lungo tutto il cammino per raggiungere Sopronyi utca numero 16, Vodička palesò il suo enorme odio verso gli ungheresi e si diffuse in ampi racconti di tutti i combattimenti sostenuti con essi in ogni dove, di tutte le occasioni nelle quali, nelle più svariate località, aveva fatto a pugni con loro, e delle circostanze che, in questo o quel posto, gli avevano di volta in volta impedito di venire alle mani con essi. «Una volta tenevo per il collo uno di questi bricconi di ungheresi a Pausdorf, dove noi, zappatori, eravamo andati a farci una bevutina, e, al buio come eravamo, dato che subito, fin dall’inizio, avevamo fracassato con le bottiglie la lampada, volevo dargli un colpo con l’Überschwung 85 sulla zucca, quando tutt’a un tratto quello mi si mette a gridare: «‘Tonda, sta’ attento che sono io. Purkrábek, del sedicesimo Landwehr!’  86 «C’è mancato poco che non ne nascesse un grosso equivoco. Tuttavia, con quei cialtroni di ungheresi ci siamo presi una bella rivincita al lago di Neusiedl,87 dove siamo andati a fare una gita tre settimane or sono. In un paesetto sperduto, lì vicino, c’è un reparto di mitraglieri del honvéd, e per caso capitammo tutti quanti noi in una trattoria mentre loro stavano ballando la loro csárdás 88 come cani arrabbiati e si spiegavano in cerchio cantando quelle loro: ‘uram, uram, biro uram’  89 oppure ‘Léanyok, léanyok, léanyok a faluba.’  90 Noi ci mettiamo a sedere dinanzi a loro; però le Überschwunghe ce le eravamo messe sul tavolo davanti a noi e ci diciamo: ‘Pezzi di bifolchi, ve le faremo vedere noi le léanyok,’ ed un certo Mejstřik, che aveva delle zampe come la Montagna Bianca,91 si fece subito avanti dicendo che sarebbe andato a fare un balletto ed assicurando che avrebbe soffiato la ragazza ad uno di quei manigoldi che danzavano in cerchio. Erano certi tipini da leccarsi i baffi, quelle ragazze, con certe 85   La parola si adopera nel tedesco d’Austria e significa: «Cinturone (militare)». 86   In tedesco nel testo: «Esercito territoriale». 87   Lago ad est di Sopron in Ungheria ed a sud-est di Vienna, al confine tra Austria ed Ungheria. 88   Danza popolare ungherese. 89   In ungherese nel testo: «Signore mio, signore mio, mio signor giudice». Come la frase seguente, è un ritornello di canzoni popolari. 90   In ungherese nel testo: «Ragazze, ragazze, ragazze nel villaggio. 91   Altura presso Praga, sulla quale venne combattuta nel 1620 la memorabile omonima battaglia.

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gambe e certi sederi, certe cosce e certi occhi! e quando quei cafoni di ungheresi si stringevano addosso a loro si vedeva che avevano seni pieni e sodi come due emisferi, e che a ballare a quel modo ci provavano gusto, perché erano tutt’altro che stinchi di santo. Così il nostro Mejstřik balza in mezzo al cerchio e tenta di strappare la più bella di quelle pollastrelle ad uno degli honvéd, il quale cominciò a barbugliare qualcosa, ma Mejstřik gli appioppò una sberla tale che lo stese a terra, noi, dal canto nostro, ci affrettammo a dare di piglio alle Überschwunghe, ce le attorcigliammo attorno alle mani per evitare che le baionette ci volassero via, balzammo in mezzo a quelli che ballavano, ed io gridai: ‘A chi tocca tocca, dategli addosso!’, dopo di che tutto andò liscio come l’olio. Loro cominciarono a scappare dalle finestre, ma noi li acchiappavamo al volo per le gambe mentre già stavano sul davanzale, e li trascinavamo di nuovo in mezzo alla sala. Chi non era dei nostri ne buscava di santa ragione. Ci si immischiò pure il loro sindaco con un gendarme, e si beccarono tutti e due botte da orbi. Ne prese pure l’oste, perché cominciò ad imprecare in tedesco, dicendo che eravamo dei guastafeste. In paese, poi, andammo a scovare quelli che se l’erano data a gambe dinanzi al nostro assalto. Uno dei loro caporali, ad esempio, lo beccammo nascosto nel fieno, in una tenuta in fondo al paese. Ci mise sulle sue tracce la sua ragazza, perché era andato a ballare con un’altra. S’era invaghita del nostro Mejstřík, e poi si accompagnò con lui su per la strada verso Kiràlyhid, dove si trovano gli essiccatoi per il fieno, verso il bosco. Se lo portò in uno di questi essiccatoi, e poi avrebbe preteso da lui cinque corone, ma lui le affibbiò una sberla in faccia. Egli ci raggiunse poi soltanto quando eravamo già su, vicino al campo, e ci disse che aveva sempre creduto che le ungheresi fossero più focose, quella troia, invece, era come un pezzo di legno, e non faceva altro che borbottare continuamente. «Gli ungheresi, per farla breve, sono canaglie», concluse il vecchio zappatore Vodička, e Sc’vèik, dal canto suo, osservò: «Ma un ungherese non può farci niente se è ungherese». «Come sarebbe a dire non può farci niente», si inquietò Vodička, «ognuno può farci qualcosa, questo che dici è una stupidaggine. Ti auguro proprio che ti si mettano addosso come hanno fatto con me, il primo giorno che arrivai qui per il corso. Lo stesso pomeriggio ci spinsero a scuola come un gregge di pecoroni ed un idiota cominciò a spiegare, con 399

tanto di disegni, che cosa sono le fortificazioni blindate, come si scavano le fondamenta, come si fanno le misurazioni, e minacciò che l’indomani, chi non avesse avuto i disegni di tutte le cose che egli aveva spiegato, sarebbe stato impacchettato e schiaffato dentro. ‘Gesù Cristo mio,’ penso allora io, ‘chi te l’ha fatto fare, quando eri al fronte, di iscriverti a questi corsi? L’hai fatto per svignartela dalla prima linea, oppure per esser costretto, la sera, a far disegnini con la matita in un quadernino, come un qualsiasi scolaretto?’ Mi prese una tale rabbia, e stavo così sulle spine, che non riuscivo neppure a guardare quell’idiota che ci spiegava quelle cretinate. Ero tanto adirato che avrei piuttosto fracassato ogni cosa. Non aspettai neanche che ci dessero il caffè, me ne uscii immediatamente dalla baracca e me ne andai a Királyhíd, e, per la rabbia che avevo in corpo, mi preoccupai soltanto di trovare in città una bettola in cui avessi potuto ubriacarmi e fare cagnara, dare qualche ceffone sul muso a qualcuno e poi tornarmene a casa con l’ira sbollita. Se non che l’uomo propone e Dio dispone. Giù verso il fiume, in mezzo agli orti, trovai in effetti un locale tranquillo come una cappella, che sembrava fatto a bella posta per fare confusione. Ci stavano seduti due avventori i quali chiacchieravano in ungherese, il che mi fece salire ancora di più il sangue al cervello, così che mi ritrovai sbronzo più e prima di quanto avessi pensato, e, con la sbornia che avevo, non notai neppure che accanto a quello c’era un altro locale, nel quale, mentre mi stavo ubriacando, erano entrati un otto ussari, che si lanciarono tutti quanti contro di me quando mi misi ad appioppare sberle in faccia ai primi due avventori. Quelle carogne di ussari mi pestarono a dovere e mi corsero dietro in mezzo agli orti, così che non riuscii ad arrivare a casa prima di mattina, per presentarmi immediatamente alla Marodezimmer,92 dove mi scusai dicendo che ero caduto in una mattonaia; poi, per tutta la settimana stettero a farmi impacchi bagnati, in modo che non mi venissero vesciche sulla schiena. Immaginati un po’ di doverti ritrovare in mezzo a simili furfanti! Quelli lì non sono uomini, sono animali!» «Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino», disse Sc’vèik, «e non devi neppure stupirti che con te avessero un dente avvelenato, dal momento che erano stati costretti a lasciare tutto il loro vino sul tavolo per inseguirti tra gli orti, nelle tenebre. Dovevano darti il fatto tuo su92

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In tedesco nel testo: «Camera per malati, infermeria».

bito lì, in quel locale, e poi buttarti fuori. Per loro sarebbe stato meglio, e per te pure, se l’aveste fatta finita seduta stante. Io conoscevo un venditore di acquavite di Libeň,93 un certo Paroubek. Una volta gli si ubriacò nel suo locale uno sprangato, che aveva bevuto troppo liquore di ginepro, e cominciò ad imprecare, dicendo che i beveraggi che gli passava erano troppo deboli, che ci aggiungeva dell’acqua, che se avesse esercitato il suo mestiere per cento anni e con tutto il guadagno fatto avesse comprato acquavite di ginepro e se la fosse bevuta in una sola volta, sarebbe stato ancora in grado di farsi una passeggiata portando in braccio lui, Paroubek. Disse poi a Paroubek che era un huncut,94 che era come la bestia di Šaščín,95 allora il bravo Paroubek lo acchiappò, gli batté in testa le sue trappole per topi ed il suo fil di ferro, dopo di che lo buttò fuori e lo pestò ben bene sulla strada con l’asta che usava per alzare ed abbassare la saracinesca inseguendolo fin giù all’ospedale degli invalidi, e, infuriato come era, gli corse appresso oltre l’ospedale degli invalidi a Karlín arrampicandosi per la collina di Zižkov, e poi, passando per i Forni ebraici, fino a Malešice,96 dove alla fine gli spaccò addosso l’asta, sì che poté ritornarsene a Libeň. Già, ma, arrabbiato come era, aveva dimenticato che il suo locale era pieno di avventori, e che quei mascalzoni sarebbero stati capaci di servirsi da soli. Di questo, d’altro canto, poté convincersi quando fece ritorno alla sua bettola. Vi trovò la saracinesca semiabbassata, presso la quale montavano la guardia due poliziotti, anche loro alquanto alticci, che erano venuti per rimettere l’ordine nel locale. Tutto quello che c’era da bere era stato mezzo scolato, fuori, per strada, c’era un barile di rhum vuoto, e sotto il banco Paroubek trovò due tizi ubriachi fradici, guardati a vista dai poliziotti, i quali, quando li trascinò fuori, volevano sborsargli due soldi a testa, sostenendo che non avevano bevuto žitná  97 per una somma maggiore di quella. Ecco come viene punito chi è troppo precipitoso. E lo stesso succede in guerra. Dapprima le soniamo di santa ragione al nemico, poi cominciamo a stargli alle calca  Quartiere nordorientale di Praga.   In ungherese nel testo: «Birbante».  Si tratta forse della «Signora di Čachtice», cioè di Elisabetta Báthory, signora del castello di Čachtice nella regione di Nitra, in Slovacchia, vissuta dal 1570 al 1614, della quale si narrava che uccideva giovani fanciulle nel cui sangue faceva il bagno per conservare la sua bellezza. Probabilmente è un errore, dato che a Šaščín c’è un’immagine miracolosa della Madonna. 96   Quartiere sudorientale di Praga. 97   Acquavite di grano. 93 94 95

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gna, e, dai e dai, alla fine non abbiamo più neanche la forza per battercela in ritirata». «Ma quei mascalzoni me li sono fissati bene in mente», replicò Vodička, «se per caso qualcuno di quegli ussari mi capitasse davanti ai piedi per strada, ci penserei io a farci i conti. Noi zappatori, quando ci fanno girare il pallino, siamo delle gran bestiacce. Non siamo mica come quelle mosche di ferro!98 Quando eravamo al fronte, a Przemyšl, era con noi il capitano Jetzbacher, un maiale come non se ne è mai visto l’eguale sulla faccia della terra. Ci rompeva le scatole a tal punto che un certo Bitterlich della nostra compagnia, un tedesco, tuttavia persona assai a modo, giunse al punto di spararsi a causa sua. Allora ci dicemmo che, appena fossero cominciate a fioccare pallottole dalla parte dei russi, anche il nostro capitano Jetzbacher avrebbe tirato le cuoia. Ed infatti, appena i russi aprirono il fuoco contro di noi, nella sparatoria gli spedimmo addosso cinque Schussi.99 Malgrado questo quell’animale rimase ancora vivo e vegeto, e dovemmo tirargli altri due colpi per farla finita; lui borbottò soltanto qualcosa, ma dicendo frasi ridicole, assai divertenti». Vodička si mise a ridere: «Episodi simili, al fronte, sono all’ordine del giorno. Mi raccontava un mio vecchio camerata, uno che adesso sta qui con noi, che una volta, mentre si trovava, come fante, verso Belgrado, la sua compagnia nel corso di un Gefecht, sparò al suo Oberleutnant, un cane maledetto che aveva fatto fuoco contro due soldati durante una marcia perché non potevano più andare avanti. E quella carogna, mentre stava per spirare, tutt’a un tratto si mise a fischiare il segnale della ritirata. Dice che tutti quelli che gli stavano intorno si sbellicavano dalle risa». Mentre erano occupati in questa avvincente ed istruttiva conversazione, Sc’vèik e Vodička, alla fine, trovarono il negozio di ferramenta del signor Kákonyi in Sopronyi utca numero 16. «Sarebbe però meglio che mi aspettassi qui», disse Sc’vèik a Vodička davanti all’andito della casa, «farò un salto al primo piano, consegnerò la lettera, mi prenderò la risposta ed in un baleno sarò di ritorno». «Io dovrei lasciarti in asso?» fece stupito Vodička. «Si vede proprio che non conosci gli ungheresi, te lo dico e te 98   Železné mouchy, «mosche di ferro», era un nomignolo ingiurioso dei soldati della territoriale austro-ungarica. 99   Dal tedesco Schuss, «colpo».

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lo ridico. Qui dobbiamo tener gli occhi bene aperti. Io sono pronto a stenderlo per terra». «Stammi a sentire, Vodička», disse Sc’vèik con aria seria, «qui non si tratta di un ungherese, ma della sua signora. Eppure dovresti ricordarti che, quando stavamo a sedere con quella cameriera ceca, ti ho spiegato che la lettera che sto portando è del mio Oberleutnant, e che si tratta di un vero e proprio segreto. Sai bene che il mio Oberleutnant m’ha infuso la convinzione che di questa faccenda non deve saper niente anima viva, ed anche la tua cameriera ha detto che è proprio giusto così, perché la cosa è assai delicata. Nessuno deve venire a sapere che il signor Oberleutnant intrattiene una corrispondenza con una donna maritata. E tu stesso hai assentito ed approvato facendo segno di sì con la testa. Vi ho spiegato, in maniera opportuna ed adeguata, che sto eseguendo a puntino gli ordini ricevuti dal mio Oberleutnant, ed ecco che tu tutt’a un tratto hai la pretesa di venire su con me ad ogni costo». «Tu non mi conosci ancora bene, Sc’vèik», rispose con la medesima serietà il vecchio zappatore Vodička, «se ho detto che non ti abbandonerò in mezzo ai guai, mettiti bene in testa che la mia parola vale quanto quella di cento persone. Ad essere in due, si è sempre più sicuri». «Ma io riuscirò a farti cambiare opinione, Vodička. Sai dov’è via Neklanová, a Vyšehrad? Ebbene, là aveva la sua officina il fabbro Vobornik. Era un uomo giusto, ed un giorno, tornando a casa dopo essersi dato ai bagordi, si portò a dormire a casa sua un altro gozzovigliatore della sua brigata. Poi dovette starsene a letto per parecchio tempo, ed ogni giorno, quando gli cambiava la fascia alla ferita che aveva in testa, sua moglie gli diceva sempre: ‘Vedi, Toníček, se non foste venuti in due, ti avrei dato soltanto una lavata di capo e non ti avrei tirato la bilancia sulla testa.’ Ed anche lui, poi, quando ormai era in grado di parlare, diceva: ‘Hai proprio ragione, moglie mia, quando andrò in qualche posto con qualcuno, a casa non mi ci porterò più nessuno.’ » «Già, ci mancherebbe anche questo», fece Vodička perdendo la pazienza, «che quell’ungherese ci volesse pure tirare in testa qualche cosa! Sono pronto ad afferrarlo per il collo ed a farlo volare giù per tutte le scale dal primo piano, in modo da sbatterlo fuori come uno shrapnel! Con questi birbanti di ungheresi bisogna andare per le spicce. Altro che mettersi a fare tante storie!» «Eppure, Vodička, non hai mica bevuto poi tanto! Io mi sono fatto due quartini più di te. Pensa soltanto a questo, 403

che non dobbiamo assolutamente fare scandali. Di tutta questa faccenda sono io il responsabile. Alla fin fine, si tratta di una femmina». «Ti sistemo pure questa femmina, Sc’vèik, per me è tutt’uno, tu il vecchio Vodička non lo conosci ancora bene. Una volta, a Záběhlice,100 all’ ‘Isola rosa’, una di queste luride donne non voleva venire a ballare con me, dicendo che avevo la bocca gonfia. È vero che avevo il muso gonfio, perché ero per l’appunto reduce da una festa da ballo svoltasi ad Hostivař,101 ma ti immagini dover ricevere un affronto simile da una sgualdrina come quella! ‘Intanto si prenda questa, stimata signorina,’ le dissi, ‘tanto perché non debba rimanere a bocca asciutta!’ Quando le appioppai quella sberla sul muso, andò per aria tutto il tavolo che stava in giardino, con tutti i bicchieri che ci stavano sopra, dietro il quale erano seduti lei, il padre, la madre, ed i suoi due fratelli. Ma non mi metteva paura neppure tutta l’ ‘Isola rosa’. C’erano nel locale certi conoscenti di Vršovice,102 i quali mi dettero una mano. Sistemammo per le feste un cinque famiglie, bambini compresi. Il fracasso si dovette sentire fin da Michle,103 e poi lo scrissero anche i giornali, che c’era stata quella baruffa nel giardino, durante una festa organizzata da una associazione di beneficenza di cittadini di non so bene quale città. Per questa ragione, come dico, così come gli altri aiutarono me, anche io sono sempre disposto ad aiutare qualsiasi camerata, quando c’è qualche cosa da fare. In nome di Dio vero, da te non mi allontanerò. Tu gli ungheresi non li conosci… Non puoi davvero farmi questo, di costringermi ad allontanarmi da te, dal momento che non ci vediamo da tanti anni, tanto più, poi, in simili circostanze». «E allora vieni con me», decise Sc’vèik, «ma bada bene a quello che fai, in modo che non si debba passare qualche dispiacere». «Non preoccuparti, camerata», fece Vodička a bassa voce, quando furono per le scale, «ci penso io a dargli un ceffone…» Poi, a voce ancora più bassa, soggiunse: «Vedrai che quel briccone di ungherese non ci darà molto da fare». E se, nell’androne, ci fosse stato qualcuno che capiva il ceco, avrebbe sentito ripetere a voce più alta la solita frase di Vodička, mentre questi si trovava ormai sulle scale: «Tu   Quartiere sudorientale di Praga.   Sobborgo dell’estremità orientale di Praga.   Quartiere sudorientale di Praga, a nord di Záběhlice. 103   Quartiere sudorientale di Praga, a sudovest di Záběhlice, 100 101 102

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gli ungheresi non li conosci…», frase che egli aveva pronunciato per la prima volta in quel quieto locale sul fiume Leitha, tra gli orti della celebre Királyhíd, circondata da alture che nei ricordi dei soldati susciteranno sempre maledizioni, quando essi rammenteranno tutte le Übungen104 per la guerra mondiale e per tutte le guerre mondiali, nel corso delle quali si esercitavano teoricamente per compiere massacri e macelli reali. Sc’vèik e Vodička erano davanti alla porta dell’appartamento del signor Kákonyi. Prima di premere il bottone del campanello, Sc’vèik disse con fare sentenzioso: «Hai mai sentito dire, Vodička, che la prudenza è la madre della saggezza?» «Non me ne importa un bel niente», rispose Vodička, «quel tizio non deve avere neppure il tempo di aprire la bocca…» «Ma io non ho da questionare con nessuno, Vodička». Sc’vèik sonò e Vodička disse ad alta voce: «Ein, zwei,105 e sarà in fondo alle scale». La porta si aprì, comparve una cameriera e chiese in ungherese che cosa volessero. «Nem tudom», 106 disse Vodička con disgusto, «impara il ceco, ragazza mia». «Verstehen Sie deutsch?» 107 domandò Sc’vèik. «A pischen». 108 «Also, sagen Sie der Frau, ich will die Frau sprechen, sagen Sie, dass ein Brief ist von einem Herr, draussen in Kong». 109 «Mi meraviglio di te», disse Vodička mentre entrava con Sc’vèik nell’anticamera, «che tu possa parlare con una simile puzzona». Si fermarono nell’anticamera, chiusero la porta di ingresso e Sc’vèik si limitò ad osservare: «Sono sistemati bene, qui, addirittura due ombrelli all’attaccapanni, e quel quadro di Gesù Cristo, anche quello, non è fatto male». Da una stanza dalla quale provenivano tintinnii di cuc  Dal tedesco Übung, «esercitazione».   In tedesco nel testo: «Uno, due».   In ungherese nel testo: «Non capisco». 107   In tedesco nel testo: «Capisce tedesco?» 108   Questa, e le frasi seguenti, sono in tedesco scorretto: «Un poco». 109   Allora, dica alla signora, io voglio parlare la signora, dica che una lettera è da parte di un signore, fuori nel corridoio». 104 105 106

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chiai e rumori di piatti mossi, tornò la cameriera che disse a Sc’vèik: «Frau ist gesagt, dass sie hat ka Zeit, wenn was ist, dass mir geben und sagen».110 «Also», fece con tono solenne Sc’vèik, «der Frau ein Brief, aber halten Kuschen».  111 Detto questo, estrasse la lettera del tenente Lukáš. «Ich», aggiunse indicando col dito se stesso, «Antwort warten hier in die Vorzimmer». 112 «Perché non ti metti a sedere?» domandò Vodička, il quale s’era già seduto su una seggiola accostata al muro, «eccoti lì una sedia. Non vorrai mica stare in piedi come un mendicante? Non umiliarti dinanzi a questo ungherese. Vedrai che dovremo litigarci, ma io gli appiopperò dei bei ceffoni. «Dimmi un po’», soggiunse dopo un istante, «dove hai imparato il tedesco?» «L’ho studiato da solo», rispose Sc’vèik. Vi fu di nuovo un momento di silenzio. Poi, dalla stanza in cui la cameriera aveva portato la lettera, pervenne un grande grido e del trambusto. Qualcuno buttò per terra qualcosa di pesante, poi si poté chiaramente distinguere che volavano bicchieri e si fracassavano piatti, mentre si levavano alti ululati: «Baszom az anyát, baszom az istenet, baszom a Kristus Marját, baszom az atyadot, baszom a vilàgót !» 113 S’aprì la porta ed entrò un signore vigoroso, con la salvietta attorno al collo, agitando la lettera consegnata un momento prima. Più vicino alla porta sedeva il vecchio zappatore Vodička, e fu appunto a lui che il signore arrabbiato si rivolse per primo. «Was soll das heissen, wo ist der verfluchter Kerl, welcher dieses Brief gebracht hat?»  114 «Piano piano», disse Vodička alzandosi in piedi, «cerca di non strillare tanto, perché altrimenti ti faccio fare un volo, e se poi vuoi sapere chi è che ha portato questa lettera chiedilo a quello là, a quel mio camerata. Ma devi parlarci educatamente, se no ti ritroverai oltre la porta in un batter d’occhi». 110   «Signora è detto che non ha niente tempo, se è qualcosa, di dare e dire a me». 111   «Allora… alla signora una lettera, ma tenere bocca chiusa». 112   «Io… risposta aspettare qui in anticamera». 113   In ungherese nel testo: volgare bestemmia che ingiuria la madre, Dio, Maria, il padre e tutto il mondo. 114   In tedesco nel testo: «Che significa questo, dov’è quel maledetto, che ha portato questa lettera?»

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Toccò adesso a Sc’vèik costatare quanto ricca fosse la parlantina del signore infuriato con la salvietta al collo, il quale stava farfugliando che erano venuti a seccarli proprio mentre pranzavano. «Infatti abbiamo sentito che stavate pranzando», riconobbe Sc’vèik col suo zoppicante tedesco, aggiungendo poi in ceco: «Poteva venirci in mente anche questo, che vi avremmo inutilmente disturbati nel bel mezzo del pranzo». «Non umiliarti», fece Vodička. Il signore adirato, al quale, dopo il suo animato gesticolare, la salvietta era rimasta attaccata ormai soltanto per un angolino, continuò a sbraitare, dicendo che dapprima aveva pensato che nella lettera si chiedessero dei locali per le truppe in quella casa, che apparteneva alla sua signora. «Qui ce ne entrerebbe molta di truppa», disse Sc’vèik, «ma non era di questo che si trattava, come probabilmente lei stesso avrà potuto costatare». Il signore si prese la testa tra le mani e sbottò in una serie di improperi, dicendo che pure lui era Leutnant della riserva, e che adesso sarebbe stato felice di compiere il suo dovere sotto le armi, ma che aveva una malattia ai reni. Aggiunse poi che ai suoi tempi gli ufficiali non erano così volgari da turbare la quiete delle famiglie. Minacciò infine 407

di mandare la lettera al comando del reggimento, ai ministero della guerra, e di farla pubblicare sui giornali. «Signore», disse allora con fare deciso Sc’vèik, «quella lettera l’ho scritta io. Ich geschrieben, kein Oberleutnant.115 La firma è stata messa così per metterla, ma è falsa. Unterschrift, Name, falsch.116 A me piace molto la sua signora. Ich liebe Ihre Frau.117 Della sua signora io sono innamorato fino alle orecchie, come soleva dire Vrchlický.118 Kapitales Frau». 119 L’irritato signore avrebbe voluto scagliarsi contro Sc’vèik il quale se ne stava pacifico e tranquillo in piedi davanti a lui, ma il vecchio zappatore Vodička, che seguiva ogni suo movimento, gli fece lo sgambetto e gli strappò di mano la lettera che continuava ad agitare e se la ficcò in tasca; quando poi il signor Kákonyi si riprese, Vodička lo afferrò, se lo trascinò alla porta, aprì quest’ultima con un braccio, e subito si sentì qualcosa rotolare giù per le scale. La cosa accadde con la rapidità delle favole, quando viene il diavolo a portarsi via qualche anima dannata. Del signore adirato non era rimasto altro che la salvietta. Sc’vèik la sollevò da terra, bussò con fare cerimonioso alla porta della stanza dalla quale, cinque minuti prima, era sbucato fuori il signor Kákonyi, e donde proveniva un pianto femminile. «Le riporto la salvietta», disse Sc’vèik dolcemente alla signora che piagnucolava sull’ottomana, «potrebbe essere calpestata. I miei rispetti». Batté i tacchi, sollevò la mano nel saluto ed uscì nel corridoio. Sulle scale non si notava la minima traccia di lotta; secondo le previsioni di Vodička qui tutto era andato liscio come l’olio. Soltanto giù in basso, presso il portone, nell’andito, Sc’vèik trovò un colletto staccato. Con ogni probabilità era stato lì, mentre il signor Kákonyi s’era disperatamente aggrappato al portone per evitare di essere trascinato per strada, che s’era svolto l’ultimo atto della tragedia. Per strada, invece, c’era una grande confusione. Il signor Kákonyi era stato portato nel portone opposto, e gli stavano facendo dei bagnuoli, in mezzo alla via il vecchio zappatore Vodička si batteva come un leone contro alcuni honvéd ed ussari degli honvéd, i quali avevano preso le di  In tedesco nel testo: «Io scritto, nessun tenente».   In tedesco nel testo: «Firma, nome, falso».   In tedesco nel testo: «Io amo la sua signora». 118   Jaroslav Vrchlický (1853-1912), poeta e letterato ceco. 119   In tedesco (scorretto) nel testo: «Donna stupenda». 115 116 117

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fese del loro connazionale. Maneggiava magistralmente la baionetta attaccata al cinturone agitandola come se fosse stata una trebbia. E non era solo. Spalla a spalla con lui combattevano alcuni soldati cechi appartenenti a vari reggimenti, che s’erano trovati a passare per quella strada. Sc’vèik, come asserì più tardi, non si accorse neppure in quale maniera si trovasse anch’egli immischiato nell’epica lotta, né seppe spiegare come mai, non avendo baionetta, si fosse ritrovato tra le mani il bastone di uno stupito spettatore. La mischia durò un bel pezzo, ma, come si sa, ogni bella cosa giunge al suo termine. Arrivò la «Bereitschaft»120 ed impacchettò tutti i contendenti. Sc’vèik prese a camminare accanto a Vodička, sempre reggendo in mano il bastone, che venne definito corpus delicti 121 dal comandante della Bereitschaft. Marciava soddisfatto, tenendo il bastone sulla spalla come un fucile. Il vecchio zappatore Vodička se ne rimase ostinatamente in silenzio per tutto il percorso. Soltanto quando entrarono nella Hauptwache disse con voce tetra a Sc’vèik: «Te l’avevo detto che gli ungheresi non li conoscevi?»

  In tedesco nel testo: «Squadra di pronto intervento «   In latino nel testo: «Corpo del delitto».

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4 Ancora traversie

Il colonnello Schröder contemplava compiaciuto il pallido volto del tenente Lukáš che aveva vistose borse sotto gli occhi e, imbarazzato com’era, evitava di guardare il colonnello, ma dava furtive occhiate, come se stesse studiando qualche piano, alla pianta della dislocazione della truppa nel campo militare, unico ornamento di tutto l’ufficio. Sul tavolo, davanti al colonnello Schröder, c’erano alcuni giornali con articoli sottolineati da matita blu, che il colonnello stava ancora scorrendo rapidamente mentre diceva, guardando il tenente Lukáš: «Lei dunque è già al corrente del fatto che il suo attendente Sc’vèik si trova agli arresti e probabilmente dovrà comparire davanti al tribunale di divisione?» «Sì, signor colonnello». «In questa maniera, naturalmente», incalzò con voce seria il colonnello, pascendosi della vista del pallido volto 411

del tenente Lukáš, «non tutta la faccenda sarà sistemata. È cosa certa che l’opinione pubblica locale è stata messa in agitazione da tutto il pandemonio provocato dal suo attendente Sc’vèik, ed in relazione allo scandalo si fa pure il suo nome, signor tenente. Dal comando di divisione ci è stato fornito certo materiale. Abbiamo già qui alcuni periodici i quali si occupano dell’intero caso. Può leggermi questo ad alta voce». Porse al tenente Lukáš un giornale con gli articoli sottolineati, ed il suo subordinato cominciò a leggere con voce monotona, come se, in un libro di lettura per bambini, compitasse la frase: «Il miele è assai più nutriente e più facilmente assimilabile dello zucchero». «Dov’è la garanzia per il nostro futuro?» «È il Pester Lloyd?» 1 domandò il colonnello. «Sì, signor colonnello», rispose il tenente Lukáš, continuando poi la sua lettura: La condotta della guerra esige la cooperazione di tutti gli strati della popolazione dell’impero austro-ungarico. Se, sotto il nostro comune tetto, vogliamo avere la sicurezza dello stato, tutte le nazioni debbono sostenersi a vicenda e la garanzia per il nostro futuro si fonda proprio sullo spontaneo rispetto che ciascuna nazione nutre verso le altre. I più grandi sacrifici dei nostri prodi soldati, che su tutti i fronti avanzano incessantemente, non sarebbero possibili se le retrovie, arterie di rifornimento e politiche delle nostre gloriose armate, non fossero compatte, se, alle spalle del nostro esercito, apparissero elementi che disgregassero la compattezza dello stato e, con la loro propaganda sovversiva e subdola, minassero l’autorità della compagine statale e mettessero confusione nella comunanza delle nazioni del nostro impero. In questo storico momento, non possiamo guardare rimanendo in silenzio un gruppetto di persone che, per motivi di localpatriottismo, vorrebbero tentare di intaccare il lavoro e lo sforzo unitario di tutte le nazioni del nostro impero, le quali aspirano ad infliggere una giusta punizione a tutti quei miserabili che hanno attaccato senza alcun motivo l’impero austroungarico per privarlo di tutto il suo patrimonio di beni culturali e civili. Non possiamo passare sotto silenzio queste schifose esplosioni di un’anima malata, la quale ad altro non mira se non ad infrangere la compattezza che regna nel cuore delle nostre nazioni. Abbiamo già avuto più volte occasione di rilevare sul nostro foglio un tipico fenomeno, che cioè le autorità militari sono costrette ad intervenire con la massima energia contro singoli appartenenti ai reggimenti boemi, i quali, senza il minimo rispetto per le gloriose tradizioni dei propri reparti, col loro inconsulto e furioso comportamento diffondono nelle nostre città ungheresi la collera contro tutta la nazione ceca, che, nel suo complesso, non ha la benché minima colpa ed ha sempre lealmente difeso gli interessi dell’impero, come dimostra tutta una serie di eminenti condottieri boemi, tra i quali ricordiamo   Periodico di Budapest.

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le gloriose figure del maresciallo Radetzky e di altri strenui difensori dell’impero austro-ungarico. Contro questi esempi luminosi ci sono alcuni miserabili appartenenti alla dissoluta marmaglia boema, i quali, approfittando dello stato di guerra, si sono arruolati volontariamente nell’esercito e sono riusciti a portare scompiglio nella compattezza che unisce ripopoli della monarchia, restando naturalmente fedeli alle loro meschine origini. Già una volta abbiamo fatto rilevare le malefatte commesse dal reggimento numero… a Debrecen, le cui intemperanze sono state discusse e condannate al parlamento di Budapest, e la cui bandiera, al fronte, è stata poi – censurato. – Chi ha sulla coscienza quell’infame crimine? – Censurato. – Chi è che ha spinto i soldati boemi – censurato. – Di che cosa siano capaci questi stranieri nella nostra patria ungherese, ce lo indica nella maniera più eloquente il recente episodio di Királyhíd, isola ungherese sulla Leitha. A quale nazionalità appartenevano i soldati del non lontano campo di Bruck sulla Leitha, i quali hanno aggredito e malmenato il signor Gyula Kákonyi, commerciante locale? È decisamente dovere delle autorità indagare su questo delitto e chiedere al comando militare, il quale si occupa già certamente del penoso episodio, quale è il ruolo svolto in questa sobillazione contro i sudditi della monarchia ungherese dal tenente Lukasck, il cui nome viene riferito in città in relazione agli avvenimenti degli ultimi giorni, come ci è stato riferito dal nostro corrispondente locale, il quale ha già raccolto abbondante materiale sull’intera vicenda, che nell’attuale, grave momento, appare assai stridente. I lettori del Pester Lloyd seguiranno sicuramente con interesse lo sviluppo delle indagini, noi, dal canto nostro, non ci esimiamo dall’assicurarli che tratteremo diffusamente questa faccenda di estrema gravità. Nel medesimo tempo, tuttavia, restiamo in attesa di un comunicato ufficiale circa il crimine perpetrato a Királyhíd contro la popolazione ungherese. È più che evidente che della cosa dovrà occuparsi il parlamento di Budapest, affinché una buona volta risulti chiaramente che i soldati cechi i quali transitano per il regno d’Ungheria, diretti al fronte, non debbono considerare la terra di Santo Stefano una terra presa in affitto. Se poi alcuni esponenti di quella nazione che a Királyhíd ha rappresentato così bene la comunanza di intenti di tutte le nazioni dell’impero non dovessero neppure oggi comprendere quale è la situazione, farebbero bene a tenere il becco chiuso, poiché in tempo di guerra un proiettile, un nodo scorsoio, la galera o una baionetta possono insegnar loro a decidersi finalmente ad essere persone a modo ed a sottomettersi ai supremi interessi della nostra comune patria.

«Di chi è la firma sotto l’articolo, signor tenente?» «Di Bela Barabás, pubblicista e deputato, signor colonnello». «È un noto animale, signor tenente; ma prima che comparisse sul Fester Lloyd questo articolo era stato già stampato sul Pesti Hirlap.2 Ed adesso mi legga la traduzione ufficiale dall’ungherese dell’articolo pubblicato sul periodico di Sopron Sopronyi Napló».3   «Giornale di (Buda)Pest», organo dei nazionalisti ungheresi.   «Diario di Sopron», quotidiano di Sopron.

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Il tenente Lukáš prese a leggere ad alta voce un articolo nel quale il redattore ci si era messo proprio di impegno per dare risalto ad un miscuglio di frasi come: «L’esigenza della saggezza statale», «ordine dello stato», «perversità umana», «dignità e sentimenti umani calpestati», «spedizioni da cannibali», «società umana massacrata», «accozzaglia di mammalucchi», «li riconoscete dietro le quinte». E si proseguiva su questo tenore, come se gli ungheresi, sul loro stesso suolo, fossero l’elemento più perseguitato di tutti. Come se i soldati boemi fossero arrivati, avessero malmenato il redattore e gli avessero camminato con gli scarponi sopra la pancia, e, mentre quello sventurato urlava di dolore, qualcuno fosse stato a stenografare i suoi lamenti. Su alcuni avvenimenti di estrema importanza, – piagnucolava il Sopronyi Napló, quotidiano di Sopron, – si mantiene un pericoloso riserbo e si preferisce non scrivere niente. Ognuno di noi sa bene cos’è un soldato ceco in Ungheria ed al fronte. Noi tutti sappiamo che cosa sono capaci di perpetrare i boemi, a chi risalgono le responsabilità, cosa succede presso i cechi e chi è che ha la colpa di tutto. L’attenzione delle autorità, tuttavia, è incatenata da altre importanti faccende, le quali, peraltro, dovrebbero essere tenute opportunamente in relazione con una vigilanza sulla situazione generale, in modo che non abbiano a verificarsi episodi come quello accaduto in questi giorni a Királyhíd. Il nostro articolo di ieri è stato censurato in quindici punti. Pertanto non ci resta da fare altro che dichiarare che anche oggi, per motivi di ordine tecnico, non abbiamo modo di occuparci ampliamente dei fatti di Királyhíd. Un nostro inviato speciale ha potuto appurare sul posto che le autorità si interessano della cosa con uno zelo straordinario, e che le indagini proseguono a ritmo serrato. Ci sembra soltanto singolare il fatto che alcuni responsabili dell’intero massacro si trovino tuttora a piede libero. Ciò valga soprattutto per un certo signore, il quale, stando alla voce corrente, si trova tuttora al campo militare senza essere stato sottoposto ad alcun provvedimento disciplinare e continua a portare imperterrito le mostrine del suo Papageiregiment  4 benché il suo nome sia apparso già ieri sul Pester Lloyd e sul Pesti Napló. Si tratta del noto sciovinista boemo Lukáš, sulle cui losche attività verrà presentata una interpellanza da parte del nostro deputato Géza Savanyi, il quale rappresenta il distretto di Királyhíd.

«Con termini altrettanto gentili nei suoi confronti, signor tenente», fece a questo punto il colonnello Schröder, «scrive pure il settimanale di Királyhíd, e non differente è il tono dei giornali di Presburgo.5 Ma sono cose che probabilmente non la interesseranno, dato che il ritornello è 4   In tedesco nel testo: «Reggimento di pappagalli», nomignolo del novantunesimo reggimento, le cui mostrine erano color «verde pappagallo. 5   È il nome tedesco di Bratislava. Tutta la Slovacchia si trovava sotto l’impero absburgico in territorio ungherese.

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sempre lo stesso. Da un punto di vista politico la cosa si può agevolmente comprendere, in quanto noi austriaci, tedeschi o cechi che siamo, malgrado tutto siamo ancora notevolmente antiungheresi… Mi capisce, signor tenente? C’è una certa tendenza comune in questa direzione. La interesserà piuttosto l’articolo comparso sul Komárenský večerník,6 nel quale si asserisce che lei ha addirittura tentato di violentare la signora Kákonyi niente di meno che in sala da pranzo, mentre stava a colazione, alla presenza del di lei marito, che lei avrebbe minacciato con la sciabola costringendolo pure a tappare con un asciugamano la bocca della propria consorte affinché non potesse gridare. Questa è l’ultima notizia sul suo conto, signor tenente». Il colonnello sorrise e continuò: «Le autorità non hanno compiuto il loro dovere. La censura preventiva della stampa locale si trova anch’essa in mano ad ungheresi. E quei mascalzoni fanno di noi quello che vogliono. I nostri ufficiali non sono tutelati contro gli affronti di questi porci di borghesi ungheresi che fanno i giornalisti, e soltanto dopo un nostro deciso intervento, cioè dopo un telegramma del nostro tribunale divisionale, la procura statale di Budapest ha intrapreso i passi necessari per fare degli arresti in tutte le suddette redazioni. Più di tutti se la vedrà brutta il redattore del Komárenský večerník, quello lì il suo Večerník se lo ricorderà finché campa. Il tribunale di divisione ha incaricato me, come suo superiore, di interrogarla, e nel medesimo tempo mi ha inviato tutto l’incartamento relativo alle indagini. Tutto sarebbe andato bene se non ci fosse stato di mezzo quel suo sciagurato Sc’vèik. Si trova con lui un certo zappatore Vodička, al quale, dopo la zuffa, hanno trovato indosso, quando l’hanno portato alla Hauptwache, la lettera che lei ha inviato alla signora Kákonyi. Il suo Sc’vèik, all’interrogatorio, ha dichiarato che non sarebbe stato lei, tenente Lukáš, a scrivere la missiva, ma che invece l’avrebbe scritta egli stesso, e, quando la lettera gli è stata presentata affinché la ricopiasse, in modo da poter confrontare le calligrafie, s’è mangiato il foglio da lei vergato. Dall’ufficio del reggimento, poi, sono stati inviati al tribunale divisionale i suoi rapporti per fare almeno con quelli un confronto con la calligrafìa di Sc’vèik, ed eccole qui il risultato». Il colonnello sfogliò l’incartamento e mostrò al tenente Lukáš il seguente passo: «L’imputato Sc’vèik si è rifiutato 6   «(Giornale) serale di Komárno». Komárno è una cittadina della Slovacchia meridionale.

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di scrivere le frasi che gli venivano dettate, asserendo che nel corso della notte aveva disimparato a scrivere». «Io, signor tenente, non attribuisco assolutamente alcuna importanza a tutte le frottole che vanno raccontando al tribunale divisionale questo suo Sc’vèik oppure quello zappatore. Sc’vèik e lo zappatore asseriscono che non si è trattato di altro che di un innocente scherzetto che è stato malamente inteso, e sostengono che sono stati loro ad essere assaliti dai borghesi, dai quali si son dovuti difendere per salvaguardare l’onore militare. Durante le indagini, d’altro canto, è stato accertato che quel suo Sc’vèik è proprio una buona lana. Quando gli è stato chiesto, ad esempio, perché non volesse confessare, secondo quanto è scritto nel verbale ha risposto così: ‘Io mi trovo esattamente nella situazione in cui si trovò una volta, a causa di certi ritratti della Vergine Maria, il servo di Panuška, pittore dell’accademia. Anche quello, quando si trattò di certi quadri che avrebbe dovuto defraudare, non poté rispondere altro che: Debbo forse vomitare sangue?’ Si capisce che mi sono dato cura, a nome del comando di reggimento, di far pubblicare sui giornali delle rettifiche riguardo a tutti quei disastrosi articoli della stampa locale. Oggi il comunicato verrà distribuito, e spero di aver fatto tutto per riparare i guai provocati dall’inqualificabile comportamento di quei mascalzoni borghesi dei giornalisti ungheresi. «Ritengo di aver stilizzato bene il testo della nota: Il tribunale divisionale numero… ed il comando del reggimento numero… dichiarano che l’articolo pubblicato sul locale periodico, a proposito di presunti disordini provocati da truppe appartenenti al reggimento numero…, è completamente privo di fondamento e deve considerarsi inventato dalla prima all’ultima riga; le indagini condotte contro i periodici suddetti porteranno ad una severa punizione dei colpevoli.

«Il tribunale divisionale, nella sua lettera al comando del nostro reggimento», continuò il colonnello, «ritiene in effetti che non si tratti di altro che delle sistematiche istigazioni contro reparti militari provenienti dalla Cislaitania e diretti alla Translaitania. Basta confrontare, tra l’altro, quante truppe abbiamo mandato al fronte noi e quante ne hanno inviate loro. Le dico la verità, che a me il soldato ceco è assai più simpatico di tutta questa marmaglia ungherese. Quando ripenso a quella volta, sotto Belgrado, allorché di ungheresi si misero a far fuoco contro il nostro secondo battaglione di linea, il quale, non sapendo che erano gli ungheresi a tirargli contro, cominciò 416

a sparare addosso ai Deutschmeistri 7 sull’ala destra, ed i Deutschmeistri, confondendosi a loro volta, se la rifecero con un reggimento bosniaco8 che stava accanto a loro, sul quale indirizzarono il loro fuoco! Che razza di situazione, quella volta! In quel momento mi trovavo a pranzo, allo stato maggiore della brigata, il giorno precedente avevamo dovuto accontentarci del prosciutto cotto e di una minestra in scatola, ma quel giorno, invece, avevamo brodo di gallina, filetto con riso e focacce con chaudeau9; la sera prima, in una cittadina, avevamo impiccato un taverniere serbo, ed i nostri cuochi avevano trovato nella sua cantina vino vecchio di trent’anni! Può dunque immaginarsi con quanta letizia ci accingemmo tutti quanti al pasto! Avevamo mangiato la minestra e ci eravamo buttati sulla gallina, quand’ecco che tutt’a un tratto si sente una sparatoria, poi attaccano le cannonate, e la nostra artiglieria, non immaginando neppure lontanamente che erano i nostri reparti a spararsi gli uni contro gli altri, cominciò a tirare sulla nostra linea ed una granata venne a cadere proprio accanto al nostro comando di brigata. I serbi, forse, ritennero che nel nostro campo fosse scoppiata una sommossa, così che cominciarono a spararci da tutti i lati e ad attraversare il fiume puntando contro le nostre posizioni. Il generale di brigata viene chiamato al telefono, ed il comandante di divisione si mise a fare un baccano del diavolo, chiedendo che cretinate stavamo combinando nel settore della brigata, dato che lui aveva proprio allora ricevuto dal comando di armata l’ordine di sferrare un attacco contro le posizioni serbe alle 2 e 35 di notte sull’ala sinistra. Noi costituivamo la riserva, e pertanto dovevamo immediatamente cessare il fuoco. Ma sì, era una bella pretesa, in una situazione di quel genere, pretendere una cosa come quella: ‘Feuer einstellen!’ 10 La centrale telefonica della brigata comunica di non riuscire a mettersi in contatto con nessuno, e che c’è soltanto il comando del settantacinquesimo reggimento che annuncia di aver ricevuto in quel momento un ordine dalla divisione vicina: ‘ausharren’.11 Però non riusciva a mettersi d’accordo con la nostra divisione, ed informava che i serbi avevano occupato le quote 212, 226 e 327, chiedeva l’invio di un battaglione che servisse da collegamento 7   Si tratta del quarto reggimento di fanteria, chiamato Hoch- und Deutschmeisterregiment, «reggimento dei maestri alto e tedeschi». 8   È uno dei quattro reggimenti bosniaci dell’esercito austriaco. 9   Il nome è francese: salsa fatta con vino, rosso d’uovo e zucchero. 10   In tedesco nel testo: «Cessare il fuoco». 11   In tedesco nel testo: «Resistere».

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e desiderava essere messo in contatto con la nostra divisione. Passiamo la linea alla divisione, ma il contatto, ormai, era interrotto, perché nel frattempo i serbi erano arrivati alle nostre spalle su entrambi i fianchi ed avevano tagliato fuori il nostro centro in un triangolo nel quale poi restò tutto: i reggimenti, l’artiglieria e le salmerie con tutta l’autocolonna, i depositi e l’infermeria da campo. Per due giorni rimasi in sella, ed il comandante di divisione cadde nelle mani del nemico insieme col nostro comandante di brigata. E tutto questo pandemonio lo provocarono gli ungheresi, i quali cominciarono a sparare contro il nostro secondo battaglione di linea. Si capisce che poi la colpa l’addossarono al nostro reggimento». Il colonnello sputò: «Adesso, signor tenente, può capire lei stesso perché abbiano sfruttato tanto bene quella sua avventuretta a Királyhíd». Il tenente Lukáš tossicchiò impacciato. «Signor tenente», gli si rivolse con tono confidenziale il colonnello, «mano sul cuore: quante volte è andato a letto con la signora Kàkonyi?» Il colonnello Schröder, quel giorno, era di umore veramente eccellente. «Non mi dica, signor tenente, che stava appena avviando la corrispondenza. Quando io avevo l’età sua, stetti per tre settimane a Eger12 al corso telemetristi, ed avrebbe dovuto vedermi in quelle tre settimane! non feci altro che andare a dormire con le ungheresi. Ogni giorno con una differente. Giovani, nubili, più mature, maritate, così come veniva, mi detti tanto da fare che, quando tornai al reggimento, mi strascicavo appena sulle gambe. Più di tutte mi sfiancò la moglie di un avvocato. Lei sì che mi fece vedere quello che sanno fare le ungheresi! Arrivò al punto da darmi un morso sul naso, e per tutta la notte non mi fece chiudere occhio. «E così aveva cominciato ad inviare letterine…» dette una confidenziale manata sulle spalle del tenente, «lo sappiamo, lo sappiamo. Non mi dica niente, io la mia opinione sull’intera faccenda ce l’ho. Aveva intrecciato un romanzetto con quella donna, suo marito si è accorto della tresca, ed alla fine quello scemo di Sc’vèik… «Lo sa, però, signor tenente, che quel suo Sc’vèik ha mostrato di avere davvero del carattere, se veramente s’è comportato in quella maniera con la sua lettera! È un pec  Città settentrionale ungherese.

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cato per quell’uomo. È proprio un ragazzo in gamba. Mi piace molto quel giovanotto. Per questo motivo l’istruttoria deve essere decisamente fermata. Lei, signor tenente, è stato duramente attaccato dai giornali. La sua presenza qui è del tutto superflua. Nel corso della settimana verrà inviata al fronte russo una compagnia di linea. Poiché lei è l’ufficiale più anziano all’undicesima compagnia, partirà in qualità di Kompaniekommandant.13 Alla brigata è già stata sistemata ogni cosa. Dirà al Feldwebel contabile di trovarle qualche altro attendente al posto di questo Sc’vèik». Il tenente Lukáš rivolse uno sguardo pieno di gratitudine al colonnello, il quale proseguì: «Assegnerò a lei Sc’vèik come Kompanieordonnanz».14 Il colonnello si alzò, e, dando la mano al tenente impallidito, soggiunse: «Così, dunque, è tutto aggiustato. Le auguro ogni fortuna, e spero che sappia farsi onore sul fronte orientale. E se ci capiterà di vederci ancora, venga nella nostra cerchia. Non ci eviti più come faceva a Budějovice…» Tornando a casa, per tutta la strada il tenente Lukáš non fece altro che ripetere: «Kompaniekommandant, Kompanieordonnanz». E dinanzi a lui sorgeva chiara, la figura di Sc’vèik. Vaněk, maresciallo contabile, quando il tenente Lukáš gli dette l’incarico di trovargli un altro attendente al posto di Sc’vèik, disse: «Eppure, signor Oberleutnant, io ritenevo che lei fosse contento di quello Sc’vèik». Ma poi, avendo sentito che lo stesso Sc’vèik era stato nominato ordinanza dell’undicesima compagnia, esclamò: «Dio ce la mandi buona e senza vento!»

Coloro che erano rinchiusi presso il tribunale di divisione, in una baracca fornita di inferriate, si alzavano, secondo il regolamento, alle sette di mattina e rassettavano i pagliericci che erano distesi per terra, in mezzo alla polvere. Non c’erano tavolacci. Sempre secondo il regolamento, depositavano presso una parete del lungo locale le coperte per i pagliericci, ed alla fine quelli che avevano ultimato il lavoro si mettevano a sedere sulle panche lungo il muro e o si cercavano i pidocchi – quelli che erano arrivati dal fronte – oppure si dilettavano narrandosi varie avventure.   In tedesco nel testo: «Comandante di compagnia». 14   In tedesco nel testo: «Ordinanza di compagnia», soldato che trasmette gli ordini del comandante di compagnia ai comandanti di plotone. 13

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Sc’vèik ed il vecchio zappatore Vodička stavano seduti sulla panca accanto alla porta insieme con alcuni altri soldati di vari reggimenti e formazioni. «Guardate, ragazzi», attaccò Vodička, «venite a vedere quel briccone di ungherese vicino alla finestra, come prega, quel manigoldo, nella speranza che tutto gli vada a finire bene. Non avreste voglia di spaccargli il grugno da un orecchio all’altro?» «Ma è una persona per bene», disse Sc’vèik, «si trova qui dentro unicamente per il fatto che non voleva prestare servizio militare. È contrario alla guerra perché appartiene a non so quale setta, ed è rinchiuso perché non vuole ammazzare nessuno, lui segue il comandamento divino, ma quelli lì dei comandamenti divini se ne buggerano! Prima che scoppiasse la guerra viveva in Moravia un certo signor Nemrava, e costui si rifiutò addirittura di mettersi il fucile in spalla quando venne chiamato alle armi, dicendo che il portare armi contrastava coi suoi principi. Lo schiaffarono dentro e ce lo tennero per un bel pezzo, poi lo condussero nuovamente a prestare giuramento. Ma lui duro, disse che non avrebbe giurato perché anche questo contrastava coi suoi principi, e restò incrollabile fino alla fine». «Si vede che era uno stupido», disse il vecchio zappatore Vodička, «poteva benissimo giurare e poi fregarsene di tutto, giuramento compreso». «Io ho già giurato tre volte», dichiarò un soldato di fanteria, «ed è già la terza volta che mi ritrovo qui dentro per diserzione, e se non avessi un certificato medico attestante che quindici anni fa, per un attacco di alienazione mentale, ho pestato mia zia, credo che m’avrebbero già bell’e fucilato per tre volte di seguito al fronte. Ma è appunto così che la mia defunta zia, poveretta, mi aiuta sempre ad uscire dalle situazioni scabrose, e penso che alla fine riuscirò a tirarmi fuori con le ossa intatte da questa guerra». «E perché, camerata», domandò Sc’vèik, «hai pestato la tua zietta?» «Perché mai si fanno fuori le persone?» rispose senza il minimo imbarazzo quell’uomo, «ci vuol poco ad immaginare che c’era di mezzo del denaro! La vecchia aveva cinque libretti di risparmio, e le avevano mandato proprio allora gli interessi, quando io andai a trovarla, tutto lacero e malandato. Oltre a lei non avevo altri parenti al mondo. Così ero andato a pregarla di venirmi un po’ incontro, ma lei, carogna, si mette a dire che posso pure andare a lavorare, dal momento che, così dice, sono un uomo giovane, forte e 420

sano. Una parola tira l’altra, ed io mi misi a colpirla così, come niente fosse, con un attizzatoio sulla testa, e le maciullai tutto il muso fino al punto da dovermi chiedere: è mia zia oppure non è mia zia? E così mi misi sedere per terra accanto a lei, sempre chiedendomi: ‘È mia zia o non è mia zia?’ E fu per l’appunto così che, il giorno dopo, mi trovarono seduto i vicini. Poi fui al manicomio di Slupy, e quando, prima che scoppiasse la guerra, a Bohnice, ci portarono davanti alla commissione di leva, venni riconosciuto guarito e dovetti subito andare a prestare servizio per tutti quegli anni che avevo saltato». Passò accanto a loro un soldato magro, allampanato, dall’aria stanca, con una scopa in mano. «È un insegnante dell’ultima nostra compagnia di linea», lo presentò il cacciatore che stava seduto accanto a Sc’vèik, «adesso va a spazzare sotto il suo pagliericcio. È un tipo straordinariamente ordinato. Si trova qui a causa di una poesiuola che ha composto». «Vieni un po’ qui, signor maestro!» invitò poi l’uomo dalla scopa, che si avvicinava alla panca con aria grave. «Dicci un po’ la storia di quei pidocchi». Il soldato con la scopa sputò e cominciò a recitare: Domina tutto il fronte il pidocchietto, il pidocchio c’è sempre attorno. Si gira il generale nel suo letto, e si cambia gli abiti ogni giorno. Per il pidocchio la truppa è una bazza, dei graduati è un amicone, con la pidocchia prussiana se la spassa, il vecchio austriaco pidocchione.

L’afflitto soldato-insegnante venne a sedersi sulla panca e sospirò: «Questo è tutto, ed è a causa di questo che per la quarta volta mi fanno interrogare dal signor auditore». «A dire il vero non mi sembra così scandaloso», disse Sc’vèik con l’aria di uno che è timorato di Dio: «si tratterà soltanto di vedere che cosa intenderanno, là al tribunale, per quel vecchio pidocchione austriaco. Avete fatto bene a metterci che se la spassa, confonderete loro le idee e non sapranno più raccapezzarsi. Basta che spieghiate che il Pidocchione è il maschio del pidocchio, e che solo il maschio pidocchione può andare con la pidocchia femmina. Altrimenti non riuscirete a sbrogliarvela. È certo che non avete scritto la poesia per offendere qualcuno, questo è chiaro. Dovrete soltanto dire al signor auditore che l’avete scritta per vostro diletto e che, come il maschio della troia viene 421

chiamato verro, così il maschio della pidocchia si chiama pidocchione». Il maestro sospirò: «Ma il guaio è che il signor auditore non conosce bene il ceco. Io già gli ho spiegato tutta la faccenda proprio in questa maniera, ma lui s’è messo in testa che il maschio della pidocchia si dice in ceco ‘pidocchietto.’ ‘Niende pitochione,’ ha detto il signor auditore, ‘pitochietto. Femininum, Sie gebildeter Kerl, ist 15 qvesto «pitochia», also masculinum ist 16 qvesta «pitochietto». Wir kennen uns’re Papenheimer.’ » 17 «Per farla breve», disse Sc’vèik, «ve la state vedendo brutta, tuttavia non dovete perdere la speranza, come diceva uno zigano di Pilsen, un certo Janeček, perché tutto può ancora volgere verso il meglio. Così disse pure nel 1879, quando gli misero la corda al collo a causa di un duplice omicidio per rapina. Ed infatti l’azzeccò giusta, perché all’ultimo momento lo tolsero di sotto il capestro, in quanto non lo potevano impiccare perché era il genetliaco di sua maestà l’imperatore, che ricorreva proprio in quel giorno in cui doveva essere giustiziato. Pertanto l’impiccarono soltanto il giorno successivo, dopo che la festività fu passata, e quel briccone ebbe ancora un’altra fortuna, due giorni dopo ottenne la grazia e si dové celebrare un altro processo, poiché tutti gli indizi stavano a mostrare che il fatto era stato commesso da un altro Janeček. Così lo dovettero esumare dal cimitero dei giustiziati e riabilitare al cimitero cattolico di Pilsen, ma soltanto in seguito si venne a sapere che era evangelico, pertanto la salma venne traslata al cimitero evangelico, e poi…» «E poi ti prenderai un paio di sberle», sbuffò il vecchio zappatore Vodička, «ma guardate un po’ quante ne inventa questo tipo! Uno ha a che fare col tribunale di divisione, e quel disgraziato ieri, mentre ci portavano all’interrogatorio, mi si è messo a spiegare che cosa è la rosa di Gerico». «Ma non me l’ero mica inventata io, ripetevo quello che aveva detto Matěj, servitore del pittore Panuška, ad una vecchia che gli aveva chiesto che aspetto avesse la rosa di Gerico. Questo le disse: ‘Prenda una merda di vacca secca, la metta in un piatto, ci versi sopra dell’acqua, e vedrà come le ritornerà bella verde; questa è la rosa di Gerico,’ »   In tedesco nel testo: «Femminile, caro il mio sapientone, è…»   In tedesco nel testo: «Pertanto maschile è…»  In tedesco nel testo: «Conosciamo i nostri Pappenheimer». La battuta è tratta dal dramma Wallenstein di F. Schiller; Pappenheimer sono i cavalieri del generale Pappenheim. 15 16 17

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così si difese Sc’vèik; «non sono stato io ad inventarmi questa stupidaggine, e d’altro canto di qualcosa dovevamo pur parlare, dal momento che ci portavano all’interrogatorio. Io, caro il mio Vodička, volevo soltanto farti coraggio…» «Volevi fare coraggio», sputò con disgusto Vodička, «uno è tutto preoccupato e cerca di tirarsi fuori da questo pasticcio e di uscire per fare i conti con quei maledetti ungheresi, e lui gli vuole far coraggio con una merda di vacca». «E come faccio a rendere pan per focaccia a quei bricconi di ungheresi finché resto chiuso qui dentro, e, per di più, debbo fingere e spiegare all’auditore che contro gli ungheresi non ho assolutamente alcun risentimento! Questa, in fede mia, è vita da cani! Ma se riesco a mettere gli artigli addosso ad uno di quei manigoldi, lo strangolo come un cane, glielo faccio vedere io l’Isten old meg a magyart,18 ci penso io a fare i conti, vedrete che si sentirà ancora parlare di me». «Non avere nessuna preoccupazione», disse Sc’vèik, «tutto si accomoderà, la cosa più importante, in tribunale, è non dire mai la verità. Quello che si fa incantare e confessa è sempre perduto. Uno così non riuscirà mai a combinare niente di buono. Una volta, quando lavoravo a Moravská Ostrava,19 successe questo caso: un minatore aveva pestato ben bene un ingegnere a quattr‘occhi, così che nessuno aveva visto niente di niente. L’avvocato che lo difendeva gli diceva sempre di negare, perché non gli sarebbe potuto capitare assolutamente nulla, il presidente del tribunale, invece, faceva continuamente appello al suo cuore, facendogli notare come la confessione è una circostanza attenuante, lui, dal canto suo, sosteneva incessantemente il proprio atteggiamento, dicendo che non aveva niente da confessare, ed andò a finire che lo prosciolsero, perché riuscì a provare un suo alibi. Quel medesimo giorno, invece, accadde a Brno…» 20 «Gesummaria!» si arrabbiò Vodička, «io non resisto più. Per quale motivo ci racconta tutte queste storie, proprio non lo capisco. Ieri, all’interrogatorio, c’era con noi un tizio proprio come lui. Quando l’auditore gli ha chiesto che cosa facesse da borghese, quello s’è messo a dire: ‘Soffio da Kříž.’ C’è voluto più di mezz’ora prima che egli spiegasse che tirava il mantice dal fabbro Kříž; e quando poi gli hanno chiesto: ‘Ma allora da borghese stavate a guardia 18   In ungherese nel testo: «Dio benedica l’ungherese», inizio dell’inno nazionale ungherese. 19   Centro industriale e minerario nella Moravia settentrionale. 20   Capitale della Moravia, nella parte meridionale della regione.

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del fuoco?’ lui ha risposto: ‘Ma che! la guardia21 è Franta Hýbeš!’ » Nel corridoio si sentirono dei passi ed una esclamazione della sentinella: «Zuwachs» 22 «Ecco che aumentiamo nuovamente di numero», fece Sc’vèik con tono allegro, «forse si sono tenuti in serbo qualche mezza cicca». La porta si aprì e spinsero dentro il volontario con ferma annuale che era stato agli arresti con Sc’vèik già a Budějovice e poi era stato destinato alla cucina da campo di una compagnia di linea. «Sia lodato Gesù Cristo», disse quando entrò, ed al suo saluto rispose Sc’vèik a nome di tutti: «Per i secoli dei secoli, amen». Il volontario con ferma annuale dette un’occhiata a Sc’vèik con aria soddisfatta, posò per terra la coperta che s’era portata, si mise a sedere sulla panca dove si trovava già tutta la colonia ceca, si rigirò le ghette e ne trasse fuori delle sigarette abilmente sistemate nelle pieghe, che distribuì, poi prese da una scarpa un pezzetto di carta da attrito tolta da una scatola di fulminanti ed alcuni fiammiferi tagliati con ogni cura a metà nella parte della testina destinata ad accendersi. Ne sfregò uno, si accese con grande cautela una sigaretta, poi passò il fuoco a tutti gli altri e disse con tono indifferente: «Io sono accusato di ribellione». «È una cosa da niente», fece Sc’vèik placidamente, «uno scherzetto». «Si capisce», disse il volontario con ferma annuale, «non ci saremo mica messi in testa di poter vincere mediante tutti questi processi! Se con me vogliono ad ogni costo giocare al tribunale, facciano pure! Tutto sommato, processo più processo meno, la situazione generale non cambia». «E che ribellione hai fatto?» chiese lo zappatore Vodička guardando con simpatia il volontario con ferma annuale. «Non ho voluto pulire i cessi alla Hauptwache», rispose il ribelle, «e così mi hanno trascinato fino all’Oberst. Quello sì che è un bel porco. Ha cominciato a strillare dicendo che stavo dentro in base ad un Regimentsrapport e che non ero altro che un semplice arrestato, che si meravigliava per il fatto che la terra riuscisse a sopportarmi e non smettesse di girare per una vergogna simile, che cioè nell’esercito si 21   Giuoco di parole intraducibile tra pomocný dělnik, «operaio ausiliario» (che traduco «guardia del fuoco») e ponocný, «guardia notturna« (che traduco «guardia»). 22   In tedesco nel testo: «Crescita».

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fosse potuto verificare il caso di un volontario con ferma annuale, avente la pretesa di diventare ufficiale, che però col suo comportamento non poteva che suscitare il disgusto ed il disprezzo dei propri superiori. Io ho risposto che la rotazione del globo non poteva essere turbata dalla comparsa su di esso di un volontario con ferma annuale quale sono io, che le leggi della natura sono più forti dei galloni dei volontari con ferma annuale, e che mi sarebbe proprio piaciuto di vedere chi poteva costringermi a far pulizia in cessi che non avevo insudiciato, benché ne avrei avuto tutto il diritto, dopo aver gustato la lurida cucina del reggimento, a base di cavoli marci e di carne di montone andata a male. Poi ho detto ancora all’Oberst che non capivo perché si meravigliasse tanto per il fatto che la terra riuscisse a sopportarmi, dato che non poteva certamente scoppiare un terremoto a causa mia. Durante tutto il mio discorso il signor Oberst non ha fatto altro che battere i denti come una cavalla che ha la lingua gelata da una barbabietola ghiacciata, ed alla fine ha gridato contro di me: «‘Allora questi cessi li pulirà o no?’ «‘Faccio rispettosamente notare che non pulirò nessun cesso!’ 425

«‘Ed invece li pulirà, Sie Einjähriger!’23 «‘Faccio rispettosamente notare che non li pulirò!’ «‘Krucitürken,24 lei pulirà non uno solo, ma cento cessi!’ «‘Faccio rispettosamente notare che non pulirò né cento né un solo cesso!’ «Ed è andata avanti così per un bel pezzo: ‘Li pulirà?’ ‘Non li pulirò!’ I cessi volavano in qua ed in là, quasi fossero stati una filastrocca infantile di Pavla Moudrá.25 L’Oberst andava in su ed in giù per l’ufficio come un idrofobo, alla fine s’è messo a sedere ed ha detto: ‘Ci pensi bene, io la mando dinanzi al tribunale di divisione per ribellione. Non creda di essere il primo volontario con ferma annuale messo al muro durante questa guerra. In Serbia abbiamo impiccato due volontari con ferma annuale della decima Kompanie ed uno della nona l’abbiamo fucilato come un agnello. Vuol sapere per quale motivo? Per la loro cocciutaggine. Quei due che sono stati impiccati s’erano rifiutati di prendere a baionettate la moglie ed il figlio di un čúžák 26 dalle parti di Šabac, ed il volontario della nona compagnia di linea è stato fucilato perché non voleva andare più avanti con la scusa che aveva le gambe gonfie ed era plattfuss.27 Allora, questi cessi li vuole pulire oppure no?’ «Faccio rispettosamente notare che non li pulirò.’ «L’Oberst m’ha dato un’occhiata e mi ha chiesto: ‘Senta un po’, non sarà mica slavofilo,28 per caso?’ «Taccio rispettosamente notare che non lo sono.’ «Dopo m’hanno portato via e mi hanno notificato che ero accusato di ribellione». «La miglior cosa che tu possa fare è di passare per scemo. Quando stavo in guarnigione c’era con noi un furbacchione, una persona istruita, professore alla scuola commerciale. Costui disertò sul campo di battaglia ed avrebbero dovuto fargli un processo di quelli clamorosi, nel quale sarebbe stato condannato all’impiccagione per viltà, ma lui riuscì a farla franca in una maniera semplicissima. Cominciò a recitare la parte del malato per tare ereditarie, e, quando fu visitato dal medico dello stato maggiore, dichiarò che non aveva disertato, ma che in realtà fin da giovane gli era   In tedesco nel testo: «Lei annuale».   In tedesco nel testo: «Accidentaccio!»  Pavla Moudrá (1861-1936) fu una nota propagandista per la pace mondiale e per i diritti delle donne, scrittrice ed esponente della corrente teosofica. 26   Dal serbo, significa membro dei così detti «comitagi», formazioni militari irregolari. 27   In tedesco nel testo: «Piedi piatti». 28   Gli slavofili erano nazionalisti cechi aventi simpatie per la Russia. 23 24

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sempre piaciuto viaggiare ed aveva sempre avuto la passione di fuggire in località lontane. Una volta, disse, s’era risvegliato ad Amburgo, ed un’altra volta a Londra, senza sapere come ci fosse arrivato. Suo padre, aggiunse, era un alcoolizzato e s’era suicidato prima che egli nascesse, sua madre era una prostituta ed una ubriacona, ed era deceduta per delirium tremens. La sorella minore s’era affogata, la maggiore s’era buttata sotto un treno, il fratello era saltato dal ponte ferroviario di Vyšehrad,29 suo nonno aveva assassinato la propria moglie e poi s’era cosparso di petrolio e s’era dato fuoco, l’altra sua nonna era andata girovagando con certi zingari e s’era avvelenata in prigione coi fiammiferi, un cugino era stato condannato più volte per mania incendiaria e s’era tagliato le vene del collo con un pezzo di vetro a Kartouze,30 una cugina da parte paterna s’era buttata dal sesto piano in una casa di Vienna, egli stesso aveva ricevuto un’educazione assai trasandata e fino a dieci anni non aveva saputo parlare perché all’età di sei mesi, mentre lo fasciavano sul tavolo e s’erano dovuti allontanare un momento, la gatta l’aveva fatto cadere a terra ed aveva battuto la testa sul pavimento. Aggiunse infine che di tanto in tanto soffriva di forti dolori di capo e che, quando gli prendeva l’emicrania, non si rendeva conto di quello che faceva; appunto in una di queste occasioni aveva abbandonato il fronte e se ne era andato a Praga, e soltanto quando la polizia militare l’aveva beccato dai ‘Flek’ 31 era tornato in sé. Cari miei, avreste dovuto vedere come furono contenti di esonerarlo dal servizio militare, e cinque o sei soldati che stavano con lui in gattabuia si appuntarono per ogni evenienza su un foglietto la sua storia più o meno in questa maniera: «Padre alcoolizzato. Madre prostituta. «Prima sorella (affogata) «Seconda sorella (treno) «Fratello (dal ponte) «Nonno † moglie, petrolio, si dà fuoco «Seconda nonna (zingari, fiammiferi) † ecc. «Uno di loro tentò di raccontare la stessa storia al medico dello stato maggiore, ma non riuscì ad arrivare oltre il cugino, dato che il dottore, trattandosi ormai del terzo caso analogo, lo interruppe per dirgli: ‘Sì, ragazzo mio, e 29   Il ponte sulla Moldava sotto la collina di Vyšehrad congiunge la stazione di Praga-Vyšehrad a quella di Praga-Smichov. 30   Noto luogo di pena presso Jičín nella Boemia nordorientale. 31  Antica birreria praghese in cui si dava convegno la piccola borghesia patriottica.

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tua cugina da parte paterna s’è buttata dal sesto piano in una casa di Vienna, tu hai ricevuto un’educazione assai trasandata, e così ci vuole un po’ di correzione32 per rimetterti in carreggiata.’ Pertanto lo portarono alla correzione, lo legarono al cavalletto e subito gli passò l’educazione assai trasandata, insieme col padre alcoolizzato e la madre prostituta, così che egli preferì partire per il fronte come volontario». «Oggi», notò il volontario con ferma annuale, «nell’esercito alle tare ereditarie non ci crede più nessuno, perché altrimenti dovrebbero rinchiudere in manicomio tutti gli stati maggiori». Alla porta metallica si sentì stridere la chiave ed entrò il carceriere: «Il fante Sc’vèik e lo zappatore Vodička dal signor auditore». I due si alzarono e Vodička disse a Sc’vèik: «Lo vedi che razza di mascalzoni sono? Ogni giorno interrogatorio, e non si arriva mai ad alcun risultato. Ormai farebbero meglio a condannarci una buona volta, Himmelherrgott, e potrebbero pure smetterla di farla tanto lunga! Qui non facciamo che poltrire per tutto il santo giorno, mentre quei birbanti di ungheresi ci gironzano allegramente intorno…» Mentre proseguivano il cammino verso gli uffici del tribunale divisionale dove sarebbero stati sottoposti ad un nuovo interrogatorio, uffici che si trovavano nel lato opposto, in un’altra baracca, lo zappatore Vodička continuò a discutere con Sc’vèik se mai sarebbero stati portati dinanzi ad un vero tribunale, «Sempre interrogatori ed ancora interrogatori», diceva Vodička accalorandosi, «e se almeno ne venisse fuori qualcosa! Consumano quintali su quintali di carta e non si arriva mai a vedere il processo. Bisogna rimanere a marcire dietro le sbarre. Dimmi la verità, ti pare che quella minestra sia mangiabile? E quei cavoli con le patate gelate? Gesù Cristo mio, una guerra mondiale stupida come questa non me l’ero ancora mai sciroppata! Me l’immaginavo completamente diversa!» «Io, invece, sono completamente soddisfatto», disse Sc’vèik, «già anni fa, quando ero in servizio di leva, il nostro Solpera, un firmaiuolo, soleva dire che sotto le armi ciascuno deve rendersi esattamente conto dei propri dove32   Con questo termine eufemistico veniva chiamata una stanza destinata alle torture.

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ri, e, nel dir così, ti affibbiava una bella sberla sul muso, così che te ne ricordavi per sempre. Oppure il povero Oberleutnant Kvajser, quando veniva ad ispezionare le armi, ci spiegava sempre che ogni soldato deve dimostrare la massima durezza d’animo, dato che i militari non sono altro che bestioni che lo stato alleva dando loro il mangiare, il caffè per bere, il tabacco per la pipa, ed in cambio si aspetta che essi tirino come buoi». Lo zappatore Vodička restò pensieroso e, dopo un po’, prese a parlare: «Allora, Sc’vèik, quando sarai da quell’auditore non ti confondere, e ripeti quello che hai detto ultimamente quando t’ha interrogato, affinché io non debba trovarmi in qualche pasticcio. E soprattutto che hai visto come io venissi attaccato da quei manigoldi di ungheresi. Sai bene che abbiamo fatto tutto quanto in comunella». «Non avere alcun timore, Vodička», lo rassicurò Sc’vèik, «cerca soltanto di star calmo e di non lasciarti prendere dai nervi, alla fin fine ti pare poi gran cosa presentarsi ad un tribunale di divisione come questo? Avresti dovuto vedere, in passato, come andavano per le spicce i tribunali militari! C’era con noi in servizio di leva il maestro Herál, e costui, una volta, mentre stavamo seduti sul pancaccio perché eravamo stati consegnati in caserma, ci raccontò che in un museo di Praga esiste un libro in cui sono stati annotati i processi celebrati presso un tribunale militare al tempo di Maria Teresa. Ogni reggimento aveva il proprio carnefice il quale giustiziava i soldati del suo reparto, uno alla volta, ricevendo in compenso un tallero di Maria Teresa per ogni esecuzione. E questo boia, secondo i dati registrati in quel libro, qualche giorno arrivava a guadagnare perfino cinque talleri. «E si capisce», soggiunse Sc’vèik con tono sentenzioso, «a quel tempo i reggimenti erano forti e venivano continuamente completati nei paesetti». «Quando ero in Serbia», disse Vodička, «nella nostra brigata coloro che volevano impiccavano i čúžáki ricevendo in compenso delle sigarette. Chi impiccava un uomo si prendeva dieci sport, per una donna e per un bambino la tariffa era di cinque. Poi l’intendenza cominciò a risparmiare e si fecero fucilazioni in massa. Era con me uno zingaro e per molto tempo non si seppe che si dedicava a quella attività. Ci sembrava soltanto strano che ogni notte venissero a chiamarlo dall’ufficio. In quel tempo eravamo sulla Drina. Ed ecco che una notte, mentre lui stava fuori, ad uno venne in mente di rovistare tra le sue cose, ebbene, 429

risultò che nello zaino quel mascalzone aveva ben tre pacchi da cento Sport ciascuno. Al mattino, quando tornò al fienile in cui dormivamo, gli facemmo un breve processo. Lo rovesciammo per terra ed un certo Běloun lo strangolò con una cinghia. Quel manigoldo aveva sette spiriti come la gatta!» Il vecchio zappatore Vodička sputò: «Non si riusciva proprio a strozzarlo, se l’era ormai fatta sotto, gli occhi gli uscivano fuori dalle orbite, eppure continuava ancora a vivere come un gallo non bene scannato. Per accopparlo dovemmo stenderlo come un gatto. Due lo presero per la testa, due per le gambe, e gli torcemmo il collo. Terminata l’operazione, gli mettemmo a tracolla il suo zaino con tutte le sigarette dentro e lo buttammo nel bel mezzo della Dřina. Chi si sarebbe fumate quelle sigarette? Al mattino, poi, lo cercarono dappertutto». «Avreste dovuto dire che aveva disertato», fece Sc’vèik con aria da esperto, «che si preparava a farlo e che ogni giorno diceva che sarebbe scomparso». «Ma chi ci andava a pensare a simili cose!» rispose Vodička, «noi avevamo fatto quello che ci importava, e del resto non ci preoccupavamo minimamente. Lì simili faccende si sistemavano alla svelta. Ogni giorno spariva qualcuno, e dalla Drina non li ripescavano più. Di tanto in tanto si poteva vedere qualche grasso čúžák che galleggiava bellamente sulla Drina accanto a un nostro territoriale maciullato, e così, spalla a spalla, se ne andavano fino al Danubio. Qualche pivellino, quando vedeva questo spettacolo per la prima volta, si prendeva pure una febbre». «Dovevano dargli del chinino», fece Sc’vèik. Proprio mentre diceva questo entrarono nella baracca dove si trovavano gli uffici del tribunale divisionale e la pattuglia di servizio li condusse immediatamente nell’ufficio numero otto, dove, ad un tavolo ingombro di mucchi di scartoffie, se ne stava seduto l’auditore Ruller. Davanti a lui c’era un volume del codice sovrastato da una tazza di tè bevuta a metà. A destra, sul tavolo, si trovava un crocifisso di falso avorio col Cristo tutto impolverato che guardava disperato la base della croce, piena di polvere e di mozziconi di sigarette. L’auditore stava proprio in quel momento scotendo la cenere dell’ennesima sigaretta per aumentare i tormenti del Dio crocifisso, mentre con l’altra mano sollevava la tazzina del tè che s’era appiccicata al codice. Oberata la tazza dall’abbraccio del codice, Ruller con430

tinuò a sfogliare il volume che aveva preso in prestito alla biblioteca del circolo ufficiali. Si trattava di un libro di Fr. S. Krause, dal titolo assai promettente: «Forschungen zur Entwicklungsgeschichte der geschlechtlichen Moral». 33 Contemplando le riproduzioni di ingenui disegni raffiguranti organi sessuali maschili e femminili chiosati con opportune strofette, che il dotto Fr. S. Krause aveva scoperto nei gabinetti della stazione occidentale di Berlino, l’auditore non fece attenzione a chi entrava. Soltanto quando Vodička cominciò a tossire egli staccò gli occhi dalle riproduzioni. «Was geht los?» 34 domandò, sempre continuando a sfogliare il volume nella ricerca di altri ingenui disegnini, schizzi e bozzetti. «Faccio rispettosamente notare, signor auditore», rispose Sc’vèik, «che il camerata Vodička s’è raffreddato e pertanto adesso tossisce». Soltanto adesso l’auditore Ruller rivolse un’occhiata a Sc’vèik ed a Vodička. 33   In tedesco nel testo: «Ricerche sulla storia dell’evoluzione della morale sessuale». 34   In tedesco nel testo: «Di che si tratta?»

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Tentò allora di conferire al proprio volto un’espressione severa. «Alla fine siete arrivati, ragazzacci», disse mettendosi a frugare tra gli incartamenti che stavano sul tavolo, «vi ho mandati a chiamare per le nove ed ora sono quasi le undici. «Come ti sei messo, tu, pezzo d’animale?» chiese a Vodička, il quale s’era permesso di assumere la posizione di riposo. «Quando dirò ruht, ma solo allora, potrai fare con le Hachse 35 quel che ti pare». «Faccio rispettosamente notare, signor auditore», intervenne Sc’vèik, «che ha i dolori reumatici». «Tu faresti meglio a tenere il becco chiuso», disse l’auditore Ruller, «e mi risponderai soltanto se sarai interrogato. Sono già tre volte che vieni da me all’interrogatorio e per farti dire qualcosa bisognava cavartela di bocca con le pinze. Allora, lo trovo o non lo trovo questo maledetto incartamento? Certo che mi date un bel da fare, disgraziati che non siete altro! Ma vedrete che non ci guadagnerete affatto a scomodare il tribunale senza alcun motivo! «Ecco qui, bastardi, guardate», disse infine traendo dalla pila di pratiche un voluminoso fascicolo con sopra scritto: Schwejk & Woditschka «Non crediate tuttavia che potrete restare a poltrire qui al Divisionsgericht 36 per una stupida rissa, evitando in tal modo il fronte per un po’ di tempo. Per colpa vostra ho dovuto telefonare persino al Gericht 37 d’armata, pezzi di minchioni!» Trasse un sospiro. «È inutile che fai quella faccia seria, Sc’vèik, vedrai che al fronte ti passerà la voglia di litigare con gli honvéd», continuò, «il procedimento contro di voi viene sospeso e ciascuno di voi raggiungerà il proprio reparto dove si metterà a rapporto e subirà la giusta punizione, dopo di che partirete per il fronte con una compagnia di linea. Se mi capiterete nuovamente tra i piedi, mascalzoni, vi rigirerò come trottole. Ecco qui i moduli per il proscioglimento, cercate dunque di comportarvi a modo. Questi qui li porterete al numero due». «Faccio rispettosamente notare, signor auditore», disse   Dal tedesco Hächsen, «garretti».   In tedesco nel testo: «Tribunale di divisione».   In tedesco nel testo: «Tribunale». Il tribunale d’armata fungeva da corte d’appello rispetto ai tribunali inferiori. 35 36 37

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Sc’vèik, «che queste sue parole ce le scolpiremo entrambi in fondo al cuore e che la ringraziamo immensamente per la sua bontà. Se fossimo in borghese mi permetterei di dire che lei è un uomo d’oro. Nel medesimo tempo la dobbiamo tutti e due pregare di volerci perdonare se s’è dovuto abgebarsi 38 tanto di noi. Un simile onore non lo meritavamo davvero». «Ed ora andatevene al diavolo!» gridò l’auditore contro Sc’vèik, «se non fosse stato per il fatto che per entrambi voi ha messo una buona parola il signor Oberst Schröder, non so proprio come ve la sareste passata». Vodička si sentì di nuovo il vecchio Vodička soltanto quando si ritrovarono nel corridoio, diretti all’ufficio numero due accompagnati dalla scorta. Il soldato che li scortava aveva paura di arrivare tardi al pranzo, pertanto li esortò: «Avanti, ragazzi, sveglia, state andando piano come lumaconi!» Vodička gli rispose che avrebbe fatto meglio ad evitare di fare tanto il galletto, ed aggiunse che poteva considerarsi fortunato perché era ceco. Se fosse stato ungherese gli avrebbe fatto gli occhi neri. Poiché all’ufficio gli scrivani se ne erano andati a prendere il rancio il soldato che accompagnava i due fu costretto a ricondurli momentaneamente indietro, alla prigione del tribunale di divisione, il che non poté avvenire senza che egli indirizzasse una notevole quantità di improperi all’odiata razza degli scrivani militari. «Quelli lì, adesso, mi si riprenderanno tutto il grasso della minestra», cominciò a lamentarsi con accenti drammatici, «ed invece della carne mi lasceranno i tendini. Anche ieri ho dovuto scortarne due al Lager 39 e qualcuno mi si è mangiato metà del pane che avevano ritirato per me». «Qui al tribunale di divisione voi non pensate ad altro che a mangiare», disse Vodička, che ormai s’era completamente ripreso. Quando riferirono al volontario con ferma annuale quello che era loro capitato, egli esclamò: «Ed allora si va nella compagnia di linea, amici miei! Bisogna augurarvi come fanno nella rivista dei turisti cechi: ‘Buon vento vi porti!’ I preparativi per il viaggio sono già ultimati, tutto è stato predisposto ed eseguito dalla gloriosa amministrazio38   Nel testo abgébovati se, formato con desinenza ceca dal tedesco abgeben sich, «occuparsi, avere a che fare». 39   In tedesco nel testo: «Campo».

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ne militare. Ed alla fine vi è stato impartito l’ordine di aggregarvi alla gita in Galizia. Mettetevi in viaggio con lieti pensieri ed a cuor leggiero e gioioso. Affezionatevi molto a quelle regioni nelle quali farete la conoscenza delle trincee. Sono posti splendidi ed interessantissimi. Pur stando così lontano, vi sentirete come a casa vostra, come in una contrada familiare, ed addirittura come nella vostra amata patria. E dunque intraprendete il viaggio con eletti sentimenti, ora che vi accingete a raggiungere una regione di cui già il vecchio Humboldt ebbe a dire: ‘In tutto il mondo non ho mai visto niente di più magnifico di questa stupida Galizia.’ Le abbondanti e preziose esperienze di cui si è arricchito il nostro eroico esercito durante la sua prima ritirata dalla Galizia serviranno di certo da ottima guida per le nostre nuove spedizioni militari nell’approntare il programma del viaggio di ritorno. Avanti, sempre dritto davanti al naso, fino alla Russia, e sparate in aria dalla gioia tutto il vostro caricatore!» Prima che, terminato il pranzo, Sc’vèik e Vodička tornassero all’ufficio, si avvicinò loro l’infelice maestro che aveva composto la poesia sui pidocchi e, trattili da parte, disse loro con fare misterioso: «Quando sarete dalla parte dei russi, non dimenticate di dire immediatamente ai russi: ‘Zdravstvujte, russkie braťja, my brat’ja Čechi, my net Avstrijci.’ » 40 Uscendo dalla baracca, Vodička, il quale voleva ostentare palesemente il suo odio verso gli ungheresi e dimostrare che la reclusione non lo aveva piegato né lo aveva scosso dalle sue convinzioni, pestò un piede all’ungherese che non voleva fare il servizio militare e gli gridò contro: «Datti da fare, torso che non sei altro!» «Avrei voluto che mi dicesse qualcosa», disse poi a Sc’vèik risentito il vecchio zappatore Vodička, «volevo che provasse a protestare, per potergli spaccare da un’orecchio all’altro quel suo lurido muso da ungherese. Ma lui, invece, pezzo di cretino, se ne sta zitto, e lascia che gli si cammini tranquillamente sui piedi. Herrgott, Sc’vèik, sapessi che rabbia ho, per non essere stato condannato! Così sembra che abbiano voluto farsi beffe di noi, come se di quegli ungheresi non valesse neppure la pena di parlare. Eppure ci siamo battuti come due leoni. Sei tu che hai rovinato tutto, è colpa tua se non ci hanno condannato e ci hanno dato invece quella specie di certificato, come se non 40  In russo nel testo: «Salve, fratelli russi, noi siamo fratelli cechi, non austriaci».

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fossimo capaci di lottare come si deve. Cos’è che pensano di noi, in realtà? Non ti pare che sia stata una zuffa proprio coi fiocchi?» «Caro il mio ragazzo», disse Sc’vèik con tono bonario, «io non capisco bene come mai tu non sia contento per il fatto che il Divisionsgericht ha riconosciuto ufficialmente che siamo gente perfettamente a posto, contro cui non si può fare nulla. È vero che all’interrogatorio ho inventato ogni sorta di scuse, ma questo si deve proprio fare, è il dovere di mentire, come dice l’avvocato Bass quando consiglia i suoi clienti. Quando il signor auditore mi ha chiesto per quale ragione abbiamo fatto irruzione in casa di quel signor Kákonyi, io gli ho risposto semplicemente: ‘Pensavo che avremmo fatto meglio la conoscenza del signor Kákonyi andando a fargli visita.’ Dopo, il signor auditore non mi ha chiesto niente altro e ne ha avuto abbastanza. «Ricordati bene», continuò Sc’vèik con aria pensosa, «che nessuno deve confessare davanti alle autorità militari. Quando mi trovavo rinchiuso al Garnisonsgericht ci fu un soldato, nella cella accanto alla mia, che confessò, ma quando gli altri lo vennero a sapere lo conciarono per le feste e gli ingiunsero di ritrattare tutta la confessione». «Se avessi fatto qualcosa di disonorevole non avrei con435

fessato neanche io», disse lo zappatore Vodička, «ma dal momento che quel mascalzone di auditore mi ha chiesto: ‘Avete fatto a pugni?’ gli ho risposto: ‘Sì, ho fatto a pugni.’ ‘Avete malmenato qualcuno?’ ‘Certo signor auditore.’ ‘Ed avete anche ferito qualcuno?’ ‘Si capisce, signor auditore.’ Doveva mettersi bene in testa con chi stava parlando. Ed è proprio una vergogna che ci abbiano messi in libertà. È come se non avesse voluto credere che ho sbattuto l’Überschwang addosso a quei manigoldi di ungheresi facendone tagliatelle e polpette. C’eri anche tu quando mi stavano addosso tre di quei disgraziati, ed hai visto che in quattro e quattr’otto sono andati a finire tutti per terra ed io li ho pestati camminandoci sopra. E dopo tutto questo po’ po’ di roba ecco che quel citrullo dell’auditore sospende l’istruttoria contro di noi. Come se volesse dirmi: ‘Ma che cavolo mi state raccontando, voi i pugni non sapete neanche dove stanno di casa!’ Quando la guerra sarà terminata e sarò tornato borghese, vedrai che quel cafone in un posto o nell’altro lo trovo, e poi glielo farò vedere io se so o non so dove stanno di casa i pugni. E voglio ritornare anche qui a Királyhíd a fare un bordello come non se ne sono mai visti al mondo, e la gente dovrà andare a rintanarsi nelle cantine appena saprà che sono venuto a fare una visitina a questi birbanti di Királyhíd, a questi farabutti, questi delinquenti!»

All’ufficio le formalità vennero sbrigate in un batter d’occhi. Un maresciallo con le labbra ancora unte dal recente pasto, nel consegnare a Sc’vèik ed a Vodička le loro carte con una faccia terribilmente seria, non si lasciò scappare l’occasione per tenere ad entrambi una concione nel corso della quale fece appello al loro spirito militare, e, poiché era un Wasserpolak,41 condì tutto il discorsetto con varie suggestive espressioni del suo dialetto come «marekvium», «glupi rolmopsie», «krajcova sedmina», «svina pórypana» e «dum vám baně na mjesjnuckovy vaši gzichty» 42 Quando Sc’vèik si accomiatò da Vodička, dato che ciascuno di loro veniva riaccompagnato al proprio reparto, gli disse: «Quando questa guerra sarà bell’e finita vieni a tro41  Così erano chiamati coloro che, essendo nati in Slesia, parlavano un misto di polacco e di tedesco. 42   Mescolanza di parole polacche, tedesche e ceche: «mangiacarote, «sceme aringhe arrotolate», «sette di coppe (la peggior carta in un giuoco)», «lurido maiale», «vi do dei ceffoni su quella vostra faccia di luna piena».

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varmi. Mi troverai ogni sera dalle sei in poi all’osteria ‘Al calice,’ in via Na Bojišti». «Si capisce che ci verrò», rispose Vodička, «ci si fanno baldorie, no?» «Ogni giorno succede qualcosa», promise Sc’vèik, «e se l’atmosfera fosse troppo quieta ci penseremo noi ad animarla». Si separarono, e quando erano già alquanto distanti tra loro, il vecchio zappatore Vodička si voltò ancora verso Sc’vèik: «Ma vedi davvero di inventare qualche bel divertimento per quando verrò». Al che Sc’vèik, di rimando: «Però vieni senza fallo quando sarà finita questa guerra». Si allontanarono ancora, e dopo un bel po’ di tempo, oltre l’angolo della seconda fila di baracche si poté udire di nuovo la voce di Vodička: «Sc’vèik, ehi, Sc’vèik, che birra hanno all’osteria ‘Al calice?’» Come un’eco si sentì la risposta di Sc’vèik: «Di Velkopopovice». «Credevo che avessero quella di Smíchov», gridò da lontano lo zappatore Vodička. «Ci sono pure delle ragazze», gridò Sc’vèik. 437

«Allora dopo la guerra, alle sei di sera», strillò Vodička in fondo al viale. «Magari è meglio che vieni alle sei e mezzo, se per caso dovessi ritardare», rispose Sc’vèik. S’udì di nuovo, ormai a grande distanza, Vodička: «Alle sei non puoi venire?» «E allora verrò alle sei», sentì come risposta Vodička mentre il suo camerata si allontanava sempre di più. Fu così che il buon soldato Sc’vèik si accomiatò dal vecchio zappatore Vodička. «Wenn die Leute auseinander gehen, da sagen sie auf Wiedersehen».43

43  In tedesco nel testo: «Quando la gente si separa, si dice a rivederci».

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5 Da Bruck sulla Leitha a Sokal

Il tenente Lukáš camminava infuriato in su ed in giù nell’ufficio dell’undicesima compagnia di linea. Era un lurido buco nella baracca della compagnia, separato dal corridoio mediante una parete di tavole. Un tavolo, due sedie, un secchio di petrolio ed un pancaccio. Davanti a lui stava il maresciallo contabile Vaněk, il quale in quell’ambiente preparava gli elenchi per il pagamento del soldo, teneva i conti della cucina per la truppa, fungeva da ministro delle finanze per l’intera compagnia e trascorreva tutto il santo giorno; era proprio lì che dormiva di notte. Presso la porta stava un grosso fante, dalla barba lunga quanto quella di Babbo Natale. Era Baloun, il nuovo attendente del tenente, che da borghese faceva il mugnaio dalle parti di Český Krumlov.1 1

  Cittadina della Boemia meridionale, a sudovest di České Budějovice.

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«Mi ha trovato proprio un bravo attendente», diceva il tenente Lukáš al maresciallo contabile, «la ringrazio di tutto cuore per questa bella sorpresa. Il primo giorno lo mando a prendermi il pranzo alla mensa, e lui se ne mangia la metà». «Prego, mi si è versato per terra», precisò il grosso gigante. «Bene, ti si è versato. Ti si poteva versare tutt’al più la minestra oppure il sugo, ma non il salsicciotto di Francoforte al forno. E invece me ne hai portato un pezzetto così piccolo che non valeva neppure una cicca. E lo strudel che fine ha fatto?» «Io l’ho…» «Non negare, te lo sei pappato tu!» Il tenente Lukáš pronunciò l’ultima frase con voce così seria e severa che Baloun, suo malgrado, fece due passi indietro. «Ho chiesto in cucina che cosa avevamo per pranzo oggi. M’hanno detto che c’era minestra con gnocchi al fegato. Dove hai messo quegli gnocchi? Li hai fatti fuori cammin facendo, ecco la verità. Poi c’era carne di manzo con cetrioli. Che ci hai fatto? Ti sei pappato pure quella. Due fette di salsicciotto di Francoforte. E me ne hai portato soltanto mezza fetta, vero? Due pezzi di strudel! Dove li hai mandati a finire? Ti sei abboffato, maledetto porco, scellerato! Avanti, parla, che fine ha fatto lo strudel? Ah, ti è cascato nel fango? Carogna che non sei altro! Mi puoi indicare dov’è questo fango con lo strudel sopra? Ah, ecco, un cane è arrivato all’improvviso, come se lo avessero chiamato a bella posta, l’ha azzannato e se l’è portato via, vero? Gesù Cristo mio, ho una voglia matta di prenderti a ceffoni per gonfiarti il muso! Ed ha anche il coraggio di mentire, il maiale! Lo sai chi t’ha visto? Ecco, questo qui, il Rechnungsfeldwebel 1 Vaněk ti ha visto! È venuto da me e mi ha detto: ‘Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che quel porco di Baloun le sta mangiando il pranzo. Lo guardo qui dalla finestra e vedo che si sta inzeppando come se non mangiasse da una settimana.’ Senta, Sie Rechnungsfeldwebel,3 davvero non poteva scegliermi un animale un po’ meglio di questo furfante?» «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che Baloun sembrava la persona più a modo di tutta la nostra compagnia di linea. È un tale scansafatiche che non 2 3

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  In tedesco nel testo: «Maresciallo contabile».   In tedesco nel testo: «Lei maresciallo contabile».

si ricorda neppure un movimento con le armi, ed a mettergli in mano un fucile si correrebbe il rischio di provocare qualche incidente. Durante le ultime esercitazioni con le Blindpatrone4 c’è mancato poco che sparasse in un occhio al suo vicino. Pensavo che potesse svolgere almeno un servizio come questo». «Con questo bel risultato», disse Lukáš, «che si mangia continuamente tutto il pranzo del suo padrone, come se la sua razione non gli bastasse. Dimmi un po’, hai ancora fame, forse?» «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che ho fame in continuazione. Se a qualcuno avanza del pane, glielo compro dandogli in cambio sigarette, ma malgrado tutto è sempre poco. Sono così per natura. Penso sempre di essere sazio, ed invece niente. Se sto un pochetto senza mettere niente sotto i denti mi si mette subito a brontolare lo stomaco, come se aspettasse del cibo, ed appena c’è qualche prospettiva, ecco che quella carogna si fa sentire. Qualche volta penso di averne davvero abbastanza, ritengo che non mi ci entri più niente, ma è solo impressione. Basta che veda qualcuno che mangia, oppure che senta qualche odorino, ed immediatamente mi si rivoltano le budella. Lo stomaco comincia nuovamente a reclamare i suoi diritti ed allora sarei capace di ingoiare perfino chiodi. Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che ho già fatto domanda per ottenere razione doppia; proprio a questo scopo, a Budějovice, mi sono presentato al Regimentsarzt,5 e lui, invece di soddisfare la mia richiesta, mi ha mandato per tre giorni in infermeria prescrivendomi come cibo giornaliero un gavettino di minestra liscia. Ti insegnerò io, canaglia, mi ha detto, ad avere fame. Ricapitami tra i piedi un’altra volta, e vedrai che ti faccio uscire di qui magro come un’aringa! Vede, signor Oberleutnant, non è necessario che mi capitino sotto gli occhi dei bocconcini prelibati, anche quelli comunissimi mi stuzzicano l’appetito e mi fanno immediatamente venire l’acquolina in bocca. Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che presento nuovamente domanda affinché mi venga assegnata una razione doppia. Se non ci sarà più carne, almeno il contorno, le patate, gli gnocchi, un po’ di salsa, tutta roba che avanza sempre…» «Ebbene, ho dovuto sorbirmi tutte queste sfacciataggini, Baloun», rispose il tenente Lukáš. «Ha mai sentito dire,   Dal tedesco Blindpatronen, «cartucce a salve».   In tedesco nel testo: «Medico reggimentale».

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Sie Rechnungsfeldwebel, che prima, oltre a tutto, un soldato potesse essere così insolente come questo mascalzone? Mi fa fuori il pranzo, e per giunta pretende che gli venga assegnata doppia razione. Ma vedrai che ci penserò io a farti passare l’appetito, Baloun! «Sie Rechnungsfeldwebel», si rivolse poi a Vaněk, «lo porti al caporale Weidenhofer, e gli dica che deve legarlo ben bene per due ore nel cortile della cucina, quando stasera ci sarà la distribuzione del gulasch. Lo leghi bene in alto, in modo che si tenga appena sulla punta dei piedi e possa vedere il gulasch che bolle nella pentola. E faccia in modo che questo animale sia ancora lì quando in cucina verrà distribuita la cena, in modo che gli venga l’acquolina in bocca come ad una cagna affamata quand’essa annusa nel negozio del salumaio. Dica inoltre al cuoco che la razione che spetta a Baloun deve essere distribuita agli altri!» «Agli ordini, signor Oberleutnant. Venite con me, Baloun!» Quando uscirono, il tenente si trattenne sulla porta e, fissando il volto terrorizzato di Baloun, esclamò con tono trionfante: «Ecco, ci sei riuscito, Baloun! Ti auguro buon appetito! E se me ne combinerai un’altra del genere, ti sbatterò senza pietà davanti al tribunale di campo». Quando tornò Vaněk per annunciare che Baloun era ormai legato, il tenente Lukáš disse: «Lei mi conosce, Vaněk, e sa che non mi piace fare queste cose, ma non potevo esimermi. In primo luogo sa bene che, quando portano via il suo osso ad un cane, questo si mette a ringhiare. Non voglio che mi ronzi intorno un vigliacco di questa fatta, in secondo luogo, poi, il fatto che Baloun sia legato ha una grande importanza morale e psicologica per l’intera Mannschaft.6 Negli ultimi tempi quei ragazzi, stando ormai in una compagnia di linea, e sapendo che da un giorno all’altro saranno mandati al fronte, si sono messi a fare il comodo loro». Il tenente Lukáš aveva un’aria assai desolata quando soggiunse a bassa voce: «L’altroieri, durante la Nachtübung,7 dovevamo manovrare, come ben sa, contro la Einjährfreiwilligenschule,8 dietro lo zuccherificio. Il primo scaglione, la Vorhut,9 marciava ancora zitta zitta per la strada, perché al comando di quel reparto c’ero io stesso, ma il secondo, che avanzava alla nostra sinistra ed aveva il compito di spedire   In tedesco nel testo: «Truppa».   In tedesco nel testo: «Esercitazione notturna».   In tedesco nel testo: «Scuola per volontari con ferma annuale. 9   In tedesco nel testo: «Avanguardia». 6 7 8

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delle Vorpatrole10 verso lo zuccherificio, sembrava che stesse andando ad una gita. Tutti quanti cantavano e scalpitavano in maniera tale che dovevano sicuramente sentirli fin dal Lager. Poi, sul fianco destro, il terzo scaglione è andato in ricognizione verso il bosco, ad una distanza di dieci minuti buoni di marcia dal punto in cui ci trovavamo noi, eppure anche a quella distanza si poteva vedere come gli uomini fumassero, nel buio non si scorgevano altro che puntini di fuoco. Il quarto scaglione, poi, avrebbe dovuto fare da Nachhut,11 e soltanto il diavolo può sapere come è successo che tutt’a un tratto si è ritrovato davanti alla nostra Vorhut, sì che è stato scambiato per il nemico, ed io sono stato costretto ad indietreggiare dinanzi alla mia Nachhut, la quale foricava12 contro di me. Questa è l’undicesima compagnia di linea che io ho ereditato. Cosa posso fare con gente come questa? Come si potranno comportare in un vero Gefecht?» Mentre diceva questo, il tenente Lukáš teneva le mani congiunte ed assumeva l’espressione di un martire, la punta del suo naso gli si allungò. «Non se la prenda, signor tenente», cercò di consolarlo il maresciallo contabile Vaněk, «non ci si stia a rompere la testa. Io sono stato già in tre compagnie di linea, ciascuna di esse ci è stata fatta a pezzi con tutto il battaglione e siamo dovuti andare a ricostruirle da capo. E tutte le compagnie di linea erano uguali, non ce n’era neanche una migliore sia pure di un capello della sua, signor Oberleutnant. La peggiore di tutte era la nona. Quella lì si arrese al completo, con tutti i sottufficiali e con lo stesso comandante. Io me la scampai unicamente per il fatto che ero andato al Regimentstrain13 per ritirare il rhum ed il vino per tutto il reparto, e loro compirono quella bella impresa senza di me. «E vuol saperne un’altra, signor Oberleutnant? Nell’ultima Nachtübung, quella di cui lei ha or ora parlato, la Einjährigfreiwilligenschule, la quale doveva evitare la nostra compagnia, lo sa dove è andata a finire? È andata a finire al lago di Neusiedl! Ha continuato a marciare fino al mattino, ed i Vorposti 14 sono arrivati fino agli acquitrini. Al comando del reparto c’era lo stesso signor capitano   in tedesco nel testo: «Pattuglie avanzate».   In tedesco nel testo: «Retroguardia».  Nel testo: forikoval, voce con desinenza e grafia ceca dal tedesco vorrücken’, «avanzare». 13   In tedesco nel testo: «Salmerie del reggimento». 14   Dal tedesco Vorposten, «sentinelle avanzate, avamposti», l’autore intende evidentemente «avanguardie». 10 11

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Ságner. Sarebbero forse arrivati fino a Sopron se non fosse giunta presto l’alba», continuò con tono misterioso il maresciallo contabile, che si divertiva un mondo con episodi di questo genere ed aveva tra i suoi ricordi tutto un florilegio di casi analoghi. «E lo sa, signor Oberleutnant», soggiunse ammiccando con aria confidenziale, «che il signor capitano Ságner deve diventare Bataillonskommandant del nostro battaglione di linea? In un primo momento, come diceva il maresciallo del comando Hegner, si pensava che tale carica sarebbe toccata a lei, dato che lei è il nostro più anziano ufficiale, ma poi, a quanto pare, è arrivato alla brigata da parte della divisione un ordine, in base al quale è stato nominato il signor capitano Ságner». Il tenente Lukáš si morse le labbra e si accese una sigaretta. Sapeva bene come stavano le cose ed era convinto che gli stessero facendo un torto. Già per due volte il capitano Ságner lo aveva scavalcato nell’avanzamento, tuttavia non disse altro che «Cosa diavolo mai il capitano Ságner…» «Questa circostanza non mi fa molto piacere», fece con tono confidenziale il maresciallo contabile: «Diceva il maresciallo Hegner che il signor capitano Ságner all’inizio della guerra, in Serbia, verso il Montenegro, voleva mettersi in luce, e per questo motivo cominciò a lanciare le singole compagnie del suo battaglione di linea, una dopo l’altra, contro le mitragliatrici delle postazioni serbe, benché la cosa fosse del tutto inutile ed in quella occasione la fanteria non servisse un accidente, dato che solamente l’artiglieria avrebbe potuto snidare i serbi dalle loro posizioni. Di tutto il battaglione rimasero complessivamente ottanta uomini, il signor capitano Ságner, egli stesso, si prese un Handschuss15, poi, all’ospedale, si ammalò di dissenteria, ed infine ritornò al reggimento a Budějovice; ieri sera, al circolo ufficiali, a quanto pare ha detto che non vede l’ora di raggiungere il fronte, dove è pronto a lasciare magari tutto il suo battaglione di linea, ma è altresì deciso a compiere qualche grande impresa ed a guadagnarsi il signum laudis, ha detto pure che in Serbia gli hanno dato una sonora lezione, ma adesso o cadrà alla testa delie sue truppe oppure sarà promosso Oberstleutnant, in ogni caso il suo battaglione di linea dovrà fare faville. Io penso, signor Oberleutnant, che la faccenda sia rischiosa e riguardi pure noi. Ancora il maresciallo Hegner, non molto tempo   In tedesco nel testo: «Colpo alla mano».

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fa, disse che lei non va a genio al signor capitano Ságner, il quale, pertanto, lancerà proprio la nostra undicesima compagnia per prima in Gefecht e nei punti più pericolosi». Il maresciallo contabile trasse un sospiro: «Io sarei di questa opinione, che in una guerra come questa, quando sono in ballo tante truppe e la linea del fronte è così lunga, si potrebbe ottenere di più con abili manovre piuttosto che con disperati attacchi. Io stesso l’ho visto a Dukla16 con la decima compagnia di linea. In quella occasione tutto andò liscio, arrivò l’ordine ‘nicht schiessen,’ 17 e così non si sparò più e si aspettò che i russi ci si avvicinassero. Li avremmo potuti prendere senza esplodere un sol colpo, se non che al fianco sinistro avevamo le ‘mosche di ferro’, e quegli idioti di territoriali avevano una tal fifa per il fatto che i russi ci si avvicinavano che cominciarono a lasciarsi scivolare giù per il pendio sulla neve come se facessero la scivolarella, e noi ricevemmo un dispaccio che ci informava che i russi avevano sfondato al fianco sinistro e ci ordinava di cercare di ricongiungerci alla brigata. Quella volta io ero per l’ap16   Valico sui Carpazi, dove, durante la prima guerra mondiale, si svolsero aspri combattimenti; in questa località il ventottesimo reggimento fanteria venne catturato dai russi. 17   In tedesco nel testo: «Non sparare».

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punto alla brigata, dove mi ero recato per farmi vistare il Kompanieverpflegungsbuch,18 dato che non ero riuscito a trovare il nostro Regimentstrain, ed ecco che cominciarono ad arrivare al comando i primi uomini della decima compagnia di linea. Prima che scendesse la sera ne arrivarono centoventi, gli altri, a quel che si diceva, erano scivolati giù per la neve come su un tobogan, essendosi smarriti nella ritirata, ed erano andati a finire dritti dritti verso le posizioni russe. Lì fu terribile, signor Oberleutnant, nei Carpazi i russi avevano postazioni in alto ed in basso. E poi, signor Oberleutnant, il signor capitano Ságner…» «Mi lasci in pace, adesso, con questo signor capitano Ságner», disse il tenente Lukáš, «tutte queste cose le so perfettamente, e non creda, se ci sarà un nuovo attacco o un nuovo Gefecht, che lei si ritroverà ancora una volta, per puro caso, a ritirare rhum e vino al Regimentstrain. M’hanno avvertito che lei trinca a tutto spiano, e basta guardare il suo naso rosso per capire subito con chi si ha a che fare». «Questo succedeva sui Carpazi, signor Oberleutnant, là eravamo costretti a bere; su in montagna il rancio ci arrivava freddo, le trincee ce le avevamo nella neve, non si doveva accendere il fuoco, quindi ci tenevamo in gamba col rhum. E se non ci fossi stato io, sarebbe accaduto quello che succedeva nelle altre compagnie, dove non avevano neppure il rhum e la gente si congelava. Per questa ragione nel nostro reparto avevamo tutti quanti il naso rosso per il gran bere, ma la cosa aveva anche i suoi svantaggi, perché dal battaglione venne l’ordine di mandare in pattuglia solo la Mannschaft che aveva il naso rosso». «Ma ormai il freddo è passato», notò con tono significativo il tenente. «Sotto le armi, signor Oberleutnant, quando c’è la guerra il rhum è indispensabile in qualsiasi stagione, così come il vino. Mette, per così dire, buon umore. Con una mezza gavetta di vino ed un quarto di rhum gli uomini sono pronti a battersi con chicchessia… Chi è questo animale che adesso bussa alla porta? Non sa leggere il cartello ‘Nicht klopfen!?’ Herein!»19 Il tenente Lukáš si girò sulla sua seggiola e vide che la porta si apriva lentamente e senza far rumore. Silenziosamente entrò poi nell’ufficio dell’undicesima compagnia di linea il buon soldato Sc’vèik, con la mano levata nel saluto, posa che aveva evidentemente assunto fin dal momento in   In tedesco nel testo: «Registro della sussistenza della compagnia».   In tedesco nel testo: «Non bussarel?» «Avanti!»

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cui aveva cominciato a bussare, mentre fissava il cartello del Nicht klopfen. Quel suo saluto sembrava un sonoro ed enfatico accompagnamento alla sua faccia assolutamente tranquilla e priva di preoccupazioni. Egli aveva l’aria di un dio delle malefatte greco rivestito dell’austera uniforme della fanteria austriaca. Il tenente Lukáš socchiuse gli occhi per un momento dinanzi a quell’immagine del buon soldato Sc’vèik che lo abbracciava e lo carezzava con lo sguardo. Con la medesima tenerezza il figliuol prodigo, perduto e poi ritrovato, guardava forse il padre mentre questi girava allo spiedo il montone in onor suo. «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che mi trovo di nuovo qua», disse fin dalla porta Sc’vèik con una tale sincera disinvoltura che il tenente Lukáš si riprese all’istante. Dal momento in cui il colonnello Schröder gli aveva annunciato che gli avrebbe nuovamente spedito tra capo e collo Sc’vèik, il tenente Lukáš, in cuor suo, ogni giorno si figurava quell’incontro il più lontano possibile. Ogni mattino si diceva: «Oggi non verrà ancora, ne avrà combinata qualcuna delle sue e se lo terranno ancora là». Tutte le svariate ipotesi furono ridotte alla loro giusta misura da Sc’vèik, quando egli entrò in maniera così gentile e semplice. Sc’vèik scorse adesso il maresciallo contabile Vaněk e, direttosi verso di lui, gli consegnò con un radioso sorriso le carte che estrasse dalla tasca del cappotto: «Faccio rispettosamente notare, signor Rechnungsfeldwebel, che debbo consegnare a lei queste carte, da me ricevute all’ufficio reggimentale. Servono per la Löhnung 20 e per inserire il mio nome nella Verpflegung».21 Nell’ufficio dell’undicesima compagnia di linea Sc’vèik si muoveva con tanta disinvolta e cameratesca naturalezza come se fosse stato il miglior amico di Vaněk, il quale, dal canto suo, reagì dicendo seccamente: «Posatele sul tavolo». «Farebbe molto bene, Sie Rechnungsfeldwebel, se mi lasciasse solo con Sc’vèik», disse con un sospiro il tenente Lukáš. Vaněk uscì ma si fermò subito dietro la porta, per origliare e sentire quello che i due avrebbero detto.   In tedesco nel testo: «Soldo».   In tedesco nel testo: «Sussistenza».

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Dapprima non udì niente, dato che sia Sc’vèik che il tenente Lukáš tacevano. I due si guardarono e si scrutarono a lungo. Lukáš fissava Sc’vèik come se lo volesse ipnotizzare, come un gallo che stia dinanzi ad un pollastrella e si accinga a saltargli addosso. Sc’vèik, dal canto suo, guardava col suo solito sguardo, caldo e tenero, il tenente Lukáš, come se volesse dirgli: «Di nuovo insieme, anima mia bella, adesso, ormai, più niente ci separerà, colombello mio». E poiché il tenente stette a lungo in silenzio, l’espressione degli occhi di Sc’vèik sembrò volesse dire con compunta tenerezza: «Avanti, tesoro mio, di’ qualcosa, fammi sentire quel che ti passa per la mente!» Il tenente Lukáš interruppe alla fine quel penoso silenzio pronunciando parole nelle quali si sforzò di infondere una grande dose di ironia: «Benvenuto, caro il mio Sc’vèik. Vi ringrazio molto per la visita. Sapeste quanto mi fa piacere che mi siate venuto a trovare!» Non si seppe però trattenere, e tutta la collera dei giorni scorsi esplose con un terribile pugno sulla tavola, a causa del quale il calamaio sobbalzò ed uno schizzo di inchiostro andò a cadere sul Löhnungslist.22   In tedesco nel testo: «Elenco dei soldati che ricevono il soldo.*

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Nel medesimo tempo il tenente Lukáš balzò in piedi, si piantò a pochissima distanza da Sc’vèik e prese a gridargli contro: «Animale che non siete altro!» dopo di che cominciò a camminare in su ed in giù per l’ufficio, sputando sempre ogni volta che passava davanti a Sc’vèik. «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant», disse Sc’vèik, vedendo che il tenente Lukáš non la smetteva di camminare e di gettare con furia in un angolo pezzi di carta appallottolati presi di volta in volta dal tavolo, «che la lettera l’ho regolarmente consegnata. Ho trovato felicemente la signora Kákonyi e posso ben dire che è una femmina stupenda, anche se quando l’ho vista io stava piangendo…» Il tenente Lukáš si mise a sedere sulla branda del sottufficiale contabile ed esclamò con voce rauca: «Finirà una buona volta questa storia, Sc’vèik?» Sc’vèik rispose, come se avesse frainteso: «Poi ho avuto un piccolo incidente, ma la responsabilità me la sono addossata tutta su di me. È vero che loro non mi hanno creduto quando ho detto che ero in corrispondenza con quella signora, ma allora io ho preferito mangiarmi la lettera mentre ero interrogato, in modo da confonder loro tutte le tracce. Inoltre, per puro caso, perché altrimenti non mi saprei spiegare la cosa, mi sono trovato coinvolto in una piccola rissetta, dal rilievo del tutto trascurabile. Ma anche per questa faccenda me la sono cavata, hanno dovuto riconoscere la mia innocenza e mi hanno mandato al Regimentsrapport; al tribunale di divisione, infine, hanno sospeso tutte le indagini. All’ufficio del reggimento mi sono trattenuto soltanto un paio di minuti, perché è subito arrivato il signor Oberst il quale, dopo avermi un po’ sgridato, mi ha detto che dovevo subito presentarmi a lei, signor Oberleutnant, in qualità di ordinanza, e mi ha ordinato di riferirle che le chiede di andare da lui per discutere cose riguardanti la compagnia. Questo me l’ha detto oltre mezz’ora fa, ma il signor Oberst non poteva sapere che nell’ufficio del reggimento le cose sarebbero andate per le lunghe e che ci sarei rimasto per più di un quarto d’ora, dato che avevo tutta la Löhnung a me spettante per il periodo trascorso, e doveva essermi pagata dal reggimento anziché dalla compagnia, perché dovevo essere considerato un Regimentsarrestant.23 Lì da loro c’è una tale confusione e tanto disordine che farebbero uscire la gente fuori dai gangheri… Quando ebbe sentito che già mezz’ora prima avreb  In tedesco nel testo: «Arrestato del reggimento».

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be dovuto presentarsi al colonnello Schröder, il tenente Lukáš, mentre si rassettava rapidamente, disse: «M’avete sistemato per le feste un’altra volta, Sc’vèik!» Disse questo con una voce così disperata e piena di accoratezza che Sc’vèik tentò di consolarlo indirizzandogli una frase che pronunciò quando il tenente Lukáš si precipitò fuori della porta: «Vuol dire che il signor Oberst aspetterà, tanto non ha niente da fare!» Subito dopo l’uscita del tenente entrò nell’ufficio il maresciallo contabile Vaněk. Sc’vèik sedeva su una seggiola ed attizzava il fuoco nella piccola stufetta di ferro buttandovi dentro pezzetti di carbone attraverso lo sportellino. La stufetta mandava fumo puzzolente, ma Sc’vèik continuò a divertirsi in quel modo senza accorgersi di Vaněk, il quale dapprima stette a contemplarselo un po’ e poi dette un calcio allo sportello e disse a Sc’vèik di sgombrare. «Signor Rechnungsfeldwebel», fece allora Sc’vèik con tono assai dignitoso, «mi permetto di informarla che, anche con la migliore buona volontà, non posso soddisfare la sua richiesta, non posso sgombrare, diciamo così, da tutto il campo, poiché sono sottoposto ad una disposizione superiore. 451

«Io, infatti, sono ordinanza», aggiunse con orgoglio, «il signor Oberst Schröder mi ha assegnato all’undicesima compagnia agli ordini del signor Oberleutnant Lukáš, presso il quale ero prima attendente, ma ora, grazie alla mia naturale intelligenza, sono stato elevato al rango di ordinanza. Col signor Oberleutnant ci conosciamo da lunga data. Cosa fa nella vita borghese, signor Rechnungsfeldwebel?» Il maresciallo contabile Vaněk fu talmente sorpreso dal tono familiare e cameratesco di Sc’vèik che, sebbene ci tenesse molto a darsi delle arie davanti ai soldati della compagnia, rispose, come se fosse stato un subalterno di Sc’vèik: «Io, se non lo sapete, sono il droghiere Vaněk di Kralupy».24 «Anche io ho una certa pratica in materia», disse Sc’vèik, «a Praga ho lavorato con un certo signor Kokoška in via Na Perštýně.25 Era proprio un tipo bislacco, ed una volta che gli avevo dato fuoco per sbaglio ad un barile di benzina che si trovava in cantina e la benzina era bruciata, mi cacciò via; il consorzio dei droghieri, poi, non volle più accettarmi, e così, per uno stupido barile di combustibile, non potei terminare i miei studi in quel campo. Prepara pure medicamenti per le vacche?» Vaněk scosse la testa in segno di diniego. «Da noi si facevano medicamenti per le vacche con immagini benedette. Il nostro principale, il signor Kokoška, era una persona molto devota, ed una volta aveva letto che san Pellegrino aiuta molto per far ingrassare il bestiame. Così si fece stampare in qualche tipografia di Smíchov delle immagini di san Pellegrino e le fece consacrare alla chiesa di Emmaus,26 per duecento fiorini. Poi le mettemmo nei sacchetti di questi nostri medicamenti per le vacche. Questo medicamento si scioglieva nell’acqua e lo si faceva bere alla mucca dal mastello recitando nel medesimo tempo la preghiera a san Pellegrino composta dal signor Tauchen, il nostro commesso. Quando infatti quelle immagini di san Pellegrino furono stampate, bisognò ancora mettere una preghierina sull’altro lato. Così una sera il nostro vecchio Kokoška mandò a chiamare il signor Tauchen e gli disse di comporre entro il mattino successivo una preghierina per quei santini e quei medicamenti, aggiungendo che il   Cittadina a nord di Praga.   Strada centrale di Praga.   Si tratta della chiesa ed annesso convento «Agli slavi», sede di una scuola paleoslava nel medioevo. 24 25 26

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testo avrebbe dovuto essere pronto entro le dieci, ora in cui sarebbe venuto al negozio, per spedirlo immediatamente in tipografia, perché era da parecchio tempo che le vacche aspettavano quella preghierina. E gli pose delle condizioni. Se l’avesse fatta bene gli avrebbe scucito un fiorino, in caso contrario, entro due settimane avrebbe potuto far fagotto. Il signor Tauchen si spremè le meningi per tutta la notte e, quando la mattina venne ad aprire il negozio, ancora mezzo addormentato, non aveva ancora scritto niente. S’era perfino dimenticato il nome di quel santo dei medicamenti per le vacche. Ma lo trasse d’impaccio il nostro garzone Ferdinand. Quando stavamo a seccare le foglie di camomilla veniva sempre da noi, si toglieva le scarpe e ci spiegava che in quella maniera i piedi cessavano di sudare. Acchiappava i piccioni nel solaio, riusciva ad aprire i cassetti coi soldi e ci insegnava anche altri trucchi del mestiere. Da ragazzo, a casa, io possedevo una farmacia, con la roba che mi portavo via dal negozio, quale non ce l’avevano neppure dai ‘Misericordiosi.’ 27 Questo Ferdinand, dunque, aiutò il signor Tauchen; disse soltanto: ‘Mi dia qua, signor Tauchen, lasci che gli dia un’occhiatina’, e subito il signor Tauchen gli mandò a prendere una birra. Prima che fossi di ritorno con la birra, il nostro garzone Ferdinand era già arrivato alla metà e stava già leggendo: Scendo giù dal regno delle stelle e vi reco le liete novelle. Vacca, agnello ed ogni animale ha bisogno come del sale della polvere kokoškiana, d’ogni male il toccasana…

Poi, quando si fu bevuto la sua birra ed ebbe trangugiato un buon sorso di amaro, procedé assai rapidamente e terminò in un momento molto bene: L’ha inventato il santo Pellegrino, ogni sacchetto costa un fiorino. O Pellegrino, proteggi il nostro gregge, che sempre lieto il tuo sacchetto sugge. Le lodi tue già canta il contadino, deh, salvaci le vacche, o Pellegrino…

Poi, quando arrivò il signor Kokoška, il signor Tauchen andò nel suo studio e, quando ne uscì, ci fece vedere due fiorini, non uno solo come gli era stato promesso, e propose di spartire a metà col signor Ferdinand. Ma il garzone   Convento ed ospedale di Praga.

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Ferdinand, quando vide i due fiorini, fu improvvisamente tentato da Mammona. Disse che così non andava bene, o tutto a lui, oppure niente. Pertanto il signor Tauchen non gli dette un bel niente, ed i due fiorini se li tenne per sé, si appartò con me in magazzino, mi affibbiò un ceffone e mi disse che avrei avuto cento di quei ceffoni se avessi osato spargere la voce che non era stato lui a comporre ed a scrivere quei versi, aggiungendo che, anche se Ferdinand fosse andato a lagnarsi col nostro vecchio, dovevo sostenere che il garzone era un bugiardo. Dovetti giurargli che avrei conservato il segreto dinanzi ad una panciuta brocca piena di aceto all’assenzio. Il nostro garzone, però, cominciò a vendicarsi guastandoci la pozione per le vacche. La mescolavamo in grandi casse nel solaio, e lui, ogni volta che riusciva a trovare delle cacatine di sorcio, veniva a buttarle dentro alla mistura. Poi raccoglieva per strada escrementi di cavallo, se li seccava a casa sua, li pestava in un mortaio da speziale e metteva anche quella porcheria nei medicamenti per le vacche con l’immagine di san Pellegrino. Ma non era contento neanche di questo. Pisciava nelle casse, ci cacava dentro, e mescolava il tutto di modo che quella roba assumeva l’aspetto di una pappa di crusca…» Si sentì squillare il telefono. Il maresciallo contabile con un balzo afferrò il ricevitore e, udita la comunicazione, lo riagganciò infastidito: «Debbo andare all’ufficio del reggimento. Così all’improvviso, non mi piace per niente». Sc’vèik si ritrovò nuovamente solo. Dopo un po’ di tempo squillò di nuovo il telefono. Sc’vèik iniziò la conversazione: «Vaněk? È andato all’ufficio reggimentale. Chi è al telefono? L’ordinanza dell’undicesima compagnia di linea. Chi è che parla? L’ordinanza della dodicesima compagnia? Salve, collega. Come mi chiamo? Sc’vèik. E tu? Braun. Non sei per caso parente di un certo Braun che sta in piazza Pobřežní al Karlín, un cappellaio? No, non lo sei, non lo conosci… Neppure io lo conosco, so soltanto che una volta ci sono passato davanti col tram, e quella ditta m’è rimasta impressa. Cosa c’è di nuovo? – Io non so niente. – Quando partiremo? Della partenza non ho ancora parlato con nessuno. Dov’è che dovremmo andare?» «Al fronte, frescone, con la tua compagnia». «Non ne ho ancora sentito parlare». «Allora sei proprio una bella ordinanza. Non sai se per caso il tuo Leutnant…» «Il mio Oberleutnant, vorrai dire…» 454

«È lo stesso; allora il tuo Oberleutnant è andato alla Besprechung,28 dall’Oberst?» «È stato convocato là». «Vedi, dunque, anche il nostro c’è andato, e pure quello della tredicesima compagnia; ho parlato proprio adesso per telefono con la loro ordinanza. Tutta questa fretta non mi piace per niente. E non sai per caso se fanno fagotto pure quelli della fanfara?» «Io non so niente». «Non fare il fesso. È vero che il tuo Rechnungsfeldwebel ha ricevuto già il Wagonenaviso?29 Quanta Mannschaft avete là da voi?» «Non lo so». «Pezzo di scemo, hai paura che ti mangi? (Si sente poi che l’uomo che sta al telefono dice ad uno che gli sta accanto: «Prendi l’altro ricevitore, Franta, senti che razza di ordinanza cretina hanno all’undicesima compagnia»). – «Pronto, che fai là, dormi? Allora rispondi, quando un collega ti rivolge una domanda. Dunque tu non sai ancora niente? Non mentire. Il vostro Rechnungsfeldwebel non vi ha forse detto   Tn tedesco nel testo: «Conferenza».  .   In tedfsco nel testo: «Preavviso circa l’arrivo dei vagoni per il trasporto della truppa». 28 29

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che avreste ritirato lo scatolame? Dici davvero che non ti ha parlato di simili cose? Pezzo di idiota. Ah, a te la cosa non interessa?» (Si sente una risata.) «Ti manca proprio qualche venerdì. Ebbene, appena sai qualcosa, telefonaci qua alla dodicesima compagnia di linea, babbeo che non sei altro.Di dove sei?» «Di Praga». «Allora dovresti essere più furbo… E dimmi un’altra cosa: Quand’è che il vostro Rechnungsfeldwebel si è recato all’ufficio?» «L’hanno chiamato un minuto fa». «Ecco, dunque, e non potevi dirlo prima? Anche il nostro ci è andato un minuto fa, vuol dire che qualcosa bolle in pentola. Hai parlato con le salmerie?» «No». «Gesù Cristo mio, e dici di essere di Praga. Non ti preoccupi proprio di niente. Ma che cosa fai tutto il santo giorno?» «Sono tornato un’ora fa dal tribunale di divisione». «Se è così la musica è diversa, camerata, allora ancora entro oggi verrò a farti una visitina. Fammi due squilli di telefono». Sc’vèik se ne andò ad accendere la pipa quand’ecco che trillò nuovamente il telefono. «Andatevene un po’ a quel paese, voi ed il vostro telefono», pensò tra sé e sé Sc’vèik, «credete proprio che abbia tempo da perdere con voi?» Il telefono continuò a squillare spietatamente, così che Sc’vèik, alla fine, perduta la pazienza, afferrò il ricevitore e si mise ad urlare: «Pronto, chi parla? Qui è l’ordinanza Sc’vèik dell’undicesima compagnia di linea». In risposta Sc’vèik udì una voce ben nota: quella del suo tenente Lukáš: «Che diavolo state facendo là, tutti quanti? Dov’è Vaněk, chiamate immediatamente Vaněk al telefono!» «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che poco tempo fa è squillato qui il telefono». «Statemi bene a sentire, Sc’vèik, non ho tempo da perdere con voi. Sotto le armi, quando parliamo al telefono, non facciamo tutti i complimenti che usiamo fare per invitare a pranzo qualcuno. Le conversazioni telefoniche debbono essere brevi e chiare. In simili colloqui è del tutto fuori luogo anche il vostro solito ‘faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant.’ Adesso, dunque, Sc’vèik, vi faccio una precisa domanda: avete a portata di mano Vaněk? Se sì, mandatelo al telefono!» 456

«No, signor Oberleutnant, non ce l’ho a portata di mano, faccio rispettosamente notare, un istante fa è stato convocato in ufficio, potrà essere un quarto d’ora fa, all’ufficio del reggimento». «Quando verrò, Sc’vèik, farò i conti con voi. Non siete capace di parlare in maniera più concisa? Ora fate bene attenzione a quello che sto per dirvi. Sentite bene? Non venite poi a scusarvi col pretesto che c’erano dei ronzii nell’apparecchio! Appena avrete agganciato il ricevitore…» Pausa. Nuovo squillo. Sc’vèik riprende il ricevitore ed è sommerso da un profluvio di insulti: «Animale, manigoldo, mascalzone! Che fate, perché interrompete la conversazione?» «Ma scusi, lei stesso mi ha detto di agganciare». «Tra un’ora sarò a casa, Sc’vèik, e poi vedrete che avrete di che rallegrarvi… Adesso mettetevi in cammino, andate alla baracca e cercate qualche graduato, magari Fuchs, e ditegli che deve immediatamente prendere dieci uomini ed andare con loro al magazzino a ritirare lo scatolame. Ripetetemi quello che ho detto; cos’è che deve fare?» «Andare con dieci uomini al magazzino a ritirare lo scatolame per la compagnia». 457

«Alla fine! Una volta tanto non fate il cretino. Nel frattempo io telefonerò a Vaněk alla Regimentskanzlei 30 e gli dirò che venga pure lui al magazzino per ritirare la roba. Se intanto arriva alla baracca, pianti lì ogni cosa e vada laufschritt 31 al magazzino. Ed adesso agganciate il ricevitore». Sc’vèik stette per un bel pezzo a cercare vanamente non solo il caporale Fuchs, ma anche gli altri graduati. Erano tutti quanti in cucina, stavano spilluzzicando la carne dalle ossa e si divertivano un mondo nel vedere Baloun legato, il quale, benché avesse i piedi saldamente piantati per terra, dato che avevano avuto pietà di lui, offriva ugualmente una vista interessante. Uno dei cuochi gli aveva portato un pezzo di costola e glielo aveva ficcato in bocca, ed il povero gigante Baloun, legato come era, non avendo la possibilità di adoperare le mani, si rigirava cautamente quel pezzo d’osso tra le labbra, tenendolo in equilibrio mediante i denti e le gengive, ed intanto si rosicchiava la carne con l’espressione di uno gnomo del bosco. «Chi di voi è il caporale Fuchs?» domandò Sc’vèik, quando alla fine arrivò in quel posto. Il caporale Fuchs non ritenne neppure suo dovere farsi avanti, quando si accorse che cercava di lui un semplice soldato. «Insomma», disse Sc’vèik, «debbo stare a chiedere in eterno? Dove diavolo mai è questo benedetto caporale Fuchs?» Fuchs si fece avanti e, pieno di burbanza, cominciò ad imprecare con ogni sorta di ingiurie, dicendo che egli non era per niente un caporale, ma il signor caporale, e che pertanto non si doveva domandare: «Dove è il caporale?» ma: «Mi permetto rispettosamente di chiedere: dove è il signor caporale?» aggiungendo poi che, nel suo reparto, se qualcuno osava omettere la formula «Ich melde gehorsam»,32 rimediava immediatamente qualche sberla sul muso. «Piano, piano», disse con tono serio Sc’vèik, «farebbe meglio ad avviarsi subito, ad andare alla baracca, a prendere dieci uomini ed a filare laufschritt al magazzino, per ritirare lo scatolame». Il caporale Fuchs restò così sorpreso che non riuscì a dire altro che: «Come?» «Niente ‘come’», rispose Sc’vèik, «io sono l’ordinanza dell’undicesima compagnia di linea ed un minuto fa   In tedesco nel testo: «Ufficio del reggimento».   In tedesco nel testo: «Di volata».   In tedesco nel testo: «Faccio rispettosamente notare».

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ho parlato per telefono col signor Oberleutnant Lukáš. E questi mi ha detto: ‘Laufschritt al magazzino con dieci uomini.’ Se non ci vuole andare, signor caporale Fuchs, tornerò immediatamente al telefono. Il signor Oberleutnant ci tiene molto che vada proprio lei. È inutile stare a fare tante storie. ‘Una conversazione telefonica,’ dice il signor tenente Lukáš, ‘deve essere breve e chiara. Quando si dice: bisogna che vada il caporale Fuchs, questi deve andare. Quando viene impartito un simile ordine non facciamo tutti i complimenti che usiamo fare per invitare a pranzo qualcuno. Sotto le armi, specialmente quando c’è la guerra, ogni ritardo è un delitto. Se quel caporale Fuchs non andrà subito, appena gli avrete trasmesso questo ordine, fatemi immediatamente una telefonata, e poi ci penserò io a sistemare i conti. Del caporale Fuchs non rimarrebbe più neppure il ricordo.’ Corpo di Bacco, le dico proprio che lei il signor Oberleutnant non lo conosce neppure». Sc’vèik dette un’occhiata trionfante ai singoli graduati, i quali erano rimasti davvero sorpresi e depressi per la sua tirata. Il caporale Fuchs borbottò qualche parola incomprensibile ed uscì a passo veloce, ma Sc’vèik gli gridò dietro imperterrito: «Allora posso telefonare al signor Oberleutnant che è tutto a posto?» «Andrò subito al magazzino con dieci soldati», rispose dalla baracca il caporale Fuchs, e Sc’vèik, senza aggiungere neppure una parola, si allontanò dal gruppo dei graduati, stupiti non meno del caporale Fuchs. «Ci siamo», disse il piccolo caporale Blažek, «dovremo fare fagotto».

Tornato che fu all’ufficio dell’undicesima compagnia di linea, Sc’vèik non ebbe neppure questa volta il tempo di accendersi la pipa, perché si rimise a squillare il telefono. Era il tenente Lukáš che lo chiamava nuovamente: «Che giretti state facendo, Sc’vèik? È la terza volta che chiamo e nessuno mi risponde». «Ho sistemato quella faccenda, signor Oberleutnant». «Allora sono già andati?» «Si capisce che sono andati, ma non so se saranno già arrivati. Debbo corrergli dietro un’altra volta?» «Avete dunque trovato il caporale Fuchs?» «L’ho trovato, signor Oberleutnant. Dapprima mi ha 459

detto: ‘Come?’, e solo dopo che gli ho spiegato che le conversazioni telefoniche debbono essere brevi e chiare…» «Non stiamo a perdere tempo, Sc’vèik… Vaněk non è ancora tornato?» «Non è tornato, signor Oberleutnant» «Non è necessario che gridiate in questa maniera al telefono. Non sapete dove possa essersi cacciato quel maledetto Vaněk?» «Non lo so, signor Oberleutnant, dove possa essersi cacciato quel maledetto Vaněk». «È stato nell’ufficio del reggimento e poi se ne è andato in qualche posto. Penso che possa essere forse allo spaccio. Andatelo dunque a cercare, Sc’vèik, e ditegli che si rechi immediatamente al magazzino. Ah, un’altra cosa. Trovate subito il caporale Blažek e ditegli di slegare quel Baloun; Baloun, poi, mandatelo da me. Agganciate il ricevitore!» Sc’vèik si dette da fare per davvero. Quando ebbe trovato il caporale Blažek e gli ebbe comunicato l’ordine del tenente relativo alla liberazione di Baloun, il caporale Blažek prese a borbottare: «Hanno una fifa che se li porta via quando le cose cominciano a farsi serie». Sc’vèik andò ad assistere alla slegatura e poi accompagnò Baloun per la strada, dato che in quella direzione si arrivava fino allo spaccio, dove doveva cercare il maresciallo contabile Vaněk. Baloun considerò Sc’vèik il proprio salvatore e gli promise che avrebbe spartito con lui tutto quello che gli avessero mandato da casa. «Anche dai miei macelleranno qualche animale», disse con malinconia Baloun, «il salsicciotto di lardo ti piace al sangue o senza sangue? Dimmelo pure, perché stasera scrivo a casa. Il mio maiale potrà fare un centocinquanta chili. Ha una testa come un bulldog e sono proprio questi i suini migliori. Con bestie come queste si è al sicuro da ogni sorpresa. Sono una razza assai buona, resistente. Avrà un lardo alto otto dita. Quando ero a casa mi facevo le mazzafegate da solo, ed ogni volta mi rimpinzavo di ripieno per le salsicce al punto da poter scoppiare. Il maiale dell’anno scorso pesava centosessanta chili. «Quello era proprio un bel maiale», aggiunse estasiato, stringendo forte la mano a Sc’vèik quando si separarono, «lo avevo tirato su con sole patate, e mi meravigliavo che lo facessero ingrassare tanto. I prosciutti li misi in salamoia; un bel pezzetto di prosciutto cotto preso dalla salamoia, con gli gnocchi di patate e condito di ciccioli e 460

di crauti, è proprio un mangiare coi fiocchi! Dopo sì che si beve di gusto la birra! E ci si sente contenti come una pasqua. Ma pensa un po’ che la guerra ci ha privati di tutte queste delizie!» Il baffuto Baloun fece un sospirone e s’avviò verso l’ufficio reggimentale, mentre Sc’vèik indirizzò i propri passi verso lo spaccio passando per il vecchio viale fiancheggiato da alti tigli. Il maresciallo contabile Vaněk se ne stava intanto tranquillamente a sedere nello spaccio e raccontava ad un suo conoscente, maresciallo dello stato maggiore, dei grossi guadagni che si potevano fare, prima della guerra, coi colori di smalto e con le vernici al cemento. Il maresciallo dello stato maggiore era ormai intrattabile. In mattinata era venuto un proprietario di Pardubice33 il quale aveva il proprio figlio al campo e gli aveva allungato una bustarella e per tutta la mattina gli aveva pagato da bere giù in città. Adesso se ne stava seduto con un’aria disperata, come uno cui non vada a genio più nulla, non sapeva neppure   Cittadina della Boemia orientale.

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di che cosa si stesse parlando, e non reagiva affatto a tutti quei discorsi sui colori di smalto. Seguiva le proprie idee e vaneggiava non si sa bene che cosa su certi misteriosi viaggi del treno locale tra Třeboň e Pelhřimov34 e ritorno. Quando entrò Sc’vèik, Vaněk cercava di spiegare per l’ennesima volta, cifre alla mano, al maresciallo dello stato maggiore, quanto si guadagnava su un chilogrammo di vernice al cemento nelle costruzioni, al che il maresciallo dello stato maggiore rispose sempre con la testa tra le nuvole: «È morto durante il viaggio di ritorno, ha lasciato soltanto delle lettere». Scorto Sc’vèik, lo confuse evidentemente con qualche persona che non gli era simpatica, e cominciò ad insultarlo, dicendo che era un ventriloquo. Sc’vèik si avvicinò a Vaněk, anch’egli un po’ su di giri, ma, malgrado questo, assai gentile e cortese. «Signor Rechnungsfeldwebel», gli annunciò Sc’vèik, «lei deve immediatamente recarsi al magazzino, dove sta già aspettando il caporale Fuchs con dieci uomini, bisognerà ritirare lo scatolame. Deve affrettarsi laufschritt. Il signor Oberleutnant ha già telefonato due volte per questo». Vaněk scoppiò in una sonora risata: «Dovrei essere proprio matto, caro mio. Dovrei in tal caso darmi del somaro, tesoro bello. C’è tempo per tutto, chi ci corre appresso? Caro il mio bamboccione! Soltanto quando il signor Oberleutnant Lukáš avrà fatto partire tante compagnie di linea quante ne ho fatte partire io potrà fare un po’ la voce grossa, ma per il momento sarà meglio che non importuni nessuno senza motivo col suo laufschritt. Anche a me, all’ufficio del reggimento, hanno già comunicato che domani si parte, e mi hanno dato l’ordine di preparare i bagagli e di andare a ritirare le razioni per il viaggio. Ed invece che ti faccio, io? Sono venuto bel bello qui a bermi un quartino, qua allo spaccio ci sto volentieri e lascio correre tutto il resto. Lo scatolame resta scatolame, il ritiro delle razioni resta ritiro delle razioni. Io conosco il magazzino meglio del signor Oberleutnant, e so bene di che cosa si parla in una Besprechung dei signori ufficiali presso il signor Oberst. Il signor Oberst se l’immagina lui, nella sua fantasia, che nel magazzino ci sia dello scatolame. Il magazzino del nostro reggimento non ha mai avuto dello scatolame, 34   Třeboň è un piccolo centro della Boemia meridionale, Pelhřimov una cittadina della Boemia sudorientale.

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come dotazione sua, ma l’ha soltanto ricevuto di tanto in tanto dalla brigata oppure se l’è fatto dare in prestito da altri reggimenti coi quali è venuto in contatto. Basti dire che soltanto al reggimento di Benešov35 dobbiamo oltre trecento scatolette. Hehe! Alla Besprechung dicano pure quello che gli pare, ma lasciamo stare la fretta! Lo stesso magazziniere, quando i nostri ci arriveranno, dirà loro che debbono essere impazziti. Fino ad ora nessuna compagnia di linea ha ricevuto scatolame per il viaggio. «Ehi, tu, patatone», fece poi rivolgendosi al maresciallo dello stato maggiore. Ma questi o dormicchiava oppure era un pochetto evanescente, dato che rispose: «Mentre lei camminava, teneva l’ombrello aperto sopra di sé». «La miglior cosa da farsi», continuò il maresciallo contabile Vaněk, «è mandare a farsi benedire ogni cosa. Anche se oggi all’ufficio del reggimento è stato detto che domani si parte, questa è una frottola cui non deve credere neppure un bambino. È mai possibile che si parta senza vagoni? C’ero ancora io quando hanno telefonato alla stazione. Dicevano che non avevano neppure un vagone da mettere a disposizione. Fu esattamente la stessa faccenda con l’ultima compagnia di linea. Quella volta stemmo per due giorni in stazione, in attesa che qualcuno avesse pietà di noi e ci mandasse un treno. E poi non sapevamo neppure dove eravamo diretti. Non lo sapeva neppure l’Oberst; avevamo già percorso tutta l’Ungheria e nessuno sapeva ancora se eravamo diretti verso la Serbia o verso la Russia. Ad ogni stazione si parlava direttamente con lo stato maggiore della divisione. Noi dovevamo servire soltanto a mettere una toppa. Alla fine ci cucirono alla meglio sul fronte di Dukla, là ci fecero a pezzi e dovemmo andare di nuovo a ricostituire il reparto. E dunque non facciamoci prendere dalla fretta. Col passare del tempo tutto si chiarirà, e non c’è bisogno di fare le corse. Jawohl, nochamol.36 «Oggi qui hanno un vino insolitamente buono», continuò Vaněk, senza nemmeno sentire quello che stava barbugliando tra sé e sé il maresciallo dello stato maggiore: «Glauben Sie mir, ich habe bisher wenig von meinem Leben gehabt. Ich wundere mich über diese Frage».37 «Ci mancherebbe che mi preoccupassi senza alcun motivo per la partenza del battaglione. Ricordo che quando   Cittadina‘a sud-est di Praga.   Deformazione scherzosa dal tedesco: «Proprio così, non altrimenti».   In tedesco nel testo: «Mi creda, fino ad ora ho avuto poco dalla vita. Io mi meraviglio per questa faccenda». 35 36 37

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partii con la prima compagnia di linea tutto venne perfettamente sistemato nel giro di due ore. Con le altre compagnie del nostro battaglione di allora i preparativi durarono già due interi giorni. Era allora nostro Kompaniekommandant il sottotenente Přenosil, un grande drittone, e quello ci diceva: ‘Non abbiate fretta, ragazzi,’ così che tutto andava liscio come l’olio. Cominciavamo a fare i bagagli appena due ore prima della partenza. Fareste bene a mettervi seduto anche voi…» «Non posso», disse con straordinaria abnegazione il buon soldato Sc’vèik, «debbo andare all’ufficio, che accadrebbe se qualcuno telefonasse?» «Ed allora andate, cuore mio, ma ricordate, per la vostra vita, che questo non è bello da parte vostra, e che la vera ordinanza non deve mai essere dove è richiesta la sua presenza. Non dovete buttarvi con tanto ardore sul servizio. In verità non c’è niente di più schifoso di un’ordinanza bizzarra, desiderosa di papparsi tutta la guerra, anima mia». Ma Sc’vèik aveva già passato la porta e si affrettava verso l’ufficio della sua compagnia. Vaněk rimase così solo, dato che decisamente non si poteva dire che gli facesse compagnia il maresciallo dello stato maggiore. Costui era tutto preso dai suoi pensieri e, mentre si accarezzava il quartino di vino, farfugliava cose addirittura stupefacenti che non avevano il minimo senso compiuto, adoperando sia il ceco che il tedesco: «Sono passato molte volte per questo paese e non avevo il minimo sentore che esso esistesse. In einem halben Jahre habe ich meine Staatsprüfung hinter mir und meinen Doktor gemacht.38 Sono ormai diventato un vecchio storpio, la ringrazio, Lucie. Erscheinen sie in schön ausgestatten Bänden,39 – forse c’è qualcuno in mezzo a voi che se ne ricorda». Il maresciallo contabile, per passare il tempo, cominciò a tambureggiare con le dita una marcia militare, ma non stette ad annoiarsi per lungo tempo, dato che la porta si aprì ed entrò Jurajda, cuoco della mensa ufficiali, che venne a buttarsi su una sedia. «Oggi abbiamo ricevuto l’ordine di ritirare il cognac per il viaggio», prese a cianciare. «E poiché non avevamo la fia38   In tedesco nel testo: «Nel giro di mezzo anno avrò fatto gli esami di stato e mi prenderò il dottorato». 39   In tedesco nel testo: «Vengono pubblicati in volumi ben confezionati».

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sca rivestita di vimini per il rhum vuota, abbiamo dovuto vuotarla. Ed abbiamo avuto un bel da fare. Per la Mannschaft, in cucina, è stato un lavoraccio! Mi sono sbagliato nel calcolare le razioni ed il signor Oberst, che è arrivato in ritardo, è restato a bocca asciutta. Pertanto adesso gli stanno preparando un’omeletta. Che spasso!» «Proprio una bella avventura», osservò Vaněk, al quale, quando aveva bevuto un pochetto, piacevano sempre le parole solenni. Il cuoco Jurajda cominciò a filosofare, cosa che corrispondeva effettivamente alla sua precedente occupazione. Fino allo scoppio della guerra, infatti, egli aveva pubblicato una rivista occultistica cui faceva capo anche la collana «Misteri della vita e della morte». Sotto le armi, s’era imboscato nella cucina della mensa ufficiali del reggimento ed assai spesso faceva bruciare qualche arrosto, specialmente quando si sprofondava nella lettura della traduzione delle sutre del Pragnā-Paramitā (La saggezza rivelata)40 dal sanscrito. Il colonnello Schröder gli voleva bene in quanto lo considerava una delle glorie del reggimento, perché quale mensa ufficiali poteva vantarsi di avere un cuoco occultista, il quale, pur penetrando nei misteri della vita e della morte, era capace di sorprendere chiunque preparando un filetto così gustoso o un ragù così succulento che il sottotenente Dufek, mortalmente ferito dalle parti di Komarov, non aveva fatto altro che invocare Jurajda? «Proprio così», disse di punto in bianco Jurajda, il quale si reggeva dritto a mala pena sulla sedia e puzzava di rhum a dieci miglia di distanza, «quando oggi è risultato che non era rimasto niente per il pranzo del signor Oberst e quando egli ha visto che non c’era altro che patate stufate, è caduto nello stato di gaki. Volete sapere cos’è il gaki? È lo stato degli spiriti affamati. Allora gli ho detto: ‘Signor Oberst, lei si sente abbastanza forte per superare questo decreto del destino, a causa del quale è rimasto senza rognoni di vitello? Nella karma,41 signor Oberst, è stabilito che lei stasera riceverà una splendida omelette con fegatini di vitello tritati e stufati.’» «Caro amico», disse dopo un momento di silenzio al maresciallo contabile, facendo, nel medesimo tempo, un movimento involontario della mano, a causa del quale ro40   Dal sanscrito, si tratta dei sacri testi contenenti le prescrizioni della religione indù. 41   Dal sanscrito: qualcosa che dipende, secondo il destino, da eventi accaduti in precedenza.

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vesciò tutti i bicchieri che stavano sul tavolo davanti a lui. «È questa l’instabilità di qualsiasi fenomeno, di qualsiasi forma e di qualsiasi cosa», disse con tono tetro dopo aver compiuto questa impresa il cuoco occultista. «La formazione è instabilità e l’instabilità è formazione. L’instabilità non è differente dalla formazione, e la formazione non è differente dall’instabilità. Quello che è instabilità è formazione, quello che è formazione è instabilità». Il cuoco occultista si avvolse in un manto di silenzio, si appoggiò la testa ad una mano e prese a guardare il tavolo bagnato da qualche liquido che vi era stato versato. Il maresciallo dello stato maggiore continuò a borbottare qualcosa che non aveva né capo né coda: «Il frumento è scomparso dai campi, è scomparso – in dieser Stimmung erhielt er Einladung und ging zu ihr 42 – Pentecoste viene in primavera». Il maresciallo contabile Vaněk continuò a tambureggiare con le dita sul tavolo ed a bere, benché di tanto in tanto si ricordasse che al magazzino lo attendevano dieci uomini con un caporale. Quando gli venivano questi ricordi la bocca gli si illuminava sempre in un sorriso ed egli agitava la mano come per scacciare un pensiero fastidioso. Quando, alla fine, tornò all’ufficio dell’undicesima compagnia di linea, trovò Sc’vèik presso il telefono. «La formazione è instabilità e l’instabilità è formazione», riuscì appena a dire, dopo di che si distese tutto vestito sulla branda e subito si addormentò. Ma Sc’vèik continuò a restarsene seduto presso il telefono, poiché due ore prima aveva parlato con lui il tenente Lukáš dicendogli che era sempre in Besprechung presso il signor colonnello ma dimenticandosi di dirgli che poteva allontanarsi dal telefono. Poi gli aveva telefonato pure il caporale Fuchs il quale era stato per tutto quel tempo ad aspettare insieme coi suoi dieci uomini il maresciallo contabile, e non solo quest’ultimo non era venuto, ma alla fine era risultato che il magazzino era chiuso. Pertanto se ne era andato via ed i dieci uomini se ne erano tornati alla loro baracca uno dopo l’altro. Di tanto in tanto, per ammazzare il tempo, Sc’vèik prendeva il ricevitore e si metteva ad ascoltare. Il telefono era fatto con un nuovo sistema, introdotto proprio allora 42  In tedesco nel testo: «In questo stato d’animo ricevè un invito ed andò da lei».

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nell’esercito, ed aveva il vantaggio di consentire di udire sufficientemente chiari i colloqui telefonici altrui che si svolgevano su tutta la linea. Le salmerie scambiavano insulti con la caserma dell’artiglieria, gli zappatori minacciavano la posta militare, il poligono di tiro brontolava contro la sezione mitragliatrici. E Sc’vèik continuava a sedere presso il telefono… La riunione presso il colonnello si prolungava. Il colonnello Schröder svolgeva una disquisizione sulla più recente teoria di tattica militare e poneva in rilievo soprattutto l’importanza dei lanciabombe. Trattò poi confusamente vari argomenti, passando dalla situazione del fronte quale era due mesi prima a sud e ad oriente all’importanza di un preciso collegamento tra i singoli reparti, accennò ai gas asfissianti, ai tiri contro gli aeroplani nemici, ai rifornimenti per la truppa, ed infine si soffermò sulle condizioni interne nell’esercito. Si diffuse sui rapporti che gli ufficiali dovevano avere con la truppa e quest’ultima coi graduati, toccò il problema del passaggio al nemico di vari reparti sui fronti di combattimento, parlò degli avvenimenti politici ed affermò che il cinquanta per cento dei soldati cechi era «politisch verdächtig».43 «Jawohl, meine Herren, der Kramarsch, Scheiner und Klófatsch».44 Intanto la maggior parte degli ufficiali non vedeva l’ora che il vecchio smettesse di cianciare, ma il colonnello Schröder continuò imperterrito a dire fesserie trattando dei nuovi compiti dei battaglioni di linea, di recente formazione, degli ufficiali del reggimento caduti, degli Zeppelin, dei cavalli di frisia, del giuramento. A questo punto il tenente Lukáš si ricordò che, quando aveva giurato tutto il battaglione, alla cerimonia non era stato presente il buon soldato Sc’vèik il quale, in quel momento, si trovava al tribunale di divisione. Ed all’improvviso gli venne da ridere. Fu una sorta di riso isterico di cui contagiò alcuni ufficiali che gli sedevano attorno attirando in tal modo l’attenzione del colonnello il quale proprio in quel momento era passato ad illustrare le esperienze ricavate dalla ritirata delle armate tedesche nelle Ardenne. Il colonnello interpretò male quelle risate e terminò dicendo: «Signori, non c’è niente da ridere». Poi si recarono tutti quanti al circolo ufficiali, poiché   In tedesco nel testo: «Politicamente sospetto».   In tedesco nel testo: «Proprio così, signori miei, il Kramář, lo Scheiner ed il Klófač». 43 44

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il colonnello Schröder era stato chiamato al telefono dal comando di brigata. Sc’vèik continuava a sonnecchiare presso il telefono, quando venne improvvisamente destato da uno squillo. «Pronto», sentì al ricevitore, «qui parla l’ufficio del reggimento». «Pronto», rispose, «qui è l’ufficio dell’undicesima compagnia di linea». «Non perdere tempo», sentì nuovamente la voce di prima, «prendi una matita e scrivi. Devi ricevere un telefonogramma». «Undicesima compagnia di linea…» Seguirono poi alcune frasi aggrovigliate in un terribile caos, perché sulla stessa linea parlavano contemporaneamente anche la dodicesima e la tredicesima compagnia di linea, ed il telefonogramma si perse completamente in quella confusione di suoni. Sc’vèik non riusciva a comprendere neppure una parola. Alla fine si ristabilì il silenzio e Sc’vèik distinse queste parole: «Pronto, pronto, allora rileggi senza perder tempo!» «Che cosa debbo rileggere?» «Cosa vuoi rileggere, animale? Il telefonogramma !» «Quale telefonogramma?» «Krucihimmel, sei forse sordo? Il telefonogramma che t’ho dettato, idiota!» «Ma io non ho sentito niente, c’era qualcuno che parlava sulla linea». «Pezzo di babbeo, pensi forse che non abbia da fare altro che perdere tempo con te? Allora, vuoi ricevere questo telefonogramma, si o no? Hai matita e carta? Ah, non ce l’hai, eh, bestione, e vuoi che io aspetti finché le trovi? Bella razza di soldati! Allora, ci spicciamo? Sei pronto, alla fine? Finalmente ce l’hai fatta! Forse non sei pratico di queste faccende, caro mio! Allora ascolta: ‘Elfte Marschkumpanie.’ 45 Ripeti!» «Elfte Marschkumpanie…» «Kumpaniekommandant,46 hai scritto? Ripeti!» « Kumpaniekommandant!…» «Zur Besprechung morgen…47 Scritto? Ripeti». «Zur Besprechung morgen…» «Um neun Uhr. - Unterschrift.48 Sai cos’è Unterschrift, animale? E la firma. Ripeti!»   In tedesco (dialettale) nel testo: «Undicesima compagnia di linea».   In tedesco (dialettale) nel testo: «Comandante di compagnia».   In tedesco nel testo: «A colloquio domani». 48   In tedesco nel testo: «Alle ore nove. - Firma». 45 46 47

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«Um neun Uhr. - Unterschrift. Sai – cos’è – Unterschrift, animale, – è – la firma». «Pezzo d’asino! Dunque la firma: Oberst Schröder, bestia. Scritto? Ripeti!» «Oberst Schröder, bestia». «Bene, citrullo. Chi è che ha ricevuto il telefonogramma?» «Io». «Himmelherrgott, chi è questo io?» «Sc’vèik. Ancora qualcos’altro?» «Grazie a dio non c’è niente altro. Ma dovresti chiamarti Kráva.49 Cosa c’è di nuovo da voi?» «Niente. Il solito tran tran». «Tu te la diverti, eh? È vero che oggi hanno legato uno, là da voi?» «Era solo l’attendente del signor Oberleutnant, gli aveva mangiato il pranzo. Non sai quando si parte?» «Caro mio, è proprio qui il problema, non lo sa neanche il vecchio. Buona notte. Le pulci ce le avete, voi?» Sc’vèik riagganciò il ricevitore e si mise a svegliare il maresciallo contabile Vaněk, il quale si oppose furiosamente e, quando Sc’vèik cominciò a scrollarlo, gli affibbiò una botta sul naso. Poi si distese sulla pancia e prese a tirar calci sulla branda. Sc’vèik, tuttavia, insistette coi suoi tentativi, finché Vaněk, stropicciandosi gli occhi, si rigirò supino e chiese spaventato cosa fosse successo. «Fino ad ora niente», rispose Sc’vèik, «soltanto sarei lieto di consigliarmi con lei. Proprio adesso abbiamo ricevuto un telefonogramma secondo cui domani alle nove il signor Oberleutnant Lukáš deve recarsi alla Besprechung dal signor Oberst. Ora io non so cosa debbo fare. Debbo andare ad eseguire l’ordine immediatamente, oppure posso aspettare fino a domattina? Ho esitato a lungo prima di svegliarla, perché vedevo che dormiva così bene, ma poi ho pensato, cosa importa? è meglio consigliarsi…» «Vi prego in nome di Dio, lasciatemi dormire!» gemè Vaněk, spalancando la bocca per sbadigliare, «andateci domattina e non svegliatemi più!» Detto questo, si girò su un fianco e si riaddormentò immediatamente. Sc’vèik se ne tornò al suo posto al telefono, si mise a sedere e cominciò a sonnecchiare sul tavolo. Lo ridestò un altro squillo. 49  In ceco kráva significa «mucca», ed è un termine offensivo. La stessa parola può essere adoperata anche come cognome.

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«Pronto, undicesima compagnia di linea». «Sì, undicesima compagnia di linea. Chi è al telefono?» «La tredicesima compagnia. Che ora fai? Non mi riesce di chiamare la centrale. Non so perché non mi vengono ad ablesare 50 dopo tanto tempo che sto qui». «Il nostro orologio è fermo». «Allora state nelle nostre stesse condizioni. Lo sai quando si parte? Hai parlato con l’ufficio reggimentale?» «Là non sanno un cavolo, proprio come noi». «Non sia così volgare, signorina. Avete già ritirato lo scatolame? I nostri ci sono andati ma non hanno portato indietro niente. Il magazzino era chiuso». «Anche i nostri sono ritornati a mani vuote». «Così facendo non si fa altro che gettare tra le truppe il panico senza alcuna necessità. Dove pensi che andremo?» «In Russia». «Io penso piuttosto in Serbia. Lo vedremo quando saremo a Budapest. Se ci faranno girare a destra vuol dire che ci aspetta la Serbia, a sinistra invece c’è la Russia. Vi hanno già dato il Brotsack? 51 Dicono che sarà aumentata la Löhnung, ne sai niente? Giuochi a frischeviere? 52 Ci giuochi? Allora vieni da me domani. Noi ci facciamo una partitina ogni sera, quando non abbiamo niente da fare. In quanti siete là al telefono? Sei solo? Allora fregatene e vattene a dormire. Avete degli strani regolamenti, lì da voi. Ah, ci sei capitato per puro caso? Ecco, alla fine sono venuti ad ablesarmi. Sogni d’oro». Ed infatti Sc’vèik si addormentò beatamente accanto al telefono, dimenticandosi di riagganciare il ricevitore, sì che nessuno lo disturbò più mentre sonnecchiava sul tavolo, mentre il telefonista dell’ufficio reggimentale bestemmiava perché non riusciva a mettersi in contatto con l’undicesima compagnia di linea per dettare un nuovo telefonogramma, che ingiungeva di comunicare entro le ore dodici del giorno successivo il numero di coloro che non erano stati vaccinati contro il tifo. Il tenente Lukáš, nel medesimo tempo, se ne stava ancora seduto al circolo ufficiali in compagnia, del medico militare Šancler, il quale, a cavalcioni su una seggiola, batteva ad intervalli regolari sul pavimento con una stecca e pronunciava una dopo l’altra le seguenti frasi: 50   Nel testo ablesovat, con grafia e desinenza infinitivale ceca dal tedesco ablösen, «dare il cambio». 51   In tedesco nel testo: «Tascapane». 52   In tedesco nel testo, nome di un giuoco a carte.

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«Il sultano saraceno Salah-Edin è stato il primo a riconoscere la neutralità del corpo sanitario. «Bisogna aver cura dei feriti dell’una e dell’altra parte. «Debbono esser loro pagate le medicine e le cure per rimborsare le spese dell’altra parte. «Deve esser consentito di inviar loro medici ed assistenti con lasciapassare rilasciati dai generali. «Anche i feriti prigionieri debbono essere rispediti indietro sotto la tutela e la garanzia dei generali, oppure debbono essere scambiati. Ma poi possono anche continuare a prestare servizio nell’esercito. «I malati dell’una e dell’altra parte non debbono essere catturati o uccisi, è necessario invece avviarli agli ospedali e metterli al sicuro; inoltre deve essere consentito di lasciare presso di loro una guardia che, in quanto malata, deve ritornare con lasciapassare rilasciato da un generale. Questo vale anche per i cappellani militari, per i medici, i chirurghi, gli infermieri, le infermiere, gli assistenti e le altre persone che possano servire ai malati, tutti costoro non debbono essere catturati, ma li si deve rispedire indietro con lo stesso sistema». Il dottor Šancler, mentre enunciava i suoi principi, aveva già spezzato due stecche, e non la finiva mai di spiegare in quella strana maniera come dovessero essere assistiti 471

i feriti di guerra, tirando continuamente in ballo quegli enigmatici lasciapassare rilasciati dai generali. Il tenente Lukáš finì di bere il suo caffè e se ne ritornò a casa dove trovò il baffuto gigante Baloun intento a friggersi un pezzo di un qualche insaccato in una ciotola, adoperando il fornellino a spirito del tenente. «Mi sono preso la libertà», prese a balbettare Baloun, «mi sono permesso, faccio rispettosamente notare…» Lukáš gli lanciò un’occhiata. In quel momento gli sembrava proprio un bambinone, una creatura ingenua, è tutt’a un tratto gli dispiacque di averlo fatto legare a causa della sua grande fame. «Fa’ pure, fa’ pure, Baloun», disse mentre si toglieva la fibbia della sciabola, «domani ti farò assegnare un’altra porzione di pane». Il tenente Lukáš si mise a sedere al tavolino, e si trovava in uno stato d’animo tale che prese a scrivere una lettera sentimentale alla sua cara zia: Cara zietta, proprio in questo momento ho ricevuto l’ordine di tenermi pronto con la mia compagnia di linea a partire alla volta del fronte. Può darsi che questa lettera sia l’ultima che ricevi da me, perché si svolgono ovunque duri combattimenti e le nostre perdite sono elevate. Per tale motivo sarebbe per me difficile terminare questa lettera con un «A rivederci!» Meglio si addice alla situazione inviarti il mio ultimo addio!

«La finirò di scrivere domani», pensò il tenente Lukáš andando a coricarsi. Quando Baloun vide che il tenente dormiva della grossa cominciò nuovamente a frugare ed a rovistare per casa come fanno gli scarafaggi di notte. Aprì una valigetta del tenente ed addentò una tavoletta di cioccolata, ma si spaventò allorché il suo superiore si mosse nel sonno. Pertanto rimise in fretta e furia la cioccolata addentata nella valigetta e cercò di non fare alcun rumore. Poi andò a vedere che cosa aveva scritto il tenente. Lesse la lettera e restò commosso, specialmente per quell’«ultimo addio». Si distese infine sul suo pagliericcio sistemato vicino alla porta e si mise a pensare alla propria casa, al tempo in cui si ammazzava il maiale. Non riuscì a liberarsi l’immaginazione da una scena cui gli parve di partecipare in carne ed ossa: si vedeva mentre mescolava la soprassata per farne uscire l’aria, affinché non dovesse scoppiare durante la bollitura. E ricordando come ai vicini, una volta, fosse scoppiato 472

tutto un salsicciotto di lardo passando così di cottura, si addormentò di un sonno inquieto. Sognò di aver chiamato un macellaio buono a nulla e gli sembrò che, durante il riempimento delle mazzafegate, si rompessero i budelli che dovevano contenerle. Poi che il macellaio avesse dimenticato di fare i sanguinacci, che si fosse perduta la coppa e che non bastassero i lacci per chiudere le mazzafegate. Sognò poi una scena ambientata nel tribunale di campo, dove lo avevano trascinato per aver rubato un pezzo di carne. Finalmente si vide appeso ad un tiglio nel viale del campo militare a Bruck sulla Leitha.

Quando Sc’vèik si svegliò, insieme col destarsi del mattino che giunse accompagnato dall’odore di caffè in scatola bollito in tutte le cucine di compagnia, appese meccanicamente il ricevitore come se proprio allora avesse terminato una conversazione telefonica e poi iniziò una breve passeggiata mattutina per l’ufficio, canticchiando allegramente. Cominciò dalla parte centrale del testo quella canzone che parla del soldato il quale si traveste da ragazza e va a trovare la sua bella al mulino, dove il mugnaio lo mette a dormire accanto alla figlia, ma prima invita la propria moglie: Cuoci, massaia, di buona lena, alla ragazza diamo la cena!

La mugnaia dà da mangiare al subdolo giovane. Ed ecco che scoppia la tragedia familiare: I mugnai s’alzaron dal letto e sulla porta videro scritto: «Anna Nána, la figlia del cuore, ormai perduto ha il proprio onore».

Nella fine della canzone Sc’vèik mise tanto fiato che l’intero ufficio si rianimò, dato che il maresciallo contabile Vaněk si destò e chiese che ora fosse. «Proprio un minuto fa hanno sonato la sveglia». «Mi alzerò dopo il caffè», decise Vaněk, il quale aveva sempre un sacco di tempo per qualsiasi cosa, «tanto anche oggi ci romperanno le scatole con qualcosa da fare in fretta e furia e ci infastidiranno nuovamente senza alcun motivo come hanno fatto ieri con quello scatolame…» Vaněk 473

sbadigliò e domandò se, quando era venuto a casa, non avesse fatto chiacchiere. «Solo un pochetto, di passaggio», disse Sc’vèik, «diceva continuamente qualcosa a proposito di certe formazioni, che la formazione non è formazione, e che quello che non è formazione è formazione, mentre la formazione, a sua volta, non è per niente formazione. Ma le è passato presto e dopo poco s’è messo a russare in modo tale che sembrava una sega stridente». Sc’vèik tacque, riprendendo a passeggiare arrivò fino alla porta e poi tornò indietro alla branda del maresciallo contabile, dinanzi al quale si fermò per dire: «Per quanto riguarda la mia persona, signor Rechnungsfeldwebel, quando ho sentito lei che parlava di quelle formazioni, m’è venuto in mente un certo Zátka, uno che lavorava alla centrale del gas; era alla stazione del gas di Letná53 ed accendeva e spegneva i lampioni. Era una persona colta e bazzicava per tutte le possibili bettole di Letná, dato che tra l’accendere e lo spegnere i lampioni passa un bel po’ di tempo; poi, al mattino, quando tornava alla stazione del gas, faceva discorsi simili ai suoi, soltanto che diceva così: ‘Il dado è un angolo, perché il dado è angoloso.’ Io lo sentii coi miei propri occhi, una volta che un poliziotto ubriaco, avendomi fermato per insudiciamento della strada, mi condusse per errore alla stazione del gas invece che al posto di polizia. «Ma poi», aggiunse Sc’vèik sommessamente, «col passare del tempo questo Zátka andò a finire assai male. Si mise nella congregazione mariana, cominciò ad andare alle prediche di padre Jemelka54 alla chiesa di Santo Ignazio in piazza Carlo insieme con le vecchie beghine, ed una volta che in quella chiesa a piazza Carlo c’erano dei missionari, si dimenticò di spegnere i lampioni a gas del suo rione, così che restarono accesi ininterrottamente in tutte le strade per tre giorni e tre notti. «È una cosa molto brutta», continuò Sc’vèik, «quando uno, tutt’a un tratto, comincia a confondersi la testa a forza di filosofare; la cosa puzza sempre di delirium tremens. Anni fa venne trasferito al nostro reggimento dal settantacinquesimo un certo maggiore Blüher. Costui, una volta al mese, ci faceva chiamare e disporre in quadrato per spiegarci che cosa fosse l’autorità militare. Era un tipo che   Quartiere settentrionale di Praga. 54  Alois Jemelka (1862-1917), gesuita, famoso predicatore praghese dal 1905 al 1914. 53

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non beveva altro che slivovice. ‘Ogni ufficiale, soldati’. ci diceva nel cortile della caserma, è in se stesso un essere perfettissimo, che ha un senno cento volte più grande di quello di tutti voi messi insieme. Voi, soldati, non potete neppure immaginarvi niente di più perfetto di un ufficiale, anche se per tutta la vita non pensaste ad altro che a questo. Ogni ufficiale è un’entità necessaria, mentre voi, soldati, siete soltanto delle entità casuali, voi potete, ma non dovete esistere. Se si giungesse alla guerra, soldati, e se voi cadeste per la gloria di sua maestà l’imperatore, ebbene, le cose non cambierebbero in misura rilevante, ma se, alla vostra testa, cadesse il vostro ufficiale, soltanto allora vedreste quanto dipendete da lui e che razza di perdita sarebbe quella. L’ufficiale deve esistere, e la vostra esistenza deriva direttamente da quella dei signori ufficiali, voi discendete da essi, senza gli ufficiali non sapreste cavarvela, senza le vostre autorità militari non sareste neppure in grado di scoreggiare. Per voi, soldati, un ufficiale è la legge morale, che la capiate oppure no, e dato che ogni legge deve necessariamente avere il suo legislatore, questo legislatore è l’ufficiale verso il quale vi sentite e dovete sentirvi dipendenti in tutto, ed i cui ordini dovete eseguire a puntino senza eccezione, anche se non vi garbassero/ «Poi, una volta, quando ebbe terminato, cominciò a camminare tutto intorno al quadrato e ad interrogare gli uomini, uno dopo l’altro: «‘Cosa provi quando fai tardi?’ «Davano tutti risposte bizzarre, alcuni dicevano che non avevano ancora fatto mai tardi, altri che dopo ogni ritardo si sentivano il mal di stomaco, uno disse che sentiva la consegna, e così via. Tutti costoro il maggiore Blüher li fece subito mettere da una parte, dicendo che nel pomeriggio avrebbero fatto esercizi e flessioni nel cortile della caserma per punizione, perché non sapevano esprimere quello che sentivano. Prima che venisse il turno mio, ripensai a tutto quello che ci aveva spiegato ultimamente, e, quando mi fu dinanzi, gli dissi con perfetta calma: «‘Faccio rispettosamente notare, signor maggiore che, quando faccio tardi, sento sempre dentro di me una certa inquietudine, un terrore e dei rimorsi di coscienza. Se invece, quando ho un permesso speciale, torno regolarmente in caserma entro il tempo fissato, si impadronisce di me una sorta di beata tranquillità, scende in me una intima contentezza.’ «Tutti quelli che mi stavano attorno si misero a ridere, ed il maggiore Blüher mi gridò in faccia: 475

«‘Debbono essere i pidocchi, ragazzo, che ti scendono addosso, quando russi sul tuo pagliericcio. Questo disgraziato ha perfino voglia di fare lo spiritoso’ «Tutto quello che ne ricavai fu un carcere duro che era una bellezza». «Sotto le armi non può andare che così», disse il maresciallo contabile, stirandosi pigramente sul letto, «è una cosa ormai prestabilita, dalla quale non si scampa, qualsiasi cosa si risponda e qualsiasi cosa si faccia ti pendono sempre sulla testa nuvole e tuoni pronti ad abbattersi addosso a te. Senza questo non si può neppure concepire la disciplina». «Proprio ben detto», fece Sc’vèik. «Non dimenticherò mai come fu schiaffata dentro la recluta Pech. Comandante della compagnia era il sottotenente Moc, ed un giorno radunò le reclute e chiese a ciascuna di esse di dove provenisse. «‘Voi reclute, pivellini, dannati,’ dice loro, ‘dovete imparare a rispondere chiaramente, con precisione ed in un batter d’occhi. Allora cominciamo. Di dove siete voi, Pech?’ Pech era una persona intelligente e rispose subito: ‘Dolní Bousov, Unter Bautzen,55 duecentosessantasette case, millenovecentotrentasei abitanti cechi, sottoprefettura di Jičín, distretto di Sobotka, già tenuta dei Kost’, chiesa parrocchiale di Santa Caterina del quattordicesimo secolo, restaurata dal conte Václav Vratislav Netolický, scuola, ufficio postale e telegrafico, stazione delle ferrovie commerciali ceche, zuccherificio, mulino con segheria, cascinale Valch, sei fiere annuali.’ Quando fu giunto a questo punto il sottotenente Moc gli stava già addosso e cominciò ad appioppargli sul muso una sberla dopo l’altra gridandogli: ‘Beccati questa fiera annuale, eccoti la seconda, la terza, la quarta, la quinta, la sesta.’ Ma Pech, sebbene non fosse che una recluta, si presentò al Bataillonsrapport. Negli uffici, in quel tempo, c’erano degli allegri birbanti, i quali scrissero che Pech andava al Bataillonsrapport a causa delle fiere annuali di Dolní Bousov. Comandante del battaglione era il maggiore Rohell. ‘Also, was gibt’s?’ 56 chiese a Pech, e questi rispose: ‘Faccio rispettosamente notare, signor maggiore, che a Dolní Bousov ci sono sei fiere annuali.’ Il maggiore si mise subito a gridare contro di lui, prese a battere i piedi e lo fece immediatamente portare al reparto 55  Unter Bautzen è la traduzione tedesca di Dolní Bousov; la località in questione si trova nella Boemia nordorientale. 56   In tedesco nel testo: «Cosa c’è?»

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squinternati dell’ospedale militare; da allora in poi Pech divenne il peggiore dei soldati, che non faceva altro che collezionare punizioni». «È difficile istruire i soldati», disse il maresciallo contabile Vaněk sbadigliando. «Un soldato che non è stato punito sotto le armi non è un vero soldato. Questo forse poteva andare ancora bene in tempo di pace, quando un soldato che era riuscito a compiere il proprio servizio senza farsi punire aveva poi una specie di preminenza nella vita civile. Oggi sono proprio i peggiori soldati, quelli che in tempo di pace non potevano evitare la gattabuia, coloro che in guerra danno le prove migliori. Mi ricordo del fante Sylvanus, dell’ottava compagnia. Prima della guerra aveva accumulato condanne su condanne, e che razza di condanne! Non si vergognava di rubare ad un camerata l’ultimo centesimo che aveva, ma quando arrivò l’ora del Gefecht fu il primo a tagliare i Drahthindernissi, poi catturò tre nemici e ne fece fuori uno subito sulla strada, dicendo che non gli ispirava fiducia. Ricevè una grande medaglia d’argento, gli cucirono sulla divisa due stellette, e se poi non lo avessero impiccato a Dukla, già da tempo sarebbe diventato sergente. Ma dovettero impiccarlo, perché dopo un Gefecht si offrì volontario di uscire in Rekognoszierung 57 ed un’altra pattuglia di un altro reggimento lo sorprese mentre stava frugando nelle tasche dei cadaveri. Gli trovarono indosso un otto orologi e molti anelli. Così lo impiccarono allo stato maggiore della brigata». «Da questo si vede», commentò Sc’vèik, «che ogni soldato deve pensare da solo a farsi la propria posizione». Squillò il telefono. Il maresciallo contabile andò all’apparecchio e si poté distinguere la voce del tenente Lukáš il quale chiedeva notizie dello scatolame. Poi si poterono udire alcuni rimproveri. «Non ci sono davvero, signor Oberleutnant!» gridò al telefono Vaněk, «altro che storie! È solo una fantasia di quelli lassù, dell’intendenza. È stato assolutamente inutile mandare là quegli uomini. Volevo telefonarle a questo proposito. Sono stato allo spaccio? Chi gliel’ha detto? Quel cuoco occultista della mensa ufficiali? Mi sono permesso di farci un salto. Sa, signor Oberleutnant, come quell’occultista ha chiamato il panico derivante dalla mancanza dello scatolame? ‘Orrore del non nato.‘ No, signor Oberleutnant, non sono affatto sbronzo. Cosa fa Sc’vèik? È qui. Debbo chiamarlo?   In tedesco nel testo: «Ricognizione».

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«Sc’vèik, al telefono», disse il maresciallo contabile aggiungendo a bassa voce: «E se vi chiedesse come sono tornato, dite che ero in perfetto ordine». Sc’vèik al telefono: «Sc’vèik, faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant». «Sentite, Sc’vèik, come stanno le cose con quello scatolame? È tutto a posto?» «Non c’è, signor Oberleutnant, non se ne vede neppure l’ombra». «Desidererei, Sc’vèik, che al mattino vi presentaste sempre da me, finché resteremo al campo. Poi starete sempre con me, quando partiremo. Cosa avete fatto questa notte?» «Sono stato al telefono per tutta la notte». «C’è stato qualcosa di nuovo?» «C’è stato, signor Oberleutnant.» «Sc’vèik, non ricominciate un’altra volta a dire fesserie. C’è stata qualche comunicazione importante?» «C’è stata, signor Oberleutnant, ma è una cosa per le nove. Non volevo disturbarla, signor Oberleutnant, tanto c’è ancora parecchio tempo». «Allora, accidentaccio, ditemi una buona volta cosa c’è di così importante per le nove!» «Un telefonogramma, signor Oberleutnant». «Non vi capisco, Sc’vèik». «Ce l’ho scritto, signor Oberleutnant: ‘Ricevete un telefonogramma. Chi è al telefono? Scritto? Leggi,’ oppure cose di questo genere». «Gesù mio, Sc’vèik, siete proprio una dannazione! Ditemi il contenuto, altrimenti vengo di volata là da voi e vi appioppo un ceffone fatto bene. Allora, di che si tratta?» «Di nuovo una Besprechung, signor Oberleutnant, stamattina alle nove dal signor Oberst. Volevo svegliarla stanotte per dirglielo, ma poi ho pensato che era meglio di no». «Dovevate solo provarci, ad infastidirmi per una stupidaggine come questa, dal momento che c’era abbastanza tempo per farlo stamattina. Wieder eine Besprechung, der Teufel soll das alles buserieren!58 Lasciate stare il ricevitore e chiamatemi al telefono Vaněk!» Il maresciallo contabile Vaněk al telefono: «Rechnungsfeldwebel Vaněk, Herr Oberleutnant». «Vaněk, mi trovi immediatamente un altro attendente. Quel mascalzone di Baloun stanotte mi s’è mangiato 58   In tedesco nel testo: «Di nuovo una conferenza, deve essere il diavolo ad impasticciare così le cose».

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tutta la cioccolata. Legarlo? No, lo passeremo alla sanità. È robusto come una montagna, pertanto potrà andare a prendere i feriti durante il Gefecht. Glielo mando subito. Sistemi la cosa all’ufficio del reggimento e torni subito alla compagnia. Pensa che partiremo presto?» «Non c’è nessuna fretta, signor Oberleutnant. Quando dovevamo partire con la nona compagnia di linea ci menarono per il naso per quattro lunghi giorni. Con l’ottava anche fu un macello. Solo con la decima andò meglio. Eravamo Felddienstfleck,59 a mezzogiorno ricevemmo l’ordine e la sera stessa partimmo, ma poi, in compenso, ci trascinarono in lungo ed in largo per tutta l’Ungheria senza sapere quale buco su quale campo di battaglia dovevano tappare con noi». Da quando era diventato comandante dell’undicesima compagnia di linea, il tenente Lukáš si trovava nello stato chiamato sincretismo, secondo la terminologia filosofica, e pertanto si sforzava di appianare i dissidi concettuali mediante progressive concessioni fino a mescolare i punti di vista contrapposti. Fu pertanto per questo motivo che rispose: «Sì, può essere, sarà così. Non pensa dunque che si parta oggi? Alle nove abbiamo una Besprechung dal signor Oberst. – A proposito, sa che lei è Dienstführender? 60 Sì, così. Mi appuri… Aspetti, cos’è che deve appurare…? Ah, un elenco dei sottufficiali con l’indicazione della data di entrata in servizio… Poi le scorte della compagnia. La nazionalità? Sì, sì, anche questo… Ma soprattutto mi mandi questo nuovo attendente… Cosa deve fare con la truppa oggi il Fähnrich Pleschner? Vorbereitung zum Abmarsch.61 I conti? Verrò a firmarli dopo la mensa. Non mandi in città nessuno. Allo spaccio nel campo? Dopo il pranzo all’una… Mi chiami Sc’vèik!… «Sc’vèik, per il momento voi resterete al telefono». «Faccio rispettosamente osservare, signor Oberleutnant, che non ho ancora preso il caffè». «Allora andate a prendervi il caffè e rimanete là in ufficio finché non vi chiamerò. Sapete che cos’è un’ordinanza?» «Sì, signor Oberleutnant». «Allora vedete di trovarvi al vostro posto quando vi   In tedesco nel testo: «Sul posto pronti per la prima linea».   In tedesco nel testo: «Sottufficiale incaricato di dirigere l’ufficio di una compagnia». 61   In tedesco nel testo: «Preparazione per la partenza». 59

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chiamerò. Dite ancora una volta a Vaněk che mi trovi un qualche attendente. Sc’vèik, pronto, dove siete?» «Sono qui, signor Oberleutnant, hanno portato proprio adesso il caffè». «Sc’vèik, pronto!» «Sono in ascolto, signor Oberleutnant, il caffè è completamente freddo». «Voi, Sc’vèik, sapete già cos’è un attendente. Esaminatelo bene e poi fatemi sapere qualcosa. Adesso agganciate il ricevitore». Sorseggiandosi il suo caffè, nel quale aveva versato del rhum da una bottiglia con la targhetta Tinte 62 (a scanso di qualsiasi imprevisto), Vaněk guardava Sc’vèik al quale alla fine disse: «Questo nostro Oberleutnant quando parla al telefono strilla, ho sentito ogni parola. Voi, Sc’vèik, dovete conoscere molto bene il signor Oberleutnant». «Siamo come una sola mano», rispose Sc’vèik, «una mano lava l’altra. Ne abbiamo percorsa di strada insieme! Tante e tante volte hanno voluto separarci, ma ci siamo sempre ritrovati. Si confida sempre con me in ogni cosa, al punto che spesso mi meraviglio pure. Così, anche adesso ha sicuramente sentito che debbo ricordarle ancora una   In tedesco nel testo: «Inchiostro».

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volta che deve trovargli un nuovo appuntato, e che proprio io debbo esaminarlo e dargli il benestare. Il signor Oberleutnant non può accontentarsi di un qualsiasi attendente».

Il colonnello Schröder, quando invitava alla conferenza tutti gli ufficiali del battaglione di linea, lo faceva con grande diletto, per potersi sfogare a parlare. Inoltre adesso occorreva prendere qualche decisione circa il casa del volontario con ferma annuale Marek il quale, essendosi rifiutato di pulire i gabinetti, era stato dal colonnello Schröder deferito al tribunale di divisione sotto l’accusa di ribellione. Dal tribunale di divisione era ritornato proprio la notte precedente ed ora era alla Hauptwache, dove lo tenevano d’occhio. Nel medesimo tempo era stato trasmesso all’ufficio del reggimento un appunto del tribunale di divisione, terribilmente confuso, in cui si faceva notare che nel caso in questione non si poteva parlare di ribellione, dato che i volontari con ferma annuale non sono tenuti a pulire i gabinetti, ma solo di «Subordinationsverletzung»,63 delitto che poteva essere perdonato grazie ad un valoroso comportamento sul campo di battaglia. Per tali motivi l’imputato volontario con ferma annuale Marek veniva rispedito al suo reggimento e l’inchiesta sull’infrazione della disciplina veniva rimandata alla fine della guerra, ma sarebbe stata riaperta alla prossima infrazione commessa dal volontario con ferma annuale Marek. C’era poi un altro caso. Insieme col volontario con ferma annuale Marek era stato mandato contemporaneamente alla Hauptwache dal tribunale di divisione il falso caporale Teveles, il quale era da poco arrivato al reggimento, dopo essere stato dimesso dall’ospedale di Zagabria. Aveva una grande medaglia d’argento, i gradi di volontario con ferma annuale e tre stellette. Aveva narrato le eroiche imprese compiute in Serbia dalla sesta compagnia di linea, aggiungendo che lui era l’unico superstite del suo reparto. Da un’inchiesta era risultato che in effetti, all’inizio della guerra, con la sesta compagnia di linea era partito un certo Teveles, ma che questi non aveva il rango di volontario con ferma annuale. Erano state chieste ulteriori informazioni alla brigata cui era   In tedesco nel testo: «Infrazione della subordinazione».

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stata aggregata la sesta compagnia di linea allorché, il 2 dicembre 1914, c’era stata la ritirata da Belgrado, e si era così potuto appurare che nell’elenco dei proposti o dei decorati con medaglie d’argento non risultava alcun Teveles. Se tuttavia il soldato Teveles fosse stato elevato al grado di caporale nel corso della campagna bellica di Belgrado, non lo si poteva assolutamente accertare, dato che l’intera sesta compagnia s’era perduta, ufficiali compresi, presso la chiesa di San Saba a Belgrado. Al tribunale di divisione Teveles s’era difeso asserendo che in realtà gli era stata promessa la grande medaglia d’argento, e che per tale motivo se ne era comprata una all’ospedale da un bosniaco. Quanto ai galloni da volontario con ferma annuale, se li era cuciti in stato di ubriachezza e continuava ancora a portarli perché era sempre ubriaco, avendo l’organismo indebolito dalla dissenteria. Quando dunque iniziò la Besprechung, prima di affrontare questi due casi, il colonnello Schröder comunicò che sarebbe stato necessario tenersi in contatto più frequentemente prima della partenza, la quale, ormai, non si sarebbe fatta attendere a lungo. Gli era stato comunicato dalla brigata che si aspettavano ordini in merito dalla divisione. Le truppe dovevano tenersi pronte, ed i comandanti di compagnia dovevano badare attentamente a che nessuno se la squagliasse. Poi ripetè ancora una volta tutto quello che aveva detto la sera precedente. Fece nuovamente un panorama degli avvenimenti militari, affermando che niente avrebbe dovuto indebolire negli uomini lo spirito combattivo e l’ardore guerriero. Sul tavolo davanti a lui era fissata una grande carta dei campi di battaglia, con bandierine attaccate a spille, ma le bandierine erano in grande disordine ed i fronti apparivano in movimento. Alcune spille con bandierine, staccatesi dalla carta, erano andate a finire sotto il tavolo. Era stato il gatto che, durante la notte, aveva messo terribilmente a soqquadro tutti i campi di battaglia; questo gatto era il beniamino degli scritturali dell’ufficio reggimentale, e, avendo fatto di notte i suoi bisogni sui fronti austroungarici, avrebbe voluto sotterrare i suoi escrementi, ragion per cui aveva spostato le bandierine ed aveva insudiciato tutte le posizioni, inzaccherando trincee e Brückenkopfe 64 ed imbrattando tutti i corpi d’armata. Il colonnello Schröder era assai miope. Gli ufficiali del battaglione di linea seguirono con in  Dal tedesco Brückenkopf, «testa di ponte».

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teresse il dito del comandante che si avvicinava a quelle porcherie. «Da qui, signori, a Sokal verso il Bug», disse il colonnello Schröder con aria profetica e spostò a memoria l’indice verso i Carpazi, mandandolo a finire su una di quelle macchiette con cui il gatto aveva provveduto ad ornare la plastica carta della zona di operazioni. «Was ist das, meine Herren?»65 domandò stupefatto, quando sentì che qualcosa gli si era appiccicato al dito. «Wahrscheinlich Katzendreck, Herr Oberst»,66 rispose a nome di tutti con grande cortesia il capitano Ságner. Il colonnello Schröder piombò nell’ufficio adiacente dal quale si sentirono poi tuoni e fulmini, accompagnati da una terribile minaccia: li avrebbe costretti a leccare tutte quelle porcherie fatte dal gatto. L’inchiesta fu assai sbrigativa. Venne appurato che il gatto era stato portato in ufficio due settimane prima dal più giovane degli scritturali, Zwiebelfisch. Stabilito questo punto, Zwiebelfisch dovette prendersi le sue carabattole ed un anziano lo condusse alla Hauptwache, dove sarebbe rimasto fino a nuovo ordine del signor colonnello. In questa maniera ebbe termine l’intera conferenza. Quando il colonnello Schröder, tutto rosso in viso, fece ritorno alla stanza ove erano raccolti i suoi ufficiali, dimenticò che doveva ancora discutere intorno alla sorte del volontario con ferma annuale Marek e dello pseudocaporale Teveles. Si limitò a dire laconicamente: «Prego i signori ufficiali di tenersi pronti e di restare in attesa di nuovi miei ordini ed istruzioni». Così il volontario con ferma annuale e Teveles continuarono a rimanere sotto chiave nella Hauptwache, e quando a loro si aggiunse Zwiebelfisch poterono farsi una partitina a mariage,67 e, dopo la partita, si misero ad infastidire i propri carcerieri chiedendo loro di ammazzare le pulci che erano sui pagliericci. In seguito mandarono a far loro compagnia anche l’appuntato Peroutka della tredicesima compagnia di linea, il quale, quando la sera prima s’era diffusa per il campo la notizia che si stava per partire alla volta del fronte, era scomparso, ed era stato ritrovato al mattino alla «Rosa bianca« di Bruck. Si scusò dicendo che, prima della par  In tedesco nel testo: «Cos’è questo, signori miei?»   « In tedesco nel testo: «Probabilmente escremento di gatto, signor colonnello». 67   Dal francese mariage, «matrimonio», giuoco a carte. 65 66

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tenza, aveva voluto fare un’ultima visita alla serra, a lui ben nota, del conte Harrach di Bruck, ma che, sulla via del ritorno, aveva smarrito la strada e soltanto al mattino, tutto stanco, era arrivato infine alla «Rosa bianca». (In effetti aveva dormito con Ruženka della «Rosa bianca»).

La situazione continuava ad essere tutt’altro che chiara. Si partiva o non si partiva? Al suo posto al telefono dell’undicesima compagnia di linea, Sc’vèik ascoltava conversazioni in cui venivano espresse le più svariate opinioni, pessimistiche ed ottimistiche. La dodicesima compagnia telefonava che, stando ai si dice, uno dell’ufficio aveva sentito dire che si sarebbe aspettato fino alle esercitazioni di tiro con bersagli mobili e che si sarebbe partiti solo dopo le Feldmässigschiessübunghe.68 Questa opinione ottimistica non veniva condivisa dalla tredicesima compagnia di linea, la quale diceva al telefono che proprio in quel momento era tornato dalla città il caporale Havlík, il quale aveva 68   Dal tedesco Feldmädssigschiessübung, «esercitazione di tiro con completo equipaggiamento da campo».

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parlato con un ferroviere che gli aveva detto che le vetture erano già in stazione. Vaněk strappò il ricevitore dalle mani di Sc’vèik e si mise a gridare infuriato che gli Eisenbahnisti 69 non sapevano un cavolo, e che lui era stato proprio in quel momento all’ufficio del reggimento. Sc’vèik restò accanto al telefono animato da uno spirito di vera carità rispondendo amabilmente, a tutti coloro che gli chiedevano se c’erano novità, che per il momento non si sapeva ancora nulla di preciso. Fu per l’appunto questa la risposta che dette anche ad una analoga domanda del tenente Lukáš: «Che c’è di nuovo là da voi?» «Non si sa ancora niente di preciso, signor Oberleutnant», rispose Sc’vèik con frase stereotipata. «Animale, appendete il ricevitore». Arrivò poi tutta una sfilza di telefonogrammi, che Sc’vèik ricevè ogni volta con lunghi malintesi. Anzitutto quello che non aveva potuto essergli dettato durante la nottata perché s’era addormentato senza riappendere il ricevitore, e che riguardava i vaccinati ed i non vaccinati. Poi un telefonogramma in ritardo concernente lo scatolame, questione che era stata già chiarita la sera prima. Seguì un telefonogramma indirizzato a tutti i battaglioni, alle compagnie ed ai singoli reparti del reggimento: Copia del telefonogramma della brigata No. 75692. Ordine di brigata num. 172. – Nei documenti relativi alle cucine da campo i prodotti adoperati vanno menzionati secondo l’ordine seguente: 1. carne, 2. scatolame, 3. verdura fresca, 4. verdura conservata, 5. riso, 6. maccheroni, 7. orzo e semolino, 8. patate, invece del precedente: 4. verdura conservata, 5. verdura fresca.

Quando Sc’vèik lo lesse al maresciallo contabile, Vaněk dichiarò enfaticamente che telefonogrammi di questo genere andavano buttati nella latrina: «Questa è una brillante idea di qualche cretino dello stato maggiore dell’armata, ma ormai non c’è niente da fare: viene già trasmesso a tutte le divisioni, a tutte le brigate ed a tutti i reggimenti». Sc’vèik ricevè poi un altro telefonogramma, il quale venne dettato così rapidamente che riuscì a scrivere soltanto alcune parole che somigliavano ad un messaggio cifrato:   Dal tedesco Eisenbahn, «ferrovia».

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In der Folge genauer erlaubt gewesen oder das selbst einem hingegen immerhin eingeholet werden.70 «Sono tutte fesserie», disse Vaněk, mentre Sc’vèik rimaneva di stucco dinanzi a quello che aveva scritto, che si rilesse ad alta voce per tre volte di seguito; «niente altro che cretinate, sebbene lo sa forse il diavolo, ma può anche essere in codice; d’altro canto qui alla compagnia non siamo attrezzati per queste cose. Lo si può pure buttare via». «Anch’io la penso così», disse Sc’vèik, «se comunicassi al signor Oberleutnant che deve in der Folge genauer erlaubt gewesen oder das selbst einem hingegen immerhin eingeholet werden, c’è caso anche che si offenda. «C’è della gente che è suscettibile in maniera tremenda», continuò Sc’vèik, immergendosi nuovamente nei suoi ricordi. «Una volta venivo da Vysočany71 a Praga in tram, ed a Libeň72 salì sulla nostra vettura un certo signor Novotný. Appena lo riconobbi, andai a raggiungerlo sulla 70   La frase, in tedesco, non ha alcun senso: «Di conseguenza più precisamente stato permesso oppure questo stesso ad uno al contrario malgrado tutto essere ottenuto». 71   Sobborgo nordorientale di Praga. 72   Quartiere settentrionale di Praga.

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piattaforma ed attaccai discorso, dicendogli che eravamo tutti e due di Dražov. Ma lui mi si rivoltò tutto infuriato, invitandomi a non seccarlo ed asserendo che non mi conosceva. Allora io cominciai a spiegargli, soltanto per rinfrescargli la memoria, che quando ero piccolino, andavo da lui insieme con la mamma, la quale si chiamava Antonie, mentre il babbo si chiamava Prokop ed era fattore. Ma lui continuò ad insistere, che non ci conoscevamo. Allora gli fornii ulteriori particolari, dicendogli che a Dražov c’erano due Novotný, Tonda e Josef. Che lui era Josef, e che sul conto suo mi avevano scritto da Dražov comunicandomi che aveva sparato alla moglie perché lei gli faceva predicozzi affinché smettesse di bere tanto. A questo punto alzò un braccio per colpirmi, io mi scansai e lui infranse la lastra della piattaforma anteriore, quella grande, davanti al manovratore. Così ci fecero scendere e ci portarono al commissariato, dove si venne a sapere che se l’era presa tanto a male perché in effetti non si chiamava Josef Novotný, ma Eduard Doubrava, era di Montgomery in America e si trovava a Praga in visita a parenti dai quali derivava la sua famiglia». Il telefono interruppe il suo racconto, ed una voce rauca dalla sezione armi automatiche chiese per l’ennesima volta se si partiva o no, aggiungendo che, a quanto pareva, i mattinata ci sarebbe stata una Besprechung dal signor colonnello. Apparve poi alla porta il cadetto Biegler, tutto pallido a volto. Era questi il più grande scemo della compagnia, perché, alla scuola per volontari con ferma annuale, cercava di emergere ostentando le sue conoscenze. Fece un cenno con la testa a Vaněk invitandolo a seguirlo nel corridoio, dove poi ebbe con lui una lunga conversazione. Quando Vaněk ritornò sorrideva con aria sprezzante. «È proprio un bel pezzo d’animale», disse a Sc’vèik, certo che qui alla nostra compagnia ne abbiamo parecchi i bei tipi! È stato anche lui alla Besprechung, e, quando si sono separati, il signor Oberleutnant ha ordinato a tutti gli Zugskommandanti 73 di fare una Gewehriviste 74 e di essere molto severi. Ed ecco che adesso viene a chiedermi se deve far legare Žlábek perché ha pulito la sua arma col petrolio». Vaněk apparve irritato. «Viene a domandarmi una simile fesseria, quando sa   Dal tedesco Zugskommandant, «comandante di plotone».   In tedesco nel testo: «Ispezione alle armi».

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che siamo in procinto di partire. Ha avuto proprio una bella pensata, ieri, il signor Oberleutnant, quando ha fatto legare quel suo attendente! Però gliel’ho detto a questo giovincello, di pensarci due volte prima di trattare la Mannschaft alla stregua di animali». «Già che si sta parlando di attendenti», fece Sc’vèik, «non sa, per caso, se se ne è già trovato uno per il signor Oberleutnant?» «Cercate di fare il dritto», rispose Vaněk, «per ogni cosa c’è abbastanza tempo; d’altro canto io ritengo che il signor Oberleutnant si abituerà a quel Baloun, di tanto in tanto gli mangerà qualche altra cosuccia, e poi vedrete che gli passerà, quando saremo sulla linea del fuoco. Non avranno di che mangiare tanto spesso, tutti e due! Se dico che Baloun deve restare, non c’è niente da fare. La cosa sta a cuore a me, ed il signor Oberleutnant in questa faccenda non ha niente da dire. L’essenziale è non avere fretta». Vaněk si distese sul suo letto e soggiunse: «Sc’vèik, raccontatemi qualche aneddoto sulla vita militare». «La cosa si potrebbe fare», rispose Sc’vèik, «ma ho paura che qualcun altro ci chiami al telefono». «Ed allora isolatelo, Sc’vèik, togliete il contatto oppure staccate il ricevitore!» «Bene», fece Sc’vèik staccando il ricevitore, «le dirò qualcosa che si adatta a questa situazione, soltanto che quella volta, invece di una guerra vera e propria, c’erano delle manovre, ma c’era lo stesso panico di adesso, perché non si sapeva quando saremmo usciti dalla caserma. Era allora nel mio reparto uno di Poříčí 75, un certo Šic, un bravo uomo, ma timorato di Dio e pavido. Egli aveva l’impressione che le manovre fossero qualcosa di orrendo, che nel loro corso la gente cascasse a terra per la sete e che gli uomini della sanità venissero a raccoglierla durante la marcia come frutti cascaticci. Per questo si fece una bella bevuta e, quando lasciammo la caserma per raggiungere la zona delle manovre ed arrivammo a Mníšek, disse: ‘Io, ragazzi miei, non ci resisto; soltanto Dominiddio può salvarmi.’ Poi giungemmo a Hořovice76 ed avemmo due giorni di Rast77 perché c’era stato un piccolo errore ed eravamo avanzati con tanta rapidità, che, insieme con gli altri reggimenti che ci fiancheggiavano alle Flügele 78 avremmo   Almeno una decina di località hanno questo nome in Boemia.   Località a sudovest di Praga.   In tedesco nel testo: «Riposo». 78   Dal tedesco Flügel, «ala». 75 76 77

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catturato l’intero stato maggiore dell’avversario, il che sarebbe stato una vergogna, dato che il nostro corpo d’armata doveva prendere un fracco di legnate, in quanto doveva vincere il nemico, alla cui testa si trovava un arciduca rincitrullito. Ed ecco che ti combina quel bel tipo di Šic: Mentre eravamo accampati, si avviò per far compere in un villaggio oltre Hořovice e tornò al campo verso mezzogiorno. Era caldo, e lui era tutto sudato, tutt’a un tratto sulla strada scorse una colonnetta, sulla quale si trovava uno scrignetto con dentro, sotto il vetro, una piccola statua di San Giovanni Nepomuceno. Recitò una preghiera davanti al santo e poi gli dice: ‘Avrai certamente caldo, se potessi avere almeno qualcosa da bere! Te ne stai qui sotto il sole, e probabilmente sudi a tutto spiano.’ Così agitò un po’ la borraccia, bevve e disse: ‘Ho lasciato un sorso anche per te, San Giovanni Nepomuceno!’ Se non che ebbe paura, si scolò tutta l’acqua rimasta, e per San Giovanni non restò niente. ‘Gesù mio,’ soggiunse, ‘San Giovanni Nepomuceno, questa me la devi perdonare, ti ricompenserò, ti porterò con me al campo e ti darò da bere quanto vorrai, sì da rimetterti in gamba.’ E così il bravo Šic, mosso da compassione verso San Giovanni Nepomuceno, infranse il vetro, estrasse la statua del santo e se la ficcò sotto la blusa per portarla all’accampamento. Poi San Giovanni Nepomuceno dormì insieme con lui sulla paglia, lo accompagnò nelle marce riposto dentro allo zaino, e gli portò fortuna nelle partite a carte. Lì nel posto in cui eravamo accampati vinceva sempre, ma quando poi ci trasferimmo nella zona di Pracheň e piantammo le tende a Drahenice79 riperse tutto quanto. Un mattino, quando partimmo, ad un pero sulla strada vedemmo appeso San Giovanni Nepomuceno. Ecco, questo è l’aneddoto che volevo raccontarle, ed ora riaggancio il ricevitore». Ed il telefono riprese a trasmettere i fremiti di quella vita nervosa che s’era impadronita del campo quando era stata turbata l’antica armonia della sua pace. Nel frattempo il tenente Lukáš, chiuso nella sua stanza, stava studiando il cifrario del comando del reggimento, recapitatogli proprio in quel momento insieme con le istruzioni per decifrarlo, e tentava di leggere il messaggio segreto cifrato concernente la direzione che avrebbe dovuto prendere il battaglione per raggiungere la frontiera della Galizia (prima tappa).   Pracheň e Drahenice sono altre località nelle vicinanze di Praga.

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7217 - 1238 - 475 - 2121 - 35 = Moson 8922 - 375 - 7282 = Ráb 4432 - 1238 - 7217 - 35 - 8922 - 25 = Komárno 7282 - 9299 - 310 - 375 - 7881 - 298 - 475 - 7979 = Budapest.

Mentre decifrava il messaggio, il tenente Lukáš sospirò: «Der Teufel soll das busieren!»

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Universale Economica Feltrinelli

Parte terza e quarta BOTTE  DA  ORBI  -  ANCORA BOTTE  DA  ORBI

Parte terza

Botte da orbi

1 Attraverso l’Ungheria

E giunse finalmente il sospirato momento in cui tutti quanti vennero stipati nei vagoni nella proporzione di quarantadue uomini a otto cavalli. I cavalli, naturalmente, viaggiavano più comodi della truppa, dato che potevano dormire in piedi, ma poco male. La tradotta partì alla volta della Galizia trasportando nuove schiere di uomini destinati al macello. Per quelle creature, tuttavia, in complesso fu una liberazione; si trattava ormai di qualcosa di ben definito, appena il treno si fu mosso, mentre prima non c’era altro che una penosa incertezza, una sorta di panico, derivante dal fatto che non si sapeva se si sarebbe partiti oggi, oppure domani o dopodomani. Alcuni avevano la sensazione di essere condannati a morte che attendevano con terrore il momento in cui sarebbe venuto a prenderli il carnefice. Dopo, invece, ci si sente più calmi, perché or495

mai quel che è stato è stato. Per questa ragione un soldato si mise a gridare dal vagone come un idrofobo: «Si parte, si parte!» Il maresciallo contabile Vaněk aveva avuto pienamente ragione quando aveva detto a Sc’vèik che non c’era alcuna fretta. Prima che giungesse il momento di salire sui vagoni trascorsero alcuni giorni durante i quali si continuò a parlare incessantemente dello scatolame, e l’esperto Vaněk dichiarò che si trattava soltanto di una fantasia bella e buona. Ma che scatolame e scatolame! Ecco la messa al campo, che ci fu anche con la precedente compagnia di linea. Quando c’è lo scatolame, la messa al campo viene tolta dal programma. In caso contrario essa è un surrogato dello scatolame. E così, invece del gulasch in scatola, comparve il cappellano militare superiore Ibl, il quale prese tre piccioni con una fava. Celebrò la messa al campo contemporaneamente per tre battaglioni in linea, spedendo, dopo averli benedetti, due di essi verso la Serbia ed il terzo contro la Russia. Durante la cerimonia tenne un discorso alquanto esaltato, e si poté costatare che aveva tratto ispirazione dai calendari militari. Fu una concione così toccante che, quando partirono alla volta di Moson, Sc’vèik, il quale viaggiava nello stesso vagone con Vaněk, nell’ufficio improvvisato, si ricordò di quel discorso e disse al maresciallo contabile: «Sarà davvero assai bello, come ha detto quel Feldkurat,1 quando il giorno volgerà alla sera ed il sole coi suoi raggi d’oro calerà dietro le montagne, e sul campo di battaglia si potrà sentire, come ha detto lui, l’ultimo respiro dei morenti, i nitriti dei cavalli caduti ed i lamenti degli uomini feriti, insieme con le lagnanze della popolazione, che si vedrà bruciare le proprie case. A me piace molto quando sento dire queste cretinerie in quadrato». Vaněk assentì con la testa: «È stato proprio un episodio tremendamente commovente». «È stato molto bello ed istruttivo», disse Sc’vèik; «me lo sono impresso bene in mente, e quando tornerò dalla guerra lo racconterò ‘Al calice’. Mentre ci parlava, il signor cappellano, aveva allargato così bene le gambe che ho avuto paura che una zampa gli scivolasse ed egli cadesse addosso all’altare da campo rompendosi la zucca contro l’ostensorio. Ci ha dato un così bell’esempio tratto dalla storia del   In tedesco nel testo: “Cappellano militare.”

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nostro esercito, di quando era ancora in servizio Radetzky ed il rosso di sera si fondeva col fuoco che divampava dai granai sul campo di battaglia, che pareva che quelle scene le avesse viste lui stesso». Quello stesso giorno il cappellano militare superiore Ibl era già a Vienna dove raccontava ad un altro battaglione di linea la commovente storia cui Sc’vèik aveva accennato e che gli era piaciuta tanto che l’aveva chiamata cretineria detta in quadrato. «Cari soldati», diceva il cappellano militare Ibl, «adesso dunque fate finta che sia il quarantotto e che sia terminata con la nostra vittoria la battaglia di Custoza, dove, dopo dieci ore di tenace lotta, il re italiano Alberto dovette abbandonare il sanguinoso campo di battaglia al padre dei nostri soldati, il maresciallo Radetzky, il quale, all’età di ottantaquattro anni, era riuscito a conseguire una così brillante vittoria. «Ed ecco, soldati miei cari! Su un’altura dinanzi a Custoza conquistata si fermò il vegliardo capo supremo. Attorno a lui i suoi fedeli condottieri. La solennità del momento serrò l’attenzione di tutto il piccolo gruppo, dato che a piccola distanza dal maresciallo si poteva scorgere un guerriero che lottava con la morte. Con le membra dilaniate sul campo dell’onore, l’alfiere Hrt ferito s’accorse che il maresciallo Radetzky lo guardava. L’eroico alfiere ferito serrava ancora nella destra irrigidita in uno slancio di convulsa esaltazione la medaglia d’oro. Nel vedere il nobile maresciallo si ravvivarono ancora una volta i battiti del suo cuore, e nel corpo paralizzato guizzò un ultimo resto di forza, sì che il soldato agonizzante cercò con sforzo sovrumano di accostarsi strisciando al suo maresciallo. «‘Goditi la tua pace, mio prode guerriero,’ gli disse il maresciallo, il quale scese da cavallo con l’intenzione di dargli la mano. «‘Non è possibile, signor maresciallo,’ fece il soldato morente, ‘ho entrambe le braccia lese, ma le rivolgo soltanto una preghiera. Mi dica la completa verità: la battaglia è davvero vinta del tutto?’ «‘Completamente, caro fratello,’ rispose con tono amabile il feldmaresciallo; ‘peccato che la tua gioia sia appannata dalle ferite che hai riportato.’ «‘Senza dubbio, nobile signore, per me è finita,’ disse il soldato con voce cupa, sorridendo gradevolmente. ‘Hai sete?’ domandò Radetzky. ‘La giornata è stata afosa, signor maresciallo, abbiamo avuto più di trenta gradi di calore.’ Allora Radetzky, dato di piglio alla borraccia del suo 497

aiutante, la porse all’agonizzante. Questi bevve a sazietà trangugiando una grande sorsata. ‘Dio gliene renda merito mille volte’, esclamò, sforzandosi di baciare la mano del suo comandante. ‘Da quanto tempo presti servizio?’ chiese il maresciallo. ‘Da oltre quarant’anni, signor maresciallo! Ad Osper2 mi sono guadagnato la medaglia d’oro. Sono stato anche a Lipsia, ho pure la croce dei cannoni,3 cinque volte sono stato ferito a morte, ma questa volta sono proprio bell’e spacciato. Eppure è stata per me una fortuna ed una grande ventura l’aver vissuto fino alla giornata odierna. Che mi importa della morte, se abbiamo colto una così gloriosa vittoria ed abbiamo restituito le sue terre al nostro imperatore!’ «Fu proprio in quel momento, cari soldati, che si levarono dall’accampamento le note maestose del nostro inno ‘Conservaci, Signore, il nostro imperatore,’ e con tono possente e solenne risonarono sul campo di battaglia. Il soldato caduto, che stava dicendo addio alla vita, cercò di rianimarsi ancora una volta. «‘Gloria all’Austria,’ esclamò con trasporto, ‘gloria all’Austria! Che possa progredire in questo splendido canto! Gloria al nostro comandante! Evviva il nostro esercito!’ «Il morente si chinò ancora una volta verso la destra del maresciallo, che volle baciare, poi si accasciò e l’ultimo respiro fu esalato quietamente dalla sua nobile anima. Il comandante in capo rimase a testa scoperta dinanzi alla salma di uno dei suoi più valorosi soldati. ‘Questa bella fine è davvero invidiabile,’ disse commosso il maresciallo, chinando il volto sui palmi delle mani congiunti. «Ed io, cari soldati, auguro pure a voi di poter conseguire una così bella fine». Nel ricordare questo discorso del cappellano militare superiore Ibl, Sc’vèik poté veramente definirlo, senza minimamente offendere il sacerdote, una cretinata detta in quadrato. Poi Sc’vèik cominciò a parlare dei noti ordini del giorno che erano stati letti loro prima di salire sul treno. Uno era un ordine del giorno dell’armata firmato da Francesco Giuseppe, l’altro era l’ordine del giorno dell’arciduca Giuseppe Ferdinando, comandante supremo dell’armata e del gruppo orientale, ed entrambi riguardavano gli avvenimenti 2   Piccolo villaggio sulla riva sinistra del Danubio non lungi da Vienna presso il quale, il 21 ed il 22 maggio 1809, gli austriaci guidati dall’arciduca Carlo inflissero la prima sconnttta continentale a Napoleone. 3   Decorazione dell’esercito austriaco, fatta coi cannoni catturati ai francesi nella battaglia di Lipsia (16-18 ottobre 1813).

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del passo di Dukla, dove, il 3 aprile 1915, due battaglioni del ventottesimo reggimento coi loro rispettivi ufficiali erano passati ai russi accompagnati dalla musica della banda reggimentale. Entrambi gli ordini del giorno erano stati loro letti con voce tremula, e nella traduzione ceca sonavano così: Ordine del giorno dell’armata del 17 aprile 1915: Ricolmo d’amarezza dispongo che l’imperialregio reggimento di fanteria numero ventotto venga cancellato dal mio esercito per viltà ed alto tradimento. La bandiera reggimentale verrà tolta al reggimento disonorato e consegnata al museo militare. In data odierna cessa di esistere un reggimento il quale, essendo stato moralmente intossicato in patria, ha raggiunto la prima linea per commettere un alto tradimento. Francesco Giuseppe I Ordine del giorno dell’arciduca Giuseppe Ferdinando: Durante la campagna bellica le truppe ceche hanno offerto prove deludenti, specialmente negli ultimi combattimenti. Esse hanno deluso specialmente nella difesa di posizioni in trincea, nelle quali sono state dislocate per lungo tempo; tali posizioni sono state spesso adoperate dall’avversario per stabilire contatti e collegamenti con infami elementi delle truppe suddette. Di solito, poi, gli attacchi dell’avversario, appoggiato da questi traditori, sono stati diretti verso i settori del fronte in cui erano dislocate le truppe in questione. Spesso il nemico è riuscito a cogliere di sorpresa i nostri reparti ed a penetrare pressoché senza alcuna resistenza nelle nostre posizioni ed a catturare un rilevantissimo numero di prigionieri. Per mille volte vergogna, ignominia e disprezzo a questi vigliacchi privi di onore, i quali si sono macchiati di tradimento contro l’imperatore e contro l’impero, e contaminano non soltanto l’onore delle gloriose bandiere del nostro eroico e valoroso esercito, ma anche l’onore della nazionalità cui appartengono. Prima o poi essi saranno raggiunti da una pallottola o dalla corda del carnefice. Ogni singolo soldato ceco che ha onore in cuor suo è tenuto a denunciare al proprio comandante ciascun vigliacco, sobillatore e traditore di questa fatta. Chi non si comporta in tale maniera, è egli stesso un traditore ed una canaglia. Questo ordine del giorno verrà letto a tutte le truppe dei reggimenti boemi. L’imperialregio reggimento numero ventotto, per disposizione del nostro sovrano, è già stato cancellato dall’esercito e tutti i di-

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sertori del reggimento che verranno catturati pagheranno col loro sangue il grave crimine commesso. L’arciduca Giuseppe Ferdinando

«Ce l’hanno letto un po’ troppo tardi», disse Sc’vèik a Vaněk, «mi meraviglio molto che ce l’abbiano letto soltanto adesso, mentre sua maestà l’imperatore ha emesso quel Befehl 4 fin dal 17 aprile. Potrebbe quasi sembrare che, per chi sa quale motivo, non ce l’hanno fatto leggere subito. Fossi io sua maestà l’imperatore, su queste trascurataggini non ci passerei sopra. Se emetto un Befehl il 17 aprile, bisogna che per l’appunto il diciassette esso venga letto in tutti i reggimenti, succeda quel che succeda». Dall’altra parte del vagone, davanti a Vaněk stava seduto il cuoco occultista della mensa ufficiali, intento a scrivere qualcosa. Dietro a lui sedevano il baffuto gigante Baloun, attendente del tenente Lukáš, e Chodounský, assegnato come telefonista all’undicesima compagnia di linea. Baloun stava masticando un pezzo di pane e spiegava con aria atterrita al telefonista Chodounský che non era stata colpa sua se, nella confusione che si era verificata al momento di salire sul treno, non aveva potuto raggiungere il suo tenente nel vagone del comando. Chodounský lo spaventava dicendogli che ora gli scherzi erano finiti, e che pertanto la sua sbadataggine sarebbe stata punita con una bella pallottola. «Si potesse almeno arrivare alla fine di tutte queste sofferenze», si lamentava Baloun, «già una volta, alle manovre, presso Votice, fui ridotto al lumicino. Marciavamo afflitti dalla fame e dalla sete, e quando ci venne incontro il Bataillonsadjutant 5 mi misi a gridare rivolto verso di lui: ‘Dateci acqua e pane!’ Lui girò il cavallo verso di me e disse che se si fosse stati in tempo di guerra avrei dovuto uscire dai ranghi e mi avrebbe fatto fucilare, per questa volta, invece, mi avrebbe fatto rinchiudere in fortezza, però ebbi una grande fortuna, perché, mentre andava a comunicare l’episodio al comando, lungo la strada il cavallo gli si imbizzarrì, egli cadde e, grazie a dio, si ruppe l’osso del collo». Baloun mandò un profondo sospiro e per tale motivo gli andò di traverso un boccone di pane; quando poi si riebbe, cominciò a guardare con occhi cupidi i due sacchi del tenente Lukáš, cui faceva la guardia.   In tedesco nel testo: «Ordine».   In tedesco nel testo: «Aiutante di battaglione».

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«Hanno ricevuto la razione, i signori ufficiali», disse malinconicamente, «fegato in scatola e salame ungherese. Che buoni bocconcini!» Nel dir questo, guardava avidamente quei due sacchi del suo tenente come un cucciolo abbandonato da tutti, che, affamato al pari di un lupo, se ne stia accovacciato alla porta di un salumaio aspirando l’odore di salsicciotti che si stanno affumicando. «Non sarebbe male», disse Chodounský, «se in qualche posto ci facessero trovare qualche buon pranzetto. All’inizio della guerra, quando partimmo per la Serbia, in ogni stazione avevamo di che mangiare a crepapancia, tali erano i banchetti che ovunque imbandivano per noi. Con le cosce delle oche ci tagliavamo dei tocchetti della carne migliore e ci giocherellavamo sulle tavolette di cioccolata. Ad Osijek,6 in Croazia, due distinti signori, due veterani, ci portarono sul vagone un grande paiuolo di lepre arrosto, ed alla fine non ne potemmo più e ci toccò buttarglielo loro addosso tutto quanto. Su tutte le linee non facemmo altro che vomitare dai vagoni. Il caporale Matějka, nel vagone in cui mi trovavo io, si rimpinzò a tal punto che dovemmo mettergli una tavola sulla pancia e saltarci sopra, come si fa quando si pestano i crauti, e questo fu l’unico rimedio che ci voleva per lui, perché soltanto allora cominciò a mandare quel che aveva mangiato da su in giù. Quando passammo per l’Ungheria, ad ogni stazione ci buttavano nei vagoni polli arrosto. Di quelli lì non mangiavamo altro che il cervelletto. A Kaposfalva7 gli ungheresi ci tirarono nelle vetture pezzi interi di maiali arrostiti, ed uno dei miei camerati si beccò sul muso tutta intera una testa di maiale arrosto, così che poi dovette correre appresso al donatore per tre binari con la cinghia della baionetta in mano per sonargliela addosso. In compenso, già a partire dalla Bosnia, non ricevemmo più neppure acqua. Fino alla Bosnia, però, sebbene fosse vietato, avemmo varie acquaviti, quante ce ne andavano giù per la gola, e fiumi di vino. Mi ricordo che ad una stazione certe madame e madamigelle ci trattarono a birra, e noi pisciammo dentro alla brocca della birra, facendole scappare dal vagone! «Per tutta la strada eravamo tutti quanti deboli da non reggerci in piedi, io non vedevo neppure con l’asso di fiori, ed ecco che, quando meno ce l’aspettavamo, tutt’a un tratto arriva un ordine, non finimmo neppure di giocare a carte,   Cittadina della Croazia orientale.   Cittadina della Ungheria sudoccidentale.

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e via, tutti giù dai vagoni! Un caporale, ora non ricordo più come si chiamava, gridava ai suoi uomini per esortarli a cantare: ‘Und die Serben müssen sehen, dass wir Oesterreicher Sieger, Sieger sind’.8 Ma uno, dal di dietro, gli dette un calcio, ed egli fece un bel capitombolo sulle rotaie. Poi fu gridato un altro comando, che ci imponeva di accastellare i fucili a piramide, ed il treno immediatamente girò e tornò indietro vuoto, soltanto, si sa come succede quando c’è il panico, ci si portò via pure la Verpflegung 9 per due giorni. C’erano lì vicino certi alberi, e là già cominciavano a fioccare gli shrapnel. Dall’estremità opposta arrivò il Bataillonskommandant,10 il quale convocò tutti a consiglio, e poi giunse il nostro Oberleutnant 11 Macek, un ceco fino alla radice dei capelli, che tuttavia parlava soltanto tedesco, e, bianco come un lenzuolo, comunica che non si può proseguire oltre, perché la linea è saltata in aria, durante la notte i serbi hanno attraversato il fiume ed ora si trovano all’ala sinistra. Ma sono, aggiunge, lontano da noi. 8   In tedesco nel testo: «Ed i serbi debbono vedere che noi austriaci siamo vincitori, vincitori». 9   In tedesco nel testo: «Sostentamento», cioè razioni di generi alimentari, bevande e tabacco. 10   In tedesco nel testo: «Comandante di battaglione». 11   In tedesco nel testo: «Tenente».

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Noi, a quanto pare, riceveremo dei rinforzi e poi li faremo a pezzi. Nessuno deve arrendersi, se si verificasse qualche scontro; stando a quel che si dice, i serbi tagliano le orecchie ed i nasi e cavano gli occhi ai prigionieri. Quanto al fatto che non lontano da noi scoppiano gli shrapnels non dobbiamo preoccuparci. Pare che sia la nostra artiglieria che fa dei tiri di aggiustamento. Tutt’a un tratto, al di là delle montagne, si sentì un tatatatatatatatatata. Erano, si disse, le nostre Maschinengewehre 12 che aggiustavano il fuoco. Poi, da sinistra, si udirono delle cannonate, era la prima volta che le sentivamo, e stavamo distesi ventre a terra, sulle nostre teste sibilarono alcune granate che incendiarono la stazione, e dalla destra cominciarono a fischiare sopra di noi delle pallottole mentre in lontananza si sentivano salve e crepitio di fucileria. L’Oberleutnant Macek dette l’ordine di disfare le piramidi e di caricare le armi. Gli si avvicinò il Dienstführender 13 il quale gli disse che la cosa non era affatto possibile, dato che non disponevamo di munizioni, avrebbe dovuto ben sapere che dovevamo ritirare le munizioni soltanto alla prossima tappa, prima di raggiungere le posizioni. Il treno con le munizioni era partito prima di noi, ed ora, probabilmente, era già caduto in mano ai serbi. L’Oberleutnant Macek restò per un momento come un babbeo, e poi impartì l’ordine di ‘Bajonett auf’ 14 senza sapere lui stesso perché, solo così, per disperazione, per fare qualcosa. Stemmo ancora per un bel pezzo in stato di preallarme, poi ci distendemmo di nuovo sulle traversine perché era comparso un aeroplano ed i graduati gridarono: ‘Alles decken, decken!’ 15 Si venne poi a sapere che l’aereo era nostro, tanto che fu pure cannoneggiato per errore dalla nostra artiglieria, che tuttavia non lo colpì perché tirò troppo basso. Così ci rimettemmo in piedi e nessuno si preoccupò di darci il comando ruht!16 Da qualche parte sbucò fuori un cavalleggiere, il quale, quando ancora era lontano, prese a gridare: ‘Wo ist Bataillonskommando?’ 17 Il Bataillonskommandant gli andò incontro, lui gli consegnò una lettera e subito proseguì per la sua strada verso destra. Il Bataillonskommandant si mise a leggere il dispaccio mentre camminava, e tutt’a un tratto sembrò preso da un attacco di idrofobia. Sguainò la sciabola e venne di corsa verso noi.   In tedesco nel testo: «Mitragliatrici». 13   In tedesco nel testo: «Caposervizio», sottufficiale cui era affidata la direzione dell’ufficio di una compagnia. 14   In tedesco nel testo: «Baionetta in canna!» 15   In tedesco nel testo: «Tutti al coperto, al coperto!» 16   In tedesco nel testo: «Riposo!» 17   In tedesco nel testo: «Dov’è il comando di battaglione?» 12

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‘Alles zarück, alles zarück! ’18 gridò agli ufficiali, ‘Direktion Mulde, einzeln abfallen!’ 19 Allora cominciò il ballo. Da tutti i lati, come se fossero stati ad aspettarci, presero a spararci contro. A sinistra c’era un campo di granoturco, e pareva un inferno. Noi strisciavamo quatton quattoni verso il vallone, dopo aver lasciato gli zaini su quei dannati binari. L’Oberleutnant Macek si beccò un colpo laterale alla testa e non fece neppure in tempo a dire ‘a’. Prima che fossimo scappati nel vallone, avemmo un mucchio di morti e di feriti. I caduti li lasciammo per terra e corremmo fino alla sera; tutta la regione era stata come spazzata via dei nostri già prima di noi. Tutto quello che vedemmo furono soltanto delle salmerie saccheggiate. Alla fine arrivammo alla stazione in cui ci aspettavano già altri ordini, in base ai quali avremmo dovuto salire nuovamente sul treno e tornare indietro al nostro comando, cosa che non potemmo fare, dato che l’intero comando era caduto nelle mani del nemico il giorno prima, come venimmo a sapere appena al mattino. Poi rimanemmo come orfanelli, nessuno voleva sentir parlare di noi, e ci aggregarono al settantatreesimo reggimento, affinché ci ritirassimo insieme con quello, cosa che facemmo con la massima letizia, però dovemmo marciare in avanti per quasi una giornata, prima di arrivare al settantatreesimo reggimento. Poi ci…» Nessuno, ormai, lo ascoltava più dato che Sc’vèik con Vaněk s’erano messi a giocare a mariage a due, il cuoco occultista della mensa ufficiali continuava a scrivere una ampia lettera alla propria moglie, la quale, in sua assenza, aveva cominciato a pubblicare una nuova rivista teosofica. Baloun sonnecchiava su un banco, così che al telefonista Chodounský non restò altro che ripetere: «Già, non lo dimenticherò mai…» Poi si alzò ed andò a fare da spettatore al mariage. «Se almeno mi accendessi la pipa», disse Sc’vèik amichevolmente rivolto verso Chodounský, «dal momento che vieni a fare lo spettatore. Un mariage come questo è una faccenda più seria di tutta la guerra e di tutta quella vostra maledetta avventura al confine con la Serbia. Che razza di stupidaggini sto facendo, dovrei prendermi a schiaffi. Potevo aspettare ancora un momentino con quel re, ecco che proprio adesso m’è capitata la donna. Sono proprio un’idiota!»   In tedesco nel testo: «Tutti indietro, indietro!»   In tedesco nel testo: «In direzione del vallone, avanti uno per uno!»

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Il cuoco occultista, intanto, aveva terminato la sua lettera e se la rilesse con evidente compiacimento per la bella forma che le aveva dato in considerazione della censura militare. Cara moglie! Quando riceverai queste righe mi troverò in treno già da qualche giorno, perché siamo diretti al fronte. Ciò non mi soddisfa molto, dato che nel treno debbo necessariamente poltrire e non posso essere utile, poiché alla nostra cucina ufficiali non si fa niente ed il cibo si riceve presso le stazioni di tappa. Sarei molto lieto di poter cuocere ai nostri signori ufficiali, mentre viaggiamo per l’Ungheria, il gulasch di Szeged, ma le mie speranze vanno in fumo. Forse quando saremo arrivati in Galizia avrò modo di preparare un šoulet 20, proprio uno di quelli galiziani, una bella oca stufata con orzo brillato o con riso. Credimi, cara Helenka, che io mi sforzo davvero di rendere quanto più mi è possibile leggere ai nostri signori ufficiali le loro preoccupazioni e le loro fatiche. Dal reggimento sono stato trasferito ad un battaglione di linea, come era mio ardentissimo desiderio, perché ambivo organizzare nel migliore dei modi, anche se con mezzi modesti, la cucina ufficiali da campo, al fronte. Ti ricorderai, cara Helenka, che, quando mi accompagnasti al reggimento, esprimesti il desiderio che io trovassi buoni superiori. Il tuo desiderio è stato esaudito, dato che non solo non posso minimamente lamentarmi, ma al contrario tutti i signori ufficiali sono nostri sinceri amici, e specialmente con me si comportano come tanti padri. Al più presto possibile ti comunicherò il numero della nostra posta militare…

Quella lettera era stata resa necessaria dalle circostanze, dato che il cuoco occultista era venuto ai ferri corti col colonnello Schröder, il quale fino ad un certo momento l’aveva favoreggiato, perché, per un disgraziato caso, alla cena d’addio degli ufficiali del battaglione in partenza, era venuta a mancare una porzione di rognone di vitello arrotolato riservata al colonnello Schröder, e questi aveva spedito l’occultista in prima linea con la compagnia ed aveva affidato la cucina della mensa ufficiali presso il reggimento ad uno sventurato insegnante dell’istituto per i ciechi di Klárov.21 Il cuoco occultista si rilesse ancora una volta quello che aveva scritto, e la lettera gli sembrò assai diplomatica e tale da permettergli di restare, malgrado tutto, un po’ lon  Piatto tradizionale ebraico, oca arrosto condita con una speciale salsa.   Nome di una piazza nella parte centrale di Praga.

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tano dai campi di battaglia, perché, si dica quel che si vuole, anche al fronte funziona il sistema dell’imboscamento. Ed a stare lontano dai campi di battaglia ci teneva, anche se, quando era ancora, nella vita borghese, redattore e proprietario della rivista occultistica di scienze ultraterrene, aveva scritto un grosso saggio, sostenendo che nessuno doveva aver paura della morte, ed un altro saggio sulla trasmigrazione delle anime. Anche egli andò a fare lo spettatore da Sc’vèik e Vaněk. Tra i compagni di giuoco, in quel momento, non si notava più alcuna differenza derivante dal grado militare. Ormai non giocavano più in due, ma in tre, perché a loro si era aggiunto anche Chodounský. L’ordinanza Sc’vèik stava inveendo sgarbatamente contro il maresciallo contabile Vaněk: «Io mi meraviglio di lei, nel vedere che giuoca in maniera così idiota. Lo vede o non lo vede che lui fa il Bettel?22 Io, d’altra parte, non ho palle, e lei non mi gira l’otto e mi butta come il più scemo degli imbecilli il fante dei fiori così che quel broccolo ci vince». «Quante storie per un solo Bettel perduto», ribattè appropriatamente il maresciallo contabile, «siete voi che giocate come un idiota. Chi sa da dove tiro fuori l’otto di palle, dal momento che neppure io ho palle, io avevo soltanto l’alto verde e fiori, pezzo di puttaniere!» «Allora, caro il mio furbacchione, avrebbe dovuto fare un durch»23, disse sorridendo Sc’vèik, «era proprio come successe una volta giù al ristorante dei Valeš; ci fu un babbeo che aveva un durch, ma non volle farlo, mise tutti i punti più bassi che aveva sul monte24 e lasciò che tutti gli altri facessero il Bettel. E che razza di carte aveva! In tutti i colori quelle più alte. Come adesso non avrei combinato niente se lei avesse fatto il durch, così neppure quella volta ci sarebbe stato niente da fare né per me né per chiunque altro; avremmo pagato tutti quanti, ad uno ad uno. Alla fine io gli dico: ‘Signor Herold, sia così gentile, faccia questo durch e la smetta di giocare come un cretino.’ Ma lui mi si mise ad inveire contro, dicendo che poteva giocare 22   In tedesco nel testo: «Questua». Espressione del giuoco del mariage: chi dichiara di «mendicare» si impegna a non superare con le sue e carte del medesimo colore giocate dagli avversari. 23   In tedesco nel testo: «Attraverso». Chi dichiara «attraverso» è tenuto a superare con le proprie tutte le carte del medesimo colore tirate dagli avversari. 24   Nel testo: talon (dal francese). Le due carte del «monte» vengono scambiate con due delle carte ricevute da chi dichiara trionfi oppure da chi annuncia una particolare situazione di giuoco (Bettel, durch, ecc.).

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come gli pareva, che dovevamo tenere il becco chiuso, e che aveva a che fare con l’università. Però la pagò cara. L’oste era un nostro conoscente, la cameriera era addirittura assai intima con noi, e così alla pattuglia che sopraggiunse potemmo spiegare che era tutto a posto. Anzitutto, che era stato scortese da parte sua turbare la quiete notturna chiamando la pattuglia per il semplice fatto che, scivolato sul ghiacciato davanti all’osteria, era caduto sì che gli si era rotto il naso. Poi che non lo avevamo toccato, sebbene avesse barato al mariage, e che, quando era stato smascherato, se l’era squagliata così velocemente che era andato a gambe levate. L’oste e la cameriera confermarono che con quel tipo ci eravamo comportati addirittura da perfetti gentlemen. Egli non si meritava davvero niente di meglio. Dalle sette di sera fino a mezzanotte era stato seduto davanti ad una birra e ad una gassosa, giocando dio solo sa a che cosa, dato che era un professore universitario e di mariage se ne intendeva col cavolo. Allora chi è di mano adesso?» «Giochiamo a kaufcvik,»25 propose il cuoco occultista, «venti centesimi a due». «Parlateci piuttosto», disse il maresciallo contabile Vaněk, «della trasmigrazione delle anime, così come ne parlaste alla ragazza dello spaccio, quella volta che vi rompeste il naso». «Di questa trasmigrazione di anime anche io ho già sentito parlare», fece Sc’vèik, «anch’io, infatti, anni fa, una volta mi misi in testa di fare, con rispetto parlando, l’autodidatta, in modo da non dover rimanere indietro, e così presi a frequentare la sala di lettura dell’Associazione industriale di Praga, se non che, dato che ero tutto lacero ed avevo in bel risalto certi buchi sul sedere, non potei istruirmi, poiché dopo un po’ non mi lasciarono più entrare e mi cacciarono fuori, pensando che ci andassi per rubare cappotti. Allora mi misi il vestito della festa ed una volta mi recai alla biblioteca del museo nazionale e, insieme con un mio amico, presi in prestito un libro che parlava della trasmigrazione delle anime dove lessi che un imperatore indiano, dopo la morte, si trasformò in un maiale, e quando questo maiale fu scannato si mutò in scimmia, da scimmia, in seguito, divenne tasso e da tasso ministro. Quando poi prestai servizio militare mi convinsi che un po’ di verità in questo doveva esserci perché i soldati, da chiunque avesse una stelletta, venivano chiamati 25   Voce in parte tedesca ed in parte ceca. Indica un giuoco d’azzardo proibito nell’Austria-Ungheria.

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o maiali marini o, comunque, col nome di qualche animale, e proprio da questo si poteva arguire che, migliaia di anni prima, questi volgari soldati erano stati celebri guerrieri. Quando poi c’è la guerra, questa trasmigrazione delle anime è una faccenda tremendamente stupida. Solo il diavolo sa per quante trasformazioni uno deve passare prima di diventare, diciamo, un telefonista, un cuoco o un fantaccino, ed ecco che da un momento all’altro arriva una granata che lo dilania e la sua anima entra in un cavallo dell’artiglieria, e su tutta la batteria, mentre si avvia a raggiungere una qualche quota, scoppia una nuova granata che ammazza pure questo cavallo in cui s’è incarnato il defunto, ragion per cui la sua anima migra in qualche mucca delle salmerie che viene adoperata per preparare il gulasch alla Mannschaft,26 e dalla mucca, magari, migra immediatamente in un telefonista, e dal telefonista…» «Io vorrei sapere», disse il telefonista Chodounský evidentemente offeso, «per quale ragione proprio io debbo essere il bersaglio di questi stupidi scherzi». «Quel Chodounský che ha un ufficio di investigazioni   In tedesco nel testo: «Ufficio del battaglione».

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private con quell’occhio come la trinità divina27 non è per caso vostro parente?» domandò con aria innocente Sc’vèik. «A me gli investigatori privati piacciono molto. Anche io, una volta, anni fa, facendo il servizio militare, prestai servizio con uno che era stato investigatore privato, un certo Stendler. Costui aveva una tale testa a pera che il nostro Feldwebel 28 gli diceva sempre che, sotto le armi, durante venti anni, aveva visto molte teste a pera, ma una pigna come la sua non se l’era mai neppure sognata. ‘Sentite, Stendler,’ soleva dirgli, ‘se quest’anno non ci fossero le manovre, la vostra testa a pera non servirebbe assolutamente a niente nell’esercito, così, invece, mirando alla vostra zucca, l’artiglieria potrà aggiustare il tiro se arriveremo in qualche posto in cui non ci sarà alcun punto di orientamento migliore.’ Ne soffrì di tutti i colori, con quello lì. Talvolta, durante la marcia, lo faceva avanzare di un cinquecento passi e poi ordinava: ‘Direktion 29 testa a pera.’ Quel signor Stendler, anche come investigatore privato, aveva avuto una scalogna maledetta. Quante volte ci raccontò, allo spaccio, tutte le disavventure che gli erano capitate! Riceveva compiti fasulli, ad esempio di questo tipo: appurare se la moglie di un cliente, che arrivava da loro completamente fuori di sé, se la faceva con un altro, e, nel caso che se la facesse, dove e come se la faceva. Oppure il contrario. Una femmina gelosa voleva scoprire con quale donna se la spassasse suo marito, in modo da potergli fare, a casa, barba e capelli ancora meglio. Era una persona istruita, parlava soltanto con termini forbiti di infrazione della fedeltà coniugale, ed ogni volta ci mancava poco che si mettesse a piangere quando ci diceva che ognuno voleva che pizzicasse lei oppure lui in flagrante. Un altro, magari, si sarebbe divertito a scoprire una di queste coppie in flagrante, e ci si sarebbe pure stropicciato gli occhi, questo signor Stendler, invece, come ci raccontava, ci usciva fuori della grazia di Dio. Diceva da perfetto intellettuale che ormai non poteva neppure più guardare quelle oscene lascivie. Quante volte ci veniva l’acquolina in bocca, come succede ad un cane che si mette a sbavare se gli fanno passare sotto il naso del prosciutto cotto arrostito, mentre ci descriveva le varie pose in cui aveva sorpreso quelle coppie! Quando eravamo consegnati, ci faceva sempre simili 27  Štěpán Chodounský aveva un ufficio di investigazioni private a Praga. Nella sua pubblicità si scorgeva un grosso occhio circondato da un triangolo. 28   In tedesco nel testo: «Maresciallo». 29   In tedesco nel testo: «Direzione».

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descrizioni. ‘Così, dunque,’ ci dice, ‘ho visto la signora tal dei tali col signor tal dei tali…’ E ci forniva anche gli indirizzi. Ed era sempre così triste! ‘E quanti schiaffi,’ diceva sempre, ‘ho rimediato dall’una e dall’altra parte! Eppure questi non mi rammaricavano tanto quanto il fatto che dovevo subire tentativi di corruzione. Di uno di simili episodi non mi dimenticherò fino alla morte. Lui nudo, lei nuda. Erano in un albergo e non s’erano chiusi a chiave, quegli imbecilli! Nel divano non c’erano entrati, perché erano entrambi grassi, e così si trastullavano sul tappeto come due gatti. Il tappeto era tutto logoro, impolverato, e vi erano rotolati sopra alcuni mozziconi di sigarette. Quando entrai, balzarono in piedi tutti e due, lui si fece davanti a me tenendo la mano a mo’ di foglia di fico. Lei mi volse le spalle, e sulla sua pelle si vide che aveva stampato tutto il modello del disegno del tappeto mentre sulla spina dorsale le si era attaccata una cartina di sigaretta. ‘Mi scusi,’ faccio io, ‘signor Zemek, io sono il poliziotto privato Stendler, dipendente di Chodounský, ed ho ufficialmente l’incarico di sorprenderla in flagrante, in base a segnalazione della sua signora moglie. La signora con la quale lei intrattiene qui questo illecito rapporto è la signora Grotová.’ In vita mia non avevo mai visto un cittadino così calmo. ‘Scusi,’ mi disse, come se la cosa fosse evidentemente comprensibile, ‘adesso mi vesto. La colpa è soltanto di mia moglie, la quale, con la sua infondata gelosia, mi induce a questi illeciti rapporti, dato che, mossa soltanto da sospetti, offende il proprio marito coi suoi rimproveri e con la sua malvagia sfiducia. Se tuttavia non c’è il minimo dubbio che la vergogna non si possa tenere nascosta… Dove ho messo le mutande?’ domandò a questo punto con perfetta calma. ‘Sul letto.’ Mentre si metteva le mutande, continuò a spiegarmi: ‘Se non è possibile tenere nascosta la vergogna, allora si dice: divorzio. Ma in tale maniera la macchia dell’onta non si cela. Il divorzio, in genere, è una faccenda spinosa,’ continuò a dire rivestendosi, ‘la cosa migliore è quando la moglie si arma di pazienza e non dà adito alla pubblica indignazione. Comunque faccia come più le aggrada, io la lascio qua solo con la gentile signora.’ Nel frattempo la signora Grotová s’era infilata dentro il letto, il signor Zemek mi dette la mano e se ne andò.’ Ora non ricordo più bene come ci raccontò il resto il signor Stendler, quante altre cose ci riferì poi, dato che a quella signora, sul letto, tenne un discorso da vero intellettuale dicendole più o meno che il matrimonio non ha lo scopo di condurre alla felicità ciascun coniuge immediatamente, e che, nel matrimonio, è 511

dovere di ognuno mortificare la concupiscenza e raffinare e spiritualizzare la propria parte corporale. ‘Nel dir questo,’ raccontò il signor Stendler, ‘piano piano avevo cominciato a svestirmi, e quando fui completamente nudo e tutto eccitato e selvaggio come un cervo in fregola, entrò nella stanza il mio buon conoscente Stach, anch’egli investigatore privato, alle dipendenze del signor Stern, titolare di un ufficio che ci faceva la concorrenza, cui si era rivolto il signor Grot per indagare su quello che combinava la sua signora, la quale, a quanto si diceva, aveva una relazione. Questo Stach non disse altro che: ‘Aha, il signor Stendler è in flagrante con la signora Grotová, congratulazioni!’ Poi chiuse sommessamente la porta e se ne andò. ‘Ormai quello che succede succede,’ disse a questo punto la signora Grotová, ‘non c’è bisogno che lei si rivesta così in fretta, c’è abbastanza posto qui accanto a me.’ ‘Per me, gentile signora, si tratta proprio del posto,’ dissi io, e poi non capii più neppure quello che andavo dicendo, ricordo soltanto che accennai anche ad una questione particolare, che cioè, se ci sono alterchi tra i coniugi, ci va di mezzo pure l’educazione dei bambini.’ Poi ci raccontò ancora che si rivestì in quattro e quattr’otto, che se la dette a gambe e che si proponeva di andare a raccontare tutto al suo capo, il signor Chodounský, ma, prima di affrontare quel colloquio, volle rinfrancarsi un po’, così che quando giunse arrivò ormai a cose fatte. Nel frattempo, infatti, c’era già stato il signor Stach, per ordine del proprio principale, il signor Stern, il quale aveva voluto inferire un colpo al signor Chodounský facendogli vedere che razza di dipendente aveva nel suo ufficio di investigazioni private, ed il signor Chodounský non aveva saputo fare niente di meglio che mandare rapidamente a chiamare la moglie del signor Stendler, affinché facesse lei stessa i conti col proprio marito, il quale, quando veniva mandato a svolgere una missione ufficiale, si faceva pizzicare in flagrante da quelli di un ufficio concorrente. ‘Da allora in poi,’ diceva sempre il signor Stendler, quando si veniva a parlare di questo episodio, ‘la mia zucca è diventata ancora di più a pera’». «Dunque giochiamo a cinque e dieci?» Giocarono. Il treno si fermò nella stazione di Moson. Era già sera e non consentirono a nessun soldato di scendere dai vagoni. Quando ripartirono, da una delle vetture si poté sentire una forte voce, che sembrava volesse superare il fragore del treno. Era un soldato di Kašperské Hory, il quale, nell’atmosfera mistica e suggestiva della sera, cantava con 512

terribili ruggiti la silente notte che stava scendendo sulle pianure ungheresi: Gute Nacht, Gute Nacht! Allen Müden sei’s gebracht. Neigt der Tag stille zur Ende, ruhen alle fleiss’gen Hände, bis der Morgen ist erwacht. Guthe Nacht! Gute Nacht! 30

«Halt Maul, du Elender,» 31 disse qualcuno nel bel mezzo del canto del soldato sentimentale, il quale si azzittì. Lo allontanarono dal finestrino. Ma le mani solerti non riposarono fino al mattino. Come accadeva in tutto il treno, alla luce delle candele, anche nel nostro vagone, alla luce della lampada a petrolio che era appesa alla parete, continuarono a giocare a kaufcvik, e Sc’vèik, ogni volta che qualcuno falliva nel prendere le carte grazie a qualche trionfo, dichiarava che quello era il giuoco più giusto di tutti, dato che ciascuno poteva cambiare tutte le carte che desiderava. «Nel kaufcvik», asserì Sc’vèik ad un certo punto, «bisogna prendere soltanto l’asso ed il sette, e poi si può rinunciare. Le altre carte non si debbono prendere. Se lo si fa, si fa a proprio rischio e pericolo». «Facciamoci uno zdravíčko»,32 propose Vaněk accolto dal generale consenso. «Sette rosso», annunciò Sc’vèik alzando le carte. «Ognuno un cinquino e si dà a quattro. Sotto a chi tocca, facciamoci questa bella partitina». E nei volti di tutti si poté ammirare un’espressione soddisfatta, come se la guerra non ci fosse ed essi non si trovassero sul treno che li portava alle loro posizioni, verso grandi, sanguinose battaglie e massacri, ma stessero invece seduti in qualche caffè praghese davanti a tavoli da giuoco. «Questo non me lo credevo proprio», fece Sc’vèik dopo la prima mano, «che, non avendo niente in mano ed avendo chiesto di cambiare tutte e quattro le carte, mi sarebbe capitato questo bell’assetto. Cosa vi siete messi in testa di potermi fare con questo re? Il re lo faccio fuori come niente». 30   In tedesco nel testo: «Buona notte! Buona notte! / A tutti gli affaticati sia augurata. / Silente il giorno inclina alla fine, / riposano tutte le solerti mani, / finché il mattino non si desta. / Buona notte! Buona notte!» 31   In tedesco nel testo: «Chiudi il becco, disgraziato». 32   Forma più rischiosa di kaufcvik.

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E mentre il re veniva fatto fuori con un asso, lontano, al fronte, altri re si facevano fuori a vicenda mediante i propri sudditi. Nella vettura comando, dove erano sistemati gli ufficiali del battaglione di linea, all’inizio del viaggio regnava uno strano silenzio. La maggior parte degli ufficiali aveva il suo bel da fare con un libriccino rilegato in tela dal titolo «Die Sünden der Väter. Novelle von Ludwig Ganghofer,” 33 e tutti quanti erano contemporaneamente intenti nella lettura della pagina 161. Il capitano Ságner, comandante del battaglione, stava in piedi presso un finestrino, aveva in mano il medesimo libriccino e lo teneva aperto anche egli a pagina 161. Contemplava il paesaggio e rifletteva sul modo di spiegare nella maniera più comprensibile possibile a tutti quanti quel che dovevano fare con quel libro. Si trattava di una cosa strettamente confidenziale. Gli ufficiali, nel frattempo, pensavano che il colonnello Schröder doveva essere diventato tutto matto. È vero che già da parecchio tempo era mezzo tocco, ma nessuno avrebbe mai potuto immaginare che la follia lo cogliesse così, tutto d’un colpo. Prima che il treno partisse li aveva convocati tutti quanti per l’ultima Besprechung 34 nel corso della quale aveva comunicato loro che a ciascuno di essi spettava una copia del libro «Die Sünden der Väter» di Ludwig Ganghofer, che aveva fatto poi portare all’ufficio del battaglione. «Signori», aveva detto con un’espressione terribilmente misteriosa, «non dimentichino mai la pagina 161!» Gettatisi a capofitto su quella pagina, non ne avevano cavato fuori niente. Una certa Marta, in quella pagina, si avvicinava ad una scrivania e da un cassetto estraeva un copione, dopo di che osservava ad alta voce che il pubblico doveva provare compassione per l’eroe di quella certa parte. Nella medesima pagina compariva un certo Albert, il quale si sforzava sempre di parlare spiritosamente, il che, staccato dalla precedente trama, che rimaneva ignota, sembrava una fesseria tale che il tenente Lukáš si mise a mordere dalla rabbia il bocchino per sigarette. «Il nonnino s’è ammattito», pensavano tutti quanti, «ormai è bell’e spacciato. Adesso lo trasferiranno al ministero della guerra». 33   In tedesco nel testo: «Le colpe dei padri. Novella di Ludwig Ganghofer». Ludwig Ganghofer (1855-1920) fu un prosatore austriaco, autore di romanzi e racconti assai in voga. 34   In tedesco nel testo: «Conferenza, riunione».

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Il capitano Ságner, quando ebbe rimuginato ben bene la cosa in testa sua, si allontanò dal finestrino. Non aveva un eccessivo talento pedagogico, per questo gli ci era voluto molto tempo per stabilire nel suo cervello tutto il piano della spiegazione dedicata all’importanza della pagina centosessantuno. Prima di iniziare la sua esposizione, li apostrofò: «Meine Herren»,35 come soleva fare il vecchio colonnello, benché, prima di salire sul treno, li chiamasse «Kameraden».36 «Also, meine Herren…»37 e prese a spiegare come, la sera precedente, avesse ricevuto dal colonnello istruzioni relative alla pagina 161 di «Die Sünden der Väter» di Ludwig Ganghofer. «Also, meine Herren», proseguì con tono solenne, «informazioni strettamente confidenziali, concernenti il nuovo sistema di deciframento dei dispacci in prima linea.» Il cadetto Biegler estrasse di tasca un blocchetto ed una matita, e disse con tono estremamente zelante: «Sono pronto, signor capitano». Tutti si voltarono a guardare questo idiota, il cui zelo, nella scuola per volontari con ferma annuale, confinava con la cretineria. S’era presentato alle armi volontariamente e subito alla prima occasione aveva dichiarato al comandante della scuola per volontari con ferma annuale, quando questi aveva chiesto notizie circa i familiari degli allievi, che i suoi antenati si chiamavano originariamente Bügler dei Leuthold ed avevano sullo stemma di famiglia un’ala di cicogna con una coda di pesce. Da allora in poi gli avevano affibbiato un nomignolo tratto dal suo stemma, e «Ala di cicogna con coda di pesce» era stato oggetto delle più feroci persecuzioni, diventando di colpo antipatico, perché quel nome era in stridente contrasto con l’onesto commercio di suo padre, il quale trafficava in pelli di conigli e di lepri, benché quel romantico fanatico s’impegnasse a fondo a digerire tutta la scienza militare, si segnalasse per la diligenza e brillasse non solo per la perfetta conoscenza di tutto quello che gli si dava da studiare, ma anche per il fatto che egli stesso, quanto più tempo passava, tanto più si caricava la testa con lo studio di scritti concernenti l’arte militare e la storia della scienza bellica, argomenti sui quali attaccava continuamente discorso, finché non veniva sgridato e messo a tacere. Nei cir  In tedesco nel testo: «Signori miei».   In tedesco nel testo: «Camerati».   In tedesco nel testo: «Dunque, signori miei».

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coli degli ufficiali riteneva se stesso equivalente in valentia con le più elevate cariche. «Sie, Kadett,»38 disse il capitano Ságner, «finché non le do il permesso di parlare, se ne stia in silenzio, perché nessuno le ha chiesto niente. A parte questo, lei è un soldato furbo di tre cotte. Sto per rivelarle delle informazioni strettamente confidenziali, e lei se le va a scrivere sul taccuino. Poi magari perde il notes e va a finire dritto dritto davanti alla corte marziale». Oltre a tutto, il cadetto Biegler aveva la pessima abitudine di voler sempre cercare di convincere la gente che aveva ragione lui ricorrendo ad ogni genere di scappatoie. «Faccio rispettosamente notare, signor capitano», rispose, «che anche se eventualmente smarrissi il taccuino nessuno potrebbe decifrare quello che ho scritto, dato che io stenografo, e nessuno è in grado di leggere le mie abbreviazioni. Adopero il sistema inglese di stenografia». Tutti lo guardarono con disprezzo, il capitano Ságner agitò la mano e proseguì la sua esposizione. «Ho dunque accennato che si tratta del nuovo sistema di deciframento dei dispacci in prima linea, e se per caso non fosse chiaro il motivo per cui è stata loro indicata la pagina 161 della novella ‘Die Sünden der Väter’ di Ludwig Ganghofer, dirò, signori, che proprio questa è la chiave per il nuovo metodo di deciframento, attualmente in vigore in base alla recente disposizione dello stato maggiore del corpo d’armata cui siamo stati assegnati. Come loro sanno, esistono molti metodi di deciframento dei dispacci importanti trasmessi in prima linea. Questo ultimo, del quale ci serviremo noi, è il metodo numerico integrativo. In tal modo vengono aboliti il cifrario e le istruzioni per il deciframento consegnati loro la scorsa settimana dal comando del reggimento». «Erzherzogs Albrechtsystem,»39 brontolò tra sé e sé il solerte cadetto Biegler, «8922 = R, tratto dal metodo di Gronfeld». «Il nuovo sistema è estremamente semplice», squillò per il vagone la voce del capitano, «io stesso ho ricevuto dalle mani del signor colonnello il secondo volume e le istruzioni relative. «Supponiamo, per esempio, che dobbiamo ricevere il seguente ordine: ‘Auf der Kote 228, Maschinengewehr  In tedesco nel testo: «Lei, cadetto».   In tedesco nel testo: «Sistema dell’arciduca Albrecht».

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feuerlinksrichten,’40 ebbene, signori, ci perverrà questo dispaccio: ‘Sache - mit - uns - das - wir - auf sehen - in - die - versprachen - die - Martha - dich - das - ängstlich - dann - wir - Martha - wir - den - wir - Dank - wohl - Regiekollegium - Ende - wir - versprachen - wir - gebessert - versprachen - wirklich - denke - Idee - ganz - herrscht - Stimme - letzten.’41 Dunque è semplicissimo, senza tutte quelle inutili combinazioni. Dallo stato maggiore per telefono al battaglione, il battaglione per telefono alla compagnia. Quando il comandante riceve questo dispaccio cifrato, lo decifra nella seguente maniera. Prende ‘Die Sünden der Väter,’ apre a pagina 161, e comincia a guardare, dall’alto in basso, sulla pagina di fronte, la 160, cercando la parola ‘Sache.’ Prego, signori. La parola ‘Sache,’ a pagina 160, compare per la prima volta, tra le varie frasi, al cinquantaduesimo posto, pertanto sulla pagina opposta, la 161, cercherà la cinquantaduesima lettera a partire dall’alto. Possono notare che si tratta di una ‘a.’ Nel dispaccio segue la parola ‘mit.’ A pagina 160, tra le varie frasi, è questa la settima parola, e pertanto corrisponde alla settima lettera a pagina 161, che è una ‘u.’ Segue poi ‘uns,’ vale a dire, li prego, mi seguano attentamente, l’ottantottesima parola, corrispondente all’ottantottesima lettera sull’opposta pagina 161, che per l’appunto è una ‘f,’ e così abbiamo decifrato ‘Auf.’ E così possiamo proseguire, fino ad ottenere il nostro ordine: ‘A quota 228, indirizzare a sinistra il fuoco delle mitragliatrici.’ Molto ingegnoso, signori, semplice e non risolvibile senza la chiave: la pagina 161 di ‘Die Sünden der Väter di Ludwig Ganghofer». Tutti i presenti si misero ad esaminare quelle sventurate pagine e ci si fermarono sopra attentamente coi loro pensieri. Vi fu un attimo di silenzio, ma alla fine il cadetto Biegler esclamò con aria afflitta: «Herr Hauptmann, ich melde gehorsam: Jesus Maria! Es stimmt nicht!»42 La faccenda era davvero assai enigmatica. Per quanti sforzi facessero, nessuno, al di fuori del capitano Ságner, riuscì a trovare a pagina 160 quelle famose 40  In tedesco nel testo: «A quota 228, indirizzare a sinistra il fuoco delle mitragliatrici». 41   In tedesco nel testo: «Cosa - con - noi - che - noi - guardare - in - la - promisero - la - Marta - te - questo - angosciosamente - poi - noi - Marta - noi - che - noi - grazie - bene - collegio pubblico - fine - noi - promisero - noi - migliorato - promisero - effettivamente - penso - idee - completamente - domina - voce - ultimo.» 42   In tedesco nel testo: «Signor capitano, faccio rispettosamente notare: Gesummaria! Non corrisponde!»

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parole, né, alla opposta pagina 161, con cui cominciava la chiave, le lettere corrispondenti. «Meine Herren», prese a balbettare il capitano Ságner, quando si fu convinto che la disperata esclamazione del cadetto Biegler aveva un fondamento di verità, «cos’è mai successo? Nel mio ‘Die Sünden der Väter’ di Ganghofer le cifre corrispondono, e nel loro invece no?» «Mi permetta, signor capitano», intervenne nuovamente il cadetto Biegler. «Mi prendo la libertà di far notare che il romanzo di Ludwig Ganghofer si compone di due parti. La prego, voglia guardare sulla prima pagina del titolo: ‘Roman in 2 Bänden.’ 43 Noi abbiamo la Parte prima mentre lei ha la Parte seconda», continuò il cadetto Biegler, pignolo come era, «è pertanto chiaro come il sole che le nostre pagine 160 e 161 non corrispondono alle sue. Noi otteniamo risultati completamente differenti. La prima parola del dispaccio decifrato dovrebbe essere secondo lei Auf,’44 a noi, invece, è risultato ‘Heu’».45 A tutti, adesso, risultò assolutamente evidente che, malgrado le apparenze, Biegler non era quell’idiota che veniva reputato. «Io ho avuto la seconda parte dallo stato maggiore della brigata», disse il capitano Ságner, «ed evidentemente si tratta di un errore. Il signor colonnello ha ordinato per loro la prima parte. A considerar bene la cosa», proseguì poi, come se la faccenda fosse precisa e chiara, ed egli l’avesse saputo parecchio tempo prima di iniziare la sua esposizione sul semplicissimo sistema di deciframento, «debbono essersi confusi al comando di brigata. Non hanno comunicato al reggimento che si trattava della seconda parte, e così si è verificato questo equivoco». Il cadetto Biegler, intanto, guardava tutti quanti con aria di trionfo, ed il sottotenente Dub disse sottovoce al tenente Lukáš che «Ala di cicogna con coda di pesce» aveva sistemato per le feste il capitano Ságner. «Un caso davvero strano, signori», fece il capitano Ságner come se avesse voluto attaccare nuovamente discorso, dato che quel silenzio era assai penoso. «Nell’ufficio della brigata ci sono dei deficienti». «Mi permetto di porre in rilievo», tornò alla carica l’infaticabile cadetto Biegler, il quale voleva nuovamente fare il bello con la sua perspicacia, «che simili faccende di ca  In tedesco nel testo: «Romanzo in due volumi.»   In tedesco nel testo: «A.»   In tedesco nel testo: «Fieno.»

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rattere riservato, strettamente confidenziale, non dovrebbero passare dalla divisione all’ufficio della brigata. Un argomento concernente la più riservata delle faccende del corpo d’armata potrebbe essere comunicato mediante una circolare strettamente confidenziale unicamente ai comandanti delle formazioni componenti le divisioni e le brigate, i reggimenti. Conosco i sistemi dei cifrari che vennero impiegati nelle guerre contro la Sardegna e la Savoia, nella campagna anglo-francese di Sebastopoli, durante la rivolta dei boxer in Cina e nell’ultima guerra russo-giapponese. Questi sistemi venivano trasmessi…» «Ce ne importa un cavolo di tutto questo, cadetto Biegler», disse il capitano Ságner con un misto di disgusto e di risentimento: «è certo che il sistema di cui s’è parlato e che ho spiegato loro, è non solamente uno dei migliori, ma possiamo dire uno di quelli più indecifrabili. Tutte le sezioni del controspionaggio presso gli stati maggiori dei nostri avversari possono benissimo prendersi una bella vacanza. Tanto, neppure facendo i salti mortali riuscirebbero a decifrare i nostri codici. Si tratta di un sistema assolutamente originale. Questo codice non ha precursori». Il diligente cadetto Biegler prese a tossire con aria significativa. «Mi permetto, signor capitano», disse, «di attirare la sua attenzione sul volume dedicato ai cifrari militari da Kerickhoff. Questo libro può essere acquistato da chiunque presso la casa editrice del ‘Dizionario scientifico militare.’ In esso è particolareggiatamente descritto, signor capitano, il metodo di cui lei ci ha parlato. Suo inventore fu il colonnello Kircher, che prestò servizio al tempo di Napoleone I, nell’esercito della Sassonia. Si chiama cifrario Kircher mediante parole, signor capitano. Ogni parola del dispaccio viene interpretata sulla pagina opposta della chiave. Il metodo venne poi perfezionato dal tenente Fleissner nel libro ‘Handbuch der militärischen Kryptographie,’46 che ognuno può comprarsi presso la casa editrice dell’accademia militare a Wiener Neustadt. Prego, signor capitano». Il cadetto Biegler mise la mano in una valigetta e ne estrasse il libro di cui parlava, dopo di che proseguì: «Fleissner cita il medesimo caso, la prego, lei stesso può rendersene conto. Il medesimo messaggio che abbiamo sentito da lei. «Dispaccio: Auf der Kote 228, Maschinengewehrfeuer linksrichten.   In tedesco nel testo: «Manuale di crittografia militare.

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«Chiave: Ludwig Ganghofer, ‘Die Sünden der Väter.’ Zweiter Band»47. «Ed ora, la prego, guardi oltre. Codice: ‘Sache mit uns das wir aufsehen in die versprachen die Martha…’ e così via. Esattamente quello che abbiamo sentito da lei un minuto fa». Il discorso del cadetto non faceva una grinza. Quel presuntuosetto di «Ala di cicogna con coda di pesce» aveva proprio ragione. Allo stato maggiore dell’armata qualcuno dei signori generali aveva trovato il modo di semplificarsi il lavoro. Aveva scoperto il libro di Fleissner sui cifrari militari, ed aveva così risolto il suo problema. Per tutto quel tempo si poté notare che il tenente Lukáš cercava di vincere una terribile irritazione. Si mordeva il labbro, stava per dire qualcosa, ma alla fine cominciò a parlare di una cosa completamente diversa da quella che aveva originariamente divisato. «Non la si deve prendere così sul tragico», disse estremamente imbarazzato, «durante la nostra permanenza al campo a Bruck sulla Leitha48 sono stati già cambiati più volte i sistemi per trasmettere i messaggi in codice. Prima di arrivare al fronte, ci daranno altri sistemi, tuttavia penso che, quando si è sul campo di battaglia, non si abbia il tempo per risolvere simili crittogrammi. Prima che chiunque di noi abbia potuto risolvere una simile frase cifrata, la compagnia, il battaglione e perfino la brigata potrebbero essere stati già spacciati. È una cosa che non ha pratica importanza!» Il capitano Ságner annuì con la testa assai malvolentieri. «In pratica», confermò, «almeno per quel che ne so io, in base alle mie esperienze sul fronte serbo, nessuno aveva mai tempo per risolvere i messaggi cifrati. Non dico che tali messaggi non abbiano senso nel caso che si rimanga per parecchio tempo nelle trincee, quando ci si fortifica e ci si mette ad aspettare. È anche vero che i sistemi cifrati vengono mutati». Il capitano Ságner si ritirava su tutta la linea: «Se oggi, nelle comunicazioni dai comandi alle singole posizioni i sistemi cifrati vengono adoperati sempre meno, in buona parte deve essere attribuito al fatto che i nostri telefoni da campo non sono precisi e non riproducono chiaramente, specialmente sotto il fuoco dell’artiglieria, le singole silla  In tedesco nel testo: «Secondo volume.»   Cittadina ad est di Vienna, al confine tra Austria ed Ungheria.

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be. In sostanza non si sente un bel niente, e si provoca un inutile caos». Tacque per un istante. «La confusione è la cosa peggiore che possa capitare sul campo di battaglia, signori», aggiunse ancora con aria profetica ed ammutolì di nuovo. «Tra un momento», disse poi, guardando dal finestrino, «siamo a Ráb49 Meine Herren! La truppa riceverà qui un etto e mezzo di salame Ungherese a testa. Mezz’ora di Rast».50 Guardò la tabella di marcia: «Alle 4 e 12 partenza. Alle 3 e 58 tutti in vettura. Pertanto si parte per compagnie. Prima l’undicesima e così via. Zugsweise, Direktion Verpflegunsmagazin No. 6.51 Controllo della distribuzione: cadetto Biegler». Tutti indirizzarono al cadetto Biegler delle occhiate che volevano dire: «Avrai il tuo bel da fare, sbarbatello». Ma il diligente cadetto Biegler aveva già estratto dalla valigia un grosso foglio di carta ed una riga, tirò delle linee   Centro ferroviario nell’Ungheria occidentale (in ungherese Györ).   In tedesco nel testo: «Riposo».  In tedesco nel testo: «Plotone per plotone, direzione magazzino di approvvigionamento numero 6». 49 50 51

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su tutto il foglio dividendolo per il numero delle compagnie di linea ed infine chiese ai comandanti delle singole compagnie la consistenza numerica dei reparti ai loro ordini; nessuno, però, sapeva i dati a memoria, ed a Biegler poterono fornire le cifre richieste soltanto in base ad appunti non molto chiari scritti nei loro taccuini. Il capitano Ságner, nel frattempo, prese a leggere per disperazione lo sventurato libro «Le colpe dei padri», e, quando il treno si arrestò alla stazione di Ráb, chiuse il volume ed osservò: «Questo Ludwig Ganghofer, però, non scrive male». Il tenente Lukáš fu il primo a precipitarsi giù dal vagone del comando per recarsi nella vettura dove si trovava Sc’vèik. Sc’vèik con gli altri avevano già smesso da un bel pezzo di giocare a carte, e l’attendente del tenente Lukáš, Baloun, aveva una tale fame che aveva cominciato a parlare indignato contro le autorità militari ed a dire che sapeva molto bene come i signori ufficiali si rimpinzavano a crepapelle. Adesso era peggio di quando c’era la servitù della gleba. Prima, nell’esercito, le cose non andavano così. Allora, come soleva dire suo nonno che stava a casa in vitalizio, gli ufficiali, nella guerra del sessantasei, spartivano ancora coi propri soldati polli e pane. Non la smetteva mai di lamentarsi, ed alla fine Sc’vèik ritenne opportuno cominciare a tessere le lodi delle condizioni dei militari nell’attuale guerra. «Hai un nonno giovincello», disse amabilmente mentre stavano arrivando a Ráb, «il quale riesce a ricordarsi soltanto della guerra del sessantasei. Io, invece, conosco un certo Ronovský, il quale aveva un nonno che era stato in Italia quando c’era ancora la servitù della gleba, aveva servito in quel paese per tutti e dodici gli anni della ferma ed era poi tornato a casa col grado di caporale. E, poiché non aveva alcun lavoro, suo padre si prese questo nonnino a servizio con sé. Una volta, dunque, andarono al lavoro, a trasportare ceppi, ed uno di questi ceppi, come raccontava il nonnino che era stato a servizio col proprio padre, era così mastodontico che non poterono neppure smuoverlo. Allora lui disse: ‘Lasciamolo qui, questo bestione, chi ce lo fa fare di sgobbare tanto!’ Ma il guardaboschi che sentì questa frase cominciò a strillare e sollevò il bastone, dicendo che dovevano caricare quel ceppo. Il nonno di questo nostro Ronovský non disse altro che: ‘Pezzo di zoticone, lo sai che sono un veterano?’ Ma, trascorsa una settimana, 522

ricevè una lettera di precetto e dovette tornare a prestare servizio militare in Italia e vi rimase altri dieci anni, e scrisse a casa che, quando fosse tornato, avrebbe spaccato la testa con una scure a quel guardaboschi. Fortuna, però, che il guardaboschi morì prima». In questo momento apparve sulla porta del vagone il tenente Lukáš. «Sc’vèik, venite qui», disse, «piantatela con le vostre stupide storie e venite piuttosto a spiegare una cosa a me». «Senz’altro, signor Oberleutnant, faccio rispettosamente notare». Il tenente Lukáš trasse in disparte Sc’vèik, e lo sguardo con cui seguiva le sue mosse era tutt’altro che rassicurante. Durante tutto il rapporto del capitano Ságner, terminato con quel fiasco così clamoroso, il tenente Lukáš aveva messo in azione certe sue attitudini di investigatore, senza per questo dover ricorrere ad arzigogoli particolarmente complicati, dato che il giorno precedente quello della partenza Sc’vèik gli aveva annunciato: «Signor Oberleutnant, al battaglione ci sono alcuni libri per i signori Leutnanti.52 Li ho portati io stesso dalla Regimentskanzlei».53 Per tale ragione, oltrepassato il secondo binario e messisi dietro una locomotiva spenta che già da una settimana era in attesa di un treno di munizioni, il tenente Lukáš chiese senza tanti preamboli: «Sc’vèik, che è successo con quei libri?» «Faccio rispettosamente notare, signor Oberleutnant, che si tratta di una storia assai lunga, e lei si inquieta sempre, ogni volta che le racconto le cose per filo e per segno. Come quella volta che voleva darmi uno scappellotto quando stracciò un dispaccio concernente il prestito di guerra, ed io allora le dissi di aver letto una volta in un libro che prima, quando c’era la guerra, la gente doveva pagare per le finestre, per ogni finestra un ventino, per le oche altrettanto…» «Se cominciamo così non la finiamo mai, Sc’vèik», disse il tenente Lukáš, proseguendo il suo interrogatorio nel corso del quale si attenne al principio che quello che è strettamente confidenziale deve essere naturalmente tenuto completamente segreto, affinché quel birbante di Sc’vèik non combinasse qualche altro guaio. «Conoscete Ganghofer?» «E chi sarebbe?» chiese con interesse Sc’vèik.   Dal tedesco Leutnant, «Sottotenente».   In tedesco nel testo: «Ufficio del reggimento.

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«È uno scrittore tedesco, babbeo», rispose il tenente Lukáš. «In fede mia, signor Oberleutnant», fece Sc’vèik con un’aria da martire, «io non conosco personalmente alcuno scrittore tedesco. Conoscevo personalmente soltanto uno scrittore ceco, un certo Hájek Ladislav di Domažlice.54 Era redattore de Il mondo degli animali 55 ed una volta gli vendetti un cane da quattro soldi gabellandoglielo per un leonino purosangue. Era una persona assai allegra ed a modo. Veniva sempre ad una certa osteria e leggeva i suoi racconti, certi racconti così tristi che tutti quanti si sganasciavano dalle risa, ma lui piangeva e pagava per tutti quelli che stavano all’osteria, e noi poi dovevamo cantargli: ‘C’è una porta a Domažlice, che è dipinta che è un amore, chi dipinse quella porta era sì un grande amatore… Quello adesso se ne è andato, sotto terra è sotterrato…’» «Ma insomma, non state mica a teatro, state strillando come un cantante d’opera, Sc’vèik», fece impaurito il tenente Lukáš quando Sc’vèik ebbe finito di cantare gli ultimi versi: «Quello adesso se ne è andato, sotto terra è sotterrato». «Non era questo che vi avevo chiesto. Volevo soltanto sapere se avevate notato che i libri dei quali voi stesso mi avete parlato erano di Ganghofer. Allora che è successo con quei libri?» esplose pieno di rabbia. «Quelli che ho portato al battaglione della Regimentskanzlei?» domandò Sc’vèik. «In effetti quelli lì erano scritti da quel tale del quale mi ha chiesto se lo conoscevo, signor Oberleutnant. Ho ricevuto un telefonogramma direttamente dall’ufficio reggimentale. Loro, a dire il vero, volevano spedire quei libri alla Bataillonskanzlei 56, ma lì erano tutti fuori, compreso il Dienstführender, poiché erano dovuti andare allo spaccio, dal momento che si partiva per il fronte, ed in questi casi nessuno sa se avrà mai più occasione in futuro di farsi una bevutina allo spaccio. Loro dunque stavano là, signor Oberleutnant, ci stavano e bevevano; per telefono non riuscivano a trovare nessuno in nessun posto, neppure presso tutte le altre compagnie di linea, ma, poiché lei mi aveva ordinato di restare, per il momento, presso il telefono, benché fossi ordinanza, in attesa che ci venisse assegnato il telefoni54   Ladislav Hájek di Domažlice fu amico di Jaroslav Hašek fin dagli anni giovanili. 55   Il mondo degli animali (Svět zvířat) era il titolo di un periodico pubblicato, dal 1897 in poi, da Václav Fuchs, a Praga; Jaroslav Hašek fu per un certo tempo redattore di questa rivista. 56   In tedesco nel testo: «Ufficio del battaglione.»

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sta Chodounský, me ne stavo lì seduto e attendevo, finché, alla fine, giunse il nostro turno. Dalla Regimentskanzlei si misero a strepitare, dicendo che non riuscivano a raggiungere nessuno per telefono, che c’era un telefonogramma secondo il quale la Marschbataillonskanzlei57 doveva ritirare presso la Regimentskanzlei certi libri destinati ai signori ufficiali di tutto il battaglione. Poiché so bene, signor Oberleutnant, che sotto le armi bisogna agire con rapidità, ho detto per telefono alla Regimentskanzlei che io stesso sarei andato a ritirare quei libri per portarli alla Bataillonskanzlei. Là mi hanno dato un pacco così grosso che soltanto a mala pena sono riuscito a trascinarlo alla nostra Kompaniekanzlei dove mi sono messo a dare un’occhiata a quei libri. Ed è stato allora che ho potuto fare una bella pensata. Alla Regimentskanzlei, infatti, il Regimentsrechnungsfeldwebel58 mi ha detto che, secondo il telefonogramma pervenuto al reggimento, al battaglione sapevano già cosa dovevano prendere di quei libri, cioè quale parte. Quei libri, in effetti, erano in due parti. La prima parte per conto suo, ed anche la seconda per conto   In tedesco nel testo: «Ufficio del battaglione di linea.»   In tedesco nel testo: «Maresciallo contabile del reggimento.»

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suo. Mai, in vita mia, m’è capitato di dover ridere tanto per una cretineria simile, perché di libri, ormai, ne ho letti molti, ma non ho mai cominciato a leggerli dalla seconda parte. E lui, invece, m’ha detto ancora una volta: ‘Ecco qui le prime parti, e qui ci sono le seconde parti. Quale parte debbono prendersi i signori ufficiali, lo sanno già da soli.’ Allora ho pensato che fossero tutti ubriachi, perché, se un libro deve essere letto dall’inizio, un romanzo come quei ‘Sünden der Väter’ che ho portato, perché so anche il tedesco, bisogna cominciare dalla prima parte, dato che non siamo ebrei e non leggiamo da destra a sinistra. Ed è stato appunto per questo, signor Oberleutnant, che le ho chiesto per telefono, quando lei è tornato dal circolo, e quando le ho riferito di questi libri, se per caso adesso, sotto le armi, le cose non vanno al contrario e se i libri non si leggono a rovescio, cioè la seconda parte e poi la prima. Lei, allora, mi ha detto che dovevo essere un animale ubriaco, dal momento che non sapevo che nel ‘Padre nostro’ prima c’era ‘Padre nostro’ e soltanto alla fine ‘e così sia.’ «Si sente male, signor Oberleutnant?» chiese con interesse Sc’vèik, quando vide il tenente Lukáš, pallido in volto, aggrapparsi al predellino del serbatoio dell’acqua della locomotiva spenta. Nella sua faccia pallida non apparve alcun segno di collera. C’era solo un’espressione desolata, come di chi abbia ormai perso ogni speranza. «Avanti, avanti, Sc’vèik, ormai non importa più, va tutto bene, ormai…» «Anche io, come ho già detto», risonò sul binario abbandonato la dolce voce di Sc’vèik, «sono della medesima opinione. Una volta mi comprai un romanzo a fosche tinte su un certo Róža Šavaň della Selva Baconia, ma ci mancava la prima parte, così che dovetti ricostruirmi tutto l’inizio, ma non c’è niente da fare, neppure in queste storie di briganti si riesce a fare a meno della prima parte. Pertanto per me fu assolutamente chiaro che sarebbe stato inutile se i signori ufficiali avessero letto prima la se