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Italian Pages 367 [359] Year 2014
Temi 245
Donatella Di Cesare
Heidegger e gli ebrei I «Quaderni neri»
Bollati Boringhieri
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© 2014 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol isbn 978-88-339-8301-1 Schema grafico della copertina di Pierluigi Cerri Prima edizione digitale: novembre 2014 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata
Indice
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Premessa
Heidegger e gli ebrei 3
1.
Tra politica e filosofia 1. Un affare mediatico, 3 2. Nazista per caso…, 5 3. Dettaglio biografico o nodo filosofico, 6 4. Heidegger antisemita?, 8 5. Il non-detto della questione ebraica, 11 6. I Quaderni neri, 13 7. Reductio ad Hitlerum. Sul processo postumo, 15 8. Una resa dei conti?, 18 9. Tra Derrida e Schürmann. Verso una lettura anarchica, 19 10. Chi addomestica Heidegger, 23 11. La rimozione del nazismo nella filosofia, 25 12. Impegno filosofico e decisione politica, 27
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2.
La filosofia e l’odio per gli ebrei 1. Lutero, Agostino e le «menzogne» degli ebrei, 29 2. La “questione ebraica” nella filosofia, 34 3. Kant e l’«eutanasia dell’ebraismo», 42 4. Hegel e l’Ebreo senza proprietà, 48 5. «Anti-antisemita»? Nietzsche, l’Anticristo e la falsificazione dei valori, 60 6. Menzogna e finzione. Il non-essere dell’Ebreo in Mein Kampf, 76
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3.
La questione dell’Essere e la questione ebraica 1. La notte dell’Essere, 83 2. Di un tono esoterico…, 86 3. Antisemitismo e i dubbi mai fugati, 88 4. Metafore di
indice
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un’assenza, 96 5. L’Ebreo e l’oblio dell’Essere, 98 6. I greci, i tedeschi – e gli ebrei, 101 7. Gli sradicati agenti della modernità, 106 8. Contro gli intellettuali ebrei, 111 9. Geist e ruach. Il «fuoco originario» e l’alito spettrale, 118 10. La macchinazione e il potere, 121 11. La desertificazione della terra, 126 12. L’apocalittica e il «principe di questo mondo», 129 13. La derazzificazione dei popoli, 131 14. Razza o rango?, 135 15. Metafisica del sangue, 140 16. «Il mio “attacco” a Husserl», 146 17. Heidegger, Jünger e la topologia dell’Ebreo, 155 18. Il nemico. Heidegger versus Schmitt, 162 19. Pólemos e guerra totale, 179 20. Weltjudentum. Il complotto mondiale ebraico, 186 21. Il giudeobolscevismo, 194 22. Weltlos – senza mondo. L’Ebreo e la pietra, 203 23. Antisemitismo metafisico, 207 24. L’Ebreo e la «purificazione» dell’Essere, 213 25. «Che ne è del nulla?», 217
221 4.
Dopo Auschwitz 1. Bellum judaicum, 221 2. Abdicare al silenzio, 224 3. «La fabbricazione di cadaveri» e l’indifferenza ontica, 233 4. Il massacro ontologico. Parmenide e Auschwitz, 238 5. «Muoiono? Non muoiono, vengono liquidati …», 242 6. Il dispositivo, la tecnica, il crimine. Sulla responsabilità, 244 7. Se è possibile perdonare un Rav, 248 8. Il cugino Gross e il cugino Klein. Ebrei e somiglianze di famiglia, 251 9. L’oblio dell’ebraico. Il debito occultato, 257 10. Dove si nasconde Paolo, 261 11. Il futuro dell’Essere e il Nome ebraico, 267 12. Un paesaggio pagano, 270 13. L’altro inizio, l’inizio dell’altro. L’anarchia, la nascita, 272 14. Un angelo nella Foresta Nera. Apocalittica e rivoluzione, 275
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Note
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Bibliografia
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Indice dei nomi
Premessa
Nei Quaderni neri Heidegger parla degli ebrei e dell’ebraismo. A chiare lettere scrive che la “questione ebraica” è una questione metafisica. Contro ogni possibile fraintendimento avverte che il tema va affrontato entro la storia dell’Essere. Qual è allora il rapporto tra l’Essere e l’Ebreo? In che modo l’Ebreo minerebbe l’Essere? L’Ebreo è insediato per così dire nel cuore del pensiero di Heidegger, nel centro della questione per eccellenza della filosofia. Ma d’altra parte proprio all’Ebreo viene ascritto l’oblio dell’Essere, la colpa più grave. Molti sono i temi implicati nell’antisemitismo metafisico che, se per un verso coinvolge buona parte della tradizione filosofica, per l’altro rinvia alla responsabilità della filosofia nello sterminio. I Quaderni neri, pubblicati nella primavera del 2014, sono un’opera filosofica dallo stile personale; assomigliano al diario di bordo di un naufrago che attraversa la notte del mondo, rischiarata da profondi sguardi filosofici e potenti visioni escatologiche. Oltre ad aprire una inedita prospettiva sul pensiero di Heidegger, stanno suscitando un nuovo intenso dibattito filosofico, dalla Germania, alla Francia, agli Stati Uniti. Se qualcuno, nel
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premessa
contesto italiano, si è affrettato a tacciare di tenebre Heidegger, chiudendo così il tema del totalitarismo con un gesto altrettanto totalitario, non è mancato chi, dal versante opposto, lo ha subito assolto liquidando immediatamente la “questione”. Entrambi i gesti, del tutto inadeguati, anche rispetto alla gravità dei temi che vorrebbero rimuovere, sono profondamente antifilosofici. Questo libro, che ha evitato di essere una ennesima storia criminale della filosofia, non intende servire nessuna causa. Si muove perciò su un crinale molto stretto che, non di rado, si spalanca sugli abissi della storia più recente. L’intento è quello di sollevare gli interrogativi filosofi, politici, teologici, in tutta la loro gravità. Desidero ringraziare l’editore Vittorio Klostermann che mi ha permesso di leggere i tre volumi prima che fossero pubblicati. Con Giacomo Marramao ho avuto modo di discutere sin dall’inizio le pagine di Heidegger. Un ringraziamento particolare va a Michele Luzzatto che ha sostenuto questo progetto e ne ha seguito tutte le fasi con i suoi preziosi suggerimenti.
Heidegger e gli ebrei
1. Tra politica e filosofia
Il pentimento non è una virtù.1
Non aspettatevi né rinnegamento né pentimento. […] È ora di ammettermi quale fui, filosofo, e nazista finché vi aggrada, ma filosofo.2
1. Un affare mediatico Non è mai avvenuto che un filosofo suscitasse tanto scalpore post mortem. Da quando, già nel 1945, l’“affare Heidegger” – l’affaire, come dicono i francesi – è stato sollevato, si è imposto all’opinione pubblica attraverso fasi alterne, ma con una risonanza che non è mai venuta meno e che, anzi, si è estesa e intensificata negli ultimi tempi.3 La notizia delle recenti rivelazioni è rimbalzata sui giornali e i media di tutto il mondo. E ha trovato spazio perfino nel “New York Times”.4 Il pensiero più elevato si è prestato all’orrore più abissale. Non è difficile comprendere lo scandalo. La grandezza del filosofo e la meschinità del nazista costituiscono un’antinomia stravagante, un paradosso inaccettabile. Heidegger è come un Giano bifronte che esibisce inquietantemente i due volti, quello encomiabile e quello ignobile. Per sottrarsi a questa visione dissociante e angosciosa, l’alternativa, suggerita anche dall’urgenza della pressione mediatica, sembra chiara e netta: se è stato un grande filosofo, allora non è stato nazista; se è stato nazista, allora non è stato un grande filosofo. Mentre richiedono una risposta sommaria e definitiva, una chiusura del caso, sono, però, proprio i media a ria-
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prirlo ogni volta, rendendolo sensazionale attraverso il potere di pubblicare quel che era nascosto e ignorato. Nel corso degli anni il caso filosofico è divenuto così un affare mediatico. Attento al tema complesso del giornalismo, Heidegger ha riflettuto sulla «risonanza». Quanto più l’informazione si cela dietro l’apparente obiettività, semplifica eliminando difficoltà e problemi, rende superflua e innocua la domanda, tanto più aumenta il bisogno dell’esperienza vissuta, il desiderio spasmodico di accedere a quel che, rimasto misterioso sullo sfondo, eccita, emoziona, inebria, fa sensazione.5 Come questo desiderio non conosce imbarazzo o pudore, così non conosce limite il dispositivo che rende pubblico l’accesso, in una vertigine senza fine. Heidegger avvertiva che il suo pensiero era minacciato da quella incapacità di preservare la domanda. In una lettera indirizzata a Hannah Arendt il 12 aprile 1950 scriveva: Forse il giornalismo planetario è il primo spasimo di questa desertificazione incipiente di tutti gli inizi e della loro trasmissione. Allora pessimismo? Allora disperazione? No! Piuttosto dobbiamo meditare in che senso la storia, rappresentata solo in forma storiografica, non determini necessariamente l’essenza dell’essere umano, dobbiamo pensare che durata e lunghezza non sono misure essenziali, che un mezzo istante può essere più “essente” della repentinità, che l’uomo deve prepararsi a questo “Essere” e apprendere un’altra memoria, che con tutto ciò ha davanti a sé qualcosa di supremo, che il destino degli ebrei e dei tedeschi ha la sua verità a cui il nostro calcolo storiografico non giunge.6
Non era certo il giornalismo a essere per Heidegger una minaccia. Più volte ha lodato la stampa che sa «porsi in ascolto» di quel che va oltre la mera attualità.7 Non ha forse affidato allo «Spiegel» la sua ultima intervista, quasi un testamento filosofico? Piuttosto intuiva che il suo caso sarebbe divenuto un affare del «giornalismo planetario» e temeva che l’urgenza mediatica ne avrebbe precipitato la chiusura, rimuovendo l’urgenza del pensiero, cancellando ogni domanda ulteriore.
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2. Nazista per caso… Malgrado il susseguirsi di nuove rivelazioni, la scoperta di lettere e documenti, il lento riemergere, dal lascito di Heidegger, di testi inediti e corsi universitari, malgrado il lavoro pionieristico di Hugo Ott e i libri provocatori di Victor Farías, nel 1987, e di Emmanuel Faye, nel 2005, si è mantenuta negli anni una versione ufficiale che, solo di tanto in tanto, ha subito qualche ritocco.8 Vale la pena riassumerla brevemente. In una vita senza biografia, come dovrebbe essere quella di ogni filosofo, secondo la formula ideale «nacque, lavorò e morì», con cui Heidegger, nel 1924, aveva suggellato l’esemplare vita di Aristotele, la sua innegabile adesione al nazismo non fu altro che un «intermezzo politico».9 Spinto dalle circostanze, più che da una convinzione profonda, Heidegger assunse la carica di rettore il 21 aprile del 1933, e il primo maggio si iscrisse all’nsdap, il partito nazista, con l’intento preciso di salvaguardare la libertà accademica dalle intrusioni politiche. Il suo impegno non sortì alcun effetto, sia per le divergenze, sempre più stridenti, con i vertici del partito, sia per quella ingenuità con cui il filosofo aveva preteso di divenire la guida spirituale del movimento, di guidare lo stesso Führer.10 La sconfitta fu clamorosa e il «fallimento» – come Heidegger ricorda in una lettera a Karl Jaspers del 1935 – dovette pesare a lungo sul suo stato d’animo.11 Di quell’errore politico non gli restò che prendere atto; le sue dimissioni furono accolte il 27 aprile 1934. Nel complesso si trattò solo di un anno – un periodo circoscritto, una parentesi scabrosa della sua vita, un incidente di percorso, un nazismo accidentale. E dopo? L’immagine di Heidegger, che la versione ufficiale ha diffuso, è quella del filosofo in esilio, isolato a Todtnauberg, nel suo rifugio della Foresta Nera, chino
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sui manoscritti delle sue lezioni, immerso nel silenzio suggestivo del bosco, lontano dai clamori della scena politica, alla ricerca, lungo i fiumi di Hölderlin, di un altro destino per la Germania. Il tempo della Kehre, della «svolta», avrebbe coinciso con una distanza sempre più marcata dal nazismo e dalle sue tragiche vicende. Al punto da far parlare di opposizione intellettuale o di resistenza interna. Sospetto ai nazisti prima, inviso alle forze di occupazione poi, Heidegger dovette subire ostilità e umiliazioni pagando così a caro prezzo quel suo errore fatale. Sottoposto, nel 1945, al giudizio della Commissione di epurazione, fu interdetto dall’insegnamento nel 1946. Decisivo fu il parere di Jaspers.12 Nell’inverno del 1945-1946 Heidegger precipitò in una profonda crisi e venne ricoverato in una clinica a Badenweiler; si riprese grazie al lavoro e ai nuovi progetti. Qualche anno dopo, il 26 settembre 1951, fu reintegrato nell’università, senza che gli venisse, però, restituita la cattedra. Con tale atto di riabilitazione si chiuse formalmente il capitolo “Heidegger e il nazismo”. Questa versione lascia aperti molti interrogativi. Perché Heidegger restò iscritto al partito nazista fino al 1945? Perché non condannò mai quell’errore, se un errore era stato? Perché non prese mai distanza dal passato? E che dire poi del suo ostentato silenzio, un silenzio muto e impenetrabile, contro cui si sono infrante domande e congetture di poeti e filosofi, da Paul Celan a Jacques Derrida?
3. Dettaglio biografico o nodo filosofico Se il nazismo di Heidegger è stato un errore, limitato alla politica, contenuto entro un periodo molto breve, allora può essere facilmente derubricato a vicenda storica di poco rilievo. Non sarebbe, anzi, che un dettaglio
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biografico. Ecco perché di solito, se non passa sotto silenzio, viene trattato in modo sbrigativo nelle pagine dedicate alla vita. Il dettaglio non riguarda la filosofia. Che cosa c’entra il rettorato con il superamento della metafisica? Di qui il fastidio dei filosofi, non tanto per il clamore che il caso ha suscitato nei media, quanto per l’enorme quantità di pamphlet e scritti polemici che, accanendosi su quel particolare, hanno dato luogo a un dibattito acceso, talvolta virulento, eppure quasi sempre piatto e superficiale. L’affastellamento di dati e documenti, fatti e misfatti, piuttosto che chiarire il caso, lo ha semmai reso ancor più oscuro. La discussione, nella sua evidente mediocrità, si è prolungata, tra fasi alterne, restando quasi immutata. Perché anche gli esperti accusatori, spesso inconsapevolmente, riducono il nazismo di Heidegger a un vissuto storico. Così finiscono per avvalorare la versione ufficiale. Non è un caso che i loro contributi siano in genere privi di spessore filosofico. Ma chi è concentrato sulla storia dell’essere, sul linguaggio poetico, sul nuovo inizio, non è interessato – perché dovrebbe? – a difetti, bassezze, contraddizioni, meschinità del personaggio. La miseria del filosofo non è la miseria della filosofia. Verrebbe da dire che hanno ragione gli analitici quando, non senza sforzo, tengono separate vita e filosofia. Il problema si è posto di recente con la pubblicazione di lettere, diari e testi inediti di Ludwig Wittgenstein. Che uso è lecito farne? In che modo la biografia di un filosofo può essere importante per il suo pensiero? In nessun modo – rispondono gli analitici.13 Eppure è lo stesso Wittgenstein a scrivere: «Il lavoro filosofico è […] un lavoro su se stessi. Sul proprio modo di vedere le cose».14 Questa domanda, per i continentali già molto antica, è emersa nel delicato caso di Gottlob Frege, il fondatore della filosofia analitica. Simpatizzante dell’estrema destra, Frege auspicava un «Terzo Regno» della logica.15 Il 30
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aprile 1924 annotava nel suo diario: «si potrà riconoscere che ci sono ebrei rispettabili e nondimeno si dovrà considerare una sciagura che ci siano così tanti ebrei in Germania e che abbiano gli stessi diritti dei cittadini di origine ariana».16 Qualche giorno prima, il 22 aprile, confessava: «solo negli ultimi tempi ho compreso l’importanza dell’antisemitismo»; apprezzando l’eventualità di tempestive «leggi contro gli ebrei», ammoniva a non dimenticare l’imposizione di un «segno» grazie a cui «poter riconoscere un ebreo». Vedeva, anzi, qui una «difficoltà» effettiva.17 I curatori delle sue opere hanno provveduto a escludere il diario con l’intento, se non di occultarlo, almeno di ridimensionarne la portata. Certo, per leggere un trattato di logica non è necessario occuparsi dell’antisemitismo dell’autore, sebbene in Frege sussista più di un nesso tra il Reich logico, quello teologico e quello politico. Ma la filosofia non si riduce alla logica né si identifica con la scienza; una separazione tra vita e pensiero è perciò astratta e artificiale. Questo vale tanto più per Heidegger, vicino al modello di Friedrich Nietzsche, il quale, com’è noto, rivendicava la filosofia come espressione della propria individualità. Nel sottolineare la differenza tra filosofia e scienza, Heidegger osserva: «il punto di partenza della via che porta alla filosofia è l’esperienza effettiva della vita»; ma «la filosofia conduce a sua volta oltre» ripercuotendosi sulla vita.18 Se è così, se una scelta compiuta nella vita è al contempo anche un atto filosofico, l’impegno politico non è un incidente riducibile al vissuto storico e, dietro al dettaglio apparente, si cela forse un nodo filosofico.
4. Heidegger antisemita? Qualsiasi cosa si pretenda di dire sul nazismo di Heidegger – così si legge in una pubblicazione recente – non
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si troverà in tutta la sua opera «una sola frase antisemita».19 L’assenza di prove al riguardo ha contribuito a rafforzare la versione ufficiale. Se non è stato antisemita, difficilmente Heidegger sarà stato nazista. L’errore politico appare ridotto, l’adesione scivola in secondo piano. Heidegger antisemita? No, non lo era. Questa è stata a lungo la risposta prevalente. È vero che l’odio per gli ebrei, che i nazionalsocialisti non tardarono a manifestare, non lo indusse a prendere le distanze da quel movimento; tuttavia la sua posizione non può essere paragonata a quella degli ideologi della razza. Ne sono stati convinti studiosi autorevoli come Bernd Martin e Rüdiger Safranski.20 Ma la convinzione era diffusa persino fra i suoi allievi ebrei, i «figli di Heidegger», come li ha chiamati Richard Wolin con un certo sarcasmo.21 Karl Löwith, Hans Jonas, Hannah Arendt, Herbert Marcuse: nessuna insinuazione contro il maestro da parte loro, che altrimenti non gli hanno lesinato critiche e rimproveri. Eppure la loro testimonianza avrebbe potuto essere determinante. Rispetto all’accusa più grave, quella di antisemitismo, che renderebbe ben più motivato l’entusiasmo per il movimento nazionalsocialista, rischiando però di mettere a repentaglio la sua opera, vengono fatti valere due argomenti. Il primo è di ordine biografico, e fa leva sui rapporti personali, le amicizie, le relazioni d’amore. Come spiegare l’attrazione magnetica che Heidegger esercitava a Marburgo prima, e a Friburgo poi, su tanti giovani ebrei? E l’aiuto prestato ai colleghi? Viene di solito ricordato il nome di Werner Brock che, grazie al suo intervento, riuscì a ottenere una borsa di studio per Cambridge. Per non parlare delle relazioni d’amore: con Hannah Arendt, Elisabeth Blochmann, Mascha Laléko. Come andrebbero insieme odio e amore? E Jonas conferma: «No – sul piano personale Heidegger non era un antisemita», Nein – Heidegger war kein persönlicher Antisemit.22
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Il secondo argomento sottolinea la lontananza di Heidegger dal «folle sistema ideologico» dei razzisti. Il suo nazionalsocialismo era «decisionista» – scrive Safranski. «Per Heidegger non era determinante la provenienza, quanto la decisione. Nella sua terminologia questo vuol dire che l’uomo non deve essere giudicato sulla base della “gettatezza”, ma del suo “progetto”».23 Nella costruzione di un «nuovo mondo spirituale» non intendeva «escludere» gli altri. Nessuna contiguità, dunque, con l’antisemitismo rozzo e grossolano. E tanto meno con l’antisemitismo «spirituale», che credeva di scorgere uno «spirito ebraico» da cui occorreva difendersi.24 Tutt’al più una certa propensione, solo accademica, a condividere l’«antisemitismo concorrenziale» di coloro che guardavano con preoccupazione al peso schiacciante degli ebrei nelle università e parlavano del pericolo di una Verjüdung, di una giudaizzazione.25 Queste due strategie difensive vengono perseguite anche da Holger Zaborowski in un saggio che, se per un verso ricostruisce l’intero dibattito, per l’altro prende in considerazione i nuovi materiali venuti alla luce. Attraverso un’indagine storica, incentrata su documenti, lettere, testimonianze, Zaborowski mira sia a riabilitare il comportamento di Heidegger verso gli ebrei sia, soprattutto, a tutelarne il pensiero da ogni imputazione. Ammette una certa ambivalenza. Ma precisa che nelle sue opere filosofiche non vi è traccia di «un antisemitismo sistematico».26 Né si può parlare di «momenti» o fasi. Non senza forzature e ardui equilibrismi, vengono smantellate le poche prove a carico, tacitate le dicerie, dissipati i sospetti e i dubbi. Nessun antisemitismo, dunque, né aperto né latente, né personale né filosofico. Solo un paio di osservazioni, contenute nella corrispondenza con la moglie Elfride, riconducibili a quell’«antiebraismo universitario» che faceva parte dello spirito del tempo.27 In mancanza di altri testi, la tesi conclusiva è che l’antisemitismo resti lontano dal suo pensiero.
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Se questa tesi ha prevalso finora è per la difficoltà di tenere insieme l’immagine del filosofo, che guarda alla questione dell’essere aspirando all’autenticità, e l’immagine del comune antisemita che con il suo gesto politico rientra nell’anonimo man, nella medietà del «si», tanto deprecato in Essere e tempo, quel man nazista a cui in milioni andavano conformandosi.28 Tra le voci dissonanti si distingue quella di Jeanne Hersch che, in un saggio del 1988, ricordando fra l’altro il periodo di studio trascorso a Friburgo negli anni trenta, scrive: «Heidegger non è stato antisemita, come non lo sono di solito molti non-ebrei che, tuttavia, non sono neppure anti-antisemiti». E, a proposito della impossibilità di ridurre il filosofo al man nazista, si chiede se non esistano «nella filosofia di Heidegger o, se si preferisce, nello Heidegger filosofo, dei punti a cui ancorare la sua adesione al nazionalsocialismo, tali da compensare, ai suoi occhi, certi disaccordi, certe ripugnanze e, soprattutto, da infondergli la speranza in un avvenire profetico».29 5. Il non-detto della questione ebraica Un nuovo capitolo si è aperto di recente nel “caso Heidegger”. Difficilmente si potrà dire «nulla di nuovo». Si tratta infatti del capitolo decisivo, sia perché dovrebbe decidere una controversia aperta da tempo, sia perché riguarda il carattere della decisione assunta da Heidegger negli anni trenta. Gli Schwarze Hefte, i Quaderni neri curati da Peter Trawny e pubblicati dall’editore Klostermann nel 2014, contengono quel non-detto che molti supponevano, o speravano, fosse anche un non-pensato. Nell’ultima pagina del quaderno intitolato Riflessioni XIV, all’indomani dell’offensiva tedesca a est, annunciata da Hitler il 22 giugno 1941, Heidegger annota:
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La questione riguardante il ruolo dell’ebraismo mondiale [Weltjudentum] non è una questione razziale [rassisch], bensì è la questione metafisica [metaphysisch] su quella specie di umanità che, essendo per eccellenza svincolata, potrà fare dello sradicamento di ogni ente dall’essere il proprio “compito” nella storia del mondo.30
Più volte, e in diversi contesti, Heidegger parla nei Quaderni neri degli ebrei, dell’ebraismo e della “questione ebraica”. A chiare lettere scrive che è una questione non «razziale», bensì «metafisica». Contro ogni possibile fraintendimento avverte che il tema dell’ebraismo va affrontato entro la storia dell’Essere. Qual è il rapporto tra l’Essere e gli ebrei? In che modo gli ebrei minano l’Essere e la sua storia? Che nesso sussiste tra la Seinsfrage, la questione per eccellenza della filosofia, e Judenfrage, la questione ebraica? Ecco dunque la novità dei Quaderni neri. L’antisemitismo ha un rilievo filosofico e si inscrive nella storia dell’Essere. Non è un dettaglio biografico, che possa essere messo da parte, accantonato, dimenticato; perché ne va dell’oblio dell’Essere. Il lavoro d’archivio lascia il posto alla testimonianza, la ricerca meticolosa delle prove, piccole o grandi, del coinvolgimento, la ricostruzione dell’epoca, l’indagine sull’università tedesca, passano in secondo piano, perdendo gran parte del loro significato, di fronte alle riflessioni del filosofo che parla in prima persona. Il “caso Heidegger” non può più essere considerato una vecchia diatriba storica. Si impone, invece, come questione filosofica che chiama direttamente in causa i filosofi e la filosofia. L’adesione di Heidegger al nazionalsocialismo assume contorni ben più netti, perché si fonda su un antisemitismo metafisico. La radicalità di questo antisemitismo getta nuova luce sull’impegno del 1933 che non è stato né un incidente né un errore. Piuttosto è stato l’esito di una scelta politica coerente con il suo pensiero. E di una coerenza esemplare appare anche il suo silenzio successivo.
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L’antisemitismo non è infatti un di più ideologico, ma è il cardine del nazionalsocialismo. Cade così anche quella differenza che segnava ancora per molti la distanza di Heidegger ad esempio da Carl Schmitt o da Ernst Jünger. Si volta pagina e si apre un nuovo capitolo in cui devono essere sollevate domande che fin qui sono state in gran parte aggirate. La prima, la più urgente, è la domanda sulla Shoah nella storia della metafisica occidentale.
6. I «Quaderni neri» A metà degli anni settanta sono stati depositati nel Deutsches Literaturarchiv di Marbach am Neckar 34 quaderni, rilegati con una tela cerata nera. In quell’occasione Heidegger ha espresso il desiderio che i quaderni fossero pubblicati al termine delle sue opere complete. Fino a quel momento – come riferisce il figlio Hermann – avrebbero dovuto restare segreti, «chiusi a doppia mandata». Nessuno avrebbe dovuto né leggerli né, anzi, averne cognizione. La volontà di Heidegger è stata solo in parte disattesa. Il prolungarsi dell’edizione delle altre opere ha spinto l’amministratore del suo lascito ad anticipare l’uscita degli Schwarze Hefte. I quaderni comprendono un periodo di quasi quarant’anni che va, all’incirca, dal 1930 al 1970. Sono divisi così: quattordici quaderni si intitolano Überlegungen (Riflessioni), nove Anmerkungen (Note), due Vier Hefte (Quattro quaderni), due Vigiliae, uno Notturno, due Winke (Cenni), quattro Vorläufiges (Provvisorio). Sono stati inoltre trovati altri due quaderni, Megiston e Grundworte (Parole fondamentali) dei quali non è certa l’appartenenza all’opera complessiva. Tutti i quaderni sono classificati con numeri romani. Manca a tutt’oggi il primo quaderno Überlegungen I, che risale al 1930. Non è
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detto, però, che non siano andate perdute anche altre parti. Le Überlegungen XV, scritte nel 1941, si interrompono bruscamente e non sono corredate di un indice analitico, che Heidegger ha invece inserito alla fine di ogni quaderno. Nei prossimi anni è prevista, dunque, l’uscita di tutti gli Schwarze Hefte che, all’interno delle opere complete, comprenderanno i volumi dal 94 al 102. Nella primavera del 2014 è già stata portata a termine la pubblicazione delle Überlegungen (II-XV), i tre volumi 94-96, a cui dovrà seguire il volume 97 per concludere la parte che giunge fino al 1945. Sulla prima pagina delle Überlegungen II compare la data «ottobre 1931». Nel Vorläufiges III Heidegger ha annotato «Le Thor 1969». Questo vuol dire – osserva Trawny – che il Vorläufiges IV deve essere stato scritto all’inizio degli anni settanta.31 Tuttavia la scansione numerica non indica necessariamente una linearità. Si deve presumere che, in alcuni periodi, Heidegger abbia lavorato contemporaneamente a più quaderni. Dato che le correzioni sono poche, e che talvolta le note sono molto lunghe, è probabile che esistessero dei lavori preliminari di cui, però, non resta traccia. Gli Schwarze Hefte non sono né annotazioni private né, tanto meno, diari; sia per lo stile, sia per i contenuti, sia, infine, nell’intenzione dell’autore, sono scritti filosofici. Ma perché Heidegger ha voluto pubblicarli al termine dell’edizione delle opere? I Quaderni neri sono il suo testamento filosofico? Che ruolo rivestono nella sua produzione? Perché ne aveva previsto l’uscita dopo quei trattati inediti sulla storia dell’Essere, testi già così esoterici? Un alone di mistero avvolge i Quaderni neri. Avrebbero dovuto essere la parola dell’éschaton, non l’ultima, ma quella estrema, pronunciata al bordo finale, sull’abisso del silenzio. Di qui la posizione singolare di questo manoscritto a cui i trattati inediti rinviano ma che, per il suo
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carattere, non può né deve essere centrale. La peculiare eccentricità si manifesta nello stile personale, che porta l’impronta dell’autore. Heidegger parla in prima persona, senza troppe reticenze, con una cruda libertà, l’occhio teso al futuro. Come se si rivolgesse a nuovi interlocutori che, grazie alla distanza della storia, potrebbero forse intendere in modo differente quell’epoca buia dell’Europa. Quanto a lui, non si limita a testimoniare, ma scruta e decifra dal suo «avamposto» che è insieme anche un «posto di retroguardia».32 Come non pensare a Nietzsche? Ma è lo stesso Heidegger ad avvertire che le sue riflessioni non sono aforismi o massime di saggezza. Piuttosto sono Versuche – è la parola che compare in una nota degli anni settanta, scelta dal curatore come esergo – tentativi di «nominare», né enunciati né appunti per un sistema.33 Seguono il filo della domanda, si dispiegano assecondando quell’interrogare che è insieme contenuto e forma, tema e stile dei quaderni. Sotto questo aspetto non trovano un termine di paragone nell’opera di Heidegger e rappresentano un unicum nella letteratura filosofica del Novecento. I Quaderni neri assomigliano al diario di bordo di un naufrago che attraversa la notte del mondo. A guidarlo è la luce lontana di un nuovo inizio. Il paesaggio, oscuro e tragico, è rischiarato da profondi sguardi filosofici e potenti visioni escatologiche.
7. «Reductio ad Hitlerum». Sul processo postumo Ben poche domande, ma molti giudizi sommari, verdetti apodittici, asserzioni lapidarie fomentano il processo postumo a Heidegger che, tra sentenze di primo grado, appelli e revisioni, è entrato prepotentemente nel ventunesimo secolo. La pubblicazione dei Quaderni neri ha riaperto, soprattutto in Francia, un’accesa controversia che, a ben guar-
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dare, non era mai stata chiusa. Lo scenario ha tratti imbarazzanti e caricaturali. Da un canto si ergono i difensori a oltranza che, installati nel culto della personalità, respingono, come François Fédier, ogni accusa e negano ogni prova; dall’altro si accaniscono gli strenui e implacabili procuratori, primo in assoluto Emmanuel Faye, che di questa accusa sembra aver fatto la sua missione di vita. Allievo di Jean Beaufret – che dal 1946 era stato l’interlocutore privilegiato di Heidegger e ne aveva promosso il pensiero nel contesto francese – Fédier aveva già replicato al libro di Farías con un pamphlet, uscito nel 1987, che originariamente avrebbe voluto intitolare Apologia di Heidegger.34 Qualche tempo dopo, per respingere la violenta requisitoria di Faye, che nel 2005 ha accusato Heidegger di aver introdotto il nazismo nella filosofia, Fédier ha riunito intorno a sé un gruppo di studiosi pubblicando, nel 2007, la miscellanea Heidegger, à plus forte raison.35 Non presso i filosofi, ma nella stampa, nei media e nel grande pubblico, la voluminosa opera di Faye ha avuto un successo strepitoso ed è stata salutata come la nuova e definitiva vittoria dei lumi sulle tenebre. Il refrain «Heidegger è nazista» viene ripetuto con solerte costanza quasi a ogni pagina. Prove, testimonianze, documenti vengono presentati, in un intreccio più asfissiante che stringente, per supportare l’accusa e chiedere l’incriminazione; il dossier appare completo e il filosofo, «contaminato» dal nazismo, non sembra sfuggire più alla meritata condanna. Quale? La proscrizione perpetua: la sua opera «non può continuare a figurare nelle biblioteche di filosofia».36 D’altronde, Heidegger non è neppure un «filosofo», e l’autore confessa di essere stato guidato dalla «necessità vitale di veder la filosofia liberarsi della sua opera».37 L’improvvisato inquisitore propone, dunque, che la filosofia proceda al contempo a una scomunica – esiste una scomunica filosofica? – e ammetta la sua definitiva débacle.
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Le semplificazioni di Faye, che talvolta sfiorano l’assurdo – ad esempio quando crede di scorgere una svastica nella figura heideggeriana del Geviert, il “quadruplice” – possono apparire a un primo sguardo convincenti. Ma problematica è proprio l’argomentazione semplificativa che, con una nota formula, introdotta da Leo Strauss all’inizio degli anni cinquanta, si può chiamare una reductio ad Hitlerum. Si tratta di un «procedimento erroneo», una fallacy, e cioè una variante della reductio ad absurdum: si riconduce e si riduce la tesi dell’avversario alla posizione di Hitler, metonimia del male.38 È in relazione a Heidegger, e al suo pensiero, che Strauss ammonisce contro l’uso di una tattica, eticamente riprovevole, che distogliendo dall’argomento, il cui contenuto perde rilievo, punta immediatamente alla condanna. E in effetti l’impressione, anche sulla base dei recenti sviluppi, è che Faye, preso dalla pulsione giustizialista, non prenda molto in considerazione i temi filosofici.39 Importante sembra piuttosto rilanciare la sua accusa che, questa volta, potrebbe essere ancora più grave: l’«introduzione dell’antisemitismo nella filosofia».40 La questione è ermeneutica: Faye prende i grandi testi filosofici come il documento criptato dell’adesione al nazismo e, con il suo zelo esegetico, ne dà una lettura di secondo grado, tanto astuta quanto inconsistente, pervenendo al presunto senso nascosto che, una volta messo allo scoperto, deve essere quello unico, vero, oggettivo. Non sono ovviamente ammesse altre interpretazioni. Ecco perché il suo libro assomiglia al fascicolo di un procuratore. Cartesiano convinto, adepto del “soggetto” e dell’oggettività, Faye lancia i suoi strali contro Jacques Derrida che si sarebbe fatto «ingannare» da Heidegger contribuendo, anzi, con la decostruzione, a diffonderne il veleno.41 Le due posizione estreme, quella di Fédier e quella di Faye, hanno molto in comune e pretendono entrambe di
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imporre l’alternativa del pro o contro in una questione così complessa. Per un verso il filosofo idolatrato, l’idolofilosofo, sembra aver attraversato indenne i pochi mesi del rettorato, uscendo incolume dall’accidente della storia; per altro verso, non solo la sua immagine, ma anche la sua filosofia, tacciata di nazismo, viene criminalizzata ante litteram. Grossolano e inaccettabile è lo schema del processo che sembra tuttavia delinearsi anche fuori dal contesto francese. A che cosa servirebbe processare Heidegger? E a chi? Oppure questa messa in scena non è che un escamotage della filosofia per sottrarsi alla responsabilità di pensare la questione che viene posta?
8. Una resa dei conti? Dato che l’antisemitismo tocca al cuore l’impegno nazista, e rappresenta perciò un punto di non ritorno, i Quaderni neri potrebbero fornire il pretesto per chiudere una volta per tutte con Heidegger. È la speranza, neppure troppo segreta, di vecchi e nuovi procuratori, ma anche di critici liberali, analitici inveterati e benpensanti di ogni sorta. Il successo del libro di Faye ha già decretato la loro rivalsa. D’altronde: non lo avevano forse sempre detto? Non avevano forse denunciato quella filosofia? Ecco dunque arrivato il momento di congedarsi con un “goodbye Heidegger”. Un mediocre revanscismo e una forte pulsione reazionaria alimentano il desiderio spasmodico di screditare il filosofo per bandirlo da ogni paese democratico. È chiaro che l’attacco finale a Heidegger sarebbe anche la resa dei conti con quella filosofia “continentale” che, sebbene venga delimitata attraverso un discutibile aggettivo geopolitico, già da tempo ha trovato asilo, e nuovi esiti, nelle università americane, del nord e del sud,
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e in quelle di altri continenti. Non è una coincidenza che il libro di Faye sia stato pubblicato un anno dopo la scomparsa di Derrida, nel 2004, in un periodo nel quale uscivano di scena molti protagonisti di quel pensiero che si è ispirato direttamente a Heidegger. Nel mirino sono gli indirizzi politicamente più esposti e i filosofi più impegnati. Per ricordarne solo alcuni: Foucault, LacoueLabarthe, Derrida, Agamben. Chi attacca con violenza Heidegger punta non da ultimo a screditare e minare quel capitolo recente della filosofia, tutt’altro che chiuso, che si è dispiegato a partire dal legame intenso tra lavoro concettuale e politica rivoluzionaria. Ma liberarsi di Heidegger significherebbe anche sbarazzarsi dei difficili interrogativi che ha sollevato, tornare al paesaggio della modernità, rischiarato dai lumi, rasserenato dalla fede nel progresso, dalla fiducia illimitata nella scienza. Come se nulla fosse successo. E come se fosse possibile armonizzare quella tarda modernità con l’attuale mondo globalizzato.
9. Tra Derrida e Schürmann. Verso una lettura anarchica Sebbene siano state le posizioni estreme a fare rumore, il dibattito su Heidegger e il nazismo si è sviluppato anche tra i filosofi, spesso tuttavia in forma frammentaria, disorganica, e quindi meno nota. A ben guardare, però, non c’è quasi esponente della filosofia continentale, a partire già dagli allievi diretti di Heidegger, che non si sia pronunciato sul caso. Per avere un quadro d’insieme è opportuno raccogliere sette diverse posizioni, e delinearle a larghi tratti, scegliendo non il criterio della cronologia, bensì quello del contenuto.42 Com’è ovvio, i limiti non sono netti e una posizione può talvolta sconfinare in un’altra. A inaugurare la prima posizione è stata Hannah Arendt che, nel celebre saggio del 1969 Martin Heidegger
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compie ottant’anni, suggerisce un confronto con Platone e con i suoi viaggi a Siracusa. Anche Heidegger «ha ceduto alla tentazione di “intervenire” nel mondo delle faccende umane».43 In tal senso è l’ultimo di una grande successione – «Platone come Heidegger». D’altronde «una certa inclinazione al tirannico è riscontrabile in teoria in quasi tutti i pensatori».44 Non senza indulgenza, Arendt parla di «passo falso» e propone una separazione tra l’individuo e l’opera. Di ritorno da Siracusa? è il titolo di un articolo pubblicato nel 1988 da Hans-Georg Gadamer che, a sua volta, ha difeso il maestro, soffermandosi anche in seguito sull’incompetenza dei filosofi alle prese con la politica.45 Figura «esemplare, ciclopica, indimenticabile», Heidegger fa parte, per Richard Rorty, di quei filosofi «insulsi, o peggio, sadici» quando pretendono di dire la loro sulla politica.46 Rispetto a chi, per motivi diversi, sostiene una separazione tra politica e filosofia, più complessa, per le implicazioni che ne derivano, appare la posizione di quanti invece negano ogni nesso tra la filosofia di Heidegger e il nazionalsocialismo. Il suo impegno, circoscritto al rettorato, sarebbe nato da un fraintendimento, presto venuto meno. In fondo è la tesi dello stesso Heidegger che, poco dopo la sconfitta tedesca del 1945, nella sua autodifesa, pubblicata solo di recente, rinvia a una sua «visione privata del nazionalsocialismo».47 Questa tesi annovera molti più adepti di quanti non si immagini e, con sfumature diverse, trova eco anche in altre posizioni.48 Nel senso indicato da Heidegger, dunque, si può perfino acuire il contrasto e vedere nella sua filosofia una opposizione, una resistenza interna, alla ideologia dei nazisti. È la linea interpretativa seguita da Otto Pöggeler in numerosi saggi.49 Al polo opposto si situa Theodor W. Adorno, per il quale la filosofia di Heidegger è «fascista fin nelle sue cel-
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lule più interne».50 Vano sarebbe ogni tentativo di liberare il filosofo da quel fatale coinvolgimento. Piuttosto occorrerebbe riconoscere che, quando parla il filosofo, parla sempre anche il nazista. È alla fin fine quel che hanno cercato di mostrare, Farías prima, e Faye poi. Paradossalmente, per motivi opposti, questa equiparazione è stata rivendicata anche da Ernst Nolte, per il quale Heidegger avrebbe ritenuto «inevitabile una lotta di difesa dell’Europa, unita attorno alla Germania, contro la squallida follia delle due gigantesche potenze continentali», il bolscevismo e l’americanismo.51 Per chi non è disposto ad ammettere né una piena coincidenza né una completa estraneità tra la filosofia di Heidegger e il nazismo, si moltiplicano i problemi interpretativi che riguardano non solo l’adesione del 1933, ma anche i riflessi sulla sua opera. Proprio in tale contesto si profila nitidamente il posto dei singoli filosofi fra le correnti del pensiero contemporaneo. Ha prevalso a lungo in Germania la posizione di coloro che hanno scorto nel coinvolgimento di Heidegger, e nelle vicende degli anni trenta, il risultato esiziale del congedo dal “soggetto”. Se in Essere e tempo il «sé responsabile» conserva ancora tracce di soggettività, in seguito – scrive Ernst Tugendhat – la «svolta» intesa come «allontanamento radicale dalla filosofia della “soggettività”, avviene a spese del riferimento alla verità e della responsabilità».52 Una critica analoga è quella sviluppata da Jürgen Habermas che, già in un articolo del 1953, Mit Heidegger gegen Heidegger denken, punta l’indice contro il geniale, ma ambiguo rovesciamento della modernità che caratterizza la svolta.53 I primi scritti vengono distinti da quelli del periodo nazista, collocati invece accanto all’opera tarda. «Se in Sein und Zeit Heidegger costituisce la soggettività non diversamente da Husserl», il suo errore emerge più tardi nel «processo alla ragione incentrata sul soggetto».54 Si fa largo così la preoccupazione di salvare
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almeno Essere e tempo, il capolavoro del Novecento, dalle accuse che investono Heidegger e che, soprattutto a partire dagli anni ottanta, minacciano di gettare un’ombra su tutta la filosofia tedesca. In tal modo è andata affermandosi, anche oltreoceano, la legittimità di una lettura selettiva, che consenta, senza troppe cautele, di scegliere alcuni testi piuttosto che altri. Il che avrebbe per di più il pregio di poter aggirare facilmente l’“errore” del coinvolgimento politico. Se questa posizione resta spesso implicita, talvolta viene invece esplicitata. Così George Steiner, sottolineando la indomita contraddittorietà alla base dell’opera di Heidegger, auspica un libero percorso di lettura.55 Contraria è invece l’esigenza fatta valere da quanti, pur con motivazioni diverse, ritengono imprescindibile la connessione interna. Essere e tempo fa tutt’uno con gli scritti successivi e non può essere considerato prescindendo dall’impegno politico. «Non è stato per caso – ha osservato Tom Rockmore – che Heidegger, il filosofo dell’essere, sia diventato Heidegger, il nazista».56 Questo approccio più integrale (o integralista?) si scontra, però, in molte difficoltà, non da ultimo nella scelta del criterio che permetta una lettura unitaria. Luc Ferry e Alain Renaut lo individuano ad esempio nella «critica radicale alla modernità».57 Una settima posizione è quella intorno a cui si raccoglie gran parte della filosofia continentale nelle sue differenti correnti. Senza appianare i tornanti e le vie traverse di Heidegger, si cerca di mantenere il filo di una continuità tra Essere e tempo, gli scritti degli anni trenta e la fase ultima. L’impegno politico non può essere messo tra parentesi perché è strettamente collegato con la sua filosofia. Di più: solo con Heidegger si può comprendere il nazionalsocialismo. È la tesi avanzata da LacoueLabarthe nel 1987.58 Questi filosofi rileggono la Lettera sull’«umanismo» e guardano con crescente interesse al
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saggio La questione della tecnica.59 È tempo di riflettere su «quel che è accaduto» e Lyotard scrive nel 1988 il saggio lungimirante Heidegger e gli “ebrei”.60 Derrida apre una nuova via interpretativa e, nel suo libro Dello spirito, uscito nel 1987, decostruisce la filosofia di Heidegger mostrandone i residui metafisici.61 Al contrario di Habermas, e di quanti nel superamento del soggetto vedono la causa della deriva nazista, Derrida individua nei resti di quel “soggetto” metafisico un limite, una distruzione non portata fino in fondo. Per gli ultimi esponenti della filosofia continentale Heidegger non è stato abbastanza radicale. E con un rovesciamento si prospetta la possibilità di leggerlo a ritroso: cominciare per così dire dalla fine, dall’ultimo Heidegger, per distruggere l’arché, il principio o il miraggio del principio. È la lettura anarchica seguita da Reiner Schürmann. Se si parte da Essere e tempo, si fa dei primi scritti di Heidegger «la cornice in attesa di essere riempita dai suoi discorsi politici con le loro invocazioni ad un capo capace di marciare solo e di ricorrere alla violenza».62 Letto al contrario, Heidegger appare in una luce diversa. «Il dilemma ermeneutico – osserva Schürmann – è qui rilevante». Chi procede dal principio impone un’idealizzata unità. A chi percorre a ritroso la via, la topologia di Heidegger si presenta come ambito del plurale. In luogo di un concetto unitario di fondamento noi abbiamo allora il “quadruplice”; in luogo dell’elogio della “volontà dura”, il distacco; in luogo dell’integrazione dell’università nel servizio civile, la protesta contro la tecnologia e la cibernetica; in luogo di una identificazione pura e semplice tra il Führer e il diritto, l’anarchia.63
10. Chi addomestica Heidegger La pubblicazione dei Quaderni neri ripropone, in forma più acuta, i problemi interpretativi già emersi nel
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passato. I tre volumi risalgono agli anni trenta e all’inizio degli anni quaranta, dunque proprio a quel periodo che si vorrebbe mettere fra parentesi e che invece si espande e si infittisce con l’uscita di nuovi scritti. Certo sarebbe più semplice e rassicurante passare direttamente da Essere e tempo alla Gelassenheit. Il che permetterebbe, fra l’altro, di far ritorno, senza troppi traumi, allo Heidegger della fenomenologia e degli studi sui presocratici e su Aristotele. Mentre si moltiplicano le diverse fasi del suo pensiero – non più solo tre, con la svolta a far da cesura, ma forse quattro – si tenta di spezzare il filo della continuità.64 Il tentativo di frantumare l’opera e di legittimarne un uso parziale è il modo oggi più in voga per addomesticare Heidegger e renderlo un innocuo fenomenologo. La posta in gioco non è più solo Essere e tempo. Dato che l’errore politico, filosoficamente irrilevante, non è circoscritto a un breve testo estemporaneo sull’autonomia dell’università, ma è rivendicato dall’autore in oltre mille pagine, non resta che salvare Heidegger contro lo stesso Heidegger, sminuendo e offuscando non soltanto i Quaderni neri, bensì tutta la produzione di quel periodo. A inquietare è proprio lo Heidegger degli anni trenta. L’addomesticamento non è che un’alternativa, forse più sofisticata, alla scomunica che già da tempo pende sul filosofo. Basta infatti replicare il gesto, già sperimentato, della censura, che a questo punto deve assumere toni eclatanti e definitivi. Se non si può scomunicare Heidegger, proscriverlo dalla filosofia, si può tentare almeno di mettere all’indice i Quaderni neri, bollandoli come opera marginale, al margine della filosofia, stigmatizzandoli, anzi, come anti-filosofia. Ben poco filosofico è però proprio questo gesto censorio. Anzitutto perché non spiega sulla base di quale criterio le pagine dei Quaderni neri – e non ad esempio quelle coeve dell’Introduzione alla metafisica – dovrebbero venire escluse. Non è stato forse Heidegger a
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mostrare che la verità della filosofia si cerca percorrendo vie traverse, finendo anche su sentieri interrotti? Ma quel che è più irritante, nell’addomesticamento, è l’accento moralistico che affiora in giudizi come “rivoltante”, “ridicolo”, “patologico”. Al di là del moralismo, emerge con chiarezza che addomesticare vuol dire qui, alla fin fine, evitare il confronto. Per citare un adagio di Paul Valéry che Heidegger tornava spesso a invocare: «chi non può attaccare il pensiero, attacca il pensatore».65
11. La rimozione del nazismo nella filosofia È facile e sbrigativo definire “patologiche” le riflessioni di Heidegger sulle “patologie politiche” della sua epoca. In tal modo si insinua l’idea che il lavoro ermeneutico si limiterebbe a una diagnosi da affidare a psicoanalisti o, magari, a storici e sociologi. Tanto più che i Quaderni neri sembrano lontani dal territorio della Ragione. Non sono stati scritti durante la grande “follia” del nazismo? La psicoanalisi dovrebbe, però, essere evocata per far luce piuttosto su una autodifesa messa in atto da non pochi filosofi, se non fosse che il tema ha una rilevanza eminentemente filosofica. Parlare di “follia del nazismo” è un modo per respingere quel che è accaduto fuori dalla ragione e fuori dalla storia; ma è al contempo anche un modo per escluderlo dalla filosofia. Da quale posizione extrastorica si potrebbe pronunciare una tale diagnosi? Il nazismo è stato un progetto politico. Di più: è stato non tanto una Weltanschauung ideologica, quanto, a tutti gli effetti, una filosofia. Emmanuel Lévinas lo aveva compreso con chiarezza quando, nel 1935, aveva scritto il suo saggio Filosofia dell’hitlerismo che resta ancora un contributo imprescindibile.66 A parte rare eccezioni, non molti ne hanno seguito le orme.
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Soprattutto in Germania la rimozione, nel contesto della filosofia, è eclatante. Certo non si possono dimenticare la critica di Adorno, che a partire da presupposti marxisti o paramarxisti, ha ridotto il nazismo a fascismo, o l’analisi di Habermas, a sua volta, più impegnato nella denuncia che nel confronto con la dimensione onto-storica del nazionalsocialismo. Chi è dunque oggi a pensare filosoficamente “quel che è accaduto”, e cioè non solo il Terzo Reich, né solo Auschwitz, ma la “questione ebraica” nella filosofia occidentale? La rimozione di questi temi, espunti perché ritenuti, seppur tacitamente, “non filosofici”, appare un fenomeno soprattutto tedesco.67 Anni fa più giustificata, ora meno comprensibile, in ambito accademico questa rimozione trova conferma e supporto da un canto nella forte presenza delle correnti di filosofia analitica e teoria della scienza, notoriamente poco interessate alla storia e a quel che vi accade, dall’altro in una filosofia preoccupata di presentarsi spurgata dalle proprie “colpe” passate e di essere accettata o come solida indagine filologico-filosofica oppure come fenomenologia. Tutto ciò non può non avere riflessi sul confronto critico con Heidegger che si trova perciò da tempo in una empasse. Non è forse lui il maestro della Germania, il pastore dell’Essere? Non incarna lo spirito maligno del nazismo? Perché i filosofi del ventunesimo secolo dovrebbero aver ancora a che fare con quel fantasma? La domanda, però, potrebbe anche essere un’altra, e rovesciare l’ottica abituale. Non si tenta di eludere il confronto, giudicando farneticanti le riflessioni di Heidegger degli anni trenta e quaranta, per non guardare in faccia la Gorgone? Il tentativo di definire filosoficamente irrilevanti i Quaderni neri tradisce un tale rifiuto. Questa pubblicazione, che Heidegger aveva progettato e voluto, dovrebbe essere presa nella dovuta serietà e gravità. Rappresenterebbe forse una occasione per
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osare finalmente quella mossa teorica che sinora non è stata compiuta, per confrontarsi con il nazionalsocialismo e con la versione che Heidegger ne ha dato all’interno della storia dell’Essere.
12. Impegno filosofico e decisione politica Non è allora forse venuto il momento di seguire fin nella sua più radicale profondità un pensiero che si dispiega, sul filo della storia, fedele a un progetto ontologico-destinale che lo spinge a ricercare un nuovo inizio? Il rifiuto è connesso con il tratto tendenzialmente apolitico sia delle correnti analitiche, sia anche della fenomenologia. Ma deriva anche da una strategia interpretativa che, proprio nel caso di Heidegger, si è andata consolidando fino a raggiungere una certa ovvietà. L’immagine del filosofo di ritorno da Siracusa, delineata da Arendt, e ripresa da molti dopo di lei, oltre a suggerire un paragone molto discutibile con Platone (per non parlare dell’accostamento tra Hitler e Dionigi di Siracusa), e a far passare l’adesione al nazismo per un errore politico, ripropone lo stereotipo del filosofo politicamente incompetente.68 I filosofi, insomma, quando si sono messi in testa di realizzare le loro idee, non hanno provocato altro che danni. Questo stereotipo liberal-popolare, che invita a uno sguardo indulgente e bonario, porta con sé un concetto poco edificante sia della filosofia sia della politica, l’una tendenzialmente astratta e rigida, l’altra spicciola e pronta al compromesso. Sotto questo aspetto il sintagma “filosofia politica” appare un ossimoro esplosivo.69 Nel caso di Heidegger ciò ha avuto ripercussioni particolarmente deleterie, perché ha stretto la discussione entro i binari del rapporto tra filosofia e politica finendo per depistarla. L’“errore”, limitato alla prassi politica, è stato avvicinato a quello di tanti altri filosofi. Gli esempi
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non mancano. Che dire infatti di Aristotele, per il quale gli schiavi non erano esseri umani? E di Rousseau che spedì all’orfanotrofio i figli? I loro errori non ne inficiano l’opera e non impediscono di leggere oggi il Politico o l’Emilio. I filosofi possono sbagliare, come tutti gli altri esseri umani. La difficoltà a varcare la soglia, a seguire il pensiero politico di Heidegger nel suo sviluppo, e nel suo errare, non sta, però, nelle sue pagine, bensì in quella certezza diffusa, e condivisa anche nella filosofia, che il liberalismo sia anche l’orizzonte ultimo.70 Se si assume questo punto di vista, allora le riflessioni di Heidegger non possono non apparire che irritanti farneticazioni. In tal modo si depotenzia la sua filosofia nella sua carica rivoluzionaria. I Quaderni neri aprono un nuovo capitolo perché mostrano anzitutto che l’“errore” è stato piuttosto un impegno che, come tale, ha avuto una dimensione politica e filosofica. Se la politica attiva va distinta dalla filosofia concettuale, e se il filosofo può sbagliarsi, là dove cerca di cogliere il reale del suo tempo in concetto, tuttavia il “caso Heidegger” non può essere chiarito, come si è preteso a lungo, entro lo scarto tra politica e filosofia. Il suo impegno filosofico precede ogni decisione politica. È dunque in ambito filosofico che il caso va discusso. La filosofia è chiamata direttamente in causa.
2. La filosofia e l’odio per gli ebrei
… perché l’ebreo, tu lo sai, che cos’ha che gli appartenga veramente, che non sia preso a prestito, preso a prestito e non più restituito.1
1. Lutero, Agostino e le menzogne degli ebrei Il 29 aprile 1946, davanti al tribunale internazionale di Norimberga, aleggiò tra gli imputati lo spettro di Lutero. A chiamarlo in causa fu Julius Streicher, l’editore del foglio nazista «Der Stürmer». Quando il suo avvocato gli chiese se in Germania ci fossero stati altri attacchi della stampa contro gli ebrei, Streicher rispose: «Il dottor Martin Lutero dovrebbe essere oggi al mio posto».2 L’antisemitismo aveva attraversato per secoli la tradizione tedesca e sembrava legittimo risalire a Lutero. Era lui, la voce della protesta contro Roma, il moderno fautore della libertà interiore, il genio plasmatore della lingua, il simbolo stesso dell’identità tedesca, ad aver per primo invocato la distruzione degli ebrei. Dopo l’interesse esploso negli anni venti intorno ai suoi Judenschriften, i suoi scritti contro gli ebrei, il regime nazista non esitò a farne un uso propagandistico. Da Lutero a Hitler la nazione germanica si presentava compatta e unanime nel compimento del proprio destino che, mirando alla costituzione dello stato totale, prevedeva la soluzione drastica e definitiva della questione ebraica.
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Ma in che modo Lutero rilancia gli antichi verdetti cristiani contro gli ebrei? E quale svolta annuncia la sua teologia? Lutero non aveva avuto rapporti diretti con gli ebrei. Ai suoi tempi erano già stati espulsi da tutta la Turingia dopo la peste nera, rei di aver avvelenato i pozzi dei cristiani. Di loro restava solo la traccia di qualche nome e un ricordo alterato. Escluso dal consesso umano, l’ebreo era condannato all’icona animalesca della Judensau, della scrofa, l’immagine scolpita nella chiesa di Wittenberg. Lutero la descrisse traendone perfino ispirazione in uno dei suoi scritti più violenti contro gli ebrei Vom Schem Hamphoras del 1543.3 Eppure l’esegesi biblica lo avevo portato a un rapporto intenso con l’ebraismo e, non da ultimo, con la lingua ebraica. Netto e potente risuonava il suo richiamo alle Scritture che avrebbe contribuito alla rottura drammatica con la Chiesa romana. Ma per Lutero, come per altri riformatori, l’interpretazione non poteva essere limitata alla grammatica ebraica; la lettera doveva essere spiritualizzata alla ricerca dell’annuncio profetico. Dai Salmi ai libri dell’Antico Testamento era quella la via per decifrare il messaggio cristiano nelle lettere ebraiche. Riemergeva così l’antitesi tra carne e spirito che aveva improntato la polarizzazione tra ebrei e cristiani. Nella Riforma l’antitesi si acuiva per il primato conferito alla interiorità e per il disprezzo verso tutto quel che era esteriore, per i riti, le cerimonie, il legalismo. Se il bersaglio immediato dello spirito riformatore erano i cattolici, quello ultimo erano gli ebrei, respinti al limite rovinoso di una mera esteriorità carnale. È questo lo sfondo in cui si compie la svolta teologica di Lutero. A mutare è il modo di guardare agli ebrei nell’escatologia. Pur avendo dato adito a numerosi stereotipi antiebraici, Agostino aveva offerto una possibilità di salvezza a Israele trovando al contempo una risposta al suo mistero, alla persistenza della sinagoga dopo la chiesa.
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Macchiatisi del delitto peggiore, il deicidio, gli ebrei erano stati preservati, secondo Agostino, per testimoniare a eretici e pagani la verità storica del cristianesimo. Ciechi dinanzi alla verità, si sarebbero convertiti nei giorni ultimi. Perciò avrebbero dovuto essere protetti in quell’attesa apocalittica della conversione «in fine mundi».4 Per Lutero la colpa degli ebrei non è circoscritta alla crocifissione, bensì è perenne e indelebile. Testimonianze viventi del Gesù storico, in cui nondimeno rifiutano di riconoscere il Cristo dei cristiani, gli ebrei ripetono ostinatamente il loro errore paradossale. La loro empietà non lascia speranza alla conversione finale. Lutero ne cancella la presenza al termine dei giorni. Popolo di Dio secondo la carne, gli ebrei devono essere sostituiti dal popolo di Dio secondo lo spirito. Né può esserci clemenza. Perché sono i veri nemici di quella “Chiesa spirituale” che Lutero intende edificare. Su di loro si esercita la vendetta di Dio. L’ansia millenaristica che scuoteva l’Europa cristiana in quegli anni, immediatamente successivi alla scoperta del nuovo continente, aveva diffuso la convinzione che si stessero già vivendo i tempi della fine. L’unificazione religiosa del mondo sembrava imminente. I popoli delle lontane terre d’Occidente accoglievano l’uno dopo l’altro il Vangelo.5 Un’impazienza nuova investiva gli ebrei, la cui ostinatezza appariva uno scandalo, ma la cui conversione sarebbe stata il segno indubitabile della fine dei tempi. Occorreva distruggerne i libri? Bruciarne il Talmud? Seguire il modello spagnolo dell’alternativa implacabile tra battesimo forzato o esilio? L’atteggiamento di Lutero era stato ambivalente. Non condivideva i metodi violenti di conversione. Nel 1523 aveva dato alle stampe lo scritto Gesù Cristo era nato ebreo, pervaso dall’anelito del ritorno al Vangelo. Sperava che gli ebrei a loro volta seguissero quel cammino
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unendosi ai cristiani che avevano scelto di recuperare la dottrina autentica della Scrittura. Tanto più amara fu la delusione. E l’amarezza improntò negli ultimi anni la sua “teologia della croce”. La Riforma aveva avuto effetti sorprendenti. Non solo gli ebrei non si erano convertiti, ma l’incrinatura nel mondo cristiano e la riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo attestavano piuttosto un successo dell’ebraismo. Al punto che l’attesa ebraica del Messia sembrò scardinare l’apocalisse cristiana e dar vita a progetti terreni di emancipazione politica. In Moravia la setta dei sabbatari decise di togliere la domenica ripristinando il sabato ebraico. L’ira di Lutero trova allora sfogo soprattutto nel pamphlet Degli ebrei e delle loro menzogne del 1543. Una violenza estrema ispira accuse e invettive, instilla odio e sospetti, detta ingiurie e insulti, suggerisce persino misure concrete per liberarsi una volta per tutte di quel popolo «dannato». Gli ebrei sono i nemici interni, animati da un odio inestinguibile, «pieni di arroganza, invidia, usura, avarizia e ogni malvagità», «ciechi» e «consegnati all’ira divina», «cani sanguinari e assassini dell’intera cristianità», «caparbi, ostinati», «falsi, bastardi e stranieri», «mendaci, blasfemi». Dal loro Messia si aspettano che «assassini e uccida tutto il mondo con la sua spada». Sebbene siano stati «scacciati, distrutti, reietti fino alla rovina, sperano ancora di tornare alla loro terra»; eppure «vivono presso di noi, sotto la nostra difesa e protezione, usano terra e vie, mercati e strade». Ma «come esuli non dovrebbero avere proprio nulla, e dunque ciò che hanno deve di certo essere nostro».6 L’ebreo non è un Deutscher ma un Teutscher, non un «tedesco», ma un «impostore», non un Welscher, ma un Felscher, non uno «straniero» ma un «falsario», non un Bürger, ma un Würger, non un «cittadino» ma uno «strozzino».7
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L’accusa della menzogna, che avrebbe avuto molteplici sviluppi, non è tuttavia immediatamente chiara. In che senso gli ebrei mentirebbero? E perché? La risposta va cercata nell’ermeneutica e nel principio luterano del sola Scriptura. Null’altro è richiesto, nella lettura della Bibbia, che la Bibbia stessa. Gli ebrei invece «falsificano» la Scrittura con le loro «glosse inventate»; il loro interpretare è un «distorcere». Dinanzi a ogni passo non fanno che «violentarlo, lacerarlo, crocifiggerlo». La loro esegesi sarebbe dunque una crocifissione che si rinnova, dando luogo a sensi differenti, «in modo da non arrivare mai a una interpretazione definita».8 La menzogna ebraica è per Lutero, dunque, la lettura della Torà, tenuta infinitamente aperta dalla domanda talmudica. A questa ermeneutica, che si sottrae alla chiusura, oppone la sua verità fondata su un senso unico e inappellabile ricavato da un corpo a corpo con la lettera. Così ritiene di smascherare le imposture degli ebrei, le loro «bugie» tanto più «empie» e «vergognose», perché «smentite» dalla Scrittura stessa. La più grave è l’elezione, cioè il «vanto» di «essere nati dalla stirpe [Stamm] più elevata della terra».9 Dall’esegesi, dal modo di interpretare i testi, l’accusa della menzogna si estende e investe anche i contenuti. Il «vanto» degli ebrei va respinto, perché in Genesi è detto «tu sei fango e terra», il che significa che tutti sono uguali e «non c’è differenza alcuna di nascita, o di carne e di sangue».10 In questo fraintendimento dell’elezione di Israele, deliberato o involontario, è contenuta in nuce la colpa che al popolo ebraico sarà imputata qualche secolo più tardi: quella di aver introdotto il principio della razza. È nella critica alla «particolarità» ebraica che si compie, quasi inosservato, il passaggio dall’antigiudaismo, di ordine più prettamente teologico, all’antisemitismo. Lutero apre un baratro tra jehudim e gojim, tra ebrei e gentili, che non sarà più colmato nella tradizione tedesca.
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L’impossibilità di convertire il popolo ebraico si coniuga con un pessimismo radicale che nel governo del mondo lascia spazio alla violenza del potere. Ecco allora le misure concrete: «in primo luogo bisogna dare fuoco alle loro sinagoghe o scuole; e ciò che non vuole bruciare deve essere ricoperto di terra e sepolto».11 E occorre: «distruggere e smantellare anche le loro case; […] portar via loro tutti i libri di preghiere e i testi talmudici; […] abolire per gli ebrei il salvacondotto per le strade».12 Non stupisce che questi «consigli» siano stati presi alla lettera durante il nazismo e che proprio richiamandosi a Lutero sia stato imposto agli ebrei lo Judenstern, la stella del riconoscimento.13
2. La “questione ebraica” nella filosofia È passata per lo più sotto silenzio l’ostilità di molti filosofi verso gli ebrei. Si tratta di un capitolo oscuro e inquietante che solo negli ultimi anni ha cominciato a trovare la dovuta attenzione. Ciò è stato anche l’esito delle più recenti riflessioni sulla Shoah. Sebbene resti ancora salda la convinzione che pensare non sia agire, è stata sollevata la domanda sulla legittimità che i filosofi, talvolta loro malgrado, hanno offerto alla soluzione finale della “questione ebraica”. La domanda mira a superare il tabù che la ragione filosofica non possa aver concepito la barbarie e, facendo emergere la continuità tra le pagine di alcune famose opere di filosofia e quelle di chi ne ha tratto le conseguenze per la soluzione finale, tenta di leggere il nazismo entro le vicende del pensiero umano, lo reinserisce nella storia.14 Quali sono le idee filosofiche, teologiche, politiche, che nel corso di decenni hanno portato a concepire lo sterminio? Perché la filosofia ha abdicato non di rado al senso comune, rendendosi spesso complice, legittimando
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l’odio? Non può non sorprendere, ad esempio, che l’accusa della “menzogna”, attraverso forme e modalità diverse, dopo Lutero, venga ripresa da Kant, che chiama gli ebrei una «nazione di ingannatori», da Schopenhauer, che in una celebre sentenza contenuta nei Parerga e Paralipomena scrive che «gli ebrei sono i grandi maestri nel mentire», e venga infine rilanciata da Nietzsche, che imputa al popolo ebraico la colpa di aver introdotto «la menzogna dell’“ordinamento etico del mondo”».15 A sua volta Hitler, riferendosi esplicitamente a questa tradizione, usa la menzogna come chiave per decifrare l’arcano dell’ebraismo. Proprio questa accusa rivolta all’ebreo, di voler essere quel che non è, di coprire e mimetizzare il suo non-essere, il nulla su cui si fonda, proprio questa imputazione metafisica ha avuto esiti devastanti. Giudeofobia e odio per gli ebrei non sono caratteristiche esclusive del pensiero tedesco; se ne rinvengono tracce in tutta la tradizione occidentale, compresa quella francese e italiana. Rarissime sono, anzi, le eccezioni, e tra queste occorre ricordare il nome di Giambattista Vico. Tuttavia in Germania convergono motivi molteplici per dar luogo a una costellazione che non si delinea altrove: il forte influsso di Lutero, che lascia la sua impronta fin nella lingua, e il peculiare “spirito” del luteranesimo, con il primato dell’interiorità, l’imperativo dell’obbedienza incondizionata, nonché il sorgere di una morale eroica che trova compimento nel dovere assoluto e giustifica anche la sottomissione alla tirannia. Geograficamente centrale, eppure priva di un ruolo guida nel contesto europeo, frazionata e divisa, retriva e antiquata, quasi atonica, la Germania è alla disperata ricerca di un’identità che non ha nel presente e che non trova nel passato, se non nell’oscuro mito del “sangue germanico” che sin da medioevo era stato la fonte inesauribile di fantasie apocalittiche, eresie manichee, aspirazioni al dominio del mondo, selvaggi inci-
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tamenti alla violenza.16 Questo mito, che resta sotterraneamente ad agitare le profondità più recondite dell’animo germanico, si stempera e sembra quasi dissolversi nella Aufklärung, l’illuminismo tedesco, moderato e cosmopolita. È il tempo di Lessing che, con il suo celebre dramma Nathan il saggio, innalza l’Ebreo a simbolo della lotta contro i pregiudizi; molti credono di riconoscere nel protagonista il ritratto del suo amico, il filosofo Moses Mendelssohn. La forte presenza ebraica in Germania, dove nelle grandi città, e soprattutto a Berlino, gli ebrei raggiungono le vette della vita intellettuale offrendo un contributo decisivo alla cultura illuministica, rende possibile la feconda e tormentata simbiosi ebraico-tedesca. Ma la situazione precipita ben presto. Già nella Francia dei lumi non erano mancati segnali inequivocabili. La tolleranza aveva mostrato tutti i suoi tratti intolleranti con Voltaire che, nel suo pamphlet Juifs, aveva manifestato una irritazione ostile.17 Per la Ragione, che si pretende universale, gli ebrei, tacciati di particolarismo, sono un affronto; per la morale laica, che esalta l’autonomia del soggetto, l’ebraismo è lo scandalo della schiavitù alla legge. Per tutte le forme di religiosità interiore, dal deismo al pietismo, gli ebrei sono il popolo del legalismo e dell’esteriorità. Antichi stereotipi antigiudaici si combinano con nuove forme di antisemitismo. Che cos’è allora la “questione ebraica”, questa formula che viene troppo spesso assunta in modo acritico? Come ha osservato giustamente Hannah Arendt «la moderna questione ebraica nasce nell’illuminismo; è l’illuminismo, cioè il mondo non ebraico che l’ha posta».18 La Judenfrage viene sollevata quando gli ebrei sono considerati al contempo sia un interrogativo, perché l’ebraismo sembra sfuggire a un definizione, sia un problema da risolvere. Se i primi illuministi, come Lessing o Dohm, sembrano favorire l’emancipazione, è solo perché nell’ebreo vedono l’essere umano che, dismettendo l’ebraismo, potrebbe
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ottenere uguali diritti, divenire concittadino.19 Di solito, dunque, quando si parla di “questione ebraica” si intende quel processo attraverso cui viene concessa l’uguaglianza agli ebrei europei; paradossalmente, però, dietro questa formula si nasconde il problema della irriducibile estraneità degli ebrei che le nazioni europee avrebbero affrontato con modi e esiti diversi e che, in Germania, avrebbe portato alla Endlösung, alla soluzione finale.20 La “questione ebraica” assurge, in ambito tedesco, a dignità filosofica. Per la prima volta, in forma sistematica, e con una approfondita elaborazione concettuale, i filosofi si interrogano sugli ebrei e sull’ebraismo. Come spiegare allora questo fenomeno? Perché, proprio a partire da Kant, e dall’idealismo tedesco, si inaugura una riflessione che, con continuità, proseguirà nel novecento? Nei secoli l’ebraismo aveva richiamato l’attenzione dei teologi cristiani. Non erano mancate celebri dispute, nel corso delle quali rabbini, filosofi e dotti ebrei si erano affacciati sulla scena della vita intellettuale europea. Nella prospettiva teologica l’ebraismo appariva una religione pericolosamente affine e opposta al cristianesimo. Nel rigido schema illuministico era, al pari delle altre religioni, una inutile superstizione da cui la ragione avrebbe dovuto emanciparsi. Lo scenario muta quando nasce la filosofia della storia. Mentre si allontanano sia da una visione teologica, che nella storia legge un dispiegamento di eventi provvidenziali, sia da quell’inarrestabile corsa verso il progresso, a cui l’età dei Lumi aveva creduto cecamente, i filosofi si interrogano sulle epoche del mondo, sui loro significati, scrutano nel passato remoto per alzare lo sguardo verso il futuro, tentano di tracciare una linea interpretativa fra le ingarbugliate vicende umane. Sostengono la possibilità ermeneutica di comprendere anche le epoche più lontane grazie all’affinità che lega la ragione del presente a quella del passato. Di più: la ragione scopre di avere una storia.
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Si riconosce nelle forme storiche in cui si è realizzata, attraversando le quali può pervenire a una sempre maggiore chiarezza, anzi alla coscienza di sé. Nel considerare le diverse età della storia umana, il ruolo delle religioni, le peculiarità dei popoli, il contributo offerto da ciascuno allo spirito del mondo, i filosofi si spingono a scrutare perfino nel passato degli altri continenti, dall’India alla Persia, per trovare poi la strada del ritorno attraverso Atene e Roma. Ma si imbattono in un popolo che, comunque lo si riguardi, sembra creare scompiglio nella salda sistematicità filosofica: gli ebrei. Anzitutto sono l’unico popolo, fra quelli dell’antichità, ad essere sopravvissuto. Dei greci antichi non restano che le vestigia della loro civiltà; lo stesso vale per i romani. Perché, dunque, proprio gli ebrei, dispersi nel mondo, si sono conservati? Come spiegare la persistenza di quel resto dell’antichità, Israele? E che popolo sarebbero gli ebrei, che non hanno una nazione, né una terra, se non quella da cui sono stati esiliati, che non hanno uno stato, né tanto meno una costituzione? Si può parlare di “popolo” per individui sparsi qui e là, non solo tra le nazioni europee, ma anche oltreoceano? L’ebraismo non sarebbe poi, a ben guardare, una religione? E per di più una religione che, superata dal cristianesimo, non ha più ragion d’essere? Gli ebrei sono infatti coloro che avrebbero commesso il crimine più grave nella storia del mondo, il deicidio, non avendo saputo riconoscere in Gesù di Nazareth il Messia che pure attendevano. Ostinati, attendono ancora il loro Messia. Gli ebrei sembrano dunque rappresentare una sfida per i filosofi che non riescono a inserirli nei loro schemi concettuali. Laica per aspirazione, la filosofia tedesca mantiene tuttavia uno stretto legame con la teologia luterana da cui eredita la tenace giudeofobia. Proprio in quegli anni, il ritorno alla Scrittura, pur suscitando un profondo interesse per la lingua degli ebrei
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e per il loro mondo, provoca paradossalmente un nuovo odio antigiudaico. Il cristianesimo dei riformatori, religione moderna dell’interiorità, vede nell’ebraismo la mera esteriorità della legge. Non stupisce che i più fieri nemici degli ebrei provengano dalle fila degli ebraisti, come ad esempio Johann David Michaelis.21 Nasce in tale contesto l’idea che gli ebrei mentono, perché l’ebraismo non è una vera e propria fede.22 Gli ebrei vengono accusati di fingere. I filosofi vorrebbero svelare l’arcano dell’ebraismo. La Judenfrage, intesa come interrogativo filosofico, dovrebbe essere decisa stabilendo se gli ebrei possano essere considerati come membri di una confessione religiosa, una sorta di chiesa, e allora si tratterebbe di convertirli o tollerarli come cittadini di altra fede; oppure se appartengano a un popolo. In quest’ultimo caso la questione si complica, perché vorrebbe dire ospitare un popolo estraneo e non desiderato all’interno della nazione tedesca. I filosofi si pongono questo interrogativo guardando al futuro dell’Europa, alcuni pensando già a un possibile dominio tedesco. Se gli ebrei fingono che l’ebraismo non sia che una religione, ma in realtà si sentono membri della «nazione ebraica» in esilio, allora si deve forse immaginare che stiano tramando un complotto e che mirino a prendere il sopravvento in Europa anticipando i tedeschi. Per un’amara ironia, non inconsueta nella storia ebraica, le opere di Spinoza e di Mendelssohn rendono ancora più intricata la questione. Entrambi avrebbero voluto favorire l’emancipazione. A questo scopo Mendelssohn si era spinto a richiedere uno stato laico, dove gli ebrei avrebbero potuto essere accolti come cittadini, pur mantenendo il rispetto per la legge ebraica e per il cerimoniale. In tal modo, però, dava adito al sospetto che quella religione, che lui stesso chiamava «legge rivelata», fosse un pericoloso connubio teologico-politico.23
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Ancor più ambigua era la lettura che Spinoza dava dell’ebraismo in cui vedeva la costituzione politica degli antichi ebrei che avevano stipulato un patto con Dio riconoscendolo come proprio sovrano. Ma questa «teocrazia», che non aveva avuto eguali, non era più in vigore da quando, dopo l’esilio, gli ebrei vivevano dispersi sotto il dominio delle nazioni straniere. Non era dunque necessario osservare riti e cerimonie, dal momento che per gli ebrei la religione aveva valore politico e che la loro costituzione non era più in vigore. Ma nella sua visione la «legge» restava una presenza spettrale. Spinoza interpretava la «elezione» come un compito politico; era convinto che Dio avrebbe scelto ancora una volta gli ebrei per ristabilire la loro costituzione politica.24 L’idea di una «nazione ebraica» viene presa come una minaccia dai filosofi tedeschi, condizionati sia dalla loro impostazione teologica, che influisce anche su quelli più laici, sia dall’immagine che hanno dell’ebraismo, mediata da Spinoza e da Mendelssohn. Così l’emancipazione comincia a essere messa in dubbio. Da Herder a Fichte, pur se con accenti differenti, l’ebraismo, religione strana e estranea, diviene la religione di una nazione straniera. Allo stigma teologico fa immediatamente seguito quello politico. Gli ebrei vengono visti come un popolo venuto da altrove, da un altro continente. Nella sua riflessione sulla storia dell’umanità Herder osserva che «l’influenza ebraica sugli altri popoli è stata di gran lunga più grande di quella di qualsiasi altra nazione asiatica».25 Interpreta la diaspora ebraica come quell’evento che ha consentito a un «popolo nomade», incapace di «manifestare un vero amor di patria», di esercitare un potere, anche attraverso il cristianesimo, «che portò a una enorme diffusione delle credenze e dei testi ebraici».26 La potente affermazione del nazionalismo tedesco, che trova espressione soprattutto nell’opera di Fichte, ha due effetti decisivi: da un canto la «nazione ebraica» viene
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considerata politicamente come «uno stato nello stato», con tutte le conseguenze che ne derivano; dall’altro la condanna dell’ebraismo investe anche il cristianesimo.27 Nel suo scritto del 1873 sulla rivoluzione francese viene ventilata per la prima volta l’idea di un complotto ebraico: In quasi tutti i paesi d’Europa si estende uno stato potente e animato da sentimenti ostili, uno stato che si trova in guerra continua con tutti gli altri e che in taluni opprime terribilmente i cittadini: è l’ebraismo. Non credo – e spero di poterlo spiegare in seguito – che sia così terribile, perché forma uno stato separato e tenuto insieme da vincoli così saldi, ma perché è fondato sull’odio per tutto il genere umano.28
Mentre si proclama campione della tolleranza, Fichte si dichiara contrario a concedere i diritti civili agli ebrei, e per farlo introduce la metafora di una decapitazione collettiva. Ma quanto a dar loro i diritti civili, io per lo meno non ci vedo altro mezzo che quello di tagliar la testa a tutti loro in una notte e sostituirvene un’altra in cui non ci sia più neanche una sola idea ebraica. E per proteggerci da loro, non trovo altro mezzo che conquistare per loro la terra promessa e spedirli tutti laggiù.29
Metaforica è anche la «terra promessa», con cui Fichte intende un luogo aleatorio, fuori dal consesso delle nazioni europee, fuori soprattutto dal territorio tedesco; da quest’ultimo gli ebrei dovrebbero alla fin fine essere espulsi. La violenza, con cui parla esplicitamente di espulsione, ha riflessi anche sul pensiero teologico: identificando la religione naturale con il cristianesimo, Fichte mette in dubbio che Gesù fosse ebreo, condanna Paolo per aver inoculato elementi di corruzione.30 Nei Discorsi alla nazione tedesca accusa il cristianesimo, già «proveniente dall’Asia», di essere divenuto «più che mai asiatico».31 Affiora per la prima volta un inquietante Cristo ariano; emerge un «cristianesimo originario», autentico, puro. Ai tedeschi Fichte rivendica il diritto di raccogliere
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l’eredità di questo cristianesimo originario e il compito di arianizzarlo traducendolo in una missione politica.
3. Kant e l’«eutanasia dell’ebraismo» Nel terso paesaggio descritto da Kant, quello illuminato dal «cielo stellato sopra di me» e retto dalla «legge morale in me», non c’è posto per l’ebraismo.32 La ragione, nella sua universalità e nella sua purezza, non può ammettere pregiudizi primitivi, superstizioni inutili, particolarismi obsoleti. Soprattutto la ragione non può piegarsi a dettami esteriori e a leggi imposte da altri. Il soggetto che Kant introduce nella modernità è un soggetto sovrano, libero, autonomo. Si richiama solo alla ragione. Questo vale anche nell’ambito della morale e della religione. Ha un titolo eloquente il suo saggio pubblicato per la prima volta nel 1793: La religione nei limiti della semplice ragione. Mentre gli illuministi francesi criticano la religione in nome della ragione, quelli tedeschi tentano la riconciliazione.33 È questo anche l’intento di Kant: non l’obbedienza a un Dio trascendente, ma la ragione autonoma è la fonte della moralità. In tal senso la legge morale decretata dalla ragione umana acquista uno statuto divino. Dall’alto della «religione razionale pura», Kant passa in rassegna le fedi storiche disegnandone una gerarchia al cui grado più basso è confinato l’ebraismo.34 A quello più elevato si trova la fede protestante. Nel mezzo appaiono tutte le altre, da quella islamica a quella cattolica. Sullo sfondo storico-empirico delle fedi ecclesiastiche si staglia, infine, la morale pura ispirata dalla religione della ragione. Nonostante l’ascesa gerarchica, è quasi un salto a separare la religione razionale dalle altre. Ma quali sono i criteri per questo giudizio? E non si tratta piuttosto di un pre-giudizio che fa capolino alle spalle di una ragione orgogliosa di esserne priva?
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A un concetto secolarizzato di cristianesimo è improntata la ragione di Kant che, in tal senso, non è né autonoma né pura. Mentre Kant sembra compiere il salto che segna la distanza della religione razionale dalle religioni storiche, non fa tuttavia che secolarizzare – consapevole o no – la teologia luterana, proponendo un discorso pseudoteologico sulla religione, la morale, la politica, perfino la metafisica. Assume così legittimità filosofica un paradigma destinato a ripetersi: quello di un presunto laicismo (talvolta perfino un ateismo conclamato) che fa valere in modo occulto e dissimulato argomenti teologici. Sono stati sferrati da qui, nel corso della modernità, gli attacchi più violenti all’ebraismo. Lo “spirito” di Kant si ammanta di dicotomie metafisiche che hanno risonanze teologiche: puro/impuro, interno/esterno, universale/particolare, razionale/empirico, morale/legale, autonomo/eteronomo. Di ogni dicotomia l’ebraismo incarna il polo negativo, l’estremo da scartare.35 Le mosse che Kant compie sono due: anzitutto esclude l’ebraismo dall’ambito teologico; quindi espelle gli ebrei dal corpo politico dello stato. Questa doppia eliminazione teologico-politica, aprioristica e pregiudiziale, avrà ripercussioni nefaste segnando il passaggio, tanto più autorevole, perché filosofico, dall’odio religioso verso gli ebrei al moderno antisemitismo.36 In una importante sezione del saggio La religione nei limiti della semplice ragione si precisa il posto assegnato all’ebraismo che non si trova al grado più basso della gerarchia, ma addirittura fuori. L’ebraismo «non è una religione»; semmai rientra nel dominio politico. Così scrive Kant: La fede ebraica [der jüdische Glaube], nella sua istituzione originaria, non è altro che un complesso di leggi statutarie sul quale si fondava la costituzione statale; giacché i complementi morali che le furono aggiunti o già sin dall’inizio, o in seguito, non hanno parte, è indubi-
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tabile, dell’ebraismo in quanto tale. L’ebraismo infatti non è una religione, ma la riunione di una moltitudine di uomini che, appartenendo a un ceppo [Stamm] particolare, aveva formato non una chiesa, ma uno stato, retto da semplici leggi politiche; anzi, tale stato doveva essere puramente temporale, di modo che se, a causa di circostanze avverse, fosse stato fatto in pezzi, rimanesse sempre all’ebraismo la fede politica [der politiche Glaube] (che gli appartiene essenzialmente) di ristabilirlo un giorno (alla venuta del Messia).37
Questo passo non va in nessun modo sottovalutato, non solo per il suo rilievo, ma anche per la storia dei suoi effetti.38 Hitler potrà guardare a Kant e alla tradizione tedesca, fino a Lutero, per avere la conferma dell’ambiguità insita nell’ebraismo che si spaccia per religione, ma è un credo politico. Non è inoltre un credo qualsiasi, bensì è un messianismo, l’attesa di ristabilire un giorno la costituzione ebraica nel mondo.39 Tale forma politica – prosegue Kant sulla scia di Spinoza – è la «teocrazia», la Theokratie, cioè il Regno di Dio. Sebbene il nome di Dio venga onorato, la costituzione – spiega Kant – resta unicamente politica, dato che Dio, non avendo la pretesa di governare «sopra e dentro» le coscienze, è «solo un reggente temporale», ein weltlicher Regent.40 Pur riprendendo Spinoza, tuttavia Kant lo fraintende, non solo perché vede nella teocrazia ebraica una «aristocrazia di sacerdoti», ma soprattutto perché rompe l’equilibrio teologico-politico che, sia per Spinoza, sia per Mendelssohn, distingue il popolo ebraico. Kant invece proietta sull’ebraismo una scissione peculiare al cristianesimo, quella appunto tra l’ambito teologico e quello politico – un gesto destinato ad essere reiterato. In tal modo finisce per negare all’ebraismo ogni contenuto non solo religioso, ma anche morale. Di più: lo espelle dal dominio dello spirito. L’ebraismo è fatto solo di leggi statutarie, imposizioni, comandamenti che, non sorretti da «intenzione morale», hanno di mira la «sola osservanza esterna».41 L’antica
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accusa di esteriorità si sostanzia di ulteriori temi: la amoralità, e quel legalismo che spinge gli ebrei ad agire, non per rispetto della legge, ma semplicemente in conformità. Un atto è morale solo se è compiuto nell’intenzione pura del dovere, mentre è immorale, se è dettato da motivi esterni, da egoismo, prudenza, convenienza, utilità. Non c’è l’aderenza del cuore, perché non c’è cuore, né autentica interiorità. Come si concilia questa condanna con il nesso storico che lega l’ebraismo al cristianesimo? Seguendo la teologia della sostituzione Kant fa risalire la «chiesa universale» al cristianesimo. Quest’ultimo, pur scaturito dall’ebraismo, ne sancirebbe il «completo abbandono». Al «falso culto» subentra la «pura religione morale».42 L’abolizione del «contrassegno corporeo», cioè della circoncisione, rappresenta il passaggio dal particolarismo ebraico alla universalità della nuova fede.43 Si dovrebbe considerare «ogni cristiano come un ebreo il cui messia è arrivato»; sulla continuità hanno fatto leva coloro che inizialmente volevano aprire la strada alla nuova dottrina.44 A segnare la discontinuità è però Gesù, in cui Kant vede il «maestro del Vangelo» che si annuncia come «inviato dal Cielo», e al «Cielo» fa ritorno, con quella morte «immeritata e, al contempo, meritoria», con la quale testimonia l’oltremondo a cui gli ebrei, negando l’immortalità dell’anima, si ostinano a non credere.45 La «rivoluzione» della croce si compendia nel rifiuto dell’esistenza mondana. Al «concetto secolarizzato di questa immagine di Cristo è improntata l’autonomia della ragione».46 Cos’è più lontano da ciò dell’ebreo che incarna l’eteronomia? La conferma viene dalla successiva mossa di Kant, compiuta quattro anni dopo, nell’Antropologia, con la quale gli ebrei vengono espulsi dal corpo politico dello stato.
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I palestinesi [Palästiner], che vivono in mezzo a noi, hanno acquistato, a causa dello spirito di usura [Wuchergeist] dopo il loro esilio, una reputazione non infondata di frode [des Betruges], almeno presso la stragrande maggioranza. In verità è ben strano dover pensare una nazione di ingannatori [eine Nation von Betrügern], ma è altrettanto strano pensare una nazione di commercianti la maggior parte dei quali, legati da un’antica superstizione accettata dallo stato in cui vivono, non cerca alcuna dignità civile, ma vuol compensare questo svantaggio con gli utili derivanti dall’inganno del popolo in cui vivono e anche dei propri correligionari.47
Questo passo è tratto da una delle note a cui Kant relega i suoi commenti su quel fenomeno marginale che sarebbe per lui l’ebraismo. Malgrado ciò, si tratta di un passo che, senza occultare la giudeofobia, attesta già un aperto antisemitismo.48 Gli ebrei sono «palestinesi», sono cioè stranieri e, per di più, sono orientali, asiatici. Non appartengono all’Europa, né tanto meno alla Germania, dove vivono in esilio, per nulla grati dell’ospitalità, ma anzi dediti a ingannare con frodi e raggiri i loro ospiti. La «menzogna», denunciata da Lutero, diventa qui «inganno», perché l’accusa si estende dall’ambito teologico a quello politico-economico. Privi di religione, di morale, perfino della dignità di essere cittadini, non si fanno scrupolo, nella loro improduttività, di mantenersi alle spalle altrui. Lo spirito dell’ebraismo è il Wuchergeist, lo spirito di usura. Il mestiere, a cui per secoli gli ebrei erano stati costretti, diventa metafora della loro esistenza.49 Vivono esercitando usura – consumando, corrompendo il corpo politico in cui si sono insediati. L’accusa non potrebbe essere più grave: sono «una nazione di ingannatori». La nazione ebraica – nella sua interezza – è una minaccia per quello stato capitalista, fondato sulla razionale distribuzione dei beni e della proprietà. A ciascuno il suo: la ragione autonoma sostiene e celebra il capitalismo.50 Ma la legge che, scaturendo da una originaria volontà unificata, ha dato luogo al «mio e tuo», viene messa in
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pericolo dagli ebrei il cui diritto rinvia a una naturale condivisione della terra e il cui agire consuma e usura i beni del capitalismo.51 Non restano allora molte alternative. Nel Conflitto delle facoltà, scritto nel 1798, alla fine ormai della sua vita, Kant propone la «eutanasia dell’ebraismo», una soluzione che ha oggi una risonanza macabra.52 Insinua, peraltro, che l’idea potrebbe essere attribuita a uno dei suoi numerosi allievi ebrei, Lazarus Bendavid, «una testa sopraffina di questa nazione». La morte buona per l’ebraismo, quella indolore, sarebbe l’«abbandono delle antiche dottrine statutarie», seguendo la «religione di Gesù», non per passare tuttavia al cristianesimo – «alla fine anche questa divisione di sètte deve sparire» – ma per giungere, nell’unione con la fede cristiana, alla «pura religione morale» con cui si conclude il «dramma» delle religioni sulla terra, e si perviene alla «redenzione di tutte le cose». Evocando il Vangelo di Giovanni (10, 16), Kant riprende la visione escatologica di Paolo e di Agostino: «soltanto allora vi sarà un solo pastore e un solo gregge».53 Non si deve sottovalutare il ruolo che l’ebraismo svolge nella filosofia kantiana. Attraverso una sistematizzazione della ragione, purificata e condotta al suo apice, Kant mira ambiziosamente a rifondare la metafisica nel segno della libertà e dell’autonomia umana. Questa metafisica della ragione pura non è priva di ripercussioni sulla sua fantasia intorno agli ebrei. Kant non si accontenta di rendere in metafora l’esistenza ebraica; fa un passo oltre tentando di concettualizzare l’essenza, eterna e immutabile, dell’ebraismo. In tale impresa impossibile, dove quel che deve essere definito si sottrae alla definizione, in uno sconfinamento continuo di teologia e politica, l’ebraismo viene inchiodato all’eteronomia, cioè a tutto ciò che la ragione non può e non deve essere. L’ebreo, che segue una legge esterna e estranea, il nómos dell’altro, è conse-
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gnato all’Alterità. Si colloca così fuori dalla metafisica che, per trionfare, ne progetta l’eutanasia.
4. Hegel e l’Ebreo senza proprietà Qual è il posto riservato all’ebraismo nel sistema di Hegel? Che ne è degli ebrei in quell’impresa senza precedenti, nella storia dell’Occidente, in cui la Ragione, attraverso stadi successivi della storia, penetra nel reale e si rivela? Il pensiero universale, che speculativamente si dispiega raccogliendosi su di sé, impara a non separarsi dall’individuale, ad attraversare, anzi, la separazione superandola. La parola che imprime il ritmo a questa marcia dialettica è Aufhebung, che ha almeno tre significati: negazione, conservazione, elevazione. Quando scrive a Jena la Fenomenologia dello spirito, portata a termine nel 1807, Hegel è preso dall’entusiasmo non solo per il suo sistema, ma anche per l’epoca di rinnovamento in cui vive. Immagina di poter guardare la storia da una soglia, insieme finale e iniziale, quasi ultrastorica. D’altronde la Fenomenologia è il manifestarsi della storia umana, ma anche quel divenire dello Spirito in cui si realizza il concetto cristiano di incarnazione. Nonostante lo sfondo teologico, entro cui viene discussa l’intera processione delle religioni e delle civiltà, Hegel dimentica l’ebraismo, o meglio, lo passa sotto silenzio. Solo a proposito della «ragione osservativa», una forma di conoscenza che, come ciò che è «intimamente cattivo», ha la necessità immediata di «invertirsi», introduce un’analogia con il popolo ebraico. Del popolo ebraico si può dire in modo analogo che, proprio perché si trova immediatamente davanti alla porta della salvezza [vor der Pforte des Heils], è stato ed è il più abietto [das verworfenste]: esso non è ciò che dovrebbe essere in sé e per sé, non è a sé questa autoessenza, che anzi trasferisce al di là di sé; mediante questa alienazione
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[Entäußerung] si renderebbe possibile, riprendendo in sé il suo oggetto, un’esistenza superiore a quella che avrebbe, se non fosse rimasto immobile entro l’immediatezza dell’essere [innerhalb der Unmittelbarkeit des Seins].54
Questa scena agghiacciante non può non ricordare un racconto di Franz Kafka. All’uomo, in attesa di entrare, il guardiano assicura: «è possibile», ma «non adesso».55 La porta della Legge – è quanto viene rivelato alla fine – era chiusa solo per lui. Ma se nell’attesa ebraica Kafka scorge esemplarmente la condizione umana, Hegel vede invece in quell’impedimento il destino, singolare e enigmatico, del popolo ebraico. Dagli ebrei viene la salvezza, ma per gli ebrei la salvezza è negata. Pur avendo percorso il cammino fino a quella porta, da cui gli altri passeranno, gli ebrei restano fermi e immobili sulla soglia. Rifiutano e sono rifiutati. Il verbo verwerfen significa respingere, rigettare, ma anche riprovare, condannare.56 L’assoluto, dunque, non si manifesta in quel popolo abietto che, restando fuori dal cammino salvifico, è escluso anche dalla storia. Ecco dunque l’enigma del popolo ebraico, sopravvissuto ostinatamente ai margini, per il quale non c’è rimedio.57 Kant aveva indicato nella conversione l’unica possibilità per gli ebrei di entrare nell’Europa. Secondo Hegel, al contrario, questo ingresso è impossibile proprio a causa della condizione paradossale del popolo ebraico che, se si è conservato nei secoli, è perché si è mantenuto fedele a quel rifiuto. Mentre viene riconosciuto come il precursore, colui che fa il primo annuncio messianico, l’ebreo è al tempo stesso condannato perché cieco. Porta la promessa, ma non la comprende. Anzi la tradisce, intestardendosi nell’infedeltà a una fede che non può riconoscere. Di qui l’accusa della perfidia: più che infedele, l’ebreo appare perfido agli occhi cristiani, perché viene meno alla fede data, la trasgredisce nell’istante stesso in cui l’annuncia.
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L’ebraismo si è sottratto e si sottrae alla Aufhebung cristiana. Non si lascia togliere né sublimare – come pure dovrebbe. Anche per Hegel, il cui pensiero asseconda l’interpretazione speculativa del cristianesimo, l’ebreo dovrebbe essere negato e ripreso in un’esistenza superiore. Poiché oppone resistenza, e non permette allo spirito di superare l’alienazione, facendo «ritorno» a sé, resta escluso dalla dialettica della storia universale. Non è attraversato da quel cammino di riconciliazione dello Spirito che, rigenerando ciò che è separato, risuscitando ciò che è morto, perviene al sapere assoluto, cioè alla certezza del suo trono. L’ebraismo appare allora un morto resto del proprio passato che seguita a esistere senza un ruolo né una speranza per il futuro. Nella sua esistenza priva di spirito, fossilizzata e pietrificata, immobile nella immediatezza dell’essere, poggia su un «vuoto senza salvezza», su una unselige Leere.58 Perciò assurge a paradigma della «coscienza infelice», figura emblematica della separazione. Destinato a essere superato, rappresenta il negativo in una nudità non superabile. Si scorge già qui l’Ebreo figurale, la figura inversa all’Occidente e alla sua pretesa di una unità assoluta. Sebbene Hegel abbia più volte modificato o rivisto la propria posizione, non ha sciolto l’aporia dell’esistenza ebraica che resta fuori dal suo sistema.59 Determinante è in tal senso la sua prospettiva «cristocentrica».60 La versione secolarizzata della filosofia non muta il giudizio drastico sull’ebraismo. Tanto più che, per Hegel, nella sua infinità Dio si è andato manifestando nell’Europa cristiana. Sin dai primi scritti l’enigma dell’ebraismo appare ineludibile. Ogni popolo dell’antichità, dopo aver offerto il suo contributo, è scomparso dalla scena della storia, sussunto in una forma ulteriore. Dagli egiziani ai fenici, dai greci ai romani, nessuno si è sottratto a questa regola. Solo gli ebrei fanno eccezione: hanno continuato a esi-
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stere, hanno attraversato il medioevo, l’epoca genuinamente cristiana, giungendo fino alla modernità. Perché mai sono sopravvissuti alla loro ragion d’essere? La risposta di Agostino, che negli ebrei scorgeva i testimoni della verità del cristianesimo alla fine dei tempi, è per Hegel troppo mitologica. Come spiegare, dunque, la persistenza di quell’obsoleto relitto? In modo analogo a Kant, che vedeva concentrati nell’ebraismo tutti i mali della religione positiva, anche il giovane Hegel mira a estrarre dal guscio rigido delle prescrizioni la ragione autonoma. Con una differenza, però, da non sottovalutare: la religione è per Hegel una forma indispensabile dello spirito. Religione per eccellenza è il cristianesimo, nella sua variante luterana; a partire da qui viene giudicato l’ebraismo.61 I cliché della retorica antiebraica emergono sin dall’inizio. Già in un frammento del 1794 Hegel scrive: «non si possono negare i deviati e immorali concetti degli ebrei, dall’ira alla parzialità, dall’odio verso gli altri popoli all’intolleranza del loro Dio».62 Questi concetti sarebbero «passati» nella religione cristiana provocando danni. Il tono non muta anche in altri scritti giovanili, dalla Vita di Gesù, del 1795, a quelli raccolti nella Positività della religione cristiana, un progetto ripreso più volte tra il 1795 e il 1800. Con sdegno e riprovazione Hegel descrive gli ebrei ai tempi di Gesù. Triste era la condizione della nazione ebraica, che derivava la sua legislazione dalla stessa suprema saggezza, ma il cui spirito era sommerso sotto il peso di precetti statutari che pedantemente prescrivevano una regola per ogni banale azione della vita quotidiana, dando all’intera nazione l’aspetto di un ordine monastico. Egualmente ciò che vi è di più sacro, il culto di Dio e l’esercizio della virtù, era predisposto e costretto in formule morte; nient’altro se non l’orgoglio di questa ubbidienza da schiavi a leggi che gli ebrei non si erano dati da sé, era lasciato allo spirito, già profondamente abbattuto ed amareggiato dalla soggezione dello stato a una potenza straniera.63
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Tra gli «uomini migliori per mente e cuore», ebrei dissidenti che non potevano più piegarsi a quel «meccanismo senza vita», sorge miracolosamente, in antitesi con la «legge», la figura di Gesù «libero dalla contagiosa malattia della sua epoca e del suo popolo».64 La teologia della sostituzione viene rafforzata da Hegel che, anzi, accentua la cesura tra religione ebraica e religione cristiana. Tuttavia, se l’ebraismo costituisce un enigma, è perché la questione non è solo teologica, ma anche politica. Non è un caso che Hegel parli di «nazione ebraica» e non manchi di sottolineare la stranezza di un Dio che è «legislatore politico».65 In questa prospettiva vanno lette alcune riflessioni nelle quali viene per la prima volta sollevato un interrogativo che – malgrado Hegel – avrebbe avuto in seguito effetti esiziali. Ogni popolo ha avuto i «propri miti» che vivono nella tradizione popolare; anche «gli antichi germani» avevano «il loro Walhalla dove abitavano i loro dei e i loro eroi».66 Il cristianesimo ha «spopolato il Walhalla, ha distrutto i boschi sacri, ha estirpato i miti del popolo» introducendo personaggi come David e Salomone, del tutto «estranei». Il paesaggio pagano dell’antica Germania è stato soppiantato da quello ebraico. Di ciò è accusato il cristianesimo che viene visto in antitesi al paganesimo autoctono. Il risultato – osserva Hegel – è che «noi siamo senza miti religiosi che siano sorti nella nostra terra e siano connessi con la nostra storia, siamo affatto privi di qualsiasi mito politico». Solo «fantasmi» popolano il territorio di quella che «non fu mai una nazione».67 Che non sia anzi per via di questa infausta usurpazione che la nazione non abbia potuto costituirsi? «È dunque la Giudea la patria dei teutoni?».68 Sebbene non sia possibile, per Hegel, ripristinare la mitologia pagana, pure la domanda ha echi minacciosi. Ma ancor più inquietanti sono le pagine contenute nel saggio Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, scritto
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tra l’inverno del 1798 e l’estate del 1799. La prima parte è costituita da una fenomenologia storica dell’ebraismo nella quale gli stereotipi della diffamazione volgare acquistano legittimità filosofica.69 L’ebraismo è un particolarismo che va superato nell’universalità del cristianesimo. Sin da Abramo, con cui la storia del popolo ebraico «comincia», si introduce la scissione. Lo spirito, che sarebbe sempre unità, può assumere talvolta una forma alienata, che il giovane Hegel chiama «destino», Schicksal, intendendolo in modo non ancora dialettico.70 Lo spirito dell’ebraismo è il destino implacabile della sua negatività. Lacerazione e inimicizia scandiscono il costituirsi del mondo ebraico che si impone, come insegna la storia di Noè, attraverso un conflitto mai più risolto con la natura.71 Ma è con Abramo che la scissione si rende perspicua. Il suo primo atto è una Trennung, una «separazione».72 Senza alcun motivo, né alcun affetto, «rompe i legami della convivenza e dell’amore» e «scaccia da sé queste belle relazioni della sua giovinezza». Dà un taglio alla sua storia – il taglio della circoncisione – da cui sorge il popolo ebraico. Nessun rimpianto, tanto meno per la bellezza. Abramo non è greco. E l’ebreo non ama la bellezza, anzi non ama affatto. «Abramo volle non amare, e perciò essere libero». La sua esistenza è nel segno dell’erranza. Un «estraneo», un Fremdling, sulla terra, rimane per sempre uno «straniero», un Fremder.73 Nomade, come le sue greggi, vaga su un territorio che per lui è «senza confini», con cui non può identificarsi. Nessun luogo proprio. Dopo aver rinunciato alla casa, al focolare, alla residenza, non si radica da nessuna parte. Resta consegnato all’erranza che rafforza il suo isolamento. È in guerra con le nazioni, tutte ostili e nemiche. Non avendo una «durevole convivenza con gli altri», tratta per avere quello che gli serve e, se è più debole, ricorre a «astuzie e doppiezze», se è più
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forte, colpisce «di spada». Nella chiusura gelosa della sua identità, nella ferocia della sua endogamia, tiene separata anche la famiglia. Suo figlio è il suo solo amore, il solo genere di immortalità che conosca, il solo «modo di estendere il proprio essere».74 Si placa solo quando è certo di poter eliminare con le proprie mani il proprio figlio e distruggere quell’amore. Nella sua opposizione al mondo, in cui entrambi gli estremi rischiano di ridursi a nulla, Abramo è «tenuto in essere» da Dio. Ma il suo Dio è «essenzialmente diverso dai Lari e dagli dei nazionali». Attraverso l’opposizione infinita Abramo accede al pensiero dell’infinito. E si sottomette. Mentre può dominare il mondo solo legandosi al potere infinito del suo Dio onnipotente, a sua volta ne viene dominato. Per Hegel gli ebrei sono un popolo di schiavi, al punto che perfino nell’esodo si rifiuta di riconoscere una liberazione. Se lasciano l’Egitto, è per gli «artifizi» con cui li sbalordisce Mosè, non per il desiderio di libertà. Nessun atto di eroismo li accompagna, solo le piaghe inflitte agli egiziani. E durante l’«invisibile attacco» sferrato al loro nemico, sembrano come i «famosi ladri durante la peste di Marsiglia», che non avevano esitato a distribuire i beni di cui avevano fatto bottino diffondendo così i bacilli. Riemerge, in questo paragone, l’accusa medievale della contaminazione. Hegel non esita e riprenderla in forma subdola. «Gli ebrei vincono senza aver combattuto».75 Impotenza e passività caratterizzeranno, per lui, il loro messianismo. Nessuna speranza può esserci, d’altronde, per un popolo che, anche nel momento in cui diviene libero, continua a comportarsi da schiavo. Il filosofo che, nella Fenomenologia, delinea quel rapporto servo-padrone, in cui, per un necessario rovesciamento dialettico, il servo diviene padrone del padrone, inchioda il popolo ebraico a una condizione di schiavitù perpetua. Nei tre stadi attraverso cui si va costituendo, il taglio di Abramo, l’esodo dall’Egitto e l’imposizione
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della legge attraverso Mosè, la libertà si rivela schiavitù. «Il liberatore del suo popolo fu anche il suo legislatore».76 Non c’è rovesciamento, dunque, per un popolo che, sin dall’inizio, sembra pregiudicare ogni dialettica. Insieme alla riprovazione per la schiavitù passiva affiora, però, anche il tema dell’eteronomia. Hegel lo sviluppa in modo diverso da Kant, dal quale aveva preso le distanze attribuendogli una morale del dovere, arida e astratta, contigua quasi al legalismo ebraico. L’eteronomia, che inficia l’esistenza degli ebrei, ha secondo Hegel un valore non solo teologico, ma anche e soprattutto politico. Il popolo è legato al «Soggetto assoluto» da un rapporto di potere in cui ogni ebreo è costretto sia a ricordare la nullità umana, sia a praticare quella espropriazione – ad esempio attraverso la terumà, l’offerta della decima – con cui riconosce solo a Dio il «diritto di proprietà».77 L’ebreo è già sempre espropriato. A Hegel non sfugge la peculiarità del diritto ebraico e dello Yovèl, l’istituzione del Giubileo. È evidente la somiglianza tra la costituzione di Mosè e quella di Solone e Licurgo che avevano cercato di impedire quel furto rappresentato dall’accumularsi delle ricchezze. In entrambi i casi leggi socialiste neutralizzano la sproporzione che minaccerebbe la libertà politica. Ma ancora una volta l’analogia tra il greco e l’ebreo è solo apparente. Nelle repubbliche greche un riequilibrio veniva di tanto in tanto introdotto fra cittadini «tutti liberi e autonomi».78 Presso gli ebrei è il diritto di proprietà ad essere negato. L’anno del Giubileo, che torna dopo sette anni sabbatici, ripristina una espropriazione radicale che dà la proprietà solo in garanzia o in gestione e prevede il possesso solo come prestito. L’ebreo deve riconoscere che l’appropriazione è «usurpazione e ingiustizia» e che non gli spetta «nessuna proprietà».79 Neppure quella della terra. Proprio la negazione del diritto alla terra è per Hegel eclatante. L’ebreo
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non può dire «proprio», eigen, il «suolo», il Boden. E in nota ricorda il versetto: «Mia è la terra, perché voi siete stranieri e residenti provvisori presso di Me».80 Così Hegel lancia la sua accusa politica contro gli ebrei. Se non hanno il diritto di proprietà, allora non possono essere cittadini, Staatsbürger, anzi non possono neppure avere uno stato. Conferma questo presupposto anche nella Filosofia del diritto. Ma qui dichiara l’estraneità degli ebrei allo stato, e al diritto civile, in un passaggio teologico-politico che finisce per avere risvolti ontologici. Presso gli ebrei la fonte di queste leggi era che non avevano nessuna libertà e nessun diritto, poiché consideravano tutto non come una proprietà, ma come un prestito, mentre come cittadini erano tutti un nulla [ein Nichts].81
È una condanna a morte ante litteram pronunciata attraverso lo spirito del mondo. Derrida commenta: «dunque non c’è “per sé”, un essere-presso-di-sé-ebraico».82 Altrimenti detto: non può darsi un essere-ebreo nel senso filosofico-hegeliano. Se gli ebrei sono «politicamente un nulla», è per via della loro teocrazia, cioè di quell’«eguale dipendere di tutti dal loro invisibile Signore».83 Lo sdegno è incontenibile e spinge Hegel a riprendere, a suo modo, il racconto di Flavio Giuseppe sull’ingresso di Pompeo a Gerusalemme. Il generale romano era ansioso di entrare nel Kodesh Hakodashìm, nel «sancta sanctorum», il luogo più interno del Tempio, per vedere finalmente quel misterioso Dio degli ebrei. Quale non fu la sua sorpresa quando, una volta nel «secretum», dopo tanti passaggi rituali, si sentì «ingannato», trovando che «quel luogo era uno spazio vuoto». Hegel non scorge qui lo spirito del monoteismo, la Presenza ineffabile del Dio di Israele che, nella separazione, lascia il Vuoto. Piuttosto deplora: nella parte più interna, nel centro, manca la «radice dello spirito nazionale», l’«anima» che dovrebbe vivificare que-
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sto popolo d’eccezione.84 È un popolo senza anima e il suo essere poggia sul vuoto. «Nessun centro, nessun cuore, uno spazio vuoto, niente».85 Il focolare ebraico è un riparo soltanto al deserto interiorizzato. Il secretum degli ebrei non ha nulla da mostrare. E dato che il loro essere è alienato, perfino il segreto resta segreto, cioè è loro «assolutamente estraneo».86 Gli ebrei non hanno nulla in proprio e la loro esistenza è sotto il sigillo dell’espropriazione. Negli scritti della maturità, in particolare in quelli del periodo berlinese, Hegel aggiusta il tiro, senza tuttavia cambiare il suo crudo giudizio sull’ebraismo e sugli ebrei.87 L’Estetica dà spazio alla poesia ebraica, ma solo per considerarla come esempio di sublime negativo, esito di «ispirazione incosciente, separata», tentativo impotente di rappresentare l’infinito.88 Il tema dell’ebraismo, pressoché assente nelle opere sistematiche, emerge in quelle storiche. Anzitutto nelle Lezioni sulla filosofia della storia dove, nel capitolo intitolato Judaea, Hegel sembra propenso ad affidare all’ebraismo un ruolo decisivo perché, pur appartenendo all’Oriente, lo supera, ne capovolge, anzi, il principio, affermando il primato dello spirituale. «È nell’ebraismo che si compie la scissione tra Oriente e Occidente, che lo spirito discende in sé».89 Tuttavia, con uno schema che si ripete, la coscienza infelice dà luogo ad altro da sé, in cui non può riconoscersi. Hegel arriva addirittura a dire che nell’ebraismo «lo spirito appare ancora posto senza spirito».90 E mentre si moltiplicano i rimproveri – schiavitù, passività, crudeltà, immoralità – risuona la grave imputazione: «lo stato è elemento non congruente con il principio ebraico, estraneo alla legislazione mosaica».91 Il giudizio non cambia, neppure nelle Lezioni sulla filosofia della religione, tenute tra il 1821 e il 1831, dove, malgrado qualche concessione, la «religione del sublime», che tale è solo per quel baratro aperto tra l’infinito divino
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e il finito umano, viene messa sotto accusa nel suo complesso: dal «concetto metafisico» al culto, dall’esistenza alla politica. Se sotto il profilo teologico l’ebraismo è perdente nel confronto con il cristianesimo, sotto il profilo politico mostra tutti i suoi limiti misurato alla Grecia. La strategia di Hegel, che aveva conoscenze approssimative del mondo ebraico, è far apparire come difetti interni quelli che la sua concezione cristiana proietta dall’esterno. A Israele attribuisce un solo merito: aver pensato Dio come Uno, «perché l’unità di Dio è la radice della soggettività, il fondamento dell’assoluta spiritualità».92 Ma l’Uno «esclusivo» degli ebrei è ancora astratto, pura potenza, «senza figurazione», non dialettizzato, non «uno e trino», e perciò «solo negativo». Al cospetto di questa potenza, il popolo, che si presume «eletto», non sa cosa sia la libertà e sviluppa solo una «coscienza servile».93 L’elezione irrita Hegel per quel paradosso logico che porta con sé: l’universalità di Dio sarebbe ridotta a una particolarità nazionale. E inoltre genera «odio», l’«odium generis humani», già osservato da Tacito; il popolo di Dio, «chiuso agli altri […] si rifà a spese dei gojim del duro servizio a cui è costretto».94 Dato che i comandamenti sono leggi, un «cambiamento politico ha il valore di un rinnegamento di Dio».95 Senza menzionarlo, Hegel cita Spinoza che aveva colto, però, in questo nesso teologico-politico la peculiarità della teocrazia ebraica.96 Poiché gli riesce incomprensibile, Hegel lo scioglie e sottopone tutta la politica ebraica a una critica liquidatrice. Come lo spirito non è spirito, così la politica non è politica. Gli ebrei non sanno che cosa sia lo stato. E per Hegel, dove non c’è spirito dello stato, non c’è politica. L’ebraismo, nomade, tribale e anarchico, sarebbe allora apolitico. A riprova di questa accusa gravissima – la più grave? – viene ricordata di nuovo l’istituzione del Giubileo e la negazione della proprietà. La legge ebraica (Gesetz) non è neppure un diritto
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(Recht), perché non ammette la proprietà privata. E solo chi può ergersi su un suolo proprio è cittadino. Gli ebrei non sono cittadini. «Il popolo di Dio possiede [besitzt] Canaan».97 Il possesso ha un fondamento divino – è Dio che dà loro quella terra come «possesso esclusivo», al punto che «può essere strappato ad altri». Gli ebrei «hanno preso agli abitanti della Palestina il paese con violenza, Dio lo ha loro promesso».98 E come non conoscono il diritto dei popoli, fondato sulla spartizione della terra e sulla proprietà privata, così non riconoscono neppure il proprio diritto. Possiedono la terra solo come affidatari, perché Dio è il solo proprietario. La condizione politica dell’ebreo, che per la sua stessa legislazione è espropriato, e come cittadino è nulla, ha per Hegel anche valenza ontologica. Di qui la difficoltà a inserirlo nel sistema.99 Sino alla fine l’ebreo resta fuori – fuori dalla storia, fuori dalla dialettica. Riguardato dal Logos giovanneo, che informa la sua dialettica e governa il movimento speculativo, per Hegel l’ebreo è – come dice Derrida – il «non-rilevato» e il «non-rilevabile», è il resto che non si lascia permeare, fermo e irrigidito nella sua resistenza. «L’Ebreo è un cuore di pietra».100 Anzi la pietra è la metonimia della figura filosofica dell’ebreo. Pietrificato nella sua lettera farisaica, minaccia di pietrificare anche gli altri. Non solo gli enti, ma perfino l’essere. Perché l’essere non può darsi nella immediatezza, ma solo nel suo dispiegarsi, anzitutto nell’è dell’unione, o della «santa copula».101 Il che è come dire – denuncia Derrida – che «per Hegel nessuna ontologia sia possibile prima del Vangelo o al di fuori».102 Se l’essere è Aufhebung, allora l’ebreo si oppone nella sua gravità, non si lascia né sublimare, né innalzare. E non rinvia, dunque, a un evento del passato, ma accompagna il sistema nel futuro: è il suo «spettro» che, mentre lo ostacola, ne assicura il divenire rendendolo ogni volta impossibile.103 Sottomesso per secoli dall’Essere, l’Ebreo
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ne mina la logica dall’interno, minaccia di farlo implodere. Già con quella impossibilità di un essere ebreo in sé. Diventa una sfida per l’Occidente che aspira all’unità assoluta. Convertirlo, assimilarlo o toglierlo quel resto? Dipende dall’ambiguità semantica della Aufhebung, del superamento dialettico. Il sacrificio sembra ineluttabile, dato che l’Occidente non può sopportare una esclusione interna. Con Hegel la questione è ormai chiara e l’antisemitismo acquista la potenza del discorso filosofico. «Ecco allora le formule virulente – scrive Lévinas – in cui i nemici dell’ebraismo non giungeranno a comprendere né, soprattutto, a far comprendere l’ambiguità dei termini. Antisemitismo fondato nel Sistema, come dire nell’assoluto: che occasione inattesa!».104
6. «Anti-antisemita»? Nietzsche, l’Anticristo e la falsificazione dei valori Dalla sua misera mansarda di Torino, poco dopo il crollo psichico, Nietzsche lanciava in uno degli ultimi “biglietti della follia”, indirizzato a Franz Overbeck intorno al 4 gennaio 1889, un’ennesima, solitaria invettiva contro i suoi nemici, gli antisemiti dell’Impero germanico. All’amico Overbeck e Signora, per quanto sino ad ora abbiate dimostrato scarsa fiducia nella mia solvibilità, spero tuttavia di riuscire a dimostrare che sono uno che paga i suoi debiti – ad esempio quelli che ho con voi… Sto facendo fucilare tutti gli antisemiti. Dioniso105
Con questa fine annunciata in contumacia a un «movimento per tre quarti cattivo e sporco» sembrava chiudersi anche la “questione ebraica” che per decenni aveva impegnato Nietzsche, talvolta in modo aperto, talaltra
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più nascostamente. Al punto che lui stesso si era definito un «anti-antisemita» in una lettera del 7 febbraio 1886 alla sorella Elisabeth.106 Veemente antisemita, Elisabeth Nietzsche aveva sposato l’agitatore Bernhard Förster. Nel 1887 lo seguì in Paraguay dove fondarono la colonia “Nueva Germania” che avrebbe dovuto essere dedicata all’allevamento sperimentale della razza ariana. Dopo la morte del fratello ne curò il lascito in modo controverso e fondò il NietzscheArchiv a Weimar, dove fra l’altro accolse Hitler nel 1934. Negli anni del Terzo Reich Nietzsche fu considerato il visionario che aveva scorto la possibilità di una riproduzione selettiva e aveva avanzato l’esigenza di allevare una «razza» di dominatori, i «futuri “signori della terra”», dove non ci sarebbe stato più spazio per i deboli, i malati, i superflui, e dove sarebbe stato necessario far valere una «morale che rendesse forti», al fine di «foggiare artisticamente l’“uomo”», o meglio, l’Übermensch, il superuomo.107 Se già durante la prima guerra mondiale, quando lo Zarathustra era parte dell’armamentario di ogni soldato tedesco, Nietzsche era assurto a profeta della patria tedesca, in seguito fu l’ispiratore del nazionalsocialismo.108 Il nesso sembrava inscindibile: era difficile essere nazionalsocialisti e non riconoscersi nel pensiero di Nietzsche. Dalla metà degli anni cinquanta quel nesso cominciò ad allentarsi. Sembrò unilaterale il modo in cui György Lukács, nella sua opera del 1954, La distruzione della ragione, muovendo da presupposti marxisti, aveva stigmatizzato Nietzsche indicando in Hitler il suo «esecutore testamentario».109 A offrire una nuova immagine di Nietzsche, più addomesticata, e più accettabile soprattutto per il mondo anglosassone, fu Walter Kaufmann, che da Friburgo aveva dovuto emigrare a Princeton alla fine degli anni trenta. La sua monografia, uscita nel 1950, inaugurò la denazificazione di Nietzsche che
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attraversò la cultura occidentale e culminò negli anni settanta.110 Decisiva fu l’impresa di Montinari e Colli che lavorarono negli archivi di Weimar per pubblicare, a partire dal 1967, l’edizione critica delle opere. Nietzsche apparve sotto un aspetto del tutto inedito come il filosofo del prospettivismo, della metafora e della differenza. La riedizione delle opere fornì la cornice per una complessa operazione di autocoscienza critica della sinistra, della sua politica, della sua cultura. Solo in parte il dibattito tedesco su Nietzsche si sottrasse a questa tendenza: se da un canto sembrava più difficile estrapolarne il pensiero dal contesto storico, dall’altro, però, la mancanza di una profonda riflessione filosofica sul nazismo e sullo sterminio favorì l’immagine denazificata del filosofo. In questa visione, che cominciò a vacillare negli anni novanta, restavano aperte molte inquietanti domande che riguardavano proprio l’interpretazione delle sue tesi sugli ebrei e sull’ebraismo, nonché la ricezione delle sue idee negli anni del nazionalsocialismo. Se i dottrinari del Reich avevano ripreso le sue parole, se il filosofo Alfred Baeumler, che conosceva bene i suoi testi, aveva sottolineato la sua radicale ostilità verso gli ebrei, l’immagine dell’anti-antisemita, o del filosemita, doveva forse essere rivista.111 Ad aprire un nuovo capitolo, nel caso Nietzsche, è stato Steven Aschheim che, al di là del ruolo attribuibile a Nietzsche nel Terzo Reich, si è interrogato sulle ripercussioni, dirette o indirette, che il suo pensiero ha avuto sul progetto dello sterminio.112 La questione era già stata sollevata in parte sia da Georg Lichtheim, che aveva chiamato in causa Nietzsche come ispiratore, sia da Conor Cruise O’Brien, che aveva osservato: «non appena quei valori, che gli ebrei avevano rovesciato, fossero stati ripristinati, non ci sarebbe stato più nessun limite, ma non ci sarebbero stati più neppure gli ebrei».113
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Proprio il modo in cui, con il suo anticristianesimo, Nietzsche radicalizza la “questione ebraica”, è il tema discusso nel dibattito più recente. In uno studio accurato, in cui per la prima volta viene ricostruita la ricezione di Nietzsche in Germania fino al 1945, Thomas Mittmann ha messo in rilievo le responsabilità del filosofo, il cui antisemitismo avrebbe superato tutte le forme precedenti e che avrebbe introdotto l’idea stessa dell’eugenetica: «Nietzsche non ha pensato a una violenta “soluzione della questione ebraica”, ma le dimensioni eliminatorie della sua filosofia ne hanno favorito l’acuirsi».114 All’interno di un dibattito che non si è mai arrestato, e dove sin dall’inizio si sono fronteggiati da un canto coloro che, anche da parte ebraica, considerano l’antiantisemitismo di Nietzsche come un filosemitismo, dall’altro coloro che vi scorgono invece una radicalizzazione estrema dell’odio, occorre riandare ai suoi testi per leggerli alla luce del suo complessivo progetto filosofico.115 Al di là del bene e del male, nell’opera di Nietzsche agli ebrei e all’ebraismo è affidato un ruolo centrale. Altrettanto certo è che i suoi scritti, per lo stile aforistico che li caratterizza, la profondità psicologica che li sottende, l’ironia che li attraversa, il gusto per il paradosso che li pervade, hanno sempre dato adito a interpretazioni divergenti, se non opposte, e hanno perciò provocato numerose battaglie culturali. Si è parlato molto delle differenti maschere che Nietzsche assume, del suo abile accordarsi con le voci differenti a cui dà spazio negli aforismi. Ciò non vuol dire tuttavia che l’ermeneutica non debba rispondere al criterio della coerenza e che Nietzsche non difenda tesi filosofiche ben precise. A questo proposito Derrida, sottolineando una complicata complicità, ha osservato: Si deve anche rendere conto di questa possibilità di inversione e perversione mimetica. […] Non vi è nulla di contingente nel fatto che l’unica politica che lo abbia effettivamente brandito come l’insegna
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somma e ufficiale sia stata la politica nazista. Con ciò non intendo dire che questa politica “nietzscheana” sia la sola possibile, né che corrisponda alla migliore lettura della sua eredità, né che coloro che non vi si riferiscono lo abbiano letto meglio. Nulla di tutto ciò. L’avvenire del testo-Nietzsche non è chiuso. Ma la circostanza per cui, nei contorni ancora aperti di un’epoca, la sola politica che si dica nietzscheana, se-dicente nietzscheana, sia stata nazista, è necessariamente significativa e va indagata nella sua portata.116
Il progetto filosofico di Nietzsche è per molti versi opposto a quello di Hegel, perché mira non già a portare a compimento, bensì a rovesciare il progresso della modernità, che considera una storia di decadenza. Le fonti della decadenza sono due: la metafisica razionalistica e il cristianesimo. Figlio di un pastore protestante, Nietzsche denuncia nel cristianesimo la forma più subdola di nichilismo che nega la vita, la opprime, la soffoca, manipolando la coscienza e instillandovi il senso di colpa. Questo è possibile sia attraverso un ordine morale, in cui vengono dispensate pene e ricompense, sia soprattutto attraverso un Dio trascendente che ha denaturalizzato il mondo. Anche dopo la morte di Dio, che annuncia così – «Dio è morto […] e noi lo abbiamo ucciso» – Nietzsche si chiede: «quando sarà che tutte queste ombre di Dio non ci offuscheranno più?».117 E aggiunge una domanda imperativa e programmatica: «quando avremo del tutto sdivinizzato la natura»?118 Sottrarre la natura all’ombra di Dio è per Nietzsche-Dioniso la via attraverso cui anche l’uomo può tornare a essere naturale, per reimmergersi nel caos eterno del mondo e liberarne le energie vitali. Nietzsche è un genealogista e così non ha difficoltà a scorgere l’Ebreo dietro l’ombra di Dio. A inventare il cristianesimo, che ha profondamente corrotto e danneggiato l’Europa, sono stati gli ebrei. A loro spetta il compito di rimediare. Ne va del destino dell’Europa, ma anche del destino degli ebrei europei. Il compito più alto per il danno più grave: nello stretto margine di questo
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drammatico paradosso si compendia il ruolo degli antenati di Cristo che, al servizio del moderno Anti-Cristo, di Nietzsche-Dioniso, dovrebbero espiare la loro colpa originaria. Nei panni di un nuovo «crocefisso» dall’aspetto dionisiaco, che aspira a soppiantare il vecchio «crocefisso», Nietzsche assume la maschera di un Contro-Gesù, che mira a distruggere il cristianesimo, e lancia una nuova potente accusa contro gli ebrei. Se nei secoli sono stati incriminati per aver ucciso Gesù, Nietzsche li accusa di averlo creato. È una colpa meno grave? O forse apparentemente più lieve, ma a ben guardare più rovinosa e infausta? In ogni caso gli ebrei sono colpevoli. Nietzsche non riconduce l’ebreo a un’essenza immutabile e l’ebraismo a un concetto fisso. La sua visione è prospettica e si dispiega nei tre periodi in cui distingue la storia di Israele.119 Il primo periodo è quello dell’Antico Testamento, «il libro della giustizia divina», che Nietzsche considera quasi il documento di un’età primitiva, in cui scorge, oltre alle «smisurate reliquie di quel che una volta fu l’uomo», un paesaggio eroico e una vita che si afferma con una rispondenza dionisiaca alla natura.120 Se esprime ammirazione è solo perché, su quel periodo, la cui origine sembra dileguare nel mito, proietta i propri ideali. Così, sottraendo l’Antico Testamento alla storia ebraica, che sarebbe storia di decadenza, può osservare: «in origine, soprattutto all’epoca del potere regio, anche Israele si trovava nel giusto, vale a dire nel naturale rapporto con tutte le cose».121 Uno scarto incolmabile separa il primo dal secondo periodo. All’antica era biblica, sublime e irrecuperabile, subentra l’epoca, storica e reale, del Secondo Tempio, in cui l’ebraismo «sacerdotale» produce il Nuovo Testamento che Nietzsche giudica, a tutti gli effetti, un testo ebraico. Solo in apparenza non viene reiterata, dunque, la teologia della sostituzione. Con lo scarto fra ebraismo
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biblico e ebraismo sacerdotale, se per un verso si suggerisce l’idea di una naturalità perduta, per l’altro si denuncia la «snaturalizzazione» decretata dalla legge ebraica piegandosi alla quale l’uomo si annulla di fronte al Dio trascendente.122 È questo il periodo della trasvalutazione dei valori, del risentimento, e soprattutto, della rivolta degli schiavi. Nella Genealogia della morale Nietzsche porta alla luce rovesciamento e rivolta compiuti dagli ebrei, «quel popolo sacerdotale» che ha saputo rispondere ai propri nemici e dominatori con un atto improntato alla «più spirituale vendetta».123 Mentre sono stati scalzati i naturali valori aristocratici, è stata aperta la via ai poveri, agli impotenti, agli umili, ai sofferenti, agli indigenti, agli infermi, ai deformi. Nella morale la rivolta degli schiavi ha inizio da quando il ressentiment diventa esso stesso creatore e genera valori; il ressentiment di quei tali esseri a cui la vera reazione, quella dell’azione, è negata e che si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria. Mentre ogni morale aristocratica germoglia da un trionfante sì pronunciato a se stessi, la morale degli schiavi dice fin da principio no a un “di fuori”, a un “altro”, a un “non io”: e questo no è la sua azione creatrice. Questo rovesciamento del giudizio che stabilisce valori – questo necessario dirigersi all’esterno, anziché a ritroso verso se stessi – si conviene appunto al ressentiment.124
Se nella Genealogia della morale Nietzsche riconduce la trasvalutazione dei valori al risentimento, nell’Anticristo insiste piuttosto sulla snaturalizzazione, per cui l’ebraismo avrebbe introdotto una vita contro natura. Il concetto di Dio falsificato; il concetto falsificato della morale – la classe sacerdotale ebraica non si fermò a questo. […]. E i filosofi secondarono la chiesa: la menzogna dell’“ordinamento etico del mondo” s’intreccia persino all’intero sviluppo della filosofia moderna.125
Malgrado le differenti prospettive, pure Nietzsche appare qui non distante da Hegel e, alla fin fine, anche da Kant. Non solo gli ebrei sono alienati, perché seguono
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valori contro natura, ma sono la figura stessa dell’alienazione nella storia. Ciò è ascritto alla legge, al loro legalismo e al modo in cui il loro spirito si sarebbe pietrificato nel rigido codice sacerdotale. Il terzo periodo che Nietzsche individua nella storia di Israele corrisponde all’ebraismo della diaspora. Il giudizio sembra mutare: ammirazione viene espressa per coloro che hanno rifiutato per secoli di identificare Gesù con il Messia e hanno resistito, pur nelle persecuzioni. Anche «nei tempi più oscuri del medioevo, quando lo strato di nubi asiatico si era accampato pesantemente sull’Europa, furono liberi pensatori, dotti e medici ebrei, che tennero alto il vessillo del rischiaramento e dell’indipendenza spirituale».126 Ma questo giudizio non deve ingannare; la simpatia di Nietzsche va a una disposizione psicologica: «il popolo ebraico è un popolo dalla tenacissima forza vitale, il quale, una volta posto a vivere in condizioni impossibili, deliberatamente, spinto dalla più profonda saggezza dell’autoconservazione, prende le parti di tutti gli istinti della décadence».127 Quella resistenza si è tradotta storicamente nell’opposizione al cristianesimo. Perciò nella stessa pagina di Umano troppo umano può scrivere che, se il cristianesimo ha «orientalizzato» l’Occidente, l’ebraismo lo ha sempre di nuovo occidentalizzato. Al contrario di Hegel, che semplicemente non vede più la ragion d’essere degli ebrei, a molti decenni di distanza Nietzsche si interroga sul posto degli ebrei nell’Europa del futuro. In un continente spartito tra nazioni, i cui conflitti sono già all’ordine del giorno, che ne sarà degli «ebrei europei» che non sono una nazione, non hanno uno stato e hanno condotto una vita nomadica? Nietzsche è un pensatore che ha «sulla coscienza l’avvenire dell’Europa», non certo, però, quello degli ebrei, che d’altronde non considera concittadini, ma estranei e stranieri.128 In modo non dissimile da altri filosofi, sottolinea
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quel che è già avvenuto, cioè l’ammissione di una componente «asiatica» nel contesto europeo, l’accoglienza di «questo piccolo ed estraneo mondo ebraico», un processo a cui non sembra più possibile porre rimedio: «l’Europa ha lasciato che proliferasse dentro di sé un’eccedenza di moralità orientale, così come l’hanno inventata e percepita gli ebrei».129 Il problema è tanto più urgente in Germania. E al proposito Nietzsche non usa mezzi termini: Non ho incontrato ancora nessun tedesco che abbia nutrito della benevolenza per gli ebrei; e per quanto possa essere assoluto il rifiuto del vero e proprio antisemitismo da parte di tutti i politici e di tutti gli uomini di buon senso, pur tuttavia anche questa cautela e questa politica non si dirigono, a un certo punto, contro il genere del sentimento stesso, ma soltanto contro il suo pericoloso difetto di misura, e in particolare contro l’espressione insulsa e scandalosa di questo smoderato sentimento – su ciò non è consentito prendere abbagli. Che la Germania abbia veramente abbastanza ebrei, che lo stomaco tedesco e il sangue tedesco abbiano difficoltà (e questa difficoltà la sentiranno ancora a lungo) di smaltire anche soltanto questo quantum di “ebraico” […] è questa la chiara asserzione e il chiaro linguaggio di un istinto comune, cui si deve prestare ascolto, e alla stregua del quale si deve agire. «Non consentire l’accesso ad altri ebrei! E specialmente a Oriente (anche dalla parte dell’Austria) sbarrare le porte!».130
La risposta politica che Nietzsche dà alla “questione ebraica” deriva dalla sua riflessione teologica, dal modo in cui vede il nesso inscindibile tra ebraismo e cristianesimo. Decisiva è la condanna dell’«ebraismo sacerdotale» che ha la colpa di aver introdotto nella storia del mondo la rivolta degli schiavi. Non è possibile sostenere che il bersaglio di Nietzsche sia solo il cristianesimo, e non l’ebraismo. Questa sarebbe una visione riduttiva. Il bersaglio di Nietzsche è il cristianesimo nella misura in cui viene immediatamente connesso all’ebraismo. Mentre Kant o Hegel tracciano una linea di demarcazione, sottraendo così il cristianesimo alle critiche che rivolgono all’ebraismo, Nietzsche può essere considerato il primo filosofo a sferrare un attacco senza precedenti all’ebrai-
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smo, un attacco che si amplia fino a coinvolgere il cristianesimo. Nel colpire l’uno, colpisce anche l’altro. Si può dire che il nemico di Nietzsche sia il messianismo. La minaccia è la «ebraizzazione del mondo intero» portata da Israele sotto le mentite spoglie del cristianesimo. «Il cristiano non è nient’altro che un ebreo di confessione “più libera”».131 Ciò è avvenuto inoculando ad esempio il sentimento del peccato, quell’«invenzione ebraica» che si è fatta largo grazie alla moralità cristiana.132 Non è un caso che, con grande chiarezza, Nietzsche risalga allo scontro tra Roma e Israele. Perché è in quell’arco di tempo che tutto – o quasi – è stato deciso. E per quel che resta ancora da decidere in Europa, occorre guardare a quello scenario. Tutto è accaduto nel segno di una grande menzogna architettata dalla «classe sacerdotale ebraica» che, dopo aver escogitato la legge, per «conservare Israele, la sua possibilità di esistenza», attraverso l’insurrezione del popolo e la trasfigurazione teologica ha fatto credere che il cristianesimo non fosse solo evento ebraico, riuscendo così a proiettare all’esterno l’ebraismo. Dopo aver «falsificato l’intera storia di Israele», viene falsificata anche l’«intera storia dell’umanità».133 Così Israele, senza combattere, ma mentendo e falsificando, affronta Roma.134 Il simbolo di questa lotta, espresso in caratteri che sono restati sino a oggi leggibili per tutta la storia dell’umanità, è «Roma contro Giudea – Giudea contro Roma»: – non c’è stato finora evento più grande di questa lotta, di questo modo di porre il problema, di questo contrasto tra nemici mortali.135
A Roma l’ebreo viene percepito come un essere contro natura, un «monstrum antipodale», ed è ritenuto «reo di odio contro tutto il genere umano».136 Lo scontro è, da un canto, tra i valori aristocratici, nobili, i valori romani, e dall’altro i valori ebraici, cioè cristiani, o per meglio dire quel rovesciamento dei valori che si è affermato con la rivolta degli schiavi. Questa è agli occhi di Nietzsche la
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colpa più grave di Israele, una colpa che si riassume nel rovesciamento e nella rivolta. Gli ebrei, un popolo che crede di essere «eletto», ma che è «nato per la schiavitù», ha compiuto il «miracolo» del rovesciamento dei valori per cui la vita sulla terra ha assunto una seduzione nuova e pericolosa.137 Qui sta l’importanza di Israele nella storia, qui sta la sua minaccia. Perché senza il rovesciamento non sarebbe stata possibile la rivolta degli schiavi. «La salvezza viene dagli ebrei» – Nietzsche cita, non senza ironia, Giovanni (4, 22) in un passo particolarmente violento. In quanto grande movimento plebeo dell’Impero romano, il cristianesimo è la sollevazione degli elementi deteriori, incolti, oppressi, malati, folli, poveri, schiavi, delle vecchie comari, dei vili, insomma di tutti coloro che avrebbero avuto ragione di suicidarsi, ma non ne avevano il coraggio.138
Trovarono nella speranza di Israele la felicità per sopportare la vita. In questa salvezza offerta agli schiavi, in questa «antica parola d’ordine menzognera del privilegio dei più», sta la sfida di Israele lanciata fin dentro il cuore di Roma. Nella rivolta degli schiavi Nietzsche indica una «delle più radicali dichiarazioni di guerra».139 Perché la rivolta non è stata sconfitta e Israele non ha mai smesso di vincere. Quali di essi ha temporaneamente vinto, Roma o Giudea? Ma non c’è proprio il minimo dubbio: si consideri invero dinanzi a chi ci si inchina oggi, nella stessa Roma, come dinanzi alla sintesi di ogni supremo valore – e non soltanto a Roma, ma quasi su metà della terra […] – dinanzi a tre ebrei, come è noto, e a una ebrea (dinanzi a Gesù di Nazareth, al pescatore Pietro, al tessitore di tappeti Paolo e alla madre del suddetto Gesù, chiamata Maria). È un fatto assai degno di nota: senza dubbio Roma ha dovuto soccombere.140
Se ha vinto il «volgo», il «gregge», e se i «signori», gli Herren, sono stati tolti di mezzo, questo è dunque accaduto grazie agli ebrei: «mai un popolo ha avuto una missione così grande nella storia del mondo».141 Perciò «gli ebrei sono il popolo più infausto».142 Come il cristiane-
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simo non sarebbe comprensibile se non su un terreno ebraico, così Gesù e Paolo sono, seppure in modalità diverse, figure di Israele. Un «Gesù Cristo era possibile solo in un paesaggio ebraico».143 Grazie a quel «santo anarchico», quel «delinquente politico», quel «redentore», Israele percorre la «strada obliqua» della vendetta. Se lo inchioda alla croce è per far credere che sia «l’avversario e il distruttore».144 Chi potrebbe escogitare «un’esca più pericolosa»? Nietzsche reinterpreta così anche il deicidio entro la politica di Israele che con la falsificazione avrebbe «giudaizzato», ovvero «cristianizzato» il mondo.145 Anche Paolo viene visto in questa prospettiva: Paolo, l’odio dei ciandala contro Roma, contro «il mondo», divenuto carne, divenuto genio: l’ebreo, l’eterno ebreo par excellence… Quel che lui divinò fu come si potesse accendere, con l’aiuto del piccolo, settario movimento cristiano, in disparte dall’ebraismo, una «conflagrazione cosmica».146
Nel Crepuscolo degli idoli Nietzsche indica nel cristianesimo «sorto da una radice ebraica» il movimento contrario «a ogni morale dell’allevamento, della razza, del privilegio»; lo definisce la «religione antiariana».147 Mentre tiene saldo il nesso tra ebraismo e cristianesimo, lo proietta nella modernità e, percorrendo duemila anni con la stessa rapidità con cui passa dai motivi teologici a quelli politici, produce un corto circuito: «il profondo disprezzo con cui il cristiano veniva trattato nel mondo antico […] assomiglia all’avversione istintiva che si ha ancora oggi nei confronti degli ebrei».148 Il gioco di maschere è alla fine questo: dietro ogni cristiano si nasconde, seppure inconsapevolmente, un ebreo, perché ogni cristiano è convertito all’ebraismo, anche se mantiene un legame più libero; dietro ogni ebreo si cela la minaccia, mai venuta meno, della cristianizzazione del mondo, cioè della sua «giudaizzazione».
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Sotto questo aspetto l’anti-antisemitismo è un fenomeno ben più superficiale della profonda ostilità che investe perfino il cristianesimo. Nietzsche giudica l’antisemitismo, che sia quello di Wagner, della sorella Elisabeth, del cognato Förster, di Burckhardt, e dei molti che lo circondano, una risposta moralmente sbagliata e politicamente insufficiente. L’anti-semita è piegato al «semita». La sua è una risposta reattiva che lo rende dipendente da chi vorrebbe respingere. «Un antisemita non è altro che un ebreo invidioso».149 Finisce per condividere persino il risentimento. «Ciò che nei veri e propri nemici degli ebrei (come Wagner) mi colpisce è l’affinità piuttosto che la diversità rispetto all’elemento ebraico – è un’enorme gelosia».150 Perciò l’antisemitismo è spregevole ed è espressione plebea.151 Inoltre non offre una visione politica, perché non considera l’ebraismo nella sua complessità, non ne coglie la minaccia effettiva. Se Israele non ha smesso di vincere, se gli ebrei riescono a farsi valere persino nelle condizioni peggiori «grazie a talune virtù che oggi volentieri si vorrebbe bollare come vizi», se sono «la razza più forte, più tenace e più pura che viva oggi in Europa», allora rappresentano un pericolo e un’insidia.152 In linea con i filosofi che lo hanno preceduto, Nietzsche considera gli ebrei un corpo estraneo in quello che spesso chiama il «guazzabuglio europeo». L’estraneità, che affiora, sotto ogni profilo, attesta una assimilazione mancata. Gli ebrei non sono simili agli altri popoli europei e perciò si pone l’interrogativo del loro futuro. Nietzsche ne coglie l’urgenza, ma ritiene prematura una «sistemazione». Tuttavia, in un lungo aforisma, contenuto in Aurora, e intitolato Del popolo d’Israele, delinea la questione con toni inquietanti. Agli spettacoli cui ci invita il prossimo secolo, appartiene la decisione sul destino degli ebrei europei. Che essi abbiamo gettato il loro dado e passato il loro Rubicone è un fatto palmare: ormai non resta loro che divenire i padroni d’Europa oppure perdere l’Europa,
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come una volta, molto tempo fa, persero l’Egitto, dove si erano posti un simile aut-aut.153
Nel prosieguo del passo Nietzsche torna su questa alternativa: sostiene che «non è pensabile», da parte degli ebrei, «una conquista dell’Europa o un qualsiasi atto di violenza», e consiglia la cautela dell’attesa: «ma sanno anche che l’Europa chissà quando dovrebbe un giorno cadere come un frutto pienamente maturo nella loro mano».154 Mentre da un canto viene ventilata la minaccia di un’Europa dominata dagli ebrei, dall’altro si prospetta crudamente la perdita di quel luogo abitato da secoli. L’Europa come l’Egitto: un paragone grave, incongruo, carico nondimeno di avvertimenti. L’esodo, che Nietzsche vede non come la liberazione esemplare di un popolo, bensì come un’espulsione, un allontanamento addossabile agli ebrei, potrebbe ripetersi, e sarebbe la risposta alle loro ambizioni di dominio. La volontà di potenza, causa di quella «santa menzogna» che ha guidato gli ebrei nella storia del mondo, spiegherebbe l’alternativa drastica che non sembra lasciare spazio ad altre vie. Che sia conquista o che sia perdita, intenzione e responsabilità vengono attribuite agli ebrei. Anche in seguito Nietzsche torna su questo tema riprendendo, seppure per smentirlo, l’allarme lanciato dagli antisemiti più radicali, come Wilhelm Marr, che accusavano gli ebrei di aver subdolamente dato inizio a una guerra contro i tedeschi e parlavano già apertamente di «vittoria dell’ebraismo».155 Risulta assodato che gli ebrei, se volessero – o se vi fossero costretti, come sembrano volerli costringere gli antisemiti – potrebbero già in questo momento avere la preponderanza, anzi il vero e proprio dominio sull’Europa; ed è altrettanto certo che essi non lavorano e non fanno piani a questo scopo. Per il momento invece vogliono e desiderano, perfino con una certa importuna insistenza, essere assorbiti e risucchiati, in Europa, dall’Europa.156
È credibile per Nietzsche l’ipotesi dell’assimilazione? E in che modo, se quel progetto era fallito? Si apre una terza
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via nell’alternativa tragica che lascia già presagire lo sterminio? Facendo leva su quei passi ambigui, in cui si accenna a un mescolarsi delle «razze», alcuni interpreti ritengono che Nietzsche lasci agli ebrei europei una porta aperta. Così, ad esempio, Yovel parla di una «assimilazione creativa».157 Ma per chiarire questo concetto, precisa che si tratterebbe di una sorta di secolarizzazione. Gli ebrei, rimediando al danno arrecato con il cristianesimo, e dunque trasformando la loro «eterna vendetta» in una «eterna benedizione», potrebbero infine immergersi in quell’Europa dionisiaca che Nietzsche immagina.158 Ma che cosa sarebbero questi ebrei non-più-ebrei, spogliati del loro ebraismo? E non si tratta forse di una versione al contempo più ambivalente e più feroce dell’eutanasia proposta da Kant? Un’eutanasia che questa volta riguarderebbe non solo l’ebraismo, ma anche il cristianesimo? Nietzsche non aveva bisogno di ricevere suggerimenti dagli antisemiti dell’ultima ora. La guerra era cominciata per lui molti secoli prima con il rovesciamento dei valori e con la rivolta degli schiavi. Intravvedeva semmai l’incombere dell’ultimo, decisivo conflitto. Che cosa poteva esservi, d’altronde, di più antitetico tra l’«allevamento» di una «nuova casta» al governo dell’Europa, e quei ciandala che trionfavano, «ebrei in testa»?159 L’accusa luterana della menzogna viene proiettata da Nietzsche sul filo della storia e si dilata in una falsificazione che non riguarda più la Scrittura, come nel caso di Lutero, ma investe la natura, la distorce, la altera, la rovescia. La falsificazione diventa la chiave per decifrare l’esistenza ebraica. In un passo dell’Anticristo, forse quello filosoficamente più rilevante, anche per le risonanze e le ripercussioni, Nietzsche scrive: Gli ebrei sono il popolo più notevole della storia mondiale, poiché, posti dinanzi alla questione dell’essere e del non essere, hanno preferito con una consapevolezza assolutamente inquietante l’essere a qualsiasi prezzo: questo prezzo fu la radicale falsificazione di ogni
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natura, di ogni naturalezza, di ogni realtà, dell’intero mondo interiore così come di quello esterno.160
Il popolo ebraico, che vuole essere in eterno, sopravvissuto a se stesso per quel legame prepotente con la vita, si è proteso nei secoli in una forma di esistenza contro natura. Già di per sé falsificato, l’ebreo ha la colpa ulteriore, la più grave, quella di aver introdotto la falsificazione, la Fälschung, nella storia del mondo, cioè il rovesciamento dei valori, l’imperativo di non uccidere, la morale degli schiavi. Il passaggio a cui il nazionalsocialismo si sente allora designato è quello di ripristinare i valori: se l’ebraismo, anche nella sua versione ultima, il cristianesimo, ha falsificato la natura, determinando una degenerazione estrema, allora occorre ritornare alla natura, rovesciare, per così dire, il rovesciamento, e soprattutto cancellare i falsificatori.161 Questo passaggio è tutt’altro che immediato, né in questo ambito può valere il nesso di causa e effetto. Ma l’accusa di Nietzsche è esiziale, come devastante è il suo discorso sulla degenerazione, l’eutanasia, l’eliminazione di decadenti e superflui.162 Di qui hanno tratto ispirazione i programmi biopolitici dei nazisti. A un mondo sempre più cosciente della crisi Nietzsche diagnostica la malattia e al contempo indica la cura rigenerativa. Gli esiti di quel deciso antiumanismo, di una morale del tutto screditata, sarebbero stati in seguito denunciati dai sopravvissuti. Jean Améry chiama in causa Nietzsche: Così parlò colui che sognava la sintesi tra nonuomo e superuomo. A lui vanno ricordati coloro che furono testimoni della sintesi tra nonuomo e sottouomo; essi erano presenti, in qualità di vittime, allorquando una certa umanità, nella gioia festosa, realizzò la crudeltà, come lo stesso Nietzsche aveva descritto prefigurando alcune interpretazioni antropologiche contemporanee.163
Quel che di Nietzsche ha finito per passare nel progetto di Hitler è, com’è noto, un gergo brutale e diretto,
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depurato da ironia e sottigliezze. Si mantengono tuttavia l’impulso all’esperimento radicale, l’istinto selvaggio che può far saltare ogni tabù mai caduto prima; entro questo scenario apocalittico diventa pensabile lo sterminio.
7. Menzogna e finzione. Il non-essere dell’Ebreo in Mein Kampf Più noto per aver bruciato i libri, che per averli letti, Hitler possedeva tuttavia una cospicua biblioteca in cui figuravano, fra l’altro, opere di storici, narratori, poeti, commediografi e, non da ultimo, di filosofi. Erano presenti gli esponenti dell’idealismo, in particolare Fichte; ma avevano un posto di rilievo Nietzsche e Schopenhauer – quest’ultimo era forse il filosofo preferito. Hitler leggeva nelle ore notturne e seguiva una sua tecnica «a mosaico» appropriandosi di quel che trovava nei testi per riempire le «tessere» mancanti.164 A metà fra scritto propagandistico e autobiografico, Mein Kampf è stato a lungo considerato una raccolta di vuote banalità o di folli farneticazioni. Ciò ha impedito un serio confronto con «il libro vietato» e ha contribuito a fare di Hitler la personificazione del Male assoluto che si colloca fuori dalla ragione e fuori dalla storia.165 Se così fosse, non si capirebbe, però, il potente influsso esercitato dall’hitlerismo su intellettuali, giuristi e filosofi di quegli anni, «persino su una grande mente come Martin Heidegger».166 Di solito si fa riferimento a Mein Kampf, lo si cita tutt’al più in modo approssimativo, senza conoscerne il contenuto. La questione è ermeneutica: avrebbe senso comprendere Hitler? Con tutta l’ambiguità che ne consegue e che rinvia pericolosamente alla comprensione? Ma comprendere non vuol dire né giustificare né, tanto meno, condividere. Ben più pericolosa è la convinzione, ancora dif-
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fusa, che i fatti e misfatti del Reich non siano stati guidati da alcun pensiero – o almeno non da un pensiero che possa essere preso seriamente. Si presume di conoscere già quell’ideologia nell’essenziale; si condanna quel «razzismo», senza sapere spesso neppure che cosa Hitler intendesse con “razza”.167 Diventa allora difficile, se non impossibile, rispondere ad alcune domande: perché Hitler ha creduto che fosse necessario eliminare dal pianeta il popolo ebraico? Perché ha identificato nell’Ebreo il nemico assoluto? Chi è l’Ebreo per Hitler? Il concetto di «volontà di potenza» delineato da Nietzsche, la teoria dell’evoluzione di Spencer, i paradigmi biologici che guardano al genere umano come un insieme di specie diverse, confluiscono in un’idea della natura dove, per Hitler, decisivo è l’istinto vitale. Quest’ultimo non si afferma solo nell’autoconservazione, ma mira anche a un miglioramento della vita e dei suoi prodotti. Asseconda perciò la natura che, nella concezione di Hitler, è una sorta di ipersoggetto capace di reggere e pianificare il progresso scandito da lotta e selezione. Come le specie animali, così dovrebbero funzionare anche quelle umane: in questo passaggio, nella pretesa, cioè, che gli essere umani siano divisi in specie si compendia il razzismo biologico. Per Hitler ogni specie, ogni Art, deve essere chiusa, salvaguardare sia l’omogeneità interna sia la differenza dalle altre, e soprattutto evitare ogni Vermischung, ogni mescolamento e incrocio. Perché il mescolarsi delle specie animali, così come delle «razze» umane, sarebbe causa di deterioramento. Deve infatti prevalere ciò che per natura è superiore – dunque anche le «razze» superiori. Chi tenta di ribellarsi a questa «ferrea logica della natura», pregiudica i fondamenti dell’esistenza. L’idea che l’essere umano possa e debba superare la natura è una «sciocca impudenza» dei «pacifisti ebrei».168 Non si deve tuttavia credere che Hitler sostenga un biologismo deterministico, sia perché decisiva è pur sem-
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pre la volontà, sia perché il concetto di «razza» è più complesso e riguarda anzitutto il «modo di pensare», la Art des Denkens. Ciò emerge con chiarezza quando, nel capitolo Volk und Rasse (Popolo e razza), vengono descritte le due razze antagoniste, gli ariani e gli ebrei. «Il nemico è la personificazione del nostro problema»: questo famoso motto di Theodor Däubler, ripreso da Carl Schmitt, rende bene sia il contrasto sia la complementarietà tra le due figure.169 L’ariano si staglia sullo sfondo oscuro dell’ebreo, ma alla fin fine sarebbe inimmaginabile senza l’ebreo. Tutte le caratteristiche di quest’ultimo sono proiettate in positivo sull’ariano.170 Hitler ritiene oziosa la questione filogenetica, quale razza, cioè, abbia contribuito a fondare la cultura umana; ben più importante è la questione ontogenetica, ossia quale razza mostri quelle peculiarità che ne fanno la stirpe per eccellenza dei Begründer, i «fondatori» della cultura, dell’arte, della scienza, dei valori umani. L’ariano è il «Prometeo dell’umanità», colui che, nella rivolta contro gli dei, ha conquistato attributi divini che ne hanno fatto il prototipo del genio e della creatività. In breve, il tratto che caratterizza l’ariano è l’originalità dell’arché, la capacità di fondare. È l’ariano che getta «le fondamenta e innalza le mura di ogni costruzione umana».171 Si tratta della base dell’Occidente: «spirito ellenico e tecnica tedesca», destinati a estendersi ben presto ovunque.172 Si profila infatti una gerarchia: accanto ai fondatori ci sono i «portatori di cultura» e, infine, i «distruttori». I portatori sono, ad esempio, i giapponesi – rappresentanti di un Oriente asiatico, apparentemente controllabile, la cui distante alterità non inquieta come quella così prossima dell’ebreo. La supremazia dell’ariano non dipende «da una più forte predisposizione dell’istinto vitale», bensì dal modo in cui esprime la «volontà». La sua grandezza sta in quell’«idealismo» che lo spinge a mettere tutte le sue atti-
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tudini al servizio della collettività – fino al «sacrificio di sé».173 Guardando all’inesorabile ciclo della storia, che dall’alba giunge ogni volta al tramonto, lo Herrenvolk, il popolo dei signori, può conservare il dominio, solo se mantiene puro il «sangue», metafora dell’identità.174 L’ebreo che, nel corso dei secoli, non ha mutato la sua essenza, si caratterizza per la mancanza di arché: non ha originalità, né creatività, né genialità. Non sa fondare nulla – sa anzi solo distruggere. È il prototipo dei distruttori. A ben guardare, l’ebreo non ha nulla in proprio, ma quello che possiede è solo preso a prestito. In tal senso è «deserto» di vera cultura.175 Gli ebrei sanno solo «imitare» e «riprodurre»; ma la loro «intelligenza» è specializzata nella «distruzione».176 Al contrario di quel che in genere si crede, gli ebrei – afferma Hitler – non sono neppure nomadi, perché il nomade «possiede un territorio, sia pure indeterminato», sulla cui base ha potuto creare una cultura. L’ebreo invece, privo di terra e di ogni proprietà, trascina un’esistenza «parassitaria» a danno degli altri popoli. Se emigra è perché l’autoctono lo espelle e lo bandisce non appena gli fa cadere il velo che lo dissimula.177 Tuttavia l’ebreo, senza proprietà e senza qualità, che ha tutto in prestito, in un possesso dunque fittizio, e che è in grado solo di imitare, sfugge a una definizione.178 In che cosa consisterebbe la sua essenza? Se viene ogni volta detto quel che non è – e che finge di essere? Per questo Hitler si richiama alla definizione di Schopenhauer: «l’ebreo è un gran maestro di menzogne». Anzi la menzogna segna la sua stessa «esistenza».179 L’ebreo finge di essere quel che non è – dissimula, inganna. In questo non-essere, che viene imputato all’ebreo, è racchiusa già la condanna che porterà all’annientamento. Emerge la difficoltà non solo di definire l’ebreo, ma anche di venire a capo dell’ebraismo nella sua complessità. L’ebreo fa credere al popolo ospite che l’ebraismo
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sia una religione e che, dunque, debba essere tollerato come una confessione diversa. Ma come può essere una religione, se gli ebrei non credono nell’immortalità dell’anima? «Neppure il Talmud è un libro che prepari all’al di là, ma soltanto a una pratica e redditizia vita quaggiù».180 Hitler rilancia così l’accusa che risale almeno a Kant: l’ebraismo non è una religione. Nulla avrebbe quindi in comune con lo «spirito del cristianesimo» – come ha mostrato il «fondatore della nuova dottrina».181 In realtà l’ebreo non appartiene a una confessione religiosa, bensì a un «popolo» – e non un popolo qualsiasi, ma a quello che è misteriosamente sopravvissuto nei secoli, pur avendo attraversato «le più terribili vicende». Hitler vede qui all’opera una «ostinata volontà di vita» che sembra suscitargli insieme ammirazione, invidia, timore. Riusciranno gli ariani, il popolo dei signori, ad affermarsi nella storia, come quel popolo di schiavi? È dunque necessario scoprire il mistero di quella irritante sopravvivenza, l’arcano dell’ebraismo. Si tratterebbe del sangue: l’elezione vantata dal popolo ebraico non sarebbe che una strategia perseguita mantenendo all’interno la propria omogeneità e minando all’esterno l’identità degli altri popoli; così gli ebrei, con l’inganno, sabotano la natura e corrodono tutta la cultura. Il passaggio che qui viene compiuto è decisivo: se prima erano avvelenatori di acqua, adesso diventano avvelenatori di sangue. L’ebreo «avvelena il sangue altrui».182 Il razzismo imputato agli ebrei giustificherebbe così il razzismo di difesa che gli ariani dovranno adottare per «proteggere» il proprio sangue. L’abilità di mimetizzarsi, che ha consentito l’assimilazione, è passata attraverso la lingua. Gli ebrei si sono spacciati per quel che non erano: francesi, italiani, inglesi, ecc. Da ultimo sono giunti persino a far credere di essere tedeschi. Ma l’ebreo che parla tedesco, resta ebreo: dietro la lingua, ebraici sono i suoi pensieri. L’e-
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breo è dunque un poliglotta; passa da una lingua all’altra. Non appena avrà però raggiunto la sua meta, parlerà una «lingua universale», ad esempio «l’esperanto».183 Qual è allora la sua meta? Come la sua essenza non è definibile sotto il profilo teologico, così è sfuggente sotto quello politico. Gli ebrei non sanno che cosa sia l’idealismo; il principio che li domina è l’egoismo. Non conoscono ordine, non obbediscono – non hanno una arché – e si uniscono occasionalmente, secondo una condotta tribale. Non combattono. Si sottraggono a un confronto leale e, cancellando i confini, mettono a repentaglio lo schema amico-nemico. L’ebreo è un nemico dissimulato e invisibile – il più pericoloso. Per via dell’egoismo, e soprattutto della mancanza di terra, non conoscono la forma dello stato.184 Questo non vuol dire che non abbiano mire politiche. Fuori dal ciclo delle fasi storiche, in controtendenza rispetto alla natura, percorrono un cammino in salita la cui meta appare a Hitler evidente già nei suoi anni di studio a Vienna. «Doveva forse questo popolo, che vive soltanto di questo mondo, ricevere come premio il mondo stesso?».185 I due mezzi per la conquista del mondo sono il sionismo e il marxismo. Dato che sono un popolo di «stranieri», di Fremde, estranei, e dato che sono quer, trasversali rispetto agli altri, con il sionismo danno a intendere che «l’autodeterminazione del popolo ebraico sarebbe appagata dalla creazione di uno stato»; ma così «ingannano un’altra volta gli stupidi gojim», perché «non pensano di edificare uno Stato ebraico in Palestina per abitarci». Non possono infatti mantenere uno stato spazialmente determinato per via del loro andamento anarchico e tribale. «Ciò che vogliono è solo una centrale organizzativa della loro truffa mondiale che abbia i diritti di sovranità per sottrarsi all’attacco di altri stati».186 Quel «luogo di rifugio», usurpato, dato che non c’è posto nel mondo per l’ebreo, che ovunque può
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essere accusato di «occupare» illegittimamente la terra altrui, sarebbe uno spazio, per definizione sconfinato, che rendendo precario l’equilibrio del mondo, preluderebbe al dominio planetario. Ancor più temibile è il marxismo in cui Hitler vede l’ideologia ebraica per eccellenza. Mentre da un canto si sono impadroniti del capitale, che fa saltare le barriere nazionali, dall’altro gli ebrei istigano il proletariato, lo sobillano spingendolo alla lotta anticapitalistica. L’internazionalismo apre la via alla rivoluzione che, come è avvenuto in Russia, dove l’intellighenzia ebraica ha guidato milioni di schiavi, non è che l’ultimo passo verso il dominio ebraico del mondo.187 Al termine del capitolo Volk und Rasse, mentre si profila il conflitto planetario, che oltrepassa le frontiere geopolitiche e assume i contorni di uno scontro metastorico e metafisico, agli ariani viene affidato il compito di arrestare l’ascesa ebraica al regno del mondo. Il tramonto, però, incombe. E se il popolo ariano, chiamato al dominio, dovesse fallire, perderebbe il diritto alla «sua esistenza terrena».188 È già preannunciato qui il cosiddetto Nero-Befehl, emanato da Hitler il 19 marzo 1945, prima del suo suicidio nel suo bunker, l’ordine cioè di distruggere tutte le infrastrutture e i mezzi di sussistenza, perché nessun ariano, o meglio, nessun tedesco avrebbe dovuto sopravvivere alla sconfitta.
3. La questione dell’Essere e la questione ebraica
E Heidegger? Heidegger li odiava gli ebrei?1
1. La notte dell’Essere Il paesaggio in cui, nelle pagine di Heidegger, compare l’Ebreo, è quello dove si viene delineando la storia dell’Essere. Il primo volume dei Quaderni neri risale agli anni di transizione, fra il 1931 e il 1938, nei quali si situano altre due opere decisive, l’Introduzione alla metafisica del 1935 e i Contributi alla filosofia. (Dall’evento), scritti fra il 1936 e il 1938. Alla interruzione di Essere e tempo, pubblicato nel 1927 come prima parte di un’opera dichiaratamente incompiuta, si aggiunge l’amara delusione del rettorato. Nella Lettera sull’«umanismo», apparsa nel 1947, all’indomani della seconda guerra mondiale, è stato, com’è noto, lo stesso Heidegger a suggerire l’idea di una Kehre, di una svolta nella sua riflessione, dall’ontologia fondamentale di Essere e tempo, incentrata sull’esserci, al pensiero dell’essere inteso come evento.2 Ciò non deve tuttavia indurre a credere, come talvolta è avvenuto, che la svolta designi unicamente una circostanza biografica. La parola ha un rilievo filosofico che emerge in particolare nei Contributi alla filosofia. La svolta non è solo il gesto del pensatore, che si lascia alle spalle un tragitto, per dirigersi verso quello successivo, né solo il movi-
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mento del pensiero che, affrancandosi dalla fissità, si gira, si volta, vira, per dischiudersi all’essere; ben di più, la svolta è il modo in cui l’essere «si dà». L’Essere stesso è kehrig.3 In tedesco Kehre indica la curva stretta sul sentiero di montagna, il tornante che imprime un cambio di direzione e un mutamento di altitudine, quel volgersi indietro, che però è un andare avanti, verso la cima. In questo paesaggio montuoso, fra audaci vie traverse, sentieri bruscamente interrotti, strade ancora da sterrare, si delinea il nuovo universo speculativo di Heidegger. Più che marcare un prima e un poi, la svolta segna la piega in cui si approfondisce la meditazione di Heidegger, il luogo della sua filosofia. È dall’esistenza, o meglio, dal Dasein, l’esserci umano nella sua fatticità, che prende avvio Essere e Tempo. Fra tutti gli enti, l’esserci è il solo in grado di porsi la domanda sull’essere. Il cammino di Heidegger segue il proiettarsi dell’esserci verso le sue possibilità, sino alla possibilità estrema di non essere più, sino alla morte. Ma la fine dell’esserci non può essere considerato il compimento dell’indagine filosofica, né quindi la conclusione dell’opera, chiusa solo con una forzatura, e perciò incompiuta. Heidegger stesso si chiede se il suo orientamento non sia stato unilaterale, se quel suo volgersi all’autenticità dell’essere-per-la-fine non abbia attirato l’attenzione solo su «uno dei termini», lasciando in ombra l’altro, quello iniziale.4 Che ne è dell’inizio? Della provenienza dell’esserci? Della scaturigine immemoriale da cui deriva la fatticità in cui l’esserci è gettato? È la finitezza dell’esserci a spingere la riflessione verso l’apertura dell’origine, è la sua storicità a richiedere il passaggio alla storia dell’Essere. Ma che cosa vuol dire storia dell’Essere? Non è né una visione della storia né, tanto meno, l’oggetto di una storiografia. Geschichte, storia, rinvia a Geschehen, acca-
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dere. La storia dell’Essere è l’accadere dell’Essere, che si dà ogni volta nel suo frangersi storico. Il grande problema della filosofia, l’essere, viene riletto alla luce della sua storia, affinché questo verbo, così evanescente e misterioso, possa liberarsi della cristallizzazione metafisica che dell’infinito grammaticale “essere” ha fatto un ente tra gli altri.5 La storia dell’essere non è dunque l’ontologia. Questa parola – osserva Derrida in una lezione del 1964 – deve anzi «rivelarsi la più inadeguata», perché «l’impresa di Heidegger non è la fondazione di un’ontologia […], bensì è la distruzione dell’ontologia».6 Nei Quaderni neri, all’inizio delle Riflessioni IV, risalenti al 1934/35, Heidegger si avvale di un espediente ortografico, ripreso anche altrove, per allontanarsi dal linguaggio della metafisica e introdurre, con un’inedita grafia, il nuovo modo di intendere l’essere: non più Sein, ma Seyn, non più essere, ma Essere. E annota il compito che lo attende: «aprire una via all’Essere nel concetto».7 Questo vuol dire seguirne il dispiegarsi o il suo «essenziarsi».8 L’orizzonte ultimo dei Quaderni neri è dunque la questione dell’Essere, intesa non come un problema, bensì come una domanda storica che richiede ai suoi destinatari una risposta. La virata dei primi anni trenta, mentre si approfondisce e si consolida, radicalizza la questione dell’Essere in senso politico. Quanto più la situazione precipita, tanto più Heidegger sembra paradossalmente affrancarsi da remore e vincoli. Molto più tardi, in una lettera a Hannah Arendt del 6 maggio 1950, ricorda così quel periodo: «ricevetti un’altra spinta nel 1937/38, quando mi apparve chiara la catastrofe della Germania, e da questo peso si irradiò una pressione che mi rese ancor più tenace e libero nel pensare».9 L’età della metafisica, che volge al termine, quel lungo arco di tempo tra il primo inizio greco e «l’altro inizio»
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che si attende, non è segnato solo dall’oblio dell’Essere, ma anche dal suo abbandono. L’ente sembra non trovare più il vincolo che pure lo lega all’essere. Con insistenza quasi ossessiva Heidegger denuncia la Seinsverlassenheit, che intende in duplice senso, sia come abbandono dell’Essere, sia come abbandono da parte dell’Essere. Nell’approssimarsi della fine, mentre si apre il passaggio all’altro inizio, l’Essere si ritrae. Si può dire, anzi, che il suo ritrarsi, dimenticato, velato, occultato, sia l’indizio del nichilismo compiuto, della fine ineluttabile della modernità, la fase ultima della metafisica. È la notte dell’Essere. Nelle Riflessioni VIII, del 1938/39, Heidegger scrive: «la notte appartiene però all’Essere, non ne è solo una “immagine”», non rende sensibile quel che non è sensibile, dato che la notte non è «nulla di oggettuale e di rappresentabile, nulla di essente – bensì un essenziarsi dell’Essere».10 La notte non ha un timbro negativo; lo avrebbe, se fosse giudicata come negazione del giorno, così come il freddo viene giudicato come negazione del caldo. Ma «freddo e notte sono gli scrigni nascosti in cui quel che è semplice si preserva intatto».11 L’Essere che appartiene al freddo della notte, che lì si è ritratto trovando riparo, in attesa della fine incombente, è il protagonista oscuro dei Quaderni neri.
2. Di un tono esoterico... Heidegger deve aver sempre pensato ai suoi destinatari, sia come scrittore che come oratore. Tra lezioni, conferenze, seminari, discorsi politici, lettere, saggi, interpretazioni, opere di carattere speculativo, le differenze sono lampanti. Si può ipotizzare una dimensione esoterica della sua filosofia?12 Seguendo un suggerimento di Volpi, è forse opportuno avvicinare il modo in cui Hei-
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degger ripartisce i propri scritti al criterio con il quale la tradizione ha suddiviso il corpus Aristotelicum.13 La distinzione fra scritti essoterici, cioè destinati al pubblico, e scritti esoterici, riservati a pochi, delinea, nel segno della continuità, un percorso iniziatico. In una nota autobiografica del 1937/38 Über die Bewahrung des Versuchten, allegata al testamento Wunsch und Wille, è lo stesso Heidegger a proporre la ripartizione che può essere riassunta così: le lezioni universitarie le conferenze gli appunti per le esercitazioni seminariali i lavori preliminari all’opera riflessioni e cenni il corso su Hölderlin (semestre invernale 1934/35) e gli appunti su Empedocle, Dall’evento (Contributi alla filosofia).14
In questa gerarchia, dove i Contributi dovrebbero rappresentare il culmine, cioè il punto più vicino ai recessi intangibili e arcani dell’Essere, i Quaderni neri, indicati con il titolo «riflessioni e cenni», occupano il penultimo posto. Heidegger ne sottolinea l’inclinazione alla domanda, la vastità dell’orizzonte, l’immediatezza – sono «sorti sull’onda del momento» – e lo «sforzo ininterrotto intorno all’unica questione».15 L’aura, che aleggia intorno ai Contributi, spira anche sui Quaderni neri, e li avvolge nel segreto. Entrambi, d’altronde, per volontà di Heidegger, sarebbero usciti postumi. Li accomuna uno stile criptico, che privilegia brevità, insistenza, ripetitività, un linguaggio piegato fino all’esasperazione, per sottrarsi al dominio della metafisica, e infine quell’unica meta, l’Essere, che sembra quasi allontanarsi via via che il percorso iniziatico giunge all’apice. Ma se i Contributi paiono più il distillato filosofico, i Quaderni neri, pur serbando il tono esoterico, e anzi proprio per questo, sono scritti con spontanea libertà, e liberamente trattano temi
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di politica, teologia, filosofia, nel loro inestricabile intreccio, raccontano la storia solitaria e tragica di Heidegger, il suo immane naufragio.
3. Antisemitismo e i dubbi mai fugati Già prima della pubblicazione dei Quaderni neri sono andati affiorando indizi e prove che hanno sollevato dubbi e alimentato sospetti sull’antisemitismo di Heidegger. Alle testimonianze sparse dei contemporanei si sono aggiunti alcuni documenti accademici riservati e, quasi in un crescendo, le lettere private. Si tratta di scritti non filosofici che, nell’intenzione dell’autore, non dovevano essere resi pubblici. La differenza rispetto ai Quaderni neri non va dunque trascurata. Tuttavia, anche per la continuità dei temi, la similarità dei toni, un atteggiamento di Heidegger che si ripete, il contesto documentario rappresenta un accesso imprescindibile alle pagine dei Quaderni neri. Nell’inverno del 1933, prima che fra loro cadesse un lungo silenzio fino al 1950, Heidegger inviò un’ultima lettera a Hannah Arendt che gli aveva espresso il suo disappunto per le voci che circolavano.16 Si diceva che all’università Heidegger discriminasse gli ebrei e che si comportasse da antisemita. La parola Jude, ebreo, fra di loro tabuizzata, comparve finalmente nella corrispondenza. Heidegger si difese negando con forza e respingendo con sarcasmo quelle voci. Cara Hannah, le dicerie che ti inquietano sono calunnie, del tutto simili ad altre esperienze che mi sono toccate negli ultimi anni. […] Che io non saluti gli ebrei è una calunnia così maligna che me la ricorderò per il futuro. Per spiegarti quali siano i miei rapporti con gli ebrei, ti elenco semplicemente i seguenti fatti. C’è qualcuno che, dovendo conseguire urgentemente il dottorato, è
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venuto a chiederlo a me, e io l’ho accettato: è un ebreo. C’è un altro che viene da me tutti i mesi, per riferirmi di un grosso lavoro in fase di elaborazione (che non è né una tesi di dottorato né di libera docenza), ed è di nuovo un ebreo. Un altro ancora mi ha spedito alcune settimane fa un ampio lavoro perché io lo rivedessi urgentemente: anche lui è un ebreo. Sono ebrei due borsisti a cui negli ultimi tre semestri ho fatto avere i sussidi della Notgemeinschaft. Un altro ebreo ancora ha ottenuto, grazie a me, una borsa per Roma. Chi voglia chiamare tutto ciò “antisemitismo militante”, lo faccia pure. Peraltro in questioni universitarie sono antisemita adesso quanto lo ero dieci anni fa a Marburgo, quando questa mia posizione antisemita ebbe perfino l’appoggio di Jacobstahl e Friedländer. Questo non ha niente a che vedere con i miei rapporti personali con ebrei (per es. con Husserl, Misch, Cassirer e altri). E tanto meno può toccare la mia relazione con te.17
Come reagì Hannah Arendt a una lettera del genere? Che cosa pensò della parola Jude, che scandisce il testo, e con cui Heidegger traccia una separazione netta tra tedeschi e ebrei, tra se stesso e quegli ebrei tedeschi, colleghi e allievi, dei quali viene sottolineata la sola appartenenza ebraica e il numero non esiguo? Certo questa lettera dovette contribuire alla scelta di Arendt che lasciò la Germania nell’agosto del 1933.18 La difesa di Heidegger è talmente ambigua da volgersi in un’autoaccusa. Al di là del tono irato, con cui rivendica la sua generosa disponibilità e gli speciali favori accordati agli ebrei, quel che colpisce è il modo in cui reclama il diritto a essere «antisemita» in questioni universitarie. Un conto sarebbe l’antisemitismo enragiert, arrabbiato, rabbioso, accanito, un altro quello accademico. Come se dunque l’antisemitismo all’università fosse motivato, razionale al punto da non avere ripercussioni sui rapporti personali. Sono peraltro questi i due argomenti che ancor oggi vengono addotti da coloro che tentano di scagionare Heidegger. Il primo argomento, a ben guardare un ragiona-
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mento capzioso, introduce surrettiziamente una distinzione tra l’antisemitismo militante, biologico, razzista, nazista, e l’antisemitismo cultural-universitario, che si vorrebbe aleatorio e innocuo. L’argomento suona così: dato che l’antisemitismo è biologico, e Heidegger non condivideva questa ideologia razzista, non può essere accusato di antisemitismo. Il secondo argomento riguarda gli amici: dato che Heidegger ha avuto per anni e decenni rapporti con ebrei, non deve essere stato antisemita.19 Nella Germania del tempo, in cui vivevano oltre cinquecentomila ebrei, non doveva essere facile evitare ogni frequentazione.20 Furono i provvedimenti del Reich, che dall’aprile 1933 cominciarono a escludere gli ebrei dagli uffici, dalla sfera pubblica e, con ritmo sempre più rapido, dalla vita del paese, a definire i limiti delle relazioni umane. Ma al di là dei provvedimenti, anche gli antisemiti convinti e dichiarati, non avevano alcuna difficoltà – come ricorda ad esempio Löwith – a «scindere le relazioni personali con gli ebrei dalle necessità “oggettive” della politica nazionalsocialista».21 Questa era la norma anche per il giurista Carl Schmitt.22 La situazione quasi schizofrenica non sfuggì a un’acuta osservatrice come Simone Weil che, in visita a Berlino, in una lettera dell’agosto 1932, scrisse: «ma ancora una volta i sentimenti, antisemiti e nazionalisti, non appaiono affatto nei rapporti personali».23 Nell’università, e in genere nel mondo intellettuale, la presenza ebraica era notevole.24 Era forse per questo inevitabile reagire con un antisemitismo concorrenziale, universitario o spirituale? Era comprensibile il timore per la Verjudung, la giudaizzazione dell’università? Due volte almeno Heidegger ha usato questa parola. In una lettera del 2 ottobre 1929 metteva in guardia Viktor Schwoerer, un alto funzionario del Ministero dell’Istruzione:
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siamo di fronte all’alternativa: o dotiamo di nuovo la nostra vita spirituale tedesca di forze e educatori autentici e autoctoni [bodenständig], oppure la consegniamo definitivamente alla crescente giudaizzazione, in senso sia ampio che stretto.25
Ma molti anni prima, in una lettera del 18 ottobre 1916, indirizzata alla futura moglie, Heidegger scriveva: La giudaizzazione della nostra cultura e delle nostre università è in effetti spaventosa e ritengo che la razza tedesca dovrebbe trovare sufficienti energie interiori per ritornare in auge. Quanto meno il capitale!26
In senso stretto la «giudaizzazione» indica il numero elevato di ebrei presenti all’università; in senso ampio rinvia alla contaminazione ebraica dello spirito tedesco. I due sensi, quello numerico e quello spirituale, sono ovviamente connessi. Molto diffusa in quegli anni, la parola era stata usata da Richard Wagner nel suo saggio L’ebraismo nella musica, pubblicato con uno pseudonimo nel 1850.27 Sin dalle prime pagine, Wagner punta l’indice contro l’emancipazione. Der Jude, l’Ebreo è ormai «più che emancipato», al punto che «ora regna». Ne sarebbe una prova la «giudaizzazione dell’arte moderna» che «salta agli occhi».28 L’emancipazione ha dato luogo non all’uguaglianza, bensì al predominio degli ebrei. Per sottolineare il rovesciamento nei rapporti di forza, Wagner auspica «un’emancipazione dall’oppressione ebraica».29 Così formula la tesi di fondo dell’antisemitismo moderno che, pur nella continuità, proprio qui si distingue dall’antigiudaismo cristiano: Verjudung è la metafora del dominio ebraico. La civiltà europea è rimasta estranea all’ebreo che, per quanti sforzi abbia fatto per assimilarsi, fino a cancellare talvolta la propria origine, nella sua natura permanente e immutabile è ontologicamente straniero. Perciò mina l’arte, la cultura, lo spirito. Da questa visione wagneriana scaturisce una nuova e più ampia
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categoria di “Ebreo” la cui essenza negativa si manifesta nella capacità di contaminare con la sua degenerazione e la sua corruzione. Di più: la modernità diventa «l’epoca ebraica». Sono gli ebrei i veri responsabili di tutti i mali, mentre, per converso, l’ebraismo è «la cattiva coscienza della civiltà moderna».30 Il tema della Verjudung, ripreso da Marr, viene sviluppato non solo da Dühring, ma anche da Hitler che, in Mein Kampf, oltre alle «università giudaizzate», lamenta la giudaizzazione «della nostra anima».31 Parlare di Verjudung, come Heidegger fa in almeno due occasioni, e a distanza di anni, nel 1916 e nel 1929, non vuol dire subire l’influsso di una giudeofobia cristiana, ancora diffusa in quel cattolicesimo del Baden, forte del suo «strapotere sulle coscienze mascherato da devozione».32 Piuttosto significa condividere una visione, forse stereotipata, ma comunque moderna, dell’ebreo e dell’ebraismo. Il timore per la presenza ebraica nell’università e l’ansia per la contaminazione della «vita spirituale tedesca» si inscrivono in un antisemitismo che nell’ebreo individua non un cittadino al pari degli altri, bensì un non-tedesco, un non-autoctono, irreparabilmente estraneo e indesiderabile. Per la giudaizzazione non è necessario il contatto: principio di impurità, l’ebreo è già impuro in tutto ciò che gli appartiene o che partecipa alla sua vita. C’è una scienza giudaica, un’arte giudaica, una musica giudaica, da cui occorre guardarsi. Si introduce così una separazione tra puro e impuro, sacro e profano, che verrà attestata e consolidata dalle leggi «sacrali» del Reich, prima fra tutte quella del 15 settembre 1935 «per la protezione del sangue tedesco e dell’onore tedesco».33 Heidegger torna sul tema anche altrove, nelle lettere, pur senza ricorrere alla parola «giudaizzazione». È il caso in cui fa riferimento al volume Hölderlin und Diotima: Dichtungen und Briefe der Liebe, curato dal germanista
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Rudolf Ibel per la casa editrice ebraica Manesse. L’8 settembre 1920 scrive: Lo Hölderlin di Manesse fa ridere per quanto è grottesco – riusciremo mai a liberarci di questa infezione per giungere a un’originaria freschezza di vita e a un radicamento nella terra [?] – a volte si è ormai tentati di diventare culturalmente antisemiti.34
Con alcune varianti, la metafora biologica della contaminazione, l’immagine di un veleno materiale che dovrebbe infettare, corrompere, guastare lo spirito, riaffiora in una lettera spedita a Elfride da Friburgo il 20 giugno 1932: Ciò che scrivi circa la rivista ebraica e quel Tick [?] l’avevo pensato anch’io. Qui non si è mai abbastanza diffidenti. […] Ma come ho già scritto – per quanta forza di volontà i nazisti esigano, è sempre meglio di questa strisciante intossicazione che va sotto il nome di “civiltà” e di “spirito”, e alla quale negli ultimi decenni siamo stati esposti.35
La corrispondenza non è completa. Ma Gertrude Heidegger, la curatrice, sostiene di aver inserito, «per prevenire speculazioni», tutte le lettere in suo possesso «scritte fra il 1933 e il 1938, citando anche tutte le affermazioni antisemite e politiche relative al nazismo, complessivamente rare».36 L’argomento della rarità non sembra, però, avere qui molto senso – non solo perché non si è certi che il materiale sia completo, ma anche perché evidentemente non è il numero ad essere decisivo. Se si leggono le lettere seguendo le occorrenze della parola Jude, ne viene un antisemitismo relativamente comune, costituito da stereotipi ordinari e pregiudizi consueti. In una lettera scritta a Meßkirch il 12 agosto 1920 Heidegger annota: L’edizione di Lutero mi è ormai indispensabile […]. Qui si parla molto del fatto che adesso gli ebrei portano via molto bestiame acquistato nei villaggi e che in inverno non si troverà più carne […] – quassù i contadini diventano sempre più scontati e gli ebrei e i profittatori sono ormai un’invasione.37
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Secondo la visione più diffusa, gli ebrei sono accaparratori, intriganti, abili nel raggiro, avidi, attaccati al denaro, più colti, competitivi con gli altri, solidali tra loro, internazionalisti, comunisti. Il 10 agosto 1924, raccontando del collega Jakobstahl, che ha brigato per far ottenere al suo assistente uno stipendio più alto, esclama: «questi ebrei!». Il 9 febbraio 1928 commenta beffardamente una brillante valutazione redatta da Walter Bauer: «naturalmente: i migliori sono – ebrei». Il 9 giugno 1932 osserva che, se «i nazisti sono ancora molto limitati sul piano culturale – e intellettuale», il comunismo, lontano dall’essere sconfitto, è destinato a diventare «una potenza enorme»; «adesso tutti gli intellettuali ebrei passano dall’altra parte; pare che il “Berliner Tagblatt” sia comunista ormai da un anno». E inoltre: «ogni giorno Trotzkij fa pubblicare in Germania un opuscoletto da 20 centesimi, in cui osserva e commenta la situazione e indica la via». Heidegger non sottovaluta la stampa: «Baeumler mi ha abbonato alla “Jüdische Rundschau”, ottima l’informazione e buono il livello. Ti invierò i vari numeri».38 Il gesto della discriminazione, con cui si addita l’ebreo, riaffiora in una perizia su Baumgarten che nel 1933 gli era stata richiesta dall’associazione dei docenti di Gottinga. A denunciarlo è Jaspers nel 1945: Heidegger ha detto di Baumgarten: «strinse assidui rapporti con l’ebreo Fraenkel».39 Ma Heidegger si difende: «gergo di partito» – la trascrizione era parziale, la versione ultima non corrispondeva all’originale.40 Ben più grave di questo documento, che ha suscitato molte polemiche, è il giudizio, non di rado passato sotto silenzio, di cui fu vittima Richard Hönigswald. Come in altri ambiti della scienza e della cultura, anche nella filosofia erano molti gli ebrei illustri, da Hermann Cohen a Edmund Husserl, da Georg Simmel a Max Scheler. Fra gli esponenti più prestigiosi del neokantismo, Hönigs-
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wald aveva insegnato a lungo a Breslavia, prima di trasferirsi nel 1930 a Monaco dove il primo settembre 1933 fu messo anticipatamente in pensione. Dal canto suo Heidegger andava speculando sulla possibilità di subentrargli in quella università che – confessava in una lettera del 19 settembre 1933 all’amica Elisabeth Blochmann (ebrea, in procinto di emigrare) – non era «isolata» come Friburgo; in tale contesto annotava, di passaggio, un altro pregio di quella sede: «la possibilità di avvicinarmi a Hitler».41 È difficile dire se Heidegger abbia contribuito all’allontanamento di Hönigswald; questo è il suo giudizio, stilato il 25 giugno 1933: Hönigswald viene dalla scuola del neokantismo che ha sostenuto una filosofia tagliata su misura per il liberalismo. L’essenza dell’uomo è qui risolta in una coscienza liberamente sospesa nel vuoto [ein freischwebendes Bewusstsein], e questa, a sua volta, è diluita in una ragione del mondo logica e universale [allgemein logische Weltvernunft]. Così, con l’apparenza di una rigorosa fondazione scientifico-filosofica, l’attenzione viene sviata dall’uomo nel suo radicamento storico e in quella sua tradizione di popolo [volkhaft] che proviene da suolo e sangue [seiner Herkunft aus Boden und Blut]. A ciò si è accompagnato un consapevole rifiuto di ogni interrogare metafisico, mentre l’uomo non è che il servitore di un’indifferente cultura mondana universale. Da questa posizione di fondo sono derivati gli scritti e certo anche tutta l’attività accademica di Hönigswald.42
Al termine della lettera, Heidegger denunciava gli inganni, a cui la «vuota dialettica» di Hönigswald avrebbe esposto i giovani, e definiva la sua chiamata all’università di Monaco uno «scandalo» a cui evidentemente si doveva porre riparo.43 Il 10 novembre 1938, durante la Notte dei cristalli, Hönigswald fu preso e internato nel campo di concentramento di Dachau. In seguito fu liberato solo grazie alle proteste internazionali, dovute alla sua fama, e riuscì a emigrare negli Stati Uniti nel dicembre 1939.
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4. Metafore di un’assenza Nei Quaderni neri i termini Jude, jüdisch, Judentum, compaiono per l’esattezza quattordici volte negli ultimi due volumi, cioè nelle Riflessioni che vanno dal 1938 al 1941. Se ne potrebbe dedurre che la presenza sporadica provi la marginalità di un tema che perciò sarebbe, alla fin fine, irrilevante. Ciò confermerebbe la tesi di chi sostiene che quei passi «non contaminano» la filosofia di Heidegger.44 Occorre tuttavia sottolineare che le occorrenze del termine Jude, e dei suoi derivati, si inscrivono nel contesto filosofico in cui si delinea la storia dell’essere. Heidegger affronta, dunque, un tema non nuovo nella filosofia occidentale, quello del rapporto tra l’Essere e l’Ebreo. Se nel drammatico scenario, in cui si decide la storia dell’essere e il destino dell’Occidente, all’Ebreo è riconosciuto sin dall’inizio il ruolo del protagonista, come si spiega il silenzio che sembrerebbe avvolgerlo? Nei numerosi indici delle parole chiave, che Heidegger stesso compone e inserisce alla fine di ogni quaderno, non ricorre mai il termine Jude. Perché questa esclusione? Sarebbe però anche lecito chiedersi come mai, nell’opera filosofica di Heidegger, concepita per la pubblicazione, l’Ebreo compaia a partire dal 1937, e come mai, fra il 1939 e il 1941, la sua presenza aumenti in modo esponenziale.45 Il caso non è isolato, e analogie sono riscontrabili, ad esempio, con quello di Carl Schmitt nei cui scritti le espressioni antisemite affiorano solo nel 1933, diventando via via sempre più frequenti negli anni della guerra.46 La presenza della parola Jude attesta l’esplicita identificazione del nemico nella guerra planetaria che la Germania combatte. La strategia adottata da Schmitt, che doveva essere diffusa in quegli anni, viene seguita anche da Heidegger.
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Se limitato è, nei Quaderni neri, il numero dei passi in cui parla di ebrei e ebraismo, più frequenti sono i riferimenti indiretti. Mediante il vocabolario teologico antigiudaico, le citazioni nietzscheane, le metafore biologiche, gli stereotipi gergali, i termini della lti, la lingua del Terzo Reich, opportunamente tradotti e rielaborati nel suo idioma filosofico, dove trovano nuova legittimità e inedita dignità, Heidegger rinvia agli ebrei evitando di menzionarli. L’attacco diretto diventa superfluo. Grazie ai codici della retorica antisemita, insinuazioni, sottintesi, richiami, sebbene impliciti, sono facilmente decifrabili. Si costituisce così una semantica diretta a supportare la rete concettuale che accerchia, delimita, tenta di definire l’Ebreo. E mentre l’ebreo sfugge, e si sottrae, si pretende di coglierne metaforicamente l’essenza attraverso una serie di simboli, caratteri, prerogative che dovrebbero renderne la figura. Per indicare allora l’Ebreo figurale, è sufficiente richiamare una di quelle immagini. Così si può passare sotto silenzio il nemico, rinunciare sistematicamente a menzionarlo, senza per ciò fare a meno di tenerlo sotto tiro. Questa eliminazione ante litteram, quasi un esorcismo, evita il nome Jude e lascia al lettore il compito di colmare l’assenza. I passi dei Quaderni neri in cui Heidegger affronta il tema dell’ebraismo sono dunque ben più numerosi delle quattordici occorrenze. Ne fanno parte termini come: Verwüstung, Entrassung, Entwurzelung, Vorschub, Herdenwesen, Vergemeinerung, Rechenfähigkeit, Beschneidung des Wissens, Gemeinschaft der Auserwählter, Unheil, desertificazione, derazzificazione, sradicamento, favoreggiamento, essenza gregaria, comunizzazione, abilità di calcolo, circoncisione del sapere, comunità degli eletti, sciagura. E l’elenco potrebbe proseguire. La visione che Heidegger fornisce dell’Ebreo va dunque letta all’interno di questa più estesa rete speculativa.
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5. L’Ebreo e l’oblio dell’Essere Nella tradizione filosofica occidentale l’essere viene ancora pensato sul modello della semplice presenza. Sollevata già in Essere e tempo, questa critica va assumendo contorni più precisi negli anni successivi. Consapevole del peso esercitato da quel modo, ormai consolidato, di concepire l’essere, Heidegger è spinto a interrogarsi sul significato della metafisica. Secondo il significato greco, la metafisica indica il movimento dell’esserci che va metà, oltre l’ente, dischiudendosi all’essere; se l’esserci comprende l’ente, è perché ogni volta lo trascende, guardandolo alla luce dell’essere, quel fondo da cui l’ente si staglia.47 Ma nei lavori degli anni trenta la metafisica acquista un senso fortemente negativo. Tutta la filosofia occidentale, da Platone a Nietzsche, è metafisica, perché non ha saputo serbare lo scarto di quell’“oltre”, mettendo sullo stesso piano l’essere e l’ente; ha pensato, cioè, l’essere come un ente generale, ricavabile dall’osservazione di ciò che in comune hanno tutti gli enti. In tal modo l’essere è stato entificato, e perciò obliato e abbandonato. Si dimentica l’essere a favore dell’ente. E la differenza ontologica, quella tra essere e ente, viene così cancellata. La storia dell’Essere è dunque la storia della metafisica che giunge a compimento nella modernità. Nei Quaderni neri, mentre resta l’ammonimento all’oblio dell’essere, la differenza ontologica si esaspera, diventa una dicotomia estrema, una divaricazione fatale, un contrasto insanabile. La guerra mondiale viene letta attraverso lo schema della differenza ontologica e si rivela, perciò, la guerra dell’Essere contro l’ente. Lo scontro planetario, che si disegna sull’abisso, ha un valore al contempo ontologico, teologico e politico. La storia dell’Essere diventa una narrazione dai toni apocalittici, il
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racconto di una battaglia finale, la versione metafisica della guerra di Gog e Magog. Se il destino dell’Essere è affidato ai tedeschi, l’avanguardia dei popoli europei, il predominio dell’ente è imputato agli ebrei. Non solo l’Ebreo, identificato con l’ente, è irrimediabilmente separato dall’Essere, ma è anche accusato di questa separazione. La sua sorte è in certo modo già segnata: scisso dall’Essere, l’Ebreo si avvicina pericolosamente al nulla, a cui già Hegel lo aveva condannato. Per Heidegger sussiste un nesso di complicità tra metafisica e ebraismo. Se la metafisica, nei suoi esiti moderni, ha spianato la strada all’ebraismo, quest’ultimo ne ha saputo approfittare favorendo, a sua volta, la metafisica. Il motivo per cui l’ebraismo è andato temporaneamente accrescendo il proprio potere è che la metafisica dell’Occidente, almeno nel suo sviluppo moderno, ha offerto un punto di partenza per il diffondersi di una altrimenti vuota razionalità e abilità di calcolo che, per tal via, si sono procurate un riparo nello “spirito”, senza nondimeno poter cogliere, a partire da sé, gli ambiti nascosti della decisione.48
Il nesso è reciproco. La metafisica ha fornito la base per la razionalità vuota, per il pensiero calcolante, che secondo Heidegger contraddistinguono l’ebraismo.49 Il suo «potere» si è intensificato grazie alla metafisica che ne ha consentito il dispiegarsi. Per altro verso, quel pensiero calcolante, di solito nomadico, ha trovato Unterkunft, «riparo», nel Geist, nello «spirito», vi si è insediato, guastandolo e precudendogli gli ambiti in cui è possibile la decisione autentica, quella per l’Essere. La sorte dell’ebraismo viene legata al destino della metafisica. Sta qui uno dei nodi principali della visione che Heidegger delinea. Esito ultimo e aberrante della modernità, il potere ebraico è il predominio dell’ente. La condanna non potrebbe essere più schiacciante. Il baratro che si spalanca impone di identificare nell’Ebreo il nemico metafisico. Heidegger ripete il gesto di esclusione in modo
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tanto più radicale, in quanto lo compie sul limite dell’abisso, nel tempo dell’indigenza, nella notte del mondo. Se il predomino dell’ente sbarra l’accesso all’essere, ridotto a semplice presenza, «sprecato in una quantità di concetti privi di radici [wurzellos]», aprire la via all’Essere, in un mondo che ne ha smarrito il significato, richiede una liberazione radicale da quell’ente che, con il calcolo, dissimula la verità e trascina ogni altro ente nel vortice dell’entificazione, nel tramonto dell’essere.50 È così, infatti, che la storiografia dell’ente può giungere persino a nascondere alla vista umana la storia dell’Essere.51 Proprio perché ha una profondità metafisica, lo scontro è epocale. Non si può paragonare al conflitto che oppone «una generazione a quella precedente, lo spirito di un secolo a quello del passato, l’essenza di un’epoca all’epoca futura, il cristianesimo a una nuova “religione”, due millenni di storia occidentale a un’altra storia».52 L’opposizione, non equiparabile a un aut aut logico, è la «decisione» tra lo sfrontato dominio dell’ente e la velatezza dell’Essere. Ricorre la parola Feind, nemico, non per chiedersi dove sia, come attaccarlo, con quali armi – secondo i canoni consueti della belligeranza (anche quella nazionalsocialista).53 Lo scontro metafisico chiama immediatamente in causa il filosofo: «il nemico è la malessenza dell’ente che, senza mai cessare le ostilità, si rivela appartenente a quel che, dal profondo, deve essere amico del filosofo, l’essenza dell’Essere».54 Spetta al filosofo mantenersi radicato nel terreno dell’Essere per portare alla luce il dissidio, per districare il groviglio. Altrove Heidegger è più netto e anche il sottile filo dell’appartenenza sembra spezzato. L’ente – dice con una metafora – è «una pesante porta, chiusa da tempo», che deve essere «forzata e sollevata dai cardini, affinché compaia il nulla, la prima ombra dell’Essere».55 Chi oserà dire che è questo il solo passo necessario?
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Entro la Seinsfrage, la questione dell’Essere, e cioè il contesto a cui Heidegger la riconduce, la Judenfrage appare allora nella sua abissale profondità, non come problema di “razza”, bensì come interrogativo metafisico. In uno dei passi, la cui gravità sembra incommensurabile, la domanda investe la Menschentümlichkeit, la «peculiare umanità» degli ebrei che, ungebunden, «privi di vincoli», portano nel mondo lo sradicamento dall’Essere. La questione riguardante il ruolo dell’ebraismo mondiale [Weltjudentum] non è razziale [rassisch], bensì è la questione metafisica [die metaphysische Frage] su quella specie di umanità che, essendo semplicemente svincolata, può fare dello sradicamento di ogni ente dall’Essere il proprio “compito” nella storia del mondo.56
6. I greci, i tedeschi – e gli ebrei Nei Quaderni neri sono molti i popoli chiamati a comparire sul palcoscenico della storia del mondo. Ma i protagonisti sono i tedeschi e i greci. Il loro posto è stabilito dall’asse dell’Essere, proiettato fra il «primo inizio», inaugurato dai greci, e l’«altro inizio», la missione affidata ai tedeschi.57 Gli altri popoli, i russi, gli americani, i cinesi, gli inglesi, gli italiani, sono situati lungo il cammino della storia dell’Essere. E gli ebrei? Già nella primavera del 1932, nelle sue lezioni dedicate a Anassimandro e Parmenide, interrogandosi sulla fine della metafisica, Heidegger si era posto anche la questione dell’inizio.58 Se la lunga tradizione occidentale, dischiusa dal pensiero aurorale dei greci, volgeva alla fine, dissolta tra il monopolio delle scienze e la tecnica planetaria, era forse possibile, anzi necessario, un altro inizio, non un ritorno al passato, ma un movimento a ritroso, per rimettersi dalla metafisica e riemergere al chiarore mattinale di una nuova era a venire.
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L’Occidente, Abend-Land, la «terra della sera» – non un luogo geografico, né un sistema di valori, bensì un’epoca nella storia del mondo – andava a fondo, in rovina, si inabissava nel nulla del nichilismo europeo. Quell’Untergehen, quel suo inequivocabile morire, era stato immortalato dal libro di Oswald Spengler Der Untergang des Abendlandes, pubblicato in due riprese nel 1918 e nel 1922.59 Pur colpito da quella lettura, Heidegger aveva preso le distanze.60 Si poteva davvero parlare di Untergang, di tramonto? Di crollo definitivo? Di fine? Nei Quaderni neri il tramonto, Untergang, lascia il posto al passaggio, Übergang.61 «Un’epoca di passaggio: […] star dentro e tuttavia andare oltre».62 Il buio della notte non va frainteso, non è l’oscurità della morte, ma è lo spegnersi dell’ultimo lume della sera, affinché possa brillare in lontananza l’albore del mattino. Ma chi può attraversare la fredda notte dell’Essere? Chi può scorgere il passaggio, là dove tutti vedono un crollo ineluttabile? Chi può seguire la strada della fine, per imboccare il sentiero dell’inizio? Solo i tedeschi. Il destino dell’Occidente è nelle loro mani. «In possesso della grande eredità dell’esserci greco, osiamo, con spirito sicuro, lo slancio verso l’apertura liberamente vincolante dell’avvenire».63 L’imitatio tedesca è l’aspirazione a una Grecia che non esiste, che non è mai esistita, che potrà esistere solo grazie alla Germania. È la Grecia mistica e notturna, arcaica e tragica, puramente pagana, cantata da Hölderlin, auspicata da Hegel, agognata da Nietzsche. La Grecia è la patria, la terra dell’autoctonia, dell’essere presso di sé. La storia dell’essere si rivela allora un cammino verso quell’inizio rimasto in serbo per l’avvenire dell’Occidente. Solo il popolo tedesco è chiamato a percorrerlo. Solo al popolo tedesco spetta l’oltrepassamento della metafisica. Solo il popolo tedesco è il custode dell’Essere, perché sulla scia di Hölderlin può «dirlo e poetarlo nuo-
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vamente in modo originario».64 Perciò da tempo è atteso sul palcoscenico della storia del mondo, per compiere, in fine, quella missione che, nell’unificazione accelerata del pianeta, è divenuta planetaria. «Alt! E qui è il bordo originario della storia – non il vuoto eterno sovratemporale – ma la stabilità del radicamento».65 Gli effetti devastanti della tecnica, la macchinazione, l’estraneazione, la desertificazione, possono essere arginati solo dalla Germania, grazie alla ferrea coesione della «comunità di popolo», Volksgemeinschaft, profondamente radicata nel suolo. Il tratto greco-tedesco lascia fuori gli ebrei, l’asse dell’Essere li esclude. Non c’è più spazio per loro nella topografia dell’Occidente, la Terra della Sera che, se deve risvegliarsi a una nuova alba, e scoprirsi Terra del Mattino, non può non affrontare la questione di quel nemico metafisico che, con la sua presenza, mina dall’interno l’essere, impedisce l’accesso all’altro inizio. Occorre tuttavia chiedersi se questa esclusione, che preannuncia una nuova storicità dell’essere, e un nuovo assetto geopolitico, non colpisca anche altri popoli, non solo gli ebrei. Non è forse un gesto discriminatorio che riguarda tutti indifferentemente? L’unità dell’Occidente è un tema che, all’indomani della prima guerra mondiale, attraversa la cultura europea e assume toni esasperati negli anni trenta. Heidegger non è il solo a lanciare un appello per la salvezza estrema, né è il solo a discriminare. Al popolo tedesco, «un grande popolo di civiltà», Max Weber contrappone il «negro del Senegal».66 Si viene affermando così la dicotomia tra i popoli occidentali e occidentalizzati, da un canto, e quei gruppi che, emarginati dall’Occidente, esclusi dalla storia dell’umanità, rischiano di non essere considerati umani. Neppure Husserl sfugge al pregiudizio eurocentrico: se non è la Germania, bensì l’«Europa spirituale», erede della Grecia antica, a svolgere «una funzione arcontica
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per tutta l’umanità», tuttavia dal contesto europeo vengono respinti, oltre alle popolazioni orientali e a quelle coloniali, perfino coloro che vivono sul suolo europeo, cioè «gli indios, che vengono mostrati nei baracconi delle fiere, o gli zingari che vagabondano per l’Europa».67 Questo verdetto, che della mancanza di suolo e del carattere nomadico fa una colpa, viene pronunciato in due conferenze di grande successo, tenute da Husserl a Vienna il 7 e il 10 maggio 1935, pochi mesi prima delle leggi di Norimberga. L’universalismo della ragione non gli impedisce la discriminazione. E così, mentre il «papuano», simbolo del primitivo, appare contiguo all’animalità, il concetto di umano si sfalda ineluttabilmente. Secondo la definizione tradizionale, per cui l’uomo è un essere razionale, anche il «papuano» sarebbe un uomo, non un animale. «Ma come l’uomo, compreso il papuano, rappresenta, rispetto all’animale, un nuovo grado di animalità, così – osserva Husserl – la ragione filosofica rappresenta un nuovo grado di umanità e di ragione».68 Veramente umano, nel senso della Kulturmenschheit, dell’umanità coltivata, è alla fin fine solo l’europeo. In modo analogo Heidegger circoscrive l’«umanità storica», o «occidentale».69 L’unica differenza sembrerebbe il diverso ruolo affidato alla Germania nella conduzione dell’Occidente. D’altronde in quegli stessi anni Heidegger dice che i «negri, come ad esempio i Bantu, […] sono fuori della storia», ossia che all’interno della sfera umana «può non esserci storia, come presso i negri».70 La storia non costituirebbe, dunque, la determinazione distintiva dell’essere umano. Il gesto che discrimina gli ebrei non sarebbe, in tale prospettiva, che il risultato di un semplice ampliamento, l’inasprirsi di un razzismo che, mentre viene allo scoperto il «cuore di tenebra», che pulsa nell’Occidente colto e umano, si coniuga con l’atavico odio antiebraico e diviene antisemitismo.71
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Ma per Heidegger – e non solo per lui – le cose stanno ben diversamente. E nei Quaderni neri ciò appare chiaro. Gli ebrei non sono esclusi dall’Occidente nel senso che, in una sorta di gerarchia geopolitica del globo, che vede al centro la Germania, poi i popoli occidentali, quindi quelli occidentalizzati, potrebbero abitare alla periferia, insieme ai «negri», già sempre esclusi dalla storia umana.72 Gli ebrei sono esclusi dall’Essere. L’asse grecotedesco, che dischiude una nuova storicità, non può per definizione lasciare posto all’Ebreo, l’avversario, o meglio, il nemico metafisico che, come ha mentito per secoli, lasciando credere di essere quel che non è, così dissimula l’Essere, lo occulta e, favorendo il predominio dell’ente, impedisce il passaggio, sbarra al tedesco la via per risalire all’altro inizio. Non si tratta qui solo di discriminare, come avviene con il gesto che pone l’altro al di fuori della storia; piuttosto si tratta di fronteggiare il nemico per decidere la storia dell’Essere. Lo scontro ha dimensione planetaria e profondità ontologica. Se la «patria [Vaterland] è l’Essere stesso», l’esserci dell’ebreo non sembra più trovare spazio, neppure temporaneo.73 Per una irrimediabile contrapposizione, che nei Quaderni neri via via si aggrava, l’ebreo è la figura della fine, il tedesco quella dell’inizio. L’ebreo è il più distante dall’origine, dalla fonte pura dell’identità, dalla scaturigine dell’Essere. Questa condizione di inautenticità ha perfino un che di compiaciuto e intenzionale. In un drammatica escatologia, dove la posta in gioco è l’Essere, l’ebreo è la fine che non vuole finire. E perciò si ripete, in un vortice che gira su se stesso, in una eterna ripetizione di un uguale che, tuttavia, viene ogni volta spacciato per nuovo. La ripetizione richiede così una accelerazione per ammantarsi di progresso, per far apparire differente quel che è uguale, nuovo quel che è vecchio, sul modello della cronaca giornalistica, paradigma di questo eterno ritorno,
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che promuove la fase finale a stato permanente, Dauerzustand, e prolunga la fine, l’End, in una durata senza fine, in una Endlosigkeit.74 «Il “progresso”, in tutti i suoi possibili travestimenti, è l’“idolo” con cui l’ignota paura dell’inizio viene completamente nascosta, mentre l’abortito inizio viene rimpiazzato da scopi anteposti».75 Nell’assenza della decisione il progresso protrae il crepuscolo.76 Non c’è, per Heidegger, nulla di peggio di questo protrarsi senza fine del crepuscolo. Perché «come può venire il giorno, se è preclusa la notte»?77 Alla notte aspira invece la «Germania segreta», nascosta e velata, quella che combatte oltre il fronte, sulla linea dell’Essere, e che, pronta in ogni istante alla decisione, in attesa dell’altro inizio, mai deporrà le armi sapendo che la desertificazione portata dall’ebraismo non è che «il colpo di coda della fine già decisa».78
7. Gli sradicati agenti dell’accelerazione Una parola che ricorre nei Quaderni neri, soprattutto nel primo volume, è Bodenlosigkeit, assenza di suolo, che viene opposta a Bodenständigkeit, quell’essere saldi, quel far corpo con il suolo, che ha risvolti non solo politici, perché è l’autoctonia che permette di rivendicare una definita identità, ma anche esistenziali, dato che diventa sinonimo di fermezza. Chi è autoctono, chi affonda le proprie radici nella terra, nella Erde, nella madre ancestrale, ha l’autenticità che deriva dall’elemento naturale. Verwurzelung, radicamento, è perciò una parola altrettanto frequente, che designa la condizione ontostorica di chi può resistere, può fare opposizione alla accelerazione insensata che con la tecnica si abbatte sul pianeta. Heidegger chiarisce, anzi, che un «più profondo radicamento» è parte di un compito più alto, di un fine più lontano, a cui tuttavia guardare, cioè la grandezza storica di
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un popolo che può essere raggiunta solo mediante lo Stato.79 Non è difficile intuire che Heidegger pensa all’Auftrag, alla missione affidata ai tedeschi.80 Non solo, dunque, la coesione, ma anche la loro profonda saldezza geo-ontologica, permetteno ai tedeschi di essere il popolo di mezzo, il baricentro dell’Europa, stretto nella «morsa della Russia da un lato e dell’America dall’altro».81 La «decadenza» e la «diavoleria» dell’assenza di suolo è risultato invece dello sradicamento, della Entwurzelung.82 Chi non ha suolo, non ha radici da poter affondare nella terra – è wurzellos. Prima ancora di essere una condizione storica e politica, l’essere senza radici appare quasi una deformità che, se non è naturale, è divenuta tale con il tempo. Chi è nomade ha perso la capacità del radicamento. A questo proposito Heidegger può far riferimento al pensiero dei filosofi che lo hanno preceduto, da Fichte a Hegel.83 E non è un caso che, proprio nel seminario su Hegel, parli di «nomadi semiti», un chiaro rinvio al popolo ebraico.84 Tuttavia lo sradicamento ha un valore più ampio dell’assenza di suolo. E gli ebrei non sono solo nomadi, privi di una terra e di uno stato, o meglio incapaci di darsi la forma politica dello stato. Lo sradicamento viene considerato come quello svincolamento, quella Ungebundenheit – un’altra parola ricorrente nei Quaderni neri – che è il segno del tempo, ma che Heidegger imputa agli ebrei. L’assenza di suolo, che è anche mancanza di fondo e di fondamento, è peculiare di un esserci che conduce un’esistenza in superficie e che non ha legami, anzi li fa saltare. Soprattutto fa saltare il legame con l’Essere.85 L’accusa politica assume un valore ontostorico. Non si tratta più solo della contrapposizione delineata da Hegel tra il greco autoctono e l’ebreo nomade. Come hanno osservato Deleuze e Guattari:
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Heidegger sposta il problema e situa il concetto nella differenza fra l’Essere e l’ente […]. Considera il greco un autoctono piuttosto che un libero cittadino […]: la specificità del greco consiste nell’abitare l’Essere e possederne la parola. Deterritorializzato, il greco si riterritorializza sulla propria lingua e sul suo tesoro linguistico, il verbo essere. Così l’Oriente non è da situare prima della filosofia ma al suo fianco: esso pensa, ma non pensa l’Essere. […]. Per Heidegger non si tratta di andare al di là dei greci; basta riprendere il loro movimento in una ripetizione ricominciante, iniziante, in quanto l’Essere, in virtù della sua struttura, si invia sottraendosi, e la sua storia, la storia della Terra, è la storia del suo sottrarsi, della sua deterritorializzazione nello sviluppo tecnico-mondiale della civiltà occidentale iniziata dai greci e riterritorializzatasi sul nazionalsocialismo…86
A ben guardare, però, per Heidegger non esiste un solo «Oriente». Quello più lontano, ad esempio l’Oriente giapponese, si può dire che corra parallelo e a fianco della storia occidentale.87 Ma l’Oriente interno, quello ebraico, non è semplicemente marginale. Piuttosto è un ostacolo che impedisce il cammino verso l’altro inizio. Non si tratta solo di un ostacolo passivo. Gli ebrei sono in quale modo colpevoli di quel che avviene, sono per così dire i rappresentanti, anzi, gli agenti della modernità. Il loro sradicamento atavico risponde a tal punto alla tecnicizzazione verso cui è precipitato il pianeta, che di questo processo vengono visti come i promotori e i principali profittatori. L’accelerazione è favorita dalla mancanza di fondamento di un popolo che, per la sua arcana essenza aerea, si muove agevolmente sulla superficie della terra provocandone l’unificazione livellante. Sebbene la giustificasse in senso ontostorico, Heidegger non era il solo a muovere l’accusa di un’assenza di legame con il suolo e di una connivenza con la modernità. Nella famosa Encyclopaedia Judaica, redatta in quegli anni, era stato addirittura inserito l’articolo “Boden”, per respingere quell’accusa, facendo ricorso a fonti talmudiche.88
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Il mondo tradizionalista, in particolare quello cattolico, a cui Heidegger apparteneva, vedeva nell’ebreo il simbolo della modernità urbana, fredda e impersonale, l’avvento di uno sradicamento che non avrebbe risparmiato nessuno.89 L’idea diffusa era che gli ebrei si trovassero a proprio agio in quella società senz’anima e che ne traessero profitto. Spogliato dei suoi tratti concreti, l’Ebreo diventò figura dell’astrazione che dominava nel paesaggio desertico della modernità. Si affermò così un nuovo antisemitismo basato su dicotomie sempre più numerose, inamovibili, drastiche.90 In tal senso svolse un ruolo decisivo Werner Sombart. Lo spirito del capitalismo sarebbe stato erroneamente rintracciato da Max Weber nell’etica protestante. Il «peccato originale» del capitalismo doveva piuttosto essere attribuito agli ebrei. Questa è la tesi che Sombart espone nella sua opera, pubblicata per la prima volta nel 1911, Gli ebrei e la vita economica. Pur avendo goduto di credibilità, e persino di prestigio, questo Judenbuch – come veniva non per caso chiamato – nasceva da un intento denigratorio e da un’immagine «preconcetta e fantasiosa» degli ebrei e dell’ebraismo.91 Lo spirito del capitalismo è lo jüdischer Geist, lo «spirito ebraico». Con questa tesi Sombart poteva raggiungere obiettivi diversi: da un canto riconciliava l’antimodernismo culturale con il mondo tecnico-industriale, mostrando la via di un capitalismo depurato e «arianizzato», connesso con il Volk e con la comunità nazionale; dall’altro contribuiva ad una visione essenzialistica dell’Ebreo, contro cui potevano essere indirizzati tutto il malessere, l’inquietudine e il risentimento per quei cambiamenti repentini e inesplicabili. Gli ebrei hanno fatto irruzione nell’economia medievale, hanno stravolto le finalità naturali, introdotto il calcolo e la produzione di merci al di là dell’utile, determinato il primato dell’economia. La religione ebraica, che si riduce al «contratto tra Dio e il popolo eletto», avrebbe
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fornito lo schema teologico al paradigma capitalistico.92 Considerato una razionalizzazione della vita, dove i sentimenti e le emozioni vengono ignorati, mentre gli istinti naturali vengono regolati con una tenace autodisciplina, l’ebraismo appare il vero «puritanesimo», quell’ascesi che ha promosso il capitale.93 Dotati di infinita mobilità, capaci di adattarsi alle situazioni più disparate, altamente intellettuali, per gli ebrei «la carta si oppone al sangue, la ragione all’istinto, il concetto alla percezione, l’astrazione alla sensibilità».94 L’attività economica è stata trasformata in faccenda intellettuale. Dove prevale il Geist ebraico «tutte le qualità si risolvono in valori di scambio puramente quantitativi». Il mondo regolato da coordinate astratte, capitalizzato, ha trovato la sua ragione ultima nel denaro. «Sia il capitalismo sia l’ebraismo esprimono la loro più intima essenza nel denaro».95 Popolo «orientale», migrato in Europa, gli ebrei hanno conservato, nell’esilio, il nomadismo e il legame con il deserto. Sombart introduce una opposizione destinata ad avere profonde ripercussioni, quella tra Wald e Wüste, tra foresta e deserto. Chiare notti lunari, sole rovente, spazi illimitati avevano favorito l’astrazione e un rapporto conflittuale con la natura. Nella vita nomadica, dove ogni cosa, il gregge, gli averi poteva improvvisamente dileguarsi e altrettanto miracolosamente comparire, andò facendosi largo la possibilità dell’acquisto, della produzione illimitata, l’idea stessa di un valore scambiabile ovunque come la moneta. Ecco svelato – per Sombart – il nesso ancestrale fra ebrei e denaro.96 Al deserto si oppone la foresta, il Wald, profondo e oscuro, dove abitano i popoli del nord, inclini alla dimensione misteriosa, onirica della vita, e nondimeno radicati al suolo e concreti. Simbolo della Germania, la foresta, minacciata dalla urbanizzazione, evoca il mutamento del paesaggio, la progressiva «desertificazione», rinvia metaforicamente all’invasivo potere ebraico.97
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D’altronde l’ebreo, sradicato, privo di qualsiasi legame con il suolo, è per definizione lontano dalla campagna. Anche il più piccolo dei ghetti, povero quanto si voglia, è parte della metropoli. E se, per il resto, gli ebrei vivono nelle grandi città, il motivo non è difficile da cogliere. «La grande città è l’immediata prosecuzione del deserto; entrambi sono lontani dalla zolla fumante e costringono gli abitanti a una vita nomade».98 Indifferenti allo stato, estranei al destino del popolo che li ospita, gli ebrei si comportano da stranieri e sono alla fine spettatori disinteressati. Per via dell’assenza di radici, non hanno alcun senso storico, mancano, anzi, di storia. Vivono proiettati in una grande umanità, secondo quei rapporti che hanno appreso nella diaspora. Perciò attraverso il marxismo, un internazionalismo privo d’anima, hanno danneggiato l’idea socialista. Come il popolo tedesco, che è il popolo degli «eroi» di contro ai «mercanti» ebrei, deve tornare, dopo il deserto dell’era economica, all’autenticità del Wald, così il socialismo deve essere nazionale.99 Questi motivi vengono ripresi da Heidegger che, però, al paesaggio della sua infanzia, cui pure resta sino alla fine profondamente legato, volge già uno sguardo postmoderno – il vincolo con la madre «Suevia» confluisce nella lingua del suo pensiero che segue la scia aperta da Hölderlin.
8. Contro gli intellettuali ebrei Nella Kriegsideologie tedesca, prima ancora che nel nazismo, la reazione allo sradicamento, che diffonde astrazione e vuota razionalità, si salda con una critica sistematica alla figura dell’intellettuale. Ad essere preso di mira è soprattutto l’intellettuale politico, avvertito come elemento estraneo, il letterato cosmopolita, propa-
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gatore di valori universali. Sin dall’inizio Heidegger condivide questa critica. In una lettera indirizzata alla moglie da Berlino (Charlottenburg) il 21 luglio 1918 scrive: Qui le persone hanno smarrito l’anima – i volti non hanno assolutamente espressione – tutt’al più quella della volgarità, e per questa decadenza non c’è più freno – forse la Berlino “intellettuale” può essere superata dalla cultura autoctona delle università di provincia.100
Fra le dicotomie di Sombart particolare successo avevano avuto sia quella fra civiltà e cultura, sia quella fra intelletto e anima. Entrambe rilanciavano, in una versione aggiornata, stereotipi antichi. Lontano discendente dei philosophes, l’intellettuale che parlava di libertà, umanità, uguaglianza, era già stato a lungo bersaglio di polemiche. Ma a queste si era aggiunta, verso la fine dell’ottocento, la controversia sull’intellettualismo, opposto alla psicologia della volontà, positiva e materialistica. Si può dire che sia stato Ferdinand Tönnies a usare per primo il termine, in tutto il suo significato spregiativo, a proposito dell’Etica di Spinoza e della sua «determinazione intellettualistica degli affetti».101 Il nome di Spinoza non è casuale: nel Terzo Reich sarebbe divenuto il simbolo dell’ebraismo assimilato, il più intellettuale e il più temibile.102 L’inarrestabile progresso tecnico e scientifico, il prevalere del calcolo, la diffusione della cultura di massa, l’assenza di profondità, la mancanza di creatività, l’imitazione, l’istinto riproduttivo e la produzione illimitata, erano tutti fenomeni imputati all’intelletto. In breve: l’intelletto era la prosopopea dello “spirito ebraico”. Se non era mercante, l’ebreo mercanteggiava comunque con la cultura, se ne serviva per scopi strumentali, la usurava e la consumava con le sue speculazioni. L’ebreo era il primo responsabile di una intellettualizzazione della vita i cui effetti nefasti erano evidenti ovunque.
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La grande rinascita della cultura ebraica nel periodo di Weimar, fino alla crisi del 1929-1930, la critica sociale, la riflessione politica, il ruolo degli «intellettuali di sinistra», e in genere l’influsso degli ebrei nella stampa, nell’editoria, nel teatro, nel cinema, per non parlare della letteratura, dell’arte e della musica, infiammò la polemica antisemita. Tutto quel che era inedito, audace, moderno, veniva identificato con gli ebrei; per converso appariva ebraico ciò che minacciava la tradizione.103 L’insofferenza per il diffondersi dello “spirito ebraico” permeò la borghesia conservatrice, l’opinione pubblica delle province, il mondo accademico e tutti coloro che, sentendosi “tedeschi”, finirono per convergere con le posizioni degli antisemiti più radicali. La «giudeofobia colta» fu un fenomeno peculiare e difficilmente spiegabile, se giudicata con i criteri attuali.104 Nel suo saggio La crise de l’ésprit, pubblicato nel 1919, Paul Valéry aveva richiamato l’attenzione su quello spettrale evento che incombeva su tutta l’Europa.105 In Germania proprio la filosofia aveva cominciato a scorgere una divaricazione fra intelligenza e spirito, Intelligenz e Geist. Era un paradosso, perché tutta la tradizione idealistica, a partire da Hegel, aveva cercato nella intelligenza la “spiritualità dello spirito”. Nella successione di sensatio, ratio, intellectus, già dal medioevo l’intelligere assomigliava all’intendere divino e le «intelligenze» erano i puri spiriti, gli angeli che contemplavano da vicino Dio. La crisi sembrava si potesse cogliere nello scindersi dell’intelletto, nel suo disgiungersi e isolarsi, al punto da contrapporsi allo spirito. Sulla scia di Max Scheler, che si interrogava sulla possibilità di ripristinare il nesso tra intelligenza e spirito, la questione andò diffondendosi rapidamente nella filosofia del tempo.106 Intelligere, intelligenza, intellettualità, intellettuale, intellettualismo: ad essere messo sotto accusa è l’intero ambito semantico che ruota intorno a “intelletto”. Se
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l’intelligere – osserva Heidegger – diventa «affare dell’intellectus», allora l’esito inevitabile è l’intellettualismo.107 Ma la condanna è pressoché unanime ed è un coro di voci – non solo di filosofi – a levarsi contro l’intellettualità esangue e sradicata, aleatoria e astratta, contro l’intellettuale privo di legami con la comunità del popolo, incapace di legarsi al suo destino e di condividerne tutto ciò che, come il destino, è incalcolabile. Lontano dalla verità del suolo, e perciò irreparabilmente inautentico, «l’intellettualismo dissolutore», nel suo vuoto gioco, produce persino per Jaspers il «distacco della coscienza pensante dall’essere» rendendosi colpevole sia verso l’esistenza singola sia verso la comunità.108 Ma i toni sono molto più accesi in Heidegger che, al contrario di Jaspers, porta fino in fondo la polemica, dopo aver scelto la via del nazionalsocialismo. Scolpito nella «roccia primitiva», nel «granito» dei monti della Foresta nera, come Leo Schlageter, l’eroe che aveva combattuto contro l’occupazione francese, ed era morto martire, così il filosofo ha «volere tenace e cuore chiaro».109 Dagli abissi dell’esserci può ergersi all’altitudine dell’essere – con coraggio, durezza, determinatezza. Nella sua profondità, che è al contempo quella delle sue radici, avvinghiate alla terra, e quella della sua meditazione, si contrappone all’intellettuale sradicato e senza storia, capace solo di «una speculazione sospesa nel vuoto [eine freischwebende Spekulation] che ruota su di sé».110 Di «intellighenzia socialmente indipendente [sozialfreischwebende Intelligenz]» aveva parlato Karl Mannheim nel suo libro Ideologie und Utopie, uscito proprio nel 1929, lo stesso anno in cui Heidegger teneva il corso sui concetti fondamentali della metafisica.111 Si deve presumere che Mannheim, il quale peraltro aveva ripreso quel concetto da Weber, venisse preso di mira, sia perché aveva teorizzato la figura dell’intellettuale indipendente, sia perché era l’ebreo che ben impersonava una intellettualità potenzialmente sovversiva.
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La polemica si inasprisce, però, non solo nel discorso tenuto per l’assunzione del rettorato nel 1933, dove non per caso il Geist, lo «spirito», diviene quasi il protagonista, ma anche nelle opere che vengono alla luce intorno al 1935 e poco più tardi.112 Ma quali sono agli occhi di Heidegger le colpe dell’intellettualismo? Perché va combattuto? Si tratta di un «prolungamento scadente» del «primato del pensiero», preparato e perfezionato dalla metafisica occidentale. È il pensiero sganciato dall’essere, che non ne ritrova più l’accesso e perciò gira a vuoto.113 «Questo pensiero non sopraggiunge nottetempo».114 Si inscrive nel predomino della logica tradizionale; in tal senso è contiguo al razionalismo. Ma è un fenomeno «attuale», perché è l’esito dello sradicamento, la perdita di ogni legame comunitario e di quell’«essere assieme storico» che determina anche la perdita della storia, il sottrarsi alla responsabilità, l’indifferenza, l’irrompere della massificazione, la cultura dell’utile e l’utile della cultura. In breve: è lo spirito ridotto a intellettualità.115 Heidegger parla perciò di «depotenziamento dello spirito» dovuto a un non meglio precisato «demoniaco».116 Sarebbe un errore attribuirlo solo alla Russia e all’America – sottolinea nella geopolitica che viene descrivendo – dato che quella «disintegrazione delle forze spirituali» proviene dalla stessa Europa. Neppure l’idealismo tedesco è stato all’altezza del Geist. Tutto è stato privato di profondità, ridotto alla superficie appannata di uno specchio che non riflette più nulla. Nessuno spazio è rimasto per la riflessione. Lo «spirito» viene frainteso, travisato, falsificato. «L’intera massa dei letterati e degli esteti non è che una conseguenza tardiva e un prodotto degenerato dello spirito falsamente ridotto a intelligenza. Quel che fa soltanto mostra di spirito non è che l’apparenza dello spirito e l’occultamento della mancanza».117 Questa critica, che non risparmia la scienza, condannata alla tecnicizza-
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zione specialistica, prende di mira soprattutto l’uso strumentale dello spirito che, pur avendo luogo ovunque si pretenda di asservire l’intelligenza a scopi altri ed esterni, trova la sua «forma estrema» nel marxismo e nel suo modo di intendere la cultura come «impotente sovrastruttura» rispetto all’economia e ai rapporti economici.118 Mentre i valori di cultura divengono vuoti – l’arte per l’arte, la poesia per la poesia, la scienza per la scienza – lo spirito è usato come espediente di parata e come mezzo di realizzazione personale. Sebbene sia un fenomeno di superficie – come lo specchio che non riflette più – tuttavia l’intellettualismo non è un fenomeno superficiale, e sbaglia chi pretende di combatterlo con le medesime armi, sullo stesso piano, senza neppure conoscerlo, rischiando di «far causa comune».119 Così non si coglie la portata di questa «lotta» in cui «si decide» il «destino spirituale e storico» della Germania. A chi si rivolge Heidegger? E contro chi è indirizzata, alla fin fine, la polemica? La risposta a queste domande è anche la risposta alla questione sollevata da Derrida sul Geist, cioè sulla sorprendente comparsa dello «spirito» negli scritti degli anni trenta. Sono i Quaderni neri, dove l’intellettualismo è un tema ricorrente, a far emergere un non-detto che pure pervade gli altri testi e non sfugge ai lettori attenti del tedesco. Se già nell’Autoaffermazione dell’università tedesca è evidente che Heidegger si rivolge al nazionalsocialismo, e alle sue potenzialità di contrastare il fenomeno, nei Quaderni neri i responsabili vengono indicati nero su bianco. La “cultura” come mezzo di potere, di cui appropriarsi e con il quale affermarsi, vantando una superiorità, è in fondo un contegno ebraico. Che cosa ne segue per la politica culturale come tale?120
L’intelligenza priva di spirito, esangue e sradicata, non è altro che l’intellighenzia ebraica.121 Sono interi settori ad essere presi di mira. «Perché la sociologia è stata di prefe-
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renza praticata da ebrei e cattolici?».122 La Gesellschaft, la «società», contrapposta alla Gemeinschaft, alla «comunità», rappresenta la disgregazione e la vita alienata della metropoli.123 Alla condanna del marxismo si aggiunge quella della psicanalisi freudiana – due ambiti considerati ebraici. Il marchio della discriminazione viene apposto più volte a Freud. E Heidegger non esita a parlare anche di «“psicanalisi” ebraica», jüdische “psychoanalayse”.124 Non ci si dovrebbe indignare troppo apertamente per la psicoanalisi dell’ebreo “Freud”, finché in genere su ogni cosa non si riesca a pensare altrimenti che nel “ricondurre” tutto, in quanto “espressione” “della vita”, agli “istinti” e alla “perdita degli istinti”. Questo modo di pensare, che dall’inizio non ammette alcun “Essere”, è il puro nichilismo.125
La critica alla psicanalisi, alla pretesa di un soggetto che sarebbe in grado di attingere immediatamente ai propri vissuti, perde ogni credibilità allorché diventa pretesto per unirsi al coro nazista. Sebbene i nomi di Marx e di Freud abbiano ben altro significato per Heidegger, l’esigenza di imprimere un senso nazionalsocialista alla sua lotta contro l’«intelligenza» lo spinge a prendere una posizione parossistica che non può non rivelarsi un vicolo cieco.126 La sua riflessione sull’intellettualismo ha certo ben poco in comune con l’intolleranza nazista verso la cultura che Adorno ha compendiato con le parole attribuite al portavoce della Reichskulturkammer hitleriana: «“Quando sento la parola cultura, tolgo la sicura al mio revolver”».127 L’empasse in cui Heidegger si trova è evidente: mentre guarda a un pensiero più alto, è dalla parte di chi per il pensiero nutre una radicata avversione, mentre cerca la profondità, scivola accanto a chi non ne ha neppure il sentore. Per criticare l’intellettualismo finisce quasi per avallare l’anti-intellettualismo nazista. Condanna la cultura ebraica, che avrebbe ridotto lo spirito all’intelligenza. Ma mentre accusa l’ebraismo di essere privo di spirito, riprendendo tacitamente l’antico
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stereotipo teologico che vuole l’ebreo attaccato alla lettera, finisce accanto a chi mette al rogo i libri.
9. «Geist» e «ruach». Il «fuoco originario» e l’alito spettrale Appena inaugurata, nell’aprile del 1933, l’Associazione degli studenti nazionalsocialisti decise una campagna che si concluse con il rogo pubblico delle «deleterie opere ebraiche»; a queste si aggiunsero i prodotti del marxismo, del pacifismo e di quegli indirizzi, come la «scuola freudiana», che davano «eccessiva enfasi alla vita istintiva». Il 13 aprile su tutti i muri e le bacheche delle università tedesche vennero affisse dodici tesi che avrebbero dovuto essere declamate durante il rogo. Nella settima si affermava: «Quando l’ebreo scrive in tedesco, mente. A partire da oggi dovrebbe essere costretto a indicare sui libri che desidera pubblicare in tedesco: “tradotto dall’ebraico”».128 La sera del 10 maggio in tutte le università divamparono le fiamme dei roghi. Nella sola Berlino furono bruciati oltre ventimila volumi; ma le altre città non furono da meno. Non si sa se il 10 maggio 1933 il rogo dei libri abbia avuto luogo anche a Friburgo. Il tema è controverso. Heidegger, che era allora già rettore, lo nega decisamente: «ho proibito il rogo dei libri che avrebbe dovuto avere luogo davanti al palazzo dell’università».129 A impedirlo sembra sia stata piuttosto una pioggia insistente. Tuttavia il filosofo italiano Ernesto Grassi, allievo di Heidegger, ricorda il fuoco davanti alla biblioteca.130 Secondo il giornale locale “Der Alemanne” i libri furono bruciati più tardi, un po’ in sordina, sull’Exerzierplatz, tra il 17 e il 20 giugno, mentre l’evento fu festeggiato durante la cerimonia del solstizio d’estate.131 Al di là del rito, fu compiuta comunque la magica orgia di distruzione con la quale le biblioteche vennero purifi-
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cate dai libri prodotti dal popolo del Libro. Come ha osservato Leo Löwenthal, in una delle pochissime riflessioni filosofiche su questo tema, si trattava della «liquidazione totale di tutta l’intellighenzia, di tutti gli intellettuali».132 L’urlo carismatico di una immediatezza insofferente alla parola riduceva in cenere lo “spirito ebraico”. È stato Derrida a sollevare la questione dello “spirito” nell’opera di Heidegger.133 A rigore, Geist non fa parte del suo vocabolario filosofico – non può essere avvicinato a Sein, Ereignis, Gelassenheit, ecc. Se nella tesi di abilitazione del 1916, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, Heidegger presenta il suo pensiero come una «filosofia dello spirito vivente», in seguito diventa sempre più cauto.134 Geist è un termine che si situa nella metafisica e, anzi, la conferma e la celebra. È il coronamento della meta-fisica: sancisce la dicotomia tra sensibile e soprasensibile e presiede a quest’ultimo. Di qui tutte le precauzioni. Già in Essere e tempo Heidegger è costretto a parlare di ciò che, come Geist, occorrerebbe sempre evitare. «Come non parlarne».135 Si pone così il primo problema, che Heidegger affronta o non menzionando lo spirito oppure ricorrendo alle virgolette, che è il modo in cui la parola appare «nel suo senso decostruito». In tal caso “spirito” diventa la «silhouette spettrale» dello spirito metafisico, che resta pur sempre nell’ombra.136 È quel che avviene nell’analitica dell’esserci dove, tra segni muti, virgolette e corsivi, Heidegger rinvia a qualcosa che non è lo “spirito” tradizionale.137 Non è facile, infatti, sbarazzarsi d’un tratto del Geist, un protagonista della filosofia. E lo stesso vale ovviamente per i derivati: geistig e Geistigkeit, ma anche geistlich e Geistlichkeit. Mentre il primo ha un valore più filosofico e intellettuale, quest’ultimo è la traduzione del greco dei Vangeli pneumatikós. All’interno della già complessa questione dello «spirito» se ne apre un’altra. Geist è la traduzione del latino
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spiritus e, ancora più in origine, del greco pneûma. Heidegger ne è ben consapevole. Nella tradizione della metafisica confluisce la teologia. Che ne è, però, dell’alterco tra le lingue, dal momento che il Geist tedesco sembra godere di una straordinaria autorità? Su questo passaggio della traduzione Derrida si pronuncia al termine del suo saggio dove, con un colpo di scena, introduce l’ebraico ruach.138 Non sarà che lo spettro che abita il Geist tedesco sia alla fin fine l’ineffabile ruach ebraico? – si potrebbe riassumere così la domanda di Derrida che, a questo proposito, parla di «preclusione».139 Prima ancora, però, è necessario delineare il tragitto di Heidegger che, pur risalendo al greco, lo destituisce del suo primato d’origine, come se non fosse più depositario dell’ultima parola, ma già sempre derivato; alla ricerca di un «originale», al di là del greco, torna allora al tedesco, a cui conferisce un «supplemento di originarietà».140 Se l’essere può forse dirsi in molti modi, il Geist si dice solo in tedesco. In fondo – commenta Marlene Zarader – è questo il tragitto che Heidegger percorre anche altrove quando, solo apparentemente, risale alle parole greche, mirando invece a una più originaria Sage germanica.141 Nel tragitto circolare, dal tedesco al tedesco, lo spirito si allontana dal soffio del greco pneûma per ri-scoprirsi fiamma. «Che cos’è lo spirito?» – chiede Derrida riprendendo la domanda che Heidegger si pone nel celebre saggio su Trackl del 1953.142 Con il poeta risponde: è «fiamma ardente».143 Tuttavia, prima di Trackl, era stato Hölderlin, con il suo poema di Pane e vino, a suggerire a Heidegger il legame tra spirito e fuoco.144 Nel Dialogo occidentale, un testo che Derrida non conosceva ancora, scritto fra il 1946 e il 1948, e pubblicato nel 2000, Heidegger sottolinea l’esigenza di pensare das Geistige, «lo spirituale», senza ridurlo «meta-fisicamente» al soprasensibile, «in tutta la piena latitudine della sua essenza».145 Lo spirituale è l’«igneo», e il fuoco
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è l’«unità iniziale» che si dischiude irrompendo nell’aperto. Questo irrompere della fiamma, nello splendore che si accende, è «l’ira del fuoco». Ancora una volta Heidegger segue l’etimologia che gli suggerisce il nesso Geist – Geysis – gaysa: «nella nostra antica lingua» il fuoco devastatore, nel suo infuriare, era chiamato Geist, spirito. Che ne è dell’ebraico? E dei molteplici significati di ruach: dal vento di Dio, che in Bereshit 8, 1 spartisce e fende le acque della creazione, alla tempesta e al soffio, al nulla e alla vanità, al fiato e al pensiero, al coraggio e alla collera? Al contrario di quel che Derrida sembra propenso a credere nelle ultime pagine del suo saggio, non è il nondetto dell’oblio che, affiorando nella pneumatologia dei vangeli, resta in un «archi-originario» in attesa di essere rammemorato e ripreso, ma è semplicemente il non-detto che è stato rimosso e cancellato. Negli anni trenta Heidegger parla del Geist, in nome del Geist, che è fiamma e infiamma. Inneggia nei Quaderni neri al «fuoco originario», quello di una verità a venire, in grado, con la sua fiamma, di riplasmare, con la sua combustione di purificare.146 È il getto di una fiamma che non dilegua in «puro spirito», perché si solleva dal «sangue e dal suolo».147 E denuncia la falsificazione di un Geist che minaccia di divenire Gespenst, uno «spirito» ridotto a «fantasma».148 Allora, quando il germanico Geist è proclamato con parole di fiamma, con ancor più inquietante spettralità, oltre il fuoco esala l’alito, ruach, e ricompare lo “spirito ebraico”, negato e messo al rogo, nelle ceneri dei libri e negli spettri che già aleggiano intorno a quella scena.
10. La macchinazione e il potere Una delle parole chiave dei Quaderni neri, che compare non di rado anche negli scritti coevi, è Machenschaft, di
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solito tradotta con “macchinazione”. Secondo il dizionario etimologico dei Grimm la parola significava nel tedesco meridionale das Gemachte, ossia quel che è fatto. Anche Heidegger mantiene questo nesso. Si può dire che Machenschaft indichi il dominio del fare, il nuovo imperativo categorico che attraversa freneticamente il mondo della tecnica, dove non c’è più nulla che non si presenti secondo la possibilità del fare e dell’essere-fatto. Il paesaggio plumbeo di questo affaccendamento planetario è, come nel film di Chaplin Tempi moderni, quello di una ininterrotta catena di montaggio che ha varcato da tempo i cancelli della fabbrica per irretire e saldare al proprio meccanismo anche strade e soprattutto città, quelle «gigantesche officine di forme» che, nel loro formicolante andirivieni, e nell’incessante mutare del loro groviglio architettonico, «non possiedono alcuna forma».149 La Machenschaft di Heidegger richiama la totale Mobilmachung, la «mobilitazione totale» di Ernst Jünger, quella disciplina pervasiva e implacabile, che si estende anche al bambino nella culla, quella fisica del traffico e quella metafisica del lavoro, in cui ciascuno, pur con sgomento, deve riconoscere il proprio destino di Arbeiter, di lavoratore, di operaio dell’apparato, di impiegato della macchinazione, che applica la legge misteriosa a cui tutto è inesorabilmente consegnato nell’età delle masse e delle macchine.150 Se non vi è traccia di rivolta, è perché, al contrario di chi, come Weber, aveva parlato di «disincanto», Heidegger scorge un raffinato incantamento nella potenza della macchinazione dove, grazie al progresso illimitato, nulla appare più impossibile. Tutto si rivela, anzi, fattibile, e la fattibilità, la Machbarkeit, che contraddistingue la metafisica, segnandone anche il perfetto compimento, è il modo in cui gli enti si rendono disponibili. In termini greci la macchinazione è il passaggio dalla phýsis, dalla natura in senso ampio, alla téchne, mediante il fare poie-
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tico, mediante la poíesis. Ogni ente, pur essendo naturale, appare arte-fatto. Nel primo inizio greco la macchinazione, che dunque è sempre contro-natura, non giunge alla potenza, acquisita invece nel «pensiero giudeo-cristiano della creazione».151 L’idea biblica del Dio che crea, muta il modo di vedere l’ente che appare sempre ens creatum. Ciò avrebbe fuorviato tutta la metafisica, dato che, essendo implicito nella creazione il nesso causa-effetto, l’ente è sempre anche causato. L’accusa ha una valenza teologica che non va trascurata: per ricondurre al contesto ebraico la macchinazione, Heidegger attribuisce al pensiero biblico una sua idea cristiana e, anzi, scolastica di creazione, intesa come emanazione causale, nonché una sua idea di Dio, come Ente artefice fra gli enti, idee che non trovano rispondenza nelle pagine della Torà, dove il creare è un dialogico lasciar essere. Quanto più è andata dispiegando la propria potenza, tanto più la macchinazione si è occultata, sino a quell’estremo abbandono dell’Essere, nell’epoca della tecnica, per cui l’ente, consegnato alla cieca morsa del tutto-fare, sottomesso al calcolo inarrestabile, si riduce a fondo, a riserva e, dissolvendo le sue possibilità, si logora, si consuma, si usura. Non è difficile immaginare che la macchinazione non si limiti al fare, al machen nel senso di fabbricare, approntare, ma che si eserciti anche nell’ausmachen, in un infaticabile portare a compimento che è anche uno estinguere. Così la macchinazione, mentre sembra dar vita all’ente, ne costituisce il pericolo più grande, perché disponendone, lo espone al nulla e lo usura. La potenza della macchinazione è un potere, Macht, che domina in forza di una violenza ontologica, una Gewalt costitutiva del dispositivo della fattibilità. Non c’è macchinazione senza violenza.152 E dato che la phýsis è stata violata nei secoli, si può leggere la metafisica come una storia della violenza di cui la macchinazione è l’esito ultimo. Come non vedere, d’altronde, la volontà di
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potenza che si manifesta in quel ferreo dispositivo tecnico-mediatico in cui persino il tempo si riduce alla ripetizione del sempreuguale? Si delinea allora una contrapposizione politica tra il dominio della macchinazione, la Macht der Machenschaft, e la sovranità dell’Essere, la Herrschaft des Seyns. Accennata nelle altre opere, questa contrapposizione diventa tema ricorrente nei Quaderni neri dove, soprattutto nelle Riflessioni del 1939-1941, assume toni sempre più esasperati. Sebbene Heidegger sostenga che «macchinazione» indica un modo in cui l’essere si presenta, disponendosi alla fattività, tuttavia sottolinea che, nel suo significato usuale, il termine indica un «affaccendarsi subdolo», un «tramare», rinviando all’intrigo, al complotto. Da questo significato, che si riferisce a uno spregevole comportamento umano, si dovrebbe dunque prescindere, anche se la macchinazione favorisce la «mala essenza», l’Unwesen, dell’essere.153 Eppure nei Quaderni neri sembra che sia lo stesso Heidegger a non prescindere. Così arriva a parlare di «epoca della macchinazione» per indicare la «vittoria definitiva» della metafisica che, per quel legame di complicità che li lega, segnerebbe anche la vittoria dell’ebraismo.154 E forse in questa “battaglia”, nella quale si combatte soltanto per l’assenza di finalità, e che può essere perciò solo la caricatura della “battaglia”, “vince” la più grande assenza di fondamento [Bodenlosigkeit] che, non legata a nulla, riduce tutto al proprio servizio (l’ebraismo). Ma la vittoria autentica, la vittoria della storia, su ciò che è senza storia [Geschichtslos], viene riportata solo là dove quel che è senza fondamento [das Bodenlose] si autoesclude perché, non osando l’Essere, conta sempre sull’ente e fa dei propri calcoli il reale.155
Potere della macchinazione è un altro modo per dire predominio dell’ente: entrambi, impedendo l’accesso all’Essere, minano la possibilità della decisione, entrambi sono imputabili all’ebraismo. Machenschaft è la parola
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che, nei Quaderni neri, introduce, accompagna, scandisce quasi ogni passo in cui si parla di Judentum. Il nesso tra macchinazione e ebraismo è evidente non solo per via della metafisica. Il potere, violento e metafisico, della macchinazione è il potere ebraico che, privo di radici e di suolo, privo di profondità e di storia, corre sulla superficie del globo, lo irretisce tramando e intrigando, tessendo quei rapporti basati solo sul tornaconto, favorisce lo smisurato e la massificazione, asseconda il mescolamento, traffica, commercia, negozia, si affaccenda e, nella fattibilità senza limite, consuma, usura l’ente, riduce tutto a calcolo, asservisce, rende “spettrale” la realtà, la svuota e la priva di senso, fa dello spirito un fantasma, depotenzia l’Essere.156 La macchinazione è figura dell’ebraismo. Non è un caso che si acuisca, negli anni a ridosso della «guerra planetaria», la contrapposizione tra Machenschaft e Herrschaft, tra il predominio dell’ente e il regno dell’Essere, tra il superpotenziamento calcolante e la consunzione dello spirito, tra il potere asservente degli «schiavi», che si esercita con violenza, e la regale sovranità, che scaturisce dalla fondante decisione iniziale.157 L’epoca della macchinazione, che prelude al conflitto, viene descritta in termini sempre più drammatici. Il potere della macchinazione – l’annientamento persino della divinità, la mutazione antropologica dell’uomo in animale, lo sfruttamento della terra, il conteggio del mondo – è ormai definitivo; le differenze tra popoli, stati, culture non sono più che di facciata. Non ci sono misure che possano ostacolare o impedire la macchinazione.158
L’abbandono dell’Essere si estende al pianeta e la Machenschaft diviene sinonimo di uno sconfinato potere planetario. «Questo è però il planetarismo: l’ultimo passo dell’essenza macchinale del potere al fine di annientare, per via della desertificazione, quel che è indistruttibile».159
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11. La desertificazione della terra È un viandante, l’ombra di Zarathustra, a cantare un «salmo postconviviale», appreso «tra le figlie del deserto», quando era lontanissimo dalla vecchia Europa. Die Wüste wächst: weh Dem, der Wüste birgt! «Il deserto cresce: guai a colui che alberga deserti».160 Il monito lascia aperta un’ambiguità grazie a bergen, che vuol dire sia trovare sia dare riparo, sia nascondersi che nascondere. Si abita il deserto e si è abitati dal deserto. Per Nietzsche la crescita del deserto non è un fenomeno meramente geografico. La devastazione del terreno non è solo la desertificazione della terra. Anche per Heidegger la Verwüstung va ben oltre la minaccia all’ambiente, alle risorse naturali, alla sostenibilità dello sviluppo. «Ver-wüstung non significa solo rendere desertico qualcosa di presente».161 Non si deve dunque pensare al deserto che avanza inaridendo e devastando ogni cosa. La desertificazione, che «scoppia» dalla macchinazione, costituendone l’effetto perverso e inevitabile, è piuttosto quella «installazione del deserto» che lascia che il vuoto desertico si espanda. Non è corretto, dunque, tradurre con “inaridimento” o “devastazione”, sia perché si perde il riferimento al “deserto”, sia perché si riduce il fenomeno che, se mostra un valore politico, ha per Heidegger, tuttavia, rilevanza ontologica e si inscrive nella storia dell’Essere. Ecco perché la desertificazione compare spesso nei Quaderni neri, soprattutto nelle Riflessioni XII-XV, dove la «guerra planetaria», che occupa le ultime pagine, si profila già nelle prime attraverso lo scontro fra Zerstörung e Verwüstung, fra distruzione e desertificazione. Mentre la distruzione è «l’annuncio di un inizio nascosto», la desertificazione è «il colpo di coda della fine già decisa».162 La differenza non potrebbe essere più abissale. La distru-
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zione ha per Heidegger un ruolo dirompente e un significato creativo; se distrugge, anche nello scenario bellico, è per dischiudere il passaggio e preparare l’altro inizio. Al contrario, la desertificazione attiene alla fine, che si limita a reiterare, e si rivela un «essenziale» trasferire nel nullo che tocca l’essere prima ancora dell’ente. La desertificazione della terra è la diserzione dell’Essere. Così Verwüstung è avvicinata – inquietantemente – a Vernichtung. «Il completo annientamento è la desertificazione».163 Perché in quel deserto non «cresce» più nulla. L’ente perde il legame con l’essere, se ne separa, non perviene più alla decisione dell’Essere. Desertificazione vuol dire allora «seppellimento della possibilità di ogni decisione iniziale».164 Ecco dunque la portata ontostorica della desertificazione che vieta l’accesso agli ambiti della decisione e non permette l’evento dell’altro inizio. Talvolta Heidegger ricorre al più poetico Verödung come sinonimo di Verwüstung; certo, in entrambi i casi, il prefisso spregiativo rievoca la Verjudung. Ma al di là di questa affinità, quel che importa è l’eco e l’evocazione di Wüste, di deserto. Non è difficile scorgere nella desertificazione un’ulteriore figura dell’ebraismo. E questo, sia perché il deserto è luogo simbolo del popolo ebraico, sia perché la desertificazione è l’impossibilità di essere in rapporto con l’inizio, è quello sradicamento che, mentre rischia di diventare planetario, «è in grado di annientare l’indistruttibile», di erodere e minare ciò da cui può sorgere la luce dell’altro inizio.165 Ma tra Wüste e midbàr, tra il deserto nell’immaginario tedesco di Heidegger, e il deserto che fa da sfondo alla narrazione della Torà, la distanza è abissale. Arido, desolato, brullo, pietroso, inospitale, inabitabile, privo di vita, vuoto e nullo, spazio informe e smisurato, privo di confini, luogo perciò di perdizione, di tentazione, sede del malvagio e del demoniaco: questo è il deserto per Heidegger.
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Al contrario, per gli ebrei midbàr è l’apertura della libertà, che si dischiude dopo l’uscita dall’Egitto, Mitzraim, cioè i luoghi angusti dell’asservimento e dell’oppressione. Nel deserto riprendono a respirare, ad articolare il fiato, a parlare da essere liberi. E così nel suo etimo midbàr contiene la radice d-v-r, davàr, che significa parola – parola da dire, ma prima ancora parola da ascoltare. Nel deserto Israele resta in ascolto e accoglie la Torà, non per farne un possesso esclusivo, ma per portarla nel mondo. A questo gli ebrei sono chiamati, questa è la loro elezione. D’altronde, già con l’esodo hanno testimoniato che, pur essendo schiavi, si può tornare ad essere liberi. Il deserto è la via del ritorno, dove però il cammino non è tracciato. È allora la legge di Mosè a orientarli. E grazie all’apparente vuoto del deserto imparano a volgere lo sguardo in alto. Luogo dell’Assenza, è nel deserto che Israele si costituisce come popolo attraverso il patto teologico-politico, quella «teocrazia», basata «sull’animo sostanzialmente anarchico di Israele».166 Il deserto, dove non si dà territorialmente inizio, raffigura bene questa idea politica che, accettando solo la guida di Dio, contesta l’arché, il principio e il comando.167 Proprio qui sta la difficoltà per Heidegger: l’ebraismo estromette l’inizio. In tal senso mina al fondo la sovranità. Perché «ogni sovranità è iniziale e propria dell’inizio».168 E d’altra parte: «arché significa insieme inizio e dominio, […] avvio e disposizione».169 La sovranità, Herrschaft, sta nella regale capacità di «porre inizio». Herr, signore, è colui il cui potere viene dall’avvento dell’Essere. Agli occhi di questo potere la malessenza dell’ebraismo è essenza devastante. «La spinta ordinatrice della desertificazione è l’ira [Grimm]».170 Per desertificazione si potrebbe perciò anche dire anarchizzazione. Refrattaria a tutto ciò che la nega, la desertificazione, nel suo Unwesen, nella sua malessenza – dice Heidegger – «non può essere rimossa immediatamente, bensì può
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essere solo posta, mediante la sua stessa essenza, nella sua fine essenziale».171 Dopo la guerra l’atteggiamento non muta. È datato 8 maggio 1945 un Colloquio serale in un campo di prigionia in Russia fra un prigioniero più giovane e uno più anziano. Il tema è la desertificazione e l’attesa. Alla misteriosa e benefica vastità della foresta, sebbene russa, si oppone la desertificazione che, non fermata, appare come il «male», un male senza radici, sradicato, che si è esteso ovunque, che c’era già prima, di cui la guerra planetaria è stata un effetto, un male che va inteso non moralmente come ciò che è «cattivo» o «riprovevole», bensì come ciò che è «malvagio». E malvagio è ciò che istiga, «celando tuttavia la sua carica di ira [Grimm]». «L’essenza del male è la carica di ira della rivolta».172
12. L’apocalittica e il «principe di questo mondo» L’ideale della comunità nazionale, il principio del capo, la condanna della democrazia avevano suscitato, a partire dagli anni venti, aspri dibattiti. L’antisemitismo invece, anche là dove esistevano divergenze politiche, era un motivo unificante nella visione nazionalsocialista. Ad essere diffuso non era tanto il cosiddetto Radauantisemitismus, l’antisemitismo di strada che, oltre a far leva sugli istinti più bassi, si richiamava alla “razza”, quanto piuttosto l’«antisemitismo della ragione» propugnato da Hitler.173 Anche nella borghesia colta e nell’élite accademica i provvedimenti discriminatori, uno dopo l’altro, erano stati accolti con favore. Perfino quei conservatori, che non si riconoscevano nei toni più accesi del partito nazista, auspicavano un’esclusione degli ebrei, non solo dalla sfera pubblica, ma dal Volk, dal popolo.174 L’ebreo tedesco non poteva più essere considerato un Volksgenosse, un connazionale; piuttosto era un Gast, un ospite,
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e solo come tale poteva essere tollerato. Questo valeva anche per gli ebrei assimilati da tempo e addirittura per quelli battezzati. L’acqua del battesimo non lavava più l’onta del sangue. La novità dell’antisemitismo nazista, che dal nazionalismo völkisch, a base etnico-razzista, e dalla xenofobia colonialista, trae la preoccupazione per il meticciato e l’aspirazione a una identità pura, non deve lasciare in ombra la continuità con il tradizionale antigiudaismo cristiano, fonte del lessico e dell’immaginario da cui seguitava ad alimentarsi la stigmatizzazione degli ebrei. Nel corso dell’ottocento il contrasto teologico fra cristianesimo e ebraismo aveva trovato legittimità nella biologizzazione della metaforica antisemita. Sarebbe tuttavia riduttivo giudicare meramente “biologico” l’antisemitismo nazista. Sotto il manto della scienza, o della pseudo-scienza, affiorano antichi pregiudizi teologici volti a motivare e consolidare l’opposizione tra “ariani” e “semiti”. Senza tale continuità non si capirebbe la teologia politica del nazionalsocialismo che fa di Hitler lo «strumento divino» nella guerra planetaria contro gli ebrei.175 Il razzismo, rigoroso e biologico, non basta a rispondere alla domanda: perché gli ebrei? L’antisemitismo hitleriano è un connubio, politico e teologico, tra razzismo e apocalittica: da un canto il freddo scientismo del medico che elimina l’infezione, dell’allevatore che seleziona gli armenti, dall’altro la visione apocalittica del profeta, spinto dall’odio esistenziale, dalla passione metafisica, entro lo scenario di uno scontro finale tra il bene e il male, di un conflitto, angoscioso ed estremo, tra la salvezza e il nulla. La vittoria degli ebrei avrebbe significato, infatti, non solo la fine della razza ariana, ma l’annientamento del cosmo. Ciò trova conferma nell’immagine dell’ebreo che è microbo, bacillo, eterno fungo, ragno, sanguisuga, parassita, vampiro, secondo l’inventario del biologismo.176 Ma
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allo stesso tempo è il malvagio, l’essere demonico, satana. Per Dietrich Eckart, mentore di Hitler e fondatore del nazionalsocialismo, l’ebreo, «privo di anima», negatore dell’immortalità, è versione nuova di Mefistofele, il cui fine segreto è «dis-animare» il mondo, renderlo nulla. Di più: in una prospettiva che si richiama esplicitamente alla apocalisse di Giovanni, l’ebreo è il Fürst dieser Welt, il «principe di questo mondo», l’anticristo.177 Un’analoga apocalittica satanologica, che d’altronde pervade i testi dei dottrinari, è presente anche in Joseph Goebbels, per il quale l’ebreo è «l’anticristo della storia universale» e per ciò «Cristo non può essere un ebreo».178 Il Drittes Reich, il «terzo regno», sarebbe in tal senso il regno della salvezza. Se si vuole mettere a fuoco l’afflato totalitario del nazismo, occorre considerare entrambi i registri. «Dal microbo al cosmo, l’universo intero è spietatamente mobilitato».179 Che si faccia passare l’ebreo come microbo o come demonio, che lo si releghi alla sfera subumana o a quella sovrumana, il risultato è comunque la disumanizzazione.
13. La derazzificazione dei popoli La complessità di questa teologia politica è il contesto indispensabile per valutare la posizione di Heidegger. Se fosse lecito ridurre l’antisemitismo nazista a un mero biologismo, diventerebbe facile la mossa di quanti tentano di chiamare fuori Heidegger dall’ideologia nazionalsocialista. D’altra parte, non è neppure possibile scorgere nella sua posizione solo un innocuo antigiudaismo. La sua ostilità, oltre ad essere teologica, è anche politica. Sotto questo aspetto i Quaderni neri hanno senza dubbio una funzione chiarificatrice. Non poche sono infatti le pagine in cui affiora un antisemitismo in nessun modo distante, nell’insieme dei suoi motivi, da quello razzistaapocalittico di quegli anni successivi alle leggi di Norim-
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berga. Dovrebbe risalire al 1939, al periodo successivo alla Notte dei cristalli, un passo particolarmente incisivo che può essere considerato uno sviluppo ulteriore della riflessione sulla Machenschaft. Se la «razza» è assurta a principio della storia non è per via di pochi «dottrinari», che l’avrebbero arbitrariamente inventata, bensì a causa di quel «potere della macchinazione» che sottomette l’ente al calcolo pianificante. L’indice è puntato contro l’idea che la vita possa essere manipolabile. Si può leggere qui una critica, relativamente esplicita, al progetto biopolitico del nazismo.180 Heidegger intuisce che, ben al di là del razzismo ottocentesco, la novità di quel progetto sta nella manipolazione dettata dalla volontà di potenza e, anzi, dallo strapotere della vita. Ma il richiamo alla macchinazione insospettisce. E infatti Heidegger imputa il principio della razza agli ebrei che lo avrebbero furtivamente inserito nella storia e sarebbero, quindi, i primi razzisti. Gli ebrei, grazie al loro talento espressamente calcolante, “vivono” già, più a lungo di tutti, in conformità al principio della razza, per cui con più veemenza si oppongono ad una applicazione illimitata. L’istituzione dell’allevamento delle razze non scaturisce dalla “vita” stessa, ma dallo strapotere della vita assunto dalla macchinazione. Quel che quest’ultima persegue con tale piano è una completa derazzificazione [vollständige Entrassung] dei popoli attraverso il loro aggiogamento alla costituzione, di ugual taglio e struttura, di tutti gli enti. Con la derazzificazione procede di pari passo una autoestraneazione dei popoli, ovvero la perdita della storia, degli ambiti, cioè, in cui può darsi la decisione per l’Essere.181
Il modo di argomentare assomiglia a quel procedere difensivo con cui la propaganda nazista incolpa gli ebrei delle persecuzioni di cui sono vittime. Oltre ad essere sorprendente, l’accusa è capziosa: da un canto gli ebrei vivrebbero secondo il principio della razza, dall’altro sarebbero responsabili della derazzificazione dei popoli. Com’è possibile? Tanto più che Entrassung significa privazione della razza, aggiogamento ugualitario?
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Gli ebrei, inoltre, sarebbero contrari ad una applicazione «illimitata» di quel principio – il riferimento è alle leggi di Norimberga – non perché si sentano discriminati, ma perché non vorrebbero estendere ad altri il loro privilegio. Il che ne legittimerebbe la rivendicazione da parte dei tedeschi. La derazzificazione dei popoli è tra le accuse più gravi che Heidegger muove agli ebrei e, dato che viene già ascritta qui una intenzione subdola, prelude a quella del complotto. Per seguirne la logica, altrimenti sfuggente, e per coglierne soprattutto la portata, occorre richiamare due nomi: quello di Nietzsche e quello di Hitler. In un capitolo dello Zarathustra intitolato Von Priestern, che si dovrebbe tradurre Dei sacerdoti, è scritto: «la loro stoltezza ha insegnato che con il sangue si dimostrerebbe la verità. Ma il sangue è il testimone peggiore della verità».182 Senza troppe reticenze Nietzsche rinvia a coloro che «non hanno saputo amare il loro dio, se non crocifiggendo l’uomo».183 Il popolo ebraico, definito attraverso il deicidio, lo spargimento del sangue della crocifissione, è il popolo di sacerdoti la cui «stoltezza», la cui Thorheit – parola in cui, nella pronuncia tedesca, risuona anche Torà – ha insegnato a seguire la legge del sangue, che sarebbe testimone della verità. In breve: il popolo ebraico si rimetterebbe alla linea tracciata dal sangue, al lignaggio, alla razza. Le parole di Nietzsche vengono più volte commentate da Heidegger nel corso tenuto durante il semestre invernale 1938/39 – esattamente, dunque, il periodo a cui risale il passo dei Quaderni neri.184 Secondo un celebre suggerimento di Nietzsche la «verità è una specie di errore», si dà nell’errare, nel divenire; il sangue, un che di «definitivo», «la sospensione della vita», la «eliminazione di nuove possibilità», deve perciò essere il peggior testimone della verità. E il discorso passa all’«unità tedesca» e ai tedeschi che, nel presente, avrebbero «perso la forma», la Form.185
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Ben più esplicito è Hitler che, in Mein Kampf, riferendosi al Talmud, denuncia: «la dottrina religiosa ebraica è in primo luogo un metodo di mantenere puro il sangue dell’ebraismo e un codice che regola i rapporti degli ebrei fra loro e, ancor più, con il resto del mondo, con i nonebrei».186 Pur mimetizzandosi nel popolo ospite, l’ebreo «difende la sua razza […], cura severamente la separazione del suo popolo […], cerca di mantenere pura la sua genealogia». Si infiltra per imbastardire, sapendo che «i bastardi si volgono poi in ebrei».187 Ma «un popolo di razza pura, che è cosciente del suo sangue, non sarà mai assoggettato dall’ebreo».188 La via del mescolamento, dell’eterogeneità, è per Hitler la strategia politica che gli ebrei perseguono allo scopo di realizzare la democrazia, l’uguaglianza, il parlamentarismo, e ottenere così la Weltherrschaft, il dominio sul mondo. Ma per raggiungere questo dominio non combattono lealmente, anzi si sottraggono alla distinzione amico-nemico, dissimulandosi con l’inganno e il sotterfugio. Nascondono la propria omogeneità e favoriscono al contempo l’eterogeneità dell’avversario: questa sarebbe la via ebraica al dominio del mondo. Sotto accusa anche qui è l’elezione di Israele, la separazione di un popolo «santo», kadosh, cioè in ebraico “separato” – come è detto «siate santi, perché Io sono Santo»189 – che pratica ciò attraverso le regole che santificano la vita, dall’abluzione delle mani al divieto di cibarsi di sangue, semplicemente come segno di riconoscimento della sovranità di Dio sul creato, perché il sangue è simbolo di vitalità, un divieto che peraltro vale anche per il forestiero.190 Questi e altri precetti, che sono obblighi ulteriori, e fanno di Israele un «popolo di sacerdoti», insieme all’appartenenza a una tradizione che si snoda nella storia – toldòt, generazioni – e non ha nulla di biologico, viene surrettiziamente preso per razzismo. La derazzificazione dei popoli è avvicinabile a quel che Schmitt chiama il Dämon der Entartung, «il demone del-
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l’imbastardimento».191 Perché priva della Art, un sinonimo di Rasse, che vuol dire guisa, taglio, specie, forma – per riprendere il termine di Nietzsche – in senso non solo biologico, ma anche politico. Il che è possibile perché gli ebrei sono una Unrasse, una «non-razza» o, come dice Rosenberg, una Gegenrasse, una «controrazza».192 Il potere della macchinazione si esercita mediante il calcolo, che manipola la vita e la sottomette al giogo dell’uguaglianza, che toglie le differenze tra i popoli, la peculiare impronta di ciascuno, mediante la derazzificazione che procede di pari passo con la «autoalienazione dei popoli», la «perdita della storia», l’allontanamento da quegli ambiti in cui è possibile la decisione per l’Essere.193 Attraverso questo forzato egualitarismo, che dalla sfera biologica si estende a quella politica, viene impedito ai popoli che hanno una «forza storica originaria» di pervenire ad unità. Heidegger si riferisce non solo ai tedeschi, ma anche ai russi, introducendo così la distinzione fra Russentum e bolscevismo. Quest’ultimo, espressione politica dell’ebraismo, non è che la «anticipazione del potere illimitato della macchinazione». Sarebbe insensato, perciò, far leva, al fine di contrastarlo, sul principio della razza, dato che il bolscevismo affonda le radici in quella stessa metafisica da cui deriva il razzismo e nella quale rischia di ricadere il nazionalsocialismo, ancora fermo a un piano «tecnico-istoriale».194
14. Razza o rango? Si deve allora pensare che per Heidegger il razzismo sia metafisico? E che sia questo il motivo per prendere distanza dal principio della “razza”? Tutt’altro che assente, la parola Rasse comincia ad affiorare nell’opera di Heidegger a partire dal 1933 e diventa più frequente nella seconda metà degli anni
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trenta.195 Il che non deve stupire. È quanto avviene in genere nei testi degli autori coevi, da Jünger a Schmitt. Al cauto silenzio fa seguito una presa di posizione su una parola chiave della lingua del Terzo Reich. Nell’atteggiamento che Heidegger assume verso il tema della razza si riflette, e si chiarisce, quello verso il nazionalsocialismo. La riflessione critica sulla riduzione biologica del concetto, l’interrogativo sull’etimologia del termine e il rinvio a un significato più ampio non devono indurre a credere che Heidegger respinga il concetto, espunga la parola. Tacciare il razzismo di metafisica non vuol dire in nessun modo escludere l’idea di una divisione gerarchica dell’umanità dove sono alcuni popoli, e non altri, ad avere spazio nella storia del mondo.196 La parola “razza” compare nelle pagine di Heidegger quasi sempre tra virgolette. Si tratta di quelle virgolette il cui uso ambivalente viene sottolineato da Derrida per l’analogo caso di Geist, “spirito”. È un modo di assumere la parola senza assumerla, di renderla tuttavia accettabile. «La catarsi delle virgolette la libera dalle sue impronte volgari».197 Se la parola compare senza la sorveglianza delle virgolette è per essere riguardata con sospetto. Certo non è difficile immaginare che Heidegger sia ben distante dal razzismo di matrice biologica, non solo e non tanto per le pretese scientiste o per il primato attribuito alla corporeità. Piuttosto il motivo è che il biologismo non è che uno degli esiti della metafisica. «Ogni pensiero sulla razza è moderno, si muove sulla scia della concezione dell’uomo come soggetto».198 Più volte Heidegger ribadisce che razza e soggettività sono strettamente connesse. E rinvia per questo nesso a Jünger. «“Razza” è un concetto di potere – presuppone soggettività, cfr. su ciò Ernst Jünger».199 Ma in che senso il pensiero della razza deriva dalla concezione del soggetto e soprattutto dal potere, o meglio, dalla potenza e dalla volontà di potenza?
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Si deve presumere che ad aprirgli la via non sia solo Nietzsche, il cui «pensiero delle razze non ha un senso biologistico, ma metafisico».200 Aufzucht è un termine, già usato da Nietzsche, e poi passato nel gergo nazista, che Heidegger non si fa scrupolo di usare, anche se in senso spregiativo; vuol dire “allevamento”, ma anche, con il valore più ristretto di Zucht, “disciplina”. L’etimologia di Rasse, per quanto oscura, risale al francese antico haraz che, a sua volta di derivazione scandinava, significa “allevamento di cavalli”. L’omogeneità non è data ereditariamente, ma è cercata, voluta, attraverso il calcolo. Solo un soggetto moderno, che si pretende sovrano, può giungere, in quel processo manipolativo di autoaffermazione, fino al punto di pensare la razza, l’idea cioè di allevare essere umani per farne un gruppo omogeneo. In tal senso la cura della razza è una misura estrema e parossistica a cui spinge la modernità. Si esaurisce però qui la critica di Heidegger che, pur condannando biologismo, darwinismo e metafisica soggiacente, quella della volontà di potenza, non mette davvero in discussione la “razza”, non dice che è un’invenzione, né tanto meno avverte che gli esseri umani non sono animali e non sono distinguibili in specie. Proprio la distinzione sembra, malgrado tutto, essersi conservata nel suo modo di pensare. Di qui il passaggio da razza a rango per giustificare una distinzione che non si riduca alla mera carnalità. La distinzione di «rango», indicata dall’aggettivo rassig, diverso da rassisch, non è voluta, attraverso cioè una manipolazione biologica, ma si dà, accade, avviene, come un evento. “Razza” non indica solo il tratto razziale [Rassisches] come ciò che è legato al sangue, nel senso dell’eredità, del legame ereditato con il sangue e dell’istinto vitale, ma spesso indica parimente anche il tratto di razza [das Rassige]. Qualcosa infatti è di razza indipendentemente dalla carne, come quando, per esempio, diciamo (almeno i giovani dicono) che “un’auto è di razza”. Il tratto di razza [das Rass-
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ige] realizza un determinato rango, dà determinate leggi, non riguarda in prima linea la carnalità della famiglia e delle schiatte. Il tratto razziale [Rassisch] non ha originariamente alcun bisogno di essere di razza [rassig], può anche non essere di razza.201
Razza e rango non si identificano. Ciò che è di razza non è necessariamente di rango. Ma nel far valere il «rango», Rang, Heidegger non contesta il «primato», il Vorrang, quell’idea che il pensiero della razza porta con sé senza chiarirlo.202 Se si guarda all’etimologia, Rang, a sua volta derivante dall’antico francese renc o rang, significa cerchio, adunanza, indica il disporsi all’interno di un circolo. Non si può dire che questa figura, che evoca un tetro assemblarsi di cavalieri medievali, non comporti l’allineamento, l’ordine, sebbene in relazione al grado e al valore, che non preveda, dunque, una selezione. D’altronde, che rassig fosse usato in tal senso, è testimoniato dal racconto di Klemperer. Frieda identificava l’essere tedesco con il concetto magico di ariano; le appariva quasi inconcepibile che una tedesca fosse sposata con me, lo straniero, la creatura di un’altra sezione del regno animale; troppo spesso aveva udito e ripetuto parole come artfremd [estraneo alla specie], deutschblütig [di sangue tedesco], niederrassig [di razza inferiore] Rassenschande [profanazione della razza] e nordisch [nordico]. Anche se tutto questo in lei non si condensava in un concetto ben chiaro.203
Nell’Introduzione alla metafisica Heidegger stigmatizza infatti l’egualitarismo, il «predominio di una mediocrità dell’indifferente», del Gleichgültiges, che «attacca ogni rango [Rang], ogni spiritualità che abbia alito universale» e la fa passare «per menzogna». «Si tratta dell’invadenza di ciò che chiamiamo il demoniaco (nel senso del malvagio distruggitore)».204 Nei Quaderni neri, riprendendo questo tema, scrive: «animi afflitti parlano di “anticristo”; se venisse, non sarebbe che un inoffensivo fanciullo rispetto a quel che accade e che già ha trovato il suo esecutore».205 Alla denuncia della mediocrità ugualitaria si accompagna la condanna del «mescolamento», della Vermi-
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schung.206 La distanza critica dall’idea biologica della «razza» non gli vieta di restare fedele al rango, di attenersi al primato di una Denkart, di un modo di pensare, e di una Art, di una specie, quella di una «aristocrazia dell’esserci» (Adel des Daseins).207 Come il popolo non si riduce al corpo del popolo, ai legami di carne e sangue, così l’esserci non si limita alla «gettatezza», alla Geworfenheit. Heidegger si richiama esplicitamente a Essere e tempo per mettere in chiaro che «razza» è una «condizione dell’esserci storico» che non può tuttavia assurgere a «incondizionato».208 Si dimentica altrimenti che l’esserci, se è gettato nella sua fatticità storica, è pur sempre libero, è progetto gettato, Entwurf. Se il sangue non può essere condizione sufficiente, né tanto meno divenire l’incondizionato, è però «condizione». Così Heidegger, già nell’inverno del 1933-34, può dire: «sangue e suolo [Blut und Boden] sono potenti e necessari, ma non sono la condizione sufficiente per l’esserci di un popolo».209 E qualche mese più tardi aggiunge: Anche il sangue e il lignaggio possono infatti determinare nell’essenza l’uomo, solo se sono determinati da tonalità emotive, mai per sé soli. La voce del sangue [Stimme des Blutes] proviene dalla tonalità emotiva [Grundstimmung] che fonda l’uomo.210
Il «torbido biologismo», che Heidegger rimprovera al «nazionalsocialismo volgare», quello di cronisti e opinionisti che non lesinano «uno stupido richiamo al Mein Kampf di Hitler» è una sorta di «materialismo etico».211 Sta però solo qui il limite dei dottrinari del Reich e del loro Übermensch, del loro «superuomo»; rispondono all’ebraismo sullo stesso piano, e dunque in una vana rincorsa.212 Per il resto, Heidegger ne condivide più di un mito spostando l’argomento sul piano ontologico. Il che non vuol dire ridimensionare la «questione», ma al contrario approfondirla e aggravarla.
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15. Metafisica del sangue Chi è ebreo? Come definire l’ebreo? La sua “essenza” non rischia di eccedere ogni definizione? L’accerchiamento, anche quello concettuale, non riesce a tracciare limiti precisi. È questo il problema che nello stato nazista viene affidato alla burocrazia, quel potere oscuro degli uffici, che non per caso sarebbe stato direttamente responsabile dello sterminio. Nell’ostacolo della definizione si erano già scontrati i propagandisti di fine ottocento, da Marr fino a Dühring e a Fritsch i quali, malgrado tutto, non giunsero mai a identificare l’“ebreo”, l’oggetto della loro ossessione, pur lanciando moniti e anatemi contro il pericolo rappresentato dal “sangue ebraico”. Il male – dicevano – è nella razza.213 Ma come definire la razza? Non è forse un «arcano» – come ammette qualche anno dopo Schmitt?214 Il problema, complicato dall’esistenza del Mischling, il sangue-misto, il mezzo-ebreo che, non solo imbastardisce, rende impuro il “sangue ariano”, ma impedisce di erigere barriere efficaci a protezione del “corpo tedesco”, diventa urgente quando si passa alle misure antiebraiche e ai provvedimenti di esclusione. I documenti parlano di un disaccordo fra i legislatori nazisti sulle nozioni di razza e di allogeneità. E mentre si fa strada la concezione essenzialistica, sostenuta dagli antisemiti radicali della nsdap, per cui basterebbe una goccia di sangue ebraico per fare di un tedesco un bastardo, il confine si sposta sempre più fino a comprendere anche i mezzo-ebrei. Ma nonostante tutta la retorica, la legislazione nazista non giunge a una definizione biologico-razziale di “ebreo”. Le leggi di Norimberga per «la protezione del sangue tedesco» restano incomplete. Il che crea imbarazzo fra gli scienziati della razza e gli eugenisti, da Eugen Fischer a Ottmar von Verschuer che, pur lodando opportunistica-
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mente la legislazione, sono consapevoli di non fornire alcuno strumento per classificare i cittadini ebrei, dato che non esiste alcuna “razza ebraica”. Il paradosso è questo: da una parte si dice che può appartenere al popolo tedesco, ed essere concittadino, solo chi ha sangue tedesco, senza considerare la confessione religiosa – per cui un ebreo, convertito al cristianesimo, resta ebreo e non può appartenere al popolo tedesco; dall’altra parte si dice che «non-ariani» sono le persone che discendono da ebrei, dove con «ebrei» si devono intendere coloro che appartengono alla religione ebraica.215 Al contrario di quel che si crede, le leggi di Norimberga non sono basate su criteri “scientifici” e, solo per fini propagandistici, sono state dette “leggi razziali”, dato che le fantasie razziste non hanno mai trovato riscontro empirico e hanno dovuto perciò far ricorso alla teologia. D’altronde, in che cosa il sangue ebraico dovrebbe essere diverso dal sangue tedesco? E soprattutto: perché mai il sangue dovrebbe stabilire l’identità? La domanda è filosofica. Si può mutare modo di vestire e usanze, si può acquisire una cultura diversa, imparare un’altra lingua, si può perfino cambiare fede – ma il sangue resta. È l’essenza in cui si cela l’identità. Nell’ossessione di definire l’Ebreo, come se fosse data un’essenza ebraica immutabile – si cerca di trovare risposta in quell’elemento, interno e interiore, che non può venire esteriormente dissimulato, né contraffatto. L’acqua non può lavare il sangue – neppure quella della fonte battesimale. Maestri nel mimetizzarsi, nel mentire, nel fingere di essere quello che non sono, abili nel rendersi simili, velando e occultando la propria identità, gli ebrei non possono sfuggire al sangue e alla prova del sangue. Così la Spagna, dopo i battesimi forzati, aveva dovuto chiudere le porte della fratellanza universale, con la Sentencia Estatuto, stipulata a Toledo nel 1449, con cui si
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introduceva la limpieza de sangre per distinguere i cristianos viejos, “cristiani di pura origine cristiana”, dai cristianos nuevos, quegli ebrei che, pur battezzati, restavano, per via del sangue, invariabilmente ebrei. Ma il rimprovero mosso agli ebrei non era forse di non riconoscere in Gesù il Messia? Se dunque lo riconoscevano, diventando “credenti in Cristo”, non era teologicamente aberrante discriminarli sulla base del sangue? Non era contrario agli insegnamenti di quel rabbi di Nazareth, che a sua volta veniva dal popolo di Israele? Eppure la Spagna, dopo aver promosso per secoli l’assimilazione degli ebrei, con la persuasione e, più spesso, con la violenza, alle soglie della modernità riversò sui conversos il proprio risentimento, la frustrazione per un’identità che non aveva. Sebbene si spacciassero per cristiani, quei marrani avevano continuato a giudaizzare; mentivano, erano voltagabbana, e soprattutto avevano mantenuto inalterati i tratti ebraici, l’astuzia, l’avidità, la vendetta. La loro essenza malvagia si conservava nel sangue a cui nessuna conversione aveva potuto porre riparo. E il sangue avrebbe rappresentato la barriera invalicabile per tenere a freno la loro ambizione, per impedire la loro intrusione. La purezza di sangue, senza contaminazione ebraica, diventò ben più importante della purezza di fede. E il criterio per essere veri spagnoli fu la limpieza de sangre de tiempo inmemorial, la purezza di sangue da tempo immemorabile. Non è difficile riconoscere le «affinità fenomenologiche» che Yerushalmi ha indicato fra la Spagna di allora e la Germania dell’ottocento e del novecento, che vanno tuttavia lette sullo sfondo di un continuum storico.216 Analogo è il processo di assimilazione e analoga la reazione di un antisemitismo che mostra la sua contiguità con l’antigiudaismo. Questo decisivo nesso storico è realizzato in entrambi i casi da una teologia politica che mira a sconfiggere il nemico interno. Ne è un esempio eloquente l’uso politico della teologia nell’Inquisizione.
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Da questo punto di vista dovrebbe essere indagato, nella sua inquietante complessità, il fenomeno, finora trascurato, delle molte conversioni di filosofi e filosofe che ruotavano intorno a Husserl, lui stesso ebreo convertito, e si richiamavano alla fenomenologia: da Adolf Reinach a Max Scheler, da Edith Stein a Hedwig Conrad Martius. Com’è noto il cammino di Stein, che l’aveva portata nella clausura di un convento di carmelitane, una piccola gabbia, nella grande gabbia che era diventata per gli ebrei la Germania, finì ad Auschwitz, e il suo ultimo viaggio, come ha scritto Günther Anders, «fu ancora più straziante di quello degli altri, delle migliaia di esseri umani con cui si avviò ai forni crematori, perché lei […] interpretò, seduta fra loro, la parte della suora carmelitana in una sorta di festa in costume».217 Non c’era posto nel Reich per gli ebrei convertiti che, pur essendo cristiani, non sarebbero mai divenuti tedeschi. L’assimilazione appariva provocatoria. Nel far leva sulla proverbiale abilità “ebraica” di mimetizzarsi, gli ebrei assimilati erano il nemico invisibile. Erano, anzi, «uno stato nello stato».218 Il paradigma antisemita, che prevale in tale contesto, non è quello dell’ebreo chiamato a testimoniare la verità cristiana, bensì è quello raffigurato da Ester, la regina di cui la storia del mondo non sa nulla, ma la cui Meghillà è ben più realistica di molti altri racconti biblici. Il popolo ebraico è accusato di vivere separato, seguendo proprie leggi. Si pensa di risolvere la questione annientandolo in un sol giorno. Ester, un’ebrea assimilata, svela la sua identità e salva il suo popolo. Riferimento per i marrani, rappresenta l’estraneità, oscura e infida, ostile e minacciosa, da cui è lecito difendersi preventivamente annientandola. A questo paradigma, più decisamente politico, attingono le moderne teorie del complotto. Occorre tuttavia sottolineare che, nell’antisemitismo nazista, anche là dove sembrano prevalere le categorie
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politiche, continuano ad affiorare antichi stereotipi teologici. A ben guardare si coagula proprio nel sangue un’accusa secolare che scuote l’ebraismo tedesco.219 Diabolicamente astuto, abile nel mescolarsi, per ansia di potere, tra i popoli “civili”, il popolo ebraico sarebbe rimasto crudamente selvaggio. Si spiega così la sete di sangue cristiano, usato per impastare le azzime durante le feste pasquali. L’accusa è, dunque, di vampirismo e «omicidio rituale».220 L’ebreo è il succhiatore di sangue, il vampiro per eccellenza – e da qui scaturisce il «vampirismo economico». L’usuraio ebreo succhia il sangue ai cristiani, così come i rabbini uccidono il bambino per fare uso rituale del suo sangue. È stato Heinrich Heine, nel breve racconto Il rabbi di Bacherach, a descrivere la scena mitologica dell’omicidio rituale: due cristiani nascondono il cadavere di un bambino sotto il tavolo degli ebrei, durante la celebrazione di Pesach, per accusarli di vampirismo; il rabbi se ne accorge e fugge in salvo con la moglie Sara. Mentre smaschera il crimine e, a sua volta, denuncia la condizione degli ebrei miserabili nei ghetti, vampirizzati dai cristiani, Heine canta il sogno infranto di Sara, alla quale «sembrava che il Reno mormorasse le melodie della Haggadah».221 Ma anche Heine deve risvegliarsi, perché il suo disperato tentativo di essere insieme ebreo e tedesco è condannato al fallimento. Si converte, per poi tornare all’ebraismo alla fine della vita, e sceglie l’esilio a Parigi. «La Germania – scrive Nietzsche – ha prodotto un solo poeta, oltre Goethe: Heinrich Heine – e per di più ebreo…».222 Heidegger commenta: «questa parola [Jude, ebreo] getta una strana luce sul poeta Goethe – Heine, “il” poeta della Germania».223 Dietro l’accusa del sangue trapela la maledizione del deicidio, contenuta nel frainteso versetto di Matteo «il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli».224 Dopo essersi macchiati del sangue di Cristo, gli ebrei conti-
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nuano a far scorrere sangue cristiano; ad essere sacrificato è un Gesù bambino anziché adulto. Popolo carnale, che non sa leggere il senso spirituale e non sa riconoscere il messia, pur vedendone ovunque le prove, pensa di poter accedere alla salvezza e all’aldilà, non con l’acqua del battesimo, ma attraverso il sangue dell’eucarestia, il cui rito viene orrendamente dissacrato nell’omicidio rituale. Così uccidono un cristiano e lo vampirizzano immaginando di poter conciliare la religione di Mosè con quella di Gesù, in un mescolamento dove tutto è contaminato, azzime e ostie, vino e sangue. Insieme all’idea di un “Cristo ariano”, l’ossessione di un sangue “puro” riemerge nei culti del nazionalsocialismo. È l’eugenetica a far leva sul concetto di «plasma degli avi», propagandato dalla fede völkisch, per affermare i nuovi modelli della biologa razziale, non viceversa.225 Nel Blutmythos confluisce la transustanziazione: il corpo eucaristico del popolo è al contempo carne, vulnerabile e mortale, del guerriero-martire, e sangue, fluido divino, per origine, che materializza la consustanzialità tra Dio e il popolo tedesco, il nuovo popolo eletto. Solo se il sangue resta incontaminato, il Volk può varcare la soglia dell’eternità ed essere «Volk im Werden», popolo in divenire. Fra i «cristiani tedeschi», più moderati, e i Deutschgläubige, i fautori di un neopaganesimo germanico, sono soprattutto questi ultimi a insistere sulla purezza del sangue. Scrive Rosenberg: «oggi si ridesta una nuova fede: la fede del sangue […]; il sangue nordico rappresenta quel mistero che ha sostituito e superato i vecchi sacramenti».226 Il popolo è «comunità di vivi e morti» legati dal sangue che, sempre lo stesso, torna a scorrere in coloro che vivono e che, perciò, devono dedizione ai morti. Emblema dell’eterno ritorno dell’uguale, il sangue che circola non appartiene al singolo, ma solo alla comunità, in grado di dischiudere il terzo Regno, soggiorno terreno e ultraterreno del Deutschtum. E il Reich
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può essere «millenario», solo se il deutsches Blut, il sangue tedesco, si conserva inalterato. Il fine non è la selezione in vista dell’oltreuomo, ma l’originaria purezza il cui auspicato ritorno, dal passato mitico, è fonte di eternità. Di questo ritorno è simbolo la croce uncinata, la svastica di salvezza, rovesciata intorno al suo asse di rotazione per indicare la rigenerazione incessante di una razza votata all’immortalità. La Germania, ariana e endogama, si assicura una discendenza da se stessa facendo indietreggiare, con le «nozze del cadavere», la frontiera tra la vita e la morte, per non rinunciare a nessuna goccia del suo sangue.227 Al lutto per i figli non generati durante la guerra si aggiunge il destino tragico dell’eroe caduto nel freddo nulla dell’inferno nordico. Che ne è di quei morti il cui sangue bagna a fiotti la terra nemica, lo spazio vitale dell’est che avrebbe dovuto essere germanizzato? Le loro anime, coperte da elmetti di acciaio, si innalzano sulla steppa glaciale e incitano i loro camerati a proseguire la guerra contro le orde giudeo-bolsceviche. Così li ritrae l’iconografia dell’epoca, mentre gridano ovunque: «vi precediamo». Se a sopravvivere sono i peggiori, quelli inferiori e indegni di combattere, a cadere sono invece i «migliori», il sangue più prezioso della Germania, versato per la vittoria finale. «A noi – scrive Heidegger nel 1941 – non resta che sacrificare il miglior sangue dei migliori [das beste Blut der Besten] del nostro popolo».228
16. «Il mio “attacco” a Husserl» I funerali di Husserl, il fenomenologo ebreo, convertito al cristianesimo e devoto alla patria tedesca, per la cui terra la famiglia aveva versato un grande tributo di sangue, si svolsero a Friburgo il 29 aprile 1938. Ben pochi erano i colleghi presenti – della Facoltà di filosofia solo
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Gerhard Ritter il quale, nelle sue memorie, avrebbe ricordato: «oltre me, solo un paio di altri colleghi partecipò alle esequie».229 La sera Karl Diehl, ordinario di economia nazionale, tenne un breve discorso commemorativo dinanzi a un gruppo ristretto che era solito definire «la Facoltà delle persone oneste».230 Heidegger non prese parte alla cerimonia né ritenne opportuno esprimere le sue condoglianze. Si giustificò, molti anni dopo, dicendo che quel giorno era «malato».231 Ammise l’errore, non senza un tono risentito, anche nell’intervista allo «Spiegel» del 1966: «che poi io durante la malattia e alla morte di Husserl non abbia espresso ancora una volta la mia gratitudine e la mia venerazione è stato un errore umano del quale mi scusai in una lettera a sua moglie».232 Il 6 marzo 1950 aveva scritto a Malvine Husserl: «La prego di voler perdonare, con la saggia bontà del suo cuore, l’umana mancanza in cui caddi alla scomparsa di suo marito. Al di fuori di questa mancanza non c’è stata, però, mai traccia, nei miei sentimenti, né di estraneità né, tanto meno, di inimicizia».233 Pur dalla clausura, Edith Stein aveva seguito gli ultimi anni di vita del suo vecchio maestro, restando in contatto con un’altra fedele allieva di Husserl, la suora benedettina Adelgundis Jaegerschmid, nata Amélie, ebrea convertita al cattolicesimo nel 1921, la quale, vivendo nel monastero di Santa Lioba, a Friburgo, aveva potuto essere d’aiuto alla famiglia del grande fenomenologo. Dal convento carmelitano di Colonia Edith Stein le scrisse il 15 maggio 1938: «Della sepoltura non si sa nulla. Sull’annuncio non si dice nulla. Come si è comportata l’università? E Heidegger?».234 Silenzio e desolazione circondarono la morte di Husserl che, se dal 14 aprile 1933 era stato «congedato» dall’insegnamento, dal 1935, in base al «diritto germanico», a cui si richiamava il Reich di Hitler, era una non-persona. Come non c’erano state dimostrazioni di solida-
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rietà, così non ci furono scritti di commiato; nessuno gli tributò un estremo omaggio. Dalla cattedra di filosofia Martin Heidegger, il suo allievo, il suo successore, non spese neppure una parola per la scomparsa di una delle più grandi figure della filosofia del Novecento. L’AlbertLudwig Universität di Friburgo, dal cui corpo docente il nome di Husserl era già stato depennato, fu dispensata dall’obbligo di commemorarlo. Ma all’Università Ebraica di Gerusalemme, quando giunse la notizia della sua scomparsa, fu Hans Jonas a ricordare il maestro con la sua prima conferenza e con il suo primo intervento radiofonico, entrambi risultato di un grande sforzo di traduzione dal tedesco all’ebraico.235 Nell’intervento Jonas diceva: All’inizio di maggio è morto Edmund Husserl, uno dei grandi filosofi del nostro tempo. È morto a Friburgo, alla cui università, a capo di una scuola, ha insegnato e studiato fino al pensionamento nel 1929. Gli allievi accorrevano a sentirlo e profondo fu il suo influsso sulla vita filosofica tedesca. Ha educato al pensiero un’intera generazione, ha conosciuto la fama ed è morto isolato, in un ambiente mutato, che non gli dedica più neppure gli elogi funebri. Di fronte a questo silenzio, nel paese in cui ha operato, è per noi un dovere morale commemorarlo qui. Quanto a lui, che in anni giovanili aveva abbandonato l’ebraismo, era un professore tedesco che si sentiva fino in fondo un uomo al servizio della scienza europea, un paladino dell’eredità culturale dell’Occidente. Non avrebbe certo mai immaginato che a Gerusalemme si sarebbe fatto quel che si era omesso di fare a Friburgo. Che oggi un suo allievo, solo qualche anno fa seduto sui banchi ad ascoltarlo, possa parlare in ebraico da un’emittente di Gerusalemme per commemorarlo, è segno della nostra epoca.236
Sia Jonas che Löwith non usarono mezzi termini per condannare la condotta di Heidegger verso Husserl. «Dimostrò la sua “venerazione e amicizia” […] non sprecando né azzardando – osservò Löwith – neppure una parola di ricordo o di partecipazione».237 Jonas parlò di comportamento «gretto e vergognoso» e, in una conferenza, fornì la sua ricostruzione di quel che era accaduto.238
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Che sia vero o no che, forse con l’automatismo del burocrate, Heidegger abbia firmato un decreto con cui si vietava ai “non-ariani”, e dunque anche a Husserl, l’ingresso nei locali dell’università e perfino nella biblioteca, che sia vero o no che nella riedizione di Essere e tempo, uscita nel 1941, sia stato costretto a eliminare la dedica a Husserl, come gli aveva suggerito l’editore Niemeyer – questi e altri episodi, malgrado l’autodifesa di Heidegger, sono entrati nella memoria condivisa dei tedeschi trovando testimonianza persino nella letteratura. «Tu cagnaccio ontico! Cagnaccio alemannico! Cane con la berretta puntata alemannica e le scarpe fibbiate! Che ne hai fatto del piccolo Husserl? […] Cagnaccio presocratico nazista!».239 Con questa maligna parodia è stigmatizzata la vicenda nel famoso romanzo di Günter Grass Anni di cani – parte conclusiva della Trilogia di Danzica – dove, fra i diversi personaggi, lo sbandato, il disertore, l’ex comunista, ecc., compare anche lo heideggeriano, che scrive l’essere con la y, Seyn, parla di deiezione e nientificazione, e il cui gergo filosofico è fonte di innumerevoli caricature e variazioni. La tensione che ha attraversato il rapporto fra Husserl e Heidegger non è riducibile né a quella che può animare un conflitto tra maestro e allievo né a quella di un dissidio filosofico. Le raccolte di lettere, finora pubblicate, mostrano una divergenza irrimediabile che si amplia e si acuisce con il tempo. Persino la parola chiave “fenomenologia”, che dovrebbe unirli, a ben guardare li divide. «Lei e io siamo la fenomenologia» – era solito dire Husserl, rivolto a Heidegger, prima del 1928.240 Quest’ultimo, in un corso tenuto nell’inverno 1930-1931, dichiara: «faremo bene, in futuro, a chiamare fenomenologia unicamente quel che Husser stesso ha creato e creerà».241 L’incontro di Heidegger con Husserl avviene all’insegna delle Ricerche logiche, l’opera che, tra il 1900 e il 1901, inaugura la fenomenologia e che Heidegger – come
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lui stesso ricorda – legge nel 1909, durante il primo semestre di studi di teologia.242 Il fascino esercitato dalla lettura dei due volumi non può tacitare i dubbi e le perplessità: per un verso Husserl confuta «lo psicologismo nella logica», per l’altro descrive gli atti della coscienza nel processo conoscitivo, «dunque ancora una psicologia».243 E se la fenomenologia non è né logica né psicologia, che cos’è allora? Quando Husserl, nel 1916, arriva a Friburgo e inizia i suoi corsi, Heidegger ha modo di apprenderne il metodo, quel «“vedere” fenomenologico» che prescinde sia da un uso non verificato di conoscenze filosofiche sia dal dialogo con i grandi filosofi. Per Heidegger questo vorrebbe dire separarsi da Aristotele e dagli altri pensatori greci, proprio quando il confronto con quei testi sembra rivelarsi produttivo per la sua riflessione. Pur considerando il suo avvicinamento a Husserl un «episodio», e pur esprimendo la sua insofferenza verso la fenomenologia, «troppo angusta ed esangue», Heidegger intensifica la collaborazione.244 Nel 1919 diventa assistente di Husserl che, dal canto suo, lo sostiene nella carriera accademica. Dal 1923 Heidegger è a Marburgo; mentre il rapporto si affievolisce, viene profilandosi il dissidio filosofico. Il confronto, a Todtnauberg, sui temi di Essere e tempo, nella primavera del 1926, e quindi il lavoro comune alla voce “Fenomenologia” per l’Encyclopaedia Britannica, nell’autunno del 1927, sanciscono il progressivo, inevitabile allontanamento.245 Alle Randbemerkungen, le note a margine, estremamente critiche, che Husserl scrive sulla sua copia di Essere e tempo, fanno seguito il discorso, punteggiato di allusioni sarcastiche, che Heidegger pronuncia l’8 aprile 1929, in occasione del settantesimo compleanno del maestro, e, qualche mese dopo, la sua prolusione Che cos’è metafisica?, che segna il ritorno a Friburgo e «il congedo dalla fenomenologia».246 Husserl risponde nella Postilla, aggiunta all’edizione
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inglese delle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica e, soprattutto, nella conferenza tenuta a Berlino il 10 giugno 1931 in cui, di fronte a un pubblico di «1600 ascoltatori», e in una atmosfera da stadio attacca Heidegger.247 Ma al di là di questi episodi, restano l’amarezza di Husserl per quell’allievo a cui avrebbe voluto affidare il futuro della fenomenologia, e il risentimento di Heidegger per quel filosofo di cui detestava i monologhi e quel suo vivere «per la sua missione di “fondatore della fenomenologia”».248 Restano soprattutto i motivi del dissidio filosofico che, nella sua complessità, ancor oggi non può dirsi risolto.249 La svolta ermeneutica di Heidegger è un approfondimento interno alla fenomenologia? Oppure il suo distacco è l’esito di quelle differenze che si annunciano sin dall’inizio, di quella «distanza siderale» che aveva avvertito già molto presto?250 La questione – come ha osservato Gadamer – riguarda l’essere e il concetto ancora metafisico che ne ha la fenomenologia.251 Il motto di Husserl «tornare alle “cose stesse”» è dirompente.252 Il pensiero non può più ridursi né alla costruzione di teorie né alla storia della filosofia. Ripartire dalle cose vuol dire descriverle come appaiono, nella loro fenomenalità visibile e condivisibile; per questo occorre liberarsi da ogni filtro e attenersi solo all’intuizione. Le cose a cui Husserl vorrebbe tornare non sono indipendenti dalla coscienza; piuttosto si danno grazie alla intenzionalità della coscienza. Non c’è dunque reale che non sorga in tal modo. Non sorprende che l’intenzionalità possa essere stata ripresa dall’ermeneutica.253 Dove va cercato allora il dissidio? All’inizio e alla fine del filosofare. Per Husserl il filosofo di professione deve muovere da una epoché, una sospensione dell’atteggiamento naturale, cioè della visione quotidiana delle cose, una riduzione fenomenologica mediante la quale sia possibile scorgere le operazioni segrete che costituiscono la
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nostra esperienza nel mondo della vita. Per Heidegger la filosofia scaturisce da una conversione che non è un atto deliberato, bensì accade nell’esistenza, coinvolgendola sin nella sua costituzione emotiva, e la spinge a interrogarsi non solo sugli enti, ma anche sul suo esserci, fino a sollevare la questione dell’essere. Come la filosofia non è un Beruf, una professione, ma una Berufung, una vocazione, così la questione dell’essere è questione di tutti e di nessuno, perché tutti ne sono investiti; nessuno però è filosofo, e lo diventa solo quando, interrogandosi sull’ente, ne trascende l’immediatezza volgendosi all’essere. Con il suo soggetto trascendentale Husserl resta ancorato alla filosofia moderna, a quel cogito autocosciente che presume di pensare senza bisogno di altri, a quell’ego cartesiano pieno di sé. Per Heidegger il soggetto non è un fondamento inconcusso; al contrario è concusso, perché è temporale e finito. E come non si può più muovere dall’ego originario, così occorre liberarsi dal modello apodittico della scienza e rinunciare, in filosofia, al mito della fondazione ultima che Husserl ancora rincorre. Il punto di incontro e di condivisione, a cui di volta in volta si perviene, è sempre finito e limitato. La fenomenologia non è per Heidegger un indirizzo filosofico.254 Piuttosto indica la via della ricerca rispondente al modo in cui gli enti appaiono, si svelano, uscendo dal nascondimento. Ma non l’aveva già pensato Aristotele? E non si dovrebbe, più correttamente, parlare di ontologia, dato che quel lógos lascia vedere gli enti quali si manifestano? E la verità, che non può più essere intesa come conformità, non è qui alétheia, svelatezza? Ecco perché Heidegger, seguendo l’istanza della fenomenologia, che chiedeva una liberazione da schemi logori, può continuare tuttavia a interrogare i greci per risalire a una originaria esperienza dell’essere. Per Heidegger, dunque, Husserl, con la sua fenomenologia trascendentale, che con il tempo acquista uno
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stampo anche più scientistico, ricade nella metafisica, finendo per ridurre l’essere all’ente e per mancare del tutto la Seinsfrage. Husserl si sente travisato e tradito; pensa di prendere posizione in un articolo. All’amico Roman Imgarden confida, in una lettera del 26 dicembre 1927, la sua enorme delusione per la distanza filosofica e umana di Heidegger che fra l’altro «trascina con sé l’intera gioventù».255 Percepisce, però, che c’è qualcosa di più. E alcuni anni dopo, nel maggio 1933, al suo vecchio allievo, il filosofo Dietrich Mahnke, che allora insegnava a Marburgo, ed era tra i pochi rimasti in contatto con lui, in una lettera parla così di Heidegger: La più bella conclusione di questa presunta amicizia filosofica è stato il suo ingresso (molto teatrale) nel partito nazionalsocialista, compiuto pubblicamente il primo maggio. Lo ha preceduto l’interruzione del rapporto con me (già quasi subito dopo la sua nomina) e, negli ultimi anni, il suo antisemitismo, sempre più pronunciato, anche verso il suo gruppo di entusiasti allievi ebrei e verso la Facoltà.256
Nei Quaderni neri compaiono molti filosofi, anzitutto Nietzsche, ma anche Aristotele, Platone, Agostino, perfino Tommaso. Il nome di Husserl si incontra in un contesto inequivocabile, nel paragrafo 24 delle Riflessioni XII, risalenti al 1939, quello in cui Heidegger crede di dover denunciare il nesso di complicità tra ebraismo e metafisica. È qui che, in un passo fra parentesi, una sorta di precisazione, di riflessione ulteriore, rispetto a quel che ha già detto, ammette e, anzi, rivendica il suo attacco a Husserl. Di più: l’«attacco», Angriff, introdotto la prima volta polemicamente fra virgolette, come per riprendere un’accusa rivoltagli più volte, sarebbe legittimato, perché va oltre Husserl ed è, a tutti gli effetti, diretto contro quella macchinazione dell’ente identificata con l’ebraismo.
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Così il passo compiuto da Husserl verso la considerazione fenomenologica, destituendo di valore la spiegazione psicologica e il computo storico delle opinioni, resta rilevante – e tuttavia non perviene mai agli ambiti delle decisioni essenziali, presupponendo invece ovunque la trasmissione storiografica della filosofia; la conseguenza, che necessariamente ne deriva, affiora quindi nel suo convergere sulla filosofia trascendentale neokantiana che, alla fin fine, ha reso inevitabile un progresso verso lo hegelismo in senso formale. Il mio “attacco” a Husserl è diretto non solo contro di lui, il che lo renderebbe inessenziale – l’attacco è diretto contro l’omissione della questione dell’essere, cioè contro l’essenza della metafisica come tale, sulla cui base la macchinazione dell’ente riesce a determinare la storia. L’attacco istituisce un istante storico di somma decisione tra il predominio dell’ente e la fondazione della verità dell’Essere.257
La critica è quella di sempre: il merito di aver inaugurato la fenomenologia non deve far trascurare i limiti di Husserl, primo fra tutti quello di non essere uscito dagli schemi della filosofia trascendentale che, mentre gli impediscono un dialogo ermeneutico con i filosofi greci, consegnandolo invece alla storiografia filosofica, lo respingono verso le correnti neokantiane, da cui avrebbe voluto allontanarsi. Ma il rimprovero filosofico si precisa ulteriormente: Husserl resta all’interno della metafisica, non perviene a quegli ambiti in cui si dà la decisione per l’Essere. In tal senso l’attacco è diretto non solo contro di lui. Non è soltanto un attacco personale, e dunque “inessenziale”, unwesentlich; ha di mira l’essenza, il Wesen, della metafisica, cioè la Machenschaft, la macchinazione che tenta di determinare il corso della storia imponendo il predominio dell’ente e occultando l’Essere. In questo conflitto epocale Heidegger sarebbe intervenuto per istituire «un istante storico di somma decisione», quello che, contro il predominio dell’ente, consentirebbe la fondazione della verità dell’Essere. In questa argomentazione, come d’altronde Heidegger stesso di sfuggita ammette, i diversi piani si confondono pericolosamente. Non si tratta solo del prevalere
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della metafisica. Piuttosto si ripropone lo scontro con l’ebraismo che minaccerebbe di dominare l’Occidente. La questione ontologica si rivela anche questione politica. E l’«attacco» – termine rivendicato da una filosofia evidentemente belligerante – si carica, come Husserl aveva avvertito, di significati che vanno ben al di là delle motivazioni personali o filosofiche. È in quanto esponente dell’ebraismo che Husserl viene attaccato. Come se l’essere ebreo ne condizionasse il pensare metafisico, come se la Denkart, il modo di pensare, fosse effetto della sua appartenenza. È forse perché è ebreo che Husserl non accede agli ambiti della decisione, che non giunge alla questione dell’Essere? Nella riga che precede il lungo passo fra parentesi Heidegger scrive: «quanto più originarie e iniziali diventano le decisioni e le domande future, tanto più restano inaccessibili a questa “razza” [Rasse]».258 Superflua e irritante diventa la domanda se Husserl sia sotto tiro perché, in quanto ebreo, non può non pensare metafisicamente, oppure se sia la sua posizione metafisica ad essere prodotto peculiare dell’ebraismo.
17. Heidegger, Jünger e la topologia dell’Ebreo Suggerito già da Löwith, nel 1946, l’accostamento del nome di Heidegger a quello di Jünger è giustificato non solo da un rapporto che, seppure nella distanza, si conservò per decenni, ma anche dal loro memorabile confronto sul nichilismo, dallo scambio epistolare e, infine, dal volume Zu Ernst Jünger, pubblicato nel 2004, che raccoglie scritti, appunti per seminari, note in margine, insomma l’intero laboratorio di Heidegger intorno all’opera del grande scrittore.259 Il rapporto, infatti, sebbene si sia sviluppato entro una profonda sintonia, non fu caratterizzato da reciprocità: Heidegger non ebbe mai
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per Jünger l’importanza che questi rivestì per lui. Nella conversazione con Antonio Gnoli e Franco Volpi, del 1995, Jünger ammise, più volte, di essere stato legato da un rapporto «più stretto», di vera amicizia, con Carl Schmitt del quale aveva condiviso la concezione politica e quella sua distinzione «tra amico e nemico» che «come una mina esplose senza rumore».260 Con esaltazione mistica Jünger aveva descritto le «tempeste d’acciaio» della Grande Guerra in cui aveva combattuto come volontario ed era stato ferito quattordici volte.261 Sprezzo del pericolo, trionfo della forza e del coraggio, sfida costante della morte, la guerra fu innalzata da Jünger a «esperienza interiore», necessaria, anche dopo la fine della belligeranza, sia nella vita politica sia nel tragico fluire dell’esistenza.262 Anche in seguito il conflitto restò cifra dell’esistenza, reso più acuto dall’abissale baratro ontologico che divideva dal «nemico», lo straniero, l’altro inteso come negazione del proprio modo di essere, mentre si ampliava quella terra di nessuno, fra le trincee, zona di sospensione del diritto, di distruzione selvaggia, di orgia di furore, di esposizione della nuda vita allo scatenamento della potenza meccanica.263 Fuoco e sangue tingevano l’universo eroico tratteggiato da Jünger, dove la natura si fondeva in una inedita armonia cosmica con la tecnica, e dove l’uomo nuovo era l’Arbeiter, il milite del lavoro, freddo e metallico, forgiato dal combattimento. Disumanizzazione del nemico, indifferenza verso il valore della vita, antiumanismo, erotismo della comunità guerriera, esaltazione pagana degli elementi della natura e della violenza primordiale, confluivano in un «misticismo della guerra», come lo chiamò Walter Benjamin, che non fu tenero con «Jünger e i suoi amici», quei «pionieri del riarmo», le cui teorie belliche traevano origine dalla «decadenza più rabbiosa» e non erano che la «trasposizione delle tesi dell’“arte per l’arte” sulla guerra».264 Nessun fascino esercitò, dunque, su Benjamin, né quel sol-
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dato, sopravvissuto testimone della guerra mondiale, che difendeva nel dopoguerra il «paesaggio del fronte, la sua vera patria», né quel «cupo incantesimo runico» che avrebbe dovuto essere presto spezzato.265 Teorico del «nuovo nazionalismo», Jünger auspicò e fomentò, anche con la sua intensa attività pubblicistica, la distruzione della Repubblica di Weimar, prima di riconoscersi nelle attese apocalittiche del regime hitleriano, pur senza prendere la tessera del partito e pur mantenendo sempre quell’altezzoso disprezzo per la volgarità plebea delle camicie brune che troppo spesso, come nel caso di Heidegger, è stato preso per una forma di «resistenza».266 Ufficiale della Wehrmacht a Parigi, durante l’occupazione, Jünger trascorse un breve periodo, nel 1943, sul fronte orientale, dove fu testimone dello sterminio degli ebrei con il gas, di cui prese nota nel suo diario e a cui fece cenno nella sua corrispondenza con Schmitt, entro una riflessione più ampia sul nichilismo bellico che aveva portato al nulla della cenere.267 A sua volta Schmitt gli rispose ricordandogli il libro di Léon Bloy, che giudicava «sempre più grande e più vero».268 Jünger ha confessato, nella conversazione con Gnoli e Volpi, di aver letto «intensamente» l’opera di Léon Bloy, «questo “catholique intolérant”», soprattutto «il libello Dagli ebrei la salvezza, […] un testo che introduce negli arcana di un potere magico, sacrale».269 Bloy lo avrebbe ispirato, perché aveva «colto fra l’altro anche la realtà del demoniaco».270 Il controverso libro del giornalista francese, molto noto negli ambienti cattolici, trae il titolo dal verso di Giovanni (4, 22): salus ex Iudaeis est – he sotería ek tôn iudaíon estín.271 Lugubre e violenta sintesi dell’antigiudaismo di fine Ottocento, mentre diviene già antisemitismo – con frasi come: «si proibisce il disinfestante, e poi ci si lamenta di avere le cimici» – il libro di Bloy ripercorre tutti i tópoi teologici, tornando però sempre all’accusa del deicidio: «mi basta
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sapere che gli Ebrei hanno commesso il Delitto supremo, rispetto al quale tutti i delitti sono virtù».272 Jünger si era pronunciato più volte, nei suoi saggi politici, sulla «questione ebraica», sebbene avesse sostenuto che non si esauriva lì la «questione tedesca».273 Lo Jude e l’Arbeiter – che cosa c’era di più distante dell’ebreo dal milite del lavoro, l’immagine del tedesco fiero di far parte del nuovo ordine tecnico-militare? «La Germania è la nostra grande madre, l’Europa è per noi solo un concetto che va subordinato alla nazione».274 Appartenere alla nazione vuol dire essere legati alla «misteriosa corrente del sangue».275 E del sangue, che «non è un elemento eminentemente biologico, bensì un concetto principalmente metafisico», Jünger tesse un vero e proprio panegirico in un saggio in cui risponde alla domanda: «che cos’è il sangue?».276 In una oscura metafisica, il sangue è ricondotto alla fonte più intima e nascosta, a un «linguaggio segreto, anteriore a tutti gli altri linguaggi». Pretendere di dimostrarne il valore ricorrendo alle scienze della natura è come «lasciare che il servo testimoni per il signore». Il sangue è «il combustibile arso dalla fiamma metafisica del destino», la cui forza magnetica non richiede segni di riconoscimento. Le «bandiere del sangue» non possiedono logica, ma un valore simbolico. «È il sangue che ci fa sentire stranieri oppure familiari».277 Per il nuovo nazionalismo, che aspira a rinsaldare le frontiere, l’ebraismo, più che un potere sovrastatale, è una «potenza antinazionale», nemica dello stato. E il tono si fa minaccioso: quando lo stato sarà «puramente nazionalistico», queste potenze «vivranno la loro brutta giornata».278 L’influsso di Schmitt, e dello schema amico-nemico, emerge con chiarezza nell’articolo Sul nazionalismo e sulla questione ebraica, scritto su richiesta di Paul Nicolaus Coßmann che aveva voluto aprire un dibattito sul ruolo degli ebrei in Germania in un numero monografico dei «Süddeutsche Monatshefte».279
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Vecchi stereotipi si alternano, nelle pagine di Jünger, a insolite, efficaci visioni. La prima è quella dell’ebreo, residuo del mondo feudale, la cui presenza, soprattutto nei posti rappresentativi, appare un «difetto estetico».280 «Dotato di talento e di fiuto», pronto a servirsi di «uomini e poteri», con quella «assenza di pregiudizi che è il segno distintivo della sua razza», l’ebreo si insinua subdolamente, perché è il «maestro di tutte le maschere», privo di creatività, incapace di forma, deforme, ostacola la morfologia dei tedeschi, ne minaccia la cultura. Contro questo Zivilisationsjude, «ebreo della civilizzazione», Jünger sferra il suo attacco prendendo però distanza da quell’antisemitismo che vorrebbe rendere innocui gli ebrei come si fa con gli «sciami di batteri e schizomiceti». Il contrasto deve avvenire su un altro piano, tanto più se dietro quella potenza «si sospetta che ci sia un sacerdozio superiore».281 L’ebreo della civilizzazione è «il figlio del liberalismo», cioè del livellamento e dell’assimilazione; perciò tenta di non farsi riconoscere – fino a realizzare quella «sommessa follia di poter essere ebreo in Germania». Se è invece stanato, rinviato a «leggi proprie», cessa di essere pericoloso.282 E non si deve fraintendere: questo non significa legittimarne i diritti. Se in pagine molto violente Jünger rinvia l’ebreo assimilato al sionismo oppure all’«ortodossia ebraica», è per arginarne la presenza, per confinarlo e ghettizzarlo. Solo così «il tedesco guadagna il suo elemento più proprio», solo così «lo straniero è condannato al più profondo deliquio, come un pesce gettato su un’isola vulcanica».283 Demarcare l’ebreo è possibile, dunque, se si afferma la «volontà tedesca» di acquisire la forma a cui deve improntarsi il Reich. C’è ancora posto per l’ebreo al suo interno? Solo come ebreo, non come tedesco. Altrimenti – e questa sarebbe «la sua ultima alternativa» – dovrebbe scegliere «di non essere», nicht zu sein.284 Più che un’eco
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di quell’eutanasia dell’ebraismo già auspicata in passato, da Kant a Wagner, questa alternativa richiama la logica amico-nemico di Schmitt, l’esigenza di marcare l’ebreo (come poi avverrà), di farne un nemico visibile, privo di cittadinanza, fuori dal nómos tedesco, minacciato, dunque, di eliminazione.285 In che cosa la figura dell’ebreo tracciata da Jünger si distingue da quella di Heidegger? Quali sono le affinità e quali le differenze? Una risposta può essere trovata solo entro la critica complessiva che Heidegger ha mosso a Jünger. Già all’inizio degli anni trenta Heidegger comincia a leggere le opere di Jünger: La mobilitazione totale (1930), L’operaio (1932), Sul dolore (1934). Più che una lettura, è una riflessione ermeneutica che muove dagli scritti di un impareggiabile testimone della catastrofe politica, «l’unico vero successore di Nietzsche».286 Anzi, Jünger è più radicale, perché il suo stesso pensiero è «una forma di volontà di potenza».287 Il mondo uscito dalla sua penna è mobilitato dal lavoro, quella forza che potrebbe essere più devastante della guerra; per la prima volta Jünger indica la potenza distruttrice non nel caos, bensì, all’opposto, nell’organizzazione della tecnica. Per Heidegger, però, Jünger offre mirabili descrizioni, ma non giunge alla domanda filosofica.288 Non vede che il regno dell’operaio è ancora il vecchio mondo, sorretto dalla metafisica, e gli operai, pur essendo divenuti signori e possessori, sono tuttavia «servi dell’abbandono dell’essere».289 Il rimprovero di restare dentro la metafisica è ricorrente. Così, ad esempio, Jünger non comprende il senso della decisione, la assume come un atto di volontà e di ragione, mentre per Heidegger la Ent-scheidung, rinviando, alla scissione tra l’ente e l’essere, dischiude la verità dell’essere.290 Ma è intorno alla «linea» che si accende il contendere. Il famoso saggio di Jünger, scritto per il sessantesimo
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compleanno di Heidegger, Über die Linie. In tedesco über è ambiguo, può voler dire “su” oppure “oltre”. Jünger lo intende in quest’ultimo senso: la linea è il «meridiano zero», quel limite a cui il mondo contemporaneo è stato sospinto dall’accelerazione della tecnica, e dove, nello sfaldarsi dei vecchi ordinamenti, nel ridursi di ogni risorsa, tutto sembra svanire nel nulla. È il tempo del nichilismo che, pur approssimandosi alla fine, non è ancora compiuto. «Oltre la linea» non significa per Jünger oltrepassare il nichilismo, che sarebbe come voler saltare al di là della propria ombra, bensì entrare in quell’ambito in cui il nulla è parte essenziale della realtà.291 Mentre descrive il nichilismo planetario, Jünger indica in quel «deserto», nel dopoguerra persino più esteso, un’oasi di libertà nella «terra selvaggia», là dove l’anarca, il resistente solitario, trova riparo nella germanica interiorità della selva. La viaticità del pensiero, il cammino solitario nel bosco, il bosco, legano Jünger e Heidegger che si incontrano per la prima volta nell’estate del 1948 a Todtnauberg. Il luogo dell’incontro, pienamente riuscito, è l’ombra della Foresta Nera, metafora del ritiro dei combattenti, temporaneamente sconfitti, che lasciano la metafisica e risalgono sulle alture familiari.292 Proprio intorno alla metafisica si condensa, però, la critica di Heidegger. Non è possibile un «oltre», un al di là della linea. Über die Linie vuol dire piuttosto «sulla linea».293 Heidegger apprezza la fenomenologia del nichilismo tracciata da Jünger, ma è filosoficamente ben più cauto e avverte che già solo parlare di «oltre» è segno di volontà di potenza. Dove manca l’anamnesi filosofica il rischio è che la metafisica divenga «ovvia».294 Jünger è prigioniero del nichilismo; la sua angolazione, il luogo in cui racconta, il suo linguaggio, restano ancorati all’oblio dell’essere. In assenza di verticalità, Jünger non alza lo sguardo verso la questione dell’essere, non ne scruta la sto-
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ria e le destinazioni epocali. Risuona allora la celebre proposta di Heidegger: più che di Überwindung è meglio parlare di Verwindung. Non si tratta di oltrepassare, bensì di rimettersi dalla metafisica, come ci si rimette da una malattia, sopportando ciò a cui si resta pur sempre avvinti. La «linea» è la trincea – una trincea all’interno di un mondo che resta prepotentemente nichilistico. L’attraversamento della linea è il movimento del soldato che si spinge in territorio nemico, che del nemico tenta, anzi, di tracciare la cartografia, di individuarne il luogo, definirne l’identità. La linea di Jünger rimarca il confine di Schmitt tra amico e nemico. La sua topografia dell’ebreo rimane all’interno di questa contrapposizione, dentro la metafisica. L’ebreo di Jünger non trova posto nella storia dell’essere. È la forza demonica che assale invano l’avamposto divino dell’eroe germanico, è il nemico che deve essere annientato. Per Heidegger la linea è il limite estremo, l’éschaton che suggerisce il passo indietro. Prima della topografia è necessaria una topologia. Vale per il nichilismo, ma vale anche per l’ebreo. Non ha senso descriverlo metafisicamente come nemico con un linguaggio che – ha annotato una volta Heidegger – assomiglia al «bollettino del comando supremo della Wehrmacht».295 Piuttosto occorre scorgerne il posto, se esiste, nella storia dell’Essere. Non una contrapposizione, dunque, ma una Erörterung, una delucidazione che è anche il raggiungimento del luogo; non una topografia trans lineam, ma una topologia de linea.296 Più che a una linea netta, quella della frontiera bellica, Heidegger rinvia a un limite che è un’apertura, l’éschaton come inizio inaugurale di altro.
18. Il nemico. Heidegger «versus» Schmitt Da Strauss a Kuhn, da Marcuse a Löwith, sono stati in molti, sin dagli anni trenta, a richiamare l’attenzione su
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un possibile parallelo tra Heidegger e Schmitt.297 Jaspers li accomunò nella sua denuncia del 22 dicembre 1945: Heidegger, Baeumler e Carl Schmitt sono i tre professori che, pur essendo tra loro molto diversi, hanno ugualmente tentato un accesso intellettuale ai vertici del movimento nazionalsocialista. Invano. In realtà hanno solo dato prova di grande capacità intellettuale facendo cadere in disgrazia la fama della filosofia tedesca. Perciò scorgo nei loro casi il risvolto tragico del male.298
Sia Heidegger che Schmitt, pur con alterne vicende, fecero parte dell’élite politica, ricevendo incarichi e compiti di grande rilievo strategico all’interno del regime. Entrambi non presero mai davvero le distanze e, anche dopo il 1945, non ritennero mai di doversi né discolpare né giustificare. Infine, entrambi furono antisemiti, di un antisemitismo non accidentale, ma radicato nella loro riflessione. Al di là, però, di questa comunità storica o affinità di appartenenza, le differenze sono notevoli e affiorano se si guarda al naufragio a cui fu presto condannato il progetto di Heidegger, che mirava a cambiare non solo l’università, ma l’intera vita «spirituale» della nazione, e il successo di Schmitt, che per anni svolse un ruolo chiave nella giurisdizione del Reich. Le divergenze profonde vanno però cercate altrove, nel loro pensiero. In una lettera del 22 agosto 1933 Heidegger, da poco rettore a Friburgo, ringrazia Schmitt per avergli inviato la terza edizione del suo saggio Il concetto del ‘politico’. A quei tempi Schmitt si era già fatto un nome con i suoi scritti di teologia politica. Lo scopo di Heidegger era quello di assicurarsi la presenza del noto giurista nella sua università. Egregio Signor Schmitt, La ringrazio per avermi spedito il suo scritto che conosco già nella seconda edizione e che contiene uno spunto di grande rilevo. Mi auguro davvero di poterne una volta parlare con Lei a voce. Mi ha fatto molto piacere che nella Sua citazione di Eraclito non
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abbia dimenticato il basileús che conferisce all’intero motto il suo pieno contenuto, se se ne dà un’interpretazione complessiva. Da anni ho pronta un’analoga interpretazione riferita alla nozione di verità – lo édeixe ed epoíese che compaiono nel frammento 53. Ma ora mi trovo nel mezzo del pólemos e l’aspetto letterario deve passare in secondo piano. Oggi vorrei solo dirle che spero molto nella sua decisiva collaborazione, perché qui occorre ricostruire completamente, dall’interno, la Facoltà di Giurisprudenza, per quel che riguarda sia il regolamento scientifico sia quello educativo. La situazione qui è purtroppo molto desolante. Diventa sempre più urgente convogliare le energie spirituali che devono aprire la strada a quel che avverrà. Per oggi concludo con cordiali saluti Heil Hitler Suo Heidegger299
A parte il rinvio al basileús di Eraclito, si trattava di frasi di circostanza, destinate a non avere alcun seguito. Schmitt riprese la cattedra che aveva già avuto a Berlino. Non si sa se abbia mai incontrato Heidegger di persona. Nel suo libro su Paolo, Taubes riferisce un racconto che gli avrebbe fatto Schmitt: nel 1934 sarebbe stato caricato da Göring su un treno notturno, insieme ad altri consiglieri di stato e professori tedeschi, fra cui Heidegger, per andare a parlare con Mussolini a Roma.300 A questo racconto, piuttosto leggendario, si aggiunge la testimonianza dell’interprete americano Gary Ulmen, parlando con il quale Schmitt avrebbe rievocato un suo incontro con Heidegger a Berlino, nel 1944, in cui, alla vigilia della sconfitta, parlarono del naufragio della Germania.301 Il loro rapporto fu sempre mediato da Jünger che, tuttavia, restò più legato al giurista che al filosofo. Ma soprattutto non fu mai chiaro che cosa intendesse Heidegger con il suo giudizio apparentemente lusinghiero sull’opera di Schmitt. Nel seminario sui Lineamenti della filosofia del diritto di Hegel, tenuto nel semestre invernale 1934-1935, e pubblicato nel 2011, emerge un giudizio ben diverso, sia sul
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concetto di “politico”, proposto da Schmitt, sia sulla relazione amico-nemico che ne costituisce l’asse portante.302 Si tratta di osservazioni, per nulla estemporanee, che si legano con coerenza alla visione politica di Heidegger. Non è azzardato dire che intorno a una riflessione sul nemico si dispiega il pensiero politico e giuridico di Schmitt, «l’ultimo consapevole rappresentante dello jus publicum Europaeum», come lui stesso si è definito.303 La sua riflessione è consegnata al saggio, apparso dapprima nel 1927, quindi ristampato e rielaborato in una terza edizione nel 1932, Il concetto di ‘politico’. Quel che con un aggettivo Schmitt chiama il “politico” è la forma più radicale in grado di unire un gruppo umano e di opporlo ad altri. «La contrapposizione politica è la più intensa ed estrema».304 Perché ne va dell’esistenza: il “politico” sorge in prossimità della morte, sulla trincea della vita, là dove, dinanzi alla minaccia ultima, al pericolo più grave, si impone la difesa comune. Nella profondità esistenziale, che il “politico” assume per Schmitt, si avvertono, inconfondibili, gli echi di Essere e tempo. L’esistenza politica è un «essere per la morte». Ed è legata a una lotta mortale contro il nemico. Ma chi è il nemico? La distinzione concettuale che fonda e dischiude l’ambito politico è quella tra amico, Freund, e nemico, Feind. Non derivabile da altre, e valida per sé, è analoga a quella tra buono e cattivo per la morale e tra bello e brutto per l’estetica. Poiché è autofondata, si interseca, ma non si confonde con queste: il nemico può essere bello e buono – e nondimeno resta nemico. Già qui emerge l’autonomia del “politico”.305 In quella che, più che una distinzione concettuale, va rivelandosi una contrapposizione ontologica, l’interesse di Schmitt si rivolge quasi esclusivamente al nemico. Per definirlo mobilita sia la filosofia greca sia la tradizione cristiana. Il nemico non può essere ridotto né al concorrente, come avviene nel liberalismo, né all’avversario. E neppure può essere confinato alla sfera privata.
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Decisiva è la separazione tra nemico privato e nemico pubblico che spesso le lingue passano sotto silenzio. Non è il caso tuttavia del greco e del latino che dispongono di due diverse parole: polémios e non echthrós, nel senso inteso da Platone nella Repubblica, hostis e non inimicus.306 «Nemico è solo il nemico pubblico».307 In un corollario aggiunto nel 1938, mentre richiama l’originario valore pubblico di Freund, amico di sangue, compagno di stirpe, Schmitt riabilita il tedesco Feind per il quale, sebbene la radice non sia stata chiarita, e alcuni etimologi abbiano indicato il nesso con fijan, cioè hassen, odiare, propone una contiguità con Fehde, faida. Dato che quest’ultima designa la situazione di chi è esposto all’inimicizia mortale, la lingua tedesca, grazie a Feind, l’antagonista nella faida, conterrebbe il concetto di nemico pubblico.308 Che ne è però allora del comandamento evangelico, «amate i vostri nemici», che il cattolico Schmitt non può ignorare? La difficoltà viene aggirata proprio attraverso la separazione tra privato e pubblico. Il famoso passo che dice «amate i vostri nemici» (Matteo 5, 44; Luca 6, 27) recita «diligite inimicos vestros», «agapâte toùs echthroùs humôn», e non «diligite hostes vestros»: non si parla qui del nemico politico.309
Solo nella sfera privata ha senso amare il nemico in quanto inimicus, colui che ci odia. Il comandamento «cristiano» dell’amore si arresta al confine dove si erge il nemico pubblico, colui che ci combatte. Il «passo della Bibbia» – dichiara Schmitt – si applica solo alle relazioni affettive, ma non riguarda in nessun modo la contrapposizione politica. Si potrebbe infatti persino amare privatamente quel nemico che occorre invece combattere. L’esempio a cui ricorre è volutamente ambivalente: «nella lotta millenaria fra Cristianità e Islam, mai un cristiano ha pensato che si dovesse cedere l’Europa».310 Non tenere ben distinti il nemico privato e quello pubblico, pensare a un amore che si estende oltre confine,
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vorrebbe dire pregiudicare il concetto stesso di “politico”. La scomparsa del nemico «suonerebbe la campana a morte del politico».311 La distinzione deve essere pura, perché altrimenti gli effetti sarebbero devastanti. Tuttavia Schmitt sembra consapevole di muoversi tra frontiere controverse, confini labili, lungo i quali il suo discorso potrebbe rovinare. E in fondo, come ha osservato Derrida, «si costruisce contro la minaccia di questa rovina».312 Un popolo che rinunciasse alla possibilità di decidere chi considerare e trattare come nemico, rinuncerebbe, per ciò stesso, alla sua unità politica.313 Prima ancora di qualsiasi strategia e qualsiasi tattica, occorre definire il nemico. Il che è possibile solo in un mondo dove la guerra è l’orizzonte ultimo: «l’intera vita umana è una “lotta” e ogni uomo un “combattente”». Un mondo senza guerra sarebbe un mondo senza nemico, e dunque un mondo senza politica. La guerra non deriva dalla politica, ma ne è il presupposto, mentre d’altra parte «consegue dall’ostilità», è anzi la «realizzazione estrema dell’ostilità», perché porta alla uccisione fisica dell’altro, alla negazione assoluta dell’esistenza.314 I nemici – commenta nel 1941 il suo ex allievo Franz Neumann – sono «tutti quelli che devono essere sterminati fisicamente».315 Si potrebbe insomma dire: neco ergo sum, «uccido dunque sono».316 Più che un essere-per-la-morte, l’esistenza è un essere per la messa a morte. Il Feind di Schmitt è a tutti gli effetti l’opposto dell’ebraico lo tirzàch, non ucciderai. Resta però ancora aperta la domanda: chi è il nemico? Non è detto – precisa Schmitt – che «un determinato popolo debba essere per l’eternità l’amico o il nemico di un determinato altro popolo».317 Pur dovendo essere sempre deciso, il nemico può variare nel corso delle vicende storiche. Il nemico storico sarebbe ogni volta diverso. Sembra tuttavia stagliarsi, nelle pagine di Schmitt, anche un’altra figura, quella del nemico eterno, che non muta e che, nella sua irriducibile estraneità, si innalza oltre i confini stessi
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della storia. È «semplicemente l’altro, lo straniero [der Fremde] e basta alla sua essenza che sia esistenzialmente, in un senso intensivo, qualcosa d’altro e di estraneo».318 La distinzione è dunque anche discriminazione e, mossa dall’angoscia di mantenere un confine puro, è purificazione xenofobica. Contro questo nemico il conflitto non potrebbe essere deciso «attraverso un sistema di norme prestabilite», né con la «mediazione di un terzo».319 Piuttosto, «superando il “politico”» viene ventilata la forma di una «guerra finale dell’umanità», dove il nemico «trasformato in mostro disumano» dovrà essere non già sconfitto, «ricacciato nei suoi confini», bensì «definitivamente distrutto».320 Il nemico, ben riconoscibile in questo concetto inumano e assoluto, con cui l’altro, estraneo al politico, viene respinto fuori dall’umanità, è l’eterno nemico d’elezione, è il nemico elettivo: Israele. Gli inglesi, i francesi, gli americani, perfino i russi, sono nemici politici esterni e temporanei. Anche «il comunista – annoterà Schmitt nel 1947 – può migliorare e trasformarsi». Ma l’Ebreo resta Ebreo. «Proprio l’Ebreo assimilato è il vero nemico».321 Perché l’ebreo bastardizza la frontiera, ebraizza il confine – lo rende irriconoscibile. Etimologicamente evèr indica l’altra parte, la sponda opposta; l’ebreo attraversando – avar – scompiglia l’ordine dei fronti. È la provocazione più intollerabile per il concetto del “politico”. Di più: è il nemico del “politico”. È l’ospite, hospes, il Gast, all’interno dello stato tedesco. Ma non è straniero, Fremder, in quanto Ausländer, non è lo straniero d’oltreconfine, perché potrebbe essere ed è cittadino tedesco; bensì è estraneo, in quanto altro, l’altro più prossimo che, nella inquietante intimità, mina la frontiera identitaria. L’Ebreo convoglia pericolo esterno e pericolo interno, provocando un raccogliersi in sé della nazione e legittimandone al contempo la politica di espansione. La Germania è chiamata a difendersi. Schmitt precisa: «l’Ebreo non ci
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deve interessare per se stesso; ciò a cui miriamo è [...] la purezza incontaminata del nostro popolo tedesco».322 Tuttavia è evidente l’importanza che assume l’Ebreo nella sue tesi «rabbiosamente conservatrici», non solo perché è contro la sua identità che la nazione germanica si costituisce, ma perché definire l’ebreo vuol dire stabilire il nemico, il cardine del suo pensiero politico e giuridico.323 Questa importanza, insieme alla «profondità» del suo antisemitismo, è stata sottolineata da Taubes nel suo saggio del 1985 Carl Schmitt. Un apocalittico della controrivoluzione. Senza dubbio il problema degli ebrei perseguitò Carl Schmitt per tutta la vita e il 1936 fu solo il pretesto per prendere posizione «in modo rispondente ai tempi» su un problema che per lui aveva ben altra profondità. Era un cristiano dei popoli, che guardava con odio e invidia a quelli là «che sono di Israele, a cui appartiene l’essere figli e la beatitudine e l’alleanza e la legge e il servizio divino e le promesse: da cui sono i padri e da cui Cristo proviene secondo la carne» (Paolo, Lettera ai Romani, capitolo 9 nella traduzione di Lutero). Il cristianesimo per Schmitt era «ebraismo per i popoli», e contro la forza di quest’ultimo desiderò sempre ribellarsi.324
Motivi biografici, storici e speculativi si coniugano in un antisemitismo che va visto sullo sfondo del cattolicesimo tedesco di fine secolo e, dunque, di quella teologia i cui concetti sarebbero confluiti nella sua teoria politica. Non sono solo i pregiudizi di «razza» ad essere determinanti, ma anche gli antichi stereotipi e quei risentimenti mai sopiti dell’odio antiebraico, rinfocolato dalla minaccia della modernità. Anche per Schmitt sul mondo incombe la «giudaizzazione» e quel che, con un aggettivo sostantivato, chiama «das Jüdische», ciò che è ebraico, qualifica ogni aspetto negativo del mondo moderno: rivoluzione, emancipazione, secolarizzazione, universalismo. Soprattutto a partire dal 1933 «das Jüdische» assurge a simbolo di ciò contro cui viene delineato il «buon diritto
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tedesco». La Judenrepublik, la «Repubblica degli ebrei» come veniva chiamata con disprezzo la Repubblica di Weimar, aveva posto termine, nel 1918, all’impero guglielmino, un ordine politico concreto, fondato sulle istituzioni monarchiche, con un «dominio della legge», una democrazia astratta e sradicata. Schmitt sintetizza così quell’avvenimento politico: die Herren der Lex unterwerfen den Rex, «i signori della Legge sottomettono il Re».325 Protagonisti della dissoluzione del vecchio impero, gli ebrei sono i fautori della democrazia, cioè di un dibattito infinito, una dialettica inconcludente, e sono gli instancabili sostenitori della «legalità» e dell’«uguaglianza», valori vuoti, ai quali occorre contrapporre la «legittimità» e l’«omogeneità». Schmitt precisa questo concetto grazie al termine Artgleichheit, quella omogeneità di specie, o meglio, di «razza», su cui deve fondarsi il nuovo Reich nazionalsocialista. Quando un popolo si risveglia alla coscienza, torna a sé, lo Artfremder, l’estraneo per razza, per quanti sforzi faccia, riesce dannoso, perché «pensa e intende diversamente», perché «è fatto [geartet] in altro modo, e rimane, in ogni ordine di idee essenziale, nelle condizioni esistenziali della sua propria specie [Art]».326 Questo argomento è, però, tanto più valido, in quanto si deve presumere un’intenzione truffaldina, il proposito di infiltrarsi, di coltivare il proprio interesse sbandierando ideali universali: «chi parla di umanità vuol trarvi in inganno».327 Ma per il giurista Schmitt gli ebrei sono in particolare i rappresentanti della «Legge», del Gesetz. «Vi sono popoli che, senza terra, senza stato e senza Chiesa, esistono soltanto nella “legge”; il pensiero normativo è il solo ad apparire loro razionale, mentre ogni altro tipo di pensiero giuridico sembra, al contrario, incomprensibile, mistico, fantasioso, ridicolo».328 Dietro l’accusa politica di un’esistenza priva di fondamento, esiliata e deterritorializzata, affiora l’accusa teologica, lanciata nei secoli contro gli
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ebrei, quella cioè di essere legati a una interpretazione aggrappata alla lettera e priva di spirito, di essere succubi di una osservanza tutta esteriore, schiavi di un legalismo formalistico che la religione dell’amore avrebbe poi superato. Così il particolarismo ebraico, connesso con la contestata elezione di Israele, fermo a un «Vecchio» Testamento, che parla di odio e vendetta, sarebbe stato sostituito dal «Nuovo» Testamento. Cardine della teologia della sostituzione è il greco nómos con cui è stata erroneamente tradotta Torà.329 A questa tradizione antigiudaica rinvia il Nomos di Schmitt che, provenendo dal verbo greco némo, corrisponderebbe al tedesco Nehmen, un prendere che è insieme un ripartire, ma anche occupare, conquistare, che indica dunque la presa originaria della terra, l’«appropriazione».330 Oltre ad essere categoria giuridica, il Nomos è il gesto immemoriale che inaugura la storia del mondo perché, nella sua concretezza, mette ordine e delimita lo spazio – Ordnung e Ortung – affondando le proprie radici nella justissima tellus, la terra universalmente giusta, madre di ogni diritto.331 Il Nomos è dunque Recht, diritto, una parola che viene puntualmente opposta a Gesetz, legge.332 Possono esserci nuove suddivisioni, ma il diritto deve restare «terraneo». E l’ordine è imprescindibile. Gli ebrei, con la loro legge, pregiudicano il legame fra il diritto e la terra: non solo perché testimoniano la possibilità di un popolo sopravvissuto senza le radici di uno jus terrendi, ma perché lo jus scriptum dell’ebraismo decreta l’inappropriabilità della terra.333 Il pericolo rappresentato dallo «spirito ebraico» è, al di là della desertificazione dello spazio e dello sradicamento dell’esistenza, la dissoluzione stessa del Nomos. Il conflitto è giuridico, politico, esistenziale – in certo modo anche «biogeografico», perché si tratta di due opposte forme di vita nel loro rapporto con la terra. «Il rapporto di un popolo con un suolo modellato dal proprio insediamento e dal proprio lavoro
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culturale, dai quali derivano le sue forme concrete di potere, è incomprensibile alla mente dell’ebreo».334 Dopo aver preso la tessera del partito nazionalsocialista il 1° maggio 1933, lo stesso giorno in cui anche Heidegger aveva fatto il suo ingresso ufficiale, Schmitt offrì un decisivo contributo giuridico-filosofico alla costituzione del Reich mostrando come il provvedimento con cui il 28 febbraio 1933 i diritti erano stati sospesi, ed era stato dichiarato l’Ausnahmezustand, lo «stato d’eccezione», non era che il passaggio legale attraverso cui la Germania cessava di essere una dittatura commissaria per divenire dittatura sovrana. «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione» – aveva scritto nella Teologia politica del 1922.335 Richiamandosi a quel principio, il 1° agosto 1934 pubblicò il saggio Il Führer protegge il diritto, in cui legittimava il potere di Hitler dichiarandolo «giudice supremo del popolo tedesco».336 Sottolineava la discontinuità con l’epoca precedente. La costituzione, o meglio, il nuovo costituirsi del popolo tedesco, era per Schmitt non una norma fondante, bensì una decisione esistenziale. Il Führer, per la sua omogeneità con il popolo, ne era il vero garante, la «fonte» stessa del diritto. Se lo stato d’eccezione era la sospensione delle norme, l’ordine non poteva essere prodotto da un agire conforme a queste, ma scaturiva da un agire politico sovranamente in grado di decidere.337 Impossibile non avvertire nella «sospensione» delle norme l’eco politica di quel gesto teologico con cui il cristianesimo ha preteso di superare la Legge ebraica.338 Così è lecito chiedersi con Taubes: «ma il nuovo Nomos della terra può misurarsi con il nómos di Cristo?».339 E si deve anche domandare: fino a che punto l’antinomia, a lungo attribuita a Paolo, non sia piuttosto il rifiuto dell’eteronomia, l’impossibilità di accettare la legge altrui, e il comando dell’Altro, soprattutto quando l’altro è il nemico? Nel 1935 Schmitt fornì una legittimazione alle leggi di Norimberga nel saggio La costituzione della libertà, dove
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metteva in guardia contro «tutti i nemici e i parassiti della Germania», contro «le tipiche forme di mascheramento della dominazione straniera».340 L’anno successivo, il 3 e 4 ottobre 1936, organizzò il congresso dei giuristi del Reich sul tema: L’ebraismo nella giurisprudenza. Nella sua relazione conclusiva l’indice è puntato contro il nefasto «dominio» dello jüdischer Geist, dello «spirito ebraico». Ossessionato dall’identificazione dell’Ebreo, dalla difficoltà di definirne l’essenza, Schmitt ne scorge il carattere sfuggente e polare. E lo proietta sulla «legge ebraica», quella «redenzione dal caos», che nulla ha a che vedere con il diritto tedesco. Affiora così «la strana polarità di caos ebraico e legalità ebraica, di nichilismo anarchico e normativismo positivistico, di grossolano materialismo sensualistico e moralismo astratto».341 Ma l’Ebreo è sfuggente perché, vivendo nell’inganno e nella menzogna, è capace di assumere molteplici maschere, fino a rendersi invisibile. Proprio l’invisibilità inquieta Schmitt. Gli ebrei assimilati ne sono l’esempio più calzante. Come stanarli? Sono quelli che si fanno passare per tedeschi, parlando la lingua e mutando spesso anche il nome. E sono soprattutto gli ebrei convertiti che, malgrado il battesimo, restano anche ai suoi occhi pur sempre ebrei. Non è un caso che Schmitt rivendichi per sé la figura del Grande Inquisitore quale è descritta da Dostoevskij nel romanzo I fratelli Karamazov.342 Gli ebrei ingannano perché, fingendo di affermare valori universali, mirano ai loro interessi particolari. Con questa tattica assecondano la modernità in un’accelerazione drammatica, di cui reggono le fila, esercitando il loro potere segreto dietro le quinte della storia. Come fermare lo spirito senza quiete dell’ebraismo? Come arginare gli agenti dell’accelerazione? In alcune tra le sue pagine più violente e raffinate, Schmitt riprende la figura mitica del Leviatano. Quando scrive, verso la fine del 1937 e la primavera del 1938, è già
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il tempo del «cammino interiore», del ritiro intellettuale, per il quale si avviano anche Jünger e Heidegger. Mentre ferve il dibattito sullo “Stato totale”, Schmitt reinterpreta Hobbes, quell’impareggiabile maestro, responsabile tuttavia della distruzione dello Stato, alla quale avevano poi contribuito gli «autori ebrei», da Spinoza a Mendelssohn, fino a Marx. Riconduce il Leviatiano di Hobbes al mostro descritto nel libro di Giobbe (40-41). Accanto all’animale marino, forte e indomabile, compare, nella Bibbia, anche Behemot, un animale terrestre.343 Oltre all’esegesi cristiana, Schmitt richiama le «interpretazioni ebraiche» che attribuisce a rabbini e soprattutto a kabbalisti. Secondo queste interpretazioni ebraico-kabbalistiche il Leviatano rappresenta «la bestia sulle mille montagne» (Salmi 50, 10) e cioè i popoli pagani. La storia del mondo appare come un combattimento dei popoli pagani gli uni contro gli altri. In particolare, la lotta si svolge fra Leviatano – le potenze marittime – e Behemot – le potenze terrestri. Behemot cerca di squarciare Leviatano con le corna, mentre Leviatano con le sue pinne ottura la bocca e le narici di Behemot, uccidendolo, il che tra l’altro è una bella immagine dello strangolamento di una potenza terrestre con un blocco navale. Ma gli ebrei se ne stano da una parte, a guardare come i popoli della terra si uccidono a vicenda: per loro questi reciproci «macelli e sgozzamenti» sono legali e kosher. Perciò essi si cibano della carne dei popoli uccisi e ne traggono vita. Secondo altre dottrine di questo tipo, Dio gioca quotidianamente alcune ore con il Leviatano.344
Quasi a voler dar prova di svelare un segreto, Schmitt non manca di far notare il «carattere esoterico» di tali «interpretazioni ebraiche», delle quali, però, non fornisce alcuna fonte, né qui né nel saggio, del 1942, Terra e mare, dove descrive di nuovo la lotta, che attraversa la storia del mondo, tra Leviatano e Behemot, che si dilaniano a vicenda mentre gli ebrei «celebrano il solenne, millenario “banchetto del Leviatano” di cui Heinrich Heine narra in una famosa poesia».345 Questa volta viene tuttavia chiamato in causa, come «kabbalista», Isaak Abrabanel.
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Ma l’ermeneutica ebraica non sa nulla di questo mito. Nel Talmud – non nella Kabbalah – Rabbi Jochanan dice che Dio quel giorno «preparerà, con la carne del Leviatano, un pasto per i giusti».346 Non emerge alcun significato politico, né alcun nesso con la storia dei popoli. L’atmosfera di appagata letizia, che si respira alla fine dei tempi, pervade anche la poesia di Heine come pure l’inno ebraico che l’aveva ispirato.347 E perché, infine, il rinvio di Schmitt a Abrabanel, che mai ha parlato di un tale scontro fra Leviatano e Behemot? Nel 1937, a cinquecento anni dalla nascita, Abrabanel veniva ancora ricordato come esemplare figura di pensatore e uomo politico dalla comunità ebraiche in Germania, dove era aumentato l’interesse per i marrani e per l’espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492. Abrabanel, il pioniere della tolleranza, che con coraggio aveva lottato contro il Santo Uffizio, denunciando la violenza dell’Inquisizione, diventa nella versione di Schmitt il sanguinario kabbalista.348 La scena indicherebbe il posto singolare, «del tutto abnorme», del popolo ebraico rispetto agli altri popoli.349 L’elezione di Israele: un guardare la storia del mondo dal margine, per ricavarne vantaggio al momento opportuno, per profittare di quella carneficina, per trarre vita dalla morte altrui. È la raffigurazione – basata su fantomatiche interpretazioni «kabbalistiche» – della teoria di un complotto ebraico. Mito e storia sono strettamente intrecciati, soprattutto nella teoria politica di Schmitt. Così non era difficile capire che Leviatano rappresentava l’Inghilterra, mentre Behemot, la potenza terrestre, era la Germania, «strangolata» dal blocco navale, espressione della «guerra totale».350 In Terra e mare, tornando sul mito del Leviatano, Schmitt introduce la figura escatologica del katéchon, la «forza frenante» che arginerebbe la venuta dell’anticri-
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sto quale si annuncia nella potenza di satana, con portenti e prodigi menzogneri, con ogni sorta di empio inganno.351 Come è detto: «e sapete ciò che impedisce il suo manifestarsi […], ciò che lo trattiene».352 L’enigmatico linguaggio della miniapocalisse (2 Ts 2,1-12) lascerebbe nondimeno intendere, secondo l’esegesi neotestamentaria, in particolare patristica, che fin quando il katéchon ritarderà la venuta dell’anticristo, si dovrà ancora attendere per la parusia, cioè il ritorno di Cristo. Schmitt attualizza la figura del katéchon. L’epoca dello “Stato” è giunta al termine e lo stesso vale per il Leviatano di Hobbes, che ne è stato il simbolo. Al nuovo Reich si addice il «katéchon», l’Aufhalter, che lo inscrive nella storia della salvezza. «“Reich” significa qui – osserva Schmitt nel Nomos della terra, scritto in gran parte durante la guerra – il potere storico che riesce a trattenere l’avvento dell’anticristo e la fine dell’eone attuale».353 Forma storica del katéchon è il Reich millenario; se anche un giorno avesse dovuto soccombere, non avrebbe pregiudicato la forza salvifica del katéchon. Quando parla del katéchon, un potere dal carattere difensivo, che può trattenere, rinviare, ritardare, la Wehrmacht, dopo i primi successi, all’inizio del 1942 è costretta, sul fronte orientale, ad arginare la controffensiva sovietica. La politica espansionistica del Reich, legittimata da Schmitt con la sua Großraumtheorie, la «teoria dei grandi spazi», è naufragata. Ma che ne è degli agenti dell’accelerazione? Schmitt non li menziona, sebbene sia chiaro quale nemico debba frenare il suo katéchon. Nel 1942 gli agenti dell’accelerazione, arrestati, deportati e internati nei campi di sterminio, avevano già cominciato a scendere nelle camere a gas. «Come, scusi: io amico di Carl Schmitt? Io sono ebreo e sono stato dichiarato da lui nemico atavico».354 Fu questa la risposta che Taubes ricorda di aver dato a un curioso interlocutore durante un seminario di teoria politica a
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Harvard, nel 1952, dove era andato per parlare della sua «apocalittica della rivoluzione». Che cosa lo accomunava a Schmitt? Ben poco: l’esperienza del tempo e quella della storia come Frist, come termine. L’idea che il tempo del mondo non sia infinito, che volga alla fine, è un’idea cristiana in quanto è ebraica: et ketz.355 Tuttavia il katéchon di Schmitt prova come questo ebraico “tempo della fine” possa, nel cristianesimo, essere «addomesticato» e adattato «al mondo e ai suoi poteri».356 «Carl Schmitt pensa da apocalittico, ma dall’alto, a partire dai poteri costituiti [Gewalten]; io penso a partire dal basso».357 Forse occorre ancora aggiungere, a quel che dice Taubes, che Schmitt è profondamente antimessianico. Il suo katéchon è un potere reazionario, in senso letterale, perché vorrebbe reagire contro la carica rivoluzionaria che scuote la storia, vorrebbe trattenerla con una volontà di potenza destinata a ripiegarsi tragicamente in un’apocalittica che non sa di speranza né di redenzione, perché tratta l’altro come limite escatologico della propria scomparsa imminente e a quel nemico resta perennemente vincolata. Sebbene avesse proclamato che era «tempo di tacere», dopo il 1945 Schmitt parlò – non per scusarsi, né per chiedere pubblicamente perdono al nemico. Anzi, quando, nel 1947, fu ascoltato a Norimberga, difese le proprie posizioni.358 Si considerò sempre un vinto – sconfitto, però, militarmente, non spiritualmente. E soprattutto continuò ad essere ossessionato dagli ebrei: «oggi si sentono i vincitori, e lo sono pure».359 Non da loro, certo, veniva la salvezza; bensì, semmai, dalla captivitas, dalla prigionia.360 Il 12 gennaio 1950 annotava: «Salus ex Judaeis? Perditio ex Judaeis? Intanto finiamola con questi Judaeis insistenti! Non appena ci siamo disuniti, gli ebrei si sono introdotti sottobanco. Finché non lo capiamo, non c’è rimedio. Spinoza fu il primo a farlo».361 Nella Germania di allora erano rimaste ben poche tracce degli ebrei, e l’ebraismo tedesco era finito per sempre. Si trat-
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tava di una presenza spettrale. Schmitt continuava però a sentirsi perseguitato dall’Ebreo, il suo nemico metafisico. E mentre non mancava di rinviare al giovane Hegel e alla sua pionieristica opposizione al legalismo, non abbassava la guardia contro il «dominio della legge». «A proposito del katéchon – scriveva – […] per me rappresenta l’unica possibilità di comprendere la storia da cristiano». Ma «chi è il katéchon di oggi? […] La domanda è più importante di quella sul capo guardaboschi jüngeriano».362 In una nota del 28 aprile 1950, commentando il libro di Marcel Simon sulle relazioni fra ebrei e cristiani nell’Impero romano, scriveva: Dopo la repressione della rivolta di Bar Kochbà, nel 135 d.C., la resistenza aperta scomparve. Non resta che la speranza escatologica e messianica en veilleuse. «L’autorità stabile del patriarca, riconosciuta da Roma, rimpiazza l’effimero potere insurrezionale del Figlio della Stella e, nell’Israele rinsavito e rassegnato, si installa il regno esclusivo della Legge». Ecco di che si tratta: «Le règne exclusif de la loi».363
Heidegger mette in discussione sia la dicotomia amiconemico, sia il concetto di “politico”. Oltre a essere rilevante, perché anticipa un dibattito che avrà luogo molto più tardi, nel corso del Novecento, la critica a Schmitt, l’ultimo grande metafisico della politica, è decisiva per il tema dell’ebraismo, dato che toglie ogni fondamento al “nemico” assoluto con cui viene identificato l’Ebreo. Sebbene siano limitati a poche pagine, e abbiano una forma ellittica, i passi contenuti nel seminario su Hegel, risalente al 1934, sono molto espliciti.364 Heidegger rovescia la concezione di Schmitt: il rapporto amico-nemico non è l’inizio, ciò da cui trae origine il “politico”, ma ne è, al contrario, l’esito. Rapporto amico-nemico una conseguenza essenziale del politico – ma non il politico stesso. 1.) Su che base qualcuno diventa ed è nemico? 2.) Su che base è un amico politico?365
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Amico e nemico sono termini relazionali che si costituiscono nel Kampf, nella «lotta per il riconoscimento» – come Heidegger la definisce hegelianamente – un riconoscere o non riconoscere l’«altro» nel suo Anderssein, nel suo «essere-altro», che può darsi solo a partire dal presupposto della «cura» e dunque in quell’essere-nelmondo che è sempre uno storico essere-con gli altri. L’«opposizione» amico-nemico trae la sua «origine essenziale» dal con dell’«essere l’uno con l’altro», del Miteinandersein, dall’esistenza storica della comunità.366 Questo non vuol dire ovviamente negare il concetto di nemico e quello di amico; piuttosto si tratta di ricondurli al contesto da cui provengono e di mostrarli per quel che sono, cioè concetti derivati e secondari che non sono autofondati né esauriscono il “politico”. Schmitt pretende invece di fondare il “politico” sulla dicotomia metafisica amico-nemico. D’altronde, tutta la posizione di Schmitt resta, secondo Heidegger, dentro l’orizzonte metafisico, sia per il modo in cui guarda all’inizio, e all’ordine dell’inizio, sia perché la sua prospettiva, anche sulla politica, è quella del soggetto della modernità. La critica lapidaria culmina nel giudizio più duro e liquidatorio: «Carl Schmitt pensa da liberale».367 L’accusa di muoversi ancora all’interno del liberalismo determina la distanza politica assunta da Heidegger. Ma così viene rivendicato anche il primato della filosofia: non ci può essere la nuova politica, auspicata dal nazionalsocialismo, se non in un pensiero consapevole dell’esigenza di non ricadere nella metafisica, che è il terreno del liberalismo moderno.
19. «Pólemos» e guerra totale La critica, però, si amplia e investe, da ultimo, la politica stessa. Lasciandosi alle spalle Schmitt, che non viene
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più menzionato, Heidegger si avvia per un sentiero impervio, e poco battuto, che risale dallo stato alla pólis. È il cammino che avrebbe dovuto seguire la «rivoluzione nazionalsocialista», destinata a ricomporre quel che la modernità aveva separato, la pólis greca e lo stato, e che Heidegger, nell’estate del 1942, percorre in solitudine, a futura memoria, facendosi guidare da Hölderlin e dal basso corso del Danubio che, quando si getta nel Ponto, un mare sin dall’antichità molto eccentrico, riprende il suo antico nome greco Istro. L’intento è sottrarre le categorie politiche al contesto concettuale della modernità, di demolire, o meglio, decostruire il “politico”, riconducendo la politica al luogo in cui l’etimologia la richiama, alla pólis. Già adombrato nel seminario su Hegel, il primato genealogico della pólis sullo stato viene alla luce otto anni dopo nelle lezioni dedicate all’Ister di Hölderlin. Il “politico” è palesemente «ciò che appartiene alla pólis»; ma non vale la reciproca. Se armati di categorie politiche si pretende di espugnare la pólis, si finisce per mancarne il significato, perché la pólis «non è un concetto politico».368 Né è detto che i greci, pur vivendoci, fossero in chiaro circa la sua essenza. Sarebbe erroneo identificarla con lo stato, oppure con la città, o anche con la città-stato. La pólis è il polo intorno a cui ruota l’esistere stesso. Heidegger attinge alle risorse del tedesco e ne segue i rinvii omofonici: la pólis non è «né solo Stato [Staat], né solo città [Stadt]», ma è «prima di tutto e propriamente “la sede” [die Statt]: il luogo [die Stätte] dell’umano soggiornare storico dell’uomo nel mezzo dell’ente».369 In tedesco, però, la pólis, oltre ad essere luogo, dà luogo – nel senso del verbo gestatten, cioè consente, rende possibile il soggiornare umano. Se la parola è greca, la pólis, più che una forma realizzata nel passato, è il luogo di una comunità ancora a venire. Né costituzione ideale, né tanto meno forma di dominio, la pólis è il luogo delle possibilità ancora impensate,
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ogni volta inedite e singolari, in cui gli esseri umani accedono all’essere-insieme e alla coabitazione. Non c’è dettato né dittatura che possa reggerla. Heidegger si tiene ben lontano dalla concezione strumentale della politica, che rimprovera invece a Schmitt, e perciò non gli interessa stabilire l’arché e il principio che ordina la comunità. In un altro corso del 1942 osserva: «noi pensiamo la pólis greca e il “politico” in modo totalmente non greco, vale a dire in termini romani, cioè imperiali».370 E infatti in latino «imperium significa comando».371 La politica non può più essere pensata come dominio e dominazione. È stato questo l’errore del nazionalsocialismo. Perché la pólis non può essere creata, né il suo luogo fondato; la pólis, che dà luogo al soggiornare umano, è il luogo dell’Ereignis, dell’evento in cui si dà la storia.372 In tal senso la pólis è ciò che è eminentemente degno di domanda, quel domandare e interrogare che manca al “politico”. Di qui la «totalità» di quest’ultimo, il suo carattere totalitario, che non dipende, «come credono animi ingenui, dal casuale arbitrio di dittatori» – e l’allusione a Schmitt non è neppure troppo velata – ma è «fondata sull’essenza della metafisica».373 Mettere in questione l’originaria dicotomia amiconemico non vuol dire tuttavia negare il pólemos, che Heidegger traduce spesso con Kampf, lotta, né vuol dire contestare l’esistenza del nemico.374 Sebbene Feind non sia un termine chiave del vocabolario filosofico di Heidegger, e non ricorra che di rado nella sua opera, tuttavia si presenta in alcuni passaggi strategici degli scritti risalenti agli anni trenta, in particolare nei Quaderni neri. Chi è allora il “nemico” per Heidegger? Forse bisognerebbe chiedere che cos’è il nemico? Oppure sarebbe più corretto riprendere la domanda del seminario su Hegel: «su che base qualcuno diventa ed è nemico»? La risposta di Heidegger è ambivalente, muta nel corso degli anni, dal 1933 al 1941, e si sviluppa in un rapporto
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non esplicito, eppure evidente, con Schmitt, di cui si avverte l’influsso all’inizio e che, in seguito, viene preso di mira. Altrettanto chiaro è che il nemico, inteso come hostis, il nemico pubblico, è l’ebreo, sebbene Heidegger, a differenza di Schmitt, si guardi dal porre accanto a Feind l’identificativo Jude. Nelle lezioni del 1933, che sono state pubblicate con il titolo Sein und Wahrheit (Essere e verità), Heidegger sostiene che il nemico è colui dal quale proviene una «minaccia essenziale» all’esistenza del popolo. «Non occorre che il nemico sia esterno, e non sempre quello esterno è il più pericoloso».375 Proprio quando sembra non essercene alcuno, è indispensabile «trovare il nemico, metterlo in luce». Oltre all’esigenza esistenziale – evitare, cioè, che l’esserci si intorpidisca – emerge la necessità politica. E dunque Heidegger afferma: Il nemico può essersi insediato nella radice più intima dell’esserci di un popolo, contrastarne e pregiudicarne l’essenza propria. Tanto più accanita, dura e difficile è la lotta, perché solo in minima parte consiste nel combattimento aperto; spesso è ben più impegnativo e faticoso tener d’occhio il nemico, far sì che si sfoghi, non farsi avanti, tenersi pronti all’attacco, curare e rafforzare la continua prontezza e disporre l’attacco a lungo termine con il fine del completo annientamento.376
L’immagine del nemico interno, che intacca l’essenza del popolo, non può non ricordare Schmitt.377 Si dovrebbe dunque pensare che Heidegger lo segua in modo pedissequo nell’identificazione di quel nemico ontologico e politico che è evidentemente l’Ebreo. Qualche anno più tardi, però, nei Quaderni neri, il nemico diventa il tema di una domanda che riprende quella formulata nel seminario su Hegel e, anzi, la corregge. «Dove sta il nemico e come viene creato? Dov’è diretto l’attacco? Con quali armi?».378 Heidegger si interroga sulla linea del fronte.379 Sebbene metta l’accento sul Kampf für das Wesen, la «lotta per l’essenza», che i tede-
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schi devono combattere, contesta chi, oltre a indicare nell’avversario immediatamente un nemico, fa del nemico il «diavolo», lo demonizza, e in tal modo elimina non solo il carattere creativo della conflittualità, ma rende impossibile la stessa lotta per l’essenza.380 Non è difficile indovinare contro chi sia rivolta la critica di Heidegger che sottolinea due pericoli: quello di «assolutizzare il “politico”» oppure di «installarlo in un cristianesimo apparentemente nuovo».381 Ma la critica è ancora più netta quando viene preso di mira il «cattolicesimo politico» a cui è subentrata la «politica “cattolica”», cioè – riconducendo etimologicamente “cattolico” a kathólou, in tutto – quella politica che, per la sua velleità di dominare, può dirsi «totale». Come Schmitt aveva usato un aggettivo, il “politico”, così Heidegger parla sarcasticamente del “cattolico”, la cui essenza non sta nel cristianesimo; ha assunto per la prima volta forma nel «gesuitismo» e si è andato costituendo nel «contro…», a cominciare dalla Controriforma. Il «cattolico» è «romano – spagnolo; completamente non-nordico, del tutto non-tedesco».382 Se Schmitt gli rimprovererà una escatologia ateologica e deteologizzata, Heidegger a sua volta ne denuncia la dogmatica cattolica del nemico. Ogni dogmatismo, politico-clericale o politico-statale, intende necessariamente qualsiasi pensare e agire che sia, in apparenza o in realtà, divergente, come un consenso a ciò che ad esso, al dogmatismo, è nemico – pagani e senzadio, ebrei e comunisti. In questo modo di pensare è insita una forza peculiare – non del pensiero – ma dell’imporsi di quel che è proclamato.383
E mentre la guerra diventa totale, Heidegger guarda sempre più al pólemos. Qual è allora la differenza tra guerra e lotta, tra Krieg e Kampf, e quale distanza si profila rispetto a Schmitt? Come aveva inaugurato il loro confronto, così il pólemos lo chiude. Heidegger rovescia il rapporto: è il pólemos il presupposto del nemico, non viceversa.384 Per Schmitt, a partire dal nemico si apre l’o-
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stilità, che permea e permette il “politico”, un’ostilità di cui la guerra è la realizzazione estrema. Se Clausewitz aveva detto che «la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi», Schmitt sostiene che è la guerra «il presupposto della politica».385 In tal modo si delinea una continuità tra nemico-lotta-guerra che costituisce l’asse politico del suo pensiero. Per Heidegger sussiste, al contrario, discontinuità tra lotta e guerra. E, anzi, dove si impone la guerra, e l’avversario sul fronte si erge a nemico, il pólemos si irrigidisce e perde la sua profondità ontostorica. Perciò Heidegger non condivide il modo in cui Schmitt vede la guerra. E come Feind, nemico, non è un termine chiave del suo vocabolario, così non lo è neppure Krieg, guerra. Questo non gli impedisce di riflettere sulla forma ultima assunta dalla guerra mentre, alla fine degli anni trenta, la Germania già avanza a tappe forzate verso la catastrofe. La guerra non è, come Clausewitz pensa ancora, la continuazione della politica con altri mezzi; se “guerra” si riferisce alla “guerra totale”, cioè a quella che, come tale, scaturisce dalla svincolata macchinazione dell’ente, allora la guerra diviene trasformazione della politica […]. Tale guerra non prosegue qualcosa che già sussiste, bensì lo costringe a eseguire decisioni essenziali che, a sua volta, non padroneggia. Perciò questa guerra non ammette più «vincitori» e «vinti»; tutti diventano schiavi della storia dell’Essere.386
La guerra rivela la sottomissione della politica al potere, ne fa affiorare l’uso strumentale. Il carattere «totale» deriva dall’abbandono dell’essere. Non c’è più differenza tra guerra e pace – a meno di non confondere quest’ultima con un armistizio temporaneo. Da quando la guerra è divenuta mondo, e il mondo è divenuto guerra, non c’è più posto per la pace.387 Ma non c’è più spazio neppure per il nemico – e forse per l’amico – e per tutte quelle distinzioni pure che Schmitt si intestardisce a conservare.388 Se non c’è più opposizione tra guerra e pace, resta allora una opposizione, rimane una via d’uscita e di
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scampo dalla «totalità» della guerra? In uno schema che Heidegger propone nei Quaderni neri, mentre la guerra e la pace scivolano nel mezzo, agli estremi si collocano il pólemos e la decisione.389 Più volte Heidegger, già a partire da Essere e tempo, è tornato sul pólemos che traduce in genere con Kampf, lotta, ma anche con Streit, contrasto, e con Auseinandersetzung, confronto. Per comprendere il significato di Kampf, questo termine chiave del suo vocabolario filosofico, occorre considerare il frammento 53 di Eraclito, la cornice entro cui Heidegger lo pensa: «pólemos è padre di tutte le cose, di tutte re; gli uni disvela come dei e gli altri come uomini, gli uni rende schiavi, gli altri liberi». Il dissenso non dissocia, il conflitto mantiene e raccoglie – è raccoglimento. Di qui il nesso tra pólemos e lógos.390 Se nella riflessione di Schmitt è un concetto torbido, in Heidegger è chiaro che il pólemos non è armato. Attiene all’interrogazione e perciò all’erotico contendere dei filosofi. Ma il suo significato è ampio e pervade la comunità. «Ogni comunità porta con sé, nel suo orecchio, la voce dell’avversario una sorta di resistenza interna».391 Il nemico ridiventa avversario, e l’avversario si ritrae quasi nel richiamo della coscienza, la voce dell’altro che parla nel sé. Lo scarto rispetto a Schmitt è «irriducibile» – sottolinea Derrida.392 Perché in effetti Schmitt rivendica il pólemos al discorso sulla guerra. Non così Heidegger, che non dimentica le parole di Eraclito: pólemos è patèr, padre, generatore, ed è pânton basileús, il «sovrano di ogni ente»; ma basileús, che non significa semplicemente «re», è il waltender Bewahrer, il custode che dominando lascia essere nella Aus-ein-ander-setzung, in quel confronto che è un dispiegarsi l’uno grazie all’altro. Il pólemos è il custode che regna e regnando custodisce l’Essere. Nella «lotta “spirituale”» non ne va del Sieg, della vittoria.393 Ci sono combattenti, Kämpfer, che hanno sempre bisogno di un avversario, anzi di un nemico; «se manca,
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lo inventano», perché altrimenti non sembrano avere più scopo. Così combattono sempre per il nemico, rendendosene dipendenti. Ci sono invece combattenti che lottano per il loro fine e la cui somma battaglia, quella per le decisioni essenziali, non è volta al «possesso e al successo, al potere e al piacere», bensì all’«inizio della storia dell’essere».394 Essere-vincitori – non significa solo uscire vittoriosi da una battaglia; il vincitore potrebbe essere anche chi ha avuto la peggio perché si è votato esclusivamente all’obiettivo e alla tattica del nemico, e ancor più lo farà nel futuro. Essere vincitori vuol dire imprimere alla lotta il fine proprio e più elevato.395
Non sono le parole di un pacifista. Heidegger non lo è mai stato. Quando le scrive, nel 1940, sulla guerra planetaria non si fa più illusioni. Pensa a distinguere il Kampf dal Krieg, ad essere custode del custode, a custodire non il sovrano che aveva deciso l’eccezione, ma il sovrano che lascia essere ogni cosa e regna custodendo l’Essere. 20. «Weltjudentum». Il complotto mondiale ebraico Nell’immagine totalizzante del nemico, che i nazisti si contrappongono, l’ebreo, nei momenti di maggiore intensità, diventa Juda e, in una laida iperbole, Alljuda. La «maledizione del superlativo» caratterizza la Lingua Tertii Imperii e trova espressione in particolare nei composti in cui compare il prefisso Welt, mondo.396 Come ogni discorso di Hitler è preceduto dal titolo «Il mondo ascolta il Führer», così ogni evento che riguardi il Reich ha rilevanza mondiale, si inscrive, anzi, nella storia del mondo, decidendone il corso: è weltgeschichtlich. In questo senso ebrei e bolscevichi sono i nemici mondiali di una guerra planetaria. Nell’ultima parte dei Quaderni neri – nelle Riflessioni XIII e XIV – in pagine che risentono del clima bellico e
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risalgono al 1940 e al 1941, Heidegger parla in modo esplicito di internationales Judentum, «ebraismo internazionale», e soprattutto di Weltjudentum, «ebraismo mondiale».397 Come emerge anche dal contesto, questi termini non sono per nulla neutrali; al contrario, sono connotati negativamente e lanciano un’accusa. Per un filosofo come Heidegger, attento a evitare ogni uso strumentale del linguaggio, la ricorrenza di Weltjudentum non può essere casuale. Che cosa significa allora parlare di «ebraismo mondiale»? A che cosa rinvia il termine? Parlare di Weltjudentum vuol dire condividere, assecondare e diffondere il mito del complotto mondiale ebraico. Ciò risponde a una testimonianza di Jaspers che finora era parsa alquanto sorprendente. Ricordando un colloquio con Heidegger, avvenuto a Heidelberg nel maggio 1933, Jaspers annota: «parlai della questione ebraica, della malvagia assurdità intorno agli anziani di Sion, al che lui replicò: “ma c’è una pericolosa connessione internazionale degli ebrei”».398 Qual è il mito del complotto ebraico? Perché era in auge proprio in quel periodo? Com’è stato costruito? Qual è la scena “originaria” della cospirazione? È notte quando, nel cimitero ebraico di Praga, si incontrano un giovane studioso di Berlino, dagli inconfondibili tratti germanici, l’aspetto spirituale e volitivo, e un tale Lasali, un ambiguo ebreo italiano, battezzato e senza scrupoli, pronto a svelargli il «segreto» degli ebrei, a introdurlo nella Kabbalah, la cospirazione ebraica contro il mondo intero. Nell’oscurità mistica e raggelante sentono cigolare i cancelli del cimitero; lunghi mantelli, ombre confuse, passano furtivamente. Sono le dodici tribù di Israele che ogni cento anni si danno convegno per fare il punto sulla conquista del mondo. È un grande sinedrio a cui prende parte anche una tredicesima tribù, quella degli esiliati. A presiedere è Aaron, che rappresenta i leviti. Per ogni tribù risuona il nome di una metropoli europea – è il
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segno del potere ebraico. Ciascuno presenta un bilancio degli ultimi cento anni e propone la propria macchinazione: traffici in borsa, indebitamento degli stati, acquisizione di proprietà terriere, riduzione degli artigiani a operai, distruzione delle chiese, indebolimento degli eserciti, rafforzamento della rivoluzione, monopolio del commercio, occupazione dei servizi pubblici, egemonia della cultura, matrimoni misti, sovvertimento della morale. Da ultimo interviene Manasse per dire che a nulla servirebbe tutto ciò senza la stampa, che trasforma l’ingiustizia in giustizia, l’umiliazione in onore, che separa le famiglie e fa tremare i troni. Aaron conclude ricordando che al popolo di Abramo, disperso sulla terra, la terra intera dovrà appartenere. I tempi non sono mai stati così vicini. Perché l’oro è il dominio sul mondo – questo è il segreto della Kabbalah. Nella lotta millenaria di Israele finalmente il nuovo secolo sarà quello della sua vittoria. Questa è la scena “originaria” della cospirazione, scaturita dalla penna di un grigio funzionario delle poste prussiane Herrmann Ottomar Friedrich Gödsche che nel 1868 pubblicò il mediocre romanzo Biarritz, al cui interno vi era un capitolo intitolato Nel cimitero di Praga. Il successo era assicurato. E il racconto fantastico passò presto per un falso documento. Così, nel 1881, uscì nella rivista francese «Contemporain» Il discorso del rabbino, il riassunto di quel lugubre convegno che – si garantiva – aveva realmente avuto luogo. Non si trattava però ancora dei Protocolli dei savi di Sion. Gödsche non fornì che il modello letterario. Chi ha scritto allora i Protocolli? Quando e dove? Norman Cohn ha tentato di venire a capo della intricatissima trama che ha prodotto il mito della cospirazione ebraica.399 Ma la storia, tutt’altro che finita, non ha un vero e proprio inizio. Già solo perché il presunto originale manca.400 Né si sa chi sia l’autore. Ben più importanti della genesi del testo sono, d’altronde, i suoi effetti.
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I Protocolli furono fabbricati a Parigi, ai primi del Novecento, su ordine della polizia segreta dello zar, la famigerata okhrana, allora diretta, nella sezione esteri, da Pierre Ivanovič Račhovskij, il quale si rivolse a un suo amico, Matthieu Golovinskij che, da buon falsario, manipolò e rielaborò testi già esistenti: il pamphlet di Maurice Joly Dialogo all’inferno tra Machiavelli e Montesquieu, scritto contro Napoleone III nel 1864, oltre al romanzo Biarritz. L’intento, eminentemente politico, era quello di rendere pubblico il verbale delle presunte sedute segrete tenute dai dirigenti dell’«ebraismo mondiale», per rivelarne il piano di conquista del mondo e mettere in guardia non solo il governo russo, ma tutta l’opinione internazionale. Nelle loro rocambolesche vicissitudini i Protocolli, un palinsesto di un centinaio di pagine, suddiviso in ventiquattro capitoli, ricomparvero, nel 1905, in appendice al volume Il Grande nel Piccolo: l’Anticristo è una possibilità politica imminente del mistico russo Serghej Aleksandrovič Nilus. In una dimensione apocalittica la figura dell’anticristo veniva adattata all’idea del complotto.401 La mobilitazione antisemita attingeva così all’archivio simbolico dell’antigiudaismo cristiano per rafforzare il racconto cospirazionista, per imprimere alla versione secolare l’aura del mistero, innalzando l’effige di un nemico assoluto. Motivi teologici e politici si fondevano nei «saggi di Sion», figure fittizie in cui convergevano a un tempo gli antichi saggi di Israele, che dall’epoca di Salomone avrebbero progettato un piano contro l’umanità, i dirigenti sionisti, a cominciare da Theodor Herzl, e gli sconosciuti burattinai che avrebbero retto le fila dell’intrigo. Un catalizzatore diventò dunque il sionismo, inteso «come un piano strategico per conquistare il mondo e sottometterlo al giogo di Israele».402 La diffusione dei Protocolli coincise infatti con i primi congressi sionisti, da quello di Basilea, del 1897, al sesto, quello dell’agosto 1903. E non è un caso che l’ideologo völkisch Theodor Fritsch nel
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1924 pubblicasse la sua versione dei falsi con il titolo Die zionistischen Protokollen (I Protocolli sionisti). Ma il «pericolo ebraico» fu soprattutto il «pericolo rosso». Dal 1903 fino alla rivoluzione d’ottobre, i Protocolli costituirono una potente arma ideologica nelle mani di coloro che volevano fermare ogni tentativo di riforma in cui leggevano una manovra del complotto e un passo verso la giudeizzazione. Tradotti e pubblicati, con nuove prefazioni e postfazioni, con titoli e sottotitoli che ne orientavano ogni volta il messaggio, i Protocolli attraversarono le capitali europee e giunsero in Germania dove, nel 1920, uscirono nell’edizione curata da Gottfried zur Beek, alias Ludwig Müller, con l’emblematico titolo Die Geheimnisse der Weisen von Zion (i segreti dei saggi di Sion). La risonanza fu enorme; in un anno la casa editrice Auf Vorposten riuscì a vendere oltre centoventimila copie.403 In seguito, quando i nazisti salirono al potere, i Protocolli, con un decreto del 13 ottobre 1934, diventarono lettura obbligatoria nelle scuole tedesche. Inizialmente la finzione del complotto ordito dall’ebraismo mondiale servì a fornire una comoda spiegazione all’esito catastrofico della guerra e alla crisi tedesca. Da nessun’altra parte del mondo il messaggio dei Protocolli «venne accolto con tale avidità come nella Germania della Repubblica di Weimar».404 Gli ideologi del nazismo, da Eckhart a Rosenberg, se ne servirono non solo per accreditare la tesi dello “stato nello stato”, ma anche per avvalorare la rappresentazione di un nemico invisibile, tanto più pericoloso in quanto, nella sua unicità, era in grado di assumere sembianze diverse, perfino opposte: dal banchiere della finanza al rivoluzionario comunista. Ma l’Ebreo era la grande minaccia che incombeva sul mondo perché lo “spirito ebraico” aveva trovato il suo nuovo avatar nel bolscevismo. Nell’ambito della cultura tedesca, fortemente ancorata alla tradizione, ebbe facile presa la denun-
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cia di una cospirazione molto antica, che stava per realizzarsi, quella del «complotto giudeo-bolscevico». Così questo inedito sintagma, introdotto già da Rosenberg nel 1923 con il suo libro Die Protokollen der Weisen von Zion und die jüdische Weltpolitik (I Protocolli dei savi di Sion e la politica mondiale) diventò il giudeobolscevismo, la formula magica in cui si condensava il nemico della Germania che, smascherato e snidato, in una lotta multiforme, avrebbe richiesto una distruzione purificatrice.405 Credere nel complotto vuol dire accettare una visione sommaria e quasi magica della storia in cui, insieme a una divisione netta tra il bene e il male, tutto può essere ricondotto a un’unica causa che agisce intenzionalmente, con una volontà soggettiva e perseverante.406 Quanto più lo scenario storico appare complesso, tanto più aumenta il desiderio di trovare una spiegazione ultima che non necessariamente deve essere logica e razionale. Di qui l’analogia con il pensiero mitico. L’efficacia del mito non sta nella veridicità, bensì nelle esigenze a cui risponde, nelle emozioni che suscita, nelle suggestioni che alimenta. In tal senso è fuorviante parlare di un falso, perché non c’è un vero né un originale. Il mito non nega; si limita a constatare. È il potere performativo della finzione. A nulla è valso infatti dimostrare il plagio – come d’altronde già Hitler sottolineava con soddisfazione.407 Ma nel mito cospirazionista, inaugurato nella modernità secolarizzata, le categorie politiche sono la traduzione di uno sfondo religioso, che pure persiste, e senza il quale la comprensione del fenomeno si fermerebbe in superficie. È di nuovo l’elezione del popolo ebraico, denunciata come intollerabile arroganza, ad essere nel mirino. E insieme all’elezione è la mitica, segreta potenza degli ebrei, contenuta nella promessa del dominio del mondo. Non importa che un ebreo viva poveramente in un villaggio isolato della Galizia; per definizione, nella sua essenza, appartiene all’internazionale ebraica e, come
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tale, è potente e temibile. Ad agire è l’arcano dell’ebraismo, l’idea che gli ebrei posseggano un segreto che non rivelano e che ne costituisce il potere. D’altronde il potere è tale, solo se si mantiene il segreto. Perciò quello degli ebrei è il segreto del segreto. Di qui l’accusa di mentire e quella connessa di macchinare e cospirare. Gelosia e ammirazione sono all’opera nella fantasia con cui – spiega Freud – i nemici del popolo ebraico «credono nella cospirazione dei “Saggi di Sion”».408 In modo analogo si esprime Arendt che a questi motivi aggiunge l’impulso mimetico dei nazisti: «l’invenzione di un’egemonia ebraica, già esistente, costituì la base per l’illusione di una futura egemonia tedesca».409 Il fine era quello di creare un’organizzazione segreta, in tutto simile a quella che la fantasmagoria antisemita dei Protocolli attribuiva agli ebrei. Hitler e i suoi modellarono se stessi sugli immaginari anziani di Sion.410 La loro organizzazione segreta fu l’SS il cui compito era quello di annientare gli ebrei in una guerra apocalittica che avrebbe dovuto proteggere il mondo dal loro potere inarrestabile.411 La profezia dell’anticristo, il nemico escatologico nel quale l’influente antisemita francese Gougenot des Mousseaux, autore dell’opera Le juif, le judaïsme et la judaïsation des peuples chrétiens, pubblicata nel 1869, indicava il sovrano di quegli ebrei kabbalistici che stavano per impadronirsi del mondo, risuona inconfondibile, pur se in forma laicizzata, nei testi sacri dei dottrinari nazisti. Ma non si comprenderebbe questa apocalittica se non la si vedesse nella sua aspirazione antimessianica. Perché non solo riprende il rimprovero, mosso di solito agli ebrei, di non aver riconosciuto in Gesù il messia, e rilancia l’accusa di una fedeltà letterale alla Legge, ma soprattutto si rivolge contro la concezione ebraica, decisamente terrena e fortemente politica, del messianismo. Questa apocalittica antimessianica attraversa anche le pagine di Heidegger che sembra condividere la conce-
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zione della storia sottesa ai Protocolli, dato che allude più volte a quelle Mächte, ai quei «poteri» che reggono le fila della «macchinazione» e che non sembrano arginabili con un conflitto leale. Perché di autentico non hanno nulla – si sottraggono muovendosi nella dissimulazione e nell’inganno. Una «forma antesignana è stata Versailles».412 Da allora opera questo «gigantesco occultamento» che non ha altro scopo se non quello di ripetersi per velare un altrettanto gigantesco vuoto.413 In questo compimento che non si compie, e che appare senza fine, il grande orchestratore, se per un verso non disdegna di scendere alla Überrumpelung, attaccando di sorpresa alle spalle, per l’altro si innalza a un piano metastorico da cui può dirigere il corso degli eventi e persino servirsi di forze opposte per farle sapientemente giocare l’una contro l’altra. Questo grande orchestratore è l’internationales Judentum, l’«ebraismo internazionale».414 L’imperialismo bellico e il pacifismo umanitario, entrambi risultato della metafisica, e diversi solo sotto l’aspetto ontico-istoriale, sono manovrati dalla macchinazione ebraica. La storia si avvicina qui al limite della «decisione tra nulla ed Essere».415 Come Schmitt, anche Heidegger insiste sull’invisibilità di quei «poteri», che solo di tanto in tanto tradiscono il loro gioco, mentre restano altrimenti unkenntlich, «sconosciuti».416 Se sono dunque inaccessibili, nascosti dietro le quinte, allora sono anche inespugnabili. Non hanno bisogno di combattere allo scoperto; assumendo figure diverse e talvolta opposte, facendo leva sui pretesti più reconditi, possono istigare gli stati, aizzare i popoli, far scoppiare guerre.417 Non c’è neppure bisogno di muovere eserciti. Sul modello dei Protocolli, Heidegger scrive in un testo del 1941: L’ebraismo mondiale, istigato dagli emigranti, lasciati andar via dalla Germania, è penetrato ovunque, fino ad essere impercettibile e, con tutto quel dispiegamento di potere, non c’è luogo in cui abbia biso-
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gno di prendere parte alle azioni belliche, mentre a noi non resta che sacrificare il miglior sangue dei migliori del nostro popolo.418
21. Il giudeobolscevismo Già in una pagina dei Contributi alla filosofia Heidegger introduce il tema del bolscevismo che, ripreso nella Storia dell’Essere, viene sviluppato nei Quaderni neri. L’intento è anzitutto quello di disgiungere il fenomeno dalla tradizione politica e culturale della Russia per scorgerne altrove provenienza e futuro: il bolscevismo è originariamente occidentale, una possibilità europea: l’emergere delle masse, l’industria, la tecnica, l’estinguersi del cristianesimo; nella misura in cui, però, il dominio della ragione, che mette tutti sullo stesso piano, è una conseguenza del cristianesimo, il quale è nel fondo di origine ebraica (cfr. il pensiero nietzscheano sulla morale come insurrezione degli schiavi), il bolscevismo è di fatto ebraico; ma allora anche il cristianesimo è, nel fondo, bolscevico!419
Non sorprende che in tale contesto, in cui critica la modernità, Heidegger si richiami a Nietzsche e alla sua celebre resa dei conti non solo con «la rivolta degli schiavi nella morale», ma anche con quel risentimento che avrebbe continuato a serpeggiare nell’ebraismo e nel cristianesimo.420 Sorprendente è invece che dichiari «ebraico» il bolscevismo. Che cosa intende allora Heidegger con bolscevismo? La genealogia della formula “giudeo-bolscevismo” risale alla Germania dell’immediato dopoguerra e della Repubblica di Weimar. Di lì si era diffusa ovunque, non solo in Europa, ma anche negli Stati Uniti, sulle vie aperte dal mito del complotto. La Rivoluzione d’ottobre fu decisiva: i bolscevichi, che avevano preso il potere nell’immenso paese, provenivano dall’intellighenzia ebraica. Loro stessi consideravano quell’evento come il primo passo verso la rivoluzione mondiale.
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Per un verso il bolscevismo sembrava confermare la congiura, mentre per l’altro appariva spiegabile solo all’interno di una concezione cospirazionistica della storia: gli ebrei si accingevano a scardinare la civiltà, a sovvertire l’ordine costituto, a imporre ovunque il loro dominio. Che cos’altro era quella rivoluzione mondiale, se non una bolscevizzazione, o per meglio dire, una giudeizzazione del mondo? In nessun altro paese, come in Germania, l’impatto della rivoluzione bolscevica fu così dirompente. Intorno al grande crinale politico, che avrebbe attraversato la storia dei decenni futuri, si cristallizzarono speranze, odi e paure di una popolazione divisa a metà, in uno scontro che sarebbe stato epocale. Il vento della rivoluzione giunse nel 1919 e soffiò prima a Berlino. Gli spartachisti insorsero e la città li seguì; rivolte scoppiarono ovunque. Non sarebbe stato difficile avere la meglio sul debole governo socialdemocratico di Ebert, difeso, però, da formazioni di volontari del disciolto esercito. Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg furono arrestati il 15 gennaio e uccisi in modo brutale. I leader degli spartachisti di Berlino erano ebrei: oltre a Rosa Luxemburg, anche Leo Jogiches e Paul Levi. Ma ancor più eclatante era la preminenza degli ebrei nella Repubblica socialista, presieduta da Kurt Eisner, che il 7 novembre 1918 aveva messo fine alla dinastia secolare dei sovrani di Baviera. Dopo l’assassinio di Eisner per mano di un simpatizzante di estrema destra, in una vertigine di avvenimenti caotici, il 6 aprile, alla vigilia della Pasqua ebraica, fu proclamata la Repubblica dei Consigli. Erano ebrei i leader più influenti: Erich Mühsam, Ernst Toller, Frida Rubiner, Towia Axebrod, Gustav Landauer, Ernst Niekisch.421 E infine ebreo era anche Eugen Levine-Nissen, il capo degli spartachisti che subentrarono agli anarchici. La rivoluzione fu soffocata nel sangue dall’esercito coadiuvato da gruppi paramilitari nazionali-
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sti, i Freikorps che, da Garmisch e dai monti bavaresi, scesero nelle strade di Monaco innalzando bandiere con le svastiche. Non era un mistero che gli ebrei fossero legati alla sinistra rivoluzionaria.422 Erano donne e uomini, da poco emancipati, che tanto più sentivano di dover combattere contro ogni discriminazione. Che fossero bundisti, spartachisti, anarchici, sionisti, portavano il messaggio dell’uguaglianza, l’ideale del socialismo, la speranza in un’umanità redenta. Anche quelli tra loro – ed era la più parte – che si erano allontanati dalla fede dei padri, serbavano l’eco dei profeti, che loro stessi avevano cessato di riconoscere, e continuavano a percorrere le vie del messianismo ebraico. I loro nomi risuonavano come una minaccia. Per essere smascherati venivano letti sub specie judaeorum: TrotzkijBronstein, Litvinov-Finkelstein, Wolodarsky-Cohen, Kamenev-Rosenfeld, Zinoviev-Apfelbaum. Era la prova incontrovertibile di una rivoluzione che minava le nazioni, metteva a rischio l’intera civiltà. Non fu solo la destra a gridare al complotto. Anche i liberali lanciarono un allarme. Thomas Mann denunciò lo scatenamento di una «guerra mondiale contro la Germania».423 Mentre aumentava l’esasperazione contro gli “ebrei bolscevichi”, con sguardo retrospettivo si cercava il filo rosso che da Mosca giungeva almeno alla Comune di Parigi. Spengler andava ben oltre quando osservava: «l’originario alito dell’apocalisse contro la cultura antica, qualcosa del cupo risentimento del tempo dei Maccabei e ancora, molto più tardi, di quella rivolta che portò alla distruzione di Gerusalemme, tutto questo è certamente alla base di ogni bolscevismo».424 Fu però Dietrich Eckart a teorizzare il giudeo-bolscevismo in un pamphlet pubblicato, postumo nel 1924, che portava il titolo significativo: Der Bolschewismus von Moses bis Lenin. Zwiegespräch zwischen Adolf Hitler und
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mir (Il bolscevismo da Mosè a Lenin. Un dialogo tra Adolf Hitler e me).425 Nella bizzarra e inquietante interpretazione di Eckhart, già dai tempi di Mosè gli ebrei avrebbero aizzato gli egiziani l’uno contro l’altro propagandando libertà, uguaglianza e fratellanza – un paradigma strategico che tornava a ripetersi.426 Con quel paradigma, e dunque con l’azione distruttiva esercitata dagli ebrei nel corso dei tempi, veniva identificato il bolscevismo, ricondotto da Trotzkij a Marx, fino a Paolo di Tarso, Saul, Shaul, il vero iniziatore.427 In pagine violentissime, percorse da cupe visioni apocalittiche, gli ebrei appaiono il «principe di questo mondo» che, a ben guardare, del mondo, al di là del dominio, si prefigge piuttosto la fine.428 Tale visione di una fine del mondo provocata dagli ebrei riaffiora in Mein Kampf: «se con l’aiuto del credo marxista l’ebreo risulterà vittorioso sugli altri popoli del mondo, la sua corona sarà la ghirlanda funeraria dell’umanità e il suo pianeta ruoterà nell’etere, come faceva migliaia di anni fa, del tutto privo di esseri umani».429 La lettura della Rivoluzione d’ottobre sullo sfondo dell’Apocalisse di Giovanni, la raffigurazione demonica dell’ebreo, al contempo subumano veicolo di disintegrazione e sovrumana forza di perdizione, in grado di cavalcare la storia, la cui violenza deicida scaturiva dalla risata di satana, ricorreva anche in altre opere precedenti di Eckart che, in un’alternativa destoricizzata, nel 1919 scriveva: «l’ora della decisione è giunta: fra essere e apparenza, fra germanesimo e ebraismo, fra tutto e nulla».430 Toni analoghi risuonavano in una satira, contenente trentuno caricature di rivoluzionari bolscevichi, pubblicata con un’introduzione di Rosenberg, dove si sottolineava che il bolscevismo non era un fine, ma «un mezzo per sradicare quel che è saldamente radicato, per corrompere i popoli, per snazionalizzare».431 E si lasciava presagire il giudizio ultimo che attendeva per ciò gli ebrei.
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Il 30 gennaio 1939, nella annuale commemorazione della sua ascesa al potere, Hitler pronunciò un discorso davanti al Reichstag: Oggi voglio essere ancora una volta profeta: se la finanza ebraica internazionale, dentro e fuori l’Europa, dovesse riuscire a trascinare di nuovo i popoli in una guerra mondiale, il risultato non sarà la bolscevizzazione della terra e la vittoria dell’ebraismo, ma l’annientamento della razza ebraica in Europa.432
I preparativi bellici per la guerra contro l’Unione Sovietica fervevano da tempo e si stava ormai avviando la soluzione finale. Ma già vent’anni prima Hitler era convinto che l’ebraismo internazionale avesse scalzato, con la Rivoluzione d’ottobre, la classe dirigente germanica e avesse assunto il dominio delle masse slave, assolutamente passive; nella guerra futura sarebbe stato necessario ripristinare l’ordine del passato.433 Hitler tornò più volte sulla sua «profezia»: «Si avvererà la mia profezia…», «mi guardo bene dal fare profezie precipitose», «allora gli ebrei, anche gli ebrei tedeschi, hanno riso della mia profezia; non so se oggi ridano ancora», «… ci si è presi gioco delle mie profezie; un bel numero di quelli che allora ridevano, oggi non ridono più». L’ermeneutica dei discorsi di Hitler si scontra con molti passaggi oscuri e enigmatici. Ma questo almeno si può dire: non è profeta chi può realizzare quel che predice; lo stile appartiene piuttosto allo schema apocalittico in cui riemerge il tema della “guerra ebraica”. Il tono profetico rinvia, però, al contenuto del messaggio: Hitler annuncia che, chiunque sia il vincitore, a soccombere saranno gli ebrei. Si erge così, nello spazio metafisico del conflitto tra bene e male, per decretare un evento cosmico: la fine del regno ebraico. E all’apocalisse si aggiunge il risentimento: fiduciosi del loro potere, gli ebrei ridono sprezzanti, con quello stesso riso che una lunga tradizione cristiana attribuiva al diavolo.434 In que-
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sta raffigurazione sadica, dove il potere avrebbe cambiato campo, le risate ricacciate in gola avrebbero soffocato gli ebrei. La campagna di Russia fu preparata in un clima di esaltante fiducia. Il pomeriggio del 15 giugno 1941 Hitler convocò Goebbels. Si era oramai alle soglie dell’«attacco più potente che la storia avesse mai visto» – annotò quest’ultimo. E aggiunse: «non è lo zarismo che verrà riportato in Russia; un socialismo autentico sostituirà il giudeo-bolscevismo».435 Dopo la sconfitta della Francia e il rifiuto dell’Inghilterra di accettare la «pace» offerta, Hitler valutò l’impatto strategico dell’attacco a est. A prevalere, tra i motivi, era l’odio per il giudeo-bolscevismo. Rotto il patto con la Russia di Stalin, l’inizio della guerra, deciso per il 15 maggio, fu spostato al 22 giugno 1941. Furono pianificate iniziative omicide contro gli ebrei; i bolscevichi avrebbero dovuto essere sterminati.436 La distruzione del domino sovietico era tutt’uno con l’annientamento del potere ebraico. Hitler cambiò il nome in codice della campagna: da Fritz in Barbarossa. Il nome tradiva il carattere semimitico dell’impresa. L’imperatore degli Hohenstaufen, che si era imbarcato in una crociata per l’Oriente contro gli infedeli, era il redentore segreto che, addormentato sulle montagne del Kyffhäuser, in Turingia, si sarebbe ridestato per salvare il suo popolo nel frangente più tragico della storia della Germania. In un passo che chiude le Riflessioni XIV dei Quaderni neri, uno dei pochi in cui è segnata la data: 1941 – Heidegger scrive: «Lo scoppio della guerra contro il bolscevismo».437 Quei tedeschi preoccupati per il legame troppo stretto con la Russia – prosegue – si sarebbero sentiti sollevati. E, senza menzionare Hitler, rinvia al suo discorso, reso noto all’opinione pubblica mondiale la mattina 22 giugno 1941, un documento che «i tempi a venire avrebbero potuto degnamente valutare».438
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Non vi è dubbio da che parte stia Heidegger. Tanto più che molto spesso usa il pronome «noi». Se anche fosse critico verso alcuni aspetti del nazionalsocialismo, non smetterebbe per questo di identificarsi con il Reich tedesco e di approvare l’espansione a est. D’altronde, anche per lui quella è la guerra della Germania contro il bolscevismo. Lo conferma il passo immediatamente successivo: Adesso viene anche alla luce la «perfidia» della politica bolscevica. Ricompare l’ebreo Litvinov. Per il suo sessantesimo compleanno il redattore capo del giornale moscovita «Izvestja», il noto comunista Radek, scrisse la frase seguente: «Litvinov ha dimostrato di essere abile nel cercare, sebbene saltuariamente, i compagni di alleanza alla maniera bolscevica là dove vanno effettivamente trovati».439
I «compagni di alleanza» sono i Bundesgenossen. La parola tedesca Bund, se da un canto evoca la federazione di operai ebrei (in jiddish: Algemeiner Jidisher Arbeterbund) fondata a Vilna nel 1897, che in Russia confluì nel 1921 nel partito bolscevico, dall’altro traduce solitamente l’ebraico berit, cioè alleanza di Dio con il popolo ebraico. Il rivoluzionario russo Maksim Maksimovič Litvinov ebbe un ruolo di primo piano nella diplomazia sovietica degli anni trenta. I suoi successi vengono in tale contesto attribuiti alla capacità di stringere patti trasversali, alla «perfidia», che Heidegger introduce con le virgolette, alla Hinterhältigkeit, quella abilità – ebraica e bolscevica – di dissimulare, tendere insidie e imboscate, di operare malvagiamente dietro le quinte. A riconoscerlo sarebbe un altro comunista, il polacco Karl Radek – il cui nome ebraico era Karol Sobelsohn.440 Torna subdolamente l’accusa del mimetismo e della doppiezza. E questo passo dei Quaderni neri non sembra molto lontano da uno analogo che si trova nella satira di Eckart, Totengräber Russlands, dove compare anche la caricatura di Radek, fra le altre: «K. Radek=Sobelsohn. Famigerato agente sovietico…».441 Che cos’è allora il bolscevismo per Heidegger? Alla riflessione politica e filosofica sul comunismo sono dedi-
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cate le pagine delle opere, pubblicate più di recente, risalenti agli anni trenta. Si tratta di una riflessione molto originale, sviluppata soprattutto nei Quaderni neri, dove Heidegger distingue tra il comunismo nella sua effettiva realizzazione storica – e numerosi sono i riferimenti a Lenin e alla rivoluzione russa – e il «comunismo» che non può ridursi né al nome di un regime politico né a una forma di organizzazione economica. Il comunismo si inscrive nella storia dell’Essere. Perciò va pensato filosoficamente. In tal senso sono pensatori del comunismo sia Marx che Lenin, sia Nietzsche che Jünger. Per indagarne la complessità, Heidegger sceglie anche in questo caso la via etimologica che lo porta alla «comunità», al «comune» e al concetto greco di koinón, quell’essere-incomune in cui potrebbe venire alla luce l’ontologia del comunismo.442 Se pure dovesse scomparire dallo scenario politico, ne resterebbe dunque la possibilità nella storia dell’Occidente. Il bolscevismo è una realizzazione del comunismo. Contraddistinto da una peculiare Gott-losigkeit, da un tratto ateo, il bolscevismo viene ricondotto all’ebraismo e considerato alla fin fine un messianismo secolarizzato.443 «Il “bolscevismo” – osserva Heidegger – non ha nulla a che fare con l’elemento asiatico e ancor meno con quello slavo dei russi – dunque con la fondamentale essenza ariana». Non si coglierebbe altrimenti la spiritualità russa, malgrado tutto così vicina a quella tedesca. Piuttosto il bolscevismo «scaturisce dalla metafisica occidentale».444 Inteso come quel «potere dei Soviet dispotico-proletario» non è né «asiatico» né russo, ma rientra nel compimento della modernità.445 Il bolscevismo è un socialismo dispotico. Ma non appare allora contiguo al socialismo nazionale, quello che fa parte del composto “nazionalsocialismo”? Per Heidegger la differenza politica, che è sotto gli occhi di tutti, non deve far trascurare la contiguità: «metafisicamente sono lo stesso».446 D’altronde «il nome
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“socialismo” solo in apparenza indica ancora, e per il “popolo”, un socialismo del sentimento, nel senso della assistenza sociale; con “socialismo” è intesa piuttosto l’organizzazione politico-militare-economica delle masse».447 La metafisica del socialismo va riconosciuta nel predominio dell’ente, nell’abbandono dell’essere. Il pericolo che incombe non è perciò la «“bolscevizzazione” dell’Europa», ma il ripetersi inesausto del compimento, della Vollendung che non giunge a un Ende, a una fine, e copre così le possibilità dell’Essere.448 È il grande rischio dell’espansione a est, se la Germania non sa ricongiungersi alla Russia mettendone allo scoperto le possibilità nascoste. «La Russia non è Asia, ma neppure Europa».449 Attende di liberarsi dal bolscevismo. Heidegger scorge dunque qui le prospettive che si dischiuderebbero nella guerra – una guerra non contro i russi, ma contro i bolscevichi – indicata come un «confronto», una Auseinandersetzung che, salvando l’avversario «nella più elevata possibilità della sua essenza», può avere un valore onto-storico.450 L’ostacolo che resta è il bolscevismo – un altro modo per dire ebraismo mondiale. Questo spiega perché, «il “mondo” anglo-americano e il “bolscevismo”, malgrado il contrasto fra capitalismo e anti-capitalismo, si coappartengono»: è per via della «razionalità», di cui sono il risultato, e inoltre per via della metafisica e della macchinazione.451 Ancora una volta si profila il conflitto planetario, che oltrepassa le frontiere geopolitiche degli stati, lo scontro metastorico e metafisico, il bellum judaicum. Perché riconosciamo così tardi che l’Inghilterra in verità esiste e può esistere senza l’appoggio occidentale? Solo nel futuro comprenderemo che l’Inghilterra ha cominciato a istituire il mondo moderno, ma che, per sua essenza, la modernità è tesa a scatenare la macchinazione dell’intero pianeta. Neppure l’idea di un’intesa con l’Inghilterra, nel senso di una ripartizione dei “diritti” degli imperialismi,
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coglie l’essenza di quel processo storico che l’Inghilterra porta adesso a compimento all’interno dell’americanismo, del bolscevismo e dunque, al contempo, anche dell’ebraismo mondiale.452
22. «Weltlos» – senza mondo. L’Ebreo e la pietra Heidegger parla esplicitamente di Weltlosigkeit des Judentums, «assenza di mondo dell’ebraismo».453 Si tratta di una constatazione, di un’accusa, oppure di una condanna? Nella Weltlosigkeit si potrebbe condensare, a un primo sguardo, l’esperienza della diaspora, la condizione ebraica dell’erranza, l’assenza di suolo, di fondo e fondamento, le radici in alto, l’impossibilità di fare corpo con la terra, l’espropriazione costitutiva, l’esilio persino nella lingua, la spaesatezza, la separazione come forma di esistenza, l’eteronomia, il non essere a casa, presso di sé, l’estraneità irriducibile.454 Tutto ciò era già stato tema di riflessione nel passato, soprattutto nel pensiero tedesco, fra Kant e Hegel.455 Peraltro molti di questi argomenti potevano essere rovesciati. Aveva cominciato già a farlo la filosofia ebraica all’inizio del secolo. Nella Stella della redenzione, il canto del cigno dell’ebraismo tedesco, Rosenzweig, in un celebre passo, rivendica la saga del «popolo eterno» che non comincia, come quella degli altri, con «la narrazione della sua autoctonia»; Abramo è «migrato» e la sua storia inizia «con il comando divino di uscire dalla terra della sua nascita e di recarsi in una terra che Dio gli mostrerà». L’esilio non è la città del nulla, ma la dimora di Israele, che «diviene popolo attraverso l’esilio».456 Ma la Weltlosigkeit, l’«assenza di mondo», di cui parla Heidegger, non sembra riducibile alla Bodenlosigkeit, all’«assenza di suolo», una condizione che, alla fin fine,
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potrebbe estendersi a chiunque nella modernità. Tanto più che l’assenza di mondo sembra legata da un nesso paradossale all’ebraismo mondiale: Weltlosigkeit e Weltjudentum. Come spiegare il valore del prefisso Welt-, apparentemente opposto? In che senso l’ebraismo, di cui si sottolinea l’assenza di mondo, potrebbe essere mondiale? La risposta, tuttavia, non è difficile. Proprio lo sradicamento, quella condizione ontologica, che è anche politica, per cui gli ebrei, senza vincoli e senza legami, si sono sparsi sulla superficie del pianeta, in un movimento trasversale, rispetto alle nazioni, restando stranieri e non assimilabili, ne determinerebbe la possibilità di mantenere fra loro rapporti, che valicano i confini, inter-nazionali, ne scatenerebbe soprattutto il bisogno di rivalsa, la volontà di potere sul mondo. Essere amondani sancirebbe quella distanza dal mondo che consentirebbe di tessere una rete intorno al globo, di ordire la trama planetaria da cui scaturirebbe il dominio ebraico universale. Sotto questo aspetto l’assenza di mondo, che prelude al dominio sul mondo, non è solo una constatazione, ma un’accusa: quella della macchinazione. Tuttavia nella Weltlosigkeit c’è forse qualcosa di più e di altro. Occorre allora chiedersi che valore filosofico ha il termine weltlos per Heidegger, dove ne parla, in che senso? Che cosa vuol dire essere weltlos, senza mondo? Heidegger è il filosofo che ha mutato profondamente il modo di pensare il mondo. Nelle pagine di Essere e tempo critica la rappresentazione tradizionale secondo cui a un soggetto autonomo e sovrano si oppone il mondo inteso come l’insieme delle cose da cui è circondato o anche come la base su cui poggia. Da qui è sorta la fuorviante idea metafisica che riduce il rapporto con il mondo a una relazione conoscitiva tra soggetto e oggetto. Come se essere nel mondo non volesse dire altro che tentare continuamente di conoscere quella «realtà oggettiva». Ma il conoscere, con sguardo il più possibile disinteressato,
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come fanno ad esempio le scienze, non è il modo primario di stare al mondo e, anzi, è secondario e derivato. Piuttosto bisogna interrogarsi sull’essere-nel-mondo. Che cosa significa in, in-essere? Di solito lo si intende come un essere dentro e si immagina di essere nel mondo così come l’acqua è nel bicchiere, il banco è nell’aula, l’aula è nell’università, l’università è nella città. Si pensa dunque a un rapporto spaziale, per cui si sta dentro il mondo che sarebbe un contenitore. Ma per rimuovere questa rappresentazione basta risalire all’etimologia di in che deriva da innan, abitare, soggiornare, dove an rinvia all’essere familiari con; essere-nel-mondo non indica la presenza spaziale, ma l’esistenza. «Essere come infinito di “io sono”, cioè inteso come esistenziale, significa abitare presso…, avere familiarità con…».457 Essere-nel-mondo è dunque il modo in cui l’esserci esiste, cioè viene ogni volta fuori – ex-sistere – dalla fatticità in cui è gettato. Perciò il suo essere non è semplice presenza; piuttosto è sempre un poter-essere. L’esserci si oltrepassa costantemente, proiettandosi verso le sue possibilità, a partire non da una base salda e oggettiva, bensì emergendo da un abissale fondo di nulla, in cui quelle possibilità minacciano di dileguarsi. Nel suo progetto si comporta verso le cose che incontra in una prassi che non ha velleità conoscitive. Non stupisce allora che per Heidegger non ci sia mondo senza esserci. Il mondo non è un oggetto o un insieme di oggetti, ma è un esistenziale, un «carattere» dell’esserci.458 Solo dove l’esserci esiste, si fa mondo. Perché è l’esserci ogni volta a dischiuderlo. Heidegger – lontanissimo dalla metafisica – può dire così che il mondo è un evento fenomenico. Essere significa, per l’esserci, esistere, avere familiarità con quel mondo che trae alla luce soggiornandovi. Ma d’altra parte il mondo è a sua volta una struttura dell’esserci. Questo significato appare chiaro quando chi è stanco di vivere dice «addio al
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mondo». Si può dire «addio al mondo» solo se il mondo è una peculiarità dell’esistenza. L’esserci è weltlich, mondano, si contraddistingue per la sua Weltlichkeit, la sua «mondità». Se non si dà mondo senza esserci, d’altra parte non si dà esserci senza mondo. Ma se l’esserci è mondano – altrimenti non sarebbe tale, non esisterebbe – che senso ha weltlos? Heidegger usa di rado sia l’aggettivo sia, ancor più, il sostantivo. Il termine ricorre in particolare nel corso tenuto a Friburgo nel 192930 dove viene delineata una «osservazione comparata» tra l’uomo, che è weltbildend, formatore di mondo, l’animale che è weltarm, povero di mondo, e la pietra che è weltlos, senza mondo.459 Su questa comparazione si è soffermato Derrida per mettere in questione soprattutto la figura dell’animale la cui Weltarmut, la cui povertà di mondo, si presta a più di un equivoco: l’animale ha e non ha mondo, il non-avere è pur sempre un modo dell’avere, perché non può accedere all’ente in quanto tale e nel suo essere. Si tratta – osserva Derrida – di una «teleologia umanistica» dove mondo è un altro modo per dire «spirito». Heidegger non sembra allora molto lontano da Hegel e dalla metafisica che vorrebbe distruggere.460 Al contrario dell’animale che, in quanto povero di mondo, dovrà pur disporre di una certa mondità, e quindi di una certa spiritualità, la pietra è weltlos, senza mondo. L’assenza non è privazione. La pietra non ha accesso all’ente e dunque non ha accesso al mondo. Se sull’animalità, seguendo l’argomentazione di Derrida, ci possono essere questioni aperte, sulla pietra non ci sono dubbi. «Assenza di mondo è una condizione costitutiva della pietra, tale che la pietra non può neppure fare a meno di qualcosa come il mondo».461 E per chiarire Heidegger prosegue: «la terra per la pietra non è data come sostegno, come ciò che sorregge quella, la pietra». Perché a seconda delle circostanze la pietra si trova «ora qua ora là, tra e in mezzo ad altre cose, in modo tale che ciò tra
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cui sussiste non le è accessibile».462 L’assenza di mondo vuol dire che la pietra non giunge a esistere. Scrive Heidegger: «una pietra non può essere neppure morta, perché non vive».463 L’ebreo è come la pietra – weltlos. Più che amondano, è im-mondo, impuro perché senza mondo, senza la mondità dell’esistenza. Riaffiora la pietra, metonimia, come in Hegel, della figura filosofica dell’ebreo.464 Pietrificato e inassimilabile resto, nella storia dell’Essere, l’Ebreo minaccia, a sua volta, di pietrificare l’Essere. La sua inerzia acosmica e deformante grava sul pianeta, già ottenebrato e desertificato, oscura ogni luce, preclude ogni radura, cancella ogni luogo sulla terra da cui possa scaturire il mondo, in un’accelerazione che, sullo sfondo escatologico, reitera infinitamente la fine.
23. Antisemitismo metafisico Quale immagine dell’Ebreo emerge dai Quaderni neri? Quali tratti assume nel confronto con l’immagine delineata da Jünger e da Schmitt? Qual è il ruolo che Heidegger attribuisce all’Ebreo nella questione dell’Essere? Occorre anzitutto parlare di una metafisica dell’Ebreo. La riflessione di Heidegger è prettamente filosofica; non risente di concezioni antropologiche, né, tanto meno, di dottrine biologiche. In tal senso si inserisce pienamente nella tradizione del pensiero tedesco, da Kant a Hegel e a Nietzsche, di cui in effetti riprende, seppur tacitamente, temi e argomenti. Malgrado la sua critica alla metafisica, da questa eredita il modo di porre la questione. Le sue considerazioni perentorie, le sue sentenze liquidatrici, sono nel complesso risposte all’antica domanda: ti ésti, che cos’è? Introdotta dal Socrate platonico nel Teeteto, ti ésti è destinata a diventare il paradigma della domanda nella
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metafisica occidentale. «Che cosa ti sembra sia la scienza?» – chiede Socrate. Teeteto risponde elencando una serie di scienze. Irritato, Socrate replica: «non ti ho chiesto, Teeteto, di che cosa si dia scienza, né quante siano le scienze; con questa domanda non volevamo enumerare le scienze, bensì sapere che cosa è [ti ésti] la scienza in sé».465 Negli stessi anni in cui scrive Heidegger, fra il 1933 e il 1934, è Ludwig Wittgenstein, nel Libro blu, a far implodere questa domanda riconducendola al gioco linguistico che la guida. Quando si chiede ti ésti, che cos’è?, si induce «il filosofo a respingere, come irrilevanti, i casi concreti». Questo «disprezzo per il caso particolare» si coniuga con il «desiderio di generalità», con l’aspirazione all’essenza, a quell’identità dell’idea che, salda e inamovibile, si nasconderebbe dietro le cose e, con sforzo, dovrebbe essere portata alla superficie.466 La domanda ti ésti fa credere che ci sia un was, una essenza identica, malgrado e oltre le differenze. Tale tendenza alla generalizzazione è «la reale fonte della metafisica, e porta il filosofo nell’oscurità completa».467 Heidegger sottopone a una critica analoga sia la definizione dell’identità, sia il concetto di essenza. Tuttavia il modo in cui si interroga sugli ebrei è metafisico perché, seppur implicitamente, risponde alla domanda ti ésti: che cos’è? Che cos’è l’Ebreo? Come si definisce? Qual è la sua identità? Quale la sua essenza? Così Heidegger condivide la preoccupazione di definire e identificare l’Ebreo che prevale negli anni immediatamente precedenti alle leggi di Norimberga. È il rovello di Schmitt che si risolve nella tautologia: «l’ebreo è l’ebreo».468 La differenza sta tra il «chi» del giurista, che deve procedere alla promulgazione delle leggi, nonché del politico, che presiede alla applicazione, e il «che cosa» del filosofo. Chi è ebreo? Che cos’è l’ebreo? Schmitt si trova al confine tra queste due domande e, sebbene il suo approccio giuridico lo avvicini di più alla prassi politica, è consa-
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pevole della rilevanza che assume la questione filosofica. Prioritario rispetto al «chi» è il «che cosa»: la definizione dell’identità è il presupposto indispensabile per stabilire i limiti del chi, i confini dell’ebreo. La questione filosofica è quella sollevata da Heidegger che, riconoscendone il significato, la pone entro la storia dell’Essere. In tal modo si ricollega alla tradizione che aveva riflettuto sul rapporto dell’Ebreo con l’Essere, e sul suo posto nella storia dell’Occidente. Paradossalmente, però, quando Heidegger si interroga sull’Ebreo, a differenza di quel che avviene nella sua domanda sull’Essere, scivola nella metafisica e pretende di definirne l’essenza. Si deve, però, parlare di metafisica dell’Ebreo non solo per il carattere della domanda – del gioco linguistico, direbbe Wittgenstein – che la guida, la dirige e la determina. Il genitivo ha un valore non solo oggettivo, ma anche soggettivo. La pretesa è ancor più fondamentale (o fondamentalista): si vuole definire l’Ebreo, con la maiuscola, alla cui essenza vengono ricondotti e ridotti gli ebrei in carne e ossa. La metafisica dell’Ebreo dà luogo all’Ebreo metafisico, una figura astratta a cui vengono astrusamente conferite le qualità che dovrebbero appartenere all’“idea” dell’ebreo, al modello, all’Ebreo ideale, nella cui fantasmatica sostanza vengono convogliate le rappresentazioni passate e proiettati gli spettrali incubi del presente e le recondite visioni del futuro. Ma di metafisica si deve parlare anche per un motivo ulteriore. Il modo in cui l’Ebreo viene definito, in cui, cioè, gli vengono attribuite, o negate, le supposte qualità, rientra nelle secolari dicotomie metafisiche che altrove Heidegger contesta. Ad essere metafisico non è dunque solo il linguaggio, ma il ricorso a quelle opposizioni binarie e gerarchiche che hanno dominato nella tradizione occidentale. Procedendo dall’originario al derivato, di ogni dicotomia l’Ebreo rappresenta il polo negativo, l’estremo da
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scartare: anima/corpo, spirito/lettera, interno/esterno, inizio/fine, puro/impuro, realtà/apparenza, autoctono/straniero, stesso/altro, proprio/improprio, autentico/inautentico, cuore/intelletto, natura/civiltà, univoco/ambiguo, concreto/astratto, pieno/vuoto, universale/particolare, visibile/invisibile, qualità/quantità, creativo/riproduttivo, originalità/imitazione, vita/morte, bene/male, sacro/demonico, verità/menzogna, essere/nulla. La lista potrebbe proseguire e precisarsi: sangue/oro, nómos/legge, foresta/deserto, suolo/sradicamento, stanziale/nomade, campagna/città, popolo/massa, eroe/mercante, fidato/infido, contratto/lealtà, uguaglianza/gerarchia, legalità/legittimità, meditazione/calcolo, nazionalismo/cosmopolitismo, Reich/rivoluzione. La metafisica dell’Ebreo produce un Ebreo metafisico, l’idea dell’Ebreo metafisicamente definita sulla base delle secolari opposizioni che mettono fuori l’ebreo, lo respingono nell’apparenza inautentica, lo relegano nell’astrazione senz’anima, nella invisibilità spettrale, via via fino al nulla. Se il procedere dicotomico sarebbe forse più comprensibile per un giurista e per uno scrittore, non lo è per un filosofo che continuamente si pone la questione della metafisica e tenta di scalfirla, di decostruirne, attraverso l’etimologia, il linguaggio irrigidito da secoli. Ma non è quel che avviene sul crinale tra l’Essere e l’Ebreo. Comunque si configuri la serie, sono le dicotomie della metafisica a decidere dell’Essere e dell’Ebreo. Perché si situano ben più in alto e ben prima delle altre. Di qui la posizione paradossale del filosofo che, se per un verso non è direttamente coinvolto nella prassi politica della legge e della sua applicazione, se insomma non partecipa, come il giurista, a definire e a selezionare, e appare perciò più distante da una responsabilità immediata, per altro verso è tanto più responsabile, in quanto è vicino e contiguo alle dicotomie metafisiche, in quanto cioè risponde
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della metafisica. Se l’Ebreo cade fuori, se è condannato al nulla, è perché lo decide il filosofo. Gli ebrei reali, con le loro innumerevoli differenze (che divengono del tutto indifferenti), cedono il posto all’Ebreo, lo Jude, l’Ebreo in sé, di cui si mira a cogliere e carpire l’essenza. Così, accanto al sostantivo, persino ancora troppo concreto, affiora l’aggettivo sostantivato, das Jüdische che, secondo i canoni linguistici della filosofia tedesca, dovrebbe condensarne la quidditas. In modo analogo, Judentum non indica l’ebraismo nella sua storia, nelle vicende affascinanti, tormentate, complesse del popolo ebraico – tanto più che quest’ultimo viene dichiarato geschichtslos, senza storia; Judentum è il termine di un’astrazione ulteriore dove tutti i caratteri sostanziali attribuiti agli ebrei si fondono in un collettivo sostantivato, un sostantivo che, assumendo le fattezze di un soggetto, si comporta, agisce, come fosse tutt’uno, un agente monolitico, un moloch inquietante, ostile, minaccioso, che finisce per rappresentare la minaccia per eccellenza. Intorno a questi tre termini Jude, Jüdisches, Judentum, ruota l’antisemitismo metafisico di Heidegger. Per diversi motivi è preferibile qualificarlo metafisico piuttosto che seinsgeschichtlich, onto-storico, l’aggettivo verso cui sembra propendere Trawny.469 Anzitutto seinsgeschichtlich ha un tono esoterico e un’aura mistica che attutiscono e mitigano la brutalità del gesto discriminatorio; ma è fuorviante anche perché isola la posizione di Heidegger, come se si trattasse di un unicum. Inoltre, sebbene sia la storia dell’Essere il paesaggio in cui l’Ebreo compare, se in quella storia non trova posto, se viene espulso dall’Essere, è perché, nella definizione dell’Ebreo, Heidegger non abbandona la metafisica. Parlare invece di antisemitismo metafisico vuol dire accostare e paragonare la posizione di Heidegger a quella di altri – non solo ai filosofi del passato, che per lui si
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inscrivono nella metafisica occidentale. Il gesto che discrimina, introducendo il concetto di “razza”, è filosofico. In seguito viene supportato e legittimato scientificamente mediante la biologizzazione. È quel che accade nel nazismo che viene del tutto frainteso se è ridotto al biologismo.470 L’antisemitismo metafisico deve ancora essere considerato nella sua ampiezza e profondità. A vietarlo sono remore e rimozioni difficili da incrinare. Ma per i contemporanei la questione era chiara. Nella sua opera Um des Reiches Zukunft, pubblicata a Friburgo nel 1932, Gurian scrive: L’antisemitismo, che sorge nel nuovo nazionalismo, ha fondamenta molto più profonde di quelli precedenti dell’Ottocento. L’Ebreo viene considerato un fenomeno metafisico [eine metaphysische Erscheinung], e viene rifiutato a partire dal senso intero della vita. L’antisemitismo metafisico [der metaphysische Antisemitismus] diventa una fede di massa, dopo essere stato, malgrado la popolarità di singoli autori völkisch, soprattutto di Chamberlain, una faccenda solo dei circoli colti.471
D’altronde anche l’accesa ostilità degli antisemiti più violenti come Blüher, è anzitutto metafisica. Punto di riferimento per Schmitt, e molto noto negli ambienti colti, soprattutto per l’opera del 1931 Die Erhebung Israels, Blüher tenta di far passare l’antisemitismo come strategia difensiva, legittimandolo su un piano teologico e filosofico.472 Emerge dunque un altro motivo che spinge a parlare di antisemitismo metafisico ed è il rinvio della metafisica alla teologia – un rinvio che altrimenti rischierebbe di sfuggire. Le opposizioni gerarchiche, a partire da anima/corpo, spirito/lettera, interno/esterno, tradiscono a stento la provenienza teologica. In tal senso l’antisemitismo metafisico lascia emergere, com’è giusto che sia, il retaggio dell’antigiudaismo cristiano, un patrimonio secolare di immagini lugubri, figure sinistre, metafore demonizzanti, a cui gli ebrei sono stati inchiodati nei secoli, un corredo di rim-
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proveri abietti, calunnie perverse, accuse efferate che culminano nella incriminazione del deicidio. Questo antigiudaismo, che può agire anche in un preteso laicismo secolare, che può operare perfino dimentico di sé, inconsapevole, ma non innocente, ha permeato tutta la metafisica occidentale, senza venire sconfessato.473 Occorre infine parlare di antisemitismo metafisico, perché è un modo di considerare l’Ebreo una figura, una apparizione, un fenomeno – come suggerisce Gurian – di cui cercarne l’essenza dietro, oltre, metà, secondo quel procedere che per Heidegger caratterizza la metafisica.
24. L’Ebreo e la «purificazione» dell’Essere Quasi con una premonizione Lyotard aveva denunciato nel 1988 il compromesso metafisico di Heidegger. Ecco la profonda, ingiustificabile «colpa»: Heidegger «si compromette con la metafisica».474 Non una «colpa metafisica», ma la «colpa» della metafisica. Non lo sbaglio politico di uno sprovveduto apolitico, che aderisce al nazismo seguendo opportunisticamente la corrente, non uno sviamento ordinario e triviale, comune a quello di altri, ma un errore filosofico, l’errore del filosofo – il filosofo che aveva messo in questione la metafisica. Heidegger si compromette in un duplice senso: accetta il compromesso del nazionalsocialismo, lasciandosi coinvolgere, perché prima ancora compromette il suo cammino, lo espone alla rovina, lo destina al naufragio. E ciò avviene quando, per quel cammino su cui si è spinto in solitudine, muovendo dal suo avamposto, per scrutare il futuro del popolo tedesco che avrebbe dovuto svettare lì in alto, quando dunque è concentrato ad aprire il varco per quel passaggio decisivo, nella fredda notte dell’Essere, prima di scorgere la luce aurorale dell’altro inizio, si imbatte nell’Ebreo.
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Ma quale ebreo? Non uno dei tanti – non uno dei suoi allievi, non uno dei suoi maestri, non una delle sue amiche, non uno dei suoi amori. Non Hannah. Incontra l’ombra dell’Ebreo – lo spettro, la proiezione, la figura dell’Ebreo, l’Ebreo figurale aggravato da un peso metafisico. È questo Jude che deve rispondere della sua appartenenza allo Judentum. Ma come? L’Ebreo sembra essersi sempre sottratto a ogni impresa di concettualizzarne l’essenza. Già l’Ebreo di Kant, confinato all’eteronomia, alla legge dell’Altro, e a tutto ciò che la ragione autonoma non doveva essere, esortato all’eutanasia, era stato respinto dalla metafisica. Hegel lo aveva invece fermato già sulla porta d’ingresso – dell’Europa, della cristianità, della salvezza. Testardamente fedele al suo perfido rifiuto, capace di portare la promessa e incapace di comprenderla, quella coscienza infelice, figura emblematica della scissione, che sembrava non avere nulla in proprio, nessuna proprietà da enumerare, quel «cuore di pietra», pietrificato alla sua lettera farisaica, che non si lasciava superare e opponeva resistenza, era stato «negato», escluso dalla dialettica della storia universale. Nietzsche ne aveva addirittura indicato nella falsificazione la cifra dell’esistenza. Anche per Heidegger l’Ebreo è un inciampo, una pietra sul suo cammino, lungo la storia dell’Essere. Per toglierlo, per sgombrare il terreno, il modo più semplice è definirlo. Quale altro metodo potrebbe essere efficace contro chi, per definizione, sconfina? Così Heidegger tenta di coglierne l’essenza segreta e immutabile. Fin nel sangue. Si nasconde forse in quel fluido misterioso, a metà tra corpo e anima, l’arcano metafisico dell’ebraismo. Per definire l’Ebreo, pur di definirlo, Heidegger ridiscende alla metafisica, accondiscende all’impulso di legittimare l’atavica ripugnanza per quell’altro che è il più prossimo, asseconda il culto della Art, l’impronta formatrice che deve mantenersi identica, condivide, pur senza menzionarlo, il
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mito autopoietico dell’ariano assoluto, che si costituisce in contrapposizione al popolo informe, inestetico, privo di miti. Solo che Heidegger innalza, per così dire, l’argomento, cui conferisce un prestigio ontologico, e fonda, su un’invenzione, quella della «razza», una metafisica dell’Ebreo. È qui che l’antisemitismo metafisico mostra apertamente l’assenza di fondamento di ogni antisemitismo. Non ridimensiona la questione; anzi la aggrava e la rende più perspicua. Dice a chiare lettere che esiste una “questione ebraica”, la Judenfrage, e la lega alla Seinsfrage, alla questione dell’Essere. Mai l’Ebreo ha avuto più importanza – è nel cuore dell’Essere e della filosofia. Mai ha rappresentato una minaccia così grande. L’Ebreo che Heidegger incontra lassù, lungo il cammino della storia dell’Essere, gli impedisce il passaggio, lo ostacola nel raggiungimento della sorgente, quella della purezza, della Reinheit. È come se l’Ebreo lo avvertisse: la sorgente non c’è, e neppure la purezza. Né sorgente, né origine, né purezza, né autenticità, né autoctonia – né per l’ebreo, ma neppure per il tedesco. Quell’avvertimento suona all’orecchio di Heidegger come una minaccia, tanto più che sembra articolare quel che la «chiamata della sua coscienza» gli andava ripetendo già da tempo. L’ebreo gli dice che la sua Entscheidung, la sua decisione, o meglio, la sua Scheidung, il suo separarsi dirigendosi verso l’Essere, è un sentiero interrotto. L’Ebreo mina l’Essere. Ne mette a repentaglio l’incolumità e la purezza, ne sovverte anarchicamente l’arché. Ecco, dunque, che cosa la Judenfrage ha a che fare con la Seinsfrage. Gli ebrei sono testimoni scomodi della non coincidenza di sé con sé, dell’espropriazione immemoriale, dell’alterità insuperabile, dell’impossibilità di essere presso di sé. Possono far implodere l’Essere, perché, degli ebrei, questi indefinibili, si può parlare solo in proposizioni indecidibili, non chiuse. Hanno resistito per secoli alla logica dell’Essere, hanno fatto resistenza a sin-
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tesi e conclusioni, come l’interrogazione talmudica che reclama un tertium e un quartum datur. Intralciano ogni progetto di appropriazione, ogni passione di padronanza, ogni ossessione di dominio, ogni fondazione e autofondazione, ogni volontà di volere, ogni compulsione al compimento. Perciò il nazionalsocialismo li ha eletti a nemici. Agli occhi di chi pensa che la questione dell’Essere sia la sola questione autentica per l’Occidente il posto degli ebrei comincia a divenire incerto, malfermo e vacillante. C’è anzi un posto per gli ebrei? Che ne è della topologia suggerita a Jünger? L’Ebreo non sembra avere un luogo neppure per Heidegger. Che posto potrebbe mai avere nella storia dell’Essere che insidia così da presso? Il nonluogo degli ebrei diventa ineluttabilmente concreto. L’ebraismo – sancisce Heidegger – è complice della metafisica. L’uno ha favorito l’altra. Per rimettersi dalla metafisica, la malattia occidentale, occorre allora rimettersi dall’ebraismo. Ma l’ebraismo sembra irremissibile. Eppure per l’Occidente la possibilità ultima di salvezza è risalire il cammino verso l’origine incontaminata, verso quella purezza che rischia di perdersi per sempre. L’Ebreo che ha incontrato su quel cammino, complice della metafisica, è l’esserci entificato, è l’ente scisso dall’Essere, che vorrebbe rendere universale quella sua scissione, planetario quel suo sradicamento, impedendo per sempre l’accesso all’Essere. La sua macchinazione è già compito nella storia del mondo. In una differenza ontologica esasperata l’Ebreo appare già l’ente staccato dall’Essere, senza più possibilità di recuperarne il rinvio. Accusato dell’abbandono dell’Essere, è condannato ad essere abbandonato dall’Essere. Lassù, su quel cammino, dove procede solitario lungo l’abisso, Heidegger ha il sentore che quell’Ebreo che ha incontrato non sia un resto, non sia un residuo pietrificato e obsoleto di cui l’Occidente, per vocazione «cattolico», nella velleità di essere «totale», come pretendeva
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Schmitt, possa sbarazzarsi. Intuisce che quell’Ebreo è oltre – che è anzi l’oltre. Non è il nemico ontologico. Il limite che costituisce non è una trincea bellica, ma è il limite dell’oltre che solo l’altro, nella sua alterità, può dischiudere. Eppure indietreggia. Più importante è l’Essere. Lascia cadere l’Ebreo. Ripete un gesto già più volte reiterato dai filosofi. Per l’Ebreo non c’è posto nella storia dell’Essere. Il suo gesto di esclusione è, però, tanto più inquietante, perché è compiuto nel tempo dell’indigenza e nella notte del mondo, sul limite dell’abisso. Non esita allora a parlare di una «prima purificazione dell’Essere dalla sua profonda deturpazione ad opera del predominio dell’ente».475 Quando scrive, all’inizio degli anni quaranta, la Reinigung des Seins, la purificazione dell’Essere, è già diventata Vernichtung, annientamento.
25. «Che ne è del nulla?» «Perché è in generale l’ente e non piuttosto il niente?» – aveva chiesto Heidegger al termine della sua prolusione inaugurale, nel 1929, riprendendo una celebre formula di Leibniz.476 Sollevava in tal modo la questione per eccellenza della metafisica che, connessa con quella sulla differenza ontologica, andava al di là dell’ambito ontico circoscritto all’ente. Rifiutata come fantasticheria dalle scienze, e da un pensiero subordinato all’argomentare scientifico, la domanda sul nulla veniva così messa al centro della filosofia. «Che ne è del nulla?». Ogni ente, in quanto è finito, rinvia ad altro da sé, a quel che l’ente non è, al ni-ente. Sebbene non se ne possa avere certezza empirica, ciascuno sa bene che cosa sia il nulla, perché nelle vicende quotidiane, quando si trova nel mezzo degli enti, lo assale l’angoscia, l’Angst, che non è semplice paura di qualcosa
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capitolo terzo
di determinato, ma è angustia del nulla. Tutto sembra allora affondare in una sorta di indifferenza. L’ente nel suo insieme si allontana, dilegua, lasciando affiorare il nulla. Questo affiorare del nulla, nel ritrarsi dell’ente, Heidegger lo chiama «nientificare». E parla di Nichtung, «nientificazione».477 Il nebuloso chiarore del nulla è diradato tuttavia dall’angoscia: l’esserci si scopre «immerso nel nulla», ma già sempre oltre l’ente, in quel trascendere costitutivo dell’esistenza e, alla fin fine, della libertà. Per riprendere le parole di Heidegger, l’esserci si scopre «luogotenente del nulla», Platzhalter des Nichts.478 Lungi dall’essere un oggetto, o un ente qualsiasi, il niente è «ciò che rende possibile» l’ente per l’esserci umano. È dal ni-ente che l’ente di volta in volta emerge. Prima di ogni «non», di ogni negazione, di ogni Verneinung, viene il nulla. Se però l’ente emerge, viene cioè ad essere, dal fondo del nulla, allora essere e nulla sono indissolubilmente intrecciati. Ma non è incauto pensare un tale intreccio? A ben guardare, ancor più incauto è mettere per tal via in dubbio l’antico assioma metafisico ex nihili nihil fit, dal nulla non viene nulla.479 Heidegger, però, non esita a rovesciare addirittura questo assioma: dal nulla viene ogni ente. Di un tale pensiero non vi è traccia né nella tradizione filosofica e neppure in quella teologica. Dal canto loro i greci hanno sempre immaginato un caos primordiale che viene ordinato in un kósmos, che prende dunque forma. Ma l’eccezione è la Kabbalah. Sono stati i kabbalisti a scorgere tra le falde silenziose della creazione il baratro oscuro del nulla, decifrandolo nelle espressioni tohu vabohu, tehom, choshekh, dei primi versetti di Bereshit. Hanno forzato l’argine fittizio, innalzato dai filosofi sul nulla, per tenerne a riparo la ragione, e si sono avventurati nella coltre del nulla, non solo per sondarne la potenza annichilatrice, ma per esperirne il nientificare. Anche per i kabbalisti il niente nientifica.
la questione dell’essere e la questione ebraica
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Non si può, dunque, non constatare questa sorprendente convergenza, nel nulla, e nella creazione dal nulla, tra Heidegger e la Kabbalah.480 Una convergenza che si estende anche al modo di intendere il nulla, che non è mera negazione. Assente, nella sua presenza, inaccessibile, nella sua accessibilità, il nulla è la profondità dell’Essere, è la tenebra da cui sorge ogni luce – al nulla, Aìn, sono appesi tutti i candelabri del mondo. Aìn si volge in Anì, dal nulla l’Io, quello di Dio che parlando crea. Temerari, i kabbalisti spingono il nulla fino a Dio, il nulla è Dio stesso nel suo aspetto più nascosto. Essere e nulla in Dio sono intimamente intrecciati. Dal nulla, cioè da se stesso, Dio si ritrae per lasciar essere gli enti che crea. La creazione non è allora un’emanazione, ma un ritrarsi, un contrarsi, è l’esilio di Dio.481 A sua volta Heidegger, nella Lettera sull’«umanismo», scrive: «l’essere nientifica – in quanto essere».482 Così il niente, prendendo dimora nell’essere, suggerisce il modo di decifrarlo. Ma mostra anche il pericolo di un esserci che, insensibile alla gravità dell’essere, si irrigidisce – quasi si pietrifica – nell’ente. La scissione dall’Essere è al contempo la defezione del nulla. Si sprofonda allora nel nichilismo. Dove l’Essere è disertato, il nulla, das Nichts, assume un altro tono, un altro significato. È il nulla che si inserisce in un altro vocabolo, non la Nichtung, la nientificazione, ma la Vernichtung, l’annientamento. Heidegger ne parla nei suoi corsi su Nietzsche. Si riferisce al pensiero che, per essere costruttivo, deve escludere, ausscheiden. Deve eliminare quel che ingombra la via, ostacola il cammino, «ciò che, in quanto fissazione e zavorra, impedisce l’andare-in-alto», In-die Höhe-Gehen. L’annientare, il Vernichten, «assicura contro l’affollarsi di tutte le condizioni del declino».483 Per sottolineare la radicalità di un annientamento che è un essenziale trasferire nel nulla, inserisce altrove due traits d’union: «Che senso ha quel
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nulla pensato dell’Essere rispetto al reale annientamento [Ver-nichts-ung] di ogni ente che, con la violenza che si insinua ovunque, rende ormai pressoché vana ogni autodifesa?».484 In un saggio critico sul nulla in Heidegger, in cui attira l’attenzione sulla «risonanza» di quella domanda metafisica, che era impossibile non avvertire allora, nel dopoguerra, Taubes slega la questione dalla teologia e ne indica il nesso con la politica. La questione metafisica tradisce «l’appuntamento segreto tra filosofia e politica».485 Non sembra avere più legame con il nulla, che ha trovato dimora nell’Essere, quel niente ontico che si affaccia nell’annientamento, che nega l’esistenza, che è il niente della cenere e del fumo. Assume allora un’altra eco la domanda per eccellenza della metafisica: che ne è del nulla?
4. Dopo Auschwitz
Si possono perdonare molti tedeschi, ma ci sono tedeschi a cui è difficile perdonare. È difficile perdonare Heidegger.1 Ogni “rivoluzione” non è mai abbastanza “rivoluzionaria”.2
1. «Bellum judaicum» Negli anni immediatamente successivi alla Shoah, sono gli «emigrati» a decifrare i primi segnali di quel che era accaduto o stava ancora accadendo; fra loro, però, solo un numero esiguo riesce a intuire l’enormità dello sterminio. Sono ebrei tedeschi, profughi, apolidi, esponenti di quell’intellighenzia in grado, come aveva sostenuto Mannheim, di avere una visione più ampia per via della loro extraterritorialità. Provengono dalla «tradizione nascosta» dell’ebraismo moderno, quella dei paria, dei «fuorilegge giuridici e politici».3 Rivendicano l’esilio, consapevoli di quel grande privilegio del popolo ebraico che è la «acosmia», a cui si accompagna un tanto più profondo senso dell’umanità.4 Non sono illuministi, non condividono il mito del progresso, piuttosto leggono la storia come un’interrotta serie di catastrofi, un cumulo di macerie che si innalza verso il cielo sotto lo sguardo dell’Angelo di Benjamin; pensano che la barbarie sia il lato nascosto della modernità, sono esponenti di un «anticapitalismo romantico» e di un pensiero politico libertario.5 Sono allievi di Heidegger.
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Si interrogano anzitutto su quel che avviene in Europa, su quella singolare guerra che i nazisti combattono contro gli ebrei. Di che guerra si tratta? Quando è stata dichiarata? E perché? Prendono il nazismo non come propaganda volgare, né come follia passeggera. Già Lévinas aveva parlato di una «filosofia dell’hitlerismo», una idolatria della natura, una forma di paganesimo, per cui l’uomo dovrebbe essere pronto ad accettare la fatticità del proprio esserci come destino storico.6 Verso la fine degli anni trenta la guerra planetaria assume contorni sempre più nitidi e si profila come lo scontro teologico-politico fra paganesimo e ebraismo. A leggerla in tal modo, pur se con accenti e propositi diversi, sono in particolare Taubes e Jonas. Entrambi provengono da studi teologici, hanno indagato il fenomeno della gnosi e l’apocalittica, sanno che quell’attacco sferrato dal Terzo Reich non rientra nei vecchi schemi ottocenteschi, non può essere paragonato a una persecuzione o a un pogrom, perché è un evento senza precedenti. Tuttavia lo iscrivono nella storia ebraica, ne cercano i precedenti volgendo lo sguardo indietro nei secoli, verso quell’altra grande Shoah in cui Israele era stato sconfitto da Roma, in cui l’Imperium aveva prevalso decretando così la dispersione e l’esilio del popolo ebraico. Entrambi parlano di bellum judaicum con un rinvio esplicito a Flavio Giuseppe.7 Le pagine dell’Escatologia occidentale, pubblicata nel 1947, possono essere lette alla luce di questo scontro in cui l’ultima apocalisse viene interpretata come la guerra fra il Reich e Israele.8 Jonas aveva scritto una tesi su Gnosi e spirito tardoantico quando aveva studiato a Marburgo con Heidegger.9 Non senza rimpianti aveva lasciato la Germania ed era giunto a Haifa nella primavera del 1935. Proprio quel suo lavoro, a metà tra filosofia e teologia, gli avrebbe permesso di scorgere ciò che altri non vedevano. Il tratto in comune tra il fenomeno della gnosi e la filosofia di Hei-
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degger era il nichilismo cosmico.10 Così intuì che il fondo nichilista del paganesimo nazista avrebbe condotto a un totale annientamento del popolo ebraico. Era un nuovo bellum judaicum. La guerra della Germania nazista contro Israele era rivolta contro un popolo senza né stato né esercito, che non era in grado di difendersi, che spesso non era neppure consapevole di essere stato eletto a nemico assoluto del Reich. Nel settembre 1939 Jonas lanciò un appello a tutti gli ebrei emigrati. Bisognava combattere contro la Germania di Hitler: «questa è la nostra ora, questa è la nostra guerra».11 Rivendicava quasi al popolo ebraico «un diritto e dovere di primogenitura» su quel conflitto. Perché se il Reich avesse trionfato, non avrebbe permesso la sopravvivenza di nessun ebreo. Al nemico metafisico non poteva essere lasciato alcun posto nel mondo. Jonas comprese la differenza tra la condizione degli ebrei e quella degli altri popoli: loro sono minacciati in una sola parte, seppure essenziale, della loro posizione sulla terra – per noi il principio nazista, che mira a estendersi fino a diventare principio mondiale, punta al cuore della nostra dignità umana e insieme alla nostra pura e semplice possibilità di esistere sulla terra. Sin dal primo giorno siamo stati il nemico metafisico, le vittime designate, e non avremo pace finché uno di noi – quel principio oppure noi – resterà in vita. Per noi dunque è in gioco non una parte, ma il tutto. Contro di noi c’è davvero una guerra totale. […] Se oggi esistesse uno Stato ebraico, avrebbe dovuto essere il primo a dichiarare guerra alla Germania di Hitler.12
A Jonas non sfuggì la novità del progetto politico del nazionalsocialismo che, per la prima volta nella storia, mirava a un rimodellamento dell’umanità. Questo distingueva il nuovo bellum judaicum anche dall’antico: perché Roma aveva consentito a un ebraismo politicamente sconfitto di continuare a sopravvivere. Ciò non sarebbe accaduto «sotto il tacco della Gestapo».13 L’ebreo che, colpito dalla sentenza metafisica, cadeva fuori dall’es-
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sere, non solo non era più con-cittadino, ma non poteva avere alcun posto nel mondo. Già in quella sentenza era annunciata la liquidazione. Per gli ebrei era dunque «un bellum judaicum nel senso più profondo del termine – il primo dalla nostra esistenza come Stato». E a ben guardare era anche «la prima guerra di religione della modernità»: da una parte il Reich, dall’altra Israele, da una parte il paganesimo, dall’altra l’ebraismo e quella «ebraizzazione dell’umanità europea» che è il cristianesimo.14 Alle parole seguirono i fatti. Per quasi sette anni Jonas prestò servizio nella Brigata ebraica e, dopo aver attraversato l’Italia, entrò in Germania nel 1945. In seguito, con le armi della filosofia, continuò a combattere il nazismo, quel disprezzo pagano per l’umanità. Con Heidegger lottò, a suo modo, contro Heidegger. Non perdonò mai il suo maestro, quel precursore che «aveva dischiuso terre sconosciute». L’unico incontro, nel 1969, fu un’amara delusione: «ciò che ancora ci divideva rimase avvolto nel silenzio».15
2. Abdicare al silenzio La Germania post-nazista era un paese che tentava di ricostruire la propria identità sulle macerie della sconfitta, nel segno, dunque, della continuità e della rimozione. Amnesia e amnistia furono le due parole chiave di quegli anni. La guerra fredda e la cortina di ferro favorirono l’immagine di una nuova Germania, quella occidentale, anello decisivo del patto atlantico, ultimo baluardo del mondo liberale. La teoria dei due totalitarismi, la discutibile simmetria tra nazismo e comunismo, contribuì a scaricare i tedeschi da ogni responsabilità politica traghettandoli, anzi, sulla sponda delle vittime. Ripiegati sulle rovine delle città, intenti a risolvere il dramma degli oltre dieci milioni
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di connazionali, espulsi dai Länder orientali ed espropriati dall’Armata Rossa, si convinsero di essere le uniche vere vittime che la storia narrata dagli altri non voleva riconoscere. L’innocenza collettiva segnò il ritorno alla normalità. Nel racconto del suo viaggio in Germania durante il dopoguerra, pubblicato nel 1950, Arendt annotò: Il tedesco medio non cerca le cause dell’ultima guerra nelle azioni del regime nazista, ma negli eventi che condussero alla cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso. Una simile fuga dalla realtà è ovviamente anche una fuga dalla responsabilità.16
Eliminati dal corpo della nazione tedesca, gli ebrei erano percepiti come una assenza ancora troppo presente e ingombrante. In un breve saggio del 1963 Ernst Bloch denunciò il paradosso di un antisemitismo senza ebrei. Nel bellum judaicum i nazisti erano stati vittoriosi sino alla fine, era stato «il loro unico successo».17 Malgrado ciò, malgrado le «mostruosità» commesse nella soluzione finale, in «mancanza di ebrei» restava ancora la «questione ebraica». Affiorava sia in un singolare pentimento, la cui causa si evitava volentieri di menzionare, sia nel negare e denegare – «qui tutti pretendono di non aver saputo nulla» – sia in quell’inquietante rammarico di non essere andati fino in fondo, che si esprimeva nelle nuove accuse, per cui erano «gli ebrei, avvelenatori di pozzi, a far cadere le bombe atomiche».18 Tra il silenzio tombale delle vittime e l’assordante silenzio dei persecutori non sembrava esserci posto per Auschwitz, un nome interdetto, un fantasma innominabile. Né era chiaro che cosa lo distinguesse da tutti gli altri innumerevoli crimini commessi in quegli anni. È in tale contesto che, profondo e impenetrabile, scende anche il silenzio di Heidegger. Coloro che, soprattutto al di fuori della Germania, si aspettano da lui almeno un cenno, una parola, se non una esplicita condanna di quel che è accaduto, sono destinati a rimanere delusi. A
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sollecitarlo sono anzitutto i suoi ex allievi. Nel 1947, Herbert Marcuse gli scrive dagli Stati Uniti per convincerlo a intervenire pubblicamente.19 Ma nonostante le numerose richieste, Heidegger appare irremovibile. La leggendaria intervista rilasciata allo «Spiegel» il 23 settembre 1966, e pubblicata, come era stato stabilito, subito dopo la sua morte, nel 1976, non apre una breccia nel muro di silenzio. Con estrema disinvoltura Heidegger risponde alle domande che sembrano già concertate.20 Nell’insieme viene seguita la strategia difensiva messa in atto sin dall’inizio: per un verso riconosce, in forma molto cauta, il proprio impegno – «credevo allora che nel confronto con il nazionalsocialismo si potesse aprire una via per il rinnovamento, l’unica possibile» – senza ammettere che quella era stata per lui la via della rivoluzione, dell’evento epocale dell’Essere, un cammino filosofico prima che politico; per altro verso non ritratta, non si spaccia per un democratico dell’ultima ora – alla democrazia non crede e non ha mai creduto, tanto meno «nell’età della tecnica».21 Ancora nelle ultime pagine parla della «missione storica dei tedeschi», ma non delle loro responsabilità.22 Neppure una sillaba sullo sterminio. Nulla. Sul «silenzio di Heidegger», divenuto nel frattempo un tópos della filosofia, sono stati scritti articoli e libri, in una discussione che, coinvolgendo voci discordanti, si è protratta negli anni, senza accennare a concludersi. Per Lyotard quello osservato sino alla fine dal «pensatore di Todtnauberg» è un «silenzio di piombo» ermeticamente chiuso.23 Per Lacoue-Labarthe è un «silenzio imperdonabile», perché avrebbe potuto dire, ma non dice, lasciando tuttavia aperta la questione.24 Molti riconoscono in quell’ostinato mutismo dopo il 1945 una colpa peggiore della sua adesione al nazismo nel 1933. È questa, ad esempio, la posizione di George Steiner che, mentre riserva parole dure ai seguaci che tacciono fedelmente, si chiede come sia possibile accordare quel silenzio «con la lirica umanità
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degli ultimi scritti».25 Il tema viene ripreso anche da Richard Bernstein per il quale il «“silenzio” di Heidegger è sonoro, assordante e incriminante».26 I Quaderni neri gettano luce su questo silenzio, senza, però, poterne diradare del tutto la coltre. Certo, il suo antisemitismo metafisico deve aver contribuito in modo decisivo. Entro tale contesto la sua scelta appare più comprensibile. Ed è lecito allora chiedersi di nuovo: che silenzio è quello di Heidegger? Questa domanda ne solleva, a sua volta, altre due, quella cioè sul concetto di “silenzio” nel suo pensiero, e quella sul silenzio del pensiero negli anni immediatamente successivi alla Shoah. Il che richiede che si parli sia del divieto imposto da Adorno ai poeti sia, soprattutto, dell’incontro fra Celan e Heidegger. Mentre i poeti tentavano di articolare nei loro versi il silenzio dei sommersi, mentre gli storici raccoglievano le prove dello sterminio, e i giuristi si trovavano di fronte a crimini che sembravano eccedere ogni punibilità, i filosofi tacevano, impotenti e afasici, al cospetto di quel che era accaduto. Quella afasia attestava una ferita aperta nella filosofia. L’«abisso» spalancato dalla Shoah sembrava incolmabile.27 Alla difficoltà dell’immaginazione, paralizzata di fronte all’enormità del mostruoso, si aggiungeva quella del pensiero che stentava a compiere il passaggio dalla dimensione narrativa del ricordo a quella filosofica della concettualizzazione. La riflessione sul male radicale investiva la filosofia, sempre più consapevole di essere direttamente chiamata in causa dal tribunale della storia. Se i filosofi non sedevano sui banchi degli imputati al processo di Norimberga, d’altra parte la Norimberga della filosofia era sotto gli occhi di tutti. Ecco perché la Shoah è rimasta così a lungo fuori dal discorso filosofico.28 A chi pretendeva di spiegare tutto indicando cause e nessi, per far di nuovo trionfare i lumi su quell’oscurità, si opponeva chi in Auschwitz scorgeva un enigma insondabile, incomprensibile, indicibile.
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Rientrato dall’esilio americano, Adorno fu tra i primi a squarciare il silenzio per riproporlo, però, paradossalmente con un verdetto filosofico: «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie».29 Il critico, nei «panni dell’accusatore», dunque anche il poeta, avrebbe finito per essere complice, per sublimare l’orrore, collaborando alla «tessitura del velo».30 Per nulla velata appariva l’allusione a Heidegger che era nel mirino di Adorno. Ma il suo saggio, scritto nel 1949, e pubblicato nel 1951, si prestò a molti malintesi e il verdetto finì per diventare il feticcio della irrappresentabilità di Auschwitz. Le reazioni non si fecero attendere: a intervenire furono non solo poeti e scrittori, ma anche filosofi, come Günther Anders.31 In Germania risuonava già un’elegia che, nella sua terribile bellezza, parlava della notte in modo cristallino: era Todesfuge di Paul Celan. Martellanti e implacabili, quei versi trascinavano in una danza parossistica che ricordava la musica delle orchestre nei lager. Offrivano lo spartito ritmato da un refrain che opponeva i «capelli d’oro» di Margarete ai «capelli di cenere» di Shulamit, Goethe allo Shir haShirim, al Cantico dei cantici – e in mezzo Heine.32 Tragica fine dell’ebraismo tedesco, ripetuta fino all’ossessione. Adorno pensava a Fuga di morte quando aveva formulato il suo verdetto lapidario? Celan ne era certo. Ne fu profondamente deluso. Aveva riposto molte speranze in quel filosofo. Vedeva in lui l’amico di Benjamin e di Scholem, con cui si augurava di poter stringere un’alleanza per vigilare contro le derive della memoria tedesca. Soprattutto si aspettava un libro sulla sua opera che Adorno non scrisse mai. Perché restò estraneo a quella poesia, non ne comprese la vocazione politica, il capovolgimento del suo stesso divieto, che più tardi Peter Szondi interpretò così: «l’attualizzazione del campo di sterminio non è solo il fine della poesia di Celan, ma la sua stessa condizione».33
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Non solo deludente, ma anche increscioso si rivelò, dunque, il suo rapporto con Adorno che sembrava aver occultato perfino il cognome del padre Wiesengrund, quel po’ di ebraico che gli restava. La riprovazione per quell’occultamento riecheggia nei versi di una poesia scritta da Celan nel gennaio 1965: Mutter, Mutter. I nuovi aggressori scrivono «in nome e nei nomi della inumanità da ripartire di nuovo equamente», e scrivono non ab-[gründig], bensì wiesen-gründig, non come «in un abisso heideggeriano», ma come «in una valle adorniana».34 D’altronde, che cosa poteva avere in comune Celan con chi aveva scritto il Gergo dell’autenticità?35 Proprio quel che lo allontanava da Adorno, lo avvicinava a Heidegger: il linguaggio. Come dire l’indicibile? Era questa la domanda dopo Auschwitz. Come articolare «la Maestà dell’assurdo», senza cadere in una sublimazione banalizzante, ma senza neppure relegarlo in una pericolosa mistica del nulla? Celan era stretto fra due silenzi molto diversi: da un canto quello di Adorno, che imponeva al poeta di tacere, dall’altro quello di Heidegger, enigmatico e pervicace. Nella biblioteca di Celan, il cui catalogo è stato pubblicato di recente, figurano trentatré volumi di Heidegger, tutti fittamente annotati.36 In quei testi Celan aveva cercato non solo la riflessione sulla poesia, ma anche il nesso tra linguaggio e silenzio. «Tacere non vuol dire essere muti»; perché «chi tace può “dare a intendere” ben più […] di chi non smette mai di parlare».37 Già in Essere e tempo Heidegger aveva sostenuto che il tacere è una parte costitutiva del discorso, una sua possibilità. In seguito aveva più volte indicato nel silenzio la scaturigine del linguaggio. E aveva distinto tra il tacere della reticenza, il Verschweigen, e quel passare sotto silenzio, Erschweigen, che serba un non-detto, lo lascia aperto, lo affida alla parola altrui.38
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Nella sua lettura di Essere e tempo Celan si era annotato molte parole. Lo aveva colpito Verlautbarung, che vuol dire articolare, trasferire in suoni.39 In quella parola aveva trovato, condensato, il suo lavoro. In comune con il filosofo aveva, fra l’altro, l’aspirazione a risalire là dove il linguaggio si inabissa nel silenzio – per oltrepassare quell’abisso. Il cammino tracciato da Heidegger sembrava dischiudergli la via d’uscita, il varco dalla «strettoia». Per Celan non si trattava, però, di riandare all’origine, bensì di far affiorare la ferita, di articolare il rantolo in cui minacciavano di soffocare per sempre le vittime. In ciò consisteva il suo corpo a corpo con il tedesco, la discesa nella lingua della morte, per riportarne alla luce la parola, eco immemoriale della madre. Doveva riprendere a parlare dall’abisso nel cielo, dalle tombe nell’aria, dalla cesura di Auschwitz.40 Perciò la sua parola è er-schwiegen, è «strappata al silenzio». Mentre il silenzio è un «fardello», e può divenire anche un attacco: «l’attacco del silenzio contro di te, gli attacchi di silenzio».41 Il poeta parla in die Stille, rompe il silenzio, lo fende. Non reclama nessuna originarietà, né creatività originaria. Rivendica la «riproduttività», capo d’accusa contro gli ebrei. Il suo mestiere si avvicina a quello del Ferge, di chi traghetta da sponda a sponda, di chi traduce. Il poeta traduce il silenzio di chi è stato ammutolito, e lo redime. La sua parola non nasce da un Entsprechen, da un «corrispondere» all’appello del linguaggio – come aveva suggerito Heidegger.42 Piuttosto è un Gegen-Wort, una contro-parola, contro chi nega, o chi tace. E porta la ferita da cui è scaturita, articolando il balbettio soffocato, inscrivendolo come una ferita, nella lingua tedesca. Mentre stava per spegnarsi annientato, il respiro si è fatto parola. Dopo Auschwitz la poesia è questa inversione. «Poesia: può significare una svolta del respiro».43 Questo invertire è anche, e soprattutto, un sovvertire,
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questa inversione è una sovversione, una rivolta. Atemwende dovrebbe allora tradursi rivoluzione del respiro. La poesia è un passaggio dalla rinuncia del silenzio all’audacia messianica del linguaggio. Heidegger fu affascinato dalla Atemwende di Celan. Studiò la sua opera, la apprezzò profondamente. Cercò di incontrarlo; lo invitò a Friburgo. Se quel poeta gli stava così a cuore, il motivo era certo anche la Shoah. Si incontrarono più volte e il loro complesso rapporto si sviluppò nell’arco di quasi vent’anni. Ma epocale, forse per il valore emblematico, è considerato da molti il loro incontro a Todtnauberg il 25 luglio 1967. Il giorno prima Celan tenne a Friburgo una conferenza nell’aula magna dell’università davanti a un pubblico di oltre mille ascoltatori. In prima fila c’era Heidegger. Quindi salirono insieme nella Foresta Nera. Un mistero aleggia intorno alla loro conversazione quella mattina. Sulle pagine affidate al ricordo degli ospiti Celan annotò: «Nel libro della baita, con lo sguardo rivolto alla stella nel pozzo, con la speranza di una parola che venga dal cuore».44 Qualche giorno dopo, il primo agosto 1967, scrisse la celebre poesia Todtnauberg.45 Tornarono a incontrarsi. Nell’estate del 1970 Heidegger avrebbe voluto portare Celan alle fonti del Danubio, attraverso il suo paesaggio preferito, quello cantato da Hölderlin. Ma qualche mese prima, il 20 aprile 1970, Celan si tolse la vita gettandosi nella Senna. Heidegger non parlò mai – certamente non in pubblico. Nessuno lo aveva convinto. Né i suoi ex allievi, né i suoi colleghi. Anche Bultmann aveva tentato – invano. Da parte sua Celan era convinto che proprio la parola del filosofo fosse indispensabile – per ammettere il suo errore e per denunciare il neonazismo e il nuovo antisemitismo. Proprio Heidegger, più di tutti, avrebbe dovuto intervenire. Fu quasi ossessionato dall’idea di convincerlo. Fu la «vergogna» a impedirglielo, quella che aveva confessato una volta a Jaspers?46 Fu il senso di colpa? Lo
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sgomento di fronte all’enormità della catastrofe che lui – come molti altri – non immaginava, in quella forma e in quelle proporzioni, e che sembrava eccedere ogni discorso? Il silenzio di Heidegger ha ben poco in comune con la fredda indifferenza di Jünger o con la sprezzante condotta di Schmitt. Piuttosto Heidegger sceglie un silenzio che non è di rifiuto o di reticenza, ma di rinuncia. Non rilascia alcuna dichiarazione. In tal modo non accetta di figurare come complice dello sterminio, ma non si chiama neppure fuori. Considerato sulla base dei Quaderni neri questo atteggiamento appare più perspicuo e più coerente. Come ha osservato Derrida, se Heidegger avesse parlato, la faccenda si sarebbe presto chiusa. Se avesse detto: «Auschwitz è un orrore assoluto che io condanno», avrebbe ottenuto l’assoluzione. «E noi oggi non staremmo qui a doverci chiedere quali affinità, quali sincronie di pensiero, quali comunanze di radici la sua esperienza di pensiero possa avere con il fenomeno ancora impensato del nazismo».47 Si è avvolto nel silenzio, incapace di trovare una parola che provenisse da quel che aveva pensato e che fosse all’altezza di ciò che era accaduto. È un’ammissione, quella della mancanza di linguaggio, ed è un silenzio che lascia in eredità, insieme all’obbligo di pensare e dire Auschwitz. Sulla sua copia del Meridiano, là dove Celan prende distanza da Entsprechen, Heidegger ha scritto a margine Ent-sagen con un trattino. In questa parola è racchiuso forse il silenzio di Heidegger. Ent-sagen significa rinunciare, abdicare – un’abdicazione che è anche una ab-negazione. Ma nel termine tedesco è compreso Sagen, dire. Heidegger non rinuncia a dire, ma lascia la parola al poeta. Celan attendeva da Heidegger un kommendes Wort, una parola a venire; Heidegger sapeva che quella parola spettava invece a Celan. Era come se gli rivolgesse un’ingiunzione in cui risuonava un suo famoso verso: Sprich auch
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Du, sprich als letzter, sag Deinen Spruch – «Parla anche tu, parla per ultimo, di’ il tuo motto».48 Era come se gli dicesse traducimi, se tradurre vuol dire redimere.
3. «La fabbricazione di cadaveri» e l’indifferenza ontica Heidegger, però, non ha realmente taciuto. E, anzi, ha parlato in diverse circostanze, in modo diretto o, più spesso, indiretto. I suoi due famosi saggi La lettera sull’«umanismo» del 1947 e La questione della tecnica del 1953, tanto più se riletti a partire dai Quaderni neri, appaiono insieme una sorta di apologia e un tentativo di rispondere alle questioni filosofiche sollevate dalla Shoah. Una prima circostanza si presenta quando il suo ex allievo Marcuse, che aveva dovuto emigrare perché ebreo, nel dopoguerra era tornato per un breve periodo in Germania ed era andato a trovare Heidegger a Todtnauberg; di ritorno negli Stati Uniti, il 28 agosto 1947 gli scrive per sollecitarlo a intervenire pubblicamente. Lieber Herr Heidegger, Lei è considerato l’intellettuale che ha sostenuto il regime in modo più incondizionato […]. Molti di noi hanno atteso a lungo una Sua dichiarazione […]. L’abbiamo ammirata come filosofo e da Lei abbiamo imparato una infinità di cose […]. Ma un filosofo non può sbagliarsi su un regime che ha annientato milioni di ebrei – solo perché ebrei.49
La risposta è consegnata a una lettera del 20 gennaio 1948, nella quale Heidegger ribadisce che nessuna «ritrattazione» è possibile e ripete: «dal nazionalsocialismo mi aspettavo un rinnovamento spirituale di tutta la vita». E prosegue: A proposito delle giuste e pesanti accuse che Lei esprime «su di un regime che ha ucciso milioni di ebrei, che ha fatto del terrore la normalità e ha trasformato nel suo contrario tutto ciò che ha realmente a che fare con i concetti di spirito, libertà, verità, posso solo aggiun-
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gere che al posto di “ebrei” si può scrivere “tedeschi dell’est” [statt “Juden” “Ostdeutsche”], e varrebbe allora ugualmente [genauso] per uno degli alleati, con la differenza che tutto ciò che accade dopo il 1945 è noto agli occhi del mondo, mentre il sanguinoso terrore dei nazisti è stato di fatto tenuto nascosto al popolo tedesco.50
Marcuse a sua volta risponde il 13 maggio 1948, non senza aver ricordato nell’incipit il «20 gennaio», la data che forse con disattenzione il suo maestro aveva apposto alla sua lettera, ma che lui ricordava bene, perché il 20 gennaio 1942 aveva avuto luogo la conferenza di Wannsee. Noi conoscevamo perfettamente la situazione – forse ancora meglio di chi scriveva in Germania. […]. Noi sapevamo, e anch’io sapevo, che l’inizio conteneva già la fine, era già la fine. […] Lei, il filosofo, ha confuso la liquidazione del Dasein occidentale con il suo rinnovamento? […]. Lei ha scritto che tutto ciò che io ho detto sullo sterminio degli ebrei potrebbe valere per gli alleati, se al termine “ebrei” sostituissimo quello di “tedeschi dell’est”. Con questa affermazione Lei non si pone forse fuori dalla dimensione in cui è ancora possibile un dialogo, fuori dal lógos? Perché solo fuori dalla “logica” è possibile spiegare, relativizzare, “comprendere” un crimine, sostenendo che gli altri hanno fatto lo stesso. E ancora: com’è possibile mettere sullo stesso piano la tortura, la mutilazione, l’annientamento di milioni di esseri umani e il trasferimento forzato di gruppi di popolazione che non hanno sofferto nessuno di questi oltraggi?51
Da quando questo carteggio privato è stato reso pubblico, ha dato adito a una accesa discussione.52 Dinanzi alla posizione di Heidegger sarebbe forse lecito limitarsi a un «si commenta da sé», come qualcuno ha fatto. Ma è evidente che si pongono qui complessi problemi filosofici e politici. Anzitutto perché viene avallata la teoria dei due totalitarismi, sviluppata, com’è noto da Arendt. Il nazismo sarebbe simile allo stalinismo, i crimini dell’uno sarebbero paragonabili a quelli dell’altro, al lager farebbe riscontro il gulag. Giustamente Marcuse sottolinea la differenza fra i crimini e denuncia la mossa di Heidegger che mette «sullo stesso piano», che dice genauso – gli ebrei come i tedeschi dell’est.
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Si capisce perché alcuni hanno visto nella risposta di Heidegger l’inizio del cosiddetto Historikerstreit, la disputa tra storici, filosofi e intellettuali, che ha avuto luogo in Germania a metà degli anni ottanta.53 Viene infatti inaugurata una strategia che riprende l’idea, ben documentata nei Quaderni neri, di una guerra difensiva della Germania contro il giudeobolscevismo, facendo degli ebrei gli effettivi vincitori del conflitto planetario (non importa se scomparsi in milioni) e dei tedeschi gli sconfitti che, battutisi eroicamente, ad armi impari (perché gli ebrei, con l’inganno, avrebbero fatto combattere altri), sono stati vittime della brutale furia alleata. Quando Heidegger parla dei «tedeschi dell’est» si riferisce anche ai bombardamenti al fosforo di Dresda. Vincitori e sconfitti sono, per così dire, temporanei, non definitivi. Questa strategia narrativa, molto diffusa in quegli anni, ha inoltre il pregio di mantenere la coltre di nebbia che avvolge i lager e soprattutto le camere a gas.54 Occorre tuttavia sottolineare che, nell’immediato dopoguerra, lo sterminio degli ebrei d’Europa, per quanto tragico, appare ovunque un evento fra i tanti nella devastazione complessiva. Mentre i superstiti tacciono, e i persecutori approfittano della rimozione, la coscienza europea non riesce a scrutare nell’abisso della soluzione finale. La singolarità di Auschwitz viene diluita negli altri crimini.55 È Hannah Arendt a svolgere un ruolo decisivo. Perché intuisce quel che è avvenuto, l’eccidio industrializzato, ed è la prima a parlare, già nel 1946, di «fabbriche della morte».56 Per un verso comprende sempre più chiaramente che ciò a cui si mirava, nei lager, era la «trasformazione della natura umana».57 Per altro verso, però, lo sterminio le appare l’epilogo della civiltà tecnologica, di quella organizzazione burocratica del mondo in cui si era imposto il dominio totalitario. Proprio il concetto di totalitarismo, suggerendole il nesso fra nazismo e stalinismo,
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le due facce dello stesso fenomeno, le impedisce di cogliere la differenza tra campo di concentramento e campo di sterminio. Così prende il Vernichtungslager per una variante aggravata del sistema concentrazionario. Ai primi di dicembre del 1949 Heidegger viene invitato a tenere un ciclo di conferenze nella sala del municipio della Libera città anseatica di Brema. Le conferenze si intitolano: La cosa (Das Ding), Il dispositivo (Das Gestell), Il pericolo (Die Gefahr) e La svolta (Die Kehre). Dinanzi a un pubblico devoto, desideroso di lasciarsi alle spalle la complicità con il nazismo e di guardare, con l’inquietudine dettata dalla guerra fredda, alle nuove sfide del futuro, Heidegger affronta la questione della tecnica e delinea il concetto di Gestell, impianto, dispositivo, destinato a influenzare profondamente la filosofia dei decenni successivi.58 L’esoterico Gestell ha già fatto il giro della Germania, quando Heidegger lo riprende nella celebre conferenza sulla tecnica, tenuta a Monaco nel 1953. Con il suo stile oracolare lancia l’allarme e descrive la minaccia che la tecnica rappresenta non solo per l’essere umano, ma anche per la natura. Perfino «la coltivazione dei campi è stata presa nel vortice»; l’agricoltura «è diventata industria meccanizzata dell’alimentazione».59 Il testo si ferma qui. Ma a Brema, nella seconda conferenza, aveva aggiunto: L’agricoltura è oggi industria alimentare meccanizzata, che nella sua essenza è lo Stesso [das Selbe] della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio, lo Stesso [das Selbe] del blocco e dell’affamamento di intere nazioni, lo Stesso della fabbricazione di bombe all’idrogeno.60
L’industrializzazione dell’agricoltura sarebbe, dunque, im Wesen, nell’essenza, lo stesso della Fabrikation von Leichen in Gaskammern und Vernichtungslagern, che a sua volta sarebbe lo stesso del «blocco», a cui può essere sottoposta una nazione, e lo stesso delle bombe a idrogeno.
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Questo passo è stato definito «scandalosamente insufficiente» da Lacoue-Labarthe.61 E di «scandalo» hanno parlato in molti.62 Oscena e inaccettabile è apparsa la riduzione al medesimo dell’«incommensurabile»: la morte di milioni di vittime e la motorizzazione. Non si tratta evidentemente di un paragone estemporaneo, perché «lo Stesso», che si ripete in questo passo, riprende il genauso della lettera a Marcuse. La provocazione è intenzionale. Ma è Heidegger a provocare? O non è forse il dispositivo della tecnica? E il filosofo non si limita invece a portare alla luce il potere livellante del dispositivo? D’altronde non sostiene tesi analoghe anche Adorno?63 Sotto questo aspetto Heidegger non farebbe altro che risalire all’essenza della tecnica che si cela dietro questi fenomeni. Per quanto possa sembrare oltraggioso, agricoltura meccanizzata, sterminio, bomba all’idrogeno mettono allo scoperto un medesimo ingranaggio incontrollabile. Chi rifiuta il paragone, si sottrae alla logica sottesa, evita ciò che lo scandalo dà da pensare; così chiude però gli occhi anche sul pericolo che incombe. Il richiamo al pensiero è ambivalente: per un verso Heidegger può rivendicare una riflessione sullo sterminio; per l’altro sembra come se, chi non ne segue la scia, non possa cogliere il fenomeno nella sua profondità. Ma anche qui, come nei Quaderni neri, Heidegger procede a una astrazione dettata dalla storia dell’Essere. Dall’altezza essenziale della tecnica le sue manifestazioni diventano inessenziali. È questo l’esito di una differenza ontologica esasperata e irrigidita: la storia dell’Essere si scinde dagli eventi storici e politici che sono consegnati a una indifferenza ontica. Null’altro conta al di fuori dell’estraneazione dell’esserci dall’Essere. E come l’Ebreo, accusato di quell’estraneazione, veniva lasciato cadere, così sotto lo sguardo livellatore e anestetizzante del filosofo dell’Essere lo sterminio è un avvenimento come un altro, onticamente indifferente.
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Nella Storia dell’Essere non c’è posto per le grida soffocate delle vittime.64 Non c’è posto per l’orrore né per il trauma. Come se la Storia dell’Essere procedesse spietatamente imperturbabile, votata a una inclinazione metafisica che appare in continuità con Nietzsche, con Hegel, perfino con Platone.65 Di qui il disinteresse ontologico di Heidegger verso la Shoah. Una volta messo allo scoperto il dispositivo tecnico, lo sterminio diventa filosoficamente irrilevante.66 Se Heidegger avesse scorto la singolarità di Auschwitz, se lo avesse riconosciuto come evento traumatico, avrebbe lasciato che quel trauma spezzasse le coordinate ontologiche, mandasse in frantumi la Storia dell’Essere. Ma nel suo orizzonte notturno, segnato dalla luce lontana che dovrebbe illuminare la terra del mattino, nessuna intrusione ontica può interrompere quella destinazione, neppure l’eclisse dell’umano.
4. Il massacro ontologico. Parmenide e Auschwitz Se metafisica è la questione ebraica, metafisica è anche la soluzione. Proprio per questo non può essere una liquidazione provvisoria, temporanea; deve essere finale, definitiva, mettere termine a quell’interminabile problema degli ebrei che ha assillato e inquietato la storia dell’Occidente. La Endlösung si inscrive come tale in uno scenario apocalittico di finis historiae. Lo sterminio non è l’espulsione dal confine geografico, ma l’eliminazione dal limite del mondo e dalla storia del mondo. È lo sterminio del termine stesso. Tutto deve essere cancellato nell’oblio assoluto. Come se nulla fosse stato, come se nessun ebreo fosse mai esistito. Il massacro viene perpetrato perciò all’insegna di un annientamento che non deve lasciare traccia. Sin dall’inizio è avvolto dal silenzio e dall’oscurità. Nacht und Nebel,
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«notte e nebbia», le parole che, in una scena dell’Oro del Reno di Wagner, vengono pronunciate da Alberich, il re dei Nibelunghi, mentre scompare coprendosi con un elmo magico, diventano la sigla – NN-Aktion, NN-Transport, NN-Häftling – per indicare la sparizione senza tracce delle vittime.67 NN voleva dire, dunque, non solo notte e nebbia, ma anche nulla. Il bellum judaicum si svolge dietro le quinte, della scena politica e di quella storica, si compie grazie al rumore delle altre guerre, che serve a coprire il crimine silenzioso nel cuore dell’Europa. Che nemici sono gli ebrei? E che guerra è quella contro di loro? Sono nemici non degni di una vera e propria guerra, avversari cui non vengono tributati né le luci del confronto né l’onore delle armi. Una volta respinti in una Menschentümlichkeit, in una sfera al contempo al di qua e al di là dell’umano, li si stermina in nome di una non appartenenza alla «specie umana», li si elimina in quanto Ebrei.68 La scena in cui vengono annientati non è quella tragica ed eroica del fronte di guerra, ma è la scena scialba e ignobile in cui vengono liquidati i rifiuti, una scena industriale, come quella di una normale produzione, di una ordinaria catena di montaggio, allestita secondo l’ingranaggio della tecnica. Non vengono usate armi convenzionali, né agisce un esercito, ma si ricorre al gas, amministrato entro un’operazione di nettezza urbana, di smaltimento del superfluo e dell’im-mondo. L’inumano pervade e segna il massacro che avviene senza spargimento di sangue. Così, paradossalmente, quell’essenza metafisica, in cui si era preteso di cogliere l’arcano dell’ebraismo, e che degli ebrei aveva decretato la condanna a morte, non svolge alcun ruolo nella liquidazione, non scorre, non sgorga fuori, quasi a significare che quelli che vengono eliminati non sono viventi, ma inessenziali enti, già sempre destinati, per la loro Andersartigkeit, al non-essere.
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Il massacro ontologico suggella, in un silenzio metafisico, questo non-essere. Gli inessenziali, segregati e resi invisibili, vengono annientati senza sapere dell’annientamento, avvolti dalla menzogna, che li accompagna sino alla camera a gas. Dalla Empangszeremonie alla Entwesung, dalla «cerimonia d’accoglienza», cioè le percosse e le ingiurie riservate a coloro che scendono dai vagoni, alla burocratica «disinfestazione», gli eufemismi, che coprono l’oscenità cruda e atroce, scandiscono e occultano lo sterminio. La menzogna è d’altronde la condanna che si confà all’Ebreo, che ha mentito, ha dissimulato, facendo finta di essere quel che non è. Nel non-essere dell’Ebreo, risuona già, minaccioso, l’annientamento. Le innumerevoli metafore, apparentemente innocue, spesso coniate anche dai filosofi, vengono prese alla lettera nella soluzione finale. Ma questo prendere alla lettera è stato il lavoro dei boia nell’organizzazione burocratica dei campi. Lo sterminio, che non ha obbedito a nessuna logica, né politica, né economica, né sociale, né militare, risponde all’ontologia e si inscrive nella storia della metafisica occidentale. In questo senso, come ha sostenuto LacoueLabarthe, «nell’apocalisse di Auschwitz si è rivelato né più né meno che l’Occidente nella sua essenza».69 Occorre certo guardarsi da un gesto, troppo spesso ripetuto, che con una certa disinvoltura scarica la responsabilità delle catastrofi etico-politiche del ventesimo secolo sulla «metafisica occidentale».70 Ma indubbiamente, dopo i Quaderni neri, Auschwitz sembra più che mai connesso con l’oblio dell’Essere. E appare non ingiustificata l’associazione tra due soglie: quella descritta nel poema di Parmenide e quella di cui parla Primo Levi al suo arrivo nel lager. Lì è la porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno, un architrave e una soglia di pietra la puntellano.71
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Poi l’autocarro si è fermato, e si è vista una grande porta, e sopra una scritta vivamente illuminata (il suo ricordo ancora mi percuote nei sogni): ARBEIT MACHT FREI, il lavoro rende liberi.72
Perché dunque Parmenide a Auschwitz? Che cosa legherebbe i suoi frammenti alla testimonianza di Primo Levi? È un interrogativo che dovrà restare aperto, forse solo in forma di suggestione.73 La via che Levi è costretto a prendere, dopo aver varcato la soglia, ricorda quella interdetta dalla Moira, la via del non-essere. In quei frammenti di Parmenide, più volte commentati da Heidegger, vengono distinte tre vie: quella che dice «che è», in greco ésti, la via dell’essere; quella che dice «che non è», ouk ésti, la via del non-essere; infine quella dei mortali che parlando mescolano essere e non-essere e perciò vivono fuori dalla verità. La seconda via non è indagabile, perché non è neppure percorribile: il «non è» non esiste, perciò non può a rigore neppure essere pensato né essere detto. Parmenide si trincera dietro l’unico lógos possibile: ésti, è. Per salvare il lógos, e anche la filosofia, Platone commette un famoso parricidio. A parlare è, non per caso, lo «straniero di Elea», che contro Parmenide mostra che il non-essere in certo modo è, perché dire che una cosa non è non significa necessariamente che non esiste, ma che è altro da: «il non essere non è opposto all’essere, ma solo qualcosa d’altro».74 Così dalla negatività assoluta, dall’inesistenza del nulla negativo, si passa alla negatività che rinvia all’altro e all’esistenza dell’altro, héteron. È un passaggio epocale: l’essere altro entra a far parte della filosofia attraverso una espropriazione dell’identità dell’essere compiuta con la domanda sovversiva dello straniero. Ma l’essere di Parmenide resta in agguato, pronto ad assurgere a sostantivo, con la maiuscola e l’articolo.75 Allora questo Essere, che dimentica di non essere che un semplice verbo, impedisce di rico-
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noscere l’altro e minaccia, per purificarsi, di condannarlo al non-essere.
5. «Muoiono? Non muoiono, vengono liquidati...» Sono stati i sopravvissuti a delineare una fenomenologia della vita nei campi della morte. Ma la questione forse più complessa, che ritorna tormentosamente nelle testimonianze, è proprio quella sulla morte. Che cos’era quella fine nella sparizione della cenere e del fumo? E in che modo quella presenza incombente mutava profondamente ogni giorno, ogni ora, ogni istante della vita nel lager? In Essere e tempo Heidegger aveva dischiuso un nuovo modo di guardare alla morte. Mentre la maggior parte dei filosofi prima di lui avevano speculato sull’al di là, sull’immortalità dell’anima, su una vita dopo la morte, Heidegger si interroga sulla morte dal di qua. Non esiste una morte in generale; la morte è ogni volta mia, tua, sua – ogni mortale è confrontato con l’angosciante possibilità di non essere più. La morte non è un fatto, bensì una possibilità, è anzi la possibilità più propria dell’esserci.76 Nel rapporto con la morte si decide l’autenticità stessa dell’esistenza. Di solito si fugge dal pensiero della morte, si tende a rimuoverla. Si segue supinamente la chiacchiera che fa apparire la morte un perenne «non-ancora», che tocca gli altri e non il sé, che è un anonimo «si muore».77 Proprio la fuga, però, rivela che ciascuno ha una certezza non empirica, ma esistenziale della morte. Ecco che allora ci si può liberare dalle illusioni e precorrere la morte, anticiparla – che è il modo per pervenire a sé, per essere autentici. Occorre allora vedere nella morte non quell’evento che pone fine al corso della vita, che ne limita la linea temporale.78 La morte accompagna sempre l’esistenza: l’essere umano è già sempre vecchio per morire, è
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anzi già sempre morente. Il rapporto con la possibilità più estrema dell’esistenza – questo vuol dire essere-per-lamorte – consente all’esserci di assumere la propria finitezza e di guardare al complesso delle proprie possibilità pervenendo a sé, proiettandosi nel futuro. È questa l’autenticità. I «mortali», die Sterblichen, come aveva detto Hölderlin, sono coloro che non periscono semplicemente, come gli animali, ma muoiono.79 La morte non è un decesso, bensì un trapasso. «Tutti sanno, credo, che il prigioniero del lager non viveva porta a porta, ma addirittura nella stessa stanza con la morte».80 Mentre si interroga su quel fenomeno peculiare, che è il morire nel campo di annientamento, Améry dichiara il crollo della «concezione estetica della morte» e critica l’essere-per-la-morte di Heidegger. Nel lager ci si occupava non della morte, ma del morire. Quando si è liberi, si può pensare alla morte senza necessariamente essere angosciati dal morire. Nel lager era impossibile. «Il morire era onnipresente, la morte si sottraeva».81 Si esisteva dunque quotidianamente per la morte, o meglio, per la messa a morte, con l’angoscia di soffocare con il gas, mentre della “morte” si veniva privati. Ha scritto Primo Levi: «si esita a chiamare morte la loro morte».82 Nei campi non solo la vita non è più vita, ma la morte non è più morte. Tuttavia, per comprendere l’offesa arrecata alla dignità della morte, è necessario ricorrere a Heidegger che, per quanto paradossale sia, offre le coordinate ontologiche. Lo sterminio è stato una produzione a catena, una «fabbricazione di cadaveri», perché la morte è stata ridotta a decesso. Centinaia di migliaia muoiono in massa. Muoiono? Periscono. Sono uccisi. Muoiono? Diventano «pezzi di riserva» di una riserva della fabbricazione di cadaveri. Muoiono? Sono liquidati con discrezione nei campi di sterminio. Anche senza arrivare a tanto, in questo momento in Cina a milioni cadono in miseria e crepano di fame.83
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L’annientamento ha significato soprattutto questo: che la morte è stata preclusa. Di qui la domanda: «muoiono?», Sterben sie? Piuttosto, diventati Bestandstücke, «pezzi di riserva», come tali vengono unauffällig liquidiert – liquidati senza dare l’occhio, in modo inosservato. In questa liquidazione della questione ebraica ciò che viene trattato nelle officine hitleriane è già stato ridotto a pezzo di riserva. Le SS chiamavano gli internati Stücke, pezzi, e per i cadaveri parlavano di Figuren. L’Ebreo figurale, ridotto a «figura», espulso dal consesso umano, non più mortale, non più ritenuto degno di morire, non ha il diritto di morte. La sua morte è ungestorben, «non morta».84 L’orrore che Auschwitz ha introdotto nella storia del mondo non sta solo nell’annientamento, né solo nel numero delle vittime, ma nell’offesa arrecata alla dignità della morte.85 L’idea che il cadavere meriti rispetto, e dunque l’idea della sepoltura, fa parte del patrimonio etico dell’umanità. L’odore nauseabondo che usciva dai camini dei forni crematori è il segno dell’oltraggio supremo che Auschwitz ha inferto alla dignità dei mortali.
6. Il dispositivo, la tecnica, il crimine. Sulla responsabilità Esito estremo della metafisica, la tecnica non è uno strumento neutrale che si possa impiegare a vantaggio di una umanità emancipata. Concepita in vista del dominio e del controllo, si rovescia nell’opposto. Ciò appare chiaro, ad esempio, nel rapporto con la natura, dove il produrre dell’uomo, quel Bestellen, quel richiedere continuo, che ne provoca le energie, e fa della natura stessa una riserva da impiegare, diviene un meccanismo incontrollabile, un Gestell, un dispositivo, un ingranaggio, un impianto che si impone.86 Il soggetto moderno, che crede, attraverso la tecnica, di poter disporre di tutto, viene ine-
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sorabilmente scalzato. Il progettista diventa il progettato. Scopre di essere l’oggetto di una produzione illimitata, un fondo di riserva nell’ordine stabilito, un vuoto a rendere, una volta che sia stato impiegato e consumato. Nelle conferenze di Brema il pensiero di Heidegger ruota intorno al Gestell che definisce «l’essenza della tecnica».87 Un porre provoca l’altro – senza più limite. La tecnica è, d’altronde, il dominio dell’illimitato. Ciascuna cosa, ma anche ciascun essere umano, diventa «riserva», Bestand, sussiste cioè nell’ingranaggio, ordinato e, a sua volta, costretto, a ordinare. L’umano appartiene così all’ordine dell’ordinare fine a se stesso, il cui solo fine è l’assicurarsi di una ordinabilità che torna costantemente a ripresentarsi uguale. Pezzo segregato nell’impianto, l’uomo, divenuto «funzionario di un ordinare», la cui sussistenza ha il solo scopo di porre qualcos’altro, diventa rimpiazzabile. La disumanizzazione di un essere, che Heidegger chiama unmenschlich, inumano, per significare che, nonostante tutto, non si trasformerà in macchina, viene delineata sullo sfondo del lager. Dice infatti: «uomini e donne debbono “presentarsi” [sich stellen] a un lavoro obbligatorio [Arbeitsdienst]. Sono comandati, cioè colpiti da un ordine che li comanda, ossia li precetta. Uno comanda l’altro. Lo sollecita. Lo colloca».88 Per un verso Heidegger, delineando il dispositivo, e il suo funzionamento, non apre le porte del lager, ma fa luce sull’«ordine» che lo governa. In tal modo rende perspicuo il nesso complicato fra tecnica e Shoah (ma anche fra tecnica e nazismo, nonché tra Shoah e metafisica).89 Tuttavia, per altro verso, mentre diviene chiaro il dispositivo di fondo, che ordina ontologicamente anche il campo, e che nel campo potrebbe trovare il suo esito parossistico, si perdono di vista le differenze ontiche che potrebbero, però, mettere in crisi quella descrizione ontologica.
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Anzitutto quale campo si intende? Un campo di concentramento oppure di sterminio? Sebbene sia Heidegger che Arendt parlino di «fabbriche della morte», la distinzione non era nota e certo era anche occultata dal concetto di totalitarismo che finiva per mettere sullo stesso piano Auschwitz e la Kolyma.90 La prima questione riguarda dunque la singolarità di Auschwitz, che lo rende un evento senza precedenti, anche all’interno degli altri crimini nazisti, e perciò difficilmente riducibile ad altri genocidi. La seconda questione riguarda il tema della banalità del male, che si innesta agevolmente nel dispositivo ed è l’esito della riflessione di Heidegger. Se non è che un «funzionario dell’ordine», Eichmann può in effetti essere visto come il prototipo della banalità del male. Se però è così, se nel campo erano tutti Angestellte, impiegati, chi era allora responsabile? Si apre una pericolosa falla nel filo spinato, tra carnefici e vittime. E questo spiega perché, sulla scia di Heidegger, ma anche di Arendt, si possa parlare della Shoah come la conseguenza del dispositivo e si possa concludere con una non meglio precisata morte di Dio nel campo. Alla prima domanda si deve rispondere che, malgrado la continuità, la differenza tra il campo di concentramento e quello di stermino è qualitativa. Entrambi sono universi di morte; ma la morte ha un ruolo del tutto diverso. Il sistema dei campi di lavoro si compendia nello sfruttamento schiavistico in vista di obiettivi precisi; i deportati, in Unione Sovietica, venivano impiegati per disboscare intere regioni, costruire ferrovie e linee elettriche, edificare aree urbane. Il cardine del campo era il lavoro; la morte era un accidente previsto, ma non programmato. Nei campi di sterminio la morte era al contempo il cardine e la finalità immediata. La maggior parte degli ebrei, una volta scesi dalle rampe, veniva indirizzata direttamente al gas. Il rendimento era basato sul numero
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dei morti: quanti più cadaveri producevano le officine hitleriane, tanto più ne veniva elogiata la resa. Anche quando, per lo sforzo bellico, sarebbero servite risorse umane, ebbe sempre la priorità lo sterminio.91 Il terrore assoluto non produsse nulla, perché era solo un’opera di distruzione.92 Senza precedenti è dunque lo sterminio per lo sterminio, che si sottrae non solo a ogni logica, ma a ogni economia. Ma senza precedenti è anche il “crimine contro l’umanità”, un concetto che è poi stato ripreso e impiegato in modo diffuso. La questione riguarda direttamente la filosofia. L’ebreo ridotto a Muselmann, l’essere umano in dissolvimento, mero fascio di funzioni fisiche, pur restando umano, viene respinto in una zona che di umano non ha più nulla, diventa il luogo di un esperimento mai compiuto prima, in cui l’essere che si pretende non-umano, viene trasformato in non-uomo. Così l’umanità è stata messa in questione. Benché la vita umana abbia lo stesso valore, differenti sono i processi che hanno portato alla morte e differente è la morte stessa. Il processo di industrializzazione della morte segna un cambiamento di qualità. Il dispositivo delle camere a gas, che assume il rituale della tecnica, ha permesso di avviare il progetto planetario di rimodellamento biopolitico dell’umanità. Infine lo sterminio è senza precedenti perché le camere a gas hanno introdotto l’anonimato dei carnefici e hanno frantumato la responsabilità. Chi faceva entrare le vittime nelle camere a gas? Chi versava lo Zyklon B? Il Sonderkommando ha rappresentato in tal senso una feroce invenzione. Presi dai loro compiti specialistici, svolti con puntuale solerzia, i nazisti restavano distanti dal risultato finale delle loro azioni. Il lavoro mediato ne agevolava l’impresa rendendoli indifferenti al materiale umano che contribuivano a eliminare. Così distoglievano con facilità lo sguardo, sottraendosi al faccia a faccia con le loro vittime.
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Si apre qui la questione della responsabilità. Arendt attira l’attenzione sul criminale nazista trincerato dietro la propria scrivania. In quel massacro amministrativo non è stato che una rotella in un ingranaggio che avrebbe funzionato anche senza di lui. Eichmann le appare perciò un esempio di scandalosa stupidità, un grigio impiegato, rimasto fedele al giuramento fatto nell’assunzione del suo ufficio. «L’ideologia nel suo caso non ha avuto, credo, una grande importanza».93 D’altronde i criminali nazisti non avevano forse sostenuto di essersi limitati a eseguire gli ordini? Come poteva essere allora condannabile un criminale che era solo un funzionario? Diversa è la posizione di Anders che critica perciò Heidegger. L’introduzione del «mostruoso» è stata consentita senza che alcuna resistenza venisse opposta. A questo proposito parla di «regole infernali»: «se ciò verso cui si dovrebbe reagire diventa smisurato, allora si inceppa anche il nostro sentire». Diventiamo «analfabeti emotivi». «Sei milioni per noi rimane una cifra, mentre se si parla di dieci assassinati forse in noi riecheggia qualcosa, e un solo assassinato ci riempie di orrore».94 Perché la responsabilità ha a che fare anche con l’immaginazione. Ma si tratta – sottolinea Anders – di una «sfruttata discrepanza»: l’impotenza della nostra immaginazione è stata voluta e proficuamente sfruttata dagli Eichmann che dirigevano l’annientamento.95 E avverte: «la via della responsabilità e la via della spietatezza si biforcano irrimediabilmente».96 La linea tra i carnefici e le vittime è ben marcata. Qui non c’è, né ci può essere, alcuno spazio per una correità o per una corresponsabilità. 7. Se è possibile perdonare un Rav A partire dal processo di Norimberga, mentre affiora l’entità dei crimini, che sembrano eccedere la giustizia umana, si apre la questione – ancora aperta – del per-
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dono. Se è pressoché unanime l’accordo sulla necessità che quei reati siano dichiarati imprescrittibili, l’esigenza del perdono, tacitamente fatta valere presto anche in Germania, è un tema che, coinvolgendo aspetti filosofici, politici e teologici, divide e fa discutere. Da parte dei filosofi e teologi cristiani si rimprovera agli ebrei, talvolta tra le righe, talaltra più esplicitamente, di non sapere dimenticare e di non voler perdonare – rispolverando così la vecchia teologia della sostituzione che pensa l’ebraismo come vendetta e il cristianesimo come amore. La risposta da parte ebraica non si fa attendere. Per i filosofi è l’occasione per prendere posizione sulla peculiarità dello sterminio, ricondotto e spesso ridotto ad altri crimini. Il nome di Heidegger appare inaggirabile. La filosofia ebraica è sollecitata a rispondere: è possibile perdonare chi avrebbe dovuto comprendere più degli altri, quel pensatore «geniale», quel «Rav» come lo chiama Lévinas? In una lettera alla moglie, scritta da Todtnauberg il 12 agosto 1952, Heidegger parla di un breve saggio di Martin Buber, che ha appena letto. Si tratta della conferenza, Hoffnung für diese Stunde, tenuta a New York in quello stesso anno, in cui Buber attinge alla sua filosofia del dialogo per intervenire sui contrasti e conflitti internazionali.97 Heidegger commenta: Il semplice perdonare e chiedere perdono non è sufficiente. Riconciliare [Versöhnen, Versühnen] appartiene all’espiare [Sühnen], il che significa propriamente: placare [Stillen] – ricondursi l’un l’altro alla quiete della mutua essenziale appartenenza.98
Buber aveva trattato la filosofia di Heidegger sia nel libro del 1948 Il problema dell’uomo sia, con accenti più critici, nell’Eclissi di Dio del 1953. Finirono per incontrarsi nel 1959 sull’isola di Mainau, nel lago di Costanza, entro una cornice ufficiale. Buber raccontò in seguito:
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Abbiamo parlato dell’essenziale. Il passato non è superato. […] Senza perifrasi abbiamo affrontato il tema della colpa e del perdono, anche della colpa del pensiero.99
Nel 1971 Vladimir Jankélévitch pubblica il pamphlet con il titolo Perdonare? All’interrogativo risponde con un altro interrogativo: «Ma ci hanno mai chiesto perdono?». Chiama in causa Heidegger: «gli intellettuali e i moralisti tedeschi non hanno nulla da dire […]. Sono troppo occupati dall’“esserci” e dal “progetto esistenziale”». E conclude con una celebre frase: «il perdono è morto nei campi».100 In una lezione talmudica, che muove dal trattato Yomà, Lévinas affronta il tema del perdono, senza mai prescindere dalla Shoah. Nella sua forza di gravità il perdono scandisce l’anno ebraico. Nel rito di Kippùr le colpe perdonate sono anzitutto quelle commesse verso Dio. Più complessa appare la riconciliazione con l’altro. Dice la Mishnà: «le colpe dell’uomo verso Dio sono perdonate nel giorno di Kippùr; le colpe verso gli altri non gli vengono perdonate nel giorno di Kippùr, se prima non abbia placato l’altro».101 L’ebraismo pensa il perdono, ma non lo semplifica. Il perdono può essere concesso solo dalla parte lesa. Dio può perdonare le offese fatte a Dio, ma non può perdonare le offese fatte all’uomo. E non c’è un perdono per procura. L’offesa all’individuo non è cancellabile in nome di un assoluto che assolve. Nessuno può essere costretto al perdono. E nessuno, neppure Dio, può perdonare al posto, insostituibile, della vittima. «Forse Dio altro non è – scrive Lévinas – che questo permanente rifiuto di una storia che si mette a sesto sulle nostre lacrime private».102 La ferita inferta all’altro incrina l’equilibrio del mondo. Dio non può farsi carico del peccato commesso dall’uomo, non può annullarne la responsabilità. «Se Chaninà non poteva perdonare Rav, giusto e umano, tanto meno si può perdonare Heidegger».103
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Analoga è la posizione che Derrida assume nel saggio Perdonare, pubblicato nel 2004, dove, denunciando l’equivoco di un perdono confuso con il l’oblio e il lavoro del lutto, indica la necessità di pensare un perdono che, senza dimenticare, mentre vieta ogni assoluzione, non perdona che l’imperdonabile.104
8. Il cugino Gross e il cugino Klein. Ebrei e somiglianze di famiglia Qual è stata la risposta dell’Ebreo allo “spirito” della metafisica che era andato costruendo il proprio edificio intorno alla purezza dell’Essere, lasciando il resto immondo alla traduzione nel nulla? Gespräch im Gebirge, un breve saggio di Celan, scritto nell’agosto 1959, dopo l’incontro mancato con Adorno in Engadina, è un autodafé non estorto e insieme una delle riflessioni più significative sull’essere-ebrei dopo Auschwitz.105 Il Gespräch tesse allusioni e reminiscenze letterarie: il Lenz di Büchner, la Escursione in montagna di Kafka, lo Zarathustra di Nietzsche, il Sermone della montagna, il Dialogo sui monti di Martin Buber – per citarne solo alcune. Ma è soprattutto una risposta ai filosofi, a Hegel non meno che a Heidegger. La Shoah, mai menzionata, fa da sfondo all’incontro tra l’ebreo piccolo Klein e l’ebreo grande Gross – suo cugino «più vecchio di lui di un quarto di vita di ebreo».106 Sin dall’inizio l’Ebreo si presenta con lo spregiativo Jud, il nome dell’incriminazione. E, a ben guardare, non è un Ebreo, ma sono due ebrei: Gross, l’ebreo occidentale, che rappresenterebbe Adorno, Klein, l’ebreo orientale, che dovrebbe essere Celan. Una sera che il sole, e non soltanto lui, era tramontato, si mise in cammino, uscì dalla sua casupola e si mise in cammino l’ebreo, l’ebreo e figlio di un ebreo, e con lui camminava il suo Nome, l’Impronunciabile.107
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L’ebreo Klein giungeva trascinando il passo sulla pietra, poggiandosi al suo bastone, facendosi sentire, «mi senti?», camminava sotto la nuvolaglia, «nell’ombra, la propria e quella altrui – denn der Jud, perché l’ebreo, tu lo sai, che cos’ha che gli appartenga veramente, che non sia preso in prestito, preso in prestito e non più restituito»? Come non riconoscere l’accusa di Hegel: gli ebrei «consideravano tutto non come una proprietà, ma come un prestito, mentre come cittadini erano tutti un nulla»?108 L’ebreo avrebbe in proprio di non avere proprietà. «Juif n’est pas juif» – commenta Derrida.109 Che ne è ora di quel giudizio dialettico-ontologico? L’ebreo Klein proseguì il suo cammino e gli si fece incontro l’ebreo Gross – anche lui se ne venne «nell’ombra, presa a prestito – perché, così io domando e domando, quale ebreo, dato che Dio l’ha fatto tale, può venirsene con un’ombra tutta sua?». L’ombra accomuna Klein e Gross che, però, sono diversi e sono in disaccordo. Gross possiede un grande bastone con cui ordina a Klein di azzittire il suo. La filosofia – seguitando a parlare – ordina alla poesia di tacere. Tutto ammutolisce. «Così tacque anche la pietra, ed era silenzio nella montagna, dove loro andavano, l’uno e l’altro». Ma può il silenzio durare tra ebrei – quei «chiacchieroni»? Quando un ebreo incontra un altro ebreo, allora «è presto finita con il silenzio, anche in montagna».110 Tra silenzio e ebraismo c’è refrattarietà. Perché il silenzio – come hanno sottolineato Rosenzweig e Benjamin – è profondamente radicato nel tragico, in quella dimensione tutta greca dell’eroe, solo e ribelle, che naufraga urtando contro il muro invalicabile senza trovare la via d’uscita della parola.111 Il silenzio dura poco. E il dialogo riprende – dopo Auschwitz. «Quassù la terra si è piegata, si è inarcata una volta e due e tre, e si è aperta nel mezzo».112 La pietra, muta come i morti che ebraicamente «protegge», non
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sembra rivolta a nessuno, perché «nessuno e Nessuno» l’ascolta; eppure «parla» e, senza bocca e senza lingua, dice solo: Hörst Du? (ascolti?). Una domanda, un’ingiunzione, un rinvio allo Shemàh.113 Il cammino del cugino Gross e del cugino Klein, il tentativo di sgretolare un’idea monolitica dell’Ebreo, di offrire una visione polifonica e concreta, era una strategia che aveva cominciato ad essere seguita già decenni prima. Per secoli i filosofi ebrei, da Moses Mendelssohn a Hermann Cohen, avevano accettato l’universalità della ragione di Kant e avevano dovuto giustificare il proprio ebraismo, relegato a una sfera privata e particolare. La difficoltà, per gli ebrei tedeschi, di mantenere un nesso tra due appartenenze, che sembravano sempre più inconciliabili, fu il tema di un ampio e tormentato dibattito.114 Anche tra i più convinti fautori della «simbiosi ebraicotedesca» si diffuse l’esigenza di essere al contempo ebrei e tedeschi. Senza il trait d’union, senza la «e» che congiungeva, rimarcando però la differenza, quella simbiosi sarebbe diventata un frutto ibrido e precario. Era questa la posizione di Rosenzweig che fu presto consapevole della difficoltà di concettualizzare l’ebraismo. Per definire gli ebrei ogni categoria si rivelava inadeguata, perché finiva per valere anche quella opposta. Gli ebrei, ad esempio, sono un “popolo”? Alla domanda, che gli era stata rivolta dal direttore della “Jüdische Rundschau”, Rosenzweig rispose in uno dei suoi ultimi interventi, apparso nell’agosto 1928. Gli ebrei sono anche un popolo; sono qualcosa di meno e qualcosa di più. Rispetto al concetto di popolo ebraico noi ci troviamo nella situazione intricata, ma molto ebraica, di quel chazàn il quale, interrogato da un tribunale su che cosa fosse lo shofàr, dopo molto tergiversare e molti giri di parole, spiegò alla fine che si sarebbe trattato insomma di una sorta di tromba; dopo che l’esasperato giudice gli ebbe chiesto perché mai non l’avesse detto subito, ribatté: «ma è poi una tromba?».115
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Mentre si cerca di definirlo con i concetti, l’ebraismo ne fa saltare i limiti, provoca perplessità e dubbi più che legittimi sul “concetto” stesso, e dunque sulla metafisica astratta, statica, essenzialistica. Sorge allora l’esigenza di un «nuovo pensiero» che non si pieghi più alla filosofia di Aristotele o a quella di Hegel, ma metta in crisi l’intera tradizione occidentale. Per una via diversa, solo qualche anno dopo, nel 1931, interrogandosi sul suo cripto-ebraismo, Wittgenstein giunge a una riflessione analoga. Riprende l’immagine antisemita dell’Ebreo, «privo di anima» e incapace di «originalità creativa», non per confutarla, ma per distruggere quegli idoli che sono l’anima, l’origine e la creatività. Con ironia rivendica la diffamazione hitleriana, ne fa l’apertura di una nuova filosofia. Il genio ‘ebreo’ è solo un santo. Il più grande pensatore ebreo non è che un talento. (Io, per esempio). Vi è del vero, credo, se ritengo che nel mio pensiero io sia solo riproduttivo. Temo di non aver mai inventato un corso di pensiero; al contrario, mi è sempre stato dato da qualcun altro. Io l’ho solo afferrato con passione per la mia opera di chiarificazione.116
La «riproduttività dello “spirito ebraico”», non è che la capacità dell’ebreo, che «deve “fondare la sua causa su nulla”», di coniugare vecchio e nuovo, di ridire il già detto con un nuovo ritmo, di aprire vie trasversali, scorgere «somiglianze di famiglia», per giungere ogni volta a una visione d’insieme, una Übersicht.117 È questo uno dei punti chiave delle Ricerche filosofiche. Che la questione dell’identità ebraica abbia suggerito a Wittgenstein il celebre esempio della «fune»? Nel paragrafo 67 viene smontato non solo il concetto di “identità”, ma anche il concetto di “concetto”. Dietro una definizione concettuale non esiste mai una identità, che è un mito, bensì nessi e somiglianze. È come in una fune: anche se non c’è un unico filo che corre «per tutta la sua lunghezza», pure la fune tiene, grazie al sovrapporsi e intrecciarsi di molte
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fibre.118 Questo vale anche per l’“ebreo”. Tanti cugini sono legati e connessi in una corda – che può essere il popolo ebraico. Se all’inizio degli anni trenta Wittgenstein aveva osservato che «nella cultura occidentale l’ebreo viene sempre valutato secondo metri che non fanno per lui», il contrasto va approfondendosi fino a esplodere dopo la Shoah.119 Sottomesso all’Essere, al destino, all’origine, al lógos, alla ratio, all’aut aut, l’ebreo che resta si presenta sulla scena della storia non come un residuo arcaico e ingombrante della «questione» che la modernità non ha del tutto risolto, bensì come un resto inassimilabile – che rinvia alla possibilità di un oltre. Viene meno, in questo rinvio, l’alternativa tra particolarismo e universalismo entro cui per secoli l’ebreo è stato ingabbiato. La singolarità incancellabile dell’ebraismo non è la condanna al particolare di un’esistenza chiusa, il limite di un destino difficile; mostra, al contrario, l’apertura che evita alla civiltà occidentale la deriva di un universalismo totalitario e totalizzante. I principi che la filosofia ha ritenuto validi non hanno retto alla prova di Auschwitz, dove il limite etico ha perso ogni senso di fronte alla degradazione assoluta dell’umano, alla privazione della dignità, non solo della vita, ma persino della morte. Per la prima volta viene denunciato il tratto violento della filosofia occidentale: la volontà di appropriarsi dell’altro, di assimilarlo, fagocitarlo, annientarlo. Auschwitz è l’esito ultimo di un totalitarismo ego-centrico, sempre vittorioso sulle differenze altrui, dove il sapere si è identificato con il potere, quello di un soggetto che ha preteso di essere il legislatore dell’universo.120 Da Lévinas a Derrida, sebbene con accenti diversi, pensare dopo Auschwitz significa uscire da una sintassi autistica per avviarsi non verso una libertà astratta, bensì verso una liberazione che, come quella dell’esodo, si rea-
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lizza ogni volta con l’altro. L’esodo è il passo in fuori compiuto da un sé consapevole di essere sempre preceduto dall’altro che lo convoca, lo interroga, a cui è chiamato a rispondere. Non per un atto di adesione volontaria, ma perché è in quel volgersi che si costituisce come io, senza altra possibilità di scelta. E come l’altro precede il sé, così la responsabilità precede la libertà. Questa inversione del cammino è la sovversione ebraica che segna la rottura nell’asse dell’Essere. Secondo la celebre formula di Lévinas, il movimento dall’essere all’altro vuol dire non tanto un essere altrimenti, quanto, e ben di più, un «altrimenti che essere».121 Sotto questa luce essere ebrei appare l’eccezionale precarietà di una condizione che si fa carico della incompiutezza del mondo segnato dall’esigenza della giustizia. Come se il compito dell’ebreo fosse lo squarcio nell’essere imperturbabile, la dissidenza pronta a denunciare l’in-umano nascosto, o addirittura giustificato, da un universale sempre in procinto di chiudersi. La domanda sull’essere ebrei rivela qui la sua ampiezza e la sua profondità. Non si tratta di mantenere in vita un resto arcaico; piuttosto è il resto che dischiude all’Occidente il varco di un oltre. Judeité è la parola che Derrida oppone a Judentum e che indica quell’«esperienza esemplare» dell’ebreo «attraversato dal tormento dell’identità» – non una difficoltà, bensì il merito di rinviare alla falla di ogni pensiero identitario. «Juif – ebreo sarà l’altro nome di questa impossibilità di essere sé».122 Costretto dall’Essere alla «decisione», fino al sangue e fino alla cenere, l’ebreo rivendica l’«indecidibilità», quel paradosso dell’essere ebreo che, a ben guardare, si rivela la responsabilità e il privilegio di mantenere allo stesso tempo la pretesa alla universalità e l’affermazione della singolarità.123 Nel paesaggio ebraico, delineato da Derrida, rabbini e poeti, entrambi traduttori, pur nella differenza irriducibile tra poema e commento, lavorano nell’erranza, tra il
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grido e la scrittura, per interdire la «ripetizione nazista», per mostrare l’irraggiungibilità dell’arché, per decostruire il mito dell’inizio.124 La Torà si apre con beth, la seconda lettera dell’alfabeto, non con la prima, aleph. Sulla disseminazione an-archica, che compare già in Bereshit, torna ossessivamente tutta la tradizione ebraica. Nel racconto chassidico Il primo foglio a Rabbi Levi Yitzhak di Berdičev viene chiesto: «Perché in tutti i trattati del Talmud babilonese manca il primo foglio e si deve iniziare con il secondo?». Rabbi Levi Yitzhak risponde: «Per quanto un uomo abbia studiato, deve sempre ricordarsi che non è ancora arrivato al primo foglio».125
9. L’oblio dell’ebraico. Il debito occultato In diverse circostanze, nell’ultimo tratto del suo cammino, Heidegger ha indicato nell’oblio dell’essere «l’esperienza fondamentale» della sua riflessione.126 Ma dopo la svolta, l’oblio diviene sottrazione. L’oblio dell’essere non viene imputato ad altri; piuttosto è l’essere stesso che si sottrae. Il passaggio è considerevole: il sottrarsi – dice ora Heidegger – è il movimento stesso dell’essere. Così l’essere si presentifica assentandosi, si manifesta nascondendosi, si dona sottraendosi – e lascia che l’ente venga ogni volta ad essere. L’oblio dell’essere «appartiene all’essenza dell’essere stesso».127 Nei Quaderni neri, però, l’oblio dell’Essere viene imputato all’Ebreo. Se l’Essere è scivolato nella dimenticanza, se è irrimediabilmente entificato, la colpa va attribuita all’Ebreo e alla sua complicità con la metafisica. Perciò la “questione ebraica” è questione metafisica. Questo vuol dire che l’Ebreo è insediato per così dire nel cuore del pensiero di Heidegger, nel centro della questione per eccellenza della filosofia. L’Ebreo non è dunque figura marginale. Heidegger lo incontra in un punto cruciale del
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suo cammino, a una svolta decisiva. Ma d’altra parte proprio l’Ebreo appare un ostacolo insormontabile che impedisce l’accesso a quegli ambiti dove solo è possibile la decisione per l’Essere.128 All’Ebreo, inscritto nella questione dell’Essere, viene ascritto l’oblio dell’Essere, la colpa più grave, la più imperdonabile.129 In questa colpa si avverte l’eco di un’altra, più antica, e però inconfondibile, quella del deicidio. Come nella teologia l’Ebreo era il responsabile della morte di Dio, così nell’ontologia è il responsabile dell’oblio dell’Essere. Si deve allora sollevare finalmente un interrogativo: che oblio è quello dell’Ebreo? Non si cela, forse, dietro il genitivo soggettivo un genitivo oggettivo? L’oblio imputato all’Ebreo non nasconde, a ben guardare, un oblio che lo precede? E che con un volteggio, una giravolta, si vorrebbe nascondere? Non si accusa per scusarsi e prevenire ogni imputazione? E non occorre allora portare alla luce l’oblio che riguarda l’Ebreo, cioè l’ebreo e l’ebraico dimenticati, cancellati, di cui sarebbe Heidegger a dover rispondere? In welche Sprache setzt das Abend-Land über? – «In quale lingua si traduce la Terra della Sera?».130 La domanda era stata sottolineata da Celan che l’aveva incontrata nella sua lettura dei Sentieri interrotti.131 Se la lingua di quella Terra del Mattino, che si scorgeva in lontananza, non era il greco, decostruito da Heidegger, alla ricerca di un altro inizio, sarebbe stato forse l’ebraico la lingua del passaggio indispensabile e periglioso in cui avrebbe dovuto tradursi la Terra della Sera? Era l’ebraico l’avvenire immemoriale dell’Occidente? Per rispondere occorre riandare a una ammissione di Heidegger che, nel celebre colloquio con il giapponese, riferendosi alla teologia e all’ermeneutica dice: La mia familiarità con il termine “ermeneutica” risale al tempo in cui studiavo teologia. Il problema che allora soprattutto mi tormentava era quello del rapporto tra la parola della Sacra Scrittura e il pensiero teologico-speculativo. Era, se vuole, lo stesso rapporto che tra lin-
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guaggio ed Essere, solo velato e per me inaccessibile così che, tra giri e sviamenti, invano cercavo un filo conduttore. […]. Senza questa provenienza teologica mai sarei giunto sul cammino del pensiero. Ma la provenienza resta sempre futuro.132
In questa «provenienza» non viene riconosciuto solo il debito verso la teologia; con l’avversativo, aber, «ma», si dice che il congedo dalla teologia non si è mai davvero compiuto.133 Il luogo da cui prende avvio il cammino di Heidegger è il villaggio di Meßkirch, nella regione del Baden, dove il cattolicesimo aveva radici profonde e improntava la vita quotidiana. La torre campanaria, la magia dei suoi rintocchi, affidati all’arte antica del padre sacrestano, si staglia nei ricordi di Heidegger. Qui, nella sua bottega, mio padre si affaccendava assorto, nelle pause dal suo servizio all’orologio della torre e alle campane che, entrambi, hanno un rapporto peculiare con il tempo e con la temporalità.134
Un breve, significativo scritto del 1954 è addirittura dedicato alla torre campanaria, alla sua «fuga» musicale, che scandisce l’esistenza, distingue giorni di lavoro e giorni di festa, che mentre dà il rintocco, raccoglie e conserva, bis zum letzten Geläut ins Gebirge des Seyns, fino all’ultimo rintocco nel riparo dell’Essere. La fuga carica di mistero in cui si armonizzavano le feste liturgiche, le vigilie, e il corso delle stagioni e le ore di ogni giorno, quelle mattutine, meridiane, serali, sicché costantemente uno scampanare attraversava i giovani cuori, i sogni, le preghiere e i giochi – quella era la fuga che con uno dei segreti più magici, più sacri, più durevoli del campanile, offriva riparo, per farne dono in forme sempre mutate e irripetibili, sino all’ultimo rintocco, nel riparo dell’Essere.135
In questi due passi autobiografici è compendiato il nesso inscindibile che, nonostante i profondi dubbi, le crisi, le rotture, ha legato Heidegger a quel mondo cattolico delle sue radici, della sua infanzia, ma anche dei suoi primi studi. Dopo la maturità, nel settembre del 1909, Heidegger era entrato nel prestigioso collegio dei gesuiti presso
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Feldkirch; ma lo aveva abbandonato dopo appena cinque giorni. Si era poi iscritto alla Facoltà di teologia di Friburgo. Aveva cominciato a leggere Franz Brentano: lo appassionava la possibilità che l’essere, pur essendo uno, si dicesse in molti modi. La scolastica faceva parte della sua formazione. Al 15 agosto 1910 risale il testo di una conferenza pronunciata per l’inaugurazione di un monumento a Abraham a Santa Clara, il monaco agostiniano nato nel 1644 a Kreenheinstetten, vicino Meßkirch. Predicatore efficace, dalla parola accesa, Abraham – il cui nome tedesco era Johannes Ulrich Megerle – aveva raggiunto un’enorme popolarità; ma era anche l’autore dell’opera Judas der Erzschelm in cui, mentre tratteggiava la figura del traditore di Gesù, denunciava nell’ebreo il nemico dei cristiani, la causa della peste e di ogni altro flagello. Il suo antisemitismo, tuttavia, non era più violento di quello di altri contemporanei o dello stesso Lutero. Non vi era comunque un rinvio a ciò nell’intervento di Heidegger, che coglieva in realtà l’occasione per scagliarsi contro i tempi moderni, contro «la foga di rinnovamento che tutto capovolge».136 L’incontro, in seguito, con il teologo Carl Craig, l’ultimo esponente della scuola speculativa di Tubinga, lo spinse ad allontanarsi dalla scolastica: Tommaso e Suarez lasciarono il posto a Hegel e a Schelling. A suo modo Heidegger partecipò al Modernismus-Streit che esplodeva in quegli anni: tentò di difendere la dottrina cattolica tradizionale dagli attacchi dei moderni.137 Nell’inverno del 1911 cambiò Facoltà e si iscrisse a matematica, dove tutto gli sarebbe riuscito più facile, essendo particolarmente dotato per il calcolo infinitesimale. Tuttavia continuò a seguire Craig e, dopo aver scoperto Schleiermacher e Dilthey, studiò Nietzsche, Kierkegaard, Dostoevskij, si dedicò alla lettura di Rilke e Trakl. Il passaggio ulteriore alla Facoltà di filosofia segnò anche la distanza dal cattolicesimo. La sua tesi di abilitazione su Duns Scoto,
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discussa nel 1915, giustificò questa distanza anche filosoficamente: il concetto scolastico di trascendenza gli sembrava assoluto, sciolto dall’individuo e dalla sua vita. «Immanenza e trascendenza sono concetti di relazione».138 Alla scolastica Heidegger rimproverava di aver perduto il legame con la mistica. Solo per la vuota critica della cultura la mistica equivale all’irrazionale. «Il chiacchiericcio sulla mistica, in cui è definita ciò che è “senza forma”, non è che uno sparlare basato su metodi di fondo non scientifici».139 L’avvicinamento al protestantesimo, segnato dal confronto decisivo con Lutero, gli dischiuse un cammino verso l’interiorità dove, accanto a Meister Eckhart, figuravano anche Teresa d’Avila e Bernardo di Chiaravalle.140 A documentarlo è un corso preparato nel 1918, ma poi non tenuto, I fondamenti filosofici della mistica medievale, in cui Heidegger punta l’indice contro lo «sbarramento dogmatico» del cattolicesimo, che si afferma solo con l’esercizio di una oscura autorità e una «violenza poliziesca», una Polizeigewalt, soffocando ogni originaria esperienza di vita.141 Hodie legimus in libro experientiae – «Oggi intendiamo muoverci nell’ambito dell’esperienza con l’intento di comprenderla».142 Così Heidegger riprende le parole di Bernardo. E aggiunge in ultimo quelle di Teresa d’Avila: «“poiché ciò che voglio esporre è molto difficile e oscuro, se non è data alcuna esperienza”».143 Sintetizza così il nuovo compito: la descrizione fenomenologica della vita religiosa.
10. Dove si nasconde Paolo Solo nel 1995 sono stati pubblicati, nell’edizione delle opere complete, i corsi universitari tenuti da Heidegger tra il semestre invernale del 1920 e quello estivo del
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1921, con il titolo Phänomenologie des religiösen Lebens. Da allora il volume, tra i più frequentati e discussi, è diventato quasi un bestseller. Dopo una lunga parte introduttiva, dove vengono delineati concetti, come quello di «indicazione formale», destinati ad avere importanti ripercussioni, Heidegger interpreta alcuni scritti di Paolo di Tarso: la Lettera ai Galati, la Prima e la Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Tocca però anche altre lettere e tratta molti temi contenuti nei vangeli, nei sinottici e in quello di Giovanni: dal Regno alla legge, dalla parusia all’escatologia. Al corso su Paolo segue quello sul X libro delle Confessioni di Agostino; il volume si chiude con le pagine sulla mistica. L’annuncio, l’inquietudine, la tensione permeano la vita cristiana, quella delle «origini» e quella dell’oggi, richiamano all’attesa della parusia, alla veglia per il kairós, quell’istante che giungerà improvviso. In breve: «l’esperienza cristiana vive il tempo stesso (“vivere” inteso come verbo transitivo)».144 Impossibile non riconoscere già qui il rintocco della campana, il ritmo della temporalità, in cui l’esserci, gettato nella sua fatticità storica, è spinto a proiettarsi nel futuro. Dal messaggio di Paolo si allontanerebbe in seguito Agostino che, introducendo una gerarchia fra visibile e invisibile, strappa la vita alla sua inquietudine temporale, offrendole dimora nel sommo bene.145 Testimone di un tempo altro, presto dimenticato nel tempo greco e in quello moderno, scanditi da una linearità estranea alla vita, il Paolo di Heidegger è una figura complessa e ambigua.146 L’apostolo dei gentili sarebbe il vero fondatore del cristianesimo – non Gesù di Nazareth. Paolo vuol dire di essere giunto al cristianesimo grazie a un’esperienza originaria, non attraverso una tradizione storica. A ciò si ricollega una controversa teoria, discussa nella teologia protestante, secondo cui Paolo non avrebbe avuto coscienza storica di Gesù di
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Nazareth, ma avrebbe fondato una sua nuova religione cristiana, un nuovo protocristianesimo, destinato a dominare il futuro: la religione paolina, non la religione di Gesù. Non c’è bisogno quindi di tornare al Gesù storico. La vita di Gesù è del tutto indifferente.147
Nelle pagine di Heidegger torna l’idea di una rottura, di un Bruch: «importante! Frattura completa con il precedente passato», con «forme di religione precedenti come quella giudaico-farisaica».148 Paolo diventa allora l’iniziatore, colui che inaugura una nuova religione, richiamando a una esperienza originaria. Negli anni in cui Heidegger scrive, il dibattito intorno a Paolo varca già i confini della teologia e assume contorni politici. Di lì a poco si sarebbe posta la difficile scelta dei teorici del nazionalsocialismo: chi è Gesù, chi è Paolo? Chi è il fondatore del cristianesimo? Che fare di entrambi? La domanda è alla fin fine: come liquidare l’ebraismo? La possibilità di una contaminazione spinge a posizioni radicali. Nel 1924 Eckhart fa di Paolo il fondatore del giudeobolscevismo.149 Se in alcuni casi si giunge a rivendicare un Gesù non ebreo, un Cristo ariano, in altri si epura anche Paolo, e in altri ancora si fa a meno di entrambi e del cristianesimo.150 L’imbarazzo, com’è noto, è molto antico: sta nell’esigenza del cristianesimo di separasi dall’ebraismo per presentarsi come una nuova religione. Siccome storicamente non si dà alcuna cesura, la via più semplice è prescindere dalla storia. È questa la via seguita da Heidegger che indica quel fittizio momento iniziale nell’«esperienza originaria» di Paolo. Salva dunque Paolo e lascia cadere il Gesù storico. Soprattutto parla di Urchristentum, che in italiano viene tradotto con «protocristanesimo». Nel testo ricorre spesso anche l’aggettivo urchristlich – ad esempio «religiosità protocristiana». Ma che cosa significa questo prefisso? In che modo potrebbe essere assunto acriticamente? Ur- è il segno di una cesura, di un taglio netto con ciò che esisteva prima, è il tentativo di coprire, di occul-
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tare, ed è infine un prefisso che si erge metafisicamente a rivendicare l’origine e l’originarietà. In italiano è il protoche, mentre si estende indietro per inglobare, si fa avanti, avanza il diritto di essere primo, reclama la primogenitura. Il cristianesimo originario sarebbe quello delle comunità primitive, dei credenti intorno a Paolo, che però non sapevano, a ben guardare di essere cristiani. Paolo stesso non è, né sa di esserlo, dato che si chiama Saul, figlio di Baruch, della comunità ebraica di Tarso, ebreo figlio di ebrei, fariseo figlio di farisei, allievo del famoso rabban Gamaliel. Che ne è dell’ebraismo nel testo di Heidegger? Che ne è dell’ebraico? Con difficoltà si rinvengono tracce sparse, residui di una meticolosa cancellazione. Si tratta ogni volta di riferimenti negativi: «Paolo è in lotta con gli Ebrei», la «peculiare posizione originaria» di Paolo va separata dalla sua «argomentazione rabbinico-giudaicoteologica»; la legge è «ciò che fa dell’Ebreo un Ebreo» e di qui il «confronto tra legge e fede»; ricondurre le «rappresentazioni escatologiche» al tardo ebraismo, e poi a quell’antico, non vuol dire «spiegare» Paolo, perché importante è il «contesto originario».151 Senza dubbio Heidegger non è il solo a compiere questa rimozione. Era un gesto relativamente diffuso. Tuttavia non può non lasciare interdetti che Heidegger sostenga: «il testo greco originale è l’unico che possa essere assunto come base, sicché una reale comprensione presuppone che si entri nello spirito del greco neotestamentario».152 Dato che il «cristianesimo originario» deve essere fondato su se stesso, l’Urtext è il greco. Non importa che il greco delle lettere sia evidentemente una lingua tradotta e derivata, costellata di segnali che rinviano a uno sfondo ulteriore, a una retro-lingua, all’ebraico che la impronta e la contamina.153 Non importa che le numerose citazioni lascino affiorare testi altri e più
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antichi e che Paolo stesso tradisca la sua provenienza traducendosi in greco. «Ma non è greco, è jiddish!» – è la battuta riportata da Taubes a proposito della lingua di Paolo.154 Heidegger legge quei testi «con il genio del ressentiment», ma appunto con ressentiment.155 Quello «jiddish» lo infastidisce, lo inquieta. Così lo oblitera. E nei suoi corsi comincia da un Urtext neotestamentario. Il che avviene peraltro negli anni in cui, proprio in Germania, e proprio tra i filosofi, si fa più acuta la coscienza del testo ebraico. Buber e Rosenzweig si convincono della necessità di ritradurre in tedesco la Torà, per arginare la teologia della sostituzione e per far riemergere l’originale coperto dal tedesco di Lutero. Come spiegare d’altronde che Heidegger, il quale ovunque applica la Destruktion, demolisce gli strati della metafisica, lavora sulle parole, le riporta alle etimologie, e smantella così i concetti tradizionali, si fermi invece al greco, per di più quello neotestamentario, assumendolo come Grund, base e fondamento della sua interpretazione? La mossa di Heidegger ha un valore teologico: separa il greco dall’ebraico, il Nuovo Testamento dall’Antico Testamento. Esclude la Torà; circoscrive la «Bibbia» solo ai testi, scritti in greco, del canone neotestamentario che, con un passo ulteriore, viene ridotto a pura esperienza di fede. Da un canto la fede evangelica, anzi la fede cristica, dall’altro il pensiero greco. Il che vuol dire anzitutto che non esisterebbe un pensiero biblico, tanto meno un pensiero ebraico (si pensa ad Atene, non a Gerusalemme). Ma significa anche che il tratto originale del cristianesimo si risolve nell’afflato della fede, pur essendo la teologia cristiana un amalgama tra metafisica greca e cristianesimo dell’origine. Tuttavia il filosofo, per mestiere, non ha immediatamente a che fare con la fede, può prescinderne, occupandosi di questioni filosofiche, che sono quelle poste
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dai greci. Ciò peraltro non vieta che, all’occorrenza, volendo trarre ispirazione dalla «fede», non ci possano essere brevi incursioni in quei territori. Questo paradigma è tutt’altro che insolito presso i filosofi. Quel che suscita inquietudine, nel caso di Heidegger, è che si spinge all’esclusione della Bibbia ebraica e all’eliminazione di ciò che è ebraico dall’Occidente. Così sarebbe lecito chiedersi – come ha fatto Ricœur – perché, «pur essendo giunto a pensare a partire dal Vangelo e dalla teologia cristiana, abbia sempre evitato il massiccio ebraico che è l’estraneo assoluto rispetto al discorso greco». Nessun «passo indietro» qui, per riconoscere «la dimensione radicalmente ebraica del cristianesimo».156 Perché Hölderlin e non i salmi? Certo si potrebbe far valere il pretesto dell’erudizione: non è detto che si debba sapere l’ebraico e saper leggere, dunque, i testi dell’Antico Testamento. È possibile che, anche negli ambienti colti della teologia cristiana, non si conoscessero né la lingua né, tanto meno, le fonti ebraiche. Chi frequentava la famosa Graeca di Bultmann a Marburgo poteva non avere accesso a quella tradizione. Già nella teologia era d’altronde in atto una rimozione. Tuttavia, si può non conoscere l’ebraico, ma non si può non riconoscere che l’ebraico esiste, è la lingua coperta dal greco, che occorrerebbe riportare alla luce. Heidegger tace sull’ebraico. Che questo silenzio preannunci già quelli successivi? La figura dell’apostolo viene delineata in modo suggestivo e inedito. Perché non sarebbe legittimo trarre ispirazione da quella vita cristiana delle origini che viene descrivendo fenomenologicamente? A lasciare perplessi non è solo l’ermeneutica che, anziché far parlare il testo, indietreggiando il più possibile, si ferma a un Urtext e lo innalza metafisicamente a barriera. Il paradosso è che ciò che è stato consegnato all’oblio da un canto, si ripresenta dall’altro ammantato di originalità e novità.
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Che cos’è quel tempo altro, a cui Paolo chiama, se non il tempo ebraico? Da dove viene il monito a non calcolare i giorni, i mesi, a lasciare aperta l’attesa di quel che deve avvenire, e che giungerà, subitaneo e improvviso, per coloro che vegliano e vigilano? Chi ha chiamato a quell’agire più elevato che non è un fare né un rappresentare, ma un restare in attesa? Heidegger svuota i contenuti ebraici mantenendo l’esperienza del tempo – e del linguaggio – l’annuncio, l’attesa. Nel famoso saggio Gelassenheit riprende, ad esempio, la differenza tra Erwarten, aspettare e Warten, attendere: si aspetta qualcosa di rappresentato e determinato, mentre nell’attesa si lascia aperto ciò che si attende.157 Eppure i riscontri sono ben leggibili.158 Così quando Heidegger ricorda il modo in cui Paolo parla del «giorno del Signore che giunge come un ladro di notte».159 A questo proposito Zarader ha parlato di «debito impensato».160 La componente ebraica, passata sotto silenzio, ritorna, senza essere identificata, in punti strategici, tornanti decisivi del cammino di Heidegger: la concezione del linguaggio, quella della storia, il tema dell’interpretazione, della sottrazione, del nulla, dell’abbandono, perfino della temporalità.161 Zarader si chiede allora: «con quale diritto, e a partire da dove, Heidegger può parlare di un “oblio” inerente alla metafisica e quindi di un impensato?».162 Se Heidegger tace sul «massiccio ebraico», per poi però attingervi, il suo rapporto deve essere «segreto, dissimulato».163 Quando Zarader scrive, il debito può ancora apparire impensato – nel senso ambiguamente produttivo di questo termine. Eppure, dopo aver considerato alcune di queste eclatanti convergenze, e aver rinviato a Böhme, a Schelling e a quella linea del pensiero tedesco che incontra la Kabbalah, Zarader conclude sostenendo che il sogno del greco cancella l’ebraico e l’Occidente di Heidegger è «misteriosamente purificato».164
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11. Il futuro dell’Essere e il Nome ebraico A partire dai Quaderni neri l’oblio dell’ebraico e l’esclusione della Torà appaiono piuttosto un debito occultato. Un oblio rende più perspicuo l’altro: all’Ebreo viene imputato l’oblio dell’Essere, perché già prima è stato esautorato dalla narrazione di Dio. Dio e Essere: nel modo di intendere questo rapporto, entro cui si protende l’Occidente e la sua storia, si compie l’oblio degli ebrei, dell’ebraico, dell’ebraismo. Heidegger si interroga sulla questione dell’Essere per ripensare quella di Dio. Ma di quale Dio parla? Non del Dio dei filosofi, quell’Ente supremo che corona la metafisica, ma neppure del Dio dei cristiani. «La fede non ha bisogno di pensare l’essere».165 La distruzione dell’ontoteologia sembrerebbe spingerlo verso una costellazione radicalmente nuova. È quella dischiusa dalla verità dell’essere, alla cui luce si può pensare «l’essenza del sacro» e si può «pensare e dire che cosa debba nominare la parola “Dio”».166 Così il Dio di Heidegger è quello annunciato dal poeta che ne predispone il passaggio; su questo passaggio veglia il filosofo. Dopo aver preso le mosse dalla teologia, per risalire alla fede, estranea al pensiero, Heidegger apre infine il pensiero alla possibilità di un altro Dio. Grazie al poeta, Dio ritorna dunque nella prossimità del pensiero. Al tedesco Gott, parola dall’etimo incerto che contraddistingue le lingue germaniche, Heidegger affianca non di rado il latino Deus e soprattutto il greco theós, riconducibili all’indoeuropeo *deiwa, che indica la luminosità della volta celeste, da cui Zeûs, deus, divus.167 Che si parli di Gott o di Dio, in entrambi i casi si usa un nome comune che designa una classe di esseri superiori, o l’unico residuo di una serie di dèi. La tradizione della metafisica occidentale si è accontentata di eliminare l’articolo
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e introdurre la maiuscola per marcare l’unicità di Dio. Ma il nome comune “Dio” mantiene saldo il legame con gli dèi. L’ostacolo che, nei secoli, ha reso ardua la traduzione della Torà in greco, e poi in altre lingue, è il Tetragramma, le lettere ebraiche yod-he-vav-he: YHVH, che costituiscono il Nome di Dio. Non è possibile pronunciare il Tetragramma, cioè vocalizzarlo, perché significherebbe voler afferrare e oggettivare Dio, renderlo un ente tra gli altri, seppure supremo. Nel testo ebraico il Tetragramma segna una interruzione verticale. Ma il Nome non può essere proferito anche perché l’esatta pronuncia, segretamente conservata, si è dileguata nel segreto della tradizione. Così perfino nel Tetragramma non è inscritta un’origine. Pur non essendo pronunciabile, il Tetragramma è un Nome proprio e ha un significato che viene rivelato poco prima dell’esodo dall’Egitto. Gli anni di schiavitù hanno spento negli ebrei la speranza, hanno affievolito il ricordo del Dio dei loro padri che a lungo sembra essersi allontanato dalla scena della storia. Eppure, a Mosè che si è inoltrato achar hamidbàr, in un luogo che è già di là dal deserto, ma anche di là dalla parola, Elohìm dei padri, mentre chiama all’uscita, quasi in un patto teologico-politico con il popolo, rivela il proprio Nome. Ehjeh Asher Ehjeh, «Sarò colui che sarò». E aggiunge: «Ehjeh, Sarò mi manda a voi».168 L’ermeneutica ebraica, sulla base delle lettere comuni, vede nel Tetragramma una sintesi della locuzione «Sarò colui che sarò». Interrogato sul proprio Nome, Dio risponde con un verbo, anzi con il doppio futuro del verbo essere. Ma in questo futuro il verbo essere è all’imperfetto, indica un’azione non compiuta, un presente che rinvia a un avvenire aperto. Dio rinuncia alla identificazione e lascia che tra i due futuri si incida una differenza che il pronome asher mantiene. Sarò colui che sarò lascia
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aperta ogni definizione alla imprevedibilità infinita dell’a-venire, alla esperienza umana del tempo. Interpretando si potrebbe riformulare così: «Io sarò colui che voi vorrete che io sia» – «l’a-venire del mio essere dipenderà da voi». Lo scarto tra i due futuri è quello della grammatica del tempo umano in cui Dio si lascia declinare e coniugare per proiettarsi sul filo della storia. Heidegger non fa mai allusione al Tetragramma. È un lettore della traduzione greca dei Settanta. «La sua lingua d’accesso alla Bibbia è quella dell’oracolo di Delfi».169 In quella lingua dio è etimologicamente apparentato ai demoni. Il Tetragramma gli resta precluso perché non compie quel passo indietro che l’ermeneutica gli suggerirebbe. E resta lontano dalla rivelazione dell’Altro che si dà nel «sarò» di un imperfetto futuro.
12. Un paesaggio pagano Heidegger si incammina verso un paesaggio pagano dove, all’ombra dell’Essere, dovrebbe manifestarsi un altro dio. È un paganesimo avvertito con chiarezza da Jonas che osserva: «non è un caso che gli dèi ricompaiano nella sua filosofia. Ma dove ci sono gli dèi, non può esserci Dio».170 L’ebraismo desacralizza il mondo, toglie la magia, rompe con l’idolatria, distrugge numi e dèi mitici. Il Dio di Israele non è né la sommità né l’unificazione di una specie – è l’assolutamente Altro. Rispetto al divino che quegli dèi incarnano, rispetto al cedimento cristiano verso l’immanenza del sacro che si spazializza, l’ebraismo si avvicina quasi all’ateismo, perché chiede di intendere Dio da lontano, di cercarlo a partire dalla separazione. Dubbio, solitudine, rivolta sono già stati ogni volta attraversati. Pagani sono i muri di pietra della Mesopotamia, i geroglifici scolpiti nelle pietre d’Egitto, i miti astrali che dise-
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gnano l’anno cosmico, le saghe nordiche che descrivono il ciclo della natura, e pagani sono infine gli dèi greci in cui quei miti confluiscono. Una stella è una dea, un fiume è un dio. La ricerca del numinoso e del sacro è pagana, perché è l’incapacità di uscire da un mondo, ripiegato su di sé, dove, in un tragico abbattersi di eventi, non si attende che quell’eterno ritorno dell’uguale. «Tale simbolo torna ad affiorare alla fine della storia d’Europa, quando la sostanza apocalittico-cristiana si è consumata».171 Heidegger partecipa al nuovo paganesimo europeo, dove la componente antigiudaica, prendendo il sopravvento, spinge il cristianesimo a potenziare, accrescere, rivalutare i propri residui pagani. Come ha scritto Lyotard, «il dio di Hölderlin-Heidegger è pagano-cristiano, è il dio del pane, del vino, della terra e del sangue».172 Perciò è un Dio che muore. Ma il Nome, o il Senza-Nome, non può morire. La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», che risuona nel Discorso di rettorato, fu in seguito giustificata da Heidegger: «introdussi questa sentenza per ragioni essenziali […]. Significa: il mondo soprannaturale, segnatamente il mondo del Dio cristiano, ha perduto ogni forza attiva nella storia».173 Ma Dio non è il «soprannaturale», che si definisca a partire dalla natura, né una forma estetica. «Dio non può, non deve morire (e rinascere) che in un pensiero della natura, un dionisismo, un orfismo, un cristianesimo in cui il momento nichilista della crocifissione venga rimesso».174 In tal senso l’ultimo Heidegger, non meno del primo, «resta saldamente legato alla sacralità, ignora del tutto il Santo».175 Ha senso la sentenza «Dio è morto» dopo Auschwitz? Non pochi la ripetono, spesso sbadatamente, come se fosse il refrain del nichilismo che spiegherebbe tutto, anche lo sterminio. Per Lacoue-Labarthe è «quanto evidentemente Heidegger non ha mai detto. Ma tutto fa
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pensare che avrebbe potuto dirlo, se davvero l’avesse voluto».176 Il Dio che muore inquieta, e la scena della crocifissione è inquietante, perché rievoca il deicidio, rilancia occultamente accuse, imputazioni, sentenze di morte – come se i gassati fossero vittime di un olocausto, come se avessero dovuto espiare. Se un dio è morto in quell’apocalisse, è stato un dio pagano, primo o ultimo che sia, il dio dell’Occidente greco-cristiano. In questo senso Auschwitz non è solo la soglia che hanno dovuto varcare quelli consegnati al nonessere, ma è anche il luogo in cui dovevano essere annientati coloro che, con la sola loro esistenza, testimoniavano non un dio altro, bensì l’Altro. Senza quell’annientamento l’Occidente, altrimenti, non sarebbe stato compiuto.
13. L’altro inizio, l’inizio dell’altro. L’anarchia, la nascita Nel manoscritto del 1941 Über den Anfang (Sull’inizio) Heidegger si interroga anzitutto sul significato della parola Anfang, riconducibile etimologicamente a an e fangen, cioè quasi a quel movimento della mano che prende coglie, cattura. Questo gesto, però, non deve essere frainteso. L’Anfang non è Anfang eines Anderen, l’inizio non è «inizio di un altro». Piuttosto è un An-sich-nehmen, un prendere da sé, un prendere su di sé, un prendersi e riprendersi. In questo senso l’inizio è anche un Sich-auffangen, un cogliersi, raccogliersi, sfuggendo, scampando all’abisso. L’inizio, perciò, è sempre anche un prendere congedo.177 Abgrund e Entgängnis sono al contempo possibilità e minaccia dell’inizio che si dà ogni volta in un riprendersi, un raccogliersi, sull’abisso in cui ci si lascia andare, per sfuggirvi. Si può dire con Schürmann che questo inizio è anarchico già solo perché si raccoglie sul-
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l’abisso che lo minaccia. L’autenticità deriva dal sostenere duramente questa anarchia.178 Il trait d’union con cui Heidegger scrive An-fang indica con chiarezza l’apertura abissale di ogni inizio che non ha solidità metafisica, ma è un faticoso, tragico, fuggevole scampare all’abisso, e perciò un prendere anche congedo da quell’abisso scampato. Inizio e congedo si toccano e rinviano allora a un nesso enigmatico che lega la fine con l’inizio. Si intuisce anche perché l’inizio dischiuda ogni volta l’essere; anzi l’Essere va visto come inizio e come evento. Per Heidegger, dunque, l’inizio è, come sapevano i greci, il limite inaugurale. Tuttavia, se pur abissalmente minato, l’inizio non è contaminato. Il gesto della mano che prende è compiuto dal singolo; l’inizio è un riprender-si. Ma non è l’inizio di un altro. E questo perché il pensiero di Heidegger scaturisce dall’esperienza della finitezza – «l’esserci esiste finitamente» – e coerentemente è un pensiero finito (con tutte le aporie che ne derivano).179 Il che non vuol dire che la fatticità in cui l’esserci è gettato sia una trappola senza via d’uscita. La radicalità con cui Heidegger pensa la finitezza condiziona, però, il modo in cui viene visto il continuo oltrepassarsi dell’esserci. Senza l’oltre, non potrebbe darsi l’esserci; anzi, l’esserci è questo oltre. L’esserci esiste «nella trascendenza e come trascendenza».180 Heidegger parla di Überstieg, che indica un varcare, un oltrepassare.181 L’esserci, oltrepassando se stesso, si schiude al mondo e si slancia verso possibilità ulteriori; ma questo movimento non è un andare «al di là verso altro, ma in qua verso se stesso».182 Il termine tedesco è diesseits, che vuol dire appunto un far ritorno «di qua». Heidegger è diffidente verso lo jenseits, il «di là», perché è diffidente anche verso l’infinito che deve essere escluso da un pensiero della finitezza originaria. Così, però, il movimento dell’esserci si delinea sempre nel finito: l’esserci che si oltrepassa non va verso l’altro, ma torna a se stesso, si
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volge all’appropriazione autentica di sé. Il limite è sempre ineluttabilmente limite abissale, che dà su un abisso. Non è il limite altrui, che si apre sull’infinito oltre dell’altro. Non che manchi l’altro nel paesaggio di Heidegger.183 Ma la finitezza dell’esserci è de-finita dall’altro nel senso che è confinata. Non è l’altro a far sconfinare. Di qui quell’ascesi del limite che, mentre incombe sulla ricerca dell’altro inizio, che non può essere inizio dell’altro, accompagna il lutto per l’essere. Pensare l’essere nel segno del lutto significa rammemorarlo nella sua finitezza, nel suo rapporto con la morte, con la fine ultima, al limite estremo dell’evento in cui ogni volta si dà dileguandosi. Nei Quaderni neri, dove Heidegger cita ben poco, si incontra la trascrizione di un intero passo dal libro che Hannah Arendt aveva dedicato a Rahel Levin, figura di spicco della Berlino ebraica di fine Settecento. Il passo è tratto dalla parte finale che narra i suoi ultimi anni di vita. Assecondando il desiderio di emancipazione, Rahel aveva più volte cambiato nome. Ma si era sentita sempre una Schlemihl, indifesa e ribelle, minacciata dal naufragio, perseguitata dalla cattiva sorte, dal peso di un’esistenza gravata dalla chimera di un’autenticità impossibile, continuamente in bilico tra il ripiegamento della parvenue e la rivolta consapevole del paria. Simbolo al femminile di una ebraicità, che resisteva oltre l’assimilazione, testimoniava, se non l’altro, il fallimento di quel sogno. «Non è forse alla fine, quando non si è più distratti e assorbiti dai particolari, dal presente, dalla felicità e dall’infelicità, e tutto è deciso, che l’inizio riappare e quello che allora si doveva dimenticare per andare avanti, inondati dalla ricchezza e dall’abbondanza di una vita umana, ritorna imperioso e urgente? E non assume forse l’inizio l’aspetto vero, essenziale, indistruttibile del nucleo dell’essere?». Rahel Varnhagen H. A.184
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Quando tutto è già deciso, quando l’esistenza sembra giunta al fondo, l’inizio affiora nitido, si staglia dall’oscurità dell’epilogo. Heidegger si riconosce in queste parole, perché pensa l’inizio dell’essere a partire dall’esserci e dalla sua fine. Manca, però, la portata messianica dell’inizio dell’altro che proprio Hannah Arendt avrebbe colto così: Il prodigio che continua a interrompere il corso del mondo e il cammino delle cose umane, e le salva dalla rovina […] è la natalità, l’esser nati. Il “prodigio” sta in questo, che gli esseri umani vengono messi al mondo e, con loro, il nuovo inizio, che possono realizzare con il loro agire in virtù del fatto di essere nati.185
14. Un angelo nella Foresta Nera. Apocalittica e rivoluzione Nella notte del mondo, nel tempo dell’indigenza, Heidegger ha delineato una escatologia dell’Essere spingendosi, come forse nessun altro, lungo i confini abissali della Terra della Sera, cercando di scrutare nel fondo del baratro. Il suo pensiero si lascia naufragare in quel passaggio stretto fra due negazioni, quella del «non più» degli dèi fuggiti e quella del «non ancora» del dio a venire.186 Si affida perciò alla poesia di Hölderlin, chiamata a dischiudere lo spazio del sacro, a dar luogo al nuovo che si prepara. Nei Quaderni neri, che precedono la disfatta tedesca, Hölderlin non è ancora il poeta della Wanderschaft, dell’abitare che è un migrare, un farsi-di-casa nello scorrere del fiume, quando ormai, nella «spaesatezza» divenuta un «destino mondiale», non è data altra dimora che l’asilo della poesia.187 Piuttosto Hölderlin è anzitutto il poeta della rivoluzione. Ma perché affidare la rivoluzione a un poeta? E per di più a un poeta visionario, disarmato, fallito nella vita
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pubblica e in quella privata – un folle? Anni più tardi Heidegger indicherà nel Wahnsinniger, nel folle, chi pensa, sinnt, non però con la logica degli altri. Sinnen significa anche viaggiare, andar via. Il folle è il dipartito, in cammino verso sentieri non battuti. Il poeta è sempre fuori luogo nella sua passatezza e nella sua capacità anticipatrice; è un futuro passato, un passato futuro. Dischiude il «frammezzo», lo spazio del sacro, tra un “non più” e un “non ancora”, istituisce ciò che resta, nomina ciò che è atteso. «“I poeti” sono i venturi».188 Hölderlin è però anche il simbolo, dai tempi di Tubinga, di una rivoluzione mancata, sognata e mai compiuta. È una rivoluzione già tragicamente finita nel chiuso della torre, eppure, proprio per questo di là da venire, perché serbata nella profondità ontologica della poesia. Non per caso Hölderlin è avvicinato a Lenin, nati a cento anni di distanza, l’uno nel 1770, l’altro nel 1870.189 La rivoluzione bolscevica «porta la “fine”», è anzi la versione ultima di quella metafisica che, complice l’ebraismo, ripete infinitamente la fine spacciandola per il nuovo.190 L’altra rivoluzione, quella di Hölderlin, porta nel «nuovo dell’altro inizio».191 Da una canto una rivoluzione internazionale e internazionalista, che si compie sul paradigma della traduzione, dall’altro una rivoluzione affidata alla poesia, e alla sua radicale originarietà, che non può non essere scritta in tedesco. Da un canto una rivoluzione moderna, scoppiata sull’onda dell’«elettrificazione», dall’altro una rivoluzione che è di là da venire, perché può darsi solo nell’oltrepassamento della metafisica. L’una è espressione della volontà di potenza, l’altra sarà nel segno dell’attesa e dell’abbandono. Nella critica, peraltro giusta, alla rivoluzione bolscevica, risultato diretto della tecnica, Heidegger inserisce il motivo del prolungamento, anzi del ritorno della fine. Con una sconcertante convergenza si avvicina alla rifles-
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sione ebraica e al contrasto dell’eterno ritorno dell’uguale, ma legge quest’ultimo come eterno ritorno della fine, di cui incolpa paradossalmente gli ebrei-bolscevichi, dato che l’ebreo sarebbe per eccellenza figura della fine, il più distante dalla scaturigine dell’Essere. Così, però, introduce ancora una volta una separazione metafisica, quella tra inizio e fine, che non riesce a legare, dove l’uno è contrapposta all’altra, e la fine ha un valore meramente negativo. L’alternativa tra la rivoluzione di Lenin e quella di Hölderlin diventa un vicolo cieco. Tuttavia la sua critica alle rivoluzioni passate, non solo a quella bolscevica, coglie nel segno, quando fa emergere il movimento che le sottende e che si limita a rovesciare, senza avere profondità ontologica. Il movimento che vorrebbe essere rivoluzionario intende la rivoluzione solo come «capovolgimento». Rivoluzionario sarebbe allora solo l’opposto, l’altra faccia, di ciò che è conservatore. Perché nel capovolgimento la rivoluzione si fa irretire da quel che l’ha preceduta. Non è un oltrepassamento, non dischiude l’inizio. Ogni “sovvertimento”, in quanto non è che un capovolgimento, riprende l’inizio già distrutto, e non più iniziale. Ogni “rivoluzione” non è mai abbastanza “rivoluzionaria”.192
In questa critica ontostorica al concetto di rivoluzione si misura, fra l’altro, la distanza di Heidegger da Schmitt e da ogni forza catechonica o frenante, da ogni potere reazionario. In nessun modo Heidegger vuole trattenere la carica rivoluzionaria che attraversa e scuote la storia.193 In tal senso è un apocalittico, ma non della controrivoluzione. Questo non vuol dire, però, che – per richiamare le parole di Taubes – sia un apocalittico della rivoluzione.194 Heidegger si trova tra apocalittica e rivoluzione – ed è forse proprio questa la sua empasse. Certo l’ultimo dio non si manifesta alla fine della storia, dato che potrebbe, al contrario, giungere in ogni
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istante, essendo figura iniziale e inaugurale. Come dice Anders, però, «Heidegger non usa metafore. Anche “dèi” non è una metafora».195 Questo dio, che va preso sul serio, si dà nel mondo e impronta «l’“immagine del mondo’’ di Heidegger», che è «panteistica».196 Quel che Anders suggerisce è che il mondo di Heidegger, abbandonato dagli dèi fuggiti e dal dio che deve ancora venire, ma comunque pieno di dèi assenti, è un mondo che non conosce la verticalità e l’irruzione della verticalità. È un paesaggio pagano, come intuisce Celan quando, nella poesia Largo, parla di heidegängerische Nähe, di «concorde vicinanza che passa per le lande», con un chiaro rinvio a Heidegger, ma anche a Heide, pagano.197 In questo paesaggio il nuovo è atteso nello spazio del sacro aperto dalla parola poetica, tra un nicht mehr e un noch nicht, tra un «non più» e un «non ancora». Manca il messianico dennoch, il «pur sempre». Qui non c’è scampo, non accade alcuna Er-lösung, alcuna «redenzione», che viene intesa come riscatto dalla colpa d’origine e salvezza nell’al di là.198 Incombe il sacrificio estremo, che spetta al fondatore dell’abisso, mentre la rivoluzione diventa apocalitticamente sapienza della catastrofe, differita nel passaggio che si prepara per i «venturi», gli Zukünftigen, gli «stranieri dallo stesso cuore», pochi e rari, che in-quieti, con l’animo disposto al ritegno, pur nell’«estrema rabbia per l’abbandono dell’essere», attendono nella radura, con il respiro trattenuto, i cenni del passaggio dell’ultimo dio. «Hölderlin è il loro poeta che giunge da lontano ed è perciò il poeta più venturo».199 I pochi, i venturi, la cui estraneità al mondo pubblico dell’attualità li lega al poeta, da cui traggono ispirazione, possono guidare il popolo, perché «stanno nel sapere sovrano».200 Sono al contempo retroguardia e avanguardia, guardiani dell’Essere e della sua storia. Questa rivoluzione non è per il mondo, ma per un popolo a cui il
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mondo dovrebbe essere affidato, il solo che potrebbe ancora salvare l’Occidente e contrastare il nuovo planetarismo. L’ispirazione non si fa cospirazione, l’alito dell’inizio avvolge forse le vette, ma non passa per le metropoli, non penetra nelle bassure e nei sotterranei, non attraversa le periferie, non promette liberazione agli schiavi e rifugio agli stranieri, non apre le porte ai reietti, non si rivolge agli abbandonati dagli dèi, non solleva i calpestati dagli uomini, non ascolta gli ultimi delle nazioni. Non è la Erlösung che scaturisce da quel passato immemoriale che ha mantenuto il ricordo dell’avvenire. Perché «il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione».201 Non irrompe nella storia dell’Essere il «pur sempre» che interrompe la storia, l’oggi, in cui si incontrano il passato più antico e il futuro più lontano, l’adesso che inverte il tempo, converte l’istante presente nell’istante ultimo. Perché ben più decisivo dell’origine è l’esodo. Nell’avvenire del ricordo, sull’éschaton della storia, è la fine a redimere l’inizio. L’apocalittica si curva in una rivoluzione che può proiettarsi nel futuro solo perché ripara il passato, il tempo dei vinti. Infatti «il Messia viene non solo come redentore, ma anche come vincitore dell’Anticristo».202 L’angelo della storia si affaccia anche nel paesaggio di Heidegger. È un angelo che con occhi mesti e penetranti guarda alla catena di rovine accumulatesi ai suoi piedi. Ma la tempesta non spira dal paradiso, non lo solleva in alto. Il vento tagliente soffia gelido contro le sue ali e l’angelo resta immerso nelle brume della Foresta Nera.
Note
1. Tra politica e filosofia 1
B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, in Id., Tutte le opere, a cura di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano 2010, IV, 54, pp. 1141-1624, p. 1509. 2 A. Glucksmann, Il non pentimento di Heidegger, in Id., Le due strade della filosofia, Spirali, Milano 2010, pp. 32-57, p. 33. 3 Cfr. già la discussione tra Alphonse de Waelhens e Karl Löwith avvenuta tra il 1947 e il 1948: A. de Waelhens, La philosophie de Heidegger et le nazisme, in “Les Temps modernes”, (3) 1947, pp. 115-127; K. Löwith, Réponse à M. de Waelhens, “Les Temps modernes”, (35) 1948, pp. 370373: A. de Waelhens, Réponse à cette réponse, “Les Temps modernes”, (35) 1948, pp. 374-377. 4 Cfr. J. Schuessler, Heidegger’s Notebooks Renew Focus on Anti-Semitism, in “New York Times” del 30.03. 2014. 5 Cfr. M. Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’Evento), trad. it. di A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, pp. 128 sgg. 6 H. Arendt – M. Heidegger, Lettere 1925-1075 e altre testimonianze, a cura di U. Ludz, trad. it. di M. Bonola, Einaudi, Torino 2007, pp. 67-68 [trad. modificata]. 7 M. Heidegger, Che cosa è “Die Zeit”?, in Id., Dall’esperienza del pensiero, trad. it. di N. Curcio, Il melangolo, Genova 2011, p. 111. 8 Cfr. H. Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, pref. di C. Sini, trad. it. di F. Cassinari, Sugarco Edizioni, Milano 1988. 9 M. Heidegger, Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie, GA 18, Klostermann, Frankfurt 2002, p. 5. Cfr. F. Volpi, Vita e opere, in Heidegger, a cura di F. Volpi, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 35 sgg. Volpi ha preso in seguito una posizione sempre più critica, come testimonia in particolare l’ultimo saggio Contributi alla filosofia. Dall’evento, in Id., La selvaggia chiarezza. Scritti su Heidegger, con una nota di A. Gnoli, Adelphi, Milano 2011, pp. 267-299.
note 10
281
Cfr. O. Pöggeler, Den Führer führen? Heidegger und kein Ende, in Id., Neue Wege mit Heidegger, Alber, Freiburg-München 1992, pp. 203-254. Questa è la tesi introdotta già da Jaspers che tuttavia dice «educare il Führer». Cfr. K. Jaspers, Notizen zu Martin Heidegger, a cura di H. Saner, Piper, München-Zürich 1978, p. 183. 11 M. Heidegger – K. Jaspers, Lettere 1920-1963, trad. it. di A. Iadicicco, Cortina, Milano 2009, p. 143. 12 Il testo è pubblicato in M. Heidegger – K. Jaspers, Lettere 1920-1963, cit. pp. 262-266. 13 Ne è scaturito un volume: Wittgenstein. Biography & Philosophy, a cura di J.C. Klagge, Cambridge University Press, Cambridge 2001. 14 L. Wittgenstein, Pensieri diversi, a cura di G.H. von Wright, trad. it. di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 2001, p. 43. 15 G. Frege, Der Gedanke. Eine logische Untersuchung. Beiträge zur Philosophie des deutschen Idealismus, 1918/19, vol. I, pp. 58-77, p. 69 (rist. in Id., Logische Untersuchungen, a cura di G. Patzig, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttingen 2003, pp. 72-91). 16 Gottlob Freges politisches Tagebuch. Mit Einleitung und Kommentar herausgegeben von G. Gabriel und W. Kienzler, in “Deutsche Zeitschrift für Philosophie”, (42) 1994, pp. 1057-1066, p. 1092. 17 Gottlob Freges politisches Tagebuch, cit. p. 1087. 18 M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, a cura di F. Volpi, trad. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2003, pp. 42-43 [trad. modificata]. 19 H. France-Lanord, Antisemitismo, in Le Dictionnaire Martin Heidegger, a cura di P. Arjakovsky, F. Fédier, H. France-Lanord, Cerf, Paris 2013, pp. 84-90. 20 Cfr. B. Martin, Martin Heidegger und der Nationalsozialismus, in Martin Heidegger und das “Dritte Reich”. Ein Kompendium, a cura di B. Martin, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1989, pp. 14-50, in part. pp. 27 sg. 21 R. Wolin, Heidegger’s Children, Princeton University Press, Princeton 2001. 22 H. Jonas, Memorie. Conversazioni con Rachel Salamander, trad. it. di. P. Severi, Il melangolo, Genova 2008, p. 102 [trad. modificata]. 23 R. Safranski, Heidegger e il suo tempo. Una biografia filosofica, trad. it. di N. Curcio, Longanesi & C., Milano 1994, p. 309. 24 R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, cit. pp. 308-311. 25 L’espressione «antisemitismo concorrenziale» fu coniata da Haffner per denunciarne il fenomeno. Cfr. S. Haffner, Anmerkungen zu Hitler, Fischer, Frankfurt 2011, p. 91. 26 H. Zaborowski, War Heidegger Antisemit? Zu einer kontroversen Frage, in “Heidegger Jahrbuch”, Heidegger und der Nationalsozialismus. Interpretationen, (5) 2010, pp. 242-267 (rist. in H. Zaborowski, «Eine Frage von Irre und Schuld?». Martin Heidegger und der Nationalsozialismus, Fischer, München 2010, pp. 602-645). 27 H. Zaborowski, War Heidegger Antisemit?, cit. p. 261. Per la corrispondenza cfr. «Anima mia diletta!». Lettere di Martin Heidegger alla moglie Elfride 1915-1970, a cura di G. Heidegger, trad. it. di P. Massardo e P. Severi, Il melangolo, Genova 2007.
282 28
note
Cfr. P. Aubenque, Encore Heidegger et le nazisme, in “Le Débat”, (48) 1988, pp. 113-123. M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, § 27, pp. 162-167, 29 Cfr. J. Hersch, Les enjeux du débat autour de Heidegger, in “Commentaire”, (42) 1988, pp. 474-479, p. 476. 30 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), GA 96, Klostermann, Frankfurt 2014, p. 243. 31 P. Trawny, Nachwort des Herausgebers, in M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 279. 32 M. Heidegger, Überlegungen VII-XI (Schwarze Hefte 1938/39), GA 95, Klostermann, Frankfurt 2014, p. 274. 33 M. Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), GA 94, Klostermann, Frankfurt 2014, p. I. 34 Cfr. J. Beaufret, In cammino con Heidegger. Conversazioni con F. de Towarnicki, trad. it. di S. Esengrini, Marinotti, Milano 2008. Cfr. V. Farías, Heidegger e il nazismo, trad. it. di M. Marchetti, Bollati Boringhieri, Torino 1988. F. Fédier, Heidegger e la politica. Anatomia di uno scandalo, a cura di G. Zaccaria, trad. it. di M. Borghi, Egea, Varese 1993. 35 Cfr. E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, a cura di L. Profeti, trad. it. di F. Arra, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2012; Aa.Vv., Heidegger, à plus forte raison, Fayard, Paris 2007. 36 E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, cit. p. 450. 37 Ivi, p. 447. 38 L. Strauss, Diritto naturale e storia, trad. it. di N. Pierri, Il melangolo, Genova 2009, p. 50. 39 Così Faye ha potuto scrivere un articolo di venti pagine sulla base di sole indiscrezioni, senza aver letto i Quaderni neri e senza perciò mai citarli. E. Faye, La vision du monde antisémite de Heidegger à l’ombre de ses Cahiers noirs in Heidegger, le sol, la communauté, la race, a cura di E. Faye, Beauchesne, Paris 2014, pp. 307-327. 40 Il paradosso di quest’accusa emergerà in seguito. Cfr. infra cap. II. 41 E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, cit. pp. 144, 259, 452. All’indice finisce anche J. Derrida, Politiche dell’amicizia, trad. it. di G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1995, pp. 168 sg. 42 Per una discussione sui criteri e sulle diverse posizioni cfr. D. Thöma, Die Zeit des Selbst und die Zeit danach. Zur Kritik der Textgeschichte Martin Heideggers 1910-1976, Suhrkamp, Frankfurt 1990, pp. 474 sgg.; T. Rockmore, On Heidegger’s Nazism and Philosophy, University of California Press, Berkeley 1997, pp. 282 sgg. 43 H. Arendt, Martin Heidegger compie ottant’anni, in Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, a cura di F. Volpi, trad. it. di N. Curcio, Donzelli, Roma 1998, pp. 63-73, p. 72. 44 Ivi, p. 73. 45 L’articolo Zurück von Syrakus è stato pubblicato in italiano con un titolo diverso. Cfr. H.-G. Gadamer, Superficialità e ignoranza. In merito alla pubblicazione di Victor Farías, in Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, trad. it. di C. Tatasciore, Guida, Napoli 1988, pp. 175-179; Id., Dell’incompetenza politica della filosofia, in Religiosità e Occidente, a cura di R. Krali, Marietti, Genova 1992, pp. 61-69.
note 46
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R. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, trad. it. di G. Boringhieri, Laterza, Roma-Bari, pp. 142, 144. M. Heidegger, Il rettorato 1933/34. Fatti e pensieri, in Id., Discorsi e altre testimonianze del camino di una vita 1910-1976, a cura di H. Heidegger, trad. it. di N. Curcio, Il melangolo, Genova 2005, pp. 338-354, p. 345. 48 Oltre a Fédier va ricordato J. Young, Heidegger, Philosophy, Nazism, Cambridge University Press, Cambridge 1997, pp. 6 sg. 49 Cfr. O. Pöggeler, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, trad. it. di G. Varnier, Guida, Napoli 1991; Id., Philosophie und Politik bei Heidegger, Alber, Freiburg-München 1972. 50 T.W. Adorno, Musikalische Schriften, in Id., Gesammelte Werke, vol. 19, Suhrkamp, Frankfurt 1976, p. 637. 51 Cfr. E. Nolte, Martin Heidegger. Tra politica e storia, trad. it. di N. Curcio, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 194. 52 E. Tugendhat, Der Wahrheitsbegriff bei Husserl und Heidegger, de Gruyter, Berlin 1967, pp. 385 sg. 53 J. Habermas, Martin Heidegger. A proposito di una «Vorlesung» del 1935, in Id., Profili politico-filosofici, Guerini & Associati, Milano 2000, pp. 65-72. 54 J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, trad. it. di E. Agazzi, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 153, 137. 55 Cfr. G. Steiner, Heidegger, trad. it. di D. Zazzi, Garzanti, Milano 2002, pp. 7 sgg. 56 T. Rockmore, On Heidegger’s Nazism and Philosophy, cit. p. 72. 57 L. Ferry – A. Renaut, Heidegger et les modernes, Grasset, Paris 1988, p. 172. 58 P. Lacoue-Labarthe, La finzione del politico. Heidegger, l’arte e la politica, trad. it. di G. Scibilia, Il melangolo, Genova 2011. 59 Cfr. anche G. Vattimo, Le avventure della differenza. Che cosa significa pensare dopo Nietzsche e Heidegger, Garzanti, Milano 2001. 60 J.-F. Lyotard, Heidegger e gli “ebrei”, trad. it. di G. Scibilia, Feltrinelli, Milano 1989. 61 Cfr. J. Derrida, Dello spirito. Heidegger e la questione, trad. it. di G. Zaccaria, SE, Milano 2010. 62 R. Schürmann, Dai principi all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, trad. it. di G. Carchia, Il Mulino, Bologna 1995, p. 42. 63 Ivi, p. 44. 64 Ma già Gadamer, avvertendo questo rischio, aveva parlato di tante vie, ma di un solo cammino. Cfr. H.-G. Gadamer, Der eine Weg Martin Heideggers, in Id., Gesammelte Werke 3, Mohr (Siebeck) UTB, Tübingen 1999, pp. 417-430. 65 P. Valéry, Autre Rhumbs, in Id., Tel Quel, Oeuvres II, Gallimard, Paris 1960, p. 685. 66 Cfr. E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, introd. di G. Agamben, trad. it. di A. Cavalletti, Quodlibet, Macerata 1998. 67 Non mancano alcuni esempi contrari, come il libro di R. Aschenberg, Ent-Subjektivierung des Menschen: Lager und Shoah in philosophischer Reflexion, Königshausen & Neumann, Würzburg 2003. 68 H. Arendt, Martin Heidegger compie ottant’anni, cit. pp. 72-73. 47
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note
Su questo tema cfr. M. Abensour, Hannah Arendt contro la filosofia politica?, trad. it. di M. Pezzella, Jaca Book, Milano 2010, in part. pp. 18 sgg. Cfr. S. Žižek, In difesa della cause perse, trad. it. di C. Arruzza, Ponte alle grazie, Milano 2013, pp. 150 sgg.
2. La filosofia e l’odio per gli ebrei 1
P. Celan, Conversazione nella montagna, in Id., La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, trad. it. di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, pp. 42-46, p. 42. 2 Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher vor dem Internationalen Militärgerichtshof Nürnberg, Rechenbach, Nürnberg 1947, vol. XII, p. 346. 3 Cfr. per il dibattito in Germania Die Juden und Martin Luther. Martin Luther und die Juden. Geschichte – Wirkungsgeschichte – Herausforderung, a cura di H. Kremers, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vuyn 1985. 4 Agostino, Enarrationes in Psalmos, vol. XXXIX, p. 751, 8, rr. 2 sg. Cfr. anche Id., De Civitate Dei, V, 12. Sull’antigiudaismo cristiano cfr. P. Stefani, L’antigiudaismo. Storia di un’idea, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 3 sgg. 5 M. Lutero, Daß Jesus Christus ein geborener Jude sei, in Id., Kritische Gesamtausgabe (Wemarer Ausgabe), Bohlau, Weimar 1883, vol. XI, pp. 314-336. Cfr. G. Sella, La contesa: Lutero, gli ebrei, la Scrittura, in Teologia politica 1. Teologie estreme?, a cura di R. Panattoni e G. Sella, Marietti, Genova 2004, pp. 53-74. 6 M. Lutero, Degli ebrei e delle loro menzogne, introd. di A. Prosperi, trad. it. di A. Malena, Einaudi, Torino 2008, pp. 117-118. 7 Ivi, p. 143. Welsch è il termine spregiativo che indica in particolare l’italiano o il francese. 8 Ivi, p. 143. 9 Ivi, p. 10. 10 Ivi, pp. 19-22. 11 Ivi, p. 188. 12 Ivi, pp. 188-191. 13 Cfr. J. Brosseder, Luthers Stellung zu den Juden im Spiegel seiner Interpreten. Interpretation und Rezeption von Luthers Schriften und Äußerungen zum Judentum im 19. und 20. Jahrhundert vor allem im deutschsprachigen Raum, Hueber, München 1972; L. Kaennel, Lutero era antisemita?, intr. di D. Garrone, trad. it. di M. Cammarata, Claudiana, Torino 1999. 14 Cfr. I. Kershaw, Che cos’è il nazismo? Problemi interpretativi e prospettive di ricerca, trad. it. di G. Ferrara Degli Uberti, Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 254 sgg. 15 I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, trad. it. di P. Chiodi, UTET, Torino 1995, p. 89.; A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, trad. it. di G. Colli, Adelphi, Milano 1998, p. 871; F. Nietzsche, L’Anticristo, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI/ III, trad. it. di F. Masini e R. Calasso, Adelphi, Milano 1970, § 26, p. 196.
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Cfr. per una eccellente ricostruzione N. Cohn, I fanatici dell’apocalisse, [manca il traduttore], Pgreco, Milano 2014, in part. pp. 137 sgg. Cfr. Voltaire, Juifs. Il manifesto dell’antisemitismo moderno a cura del padre della tolleranza, a cura di E. Loewenthal, trad. it. di U. Jacomuzzi, Gallone, Milano 1997. 18 H. Arendt, Illuminismo e questione ebraica, trad. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli, p. 7. 19 Cfr. C.W. Dohm, Über die bürgerliche Verbesserung der Juden [1781-1783], Olms, Hildesheim 1973. 20 Cfr. P.L. Rose, German Question / Jewish Question. Revolutionary Antisemitism from Kant to Wagner, Princeton University Press, Princeton 1990, pp. 62 sgg. 21 Non è un caso che sia stato nel 1787 il teologo e orientalista Johann Gottfrid Eichhorn ad aver introdotto per la prima volta il termine “semiti” nello studio delle lingue, da cui più tardi verrà formata la parola “antisemitismo”. 22 Questa accusa sviluppata da Kant, torna in Hitler. 23 Cfr. M. Mendelssohn, Jerusalem ovvero sul potere religioso e il giudaismo, trad. it. di G. Auletta, Napoli, Guida 1990, pp. 152-154. 24 Cfr. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, in Id., Tutte le opere, a cura di A. Sangiacomo, Bompiani, Milano 2010, cap. 17, § 7, pp. 629-1125, pp. 1037 sgg. Cfr. D. Di Cesare, «De Republica Hebraeorum». Spinoza e la teocrazia, in “Teoria”, (2) 2012, pp. 213-228. 25 J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, trad. it. di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 216-217. 26 Ivi, p. 217. 27 Cfr. J. Katz, A State within a State. The History of an Anti-Semitic Slogan, in Id., Emancipation and Assimilation: Studies in Modern Jewish History, Gregg, Farborough 1972, pp. 47-76. Il primo impiego di questo tópos viene rinvenuto da Katz nel trattato anonimo di François Hell, Observation d’un Alsacien sur l’affaire présente des Juifs d’Alsace, pubblicato a Strasburgo nel 1779. 28 J.G. Fichte, Contributi per rettificare i giudizi del pubblico sulla rivoluzione francese, in Id., Sulla rivoluzione francese – sulla libertà di pensiero, trad. it. di V.E. Alfieri, Laterza, Bari 1974, p. 163 [trad. modificata]. 29 Ivi, pp. 164-165 [trad. modificata]. 30 Cfr. J.G. Fichte, I tratti fondamentali dell’epoca presente, trad. it. di A. Carrano, Guerini & Associati, Milano 1994, pp. 104 sgg. 31 J.G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, trad. it. di G. Rametta, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 77. 32 I. Kant, Critica della ragion pratica, trad. it di F. Capra, Laterza, RomaBari 1971, p. 197. 33 Cfr. Y. Yovel, Darkle Riddle. Hegel, Nietzsche and the Jews, SUNY, Albany 1998, p. 10. 34 I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, in id., Scritti di filosofia della religione, a cura di G. Riconda, Mursia, Milano 1989, pp. 145 sgg. 35 Riconduce invece i pregiudizi di Kant a una disattenzione per i temi che avrebbero dovuto essere per lui i più importanti B. Stangneth, 17
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Antisemitische und Antijudaische Motive bei Kant? Tatsachen, Meinungen, Ursachen, in Antisemitismus bei Kant und anderen Denkern der Aufklärung, a cura di H. Gronke, T. Meyer e B. Neisser, Königshausen & Neumann, Würzburg 2001, pp. 11-124, in part. pp. 69 sg. 36 Tanto più paradossale è che kantiano era quel codice del dovere a cui i nazisti si richiamarono. Cfr. J. Halberstam, From Kant to Auschwitz, in “Social Theory and Practice”, (14) 1988, pp. 41-54. 37 I. Kant, La religione nei limiti della semplice ragione, cit. pp. 157-158 [trad. modificata]. 38 Ha costituito un problema soprattutto per gli ebrei kantiani nel novecento, da Hermann Cohen a Julius Guttman. Cfr. in part. J. Guttmann, Kant und das Judentum, Fock, Leipzig 1908. 39 Il rimprovero di Kant è esplicito: il popolo ebraico «si è ostinato a farsi del Messia un concetto politico e non se ne è voluto fare un concetto morale». Ivi, p. 167. 40 Ivi, pp. 157-158. 41 Ivi, pp. 158-159. 42 Sul «falso culto», Afterdienst, cfr. anche ivi, pp. 188 sg. 43 Ivi, p. 159. 44 Ivi, p. 187. 45 Ivi, p. 160. 46 M. Mack, German Ideaism and the Jew. The Inner Anti-Semitism of Philosophy and German Jewish Responses, University of Chicago Press, Chicago 2003, p. 24. 47 I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, trad. it. di P. Chiodi, UTET, Torino 1995, pp. 88-89. 48 «Il più violento antisemita fra tutti – ha scritto Otto Weininger – è stato proprio Kant, a giudicare dalla nota al § 44 della sua Antropologia dal punto di vista pragmatico». O. Weininger, Sesso e carattere, trad. it. di G. Fenoglio riv. da F. Maccabruni, intr. di F. Rella, Mimesis, Milano 2012, p. 457. 49 Su questa costrizione cfr. J. Le Goff, La borsa e la vita. Dall’usuraio al banchiere, S. Addamiano, Laterza, Roma-Bari 2010. 50 Sugli echi della morale kantiana nel capitalismo cfr. W. Benjamin, Il capitalismo come religione, trad. it di C. Salzani, Il melangolo, Genova 2013, p. 43. 51 I. Kant, La metafisica dei costumi, trad. it. di G. Vidari, Laterza, RomaBari 2001, § 16, p. 82 52 I. Kant, Il conflitto della facoltà, in id., Scritti di filosofia della religione, cit. p. 264. 53 Ibidem. 54 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, 2 voll., trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, vol. I, p. 285 [trad. modificata]. 55 F. Kafka, Il processo, trad. it. di C. Morena, Garzanti, Milano 2010, pp. 175-177. 56 Cfr. M. Mack, German Idealism and the Jews, cit. p. 53. 57 Ha scritto Rosenkranz che l’ebraismo ha tormentato Hegel per tutta la vita «come un oscuro enigma». Cfr. K- Rosenkranz, Vita di Hegel, trad. it. di R. Bodei, Mondadori. Milano 1974, p. 69. 58 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit. p. 285.
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Fackenheim ha parlato di «difetto» nel sistema hegeliano. E. Fackenheim, Hegel and Judaism. A Flaw in the Hegelian System, in The Legacy of Hegel: Proceedings of the Marquette University Hegel Symposium 1970, a cura di J.J. O’Malley et al., Nijhoff, The Hague 1973, pp. 161185, p. 161. Anche in questo caso, come in quello di Kant, i filosofi ebrei che, a partire da Nachman Krochmal, si sono richiamati a Hegel, hanno tentato di temperare la sua visione dell’ebraismo. 60 Y. Yovel, Darkle Riddle. Hegel, Nietzsche and the Jews, cit. p. 98 sgg. 61 Ma sul suo rapporto complesso con il cristianesimo cfr. K. Löwith, Hegel e il cristianesimo, trad. it. di E. Tota, Laterza, Roma-Bari 1976, pp. 14 sgg. 62 G.W.F. Hegel, Frühe Schriften, Werke I, a cura di E. Moldahuer e K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt 1986, p. 45 [il frammento manca nell’edizione italiana]. 63 G.W.F. Hegel, La positività della religione cristiana, in Id., Scritti teologici giovanili, trad. it. di N. Vaccaro e E. Mirri, Guida, Napoli 1972, pp. 189-331, p. 234. 64 G.W.F. Hegel, La positività della religione cristiana, cit. p. 235. Cfr. anche G.W.F. Hegel, La vita di Gesù, in Id., Scritti teologici giovanili, cit. pp. 104-188. 65 G.W.F. Hegel, La positività della religione cristiana, cit. p. 235. 66 Ivi, p. 305. 67 Ivi, p. 306. 68 Ivi, p. 308 [sottolineatura mia]. La domanda riprende quella di Friedrich Gottlob Klopstock: «È dunque la Acaia la patria dei teutoni?». 69 Il fatto che Hegel non ne avesse previsto la pubblicazione non muta il giudizio su queste pagine. 70 G.W.F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo, in Id., Scritti teologici giovanili, cit. pp. 333-457, p. 354. 71 Per via di questo conflitto, e del suo legame con «essenze estranee», per Hegel la «grande tragedia del popolo ebraico non è una tragedia greca», non può suscitare pietà, ma solo «orrore». Ivi, p. 372. 72 Ivi, p. 355. 73 Ivi, p. 356. 74 Ivi, p. 357. 75 Ivi, p. 358. 76 Ivi, p. 360. 77 Ivi, p. 361. 78 Ivi, p. 366. 79 Ivi, p. 363. 80 Levitico/Vaikrà 25, 23. 81 Ivi, p. 366. 82 J. Derrida, Glas, trad. it. di S. Facioni, Bompiani, Milano 2006, p. 64. Cfr. su questo cap. IV § 8. 83 G.W.F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo, cit. pp. 370, 366. 84 Ivi, p. 361. 85 J. Derrida, Glas, cit. p. 59. 86 G.W.F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo, cit. p. 362. 87 Cfr. N. Rotenstreich, Hegel’s Image of Judaism, in “Jewish Social
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note
Studies”, (15) 1953, pp. 33-52; Id., The Recurring Pattern: Studies in AntiJudaism in Modern Thought, Weidenfeld and Nicolson, London 1963. O. Pöggeler, Hegel’s Interpretation of Judaism, in “Human Context”, (6) 1974, pp. 523-560, p. 550. Su una visione più dialettica dell’ebraismo nello Hegel maturo insiste M. Arndt, Hegel und das Judentum, in “HegelJahrbuch”, (19) 2013, pp. 28-35. 88 G.W.F. Hegel, Estetica, trad. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Einaudi, Torino 1997, p. 538. 89 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, 4 voll., trad. it. di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1975, vol. II, p. 222. 90 Ivi, p. 224. 91 Ivi, p. 224. 92 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, 3 voll. trad. it. di E. Oberti e G. Borruso, Laterza, Roma-Bari 1983, vol. II, p. 255. 93 Ivi, pp. 286 sg. 94 Ivi, p. 287. Cfr. Tacito, Historiae, 5, 5. È interessante notare l’uso dell’ebraico-jiddish gojim per indicare i gentili, i non-ebrei. 95 Ivi, p. 290 [trad. modificata]. 96 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit. cap. 17 § 24, p. 1061. 97 G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, cit. p. 294. 98 Ivi, p. 296. 99 Sull’impossibilità di includere l’ebreo nello schema trinitario cfr. H. Liebeschütz, Das Judentum im deutschen Geschichtsbild von Hegel bis Max Weber, Mohr (Siebeck), Tübingen 1967, p. 40 100 J. Derrida, Glas, cit. p. 57. 101 Ivi, p. 80. 102 Ivi, p. 67. 103 Cfr. J. Cohen, Le Spectre juif de Hegel, Galilée, Paris 2005, p. 184. 104 E. Lévinas, Hegel e gli ebrei, in Id., Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, trad. it. di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2004, pp. 293-297, p. 294. 105 F. Nietzsche, Epistolario 1885-1889, vol. V, trad. it. di G. Campioni et al., Adelphi, Milano 2011, p. 1249. 106 Ivi, p. 669. 107 F. Nietzsche, La volontà di potenza, trad. it. di P. Kobau, Bompiani, Milano 2008, pp. 517, 525. 108 È stato Heidegger a sostenere, nel corso su Schelling del 1936, che il nazismo era il tentativo più radicale di superare il nichilismo sulla scia di Nietzsche. Cfr. M. Heidegger, Schelling. Über das Wesen der menschlichen Freiheit, GA 42, Klostermann, Frankfurt 1988, pp. 40 sg. 109 G. Lukács, La distruzione della ragione, 2 voll., trad. it. di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1959, vol. II, p. 766. 110 Cfr. W. Kaufmann, Nietzsche, filosofo, psicologo, anticristo, trad. it. di R. Vigevani, Sansoni, Firenze 1974. 111 Cfr. A. Baeumler, Nietzsche als Philosoph und Politiker, Reclam, Leipzig 1931, pp. 157 sgg. 112 Cfr. S.E. Aschheim, The Nietzsche Legacy in Germany: 1890-1990, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1992. 113 Cfr. G. Lichtheim, L’Europa del Novecento [1972], trad. it. di I. Rambelli, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 271 sgg.; C. Cruise O’Brien,
note
289
The Siege: The Saga of Israel and Zionism, Touchstone Books, New York 1986, p. 59. Cfr. anche U. Tal, Christians and Jews in Germany. Religion, Politics and Ideology in the Second Reich, 1870-1918, Cornell University Press, Ithaca 1973. 114 T. Mittmann, Vom “Günstling” zum “Urfeind” der Juden. Die antisemitische Nietzsche-Rezeption in Deutschland bis zum Ende des Nationalsozialismus, Königshausen & Neumann, Würzburg 2006, pp. 181182. 115 Per una ricostruzione di questo dibattito cfr. M. Ferrari Zumbini, Nietzsche: storia di un processo politico. Dal nazismo alla globalizzazione, Rubettino, Soveria Mannelli 2011. Un quadro complessivo sulla ricezione di Nietzsche nel mondo ebraico è offerto dal volume Jüdischer Nietzscheanismus, a cura di W. Stegmaier e D. Krochmalnik, de Gruyter, Berlin – New York 1997. 116 J. Derrida, Otobiographies. L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio, trad. it. di R. Panattoni, Il poligrafo, Padova 1993, pp. 7980 [trad. modificata]. 117 F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari [in seguito OFN], vol. V/II, trad. it. di F. Masini e M. Montinari, Adelphi, Milano 1965, § 125, p. 151. 118 Ivi, § 109, pp. 137-138. 119 Cfr. Y. Yovel, Dark Riddle. Hegel, Nietzsche and the Jews, cit. pp. 152 sgg. 120 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in OFN, vol. VI/II, trad. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1968, § 52, p. 59; cfr. Id., Genealogia della morale, in OFN, vol. VI/II, III § 23, pp. 351-354. 121 F. Nietzsche, L’Anticristo, in OFN, vol. VI/III, trad. it. di F. Masini e R. Calasso, Adelphi, Milano 1970, § 25, p. 194. 122 In questa sua interpretazione Nietzsche è influenzato dal biblista Julius Wellhausen. 123 F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit. I, § 7, p. 232. 124 Ivi, I, § 10, pp. 236. 125 F. Nietzsche, L’Anticristo, cit. § 26, p. 196. 126 F. Nietzsche, Umano troppo umano, in OFN, vol. IV/ II, trad. it. di S. Giametta e M. Montinari, Adelphi, Milano 1965, § 475, p. 364. 127 F. Nietzsche, L’Anticristo, cit. § 24, p. 194. 128 F. Nietzsche, Al di à del bene e del male, cit. § 251, p. 164. Un’interpretazione molto diversa viene offerta nel volume Nietzsche e gli ebrei, a cura di V. Vivarelli, Giuntina, Firenze 2011. Per il dibattito internazionale cfr. Nietzsche and the Jewish Culture, a cura di J. Colomb, Routledge, London 1997. 129 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1879-1881, in OFN, vol. V/I, trad. it. di F Masini e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964, 1 [73], p. 283, 3 [115] p. 330. 130 F. Nietzsche, Al di à del bene e del male, cit. § 251, p. 164. Il riferimento è agli ebrei orientali per i quali Nietzsche esprime anche altrove ripugnanza: «non sceglieremmo la compagnia dei “primi cristiani” così come quella degli ebrei polacchi». Id., L’Anticristo, cit. § 46, p. 227. 131 F. Nietzsche, L’Anticristo, cit. § 44, p. 225.
290 132
note
F. Nietzsche, La gaia scienza, cit. § 135, p. 156. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1889, in OFN, vol. VIII/II, trad. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1971, 10 [79], p. 147. 134 Anche per Hegel gli ebrei vincono senza combattere e questo tópos viene ripreso in seguito. 135 F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit. I § 16, p. 250 [trad. modificata]. Su questo tema cfr. A.R.E. Agus, «Rom gegen Judäa, Judäa gegen Rom». Friedrich Nietzsches Religionskritik und die Auslegung rabbinischer Quellen, in Jüdischer Nietzscheanismus, cit. pp. 345-362. 136 Ibidem. Qui Nietzsche cita Tacito, Annali, XV, 44. 137 Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit. § 195, p. 94. Cfr. Tacito, Historiae, V, 8. 138 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1879-1881, cit. 3[20], p. 307. 139 F. Nietzsche, La gaia scienza, cit. § 361, pp. 278-279. 140 F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit. I § 16, p. 251. 141 Ivi, I § 9, p. 255. 142 F. Nietzsche, L’Anticristo, cit. § 24, p. 193 [trad. modificata]. 143 F. Nietzsche, La gaia scienza, cit. § 137, p. 158. 144 F. Nietzsche, L’Anticristo, cit. § 27, p. 200; Id., Genealogia della morale, cit. I § 8, p. 234. 145 Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit. I § 8, p. 234. 146 F. Nietzsche, L’Anticristo, cit. § 58, pp. 253-254. Con «ciandala» Nietzsche, riferendosi alla classificazione sociale indiana, intende l’escluso da tutte le caste, il reietto. Questo termine ispirò il romanzo di A. Strindberg, Ciandala, trad. it. di F. Perrelli, ES, Milano 1995. 147 F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli. Quelli che “migliorano” l’umanità, in OFN, vol. VI/III, cit. § 4, p. 98. 148 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888,n OFN, vol. VIII/II, trad. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1971, 10 [96], p. 156. 149 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, cit., vol. VIII/III, trad. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1974, 21[7], p. 344; cfr. anche Id., Frammenti postumi 1881-1882, in OFN, vol. V/ II, cit. 12 [116], p. 481. 150 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1881-1882, cit. 12 [116], p. 481. 151 Analogo è l’atteggiamento che assume anche Heidegger. 152 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit. § 251, p. 164. 153 F. Nietzsche, Aurora, in OFN, vol. V/ I, cit. § 205, p. 150. 154 Ivi, § 205, p. 152 155 Cfr. W. Marr, Der Sieg des Judenthums über das Germanenthum, Costenoble, Bern 1879. Su questo tema verrà costruito il mito del complotto. Cfr. cap. III §§ 3, 20. 156 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit. § 251, p. 165. 157 Y. Yovel, Dark Riddle. Hegel, Nietzsche and the Jews, cit. pp. 175 sg. 180 sg. 158 Cfr. F. Nietzsche, Aurora, cit. § 205, p. 152. 159 F. Nietzsche, La gaia scienza, cit. § 348, pp. 250-252; Id., Frammenti postumi 1888-1889, cit. 18[3], p. 323. 160 F. Nietzsche, L’Anticristo, cit. § 24, p. 193. 161 Sulla radicalizzazione della politica nazista cfr. H. Sluga, Heidegger’s Crisis: Philosophy and Politics in Nazi Germany, Harvard University Press, Cambridge 1993, pp. 29 sgg. 133
note 162
291
Cfr. K.R. Fischer, Nazism as Nietzschean “Experiment”, in “NietzscheStudien” (6) 1977, pp. 116-122. J. Améry, Intellettuale a Auschwitz, trad. it. di E. Ganni, Bollati Boringhieri, Torino 1987, p. 118. 164 Cfr. T.W. Riback, La biblioteca di Hitler. Che cosa leggeva il Führer, trad. it. di N. Lamberti, Mondadori, Milano 2008, pp. 93-115. 165 In Germania dal dopoguerra Mein Kampf è vietato e può essere letto solo sotto sorveglianza, sebbene non sia difficile procurarselo sia grazie a ristampe illegali, sia attraverso i siti web all’estero. 166 B. Zehnpfennig, Adolf Hitler: Mein Kampf. Studienkommentar, Fink UTB, München 2011, p. 9. Ricostruisce la figura di Hitler nel contesto filosofico Y. Sherratt, I filosofi di Hitler, trad. it. di F. Pe’, Bollati Boringhieri, Torino 2014, in part. pp. 21 sgg. Mira a farne emerge il pensiero e il progetto politico il libro molto discusso e discutibile di J.C. Fest, Hitler. Il Führer e il nazismo, trad. it. di F. Saba Sardi, Rizzoli, Milano 1974. Per un profilo storico cfr. I. Kershaw, Hitler 1889-1936, trad. it. di A. Catania, Bompiani, Milano 1999. 167 Il rischio di chi non conosce è quello di non riconoscere – ad esempio le nuove forme in cui l’hitlerismo ritorna. Sul tema della “razza” in Hitler cfr. A. Quinchon-Caudal, Hitler et les races. L’anthropologie nationalesocialiste, Berg International Éditeurs, Paris 2013, pp. 73-84. 168 A. Hitler, La mia vita, trad. it. di B. Revel, Bompiani, Milano 1938, p. 312. Il primo volume di Mein Kampf risale al 1925, il secondo al 1926. Sul carattere dell’opera cfr. L. Zoja, Paranoia. La follia che fa storia, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 197 sgg. 169 Cfr. C. Schmitt, Ex captivitate salus, trad. it. di C. Mainoldi, Adelphi, Milano 1987, p. 92. Cfr. su questo tema cap. III § 18. 170 Cfr. L. Poliakov, Il mito ariano. Storia di un’antropologia negativa, trad. it. di A. De Paz, Rizzoli, Milano 1976, pp. 284 sgg. Cfr. anche P. Lacoue-Labarthe – J.-L. Nancy, Il mito nazi, trad. it. di C. Angelino, il melangolo, Genova 1992, pp. 52 sg. 171 Ivi, p. 315. 172 Ivi, p. 316. 173 Ivi, pp. 323-324. 174 Cfr. ivi, pp. 317 sgg. 175 Ivi, p. 320. 176 Ivi, p. 329. 177 L’ebreo della modernità, accusato di dissimulazione, richiama la figura e la storia di Ester. Cfr. cap. III § 15. 178 Il problema della definizione si riproporrà anni più tardi, soprattutto in ambito giuridico, al momento di stabilire le leggi di Norimberga. 179 Ivi, p. 331. 180 Ivi, p. 332. 181 Ivi, p. 333. 182 Ivi, p. 342. 183 Ivi, p. 333. 184 Cfr. ivi, p. 328. 185 Ivi, p. 69. 186 Ivi, p. 352. 163
292 187 188
note
Cfr. ivi, pp. 353 sgg. Ivi, p. 355.
3. La questione dell’Essere e la questione ebraica 1
J.P. Feinmann, L’ombra di Heidegger, trad. it. di L. Sessa, postfazione di A. Gnoli e F. Volpi, Neri Pozza, Vicenza 2007, p. 64. 2 Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», in Id., Segnavia, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 267-316, p. 281. 3 Cfr. M. Heidegger, Contributi alla filosofia. (Dall’evento), a cura di F. Volpi, trad. it. di A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, pp. 399 sg. 4 M. Heidegger, Essere e tempo, cit. § 72, p. 448. Per una visione critica sulla storia dell’essere cfr. T. Rentsch, Martin Heidegger – Das Sein und der Tod. Eine kritische Einführung, Piper, München 1989, pp. 175 sgg. 5 Sulla grammatica e l’etimologia di “essere” cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, pres. di G. Vattimo, trad. it. di G. Masi, Mursia, Milano 1986, pp. 63-84. 6 J. Derrida, Heidegger: la questione de l’Être et l’Histoire. Cours de l’ENSUlm 1964-1965, Galilée, Paris 2013, p. 23. 7 M. Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), cit. p. 208. 8 M. Heidegger, La storia dell’Essere, trad. it. di A. Cimino, Marinotti, Milano 2012, p. 116. 9 H. Arendt – M. Heidegger, Lettere 1925-1075 e altre testimonianze, cit. p. 76. 10 M. Heidegger, Überlegungen VII-XI (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 93. 11 Ivi, p. 92. 12 Cfr. P. Trawny, Adynaton. Heideggers esoteriche Philosophie, Matthes & Seitz, Berlin 2010. 13 Cfr. F. Volpi, Contributi alla filosofia. Dall’evento, cit. p. 227. 14 Cfr. M. Heidegger, Besinnung, GA 66, Klostermann, Frankfurt 1997, pp. 419-420. 15 Ivi, p. 426. 16 «Sapevamo anche del suo antisemitismo» – annotò Toni Cassirer nelle sue memorie. T. Cassirer, Mein Leben mit Ernst Cassirer, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2003, p. 187. 17 H. Arendt – M. Heidegger, Lettere 1925-1075 e altre testimonianze, cit. pp. 49-50. 18 Cfr. E. Ettinger, Hannah Arendt e Martin Heidegger. Una storia d’amore, trad. it. di G. Bettini, Garzanti, Milano 1996, p. 39. Sul loro rapporto cfr. anche D. Maier-Katkin, Stranger from Abroad. Hannah Arendt, Martin Heidegger, Friendship and Forgiveness, Norton & Co., New York – London 2010. 19 Cfr. quel che è già stato detto al cap. I § 4. 20 Cfr. L. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli Ebrei, trad. it. di A.M. Levi, Einaudi, Torino 2003, pp. 30 sgg. 21 K. Löwith, La mia vita in Germania, cit. p. 83. Nel vanto di avere amici ebrei Poliakov indica una «buona regola dell’antisemitismo». L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo, vol. III. Da Voltaire a Wagner, cit. p. 505.
note 22
293
Cfr. R. Gross, Schmitt und die Juden. Eine deutsche Rechtslehre, Suhrkamp, Frankfurt 2005, pp. 39 sgg. S. Weil, Sulla Germania totalitaria, trad. it. di G. Gaeta, Adelphi, Milano p. 28 24 Su questo cfr. M. Ferrari Zumbini, Le radici del male. L’antisemitismo in Germania da Bismarck a Hitler, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 71 sgg. 25 Cfr. U. Sieg, Die Verjudung des deutschen Geistes. Ein unbekannter Brief Heideggers, in “Die Zeit”, (52) 22 dicembre 1989, p. 50. Cfr. anche la testimonianza di Müller: quando un ebreo, Siegfried Thannhauser, diventò ordinario nel 1931, «[Heidegger] richiamò l’attenzione sul fatto che originariamente a Medicina interna erano in servizio due soli medici ebrei, mentre alla fine di questa specialità si potevano trovare due soli medici non-ebrei. Di ciò era un po’ seccato». M. Müller, Martin Heidegger, un filosofo e la politica. Un colloquio, in Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, cit. pp. 215-242, p. 231. 26 «Anima mia diletta!». Lettere di Martin Heidegger alla moglie Elfride 19151970, cit. p. 47. 27 Cfr. J. Katz, Richard Wagner. Vorbote des Antisemitismus. Eine Veröffentlichung des Leo Baecks Instituts, Jüdischer Verlag Athenäum, Königstein/Ts. 1985, p. 59. Sulla genealogia di Verjudung cfr. S.E. Aschheim, “The Jew Within”: The Myth of “Judaization” in Germany, in Id., Culture and Catastrophe. German and Jewish Confrontations with National Socialism and Other Crises, New York University Press, New York 1996, pp. 45-68. Cfr. anche P.-A. Taguieff, Wagner contre les Juifs, Berg International Éditeurs, Paris 2012, pp. 250 sgg. 28 R. Wagner, Das Judenthum in der Musik, in Id., Mein Denken, a cura di M. Gregor-Dellin, Piper, München-Zürich 1982, p. 174. 29 Ibidem. 30 R. Wagner, Das Judenthum in der Musik, p. 197. 31 W. Marr, Der Sieg des Judenthums über das Germanenthum, Costenoble, Bern 1879, p. 8; E. Dühring, Die Judenfrage als Racen-, Sitten- und Culturfrage, Reuther, Karlsruhe 1881, p. 144; A. Hitler, La mia vita, cit. pp. 183, 268; A. Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts. Eine Wertung der seelisch-geistigen Gestaltungskämpfe unserer Zeit, Hoheneichen, München 1930, p. 129. 32 «Anima mia diletta!». Lettere di Martin Heidegger alla moglie Elfride 19151970, cit. p. 73. 33 Cfr. L. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli Ebrei, cit. pp. 22 sgg. 34 «Anima mia diletta!». Lettere di Martin Heidegger alla moglie Elfride 19151970, cit. p. 107. 35 Ivi, p. 166. 36 Ivi, p. 12. Sul tema della corrispondenza cfr. O. Pöggeler, Heidegger nei suoi epistolari, in Id. Europa come destino e come compito. Correzioni nella filosofia ermeneutica, trad. it. di A Giugliano, Guerini & Associati, Milano 2008, pp. 27-50. 37 Ivi, p. 103. 38 Ivi, pp. 127, 144, 162. 39 Il testo di Jaspers è pubblicato al termine della corrispondenza M. Heidegger – K. Jaspers, Lettere 1920-1963, cit. p. 263. 23
294 40
note
M. Heidegger, A proposito della perizia su Baumgarten, in Id., Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita, cit. p. 373. Cfr. ivi, p. 687. Heidegger ha espresso tuttavia due pareri favorevoli su Fraenkel. Cfr. ivi, pp. 132-133, 136-137. 41 M. Heidegger – E. Blochmann, Carteggio 1918-1969, a cura di J.W. Storck, trad. it. di R. Brusotti, Il melangolo, Genova 1991, p. 122. 42 M. Heidegger, Hönigswald dalla Scuola neokantiana, in Id., Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita, cit. p. 124 [trad. modificata]. Cfr. C. Schorcht, Philosophie an den bayerischen Universitäten 1933-1945, Fischer, Erlangen 1990, p. 161. 43 Ibidem. 44 Cfr. P. Trawny, Heidegger und der Mythos der jüdischen Weltverschwörung, Klostermann, Frankfurt 2014, pp. 13, 99, 107, 114 sg. La tesi di Trawny, relativamente interlocutoria, è che il pensiero di Heidegger risulti, almeno in parte, «contaminato». Desta perplessità la parola «contaminazione», perché rievoca la metafora dell’Ebreo che infetta e porta impurità – persino, paradossalmente, con il discorso antisemita. 45 Trawny fa risalire al 1937 il primo passo in cui si parla degli ebrei nei Quaderni neri, sebbene le Riflessioni VIII siano del 1938. Cfr. P. Trawny, Heidegger und der Mythos der jüdischen Weltverschwörung, cit. p. 33. 46 Ma il tema dell’ebraismo doveva essere ben prima al centro della riflessione di Schmitt. Cfr. R. Gross, Schmitt und die Juden, cit. p. 35. 47 Cfr. M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, in Id., Segnavia, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 59-77. 48 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 46. 49 Il pensiero calcolante sarà nella Gelassenheit l’antitesi del pensiero meditativo. Cfr. M. Heidegger, Abbandono, trad. it. di A. Fabris, Il melangolo, Genova 1983, pp. 30 sgg. 50 M. Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), cit. pp. 87, 218, 480. 51 Cfr. M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 295. 52 Ivi, p. 117. 53 M. Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), cit. pp. 141, 147. Ma sul tema del nemico cfr. infra § 18. 54 Ivi, p. 474. 55 M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 275. 56 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 243. 57 M. Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), cit. p. 314. 58 M. Heidegger, Der Anfang der abendländischen Philosophie. Auslegungen des Anaximander und Parmenides, GA 35, Klostermann, Frankfurt 2012. 59 Cfr. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, trad. it. di J. Evola riv. da R. Calabrese Conte, M. Cotone, F. Jesi, Guanda, Parma 2005.
note 60
295
Cfr. M. Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), cit. p. 484. Cfr. ivi, p. 120. 62 Ivi, p. 195. 63 Ivi, p. 171. Cfr. anche Id., Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 19391941), cit. p. 85. 64 Ivi, p. 31. 65 Ivi, p. 38. 66 M. Weber, Gesamtausgabe, vol. II/9: Briefe 1915-1917, Mohr Siebeck, Tübingen 2008, p. 66. 67 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura di E. Paci, trad. it. di E. Filippini, Il Saggiatore, Milano 1987, p. 332 [trad. modificata]. 68 Ivi, p. 349 [trad. modificata]. 69 Cfr. ad es. M. Heidegger, L’inno der Ister di Hölderlin, trad. it. di U. Ugazio, Mursia, Milano 2003, pp. 41 sgg.; Id., Parmenide, a cura di F. Volpi, trad. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1999, pp. 39, 97 sgg. 70 M. Heidegger, Logica e linguaggio, trad. it. di U. Ugazio, Marinotti, Milano 2008, p. 117. Di Neger e Senegalneger Heidegger parla già nelle lezioni del Kriegsnotsemester del 1919. Cfr. M. Heidegger, Zur Bestimmung der Philosophie, GA 56/57, Klostermann, Frankfurt 1999, pp. 71-73. 71 Questo mette in discussione l’idea diffusa che nell’antisemitismo vede una variante del razzismo. Cfr. ad esempio M. Horkheimer – T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, intr. di C. Galli, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2010, pp. 182-223. Sul cuore di tenebra del totalitarismo cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A Guadagnin, Edizioni di Comunità, Milano 1989, pp. 258-309. 72 Di qui il piano “Madagascar” per evacuare gli ebrei. Cfr. L. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli Ebrei, cit. pp. 72-76. Il piano era stata poi messo da parte perché rispondeva ai canoni del razzismo tradizionale, non al progetto biopolitico di sterminio planetario. Cfr. P. Burrin, Hitler e gli ebrei. Genesi di un genocidio, trad. it. di M. Morselli, Marietti, Genova 1994, pp. 73 sgg. 73 M. Heidegger, Gli inni di Hölderlin “Germania” e “Il Reno”, trad. it di G. Demarta, Bompiani, Milano 2005, p. 128 [trad. modificata]. 74 M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. pp. 4849. 75 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 222. 76 Cfr. M. Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), cit. p. 456. 77 M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 34. 78 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. pp. 29-31. 79 Cfr. M. Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), cit. p. 136. Sul tema dell’autoctonia cfr. C. Bambach, Heidegger’s Roots. Nietzsche, National Socialism, and the Greeks, Cornell University Press, Ithaca and London, 2003, pp. 180-246. 61
296 80
note
Cfr. F. Grosser, Heidegger und das Politische. 1919-1969, Beck, München 2011, pp. 116 sgg. Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit. p. 35. 82 Ivi, p. 99. 83 Cfr. cap. II §§ 2, 4. 84 Si tratta però di un protocollo. Cfr. Über Wesen und Begriff von Natur, Geschichte und Staat. Übung aus dem W/S 1933/34, in “Heidegger Jahrbuch”, Heidegger und der Nationalsozialismus. Dokumente, (4) 2010, pp. 53-88, p. 82. 85 Cfr. M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 97. 86 G. Deleuze – F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, a cura di C. Arcuri, trad .it. di A. De Lorenzis, Einaudi Torino 2002, p. 87. 87 Cfr. su questo tema C. Saviani, L’Oriente di Heidegger, il melangolo, Genova 1998. 88 S. Krauss, Boden, in Encyclopaedia Judaica. Das Judentum in der Geschichte und Gegenwart, a cura di J. Klatzkin et. al., Eschkol, Berlin 1929, p. 902. Caso analogo è quello di M. Sew – W. Rapaport, Bodenbesitz, in Jüdisches Lexikon, a cura di G. Herlitz e B. Kirschner, vol. I, Jüdischer Verlag, Berlin 1927, pp. 1097-1098. 89 Su questo cfr. cap. IV § 9. 90 Cfr. E. Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 157 sgg. 91 P. Mendes-Flohr, Werner Sombart’s “The Jews and Modern Capitalism”: an Analysis of Its Ideological Premises, in “Leo Baeck Institute Yearbook”, 21 (1976), pp. 87-107, p. 92; cfr. J. Herf, Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, trad. it. di G. E. Rusconi, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 191-217. 92 W. Sombart, Die Juden und das Wirtschaftsleben, Duncker & Humblot, Leipzig 1911, p. 244. 93 Ivi, p. 293. 94 Ivi, p. 319. 95 Ivi, p. 329. 96 Ivi, pp. 407 sgg. 97 Ivi, pp. 421 sgg. Sul tema della desertificazione cfr. infra § 10. Perciò Sartre definirà l’antisemita il «poeta della proprietà fondiaria». J.-P. Sartre, Réflexions sur la questione juive [1946], Gallimard, Paris 2013, p. 137. 98 Ivi, pp. 414. 99 Cfr. W. Sombart, Deutscher Sozialismus, Buchholz & Weissange, Berlin 1934, pp. 87 sgg. 100 «Anima mia diletta!». Lettere di Martin Heidegger alla moglie Elfride 19151970, cit. p. 67. Cfr. lo scritto con cui anni più tardi rifiutò l’incarico a Berlino: M. Heidegger, Paesaggio creativo. Perché restiamo in provincia?, in Id., Dall’esperienza del pensiero 1910-1976, trad. it. di N. Curcio, Il melangolo, Genova 2011, pp. 12-14. 101 F. Tönnies, Studie zur Entwicklungsgeschichte des Spinoza, “Vierteljarhrsschrift für wissenschaftliche Philosophie”, (7) 1883, pp. 162-175, in part. p. 169. 81
note 102
297
Sul «mistero» che Spinoza rappresentò per i dottrinari del Reich cfr. I.D. Yalom, Il problema Spinoza, trad. it. di S. Prina, Neri Pozza, Vicenza 2012. Spinoza è poco presente nell’opera di Heidegger; nel corso tenuto su Schelling, nel 1936, viene ricordato con queste parole: «qui occorre prevenire un fraintendimento sottolineando che la filosofia di Spinoza non può essere identificata con la filosofia ebraica. Significativo è già solo il ben noto fatto che Spinoza sia stato escluso dalla comunità ebraica». M. Heidegger, Schelling. Über das Wesen der menschlichen Freiheit, cit. p. 115. 103 Cfr. M. Brenner, The Renassaince of Jewish Culture in Weimar Germany, Yale University Press, New Haven 1996; P. Gay, Freud, gli ebrei e altri tedeschi, trad. it. di S. Maddaloni, Mondadori, Milano 1990. 104 Cfr. D.L. Niewyk, The Jews in Weimar Germany, Transaction Publishers, New Brunswick NJ 2000, p. 67. 105 P. Valéry, La crisi del pensiero e altri saggi quasi politici, trad. it. di S. Agosti e N. Agosti, Il Mulino, Bologna 1994; Heidegger fa riferimento esplicitamente a quest’opera. M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, trad. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p. 211. 106 Cfr. M. Scheler, Erkenntnis und Arbeit, Klostermann, Frankfurt 1977, p. 74. Su questo tema, di solito trascurato cfr. O. Pöggeler, Heidegger in seiner Zeit, Fink München 1999, pp. 227-232. 107 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit. p. 131. 108 K. Jaspers, Ragione ed esistenza [1935], trad. it. di A. Lamacchia, Marietti, Genova 2000, pp. 66 sg. 109 M. Heidegger, Commemorazione di Schlageter, in Id., Discorsi e altre testimonianze di una vita 1910-1976, cit. pp. 676-677. Heidegger tenne il discorso il 26 maggio 1933, a dieci anni dalla morte di Schlageter la cui figura aveva assunto per i nazisti un alto valore simbolico. 110 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, trad. it. di P. Coriando, Il melangolo, Genova 1999, § 40, p. 227 [trad. modificata]. 111 K. Mannheim, Ideologia e utopia, trad. it. di A. Santucci, Il Mulino, Bologna 1965, p. 155. 112 Cfr. M. de Beistegui, Heidegger & the Political. Dystopias, Routledge, London and New York 1998, pp. 42 sgg. 113 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit. p. 131. 114 M. Heidegger, Logica e linguaggio, cit. p. 15. 115 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit. p. 56; Su questo tema Heidegger torna anche nel dopoguerra. Cfr. M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Id., Saggi e discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 45-65, pp. 61 sg. 116 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit. pp. 55-56. Ma su questo «demoniaco» cfr. infra, § 11. 117 Ivi, p. 56 [trad. modificata]. 118 Ivi, p. 57. 119 M. Heidegger, Logica e linguaggio, cit. p. 15. Cfr. un passo analogo in Id., Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 326. 120 M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 326. 121 Si noti che in tedesco Intelligenz vuol dire sia intelligenza sia intellighenzia.
298 122
note
M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 161. La polemica è ovviamente anche contro la scuola di Weber e in genere contro i sociologi. 124 M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 258. 125 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 218. 126 Nei seminari di Zollikon, tenuti fra il 1959 e il 1969, Heidegger dedica ampio spazio a Freud. Cfr. M. Heidegger, Seminari di Zollikon, trad. it. di E. Mazzarella e A. Giugliano, Guida, Napoli 2000. Il dialogo con Marx accompagna Heidegger dagli anni venti fino agli ultimi scritti. 127 T.W. Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, trad. it. di C. Mainoldi, Einaudi, Torino 1972, p. 12. 128 Cfr. G. Sauder, Die Bücherverbrennung. Zum 10. Mai 1933, Hanser, München 1983, p. 89. Cfr. anche E. Kästner, Über das Verbrennen von Büchern, Atrium, Zürich 2013, pp. 7 sgg. 129 M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo “Spiegel”, a cura di A. Marini, Guanda, Milano 2011, p. 125 [trad. modificata]. 130 Così ricorda Grassi: «sotto il suo rettorato bruciano i libri di ebrei e marxisti, testimonianze di una scienza “degenerata”». E. Grassi, Potenza dell’immagine. Rivalutazione della retorica, trad. it. di L. Croce e M. Marassi, Guerini, Milano 1989, p. 12. 131 “Der Alemanne” 20.06.1933, p. 12. 132 L. Löwenthal, I roghi dei libri. L’eredità di Calibano, trad. it. di M. Boffito, intr. di E. Loewenthal, il melangolo, Genova 1991, p. 43. 133 Cfr. cap. I § 9. Il saggio di Derrida ha aperto un dibattito documentato nel volume Of Derrida, Heidegger and Spirit, a cura di D. Wood, Northwestern University Press, Evanston Illinois, 1993. 134 M. Heidegger, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, trad. it. di A. Babolin, Laterza, Bari p. 254. 135 J. Derrida, Dello spirito, cit. p. 12. 136 Ivi, p. 34. 137 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit. § 10, pp. 71 sg. 138 J. Derrida, Dello spirito, cit. pp. 107 sgg. 139 Ivi, p. 106. 140 Ivi, p. 96. 141 M. Zarader, Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, trad. it. di M. Marassi, Vita e Pensiero, Milano 1995, p. 204. 142 J. Derrida, Dello spirito, cit. p. 90. 143 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit. p. 67. 144 Cfr. F. Hölderlin, Pane e vino, in Id., Poesie, trad. t. di G. Vigolo, Einaudi, Torino 1976 pp. 101-106: cfr. M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit. pp. 110 sgg. 145 M. Heidegger, Hölderlin – Viaggi in Grecia, trad. it. di T. Scappini, Bompiani, Milano 2012, pp. 283, 279 [trad. modificata]. Purtroppo il testo porta in italiano un titolo fantasioso e fuorviante (Dialogo della landa della sera). 123
note 146
299
M. Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), cit. p. 178. Ivi, p. 127. 148 Ivi, p. 226. 149 E. Jünger, La mobilitazione totale, in Id., Foglie e pietre, trad. it. di F. Cuniberto, Adelphi, Milano 1997, p. 154. 150 Cfr. E. Jünger, L’operaio, trad. it. di Q. Principe, Guanda, Milano 1991. Su Heidegger e Jünger cfr. infra, § 17. 151 M. Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’Evento), cit. p. 145. 152 Sulla violenza cfr. M. Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’Evento), cit. p. 283. 153 Ivi, p. 144; Id., Storia dell’Essere, cit. p. 39. 154 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. pp. 56-57. 155 M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 97. 156 Cfr. M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 45 157 Cfr. ivi, p. 53. 158 Ivi, p. 53. 159 Ivi, p. 260. 160 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in OFN VI/I, M. Montinari, Adelphi, Milano 1976, p. 371 [trad. modificata]. 161 M. Heidegger, Storia dell’Essere, cit. pp. 40-41 [trad. modificata]. 162 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 3. 163 M. Heidegger, Storia dell’Essere, cit. p. 41. 164 M. Heidegger, Ernst Jünger, trad. it. di M. Barison, Bompiani, Milano 2013, p. 421. 165 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 260. 166 J. Taubes, Escatologia occidentale, trad. it. di G. Valent, Garzanti, Milano 1997, p. 41. 167 Cfr. B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit. cap. VII, § 8, p. 1039. 168 M. Heidegger, Besinnung, cit. p. 17. 169 M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della phýsis. Aristotele, Fisica, B, 1, in Id., Segnavia, cit. pp. 193-256, p. 201. 170 M. Heidegger, Storia dell’Essere, cit. p. 41 [trad. modificata]. 171 Ivi, p. 40. 172 M. Heidegger, Colloqui su un sentiero di campagna (1944/45), a cura di I. Schlüßler, trad. it. di A. Fabris, Il melangolo, Genova 2007, p. 185 [trad. modificata]. 173 A. Hitler, Sämtliche Aufzeichnungen 1905-1924, a cura di E. Jäckel e A. Kuhn, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1980, p. 89. 174 Cfr. W. Jochmann, Gesellschaftskrise und Judenfeindschaft in Deutschland 1870-1945, Christians, Hamburg 1991, pp. 13-29. 175 Cfr. L. Herbst, Il carisma di Hitler. L’invenzione di un messia tedesco, trad. it. di U. Gandini, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 53 sgg., 158 sgg. Su questo tema cfr. E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 84 sgg. 147
300 176
note
Cfr. E. Jäckel, La concezione del mondo in Hitler. Progetto di un dominio assoluto, trad. it. di M.D. Ponti, Longanesi, Milano 1972, p. 83. D. Eckart, Das Judentum in und außer uns, in Id., Vermächtnis, a cura di A. Rosenberg, Zentralverlag d. NSDAP, München 1928, p. 99. 178 J. Goebbels, Michael. Ein deutsches Schicksal in Tagebuchblättern, Zentralverlag der NSDAP, München 1929, p. 58. Sull’ebreo come anticristo cfr. C.-E. Bärtsch, Die politiche Religion des Nationalsozialismus, Fink, München 2002, pp. 71 sgg., 131 sgg.; G. Kurz, Braune Apocalypse, in Apokalypse und Erinnerung, a cura di J. Brokoff e J. Jacob, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2002, pp. 131-145. 179 P. Burrin, L’antisemitismo nazista, trad. it. di G. Secco Suardo, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 45. 180 Era il progetto che proprio in quel periodo cominciava ad essere realizzato nei lager. 181 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 56. 182 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit. p. 110. 183 Ivi, p. 110. 184 Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, cit. pp. 508, 518; Id., Zur Auslegung von Nietzsches II. Unzeitgemässer Betrachtung «Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben», GA 46 Klostermann, Frankfurt 2003, pp. 304, 342, 365 [questa edizione non coincide in tutto con quella italiana]. 185 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, cit. 34 [253], p. 182; M. Heidegger, Nietzsche, cit. p. 518. 186 A. Hitler, La mia vita, cit. p. 332 [trad. modificata]. 187 Ivi, p. 342. 188 Ivi, p. 353. 189 Levitico/Vaikrà, 19, 2. 190 Cfr. Levitico/Vaikrà, 17, 10-12. Stranamente Losurdo sembra sostenere l’idea che l’ebraismo di quegli anni difenda una comunità basata sul sangue. Cfr. D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’«ideologia della guerra», Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 100 sgg. 191 C. Schmitt, La costituzione della libertà, in Y.C. Zarka, Un dettaglio nazi nel pensiero di Carl Schmitt, trad. it. di S. Regazzoni, Il melangolo, Genova 2005, pp. 63-66, p. 66. 192 A. Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts, cit. pp. 46, 462, 686. Cfr. R. Esposito, Dieci pensieri sulla politica, Il Mulino Bologna 2011, pp. 218 sgg. 193 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 56. 194 Ivi, p. 57. 195 I volumi della Gesamtausgabe pubblicati negli ultimi anni hanno contribuito, anche sotto questo aspetto, a mutare lo scenario. Articoli e saggi nel pro e nel contro, che si affaticavano con prove esigue a dimostrare la lontananza di Heidegger dal concetto di razza oppure la contiguità, come quello di Barash o quello di Faye, perdono a questo punto rilievo. Cfr. J.A. Barash, Heidegger et la question de la race, “Les Temps modernes”, (63) 2008, pp. 290-305; E. Faye, Soggettività e razza negli scritti di Heidegger, “Rivista di filosofia”, (103) 2012, pp. 95-116. 177
note 196
301
Cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali, trad. it. di F. Camera, Il melangolo, Genova 1989, p. 28. J. Derrida, Dello spirito, cit. p. 33. 198 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 48. 199 M. Heidegger, Storia dell’Essere, cit. p. 193, pp. 60-61; Id., Ernst Jünger, cit. pp. 330-331; E. Jünger, L’operaio, cit. pp. 97, 102 sg., 269. Cfr. S. Breuer, La rivoluzione conservatrice. Il pensiero di destra nella Germania di Weimar, trad. it. di C. Miglio, Donzelli, Roma 1995, pp. 66 sgg. 200 M. Heidegger, Nietzsche, cit. p. 788; Id., Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 324. Sull’ambivalenza di Nietzsche cfr. cap. II, § 5. 201 M. Heidegger, Logica e linguaggio, cit. p. 96. 202 M. Heidegger, Storia dell’Essere, cit. p. 61. 203 V. Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, trad. it. di P. Buscaglione, Giutina, Firenze 1998, p. 122. 204 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit. p. 56. 205 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 194. 206 M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 96. 207 M. Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), cit. pp. 168, 124. 208 Ivi, pp. 127, 188-189. 209 M. Heidegger, Sein und Wahrheit, GA 36-37, Klostermann, Frankfurt 2001, p. 263. 210 M. Heidegger, Logica e linguaggio, cit. p. 214. 211 M. Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), cit. p. 142-143. 212 Cfr. M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 45. 213 Cfr. R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, trad. it. di F. Sessi e G. Guastalla, Einaudi, Torino 1995, pp. 53, 66 sg.; P. Pulzer, The Rise of Political Anti-Semitism in Germany and Austria, 2 ed., Harvard University Press, London-Cambridge Mass. 1988. 214 C. Schmitt, Glossario, trad. it. di P. Dal Santo, Giuffrè, Milano 2001, p. 220. 215 Reichsgesetzblatt vol. I, p. 195. 216 Y.H. Yerushalmi, Assimilazione e antisemitismo razziale: i modelli iberico e tedesco, trad. it. di R. Volponi, Giuntina, Firenze 2010, p. 28. Yerushalmi non vede, però, che nell’apocalittica nazista l’ebreo non è più necessario come testimone di un piano divino e resta solo come nemico da eliminare. 217 G. Anders, Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia 1966, trad. it. di S. Fabian, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 24. 218 Su questo tópos cfr. cap. II § 2. 219 Per una ricostruzione cfr. F. Jesi, L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 29 sgg. 220 Tra il 1873 e 1900 ebbero luogo in Germania tredici processi per «omicidio rituale». Ancora nel 1949, a Monaco di Baviera, durante un processo intentato da una padrona di casa contro un’inquilina ebrea risuonò que197
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note
sta accusa. Cfr. la “Neue Zeitung” del 30 luglio 1949; L. Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli Ebrei, cit. p. 371. 221 H. Heine, Il rabbi di Bacherach, trad. it. di M. Longo, Marietti, Genova 1997, p. 25. 222 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, cit. 34 [154], p. 150. 223 M. Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, trad. it. di V. Cicero, Bompiani, Milano 2009, p. 161. 224 Matteo 27, 25. 225 Su questo tema cfr. Culti di sangue. Antropologia del nazismo, a cura di É. Conte e C. Essner, Carocci, Roma 2004, pp. 15 sgg. 226 A. Rosenberg, Der Mythus des 20. Jahrhunderts, cit. p. 114. Sul «misticismo» del sangue cfr. W. Reich, Psicologia di massa del fascismo, trad. it. di F. Belfiore e A. Wolf, Einaudi, Torino 2009, pp. 87 sgg. 227 Le «nozze del cadavere» sono il matrimonio, post mortem, tra la fidanzata tedesca e il guerriero sacrificato. Cfr. Culti di sangue, cit. pp. 147 sgg. 228 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 262. 229 Gerhard Ritter. Ein politischer Historiker in seinen Briefen, a cura di K. Schwabe e R. Reichhardt, Harald Boldt-Verlag, Boppard am Rhein 1984, p. 614. Ritter faceva parte del Freiburger Kreis, il circolo dell’opposizione conservatrice, e fu arrestato nel 1944. 230 H. Ott, Edmund Husserl und die Universität Freiburg, in Edmund Husserl und die phänomenologische Bewegung. Zeugnisse in Text und Bild, a cura di H. Sepp, Alber, Freiburg 1988, pp. 95-102, p. 102. 231 M. Heidegger, Osservazioni su alcune diffamazioni sempre rimesse in circolazione [1950], in Id., Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita, cit. pp. 421-422, p. 422. 232 M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit. p. 133. 233 M. Heidegger, Lettera a Malvine Husserl per il novantesimo compleanno, in Id., Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita, cit. p. 396. 234 E. Stein, Selbstbildnis in Briefen 2. 1933-1942, Werke vol. IX, Nauwelaerts, Louvain 1977, p. 182. A proposito delle tante conversioni Heidegger non aveva tralasciato un commento sarcastico in una lettera alla moglie dell’ottobre 1932: «e ora gli ebrei si fanno tutti cristiani». «Anima mia diletta!». Lettere di Martin Heidegger alla moglie Elfride 19151970, cit. p. 170. 235 H. Jonas, Husserl e il problema dell’ontologia [ebr.], in “Mosnajim” 7 (1938), pp. 581-589. 236 H. Jonas, In memoriam Edmund Husserl [ebr.], in “Turim” (1938); in una lettera a Scholem del 25 giugno 1938 Jonas raccontò di aver «sudato alla versione ebraica». Cfr. Lascito Gershom Scholem, Jewish National University Library – JNUL 4° 1599. Cfr. anche H. Jonas, Memorie, cit. p. 129. 237 K. Löwith, La mia vita in Germania, cit. p. 87. 238 H. Jonas, Memorie, cit. p. 243; Id., Husserl und Heidegger, Leo Baeck Institute Archives, New York, AR 2241/MS 75. 239 G. Grass, Anni di cani, trad. it. di E. Filippini, Feltrinelli, Milano 2009, p. 326 [trad. modificata]. 240 Cfr. D. Cairns, Conversations with Husserl and Fink, Nijhoff, Den Haag
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1976, p. 9; H. Spiegelberg, The Phenomenological Movement, 2 voll. Nijhoff, The Hague 1982, vol. I, p. 352. 241 M. Heidegger, Hegels Phänomenologie des Geistes, GA 32, Klostermann, Frankfurt 1980, p. 40. 242 M. Heidegger, Il mio cammino di pensiero e la fenomenologia, in Id., Tempo ed essere, trad. it. di E. Mazzarella, Guida, Napoli 1980, pp. 183191, p. 183. 243 M. Heidegger, Il mio cammino di pensiero e la fenomenologia, cit. p. 185. 244 Cfr. la lettera di Heidegger alla moglie scritta nella domenica di Pentecoste del 1917. «Anima mia diletta!». Lettere di Martin Heidegger alla moglie Elfride 1915-1970, cit. pp. 52-53. 245 E. Husserl, Der Encyclopaedia Britannica Artikel, in Id., Phänomenologische Psychologie, Niihoff, Den Haag 1968, pp. 237-300. Per una ricostruzione della vicenda, sulla base dei testi, cfr. Fenomenologia. Storia di un dissidio (1927), a cura di R. Cristin, Unicopli, Milano 1986. 246 O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers, Neske, Pfullingen, 1963, p. 79. A proposito di Essere e tempo Heidegger aveva scritto a Jaspers: «se il mio testo è stato scritto “contro” qualcuno, quello è Husserl, che se ne è accorto subito, ma che dall’inizio ha mantenuto un atteggiamento positivo». M. Heidegger – K. Jaspers, Lettere 1920-1963, cit. p. 60. Per le Randbemerkungen di Husserl cfr. E. Husserl, Glosse a Heidegger, trad. it. di C. Sinigaglia, Jaca Book, Milano 1996. 247 Cfr. E. Husserl, Phänomenologie und Anthropologie, in Id., Aufsätze und Vorträge (1922-1937), Husserliana, a cura di T. Nenon e H.R. Sepp, Kluwe, The Hague 1989, pp. 164-181. Cfr. M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit. pp. 129 sg. Su questo cfr. K. Schuhmann, Zu Heideggers Spiegel Gespräch über Husserl, in “Zeitschrift für philosophische Forschung”, 32/4 (1978), pp. 591-612. 248 Cfr. la lettera a Jaspers del 14 luglio 1923. M. Heidegger – K. Jaspers, Lettere 1920-1963, cit. p. 33. 249 Vastissima è la letteratura sul rapporto tra Husserl e Heidegger così come sul nesso tra ermeneutica e fenomenologia. Cfr. di recente Heidegger und Husserl im Vergleich, a cura di F. Rese, Klostermann, Frankfurt 2010; Heidegger und Husserl. Neue Perspektiven, a cura di G. Figal e H.-H. Gander, Klostermann, Frankfurt 2013. Cfr. anche J.-F. Courtine, Heidegger et la phenomenologie, Vrin, Paris 2000; J. Grondin, Le tournant herméneutique de la phénoménologie, PUF, Paris 2003; P. Trawny, Heidegger und der Mythos der jüdischen Weltverschwörung, cit. pp. 81-92. 250 Cfr. la lettera del 4 gennaio 1920. «Anima mia diletta!». Lettere di Martin Heidegger alla moglie Elfride 1915-1970, cit. p. 95. 251 H.-G. Gadamer, Il movimento fenomenologico, trad. it. di C. Sinigaglia, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 19 sgg. 252 E. Husserl, Ricerche logiche, 2 voll., trad. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1968, vol. I, p. 271. 253 Sul tema dell’intenzionalità cfr. M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, trad. it. di R. Cristin e A. Marini, Il melangolo, Genova 1999, pp. 34 sgg., 114 sgg. 254 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit. § 7, pp. 46-60.
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E. Husserl, Briefe an Roman Imgarden, Nijhoff, Den Haag 1968, p. 42. La lettera, conservata negli archivi Husserl, è riprodotta in Martin Heidegger und das Dritte Reich, a cura di B. Martin, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1989, p. 149. In questo volume sono pubblicati anche i documenti relativi al procedimento contro Heidegger nel 1945: Bericht über das Ergebnis der Verhandlungen im Bereiningungsausschuß vom 11. u. 13. XII 45 (19. Dez. 1945). Nel paragrafo intitolato Verhalten gegen Juden (Condotta verso gli ebrei) viene dato molto rilievo al rapporto con Husserl – accanto ai casi di dottorandi respinti, da Seidemann a Weiß. Nei panni dell’accusatore è Eucken, emarginato, prima del 1945, perché sposato con un’ebrea e perché appartenente al Freiburger Kreis. Mentre Heidegger afferma che per lui «l’origine ebraica di Husserl non aveva avuto alcun significato», Eucken riferisce che Husserl era invece convinto che «per via dell’antisemitismo Heidegger si era allontanato da lui». Ivi, p. 195-196. Un giudizio di Heidegger su Lampe, Eucken e Dietze – che definisce «moralisti» – si trova in M. Heidegger, Zum Ereignis –Denken, GA 73/2, Klostermann, Frankfurt 2013, p. 1019. 257 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. pp. 46-47. 258 Ivi, p. 46. 259 Cfr. K. Löwith, Les implications politiques de la philosophie de l’existence de Martin Heidegger, in “Les Temps Modernes”, (14) 1946, pp. 343-360 [ripubblicato in parte in Id., La mia vita in Germania, cit. pp. 50-72]. Di Löwith si veda anche K. Löwith, Saggi su Heidegger, trad. it. di C. Cases e A. Mazzone, Einaudi, Torino 1974. 260 A. Gnoli – F. Volpi, I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, pp. 28, 48, 83 sg. Di recente è uscita la corrispondenza: E. Jünger – M. Heidegger, Briefwechsel 1949-1975, a cura di G. Figal, Klett-Cotta – Klostermann, Stuttgart – Frankfurt 2008. 261 Cfr. E. Jünger, Nelle tempeste d’acciaio, trad. it. di G. Zampaglione, Guanda, Milano 2000. Su Jünger cfr. H. Blumenberg, L’uomo della luna. Su Ernst Jünger, trad. it. di S. Gorgone, Mimesis, Milano 2012. 262 E. Jünger, La battaglia come esperienza interiore, trad. it. di S. Buttazzi, Piano B, Bologna 2014. 263 Cfr. C. Schmitt, Sulla relazione intercorrente fra i concetti di guerra e di nemico, in Id., Le categorie del ‘politico’, trad. it. di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 193 sgg. 264 W. Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, in Id., Opere complete IV. Scritti 1930-1931, trad. it. di E. Ganni, Einaudi, Torino 2002, pp. 203-213, pp. 204-205. 265 Ivi, pp. 211, 213. Cfr. S. Sontag, Fascinating Fascism, in Ead., Under the Sign of Saturn, Penguin Book, London 2009, pp. 71-105. 266 Anche Hannah Arendt ha evidentemente frainteso quando ha scritto che Jünger è stato «un attivo oppositore del nazismo dal primo all’ultimo giorno del regime». Cfr. H. Arendt, I postumi del dominio nazista: reportage dalla Germania, in Ead., Archivio Arendt 2. 1950-1954, trad. it. di P. Costa, a cura di S. Forti, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 22-43, p. 34. 267 Cfr. E. Jünger – C. Schmitt, Briefwechsel, Clett-Cotta, Stuttgart 1999, 256
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pp. 151-153 (lettere di Jünger a Schmitt del 10, 23 e 27 dicembre 1943); Id., Diario 1941-1945, Longanesi, Milano 1984, p. 233 (21 aprile 1943). 268 E. Jünger – C. Schmitt, Briefwechsel, cit. p. 164 (lettera di Schmitt a Jünger del 4 agosto 1943). 269 A. Gnoli – F. Volpi, I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, cit. pp. 90-91. 270 Ivi, p. 96. 271 Vale la pena notare in margine che l’estesa esegesi cattolica al Vangelo di Giovanni dedica ben poco spazio a questo versetto. In genere si ritiene «superata» la tesi contenuta, cioè il ruolo salvifico di Israele. Paradigmatica è la posizione di Bultmann per il quale queste parole, inconciliabili con il testo evangelico, andrebbero considerate «in tutto o in parte una glossa della redazione». Cfr. R. Bultmann, Das Evangelium des Johannes [1941], Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1986, p. 139. Per una interpretazione ebraica di questo versetto, che comprende anche una critica a Rosenzweig, cfr. J. Taubes, La disputa tra ebraismo e cristianesimo. Su una controversia insolubile, in Id., Il prezzo del messianismo, trad. it. di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 13-27. 272 L. Bloy, Dagli ebrei la salvezza, trad. it. di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 1994, pp. 25, 41. 273 E. Jünger, Le potenze antinazionali, in Id., Scritti politici e di guerra. 19191933, trad. it. di A. Iadicicco, LEG, Gorizia 2005, vol. II 1926-1928, pp. 162-166, p. 165. 274 E. Jünger, Il nazionalismo, in Id., Scritti politici e di guerra. 1919-1933, cit. vol. II 1926-1928, pp. 38-42, p. 41. 275 Ivi, p. 39. 276 E. Jünger, Il sangue, in Id., Scritti politici e di guerra. 1919-1933, cit. vol. II 1926-1928, pp. 43-48; Id., Metropoli e campagna, in Id., Scritti politici e di guerra. 1919-1933, cit. vol. II 1926-1928, pp. 91-97, p. 95. 277 E. Jünger, Il sangue, cit. pp. 44 sgg. 278 E. Jünger, Le potenze antinazionali, cit. p. 165. 279 Sorprende che nel 1930 si potesse anche solo concepire un tale dibattito. Convertito al cattolicesimo nel 1905, Coßmann era incline alle polemiche e amava le controversie; invitò perciò quattordici esponenti delle diverse «parti»: per gli ebrei, fra gli altri, Leo Baeck, Israel Cohen, Max Naumann, per i tedeschi, e i nazionalsocialisti Theodor Fritsch e Theodor Seibert. Il 1930 doveva, però, essere una data limite. 280 E. Jünger, Sul nazionalismo e sulla questione ebraica, in Id., Scritti politici e di guerra. 1919-1933, cit. vol. III 1929-1933, pp. 188-193, p. 188. Cfr. J.-L. Évard, Ernst Jünger et les juifs, in “Les Temps modernes” (589) 1996, pp. 102-130. 281 E. Jünger, Sul nazionalismo e sulla questione ebraica, cit. p. 191. 282 Ivi, p. 192. 283 E. Jünger, Conclusione di un saggio, in Id., Scritti politici e di guerra. 19191933, cit. vol. III 1929-1933, pp. 131-140, pp. 137 sg. 284 E. Jünger, Sul nazionalismo e sulla questione ebraica, cit. p. 193. 285 Come riconosce Kiesel, l’alternativa di Jünger si inscrive in un «antisemitismo eliminatorio». H. Kiesel, Ernst Jünger. Eine Biographie, Siedler, München 2007, p. 316.
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M. Heidegger, Ernst Jünger, cit. p. 393. Ibidem. Ivi, p. 829. 289 Ivi, p. 47. 290 Cfr. C. von Krockow, Die Entscheidung. Eine Untersuchung über Ernst Jünger, Carl Schmitt, Martin Heidegger, Enke, Stuttgart, 1958, p. 68 sgg. 291 E. Jünger, Oltre la linea, in E. Jünger – M. Heidegger, Oltre a la linea, cit. pp. 47-105, pp. 79 sgg. 292 Cfr. H. Kiesel, Ernst Jünger. Eine Biographie, cit. p. 543. Sulla questione del nazionalsocialismo cfr. P. Trawny, «Was ist “Deutschland”?». Ernst Jüngers Bedeutung für Martin Heideggers Stellung zum Nationalsozialismus, in “Heidegger Jahrbuch”, Heidegger und der Nationalsozialismus. Interpretationen, (5), 2010, pp. 209-234. 293 Cfr. G. Figal, Der metaphysische Charakter der Moderne. Ernst Jüngers Schrift Über die Linie (1950) und Martin Heideggers Kritik Über «Die Linie» (1955), in Ernst Jünger im 20. Jahrhundert, a cura di H.-H. Müller – H. Segeberg, Fink, München 1955, pp. 181-197. 294 M. Heidegger, La questione dell’essere, in E. Jünger – M. Heidegger, Oltre a la linea, cit. pp. 107-167, p. 118. 295 M. Heidegger, Ernst Jünger, cit. p. 813. 296 Cfr. F. Dastur, Situation du nihilisme. La réponse de Heidegger à Jünger, in Ead., Heidegger et la pensée à venir, Vrin, Paris, pp. 155-169, p. 164. 297 Cfr. H. Kuhn, Politik, philosophisch verstanden. Eine Auseinandersetzung mit Carl Schmitts «Der Begriff des Politischen» [1933], in Id., Der Staat. Eine philosophische Darstellung, Kösel, München 1967, pp. 447-460; K. Löwith, Il decisionismo occasionale di Carl Schmitt [1935], in Id., Critica dell’esistenza storica, trad. it. di A. Kunkler Giavotto, Morano, Napoli 1967, pp. 111-162; H. Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato [1934], in Id., Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, a cura di F. Cerutti, trad. it. di C. Ascheri et al., Einaudi, Torino 1969, pp. 3-41; L. Strauss, Note sul «concetto di politico» di Carl Schmitt [1932], in Id., Gerusalemme e Atene. Studi sul pensiero politico dell’Occidente, intr. di R. Esposito, trad. it. di P. Kobau, Einaudi, Torino 1998, pp.379-399. Su Schmitt cfr. C. Galli, Lo sguardo di Giano. Saggi su Carl Schmitt, Il Mulino, Bologna 2008. 298 M. Heidegger – K. Jaspers, Lettere 1920-1963, cit. p. 265 [trad. modificata]. 299 M. Heidegger, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita 19101976, cit. p. 147 [trad. modificata]. 300 Cfr. J. Taubes, La teologia politica di Paolo, trad. it. di P. Dal Santo, Adelphi, Milano 1997, p. 132. 301 G. Ulmen, Between the Weimarer Republic and the Third Reich: Continuity in Carl Schmitt’s Thought, in “Telos” (119) 2001, pp. 18-31, p. 29. Cfr. anche N. Tertulian, Scènes de la vie philosophique sou le IIIe Reich: Steding, Schmitt, Heidegger, in Carl Schmitt ou le mythe du politique, a cura di C.Y. Zarka, Puf, Paris 2009, pp. 121-160, pp. 158-159. Sebbene poco noto, Christoph Steding è stato uno degli autori più importanti del nazionalsocialismo. Cfr. C. Steding, Das Reich und die Krankheit der europäischen Kultur, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1942. 287 288
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Cfr. M. Heidegger, Seminare. Hegel – Schelling, cit. pp. 173 sg. C. Schmitt, Ex Captivitate Salus, cit. p. 78. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit. p. 112. 305 Cfr. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit. pp. 108-110. 306 Cfr. Platone, Repubblica, 470a-471d. 307 C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit. p. 111. 308 C. Schmitt, Sulla relazione intercorrente fra i concetti di guerra e di nemico, in Id., Le categorie del ‘politico’, cit. pp. 195-203, pp. 195 sg. 309 C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit. p. 112. 310 Ibidem. 311 J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit. p. 104. 312 Ivi, p. 109. Occorre notare che quando Derrida gli attribuisce la stessa opposizione ontologica amico-nemico, sostenuta da Schmitt, non sono ancora stati pubblicati gli ultimi corsi e seminari di Heidegger. 313 Cfr. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit. pp. 132-133. 314 Ivi, p. 116. 315 F. Neumann, Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, trad. it. di M. Baccianini, Feltrinelli, Milano 1977, p. 62. Costretto all’emigrazione perché ebreo, Neumann fu tra i primi a tentare un’interpretazione del nazionalsocialismo. 316 Cfr. C. Resta, L’Estraneo. Ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento, Il melangolo, Genova 2008, p. 36. 317 C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit. p. 118 [sottolineatura mia]. 318 Ivi, p. 109. Nella versione del 1933 Schmitt corregge l’Anderer con l’Andersgearteter, l’altro con colui che è diverso per Art, per razza. 319 Ibidem. 320 Ivi, p. 120. È lo stesso Schmitt ad aver sottolineato, in una nota successiva, l’importanza di questo passo per comprendere il suo concetto di nemico. Zarka ha indicato nell’Ebreo il nemico ulteriore che definisce «sostanziale», mentre qui preferisco parlare di nemico eterno e elettivo. Cfr. Y.C. Zarka, Un dettaglio nazi nel pensiero di Carl Schmitt, cit. pp. 45 sgg. 321 C. Schmitt, Glossario, cit. p. 25. 322 C. Schmitt, La scienza giuridica tedesca in lotta contro lo spirito ebraico [1936], in Carl Schmitt sommo giurista del Führer. Testi antisemiti, a cura di C. Angelino, Il melangolo, Genova 2006, pp. 31-40, p. 40 [trad. modificata]. 323 J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit. p. 103. 324 J. Taubes, Carl Schmitt. Un apocalittico della controrivoluzione, in Id., In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, trad. it. di E Stimilli e G. Scotto, Quodlibet, Macerata 1996, p. 36 [trad. modificata]. 325 C. Schmitt, I tre tipi di pensiero giuridico [1934], in Id., Le categorie del ‘politico’, cit. pp. 247-275, p. 254 [trad. modificata]. 326 C. Schmitt, Stato, movimento popolo, in Id., Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, a cura di G. Agamben, trad. it. di D. Cantimori, Neri Pozza, Vicenza 2012, pp. 255-312, p. 311. 327 C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit. p. 139. 328 C. Schmitt, I tre tipi di pensiero giuridico, cit. p. 249 [trad. Modificata]. 329 In ebraico Torà vuol dire “insegnamento”. Fra le scene teologicamente 303 304
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più significative va ricordato Matteo 5, 17, dove Gesù di Nazareth dice: «non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge (tòn nómon) o i profeti; non sono venuto per abolire, ma per compiere (allà plerôsai)». Il greco nómos rinvia qui evidentemente a Torà. Dunque in realtà direbbe: sono venuto a compiere la Torà – non a toglierla. 330 C. Schmitt, Appropriazione / divisione / produzione, in Id., Le categorie del ‘politico’, cit. 295-312, p. 297. Su questo tema cfr. G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2009 (nuova ed.), pp. 131-150. 331 Cfr. C. Schmitt, Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum», a cura di F. Volpi, trad. it. di E. Castrucci, Adelphi, Milano1991, p. 20. 332 In modo analogo si esprime Hegel. Cfr. Cap II § 4. 333 Per questo mi permetto di rinviare a D. Di Cesare, Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri, Torino 2014. 334 C. Schmitt, Völkerrechtliche Grossraumordnung, Duncker & Humblot, 1991, p. 79. Cfr. anche F. Ratzel, Lebensraum. Eine biogeographische Studie [1901], Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1966, pp. 67 sgg. 335 C. Schmitt, Teologia politica, in Id., Le categorie del ‘politico’, cit. pp. 27-86, p. 33. 336 C. Schmitt, Il Führer custode del diritto, in Carl Schmitt sommo giurista del Führer. Testi antisemiti, cit. pp. 21-29, p. 23. 337 Su questa tema cfr. G. Agamben, Stato d’eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 338 Se la libertà di Dio rispetto alle leggi della natura si esprime nel miracolo, si può parlare di miracolo per il «sovrano» che decide lo stato d’eccezione? 339 «Quello che il nuovo Nomos comanda, ricorda (deve ricordare?) le parole di Giov. 13, 34: entolèn kainèn dídomi…[vi do un comandamento nuovo …]». J. Taubes, Lettera ad Armin Mohler del 14 febbraio 1952, in Id., In divergente accordo, cit. p. 43. Cfr. A. Mohler, Die konservative Revolution in Deutschland – 1918-1932. Ein Handbuch, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Frankfurt 1989. 340 C. Schmitt, La costituzione della libertà, cit. pp. 63-66. 341 C. Schmitt, La scienza giuridica tedesca in lotta contro lo spirito ebraico, cit. p. 32. 342 Cfr. F. Dostoevskji, I fratelli Karamazov, trad. it. di N. Cicognini e P. Cotta Ramusino, Mondadori, Milano 2014, pp. 258 sgg.; C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, [1923], trad. it. di C. Galli, Il Mulino, Bologna 2010, p. 8; cfr. su questo le osservazioni di J. Taubes, In divergente accordo, cit. p. 27. 343 Cfr. C. Schmitt, Sul Leviatano, trad. it. di C. Galli, Il Mulino, Bologna 2011, pp. 40 sg., 94 sgg. 344 Ivi, p. 45. 345 C. Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, trad. it di G. Gurisatti, postfazione di F. Volpi, Adelphi, Milano 2002, p. 19. 346 Talmud Baba Batra 74b. La leggenda secondo cui Dio giocherebbe ogni giorno tre ore con il Leviatano deriva da un’antica haggadah. Cfr. L.
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Ginzberg, Le leggende degli ebrei, vol. I Dalla creazione al diluvio, trad. it. di A. Allisio e E. Loewenthal, Adelphi, Milano 1995, pp. 43-47, 55-57. 347 Cfr. H. Heine, Romanzero, libro III, in Id., Melodie ebraiche, trad. it. di G. Calabresi, Laterza, Bari 1953, pp. 493-495. L’inno ebraico, che si cantava a Shavuot nelle sinagoghe tedesche, doveva essere ben noto a Heine che aveva avuto un’educazione tradizionale. Cfr. Sepher Kruwot, Machsor Lechag Haschawuot, Hamburg 5599(=1838), pp. 108-119. 348 La fonte di Schmitt era il famigerato scritto antisemita di Andreas Eisenmenger Entdecktes Judentum, pubblicato nel 1711, a cui infatti rinvia in una nota. Cfr. C. Schmitt, Sul Leviatano, cit. p. 45. Cfr. P. Bookbinder, Carl Schmitt, Der Leviathan and the Jews, in “International Social Science Review”, (66) 1991, pp. 99-109. 349 C. Schmitt, Sul Leviatano, cit. p. 44. 350 Le organizzazioni antisemite, che avevano ancora voce, si levarono contro il libro di Schmitt. Cfr. R. Gross, Schmitt und die Juden, cit. pp. 278 sg. 351 Cfr. C. Schmitt, Terra e mare, cit. p. 21. Dell’anticristo, e delle sue temibili maschere, Schmitt aveva già parlato molto tempo prima. Cfr. C. Schmitt, Theodor Däublers «Nordlicht». Drei Studien über die Elemente, den Geist und die Aktualität des Werkes [1916], Duncker & Humblot, Berlin 1991, p. 61. Per un sguardo critico sulla teologia politica di Schmitt cfr. Der Fürst dieser Welt. Carl Schmitt und die Folgen, a cura di J. Taubes, Schöningh – Fink, München 1985. 352 La seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi 2,1-12, insieme con Daniele 7-12, la rivelazione di Giovanni 13-17 e Matteo 24, costituiscono la parte principale del canone neotestamentario a cui attingono le numerosissime dottrine cristiane sulla fine dei tempi, l’anticristo e la parusia. Per una suggestiva interpretazione recente cfr. M. Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013. Cfr. anche Id., Dell’Inizio, Adelphi, Milano 2001, pp. 621-638; Id., Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 2008, pp. 117 sgg. 353 C. Schmitt, Il Nomos della terra, cit. p.43. Nella versione tedesca compare Reich che ha un valore ambiguo e rinvia sia al Terzo Reich sia all’Impero Romano. 354 J. Taubes, Carl Schmitt. Un apocalittico della controrivoluzione, in Id., In divergente accordo, cit. pp. 19-40, p. 34. 355 Cfr. D. Di Cesare, Grammatica dei tempi messianici, Giuntina, Firenze 2011. 356 J. Taubes, Carl Schmitt. Un apocalittico della controrivoluzione, cit. p. 33. 357 Ibidem. 358 Cfr. C. Schmitt, Risposte a Norimberga, a cura di H. Quaritsch, trad. it. di F. Ferraresi, Laterza, Roma-Bari 2006. 359 Carl Schmitt – Briefwechsel mit einem seiner Schüler, p. 95. 360 Ex Captivitate Salus si intitola infatti il libro scritto da Schmitt in prigione. Qui fa riferimento esplicito a Bloy al cui libro aveva già accennato in una lettera a Jünger del 4 agosto 1943. Cfr. C. Schmitt, Ex Captivitate Salus, cit. p. 34; Ernst Jünger – Carl Schmitt. Briefe 1930-1983, a cura di H. Kiesel, Klett-Cotta, Stuttgart 1999, p. 164 361 C. Schmitt, Glossario, cit. p. 404.
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Ivi, p. 91. C. Schmitt, Glossario, cit. pp. 417-418. Simon Bar Kochbà (in aramaico Figlio della Stella, secondo la profezia di Numeri 24, 17), aveva guidato la terza guerra giudaica contro l’Impero romano che aveva segnato la sconfitta definitiva di Israele. Cfr. M. Simon, Verus Israel. Éude sur les relations entre chrétiens et juifs dan l’Empire romain (135-425), de Boccard, Paris 1948. 364 Purtroppo nella prolissa esposizione di Faye molte distinzioni vengono confuse e si perde di vista la differenza tra Heidegger e Schmitt. Cfr. E. Faye, Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia, cit. pp. 196 sgg., 229 sgg., 315 sgg., 332 sgg. 365 M. Heidegger, Seminare. Hegel – Schelling, cit. p. 173. Cfr. anche un richiamo analogo nella parte dei Protokolle und Mitschriften: «di recente è stato indicato nel rapporto amico-nemico l’essenza del politico», ivi, pp. 608 sg. 366 Ivi, p. 174. 367 Ibidem [sottolineatura mia]. 368 M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin, cit. p. 74. 369 Ivi, p. 75. Cfr. F. Fistetti, Heidegger e l’utopia della polis, Marietti, Genova 1999, p. 25 sgg. 370 M. Heidegger, Parmenide, cit. p. 98 [sottolineatura mia]. 371 Ivi, p. 93. 372 Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit. p. 160. 373 M. Heidegger, L’inno “Der Ister” di Hölderlin, cit. p. 86. 374 Cfr. G. Fried, Heidegger’s Polemos: From Being to Politics, Yale University Press, New Haven 2000; C. Rickey, Revolutionary Saints, Heidegger, National Socialism, and Antinomian Politics, The Pennsylvania State University Press, University Park 2002, pp. 256 sgg. 375 M. Heidegger, Sein und Wahrheit, cit. pp. 90-91. 376 Ivi, p. 91. 377 Cfr. C. Schmitt, La scienza giuridica tedesca in lotta contro lo spirito ebraico, cit. pp. 39 sg. 378 M. Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), cit. pp. 141. 379 Cfr. Ivi, p. 147. 380 M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. pp. 30, 56. 381 M. Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), cit. 59. 382 M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. pp. 325-326. 383 Ivi, p. 325. 384 Cfr. M. Heidegger, Sein und Wahrheit, cit. p. 177. 385 C. von Clausewitz, Della guerra, trad. it. di A. Bollati ed E. Canevari, Mondadori, Milano 1970, parte II, p. 811; C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit. p. 117. Cfr. G. Schwab, The Challenge of the Exception: An Introduction to the Political Ideas of Carl Schmitt between 1921 and 1936, Westport, New York 1989. 386 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 141. Cfr. il passo analogo in Id., Storia dell’Essere, cit. p. 179-180. 363
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Cfr. M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, cit. pp. 45-65, p. 60. Cfr. J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit. p. 290 sgg. M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 188. 390 M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit. p. 72. 391 Cfr. su questo tema J. Derrida, L’orecchio di Heidegger, in Id., La mano di Heidegger, trad. it. di G. Chiurazzi, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 148. 392 J. Derrida, L’orecchio di Heidegger, cit. p. 151. 393 M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 326. 394 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 42. 395 Ivi, p. 185. 396 V. Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich, cit. pp. 264-265. 397 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. pp. 133, 243, 262. 398 K. Jaspers, Philosophische Autobiographie, Piper, München-Zürich 1984, p. 101. 399 Cfr. N. Cohn, Licenza per un genocidio. I «Protocolli dei savi Anziani di Sion» e il mito della cospirazione ebraica, trad. it. di L. Felici, Castelvecchi, Roma 2013. Non è forse un caso che il mito del complotto sia tratteggiato nel modo più lineare dal famoso fumettista Willi Eisner. Cfr. W. Eisner, Il complotto. La storia segreta dei protocolli dei Savi di Sion, trad. it. di F. Pacifico, Einaudi, Torino 2005. 400 Cfr. C. De Michelis, Il manoscritto inesistente. I «Protocolli dei savi di Sion», Marsilio, Venezia 1998. 401 Sulla diffusione in Russia cfr. C.G. De Michelis, La giudeofobia in Russia. Dal Libro del «kahal» ai Protocollli dei savi di Sion, Bollati Boringhieri, Torino 2001. 402 S.A. Nilus, «Bliz est, pri dverekh…» («È vicino alla porta» ), Sergiev Posad 1917, p. 88. 403 Auf Vorposten significa «Agli avamposti». La casa editrice faceva parte del Verband gegen die Überhebung des Judentums (Unione contro l’arroganza dell’ebraismo). 404 W. Benz, I protocolli dei savi di Sion. La leggenda del complotto mondiale ebraico, trad. it. di. A. Gilardoni, Mimesis, Milano 2009, p. 77. 405 Cfr. S. Friedländer, La Germania nazista e gi ebrei. Gli anni della persecuzione: 1933-1939, trad. it. di S. Minucci, Garzanti, Milano 2004, pp. 81 sgg. 406 Cfr. P.-A. Taguieff, L’imaginaire du complot mondial. Aspects d’un mythe moderne, Éditions Mille et une nuits, Paris 2012, pp. 9 sg. 407 A. Hitler, La mia vita, cit. pp. 333-334. 408 S. Freud, L’uomo Mosè e la religione monoteista. Tre saggi, trad. it. di P.C. Bori, G. Contri, E. Sagittario, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 97, 103. 409 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. p. 497 [trad. modificata]. 410 N. Cohn, Licenza per un genocidio, cit. pp. 191 sg. 411 Cfr. J. Rogozinski, Hell on Earth. Hannah Arendt in the Face to Hitler, in Law and Evil: Philosophy, Politics, Psychoanalyisis, a cura di A. Hirvonen e J. Portikkivi, Routledge, London 2010, pp. 257-274. 388
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note
M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 40; un altro riferimento alla prima guerra mondiale è a p. 113. Ivi, p. 40. 414 Ivi, p. 133. 415 Ibidem. 416 Ivi, p. 44. 417 D’altronde già Hegel aveva detto che gli ebrei vincono senza combattere. Cfr. cap. II § 4. 418 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 262. 419 M. Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’Evento), cit. p. 79. 420 Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale, cit. I, § 7, p. 232, § 10, p. 236. Cfr. per questo cap. II § 5. 421 H.-H Knütter, Die Juden und die deutsche Linke in der Weimarer Republik 1918-1933, Droste Verlag, Düsseldorf 1971, pp. 118 sgg. 422 Su questo tema cfr. M. Löwy, Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, trad. it. di D. Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino 1992; Id., Juifs hétérodoxes. Messianisme, romantisme, utopie, Eclat, Paris 2010. 423 T. Mann, Considerazioni di un impolitico, trad. it. di M. Marianelli e M. Ingenmey, Adelphi. Milano 1997, p. 24. 424 O. Spengler, Preußentum und Sozialismus, Beck, München 1919, p. 97. 425 Su quest’opera, tra le fonti principali dell’ideologia nazista, ha attirato l’attenzione E. Nolte, Eine frühe Quelle zu Hitlers Antisemitismus, in “Historische Zeitschrift”, (192) 1961, pp. 585-606. Proprio la tesi di Nolte, secondo cui il nazismo sarebbe stato l’unica risposta possibile al pericolo rosso, viene infirmata dal giudeo-bolscevismo che mostra come la minaccia erano gli ebrei, non il bolscevismo politico. Cfr. a questo proposito E. Nolte, La guerra civile europea 1917-1945. Nazionalsocialismo e bolscevismo, trad. it. F. Coppellotti, V. Bertolino e G. Russo, Rizzoli, Milano 2008. 426 D. Eckhart, Der Bolschewismus von Moses bis Lenin. Zwiegespräch zwischen Adolf Hitler und mir, Hoheneichen, München 1924, p. 5. 427 Cfr. ivi, pp. 37-38. 428 Cfr. ivi, p. 49. 429 A. Hitler, La mia vita, cit. p. 70 [trad. modificata]. 430 D. Eckart, Auf gut deutsch, (9/10) 1919, p. 81. 431 A. Rosenberg, Der jüdische Bolschewismus, in D. Eckart, Totengräber Russlands, Deutscher Volks-Verlag, München 1921, p. 3. 432 Hitler. Reden und Proklamationen 1932-1945, a cura di M. Domarus, vol. II Untergang, 1932-1945, Schmidt, Würzburg, 1962-63, p. 1328. 433 Cfr. E. Jäckel, La concezione del mondo in Hitler, cit. pp. 49 sgg. 434 Cfr. P. Burrin, L’antisemitismo nazista, cit. pp. 63 sgg. 435 J. Goebbels, Die Tagebücher, a cura di E. Frölich, Saur, München 1998, parte I, vol. IX, pp. 377-378. 436 Cfr. S. Friedländer, Gli anni dello sterminio. La Germania nazista e gli ebrei (1939-1945), trad. it. di S. Carafini, Garzanti, Milano 2009, pp. 174 sg. 437 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 242. 413
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Ibidem. Ivi, p. 242. Figura complessa, appartenente alla sinistra trotzkista, dopo essere stato condannato a un campo di lavoro, Radek era già stato ucciso nel 1939, nel periodo della grande repressione, quando Heidegger scrive. Su Radek cfr. W. Lerner, Karl Radek: The Last Internationalist, Stanford University Press, Stanford 1970. 441 D. Eckart, Totengräber Russlands, cit. p. 6. 442 A questo concetto è dedicato un excursus molto importate che si trova sia nella Storia dell’Essere che nei Quaderni neri. Cfr. M. Heidegger, Storia dell’Essere, cit. pp. 171-184; Id., Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. pp. 149-162. Sul leninismo torna in seguito: Id., Parmenide, cit. pp. 165 sg. 443 M. Heidegger, Überlegungen II-VI (Schwarze Hefte 1931-1938), cit. p. 351. Per il complesso concetto di “secolarizzazione” cfr. G. Marramao, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Bollati Boringhieri, Torino 2005. 444 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. pp. 47-48. 445 Ivi, p. 109. Non distante è la posizione di W. Gurian, Der Bolschewismus, Herder, Freiburg 1931, in part. 185-212. È possibile che Heidegger conoscesse quest’opera. Per un ritratto di Gurian, ebreo armeno, nato a Pietroburgo, battezzato da bambino insieme alla madre, vissuto in Germania, dove aveva studiato filosofia e aveva stretto rapporti con Schmitt, fra i primi interpreti del totalitarismo, costretto quindi a emigrare negli Stati Uniti, una delle figure che avevano illuminato quei tempi oscuri, cfr. H. Arendt, Waldemar Gurian 1903-1954, pubblicato dapprima nella “Rewiev of Politics”, fondata da Gurian, e quindi incluso in Ead., Menschen in finsteren Zeiten, München, Piper 1989, pp. 304-328. 446 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. pp. 109, 111, 127. 447 Ivi, p. 109. 448 Ivi, p. 110. 449 Ivi, p. 134. 450 Ivi, pp. 148, 227, 276. 451 Ivi, pp. 235. Sul ruolo potenziale dell’Inghilterra, anche in un senso antisemita, cfr. ivi, p. 146-147. 452 Ivi, pp. 243. 453 M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 97. 454 Cfr. D. Di Cesare, Utopia del comprendere, Il melangolo, Genova 2003, pp. 141 sgg. 455 Cfr. cap. II §§ 3-4. 456 F. Rosenzweig, La stella della redenzione, trad. it. di G. Bonola, Marietti, Genova 1985, p. 321. 457 M. Heidegger, Essere e tempo, cit. § 12, p. 78. 458 Ivi, § 14, p. 89. 459 Cfr. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, trad. it. di P. Coriando, Il melangolo, Genova 1999, § 42, pp. 230 sgg. 439 440
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J. Derrida, Dello spirito, cit. pp. 55-65. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, cit. p. 255. 462 Ivi, p. 256. 463 Ivi, p. 234. 464 Cfr. cap. II § 4. Nell’ebraismo la pietra, even, ha una simbologia molto ampia dove, insieme all’eternità e al ricordo, memoria del Tempio, omaggio ai defunti, indica – da av e ben, padre e figlio – la tradizione, la continuità delle generazioni, il proseguire della storia, la vita. 465 Platone, Teeteto, 146 c-e [sottolineatura mia]. 466 L. Wittgenstein, Libro blu e Libro marrone, trad. it. di A.G. Conte, pref. di A. Gargani, Einaudi, Torino 1983 p. 30; Id., Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, trad. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1986, § 444, p. 96.; Id., Ricerche filosofiche, trad. it. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1999, § 92, p. 61. 467 L. Wittgenstein, Libro blu, cit. p. 28. 468 C. Schmitt, La scienza giuridica tedesca, cit. p. 33. 469 Cfr. P. Trawny, Heidegger und der Mythos der jüdischen Weltverschwörung, cit. pp. 31 sgg. 470 Non è un caso che – come si è visto – il biologismo ricada per Heidegger nella metafisica. 471 W. Gurian, Um des Reiches Zukunft, Herder, Freiburg 1932 p. 77. Anche a proposito di quest’opera, come già per quella sul bolscevismo, si deve presumere che Heidegger la conoscesse. 472 Ad esempio nel capitolo «Die Gegengründung des nachchristlichen Judentums» contenuto in H. Blüher, Die Erhebung Israels gegen die christlichen Güter, Hanseatischer Verlagsanstalt, Hamburg-Berlin 1931, pp. 87-138. Cfr. anche la sua ripresa sia del tema della menzogna sia dello scenario apocalittico già in Id., Secessio Judaica. Philosophische Gründung der historischen Situation des Judentums und der antisemitischen Bewegung, Der weisse Ritter, Berlin 1922, in part. pp. 19 sgg. 473 Su questo nesso con la teologia cristiana dovrebbe riflettere una filosofia che anche oggi si pretende autonoma. 474 J.-F. Lyotard, Heidegger e “gli ebrei”, trad. it. di G. Scibilia, Feltrinelli, Milano 1989, p. 88. 475 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 238. 476 M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, cit. p. 77. 477 Ivi, p. 70. 478 Ivi, p. 73. 479 Aristotele, Metafisica, 1009a 31. 480 Si deve presumere che per Heidegger abbiano svolto un ruolo di rilievo Meister Eckhart e Jakob Böhme. 481 Cfr. G. Scholem, Creazione dal nulla e autolimitazione di Dio, in Id., Concetti fondamentali dell’ebraismo, trad. it. di M. Bertaggia, Marietti, Genova 1986, pp. 41-73, pp. 70 sgg. Cfr. A. Safran, La Kabbalà. Legge e mistica nella tradizione ebraica, trad. it. di A. Levi, Carucci, Roma 1981, pp. 310 sgg. 482 M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit. p. 311. 461
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M. Heidegger, Nietzsche, cit. p. 799 (un passo analogo è a p. 526). Ivi, p. 840. Di «Vernichtung» in questo senso Heidegger parla anche altrove. Cfr. M. Heidegger, Sein und Wahrheit, p. 91; Id., Besinnung, cit. p. 16. 485 J. Taubes, Vom Adverb «Nichts» zum Substantiv «das Nichts». Überlegungen zu Heideggers Frage nach dem Nichts, in Positionen der Negativität. Poetik und Hermeneutik VI, a cura di H. Weinrich, Fink München 1975, pp. 141-153, p. 153. 484
4. Dopo Auschwitz 1
E. Lévinas, Quattro letture talmudiche, trad. it. di A. Moscato, Il melangolo, Genova 2008, p. 58. 2 M. Heidegger, Storia dell’Essere, cit. p. 21 [trad. modificata]. 3 H. Arendt, Menschen in finsteren Zeiten, cit. p. 21. 4 Ibidem. 5 Cfr. M. Löwy – R. Sayre, Révolte et mélancholie. Le romantisme à contrecourant de la modernité, Payot, Paris 1992. Molti altri intellettuali, filosofi, storici, da Raymond Aron a Isaiah Berlin, non riescono invece a comprendere lo sterminio e la singolarità di Auschwitz. 6 Cfr. E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, cit. pp. 31-32. 7 Cfr. Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, 2 voll., trad. it. G. Vitucci, Mondadori, Milano 2012. 8 Cfr. J. Taubes, Escatologia occidentale, cit. pp. 88 sgg. 9 H. Jonas, Gnosi e spirito tardo antico, trad. it. di G. Bonaldi, Bompiani, Milano 2010. 10 Cfr. H. Jonas, Heidegger e la teologia, trad. it. di R. Franzini Tibaldeo, Medusa, Milano 2004, p. 49. 11 H. Jonas, La nostra partecipazione a questa guerra, pubblicato in Id., Memorie, cit. pp. 155-163, p. 155. 12 Ivi, p. 156. 13 Ivi, p. 158. 14 Ivi, p. 160. 15 H. Jonas, Memorie, cit. p. 251. 16 H. Arendt, I postumi del domino nazista: reportage dalla Germania, cit. p. 23. 17 E. Bloch, Die sogenannte Judenfrage, in Id., Literarische Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt 1985, pp. 549-554, p. 550. 18 Ivi, p. 555 19 Cfr. lettera di Marcuse a Heidegger del 28 agosto 1947, in H. Marcuse, Davanti al nazismo. Scritti di teoria critica 1940-1948, a cura di C. Galli, trad. it. di R. Laudani, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 127-129. 20 Sui retroscena dell’intervista, condotta da Rudolf Augstein, ma predisposta dal redattore dello “Spiegel”, l’ex capitano delle SS e agente segreto Georg Wolff, è uscito di recente un volume di Lutz Hachmeister che ricostruisce anche il felice rapporto di Heidegger con il giornalismo. Cfr. L. Hachmeister, Heideggers Testament. Der Philosoph, der Spiegel und die SS, Propyläen, Berlin 2014, in part. pp. 7 sgg., 145 sgg.
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M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit. pp. 124-125, pp. 144. In tal senso scrive nella lettera di risposta a Marcuse del 20 gennaio 1948: «Una ritrattazione dopo il 1945 era per me impossibile, perché gli adepti del nazismo hanno annunciato nel modo più disgustoso di aver cambiato idea, ma io non avevo nulla in comune con loro». Id., Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita, cit. pp. 383-384. 22 M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit. p. 161. 23 J.-F. Lyotard, Heidegger e “gli ebrei”, cit. p. 67. 24 P. Lacoue-Labarthe, La finzione del politico, cit. pp. 129-130. 25 G. Steiner, Heidegger, trad. it. D. Zazzi, Garzanti, Milano 2002, pp. 143, 146. 26 R. Bernstein, La nuova costellazione. Gli orizzonti etico-politici del moderno/postmoderno, trad. it. di S. Cremaschi, 1994, Feltrinelli, Milano p. 130. Cfr. anche il libro, che ridiscute tutta la questione del nazismo, di B. Lang, Heidegger’s Silence, Cornell University Press, Ithaca and London 1996, in part. pp. 13 sgg. 27 E. Lévinas, Nomi propri, trad. it. di F.P. Ciglia, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 156. 28 Cfr. R. Aschenberg, Ent-Subjektivierung des Menschen. Lager und Shoah in philosophischer Reflexion, cit. pp. 99 sgg. 29 T.W. Adorno, Critica della cultura e società, in Id., Prismi, cit. pp. 3-22, p. 22. 30 Ivi, p. 5. 31 Per uno sguardo d’insieme cfr. Lyrik nach Auschwitz? Adorno und die Dichter, a cura di P. Kiedaisch, Reclam, Stuttgart 1995 32 P. Celan, Fuga di morte, in Id., Poesie, trad. it. di G. Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, pp. 63-65. 33 P. Szondi, Schriften II, Suhrkamp, Frankfurt 1978, p. 383. 34 P. Celan, Madre, madre, in Id., Sotto il tiro di presagi. Poesie inedite 19481969, trad. it. di M. Ranchetti e J. Laskien, Einaudi, Torino 2001, p. 125. Celan aveva già espresso la sua delusione qualche anno prima in una nota: «In ricordo di Sils Maria – dove avrei dovuto incontrare il signor professor Adorno, che pensavo fosse ebreo… – e di Friedrich Nietzsche, quello che – come sai – voleva far giustiziare tutti gli antisemiti». R. Federmann, In memoriam Paul Celan, in “Die Pestsäule”, I/settembre 1972, pp. 90 sgg. 35 Cfr. T.W. Adorno, Il gergo dell’autenticità, intr. di R. Bodei, trad. it. di P. Lauro, Bollati Boringhieri, Torino 1989. 36 Paul Celan – La bibliothèque philosophique/Die philosophische Bibliothek, a cura di A. Richter, P. Alac, B. Badiou, Editions Ens, Paris 2004. 37 M. Heidegger, Essere e tempo, cit. § 34 p. 208 [trad. modificata]. 38 M. Heidegger, Nietzsche, cit. p. 391; Id., Contributi alla filosofia, cit. p. 101; Id., In cammino verso il linguaggio, cit. p. 207. 39 M. Heidegger, Essere e tempo, cit. §§ 7, 34, pp. 52, 207, 209. 40 Su questo tema cfr. D. Di Cesare, Übersetzen aus dem Schweigen. Celan für Heidegger, in Heidegger und die Literatur, a cura di G. Figal e U. Raulff, Klosterman, Frankfurt 2012, pp. 17-34. 41 P. Celan, Argumentum e silentio, in Id., Poesie, cit. pp. 237-239. 42 M. Heidegger, «…poeticamente abita l’uomo…», in Id., Saggi e discorsi, cit. pp.125-138, p. 127.
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P. Celan, Il meridiano, in Id., La verità della poesia, cit. pp. 3-22, p. 13. O. Pöggeler, Spur des Wortes. Zur Lyrik Paul Celans, Alber, Freiburg – München 1986, p. 259. 45 P. Celan, Todtnauberg, in Id., Poesie, cit. pp. 961-963. 46 «Se dal 1933 io non sono più venuto a casa Sua non è perché vi abitava una donna ebrea, bensì perché semplicemente provavo vergogna». Cfr. la lettera a Jaspers del 7 marzo 1950 in M. Heidegger – K. Jaspers, Lettere 1920-1963, cit. p. 182. 47 J. Derrida, Il silenzio di Heidegger, in Risposta. A colloquio con Martin Heidegger, cit. pp. 181-185, p. 183. 48 P. Celan, Parla anche tu, in Id., Poesie, p. 231 [trad. modificata]. 49 Le lettere sono pubblicate in H. Marcuse, Davanti al nazismo. Scritti di teoria critica 1940-1948, cit. pp. 127-133 [sottolineatura mia; trad. modificata]. 50 M. Heidegger, Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita, cit. pp. 385-386 [trad. modificata]. 51 H. Marcuse, Davanti al nazismo, cit. p. 133. 52 Cfr. ad esempio le recenti osservazioni di Žižek in S. Žižek, In difesa delle cause perse, cit. pp. 185 sgg., 327. 53 Cfr. H. Ott, Martin Heidegger: sentieri biografici, cit. pp. 168 sgg. Ha condiviso il giudizio di Ott anche E. Nolte, Martin Heidegger tra politica e storia, cit. pp. 258 sgg. In una difesa delle affermazioni di Heidegger si è espresso invece O. Pöggeler, Auschwitz, in Id., Heidegger in seiner Zeit, cit. pp. 213 sgg. 54 Nella misura del possibile i tedeschi si sottraggono inizialmente al confronto con il crimine commesso. Domina la freddezza. Significativo è il modo in cui Jünger descrive nel suo diario, il 6 maggio 1945, l’incontro con alcuni sopravvissuti: «I prigionieri dei campi di concentramento riempiono le strade a perdita d’occhio. Chi aveva pensato che si sarebbero riversate sul paese orde di predoni ha sbagliato le sue previsioni, almeno per quello che posso giudicare da qui. Le persone mi paiono anzi contente, come dei resuscitati. Stamattina sono entrati in cortile sei ebrei, liberati da Belsen. Il più giovane aveva undici anni. Con meraviglia, con la brama di un bambino che non ha mai visto niente del genere, sfogliava dei libri illustrati. Anche il nostro gatto ha destato il suo stupore, come se gli si accostasse una potente visione onirica». E. Jünger, La capanna nella vigna. Gli anni dell’occupazione, 1945-1948, trad. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma 2009, p. 27. Cfr. su questo tema anche R. Escobar, Il silenzio dei persecutori ovvero il Coraggio di Shahrazàd, Il Mulino Bologna 2001, pp. 91 sgg. 55 Peraltro questo tema è anche oggi fonte di molte polemiche perché si tende a non distinguere tra Auschwitz e gli altri genocidi, così come non si distingue tra campo di sterminio e campo di concentramento. Cfr. D. Di Cesare, Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo, il melangolo, Genova 2012, pp. 107 sgg. 56 H. Arendt, L’immagine dell’inferno, in Ead., Archivio Arendt 1. 19301948, a cura di S. Forti, trad. it. P. Costa, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 231-238, p. 232. 57 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit. p. 628. 58 Sulle conferenze di Brema cfr. W. Petzet, Auf einen Stern zugehen. 44
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note
Begegnungen und Gespräche mit Martin Heidegger 1929-1976, SocietätsVerlag, Frankfurt 1983, pp. 59-83. 59 M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, cit. pp. 527, p. 11. Il testo del saggio La questione della tecnica è una versione ampliata e rielaborata della conferenza L’impianto. 60 M. Heidegger, L’impianto, in Id., Conferenze di Brema e Friburgo, trad. it. di F. Volpi e G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2002, pp. 45-70, pp. 4950. Sulle vicissitudini del passo, soppresso nella prima edizione, cfr. W. Schirmacher, Technik und Gelassenheit, Alber, Freburg-München 1983, p. 25. 61 P. Lacoue-Labarthe, La finzione del politico, cit. p. 46. 62 Cfr. J. Caputo, Heidegger’s Scandal: Thinking and the Essence of the Victim, in The Heidegger Case: On Philosophy and Politics, a cura di T. Rockmore e J. Margolis, Temple University Press, Philadelphia 1992, pp. 265-281. 63 Cfr. T. Adorno, Dialettica negativa, trad. it. di C.A. Donolo, Einaudi, Torino 1975, p. 327. 64 R.J. Sheffler Manning, The Cries of Others and Heidegger’s Ear: Remarks on the Agriculture Remark, in Martin Heidegger and the Holocaust, a cura di A. Milchman e A. Rosenberg, Humanity Books, New York 1996, pp. 19-30. 65 Cfr. su questo le pagine di Bret Davis che, come Derrida a proposito di “spirito”, indica qui un resto di metafisica nel concetto di “volontà”. Cfr. B. Davis, Heidegger and the Will. On the Way to Gelassenheit, Northwestern University Press, Chicago 2007, pp. 297 sgg. 66 Questo spiega anche l’atteggiamento di molti filosofi, soprattutto in Germania, rispetto a Auschwitz, considerato ancora adesso un tema storico-politico. 67 Le abbreviazioni significano: «operazione notte e nebbia», «trasporto notte e nebbia», «prigioniero notte e nebbia». Il regista Alain Resnais sceglie questo motto per il suo cortometraggio, il primo, girato a Auschwitz nel 1955. È interessante ricordare che Resnais è stato tra i primi francesi a incontrare Heidegger. cfr. R. Safranski, Heidegger e il suo tempo, cit. p. 420. 68 Menschentümlichkeit è la parola usata da Heidegger in un passo dei Quaderni neri. Cfr. M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 243. 69 P. Lacoue-Labarthe, La finzione del politico, cit. p. 46. 70 Cfr. P. Sloterdijk, Ira e tempo: saggio politico-psicologico, trad. it. di F. Pelloni, Meltemi, Roma 2007, p. 200. 71 Parmenide, Sulla natura, fr. B 1, 9-10. In una lettera a Jaspers del 12 agosto 1949 Heidegger sottolinea la continuità della sua riflessione sull’eînai di Parmenide. Cfr. M. Heidegger – K. Jaspers, Lettere 1910-1963, cit. p. 167. 72 P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1976, p. 30. 73 Devo questa suggestione al libro di Dorra di cui tuttavia, per il resto, non condivido l’impostazione. Cfr. M. Dorra, Heidegger, Primo Levi et le séquoia, Gallimard, Paris 2001, pp. 31 sgg. Primo Levi cita Heidegger come uno degli «intellettuali» tedeschi che, «sulle orme di Hegel» si sono resi complici del potere. Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 117.
note 74
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Cfr. Platone, Sofista, 257b. Così Platone distingue il valore ontologico da quello logico-linguistico sciogliendo l’enigma della predicazione. È l’osservazione di Gadamer proprio in riferimento a Heidegger. Cfr. ora anche in J. Derrida – H.-G. Gadamer – P. Lacoue-Labarthe, La conférence de Heidelberg (1988), lignes, Pris 2014, pp. 47-48 . 76 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit. §§ 46-53, pp. 289-324. 77 Ivi, § 51, pp. 308-311. 78 Cfr. ivi, § 65, p. 396. Cfr. P. David, Tempus mortis. La question de la mort à la lumière de la pensée de Heidegger, in Heidegger, a cura di M. Caron, Cerf, Paris 2006, pp. 251-271. 79 M. Heidegger, Perché i poeti?, in Id., Sentieri interrotti, trad. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1979, pp. 247-297, p. 252. 80 J. Améry, Intellettuale a Auschwitz, cit. p. 48. 81 Ivi, p. 51. 82 P. Levi, Se questo è un uomo, cit. p. 121. 83 M. Heidegger, Il pericolo, in Id., Conferenze di Brema e Friburgo, cit. pp. 71-95. Ma ancora una volta mostra la indifferenza ontica con il paragone proposto. 84 Ivi, pp. 83-84. 85 Cfr. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 64 sgg. 86 Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, cit. pp. 14 sgg. Il tedesco Gestell nel linguaggio comune vuol dire scaffale o scansia. Nella filosofia contemporanea è uno dei concetti più produttivi e viene ormai di solito tradotto con dispositivo. 87 M. Heidegger, L’impianto, cit. p. 56. 88 Ivi, p. 48. 89 Cfr. A. Milchman – A. Rosenberg, Heidegger, Planetary Technics, and the Holocaust, in Martin Heidegger and the Holocaust, cit. pp. 215-235. 90 Questa confusione, inconsapevole o no, persiste. Cfr. ad es. T. Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, trad. it. di R. Rossi, Garzanti, Milano 2001. 91 Cfr. W. Sofsky, L’ordine del terrore. Il campo di concentramento, trad. it. di N. Antonacci, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 382 sgg. 92 Cfr. Y. Bauer, Ripensare l’Olocausto, trad. it. di G. Balestrino, Baldini, Castoldi e Dalai, Milano 2009. 93 H. Arendt, Eichmann o la banalità del male. Intervista, lettere, documenti, trad. it. di C. Badocco, Giuntina, Firenze 2013, pp. 37-38. Cfr. Ead., La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. di P. Bernardini, Feltrinelli, Milano 2013. Per Finkielkraut la banalità del male è un concetto heideggeriano. Cfr. A. Finkielkraut, Philosophie und reines Gewissen, in Die Heidegger Kontroverse, a cura di J. Altwegg, Athenäum, Frankfurt 1988, pp. 106-109. Cfr. anche L’interminable écriture de l’Extermination, a cura di A. Finkielkraut, Gallimard, Paris 2010. 94 G. Anders, Noi figli di Eichmann. Lettera aperta a Klaus Eichmann, trad. it. di A.G. Saluzzi, Giuntina, Firenze 1995, pp. 33 sgg. 95 Ivi, pp. 41 sgg. 96 Ivi, p. 40. 75
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M. Buber, Hoffnung für diese Stunde, in Id., Hinweise. Gesammelte Essays, Manesse, Zürich 1953, pp. 315-316. M. Heidegger, «Anima mia diletta!». Lettere di Martin Heidegger alla moglie Elfride 1915-1970, cit. p. 258. 99 Erinnerungen an Martin Heidegger, a cura di G. Neske, Neske, Pfullingen 1977, p. 90. Cfr. M. Buber, Il problema dell’uomo, trad. it. di F.S. Pignagnoli e I. Kajon, Genova, Marietti 2004, pp. 65-88; Id., L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, intr. di S. Quinzio, trad. it. di U. Schnabel, Mondadori, Milano 1990, pp. 75 sgg. 100 V. Jankélévitch, Perdonare?, trad. it. di D. Vogelmann, Giuntina, Firenze 1987, pp. 40-41. 101 Yoma 9. 102 E. Lévinas, Quattro letture talmudiche, cit. p. 50 103 Ivi, p. 58. 104 Cfr. J. Derrida, Perdonare, trad. it. di L. Odello, Cortina, Milano 2004, pp. 81 sgg. 105 P. Celan, Conversazione nella montagna, cit. pp. 42-46. 106 Ivi, p.42. 107 Ibidem. In tedesco Name è in questo caso volutamente ambiguo e indica, se minuscolo, lo Jud, impronunciabile perché è un insulto, se maiuscolo il Nome di Dio, il Tetragramma che in ebraico non si pronuncia. 108 W.F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo, cit. p. 366. Cfr. cap. II § 4. 109 J. Derrida, Schibboleth – pour Paul Celan, Galilée, Paris 1986, p. 64. 110 P. Celan, Conversazione nella montagna, cit. p. 43. 111 W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1980, pp. 101-113; F. Rosenzweig, La Stella della redenzione, cit. pp. 80-101. 112 P. Celan, Conversazione nella montagna, cit. p. 44. 113 La preghiera che inizia con le parole Shemàh Israel. Sarebbe impossibile seguire gli innumerevoli percorsi che il saggio di Celan dischiude. Per un commento cfr. S. Mosès, Quand le langage se fait voix, in P. Celan, Entretien dan le montagne, Verdier, Paris 2001, pp. 25-50. 114 Per un quadro complessivo cfr. Deutschtum und Judentum. Ein Disput unter Juden aus Deutschland, a cura di C. Schulte, Reclam, Stuttgart 1993. 115 F. Rosenzweig, Liberalismus und Sionismus. Ein offener Brief an die Jüdische Rundschau, in Id., Gesammelte Schriften III Zweistromland. Kleinere Schriften zu Glauben und Denken, a cura di E. von Reinhold e A. Mayer, Dordrecht 1984, pp. 557-558. Chazàn vuol dire cantore. 116 L. Wittgenstein, Pensieri diversi, a cura di G.H. von Wright, trad. it. di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 2001, p. 47. Cfr. su questo D. Di Cesare, “Der größte jüdische Denker ist nur ein Talent. (Ich z. B.)”. Wittgensteins versagtes Judentum, in “Wittgenstein-Studien”, (2) 2011, pp. 49-70. 117 Anche Wittgenstein inserisce lo “spirito” tra le virgolette e cita Hegel. 118 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit. § 67, p. 47. 119 L. Wittgenstein, Pensieri diversi, cit. p. 42. 120 Cfr. E. Lévinas, Esigente ebraismo, in Id., Aldilà del versetto, trad. it. di G. Lissa, Guida, Napoli 1986, pp. 71-79, pp. 72 sgg. 121 E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Jaca Book, Milano 1983, pp. 21 sgg. 98
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J. Derrida, Edmond Jabès e l’interrogazione del libro, in Id., La scrittura e la differenza, trad. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 2002, pp. 81-98, p. 89. Cfr. J. Derrida, La disseminazione, trad. it. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1989, p. 248. Cfr. anche M. Blanchot, L’infinito intrattenimento. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», trad. it. di R. Ferrara, Einaudi, Torino 1997, pp. 165-174. Sull’ebreo figurale sulla scena della filosofia contemporanea cfr. S. Hammerschlag, The Figural Jew. Politics and Identity in Postwar French Thought, Chicago University Press, Chicago and London 2010. 124 J. Derrida, Edmond Jabès e l’interrogazione, cit. p. 91. 125 M. Buber, I racconti dei Chassidim, trad. it. di G. Bemporad, intr. di F. Jesi, Garzanti, Milano 1985, p. 277 [trad. modificata]. 126 M. Heidegger, Tempo ed Essere, cit. p. 131. 127 Ivi, p. 132. 128 Così suona anche l’accusa rivolta nel contesto in cui viene attaccato Husserl. Cfr. cap. III § 16. 129 Per questo è impossibile, come alcuni forse auspicherebbero, sbarazzarsi facilmente dell’Ebreo e dei passi in cui compare nei Quaderni neri. 130 M. Heidegger, Il detto di Anassimandro, in Id., Sentieri interrotti, cit., pp. 299-348, p. 347 [trad. modificata]. 131 Cfr. D. Di Cesare, Übersetzen aus dem Schweigen. Celan für Heidegger, cit. p. 34. 132 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit. pp. 89-90. 133 Cfr. J. Beaufret, Dialogue avec Heidegger 4: Le chemin de Heidegger, de Minuit, Paris 185, p. 49. 134 M. Heidegger, Il sentiero di campagna, in Id., Dall’esperienza del pensiero, cit. pp. 79-82, p. 79 [trad. modificata]. 135 M. Heidegger, Il segreto della torre campanara, in Id., Dall’esperienza del pensiero, cit. pp. 99-101, p. 101 [trad. modificata]. 136 M. Heidegger, Abraham a Santa Clara, in Id., Dall’esperienza del pensiero, cit. pp. 7-9, p. 8. In tal senso è eccessivo il capitolo di oltre venti pagine che Farías dedica solo a questo tema. Cfr. V. Farías, Heidegger e il nazismo, cit. pp. 29-46. Un tenore analogo al primo ha anche un altro discorso di Heidegger, tenuto il 2 maggio 1964 a Meßkirch. M. Heidegger, Su Abraham a Santa Clara, in Id., Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita 1910-1976, cit. pp. 535-544. 137 Cfr. H. Ott, Martin Heidegger. Sentieri biografici, cit. pp. 60 sgg.; P. Capelle-Dumont, Filosofia e teologia nel pensiero di Martin Heidegger, trad. it. di G. Ferretti, Queriniana, Brescia 2011, pp. 122 sgg. Sul complesso rapporto con il cristianesimo cfr. D. Frank, Heidegger et le christianisme. L’explication silencieuse, Puf, Paris 2001. 138 M. Heidegger, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, cit. p. 248. 139 M. Heidegger, I fondamenti filosofici della mistica medievale, in Id., Fenomenologia della vita religiosa, a cura di F. Volpi, trad. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2003, pp. 383-421, p. 392 [trad. modificata]. 140 Sul rapporto di Heidegger con Lutero e sull’influsso delle fonti neotestamentarie cfr. C. Sommer, Heidegger, Aristote, Luther. Les sources aristotéliciennes et néo-testamentaires d’Être et Temps, Puf, Paris 2005, pp. 17 sgg. 123
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Ivi, p. 395. Ivi, p. 418. Ivi, p. 421. Cfr. Teresa d’Avila, Il castello interiore, trad. it. di T. Alvarez, OCD, Roma 2000, p. 9. Teresa d’Avila era in quegli anni molto letta. Tra i fenomenologi costituiva probabilmente una sorta di passaggio dall’ebraismo al cristianesimo, favorendo quelle conversioni che non piacevano a Husserl. Figlia di conversos di Toledo, Teresa portò con sé il dissenso marrano, la necessità di inaugurare un nuova teologia che, come quella di Francisco Osuna e Juan de la Cruz, anche loro conversos, si opponeva alla scolastica: Dio non era l’oggetto di una conoscenza, ma la meta da raggiungere attraverso un’ascesa interiore. 144 M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit. p. 121. 145 Cfr. ivi, pp. 217 sgg. 146 L’interpretazione di Heidegger ha ispirato quella di Agamben che trova, però, un punto di riferimento in Benjamin. Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000. Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli studi filosofici e teologicopolitici su Paolo. 147 M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit. p. 108. 148 Ivi, pp. 107-108. 149 Cfr. cap. III § 21. Occorre notare che nelle interpretazioni del Paolo di Heidegger si è trascurato finora il contesto del dibattito intorno all’apostolo nel nazionalsocialismo. 150 Da parte ebraica si intuisce che occorrerebbe intervenire su quelle interpretazioni del “cristianesimo originario”; ma non c’è più il tempo. Significativo è il caso di Sholem Asch che, dopo essere riuscito a emigrare dalla Polonia negli Stati Uniti, scrive in jiddish, e pubblica in inglese, Il Nazareno nel 1939 e L’Apostolo nel 1943. Rivendica il Rabbi di Nazareth e Saul di Tarso alla storia e all’ebraismo. Ricostruisce l’errore di Damasco, commesso da chi non aveva mai smesso di essere ebreo. A Yakov ben Joseph, il primo dei cinque fratelli di Gesù, affida il compito di dire a Saul quanto il suo messaggio avesse ferito la coscienza di Israele. Cfr. S. Asch, L’Apostolo, trad. it. di S. Perugini, Castelvecchi, Roma 2013. 151 Cfr. M. Heidegger, Fenomenologia della vita religiosa, cit. pp. 106, 108, 111, 152-153. 152 Ivi, p. 106. 153 Basti per questo rinviare a due classici: Theologisches Wörterbuch zum neuen Testament, Kohlhammer, Stuttgart 1933-1978; T. Boman, Das hebräische Denken im Vergleich mit dem griechischen, Vandenhoeck und Ruprecht, Göttigen 1952. 154 J. Taubes, La teologia politica di Paolo, cit. p. 22. 155 Ivi, p. 187. 156 P. Ricœur, Note introductive, in Heidegger et la question de Dieu, (nuova ed.) a cura di R. Kearney e J.S. O’Leary, Puf, Paris 2009, p. 37. 157 Cfr. M. Heidegger, L’abbandono, trad. it. di A. Fabris, il melangolo, Genova 1983, pp. 61 sgg. 158 Cfr. ivi, pp. 177-185. Zarader fa riferimento alle testimonianze sul corso che allora non era stato ancora pubblicato. Sulla base del testo oggi le 142
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corrispondenze e i riscontri sono ancora più chiari. Qui non è possibile ovviamente fornirne una interpretazione complessiva. 159 Cfr. Talmud Sanhedrin 97a. 160 M. Zarader, Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, cit. pp. 9 sgg. 161 Di qui la vasta ricezione di Heidegger nel pensiero ebraico – un capitolo ancora non scritto. Il primo libro su Heidegger, pubblicato in America, è stato quello di Michael Wyschogrod. Cfr. M. Wyschogrod, Kierkegaard and Heidegger. The Ontology of Existence, Routledge and Kegan, London 1953. Sulle affinità ermeneutiche ha insistito A. Scult, Being Jewish / Reading Heidegger. An Onotological Encounter, Fordham, New York 2004. Lo studioso americano di Kabbalah Elliot Wolfson ha dedicato a Heidegger un capitolo del suo nuovo libro. Cfr. E.R. Wolfson, Giving Beyond the Gift. Apophasis and Overcoming Theomania, Fordham, new York 2014, pp. 227-260. 162 M. Zarader, Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, cit. p. 13. Questo non-detto, questo «bianco» – osserva Zarader – non ha costituito un problema per le diverse generazioni di lettori che si sono succedute. In questa linea è anche il volume Heidegger e San Paolo. Interpretazione fenomenologica dell’Epistolario paolino, a cura di A. Molinaro, Urbaniana University Press, Roma 2008. 163 Ivi, p. 19. 164 Ivi, p. 233. 165 M. Heidegger, Seminari, trad. it. di M. Bonola, Adelphi, Milano 1992, p. 207. 166 M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», cit. p. 303. 167 Gott dovrebbe significare o “colui che è invocato” oppure “colui a cui si sacrifica”. 168 Esodo/Shemot 3, 13-14. 169 B. Dupuy, Heidegger et le Dieu inconnu, in Heidegger et la question de Dieu, cit. pp. 123-141, p. 123. 170 H. Jonas, Heidegger e la teologia, cit. p. 49. 171 J. Taubes, Escatologia occidentale, cit. p. 37. 172 J.-F. Lyotard, Heidegger e “gli ebrei”, cit. p. 34. 173 M. Heidegger, Il Rettorato 1933/34. Fatti e pensieri, cit. p. 341. 174 J.-F. Lyotard, Heidegger e “gli ebrei”, cit. pp. 93-94. 175 Ibidem. 176 P. Lacoue-Labarthe, La finzione del politico, cit. p. 49. 177 M. Heidegger, Über den Anfang, GA 70, Klostermann, Frankfurt 2005, pp. 10-11. 178 R. Schürmann, Dai principi all’anarchia, cit. pp. 208-209, 459-487. Cfr. A. Martinengo, Introduzione a Reiner Schürmann, Meltemi, Roma 2008, pp. 82-83. 179 M. Heidegger, Essere e tempo, cit. § 65, p. 396. 180 M. Heidegger, Dell’essenza del fondamento, in Id., Segnavia, cit. pp. 79131, p. 94. 181 Ivi, p. 93. 182 M. Heidegger, Perché i poeti?, cit. p. 286. Cfr. D. Di Cesare, Escatologia dell’Essere. Quel che resta di Heidegger tra finitezza originaria e
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infinito negato, in Martin Heidegger trent’anni dopo, a cura di C. Gentili, F.-W. von Hermann, A. Venturelli, Il melangolo, Genova, 2009, pp. 131-147. 183 Cfr. S. Galanti Grollo, Heidegger e il problema dell’altro, pref. di L. Samonà, Mimesis, Milano 2006. 184 M. Heidegger, Überlegungen VII-IX (Schwarze Hefte 1938/39), cit. p. 265. H. Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di un’ebrea, trad. it. di L. Ritter Santini, Il Saggiatore, Milano 1988, p. 176. 185 H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1988, p. 129 [trad. modificata]. 186 Cfr. V. Vitiello, Cristianesimo senza redenzione, Laterza, Roma-Bari, pp. 67-71; P. Vinci, Essere e esperienza in Heidegger. Una fenomenologia possibile fra Hegel e Hölderlin, Stamen, Roma 2008, pp. 93 sgg. 187 M. Heidegger, L’inno der Ister di Hölderlin, cit. pp. 147 sgg.; Id., Lettera sull’«umanismo», cit. p. 292. 188 M. Heidegger, «Come quando al dì di festa…», in Id., La poesia di Hölderlin, cit. pp. 59-93, p. 69. 189 Cfr. M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 174. 190 M. Heidegger, Überlegungen XII-XV (Schwarze Hefte 1939-1941), cit. p. 132. Cfr. cap. III § 6. 191 Ibidem. 192 M. Heidegger, Storia dell’Essere, cit. p. 21 [trad. modificata]; cfr. anche Id., Oltrepassamento della metafisica, cit. p. 42. 193 Cfr. cap. III § 18. 194 Cfr. J. Taubes, Carl Schmitt. Un apocalittico della controrivoluzione, cit. pp. 27 sgg. 195 G. Anders, Über Heidegger, Beck, München 2001, p. 325. 196 Ivi, p. 329. 197 P. Celan, Largo, in Id., Poesie, cit. p. 1141 [trad. modificata]. 198 Cfr. M. Heidegger, Contributi alla filosofia, cit. p. 404. 199 Ivi, pp. 387-393. 200 Ivi, p. 389. 201 W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Id., Opere complete, VII. Scritti 1938-1940, a cura di E. Ganni, Einaudi Torino, 2006, pp. 483-493, p. 483. 202 Ivi, p. 485
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Indice dei nomi
Abensour, Miguel, 284 Abrabanel Isaac, 174-75. Abraham a Santa Clara (Johannes Ulrich Megerle ), 260 Adorno, Theodor Ludwig Wiesengrund, 26, 117, 227-29, 237, 251 Agamben, Giorgio, 19, 308, 319, 322 Agostino, 29-31, 47, 51, 153, 262, 284 Agus, Aharon R.E., 290 Améry, Jean (Hans Chaim Mayer), 75, 243, 291, 319 Anders, Günther, 143, 228, 248, 278 Arendt, Hannah, 4, 9, 19, 20, 27, 36, 85, 88-89, 192, 225, 23435, 246, 248, 274-75, 280, 28285, 292, 295, 304, 311, 313, 315, 317, 319 Aristotele, 5, 24, 28, 150, 152-53, 254, 299, 314 Arndt, Andrea, 288 Asch, Solomon, 322 Aschheim, Steven E., 62, 288, 293 Aubenque, Pierre, 282 Axebrod, Towia, 195 Baeck, Leo, 305 Baeumler Alfred, 62, 94, 163, 288 Bambach, Charles, 295
Barash, Jeffrey Andrew, 300 Barbarossa, 199 Bärtsch, Claus-E., 300 Bauer, Walter, 94 Bauer, Yehuda, 319 Baumgarten, Alexander Gottlieb, 94 Beaufret, Jean, 16, 282, 321 Beistegui, Miguel de, 297 Bendavid, Lazarus, 47 Benjamin, Walter, 156, 221, 228, 252, 282, 304, 320, 322, 324 Benz, Wolfgang, 311 Bernardo di Chiaravalle, 261 Bernstein, Richard J., 227, 316 Blanchot, Maurice, 321 Bloch, Ernst, 315 Blochmann, Elisabeth, 9, 95, 294 Bloy, Leon, 157, 305, 309 Blüher, Hans, 212, 314 Blumenberg, Hans, 304 Boman, Thorleif, 322 Bookbinder, Paul, 309 Brenner, Michael, 297 Brentano, Franz, 260 Breuer, Stefan, 301 Brock, Werner, 9 Brosseder, Johannes, 284 Buber, Martin, 249, 251, 265, 320-21 Bultmann, Rudolf, 231, 266, 305 Burckhardt, Jacob, 72
348
indice dei nomi
Burrin, Philippe, 295, 300, 312 Cacciari, Massimo, 309 Cairns, Dorion, 302 Capelle-Dumont, Philippe, 321 Caputo, John D., 318 Cassirer, Ernst, 89 Cassirer, Toni, 292 Celan, P., 6, 227-32, 251, 258, 278, 284, 316-17, 320, 324 Clausewitz, Carl Philipp Gottlieb von, 184, 310 Cohen, Hermann, 94, 253, 286 Cohen, Israel, 305 Cohen, Joseph, 288 Cohn, Norman, 188, 285, 311 Colli, Giorgio, 62 Conrad Martius, Hedwig, 143 Coßmann, Paul Nicolaus, 158, 305 Courtine, Jean-François, 303 Craig, Carl, 260 Cruise O’Brien, Comor, 62, 288 Dastur, Françoise, 306 Däubler, Theodor, 78 David, Pascal, 319 Davis, Bret, 318 De Michelis, Cesare, 311 Deleuze, Gilles, 107, 296 Derrida, Jacques, 6, 17, 19, 23, 56, 59, 63, 85, 116, 119-21, 136, 167, 185, 206, 232, 251-52, 255-56, 282-83, 287-89, 292, 298, 301, 307, 311 n, 314, 31721 Diehl, Karl, 147 Dilthey, Wilhelm, 260 Dohm, Christian Wilhelm von, 36, 285 Dorra, Max, 318 n Dostoevskji, Fëdor Michajlovič, 308 Dühring, Eugen, 92, 140, 293 Duns Scoto, 260 Dupuy, Bernard, 323 Ebert, Friedrich, 195 Eckart, Dietrich, 131, 196-97, 200, 300, 312-13
Eichmann, Adolf, 246, 248 Eisner, Kurt, 195 Eisner, Willi, 195, 311 Escobar, Roberto, 317 Esposito, Roberto, 300 Ettinger, Elzbieta, 292 Évard, Jean-Luc, 305 Fackenheim, Emil, 287 Farías, Victor, 5, 16, 21, 282, 321 Faye, Emmanuel, 5, 16-17-19, 21, 282, 300, 310 Federmann, Raymond, 316 Fédier, François, 16-17, 281-83 Feinmann, Jos Pablo, 292 Ferrari Zumbini, Massimo, 289, 293 Ferry, Luc, 22, 283 Fest, Joachim Clemens, 291 Fichte, Johann Gottlieb, 40-41, 76, 107, 285 Figal, Günter, 306 Finkielkraut, Alain, 319 Fischer, Eugen, 140 Fischer, K.R., 291 Fistetti, Francesco, 310 Flavio Giuseppe, 56, 222, 315 Förster, Bernhard, 61, 72 Foucault, Michel, 19 Fraenkel, Eduard, 94, 294 France-Lanord, Hadrien, 281 Francisco Osuna, 322 Frank, Didier, 321 Frege, Friedrich Ludwig Gottlob, 7-8, 281 Freud, Sigmund, 117, 192, 298 n, 311 Fried, Gregory, 310 Friedländer, Paul, 89 Friedländer, Saul, 311-12 Fritsch, Theodor, 140, 189, 305 Gadamer, Hans-Georg, 20, 151, 282-83, 303, 319 Galanti Grollo, Sebastiano, 324 Galli, Carlo, 306 Gay, Peter, 297 Gentile, Emilio, 299 Gesù di Nazareth, 31, 38, 41, 45,
indice dei nomi 47, 51-52, 65, 67, 70-71, 142, 145, 192, 260, 262-63, 308, 322 Ginzberg, Louis, 309 Glucksmann, André, 280 Gnoli, Antonio, 156-57, 280, 304-5 Gödsche, Herrmann Ottomar Friedrich, 188 Goebbels, Joseph Paul, 131, 199, 300 n, 312 Golovinskij, Matthieu, 189 Gottfried zur Beek, alias Ludwig Müller, 190 Grass, Günter, 149, 302 Grassi, Ernesto, 118, 298 Gross, Raphael, 293-94, 309 Grosser, Florian, 296 Guattari, Pierre-Félix, 107, 296 Gurian, Waldemar, 212-13, 31314 Guttmann, Julius, 286 Habermas, Jürgen, 21, 23, 26, 283 Hachmeister, Lutz, 315 Haffner, Sebastian, 281 Halberstam, Joshua, 286 Hammerschlag, Sarah, 321 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 48-60, 64, 66-68, 99, 102, 107, 113, 164, 178-82, 203, 206-7, 214, 238, 251-52, 254, 260, 286-88, 290, 312, 318, 320 Heidegger, Elfride, 10, 93 Heidegger, Gertrude, 93 Heidegger, Hermann, 13 Heine, Heinrich, 144, 174-75, 228, 302, 309 Herder, Johann Gottfried, 40, 285 Herf, Jeffrey, 296 Hersch, Jeanne, 11, 282 Herzl, Theodor, 189 Hilberg, Raul, 301 Hitler, Adolf, 11, 15, 17, 27, 29, 35, 44, 61, 75, 76-82, 92, 95, 129-31, 133-34, 139, 147, 172, 186, 191-92, 197-99, 222-23, 254, 285, 291, 293, 299-300, 311-12 Hölderlin Friedrich, 6, 87, 93,
349
102, 111, 120, 180, 231, 243, 266, 271, 275-78, 298, 324 Hönigswald, Richard, 95 Horkheimer, Max, 295 Husserl, Edmund, 21, 89, 94, 1034, 143, 146-55, 295, 302-4, 320, 322 Husserl, Malvine, 147 Ibel, Rudolf, 93 Imgarden, Roman, 153 Jäckel, Eberhard, 300, 312 Jacobstahl, Paul, 89 Jaegerschmid, Adelgundis, 147 Jankélévitch, Vladimir, 250, 320 Jaspers, Karl, 5, 6, 94, 114, 163, 187, 231, 281, 293, 297, 303, 306, 311, 317-18 Jesi, Furio, 301 Jochmann, Werner, 299 Jogiches, Leo, 195 Joly, Maurice, 189 Jonas, Hans, 9, 148, 222-23, 270, 281, 302, 315, 323 Juan de la Cruz, 322 Jünger, Ernst, 13, 122, 136, 15562, 164, 174, 178, 201, 207, 216, 232, 299, 301, 304-8 Kaennel, Lucie, 284 Kafka, Franz, 49, 251, 286 Kamenev, Lev Borisovič, 196 Kant, Immanuel, 35, 37, 42-47, 49, 51, 66, 68, 74, 80, 160, 203, 207, 214, 253, 284-87 Kästner, Erich, 298 Katz, Jacob, 285 n, 293 Kaufmann, Walter, 61, 288 Kershaw, Ian, 284, 291 Kierkegaard, Søren, 260 Kiesel, Helmuth, 305-6 Klemperer, Victor, 138, 301, 311 Knütter, Hans-Helmuth, 312 Krauss, S., 296 Krockow, Christian Graf von, 306 Kuhn, Hans, 162, 306 Kurz, G., 300
350
indice dei nomi
Lacoue-Labarthe, Philippe, 19, 22, 226, 237, 240, 271, 283, 291, 316, 318-19, 323 Laléko, Mascha, 9 Landauer, Gustav 195 Lang Berel, 316 Le Goff, Jacques, 286 Leibniz, Gottfried Wilhelm von, 217 Lenin, (Vladimir Il’ič Ul’janov) 201, 276-77 Lerner, Warren, 313 Lessing, Gotthold Ephraim, 36 Levi, Paul, 195 Levi, Primo, 240-241, 243, 318319 Lévinas, Emanuel, 25, 60, 222, 24950, 255-56, 283, 288, 315-16, 320 Levine-Nissen, Emmanuel, 195 Lichtheim, George, 62, 288 Licurgo, 55 Liebeschütz, Hans, 288 Liebknecht, Karl, 195 Litvinov, Maksim Maksimovič, 196, 200 Losurdo, Domenico, 300 Löwenthal, Leo, 119, 298 Löwith, Karl, 9, 90, 148, 155, 162, 280, 287, 292, 302, 304, 306 Löwy, Michael, 312, 315 Lukács, György, 61, 288 Lutero, Martin, 29-34, 44, 46, 74, 93, 169, 260-61, 265, 284, 321 Luxemburg, Rosa, 195 Lyotard, Jean-François, 23, 213, 226, 271, 283, 314, 316, 323 Mack, Michael, 286 Mahnke, Dietrich, 153 Maier-Katkin, Daniel, 292 Mann, Thomas, 196, 312 Mannheim, Karl, 114, 221, 297 Marcuse, Herbert, 9, 162, 226, 233-34, 237, 306, 315, 316-17 Marr, Wilhelm, 73, 92, 140, 290, 293 Marramao, Giacomo, viii, 308, 313 Martinengo, Alberto, 323
Marx, Karl, 117, 174, 197, 201, 298 Meister Eckhart, 261, 314 Mendes-Flohr, Paul, 296 Michaelis, Johann David, 39 Milchman, Alan, 318-19 Misch, Georg, 89 Mittmann, Thomas, 63, 289 Mohler, Armin, 308 Montinari, Mazzino, 62 Mosès, Stéphane, 320 Mousseaux, Gougenot des, 192 Mühsam, Erich, 195 Müller, M., 293 Nancy, Jean-Luc, 291 Neske, Günther, 320 Neumann Franz, 167, 307 Niekisch, Ernst, 195 Nietzsche, Elisabeth, 61, 72 Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 8, 15, 35, 60-76, 77, 97-98, 126, 133, 135, 137, 144, 153, 160, 194, 201, 207, 214, 219, 238, 251, 260, 271, 284, 288-92, 299, 300-2, 312, 315-16 Niewyk, Donald L., 297 Nilus, Serghej Aleksandrovič, 189, 311 Nolte, Ernst, 21, 283, 312, 317 Ott, Hugo, 5, 280, 302, 317, 321 Overbeck, Franz, 60 Paolo di Tarso, 41, 47, 70-71, 164, 169, 172, 197, 261-67, 309, 322 Petzet, Wiegand, 317 Pöggeler, Otto, 20, 281, 283, 288, 293, 297, 303, 317 Poliakov, Léon, 291-93, 295, 302 Pulzer, Peter G., 301 Quinchon-Caudal, Anne, 291 Račhovskij, Pierre Ivanovič, 189 Radek, Karl (Karol Sobelsohn), 200, 313 Rapaport, W., 296
indice dei nomi Ratzel, Friedrich, 308 Reich, Wilhelm, 302 Reinach, Adolf, 143 Renaut, Alain, 22, 283 Rentsch, Thomas, 292 Resta, Caterina, 307 Riback, Timothy W., 291 Rickey, Christopher, 310 Ricœur, Paul, 266, 322 Rilke, Rainer Maria, 260 Ritter, Gerhard, 147, 302 Rockmore, Tom, 22, 282-83 Rogozinski, Jacob, 311 Rorty, Richard, 20, 283 Rose, Paul L., 285 Rosenberg, Alain, 319 Rosenberg, Alfred, 135, 145, 19091, 197, 293, 300, 302, 312 Rosenkranz, Karl, 286 Rosenzweig, Franz, 203, 252-53, 265, 305, 313, 320 Rotenstreich, Nathan, 287 Rubiner, Frida, 195 Safran, Alexandre, 314 Sartre, Jean-Paul, 296 Sauder, Gerhard, 298 Saviani, Carlo, 296 Sayre, Robert, 315 Scheler, Max, 94, 113, 143, 297 Schirmacher, Wolfgang, 318 Schlageter, Leo, 114 Schleiermacher, Friedrich Daniel Ernst, 260 Schmitt, Carl, 13, 78, 90, 96, 134, 136, 140, 156-58, 160, 162-79, 181-85, 193, 207-8, 212, 217, 232, 277, 292, 294, 300-1, 30410, 314 Scholem, Gershom, 228, 302, 314 Schopenhauer, Arthur, 35, 76, 79, 284 Schorcht, Claudia, 294 Schuessler, Jennifer, 280 Schuhmann, Karl, 303 Schürmann, Reiner, 19, 23, 272, 283, 323 Schwab, Gustav, 310 Schwoerer, Viktor, 90
351
Scult, Allen, 323 Seibert, Theodor, 305 Sella, Gianluca, 284 Sew, M., 296 Sheffler Manning, Robert John, 318 Sherratt, Yvonne, 291 Sieg, Ulrich, 293 Simmel, Georg, 94 Simon, Marcel, 310 Sloterdijk, Peter, 318 Sluga, Hans, 290 Sofsky, Wolfgang, 319 Solone, 55 Sombart, Werner, 109-10, 112, 296 Sommer, Christian, 321 Sontag, Susan, 304 Spengler, Oswald, 102, 196, 312 Spiegelberg, Herbert, 303 Spinoza, Baruch, 39-40, 44, 58, 112, 174, 177, 280, 285, 288, 296-97, 299 Stangneth, Bettina, 285 Steding, Christoph, 306 Stefani, Piero, 284 Stein, Stein, 143, 147, 302 Steiner, Steiner, 22, 226, 283, 316 Strauss, Leo, 17, 162, 282, 306 Streicher, Julius, 29 Strindberg, August, 290 Suarez, Francisco, 260 Szondi, Péter, 228, 312 Tacito, 58, 288, 290 Taguieff, Pierre-André, 293, 311 Tal, Ûrîel, 289 Taubes, Jacob, 164, 169, 172, 17677, 220, 222, 265, 277, 299, 305-9, 315, 322-24 Teresa d’Avila, 261, 322 Tertulian, Nicolas, 306 Thannhauser, Siegfried, 293 Thöma, Dieter, 282 Todorov, Tzvetan, 319 Toller, Ernst, 195 Tommaso d’Aquino, 153, 260 Tönnies, Ferdinand, 112, 296 Trackl, Georg, 120
352
indice dei nomi
Traverso, Enzo, 296 Trawny, Peter, 11, 14, 211, 282, 292, 294, 303, 306, 314 Trotzkij, Lev, 94, 196-97 Tugendhat, Ernst, 21, 283 Ulmen, Gary, 164, 306 Valéry, Paul, 25, 113, 283, 297 Varnhagen Levin, Rahel, 274 Vattimo, Gianni, 283 Verschuer, Ottmar von, 140 Vico, Giambattista, 35 Vinci, Paolo, 324 Vitiello, Vincenzo, 324 Volpi, Franco, 86, 156-57, 280-82, 292, 304-5 Voltaire (François-Marie Arouet), 36, 285 Waelhens, Alphonse de, 280 Wagner, Richard, 72, 91, 160, 239, 293 Weber, Max, 103, 109, 114, 122, 295, 298
Weil, Simone, 90, 293 Weininger, Otto, 286 Wittgenstein, Ludwig, 7, 208-209, 254-255, 281, 314, 320 Wolfson, Elliot R., 323 Wolin, Richard, 9, 281 Wolodarsky, V., 196 Wyschogrod, Michael, 323 Yalom, Irvin David, 297 Yerushalmi, Yosef H., 142, 301 Young, Julian, 283 Yovel, Yirmiyahu, 74, 285, 287, 289-90 Zaborowski, Holger, 10, 281 Zarader, Marlene, 120, 267, 298, 322-23 Zarka, Yves Charles, 300, 306-7 Zehnpfennig, Barbara, 291 Zinovev, Grigorij Evseevič, 196 Žižek, Slavoj, 284, 317 Zoja, Luigi, 291
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