I pazzi della storia [PDF]

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Zitiervorschau

ALEJANDRA VALLEJO-NÁGERA I PAZZI DELLA STORIA ***********************************************

Traduzione di Angela Crovace e Cristina Minozzi Titolo originale: Locos de la historia. Rasputín, Luisa Isabel de Orleáns, Mesalina y otros personajes egregios © La Esfera de los Libros, Madrid 2006 Avda. de Alfondo XIII, 1 bajos. 28002 Madrid © Alejandra Vallejo-Nágera Zóbel, 2006 © Nuovimondimedia, 2006 Via Orsoni, 33 - 40068 San Lazzaro di Savena (Bo) Tel: 051.62.59.172 - Fax: 051.62.84.156 www.nuovimondimedia.com - [email protected] Tutti i diritti riservati. Non è possibile riprodurre il presente volume, né parti di esso, in alcuna forma senza autorizzazione Traduzione: Cristina Minozzi, Angela Crovace

Indice Introduzione RASPUTIN (1869 - 1916) E ALESSANDRA (1872 - 1918) La pazzia mistica ERZSEBET BATHORY (1560 - 1614) La bevitrice di sangue VALERIA MESSALINA (22 d. C.? - 48 d.C.) La dea del sesso LUISAELISABETTA D'ORLÉANS (1709 - 1742) E la saga dei pazzi PIETRO IL GRANDE (1672 - 1725) Il genio che torturò suo figlio CARLOTTA, IMPERATRICE DEL MESSICO (1869 - 1916) La schizofrenica che dormì col Papa Bibliografia

A mio padre e a mio nonno, precursori di questa idea nonché maestri nell'arte del capire coloro i quali vengono derisi e da cui si è soliti fuggire.

Introduzione Cara lettrice, caro lettore, con questo libro rendo omaggio a mio padre e a mio nonno, entrambi medici psichiatri, scrittori nonché straordinari maestri nell'arte di amare l'apprendere e di trarre piacere dall'insegnare. Continuo la serie di «Pazzi illustri» iniziata da mio nonno Antonio e proseguita da mio padre Juan Antonio: in un certo modo questo libro può considerarsi il terzo della saga scritto da un'appartenente alla terza generazione. Ai miei avi devo la passione per la cultura, la musica e l'arte intese da una prospettiva più umana che tecnica. In casa nostra era consuetudine riunirsi a parlare di singolari protagonisti del passato e mettere in risalto dettagli forse poco importanti per uno storico però essenziali per chi ama studiare le trame che tessono il comportamento umano. Ai miei genitori, ad esempio, di Pietro il Grande interessava, più che la sua abilità di comando, il fatto che un uomo coraggioso e dotato come pochi avesse così tanto timore di dormire da solo da supplicare, quando non aveva nessuna donna accanto, qualsiasi soldato o domestico di dividere il suo letto. Il volume che ha tra le mani non vuole essere un'analisi storica o clinica ma cerca soltanto di inquadrare la dimensione umana di sei personalità psicologicamente turbate, che vissero tormentate, e che provocarono sofferenze al loro popolo e alle loro famiglie. Questi protagonisti, seppure in epoche diverse, ebbero tutti responsabilità politiche e sociali, furono figure autorevoli e costituirono un punto di riferimento per i loro contemporanei. Tutti vissero soggiogati da uno squilibrio mentale terribile e incompreso che condizionò le loro condotte e le loro azioni in modo totalmente determinante. Tra i disturbi mentali qui trattati, alcuni potranno forse spaventare, altri generare ilarità, sdegno o commiserazione, ma tutti i protagonisti risulteranno accomunati dal tremito o dalla vergogna che provocarono a chi è stato loro vicino. Ho cercato di allontanarmi da tali giudizi e piuttosto avvicinarmi alle esperienze di vita, alle ragioni e ai sentimenti di queste personalità così come un chirurgo si avvicina a una ferita, con attenzione, rispetto e sforzo di comprensione. La galleria di personaggi presentata in queste pagine risponde a un criterio di natura personale: sono diverse le ragioni che hanno destato in me curiosità, ammirazione, orrore o tenerezza. Salvo la contessa Bathory, la cui aberrante pazzia produsse uno spietato massacro, ringrazio gli altri per essere esistiti e aver fatto parte del mondo. È stato molto piacevole intromettermi nei loro segreti e nelle loro esperienze di vita, nei loro modi di sentire e pensare; mi hanno permesso di conoscere meglio la condizione umana e considerarla da un punto di vista diverso. Spero, caro lettore, di riuscire a trasmettere

l'entusiasmo per i loro deliri e incoraggiare la tolleranza e il perdono che meritano.

RASPUTIN (1869 - 1916) e ALESSANDRA (1872 - 1918) La pazzia mistica Anima mia! Prego Dio affinché tu comprenda quanto vale l'appoggio del nostro amico [Rasputin]. Senza di lui, non so che ne sarà di noi. È la nostra forza e il nostro conforto. Lettera di Alessandra Fëdorovna a suo marito, Nicola II. L'ultima zarina di Russia e il suo morboso amico Rasputin soffrono di disturbi distinti, e la cosa facilita una chiara comprensione della differenza tra psicopatia e psicosi. Mentre Alessandra è vittima di una psicopatia, Rasputin soffre di psicosi. Il primo termine non indica la pazzia propriamente detta, piuttosto si riferisce a un'alterazione della condotta che si prolunga nel tempo e che allontana la persona dal proprio ambiente. Sono sintomi di psicopatia le fissazioni, la nevrastenia, l'isolamento e le ossessioni illogiche che l'imperatrice di Russia esibisce di continuo. Gli psicopatici come Alessandra sono convinti di aver sempre ragione e non ammettono opinioni diverse dalla propria; la loro condotta risulta eccentrica, antisociale e avulsa dal contesto. La psicosi, invece, è effettivamente sinonimo di pazzia; è causa di un'anormalità morbosa e incontrollata, genera allucinazioni, convinzioni deliranti, affetti spropositati, idee disorganizzate e un comportamento deviante. Rasputin corrisponde perfettamente a questo quadro. I sintomi che la zarina interpreta come segnali di santità altro non sono che dimostrazioni della psicosi di cui soffre il contadino. I deliqui, le estasi, le visioni e le parole profetiche di Rasputin sono pane quotidiano per alcuni malati di mente; è vero che anche i santi vivono esperienze simili, tuttavia il riconoscimento sociale di santità presuppone un grado supremo di bontà e l'idea di avvicinarsi alla perfezione attraverso un percorso d'amore e opere virtuose, quindi qualcosa di ben diverso da ciò che fa e spera di ottenere il protagonista di questo capitolo. Rasputin giunge a San Pietroburgo a piedi dalla povera Siberia, e arriva a guidare la Russia manipolando gli Zar, la cui ostinata cecità nei suoi confronti li condurrà inesorabilmente verso la morte. Controverso, enigmatico, lodato da alcuni e disprezzato da altri, gli vengono attribuiti meriti e colpe di ogni genere, dall'essere l'amante della zarina fino alla capacità di compiere miracoli, ipnotizzare, predire il futuro, nominare ministri, dallo schiamazzare nelle taverne al maltrattare le donne. La sua presenza non passa certo inosservata. Mentre per alcuni si tratta di un individuo ripugnante, per altri risulta magnetico. Alcune dame aristocratiche lo denunciano per stupro, mentre altre impazziscono alla sua vista e si litigano il privilegio di portarselo a letto. A quasi un secolo dalla sua morte, questo personaggio continua a essere un mistero. La sua più notevole abilità fu quella di muoversi come un'anguilla nel terreno dell'ambiguità. Ancor oggi le teorie su di lui risultano discordanti; lo si addita come ciarlatano, cospiratore,

profeta, cinico, folle, sessualmente bestiale, provocatore, ipnotizzatore, visionario o manipolatore di menti. Ci si trova d'accordo solo nel momento in cui si osserva il suo aspetto in una qualunque delle sue fotografie; l'immagine di Rasputin lascia lo spettatore sospeso tra lo spavento e l'inquietudine. Grigorij Rasputin è in realtà un contadino analfabeta, un villano, un folle straordinariamente ingegnoso che riesce a ossessionare la donna più potente della sua epoca. Quando si incontrano la prima volta, la zarina è interamente votata, anima e corpo, alla fede ortodossa; solo in essa trova conforto e comprensione. Pervasa da eccessi mistici, Alessandra controlla ossessivamente che i ceri siano accesi, trascorre ore intere pregando in ginocchio davanti alle immagini sacre, si inchina di fronte ai sacerdoti, digiuna per settimane e si ritira nei periodi di feste sante. Tutti i giorni, ogni singolo giorno, legge passi di un libro intitolato Gli amici di Dio, in cui si proclama fanaticamente che solo attraverso la sofferenza e l'umiltà si può raggiungere il cielo. Il libro sostiene che solo chi più soffre sarà degno del paradiso; perciò Alessandra aggiunge ulteriori flagelli a quelli che già la vita le riserva. Assume atteggiamenti fustigatori in circostanze già avverse; il dolore che il giorno porta con sé dev'essere avvertito a livello fisico, dev'essere intensificato al massimo. Il suo atteggiamento si scontra con i membri dell'aristocrazia russa, dediti sfrontatamente a piaceri e vizi; tra di loro si diffonde la disapprovazione, si vocifera che la zarina eccede nelle sue pratiche assurde; ai loro occhi Alessandra non è che una fanatica che ha perso la testa. Ma lei non se ne cura. Animata dai dettami del suo piccolo libro, la zarina disprezza le persone abbienti che si rivolgono a Dio solo quando non possono comprare con il denaro la soluzione ai problemi che derivano dai loro vizi. Le classi umili, al contrario, non osano perdere la fede nell'Altissimo, poiché la loro sopravvivenza quotidiana dipende che ripongono in Lui. Inoltre, sono troppo occupate a sopportare il freddo e la fame per sprecare tempo in futili eccessi che offendono il Signore. Il Creatore guida i loro passi e le loro vite. Alessandra, che ha visto i contadini solo da lontano, fa di loro il proprio modello e proclama in ogni occasione: Queste persone parlano al mio cuore e toccano la profondità della mia anima molto più di quanto non facciano gli ufficiali e gli aristocratici che vengono a recarmi conforto vestiti in ricchi broccati e sete.1 Tutta la sua psicologia è ricettiva, smaniosa, protesa verso chiunque rechi con sé l'umiltà nei modi e la sapienza dei Vangeli nello sguardo. Esisterà una siffatta persona? Sì, esiste. Si chiama Grigorij Rasputin, e per la zarina è, in maniera inequivocabile, l'eletto inviatole dal Signore per aiutarla a sopportare il dolore. Egli, da parte sua, è certo che Dio agisca attraverso le sue mani; si considera unto dalla Divina Provvidenza, l'Altissimo lo ha privilegiato con il dono di risanare l'anima sofferente delle persone importanti. Giusto il tempo di incontrarsi, e tra la zarina e Rasputin scocca una scintilla. Negli occhi dell'uomo vi è il balsamo che calma i tormenti di Alessandra, e costei in cambio gli può procurare il plauso, il lustro, il successo che ogni narcisista istrionico brama. Appena si vedono, entrambi comprendono che si completano e che hanno bisogno l'una dell'altro; l'assetata trova la sua oasi, l'affamato si imbatte in un vero e proprio banchetto. Alessandra Fëdorovna, Zarina di tutte le Russie, la donna più potente della Terra, chiama il cencioso e analfabeta Rasputin «Amico» (con la A maiuscola), maestro, benamato, redentore, mentore, consigliere.

Quest'uomo dall'aspetto deplorevole, incline all'alcolismo e all'impudicizia, quest'individuo che praticamente non sa né leggere né scrivere, che sa solo contare fino a cento e prosegue dicendo «due volte cento, tre volte cento»2, riceve quasi quotidianamente profumate lettere dall'immacolata calligrafia e dall'ardente contenuto, nelle quali la zarina mette a nudo la sua anima e lo proclama suo insostituibile bastione. L'illetterato Grigorij fiuta la gloria in quei fogli che non solo riportano il sigillo imperiale, ma anche sconfinate dichiarazioni di affetto: Come mi annoio senza di te! - scrive la zarina - La mia anima è tranquilla e trovo pace solo quando tu, maestro mio, sei seduto al mio fianco. Bacio le tue mani e reclino il capo sulla tua spalla benedetta. Oh, come mi sento leggera allora! Solo una cosa desidero: addormentarmi sulla tua spalla, tra le tue braccia. Che gioia avvertire la tua presenza accanto a me! Dove sei? Dove te ne sei andato? Oh, sono così triste, e il mio cuore trabocca di nostalgia! Tornerai presto a stare al mio fianco? Vieni subito, ti sto aspettando, mi tormenta la tua assenza! Ho bisogno della tua santa benedizione e bacio le tue mani beate. Con il mio amore eterno. Tua, M[amma].3 Rasputin, amante di tutte, non lo è però della zarina. Alessandra ama profondamente suo marito e la sua famiglia; per l'Imperatrice, il santone è il pilastro del suo equilibrio psicologico, la medicina che placa la sua nevrosi religiosa, colui che illumina il suo cuore disperato. Trascina nella sua idolatria Nicola II, suo marito, ed entrambi acconsentono a che il contadino li chiami «mamma» (matuska) e «papà» (batjuska); in questo modo siglano le lettere che gli inviano. Lo Zar è un uomo pavido, debole e indeciso, la moglie è dominatrice, arrogante, schiava di una selvaggia nevrastenia che straripa alla nascita del figlio Aleksej... e Rasputin è, fondamentalmente, un malato che soffre di un disordine narcisista e istrionico della personalità, oltre che, senza dubbio, un individuo straordinariamente dotato nell'arte della manipolazione. Gli ingranaggi psicologici del trio si incastrano e si completano alla perfezione; mentre loro danzano in un cerchio che si rivolge esclusivamente al proprio interno, il resto del paese va in pezzi e agonizza sotto il giogo della fame, della fragilità politica, di due guerre e di una cocente frustrazione sociale che un governo dispotico si rifiuta di riconoscere. Tutto ciò nell'arco di quindici anni. Il pazzo venuto dal freddo Il 10 gennaio 1869, nel modesto villaggio siberiano di Pokrovskoe echeggia il primo vagito di un neonato. L'arrivo della creatura, che viene chiamata Grigorij in omaggio al santo del giorno, non commuove particolarmente i genitori, che hanno già messo al mondo altri sette figli, sebbene uno solo di essi sia sopravvissuto. Il padre, Efim, è un ricco contadino, dedito all'alcol e alla violenza; il suo cognome, Rasputin, potrebbe derivare dalla parola rasputsvo, che significa «sfrenatezza, immoralità», oppure potrebbe essere associato al verbo rasputat, riferito all'azione di «risolvere situazioni intricate».4 In entrambi i casi l'appellativo calza a Efim a pennello, poiché l'uomo è di temperamento violento e possiede una dote naturale di intercessore in dispute tra vicini, dalle quali generalmente trae un beneficio personale. Grazie alla pratica dell'intermediazione, Efim guadagna una casa di otto

stanze, una carretta, bestiame, cavalli da tiro e da lavoro, oltre a uno splendido terreno agricolo che è il fiore all'occhiello del luogo. A Pokrovskoe i bambini imparano nei campi e non sui banchi di scuola; mentre gli adulti lavorano la terra, i ragazzini gironzolano in combriccole, liberi e senza vigilanza. Grandi e piccini vivono distanti anni luce dagli splendori di San Pietroburgo o Mosca, hanno solo un'idea vaga delle luci che vi sfavillano, e le persone che vi dimorano sembrano loro di un altro pianeta. Non invidiano la condizione cittadina perché non ne hanno il minimo sentore; gli abitanti di Pokrovskoe non sentono la mancanza di ciò che non conoscono. Ancora a nessuno di loro è venuto in mente di andare a esplorare ciò che si stende oltre i confini delimitati dagli Urali.5 Nel villaggio l'analfabetismo va di pari passo con l'importanza attribuita alle tradizioni e la cieca fiducia riposta nella misericordia del Signore. La dottrina della religione ortodossa scandisce la quotidianità, nessuno mette in dubbio l'esistenza dei miracoli, l'attendibilità dei presagi e delle apparizioni della Vergine, l'efficacia della preghiera di fronte alle immagini sacre. Finanche il minimo gesto determina premi o castighi divini; il richiamo della carne non è considerato peccaminoso, non pregiudica la pietà dell'Altissimo, in fin dei conti anche gli animali rispondono all'impulso sessuale, e non per questo cessano di essere creature di Dio. Grigorij, come tanti figli dell'alcolismo, è un bambino straordinariamente inquieto; nei primi anni di vita la sua mente galoppa da un interesse all'altro senza approfondirne su nessuno, forse per questo non impara a parlare fino ai tre anni d'età. Da quel momento, e per tutto il resto della sua vita, il suo modo di comunicare risulterà frammentario, con forte difficoltà a portare a termine frasi o concetti; il flusso del suo pensiero è caotico, le idee vengono espresse scompostamente, espone concetti semplici con un vocabolario elementare. Il disordine della sua mente e la confusione della sua dialettica sono compensati, tuttavia, dal fascino che racchiude in sé: Grigorij possiede uno sguardo unico, inquisitore, così intenso che a volte è persino difficile da sostenere. I compaesani lo considerano un bambino diverso e speciale, si mormora che comunichi con gli animali e che scopra con una sola occhiata chi sia il ladro di questa o quella gallina, di questo o quel cavallo; il suo sguardo azzurro pare penetrare al di là delle apparenze, con una sola occhiata il ragazzino scopre i segreti più riposti dell'anima dei compagni. La sua fama di «prescelto» si fa strada un giorno in cui, mentre è costretto a letto da una polmonite, tra i deliri della febbre, il piccolo Grigorij afferma di vedere una bellissima donna vestita di bianco e azzurro... È la Vergine! Tutti se ne convincono nel paese. Sì, conferma il malato, è la Vergine, è venuta a guarirlo in cambio di una missione. «Mi ha annunciato - afferma di fronte agli attoniti genitori -che un giorno tornerà e mi dirà ciò che si aspetta da me». A partire da questo momento Grigorij non riesce più a dormire bene; per intere notti lo si sente gemere perché la «dama vestita di bianco e azzurro» non si ripresenta al suo fianco. Il motivo fondamentale per il quale desidera la presenza della Santa Madre è che soffre di paure notturne; due o tre ore dopo essersi addormentato inizia a gridare, si agita nel letto e chiede aiuto. Quando i genitori arrivano, lo trovano seduto con un'espressione di panico sul volto, incapace di rispondere coerentemente a ciò che gli chiedono: l'unica cosa che il piccolo vuole è

che la Vergine torni al suo fianco. Una grave forma di insonnia accompagnerà Rasputin per il resto della sua vita, assieme ai problemi cerebrali che le alterazioni persistenti del sonno portano con sé. Tutte le persone che lo conosceranno da adulto concorderanno nel notare che Grigorij possiede una memoria lacunosa e scarsa capacità di concentrazione. Rasputin, affettuosamente chiamato Griska, cresce come un bambino introverso e irritabile. Suo padre è un alcolizzato molto facile alle percosse, con le quali provoca al figlio un'enuresi, disturbo che consiste nella minzione incontrollata e copiosa durante la notte, e che in genere riflette appunto un'ansia psicogena alimentata, tra l'altro, dal conflitto esistente con un adulto prossimo. L'umiliante abitudine di orinare involontariamente nel letto accompagna Grigorij fino al momento in cui, già padre di famiglia, decide di abbandonare il villaggio e diventare pellegrino; secondo lui i rigori della preghiera riusciranno alla fine a liberarlo dall'umido tormento che lo mortifica ormai da così tanti anni. Prima di incamminarsi sulla strada del Signore, Grigorij nel privato bagna il letto, ma ciò che i suoi compagni percepiscono dall'esterno è un individuo dalla forza monumentale, consapevole della quantità di benefici che un po' di schiaffi sono in grado di arrecare. Da adolescente, in seguito a una zuffa tra ragazzi, viene coinvolto in una scazzottata da cui esce vincitore assoluto; ciò gli procura il rispetto dei suoi compagni, rinvigorisce la sua malconcia autostima, e, allo stesso tempo, gli insegna a far affidamento sul potere della violenza. A quattordici anni riempie di botte un anziano per poterlo derubare in tutta tranquillità; viene condannato a venti frustate in mezzo alla piazza del paese. Lungi dal correggersi, il ragazzo si imbaldanzisce ulteriormente. Dopo le prime venti frustate, sente che potrebbe benissimo proseguire con altrettante. A sedici anni esordisce nel mondo del sesso con un'esperienza traumatica che contribuisce alla sua futura psicosi. Sua figlia Matrëna lo racconta in un libro intitolato Ricordi. Sembra che la moglie di un generale già anziano, annoiata dal marito e ossessionata dal giovane sguardo color acquamarina del fanciullo, decida di iniziarlo personalmente alle arti del godimento fisico. Non sentendosi sufficientemente attraente come maestra, ricorre all'aiuto di sei delle sue domestiche. Il gruppo accompagna Grigorij fino alla camera da letto della padrona, e lì... ... si avventarono su di lui come un branco di lupe su un agnellino, tormentandolo e torturandolo mentre giocavano focosamente con il suo membro eretto. (...) Un uomo con più esperienza sarebbe riuscito a ricavare piacere da quel frenetico e disordinato incontro sessuale con un intero plotone di giovani eccitate, ma Griska non provò alcun piacere. Mentre si intrattenevano con il suo corpo, egli soffriva di fronte alla fine del suo sogno romantico e a causa del suo desiderio insoddisfatto (...) le giovani terminarono, trascinarono il suo corpo nudo e privo di coscienza dalla camera da letto e lo gettarono in strada... Lì rimase abbandonato per chissà quanto tempo.6 L'esperienza risveglia la belva che Grigorij ha dentro di sé. Rasputin eredita dal padre il mestiere di cocchiere e la possibilità di frequentare le taverne più celebri della regione; a questo punto si è già tramutato in un individuo rissoso, ubriacone, ladro, promiscuo, incapace di controllare i suoi scoppi d'ira, schiavo delle passioni e dei vizi, incapace di condurre la sua vita in modo costruttivo. Alla sua persistente insonnia si aggiungono incubi in cui appaiono donne tramutate

in lupi, brutto scherzo del subconscio che egli compensa psicologicamente maltrattando il genere femminile fino a stuprare un'anziana e due bambine di dodici e tredici anni.7 Ma anche l'anima più bestiale è incline a essere ammansita dall'incanto dell'amore. Grigorij conosce Praskovia nel corso di una festa. Quattro anni più vecchia di lui, gli ruba il cuore immediatamente. Quando si sposano ha diciannove anni, e i sussurri della sposa placano i raptus di furia e calmano gli accessi di testosterone. Al principio la convivenza è serena, e Praskovia e Grigorij si sforzano di dare alla luce figli. Che però non arrivano. Che Praskovia sia sterile? Unguenti e preghiere si susseguono negli anni, finché infine viene al mondo il tanto desiderato figlio... che però muore all'età di sei mesi. Il dolore di fronte a tale ingiusto castigo del Divino scatena in Rasputin la brama di vendetta verso la sua vita coniugale, se stesso, Dio, tutto. Si riconsegna all'alcol e al libertinaggio; Praskovia sopporta e lo giustifica affermando che «suo marito ne ha per tutte». Grigorij si tramuta in un temerario piantagrane che aggredisce persone e ruba cavalli, delitto che in Siberia è considerato abbastanza grave da consentire alle vittime una vendetta personale. In una di queste occasioni la polizia arriva giusto in tempo per salvargli la vita; Rasputin è stato colto in flagranza di reato e i contadini furiosi lo stanno uccidendo a mani nude. Il crimine commesso lo destina a un esilio di almeno dodici mesi. A quel punto si è fatto strada in lui un disturbo istrionico narcisista della personalità che non lo abbandonerà più. Il linguaggio popolare chiama «isterica» una condotta differente da quella che viene descritta dalla medicina psichiatrica; in psichiatria la persona volgarmente definita «isterica» è in realtà «nevrastenica», mentre l'isterico o istrionico è colui che cerca costantemente il consenso e ha bisogno di catalizzare occhi e orecchie, scopo che ottiene tra lo sconcerto chi lo circonda. In Rasputin, l'istrionismo si unisce a un disturbo narcisista; a quest'epoca egli ne manifesta già tutti i principali sintomi: si fa notare per i vestiti che sceglie, per il volume della voce e per la condotta provocatoria; tiene banco nelle conversazioni facendo uso di concetti grandiosi e linguaggio incomprensibile ai più. L'isterico patologico presenta instabilità affettiva, incostanza volitiva, suggestività esaltata, volontà capricciosa, egoismo estremo e imperiosa necessità di farsi notare. Possiede una fantasia esuberante al cui servizio esibisce le più esasperate falsità; tende alla drammatizzazione della vita, alla spacconeria, alla teatralità; in svariate occasioni non distingue ciò che ha effettivamente vissuto da ciò che ha solo sognato. L'isterico è incline agli inganni, alle frodi e alle falsità più azzardate; arriva a simulare convulsioni e paralisi quando non sa come risolvere un conflitto o, semplicemente, per colpire chi lo sta guardando. Un isterico come Rasputin possiede un egoismo feroce e non si sofferma sui mezzi pur di raggiungere lo scopo prefissato, senza compassione per le sofferenze o i danni che causa al prossimo. Ha bisogno di vivere dominando completamente e costantemente, e dà fondo a qualunque risorsa pur di riuscirci; fiuta gli ammiratori con abilità incredibile, sottolinea con enfasi esagerata il suo legame con loro, mentre, allo stesso tempo, tutti devono umiliarsi di fronte a lui e sottomettervisi; vilipende o detesta chi non lo fa, o crea una situazione tale per cui si generi in loro una dipendenza e un attaccamento duraturi. Ipocrita e falso, esibisce con somma facilità emozioni contrarie a quelle che prova realmente e, purché non vengano contraddette le sue idee o i

suoi sentimenti, pare adattarsi a tutto interessandosi anche ai dolori e alle gioie altrui. Ha reazioni plateali quando può riversarle contro persone indifese; al contrario, dinnanzi ai potenti fa uso di sotterranee macchinazioni. Quando il malato istrionico non ottiene i suoi obiettivi, esplode, accaparrandosi così l'attenzione generale che è incapace di raggiungere con mezzi meno lesivi. La sua condotta sessuale è promiscua, dominatrice, sempre alla ricerca di servile sottomissione. L'incostanza affettiva lo spinge a stabilire amicizie intime con persone che, a distanza di pochi giorni, detesterà o umilierà. Eleva agli altari individui che poco dopo denigra. Purché non debba sacrificarsi troppo, e soprattutto purché riesca a porre su un piedistallo la propria personalità, nessun entusiasmo gli sembra eccessivo, compreso il sostenere una determinata opera patriottica, sociale o religiosa, che si affretterà però ad affondare nel caso in cui le sue idee vengano respinte. Come avviene nella maggior parte dei disturbi, quello isterico di cui soffre Rasputin acquisisce sempre maggior gravità con il passare degli anni; come vedremo più avanti, le manifestazioni saranno più che evidenti al momento del suo arrivo a San Pietroburgo. A ventitre anni, Grigorij decide che è giunta l'ora di ottenere una volta per tutte ciò che la sua indole richiede. Vuole esercitare la sua influenza sugli altri, penetrare nei cuori altrui, consigliarli, controllarli, possederli. Come? Lo imparerà dai maestri stessi. Il grande intuito di Rasputin gli fa immediatamente comprendere che quanto più un uomo appare umile, tanto minori sono le difese erette dal prossimo nei suoi riguardi; all'inoffensivo vengono aperte tutte le porte e tutti i cuori, quanto maggiore è la modestia che ostenta tanto maggiore è la fiducia che ispira e le informazioni di cui viene reso partecipe. E le informazioni, si sa, sono la manna di cui si nutre il potere. Sarà nientemeno che l'esilio a dare a Rasputin un'occasione d'oro per ottenere tutto ciò. Vi sono uomini in Russia che si servono a meraviglia delle arti dell'umiltà e della manipolazione; saranno loro a insegnargli il linguaggio drammatico e teatrale che tante porte apre e tanti animi seduce; Grigorij li conosce, sa chi sono, li ha visti passare per Pokrovskoe fin da quando era bambino; rapito, li aveva ascoltati migliaia di volte. Sono gli starec, uomini inoffensivi a cui nessuno oppone resistenza. Dominio su anima e corpo Gli starec da tempo immemorabile transitano per il paese di Rasputin, vagabondando per cammini la cui rotta è tracciata da Dio. Straccioni, esangui, chiedono ospitalità in cambio di racconti sui loro viaggi o di storie su monasteri lontani. Questi giramondo incantano i contadini con le narrazioni dei miracoli cui hanno presenziato e delle rivelazioni con le quali il Creatore li ha benedetti. Distribuiscono profezie in cambio di pane e la gente semplice li ascolta con devozione. Sulla fronte portano scritta la loro scelta volontaria di povertà, mentre dalla loro bocca esce la parola del Supremo e la sapienza del visionario. Nessuno resiste alle loro frasi e ai loro gesti. Rasputin vuole essere come loro, è molto attratto dall'idea di essere ascoltato in reverenziale silenzio. È stanco della routine del suo piccolo paese e dei lamenti di Praskovia; ha ventitre anni e progetti ambiziosi; sogna di viaggiare senza meta fino all'altra parte del mondo, camminare con un bastone, infagottarsi in un

sacco, mendicare lungo la via, imitare le sofferenze di Cristo, penetrare gli oscuri enigmi dei monasteri sacri, indottrinare sconosciuti, essere riverito. Non importa che sia analfabeta; se si converte in un Suo servo, se si cala nel Suo dogma, il Signore gli donerà la forza divina per sopportare i calvari che verranno, illuminerà i suoi occhi affinché sappiano vedere le ferite nascoste nelle anime sofferenti, conferirà alla sua voce il dono di placare, ai suoi gesti l'influsso della grazia, alle sue mani la capacità di benedire; in poche parole, Grigorij decide di cambiare mestiere: da contadino a prescelto da Dio. Lascia dietro di sé le proteste di suo padre, che danno il ritmo ai suoi passi fino all'uscita dal villaggio. Efim gli urla che potrà forse ingannare gli altri, ma non lui: dice che Grigorij non è null'altro che un impostore, un fannullone che preferisce vagabondare piuttosto che lavorare la terra. «Chi darà da mangiare a tua moglie?», rimbomba in tutta Pokrovskoe; ma Rasputin non ha la minima intenzione di cedere a questo vile ricatto emotivo, il suo slancio vitale è ora tutto nei piedi, e con essi inizia un cammino di quattrocento chilometri. Nel monastero di Verkhoturie conosce un saggio asceta con fama di chiaroveggente e curatore. Makarij, questo il suo nome, gli insegna a comprendere la Bibbia e a pensare al Creatore; le sue dottrine risultano talmente eloquenti che Grigorij cessa di essere la persona che era stato. Quando torna a casa, concluso il periodo di esilio, i vicini lo trovano cambiato, fuori di testa, alienato. Si fa il segno della croce e, senza motivo, passa dall'euforia all'abbattimento, balbetta, parla solo di Dio e di andarsene nuovamente. Makarij gli ha detto che il suo posto non è né nei campi né in una famiglia, il suo destino è vagabondare, condurre una vita errante; così torna sui suoi passi, di monastero in monastero, nutrendosi di pane e acqua, andando sempre più lontano... finché arriva in Grecia. Nel 1893 giunge al monte Athos, territorio sacro che ospita i monaci più ascetici e santi, un luogo emblematico per la fede ortodossa. Dopo il periodo di raccoglimento in Grecia trascorre altri tre anni visitando templi, eremiti e svariati luoghi venerati dalla Chiesa; viaggia sempre a piedi, e in questo modo si spinge fino alla Terra Santa. In estate, decide di fare una visita a Pokrovskoe per vedere la sua famiglia e mette incinta Praskovia; i frutti dei suoi intermittenti ritorni si chiamano Dmitrijj, che nasce nel 1895 con un ritardo mentale, Matrëna, nata nel 1898, e per ultima Varvara, che viene alla luce nel 1900. La dottrina appresa durante il pellegrinaggio lascia impressionati i vicini: Grigorij appare loro come un uomo trasformato, più sereno e misterioso, posseduto da un luminoso messaggio. Ogni ritorno a casa vede la sua popolarità aumentata, mentre i commenti sulle sue capacità di risanare l'anima si propagano nei villaggi limitrofi, tanto che in un raggio di molti chilometri non si parla d'altro. Stimolato dal successo, prende in affitto una casa nella cui cantina allestisce un oratorio in cui si recano tutti coloro che hanno bisogno di conforto. Grigorij li accoglie, li ascolta o li consiglia; il numero di fedeli, in maggioranza donne, aumenta di giorno in giorno. Il messaggio del guru Rasputin convince; lui, che era una pecorella smarrita, ha saputo trasformarsi in un agnello di Dio; chiunque può scorgere in lui un esempio che infonde speranza, chiunque può confidargli fino ai suoi segreti più efferati poiché, in fin dei conti, in tempi passati egli era un uomo abbietto e ora, vengano pure a vedere che metamorfosi! Grigorij si presenta loro come uomo che non si sorprende di nulla, che tutto comprende e tutto perdona. Ciò che maggiormente eccita il narcisismo di Rasputin è che

implorino da lui l'assoluzione; rubare, ferire, uccidere: questo lo può fare qualsiasi sfaccendato da quattro soldi, ma perdonare, ah!, solo i potenti godono di tale privilegio; distribuire misericordia o offrire assoluzioni è patrimonio solo dei re e dei ministri di Dio. Grigorij è molto soddisfatto della piega che ha preso la sua vita e della dottrina appresa nei luoghi di culto. Non mangia né dolci né carne, prega varie volte al giorno, segue l'esempio dei predicatori ortodossi, le forme di servitù e le esigenze richieste dalla sua rinnovata fede lo trovano disponibile, tranne che per un aspetto: non comprende perché gli starec e gli altri asceti predichino la rinuncia ai piaceri della carne e del bere. Ritiene che la cosa migliore sia combinare ciò che ha visto in occasioni diverse, fino a ottenereuna religione su misura per lui. Il monastero di Verkhoturie, il primo che aveva visitato, ospita elementi di ogni genere. Molti delinquenti colti con le mani nel sacco scelgono di recarvisi piuttosto che finire in prigione; i rigori dell'ascetismo, pensa la polizia, sono più efficaci di quelli della galera. Quando Grigorij giunge in questo luogo sacro per la prima volta, il monastero è convertito in una specie di carcere del Santo Sinodo, un autentico covo di eretici. Sono soprattutto i seguaci della setta proibita degli klysti ad aver eletto il luogo a propria dimora stabile. Immediatamente Rasputin si trova in sintonia con i loro cantici, le loro danze e le loro pratiche. Gli klysti predicano che il peccato è il trampolino verso la salvezza: secondo loro è elevata e commovente la purezza di chi si è rotolato nello sterco e proclamano che il Signore ama le sue creature solo se esse cercano la Luce dopo essere cadute nelle più profonde Oscurità. Di conseguenza, i fratelli e le sorelle klysti peccano in continuazione, e ancora peccano mentre danzano, si flagellano, si denudano e organizzano orge che li consegnano a uno stato di trance dal quale chiedono clemenza a Dio. Il dogma di questa setta, proscritta in Russia e antagonista della Chiesa ortodossa, si adegua perfettamente al temperamento e agli appetiti di Rasputin. Nell'oratorio allestito nella cantina nel suo villaggio egli adatta il rituale facendo convenire fratelli e sorelle che si scambiano affettuosità, si ubriacano, girano come trottole sempre più rapidamente, fino a entrare in uno stato di isteria vertiginosa e collettiva.8 Al vertice di questo climax giunge il momento della fornicazione, il sommo peccato che avvicinerà allo Spirito Santo. I partecipanti accolgono la salvezza baciandosi l'un l'altro, strofinandosi corpo a corpo, rotolandosi a terra mentre copulano sfrenatamente. Il giorno dopo cercano nuovamente la salvezza allo stesso modo. Praskovia, timida, non partecipa mai a questi incontri di frenesia collettiva organizzati dal marito, ma nemmeno li condanna; protegge Grigorij mantenendo il silenzio assoluto circa questa pratica religiosa contrastata dalla polizia, comprende la necessità che Grigorij la compia illegalmente e, oltretutto, riconosce al marito il dono di saper radunare un numero sempre maggiore di fratelli e sorelle disposti a peccare per poi elevarsi. Da parte sua, Grigorij le ha spiegato che i piaceri terreni sono grati al Padre Celeste, che non vi è pentimento se non vi è prima una caduta, e che Dio spinge i suoi servi all'ubriachezza, all'accoppiamento e alla danza isterica. Chi non condivide l'apprezzamento per il successo clamoroso di Rasputin è il Pope della regione, che lo denuncia. La Chiesa invia un ispettore che però non conclude nulla, in quanto tutti nel villaggio proteggono il compaesano. Libero infine dai sospetti, ma reso vigile dallo spavento,

Rasputin decide di partire e per i successivi tre anni si dedica nuovamente al vagabondaggio. Nei villaggi che tocca continua con parole ardenti l'indottrinamento delle donne che lo accolgono: «Peccate con me, sorelle mie; godete del piacere, dei vostri sensi, con me, divina incarnazione il cui semplice contatto vi purificherà».9 A Kazan conosce svariati chierici, vicari, e lo stesso vescovo, il quale rimane estremamente impressionato dalla convinzione primitiva e ferrea del nuovo arrivato, così come dal suo sguardo profondo; sebbene riconosca che un po' più di istruzione gli farebbe bene. Uno dei sacerdoti raccomanda a Rasputin di frequentare l'accademia di Teologia di San Pietroburgo, dove potrà procurarsi l'educazione che gli manca; la capitale russa, gli dice, riunisce un numero incredibile di uomini santi che lo potranno aiutare a migliorare le sue doti curative e le sue conoscenze sull'autentica religione. Rasputin non ne ha alcun dubbio: ha trentaquattro anni e ancora molto da imparare; Dio lo spinge ad assaporare lo sfarzo della grande città, a conquistarla, forte del sostegno della Chiesa. Ciò di cui ha bisogno è che le porte gli vengano aperte fin da subito, è necessario solo che il cuore del vescovo si offra al suo sguardo color acquamarina per ottenere così il lasciapassare che brama. Nella primavera del 1903 Rasputin parte diretto a San Pietroburgo; nella borsa porta una lettera di raccomandazione firmata dal vescovo nella quale si afferma che Grigorij è uno starec onesto, un vero veggente e un convinto uomo di Dio.10 L'energica tedesca e il docile Nicola Mentre nel 1894 Rasputin vagabonda in lungo e in largo in Siberia, gli abitanti della Crimea ricevono la principessa Alix con il suo bagaglio, il suo corredo da sposa e la mente affollata di illusioni. Non viaggia in un treno speciale, come sarebbe stato confacente alla futura zarina, giunge invece mimetizzata tra gli altri comuni passeggeri. Alla stazione di Simferopol l'attende il cuore spalancato di Nicola, il suo amato Nicky; appena si scorgono, corrono l'uno incontro all'altra, fondendosi nel più tenero degli abbracci: il loro è vero amore, non un'unione di convenienza. Lo zarevic ha sofferto molto per ottenere la benedizione che la sua famiglia gli negava, in quanto riteneva mediocre l'ascendenza di Alix e spiacevole l'espressione del suo volto. Nonostante ciò, l'unica cosa che Nicola desidera è porre la sua docilità nelle mani della fiera principessa tedesca. Mentre lei è alta, sicura e decisa, egli è di bassa statura, pavido e in difficoltà di fronte a minimi impedimenti. Per Nicky la principessa è il sole, la luce, il baluardo; Sunny,11 come la chiama affettuosamente, irraggia ed eclissa il suo carattere naturalmente introverso, dà vigore alle sue illusioni e accende i suoi sogni. Il destino ha fatto sì che le due metà della mela coincidessero, si completassero e tendessero alla fusione. Dopo essersi scambiati gesti affettuosi sulla banchina, lo zarevic invita Alix a salire su una carrozza diretta a palazzo. Lo Zar Alessandro III riceve la futura sposa del figlio in uniforme. Una volta scioltasi l'iniziale resistenza, ha deciso di mostrarsi generoso e di rendere omaggio in grande stile alla futura nuora. L'uomo è malato, soffre di insonnia e di continue emicranie e non si regge bene in piedi, ma anche così raccoglie le poche energie che gli restano e attende Alix fuori dal letto, in uniforme e scarpe, adornato da un'enorme quantità di medaglie e deciso a partecipare pienamente alla cerimonia di benvenuto. Tuttavia, la

fatica della vestizione lo sfianca; quando la futura sposa giunge a palazzo lo Zar è costretto a riceverla seduto su una poltrona della sua camera da letto; Alix gli si accosta e si inginocchia al suo fianco per ricevere la sua affettuosa carezza sul capo. L'accoglienza della futura sposa è gelida come il mese di novembre in cui si svolge. L'imperatrice Maria e suo figlio Nicola sono troppo preoccupati per la salute dello Zar per prestarle l'attenzione che sperava e che credeva di meritare. Alix si sente persa, abbandonata, ignorata dalla sua nuova famiglia; la consolano solo le intermittenti visite della sorella Elisabetta, sulla cui spalla piange, e a cui confessa di essere molto insoddisfatta non solo per l'emarginazione di cui è vittima, ma anche per il trattamento che gli ufficiali e i medici riservano a Nicola. Nessuno a palazzo sembra dar valore al fatto che si tratti dell'erede al trono; ogni volta che c'è una notizia, sia essa politica o concernente la salute del malato, invece che recarsi da Nicky, parlano con sua madre; se c'è qualche decisione da prendere, qualche documento urgente da firmare, ci si rivolge a Maria Fëdorovna, la quale guida la mano dell'agonizzante marito affinché lo stemma imperiale venga impresso sulla carta. Nicola è troppo timido, troppo garbato, per osare suggerire alla madre di mettersi da parte; e lei, ovviamente, considera il figlio alla stregua di un soprammobile. Alix ritiene oppressivo tale atteggiamento e si assicura che lo sposo ne sia a conoscenza. Senza esitazione afferra il diario che Nicola scrive ogni sera e lo profana tracciandovi a lettere cubitalli: Non permettere che altri usurpino la tua posizione e ti mettano da parte. Sei il figlio prediletto di tuo padre e devi essere informato di tutto e interpellato su tutto. Esprimi le tue opinioni senza tollerare che dimentichino chi sei.12 Il carattere di Alix si impone, senza maschere, fin dal principio. A pochi giorni dal suo arrivo, l'aspirante nuora fa rimbombare i propri passi forte e chiaro in un luogo che ancora non si era accorto della sua presenza; lei, che dovrebbe inchinarsi alla legge del «paese che vai, usanza che trovi», si rifiuta di trattare il Nicky del suo cuore come fanno gli altri, e ben lungi dal dimostrarsi timida e docile, è determinata a far valere la sua legge: Nicola deve essere ammirato, venerato e obbedito per varie ragioni, non ultima che in questo modo anche lei può comandare. Non parlando né russo né francese, lingua d'uso a corte, e dato che pochi lì conoscono l'inglese e nessuno il tedesco, Alix non può comunicare le idee che echeggiano nella sua mente e deve limitarsi a manifestarle a Nicola in privato. L'uomo si trova stretto tra due fuochi: non ci aveva mai pensato e si era semplicemente abituato a condurre la propria vita venendo considerato una garbata nullità, ma se è Alix a seggerirglielo, forse sarà il caso che egli faccia una mossa, anche se, a ben vedere, da dove cominciare? Intraprendere una battaglia contro sua madre significa, chiaro e semplice, andare dritti alla sconfitta in una guerra persa in partenza. Sono passati solo dieci giorni dall'arrivo della principessa a palazzo, e già il trambusto emotivo fa fibrillare l'ambiente; Alix preme, Nicky trema, Maria Fëdorovna governa e Alessandro III agonizza. L'1 novembre 1894 lo Zar muore. Alla commozione per l'improvvisa scomparsa del padre, in Nicky si aggiunge il terrore della nuova responsabilità di cui si vede investito. «Non voglio essere Zar perché non udrò mai più la verità», lo si sente gemere.13

Il giorno della sepoltura Alessandra sfila dietro il feretro avvolta in veli neri; al suo passaggio la gente mormora che la principessa sembra un «uccello del malaugurio» e che è venuta a sposarsi «dietro ad una bara».14 Alix di Hesse-Darmstadt, nipote della regina Vittoria d'Inghilterra, si era recata per la prima volta a San Pietroburgo per assistere alle nozze della sorella Elisabetta (Ella) con il Granduca Sergio, fratello minore di Alessandro III. Allora aveva dodici anni, e Nicola diciassette. Cinque anni dopo si incontrano nuovamente durante una visita che la principessa fa alla sorella. Le diciassette primavere di Alix lasciano Nicola stregato; il cuore di lei, a sua volta, è rapito dagli immacolati occhi azzurri di Nicky, dal suo innocente sorriso e dalla sua aria schiva. A poche ore dall'incontro, già sono certi che la vita abbia senso solo se vissuta l'uno accanto all'altra. Anno dopo anno confermano epistolarmente i loro sentimenti: «Io sono tua, tu sei mio, di questo puoi essere certo», scrive lei, e a ciò aggiunge in una lettera successiva: «Tu sei prigioniero nel mio cuore, la piccola chiave si è perduta e ora devi rimanere qui per sempre».15 La principessa, tuttavia, inizialmente ha un problema di carattere religioso. Sposandosi, dovrà abiurare la fede luterana e abbracciare quella ortodossa: decisione difficile dato che è una convinta praticante. Allo stesso tempo però, nelle precedenti visite a San Pietroburgo, era rimasta molto impressionata dallo sfarzo e dallo splendore delle chiese locali; il rituale ortodosso divergeva enormemente dall'austerità luterana. Alix aveva partecipato16 a una cerimonia trovandosi circondata da manti di broccato d'oro e stole di seta, nuvole d'incenso, litanie coinvolgenti e sacerdoti vestiti di nero, dall'interminabile barba e prodigiosa gola; niente a che vedere con la freddezza degli officianti tedeschi e con la nudità dei templi luterani. Alla principessa parve stupendo che in Russia il culto divino si svolgesse tra lo sfavillio delle icone e lo scintillio dei mosaici, tra litanie, Te Deum gloriosi e voci umane dal suono angelico. Considerò positivo anche l'acceso culto dei Santi, dei miracoli e degli emissari del Signore. Il cambio di religione, pertanto, oltrepassa via via l'iniziale opposizione, e una volta archiviata la questione, Alix mette la sua anima e la sua coscienza a completa disposizione della fede ortodossa. Nicola, dal canto suo, ha un problema di natura diversa. I suoi genitori ritengono che Alix sia una principessa da quattro soldi; sarà anche vero che sua nonna è la regina Vittoria d'Inghilterra, ma la giovane è nata in un modesto principato tedesco con nessuna influenza internazionale, è orfana di madre e, in generale, ben poca cosa per il futuro Zar di tutte le Russie. Ma alla fine il vero amore trionfa, e Nicky si reca in Inghilterra dove la sua fidanzata lo aspetta assieme alla nonna. Lì il promesso sposo le consegnerà i doni di fidanzamento: ha comprato per Alix un anello con una favolosa perla rosa, una collana in parure con l'anello, una spilla di diamanti e zaffiri e un bracciale da cui pende uno smeraldo gigantesco. Lo Zar Alessandro, da parte sua, invia alla sua futura nuora una creazione di Fabergé che consiste in una collana talmente lunga che, pur dopo vari giri, arriva ad Alix fino alla vita. Alla vista di doni tanto sfarzosi, la regina Vittoria esclama: «Ora, Alix, dovrai stare attenta a non inorgoglirti troppo».17 Ma Nicola nasconde un altro regalo: il giorno che si imbarca per tornare in Russia lascia cadere nelle mani delicate della sua promessa sposa un pensiero di arrivederci: una spilla di fiabeschi diamanti su cui risplende

l'iscrizione: «Nicky's Goodbye Tear».18 Questa raffinata pioggia di diamanti, insomma, rappresenta il pianto di Nicky nel dover dire addio alla fidanzata. Nonostante sia in procinto di sposarsi e di ereditare la più gran fortuna del mondo, Nicola è un uomo ostinato e immaturo. Alcune settimane prima di proclamarsi Zar, descrive nel suo diario un'allegra battaglia svoltasi con i fratelli, in cui le castagne fungono da proiettili. Le pagine del suo diario sono disseminate di aneddoti puerili come chi li narra; uno dei suoi biografi lo dipinge così: È il diario - si sarebbe tentati di dire il diario poco divertente - di una nullità, di un uomo evidentemente immaturo e dagli interessi chiaramente insignificanti. Due righe sulle sue udienze ufficiali (...) e montagne di parole dedicate a frivolezze, banalità su banalità; le annotazioni si dilungano in un susseguirsi di osservazioni quotidiane sul tempo, messe in relazione con attività all'aperto: portare a spasso i cani, raccogliere funghi, andare a caccia, andare in bicicletta, in barca o pattinare, e con i fatti più insignificanti della vita domestica. Gli eventi di rilievo e le questioni importanti del giorno sono annotati brevemente con noncuranza, o non vengono nemmeno menzionati.19 Il padre è consapevole della pochezza dello zarevic, ma una volta impartita la necessaria educazione, non resta molto da fare. Alcuni mesi prima che Alix prepari i bagagli per raggiungere la Crimea, Alessandro III viene intercettato dal suo ministro delle finanze, il quale, sapendo delle prossime nozze di Nicky, propone di nominarlo presidente della Commissione per la Costruzione della Transiberiana. Alessandro III fissa il suo ministro: «Per caso lei conosce lo zarevic?», chiede attonito. «Come potrei non conoscerlo, Maestà?», replica l'altro. «Ha provato qualche volta a parlare con lui di qualcosa di rilevante?», insiste lo Zar. «Non ne ho ancora avuto il piacere», risponde il ministro. «Bene, quindi: sappia che lo zarevic è un fanciullo e le sue idee sono estremamente puerili. Come potrebbe mai presiedere un comitato di tale importanza?»20, conclude il padre del futuro Zar. Il punto è che molti sudditi condividono la sua opinione: un testimone dell'epoca, che conosce Nicky pochi giorni prima che salga al trono, scrive che «si perde tra la gente; è difficile scorgere questo minuto ussaro21, di aspetto sano ma, in linea generale, insignificante».22 L'inaspettata morte di Alessandro III a quarantanove anni spinge Nicola a decidere di accelerare le nozze. In un momento di così grande dolore, di tanta debolezza, il nuovo Zar desidera dormire e fare l'alba insieme alla persona che più di ogni altra sa donargli fiducia in se stesso. Il 26 novembre, pochi giorni dopo i funerali del padre, Nicola approfitta del compleanno della madre e del fatto che il protocollo permetta di interrompere il lutto. Le nozze vengono celebrate quello stesso giorno, e la sposa cambia il suo nome per quello russo di Alessandra Fëdorovna. La neosposa ha ventidue anni, per la suocera è ancora una mocciosa, e lo stesso vale per la maggioranza dei suoi nuovi sudditi. Naturalmente si fa a meno di banchetto, festa e viaggio di nozze. Ma a loro non interessa, dopo la prima notte insieme Alix scrive nel diario del marito: Finalmente uniti, uniti per tutta la vita, e al termine di questa vita, ci incontreremo nuovamente nell'altra e continueremo a stare uniti per l'eternità. Tua, tua.23 La coppia si prodiga passione, sprizza tenerezza e allegria, entrambi deplorano il tempo che gli obblighi sottraggono al loro stare insieme.

L'amore tra Nicola e Alessandra continuerà nel tempo, nonostante tutte le avversità e le sofferenze che il destino riserverà loro. La loro è una storia di autentica devozione coniugale. Due cobra nella stessa cesta A causa delle nozze anticipate, quella che sarà la residenza ufficiale della coppia non è ancora pronta, per cui i neosposi prendono alloggio in una delle abitazioni del palazzo di Aniãkov, dove dimora Maria Fëdorovna, l'Imperatrice vedova. Come spesso è accaduto nella storia dell'umanità, dividere la propria casa con la suocera raramente si rivela una buona idea: il malanimo che fin dal principio era corso tra Alix e Maria si tramuta ora in un tornado di odio. Maria è dominatrice almeno quanto la nuora, e può contare su più anni, più esperienza e sulla padronanza della lingua. Finché la nuora vivrà sotto il suo stesso tetto dovrà sottomettersi alla sua autorità, che non è poca. Alessandra, da parte sua, è una ragazzina con sufficiente fegato da affrontare quel ciclope che ha per suocera. L'unica difficoltà è che sta ancora imparando il russo, il che le impedisce il reclutamento di alleate tra le sue dame, che l'inglese lo farfugliano soltanto, ignorano il tedesco e per di più adorano la nemica. «Riesco appena a rendermi conto che sono sposata» scrive amaramente alla sorella. «Vivendo in questa casa estranea ho la sensazione di essere sempre in visita».24 Uno dei conflitti più vibranti si produce durante la messa. La liturgia ortodossa vuole che il nome dello Zar venga accompagnato da quello della zarina durante le petizioni dei fedeli, quando chiedono la salute per i loro sovrani, ma Maria riesce a ottenere che accanto al nome di Nicola si pronunci il suo e si elimini quello di Alessandra. La nuora esplode e denuncia l'affronto al ministro del Santo Sinodo, una specie di alto funzionario religioso in Russia; dopo svariate deliberazioni il ministro impone a Maria di cedere il posto ad Alessandra, cosa che lei fa controvoglia e con malcelato rancore. La sua vendetta non si farà attendere. Il protocollo russo conferisce all'Imperatrice vedova un ruolo predominante, addirittura superiore a quello della zarina in carica; fino a quel momento tutte le precedenti vedove avevano scelto di ritirarsi discretamente dalla scena, ma Maria non ha alcuna intenzione di fare altrettanto. Si sente giovane, bella e forte, perché mai dovrebbe rinchiudersi nel lutto e confinarsi in casa? Non vuole rinunciare all'utilizzo e al godimento della legge che la tutela, e comincia a comparire al braccio di Nicola nelle occasioni pubbliche, a ricevere, stando in prima fila, l'esaltazione e le acclamazioni dei sudditi, a offrire balli e ricevimenti... Maria fa in modo che Alessandra appaia come un fastidioso brusio di fondo e che cammini in seconda fila al braccio del principe Mihajl, fratello minore di Nicola, che a quel tempo è ancora adolescente. Ciò che all'Imperatrice sembra del tutto normale, viene accolto da Alessandra come una dichiarazione di guerra. Sebbene lo cerchi in ogni modo, la nuova zarina non può contare sull'appoggio di Nicky, il quale, sottomesso, obbediente e mosso a compassione dalla recente vedovanza della madre, le dimostra tutta la sua fedeltà e affetto filiale facendole compagnia durante i pasti e prolungando le conversazioni a tavola il più possibile; è un figlio modello che lotta per evitare a Maria la sofferenza della solitudine. A tavola Maria si rivolge deliberatamente a Nicola in russo, lingua che Alessandra a mala pena balbetta; madre e figlio si dilungano in

interminabili conversazioni mentre Alix rimane seduta in silenzio, isolata e risentita. Nicola, che non è abituato a essere il gallo tra tante galline, cede di fronte alla pressione della padrona del pollaio. Annoiata, sola, tagliata fuori da ciò che la circonda, Alix deve accontentarsi di aspettare nelle sue stanze i pochi momenti che Nicola può dedicarle. Maria Fëdorovna cerca di tirare a sé suo figlio almeno quanto lei suo marito: le due donne rivaleggiano per un uomo che si allunga come un elastico e fa ciò che può per ridimensionare il covo di gelosie e tradimenti in cui si è tramutata la sua casa. Il conflitto più aspro si scatena a proposito di alcuni gioielli appartenenti alla Corona da cui Maria non è disposta a separarsi. Il protocollo prevede che i preziosi debbano passare all'Imperatrice in carica e che sia lei a doverli esibire nelle occasioni ufficiali, ma Maria non ha la benché minima intenzione di consegnarle alla nuora; a lei stanno benissimo, e oltretutto ne ha bisogno per farle brillare quando si presenta al braccio del figlio. Affinché Alessandra non si presenti a tali eventi con collo e lobi disadorni, Maria le concede alcuni gioielli che erano appartenuti a Caterina la Grande, di dubbio gusto e totalmente fuori moda. Nell'intimità della sua stanza Alix scoppia e spinge Nicky a intervenire immediatamente nella questione; egli inizialmente tenta di resistere, temendo di rimanere scottato nella guerra tra queste due leonesse che ruggiscono nel mezzo dell'arena della sua introversa esistenza, finché, prendendo il coraggio a due mani, si reca nelle stanze della madre per richiedere i preziosi oggetti, pietra dello scandalo. Come previsto, riceve un sonoro «no» come risposta e lascia la stanza con l'autostima piuttosto provata, oltre che senza l'animo di affrontare la seconda metà del problema, cioè la reazione di Alessandra. Una volta a conoscenza delle novità, Alix si tramuta in un vulcano in piena eruzione e dichiara che se i gioielli non le vengono consegnati immediatamente, non li porterà mai più, in nessun caso, in nessuna occasione pubblica, qualunque cosa il protocollo esiga. Il marito dispera e tenta di far sì che la madre ammorbidisca la propria posizione, ma Maria gli chiede gridando perché mai dovrebbe consegnarli a una nuova arrivata che nemmeno sa parlare in russo. La servitù inizia a mormorare, le chiacchiere sulle liti tra le due donne movimentano corridoi e cucine, il dissidio familiare è tracimato ed è vicino a convertirsi in pubblico scandalo. Nicola implora sua madre ancora una volta, e un'altra ancora, finché la vedova capitola e consegna le splendenti gioie della Corona a una Alix che, inebriata di trionfo, rende alla suocera quelle di Caterina la Grande. I rapporti tra suocera e nuora vengono così minati per sempre. La corte e la buona società russa appoggiano la vecchia zarina e disprezzano Alessandra senza farne mistero: chi mai si crede di essere «questa tedesca»? Sposandosi, Alix si era immaginata un futuro costellato di ricevimenti e balli, visite a musei e ospedali, inaugurazioni di centri culturali, viaggi in panfilo, diamanti, crociere sulle fredde acque delle coste finlandesi, migliaia di sudditi da stregare. Invece non aveva avuto molte occasioni per imparare ad abituare il suo severo temperamento al nuovo incarico; di certo non avrebbe mai immaginato che si sarebbe trovata a dover affrontare quella belva di sua suocera e, come se non bastasse, scoprire quanto la infastidisca il contatto con la gente. Nel suo piccolo principato tedesco, nelle sue modeste vacanze estive, nessuno le prestava particolare attenzione e di fronte a nessuno era costretta a fingersi bendisposta; solo ora si rende conto di quanto la irriti attrarre migliaia di sguardi, essere esaminata da migliaia di

giudici e oggetto di un profluvio di commenti. La vita pubblica non è decisamente il suo forte e vorrebbe fuggire a gambe levate dall'alta società; ciononostante comprende che il suo atteggiamento non farà che aumentare l'avversione verso di lei, così decide di accompagnare il marito a tutte le cerimonie ufficiali, ricevimenti e balli, e tenta addirittura di ostentare gioia, sebbene non riesca a nascondere che in realtà sta contando le ore che la separano dalla fine della tortura. D'altra parte, i conflitti con l'Imperatrice vedova impongono un urgente cambio di residenza. La coppia si trasferisce al Palazzo d'Inverno, il più lussuoso d'Europa, così grande che in due delle sue stanze scoprono essersi stabilita un'intera famiglia di clandestini, il cui patriarca è un componente della servitù. Il furbo individuo ha portato con sé non solo la sua famiglia al completo, ma anche svariati cani e una capra che li rifornisce di buon latte. L'occupazione viene interrotta quando Nicola e Alessandra si trasferiscono lì. Il palazzo dà lavoro a seimila dipendenti: i russi sono sempre stati propensi all'eccesso. L'aristocrazia vi sfoggia i propri impagabili gioielli e i propri incorreggibili passatempi; le avventure sessuali non vengono celate, la passione per lo spiritismo è in auge, l'omosessualità è considerata un diletto, i pettegolezzi volano senza posa... Alessandra, oriunda di un luogo provinciale e tranquillo, detesta la perversa vacuità delle dame: «La maggior parte delle fanciulle russe ha la testa vuota e non pensa ad altro che agli ufficiali»25, scrive a un'amica. Sogna di cambiare queste abitudini malsane e adattarle meglio al suo gusto. Propone di organizzare un laboratorio in cui le signore dell'alta società abbandonino la propria passione per i pettegolezzi e la convoglino su opere che possano essere d'aiuto ai poveri. Disgraziatamente le dame di San Pietroburgo preferiscono dedicarsi a questioni meno sgradevoli. Profondamente delusa, la zarina si limita a rifugiarsi al fianco del marito. La rottura tra lei e i circoli dell'alta società è una ferita che continua a sanguinare: alle feste è tradizione che la coppia imperiale apra le danze con una polacca, ma Alessandra detesta ballare e invece di muoversi al suono della musica, passeggia a braccetto con Nicola da una stanza all'altra, inclinando lievemente la testa agli invitati che incrocia, sguardo freddo e bocca serrata. Nella sfilata di saluto che apre il ricevimento, la zarina si erge seria e silenziosa, la sua mano ciondola mollemente in attesa di essere baciata; di tanto in tanto alza lo sguardo per capire quante persone mancano alla fine della processione, senza dissimulare quanto le risulti fastidioso doversi trattenere. I presenti sono divisi tra opinioni contrastanti: alcuni la ritengono timida, altri antipatica, altri ancora prostrata dalla nostalgia di casa. Costei, da parte sua, presta estrema attenzione ai propri gesti per non incorrere in alcun errore: vana speranza! Uno degli habitué delle feste date dalla coppia imperiale scrive: Balla male, senza preoccuparsi minimamente di correggersi, e di certo è una conversatrice disastrosa. (...) Ha le braccia rosse, le spalle rosse e un viso rosso che dichiara che tra poco si metterà a piangere. (...) Tutto in lei è ieratico. Dal broccato d'oro che sceglie per vestirsi, così tipico di lei, ai brillanti che accecano sparsi su tutto il corpo, sono un attentato al buongusto e al buonsenso.26 L'aristocrazia l'accusa di essere goffa, provinciale e arrogante. Tutto ciò pone la zarina in una situazione limite; vorrebbe essere gradevole, chiacchierare, ma non riesce a oltrepassare il muro che l'aristocrazia le erige di fronte. Così rimane in silenzio, senza nemmeno più sorridere,

alimentando una sempre crescente distanza con i sudditi e aggravando un'inarrestabile fama di alterigia e superbia. Incapace di contrastare il giudizio di chi la circonda, Alessandra decide di aggrapparvisi: se le danno dell'arrogante, lo sarà più di chiunque altro, cosicché a una festa, alla vista di una sfacciata scollatura esibita da una boriosa signora, invia una delle sue accompagnatrici con il seguente messaggio: «Sua Maestà mi ordina di dirle che a Hesse-Darmstadt le vere signore non si vestono così». «Davvero?», replica la donna tirando la stoffa e esibendo ancor più i suoi voluminosi pettorali. «Vi prego di informare Sua Maestà che noi dame, in Russia, sì che portiamo questi vestiti».27 In ogni ballo e in ogni ricevimento la zarina si sente perseguitata, criticata, maltrattata, emarginata. L'ombra della suocera è costantemente sospesa sulla sua testa, tutti fanno confronti tra loro: mentre lei non riesce a guadagnarsi la simpatia del popolo, Maria fa l'impossibile per risultare irresistibilmente accattivante. I contrasti tra le due oltrepassano il circolo della corte. In un'occasione in cui la coppia viaggia in treno diretta in Crimea, dove si reca a trascorrere una breve vacanza, Alessandra, incinta, chiede a Nicola di sospendere tutti i ricevimenti pubblici. Giunto a destinazione, il treno è accolto da una folla; il popolo eccitato si è messo il vestito della domenica ed è rimasto in piedi tutta la notte per poter rubare almeno un'immagine, per quanto breve, della famiglia imperiale. Alessandra è furiosa: proprio nessuno in Russia obbedisce quindi agli ordini dello Zar? Le sono del tutto indifferenti le fatiche o le illusioni dei contadini, non ha intenzione di scendere dal treno. Nicola volta le spalle alla furia della moglie e si affaccia al finestrino; il popolo smanioso esplode giubilante mentre la zarina rimane chiusa dentro con le tendine tirate. Quando la voce giunge a Maria, questa dà in escandescenze, e scrive che se non ci fosse Alix, Nicky sarebbe mille volte più popolare. «È solo una mediocre tedesca. Crede che la famiglia imperiale sia al di sopra di questo genere di cose [verso i sudditi]».28 Imperterrita, Alessandra mantiene il proprio atteggiamento; una delle dame di corte scrive alla regine Vittoria: «Alix è molto prepotente, vuole sempre avere la meglio; non è mai disposta a cedere un granello del potere che presume di detenere».29 Miope, del tutto avulsa dalla realtà, Alessandra incolpa i russi e non capisce perché le riservino tanta indifferenza e tanto odio. Nicola, che si sente in obbligo di corrispondere l'adorazione che il suo popolo gli manifesta, non sa cosa fare perchè la moglie comprenda. Ogni giorno che passa, l'abisso tra gli Zar e i sudditi è più profondo; ogni errore di Alessandra dà il via a un diluvio di critiche e insulti. Per lei il Palazzo d'Inverno si è trasformato in un campo minato. Vuole trasferirsi in un luogo più piccolo e appartato, di proporzioni più a misura d'uomo rispetto a quelle dell'edificio di San Pietroburgo. Il luogo eletto è il palazzo di Tsarskoie Selo, a pochi chilometri dalla capitale. La zarina si incarica personalmente della sua decorazione e sistemazione. Questo sarà il focolare domestico suo e della sua famiglia, il suo rifugio. Finalmente può far convergere su se stessa il tempo e le energie di Nicky, lontani dalla corte, dai pettegolezzi e dalle critiche. A Tsarskoie Selo Nicola sostituisce la sottomissione alla madre con quella alla moglie. Alessandra lo domina, e tira perfettamente le redini del suo carattere naturalmente influenzabile. Trasmette al marito l'idea che sia stato Dio a collocarlo sul trono, e che pertanto è nelle mani di Dio che si trovano le decisioni politiche che Nicola prenderà o meno. Nicola, che è un uomo religioso, rimane perplesso di fronte alla voragine

mistica da cui è inghiottita sua moglie. Alessandra decide che sarà lei, e solo lei, colei che aiuterà il marito a sostenere il peso dei propri doveri. Sospettosa della cattiva influenza dei consiglieri, allontana da Nicky tutto ciò che, secondo la sua opinione, sta turbando il carattere del marito e la pace del suo matrimonio. Dato che l'alta società la disdegna, decide di trasferire la sua influenza in campo politico, concentrando tutte le sue energie nell'assistere il marito; ritiene che le sue personali capacità nel terreno della politica siano infinitamente superiori a quelle del marito, che è troppo buono e timido per affrontare quel branco di lupi che ha per sudditi. La reazione non si fa attendere. Il tutore e braccio destro dello Zar, lamentandosi della nefasta influenza di Alessandra su Nicola, afferma pubblicamente che l'Imperatrice non capisce nulla della Russia e dei russi, sebbene sia convinta di sapere tutto; in particolare è ossessionata dall'idea che l'Imperatore non si imponga con sufficiente energia e che non riceva ciò ch'ella ritiene dovrebbe ricevere: «Alessandra è più diotica di Pietro il Grande, e forse altrettanto crudele di Ivan il Terribile. Ha una mente piccola che crede di contenere una grande intelligenza».30 Incoronazione maledetta Nel maggio del 1896, un anno e mezzo dopo il matrimonio, si provvede a ottemperare alle formalità che renderanno legale la successione al trono, momento in cui Nicola e Alessandra verranno proclamati Imperatori di Russia; granduchi di Smolensk, Lituania, Volinia, Podolia e Finlandia; principi di Estonia, Bulgaria, Juguria, eccetera. I nuovi Imperatori russi saranno di gran lunga i più ricchi d'Europa, padroni dei palazzi d'Inverno a San Pietroburgo - residenza ufficiale - oltre a due a Tsarskoie Selo, tre a Peterhof, due in Crimea e il Cremino a Mosca. A queste residenze si sommano altri cinque palazzi disseminati nel paese, più varie palazzine di caccia in Finlandia, proprietà in Polonia, quattro panfili privati e due treni imperiali. In Russia, gli Imperatori e alcuni membri dell'aristocrazia sono praticamente padroni di tutto: al resto della popolazione rimane solo qualche briciola. L'incoronazione sarà celebrata a Mosca. Edifici e strade si addobbano di bianco, blu e rosso, i colori della bandiera; in ogni luogo, in ogni angolo, campeggiano le iniziali dei nuovi Zar. Dato che l'incoronazione ha in sé anche un elemento religioso, viene scelta Mosca piuttosto che San Pietroburgo poiché lì risiede la maggior congregazione di fedeli, oltre a essere la sede per antonomasia della religione ortodossa; lì, «quaranta volte quaranta» chiese elevano le loro cupole al cielo. San Pietroburgo, invece, è considerata la «artificiosa capitale occidentalizzata inventata da Pietro il Grande»31, pertanto risulta non adatta al solenne avvenimento. La tradizione la fa da padrona. Sono passati trent'anni da quando Alessandro III è stato incoronato, la città ribolle di visitatori e curiosi, tanto russi quanto stranieri, tutto è allegria e giubilo, campane a festa e ovazioni. Siberiani, caucasici, tartari, turchi e persiani si uniscono nei festeggiamenti in onore dello Zar, che chiamano «padre». Alessandra indossa un sontuoso vestito rosso broccato d'argento, decorato con pietre preziose e perle; lei e Nicola hanno trascorso giorni interi provando il momento in cui lo Zar consegnerà il mantello e la splendida corona a una zarina genuflessa ai suoi piedi.

Ambasciatori, ufficiali, membri della famiglia imperiale, tutta la nobiltà russa e straniera contemplano in piedi e in silenzio Alessandra e Nicola che avanzano a braccetto in mezzo a un nutrito gruppo di sacerdoti vestiti d'oro e con mitre di diamanti. Maria Fëdorovna inclina il capo quando la coppia si sofferma di fronte a lei. La cattedrale dell'Annunciazione, teatro della cerimonia, risplende alla luce delle candele, che illuminano mosaici, pietre preziose e cantici divini: Nicola si siede sul trono adamantino dello Zar Alessio, del secolo XVII, adornato di pesanti incrostazioni di perle e pietre preziose. Deve il nome a ottocentosessanta diamanti. Un solo bracciolo contiene ottantacinque diamanti, centoquarantaquattro rubini e centoventinove perle. Alessandra si siede accanto al marito nel celebre trono d'avorio, portato in Russia da Bisanzio nel 1472 da Ivan il Grande per la sua promessa sposa bizantina Sofia Paleologo.32 Alla cerimonia seguono cinque ore di celebrazioni. Lo Zar, come da tradizione, si incorona da sé e in seguito colloca sul capo dell'Imperatrice la corona imperiale creata nel 1762 per Caterina la Grande, dal peso di quattro chili, dominata da una croce di diamanti e da un enorme rubino. Nicola è già stato investito Imperatore e unto con l'olio consacrato quando, alzandosi dal trono, il fastoso collare dell'Ordine di Sant'Andrea gli scivola dalle spalle e si abbatte al suolo. I presenti trattengono il fiato: è un presagio della più nera delle sciagure. Il ricevimento notturno per settemila invitati riunisce la nobiltà, gli ufficiali, i ministri stranieri e i diplomatici con esponenti del popolo (riuniti in una sala a parte) discendenti di coloro che, nel passato, avevano contribuito a salvare la vita a qualche Zar. Si ha una particolare considerazione verso i discendenti di un antico membro della servitù, Ivan Susanin, che aveva sopportato la tortura senza rivelare il nascondiglio del primo Romanov; fatto che aveva ispirato al compositore Glinka la prima opera nazionalista russa, intitolata Una vita per lo Zar. Su ogni tavolo del banchetto vi è a disposizione una pergamena con il menu: borscht33, zuppa al pepe, rotolo di carne, pesce al forno, agnello arrosto, fagiano in salsa al cioccolato, insalata, asparagi (squisitezza importata dalla Spagna), frutta al vino e vari gusti di gelati.34 Alessandra e Nicola cenano soli, separati dagli altri, in un piccolo tavolo collocato sotto un pesante baldacchino; alcuni russi privilegiati possono ammirare la coppia da un'apposita finestrella; di tanto in tanto gli Zar inclinano il capo in segno di rispettoso saluto a tali insigni spettatori. Segue uno sfarzoso ballo. Alessandra sfoggia gioielli e un diadema appositamente disegnato per l'occasione. In seguito, entrambi escono sul balcone, dove l'intera Mosca li sta aspettando per esplodere in un clamoroso giubilo. Nulla lascia presagire la tragedia che si avvicina. Il giorno successivo appartiene al popolo di Mosca. Si celebra una festa all'aria aperta nel prato di Khodynka, unico luogo con spazio sufficiente per le cinquecentomila persone che lo occupano sin dalle prime ore del mattino. Si tratta di una pianura attraversata da trincee e terrapieni che la guarnizione moscovita usa per le proprie esercitazioni; molti dei presenti hanno passato la notte in cammino per raggiungere il luogo, e molti vi arrivano ubriachi. Appaiono i primi carriaggi che offrono birra: si diffonde la voce che non ve ne sarà per tutti e che solo i primi potranno bere. La folla inizia a muoversi in modo incontrollato, l'unico squadrone di cosacchi presente non è in grado di contenere la piena, la

gente si spintona, si fa strada verso la fonte di alcol a calci e gomitate, la maggioranza avanza barcollando a causa del terreno accidentato. Il disastro è servito, facce calpestate, ossa rotte, botte, dolore, sangue e fango. Quando infine compare la polizia, duemila vittime e centinaia di feriti ricoprono un suolo che avrebbe dovuto ospitare una festa. La prima reazione del nuovo Zar è quella di raccogliersi in preghiera, invece che recarsi immediatamente sul luogo a condividere il dolore del suo popolo. Ma l'errore più grave viene compiuto durante notte. È previsto un ballo in onore dell'Imperatore all'ambasciata di Francia; sebbene Nicola ritenga giusto sospenderlo, il suo cuore pavido cede alle pressioni degli zii, che reputano opportuno voltare le spalle alla tragedia. La coppia reale crede di risarcire le vittime visitandole in ospedale e consegnando ad ogni famiglia un indennizzo di mille rubli di tasca propria. Naturalmente la decisione è vissuta come un insulto; si dice che «lo Zar e la sua sposa abbiano danzato sui cadaveri del loro popolo». L'intera Russia considera ciò che è avvenuto un presagio maligno, e i più subdoli sfruttano il massacro facendone il manifesto dell'autoritarismo di un sistema che non riconosce i diritti dei cittadini e di uno Zar che presenzia con la moglie a una festa in suo onore, disinteressandosi totalmente dell'ingiusta sofferenza del suo popolo. Spasmodica ricerca di un erede La vita privata della coppia è felice. Nicky e Sunny conducono una vita coniugale estremamente armoniosa: la loro esistenza sarebbe stata davvero felice se solo Nicola avesse avuto la sorte di essere un disoccupato gentiluomo inglese di campagna invece che lo Zar di Russia. Egli stesso ripeteva mille volte che la sua natura era quella di andare a caccia, giocare a carte, essere un amorevole marito e padre di famiglia e vivere senza preoccupazioni nella campagna inglese. Scherzi del destino. La coppia ha già dato alla luce Olga, Tatiana, Maria e Anastasia, quattro figlie di superba bellezza ma impossibilitate a sedere sul trono che Nicola lascerà libero alla sua morte. La storia russa aveva conosciuto governi di imperatrici, tra cui Caterina I (moglie di Pietro il Grande), Elisabetta, Anna Ivanovna e la magnifica Caterina la Grande; ma i conflitti che quest'ultima mantenne con il figlio Paolo I, a cui letteralmente avvelenò la vita, fecero in modo che la prima legge promulgata da Paolo fosse quella che mise fine alle possibilità di una donna di tornare a governare il popolo russo. Per questa ragione, durante ogni gravidanza Nicola e Alessandra sperano profondamente nel maschio che permetterà la continuità di sangue al trono; in caso contrario il diritto di discendenza passerebbe al fratello Michele e ai suoi figli. Nel giorno della nascita della granduchessa Maria, per esempio, lo Zar esce a scarpinare avanti e indietro per il giardino nel tentativo di placare l'incommensurabile delusione che sconvolge la sua tranquilla tempra: teme di non riuscire a regalare nemmeno un sorriso alla moglie che ha appena partorito. Dopo Anastasia, la quarta delle figlie, Alessandra inizia a essere ossessionata dall'idea di concepire un maschio. I testimoni la descrivono tesa ed esasperata, si sfrega continuamente le mani, stringe i denti, suda, respira in modo affannoso, usa parole aspre... La nevrastenia inizia a intaccare il suo spirito e a sgretolare il suo equilibrio.

La nevrastenia, o nervosismo, è frutto di un esaurimento del sistema nervoso o di una stanchezza cerebrale che, alla lunga, finisce col debilitare l'organismo e inaridire il comportamento. Altera il sistema psicologico, fisico e emotivo di chi ne soffre. La persona nevrastenica manifesta ansietà, ossessiva preoccupazione, fobie, irritabilità, malumore, ipersensibilità alla temperatura esterna e alle emozioni, emicranie, insonnia, dolori alla schiena, tachicardia, disturbi digestivi e mancanza di concentrazione. Di frequente la persona nevrastenica presenta stanchezza selettiva di fronte alle occupazioni che le risultano sgradevoli, come le apparizioni pubbliche nel caso di Alessandra, la quale si ritira sempre più nel suo privato rifugio; tuttavia è perfettamente in grado di impegnarsi senza stanchezza in sforzi maggiori, se di diverso genere. Le emozioni le provocano una grande ansietà e, a sua volta, questa si esprime in ossessioni in cui la fantasia si esalta, tendendo al tutto o al niente. La zarina diffida del prossimo, crede che nessuno la comprenda né l'aiuti, nemmeno lo stesso Nicola; è convinta che suo marito non ce la farebbe senza il suo aiuto. In generale, vive dominata dalla sensazione di essere sempre al limite delle proprie forze. Irritabile e pessimista, spesso tende alla malinconia o alla severità. Chi è vicino ad Alessandra in genere commenta che è «isterica», essendo questo il termine popolare con cui si designa la nevrastenia. La sua cameriera personale, per esempio, ricorda così l'Imperatrice: Ho l'impressione che l'Imperatrice sia stata malata negli ultimi anni della sua vita. Non so quale fosse la causa della condizione isterica dell'Imperatrice. (...) Il dottor Grotte riscontrò sintomi di malessere nervoso, per il quale prescrisse una cura totalmente diversa da quella che stava seguendo. In seguito, il dottor Fisher riscontrò la stessa cosa. Presentò all'Imperatore un rapporto segreto... Fisher... insistette che il trattamento non era per il cuore, che aveva trovato in buone condizioni, ma per il suo sistema nervoso. In qualche modo l'Imperatrice seppe del rapporto e Fisher fu immediatamente licenziato e rimpiazzato da Botkin, che venne, su sua esplicita richiesta, nominato suo medico... Osservandola quotidianamente, come avevo occasione di fare, ho sempre trovato sorprendente una cosa: quando si trovava tra persone a lei congeniali stava sempre benissimo e non si lamentava mai del cuore, ma nel momento in cui qualcosa le risultava sgradito iniziavano le lamentele. Credendo che il suo cuore fosse malato, passava la maggior parte del giorno sprofondata nel suo sofà.36 Come meccanismo di difesa, tali pazienti si aggrappano a qualunque oggetto, persona o pratica che li metta in contatto a un Essere Superiore che indichi il cammino da seguire, fornisca soluzioni e offra protezione; è loro del tutto indifferente quanto la via seguita possa sembrare assurda agli altri. Le tendenze sono diverse, e, tra le altre, possono cadere in abitudini di tipo esoterico, che portano all'uso di talismani, icone, candele, amuleti o giochi di carte che favoriscano il contatto con l'aldilà: un autentico brodo di coltura per veggenti, stregoni e ciarlatani di ogni risma. In alcune occasioni, i nevrotici alleviano la propria angustia attraverso l'estasi mistica e l'esasperata ricerca di beatitudine; unicamente pregando riescono a «uscire da se stessi» e deporre dubbi e problemi nelle mani del Creatore che tutto può. Così raggiungono la pace di cui hanno bisogno. Le persone che le circondano giudicano questi soggetti alterati e li tacciano di fanatismo; per fare un esempio, Nicola riceve la lettera di un parente che gli consiglia di

allontanare la sua «adorata ma confusa moglie dalle influenze che si esercitano su di lei».37 Ma lo Zar, sebbene perplesso dalla condotta della zarina, preferisce portare all'esasperazione la nazione piuttosto che contraddire la moglie. Alessandra, come molti che soffrono dello stesso disturbo, non si sente tranquilla lontano dagli oggetti che le infondono sicurezza (rosari, templi, icone...) né tantomeno può sopportare la distanza fisica da colui che le offre conforto e soluzioni; si aggrappa a questo individuo in modo frenetico, investendolo del ruolo di protettore che l'assicura contro tutti i mali e soddisfa le necessità della sua anima. Vedremo più avanti come la figura di Rasputin corrisponda alla perfezione a ciò che Alessandra cerca; riesce come nessun altro a placare l'angoscia della zarina, soggiogandola e incantandola. Costei, da parte sua, cade immediatamente nelle reti di questo oscuro individuo, ponendo nelle sue mani un potere inaudito, e lasciando scritto che la sua anima trova pace solo quando lui, suo salvatore, si siede accanto a lei, che senza di lui soffre, che sente la sua mancanza. In questo periodo sono diventati di moda tra l'aristocrazia russa gli intrattenimenti esoterici e i passatempi spiritisti. Nuotando in un mare di abbondanza e vacuità, i ricchi trovano divertente conversare con i morti. Sebbene per diverse motivazioni, anche la zarina è diventata piuttosto incline al mondo dell'aldilà, con un'ingenua e fanatica commistione di superstizione, misticismo e oscurantismo religioso. Dopo aver convinto Nicola che l'intervento di stregoni e taumaturghi potrebbe essere d'aiuto al fine di concepire il tanto desiderato maschio, lo Zar non solo non oppone resistenza, ma si lancia con lei in questa avventura. Presto inizia a circolare a palazzo una nutrita schiera di esseri dai presunti poteri miracolosi e che vanta rapporti diretti con Dio. La maggioranza di questi mistici è composta da ingegnosi ciarlatani capaci di soddisfare le speranze imperiali; iniziato il XX secolo, con l'Europa al centro di un vorticoso progresso scientifico e industriale, lo Zar e la zarina di Russia vivono nella convinzione che la stregoneria sia la loro risposta; cosicché danno il benvenuto a chiunque si attribuisca la capacità di introdurre per magici percorsi il seme di un maschietto nel grembo dell'Imperatrice. Una di queste persone è una contadina lievemente ritardata che trascorre intere giornate a palazzo predicendo che a breve la zarina concepirà un figlio secondo i suoi desideri. Un'altra donna, che risponde al nome di Olga, si esibisce in attacchi epilettici di fronte agli Zar inorriditi, che sopportano la mostruosa funzione come meglio possono, giacché alla fine la donna comunicherà se ha visualizzato o meno il bambino nel ventre dell'imperatrice. Un terzo campione è rappresentato da un contadino sordomuto di nome Koljaba, che sostiene di parlare con Dio e che ogni due per tre se ne va in trance. Oltre che sordomuto, l'uomo è paralizzato e, al posto delle braccia, ha due moncherini che agita in aria ogni volta che si separa da questo mondo: accompagna i suoi movimenti con ululati raccapriccianti e disgustosi sputi. Uno dei presenti, che aiutano gli Zar in tale rivoltante rivelazione mistica, scriverà più tardi che «c'era bisogno di nervi estremamente saldi per sopportare la presenza di quell'imbecille».38 La disperata ricerca di un figlio maschio porta Alessandra a diventare amica di due donne dell'alta società molto inserite nel mondo dell'occultismo. Le granduchesse Militza e Anastasia, figlie del re del Montenegro, conosciute come le principesse montenegrine, sono dame di

spicco in società, e nelle loro case si praticano quotidiane sedute spiritiche. Entrambe assicurano che colui che può risolvere il problema vive in Francia e risponde al nome di Philippe Nazier-Vachot: è un individuo che ha poteri impressionanti, conoscenze illimitate e capacità di riuscire laddove nessun altro può. Nel 1901 la coppia imperiale naviga verso la Francia; non appena mettono piede sulla terraferma chiedono all'addetto militare dell'ambasciata di metterli in contatto con Philippe. L'uomo è un macellaio di Lione che era stato arrestato tre volte per esercizio illegale della professione medica, e al momento del loro incontro si guadagna la vita come ipnotizzatore per mestiere e profeta per passione. «Quasi del tutto incolto, [Philippe] ha assimilato male un certo numero di opere di divulgazione di cui cita alcuni passi con una qualche opportunità e discrezione»39, secondo quanto rifertito agli Zar dall'addetto militare. Lo Zar e la zarina ignorano gli avvertimenti. Dopo essersi incontrati, Philippe mette in atto un'opera di autentica seduzione ipnotica sui due. Prima di partire per tornare in Russia, pregano Philippe di accompagnarli con l'incarico di medico di corte. Il governo francese provvede a informarli che l'individuo manca degli studi di base, e che non c'è bisogno di sottolineare quanto sia pericoloso porre nelle sue mani la salute di altre persone. Ma Alessandra è decisa: spinge Nicola a organizzare le pratiche affinché Philippe riceva le credenziali del caso e l'incarico di medico militare. Ottenuta la licenza, l'individuo si reca a San Pietroburgo e si posiziona il più vicino possibile alla donna che abbisogna dei suoi servizi. I poteri che Philippe sostiene di possedere sono davvero incredibili. Durante la traversata della famiglia imperiale si attribuisce il merito di aver calmato le acque al fine di rendere più piacevole il viaggio agli Zar. Ancor più sorprendente risulta la sua abilità di convincere l'aristocrazia che può rendersi invisibile ogniqualvolta lo desideri. E non solo egli beneficia di tale dono, ma trasfonde addirittura il potere a chi gli è simpatico o cammina al suo fianco. Le principesse montenegrine si convincono che Philippe le abbia rese invisibili e passeggiano per San Pietroburgo certe della propria icorporeità (tra lo sconcerto dei passanti, che, ovviamente, le vedono perfettamente), ma nessun testimone sostiene che la zarina si sia mai lasciata coinvolgere da tali sciocchezze: ad Alessandra interessa solamente che Philippe sia in grado di agire sul sesso della creatura che desidera concepire. Nel 1902, grazie ai poteri di Philippe, la zarina mostra i primi segni di gravidanza. Il mago non ha dubbi, e afferma con sicurezza che si tratterà di un maschio... ma dopo vari mesi di nausee, rigonfiamento del ventre e dei seni, di agitazione e di allegria, il feto non risulta essere altro che un accumulo di gas. Se Philippe ha un merito, di certo è quello di saper suggestionare la zarina al punto da provocarle una gravidanza isterica. Sommerso dall'umiliazione e dalle risate che l'aneddoto provoca nell'aristocrazia, l'impostore francese viene invitato a lasciare la Russia. Ogni fallimento incide una nuova cicatrice sul disperato cuore di Alessandra, che si debilita e si apre a qualsiasi speranza e a qualunque individuo senza scrupoli. Mentre abbandona il palazzo, Philippe si volta e con voce tuonante lo si sente proclamare che «Dio manderà un amico in grado di aiutare Alessandra a uscire dalle sue pene».40 Sebbene l'intervento delle principesse montenegrine fosse risultato un fiasco, la zarina si arrischia nuovamente a chiedere loro consiglio. Entrambe le suggeriscono di sollecitare un miracolo a un eremita deceduto

chiamato Serafino, che aveva sempre vissuto in estrema povertà e al quale si attribuivano svariati miracoli non riconosciuti dalla Chiesa. L'unica cosa di cui gode al tempo è buona fama tra gli ingenui, i creduli e i fanatici; la Chiesa, tuttavia, mantiene le sue riserve. Alessandra lo prega per giorni interi e promette di rendere ufficiale il suo status di santo. Il Santo Sinodo si limita a prendere atto delle pressioni della zarina: le canonizzazioni richiedono tempo e lunghe indagini, non è certo possibile accreditare Serafino del titolo di santo solo perché Alessandra l'ha preso in simpatia. A fronte delle insistenze dell'Imperatrice, si decidono a riesumare la salma dell'asceta per verificare se il suo corpo sia incorrotto, come accade con i veri santi. Il cadavere è in avanzato stato di decomposizione. Il ministro della religione insiste affinché l'Imperatrice abbandoni le sue insistenze, ma si limita a informarli che il potere dello Zar è talmente infinito da comprendere anche il potere di santificare le persone.41 Mentre il Santo Sinodo si trova costretto a dover piegare la testa di fronte al capriccio della zarina, Alix si reca a Sarov, di cui Serafino è originario, e si bagna nel suo fiume intonando preghiere, certa che i poteri dell'eremita si siano estesi anche alle acque del suo villaggio. Sia merito dell'intervento divino di San Serafino, delle acque fluviali del suo paese o della suggestione che monopolizza l'intera psiche di Alessandra, il fatto è che a poche settimane dall'immersione acquatica il suo corpo presenta i segnali di una nuova gravidanza. Al termine dei nove mesi, il 12 agosto 1904, viene al mondo un bellissimo bambino dagli occhi azzurri e i capelli biondi, che viene chiamato Aleksej Nicolaevic. Il piccolo è un cherubino, un tesoro, un dono del cielo. I genitori scoppiano di felicità e la popolazione li accompagna con gioia collettiva; il bebé conquista chiunque gli si avvicini, Alessandra è in delirio dalla contentezza e Nicola approfitta della visita di ogni invitato, ambasciatore o ufficiale per trascinarlo nella cameretta del bambino, dicendo: «Credo che non conosca ancora il mio piccolo adorato zarevic. Mi segua che glielo faccio vedere». Una settimana dopo, delle angoscianti goccioline di sangue macchiano il pannolino del bebé; pochi minuti dopo, anche la leggera camicia e le lenzuola si tingono di rosso; i medici fanno il possibile per arrestare l'emorragia che fluisce dall'ombelico della creatura mentre Nicola e Alessandra agonizzano dal terrore; lo Zar scrive nel suo diario: io e Alix siamo molto preoccupati. Questa mattina per un trascurabile motivo si è originata un'emorragia nell'ombelico del nostro Alix. È durata fino al pomeriggio, con solo alcune interruzioni. Abbiamo dovuto chiamare... il chirurgo Fëdorov, il quale alle sette gli ha applicato un bendaggio. Il bambino era molto tranquillo, addirittura contento, ma abbiamo trascorso attimi di orrenda angoscia.42 La maledetta parola infine fa capolino: emofilia! Così come accade con i disturbi nervosi della zarina, lo Zar dispone che la malattia di Aleksej rimanga segreta, poiché, lungi dal consolidare la dinastia, la metterebbe in pericolo e costituirebbe una vera e propria bomba a orologeria politica; cosicché al di fuori della famiglia, nessuno sa della malattia dello zarevic; il popolo, l'aristocrazia e i politici che avrebbero potuto offrire il loro appoggio sono all'oscuro del calvario che sta vivendo la famiglie imperiale, la quale, a causa di ciò, si isola sempre più. Alla difficilissima situazione personale di Alix e Nicola causata dalla grave malattia del figlio, si aggiunge la necessità di proteggere e

preservare il piccolo da sguardi indiscreti che possano scoprire la verità. A partire da questo momento, né la tragedia della guerra contro il Giappone (che scoppia nel 1905 e che conduce la Russia verso un'umiliante sconfitta), né le tensioni politico-sociali che si scatenano di conseguenza a questo e altri errori di Nicola, interessano gli Zar tanto quanto la malattia del figlio. Il problema di Aleksej occupa interamente la mente e l'anima di Nicola e, soprattutto, di Alessandra. La zarina cerca riparo dal dolore disumano rifugiandosi in Dio; trascorre giorni interi inginocchiata, con la pelle sprofondata nel gelido pavimento; tutte le strade, tanto quelle approvate dalla Chiesa, quanto quelle che le «suggerisce la sua mente inferma»43, le sembrano percorribili. Nel Creatore albergano la risposta e il conforto. Suo cognato scrive che la zarina non vuole arrendersi all'evidenza, parla incessantemente dell'ignoranza dei medici, professa una chiara inclinazione verso gli stregoni. Riversa la sua anima nella religione e le sue preghiere sono tinte d'isteria. Il suo stato [psichico] è in condizioni tali da dare il benvenuto a un dispensatore di miracoli.44 In poche parole, la terra incolta è pronta a ricevere la bonifica di Rasputin. Frattura tra lo Zar e il suo popolo Già da prima della nascita di Aleksej, che sia per fatalità del destino o per inettitudine personale, tutto ciò che Nicola II intraprende è destinato al fallimento. Il popolo russo non perdona al suo Imperatore l'insensibilità dimostrata di fronte alla tragedia che ha seguito la sua incoronazione; lo incolpa degli attentati terroristici che iniziano a susseguirsi e che egli non riesce a impedire, e non serve dire che non dimenticherà mai l'inutile massacro provocato dalla guerra contro il Giappone. È il Kaiser a risvegliare in Nicola l'idea di espandersi a Oriente, verso la Corea. Gli suggerisce di simulare l'avvio di un'impresa privata di legname e inviare dei soldati dissimulati da operai. L'avanzata russa verso la Corea porta il Giappone a reagire; i giapponesi, che non ambiscono al conflitto, cercano di raggiungere un accordo inviando uno dei propri ambasciatori più prestigiosi per portare avanti il dialogo e giugere a un'intesa. Ito, questo il nome del nipponico, viene trattato a San Pietroburgo con il più profondo disprezzo. Il diplomatico si vede costretto, del tutto suo malgrado, a mettere da parte le sue buone intenzioni. Nicola II, aizzato dai suoi ministri e ufficiali, è assolutamente convinto della propria superiorità militare nei confronti del resto del mondo, figuriamoci rispetto a quell'insignificante brandello di terra che è il Giappone. Tuttavia, in un batter d'occhio, gli abitanti del Sol Levante affondano tre imbarcazioni russe e attaccano Port Arthur, il porto che il governo cinese ha dato in uso alla Russia. Il fervore patriottico pervade le strade russe: si parla solo di schiacciare il minuscolo nemico orientale; l'esercito dello Zar, con tre milioni di effettivi, si prepara a massacrare i seicentomila giapponesi. Ma tutto va storto. I giapponesi dispongono di un esercito moderno e magistralmente addestrato, in confronto alla caotica organizzazione russa. Si succedono inesorabili sconfitte finché, infine, nel 1905, Nicola perde un guerra che

inizialmente aveva dato per già vinta. Il massacro risulta di dimensioni spaventose e il suo prestigio diminuisce proporzionalmente al crescere della sua insicurezza: il popolo inizia a prendere in considerazione l'idea che non sia il capo che fa per loro... e che dovrà cercarsi una guida altrove. «Con la tipica ostinazione dei deboli»45, Nicola II si mantiene fermo sui propri obiettivi e non cambia di una virgola il suo comportamento. Difende il principio del governo autocratico, eredità tramandatagli dai propri antenati e che egli a sua volta dovrà trasmettere al figlio. Come sua abitudine, si lascia influenzare da qualunque idea che proponga dogmi contundenti, senza dar peso a quanto essi possano risultare inadeguati nel secolo XX in cui si trovano. Mentre l'Europa avanza, progredisce e si modernizza, Nicola II è sedotto dalle arringhe di un pubblico ministero di nome Pobedonostev, il quale afferma che «l'insegnamento deve limitarsi alla scrittura e al calcolo elementare, dato che tutto il resto è superfluo e pericoloso».46 Al cumulo di errori si aggiunge un'ulteriore tragedia, passata alla storia come la strage della «Domenica di Sangue». Le misere condizioni in cui versano gli operai russi li spingono a implorare l'aiuto del Grande Padre, ossia lo Zar. Domenica 22 gennaio, capeggiati dal Pope Yuri Gapon, sfilano pacificamente fino al Palazzo d'Inverno; innalzano croci, icone e ritratti di Nicola, alternando gli inni religiosi con l'inno imperiale. Nicola II, in un attacco di inaudita codardia, si dà alla fuga; non sopporta l'idea di essere l'unica speranza di questi innocenti contro la povertà e la fame, ma i manifestanti questo non lo sanno. Si raggruppano con calma alle porte dei palazzi, quando d'improvviso, senza alcuna ragione, i soldati aprono il fuoco e fanno strage di donne, bambini e vecchi. La «domenica di sangue» taglia in due la storia della Russia. «Quel giorno si spezzò l'antica e leggendaria convinzione che lo Zar e il popolo fossero una cosa sola».47 La mancanza di raziocinio, di sensibilità di Nicola e la sua paura, e la separazione dalla realtà del suo popolo, crescono a una velocità preoccupante. Ogni volta che i sudditi sollecitano la sua protezione e il suo aiuto, lungi dal comprendere le loro preoccupazioni, la prende come la più insolente delle provocazioni. L'errore, questa volta, gli costerà la vita. Il dolore di una madre L'allegria dello zarevic nel momento in cui lascia la culla e inizia a scoprire le meraviglie del mondo apre le porte al più amaro degli incubi. Ogni colpo, ogni inciampo senza importanza provocano nel caso di Aleksej una corsa spaventata e piena di angoscia per verificare la portata del danno; non si può mai sapere quando si dovrà chiamare il medico urgentemente. Le piccole ferite esterne sono facilmente curabili con un bendaggio, ma il panico è in agguato di fronte ai colpi che potrebbero provocare emorragie interne. Il piccolo erede attira simpatia e tenerezza attorno a sé; tutti coloro che lo circondano vivono in apprensione costante. Pierre Gillard, professore di francese per i bambini, lo spiega così: Aleksej era al centro di questa famiglia unita, il cardine di tutti i suoi affetti e le sue speranze. Le sue sorelle lo adoravano. Era l'orgoglio e la gioia dei suoi genitori. Quando la sua salute era buona, il palazzo si trasformava. Le persone e le cose sembravano inondate dalla luce del sole.48

Il senso di colpa di Alessandra per aver trasmesso questo male ereditario al bimbo del suo cuore non ha limiti. Sebbene raramente ne soffrano, sono le donne a trasfondere ai propri figli maschi la gravissima malattia dell'emofilia. Un emofiliaco ha altissime probabilità di morire dissanguato; ogni colpo sottende una minaccia spaventosa che provoca grandi sofferenza e dolore. La regina Vittoria, nonna della zarina, era stata portatrice sana dell'infermità; la trasmise a tutta la sua numerosissima discendenza, contaminando tutte le case reali europee, tra cui quella spagnola, attraverso la regina Vittoria Eugenia, che avrà due figli emofiliaci. Come si poteva prevedere in un carattere come il suo, quando era stata comunicata alla regina Vittoria la malattia di cui soffrivano i suoi figli ella non aveva tardato a rispondere seccamente che non si trattava che di una calunnia senza fondamento. La zarina è del tutto ossessionata da Aleksej. Incarica alcuni marinai dell'armata di seguire costantemente il bambino; ogni passo, ogni movimento, deve essere controllato; bisogna evitare a ogni costo che subisca colpi o cada. Il bambino si abitua a ordinare: «Alzami la gamba», «Abbassami il braccio», «Muovimi la testa», come se fosse un completo invalido. Alessandra, avvertita di quanto dannosa possa risultare questa iperprotettività non solo per la personalità del bambino, ma per quella del futuro Zar di Russia, prende la decisione più difficile della sua vita: rinuncia a ciò che le chiede la sua indole e pensa unicamente a ciò che è meglio per il bambino, per cui lo lascia libero di andare incontro alla possibilità di cadere o farsi male mentre lei trattiene il fiato, stringe i denti e prega Dio. Se il suo equilibrio emotivo già si trovava al limite del tracollo quando cercava di concepire un maschio, ora il panico costante, la minaccia continua e soprattutto il senso di colpa per esser stata portatrice di un male tanto orrendo, tolgono il sonno alla zarina, spezzandola definitivamente. A dispetto della sua lotta interiore, non è in grado di mantenere l'equilibrio in una situazione tanto straziante; non è tranquilla nemmeno quando Aleksej dorme. Aleksej è una creatura allegra, che tenta di divertirsi nonostante la minaccia che lo prende costantemente di mira. Ogni inciampo, per quanto lieve, può provocargli nel giro di qualche ora un dolore insopportabile. L'emofilia fa sì che un leggero colpo o graffio rompano i vasi sanguigni; il malato non soffre particolarmente mentre il sangue fluisce, però, quando si accumula negli spazi vuoti tra le articolazioni, si formano delle infiammazioni che fanno pressione internamente sulla pelle, tendendola, rendendola azzurrognola e provocando terribili dolori. In simili momenti Aleksej grida, e sua madre non può fare niente più che sedersi vicina al suo letto e accarezzarlo. Il professore delle granduchesse racconta un aneddoto che descrive perfettamente il panico e le angustie che si abbattono sulla casa ogni volta che si presenta un imprevisto del genere: Lo zarevic era seduto sulla sua sedia quando sbatté il ginocchio contro il tavolo. Il giorno dopo non poteva camminare. Due giorni dopo l'emorragia sottocutanea era cresciuta fino a formare un'infiammazione che si estendeva a tutta la gamba. La pelle era tesa e dura per la pressione esercitata dal sangue. (..) La zarina si sedette alla testata del letto fin dal primo sintomo dell'attacco. Vegliava suo figlio circondandolo di un tenero amore e di cure, prodigandosi in mille attenzioni per alleviare la sua sofferenza. Il bambino aprì per un

istante i suoi grandi occhi, attorno ai quali la malattia aveva disegnato due cerchi neri, e tornò a chiuderli quasi immediatamente. (...) L'emorragia non cessò e la temperatura continuava a salire. L'infiammazione si era estesa e il dolore era più forte del giorno prima, lo zarevic gridava sprofondato nel letto in modo straziante. La sua testa riposava sul braccio della madre e il suo piccolo, pallido e debilitato visino era irriconoscibile. Nei momenti che le grida si interrompevano, mormorava una sola parola: Mami. (...) Si immagini la tortura di una madre che si riconosceva causa delle terribili sofferenze che aveva trasmesso al figlio, e contro cui la scienza umana si mostrava impotente.49 L'attenzione di Alessandra si concentra sul problema di Aleksej al punto che il resto del mondo scompare. Il solo che può aiutarla è l'Altissimo, colui che tutto vede e tutto sa; la zarina decide che in Dio unicamente si trova la cura che la scienza le nega50 e trascorre il giorno chiusa nella sua stanza, dove prega inginocchiata davanti alle icone. Quando mette mano al suo piccolo libro Gli amici di Dio, che porta sempre con sé, si rasserena leggendo quanto grandi siano le porte del paradiso per coloro che soffrono. Il dolore purifica l'anima: è questo che consola Alessandra, che vive nella sensazione di guadagnarsi il Cielo. Non si stacca un momento dall'immagine celeste, suo unico conforto, e per questo tiene sotto stretto controllo tutto ciò che può essere gradito al Creatore: la collocazione di icone, le candele accese, l'incenso nel suo oratorio; presta attenzione a ogni dettaglio con estrema perizia. Alessandra si apparta dal mondo, si rinchiude e fa a meno degli amici; solo Nicola, i suoi figli e gli emissari dell'Altissimo trovano posto nella sua tormentata vita. Ma non perde la speranza. Come spiegano le pagine del libro da cui non si separa mai, il Signore non condanna le sue creature a più dolore di quanto non possano sopportare e per questo, quando le forze sono sul punto di esaurirsi, succede qualcosa, arriva qualcuno inviato da Dio per fornire aiuto. Su questo Alessandra non nutre il minimo dubbio. La zarina e il salvatore di Aleksej Rasputin arriva a San Pietroburgo nel 1903, due anni prima di incontrarsi con la disperazione di Alessandra. Ha trentaquattro anni, capelli lunghi, unti, con la riga in mezzo e lunghe ciocche scarmigliate che gli ricadono sulle spalle. Inoltre porta una nera barba incolta, cosparsa e decorata con i resti dei pasti dei giorni precedenti. Indossa un caffettano che gli arriva a metà coscia, tenuto insieme da un cinturone, e scarponi alti di cuoio in cui infila le gambe dei larghi pantaloni. Si alza e va a dormire con gli stessi indumenti, passa giorni interi senza lavarsi le mani e si gratta la barba unta con le sue unghie nere. L'abbigliamento rozzo e l'aspetto trasandato non gli impediscono di avanzare camminando disinvoltamente. Una vistosa cicatrice solca la sua fronte; esibisce un naso grande e indagatore e occhi magnetici e inquisitori. Il brulichio delle strade, l'eleganza di vie ed edifici, l'opulenza delle carrozze lasciano Grigorij letteralmente stupefatto; mai, nemmeno nelle più azzardate visioni di cui godeva nel suo oratorio sotterraneo a Pokrovskoe, avrebbe potuto sospettare che al mondo esistesse un luogo come San Pietroburgo. Il suo sguardo curioso vaga qua e là alla ricerca di prede, possibilmente di sesso femminile, che gratifichino il suo egocentrismo. La lettera di

raccomandazione che il vescovo di Kazan aveva consegnato a Rasputin ha prodotto i suoi effetti e gli ha aperto le porte dell'accademia di Teologia, dove ha potuto accedere alla créme ecclesiastica, che resta piacevolmente impressionata dalla fede primitiva e ardente del contadino. Stanchi di sacerdoti mondani, i prelati trovano che Rasputin personifichi la fede pura, senza artificiosità. Finalmente a San Pietroburgo appare qualcuno che sembra in grado di trasmettere il messaggio di Dio come si faceva in passato, scuotendo le coscienze eccessivamente effimere delle classi abbienti. Che Grigorij parli in modo grezzo e sia praticamente illetterato non fa che aggiungere autenticità al personaggio; l'uomo emana una spiritualità istintiva, primitiva e potente. Attraverso la sua bocca parla l'anima della Russia. L'ispettore dell'accademia teologica, di nome Teofan, si appassiona immediatamente a Rasputin, ma sarà corretta la sua percezione? Riunisce i più prestigiosi membri del clero affinché si esprimano in merito; l'accordo è unanime: decidono di presentarlo a padre Ivan di Krondstadt, autentica eminenza con fama di santo. Il giorno in cui si conoscono, invita come prima cosa Rasputin ad amministrare la comunione e, successivamente, gli chiede di benedire i fedeli. Il successo ha bussato alla sua porta. Di fronte alla reazione del venerabile Ivan di Krondstadt, Teofan invita Rasputin a vivere con lui e gli suggerisce di ordinarsi sacerdote; Grigorij accetta l'offerta di vitto e alloggio gratuiti, ma respinge la proposta di sacerdozio. Da una parte non sarebbe in grado di memorizzare e spiegare i vangeli, dall'altra vi è la questione della castità sacerdotale, schiavitù a cui non ha intenzione di sottomettersi. Perché cambiare? Tutto sta andando alla perfezione: è la novità, la stella della città, il suo anfitrione ha contatti con l'alta società e con la casa imperiale, trattandosi del confessore di Alessandra; in più lui, Grigorij, è riuscito a convincerlo delle sue capacità profonde e sincere. Dalla sua posizione di controllo della fede ortodossa, Teofan è molto preoccupato per la frivolezza degli aristocratici nei confronti della religione. Molti si recano a messa solo come punto d'incontro, pochi pregano con sincerità, la maggioranza ignora i precetti della cristianità autentica; forse sarebbe bene per loro conoscere un rappresentante della genuina spiritualità, qualcuno di sconosciuto, di aspetto differente, portavoce di un messaggio chiaro, originale e coinvolgente. L'imponenza fisica di Rasputin e il suo modo di raccogliersi prima della preghiera potrebbero effettivamente scuotere alcune coscienze e sottrarle al loro stato letargico. Teofan vede con chiarezza l'urgenza di presentare il suo nuovo inquilino. L'aristocrazia, da parte sua, trascorre le giornate tra una festa e l'altra, le stesse persone continuano a incontrarsi negli stessi salotti, parlando delle stesse cose: sarebbe così bello poter dissipare la noia attingendo a un repertorio di curiosità tutto nuovo! Rasputin giunge per mano al suo anfitrione nella casa di un cugino dello Zar, dove si è riunito il meglio dell'alta società; lì cicalecciano le principesse montenegrine, tanto amanti della stravaganza, oltre a duchesse, conti, principi, ufficiali e membri di governo. La sporca ma intrigante presenza di Rasputin è accolta con un misto di stupore ed entusiasmo. Affidandosi alle sue favolose doti intuitive, Grigorij capisce immediatamente che non potrebbe mai imitare, nemmeno con tutte le sue forze, il colto conversare dei prelati a cui gli aristocratici sono abituati. Deve prendere le distanze da loro in ogni modo. L'abbigliamento

e l'aspetto esteriore senza dubbio aiutano, ma c'è bisogno di qualcosa in più, cosicché la prima cosa che fa quando gli presentano qualcuno è spogliare la persona in questione con il suo sguardo penetrante, conoscendo già molto bene l'arte di immobilizzare la preda grazie all'azzurro trasparente dei suoi occhi; in seguito, senza allentare minimamente la presa sul suo bersaglio, fa emergere dalla gola una voce senza pari con la quale interroga l'interlocutore circa l'andamento della sua vita privata. Lo sbalordito destinatario della domanda non sa come togliersi dall'imbarazzo. Gli invitati che presenziano alla scena restano tra il divertito e l'ammirato di fronte alla tranquilla disinvoltura con cui il nuovo arrivato lascia parlare la propria curiosità; trovano gradevole la sua grossolanità, scusano il fatto che non conosca le più basilari regole di buona educazione e, inoltre, c'è da sbellicarsi dalle risate nel vedere questo o quel duca o principessa balbettare di fronte a un semplice contadino! L'individuo è un esempio della profonda Russia, realtà a loro praticamente del tutto sconosciuta, e guardalo adesso, seduto nel salotto del cugino dello Zar. Gli invitati si accalcano intorno al siberiano, che Teofan approva sorridendo. Hanno così tanto da chiedergli! Rasputin, la cui rapidità di riflessione non è particolarmente sviluppata, dà risposte spezzate usando frasi slegate tra loro, invoca Dio, il Creatore, l'Altissimo; può parlare allo stesso tempo di un'icona particolare e di un monaco conosciuto in un remoto luogo geografico di cui i presenti non hanno mai sentito parlare; obbliga chi lo ascolta a prestare un'attenzione straordinaria, salta da un argomento all'altro senza soluzione di continuità dopo di che, improvvisamente, resta in silenzio, volta le spalle ai presenti, cammina verso la finestra, si perde con lo sguardo nell'infinito, unisce le mani e finge di pregare con profonda convinzione. Il gruppo di invitati rimane ammutolito. Tutto funziona come in un sogno, il suo disturbo isterico, il suo narcisismo galoppante, sono qui serviti meglio che mai. In questa riunione, Militza, la principessa montenegrina aspirante maga e fanatica dell'aldilà, rimane completamente abbacinata dal nuovo arrivato. Scrive immediatamente alla zarina annunciando che ha finalmente trovato una persona straordinaria che forse potrà aiutarla. Alessandra, dopo gli umilianti fallimenti di Philippe e compagnia bella, si rifiuta di conoscere un altro millantatore. Interviene quindi Teofan, il suo confessore, che in una nota annuncia all'Imperatrice che Rasputin è appena giunto al monastero di Verkhoturie, che è un onesto credente e che porta con sé dal monastero un'icona di San Simeone in dono per le Loro Maestà Imperiali. Le reliquie di San Simeone, la cui santità è venerata in tutta la nazione, sono conservate a Verkhoturie. Gli Zar si tranquillizzano, il visionario di cui parla quella pazza di Militza non sembra pericoloso, vuole solo consegnar loro una santa reliquia. Vinta l'iniziale resistenza, acconsentono a ricevere colui che reca l'immagine. È un pomeriggio di novembre del 1905 quando Rasputin fa il suo ingresso in casa di Militza, dove sarà introdotto agli Zar. La messinscena è stata ben allestita: non si è pettinato, la barba non è stata tagliata, la tonaca, la cintura, i pantaloni e gli scarponi sono gli stessi che aveva portato con sé da Pokrovskoe... Senza titubare minimamente si rivolge allo Zar chiamandolo batjuska (papà) e, non appena condotto alla presenza degli Imperatori, inchioda prepotentemente gli occhi incantatori su entrambi: lei, alta e rigida, e lui, minuto e fiacco. Immediatamente capta l'instabilità dello spirito di

Alessandra, il nervosismo che l'attanaglia e la consuma; l'Imperatore, senza dubbio, potrebbe fare qualcosa per darle sollievo e aiuto, ma appare così piccolo e debole al suo fianco! Se la zarina gli concedesse l'onore di permetterglielo, egli prenderebbe con piacere sulle sue spalle il dolore che la flagella: lui aveva ricevuto da Dio la forza e l'energia per far suoi i tormenti altrui, alleviandoli, polverizzandoli, facendoli scomparire. Spiega alle loro Maestà in cosa consiste il suo metodo: si limita a pregare mentre pensa con intensità al sofferente; senza sapere come né perché, il Signore lo illumina con le risposte adeguate alla situazione. In questo primo appuntamento Rasputin colpisce la zarina, ma Nicola mantiene una certa distanza. Nel suo diario scrive semplicemente: «Ho conosciuto un uomo di Dio, Grigorij, del governatorato di Tobol'sk».51 Undici mesi più tardi, Rasputin riceve un secondo invito di enorme importanza a prendere il tè in casa della famiglia imperiale. Appena fatto il suo ingresso nel salotto, Grigorij menziona la malattia dello zarevic come se la conoscesse perfettamente; i cuori degli Zar si fermano: il male di Aleksej è un segreto gelosamente custodito. Com'è possibile che il rozzo uomo che hanno di fronte ne sia venuto a conoscenza? Balbettano sciocchezze, nulla che possa in qualche modo compromettere la loro intimità. Senza tergiversare, ma con tutta calma, Rasputin avanza una richiesta insolita: vuole pregare al fianco del letto del bambino. Finora il primo gesto di medici, curatori o ciarlatani che si erano occupati del male di Aleksej era sempre stato quello di toccare lo zarevic, o imporre le mani su di lui. Rasputin non fa il minimo tentativo di stabilire un contatto fisico con il piccolo, si limita a contemplarlo con i suoi occhi profondi e in seguito si inginocchia alla testata del suo letto, china il capo e prega con profonda e commovente spiritualità. Gli Zar si emozionano. Subito Nicola scrive una lettera a Stolypin, il suo primo ministro, la cui figlia minore è stata vittima di un grave incidente: [Quest'uomo di Dio] ha suscitato una profonda impressione nella Zarina, e anche in me. Invece che cinque minuti, la nostra conversazione è durata più di un'ora. (...) È profondamente interessato a conoscervi e benedire con l'icona la vostra figlia ferita.52 Sono mesi che la famiglia Stolypin soffre con la sua piccola. Raccomandato dal suggerimento dello Zar, Rasputin si presenta in casa del primo ministro con la sua abituale messinscena: così come aveva fatto con Aleksej, posa l'abisso dei suoi occhi sulla piccola, si inginocchia accanto al letto e prega a lungo e profondamente. Il giorno seguente la piccola inizia a migliorare: non grida più dal dolore e ha dormito bene. La notizia si diffonde in tutta San Pietroburgo come un banco di nebbia; nei circoli sociali ci si scambiano sussurri sui poteri terapeutici di Rasputin. Alessandra, oltre alle doti curative, gli attribuisce anche superlative doti da veggente: è il Creatore che trasfonde nella sua mente informazioni sull'altrui dolore, come altrimenti avrebbe potuto venire a sapere del male dello zarevic, coperto dal segreto di Stato? L'Imperatrice ignora che le informazioni in possesso del siberiano non hanno nulla a che vedere con messaggi celesti, ma sono dovute a una circostanza estremamente più mondana: Rasputin si è trasferito in un'altra casa, e lì le informazioni gli vengono elargite in modo molto meno scolastico di quanto non creda la zarina. Lussuria

Grigorij inizia ad avere accesso ai pettegolezzi sulla famiglia imperiale dal momento in cui lascia l'appartamento di Teofan e si trasferisce a casa di Lokhtin, un ingegnere proclive al misticismo che ha la responsabilità del mantenimento delle strade di Tsarskoie Selo. Lokhtin è un individuo sorridente e ha orecchie attente a tutti i segreti che il personale di palazzo abbia voglia di raccontargli. Al suo nuovo domicilio, Rasputin diviene il depositario delle confidenze del suo anfitrione; così viene a conoscenza della quotidianità degli Zar e delle preoccupazioni che li sopraffanno, ma soprattutto gli viene rivelato un segreto ancor più riposto, relativo alla malattia dell'erede. La padrona di casa di Grigorij, Olga Lohtina, gode di splendida fama: la sua bellezza e la sua conversazione sono attributi ricercatissimi nelle feste, nei banchetti e nei salotti, motivo per cui la nobiltà fa a gara pur di invitarla. La signora Lohtina è colta, intelligente, raffinata, ma nell'intimità di casa sua è vittima di attacchi di isteria e soffre di accessi nevrotici che né il marito, né i medici riescono a placare. Quando Rasputin prende dimora nella casa della tanto bisognosa preda, non tarda più di un giorno a lanciarsi sulla sua vittima. La fa oggetto di un penetrante e tentacolare esame, la spoglia con i suoi occhi abissali, insoliti, fulgidi e inondati di luce che tanto ammaliano.53 In pochi minuti la signora Lohtina è sua prigioniera; lo sguardo e la voce del suo ospite calmano l'indomita ansietà che i medici non hanno saputo alleviare; al solo ascoltare il tono di voce di Grigorij, al solo lasciarsi spogliare dall'azzurro del suo sguardo, l'anima di Olga si tranquillizza, si apre, diviene recettiva, fiduciosa e, alla fine, viene sedotta. La nevrastenica si convince che la sua cura risieda nel consegnarsi completamente all'autore del sortilegio; Rasputin utilizza con la sua nuova preda lo stesso rituale terapeutico che già aveva impiegato nella cantina del suo villaggio natale: «Pecca con me, sorella mia, godi del piacere dei tuoi sensi con me, incarnazione divina, e il solo contatto con me ti purificherà». La signora Lohtina perde la ragione: il sesso, l'amore, la lussuria, la redenzione... Rasputin tutto riconcilia e a tutto dà senso. Lo idolatra. La buona società della capitale rimane attonita quando Olga, moglie brillante e beneducata, abbandona marito e figlia per seguire il cencioso contadino siberiano. Ma intanto lei è guarita dagli attacchi di nervi, e si immerge nei piaceri della carne con Grigorij dedicandovi il più grande entusiasmo e la massima convinzione. In cambio gli insegna a leggere e a comportarsi. Rasputin gode dell'alcova di Olga sovrapponendola a quella di molte altre donne. Il suo disturbo istrionico lo spinge a mantenere dinamiche sessuali di dominazione, in cui egli risulta essere l'eroe e lei la schiava. Aveva appreso dagli klysti a intrecciare il cammino verso la salvezza con il sesso; con le sue eccezionali doti di persuasione, convince le sue seguaci che l'ideale è oltraggiare Dio peccando con colui che può redimere. È questa la formula magica per sottomettere i suoi trofei sessuali senza avere di che compatirle: le donne che cedono alle sue oscenità sono in debito con lui, dato che solo lui ha ricevuto da Dio la capacità di perdonarle. Nelle sue relazioni lascive Rasputin55 è crudele e vessatorio, e tuttavia esse vivono l'esperienza nella convinzione che egli le stia salvando. Così succede con Olga Lohtina. Nel 1911, un giornalista che si interessa a Rasputin si reca a casa sua senza preavviso; la scena in cui si imbatte lo lascia talmente

impressionato che, anni dopo, la ricorda ancora con dovizia di particolari: Lo vidi [Rasputin] dietro il paravento che separava il suo letto dal resto della stanza. Stava colpendo selvaggiamente madame Lohtina, la quale indossava una splendida vestaglia bianca a cui erano appesi piccoli fiocchi. Lei teneva stretto il suo membro gridando: «Sei Dio!». Mi scagliai su di lui: «Che stai facendo? Stai colpendo una donna!». E Rasputin rispose: «Non vuole lasciarmi in pace, la puttana, pretende il peccato». E Lohtina, nascondendosi dietro al paravento, gemeva: «Sono la tua pecorella, e tu sei Cristo!».56 La stampa di San Pietroburgo non tarda a divulgare la notizia di come sia finita Olga Lohtina. Quella che era stata la brillante stella dell'aristocrazia, si aggira per le strade scalza, vestita come una mendicante e chiedendo l'elemosina. Rasputin si è dimenticato di lei. Il caso di Olga non è unico: in realtà le ricche, eleganti e annoiate nobildonne di San Pietroburgo trovano irresistibili i sistemi sessuali del siberiano. Il suo amico, il monaco Il'jodor, viene informato dettagliatamente dall'autore dei misfatti; probabilmente il narcisismo di Grigorij lo spinge a vantarsi di fronte a lui; gli interessa particolarmente che Il'jodor diffonda le succulente confidenze e, in tal modo, rinforzi la sua fama di voluttuoso tiranno. Le leggende sulle dimensioni del membro di Rasputin corrono di bocca in bocca; gli si attribuiscono misure astronomiche che molte donne desiderano provare di persona e dal vivo, ragion per cui Rasputin si tramuta in una icona mistico-erotica. Le liti per portarselo a letto causano tensioni e tradimenti tra le signore; nessuna pare preoccuparsi per i suoi capelli unti, per il sudiciume delle sue unghie e per i pezzi di cibo che gli punteggiano la barba. Cadendo nella trappola strategica di Grigorij, il pettegolo Il'jodor rivela che i metodi sessuali dell'amico si possono classificare in quattro categorie: Il primo gruppo è composto da donne che trascina fino alle stanze da bagno. Lì chiede loro che gli mostrino il seno, le accarezza, le bacia, passa le sue enormi dita sui loro capezzoli e sulle zone intime, esprime impudicamente a parole le sensazioni che prova e come vuole che esse reagiscano. In questo processo Rasputin descrive l'evoluzione del suo organo virile, suda, respira affannosamente, poi improvvisamente si ferma, lasciando la dama completamente sconcertata. Se in principio ella manifesta una qualche resistenza, immediatamente egli muta il proprio atteggiamento e si scandalizza che la mente peccaminosa della signora abbia ospitato pensieri impuri: un'offesa a Dio che egli si presta immediatamente a redimere. Sia che la vittima acconsenta al suo piano, sia che non lo faccia, Grigorij conclude le sedute con un bacio sulla fronte e con una preghiera. Una seconda categoria è composta dalle dame che vizia; le invita a casa sua, chiede loro che lo spoglino, e successivamente che si spoglino loro, che scoprano il letto e che lo implorino di sdraiarsi accanto a loro. Una volta soddisfatti i suoi capricci iniziali, Grigorij ricompensa i servizi ricevuti con una serie interminabile di coccole e baci. La seduta di sbaciucchiamenti si prolunga per circa quattro ore, finché la donna oggetto di tali attenzioni si sente torturata e scappa correndo verso la tranquillità di casa sua. Anche in questo caso Grigorij ha fatto un favore alla dama: l'ha riconciliata con il suo focolare domestico e con il marito tradito; in definitiva, «la gran sgualdrina» (così chiama

Grigorij le sue conquiste) ha ricevuto una meritata lezione e non le verrà più voglia di peccare. In un terzo gruppo si collocano le signore che egli libera dal Maligno. Con costoro in genere non intraprende una relazione fisica, bensì le sottopone a una peculiare seduta di esorcismo che le salverà dal demonio. L'ultimo gruppo è formato dalle donne con cui porta a termine una rapporto sessuale completa. In tutte e quattro le categorie, Rasputin dimostra la sua passione per l'esibizionismo. Sente il bisogno di provocare la sua vittima, cercando di lasciarla stupefatta per poi dominarla, e infine perdonarla! Una delle sue prede lascia una testimonianza della conversazione che Grigorij sostiene con lei: «Quanto più in basso sprofonderai, tanto più vicina sarai a Dio, affermò Rasputin. - Non sai forse perché gli uomini hanno un cuore? E sai dov'è il loro spirito? Credi forse che sia qui? - disse indicandosi il cuore. - Niente affatto!». Quindi in un batter d'occhio si abbassò i pantaloni e esclamò: «Lo capisci adesso?».57 Le continue fanfaronate, il suo aspetto trasandato, le cattive maniere che esibisce, invece di allontanare le dame, aumentano la richiesta delle sue prestazioni sessuali. Coloro che ricevono l'onore dei suoi favori carnali affermano che Rasputin dona loro sensazioni che «rendono al confronto i nostri uomini delle nullità». Le dame si scambiano opinioni sul membro virile che hanno visto o toccato, ogni giorno le sue dimensioni diventano più improbabili, il che aumenta la curiosità di coloro che ancora non hanno avuto la fortuna di trovarsi di fronte allo spettacolo. Alcuni dei mariti, dal canto loro, sembrano essere d'accordo nel permettere che il siberiano fruisca delle loro mogli. Una delle sue discepole, alla domanda se sarebbe disposta a concedersi a Rasputin, risponde senza esitazioni: - Ma certo. Sono già stata sua, e questo mi riempie di orgoglio e felicità. - E tuttavia lei è sposata. Che ne dice suo marito di tutto ciò? domanda l'interlocutore. - Lo considera un grande onore. Se Rasputin desidera una donna, tutti pensiamo che si tratti di una benedizione di Dio e di un privilegio, tanto noi quanto i nostri mariti.58 Grigorij ha scoperto che i suoi indumenti e il suo aspetto, lungi dall'allontanare le persone, calamitano gli sguardi e attirano tutte le attenzioni. In nessun momento imita lo stile di chi lo circonda: sarebbe come divenire come loro, o peggio, non arrivare nemmeno all'altezza delle loro scarpe. Deve rimanere diverso, il suo istrionismo glielo impone. Decide di conservare il suo stile iniziale, ma dato che la fama gli ha portato nuove possibilità economiche, il rozzo caffettano è ora di seta, gli scarponi sono del miglior cuoio e fatti su misura. Tuttavia né i capelli, né la barba, né le maniere cambiano. Le ciocche di capelli, che continuano a essere lunghe e unte, gli coprono la fronte. Sebbene Olga Lohtina gli avesse insegnato a mangiare in modo educato, ogni volta che si trova in un ritrovo sociale, soprattutto se lussuoso, Grigorij decide deliberatamente di scioccare i commensali affondando le sue mani sudice nella zuppa di pesce, oppure afferrando il cibo con le dita per poi esigere dalla dama che è seduta accanto a lui che gliele lecchi. Alimenta il suo narcisismo provocando situazioni sconvolgenti e volgari che catturano l'interesse generale. Per questo allude continuamente al

sesso in modo diretto o indiretto, in una società e in un'epoca nelle quali il sesso, così come qualunque sua menzione, sono semplicemente inauditi. I mariti e i padri vengono coperti di ridicolo, ma nessuno osa frenare questi eccessi perché, a quel punto, Rasputin ha già centrato molte delle sue previsioni e l'egida imperiale lo protegge. Con lo zarevic, il contadino ha operato miracoli incredibili. Il dispensatore di miracoli Fin quasi dal principio, Rasputin conquista totalmente la fiducia degli Zar. La zarina ha un'amica intima, Anna, una donna un po' più in là con gli anni, cicciottella, vivace e zitella, la cui amicizia con l'Imperatrice suscita l'invidia di cortigiani e diplomatici. L'ambasciatore francese, un individuo esperto tanto nella moda quanto nei pettegolezzi, scrive ciò che segue: Nessun altra [amica degli Imperatori] è tanto volgare. Lei [Anna] è tarchiata, di costituzione larga e rozza; ha capelli grossi e lucidi, il collo grasso, il viso innocente, rosato, guance lucide, occhi chiari e luminosi e, infine, ha labbra esageratamente carnose. Si veste sempre in modo ordinario, disseminata di decori di poco prezzo che le danno un aspetto da popolana.59 Anna non appartiene alla nobiltà, e al vederla assieme alla zarina, si direbbe che è l'istitutrice dei bambini; tuttavia ha un carattere perfettamente compatibile con quello di Alessandra; è una delle poche persone, oltre a Nicola e a Rasputin, che dà ragione all'Imperatrice sia che l'abbia sia che non l'abbia. Poiché la psicopatia di Alessandra la spinge non solo a intestardirsi su ciò in cui ha ragione, ma anche a desiderare che gliela riconoscano in ogni situazione, e poiché Anna si adegua senza alcun problema a questa richiesta, le due donne divengono amiche inseparabili e intime confidenti, trascorrendo ore intere a conversare. Anna entra ed esce da palazzo come se fosse un membro in più della famiglia. Preoccupata per la solitudine dell'amata amica, la zarina le cerca un marito, giacché ritiene che tutte le donne di un qualche pregio dovrebbero sposarsi. Il prescelto è Aleksandr Vyrubov, un ufficiale della marina che aveva combattuto nella guerra contro il Giappone; l'uomo è solo, e, come Anna, non più giovanissimo. La coppia si sposa immediatamente, senza previo fidanzamento; gli Zar fanno da testimoni di nozze e si accomiatano dai neosposi il pomeriggio stesso, momento in cui è prevista la loro partenza per la luna di miele: lasso di tempo di cui Alessandra approfitta per chiedere a Rasputin se, secondo lui, la coppia sarà felice. Grigorij inscena la sua commedia: si ritira, si prostra di fronte a un'icona, prega, pensa ad Anna, poi si pianta davanti all'Imperatrice: ha visto tutto, il Signore l'ha illuminato. Il matrimonio dei Vyrubov sarà funesto. Dopo alcuni mesi di convivenza, Anna confessa ad Alessandra quanto disgraziata sia la sua vita. Suo marito si è rivelato un alcolizzato, pazzo e violento; la guerra aveva causato conseguenze traumatiche nella sua mente. Lei ne ha talmente paura che si mette a tremare al solo sentire i suoi passi alla porta d'ingresso della loro abitazione. Deve separarsi se non vuole impazzire dalla paura. La visione di Rasputin era stata veritiera: Alessandra non ha più dubbi circa i poteri del contadino, e nemmeno Anna.

La Vyrubova si converte in una delle più accanite seguaci di Grigorij. A casa sua riunisce un seguito di ammiratrici, alle quali si unisce qualche ufficiale della guardia fanatico. Il gruppo venera Rasputin fino al delirio, e i partecipanti a queste riunioni ricevono le incoerenti parole del visionario come se li sfiorasse l'ala di un angelo. Grigorij provoca, profetizza, concede il perdono e addirittura rimprovera paternamente; non dice nulla di originale e il suo modo di parlare è primitivo, poco fluido e sconnesso; esprime concetti senza che vi sia alcun filo conduttore tra le frasi. Gli astanti non si meravigliano di non capire nulla: al contrario, la considerano una prova indiscutibile del dialogo esclusivo che Rasputin ha con il Cielo. Gli offrono casa, cibo, calore, luce: fanno a gara per ospitarlo sotto il proprio tetto. A Grigorij sembra normale essere al centro di tante attenzioni; a quell'epoca ormai crede di meritare l'applauso universale. Non chiede denaro, ma tutte le sue veneratrici gliene offrono a piene mani; e con tali mezzi Rasputin si compra abiti di lusso e si fa costruire una casa a Pokrovskoe sullo stile di quelle che lo ospitano a San Pietroburgo. La costruzione è una monumentale ostentazione che si staglia nel bel mezzo di un agglomerato di povertà. I compaesani si sciolgono dall'ammirazione, e trattano Grigorij come un dio: è un contadino come loro, ma è riuscito a sedersi al tavolo dello Zar e a farsi ricevere nei salotti più importanti della città. Quando Rasputin torna a Pokrovskoe per visitare la famiglia, una folla lo attende a ogni stazione in cui il treno si ferma. Il ritorno a casa è un rosario di acclamazioni; egli si sporge dal finestrino del treno e benedice i presenti, che si gettano in ginocchio, pregano e piangono. Tutti guardano la croce di oro e brillanti che Nicola gli ha regalato come dimostrazione della sua gratitudine per l'aiuto prestato allo zarevic. A San Pietroburgo le visite di Rasputin a palazzo si susseguono. Per non richiamare troppo l'attenzione, dato che gli ingressi vengono registrati su un libro, gli Zar lo pregano di utilizzare l'entrata posteriore. Si riferiscono a lui già come «nostro Amico». Il rituale è sempre lo stesso: conversazione con gli Imperatori, un po' di gioco e di preghiera con lo zarevic e infine alcune orazioni con le granduchesse, che accompagna a letto quando già sono in camicia da notte. Le damigelle d'onore iniziano a mormorare circa l'eccessiva confidenza di Grigorij con le bellissime figlie dello Zar; lo considerano ben poco adeguato e trovano che la sua presenza nella stanza delle granduchesse metta in pericolo la sicurezza e la rispettabilità delle piccole. La prima cameriera si reca quindi dallo Zar, che le risponde: «Dunque nemmeno voi credete alla santità di Grigorij Efimovic? E se vi confidassi che sono sopravvissuto in questi tempi difficili solo grazie alle sue preghiere?».60 Le bambine, contagiate dai genitori, non sospettano alcun oscuro proposito in Rasputin, e gli scrivono tenere lettere quando sono lontane da lui: Mi manchi molto e non ho nessuno a cui confidare i miei dispiaceri, e di dispiaceri ce ne sono tanti, tantissimi! (...) Ti bacio le mani. Colei che ti ama, Olga (quattordici anni). Il tono si innalza con Tatiana, di dodici anni: Senza di te è tutto triste, triste. (...) Bacio le tue sante mani. (...) Tua per sempre, Tatiana. Maria, di dieci anni, fa delle affermazioni su cui sarebbe il caso di riflettere:

Al mattino, appena sveglia, prendo da sotto il cuscino il Vangelo che mi hai regalato, e lo bacio. Mi sembra di baciare te. Persino la piccola Anastasia, a otto anni, prega Rasputin: Cerco di essere buona, come hai detto tu. Se resti sempre con noi, sarò sempre buona.61 L'estrema fiducia e l'apertura che la famiglia imperiale dimostra a Rasputin crescono ancor più dopo il successo che Grigorij ottiene con lo zarevic nel 1907. la sorella di Nicola è testimone dell'expliot a Tsarskoie Selo. Lo racconta così: Il povero bambino giaceva sofferente, gli occhi cerchiati da scure occhiaie, il suo piccolo corpo contorto e la gamba terribilmente infiammata. I medici non sapevano più che fare, erano ancor più spaventati di noi (...) sussurravano tra loro. (...) Si stava facendo tardi, e mi chiesero di tornare nelle mie stanze. Allora Alix inviò un messaggio a Rasputin [che si trovava] a San Pietroburgo. Giunse a palazzo attorno alla mezzanotte, se non più tardi. A quel punto io ero nella mia stanza, e la mattina presto Alix mi richiamò nella camera di Aleksej. Non potevo credere a ciò che vedevano i miei occhi. Non solo il piccolo era vivo, ma stava persino bene. Era seduto sul letto, la febbre era scomparsa, gli occhi erano chiari e luminosi, e la gamba senza alcun segno di infiammazione. Più tardi seppi da Alix che Rasputin non aveva toccato il ragazzo, ma si era semplicemente trattenuto in preghiera ai piedi del letto.62 Miracolo! Miracolo! La zarina non ha più alcun dubbio che il contadino sia l'inviato di Dio. Gli Zar ordinano che la notizia non esca da palazzo, ma il personale è talmente impressionato da non riuscire a trattenere la lingua. La fama di Grigorij è alle stelle, migliaia di persone fanno la fila davanti alla porta di casa sua; mendicanti, commercianti, borghesi e ufficiali sperano quotidianamente in un consiglio, una preghiera, una benedizione, un atto di magia del visionario. Ma il dispensatore di miracoli saprà nuovamente superare se stesso. Nel 1912, mentre si trova in vacanza a Spala, antica riserva di caccia dei re di Polonia, Aleksej è vittima della peggior crisi mai avuta. Mentre passeggiano in automobile, lo zarevic si lamenta di un lancinante dolore al ventre e alla gamba. Immediatamente Alessandra ordina che l'auto faccia dietro-front e si diriga verso casa. Ogni buca della strada sterrata strappa un grido di dolore al piccolo, che arriva a casa praticamente in stato d'incoscienza. Compare un'emorragia alla gamba e all'inguine; vengono inviati urgentemente telegrammi a San Pietroburgo, da cui accorrono i medici più prestigiosi. Non riescono a fare quasi nulla per alleviare le sofferenze del piccolo, né vi è alcun modo di placare l'orribile angoscia dei suoi genitori, ai quali Aleksej si rivolge con un filo di voce: «Quando morirò non mi farà più male, vero mamma?».63 Per undici tremendi giorni il piccolo non smette di gridare; il dolore non gli permette di dormire se non quando cade svenuto. Alessandra non si allontana dal suo fianco, non si cambia nemmeno i vestiti, e quando il sonno infine la vince, si getta brevemente in un sofà vicino al letto del moribondo. I suoi capelli diventano grigi e tra le lacrime prega sconsolatamente chiedendo a Dio di curare suo figlio. Gli Zar e i medici sono convinti che Aleksej stia per morire; hanno già dato ordine di impartirgli l'estrema unzione. Alessandra è vittima di una crisi nevrastenica: il cuore le opprime il petto e a malapena riesce a

respirare. Falliti tutti i rimedi della miglior medicina, decide di porre mano all'ultima speranza che ormai le rimane: invia un telegramma a Rasputin, che si è recato a trascorrere una vacanza nel suo villaggio in Siberia. Grigorij risponde immediatamente: «Dio ha visto le tue lacrime e ha udito le tue suppliche. Non affliggerti. Il piccolo non morirà. Non permettere che i medici lo infastidiscano più del necessario».64 Quando Alessandra scende in salotto la mattina seguente dichiara: I medici non hanno riscontrato ancora nessun miglioramento, ma per quanto mi riguarda io non sento più alcuna angoscia. Durante la notte ho ricevuto un telegramma da padre Grigorij, che mi ha rasserenato completamente.65 La sua fiducia nei poteri telepatici di Rasputin è assoluta. Il giorno seguente l'emorragia si blocca. Il bambino è esausto, ma vivo. Miracolo! Nessuno dei medici crede davvero nei poteri di Rasputin, ma nemmeno possono spiegare come si sia potuto verificare un miglioramento che appariva così assolutamente utopistico. Oggi si sa che gli emofiliaci sono straordinariamente sensibili alla tensione ambientale; l'agitazione in chi lo circonda porta il malato a sanguinare ancor più. Alessandra non ha dormito né mangiato per giorni. «La testa e gli occhi mi fanno male, e il mio cuore si sente debole», «Il mio cuore sanguina dal terrore», «Sono malata per colpa dei tetri pensieri», si lamenta. Non ha avuto un attimo di riposo finché non ha ricevuto un piccolo pezzo di carta firmato dall'unica persona in cui ha fiducia. I medici non osano alcuna mossa contro la malattia dello zarevic, glielo impediscono la responsabilità politica e la scienza di cui dispongono. Ma Rasputin sì che azzarda. Dal profondo della sua incoscienza, della sua ignoranza o della sua intuizione, dona ad Alessandra l'unica cosa che può: speranza e tranquillità. Dal momento in cui caccia i preoccupati medici dalla stanza e si rilassa, Aleksej inizia a migliorare. A palazzo tutti attribuiscono la regressione della malattia a un miracolo telepatico compiuto da Grigorij, che si trova a migliaia di chilometri. La zarina scrive: Sono tranquilla, la mia anima è in pace, posso riposare solo quando tu, maestro, sei seduto al mio fianco, e bacio le tue mani e poso il capo sulle tue benedette spalle. Oh, come tutto mi risulta facile allora!60 Due anni più tardi, lo zarevic viene nuovamente a trovarsi all'orlo della morte. Suo padre è molto preoccupato per l'iperprotezione di cui il figlio è oggetto; ha inoltre chiesto centinaia di volte ad Alix di non chiamare «bambino», né «piccolino» il bambino di ormai dieci anni: ma come suo solito, la moglie non gli dà retta. L'Imperatore decide allora di prendere in mano la situazione e si fa accompagnare dal piccolo in una caserma a molti chilometri da casa; lì conoscerà in prima persona la disciplina militare, che senza dubbio gli farà bene e formerà nel modo migliore lo spirito del piccolo erede al trono. Dopo innumerevoli discussioni con Alix al proposito, alla fine lei acconsente, non senza prima bombardare la testa del marito con una raffica di avvertimenti: «Fa' attenzione che il piccolino non corra», «Sta' attento che nessuno porti in giro il bambino a passeggio senza di te», «Ricorda che al piccolino piace giocare con la sabbia, non perdere di vista i movimenti della sua paletta.. ».67 Tutto è deciso: il bambino sarà affidato alle attenzioni del padre, del tutore francese Gilliard e di due medici. Il gruppo parte e Alessandra resta sommersa da un mare di angoscia e paure; ogni notte si reca nella

camera vuota di Aleksej, si inginocchia al suo letto e prega per ore. Ma né le sue preghiere, né la costante vigilanza dei suoi angeli custodi riescono a evitare che lo zarevic ontragga un raffreddore durante la visita alla gelida caserma. Nella notte inizia a starnutire, a sanguinare violentemente dal naso e a tremare di febbre. Immediatamente salgono su un treno diretto a casa, ma lungo il tragitto lo stato del bambino peggiora, e quasi viene meno dal dolore. Le attenzioni del padre, del tutore e dei medici riescono appena ad alleviare la sua agonia, finché lo Zar disperato invia una lettera ad Alessandra comunicandole che suo figlio sta per morire. Quando il treno giunge alla stazione privata di Tsarskoie Selo, la zarina vede l'estremo pallore del figlio, che si staglia nell'enorme macchia di sangue che ricopre i suoi vestiti e le bende con cui i medici tentano invano di contenere la fatale emorragia. La creatura apre pesantemente gli occhi e fissa la madre con pupille circondate da solchi neri, dopo di che cade svenuto. «Bisogna prepararsi al peggio», comunicano i medici a una zarina distrutta dalle lacrime. Ma nel profondo della sua anima un minuscolo lumicino riscalda una piccola speranza: Rasputin. Il contadino arriva di corsa, sale le scale e si inginocchia a terra accanto alla testa del piccolo in stato d'incoscienza, che ormai respira a malapena. Alle sue spalle, Alessandra e Nicola pregano in silenzio. Si può sentire il dolore aleggiare nell'aria. Dopo un po' Rasputin si alza con calma, si volta verso gli Zar e, con grande tranquillità, dice: «Non vi allarmate. Non succederà nulla».68 In seguito, e dando segni di profonda stanchezza, lascia il palazzo. Il giorno dopo, Aleksej aspetta i suoi visitatori seduto sul letto. L'emorragia si è arrestata, è allegro, sta bene. Mormorii e scandalo I pettegolezzi non tardano a diffondersi. Si dice che Rasputin abbia violentato una ragazza nelle stanze da bagno, che ecceda nelle sue pratiche e nel modo in cui impartisce la dottrina; si parla delle tecniche di sottomissione che adopera e del fatto che ipnotizzi le sue innocenti vittime. Il clamore giunge fino a palazzo imperiale. Alessandra non vuole credere a nulla, tutto ciò è solo frutto dell'invidia, per lei Grigorij è un santo. Nicola II non condivide il furore mistico della moglie, né il suo sconcertante appoggio a Rasputin, sebbene egli stesso sia stato testimone dei miracoli che opera sul figlio. Pur non volendo mettersi contro alla moglie, ritiene giusto verificare l'attendibilità delle voci. Il servizio segreto gli conferma che Rasputin è un falso profeta e un pervertito sessuale; vengono svolte indagini lungo il tragitto siberiano ove Rasputin ha lasciato la propria impronta; la depravazione del contadino è innegabile, il numero degli scandali incalcolabile: tutto, al suo passaggio, è rimasto cosparso di dettagli scabrosi. Messo di fronte alla realtà, Nicola II reagisce con l'ostinazione che lo caratterizza: «Non abbiamo forse il diritto, l'Imperatrice e io, di avere le nostre relazioni, di frequentare chi vogliamo?».69 Difende il visionario e protegge se stesso affermando che le questioni della Chiesa e quelle di palazzo imperiale non sono le stesse. «Si sbaglia, Maestà - lo contesta l'accusatore di Grigorij - Questa è ben più che una semplice questione familiare: questo è un affare che riguarda tutta la Russia».70

Il governo decide di prendere l'iniziativa a riguardo all'insaputa dello Zar: l'influenza di Rasputin sulla famiglia imperiale sta cominciando a essere molto pericolosa, è necessario arginarla. Come prima cosa, fanno in modo che Il'jodor, l'amico intimo di Grigorij, lo tradisca. Da quando era arrivato a San Pietroburgo, Rasputin non aveva mai smesso di vantarsi con Il'jodor a proposito dei suoi successi sessuali, e soprattutto della sua relazione con la famiglia imperiale: Lo Zar crede che io sia il Cristo reincarnato, gli Imperatori si inchinano di fronte a me, si inginocchiano al mio cospetto e mi baciano le mani. La zarina ha giurato che se anche gli altri mi voltassero le spalle, lei non mi abbandonerà, e mi considererà sempre suo amico. Lo sconcerto del suo interlocutore soffia sul fuoco dell'istrionismo di Rasputin, che torna alla carica. Gli occhi di Il'jodor si spalancano all'inverosimile nel sentire Grigorij affermare che bacia frequentemente la zarina di fronte alle figlie. Il monaco inizia a pensare che l'individuo che ha di fronte abbia perso la testa; Rasputin coglie immediatamente lo scetticismo dell'amico, il suo narcisismo non gli permette di sopportare che si dubiti della sua parola, così tira fuori le lettere che conserva vicino al cuore e le sventola sotto il naso dello sbalordito Il'jodor, a cui il cuore salta dal petto mentre contempla la calligrafia di Alessandra: Come mi manca la tua presenza accanto a me! Dove sei? Dove sei andato? Oh, sono così triste, e il mio cuore ha tanta nostalgia di te! (...) Tornerai presto accanto a me? Vieni subito, ti aspetto, mi tormento senza di te. (...) Ti amo. Sempre tua, Mamma.71 Non si sa esattamente come il monaco Il'jodor entri in possesso di queste lettere, potrebbe avergliele consegnate lo stesso destinatario o potrebbe invece avergliele sottratte; resta il fatto che finiscono nelle sue mani, e da lì in quelle dei nemici di Rasputin. Il giorno seguente scoppia lo scandalo: i giornali riportano le lettere della zarina e delle granduchesse; l'intera capitale riecheggia dell'ardore con cui l'Imperatrice si rivolge a questo impostore, bugiardo, ubriacone, «questo profittatore di corpi e anime chiamato Grigorij Rasputin».72 Nei salotti da tè, nei circoli e nelle case è l'argomento di conversazione che impegna tutte le bocche e tutte le orecchie: sarà riuscito Rasputin a cacciare lo Zar dal letto coniugale? Sicuramente dorme con la zarina e ha approfittato delle granduchesse! I muri della città vengono ricoperti di volantini pornografici con protagonisti Alessandra e il suo presunto amante-ipnotizzatore. Persino i bambini cantano di nascosto canzonette oscene riguardo alla vicenda. Gli Zar, messi al corrente della confusione che si è creata, non solo sostengono Rasputin, ma lo difendono con una convinzione che rasenta l'incoscienza: «I Santi vengono sempre calunniati», afferma l'Imperatrice parlando con il suo medico personale; «Lo odiano perché gli vogliamo bene», dice all'amica Anna; «Accusano Rasputin di baciare donne: ebbene, anche gli Apostoli baciavano tutti come segno di saluto», scrive in un altro momento.73 Di certo gli Zar sono a conoscenza del tipo di schiavitù mondane cui è legato Rasputin, ma riconoscerlo in pubblico metterebbe in ridicolo l'affetto che provano per lui; Alessandra ha bisogno dei miracoli che Grigorij opera con lo zarevic e per lei la salute del piccolo è di gran lunga più importante di qualunque cosa la gente possa pensare: attaccare Rasputin significherebbe mettere in pericolo la vita di suo figlio. Da parte sua, lo Zar convoca il primo ministro Stolypin, e si rivolge a lui con una schiettezza inusitata per un carattere debole

come il suo: «Conosco la tua lealtà verso di me. (...) È possibile che tutto ciò che mi hai riferito sia vero, ma ti ordino di non parlarmi mai più di Rasputin».74 Al protagonista di tanto scandalo viene improvvisamente in mente che non vede la sua famiglia da lungo tempo. Come staranno le sua amate bambine? Sente tanto la loro mancanza! È arrivata l'ora di andar via. L'intima amica della zarina, Anna, non può più vivere senza il contatto quotidiano con Rasputin, come potrebbe sopportare i tristi mesi della sua assenza? Può accompagnarlo? Sì, Grigorij glielo permette. Invidiose, altre due ammiratrici si uniscono alla spedizione; durante il percorso litigano per il privilegio di sedere al suo lato, di aver cura di lui e proteggerlo; ma anche in questa fuga di gruppo si producono scandali. Una delle accompagnatrici in questione si lamenta con l'Imperatrice del fatto che Grigorij l'abbia stuprata in pubblico; Anna e l'altra negano fermamente, assicurando che l'accusatrice non è nient'altro che una ninfomane, e che la permanenza a Pokrovskoe è consistita in esercizi spirituali di enorme beneficio per le loro anime; «abbiamo cantato salmi, visitato fratelli e sorelle, dormito in una stanza piuttosto grande, al piano terra, su pagliericci gettati al suolo».75 La zarina può stare tranquilla. Nel 1910, due donne presentano all'accademia di Teologia la denuncia che Rasputin ha abusato di loro. Non è la prima volta che l'accademia riceve denunce di questo tipo a proposito di Grigorij. L'ispettore Teofan, lo stesso che accolse a braccia aperte il contadino illuminato quando giunse a San Pietroburgo, è ora furioso di fronte alle notizie dei suoi eccessi irriverenti che piovono da ogni parte. Dato che il siberiano si atteggia a canonico e che molti già lo chiamano «padre Grigorij», urge che la Chiesa prenda totalmente le distanze da lui. Teofan chiede udienza allo Zar, ma al suo arrivo a palazzo incontra una severa zarina spalleggiata dall'inseparabile Anna Vyrubova. L'ispettore dell'accademia espone per un'ora le proprie argomentazioni: Alessandra sostiene una ferrea difesa dell'Amico. Il giorno seguente Teofan è destituito dal suo incarico. La sordità imperiale e l'ingiustizia commessa nei suoi confronti spingono l'ex ispettore a passare nelle file dei nemici di Grigorij, che già annoverano giornalisti, monarchici, prelati, politici e alcuni aristocratici. Tutti assieme stanno organizzando una campagna stampa contro il falso profeta. Nei salotti le opinioni sono contrastanti: «Sei a favore o contro Rasputin?», ci si domanda a vicenda. L'onda dello scandalo raggiunge dimensioni tali che il ministro Stolypin, lo stesso cui Nicola aveva proibito di parlargli di Grigorij, lo stesso di cui Rasputin aveva miracolosamente curato la figlia dopo che la piccola era stata vittima di un incidente, si vede costretto a un faccia a faccia con il calunniato. Stolypin lascia una testimonianza del colloquio: Sentii nascere in me un irresistibile ribrezzo. Quell'uomo possedeva una grande forza magnetica e produceva in me una profonda impressione morale, quantunque di repulsione. Riuscendo a controllarmi, gli dissi che con i documenti in mio possesso la sua sorte era nelle mie mani.76 Sia stato per queste parole, o per il semplice fatto di aver osato affrontarlo, resta il fatto che Grigorij non ha alcuna intenzione di permettere che Stolypin torni a essere felice, per lo meno in questa vita. Come prima cosa, e rischiando la possibilità di un giudizio in contumacia, valuta prudente sparire nuovamente dalla capitale. Decide di andare a Kiev, dove sa che gli Imperatori e due delle granduchesse si

recheranno per l'inaugurazione di una statua commemorativa di Alessandro III, padre di Nicola. Stolypin accompagnerà la famiglia reale in questa cerimonia. Mentre la processione imperiale attraversa le strade, Rasputin osserva la scena nascosto tra la folla; nel preciso momento in cui la famiglia e Stolypin passano davanti a lui, Grigorij salta, agita le mani e indica il primo ministro, gridando: «La morte lo insegue! La morte sta camminando dietro di lui!».77 La notte seguente, nell'intervallo di una rappresentazione all'opera, un oscuro individuo si avvicina al primo ministro, estrae una pistola dal cappotto e gli spara due colpi in pieno petto. Con una esplosione di sangue nella camicia, Stolypin si volta verso gli Zar, li guarda, si fa il segno della croce e cade privo di vita. Pochi giorni dopo un cugino dello Zar sente l'Imperatrice commentare che «coloro che offendono Dio criticando il Nostro Amico possono dire addio alla protezione divina». L'inseparabile Anna Vyrubova l'asseconda, e subito iniziano a circolare per San Pietroburgo voci che indicano l'amica di Alessandra come organizzatrice di orge truculente a casa sua e a palazzo imperiale; si dice che vada a letto con ufficiali, con Rasputin, con lo Zar e persino con la stessa zarina.78 L'assassinio di Stolypin divide San Pietroburgo: alcuni accusano esplicitamente Rasputin di aver pagato un sicario, altri invece difendono le sue sincere doti di veggente. Il bersaglio di tutte le critiche, nel frattempo, decide che è giunta l'ora di ripulire il suo infangato nome. Quale luogo migliore per farlo di Gerusalemme? In Terra Santa rimarrà nascosto per un anno. Lo stratagemma funziona nel migliore dei modi. Al ritorno dalla permanenza a Gerusalemme viene ricevuto da una famiglia imperiale tutta orecchi: tutti si accalcano attorno al pellegrino per ascoltare il racconto delle sue avventure. La minacciosa campagna contro Rasputin sembra essersi dissolta, l'unione con gli Zar si rinforza e Nicola inizia a consultarlo su questioni politiche: dopo ciò che è successo con Stolypin non ha più il minimo dubbio riguardo alle sue doti di veggente. La corte non si lascia convincere, si mormora che Grigorij e la zarina siano diventati amanti, i giornali pubblicano una caricatura in cui gli Zar appaiono seduti in grembo a un gigante vizioso con il volto di Rasputin. Vengono anche diffuse fotografie in cui è rappresentato Grigorij circondato dal suo nobile stuolo di donne. La richiesta di tali pubblicazioni raggiunge dimensioni tali che, quando la censura capeggiata dallo Zar sequestra le edizioni, esemplari sciolti vengono venduti sul mercato nero a prezzi astronomici. Maria Fëdorovna, l'agguerrita madre di Nicola che, per disgrazia di Alessandra, è ancora in vita, non si lascia sfuggire l'occasione per fare a pezzi il nome dell'odiata nuora: Mia nuora mi detesta, è convinta che io sia gelosa, non capisce che mi preoccupa solo la felicità di mio figlio. Il mio intuito mi dice che stiamo andando incontro a una catastrofe, ma mio figlio dà ascolto solo agli adulatori senza rendersi conto di ciò che succede attorno a lui. Perché nessuno lo avverte? È forse ormai troppo tardi?79 A ciò Maria, in un'occasione successiva, aggiunge: Mia nuora non si rende conto che è traviata e che sta trascinando con sè tutta la dinastia. Crede sinceramente alla santità di un avventuriero, e noi, impotenti, non possiamo fare nulla per evitare una catastrofe che ormai sembra inevitabile.80

Rasputin, in un tentativo disperato di recuperare lo splendore della sua fama, cerca di farsi sacerdote, ma gli risulta del tutto impossibile memorizzare i Vangeli. Non si rassegna: il suo campo, in realtà, non è il sacerdozio, ma il teatro; gli abiti e la messinscena sono per lui fondamentali, perciò si compra una veste talare e indossandola si fa fare svariate fotografie. Sebbene privo della croce pettorale, si fa ritrarre mentre benedice il personale con espressione da beato. Ottiene il suo obiettivo e convince alcune persone che ritornano ad assieparsi alla porta di casa sua nella speranza di un miracolo. Ma non tutti seguono il suo gioco. Nel 1913, in occasione del centenario della famiglia Romanov, la cattedrale di Kazan è pronta a offrire un glorioso Te Deum, con la famiglia imperiale al completo e tutti i posti a sedere riservati. Il presidente del protocollo riceve immediatamente la notizia che uno strano ed enorme contadino si è accomodato in uno dei posti principali e non intende muoversi. Il presidente del protocollo, che in più è anche presidente della Duma81, corre sul luogo e trova Rasputin. Ciò che accade di seguito è raccontato con dovizia di particolari dallo stesso furioso politico: - Che stai facendo qui? - esplode. - A te cosa importa? - replica il contadino guardandolo con insolenza. - Se ti rivolgi di nuovo a me con questo tono, ti prenderò per la barba e ti trascinerò fino alla porta della cattedrale. Non sai forse che sono il presidente della Duma? Rasputin non si scompone, al contrario, tenta di ipnotizzare l'avversario inchiodandogli addosso uno sguardo penetrante. L'altro lo sostiene, in tono di sfida. Allora Rasputin si arrende e chiede con tranquillità: - Cosa vuoi da me? - Vattene da qui, vile eretico! Non c'è posto per te in questo luogo sacro! - Sono qui perchè mi hanno invitato persone più importanti di te annuncia esibendo un invito scritto di suo pugno dalla zarina. Ma il rabbioso nemico non lo guarda nemmeno. - Sei un cialtrone e un bugiardo! Nessuno più ti crede. Vattene, questo non è posto per te. A quel punto Rasputin si getta in ginocchio e inizia a pregare. L'altro gli propina un calcio nello stomaco gridando: - Basta pagliacciate! Se non te ne vai immediatamente chiamerò le guardie! Rasputin allora esclama: - Oh, signore, perdonalo perchè non sa quel che fa! - dopo di che si incammina lentamente verso la porta della cattedrale e sparisce.82 Contemporaneamente a questa scena, l'antico amico Il'jodor, ora divenuto suo nemico, si sta mettendo in contatto con una prostituta che era stata figlia spirituale o, che è lo stesso, maltrattata amante di Rasputin. In seguito al trauma provocatole da Rasputin la donna, Hënija Guseva, si dà alla fornicazione con quanti più uomini può, contraendo la sifilide che le sfigura il volto. La Guseva riceve da Il'jodor un coltello e un suggerimento: «Con questo coltello, uccidi Grigorij». Hënija esegue l'ordine, ma per sua disgrazia alla fine il siberiano sopravvive miracolosamente alle coltellate. La madre dello Zar, la sorella della zarina, ufficiali dell'esercito, politici e membri del Santo Sinodo si dolgono per la sua guarigione: molti credono ormai che l'unica via possibile per eliminare il diabolico Rasputin sia l'omicidio.

Il governo in ombra Nel 1914 scoppia la Prima Guerra Mondiale. Rasputin scrive allo Zar ripetute missive disseminate di errori ortografici, chiedendogli di non dichiarare guerra e schierandosi ardentemente per una non partecipazione della Russia nella stessa; le sue visioni erano state molto chiare in proposito. Anche Alessandra fa pressioni sul marito con delle lettere in cui non manca di citare Rasputin: «Perché non confidi maggiormente nel nostro Amico che ci guida per disegno divino? (...) Limitati a obbedirgli di più. Egli vive per te e per la Russia».83 Nonostante tutto, Nicola lascia il paese e viaggia al fronte per combattere contro la Germania, nazione di cui è originaria Alessandra. Nel Palazzo d'Inverno si ode lo zarevic gemere. «Che ti succede?», gli domanda un ufficiale che lo incontra. «Papà piange quando perdono i russi, mamma quando perdono i tedeschi. E io per chi devo piangere?».84 Lasciata al comando della sua nazione, la zarina decide di impegnarsi a conservare il governo autocratico per lo zarevic; durante l'assenza dell'Imperatore è lei che prende le decisioni... su consiglio di Rasputin. Invia numerose lettere al marito, incoraggiandolo a seguire la strada che lui consiglia loro: Anima mia! Prego Dio affinché tu comprenda quanto vale l'appoggio del nostro Amico. Senza di lui non so che ne sarebbe di noi. È la nostra forza e il nostro conforto. In seguito continua il bombardamento: Prima del consiglio dei ministri, non dimenticare di prendere in mano la piccola icona che ci ha dato il nostro Amico, né di pettinarti varie volte con il suo pettine. E più tardi: So che il nostro Amico ci conduce sulla strada certa. Non prendere alcuna decisione importante senza dirmelo. (...) Come vorrei riversare la mia volontà nelle tue vene! La Vergine è sopra di te, con te: ricorda la visione del nostro Amico!85 Con il passare dei mesi, l'appoggio incondizionato riservato a Rasputin aumenta con una convinzione che rasenta il delirio. Il popolo russo comincia a non poterne più, una folla si raduna nella Piazza Rossa a Mosca, chiedono a gran voce l'abdicazione dello Zar, l'arresto della zarina e l'esecuzione di Rasputin: chiedono la salita al trono del granduca Nicola Nicolaevic, zio dello Zar. Sfilano in massa verso il convento di Santa Maria e Santa Marta, dove urlano i loro insulti agli Imperatori. Elisabetta, sorella di Alessandra, che ha fondato e vive in questo convento, esce per cercare di placare la baraonda: ne riceve in cambio sassate e insulti, le gridano che è la sorella di una spia tedesca e che ella stessa lo è. «Abbattete la donna tedesca!», chiede tuonando la massa. In quel momento sopraggiunge la polizia che si vede costretta a usare la violenza per riuscire a disperdere la folla; i rivoltosi si allontanano chiedendo a gran voce la morte di Rasputin e l'imprigionamento della zarina; urlano il nome di Alessandra chiamandola «puttana tedesca».86 Terrorizzata dall'esperienza vissuta, Elisabetta corre a San Pietroburgo a chiedere alla sorella che si allontani immediatamente da Rasputin. La zarina la riceve con espressione gelida sul viso: categoricamente, e con un'ostinazione patologica, rifiuta di ascoltare qualunque cosa abbia a che vedere con il lato oscuro del suo protetto. «Credo che non sia stata

una buona idea venire», si lamenta Elisabetta. «Infatti», dice seccamente Alessandra. Non si parleranno mai più. Rasputin è preoccupato del successo che incomincia ad avere tra il popolo lo zio dello Zar, che in quei momenti ricopre un ruolo di comando al fronte. Nicola Nicolaevic, da parte sua, aveva intrapreso una dura campagna contro l'influenza di Grigorij a palazzo, battaglia in cui ha come alleato tutto il resto della famiglia imperiale. Contro questo e contro il sostegno popolare di cui gode la persona di Nicolaevic, Rasputin adotta una strategia difensiva personale; convince Alessandra di come sarebbe opportuno togliere di mezzo questo individuo, alludendo al fatto di aver avuto visioni in cui ha scorto catastrofi senza limiti per i russi, tutte capitanate da Nicolaevic. Immediatamente, l'Imperatrice cerca di convincere il marito a destituire il parente, ma in questo caso la sottomissione dello Zar oppone resistenza: suo zio gode di prestigio e amore tra le truppe ed egli preferisce lasciare le cose come stanno. La risposta della moglie è immediata: Se solo potessi mostrarti più severo, amore! (...) Ascolta il nostro Amico e confida in lui. È importante per noi contare non solo sulle sue preghiere, ma sui suoi consigli.87 Quando Nicolaevic viene a sapere dell'oscura conguira contro di lui partita da palazzo imperiale, tenta di fare in modo che il nipote si avveda della manipolazione esercitata da Rasputin ai danni di Alessandra. Immediatamente lei scrive al marito: «Come vorrei che Nikolaska [come familiarmente chiama lo zio] non si opponesse all'uomo che Dio ci ha inviato!».88 Dato che Nicola II resta fermo sulle sue posizioni, il siberiano fa pressioni sulla zarina usando le maniere forti: Il Granduca non uscirà mai vittorioso dalla battaglia, perchè Dio non è con lui. Come può il Signore stare a fianco di chi volta le spalle a me, Uomo di Dio? Con ogni certezza, se il Duca conserva il suo potere, finirà per uccidermi; che ne sarà allora dello zarevic, dello Zar, e della Russia?89 La pressione di Alessandra e di Rasputin è così forte che il docile Zar finisce per arrendersi. Destituisce lo zio dall'incarico e lo condanna all'esilio. La zarina accoglie il gesto con infinito amore e ammirazione: «Che tu sia benedetto, angelo mio, e che sia benedetta la tua decisione!»90 Grigorij ha trionfato. Può manipolare Alessandra in tutta libertà, a proprio piacimento. Ella rimane accecata e salda al suo fianco, ha una delirante fiducia nel criterio irresponsabile di Rasputin; in ogni lettera, in ogni nota suggerisce a Nicola di seguire ciecamente la strada segnata dall'Amico: Devo trasmetterti un messaggio del nostro Amico, ispirato da una visione che ha avuto durante la notte. Ti chiede di ordinare un'offensiva immediata a Riga.91 O anche: Devi seguire i consigli del nostro Amico. Perfino i bambini [i loro figli] si sono resi conto di come nulla ci riesca quando non gli diamo retta, e viceversa, come tutto si sistemi quando gli obbediamo. (...) Basta che affronti le cose in modo virile e con profonda fede.92 Protetto dall'insensata idolatria della zarina, Grigorij suggerisce le nomine dei ministri e colloca i suoi compari nelle posizioni di maggior rilievo. I candidati vengono eletti secondo i capricci dettati dalle sue sbronze; per esempio, in una notte di baldoria in un ristorante con musica dal vivo, l'ebbro profeta non apprezza i cantanti gitani che

allietano la serata e, gridando, ordina a uno dei suoi compagni di gozzoviglia di mettersi a cantare; l'individuo, anch'egli ubriaco, sfregia l'aria con gorgheggi molto graditi a Rasputin, che apprezza il gesto. Pochi giorni dopo l'uomo è nominato ministro dell'Interno. Le critiche dei parlamentari non si fanno attendere: dicono che i ministri in Russia non vengono nominati grazie alle loro capacità gestionali, ma alla loro abilità nella musica gitana. L'incondizionato appoggio imperiale di cui gode Rasputin fa sì che giorno e notte si formi alla sua porta una fila permanente di persone, in maggioranza appartenenti alle classi medie e basse, alla ricerca di una qualche benefica influenza o favore. A quell'epoca Grigorij vive in un appartamento di cinque stanze, ammobiliato con regali delle sue ammiratrici. Una ad una si presentano di fronte a lui: se le trova di suo gradimento, allora Rasputin redige un documento su cui scarabocchia un testo con vari errori ortografici in cui si richiede a questo o quel funzionario di attendere il sollecitatore. La maggior parte delle volte questi fogli di Rasputin sono diretti al capo della cancelleria; il richiedente si reca brandendo il foglio scarabocchiato come se stesse tenendo tra le mani un miracolo. Le petizioni sono disparate e pittoresche. Scrive il capo della cancelleria: Un giorno mi si presenta una donna con una lettera di Rasputin nella quale si diceva: «Mio caro ragazzo, sistema la faccenda di questa qui. Grigorij". La dama mi spiegò che desiderava un ruolo da protagonista all'opera imperiale. Feci molta fatica e mi ci volle una gran pazienza per spiegarle che non dipendeva da me e che non potevo fare nulla in proposito.93 Una coppia di poliziotti piantona giorno e notte l'entrata dell'appartamento del contadino dalle presunte doti miracolose. Egli crede che siano lì per proteggerlo, in realtà la loro vera missione è registrare tutto ciò che accade allo scopo di trasmettere poi le informazioni ai servizi segreti, ormai del tutto esasperati da Grigorij. In tali registri vengono annotati tutti i dettagli dei colloqui che Rasputin intrattiene con i richiedenti che si recano a fargli visita. La moglie di un ufficiale, che chiede un trasferimento per il marito, esce dall'appartamento denunciando alla polizia l'accaduto: Un'inserviente mi ha aperto la porta e mi ha condotto alla stanza in cui mi aspettava Rasputin, che io non conoscevo. Immediatamente costui mi ha chiesto che mi spogliassi. Ho soddisfatto il suo desiderio e l'ho accompagnato nella stanza accanto. Non ha prestato la minima attenzione alla richiesta che ero venuta a sottoporgli: ha passato il tempo a toccarmi il seno e a ordinarmi di baciarlo. In seguito ha scritto una nota su un foglio, ma non me l'ha dato, dicendo che non lo avevo compiaciuto e che mi sarei dovuta ripresentare un altro giorno. Ogni giorno la coppia di poliziotti appunta ciò che succede nell'abitazione, già nota come «l'appartamento dei miracoli». Nei loro taccuini si può leggere che la maggior parte delle volte Grigorij giunge a casa del tutto ebbro, accompagnato da prostitute o addirittura da mogli di ufficiali: «La signora Maria Gill, moglie del capitano del reggimento 145, ha dormito con Rasputin». Tutti credono che Grigorij possa ottenere qualunque tipo di favore: le donne usano il sesso per conseguire ciò di cui hanno bisogno. Non si sa come, i taccuini della polizia diventano di pubblico dominio e per tutta San Pietroburgo iniziano a circolare le succose e nefande notizie su ciò che accade, con data e ora, nel famigerato appartamento. Le pagine di questi diari di polizia si vendono all'asta sul mercato nero; in tutta la Russia si diffondono i dettagli

delle orge che vengono organizzate in casa di Rasputin, la lussuriosa sfrenatezza che brulica permanentemente attorno a lui diviene leggendaria. Tuttavia Alessandra continua a restare sorda a qualunque commento che possa oscurare la sua venerazione verso l'Amico. Un nuovo miracolo è venuto a confermarle la santità del suo protetto, e questa volta la beneficiaria è stata Anna Vyrubova. In un freddo pomeriggio di gennaio, il treno che riporta Anna da Tsarskoie Selo a San Pietroburgo deraglia nella neve. L'amica della zarina rimane intrappolata, un radiatore le ha schiacciato le gambe e ha battuto la testa contro un ferro. Alessandra si precipita all'ospedale, dove i medici le comunicano che non c'è niente da fare. La morte è imminente. Viene chiamato Rasputin: «Anuska! Anuska!», grida mentre arriva. La moribonda delira, ma appena vede che è Rasputin colui che le tiene la mano, lo implora con un filo di voce: «Padre, prega per me». Egli lo fa. Anna sta per oltrepassare il confine con l'altra vita, ma, nonostante ciò, resuscita: apre gli occhi e guarda Rasputin. Quindi, imitando la voce che Cristo doveva aver usato con l'amico Lazzaro, Grigorij ordina: «Alzati e cammina!». Anna si leva, ma subito si accascia priva di sensi. Rasputin si volta verso la zarina e, con calma, le dice: «Si riprenderà, ma rimarrà invalida». E davvero la Vyrubova vivrà per poterlo raccontare. Alessandra, che ha visto con i propri occhi questo miracoloso risanamento, si aggrappa alla convinzione della santità di Rasputin con un impeto indistruttibile. Parallelamente, durante la guerra, la zarina vive del tutto calata nel suo ruolo da reggente: si veste da monaca e visita i feriti in ospedale; va a colloquio con i politici, destituisce ministri, dà ordini al marito e per tutto si consulta con Rasputin, rifiutandosi di vedere che il suo consigliere spirituale si è tramutato in un completo degenerato. Contemporaneamente alle sfrenatezze che compie nel suo appartamento, il siberiano ogni notte è protagonista di un diverso scandalo o provoca un qualche tumulto. Un testimone descrive la seguente scena verificatasi in un ristorante moscovita: Rasputin ha eseguito una «danza russa« mentre faceva ai suonatori confidenze del tipo: «Questo caffettano me l'ha regalato la vecchia [Alessandra]: l'ha cucito con le sue mani!». E dopo la «danza russa": «Oh, che direbbe la padrona se mi vedesse qui!». (...) Avrebbe esibito il suo sesso e, in quella tenuta, continuato a conversare con le danzatrici. (...) Era come se gli piacesse mostrarsi a loro, e ha persistito nel suo atteggiamento. Ha dato da dieci a quindici rubli ad alcune cantanti, denaro che gli aveva consegnato la sua accompagnatrice femminile, la quale in seguito ha saldato anche il conto delle consumazioni e altre spese. Verso le due del mattino, il gruppo si è diviso.95 Lo zio di Nicola gli scrive una lettera disperata in cui gli chiede di controllare meglio la sua traviata consorte. Ma lo Zar non ha sufficiente coraggio per affrontare la moglie: Alessandra è il suo sostegno emotivo, le sue orecchie, i suoi occhi e il suo scudo contro i politici di San Pietroburgo. «Sono forte» -scrive Alessandra a Nicola. «Ti racconto tutto ciò che sento, tutto ciò che vedo, sono come un muro dietro di te, un muro solido».96 La zarina continua ad essere molto più forte di lui, come era all'inizio del loro matrimonio. I politici sono sempre più irrequieti e si ribellano agli ordini della reggente, sanno che le sue idee riproducono fedelmente ciò che detta la mente lunatica di Rasputin. Ogni volta che sono lontani, mantengono un contatto quotidiano via telegramma. Alessandra pretende che nel giorno

della Resurrezione di Cristo si renda omaggio al suo rappresentante terreno: nella sua cieca esaltazione ritiene che vi sia eguaglianza tra il calvario di Cristo e quello del suo protetto, e lo spiega così a Nicola in una lettera: Ogni volta che appare un servo di Dio, la malvagità prolifera attorno a lui, si cerca di nuocergli, di strapparlo a noi. (...) Il nostro Amico vive solo per il suo Imperatore e per la Russia, e subisce ogni genere di calunnia per causa nostra. È buono e generoso come Cristo.93 L'intera Russia si risente nei confronti della zarina, per la sua cecità e per la seria minaccia rappresentata dalla sua vicinanza al contadino siberiano. Tuttavia, quasi nessuno osa protestare apertamente contro colui che ha ricevuto da Alessandra il ruolo di consigliere principale: ogni volta che qualcuno ha tentato di aprire gli occhi agli Zar, non ha ricevuto altro che un aspro e gelido rifiuto. Ciononostante, vi è un membro della nobiltà che non è disposto a lasciarsi intimorire, il suo nome è Feliks Jusupov, è un principe, discendente del profeta Maometto, ha studiato a Oxford, è sposato con una nipote dello Zar, è l'uomo più ricco di Russia dopo lo Zar e, soprattutto, è certo che se si vuole salvare la Russia si debba uccidere Rasputin. Ed egli, coraggioso, si incaricherà di organizzare tutto. L'assassinio di Rasputin Il 21 novembre 1916, il principe Feliks Jusupov intrattiene un colloquio privato con Puriskevic, storiografo che lavora per il ministero dell'Interno e membro monarchico della Duma. Parlano della «questione Rasputin» e concordano nel coinvolgere nel complotto altri alleati. Il giorno seguente, il tenente Sukotin, il gran duca Dmitrij Pavlovic e il dottor Lazavert vengono messi al corrente del piano per assassinare Grigorij. Utilizzeranno come esca erotica la moglie dello stesso Jusupov, Irina, una nipote dello Zar per la quale Rasputin aveva sempre dimostrato desiderio sessuale, mai soddisfatto. La notte del 16 dicembre, come stabilito, nel palazzo di Jusupov i cinque complici avvelenano con cianuro di potassio alcuni pasticcini che successivamente collocano su un vassoio; Rasputin è goloso, non resisterà ai dolci, ne sono convinti. Feliks, che ha un'automobile, va a prendere il suo invitato, e Rasputin lo accoglie cordialmente: Improvvisamente mi sentii investito da un'immensa pietà verso quell'uomo - racconterà più tardi il principe -(...) Provai disprezzo per me stesso. Mi domandavo come avessi potuto concepire un crimine tanto abietto. (...) Fissai con orrore la mia fiduciosa vittima.98 Ma non si dice forse che Grigorij sia veggente? Perché allora non prevede la sorte cui sta per andare incontro? Questo pensa Feliks mentre conduce l'automobile in direzione del palazzo, con Rasputin al suo fianco. I complici intanto hanno versato dell'altro cianuro di potassio nel vino, e si sono nascosti al piano superiore. Entrando a palazzo si ode da lontano un grammofono suonare. «Mia moglie ha delle invitate - spiega Feliks - se ne andranno subito. Nel frattempo, possiamo prendere un tè in sala da pranzo».99 Rasputin, che si è recato lì solo per stare con Irina, accompagna deluso l'anfitrione in salotto. Rifiuta i pasticcini e il vino che gli viene offerto; Feliks prende tempo conversando banalmente e torna a offrire i pasticcini; no, grazie, Rasputin non ne desidera, vuole attendere Irina. Teso come una corda di violino, Jusupov si allontana dicendo di andare a vedere se le amiche della moglie si sono già

accomiatate. Va invece dai suoi complici: «Figuratevi, signori, la bestia non vuole né mangiare, né bere».100 Tuttavia quando torna in salotto, Rasputin, stanco di attendere Irina, sta mangiando i pasticcini e bevendo il vino. L'anfitrione aspetta il collasso del gigante con i nervi a fior di pelle. Il siberiano parla e ride come se niente fosse, chiede più vino, vuole cantare e far baldoria, torna a chiedere di Irina. Passano due ore e non c'è alcun segnale che il veleno stia facendo effetto. Jusupov corre nuovamente dai suoi complici: decidono che Feliks dovrà uccidere Rasputin sparandogli. Il principe, uomo signorile e delicato come un cerbiatto, torna in salotto con una pistola tra le mani: Grigorij mi guardò con sorpresa e quasi con paura. Come se avesse letto nei miei occhi qualcosa che non si aspettava. Alzai la pistola con un gesto volutamente lento. Rasputin rimaneva in piedi di fronte a me senza muoversi... gli occhi fissi al crocifisso... Sparai. Egli iniziò a ululare con una voce selvaggia, mostruosa, e poi si schiantò pesantemente sulla pelle d'orso.101 All'udire lo sparo i compari escono dal nascondiglio e corrono sul posto: Moribondo, Rasputin giaceva davanti al sofà mentre Jusupov lo sorvegliava, in piedi, accanto a lui, con la pistola in mano, «Dobbiamo spostarlo dal tappeto immediatamente, altrimenti il sangue si spargerà e macchierà la pelle d'orso». (...) «Non c'era dubbio - dichiarerà più tardi l'assassino -Rasputin era morto. Spegnemmo la luce, chiudemmo la porta della sala da pranzo a chiave e salimmo nello studio. Eravamo tutti euforici».102 Ma si sbagliano. Il principe non resiste all'irrefrenabile desiderio di tornare a vedere il cadavere; cosicché scivola di nascosto in salotto: Il corpo giaceva ancora vicino alla tavola, dove lo avevamo lasciato. Non si muoveva, ma dopo averlo toccato mi sembrò che fosse ancora caldo. Mi chinai sopra di lui e gli presi il polso, senza sentirlo. Stillavano ancora piccole gocce di sangue dalla ferita. (...) Quando ero sul punto di andarmene, notai un leggero movimento della palpebra sinistra. Improvvisamente iniziò ad aprire l'occhio destro... la palpebra sinistra si mosse e i due occhi si inchiodarono su di me con un'espressione di diabolica crudeltà. (...) Successe una cosa incredibile. Con un movimento fulmineo e furioso, Rasputin saltò in piedi. Aveva la schiuma alla bocca. Era agghiacciante. La stanza risuonò di un ruggito selvaggio, (...) le dita convulsamente irrigidite (...) affondarono nelle mie spalle alla ricerca del collo (...) cercai di liberarmi, ma mi assoggettava con una forza inimmaginabile (...) con un ultimo incredibile sforzo riuscii a liberarmi. Rasputin, ansimando senza fiato, cadde di schiena afferrandomi la giacca, che restò tra le sue mani. Mi precipitai su per le scale alla ricerca di Puriskevic. Svelto, la pistola! Spara! È ancora vivo!103 Rasputin riesce a uscire in giardino e si trascina a gattoni sulla neve. Il principe, del tutto fuori di sé, grida a Puriskevic: «Spara! Sta scappando!». Grigorij ulula: «Feliks, Feliks, racconterò tutto alla zarina». Puriskevic, ora in possesso della pistola, spara sulla strada, una volta, due volte... Ed entrambe le volte sbaglia. Tre... ora sì, il colpo raggiunge la schiena della vittima, che si ferma. Un quarto colpo viene sparato alla testa. «Si schiantò come un sasso sulla neve e iniziò a scuotere la testa avanti e indietro».104 Per fugare ogni possibile dubbio, l'assassino si avvicina al corpo inerte e gli dà un calcio sulla tempia.

Al rumore degli spari, arriva la polizia. Jusupov li tranquillizza dicendo che stavano celebrando una festa e che «un compagno aveva bevuto troppo e aveva iniziato a sparare».105 Nel frattempo, due soldati complici trascinano Rasputin in cantina: «Sanguinava copiosamente dalle numerose ferite. La lampada faceva luce sul suo viso, e si poteva vedere con molta chiarezza il volto lacerato e deturpato». Feliks confesserà più tardi: «La rabbia e il rancore mi soffocavano. Un impulso che non posso spiegare s'impadronì di me. Mi scagliai sul cadavere e iniziai a colpirlo con una sbarra». Tuttavia, miracolosamente, Rasputin è ancora vivo. «Gli mancava il respiro e la pupilla del suo occhio destro mi fissava con uno sguardo raggelante e vuoto... Ancor oggi continuo a vedere quell'occhio davanti a me». 106Lo finiscono una volta per tutte; il granduca Dmitrij e Puriskevic caricano il cadavere sull'automobile e lo portano fuori città, fino a un ponte sul fiume Neva. Il fiume è gelato e i quattro uomini lanciano il corpo sul ghiaccio, che nell'impatto si rompe. Lo vedono quindi sparire nella gelida oscurità delle acque. Tre giorni dopo alcuni passanti scorgono un oggetto galleggiante sul fiume. Rasputin! I suoi assassini avevano dimenticato di zavorrare il cadavere. Secondo i risultati dell'autopsia, Grigorij era ancora vivo quando l'avevano gettato nell'acqua gelida. Alcuni giorni dopo gli assassini confessano: «Abbiamo perpetrato l'omicidio in un accesso di follia patriottica... Abbiamo giurato di non tornare mai più su questo argomento...».107 L'argomento pose fine alla loro amicizia. Non furono mai processati per aver ucciso Rasputin, l'Amico degli Zar. L'ultimo Romanov L'8 marzo 1917, Nicola parte da Tsarskoie Selo diretto al quartier generale al fronte. Alle sue spalle lascia una capitale affamata, priva di riserve alimentari e sul punto di esplodere come un barile di polvere da sparo. La popolazione si riversa nelle strade e assalta le panetterie: scoppiano tumulti e scontri. Lo Zar non ne viene a conoscenza fino all'11 marzo. La situazione raggiunge una gravità tale che il giorno 15 viene chiesta la sua abdicazione in favore del figlio Aleksej, ancora minorenne. Mentre redige il documento, si consulta con il medico e arriva alla conclusione che sottrarre il bambino dalle cure speciali che la sua famiglia gli provvede potrebbe essergli fatale, ragion per cui alla fine rinuncia al trono a nome suo e di suo figlio in favore del fratello Mihajl. Dichiara drammaticamente: «Confido nel fatto che comprendano i sentimenti di un padre».108 Pietrogrado - la capitale non si chiama più San Pietroburgo - accoglie Michele con una serie infinita di sommosse antimonarchiche; il popolo ha sopportato abbastanza e non ne vuole più sapere degli Zar. Il fratello dell'ex Zar decide di abdicare immediatamente; in questo modo, il governo dei Romanov è polverizzato dopo tre secoli passati al potere. Il 22 marzo Nicola torna a Tsarskoie Selo. L'antico focolare diverrà ora la sua prigione, all'ingresso il viaggiatore deve identificarsi di fronte alla guardia di palazzo, che accompagna l'iniquo verso il lussuoso interno. Il vecchio Zar trascina, attraverso il corridoio che gli viene aperto dalla folla, la sua maestà caduta e l'insostenibile peso della sua umiliazione. Attraversa il palazzo fino a giungere a quelle che erano state le sue abitazioni private, dove lo sta aspettando Alessandra; il

volto di Nicola porta l'impronta della sofferenza, dell'amarezza, dell'infinito senso di fallimento per aver tradito il suo lignaggio. La coppia, sciolta in lacrime, si fonde in un abbraccio. Durante la prigionia, Nicola si erige a baluardo emotivo della famiglia. Sereno, tranquillo, si adatta con estrema nobiltà alla nuova situazione, e funge da elemento di coesione; si preoccupa per il futuro della Russia, e desidera che il nuovo governo provvisorio sia in grado di risolvere la situazione, dimostrando ora quella grandezza di spirito che lui purtroppo non aveva avuto come governante. Alessandra, al contrario, lascia briglia sciolta alla psicopatia che la domina e conserva un'ostinazione, un astio e un orgoglio senza limiti. Non si rassegna al fatto di essere stata privata dei lussi e dei dettagli di buon gusto che costellavano la sua vita; passa dal lamentarsi in continuazione al rinchiudersi in un silenzio che si erige come un muro tra lei e il nuovo inospitale mondo che la circonda. Intransigente nei suoi giudizi, avulsa dalla realtà, è testardamente convinta che i contadini e l'esercito si opporranno alla Rivoluzione. In Russia come all'estero, nessuno sa bene che cosa fare della famiglia imperiale. Iniziano le negoziazioni con l'Inghilterra perché li accolga, ma i dissapori tra il Soviet di Pietrogrado e il governo provvisorio congelano il progetto. I britannici approfittano dei tentennamenti e si ritirano con un comunicato nel loro stile: «Il Governo di Sua Maestà non ritiene di insistere nella sua precedente offerta di ospitalità alla famiglia imperiale».109 Si decide dunque il trasferimento della famiglia in Siberia quando Lenin, aiutato dai tedeschi, lascia il suo esilio e torna in Russia. Scoppia la Rivoluzione Bolscevica, il paese si divide in due fazioni che lottano per farsi carico degli antichi Zar. Sono i bolscevichi infine a impadronirsi del trofeo, e trasferiscono la coppia assieme ai figli a Ekaterinburg, sulle pendici orientali degli Urali. Gli Imperatori, che in passato ebbero tutto, si vedono ora costretti a vivere come veri e propri detenuti, con diritto a una breve passeggiata pomeridiana, pane nero e cibo spartano in una tavolata divisa con i soldati e con una severa guardia che sorveglia i loro movimenti. Nel frattempo, i russi bianchi - la fazione avversaria - si preparano a raggiungere lo Zar per salvarlo; i bolscevichi lo vengono a sapere e decidono di fucilare seduta stante la famiglia e distruggere le prove. Nei dintorni di Ekaterinburgo vi è una miniera abbandonata in mezzo a un bosco: lì i carcerieri degli Zar nascondono 680 litri di benzina e 200 chili di acido solforico con cui hanno intenzione di far sparire i cadaveri. La notte tra il 16 e il 17 luglio del 1918, dopo settantotto giorni di prigionia, i bolscevichi fanno irruzione nel dormitorio di Nicola e gli ordinano di vestirsi e scendere nello scantinato. La famiglia mezzo addormentata scende le scale, lo Zar tiene in braccio il figlioletto. Nella scura stanza in cui giungono vi sono solo due sedie, sulle quali si siedono per riposarsi gli Zar e Aleksej, ancora in braccio al padre. Olga, di ventidue anni, Tatiana, di ventuno, Maria, di diciannove, e Anastasia, di tredici, restano in piedi. Con la famiglia vi sono quattro leali accompagnatori: il medico, un maggiordomo, la prima cameriera di Alessandra e il cuoco di palazzo. Nessuno sospetta ciò che li attende. Viene loro chiesto di allinearsi contro la parete per posare per una foto, ma invece del fotografo irrompe un plotone di dodici uomini armati che aprono il fuoco su corpi indifesi, senza dar loro neanche il tempo di raccomandarsi a Dio. Gli Imperatori, Olga e tre degli accompagnatori

muoiono sul colpo, le altre tre figlie, Aleksej e la cameriera di Alessandra sembrano invece immuni ai proiettili. Interdetto, il plotone cerca di trafiggerli con le baionette, che penetrano nei corpi con grande difficoltà, dato che le donne hanno cucito nella fodera dei vestiti dei gioielli che si oppongono all'assalto. Lo zarevic muove allora una mano in direzione del padre inerte: una delle guardie lo vede e gli schiaccia la testa con uno scarpone, sparandogli due volte nell'orecchio. Tutto avviene senza urla. Gli assassini trascinano i corpi per strada quando, improvvisamente, una delle granduchesse inizia a urlare. Simultaneamente gli uomini crivellano selvaggiamente di spari il suo corpo, fino a lasciarla del tutto immobile. Avvolti i corpi in lenzuoli, li trasportano fino alla miniera nel bosco, luogo prescelto per disfarsi delle prove della strage. I corpi nudi vengono allineati sull'erba; la bellezza splendida delle duchesse è ora dilaniata, disfatta. Alcuni degli assassini si eccitano e le stuprano.«Ho sentito personalmente l'Imperatrice, era ancora calda»110, si vanta in seguito uno di loro, mentre un altro dice: «Ora posso morire in pace, dopo aver spremuto la... dell'Imperatrice»111 (la parola denigrante è eliminata dal documento). In seguito si impadroniscono i gioielli, segano i corpi, li riducono in pezzi con un'ascia e li lanciano nel fuoco mentre sciolgono nell'acido solforico le ossa più voluminose. «Sono loro stessi gli unici responsabili dell'agonia della loro morte», si giustifica il capo dell'operazione. Il tutto dura tre giorni. L'Armata Bianca giunge a Ekaterinburg otto giorni dopo; lo stanzone dello scantinato li accoglie con disegni osceni sulla famiglia reale, fori di pallottole e graffi di baionetta. Tutti capiscono perfettamente quello che è successo, ma non c'è possibilità di verificare se qualcuno è sopravvissuto al massacro. Note 1. G. King, p. 163. 2. A. Kotsiubinski, p. 22. 3. Lettera di Alessandra Fëdorovna a Rasputin, riportata da R. Massie, p.198. L'Imperatrice si firma con il nome con cui si rivolge a lei Rasputin. 4. H. Troyat, p. 9. 5. H. Troyat, p. 10. 6. A. Kotsiubinski, p. 83. 7. J. M. Romaña, p. 90. 8. J. M. Romaña, p. 99. 9. H. Troyat, p. 18. 10. H. Troyat, p. 18. 11. Nicola usa il termine in inglese; Sunny si può tradurre con «mio (raggio di) sole". 12. Diario di Nicola, p. 104. 13. G. King, p. 85. 14. H. Troyat, p. 32. 15. Lettere citate da G. King, p. 87. 16. Durante il suo primo viaggio per le nozze della sorella. 17. G. King, p. 85. 18. G. King, p. 70. 19. G. King, p. 79.

20. G. King, p. 80. 21. G. King, p. 80. 22. R. Massie, p.55 23. o ussero, in alcuni eserciti europei del passato (es. francese, prussiano), indicava un soldato di cavalleria leggera 24. G. King, p. 107. 25. G. King, p. 112. 26. Lettera trascritta da G. King, p. 92. 27. G. King, p. 113. 28. G. King, p. 114. 29 G. King, p. 114. 30. G. King, p. 118. 31. R. Massie, p. 59. 32. R. Massie, p. 61. 33. Piatto tradizionale russo che consiste in una zuppa di barbabietole. 34. G. King, p. 130. 35. H. Troyat, p. 32. 36. Ricordi di Madelaine Zanotti, G. King, p. 205. 37. Lettera di Nicola Mihajlovic a Nicola II, citata da H. Troyat, p. 126. 38. G. King, p. 179. 39. M. Romaña, p. 37. 40. G. King, p. 181. 41. G. King, p. 181. 42. J. M. Romaña, p. 55. 43. H. Troyat, p. 32. 44. G. King, p. 192. 45. H. Troyat, p. 32. 46. J. M. Romaña, p. 42. 47. R. Massie, p. 105. 48. R. Massie, p. 134. 49. Gillard, citato da G. King, p. 200. 50. R. Massie, p. 134. 51. H. Troyat, p. 29. 52. E. Radzinsky, p. 107. 53. R. Massie, p. 181. 54. J. M. Romaña, p. 99. 55. Filipov. 56. E. Radzinsky, p. 105. 57. A. Kotsiubinski, p. 69. 58. R. Massie, p. 195. 59. Maurice Paléologue, citato da G. King, p. 208. 60. H. Troyat, p. 53. 61. H. Troyat riproduce le quattro lettere a cui questi frammenti appartengono, p. 49. 62. G. King, p. 201. 63. R. Massie, p. 174. 64. R. Massie, p. 176. 65. R. Massie, p. 176. 66. E. Radzinsky, p. 134. 67. Le tre citazioni provengono da P. Gilliard, p. 345. 68. G. King, p. 290. 69. H. Troyat, p. 46. 70. G. King, p. 205.

71. La zarina si firma con il nome con cui la chiama Rasputin. Questa lettera e la precedente sono riprodotte da G. King, p. 217. 72. Articolo di giornale riprodotto da G. King, p. 220. 73. G. King, p. 218. 74. G. King, p. 218. 75. H. Troyat, p. 48. 76. H. Troyat, p. 55. 77. G. King, p. 219. 78. G. King, p. 209. 79. G. King, p. 220. 80. H. Troyat, p. 65. 81. Parlamento russo. 82. G. King, p. 231. 83. H. Troyat, p. 140. 84. G. King, p. 254. 85. Le lettere di Alessandra a Nicola sono riprodotte da H. Troyat, pp. 112-147. 86. G. King, p. 255. 87. 10 giugno 1915. H. Troyat, p. 113. 88. 12 giugno 1915. H. Troyat, p. 113. 89. R. Massie, pp. 293-294. 90. M. Romaña, p. 425. 91. Lettera del 15 novembre 1915, citata da H. Troyat, pp. 142-146. 92. Lettera citata da H. Troyat, pp. 142-146. 93. G. King, p. 268. 94. G. King, p. 268. 95. H. Troyat, p. 107. 96. Lettera di Alessandra a Nicola, 22 settembre 1916. H. Troyat, p. 162. 97. 22 settembre 1916. Lettera citata da H. Troyat, p. 127. 98. Jusupov, citato da E. Radzinsky, p. 567. 99. Jusupov, citato da E. Radzinsky, p. 568. 100. Jusupov, citato da E. Radzinsky, p. 569. 101 Jusupov, citato da E. Radzinsky, p. 568. 102. Puriskevic, citato da E. Radzinsky, p. 572. 103. Puriskevic, citato da E. Radzinsky, p. 573-575. 104. Puriskevic, citato da E. Radzinsky, p. 573-575. 105. E. Radzinsky, p. 575. 106. Puriskevic, citato da E. Radzinsky, p. 576. 107. E. Radzinsky, p. 579. 108. R. Massie, p. 384. 109. R. Massie, p. 384. 110. M. Farquhar, p. 283. 111. M. Farquhar, p. 283.

ERZSEBET BATHORY (1560 - 1614) La bevitrice di sangue L'unico ritratto1 di Elisabeth (Erzsebet) Bathory giunto sino a noi restituisce all'osservatore l'immagine di una donna repressa, bacchettona; il suo volto dallo sguardo senza anelito pare appartenere a una creatura remissiva, che non osa nemmeno possedere aspirazioni personali perché sa di essere, in fin dei conti, schiava degli altri.

A volte, però, le apparenze nascondono una verità straordinariamente oscura e segreta. Quella di Erzsebet, poi, è raccapricciante e sordida, diametralmente opposta al perbenismo che emana dal suo ritratto. Tale verità, ciononostante, resta nascosta a lungo, sino a che, poco dopo l'inizio del XVII secolo, quando Erzsebet è già in là con gli anni, appaiono i cadaveri ancora freschi di venti ragazze selvaggiamente mutilate nei dintorni del castello di Csejthe2, dove la nostra protagonista dimora. I cadaveri, tutte ragazze in età puberale, hanno le dita amputate, così come le zone più delicate del seno. La carne è lacerata e morsa, il volto sfigurato. Non che la visione di una morte orrenda fosse una novità. La guerra contro i turchi aveva da tempo abituato gli ungheresi alla sua presenza, ma ciò che riaffiora ai piedi del castello non fa parte di un bottino di guerra, né tantomeno sono i resti del pasto di una bestia famelica. Si tratta invece del lavoro selvaggiamente meticoloso di una mente lunatica, poiché alla strage, apparentemente disordinata, si sovrappone una strategia umana calcolata. Le martiri, infatti, hanno caratteristiche comuni: tutte sono donne sotto i diciotto anni (alcune ancora bambine), bionde, alte, nubili; tutte sono state sottoposte a crudeli amputazioni, hanno subito il prelievo del sangue fino all'ultima goccia, le loro vene sono state tagliate a forbiciate. La deturpazione del viso e di vaste parti del corpo è tanto minuziosa che risulta impossibile risalire all'identità delle disgraziate. Lo spaventoso ritrovamento dà vita a un ciclone di voci che raggiunge Vienna e si abbatte sull'Ungheria, dove, poco a poco, vengono alla luce nuovi cadaveri con segni di tortura simili. Il popolo trema e i nobili riescono a mala pena a credere a ciò che sentono. I dardi dello scandalo puntano nientemeno che alla famosa contessa Erzsebet Bathory. Contessa in un'Ungheria asservita e brutale All'epoca Erzsebet è una rispettabile signora, prossima al mezzo secolo, appartenente a una delle famiglie più opulente d'Ungheria, nipote del re di Polonia per parte di madre e del principe di Transilvania per parte paterna. Oltre a essere conosciuta per i suoi importanti ascendenti, sono famosi anche il suo carattere severo e le sue cef alee, per combattere le quali esige che le venga posto sulla fronte un piccione, appositamente squartato accanto al suo letto; le interiora dell'uccello, inoltre, devono essere ancora calde, la vita dev'essere scorsa fino a un istante prima, giacché altrimenti la dolente non ne trarrà beneficio alcuno. Le inservienti e le dame di compagnia temono le emicranie di Erzsebet come la peste. Quando ne soffre, la malata diventa del tutto isterica, insulta, morde e strappa i capelli a chiunque, coraggiosamente, le si avvicina; la servitù afferma di sentirla urlare per ore intere. Queste emicranie favoriscono, inoltre, la sua devozione nei confronti di talismani, esorcismi, pozioni di mandragora e belladonna, erbe dalle proprietà allucinogene che in quest'epoca vengono adoperate dalle partorienti o dai feriti di guerra per mitigare il dolore. Erzsebet diventa dipendente da queste e altre droghe; l'interesse per i poteri occulti, i distillati e gli esperimenti con erbe velenose è tanto forte in questo periodo da arrivare a piegare ai suoi incanti addirittura lo stesso Imperatore Rodolfo II3, che a tal fine fa costruire nelle sue abitazioni private un laboratorio in cui trascorre giorni e notti.

Tra l'ultimo quarantennio del XVI secolo e l'inizio del XVII, cioè lungo l'arco della vita di Erzsebet, l'Ungheria agonizza per la feroce guerra contro l'Impero Ottomano, che aveva già fatto sua una fetta importante della regione. I turchi spazzano via gran parte delle vestigia di ciò che conquistano, soprattutto a Buda, lato occidentale dell'attuale Budapest, dove insediano la propria capitale. A partire dal 1458, sotto il regno di Mattia Corvino, l'Ungheria si era tramutata in una delle corti rinascimentali più lussuose ed erudite d'Europa; i palazzi sul Danubio e l'immensa biblioteca ricca di testi scientifici erano i testimoni di una magnificenza che gli invasori ottomani, dando sfoggio di tutta la loro distruttività, riducono in cenere. A partire da allora, l'odio verso i turchi avvelena l'intera esistenza degli ungheresi; i signori lasciano da parte la loro sete di cultura e non riescono più a concepire la vita se non sul campo di battaglia, mentre i contadini lavorano la terra tenendo pronta la spada, con lo sguardo sempre rivolto all'orizzonte in caso appaia un selvaggio che, in nome di Allah, cerca di impossessarsi di nuovi schiavi. Come se non bastasse, la parte di Ungheria che non è stata invasa dai turchi è divisa in due parti, con sovranità indipendenti, sebbene in accordo per collaborare contro l'assalto ottomano. L'area territoriale più importante è governata dalla dinastia cattolica degli Asburgo, la cui sede sociale e politica si trova a Vienna. Agli ungheresi, che abbracciano invece il protestantesimo, non rimane che la Transilvania, una ben misera porzione se confrontata con il resto di quella che era la loro antica nazione, e per di più aspra, umida, ancorata a un regime bellicoso e poco raffinato che non va più di moda nel resto d'Europa, dove già da tempo si assaporano i piaceri del tardo Rinascimento, dell'ozio e delle occupazioni salaci. L'Alta Ungheria alza barricate di fronte all'ingentilimento dell'Europa. Fustigata dalla guerra, conosce ormai solo brutalità e sete di vendetta, arti nelle quali si è tramutata in maestra universale. E non si pone problemi nell'applicarle, anche tra compatrioti. Un intrepido viaggiatore4, che in quel periodo ebbe il sangue freddo di avventurarsi per quelle terre, racconta che, quando gli ungheresi scoprivano un qualche tradimento, soprattutto se compiuto in favore dei turchi, non passavano a fil di spada il traditore, ma il suo cavallo: in seguito ne estraevano le interiora, mettevano al loro posto il proprietario e ricucivano l'animale affinché, ancora vivo, marcisse contemporaneamente al suo destriero. Nel bel mezzo di un ambiente tanto orrendo, Erzsebet Bathory costituisce una rara eccezione. Nella sua dimora giungono i venti dell'Europa che portando con sé le pagine dei libri francesi e italiani. La contessa conduce la sua esistenza dando le spalle alla guerra, si apre alla vita licenziosa, all'abbigliamento opulento che arricchisce di perle, gioielli di smalto e broccati, e, come degno coronamento della sua raffinatezza, profumi ed essenze orientali. Questo atteggiamento non può non attirare l'attenzione in un periodo in cui il fetore era moneta corrente. Una cronaca del tempo racconta che nei castelli di Erzsebet «tutte le camere e le sale emanavano profumi soavi». La contessa dà il benvenuto anche a particolari strumenti sessuali, con predilezione per i vibratori che venivano prodotti a Venezia usando velluto rosa o cristallo, e che costavano una fortuna. La dama completa infine la sua regale signorilità sfoggiando una pelle senza traccia di cicatrici e una bocca dalla dentatura di discreto colore. «Quando si recava a una festa, mentre

scendeva dal calesse, si radunava una moltitudine desiderosa di essere sfiorata dall'aura della sua bellezza», commenta un cronista dell'epoca. Non vi sono nozze o balli a cui Erzsebet non sia invitata. La sua presenza è un onore; la sua nobiltà attira costanti attenzioni, non solo in Ungheria, ma anche in Austria, dove acquista una fastosa casa-palazzo5 per poter accogliere in situ la valanga di offerte sociali. «Mio carissimo marito» Quando i cadaveri con cui inizia questo capitolo vengono alla luce, Erzsebet è già vedova del conte Ferencz Nadasdy, aristocratico fedelissimo all'Imperatore Massimiliano e al suo successore Rodolfo II, del quale, con certezza, è amica anche la Bathory. Ferencz - Francesco in italiano - apparteneva a una delle famiglie più ricche e colte di Ungheria. Suo padre aveva studiato alle università di Graz e Bologna, fatto che costituiva una squisita rarità tra i suoi compatrioti, e nel 1537 aveva persino finanziato la stampa del primo libro in ungherese, ancor oggi conservato al Museo Nazionale di Budapest. A dispetto della raffinatezza e dell'abbondanza che avevano contraddistinto la sua giovinezza, Ferencz era maggiormente sedotto dai rischi della lotta contro i turchi che dalla sapienza dei libri, e in tale occupazione infuse un impegno talmente poderoso che finì per guadagnarsi il rispetto del suo paese e il soprannome di Beg (Signore) Nero, senza che risulti ben chiaro a cosa sia dovuto l'appellativo; si può supporre che nella sua patria si attribuisse una qualche eccelsa qualità al colore della notte. Nonostante infligga tanta morte nel corso negli anni, curiosamente Ferencz pratica con devozione (e con svariati digiuni) la religione protestante, quando gli intervalli della guerra glielo consentono. In uno di questi momenti di sensibilità spirituale, fonda addirittura un monastero. L'uomo passa le guerre uccidendo e le tregue pregando finché, nel 1604, muore pregando all'età di quarantanove anni. Lascia tre figlie e un solo maschio, Pál, ancora nel ventre di sua moglie, che a quell'epoca era prossima al compimento dei quarantatre anni. Il matrimonio tra Erzsebet e Ferencz viene combinato in fretta e per convenienza, come era solito fare ai tempi. I genitori di entrambe le famiglie siglano l'accordo nel momento di piena apoteosi economica di entrambi i lignaggi, quando la bambina ha undici anni e il ragazzo diciassette. In quel periodo, i genitori di Ferencz danno maggior peso alla succulenta dote della fanciulla piuttosto che a un dettaglio di somma importanza: l'endogamia che persiste nella famiglia da quasi tre secoli, e gli individui con gravi ritardi mentali che ne sono scaturiti. Persino i genitori della sposa sono cugini di primo grado, e dalla loro unione viene alla luce István, fratello di Erzsebet, la cui sadica condotta gli vale l'appellativo di Stefano il Crudele. La promessa sposa, ancora adolescente, segue la rituale tradizione e abbandona la poco colta libertà del castello dei genitori per trasferirisi con un calesse a quattro cavalli nel castello del fidanzato, a Sárvár, dove verrà educata dalla futura suocera. Orsolya, questo il nome della donna, la sottopone a una scrupolosa educazione e cerca di trasmetterle lo spirito irreprensibile di cui fanno sfoggio i membri della sua famiglia. A differenza di quello che andava di moda in quel periodo di matrimoni combinati, e spesso infelici, è certo che i genitori di Ferencz si adorassero con un'effusione di tale profonda tenerezza che

non potevano evitare di scriversi tutti i giorni quando erano separati (ancora oggi si possono leggere le loro lettere). Ma la signora Orsolya non elargisce lo stesso affetto alla fidanzata del figlio, che si vede costretta a contenere duramente, dato che le era stata data in custodia con una dose di docilità piuttosto scarsa. Già a quest'epoca Erzsebet soffre di spaventosi mal di testa che riesce a lenire solo facendo in modo che qualcuno ai lei vicino soffra e gridi più di lei; in questo momenti vuole al suo fianco una domestica dalle forme abbondanti e, non appena costei sollecitamente appare, la sofferente si lancia come un lupo sulla sua spalla, mordendola e masticando poi il brandello strappato. C'è da immaginare che persino le pareti tremassero all'urto dei decibel delle grida della serva sommati a quelli della giovane emicranica. Orsolya, verosimilmente scandalizzata dal metodo curativo a cui i familiari avevano abituato la piccola, tenta in ogni modo di estirparlo, imponendone di differenti. Tuttavia, le maniere usate per inculcare le pratiche alternative non sono particolarmente soavi: ci sono giunte testimonianze di come in Erzsebet nutra un odio iracondo verso la futura suocera, tanto da spingerla a implorare in segreto i genitori di portarsela via il più presto possibile (cosa che non ottiene mai). Tuttavia, nonostante l'astio che le provocano i suoi rigidi metodi educativi, è a Orsolya che la contessa deve la raffinata cultura che le varrà in futuro tanto successo sociale. Nella casa della sua famiglia di adozione Erzsebet apprende quattro lingue, oltre che a scrivere con calligrafia perfetta, a leggere Boccaccio, a ballare come una raffinata dama le danze che arrivavano dalla Francia e dall'Italia, a mangiare in modo frugale, a lavarsi frequentemente, a cospargersi il corpo con essenze di rosa e gelsomino come si faceva negli harem turchi, ad amare il lusso nel vestire, i gioielli, le feste, il culto per la freschezza e il candore della pelle e anche, come no, per i capelli biondi «alla Botticelli». Erzsebet li aveva castani, spiacevole contrattempo che corresse grazie a una laboriosa ricetta italiana, che prescriveva di lavarli dieci volte con impacchi di zafferano, camomilla e cenere. Durante l'inverno bisognava esporre i capelli umidi al calore di un fuoco intenso, in estate ai raggi del sole, mentre il viso rimaneva ben protetto sotto creme e unguenti a base di foglie macerate di giusquiamo, stramonio e belladonna, piante dalla natura velenosa ma con proprietà schiarenti per la pelle. Infine, dopo quattro anni di stretta vigilanza e preparazione presso il castello della sua famiglia politica, il matrimonio di Erzsebet e Ferencz si concretizza quando la ragazza compie i quindici anni. La pompa nuziale dura più di un mese, trascorso il quale Orsolya muore: a quanto pare lo sforzo di consegnare al figlio una fanciulla dall'educazione più o meno garantita l'aveva consumata. Tuttavia, il suo sforzo non sarà stato vano, giacché l'eleganza di Erzsebet in futuro brillerà nei circoli sociali ben al di là di quella del marito. Ciononostante, in questo periodo, germoglia nella personalità di Erzsebet il seme di un narcisismo patologico. Dopo alcuni anni di matrimonio, la giovane inizia a farsi notare come persona affamata di lusinghe e ammirazione costanti; diventa dipendente dall'esibizione, dalla grandiosità, e viene configurandosi in lei un egocentrismo esasperato; non ammette critiche, attribuisce agli altri difetti che le appartengono: «Tutte voi mi invidiate», accusa le sue dame di compagnia più giovani, mentre in realtà è lei quella che non tollera la leggiadria di nessun

altra donna, nemmeno di quelle che in futuro saranno le sue figlie. Si contempla ossessivamente allo specchio per ore e ore, giorno e notte, e per somma disperazione delle sue damigelle prende l'abitudine compulsiva di cambiare continuamente il proprio abbigliamento, e di non dirsi soddisfatta finché tutto non è perfetto, fino al più insignificante dettaglio... per poi disfare tutto un attimo dopo. Nell'arco di una sola giornata arriva a cambiarsi sei o sette volte abito, scarpe, gioielli e acconciatura. Quando una delle sue aiutanti di camera commette il benché minimo errore nella scelta di un capo o di un accessorio, si tratti anche solo di una semplice spilla, Erzsebet la castiga brutalmente, come vedremo più avanti. La contessa, in definitiva, è una giovane straordinariamente insopportabile. A dispetto di tutto ciò, e forse grazie all'esempio dei genitori Nadasdy, gli sposi conservano fino alla fine un'unione felice. I rispettivi amanti non fanno molta presa nei loro cuori, sebbene non abbiano certo riguardo nell'esibirli pubblicamente quando sono separati l'uno dall'altra. È rimasta testimonianza dei comportamenti di Erzsebet in assenza del marito guerriero: «Un tale Jezorlavy Istok (...) si divertiva voluttuosamente con Erzsebet Bathory, anche deliberatamente alla presenza degli altri», afferma anni dopo uno degli inservienti della contessa. Nonostante accompagnatori e accompagnatrici, si diceva che nel letto della contessa non si facessero discriminazioni rispetto al sesso dell'amante: tutti i testimoni si trovano d'accordo nell'affermare che queste storie di sesso non sono niente di più che un semplice sfogo occasionale, quando la coppia si trova separata a causa della guerra. Si conservano fino a oggi gli affettuosi scambi epistolari tra i due, nella maggior parte dei quali Erzsebet comunica a Ferecz la sensazione del focolare da cui è lontano, impegnato in battaglia; ma a differenza dell'assoluta devozione che sua suocera manifestava al suo sposo quando questi si assentava, la contessa inserisce nei suoi resoconti un pizzico di insinuante lagnanza: Al mio carissimo sposo, Sua Eccellenza Nadasdy Ferencz. A lui appartiene questa missiva. Mio adorato marito, ti scrivo per parlarti delle nostre figlie. Grazie a Dio stanno bene. Ma a Osik dolgono gli occhi e a Kato i denti. Io sto bene, ma mi duole il capo e anche gli occhi. Dio ti protegga, Ti scrivo da Sárvár nel mese di San Giacomo (8 luglio) del 1596.6 Sebbene lo stile sia conciso, è da notare come la contessa instilli veleno nel cuore della psicologia maschile. Gli uomini, allora come oggi, sono educati alla risoluzione dei problemi, e la percezione personale del loro valore dipende dall'efficacia con cui riescono a farlo. In casa vi sono problemi che Ferencz non può risolvere per motivi di ubicazione, tra le altre cose. Così, con sottigliezza e malizia, Erzsebet lancia una fiocina affinché nel marito guerriero si apra una ferita dovuta al senso di colpa e la sua autostima ne esca debilitata. Questo messaggio, come altri che vengono successivamente, permette di farsi un'idea del carattere manipolatore di Erzsebet, occultato sotto un'apparenza di vittima sottomessa e rassegnata, e del quale farà un uso smisurato alcuni anni dopo.

Ma non si comporta sempre così. In certe occasioni il marito al fronte riceve ricette di stregoneria, di cui la moglie è smodatamente appassionata: (...) Colpisci con un bastone bianco una piccola gallina nera fino a ucciderla. Versa un po' del suo sangue sul nemico. Se non è raggiungibile, versa il sangue su un indumento che gli appartenga. Non potrà farti più del male. Le intenzioni sono senza dubbio buone, ma certo non pratiche, dato che l'ultima cosa che uno si aspetta di sentire nel mezzo della battaglia è il coccodè di una piccola gallina, per giunta nera, anche se a ben guardare, pure la questione del bastone bianco presenta le sue difficoltà. In tutto ciò, ancor più improbabile è riuscire ad acchiappare un nemico vivo e disponibile a essere bagnato con il sangue. Diluvio di voci Nel momento in cui rimane vedova, Erzsebet Bathory possiede niente meno che sedici castelli in Ungheria, oltre al gran palazzo viennese. La sua cultura, fortuna e fama sono talmente riconosciute che i nobili inviano le proprie figlie affinché apprendano da lei tutte quelle arti che una dama non dovrebbe ignorare. Perciò, quando vengono portati alla luce i primi cadaveri torturati, le alte sfere rimangono a bocca aperta, incredule al solo sentir pronunciare il nome della vedova in maniera tanto ignominiosa, ma allo stesso tempo, con nonchalance dato che non si può mai sapere, i padri delle fanciulle reclamano il loro immediato ritorno a casa. Poco a poco una valanga di mormorii addita Erzsebet come artefice dell'abominevole orgia di morte. Contemporaneamente, spuntano dal nulla alcuni testimoni, che fino ad allora avevano tenuto la bocca ben sigillata: qualche domestica che era riuscita a fuggire salvandosi miracolosamente la vita, il parroco del villaggio di Csejhte, la madre di una bambina di dieci anni che era entrata come dipendente nel castello e non ne era mai più uscita, e persino i frati che vivevano di fronte alla casa-palazzo che la contessa possedeva a Vienna. Improvvisamente sono tutti disposti a elencare una serie di orrori che avevano visto o sentito. I frati viennesi, concretamente, affermano che ogni volta che la contessa è presente a palazzo si sentono delle urla raccapriccianti attraversare le pareti esterne, tanto acute da non permettere loro di dormire. A quel punto essi si trovano costretti a lanciare paioli contro le finestre del palazzo in segno di inorridita protesta, senza che per questo le grida cessino per altre lunghe ore. All'alba poi vedono spesso le due inservienti più fedeli di Erzsebet riversare per strada secchi di acqua mista a un'enorme quantità di sangue. Per di più, affermano che lo spettacolo non è una novità, anzi che si ripete da tempi tanto remoti che a mala pena la memoria vi attinge. Nessuno aveva mai osato dire una sola parola a riguardo per paura delle rappresaglie che avrebbero potuto compiere i potenti familiari di Erzsebet; ora, invece, spalleggiandosi l'un l'altro, approfittando del fatto che la contessa è vedova e che suo fratello István è morto, tutti danno fiato alle trombe. Così, per esempio, una serva del castello chiamata Suza, a cui non «era successo nulla perchè era protetta dal sindaco di Sávár», dichiara sotto giuramento che durante il suo periodo di servizio aveva visto ottanta ragazze morte in seguito a un'orrenda tortura: «Apparivano nere come il carbone a causa del sangue coagulato

sui loro corpi». Altre persone in servizio da lunga data raccontano che Erzsebet puniva le ragazze facendole lavorare nude e, non soddisfatta di questa infame umiliazione, esigeva che i camerieri giovani e vecchi le contemplassero mentre cucivano o legavano fascine di legna. La vessazione raggiungeva livelli tali che alcuni non potevano trattenersi dall'abbassare lo sguardo. Gradualmente le mostruosità attribuite alla contessa aumentano di numero e gli echi si diffondono fino ad arrivare all'orecchio del reggente in carica, il re Mattia, fratello e successore di Rodolfo II, vecchio amico di Erzsebet. Ciononostante, il testimone attraverso cui giunge la notizia è il maestro e tutore di Pál, unico maschio e figlio minore di Erzsebet. Il tutore in questione, Megyery il Rosso, afferma di aver minacciato in varie occasioni la contessa: «Un giorno racconterò tutto». Attribuisce a Erzsebet una crudeltà sadica illimitata e la descrive come una specie di gigantesca bestia, una strega assassina che non merita nient'altro che il rogo. «Ha lo stemma familiare della follia», sostiene, ricordando al re che, effettivamente, l'albero genealogico di Erzsebet è costellato di individui seriamente squilibrati. Albero genealogico pieno di squilibrati István, fratello della contessa, è un sadico e un ladro impenitente e suo zio - dallo stesso nome - principe di Transilvania, è talmente folle che in piena estate si ricopre di pellicce e scivola con una slitta su strade ricoperte di sabbia bianca come se fosse neve, giacché il disgraziato confonde l'estate con l'inverno. Un altro cugino, Gábor, al quale secondo le cronache «nessuna donna resisteva», sceglie l'unica che gli è proibita: sua sorella Anna; con cui commette ripetutamente incesto. Molti parenti prossimi a Erzsebet hanno sofferto epilessia, che allora era considerata prova irrefutabile della condizione di indemoniato. Si racconta che all'apice degli attacchi questi si gettassero al suolo e mordessero tutto ciò che potevano raggiungere. In quanto al cugino di secondo grado, Sigismondo Bathory, principe di Transilvania nel 1595 e premiato con il Toson d'Oro dalle mani di Filippo II di Spagna, governa a suon di folli capricci, rendendo impossibile la vita ai sudditi e, soprattutto, alla sua infelice sposa Maria Cristina, principessa d'Austria. Sigismondo sostiene che la moglie lo ripugna a tal punto da non potersi trattenere dall'urlare quando la vede, soprattutto se ciò avviene di notte. Per poter ripudiare la moglie senza offendere la Chiesa, non esita a dichiararsi impotente, senza che si conservi testimonianza se ciò sia o meno vero; comunque, in questo modo riesce ad averla vinta, non solo invalidando il vincolo matrimoniale, ma facendo anche rinchiudere la povera Maria Cristina in un convento di clausura, privandola di ogni possibilità di conoscere le gioie di un vero amore. Se questo non è sufficiente, Sigismondo sente e vede anche fantasmi che nessun altro è in grado di scorgere. Alla fine, con il sollievo di tutti, fugge dalla Transilvania e si rifugia in Polonia in compagnia dei suoi amici immaginari, che a quanto pare sono gli unici che riescono a sopportarlo e che non lo avrebbero mai abbandonato. Oltre a questo saporito grappolo di parenti maschi, anche una zia di Erzsebet gode di una fama funesta. Il suo nome è Klara Bathory, e le testimonianze del suo disturbo mentale e delle sue deviazioni sessuali riempiono tre corposi volumi attualmente conservati nella Biblioteca Nazionale di Vienna. Klara uccide i suoi quattro mariti, il secondo dei

quali viene soffocato nel proprio letto; forse stermina anche parte dei suoi amanti, sebbene di ciò non ci siano giunte prove affidabili. Di lei si sa per certo che le relazioni lesbiche la affascinano tanto quanto quelle che intrattiene con uomini più giovani. All'ultimo di questi amanti regala un castello, poco prima che una truppa turca catturi entrambi, infilzando lui in uno spiedo per poi arrostirlo, e violentando lei ripetutamente. Poiché, contro ogni aspettativa, resiste senza morire, i turchi finiscono con il pugnalarla a morte. Klara in questa storia è fondamentale per l'influenza che esercita su Erzsebet, le faceva visita con costanza e aveva tentato di contagiarla con il suo gusto per la ninfomania senza distinzione di sesso. Calunnie? Re Mattia, che viene messo a conoscenza di tutto questo «arsenale» genealogico, conosce di persona Erzsebet, tanto amica del suo predecessore Rodolfo II. L'ha sempre considerata una donna altezzosa, egocentrica e alquanto strana, qualità piuttosto comuni tra gli individui del suo rango e del suo tempo. Erzsebet è anche una madre poco affezionata ai suoi quattro figli, sebbene neanche questo fosse strano tra gli appartenenti alla sua condizione sociale. Attira invece l'attenzione l'oscuro seguito che l'accompagna dovunque: cinque personaggi maleodoranti, di una bruttezza incommensurabile, che sembrano usciti da un sortilegio compiuto da una mente evidentemente molto mal intenzionata. Il re comunque pensa che tale eccentricità sia il male minore, soprattutto considerando che non rovina l'immagine di nessun altro se non di lei stessa. Oltretutto, quando Mattia II interroga i vicini, la servitù in servizio o i familiari di Erzsebet, nessuno risponde con chiarezza, nessuno la accusa apertamente di pazzia o di sadica malvagità... nessuno tranne testimoni indiretti e antichi domestici, presumibilmente tormentati dall'invidia. I braccianti di alcuni dei suoi feudi, a cui la contessa non aveva mai abbonato le imposte, affermano di aver visto ogni notte, per anni e con cadenza regolare, gli aiutanti della nobildonna gettare corpi inerti nel fossato. Il rapporto più credibile è quello del parroco di Csejthe, un individuo arrivista, secondo le testimonianze, che non appena gli si presenta l'opportunità di parlare al di fuori del suo minuscolo latifondo si atteggia a persona importante. Il rampante cappellano sostiene che da molti anni la contessa lo obbliga a seppellire, nel pieno della notte, molte giovani decedute in circostanze misteriose. Lei è sempre presente. Aggiunge inoltre che il problema viene da lontano, dato che il sacerdote suo predecessore aveva lasciato nascosta in sagrestia una lettera in cui si spiegava che, sotto diretta minaccia della signora, aveva seppellito molte giovani che prestavano servizio al castello, arrivando a sotterrare nove cadaveri in una sola notte. A tanto succulenta informazione, il parroco ne aggiunge un'altra non meno spaventosa: uno dei giorni di sepolture di massa si lasciò scappare troppe domande. «Non ti impicciare dei fatti del castello e io non mi impiccerò di quelli della tua chiesa», fu la risposta. Il giorno seguente ricevette un cestino di pasticcini in ringraziamento per i servigi prestati. Prudente, l'uomo li fece mangiare al suo cane e poté comprovare come, poco dopo averli ingeriti, l'animale cadde vittima di una mortale agonia.

Alla testimonianza del cappellano si aggiungono le accuse del suddetto Megyery, precettore di Pál, che all'epoca era un'innocente creatura di dieci anni, unico figlio maschio di Erzsebet ed erede della fortuna Nadasdy. Tenendo in considerazione questo elemento, il re ha l'impressione che nel precettore, a dispetto del fatto di essere un uomo in cui ripone personalmente fiducia, possa albergare qualche intenzione segreta di appropriarsi dell'appetitoso patrimonio del piccolo successore. Tuttavia, appena questi testimoni iniziano a parlare, altri ne sorgono. La crudezza delle denunce aumenta esponenzialmente, fino a raggiungere una proporzione tale da impedire al re di continuare a mantenersi impassibile. Vittime sempre bionde, belle, sane e vergini Le denunce sostengono che ogni qualvolta qualcosa contraria la contessa, che sia una festa in cui non ha ricevuto le lusinghe che ritiene di meritare, o l'orlo del suo vestito leggermente scucito o che, semplicemente, si senta annoiata, la donna viene assalita da vulcaniche crisi isteriche. Ride, corre o grida come una pazza, e quasi sempre il quadro è completato da incontrollabili dolori di testa nel migliore dei casi, o, nel peggiore, da una trance lunatica che scatena una mostruosa sete di sangue. In siffatti momenti, si sazia con domestiche o contadine scelte a caso nel corso dei suoi viaggi. Aiutata dal suo raccapricciante seguito, del quale si serve per evitare che le sue vittime si diano alla fuga, con un tizzone ardente brucia loro guance, seni e altre parti del corpo, in modo del tutto casuale. I testimoni aggiungono che ne strappa la carne a morsi e in seguito le costringe a mangiarla, o lo fa lei stessa. A quanto pare, le grida delle martiri costituiscono per la contessa il miglior rimedio contro la noia e contro i suoi dolori, fatto che si era già potuto constatare quando era promessa sposa di Ferencz e viveva nel castello della suocera. Ma ora, con il passare degli anni, questo non è più sufficiente a Erzsebet, ha bisogno d'altro. Perciò lega mani e piedi delle sue vittime e apre loro la bocca con forza mascolina fino a strapparne le commessure e slogarne la mandibola. Infila inoltre spilloni sotto le loro unghie o in tutto il corpo, mentre proferisce un rosario di insulti persecutori. Le vittime sono sempre donne vergini, robuste, sane e di bell'aspetto. Un'altra variante di tortura consiste nell'immergere le prede in acqua gelata finché non muoiono per congelamento. Si racconta, inoltre, che la contessa compia i suoi misfatti in luoghi reconditi all'interno dei suoi possedimenti per non essere né vista né sentita, ma se il capriccio dovesse invece assalirla nel mezzo di un viaggio, allora non si fa scrupoli a mordere, trafiggere o sezionare la carne viva all'interno della sua stessa carrozza, non per nulla porta sempre con sé una valigetta con la strumentazione necessaria. Si dice che nei sotterranei dei suoi possedimenti vi sia ogni tipo di arnese, alcuni dei quali altamente sofisticati, con cui infligge alle sue vittime le più umilianti mutilazioni. A tutto ciò si somma l'informazione più lugubre di tutte, tanto raccapricciante che a mala pena la si può concepire nel peggiore degli incubi. Si dice che la contessa, al culmine del martirio inflitto, ordini di tagliare le vene delle vittime con coltelli o forbici, affinché il sangue zampilli direttamente e con forza sufficiente per venire raccolto in un

immenso calderone. In seguito si spoglia e chiede che le versino sul corpo il sangue ancora tiepido, facendo attenzione che nessun angolo della sua pelle resti asciutto. Come ultima cosa, beve parte del sangue che ha raccolto in una coppa d'oro. Le voci affermano che la contessa sia dedita alla stregoneria, motivo per cui fin da tempi remoti si fa accompagnare costantemente dal suo orribile seguito, composto da cinque streghe e uno stregone dall'incommensurabile fedeltà, il cui nauseante odore è percepito da tutti tranne che dalla signora. Il gruppo mantiene una ferrea lealtà tra i suoi membri. Sono due di queste streghe - una di loro, Jó Ilona, era stata balia dei suoi figli - che convincono Erzsebet del potere del sangue nel preservare la rinomata freschezza della sua pelle. La sostanza deve provenire da ragazze vergini, sane e giovani (alcune non raggiungono i dieci anni d'età) o, altrimenti, non servirà al fine desiderato. Cenone natalizio a Csejthe In un momento di estrema fragilità politica, l'immagine dell'Ungheria non si può permettere che una tale infamia sia nota all'estero. Urge che il re Mattia verifichi se le gravi accuse sono fondate o se sono il crudele frutto dell'invidia nei confronti di una ricca vedova che non può difendersi dalle calunnie in quanto sola e ormai anziana (all'epoca Erzsebet ha circa cinquant’anni). In entrambi i casi il suo ruolo di governatore reale lo costringe a prendere rapidi provvedimenti: bisogna chiarire l'accaduto, conoscere la verità, cosicché decide di inviare una commissione investigativa a Csejthe, la residenza in cui la contessa trascorre la maggior parte del suo tempo. Corrono i primi giorni del dicembre 1610 e il sovrano non trova idea migliore che scegliere come capo della spedizione il conte György Thurzó, all'epoca governatore della provincia e, per di più sposato con la cugina di primo grado della sospettata. Prima che Thurzó si unisse in matrimonio con l'adorata moglie, lui ed Erzsebet avevano intrattenuto una bollente relazione, resa ancor più piacevole da una breve ma incandescente corrispondenza; si scambiavano spiritosaggini in tedesco e in ungherese, invitandosi a trascorrere gloriose notti nei rispettivi palazzi. Forse per questo Thurzó rimane pietrificato di fronte all'incarico, inventa mille scuse e cerca di opporsi al progetto di spionaggio ai danni della parente. Non sono altro che chiacchiere di paese, la giustifica il governatore davanti al re; Erzsebet è implacabile nella riscossione dei pagamenti delle imposte e perciò i mezzadri dei suoi feudi, impoveriti dalla guerra e dai capricci del clima, sempre ingiusto ed estremo, riversano sulla contessa il loro risentimento, confezionando storie di streghe allo scopo di nuocerle. Ma è tutto semplice calunnia, insiste Thurzó; lui stesso ha pernottato varie volte nei possedimenti della cugina acquisita senza mai avvertire nessun indizio di criminalità; forse di malinconia e di occasionali capricci femminili, questo sì, ma di certo ciò nulla di esecrabile. È possibile che Erzsebet sia un po' strana, e che soffra di cefalee spaventose, ma è una donna anziana, vedova e nonna... a chi potrebbe mai arrecare danno trovandosi in una condizione tanto svantaggiosa? Il primo governatore, dunque, se la svigna da una situazione che gli appare oltremodo imbarazzante. Di certo, il fatto di essere padrone di un'appetitosa miniera d'oro nella regione conferisce potere alla sua capacità di persuasione, e il governatore suggerisce al re un approccio

alternativo. Approfittando del fatto che si stia organizzando un lungo viaggio verso Presburgo (attuale Bratislava), capitale dell'Alta Ungheria, dove hanno luogo le sedute parlamentari, Thurzó domanda a Erzsebet di ospitare i viaggiatori a Csejthe. Si tratta di una zona ideale per riposare, dato che il castello si trova a metà del cammino e poiché imperversa il più rigido degli inverni, il viaggio presenta condizioni di estrema durezza. Già che c'è, il governatore suggerisce, o meglio impone, che, durante la sua permanenza, venga organizzata una festa per celebrare il Natale. L'evento richiede l'alloggiamento, per quattro giorni, delle famiglie di più alto lignaggio, compresa quella del re, con tutti i servitori, lacché, uscieri e stallieri. Un autentico lavoraccio! È pieno inverno e il castello si erge nel luogo più ventoso e freddo di tutta la Transilvania. Bisogna riscaldare gli alloggi, i saloni e i corridoi; appendere arazzi, lustrare il vasellame d'argento e d'oro, procurarsi le vettovaglie e il personale di servizio... La contessa, tra l'altro, non dispone di molto denaro. Dopo la morte del marito ha dovuto ripartire i feudi tra i suoi figli e durante gli inverni nevosi quando i raccolti sono nulli le cose si fanno ancor più diffili. Ancor oggi si conserva una lettera scritta in latino nella quale Erzsebet sollecita al consigliere del re alcuni beni e favori. Tuttavia in questa occasione non si tira indietro né protesta di fronte alla trappola che le hanno teso, nonostante l'immenso sforzo umano ed economico che l'evento le richiede. Senza che sia dato sapere in che modo si riesca a organizzare, la Bathory accoglie con gran fasto i suoi invitati, tra cui sono presenti due dei suoi generi (che sono anche alcuni parlamentari), il re Mattia in persona, Thurzó e Megyery, l'odiato precettore che tanto potrebbe nuocerle. L'ultima sera la padrona di casa cura la magnifica tavolata, addobbata con tovaglie ricamate in oro e stoviglie d'argento con piatti enormi, confettiere, brocche e anfore «ricoperte di ricchi smalti». In alcuni pezzi rifulgono anche delle pietre preziose. La contessa sfoggia una fascia nera tra i capelli, simbolo di vedovanza, e uno splendido abito di velluto, seta, visone con maglia in perle, proprio come ci si aspetta da una dama del suo rango in un'occasione tanto distinta, considerato che siamo alla vigilia di Natale. Le gioie smaltate, che tanto lustro danno all'Ungheria, scintillano alla luce delle candele; le pellicce e i vestiti rendono onore all'occasione, con le dame che seguono i dettami della moda viennese, a cui aggiungono un'alta gorgiera, ritta quasi fino alla nuca, distintiva della loro condizione di nobili ungheresi. Si odono conversazioni in tedesco e ungherese; i corridoi ospitano un andirivieni di servitori e la cucina brulica di un'attività febbrile. L'opulento banchetto conquista una generale ovazione e alla fine compare una torta spettacolarmente decorata. Il re, Megyery e Thurzó vengono omaggiati con generose porzioni. Tuttavia, non l'assaggiano. Quelli che lo fanno, il giorno dopo cadono vittime di una spaventosa agonia che li conduce alla morte. Il dessert conteneva un veleno letale destinato, senza ombra di dubbio, a coloro che avevano l'autorità di poter arrestare e condannare Erzsebet; il fatto che lungo la sua strada il dolce assassino si sarebbe portato via anche innocenti invitati non rappresentava, a quanto pare, una questione rilevante per la padrona di casa. «Sei accusata di averle uccise»

Thurzó, noto per il suo carattere aspro e vulcanico, e specialmente Megyery, approfittano del momento in cui quasi tutti gli invitati se ne vanno per affrontare faccia a faccia la contessa, mostrandole per la prima volta la lettera che l'antico cappellano di Csejthe aveva nascosto tra gli archivi della parrocchia e che, pochi giorni prima, il nuovo pastore aveva inviato loro. In essa si raccontano i dettagli della sepoltura di nove fanciulle in una sola notte. «Sei accusata di averle uccise» comunica Thurzó, continuando a proteggersi dietro la presenza del segretario, che funge da copista e testimone. Erzsebet non alza la voce. Con tutta calma spiega che, effettivamente, era stata costretta a ordinare la loro sepoltura in tutta fretta, poiché nel castello si era diffusa una malattia estremamente contagiosa che aveva ucciso le giovani in un solo giorno. Erano tutte contadine assunte da poco; di certo una di loro aveva portato con sé il germe, o forse era stato un animale. Di fronte al pericolo di una pestilenza collettiva, che avrebbe scatenato il panico in tutta la regione, si era vista costretta a seppellire i corpi segretamente e con la massima velocità, sperando che la minaccia di contagio si fermasse lì, come di fatto era successo. Poi aggiunge: «Inoltre, il pastore era un uomo molto vecchio, che beveva più del dovuto. Ubriaco com'era sempre, non era nemmeno cosciente di ciò che diceva». Thurzó alza ulteriormente la posta, comunicandole che testimoni credibili affermano che è solita farsi il bagno nel sangue per preservare una gioventù tuttavia già perduta. Erzsebet nega tutto con espressione disgustata, e accusa con durezza Megyery di aver dato vita a una vile campagna di calunnie contro di lei solo perché desidera usurpare l'eredità di Pál, il suo figlioletto indifeso. Di fronte alla denuncia di aver offerto loro una torta avvelenata, la contessa afferma di essere totalmente all'oscuro del fatto che qualche ingrediente potesse essere avariato e che le dispiace moltissimo che un funesto epilogo abbia potuto rovinare lo sfarzo di un invito in cui aveva investito grandi speranze e fatica. Di conseguenza, poiché la seduta parlamentare a Presburgo incalza, Thurzó e i suoi testimoni lasciano Csejthe senza aver ottenuto alcuna prova di colpevolezza. Ciononostante, appena giunto nella capitale, Thurzó convoca una riunione di famiglia a cui partecipano le figlie e i generi di Erzsebet, così come alcuni altri membri dei clan Bathory e Nadasdy. A dispetto del fatto che la parente abbia tentato di avvelenarlo, e lui ne è consapevole, si piega al ricordo della passione che un giorno li aveva uniti e decide di chiudere un occhio della torta. Il suo principale interesse ora è indirizzato alla salvaguardia del buon nome della famiglia a cui egli stesso appartiene; la sinistra nomea che avvolge Erzsebet sta iniziando a mettere in pericolo la sua posizione e la sua stessa immagine. Dopo alcune dissertazioni degne dell'ottimo politico che è, ottiene unanime accordo sulla proposta di rinchiudere Erzsebet in un remoto monastero, sperando che la rigida sorveglianza delle monache riesca ad arrestare le sfrenatezze e gli abusi della contessa e allo stesso tempo soddisfi il re. Al re Mattia, d'altro canto, è già giunta notizia della strage provocata dalla famosa torta avvelenata, le cui conseguenze si erano manifestate alcune ore dopo che si era allontanato da Csejthe diretto a Presburgo contemporaneamente. Il precettore Megyery prosegue nel suo intento di far

luce sul lato oscuro della vera Erzsebet e, appena allontanatosi dalla festa della vigilia di Natale, perlustra tutti gli angoli possibili alla ricerca di una qualche prova concreta e sufficientemente grave contro la contessa. Impiega poche ore per trovarne. Gli si presenta, disperato, un ex contadino, ora convertito in gentiluomo, che, un mese prima, aveva lasciato che sua figlia si recasse a Csejthe assieme ad altre venticinque fanciulle. Andavano dalla contessa a ricevere lezioni su come diventare vere dame. Erzsebet, già avanti con gli anni, aveva sparso la voce di come le fosse estremamente penoso svernare nel suo immenso e solitario castello. Si offriva di indottrinare le figlie degli zemans7, insegnare loro le lingue e le buone maniere, in cambio solamente del fatto che le facessero compagnia lungo il crudo inverno. L'uomo aveva lasciato partire la figlia con piacere; tuttavia, alla luce delle voci che stavano circolando sulla contessa, immediatamente era stato assalito da inenarrabili preoccupazioni e funesti presentimenti. Quando aveva bussato al castello, reclamando la figlia, non gli avevano permesso di entrare, respingendolo con la forza; al villaggio gli viene raccontato ciò che è ormai risaputo: che tutte le ragazze sono scomparse il giorno stesso del loro arrivo, senza che nessuno sappia che fine abbiano fatto. Megyery rende pubblica quest'informazione durante la prima seduta parlamentare, che si svolge con carattere d'urgenza il 28 dicembre del 1610, cioè solo tre giorni dopo la cena natalizia a Csejthe con relativo dolce mortale. Alla luce di ciò che racconta il precettore, a Thurzó non resta altro da fare che tornare immediatamente e senza preavviso al castello, cosa che fa, come un vulcano in eruzione, accompagnato dal fedele segretario, dai generi di Erzsebet, dal parroco di Csejthe e da un piccolo gruppo di soldati armati. La stanza degli orrori Il 29 dicembre attraversano a sorpresa il ponte sopra il fossato senza che nessuno li possa trattenere. All'interno vi sono ancora tracce della festa celebrata: c'è molto disordine e ovunque vi sono persone che rassettano e puliscono. Contro ogni aspettativa, la servitù accoglie l'arrivo di Thurzó e del suo seguito di ispezione con un atteggiamento di sollievo che rasenta il vero e proprio giubilo. Dopo pochi secondi se ne scopre il motivo: la contessa li castiga con crudeltà nel caso aprano bocca; è ossessionata dal mantenere il segreti, di fronte alla sua famiglia e a qualunque estraneo, certi aspetti della sua personalità. Durante le pulizie la nobildonna è assente e, per questo, liberati dalla sua presenza e rincuorati dalla vista di soldati armati, i domestici osano raccontare tutto ciò di cui da anni sono silenziosi testimoni. Il gruppo viene guidato nelle remote segrete alle quali è tassativamente vietato l'ingresso quando Erzsebet è presente. Scendendo, vengono assaliti dal fetore dei cadaveri in avanzato stato di putrefazione. Quando si introducono nella sala, lo spettacolo che si trovano di fronte supera quello della più truculenta stanza degli orrori. Sulle pareti c'è ancora del sangue che gronda. Sparsi sul pavimento si trovano i più inauditi strumenti di tortura: pinze, coltelli dentellati, punzoni, ogni sorta di cesoie, spiedi, eculei, corde, ferri incandescenti posati su una fornace nella quale fumano ancora braci inestinte, secchi ricolmi di sangue vecchio e una grande vasca che ne contiene di fresco, gabbie estremamente anguste con aculei all'interno e, infine, ciò che

resta di uno strano strumento mai visto prima, nemmeno sui campi di battaglia. Si tratta di un manichino a forma di donna, vuoto all'interno, le cui dimensioni superano quelle di una persona, fabbricato in ferro dipinto color carne e mosso mediante un complicato sistema di ruote. Si erge a braccia aperte, come invitasse a un abbraccio. Da una mano parte un tubicino che, passando per un piedistallo sul quale appoggia il manichino, arriva a un secchio. Il manichino è un sinistramente nudo. È truccato come una prostituta e in bocca ha denti umani, come umani sono i capelli biondi attaccati alla testa. Nella scollatura luccica una collana di pietre preziose che invitano ad avvicinarsi, a curiosare, ma, ah!, la più bella di queste pietre attiva un meccanismo grazie al quale le braccia imprigionano repentinamente, senza pietà, chiunque abbia osato osservare il gioiello da vicino e, onde evitare la fuga della vittima, due lastre planano ai lati mentre il petto dello strumento lascia il passo a cinque pugnali che attraversano il corpo della persona «abbracciata». Quindi il sangue che stilla dalla vittima scorre attraverso la tubatura, e viene raccolto nel secchio situato nella parte inferiore... Questo congegno meccanico, passato alla storia con il nome di «vergine di ferro», risulta di una sofisticatezza invidiabile, sebbene al momento dell'arrivo gli ingranaggi siano ossidati. «La macchina si è guastata e la signora non ha trovato nessuno che l'aggiustasse», commenta la servitù a uno stupefatto Thurzó. «Nemmeno sua madre l'avrebbe risconosciuta» Poco dopo scoprono in seguito un buco nel quale, come viene loro riferito, vengono fatti sparire i cadaveri. Vicino a esso notano una scala che porta a un soppalco. Vicino alla porta trovano il corpo di una giovane nuda, morta, con i capezzoli tagliati, ciuffi di capelli strappati, la carne del viso e del corpo asportata e bruciata utilizzando diverse tecniche di tortura, fino all'estremo di poter, in alcuni punti, scorgerne le ossa. «Nemmeno sua madre l'avrebbe riconosciuta», testimonia il segretario copista. Con il cuore in gola, il gruppo avanza alcuni metri prima di incappare in altre due ragazze nude. Così continua la testimonianza di uno dei presenti: Una era agonizzante, prigioniera del martirio che le era stato inflitto; l'altra cercava di nascondersi, era ricoperta di piaghe tumefatte e sangue annerito, al punto che appena la si distingueva dal muro. Entrambe erano molto giovani.8 È quest'ultima che, con enorme fatica, riesce a biascicare ciò che è successo. Dopo la festa di Natale, la contessa era entrata in una delle sue celebri trance. Aiutata dalle solite vecchie streghe - Dorkó e Jó Ilona, l'antica balia -l'aveva spogliata, legata mani e piedi e, con un palo, si era accanita sui loro corpi, infliggendo più di duecento colpi ciascuna. Le aiutanti le avevano marchiate con ferri incandescenti e con pinze d'argento avevano strappato a una le dita, alle altre due dei brandelli di carne. Le pareti si erano riempite di schizzi di sangue ed Erzsebet, con una fine tunica che si era tinta di rosso, rideva percorrendo la stanza a grandi passi e, tenendo gli occhi fissi sulle prigioniere, gridava: «Più forte, più forte!». Una delle vittime, non potendo più sopportare il dolore, aveva chiuso gli occhi e si era abbandonata alla morte. Erzsebet allora aveva bruciato il suo sesso con la fiamma di un cero. Le vecchie, occupate con il viavai di

pinze, tizzoni e punzoni, obbedirono a un ordine della contessa e Dorkó tagliò con delle forbici le vene di quella che si trovava nelle peggiori condizioni: toccava sempre a lei svolgere questo compito. Quando il suolo si era ben ricoperto di uno spesso tappeto di sangue, Erzsebet vi si era rotolata fino ad acquisire lo stesso colore del liquido cremoso e acre. In seguito aveva abbandonato il lavatoio ululando minacce. Le sue aiutanti erano talmente stanche che l'avevano seguita senza disfarsi dei cadaveri e senza ripulire le pareti, il pavimento e gli strumenti insanguinati, come facevano di solito. Dopo il racconto, la giovane indica un luogo in fondo allo scantinato, al quale Thurzó si dirige per scoprire una cella scura e senza ventilazione; nemmeno la servitù che lo accompagnava era al corrente della sua esistenza. In essa è rinchiuso un gruppo di ragazze, tutte bionde, alte, giovani e belle, in maggioranza contadine dei villaggi adiacenti e alcune di loro giunte persino da Vienna. Costituiscono le provviste di cui la contessa si è dotata per soddisfare i suoi futuri deliri. Atterrite dal freddo e con la mente quasi perduta dal terrore, a mala pena riescono a spiegare che si trovano lì da talmente tanto tempo che non sono più in grado di distinguere il giorno dalla notte e che la contessa aveva seguito con loro un rituale molto preciso: le lasciava sul punto di morire di fame per poi obbligarle a nutrirsi della carne delle compagne morte. Ogni tanto, in momenti e per ragioni casuali, le faceva uscire a gruppi di tre per sacrificarle. La tortura come forma di piacere Quanto tempo è trascorso dall'inizio di questo orrore? Quand'è che Erzsebet ha iniziato a comportarsi come una pazza a tutti gli effetti? Nessuno lo sa con certezza, ma è sicuro che, poco dopo essersi sposata, quando ancora non era nata la prima figlia, la contessa sfogava la sua collera punendo le domestiche con smisurata barbarie. All'epoca era normale trovarne alcune nel bosco, legate mani e piedi al tronco di un albero, nude e con il corpo cosparso di miele affinché vespe, mosche e formiche se le mangiassero a poco a poco. Se la disgraziata aveva la pessima idea di svenire, Erzsebet faceva in modo che venisse svegliata da un foglio di carta che le bruciava tra le gambe. Da allora sono passati trent'anni; trenta lunghi anni durante i quali nessuno ha osato proferire parola, e così i deliri di Erzsebet sono aumentati in crudeltà e frequenza, giacché al principio non uccideva le sue vittime, ma le conduceva solo al limite della morte. Una delle biografe di Erzsebet scrive: Un giorno un'aiutante di camera scelse male le calzature della contessa, quindi ella chiese una piastra incandescente e gliela premette sulle piante dei piedi mentre gridava: «Adesso anche tu hai delle belle scarpe con le suole rosse». In un'altra occasione affondò la piastra ardente sulla sua gola. «Il conte lo sapeva, ma non gli interessava», attesta durante il processo Ficzkó, il nano gobbo che per sedici anni fece parte del sinistro e leale seguito di Erzsebet. Ovviamente risulta scioccante che Ferencz, caratterizzato da un misticismo talmente devoto da fondare un monastero, tolleri simili mostruosità in casa propria; è chiaro che, dopo aver rischiato la vita in un polveroso campo di battaglia, l'uomo consideri il focolare domestico come luogo di riposo in cui non è necessario pensare, né prendere decisioni, cosa che faceva per mesi interi quando comandava i

suoi soldati. Di conseguenza, con ogni probabilità desidera solo che la moglie non lo importuni con questioni attinenti alla servitù e, gli capita di vedere qualcuno sceglie di volgere altrove lo sguardo. Il gobbo scagnozzo prosegue: Quando le sarte svolgevano male il loro lavoro, la signora le portava immediatamente nella sala delle torture (...) che si trovava sempre in luoghi dove nessuno entrava. Lì infilava loro punzoni da tutte le parti, ne strappava le carni con tenaglie e le tagliava tra le dita. (...) Perpetrava torture anche nella sua carrozza, quando viaggiava. Le pizzicava, le mordeva e infilava loro spilloni. Se non era lei stessa a torturare, lo facevano le vecchie [si riferisce a Dorkó e a Jó Ilona]; la signora stava a guardare e in seguito ricompensava le vecchie se l'avevano fatto bene; a volte lasciavano le ragazze senza cibo né acqua per una settimana, e le tenevano rinchiuse in un sotterraneo senza ricambio di aria, per cui molte morivano. Sete di eterna giovinezza Era vera la storia dei bagni di sangue? Pare di sì, anche se non si verificano fino all'anno in cui muore Ferencz Nadasdy. In quel momento Erzsebet ha quarantatre anni e la sua pelle inizia a invecchiare. Questo genera in lei una profonda ossessione per la giovinezza, aggravata dal fatto che in quel momento è totalmente vittima della sua patologia: aggressiva, narcisista, priva di sensi di colpa, ossessiva, precisa in modo maniacale sui dettagli e avida di modi sempre più creativi per punire chi, secondo lei, non è sufficientemente competente nello svolgimento dei propri compiti. A quel tempo è già amante dei rituali: «Aveva una piccola scatola con dentro uno specchio di fronte al quale compiva incantesimi per ore», dichiara il gobbo discepolo durante il processo. Per completare il profilo psicotico manca solo un trofeo ottenuto dalla vittima, un trofeo che alimenti la sua fantasia, in questo caso quella dell'eterna giovinezza. E non impiega molto a trovarlo. Un giorno la contessa si contempla allo specchio mentre una domestica le incastona ciuffi di capelli ricci nei fori di una rete di perle, allo scopo di ottenere l'armoniosa illusione di onde che si increspino sul capo. Ma la fanciulla ha la sventura di non procedere con la precisione che ci si aspetta da lei. È naturale che sia estremamente nervosa, e ne ha tutti i motivi, dato che la contessa dà sfoggio di emozioni convulse, capricciose e ha una tendenza isterica alla precisione maniacale. Un microscopico disaccordo con lei sfocia in una reazione istantanea e atroce: con il dorso della mano Erzsebet percuote il volto della giovane parrucchiera; gli anelli la colpiscono con tale forza che alla disgraziata zampilla sangue dal naso e dalla bocca, macchiando la mano castigatrice e parte del vestito. Quando le altre serve si precipitano a pulirla, la contessa le ferma imperiosamente. Resta lì, estasiata, convinta di notare che la pelle della sua mano rifulga, più bianca e più fresca laddove era caduto il sangue. A partire da questo momento inizia a esserne ossessionata; il sangue diventa il miglior carburante, è un'infallibile vitamina, è una ricetta supersegreta di bellezza. La rossa sorgente sgorga dalle contadine che le aiutanti di Erzsebet reclutano per ingrossare le file al servizio della contessa. Ma non tutte sono adatte: Erzsebet ricerca un prototipo di bellezza classica, la salute e l'altezza della giovane devono garantire sangue di buona

qualità. Tra le caratteristiche più ambite vi sono i capelli biondi, la pelle non segnata da cicatrici, la dentatura completa e la statura generosa. Inizialmente la contessa non osa sacrificare nessuna delle fanciulle di nobili natali che si trovano lì in veste di pupille e di damigelle d'onore, sapendo che una cosa simile implicherebbe un rischio troppo alto. È invece semplice comprare il silenzio delle famiglie di contadini con denaro e capi d'abbigliamento invernali. Si racconta che la madre di una preda particolarmente succulenta abbia ricevuto nientemeno che quattordici gonne e un pezzo di terra in cambio della sua preziosa figlia. La ricerca di potenziali vittime si tramuta in un vero e proprio sport per Erzsebet. Man mano che passa il tempo, necessita di un «gregge» a sua disposizione in ogni castello, ogni giorno e in ogni momento, il che fa sì che la caccia e la cattura diventino frenetiche e che sia imprescindibile che un'intera squadra di donne e di uomini venga sguinzagliata per i villaggi fiutando nuove e fresche possibilità. Le aiutanti di Erzsebet, inoltre, non si azzardano a tornare due volte nello stesso paesello, per il rischio che qualcuno possa reclamare le fanciulle. Perciò si trovano costrette a effettuare le ricerche in zone sempre più isolate, così lontane che a volte le ragazze impiegano più di un mese per giungere a Csejthe. Erzsebet si informa dettagliatamente riguardo alle caratteristiche fisiche delle nuove arrivate e le appunta in una lista. In seguito sceglie quelle dai migliori attributi, riponendo un interesse particolare in ciò che concerne l'aspetto, la salute o l'altezza. Dopo aver compiuto i macabri rituali, scrive il loro nome e i dettagli su un'altra lista. Quando Thurzó e i suoi compagni di spedizione trovano quest'ultima quando si introducono negli alloggi della contessa, trovano tale lista e scoprono che vi compaiono nientemeno che seicentodieci nomi. Tra di essi quelli di svariate bambine di meno di dieci anni e quello di una ragazza che era stata sacrificata il giorno del suo arrivo, dopo aver viaggiato un mese e una settimana per raggiungere Csejthe. Ma il numero delle vittime falcidiate dal sadismo di Erzsebet supera quello riportato nella lista, giacché in essa si enumerano coloro che servono come fonte di sangue, senza tener conto di quelle decedute nel gruppo di riserva, incarcerate in condizioni disumane, senza luce né cibo. La maggior parte delle volte i corpi vengono seppelliti nei boschi circostanti durante la notte, ma in alcune occasioni le aiutanti della contessa si trovano in estrema difficoltà nel disfarsi dei corpi senza dar adito a sospetti. Una di queste situazioni occorre all'inizio di settembre, nel castello di Pistyan, località famosa per i suoi bagni di fanghi curativi, dove Erzsebet ha invitato un nutrito gruppo di persone importanti. Mentre gli ospiti trascorrono le giornate sollazzandosi nei fanghi e le notti tra danze e banchetti, nei sotterranei del castello un gruppo di venti fanciulle stenta a sopravvivere, ammucchiate nella più completa oscurità, senza aver ricevuto un solo boccone da più di una settimana. Otto di loro muoiono in quello stesso giorno. Dato che gli invitati passeggiano ovunque, senza rotta né orari, risulta imprudente disfarsi dei cadaveri gettandoli nel fossato, o portarli fuori per seppellirli. Quindi Dorkó, la vecchia bestia che aiuta Erzsebet, non trova di meglio che metterli sotto il letto di una delle stanze, avvolti in pellicce. Poiché ai primi

di settembre c'è ancora caldo, il tanfo diventa presto insopportabile e finisce per allontanare gli invitati che, ignari, credono che il fetore provenga dalle pozze di fanghi. A fine serata, quando tutti si congedano, Erzsebet decide di fare lo stesso e, per non annoiarsi durante il percorso, chiede che le veng aportato il gruppo di recluse. Riescono a issare nella carrozza solo una sopravvissuta, la quale morirà a poche ore dalla partenza. Nessuno si occupa più di questa sventurata, né delle sue compagne, gettate nel fossato non appena gli ospiti si sono allontanati. Tra le moribonde rinvenute da Thurzó nelle segrete di Csejthe non figura nessuna delle venticinque figlie di zemans che Erzsebet aveva reclutato mesi prima con un vile stratagemma. Che ne è stato di loro? Due erano state torturate il giorno stesso del loro arrivo e le altre erano state incarcerate nel castello di Podolie. Erano sopravvissute solo due settimane. Durante gli interrogatori che sono seguiti alla scoperta della stanza degli orrori, i domestici raccontano, a proposito dell'ultima che era morta, che «aveva tutto il corpo crivellato di aghi, senza però che si vedesse una sola goccia di sangue». La fine della bestia È la prima volta che Erzsebet osa perpetrare i suoi abusi contro persone dai nobili natali. Con il passare degli anni la lucentezza della pelle della contessa si deteriora, senza che i bagni di sangue riescano a impedire il suo inesorabile declino. Una delle streghe che la accompagnano afferma di conoscerne la ragione: Questi bagni risultano inutili perchè il sangue appartiene a semplici contadine, che non si distinguono poi molto dagli animali. L'unico che funzionerà sul tuo corpo sarà il sangue blu. Comincerai a notarne gli effetti entro uno o due mesi. La strega improvvisa questa folle congettura e immediatamente Erzsebet sguinzaglia i suoi scagnozzi affinché reclutino pupille di nobili origini e di sangue adeguato. A pochi giorni dal loro arrivo aveva già sacrificato tutte le fanciulle che aveva ingannato, per un totale di venticinque ragazze. Non aveva mai più potuto impadronirsi di alcuna scorta di sangue nobile, poiché i genitori di questo primo gruppo di rapite avevano dato immediatamente l'allarme quando, nonostante le avessero reclamate, non erano riusciti a riabbracciarle. Quando Thurzó e il suo gruppo trovano a Csejthe delle prove finalmente irrefutabili, la contessa si trova in un altro castello, in cui si è ritirata per riposarsi dal massacro commesso dopo la festa di Natale. Thurzó lascia una guardia a Csejthe e si precipita ad arrestarla. La trova tranquilla, fredda, non nega nulla né dà alcuna mostra di pentimento. «Disse che faceva parte dei suoi diritti di dama nobile e di alto rango», racconta un testimone. Nel calesse che la attende, pronto dietro al castello trovano la valigetta delle torture, ferri, aghi, pinze e forbici, che porta sempre con sé per infliggere tormenti durante i viaggi. Erzsebet non riceve dal tribunale una sentenza di condanna al rogo, alla decapitazione o alla forca, come avrebbe meritato e come di fatto successe ai complici che tanto l'avevano aiutata. La sua stirpe nobile, l'intervento dei figli e dei suoi potenti generi, e il desiderio di non infangare l'immagine dell'Ungheria all'estero la salvano dal fuoco e persino dal comparire a giudizio. Aiuta anche il fatto che la sua decapitazione o la sua morte sul rogo non avrebbero procurato al re il

terzo dei beni del condannato che sempre gli spettavano, in quanto dal momento in cui era rimasta vedova tutto apparteneva al figlio Pál, che a dispetto della giovane età è già promesso a Judith Forgach, bambina appartenente a una delle famiglie più potenti dell'Alta Ungheria. Sebbene salvata da una morte spettacolare e pubblica, Erzsebet non manca di ricevere una dura condanna: viene reclusa a vita in una stanza del suo castello a Csejthe, senza alcuna fonte di calore, senza accompagnatori, con le finestre murate e un piccolo foro di ventilazione nel muro, attraverso il quale le viene passato il cibo. Vi entra nel gennaio del 1611. Nella notte del 21 agosto 1614, Erzsebet muore nella sua prigione. Uno dei testimoni scrive a Thurzó in latino: Erzsebet Bathory, moglie del Magnificente Signor conte Ferencz Nadasdy, dopo quattro anni di detenzione in una cella del suo castello di Csejthe, condannata alla prigionia perpetua, è comparsa di fronte al Giudice Supremo. È morta al calar della notte, abbandonata da tutti. Proteggere il buon nome dell'Ungheria è fondamentale, in quei tempi di delicate relazioni politiche con l'Austria, estremamente desiderosa di trovare motivi per screditare e schiacciare gli ungheresi. La storia e il processo di Erzsebet Bathory rimangono dunque coperti dal segreto e dal silenzio. Centosessant'anni più tardi, l'archivio che contiene gli atti completi del processo viene scoperto in un cumulo di rovine, ammuffito e in pessime condizioni. A partire da allora il materiale passa di mano in mano fino a giungere ai giorni nostri, e gli interessati possono trovarlo al sicuro negli Archivi Nazionali di Budapest. Note 1. Il quadro, opera di un artista anonimo, è stato esposto nel palazzo viennese della famiglia Nádasdy-Báthory sin dal XVII secolo. Nell'ultimo decennio del XX secolo è stato rubato e oggi si può ammirare solo una copia dell'originale. 2. Il villaggio di Csejthe poggia su una pendice dei monti Carpazi. Oggi il luogo si chiama Cachtice (Csachtitz) e appartiene alla Slovacchia, ma nell'antichità la zona era denominata Transilvania, e apparteneva alla Corona di Ungheria e Boemia. Il maggior patrimonio storico di un luogo tanto recondito è costituito dalle rovine di un castello del secolo XIV, il cui momento di apogeo si colloca agli inizi del secolo XVII. 3. Rodolfo II, incoronato Imperatore d'Austria nel 1576. L'anno seguente soffrì in una forte «crisi di melanconia» a causa della quale fugge da Vienna e si chiude nel suo palazzo di Praga, che a partire da questo momento diventa la sua residenza permanente. Ed è proprio qui che comincia a mostare un forte interesse per l'astronomia e la magia, trasformandosi in un insaziabile collezionista di oggetti rari. 4. Cronaca di Jean Le Laboureur, accompagnatore di María Gonzaga quando costei deve attraversare l'Ungheria per unirsi in matrimonio al re di Polonia (1645). 5. Questo palazzo di trova nella parte più elegante di Vienna. Prima che Erzebet e suo marito lo comprassero, era appartenuto all'Ordine del Templari e fu testimone della crudele mattanza degli stessi quando caddero in disgrazia. 6. V. Penrose, p. 82. 7. Nobili contadini , cavalieri e baroni 8 A. Pizarnick, p. 312.

VALERIA MESSALINA (22 ca. d.C. - 48 d.C.) La dea del sesso Sexus, si lecentia adest, saevus, abitiosus, potestatis avidus. (Il sesso, se gli si dà la possibilità, [è] crudele, ambizioso, avido di potere). Tacito, Annali. Nella prima metà del I secolo della nostra era, a Roma dilaga un'inarrestabile decadenza morale che corre in parallelo con la smodatezza della sua Imperatrice. Ancorata al suo aureo piedistallo, Valeria Messalina si vanta di un forte desiderio di sperimentare ciò che comunemente non viene concesso alle donne, ma permesso agli uomini, ovvero potere, sesso, ricatto e lusso. Già in passato altre donne avevano osato assaporare tali piaceri, ma la maggior parte lo aveva fatto sommessamente o segretamente per non incorrere nel rischio di morire miseramente in esilio.1 La storia qui narrata risale a circa dieci anni dopo la morte di Cristo, in un periodo in cui le donne conducono una vita insignificante e confinata, obbligate a non parlare per strada e a comparire unicamente nel cono d'ombra del padre, del marito, di un fratello o di un figlio. La nostra protagonista, l'Imperatrice Messalina, infrange però le regole con l'irrefrenabile volontà di esibire pubblicamente il suo virile predominio. Nonostante sia nata donna, si dedica a mietere trionfi tanto quanto gli uomini e altrettanto cerca l'ebbrezza dell'idolatria, dell'unione servile e del timore, sensazioni destinate solo all'Imperatore. Per sette anni riesce perfettamente a raggiungere i suoi scopi; tuttavia alla fine la sua reputazione subisce un colpo così forte da cui, dopo 2.000 anni, non si è ancora affrancata. Non a caso la nostra lingua utilizza la parola messalina come sinonimo di prostituta e la psichiatria indica con sindrome di messalina una patologia riguardante la condotta sessuale femminile. E se questo non bastasse, alcuni scrittori sfruttano impropriamente la biografia dell'Imperatrice per dare sapore orgiastico alle loro fantasie, attribuendole trasgressioni più aberranti di quelle realmente compiute. Messalina e Claudio La biografia di Messalina e di tutta la stirpe imperiale appare intricata come una matassa, e ci si rende conto piuttosto facilmente del cumulo di trappole che i membri della famiglia si sono tesi l'un all'altro, nella spietata lotta al potere. L'epoca stessa è caratterizzata da un monumentale rompicapo di alleanze e tradimenti che non consentono di abbassare la guardia né fuori né dentro al palazzo. Di sangue blu - Messalina è infatti la pronipote del divinizzato Cesare Augusto2 - la sua nascita risale a una data che non si è riusciti a definire con esattezza così come nulla si sa della sua infanzia, ma si calcola che sia circa venti anni più giovane di Cristo. L'inchiostro degli storici comincia a consumarsi per scrivere sul suo conto nel momento in cui diventa Imperatrice di Roma insieme al suo sposo Claudio, appartenente alla fastosa dinastia Giulio Claudia.3 Si tratta esattamente di quel Claudio cui Robert Graves rende tributo nel suo magistrale romanzo, quel Claudio che affermò che se non fosse nato Imperatore

sarebbe stato meglio nascere idiota, a mo' di giustificazione della fama attribuitagli dalla sua famiglia. Appena eletto Imperatore, Claudio dimostra al resto del mondo che, nonostante sia zoppo, sordo, insicuro e balbuziente, la frenastenia non gli ha causato gravi danni. Riesce, infatti, a ridare a Roma quella serenità e quella fiducia perse durante le tirannie dei suoi due predecessori, Tiberio prima e l'orripilante Caligola dopo. L'erede di Claudio sarà Nerone, unico Imperatore che Roma dichiara nemico pubblico definendolo distruttore della razza umana, seppur Caligola vantasse parecchi meriti per concorrere allo stesso titolo.4 Nel bel mezzo di questa palude storica ordita dai suoi due predecessori e dal suo successore, Claudio appare come l'unico respiro che la città sembra darsi per diversi anni, nonostante l'Imperatore non riesca del tutto ad affrancarsi dal vilipendio. Le ingiurie si sprecano non tanto contro la sua gestione politica, tuttosommato buona, quanto piuttosto contro la malattia che colpisce la sua personalità: pare, infatti, che l'Imperatore renda protagonista di una strana e inquietante leggerezza riguardo alle due ultime mogli, la prima delle quali è Messalina. Un Imperatore plasmato dalla moglie Nell'anno 41 Roma resta sorpresa nel ritrovarsi sul trono un maturo e imprevedibile Imperatore, il quarto della saga imperiale, sconosciuto alla maggior parte del popolo. A condividere tale stupore è lo stesso designato al trono, Claudio, infatti, manca del benché minimo addestramento politico e militare per svolgere il ruolo che sembra piovergli addosso dal cielo. Lo stupore generale s'amplifica se si pensa che Claudio è un uomo con un fisico poco prestante, ha un linguaggio intermittente, abitudini scioccanti e affetti ridicoli; inoltre non solo si mostra apertamente affezionato alla sposa Messalina, ma pure, e questo è il peggio, appare a lei sottomesso. A quel tempo l'amore coniugale gode di poca importanza e non costituisce né il motivo né il proposito che unisce in matrimonio due persone, la reciproca comprensione tra marito e moglie è qualcosa di piacevole ma non essenziale. Ma Claudio non ha problemi nel rendere pubblica la reverenza verso la sua giovanissima moglie. Lo storico Svetonio definisce quest'atteggiamento amorem flagrantissimum, amore ardente, talmente ardente che più non si può. L'Imperatore non dissimula il fervore che sua moglie gli suscita né dentro né fuori dal palazzo. Nella trionfale e clamorosa processione che si svolge a Roma in occasione della celebrazione della faticosa conquista di una parte della Britannia, Claudio permette che sua moglie sfili in un carpetum, una piccola carrozza che veniva utilizzata soltanto dalle sacre vestali e sacerdotesse. Nella sfilata Messalina decide inoltre di posizionarsi, privilegio ancor più scandaloso, dietro l'Imperatore e dinanzi ai generali che avevano lottato e vinto. Questo e altri atteggiamenti di Claudio nei riguardi di sua moglie vengono considerati come una preoccupante stravaganza e alimentano dicerie che aumentano di giorno in giorno. È vero che conquista la Britannia, migliora l'amministrazione e realizza opere idrauliche ma, visto da vicino, resta «niente più che argilla nelle mani di Messalina»5 ovvero, per usare altre parole, l'Imperatore è un tenero agnellino nelle mani di un orso:

Claudio era talmente succube dell'influenza della moglie che sembrava essere piuttosto la sua domestica che il suo Imperatore e, a seconda dei capricci della donna, attribuiva onori, incarichi militari, indulgenze e castighi, senza rendersi conto di ciò che stava realmente facendo.6 Il dominio che Messalina esercita nei confronti del sovrano è come il miele per le api per tutti coloro che vogliono trarre vantaggi personali, e cioè per molti. Aulo Lucio Vitellio, uno dei confidenti di Claudio nonché spudorato arrampicatore, capisce alla perfezione a cosa conviene attenersi: prima chiede il permesso di sfilare le scarpe a Messalina, poi le toglie il sandalo destro, se l'appende al collo e di tanto in tanto l'avvicina alle labbra per baciarlo con mille cerimonie. L'Imperatrice si lascia desiderare dagli arrivisti, che manovra con ipocrisia, senza garbo e con l'unico intento di proteggere la sua posizione privilegiata. Premia, pubblicamente e senza scrupoli, coloro che le sono favorevoli, castiga e ricatta chi si oppone ai suoi desideri, infine emette sentenze di morte contro chiunque osi sfidarla. Il comportamento dell'Imperatrice distrugge l'immagine femminile idilliaca che, anni prima, era stata imposta da Cesare Augusto, secondo cui le madri, le mogli e le figlie dovevano essere caste, pie, laboriose, frugali, obbedienti, silenziose, fertili e disinteressate alla vita pubblica.7 Un destino tanto tedioso equivale a una forma di morte lenta e crudele, così che pian piano, ed evitando che suo marito si opponga, passa dalla parte opposta, quella che occupano solitamente gli uomini potenti. Qui si sente a suo agio tanto che decide di sfruttare al massimo la situazione, per non rischiare che la sua fortuna termini all'improvviso. Come molti suoi colleghi, anche lei cede all'esagerazione, all'agiatezza dei costumi e al diletto dei piaceri sessuali. Si sente tanto forte e unica da manovrare l'Imperatore «sottomettendolo ad ogni volontà».8 Nella Roma «dove tutto si sa e niente si nasconde»9, i sudditi, che vedono nella sovrana l'immagine viva della corruzione, dinanzi a un simile scandalo cominciano a ribellarsi. La regnante non sembra però disposta a mettere da parte la sua voglia di «giocare con gli affari di Stato per soddisfare i suoi appetiti».10 Il problema, come si vedrà più avanti, è che i suoi metodi mancano di sufficiente destrezza. Non riuscendo nel ruolo di buona stratega politica, che essendo donna avrebbe significato agire come un serpente silenzioso e letale, Messalina riesce soltanto a suscitare eccessivo clamore e a creare crudo risentimento in troppi uomini, che si dimostrano in fondo più forti di lei e che finiscono presto per accusarla di essere una manipolatrice (come infatti era) crudele, (esattamente quanto essi stessi) e per affibbiarle il titolo di meretrix. Inizialmente Messalina non fa caso e prosegue con le sue smanie: tutto ciò che le procura piaceri fisici e benefici psicologici. Una bambina costretta a sposare un vecchio Tra Claudio e Messalina, cugini alla lontana, c'è una notevole differenza d'età. Si narra che è il depravato Caligola, a quel tempo Imperatore per disgrazia di Roma, a incoraggiare il loro matrimonio. Si dice anche che Caligola lo fa per tenersi vicino al letto il corpo della giovane ragazza, e si dice persino che lei lo soddisfi a suo piacimento, sia prima sia in seguito al suo matrimonio con Claudio. La bestia nera che insegue e infanga la reputazione di Messalina durante i secoli e che le

attribuisce l'incancellabile fama di ninfomane sembra nascere nel momento in cui la ragazza perde la verginità. Ci sono pagine e pagine che raccontano (seppur senza alcuna prova) come la donna sia stata deflorata nel giorno stesso del suo matrimonio. E, per aggiungere del piccante della vicenda, pare non sia il novello sposo a portarsi a casa il premio ma, come alcuni raccontano, uno schiavo che lei stessa importuna durante i preparativi delle nozze. Altri ancora sostengono che non si tratta di uno schiavo ma di un vecchio console di nome Valerio Asiatico a cui lei si era pure offerta e che, come si leggerà più avanti, ordinerà di uccidere. Una larga maggioranza di pseudobiografi, infine, si preoccupa di raccontare che fu lo stesso Caligola, allora Imperatore, a inaugurarla qualche minuto prima che potesse farlo lo sposo. Questi autori collocano nell'Impero romano lo ius primae noctis, diritto di cui beneficeranno, undici secoli dopo, i sovrani del Medioevo; tuttavia si tratta di un errore cronologico e culturale dato che, nella Roma Imperiale, la purezza della discendenza rivestiva un'importanza cruciale.11 Nel I secolo della nostra era, la moralità sessuale è confusa, abbonda la promiscuità ma non è consentito giocare con il fuoco quando c'è in ballo il concepimento del primogenito. Qualsiasi sospetto di discendenza illegittima è motivo di ripudio e le leggi romane puniscono severamente l'adulterio con l'esilio o persino con la condanna a morte. Per di più, i biografi che tanto diffamano Messalina riguardo alla perdita della sua verginità con Caligola, dimostrano di conoscere male i suoi spostamenti: Caligola era, infatti, lontano dalla Campania all'epoca in cui Messalina e Claudio convolano a nozze. In realtà nessuno storico affidabile ha riportato i dettagli delle nozze, per cui non si conosce la data esatta, i termini della negoziazione e nemmeno viene riportato se Caligola abbia o no avuto a che fare con la vicenda; così come nessuno racconta di un precedente matrimonio di Messalina, improbabile visto che, considerando le abitudini, stava appena uscendo dalla pubertà. Già nell'anno 33 l'Imperatore Tiberio aveva costretto le figlie del defunto Germanico12, che all'epoca avevano tra i tredici e i diciassette anni, a sposarsi perché «la loro età non consentiva di aspettare ancora».13 Qualche decennio più tardi, lo stesso Claudio farà sposare sua figlia Ottavia con Nerone, alla tenera età di tredici aprili, età legale a partire da cui una donna romana poteva sposarsi. Pertanto Messalina ha fra i tredici e i quindici anni quando sposa il suo lontano cugino Claudio, che invece aveva più di mezzo secolo di vita. Claudio aveva già ripudiato già due mogli e aveva una figlia di nome Antonia. «Infame aborto della natura» Al momento delle nozze nessuno sospetta che il futuro sposo possa succedere al nipote Caligola, anche perché le successioni spettano ai discendenti e quasi mai agli ascendenti ancor meno se questi sono zii e non padri. Prima e dopo il matrimonio, lo zio Claudio conduce un'esistenza economicamente non troppo agiata ma tranquilla. Dedica la maggior parte del suo tempo a studiare le lingue e la storia, fino a divenire l'unica persona, a Roma, a conosce re correttamente la lingua etrusca. Nessuno della sua famiglia sembra rendersi conto, né tanto meno apprezzare, il suo talento.

Da bambino, Claudio si ammala probabilmente di un'encefalite14 che lo lascerà storpio e balbuziente, motivo per cui la famiglia lo emarginerà per tutta la vita, vergognandosi di lui e considerandolo un idiota che merita solo di essere maltrattato. Racconta Svetonio che «sua madre Antonia lo chiamava ombra di nome, infame aborto della Natura, e quando voleva tacciare qualcuno di essere un imbecille diceva È più stupido di mio figlio Claudio».15 Lo storico racconta di come, da giovane, il povero ragazzo subisca continui scherzi da parte dei parenti: se arriva in ritardo a tavola, cosa frequente considerata la sua difficoltà a camminare, i famigliari lo obbligano a girare intorno al tavolo per cercare il posto, gli lanciano in faccia i noccioli di datteri e di olive e quando, dopo la lauta cena, si addormenta gli infilano sandali da donna in mano in modo che nel svegliarsi si strofini la faccia con questi. La famiglia continua a considerarlo un inetto anche superata la maggiore età; gli viene infatti imposta una guardia, proprio come se fosse una donna. Lui stesso si lamenta nei suoi scritti del fatto che «gli hanno piazzato a fianco un barbaro, per fargli sopportare, sotto qualsiasi pretesto, una miriade di crudeltà».16 Lo obbligano inoltre a presiedere a capo coperto agli spettacoli dei gladiatori quando invece, secondo quanto narra Quintiliano, soltanto una malattia giustificava l'azione di coprirsi il capo, le gambe e le orecchie. Oltre a questo lo costringono a svolgere in clandestinità i comuni riti di passaggio propri di un principe imperiale; il conferimento della toga virilis si svolge di notte in Campidoglio, nascosto in una cuccetta e senza essere accompagnato dal padre e senza il rimbombo degli applausi della gente accalcata nel foro, com'era invece consuetudine. Soltanto l'Imperatore Augusto, che è sensibile ai bambini della sua famiglia e si occupa personalmente di insegnar loro a leggere e a scrivere, obbligandoli a imitare la sua grafia, sembra rendersi conto che Claudio impara con molta più prontezza rispetto agli altri e, anni dopo, confesserà a sua moglie Livia: Ho sentito tuo nipote [Claudio] parlare in pubblico e sono rimasto stupefatto. Com'è possibile che parli in pubblico con tanta chiarezza se solitamente ha una lingua così stupida?17 Ma a parte simili dettagli, Augusto non concede a Claudio «alcuna dignità e gli assegnerà unicamente la sesta parte dell'eredità, collocandolo solo nella terza categoria degli eredi, quasi tra gli estranei».18 Le sue opinioni non vengono ascoltate e nessuno sembra rendersi conto che dietro la sua apparente oligofrenia freme una pacata intelligenza. Durante il periodo in cui Claudio non ha poteri, tutto ciò che riguarda la sua vita passa praticamente inosservato: si parla poco dei suoi due precedenti matrimoni e quasi nessuno nota la sua giovanissima e splendente sposa Messalina, né tanto meno la figlia che concepiscono durante il primo anno di matrimonio, cui assegnano il nome di Ottavia. Habemus Imperatorem Le cose cambiano quando, nell'anno 41 d.C., la guardia pretoriana (che curiosamente è incaricata di proteggere l'Imperatore) assassina pubblicamente Caligola. Gli eccessi di Caligola hanno ormai viziato l'ambiente romano fino a raggiungere un limite così insopportabile: o lo tolgono di mezzo o scoppia un collettivo delirio omicida. I romani sono talmente stanchi che al momento di ucciderlo sembrano voler eliminare

definitivamente tutti quelli che hanno il suo stesso sangue. Perciò quando Claudio viene a conoscenza dell'assassinio di suo nipote, si nasconde dietro una tenda ed è lì che viene ritrovato dalla stessa guardia pretoriana che qualche attimo prima aveva giustiziato Caligola. Claudio, abituato sin dall'infanzia a essere maltrattato, si prostra accettando servilmente la sua imminente morte, ma, con sua sorpresa, invece di finire sgozzato viene eletto Imperatore. Caligola, effettivamente, non ha lasciato discendenti maschi né diretti né indiretti, fatto che risulta miracoloso considerando la sua incontinenza sessuale, e alla guardia pretoriana non viene in mente migliore alternativa: Claudio è l'unico uomo adulto che rimane della famiglia Giulia. Cercano in Claudio non un periodo di pace e prudenza di cui Roma ha bisogno, ma piuttosto qualcuno che impedisca, per lo meno temporaneamente, che s'instauri la Repubblica. Claudio resta ancora più sbalordito scoprendo che il Senato non protesta e che, scegliendolo, Roma accetta di essere guidata da un essere oscuro, deforme e balbuziente fino ad allora deriso ogni qualvolta appariva in pubblico. Come si dice, la fortuna chiama altra fortuna, e alcune settimane dopo l'inaspettata ascesa al trono, sua moglie Messalina dà alla luce l'agognato maschio. Al bambino sarà dato il nome di Germanico, sebbene più tardi, a seguito della vittoria in Britannia, il nome verrà sostituito con quello di Britannico. In quanto coniuge di un Imperatore con un carattere docile, oltre che madre del suo diretto successore, l'Imperatrice acquisisce una repentina e notevole importanza. Immediatamente gli arrivisti vedono in lei un ostacolo all'appetitosa fetta di benefici che si aspettano dall'inesperto Imperatore. Tutte le attenzioni si concentrano su Messalina, sulle sue origini patrizie, sul suo passato e su ogni cosa che fa o dice, mentre lei sembra mantenersi, come meglio può, sull'aureo e scivoloso piedistallo. Inizialmente si limita a osservare in silenzio da dietro le quinte, poi però carpisce subito la cieca e minacciosa fiducia che l'insicuro Claudio ripone nei liberti19 che lo accompagnano ovunque, ovvero Callisto, Narciso, Pallante e Polibio. Messalina inizia dal più debole e più bello, Polibio: dopo averlo sedotto, si stanca di lui, se lo toglie di torno e lo uccide. Gli altri però sono fatti di un'altra pasta sono intelligenti, forti, coraggiosi e, quando conviene loro, straordinariamente cinici e fedeli a Claudio. L'Imperatore si fida dei quattro liberti più di chiunque, li pretende continuamente accanto e non fa un passo senza di loro. Ama Narciso come un fratello, è il suo più fedele alleato tanto che finisce per concedergli libertà e potere affinché lo aiuti ad amministrare il vasto Impero romano. Il fanciullo però, oltre a essere fedele, è ambizioso come Messalina e due predatori che si sfidano sotto lo stesso tetto costituiscono una grave minaccia sia per i prigionieri sia per i rivali; le alternative sono: o contendersi fino a che uno dei due muoia o collaborare e vincere entrambi. Di comune accordo optano per la seconda scelta e si uniscono in una mafia tirannica che farà tremare Roma. Tutto fila liscio come l'olio fino a quando non inizia a trovare fastidioso il fatto che un semplice liberto che un semplice liberto ostenti il suo stesso e identico potere. Tuttavia, fiduciosa della sua importanza dinastica e cerimoniale, considerando inoltre che ha dato a Roma un erede maschio, dimentica la sua condizione di donna e osa convertire Narciso, che è un uomo, in un semplice sbirro, e per

dimostrare chi è che comanda davvero decide di farlo pubblicamente. Ma la questa lotta tra titani dura poco e Messalina perde. Ricatti, destituzioni e delitti Prima di giungere al fatale epilogo, l'Imperatrice dedica sette anni a vendere onori, cariche pubbliche, posti di comando nell'esercito e titoli di patrizio romano; controlla pure i contratti delle opere pubbliche, concede favori, li ritira, esilia i rivali difficile da eliminare. Una volta sancita l'alleanza segreta con Narciso, e dopo aver sottomesso gli altri liberti ai suoi ordini, il primo passo che compie Messalina è quello di comprarsi un giudice. Il prescelto è Silio, magistrato di grande prestigio a cui offre ingenti quantità di denaro in cambio della completa gestione delle condanne a morte, che infligge a chi la infastidisce. Con l'aiuto di Narciso, l'Imperatrice riesce a destituire un soldato della guardia pretoriana che la minaccia di diffondere i suoi eccessi e al suo posto colloca Lucio Gaeta, uomo di suo gradimeno, con cui pare abbia uno scambio di fluidi, che tiene in pugno prendendolo dal suo punto più vulnerabile. Con una memorabile manovra riesce anche a convincere Claudio a far esiliare Seneca che, da faccendiere ipocrita qual è, aveva cominciato a darle fastidio. Il drammaturgo, oratore e filosofo, nato in Spagna - per la precisione a Cordoba - agguerrito intrallazzino nonché vile prestasoldi, già ai tempi di Caligola aveva dato prova di essere privo di scrupoli, aspetto che l'aveva portato a un sofferto e indefinito esilio, nonostante la dedizione dell'Imperatore nei suoi confronti. Ma Seneca, ignorando la distanza impostagli da Caligola, non cessa di tramare e si narra risalga a quel tempo la sua celebre massima rivolta all'Imperatore «Colui che crediamo morto, ci ha soltanto preceduto».20 Con queste parole non dà un consiglio ma una premonizione certa, quasi un verdetto; Caligola, infatti, muore assassinato e il filosofo riesce a ottenere il perdono di Claudio; non soddisfatto, cerca persino di introdursi nella casa imperiale. Qui questo scapolo incallito scruta il panorama di donne che popolano il palazzo e avverte che tutte anelano spietatamente all'Imperatore senza lesinare trappole e tranelli. Forse risale ad allora la sua frase «Chi cerca di avanzare velocemente in un labirinto è ostacolato della sua stessa velocità».21 Un così azzeccato enunciato sembra rivolto a una donna il cui comportamento somiglia a quello di un cavallo sboccato. Si tratta di Giulia Livella, la bella sorella del defunto Caligola e nipote di Claudio. A quanto pare la ragazza zigzaga di qua e di là per far sì che suo zio Claudio trascorra con lei lunghi momenti sereni, non preoccupandosi minimamente del fatto che un simile atteggiamento infiamma l'animo di Messalina. Il filosofo s'inserisce nel cammino di Giulia e, ritrovandosela lesta e al contempo confusa, finisce per sedurla e incastrarla in una storia extramatrimoniale.22 Non sappiamo se lo fa per infastidire il fantasma di Caligola, per accedere direttamente agli allettanti segreti imperiali o semplicemente perché la ragazza gli piace. Tuttavia di tutte queste congetture l'ultima pare essere la meno probabile. Mentre fa la corte a Giulia, Seneca non lascia comunque in pace Messalina che a sua volta se la prende con l'altra; i tre finiscono così per sprofondare in un triangolo di odio letale. Il filosofo cerca di contenere l'influenza di Messalina su Claudio. Per raggiungere il suo

scopo elabora una strategia: insegue ovunque l'Imperatrice ricoprendola di rimproveri che proferisce a voce alta: «Impariamo ad aumentare la continenza, a sfidare l'eccesso, a controllare la gola, a mitigare l'ira...»23, dimostrando così con quanta chiarezza fosse capace di vedere gli altrui difetti. Messalina non sopporta che denuncino così duramente e cinicamente le sue lacune e comincia a fare la voce grossa con Seneca e con la sua amante. Già in passato Giulia Livilla aveva avuto problemi a causa della sua bellezza, motivo che aveva altresì indotto suo fratello Caligola ad avere relazioni incestuose con lei. La stessa ragione provoca adesso tensioni con Messalina. Il limite di tolleranza dell'Imperatrice nei confronti della bellezza delle altre donne è molto basso e, a eccezione delle schiave, scelte addirittura di persona affinché distraggano Claudio, Messalina considera la bellezza delle nobili donne una minaccia inquietante. Giulia Livella, oltre a essere bellissima e ad andare a letto con Seneca, non nasconde di essere interessata allo zio Claudio24 e tratta Messalina con totale disprezzo. Non a caso è sorella del precedente Imperatore, discendente diretta del venerato Augusto e quindi anche della famiglia imperiale; Messalina invece non è altro che un ramo secondario dell'albero genealogico. Giulia Livella crede, insomma, di avere svariati motivi per considerarsi più importante dell'Imperatrice. Messalina non tollera lo smacco e si riappropria di ciò che Giulia e Seneca le hanno messo sul vassoio. Facendo ricorso alla cosiddetta lex adulteriis, che punisce severamente l'infedeltà matrimoniale, riesce a scacciare la coppia nemica in un veloce e schiacciante giudizio. Della bella Giulia Livella non si sente più parlare, la sfortunata muore qualche mese più tardi, triste e malata. Seneca però rimane nascosto a vigilare e aspettare che l'odiata Messalina sparisca dalla scena, cosa che succederà nel giro di qualche anno per ragioni che conosceremo più avanti. Il filosofo sarà quindi nuovamente perdonato da Claudio e tornerà ancora una volta a palazzo addirittura in veste di tutore di Nerone, il fanciullo proclamato erede al trono. Ma torniamo a Messalina. Dopo aver eliminato Seneca e Giulia dalla scena, una nuova minaccia incombe sul marito dell'esiliata. Marco Vinicio, umiliato e offeso perché Messalina ha reso pubblica l'infedeltà di sua moglie, cerca vendetta. L'Imperatrice si presenta sdraiata sul letto disfatto e in una posizione tale da addolcirgli l'umore, lui la rifiuta e lei lo avvelena. Fa inoltre uccidere il comandante della guardia pretoriana Giusto Catonio ritenendolo in possesso di troppe informazioni riguardanti questa torbida storia. In seguito, forse galvanizzata dall'essersi resa conto di quanto sia facile togliere di mezzo un nemico, si accanisce contro un bersaglio più difficile da centrare ed eliminare: il nuovo marito di sua madre. L'uomo in questione è Appio Silano, un valente comandante della legione spagnola tornato a Roma per unirsi in matrimonio con la madre dell'Imperatrice. Sebbene le congetture abbondino, non ci sono prove affidabili delle ragioni per cui Messalina provi rancore verso il suo patrigno. La leggenda maligna attribusce alla vicenta ragioni di natura sentimentale che gli storici non garantiscono, ma tali ragioni coincidono quasi tutte con il ritratto dell'accaduto: Messalina e Narciso - il liberto preferito da Claudio - approfittando del fatto che Claudio crede nel potere premonitore dei sogni, convengono tra loro che al suo risveglio gli racconteranno, ognuno singolarmente, di aver avuto un incubo in cui Appio Silano lo assassinava. La notte precedente mandano a

Silano un messaggio confidenziale con cui comunicano che l'Imperatore desidera affidargli una delicata questione, che l'aspetta alle prime ore del giorno successivo nella sua camera da letto e che dovrà entrare nelle stanze senza essere visto, ricordandosi di portare con sé un'arma corta per eliminare possibili testimoni inopportuni. L'ignaro Appio Silano segue tutte le istruzioni alla perfezione giungendo nella camera di Claudio proprio nel momento in cui Messalina e Narciso hanno terminato di raccontare i dettagli del loro incubo. L'improvvisa presenza dell'intruso scatena terrore nell'Imperatore che chiede aiuto gridando. Appio Silano, confuso, non tenta nemmeno di fuggire. I soldati trovano la daga nascosta sotto la tunica e Claudio ha così conferma che gli déi lo hanno avvertito grazie al monito di sua moglie e Narciso. Il patrigno di Messalina viene giustiziato sul posto, accusato di un crimine che mai aveva pensato di commettere. I biografi del tempo scrivono però che l'Imperatore avrebbe potuto usare tale chimera come pretesto per assassinare un suo potente e potenziale nemico. Messalina e Narciso creano la farsa, ma non sono i veri istigatori.25 Questa versione ha effettivamente una sua logica se pensiamo che Messalina non ha realmente niente da guadagnare lasciando sua madre vedova per la seconda volta. In ogni modo, a seguito dell'assassinio del suo patrigno, l'Imperatrice comincia una florida carriera di attentati e cospirazioni. Inizia, con l'aiuto di Narciso, ronzare intorno a Claudio affinché questo ripristini l'antica legge, oramai in disuso, denominata crimen maiestatis, che consentiva di giustiziare chi veniva sospettato di cospirazione e che prevedeva la confisca dei beni. Con l'intento di accrescere l'oro delle sue casse, Messalina presenta una lunga lista di ricchi nobili e inventa che questi cospirano contro Claudio. L'Imperatore teme di morire assassinato e qualsiasi insinuazione a proposito gli annebbia la ragione. Di conseguenza, Silio, il giudice-sbirro, comincia a giudicare e condannare a morte tutti gli imputati della lista che Messalina redige. Improvvisamente le case e le ricchezze degli accusati vengono consegnate all'Imperatrice, che Claudio ricompensa per l'amore, la fedeltà e la solerzia nel proteggerlo. Tra i complotti che hanno reso celebre l'Imperatrice ve ne è uno particolarmente noto e intricato. La vittima è l'eminente e leale Decimo Valerio Asiatico, due volte console, stimatissimo senatore e valoroso condottiero che affiancò Claudio durante la campagna di Britannia. Il peccato che Valerio commette è rifiutare le offerte erotiche dell'Imperatrice; sembra infatti che l'uomo sia follemente innamorato della bella e ricca Poppea Sabina, con cui intrattiene una relazione adultera e clandestina, essendo entrambi sposati. Il senatore possiede, inoltre, i meravigliosi e famosi giardini di Lucullo e Messalina li desidera intensamente così come affannosamente desidera punire Valerio per averle negato i suoi favori sessuali. L'imperatrice ricorre in primis a uno dei liberti di Claudio, gli ordina di assassinare Valerio. Ma il giovane rifiuta non soltanto perché ammira particolarmente il senatore ma anche perché Valerio è grande amico di Claudio. A Roma Decimo Valerio Asiatico è acclamato da tutti e la richiesta di Messalina appare al liberto spropositata e impensabile. Tuttavia, la donna non si perde d'animo e escogita un nuovo stratagemma. Per attuarlo decide di utilizzare proprio lo smisurato e abbagliante splendore di cui Valerio gode a Roma, per ritorcerglielo contro. Una manovra senza dubbio difficile ma cosa perderebbe provando a realizzarla?

Chiede così al suo sbirro giudice di istituire un processo contro il nemico e contemporaneamente impartisce ordini a due pedine strategiche: Lucio Vitello, l'adulatore che porta i sandali della matrona al collo per baciarli di tanto in tanto e il tutore, da lei stessa incaricato, di suo figlio Britannico. Ognuno per conto proprio deve dare a Claudio l'inquietante notizia che in città corrono dicerie sul suo conto. Claudio, pusillanime com'è, cade nella trappola ansioso di sapere di che cosa si tratta. Le pedine, sfoggiando servile obbedienza alla loro signora, raccontano all'Imperatore che Valerio Asiatico recluta adepti in Gallia per ucciderlo e visto che tutti provano grande ammirazione per la sua persona in poco tempo sono molti coloro che gli hanno giurato fedeltà. Il liberto Narciso, che a quel tempo viene ancora trattato da Messalina alla pari, avvalla la falsa notizia. L'Imperatore, senza aspettare un minuto e senza verificare la veridicità della notizia, manda a cercare il colpevole, che arriva a palazzo senza avere la minima idea di ciò che sta accadendo. Claudio lo conduce quindi nella sua stanza privata dove Silio, il giudice corrotto, comincia ad accusarlo formalmente. Se si fosse seguito il normale corso del procedimento legale, Valerio Asiatico sarebbe stato giudicato dai suoi colleghi senatori e, a quel punto, la menzogna di Messalina sarebbe stata scoperta. Ma al coraggioso senatore non viene data questa possibilità e tutto si svolge molto velocemente. Valerio si agita come uno che sta rischiando di affogare, argomenta con maestria dialettica per difendersi... ma gli viene rifiutata la presenza di testimoni che possano dimostrare la sua innocenza. Messalina, durante il processo, continua a piangere esibendo le sue fantastiche doti interpretative ma non interviene quando la sentenza finale condanna a morte l'accusato. A Decimo Valerio Asiatico viene concesso l'onorato privilegio di tagliarsi di persona le vene, proprio lì sul posto. Non appena giace morto, Messalina corre a saldare il conto con Poppea Sabina, amante del suicida e sua rivale in amore. Irrompe in casa della donna e la tortura fino a esaurire la sua energia psicologica. Così racconta Tacito: Lei stessa [Messalina] si affretta a spingere Poppea verso la morte: insieme ad altri la bracca per incitarla, come antidoto alla paura della prigionia, a darsi volontariamente il colpo di grazia.26 La ragazza, disperata, afferra così un pugnale, se lo conficca gridando al vento il nome del suo amato: Valerio. Claudio invece, estraneo alla fatale aggressione ideata da Messalina contro Poppea, alcuni giorni dopo invita a cena il marito della suicida e nel vederlo entrare gli chiede come mai non sia accompagnato da sua moglie. Il risultato dell'intera vicenda è che Messalina, oltre a togliere di mezzo una donna bellissima che le faceva ombra e un uomo che aveva osato rifiutarla, si impadronisce dei celebri giardini di Lucullo di proprietà del defunto senatore Decimo Valerio. Come se non bastasse, nel 47 Messalina si avventa contro il marito della sua figliastra Antonia, nata da uno dei precedenti matrimoni di Claudio. Ritiene che Pompeo Magno, questo il nome del giovane, sia rivaleggi per il posto destinato a suo figlio Britannico, ragion per cui lo fa assassinare. Spianata la strada, obbliga infine il fratellastro, Sulla Felice, a sposarsi con la sconsolata Antonia.27 Meretrix

Nonostante la sua naturale tendenza al tradimento e l'indubbia maestria nel cospirare, il merito più grande che la storia concede a Messalina è la fama di ninfomane tramandata nei secoli. Se l'eccessiva libido viene già segnalata prima del suo matrimonio28, ciò che accade dopo le nozze è ben più morboso. Si racconta che, una volta salita al trono, Messalina sprofondi in un abisso di capricci erotici che hanno inizio con Traulo Montano: Costui era un cavaliere romano di grande modestia e dall'aspetto molto attraente che, senza volerlo, fu nella stessa notte prima corteggiato e poi respinto da Messalina; la donna faceva infatti capricci sia per la passione sia per il disprezzo.29 I biografi che si occupano della sua vita mescolano incontri occasionali con tremende aberrazioni erotiche. I desideri dell'Imperatrice non soltanto anelano al piacere dell'atto sessuale ma pure cercano il dolore sadomasochista, l'esibizionismo, il voyeurismo e il feticismo. La donna dimostra incapacità di provare amore o pietà, irrefrenabile ambizione e sanguinaria tendenza nel togliere la vita a chiunque non soddisfi i suoi capricci. Tutto si mischia in un mostruoso e brutale groviglio che fa di Messalina materia del libro che avete tra le mani. L'immagine cupa della vita sessuale della donna s'infiamma nel momento in cui si spegne la stella che l'illumina. Ogni volta che una donna importante cade dal piedistallo e nella sua vita cominciano a intravedersi avventure sentimentali illecite e propensione al sesso, gli esaltati prendono la penna in mano e si mettono a diffondere e ingigantire dicerie, a spese degli autentici dettagli storici. Nonostante la forza che spinge la donna romana verso l'adulterio nasca più dalla brama di potere e di profitto piuttosto che dal piacere erotico, chi si caccia in intrighi politici trova nell'offerta sessuale una formidabile chiave d'accesso, per quanto la promiscuità di Messalina, a giudicare da ciò che riesce a ottenere, possa considerarsi indubbia. Le ragioni dell'assassinio di Valerio Asiatico e Marco Vinicio vanno cercate non solo nella brama di guadagno ma pure nell'unica via d'uscita che le rimane dopo essersi vista rifiutare. L'Imperatrice inizialmente cerca di ottenere ciò che desidera in maniera benevola, e cioè attraverso lo scambio sessuale. Quando però capisce che i due uomini rifiutano questo tipo di moneta di scambio, non vede altra via d'uscita. Sebbene non ci siano dati che confermino con certezza contro chi l'Imperatrice strusci il suo corpo da dea e dove davvero comincino le forzature storiche, la sua innegabile mancanza di pudore crea comunque terreno fertile per qualunque calunnia. I rapporti sessuali con i due patrizi, Vettio Valente e Plauto Laterano, si sono effettivamente consumati così come la fatale relazione con Caio Silio, di cui parleremo alla fine del capitolo. Tuttavia ci sono occasioni in cui Messalina non ottiene profitti politici dagli amanti prescelti. È il caso di Sabino, un comandante della guardia germanica condannato a morire nell'arena mentre lotta come gladiatore, e che Messalina salva solo perché al giovane le piace particolarmente. Una delle sue bizze sessuali che sortisce più clamore è la relazione con Mnestere, famoso pantomimo, attore e ballerino a cui Claudio ordina di «soddisfare l'Imperatrice in tutto ciò che pretende» anche se Claudio ha tutte le ragioni per credere che sia omosessuale. La fama di Mnestere emerge durante il regime di Caligola. Si narra che l'Imperatore si fosse innamorato del suo stesso cognato, marito di sua

sorella Drusilla, e che «con loro avesse rapporti sessuali in cui uno domina l'altro»30 (...) Quando [Caligola] dimostrava amore per qualcuno, spingeva la passione fino alla pazzia. Baciava l'attore Mnestere persino durante gli spettacoli e se qualcuno causava anche il minimo rumore mentre il ballerino si esibiva, Caligola lo faceva arrestare per poi frustarlo di persona.31 Durante il regno di Claudio, l'attore frequenta Valerio Asiatico e pare esserne l'amante. Scrive Tacito che «la casa veniva preparata per gli incontri con Mnestere e Poppea»32, fatto che contribuisce con tali velleità ad attizzare il fuoco di odio che Messalina nutre verso Valerio e Poppea. La relazione tra Messalina e l'attore viene riportata, completa dei dettagli, da Dione Cassio. Lo storico racconta che i senatori, volendo cancellare la nefasta memoria lasciata da Caligola, decidono di fondere tutte le monete di bronzo che portano l'effigie dell'Imperatore ormai defunto. Messalina decide allora di utilizzare questo materiale per innalzare statue di Mnestere... (...) a mo' di ringraziamento per essere suo amante. L'imperatrice s'innamorò perdutamente del giovane ma non riuscendo né con le promesse né con le minacce a persuaderlo ad andare a letto con lei, chiamò suo marito [Claudio] affinché costui obbligasse Mnestere a «fare tutto ciò che lei avesse chiesto», facendo credere in questo modo a Claudio che aveva bisogno di Menestere per tutt'altri motivi!... Ragion per cui Mnestere disse che era diventato amante di Messalina per ordine dell'Imperatore. Utilizzò questo metodo con molti altri uomini. Sprofondava nell'adulterio facendo credere che Claudio fosse a conoscenza e acconsentisse. [Messalina] allontanò Mnestere dal teatro per tenerlo tutto per sé (...). Un giorno, il popolo in fibrillazione gli chiese di ballare una famosa pantomima, egli si coprì il volto con la tenda del sipario e disse: "Non posso farlo, sono a letto con Oreste" (...). Quando il popolo discuteva delle ragioni per cui Mnestere avesse smesso di ballare, Claudio si mostrava sorpreso, si scusava e giurava di non andare a letto con il ballerino. La gente capiva che l'Imperatore ignorava la verità, com'era effettivamente, e si rattristava che fosse l'unico non al corrente di ciò che accadeva nel palazzo.33 Indipendentemente dalla sua audacia, che senz'altro la donna dimostrò, molti storiografi criticano la nostra protagonista con spietata esagerazione. Dione Cassio, ad esempio, riporta: «Messalina si prostituiva: oltre ai suoi vergognosi atteggiamenti, ai suoi piaceri aveva adibito una stanza del palazzo [utilizzata a mo' di] lupanare obbligando anche altre nobili donne a recarvisi».34 Svetonio l'accusa di essere una stupra (chi pratica atti sessuali illeciti) sul rostrum del foro romano, che era la tribuna da cui Augusto proclamò la legge contro l'adulterio. Anche Plinio il Vecchio lascia intendere che Messalina arriva a competere con una celebre prostituta per stabilire chi delle due faccia più volte l'amore in ventiquattro ore. Vince l'Imperatrice «che consuma venticinque volte». Dione Cassio racconta inoltre che Messalina è solita farsi il bagno nuda in una fontana pubblica; Giovenale, un secolo dopo, sputa tutta la sua bile nel dilungarsi con assoluta mancanza di rigore storico in una delle sue satire indirizzate, per essere ancora più crudele, a Britannico, figlio di Messalina:

Osserva chi somiglia agli dei, ascolta cosa ha sopportato Claudio. Di notte, quando sua moglie sapeva che lui dormiva, preferendo un fienile al suo letto palatino, l'augusta sgualdrina si nascondeva con mantello e cappuccio e si faceva accompagnare da una domestica, una soltanto e non una di più. Poi, dopo aver nascosto la sua chioma nera sotto una bionda parrucca, entrava nel (...) lupanare, nella sua stanza vuota - una stanza di sua proprietà! - e lì si esibiva nuda, con il seno coperto da una griglia d'oro, sotto una scritta che le assegnava il falso nome di "Licisca", esibendo, nobile Britannico, il ventre che ti ha ospitato. Accoglieva con carezze chi arrivava, chiedeva loro denaro, poi, languida e supina riceveva i numerosi clienti. (...) Era l'ultima [prostituta] a chiudere la stanza e ad andare via [da lì]. Ancora accesa dalla tensione irradiata dalla sua vulva, affaticata dai suoi uomini ma non del tutto soddisfatta, tornava a casa. Tutta ripugnante, con il volto [trucco] sfatto e imbrattato dal fumo della lampada, consegnava al palazzo imperiale l'odore del lupanare.35 E le ingiurie non finiscono qui. Oltre a essere promiscua, pare sia anche masochista. Tra i suoi innumerevoli amanti, predilige chi la bastona; le piace infatti un gladiatore che si mostra agguerrito, bruto e che le unge il divino corpo con una lozione che maschera magicamente i postumi delle bastonate che lui le infligge a ogni scambio di fluidi. Frustate e pomata si somministrano su richiesta della dama, che sembra arrivi all'orgasmo quando simultaneamente la desiderano, la maltrattano e la feriscono. L'individuo untore e aggressore porta il nome di Tetrico. Particolarmente truce è il pretesto che gli pseudobiografi contemporanei all'Imperatrice utilizzano per dar libero sfogo alle loro devianze. Si legga come Hugo Mathieu descrive una devianza feticista della nostra protagonista: Messalina si recava lì ogni mattina. L'animale [una scrofa che aveva appena partorito] gemeva da tre giorni. All'altezza del ventre, le avevano legato le mammelle con del filo di canapa, così forte che il sangue colava giù per la zampa. Le avevano pure legato le zampe e riposava, appoggiata di fianco, sui suoi escrementi. Messalina non poteva sottrarsi ad un simile spettacolo: lei stessa fu sorpresa dall'attrazione che esercitava sui suoi sensi (...). Non pensava a Claudio, il suo spirito era fuggito al giorno in cui avevano tagliato le sei mammelle della scrofa [che le avevano poi servito a tavola guarnite]. Con le mani strette sui seni, pensò a Aadjian [lo schiavo cuoco e presunto prescelto per un incontro erotico] nel momento in cui affilava il coltello, poi lo immaginava mentre tagliava continuandola a guardare da dietro alle sue nere ciglia. Dopo tornò ad ascoltare gli ululati acuti dell'animale. A partire da quel giorno spesso ricordava la scena meravigliandosi della confusa eccitazione che provava, del suo respiro più affannoso...36 Come c'è da aspettarsi, una simile immagine è stata tracciata da una mente maschile, Mathieu completa il quadro qualche pagina più avanti, dipingendoci l'Imperatrice mentre immagina se stessa con i seni legati e pronti a essere tagliati, guarniti e serviti per la cena come se fossero le mammelle della scrofa; una fantasia, che a detta dell'autore, provoca a Messalina un orgasmo. Sebbene negli atteggiamenti dell'Imperatrice possano rivelarsi varie anomalie psicopatiche così come un feroce istinto alla sopravvivenza, credo personalmente che Messalina non sia una malata mentale. La sua biografia non si discosta poi tanto da quella degli altri membri della

famiglia Giulia, che manifestano geniali disposizioni alla politica e contemporaneamente attitudini degne dei più miserabili degradi e delle peggiori crudeltà umane, come i lettori potranno ben riscontrare nell'appendice al presente capitolo. Messalina non è né la prima né l'ultima moglie che utilizza il sesso come efficace stratagemma, prima di lei ricordiamo Clodia Lesbia, la cui frenesia erotica supera di gran lunga quella di Messalina; la dissoluta Giulia, figlia di Cesare Augusto e sposa dell'erede Tiberio; Agrippina Minore, succeduta a Messalina non appena l'Imperatrice muore, che ha relazioni incestuose con il fratello Caligola quando costui è Imperatore, per poi tessere i fili e sposarsi con Claudio rimasto vedovo. Una volta salita al trono Agrippina supererà di gran lunga le crudeltà attribuite a Messalina. Se diversi anni prima, l'Imperatore Augusto aveva promulgato una legge che condanna l'adulterio solo perché la fedeltà della donna - della donna unicamente - assicurava al maschio la paternità. Però al tempo stesso le donne, che vengono fatte sposare a tredici anni e condannate a starsene in silenzio, si servono del sesso come facile espediente per raggiungere obiettivi e garantirsi la lealtà di uomini influenti. Ma allora se le cose vanno in questo modo e se esistono svariati casi di donne illustri che si comportano così, perché il nome di Messalina è tra i più diffamati della storia? Probabilmente, l'Imperatrice si distingue agli occhi dei sui detrattori perché paragonata al timido Claudio. Quest'ultimo viene a sua volta paragonato ai suoi predecessori Tiberio e Caligola e al terribile successore Nerone. Questi tre Imperatori sono, infatti, degli esseri talmente abietti che qualsiasi donna al loro confronto, per quanto perversa sia, scompare. Di Messalina invece si sentirà sempre parlare perché, rispetto al suo uomo, risulta fin troppo appariscente e potente. Messalina era una ninfomane? Anche se è indubbio che la nostra protagonista si serva del sesso per consolidare il suo ruolo, così come fecero anche tante altre, quel che incuriosisce è che la psichiatria faccia riferimento proprio a lei, al suo nome e alla sua persona nel denominare sindrome di Messalina la patologia riferita a una donna che dimostra ardente desiderio sessuale per qualsiasi uomo influente. La donna affetta dalla sindrome di Messalina riesce a vivere un rapporto basato sul solo amore, essendo l'ambizione l'unico carburante della sua libidine. Il primo punto che occorre chiarire perciò è che Messalina non è una ninfomane, come sostiene chi ignora l'esatto significato del termine. La ninfomania è una malattia mentale propria delle donne affette da un incontrollabile bisogno coitale. La ninfomane cerca disperatamente qualsiasi uomo, senza fare alcuna selezione, che soddisfi la sua inappagabile libidine. La frenesia sessuale si associa, inoltre, a una totale perdita di controllo sul corpo. In questo modo l'affetta da ninfomania finisce per esprimersi arbitrariamente in manifestazioni grottesche: si getta a terra, sghignazza scomponendosi rozzamente, si mette a ballare, a saltare e a rompere oggetti, strappa i suoi indumenti e si attacca energicamente a qualsiasi uomo le passi accanto. La ninfomane è affetta da sessualità indiscriminata, mentre Messalina discrimina, e anche parecchio, i destinatari dei suoi favori sessuali. Nel suo caso c'è sempre un obiettivo da raggiungere, e il prescelto deve

esattamente assegnarle il ruolo che lei ha in mente; il vizio di Messalina non è animato da mero desiderio orgiastico e, anzi, povero colui che non la ripaga di ciò che lei si aspetta. Oltre alla sindrome di Messalina, l'Imperatrice presenta chiari tratti psicopatici: è egocentrica, insensibile al dolore altrui, ambiziosa e irresponsabile. Più flessibile quando si tratta di ottenere un successo, adatta immediatamente il suo atteggiamento in funzione dei suoi scopi e riesce a manipolare abilmente gli altri, persuadendoli delle sue buone intenzioni. A tal proposito ricordiamo che Claudio la premia per la fedeltà dimostratagli dopo che lei gli consegna la lista dei nomi delle persone cui applicare la legge sul crimen maiestatis. Come tutti gli psicopatici, inoltre, Messalina è bruta, violenta, incapace di pentirsi, propensa all'esagerazione e sarà proprio quest'ultimo lato del suo carattere a distruggerla. L'Imperatrice cade in rovina a causa della sua stessa indomita bramosia di dimostrare pubblicamente e apertamente il suo potere. Di certo non prende esempio da Livia, nonna di Claudio e influente governatrice che agisce però in gran segreto. La strategia di quest'ultima consiste, infatti, nel condizionare l'Imperatore Augusto a porte chiuse, mentre dinanzi agli altri appare come lo stereotipo della donna discreta e amante della casa. Da dietro le quinte Livia fa e disfa il destino di Roma, senza che gli sguardi si posino mai sulla sua persona. Svolge perfettamente il ruolo assegnatole da Augusto: passiva, di integra moralità e totale devozione alla famiglia e alla religione. Suo marito è solito esibirla con orgoglio ai senatori, mentre pettina o tesse la lana a palazzo, e i visitatori vedono in lei solo una matrona che realizza gli indumenti per il marito. Questa è l'immagine che Livia proietta all'estero, ma le sue tattiche la portano a diventare la prima moglie dell'Impero Romano con diritti amministrativi esclusivi e indipendenti. Si converte in reggente quando Augusto si assenta, riceve senatori e visite politiche, concede udienze, prende decisioni, impartisce ordini, fa costruire e amministra edifici pubblici. Ha un'arguzia tanto efficace che nonostante sembri che non faccia il bello e il cattivo tempo è in realtà lei a decidere le stagioni. Il suo successo raggiunge l'apice quando ascende al trono Tiberio, il figlio per cui nutre immensa e quasi morbosa devozione, e a cui in realtà non spetterebbe il diritto di successione perché figlio solo suo. Durante la vita di Augusto, Livia elimina diversi appartenenti alla sua famiglia solo perché fanno ombra a Tiberio: Druso, l'altro suo figlio, e Germanico, suo nipote, muoiono avvelenati per suo volere. Organizza i due delitti in modo tale da essere scagionata da ogni accusa. Molti storici riferiscono pure che sia arrivata ad avvelenare il suo Augusto, il giorno in cui costui, accortosi dei gravi disturbi della personalità di Tiberio, decide di destituirlo dal titolo di successore. Livia però si difende abilmente e riesce a far sì che l'indagine per questi delitti prenda altre vie. L'immagine della sua persona conserva un'aurea che eclissa ogni cosa, per questo riesce in ciò che mai nessuna donna era riuscita a fare: essere divinizzata dopo la morte. Messalina, invece, si muove sempre pubblicamente e non senza generare clamori; la sua brama di protagonismo, palesemente riconoscibile, finisce per distruggere ciò su cui è seduta e facendola precipitare in un'agghiacciante tragedia. Messalina eccede più di ogni altra. Anche altre donne nella sua posizione avrebbero potuto mirare esattamente a ciò

che lei desiderava. tuttavia, agendo ragionevolmente, avrebbero evitato di agire apertamente contro ciò che Roma chiede alle donne, ovvero di non importunare e di non pensare, proprio ciò che il greco Senofonte racconta a Socrate. Non aveva ancora compiuto quindici anni quando venne da me37, fino ad allora aveva vissuto sottomessa ai suoi padri, osservando, ascoltando e parlando il meno possibile. Quando si presentò non sapeva molto più di adesso, se le si dava la lana la sistemava nella rocca, aveva visto solo ciò che facevano le domestiche. Cosa ci si poteva dunque aspettare? Nel controllo dei suoi appetiti, oh Socrate, è stata sapientemente addestrata...38 A quell'epoca, come in tante altre, le donne servivano per il proseguimento della specie e per procurar piacere, niente di più niente di meno. Lo stesso Claudio, così apparentemente devoto alle proprie mogli, ripudia le prime due «senza alcun motivo», come scrive Svetonio, e acconsente anche al fatale epilogo (che tra poco esamineremo) che toccherà a Messalina, senza darle l'opportunità di spiegarsi o difendersi. Un letale adulterio Nell'autunno dell'anno 48 avviene qualcosa d'inaudito nella casa imperiale. Così lo descrive Tacito: Non dubito che possa sembrare una storia fantastica scrivere che tra gli uomini siano potute succedere cose tanto audaci.39 L'ardire a cui si riferisce lo storico omincia a vacillare quando Messalina resta stregata da una pazza e furente frenesia erotica per Caio Silio, «il giovanotto più gagliardo di Roma»40, membro di una famiglia patrizia e mediocre, aspirante a un posto di senatore che non riuscirà a conquistare. Non si sa con esattezza quando diventa l'amante di Messalina, ma si narra sia grazie a questa relazione sentimentale che Caio Silio diventerà console e gli verrà assegnata una residenza a palazzo.41 L'Imperatrice non si cura di nascondere questa relazione, come tra l'altro non aveva fatto con le precedenti, ma in questo caso esibisce l'amante con un tocco di presunzione e sufficiente sfacciataggine. Cerca il giovane in casa, trascorre con lui diverse ore, gli «si attacca morbosamente a lui riempiendolo di ricchezze e onori»42, gli regala schiavi, liberti, statue e parte della fortuna imperiale: la vicenda giugne all'orecchio di tutti, salvo a quello di Claudio che sembra non accorgersi di niente. I benefici che Silio ottiene dall'Imperatrice costituiscono per il giovane un'adeguata ricompensa, al punto da divorziare dalla moglie. Le sue ambizioni divampano nel momento in cui si rende conto di quanto sia facile accedere a privilegi e tesori che mai avrebbe pensato di ottenere. Ed è allora che pensa di chiedere Messalina in sposa, credendo che se Claudio ha accettato di rendere pubblica la relazione, è altresì possibile che lei possa obbligarlo ad abbandonare il trono, posto che naturalmente spera di occupare lui. Messalina però si mostra reticente, il rischio è troppo elevato, e non vuole svincolarsi dall'Imperatore, che in fin dei conti può facilmente manipolare. Se Silio riuscisse ad arrivare al trono, non la ripudierebbe poi per essere stata un'adultera mentre era sposata con Claudio? Le donne, non dimentichiamolo, in queste cose sono quelle che rischiano di perdere maggiormente. Messalina non si fida. Silio allora orchestra un

colpo da maestro: le garantisce che adotterà Britannico e le promette che «lei manterrà lo stesso e identico potere» [in quanto madre dell'erede al trono], con il presupposto della certezza nel caso si aggrediscano Claudio, uomo tanto precipitoso nell'adirarsi quanto facile da tradire.43 Con simili parole Silio lascia palesemente intendere, che dovranno legalizzare la situazione nel momento in cui Claudio verrà ammazzato, cosa che può avvenire con estrema facilità. Tacito racconta che Messalina ascolta il discorso piuttosto indifferente, avendo già tutto quello che Silio le sta promettendo: sicurezza, potere e possibilità di difendersi dalle collere di suo marito. Tra le altre cose è anche madre dell'erede al trono, può spassarsela liberamente tra amori e avventure, in definitiva non guadagnerebbe nulla sposandosi nuovamente e ancor di meno pianificando l'assassinio dell'Imperatore. Continua così a opporsi "non per amore di suo marito - spiega Tacito - ma per mantenere la sua posizione". Alla fine però cede senza che nessuno sappia spiegare il perché, come anche resta oscuro il motivo per cui non dice a suo marito che vuole divorziare, (è anche vero che erano gli uomini a Roma a ripudiare le donne e non il contrario). Se durante l'Impero romano l'adulterio è illecito, inutile parlare di come venga contemplata la bigamia. Le congetture sono interminabili e non è dato sapere con che argomenti Silio riesca a convincerla e tanto meno perché Messalina accetti una tanto irragionevole proposta. Il caso vorrà che i due approfittino di un viaggio di Claudio a Ostia per organizzare un ricevimento di matrimonio ufficiale, con notte di nozze, una moltitudine di invitati e un'accurata cerimonia. Tacito non nasconde il suo stupore quando racconta: [Mai a Roma si era visto] un uomo nominato console stabilire la data e sposarsi con la moglie di un principe, chiamare i testimoni per verificare e firmare che si univano per avere figli (...) poi accomodarsi tra gli invitati, dare baci e abbracci e, per finire consumare la notte com'è abitudine tra moglie e marito. E non camuffo niente per destare stupore, solo una pura descrizione di ciò che hanno visto e lasciato scritto i nostri antichi.44 Ma il fatto più sorprendente dell'intera vicenda è che, durante la cerimonia, i due presentano il contratto di matrimonio con in calce la firma di Claudio. È probabile che, dopo tutto, Messalina avesse convinto l'Imperatore ad approvare una nuova legge che consentisse la poligamia, e a essere lei la prima persona a usufruirne. Questa legge non varcherà mai le porte del Senato e se Claudio l'abbia mai decretata, l'avrà forse dimenticato il giorno dopo... è risaputa la labile memoria dell'Imperatore. Probabile è anche che abbiano semplicemente raccontato a Messalina che l'assassinio di Claudio era in esecuzione e che lei abbia voluto velocizzare le nozze e l'adozione di Britannico. I nobili assecondano lo sposalizio di Messalina e di Silio accorrendo al festeggiamento ed elargendo continuamente applausi. I liberti di Claudio assistono alla scena con gli occhi sgranati, l'Imperatore sarà anche assente ma sanno con certezza che è ancora vivo. Allo stesso tempo intravedono nell'impudenza dell'Imperatrice un'opportunità per liberarsi di lei per sempre, cosa che desiderano ardentemente da tempo e per i motivi più disparati. Callisto, uno di loro, è diventato l'amante di Agrippina Minore, sorella del defunto Caligola e dell'esiliata Giulia (amante di Seneca) nonché nipote di Claudio. Se in passato Giulia ha voluto guadagnarsi l'affetto

di suo zio Claudio, Agrippina lo desidera ancora di più, ma contrariamente a sua sorella che lo dimostrò pubblicamente, lei orchestra in silenzio dietro le quinte, utilizzando anche Callisto, delfino di Claudio. Per diventare l'amante di Claudio passa dunque prima dal letto di Callisto e, com'è facile immaginare, a entrambi, la mossa di Messalina, sembra piovere dal cielo. Dal canto suo, Narciso, da un lato vincolato a Messalina ma dall'altro pure estremamente fedele a Claudio, vede nella mossa dell'Imperatrice una minaccia alla sua posizione. Messalina si è sposata con Silio a spese di Narciso, preso alla sprovvista da questo matrimonio. Silio disprezza Narciso, così come molti romani, lo detesta per essere un liberto, uno di classe poco elevata che non può far altro che sottomettersi per ottenere favori dall'Imperatore. Narciso sa bene quale sarà il suo destino se Silio continua l'ascesa al potere, quest'ultimo è capace di fare qualsiasi cosa, non a caso è riuscito a portare l'agguerrita Messalina dove lui voleva e questo, senza ombra di dubbio, fa traballare il piedistallo sul quale lui si trova. Per il suo stesso bene deve avvisare Claudio di ciò che sta succedendo. Si dirige così a Ostia, dove l'Imperatore si è stabilito da parecchio tempo. Lì il liberto sceglie due schiave con cui Claudio intrattiene relazioni sessuali (Tacito le chiama prostitute) e le convince, non senza difficoltà, a togliere all'Imperatore la benda dagli occhi. Calpurnia e Cleopatra, questi i nomi delle due donne, interrompono così la siesta che Claudio è solito fare dopo le sue famose e abbondanti mangiate, dimostrando di sapere scegliere il momento di maggiore fragilità imperiale. Calpurnia si getta a terra e grida piangendo: «Nupsit Mesalina Silio!» [Messalina si è sposata con Silio], la segue Cleopatra che conferma muovendo contritamente la testa. L'Imperatore, furente, le accusa di mentire e richiama Narciso, il quale, avendo visto la scena nascosto dietro una tenda, appare come una luce che tutto illumina. Ha già bene in mente come riportare la vicenda. Innanzitutto conferma i fatti, chiede perdono per non avergli confessato le avventure che Messalina aveva avuto con molti altri amanti e aggiunge che sarebbe stato disposto a non rivelare quest'ultimo adulterio ma solo a patto di strappare il contratto matrimoniale e di restituite Messalina al suo vero signore. Mette fine alle sue parole annunciando, come una freccia avvelenata: Il popolo, il Senato e i soldati hanno assistito alle nozze con Silio. Se non fai qualcosa subito, questo nuovo marito farà presto a impadronirsi di Roma!45 Insomma Narciso gli dice che è stato ripudiato proprio come una volgar donna e che rischia di perdere il trono, visto che l'investitura imperiale dipende teoricamente dal voto popolare, sebbene l'ultima parola spetti al Senato. L'Imperatore si precipita a Roma. Narciso evita che durante il viaggio venga accompagnato dai due fantocci dell'Imperatrice, Lucio Gaeta, il comandante della guardia pretoriana e Aullo Lucio Vitellio46, quello dei sandali al collo, che potrebbero patteggiare per l'Imperatrice e cercare di stemperare i toni del liberto, deciso a raccontare all'Imperatore addolorato che Messalina ha ordito la sua morte. Durante il tragitto, il povero Claudio, distrutto dalla tristezza, chiede in continuazione se è ancora Imperatore in carica, dimostrando in questo modo quanto conosca bene sua moglie e la forza che costei possiede. Avuta conferma dal liberto, manda qualcuno a giustiziare tutti i traditori, glissando però sulle sorti di Messalina.

Nel frattempo, quest'ultima e Silio, ignari del loro destino, festeggiano le nozze con un luculliano banchetto dedicato a Bacco. Ma all'improvviso uno degli invitati scorge un ciclone di polvere che sta per piombare su di loro: la furibonda brigata inviata dall'Imperatore è arrivata. La festa si volatilizza. Silio fugge impaurito e si chiude in casa, evidentemente credeva davvero che l'Imperatore fosse morto. La guardia pretoriana lo trova e lo uccide, dopo aver giustiziato tutti coloro che hanno preso parte al matrimonio. Intanto Messalina crede di potersi salvare dalla carneficina utilizzando ancora una volta l'amore che Claudio le ha sempre dimostrato. Ha solo bisogno di restare sola con lui. E l'Imperatrice ha i suoi motivi per crederlo, visto che l'Imperatore «a volte infama la malvagità di sua moglie mentre altre volte ricorda il suo matrimonio e la tenera età dei suoi figli».47 Messalina, che come si può desumere, conosce perfettamente gli ingranaggi della psicologia del marito, manda avanti i figli Ottavia e Britannico mentre lei si mette alla ricerca di una vestale che goda di ottima reputazione, cui chiede di intercedere in suo favore. Narciso, timoroso della debolezza di Claudio nei confronti di Messalina, fa allontanare i bambini prima che l'Imperatore possa vederli; non riesce però a evitare l'incontro dell'Imperatore con la vestale che lo affronta da sola, mentre Messalina aspetta nei giardini di Lucullo, gli stessi che qualche tempo prima aveva strappato a Valerio Asiatico. La vestale chiede all'Imperatore di non condannare la moglie senza prima averla ascoltata e averle permesso di difendersi. Narciso la interrompe brutalmente rinfacciandole che farebbe meglio a occuparsi di questioni religiose piuttosto che intromettersi in faccende che non la riguardano. «Il silenzio che mantenne Claudio fu degno di grande ammirazione», commenta Tacito; il suo cuore pare infatti commuoversi ed essere sul punto di perdonare Messalina: (...) di ritorno a casa scaldato dal vino, ordinò di andare a cercare la «disgraziata» (pare utilizzò proprio questa parola) perché il giorno dopo potesse difendere la sua causa di persona.48 Chi lo sente proferire tali parole non ha dubbi: la notte si avvicina e l'Imperatore potrà in questo modo ricordarsi del "letto coniugale e commuoversi profondamente".50 Narciso non può permettersi un rischio così alto e prende in mano direttamente le redini della questione. Ordina a un tribuno e a un centurione di trovare Messalina e di ucciderla subito, senza ascoltarla, senza stare a sentire le sue ragioni "con cui può raggirarvi". La incontrano nei giardini di Lucullo in compagnia di sua madre che, ormai certa del fatale e imminente epilogo, esorta la figlia a morire con onore. L'Imperatrice, distrutta dal pianto, prova a seguire il consiglio della progenitrice, impugna un coltello e lo volge verso l'addome, ma la mano tremante fa sì che la punta della daga appena le sfiori la pelle. Il tribuno l'aiuta allora nel compito centrandole il cuore con una stoccata. Messalina lascia questo mondo a ventisei anni. Quando comunicano a Claudio la morte della moglie egli sta pacatamente cenando. Non domanda niente, non vuole saper niente, desidera solo mangiare, bere e dimenticare. Nei giorni a seguire non «dà segni di odio, d'allegria, di ira o tristezza, né di altro sentimento umano, né quando vede esultare i detrattori, nè quando si presentano tristi e in lacrime i suoi figli».51 Alcuni giorni dopo ordina di rimuovere dai luoghi pubblici tutte le statue della defunta.52 Pare dica di non volersi più sposare, visto che i matrimoni gli hanno solo causato disgrazie.

Detto e non fatto. Con il cadavere di Messalina ancora caldo, Agrippina Minore53 va a occupare il piedistallo rimasto vuoto. Non perde tempo a imporre il suo universo, fatto di smanie e trasgressioni e di gran lunga più psicopatico di quello della sua antesignana. Per prima cosa convince Claudio che Britannico è un figlio illegittimo, in modo che l'Imperatore lo emargini e nomini erede il figlio nato da un precedente matrimonio di Agrippina. Questo fanciullo è Nerone.Non appena vede esaudita l'incredibile richiesta, Agrippina avvelena Claudio.

CHI È CHI. GLI IMPERATORI DELLA DINASTIA GIULIA. (I personaggi menzionati in questo capitolo). Personaggi maschili Augusto (63 a.C.-14 d.C.). Figlio adottivo di Giulio Cesare, viene considerato dagli storici moderni come il primo e più grande Imperatore romano, anche se nella classificazione tradizionale è il patrigno Giulio Cesare che troneggia in cima alla lista degli Imperatori. Augusto regala a Roma pace, prosperità e smisurato splendore. A soli venti anni fonda il più colossale degli Imperi mai esistiti governandolo con tale abilità che la sua opera rimane in vita per 4 secoli. La figlia Giulia, nata dal suo secondo matrimonio, passa alla storia per essere una donna dissoluta e viziosa. Augusto convola a terze nozze con Livia, che lo conquisterà e che amerà con ostinata perseveranza. Livia porta a palazzo due figli avuti da un suo precedente matrimonio: Druso e Tiberio. Il primo è padre di Germanico e di Claudio ma morirà prima di Augusto. In casa, Augusto impone semplicità e moralità. Estremamente amante della famiglia e dei bambini, egli stesso insegna ai nipoti a leggere, a scrivere e a far di conto, facendo particolare attenzione che imitino la sua calligrafia. Obbliga la figlia e le nipoti a imparare i lavori domestici e impedisce loro di fare o dire qualsiasi cosa dinanzi ad altre persone, anche se questa mossa gli riesce piuttosto male, visto che sia la figlia Giulia sia la nipote si daranno poi da fare per macchiare il suo nome con ogni genere d'infamia, spingendo Augusto a mandarle in esilio. Alla sua morte, Tiberio eredita il trono del patrigno. Tiberio (42 a.C.-37 d.C.). È figlio di Augusto e figlio prediletto di Livia che lo obbliga ad abbandonare sua moglie, di cui è profondamente innamorato, e a sposarsi con Giulia, figlia di Augusto, per diventare in un colpo solo figliastro e genero dell'Imperatore e veder aumentare la possibilità di ereditare il trono. Si narra che Livia prediliga così tanto suo figlio Tiberio da avvelenare l'altro figlio Druso e il nipote Germanico (entrambi preferiti da Augusto) affinché nessuno ostacoli l'ascesa al potere del suo preferito. Appena morti il patrigno e il suocero, Tiberio manda in esilio Agrippina, moglie di Germanico nonché madre di Caligola, sottraendole ogni genere di sussidio e alimento fino a farla morire di fame. Durante il suo regno Cristo viene crocifisso. Di forte prestanza fisica, Tiberio è capace di perforare una mela con un dito. Il volto coperto di brufoli e piaghe gli dà un aspetto grottesco e ha un odore nauseabondo. Stupiscono i suoi atteggiamenti depressivi alternati a selvaggi attacchi d'ira. Non risponde a chi gli parla, se non gli resta altro rimedio parla molto lentamente e ha una gestualità

delicata, salvo quando esplode, infuocato da un'indomita rabbia. Solitario, malaticcio, crudele e avaro (si addormenta sotto le intemperie, raccoglie erba da terra e la mangia, si astiene dalle celebrazioni al pubblico), riesce ad accumulare un'enorme fortuna. Nella seconda metà del suo periodo di reggenza Tiberio è affetto da gravi disturbi di paranoia involutiva che lo spingono ad abbandonare Roma e a rifugiarsi sull'isola di Capri, dove sviluppa gravi devianze sessuali che lo portano a orge e perversioni di inaudita sfrenatezza. Svetonio racconta che qui da vita a lupanari in cui riunisce bambini e bambine che manda a prendere in tutti i territori dell'Impero per soddisfare i suoi desideri sessuali. Gli piace vederli copulare sotto gli affreschi pornografici che decorano l'ambiente. Un insieme di puberi, che Tiberio chiama «pesciolini», lo segue quando l'Imperatore si tuffa nel mare, i piccoli hanno l'ordine di sbattere l'acqua tra le gambe del pedofilo imperiale, mordicchiando l'esca che viene loro esibita. In un momento di sacrificio agli dèi, Tiberio nota uno dei bambini che prestano servizio sull'altare, si alza all'improvviso dalla cerimonia e assalta il ragazzo e suo fratello dietro al tempio. I ragazzi protestano e lui ordina di spezzare loro le gambe. Un'altra delle sue giovanissime vittime è una bambina che, inorridita dopo essere stata stuprata dall'Imperatore, fugge spaventata cercando la protezione della famiglia gridando che «un uomo bavoso, peloso, maleodorante e vecchio» l'ha internamente distrutta; appena arrivata a casa la piccola prende un pugnale e si suicida. Parallelamente ai suoi svaghi sessuali con innocenti creature, Tiberio sviluppa un timore sproporzionato per la maggior parte degli esseri umani, che fa uccidere per futili scuse. Detesta i membri della sua famiglia e passa il resto della sua vita in preda a misantropia, sfiducia e crudeltà. Non passa giorno senza che lui ordini di giustiziare qualcuno. Caligola (12 d.C.-41 d.C.). Nipote di Tiberio e figlio di Germanico, l'uomo più attraente della dinastia Giulia. Roma lo idolatra e piange amaramente la sua morte che avviene in battaglia, anche se gli storici moderni sostengono che le cause siano stati i frequenti attacchi epilettici. Si narra anche che Tiberio e sua madre Livia possano averlo avvelenato, Tiberio, infatti, prova una spasmodica gelosia nei suoi confronti e Livia teme che la popolarità di Germanico eclissi l'ascensione al trono di suo figlio. Caligola non eredita il fascino di suo padre Germanico e il suo naso piatto, l'estrema magrezza, e la calvizie precoce (nonostante abbia il corpo coperto di peli) svelano l'esistenza di una patologia fisica e mentale. Caligola rappresenta infatti, insieme a Nerone, uno dei più gravi malati mentali che abbia governato l'Impero romano. Sposato quattro volte, esibisce la sua ultima moglie nuda in pubblico e commette ripetuti incesti con le sorelle Drusilla, Giulia Livilla e Agrippina Minore (la donna che sposa Claudio dopo la morte di Messalina). Ma al di là dei suoi rapporti sessuali, l'Imperatore soffre di una confusione di genere: non sa bene se sia uomo o donna, e il suo comportamento è totalmente bisessuale. Si vanta dei suoi amori omosessuali con l'attore Mnestere, con suo cognato Marco Lepido e con altri. Svetonio lo accusa di aver aperto un bordello a palazzo in cui matrone si prostituiscono in cambio di denaro. Il suo più grande squilibrio si manifesta con la credenza di essere il dio Giove, il che lo porta a creare intorno alla sua divinità un mondo

fantastico, dilapidando fino all'ultima moneta il tesoro accumulato da Tiberio. Caligola ricopre di oro, sete e pietre preziose ogni parte del corpo testa, collo, braccia, mani, gambe ed entrambi i piedi; ha inoltre l'abitudine di far sciogliere le perle nell'aceto per poterle bere. Fa disegnare un carro che riproduce tuoni e fulmini, in rappresentanza di Giove, dio che lui ritiene di essere. Delle sue quattro spose, Cesonia è l'unica capace di darle una figlia, che lui reputa essere figlia di Giove. A volte cambia identità alla sua divinità e si converte in Nettuno, il dio del mare; motivo per cui desidera che l'umanità lo ammiri mentre attraversa le acque o mentre le solca a cavallo. È strano che, nonostante si ritenga dio del mare e per questo attraversi impunemente il mantello acquatico come se vi volasse sopra, nel suo intimo si celi un debole istinto alla sopravvivenza. Fa infatti costruire un ponte galleggiante che attraversa l'immensa baia di Napoli (il ponte è sostenuto da due infinite fila di barche), lo copre poi di seta purpurea e lo riempie di gemme preziose. Corre sul ponte al galoppo, illuminato dal riflesso del sole nelle gemme e ornato dell'armatura appartenuta ad Alessandro Magno. Ordina alla cavalleria di seguirlo, correndo il serio rischio che la struttura ceda e che l'intera cavalleria vada a fondo. L'autentico dio Nettuno, lì dov'era, ebbe forse compassione, visto che fortunatamente nessuno annegò. Durante la guerra di Gallia, appena sbarcati manda i suoi soldati a raccogliere conchiglie dalla spiaggia invece di dirigersi sul campo di battaglia. Ha una relazione sessuale e affettiva patologica con sua sorella maggiore, Drusilla, che dichiara essere «sua erede» e la cui morte lo distrugge dal dolore; mostra inoltre una stravagante ammirazione per il cavallo Incitatus, alla cui salute beve da un calice d'oro e in onore del quale fa costruire una stalla di marmo e una mangiatoia d'avorio. Commissiona coperte di fine tessuto color porpora e un collare di pietre preziose. Il cavallo possiede inoltre casa, mobili, schiavi... e un titolo di senatore! Gli storici moderni attribuiscono la pazzia all'epilessia ch'egli eredita da suo padre nonché a una probabile encefalite. Si sa inoltre che soffre d'insonnia, che non riesce a dormire per più di due o tre ore e in quel poco tempo è disturbato da tremendi incubi. Nell'anno 37 è affetto da un disturbo schizofrenico i cui sintomi non cessano fino al giorno in cui la guardia pretoriana lo assassina, esattamente nell'anno 41, quando Caligola ha solamente ventotto anni. Claudio (10 a.C.-54 d.C.). Nipote di Tiberio, fratello di Germanico e zio di Caligola, la sua terza moglie è Messalina, pronipote dell'Imperatore Augusto, con cui Claudio ha due figli: Ottavia e Britannico. La sua quarta e ultima moglie è invece Agrippina Minore, madre di Nerone (nato da un precedente matrimonio). Dal suo secondo matrimonio Claudio ha una figlia di nome Antonia, che in seguito si sposerà con il fratello di Messalina. Nerone (37 d.C.-68 d.C.). Figlio di Agrippina Minore e figliastro di Claudio. Riesce a strappare il trono al vero erede, Britannico. Si sposa con Ottavia, la figlia di Claudio e Messalina, che poi ucciderà per potersi sposare con Poppea (figlia dell'omonima Poppea, amante di Valerio Asiatico, che Messalina ossessiona fino a indurla al suicidio). Avvelena Britannico, suo fratellastro e rivale, e, in seguito a un attacco d'ira, uccide con un calcio la sua amata Poppea mentre è incinta. Il suo squilibrio mentale è di tale ampiezza che il Senato finisce per dichiararlo nemico pubblico e distruttore della razza umana.

Personaggi femminili Giulia I (39 a.C.-14 d.C.). Figlia di Augusto, viene educata dalla sua matrigna Livia con estrema severità. All'età di quattordici anni è costretta a sposare con il cugino Marcello II, di cui due anni dopo resterà vedova. Trascorsi altri due anni, la uniscono nuovamente in matrimonio a Marco Vipsanio Agrippa, militare rozzo e bruto, che ha ventidue anni più di lei e con cui avrà, durante i nove anni di matrimonio, cinque figli. Nuovamente vedova, nello stesso anno in cui muore Agrippa, la obbligano a sposarsi con Tiberio, figlio di Livia e figliastro di suo padre. In quel momento, forse disperata per la triste esistenza che il destino le ha riservato, decide di suicidarsi lasciandosi lentamente precipitare in uno stato di perdizione. Si narra che Giulia adori le orge notturne nonché copulare in gruppo e con sconosciuti vicino alla statua di Marsia, luogo di ritrovo delle prostitute romane. Le male lingue arrivano ad accusarla di aver avuto relazioni incestuose con il padre, l'Imperatore Augusto; è invece vero che costui la manda in esilio proibendo a qualsiasi uomo di avvicinarsi senza sua previa autorizzazione. Il suo unico e autentico amore fu Sempronio, dongiovanni dell'epoca, che la sedusse quando era sposata ad Agrippa, e con cui continuò la relazione anche durante il matrimonio con Tiberio. Dei cinque figli che ha con Agrippa, uno di loro, Gaio, è schizofrenico; Agrippa, nato postumo, è ritardato mentale; Agrippina I (madre di Caligola e sposa di Germanico) è talmente isterica che Tiberio la manda in esilio e la lascia morire di fame, infine Giulia II si mostra dissoluta come sua madre. Agrippina II, detta Minore (16-59). Bisnipote di Augusto, figlia di Germanico e di Agrippina I, sorella di Caligola e quarta moglie di Claudio. All'età di dodici anni viene data in sposa al cugino Domizio da cui ha un figlio che diventerà l'Imperatore Nerone. Si narra che l'uomo, congratulato per la nascita del bambino, colse subito la premonizione: "Da me e Agrippina può nascere solo un mostro". Diventata vedova, si risposa nell'anno 40 con Crispo Passieno, che in seguito avvelena per convolare a nozze con Claudio. Violenta e impetuosa, eredita l'incontinenza sessuale della famiglia Giulia, superando in depravazione tutte le sue parenti. Viene accusata d'incesto con suo fratello Caligola, di adulterio con il marito della sorella Drusilla e con i liberti Callisto e Pallante che la aiutano politicamente. Fa esiliare e assassinare tutte le donne che possono competere con lei in talento e in bellezza. Avvelena il marito Claudio con un piatto di funghi, togliendo a Britannico, figlio dell'Imperatore, il diritto di successione al trono che verrà invece assegnato a suo figlio Nerone. Pare sia gelosissima delle relazioni amorose intrattiene Nerone ha con le altre donne e che non desista dinanzi all'incesto, che interrompe solo per intercessione di Seneca, di cui diventa poi l'amante. Contrariamente a Messalina, Agrippina II è molto stimata a Roma; guida gli eserciti, riceve ambasciatori, assiste dietro a una tenda alle sessioni del Senato (non senza il fastidio di Claudio), comanda senza alcuna difficoltà, fa affidamento e sottomette tutti, fa scolpire la sua effigie sulle monete e firma la corrispondenza ufficiale. Quando suo figlio Nerone prende il potere, lei lo tiene sotto controllo e conserva, al suo fianco, il ruolo di Imperatrice. Quando lui s'innamora follemente di Poppea (altrettanto ambiziosa e straordinariamente bella -

pare avesse bisogno del latte di cinquecento mule per il suo bagno quotidiano), Agrippina va su tutte le furie e ricopre la nuora di ingiurie, per poi cambiare tattica e cercare di tenersi stretta Nerone con lusinghe di vario genere, invitandolo a spassarsela con l'amante a palazzo. Assassina tutti i difensori di Britannico, e dopo essere stata rifiutata da suo figlio Nerone tenta di cospirare contro di lui, indicando il povero Britannico, che prima rimuovono poi reintegrano, come legittimo erede al trono. Nerone prova a uccidere la madre in diverse occasioni, fallendo in tre tentativi di avvelenamento e in uno di annegamento; l'Imperatore la fa, infatti, imbarcare su una nave destinata ad affondare e quando apprende che la madre si è salvata dal naufragio intenzionale si fa prendere dal panico. Si narra che a partire da quel momento l'Imperatore comincia a manifestare apertamente gli squilibri mentali, affiorati già in passato. Agrippina, dal canto suo, dopo aver avuto conferma che è stato suo figlio Nerone a escogitare l'affondamento della nave e di conseguenza anche la sua morte, ordina al capitano di trafiggerle il corpo con un colpo di spada, per precisione le viscere che avevano generato e ospitato il suo assassino. Note 1. Alla fine di questo capitolo c'è una breve descrizione dei personaggi che lo popolano. 2. Messalina è bisnipote di Ottavia, sorella di Augusto. 3. Anche chiamata «famiglia Giulia». 4. Si veda l'appendice a fine capitolo. 5. D. Cassius. 6. Svetonio 7. E Cenerini. 8. E Cenerini. 9.Tacito, XI, 27. 10. Svetonio . 11. Secondo quanto sostenuto da Francesca Cenerini, docente di Storia antica pressol'Università di Bologna 12. Si veda l'appendice a fine capitolo. 13 Tacito,VI, 15. 14 Nessuno storico antico menziona con esattezza alla malattia di cui si tratt. Tuttavia, gli storici moderni, a distanza di secoli, hanno suppsto che si trattasse di encefalite. 15. Svetonio. 16. Ibid. 17. Ibid. 18. Ibid. 19. Antichi schiavi che, una volta divenuti liberi, continuavano a prestare servizio presso gli stessi padroni. 20. Seneca, Ep. 63, 16, 3. 21. Seneca, Ep. 44, 7, 9. 22 Giulia Livilla in questo periodo era già sposata. 23. Seneca, Dialoghi, 9.9, 2, 5. 24. D. Cassius, 60. 8. 5, 18. 4; Tacito, XIII, 32. 25. B. Levick, pp. 58-59. 26. Annali, XI, 4. 27. D. Cassius, 60. 27. 2-4 y 29. 4-6, 6a; Tacito, Dialoghi, 11. 1-3; Svetonio, Caligola, 29. 2. 28. Sebbene sia tutto inventato, nessuno storico si occupa di lei fino a che non sale al trono.

29. Tacito, XI, 36. 30. Svetonio, Caligola, 36. 31. Svetonio, Caligola, 55. 32. Annali, 4. 33. D. Cassius, LX, 22-28. 34. D. Cassius, LXI, 31. 35. Giovenale, Satire, VI, pp. 115-132. 36. H. Mathieu, pp. 20-21 y 41-42. 37. Le donne si sposano a tredici anni. 38. Senofonte, p. 86. 39. Tacito, XI, 27. 40. Tacito, XI, 27. 41. D. Cassius. 42. D. Cassius. 43. D. Cassius. 44 Tacito. 45. D. Cassius, p. 30. 46. Si veda l'appendice a fine capitolo. 47. Tacito, XI, 34. 48. Ibid. 49. Ibid. 50. Ibid.. 51. Tutte le statue di Messalina sono andate distrutte, ad eccezione di una che venne miracolosamente dimenticata e che oggi si trova nella Galleria degli Uffizi a Firenze. 52. Si veda l'appendice a fine capitolo

Luisa Elisabetta d'Orléans (1701 - 1742) e la saga dei pazzi Ha begli occhi, pelle bianca e sottile, naso ben fatto, bocca molto piccola... ciononostante è la persona più sgradevole che abbia visto in vita mia Elisabetta Carlotta di Baviera (Liselotte o Madame) nonna di Luisa Elisabetta. Luisa Elisabetta d'Orléans viene costretta a sposare suo nipote Luigi, principe delle Asturie e futuro re di Spagna. La principessa lascia la Francia ancora bambina, e sin dal suo arrivo si lascia andare a eruttazioni e peti in pubblico, si rifiuta di parlare, presenta una peculiare tendenza a mangiare dolci di nascosto, nonché rape galleggianti in grandi quantità di aceto. Inizialmente gli spagnoli attribuiscono le sue stravaganze a una moda di Versailles, o del Palazzo Reale dove la piccola è stata educata e dove sono in voga comportamenti fin troppo capricciosi; per questa ragione, nei primi mesi, la nuova arrivata è osservata alla stregua di un'attrazione da circo. Ma con il passare del tempo, Luisa Elisabetta assume un contegno sempre più eccentrico, con persistenti sintomi di instabilità psichica, trascuratezza personale e mancanza di controllo dei propri impulsi. La confusione aumenta quando la fanciulla sale al trono; ai sudditi vengono presi dallo sconforto allo scoprire che la loro regina fa volentieri a meno di indossare biancheria

intima, gironzola seminuda nei giardini di palazzo, mostra una totale avversione per le calzature, si arrampica sugli alberi con lo scopo evidente di esporre le sue parti intime alla curiosità di chi la guarda dal basso, e adora pietanze composte da una abbondante e inconsueta quantità di ingredienti eterogenei... Luisa Elisabetta soffre di attacchi di bulimia, e arriva a ingerire persino la ceralacca delle buste. La sua reputazione tocca il fondo il giorno in cui, da regina di Spagna, nel bel mezzo di un ricevimento, si toglie il vestito e si affanna a usarlo per pulire le mattonelle del pavimento. Non esiste fontana che non risvegli nella moglie del re un'indomita brama di pulizia: le basta veder scorrere dell'acqua per precipitarvisi con un panno tra le mani, allo scopo di eliminare macchie che solo lei vede; talvolta l'affannoso compito di strofinamento si protrae per ore. Lo zelo dedicato alla pulizia degli indumenti non viene riservato tuttavia alla propria persona: Luisa Elisabetta continua a farsi notare anche a causa di una totale mancanza di igiene personale, che la porta a presentarsi in pubblico sporca, cenciosa e maleodorante. All'aspetto estetico deplorevole si aggiunge poi uno stato di ubriachezza quotidiano e una continua incapacità di relazionarsi con le altre persone. In seguito a una valanga di critiche, la giovane sovrana tenta di correggersi, senza mai riuscirvi. Tutto sembra andare per il verso sbagliato: fa infuriare le prime dame, gli aiutanti e i diplomatici, la famiglia vive mille perplessità, la giovane esprime stati d'animo e atteggiamenti in continuo contrasto tra loro, passa dall'affetto allo sdegno, dalla supplica alla superbi; i suoi sentimenti instabili cambiano continuamente, nel corso della giornata. Un attimo prima non si stacca dal marito, quello dopo lo abbandona al suo destino. Ogni sforzo teso a farle comprendere le conseguenze dei suoi comportamenti risulta inutile, il chè è del tutto normale per le persone che, come lei, soffrono di un disturbo borderline della personalità. Nel caso di Luisa Elisabetta tale sindrome deriva dalla degenerazione di una anormalità psichica che ella non è in grado di dominare, nonostante vi si impegni con ogni forza ogniqualvolta viene rimproverata o punita. Trovandosi disorientato dalla sua condotta, il marito, re Luigi I di Spagna, finisce per farla rinchiudere; per quanto lo riguarda, fin dal principio la convivenza è stata caratterizzata dall'anelito di poterla amare, e da una continua lotta per contenerla; alla fine tutti i suoi sforzi si rivelano vani, e deve arrendersi all'evidenza. I racconti delle follie della regina sono sulla bocca di tutti, lo scandalo assume proporzioni maggiori ogni giorno che passa; critiche, scherni e pettegolezzi animano le chiacchiere nei salotti, nei capannelli e in ogni angolo, tanto in Spagna quanto in Francia. La condotta morbosa della regina, insomma, allieta le conversazioni, grazie a quella unione di scandalo e patetismo che tanto intrattiene le menti inattive quanto distrae quelle attive. Tuttavia, osservando la realtà da una prospettiva più ampia, non si può fare a meno di concedere a Luisa Elisabetta la clemenza che merita e che nella sua vita non ottenne mai. Innanzitutto perchè dentro di lei scorre il più rapido dei vascelli diretti alla terra della pazzia: endogamia, carenza affettiva, ambiente educativo incoerente, contorno eccentrico e, ancor più grave, una psicosi grave che alcuni parenti vanno trasmettendo ad altri. A ciò si aggiunge il fatto che, ancora bambina, si trova costretta ad assumere il ruolo di regina.

Da tempi immemorabili gli antenati di Luisa Elisabetta sono soliti contrarre matrimonio tra loro, i suoi nonni (ramo maschile) sono fratelli, i suoi genitori sono cugini di primo grado, ogni singola cellula del suo corpo può essere considerata cugina di quella che le sta accanto. L'endogamia perseverante genera dei problemi caratteristici: nel caso della regina Luisa Elisabetta, inoltre, tali disordini genetici hanno la costituzione meno indicata per una principessa destinata a regnare. In Luigi XIV, suo nonno materno, straordinarie virtù si mescolano a un perfezionismo ossessivo e a innegabili sintomi di disturbi narcisisti. Anche il ramo paterno (padre, nonno e nonna) mostra una vetrina variopinta in fatto di squilibri; all'elenco non manca nulla: sconnessione sociale, impulsività, ipercompensazione narcisista, intolleranza, crudeltà, alcolismo, depravazione sessuale, violazione delle regole, eccentricità, istrionismo e assenza di empatia. Dall'altra parte, nemmeno la famiglia «politica» di Luisa Elisabetta si mostra scevra di anomalie: Filippo V, allo stesso tempo suo suocero e cugino, vive in condizione di schiavitù a causa di una lunga e grave infermità mentale. Suo marito e nipote Luigi I di Spagna mostra un profilo straordinariamente simile a quello del padre; anche costui, se non fosse morto ancora adolescente, sarebbe stato con ogni probabilità vittime dei medesimi disturbi. A sua volta, anche il fratello, il futuro re Fernando VI, condivide aspetti della personalità del padre e del fratello maggiore. Assurto al trono, Fernando VI dà segni di una grave pazzia, molto simile a quella del padre, insania che lo porterà a morire ricoperto dai propri escrementi. Con una simile contaminazione genetica estesa su tutti i fronti, non stupisce il fatto che la povera Luisa Elisabetta nasca con un cervello incline allo squilibrio. Questa effimera regina di Spagna, così come tante altre nella sua posizione, non avrebbe mai scelto volontariamente il marito che le hanno imposto, un marito che dopo un anno di matrimonio non ha ancora la minima idea di che cosa debba fare per farla rimanere incinta. Tantomeno avrebbe spontaneamente scelto la freddezza con cui l'hanno accolta i suoi sudditi, tra i quali non riesce a farsi nemmeno un amico. Al suo arrivo in Spagna, Luisa Elisabetta non è null'altro che una bambina affamata di educazione, affetto e punti di riferimento coerenti che nessun adulto tra coloro che la circondano, né qui né nella Francia che le ha dato i natali, ha la generosità di offrirle. Non si può comprendere la psicologia di questa regina fugace senza scandagliare anche quella degli altri membri della sua peculiare famiglia. Luisa Elisabetta vive nella maledizione dell'influenza della sua stirpe; si presenta, si rimpossessa di lei allorché si sposa, e si ritrae nel momento in cui resta vedova. Nel suo corpo non c'è rinnovamento né di sangue, né di informazioni. Per questo motivo, nel presente capitolo, più che il suo personale, verrà dipinto il ritratto della sua stirpe familiare; questo giustifica la sua estensione in confronto agli altri capitoli di questo libro. Tuttavia, cari lettori, solo indagando la psiche dell'intera famiglia potrete giudicare da voi se Luisa Elisabetta fosse realmente una lunatica patologica e non, invece, un semplice specchio della follia generale da cui fu sempre circondata. Tempi di guerra

La principessa Luisa Elisabetta d'Orléans e Borbone nasce in tempi di guerra. Suo marito, Luigi I di Borbone e Savoia, re di Spagna, è anch'egli figlio dello stesso conflitto: la guerra di successione al trono di Spagna, lo scontro che per dodici anni ha annientato noi spagnoli con il suo fetore di morte, che ci ha spezzato in due e che ci ha tolto Gibilterra per sempre; la battaglia che culmina nella deposizione degli austriaci e nella consegna della nostra corona alla stirpe francese, nelle persone di questi due adolescenti. L'offensiva si accende alcuni anni prima della nascita dei due futuri monarchi, quando a metà del 1700, per re Carlo II di Asburgo inizia un doloroso e irreversibile declino fisico: è tanta la sua debolezza - scrive l'ambasciatore francese a Luigi XIV, suo re - che non riesce a stare fuori dal letto per più di una o due ore; il gonfiore non scompare; ha talmente paura di morire che le sue facoltà mentali si sono indebolite al punto che talvolta parla a sproposito.1 Le altre teste coronate si rallegrano nel sapere che il nostro sovrano, conosciuto come el Hechizado2, si sta consumando, liberando così un regno che abbraccia oltre alla Spagna, alcune zone della penisola italiana, i Paesi Bassi e la generosa sorgente aurifera rappresentata dai territori americani. Tutti si leccano i baffi al pensiero di una ghiottoneria come il trono di Spagna, ma per motivi di ereditarietà, solo austriaci e francesi possono sperare di sedervisi. Gli Asburgo reclamano il diritto di proseguire a governare la Spagna come hanno fatto fino a quel momento; nella loro pretesa sono appoggiati da Marianna di Neuburg, l'insopportabile seconda moglie di Carlo II, che vive nella frustrazione di non aver dato alla luce alcun figlio, cosa in realtà affatto strana se si considera che uomo sciatto avesse per marito. Allo stesso tempo, anche i Borboni si ritengono padroni della corona che sta per essere resa disponibile. Il caudillo Luigi XIV, soprannominato Re Sole, basa la sua richiesta su legami di sangue che in sé e per sé rappresentano un vero e proprio guazzabuglio: sua cugina di primo grado, Maria Luisa d'Orléans, era stata la prima sposa del moribondo. Allo stesso modo, Filippo IV (padre di Carlo II, il re agonizzante) si era sposato in prime nozze con una Borbone. Da parte sua, la sorella di Filippo IV, Anna3, si era unita in matrimonio con Luigi XIII di Francia, diventando madre proprio del pretendente alla corona, il quale, a sua volta, si sposa con la cugina di primo grado Maria Teresa4, figlia di Filippo IV e sorella del re in fin di vita. Re Luigi XIV di Francia, pertanto, è cognato e cugino di primo grado dell'agonizzante monarca, e allo stesso tempo è genero e nipote di primo grado del proprio antecessore, Filippo IV. Il sovrano francese ritiene che, a livello genetico, tali legami gli garantiscano un diritto incontestabile al trono spagnolo. A ciò si aggiunge il fatto che il Re Sole ambisce alla Spagna con appassionato ardore non solo per ragioni politiche ed economiche, ma anche culturali; sua madre, Anna d'Austria (sorella di Filippo IV di Spagna), gli aveva fatto conoscere e amare i nostri giardini, i palazzi, i balli e gli svaghi. Egli sente parlare di noi spagnoli in modo così incantevole, che ricrea a Versailles una copia perfetta del Giardino del Buen Retiro, riproduce in questo giardino gli spettacoli teatrali che suo zio Filippo era solito offrire al pubblico di Madrid, ordina che vengano trasportati degli aranci che pianta di fronte alle proprie finestre, copia la scalinata del palazzo di Carlo V e si spinge fino ad accettare stoicamente l'obbligo di contrarre matrimonio con la infanta Maria Teresa, la sua scialba e per nulla attraente cugina

di primo grado. Alla notizia che suo cognato Carlo II sta morendo senza lasciare figli, Luigi XIV non ha altro desiderio se non quello di prendere il suo posto, ed essere finalmente padrone di quella Spagna che fino ad ora ha solo potuto imitare. L'Austria però non si trova affatto d'accordo. Gli Asburgo puntualizzano che da molto tempo sopportano il peso della corona spagnola, e sottolinenoa inoltre il fatto che, sposandosi con il sovrano francese, l'infanta Maria Teresa aveva rinunciato ai diritti di successione al trono spagnolo. Il Re Sole, che ha una risposta pronta per ogni occasione, replica che tale impegno alla rinuncia è da considerarsi del tutto nullo, in quanto includeva come contropartita una ricca dote che non è mai stata ricevuta. A complicare ancor più la scena politica, intervengono nella disputa per la corona spagnola anche i regnanti di Inghilterra, Olanda, Portogallo, e i Savoia; non sono disposti in alcun modo a permettere che l'Austria o la Francia annettano la Spagna ai propri regni, ritrovandosi così improvvisamente a capo di una potenza mostruosa e invincibile. L'Imperatore austriaco e il Re Sole decidono quindi di stringere un'inattesa alleanza contro i rivali; placano la loro furia con la promessa di non proporsi come regnanti in prima persona, ma impegnandosi a presentare ognuno la candidatura di un discendente. Si accordano sul fatto che il successore che verrà infine scelto governerà la Spagna in totale indipendenza dai propri paesi d'origine, accettando ingerenze solo da parte degli stessi spagnoli. I pretendenti più accreditati sono nipoti di primo grado del re in fin di vita. Gli austriaci presentano l'arciduca Carlo, secondogenito dell'Imperatore Leopoldo I e dell'infanta Margherita5 - sorella di Carlo II -; da parte loro i francesi propongono il duca d'Angiò, secondo nipote di re Luigi XIV e dell'infanta Maria Teresa - l'altra sorella di Carlo II. Che sia avvenuto in seguito a intrighi orditi dal clero, o ad acrobazie politiche compiute da Luigi XIV, o a un'improvvisa illuminazione sul letto di morte, il fatto è che Carlo II, le cui condizioni non lasciano dubbi sul fatto che non supererà l'autunno, prende la decisione più importante della sua tetra vita e opta in favore del francese duca d'Angiò, il quale all'epoca ha appena compiuto diciassette anni. Luigi XIV scoppia di felicità... ma è praticamente l'unico a farlo in tutta Versailles. Il padre del giovane, Monseigneur, riesce a nascondere la propria delusione solo a prezzo di notevoli sforzi; in quanto erede al trono di Francia non può aspirare ad altri privilegi, e d'altra parte suo padre Luigi XIV, attuale detentore della corona teoricamente ereditabile, ha davanti a sé ancora molti anni di gloria. All'età di trentanove anni, canuto e stanco, Monseigneur capisce che a questo punto gli farebbe più comodo un uovo oggi che una gallina domani; se le cose proseguono come teme, non potrà far altro che rassegnarsi al ruolo di figlio del re e di padre del re, senza mai arrivare a esserlo lui stesso. Da parte sua, il duca di Borgogna, primogenito di Monsiegneur e fratello maggiore del prescelto, condivide i sentimenti di delusione e invidia del genitore, in quanto anch'egli si vede costretto a rimanere un'opzione di riserva per la Francia in caso di morte non solo del nonno, ma anche del padre.6 Anche Monsieur, fratello di Luigi XIV, non sembra affatto contento. Si lamenta del fatto che suo figlio, Filippo d'Orléans, sia molto più adatto all'incarico rispetto all'idiota a cui è invece stato affidato, per quanto stretta sia la loro parentela. Filippo d'Orléans è effettivamente consapevole di essere più intelligente e più indicato per regnare la

Spagna rispetto al nipote a cui tale premio è stato consegnato senza che avesse fatto assolutamente nulla per meritarlo. Per vincere in qualche modo la rabbia di cui si ritrova preda, Filippo non trova nulla di meglio che lasciarsi andare all'ubriachezza e alla depravazione. Nel frattempo il prescelto duca d'Angiò, causa di tutto questo scompiglio, accoglie la notizia come se non la considerasse né particolarmente buona, né tantomeno inaspettata, dimostrando ancora una volta lo stesso atteggiamento indifferente che riserva a quasi tutti gli eventi che occorrono nella sua triste vita. All'età di diciassette anni non si sarebbe mai spinto nemmeno a sognare una simile occasione, né una tale responsabilità, eppure ora che la tiene tra le mani non è in grado di comprenderne chiaramente né i rischi né le conseguenze future. In Spagna le cose non vanno meglio. La notizia lascia esterrefatta la regina Marianna, che si era schierata a favore degli austriaci. La sovrana viene sopraffatta da una collera talmente violenta che Carlo II, dal suo letto di agonia, si vede costretto a racimolare le poche forze rimaste per ordinare che venga rinchiusa nelle sue stanze, e che venga gettata via la chiave. A partire da questo momento il re rifiuta ogni contatto con lei, che potrebbe in effetti considerarsi un gesto estremamente magnanimo visto lo stato in cui versa il pover'uomo: «sembra in stato di putrefazione», descrivono i testimoni, «è di colore verdognolo», «è freddo e senza denti», «il suo stomaco è rovinato, le sue condizioni sono pessime», «a trentanove anni ne dimostra ottanta». Il 1° novembre del 1700 il re agonizzante lascia il trono di Spagna. Nove giorni dopo, a Versailles, un inquieto duca d'Angiò firma la propria rinuncia ai diritti di successione in Francia e diventa Filippo V di Spagna. Un francese a capo della Spagna Il giovane Filippo V, di cui ci ritroviamo sudditi dall'oggi al domani, è un adolescente inesperto e mediocre, incapace di farsi rispettare persino in casa propria, a giudicare da ciò che scrivono coloro che lo conoscono bene: Non ha mai dato alcun segno di una qualche superiorità intellettuale, né tantomeno possiede una benché minima immaginazione. Freddo, silenzioso, triste e cupo; non conosce altro piacere che quello della caccia. Nemico di ogni occasione pubblica, spaventato persino da se stesso, raramente deciso, privo di interesse verso le altre persone, solitario e sfuggente sia per volontà che per abitudine. Estremamente vanitoso, non sopporta di essere contraddetto.7 Del tutto consapevole del bel regalo che ci sta rifilando, Luigi XIV varca il confine salutandolo con una chiara raccomandazione: «Siate un buon spagnolo!». Detto ciò dà inizio al cerimoniale d'addio: L'addio fu accorato - raccontano i testimoni - entrambi i sovrani piansero nel momento in cui si abbracciarono, e si promisero eterna alleanza di fronte al loro commosso seguito.8 Il nuovo re lascia la natia Francia tremante di paura, accompagnato da una schiera di aiutanti che si assumono la responsabilità di portare a compimento gli ordini che Luigi XVI ha affidato loro per iscritto: [Il re di Spagna] fa una fatica enorme a decidersi su qualunque questione; è vittima della stessa insicurezza nel decidere quando svegliarsi, quando ritirarsi a dormire, quando lavorare e quando riposarsi, così come quando ha a che fare con affari di maggiore

importanza. Aspetta sempre che qualcuno gli dica come deve comportarsi. Bisogna aiutarlo a prendere decisioni, e far sì che in futurosi abitui a prenderle autonomamente.9 Il sovrano francese, pertanto, riesce a posare la corona spagnola sul capo di un individuo che i suoi patriottici contemporanei definiscono come abulico, solitamente pigro, maldestro, inadeguato al ruolo di re, niente affatto abituato a pensare con la propria testa, sebbene capace di esprimersi con proprietà di linguaggio quando la lentezza e l'indolenza gli consentano di parlare. Filippo V giunge in Spagna ignorandone la lingua e gli usi, portandosi sempre appresso un parrucchiere francese che svolge anche il ruolo di buffonedi corte. Rifiuta anche di separarsi dal suo confessore francese e dalla precettrice, anch'ella francese, che lo accompagna per canticchiargli canzoni francesi «perché senza di esse sarebbe caduto in una grave malattia». Simili tratti permettono di congetturare l'anomalia che pesa sull'anima del giovane Filippo fin dalla più tenera età: si chiama disturbo dipendente di personalità e prospera in soggetti che finiscono per dimostrarsi incapaci di prendere qualsiasi decisione. Venendo generalmente castrata fin dall'infanzia ogni pulsione aggressiva, la condotta di questi soggetti si dimostra straordinariamente sottomessa, affamata di protezione e sicurezza. Hanno bisogno di fare costante affidamento sui consigli dei loro superiori, che seguono ciecamente per paura di venire abbandonati a se stessi. Il disturbo dipendente rende la persona incapace di dimostrarsi all'altezza di qualsiasi responsabilità, subordinando le sue stesse necessità a quelle di coloro da cui dipende; chi ne soffre è vittima di profondo malessere nel ritrovarsi solo; è propenso alla rinuncia e ha bisogno di un costante contatto intimo con il proprio partner; pone interamente la propria esistenza nelle mani degli altri ed è preda di forte ansietà se gli viene affidato un ruolo da leader. Come se non bastasse, è allo stesso tempo vessatorio e sottomesso nelle relazioni di coppia, il suo innamoramento ha più le caratteristiche di una dipendenza morbosa, esigendo protezione e unione costante e totalizzante. Ritiene che tutto gli sia dovuto ed è disposto a dedicare tutto all'amore vero. Il nocciolo del suo pensiero si può riassumere in una frase: «Farò per te tutto ciò che mi ordini, purché tu mi protegga e rimanga al mio fianco per tutto il resto della mia vita». Esperto della cura emotiva necessaria a un individuo di tal fatta, il Re Sole non perde occasione per ficcare il naso ovunque possa e più di quanto non debba, esercitando incontenibile protagonismo nelle questioni politiche, economiche e sociali spagnole. A Madrid, l'8 maggio 1701, Filippo V viene incoronato Re di Spagna a Madrid. A diciotto anni si comporta come un inetto, incapace di fare qualcos'altro che non sia eseguire le istruzioni del suo regale nonno. Luigi XIV decide letteralmente ogni singola mossa che il sovrano deve compiere, tra cui, «che non si innamorasse, né tentasse di sposarsi con la regina vedova».10 Il Re Sole decide, inoltre, che il fanciullo dovrà evitare di sposarsi con una principessa austriaca, e lo incoraggia invece a farlo con una francese e, anche in tal caso, deve fare in modo che la donna non si immischi né in questioni di stato, né nella distribuzione di grazie e mestieri, essendo ciò «di grande importanza». L'adolescenza spinge Filippo V a rompere, per la prima volta in vita sua, la patologica sottomissione che lo accompagna fin dalla nascita... sebbene non riesca a trasgredire fino in fondo. Il suo cuore, assetato di

amore, si rivolge non verso la Francia, come pretendeva Luigi XIV, bensì verso casa Savoia; lì si trova disponibile una nipote di Monsieur, l'unico fratello del Re Sole. La donna per la quale è scoccata la freccia di Cupido risponde al nome di Maria Luisa Gabriella, e ha dodici anni. Filippo si presenta all'incontro con la sua fidanzata con ansia crescente e ardente impazienza. Dicendo ai suoi accompagnatori che si sarebbe recato all'appuntamento con anticipo, il giovane confessa: «Preferisco di gran lunga aspettarla che farla aspettare». Non l'ha ancora neppure vista, ma Filippo è già preda di un incontenibile desiderio carnale: «Farò tutto il possibile pur di averla!», risponde ai sudditi che, vedendolo passare con tanta palpitante precipitazione, gli augurano una rapida e abbondante discendenza. Sebbene la prescelta sia nipote del Re Sole, è tuttavia allo stesso tempo figlia di un traditore arruolatosi nella fazione austriaca. Naturalmente Luigi XIV avrebbe preferito un'altra donna, più fedele alla Corte di Apollo di cui è a capo, ma Filippo è ormai già caduto ai piedi della sua innamorata e non sembra per nulla disposto a mettere da parte la sua passione. Per questa volta il patriarca francese cede, proteggendosi però dagli imprevisti affidando a una spia il ruolo di prima cameriera della novella sposa, nel caso costei si rivelasse irrequieta come il padre. La principessa degli Orsini, questo è il nome della spia in questione, ha sessant’anni e accetta senza esitare l'incarico di vigilare con occhio di falco su ogni singolo movimento, anche il più insignificante, della regina-bambina... per poi comunicarlo al Re Sole senza omettere il benché minimo particolare. La prima mossa della dama è quella di di sostituire con feste colte gli incontri tra dame spagnole, che le paiono vacui e noiosi. Corneille e Racine soppiantano Calderón e Lope de Vega; immediatamente gli spagnoli si stringono in difesa della propria identità e si infuriano contro questa decisione, senza però ottenere che Versailles destituisca dal suo ruolo l'impicciona Orsina, come viene spesso chiamata. Al Re Sole non interessa minimamente il sentimento patriottico degli spagnoli, a dispetto del fatto che, per calmare gli animi, offra loro un contentino: impone a Filippo l'uso della golilla, il collare con cui si adornano gli spagnoli; il giovane è costretto ad accettare e a sopportare così il dolore montando a cavallo agghindato con questo «accessorio escogitato dal demonio», secondo le sue stesse parole. Al di là di questo dettaglio, Luigi XIV continua insistentemente a istruire il re di Spagna su ciò che deve fare e su come deve farlo, in tutte gli ambiti della sua vita. Al fine di mantenere il controllo della situazione in maniera più efficace, arriva a ordinare che venga nominato un francese a capo delle cucine reali. Non ripone la benché minima fiducia nella disorganizzazione della corte spagnola, nell'incapacità dei ministri né nella rigida etichetta, che egli considera risibile, triste e tirannica. Né tantomeno ha fiducia nel nipote, nonostante sia sovrano di Spagna già da tempo. Su di lui esprime, quindi, la propria opinione per iscritto: La sua indole è eccellente, ma il timore di agire in modo sbagliato lo rende indeciso, e bisogna aiutarlo a vincere la timidezza. Tentenna anche nelle circostanze della minima importanza. (...) Fa una fatica enorme a decidersi su qualunque questione. Aspetta sempre che qualcuno gli dica come deve comportarsi.11 Ovviamente, chi glielo dice è lui; e lo fa in modo forte e chiaro. In poche parole, il re ignora il contratto firmato e diventa sempre più

protagonista nelle questioni spagnole, mentre il giovane nipote si dimostra sempre più intimidito di fronte a un ruolo da leader che non ha il coraggio di assumere. La reazione europea non si fa attendere. Inghilterra e Austria lanciano al sovrano francese un serio avvertimento, ma a Luigi XIV non piace affatto essere redarguito e, senza un attimo di esitazione, riapre la questione dei diritti di successione di Filippo V alla corona di Francia. Aveva firmato un patto? Perfetto, e ora lo rompe, non per niente lui è «il Re Sole, che tutto illumina e tutto può... », e se ancora esiste qualcuno sulla faccia della Terra che non si è reso conto di quale superuomo rifulga in Francia, non deve far altro che osservare la vita brulicante di Versailles, sua residenza e suo palcoscenico. A quel punto anche il più incredulo si renderà conto di tutto. La vita a Versailles Racconta un cronista dell'epoca che, al contemplare l'enormità di Versailles, l'ambasciatore inglese commentò: «È fuori da ogni umana proporzione». Il re rispose immediatamente: «In realtà, è fuori dalle sue proporzioni, non dalla mia». Se mai è esistito un sovrano convinto di essere infinitamente superiore al resto dei comuni mortali, questo è Luigi XIV. Di fatto, rifiuta di essere chiamato Maestà perchè questo non farebbe che denotare una «parità con gli altri [re] che invece non esiste». Le innegabili doti intellettuali del re lo portano a comprendere che la sua megalomania non deve recare beneficio solo a lui, ma anche alla sua nazione. La Francia si trasforma in una reclame al mondo su chi ne è padre e ne tiene le redini. Pertanto diviene una vetrina di progresso politico, economico, sociale e culturale. Come ogni vittima di un disturbo narcisista-perfezionista di personalità, Luigi XIV vive immerso nelle fantasie di un successo senza confini e trascorre le sue giornate dominato dalla brama di potere e dall'ansia di perseguire bellezza e amore. Il suo lato narcisista lo spinge a essere pretenzioso, sfruttatore, restio a riconoscere o condividere i sentimenti e le necessità degli altri, incline alla superbia e all'arroganza, nemico di ogni critica e di ogni manifestazione di rifiuto. La sua vena perfezionista lo induce a sorvegliare tutto, a controllare tutto; ogni aspetto della vita francese è sottomessa al suo scrutinio e ai suoi dettami. Nulla sfugge alle sue ispezioni degne di un'aquila, dalle questioni religiose al trasloco e alla cura degli alberi, dalle acconciature delle dame all'uso e abuso del rapè, fino ad arrivare alla corretta esecuzione di un particolare salto nel balletto, che, sicuramente, solo lui riesce a compiere. Avete letto bene. Il Re Sole si impegna in quotidiani esercizi alla sbarra, sfoggia polpacci aggraziati e muscolosi e adora esibirli in stupefacenti balzi. Per lui è un gioco da ragazzi il difficile passo denominato entrechat à quatre, che consiste in un salto verticale con le punte dei piedi rivolte verso il basso e il ballerino che incrocia quattro volte le gambe con estrema grazia mentre fluttua nell'aria. Luigi XIV, in un'ostentazione atletica, riesce a saltare così in alto che ha il tempo di incrociarle cinque, e addirittura sei volte, prima di tornare al suolo; battezza la sua prodezza entrechat royal e la esibisce in qualunque occasione possibile. Come egli stesso spiega nelle sue memorie, «la mia passione dominante è senza dubbio l'amore per la gloria».12

La sua esuberante smania di controllo, però, oltrepassa i confini della sua nazione e si rovescia anche sulla Spagna. Il re non tralascia nulla e mette il naso ovunque possa, dal sindacare su ciò che mangia o non mangia la giovane regina Maria Luisa, fino all'ordinare che la precettrice francese di Filippo V prosegua con le sue ninnananne francesi. Se ha avuto mai davvero intenzione di permettere che il nipote regnasse in Spagna con il solo aiuto degli spagnoli, tale buon proposito si è sciolto come la neve al sole. Il Re Sole si autoinveste del compito di illuminare con i suoi raggi l'inettitudine del genere umano; dall'alto del suo personale podio, a Versailles, diffida praticamente di ogni altro sulla faccia della Terra. Nel 1682, Luigi XIV rimuove da Parigi l'intera corte e il governo e li trasferisce a Versailles. Disegna il palazzo con l'intento che rispecchi la sua grandezza, il che significa che l'opulenza, del palazzo e del giardino, altro non deve essere se non l'immagine della sua propria magnificenza. Lì tutti sono potenziali spettatori della fastosa quotidianità di Sua Divina Maestà; quanti più meriti possiede il testimone, a tante più cerimonie private sarà ammesso a presenziare. La gerarchia è delle più rigide. I più fortunati assistono all'intimità del re dal momento del lever, ossia dall'istante in cui si alza dal letto, si veste e si rade; i cortigiani sarebbero pronti a uccidere pur di porgergli la vestaglia. Durante i pasti vi sono altri spettatori cui è offerto il privilegio di ammirare le maniere del loro sovrano a tavola. Solo un gruppo dei più selezionati può accompagnarlo alla chaise percée,13 il «trono» in cui il re si libera degli scarti del suo eccelso intestino e della sua regale vescica. Uno stupito italiano, invitato a presenziare a tale ripugnante spettacolo, non riesce a trattenersi ed esclama: «Di quale prestigio gode in questo paese persino la cosa più disgustosa che proviene dal re!». Segue il cerimoniale della messa: Luigi si inginocchia all'altare e si abbandona alla venerazione dei fedeli, che guardano lui invece che il sacerdote. «La gente sembra adorare il re, che a sua volta adora Dio», spiega lo scrittore Jean de La Bruyère. Luigi XIV sorveglia attentamente ogni aspetto della vita a Versailles, tanto la costruzione del palazzo quanto quella del giardino, che vuole meraviglioso come quello di Filippo IV a Madrid. Le quattrocento sculture, da lui disseminate nei 17.000 ettari di terreno, danno lavoro a quattro generazioni di scultori; l'apollineo sovrano sceglie i temi da scolpire usando come punto di riferimento un libro pubblicato ad Anversa dal titolo Iconografia di Ripa, le statue rappresentano personaggi mitologici, stagioni dell'anno e continenti geografici. Oltre a ciò, il re vuole riproduzioni bronzee o marmoree di molte donne nude, e di bambini, anch'essi nudi, da porre nelle varie fontane. A Versailles il Re Sole accentra un potere assoluto e lì vuole trattenere il maggior numero possibile di persone. Ottiene che si fermino a vivere nelle dependance di palazzo più di quindicimila individui tra familiari, cortigiani, ufficiali, intendenti, cavallerizzi, maestri di caccia, sarti, modiste, gioiellieri, damigelle d'onore, autori teatrali, organizzatori di feste, decoratori, cocchieri, giardinieri, cuochi e lacchè... e tanti altri rappresentanti di svariati mestieri. Per trattenere i cortigiani e dare lavoro ai suoi dipendenti organizza eventi durante i quali «è meglio» divertirsi. Ordina la costruzione di brigantini e navettes in scala e il pubblico viene invitato alle battaglie acquatiche in miniatura che si svolgono nello stagno; tutti vi assistono, sebbene la maggioranza preferirebbe essere rimasta a casa,

dato che lo spettacolo impone a tutti i partecipanti di finire la giornata in acqua, dovesse anche essere pieno inverno. Nel giardino vengono quotidianamente rappresentate, inoltre, opere teatrali, ameni svaghi che il sovrano ha plagiato da Filippo IV, il quale era solito organizzarle nei suoi giardini di palazzo. Incaricati di portare a buon fine tali prodezze sono i drammaturghi Molière, Racine e Corneille; il compito di produrre un'opera al giorno li costringe a stabilirsi lì, nonostante le difficoltà fisiche, economiche e psicologiche. Il giardino brulica di attività, passeggiate, riunioni e feste anche durante il più rigido degli inverni. I guardinfanti14 delle dame sono ricoperti con pelle d'orso, e sotto le gonne spesso pende, nascosta, una specie di stufetta a carbone, che nei casi meno fortunati trasforma la nobildonna in una fiaccola vivente. La passeggiata in giardino, sempre all'imbrunire, è un rito obbligatorio; tutti camminano, tranne il re, il quale sta seduto su una portantina. Adora a tal punto il proprio giardino che arriva a dare istruzioni su che cosa si debba osservare e in quale ordine; mentre viene trasportato vigila con attenzione per scoprire chi tra i suoi accompagnatori stia trasgredendo agli ordini, e stia guardando questo o quello stagno al posto di questa o quella aiuola, come gli era stato richiesto in quel preciso momento. L'orchestra suona senza posa ma i musicisti sono ben nascosti dietro gli arbusti, in quanto la loro vista risulta sgradevole al re. Inutile dire che nessun brano musicale può essere eseguito più di una volta. Considerando tale rituale, non stupisce affatto che Madame, sua cognata (che conosceremo più approfonditamente in seguito), unica donna che osa esprimere apertamente il suo rigetto verso l'artificiosità, preferisca rimanere al palazzo di Fontanebleau o a Saint-Cloud, dove si sente senz'altro più a suo agio. Nonostante ciò, la dama, Liselotte, dimostra una grande simpatia per il Re Sole, il quale a sua volta apprezzaalquanto l'ironia e la sagacia della sposa del suo unico fratello, e addirittura sorride di fronte ai ritratti epistolari della vita di corte ch'ella offre ai propri familiari: il sovrano fa mostra di condiscendenza verso la critica umoristica, sempre che non getti ombra sul suo personale fulgore. Così Madame tratteggia uno scorcio di vita a Versailles15: Se Sua Altezza potesse vedere con i suoi occhi l'attenzione e gli sforzi con cui le donne qui fanno di tutto per rendersi brutte, sono certa che Sua Altezza morirebbe dal ridere. Personalmente, non posso seguire i dettami di siffatte mascherate, dato che ogni giorno le acconciature si slanciano un po' più verso l'alto. Penso che alla fine si sarà costretti a fare porte più alte, altrimenti le dame saranno impossibilitate a entrare o uscire dalle proprie stanze. (...) Credo che la coda dei suoi vestiti finirà per trasformarsi in un serpente. Non mi stupirebbe affatto che ciò capitasse alla Grancey,16 che già ha la lingua di una vipera con la quale morde di frequente. Il rapporto tra il re e Madame prosegue a gonfie vele tra la cocente invidia dei cortigiani, in quanto questa donna, «quadrata come un dado» secondo le sue stesse parole - e perciò diametralmente opposta a quelli che solo aspirano a fissare gli occhi nelle pupille del divino re, si permette di dirgli in faccia cose che costerebbero la testa a chiunque altro. Il sovrano non considera la cognata un pericolo per la sua personale luminosità; l'aspetto fisico della signora diverge dai canoni del tempo, ha una mente agile e una parlantina spumeggiante, parla a voce alta, molto alta, e ha una personalità esplosiva, tendente al dispotismo nei suoi giudizi, spassosa nei suoi commenti, inquisitiva, osservatrice e

con poca o nessuna propensione alla civetteria. Pur non essendo una rivale che possa far ombra a Luigi XIV, è comunque in grado di intrattenere conversazioni che vanno molto al di là delle solite superficialità, il che risulta gradito alle orecchie del monarca. Così come lui, anch'ella dà molta importanza ai dettagli e ha un forte senso del dovere. Ne consegue che Liselotte e il re sono anime affini: ciò le vale l'affetto e la cortesia di sua maestà reale, senza che vi sia alcun rischio che il rapporto si spinga troppo in là, cosa che a lei non farebbe affatto piacere. Il genere di rapporto che intercorre tra di loro è perfettamente descritto nella lettera che Madame invia a una delle sue zie, nella quale descrive ciò che è successo in seguito a una caduta da cavallo occorsa durante un'escursione: (...) Egli [il re] fu il primo ad arrivare, era bianco come un lenzuolo; e nonostante gli avessi assicurato che non ero ferita, egli non si diede pace finché non ebbe esaminato personalmente la mia testa da entrambe le parti, sincerandosi che avessi detto il vero; mi accompagnò inoltre in camera da letto e rimase con me per un certo tempo, nel caso avessi avuto dei capogiri... devo ammettere che il re mi dimostra i suoi favori ogni giorno, dato che mi rivolge la parola non appena mi vede e richiede la mia presenza ogni sabato per condividere il rito della medianoche17 con lui e con la signora Montespan.18 Questo è uno dei motivi per cui ora sono molto à la mode, qualunque cosa io dica o faccia, che sia buono o inopportuno, mi si ammira al punto che quando decisi di portare al collo la mia vecchia [stola di] zibellino per combattere il freddo, tutte se ne fecero una uguale; oggi le [stole di] zibellino si sono trasformate nell'ultimo grido.19 I venti cambiano improvvisamente quando Liselotte dichiara guerra alle varie amanti del re, in particolare a quella stessa Madame Montespan con la quale, fino a poche settimane prima, cenava senza problemi. Il sovrano riserva alla moglie del fratello una tolleranza inaudita, ma ritiene i suoi intrattenimenti sessuali una questione intoccabile, tanto che sarebbe capace di annientare chiunque osasse intromettersi o criticare, inclusa sua cognata. Monsieur, Madame e lo sciame di corte L'unico fratello di re Luigi XIV è da tutti chiamato Monsieur, sebbene il suo vero nome sia Filippo. Così come il resto dei francesi, Filippo dipende completamente dal suo sidereo fratello, il Re Sole, divenuto uno dei più colossali e longevi narcisisti della storia europea.20 Luigi XIV riconosce di essere stato guardato con benevolenza dal padre di tutti gli astri, ragion per cui sovrappone al suo nome quello del sole, suo mecenate. Cresciuto dalla madre secondo il rigido protocollo della corte spagnola, il sovrano è consapevole di essere intoccabile, divino, assoluto. Non deve rendere conto a nessuno eccetto che a Dio, suo pari. Sopprime il sistema feudale e i privilegi che in nobili hanno sui propri latifondi, proibisce la costruzione, in Francia, di ogni palazzo o castello, giacché ritiene di essere il solo in possesso di tale diritto. Fin da quando è solo un bambino, Anna d'Austria, sua madre, alimenta la megalomania del suo primogenito allontanandolo da qualunque cosa possa mettere in ombra la sua figura; persino Filippo, beniamino della famiglia, rappresenta una minaccia che è necessario estinguere. La regina non ha dubbi su come ottenere tale risultato: ancor prima dello svezzamento, già tratta e veste il figlio minore come una bambina.

Filippo cresce e si sviluppa con abiti e maniere femminili, il che, c'è da supporre, scatena in lui profondi dubbi circa la propria identità sessuale. Ma nel momento che diventa Monsieur, Filippo non mostra più alcuna indecisione in questo senso; è perfettamente in grado di distinguere chi scatena la sua passione sessuale e chi no. A lui piacciono solo gli uomini. Profumato, ingioiellato, truccato, fresco di manicure e riccamente abbigliato con sete, merletti e fiocchi, Monsieur non dissimula le sue maniere femminili ed è seguito da uno sciame di amanti di sesso maschile. Tale particolare è enormemente favorevole al suo regale fratello: «Ai governanti giova molto che i propri familiari siano caratterialmente lontani il più possibile da lui», commenta in ogni occasione.21 Il re annulla Monsieur e lo mantiene ai margini della vita politica, in modo tale che l'unico fratello del sovrano si trova a ignorare tutto ciò che riguarda le questioni di governo e a spaventarsi come un bambino di fronte alle vicissitudini belliche. Tuttavia viene fatto estremo affidamento sulle sue opinioni in fatto di questioni relative a cerimoniali, abbigliamento, decorazione e giardinaggio. Monsieur si serve della propria innegabile esperienza nella campagna delle Fiandre, esperienza fatta operando con una passione di cui nessuno lo avrebbe creduto capace, per trasferire poi a Saint-Cloud alcuni elementi del mondo bellico che avevano toccato il tasto del suo senso estetico: Le dame poterono osservare l'immenso giovamento prodotto dall'esercito. Faceva posizionare tutte le sedie lungo la stessa linea, fortificava i saloni con quadri, assi e lastre, collocava specchi in posizioni strategiche, poneva quattro candelieri attorno ad ogni tavolo e, infine, disponeva tutti i mobili in un meraviglioso ordine di combattimento.22 Il palazzo di Saint-Cloud, sulla riva della Senna, rappresenta la sua vera passione, la sua gioia più preziosa; è lì che impazzano le feste più sfarzose e folli dell'epoca. Se Monsieur non avesse fatto parte in modo così diretto della famiglia reale, probabilmente si sarebbe dedicato a decorare palazzi e giammai si sarebbe sottomesso all'incresciosa incombenza del matrimonio e della procreazione.Ma il dovere impone che un suo figlio maschio sia pronto a sedersi sul trono di Francia nel caso in cui gli eredi del Re Sole dovessero venire a mancare. A tal fine gli fanno giungere dall'Inghilterra una graziosa principessa, Henrietta. Giusto il tempo di dare un'occhiata in giro, e Henrietta inizia a civettare spudoratamente con il cognato, Luigi XIV, senza che egli abbia nulla in contrario a corrispondere le attenzioni della dolce dama. I mormorii attorno a loro crescono, pungendo la sposa di Monsieur come scorpioni; bisogna escogitare uno stratagemma. Nella speranza di convogliare i pettegolezzi su un'altra vittima, Henrietta sceglie una delle sue amiche più affascinanti affinché il re finga di corteggiarla. Quello che la dama non ha messo in conto è che al sovrano francese le donne piacciono più di quanto agli orsi piaccia il miele e, a tempo di record, il re e l'amica si rotolano nello stesso letto e l'infelice cognata si ritrova tagliata fuori dal gioco. Louise de La Vallière, questo il nome della giovane amica, sembra una languida gazzella, in realtà è ben lontana dall'esserlo. In un battibaleno si tramuta nella prima favorita ufficiale di Luigi XIV. Nel frattempo, Henrietta e Monsieur, mandando giù il ribrezzo che provano reciprocamente, riescono a dare alla luce due figlie. L'amante di Monsieur, il cavaliere di Lorraine, contrattacca con una massiccia dose di gelosia e arsenico, e la povera Henrietta si accascia senza vita sulla

terrazza del suo stesso palazzo. Gli storici moderni fanno ricadere la responsabilità della morte della giovane sul suo fegato, ridotto in uno stato penoso, ma a quel tempo nessuno dubita del fatto che il perfido assassino sia l'amante di Monsieur. L'uso di veleni mortali è una moda tra i membri della corte francese. Il più delle volte la droga risulta fatale al malcapitato, ma di tanto in tanto provoca disturbi simili a quelli indotti dalla sifilide, il che è forse peggio di una morte istantanea. Il nome della signora Voisin corre di bocca in bocca; è lei quella che meglio di chiunque altro sa maneggiare nella clandestinità prodotti in grado di indurre una tremenda agonia nelle vittime. E non solo. La Voisin offre anche polveri, creme e messe nere per far innamorare del cliente di turno chiunque lui voglia.23 L'arsenico e l'antimonio vengono filtrati all'interno di clisteri, che rappresentano un'abitudine igienica molto utilizzata per combattere gli effetti secondari delle grandiose abbuffate; ugualmente se ne possono aspergere delle gocce su guanciali o su abiti, mentre l'assassino congettura il modo per indurre la vittima a portarsi le dita alla bocca dopo aver toccato il veleno, altrimenti non ha effetto. La tenebrosa signora Voisin proviene da una classe sociale umile ma, grazie ai suoi servigi, a corte le persone moleste cadono come mosche. Per questo, nel momento in cui Henrietta si accascia sul marmo della sua terrazza, nessuno ha alcun dubbio sulla complicità nel delitto di Lorraine e dell'avvelenatrice. Con il campo finalmente sgombro da ostacoli, Lorraine resta solo con Monsieur e con le sue due figlie: Maria Luisa, di otto anni, e Anna Maria, che non ne ha ancora compiuto uno. Lorraine, anch'egli di nome Filippo, è un uomo corrotto fino al midollo e, dalla fine del 1660, è incontrastato padrone della mente del fratello del re; Monsieur non si stanca mai di decantare una virtù del suo amante che ai suoi occhi è essenziale: «Il parait fait comme on peint les anges» (Sembra il ritratto di un angelo). I due «uomini» non si separano un attimo, e passano il tempo in «piaceri mal indirizzati», afferma candidamente l'abate di Cosnac nelle sue memorie. Lorraine e Monsieur si perdono nell'oscurità dei corridoi e nel folto dei boschi che fiancheggiano il giardino; la gente li vede continuamente «accarezzarsi il viso, le spalle e le ginocchia con espressione felice». Alle feste di Palazzo Reale, residenza parigina di Luigi XIV, Monsieur si presenta con generose scollature, ciondoli e parrucca femminili, lasciando che Filippo Lorraine lo conduca con grazia durante i minuetti. Entrambi cullano l'illusione di rimanere insieme fino alla morte, ma il re spezza la gioia di questa inconsueta coppia con una doppia sferzata: esilia Lorraine in Italia e pretende da suo fratello un erede maschio. AMonsieur non resta altro da fare che affrontare la tortura di una nuova moglie. Stavolta sceglie un esemplare opposto al precedente. La robusta, brutta, mascolina e tedesca Elisabetta Carlotta (Liselotte) mette piede a Versailles un anno dopo la tragica scomparsa di colei che l'aveva preceduta. A diciannove anni Liselotte ha capelli ricci, naso aquilino, fronte schiacciata, doppio mento, guance cosparse di lentiggini e couperose. Lei stessa si descrive con onestà in una delle sue lettere: Il grasso è mal distribuito, per cui mi sta decisamente male. Ho, se mi è permesso dirlo, un culo orribile e ventre, cosce e spalle enormi. Il collo e il seno piatti. Se devo essere sincera, sono bruttissima, ma ho la fortuna di non preoccuparmene.24

La dama tuttavia possiede il dono di un carattere gioviale, intelligente e per nulla cinico. Dopo un faticoso viaggio da Heidelberg, senza avere la minima idea dell'aspetto dell'individuo che le è toccato in sorte, la futura sposa si presenta a Metz per tuffarsi all'interno di un complesso cerimoniale attraverso il quale abiura la religione protestante per quella cattolica e contrae matrimonio per procura. L'anziano maresciallo Du Pressis-Praslin occupa sull'altare il posto che dovrebbe essere dello sposo. A seguire inizia un secondo interminabile viaggio verso Châlon, dove finalmente incontrerà il vero, ancora sconosciuto, marito. La giovane trascorre un mese riducendo in polvere il passato; ha cambiato religione, lingua, nazionalità e si è sposata con un uomo che non ha mai visto. È facile intuire con che umore vada incontro al proprio destino. Monsieur, nel frattempo, giunge a Châlon con un morale del tutto diverso; ovazioni, trombe, fuochi pirotecnici e una moltitudine gioiosa accompagnano i suoi passi. Il coro cittadino intona inni, il sindaco gli consegna le chiavi della città, dalle fontane sgorga vino e il suo seguito è abbigliato in modo straordinario ed esuberante. Monsieur non sta in sé dalla gioia; non solo il giubilo generale gli sembra dei più ispiratori, ma in più porta nel cuore il miglior regalo di nozze: il re condona al cavaliere Lorraine l'esilio in Italia. «All'udire la notizia, Monsieur si gettò ai piedi del sovrano, baciandoglieli con esultanza ed emozione».25 È giunto il momento che Monsieur e Liselotte si vedano di persona. L'immagine di Filippo brilla e rifulge in tutto il suo splendore: il corpo è inondato di gioielli, i boccoli della sua parrucca si innalzano tre palmi sopra la sua testa e da lì ricadono come una cascata fino a metà schiena, i fiocchi della pettorina ondeggiano al vento, i fini polpacci si stagliano sulla cima di alti tacchi, le labbra sono sottolineate dal rossetto, un neo artificiale e nero campeggia vicino alla bocca... Monsieur tiene il peso del corpo sulla gamba sinistra, e poggia lievemente la destra in avanti, abbozzando un leggiadro passo di danza. Infine la carrozza della sua sposa si ferma davanti a lui. Liselotte emerge dall'interno con il suo viso carnoso, la sua vita abbondante e il suo dubbio gusto in fatto di abbigliamento. Riesce appena a soffocare un grido di fronte a ciò che vede. E Monsieur subisce un contraccolpo simile, sebbene lo esprima diversamente. Girandosi, si rivolge ai suoi accompagnatori: «Oh! Comment pourrai-je coucher avec elle?»26, ossia domanda come si possa pretendere che vada a letto con «quel coso». Lì, in quel luogo preciso, ha origine quella sorgente di preoccupazioni e angosce che non lascerà mai più Liselotte (d'ora in poi Madame): «Qui le persone sono flosce e vuote come oche»27, scrive poco dopo il suo arrivo; in un'altra lettera si spiega come segue: «Vorrei gridare. Mamma, vorrei tanto avere pazienza, per favore, fa' che io sia paziente. È ciò di cui ho più bisogno ora».28 Liselotte ha una tendenza al perfezionismo nei dettagli, all'intolleranza e ad avere un altissimo concetto di sé; in pratica, appartiene al modello di personalità denominato «narcisista-perfezionista-aggressivo». Adora la gloria, l'irreprensibilità e il potere; conferisce un'importanza immensa ai particolari e non sopporta le approssimazioni. Molto tollerante riguardo ai difetti propri e dei suoi figli, è rigidissima nei confronti della condotta del resto degli esseri umani. Si rimira allo specchio e, sebbene consapevole che il suo aspetto è contrario a ciò che all'epoca viene considerato bello, si mostra incantata da se stessa. Sminuisce i propri difetti facendo uso di un sagace senso dell'umorismo. Il suo

narcisismo si manifesta diversamente rispetto al cognato Luigi XIV, in quanto lei si diverte molto a ridere di se stessa. Madame disdegna la civetteria, la banalità e gli incontri sociali durante i quali non è permesso cantare; è incline all'ira, alla vanità e alla vera e propria superbia. I suoi ordini devono essere eseguiti alla lettera, tutto deve essere esattamente al proprio posto, altrimenti la fame di vendetta inizia a scorrerle nel sangue senza che sia in grado di fare qualcosa per evitarlo. Solo le scuse del colpevole dissipano il suo malessere. Madame è fedele a chi le è vicino, è una madre talmente orgogliosa dei suoi figli da perdere il senso della realtà, è devota ai propri ideali ed è intransigente con chiunque non li condivida, è conservatrice, estroversa, affabile, acuta, mordace. Concentra il suo affetto su una o due persone e disprezza chiunque altro. Si sente importante e vuole che sia evidente, motivo per cui dispensa gesti espansivi che non rispettano lo spazio psicologico e fisico degli altri. Ha bisogno di essere costantemente impegnata in qualcosa, il che spiega sessantamila lettere, una quantità folle29, che scrive dalla Francia. È impaziente, impetuosa, sarcastica, intensa in ogni sua espressione... Parla a voce molto, ma MOLTO ALTA, fa fatica a restare tranquilla, non ha peli sulla lingua né paura a rimproverare chi se lo merita, senza fare molto caso alla categoria cui appartiene il destinatario della sua critica o alle conseguenze dei suoi commenti. È dura e decisa come un uomo, caratteristica che le procura la fama di essere più mascolina di suo marito. Nessun altro genere di personalità sarebbe stato in grado di sopportare ciò che sopporta Madame durante i trent'anni del suo matrimonio. Monsieur conduce la vita più frivola che sia dato immaginare, insiste nel condurla con sè a feste in cui lui si diverte infinitamente ma che lei odia, e la trucca nel vano intento di renderla più civettuola e attraente, cosa che però non gli riesce mai. Madame manterrà il suo aspetto da sollevatore di pesi fino ai suoi avanzati sessant’anni. I cortigiani osservano questa strana coppia, lei estremamente sicura di sé, che si dondola sulle gambe, con tutti i suoi chili, lui inquieto e fragile come una formica.Quando li vedono insieme, Monsieur dà loro l'impressione di essere la moglie di sua moglie.30 Liselotte, che adora gli animali da compagnia, è sempre contornata da una nutrita muta di cani a causa della quale spesso qualche anatra ci lascia le penne; attribuisce ai suoi animali un'anima immortale, e allo stesso tempo dubita che gli esseri umani ne posseggano una. Disdegna apertamente le questioni spirituali; e fondamentalmente non passa alcuna notte insonne rosa dal rimorso per aver abbandonato la sua religione protestante per quella cattolica, e anzi approfitta della noiosa monotonia dei rituali cattolici per schiacciare un pisolino: Non riesco mai ad ascoltare un sermone senza addormentarmi; [la cerimonia della messa] è come l'oppio per me. Appena arrivata in Francia fui colta da un terribile catarro che mi tenne sveglia per tre notti. A quel punto mi ricordai che quando ascolto il prete predicare e le monache cantare mi addormento; quindi mi recai in un convento dove sapevo che si stava recitando un sermone, le monache avevano appena iniziato a cantare quando mi assopii, e continuai a dormire durante tutti i tre quarti d'ora della cerimonia; dopo mi sentii molto meglio.31 Tanta freddezza verso le questioni soprannaturali perdurerà per tutto l'arco della sua vita. Monsieur le lascia tutta la libertà che vuole, a patto di poter di disporre a suo piacimento dei diamanti ereditati da lei, per indossarli lui stesso o per regalarli ai suoi amanti. Solo

l'amore per l'equitazione, il collezionismo di medaglioni e la frenesia che pone nella scrittura di migliaia di lettere sanno consolare l'animo di Madame durante la lunga permanenza in terra di Francia. Le sue corrispondenze costituiscono uno dei ritratti più succulenti e spassosi di ciò che bolle in pentola a corte; notate come descrive in una delle sue lettere, suo marito e il cognato Luigi XIV: Non è dato immaginare due fratelli più diversi di Sua Maestà e Monsieur, nonostante entrambi si facciano notare. Il re è alto, di pelle abbronzata, aspetto virile e postura ampollosa e distinta. Il colorito di Monsieur è anch'esso nobile, ma egli è di bassa statura e i suoi capelli, le ciglia e le sopracciglia sono neri fino all'eccesso. Il suo viso è allungato e stretto, il naso è grande, la bocca piccola, i denti guasti, le sue maniere sono più femminili che maschili e non è interessato né ai cavalli né alla caccia; gli piacciono invece le scommesse, i ricevimenti, la buona cucina, ballare e vestirsi; in poche parole, tutto ciò che piace a noi donne. Mentre il re ama la caccia, la musica, la danza classica e il teatro, a mio marito interessano solo le decorazioni e le feste in maschera. Il re adora fare il galantuomo con le donne, al contrario credo che mio marito non si sia mai innamorato di nessuna.32 A causa delle preferenze sessuali di Monsieur, l'obbligo di procreare si tramuta per entrambi in una complessa sfida. Madame racconta a un confidente che Monsieur deve far ricorso ai poteri divini per essere all'altezza del compito: Si portava a letto un rosario pieno di medaglie, al fine di pregare prima dell'atto, racconta una sua biografa. Una volta Madame udì il tintinnio delle medaglie da sotto la camicia da notte, e domandò di che si trattasse. Di fronte al rifiuto del marito di dare una spiegazione, ella accese una candela. Monsieur arrotolava il rosario alle sue parti intime. «Non mi sembra consono, Monsieur, che onoriate la Vergine posando la sua immagine su parti che la verginità la fanno perdere».33 L'ora di ritirarsi con il coniuge è per Madame l'apice di un mondo di amarezza; lo chiama «l'affare», risparmiandosi di aggiungervi l'aggettivo «sporco». Perché se c'è una cosa sicura è che a Monsieur ripugna il contatto fisico con la moglie; è tanto il disgusto che prova all'idea di essere circondato, mentre lei dorme, da una delle molli cosce della dama che la costringe a collocarsi al bordo del letto, con mezzo corpo dentro e mezzo fuori. «Se allungo la gamba e lo tocco accidentalmente mentre dormo, mi sveglia e mi scuote per mezz'ora», dichiara questa fiera donna a sua zia Sofia. È anche frequente sentirla disturbare la quiete notturna con il fragore che provoca il suo corpo allo schiantarsi nel sonno contro il pavimento. Vista la quantità di ostacoli, ha del miracoloso il fatto che Madame e Monsieur riescano a procreare tre rampolli, il primo dei quali è un maschietto che muore poco dopo la nascita. In seguito danno alla luce una bambina e l'agognato figlio maschio, un bambino robusto che chiamano Filippo, lo smagliante Filippo d'Orléans, il quale, quarantuno anni dopo, diventerà il sovrano di Francia. Compiuta la missione, Madame e Monsieur si sentono infine liberi di condurre esistenze indipendenti, liberandosi così di un gran peso. Liselotte scrive in una delle sue lettere: Mi sentii enormemente sollevata quando andò a dormire nella sua stanza e mi lasciò tranquilla nella mia; finalmente non cadrò più dal letto e nessuno avrà motivo di rimproverarmi.

Monsieur, da parte sua, divide in tutta libertà il suo letto con i propri amanti, quelli che lei chiama di nascosto «nemici», mentre di persona li incoraggia: «Coraggio! Mangialo pure tu il polpettone, che a me tanto non piace!».34 Se vi è qualcosa in cui si nota che Monsieur e Luigi XIV sono fratelli è nel fatto che entrambi condividono lo stesso narcisismo patologico. La differenza, però, è che il duca di Orléans è represso, relegato, costretto a rincorrere i suoi appetiti di gloria dal basso di un ingrato secondo piano; essendo di natura egolatra e affamata di ammirazione è per lui arduo accettare l'ombra in cui è relegato. Come nel fratello, in Monsieur albergano ambizioni smisurate e un'indole incontenibile; l'imposizione del re di mantenersi nell'ombra lo spinge a cercare vie d'uscita alternative, campi diversi in cui risplendere ed essere idolatrato senza molestare il dio che gli è toccato come fratello. La sua brama di brillare a ogni costo finisce comunque per far traboccare il suo narcisismo: Monsieur va fuori di sé, non tollera critiche, non riconosce i propri limiti, non frena le esplosioni di grandeur... E se il re fa di tutto per tenerlo ai suoi piedi, bene, Monsieur decide di trarne il massimo giovamento calandosi nel ruolo del più sensazionale dei martiri. A suo modo, nella sua personale sfera d'azione, sarà comunque in grado di ottenere esclamazioni di ammirazione. Le decorazioni, gli abiti, i gioielli, tutto viene scelto accuratamente al fine di lasciare il personale a bocca aperta. Monsieur non resiste ai colori sgargianti, ai tessuti vistosi, agli ornamenti flamboyant e, soprattutto, a una condotta tale da calamitare a sé ogni sguardo e dar vita a un enorme profluvio di commenti. Il marito di Madame adora che si parli di lui, ma nella Francia di Luigi XIV questo sogno si può realizzare solo dimostrandosi più stravagante e audace del re stesso, suo antagonista in questa competizione. Di conseguenza, le sue feste non temono rivali; glamour e giochi proibiti vanno di pari passo; non vi è eccentricità a cui possa resistere; al suo fianco sono benvenuti psicopatici, degenerati, alcolisti, parassiti sociali, giocatori, donne frivole e scollacciate... In tali raduni Madame non è una convitata, né le interessa esserlo. Gli invitati devono attenersi a una sola regola comune: adulare Monsieur in ogni circostanza e in ogni momento. In uno di questi famosi ricevimenti viene invitato per la prima volta il colonnello Wallon, che accoglie con gioia tale onore; il poverino non immaginava nemmeno nel suo peggior incubo cosa lo aspetta. L'illustre convitato non è stato eletto per il suo curriculum militare, bensì perché il suo profilo è impreziosito da una pancia di dimensioni monumentali. «Il duca pensò che sarebbe stato incantevole mangiare una crèpe sul ventre gonfio del colonnello», racconta un testimone.35 Così come vuole la regola, l'idea dell'anfitrione è accolta con entusiasmo generale, salvo che dalla vittima, a cui la situazione sembra ora più sgradevole di qualunque guerra cui abbia partecipato. L'uomo non ha altra via d'uscita se non quella di sottomettersi ai capricci del suo nemico, quindi si corica al suolo e facendo sfoggio di una pazienza degna di Giobbe, offre il suo addome rotondo come piatto per una crèpe fumante. Monsieur e i suoi accoliti si precipitano a mangiarla direttamente con la bocca, con le mani dietro alla schiena e i denti che si serrano ora sulla crèpe, ora sulla carne del colonnello. Tutti trovano esilaranti le grida di dolore lanciate dalla vittima. Al termine della cena, Monsieur e i suoi compari decidono di concludere in bellezza la serata, in casa di una

celebre cortigiana che dispone di «un appartamento molto accogliente». Lì scelgono una delle prostitute della casa, la legano al letto e le affondano un petardo «nel posto che ci si può immaginare», e si divertono come matti al vedere «il piccolo fuoco d'artificio che esce dall'interno della dama».36 La baldoria si protrae senza sosta fino a buona parte del giorno seguente. Liselotte non partecipa mai alle gazzarre organizzate dal marito; fa fatica persino a sopportare la sua vicinanza; in cambio, però, si dimostra una madre estremamente amorevole e, particolare curioso, anche una matrigna esemplare per le due bambine frutto del precedente matrimonio di Monsieur con la defunta Henrietta. Proprio il giorno del diciassettesimo compleanno di Maria Luisa, la maggiore, una triste circostanza getta nello sconforto sia Madame che la sua figliastra: senza chiedere il suo consenso, in realtà senza averla nemmeno avvertita, il re combina le nozze tra Maria Luisa e Carlo II di Spagna, più conosciuto in Spagna come el Hechizado. Purché l'alleanza sia propizia alla Francia, a Luigi XIV non fa né caldo né freddo che lo sposo sia l'uomo più ripugnante che vi sia in circolazione, né gli importa un fico secco dell'opinione di sua nipote a riguardo. La povera Maria Luisa non sa una parola di spagnolo, ed è sempre stata segretamente innamorata del cugino Luigi, il Gran Delfino, anch'egli chiamato Monseigneur,37 unico figlio legittimo di Luigi XIV. L'infelice è determinata a morire piuttosto che accettare una simile beffa del destino. Madame la abbraccia, piange con lei e le dona uno dei suoi più amati cagnolini affinché le tenga compagnia durante la sua permanenza nell'inferno spagnolo a cui lo zio l'ha destinata. Monsieur è combattuto da sentimenti contrastanti: da una parte è in fibrillazione per la sua nuova e inattesa posizione in Spagna, dall'altra condivide le pene della sua bambina. Sceglie quindi di gettarsi a capofitto nell'unico passatempo che gli alleggerisce l'anima: il corredo della sposa. Un testimone afferma di averlo colto in bonnet de nuit38 mentre si affanna nel reparto dei gioielli: un mucchietto per se stesso, uno per la moglie e l'ultimo per sua figlia. Luigi XIV, il colpevole di tutto ciò, dà l'addio a sua nipote nello stile che gli è caratteristico: «Spero che questo sia un addio definitivo. Rivederti in Francia sottenderebbe la più grande delle disgrazie». Liselotte è distrutta al pari della figliastra, e chiede il permesso di accompagnarla fino a Orléans. Lì le dà l'addio tra grandi abbracci e fiumi di lacrime. Il resto del percorso Maria Luisa lo compie senza il conforto di nessun familiare; pur sentendosi fragile decide di assaporare intensamente gli ultimi minuti di dolce felicità che le rimangono, e si tuffa in un'avventura carnale con il conte Saint-Chamand, un giovincello che fa parte del suo seguito. Superato il dolore per questa perdita, Madame si dedica a all'equitazione e alla cura dei suoi due figli, compito nel quale le si deve riconoscere una buona dose di originalità, dato che, tra le donne di corte, partorire e disinteressarsi delle proprie creature sono due facce della stessa medaglia. Nel compito educativo Monsieur dà il suo contributo in modo discreto, il che non toglie che di tanto in tanto prenda l'iniziativa: In seguito alla cena ci sedemmo tutti e quattro [la coppia e i due figli] in una stanza. Dopo un lungo silenzio, Monsieur, che non ci ha mai considerato compagni di conversazione sufficientemente piacevoli, si lasciò andare a un peto lungo e fragoroso. Con estrema tranquillità si

voltò quindi verso di me, chiedendomi: «Che è stato, Madame?». Io mi voltai verso di lui e ne feci uno di simile volume, e dissi: «E' stato questo, Monsieur». Mio figlio allora disse: «Se questo è tutto, allora io mi sento in grado di farlo altrettanto bene che Madame e Monsieur». Ciò detto si produsse anch'egli in uno rumoroso. Al che tutti scoppiammo a ridere e lasciammo la stanza.39 Le amanti del Re Sole La questione delle favorite di Luigi XIV non ha precedenti nella storia. Mentre gli altri sovrani mantengono le proprie relazioni extraconiugali più o meno segrete (sebbene spesso fosse un segreto di pulcinella), Luigi XIV non ritiene per nulla sconveniente presentarsi in pubblico con le sue amanti, coniando per loro il titolo ufficiale di maîtresse-en-titre, che significa, grossomodo, amante in carica, ufficiale, riconosciuta da tutti, ammessa a palazzo e i cui eventuali figli avuti dal sovrano sarebbero stati riconosciuti. Luigi XIV non sa resistere a un volto grazioso. La promiscuità del Re Sole non ha freni, ma il sovrano non considera le sue infatuazioni come un insulto morale o religioso, bensì come effimero sfogo, oltretutto benefico alla salute. Occasionali digressioni con donne di nessuna importanza punteggiano la relazione più stabile, con l'amante ufficiale del momento. La favorita agisce da deterrente affettivo per il monarca, vive a palazzo e tutti le rendono gli stessi omaggi riservati alla regina. La sposa legittima del Re Sole, l'infanta spagnola Maria Teresa,40 esce dallo stretto bigottismo della corte spagnola per ritrovarsi nel bel mezzo dei baccanali francesi; la poverina è costretta a sopportare cose inaudite, come ad esempio che la maîtresse-en-titre del momento goda di dependances private a Versailles, ossia nella residenza ufficiale del re e della corte; che le venga assegnato un nutrito corpo di servizio e damigelle d'onore personali; che riceva gli onori, i gioielli e gli abiti di una regina; che viaggi nella stessa carrozza del sovrano, trascorra le vacanze con lui, prenda posto al suo fianco durante i ricevimenti e che i suoi figli non solo vengano educati a palazzo, ma addirittura ricevano titoli onorifici - come quello di principe di sangue - e diritti di successione. Non proprio quisquilie. Quando diventa maîtresse-en-titre, Athénaïs de Montespan è la donna più bella dell'intera corte francese. Il re resta senza fiato quando incrocia i suoi capelli fulvi e leonini, le palpebre carnose che coronano occhi azzurri come il cielo d'estate, il naso dritto, la dentatura perfetta, la pelle senza tracce di vaiolo e labbra da cherubino. A queste grazie la dama aggiunge un lungo collo, spalle strette e una nuca regale che si affaccia e risplende meravigliosamente dalla generosa scollatura del vestito. Colei che l'aveva preceduta, Louise de La Vallière, non le è paragonabile in quanto a doti fisiche, nonostante il re, inizialmente, ne fosse infatuato a tal punto da mantenerla prigioniera nei suoi alloggi affinché non potesse ricevere nessun altro oltre a lui. Nel 1664 decide di celebrare la sua innamorata Louise con la festa più sfarzosa che fosse mai stata data: balletti, concerti, spettacoli teatrali, danze e fuochi di artificio si susseguono seguendo il tema «I piaceri dell'isola incantata». Il sovrano in persona si offre come protagonista di un ballo sul palcoscenico, l'armatura tempestata di lacrime d'argento tintinnanti, il capo coronato da un casco di piume rosse e le gambe coperte di broccato d'oro e orpelli diamantati. Louise si limita a lasciarsi

desiderare. Per questa festa in suo onore, lo stesso Molière si affretta a scrivere un'opera all'altezza dell'evento, Tartufo. Ma lo splendore degli onori offerti a Louise è effimero come i fiori di un'orchidea, e svanisce nel momento in cui Athénaïs fa irruzione nella mente e negli alloggi del sovrano. Diversamente da colei che l'aveva preceduta, la Montespan conserva fino ai quarant’anni uno splendore che mantiene quotidianamente, con sedute di massaggi di due ore, unguenti, olii, essenze floreali nonché con i cosmetici più sofisticati. Ai cortigiani si scioglie la lingua commentando il suo aspetto da dea, le movenze feline e lo squisito gusto nell'abbigliamento: Indossava un vestito ricoperto di pizzo francese, i capelli raccolti in una sfarzosa cascata di ricci con due di essi, piuttosto lunghi, che danzavano sulle sue tempie di immacolato candore e si posavano sulle gote; la capigliatura era decorata con fiocchi di velluto e spille di diamanti, sul collo sfolgorava la tanto rinomata collana di perle. Insomma, una bellezza trionfante che le permetteva di sfilare di fronte a tutti gli ambasciatori.41 Tuttavia, costretta a partecipare alle laute cene del re e, soprattutto, costretta a mangiare tutto, presto le sue dimensioni superano quelle imposte dai canoni dell'epoca. Un italiano dal nome Visconti, indovino di professione ed elemento permanente alla corte del re, racconta della Montespan che «mentre un giorno stava scendendo dalla sua carrozza, ebbi la sventura di vedere una delle sue gambe, e giuro che solo un suo polpaccio era largo quanto tutto il mio corpo».42 Ciononostante, il regno della Montespan dura tredici anni. Chi avrebbe mai creduto che sarebbe stata infine sostituita da una donna corpulenta, zitella, una beghina per nulla aggraziata; una traditrice sfiorita dagli anni e che un tempo era stata sua amica? La dama che riunisce in sé tali attributi risponde al nome di Madame de Maintenon, e per quanto abbia dell'incredibile, risulta, tra tutte le maîtresse-en-titre, colei che riesce a soggiogare il re al di là di quanto sarebbe stato possibile sospettare avendo a che fare con una personalità narcisista come quella di Luigi XIV. Sebbene il re non possa vivere senza donne e agisca come un vero e proprio maestro nell'arte della seduzione, una volta che le dame sono cadute nella sua rete egli si comporta con loro come il più intransigente degli amanti. Luigi XIV detesta la fragilità fisica, le pene, le schiavitù e i disordini fisiologici di cui tutte le donne sembrano soffrire. Se una delle sue amanti era gravida [naturalmente, di lui], le veniva ordinato di nasconderlo; al momento del parto era meglio per lei dare alla luce il piccolo alla svelta e in silenzio, ripresentandosi nelle occasioni mondane non appena la creatura fosse uscita dal suo ventre e dalla sua vista. «Perché è tanto pallida?», chiese la regina a Louise de La Vallière [prima maîtresse-en-titre del re] con estrema crudeltà, dato che ne conosceva perfettamente la ragione. «Troppi tubercoli e iris nelle mie abitazioni, Maestà», fu la risposta. (...) Quando [il re] viaggiava dall'una all'altra delle sue residenze, colmava sempre la sua carrozza di donne: moglie, amanti, figlie o amiche (...). Tali viaggi erano un tormento per le accompagnatrici, al di là del prestigio di cui le ricoprivano. Anche durante la stagione più fredda i finestrini rimanevano aperti poiché egli non sopportava l'aria stantia. Le dame dovevano comportarsi con leggiadria, mangiare come dei lupi (il re odiava le persone frugali) e non avere necessità fisiologiche che obbligassero ad una sosta. Se per caso soffrivano di un capogiro o di uno svenimento, non

dovevano sperare in nessun tipo di simpatia, perché anzi l'ambiente si colmava di disprezzo.43 Louise de La Vallière, la signora Montespan e la signora Maintenon, le amanti ufficiali, si scontrano fino a volersi cavare gli occhi, mentre la povera regina tenta di proteggersi passando il più possibile inosservata: Nel 1673 il re viaggia al confine con Madame Montespan in avanzato stato di gravidanza, Louise de La Vallière e la regina; tutte sobbalzano nella stessa carrozza, tanto che i contadini, meravigliati, affermavano di aver visto passare le tre regine di Francia. Non che fosse un trio particolarmente allegro: Louise, folle di gelosia, si sente svenire in ogni momento del viaggio. La regina e il suo piccolo sono fuori dal gioco. Athénaïs [la Montespan] ha le doglie a Tournai ed è costretta a riunirsi alla comitiva due giorni dopo.44 Delle tre, La Vallière è la più giovane e passeggera, e di fatto non arriva mai ad andare a vivere a palazzo, a Versailles. Compongono un trio di elementi molto diversi tra loro: La Vallière è languida e avanza sul terreno come se non lo toccasse nemmeno; ha la tendenza a farsi notare per il fatto di svenire con una frequenza impressionante. Da parte sua la signora Montespan è affascinante, leggiadra, disordinata, di buona salute, crede nella magia nera e nelle arti divinatorie (è cliente della Voisin, l'avvelenatrice più nota dell'epoca) e mostra un'eccellente disposizione nei confronti di questioni sessuali e umoristiche. La Maintenon, sei anni più grande della Montespan, è seria, molto religiosa, ordinata, corpulenta e brutta. Sebbene così poco simili, le tre hanno qualcosa in comune: nessuna condivide il gusto del re per l'arte, né ha la sua raffinatezza. C'è un momento in cui Versailles ospita, nello stesso piano, il re, due sue favorite e la regina. La Montespan e la Maintenon, che inizialmente sono amiche intime, finiscono per odiarsi a morte; i cortigiani, che in genere si annoiano tremendamente, si fregano le mani in attesa dello spettacolo che le due signore offrono ogni volta che si incrociano per i corridoi di palazzo. La loro amicizia va in frantumi dal momento in cui la Maintenon, contro ogni pronostico, si guadagna i favori regali. A partire da quel momento ogni incontro delle due donne provoca più scintille di un cortocircuito... È divertente osservare il modo in cui nascondono l'odio reciproco dietro a un velo di cinica cortesia: quando si incrociano sulla celebre scala della regina di Versailles, una dice all'altra: «Lei scende, Madame? Allora io salirò» (scendere dalle stanze del re o salire per dilettarlo). A Luigi XIV non importa nulla di tutto questo starnazzare; purché continuino a divertirlo e a soddisfare il suo narcisismo maschilista, tutto il resto è un problema delle litiganti. In questo pollaio, il gallo non dimentica la gallina più brutta di tutte: la regina. Con sorpresa di tutti, egli compie i suoi doveri coniugali e dorme spesso nel letto della moglie... (...) sebbene non sempre nel modo in cui lei, con il suo temperamento spagnolo, gradirebbe. E anche così, fanno l'amore due volte al mese. Tutti sanno quando capita, poiché la regina il giorno successivo fa la comunione. Anche a lei fa piacere che si scherzi sull'argomento; si frega le piccole mani e strizza i piccoli occhi azzurri.45 Come frutto di questi incontri, la regina da alla luce sei creature, di cui solo una sopravvive. Si tratta di Luigi, il Gran Delfino, detto anche Monseigneur46, creatura ombrosa alla quale il destino riserverà uno stile di vita scialbo e parco di emozioni. In cambio il re genera con la

Montespan nove rampolli, ne sopravvivono quattro, sani e riconosciuti. Il primogenito Luigi Augusto, duca di Maine, è solo di poco più giovane del Gran Delfino erede al trono. È curioso il fatto che non appena questo bimbo viene alla luce, la Montespan lo allontana da sé e lo lascia alle cure della Maintenon, all'epoca ancora sua amica del cuore. A quel tempo la Maintenon vive in convento, ha trentaquattro anni, è pia e senza famiglia. Inizialmente il re non vede di buon occhio il fatto di affidarle il suo figlioletto bastardo, poiché non gli piace affatto questa donna, gli pare troppo dura, orgogliosa e bigotta. Nemmeno a lei, da parte sua, l'idea va a genio: ha di certo un disperato bisogno del denaro, che le viene offerto in cambio dei suoi servigi come madre surrogata, ma dà moltissima importanza alla sua buona reputazione, e prendersi cura in incognito del figlio segreto del re rappresenta per lei un grave peccato che deve essere perdonato dal confessore. Mai sarebbe passato per la mente della neomamma che il suo regale amante potesse posare il suo libidinoso sguardo su questa sua amica, così zitella, così religiosa e così poco affascinante. La Maintenon si prende cura del duca di Maine con devozione materna, ed egli arriva ad amarla più della sua stessa madre. Quando diviene la favorita del re, le due entrano in una competizione all'ultimo sangue, tanto per la preferenza regale quanto per l'amore filiale del duca di Maine. In quest'ambito, come in molti altri, la Maintenon ottiene una vittoria di schiaccianti proporzioni. Quando il sovrano si arrende e cade ai suoi piedi, la donna ha già superato l'età per avere figli, il che tuttavia non le impedisce di spodestare la Montespan, guadagnarsi l'affetto psicologico e sessuale del re e, cosa ancor più sorprendente, conquistare l'amicizia della regina. La Maintenon è l'unica persona di nazionalità francese che tratti la sovrana nata in Spagna con attenzione e dolcezza; per questo Maria Teresa ricambia con simpatia, perdonandole anche il fatto di giacere con il suo sposo. Le due donne si scambiano visite nei reciproci appartamenti e si confidano l'un l'altra. La Maintenon è molto religiosa, caratteristica che condivide con la regina, e si preoccupa di ricordare al re di adempiere ai suoi doveri coniugali con la sua sposa; lui l'ascolta, e da quel momento la sovrana nota come suo marito sia più affettuoso e sollecito sotto le lenzuola; per ringraziarla, regala alla Maintenon un proprio ritratto incorniciato in avorio e diamanti. Ma il piacere che Maria Teresa trae da questo rapporto dura solo un anno. Di ritorno da un lungo viaggio in cui entrambe hanno accompagnato il re, la regina cade vittima di una violenta indisposizione. Sotto la sua ascella cresce un ascesso e i medici la salassano e le somministrano pesanti dosi di purgante. Improvvisamente, i cortigiani casualmente assembrati nella galleria degli specchi si imbattono, attoniti, nel loro re. La vista della scena risulta estremamente scioccante: Luigi XIV sta correndo verso la cappella con la vestaglia al vento e un fiotto di lacrime che gli inonda il collo. Un'ora dopo sua moglie esala il suo ultimo respiro tra le braccia della Maintenon, che le dà l'addio accarezzandole i capelli e recitando tutte le preghiere che conosce, vale a dire molte. La sovrana passa a miglior vita all'età di quarantacinque anni. «Povera donna»- dice il re - «È l'unica volta che mi ha dato problemi!47 Per movimentare ulteriormente l'ambiente di Versailles, Madame, che fino ad allora risultava estremamente simpatica al re, se ne esce tuonando a gran voce che la schiera di amanti e figli bastardi che corrono su e giù per la casa reale rappresenta una nauseante aberrazione. Liselotte scrive

lettere su lettere ai suoi famigliari tedeschi, coprendo di insulti le favorite del sovrano. Descrive la Montespan come «la donna più maligna e disperata del mondo». E aggiunge: «La cosa peggiore è che non posso parlarne con Monsieur (suo marito), visto che appena dico una parola corre a riferirla al re».48 In un'altra missiva non dimostra pietà nei confronti di chi è già stato sconfitto, e ritrae il deterioramento fisico della Montespan: La sua pelle sembra un foglio di carta dopo che ci hanno giocato dei bambini, ripiegandolo sino a ridurlo alle sue minime dimensioni; il suo volto è interamente coperto di rughe, il risultato è davvero sconvolgente.49 Ma se la favorita Montespan provoca il suo disdegno, la Maintenon, tanto pia e benevola, è quella che le tira fuori dal cuore più cianuro: [Vi racconteranno] quanto sia strega e diabolica questa vecchia baldracca, e [vi diranno anche] che non è colpa mia se mi odia a morte, dato che ho fatto quanto era in mio potere per andare d'accordo con lei. Trasforma il re in un bruto, nonostante Sua Maestà non sia crudele di sua natura ... Lo rende anche duro e tirannico, in modo tale che niente può smuovere il suo cuore. Non potreste credere né immaginare la perfidia di questa donna. E fa tutto sotto un'apparenza di pietà e umiltà.50 Queste missive così succulente vengono intercettate dal re e consegnate a colei che vi viene criticata, la quale, ovviamente, si vendica in ogni modo possibile. La Maintenon ottiene che il re vieti a Madame di mettere piede a palazzo. Solo per aiutare il figlio Filippo, Liselotte alza bandiera bianca, china la testa, ingoia l'orgoglio e tenta una riconciliazione. La consegue dopo non poche difficoltà, ma entrambe manterranno, da allora e per sempre, maniere gelide e distanti. Il re lascia che tutte le sue donne lo amino contemporaneamente e non dà peso al fatto che tra loro si strappino i capelli. Con i suoi figli, invece, le cose cambiano: ama quelli avuti con la Montespan più che Monseigneur, il Gran Delfino, frutto della sua unione con la regina e che tanto assomiglia alla madre. Inventa per i suoi illegittimi il titolo di Figli di Francia, cioè principi di sangue con diritti di successione. È probabile che la Maintenon abbia molta voce in capitolo, essendo colei che li cresce con dedizione materna, sebbene non sia madre naturale di nessuno di loro, mentre l'educazione dell'unico legittimo è affidata a un freddo e antipedagogico vescovo che, seguace del metodo dell'«insegnare a suon di vergate», danneggia irrimediabilmente la personalità dell'indifeso Delfino. Mentre Versailles distilla glamour e abbrutimento morale, la Spagna, sotto il comando di Filippo V, entra in una guerra velenosa e dura. «Combatti questo odioso vizio» Proprio nel momento in cui Filippo V tenta finalmente di prendere posto sul suo piedistallo, si ritrova coinvolto in una cruenta battaglia in cui sia il suo ruolo in Spagna, che la sua stessa vita sono altamente a rischio. L'arciduca Carlo, che ha poche possibilità di riuscire a governare nel suo paese d'origine, rinnova la sua aspirazione al trono spagnolo, spalleggiato da potenze straniere. La guerra, che ha inizio nel 1702, si prolunga per dodici sanguinosi anni. Durante tutto questo periodo Filippo, come per miracolo, dimentica la sua indole abulica; il giovane monarca mostra un tale slancio che gli spagnoli finiscono per indirizzargli tutte le loro simpatie, soprannominandolo el Animoso.51 Il

manifestarsi di improvviso entusiasmo, in un carattere ozioso e asociale come quello di Filippo è tipico delle vittime di psicosi cicloide con disturbo bipolare, disordine che proietta il soggetto dalla depressione più profonda alla più ardimentosa delle attività. Il nostro re ne soffre, al pari di molti nella sua famiglia. Luigi XIV, che fa parte della fortunata minoranza indenne a questo destino funesto, spinge il nipote a mantenere la calma: Nessun altro ti potrà dire ciò che io ti dirò. Sei già stato testimone dei disordini nervosi alimentatisi nell'indolenza dei re che ti hanno preceduto: che il loro esempio ti sia di insegnamento, e che tu sappia porre rimedio, comportandoti in maniera opposta, agli effetti disastrosi che la monarchia si è ritrovata a dover patire. Perciò, preoccupato, ti raccomando, mentre ti esponi volontariamente ai pericoli della guerra, di non tralasciare di combattere tale odioso vizio, in modo che ti rimangano energie sufficienti per dedicarti al tuo dovere.52 Al sovrano francese non passa nemmeno per la mente di attribuire il male alla scandalosa endogamia esistente tra i membri della sua famiglia; ne incolpa invece la sfrenatezza sessuale, da lui denominata indolenza. Egli stesso, sposatosi con una cugina di primo grado verso cui non prova alcuna attrazione, è convinto di essersi attenuto alle regole che ora raccomanda. E ritiene di essersi sacrificato, in quanto, invece di svolazzare di fiore in fiore, concentra da sempre la sua libido con amanti più o meno stabili che omaggia del suo infinito vigore sessuale e della sua generosa abilità di fecondazione selettiva. Mentre la regina Maria Teresa riesce a generare un solo figlio, Louise de La Vallière ne dà alla luce cinque in sette anni, e colei che la sostituisce, Athénaïs de Montespan, rimane incinta del re nove volte. Negli ultimi decenni, forse allo scopo di non continuare a contribuire alla sovrappopolazione del paese, Luigi sceglie per i suoi sfoghi la non più fertile Madame de Maintenon, con la quale finisce per sposarsi. All'età di settantacinque anni, questa energica donna si lamenta con il suo confessore del fatto che Luigi pretenda da lei quotidiana soddisfazione fisica, e talora anche più volte al giorno. Ma torniamo al nostro Filippo V, che abbiamo lasciato nel bel mezzo della guerra. Il caso vuole che, dopo dodici anni di devastanti tensioni e di morte, l'inattesa scomparsa dell'Imperatore austriaco risolva il conflitto in corso. Carlo rimane l'unico uomo ancora in vita della sua stirpe e, in quanto tale, l'unico a poter occupare legittimamente il trono del paese natale. Improvvisamente il luogo che alimenta preoccupazioni cambia: non è più la Francia, bensì l'impero austriaco. Per questo Carlo potrebbe impadronirsi di entrambe le corone. Ma quest'ultimo, stremato, decide che è giunto il momento di firmare la pace; rimane perciò nella sua natia Austria e affranca per sempre la corona di Spagna dalle sue mire. Nel 1713 Filippo V, libero finalmente di detenere lo scettro di Spagna, e intenzionato a prevenire futuri malanimi internazionali, rinuncia in modo definitivo ai suoi diritti di successione al trono francese. In cambio di ciò, la Spagna perde i territori italiani e olandesi, che passano sotto l'egida dell'impero austriaco; oltre a questo, Minorca e Gibilterra vengono consegnate all'Inghilterra. In mezzo a tale trambusto, probabilmente a causa delle forti tensioni sofferte, le difese immunitarie del re si indeboliscono, ed egli è vittima di un morbillo che lo lascia completamente calvo:

si rese necessario l'uso di una parrucca, proprio nel momento in cui aveva dato l'addio al suo parrucchiere francese, che lo acconciava in maniera orrenda. Si presentò a quel punto un problema agli spagnoli: se i capelli di cui era costituita la parrucca dovessero essere di uomo o di donna. Il conte di Benavente, gran ciambellano, si mostrava irremovibile: esigeva che appartenessero a qualcuno di conosciuto, perché, sosteneva, attraverso i capelli si potevano fare molti sortilegi, e lui aveva già visto grandi disgrazie generate in tal modo.53 All'atto della firma che pone fine alla guerra, il re di Spagna ha infine superato la sequela di danni estetici provocati dal morbillo sul suo cranio; può godersi la dolce tranquillità che la pace dona alla Spagna, ed è libero di dedicarsi a soddisfare la sua illimitata incontinenza sessuale con la sua sposa. Mal d'amore Filippo V si autoconvince che i disordini nervosi di cui soffrono i membri della sua famiglia rappresentino un castigo divino per la sfrenatezza sessuale a cui si sono così intensamente dedicati. Allo scopo di liberarsi della punizione celeste, sfoga le sue impetuose pulsioni erotiche esclusivamente sulla regina. Tale atteggiamento, tra l'altro, è piuttosto tipico di soggetti che soffrono di un disturbo di sottomissione come il suo; il terrore di perdere l'amore vero fa sì che l'attaccamento alla persona amata sia totalizzante tanto nell'offerta quanto nella domanda affettiva. La sovrana, fortunatamente, lo asseconda, mostrandosi non solo disposta, ma letteralmente entusiasta; il suo menage coniugale prosegue diviso tra erotismo e separazioni dovute alla guerra dichiarata poco dopo le sue nozze. Durante questo sanguinoso periodo, con il cuore diviso tra suo padre che combatte tra le file nemiche - e suo marito, la regina assume con abilità il ruolo di governatrice, mentre il suo sposo rischia la vita al fronte. Sebbene al principio al re piacesse l'idea di combattere in prima persona, la verità è che la sua foga bellica va scemando a causa delle forzate separazioni dalla moglie, che gli diventano sempre più odiose: «La regina tiene abbracciato il re dalla mattina alla sera (...). Piangono entrambi disperatamente (...)», racconta Louville, consigliere di Filippo. Aggiunge anche che nei giorni precedenti la partenza del sovrano i due non si staccano l'uno dall'altra e si scambiano effusioni in qualunque minuto del giorno o della notte. Nel 1702, durante una di queste dolorose separazioni, il re inizia a manifestare un comportamento molto strano. Gli era già capitato in passato, ma ora più che mai si sente torturato da un'erotomania selvaggia che gli toglie il sonno, la capacità di concentrazione e a volte addirittura il respiro. Poiché la sua sposa si trova a molti chilometri di distanza, i suoi accompagnatori, spinti dalle migliori intenzioni, gli suggeriscono come rimedio un occasionale intrattenimento femminile. Ma Filippo rifiuta in modo perentorio quella che considera una candidatura certa all'inferno e si limita a stringere i denti e a concentrarsi su vari tipi di castità. La pratica della purezza richiede un sacrificio di tale entità che il poveretto è presto vittima di un forte attacco di vapori, nome con cui all'epoca si fa riferimento alla depressione. Si lamenta Louville:

La causa del malessere è la sua moderazione. Ci sono poche persone che a diciotto anni soffrono di mali simili; è molto spiacevole che la virtù produca effetti così negativi.54 Il consigliere, pertanto, avverte Versailles delle deplorevoli condizioni in cui versa Filippo, ed enuncia a Luigi XIV le ragioni che l'hanno spinto a permettersi di consigliare al malato una terapia sessuale: «Se lo aveste visto da vicino come noi, molto probabilmente avreste pensato la stessa cosa». Il Re Sole detesta che le persone attorno a lui abbiano problemi di salute, quindi sminuisce l'importanza dei vapori di cui soffre il nipote: «Preoccupatevene il meno possibile e non fate nulla per curarli», raccomanda loro. Tuttavia Louville, che è testimone degli intermittenti svenimenti che si aggiungono alla depressione avanzante, si vede costretto a sottolineare di nuovo la gravità della situazione: Gli svenimenti lo gettano in una immensa tristezza che a volte gli crea problemi di respirazione. Mi ha detto che (...) si sente sempre la testa pesante. Personalmente attribuisco tutto ciò alla mancanza di esercizio e alla mancanza della regina. Questi vapori lo rendono abulico verso tutto, rattristandogli a tal punto l'anima che niente attira la sua attenzione.55 Alcune settimane dopo, lo stato del sovrano peggiora, e ancora se ne dà conto a Luigi XIV: Continua a dire che morirà, che sente la testa come se stesse per scoppiare (...). In poche parole: è in una condizione davvero penosa, più taciturno di quanto già non fosse, vorrebbe stare sempre rinchiuso e non vedere nessuno. Manda continuamente a chiamare padre Daubenton, il suo medico, o me, perché dice che raccontare quello che sta passando lo solleva.56 Nel frattempo Filippo è perfettamente conscio di dove si trovi la pozione magica in grado di salvarlo: «Sarei davvero felice se mi permetteste di tornare al fianco della regina», implora suo nonno. Sebbene in Francia non esista la schiavitù, Luigi XIV esercita la sua autorità in modo tanto assoluto che nessuno dei suoi sudditi, qualunque sia il suo incarico, può muoversi senza il suo permesso. Dopo un'infinità di tentativi, la disperata richiesta di Filippo viene premiata dal beneplacito del re francese. Non che il cuore di Luigi XIV venga intenerito dal tono compassionevole del nipote: il fatto è che Louville è riuscito ad allarmarlo, raccontandogli che il nipote si trova allo stremo, che cerca luoghi bui, non parla e pensa solo alla morte, e se non ha ancora osato togliersi la vita è solo per la devozione religiosa che glielo impedisce: «C'è il rischio che diventi come Giovanna la Pazza», minaccia Louville, dando con questa frase la stoccata finale. Con il permesso ottenuto dalla Francia, Maria Luisa e Filippo volano l'una nelle braccia dell'altro; sono passati sei mesi dall'ultima volta in cui si sono incontrati. Questo è ciò che scrive a Versailles la prima cameriera, principessa degli Orsini, imposta da Luigi XIV al servizio della regina Maria Luisa: I principi così innamorati delle proprie mogli mi risultano insopportabili. Ho sempre sostenuto che se si amassero la metà di quanto fanno, né Dio né nessun altro gli chiederebbero di più.57 Ma il profluvio di passione tra i due sovrani non placa l'inquietudine degli spagnoli che, per quanto si sforzino di osservare con attenzione, non vedono la regina arrotondarsi laddove la vita si genera e cresce. Forse è troppo giovane, o forse è per l'esaurimento fisico e morale che la guerra porta con sé, fatto sta che non riesce a rimanere incinta.

Mi manca ancora più di un anno prima di raggiungere l'età che aveva mia sorella quando concepì. - si giustifica di fronte a Luigi XIV che ha chiesto spiegazioni - (...) È del tutto falso ciò che si è detto sul fatto che io non abbia il ciclo. Da quando è iniziato si presenta regolarmente, come a ogni donna in buona salute.58 Nel 1707, sei anni dopo questa lettera, gli dèi premiano l'incredibile, appassionato e spossante impegno che Filippo e Maria Luisa hanno profuso nel tentativo di procreare. La coppia riesce infine a generare Luigi, il primo Borbone spagnolo. L'allegria del Re Sole è quasi paragonabile a quella dei genitori della creatura, che non hanno avuto esitazioni nel dargli il nome del divino bisnonno affinché continui a risultare ben chiara la sottomissione che gli prestano. Quattro mesi dopo il gioioso concepimento, la prima cameriera aveva sollecitato l'urgente invio di una levatrice, di un ostetrico, di una precettrice e di una balia, tutti di nazionalità francese. Luigi XIV sconsiglia l'invio di tali figure, ritenendo che l'invasione di professionisti francesi possa ferire l'amor proprio degli spagnoli. Il Re Sole insiste sul fatto che si trovi una nutrice biscaglina, «e la cosa essenziale è che dia buon latte, non importa che sia bella o brutta». In pieno pathos bellico, al parto del primo Borbone spagnolo presenzia, in pompa magna e mantenendo un decoro adeguato, uno stuolo di testimoni di sesso maschile: un nunzio e un cardinale, i ministri stranieri, i presidenti dei diversi Consigli e tre scrivani. Tutti intervengono e, dopo una minuziosa ispezione delle sottane delle levatrici e delle domestiche per confermare che nessuna nasconde un neonato per sostituirlo al principino, prendono parte al giubilo per la nascita del piccino di sangue blu. Sono quarantasei anni che la Spagna non assiste alla nascita di un erede maschio. Nonostante lo scarso entusiasmo della regina, all'idea di dar mostra delle grida, dei dolori e dei fluidi che in genere accompagnano questo evento, acconsente alla presenza di qualcuno che possa testimoniare ciò che effettivamente sta avvenendo. In seguito, il neo padre presenta il principe da un balcone del palazzo, ricevendo un applauso che prorompe dalla folla. «Le lacrime di commozione sono grandi come i festoni, le luminarie, le luci e tutte le altre manifestazioni di gioia», informa La Gaceta di quel giorno. Oltre al popolo, anche gli aristocratici e l'esercito dichiarano aperti i festeggiamenti. L'ambasciatore francese, ad esempio, ordina che venga installato nella sua residenza un giardino artificiale punteggiato di fontane da cui zampilli, giorno e notte, vino in abbondanza, affinché chiunque vi si avvicini possa servirsi a volontà. Dal giorno stesso della sua nascita, il principe riceve il soprannome di il buon Luigi e suscita invariabilmente grande simpatia, a tutti i ceti sociali. L'anno in cui il principe Luigi inizia a parlare, sua madre lascia intravedere un inesorabile peggioramento della sua salute. È nuovamente incinta e non smette di vomitare, soffrendo di continue febbri che le infiammano le ghiandole del collo, tanto che le sembra che stiano per scoppiare. Il principe Manuel nasce con appena un alito di vita. «Quando l'imbalsamatore aprì il suo corpo, si trovò di fronte a un cuore di enormi dimensioni e alla mancanza di cervello nel cranio».59 Distrutta, la regina chiede a Versailles il permesso di recarsi alle terme di Bagneres, rimedio suggeritole dai medici in considerazione delle proprietà curative di queste acque pirenaiche. Il Re Sole si affretta a soddisfare la richiesta nel modo più affettuoso, ma il beneplacito arriva

troppo tardi. La regina Maria Luisa è vittima di una violenta tubercolosi con scrofole; i medici, disorientati, si limitano a rasarle i capelli per poterle fare impacchi di sangue di piccione sul cuoio capelluto. Filippo insiste nel dimostrare la devozione che sente per la moglie, non accantonando i suoi slanci carnali. In conseguenza di ciò, la regina rimane nuovamente incinta di un bambino che viene al mondo nel luglio del 1712 e a cui viene dato il nome Filippo Pietro Gabriele. Dopo il parto, non recedono né le infezioni, né tantomeno l'ardore del coniuge, il quale, essendo in buona salute, continua a non voler rinunciare al proprio diritto di dividere il letto con la malata. La regina aspetta un altr figlio, tra violenti mal di testa e una debolezza insopportabile: Invano cercava di nascondere con il belletto il pallore del viso, era evidente che era ogni giorno più debilitata e che la sua fine si stava approssimando. Non usciva più, non le era nemmeno permesso aprire una finestra per respirare dell'aria fresca.60 Nel settembre del 1713 nasce Fernando, il terzo principe. La salute della regina va di male in peggio; è costantemente vittima di febbre, tremori, sudori e nausea... Come provvedimento disperato, i medici le prescrivono di bere latte materno. Così scrive, pieno di speranza, il suo medico: Sua Maestà inizia oggi a poppare. Abbiamo a disposizione buone nutrici, e sembra che trovi il loro latte di suo gusto. Nelle due volte che la regina ha poppato, avrà guadagnato almeno otto once.61 Luigi XIV invia il dottor Elvezio, un olandese famoso in tutta Europa, la cui prima visita si concentra sul bassoventre della malata, cosa che i medici spagnoli non si erano ancora permessi di fare per «rispetto alla persona della regina». La diagnosi non lascia spazio a dubbi. Maria Luisa morirà. Nel frattempo Filippo non abbandona né di giorno né di notte quella che è la sua amante e sposa da tredici anni (1701-1714). Il re non vuole sentir ragioni, reclama il suo diritto a godere dei suoi ultimi amplessi e deve essere trascinato via a forza dalla moribonda e da quel letto che, per la prima volta nell'arco della sua vita coniugale, non sarà il teatro delle loro cavalcate: Il sesso annullava tutto il resto nella sua mente - scrive Saint-Simon. Nemmeno malata, prostrata dalle scrofole, coperta di piaghe [Maria Luisa] fu graziata per un solo giorno, né poté avere un letto separato. La povera agonizzante, che ha potuto godere solo di pochi mesi di pace dopo la Guerra di Successione, osserva la disperazione del marito e raccoglie le ultime energie che le restano per dirgli: «Sono pronta ad abbracciare la morte senza paura, ma tu dimostri così tanta debolezza...». Poche ore dopo aver espresso un'osservazione tanto lucida, Maria Luisa Gabriella di Savoia abbandona questo mondo tra le braccia del suo distrutto sposo. Ha ventisei anni. Dietro di sé lascia, oltre a un marito in lacrime, tre figli molto piccoli: Luigi, il primogenito, ha solo sette anni, Filippo e Fernando, il futuro Fernando VI, non ne hanno ancora compiuto uno. El animoso resta senz'animo Alla morte di Maria Luisa il sovrano rimane vittima di una seconda crisi depressiva, episodio patologico che si ripeterà altre quattro volte negli anni a seguire e che fa rientrare Filippo nella categoria delle personalità psicopatiche che gli alienisti denominano ipomelanconica. La morte della regina getta il monarca, ossessionato dall'idea di andarsene

con lei, nella più profonda disperazione. La vita stessa, nel suo complesso, suscita in lui un'invincibile ripugnanza; né la politica, né la religione, nemmeno i suoi figli piccoli riescono a dissipare i vapori. Preoccupatissimi, i congiunti persuadono il malinconico affinché esca a prendere un po' di aria fresca e si intrattenga nell'unica attività che gli risolleva l'animo. «Cacciare le farà bene», gli suggeriscono. Egli accondiscende, e si perde nei boschi giorni e notti intere. Nascosto dal folto della vegetazione, vede passare da lontano la processione che trasporta verso l'Escorial il feretro con il corpo della regina. SaintSimon racconta che Filippo segue con lo sguardo il gruppo, poi riprende a cacciare come nulla fosse successo. Se non fosse per il richiamo del sesso, non gli interesserebbe continuare a vivere nella società umana. Potrebbe consolarsi con delle cortigiane se solo il suo fervore religioso non glielo vietasse. Se il re non aveva mai smesso di essere austero, taciturno e devoto, ora sembra annegare nella spaventosa vastità del suo dolore. I principi sono spettatori di come la morte della madre stia erodendo il loro padre dall'interno; non vuole lavarsi, non sorride, è depresso, sporge appena la testa fuori dai suoi appartamenti... La guerra che ha definitivamente consolidato la sua posizione sul trono di Spagna è finita da un anno, ma Sua Maestà non trova alcuna gioia nella pace ed è del tutto inconsolabile: Il re si veste come un privato cittadino [senza aiuto] nelle sue stanze, dove assiste alla messa senza che nessuno lo accompagni (...). Pranza e cena nella sua stanza, trascorre l'intera giornata con i Principi e viene servito dalle loro cameriere, senza che nessuna persona esterna possa entrare.62 Piange a tutte le ore, rifiuta di alzarsi dal letto e di lavarsi, la sola presenza di un asciugamano bianco lo getta nel panico. Questo colore, il bianco, emana bagliori luminosi in cui il monarca è convinto di vedere l'anima della defunta regina. Non l'ha abbandonato, vigila su di lui, è il lampo di luce emanato da ogni tessuto chiaro. Questa forma incorporea suscita il terrore del sovrano; così inizia a evitare la luce, si sente al sicuro solo tra i colori scuri. Vedendolo in questo stato nessuno potrebbe dire che questo uomo tetro, quasi un morto vivente, un tempo sia stato el Animoso. Vista la situazione, il destino della Spagna resta nelle mani della Principessa degli Orsini. La spia che Luigi XIV aveva nominato prima cameriera della regina Maria Luisa è una dama quasi ottuagenaria che già mentre la sovrana era ancora in vita adorava dare ordini. Se la regina comandava il re, la Principessa degli Orsini governava completamente entrambi. Nulla sfugge al suo olfatto da lupo né al suo sguardo da aquila. La vecchia sorveglia tutto, sa tutto e tutto riferisce a Versailles. Venuta a mancare Maria Luisa, la Principessa può ora concentrare le sue monumentali energie sul tetro vedovo: Il re non può nemmeno alzarsi senza che io gli apra le tende - scrive la Principessa a una confidente. (...) Sua Maestà è talmente abituato a me che a volte ha la bontà di svegliarmi due ore prima che io desideri alzarmi.63 Un'istitutrice che gli canta all'orecchio Con la morte di Maria Luisa, Madama, come è chiamata a corte, raggiunge un potere incommensurabile. In un fatidico regresso infantile, il re trasferisce l'immagine e il ricordo della sua giovane precettrice nella

presenza di questa assistente quasi ottuagenaria; assieme al confessore, è l'unica persona a cui il re permette di avvicinarsi. La Principessa non solo annuncia a Sua Maestà l'arrivo di ogni nuovo giorno, ma ha il privilegio di ritirare il suo orinale, gli porge la vestaglia e le pantofole, lo aiuta ad alzarsi dal letto, a lavarsi, lo intrattiene conversando mentre mangia o espleta le sue funzioni corporali, e, già che c'è, si occupa con lui, a quattro mani, di tutte le questioni di stato. La Principessa degli Orsini mantiene Filippo talmente confinato e protetto che i mormorii non tardano a diffondersi. In ogni angolo si sussurra che il re, ventinovenne, progetta di sposarsi con la dama, settantaduenne. E a quelli che non ci credono si suggerisce di osservare la residenza reale, e di trarre le proprie conclusioni: perché mai altrimenti il re avrebbe fatto costruire un passaggio che collega il suo palazzo con quello della Principessa? Non sono forse gli amanti a fare questo genere di cose? Ciò che gli spagnoli possono testimoniare è che Filippo non esce mai di casa, e solo tale passaggio dimostra la sua presunta avventura con la principessa. Fioriscono le speculazioni circa incontri segreti morbosamente erotici tra i due; i pettegolezzi diventano sempre più perversi e finiscono per arrivare fino a Versailles, colpendo profondamente il Re Sole e la sua sposa. Immediatamente Luigi XIV invia delle spie di sua fiducia affinché gli raccontino in prima persona ciò che sta succedendo. E così fanno. Riferiscono che Filippo V ha deposto ogni responsabilità nelle mani della principessa, che costei si comporta con lui come un'istitutrice, che gli canta canzoncine all'orecchio, mentre ministri, ambasciatori e segretari hanno ricevuto ordine di fare capo a lei per ogni questione, poiché ogni cosa che Madama decide o dispone gode della benedizione regale. Mentre la Principessa degli Orsini governa la Spagna, Filippo V appassisce in un abisso di infelicità. Sfogarsi con le cortigiane continua a essere per lui un peccato mortale; il sesso è terapeutico solo quando praticato all'interno del sacro vincolo matrimoniale, perciò Sua Maestà sopporta cristianamente i sudori e i violenti dolori di testa che la castità gli provoca. Madama gli fa compagnia in quei momenti e gli applica impacchi di acqua fredda sulla fronte. Dopo i figli, la cinegetica (l'arte di caccia con i cani) è la sola via di fuga del sovrano sofferente, che si perde nei boschi e uccide tutto ciò che si muove, come se tentasse così di vendicarsi dell'alito vitale di cui altri godono. La politica, naturalmente, non gli interessa. Assieme a Maria Luisa se ne sono andate non solo le sue forze, ma anche il suo senno. Una nuova moglie come medicina Il re francese chiede resoconti continui alla Principessa degli Orsini ed esige che si cerchi immediatamente una nuova moglie che aiuti suo nipote a riappropriarsi dei piaceri della vita e delle redini della sua mente. La scelta cade sulla parmigiana Elisabetta Farnese, una donna alta e magra, con una grande bocca, segno di estrema fedeltà. Fa anche sfoggio, le poche volte che sorride, di una dentatura completa e bianca, anche se questo pregio è eclissato da una pelle tormentata dai segni del vaiolo. «Si tratta di difetti molto sgradevoli, che possono avere infauste conseguenze», scrive la Principessa degli Orsini, acida e timorosa della rivalità con cui si trova a dover fare i conti. Tuttavia il suo piano non produce i frutti sperati.

Contro ogni previsione Filippo V, non appena la vede, trascina la sua nuova compagna fino alla cappella. Traboccante di impazienza intima chiede all'officiante di affrettare il ritmo della formalità sacramentale del matrimonio e subito, quasi di corsa, porta la regina in camera, dove li aspetta, su precisa richiesta del sovrano, un solo piccolo letto. Sono le sei di pomeriggio. Le tortorelle escono dal loro nido a mezzanotte, assistono alla messa e immediatamente ritornano a scambiarsi focosità fino a giorno inoltrato. A partire da allora, secondo Saint-Simon64, in tutte le loro residenze Filippo e Elisabetta. Dividono la stessa camera da letto e le stesse stanze per gli stessi usi, la stessa tavola per fare tutto ciò che devono fare. Sono sempre insieme e fanno le stesse cose. Non si separano mai, e se lo fanno è per compiti brevi, rari e indispensabili. Concedono udienza sempre insieme e, se così si può dire, le loro sedie sono sempre vicine. (...) Dormono nello stesso letto ed è successo che abbiano avuto la febbre contemporaneamente senza che sia stato possibile convincerli a dormire separati, nemmeno concedendo loro di porre un letto vicino all'altro. Le arti amatorie della nuova regina addomesticano immediatamente il marito; i suoi sensi trovano pace solo con lei e la Principessa degli Orsini gira loro intorno di continuo per tentare di recuperare l'attenzione del sovrano. Tutto invano. «La regina governa il re. scrivono a Versailles le spie - Di conseguenza ci interessa capire se lei si lascerà governare». Lo fa, ma non dai francesi, bensì da un suo compatriota, l'abate Alberoni, che inizia la sua scalata al potere compiacendo gli stomaci influenti. Così si lamentano i francesi: È diventato il cuoco prediletto delle dame di palazzo. Provvede la tavola della Principessa degli Orsini e quella della regina stessa di succulenti insaccati italiani e di buon vino di Parma. I piatti di pasta dell'abate fanno furore; la regina li adora... È ammesso a tutte le feste.65 La regina finisce per ammettere l'abate persino nella «più privata delle sue stanze», secondo le parole dello stesso invitato, il quale poco a poco, relega la Principessa degli Orsini a un ingrata posizione di secondo piano. Ora la Principessa appare al re come una presenza inutile, anzi piuttosto molesta. Per quanto riguarda la regina Elisabetta, la Orsini si converte nella sua maggior nemica. La tensione è tangibile nell'aria: due vipere si contendono la stessa preda nella stessa gabbia. Elisabetta morde per prima, forse perché è più giovane ma soprattutto perché divide il letto con colui che ha l'ultima parola, il re. L'anziana Principessa, un tempo così influente, si vede costretta ad abbandonare la Spagna come una criminale; di notte, accompagnata da un solo lacché e senza fermarsi un solo istante a riposarsi in territorio spagnolo. Sul suo sonoro e umiliante esilio si staglia trionfante il dominio di Elisabetta Farnese. L'anno dopo l'incoronazione di Elisabetta a Spagna (1715), Filippo V perde il nonno Luigi XIV, che muore dopo aver superato settantasei inverni senza praticamente ammalarsi una sola volta, dopo essere sopravvissuto al suo erede legittimo e al suo nipote più attempato. Filippo V si vede privato della guida che ha sostenuto il peso della politica spagnola. Per un breve periodo si sente alleggerito di una zavorra, finalmente può liberarsi dalla dipendenza psicologica verso il proprio paese natale; invece no. Suo zio Filippo d'Orléans irrompe nella sua vita. Filippo D'Orléans

Filippo d'Orléans è, tra tutti i familiari, quello in cui più rivive l'indole del Re Sole. Oltre ai pregi, condivide anche il suo patologico narcisismo. Nasce il 2 agosto del 1674 nel palazzo di Saint-Claud, ma la sua nascita è notata a malapena in un mondo dove tutti i cuori e gli occhi sono rivolti verso il luminoso re parigino e il suo fastoso stile di vita. L'oroscopo preannuncia per il neonato un futuro da Papa, divertente vaticinio se si pensa all'atteggiamento della madre nei confronti della Chiesa. Liselotte, in linea con i tratti caratteristici della sua personalità, è una madre estremamente devota il cui cuore trabocca di orgoglio al solo contemplare il suo adorato bambino. Liselotte si incarica personalmente dell'educazione dei suoi figli, trasmettendo loro la sua ironia, la sua mancanza di rispetto per i valori predicati dalla Chiesa e una fortissima curiosità verso tutto ciò che li circonda... Successivamente l'educazione del figlio maschio viene posta nelle mani del contraddittorio cardinale Dubois. Filippo si distingue per essere uno studente esemplare, ama molto la storia, la geografia, l'astronomia, la geometria e le lingue straniere; la sua sete di conoscenza non ha limiti. Il piccolo di casa Orléans adora inoltre la musica, le arti e la scienza. Il primogenito di Monsieur e Madame surclassa i suoi cugini, i figli del re, in quasi ogni campo. Tuttavia Luigi XIV oscura il fulgore del nipote ignorandolo totalmente, il re si rende infatti conto che il fanciullo ha doti tali da poter competere col suo personale splendore. Per questo, pur essendo nipote di primo grado del re e molto più dotato del resto della sua famiglia in quasi ogni aspetto, Filippo si ritrova escluso dalle responsabilità amministrative, militari e politiche che il sovrano assegna invece ai suoi figli illegittimi. Gli è permesso solo di ricoprire il ruolo di futile cortigiano. Al massimo, di tanto in tanto, lo si premia con l'autorevole incarico di porgere la camicia al re mentre si veste. Poi deve correre verso la cappella, dove gli è consentito attendere l'arrivo di Sua Graziosa Maestà. In alcune occasioni si autorizza Filippo a presenziare, sempre restando in piedi, al petit couvert, ossia al momento in cui il re si porta il cibo alla bocca; inoltre, massima delle fortune, è benvenuto a passeggiare per i giardini di Versailles, assistere al debotté (momento in cui Sua Maestà si sfila gli stivali), alla cena pubblica, al concerto privato di musica e infine al coucher, l'inestimabile istante in cui il Re Sole si adagia nel letto e si copre con le lenzuola. Insomma, Filippo d'Orléans vive una grande frustrazione; la sua natura è inquieta e curiosa, adora escogitare, pensare, giocare a carte e montare a cavallo; va matto per le questioni finanziarie, le mete difficili, la musica, l'arte e la politica; ma innanzitutto, la sua psiche richiede uno spazio dove lui possa essere al centro dell'ammirazione generale. Il Re Sole, però, impone l'esilio agli «animi forti e indipendenti» come quello del nipote. La quotidianità, la mancanza di responsabilità e di opportunità per risplendere di luce propria sono nemici molto pericolosi per una personalità affamata di gloria come quella del giovane Orléans. L'ingabbiamento del suo mastodontico narcisismo lo spinge verso l'ipercompensazione; fiuta quali sono i luoghi in cui può ammaliare le persone, essere il migliore, il più ammirato. Visto che lo zio gli ha vietato di brillare nelle aree di sua competenza, Filippo dimostrerà quanto vale nei territori cui il re ha voltato le spalle; in essi cerca ammirazione, glorificazione e lodi; non ha alcuna intenzione di frenarsi,

è anzi disposto a oltrepassare i limiti, vuole avere accesso a qualunque cosa, godere di qualunque cosa ed essere il fulcro di tutto. Non fa fatica a trovare un luogo idoneo; nei domini del padre trova la crepa nella quale infiltrarsi. «Si dedica ad abbuffarsi, a ubriacarsi e ad andare a prostitute», piange la madre in una delle sue celebri lettere; se già prima soffriva per i passatempi del marito, ora le nuove attività del figlio non fanno che aggiungersi al torrente del suo disgusto. Il mondo dei bagordi diventa il latifondo di Filippo; la dévergondage si inchinerà ai suoi piedi e i bacchanales saranno il suo pane quotidiano; qui splenderà in modo diverso da suo padre, il suo fulgore sarà più accecante dato che possiede basi intellettuali e charme personale capaci di relegare Monsieur all'altezza di uno zerbino. Monsieur è vecchio, Filippo è bello e pieno di vigore - la miopia è un contrattempo privo di importanza; con il suo straripante glamour ipnotizza allo stesso tempo uomini e donne; gli omosessuali lo chiamano mignon66, le donne non desiderano altro che corteggiarlo. Filippo aveva scoperto i piaceri della carne in giovane età. «A tredici anni mio figlio è un uomo in tutto e per tutto. Lo ha istruito una rispettabile dama», scrive Madame che all'epoca prova un infinito sollievo perché il figlio non sembra seguire le orme dell'omosessualità paterna. La rispettabile precettrice in questione è Madame de Vieuville, una nobile trentenne sposata che ha la cortesia di insegnare al suo imberbe pupillo ogni genere di astuzia sessuale. A quindici anni, spinto dal desiderio di esercitare con altre persone le lezioni apprese, Filippo trascina nella sua camera da letto una bimba di tredici anni, la petite Léonore, figlia del custode del deposito di mobili di Palazzo Reale. Filippo «si intrattenne nelle delizie del momento, senza pensare al futuro», e, perciò, non tarda a diventare padre. Il furioso custode si reca a lamentarsi da Liselotte, la quale da parte sua si dichiara ben felice alla notizia che suo figlio consegna «così bei regali alle giovani». Madame, la nonna, si prenderà cura della creatura per un certo periodo. Le donne trovano Filippo irresistibile e lui non si prende la briga di resistere alla tentazione. Nessuna dà peso alla sua debole vista; sono ammaliate dallo spirito con cui porta in giro per i vari saloni i suoi riccioli neri e dal «rossore così perfettamente diffuso sulle sue gote da sembrare artificiale».67 La madre di Filippo, che quando deve scorgere la pagliuzza nell'occhio altrui applica la massima severità, a suo figlio arriva a perdonare tutto, giustificando la gravità della sua pessima condotta: Qui i giovani sono incredibilmente inclini al libertinaggio e al vizio. Mentono, ingannano, considerano una disgrazia l'essere onorabili; si dedicano ad abbuffarsi, ubriacarsi, essere scurrili e ammirare colui che, tra loro, si distingue per essere il più maleducato.68 Come se non bastasse, si serve di un acuto senso dell'umorismo quando le pecche del giovane sono francamente imperdonabili: «Le fate hanno assistito al mio concepimento, donando ciascuna un talento a mio figlio, che in effetti li possiede tutti. Disgraziatamente era rimasta indietro una vecchia fata che, arrivando dopo le altre, esclamò: «Avrà tutti i talenti, salvo quello di saperne fare buon uso». Filippo condivide le maniere e la sregolatezza dei suoi coetanei, ma allo stesso tempo è appassionato di lettura, di musica e di scienza... materie inutili per chiunque culli l'illusione di governare, o per lo meno Filippo attribuisce a questo il motivo del sistematico sprezzo che gli riserva

Sua Maestà. Tuttavia il re non è così estraneo alla vita del nipote come costui crede. Da sublime stratega nell'arte della manipolazione delle pedine della sua famiglia, Luigi XIV ha già escogitato un piano di redenzione per il discolo nipote. Lo costringerà a sposare qualcuno opportunamente scelto. Sua Maestà cerca una giovane di natura abulica, che pensi solo a stare seduta, mangiare e sfornare figli maschi. Nozze spettacolari e deprimenti Il re adocchia immediatamente la donna in cui si assommano alla perfezione tutte queste lodevoli qualità: Françoise Marie, la minore dei suoi figli illegittimi, nata dalla sua relazione di tredici anni con Athénaïs Montespan. La ragazzina ha quattordici anni, pelle, occhi e collo luminosi, accompagnati però da guanciotte penduleuses e ciglia inesistenti. L'aspetto della giovane ha una parvenza di deformità, dovuta all'assetto delle spalle, una più alta dell'altra. La notizia contraria Filippo e lascia indifferente la giovane: «Non mi interessa che non mi ami, purché si sposi con me», si limita a commentare. Per Liselotte, madre di Filippo, la notizia arriva come un fulmine a ciel sereno. Il suo adorato figlio sarà sacrificato e lei non è in grado di fare assolutamente nulla per impedirlo. Fazzoletto alla mano gesticola, sbuffa e piange in modo incontrollabile aggirandosi nei corridoi di palazzo; nessuno ha il coraggio di avvicinarsi a lei. Nelle sue memorie Saint-Simon, amico intimo di Filippo, la paragona a Cerere dopo il ratto di Proserpina. Intanto lei racconta la sua disgrazia a sua zia: I miei occhi sono così appesantiti e gonfi che a malapena riesco a vedere. (...). Sono così contrariata che potrei vomitare tutta la notte.69 Il fatto è che Liselotte odia i figli illegittimi del re più di qualunque altra cosa al mondo; si trova a dover osservare impotente come il diavolo è andato a seminare zizzania proprio in casa sua. Per la madre di Filippo, Françoise Marie non è solo il frutto dell'adulterio, bensì la figlia di una donna che ritiene «un rifiuto, una baldracca»70, e, come ella stessa descrive, «mi ribolle il sangue ogni volta che vedo i suoi bastardi». Gli animi attorno al Re Sole all'ora di cena non potrebbero essere più tesi. Nessuna delle due dame tocca cibo; quelle che la politica renderà tra breve madre e figlia hanno in comune solo la perdita di appetito. Madame considera la futura nuora una persona estremamente malsana, i suoi occhi hanno un aspetto così appesantito che ho paura che un giorno di questi rimarrà cieca. Ma soprattutto è figlia di un doppio adulterio, e ancor peggio [è persino figlia] della donna più malefica e disperata che esista sulla faccia della Terra. Saint-Simon racconta che, a fine pasto, Liselotte sbuffa come un ippopotamo; Filippo si mostra ancor più disperato della madre in un vano tentativo di guadagnarsi la sua impietosita protezione. Al momento del dolce il giovane si alza da tavola e omaggia Madame con una profonda riverenza; ella gli risponde con uno scarno cenno del capo mentre lascia la sua sedia ed esce dalla sala pestando sdegnosamente i piedi, mentre il sovrano e gli altri commensali osservano l'ondeggiare della sua figura mentre si allontana. A quel punto il futuro sposo si precipita dietro alla furibonda madre, le afferra la mano e se l'avvicina per baciarla. Liselotte, con la stessa mano, stampa sul viso del sollecito Filippo un schiaffo «tanto forte che l'impatto si sentì da grande distanza, fatto che, dato che era in mezzo alla corte,

fece vergognare oltremodo il povero principe».72 Il re, osservando la scena dalle retrovie, fa l'impossibile pur di trattenere le risa, schiacciando il mento in direzione del suo regale pomo d'Adamo; senza per questo lasciarsi turbare più di tanto dalle conseguenze della sua decisione. La notizia della furia di Madame verso il matrimonio combinato attraversa l'Europa; i suoi parenti germanici si portano la mano al cuore temendo per il futuro di Liselotte in Francia, ma lei li tranquillizza: Cerco di esibire il miglior atteggiamento possibile e fingo una soddisfazione che, onestamente, sono molto lontana dal provare. (...) Per quanto riguarda la mia futura nuora, credo non avrò problemi ad abituarmi a lei, dato che non ci vedremo così tanto che io possa esserne infastidita. Per augurarsi buongiorno e buonanotte ci vuole ben poco tempo.73 Il 17 febbraio, alle sei di pomeriggio, a Versailles si celebra la firma del contratto matrimoniale. Filippo risplende in una levita in broccato d'oro, scarpe e pelliccia ricoperti di diamanti. La sposa è agghindata con un vestito impreziosito da fiori d'oro e neri, e indossa un diadema tempestato di diamanti e rubini. Alla lettura del contratto fa seguito un ballo con due orchestre e la processione di centinaia di inservienti vestiti di azzurro e argento, che porgono vassoi ricolmi di liquori e frutta. La madre dello sposo, profondamente delusa, non riesce a stare tranquilla. Il giorno successivo ha luogo la splendida cerimonia religiosa che SaintSimon definisce allo stesso tempo magnifica e triste. Lo sposo avanza con un vestito di velluto nero ornato di perle e diamanti che fanno pendant con la decorazione delle scarpe; la sposa rifulge nel suo abito riccamente decorato con argento e pizzo spagnolo. Dopo la cerimonia, la coppia, secondo la tradizione, è invitata ad accomodarsi a letto alla presenza della corte. Giacomo II, il re inglese in esilio che dimora in Francia dal 1688, è colui che porge a Filippo la camicia da notte, mentre la suocera Liselotte resiste alla repulsione che le suscita la situazione e si sottomette al compito di offrire la vestaglia alla sposa. La mattina seguente, mentre è ancora a letto, la nuova duchessa d'Orléans viene felicitata dai cortigiani. Segue un pomposo ballo in cui Filippo si dimostra un po' più allegro che nei giorni precedenti, in parte perché si è ora, finalmente, tramutato nientemeno che nel genero del re, e in parte perché sarebbe una follia affliggersi dopo essersi impossessato della sostanziosa dote della sposa. Françoise Marie si è presentata alle nozze con due milioni di lires, una rendita annua di 150.000 lires, gioielli per il valore di 600.000 lires, più la consegna al marito della cifra di 150.000 lires per i suoi capricci personali, come ringraziamento per aver acconsentito alle nozze. Stando così le cose, Filippo antepone l'interesse e il dovere all'amore, né la sua neosposa pare aver alcun problema nell'essere trattata alla stregua di una mercanzia. «Fanfaron des vices» Filippo di Orléans trascorre i primi anni di matrimonio nell'illusione che, ora che è divenuto suo genero, Sua Maestà gli presterà maggior attenzione. Ma questo non accade. Monsieur, fratello del re e padre di Filippo, non fa che strapparsi i capelli e gemere: «Mio figlio versa in condizioni peggiori rispetto a qualsiasi altro suo coetaneo in Francia», protesta di fronte al suo divino fratello. «Subisce un vero e proprio ostracismo, mentre gli altri servono la patria e ottengono promozioni.

L'ozio è il padre dei vizi», prosegue il padre, che parla per esperienza personale. Effettivamente Filippo d'Orléans, vedendosi costretto a un'esistenza vuota che gli risulta insopportabile, con nessuno che pare apprezzare la sua immensa curiosità, la sua energia, la sua cultura e intelligenza, vince la noia sprecando i suoi giorni nella maniera più dissoluta e irriverente. Sua madre scrive: Mi fa tanta pena vedere mio figlio abbandonarsi al débauche74, alle cattive compagnie, allo sperpero e all'insensatezza; non che questo mi sorprenda, visto come l'hanno trattato.75 Non riuscendo ad attirare l'attenzione del Re Sole con le buone, Filippo d'Orléans escogita ogni genere di stratagemmi per farlo uscire dai gangheri, così che, contemporanemente alla sua passione per le scienze, l'arte e la storia, si dedica a soddisfare i suoi istinti più bassi. Si ubriaca, si dimostra ribelle, promiscuo, dipendente dalle donne, dal tabacco e dalle corse a cavallo: cerca amici tra i libertini, i repubblicani e tutti coloro che si fanno beffe del re, della religione e dei buoni costumi. Scrive Madame: Credo fermamente che la vita selvaggia di mio figlio, che si comporta come un mascalzone e non si ritira mai prima delle otto di mattina, finirà per essergli fatale. Spesso sembra che l'abbiano appena tirato fuori da una tomba; sono certa che alla lunga questo lo ucciderà. (...) Non manca d'ingegno, non è affatto ignorante, e da quando era piccolo gli interessano cose lodevoli, raccomandabili e degne del suo rango; ma siccome lo hanno abbandonato al suo libero arbitrio, si è lasciato andare a logiche disgraziate che l'hanno spinto a cercare la compagnia delle prostitute più vili. È cambiato a tal punto che è difficile riconoscerlo, tanto per il suo aspetto esteriore quanto per il suo temperamento. Da quando ha iniziato a sprecare la sua vita non trova più piacere in niente; anche la musica, che tanto lo appassionava, è svanita. Insomma, si è tramutato in una persona insopportabile e temo davvero che, alla fine, ne morirà. (...) Ma suo padre si rifiuta di rimproverarlo.76 Chi lo fa, invece, è il re, che monta in collera nello scoprire che la nuova amante di suo genero, un'attrice di nome Christine Desmares, è in attesa di un bambino quasi contemporaneamente alla sua amata figlia e sposa di Filippo, la quale ha appena partorito la loro quarta figlia. Non è la prima volta che Filippo fa coincidere relazioni amorose, parti o gravidanze. Ma, secondo quanto dice Madame, a Françoise Marie, la sposa cornuta, importa poco delle scappatelle del marito: La moglie di mio figlio non ama suo marito; purché egli le stia lontano, lei è contenta. In questo senso sono molto compatibili. L'unica cosa che a lei importa è la grandezza dei suoi fratelli e sorelle.77 L'infedeltà coniugale di Filippo è insaziabile e compulsiva; tra le sue lodevoli caratteristiche vi è il fatto che egli riesce a ricevere soddisfazione erotica da molte donne contemporaneamente senza che queste entrino in conflitto tra loro. Mentre intrattiene una relazione con Mademoiselle Florence, con la quale concepisce un maschio a cui viene immediatamente affidata una posizione nei ranghi ecclesiastici (allo stesso tempo sua moglie aspetta il suo secondo figlio; peccato che la creatura sarà ancora una volta una femmina), il duca intraprende un'altra avventura con l'attrice Christine Desmares, il cui viso angelico ispirerà il pittore Watteau e sarà reso immortale da migliaia di bozzetti. Anche Filippo sente il desiderio di immortalarla abbigliata come Antigone in una delle sue opere pittoriche. Gli incontri sessuali con tale bellezza si sovrappongono a quelli con una dama a servizio di sua madre, Marie-

Luise de Séry, che a sua volta resta incinta. Françoise Marie dà alla luce una bambina dietro l'altra, mentre il duca suo marito benedice le sue amanti con una sfilza di maschi. Madame, che come si sa detesta la nuora, assiste allo spettacolo con malcelata soddisfazione: Tra mio figlio e le sue amanti va tutto a meraviglia, senza la minima rivalità. Mi ricorda quei patriarchi che hanno molte mogli. Mio figlio assomiglia molto a Re Davide, è coraggioso e deciso, ha inclinazione per la musica, è valoroso, acuto, e gli piace andare a letto con più donne possibile. Non è particolarmente esigente a riguardo; purché siano allegre, impertinenti e abbiano inclinazione al cibo e alle bevande, egli le fa sue, senza interessarsi del loro aspetto fisico.78 Tra un'amante e l'altra, Filippo si lancia nelle braccia dell'occulto, attorniandosi di persone impegnate a comunicare con le anime del purgatorio e addirittura col diavolo stesso. Filippo, nonostante sia incredibilmente affascinato dal proibito, continua a pensare quanto sarebbe più soddisfacente ricoprire un ruolo di maggior utilità. Un soffio di speranza tocca il suo cuore e, di conseguenza, quello della madre, quando l'agonia di Carlo II apre le porte alla possibilità che un francese occupi il trono di Spagna. Per mesi interi Filippo è convinto di essere il prescelto. Perciò lo coglie un disdegno mortale nello scoprire che il trono va a suo nipote, l'indolente e sottomesso duca d'Angiò. Filippo d'Angiò è un giovane taciturno e poco passionale, a cui nessuno aveva fatto caso fino a quel momento, e che mai si era anche lontanamente sognato di poter avere un simile destino. Filippo d'Orléans è consapevole di essere più ntelligente, politicamente più competente e molto più adeguato per questo ruolo; il suo malessere e la sua ira lievitano a vista d'occhio finché il Re Sole non gli affida, per la prima volta in vita sua, un compito di rilievo: aiutare il neo re Filippo V durante la Guerra di Secessione. Finalmente gli viene data l'opportunità di dimostrare il suo valore, la sua abilità strategica; se sarà fortunato, dimostrando quanto è più abile e intelligente, otterrà la deposizione del suo inutile nipote e la corona spagnola. Ma al termine della guerra il Re Sole non dà segni di voler sostituire il fantoccio cui ha affidato la Spagna, e Filippo d'Orléans deve fare rientro in una Francia dove nessuno ricorda altri suoi meriti oltre a quello di essere riuscito ad avere gran successo con la popolazione femminile spagnola, inclusa addirittura la stessa regina Maria Luisa. Ignorato e certamente anche denigrato, il duca torna alla solita routine: si ubriaca, si intrattiene con sgualdrinelle, annega in un mare di orge e ha un rapporto pessimo con sua moglie, e in questo è in perfetta sintonia con Madame: Per quanto riguarda la moglie di mio figlio, non può certo lamentarsi di me, dato che la tratto bene e con educazione, ma non c'è nessuna possibilità che io possa mai volerle bene, trattandosi della donna più antipatica del mondo; il suo aspetto è del tutto logorato, il suo viso è orribile, tutto quello che fa risulta sgradevole e oltretutto si crede bella, si agghinda di continuo e si riempie di mouches.79 (...) Confesso che mi sfinisce essere costretta a tanti sforzi [con lei].80 La duchessa d'Orléans si vendica a modo suo degli affronti della suocera e del coniuge, dedicandosi con impegno a infangare quel che resta della già malconcia fama di Filippo. In società volano maldicenze, si sussurra che il duca trami alle spalle del re, si mormora della sua sete di potere, del suo affaire con la regina di Spagna, del suo interesse per la magia nera, del suo patto col diavolo, e si congettura persino che questo

figuro si sia fatto ammaliare dalla sua stessa figlia quattordicenne... A gettare benzina sul fuoco c'è la duchessa in persona, che informa tutti di come Filippo ritragga nude tutte le sue amanti e abbia invitato la figlia a partecipare. Nonostante l'aria che tira, il duca d'Orléans fa ben pochi sforzi per arginare le costanti provocazioni. In un'occasione in cui il re lo aveva incaricato di fare l'anfitrione dell'elettore di Baviera, Filippo accoglie in casa propria l'invitato presentandogli la sua amante di turno, Madame d'Argenton, come la maîtresse de la maison, cioè la padrona di casa. La duchessa, umiliata da tale comportamento in casa sua, è in attesa proprio allora del suo settimo figlio; Filippo, dopo tutto, non ha mai smesso di compiere i suoi doveri coniugali. Il re, scandalizzato, afferma che suo genero altro non è se non un «fanfaron des vices» matricolato. Così il talentuoso duca spreca il suo tempo, tra orge con amanti, sedute di spiritismo, liti con la moglie e i figli illegittimi sparsi ovunque. Né a loro, né ai sette avuti dalla moglie presta la benché minima attenzione (tranne che alla figlia maggiore, uguale a lui). Di tanto in tanto dà un'occhiata al subalterno e debole parente che ha mantenuto il trono di Spagna e, dato che il tempo libero non gli manca, ordisce piani per impadronirsi della corona che crede gli spetti di diritto. Infine un incarico importante Nel 1713 Luigi XIV compie settantasei anni; le sue innumerevoli grazie sono da tempo sfumate e il suo stato d'animo è piombato in un pozzo di malinconia. Trascorre la maggior parte del tempo chiuso negli appartamenti di Madame de Maintenon, l'amante con cui si era segretamente sposato, circondato da un gruppetto di donne che suonano e danzano. Di tanto in tanto si unisce a lui qualche anziano maresciallo o qualche vetusto conte, e si adoperano per riportargli alla mente vecchie glorie del passato... tutto sotto lo sguardo attento e l'udito fino della Maintenon; la sua presenza è del tutto irrinunciabile per il re. Occasionalmente riceve anche l'ambasciatrice inglese che, sebbene i due paesi ancora non abbiano risolto i propri diverbi, è benvenuta agli incontri intimi del re e della sua corpulenta sposa segreta. La duchessa di Shrewsbury, questo il nome della lady, è di sorprendente bellezza, al punto da potersi ancora permettere di esibire un seno sodo sotto la scollatura. L'inglese compie l'imprudenza di criticare di fronte al re le acconciature delle dame francesi, «vere e proprie torri di fiocchi, pizzi e capelli, di quasi un metro di altezza, il che fa sì che le dame diano l'impressione di avere il viso a metà del corpo»; fortunatamente per lei il re è del tutto d'accordo: sono anni che queste acconciature femminili lo innervosiscono almeno quanto i conflitti politici. Proprio durante queste chiacchiere da camera da letto, Luigi XIV decide che suo nipote Filippo d'Orléans, così come il suo nipote più giovane, il duca di Berry, debbano formalmente rinunciare a qualunque progetto di usurpazione del trono di Spagna. Berry è il fratello minore di Filippo V e, allo stesso tempo, genero di Filippo d'Orléans81; l'infelice si è sposato con la primogenita di quest'ultimo; la giovane in questione è una zucca vuota che si ubriaca tutte le sere e sottopone quel mentecatto del marito a umiliazioni costanti. Il Re Sole si disinteressa a les petites tensions familiales, lasciando che di esse si occupino gli interessati, ma ha la necessità di rendere sicura la posizione del nipote che ha posto

sul trono di Spagna, ragion per cui impone ai due potenziali usurpatori un esplicito patto di rinuncia. L'atto si svolge di fronte al Parlamento. Alle sei e mezza del mattino il cerimoniale ha inizio. Il duca di Berry, che si reca a parlare in pubblico per la prima volta, a malapena riesce a reggersi in piedi; tutto il contrario dello zio e suocero Filippo d'Orléans, che nella carrozza è la personificazione stessa della sicurezza di sé. Trombe e clarini accompagnano l'entrata dei due, uno accanto all'altro, a Palazzo Reale, ove si svolge un opulento banchetto in onore della ratifica. I testimoni osservano il un duca d'Orléans porgere elegantemente un fazzoletto al nipote Berry che si è dovuto sedere in preda al panico. A un certo punto la tensione si impossessa talmente di lui che tutta la corte lo sente piagnucolare: «Mi hanno insegnato solo a cacciare e a giocare a carte. Hanno fatto di me uno stupido. Non sarò mai buono a nulla. Sarò lo zimbello del mondo intero». Di fronte a tale umiliante condotta, Filippo d'Orléans inchioda gli occhi a terra. Il duca d'Orléans perde con questo atto tutte le speranze di ottenere un incarico di una qualche importanza nella vita, i suoi sogni vanno in frantumi, torna ancora una volta alle sue abitudini, al libertinaggio, all'essere bersaglio di pettegolezzi, denigrazione e disgusto. Stavolta l'anziano Luigi XIV lascia che si sfoghi; in realtà ha pianificato per Filippo d'Orléans un futuro che nessuno può immaginare. Pochi giorni prima di morire82 lo rende pubblico: essendo sopravvissuto al suo unico figlio e al nipote primogenito, e poiché il pronipote ha solo tre anni, nomina reggente della monarchia francesere di Francia il duca d'Orléans, suo nipote, il suo specchio e, nei momenti migliori, la sua «fotocopia». «Stai per vedere un re nella tomba e uno nella culla -avverte il nipote in un'audizione privata. Onora sempre la memoria del primo e abbi cura degli interessi del secondo». Poco dopo Luigi XIV dà l'addio alla vita in uno stile che non ci si sarebbe potuti aspettare da nessuno se non da lui. Ordina che il futuro re, Luigi XV, abbandoni l'ambiente marcio di Versailles e sia trasferito al palazzo di Vincennes, dove si respira aria più pura. Ha già precauzionalmente fatto sistemare la residenza, che la corte aveva abbandonato cinquant’anni prima, e lì riunisce quei cortigiani che negli anni sono stati insigniti dell'onore di presenziare alle abluzioni personali del sovrano. A loro si rivolge in questi termini: Cavalieri, chiedo il vostro perdono per il cattivo esempio che vi ho dato. Vi ringrazio per il modo in cui mi avete servito e per la fedeltà che sempre mi avete dimostrato. Mi dispiace non aver fatto per voi quanto mi sarebbe piaciuto, ma le difficoltà degli ultimi tempi me lo hanno impedito. Vi imploro affinché continuiate a servire il mio pronipote [l'ancora bambino Luigi XV] con la stessa fedeltà e diligenza che avete riservato a me. La creatura potrà avere difficoltà in futuro; mio nipote [Filippo d'Orléans] si occuperà della reggenza. Seguite i suoi ordini; spero che si dimostri valido, e che voi possiate assecondarlo nelle sue decisioni. (...) Addio, signori, credo che ogni tanto sentirete la mia mancanza.83 Detto ciò, si abbandona al suo confessore e a sua moglie. Madame de Maintenon piange: «Perché piangi? - chiede il re, che ancora emette tiepidi bagliori - hai forse paura che io sia immortale?»; ma immediatamente dopo lui stesso è contagiato dal dolore della sua compagna: «Credo che piangerò -dichiara C'è qualcun altro nella stanza? Non che mi importi, non credo che qualcuno potrebbe sorprendersi vedendo

come mi sgretolo davanti a te»; e a ciò aggiunge: «Ho sempre sentito dire che è difficile morire, ma a me sembra molto facile». In seguito chiede scusa a Madame per non essere riuscito a renderla felice. La donna non risponde. Un istante dopo i raggi del re di tutti gli astri si spengono per sempre. Gli appartamenti di Luigi XIV si convertono immediatamente in un tempio improvvisato; orazioni e musica sacra si innalzano al cielo chiedendo la salvezza eterna per il defunto sovrano. Mentre la corte è in lutto, il nuovo e luminoso reggente non sta nella pelle dalla felicità. Dopo quarantacinque anni di vita dissipata, finalmente viene riconosciuto il suo vero valore, e gli viene addirittura permesso dimostrarlo. Tuttavia, passato il primo momento di euforia, si rende conto di quanto il suo posto in Francia sia transitorio ed effimero: il piccolo Luigi XV fatica a crescere, in quanto la sua salute è fragile, ma lo fa comunque. Ostenta già il titolo di re seppure non lo eserciti ancora. Che ne sarà del duca d'Orléans una volta che Luigi XV sarà maggiorenne? Sara costretto a tornare per l'ennesima volta alla vacuità di prima? Filippo non sopporta nemmeno l'idea. Perciò ricomincia a pensare alla Spagna; qui lo attende una possibilità molto più duratura e sicura. Quando guarda alla nostra terra, gli piace ciò che vede: suo nipote Filippo V è una marionetta nelle mani di sua moglie; dopo un solo anno di matrimonio, «la regina [Elisabetta] governa il re attraverso il meno nobile dei mezzi», raccontano al nuovo reggente; «Dio ha dato a Sua Maestà un'attitudine da subordinato -conferma Louville, che lo conosce da quando era un bambino , anzi, se mi è permesso dirlo, da asservito». È la regina a organizzargli la giornata; Filippo V non può nemmeno cambiare l'ora della battuta di caccia senza prima inviare un messo a sollecitare il permesso della sovrana: Gli sposi si separano così raramente che il re non si trattiene nemmeno con il suo confessore pur di non inquietare la suscettibile regina; e se è lei a prolungare la confessione, la manda a chiamare. Se, camminando assieme, lei rimane due passi indietro, lui si volta e l'aspetta.84 A seguito di questa importante informazione, ve n'è un'altra non meno succulenta, inviata dall'ambasciatore speciale del reggente di Spagna, il duca di Saint-Simon, suo intimo amico d'infanzia, che descrive la situazione psicologica del sovrano spagnolo: Solitario, devoto e divorato dagli scrupoli, di indole pigra e appagato nel condurre la vita più triste del mondo, più monotona, sempre più uguale a se stessa, senza mai pensare di cambiarla, né di offrire al proprio umore malinconico altra distrazione che non sia la caccia con i cani.85 Ma la notizia che più allieta il reggente francese è quella che annuncia, nell'ottobre del 1717, il grave disordine mentale del monarca spagnolo. Il re di Spagna e la sua oscura follia Il re spagnolo compie, due volte al giorno, il suo dovere coniugale e altrettante volte si confessa. Fin qui tutto normalmente anomalo. Ma il 4 ottobre 1717, inaspettatamente, prorompe in grida asserendo che un fuoco devastante lo consuma dall'interno; che mentre montava a cavallo un raggio fulminante ha trapassato il suo cranio, attraversato il suo corpo fino a raggiungere il centro stesso del suo organismo, e lì ha originato un fuoco terribile. I medici che lo esaminano non riscontrano alcuna

anomalia nel suo stato di salute, ragion per cui finiscono per considerare l'ipotesi che soffra di allucinazioni. Filippo si infuria e afferma che sarà la sua morte imminente a dargli ragione una volta per tutte. In questo stato di tormento si insinuano violenti incubi che lo spingono ad alzarsi dal letto con la spada in mano, scagliandosi contro le tende o contro tutto ciò che si avvicina, come ad esempio il sacerdote che gli si accosta per tentare di calmarlo. Durante questi attacchi selvaggi, il sovrano è vittima di cefalee, perdita di peso, astenia, problemi di concentrazione, amnesia, forte sfiducia in se stesso e desiderio di morire. Gli sovviene di conseguenza una nuova, grande, angustia: quella di morire in peccato mortale. Alla sua ipocondria si aggiunge la certezza che i problemi di cui soffre siano il castigo divino per la sua condotta peccaminosa. Il terrore di morire nel peccato lo porta a esigere che il suo confessore si posizioni accanto al suo letto e che preghi per lui per tutto il tempo in cui dorme. Nelle fila di coloro che si occupano del re, vengono aggiunti «tre rinomati medici francesi», il che esaspera la regina, preoccupata dallo spionaggio francese. La sovrana chiede al padre, il duca di Parma, che invii il suo dottore per assistere il malato. L'ambasciatore francese, in una dimostrazione di realismo superiore a quello dei medici, attribuisce il male allo smisurato impeto coniugale del monarca: «Il re è visibilmente esaurito a causa dell'uso eccessivo che fa della regina. È letteralmente consumato». Da alcuni mesi la regina gli aveva imposto un nuovo regime alimentare che, a giudizio degli ambasciatori e delle spie francesi, per il sovrano rappresentava un avvelenamento. Spezie, salse piccanti, carne rossa, vino di Alicante... il tutto condito da carezze dominatrici: questo aveva posto Filippo in uno stato di trance afrodisiaca continua, a spese della sua salute fisica e mentale. Il fatto è che, secondo quanto riferisce Alberoni in una delle sue lettere86, il sovrano annega in un pozzo di nera malinconia e presenta più di un sintomo di follia. La sua immaginazione lo porta a credere che la sua morte sia imminente e che gli sia necessario espiare le colpe sopportando ogni genere di malattie. Il suo animo è prostrato a tal punto che quasi non può muoversi senza aiuto e deve essere sollevato da più persone per poter salire in carrozza o montare a cavallo. Non solo Alberoni si intromette nell'intimità della coppia reale, ma tende anche a divulgare a destra e a manca aneddoti piccanti. Racconta a orecchie, a molte orecchie più che ben disposte ad ascoltarlo, che Filippo V possiede un «istinto animalesco con il quale aveva corrotto la regina (...). Non aveva bisogno d'altro che di una preghiera e delle cosce di sua moglie». Secondo il cardinale, nel giro di pochi secondi il re passa dal furore erotico al pentimento, saltando giù dal letto per inginocchiarsi, in lacrime, davanti ai personaggi rappresentati sull'arazzo appeso al muro, implorando la loro assoluzione per il peccato di lussuria appena commesso. In altre occasioni chiama gridando il suo confessore e, quando questi appare, supplica che lo perdoni, avventandoglisi al collo e rischiando quasi di strangolarlo. La regina chiede aiuto e si devono mettere in più d'uno per riuscire a togliere la gola del prete terrorizzato dalle mani del re uscito di senno. Solo pochi minuti di ritardo avrebbero aggiunto, oltre al peccato di lussuria, anche quello di omicidio. Per questo nessun sacerdote assume con piacere il ruolo di confessore, fatta eccezione per il gesuita francese Daubeuton, unica persona che possiede il dono di calmare gli attacchi del monarca.

Gli scatti di follia sono intermittenti, ma nelle fasi acute costringono il re ad assentarsi dai suoi obblighi ufficiali; in seguito si riprende e si ripresenta in pubblico apparendo del tutto normale. «Gli episodi della malattia continuarono a riproporsi durante quasi tutto l'anno seguente», scrive Alberoni, che sottolinea come la regina rimanga con abnegazione al suo fianco, senza separarsi da lui se non quando deve partorire, circostanza in cui diventa necessario ricorrere a un sostituto. Un simile spettacolo accende nell'animo del reggente francese un'indomabile brama di possedere la Spagna; ma proprio quando tutto sembra giocare a suo favore, accade che il malato lascia il suo personale inferno e riprende, come nulla fosse successo, le redini del paese che governa. Zio e nipote ritornano agli abituali diverbi, la loro reciproca antipatia sembra incontenibile, finché, improvvisamente, un avvenimento inaspettato fa sì che Filippo d'Orléans cambi le sue mire. La salute del piccolo Luigi XV si indebolisce, e il duca intravede serie probabilità di impadronirsi definitivamente del trono francese invece che essere costretto a limitarsi a un ruolo temporaneo. Ambizioso com'è, non vuole precludersi né la possibilità spagnola né quella francese. Che fare? Ai suoi occhi non v'è dubbio. Sebbene la mossa sia estremamente azzardata, cercherà un'alleanza che gli permetta di controllare entrambi i troni contemporaneamente. «Collaboriamo!», propone a suo nipote Filippo V. «Va bene - acconsente il re di Spagna non senza un certo sollievo - ma come?». Il patto tra adulti ipoteca la felicità dei bambini La risposta proviene dagli ambienti clericali. Corre l'anno 1721 quando il confessore del monarca di Spagna e il cardinale Dubois escogitano la formula politica e, in un exploit che precorre il moderno marketing, la promuovono come «opera maestra di audacia e di abilità senza paragoni». La notizia si mantiene segreta finché le due fazioni non hanno negoziato in modo soddisfacente ognuna delle clausole. Solo a partire da questo momento si rende pubblica la buona notizia in entrambi i paesi: i bambini delle rispettive discendenze verranno utilizzati come vincolo tra i due regni. L'Austria e gli altri paesi rimangono tagliati fuori e prendono atto attoniti della decisione di far sposare quattro creature, tutte minorenni e con stretti legami di parentela tra loro. Il negoziato ha bisogno della dispensa di Roma, in quanto i bambini in questione hanno tutti gli antenati uniti dallo stesso DNA. Il versante francese offre agli spagnoli una cugina e un nipote del re87: il piccolo Luigi XV, aspirante al trono, pronipote del Re Sole, nipote del duca d'Orléans e nipote di primo grado di Filippo V e una ragazzina di nome Luisa Elisabetta. È la quinta figlia di Filippo di Orléans. Parallelamente la fazione spagnola offre l'erede al trono, il principe Luigi, e sul fronte femminile immola l'infanta Maria Anna Vittoria, di soli tre anni. Il progetto consiste nel farli sposare: francese con spagnola, spagnolo con francese. Le creature non si conoscono tra loro, ma appartengono allo stesso albero genealogico e, in più, tre di loro portano il nome del loro patriarca universale, Luigi. Saint-Simon, che da tempo immemorabile è amico intimo del duca d'Orléans, viene inviato in Spagna con l'incarico di osservare con attenzione i candidati. L'infanta Maria Anna Vittoria, figlia di Filippo V e di Elisabetta Farnese, si vede costretta a esibire le sue grazie danzerine davanti all'invitato francese... e questo quando la principessa non ha

ancora compiuto quattro anni. Anche il principe Luigi è presente per essere esaminato dal duca, il quale lo definisce «alto e ben formato, anche se di salute delicata; abile nell'arte della danza e amante della caccia sopra ogni altra cosa». La spia francese, in vesti ambasciatoriali, aggiunge al suo rapporto che Luigi ha «l'intelligenza di un bambino, la curiosità di un adolescente e le passioni di un uomo». Nemmeno la regina scampa al suo sguardo da aquila; egli la descrive così: Il viso deturpato, pieno di cicatrici, estremamente sfigurata dal vaiolo, magra, sebbene possegga un bel collo e belle spalle; elegante e di bella presenza, parla francese con facilità e proprietà, sebbene con un certo accento italiano; nella sua naturale grazia non v'è minima traccia di ostentazione.88 Ma dell'intera famiglia, chi impressiona maggiormente l'inviato francese è al di là di ogni dubbio Filippo V, che non vedeva da molto tempo. Quel ragazzo diciottenne che aveva lasciato la Francia per prendere possesso del trono di Spagna si è convertito, agli occhi di Saint-Simon, in un rudere umano: Mi impressionò a tal punto che feci molta fatica a calmarmi. (...) Incurvato, di statura ridotta, aveva il mento sporgente, camminava trascinando i piedi, le ginocchia distavano tra loro più di quindici pollici, le sue parole erano tanto oscure e la sua espressione tanto sciocca che rimasi sconcertato. (...) Indossava una parrucca spelacchiata, che cadeva all'indietro... 9 L'ambasciatore francese, fortunatamente, finisce con il dare la propria approvazione. L'affare deve presentarsi come una perfetta alleanza francospagnola; non vi sarebbe nulla di peggio, in questo momento, che lasciar trasparire interessi personali. Che tuttavia ci sono, eccome. Filippo d'Orléans culla l'illusione di tramutarsi in re di Francia, idea nient'affatto peregrina considerando la precaria salute del piccolo Luigi XV e il fatto che la sua futura moglie ha solo tre anni, il che significa che le ci vorranno almeno altri dodici anni prima di poter concepire un rivale. Filippo V, da parte sua, si trova incatenato da una sequela di crisi depressive che gli tolgono le energie per alzarsi, figuriamoci per governare. Nella sua mente si fa strada l'idea di abdicare in favore del primogenito, ragion per cui bisogna trovargli moglie al più presto. I principi spagnoli e quelli francesi che si decide di far sposare tra loro non si sono mai visti in vita loro, mai parlati, nessuno chiede il loro parere in merito e a nessuno interessa la loro opinione. Firmato il contratto, si passa subito all'azione. Immediatamente il principe Luigi manda in Francia il regalo di fidanzamento che a lui più piacerebbe ricevere: due fucili da caccia. C'è da immaginarsi l'espressione avvilita che deve aver pervaso il volto della promessa sposa. Nella residenza del reggente il curioso omaggio non pare suscitare alcun desiderio di vendetta, anzi, al contrario, l'accordo di nozze viene festeggiato con un opulento banchetto, con l'offerta di «una superlativa gamma di frutti di ogni genere, confetture e dolci, e una tale profusione di liquori che, il giorno seguente, si dovettero gettare dalla finestra i secchi di orzata e limonata avanzati; in tutto, il festino era costato la cifra di ottantamila lires».90 Nel 1722, l'anno dopo aver stabilito il baratto di bambini, l'infanta Maria Anna Vittoria viaggia verso la Francia stretta alla sua bambola piangendo disperatamente: a quattro anni, la piccola non si spiega perché la allontanino dai suoi genitori e le impongano niente meno che un marito. Nemmeno il fortunato Luigi XV, undicenne, ha la minima voglia di

sposarsi. Si racconta che il re-bambino si disperi all'atroce notizia del matrimonio forzato con una bambina tanto piccola e sconosciuta; gli occhi «rossi e gonfi» e un'aria sconsolata gli fanno compagnia per giorni interi. «Su, Eccellenza, su! - lo conforta lo zio, il duca di Berry Dobbiamo accettare il nostro destino con l'umore migliore e con la disposizione d'animo più coraggiosa». Il piccolo re trova una minima consolazione solo quando gli assicurano che il matrimonio non è prossimo, dato che si dovrà attendere che l'infanta compia l'età adeguata, cioè dodici anni. La prospettiva di nove anni di tregua riesce, infine, a risollevare il suo animo infantile e gli restituisce la voglia di riprendere a giocare. Riconfortato dall'aria distesa che si respira a Versailles, il reggente scrive al parente e attuale complice, il re Filippo V: «Ricevo la più grande soddisfazione della mia vita per via del ristabilimento della fiducia e dell'amicizia con cui Sua Maestà mi onora». Mentre così si esprime, la quinta dei suoi sette figli sta per essere inviata in Spagna. All'epoca ha undici anni, si chiama Mademoiselle de Montpensier e svolazza a destra e a manca senza che nessuno, finora, si sia accorto della sua esistenza. Luisa Elisabetta e il principe Luigi Filippo d'Orléans è un padre più che amorevole con la sua scandalosa figlia maggiore, la duchessa di Berry, che conduce la stessa vita folle che ebbe lui, ma al contrario del padre lei è dotata di un cervello di gallina e molto meno produttivo. Nei confronti degli altri sei eredi legittimi, il duca ostenta la più totale indifferenza; a mala pena sa a che numero ammontano. In tale direzione lo affianca la sposa, che se prima di sposarsi era una donna insulsa e inoffensiva, dopo anni di matrimonio è divenuta indolente, frivola, pettegola «che pensa solo al suo aspetto esteriore, benché di certo non si tratti di una gran bellezza; si ubriaca tre o quattro volte a settimana e parla come se avesse sempre la bocca piena di zuppa; è indolente, arrogante e capricciosa», così la descrive sua suocera, che aggiunge: «Filippo [suo marito] la chiama in faccia Madame Lucifer, e lei ne ride».91 L'attacco prosegue: «Il matrimonio di mio figlio ha del tutto fatto a pezzi la mia vita e si è portato via una volta per sempre la mia allegria naturale».92 Il benessere fisico, mentale e l'educazione di Mademoiselle Montpensier sono aspetti che i suoi genitori hanno ignorato completamente. La sua costernata nonna denuncia: Non ho mai visto bambini educati in modo così miserabile [come i miei nipoti]. Un giorno chiesi alla precettrice perché non stava crescendo quei bambini come aveva fatto con i miei, ed ella mi rispose: con i vostri figli potevo contare sul vostro appoggio, ma quando ho iniziato a occuparmi di questi, la madre mi rideva in faccia, assieme ai suoi figli, ogni volta che presentavo una qualche rimostranza. Perciò adesso lascio che facciano quello che vogliono.93 Alcune settimane dopo la nonna prosegue: La disastrosa educazione dei miei nipoti è una disgrazia per questo paese. Mia nuora permette che facciano qualsiasi cosa vogliano fino al compimento dei vent'anni (...) e io non ho intenzione di rovinarmi la vita tentando di riaggiustare ciò che la loro madre ha frantumato.94 La precettrice a cui si riferisce Madame nella sua lettera lascia l'incarico quando Mademoiselle Montpensier ha cinque anni; sua madre si

sbarazza dell'opprimente fastidio che le arreca la sua educazione e ne affida la responsabilità, a tempo indeterminato, a un convento di monache disponibile e dal nome illustre. L'edificio si trova in una splendida zona controllata da un sindaco sollecito; il funzionario in questione va in brodo di giuggiole alla notizia che la figlia dell'uomo più potente di Francia vivrà confinata nei suoi territori, motivo per cui l'accoglie con «pasticcini e gelato». Incurante della deferenza cui è oggetto ovunque, la piccola è una bomba a orologeria che non conosce il significato della parola «gratitudine», ignora cosa sia un «limite» e che mai prima di allora aveva sentito la parola «obbedienza»: la pace di quell'angolino bucolico viene quotidianamente sconvolta dal momento in cui Mademoiselle vi mette piede. Il giornaliero terremoto non tarda a produrre i frutti che la piccola cerca: nel giro di pochi mesi le monache rispediscono la creatura diabolica a casa sua. La principessa arriva a Palazzo Reale di notte; i suoi genitori hanno completamente dimenticato la restituzione di questo pacco che essi stessi hanno procreato: «Hèlas!» [Caspita!] esclamano. Essendo sul punto di recarsi all'opera, spettacolo cui il reggente è molto affezionato, decidono di unire al gruppo la nuova arrivata. «Sarebbe stato molto più prudente mandarla subito a letto - scrive una delle cameriere di palazzo - ma il Teatro dell'Opera è vicino a palazzo, e, inoltre, lo spettacolo parlava di fate». Fin dal primo giorno in cui Mademoiselle aveva bussato alle porte della vita era stata considerata solo un fastidioso e inopportuno contrattempo. Sua madre, che aveva dato alla luce altre quattro figlie femmine prima di lei (ancora nessun maschio), dovette sopportare quaranta ore di supplizio per ottenere, alla fine, un risultato detestabile. Scrive la nonna paterna: «La povera creatura è stata accolta da tutti molto male, e da me con pena sincera. Peccato non si sia trattato di un maschietto!».95 Non è esagerato affermare al reggente viene in mente di avere questa figlia solo nel momento in cui deve cercare un pacco da spedire in Spagna. Prossima al dodicesimo compleanno, la scelgono come regalo per Luigi, il primogenito di Filippo V e della sua defunta sposa Maria Luisa di Savoia. Nel garbuglio del loro albero genealogico, Luisa Elisabetta è zia del suo potenziale marito. Improvvisamente questa ragazzina, di cui nessuno si era interessato fino ad allora, attira sulla sua piccola figura tutta la curiosità dei suoi familiari; subito ci si rende conto che la creatura non ha un nome di battesimo, nessuno si è preoccupato di battezzarla né di organizzare la sua prima comunione; in effetti non si sono curati nemmeno di insegnarle nulla, non hanno corretto le sue disastrose abitudini alimentari, la sua condotta, le ore di sonno, le maniere... È cresciuta, si può dire, come un cagnolino la cui presenza è tollerata alla stregua di un inevitabile rumore di fondo. Alla notizia del matrimonio, la principessa si vede sottoposta contemporaneamente a battesimo, comunione e cresima, improvvisamente, con un vestito qualsiasi e nessuna celebrazione. «A me sembra molto strano», scrive la nonna paterna96, che riveste il ruolo di madrina della cerimonia. Per conferire al rito la solennità che merita, il ruolo del padrino è affidato al cugino, il piccolo Luigi XV. Dopo l'officio del sacramento viene inviato in Spagna un ritratto a olio della promessa sposa, confezionato in tutta fretta facendo pressioni sul pittore affinché migliori il più possibile la modella, poiché, come gli dicono, «è più importante renderla amabile che essere fedele all'originale».

Mentre Luisa Elisabetta posa con grande sofferenza, essendo la piccola di indole inquieta, le inoculano alcune nozioni base di lettura e scrittura; tra una seduta di indottrinamento e l'altra il duca si rende conto che la futura regina di Spagna non ha ancora un nome di battesimo; di corsa decidono di unire il nome del nonno materno e della nonna paterna, e in tal modo le attribuiscono il nome di Louise Elisabeth, anche se in seguito, per evidenti ragioni, decideranno di tradurlo in spagnolo: Luisa Isabel. La principessa inizia a sperimentare personalmente, indossandolo lo stile del futuro che l'attende. Per questo motivo si veste alla spagnola e si lascia ammirare da tutta la famiglia. Sua nonna, forse perché dopotutto le fa piacere essere la madrina della - potenziale - regina di Spagna, si gode lo spettacolo: Alcuni giorni fa è venuta a farmi visita in un vestito spagnolo; le stava molto meglio dei vestiti francesi. Il tessuto era di broccato verde e oro; al posto della cuffia splendeva un cappellino nero con una piuma bianca. Questo accessorio mi pare incantevole e stava benissimo sul capo di Mademoiselle Montpensier, dato che il suo viso è molto largo... Ciò che più mi sorprende è l'aver scoperto in lei un aspetto davvero spagnolo: è molto seria, non sorride mai e parla molto poco.97 In Spagna il contesto in cui si muove il principe Luigi è opposto rispetto a quello della principessa francese. La nascita del primo Borbone spagnolo avviene in una terra devastata dalla guerra e dalla canicola di agosto; tuttavia la sua venuta alla luce è celebrata in pompa magna e la creatura è accolta con enorme compiacimento popolare. Il principino non può essere battezzato fino a che suo padre non abbia fatto ritorno dalla guerra, il che avviene in novembre. Voilà la surprise: al fianco dell'orgoglioso padre avanza Filippo d'Orléans, che Luigi XIV ha rivestito del primo incarico importante della sua vita e che ha combattuto trionfalmente a Lérida contro l'arciduca austriaco. Il duca d'Orléans viene ricevuto a Madrid come un eroe; gli verrà offerto nientemeno che il ruolo di padrino del principino, mentre la sua fastosa pelliccia di velluto grigio con broccato in oro e tempestato di diamanti suscita sospiri di ammirazione tra i presenti. Filippo d'Orléans ha commissionato l'abito a Parigi: mentre migliaia di spagnoli cadono come mosche a causa della guerra, la pelliccia attraversa senza incontrare ostacoli la nazione oppressa da polvere da sparo e morte. Il duca sa farla risplendere come nessuno, specialmente di fronte alla regina. I testimoni assicurano che la sovrana trema per l'eccitazione al passaggio del duca e della sua pelliccia; quando i loro corpi si trovano l'uno accanto all'altro, egli le rivolge cerimoniosamente lo sguardo e la omaggia inclinando il capo. Le chiacchiere si diffondono: si dice che la regina e il duca siano sul punto di intraprendere una relazione. La Spagna che accoglie la nascita del principino Luigi è un paese che vive sprofondato in credenze oscure: le menti prostrate dalla guerra si rivolgono a guaritori, indovini o stregoni creduti in grado di dissipare angoscia e disperazione. I duchi di Alba, ad esempio, sono tra i tanti che confidano di più in questi dispensatori di miracoli che nei medici stessi; quando il figlio Nicola cade vittima di una malattia che lo riduce in una condizione ai limiti della putrefazione, i duchi fanno richiesta di reliquie a un convento. Dato che la supplica proviene da persone di tale importanza, i monaci non trovano di meglio che inviare il dito di un santo, il loro più grande tesoro; immediatamente la duchessa lo polverizza in un mortaio, scioglie la polvere in acqua e irriga da due

diverse parti gli organi interni del malato. Una parte del dito è offerta a Nicola perché la inghiotta, l'altra metà gli viene introdotta tramite un clistere. I duchi, pervasi dalla fede, assistono all'operazione in ginocchio. In mezzo a questi usi grotteschi e alla miserie della guerra, il battesimo dell'Infante splende come una magnifica oasi di gioia; abiti e gioielli avanzano solennemente tra arazzi e tappeti; l'intero palazzo è stato attentamente adornato, illuminato e tirato a lucido. È stata appositamente costruita una scala balaustrata in argento che colleghi la cappella con la stanza del neonato. Da essa scende una spettacolare processione aperta dal cardinale Portocarrero, il quale finanzia tutte le spese e si fa trasportare su una portantina incastonata con oro e pietre preziose. Lo segue un corteo di cantori, paggi, uomini di Chiesa e di corte, oltre a sei Grandi di Spagna. Questi ultimi hanno ricevuto l'onorevole e importante incarico di portare ognuno un oggetto di cruciale importanza: una sputacchiera, panni di lino, una piccola pelliccia, un puntaspilli, un cero e un bacile. Tra loro avanza Filippo d'Orléans, lo sfolgorante padrino, che desta l'ammirazione generale con la sua pelliccia di velluto e diamanti. Per ultimo appare il cuscino broccato in oro dove la madrina, la Principessa degli Orsini, trasferisce l'Infante. Tutta la nazione vibra durante i tre giorni di festa, balli e spettacoli teatrali; nella piazza madrilena della Cebada si succedono corse di oche. Ancora nessuno prevede che, quindici anni dopo, questo stesso principe che tanta gioia diffonde nel mezzo della guerra, si convertirà nel genero del suo padrino di battesimo. Nel momento in cui Filippo V e il reggente suo zio combinano l'affare delle nozze, Luigi ha già consolidato il suo titolo di Principe delle Asturie. Al contrario dell'avversione che la notizia delle nozze combinate suscita nel re-bambino francese, il principe spagnolo è più che desideroso di incontrare la Mademoiselle che gli inviano i vicini. Non la conosce, ignora che tono abbia la sua voce, ma è catturato dal quadro che la rappresenta fatto recapitare dai francesi, sebbene, per la fretta, lo sfondo non sia neppure stato terminato. Oltre all'estetica, che il quadro riproduce, è stato inviato un fascicolo di tono propagandistico che tratteggia il profilo psicologico della principessa: Se le Loro Maestà Cattoliche sono soddisfatte delle grazie di Mademoiselle Montpensier per come appaiono nel quadro, sappiano che queste non sono maggiori di quelle che accompagnano tutte le sue azioni, data la dolcezza, la solidità e l'apertura del suo spirito. Sono doni naturali che mostrerà ella stessa, poiché troverà la sua gioia in quella del Principe delle Asturie a nel desiderio di compiacere le Loro Maestà Cattoliche.98 Con simile biglietto da visita, la regina Elisabetta proclama ai quattro venti di amare già questa sposa benedetta come fosse figlia sua; il re, da parte sua, desidera affrettare il più possibile l'inserimento nella sua casa di questa cugina con cui condivide il nonno, dato che Luigi XIV lo è anche di Luisa Elisabetta. Contemporaneamente, il Principe delle Asturie non riesce a pensare ad altro che non sia la padrona del suo cuore e futura compagna del suo letto. La trova irresistibile al punto che chiede che gli appendano il suo ritratto di fronte al letto; vuole abituarsi alla sua presenza in un luogo così intimo e gli sembra una buona idea contemplare la sua incantevole bellezza mentre sopraggiunge il sonno. Ma i rigori mistici paterni gli negano tale piacevole diletto solitario. Con la scusa che «non si può negare ai Grandi di Spagna il

piacere di ammirare la futura Principessa delle Asturie,», il dipinto viene trasportato in un luogo più pubblico. Anche così, il ragazzo è pazzo di gioia per la compagna che gli hanno assegnato e si presenta al matrimonio come chi varca la soglia del Paradiso. Il suo ottimismo è tanto straripante che a malapena prende in considerazione la lettera che, pochi giorni prima dell'incontro, gli manda la nonna della sposa: Non si può dire che Mademoiselle Montpensier sia brutta; ha begli occhi, pelle bianca e sottile, naso ben fatto anche se un po' troppo magro, bocca molto piccola. Ma in generale è la bambina più sgradevole che abbia visto in vita mia. Ogni sua azione, che parli, mangi o beva, fa perdere la pazienza a chi vi assiste. Certamente né io né lei abbiamo versato lacrime quando ci siamo dette adieu.99 Rito francese per nozze spagnole Il viaggio risulta penoso non solo per le sei settimane di trambusto, le fermate obbligatorie e gli interminabili ricevimenti, ma anche perché la sposa si ribella all'unica distrazione concessale, cioè la lettura di «rapsodie del più profondo misticismo». Infine, il 19 gennaio, la comitiva raggiunge Cogollos e la principessa può distrarsi con le novità; al suo arrivo i re e il principe delle Asturie si presentano a riceverla travestiti da persone comuni; non resistono alla tentazione di contemplare in modo anonimo il bell'aspetto della futura regina di Spagna, che finora hanno visto solo nel dipinto a olio. Ciò che vedono supera le loro aspettative e quelle di tutti i presenti: le lodi dirette alla dolcezza e all'innocenza della giovane si diffondono tra gli astanti. Ma la mattina seguente si percepisce nella sposa un radicale cambiamento di atteggiamento. Se fino ad allora era stata obbediente e amabile, improvvisamente la piccola si mostra cocciuta, di pessimo umore, sgradevole e muta. Non pronuncia una sola parola mentre un'interminabile sfilza di visitatori le rende omaggio. I re, il principe, Saint-Simon e la sua famiglia, i Grandi di Spagna, la nobiltà quasi al completo e la relativa comitiva vengono privati del piacere di sentire la voce di Mademoiselle; durante i discorsi, Luisa Elisabetta mantiene il silenzio e lo sguardo fa terra. Dopo questo inaspettato comportamento la conducono a Lerma, dove i sovrani hanno deciso che si terranno le nozze. Non si capisce perchè la scelta sia caduta su questo luogo, dato che l'unico palazzo disponibile a Lerma appartiene al duca dell'Infantado, il quale è in continua lite con Filippo V. Comunque al duca non resta altro da fare che cedere i suoi possedimenti, ma esplicita il suo disappunto rifiutando di presenziare all'evento e negando di rendere omaggio con mobilio o paramenti adeguati. Il 20 gennaio ha luogo la cerimonia nuziale; trombe e ovazioni accompagnano gli sposi lungo le vie. Il Principe delle Asturie, slanciato, cammina con passo aggraziato, mentre la sposa, dodicenne, avanza sdegnosamente e ostentando fatica; nemmeno la collana di gemme appena donatole dalla regina riesce a far sollevare gli angoli della bocca della piccola. La cappella che li accoglie è disadorna di tappeti e arazzi, come disposto dal duca dell'Infantado; il freddo fa mancare il fiato. Saint-Simon, che ostenta il suo ruolo di invitato francese di maggior rilievo, descrive nelle sue memorie ciò che succede: I re e i principi giunsero con tutta la corte e il re venne annunciato a gran voce: «Aspettate! - strillò il cardinale dall'interno, montando in

collera -Non sono ancora pronto!». La comitiva allora si fermò, mentre il Cardinale100 continuava la sua reprimenda, più rosso della sua casula e sempre furioso. (...) Mi permisi di sorridere poiché vidi che il Re e la Regina avanzavano verso l'altare parlando e ridendo; tutta la Corte in realtà rideva con loro.101 In mezzo a questa baldoria solo gli sposi restano seri e genuflessi, ognuno sul suo inginocchiatoio. Al termine del banchetto nuziale si crea una polemica tra invitati francesi e spagnoli. Spiega Saint-Simon: La modestia e la gravità degli spagnoli non permette loro di assistere al ritiro dei novelli sposi. Alla fine della cena di nozze è d'uso fare un po' di conversazione e in seguito tutti si ritirano a casa propria, inclusi i parenti più prossimi, uomini e donne di ogni età. Quindi gli sposi si svestono, ognuno nella sua stanza, e si ritirano senza testimoni, come fossero sposati da molti anni.102 Ma tanto all'ambasciatore di Francia quanto agli altri invitati francesi sembra che senza un'alcova simbolica, compresa di simulazione di unione matrimoniale, le nozze non siano valide. Il pasticcio è servito. Da una parte Luigi e Luisa Elisabetta non hanno ancora l'età per consumare sessualmente l'unione che la Chiesa ha ratificato spiritualmente, dall'altra Filippo V non è certo dell'accoglienza che la richiesta francese potrebbe ricevere tra gli spagnoli. Internamente molto combattuto, infine acconsente alla grottesca funzione. La regina, il re e una ressa di cortigiani seguono il cammino dei bambini verso il loro appartamento; un morboso pizzicore attraversa lo stomaco dei presenti spagnoli quando le creature si distendono l'una accanto all'altra nel letto preparato per l'occasione. Un quarto d'ora dopo le tende di velluto che pendono dal baldacchino si chiudono e pongono fine allo spettacolo. Il cavaliere di Péze è inviato a Versailles con l'incarico di comunicare senza indugio che il matrimonio è stato consumato, compito per il quale riceve una gratificazione di quindicimila lires. Tuttavia la notizia è falsa. Filippo V non ha perso il suo cristiano senso del giudizio e colloca due vigilanti tra i tendaggi. Il duca di Popoli e la duchessa di Montellano hanno l'importante compito di non togliere gli occhi di dosso ai neosposi, costringendoli a restare supini, senza sfiorarsi né guardarsi. Quando la sala rimane vuota e i mormorii degli spettatori sono lontani, l'assistente impone al principe Luigi di uscire immediatamente dal letto e recarsi in un'altra stanza, ordine che il neosposo accoglie mettendosi a piangere. Ma sia il duca che il padre accolgono con indifferenza la fragilità emotiva dello sposo: A causa dell'età e della debolezza del Principe delle Asturie - scrive Saint-Simon - egli non abiterà con la principessa finché le Loro Maestà Cattoliche non lo ritengano opportuno, il che non succederà almeno per un anno.103 Né il re né l'ambasciatore francese fanno menzione dell'età o della delicatezza di Luisa Elisabetta. Il giorno dopo, un'effervescente Madrid accoglie i neo sposi; le vie e le piazze formicolano di folla elettrizzata, madrileni e forestieri sperano di riuscire almeno a intravedere la futura regina di Spagna. Vana speranza: durante il viaggio da Lerma alla principessa si sono infiammati due gangli del collo costringendola a letto e impedendole di soddisfare il suo nuovo popolo. L'allarme si spande a macchia d'olio e i testimoni, facendosi il segno della croce, si domandano: «È possibile che la vita indecorosa del reggente abbia contaminato i suoi figli con quella malattia innominabile?». «Oh Signore, Signore!», si sente la regina

sospirare. «Il suo sangue è pourri!» [corrotto], diagnostica, con tono allarmante, il medico che assiste e salassa la convalescente. Saint-Simon dà fondo a tutte le sue arti persuasorie per placare il temporale; con calma spiega che sebbene il reggente avesse mantenuto comportamenti tali da favorire la comparsa del disturbo genitale che gli veniva attribuito, tuttavia, che lui sapesse, non ne era mai stato realmente colpito. La risolutezza dell'ambasciatore solleva i sovrani dal sospetto di contagio; da quel momento la regina assume personalmente il compito di accudire la nuora, «somministrandole il brodo e le altre cose prescritte». Alle sue spalle, l'ambasciatore francese assolve al suo ruolo di spia e avvisa il reggente: Devo avvertirvi che la causa di tanto allarme [per la malattia della Principessa] risiedeva nella vostra salute e in quella della signora duchessa di Orléans, che, nel caso in questione, dipende dalla vostra. Ho dovuto dar loro [ai Re] ogni tipo di rassicurazioni, persino con elogi verso Vostra Altezza Reale che, mi permetta di dirlo, non sempre si è meritato da questo punto di vista.104 Una volta ristabilitasi la malata, tutta la corte spera di godere, infine, della dolce piccola. Si trovano, invece, ad aver a che fare con una capricciosa, testarda, dedita a sciorinare toutes sortes d'enfances [ogni sorta di capriccio]. Un incubo di bambina La quotidianità della famiglia reale si divide in due: i re conducono vita separata dai figli, con continui cambi di residenza tra Aranjuez, San Lorenzo de El Escorial, Riofrío, El Pardo, Madrid e, soprattutto, La Granja de San Ildefonso, la loro preferita. Nel frattempo i principi delle Asturie restano a Madrid a occuparsi dei più piccoli; solo di tanto in tanto è permesso loro visitare i reali genitori. Anche nelle rare occasioni in cui la famiglia al completo si ritrova a palazzo, i re si limitano a mangiare e pregare, quasi non rivolgendo la parola ai figli, sebbene mantengano con essi un curioso fitto scambio di lettere quotidiane, sempre in francese. Nelle sue missive, il principe Luigi informa il padre su tutto ciò che accade alla sua giovane sposa e ai fratelli, dedicando lo stesso spazio al dettaglio delle pene familiari e ai suoi successi nella caccia. Nel rito epistolare, come in molte altre cose, non vi è figlio più obbediente e diligente; ogni pomeriggio, ogni singolo pomeriggio, la sua attenta calligrafia si firma con identica servile ampollosità: «Leur fils plus soumis et leur sujet le plus fidelle» [Il vostro figlio più obbediente e il vostro servo più fedele]. La quotidianità è noiosa e interminabile, non c'è quasi nulla d'interessante da fare. Il principe delle Asturie e suo fratello Fernando, il futuro re Fernando VI, combattono la noia perdendosi per giorni interi nel bosco a cacciare, mentre Luisa Elisabetta si distrae facendo scherzi alle persone che la circondano, senza curarsi troppo né della pesantezza delle sue burle né del rango delle sue vittime. Qualunque cosa pur di vincere la noia, per esempio fingere per giorni interi di essere diventata sordomuta. Le persone a palazzo le rivolgono domande e lei, semplicemente, non risponde. Saint-Simon viene convocato per costringere la principessa a desistere da questo gioco, che ha stancato tutti e non risulta divertente; l'ambasciatore si reca da lei, convinto che avrà successo in quanto si sente autorizzato a imporre un'educazione alla principessa così come lo farebbe suo padre, anzi, con

molto più equilibrio di quanto farebbe lui. Entrando nella stanza, però, si trova di fronte una bambina solennemente immobile sotto il baldacchino, le dame da una parte e i Grandi dall'altra, tutti con i nervi a fior di pelle. L'ambasciatore fa tre inchini in direzione della bimba e la saluta; lei oppone lo stesso gelido silenzio che ha mantenuto tutto il giorno. Allora Saint-Simon ricorre a uno stratagemma che gli pare astuto e infallibile: chiede se la principessa abbia alcun messaggio per i suoi genitori, i duchi di Orléans, a cui stava scrivendo proprio nel momento in cui era stato fatto chiamare. Egli stesso racconta il seguito della scena: [La principessa] mi guardò e si abbandonò a un'eruttazione che fece tremare le pareti. Rimasi confuso dalla sorpresa. Un'altra, rumorosa come la prima, vi fece seguito. Le chiesi quindi di comportarsi bene, ma non riuscii a evitare di ridere. Alla mia destra e alla mia sinistra tutti si portavano le mani alla bocca e tremavano loro le spalle. Una terza eruttazione, più forte delle prime due, mandò definitivamente in confusione i presenti. Le risate erano ormai generalizzate, e superavano ogni limite. Tutti, morendo dal ridere, uscirono da dove poterono, senza che la Principessa perdesse la sua serietà.105 I re, di fronte a tale comportamento, reagiscono con la condiscendenza tipica degli adulti di fronte agli errori di un bambino che è giunto loro in stato selvaggio. In fin dei conti, si dicono, la principessa ha solo dato mostra di eruttazioni, e nemmeno flatulenze, nelle quali la sua famiglia è solita fare a gara. Tolleranti, ammettono addirittura la bricconata pubblica e vergognosa con cui la nuora sfinisce la prima cameriera della regina, donna settantenne, sussiegosa e secca, a cui costa un grande sforzo persino sorridere e accettare che le sorridano. La contessa di Altamira, titolo ostentato dalla severa dama, si vede scomparire la gonna nel bel mezzo di un ricevimento, rimanendo in mutandoni e con le caviglie esposte. Cento paia di occhi osservano il suo austero ghigno trasformarsi in un'infinita umiliazione, mentre la gonna giace ai suoi piedi. Resta a lungo attonita, il viso rosso, il mento sudato e la mente che non riesce a spiegarsi la causa di tale disastro. La causa la conosce invece bene Luisa Elisabetta: sono giorni che studia il guardaroba dell'anziana, finché scopre che solo un fine cordoncino mantiene le voluminose gonne al loro posto. Ora si tratta solo di attendere il momento più idoneo per il brillante spettacolo. L'occasione si presenta il giorno in cui un nutrito gruppo di persone importanti si affolla nei saloni di palazzo; è allora che la futura regina avvicina la sua esile figura al vetusto posteriore della contessa, in un batter d'occhio tira con forza il cordoncino e, con la massima tranquillità, lascia che la legge di gravità si occupi di completare l'opera. Lo scandalo oltrepassa i confini di Spagna, ma non provoca particolari conseguenze per la discola. Da una parte i suoi genitori, il reggente e sua moglie, sono assorbiti dalle loro liti personali e non hanno voglia di occuparsi di questa figlia, la cui educazione e assistenza hanno messo nelle mani dei re spagnoli e di Saint-Simon; dall'altra, Filippo V e la regina Elisabetta chiudono un occhio poiché, secondo loro, la povera nuora non sa ciò che fa; in fin dei conti non è che la vittima di una situazione ambientale disastrosa. Sarà dura metterla in riga, si dicono, ma alla fine il frutto acerbo maturerà e lascerà spazio alla dolcezza che ci si aspetta. E parlando di dolci, è proprio lo zucchero a far impazzire la ragazzina: pasticcini, biscotti e confetti sono nella sua bocca in tutte le ore in cui ufficialmente non si dovrebbe mangiare, mentre

durante i pasti ad attrarla sono i sapori piccanti, brodo di granchio e rape immerse in gran quantità di aceto. Inoltre, qualunque cosa dicano i suoi assistenti, la principessa delle Asturie non accetta alcun cibo caldo: zuppa, carne e uova può mangiarli solo se semi-congelati. Luisa Elisabetta esige che i piatti che le vengono serviti a tavola siano precedentemente esposti ai rigori invernali, e trova deliziosa la temperatura che così raggiungono. Tutte le pietanze devono essere condite come mai si era fatto prima nelle cucine di palazzo, l'aceto deve sempre essere a portata di mano perchè possa aggiungerlo a suo piacimento, dato che non si trova mai d'accordo con i criteri culinari di coloro che le preparano i pasti. Le avvertenze dei suoi assistenti e le gastriti, cui è soggetta a causa del caos alimentare, lasciano la principessa del tutto indifferente. In questo periodo, dopo quasi un anno di matrimonio - siamo nel 1723 - i principi delle Asturie continuano ad abitare in appartamenti separati a causa del tassativo divieto di Filippo V, che non permette loro nemmeno di passeggiare da soli sulla stessa carrozza. I sedici anni di Luigi, con le loro corrispondenti scariche di testosterone, lo mantengono nell'inquietudine propria della sua età, ma ogni volta che cerca di sfiorare la mano di sua moglie si scontra con il cipiglio del duca di Popoli, suo detestato assistente, che lo segue come fosse la sua ombra. Il desiderio di avvicinarsi a Luisa Elisabetta è pressante tanto quanto è cieca la sua obbedienza agli ordini paterni. Luigi si limita a pregare che, ogni tanto, lo lascino cenare con la principessa. Il re, forse perché in una momentanea regressione ricorda che egli stesso aveva solo pochi mesi più del figlio quando si era perso tra le braccia della sua defunta prima moglie, concede infine il suo permesso affinché pranzino o cenino da soli quando fa loro piacere, e oltretutto, a sorpresa, permette che esercitino, e si godano, i diritti carnali che gli derivano dall'essere sposati. Il banchetto che precede la consumazione del matrimonio si svolge all'Escorial, dove i principi attendono l'arrivo dei re come i cuccioli aspettano che la mamma li blandisca. Di tutto ciò che succede a seguire, danno conto, per iscritto, le spie francesi: Il Re entrò nella stanza del Principe e lo fece spogliare; la Regina, dopo aver fatto lo stesso con la principessa, lasciandola sdraiata sul letto, si recò a chiamare il Principe per poi accompagnarlo per mano, assistita dal Re, fino all'alcova dove si trovava sua nuora, e, lasciandoli assieme, le Loro Maestà si ritirarono fino al giorno successivo, quando tornarono dai neosposi. Il Principe era allegro e la Principessa aveva il volto infervorato.106 Rispondetemi, vi prego Le delizie della novità, per disgrazia del principe, sono effimere come un alito di vento. A poche settimane dall'episodio, Luisa Elisabetta si mostra del tutto indifferente nei confronti del marito tornano a manifestarsi i sintomi caratteristici del disturbo borderline di cui soffre: «Ignora del tutto l'arte del comportarsi adeguatamente, o meglio, non trova alcuna soddisfazione nell'esercitarla. Mangia in modo talmente sudicio da sorprendere e disgustare le Loro Maestà», riportano i testimoni. La piccola inizia a manifestare una tendenza ad alimentarsi in maniera autodistruttiva, con attacchi di bulimia in cui si rifiuta di ingerire un solo boccone a tavola e poi di nascosto si ingozza. Mischia quotidianamente rape e pasticcini, acciughe e cioccolata, acquavite con

uova e peperoni, in una quantità talmente insopportabile per il suo apparato digestivo che finisce per essere sistematicamente indisposta. Il principe le si avvicina sollecito, nella speranza che le sue dimostrazioni di tenerezza possano forse domare la belva. Ma lei gli dà le spalle, sdegnosa... e forse, in certa misura, anche disillusa. Perché la verità è che la poverina ha solo tredici anni, ma venendo da dove viene, tutti si aspettano che si comporti da maestra d'alcova. In poche parole, essendo la figlia del reggente, gli spagnoli danno per scontato che sarà lei ad addestrare nelle arti amatorie il suo sposo, di tre anni più grande di lei. Tuttavia Luisa Elisabetta è ancora una bambina a cui non interessa affatto il sesso; preferisce giocare con le cameriere e scorrazzare per il giardino. Il principe Luigi, da parte sua, sebbene abbia tre anni di esperienza di vita in più, e sebbene sia figlio di un drogato del sesso, ignora completamente quello che si debba fare tra le lenzuola. Naturalmente il padre lo aveva mantenuto del tutto all'oscuro riguardo a ciò che concerne i bassi istinti, che tante preoccupazioni avevano creato a lui; probabilmente ricordava che l'indolenza compulsiva si era entrata in collisione con la salute mentale di vari membri della sua famiglia, e perciò aveva preferito lasciare il principe Luigi nell'ignoranza e nel candore riguardo ai pensieri impuri e agli atti peccaminosi. In poche parole, il re non aveva mai avuto una «conversazione da uomo a uomo» con suo figlio, non gli aveva mai spiegato cosa fare e come farlo. Il povero principe, spinto all'azione senza la minima preparazione, non sa che fare. Timido com'è, non si permette di chiedere una vera e propria lezione, ma essendo disperato si decide infine a consultare per iscritto suo padre. In una prima lettera Filippo V, invece che chiarire i dubbi in modo esplicito, si toglie dall'imbarazzo rispondendogli che chieda direttamente a Luisa Elisabetta, giacché di sicuro in Francia non avevano tralasciato di istruirla in materia. Obbediente Luigi segue il consiglio... e in seguito, con calligrafia immacolata, comunica in francese il risultato ottenuto al padre: (...) Ieri notte ho detto alla principessa ciò che Vostra Maestà mi ha consigliato, ed ella mi ha risposto che nemmeno lei sa che cosa si debba fare, poiché non l'avevano informata se non a grandi linee. Perciò mi sono messo sopra di lei, ma non è successo niente; vi prego di rispondermi quanto prima e che mi diciate se devo stare sopra la principessa per molto tempo e come dobbiamo comportarci, e anche se lo potrò fare questa notte, dato che ella ha una guancia rossa e gonfia. Dio voglia che non sia nulla di cui preoccuparsi. Rispondetemi, vi prego, più rapidamente possibile, poiché resto in attesa di risposta.107 Non ci è giunta la risposta di Filippo V a un'interrogazione tanto incalzante. La lettera che il principe invia in seguito dà l'idea di quanto impreciso fosse stato il consiglio ricevuto dal padre: Ieri notte mi sono messo sopra la principessa, ma non è uscito niente dal mio corpo, quindi vi scrivo per sapere se vi sia ancora qualcosa che dobbiate dirmi a tal proposito. Spero che la vostra gotta migliori, in modo che possiate essere rapido nel caso io abbia qualche nuovo dubbio da sottoporvi.108 L'attacco di gotta di cui è vittima Filippo V non si attenua e il principe continua a navigare in un mare di ignoranza. Ecco un ulteriore tentativo epistolare: Vorrei ancora sapere da voi se devo mettermi sopra la principessa più di una volta a notte e se devo farlo tutte le notti. Finora non mi sono

permesso di fare nulla a causa del male che grazie a Dio vi sta infine lasciando. Attendo una vostra risposta.109 Finalmente il re dà segno di spiegare qualcosa al figlio circa le «modificazioni genitali» che ogni atto sessuale richiede all'uomo; è sorprendente che non gli sia venuto in mente di farlo prima, ma l'impressione è che parlare di sesso lo porti a temere di morire nel peccato. Il povero principe continua a non capire lo scopo e le regole dell'alcova, per cui, rassegnato, si prepara a gettare la spugna: Ieri notte il mio membro è divenuto molto ritto, e mi sono messo sopra la principessa, ma ancora non è uscito assolutamente niente. Per il resto ci amiamo sempre di più, e cerco di renderla contenta come posso. Desidero molto vedervi, e spero vi rimettiate presto. Rispondetemi prima possibile, altrimenti addio fino alla prossima occasione.110 Con questa quarta lettera il principe considera finita la consultazione sessuale, lasciandoci a bocca asciutta, e con la curiosità di sapere se, infine, fu in grado di scoprire il tesoro misterioso. Resta il sospetto che non ottenga mai l'adeguata istruzione, poiché Luisa Elisabetta non mostrerà mai segni di gravidanza, né prima della salita al trono del principe, né tantomeno dopo. L'orrenda morte del reggente Mentre in Spagna i principi sono impegnati nella ricerca del nocciolo del piacere carnale, in Francia il padre di Luisa Elisabetta, che tante volte il piacere lo aveva conosciuto, soprattutto fuori dal matrimonio, inizia a subire gli effetti degli eccessi a cui non aveva mai posto alcun freno. La maggior parte delle notti il reggente intrattiene gli amici offrendo stravaganti cene nei suoi petit appartements. Come confermano i pettegolezzi, che giungono fino in Spagna, le donne vi si presentano nude, la sfrenatezza sessuale si svolge sopra ai tavoli da pranzo e anche sotto, l'indecenza spropositata oltrepassa le mura di Palazzo Reale e i commenti tengono banco in ogni incontro di salotto. Sbornie, abbuffate, blasfemie e smanie pornografiche escono, di bocca in bocca, dalle stanze di Filippo d'Orléans fino a oltrepassare i confini nazionali; la fama della sua reggenza raggiunge la peggiore reputazione possibile, si parla di stupri, dissipatezze e crudeltà. Gli invitati comprendono soprani, ballerine e attrici teatrali, dame dell'alta società, stranieri interessanti, prostitute di lusso, minorenni, uomini danarosi e amanti della lussuria... Al momento di diramare gli inviti si tiene più in considerazione il livello di disinibizione che quello economico; non si dà peso né alle tendenze sessuali né alla data di nascita. Giovani e vecchi partecipano al gioco con il medesimo livello di coinvolgimento. Se vi è qualcosa di utile in questi baccanali è che vi si promuove la cucina francese. Filippo d'Orléans, autentico gourmet, sperimenta nel suo laboratorio personale nuove formule che poi trasferisce a tavola. La sua specialità sono le salse, a base di erbe, spezie e vino; adora inoltre inventare ricette con il cioccolato, prodotto che consuma quotidianamente e che fa divenire una moda in tutta Francia. Per il resto, il reggente dimostra la solita infedeltà verso le sue donne e fedeltà verso sua madre, la cui morte, avvenuta un anno prima, getta Filippo nel malessere più lacerante. Madame muore a settantun'anni, con una nomea che le procura il seguente epitaffio: «Qui giace l'ozio, padre di tutti i vizi»;111 insomma, i

francesi le attribuiscono la colpa di aver educato in modo del tutto dissennato questo figlio, la cui reggenza sopportano a fatica. Filippo d'Orléans non ha mai amato nessuno come sua madre; non riesce a trattenere le lacrime ogni volta che pensa a lei. Alla morte di Madame, Filippo si ritrova orfano di sostegno e vittima di una decadenza sempre più accentuata. Corre l'anno 1723 quando il cardinale Duclos scrive: Tutte le mattine fa i conti con i postumi delle orge della notte precedente, e sebbene a poco a poco recuperi, i moti del suo spirito sono deboli: non sopporta più alcuno sforzo acuto o continuato. Ha bisogno di piaceri intensi per ritrovare se stesso. (...) Dopo aver provato tutto senza limiti, ora confessa che non gli piace il vino e che si considera di nessuna utilità per le donne.112 Giunto a quarant'anni è ridotto a un rudere. Apoplettico, cianotico e gonfio, affronta il trascorrere dei giorni tra le braccia dell'amante di turno, la fedele Madame Phalaris. «Rinchiuso da solo con lei attende, divertendosi, l'ora di lavoro con il re».113 Il 2 dicembre 1723, giorno in cui nell'alcova non era avvenuto nulla di nuovo, il duca d'Orléans improvvisamente si sente male, si porta la mano al petto, trema, non riesce ad articolare parola, respira a fatica e si accascia tra le braccia della dama. Saint-Simon ci racconta il resto: Vedendo che [il reggente] aveva perso conoscenza ella uscì correndo. Spaventata in modo inimmaginabile, chiese aiuto con tutte le sue forze. Raddoppiò le grida, e siccome nessuno rispondeva, appoggiò come poteva il capo del povero principe sui bracci di due sedie vicine e corse verso il grande ufficio e l'anticamera, senza incontrare nessuno. Infine scese nel patio e nella galleria bassa. Mentre cercava aiuto ripeteva: «Gesù e Maria, abbiate pietà di me».114 Dopo un'interminabile ora di angoscia, un ristretto gruppo si presenta in aiuto del reggente; decidono di salassarlo. «Non è necessario che lo facciate voi! C'è ancora qui la sua amante!», gracchia una delle signore presenti, facendo sfoggio del peggior veleno che ha dentro. La sventurata Madame Phalaris ignora l'insulto e scoppia in lacrime. Il reggente non si riprende e muore pochi minuti dopo senza aver dato l'addio a nessuno. In seguito accade ciò che alcuni definiscono il «giusto castigo per il peccatore». Il Journal del giorno riassume così: [Il reggente] era stato aperto come usanza per essere imbalsamato e perché se ne estraesse il cuore. Durante l'autopsia, uno dei cani danesi del principe, senza che nessuno abbia fatto in tempo a impedirglielo, si lanciò sopra il cuore e ne divorò in attimo tre quarti. Questo sembra segno di una maledizione, poiché simile cane non è mai affamato, e una cosa del genere non era mai successa prima.115 All'epoca nessuno sospetta che il cuore del reggente e di quello dello zio, il Re Sole, siano accomunati da un destino molto simile. Anche il motore dell'apparato circolatorio del divino sovrano finirà nello stomaco di un altro essere vivente... sebbene nel suo caso si tratti di un eccentrico scienziato inglese dalle curiose abitudini alimentari.116 In Spagna, la morte del reggente coglie la figlia nel mezzo di un'altra infezione virale. La febbre alta spinge i re a tenere nascosta la notizia finché la nuora non si sia ripresa del tutto, cosa di cui non si dubita dato che già molte volte le sono occorsi malanni alla gola e all'apparato digerente. Quando, infine, si alza dal letto e scopre ciò che è successo, la principessa si scioglie in un pianto così straziante che si teme in

una fatale ricaduta; la regina Elisabetta si inginocchia al suo fianco e abbracciandola teneramente prega con lei per varie ore. Vedendo la scena dall'esterno si potrebbe pensare che il dolore di Luisa Elisabetta sia probabilmente frutto di una finzione, o di un attacco d'isteria passeggera; risulta difficile comprendere perché soffra tanto della perdita di un padre che non si è mai occupato di lei. Se la principessa fosse stata una persona emotivamente equilibrata, la cosa più probabile sarebbe stata che la sua reazione fosse intesa ad attirare l'attenzione... ma non è così. Il danno psichico di cui soffre spiega il suo comportamento. Luisa Elisabetta è davvero triste, si sente abbandonata e sola, il suo dolore è profondo e sincero. Le vittime di un disturbo della personalità come il suo vivono un devoto attaccamento a una figura dominante dell'infanzia, senza che diano troppo peso alla qualità di tale relazione. Certamente Filippo d'Orléans è molto lontano dall'essere stato un esempio, ma resta l'adulto che è stato più vicino a Luisa Isabella. Non le dà un'educazione, ma la porta con sé all'opera o a teatro e, ogni tanto, lascia cadere una carezza sul suo viso... niente a che vedere con sua moglie. Françoise Marie, madre di Luisa Elisabetta, odia il fatto di essere sposata a suo marito, vive nel solo tentativo di non essere infastidita né da lui, né dai figli che gli ha dato, passa le sue giornate dedicandosi quasi esclusivamente al viavai sociale, ad agghindarsi, a mangiare dolci e a frequentare i fratelli -tutti gli illegittimi del Re Sole - disdegnando altezzosamente tutto ciò che riguarda la sua famiglia. I suoi contemporanei raccontano di lei che non ama nient'altro che il letto e lo specchio, «quasi sempre sdraiata, è la donna più boriosa e accidiosa del mondo. Si alza per andare a messa e per imbellettarsi, ma appena ha pregato, si adorna come un reliquiario e si sprofonda nel sofà, da dove nessuno può smuoverla fino all'ora di tornare a letto».117 L'unico referente emotivo di Luisa Elisabetta è pertanto il padre. I malati come Luisa Elisabetta mutano drasticamente negli affetti e nelle opinioni rispetto al prossimo, passando rapidamente dall'odio o dall'indifferenza all'idealizzazione; a volte questi sbandamenti affettivi si presentano varie volte nell'arco della stessa giornata e dipendono fondamentalmente dalla prossimità o lontananza del soggetto che odiano o ammirano. Il disprezzo coincide con la vicinanza della persona in questione e l'esaltazione si produce di fronte a qualsiasi cenno di allontanamento, il che è esattamente ciò che accade con il duca: la principessa va in frantumi quando si rende conto di averlo perduto. I principi delle Asturie salgono al trono Filippo V non abbandona la regina Elisabetta un solo istante. Si svegliano alla stessa ora e fanno colazione assieme a letto; il re mangia latte cagliato poiché si tratta di un «ricostituente particolarmente efficace per riprendersi dalla notte anteriore e prepararsi alla seguente», secondo le parole di Saint-Simon, che si prodiga in chiacchiere anche su questioni di tale banalità. Al latte cagliato si aggiunge un beverone dalle presunte proprietà afrodisiache, composto di brodo, latte, due tuorli d'uovo, vino, zucchero, cannella e chiodi di garofano. «Sua Maestà lo beve deliziato», aggiunge soddisfatta la spia francese. Con lo stomaco pieno il re sbriga le sue questioni; i suoi segretari si posizionano accanto al letto. Intanto la regina, sdraiata dall'altra parte del letto, si occupa dei suoi lavori e ascolta.

A mezzogiorno è ora di alzarsi. Il sovrano si trasferisce nella stanza contigua per vestirsi da solo; poi viene raggiunto dal suo confessore. In seguito s'incammina per assistere alla toilette della regina, accompagnato dal duca d'Arco, il marchese di Santa Croce, i principi, i loro precettori e precettrici. Tutti, re incluso, restano in piedi durante l'ora circa per cui si protraggono le abluzioni della regina: mentre si veste, gli osservatori chiacchierano di argomenti senza importanza. Tutti i giorni, ogni singolo giorno il rituale si ripete. Nessuno si è mai azzardato a disturbarlo... finché non arriva Luisa Elisabetta. Fin quasi dal principio si rifiuta di partecipare alla contemplazione della suocera. Non le importa nulla di come si pettini, si lavi o si vesta; non desidera mostrarle sottomissione, preferisce rimanere nella sua camera a giocare con le cameriere francesi. Quando la costringono a partecipare con gli altri al rituale mattutino lo fa di malumore, senza sistemarsi e non si unisce facilmente alla conversazione. Appena gli altri si distraggono, si siede per terra; di tanto in tanto allieta tutti con un sonoro peto. L'armoniosa quotidianità della coppia reale è in realtà lontana dall'essere tale. I problemi mentali di Filippo V costringono la regina a dure prove fisiche; il sovrano alterna momenti di pietosa commozione a episodi di violenza; lo si può vedere sprofondato nel letto, avvolto dalla sua stessa sporcizia, con vestiti vecchi e scuciti, il dito in bocca e lo sguardo assente. Da simile stato vegetativo esplode, nel volgere di pochi minuti, in attacchi di ira durante i quali tiranneggia la regina e la umilia in pubblico. Le crisi di follia si susseguono e non è possibile prevedere quando avverrà la successiva. Ormai esige di vestirsi solo con una specie di veste di «burello liso che gli arriva a mezza gamba e [utilizza] un bastone che gli serve d'appoggio. È tormentato continuamente da un priapismo perpetuo che lo esaurisce e lo consuma».118 In una di queste crisi si impossessa del re l'idea ossessiva dell'abdicazione; assicura che la decisione è frutto delle «serie e rigorose riflessioni cui si è dedicato per quattro anni circa le miserie della vita, le malattie, le guerre e le rivolte» con cui Dio lo ha castigato per ventidue anni. Nel 1724 Filippo V sorprende l'intera corte con la notizia. Lascerà il trono, «l'insignificanza del mondo e la vanità delle sue grandezze» e si rinchiuderà a La Granja con uno sparuto seguito già da tempo oppresso dal rigore religioso estremistico imposto dal re. La regina si dichiara d'accordo. «Abbiamo abdicato e ci ritiriamo da questo mondo corrotto», scrive. Il re ha quarant'anni e la regina trentuno. Luigi, il nuovo sovrano, appena diciassette. Al termine dell'adolescenza, Luigi I di Spagna dimostra un carattere identico a quello del padre quando aveva la sua età: sottomesso, straordinariamente timido e docile, senza volontà, con scarsa agilità intellettuale e senza alcuna preparazione per regnare. Non ha mai causato fastidi, non conosce l'arte della discussione, è un figlio modello. Differisce dal padre solo per ciò che riguarda le pulsioni sessuali, castrategli fin da piccolo a causa del fervore religioso del genitore. Come ci si può facilmente aspettare da una simile personalità, il giovane è terrorizzato dalla responsabilità che si trova tra le mani; non sa come farsene carico né psicologicamente né materialmente. Sebbene squilibrato, il padre è consapevole della tana di tigri in cui sta spingendo il figlio, ma è più interessato al suo personale benessere

che al sacrificio del sangue del suo sangue. «Facciano di mio figlio ciò che vogliono, intanto io salverò la mia anima», si giustifica. I nuovi re adolescenti sono stati principi delle Asturie per due anni, durante i quali non hanno imparato praticamente nulla che possa essere loro utile per il nuovo incarico. Re Luigi ha diciassette anni e la regina quindici; «continuano a mangiare e dormire insieme», secondo quanto racconta un diplomatico francese, ma l'unione è molto lontana dall'essere serena. Luisa Elisabetta continua a «ignorare totalmente l'arte di comportarsi bene», non si assoggetta a nessuna regola e non ha pudore quando si tratta di mostrare la più completa indifferenza al principe. Il disturbo borderline di personalità, da tempo annunciato, scoppia ora in tutta la sua violenza. La regina è pazza Le vittime di tale infermità hanno seri problemi ad attenersi a ciò che ci si aspetta da loro, si rifiutano di crescere e di conformarsi alle regole; non controllano la loro ira, il sarcasmo o l'amarezza quando si presentano improvvisi cambiamenti di programma; né sopportano alcuna responsabilità. I loro atti sono costantemente tesi alla provocazione; sono malati impulsivi che richiedono costante attenzione e minacciano ogni ordine costituito. Per esempio, quando Luisa Elisabetta visita Filippo V nel suo ritiro di La Granja, scorrazza per il giardino in una fine camiciola, alla ricerca di una corrente di vento che gliela alzi, così da esporre le sue parti intime allo sguardo di chiunque stia guardando. Filippo V, sfortunatamente, è tra questi spettatori: non c'è bisogno di dire che mancamento lo prenda, e come la sua coscienza sia schiacciata dal peccato, mentre, nella camera attigua, la regina Elisabetta si batte il petto esclamando: «Abbiamo fatto un terribile acquisto.» Una delle caratteristiche della sindrome psichica di cui soffre Luisa Elisabetta è l'incapacità di star sola, o il terrore di sentirsi abbandonata dalle persone dalle quali dipende affettivamente; nel caso della giovane sovrana ciò accade alla morte del padre in Francia. In situazioni di orfanità emotiva questi malati cercano una forma di ritorsione, commettono atti distruttivi e si sentono in costante conflitto interiore; mostrano vere difficoltà a controllarsi. In linee generali, questi pazienti non riconoscono i limiti; per esempio, Luisa Elisabetta viene sorpresa in ripetute occasioni con tre cameriere, tutte nude, intenta in «un gioco conosciuto con il nome volgare di broche-encul», che significa, liberamente tradotto, «palo nel culo».119 La distrazione della discordia consiste nell'aggredirsi con un bastone, tenendo mani e piedi legati, fino a far ruotare l'avversario per poi divertirsi assistendo alle difficoltà che incontra nel recuperare la posizione eretta. I testimoni devono tapparsi gli occhi per non vedere le pudenda della regina mentre si rivolta sul pavimento assieme alle tre compagne di simil fatta. Alla morte del duca d'Orléans, Luisa Elisabetta trasferisce il suo attaccamento psicologico sulle sue cameriere, che giocano nude con lei, e in alcune occasioni sullo sposo. A volte lo tratta con adorazione, altre con odio. Il povero Luigi, di conseguenza, fa davvero fatica a comprenderla e non sa mai cosa pensare:

Sono disperato perché la regina non mi concede la grazia che le chiedo. La importunerò finché non me la concederà, gliela chiedo in nome di Dio, della Vergine e di Sant'Antonio, ma ella non mi fa caso.120 I malati del disturbo che affligge Luisa Elisabetta, né chi sta loro vicino riconoscono la ragione che guida i loro atti scriteriati. «La regina va di male in peggio, e se le dico qualcosa si altera con me. Non so che fare»121, si lamenta il giovane re in un comunicato epistolare diretto al padre. Con le sue provocazioni la regina di Spagna riesce nell'impresa di far uscire dai gangheri il timido marito. Luigi I cerca consolazione esponendo la sua disperazione al padre, a cui scrive: «preferirei essere in prigione piuttosto che vivere con una creatura che non rispetta alcuna convenienza», che non pensa ad altro che a mangiare e a mostrarsi nuda: «non si addice a una regina di Spagna condurre una vita da cui suo marito non può allontanarla, poiché le aveva parlato di questa cosa più di quaranta volte, e lei si prendeva gioco delle sue osservazioni».122 Tuttavia, nei suoi drastici andirivieni emotivi, Luisa Elisabetta passa dall'affronto a uno spaventato pentimento, con terribili sensi di colpa e distruzione dell'autostima; si vede cattiva o profondamente disgraziata, soprattutto quando intravede la minaccia di un abbandono; ci sono momenti in cui si aggrappa a chi la rifiuta, stabilendo una relazione di sottomissione e di dipendenza compulsiva. Ad esempio, il giorno in cui il re la riprende severamente «facendole leggere una lista scritta di tutte le sue eccentricità e annunciando che la sua pazienza si era esaurita», lei si getta immediatamente in ginocchio e supplica perdono e aiuto. Giura di volersi far perdonare, assicura che a partire da quel momento sarà una buona regina. E Luigi I, più ingenuo di una colomba, le crede: «Comincio questa lettera oggi annunciando a Sua Maestà che la regina, ora, fa tutto ciò che desidero faccia, Dio voglia che ciò continui», scrive pieno di speranza a Filippo V.123 Ma come tutti coloro che sono vittima di un disturbo simile, la regina non è cosciente di ciò che fa, né del perché lo fa, non controlla le conseguenze delle sue azioni, l'unica cosa che sa è che non può evitare di trasgredire costantemente alle regole. Nella pulizia personale, nell'igiene alimentare o nel decoro dell'abbigliamento trova l'ambito perfetto per i suoi personali attentati all'ordine. Proprio come succedeva a suo padre, sebbene per ragioni differenti, Luisa Elisabetta si getta in pasto allo scandalo. Gli spagnoli vedono la loro sovrana uscire in corridoio in camicia da notte, attraversando di corsa le gallerie e i giardini, coperta solo da una camiciola di tela fine che lascia intravedere le sue forme. Si presenta di fronte all'intera corte sporca e maleodorante, si rifiuta di indossare biancheria intima e tenta di provocare il personale esponendo in modo sibillino le sue nudità. Uno degli aneddoti che più alimenta la sua pessima fama si svolge nel giardino di palazzo. La regina indossa solo la sua sottile sottoveste quando, improvvisamente, decide di arrampicarsi su una scala a pioli appoggiata al tronco di un melo. Da lassù chiede poi aiuto a gran voce. Uno dei maggiordomi corre in suo aiuto, trovandosi faccia a faccia con il fondoschiena di Sua Maestà. Il maresciallo Tessé invia un rapporto dettagliato in Francia: Era salita fino alla cima della scala e ci mostrava il fondoschiena, per non dire altro. Temette di cadere e chiese aiuto; Magny [il maggiordomo] la aiutò a scendere di fronte a tutte le dame, ma, a meno che non fosse cieco, è chiaro che Magny vide ciò che cercava di non vedere, e ch'ella

ha l'abitudine di mostrare liberamente. La regina, per giustificare il suo atteggiamento, lo accusò di essere stato insolente».124 Come è abituale per questi malati, la regina si spinge da un estremo all'altro nelle sue relazioni interpersonali, nell'arco di poche ore passa dall'euforia alla depressione, dalla credulità alla sfiducia paranoide, dall'amore all'odio, dall'affetto allo sdegno. Le spie francesi raccontano che la coppia a volte si dimostra felice: «Il nostro amore aumenta di giorno in giorno e io faccio di tutto per soddisfarla», scrive il candido principe, ma immediatamente, senza preavviso, i due si trovano a litigare furiosamente. In certe occasioni si perdono in amene conversazioni, altre volte non si rivolgono la parola e lo sguardo per giorni: Quando di mattina ognuno abbandona il letto, dopo sei mesi [in cui hanno dormito] insieme, il re e la regina non si rivolgono la parola se non quando si siedono a tavola per mangiare o si alzano. Ognuno si siede dalla sua parte e la regina non dà l'impressione di voler assolutamente compiacere il re, né ha voglia di parlargli, anzi, al contrario, dimostra una visibile antipatia. (...) Durante i viaggi, a meno che l'etichetta non imponga loro di stare l'uno di fronte all'altro, si voltano le spalle e percorrono il tragitto senza parlarsi. Solo Dio sa come può finire tutto ciò».125 La regina di Spagna trascina suo marito in un circolo vizioso, che imprigiona entrambi: «Questo povero re è davvero disgraziato se questa signora non cambia del tutto» assicura Santa Croce a Filippo V. Vengono avvisati i parenti francesi, una delle sorelle, monaca, invoca aiuto al cielo, mentre la duchessa vedova d'Orléans invia all'irrequieta figlia un'asciutta lettera, ordinandole che si attenga «al gusto del suo Reale sposo come unico mezzo per essere felice».126 In malati come Luisa Elisabetta è anche consueta la dipendenza da sostanze che alterano la coscienza. La regina di Spagna si rifiuta di toccare cibo a tavola, salvo poi nascondersi e inghiottire in maniera compulsiva tutto ciò che si trova a portata di mano, che sia commestibile o meno. Irrora la sua bulimia con vino, birra e acquavite, modificatori dello stato d'animo a cui si aggrappa quasi quotidianamente. Il personale di palazzo si è ormai assuefatto al vederla ubriaca e ha l'ordine di vigilanza stretta su tutto ciò che ingerisce; viene vista inghiottire, durante un solo pasto, un minestrone in brodo con verdure, due pezzi di carne da quasi due chili l'uno, due uova fresche, due piatti di arrosto con insalata e, come degno finale, quattro tipo diversi di dolci.127I commenti piovono da ogni dove: «Si è riempita di rape e di insalata con aceto, non so come fa a non vomitare, ma si annulla a tal punto nel mangiare che arriva a ingerire la ceralacca delle buste», comunica il marchese di Santa Croce a Filippo V.128 Oltre ad amare le abbuffate, Luisa Elisabetta mostra una marcata propensione alla leggerezza del vestiario; giorno dopo giorno, il re Luigi scrive al padre in toni che suscitano compassione: La regina ha indossato robe de chambre e così ha trascorso il giorno intero, (...) è stata alla tavola delle cameriere, dove temo abbia mangiato porcherie, e ha poi passeggiato davanti a me e a molti altri mostrandomi non solo i piedi, ma anche le gambe. (...) Alle nove la regina era ancora in giardino (...) ho mandato Benito [a cercarla] e mi ha riferito ch'ella non porta addosso altro che la camicia da notte, come suo solito.129

La malata trasgredisce senza cosciente intenzione; «circa [la sua condotta] vi sono ogni giorno motivi di grande mortificazione. A tal proposito le ho già detto migliaia di cose, ma non vi è rimedio», segnala Santa Croce.. Elisabetta Farnese, invece di dare una mano, getta benzina sul fuoco di questo incendio adducendo il fatto che si sente in colpa «per essere stata la causa di questo matrimonio»; anche suo marito, il letargico Filippo V, rimpiange ferocemente l'aver importato questo tormento francese di cui condivide lo stesso sangue. La voragine psicologica in cui Luisa Elisabetta è sprofondata si aggrava ulteriormente nel giro di poche settimane. Nessuno attorno a lei è in grado di aiutarla; tutti la scrutano, bisbigliano o ridono di lei. Le chiacchiere circolano, condite da aneddoti piccanti; ogni giorno vi è un misfatto più eclatante del precedente. Alla nudità in pubblico si aggiunge, da un giorno all'altro, una nuova bizzarra ossessione per la pulizia; la Corte vede la sovrana affannarsi a lavare fazzoletti, cristalli, mattonelle, piastrelle e stoffe di ogni genere. Il delirio di pulizia la spinge a farsi procurare una vasca da bagno in cui trascorre ore sfregando panni con macchie inesistenti. Ogni getto d'acqua, ogni fonte pubblica, scatena in Luisa Elisabetta la frenesia di tramutarsi da regina in lavandaia. Intercala la singolare ricerca di asepsi tessile con eccessi di cibo: «Dopo la zuppa, la Regina ha mangiato des poulardes [pollastri, si noti il plurale] e un'insalata di cetrioli e pomodori con molto aceto».130 Il 2 luglio 1724, il disperato Luigi torna a sfogare con i genitori tutto lo sconforto che opprime il suo fragile spirito: Il mio dolore non fa che crescere. (...) Quando ieri sera mi sono recato a cena [la regina] era talmente allegra che credo fosse ubriaca. (...) Stamani è andata a San Pablo in camicia da notte, ha pranzato e poi è andata a lavare fazzoletti, (...) ha mangiato molte porcherie, si è messa in camicia e in questo modo si è affacciata alla grande galleria di vetro, dove la si vedeva da ogni parte intenta a lavare le piastrelle.131 Raggiuge il culmine del suo squilibrio mentale lo raggiunge durante un ricevimento pubblico. I sudditi presenti assistono attoniti alla sovrana che improvvisamente si spoglia, afferra il proprio vestito e si lancia nella pulizia dei vetri del salone. La vergogna è generale e le malignità attraversano i corridoi, superano i giardini; ormai nessuno ha più dubbi sul fatto che la regina abbia perso il senno. Re Luigi, mortificato, scrive al padre: «Di modo che non vedo altro rimedio che rinchiuderla il più presto possibile, poiché il suo sconvolgimento è in continuo aumento». Filippo V, che persiste nel suo ritiro nel palazzo de La Granja, impartisce al figlio ordini drastici: È importante che non la vediate, che non mangiate ne dormiate con lei. Deve avere contatti solo con persone di somma prudenza e talento (...) che devono far comprendere alla Regina, vostra moglie, che la sua stravagante condotta verso Dio, verso di voi e verso se stessa è stata la ragione che ha indotto a prendere nei suoi riguardi la decisione in questione.132 La reclusione della regina di Spagna viene messa in atto il 4 luglio 1724 e impietosisce l'Europa intera. Si escogita un espediente per farla uscire a passeggiare alla Casa de Campo, dove le si prepara un pranzo. Alla fine del banchetto le viene annunciato l'imprigionamento nel «palazzo grande», luogo buio e freddo che la spaventa molto. Luisa Elisabetta si sente completamente abbandonata, non trattiene le lacrime e

implora di poter tornare al Buen Ritiro, la sua adorata casa. Non capisce di che cosa la si accusi, danneggia forse qualcuno lavando fazzoletti o mangiando insalata? Dall'amarezza che prova vomita tutto il pranzo, ma dai suoi accompagnatori non ottiene in cambio nient'altro che gelo; nessuno si impietosisce, a nessuno interessa la sua disgrazia. La giovane regina implora di poter parlare con il sovrano ma le viene detto che le è proibito. Come accade abitualmente, Luisa Elisabetta singhiozza sconsolatamente e scrive al marito supplicando di perdonarla per tutte le manchevolezze che giura di voler correggere, sebbene ignori quali siano esattamente. Completamente incosciente di cosa abbia contrariato tutti, è disposta a tutto pur di scongiurare il terrore che le provoca la solitudine e il confino. Il pentimento prosegue in svariate lettere che giungono fino a Filippo V. Il re, impegnato nella preghiera costante, apprezza le scuse della prigioniera ma afferma «che gli piacerebbe vederla più afflitta» ancora. La regina di Spagna trascorre tre giorni distrutta dal pianto e annientata dal rimorso, ma re Luigi vive la separazione come una boccata d'aria fresca; i circa due anni di convivenza con Luisa Elisabetta hanno incrinato un'allegria che ora sta iniziando a rinascere: «Non ho mai visto il re allegro e rilassato come dal momento in cui si è prodotta la separazione», dichiara l'ambasciatore francese. «Tutti sono certi del fatto che si coricasse con la Regina solo perché in Spagna si considera sacrilego che l'uomo dorma in un letto separato».133 Nonostante l'iniziale euforia e la riscoperta della perduta quiete, è certo che l'indole tenera di re Luigi non resta indifferente al dolore della sposa. Le sue suppliche, lo stato di abbandono in cui sembra trovarsi, il penoso castigo e la profonda contrizione della prigioniera commuovono profondamente il cuore del re e lo sprofondano nei sensi di colpa. Nella sua mente infantile iniziano a farsi strada scene da cavaliere che salva la principessa sofferente; invia lettere a Filippo V in cui chiede perdono per lei finché, il giorno 10, lo stronca una notizia che fa a pezzi tutte le sue fantasticherie: gli viene comunicato che la moglie ha tentato di uscire in terrazza in camicia da notte e che è costato grande fatica farla rinsavire. La reclusione, pertanto, non è servita a nulla. Luigi subisce uno dei colpi più dolorosi della sua vita, mentre l'infelice Luisa Elisabetta, sempre incapace di comprendere quali oscuri ingranaggi interni la spingano a comportarsi così, si limita a supplicare Filippo V ed Elisabetta Farnese di avere pietà del suo stato: «Aiutatemi, - implora -aiutatemi a rialzarmi, e non dubitate del fatto che ve ne sarò eternamente riconoscente».134 La morte di re Luigi L'incarcerazione dura sedici giorni. Alla fine la bontà del re non resiste alle suppliche e ai pianti, e cede alle richieste di pietà e alle soavi promesse d'amore. L'ambasciatore francese dubita che la liberazione serva a qualcosa: Vi saranno ulteriori dissapori: il carattere della Regina è rispettabile, ma la sua testa, il suo cuore, la sua condotta e il suo temperamento sono quattro cose che frequentemente creano problemi.135 Non si sbaglia. La lontananza emotiva tra i sovrani è oceanica e l'atteggiamento della regina provocatorio; il suo aspetto è «più trasandato e sporco di quello di un garzone di taverna», le sue abitudini

alimentari sono criminali, e il suo gusto per la nudità è rimasto intatto. Il sovrano non ne può più e sceglie di spostare altrove il suo sguardo. Vagabonda per le strade di Madrid in compagnia di occasionali compari e si perde nei boschi e sulle montagne per cacciare, senza badare alle estreme temperature in cui si imbatte. Ogni distrazione sembra insufficiente sebbene si dedichi a tutte con entusiasmo... mentre tralascia completamente gli impegni politici. Il suo fisico, nonostante un'apparente delicatezza, sembra forte, ma la ferita emotiva lo erode internamente più di quanto si possa sospettare. Il 15 agosto ha un malore e il medico diagnostica un eccesso alimentare; questa profezia spaventa la regina, che dall'impressione vomita. Dominata dalla sua malattia, Luisa Elisabetta muta un'altra volta la sua disposizione verso il sovrano: passa dall'ignorarlo ad attaccarvisi nel momento in cui intravede la possibilità di un allontanamento. Sei giorni dopo il primo mancamento, Luigi I viene contagiato dal vaiolo. I fratelli minori del re vengono immediatamente trasferiti al «palazzo grande», fuori dalla portata della terribile malattia, mentre la regina esprime l'inamovibile decisione di restare al fianco del letto del malato. Filippo V ed Elisabetta Farnese si fregano le mani... con un po' di fortuna la francese verrà contagiata e scomparirà una volta per tutte! Nel corso della malattia la regina ricopre di amore inesauribile il malato, si dedica alle sue piaghe, alle sue continue febbri... Nonostante le premure ricevute, il re non migliora; una gamba dà sintomi di cancrena. Lo salassano e ottengono «un sangue sporco e avvelenato» che scatena un'orribile agonia. Corre il 31 agosto 1724 quando re Luigi I di Spagna esala il suo ultimo respiro; ha vissuto diciassette anni e ha portato la corona per otto mesi. Lascia una vedova di quindici anni. Luisa Elisabetta, che sino ad ora ha fatto tanta fatica a obbedire agli spagnoli, si attiene per la prima volta ai loro desideri e si lascia contagiare dal vaiolo del marito. La malattia è dura, le febbri orrende, il fetore nauseante... Nessuno ha particolare voglia di prendersi cura di lei, nessuno apprezza le notti bianche che una regina quindicenne aveva trascorso per vegliare il defunto marito. «Non l'abbandonate», chiede affranta la duchessa di San Pedro all'ambasciatore francese, dimostrandosi l'unica persona caritatevole. «Ha solo voi che la possiate aiutare, e qualunque sia stata la sua condotta, non vi dimenticate che è francese, della casa dei Borboni, e disgraziata».136 Tuttavia il dolore che gli spagnoli provano per il loro re Luigi non si prolungherà a causa della sua vedova, poiché Luisa Elisabetta gode di una salute molto più agguerrita di quanto chiunque avesse sospettato; non è da escludere che le eccessive porzioni di insalata ingerite possano avere giocato un ruolo favorevole. Dopo un periodo trascorso a lottare contro la stessa infezione che si è portata via il suo sposo, la regina vedova ritorna nel mondo dei vivi; certo, tutta cosparsa di cicatrici e con una condotta eccentrica come ai tempi della massima insania: «Mi sono trovato di fronte a una persona [dall'aspetto] più sconvolto, trasandato e sudicio di quello che avrebbe una sguattera di cabaret», sbraita l'ambasciatore francese in una delle sue lettere. La domanda sorge immediata: che ne facciamo adesso di questo rottame? Alcuni propongono, dando fondo a tutta la propria fantasia, di darla immediatamente in sposa al cognato Fernando, Principe delle Asturie e attuale erede al trono; il fanciullo è un codardo e si rinchiude nella sua tetraggine senza articolare parola. Elisabetta Farnese si precipita a salvare il

figliastro da tale enorme sacrificio e propone a Filippo V un'idea migliore: è necessario liberarsi di questo incubo al più presto, scopo per cui le spalancano la via del ritorno in Francia, senza trovare alcun ostacolo; in Spagna, risulta chiaro, «nessuno la vuole, nemmeno i suoi servitori». Tuttavia nel suo paese natale la presenza della vedova adolescente è una seccatura. Luigi XV, il giovane sovrano francese, negozia dure condizioni ed esige che Luisa Elisabetta non metta piede a Parigi. Dopo un'interminabile serie di difficoltà, il monarca francese cede il castello di Vincennes, dove la giovane si stabilisce nel 1725; lì la regina di Spagna trascorre i suoi giorni in balia del disordine mentale che la governa. Uno dei suoi visitatori proclama che, lungi dal migliorare in Francia, l'infermità psichica si è impadronita completamente della sua condotta e del suo aspetto: È grassa, nonostante non abbia ancora compiuto diciassette anni; famelica; mangia con entrambe le mani e gli inservienti che la accompagnano la trasportano a braccia, lasciandola dondolare come Pulcinella, con i piedi che non toccano terra, finché non giunge al salone, dove ella stessa si lascia cadere sul pavimento. (...) Ha i capelli tagliati a mo' di scolaro.137 Adieu, Luisa Elisabetta, adieu Poco dopo, Luisa Elisabetta si rinchiude volontariamente in un convento di clausura nel quale solo il fratello si reca di tanto in tanto a farle visita. Gli altri cuori, sia spagnoli che francesi, trovano questioni e persone più importanti di cui occuparsi. In due occasioni la regina vedova invia lettere di supplica a Filippo V, senza mai ottenere risposta. Triste, abbandonata e sola, si aggrappa alla propria pazzia, al suo paradiso fantastico dove non vigono divieti né per la sua nudità, né per la sua bulimia, né per l'odore del suo corpo. Per diciassette anni sopporta il peso del suo delirio, finché in un freddo giorno del 1742 lascia questo mondo, non senza prima aver chiesto che il suo cadavere venga sepolto senza alcuna pompa. Luisa Elisabetta giace nella chiesa francese di San Sulpizio. Viene sepolta all'alba, quasi di nascosto, poiché i suoi familiari, incluso il re di Francia, si rifiutano di renderle gli omaggi che solitamente spettano a una principessa francese, figuriamoci alla regina vedova di Spagna. Una volta sotto terra, si dice che nessuno si recherà a versare lacrime o a porre fiori sulla sua lapide. L'eredità che lascia è composta da ricordi tetri, aneddoti piccanti che provocano disprezzo, memorie di pazzie che provocano ilarità... La sua tragica malattia non ha suscitato la compassione che avrebbe meritato e la sua memoria alimenta un continuo e morboso piacere. In Francia si ricorda con sarcasmo che fu degna figlia di suo padre; in Spagna si sa solo, se mai si seppe davvero qualcosa, che eruttava in pubblico, che correva nuda per i giardini e che per un breve ma faticoso lasso di tempo non vi fu altra possibilità se non quella di sopportarla. Andandosene dalla Spagna lascia il regno, nuovamente, nelle mani di un Filippo V ormai tramutato in un rifiuto umano; debole, delirante, tormentato dalle allucinazioni e dal terrore di morire avvelenato a causa dei tessuti bianchi, ostile al contatto con le altre persone e con l'acqua per lavarsi. Straccione, maleodorante e con una barba di mesi, Filippo V riceve i suoi ambasciatori e si rimette a capo di una Spagna

che ancora non ha dimenticato le nudità di Luisa Elisabetta durante le sue corse nei giardini di palazzo. La nazione si libera della follia della sua regina solo per cadere, di nuovo, in quella di Filippo V. I due condividono buona parte dell'albero genealogico, ma l'attuale monarca vive indebolito e tormentato da una pazzia infinitamente più grave di quella della nuora. Il re tira avanti con i vestiti a brandelli e permette solo alla regina di avvicinarglisi per rammendare gli strappi; è molto difficile non cedere alla nausea di fronte all'odore che si diffonde in sua presenza. Lo si sorprende a ululare, così come a piangere, cantare, colpire se stesso e la regina. Passa dall'inappetenza all'ingestione compulsiva di dolci, dall'estrema magrezza all'obesità. Non è più in grado di scrivere perché sono anni che non si taglia le unghie delle mani e non può afferrare la penna; non si alza neppure dal letto, perché la lunghezza delle unghie dei piedi gli impedisce di camminare, sebbene a volte non lo faccia in quanto convinto che i suoi piedi abbiano dimensioni diverse l'uno dall'altro. Nel 1731 inizia a cercare di sopravvivere senza dormire, modificando ogni giorno i propri ritmi fisiologici; confonde il giorno con la notte, pranza alle cinque di mattina, lavora con i propri segretari alla luce della luna, fa colazione alle tre di pomeriggio, per poi cambiare ordine il giorno successivo... Ai suoi episodi mistici se ne aggiungono di violenti; e se ciò non bastasse, si sforza di montare i cavalli che adornano l'arazzo della parete. Nel 1732 si rifugia nel letto, rifiutandosi di lasciarlo per qualunque ragione. Solo il castrato Farinelli, grazie agli arpeggi della propria voce, riesce a placare l'iracondia del sovrano e, di conseguenza, evita anche alla regina ulteriori traumi; l'ambasciatore inglese ne parla ai suoi in questo modo: Farinelli deve cantare ogni notte le stesse quattro canzoni, e questo va avanti da dodici mesi consecutivi. (...) In alcune occasioni il re imita Farinelli quando la musica è già svanita, emette quindi tali grida e ululati che bisogna allontanare qualunque potenziale testimone per evitare che si diffonda la notizia di tali follie. Il re ha avuto uno di questi attacchi la settimana scorsa; è durato da mezzogiorno a mezzanotte e mezza senza posa.1 Le stesse quattro canzoni di Farinelli sono la ninnananna del re, senza tregua, per 3.600 notti consecutive. Già un anno prima della morte di Luisa Elisabetta in Francia, suo suocero e cugino Filippo V non è più padrone della sua testa ... E continua a mantenere relazioni sessuali con la moglie, la regina Elisabetta, due volte al giorno.

CHI È CHI. PERSONAGGI CITATI IN QUESTO CAPITOLO Angiò, duca di: secondo nipote di Luigi XIV, più tardi designato dal re di Spagna con il nome di Filippo V. Desmares, Christine: amante di Filippo d'Orléans, madre di una delle sue figlie. Elisabetta Farnese (1692-1766): seconda moglie di Filippo V, con la quale egli si sposa pochi mesi dopo essere rimasto vedovo della regina Maria Luisa. La regina Elisabetta governa con pugno di ferro la Spagna nel momento in cui la pazzia di Filippo V lo allontanano dalla vita politica. Filippo, duca d'Orléans, reggente di Francia (1674-1723): figlio di Monsieur e Madame, unico nipote di primo grado di Luigi XIV e genero del medesimo una volta sposatosi con la quarta delle sue figlie illegittime

(avuta dalla sua relazione con Madame Montespan). Prima della morte del padre, pertanto prima di ereditare il titolo di Duca d'Orléans, Filippo usa il titolo di Duca di Charter. È nominato reggente di Francia dal suocero, il Re Sole, compito che svolge durante il periodo in cui l'erede Luigi XV ancora non ha raggiunto la maggiore età. Di tutti i membri della famiglia, Filippo d'Orléans è quello che più somiglia al Re Sole, ma alle sue varie qualità si aggiungono immensi difetti che gli conferiscono la fama di essere uno dei più grandi libertini che la Francia abbia conosciuto. Combatte con esuberanza e abilità nella Guerra di Successione al trono di Spagna assieme al nipote Filippo V, al quale sognò sempre di usurpare la corona spagnola. Si converte infine nel suo consuocero quando riesce a far sposare la quinta delle sue figlie, Luisa Elisabetta, con Luigi I, primogenito del sovrano spagnolo. Florence, Mademoiselle: amante di Filippo d'Orléans e madre di uno dei suoi figli. Françoise Marie di Borbone, duchessa d'Orléans (1677-1749): moglie e allo stesso tempo cugina di primo grado di Filippo d'Orléans; quarta figlia di Luigi XIV e della sua amante, Madame Montespan. Con Filippo d'Orléans genera sette figli dei quali si occupa a malapena. Liselotte: vedasi Madame. Luigi I, Principe delle Asturie e Re di Spagna (1707-1724): primogenito di Filippo V e Maria Luisa di Savoia. Pronipote del Re Sole. Re di Spagna per otto mesi. Disgraziato marito della consanguinea Luisa Elisabetta d'Orléans. Luisa Elisabetta d'Orléans, Regina di Spagna (1709-1742): quinta figlia di Filippo d'Orléans, reggente di Francia. Nipote del Re Sole e allo stesso tempo nipote di Monsieur, fratello del sovrano francese. Moglie di suo nipote Luigi I, re di Spagna. Fino al matrimonio Luisa Elisabetta è conosciuta con il nome di Mademoiselle Montpensier. In Spagna si conquista una generalizzata antipatia a causa di una condotta insolita. Dopo essere ascesa al trono si manifesta in lei un disturbo mentale che non la abbandonerà più fino alla morte. Luigi XIV (1638-1715): anche chiamato Re Sole o Re della Corte di Apollo. Figlio di Luigi XIII di Francia e della principessa spagnola Anna d'Austria (sorella di re Filippo V). Sposato con la cugina di primo grado, l'infanta Maria Teresa, figlia del re spagnolo Filippo IV. Luigi XIV gestisce il suo regno con mano ferma e completa lucidità fino alla sua morte, a settantaquattro anni. Durante tutto il periodo è ammirato, temuto e imitato da tutti i sovrani europei dell'epoca. La sua influenza è decisiva nell'incorporazione dei Borboni nella monarchia spagnola. Alla sua morte il suo corpo, come d'uso, viene imbalsamato, separando gli organi interni dal resto dei tessuti, come si faceva nell'antico Egitto; mentre i cuori degli altri monarchi del mondo finiscono in luoghi illustri, quello del Re Sole finisce nello stomaco di un individuo inglese dalle eccentriche abitudini gastronomiche. La colpa è della Rivoluzione Francese. Durante questo periodo, infatti, un furioso agitatore repubblicano irrompe nella cattedrale di Saint Denis, profana la tomba del celestiale Re e ruba il cuore imbalsamato. L'organo regale viene venduto a un collezionista inglese, che a sua volta lo rivende al prelato di Westminster, il quale, a sua volta, lo lascia in eredità al figlio Frank Buckland, giovane dalle propensioni scientifiche dedicate, fondamentalmente, agli esperimenti con animali esotici che possano diventare alimento per gli inglesi. Per un certo periodo il ragazzo si accontenta di mangiare koala, tartarughe o serpenti, ma presto decide di

ampliare il suo campo di ricerca a qualsiasi elemento masticabile. E qui entra in gioco il cuore di Luigi XIV. Secondo le cronache del tempo, Frank Buckland si fa servire l'organo imbalsamato in un piatto: «Ho mangiato molte cose strane in vita mia - lo si sente commentare - ma è la prima volta che pasteggio con il cuore di un re».139 Luigi, Gran Delfino, Monseigneur (1661-1711): unico figlio legittimo di Luigi XIV e padre del re spagnolo Filippo V. Annullato dal padre, che non gli permette di intervenire nelle questioni politiche, la sua missione principale consiste nel cacciare, mangiare, osservare i propri giardinieri e sposarsi con Maria Anna Cristina di Baviera, donna spaventosamente brutta (che a lui piace da morire), con la quale genera tre figli maschi. Luigi XIV stima più questi nipoti che lo sventurato Monseigneur, fino al punto di collocare uno di loro sul trono di Spagna, con il nome di Filippo V. Il povero Monseigneur accetta con rassegnazione il fatto di essere figlio di un Re, padre di un Re, ma mai re lui stesso. L'infelice sopporta per mezzo secolo una vita priva di allegria fino a che la morte lo coglie, infine, quattro anni prima di suo padre. La vita del Gran Delfino è quella di un mero progetto di sovrano che non poté mai sperimentare, nemmeno da lontano, il peso della corona sulla sua testa. Luigi XV (1710-1774): pronipote primogenito di Luigi XIV, nipote di primo grado di Filippo V di Spagna e suo aspirante genero nel momento in cui viene combinato il suo matrimonio con l'infanta Maria Anna Vittoria, figlia del sovrano spagnolo e della regina Elisabetta Farnese. Louise de La Vallière (1644-1710): prima delle amanti ufficiali del Re Sole, per la quale egli inventa il titolo di maîtresse-en-titre. Madre di tre figli, due dei quali vivono abbastanza da essere riconosciuti dal celestiale padre. Louise viene soppiantata da Madame Montespan, donna molto più spigliata e bella. Nel 1674 si ritira in un convento in cui resterà fino alla morte. Madame (1652-1722): nome con cui tutta la corte francese si riferisce a Elisabetta Carlotta di Baviera, chiamata anche Liselotte. Madame è cognata di Luigi XIV, seconda moglie di Monsieur, madre di Filippo d'Orléans e nonna di Luisa Elisabetta. Maintenon, Madame de (1635-1719): terza amante di Luigi XIV e unica che riesce a sposarsi con lui, in segreto, dopo che è rimasto vedovo dell'infanta Maria Teresa. Donna molto religiosa e troppo avanti con gli anni per essere madre quando conosce il re. Nemica di Madame, tra le due si produrrà una serie infinita di contrasti. Maria Anna Vittoria, o «Mariannina»: figlia di Filippo V e di Elisabetta Farnese, che, in seguito a un negoziato politico tra Francia e Spagna, viene inviata in Francia, a quattro anni, per andare in sposa a Luigi XV, suo cugino e futuro re. Il matrimonio non celebrato e la corte francese restituirà la piccola scatenando uno scontro politico tra i due paesi. Maria Luisa Gabriella di Savoia, Regina di Spagna (1688-1714): prima moglie e allo stesso tempo cugina del re Filippo V di Spagna. Nipote di Monsieur e, pertanto, nipote di Luigi XIV. Figlia di Vittorio Amedeo di Savoia, che combatte nelle file austriache durante la Guerra di Successione al trono spagnolo. Madre di Luigi I, re di Spagna per otto mesi, e di Fernando VI, che succede al padre e al fratello Luigi al trono. Il suo matrimonio con Filippo V passa alla storia per l'ardore amatorio che i coniugi dimostrano l'uno all'altro. Il re cade in una grave depressione quando Maria Luisa scompare, all'età di ventisei anni. Maria Teresa, infanta di Spagna e Regina di Francia (1638-1683): figlia di Filippo IV di Spagna e moglie di Luigi XIV di Francia, il Re Sole. Non

si sentì mai benaccetta dai sudditi, parla appena il francese e l'educazione ricevuta all'austera e religiosa corte spagnola si oppone diametralmente a ciò che trova alla Corte di Apollo, dove bellezza, eleganza, frivolezza e classe sono considerate qualità indispensabili. L'infanta Maria Teresa ha con il Re Sole un solo figlio che, secondo i testimoni, ha ereditato tutto da lei e nulla dal sidereo padre. Si tratta di Luigi, chiamato anche Monseigneur o Gran Delfino. Monseigneur: vedasi Luigi, Gran Delfino. Monsieur (1640-1701): soprannome dato a Filippo, duca d'Orléans padre. Monsieur è l'unico fratello di Luigi XIV. Sposato in prime nozze con Henrietta, una delle sorelle del Re d'Inghilterra, che muore avvelenata nel 1670. Da questo matrimonio nascono due figlie. Maria Luisa, la primogenita, sposa il re spagnolo Carlo II el Hechizado; questo matrimonio non genera alcun erede alla corona spagnola. La seconda figlia, Anna Maria, sposa Vittorio Amedeo di Savoia. Da questo matrimonio nascono due figlie, la seconda delle quali, Maria Luisa, sposa Filippo V, re di Spagna. La maggiore, Maria Adelaide, si unisce in matrimonio con il nipote primogenito del Re Sole, il duca di Borgogna. Ne nasce Luigi XV. Montespan, Athénaïs (1641-1710): amante ufficiale di Luigi XIV per tredici anni; acclamata come una delle maggiori bellezze dell'epoca. Ottiene che il Re Sole riconosca i figli nati nel corso della loro lunga relazione, la quarta dei quali, Françoise Marie, sposa Filippo d'Orléans, unico nipote di primo grado del re. Montpensier, Mademoiselle: vedasi Luisa Elisabetta di Orléans. Orsini, Principessa degli (1642-1722): di nome Anne Marie de la Tremouïlle, amica intima di Madame de Maintenon, la terza amante del re e alla fine anche sua moglie. Confidente di Luigi XIV, da lui collocata nel ruolo di prima cameriera alla corte di Filippo V di Spagna. Quando Filippo V sale al trono spagnolo, la Principessa degli Orsini diventa la sua principale consigliera politica, e in pratica, governa la Spagna in sua vece quando il sovrano spagnolo cade vittima di una crisi depressiva dopo essere rimasto vedovo. Phalaris, Madame: amante di Filippo d'Orléans, tra le cui braccia il reggente muore. Reggente: vedasi Filippo d'Orléans. Saint-Simon, duca di (1675-1755): politico e storiografo, amico intimo di Filippo d'Orléans. Ambasciatore di Francia in Spagna quando Luisa Elisabetta sposa il Principe delle Asturie. Alla morte del reggente si ritira dalla vita politica e si dedica alla stesura delle sue celebri Memorie, che raccolgono minuziosi dettagli della vita francese durante la reggenza di Luigi XIV e di Filippo d'Orléans. Note 1. Lettera citata dal dottor Cabanés, pp. 19-20. 2. Lo stregato. 3. Anna d'Austria è sorella del monarca spagnolo Filippo IV, moglie del re francese Luigi XIII e madre di Luigi XIV. 4. L'infanta Maria Teresa è figlia di Filippo IV e della prima moglie, Isabella di Borbone; di conseguenza è anche sorellastra di Carlo II e cugina di primo grado di suo marito, Luigi XIV di Francia. 5. L'infanta Margherita, madre dell'arciduca Carlo, è sorella minore del re Carlo II. Velázquez la ritrasse al centro della sua opera Las Meninas (Le damigelle di Corte).

6. Sia Monseigneur che il duca di Borgogna sembrano vaticinare il futuro: Luigi XIV sopravviverà a entrambi. 7. Duca di Saint-Simon, vol. XVII, p. 312. 8. Dr. Cabanés, p. 37. 9. Dr. Cabanés, pp. 50-51. 10. Marianna di Neuburg ha al momento ventinove anni. 11. Dr. Cabanés, p.47. 12. M. Farquhar, p. 35. 13. Sedia con un foro, precursore dell'attuale ritirata. 14. Intelaiatura di stecche di vimini che dava alla gonna una forma a campana. Era usato esclusivamente dalle nobildonne. 15. Lettera indirizzata alla principessa Sofia di Baviera, scritta a Fontainebleau l'8 ottobre 1688. 16. Governante in casa degli Orléans e accompagnatrice femminile del cavaliere di Lorraine, niente meno che l'amante ufficiale di Monsieur, marito omosessuale dell'autrice della presente lettera. 17. Festa privata notturna a cui solo pochi eletti avevano il privilegio di poter presenziare. 18. Amante ufficiale del re. 19. Lettera scritta a Versailles il 4 novembre 1677. 20. Luigi XIV resta lucidamente al potere fino a settantasei anni, sopravvivendo al suo primogenito erede, che muore all'età di cinquant'anni, e al primo nipote, che lo fa a trenta. Il trono passa al suo pronipote, ancora bambino, e il ruolo di reggente viene affidato al primogenito di Monsieur. 21. C. Pevitt, p. 13. 22. Abate di Cosnac, p. 231. 23. Madame Montespan, una delle amanto più importanti del re, è cliente abituale della Voisin. Attraverso messe nere e afrodisiaci vari somministrati dall'avvelenatrice, si dedica a prolungare l'amore del sovrano. 24. Lettera scritta a Marly, 19 febbraio 1705. 25. C. Pevitt, p. 130. 26. C. Pevitt, p. 11. 27. Saint Germain, 5 febbraio 1672. 28. Versailles, 23 novembre 1672. 29. E. Herman, p. 4. 30. C. Pevitt, p. 15. 31. Saint-Cloud, 19 marzo 1963. 32. Parigi, 9 gennaio 1716. lettera a Carolina del Galles. 33. C. Previtt, p. 16. 34. A. Forster, p. XVIII. 35. J. A. Dulaure, p. 45. 36. J. A. Dulaure, p. 311. 37. Si veda l'appendice finale a questo capitolo. 38. Berretto da notte. 39. Lettera scritta a Versailles l'1 gennaio 1963. 40. Figlia di Filippo IV e nipote di Anna d'Austria, la regina madre. 41. E. Herman, p. 54. 42. E. Herman, p. 46. 43. N. Mitford, p. 54. 44. N. Mitford, p. 41. 45. N. Mitford, p. 107. 46. Si veda l'appendice finale a questo capitolo.

47. N. Mitford, p. 108. 48. Lettera alla principessa Sofia, datata Saint-Cloud, 14 aprile 1688. 49. Lettera alla principessa Sofia, datata Versailles, 29 dicembre 1701. 50. Fontainebleau, 10 ottobre 1693. 51. Il coraggioso. 52. Luigi XIV fa riferimento in particolare a Carlo II. 53. Dr. Cabanés, pp. 86-87. 54. Dr. Cabanés, p. 110. 55. Dr. Cabanés, p. 111. 56. Lettera di Louville a Luigi XIV, citata dal Dr. Cabanés, p. 115. 57. Dr. Cabanés, p. 127. 58. Dr. Cabanés, pp. 122-123. 59. Dr. Cabanés, p. 128. 60. Dr. Cabanés, p. 133. 61. Dr. Cabanés, p. 134. 62. Citazione da C. González Dóriga, p. 289. 63. Lettera citata dal Dr. Cabanés, pp. 92-93. 64. Duca di Saint-Simon, vol. XVII, p. 366. 65. Dr. Cabanés, p. 152. 66. Squisitezza. 67. Citazione da P. de la Motte. 68. Lettera scritta a Versaills il 2 agosto 1686. 69. Lettera scritta a Versailles il 10 gennaio 1692. 70. Lettera alla duchessa Sofia, datata 14 aprile 1688. 71. Saint-Cloud, 14 aprile 1688. 72. Duca di Saint-Simon, vol. XVII, p. 475. 73. Lettera 74. Libertinaggio. 75. Versailles, 16 marzo 1698. 76. Lettera scritta a Versailles il 12 gennaio 1698. 77. Gli altri figli illegittimi di Luigi XIV. 78. Lettera scritta a Marly il 14 aprile 1712. 79. In francese nell'originale tedesco. Si riferisce ai vari cosmetici che fanno parte dell'arsenale di bellezza della moquette. 80. Saint-Cloud, 7 agosto 1692. 81. Si veda l'appendice finale a questo capitolo. 82. Luigi XIV muore nel 1715; come d'uso all'epoca, il suo cadavere viene aperto per estrarre le viscere e il cuore. Nell'appendice si dà conto del curioso destino toccato a quest'organo. 83. Documento trascritto da N. Mitford, p. 241. 84. Dr. Cabanés, p. 167. 85. Duca di Saint-Simon, vol. XVIII, p. 210. 86. Citata dal Dr. Cabanés, pp. 169-170. 87. Si veda l'appendice finale a questo capitolo. 88. Duca di Saint-Simon, vol XVIII, p. 271. 89. Duca di Saint-Simon, vol XVIII, p. 315. 90. Citazione dal Dr. Cabanés, p. 186. 91. C. Previtt, p. 48. 92. Parigi, 31 marzo 1718. 93. Parigi, 9 dicembre 1717. 94. Saint-Cloud, 25 settembre 1720. 95. Versailles, 12 dicembre 1709. 96. Saint-Cloud, 23 ottobre 1721. 97. Saint-Cloud, 6 novembre 1721.

98. Cardinale Dubois a Filippo V. Lettera citata dal Conte di Pimodan, p. 35. 99. Saint-Cloud, 6 dicembre 1721. 100. Si riferisce al cardinale Borgia, che officiò la cerimonia. 101. Duca di Saint-Simon, vol. XIX, cap. 5, p. 62. 102. Duca di Saint-Simon, vol. XIX, cap. 5, p. 62. 103. Duca di Saint-Simon, Memorie, vol. XIX, cap. 5, p. 63. 104. Papiers inédits de Saint-Simon, lettera citata dal Dr. Cabanés, p.197. 105. Duca di Saint-Simon, vol. XIX, cap. 5, p. 70. 106. A. Danvila, p. 79. 107. Archivio Storico Nazionale, fasc. n° 2542, n. 184. 108. Archivio Storico Nazionale, fasc. n° 2542, n. 185. 109. Archivio Storico Nazionale, fasc. n° 2542, n. 186. 110. Archivio Storico Nazionale, fasc. n° 2542, n. 187. 111. La declinazione dell'intera frase in spagnolo è femminile, il che rende meglio il parallelo ociosidad-madre-Madame. [NdT] 112. Cardinale C. Duclos, p. 143. 113. Luigi XV. 114. Duca di Saint-Simon, vol. XIX, cap. 6. 115. G. Breton, p. 78 116. Si veda l'appendice finale a questo capitolo. 117. G. Breton, p. 74. 118 Dr. Cabanés, p. 176. 119. Dr. Cabanés cita il maresciallo Tessé, p. 221. 120. Archivio Storico Nazionale, fasc. n° 2542, n. 189. 121. Archivio Storico Nazionale, fasc. n° 2542, n. 188. 122. A. Danvila, p. 118. 123. Archivio Storico Nazionale, fasc. n° 2542, n. 190. 124. Citazione dal Dr. Cabanés, p. 215. 125. Maresciallo Tessé a Morville, vol. 335, f. 145, 6 luglio 1724. 126. A. Danvila, p. 137. 127. A. Danvila, p. 162. 128. Lettera originale del Marchese di Santa Croce, trascritta da A. Danvila, p. 123. 129. Archivio Storico Nazionale, fasc. 2635, 1 luglio 1724. 130. Archivio Storico Nazionale, fasc. 2685, 3 luglio 1724. 131. Dr. Cabanés, p. 226. 132. Lettera di Filippo V a Luigi I, trascritta dal Dr. Cabanés, p. 226. 133. Maresciallo Tessé a Morville, f. 191, 6 luglio 1724. 134. Archivio Storico Nazionale, lettera di Luisa Elisabetta ai re, fasc. 2489, 18 luglio 1724. 135. Maresciallo di Tessé, citato da A. Danvila, p. 137. 136. A. Danvila, p. 146. 137. Testo di Lord Percival citato da A. Danvila, p. 166. 138. J. A. Vallejo-Nágera, Locos egregios, p. 163. 139. M. Farquhar, p. 272.

PIETRO IL GRANDE (1672 - 1725) Il genio che torturò suo figlio

II mio primo incontro con Pietro il Grande avvenne a Londra. Avevo circa quattordici anni quando mi scontrai con la sua spettacolare presenza e il suo sguardo al contempo ironico e intelligente. Mi aveva talmente stregata che nemmeno la sua capigliatura riuscì a sconvolgermi. Lessi il cartellino che accompagnava il quadro: «Pietro il Grande. Dipinto da Sir Geoffrey Kneller durante il viaggio di Pietro il Grande in Inghilterra. 1697». A quel tempo non sapevo niente della Russia, così irraggiungibile, nascosta dietro la sua cortina di ferreo comunismo; la sola cosa che mi venne in mente contemplando il dipinto a olio fu che la fisionomia e l'atteggiamento dell'uomo ritratto non somigliavano per niente a quelle dei pochi russi che avevo visto e immaginato. In seguito venni a sapere che Pietro era stato il governante più carismatico e intelligente, il miglior amante, l'uomo più devoto che la Russia avesse mai avuto. Persino durante il periodo marxista si continuò a encomiare la sua memoria e a venerare la sua eroica figura. A partire da quel momento volli sapere tutto su di lui: anch'io, come il suo popolo, ne ero rimasta soggiogata. Inserire Pietro il Grande in questo libro di personaggi eccentrici o pazzi può esser considerato un iniquo tributo a un vecchio amore. Vi accorgerete di come, al momento di tuffarmi in questa biografia, sia stata catturata dalle sue titaniche e indiscutibili virtù per poi però scoprire quanto poco mi sarebbe convenuto averlo come compagno. Per rendergli giustizia, racconterò che il lato oscuro della sua personalità ebbe radici antiche e che le esperienze traumatiche della sua infanzia crivellarono la sua psicologia scalfendola con inguaribili coltellate. Nonostante tutto, Pietro riuscì a essere grande tra i grandi. .. la maggior parte delle volte. Il gigante addormentato Un'ombra incombe sul Palazzo d'Inverno. Non circola aria, se Pietro il Grande muore, tutto morirà e per la Russia non vi sarà né consolazione né futuro. Il pianto invade le strade e le case come il crepitio di mille cristalli rotti. Anche senza vita, Pietro incarna la maestosità di un gigante addormentato. Giace con le mani incrociate, all'apparenza tranquillo, libero dal suo tic convulso e contrito che da tempo immemorabile gli schiacciava la parte sinistra del volto, il braccio e la gamba. Il labbro inferiore è sensuale, così come sempre fu il suo viso. È rasato poiché tempo addietro aveva deciso di rompere la tradizione e obbligare tutti gli uomini a radersi la barba a pena di multa o di espulsione, dimostrando totale indifferenza nei confronti dei Vecchi Credenti ortodossi che lo avrebbero mandato al cielo o accusato di profanare la somiglianza al Messia. Lascia questo mondo impetuosamente, come sempre aveva agito per tutta la sua vita. Al culmine del suo potere, all'apice della sua abbagliante fama, Pietro decide d'immergersi nella corrente gelata del fiume Neva. Fuori dall'acqua, il vento di gennaio è sferzante, nel suo corpo il sangue fatica a scorrere e la pelle diventa bluastra. Un gruppo di marinai sta per naufragare, lo Zar non ci pensa due volte: si tuffa per salvarli e nessuno pensa a distoglierlo dal suo intento e a condurlo in una zona più sicura. Ma Pietro è così, coraggioso, risoluto, giovevole, innamorato della Russia e dei russi. Se la gelida temperatura per Pietro non aveva mai costituito un problema, ora inaspettatamente viene colto da una febbre mortale che si somma a una

vecchia infezione venerea, a una cirrosi causata da eccessi etilici, a un'infezione alla vescica, ai calcoli renali, alle cancrene... Nessuno di questi mali era riuscito a corrompere il suo magnifico aspetto, niente lo aveva fatto allontanare dai suoi doveri di sovrano e dal suo essere incessantemente in fermento. La pleurite che il Neva gli regala tende però fin troppo la corda della sua salute e lo Zar termina la sua esistenza spegnendosi la mattina del 28 gennaio 1725, dopo giorni di tenace lotta contro il delirio e il dolore. La Russia rovescia per le strade il suo pianto, il suo dispiacere. Pietro ha governato per quarantatre anni (1682-1725) con intelligenza, maestria e audacia, diventando il colosso della sua nazione e superando la memoria d'Ivan il Terribile a cui per indole e destino sembra ispirarsi. Il culto del suo nome supera secoli e orientamenti politici, persino durante il periodo comunista il Grande ha meritato un ricordo immenso tanto quanto il suo appellativo. Alto quasi due metri e dotato di una forza fisica tale da permettergli di piegare in due le monete d'argento, servendosi delle sole dita, e di estrarre denti cariati a qualsiasi persona gli si trovi vicino. Questo Sansone d'energia e audacia fa sì che, agli inizi del XVIII secolo, la Russia raggiunga il maggior progresso mai conosciuto. Graffiandola appena le toglie la sua caratteristica muffa provinciale strappandola a un lungo letargo e aprendola alla cultura e ai costumi europei. La dota inoltre di un'amministrazione, di una polizia e di un esercito degni della più avanzata potenza. Sulle paludi della costa del golfo di Finlandia, su un terreno di fango e acqua, costruisce San Pietroburgo, sotto la direzione tecnica di architetti francesi e italiani, consegnando al mondo una meravigliosa capitale, esuberante, ricolma di meraviglie, che è possibile ammirare ancora oggi in tutta la sua magnificenza. Gli eventi non gli resero certamente la vita facile e nemmeno le circostanze favorirono del tutto la sua ascesa al trono. Un'infanzia difficile Quattordicesimo figlio e unico maschio tra i discendenti nati dal secondo del fecondo padre Alessio, Pietro trova nei suoi tredici fratellastri un branco di nemici. Lo Zar Alessio muore quando Pietro ha solo quattro anni ma il padre ha già provveduto a incutere nel figlio un timore patologico nei confronti della sua stessa persona. Non si sa molto di come Alessio abbia trattato gli altri figli ma è certo che l'indifeso Pietro fu il bersaglio di un infinito e ingiustificato odio: il padre lo colpiva vilmente senza che lui avesse modo di difendersi e, come se non bastasse, al minimo pretesto lo prendeva per capelli e lo gettava per terra. I fratellastri maggiori, poiché odiavano la seconda moglie del padre nonchè madre di Pietro, fomentavano tali atrocità. Alla morte dello Zar Alessio, il potere passa al figlio maggiore Fëdor III, che ha solo quattordici primavere e che muore dopo sei anni. Costui, sebbene si fosse sposato due volte, lascia la Russia senza un erede e, quindi, spetta al secondo discendente maschio della sequela di figli di Alessio. Si tratta di Ivan V, che all'epoca ha quindici anni. Il ragazzo non a caso sfoggia l'appellativo Il semplice: le sue condizioni fisiche e mentali sono tanto deplorevoli che, dopo tante peripezie, il governo decide di assegnare il trono sia a Ivan sia a Pietro, che al tempo aveva solo nove anni.

I due occupano troni gemelli e hanno corona e scettro identici. Se il piccolo Pietro svolge il suo nuovo incarico con entusiasmo e interesse, Ivan arranca e richiede ogni genere di sostegno. Lo scenario che ne deriva è al contempo buffo e patetico. Se da una parte c'è un bambino che s'inorgoglisce giocando a fare lo Zar, dall'altra c'è un adolescente assonnato che sembra non interessarsi a niente. Nel frattempo, dalla retroguardia, Sofia, la sorella maggiore, resta vigile. La crudele sorella Con venticinque aprili alle spalle, Sofia rappresenta in realtà colei che tiene le redini della Russia. Donna drogata di potere, fa sì che sulle monete risplenda il suo profilo piuttosto che quello dei due giovani Zar. Le donne devono a Sofia l'abolizione della condanna alla sepoltura viva per i casi di omicidio, motivo per cui le si tributa enorme gratitudine. La reggente incoraggia inoltre la costruzione dei primi edifici in pietra, chiamando in Russia i migliori architetti e artigiani europei. Il problema per Pietro è che Sofia mantiene una relazione esageratamente ostile con la seconda moglie del padre, che sin dall'inizio tratta come usurpatrice e rivale. Qualsiasi cosa faccia riferimento a Natalia, la madre di Pietro, diventa oggetto di un cupo risentimento. Ma se Sofia con quest'ultima deve in qualche modo agire con cautela, nei confronti del bambino indifeso può impunemente sputare veleno, affliggendo la vita del giovane durante i sette anni in cui Pietro sarà al potere. Sofia concentra le sue energie nel duplice tentativo di spedire il fratellastro e la rispettiva madre nell'oltretomba, l'unico luogo da cui non potranno tornare. Finché Pietro continuerà a presiedere, i russi non prenderanno mai sul serio Ivan, il vero fratello di Sofia. Quest'ultima, invece, desidera più di qualunque cosa al mondo che proprio Ivan ad avere la meglio, non tanto per devozione fraterna ma più che altro perché l'esaltazione di Ivan coinciderebbe con l'apologia di se stessa, visto che il giovane è solo un inetto che si può comandare con la stessa disinvoltura con cui ci si rivolge a una bambola di pezza. Ivan, completamente estraneo ai sotterfugi della sorella, appare come un incapace che non fa altro che ciondolarsi sul letto tutto il giorno; non riesce neppure a camminare senza che altri lo aiutino. Ciononostante, Sofia si fa in quattro per cercargli una moglie in grado di dargli un erede. L'orgogliosa Praskov'ja Saltykova (1664-1724) spunta, boriosa d'ambizione, sulla scena del palazzo. Priva di scrupoli, Praskov'ja sembra non disdegnare lo stolto che ha per marito e governa la casa con frenesia, come se ne fosse la proprietaria, particolare che le causerà non pochi scontri con l'agguerrita cognata. Tuttavia, le va riconosciuto il merito di aver partorito cinque creature, in appararenza risultati dalla relazione con Ivan. Dei cinque figli, solo le tre bambine riusciarenno a sopravvivere: Ekaterina, Anna e la piccola Praskov'ja, tonta come il padre. All'epoca nessuno sospetta che le intenzioni di Sofia daranno i loro frutti in futuro. Malgrado fallisca nel suo intento di trasformare Ivan in un essere umano dignitoso e di dare alla Russia un erede maschio, trentasette anni più tardi avrà modo di rallegrarsi quando la secondogenita, Anna Ivanovna, diventerà Zarina di tutte le Russie. Se durante l'infanzia Pietro subisce frequenti aggressioni, ciò che gli accade durante l'adolescenza è ancor più triste e complesso. In varie occasioni, con l'intento di destituirlo, la sorellastra gli somministra

veleno e, malgrado non riesca a mandarlo all'aldilà, riesce a procurargli infinite sofferenze. A partire da questo momento Pietro si ammala sistematicamente e i continui sobbalzi emotivi indeboliscono le sue già anomale condizioni, facendogli accusare continua stanchezza, ulcere, problemi ai reni e febbri persistenti. Il pericolo che rappresenta Sofia è di tale portata che il giovane Pietro passa notti insonni e ,se pure riesce a dormire, non viene mai abbandonato da incubi terrificanti. A partire da questo momento non vorrà più dormire da solo. Nell'agosto del 1689, a diciassette anni, ha la prima crisi nervosa, che cela, come tutte le nevrosi, una fortissima angoscia. Il meccanismo di difesa diventa la fuga: si nasconde in un monastero recondito e lì, atterrito dal panico, lotta contro se stesso per tenersi lontano dalla pazzia, dalla morte e dal nulla. Al tempo ignora ciò che comincerà a scoprire pian piano: non tanto lontano comincia a sollevarsi un'eco in suo favore, i russi iniziano a confrontare il carisma e l'intelligenza di Pietro con le doti dei suoi due fratellastri. Quasi inconsapevolmente il giovane recluso ha lasciato un'impronta da cui germoglia un seme fatto di sostegno e simpatia verso la sua persona. Un gruppo sempre più numeroso di ufficiali si schiera a suo favore e, a dispetto di ogni pronostico, lo fa pure Ivan, che per la prima volta mostra segni di ragionevolezza. Con il passare dei mesi, il favore nei confronti di Pietro aumenta progressivamente e Sofia è costretta a rinchiudersi in un convento, da cui non uscirà mai più. Ormai sollevati dalla minaccia di Sofia, Ivan V e Pietro condividono il trono fino al 1696, anno in cui il primo muore lasciando solo Pietro, che pur avendo all'epoca ventiquattro anni è già dotato di una notevole esperienza. Uno Zar di ventiquattro anni A partire da questo momento, Pietro il Grande governerà la sua nazione per vent'anni. Impartisce ordini, prende decisioni politiche e procede così rapidamente che i suoi accompagnatori sudano sette camicie per riuscire a stargli dietro. Pietro mischia orgoglio a pacatezza, trasformando coloro che gli stanno vicino in un mero rumore di fondo. Utilizza tutte le sue energie affinché la Russia si svegli; quello che fa e che dice emana un'aura che non lascia nessuno indifferente. Viaggia più di ogni suo predecessore e si avventura in Inghilterra, Germania, Francia e Olanda dove apprende con incredibile voracità ogni cosa che si trovi alla sua portata. Impara perfettamente il tedesco e l'olandese e lascia tutti stupefatti. Tutti tranne il re di Francia, Luigi XIV che, fregiandosi dell'appellativo di Re Sole, non accetta che nessuno gli faccia ombra. Nel vedere Pietro, Luigi XIV viene colto da gelosia e assume inevitabilmente un atteggiamento ostile. La cognata del re di Francia, sposa dell'unico fratello, lascia testimonianza in una delle sue lettere - ne scrive più di venti al giorno - dell'impronta che lo Zar lascia durante la sua visita in Francia: Settembre 1697. Se [lo Zar] si trovasse in tempi difficili, mai morirebbe di fame, dimostra infatti di avere abilità in quattordici distinte forme di artigianato. Il nostro grande uomo [si riferisce al Re Sole, Luigi XIV] lo sbeffeggia perché lavora con un armatore olandese aiutandolo di persona nella costruzione delle navi. Ma quando ha saputo come navigano i galeoni che ha costruito, l'ha perdonato e ha smesso di pensare che lo Zar perda tempo in futilità senza senso.1 Alcuni anni dopo aggiunge:

(...) Oggi ho ricevuto l'importante visita del mio eroe, lo Zar. Lo considero molto amabile, nel senso in cui si è soliti utilizzare la parola amabile per definire qualcuno, ossia quando ci sembra informale e non dimostra avere pose affettate. È straordinariamente intelligente e, sebbene parli tedesco tentennando, ciò che dice è di gran interesse e si lascia intendere benissimo. È educato con tutti e qui è estremamente ben voluto.2 La sfida della Chiesa Durante il viaggio, nell'accostare il volto degli europei a quello dei suoi sudditi, Pietro scopre quanto gli faccia ribrezzo la «peluria facciale» dei suoi compatrioti. Appena rientrato decide di europeizzare il viso dei russi senza farsi intimorire dalla presunta ecatombe di critiche e maldicenze che scaturiranno. Per lunghi secoli questa parvenza è stata per i russi simbolo di devozione religiosa: attraverso la barba gli uomini diventavano specchio del Messia, modello vivente del Salvatore. Dopo il suo viaggio in Europa, Pietro si convince che la criniera sul viso dei suoi compatrioti costituisce un retaggio preistorico e, con l'audacia che in tutto lo contraddistingue, si dimostra sordo alle richieste generali in voga dai tempi di Ivan il Terribile, la cui bocca proferì le seguenti e precise parole: Radersi la barba è un peccato che il sangue di tutti i martiri mai potrà ammettere. Radersi è sfidare l'immagine dell'uomo creta di Dio.3 I russi, timorosi dell'Essere Supremo, coltiveranno la barba per il resto della loro vita, lasciando che cresca secondo il loro arbitrio ed evitando di raderla o acconciarla. Pietro contempla quella scura coda che spunta dal viso, in molti lunga fino all'ombelico, come se fosse qualcosa di ripugnante, che dimostra mancanza d'igiene e di senso estetico. Comincia così, a ripulire la faccia degli invitati servendosi di una lametta, in una delle sale del palazzo a lui riservate, lasciando loro il viso imberbe per la prima volta dall'infanzia. Tutti ammutoliscono dallo spavento e dalla paura, ma protestare comporterebbe vedersi tagliare mano e orecchie. Alcuni giorni dopo, in tutto il paese, circola un decreto che vieta fermamente di portare la barba. La nuova legge incarica i soldati di radere tutti i peli del volto, a qualsiasi barbuto incontrino per strada, senza fare distinzioni di classe, a meno che non si tratti di un ministro di Dio o di una persona particolarmente devota che, per evitare di radersi, dovrà versare una tassa. Chi riceve l'indulto dovrà portare un medaglione di bronzo ben visibile, che viene assegnato previo pagamento della relativa tassa. Resta tuttavia una cattiva idea avvicinarsi allo Zar con la faccia puntellata di peli, pur esibendo il medaglione, poiché, secondo la cronaca di un testimone oculare, coloro che l'hanno fattose ne sono poi amaramente pentiti. Sembra che Pietro non resista «a strappare la barba dalla radice con talmente tanta forza da sradicare anche la pelle». Il chirurgo amatoriale In Francia lo Zar non fa molto caso al fascino che esercita sulla maggior parte delle donne. Si concentra piuttosto sulle scienze, sulle arti, sull'architettura e sull'ingegneria di Versailles e del suo opulento

giardino. Ad Amsterdam, acquista due collezioni private di straordinaria rarità. Una di queste è la raccolta, realizzata in quaranta anni da un prestigioso medico di nome Ruysch, di 1.300 fossili di animali, piante ed embrioni in perfetto stato di conservazione. Pietro la «esamina molto minuziosamente fino a che decide di comprarla offrendo un'ingente somma di denaro, per poi spedirla via nave a San Pietroburgo con la massima cautela».4 Malgrado le attenzioni dello Zar, pare che la prudenza non sia stata però sufficiente e, stando a certe dicerie, i marinai lasciarono che alcuni campioni andassero persi bevendosi il liquido alcolico dei flaconi in cui gli stessi campioni galleggiavano. L'altra collezione che Pietro compra appartiene a Seba, un naturalista che raccoglie qualsiasi tipo di animale terrestre o marino che abbia solcato le Indie Orientali o Occidentali. A San Pietroburgo arrivano così uccelli, rettili, pesci e insetti, accompagnati da quattro volumi intitolati Sebae Thessaurus Naturae & Co. contenenti disegni e incisioni della fauna e della flora di esotica provenienza. Lo Zar, estasiato dalla saggezza di questi ricercatori, incarica Xsel, un pittore di corte, di realizzare due ritratti che li rappresentino che poi fa appendere nelle sue stanze private dove «li contempla con espressione di gratitudine».5 Due o tre volte a settimana, sempre all'alba, studia le due collezioni nella magnifica Accademia delle Scienze di San Pietroburgo, luogo in cui decide di destinarli affinché possano essere ben conservate. Qui, totalmente affascinato dai tesori che lui stesso ha finanziato, lo Zar perde la nozione del tempo. In una di queste giornate di particolare estasi, dato che aveva fissato un appuntamento lo stesso giorno con l'ambasciatore viennese, Pietro decide di incontrarlo presso l'Accademia. - Non sarebbe più adeguato che v'incontriate nel vostro Palazzo d'Estate?, pare abbia suggerito, sconcertato, il primo cancelliere. - No - risponde sferzante Pietro - Vienna lo manda per vedere me, non per fare il turista nei miei palazzi. Qui può benissimo dirmi ciò che il suo paese gli ha ordinato di dirmi.6 Qualche minuto più tardi, l'ambasciatore viennese, distrutto dal freddo e dal sonno, attraversa la sala del museo in cui lo Zar, con una lente in mano, sta scrutando il contenuto di una vetrina. Sono le cinque del mattino. La passione che Pietro dimostra per le scienze è così forte che esige venga avvisato dell'inizio di ogni operazione chirurgica, indipendentemente dal luogo e dall'ora. Non spreca mai un'occasione, osserva ogni cosa e s'informa su tutto fino a quando, pian piano, passa dall'esser testimone all'operare con le sue stesse mani, cercando qualsiasi tipo di sfida medica che sia di suo gusto. Un giorno viene a sapere di un foruncolo di dimensioni gigantesche che sta facendo disperare la signora Borst, sposa di un ricco commerciante olandese. Nessuno fino ad allora ha osato toccare la donna nel tentativo di sradicarle il tormento; costei teme infatti che all'eventuale medico possa sfuggire il bisturi in zone più delicate e dichiara di preferire il dolore e restare sdraiata piuttosto che seduta e morta. Pietro irrompe allora nella stanza da letto della malata con i suoi due metri di altezza e la valigetta chirurgica in mano. La dolorante, confusa dalla presenza dello Zar in persona accanto al suo letto, accetta di mostragli il suo deretano fustigato dal monumentale ascesso. A chi era fuori ad aspettare, i testimoni raccontano della grande eleganza e destrezza con cui il sovrano padroneggia gli strumenti

medici. Il giorno dopo la signora Borst si arma di tutta la speranza e, per la prima volta dopo tanto tempo, prova a sedersi. Un testimone descrive il seguito di dottori e personaggi di corte che giungono con l'intento di verificare la riuscita dell'intervento, tutti fanno pronostici mentre si sprecano frasi d'ammirazioni verso lo Zar, nel frattempo la paziente si limita a trattenere il respiro. Purtroppo viene a mancare il risultato glorioso che avrebbe promosso Pietro: la signora Borst muore infatti settantadue ore dopo a causa di una spiacevole complicanza postoperatoria. Lo Zar consola lo sposo finanziando un funerale in pompa magna che lui stesso presiede. Malgrado il terribile imprevisto, Pietro continua a non temere le opportunità scientifiche, e siccome queste possono presentarsi in qualsiasi momento, si reca ovunque portando con sè due valigette, una con gli strumenti matematici e l'altra con il materiale chirurgico. La devozione scientifica, sebbene lodevole, infastidisce alcuni dei suoi sudditi che, probabilmente, avrebbero preferito un sovrano comune invece di colui che per grazia hanno ricevuto: con un comune Zar si sa come regolarsi, ma quello attuale fa di tutto per complicarsi la vita in terreni che non sono di competenza della politica. Pietro, infatti, esige che tutti si dimostrino interessati alla medicina e povero colui che si azzarda a mostrarsi reticente! Un giorno, durante una lezione di anatomia in Olanda, il sovrano russo sente il rumore di un conato, nel momento in cui si sta sezionando un cadavere. Furioso per la dimostrazione di debolezza, costringe i presenti ad avvicinarsi al corpo, chinarsi su di esso e dargli un morso. Come si è già notato, non si limita soltanto alla teoria ma egli stesso passa alla pratica appena può. Presso l'Accademia delle Scienze, oltre alle collezioni che acquista, vengono messi in esposizione fila e fila di denti sani, che egli stesso ha il piacere di estrarre, minuziosamente catalogati. Oltre alle dentature, lo Zar è affascinato da altri attributi umani che conserva attentamente allineati in soluzioni di formalina: peni, lingue, cadaveri di neonati malformati, lo scheletro di un gigante e un'infinità di corpi di nani che si fa mandare dai confini più remoti della terra. Durante le sue spedizioni formative, sia in Russia sia in Europa, Pietro preferisce giungere in incognito in modo da poter esplorare e imparare, evitando distrazioni cerimoniali o di protocollo, pretesa alquanto utopica considerato il suo aspetto fisico. Anche senza sapere di chi si tratta, le donne europee e pure alcuni uomini restano a fissarlo a bocca aperta; alcuni non possono esimersi dal seguirlo come il ferro con la calamita. Lo Zar se li toglie di torno a suon di schiaffi. Il lato oscuro Nonostante i successi politici e umani elevino Pietro alla categoria di superuomo, parallelamente alla sua incommensurabile, splendida e coraggiosa fama, freme sotto la sua personalità un istinto schizoide che lo indurrà a torturare il figlio fino a ucciderlo. Le esperienze traumatiche dell'infanzia e della gioventù scalfiscono irrimediabilmente il suo equilibrio emozionale, facendo sì che nel suo carattere convivano tratti antitetici, che la sua ragione e la sua volontà non riescono a domare. Con la definitiva salita al trono, le sue turbe non scompaiono, si mantengono latenti e pronte a riaffiorare in qualsiasi momento. Per questo motivo, nello stesso periodo, deciderà di

non voler più dormire da solo. Alla sola idea di restare solo al buio, diviene preda di tremende crisi di panico che lo inducono ad accovacciarsi in posizione fetale e ad avere sintomi d'involuzione alla prima infanzia. Tutte le notti Pietro ha bisogno di un'altra persona che gli infonda calore e sicurezza sotto le coperte e se non trova nessuna donna disponibile obbliga la prima persona che gli capita, sia questa un ufficiale dell'esercito, un camerista o un domestico, a mettersi a letto con lui e ad abbracciarlo. Questo anomalo comportamento, frutto dell'angoscia nevrotica, fa sì che venga ritenuto omosessuale; tuttavia, non si tratta di desiderio erotico, è il trauma affettivo che lo spinge a scegliere i propri compagni di letto. Gli shock emotivi subiti in tenera età accentuano i lati peggiori del suo temperamento, facendolo drammaticamente oscillare tra due poli opposti: euforia e indifferenza, terrore e dispotismo, sensibilità e blocco affettivo. Pietro a volte si mostra coraggioso e risoluto, altre pusillanime; pare, ad esempio, che ogniqualvolta veda gli insetti, in particolare gli scarafaggi neri, svenga. Manifesta forte repulsione per l'acqua e solo vedendola comincia a tremare. Tuttavia, grazie alla sua indomabile volontà, imparerà a controllare la sua talassofobia passando dal totale rigetto a un amore tanto forte da rifiutarsi di dormire a terra quando si trova vicino a un porto. Ironia della sorte, sarà l'acqua a ucciderlo. Le esperienze dolorose dell'infanzia indeboliscono, inoltre, la sua capacità d'adattamento, provocandogli crisi paranoiche, mancanza di empatia e impulsivi attacchi di collera, a cui cercherà di trovare rimedio con rozzi sberleffi, con blasfemie e potenti sbornie. Si allontana da ciò che non riesce a controllare e dato che qualsiasi cosa faccia la fa in grande, come recita il suo appellativo, anche le sue impudenze e i suoi errori acquisiscono un carattere superlativo. Pietro schiaffeggia ufficiali e nobili per futili motivi e infligge un penoso martirio a chi ha il compito di svegliarlo. Non appena aperti gli occhi, infatti, il suo spirito sembra infuocarsi selvaggiamente come quando, in giovinezza, lo svegliavano in malo modo con spiacevoli maniere. Se per strada viene avvicinato da curiosi e ammiratori, Pietro se ne sbarazza prendendoli a pugni. In più di un'occasione attacca con la spada i commensali delle feste che lui stesso organizza, altre volte si comporta con crudele brutalità. Per esempio, il giorno in cui l'ammiraglio Golovine, uno dei suoi prediletti, rifiuta un'insalata a cui avevano aggiunto aceto, Pietro lo castiga svuotandogli direttamente in bocca, con le sue stesse mani, un'intera bottiglia del suddetto liquido. Obbliga alcune ragazze che passeggiano tranquillamente per il viale a fermarsi e a bere la porzione di acquavite di uno dei suoi granatieri. Accompagna questi orrori con manie ossessive, come quelle di costringere anziani decrepiti a esibirsi per le strade innevate mascherati da saltimbanchi. Indulgenza etilica A causa dei suoi eccessi Pietro si procura l'inimicizia di boiardi, domestici e nobili; si guadagna l'astio dei patriarchi della Chiesa radicale ortodossa, ai cui costumi ancestrali si oppone tentando di occidentalizzarli. Come ricompensa per il suo zelo di riforma viene fregiato dell'appellativo di Anticristo e per contraccambiarli Pietro si

diletta a organizzare crudeli parodie religiose, costringendo quasi tutta la corte a prendervi parte. La sovranità di Pietro corre parallela al sanguinoso conflitto con una Chiesa vetusta che non accetta di cambiare e che gode d'immenso potere tra il popolo e in alcune sezioni della nobiltà, nonostante quest'ultima tenga segretamente nascosta la propria adesione. In Russia lo Zar tenta di mitigare l'onnipotenza dei rappresentanti di Dio, sbeffeggiandoli e organizzando truci spettacoli con l'intento di caricaturizzare riti e cerimonie e affidando i ruoli da protagonista a persone fisicamente malformate che fanno le veci dei sacerdoti. Sedicenti fedeli vagano nudi al seguito di prostitute, anche queste senza veli, e la vodka scorre fino a far evaporare la coscienza di tutti i presenti. La straordinaria indulgenza che Pietro dimostra nei confronti dell'alcol, fa sì che diversi dignitari stranieri, piuttosto che ringraziarlo per la festa organizzata, ritornino nei rispettivi paesi desiderando sparlarne. Come ironicamente testimonia l'ambasciatore olandese a San Pietroburgo: [Nel giugno del 1715], finalmente arrivati a Cronstot [Kronstadt], fummo invitati a Peterhof, la casa di villeggiatura dello Zar, ubicata sulla costa dell'Ingria, dove arrivammo aiutati dal buon vento e cerimoniosamente accolti con il solito passatempo di quel luogo; durante la cena fummo alla mercè del vino Tokay, Sua Maestà bevve più del solito, bevemmo tanto che riuscivamo appena ad alzarci da tavola e, come se non bastasse, fummo obbligati a svuotare completamente altri bicchieri pieni fino all'orlo di liquore, servito direttamente dalle mani della Zarina. Dopo di che perdemmo definitivamente i sensi. In questo stato ci trascinammo a dormire, alcuni in giardino, altri nel bosco e i restanti direttamente per terra. Alle quattro del pomeriggio fummo svegliati e nuovamente invitati a rientrare in casa, qui lo Zar ci dette un'ascia e ci ordinò di seguirlo. Ci condusse in un bosco di robusti alberi in cui tracciò un sentiero lungo cento passi che arrivava direttamente al mare: dovevamo aprirlo disboscando gli alberi. [Lo Zar] cominciò a lavorare trepidante, e sebbene noialtri (sette oltre Sua Maestà) trovassimo curioso che quel duro e mal pagato lavoro venisse eseguito da persone non ancora del tutto lucide, realizzammo arditamente quel disboscamento guidati da lui, tre ore più tardi quasi tutti i vapori dell'alcol sembravano essersi volatilizzati. Nessuno si fece male, eccetto uno dei ministri, che ricevette addosso un albero che stava tagliando con impeto, subendo le conseguenti ammaccature. Lo Zar volle ringraziarci par la fatica profusa e i dolori annessi, premiandoci con una cena in cui ci vennero nuovamente offerte dosi di liquore che ci spedirono inconsciamente al letto. Ma dopo appena un'ora e mezzo di sonno la Zar ci ordinò di svegliarci e ci condusse, volere o nolere, nelle stanze del principe della Circassia, che era a letto con sua moglie, dove nuovamente ci obbligò a bere vino e liquore fino alle quattro del mattino. Il giorno dopo nessuno di noi ricordava come fosse riuscito a tornare a letto. Alle otto di mattina fummo svegliati un'ennesima volta per fare colazione, ma invece di offrirci come prevedevamo, caffé o tè, ci dette il benvenuto con enormi tazze di brandy, dopo fummo mandati a prendere aria in cima ad una collina vicina al palazzo. Dopo aver passeggiato un'ora per boschi e dopo esserci rinfrescati con acqua freddissima, ci avviammo verso la quarta cerimonia di bevute a tavola...7 «Secondo me, è caduto molto in basso»

Come molti narcisisti, Pietro ha serie difficoltà nelle relazioni interpersonali, pur manifestando spiccate capacità nell'esercitare fascino sulle masse. I suoi disturbi della personalità somigliano, sotto certi aspetti, a quelli di Ivan il Terribile, che già da piccolo si divertiva a gettare i suoi animali domestici dalla torre del Cremino e si dilettava a vedere il suo cane mangiare vivo il principe Shuisky. Quando poi divenne adulto decise di cavare gli occhi agli architetti della cattedrale di San Basilio, affinché non potessero costruire in futuro qualcosa di più bello. Sebbene a Pietro non vengano attribuite azioni tanto efferate e frequenti, è pur vero che, come Ivan il Terribile, il Grande esordisce spesso con imprevedibile e ingiustificata violenza. Nel 1703, sospettando che Anna Mons, sua amante da tredici anni, fosse andata al letto con l'ambasciatore svedese, la fa imprigionare con trenta suoi amici e le toglie tutte le mansioni e i terreni a Mosca, che aveva cominciato a regalarle dalla fine del 1690. Ama anche la visione del sangue e assistere di persona al suo spargimento; si rallegra partecipando a spettacoli di torture ed esecuzioni; fa decapitare la sua amante, la contessa Maria Pavlovna Hamilton, accusata d'infanticidio (a quei tempi considerato in Russia una colpa minore), e non soltanto assiste al suo supplizio, ma sotto al patibolo bacia la sventurata e l'esorta a pregare, in segno di pentimento per la peccaminosa condotta. Quando la testa di Maria rotola, lui la prende per i capelli e spiega pacatamente agli assistenti quali sono gli organi che l'ascia ha sezionato; poi bacia il viso, si fa il segno della croce e lo lascia cadere per terra; ordina infine che la immergano nella formalina perché vuole trovarle un posto nella sua collezione privata di campioni. Durante il suo celebre viaggio in Europa, Pietro sfoggia un'educazione impeccabile e al contempo un'imprevedibile rozzezza. La cognata del Re Sole, che in alcune sue lettere tanto elogiava lo Zar definendolo «mio eroe», i ravvede totalmente quando viene a sapere della scena che lei stessa descrive in una delle lettere che spedisce a un suo parente: Saint Cloud, 23, novembre 1721. (...) L'ultima prodezza dello Zar mi fa venire in mente una commedia italiana in cui l'Arlecchino si traveste da principe in un'udienza.(...) Ad un certo punto, Arlecchino s'avventa contro l'Imperatore e lo fa cadere su un mucchio di persone. È esattamente ciò che ha fatto lo Zar. Quando è giunto il suo ambasciatore imperiale, lo Zar era maestosamente seduto su di un trono d'argento dietro un tavolo dorato. Quando l'udienza è terminata, proprio quando l'Imperatore stava per arrivare alla porta d'uscita, lo Zar gli è saltato addosso, facendolo spaventare a morte. Questo è ciò che io chiamo un'"arlecchinata". È davvero triste che questo monarca si conceda a tali stranezze, considerate le buone qualità che possiede. Secondo me, è caduto molto in basso.8 Vanno aggiunte, inoltre, altre stravaganze che si librano come foglie al vento per corridoi e feste dell'alta società. Ovunque si racconta che Pietro ha abbandonato improvvisamente una chiesa per assistere a un'orgia e che quando il cerimoniere di Brandeburgo si presenta per ricevere gli ordini dallo Zar, questo gli toglie la parrucca, gli sceglie una donna e l'obbliga a possederla in pubblico, dinanzi a molti testimoni ammutoliti dalla tensione che tale scena scatena. All'indomani dell'episodio, lo Zar manda a chiamare una donna che aveva visto attraversare la strada e, rivolgendosi a lei con veemenza, le strappa l'orologio che l'attonita donna porta appeso al collo, se ne

appropria per poi, senza proferir parola, andar via come se nulla fosse accaduto, ignorando il provvisorio svenimento della povera sventurata. Al cospetto della principessa elettrice della Sassonia (che pare essere una delle donne più belle e spirituali dell'epoca), lo Zar di Russia si comporta peggio di un grezzo ruffiano. Questo atteggiamento che, da un punto di vista psicologico deve considerarsi provocato da un'estrema compensazione della timidezza, si sviluppa durante la sua infanzia e, in quanto meccanismo di difesa, fa precipitare la sua disturbata tendenza narcisista. Durante i pasti serviti in presenza di questa donna così bella, Pietro dimentica di utilizzare il tovagliolo, si pulisce la bocca sporca d'unto con la manica della giubba, maneggia audacemente i coltelli, rutta, scoreggia e costringe tutti e restar seduti a tavola per quattro ore per continuare a bere. La pericolosa minaccia dei coltelli sembra essere una costante dei pasti che vengono offerti in suo onore, non tanto perché lo Zar ne ignora il loro corretto utilizzo, ma per la sua voglia d'intimidire i commensali che l'osservano. In una di queste occasioni la regina di Prussia, temendo di restare sfregiata, tenta di alzarsi, ma lo Zar l'afferra violentemente per il braccio, la donna reagisce gridando dal dolore. «Caterina [la Zarina] non ha le ossa così delicate», risponde Pietro sarcasticamente e senza chiedere scusa. L'estrema indulgenza verso l'alcol fa sì che le apparizioni di Pietro finiscano per mettere a soqquadro gli ambienti che lo ospitano. Lo scrittore inglese John Evelyn è sfortunato nello scoprire questo lato dello Zar troppo tardi. Il povero innocente affitta la sua elegante dimora a Pietro e al suo entourage per ritrovarsela, tre mesi più tardi, con vetri rotti, quadri distrutti, mobilio trasformato in legna da ardere e letti, cuscini e materassi sbrindellati. Il giardino, gioiello più prezioso di Evelyn, diventa una vera e propria palude «come se un esercito con scarpe di ferro l'avesse trivellato». I vicini raccontano di aver visto lo Zar completamente ubriaco farsi trascinare su un carretto per le aiuole accuratamente seminate di fiori. Scherzi grotteschi Il lato oscuro di questo colossale sovrano è causa di attacchi isterici e di crisi epilettiche. Il suo principale meccanismo di difesa (che ha già sviluppato durante la prima adolescenza) consiste nello svagarsi ridendo di gente indifesa e deforme. Fino all'ultimo dei suoi giorni si diletta contemplando nani e ritardati che, obbligati a indossare abiti eccessivamente grandi e pacchiani, vengono poi trascinati su qualsiasi oggetto che scivoli - tappeti, slitte o piccole carrozze - costretti ad abbaiare, a nitrire, a ragliare, a cantare e infine a scoreggiare, cosa che pare faccia particolarmente divertire lo Zar. Non vi è banchetto in cui non Pietro ordina a un nano di sbucare da una torta, cosa che lo fa sbellicare dal ridere. Nel 1710, due giorni dopo le nozze della nipote, organizza il matrimonio tra due dei suoi nani con identica cerimonia. L'ambasciatore olandese ancora una volte ci rende un'avvincente testimonianza della scena: Un nano bassissimo camminava in testa al corteo, svolgendo il ruolo di maresciallo (...) guida e maestro della cerimonia. Dietro di lui c'erano la sposa e lo sposo, impeccabilmente vestiti. A seguire c'era lo Zar e i suoi ministri, principi, boiardi, ufficiali e i restanti, per ultimi

sfilavano i nani in coppie di entrambi i sessi. Erano in tutto settantadue. Lo Zar, in segno di rispetto, teneva il velo della sposa, come da tradizione russa. Quando la cerimonia ebbe fine, il gruppo si diresse verso il palazzo del principe Menshilkov (...). Diversi tavolini erano sistemati al centro dell'anticamera per gli sposi e gli altri nani, vestiti splendidamente secondo i costumi della moda tedesca (...). Dopo cena, i nani ballarono in stile russo fino alle undici di notte. Si può ben immaginare come lo Zar e il resto della sua compagnia si divertirono con le birbonate, la mimica e gli strani atteggiamenti dei pigmei, per la maggior parte così estremamente bassi che solo a vederli veniva da ridere (...). Quando il divertimento terminò, la nuova coppia venne trasportata presso la casa dello Zar e invitata a dormire nelle sue stanze.9 I suoi scherzi, come è prevedibile tenendo conto del suo carattere, fanno divertire generalmente solo lui. Ad esempio, fa suonare le campane a mezzanotte per segnalare un incendio e quando i cittadini impauriti arrivano sul presunto luogo del sinistro, trovano solamente i soldati che, intorno a un falò si sganasciano dalle risa gridando loro «Ingenui!». Durante il viaggio in Olanda, apprende l'arte dell'estrarre i denti da un persona che lo fa in strada e, malgrado ricorra a tali abilità spesso con intento benevolo, altre volte lo fa per puro diletto, scegliendo i suoi ufficiali come cavie. Tanto si diverte a toglier denti che, quando questi temono di esser per qualche motivo castigati, fingono un mal di denti e accettano l'estrazione in modo da placare le ire dello Zar. Preferiscono questo tormento a quello che sicuramente il sovrano avrebbe comunque in serbo per loro. Anche Pietro si diverte escogitando scontri fittizi, ma crudeli, tra gli stallieri e trova pure molto piacevole sperimentare materiale esplosivo. Considerando che ha il terrore della solitudine, Pietro ordina sempre a qualcuno di accompagnarlo tenendolo per mano, senza preoccuparsi minimamente né della volontà del prescelto né dei pericoli a cui questo viene obbligatoriamente esposto, né infine degli incidenti che lo Zar stesso provoca con i suoi temerari esperimenti. Uno dei più celebri è quello che mette in pratica con il figlio della sua preferita del momento: il ragazzo si smembra completamente e trova la morte nel momento in cui i fuochi d'artificio gli esplodono in mano. Tuttavia, Pietro, incapace di apprendere dall'esperienza, continua instancabile e divertito nei suoi esperimenti a base di polvere da sparo. Leggendo la biografia dello Zar è facile notare come, durante tutta la sua esistenza, tenda a disfarsi del fastidio e della frustrazione attraverso la continua ricerca di pericoli, a volte inutili, che gli consentano di fare la parte dell'eroe. Li minimizza chiamandoli «scherzi» e siccome gli scherzi acquistano consistenza soltanto quando ci sono spettatori e vittime, Pietro attrae nel suo circo privato chi gli è vicino, voglia o meno costui parteciparvi. Allo stesso modo dà libero sfogo al suo lato narcisista e mitiga al contempo la sua incapacità di star solo; può anche essere che questo suo modo di comportarsi sia in realtà una scusa per riuscire a tormentare qualcuno con l'intento poi di salvarlo, tratto pure tipico dei narcisisti. La penna dell'inviato olandese che prima descriveva l'ebbra visita a Peterhof, continua a raccontare questo genere d'avventure, apparentemente spiritose, cui Pietro pare dedicarsi appassionatamente. In questo caso, invece di metter fine all'episodio con una serie di comatose sbornie di gruppo - passatempo piuttosto singolare - gli si presente l'ennesima

opportunità d'oro per prolungare la distrazione. Ricordiamo che gli ospiti si trovano sulla costa dell'Ingria, a circa trecento chilometri via mare dal porto più vicino. Avevano mangiato e consumavano il quarto svenimento etilico del giorno, quando all'improvviso si alza un ventaccio «così forte che correvamo il rischio di alzarci da terra» racconta l'olandese. Lo Zar considera una noia mortale proteggere il vacillante gruppo all'interno del suo palazzo, dove non c'è altro da fare che attendere la fine della sbornia. Alcuni spettatori inconsapevoli sembrano non aiutarlo ad alimentare il suo narcisismo e nemmeno saziano la sua fame d'ammirazione e affetto, così Pietro escogita nuove possibilità per accrescere la sua immagine nell'ambiente ostile e, ignorando lo stato deplorevole degli invitati, li conduce laddove l'alcol può contemporaneamente divertire, essere pericoloso ed evaporare: la sua imbarcazione. Il singolare stile letterario dell'ambasciatore olandese ben testimonia ciò che avviene. Ci condusse a bordo di una grande barca. La Zarina, e le sue dame si sistemarono nella cabina, mentre lo Zar rimase con noi in coperta raccontando barzellette e assicurandoci, come se non fosse consapevole del forte vento che soffiava, che saremmo giunti in quattro ore al porto di Kronstadt. Dopo aver cercato di orzare per più di due ore, scoppiò una tempesta. Lo Zar cominciò a giocare con il timone. Nel bel mezzo del pericolo dimostrò di avere, oltre a immensa destrezza nel guidare la nave, anche una straordinaria forza fisica e molto humour. La Zarina si trovava all'interno di una cabina inondata dall'acqua, e venne fatta sistemare su panchine sopraelevate; con le onde che battevano contro la nave e la pioggia incessante che cadeva dal cielo. In siffatto stato di pericolo, egli dimostrò di avere grande prontezza. In poco tempo tornammo tutti sobri, tormentati dalla sola idea della morte a noi vicina, cosa che ci costrinse a pentirci dei nostri peccati, a pensare al cielo e a prepararci al fatale epilogo, con l'unica consolazione di morire con una così nobile compagnia. Lo Zar decise che quattro boiardi [nobili] del suo seguito e i domestici venissero gettati a mare con il salvagente: era infatti necessario alleggerire il peso. La gabarra, costruita e equipaggiata di marinai esperti, dopo sette ore passate a orzare, arrivò finalmente al porto di Kronstadt. Lì lo Zar si congedò con tali parole: «Buona notte signori, lo scherzo è andato fin troppo oltre». Il giorno dopo si ammalò accusando febbre alta. Noi, dal nostro canto, completamente bagnati dopo aver passato tante ore inzuppati dall'acqua, cercammo un alloggio sull'isola, ma non riuscendo a trovare né vestiti né un letto e con i nostri bagagli dispersi in mezzo al mare, decidemmo di accendere un fuoco, ci spogliammo e ci avvolgemmo in ruvide coperte da slitta forniteci da alcuni contadini. Trascorremmo la notte in tali condizioni, facendo morali e riflettendo sulla miseria e la pazzia della vita umana.10 Queste esibizioni circensi dinanzi al pericolo raggiungono più o meno lo scopo prefissato: gli spettatori finiscono per contemplare lo Zar con un sentimento a metà tra l'ammirazione e il timore. Sintomi di pazzia Man mano che lo Zar diventa adulto, diventa sempre più palese che il suo cervello ha qualche rotella fuori posto. Il ministro prussiano informa il suo re scrivendo:

Non ci sono spiegazioni sufficientemente chiare affiché Sua Maestà comprenda l'instabilità e la negligenza con cui qui vengono trattati gli affari più importanti.11 L'instabilità cui il ministro si riferisce è da imputarsi esclusivamente al fenomeno delle crescenti crisi epilettiche, degli svenimenti etilici, delle perdite di coscienza e infine degli scatti di violenza di Pietro, così frequenti, ingiustificati e indomiti da compromettere, con il passare del tempo, la splendida fama che si è abilmente conquistato con tanto sacrificio. Ma lo Zar sembra comportarsi in modo sempre più inquietante e, con il passare degli anni, la distanza tra una crisi e l'altra sembra accorciarsi sempre più. In talune occasioni, gli attacchi di violenza sono seguiti da crisi epilettiche e, non conoscendo all'epoca la vera origine di simili malattie, Pietro viene tacciato di essere il custode di una malefica pazzia. I patriarchi della vecchia Chiesa ortodossa approfittano naturalmente dell'occasione per avvalorare la tesi che cercano accanitamente di accreditare: lo Zar è l'Anticristo. Oggi conosciamo lo stretto legame tra alcolismo, epilessia, gravi disturbi dello stato d'animo e terribili crisi d'irritabilità, aggressività, instabilità psicomotoria e obnubilazione. Considerando che quattro tra più grandi condottieri della storia - Alessandro Magno, Carlo V e Napoleone, oltre a Pietro - hanno sofferto di crisi convulsive, si può pensare che esista una relazione tra genio militare ed epilessia; relazione che diventa ancor più evidente se si analizza il carattere di questi individui, inclini agli eccessi alcolici e a un'istintiva violenza. Stranamente, la loro irritabilità sembra andare di pari passo con un desiderio di riforma e miglioramento del paese che governano, spesso dominato da una tirannia che essi stessi hanno instaurato. Mai sapremo se Pietro soffre di crisi epilettiche e attacchi di violenza perché beve come un dannato o se beve piuttosto per fuggire dalla violenza interna che non riesce a domare, o infine se tutto questo è causato da un'autentica lesione neurologica congenita. Tuttavia, il caso vuole che le sue manifestazioni cliniche siano strettamente legate le une alle altre, diventando pressoché inseparabili. Ad esempio, la maggioranza dei suoi attacchi d'ira, spesso arbitrari e sempre repentini, gli spengono la ragione e lo inducono a lunghe perdite di conoscenza. Solo Caterina, la sua preferita, riesce a restituirgli compostezza e lucidità; nel suo grembo Pietro ritorna fresco e vispo, dimenticando i motivi della crisi. La donna non teme le sue iraconde sortite e invece di fuggire riesce a calmarlo con provvidenziali carezze, ragion per cui Pietro finirà per sposarla. Nemmeno Caterina è però immune dalla crudeltà dello Zar. In un'occasione, credendo che costei che lo tradisca con William Mons, fratello di un'altra delle sue preferite, Pietro ordina di giustiziare l'uomo senza nemmeno verificare la veridicità delle sue congetture. Fa poi sistemare la testa decapitata del morto nella stanza da letto di Caterina, giusto per ricordarle quanto non le convenga farlo ingelosire. Caterina risponde dimostrando quanto infondati siano i commenti che circolano sul suo conto: «Allo Zar piacciono le donne con molta carne e poca luce». La sua pazienza e le sue abilità fanno sì che, alla morte di Pietro, Caterina erediti il trono, diventando la prima Imperatrice di Russia. Quando Pietro conosce Caterina, lei, figlia di contadini della Livonia, si guadagna la vita prostituendosi. Ancora adolescente già gironzola negli accampamenti dell'esercito passando da un amante all'altro; la sua

destrezza nell'arte del piacere è tale da permetterle una scalata che la condurrà a raggiungere il letto dello Zar in persona. Pietro la sposa non per le sue doti comunicative - visto che era praticamente incolta e appena masticava il russo - ma perché Caterina, oltre a possedere «succulente carni», vanta un coraggio impressionante: è infatti l'unica capace di trasformare il violento in eruzione in un bell'addormentato, il che costituisce un'eccezionale prodezza, dato che lo Zar, per quasi tutta la sua vita, di dimostra costantemente refrattario alla tenerezza. Le atrocità con cui il padre e la sorellastra condizionarono la vita di Pietro, conducono il Grande a diventare un alessitimico, una persona incapace di esprimere le proprie emozioni. Le percosse subite dal padre e il veleno somministrato regolarmente dalla sorella spingono lo Zar verso la sindrome di Tourette, disturbo neurologico che induce a movimenti involontari, ripetitivi e bruschi. La sindrome colpisce Pietro nella parte sinistra del corpo causando il continuo movimento del braccio e della gamba, per poi trasmettersi al volto che s'irrigidisce convulsamente fino a limitargli la vista e la pronuncia della parole. Le pozioni velenose di Sofia sono l'origine delle forti febbri che Pietro spesso accusa e dell'encefalite che l'aveva quasi ucciso e che, da quel che si dice, avrebbe potuto intaccare la parte del cervello atta a gestire i comportamenti. Forse è da ascrivere proprio a questo il germe del disturbo della personalità che lo spinge a ubriacarsi continuamente, ad abusare di persone innocenti e a placare i suoi fastidi con nani, persone disabili o deformi. Non si può dire che lo Zar abbia voluto imitare consapevolmente la brutalità del padre, che, ironia della sorte, sfoggiava il soprannome Il Pacifico. Senz'altro però non riuscì mai a liberarsi dei traumi che gli avevano irrimediabilmente indebolito il carattere. Le spiacevoli esperienze giovanili e l'ostilità riservatagli dalla sua famiglia plasmano una personalità che alterna grandi virtù, e mostruosi difetti. Pietro è al contempo coraggioso e paranoico, avventuriero e ossessivo, castigatore e fobico, superstizioso e trasgressivo; quest'ultimo lato del suo carattere trova riscontro nella sua devozione per la blasfemia e l'oscenità, si accanisce, infatti, in particolar modo contro i Vecchi Credenti, di cui cui vuole disonorare a tutti costi l'immagine. Effettivamente lo Zar è scisso tra la superstizione (crede di dover ringraziare soltanto Dio per la sua fortuna nelle battaglie) e la necessità di non sentirsi controllato da niente e da nessuno, nemmeno dall'Essere Supremo, messa ben in evidenza dalla sua dipendenza da ogni genere di oscenità e scherzi blasfemi. Desidera con tanto ardore deridere le cerimonie religiose della vecchia Chiesa russa la quale arriva persino a ideare un sinodo che, in linea con i suoi più rozzi atteggiamenti, definisce come uno «dei più pazzi, più ubriachi e più buffoni». Crea anche le regole di questo nuovo ordine basando il primo comandamento sull' «ubriacarsi tutti i giorni e non andare mai a letto sobri». Organizza, inoltre, l'evento di modo che la vodka faccia le veci dell'acqua benedetta e i membri più numerosi siano nani, gobbi e altri individui di raccapricciante costituzione. Giunto il periodo della Quaresima, i membri del sinodo, che hanno nomi osceni, sfilano con cappotti a rovescio su asini e buoi e, fatto che allo Zar sembra fondamentale, il suono delle trombe viene sostituito con scoregge tra le più rumorose e pestilenziali possibili. In caso di neve, portano in giro per la città il loro singolare stato d'ebbrezza su slitte che trascinano oche, maiali, e finanche esseri umani con deformazioni fisiche e mentali.

Questo ebbro sinodo comporta cerimonie di smisurata volgarità. Nel 1721, ad esempio, Pietro viene a sapere dell'esistenza di una tale Papessa Giovanna e in pochi secondi colloca l'allettante donna sul trono del patriarca, a quel tempo occupato, da un ottuagenario bottegaio. Immediatamente lo Zar fa sposare l'anziano con una povera e giovane vedova cacciata forzatamente di casa. La cerimonia è celebrata da un personaggio cieco e sordo e nei posti a sedere degli sposi vengono fatti strategici buchi per poter spiare le parti più intime della coppia. Pietro e i suoi sbirri, stesi per terra, si dilettano spiando dai suddetti buchi. A un certo momento, lo Zar introduce le dita in uno dei fori e afferra con forza i genitali di Buturlin, lo sposo sofferente. Poi, pazzo di goia, grida «Habet foramen! Habet» (Ha un orifizio! Ce l'ha!)12 Durante l'orgia svoltasi dopo il matrimonio, coloro che si autoeleggono cardinali dell'ordine cominciano a bere fiumi di vodka, ogni mezz'ora, allo scopo di preservare nella memoria quella piacevole serata. Nel frattempo lo Zar insegue un cestino di uova portato da una ragazza seminuda che chiama badessa. I cardinali baciano i seni della ragazza prima di prendere un uovo dal cestino e darlo a Pietro, che se lo rompe in testa simulando un singolare battesimo. Per ringraziarlo della festa di nozze, Pietro esime lo sconfortato sposo Buturlin dal suo lavoro di bottega affidandogli una missione a Mosca e un'altra a San Pietroburgo. Si è discusso molto se questa dissacrante beffa nei confronti dei vecchi riti religiosi sia stata frutto della patologia dello Zar o una pura strategia per placare l'immenso potere che all'epoca veniva ostentato dall'atavico clero, che in Russia godeva dell'immenso appoggio del popolo. Già suo padre, lo Zar Alessio, aveva riformato i testi sacri, imposto un nuovo modo di farsi il segno della croce con due dita invece che tre e instaurato un rituale un po' più moderno e occidentale, provocando un fiume di sangue. Diversi credenti dichiararono che i nuovi libri e riti costituivano una tentazione diabolica e difesero le vecchie tradizioni continuando a farsi il segno della croce con le tre dita, a leggere clandestinamente le vecchie versioni dei testi sacri e a organizzare segretamente cerimonie, nelle stalle o nei sottani delle loro case, seguendo il vecchio stile. Questi accaniti seguaci del passato, che si autodefiniscono Vecchi Credenti, tengono in vita una chiesa diversa da quella ufficiale, più ancestrale, fanatica e pericolosa che gode della grande devozione del popolo, sebbene anche molte famiglie nobili aderiscano segretamente a questa dottrina. Tutti restano stregati dai sedicenti poteri sanatori e profetici dei loro patriarchi e rappresentano un immenso e robusto gruppo che si oppone con ferrea ostinazione alla riforma che lo Zar tenta di attuare. L'arrivo al trono di Pietro il Grande non apporta molti cambiamenti. Il nuovo Zar continua l'opera di suo padre rafforzandola e distruggendo l'antico patriarcato: sbeffeggia apertamente i riti, nomina un procuratore di sua fiducia destinato agli affari ecclesiastici. La reazione non si fa aspettare e Pietro ha la prova che il potere dei radicali religiosi è di molto superiore a quanto sospettava. Il popolo e una parte della nobiltà lo equipara al potere di cui lo stesso Zar gode, il che lascia supporre una sfida e una minaccia da non sottovalutare. Forse per questo si prende gioco delle loro cerimonie in modo inverosimile con l'intento di sminuire la fama, ridurne le adesioni e persuadere almeno la sua corte di quanto questi fossero ridicoli. Ma,

come vedremo più avanti, Pietro non avrà successo nel raggiungere tale obiettivo: persino suo figlio finirà per simpatizzare con i Vecchi Credenti fino a pensare addirittura di rinchiudersi in uno dei loro monasteri per fare propria la presunta saggezza profetica e salvifica di chi li abita. La forza di questo ancestrale ordine religioso è talmente imbattibile che finisce per travolgere Pietro e i suoi crudeli sberleffi, proseguendo il proprio percorso nella calndestinità, attirando sia la gente comune sia l'aristocrazia, fino a regalare improvvisamente al mondo un incolto contadino dal nome di Rasputin. Le sue fanatiche e pericolose idee si nutrono della dottrina, già abbastanza deviante, di quest'ordine di cui è tenace discepolo; non a caso egli continua a farsi il segno della croce con tre dita invece di due, così come illustrano le fotografie che di lui si conservano. Lo Zar che tortura suo figlio fino a ucciderlo La continua predisposizione di Pietro il Grande alla bottiglia e alle buffonate va di pari passo con i maltrattamenti verso coloro che, a suo parere, dovrebbero essere in grado di imitarlo alla perfezione e che invece falliscono. Quando, nel 1687, sospetta una cospirazione in cui è coinvolta anche la sorellastra Sofia, Pietro decide risolutamente che a questi traditori vengano tagliate immediatamente braccia e gambe, facendo attenzione che restino coscienti fino alla fine, e versando il sangue sul cospiratore numero uno, Iván Miloslavsky, che dovrà morire per ultimo. Pietro si diletta con un simile spettacolo, contempla imperturbabile lo smembramento fisico dei suoi presunti nemici e gode soprattutto nel vedere come le loro mogli e i loro figli si lacerino nel pianto. La sorellastra viene risparmiata dalla carneficina per un soffio, ma Pietro le toglie radicalmente ogni altra possibilità di orchestrare manovre contro di lui rafforzando la vigilanza nella prigione, camuffata da convento, dove è rinchiusa. Tre anni più tardi, la Russia assiste allo spettacolo dello Zar che seziona con un'ascia le teste di un sedizioso gruppo. Il problema non è se il gruppo stesse realmente cospirando o meno (non ci sarebbe niente di anomalo tenendo conto delle abitudini dell'epoca). Il punto è che spesso Pietro cade vittima di attacchi paranoici e scorge nemici laddove non ci sono, ignorando totalmente le opinioni dei suoi consiglieri riguardo all'innocenza dei giustiziati. Quando si tratta di perseguire coloro che destano sospetti lo Zar non fa eccezione alcuna, nemmeno quando si tratta del suo unico figlio maschio. Pietro lo tortura, infatti, fino a ucciderlo, ed è in questo così macabro evento che si manifestano ancor più palesemente le sue tendenze psicopatiche. Il figlio, di nome Alessio come suo nonno, aveva una personalità diametralmente opposta a quella di Pietro. Nato dal suo primo matrimonio con l'imperatrice Eudoxia (che lo Zar si toglierà di torno facendola rinchiudere in un convento), lo zarevic Alessio cresce con una sua forma peculiare di astuzia. È un giocatore, ribelle e totalmente disinteressato agli affari militari. Il ragazzo sembra insomma rappresentare tutto ciò che lo Zar detesta: «È come il personaggio del Vangelo che s'affanna a nascondere tutti i suoi talenti», commenterà disperatamente Pietro del suo discendente. Forse ciò che più fomenta le sue ire è che Alessio non dimostra alcun interesse nello sviluppare quelle predisposizioni che avrebbero potuto fare di lui un degno erede al gran trono di Russia; al contrario il

ragazzo sembra parecchio propenso a fraternizzare con i radicali ortodossi, accaniti nemici del padre e sembra pure simpatizzare per l'antico Consiglio, che lo Zar aveva cercato di riformare. Allo stesso tempo vagabonda, presta scarsissima attenzione alla sposa grassottella che gli hanno imposto, la principessa tedesca Charlotte Brunswick, e invece si perde in giochi amorosi con una domestica finlandese di nome Afrosina: a lei è devoto e si dimostra, nei limiti del possibile, fedele. Pietro, che ha un continuo bisogno di essere ammirato, osserva con crescente rabbia suo figlio che incontra e resta affascinato da quelli che Pietro considera nemici. L'astio che pervade lo Zar e che si mescola all'indomita tendenza all'ira, lo spinge a imporre ad Alessio lo stesso trattamento che a lui era stato dolorosamente riservato dal suo progenitore: lo picchia, lo getta per terra tirandolo per i capelli, facendogli continue e impressionati minacce lo trasforma in un ragazzo intimorito, insicuro e astioso. I commenti che fa pubblicamente riguardo al figlio - «è come se avessi un membro andato in cancrena»- non fanno altro che rafforzare l'ira del ragazzo. Quando il padre gli ordina di dimostrare le sue abilità guerriere, Alessio, temendo l'ira dello Zar e che la sua stessa inettitudine verso ciò che si supponeva dovesse già aver appreso, per evitarlo vuole spararsi alla mano destra. Ma all'ultimo momento forse privo di sufficiente coraggio o forse incapace di mirare bene, al posto di farsi saltare la mano si provoca una terribile bruciatura. Ancor più infastidito dalla mancanza di responsabilità del ragazzo riguardo a suoi doveri, lo Zar scrive al figlio una pungente missiva: Ricordo la tua ostinata e inferma natura, quante volte ti ho rimproverato e per quanto tempo ti ho tolto la parola. Ma niente di tutto questo è servito, niente ti ha fatto cambiare. Sono soltanto riuscito a perder tempo e a parlare al vento. Non fai il benché minimo sforzo, e tutta la tua felicità consiste nel restare in casa senza far niente. Molte delle cose di cui dovresti vergognarti (e che altrove avrebbero fatto di te un miserabile) sembrano darti il massimo dei piaceri, come fai a non vedere le nefaste conseguenze che tutto ciò causa non solo a te a ma anche all'intera nazione.13 Pietro conclude la lettera minacciando il figlio di diseredarlo se non decide di far qualcosa per cambiare atteggiamento. Con sua sorpresa, Alessio sembra accettare l'idea con gioia e sollievo: Se sua Maestà mi priva della successione al trono di Russia a causa della mia inettitudine, chiedo sia fatta la volontà del mio Signore. Supplico inoltre che tale decisione venga subito presa visto che non mi sento portato per gli affari di governo.14 Lo Zar, disperato, tenta una nuova manovra ancor più provocante: forse Alessio non sa davvero che farsene del trono, però il suo affetto per Afrosina è sicuramente profondo. Pietro gli propone così un ultimatum: «Preparati a governare o a entrare in monastero. A te la decisione». Il ragazzo finalmente reagisce, ma lo fa scappando dalla Russia. Sembra che prima di fuggire fosse stato opportunamente avvisato che una volta scappato non ci sarebbe stata possibilità di ritornare. Pare che gli avessero consigliato: «Ricorda, nel caso lo Zar mandasse qualcuno per convincerti a tornare, non farci caso. Se dovessi tornare, deciderà di farti decapitare in pubblico».15 Nel 1716, malgrado le buone intenzioni del consigliere, Alessio fugge travestito da sottufficiale. È difficile determinare se questa fuga evidenzi la modestia della sua intelligenza o, al contrario, la sua

infinita audacia, visto che decide di rifugiarsi a Vienna nelle braccia del cognato, l'Imperatore Carlo VI, cosa alquanto comprensibile e pure ragionevole, se solo non venisse accompagnato dall'amante Afrosina. Il gesto rappresenta un diretto affronto alla memoria della moglie, all'epoca da poco deceduta, e indirettamente all'Asburgico che gli dà riparo, fratello della «cornuta». Alessio, credendo che la stupidità dell'Imperatore superi la sua, maschera Afrosina da paggio, con l'intento di nasconderla. Come era prevedibile, l'escamotage non ha molto successo e per questa ragione, appena arrivato a Vienna, è costretto a fuggire a Napoli. Pietro rimane senza parole quando si rende conto che suo figlio lo ha abbanodonato. Vede in questa fuga non solo un tradimento del suo sangue, che di per sé costituisce già un grosso dolore, ma vi scorge anche un gesto che potrebbe far scatenare un'onda sovversiva. Teme, in definitiva, che tutti i suoi detrattori utilizzino l'esempio di Alessio per disprezzarlo come sovrano. La reazione non si fa aspettare e dispiega una fitta rete di spionaggio per scovare il ragazzo, e finiranno per localizzarlo a Napoli. I testimoni raccontano che Alessio, al momento di esser scoperto, scoppia in lacrime e singhiozzi e non si riprende fino a quando legge la lettera che gli consegnano firmata da suo padre: Figlio mio, La tua disobbedienza e il disprezzo che hai dimostrato riguardo ai miei ordini sono oramai noti a tutti. Né le mie parole né i miei rimproveri sono serviti a farti seguire le mie istruzioni; avendomi deluso quando pensasti di non succedere [al trono] e non mantenendo le promesse che facesti, con la tua fuga hai portato la tua disobbedienza all'apice, il che ti identifica come un traditore sotto protezione straniera. Questo rappresenta qualcosa di finora inaudito, sia all'interno della nostra famiglia sia tra individui che meritano un po' di considerazione. Quanto male e che profondo dolore hai causato a tuo padre e quanta vergogna hai seminato nel tuo paese! Ti scrivo per l'ultima volta affinché tu faccia ciò che i signori Tolstoj e Rumjantsov [coloro che hanno ritrovato Alessio] ti diranno, facendo la mia volontà. Se avessi timore di me, ti garantisco e giuro su Dio e sul suo verdetto finale, che non ti castigherò. Se accetti la mia volontà obbedendo alla mia persona e decidessi di tornare, prometto di amarti più di sempre. Se invece rifiutassi, in qualità di padre e in base al potere conferitomi da Dio, ti maledirò eternamente, e in quanto tuo sovrano ti dichiarerò traditore assicurandoti il vero trattamento che spetta a chi agisce come te, sperando che Dio mi assista prendendo nelle sue mani questa causa. A partire da questo momento ricorda che non ti obbligo a far niente. D'altronde che bisogno avrei di condizionare la tua scelta? Se avessi voluto forzarti, ho forse poco potere per farlo?, solo devo impartire ordini per far sì che mi si obbedisca.16 Alessio non solo riceve in questo modo la notizia di un'amnistia per la sua fuga, ma anche il permesso di rinunciare al trono, sposare Afrosina e vivere in campagna. L'infelice crede di essere finalmente compreso, comincia a scorgere soddisfatto il futuro che crede di meritare... e ritorna al suo paese. Nella cerimonia pubblica al Cremino, lo zarevic prodigo si prostra ai piedi del padre, rinuncia ai diritti al trono a favore del proprio figlio appena nato, ammette i suoi peccati e chiede clemenza. Spera di poter scomparire per sempre con Afrosina. Ma, sebbene Pietro lo perdoni pubblicamente, non può fare a meno di aggredirlo con ogni genere di paranoia riguardante la sua fuga. Sospetta

che Alessio abbia organizzato un movimento nemico all'estero e che la sua vita e il suo potere siano in pericolo. Ritrattando la promessa d'immunità inizialmente fatta, rivendica al figlio i nomi di tutti quelli che l'hanno aiutato a fuggire o che erano al corrente della sua intenzione. Un forte scandalo segue la confessione di Alessio: alcuni tra i nominati vengono decapitati in pubblico, ad altri viene tagliata la lingua o vengono rotte loro le ossa a colpi di martello, e la maggior parte viene atrocemente torturata nella pubblica piazza. Alessio in un primo momento viene risparmiato da una tale carneficina. Ma, i germi della paranoia minano il cervello e il buon giudizio di Pietro, oramai convinto che Alessio trami un colpo da maestro contro di lui. Ha però bisogno che lo zarevic confessi e, per raggiungere tale obiettivo, ricorre a un sistema di tortura lento e infallibile: una grossa frusta, provvista di tre nodi, che nel colpire squarcia la pelle del torturato. La massima resistenza a simile metodo è di venticinque frustate, una cifra più elevata porta inevitabilmente alla morte. Il primo giorno d'interrogatorio Alessio riceve venticinque colpi di frusta, ma non dà nuove informazioni. Scoprendo che il figlio ha parlato di lui con l'Imperatore d'Austria, Pietro lo fa frustare quindici altre volte. Alessio finisce allora per confessare che aveva dichiarato al suo sacerdote di odiare suo padre e di desiderare la sua morte. Morirà alcuni giorni dopo a causa delle frustate ordinate dal padre, il quale firmerà orgoglioso il certificato di morte, senza dare il benché minimo segnale di lutto o di pentimento. Pietro muore sette anni dopo il figlio. I testimoni non raccontano se il sentimento di colpa per aver tolto la vita al sangue del suo sangue abbia condizionato il suo equilibrio, ma raccontano che il suo atteggiamento e la sua gagliardia nel governare non vennero minimamente compromessi. E Pietro ha una tale energia da ritenere precipitoso e inutile pianificare la sua successione. Inaspettatamente le fredde acque della Neva sommergeranno il Grande nel terribile e definitivo calvario. Il 28 gennaio del 1725, in seguito a una febbre atroce, dolori e deliri di ogni genere, lo Zar chiede una scrivania e tutto tremante lascia scritto «Date tutto a...». Un rantolo selvaggio sopraggiunge. Il cervello dell'agonizzante resta inerte e oscuro... come il nome del beneficiario. Note 1. E.C., Duchesse d'Orléans, pp. 102-103. 2. E.C., Duchesse d'Orléans, pp. 102-103. 3. H.Troyat, p. 42. 4. P. Bushkovitch, p. 64. 5.P. Bushkovitch, p. 66. 6. J. Staelin, pp. 92. 7. Traduzione del passaggio che include F.C.Weber, pp. 92-93. 8. E.C., Duchesse d'Orléans, pp. 271-272. 9. F.C. Weber, pp. 67-68. 10. F.C. Weber, pp. 93-95. 11. F.C. Weber, pp. 93-95. 12. J. Staelin, p. 201. 13. M. Farquhar, p. 116. 14. H. Troyat, p. 201. 15. H. Troyat, p. 202. 16. H. Troyat, pp. 117-118.

CARLOTTA, Imperatrice del Messico (1840 - 1927) La schizofrenica che dormì col Papa Ancora oggi in Messico capita di ascoltare pettegolezzi, alcuni dei quali francamente curiosi, sull'Imperatrice più sorprendente e carismatica che la storia ricordi. Ne riportiamo alcuni: «Carlotta perse la testa durante un suo viaggio nello Yucatan, in cui mangiò frutta avvelenata con succo di toloache1, che assunto in dosi elevate conduce alla pazzia». «Ciò che le causò la perdita di giudizio non fu tanto la frutta ma la lettura». «Leggeva di continuo e in molte lingue simultaneamente». «Scriveva inoltre senza sosta. Negli Archivi Nazionali sono conservati più di 8.000 documenti scritti di suo pugno. Questo già era uno strano sintomo di un atteggiamento compulsivo patologico». «Carlotta preferiva gli affari di governo a suo marito. Si narra che, quando faceva le veci del reggente, le cose venivano realizzate e funzionavano davvero». «Carlotta e suo marito vennero intenzionalmente avvelenati. Qui nessuno li voleva». La biografia di Carlotta appare burrascosa e al tempo stesso romantica, come i drammi letterari dell'epoca di cui è protagonista. La fama però non le concede la stessa gloria di sua cognata: Sissi. Questo nonostante sia dotata di un'intelligenza e di esperienze di vita di gran lunga più interessanti di quelle dell'Imperatrice d'Austria, oltre a possedere fermezza e senso di responsabilità molto più elevati. Sotto molti aspetti Carlotta appare una donna emancipata e trasgressiva, anticipatrice dei tempie più simile alle attuali donne in carriera. Rattrista il fatto che quelle poche volte in cui viene ricordata, lo è solo perché fu cognata di Elisabetta (Sissi) e che diventò completamente pazza dopo la fucilazione del marito in Messico. Il suo ruolo esemplare, che fino a prima di ammalarsi fu importante e di grande vigore, ha lasciato nella nostra memoria solo poche tracce. Eppure anche nel mezzo di una tremenda marea nera, con la mente prigioniera e straziata, ancora capita d'intravedere i segni del suo prestigio intellettuale e personale. Ma è Sissi, con il passare dei secoli, a restare la prediletta; solo il suo nome sortisce interesse e una scintilla di buon umore; al confronto Carlotta appare un fruscio sordo e insignificante. Valutino i lettori come la fama a volte non rende giustizia: mentre l'Imperatrice d'Austria concentra le sue energie nel farsi più bella possibile e nell'esimersi da tutti i suoi doveri, con la scusa di malattie psicosomatiche e attività sportive, Carlotta svolge il compito che ci si aspetta da una sovrana responsabile, lucida, carismatica e tenace. Sissi è bardata ed ebbra di egolatria e tratta sua cognata, di tre anni più giovane, con assoluto disprezzo, considerandola un'odiosa e spregevole rivale e chiudendole, con la massima facilità, la porta in faccia ogni volta che ha bisogno di sostegno, ogni volta in cui si trovain balia di un vortice di eventi catastrofici. Bisogna anche dire che Carlotta ha grosse guance ed è di bassa statura, mentre Elisabetta ha un fisico mozzafiato, e forse è proprio grazie al suo aspetto che riesce

a conquistare la gente; tuttavia il pendolo del mio favore oscilla palesemente verso il fascino personale della prima. Non a caso, fra tutti i personaggi descritti in questo libro, Carlotta è quella che desta in me più ammirazione e tenerezza. La sua vita è un viaggio tra spine e rovi, e qualche rose sparsa, per giunta effimere. Ma lei dimostra grande coraggio e supera gli ostacoli, fino a che non esaurisce le forze. Si ritira allora in disparte, a suo modo fuggendo, e questa fuga durerà sessantadue anni. Credo che la sua disgrazia abbia inizio quando Napoleone III la proclama Imperatrice di un paese in guerra. Un luogo in cui né lei né suo marito sono mai stati in precedenza e dove, come se non bastasse, si parla una lingua che non conoscono. Carlotta è belga e suo marito austriaco e il trono assegnato loro dall'Imperatore francese è il Messico. Appresa la notizia, la prima cosa che Charlotte - questo è in realtà il suo vero nome - fa tradurre il suo nome in spagnolo; a partire da questo momento firmerà tutti i suoi scritti con il nome spagnolo di Carlota. In Messico solo uno sparuto gruppo di persone sta veramente aspettando il ritorno di Carlotta e Massimiliano. E con il passare del tempo anche la fedeltà di questi pochi adepti comincerà a sciogliersi come neve al sole, immagine che ben esemplifica la situazione politica di questo paese durante la seconda metà del XIX secolo. Dopo solo tre anni il loro titolo di Imperatori verrà convertito in quello di traditori: nessuno porgerà loro il minimo sostegno o rifugio e i due verranno abbandonati al loro destino: Massimiliano morirà fucilato a mille chilometri dall'Austria natale che l'aveva visto bambino e ragazzo, Carlotta verrà invece risparmiata, ma verrà fatto di tutto per trasformare la sua vita in un inferno. Nonostante la sua tenacia, Carlotta non riuscirà a evitare momenti terribili: dovrà vedersela con le gelosie dei cognati Francesco Giuseppe e Sissi, che la spingeranno da un luogo all'altro al solo scopo di tenerla lontana, fino a negarle il ritorno a casa quando ne avrà bisogno; prima affronterà il tedioso esilio nella gabbia d'oro di Miramare, poi l'ambizione di Napoleone III che promettendo un falso sostegno, la spedirà in Messico; infine il crudele flagello dell'abbandono, il rifiuto da parte di coloro che credeva fratelli e amici... Tutto questo farà alterare l'equilibrio di Carlotta, la scaraventerà nel disinteresse e nell'alienazione e le farà concepire idee stravaganti e allucinazioni morbose e paranoiche. Sono dunque gli eventi tragici (né la lettoscrittura compulsiva né il veleno del toloache) a causarle una malattia che si prolungherà per 62 anni. Durante questo periodo di trambusti, lei pensa, sente e desidera, sebbene in modo insolito e delirante, suscitando, nei vicini e negli estranei, timore e scandalo. Prima di sprofondare nell'alienazione mentale, Carlotta cerca di resistere, lotta con tutte le sue forze per preservare la sua personalità, come un pesce fuor d'acqua che combatte per mantenersi in vita. La principessa, arciduchessa e infine Imperatrice, in passato così incredibilmente colta, brillante e capace, una volta esaurite le sue risorse personali e la sua energia, finisce per rifugiarsi in un'irreversibile pazzia. A volte, tra una stravaganza e l'altra, lascia scorgere le uniche caratteristiche che mai l'abbandonano del tutto: dolcezza e intelligenza. Per questo la cognata Henriette, moglie di suo fratello Leopoldo II e sua tutrice durante la malattia, scrivendo a una sua vecchia istitutrice, la contessa di Hulst, afferma:

«Non può immaginare, cara contessa, tutta la tenerezza che questa vedova è capace di infondere». Forse per lo stesso motivo la sua nipotina, la principessa Stephanie, scriverà nel diario: «Oggi mi hanno costretta a far visita a mia zia Carlotta. Non ho avuto paura». Una bambina con volontà virile Il 7 giugno del 1840, alle prime ore del mattino, a Laeken rimbombano ventuno colpi di cannone per annunciare ai sudditi di Leopoldo I, re del Belgio, la nascita della principessa Marie Charlotte, Amelie, Auguste, Victoire, Clementine, Leopoldine di Sassonia-Coburgo-Gotha e d'Orléans, figlia del secondo matrimonio del re belga con Maria Luisa d'Orléans. Raccontano le male lingue che Leopoldo non si è mai ripreso dalla morte della sua prima moglie, la principessa Charlotte, aspirante al trono di Gran Bretagna, di cui era follemente innamorato e che perde presto e malamente a causa di complicazioni durante il parto del primogenito. L'allora principe conserva la sua inconsolabile sofferenza per centonovantadue mesi fino a quando viene proclamato re del Belgio e obbligato a mettere da parte le romanticherie. Quello che, fondamentalmente, ci si aspetta da lui è che procrei nuovi discendenti. A tal fine Leopoldo sceglie Maria Luisa d'Orléans, di ventidue anni più giovane e figlia del re di Francia Luigi Filippo. La nuova consorte si rivela una donna d'infinita bontà; non solo accetta che Leopoldo rimanga legato alla sua prima moglie, ma tollera anche una torrida avventura con un'attrice che «somigliava inverosimilmente alla defunta principessa Charlotte». Maria Luisa, oltre a sopportare stoicamente i precedenti, accetta pure che alla nuova nata diano lo stesso nome della defunta. La piccola Charlotte è l'unica bambina tra due fratelli maschi e viene al mondo bella, bruna e dotata di una spasmodica intelligenza. A due anni e mezzo2 stupisce i genitori imparando a leggere da sola, sfoggiando parole complicate e una grammatica corretta: «Si esprime come se fosse una persona adulta, con i più bei giri di parole», racconta Maria Luisa, la madre orgogliosa, in una delle lettere che manda alla nonna della bambina. Il padre e i fratelli adorano Charlotte e le dimostrano profonda tenerezza, soprattutto quando dieci anni più tardi perderanno la madre. Leopoldo, che non si fa alcun problema nel gridare ai quattro venti che la «mia piccola Charlotte è il fiore del mio cuore», si porta dietro la figlia ovunque e non c'è cerimonia ufficiale, né evento in cui non ci sia la piccola con il progenitore «a cui somiglia così tanto che si direbbe la sua miniatura».3 Anche la nonna mitiga il dramma del lutto con l'affetto per la nipote. Mai ci sarà una orrenda matrigna a spezzare l'incanto di questa famiglia unita e idilliaca. Charlotte non smetterà mai di scrivere a sua nonna con immacolata calligrafia francese e con profusione d'affetto: «Ma bien aimée Grand Maman, je t'embrasse avec tout mon coeur». [Mia amata nonna, ti bacio con tutto il mio cuore]. L'infanzia e la prima adolescenza di Charlotte trascorrono così, placide e quiete. Durante questo periodo, malgrado la bambina cresca particolarmente capace, riceve un'educazione da cui traggono vantaggio soprattutto i maschi. Capisce di storia, politica, letteratura, filosofia, pittura e musica; si appassiona al nuoto, all'equitazione, alle lingue, e oltre al francese, sua lingua madre, parla, scrive e legge

perfettamente in inglese, tedesco e italiano. A quel tempo non conosce ancora lo spagnolo, che imparerà alcuni anni dopo per imbarcarsi nell'avventura messicana. I suoi biografi, forti dei commenti di chi la conobbe di persona, sono d'accordo nel rimarcare che possiede «una ferma volontà, quasi virile». Inoltre, va aggiunto, perché importante per capire la sua condotta futura, che Charlotte, accompagnando assiduamente il padre a tutti i consigli e a tutte le cerimonie, finisce per apprendere l'arte di governare. Il principe azzurro La giovinezza della principessa belga viene scombussolata quando sua cugina, la regina Vittoria d'Inghilterra, s'intromette nella sua vita da fiaba assegnandole un marito. «Tua figlia merita una corona», sentenzia l'austera Vittoria allo zio Leopoldo, dando per scontato che, in mancanza della progenitrice, la decisione venisse accolta senza batter ciglio. Il prescelto è Pietro V di Portogallo.4 «Sarebbe una grande benedizione che il Portogallo avesse una regina amabile e ben educata, visto che sinora ne è stato privato», scrive Vittoria in una lettera a Leopoldo e con, persuasiva impudenza, aggiunge: «Se la affidi a questo principe e non a uno degli innumerevoli arciduchi che vanno in giro per il mondo, sono sicura che potrai essere davvero tranquillo riguardo la felicità di Charlotte».5 La regina inglese ignora visibilmente che la bambina a quindici anni legge già Plutarco, capisce di politica, esercita sul padre una forte influenza e sfoggia un temperamento forte e idee molto chiare. «I portoghesi non son altro che orangotanghi senza risorse», scrive la giovane alla sua istitutrice, la contessa di Hult. Charlotte rifiuta categoricamente di unirsi al primo sconosciuto, la cui lingua, tra l'altro, è una delle poche che non si è cimentata a imparare. La regina Vittoria deve, per il momento, mettere da parte il suo suggerimento, la sua intercessione sarà però decisiva qualche mese più tardi. Otto mesi dopo, infatti, esattamente il 26 di maggio del 1856, per il palazzo di Laeken si accinge a passeggiare la rappresentazione vivente del principe azzurro, la cui visita mette in subbuglio lo spirito di Charlotte. L'arciduca Massimiliano di Asburgo è incaricato, all'epoca, di girare l'Europa comandato, o meglio telecomandato, da suo fratello l'Imperatore Francesco Giuseppe d'Austria. È reduce da un viaggio fatto a Gerusalemme, sulla costa orientale del Mediterraneo e all'esotica isola di Madeira. Massimiliano è un uomo di ventiquattro anni, biondo, occhi azzurri e labbra sensuali, allegro, frivolo e amante dei piaceri mondani, lusinghiero e, nel caso non bastasse, con un sorriso che fa sciogliere le dame. Nel diario dell'arciduca, gli insoliti paradisi visitati agitano la fantasia e scatenano un desiderio byroniano: Madeira, 6 luglio del 1852. Gli occhi appena aperti, ho sentito il suono della dolce melodia del nostro inno portarmi a riflettere sui miei ventun'anni. (...) Apparentemente l'arrivo della maggiore età genererà pochi cambiamenti nella mia vita e, come prima, resterò mio padrone e maestro, e come prima pure il fisico continuerà a non essere affetto dai divieti imposti ai più piccoli. Se ci fosse un segno premonitore che rivelasse cosa riserva

questo mio giorno di compleanno, credo che vedrebbe la mia vita divertente e brillante, sebbene non ricordo di aver mai passato un giorno di compleanno più allegro e incantevole. Questa mattina, alla buon'ora, con un gruppo di amici ci siamo allontanati dalla nave e abbiamo passato il giorno con divertimenti che i marinai hanno comunemente ben garantiti...6 Malata d'amore Appena arrivato in Belgio, Massimiliano comincia a sfoderare per il palazzo di Laeken il suo monologo di avventure da far invidia a quelle di un cacciatore di tesori. Adora essere al centro dell'attenzione e tra i fan ce n'è una in particolare: la principessa Charlotte, figlia dell'anfitrione, che ha sedici aprili e il cuore sospirante e schiacciato dal più puro degli innamoramenti. L'Apollo dei suoi sogni si lascia idolatrare, ma in compenso non ha nessuna intenzione di corrisponderle l'amore. Il suo cuore appartiene a un'altra donna. La rivale è Maria Amelia di Braganza, figlia del defunto Don Pietro, Imperatore del Brasile. La conosce nel 1852 durante uno scalo a Lisbona e la stessa notte scrive nel suo diario: «È una distinta principessa, garbata come se ne vedono poche». Talmente distinta che non riesce a togliersela dalla testa e finisce per chiederle la mano. Tuttavia, la felice futura sposa è vittima della peggiore delle sorti, che la conduce a morte poco prima delle nozze a Madeira, dove si era recata per cercare di curarsi da un'improvvisa tubercolosi. Massimiliano piange sconsolato per anni e anni. Nel 1859, ad esempio, torna a visitare Funchal e giunge dilaniato dal dolore presso la casa in cui lei, circa sette anni prima, era morta. Scrive nel suo diario: Era una creatura perfetto ed ha lasciato questo mondo ingrato come un puro angelo di luce, per tornare al cielo, la sua vera patria. (...) Sono sprofondato per lungo tempo in un abisso di pensieri di tristezza e di lutto. Massimiliano non riuscirà mai a riprendersi da questa passione rimasta inappagata; e molto tempo dopo, il giorno prima di essere fucilato, manderà una lettera a sua madre, l'arciduchessa Sofia, in cui scriverà: Un amico vi porterà, cara madre, oltre a queste righe un mio ricordo per voi, l'anello che ho messo tutti i giorni e i capelli della beata Amelia di Braganza. Ma siamo nel 1856, a Laeken, quando ancora l'elegante Massimilano conserva con amore il ricordo della sua ragazza defunta e disdegna la folgorante cascata di sguardi adolescenti con cui Charlotte lo inonda dalle sue adolescenti pupille. Il soggiorno si conclude e Massimiliano parte con la stessa noncuranza con cui era arrivato. L'innamorata smette di parlare e di mangiare, non vuole alzarsi dal letto e se lascia che la pettinino e la vestano, lo accetta come un automa. L'amore non corrisposto intacca la sua autostima e causa uno scompenso chimico nel suo cervello: Charlotte cade in depressione. Il padre orchestra allora una manovra per trovare al più presto una soluzione al disturbo psichico della sua amata figlia e scrive una lettera alla regina Vittoria d'Inghilterra, in cui commenta: L'arciduca Massimiliano ha concluso la sua visita senza lasciare intendere le intenzioni che alcuni dicono avesse nei confronti di mia figlia Charlotte. Non mi dispiace né mi preoccupa. Avrei già dimenticato l'esistenza di questo giovane principe se non fosse che mia figlia mi

affligge e mi commuove. Charlotte è una ragazza sensibile e sembra essersi innamorata dell'Asburgico con romanzata frenesia. (...) Mi inquieta sapere che lei soffre per qualcuno che non ha voluto o non ha saputo notarla. La regina Vittoria immediatamente le risponde: «La società austriaca è libertina e manca di valori». Da notare la risposta secca e risentita con cui la sovrana britannica si vendica del disprezzo provato nei confronti del suo raccomandato portoghese. Non è tutto oro quel che luccica Sessanta giorni dopo la lettera inviata da Leopoldo, Massimiliano si presenta precipitosamente a Laeken per chiedere al re del Belgio la mano della principessa Charlotte. Dall'Inghilterra Vittoria pianifica le cose affinché mai la giovane possa sospettare che la proposta del principe sia stata disposta dalle alte sfere, né sapere della ricompensa che verrà a lui corrisposta per il servizio prestato: ovviamente ciò che motiva Massimiliano, oltre alla ragazza, è la succulenta transazione commerciale. Leopoldo è, infatti, uno degli uomini più ricchi dell'epoca e offre una dote tale da finanziare al pretendente la costruzione dell'enorme castello di Miramare, vicino Trieste. La somma viene invece utilizzata da Massimiliano per comprare l'isola di Lacroma, nel mar Adriatico, in cui pensa trascorrere l'estate. Per di più, Leopoldo convince l'Imperatore Francesco Giuseppe d'Austria, fratello di Massimiliano, a nominare la nuova coppia vicerè del Lombardo-Veneto, regione che a quel tempo apparteneva alla Corona austriaca. Carlotta, presa dal suo intontimento adolescenziale, arriva a credere di essere riuscita a conquistare realmente il cuore di Massimiliano durante la sua ultima e fugace visita e, alla notizia che il giovane ha chiesto la sua mano, la ragazza palesa tutta la sua contentezza svenendo. Intanto, il futuro sposo si giustifica in una lettera agli occhi del fratello in questi termini: È bassa e io sono alto, e questo va bene. È bruna e io sono biondo, ed è pure accettabile. È molto intelligente, e questo mi torna scomodo, ma credo di poter risolvere.7 Il 27 luglio del 1857 si sposano nella cattedrale di Santa Gudula. Charlotte ha diciassette anni e Massimiliano venticinque. Partono subito per Venezia e Milano per adempiere ai loro doveri di vicerè. L'accoglienza degli italiani non facilita il soggiorno, ma la sposa ha occhi solo per la città veneta e per suo marito e sembra non accorgersi delle antipatie che suscita, pertanto manda a Bruxelles lettere dense di profonda ammirazione. Ma dopo poco si toglie la benda dagli occhi e scopre la vera dimensione del suo nuovo compagno: un uomo incline a far sue e ripetere senza riflettere le idee altrui, che si perde in nullità insignificanti e che non ha ben chiaro il concetto d'importante e di superfluo e che, infine, attribuisce alla parola «testardaggine» il significato di «diligenza». «Si segue solo l'uomo capace di comandare!" - recita una delle sue frasi favorite, a cui una delle biografe a lui contemporanee aggiunge - «Quando ci accorgemmo del suo modo di comandare, non ci stupimmo che nessuno lo seguisse».8 Pare inoltre che l'idealizzato Adone non abbia alcuna intenzione di abbandonare i passatempi che tanto lo distraevano prima delle nozze, comincia ad assentarsi di continuo per affari di governo che, stranamente, si trasformano in bordelli e feste a sfondo sessuale.

La giovane sposa sopporta il tradimento con dignità ma compie enormi sforzi per fingere che la loro unione sia dolce e armoniosa come una meringa, fino al giorno in cui, secondo i racconti di chi le è vicino, Massimiliano le trasmette una malattia venerea che contrae in Brasile, dov'era stato in viaggio. A partire da questo momento i coniugi smettono di dormire nella stessa stanza. Si mormora che sia questa circostanza il motivo per cui la coppia non avrà mai figli, nonostante, a ben vedere, le stanze da letto separate siano in Europa una remota consuetudine rimasta in voga nell'alta società fino al XIX secolo. Dalle lettere conservate dalle dame di corte, sappiamo che Charlotte supplica Dio con quotidiano e drammatico fervore affinché le faccia il dono della maternità. A oggi ancora non sappiamo però la vera causa dell'infertilità, anche se la voce diffusa, seppur priva di solide fondamenta, sostiene che la malattia brasiliana abbia reso Massimiliano impotente (anche se dai rapporti extramatrimoniali pare nascano non si sa quanti figli illegittimi). Nemmeno Carlotta viene risparmiata: secondo taluni anche lei è sterile, secondo altri ha figli da relazioni extraconiugali. L'assurdità più inaudita afferma che il generale francese Maxime Weygand è figlio di Massimiliano e di una messicana, mentre un'altra voce riferisce sia figlio di Carlotta e del colonnello belga Van der Smissen. Al generale Maxime sembra andare bene la discendenza che gli attribuiscono, per quanto lontana dalla verità. Il giovane è, infatti, figlio illegittimo di un ricco commerciante marsigliese e di una francese priva di lignaggio, motivo per cui egli sfoggia con orgoglio la presunta bastardaggine sovrana. Ad ogni modo, la differenza di temperamenti, di attitudini e interessi tra i due coniugi fa presagire un inevitabile allontanamento nella loro vita privata; così com'è possibile che le infedeltà di Massimiliano abbiano in parte contribuito a creare questa situazione, secondo quanto racconta il suo segretario Blasio9, che alla morte dell'Imperatore fa soldi con una succulenta e fin troppo pettegola biografia del suo antico signore. A un certo momento, Blasio chiede al maggiordomo della coppia perché Charlotte dormisse separata da suo marito: (...) Grill mi riferì che lì [a Miramare] erano molto innamorati e stavano sempre insieme ma più tardi, durante un viaggio a Vienna, successe qualcosa che distrusse per sempre l'unione coniugale. Da quel momento, agli occhi altrui restarono sposi innamorati e affettuosi ma nell'intimità già non vi era più affetto e confidenza e da allora anche Grill poté accorgersi della loro separazione. Alcune dicerie sostengono che la causa fu una prostituta viennese malata di sifilide, ma chi era a lui più vicino, assicura che a Vienna Massimiliano restò in realtà stregato dal fascino di Vicki, figlia della regina d'Inghilterra e moglie del principe erede al trono di Prussia. Egli stesso lo confessa in una lettera. Nel lamentarsi dell'atmosfera algida e vacua, all'improvviso se ne esce con: L'unica cosa che mi rende felice è rivedere Vicky e forse anche Alfredo [il fratello di Vicki]. Meno gradevole è invece dovermi riunire lì con una moltitudine di principini di tutta la Germania.10 Cinque giorni più tardi aggiunge: Rivedere Vicki è stata un'enorme felicità, è ancora più incantevole ed equilibrata, oltre che essere bella e fresca, così spontanea e così allegra. La sua presenza, tra tanti estranei, mi ha fatto un gran bene. Due giorni dopo continua a scrivere:

Gran parte della serata di ieri l'ho passata piacevolmente con la cara Vicki nel suo bel palazzo. Giudichino i lettori se Carlotta e Massimiliano diano o meno pretesti al loro maggiordomo perchè egli possa supporre repentini allontanamenti. Io e te possiamo far tutto La separazione fisica di cui tanto si parla sembra comunque non compromettere il tono delle lettere che i due si scambiano continuamente, né tanto meno altera la solida squadra che la coppia forma. Carlotta resta con forza accanto al marito e, nonostante sia otto anni più piccola di lui, non smetterà mai di consigliarlo con saggezza e fermezza, qualità da cui lui finisce per dipendere e che non smette di elogiare. Nei suoi atti si ritrova spesso la formula «Io e te siamo la maggioranza e insieme possiamo far tutto». Alcuni esperti attribuiscono un senso profondo alla loro solida unione segnalando che, in realtà, Carlotta e Massimiliano sono complementari e hanno immensamente bisogno l'una dell'altro. Carlotta si serve dell'inconsistenza e della romanticheria del marito per dare libero sfogo alle sue abilità di governo; la donna è dotata per fare veramente molto di più che ricamare, leggere o accogliere gli ospiti. E Massimiliano, dal canto suo, ha bisogno di una persona intelligente, coraggiosa e disinteressata che gli indichi i passi da compiere, così come lui stesso scriverà in una lettera del 2 aprile del 1860 in cui evidenzia ciò che avrebbe voluto gridare: Ho tanta nostalgia di te, mio amato angelo, da non poterla descrivere. Sono triste e malinconico ed ho voglia di piangere come un bambino, mi sento inutile, solo e abbandonato... Con la speranza di volare nuovamente tra le tue braccia al più presto possibile, nei miei pensieri ti abbraccio. E hanno ragione coloro che spiegano il vincolo che lega questa coppia in termini di complementarietà, visto che Carlotta mai si lamenta di suo marito, nessuno la sente mai parlare dei suoi difetti, né di persona né per iscritto. Persino durante gli anni in cui sarà affetta da pazzia, mantiene sempre un silenzio tombale riguardo al lato deprecabile di Massimiliano. Nelle lettere e nei resoconti scritti dai due giovani, si nota come l'Imperatrice, pur dotata di capacità analitiche e pratiche che sfrutta per consigliare argutamente il marito, fa sì che dal di fuori sembri lui artefice e lei subordinata. Lo sostiene sempre psicologicamente e non risparmia espressioni di lodevole orgoglio: «Il racconto del tuo viaggio mi riempie di tanta ammirazione da considerarti un angelo». Carlotta partecipa attivamente a questioni di carattere politico rompendo gli schemi imposti alle donne nel XIX secolo, nonostante cerchi di dissimularlo e di farsi considerare meno importante di Massimiliano. Le sue buone intenzioni, tuttavia, non sempre generarono i frutti sperati. Scrive a sua nonna: Molte persone mi considerano ambiziosa perché questo è l'impulso più comune, ma io so benissimo che non mi appartiene. Sento il bisogno di agire e di amare, tutto qui.11 Non deve stupire se con il passare del tempo Massimiliano arriva a stimare profondamente la moglie. Sebbene sia difficile ignorare gli svaghi sessuali che si concede con altre donne, egli ama Carlotta con devozione e con la fiducia di un figlio; ha bisogno di lei e, durante le sue assenze, mai smetterà di coprirla di lettere tenere e sdolcinate:

31 dicembre del 1860 Amatissimo angelo, Sono appena felicemente arrivato, tutti dormono ancora e sfrutto questo momento di libertà per scriverti almeno alcune righe, a te, vita mia e mia unica felicità, per dirti quanto è stato difficile allontanarmi da te ancora una volta, sebbene, se Dio voglia, sia per pochissimo tempo...12 [Nel telegramma precedente] non ho potuto dirti ciò che sente il mio povero cuore, come prega per te, angelo mio, e quanto triste è starti lontano, mia attrazione e mio unico centro. Questa notte ho avuto continuamente voglia di piangere e sono stato triste e malinconico come non mi capitava da molto tempo. Dalla mia stanza involontariamente sarei corso verso le porte della stanza in cui eri l'ultima volta. Non riesco a stare bene qui se non sei con me...13 Amatissimo angelo, ancora una volta provo dolore ad allontanarmi da te; dolore a stare senza di te, vita mia. Fortunatamente il viaggio non durerà molto e spero di tornare presto al tuo fianco...14 Carlotta, in risposta e come sempre, va al sodo: Mio tesoro intimamente amato. Sono passati oramai tanti giorni senza che io sappia di te, ma spero vada tutto bene. Le notizie che arrivano dal nord sono degne di attenzione. Sarebbe meglio che tornassi in queste province verso la fine dell'autunno... Durante l'incarico di viceregina del Lombardo-Veneto, Carlotta non soltanto riesce a guadagnarsi poco a poco, grazie alle sue doti personali, la benevolenza degli italiani, ma pure dispensa consigli a Massimiliano in affari di governo con chiaroveggenza e destrezza, conquistandosi una considerevole popolarità. Francesco Giuseppe e Sissi, dall'Austria, cominciano a ingelosirsi fino a esonerare Massimiliano dal comando dell'esercito austriaco. Poco dopo scoppia la guerra che porta all'indipendenza delle regioni italiane dalla Corona Austriaca e nel 1859 Massimiliano e Carlotta sono costretti a fuggire. Il loro viceregno dura due anni. Sorpresa in esilio La coppia si rifugia nel castello di Miramare, vicino Trieste. Non vi racconterò dettagliatamente cosa accade qui, sono sufficienti alcune parole della protagonista per farsi un'idea: «Qui non succede niente e come ieri non sono potuta uscire, ho letto in continuazione fino ad avere gli occhi rossi", scrive Carlotta nel suo diario il 22 aprile del 1865. La noia è così plumbea che i due coniugi decidono di tornare in Austria per incontrare Francesco Giuseppe, e verificare se questo può cambiare il loro destino, trovando loro qualcosa da fare. Ma i familiari, invece di dimostrare loro affetto, sostegno e pensare a proposte, li snobbano. Di ritorno a Miramare, Carlotta sprofonda nuovamente nel limbo della depressione. Così passano quattro interminabili anni d'infinito tedio fino al giorno in cui, inaspettatamente, ricevono la visita di tre membri del partito conservatore messicano. Portano una lettera che annuncia a moglie e marito, che restano esterrefatti, che sono stati proposti come Imperatori del Messico. Il paese in questione è una bomba a orologeria e Massimiliano, dando prova di buonsenso, rifiuta l'offerta. Ma Carlotta

vede in questa occasione l'apertura della gabbia in cui si ritrova rinchiusa da quattro anni e, nella sua immaginazione, lo splendore della corona imperiale luccica come una luce liberatrice. Con le sue persuasive - e innumerevoli - doti di comando, convince Massimiliano e ottiene il sostegno dalla sua famiglia in Belgio a cui spiega la causa della scelta, scrivendo: «Siamo troppo giovani per non fare niente». Non riceve alcuna congratulazione né manifestazione di gioia dai contendenti austriaci. Il fratello Francesco Giuseppe, ancor più pazzo di gelosia, informa Massimiliano che, accettando la corona imperiale messicana, dovrà rinunciare ai suoi diritti di successione in Austria. Massimiliano continua a essere scettico. L'idea è effettivamente assurda: lui, così biondo, così pallido, abituato sin dall'infanzia al dolce brusio del Danubio, al ritmo dei valzer e al sapore delle paste del Demel16, dovrà ora trasformarsi in un agguerrito messicano dallo stomaco a prova di peperoncini. La maggior parte degli strateghi politici dell'epoca condivide le sue titubanze e ritiene sia un'assurdità avventurarsi e stabilirsi non in un impero quanto in semplice regno di un remoto paese che non è altro che un pullulare di conflitti e di lotte civili. Dopo mesi di tentennamenti, e dopo la promessa scritta da parte messicana che il paese aspetta gli Imperatori con giubilo e speranza... ...con immensa allegria la informiamo, in riferimento alla sua nomina di reggente dell'Impero, che l'appoggio iniziale dei nobili è ora ratificato dall'adesione di un'ampia maggioranza della gente del nostro paese che va ad aggiungersi alle autorità municipali e alle corporazioni dei cittadini. Constatiamo che la sua proclamazione si è trasformata, per l'importanza morale e per la forza che contiene, in un autentico plebiscito... ...e Napoleone III influenza la volubilità di Massimiliano utilizzando escamotages psicologici secondo cui non si può defraudare il popolo messicano a causa d'insignificanti disaccordi familiari, facendo sì che alla fine Massimiliano accetti. La reazione di Napoleone III non si fa aspettare. Immediatamente scrive: «Potete esser certi che non vi mancherà il mio sostegno nel portare a termine questa missione che così coraggiosamente state per intraprendere».17 Sua moglie, la spagnola Eugenia de Montijo regala inoltre a Carlotta magnifica porcellana di Sèvres su cui brilla l'oro di una corona imperiale con le iniziali M.I.M. Anche Don Ignacio Aguilar y Marocho, uno dei tre mandatari messicani, gioisce nell'apprendere la notizia. Consapevole del fatto che il risultato positivo dipende in realtà da Carlotta, scrive ai suoi vicini messicani: L'arciduchessa appartiene a quel tipo di persone che non è possibile descrivere; possiede grazia e simpatia, ovvero quell'aspetto morale che non è dato al pittore trasferire su tela, né al fotografo su carta. Immaginate una giovane alta, snella, piena di salute e di vita, che trasuda contentezza e benessere, elegantissima, ma vestita in modo modesto; fronte pura e scoperta, radiosi occhi a mandorla vivi come quelli dei messicani, bocca piccola e graziosa, fresche e carnose labbra, denti bianchi e minuti, petto ritto, corpo garbato in cui competono disinvoltura e maestà dei movimenti; fisionomia intelligente e spirituale, aspetto pacifico, affettuoso e ridanciano, sotto cui si nasconde qualcosa di grave e decoroso che merita rispetto. Immaginate tutto questo e molto più, e avrete l'immagine perfetta della principessa Carlotta.18

Carlotta è felicissima, come pure coloro che la spingono verso questa nuova avventura. Massimiliano invece, come lasciano intendere le pagine del suo diario, è mortificato: «Fosse per me, se venisse qualcuno ad annunciarmi che il progetto è saltato, mi chiuderei nella mia alcova e mi metterei a saltare di gioia». Si ammala così gravemente che sono costretti a posticipare la partenza. Durante la convalescenza, Carlotta sostituisce il marito in ogni ricevimento e corteo, riprendendosi quel ruolo per cui era stata realmente educata e che sa ricoprire egregiamente. Quando sta con il marito malato, quest'ultimo geme e supplica di non parlargli del Messico. Il 14 aprile del 1864, giorno in cui finalmente s'imbarcano alla volta della nuova destinazione, si scoraggia definitivamente, si chiude in cabina e scoppia in lacrime. Una deserta e muta accoglienza Il 28 di maggio, dopo una difficile traversata in cui non mancano tempeste e assalti di pirati, i nuovi Imperatori arrivano nel porto di Veracruz. Carlotta si è intanto affrettata a imparare lo spagnolo. Contrariamente a ciò che si aspettavano ed era stato loro promesso, Loro Maestà Imperiali attraversano un porto muto e deserto. Nessuno è giunto ad accoglierli. Nell'attraversare le strade applaude solo una minuscola banda ingaggiata dall'esercito francese. Nella capitale trovano una più rumorosa accoglienza... anche questa frutto di un ingaggio. Il Palazzo Nazionale, dove dovrebbero vivere, è un'enorme casa fatiscente e inabitabile; Carlotta e suo marito devono così optare per un trasferimento improvissato al castello di Chapultepec, che pure si trova in deplorevole stato. Da una tavola da biliardo ricavano il letto, mentre i gentiluomini austriaci, le dame italiane dell'Imperatrice, gli ussari ungheresi e il resto del seguito cercano un angolo senza scarafaggi dove poter passare la notte. Il giorno dopo cominciano a imbastire la loro immagine di autentici Imperatori. La ristrutturazione del castello si converte in una frenetica corsa a ostacoli. La prima azione del nuovo Imperatore consiste nel sostituire il nome della residenza in Miravalle, in ricordo di Miramare, una leggerezza che non fa che incrementare il rancore del popolo messicano: la parola Chapultepec, infatti, ha derivazione azteca e quasi sacra. Massimiliano non si era disturbato di saperlo né di capire quanto le tradizioni fossero importanti per i nuovi sudditi. Intenzionati a colmare l'offesa, il 7 giugno, dieci giorni dopo il loro arrivo, i nuovi Imperatori cercano di conquistarsi le simpatie festeggiando con la gente comune il ventiquattresimo compleanno dell'Imperatrice. Non hanno altra scelta che organizzare la festa in strada, visto che nessun edificio si trova in condizioni tali da ospitare l'evento. Alle sette della sera, venne organizzato uno sfarzoso ballo nella piazza del mercato che venne sistemata per l'occasione. Riuscì tutto in maniera brillante e magica. Il percorso di Loro Maestà dal palazzo fino al luogo destinato al ballo venne adornato con un tappeto di fiori; gli angoli della piazza erano stati riccamente decorati con piramidi di piante e addobbi colorati. Niente rovinò l'allegria della celebrazione. Alle dodici e mezza, gli Imperatori rientrarono.19 Ma il giubilo non dura a lungo. Il paese è sfiancato dalla guerra così come le tasche dell'Imperatore. Massimiliano non ha ricevuto nemmeno un centesimo di ciò che era stato pattuito; chi deve versare denaro si esime

adducendo scuse vaghe, e tutte le spese sostenute fino a quel momento sono state a carico del conto privato degli Imperatori. Carlotta si arma di coraggio e, a dimostrazione dell'incommensurabile devozione nei confronti del marito e dell'accordo politico che li unisce, vende gli splendidi gioielli ereditati da sua madre per poter sostenere le spese che prevede il loro status imperiale. Malgrado niente sembra andare come previsto e malgrado i coniugi già intravedano i primi segni della truffa, Massimiliano continua ad agire con diligenza esemplare tentando di addentrarsi nella cultura, nella politica e nell'identità nazionale del Messico. Ma i suoi sforzi titanici non soddisfano nessuno, come Carlotta racconta nel suo diario: Da quando siamo arrivati solo qualche giorno è passato in tranquillità. Nessuno è contento di noi. I conservatori, che prima ci hanno appoggiato [di arrivare], trovano adesso Massimiliano piuttosto liberale e i liberali intanto lo chiamano tiranno, e sono passati in massa dalla parte di Juárez. I francesi causano quotidiani fastidi, credendo che l'Imperatore porti avanti una politica fin troppo nazionalista e non tenga conto degli interessi della Francia. Anche il nunzio è arrabbiato con noi e minaccia una rottura con la Santa Sede se non diamo immediata soddisfazione alle pretese del clero messicano, a nostro avviso spropositate. I signori Estrada, Almonte e tanti altri, che a Miramare ci hanno entusiasmato con questo paese, non solo non ci hanno accompagnato, dimostrando di preferire la piacevole vita europea a questa baraonda, ma pure ritengono che aver loro restituito le terre che la Repubblica aveva confiscato sia poca cosa, e rivendicano ora copiosi indennizzi per far fronte ai danni che la rivoluzione ha causato ai loro poderi. Se Massimiliano soddisfacesse le richieste di questi incontentabili potentati, in pochi mesi porteremmo il paese alla rovina. E come se non bastasse, la guerra continua! Ci avevano promesso che al nostro arrivo avremmo trovato la pace, ma niente è più lontano dalla realtà, [...] le guerriglie aumentano di giorno in giorno e stanno devastando il paese.20 Massimiliano si assenta di continuo nel disperato tentativo di approfondire la sua conoscenza del paese e della gente, specialmente delle donne. Durante un'escursione, desta presumibilmente l'attenzione in una certa Guadalupe Martínez, che conosce a un ballo, e in seguito quella di Concepción Sedano y Leguizano, moglie del giardiniere della residenza di campagna di Olindo. Concepción mette al mondo un bambino che alcuni anni dopo dichiarerà di essere discendente di Massimiliano. Ma non esistono prove sufficienti a dimostrarlo. Comunque, già da parecchi anni Carlotta dorme in un'altra stanza dato che il rapporto con Massimiliano si è ormai trasformato in una sorta di fraterna alleanza, in una vera squadra, un solido binomio che li vede aver bisogno l'uno dell'altro, rispettarsi e proteggersi. E siccome non hanno figli, fanno affidamento l'uno sull'altro. Per questo motivo, quando l'Imperatore si avventura in giro per il paese, Carlotta assume in tutta tranquillità il ruolo di reggente. I cronisti del tempo dichiarano che quando è lei a comandare, le cose funzionano. Eppure, taluni non vedono di buon occhio che sia una donna a impartire gli ordini: Carlotta interveniva nelle riunioni del consiglio dei ministri e quando redarguì il monarchico Francisco de Paula y Arrangoiz, sfortunatamente in tutte le trattative pubbliche. Inoltre, durante l'assenza di Massimiliano, la risoluta sovrana si dimostrava abbastanza autoritari; non lasciava infatti che le questioni venissero discusse ma premeva

affinché venissero approvate direttamente dal consiglio dei ministri, che lei presiedeva.21 Oltre a rappresentare Massimiliano e a collaborarvi abilmente nella piattaforma politica, Carlotta ha pure le energie e la sensibilità per questioni di carattere sociale e culturale, ergendosi così ad autentica madre del popolo. L'Imperatrice scrive in uno spagnolo perfetto: Mi farebbe piacere, signor Prefetto, che i poveri di questa località [Puebla] potessero condividere i piaceri che io stessa ho sperimentato tra a voi. Le mando settemila dollari del mio denaro personale affinché lo investiate nella ristrutturazione della Casa della Carità, il cui stato decadente mi ha causato ieri grande tristezza, e per far sì che i più sfortunati possano beneficiare di un tetto sotto cui alloggiare. Signor Prefetto promettete voi, ai miei concittadini di Puebla, che hanno e sempre avranno tutto il mio affetto.22 Con l'intento di aiutare i poveri, istituisce la cosiddetta Giunta di Protezione, destinata alle classi più bisognose e fonda il Colegio Carlota, affinché le giovani messicane abbiano accesso a un'istruzione superiore. L'abbandono di Napoleone III Malgrado le loro buone intenzioni, gli Imperatori, che ormai vivono in un campo minato, vengono difesi solo dall'esercito francese. Nel 1866, due anni dopo il loro arrivo, Napoleone III non mantiene le promesse e ritira le truppe dal paese, abbandonando la causa di Massimiliano. E, visto che le brutte notizie non arrivano mai da sole, poco dopo muore anche il padre di Carlotta, l'unico e incondizionato alleato che possiede al mondo. Di conseguenza, il suo stato d'animo ne risente in modo grave. L'imperatrice inizia a sbraitare, comincia a soffrire d'insonnia e chiari segni di psicosi cominciano ad affiorare in lei: parla poco, dimagrisce, perde il suo bell'aspetto giovanile e appare indomitamente nervosa. Come già accaduto, resuscita come una fenice e torna a brillare con lucida autorevolezza appena si rende conto che Massimiliano sta pensando di abdicare. Carlotta pensa allora a una sferzante arringa epistolare, che ben mette in evidenza il suo carattere spinoso e l'opinione che ha del suo volubile marito. Carlo X [di Francia] e mio nonno [Luigi Filippo di Francia] nell'abdicare si confessarono colpevoli dinanzi a loro stessi; non possiamo ripetere lo stesso errore (...). Abdicare è condannare se stessi, sottoscrivere un certificato d'incapacità; è concepibile solo se causato da vecchiaia o compiuto dai poveri di spirito, non è affatto il modo di agire di un principe di trentaquattro anni, pieno di vita e con un avvenire davanti. La sovranità è il più sacro dei doveri esistenti e non si abbandona il trono come si lascia un luogo accerchiato dalla polizia. Se si accetta il destino di una nazione, si accettano anche i suoi rischi e pericoli, e mai la si deve abbandonare... Sebbene ci venga concesso giocare con i singoli individui, per nessuna ragione dobbiamo farlo con le nazioni e ancor meno concederci di farle capitolare, perché alla fine Dio chiede per loro vendetta.23 Detto fatto. Massimiliano decide di restare, suo malgrado, facendo fronte alle difficoltà politiche mentre l'Imperatrice umilia il suo monumentale orgoglio e decide di imbarcarsi alla volta della Francia per affrontare faccia faccia con Napoleone III e chiedere i rinforzi al cognato Francesco Giuseppe. Contemporaneamente pensa di recuperare l'eredità

lasciatale dal padre, che corrisponde a dieci milioni di franchi e che utilizzerà per migliorare la catastrofica situazione in cui versa Massimiliano: «Andrò in Belgio a ritirare la mia fortuna e metterla nelle mani di mio marito, affinché lui ne faccia buon uso per portare la pace in Messico», lascia scritto alla signora Almonte. Poi sale a bordo e si rinchiude nella sua cabina per tutta la durata della traversata, ovvero per quattro settimane. Una richiesa di aiuto che nessuno soddisfa L'Imperatrice del Messico, sola e disperata, non esce dalla cabina nemmeno quando la nave si ferma due giorni a L'Avana. Il giorno 8 agosto del 1866 arriva finalmente nella località francese di Saint Nazaire e, sebbene avesse inviato un telegramma a Napoleone con cui avvisava del suo arrivo, al porto non trova nessuno ad aspettarla. Un testimone oculare racconta: Il Prefetto non aveva ricevuto l'ordine di dare il Benvenuto all'Imperatrice. Nessuno l'aspettava e niente era stato disposto per l'arrivo, nemmeno una bandiera. Non venne trovata nessuna bandiera messicana perché nessuno ne possedeva una. Un abitante di Saint Nazaire che era stato in viaggio in Perù, prestò la bandiera peruviana.(...) Solo il sindaco osò accoglierla, tardivamente e in malo modo, allo sbarco. Non conoscendo il protocollo diplomatico, barbugliò all'Imperatrice una gran infinità di scuse e giustificazioni.24 Il nuovo affronto costituisce un ennesimo colpo al suo già sfibrato sistema nervoso. Per non perdere lo scopo del viaggio intrapreso, scrivendo a Napoleone, se la cava così: «Visto che V.M. non può venire da me, verrò io da V.M.», inviata la lettera, sale sul treno con la sua dama, la signora Barrios, comandandola da una parte all'altra, «vai e digli», «vai e guarda», mentre per tutto il vagone la si sente urlare «Perché questo treno non va più veloce? Ordinate al macchinista di accelerare la corsa. Lo esige l'Imperatrice del Messico!». La signora Barrios nota nel comportamento chiari sintomi di disturbi nervosi e, appena Carlotta la lascia libera, ordina di portare tisane al tiglio. Nella stazione parigina di Saint Lazaire lo sgarbo subito nell'omonima località di sbarco si ripete: né un ramo di fiori, né un misero tappeto rosso, niente di niente. La figlia e sorella dei re del Belgio, nipote di un re di Francia, cognata dell'Imperatore d'Austria, cugina della regina d'Inghilterra e Imperatrice voluta da Napoleone - che ora l'abbandona percorre la stazione come un comune viaggiatore, attraversa Parigi su un'automobile noleggiata ed è costretta ad alloggiare in hotel, piuttosto che essere ospitata nel palazzo di corte. Appena giunta al Grand Hotel, dove si registra con il nome di Duchessa di Guadalupe, senza nemmeno riposarsi un minuto manda un uomo del suo seguito25 a richiedere con urgenza un colloquio con Napoleone. Ma l'Imperatore francese inventa scuse: pare sia malato ma l'Imperatrice Eugenia avrà però molto piacere di incontrare Carlotta il giorno seguente, sebbene non nel palazzo di Saint-Cloud - dove Napoleone trascorre l'estate - ma nello stesso Hotel. Eugenia de Montijo rende visita, come promesso, alle due del pomeriggio e l'incontro ha luogo nella stanza di Carlotta. L'intento dell'Imperatrice di Francia è posticipare il faccia a faccia con Napoleone. In realtà, l'Imperatore francese intende partire per recarsi ai bagni di Châlons: se Eugenia riesce a portar a termine il suo piano, egli riuscirà almeno per il

momento a evitare l'incontro con Carlotta. Ma la tenate Carlotta non si lascia facilmente ingannare e nemmeno le sue gravi turbe nervose la dissuadono minimamente dal raggiungere l'obiettivo prefissato. Quando l'Imperatrice Eugenia ribadisce che Napoleone è indisposto, Carlotta sembra lanciare saette e dichiara che, se non vi sono alternative, si siederà a parlargli al bordo del letto. Irremovibile nella sua decisione, saluta la sua interlocutrice con la ferma determinazione di presentarsi l'indomani a palazzo. Poi scrive a Massimiliano la cronaca dell'incontro appena conclusosi: 10 di agosto del 1866. (...) Ciò che mi ha sorpresa è rendermi conto di sapere più io della Cina che costoro del Messico (...). Mi è parso di vedere che l'Imperatrice ha perso molto della sua giovinezza e della sua forza(...). Il trono di Francia fa rapidamente invecchiare coloro che lo occupano.26 Eugenia di Montijo Descrivere Eugenia de Montijo in questi termini non nasconde nulla di particolare o patologico, come alcuni invece avranno commentato. Riesco a capire perfettamente il comportamento di Carlotta. A dire la verità, la Montijo è cambiata molto dal giorno in cui è stata proclamata Imperatrice. Un giorno del 1840, quando non ancora sposata, da Madrid aveva scritto che «(...) non abbiamo amiche, le ragazze madrilene sono così stupide che parlano soltanto di moda o, per cambiare argomento, parlano male l'una dell'altra».27 In occasione del fidanzamento con Napoleone III, rifiutò il collier di brillanti che il Comune di Parigi aveva accettato di comprare per seicentomila franchi dell'epoca, chiedendo che tale cifra venisse investita in opere caritatevoli. Con il passare del tempo la donna però diventa smodatamente vanitosa, arrogante e ossessionata da vestiti e da scarpe. Due volte all'anno sostituisce l'intero contenuto dei suoi armadi, incendiando il guardaroba precedente affinché nessuno utilizzi ciò «che è appartenuto a un'Imperatrice e che solo un'Imperatrice può sfoggiare»; ci sono giorni in cui arriva a cambiarsi d'abito sette volte. Gli invitati giungono al ballo pronosticando sui vestiti che Eugenia sfoggerà, visto che molto spesso la si vede fare il suo ingresso con un abito, ballare con un altro e salutare con un altro ancora. Eugenia introduce in Francia la moda degli stivali con il tacco alto, i colori pastellati e le gonne di crinolina e, ovviamente, non utilizza mai lo stesso paio di scarpe più di una volta. L'Imperatrice adora sia gli accessori sia i vestiti. Adorna in modo esagerato le stanze del palazzo, lasciando appena un po' di spazio per muoversi, e spera che gli invitati si sprechino in elogi al suo buon gusto. Già prima di sposarsi, Eugenia venerava la figura di Maria Antonietta, non a caso tutto ciò che è appartenuto alla fatidica regina di Francia trova una sua collocazione nelle camere di Eugenia: bambole, miniature, specchi, merletti e mobili colmano i luoghi in cui l'Imperatrice vive e, proprio come Maria Antonietta, riesce solo in piccola parte a mettere un freno ai suoi capricci, lasciando che la sua enorme intelligenza venga spesso eclissata da un'incontrollabile arroganza, che è esattamente ciò che percepisce Carlotta. In Eugenia scorge solo l'immagine della meschinità e solo un po' di empatia, giusto un dettaglio di solidarietà e un'unica parola di conforto e speranza. La sovrana francese non ha nemmeno la cortesia di offrire un'automobile che accompagni Carlotta a palazzo.

Il rinfresco avvelenato e altri deliri Con la risolutezza che la contraddistingue, l'Imperatrice del Messico non si arrende e si presenta con un'auto noleggiata a Saint-Cloud, accompagnata dalla sua dama d'onore, entrambe vestite di nero a causa del lutto che Carlotta porta per l'avvenuta morte del padre. La guardia esterna non la lascia entrare, reputando i suoi abiti impropri per qualcuno che pretende far visita a Napoleone. La donna si impunta con tanta tenacia e autorevolezza che alla fine la lasciano passare. Si precipita nei giardini del palazzo, cogliendo l'Imperatore alla sprovvista, totalmente impreparato e costringendolo, nel vedere l'iraconda saetta avvicinarsi, ad abbozzare un invito a entrare a palazzo. Qui ha luogo un colloquio alquanto burrascoso, a cui partecipa anche Eugenia. Non ci sono testimoni, sono solo loro tre; eppure le congetture a danno di Carlotta già abbondano da allora e continuano a dilagare. Si racconta che Carlotta di adiri particolarmente nell'udire le scuse di Napoleone riguardo al suo ritiro dal Messico che, a detta dell'Imperatore, sono dipese non da lui ma dai suoi ministri. Eugenia, visibilmente nervosa, chiede un'aranciata per cercare di tranquillizzare l'invitata, ma Carlotta nel vedere il bicchiere esplode accusando gli Imperatori di volerla avvelenare. In seguito sviene e il resto della scena, secondo la fantasia popolare, descrive Eugenia piangere calde lacrime mentre cerca di allentare il corsetto e togliere gli stivaletti alla svenuta e con le sue belle mani imperiali frizionare le caviglie dell'Imperatrice del Messico con acqua di colonia. Tutte ciance. La dama che porta la bevanda nella stanza conferma che, effettivamente, in un primo momento Carlotta ha protestato trovando l'interruzione inopportuna, ma in seguito ha preso il bicchiere per bere. Nessun tipo di esplosione, nessuno svenimento né accuse di tentato assassinio. In psichiatria si designa con illusione dell'indulto quel meccanismo di mitigazione interna che avvertono i colpevoli quando nutrono la speranza di esser perdonati poco prima di essere giustiziati. Carlotta abbraccia con frenesia l'illusione dell'indulto, proprio come fanno i condannati a morte, e mai abbandona la speranza di riuscire a ottenere l'appoggio della Francia a Massimiliano. Dimostra talmente tanto vigore nell'impresa e trasuda una così forte l'illusione dell'indulto, che il colloquio termina con Napoleone che promette di tentare di convincere i suoi ministri affinché sostengano economicamente e militarmente l'Imperatore del Messico. Carlotta, insomma, continua a fare la voce grossa durante l'intricatissimo incontro fino a quando il suo rivale smette di opporle resistenza. «Ho fatto tutto ciò che era umanamente possibile, ho dato un ultimatum all'Imperatore», scriverà più tardi a Massimiliano. Durante i giorni a seguire, Carlotta va e viene da palazzo continuando a illudersi, ignara di come tutti quelli che la osservano la stanno dissimulatamente beffeggiando. Scrive il caustico Mérimée:28 Di tanto in tanto abbiamo la fortuna di vedere l'Imperatrice del Messico. È una donna di casa che assomiglia come una goccia d'acqua a Luigi Filippo [fratello di Carlotta]. Possiede dame d'onore dagli occhi brillanti, colorito come il pane di segale e aspetto da orangotango. E noi che speravamo vedere uri di Maometto! A quanto pare, Sua Maestà è venuta a chiedere denaro e soldati, ma io penso che le faranno solo una festa, sebbene lei nemmeno abbia l'aspetto di potersi divertire.29

Il 21 agosto, dopo giorni di indomabile tensione, Napoleone conferma a Carlotta di non poter fare niente per Massimiliano né per il Messico. Non potrà mandare né soldati né denaro. La notizia provoca nella donna un profondo e violento shock, il colpo di grazia che fa definitivamente crollare il già fragile equilibrio mentale. Lo palesa nella lettera che il giorno 22 scrive a Massimiliano e in cui parla di Napoleone: Per me è il diavolo in persona, durante il nostro ultimo incontro di ieri aveva un'espressione come se gli si fossero rizzati i capelli, era orribile e questa era d'altronde l'espressione del suo spirito.(...) Non ti ha mai amato, dal principio fino alla fine, perché lui non ama né può amare, ti ha stregato come un serpente, le sue lacrime erano false così come le sue parole, ogni sua azione è un inganno. Credo che dovrai liberarti al più presto dalle sue grinfie. Ignorando la sua indola di perdente, appare incantevole, è un piacevolissimo Mefistofele...30 Questo è solo un frammento di una lettera lunghissima, ricolma di idee sconnesse e di allusioni all'apocalisse e alla reincarnazione del diavolo che, secondo Carlotta, è Napoleone. Storici ed esperti di psicologia scorgono qui il segno patognomico della follia di Carlotta. Con questa espressione così altisonante la medicina definisce l'inequivocabile sintomo dell'esistenza di una malattia. È probabile che nell'intera lettera, appunto interminabile, si scorgano concetti che cozzano un po' tra di loro, ma personalmente credo che Carlotta, pur enfatizzando, non sia poi così fuorviante nell'immagine che percepisce di Napoleone in questi momenti di estrema difficoltà. L'Imperatore francese e le sue malefatte Effettivamente Napoleone III, sia nella sua vita pubblica sia in quella privata, è ben lontano da essere una figura caritatevole. Gli avevano anche diagnosticato un'incontenibile dipendenza dal sesso. Nonostante fosse nato settimino e fosse stato bagnato nel vino, maldestro provvedimento per rimediare alla sua fragilità, da adulto cade preda di sfrenati istinti. Della sua voracità sessuale si servì appunto l'astuta Eugenia de Montijo per sposarlo. Bellezza fisica a parte, fu l'unica che usò la sua indiscutibile intelligenza per dirgli: «Maestà, la chiave della mia stanza la consegna il vicario all'uomo che mi sposa». Tutta Parigi, al tempo, commentava che Napoleone fosse divenuto Imperatore per elezione, Eugenia Imperatrice per erezione. Dopo aver gustato il frutto proibito, Napoleone III torna al consueto vizio ricominciando le proprie spedizioni sessuali nelle sale da ballo, fiutando feromoni nei corridoi del palazzo come una volpe a caccia di galline. Fino al 1860, vicino alla cinquantina, il testosterone imperiale continua a fremere come negli anni della giovinezza in un «usa e getta» incurante dei sentimenti delle prede. Una di queste, la marchesa TaiseChâtenoy, lascia un vivace racconto: dopo un ballo alle Tuileries, la dama soccombe alle lusinghe imperiali concedendo un appuntamento a mezzanotte. L'Imperatore si presenta all'ora stabilita nelle stanze della prescelta «con un pigiama in seta di colore malva che gli dava un aspetto piuttosto ridicolo. In seguito è soggetto a uno sforzo fisico durante cui respira così affannosamente da sciogliere la cera che gli modella e mantiene attaccata la punta dei baffi, facendoli cadere, per giungere infine ad un rozzo finale che mi lascia impassibile e insoddisfatta».31 Scrive inoltre Jules de Goncourt, giornalista e presunto amico della famiglia imperiale, che «quando una donna viene invitata a un

appuntamento alle Tuileries, l'Imperatore prima la sveste in una stanza poi si sposta in un'altra in cui, anche lui oramai nudo, l'aspetta. [Il ciambellano] incaricato, impartisce istruzioni alla donna nel seguente modo: 'Può baciare Sua Maestà ovunque, salvo sul viso'».32 Viva resta anche la testimonianza dell'inconsolabile moglie di un ufficiale in difficoltà che chiede udienza a Napoleone per ottenere clemenza per il marito. In pochi minuti viene vista uscire frettolosamente dalla sala. Presa da incontenibili gemiti, la sfortunata racconta di aver appena cominciato a parlare quando l'Imperatore l'ha di colpo trascinata verso un luogo oscuro: «Successe talmente in fretta che anche i più fermi principi caddero rovinosamente».33, racconta giustificandosi la povera donna. L'erotomania colpisce l'Imperatore fino a comprometterne capacità di giudizio. Si racconta che durante una notte senza luna, incamminandosi clandestinamente verso una stanza buia s'imbatte in un essere voluminoso che dorme avvolto in una pomposa camicia da notte; la mano imperiale scivola cautamente sotto il tessuto finendo per massaggiare una gamba rigonfia e imbottita in calze di seta. Il grido del vescovo di Nancy rompe il silenzio. La gamba è sua. Giudicate voi, cari lettori, se la morale vittoriana e romantica di Carlotta abbia o meno buoni motivi per reputare Napoleone una figura orripilante. Non solo l'Imperatore la umilia per poi nascondersi sotto la gonna di Eugenia, ma la sua condotta morale macchia la sua casta reputazione con dettagli che dilagano presto e inesorabilmente negli angoli di Parigi. È altresì vero che tali dettagli erano ben noti a Carlotta anche prima di accettare l'incarico d'Imperatrice del Messico ma al tempo non sembrò che le importassero più di tanto. In ogni modo, la mia opinione si allontana un po' da quella di altri critici e storici: il segno patognomico del disequilibrio mentale di Carlotta non consiste nel descrivere Napoleone come un essere infernale ma si delinea nel suo febbrile delirio epistolare con cui insiste nel convincere Massimiliano a non lasciare il trono del Messico e soprattutto nel farlo utilizzando insinuazioni deliranti: «appena l'inferno si dileguerà, sarà interesse di Francia e di tutta Europa fare del Messico un grande impero, che creeremo noi due».34 Una notte nelle stanze del Papa A partire da questo momento, nelle lettere che Carlotta invia a Massimiliano si comincia a scorgere un'incoerenza tipicamente schizofrenica che però sembra non riconoscersi nelle lettere da lei indirizzate ad altre persone. Dopo il trauma del 21 agosto, Carlotta si rifugia presso Miramare e qui, per la prima volta dal suo ritorno in Europa, riesce a tranquillizzarsi. Pare che riceva inaspettatamente tutti gli onori degni dell'alta gerarchia cui appartiene e così trascorre alcuni giorni libera da delirii di grandezza, salvo quando scrive a Massimiliano (e non ad altri). Tramite lettera gli spiega che lasciare la Francia è stata una benedizione e che solo adesso si capirà davvero chi vale: «Se abdicassi, la nazione messicana cesserebbe di esistere (...). Nessuno all'infuori di te può guidare il popolo messicano». Ma dopo aver ricevuto cattive notizie dal Messico, si precipita a Roma. Ha bisogno che il Papa in persona faccia pressione sui principi cattolici affinché appoggino Massimiliano. Durante il viaggio si manifestano serie turbe mentali,

un'esagerata alterazione nervosa e una suscettibilità che i testimoni definiscono «ridicola". Il 27 settembre entra per la prima volta in Vaticano. Sua Santità osserva sbigottito Carlotta che si agita convulsamente e rigurgita una caterva di parole mischiate tra loro in cinque lingue diverse. All'improvviso dice di aver paura, sostiene che Napoleone ed Eugenia l'hanno avvelenata e, senza perder tempo, si mette quattro dita in bocca con l'intento di vomitare la sostanza tossica. Quando il Papa invoca l'intervento delle persone al seguito di Carlotta, lei lo trattiene e a bassa voce gli racconta che è accompagnata dagli sbirri del Mefistofele di Parigi i quali hanno ricevuto ordine di ucciderla alla prima occasione propizia. Con enorme difficoltà riescono a ricondurla all'Hotel. Nel tragitto Carlotta chiede di scendere in Piazza della Pilotta, dove si sporge dal bordo della splendida e ornamentale fontana per bere da una delle cannelle: è altresì convinta che bicchieri, piatti e posate contengano veleno. Nell'Hotel rifiuta il cibo, timorosa che ogni alimento contenga sostanze tossiche letali; si fida solo di un ciambellano di Sua Santità a cui chiede di uscire immediatamente a comprare caldarroste: «Le voglio con la buccia. Ho fame. I mie desideri sono un ordine!», sbraita; e nel vederle le divora rapacemente. Non vuole dormire perché teme che sopraggiungano per ucciderla nel sonno, motivo per cui passa la notte sul balcone, seduta su di una poltrona. La mattina seguente, di buon ora si fa condurre nuovamente in Vaticano, alle cui porte si mette a gridare generando un tale trambusto che alla fine riesce a ottenere che Pio IX la riceva nella sua stanza privata. Il Papa ha appena finito di fare colazione e sul vassoio che ha ancora davanti vi sono degli avanzi su cui Carlotta si avventa, beve la cioccolata calda e divora senza masticare tutte le briosche. Pio IX, spaventato e allo stesso tempo impietosito, cerca invano di calmarla. Ma rimane terrificato quando lei si inginocchia ai suoi piedi, dicendogli che non lascerà più il Vaticano perché è l'unico posto sicuro. Il Papa, con compassione, le consente di passare la giornata nel palazzo. Al momento del pranzo, Carlotta passa il tempo a cambiare sistematicamente i suoi piatti con quelli del Papa, convinta che i suoi siano avvelentati. Quando sopraggiunge la notte, la donna rifiuta di andarsene, si mostra irremovibile e comincia a dire spropositi con tanta collera che non viene trovato altro rimedio che allestirle un letto nella biblioteca. Così Carlotta diventa l'unica donna ad aver legalmente dormito nelle stanze della Santa Sede. Il giorno seguente provano a estrometterla dicendole che in un convento aspettano una sua visita. Inizialmente Carlotta ci crede, ma un attimo dopo scopre il tranello e, in un attacco di collera, getta per terra ogni oggetto che trova a portata di mano. Riescono infine a condurla al convento, con la speranza che venga contagiata dalla pace del luogo, ma invece di calmarsi, si allontana improvvisamente dagli accompagnatori per seguire la scia di odori che fuoriesce dalla cucina e lì, totalmente annebbiata e prima che qualcuno reagisca, alza il coperchio della pentola in ebollizione, immerge il braccio fino al gomito, estrae un pezzo di carne fumante e cerca di portarselo alla bocca. L'intenso dolore e le atroci ustioni le fanno perdere coscienza. Torna in sé mentre è sull'automobile che la sta conducendo all'ospedale in cui verrà curata. Nel tragitto che la riporta all'hotel, completamente frastornata, urla dal finestrino. Chiede aiuto affinché la salvino dal patibolo.

La tirannia della demenza Nell'hotel, l'Imperatrice del Messico va e viene dalla reception e dai corridoi deserti, visto che tutti gli impiegati si sono nascosti per non alimentare il delirio di persecuzione della malata. Una volta entrata nella sua stanza sembra fidarsi solamente della sua camerista, Mathilde Doblinger, che si vede costretta a cucinare in pentola, su fornellino a carbone, polli vivi, considerando come Carlotta accetti di mangiare esclusivamente ciò che viene preparato in sua presenza e da mani di cui lei si fida, che sono solo due. È facile immaginare cosa fu costretta a sperimentare l'elegante Matilde, dovendo uccidere, spennare, sbudellare e ridurre in pezzi gli animali, oltre che condirli e servirli nella stanza di un hotel. Carlotta rifiuta, inoltre, di mangiare frutta e pane, che pure considera intossicati, e accetta unicamente di bere acqua attinta dalle cannelle delle ornamentali fontane pubbliche. Blasio, colui che fu segretario di Massimiliano, viene richiamato affinché lei possa dettargli gli assurdi decreti con cui prende le distanze da chi non le ispira più fiducia. Mentre Blasio esegue gli ordini, osserva: L'Imperatrice percorreva la stanza da un lato all'altro, apparentemente tranquilla. Di tanto in tanto alzavo lo sguardo per osservare la sua fisionomia. Mio Dio, quanti cambiamenti aveva subito in pochi giorni a causa di tante emozioni e sofferenze! Il viso era contrito e magro, gli zigomi rossi e prominenti; le pupille dilatate e, quanto al suo sguardo, era incapace di fissare un punto fermo. (...) Mi fermai a osservare l'aspetto della stanza della malata: in fondo uno sfarzoso letto lasciava immaginare che nessuno vi avesse dormito per diverse notti. (...) Vi era inoltre un armadio e una toeletta con oggetti di argento, alcune sedie e un tavolo su cui era stato riposto il piccolo forno con cui Matilde preparava gli alimenti dell'augusta malata. Ai piedi del tavolo erano stati legati alcuni polli vivi. Sul mobile, un paniere e una brocca d'acqua che l'Imperatrice aveva fatto riempire da una fontana pubblica. (...) Io stesso ho visto di persona la sovrana far fermare la sua automobile di fronte ad una fontana monumentale, scendere e riempire la brocca, poi risalire tranquillamente sull'automobile e tornare all'hotel senza guardare e parlare a nessuno.35 Il giorno in cui fa chiamare Blasio, fermamente convinta che la sua vita sia sul punto di cadere nelle mani dei suoi avvelenatori, Carlotta scrive una drammatica nota a Massimiliano, in cui manifesta tutta la sua convinzione di dover essere presto assassinata: Tesoro intensamente amato. Ti saluto, Dio mi chiama. Ti ringrazio per la felicità che mi hai saputo sempre dare. Che Dio ti benedica e ti faccia conquistare gloria eterna. La tua fedele Carlotta.36 I medici che la visitano a Roma dichiarano ciò che tutti sospettano: l'Imperatrice del Messico soffre di una grave malattia nervosa e urge informare i suoi fratelli. Il 7 ottobre, Luigi Filippo giunge a Roma con l'intento di condurla a Miramare, cosa che riuscirà a fare solo due giorni dopo il suo arrivo. Carlotta conversa con il fratello, il duca delle Fiandre, abbastanza tranquillamente, fino a quando affrontano l'argomento Messico e lei perde completamente la ragione: comincia a lanciare blasfemie e insulti al Papa e non demorde con le sue incoerenti e grandiose allusioni a Massimiliano definendolo «maestro della terra e sovrano dell'universo». Temendo che le

crisi paranoiche aumentino, si decide che durante il viaggio Carlotta venga accompagnata da un'unica persona. Tuttavia, la donna viene improvvisamente raggiunta da un lampo di lucidità e si stupisce della mancanza di ufficiali che le rendano onori. Il viaggio trascorre tranquillo e senza attacchi psicotici fino a quando, giunta a destinazione, Carlotta scopre di essere sotto stretta vigilanza e decide che anche suo fratello è un suddito di Lucifero. Luigi Filippo scrive a suo zio, il duca di Nemours, riportandogli il quadro della terribile malattia: «[Mia sorella mostra] un irrefrenabile desiderio di essere la sovrana di qualsiasi cosa in qualsiasi dove», aggiungendo però, «Fortunatamente, durante questo isolamento, appare più calma, ammette di essere malata a che ha bisogno di cure». Per curarla fanno chiamare gli strizzacervelli più prestigiosi dell'epoca, i dottori Reidel e Jilek, che le diagnosticano una «grave mania di persecuzione»37 consigliando di tenerla lontana «da ogni individuo e da ogni tipo di conversazione che possa intaccare la sua mente spingendola verso idee fisse». Carlotta ha appena compiuto venticinque anni. «Il mio cadavere venga sepolto con quello di mia moglie» Massimiliano viene a sapere dello stato della moglie solo il 18 ottobre, quando riceve in Messico un telegramma in cui si legge: S. M. l'Imperatrice Carlotta è stata colpita il 4 di ottobre a Roma, da una grave congestione celebrale. L'augusta principessa si è trasferita a Miramare. Con il suo consigliere più fedele indisposto e con la tensione politica in stato di crisi, Massimiliano vede la terra aprirsi sotto i suoi piedi. Il giorno dopo aver letto il telegramma decide di abbandonare il trono del Messico e progetta di fuggire da Veracruz. Diffonde così la notizia che Carlotta sta rientrando e che lui vuole accoglierla di persona. Ma la sua menzogna non ha molto successo: l'ira dei nobili messicani esplode e Massimiliano vede dileguarsi gli unici alleati del paese che da quasi tre anni cerca di governare. Napoleone, dalla Francia, sostiene la sua volontà di abdicare comprendendo come la vita di Massimiliano sia in serio pericolo, e non vuole sentirsi responsabile. Da parte della sua famiglia, l'Imperatore del Messico non ottiene appoggio. Sua madre, l'arciduchessa Sofia, gli scrive una brutale lettera con cui gli nega ogni tipo d'aiuto e l'avverte che Francesco Giuseppe, adirato per le manifestazioni di giubilo che Massimiliano raccoglie a ogni suo passo, vieta a suo fratello di tornare in territorio austriaco, nel caso gli fosse mai venuto in mente di rifugiarsi lì. Aggiunge pure che non può tornare in Europa perché verrebbe considerato un ridicolo codardo e diventerebbe lo zimbello di tutti, per cui vale piuttosto la pena farsi seppellire sotto le rovine del Messico. Se si pensa a come questa madre sia capace di chiudere la porta in faccia al figlio in difficoltà, si capisce anche perché sua nuora, Sissi, si ribelli tanto a questa vipera e quanto sia ammirevole, da parte dell'Imperatrice d'Austria, non aver mai denunciato la bassezza di un simile individuo. Nel frattempo, il caro fratello Francesco Giuseppe, che tanto pretende da Massimiliano riguardo al mantenimento dell'onore, pare s'intrattenga, abbandonando gli algidi marmi del suo palazzo, sorseggiando ammiccanti caffé con Katharina Schratt, attrice comica, di venti anni più giovane di lui e, da quel che si racconta, dal fisico non molto prestante ma dotata di spiccato senso dell'umorismo. È infatti l'unica capace di far ridere

l'Imperatore d'Austria «con le sue straordinarie doti nel raccontare piccoli aneddoti», secondo quanto viene riportato dall'ambasciatore tedesco dell'epoca.Katharina diletta così tanto il funereo temperamento di Francesco Giuseppe, che costui arriva a descrivere i loro incontri come «unici raggi di sole nella mia lugubre vita». Lei, in cambio, gli regala uno specchietto su cui sono state incise dolci parole «Ritratto di colui che io soltanto amo». L'Imperatrice Sissi, non a caso in bilico sul filo di un disequilibrio mentale, fa finta di niente. Non ha voglia di occuparsi del marito perché questo le toglierebbe tempo per dedicarsi alla sua persona e ai suoi demoni. È, infatti, proprio lei a scegliere Katharina affinché intrattenga l'Imperatore, senza che le importi minimamente che sia sposata; li spinge uno verso l'altro con tale maestria fino a farli innamorare. L'Imperatore si toglie di torno il molesto marito di Katharina offrendogli un'allettante missione diplomatica a diversi chilometri di distanza. Katharina, finalmente libera, conforma le sue grazie all'Imperatore ormai schiavo del gioco. Fa periodicamente visita al casinò di Montecarlo, dove perde ingenti somme di denaro che poi vengono ripagate dda Francesco Giuseppe. In un'occasione arriva a impegnare persino il biglietto di ritorno a Vienna, a seguito di una perdita di duecento mila franchi, una cifra assurda che ancora una volta Francesco Giuseppe deve risarcire. Questa volta, però, l'Imperatore va su tutte le furie e invia il denaro con una lettera colma di rimproveri. Al termine del XIX secolo, i governi vigilano rigorosamente su ciò che i monarchi sperperano spinti dai loro capricci amorosi, vietando che queste spese vengano finanziate con denaro pubblico. Ma l'Imperatore d'Austria escogita uno stratagemma per eludere il controllo: assegna al marito tradito di Katharina uno stipendio milionario e raggiunge il duplice obiettivo di avere un 'amante raggiante e, allo stesso tempo, il marito placato. In questo modo Francesco Giuseppe perde tempo e denaro; la stessa osa poi dare lezioni di onore e senso di responsabilità a un fratello che si ritrova una bomba tra le mani legate. Per di più, Massimiliano ha anche perso la meravigliosa consolazione, il giusto orientamento e la serenità che Carlotta gli ha sempre garantito: ha perso quindi tutto ciò che l'ha sempre sostenuto. Provato dall'inquietudine, o forse dal risentimento, Massimiliano cessa di scrivere a sua moglie le lettere che giornalmente le inviava quando si trovavano lontani. Forse in fondo comprende che la malattia ha trasformato Carlotta e che per adesso è obbligato a considerarla un dolce e lontano ricordo. Nelle poche lettere che invia non risparmia il fiume di solite parole smielate, come «vita mia», «svengo per la nostalgia che ho di te», «non avrò ore felici fino a quando non potrò stare di nuovo con te»... ma le notizie che dà sono delle più prosaiche: commenta il clima e il suo stato di salute omettendo qualsiasi riferimento alla situazione incredibilmente intricata in cui si ritrova. Il 14 giugno Massimiliano viene condannato alla fucilazione, senza che Benito Juárez soddisfi le sue richieste d'indulto ed esilio. Il giorno prima, in maniera crudele e devastante, raccontano all'Imperatore che Carlotta è deceduta, non dandogli nessuna possibilità di verificare la falsa notizia. Il sovrano, annientato dal dolore ma nel contempo pacato, manda una nota all'incaricato agli affari in Austria: Ho appena saputo che la mia povera moglie è stata liberata dalla sua sofferenza. Questa notizia, per quanto laceri il mio cuore, costituisce

per me, d'altro canto, un'indicibile consolazione. Ora mi è rimasto un solo desiderio terreno, che il mio cadavere venga sepolto accanto a quello della mia povera sposa, incarico che assegno a voi, mio caro barone, in quanto rappresentante dell'Austria. A questo celebre scritto se ne aggiunge un altro che indirizza al prefetto di Miramare: (...) Questa notizia ha lacerato il mio cuore, ma sicuramente l'ardente desiderio e la speranza di riunirmi alla donna che amavo e stimavo più di tutti al mondo attenuano il mio dolore e con più pace rispetto a prima aspetto la morte, che non più ci separerà ma ci ricongiungerà. Il 19 giugno del 1867, trentasette mesi dopo il suo arrivo in Messico, gli spari del plotone crivellano Massimiliano. Prima di morire, l'Imperatore pronuncia queste ultime parole: Non sono venuto in Messico spinto dall'ambizione. Sono venuto per realizzare l'impresa di coloro che desideravano la pace nel paese. Chiedo perdono a tutti e chiedo a tutti di perdonarmi. Spero che il mio sangue versato sia per il beneficio di questo paese. Viva il Messico. Viva l'indipendenza.40 Massimiliano ha appena compiuto trentacinque anni. Un finale pazzo e penoso Nessun particolare di una simile disgrazia viene comunicato a Carlotta, che continua a essere rinchiusa a Miramare e a scrivere centinaia di lettere sconnesse, progettando improbabili piani relativi a una Sant'Alleanza mirante ad annientare «l'Angelo cattivo». Di tanto in tanto, nei suoi atteggiamenti, compaiono reminiscenze del suo periodo di salute. In quei momenti la schizofrenia pare non averla mai conosciuta. Per lunghe settimane Carlotta passeggia per i giardini e nei dintorni con nobile forza, parla affettuosamente con i bambini e i conoscenti che incontra, mostra tranquillità e ragionevolezza, tanto che chi la vede crede sia del tutto assennata e che la follia sia solo una fantasia, una vile calunnia orchestrata da Francesco Giuseppe e da Napoleone per tenerla rinchiusa e lontana da Massimiliano. Alcuni servitori di palazzo arrivano a credere che la storia del veleno sia vera, sospettando gli uni degli altri. Si crede persino che gli strizzacervelli siano stati corrotti e che la loro diagnosi sia stata solo uno stratagemma per tenere rinchiusa la povera sovrana. Ma dietro la quiete si nasconde una nuova tempesta. I suoi fratelli decidono, infatti, di trasferirla in Belgio allo scopo di offrirle attenzioni e una sorveglianza più famigliare e affettuosa di quella che, per ragioni logistiche, possono darle a Trieste. Tra l'altro hanno anche scoperto che determinate persone, come il conte di Bombelles (che in passato era stato maestro d'equitazione di Carlotta) e il generale Uraga, sfruttano vampirescamente l'appetitosa economia della malata. Henriette, sposa di Leopoldo II e quindi sovrana del Belgio, accoglie Carlotta a Laeken sprecandosi in tenerezza e umanità. Così si esprime in un lettera che invia alla contessa di Hulst (vecchia istitutrice): La nostra amata bambina, continuo a considerarla ancora una bambina, per il momento sta, Dio sia lodato, meglio di quel che si sperava. Le notti passano tranquille, ha un buon appetito e due volte al giorno usciamo a passeggiare (...). Da che ambiente barbaro ed empio si è dovuta riscattare la povera Carlotta! Non ci credereste mai, considerando che dubito ci sia nella storia altro simile caso di donna giovane e

abbandonata come la sfortunata Imperatrice. L'ho sostenuto già a Parigi e adesso lo ripeto: Carlotta non mi lascerà più, è mio dovere prestarle attenzione e curarla.41 Anche il visconte Conway invierà all'istitutrice questa lettera: Tre quarti del tempo l'Imperatrice si mostra sana. Parla e agisce come voi e come me, ma in altri momenti, comincia a divagare e il suo povero raziocinio comincia a dissolversi. Non è mai violenta e sembra felice di stare con noi e di aver lasciato Miramare. Alcuni terrori però la sovrastano, come quello di essere trascinata forzatamente nella vecchia residenza che ha appena abbandonato. (...) Non avverto ancora il bisogno di raccontarle del triste epilogo del marito. (...) Nemmeno capita che parliamo del Messico. Qui vede solo la regina [la moglie di suo fratello Leopoldo II], i medici e i domestici. (...) Dobbiamo tastare il terreno prima di ideare la forma migliore per accoglierla. Se il suo stato si mantiene come quello attuale, probabilmente invecchierà assieme alla famiglia reale, e dovremo sistemare una zona del palazzo. Ma questo rimanga tra noi, è un grande segreto.42 Ma Carlotta comincia ad attaccare il fratello Leopoldo, considerandolo un altro re, tra i tanti uomini indegni, che hanno tradito l'unico sovrano legittimo dell'universo che è appunto Massimiliano. Fonda le accuse basandosi su alcuni aspetti della condotta del fratello, come, ad esempio, le passeggiate a cielo aperto che fa con la sua amante di diciassette anni, Caroline de la Croix, che ovviamente ha ricevuto l'ordine di fissare lo sguardo a terra e di dire che è la nipote degli aiutanti del re nel caso le chiedano qualcosa. Occorre allora trasferire al più presto Carlotta. Viene internata nel castello di Tervueren, attorniata da una corte di infermiere e medici mascherati da dame e gentiluomini. Il piano in un primo momento funziona; la donna ritrova l'interesse per la letteratura, la storia e la musica, interpreta a memoria lunghissimi pezzi al pianoforte senza sbagliare una nota. Scompare pure il lugubre e tedioso incubo del veleno. Confidando nel miglioramento, la famiglia le confessa il tragico epilogo di Massimiliano. Il 14 gennaio 1868 la regina Henriette scrive: Le abbiamo detto tutto. Ha pianto a lungo tra le mie braccia e le sue prima parole sono state «Ah, se solo potessi fare la pace con il cielo e confessarmi!» Povera bambina! Ma nel bel mezzo della notte mi ha mandato a chiamare per dirmi che non vuole più confessarsi.43 Carlotta ora crede che a morire sia stato Napoleone e non suo marito. Nell'aprile del 1868 pensa di organizzare una festa che commemori l'anniversario della sua proclamazione, ma si sente replicare che, dalla morte di Massimiliano, non sono consentiti festeggiamenti. Insiste allora nel dire che egli è ancora vivo e governa il paese, rifiutandosi categoricamente di abbandonare l'idea della celebrazione. Qualche giorno dopo suo fratello Leopoldo va a farle visita. Lei si prepara a riceverlo con tutti gli onori, ma appena lo vede scendere dall'automobile comincia a fuggire impaurita e a gridare che è un bandito sopraggiunto per avvelenarla; qualche secondo dopo la trovano mentre distrugge vasi, lampade e altri attrezzi con un bastone... fino a che si ritrova dinanzi a un ritratto di Massimiliano. Allora s'inginocchia e si calma. All'epoca ha anche l'idea delirante di avere avuto due figli, in Messico, uccisi poi dal veleno somministrato da Napoleone. Torna a scrivere centinaia di lettere a Napoleone III, identificandolo a volte come reincarnazione del demonio altre volte come divino dominatore che salverà l'umanità. Ma ciò che più colpisce è che indirizza circa

trecento lettere a Loysel, il francese ch'era stato capo di gabinetto militare di Massimiliano, credendolo, nella sua, immaginazione, il suo defunto sposo. In lui proietta folli scene erotiche e, di tanto in tanto, finisce con identificarsi con quest'uomo fino ad acquisirne l'identità, riferendosi a se stessa in termini maschili e firmando le lettere come Ch. Loysel. Nonostante il suo evidente delirio, la grafia è accurata e lo stile perfetto. Carlotta rimane a Tervueren fino alle cinque del mattino del 3 marzo del 1879, quando una disattenzione nella stanza adibita a stireria provoca un incendio nell'edificio e le infermiere, entrando nelle sue stanze, la trovano comodamente seduta sul letto a vedere le imposte della finestra bruciare. È totalmente ipnotizzata da tale spettacolo. Con gran fatica riescono a condurla fuori. Da lì continua ad ammirare ciò che denomina «splendide fiamme». Subito si accorge di aver dimenticato le sue lettere e vuole salire a recuperarle, i tutori la trattengono, ma la donna comincia a rotolarsi a terra, a piangere e a sostenere che l'Imperatore la sta aspettando nella sala del trono. Visto che la scenata isterica non le fa ottenere ciò che desidera, schianta il candelabro contro una vetrata, si strappa il vestito con le unghie, comincia a tirarsi i capelli e cade preda di un attacco che richiede fatalmente l'uso di una camicia di forza. Si calma soltanto quando arriva sua cognata Henriette, che la slega. In seguito all'incendio che distrugge il castello, Carlotta si trasferisce nel castello di Bouchout, dove rimane per lunghi anni alternando periodi di saggezza ad altri di attacchi schizofrenici che manifesta frantumando ogni cosa le finisca tra le mani: libri, quadri, mobili e utensili vari. Tratta però sempre con smodato affetto gli oggetti e le fotografie che riguardano Massimiliano, e come tutto ciò che glielo ricorda. La sventurata parla di se stessa in terza persona, persino durante le sue crisi conserva garbo e dignità e quando perde la ragione reagisce immediatamente ad alcune parole magiche che il suo personale sanitario usa sistematicamente: «Signora, fra tutte le Imperatrici che ho conosciuto, voi siete l'unica a fare questo». Spesso la si sente parlare da sola, dicendo frasi come: «Non si preoccupi se si comincia a vaneggiare, signore... sì signore, è vecchia, stupida e pazza... la pazzia rimane viva... signore, voi siete in casa di una pazza».44 Nonostante sia già anziaa, la malata continua ad avere cura di sé, cambia personalmente i suoi vestiti da notte con altri più adeguati, si pettina e si adorna con cappelli e fiocchi abbinati agli abiti, accosta mirabilmente le scarpe ed è molto sensibile agli apprezzamente che vengono fatti alla sua bella immagine. Ricorda con invidiabile precisione date di compleanni e anniversari e tiene appassionate conversazioni in perfetto francese, inglese, tedesco, italiano e spagnolo, a volte con interlocutori immaginari con cui scherza e ride. In questi monologhi, in cui parla di se stessa in terza persona, solo in rarissime occasioni e sempre en passant denigra Massimiliano e il Messico: «Signore, vi avranno già detto che marito ha avuto, un marito Imperatore o re... un gran matrimonio, signore. E dopo la pazzia. La pazzia si costruisce con gli eventi!».45 E per un atroce gioco del destino, questa pazzia sarà la compagna tiranna di un oscuro e interminabile periodo. Vittima dell'alienazione, sopravvive a diverse generazioni, al tramonto del secolo che la vede nascere e alla Prima Guerra Mondiale. Infine, nel 1927, a ottantasette

anni, una polmonite se la porta via per sempre. Nessuno si è sinora mai preoccupato di soddisfare l'ultima volontà di Massimiliano, e i suoi resti riposano ancora a mille chilometri dalla donna che più l'amò. Note 1. Anche denominata «mela del diavolo» o «erba dei pazzi». Il suo nome è Datura stramonium. 2. Contessa H. de Reinach Foussemagne, p. 8. 3. Contessa H. de Reinach Foussemagne, p. 18. 4 Pietro V di Portogallo, che da parte di padre appartiene alla famiglia di Sassonia Coburgo-Gotha, è cugino di secondo grado di Carlotta. Muore a venticinque anni. 5. Lettera della regina Vittoria al re Leopoldo, 19 settembre 1856. 6. Trascrizione del cronista J. S.C.Abbott. 7. Citato da J. Haslip. 8. Contessa H. de Reinach Foussemagne, p. 65. 9. J. L. Blasio, p. 34. 10. Lettera datata 2 gennaio 1861. 11. Carlotta a María Amalia, Miramare, 31 gennaio 1864. Citato da M.Kerckvoorde. 12. Lettera da Vienna, citata da K. Ratz, p. 68. 13. Ibid. p. 77. 14. Ibid. p. 79. 15. K. Ratz, p. 122. 16. Famoso dolce viennese. 17. Lettera di Napoleone, marzo 1864. 18. Testo trascritto da J. S.C.Abbot, p. 671. 19. J. S.C.Abbot, p. 673. 20. Transcrito por F. J. Echalecu y Canino, pp. 13-14. 21. S. Igler. 22. J. S.C.Abbot, p. 673. 23. K. Ratz, p. 223. 24. Contessa H. de Reinach Foussemagne, p. 288. 25. Il conte di Bombelles, che più tardi si approfitterà di Carlotta come fa un avvoltoio sulle carcasse. 26. J. Iturriaga de la Fuente, p. 371. 27. Citato dal marchese Villa Urrutia. 28. Nobile della corte imperiale francese 29. Citato dalla contessa H. de Reinach Foussemagne, pp. 298-299. 30. K. Ratz, p. 319. 31. C. Vento, Les Grandes Dames d’ aujourd’hui, Parigi, 1886, p. 241. 32. Citato dal J. Bierman. 33. E. Herman, p. 25. 34. K. Ratz, pp. 319-321. 35. La contessa H. Reinach Foussemagne cita il testamento scritto da Blasio, p. 323. 36. Lettera datata 1 ottobre 1866, citata da K. Ratz, p. 335. 37. Facsimile riprodotto in M. Kerckvoorde, p. 210. 38. Contessa H. de Reinach Foussemagne, p. 339. 39. Contessa H. de Reinach Foussemagne, p. 339. 40. J. S.C. Abbot, p. 681. 41. Citato dalla contessa H. de Reinach-Foussemagne, p. 357. 42. Ibid., p. 358.

43. Ibid., pp. 360-361. 44. Ibid., pp. 377-380. 45. Ibid., p. 380.

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2006 presso la Tipografia Genesi di Città di Castello (Pg).