Guardar lontanto veder vicino. Esercizi di curiosità e storie dell'arte
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Zitiervorschau

Philippe Daverio

Guardar lontano Veder vicino

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Lorenzo Lotto, Allegoria della Virtù e del Vizio, 1505, Washington, National Gallery of Art

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Editor: Cristina Sartori Coordinamento del progetto: Manuela Mellini Consulenza editoriale: Daniela Ciotola, Mauro Raponi Redazione: Carlamaria Colombo, Daria Rescaldani, Massimo Zanella/Ultreya; Paola Comparetti, Chiara Ratti Ricerca iconografica: Carlamaria Colombo, Daria Rescaldani, Massimo Zanella/Ultreya Art director: Davide Vincenti Coordinamento tecnico: Servizi digitali RCS Libri © Succession Picasso, Paul Kälberer, The Munch Museum/The Munch-Ellingsen Group by SIAE 2013 © 2013 RCS Libri Spa, Milano Tutti i diritti riservati www.rizzoli.eu Prima edizione digitale: giugno 2014 ISBN 978-88-58-67162-7 Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore.

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Il libro Un viaggio iniziatico nel Rinascimento italiano. L’esercizio della curiosità vi porterà ad alzare lo sguardo per guardar lontano, abbracciando i complessi intrecci della storia, e a veder vicino, direttamente dentro le immagini. “Questo non sarà mai un libro di Storia dell’Arte, con le due auliche maiuscole, non assomiglia a uno di quei tomi scolastici che hanno forse lasciato tedio e sonnolenza sui banchi di scuola, ma è piuttosto un viaggio esoterico nelle storie dell’arte.” Forte della sua esperienza di autore e conduttore televisivo, Philippe Daverio non è mai banalmente divulgativo, non intende semplificare fenomeni complessi, ma affronta le vicende degli artisti, delle opere e dei committenti secondo un metodo d’indagine che è diventato la sua cifra personale: sa guardare da lontano o accostarsi per vedere da vicino. Ogni suo nuovo libro è un’avventura che apre nuove prospettive. Il “metodo Daverio” è applicato in questo caso al Rinascimento. Il periodo fondativo della cultura e dell’arte italiana acquista così nuova freschezza e vivacità, prende le mosse dalla pittura di Giotto, “un fulmine nella storia dell’arte”, e si conclude con quel “talentaccio e caratteraccio” di Caravaggio, attraversando la curiosità anarchica di Leonardo, i cagnolini di Tiziano, l’eccentrica sensualità di Parmigianino e i sussulti religiosi di Michelangelo. L’allontanamento dalle categorie canoniche della storia dell’arte e la pratica dello spostamento del punto di vista si rivelano in particolare nelle “Daveriologie”, pagine nelle quali la curiosità impertinente dell’autore affronta nuove strade di lettura, attraverso accostamenti insoliti, a volte audaci, di capolavori e artisti lontani nel tempo e nello spazio.

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Vittore Carpaccio, Sant’Agostino nello studio, particolare, 1502, olio su tela, cm 141x210, Venezia, Scuola di San Giorgio degli Schiavoni

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Avvertenza per il lettore. Un lettore avvertito ne vale probabilmente due, secondo il proverbio francese “Un homme averti en vaut deux”. Mi sento obbligato sin dall’inizio di questo volume a fare alcune pudiche confessioni al lettore intraprendente. Sono una sorta di versione derubricata del dottor Frankenstein, mi ha inventato una decina di anni fa un curioso ricercatore da laboratorio che si chiama Pasquale D’Alessandro il quale mi proiettò dalla vita domestica in quel globo magico di pesci rossi che è lo schermo televisivo, laddove ho avuto la libertà di fare un po’ ciò che volevo e quindi di intraprendere un viaggio esoterico nel mondo delle arti. L’esoterismo è affascinante perché è iniziatico, la televisione è formidabile perché permette di evitare la divulgazione, quella pratica diffusissima del prender cose complesse e semplificarle per il volgo, e consente invece di carpire l’attenzione del pubblico per trascinarlo in un viaggio di scoperta e per questo motivo proprio “iniziatico”. La televisione, lo dice la parola stessa, tele-vede, vede da lontano, anche se non sempre guarda lontano. La telecamera è uno strumento ottico di grande fascino perché permette di isolare, di circoscrivere e quindi di rivelare. La rivelazione sta nel veder da vicino ciò che di solito si guarda da lontano. E il risultato ne è un’immagine dove quel curioso essere, che la pratica televisiva chiama conduttore come se avesse le redini in mano, assume il potere di condurre lo spettatore in luoghi e direzioni da lui volute. Grande privilegio questo, perché consente grande potere. La televisiun, la g’ha la forsa del leun, cantava il protagonista dello spettacolo Jannacci. L’altro privilegio assoluto fu quello di mettere i guanti bianchi e di consentire al pubblico che seguiva l’operazione di sentirsi egli stesso guantato. Topolino porta i guanti bianchi ma non se ne è mai capito il motivo. Le mie sorelle, Liliane e Yvette, avevano l’obbligo di mettersi i guanti bianchi per salutare la mamma quando uscivano dal collegio dell’Assomption a Colmar; ma erano altri tempi. Io coi guanti bianchi ho avuto il diritto di girar le pagine del Virgilio di Petrarca come della Bibbia di Borso d’Este, ho avuto la fortuna irripetibile di prendere in mano la corona ferrea che Napoleone si mise in testa, ho potuto esaminare da vicino e sotto il naso i camei che furono degli imperatori romani e passarono poi agli zar di tutte le Russie. Per questo privilegio ringrazio Pasquale e il 8

pubblico. Il percorso, di per sé inconsueto assai, ha lasciato delle tracce, delle memorie, delle immagini, dei testi. È il frutto, pensato una seconda volta, rivisto nella magia della pagina, di questi sedimenti che ha generato il libro che tenete in mano. Buon viaggio. I libri sono come i diamanti, e diamonds are forever, come sostiene l’altro protagonista dello spettacolo James Bond. Il viaggio non sarà particolarmente faticoso perché è breve. Copre infatti un percorso abbastanza contenuto dell’eredità storica che forma il nostro inconscio collettivo. È quello nel quale nasce, come sostiene brillantemente il mio amico Antonio Paolucci, la lingua visiva che parliamo ancora oggi, quella d’Europa, ma in particolare quella della più densa culla d’Europa che è l’Italia. Da Giotto a Caravaggio giocano tutte le ipotesi che ossessionano la nostra psiche contorta. Vi si ritrova il costante risorgere delle lingue estetiche preesistenti, quella greco-latina per intenderci, e di quelle invece ancorate nel fondo delle nostre viscere indigene, quelle espressioniste che dalle passioni per il sangue degli Etruschi hanno corso fino alle ferite di Caravaggio. So benissimo che questi temi sanno di consuetudine nel sapere di ognuno, o meglio di chi di più di chi di meno, so che hanno generato tedi infiniti nelle sonnolenze scolastiche, ho quindi intrapreso costantemente una strada diversa, quella che talvolta risveglia l’attenzione anche dell’apatico, la strada che più intimamente attrae i nostri amici più cari, quella del pettegolezzo. Ecco il motivo per il quale questo libro non potrà mai diventare un libro di Storia dell’Arte, con le due auliche maiuscole, ma si limita a essere una iniziazione alle storie delle arti. Ecco il motivo per il quale nutro l’ambizione, forse esagerata, di non annoiare il lettore. Personalmente ho imparato a guardare le opere d’arte da ragazzo perché mi capitava di venderle. E tutti sanno che nulla è più pericoloso del commercio: occorre procedere con i piedi di piombo, anzi meglio ancora con la scarpa ben allacciata, per evitare le slogature. È lì che imparai a guardare in modo non accademico, anche se non imparai mai bene le regole del commercio. Credo che le opere che il passato ci tramanda richiedano sempre una sommatoria di punti di vista per evitare di vederle solo nella lontananza di un cannocchiale rovesciato. La grande lezione che ci hanno regalato i filosofi della sofistica greca è quella dell’ironia, laddove “eironeia” non ha nulla a che vedere con il ridere, ma corrisponde allo spostamento dell’ottica conseguente a domande trasversali capaci di portare il confronto in una direzione voluta quanto inattesa. È questo procedimento l’unico 9

alternativo a quello severo della deduzione sillogistica. Ora, come tutti sanno, l’arte non vuole razionale deduzione ma mutazione degli intuiti. A questa ginnastica della mente è chiamato il lettore che abbia voglia di una piccola avventura domestica, non pericolosa ovviamente, ma suscettibile di convincenti bizzarrie. I testi qui contenuti sorgono da una propedeutica televisiva e come tali non hanno l’articolazione dei testi nati per la sola scrittura. Il linguaggio televisivo è icastico, deve essere conciso, è distante assai da quello di una conferenza accademica o di una lezione universitaria. L’editore che è sempre più crudele dello scrittore mi ha spinto a usare questo linguaggio nuovo e a reprimere la mia naturale inclinazione alla pagina infinita che tanto piaceva a Marcel Proust. Proust come Thomas Mann purtroppo non si adattano al fumetto. Mentre la mia vera scuola di formazione, e ho finalmente il coraggio di confessarlo, sono le invettive del capitano Haddock, il compagno fedele di Tintin, quel fumetto che ogni francofono di formazione sente come fondativo della propria sensibilità di globetrotter. Ecco perché ho avuto l’audire di rubare a Hergé, il creatore di Tintin, lo slogan della sua didattica: “Per i giovani dai 7 ai 77 anni”. Non si sentano però esclusi dalla lettura gli adolescenti di 90.

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Giotto, Madonna d’Ognissanti, particolare, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Non c’è Giotto senza Santo Quando si parla di Giotto si rischia di cadere nei cliché più consueti della storia dell’arte: la famosa O, la pecorella dipinta da bambino e la prospettiva. Vorrei invece tentare un racconto della sua arte un po’ diverso dal solito, concedendoci di avere come guida d’eccezione il santo Francesco.

Negli ultimi anni si è tornati a parlare frequentemente di Giotto in occasione di grandi eventi che hanno coinvolto due luoghi che conservano alcuni dei suoi massimi capolavori: il restauro della basilica di San Francesco d’Assisi a causa del terremoto, che colpì la zona nel 1997, e il restauro della Cappella degli Scrovegni a Padova, concluso nel 2002. La nostra storia parte da Montefalco, in Umbria, bel paese allo stato puro, un borgo dell’XI-XII secolo sulle cui mura si trovano ancora le insegne di Federico II, il falco e la doppia aquila. Nell’ex monastero dei francescani, diventato oggi museo, è conservato il ciclo di affreschi di Benozzo Gozzoli, dal quale inizia la nostra indagine. Perfettamente restaurato, firmato e datato 1452, riprende con precisione i temi di Assisi, quelli della vita di san Francesco e anche alcune caratteristiche della struttura della decorazione. Fra gli affreschi e gli scranni, a destra e a sinistra dell’altare, c’è un fregio curiosissimo che raffigura i francescani più famosi alla metà del XV secolo, a duecentocinquant’anni dalla fondazione dell’ordine: papa Niccolò IV, Jean de Brienne, l’imperatore di Costantinopoli durante il regno latino del Duecento, i frati e i grandi universitari fra i quali il più famoso John Duns Scoto, oxfordiano chiamato il “dottor Sottile” per aver rovesciato le tesi scolastiche e parigine del domenicano Alberto Magno e del suo allievo Tommaso d’Aquino. Dietro l’altare invece, sopra la porta che immette nel convento, ci sono altre tre figure. Non sono francescani, ma, come riporta la loro didascalia, si tratta di Laureatus Petrarca, Theologus Dantes e Pictorum Eximius Iottus. Per un francescano della metà del Quattrocento Dante, Petrarca e Giotto erano dunque riferimenti così importanti da essere indicati come esempi, o come diremo noi oggi, dei miti. 12

Per capire che tipo di mito rappresentano questi tre personaggi, dobbiamo analizzare una serie di eventi storici. Nel 1190, un tedesco annega mentre fa il bagno in un fiume del Medio Oriente: è l’imperatore Federico Barbarossa, che, dopo aver represso per tutta una vita ogni ipotesi comunale nel mondo, aveva intrapreso l’ultima e più improbabile delle sue imprese, la crociata.

Benozzo Gozzoli, San Bonaventura, particolare, 1452, affresco, Montefalco, Museo Civico di San Francesco

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Benozzo Gozzoli, Petrarca, Dante e Giotto, particolare, 1452, affresco, Montefalco, Museo Civico di San Francesco

Dieci anni prima si erano già verificati due fatti significativi: a Parigi Filippo II Augusto era diventato re con l’ambizione di trasformare il suo piccolo regno, poco più grande di una provincia, in un vero reame. In quarant’anni ce la farà, Parigi era già una città importantissima, con la seconda università del mondo dopo Bologna, specializzata in teologia e tale per aver generato per clonazione Oxford e Cambridge. E lì era andato a studiare il giovane conte Lotario dei Conti di Segni da Anagni, che fra poco diventerà papa Innocenzo III, il rinnovatore politico e teocratico del papato a Roma. Per consolidare il suo potere, deve riprendere il controllo di una Chiesa in mano da tempo alla aristocrazia feudale dei vescovi. E per questo si appoggerà su due futuri santi pauperisti che sognerà ognuno come ricostruttore della Chiesa: Domenico di Guzmán dalla Spagna e Francesco da Assisi, i quali dal nulla formeranno due congregazioni destinate a diventare influentissime.

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Giotto, Storie di san Francesco, Il sogno di Innocenzo, 1295-1297/1299, affresco, cm 270x230, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco

Un’immagine del ciclo di Giotto ad Assisi rende visibile questo concetto: Innocenzo III sogna san Francesco mentre ricostruisce la Chiesa, non per modo di dire ma in senso proprio fisico, mattone per mattone, dove le architetture coloratissime sono quelle di un Medioevo in cui c’erano ancora gli intonaci sui muri. Inizia il Duecento. Si stanno per inventare le città, la diplomazia e l’intellettuale.

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Giotto, Storie di san Francesco, La cacciata dei diavoli da Arezzo, particolare, 1295-1297/1299, affresco, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco

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Beato Angelico, Crocifissione, particolare con san Domenico, 1438-1446, affresco, Firenze, Convento di San Marco

L’invenzione dell’intellettuale Come mi diceva l’amico Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, con formidabile enfasi toscana, gli italiani non sono mai stati grandi come nel periodo che va dal 1270 al 1310. È il momento della rivoluzione culturale, del boom economico; è il momento nel quale nascono in Toscana quelli che inventano la lingua letteraria degli italiani, Dante Alighieri in primis, e Giotto di Bondone che ne inventa la lingua figurativa. Per capire meglio la questione bisogna fare un salto a Firenze dai domenicani di Santa Maria Novella. Entrando dalla porta laterale, quella d’origine, si trovano due capolavori che da sempre si guardano fra loro per essere visti in contemporanea dal fedele: la Trinità di Masaccio, primo 17

intuito del Rinascimento, dove il Cristo non è altro che l’evoluzione del Crocifisso di Giotto. Qui la lezione anti albigese dei domenicani, contro l’eresia càtara diffusa soprattutto nella Francia meridionale, è seguita con attenzione.

Maestro della Croce delle Oblate, Madonna con il Bambino e due angeli, particolare, 1250-1260 ca, tempera su tavola, cm 130x73, Firenze, Galleria dell’Accademia

I domenicani sostengono la tesi che Cristo è uomo vero, morto vero, verde, con il sangue che scorre, cola sul teschio di Adamo e garantisce la nostra salvezza. È un’autentica rivoluzione rispetto al modo di vedere dell’epoca. Per verificare lo stato dell’arte nella seconda metà del Duecento possiamo analizzare la Madonna con il Bambino e due angeli del Maestro della Croce delle Oblate che si trova alla Galleria dell’Accademia di Firenze. La 18

figurazione è ancora profondamente bizantina, anche se la scioltezza del disegno e la facilità dell’esecuzione rendono particolarmente evoluta questa lingua. La Madonna è ancora quella dell’icona bizantina replicata all’infinito e gli angeli hanno le ali coloratissime, come d’altronde avviene nei mosaici del Battistero di Firenze, di stretta osservanza bizantina.

Giotto, Crocifisso, 1290-1295, tempera su tavola, cm 578x406, Firenze, Santa Maria Novella

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Masaccio, Trinità, 1426-1427 circa, affresco, cm 667x317, Firenze, Santa Maria Novella

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Giotto, Crocifisso, particolare

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Giotto, Crocifisso, particolare

Gli angeli sono puro colore, pura austerità, come carabinieri dell’Altissimo, tutti con la stessa espressione, come fatta a stampo. Nonostante la forte influenza bizantina, si sentono già i primi segnali di espressività e il primo tentativo di uscire dalla tradizionale bidimensionalità. Come si vede nella Madonna con il Bambino e due angeli, si perde il fondo oro e appaiono per la prima volta dei piccoli dettagli concreti nelle stoffe. Ma, tornando a parlare di crocifissi, è san Francesco che, con le sue prediche all’inizio del Duecento, sostituisce l’immagine del Christus Triumphans con quella del Christus Patiens. È lui il vero inventore dell’arte moderna. È un passaggio di cui si accorgono molto bene gli uomini del Trecento e poi del Quattrocento, Cennino Cennini per esempio e Giorgio Vasari più tardi. 22

Ci sono tre tavole agli Uffizi che, accostate, ci danno un’idea tangibile della rivoluzione in corso nel campo della pittura. La Maestà di Santa Trinita di Cimabue, dove gli angeli occupano tutti gli spazi lasciati dal trono incombente; la Madonna Rucellai di Duccio da Buoninsegna, che alleggerisce il trono con un drappo di seta sostenuto dagli angeli disposti a ritmo regolare; e la Maestà d’Ognissanti di Giotto, dove l’artista crea uno spazio unico, fisico, articolato dall’edicola del trono. Gli angeli gli stanno veramente intorno e la Vergine, imponente, occupa pesante quasi tutto lo spazio.

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Duccio di Buoninsegna, Madonna Rucellai, post 1285, tempera su tavola, cm 450x292, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Cimabue, Maestà di Santa Trinita, 1280-1290, tempera su tavola, cm 385x223, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Giotto, Madonna d’Ognissanti, 1310-1311, tempera su tavola, cm 325x204, Firenze, Galleria degli Uffizi

L’arte successiva dell’Italia inizia da queste tre tavole. Come disse Cennino Cennini: “Giotto rimutò l’arte del dipingere di greco in latino”. Dalla lingua ormai morta dei bizantini si passa alla nuova lingua dell’Occidente. È sempre di quegli anni di creatività la tesi di filosofia scolastica di Alberto Magno di Colonia, dottore della Chiesa, che affronta in modo analogo la questione del greco Aristotele: “La nostra intenzione è di rendere comprensibile ai latini la fisica, la metafisica e la matematica”.

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Il miracolo di Assisi Nel complesso basilicale di San Francesco d’Assisi di miracoli ne sono successi tanti e ne succedono ancora, ma a noi qui interessa solo quello che fece cambiare il corso delle arti visive in Occidente durante il XIII secolo. Itinerario nel mondo dell’arte particolarmente istruttivo, la parte inferiore della basilica fu costruita pochi anni dopo la morte del santo. Assisi dipende direttamente dalla Santa Sede e di questa seguirà le evoluzioni e le turbolenze: prima la linea teocratica e filo-borghese dei papi di Anagni e, dal 1260 in poi, la linea dei papi francesi. Sono gli anni nei quali Bianca di Castiglia coronò il sogno applicato ai suoi due figli: Luigi diventerà IX e poi santo, ma soprattutto re di una Francia allargata e potente, e il fratello Carlo sarà Carlo I di Angiò, re di Sicilia, di Napoli, di Albania e di Gerusalemme. Il progetto della Basilica Superiore è sin dall’inizio estremamente ambizioso e porterà a lavorare in Italia una serie di artisti importantissimi, che provengono dal mondo tedesco, francese e inglese. È il momento in cui si afferma il gotico, e questa innovazione chiederà più al colore dei fabbricanti di vetrate, che al colore dei pittori. Ma la fortuna francese durò molto meno del previsto. Nel 1270 re Luigi IX muore di peste a Tunisi; nel 1277 diventa papa Giovanni Gaetano Orsini, con il nome di Niccolò III. E il testimone nel campo delle arti passerà ancora in mani italiane, grazie a Cimabue e a due sue caratteristiche fondamentali: la ricerca dell’espressione e una grande inclinazione appassionata per il mondo dell’architettura.

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Vetrata con Storie di Gesù, XIII secolo, vetro e piombo, cm 570x400, Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco

Si va avanti per alternanze e torna ancora un papa francese, Simon de Brie, Martino IV, e scoppiano i Vespri Siciliani. Nel 1288 arriva al soglio di Pietro il primo papa francescano, Niccolò IV, nato ad Ascoli. I francescani, allora, hanno più di 1600 monasteri e sono forse più di 100.000 al mondo. I lavori ad Assisi riprendono alla grande. Entra in scena Giotto. Con tutto un nucleo di artisti umbri, toscani, romani, così tanti che si fa fatica a capire chi ha fatto cosa. Con loro avviene una vera rivoluzione e la si trova nei primi dipinti superiori, quelli delle Storie di Isacco, e gli altri che rappresentano i quattro Dottori della Chiesa.

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Giotto (?), Volta dei Dottori della Chiesa, 1291-1295, affresco, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco

La maturazione dell’immagine è impressionante, l’espressività delle facce ha fatto un salto ulteriore ed epocale, le mani sono diventate delicatissime ed eleganti, i panneggi si articolano e cadono in un modo sublime, l’intera opera sembra pompeiana. In realtà Pompei all’epoca ancora non si conosceva, ma in compenso Giotto aveva già fatto un viaggio a Roma e, con ogni probabilità, conosciuto affreschi e dipinti dal sapore antico, che all’epoca c’erano ma nel frattempo sono spariti. Più che conoscere l’autore, io vorrei conoscere il movente e il mandante, lo stesso genio della propaganda che decise di mettere fra i Dottori della Chiesa, nelle vele della volta della stessa Basilica, una quantità infinita di dettagli tecnici e precisi della vita quotidiana, cosa fino ad allora completamente esclusa dalla storia della pittura. L’estetica troppo 29

aristocratica mi fa pensare che qui la mano non sia quella di Giotto. I mobili sono straordinari, le cattedre non di legno ma di marmi cosmateschi, il realismo dei dettagli è un fulmine nella storia dell’arte. La penna intinta è sporca di inchiostro e senza piume perché perfettamente tagliata con il coltello sopra la pagina. La costruzione dello scrittoio di legno è precisissima nella sua carpenteria.

Giotto, Storie di san Francesco, La rinuncia ai beni paterni, particolare, 1295-1297/1299, affresco, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco

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Giotto (?), Volta dei Dottori della Chiesa, particolare con san Gregorio Magno

Il realismo dei dettagli è un fulmine nella storia dell’arte.

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Particolare di una colonnina “annodata” del chiostro dell’Abbazia di Santa Maria di Chiaravalle Milanese, XII secolo

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Giotto (?), Volta dei Dottori della Chiesa, particolare con sant’Agostino

L’intellettuale diventa protagonista, proprio come farà fra pochi anni il professore di Oxford, francescano, Guglielmo da Ockham, che, chiamato e poi messo agli arresti ad Avignone, scapperà con alcuni suoi colleghi presso Lodovico il Bavaro e gli rivolgerà la frase seguente: “Tu me defendas gladio, ego te defendam calamo”. Io ti difendo da intellettuale: a te la spada, a me la penna. E a Giotto, per cui questa lezione è fondamentale, il pennello. Nel ciclo conclusivo, quello inferiore, dedicato alla storia del Santo di Assisi, Giotto, che continua a lavorare con i compagni, si forma 33

definitivamente in alcuni riquadri che si possono sicuramente attribuire a lui, dove l’architettura evolve partendo dal paesaggio medioevale e si trasforma in un post-moderno ante litteram. Attinge all’architettura cosmatesca di origine classica, cita antiche e improbabili edicole romane che si articolano anche loro in chiave postmoderna e predechirichiana, indaga le volte della prima Roma e riesce addirittura a trasformare il gotico in neoellenistico. E poi va alla ricerca dei dettagli materiali, si appassiona alla carpenteria, alla falegnameria. Scopre la fisiognomica e, per la prima volta nella storia della pittura, si vedono i denti. Sicché, negli ultimi riquadri, l’opera è completa e definitiva, ma l’architettura non è inventata e in abstracto, la citazione del tempio si può vedere nella città di Assisi e le bifore sono forse quelle della chiesa.

Giotto, Storie di san Francesco, San Francesco dinanzi al Crocifisso in San Damiano, particolare, 1295-1297/1299, affresco, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco

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Giotto, Storie di san Francesco, San Francesco dinanzi al Crocifisso in San Damiano, intero, 1295-1297/1299, affresco, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco

Giotto esce da Assisi avendo imparato l’oggettualità e dipinge, nel 13101311, un dettaglio che a noi può sembrare ovvio: un angelo con un vaso di fiori in mano nella Madonna d’Ognissanti a Firenze. È il primo vaso della storia dell’arte, ma le ali degli angeli sono ancora colorate. Giotto esce da Assisi avendo imparato l’oggettualità.

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Giotto, Storie di san Francesco, La prova del fuoco davanti al sultano, particolare, 1295-1297/1299, affresco, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco

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Giotto, Storie di san Francesco, La rinuncia ai beni paterni, particolare

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Giotto, Storie di san Francesco, La cacciata dei diavoli da Arezzo, particolare

Giotto, Storie di san Francesco, Il dono del mantello, particolare

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Giotto, Storie di san Francesco, Il presepe di Greccio, particolare

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Giotto, Storie di san Francesco, Il presepe di Greccio, particolare

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Giotto, Storie di san Francesco, Il presepe di Greccio, particolare

Giotto a Padova Il viaggio da Assisi a Padova non è altro che un viaggio da un santo francescano a un altro. Sant’Antonio da Padova è di Lisbona e frate agostiniano, ha tredici anni in meno di san Francesco e aderisce subito al suo gruppo, di cui diventa il più bravo predicatore proprio a Padova. Muore nel 1231 e, come Francesco, viene fatto santo subito. L’anno dopo si inizia la costruzione della sua Basilica. Le due basiliche di Assisi e di Padova sono i massimi lavori pubblici del papato nel Duecento e battono ancora oggi bandiera vaticana, sono 41

extra territoriali.

Giotto, Veduta della controfacciata della Cappella degli Scrovegni, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni

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Giotto, Enrico Scrovegni presenta il modello della cappella, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni

Sotto la guida di Ezzelino, Padova ricchissima e comunale lotta contro tutti i comuni vicini e soprattutto è una spina nel fianco dell’oligarchia piratesca di Venezia, colpita per ben due volte dall’interdetto papale, per la presa di Zara e la spartizione di Costantinopoli. Giotto, dopo i francescani di Assisi, passa per quelli di Rimini e approda a quelli importantissimi di Padova. Qui lavora per la chiesa del Santo, poi per il palazzo della Ragione e infine trova il suo super sponsor privato: Enrico Scrovegni. La Cappella degli Scrovegni viene costruita nel 1300 per il palazzo della famiglia, fra le più potenti della città, mente Giotto la decora 43

fra il 1303 e il 1304. Si dice che Enrico Scrovegni fosse mosso da complesso di colpa, perché suo padre faceva l’usuraio. Credo invece che il suo mecenatismo fosse perfettamente conforme alla politica della sua città e a quella dei francescani.

Giotto, Storie della Vergine, L’angelo annuncia a Gioacchino che è stato esaudito, 13031304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni

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Giotto, Storie di Cristo, Le nozze di Cana, particolare, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni

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Giotto, Storie di Cristo, L’adorazione dei Magi, particolare, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni

Dopo il restauro del 2002, questa opera d’arte complessiva integrata e voluta da un unico uomo è tornata perfettamente leggibile. E torna anche tutta l’attenzione architettonica, il primo trompe-l’oeil della storia là dove viene a sostituire l’abside che non esiste. Un’architettura dipinta, aperta sull’esterno attraverso una serie di grandi finestre che mostrano la realtà che sta dietro a esse, con un cielo azzurro diffuso dappertutto, che ne costituisce il fondale scenico. L’estetica è la composizione degli opposti. Come la basilica di Assisi, la cappella è antibizantina, ma filo-orientale sin dalla dedica a santa Caterina da 46

Alessandria, la santa protocristiana, quella del monastero sul monte Sinai, e a san Giovanni, l’evangelista più intellettuale del san Marco di Venezia e più orientale. Il Vangelo apocrifo di Giacomo viene usato da Giotto per le storie della Madonna. E nei riquadri della parte inferiore l’arte di Giotto si fa perfetta. In cosa consiste la rivoluzione di Giotto? Giorgio Vasari riteneva che fosse proprio questo il momento in cui si scoprono gli affetti e le attitudini: l’ira, il pianto, il dispiacere, la gioia, il sorriso, le pulsioni dell’animo, la psicologia e quindi la fisiognomica. Sintetizzando ulteriormente, l’operazione fatta da Giotto è la scoperta del vero: il vero anatomico, il vero fisiognomico, il vero dei colori, delle ombre e delle luci, nella certezza dello spazio misurabile. La mania per i dettagli da falegname diventa iperrealista, la tecnica delle ombre raggiunge la maturità, appare una linea rossa per delineare il contorno dei visi, i corpi si fanno plastici, l’occhio del cammello anticipa Walt Disney, la profondità dell’architettura diventa un perfetto esercizio assonometrico, il paesaggio diventa quinta, il grido è autentico quanto il dolore e appare la prima lacrima della storia. Altri segni antibizantini, gli angeli per la prima volta perdono la policromia delle ali. “Questo non so se è per un dissenso consapevole rispetto alla tradizione bizantina o se piuttosto, in armonia e in sintonia con la nuova teologia spiritualizzante anche francescana, non ha voluto veramente dare agli angeli il loro significato teologico di puri spiriti di intelligenze incorporee”, commenta Antonio Paolucci. “Neanche Dante fa degli angeli colorati. Gli angeli sono intelligenza di Dio che diventa epifania, manifestazione in qualche modo agli uomini.”

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Giotto, Coretto, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni

Ma c’è un ultimo gesto di questo artista che ci interessa rivelare, forse il più feroce e rivoluzionario rispetto all’opposizione Padova-Venezia, di cui gli storici, magari per imbarazzo, non osano parlare. Giotto ruba agli aristocratici pirati veneziani il Giudizio Universale di Torcello, di circa tre secoli prima. Nella chiesa di Santa Maria Assunta di Torcello si conserva l’opera visiva più importante e forse il riferimento al quale Giotto ha gettato un occhio. Di questo assoluto capolavoro, mosaico che si sviluppa tra l’XI secolo e il XII, notiamo una serie di dettagli del tutto simili: il Cristo è in una mandorla, dai suoi piedi esce un fiume che è il suo stesso sangue e che diventa la fiamma che va ad alimentare l’inferno, dove cucina i sette peccati 48

capitali. La scansione di Padova replica quella di Torcello.

Giotto, Giudizio Universale, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni

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Giotto, Giudizio Universale, particolare con le schiere angeliche

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Maestranze veneto-bizantine, Giudizio Universale, particolare, XI-XII secolo, mosaico, Torcello, Santa Maria Assunta

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Giotto, Giudizio Universale, particolare con Lucifero e i dannati.

Ma la parte che mi interessa di più nel Giudizio Universale di Giotto è una scoperta fra i dannati dell’Inferno: per la prima volta in Occidente appaiono il sesso e i peli. Il pudore bizantino è cancellato. Si può essere impiccati per la lingua o per il pene, fatti arrosto impalati, essere condannati al voyeurismo eterno, come essere condannati a una eterna impossibile trattativa con la meretrice. La truculenza delle immagini infernali di Giotto è un dato stabile dell’immaginario medioevale, che si ritrova regolarmente ogni volta che la fantasia ottiene il diritto alla liberazione “psicanalitica” offerta dal tema degli inferi. In Hieronymus Bosch, il geniale inventore d’un riassunto del 52

Medioevo, raggiunge livelli oggettivamente surreali che hanno forti analogie con quelle di Grünewald a Colmar. Rimane il sogno degli incubi punitivi, una sorta di fiume carsico della coscienza cristiana e occidentale europea che prosegue fino ai complessi di colpa irlandesi di Francis Bacon. Lo stesso anno dell’inizio dei lavori di Giotto alla Cappella degli Scrovegni, crolla ad Anagni il sogno del cesaropapismo: per l’ennesima volta, il potere temporale si dimostra ben più intrigante di quello spirituale. Bonifacio VIII prende lo schiaffo, viene fatto prigioniero dai francesi e muore dopo poco a Roma. E, qualche anno dopo che Giotto ha passato l’ultima pennellata nel 1304, il papato viene trasferito in Francia, nuovo centro del mondo. Proprio in quegli anni Dante Alighieri incomincia a scrivere l’epos di questa storia e metterà chi all’Inferno, chi in Purgatorio, mentre Petrarca sarà il primo intellettuale sradicato ed europeo. La storia volta pagina, finisce il Duecento. Giotto non avrà che epigoni.

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Hieronymus Bosch, Trittico del Giudizio Universale, particolari, 1482 ca, olio su tavola, Vienna, Akademie der Bildenden Künste

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Hieronymus Bosch, Trittico del Giudizio Universale, particolari, 1482 ca, olio su tavola, Vienna, Akademie der Bildenden Künste

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Giotto, Giudizio Universale, particolare con i dannati, 1303-1304, affresco, Padova, Cappella degli Scrovegni

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CRISTO UOMO CHE SOFFRE La tradizione delle croci lignee dipinte nacque in Italia centrale nel XII secolo. Erano opere destinate a essere viste da tutti i fedeli, appese sopra l’iconostasi, come si vede nella scena giottesca del Presepe di Greccio ad Assisi, o all’arco trionfale delle chiese, rivolte verso la navata. Dapprima il Cristo è triumphans: in posizione frontale, con la testa eretta e gli occhi aperti, vivo sulla croce e trionfatore sulla morte, attorniato da scene della Passione. Il Crocifisso con storie della Passione e della Redenzione del Maestro della Croce 432 degli Uffizi è fondamentale per il nostro discorso. Il Cristo, perfettamente bizantino, è trionfante, vince sulla morte, esiste in un mondo astratto e divino, mentre i segni della sua umanità sono stilizzati: il sangue sembra un coriandolo e l’ombelico una spirale. Agli inizi del XIII secolo compare una nuova iconografia, quella del Cristo morto, il Christus patiens, anch’essa di ispirazione bizantina, ma anche soprattutto stimolata dalla coeva predicazione di san Francesco. La sofferenza umana del Cristo è sottolineata dal corpo incurvato dall’agonia e dal capo reclinato sulla spalla. Nel Crocifisso con otto storie della Passione del Maestro della Croce 434 per esempio, il Cristo dolente è espressionista, il suo sangue è rosso, il suo corpo diventa umano. Intanto scompariranno anche le storie della Passione, per ridursi, come nel Crocifisso di Giotto in Santa Maria Novella, alle sole figure dolenti a mezzobusto della Vergine e di san Giovanni.

Maestro dei Crocifissi blu, Christus Patiens, intero, XII secolo, tempera su tavola, cm 305x204, Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco e Collezione Perkins

Maestro dei Crocifissi blu, Christus Patiens, particolare, XII secolo, tempera su tavola, cm 305x204, Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco e Collezione Perkins

Maestro della Croce 432, Crocifisso con storie della Passione e della Redenzione, intero, 1175-1200, tempera su tavola, cm 302x231, Firenze, Galleria degli Uffizi

Maestro della Croce 432, Crocifisso con storie della Passione e della Redenzione, particolare, 1175-1200, tempera su tavola, cm 302x231, Firenze, Galleria degli Uffizi

Maestro della Croce 434, Crocifisso con otto storie della Passione, intero, 12401245, tempera su tavola, cm 250x200, Firenze, Galleria degli Uffizi

Maestro della Croce 434, Crocifisso con otto storie della Passione, particolare, 1240-1245, tempera su tavola, cm 250x200, Firenze, Galleria degli Uffizi

Scuola pisana, Crocifisso con storie della Passione, intero, 1230 ca, tempera su tavola, cm 297x234, Pisa, Museo Nazionale di San Matteo

Scuola pisana, Crocifisso con storie della Passione, particolare, 1230 ca, tempera su tavola, cm 297x234, Pisa, Museo Nazionale di San Matteo

CIMABUE PRIMITIVISTA? Ad Assisi è di grande importanza il tempo che dovrete dedicare alla Crocifissione del transetto sinistro, quella che dipinse Cimabue sul finire del Duecento. Ciò che vedete oggi è l’ectoplasma di ciò che fu affrescato allora. Ma proprio perché l’affresco parte da un primo strato che viene velocemente arricchito, nel breve tempo dell’asciugatura, dello strato di calce, questa traccia sottostante assume un significato particolare. L’opera finita, come sempre avviene nel declinarsi dei secoli, assume le caratteristiche complete dell’estetica della sua epoca. L’opera sottostante vive invece fuori dal tempo e corrisponde ai morfemi linguistici dai quali l’artista parte. E in questo caso la scoperta è di estremo interesse, in quanto i segni sottostanti hanno la medesima forza di alcune pitture espressioniste dell’inizio del XX secolo. Corto circuito storico? Ovviamente no! È che invece chi dipinge, appena è in grado di controllare il proprio talento, si trova a esprimere valori umani profondi che sono inalterabili e spesso inalterati. Ecco perché un bel disegno di Picasso può assomigliare a un bel graffito delle grotte preistoriche di Altamira. Il che avviene, ovviamente, perché lo sciamano di Altamira era bravo quanto Picasso, soffriva e amava quanto Picasso.

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Cimabue, Crocifissione, 1280-1285, affresco, cm 350x690, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco

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Pablo Picasso, Studio per Les Demoiselles d’Avignon, 1907, olio su tela, cm 81x60, Berlino, Nationalgalerie, Museum Berggruen

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Arte baoulé, Pendente antropomorfo, oro, altezza cm 8, Parigi, Musée du quai Branly Per capire meglio la faccenda basta affiancare la Crocifissione di Cimabue con l’opera d’un artista renano del 1920, il poco noto Böckstiegel, e si intuisce subito quanto l’arte d’ogni artista comprenda una parte di segno sotterraneo, che proviene dal fondo della coscienza, e una parte di finitura che raffigura la sua cultura visiva contingente. E allora che dire della parola attribuita dalla critica ottocentesca che definiva “primitivista” la pittura di Cimabue? Il primitivismo può essere una lingua non ancora evoluta, come quella del bambino, e come ben sapeva il sommo Caroto, pittore del Rinascimento veronese, che dipinge il giovane autore del disegno, capendo benissimo la questione. Oppure il primitivismo può essere una indagine al fondo della propria anima, come ben sapevano i sofisticatissimi artisti africani quando realizzavano i loro feticci, quelli

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ai quali si riferisce così bene Pablo Picasso nelle Demoiselles d’Avignon. Ed ecco che il primitivismo duecentesco non è più lingua primordiale ma sofisticata ricerca dell’innovazione.

Giovan Francesco Caroto, Fanciullo con disegno di pupazzo, prima metà del XVI secolo, olio su tavola, cm 37x29, Verona, Museo di Castelvecchio

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Peter August Böckstiegel, Ritratto di Hanna Böckstiegel, 1920, xilografia a colori, cm 40,6x34,9, Collezione privata

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Arte kota, Reliquiario a figura di antenato, legno e ottone, altezza cm 63, Berlino, Ethnologisches Museum

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I COLORI DEL MEDIOEVO Benozzo Gozzoli soddisfa una vecchia e legittima curiosità: ma come erano le città del Medioevo prima che le rendessimo ruderi romantici dalle mura di pietra, come oggi ci appare Assisi? Erano invero delle follie cromatiche. La campagna si distingueva dalla città perché la città era un manufatto nel quale trionfava il colore. Sia Giotto sia Gozzoli lo testimoniano, esattamente come lo narrano le migliaia di miniature celate nei codici. Abbiamo purtroppo con gli anni perso gli intonaci e la cultura medioevalistica ottocentesca ha assunto una piega estetica totalmente falsa. Anche la nota dichiarazione di André Malraux: “quand les cathédrales étaient blanches”, quella che servì a iniziare la ripulitura di Notre-Dame a Parigi per toglierle il nero dei fumi ottocenteschi e farne l’opera che oggi si vede, corrisponde a un falso. Recentemente ad Amiens, con una geniale operazione son et lumière, si è restituita al pubblico una immagine notturna che riprende i colori storici. Gli stessi si ritrovano stabili grazie a un restauro cromatico filologico sulla facciata della cattedrale di Limburg an der Lahn. Mi dispiace per il mio maestro di pensiero Malraux, al quale devo tutte le tesi del Museo immaginato. Ma per fortuna la storiografia procede. A questo proposito è utilissima la lettura dell’Autunno del Medioevo, dove Huizinga dedica una forte attenzione alle follie cromatiche del tardo Medioevo, quelle che andavano a distinguersi dal cromatismo naturale d’una campagna coltivata dove i contadini erano monocromi nelle loro vesti frugali, dove i monaci erano ancor più dediti ai simboli della povertà, a tal punto che le vesti erano del colore che la pecora forniva e il nero era considerato una eccezione lussuosa. Per sant’Agostino, se Dio avesse voluto che le vesti fossero azzurre avrebbe fatto nascere pecore azzurre. E ovviamente i cardinali vestivano col rosso ch’era stato in precedenza privilegio solo dell’imperatore.

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Facciata della cattedrale di Limburg an der Lahn

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Facciata della cattedrale di Amiens durante la rappresentazione: Policromie della Cattedrale

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Benozzo Gozzoli, Storie di san Francesco, La cacciata dei diavoli da Arezzo, 1452, Montefalco, Museo Civico di San Francesco

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Domenico di Bartolo, Celestino III concede privilegi di autonomia all’ospedale, particolare, 1442-1444, affresco, Siena, Pellegrinaio dell’Ospedale di Santa Maria della Scala

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SAN DOMENICO E SAN FRANCESCO San Domenico è nato in Spagna nel 1170; san Francesco ad Assisi, dodici anni più tardi. Entrambi, il primo nelle città francesi, italiane e spagnole, e il secondo nelle città d’Italia, ma anche nelle campagne, comprese quelle d’Oriente, hanno tentato di dare un volto più umano, povero, essenziale alla religione, senza per questo allontanarsi dal seno della Chiesa cattolica. Sebbene i domenicani si dedicassero in larga misura allo studio e alle spedizioni missionarie e i francescani, invece, al lavoro manuale, all’assistenza dei malati e al contatto con la natura, gli ordini avevano diversi aspetti in comune: predicazione, povertà, vita comunitaria, elemosina, rifiuto della violenza, amore per il prossimo. Morto nel 1221, Domenico fu canonizzato nel 1234, mentre Francesco, scomparso nel 1226, divenne santo due anni più tardi. TORNA AL TESTO

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L’ERESIA CÀTARA La parola “càtaro” deriva dal greco katharos, “puro”, e venna usata per indicare i seguaci di un movimento ereticale diffusosi, tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, nel sud-ovest della Francia, più precisamente attorno alla città di Albi (da cui il secondo epiteto, albigesi). I càtari erano fervidi sostenitori di un estremo dualismo fra bene e male, dove quest’ultimo era rappresentato da tutto ciò che è materiale, averi e ricchezze ma anche le espressioni della carne. Essendosi posti fin da subito in forte contrasto con la Chiesa, vista come un covo di nefandezze e corruzione, furono duramente repressi dall’autorità religiosa, tanto che, agli inizi del Duecento, venne indetta contro di loro, nonostante fossero cristiani, una vera e propria crociata. Fu un massacro, che si concluse definitivamente con la sconfitta degli eretici solo sul finire degli anni quaranta del secolo. TORNA AL TESTO

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LA COSTRUZIONE DELLA BASILICA Il giorno successivo alla canonizzazione di san Francesco, nel 1228, il pontefice Gregorio IX e frate Elia, vicario dell’ordine tra il 1221 e il 1227, posero la prima pietra per la costruzione di una nuova chiesa, destinata tanto a raccogliere le spoglie mortali del Santo quanto a diventare un luogo simbolico per i francescani. Nel 1230 la Basilica Inferiore fu completata ma, due anni più tardi, frate Elia decise di donare maggiore gloria alla figura di Francesco e ai suoi seguaci, e volle per questo far costruire una nuova chiesa, sovrapposta alla precedente. La consacrazione avvenne nel 1253 e, una ventina d’anni più tardi, iniziarono anche le decorazioni della Basilica Superiore, affidate a due tra i maggiori artisti del periodo: Cimabue e Giotto. Assisi divenne luogo di centrale importanza perché attirò i più grandi maestri di tutta Europa (pittori, ma anche vetrai, lapicidi e così via), ma anche perché diventò il luogo dove massimamente si esprimeva una nuova spiritualità, rivolta alle classi emergenti, i borghesi, il proletariato urbano, i commercianti: nuove economie, nuove classi sociali, nuove culture. TORNA AL TESTO

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I RESTAURI DI ASSISI E PADOVA Nel 1997 una scossa di terremoto ha danneggiato gravemente la Basilica Superiore di Assisi, causando il crollo di parte della volta della prima campata, oltre che della controfacciata e del costolone, e la distruzione di alcuni affreschi di Cimabue, Giotto e altri pittori. La chiesa è rimasta chiusa al pubblico fino al 1999, ma i lavori di restauro si sono conclusi ufficialmente solo nel 2006. A Padova, invece, il pessimo stato degli affreschi della Cappella degli Scrovegni è da imputare al disinteresse dei suoi ultimi, ottocenteschi proprietari (prima che il tutto venisse acquisito dal Comune, nel 1881) e all’inquinamento, che stava provocando il distaccamento del colore. L’efficace intervento dei lavori, terminati nel 2001, è stato mirato sia alla riduzione delle disomogeneità dovute a diversi restauri precedenti sia al consolidamento dell’intonaco e della pellicola pittorica. TORNA AL TESTO

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Andrea Mantegna, Famiglia e corte di Ludovico Gonzaga, particolare, 1465-1474, affresco e tempera a secco, Mantova, Palazzo Ducale, Camera degli sposi

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Mantegna, il più bel disegnatore e inventore Considerato il più grande della sua epoca, poi dimenticato dalle sciccherie muscolate del Rinascimento tosco-romano, offuscato dall’arrivo di Giulio Romano a Mantova, Mantegna è riconosciuto ora in tutta la sua grandezza, e assolutamente necessario all’evoluzione successiva di quella lingua particolare che è la pittura.

Nel I secolo d.C. Plinio il Vecchio era stato già chiarissimo intorno alla questione della copia dal vero: lo storico tramanda infatti un racconto nel quale Zeusi, in gara con Parrasio, dipinse dell’uva così precisa che gli uccelli la venivano a beccare. Parrasio allora per tutta risposta dipinse una tenda talmente vera che lo stesso Zeusi, tratto in inganno, volle aprirla per vedere cosa ci fosse dietro. Questa storia semplice serve a spiegare il concetto di mimesis come lo intendeva Aristotele. Che cos’è dunque la pittura? È il tentativo di rappresentare ciò che esiste in natura, di ripeterla. Meglio ancora se questo esistente non lo conosciamo e quindi non possiamo sapere, per esempio, se un ritratto corrisponde al signore raffigurato. Ma la mimesi della pittura è ancora di più: è il superamento della realtà attraverso la straordinaria qualità della tecnica e l’uso incredibile dei colori. Il mondo antico, da cui proviene il concetto di mimesi, sarà ripescato per la cuffia da Petrarca nel Trecento, per tornare virulento nelle arti visive agli inizi del Quattrocento. Questa piccola introduzione ci aiuta a ripercorrere l’itinerario artistico e umano di quello che fu definito nel suo secolo il più grande pittore vivente, Andrea Mantegna, come ebbe a dire Lorenzo da Pavia presentando il pittore a Isabella d’Este nel 1506: “…el pù belo desegnatore e inventore”. Classe 1431, figlio di un umile falegname di periferia a Padova, Mantegna è stato un genio precoce nella pittura come lo fu Mozart nella musica. Farà una carriera rapida che lo porterà a essere stimato ben più che se fosse stato un gentiluomo da uno dei più sofisticati critici della sua epoca, 83

Ludovico II Gonzaga, marchese di Mantova. A dieci anni il ragazzo viene messo a bottega dallo Squarcione, eccellente collezionista di anticaglie, legato fino in fondo alla cultura antiquaria di quegli anni, ma personaggio ambiguo perché sfruttatore di giovani pittori che prendeva a bottega affiliandoli, tentando così di evitare la normativa delle corporazioni di allora. I suoi allievi, come per vendetta, lo superano. Top of the top c’è Andrea Mantegna che a diciassette anni comincia a sfornare opere in proprio, realizza un capolavoro nella cappella Ovetari e va in causa di lavoro col padrone, dando vita fra l’altro a una delle prime cause legali della storia dell’arte, e quindi decide di andare a Venezia a trovar moglie e buona famiglia. Andrea Mantegna ebbe con il maestro Squarcione un rapporto tempestoso: questi costringeva il suo apprendista e “figlio adottivo” a una disciplina durissima e a lavori umilianti. I tentativi di ribellione si rivelarono però sempre inutili. Nel 1448 Mantegna stipulò un compromesso con il patrigno per riacquistare la propria libertà: un addio pieno di polemiche. Andrea sostenne che Squarcione si fosse fatto bello con il suo lavoro e lo avesse sfruttato. Il “maestro” rispose denigrandone l’opera, ritenuta più vicina alla scultura che alla pittura. A completare il quadro, la querelle giudiziaria: Mantegna denunciò il patrigno per il mancato pagamento di alcune opere, con un seguito per vie legali che si sarebbe concluso solo due anni dopo. L’ambiente di formazione rimane comunque per Mantegna essenziale. In quegli anni la provincia veneta sta contaminando la mente assai conservatrice di Venezia, e lui emerge come prototipo di una forma nuova e contaminata della figura dell’artista, quella moderna con la quale conviviamo ancora oggi. Ed è forse da questo percorso apparentemente contraddittorio che proviene la sua nuova lingua visiva, autonoma e incisiva. Contemporaneamente popolare e coltissima. Una nuova lingua visiva, autonoma e incisiva, popolare e coltissima allo stesso tempo.

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Andrea Mantegna, Martirio di san Cristoforo e Trasporto del corpo del santo, particolare, 1454-1457, affresco, Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari

L’emozione della riscoperta dell’antico Quel che rimane di Mantegna nella cappella Ovetari nel braccio destro del transetto della chiesa degli Eremitani, una delle sue prime opere a Padova che raffigura la Legenda Aurea, non è sufficiente al nostro godimento ma basta per un buon ragionamento. La cappella, dedicata ai santi Giacomo e Cristoforo, fu bombardata selvaggiamente nel 1944, danneggiando e distruggendo parte degli affreschi. Nel 2006 essi sono stati ricomposti con 85

un sistema virtuale restituendo una parte dell’emozione antica. Da un punto di vista compositivo gli elementi ci sono tutti, per esempio la voglia di una simmetria totale articolata attorno alla colonna centrale. La folla dei partecipanti sta sotto un palazzo che racconta, con bassorilievi, fregi decorativi e colonne e porfidi multicolori, tutto ciò che allora si poteva sapere dell’antichità. Da una lussuosa finestra di palazzo si vede però una scena raccapricciante: una freccia viene scagliata nell’occhio del giudice che ha condannato san Cristoforo. E qui troviamo una diretta eredità giottesca, la rappresentazione dei denti dei protagonisti.

Andrea Mantegna, Martirio di san Cristoforo e Trasporto del corpo del santo, 1454-1457, affresco, Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari

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Andrea Mantegna, Martirio di san Cristoforo e Trasporto del corpo del santo, particolare

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Bottega di Giotto, Adorazione dei Magi, particolare, 1313 ca, affresco, Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco

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Andrea Mantegna, Martirio di san Cristoforo e Trasporto del corpo del santo, particolare

La pergola, commovente ricordo di un mondo bucolico che è proprio delle origini campagnole del Mantegna, s’infila con ferocia nell’antichità. Il presente usa il passato come sostegno. Infine si possono vedere annunci di architettura che prendono spunto da Leon Battista Alberti e dalle sue colonne, che prevedono già i futuri lavori del Laurana a Urbino e della famosa città ideale, ma che traggono la loro origine dalle architetture dipinte da Giotto centocinquant’anni prima. E infine l’agiografia, il san Cristoforo, enorme, che attraversa il fiume col Cristo sulle spalle è già messo in prospettiva, così come vedremo fra pochi anni il Cristo morto. 89

Andrea Mantegna, Martirio di san Cristoforo e Trasporto del corpo del santo, particolare con il tiranno Damno colpito da una freccia

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Andrea Mantegna, Martirio di san Cristoforo e Trasporto del corpo del santo, particolare

Sono gli anni quaranta del Quattrocento, quelli nei quali Leon Battista Alberti esaspera fino in fondo le teorie della prospettiva, mentre Brunelleschi le dimostra al pubblico. Il gusto della decorazione antiquariale cinquant’anni dopo diventerà una cifra estetica stabile, da Bramante a Milano fin qui a Padova, alla chiesa degli Eremitani. I due modelli di Mantegna sono da una parte Donatello e dall’altro lo Squarcione. Donatello a Padova lascia come sua prima opera già un capolavoro: il Crocifisso del 1444-1447, che gli valse le commissioni successive per la basilica del Santo. Esaltatore di una classicità in fase di scoperta e sacerdote di qualità. Raffinato coiffeur di acconciature fiorentine che stanno per spargersi attraverso l’Italia. Esperto del bronzo, delle sue 91

patine e delle sue dorature, capace di trasformare il bassorilievo del sarcofago romano antico in un percorso di trompe-l’oeil architettonico. Il passaggio dal marmo al bronzo permette a Donatello dei sottosquadra fino ad allora inattesi e solo la sapienza della fusione a cera persa gli consente di trasformare il bassorilievo in un altorilievo e di dare nuova vita a un linguaggio antico.

Donatello, Crocifisso, 1444-1447, bronzo, cm 180x166, Padova, basilica del Santo

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Donatello, Il miracolo del neonato, 1446-1450, bronzo, cm 57x123, Padova, basilica del Santo

Francesco Squarcione, Polittico de Lazara, 1449-1452, tempera su tavola, cm 175x220, Padova, Musei Civici agli Eremitani

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Giorgio Schiavone, Madonna in trono con il Bambino, 1456-1461, tempera su tavola, cm 91,5x35, Londra, The National Gallery

Dello Squarcione, invece, basta osservare il Polittico de Lazara, nei Musei Civici di Padova, opera che sembra aver subito curiosamente una damnatio memoriae vedendo scomparire le facce dei suoi protagonisti, come grattate con cattiveria dai suoi alunni, ma nel quale è visibile comunque quel gusto fumettistico bizzarro che è proprio del maestro di Mantegna. Giorgio Schiavone, altro allievo, nella sua Madonna in trono con il Bambino, non a caso proseguirà questa estetica del pupazzo, evidente nelle fattezze del Gesù Bambino e in quella curiosa passione per la natura morta, cartiglio compreso, che si sviluppa in quegli anni nell’area dell’Adriatico, da Urbino a Ferrara fin a Padova, dove appare, a mio parere, una delle prime mosche della storia della pittura, quelle che un secolo e mezzo dopo 94

riempiranno tutti i quadri fiamminghi. La mosca, che potrebbe essere un poco fiamminga, perché Petrus Christus la dipinge già dieci anni prima, ma in modo serio, nella tavola dello Schiavone diventa invece ironica, aristotelica e giottesca.

Giorgio Schiavone, Madonna in trono con il Bambino, particolare

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Petrus Christus, Ritratto di certosino, particolare, 1446, olio su tavola, cm 29,2x21,6, New York, The Metropolitan Museum of Art

Un salto a Venezia Quando Mantegna arriva a Venezia, compie il primo salto di classe sociale: passa da artigiano colto ad artista colto. Entra nella famiglia degli artisti veneziani chic, i Bellini, di cui sposa nel 1453 la figlia del capo bottega Jacopo, Nicolosia, sorella di Giovanni e Gentile. Scopre qui un mondo dove l’intellettuale parla con l’artista, a differenza di Firenze dove di solito è l’umanista che indica all’artista ciò che deve fare. Ha ventidue anni e già da tre il letterato Ulisse degli Aleotti lo ha definito “il maestro che sa scolpire in pittura”, il più grande pittore vivente. Uno come Giovanni Bellini è abituato a parlare con il mondo dei libri, 96

anzi addirittura a decorarlo, avendo proseguito l’attività di miniaturista già intrapresa dal padre con risultati sorprendenti. E a questo punto entra nella nostra storia un altro personaggio fondamentale, Gregorio Correr, nipote di cardinale e pronipote di papa Gregorio XII, veneziano, coltissimo personaggio cresciuto in Curia, educato alla politica nei concili antipapali, raffinato alla scuola mantovana del più fine umanista di tutti, Vittorino da Feltre. Il Correr aveva preso in simpatia Mantegna quando lui aveva appena dodici anni e lo aveva introdotto nei meandri sofisticati della cultura antiquariale dei libri. Poi quasi subito se ne va a Verona, dove succede allo zio Antonio il cardinale come abate di San Zeno. Ma con Mantegna continuerà per anni a intrattenere rapporti.

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Giovanni Bellini, Jacopo Antonio Marcello consegna il manoscritto a René di Anjou, 1459, tempera su pergamena, cm 37x25, Albi, Médiathèque municipale Pierre Almaric

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Giovanni Bellini, Guarino veronese consegna la sua traduzione di Strabone a Jacopo Antonio Marcello, 1459, tempera su pergamena, cm 37x25, Albi, Médiathèque municipale Pierre Almaric

Così bisogna fare un salto a Verona, dove la basilica di San Zeno è allora uno dei luoghi chiave, fuori dalle mura della città. Sotto un miracoloso soffitto a carena di nave ci appare la Pala di San Zeno, commissionata ad Andrea proprio da Gregorio Correr. Il polittico ci si mostra oggi nella sua completezza solo grazie a repliche ottocentesche della parte inferiore. Le tre predelle originali in basso infatti sono tra gli ultimi furti di Napoleone mai restituiti all’Italia dopo il 1815 e rimangono separate anche in Francia: le due laterali sono a Tours nel Musée des Beaux-Arts 99

mentre la superba Crocifissione è al Louvre.

Andrea Mantegna, Pala di San Zeno, 1456-1459, tempera su tavola, cm 480x450, Verona, San Zeno

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Andrea Mantegna, Pala di San Zeno, particolare con la Madonna in trono

Quest’ultima ha alcuni dettagli che non possono non commuovere: il grido del san Giovanni, il soldato in piedi e quell’altro in primo piano sono già totalmente cinematografici. La sua posizione scorciata sembra lontanissima dalla ieraticità frontale della Madonna nel pannello centrale e può giustificare l’ipotesi che fra il 1456 e l’inizio dell’opera siano passati tanti anni. Anche la chiappa del cavallo vista da dietro rimanda a un’opera che troviamo nella chiesa domenicana veronese di Sant’Anastasia, un documento che spesso il visitatore neppure nota. L’affresco di Pisanello con San Giorgio e la Principessa, staccato a lungo dalla sua sede, è oggi tornato a coronare l’arco gotico col suo inconfondibile segno equestre: il sederone del 101

cavallo. Accanto al suo sottocoda una lady elegantissima, cani, e una serie di elementi che tra poco ritroveremo a Mantova.

Andrea Mantegna, Pala di San Zeno, particolare con gli angeli cantori

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Andrea Mantegna, Crocifissione, particolare con i soldati che giocano a dadi, 1456-1459, tempera su tavola, Parigi, Musée du Louvre

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Andrea Mantegna, Crocifissione, particolare con san Giovanni e le pie donne, 1456-1459, tempera su tavola, Parigi, Musée du Louvre

Tornando alla Crocifissione centrale, nonostante il soldato di profilo nella copia se ne sia andato, possiamo permetterci un ragionamento sui tempi della pittura, perché gli angiolotti pupazzosi del pannello centrale sono probabilmente da legare alla piccola data dipinta sul tappeto, il 1443. Secondo un’intelligente teoria di Sergio Marinelli, questo 1443, in cui Mantegna ha dodici anni, corrisponde alla data di inizio dell’opera, la quale viene ultimata sul finire degli anni cinquanta, quando Mantegna ormai è un trentenne maturo. Le due date corrispondono a tutto il percorso che va dai pupazzini dell’infanzia geniale, alla sensibilità drammatica adulta. Così il bambolotto in grembo alla Madonna è diventato un adulto che soffre sulla 104

croce e la Madonna in trono, che è bambola Lenci, sviene in un dolore di pietra tra le braccia delle pie donne.

Andrea Mantegna, Crocifissione, particolare con i soldati a cavallo, 1456-1459, tempera su tavola, Parigi, Musée du Louvre

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Pisanello, San Giorgio e la Principessa, particolare, 1437-1438, affresco, Verona, Santa Anastasia

Di quarant’anni più tardi è l’altra pala famosa di Verona, la Pala Trivulzio, oggi al Castello Sforzesco a Milano, con gli angeli cantori, così evoluti e cresciuti rispetto alla visione dei bambolotti di una volta. Metafisici come non mai, raccolti a mandorla attorno alla Madonna e a loro volta inclusi in una vegetazione infinita che si è sostituita all’architettura. La Madonna è curiosissima perché la bambola Lenci si è fatta qui bambola Jumeau, quelle di porcellana, mentre il bambino Gesù benedicente sembra fattosi leggermente buddista. Un quadro incredibile della fine del 106

Quattrocento che passa indenne attraverso tutto il XVI secolo e sembra ricomparire agli inizi del Seicento con le dolcezze di Guido Reni.

Andrea Mantegna, Pala Trivulzio, 1497, tempera a colla su tela, cm 287x214, Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco

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Andrea Mantegna, Pala Trivulzio, particolare, 1497, tempera a colla su tela, cm 287x214, Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco

I duchi in salotto La successiva e ultima tappa del nostro discorso e del Mantegna è Mantova, questa incredibile New York del Quattrocento, dove l’artista giunge nel 1460, ancora una volta forse per colpa dell’abate Correr, legato a quel Vittorino da Feltre e alla sua cerchia umanistica di Ca’ Zoiosa, dove fu compagno di banco del futuro marchese Ludovico II Gonzaga. Ma chi era veramente Ludovico II? Secondo il vecchio principio del “dimmi cosa leggi e ti dirò chi sei”, occorre andare a vedere cosa conteneva la sua biblioteca. All’inizio degli anni sessanta del Quattrocento, Ludovico è alle terme di Petriolo e scrive alla moglie: “Per favore, me lo mandi il mio Lucano che mi annoio qua senza aver da leggere?”. Fra i suoi libri troviamo 108

un testo fenomenale appartenuto a suo figlio il cardinalone, oggi alla Biblioteca Vaticana, un Omero con testo a fronte greco e latino e panoplie trionfali che ritroverò, nel XX secolo, nei dipinti di de Chirico. Credo però che per capire il carattere di Ludovico fino in fondo, e anche la nostra storia, siano incredibilmente significativi i sedici fogli superstiti alla distruzione del 1904 del famoso grande manoscritto di Plinio il Vecchio, dal quale è partito il nostro viaggio alla scoperta di Mantegna. L’ambiente mantovano della seconda metà del Quattrocento è rigorosamente ghibellino perché per diventar marchesi, e un giorno, fra cinquant’anni, duchi, ci vuole l’imperatore. Firenze e il Rinascimento nello stile, mondo alemanno però nell’appartenenza politica, a tal punto che Ludovico II si sposa nientemeno che Barbara di Brandeburgo per essere più politically correct. E per la celebrazione della coppia verrà inventata e dipinta da Mantegna la straordinaria Camera Picta, la vera rivoluzione della concezione pittorica di quegli anni, la Camera degli sposi. Il marchese con tutta la famiglia, il figlio secondogenito, il “cardinalone”, i bimbi più giovani, riassunti in un paesaggio che sembra reale ma che è in realtà la sommatoria di tutte le manie antiquariali dell’epoca. Il marchese e la marchesa sono raffigurati in una situazione che oggi definiremmo “seduti in salotto”: lei, Barbara di Brandeburgo con accanto le figlie, Barbarina e Paoletta con la mela e la nana di corte. Più reali ancora degli esseri umani sono però qui cani e cavalli. E più reali ancora dei cani ovviamente i putti, perché tutti sanno che sono farfalle.

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Andrea Mantegna, Famiglia e corte di Ludovico Gonzaga, particolare, 1465-1474, affresco e tempera a secco, Mantova, Palazzo Ducale, Camera degli sposi

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Andrea Mantegna, Famiglia e corte di Ludovico Gonzaga, particolare, 14651474, affresco e tempera a secco, Mantova, Palazzo Ducale, Camera degli sposi

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Andrea Mantegna, Famiglia e corte di Ludovico Gonzaga, particolare, 14651474, affresco e tempera a secco, Mantova, Palazzo Ducale, Camera degli sposi

Fra tante innovazioni legate al gusto del tempo ce n’è una in particolare che è molto significativa, perché lega Mantegna all’esperienza di Leon Battista Alberti. Tutta questa scena avviene all’interno di una stanza dalla quale si guarda fuori, perché qui tutto il gioco è prospettico e lo è a tal punto che il soffitto guarda verso l’alto dei cieli, in una sorta di pozzo rovesciato dal quale le creature celesti, negretti compresi mescolati a signore varie e a putti, guardano in giù verso di noi. Si tratta della stessa follia prospettica che fra pochi anni andrà a costituire il disegno architettonico della Casa del Mantegna sempre a Mantova.

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Andrea Mantegna, Ritorno da Roma del cardinale Francesco Gonzaga, 14651474, affresco e tempera a secco, Mantova, Palazzo Ducale, Camera degli sposi

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Mantova, Casa del Mantegna, cortile

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Andrea Mantegna, Oculo del soffitto, 1465-1474, affresco e tempera a secco, Mantova, Palazzo Ducale, Camera degli sposi

La pittura scolpita La cultura antiquariale è una mania necessaria per la genesi dell’estetica rinascimentale. La sua origine è ovviamente letteraria e trova le radici nella passione dei sapienti e degli oratori, i quali, essendone esempio sommo Coluccio Salutati, propugnano la riscoperta dei testi antichi per tornare a un latino d’eccellenza, base necessaria per un eloquio che sia in grado di 115

diventare arma di difesa, come quello appunto usato da Salutati per difendere Firenze dagli appetiti politici del Visconti milanese. Torna di moda il testo antico, torna di moda la littera antiqua, quella della scrittura anteriore alle zampette di gallina del gotico da penna. Fu la testa fine e filoromana di Petrarca a propagandare, per primo, il ritorno all’eleganza della calligrafia carolina, quella che Carlo Magno, il primo degli imperatori moderni, aveva imposto come scrittura obbligatoria alla sua Cancelleria per superare la confusione barbarica che aveva spesso lasciato un latino modesto ma diffuso, scritto però di volta in volta con calligrafie così disparate che un burgundo non leggeva più il testo d’un bavaro. Da lì in poi la questione si fece moda: dalla carolina si tornò alla passione per le lettere romane antiche che le iscrizioni conservavano ancora spesso nell’eleganza dei bronzi inseriti nei marmi. Della moda che prevedeva l’andare avanti guardando indietro furono esimi propugnatori letterati successivi come l’equivoco Poggio Bracciolini, che commerciava in testi antichi talvolta anche contraffatti per renderli più plausibili, o come il ben più garbato Niccolò Niccoli. Sicché dalla lettera come segno si passò alla lettera come testo. Dalla lettera come testo si passò ai bronzetti riscoperti, alle pitture riviste, ai decori architettonici. Gioco assai semplice all’apparenza, ma che dovette passare da una mutazione della percezione, quella per la quale Leon Battista Alberti coniò l’invettiva contro il mondo conformista allora esistente chiamandolo gotico, cioè barbaro perché delle genti del nord. E vinse il bassorilievo che la romanità aveva portato oltre le ansie dei Medioevi. La pittura scolpita di Mantegna, per l’appunto, viene dal gusto per le antichità, che rivelano il passato in pietra, ma non dice nulla su come si dipingeva negli anni dei greci e dei romani. Tanto è forte l’interesse per l’antico che a volte anche la pittura imita il bassorilievo come nelle grisaille: che non sono i vestiti che noi conosciamo per andare in banca ma un’espressione linguistica visiva estetico-pittorica che spiega moltissimo del suo lavoro e di tutta una cultura rivolta al mondo classico. Nel Sacrificio di Isacco, il cesello della grisaglia si staglia sul fondo marmoreo dipinto.

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Arte romana, Ratto di Proserpina, frammento di un sarcofago a ghirlande, II secolo d.C., marmo, cm 76x126, Venezia, Museo Archeologico

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Andrea Mantegna, Sofonisba, 1500, tempera su tavola, cm 71,2x19,8, Londra, The National Gallery

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Andrea Mantegna, Sacrificio di Isacco, 1490, tempera a colla su tela, cm 48,5x36, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Andrea Mantegna, Cristo in pietà sorretto da due angeli, 1489, tempera su tavola, cm 83x51, Copenaghen, Statens Museum for Kunst

A Copenaghen è conservata un’opera incredibile, il Cristo in pietà sorretto da due angeli, dove la pittura si fa quasi miniatura e vive di velature raffinatissime. Eccellente anche un altro quadro del Louvre, Minerva che scaccia i Vizi dal Giardino delle Virtù, dove Fortezza, Temperanza e Giustizia sono avvolte in una nuvola che sembra in realtà essere una mandorla. L’inseguimento avviene solo di profilo come nelle medaglie, un altro segno chiaro di uno sguardo rivolto al linguaggio dell’antichità. Il giardino fra le rovine è una nuova architettura mentre i cherubini sono vere farfalle rumorose. Così 120

come rumoroso è il cumulo di cherubini cantori che mostrano e denti e lingua nella Madonna con il Bambino di Brera. E in un altro quadro con la Madonna, la Sacra Famiglia con santa Elisabetta e san Giovannino, notiamo invece il mistero di un san Giuseppe che sembra Platone, calvo e con lo sguardo crucciato rivolto a noi, e un curioso piccolo Giovanni Battista che torna a essere un bambolotto come quello dei primi dipinti veronesi e padovani.

Andrea Mantegna, Minerva che scaccia i Vizi dal Giardino delle Virtù, 1497, tempera su tela, cm 159x192, Parigi, Musée du Louvre

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Andrea Mantegna, Madonna con il Bambino e un coro di cherubini, particolare, 1485, tempera su tavola, Milano, Pinacoteca di Brera

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Andrea Mantegna, Madonna con il Bambino e un coro di cherubini, intero, 1485, tempera su tavola, Milano, Pinacoteca di Brera

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Andrea Mantegna, Sacra Famiglia con santa Elisabetta e san Giovannino, particolare, 1495-1500, tempera su tela, Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemäldegalerie

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Andrea Mantegna, Sacra Famiglia con santa Elisabetta e san Giovannino, intero, 1495-1500, tempera su tela, Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemäldegalerie

Infine non possiamo chiudere il nostro viaggio intorno a Mantegna se non guardando la sua opera più nota, lo straordinario Cristo morto di Brera, che ha suscitato fra i contemporanei così tante polemiche: la sofisticata prospettiva albertiana è applicata dal pittore con grande disinvoltura e trasforma il tema in visione mistica. Riesce pure a rapportare alla sua pittura gli incroci nord-sud, est-ovest della corte mantovana. Sono quelli gli anni nei quali l’incisione su rame inizia la sua fortunata carriera legata alla nascita della stampa dei libri. La circolazione delle immagini ne viene potentemente accelerata. Ecco quindi apparire una quantità fino ad allora impossibile di immagini nuove, e certi goticismi prima impensabili vengono 125

a contaminare le corse verso una classicità in riscoperta. Le figure piangenti, sulla sinistra del dipinto, corrispondono a un contributo espressionista che altrimenti non sarebbe pensabile. La prospettiva inattesa è quella che sorge dalla veduta delle sculture guardate dal basso verso l’alto, come dinnanzi alle cattedrali.

Andrea Mantegna, Compianto sul Cristo morto, 1500 circa, tempera su tela, cm 68x81, Milano, Pinacoteca di Brera

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A TOURS, DOVE DEGAS SI FINGE MANTEGNA Ve lo scrive l’autore che, essendo anche francese di nazionalità, si vergogna assai della questione e solo la sciatteria d’alcuni musei italiani lo consola: certi crimini delle spoliazioni napoleoniche di beni culturali dalla penisola furono veramente idioti. Avere trafugato metà dei dipinti dello studiolo di Federico da Montefeltro a Urbino per appenderne i trofei fra un ascensore e i gabinetti al terzo piano del Louvre, è cosa che grida vendetta e che solo l’insipienza dei nostri ministeri può tutt’ora tollerare senza protesta. L’avere asportato dalla parte inferiore del polittico di Mantegna a San Zeno di Verona le tre tavole per poi portarne due a Tours, così da acculturare le popolazioni indigene della Loira, è forse altrettanto demente. I dipinti originali sono oggi sostituiti da copie che l’occhio avveduto riconosce come il sarto scopre immediatamente la toppa di rammendo sul cappotto di cammello. In realtà la parte centrale del polittico di Mantegna, la Crocifissione, è finita al Louvre (e vi sfido a trovarla). Nondimeno, in questo caso il delitto ha portato bene, in quanto il giovane Degas vide la tavoletta a Parigi e ne fece una copia. Oggi il dipinto di Degas, per via della bizzarria del sistema dei musei nazionali di Francia e della sua eminente volontà didattica, è andato a dormire anch’egli nel museo della cittadina di Tours, dove non lo guarda praticamente nessuno.

Andrea Mantegna, Crocifissione, 1456-1459, tempera su tavola, cm 76x96, Parigi, Musée du Louvre

Edgar Degas, Il Calvario, copia da Mantegna, 1861, olio su tela, cm 69x92,5, Tours, Musée des Beaux-Arts

DI TRIONFO IN TRIONFO La scarsa individuazione contemporanea dell’immagine di Mantegna è dovuta in parte anche alla catastrofe finanziaria del ducato di Mantova che finì sul lastrico nel 1627, prima di essere definitivamente soggiogato dal sacco dei Lanzichenecchi al soldo di Ferdinando II, del 1630, e dalla peste conseguente. Fu talmente mal ridotto il ducato che il vicino di casa, Francesco I di Modena, inviò ai disgraziati duecento paia di buoi per far rinascere quella ch’era stata la più fiorente terra agricola d’Italia. Il sacco non fu che l’atto finale d’una crisi economica già in atto, quella che spinse Vincenzo II Gonzaga a vendere la crema della sua collezione a Carlo I d’Inghilterra. Storia drammatica quella, in quanto una parte delle opere finì in fondo al mare per il naufragio d’una delle navi e la testa del monarca finì poi sotto la scure della rivoluzione di Cromwell. Le superstiti, però, furono sufficienti a contaminare gli inglesi e farne finalmente dei patiti di pittura, come dimostrano alcuni quadri di William Hogarth che citano appunto i dipinti della Celeste Galeria di Mantova.

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Andrea Mantegna, I Trionfi. Portatori del bottino e dei trofei di armature reali, 1486-1492, tempera su tela, cm 268x278, Londra, Hampton Court, The Royal Collection I Trionfi di Mantegna innegabilmente erano stati esteticamente suggeriti dalla raffinata Isabella d’Este, moglie di Francesco II Gonzaga. La bellissima marchesa era nata a Ferrara e cresciuta guardando gli affreschi di Palazzo di Schifanoia, quel ciclo formidabile sorto fra Francesco del Cossa e, forse, il suo maestro Cosmè Tura. Quelli del Mantegna finirono poi a Hampton Court, dove sono tuttora conservati anche se in pessima salute. Ma a loro volta hanno stimolato la fantasia creativa di Corrado Cagli che a loro s’ispirò per il suo capolavoro degli anni Trenta del XX secolo, quando si stava delineando la Scuola Romana.

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Francesco del Cossa, Trionfo di Minerva, 1468-1470, affresco, Ferrara, Palazzo di Schifanoia, Salone dei Mesi

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Corrado Cagli, Veduta ideale di Roma, 1937, olio su tela, cm 121x84, Collezione privata

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LÉVI-STRAUSS SCOPRE MANTEGNA In un piccolo libro di riflessioni scritto in tarda età, Claude Lévi-Strauss, il padre dell’antropologia culturale, narra la genesi della sua curiosità per le cose del mondo visivo, per l’arte in modo particolare. Il titolo del testo è Regarder, Écouter, Lire, pubblicato nel 1993, e per un certo verso è un rovesciamento del testo base dello strutturalismo di Michel Foucault Les mots et les Choses del 1966. L’anziano antropologo torna a percorrere la genesi della sua vocazione. Riporta il lettore nel Louvre anteriore alla Prima guerra mondiale, quando lui, giovane belga studente di liceo a Parigi, andava di domenica a percorrerne i corridoi silenziosi e si fermava dinnanzi al Parnaso di Mantegna, scoprendo quanto rapido era stato il passaggio linguistico fra quella esaltazione del primo Rinascimento e la sua mutazione in un dipinto del Guercino, dal medesimo argomento, quando il Rinascimento si stava sciogliendo nei primi passi del Barocco. Un solo filo di pensiero legava i due dipinti, ma quanto forte era stata la mutazione della sensibilità. Dalla lettura della storia dell’arte era nata allora una vocazione che fu alla base d’una delle maggiori discipline della nostra modernità. Oggi purtroppo quel dipinto è del tutto ignorato dalle orde che percorrono il Louvre per infilarsi nello stanzone dove è conservata la Gioconda, celata come un’ostrica nel suo sugo dietro uno spesso vetro di protezione. E il Parnaso s’è fatto triste.

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Andrea Mantegna, Parnaso, 1497 ca, tempera su tela, cm 150x192, Parigi, Musée du Louvre Ma non finisce qui il percorso degli strani incroci. Non poteva infatti Nicolas Poussin, venuto dalla Francia in quella corte Barberini dove trionfava il dipinto del Guercino, non darsi anche lui allo stesso tema, riprenderne il mistero iniziatico e guardare le tombe del passato come testimonianza. La medesima testimonianza che, per motivi tuttora inspiegabili, porta uno dei fondatori della Hudson River School, l’inglese americanizzato Thomas Cole, a dipingere l’arco di Mantegna. E alla mescolanza complessiva del tema non sarà estraneo neppure Giorgio de Chirico.

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Guercino, Et in Arcadia ego, 1618, olio su tela, cm 82x91, Roma, Gallera Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini

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Nicolas Poussin, I pastori dell’Arcadia, 1640 ca, olio su tela, cm 87x120, Parigi, Musée du Louvre

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Thomas Cole, Sera in Arcadia, 1843, olio su tela cm 83x123, Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art

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L’ARIA DI PADOVA Padova è una città d’importanza fondamentale nella storia di quegli anni. Qui, nel Duecento, sono successe due cose molto importanti: un agostiniano portoghese diviene il principale seguace di san Francesco, per diventare poi l’Antonio Santo di Padova. Contemporaneamente nasce l’università, in concorrenza con Bologna dove stanno i domenicani, mentre qui stanno i francescani. Nel 1304 Giotto, sempre a Padova, ha appena finito di decorare la Cappella degli Scrovegni, e qui accanto gli Eremitani decidono di finire la loro chiesa, di concluderne il tetto per mano di Giovanni degli Eremitani. All’inizio del Trecento Padova è in totale pulsione. Il suo signore, Jacopo II da Carrara, vi inviterà stabilmente Petrarca. E con Petrarca, mescolato con un po’ di Università, avremo il cocktail che farà scattare quella cultura “antiquariale”, cioè quella che guarda e recupera il mondo antico attraverso fonti testuali e reperti, che tra poco cambierà il gusto e la visione del mondo. Cento anni dopo, questo è esattamente il clima ormai consolidato all’interno del quale cresce Andrea Mantegna e dove potrà esprimere fin da subito il suo genio. TORNA AL TESTO

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LA SCUOLA GIOIOSA DI VITTORINO DA FELTRE Nato negli anni settanta del Trecento, con pochi soldi ma una gran fame di conoscenza, Vittorino compì i suoi studi fra la nativa Feltre, Padova e Venezia. Iniziò a insegnare dopo il 1415, e la sua fama di ottimo maestro si diffuse rapidamente, tanto che Gianfrancesco I Gonzaga lo chiamò a Mantova per fare da precettore alla sua prole, concedendogli anche un suo edificio fino a quel momento dedicato a danze, divertimenti, svago: la Ca’ Zoiosa (“gioiosa”, appunto). La fama del pedagogo Vittorino crebbe a dismisura, e presto furono in molti ad accorrere alla sua scuola: oltre ai figli di Gianfrancesco, vi studiarono anche Gregorio Correr e il futuro duca di Urbino Federico da Montefeltro. A Ca’ Zoiosa si metteva in pratica il precetto latino mens sana in corpore sano, e le lezioni teoriche erano intervallate da attività sportive, passeggiate, escursioni. Grande attenzione era riservata poi alla preghiera. Vittorino aveva abolito dalla sua scuola ogni punizione corporale. Con qualche piccola eccezione: pare che più di una volta si sia lasciato sfuggire un ceffone quando ai suoi ragazzi scappava una bestemmia. TORNA AL TESTO

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Sandro Botticelli, Allegoria della Primavera, particolare, 1482 ca, tempera su tavola, cm 203x314, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Tutte le strade portano a Firenze Il Quattrocento è una macedonia estetica, percorre tante strade e ci lascia migliaia di percorsi interpretativi che tutti tendiamo a superare perché sedotti fino in fondo dal grande equilibrio dell’arte fiorentina.

Il Quattrocento inizia con il pensiero matematico e si conclude con le stravaganze creative di Leonardo da Vinci: è un secolo in cui si diventa maniaci della geometria euclidea e dello studio degli antichi. Nel 1469 Leonardo, a Firenze, entra nella bottega del Verrocchio e se ne andrà verso Milano nel 1482; sempre nel 1469 Lorenzo diventa signore di Firenze e iniziano i vent’anni del Magnifico. Gli anni settanta sono straordinari per l’arte: Mantegna termina la Camera degli sposi e inizia il Cristo morto; Bellini dipinge la Pala di Pesaro; Piero della Francesca la Madonna di Senigallia e Antonello da Messina il San Gerolamo e poi il San Sebastiano. Ma arriva anche a Firenze in quegli anni il primo capolavoro fiammingo tutto all’olio di Hugo Van der Goes, il Trittico Portinari, mentre Botticelli inizia la Primavera. Una sequela di capolavori, quasi come negli anni Dieci del XX secolo. Vittoria dell’arte e dell’Umanesimo? Presa del potere dell’arte e degli intellettuali? Niente affatto, la questione ha una radice storica molto più complessa. Il secolo inizia nel disordine dello Scisma d’Occidente, ci sono addirittura tre papi contemporaneamente: uno da parte del Sacro Romano Impero, uno che rappresenta Roma e uno, che potremmo dire dei francesi, che sta ad Avignone. Il pasticcio è inarrestabile, l’Europa è rotta. L’imperatore Sigismondo di Lussemburgo decide di organizzare un concilio a Costanza che durerà dal 1414 al 1418. Il risultato è eccellente: si brucia subito Jan Hus, l’eretico di Praga, e poi si riesce a eliminare i tre papi uno dopo l’altro e a eleggerne uno solo, Martino V, il romano e risoluto Oddone Colonna. Il nuovo papa esce da Costanza, fa il giro di tutti i potenti d’Italia finché arriva a Roma a ristabilire il potere. Nel 1431 Martino V vuole concludere il cammino intrapreso: avendo risolto lo Scisma d’Occidente affronta ora lo Scisma d’Oriente, quello che dura da secoli. Decide di 142

convocare un altro concilio a Basilea. Progetto ambizioso visto che il turco incalza.

Maestro della Vita della Vergine, Crocifissione, particolare con il ritratto di Nicola Cusano, 1460-1465, olio su tavola, Kues, cappella dell’Ospizio di San Nicolò

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Pinturicchio, Scene della vita di Pio II: atto di sottomissione al pontefice Eugenio IV a nome di Federico III, 1503-1508, affresco, Siena, Duomo, Libreria Piccolomini

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Benozzo Gozzoli, Corteo dei Magi, particolare con il ritratto di Gemisto Pletone, 1459-1460, affresco, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, cappella dei Magi

Nikolaus von Kues, matematico di Padova e teologo di Colonia, se ne va in Grecia a studiare il caso politico, ma torna con le pive nel sacco e tutto ciò che può fare è diventare Nicola Cusano (e imparare il greco). Scettico sull’ipotesi di riunificazione è anche Georgios Gemistos, che insegna il greco a Padova e poi verrà a Firenze con il nome di Gemisto Pletone. Ma appena iniziato il concilio Martino V muore, il suo successore è Gabriele Condulmer che diventa Eugenio IV. Da veneziano autentico lui ha una sensazione precisa di Costantinopoli e del pericolo turco. Rilancia nel 145

1437 il Concilio di Basilea, che però si apre nel pieno caos, perché a Basilea Eugenio IV non piace, così il veneziano decide di spostare il concilio a Ferrara e poi, nel 1439, a Firenze.

Firenze e il caso Leon Battista Alberti Cosimo il Vecchio, il padrone banchiere della repubblica, capisce che se il papa vuole riportare il potere vero della chiesa a Roma, Firenze la guelfa ha una carta da giocare importantissima. Firenze sarà la nuova Atene grecolatina d’Europa. Personaggio chiave è Marsilio Ficino. Traduce Platone ma soprattutto Plotino, l’inventore del neoplatonismo durante il III secolo d.C. ad Alessandria. Firenze diventa grecomane. E con il concilio torna a Firenze un esule che aveva fatto strada a Roma, Leon Battista Alberti, prete e grande responsabile per la Curia degli archivi, quelli dove entra in contatto con la romanità antica che esisteva ancora e che consentiva alla nuova Roma, una nuova gloria. Sono gli anni nei quali l’intervento geniale della cupola del Brunelleschi obbliga la città di Firenze a decorare tutto l’edificio e a inventare una serie di immagini completamente innovative nell’architettura. Ma mentre Brunelleschi è un capomastro che da muratore abile inventa un mondo nuovo, il caso Alberti è abbastanza curioso e ricorda per un certo verso il Petrarca. Nasce esattamente cento anni dopo di lui, nel 1404, e avrà una vita errabonda con delle curiose similitudini. Discende da un’ottima famiglia, signori della zecca nel Trecento e sostanzialmente banditi dalla città nel Quattrocento; cresce fra Padova e il nord Italia e si laurea a Bologna, così che la sua estraneità a Firenze sarà anche la sua fortuna. Come Petrarca, scoprirà nell’antichità i rimedi ai tempi correnti. In casa Alberti è ancora oggi conservata la bolla con la quale Eugenio IV sposta il defunto Concilio di Basilea prima a Ferrara e successivamente a Firenze, emanata a Bologna nel 1437. Che il documento, la dichiarazione dei diritti dell’Umanesimo, l’inizio ufficiale della svolta, sia rimasto in possesso dell’Alberti, la dice lunga sulla sua assoluta autorevolezza: è una vendetta contro una Firenze che aveva cacciato la sua famiglia.

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Leonardo, Ritratto di musico, 1485 ca, olio su tavola, cm 43x31, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

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Pontormo, Ritratto di Cosimo il Vecchio, 1519-1520, olio su tela, cm 90x72, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Masaccio, Resurrezione del figlio di Teofilo e san Pietro in cattedra, particolare con i ritratti di Leon Battista Alberti, Masaccio e Brunelleschi, 14251426, affresco, Firenze, Santa Maria del Carmine, cappella Brancacci

Lo Scheggia, Cassone Adimari, 1450 ca, tempera su tavola, cm 88,5x303, Firenze, Galleria dell’Accademia

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Nella metà del Quattrocento Firenze era una città di stralusso e lo vediamo nella raffigurazione sul Cassone Adimari: vesti sontuose, copricapi dal sapore orientale e orchestrina jazz d’epoca che suona in mezzo a una nuova voglia di architettura. Una città con un nuovo destino intellettuale voluto da Cosimo il Vecchio. E di manie letterarie poetiche, Leon Battista Alberti è positivamente afflitto, a tal punto che inventa un certame coronario, una gara che certifichi chi può portare la corona d’alloro del poeta, gara che si svolge a Firenze nel 1441, proprio sotto la cupola del Brunelleschi. Alberti è intellettuale nella città degli intellettuali, dove opera pure Marsilio Ficino, anche lui di buona famiglia, figlio del medico della Val d’Arno, che ha trovato in Cosimo il Vecchio un secondo padre. Ficino promuove il pensiero di Plotino, quello per il quale nel mondo generato dallo spirito unico l’uomo torna a essere centrale, copula mundi fra materia e Dio. Così Platone viene sdoganato alla cristianità come due secoli prima era stato sdoganato il pensiero di Aristotele grazie a san Tommaso. La città è di chi pensa, discute e scrive. Firenze trasformerà lentamente i suoi orafi e i suoi artigiani in artisti con ispirazione data. Leon Battista Alberti opta per la più intellettuale delle arti: l’architettura, raccontata da Bertoldo di Giovanni in un finto frontone di sarcofago realizzato dalla famiglia dei Della Robbia, dove il personaggio all’estrema destra ha in mano il compasso, attributo delle arti liberali, tra cui l’architettura. Firenze è adattissima a un nuovo dibattito sull’architettura, come lo prova una delle formelle di Lorenzo Ghiberti realizzate per il Battistero, perché se è vero che ha ancora una stesura gotica, questa convive con ciò che oggi chiamiamo la finestra michelangiolesca, il tutto in una figurazione che corre velocemente verso gli stilemi del Rinascimento. Nell’Abbazia di San Miniato al Monte (iniziata nel 1013) ritroviamo quelle stesse finestrelle fiorentine, molto più sedimentate di quanto pensiamo. Qui nasce un classicismo particolare già agli albori del Duecento, con i marmi bianchi e verdi che Leon Battista Alberti riprenderà per Santa Maria Novella. Fondamentali i testi dell’Alberti di quegli anni: Ludi Rerum Mathematicarum, un gioco matematico; il De Statua; il De Pictura, scritto con un’attenzione e una finezza estreme. E poi la Descriptio Urbis Romae, in una calligrafia rapidissima come di oggi, ma in latino ovviamente. La riscoperta dei materiali dell’antichità genera un immaginario nuovo, perché il capitello romano del I secolo ha già generato il capitello quattrocentesco. E i 150

bronzisti inventano oggetti anche loro carichi di citazioni ma sostanzialmente innovativi. Intarsi fenomenali intorno al tema della perfezione architettonica che in quegli anni diventa centrale, già intuito dal giovane Perugino nelle sue facciate assolate. Una ricerca costante di equilibrio e prospettiva che raggiungerà la perfezione nella Città ideale.

Bertoldo di Giovanni e bottega di Andrea Della Robbia (?), L’origine delle anime dal grembo della Natura e l’inizio del loro percorso terreno, 1490-1494 ca, terracotta invetriata, altezza cm 58, Poggio a Caiano, Villa Medicea

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Facciata di San Miniato al Monte, XI-XII secolo, Firenze

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Lorenzo Ghiberti, L’incontro tra Salomone e la regina di Saba, 1425-1452, bronzo dorato, cm 60x46, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo

Il primo vero cliente dell’Alberti sarà il terribile Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini. A Rimini la situazione archeologica è simile a quella di Roma ma in scala ridotta; basti pensare alla via Flaminia con l’Arco di Augusto. Era facile avere la romanità sotto gli occhi a Rimini: nell’Arco i simboli di Roma sono direttamente inseriti nel merlo ghibellino, e la stessa colonna corinzia bianca fra poco ricomparirà con Leon Battista Alberti e con Piero della Francesca. Sempre a Rimini si trova il ponte di Augusto e Tiberio del I secolo, dove oggi passano le automobili. Curiosa eternità dell’Italia, così eterna che le 153

finestre che servono a decorarlo sono le stesse che l’Alberti utilizzerà per il Tempio Malatestiano e sono esattamente identiche a quella duecentesca sopra il portone centrale di San Miniato al Monte. Il ponte mostra inoltre una curiosa genialità architettonica che fa sì che l’arco, un perfetto mezzo cerchio, riflettendosi nell’acqua formi un cerchio.

Leon Battista Alberti, Tempio Malatestiano, 1453-1468, Rimini

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Arco di Augusto, I secolo a.C., Rimini

Negli stessi anni l’Alberti riprogetta un’antica chiesa per trasformarla nel tempio di famiglia, il Tempio Malatestiano, appunto. Lui era allora un fiorentino cinquantenne, massimo teorico dell’arte che non aveva ancora costruito nulla, ma diventa il prototipo dell’artista intellettuale moderno. Mentre gli altri artisti a Firenze provengono tutti dall’artigianato, lui proviene dallo studio, dalla ricerca e dalla passione per le antichità. Con lui per la prima volta l’antico diventa moderno e il moderno obsoleto. Fissa inoltre le tre regole per la pittura: la circoscrizione, il componimento e il ricevimento dei lumi che in italiano moderno vorrebbero dire prospettiva, composizione e colore. 155

Ponte di Augusto e Tiberio, 14-21 d.C., Rimini

La magia della pittura a olio Alivello europeo, nel frattempo, è sempre più evidente la rivalità, prima di tutto economica, fra la nostra Firenze e Bruges, nelle Fiandre, le due città simbolo del Quattrocento. Tentiamo allora un confronto obiettivo. Sono entrambe città commerciali, laniere, bancarie e ricchissime, Firenze repubblicana e Bruges parte del feudo del duca di Borgogna. Firenze in quell’Italia centrale che dipingeva da due secoli le pareti a fresco e le tavole a tempera su fondo oro, Bruges che apparteneva a un mondo opposto dove primeggiava l’architettura e dove la pittura come la consideriamo noi non esisteva, serviva solo a colorare le statue o a illustrare codici.

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Pol de Limbourg, Agosto, miniatura da Les Très Riches Heures du Duc de Berry, f. 8v, 1410-1416, cm 29x21, Chantilly, Musée Condé

La pittura, il polittico da chiesa, aveva penetrato il Nord nel Trecento, con lo spostamento del papato ad Avignone, dove era finito a lavorare anche Simone Martini, ma i principi preferivano i gioielli, i castelli, le cappelle e i libri. Alcuni di questi ultimi sono fondamentali come il ricchissimo Les Très Riches Heures del duca di Berry, un percorso d’immagini completo che anticipa ogni evoluzione successiva, con architetture fiabesche e la scoperta del paesaggio. Queste miniature sono dipinte dai tre fratelli Limbourg provenienti dal Limburgo, tra Fiandre e Germania, uno dei quali, Jean, si stabilisce a Bruges, alla corte del duca in posizione preminente e 157

privilegiata. Ma sarà un banchiere borghese, Josse Vijd, futuro sindaco della vicina Gand, a finanziare il primo capolavoro nel quale si passa alla pittura a olio in grande formato. Siamo fra il 1426 e il 1432, tre anni prima che da noi Leon Battista Alberti scrivesse il suo De Pictura.

Jan Van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, 1426-1432, olio su tavola, cm 375x520, Gand, San Bavone

Le Fiandre, prima di diventare parte della confederazione belga, erano rimaste cattoliche per via del dominio spagnolo e asburgico. Nella cattedrale di San Bavone di Gand (il luogo più mistico delle Fiandre, una curiosa mescolanza di gotico antico, in pietra e mattoni, e barocco, fra marmo di Carrara e nero del Belgio) è custodito il Polittico dell’Agnello Mistico di Jan Van Eyck, un’opera maestosa che sin dalle ante esterne vorrebbe battere la scultura che replica in versione pittorica. Al centro Dio Padre fra la Madonna e il Battista, attorniati da angeli musicanti e da un Adamo ed Eva modernissimi nei tratti. Tutta la pittura qui è nuova, ma la vera rivoluzione sta nella parte inferiore con l’Agnello Mistico fra gli 158

uomini dell’Antico Testamento e quelli del Nuovo, sante e papi immersi in un paesaggio che si era già visto da quelle parti ma che qui si trasforma. Perché è proprio in quei giorni che si mette a punto la nuova tecnica a olio, destinata a cambiare tutta la pittura seguente. La grande tradizione della pittura italiana s’era sviluppata su due linee parallele: l’affresco, dove i pigmenti sciolti nell’acqua venivano fissati sulla parete di calce ancora umida, e la pittura su tavola usando una materia colorata risultante dalla mescolanza della tempera con il tuorlo d’uovo. I primi passi del Rinascimento avevano cambiato il contenuto dell’arte ma non il modo di dipingere. I fiamminghi invece, figli dell’alchimia medioevale, avevano compiuto passi da gigante nella lavorazione dei pigmenti ed erano riusciti a mescolarli con l’olio di lino e con gli essiccanti. Il risultato consentiva di impastare la materia colorata e di sovrapporre vari strati di pittura, le cosiddette velature. Nasce un’arte che da un lato è conseguenza diretta della vecchia prassi fantastica del pennellino fine, dall’altro mostra risultati assolutamente nuovi soprattutto nella resa delle luci. Nel capolavoro di Gand possiamo già vedere tutta la sua potenza innovativa che scavalca forse il suo contenuto. Ritroviamo qui i ferri del Medioevo raccontati però ora con una precisione assoluta, così come i finimenti dei cavalli. Ma la massima perversione è nello straordinario riflesso dell’asta rossa sull’armatura, una abilità nel dettaglio che rende il tutto modernissimo, un’illusione ottica totale. Inconsapevolmente Van Eyck risolve la diatriba, tutta italiana ovviamente, alla quale assistiamo in quel periodo: qual è fra le arti la più importante, la pittura, la scultura o l’architettura? Da lui in poi la prima delle arti sarà la pittura, e naturalmente grazie all’olio che consente una nuova magia illusionistica. La rappresentazione pittorica di uno specchio convesso ne è un’ulteriore e definitiva prova e non è un caso che si trovi al centro del famosissimo Ritratto dei coniugi Arnolfini, del 1434, una famiglia di lucchesi che vanno a fare i banchieri nelle Fiandre e che raccontano la meraviglia ai toscani. Lo specchio qui moltiplica la realtà e capovolge il punto di vista, rivelando tutta la passione per il dettaglio che diventerà la vera vocazione della pittura fiamminga.

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Jan Van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, particolare con l’adorazione, 1426-1432, olio su tavola, Gand, San Bavone

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Jan Van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, particolare con Eva

Ma torniamo al Polittico dell’Agnello Mistico: l’altra meraviglia appare nel paesaggio. Sullo sfondo si vede una città ideale, una sorta di Gerusalemme celeste gotica. Un paesaggio così incredibile da non sembrare affatto un paesaggio delle Fiandre, come se Van Eyck lo avesse osservato in Italia, con vedute dal sapore già ottocentesco: la palma, il cipresso, il pino, il volo dei rondoni e le nuvole. Si dice infatti che egli effettuò per conto del duca di Borgogna un viaggio di perlustrazione a Gerusalemme, ma probabilmente 161

discese l’Italia.

Jan Van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, particolare di santo cavaliere

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Jan Van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, particolare di città con cattedrale

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Jan Van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, particolare con corteo di sante

Il corteo dei papi esce dal roseto sotto la ficaia, ed è curiosamente più corretta la descrizione paesaggistica di quanto non lo sia la descrizione teologica, poiché la palma del martirio qui l’hanno in mano quasi tutti come segno di vittoria. L’immaginario nel suo complesso è quello d’un mondo dove i temi cavallereschi sono ancora dominanti, ma il valore mistico è centrale, con l’Agnello che toglie i peccati del mondo e versa il sangue che cola e sprizza contemporaneamente dal petto nel calice, sopra la fonte della vita. Tutto è assolutamente incredibile, gli strumenti musicali sono riprodotti con estrema precisione, con le mani nelle posizioni corrette, le tastiere e tutti i meccanismi. Un mondo reso nell’intimo.

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Jan Van Eyck, Polittico dell’Agnello Mistico, particolare del corteo degli ecclesiastici, 1426-1432, olio su tavola, Gand, San Bavone

Miti, riti e misteri di Botticelli Fra le due città, Bruges e Firenze, le notizie circolano generando ammirazione e competizione. La questione è legata alla tecnologia del lusso. Firenze forse ancora non sa che ha già intrapreso una sua strada di modernità con Masaccio e vive un momento di frustrazione. Per la generazione successiva questa competizione sarà fondamentale. Ghirlandaio, Botticelli e Perugino nascono quando Jan Van Eyck è già 165

morto e per loro la questione rimane aperta. Entriamo allora nel lusso della pittura di Botticelli mescolato con i gusti letterari della casa di Lorenzo il Magnifico, dove regna un Umanesimo arrovellato nelle più dotte disquisizioni fra pensieri e versi, fra citazioni del mondo antico, affidate alle rime di Poliziano, e cultura neoplatonica. Botticelli, che questo mondo fiorentino lo ritrae tutto, elegantissimo, lo vediamo per esempio in due quadri di un gruppo di quattro, regalati da Lorenzo il Magnifico alla famiglia Pucci in occasione di un matrimonio. Il padre dello sposo, il padre della sposa, lo stemma mediceo e lo stemma dei Pucci, curiosamente uguale a quello della Corsica, il tutto in una scenografia rinascimentale perfetta. Botticelli riassume i miti, i riti e i misteri della sua epoca. All’opposto dei fiamminghi, Botticelli è inventore di mitologie ed è seguace dei principi di Leon Battista Alberti, che vogliono la chiarezza dell’istoria, il movimento e le emozioni. La calunnia, dipinta nel 1495, tutto è fuorché un venticello. La verità ovviamente è nuda. Un rispetto per il mondo intellettuale, quello di Botticelli, particolarmente intenso, come vediamo nel Sant’Agostino nello studio. Rispetto che ritroviamo invariato nel suo allievo Filippino Lippi, ne La visione di san Bernardo, del 1482-1486. In questo dipinto il personaggio che ha pagato per il tutto, Piero del Pugliese in questo caso, è messo un po’ in disparte, nell’angolino in basso a destra. Ma come dice Vasari, gli manca solo la parola − chissà cosa direbbe? Il paesaggio invece, Filippino l’ha imparato probabilmente dai fiamminghi, così come lo ha imparato, negli stessi anni, Ambrogio da Fossano detto proprio per questo il Bergognone. Mentre Filippino negli anni ottanta raggiunge un nuovo stile completo, i concorrenti perdono la strada e Ghirlandaio per esempio affoga nell’eccesso di dettagli. Botticelli è inventore di mitologie ed è seguace dei principi di Leon Battista Alberti, che vogliono la chiarezza dell’istoria, il movimento e le emozioni.

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Sandro Botticelli, Novella di Nastagio degli Onesti: Il banchetto nel bosco, particolare, 1483, tempera su tavola, cm 84x142, Madrid, Museo Nacional del Prado

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Sandro Botticelli, La calunnia, 1495, tempera su tavola, cm 62x91, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Sandro Botticelli, Sant’Agostino, 1480 ca, affresco staccato, Firenze, Ognissanti

Botticelli invece, nella sua follia ipersofisticata, rimane semplicissimo, quasi un designer della sua epoca, come dimostra quel fantastico letto che fa da sfondo a una sua Annunciazione e l’esempio che dà sull’arredo degli annni a lui contemporanei. Prendiamo allora il suo capolavoro forse più visto e commentato: la Primavera, del 1482, agli Uffizi, è carico di significati esoterici e forse pedagogici per i figli di Lorenzo, perché qui il fondo si staglia sul nulla, con una vegetazione che sembra addirittura quella del Doganiere Henri 169

Rousseau. Mani più cariche di grazia che di talento e piedi quasi goffi. Il tutto però assolutamente moderno e innovativo. E l’eleganza assoluta dei colli anticipa già il Made in Italy. Botticelli grande fashion designer, inventore di situazioni, di lussi totali e pure del vento. Non potendo lui con la tempera stendere una pittura a velature come quella a olio permette, la simula con il punto più evoluto del tratteggiato. Il paesaggio qui è solo una quinta.

Filippino Lippi, La visione di san Bernardo, particolare, 1482-1486, olio su tavola, cm 210x195, Firenze, Chiesa della Badia

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Sandro Botticelli, Allegoria della Primavera, particolare, 1482 ca, tempera su tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi

Molto meglio alcune sue opere meno note al grande pubblico, quelle che il visitatore giapponese nei musei in genere tralascia. Nella Pala di San Barnaba del 1487, agli Uffizi, la tempera grassa diventa sostanzialmente identica all’olio dei nordici, perché le velature sono perfette. Botticelli, che è uomo del suo tempo, è legato a un gusto cesellato che viene dagli orafi di casa ma anche dalla grande tradizione gotica, presente in città per via dei domenicani di Santa Maria Novella, dove a mio parere appaiono gli archetipi delle sue pettinature. Forse per questo motivo va fuori moda nel Cinquecento. Il suo gusto però sarà ripreso dal 171

rinnovamento pittorico dei Preraffaelliti inglesi dell’Ottocento.

Sandro Botticelli, Pala di San Barnaba, 1487, tempera su tavola, cm 268x280, Firenze, Galleria degli Uffizi

Perugino, il divin pittore Chi reagisce in modo diverso da tutti davanti al Trittico Portinari e alla novità della pittura a olio è Pietro Vannucci, detto il Perugino. Si forma nella bottega del Verrocchio e all’inizio dipinge ovviamente a tempera. Del 1473 sono otto piccoli capolavori assoluti, realizzati per una cappella dedicata a san Bernardino, quando Perugino aveva suppergiù ventitré anni. 172

È difficile capire chi ha fatto cosa nella bottega del Verrocchio, però si riescono a trovare alcuni stilemi significativi e potenti: la passione per una geometria perfetta delle prospettive e un’attenzione ai dettagli che sta crescendo sempre di più. Una grande attenzione alla decorazione, all’architettura, con i bianchi di Piero della Francesca, e un primo sguardo serio al paesaggio. L’esaltazione massima della cultura materiale è nella resa delle stoffe, perché le stoffe si vendono. Perugino è alla ricerca della sua strada. I dipinti arrivati dalle Fiandre lo colpiranno profondamente e lo si vede bene già nell’Adorazione dei Magi. Decide di cambiare meccanismo di produzione: passa dalla tempera all’olio. Da quella tecnica impara gli impasti, ma apprende anche i contenuti, come i fiorellini e la dolcezza di certe facce. Copia da Hugo Van der Goes esattamente la medesima edicola nella stessa posizione, però aggiunge un dato in più, che è la sua vera firma e conferma la sua vera origine. L’attenzione maniacale al dettaglio materiale: come è tagliato il palo e come è connesso alla trave con una corda.

Hugo van der Goes, Trittico Portinari, 1475 ca, olio su tavola, cm 253x600, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Pietro Perugino, Adorazione dei Magi, 1475, olio su tavola, cm 241x180, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria

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Particolari architettonici da: Pietro Perugino, San Bernardino risana un giovane travolto da un toro, 1473, olio su tavola, cm 79x57, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria

Particolare architettonici da: Pietro Perugino, Adorazione dei Magi, 1504, affresco, Città della Pieve, Oratorio di Santa Maria dei Bianchi

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Particolare architettonici da: Hugo van der Goes, Trittico Portinari, 1477-1478, Firenze, Galleria degli Uffizi

Particolare architettonici da: Pietro Perugino, Adorazione dei Magi, 1475, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria

Se il fiammingo nel suo dipinto mette gli zoccoli, l’umbro nel suo mette i calzari, con una descrizione precisissima delle cuciture e addirittura lasciando sentire la sensazione della suola applicata sotto la calza, 176

rafforzata nel suo interno e piegata sulla punta. Enigma delle datazioni: forse anche da rivedere. Perugino è classico nel timpano del 1473 (Storie di san Bernardino), è espressionista nell’architettura della sua edicola che si fa simile a quella di Van der Goes, sia nella prospettiva sia nei materiali, torna nell’Adorazione del 1504 a una sintesi dell’architettura frontale, parallela a quella del 1473. Come mai nella sua Adorazione, apparentemente del 1475, sembra ispirarsi alla capanna di Van der Goes, riprendendo la medesima rozzezza costruttiva? Forse la vide prima che arrivasse a Firenze, o forse le date vanno riviste. Esemplare il Polittico Albani della collezione privata dei Torlonia. Curioso dipinto dove l’architettura della cornice copia l’architettura del dipinto, in una sorta di esaltazione del concetto di Piero della Francesca. Anche qui la descrizione dell’armatura è sufficiente a ricostruirla, qualora lo volessimo, perché contiene tutti i dettagli: dai cuoi alle piegature dei ferri, alle fibbie. E posso capire che piacesse tanto al suo committente, che allora era nientemeno che Giuliano della Rovere: si era nel 1491 circa, lui era ancora cardinale, stava diventando generale dei francescani e presto sarebbe stato un papa dal polso fortissimo e dalla passione costante per l’armatura e per la spada: Giulio II.

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Pietro Perugino, San Bernardino risana da un’ulcera la figlia di Giovanni Antonio Petrazio da Rieti, 1473, tavola, cm 79x57, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria

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Pietro Perugino e Pinturicchio, San Bernardino restituisce, post mortem, la vista a un cieco, 1473, tavola, cm 79x57, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria

Figlio ancora della bottega artigianale, Perugino sarà maestro di un giovane intellettuale che lo surclasserà, Raffaello. Ma lui diventa il “divin pittore” soprattutto e forse per le sue immagini della Madonna, che sono quasi sempre il ritratto della moglie. E se anche da divino può diventare un po’ sdolcinato, rimane ancorato a un realismo potente e incisivo, quello che nella Madonna del sacco, del 1490-1500, si ritrova nel cuscino, o nel 179

paesaggio dove la luce scintilla come piccole gocce d’oro. In realtà qui si fatica a capire se si tratta di Perugino maturo o di Raffaello giovane. Ma Perugino è anche autore di ritratti psicologici, poco intellettuali ma fortemente umani, ci mostra volti che potremmo incontrare tuttora in Italia centrale, ritratti dalla forte plasticità che dipendono direttamente dall’uso sapiente dell’impasto a olio come il celebre Ritratto di Francesco delle delle Opere, del 1494.

Pietro Perugino, Polittico Albani, 1491, tempera su tavola, cm 174x88, Roma, collezione Torlonia

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Perugino, Madonna del sacco, 1495-1500, olio su tavola, cm 88x66, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti

La vittoria dell’olio e la rivincita dell’Italia Così il Quattrocento si conclude con la vittoria dell’olio. Alla nuova tecnica si convertono praticamente tutti, spesso con risultati che ricordano da vicino proprio la figurazione fiamminga. Ma c’è spazio anche per una rivincita italiana sulle Fiandre; il Ritratto di uomo con medaglia, del 1471-1474, piccolo assoluto capolavoro di Hans 181

Memling, ne è la prova. Il gentiluomo potrebbe sembrare centro-italiano, tiene in mano una moneta romana e ha dietro di sé un paesaggio che è assolutamente latino o italiano come può immaginarlo un uomo delle Fiandre, palma compresa. Una storia di artisti forse analoga alla storia della città, piena d’interventi e di monete che vengono dal mondo intero.

Perugino, Ritratto di Francesco delle Opere, 1494, olio su tavola, cm 52x44, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Hans Memling, Ritratto di uomo con medaglia, 1471-1474, olio su tavola, cm 31x23, Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten

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LE VELATURE A OLIO RACCONTANO LA REALTÀ A proposito di pittura fiamminga, torna in scena la finanza internazionale. I fiorentini, per natura e per denaro, consci del proprio valore, soffrivano dall’essere tenuti fuori dalle innovazioni di cui tutti parlavano allora. Escono dalle quinte i fratelli Portinari, top manager del Banco Mediceo: Pigello che si trova a Milano fa costruire la cappella di famiglia in Sant’Eustorgio probabilmente da Michelozzo, l’architetto di casa Medici, con la decorazione di Vincenzo Foppa a fresco; Tommaso che rappresenta la banca a Bruges commissiona al massimo pittore di Gand, Hugo Van der Goes, il capolavoro fiammingo dell’epoca, ovviamente a olio. Nel 1475 il Trittico Portinari arriva a Firenze e fa scalpore. Hugo Van der Goes è l’artista che a Firenze cambia la storia della pittura locale. Mostra ai nostri la possibilità di proporre piani diversi, dal primo al fondo, senza far uso della costruzione prospettica. I pittori delle Fiandre sono già capaci di rendere nuvole perfette, perché usano una materia che glielo consente. Questa è cosa che si fa solo con l’olio: paesaggi che contengono figure di una delicatezza infinita, volti così moderni da essere quelli della Nuova Oggettività del XX secolo, mani dipinte con eccellente abilità in una rappresentazione che compete con la realtà. Assolutamente d’avanguardia per l’epoca in cui è dipinto, eppure con un curioso sapore arcaico. Poi ci sono alcuni dettagli che m’incuriosiscono in modo particolare: uno è la vanga, l’altro più piccolo ma sicuramente significativo è lo zoccolo, rappresentato anch’esso con pauperismo quasi moralista. I fiori in primo piano, anche se carichi di significati religiosi, a Firenze diventano un segno di capacità realistica. Gli angeli hanno il colore tono su tono, bianco su bianco, azzurro su azzurro, e in questo caso policromo su policromo, per significare la qualità infinita delle stoffe che hanno addosso; perché quest’opera è anche una pubblicità commerciale dei materiali.

Hugo Van der Goes, Trittico Portinari, particolare, 1475 ca, olio su tavola, cm 253x304, Firenze, Galleria degli Uffizi

Paul Kälberer, Ritratto di famiglia, 1929-1931, olio su tela, cm 181x139, Collezione privata Nella tradizione nordica la narrazione del reale nulla ha a che vedere con ciò che noi intendiamo con realismo, ma è una descrizione ossessiva e artigianale del mondo esterno dove l’oggetto assume il valore filosofico che sta nella sua parola germanica di Gegenstand. Il Gegenstand è ciò che si oppone a noi, è ciò che sta di fronte a noi: “stare contro” (da Gegen, contro, e stand, stare), ed è l’oggetto che fa la cosa, la Sache. La Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività) del XX secolo riprende tutti questi parametri profondi e antichi delle culture nordiche, e lo stesso mazzolino di fiori mistico diventa domestico nella famiglia-maternità di Paul Kälberer, mentre la medesima veste del pastore adorante diventa la giacca di cuoio del sommo scrittore Bertolt Brecht nel ritratto che gli fa Rudolf Schlichter. E le mani di Bertolt hanno probabilmente vangato assieme alle mani dell’antenato pastore.

Hugo Van der Goes, Trittico Portinari, particolare, 1475 ca, olio su tavola, cm 253x304, Firenze, Galleria degli Uffizi

Rudolf Schlichter, Ritratto di Bertolt Brecht, 1926, olio su tela, cm 75,5x46, Collezione privata

SCISMA D’OCCIDENTE Nel 1377, papa Gregorio XI decise di far tornare la Santa Sede a Roma, dopo gli ultimi settant’anni in cui il centro della cristianità era stato spostato ad Avignone. L’anno successivo il pontefice morì e i cardinali romani, desiderosi di far eleggere un loro connazionale, ebbero la meglio: come nuovo papa venne scelto l’arcivescovo di Bari Bartolomeo Prignano, con il nome di Urbano VI. I cardinali francesi, per tutta risposta, abbandonarono la Santa Sede ed elessero un proprio papa, Clemente VII (Roberto di Ginevra), che stabilirà la Sede pontificia ad Avignone. La Chiesa si trovò quindi spaccata in due, e le potenze europee scelsero con quale fazione allearsi, dando vita a un complesso sistema di alleanze. All’inizio del Quattrocento la situazione sembrava ormai insostenibile, per cui nel 1409 venne indetto un Concilio, a Pisa, dove molti cardinali di entrambe le fazioni cercarono un compromesso. Lo trovarono, delegittimando i due papi (l’italiano Gregorio XII e l’aragonese Benedetto XIII) ed eleggendo come unico pontefice Alessandro V. I due papi, però, non accettarono la deposizione, e quindi la chiesa cattolica, centro mondiale della cristianità, si trovò nell’assurda situazione di avere ben tre pontefici. Il rientro alla normalità avvenne solo nel 1417, quando venne eletto come unico papa Martino V. Il 22 aprile 1418 si chiuse ufficialmente il Concilio di Costanza. TORNA AL TESTO

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MARSILIO FICINO A lui si deve il merito di aver fatto conoscere all’Occidente l’opera di Platone, in maniera organica e il più possibile esauriente nella sua complessità. Marsilio Ficino (1433-1499) studia greco e filosofia, poi si avvicina ai latini e conosce l’opera di Tommaso d’Aquino. Cosimo de’ Medici fu il suo mecenate, e gli offrì i mezzi e lo spazio per dar vita alla sua Accademia Platonica, chiedendogli di indagare a fondo l’operato del filosofo greco e farlo conoscere, tradotto, agli intellettuali del periodo. Ficino alternò a lungo l’attività di cura dei testi del maestro greco con le conversazioni di carattere filosofico e politico tenute con amici, che gli permisero di elaborare una propria personale interpretazione dell’opera platonica, facendola convivere con la religione e il pensiero cristiano. TORNA AL TESTO

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Piero della Francesca, Pala di Brera, particolare, Milano, Pinacoteca di Brera

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Piero della Francesca o della purezza Quando, qualche anno fa, uscì un film per ragazzi che aveva come protagoniste quattro tartarughe ninja, queste furono battezzate con nomi mitici: Donatello, Michelangelo, Leonardo e Raffaello. Perché non Piero, visto che Piero della Francesca è considerato da molti il vero fondatore della visione moderna della pittura?

La fine di un’epoca Nonostante sia un cardine della nostra cultura visiva, Piero è un artista molto più iniziatico del previsto, difficilmente codificabile in un segno di riconoscimento banale. Rispetto ai soliti quattro nomi noti a tutti, sono allora altri quattro i personaggi che determinano il cambiamento di rotta nel Quattrocento verso ciò che si chiamerà un giorno Rinascimento: Piero ovviamente, Andrea Mantegna, Sandro Botticelli e Antonello da Messina. Tutti hanno fatto scuola tranne Piero, perché sin dal suo apparire si capì che sarebbe stato insuperabile, per la sua capacità di sintesi, per la purezza del suo enunciato e poi per la semplificazione dei concetti come nel caso esemplare dell’uovo sospeso e misterioso, nella celebre Pala di Brera, che pende dal centro della conchiglia. Per capire questo artista irraggiungibile dobbiamo inquadrare il periodo in cui è vissuto e tirare in ballo altri personaggi, anche alcuni che con la pittura hanno poco a che fare. La partita doppia è il libro dei ragionieri del mondo intero. Si chiama così perché il metodo su cui si basa consiste nell’annotare le operazioni finanziarie su due diverse serie di conti. Venne pubblicato per la prima volta nel 1494 come strumento di contabilità. Nello stesso anno, sempre a Venezia, il frate francescano Luca Pacioli pubblica una vera e propria enciclopedia matematica dal titolo Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità, un trattato generale di aritmetica e di algebra in volgare con riferimento a monete, pesi e misure utilizzati nei diversi Stati italiani. Uno dei capitoli della Summa è il Tractatus de computis et scripturis, 192

dove viene presentato per la prima volta il concetto di partita doppia, del dare e avere, bilancio e inventario. Concetto che si diffuse poi per tutta Europa con il nome di “metodo veneziano”, perché usato dai mercanti di Venezia. In quello stesso 1494 anche il giovane Albrecht Dürer arriva a Venezia. Ma l’evento storico determinante è che, nel settembre dello stesso anno, le truppe francesi di Carlo VIII invadono l’Italia, iniziano le guerre d’Italia e finisce il sogno del Principe. Grandi protagonisti del Quattrocento italiano, i nostri principi erano gente tutt’altro che bonaria: erano determinati, sapevano essere crudeli, non guardavano in faccia a nessun pur di difendere il loro territorio. Ma, spesso, erano anche uomini d’arte e sofisticati mecenati, molto più di quanto non apparissero i grandi sovrani d’Europa. Questo spiega bene la mutazione che avverrà in Italia quando le guerre dei francesi andranno a eliminare la figura quattrocentesca del principe e daranno vita al disordine politico che in breve formerà l’embrione degli Stati successivi. È curioso che Machiavelli scriva il suo testo fondamentale nel 1513 quando la figura che egli intende esaltare è nella sostanza superata e gli stessi Medici dovranno ancorare il loro potere alla legittimazione dell’Impero e del Papato. Riflessione bizzarra sulla politologia italiana che spesso tende a essere rétro: si parla d’una cosa quando non c’è più. Mi vorranno perdonare i sostenitori di Benigni, che dà dell’Alighieri una lettura pubblica talvolta folkloristica. Invero anche il sommo Dante narra ed esalta un mondo medioevale all’inizio del Trecento, quando questo cosmo è già in fase di estinzione perché l’altro successivo sta già sorgendo, come lo potrà intuire Petrarca ad Avignone.

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Piero della Francesca, Dittico di Urbino, Trionfo di Federico, 1474 ca, olio su tavola, cm 47x33, Firenze, Galleria degli Uffizi

È proprio in questo mondo del principe, il primo Rinascimento, che Piero della Francesca è stato artista incontrastato e indiscusso. Egli muore nel 1492, l’anno cardine nel quale muore anche Lorenzo il Magnifico, viene scoperta l’America e gli ebrei vengono cacciati dalla Spagna. Tutti cambiamenti radicali del mondo.

Piero e il principe Andiamo allora a Urbino dove Piero inizia la sua carriera sotto l’egida di 194

uno dei personaggi più significativi di questo mondo. Lui è Federico da Montefeltro, per un certo verso un prototipo del principe di allora: aggressivo, sveglio, sicuro di sé a tal punto che si fa ritrarre con il famoso taglio nel naso che gli permetteva di sbirciare a sinistra con l’unico occhio che gli era rimasto. Bastardo di nascita, probabile responsabile dell’uccisione del suo stesso fratello, che avrebbe attuato per diventare lui erede di Urbino. Però capace poi di farsi fare duca di Urbino dal papa. A lui appartiene la più bella libreria privata d’Italia, seconda solo a quella famosa del Vaticano. Nel 1472 ha appena finito il massacro dei nemici di Firenze, sottomettendo Volterra. Nello stesso anno muore la moglie Battista Sforza. Dall’aspetto così nobile e aristocratico, ieratica, algida e bianca, non per la morte che l’ha appena colta ma per la funzione che ricopre. Eppure anche lei proveniente da una famiglia che due sole generazioni prima, come si potrebbe dire oggi, non esisteva. Qui l’idea del bello ieratico e algido è di Piero, ma corrisponde anche a quella in cui il principe, autocrate e avventuriero, rozzo e coltissimo al contempo, s’identifica. Il dittico famosissimo di Piero ha sul retro le rispettive scene del trionfo d’entrambi i coniugi. Nel suo lui ha la Vittoria alle spalle la quale però, come dice Carlo Bertelli, invece di tenere il globo terrestre in mano in segno di potere, è in piedi su di esso e rischia di scivolare.

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Piero della Francesca, Dittico di Urbino, Ritratto di Battista Sforza, 1474 ca, olio su tavola, cm 47x33, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Piero della Francesca, Dittico di Urbino, Ritratto di Federico da Montefeltro, 1474 ca, olio su tavola, cm 47x33, Firenze, Galleria degli Uffizi

Quant’è diversa questa corte da quella medicea di Lorenzo il Magnifico, principe senza sanzione di titolo ma solo con il potere del danaro e la scaltrezza delle relazioni politiche e diplomatiche, anche lui coltissimo. A Firenze vige un’altra bellezza, quella di Simonetta Cattaneo, sposata Vespucci e amante pubblica di Giuliano de’ Medici, quello assassinato nella congiura dei Pazzi. Muoiono entrambi giovani nei medesimi anni. Piero di Cosimo la ritrae come una Venere, Botticelli la riprende e ricorderà di lei defunta quando dipingerà la Primavera, dove lei è Venere in tutti i sensi, perché è la più bella della sua epoca e perché è nata a Porto Venere, dove si diceva fosse nata la dea. 197

Sandro Botticelli, Ritratto di Simonetta Vespucci, 1480 ca, tempera su tavola, cm 81,8x54, Francoforte, Städel Museum

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Piero di Cosimo, Ritratto di Simonetta Vespucci, 1480, olio su tavola, cm 57x42, Chantilly, Musée Condé

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Sandro Botticelli, Ritratto di Giuliano de’ Medici, 1478-1480, tempera su tavola, cm 105,7x81,3, Washington, National Gallery of Art

L’altra grande opera dove appare il duca d’Urbino è la Pala di Brera, a Milano. Dipinta probabilmente in contemporanea con i ritratti di Urbino, qui il senso del vuoto e del puro, vanno al di là di ogni ipotesi di contenuti iniziatici. Il duca s’è tolto elmo e guanti per pregare, la Madonna è olimpica nella sua calma quanto il Bimbo con il corallo, simbolo del sangue della passione. Tutti i partecipanti alla muta conversazione hanno gli occhi quasi allineati. Sola spunta nella disposizione delle teste quella assorta e aristocratica della giovane Madonna. Concettualmente portati alla 200

quintessenza del significato gli abiti semplici del frate, del santo o del duca Federico in armatura. E in questa architettura, sognata e perfetta, fatta di marmi candidi dove la prospettiva fugge perfettamente centrale, domina su tutto il piccolo uovo sospeso sulla testa della Madonna, simbolo della perfezione dei corpi. Un tempo sospeso per un’idea di eternità della rappresentazione artistica. E forse non c’è nulla da interpretare oltre questa volontà di perfezione estetica. In fondo il principe ama il sangue sotto la spada e l’equilibrio totale fra le mura.

Piero della Francesca, Pala di Brera, 1472-1474, olio e tempera su tavola, cm 248x170, Milano, Pinacoteca di Brera

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Francesco di Giorgio Martini, Porte a tarsie lignee con la città ideale, particolare, 1476-1477, legno, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale

Sempre per Federico da Montefeltro, Piero aveva realizzato anche la Flagellazione, uno dei dipinti più commoventi e misteriosi del mondo. Spesso penso a quanto sia diversa la storia di quest’opera da quella dell’altro grande dipinto che amo moltissimo, la Crocifissione di Grünewald, a Colmar, di circa sessant’anni dopo. Il Cristo di Grünewald serve a far capire ai suoi cristiani il messaggio teologico preciso, ovvero la sua passione. La Flagellazione di Piero rimane invece un rebus da guinness dei primati, ogni storico dell’arte tende a inventare la propria interpretazione e ancora oggi non ci capiamo niente. In che cosa consiste la differenza? Ci sono varie interpretazioni che provano a spiegare chi si nasconda simbolicamente 202

dietro gli attori presenti in scena, chi sia Pilato seduto; addirittura John Pope-Hennessy reputa che il flagellato non sia Cristo, ma un santo che sogna di essere flagellato per troppa passione letteraria. Quello che è certo è che la porta rappresentata è uguale alla porta della stanza della sala del palazzo d’Urbino che la ospita e che l’architettura bianca di marmo perfetto è identica a quella che sta proponendo Leon Battista Alberti negli stessi anni. In fondo di Piero m’interessa soprattutto la sospensione metafisica dell’atmosfera e il concentrato di questo mondo bizzarro della seconda metà del Quattrocento, dove la proposta del nuovo assoluto sembra passare necessariamente attraverso la riscoperta della pietra antica.

Piero della Francesca, Flagellazione, 1455 ca, tempera su tavola, cm 59x81,5, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche

Negli stessi anni Benedetto da Maiano realizza le tarsie dello studiolo di Federico da Montefeltro e Botticelli ne disegna altre per alcune porte del palazzo, dove appaiono costantemente città ideali. Una lucida follia. A Urbino la purezza e l’equilibrio dei segni corrisponde a una contorsione 203

mentale, ma è un gioco.

L’aria che riempie gli spazi Prima generazione di artisti intellettuali quella di Piero e di Leon Battista Alberti, gente che legge in latino come chi ha studiato per la legge o per la Chiesa, come l’Alberti, o come Piero, autodidatta, che il sapere della matematica se l’è rubato a Firenze e che applica in questo caso i dettami di Archimede per raggiungere la perfezione dei propri disegni. Verrà spesso chiamato “Piero di Burgo, Pittore e Matematico”, il che giustifica la sua inclinazione alla perfezione formale. La Madonna con il Bambino e quattro angeli è un racconto anche questo abbastanza intrigante. Il Bambino, appena appoggiato al ginocchio della madre, tende le braccia paffutelle quanto basta verso il sublime, purissimo fiore che lei gli offre. Ma guardatele gli occhi. Lei è eterea giovane e virginale, i modelli di riferimento sono forse per noi lontani, ma questo è un volto della sua epoca, e pure ha qualcosa in più. La perfezione. L’urgenza del segno oltre la quale non si può andare. La bocca di lui non potrebbe essere più determinata e determinante di così. La bocca di lei non potrebbe essere più sospesa e ovviamente più perfettamente equilibrata con la dimensione degli occhi e con tutti gli altri crismi degli equilibri. Anche se lui è talmente rigido da poter essere agitato come uno di quei bambocci di marzapane che si regalano nella Germania d’oggi la notte di Natale. Molto istruttivo è il paragone con un dipinto quasi contemporaneo di Giovanni Bellini. Il veneziano non è astratto. Quanto è veneziana Santa Giustina! Quanto è stimabile sul mercato la qualità dei suoi gioielli! Quanto la sua eleganza gioca con la leziosità! I due dipinti sono degli stessi anni, mangiano le stesse e medesime sogliole adriatiche, eppure uno va verso la ricchezza, l’altro verso la frugalità.

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Giovanni Bellini, Santa Giustina, particolare, 1470 ca, tempera su tavola, cm 128x63, Milano, Museo Bagatti Valsecchi

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Piero della Francesca, Madonna con il Bambino e quattro angeli, particolare, 1460-1470 ca, olio su tavola trasferito su tela su tavola, cm 107,8x78,4, Williamstown, Clark Art Institute

Negli ultimi anni Piero scrive sia il De prospectiva pingendi, ultimo ostinato atto teorico della prospettiva albertiana, sia De abaco, un trattato sul calcolo. Diventa così un intellettuale attraverso il percorso della sua pittura, ma lui è ben più di un rigoroso calcolatore della prospettiva: è il primo a sentire i limiti che la questione prospettica pone. In pittura non basta più rendere lo spazio geometricamente misurabile, va riempito con l’aria. E nella Madonna di Senigallia, nella luce del meriggio che penetra dalle finestre, appare il pulviscolo, l’atmosfera metafisica dell’ambiente, la sua sensazione tattile. Se la testa dell’angelo può essere iscritta in un cerchio perfetto, gli oggetti sullo scaffale anticipano quelli di Lorenzo Lotto, 206

nell’Annunciazione, o di Giorgio Morandi.

Piero della Francesca, Madonna di Senigallia, particolare, 1472-1475, olio e tempera su tavola, cm 61x53,5, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche

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Piero della Francesca, Madonna di Senigallia, particolare, 1472-1475, olio e tempera su tavola, cm 61x53,5, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche

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Lorenzo Lotto, Annunciazione, particolare, 1534 ca, olio su tela, cm 166x114, Recanati, Pinacoteca Civica

Dal borgo alla corte L’Italia di allora si suddivide in due realtà organizzative e politiche ben diverse l’una dall’altra, le signorie da un lato e le città legate alle Repubbliche, quelle che si autogovernano o che sono in qualche modo dipendenti da aree autogovernate. Ad Arezzo, nella cappella Maggiore della chiesa di San Francesco, vi è il 209

ciclo d’affreschi con la Leggenda della Vera Croce. La vista del famoso ciclo dipinto da Piero, nell’ottica quasi di un fumetto istruttivo per i fedeli, è stata di recente impedita da un muretto, un po’ come quello che divide la Palestina. Così Piero e la Vera Croce sono stati messi a reddito, per vedere la pittura da vicino si paga. Rimane tuttavia molto interessante il confronto che si può fare della grande Crocifissione primitivista del Maestro di San Francesco, posta sopra l’altare, con il magnifico ciclo di Piero della Francesca. È effettivamente questo il passaggio dal borgo alla corte. È come se dall’uno all’altro la pittura avesse imparato in pieno il senso del suono, i bisbigli talvolta e i fragori altre volte. È come se Piero avesse però dimenticato invece del primitivismo un’altra caratteristica: la sua pittura non ha odore. Ritrovo come sempre questa curiosa abilità in Piero che consiste nell’essere contemporaneamente ieratico e per un certo verso verista, capace di citare dettagli minimi e precisi della quotidianità. I morsi dei cavalli sono descritti con la precisione dell’Encyclopédie. Come sono perfetti i nastrini di cuoio rosso che tengono insieme le parti delle armature. In ambito francescano tra l’altro queste armature ricompaiono per il Giulio II, giovane francescano oltre che militante, realmente militare. Per il resto il tema medioevale della Legenda Aurea della Vera Croce viene trattato esattamente come se fosse un tema della mitologia, fa tutto parte di un mondo mitico.

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Maestro di San Francesco, Crocifisso, particolare, XIII secolo, tempera su tavola, Arezzo, San Francesco

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Piero della Francesca, Veduta generale della Cappella Maggiore con la Leggenda della Vera Croce, 1452-1459, affresco, Arezzo, San Francesco

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Piero della Francesca, Leggenda della Vera Croce, Scoperta e prova della Vera Croce, Battaglia di Eraclio e Cosroe, particolare, 1452-1459, affresco, Arezzo, San Francesco

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Piero della Francesca, Leggenda della Vera Croce, Adorazione della croce e incontro tra Salomone e la regina di Saba, particolare, 1452-1459, affresco, Arezzo, San Francesco

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Piero della Francesca, Leggenda della Vera Croce, Battaglia di Eraclio e Cosroe, particolare

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Piero della Francesca, Leggenda della Vera Croce, Sogno di Costantino, 14521459, affresco, cm 329x190, Arezzo, San Francesco

Davanti al tripudio folle di una guerra che dovrebbe essere combattuta in un’epoca lontana ma è vestita tutta in abiti contemporanei, appaiono uomini nudi che sembrano ben più antichi ancora e armature che sanno di una Roma ormai scomparsa. Ma su tutto, come nel Sogno di Costantino, vince la poesia.

Gli archetipi di Piero 216

Piero è fondatore di una visione che è intimamente legata alla sua terra. Bisogna andare allora al confine fra Toscana e Umbria, nella famosissima Valle del Tevere. Proprio all’inizio della valle c’è un paesetto, Monterchi, dove scopriamo l’assoluta totale genialità italiana, la Madonna del parto. Uno dei venti dipinti archetipi della storia d’Occidente, archetipo stesso dell’immagine della Madonna, rara opera d’arte che tiene vivo il contatto con il paesaggio collinare di quei luoghi. Lei, dipinta da Piero per la cappellina del cimitero dove riposava sua madre, non ha bisogno d’essere descritta, solo guardata, un segno di consolazione per affrontare l’aldilà. Nel Polittico della Misericordia, che troviamo invece spostandoci nel Museo Civico di Sansepolcro che all’epoca era il Palazzo della Residenza e dei Conservatori, la tenda diventa il manto della Madonna. Sopra di lei chiude il polittico la Crocifissione, un grido di dolore, uno dei rari casi nei quali Piero della Francesca dipinge l’espressività forte della sua cultura storica.

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Piero della Francesca, Polittico della Misericordia, 1444-1464, olio e tempera su tavola, cm 273x323, Sansepolcro, Museo Civico

Nella Sala dei Conservatori, esattamente lì dove era stato dipinto, si trova l’affresco della Resurrezione, leggermente rovinato nella stesura dalle volte messe lì posteriormente. Un Cristo inatteso che entra nella sua nuova dimensione, lui stesso come sorpreso di ciò che gli sta accadendo. E i soldati sotto che dormono nella loro conquistata modernità.

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Piero della Francesca, Polittico della Misericordia, Madonna della Misericordia, 1444-1464, tempera e olio su tavola, cm 134x91, Sansepolcro, Museo Civico

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Piero della Francesca, Madonna del parto, 1476-1483, affresco, cm 203x203, Monterchi, Museo della Madonna del Parto

Intrigante la storia di Piero della Francesca. Di lui rimangono forse quindici o venti opere e sono sufficienti a farne un colosso della storia dell’arte, sì che ogni frammento ha il suo peso, anche quello con san Giuliano, dove ritrovo tutta l’impostazione delle sue facce, ma soprattutto dove mi colpisce il modo abile e assolutamente fresco di dipingere lo sfondo, quasi un piccolo Mark Tobey su fondo nero. Ed è questo il motivo per il quale Leonardo ha lasciato i leonardeschi, Raffaello ha lasciato i raffaelleschi, Michelangelo ha lasciato i michelangioleschi mentre Piero non 220

ha lasciato i pierini, a esclusione forse dello scultore Pierino da Vinci che con lui non ha niente a che fare se non forse per la vicinanza dei luoghi di nascita.

Piero della Francesca, Polittico della Misericordia, Crocifissione, 1444-1464, tempera e olio su tavola, cm 81x52,5, Sansepolcro, Museo Civico

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Piero della Francesca, San Giuliano, 1455-1460, affresco, cm 130x105, Sansepolcro, Museo Civico

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Piero della Francesca, La Resurrezione di Cristo, 1450-1463, tempera e affresco, cm 225x200, Sansepolcro, Museo Civico I tedeschi, all’opposto, già allora pensavano a costruire la BMW e quindi prestavano una somma attenzione alla realtà delle cose che investigavano con ossessiva capacità catalogatoria. Non si sa se Dürer sapesse di essere aristotelico, ma è certo che la sua indagine seguiva le indicazioni di Aristotele sulla conoscenza attraverso la percezione, cioè l’osservazione, come avrebbe fatto quell’anarchico di Leonardo che non per nulla frequentava i domenicani, gli ultimi aristotelici superstiti per via del loro attaccamento ideologico a Tommaso d’Aquino, il più famoso dei loro. Questa bizzarra quanto fertile dialettica fra posizioni da antropologia culturale verrà in seguito risolta da Michelangelo. Insomma, se vi sono due personalità diametralmente opposte, sono ben quelle di Piero e di Albrecht, l’uno idealista fino ai limiti della matematica, l’altro pragmatico fino ai confini

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delle scienze fisiche. Comunque il confronto rimane foriero di pensieri assai sconvolgenti, in quanto se da un lato l’uno è voyeur e l’altro visionario, è innegabile che siano entrambi mossi dallo stesso denso misticismo. Ma la questione diventa ancor più curiosa se se ne vanno a cercare le evoluzioni lontane. In pieno XIX secolo, Ingres, seguace accanito di Raffaello, quindi sostanzialmente ultima vittima possibile del neoplatonismo rinascimentale, si ritrova a non potere non riprendere l’aristotelico sperimentatore germanico e combinare i due percorsi nel suo notissimo Bagno turco. Tutte con turbante, tutte conturbanti. La faccenda ha quasi dell’ironico: per passare dalla libertà sessuale di Dürer a quella di Ingres l’Europa ha dovuto dilaniarsi nelle guerre di religione, sopportare il dramma della sifilide e la conseguente sessuofobia per riscoprirsi identica al mondo dimenticato delle antiche tradizioni termali etrusco-romane.

Albrecht Dürer, Il bagno delle donne, 1496, penna e inchiostro su carta, cm 23,2x22,9, Brema, Kunsthalle

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Jean-Auguste-Dominique Ingres, Il bagno turco, 1863, olio su tela, ø cm 100, Parigi, Musée du Louvre

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Raffaello, La Fornarina, 1518-1519, olio su tavola, cm 87x63, Roma, Museo Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini

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I PRINCIPI DEL QUATTROCENTO Tipi bizzarri i principi, uomini di grinta: Borso d’Este figlio naturale di Niccolò III d’Este marchese di Ferrara; Francesco Sforza, condottiero e duca di Milano, figlio naturale di Muzio Attendolo Sforza. Il primo è protettore delle arti e grande collezionista di libri, rimane famosa la sua Bibbia; Francesco Sforza invece vive fra Napoli, la Calabria e Milano. Sposa in prime nozze una vedova calabrese, in seconde la figlia del duca di Milano Filippo Maria Visconti, del quale riuscirà a prendere il posto dopo la breve Repubblica Ambrosiana. L’unico diverso, perché veramente di buona famiglia, è Sigismondo Pandolfo Malatesta. Il “lupo di Rimini” fu signore di Rimini e Fano dal 1432. Sarà, per Pio II, il personaggio negativo per eccellenza. Tagliagole e poeta, patrono delle arti, primo protettore di Leon Battista Alberti e di Piero della Francesca, quello che entra nella storia come il più cattivo di tutti, eppure l’unico nato da famiglia storica, discendente diretto. Nel ritratto che gli fa nel 1451, Piero lo vede quasi ligneo, molto concentrato e convinto, con meno boccoli e labbra ben più strette.

Bonifacio Bembo, Ritratto di Francesco Sforza, 1460 ca, tempera su tavola, cm 40x31, Milano, Pinacoteca di Brera

Baldassarre d’Este, Ritratto di Borso d’Este, 1469-1471, tempera su tela, cm 43x32, Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco

Piero della Francesca, Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta, particolare, 1450-1451, olio e tempera su tavola, cm 44,5x34,5, Parigi, Musée du Louvre

Piero della Francesca, Pala di Brera, particolare con il ritratto di Federico da Montefeltro, Milano, Pinacoteca di Brera

Agostino di Duccio, Ritratto di Sigismondo Malatesta, 1463 ca, gesso, ø cm 55, Rimini, Museo Civico

INCROCI DI ROTTE E VIAGGI DELL’ARTE Essere da Messina nel Quattrocento è ben diverso dall’essere di Messina oggi. Allora voleva dire essere sul casello portuale necessario che collegava la massima potenza marittima del Mediterraneo, cioè Venezia, con la massima potenza commerciale dei mari nordici, cioè Anversa, e tutto ciò prima che entrasse nel gioco degli equilibri il nuovo continente americano. Ecco perché Antonello non può evitare di combinare le due culture, ed ecco pure per quale motivo egli è da Messina e non di Messina. Quanto ha di parallelo la sua Crocifissione con quella di Giovanni Bellini, che lui di sicuro incontra a Venezia e forse contamina; le due opere sono pervase dal medesimo senso esaltato d’un gotico terminale e si popolano con la medesima esuberanza di teschi. Ma sono soprattutto le croci dei ladroni, alberi puri e grezzi, che Bellini non riuscirà a dimenticare perché li riproduce spogli, ancora impiantati nel suolo d’origine. Addirittura i paesaggi sullo sfondo presentano una curiosa assonanza. E quanto devono sia Bellini sia Antonello al primo protagonista d’una pittura non “marittima”, al quel Cima che viene da Conegliano e insegna a tutti l’amore per il paesaggio. A tal punto che si potrebbe inventare una curiosa equazione: Cima+Antonello=Bellini. Ma ciò che colpisce è la sensazione di realismo irreale dei legni del sacrificio. La stessa barra di legno grezzo ricompare successivamente in Grünewald, il quale sente l’aria fiamminga scendere in area renana, e torna ancora in Dürer, il quale in quell’area renana si forma quando va a studiare l’arte degli incisori presso gli stampatori di Basilea. Si vede che il nordico non si sentiva di attribuire ai carnefici di Cristo alcuna abilità da falegname capace: il falegname abile e garbato era san Giuseppe, certamente non i perfidi assassini di Gesù. A questo formidabile incrocio geografico marittimo non manca ovviamente l’altro parallelo adriatico, quello della sospensione della quale è maestro Piero e che ritrova a Messina, con Antonello, l’ipotesi d’una luce parente.

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Antonello da Messina, Crocifissione, 1475, olio su tavola, cm 52,5x42,5, Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten

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Matthias Grünewald, Crocifissione, 1512-1516, olio su tavola, cm 269x307, Colmar, Musée d’Unterlinden

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Albrecht Dürer, Crocifissione, 1511, incisione, cm 46x29,5, Collezione privata

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Giovanni Bellini, Crocifissione, 1501-1503, olio su tavola, cm 258x169, Collezione Banca Popolare di Vicenza

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L’IMPORTANZA DEI LACCETTI PORPORA Viaggi mentali partendo da un dettaglio. Perché mai sono rossi i nastrini di cuoio dell’armatura? Perché era quella una tintura che particolarmente piaceva, ovviamente, e che si ritrova in tutti i cuoi chiamati marocchini, quelli che servono da allora alla rilegatura dei libri. Una delle conce fra le più preziose. Sono quelli dell’Arcangelo Michele del Perugino. Sono quelli della bardatura extralusso del cavallo di Lorenzo il non per niente Magnifico nell’affresco della Cappella dei Magi di Benozzo Gozzoli, dove il colore porpora va in competizione con la porpora imperiale del Basileus di Costantinopoli. Il porpora era colore ufficiale dell’imperatore, lo era per il costo della tintura che si faceva con l’utilizzo della povera cocciniglia, microscopico insetto che veniva macinato per ricavarne il potente colorante. Lo stesso colore era quello del porfido imperiale, la pietra durissima alla lavorazione con cui sono state costruite le tombe di Federico II di Svevia e dei suoi eredi, che riposano nella cattedrale di Palermo. Rimane il colore della veste del papa finché non verrà resa bianca dalle estetiche del Settecento. Porpora sono quindi i cuoi più eleganti. Sono quelli che compaiono nel formidabile dipinto di Cosmè Tura, nel suo San Giorgio e la principessa. Son quelli che Piero riprende più volte, sia nella Leggenda della Vera Croce sia nel ritratto di Federico da Montefeltro in ginocchio nella Sacra Conversazione di Brera, quella dove i dettagli sono fondamentali, l’uovo sospeso, il tappeto d’Oriente con l’ottagono simbolo della perfezione araba, il corallo al petto del Bambino Gesù.

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Perugino, Polittico della Certosa di Pavia, Arcangelo Michele, 1499 ca, olio su tavola, cm 114x52, Londra, The National Gallery

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Piero della Francesca, Leggenda della Vera Croce, Vittoria di Costantino su Massenzio, particolare, 1452-1459, affresco, Arezzo, San Francesco

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Benozzo Gozzoli, Corteo dei Magi, particolare con Lorenzo il Magnifico, 1459, affresco, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, Cappella dei Magi

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Cosmè Tura, Anta d’organo della Cattedrale con san Giorgio, 1468-1469, olio su tela, cm 413x338, Ferrara, Museo della Cattedrale

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IL PERCORSO OPPOSTO DI ALBRECHT DÜRER Albrecht Dürer nasce e cresce a Norimberga, una delle tre città, assieme a Colonia e Praga, che formano il tessuto urbano importante dell’impero. Suo padre, ungherese, è orafo nella città degli ori. Lui studia a bottega, poi dai pittori della città. Ma se ne va dalle parti del Reno, dove prima si fa influenzare da quel curioso folle che è il Maestro degli Asburgo. Poi va dal grande Martin Schongauer a Colmar, che però è già morto e lì trova i suoi fratelli, orafi anche loro. Da lì passa a Basilea da un altro fratello Schongauer, anche lui orafo, e poi a Strasburgo. L’incisione diventa l’evoluzione naturale della sua pratica, tanto più se si pensa alla grande diffusione della stampa in corso. Di Albrecht Dürer, tre cose sono certe: è un narcisista, il primo che di sé fa ritratti costanti da quando ha tredici anni. Individualista e introspettivo. Due, è un vero tedesco. Tre, è un grande artista. La sua tipologia umana sarà il risultato d’indagini dal sapore scientifico: esistono tipologie riassuntive, ma il bello assoluto non esiste. Lui è un analista, un voyeur vero delle cose della natura e della natura delle cose. Porta lo studio delle linee al parossismo. Come suo carattere costante, la presenza di micro dettagli, delle farfalle, dell’insettino, del cervo volante. Ma per lui, all’opposto di Piero, la teoria non è preesistente, l’idea non è esterna al mondo, ciò che si sa è perché lo si è imparato nella prassi. Un misto costante fra gotico tedesco e classicità, ma nulla di neoplatonico. Il suo mondo è ben lungi dal voler rappresentare idee astratte.

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Albrecht Dürer, Autoritratto a tredici anni, 1484, matita su carta, cm 24x12,5, Vienna, Albertina

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Leonardo, Uomo vitruviano, 1490 ca, matita e inchiostro su carta, cm 34x24, Venezia, Gallerie dell’Accademia

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Albrecht Dürer, Due studi di proporzioni di un nudo maschile, 1514, penna e inchiostro marrone, cm 25,1x18, Amburgo, Kunsthalle Nulla vi è di più indicativo, per capire l’artista di Norimberga, che vedere le sue straordinarie illustrazioni sulla catalogazione delle forme del corpo. Il pensiero quattrocentesco in Italia verrà costantemente affascinato dall’idealismo greco, quello di Platone per intenderci, nella sua ridefinizione di Plotino portato alla conoscenza degli umanisti centro-italiani durante il concilio di Firenze quando Bessarione, il sommo cardinale di Costantinopoli, viene a tenere le sue pubbliche lezioni. La perfezione sta nel mondo delle idee, l’estetica ne discende come per automatismo.

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Albrecht Dürer, Giaggiolo, 1496 ca, olio su pergamena, cm 25x7, El Escorial, Monastero di San Lorenzo, Biblioteca

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LUCA PACIOLI Luca Bartolomeo de Pacioli è conterraneo di Piero. Nasce a Borgo Sansepolcro nel 1445 circa e muore a Roma nel 1517. È stato matematico, autore della Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità (1494), vera e propria enciclopedia matematica scritta in volgare, e della De divina proportione (1497), a proposito dell’affascinante mistero della sezione aurea, su cui tanti, matematici e non, nel corso degli anni hanno fantasticato. Pacioli studia a Sansepolcro e poi a Venezia; entra nell’Ordine francescano nel 1470 circa. Con i suoi fratelli francescani un po’ litigherà, non avrà vita facile, forse è questo il motivo per il quale comincia a girare l’Italia. È stato insegnante di matematica a Perugia, Firenze, Venezia, Milano, Pisa, Bologna e Roma. Nel 1497 si trasferisce a Milano su invito di Ludovico il Moro, dove collabora con Leonardo da Vinci. Ma nel 1499 anche lui, come Leonardo, abbandona Milano per spostarsi prima a Mantova e poi ancora a Venezia. Per Isabella d’Este scrive il trattato De ludo scachorum, un prezioso manoscritto sul gioco degli scacchi. TORNA AL TESTO

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Leonardo, Autoritratto, particolare, 1512 ca, sanguigna su carta, cm 33x22, Torino, Biblioteca Reale

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Leonardo, l’anarchico pitagorico Narcisista, individualista, curioso, sperimentatore, geniale, rivoluzionario, insofferente alle regole. Artista, uomo di scienze, letterato, inventore, ingegnere. E soprattutto intimamente anarchico, capace di criticare tutto e tutti e persino di inventare un mito, il suo, in cui tutti noi ancora oggi crediamo.

Leonardo da Vinci: è lui l’uomo barbuto che appare nella Scuola di Atene di Raffaello, nei panni del grande filosofo Platone. Era probabilmente un giovane bello e alternativo quando, nel 1469, andò a lavorare nello studio di Andrea del Verrocchio, in una Firenze dove gli intellettuali umanisti dominavano sugli artisti e indicavano loro ciò che dovevano dipingere, a tal punto che questi poveretti accumulavano ogni tipo d’immagine. A guardare con occhio franco il Battesimo di Cristo del Verrocchio, al quale collabora il giovane Leonardo quando ha poco più di vent’anni, viene in mente un’idea incredibile: a Firenze il Manierismo è sempre esistito. I volti e i paesaggi hanno già qualcosa di morbido e leonardesco forse, ma la palma che sembra di gomma e la veste di stralusso che fa da perizoma al Cristo sono tutt’altra cosa. Tipo bizzarro e particolare, figlio di un grande notaio della Repubblica, poco incline allo studio, con risultati pessimi in latino e nessuna inclinazione per la matematica, Leonardo fu costretto (o quantomeno invitato) dal padre a far cosa che lui poteva fare, cioè lavorar con le mani. In quella bottega del Verrocchio in realtà Leonardo stava remando contro da parecchio tempo. Contro una pittura carica di intellettualismi neoplatonici e contro il metodo della prospettiva, che dominavano ormai tutti gli artisti, per farne qualcosa d’altro. Per esempio, la prospettiva nel dipinto dell’Annunciazione si percepisce corretta solo guardandola dal basso a destra. E rispetto agli accumuli di personaggi dei suoi colleghi, qui tutto avviene con il minimo delle presenze: l’angelo e la Vergine. Leonardo è certo che la semplicità della composizione consenta la genesi di un’inattesa poesia. Una decina d’anni dopo, con l’Adorazione dei Magi, del 1481-1482, il percorso anarchico è quasi compiuto. Leonardo butta in aria tutte le regole 250

ordinate dei suoi colleghi e inventa un dipinto che contiene di tutto, come se già fosse uno dei suoi taccuini di appunti. Magi adoranti che sembrano vecchiacci terribili, una Vergine che pare già nelle rocce, cavalli folli in giro per un paesaggio inatteso e architetture catastrofiste da cinema hollywoodiano. Non c’è più nulla da fare, gli tocca andar via da Firenze. I colleghi più ubbidienti sono andati a Roma a lavorare per Sisto IV nella Cappella Sistina. Lui, no. Perché è troppo intemperante, ama troppo la sperimentazione, non è un esecutore ma un inventore. A Roma finiscono Botticelli, Perugino, Signorelli e altri validissimi artisti (ma anche artigiani). Il papa voleva impiegare una ditta di pittori che, senza troppe alzate d’ingegno, gli garantisse un lavoro perfetto nei tempi e nei modi stabiliti. Nessuna stravaganza, nessuna anarchia. È per questo che Leonardo non viene chiamato a Roma, ed è anche per questo che, mi permetto di insinuare, se pure l’avessero chiamato lui non ci sarebbe mai andato: non era quello il suo mestiere. E così, Lorenzo de’ Medici lo impacchetta e lo spedisce al suo grande amico Ludovico il Moro.

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Verrocchio e Leonardo, Battesimo di Cristo, 1475-1478 ca, olio e tempera su tavola, cm 177x151, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Leonardo, Annunciazione, 1472-1475 ca, olio e tempera su tavola, cm 98x217, Firenze, Galleria degli Uffizi

Un nuovo modo di vedere le cose Leonardo arriva a Milano in realtà come musico, inventore di stramberie, di feste e di giochi, come pure di curiose macchine belliche, ma sta già sviluppando un suo carattere preciso. Primo punto, la questione della prospettiva va ridiscussa alla radice: quando guardo un quadro perfettamente equilibrato secondo le regole della prospettiva, succede un fatto clamoroso, non mi sembra reale. Alla questione lineare se ne aggiungono sicuramente delle altre: fra un oggetto vicino e uno più lontano, quello lontano lo vedo di certo più confuso di quello che ho davanti. L’aria gioca un suo ruolo. La figura umana gioca in un ambito di morbidezza che l’architettura non richiede. Leonardo chiama questo fenomeno visivo “prospettiva di notizia”, perché “diminuisce la notizia delle figure e termini che hanno essi corpi in varie distanzie”.

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Leonardo, Adorazione dei Magi, 1481-1482, olio su tavola, cm 246x243, Firenze, Galleria degli Uffizi

Leonardo andrà a collezionare i libri che parlano dell’argomento. Anzi per un uomo della sua epoca, così poco incline a leggere il latino, è stato un grande raccoglitore di volumi, ne aveva circa centocinquanta. Nei suoi appunti, nei suoi Codici, appaiono varie ipotesi attorno al concetto di prospettiva: quella di notizia, abbiamo visto, quella di spedizione e quella di colore. Ma soprattutto si pone una questione di fondo dove ancora una volta la lezione materiale sperimentale va a contraddire la teoria: la prospettiva non può finire in un punto unico (punto di fuga) poiché l’occhio non è un punto ma una grande lente. Tanti punti e tanti razzi (linee di visione che arrivano all’occhio) andranno a finire in questa 254

lente e si svilupperanno secondo la sua forma. Inoltre, di occhi ne abbiamo ben due e un oggetto posto davanti a noi lo vedremo con entrambi, cioè in modo stereoscopico. È la fine di un’astrazione teorica e l’inizio di una rilettura materiale della visione basata sulla sperimentazione diretta dei fenomeni. Punto due, Leonardo non si sente un meccanico: “Certo se i pittori fussino atti a lodare con lo scrivere l’opere loro come voi io dubito non giacerebbe in sì vil cognome”. Ma perché mai il futuro ingegnere non vuole essere un meccanico? Per un motivo serio: la cultura di quegli anni prevede da un lato le Arti liberali, quelle che preparano allo studio della legge e alla vita civile dell’intelletto. Si fondano sul Trivio, cioè lo studio della grammatica, della retorica e della dialettica, l’articolazione del parlare quindi, e sul Quadrivio che comprende lo studio dell’aritmetica, della geometria, dell’astronomia e della musica. Solo successivamente ci si aprirà anche alla medicina e all’architettura: tutta roba, comunque, che si fa senza usare le mani. Le robe manuali sono le Arti meccaniche, che vanno dal pensare le macchine per il volo fino al far pittura, scultura e oreficeria. Questa distinzione sta alla radice di quello che si dice a Botticelli per farlo dipingere, ed è ciò che Leonardo proprio non tollera. Perché, dice lui: “Con le mani si figura quel che si trova nella fantasia”. Terzo punto, la pittura prima di tutto: “Il pittore è padrone di tutte le cose che possono cadere in pensiero all’uomo, perciò che se egli ha desiderio di vedere bellezze che lo innamorino egli è signore di generarle e se vuol vedere cose mostruose che spaventino o che siano buffonesche o risibili o veramente compassionevoli ei ne è signore e creatore” (dal Trattato della pittura). Anche il pittore è uomo vitruviano, anzi forse lo è più degli altri: lui è la vera copula mundi. Leonardo a Firenze lascia incompiuto il suo lavoro, oltre all’Adorazione dei Magi, anche il San Gerolamo, geniale nell’impostazione da cinema, dove il santo è un duro vecchiaccio di campagna, il leone è da circo e il paesaggio è concepito secondo nuovi parametri. Il tutto in una elaborazione così lunga e pensata, da non potersi mai terminare. La National Gallery, a Londra, custodisce due capolavori di Leonardo. Uno di questi è la Vergine delle rocce, la seconda versione del primo lavoro che lui realizza appena arriva a Milano, per i francescani dell’Immacolata Concezione. La prima versione, quella del Louvre, viene dipinta su indicazione precisa dei contenuti, perché il tema teologico è all’ordine del giorno e i francescani ne sono i principali sostenitori. Lui ovviamente non 255

riesce ad adeguarsi e disobbedisce. La seconda è più corretta, il Bambino Gesù gioca un ruolo centrale e l’angelo non commette più l’errore d’indicare come protagonista il giovane Giovanni Battista. Sono fenomenali e fiamminghi i fiori in primo piano, un po’ come se lui in quegli anni fosse al telefono regolarmente con Dürer che fa lo stesso lavoro nel mondo tedesco. L’atmosfera che esiste fra la mano della Madonna e la faccia dell’angelo è totalmente misteriosa. Ma la cosa che mi colpisce più di ogni altra è il fondo, che ci appare sfumato secondo i nuovi principi di prospettiva, quella che lui definisce aerea, in quelle due aperture nella roccia dove si guarda oltre. Questo dipinto dimostra che la prospettiva non ha una linea di fuga unica, sono due i punti dove l’occhio vaga, a destra e a sinistra della Vergine. Una curiosa atmosfera sospesa, un paesaggio totalmente inatteso e silente.

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Leonardo, Codice di Anatomia, Studio di proporzioni del volto e dell’occhio, 1512, cm 29,2x19,8, Torino, Biblioteca Reale

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Leonardo, Codice di Anatomia, I muscoli delle spalle, 1510-1511, cm 29,2x19,8, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection

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Leonardo, San Gerolamo, 1480 ca, tempera e olio su tavola, cm 103x75, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana

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Leonardo, Vergine delle rocce, 1483-1486, olio su tavola, cm 199x122, Parigi, Musée du Louvre

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Leonardo, Vergine delle rocce, 1495-1508 ca, olio su tavola, cm 189,5x120, Londra, The National Gallery

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Leonardo, Vergine delle rocce, particolare, 1495-1508 ca, olio su tavola, Londra, The National Gallery

L’altra opera alla National Gallery è il cartone della sant’Anna, definito dai suoi forellini necessari a trasferire il disegno su un altro supporto, ma che poi non è mai stato utilizzato. Racconta ovviamente la storia della famigliola della Madonna e di sant’Anna e dei bambini, Gesù e Giovanni. Il disegno prende forma lentamente, si è evoluto su se stesso, ma parte da alcuni dettagli molto bizzarri. È un gesto puramente vigoroso e che non vuole affatto definire il tutto, ma solo il peso e il volume. Il dito è giusto accennato perché è volume, come il piede, ma lì dove si formano i volti si capisce che il disegno di Leonardo nasce dalla materia, dal progetto della 262

materia, e non banalmente dal segno. Questo grande disegno è dei suoi anni maturi agli albori del Cinquecento; tutta la sua tecnica è già risolta.

Leonardo, Sant’Anna Metterza, 1501 (?) – 1505 ca, gessetto nero e biacca su carta, cm 141,5x104, Londra, The National Gallery

L’Ultima Cena e altre beffe Ma torniamo a Milano negli anni dei primi grandi successi, quelli del Ritratto di Cecilia Gallerani, La Dama con l’ermellino, la ragazza del principale, Ludovico il Moro, e quelli ovviamente della sua fatica più nota: l’Ultima Cena, attualmente rinchiusa in una sorta di acquario che ne garantirà la conservazione eterna, almeno di ciò che ne rimane restaurato. 263

Il grande refettorio dell’ex convento adiacente al Santuario di Santa Maria delle Grazie è oggi vuoto, ma ci spiega una cosa fondamentale: quando Leonardo va a dipingere la grande parete di fondo, nota al mondo intero, siamo intorno al 1495, stesso anno dell’opera di fronte, la Crocifissione di Donato Montorfano. Il Cenacolo è quindi uno spazio dove due grandi dipinti si guardano, l’uno in faccia all’altro, e dove chi lì consumava quotidianamente il pasto non era affatto un visitatore, ma era un serio domenicano seduto in mezzo ai suoi confratelli.

Leonardo, Ritratto di Cecilia Gallerani (La Dama con l’ermellino), 1488-1490, olio su tavola, cm 54,8x40,3, Cracovia, Museo Czartoryski

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Leonardo, Ultima Cena, 1494-1497, tempera e olio su intonaco, Milano, Cenacolo Vinciano

Hanno un elemento in comune questi due grandi dipinti: sono entrambi la negazione dei dettami estetici quattrocenteschi legati alla passione per la prospettiva. Il dipinto di Montorfano è talmente pieno di roba che la prospettiva si perde. Leonardo darà invece un esempio di come si può immaginare un mondo completamente diverso, non con migliaia di persone, ma con gruppi ordinati di tre apostoli alla volta e con un ordine prospettico tanto cerebrale da andare oltre il rigore di Brunelleschi, perché il punto di fuga non corrisponde all’occhio dello spettatore, ma è concettuale e corrisponde alla centralità della testa di Cristo. È lui che guarda l’osservatore e non il contrario. Infatti solo da spettatore il disegno mi convince, non il mio istinto. Il fondo è sfumato, i personaggi più precisi, la natura morta precisissima quanto la tovaglia, perché è in primo piano.

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Donato Montorfano, Crocifissione, 1495, affresco, Milano, Cenacolo Vinciano

La Crocifissione del Montorfano è un riassunto quasi germanico o comunque nordico degli ultimi temi del Medioevo, arricchiti però da una serie di personaggi che sono già moderni. Quelli di Leonardo sono storicamente transgenici, vestono una veste storica improbabile ma comunque con la volontà di rappresentare il passato. La parte centrale del Montorfano è una sorta di Gerusalemme mitica e ignota che sembra in realtà il castello di Milano. L’Ultima Cena invece corrisponde con precisione alla descrizione di Varrone e ai testi sacri. Leonardo sa che il cenacolo è al primo piano alto della casa romana, luogo che si prende in affitto perché la famiglia di solito mangia nel triclinium, che è a pian terreno. Ha già imparato dall’amico Bramante a dare una prospettiva a Milano: lo straordinario trompe-l’oeil di San Satiro, realizzato da Bramante nel 1483, ne è un bell’esempio, dove la prospettiva vuole dare l’illusione di portare lo sguardo oltre l’architettura vera e propria. Montorfano è così convinto della sua qualità che firma clamorosamente 266

l’opera sotto la croce. Leonardo è talmente dubbioso del rapporto con il pubblico che non firma l’opera. Oppure forse è troppo famoso. Comunque, al dipinto di Montorfano sono state aggiunte quattro figure, il duca e suo figlio, la duchessa e la figlia. Le ha aggiunte Leonardo? Oppure un suo aiutante? Non si sa, sicuramente sono state aggiunte con la stessa tecnica che è evaporata. Perché il Cenacolo sperimentale, come i tre quarti dei lavori di Leonardo, è stato condannato anche lui all’evaporazione. È stato recuperato per il rotto della cuffia grazie a un restauro durato quasi trent’anni.

Leonardo, Ultima Cena, particolare, 1494-1497, tempera e olio su intonaco, Milano, Cenacolo Vinciano

Montorfano vuole rappresentare il mito, la storia o il mistero. Leonardo non vuole affatto più essere fiorentino, non vuole rappresentare nessuna idea astratta. Il suo è un dipinto convinto della realtà e altri misteri non ci sono, perché gli elementi qui presenti sono stati decisi tutti seriamente con il Capitolo dei domenicani che aveva qui il suo refettorio. Oppure Leonardo, il vero anarchico costretto per la prima volta al rigore iconografico, in barba alle stupide allusioni del Codice da Vinci, ha deciso di dipingere con l’equivalente di un inchiostro simpatico, forse sapendo che lentamente l’opera sarebbe scomparsa, il colore pure, e nella nostra memoria avrebbe lasciato lui solo la sensazione del disegno perfetto d’una beffa. Motivo vero del sorriso super sfumato della Gioconda e dell’altra beffa di Marcel Duchamp. 267

Leonardo, La Gioconda, particolare, 1503-1504 e 1510-1515, olio su tavola, cm 77x53 (intero), Parigi, Musée du Louvre

A spasso tra i Codici Tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, in quel di Firenze ma non solo, era acceso il dibattito fra idealisti neoplatonici, capitanati da Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, e aristotelici, detti “notomisti”: quelli che studiavano il corpo, i suoi movimenti, il suo interno, e si interrogavano sul funzionamento stesso dell’universo. Leonardo sarà sempre più vicino a questi ultimi: non è uno scienziato ma uno sperimentatore, un empirico ante litteram. È un’individualista totale, a tal punto che, quando si accorge di esser mancino, invece di scrivere da sinistra a destra decide di scrivere da destra a sinistra, simmetrico, perché i gesti sono gli stessi. La sua non è una scelta esoterica, ma pratica, come in tutto il suo lavoro. Infatti, i quadri da vendere li firma in modo comprensibile per il cliente. Anche le carte topografiche sono scritte in modo che gli altri le possano leggere. I suoi appunti no, perché sono totalmente personali. Sono appunti per non dimenticare, per elaborare, per ricordare le gag che farà in pubblico, e sono appunti dai quali appare la sua psiche fino in fondo, ivi compresa quella curiosa passione per 268

la matematica, dove ama più la retorica dei numeri che la precisione del pensiero.

Leonardo, La colonna vertebrale, 1510-1511 ca, penna e inchiostro con acquerello su gessetto nero, cm 28,6x20, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection

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Leonardo, Il feto e i muscoli delle pelvi, 1511 ca, penna e inchiostro su gessetto rosso e nero, cm 30,4x21,3, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection

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Leonardo, Falcate e operazioni aritmetiche, Codice Atlantico, 1478-1519, cm 64,5x43,5, Milano, Biblioteca Ambrosiana

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Leonardo, Studi per il Monumento Trivulzio, 1508-1510 ca, penna e inchiostro, cm 28x19,8, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection

Leonardo è un artista; ogni foglio è pronto a essere incorniciato e i Codici che ne derivano pure, ma è anche ingegnere, uomo di scienza, inventore, l’uomo della infinita quantità di codici. Se gli artisti suoi colleghi hanno lasciato molti dipinti e pochi appunti, in alcuni casi dei libri, lui ha lasciato una quantità infinita di appunti che si portava appresso costantemente e che oggi sono diventati un mito. Codici come cimeli o reliquie sparse nel mondo. Passiamo brevemente in rassegna alcuni dei suoi fogli che ci rivelano tutta la sua curiosissima psiche. È espressionista fino all’inverosimile 272

quando immagina il monumento a Trivulzio, come se fosse lui un pittore del XIX secolo. Tripudio di robe equestri, dove si va ben oltre la ricerca della naturalezza del movimento, si entra nel gusto della contorsione. Nel progetto per il famoso cavallo dello Sforza troviamo tutti gli studi per la fusione del cavallo, visti nel loro ultimo dettaglio, alcuni con delle sue annotazioni assolutamente naturali e altre che mi incuriosiscono in modo particolare, perché se tutti i cavalli stanno su tre zampe o sulle due posteriori con le due anteriori alzate, lui deve andare oltre, e farà tenere alzato un anteriore destro e un posteriore sinistro, quindi con difficoltà di stabilità assolute. Anche qui una sfida.

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Leonardo, Studio di cavallo e cavaliere, 1480-1481, cm 12x7,8, Collezione privata

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Leonardo, Espressioni di rabbia in cavalli, leoni e in un uomo, 1503-1504 ca, penna e inchiostro con acquerello e gessetto rosso, cm 19,6x30,8, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection

In tutta la sua esperienza d’indagine sul mondo rimane centrale l’idea umana dell’Umanesimo, fino ad arrivare all’Uomo vitruviano che, per un narcisista come lui, sembra essere il suo autoritratto. Dal Medioevo Leonardo eredita tutta la visione delle allegorie, ben lontane da quelle botticelliane. Fiori che possono sembrar chiome e piante invece descritte con la scientificità di un erbario. E poi continuamente, su decine e decine di fogli, si ritrova l’idea ossessiva e geniale del volo.

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Leonardo, Disegno botanico, stella di Betlemme, anemone ed euforbia, 15051510, cm 28x19,8, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection

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Leonardo, Codice Atlantico, Studi di macchine volanti, 1478-1519, cm 28x40, Parigi, Bibliothèque Nationale de France

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Leonardo, Codice Atlantico, Velivolo, 1478-1519, cm 64,5x43,5, Milano, Biblioteca Ambrosiana

Interessato alla natura, anche a quella domestica di un gatto o di animaletti che giocano fra loro, Leonardo è capace di guardare anche un bambino come un gattino. Pezzi di ricambio per bambini Gesù. Perché la realtà sta nella infinita indagine sulla natura e quindi anche su quella del corpo umano. Credo che sia fondamentale, per capirlo fino in fondo, vedere queste pagine fatte solo per sé medesimo, dove la ricerca estetica è totale, l’equilibrio dei disegni va a braccetto con la perfezione della calligrafia, quella speculare. Esteticamente perfetto, teoricamente contorto, curioso all’inverosimile, Leonardo è molto più che ingegnere, è il primo modello dell’artista onnivoro, quello che esalta all’ultimo grado la sua personalità. È il primo dei temibili e terribili uomini della modernità, ma con le radici ancorate al meglio del pensiero medioevale.

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Leonardo, Due teste di animali mostruosi, 1490-1495 ca, penna e inchiostro su gessetto nero, cm 13,8 x17,4, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection

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Leonardo, Gatti, leoni e un drago, 1513-1516 ca, penna e inchiostro con acquerello su gessetto nero, cm 27x21, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection

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DE DIVINA PROPORTIONE Luca Pacioli è il matematico per eccellenza dell’epoca, quello che scrive il De divina proportione, e porta al punto evolutivo terminale il concetto di Fibonacci, mescolato a quello di Pitagora sulla perfezione del numero aureo. Questione fondamentale per l’estetica e l’idea del bello. Ciò che due secoli prima per San Tommaso era la Debita proportio, l’equilibrio perfetto, per lui diventa la Divina proportio, l’equilibrio dimostrato. Il testo si apre con la dedica all’Eccellentissimo principe Ludovico Maria Sforza: essendo lui il protettore di Luca Pacioli, questo forse è l’esemplare in assoluto più importante. Nel 1497, quando il testo viene pubblicato, la stampa è già cosa nota, ma questo è ancora manoscritto. Sono messi in rubrica, cioè in rosso, i nomi dei matematici e dei pensatori scientifici più importanti da lui citati. Ci ritrovo Nicola Cusano e, sotto all’angolo, Leonardus Vincius. “Architetti e ingegneri e di cose nove assidui inventori… Leonardo da Vinci compatriota nostro fiorentino, qual de scultura gettò e pittura”, e ci sono citati tutti gli sperimentatori dell’antichità, compreso quel grande Archimedes Geometra. E, sotto, la parte rubricata: problemi del presente trattato detto della Divina proportione, Aristoteles philosophus. La rubrica che riprende Averroè (il pensatore arabo che traduce Aristotele nelle lingue nostre) forse è la più significativa di tutte, perché è quella che testimonia l’appartenenza sua e di Luca Pacioli all’area della cultura aristotelica classica, quella che arrivò in Europa nel XII secolo. Finis, perché si conclude il testo scritto perfettamente dall’amanuense con una ultima indicazione dedicata al lettore: “…il dolce frutto vago e si diletto costrinse già filosofi a cercare causa de noi che pasci l’intelletto”. Poi, come in un libro di oggi, alcune righe libere tracciate per eventuali appunti e infine la sorpresa incredibile, i solidi di Luca Pacioli disegnati da Leonardo: la sfera solida, vari tetracedron pieni e vuoti, tutti sempre appesi a un filo esattamente come è appeso a un filo l’uovo di Piero della Francesca. E soltanto questo esemplare contiene i disegni di Leonardo, il che lo rende non solo più prezioso, ma spiega molto dei rapporti fra Leonardo e Luca Pacioli. Attenzione, questo è uno dei più bei libri al mondo, che ha tra l’altro una sua grandissima particolarità: mentre in tutti i codici Leonardo tira giù degli appunti con estrema rapidità ed è preciso solo per spiegare tecnicamente ciò che deve essere il suo progetto, qui c’è anche una attenta applicazione artistica ed estetica, perché è un vero regalo.

Esaedro (da disegno di Leonardo), in Luca Pacioli, De divina proportione, 1498, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana

Ottaedro vuoto, (da disegno di Leonardo), in Luca Pacioli, De divina proportione, 1498, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana

Dodecaedro pieno (da disegno di Leonardo), in Luca Pacioli, De divina proportione, 1498, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana

Sfera (da disegno di Leonardo), in Luca Pacioli, De divina proportione, 1498, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana

LE TEORIE DI ALHAZEN Nelle sue teorie sul tema della prospettiva, Leonardo andò a ripescare le idee del famoso studioso arabo Alhazen, arrivate in Occidente con un certo ritardo per via della distanza, ma anche delle differenze linguistiche, culturali e religiose tra mondo islamico e cristiano. Secondo lo scienziato, la visione della realtà che ci circonda era possibile perché da ogni minuscola particella di un ipotetico oggetto osservato si staccavano delle “scorzettine” (ovvero informazioni luminose) che viaggiavano nell’aria fino a raggiungere la nostra retina. Alhazen aveva anche già intuito che l’immagine, nel nostro occhio, dovesse risultare capovolta rispetto a quella reale: per dar seguito alla sua teoria, fece, per la prima volta nella storia a quanto è dato sapere, degli esperimenti in camera oscura. Dello studioso arabo era noto anche un problema, che prendeva il suo nome: dato uno specchio sferico e una sorgente luminosa puntiforme, trovare il punto dello specchio in cui si riflette il raggio che raggiunge l’occhio dell’osservatore. L’enigma fu risolto proprio da Leonardo, che si servì di un congegno meccanico da lui inventato per l’occasione. TORNA AL TESTO

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Raffaello, Trionfo di Galatea, particolare, Roma, Villa Farnesina

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Pittori sempre giovani L’Italia è un Paese per vecchi, nel quale un ministro può permettersi di dare del “bamboccione” ai tanti giovani che, senza lavoro, vivono ancora in famiglia. Ma chi erano e cosa facevano i ventottenni del Rinascimento? Prendiamo l’esempio di tre ragazzi nati negli anni ottanta del Quattrocento: Raffaello, Sebastiano del Piombo e Correggio.

Raffaello, caro agli dèi Cominciamo dai ritratti di Raffaello, compreso ovviamente quello della sua favorita romana, la Fornarina. È un mistero che non sono mai riuscito a spiegarmi. È del 1518-1519, e nel 1520 l’artista muore appena trentasettenne e senza colpa, come Mozart. Lei è la sua amante, con quel sorriso da furbetta e quel corpo impossibile di porcellana, irreale. Come è diversa rispetto al ritratto quasi contemporaneo di Baldassar Castiglione, il quale è invece prorompente di realtà sublimata. Negli occhi, nella fronte, nella barba, nelle vesti, anche lui enigmatico quanto lo erano già stati gli uomini ritratti fra Urbino e Toscana: metafisici, reali e irreali al contempo. Nella sostanza, un mondo che non poteva esistere se non nella sua dimensione platonica. Come pure La dama con liocorno, del 1505-1507, dove il sorriso proviene ancora dalla collaborazione con il Perugino, suo maestro, ma diventa un mistero di freddezza, quanto gli occhi cerulei, tutti cesellati secondo un modello ideale. La medesima attenzione la ritroviamo nel rubino appeso al collo. Nel complesso, un’algida e sublime perversione di Raffaello.

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Raffaello, La Fornarina, 1518-1519, olio su tavola, cm 85x60, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini

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Raffaello, La dama con liocorno, 1505-1507, tela su tavola, cm 67x56, Roma, Galleria Borghese

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Raffaello, Ritratto di Baldassar Castiglione, 1514-1515, olio su tela, cm 82x67, Parigi, Musée du Louvre

La “visione” del cavaliere è quasi più un oggetto che un dipinto. I colori provengono dalle più raffinate velature, il paesaggio è improbabile quanto perfetto.

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Raffaello, Il sogno del cavaliere, 1504 ca, olio su tavola, cm 17,1x17,3, Londra, The National Gallery

Il sogno del cavaliere del 1504 è quasi più un oggetto che un dipinto. Tutto appare intagliato, anche i colori che provengono dalle più raffinate velature, il paesaggio improbabile quanto perfetto. È contemporaneo di quell’altro cesello architettonico che è lo Sposalizio della Vergine di Brera, a Milano. Un riassunto visivo di un Quattrocento amante degli ori incisi, delle maioliche dipinte, delle miniature da collezione, quel Quattrocento condannato al rogo da Savonarola prima che ci finisse lui stesso. Raffaello è molto noto, eppure ci si può ancora ragionare. È figlio di pittore, Giovanni Santi, e si forma a Perugia dal Perugino. Cresce nella raffinata corte di Urbino, dove si legge, si conversa, si discute, si scrive. Un mondo sofisticato dove per la prima volta la figura dell’artista sta mutando: 292

non più mero artigiano, ma partecipe diretto e protagonista del mondo degli intellettuali. Alla corte di Guidobaldo da Montefeltro lavora con il padre. Nel Palazzo Ducale, oggi Galleria Nazionale delle Marche, rimane misteriosa, silente ed eterea La muta, molto più vicina a Piero della Francesca che alle dolcezze del Perugino. Nel 1504 Raffaello va a Firenze, e a un certo punto cambia ritmo, dimentica Perugino e si misura col classicismo sancito da Botticelli e Ghirlandaio, come si vede per esempio nelle Tre Grazie e nel più tardo Ritratto di Bindo Altoviti.

Raffaello, Sposalizio della Vergine, particolare, 1504, olio su tavola, cm 174x121, Milano, Pinacoteca di Brera

La deposizione del 1507, dipinta di nuovo per Perugia, è così classica da mostrare un san Giovanni con le scarpette romane, così post-fiorentina d’avere imparato a far soffiare il vento nei capelli e da raffigurare acconciature di lusso mediceo e ancora da giocare con il pathos donatelliano dei profili da medaglia. Sono archiviati per sempre i sorrisi leggermente tonti del Perugino, che ritraeva sua moglie all’infinito. Nella formazione di 293

Raffaello, Leonardo non è per niente marginale, poiché tornando in Toscana da Milano si fa portatore di un nuovo approccio alla pittura di paesaggio.

Raffaello, La muta, 1507-1508, olio su tavola, cm 64x48, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche

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Raffaello, Tre Grazie, 1503-1504, olio su tavola, cm 17x17, Chantilly, Musée Condé

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Raffaello, Ritratto di Bindo Altoviti, 1512-1515, olio su tavola, cm 59,7x43,8, Washington, National Gallery of Art

La Vergine delle rocce, influenzando innegabilmente il gusto di Raffaello. Le assonanze e le contaminazioni si possono vedere sia nel quadro del Louvre, La Vergine con il Bambino e san Giovanni Battista, conosciuta anche come La belle jardinière, prototipo delle dolcezze del mondo, con chiesa gotica sullo sfondo, sia nel notissimo Cristo benedicente della Pinacoteca Tosio Martinengo, a Brescia, dove è evidente l’analogia del gesto col San Giovanni Battista di Leonardo.

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Raffaello, La deposizione (Pala Baglioni), 1507, olio su tavola, cm 184x176, Roma, Galleria Borghese

Estremamente interessante il raffronto della produzione fiorentina raffaellesca con il dipinto l’Adorazione del Bambino, di Fra Bartolomeo, il domenicano al quale viene affidata una nuova pittura religiosa, dopo la catastrofe distruttiva di Savonarola. Rovina del mondo antico che la cristianità risana, ma anche rovina vera che è quella di Roma sullo sfondo. Curiosa la piccola Madonna Esterházy, del 1508; è come se Raffaello sapesse già quello che sarà tra poco il suo mestiere ufficiale, perché chiude il paesaggio con una serie di rovine romane. È l’anno nel quale Raffaello viene chiamato a Roma da papa Giulio II, forse un po’ stufo del cervellotico Michelangelo e di troppo Bramante. Lo assume come scrittore di Brevi apostolici e gli fa fare una carriera rapidissima, fino al massimo della 297

sovrintendenza, alla cui carica verrà nominato da Leone X nel 1515, responsabile delle collezioni antiche e gran maestro delle scelte architettoniche.

Raffaello, La belle jardinière, 1507, olio su tavola, cm 122x80, Parigi, Musée du Louvre

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Leonardo, La Vergine delle rocce, 1495-1508 ca, olio su tavola, cm 189,5x120, Londra, The National Gallery

È di quegli anni anche il ritrovamento della statua antica del Laocoonte, che rivela finalmente i segreti della muscolatura dell’antichità. Raffaello da dolce diventa muscolare. Ma rimane maniaco dei miti letterari cari agli umanisti fiorentini. Sarà il più furbo dei toscani a Roma, il banchiere senese Agostino Chigi, a portarlo via al papa, nel 1511, per farlo lavorare nella sua villa oltre il Tevere, oggi nel centro di Roma e chiamata, per via dei proprietari successivi, “la Farnesina”. Lì dipinge ad affresco la Galatea, una storia narrata da un altro toscano, Angelo Poliziano, amico di Lorenzo de’ 299

Medici e già ispiratore della Nascita di Venere del Botticelli. È il trionfo dell’Umanesimo chic. Polifemo ama Galatea e come gli altri tritoni vorrebbe stringerla in un abbraccio mitologico e palestrato ma lei, indifferente e con i capelli al vento, si lascia trascinare dai suoi due delfini su una bellissima conchiglia-pedalò, sotto i cieli dove gli amorini mirano con attenzione al cuore.

Leonardo, San Giovanni Battista, 1510-1515, olio su tavola, cm 69x57, Parigi, Musée du Louvre

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Raffaello, Cristo benedicente, 1504-1506, olio su tavola, cm 30x25, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

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Raffaello, Madonna Esterházy, 1508, tempera e olio su tavola, cm 28,5x21,5, Budapest, Szépmu˝vészeti Múzeum

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Fra Bartolomeo, Adorazione del Bambino, 1499 ca, tempera su tavola, ø cm 89, Roma, Galleria Borghese

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Raffaello, Trionfo di Galatea, 1512, affresco, Roma, Villa Farnesina

Competizioni vaticane Nel 1509 Raffaello è all’apice della sua carriera e sarà incaricato di affrescare le Stanze Vaticane. L’inizio della sua carriera a Roma è forse legato alla migliore delle tradizioni italiane, la raccomandazione: fu infatti qui che lo volle, fortemente lo volle, quel tipo di bel carattere ch’era Giulio II, il papa che amava l’armatura a cavallo per riconquistare i territori pontifici quanto amava le arti per le quali aveva scelto nientemeno che 304

Bramante come consigliere e Michelangelo come vittima. Raffaello aveva allora alcune caratteristiche assai intriganti. La prima era la sua giovine età, venticinque anni, combinata con una formazione innovativa del ruolo. Da poco, infatti, era mutata radicalmente la figura dell’artista rinascimentale. Se agli albori del rinnovamento, nel cuore del Quattrocento, l’artista visivo, come ben voleva ancora la Scolastica imperante, era uomo di arti “meccaniche” e come tale sottoposto al pensiero superiore dell’uomo di lettere, dell’umanista e del politico, a cavallo del secolo nuovo avviene una curiosa mutazione. L’artista protagonista si fa aristocratico, per formazione e talvolta pure per nascita.

Raffaello, Parnaso, 1511, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura

Leonardo è figlio d’un funzionario di rilievo della Repubblica fiorentina e per questo motivo verrà raccomandato direttamente dal Magnifico per andare a lavorare presso l’amico Ludovico il Moro, a Milano. Michelangelo, figlio del podestà di Chiusi, era in tal senso il suo opposto ed ebbe addirittura la fortuna di formarsi in quelle scuole dei Giardini medicei dove venivano educati alla letteratura i futuri papi Leone X, figlio del Magnifico, e Clemente VII, suo cugino, assieme al giovane Alessandro Farnese, mandato lì per allontanarlo dagli intrighi e dalla galera di Castel Sant’Angelo, lui che diventerà successivamente papa Paolo III. Senza queste buone relazioni d’adolescenza, la libertà di Michelangelo nei confronti del papato, e forse pure i suoi capricci, non sarebbero mai stati tollerati. Il caso 305

Raffaello Sanzio non è dissimile. Come abbiamo detto, si trova un babbo che lo fa crescere in una corte della quale non è solo pittore ufficiale ma pure intellettuale di punta con la sua Cronaca rimata del 1492. In fondo, avere scelto loro tre come tartarughe ninja non fu idea del tutto sbagliata: rappresentano il prototipo dell’artista moderno, guai e follie compresi. Ecco perché il primo incarico di Raffaello a Roma, già notissimo per capolavori compiuti nell’Italia tosco-umbra, è quello di scrittore di Brevi apostolici con corrispondente cospicua remunerazione. Si trova ad avere un “posto” burocratico affidatogli da Giulio II, che si farà ancora più articolato in una serie di incarichi paralleli dopo l’elezione di Leone X nel 1513, fra i quali il non minore è quello di Sovrintendente alle Antichità Romane. Sarà lui a continuare il progetto della pianta di San Pietro dopo la morte di Bramante. Architetto, scrittore, burocrate, pittore, tutto concorre a fare di lui l’eccellente, il giovane, il ricchissimo. L’opposto del contorto Michelangelo che, negli stessi anni, steso sulla schiena, dipinge le volte della Sistina, e che lui va a sbirciare per copiarlo e abbandonare lo stile dolce alla Perugino per farne uno nuovo, più muscolato. Curiosa la competizione fra due figli di buona famiglia, appartenenti alla medesima generazione ma con biografie sì diverse che l’uno andrà a morire in giovane età come Mozart, e l’altro quasi novantenne. Michelangelo sempre sofferente del non avere la medesima facilità e felicità del completare che rese famoso il più noto dei fiorentini a Roma, il Botticelli; Raffaello che sin dall’inizio è principe dei pittori, e pure della mondanità. Raffaello con la Fornarina e tante altre, Michelangelo con la misteriosa Vittoria Colonna che lo avvicina ad ambienti non lontani dalla Riforma.

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Raffaello, Parnaso, particolare con Orazio

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Michelangelo, Profeta Ezechiele, 1511 ca, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina

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Antonio Canova, Paolina Borghese, particolare, 1805-1808, marmo, cm 160x200, Roma, Galleria Borghese

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Raffaello, Parnaso, particolare con Calliope, 1511, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura

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Raffaello e aiuti, Incendio di Borgo, 1514 ca, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza dell’Incendio

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Sandro Botticelli, Punizione dei ribelli, 1480-1482, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina

Ed è questo, forse, pure il motivo per il quale l’uno dipinge il soffitto e l’altro la ben più comoda parete degli stessi uffici dove opera, quella Stanza della Segnatura dove ai documenti vaticani viene apposto il sigillo e dove si articola la biblioteca. Giulio II, che non tollerava neanche da lontano l’idea di soggiornare nei luoghi criminali del suo predecessore Borgia, aveva cambiato le destinazioni degli appartamenti e aveva all’uopo chiamato una scuderia intera composta da Signorelli, Perugino, Lotto, il Sodoma, Bramantino e Peruzzi. Ma si sa che il papa Della Rovere, da buon Generale dei francescani, non scherzava affatto: a tutto il gruppo sostituisce il giovanotto e gli fa pittare sopra le opere preesistenti di Bartolomeo della Gatta e Piero della Francesca. Allora andavano così le cose; si decideva in fretta. Nel Parnaso, riprende già Raffaello la contorsione muscolata di Michelangelo nelle due figure che abbracciano la finestra, inventa un Dante che da allora si fa iconografia ufficiale e definitiva, e gioca con profili pittorici che sembrano uscire da bassorilievi antichi anche se quella sua attenzione alla pittura di profilo aveva già raggiunto l’apice nella 312

Deposizione ancora dipinta a Perugia, quando tradisce le boccucce fini alla Perugino che lo avevano ossessionato. Eccole qua le muse dell’antichità che tornano protagoniste attorno ad Apollo. Quanto influenzeranno, tre secoli dopo, Calliope ed Erato i profili di David e le fantasie di Ingres! Fra trecento anni, Calliope diventerà la Paolina Borghese di Canova e la Madame Récamier di David. Saffo e Orazio sono invece innegabilmente presi in prestito da Michelangelo, non solo nella loro fisicità più palestrata, ma pure nel cangiante della veste del poeta. Raffaello è in quegli anni ciò che sarà Picasso quattro secoli dopo e come lui avrebbe potuto dire: “Je ne cherche pas, je trouve”, nel senso che assorbiva tutto ciò che poteva trovare; e, così come aveva assorbito il sorriso del Perugino, assorbe la confusione della scena di Botticelli, giù nella Sistina, per farne la confusione dell’Incendio di Borgo, ma di quell’effeminato di Botticelli non copia la forma dei corpi. Questi li riprende direttamente dal toscano impegnato sui trabattelli della Sistina. E, come per farsi perdonare, forse è Michelangelo che raffigura nella Scuola di Atene, in versione ironicamente pre-platonica come Eraclito o forse Democrito, ma sostanzialmente contorto e arrovellato nel proprio pensiero; tra l’altro lo pone lì ad affresco già finito: non è presente nel cartone preparatorio che si comprerà un secolo dopo il cardinal Borromeo per l’Ambrosiana a Milano. E poi, per evitare ai posteri ogni ipotesi di confusione, gli mette gli stivali cinquecenteschi e non i calzari antichi o i piedi nudi degli altri personaggi. Per quanto concerne le sottili grisaille che corrono sotto le esplosioni cromatiche, quanto devono queste all’opera di Luca Signorelli a Orvieto, dove fugacemente passò scendendo a Roma! Ma il tutto si riassume in una formidabile riconversione estetica che lo porterà alla fine della sua mutazione, al culmine d’un esperimento troncato − in piena gloria e mentre preparava i fasti della rinnovata Farnesina − certo non dagli eccessi amorosi che gli attribuiva l’invidioso Vasari ma forse solo da una banale malattia o forse dalla volontà degli dèi che chiamano presto chi a loro è caro.

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Raffaello, La scuola di Atene, particolare, 1509, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura

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Raffaello, La scuola di Atene, intero, 1509, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura

Il “romantico” Sebastiano Ben diversa la sorte e la storia del veneziano Sebastiano Luciani, detto del Piombo, due anni più giovane di Raffaello. Arriva a Roma nel 1511, ventiseienne, chiamato dal banchiere Agostino Chigi, e per lui lavorerà fuori dall’ambiente papale. Degli stessi anni è il Ritratto del cardinale Ferry Carondelet e del suo segretario, legato papale di Massimiliano I, inviato in Italia dalla principessa Margherita d’Austria come ambasciatore per le Fiandre. L’impostazione sa ancora molto di Venezia: il tappeto d’oriente che andava di moda a casa sua, l’ordine delle colonne, il paesaggio.

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Sebastiano del Piombo, Polifemo, 1512 ca, affresco, Roma, Villa Farnesina

Potente il ritratto del militare: armatura leggermente fuori moda e grinta di un’Italia in costante movimento. Sarà sicuramente piaciuto al committente. Si tratta di opere che fanno capire molto dell’artista. Arrivato a Roma con più talento che fortuna, si trova a misurarsi con il trionfante urbinate in casa Chigi, nella Villa Farnesina appena oltre il Tevere. È amico e assistente di Michelangelo, cosa che forse un po’ lo reprime, ma gli assicura una buona serie di commissioni. Appena precedente all’arrivo di Sebastiano a Roma è il potente capolavoro il Giudizio di Salomone, una dichiarazione d’intenti e di talento: prospettive architettoniche con un gruppo che vuole competere con la 316

Scuola d’Atene di Raffaello; personaggi che fra poco verranno disposti in modo analogo dal coetaneo Tiziano a Venezia, nella Pala Pesaro. Sebastiano del Piombo è curioso anticipatore del pathos che sarà di moda dopo la metà del secolo, con gli orizzonti crepuscolari. Ermetico, quasi romantico, nel Cristo che porta la croce e anche nella Flagellazione. Magistrale nella Pietà di Viterbo.

Sebastiano del Piombo, Ritratto virile in armatura, 1512 ca, olio su tela, cm 87,6x66,7, Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art

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Sebastiano del Piombo, Ritratto del cardinale Ferry Carondelet e del suo segretario, 1510-1512 ca, olio su tavola, cm 112,5x87, Madrid, Museo ThyssenBornemisza

Genialmente precursore ancora, perché alcuni dei suoi personaggi sembrano già pronti per una galleria ottocentesca di ritratti. Come sarà stato felice Anton Francesco degli Albizzi, ritratto in posa determinata e retorica. E come sarà stato contento anche Andrea Doria di apparire così severo e potente sopra il fregio antiquariale che raffigura l’antico rostro della nave romana. Quello di Sebastiano è un successo crescente in una Roma calante, quando si fa sentire il peso della pittura del nord e si può ormai essere geni anche in provincia: è amato dagli acquirenti, ma poi dimenticato dalla storia e riscoperto di recente.

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Sebastiano del Piombo (?), Giudizio di Salomone, 1508-1509, olio su tela, cm 208x318, Kingston Lacy, National Trust

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Sebastiano del Piombo, Ritratto di Anton Francesco degli Albizzi, 1525, olio su tela, cm 134x98, Houston, The Museum of Fine Arts

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Sebastiano del Piombo, Ritratto di Andrea Doria, 1526, olio su tela, cm 153x107, Genova, Palazzo del Principe

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Sebastiano del Piombo (copia da), Flagellazione, 1536-1540, olio su tavola, cm 95x73, Dresda, Gemäldegalerie

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Sebastiano del Piombo, Cristo che porta la croce, 1516, olio su tela, cm 12x100, Madrid, Museo Nacional del Prado

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Sebastiano del Piombo, Pietà, 1515-1516, olio su tavola, cm 260x225, Viterbo, Museo Civico

I ritmi precisi del Correggio l’emiliano Antonio Allegri detto il Correggio è il terzo ragazzo della generazione anni ottanta. È nato a Correggio, appunto, in provincia di Reggio Emilia, nel 1489. Anche lui a venticinque anni è già artista maturo, ma fra i tre è l’unico che non ha lavorato a Roma, dove però è probabilmente stato agli inizi del Cinquecento. In questo momento storico non si poteva sfuggire al confronto 324

con l’antico, che a Roma era più sentito che altrove. È significativo confrontare il Martirio dei santi Placido, Flavia, Eutichio e Vittorino del Correggio, del 1524, con la Deposizione di Raffaello, del 1507. Il movimento in Raffaello rimane antiquariale, come quello che si può scorgere guardando i grandi marmi antichi romani. Quello di Correggio è tutta un’altra cosa: pare sempre influenzato da un curioso vento che agita tutti i suoi personaggi. Nella Madonna del latte, capolavoro oggi a Budapest, compare la stessa movimentazione, come soffiata.

Correggio, Martirio dei santi Placido, Flavia, Eutichio e Vittorino, 1524 ca, olio su tela, cm 160x185, Parma, Galleria Nazionale

Nel Noli me tangere, del 1525, inserisce quella che sarà una sua cifra perenne, una concezione incredibilmente geometrica e tesa delle composizioni. In tutti i suoi quadri dal gusto fresco ci sarà sempre una linea 325

trasversale precisa, una manina che esce e la rompe, un piedino che la riequilibra. Sembra un pensiero analogo a quello di Kandinskij all’inizio del XX secolo. Correggio imprime ai suoi lavori un ritmo inconfondibile, un movimento perfetto tondo con punti di equilibrio densi di significato. Nella Venere e Cupido spiati da un satiro sono tutti disposti ancora una volta secondo ritmi precisissimi: il satiro che li guarda e gira per un verso, lei per il verso opposto e il Cupido addormentato è come un piccolo contrappunto nella stessa direzione, in un perfetto rapporto tra geometria, composizione e musica. E il gioco del movimento continua nell’Educazione di Cupido della National Gallery di Londra.

Correggio, Noli me tangere, 1525, olio su tavola, cm 130x103, Madrid, Museo Nacional del Prado

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Correggio, Madonna del latte, 1524 ca, olio su tavola, cm 68,5x57, Budapest, Szépmu˝vészeti Múzeum

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Correggio, Venere e Cupido spiati da un satiro, 1524-1527 ca, olio su tela, cm 188x125, Parigi, Musée du Louvre

La sua Testa di Cristo viene dalla lezione veneta imparata anche da Sebastiano del Piombo, il rapporto con l’elegante ordine raffaellesco è totalmente svanito, nascono altre eleganze, che provengono dalla cultura del nord. Solo nel ritratto Correggio tenta un inutile dialogo con la cultura estetica perfetta, quasi neoplatonica, di Raffaello; i personaggi diventano di cera o di porcellana. Il Ritratto di gentildonna ha un’importanza particolare: è aulico quanto lo deve essere, perché raffigura la protettrice di provincia: Veronica Gambara, principessa di Correggio, vedova governante il mini stato dal 1518, nonché 328

protettrice nelle sue terre dell’arte e degli artisti. Poetessa amica di Bembo, del Bandello, dell’Ariosto, dell’Aretino è apprezzata, due secoli dopo, da un altro conte provinciale di buon successo letterario: Giacomo Leopardi. Così scrive lei, già come nell’Ottocento, intimamente preromantica: “Occhi lucenti e belli Com’esser può che in un medesmo istante Nascan da voi nove sì forme e tante?”.

Correggio, Testa di Cristo, 1530 ca, olio su tavola, cm 28,6x23,5, Los Angeles, J. Paul Getty Museum

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Correggio, Ritratto di gentildonna, 1518 ca, olio su tela, cm 103x87,5, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage

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Correggio, Educazione di Cupido, 1525, olio su tela, cm 155,6x91,4, Londra, The National Gallery Nel frattempo il mito era emigrato alla corte di Francia dove, a Fontainebleau, Rosso Fiorentino lo trasporta fra gli stucchi e risolve la questione facendo cacciare al putto l’avida serva. Primaticcio ne realizza un affresco, rendendolo leggermente più gotico. Anni dopo, Rembrandt riprende il tema, ma essendo egli sempre afflitto da questioni di danaro, si limita a una luce dorata, la sua nota specialità. Ma attenzione a credere che in terra fiamminga abbiano copiato gli italiani: sono loro da sempre stati concorrenti commerciali delle nostre repubbliche. Infatti il primo a correre in una direzione aurea della copula è il noto Mabuse, il Jan Gossaert, nel 1527, e nel 1603 Hendrick Goltzius riprende con buon stile il tema lasciando alla vecchia il saggio compito di raccogliere le monetine della fecondazione per riporle in un salvadanaio. Bisogna aspettare la maestria di Gustav Klimt per ritrovare una

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pioggia di monete d’oro, questa volta sconcertanti nella loro precisione direzionale, ma va tenuto conto che nel frattempo era intervenuto il pensiero di Sigmund Freud a chiarire il significato erotico dei miti. Vi è un’ultima considerazione, poco seria ma inevitabile: Danae per i milanesi si pronuncia danée, il che non viene ovviamente dal denarus latino, ma non tutti lo sanno.

Rembrandt, Danae, 1636, olio su tela, cm 185x202,5, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage Ecco il motivo per il quale, talvolta, i brianzoli pensano che col danaro si possano ingravidare le fanciulle.

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Francesco Primaticcio, Danae, 1533-1540, affresco, Fontainebleau, Galleria di Francesco I

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Mabuse, Danae, 1527, olio su tavola, cm 114,3x95,4, Monaco, Alte Pinakothek

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Hendrick Goltzius, Danae dormiente, 1603, olio su tela, cm 173,3x200, Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art

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Gustav Klimt, Danae, 1907, olio su tela, cm 77x83, Vienna, Collezione privata

Amante del suo piccolo contado e solo di quello, fedelissima al marito defunto. “Salve mia cara patria, e tu, felice, Tanto amato dal ciel, ricco paese.” Perché in quella provincia era già avvenuta l’emancipazione dal potere centrale e quella delle donne: Isabella d’Este, la cognata Lucrezia Borgia, e addirittura la badessa di Parma.

Il gusto della badessa Giovanna 336

Gli appartamenti della badessa Giovanna Piacenza nel Monastero di San Paolo a Parma sono un campione perfetto per analizzare l’evoluzione del gusto in questo primo ventennio del Cinquecento, di cui è un esempio potentissimo il soffitto della camera affrescata dal pittore parmigiano Alessandro Araldi. Un gioco infinito della mente più che della qualità pittorica, dove si riassumono tutti i temi possibili, in un modo abbastanza particolare perché è come se qui si tentasse di concentrare tutto ciò che era successo nel Quattrocento. Il centro della stanza apre sui cieli esattamente come nel meglio di Mantegna, le grottesche sono quelle che vanno di moda ormai ovunque e sono anche particolarmente ironiche, i putti sono seduti così scomodamente e preoccupati sulle chimere, da far sorridere. E il tutto contiene un’infilata di cicli narrativi posti l’uno sopra l’altro dove giocano tutte le follie di allora. Un cocktail curioso fra Antico, Nuovo Testamento e immagini alla Torquato Tasso. La scena della chiamata di Pietro somiglia un po’ alla famosa immagine di Raffaello e la strage degli innocenti sembra invece tornare indietro di mezzo secolo, in direzione della battaglia degli uomini nudi. Invece i moniti per le monache, nelle lunette, sono ancora più curiosi: la Caritas mi colpisce non solo perché afferma il diritto di porgere il seno al povero disperato con i ferri autentici ai piedi, ma perché tutta la scena si svolge all’interno di un paesaggio che sembra molto più moderno dell’epoca, tutto come nel grande Quattrocento, l’unicorno e il trionfo in versione monacale. Un’esaltazione perenne dell’horror vacui che corrisponde in pieno all’esaltazione culturale di quegli anni, ma che si conclude in questa stanza con un porticato dipinto dal quale scorgiamo spazi lontani e infiniti.

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Alessandro Araldi, Volta delle grottesche, 1514 ca, affresco, Parma, Monastero di San Paolo, Appartamento della badessa, Camera delle Grottesche

Tra la camera dell’Araldi e quella del Correggio vi sono appena cinque anni di distanza, ma cambia il mondo, si passa dalla super-decorazione alla iper-pittura. Non si è cancellata la tradizione quattrocentesca della passione assoluta per la verzura al soffitto, ma il tutto vuole avere un gioco unitario e ogni elemento esiste in quanto è economico a quell’altro. I lunotti che descrivono i quattro elementi – acqua, terra, aria e fuoco – come tutto il resto della stanza decorata a fregio, si pongono sopra delle doppie teste di ariete le quali reggono un drappo sottilissimo nel quale, con naturalezza e morbidezza totali, sono appoggiati gli oggetti che agli 338

elementi si riferiscono. Il piatto d’oro per i frutti della terra è poggiato perfettamente e incide meno nel tessuto della grande brocca dell’acqua. In questo mondo dove si tratta di far combaciare l’antichità e il cristianesimo è naturale che siano presenti Saturno, Giove e le Parche, ed è comprensibile che le Parche siano rappresentate sopra una tenda che contiene la scure che taglia la vita. Ultima a destra è la dea romana, la Rea Silvia, almeno che non si tratti di Ino con un Bacco bambinetto.

Correggio, particolare della decorazione della Camera della Badessa, 1519, affresco, Parma, Monastero di San Paolo

Sopra, i putti giocano appassionatamente con i cani, compiendo anche piccole carognerie, come legargli la bocca. Si preparano tutti questi putti ovviamente alla caccia con Diana, rappresentata con il suo carro con le frecce sopra al camino in una versione molto meno salmodica da Antico Testamento di quella della stanza di cinque anni prima. È compiuta la rivoluzione emiliana del Rinascimento.

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Correggio, particolare della decorazione della Camera della Badessa

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Correggio, particolare della decorazione della Camera della Badessa

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DANAE, DONNE E DENARI Correggio è innegabilmente un esperto delle copule di Giove. Non lo è ovviamente in quanto maniaco sessuale, ma perché non può fare a meno delle Metamorfosi di Ovidio, testo obbligatorio per ogni artista che si rispetti. L’inizio della faccenda è per certo legato alle manie intellettuali dei fiorentini del Quattrocento, quando Botticelli prende le indicazioni dagli umanisti per dipingere la Nascita di Venere. Ma la mania fa scuola, se nel medesimo 1531 la pioggia dorata di Giove ispira sia Correggio, l’artista premanierista per eccellenza, sia Tiziano, dove lo spirito mercantile del cadorino porta la serva a raccogliere per lei stessa la pioggia del prezioso metallo in versione monetaria. Tiziano riprende il tema successivamente e, per evitare l’appropriazione indebita, sostituisce la vecchia con un putto. E Tintoretto lo declina con la sua solita attenzione a una fisicità più eterea e lagunare, non senza una sottile malizia in quanto sul tappeto pone come testimone il cagnetto non suo ma del Tiziano e comunque la fantesca, qui assai fresca e giovane, ne approfitta per portarsi via una quota della fortunata regalia. Lo fa Tintoretto il malizioso con la stessa ironia con la quale presenta Leda con GioveCigno e la cameriera che, questa volta, è pronta a mettere il cigno in gabbia per riportarlo in fattoria; a meno che l’interpretazione non debba essere in questo caso totalmente dialettale e si possa intendere come “metighe l’oseo in gabia”. Tanti anni dopo, a riprova che il mito dura, Artemisia Gentileschi nel 1612 riprende la medesima scena della cupidigia ancillare, mentre suo padre Orazio nel 1623 tornerà alla faccenda tizianesca della serva che ne approfitta. Il cagnetto è spesso presente nella mitologica rappresentazione; infatti torna in Tiepolo dove ringhia all’aquila-Giove mentre Giove vero e proprio, barbuto sulla nuvola, lancia la sua pioggia di monete d’oro, dove ancora una volta chi si dimostra avida a raccoglierla è la solita arcigna vecchiaccia. Siamo ormai negli anni della cellulite vincente.

Correggio, Danae, 1531-1532, olio su tela, cm 161x193, Roma, Galleria Borghese

Tiziano, Danae, 1544-1546, olio su tela, cm 118,5x170, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte

Giambattista Tiepolo, Giove e Danae, 1736, olio su tela, cm 41x53, Stoccolma, Universitet Konsthistoriska Institutionen

Tintoretto, Danae, 1570 ca, olio su tela, cm 142x180, Lione, Musée des Beaux-Arts

Orazio Gentileschi, Danae, 1623, olio su tela, cm 228,5x162, Cleveland, Cleveland Museum of Art

Artemisia Gentileschi, Danae, 1612 ca, olio su rame, cm 41,3x52,7, Saint Louis, Saint Louis Art Museum

GIROLAMO SAVONAROLA Ferrarese di origine, il frate domenicano Girolamo Savonarola (1452-1498) arrivò a Firenze per la prima volta nel 1482. Qui, dopo qualche anno, iniziò a lanciare le sue invettive contro la Chiesa, colpevole a suo dire di essere corrotta e bisognosa di venire “flagellata e rinnovata”. I cattivi costumi del tempo lo portarono a ritenere che dovesse essere imminente quanto necessaria una nuova Apocalisse che potesse distruggere il male alla radice. Dopo un paio di anni a Ferrara, tornò nuovamente a Firenze nel 1490, non senza aspri scontri con Lorenzo il Magnifico. L’anno successivo venne eletto priore del convento di San Marco, che rese autonomo dalla Santa Sede e riformò, privandolo di ogni bene materiale e vendendo il tutto per dare il ricavato ai poveri. Quando nel 1494 Carlo VIII di Francia invase l’Italia, Savonarola stabilì un’alleanza con il sovrano affinché Firenze fosse liberata dai Medici. Mentre si inasprivano sempre più i suoi screzi con la Santa Sede, nel 1497 il frate organizzò un rogo delle vanità, facendo bruciare oggetti d’arte, gioielli, statuine e qualunque altra cosa egli ritenesse impura e in grado di corrompere gli animi. Pochi mesi dopo venne scomunicato; l’anno successivo, venuta meno la protezione del sovrano francese, fu arrestato, torturato, impiccato e quindi messo al rogo. Solo nei secoli seguenti la sua figura venne riabilitata; oggi, per la Chiesa, è servo di Dio. TORNA AL TESTO

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AGOSTINO CHIGI Chiamato non a caso “il Magnifico”, Agostino Chigi era un ricco banchiere e imprenditore, nonché appassionato di lusso, sfarzo e soprattutto di arte. Da mecenate qual era, commissionò opere ad alcuni tra i migliori artisti del suo periodo, compresi Raffaello, Sebastiano del Piombo e il Sodoma. Era lui a occuparsi della gestione delle finanze vaticane, e in svariate occasioni prestò denaro ai più potenti signori dell’epoca. Questo lo rese famoso e molto amato nell’ambiente ecclesiastico, anche per la sua usanza di organizzare feste e divertimenti per religiosi e aristocratici, ospitandoli nella sua sontuosa residenza, quella Villa Farnesina che egli stesso fece costruire dal giovane architetto Baldassarre Peruzzi. TORNA AL TESTO

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Michelangelo, David, particolare, Firenze, Galleria dell’Accademia

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Michelangelo, dove l’idea si fa materia la fede si fa militanza Il lettore mi dovrà perdonare l’impertinenza di una rilettura, apparentemente eterodossa, del percorso di una vita lunghissima che fece di un genio un esempio di creatività. Contorto egli talvolta, sincero sempre, letterato sofisticato, pensatore emancipato, talento totale.

La scultura neoplatonica In San Pietro in Vincoli a Roma c’è una tomba, quella di Giulio II, che racchiude una scultura di Michelangelo perfettamente completata. È il Mosè, ultimato nel 1516 appena dopo la morte del papa della Rovere. Passarono quasi trent’anni tra la scultura e il completamento del sepolcro papale, deciso finalmente da Paolo III Farnese. Perché c’è voluto così tanto tempo per finirlo? E perché mai questo Mosè in trono? Il monumento che vediamo oggi è estremamente ridotto rispetto al progetto iniziale, previsto per San Pietro in Vaticano. Le due statue laterali, Lia e Rachele, sono state ultimate da Raffaello da Montelupo, allievo di Michelangelo, forse perché a lui non gliene importava più nulla. La statua del papa, sopra il Mosè, è di Tommaso Boscoli, altro suo scolaro. Il profeta, guida illuminata, è l’ultima opera di Michelangelo giovane, potentissimo nel suo vezzo da elegantone mentre si passa le dita fra le ciocche della barba fluente. Massima esaltazione della muscolatura maschile, opera somma che ha commosso tutti, anche il severo Sigmund Freud, e sulla quale Michelangelo Antonioni, forse per via dell’omonimia, ha girato il suo ultimo cortometraggio.

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Michelangelo, Tomba di Giulio II, 1505-1543, marmo, Roma, San Pietro in Vincoli

In fondo San Pietro in Vincoli è il simbolo di tutti i vincoli dai quali Michelangelo provò a liberarsi nella sua vita, la sua nemesi. In origine il monumento era stato concepito come una piramide di statue da porre in San Pietro, praticamente dove poi avrebbe realizzato la cupola, un colossale mausoleo piramidale “che di bellezza e di superbia e di grande ornamento e ricchezza di statue passava ogni antica e imperiale sepoltura”. Il papa voleva un’opera che lo celebrasse come un faraone dei tempi moderni, Michelangelo voleva soprattutto farne una summa della scultura, che in quegli anni a Roma era l’arte che più si richiamava alla classicità, e vedeva nell’importanza dell’impresa un’occasione per dar prova a tutti delle sue capacità. 353

Michelangelo, Progetto per la tomba di Giulio II, inchiostro bruno su carta, cm 24x38, Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

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Michelangelo, Mosè, particolare della tomba di Giulio II, 1513-1516, marmo, altezza cm 235, Roma, San Pietro in Vincoli

Si gettò a capofitto nell’impresa e passò otto mesi a Carrara per scegliere i marmi, ma dopo alcuni mesi di lavoro, nell’aprile del 1506, i lavori s’interruppero per la fuga improvvisa di Michelangelo da Roma quando capì che la tomba non era più il centro dell’interesse del papa aprendo quella che per l’artista fu la vera e propria tragedia della sua vita. I disegni per la tomba di Giulio II sono emblematici di come Michelangelo identificasse l’idea con il progetto, un rapporto tipico del pensiero neoplatonico. I neoplatonici costituivano la crema dell’ambiente culturale fiorentino, in quella scuola dei Giardini medicei, una sorta di accademia artistica dove si 355

era formato Michelangelo, accolto da Lorenzo il Magnifico a soli quattordici anni. E dove il giovane aveva avuto modo di conoscere studiosi e letterati come Pico della Mirandola, Poliziano e Marsilio Ficino, influenzati dai filosofi che venivano da Costantinopoli portando la riscoperta della cultura neoplatonica, come il cardinale Bessarione e il teologo Gemisto Pletone. Quest’ultimo era giunto a Firenze nel 1438 da Costantinopoli a seguito dell’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo e aveva tenuto un ciclo vastissimo di conferenze, che ebbe un’audience quasi televisiva, nelle quali spiegava le tesi di Plotino esaltando l’ellenismo nel confronto con le religioni abramitiche, quella giudaica e quella cristiana, sostenendo addirittura che la visione ellenistica era l’unica pacifica possibile. Poi se ne andò a morire quasi centenario in Grecia. Le sue ceneri furono recuperate da Sigismondo Malatesta, il cattivo antipapalino per eccellenza, e portate nel Tempio Malatestiano a Rimini come a voler contaminare per sempre la cultura umanistica. Plotino era stato un filosofo del III secolo che, seicento anni dopo Platone e Aristotele, aveva tentato di combinare il pensiero dei due massimi filosofi e di superarlo. Confutò la conoscenza aristotelica, in base alla quale il sapere proviene dalla sperimentazione dei sensi, che è solo apparenza. Contemporaneamente andò oltre il dualismo platonico, quello che prevede il soggetto e l’oggetto, il pensiero e l’essere. Per lui tutto discende dall’Uno, dall’En, e quando l’uno riflette su se stesso, riflette se stesso, genera l’intelletto. L’intelletto ne è quindi il prodotto, l’ex-stasi, l’estasi, quella che ne proviene, un po’ come se l’Uno fosse il Sole, l’intelletto la luce che ne proviene, e l’anima del mondo la Luna che rimanda questa luce. Plotino era stato tradotto, su richiesta di Cosimo il Vecchio da Marsilio Ficino, uno dei maestri del pensiero di Michelangelo.

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Raffaello, La scuola di Atene, particolari con Platone, 1509, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura

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Raffaello, La scuola di Atene, particolari con Plotino, 1509, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura

Così come sostiene il mio amico Claudio Strinati, eminente studioso della romanità di Roma: “L’idea è eterna per forza perché è immutabile, altrimenti è opinione, non idea. C’è una bella distinzione tra le due, infatti guarda caso, quando è stato abbandonato nel mondo artistico questo radicamento all’idea platonica, è subentrato il più semplice principio dell’opinione, da cui scaturisce il Barocco, perché il Barocco è tutto fatto di punti di vista diversi. Il punto di vista è l’opinione, l’idea non è un punto di 358

vista, l’idea è e basta. Per esempio, io non posso dire che credo in Dio perché questo è il mio punto di vista, sarebbe un’eresia dal punto di vista della dottrina, quindi dirò che credo in Dio perché ci credo, punto”. E Michelangelo in Dio ci crede profondamente, da vero neoplatonico.

Le idee neoplatoniche si fanno di marmo La prima scultura che tutti conoscono e ammirano di Michelangelo a Roma in realtà è la Pietà in San Pietro. Realizzata all’età di ventitré anni, gli fu commissionata nel 1498 dal cardinale francese Jean de Bilhères de Lagraulas. Così era descritta negli anni Trenta del secolo passato dalla Enciclopedia Treccani: “Al tema che Donatello nel Pergamo di San Lorenzo a Firenze aveva portato a toni di insostenibile veemenza e che egli stesso doveva improntare a dolore più che umano, Michelangelo in quei suoi anni di classica serenità non poté dare che raccoglimento e dolcezza. Compose la Madonna in ampi e quasi oziosi ravvolgimenti di pieghe per adagiare anche più delicatamente il Cristo nel grembo materno in atto di abbandono quasi infantile, come nel sonno. Diede al suo volto ancor giovane per significare com’egli stesso commentava la sua castità, non gemiti ma umiliata silente rassegnazione. E tutto coordinando a quell’emozione di dolore quieto e composto ricercò in ogni finezza di piani e di giunture le membra del Redentore. Accarezzò ogni superficie con delicatezza di fattura consona all’intimo”. Oggi guardiamo la statua in modo molto diverso. L’iconografia è innegabilmente legata al gotico francese internazionale: il cardinale committente proviene dalla Francia meridionale e lì ad Avignone è famosissima la Pietà di Enguerrand Quarton, che riprende un tema classico della cultura visiva d’Oltralpe. L’iconografia viene totalmente rivista da Michelangelo, così il volto della Madonna addolorata è quello d’una fanciulla, più giovane del figlio che tiene fra le sue braccia. Quando Vasari, commentando la Pietà, chiese a Michelangelo come mai la Vergine fosse più giovane del figlio, lui rispose che quella era l’immagine dell’assoluta intoccabilità, della perennità dello stato di purezza virginale, antecedente al momento in cui l’essere femminile diventa donna. L’idea della purezza della Madonna travalica il tempo, mentre il figlio è cristallizzato in un’età storica, perché Gesù, secondo le Sacre Scritture è morto a trentatré 359

anni. Questa verità, che è la proiezione dell’eterno, è quella raffigurata da Michelangelo nella Pietà.

Enguerrand Quarton, Pietà di Avignone, 1455 ca, tempera e oro su tavola, cm 163x218, Parigi, Musée du Louvre

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Michelangelo, Pietà, particolare, 1498-1499, marmo, altezza cm 174, Città del Vaticano, basilica di San Pietro

Nello stesso modo proviamo allora una rilettura dell’opera immediatamente successiva: il David, scolpito fra il 1501 e il 1504, un incarico prestigioso ricevuto a ventisei anni. Da anni giaceva presso il Duomo un gran blocco di marmo, era stato abbozzato per la prima volta da Agostino di Duccio ben quarant’anni prima e poi da Bernardo Rossellino un quarto di secolo prima. Il blocco era pure difettoso. Ne risultava un “mammozzo” che i fiorentini chiamavano il Gigante. Michelangelo affronta il caso, si rinchiude dietro una palizzata e realizza il capolavoro. Quando è pronto, la Repubblica fiorentina lo acquisisce, nella persona del gonfaloniere Pier Soderini, e viene istituita una commissione per 361

decidere dove collocarlo. Ne fanno parte gli artisti più famosi del momento, ovviamente fiorentini. Leonardo, che non ama Michelangelo, propone di esporlo in una nicchia della loggia in piazza della Signoria. Botticelli lo vuole vicino al Duomo, ma vince la proposta di Filippino Lippi di metterlo accanto alla porta di Palazzo Vecchio, laddove tuttora sta la sua copia. E così il David diventa il simbolo della giovane Repubblica fiorentina che sfida i nemici. L’esempio del Rinascimento trionfante, dove la forma è stata trovata in una materia anche non perfetta, perché è la forma a essere perfetta in quanto viene dall’idea. Così nasce per Michelangelo la teoria della scultura fatta “nel cavare”.

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Michelangelo, Pietà, intero, 1498-1499, marmo, altezza cm 174, Città del Vaticano, basilica di San Pietro

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Michelangelo, David, 1501-1504, marmo, altezza cm 410, Firenze, Galleria dell’Accademia

L’idea della creazione come “estrazione” è un altro concetto di derivazione neoplatonica. La forma, sia essa scultorea, pittorica o architettonica, nasce dall’informe. L’artista mette la mano dentro l’inerte e tira fuori la forma, come un prestigiatore dal suo cappello tira fuori un coniglio. È un concetto assimilato da Michelangelo nel giardino neoplatonico di Firenze dove aveva studiato la scultura classica e la scultura a tuttotondo, fra gli altri, con Bertoldo di Giovanni, grande maestro allievo di Donatello. A fine Ottocento il David viene esposto nell’Accademia, dove appare come la statua di un dio greco in un tempio. Il David, che è per i fiorentini il simbolo laico della loro indipendenza, per gli uomini del XIX secolo è il 364

simbolo dell’antichità greca ritrovata, quindi addirittura pagano. A mio avviso per Michelangelo non è né l’uno né l’altro, lui ha appena concluso la più cristiana delle opere, la Pietà. David non è altro che il capo della stirpe dalla quale viene Gesù, il Davide descritto nel martirologio che trasportò nella città di Gerusalemme l’Arca dell’Alleanza del Signore, a cui il Signore stesso giurò che la sua discendenza sarebbe durata in eterno, perché da essa sarebbe nato Gesù Cristo secondo la carne. Per Michelangelo il David è testimonianza di fede cristologica. È nudo come è nudo il Cristo da lui scolpito in legno a diciassette anni per la chiesa di Santo Spirito a Firenze. E l’Arca dell’Alleanza che lui porta a Gerusalemme è quella che è stata affidata a Mosè. Così torniamo alla prima opera di cui abbiamo parlato, a quel Mosè ancora legato al momento giovanile dell’artista, che guarda esattamente con lo sguardo dell’attesa del terrore, e nello stesso tempo del dominio, che è del David. Negli anni dieci del Cinquecento il Mosè era finito, gli verrà dato un posto però solo nel 1545 all’interno di San Pietro in Vincoli. Tutte le sculture di Michelangelo giovane sono legate in modo neoplatonico a Cristo. Anche se apparentemente il suo lavoro d’inizio è solo neoantico, come testimonia la Centauromachia, la quale viene dopo la Madonna della Scala, scolpita in bassorilievo a sedici anni, che riprende un modello esistente da secoli, molto in voga allora anche a livello popolare ridandogli una forma e una posizione che già esistono nella scultura greca nel IV secolo prima di Cristo.

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Michelangelo, David, particolare

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Michelangelo, Mosè, particolare, Roma, San Pietro in Vincoli

Il mondo classico e la centralità dell’idea sono i due cardini dell’opera di Michelangelo. Così classico che un suo Cupido, ora scomparso, talmente mirabile che fu scambiato per antico ed entrato nella collezione del cardinal Riario, fu il motivo della sua chiamata a Roma tramite l’intermediario del cardinale, Jacopo Galli. E la prima opera romana sarà il Bacco ebbro, che è l’apoteosi dell’antico. Michelangelo è ancora giovane, è uscito dalla scuola, deve dimostrare l’eccellenza assoluta della sua mano e quindi fa una ricostruzione dell’antico perfetta, ovviamente idealizzata. E qui arriviamo di nuovo nel cuore del pensiero di Plotino, per il quale 367

l’intelletto proviene dall’autoriflessione dell’Uno, è intuizione, è il prodotto dell’estasi. Pensiero molto orientale, e dall’Oriente proviene anche Dioniso, in latino Bacco, che raggiunge la sua estasi creativa nell’ebbrezza, ciò che per Platone era l’entusiasmo, l’entheos, cioè la comunione col divino. Ancora una volta tutto si tiene. Michelangelo appare come l’intellettuale più solido della sua epoca. Tutto questo percorso in scultura si concluderà con il grande affresco della volta della Cappella Sistina.

Michelangelo, Centauromachia, 1490-1492, marmo, cm 80x90, Firenze, Casa Buonarroti

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Michelangelo, Madonna della Scala, 1490 ca, marmo, cm 57x40, Firenze, Casa Buonarroti

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Michelangelo, Bacco ebbro, 1496-1497, marmo, altezza cm 190, Firenze, Museo Nazionale del Bargello

Affreschi concepiti come sculture Nel 1505 Michelangelo ha trent’anni e ha realizzato già il maggior numero delle sue sculture. Il David è appena stato messo in piazza, ma mentre ci lavorava sopra era d’una attività frenetica anche su altri pezzi come la Madonna con il Bambino, capolavoro che scolpisce quasi in segreto e che vende per la cifra folle di 4000 fiorini a un mercante di stoffe che lavora fra Firenze e Bruges. I lavori di quegli anni appaiono tutti perfettamente compiuti, tranne che 370

per il David sul quale si scopre che la capigliatura non è del tutto levigata come lo è la pelle. In alcune sue opere è presente però già il primo intuito del non-finito, come nel Tondo Pitti, dove le raspature rimangono a testimoniare la penetrazione dell’occhio nella materia, un po’ come se avesse voluto giocare in scultura con gli strati delle velature pittoriche di cui dà eccellente dimostrazione nel Tondo Doni, dipinto nello stesso periodo. Il San Matteo di quegli stessi anni, primo e unico abbozzo di quelle che dovevano essere le dodici statue degli Apostoli per l’Opera del Duomo di Firenze, è interessantissimo. Il santo sembra voler liberarsi dalla materia che lo contiene. Ma la pratica del non-finito non è ancora definitiva, è pura sperimentazione in corso. Inizia una linea che diventerà stabile: l’opera d’arte non è più solo manufatto, ma diventa l’urgenza della creatività.

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Michelangelo, Madonna con il Bambino, 1501-1504, marmo, altezza cm 128, Bruges, Notre-Dame

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Michelangelo, Tondo Pitti, 1502-1504, marmo, cm 85,5x109, Firenze, Museo Nazionale del Bargello

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Michelangelo, San Matteo, 1504-1506, marmo, altezza cm 216, Firenze, Galleria dell’Accademia

Compiuti i quarant’anni, tutta la produzione scultorea di Michelangelo sarà incompiuta, ancora per mezzo secolo di vita: è quello che sarà chiamato il non-finito. Come Albert Einstein che ebbe i grandi intuiti nell’annus mirabilis 1905 e passò i cinquant’anni successivi ad approfondire se stesso, come de Chirico che completò il suo percorso entro il 1929 e passò anche lui il mezzo secolo seguente ad autoindagarsi. Tutti e tre grandissimi e potenti pensatori, tutti e tre navigatori della metafisica. Nel 1505 dunque, come abbiamo detto, Michelangelo viene richiamato a Roma da Giulio II per preparare il monumento alla sua gloria perenne e da qui inizia il suo tormento esistenziale. Sessant’anni di tormento e una 374

produzione molto più ristretta. La storia raccontata nel libro e nel film Il tormento e l’estasi, e che si legge in tutte le storie romanzate, è verissima. Michelangelo desidera completare le sculture per la tomba ma il papa cambia idea e vuole che completi la Cappella Sistina, dove nel Quattrocento erano state affrescate le pareti. Allora lui tenta di resistere, e poi fa in pittura quello che aveva concepito per la tomba di Giulio II, cioè prende i prototipi che aveva preparato per le sculture e ci fa le pitture. Questo linguaggio corrisponde a un’invenzione straordinaria. Non volendo lui fare il pittore, inserisce i suoi affreschi non più in pannelli delimitati, come s’era sempre fatto da Giotto in poi, ma li piazza in un’architettura dipinta che è una delle sue grandi invenzioni, un’architettura del cielo. Non può rinunciare alla plasticità quindi si fa lui stesso architetto della cosa dipinta. Già nella tomba di Giulio II, Michelangelo voleva che le sculture fossero poste in alto, tant’è vero che l’effetto attuale del Mosè entrando in San Pietro in Vincoli è deviato perché è posto troppo in basso. Probabilmente era rimasto molto influenzato dalle statue del Duomo di Firenze, che all’epoca erano collocate fuori. Oggi infatti al Museo dell’Opera le vediamo frontalmente, mentre andrebbero viste dal basso, secondo l’idea originale, così da far tornare i cartigli centrali alla nostra vista, come nel Re Salomone di Andrea Pisano. E poi ancora doveva essere colpito dal San Giovanni di Donatello che, con un secolo esatto d’anticipo, fa già pensare al Mosè.

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Michelangelo, Profeta Ezechiele, 1511 ca, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina

L’effetto negli affreschi della Sistina è che l’artista estragga una forma e la proietti verso l’osservatore, per cui effettivamente la scultura e la pittura sono analoghe dal punto di vista progettuale. Vero che nella pittura la sensazione è illusoria perché la superficie è piana, ma il principio è lo stesso. I Profeti e le Sibille della volta impressionarono tanto perché sembrano chiamare. E questa sensazione viene proprio dall’idea centrale di Michelangelo che è neoplatonica, per cui l’opera d’arte è una chiamata.

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Michelangelo, Volta della Cappella Sistina, 1508-1512, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina

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Michelangelo, Sibilla Delfica, 1510-1511, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina

Questioni di famiglia La volta della Sistina viene scoperta nel 1512 e qualche mese dopo, nel 1513, muore Giulio II, forse l’unico vero padrone che ha avuto Michelangelo, il papa a cavallo e in armatura che dopo Perugia aveva conquistato anche Bologna nel 1506 e per il quale l’artista aveva realizzato anche una scultura in bronzo, un Giulio II che benedice i bolognesi con un gesto quasi di minaccia, abbattuta dai cittadini nel 1511 con il ritorno dei Bentivoglio e i cui pezzi furono fusi per farne un piccolo cannone chiamato per disprezzo la “Giulia”.

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Il Crepuscolo, tutto levigato, sta ancora uscendo dalla pietra appena sbozzata, già parente dei successivi Prigioni.

Michelangelo, Tomba di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino, 1524-1534 ca, marmo, altezza cm 589, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova

Nel conclave viene eletto papa un amico d’infanzia di Michelangelo, Giovanni di Lorenzo de’ Medici, suo coetaneo. Il loro rapporto è assolutamente intimo perché i due sono cresciuti assieme nelle scuole dei Giardini medicei a Firenze. Giovanni diventa Leone X, personaggio torbido e ambiguo, perverso e simoniaco che, all’opposto di Giulio II, a cavallo non monta affatto. Però è raffinato e coltissimo e intrattiene scambi epistolari regolari con Erasmo da Rotterdam. Sarà Leone X a distogliere di nuovo 379

Michelangelo dalla tomba di Giulio II per spedirlo a Firenze a fare le sue di tombe di famiglia. Il Giorno, sembra non concretizzarsi mai, l’idea rimane nel mondo infinito del neoplatonismo e gli occhi sono ancora nell’aldilà della materia.

Michelangelo, Tomba di Giuliano de’ Medici duca di Nemours, 1526-1534, marmo, altezza cm 589, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova

Il 1519 è una data particolarmente significativa per due eventi fondamentali per la città toscana: è l’anno di nascita del non-Medici che diventerà Cosimo I de’ Medici, duca di Firenze e poi granduca di Toscana, ed è anche l’anno nel quale Michelangelo inizia le Tombe Medicee nella 380

Sagrestia Nuova di San Lorenzo. La parte delle grandi sculture, nota al mondo intero, è dedicata ai parenti del papa, quelli ai quali lui è particolarmente affezionato. Lorenzo di Piero de’ Medici, duca d’Urbino, quello al quale Machiavelli dedicò Il Principe, era figlio di Piero il Fatuo, discendente del Magnifico e nipote di Leone X. Il nuovo papa aveva fatto la festa ai discendenti del suo predecessore Giulio II, cacciando il duca d’Urbino Della Rovere per sostituirlo con il nipote. Lorenzo, che fu ritratto anche da Raffaello. Come duca d’Urbino però non ebbe gran fortuna: si sposò una grande ereditiera di Francia, ebbero una bambina e subito dopo, nel 1519, morirono tutti e due di peste. La bambina invece, trent’anni dopo, divenne Caterina, regina di Francia.

Michelangelo, Il Crepuscolo, Tomba di Lorenzo de’ Medici, 1524-1531, marmo, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova

La tomba di Lorenzo è una delle sculture più note della storia dell’umanità. Potente, formidabile, dove nelle due statue laterali il non-finito 381

diventa il gioco stesso della narrazione: perfettamente lucida la pancia di lei, evaporata e romantica quella di lui. Lei, L’Aurora, ha in testa un cencio che è stato rubato a Raffaello, lui, Il Crepuscolo, è anch’esso tutto levigato, ma sta ancora uscendo dalla pietra appena sbozzata, già parente di quei successivi Prigioni ora conservati alla Galleria dell’Accademia, quelli che tentano di liberarsi dalla pietra nella quale sono contenuti. La faccia sembra non finita per riprendere quella lezione del vibrato già sperimentata nei tondi dei primissimi anni del Cinquecento. Dall’altro lato della Sagrestia vi è la tomba del fratellino minore del papa, Giuliano, fatto finto duca di Nemours per via degli ottimi rapporti con il re di Francia Luigi XII, anche lui ritratto da Raffaello e morto a trentasette anni. Era un altro di quei giovanotti di altissimo lignaggio che fu compagno di Michelangelo e quindi si vede come il gioco intellettuale e artistico si svolge tutto all’interno di un ristretto gruppo di persone.

Michelangelo, L’Aurora, Tomba di Lorenzo de’ Medici, 1524-1527, marmo, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova

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Michelangelo, La Notte, particolare della civetta e intero, Tomba di Giuliano de’ Medici, 1526-1531, marmo, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova

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Michelangelo, La Notte, particolare del mascherone, Tomba di Giuliano de’ Medici, 15261531, marmo, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova

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Michelangelo, La Notte, intero, Tomba di Giuliano de’ Medici, 1526-1531, marmo, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova

Nella sua tomba La Notte è una Leda senza cigno, che sembra lei stessa un cigno, ma dove l’idea s’è fatta talmente concreta che questa possente figura riposa fra la civetta della sapienza, o di Atene, e la maschera del teatro. Lui, Il Giorno, sembra non concretizzarsi mai, l’idea rimane nel mondo infinito del neoplatonismo e gli occhi sono ancora nell’aldilà della materia. Tutte e quattro le statue allegoriche sono neoplatoniche in senso plotiniano, nel senso del non-finito. I ritratti di Lorenzo e Giuliano che sovrastano le tombe invece sono ritratti ideali, neoplatonici nella loro esecuzione perfetta. Pare che i contemporanei obiettassero che le statue non assomigliavano per niente ai due personaggi storici e che a tale osservazione Michelangelo avesse 385

risposto: “Certo, ma fra mille anni chi se ne accorgerà?”. Come a voler intendere che la fisionomia non era cosa importante, è la persona che conta. La persona dipende sì dalla fisionomia, ma fino a un certo punto, la persona è la sua stessa interiorità.

Michelangelo, Il Giorno, Tomba di Giuliano de’ Medici, 1526-1531, marmo, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova

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Michelangelo, Tomba di Giuliano de’ Medici, particolare del volto, 1526-1534, marmo, altezza cm 589, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova

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Raffaello (da), Giuliano de’ Medici, XVI secolo, tempera e olio su tela, cm 83,2x66, New York, The Metropolitan Museum of Art

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Michelangelo, Tomba di Lorenzo de’ Medici, particolare del volto, 1524-1534 ca, marmo, altezza cm 589, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova

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Raffaello, Ritratto di Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino, 1516-1519, olio su tela, cm 75x49, Collezione privata

Tutto questo tripudio scultoreo avviene in un altro tripudio che è quello architettonico, quello dei cerchi, dei controcerchi e dei paracerchi disegnati in pietra all’interno dei quadrati. La lezione di Brunelleschi nella Sagrestia Vecchia di San Lorenzo è recepita già in una concezione di maniera e di esaltazione. Perché qui la lezione che si è formata nella stesura della Cappella Sistina, cioè nell’impostazione architettonica dello spazio dipinto, diventa architettura vera e propria. Anzi, per la prima volta Michelangelo è architetto. Ma se la pianta della Sagrestia Nuova è effettivamente la medesima di quella della Sagrestia Vecchia di Brunelleschi, il decoro è ben diverso. Dall’esperienza pittorica viene la necessità di decorare tutto, di non tralasciare un singolo elemento; di inventare anche la modanatura interna 390

delle finestre cieche, che assomiglia tanto alla porta etrusca dei templi antichi, quella che anni dopo riproporrà in Palazzo Farnese, quando finalmente sarà riconosciuto come architetto da Paolo III.

Interno della Sagrestia Nuova con la Vergine Medici e i santi Cosma e Damiano, 1521-1534, marmo, Firenze, San Lorenzo

Il lato oscuro della fede Negli anni del papato di Leone X Michelangelo vive dal di dentro la grande crisi di quel periodo, quando Martin Lutero si stacca definitivamente dalla Chiesa di Roma. Dopo un inutile tentativo di riconciliazione sotto il papato del belga filoimperiale Adriano VI, nel 1523 verrà eletto l’altro papa Medici, Clemente VII, che avrà la sfortuna di assistere allo sfascio del sacco di Roma nel 1527.

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Michelangelo, Anima dannata, 1525, inchiostro su carta, cm 37x22, Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

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Niccolò dell’Arca, Compianto sul Cristo morto, particolare, 1463, terracotta, Bologna, Santa Maria della Vita

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Edvard Munch, Grido, 1893, olio su cartone, cm 84x67, Oslo, Munch-museet

All’ansia della creatività si aggiunge così l’ansia della politica e Michelangelo, ormai scultore, pittore e architetto, con una mutazione non dissimile da quella di Giotto, entra in una nuova fase della sua sensibilità, quella nella quale si ricorderà del Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca, visto a Bologna in gioventù, e lo riproporrà in un disegno talmente forte e convinto da considerarlo lui stesso come un’opera finita, tanto da firmarlo. Gli stessi svolazzi attorno al grido. Una straordinaria anticipazione della coscienza moderna del Grido di Edvard Munch. Per analizzare l’ultimo trentennio di vita di Michelangelo possiamo direttamente partire dalla sua ultima opera, quella Pietà Rondanini, a cui lavorò tra il 1552 e il 1564, anno della morte. È un’opera da leggere come un testamento del genio toscano che lascia tre segni da decifrare e attraverso i quali si può rileggere l’ultima fase della sua vita: il non-finito, la 394

nudità del Cristo e il dialogo personale e diretto fra l’artista e il Cristo.

Il non-finito infinito Nell’opinione comune si considera la scultura non-finita perché Michelangelo ormai vecchio non avrebbe avuto la forza fisica per completarla e questo sarebbe anche il motivo per il quale la Madonna è solo parzialmente abbozzata. La statua infatti è levigata solo nella parte centrale delle gambe del Cristo. È una convinzione che ritengo totalmente falsa e basta fare un salto a Casa Buonarroti a Firenze e guardare quella piccola statuina di un crocefisso che è di due anni antecedente per capire che il nonfinito era per lui una precisa scelta linguistica, perché quel legnetto lì lo avrebbe potuto finire benissimo viste le dimensioni. Il non-finito dell’ultima Pietà è dunque stata sicuramente una scelta convinta. Il non-finito è stato originariamente un modo tecnico di procedere che Michelangelo ha applicato con attenzione. Lo abbiamo già visto nel David, dove tutto il corpo è perfettamente ultimato mentre i capelli curiosamente sono solo abbozzati. E lo sono per un motivo molto semplice: le sculture antiche che lo formano a Firenze sono poca cosa rispetto a quelle che vede a Roma sul finire del Quattrocento, mentre completa la prima Pietà di San Pietro.

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Michelangelo, David, particolare del volto, Firenze, Galleria dell’Accademia

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Michelangelo, Pietà Rondanini, 1552-1564, marmo, altezza cm 195, Milano, Castello Sforzesco

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Michelangelo, Crocifisso, 1562-1563, legno, altezza cm 27, Firenze, Casa Buonarroti

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Michelangelo, Vestibolo e scala della Biblioteca Laurenziana, 1524-1534, Firenze

Il non-finito è un linguaggio che Michelangelo propone anche in architettura, già nell’impianto teatrale delle Tombe Medicee, dove solo due pareti sono ultimate mentre la più significativa viene tralasciata. Poi diventa prassi nella Biblioteca Laurenziana, che l’artista inizia a realizzare per incarico del secondo papa Medici, Clemente VII. Un edificio che si inserisce nel complesso mediceo di San Lorenzo come una sorta di astronave. Il vestibolo, parola tipicamente toscana per definire un androne, corrisponde a tutta la storia delle catastrofi progettuali di Michelangelo, perché inizia, si evolve ma non sarà mai concluso. Entriamo in pieno nella fenomenologia dell’incompiutezza perfetta e costante che accompagna la vita di Michelangelo. Le finestre sopra, che lui 399

non aveva voluto e che però ha dovuto accettare, la parte sua invece, voluta e desiderata: le colonne, la scala alterata rispetto al suo progetto e il tutto in mezzo a muri che sono rimasti lindi ma sostanzialmente mai ultimati, ancora col loro intonaco grezzo. A tal punto che la sua conclusione finale è addirittura dell’inizio del XX secolo, quella che lo tappa definitivamente e nasconde le capriate. Per il resto tutta l’evoluzione nasce da una progettualità incerta, da progetti che arrivano da Roma, vengono recepiti, metabolizzati e riletti, fino addirittura alla scala formidabile che era stata prevista di legno e fu mutata in pietra serena su richiesta di Cosimo I e eseguita dall’Ammannati. Uno scalone bellissimo che anticipa di un secolo tutta la morbidezza barocca.

Michelangelo, particolare delle volute del vestibolo della Biblioteca Laurenziana

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Michelangelo, Sala di lettura della Biblioteca Laurenziana

La biblioteca vera e propria corrisponde ai modelli che sono diventati famosi nel Quattrocento, come quello della Biblioteca Malatestiana di Cesena, di cui riprende la stessa concezione. Un luogo dove i libri sono legati alle panche e vengono consultati grazie alla luce naturale. La luce naturale è quella che penetra qui dalle finestre vetrate che danno un tono costante e morbido. Qui tutto, fuorché le vetrate, è disegnato da Michelangelo, almeno concepito da lui, fino al decoro delle panche. Le vetrate contengono una curiosa indicazione che nella sua contraddizione riassume la storia dell’edificio: vi si legge infatti Clemens VII Pontifex Maximus e la data 1568, trentaquattro anni dopo la morte del papa, quattro anni dopo la morte di Michelangelo, perché è solo in quella data avanzata che si può considerare il lavoro ultimato.

Il Cristo è nudo Passando alla questione della nudità del Cristo, è un elemento che ritroviamo in tutta una serie di sue sculture, dal primo Crocifisso in Santo Spirito a Firenze, del 1492, alle due versioni del Cristo Risorto: quello completato per la chiesa della Minerva a Roma e coperto nell’Ottocento 401

dalla pudicizia dei domenicani, e poi l’altro, da poco riscoperto, che si può vedere a Bassano Romano, interrotto da Michelangelo e lasciato in bozza poiché nell’affrontare il volto apparve una vena nera che lui non aveva visto prima e che non poté tollerare, tanto da abbandonare la scultura e rifarla da capo. Quest’ultima, finita da Michelangelo, ha un volto ben più determinato. Quello del Cristo convinto della sua missione, del Cristo Uomo, del Cristo Figlio, figlio dell’Uomo. Il sesso di Cristo è una questione complessa affrontata con somma attenzione da Leo Steinberg in un suo saggio sottile quanto intelligente del 1983. Il prepuzio di Gesù bambino non soffre di pudori nell’iconografia. Cristo adulto invece sì. La nudità è sempre questione complessa a tal punto che fu centrale nel dibattito circa la conservazione o meno del Giudizio Universale della Sistina. La cultura iconografica bizantina era tendenzialmente sessuofobica e lasciò la sua traccia fino agli albori del Rinascimento, se per tali albori si ritiene germinale il lavoro duecentesco di Nicola Pisano, il quale nel pulpito del Battistero di Pisa raffigura per la prima volta un Cristo/Ercole integralmente nudo. E non è in realtà il primo a farlo poiché la prima nudità appare già in una statua dell’ambone del duomo di Salerno, scultura di cultura normanna e come tale dichiarazione politica antibizantina.

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Nicola Pisano, Ercole, particolare del pulpito, 1257-1260, marmo, Pisa, Battistero

La nudità dichiarata è allora segno dell’emancipazione dalla tradizione bizantina e compare anche sulla facciata di San Pietro a Tuscania all’inizio del XIII secolo dove Adamo senza pudore alcuno esibisce dei testicoli di dimensioni ammirevoli. In questo senso Michelangelo riassume una parte della tradizione iconografica centroitaliana, vi aggiunge la riscoperta della classicità antica e conclude il percorso con una teologia libera di Cristo fattosi Uomo. È comprensibile che il percorso successivo della Controriforma si sia trovato nell’obbligo di rivestire la faccenda.

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Michelangelo, Cristo Risorto, 1518-1521, marmo, altezza cm 205, Roma, Santa Maria sopra Minerva

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Michelangelo, Crocifisso, 1492, legno e stucco policromo, cm 139x135, Firenze, Santo Spirito

Il dialogo con Cristo La terza questione sollevata dalla Pietà Rondanini è il dialogo esclusivo che Michelangelo sembra instaurare col Cristo, dialogo il cui ultimo atto comincia con il Giudizio Universale. Nel 1534 muore appunto Clemente VII e in un solo giorno viene eletto Alessandro Farnese che prende il nome di Paolo III. Bel tipo il nuovo papa, da ragazzo fu incontrollabile ma educato alla grande e poi spedito in punizione presso Lorenzo il Magnifico per formarsi lì con il meglio degli umanisti dell’epoca. Cresce quindi con il futuro Leone X, con il futuro Clemente VII e ovviamente con Michelangelo. Viene eletto a sessantasei anni 405

ma durerà a lungo, morendo ottantunenne. Michelangelo ne ha cinquantanove, è un uomo maturo, riverito e omaggiato in una Firenze che è appena caduta, nel 1532, sotto il giogo del giovane e perfido Alessandro de’ Medici, figlio naturale dell’appena defunto papa Clemente VII e di una mulatta. Richiamato a Roma nel 1534 già da Clemente VII per affrescare la parete di fondo della Sistina con il Giudizio Universale, durante il pontificato di Paolo III Michelangelo porta a compimento quella che da un teologo della Controriforma come Giovanni Andrea Gilio è stato definita una “Dannazione Universale”. Il Giudizio Universale di Michelangelo riflette quasi simbolicamente la distruzione di un sistema formale e artistico che rifletteva la cultura, l’ideologia, le aspirazioni della corte papale prima del sacco. L’affresco copre l’intera parete, senza alcuna partizione architettonica, senza alcun collegamento con la struttura prospettica della cappella, come una visione che appare in uno spazio irrazionale e non misurabile. Il Cristo è centrale e con il suo gesto imperioso genera un moto ellittico a cui sono subordinati tutti i quasi quattrocento personaggi, un grande pandemonio dantesco in cui sembrano tutti dannati. Infatti non ci sono separazioni fra le zone dei beati e dei dannati secondo la classica tradizione iconografica, anche i santi e gli eletti manifestano partecipazione e sgomento, tutti ancora drammaticamente coinvolti dalle passioni terrene. Cristo stesso, più che invitare, sembra scacciare con il gesto della mano gli aspiranti al Paradiso, mentre la Madonna si rivolge quasi spaventata all’umanità sottostante.

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Michelangelo, Giudizio Universale, 1535-1541, affresco, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina

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Michelangelo, Giudizio Universale, particolare con san Pietro

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Michelangelo, Giudizio Universale, particolare con Cristo Giudice

In mezzo all’ammirazione e all’entusiasmo che suscitò l’affresco si fecero strada anche le critiche che si concentrarono sulla nudità dei personaggi e sulle “porcherie” inventate dal pittore. L’allievo “braghettone” Daniele da Volterra, con qualche velo posto a coprire le nudità, riuscì a scongiurare la distruzione dell’affresco. In realtà le accuse di oscenità furono un modo per spostare l’attenzione sul problema vero del significato dell’opera che cela un influsso protestante. La forza irresistibile che travolge l’umanità verso l’alto o verso il basso, ponendo l’accento sullo scarso numero dei salvati e sui meriti di Cristo Salvatore, diminuiva infatti il valore della Chiesa come mediatrice. Come poteva un simile affresco stare nella cappella dove si eleggevano i papi? E in più Michelangelo aveva avuto 409

l’ardire di collocare la bocca dell’Inferno proprio sopra l’altare! L’artista finisce il Giudizio nel 1541 e nel 1543 riprendono anche i lavori per completare finalmente la tomba di Giulio II, dove la posizione centrale della figura di Mosè in questo contesto di Riforma assume un valore preciso ricordandomi di Jan Hus più di un secolo prima. Nel 1412, tre anni prima che fosse messo al rogo, sul ponte di Praga, Hus aveva preso una posizione fortissima contro la scomunica arrivata da Roma e, “contro l’ingiusta sentenza e la scomunica comminatami dai pontefici, scribi, farisei e giudici insediatisi sulla Cattedra di Mosè”.

Michelangelo, Giudizio Universale, particolare con la barca di Caronte

Ed ecco la cattedra di Mosè, nel centro della tomba, il Mosè, non il papa. Che Michelangelo fosse convinto che la forza della propria fede fosse la strada per la salvezza è un’evidenza che diventa ben più sicura nel 1536, dopo l’incontro con la nobildonna Vittoria Colonna, tornata a Roma dopo anni di colta vita letteraria a Ischia. A lei Michelangelo dedicherà una piccola crocifissione per la sua cappella privata, simbolo forse di un legame che si basava sulla forte spiritualità di entrambi. Attraverso di lei l’artista conoscerà il lato protestante della fede. Nel 1537 Alessandro de’ Medici, tiranno duca di Firenze e ultimo discendente del ramo principale dei Medici, viene assassinato ventiseienne dal cugino coetaneo, Lorenzino. In questo clima politico Michelangelo realizza il Bruto, oggi al Bargello. L’opera diventa espressione della vittoria 410

del popolo, il nike demos, che come dice sant’Agostino sarebbe l’etimologia di Nicodemo. Ed ecco allora Nicodemo in versione pathos totale, vertice della Pietà Bandini iniziata nel 1550, oggi al Museo dell’Opera del Duomo a Firenze. Qui Nicodemo altri non è che Michelangelo, simile alla rappresentazione che ne fa l’affezionato Daniele da Volterra.

Michelangelo, Bruto, particolare, 1539 ca, marmo, altezza cm 95, Firenze, Museo Nazionale del Bargello

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Michelangelo, Pietà Bandini, intero, 1550-1555, marmo, altezza cm 226, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo

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Michelangelo, Pietà Bandini, particolare, 1550-1555, marmo, altezza cm 226, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo

Il nicodemismo è però anche altra cosa, condannata da Calvino, è la pratica del Nicodemo dei Vangeli che è fariseo di giorno e va a trovare Gesù di notte, è la pratica di chi in quegli anni è protestante ma lo nasconde. Che Michelangelo fosse nicodemico? Come dice Claudio Strinati “il protestantesimo è un po’ il sotterraneo, il fiume carsico dentro lo spirito michelangiolesco, che a un certo punto sembra quasi venire alla luce”. In un disegno di Michelangelo troviamo una croce della passione a forma di V, proprio questo sarà nel secolo successivo il simbolo dei giansenisti per i quali, come per i calvinisti, solo pochi predestinati saranno salvati. E il più mistico dei giansenisti di Port-Royal sarà quel Blaise Pascal, 413

che nei suoi scritti dialoga direttamente con il Cristo in Passione, come Michelangelo.

Il soffio dello spirito Intanto mentre Michelangelo è già diventato exemplum per tutti i manieristi che lo copieranno, lui nel suo lavoro porta a termine un percorso completamente diverso che lo getta immediatamente nella nostra modernità. La Pietà Rondanini è un capolavoro di ambiguità, la figura che sorregge il Cristo è talmente incerta da poter sembrare a volte la Madonna, come nella prima Pietà di Roma, e talvolta invece Nicodemo, come nella seconda Pietà di Firenze. Può essere contemporaneamente l’una e l’altro. La luce scorre sulla superficie del marmo e permette di decifrare l’intaglio dell’oggetto, la formazione dell’idea nel momento nel quale l’idea stessa esce dalla materia. È in assoluto l’evoluzione più avanzata del pensiero neoplatonico di Michelangelo da quando aveva diciassette anni fino alla fine. E non si capisce se il Cristo è l’autoritratto di Michelangelo vecchissimo, con le gambe fragili, e se la Madonna è Nicodemo con un accenno di barba, oppure il Cristo che sorregge Michelangelo morente. Una vela nel vento che ricorda di nuovo il testo evangelico di Giovanni: “Nicodemo gli disse: ‘Come può un uomo nascere quando è vecchio?’. Gesù rispose: ‘Ciò che è nato dalla carne è carne; ma ciò che è nato dallo spirito è spirito. Il vento soffia dove vuole e tu ne odi il suono, ma non sai da dove viene né dove va; così è per chiunque sia nato dallo spirito’”.

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Michelangelo, Studio per una crocifissione con Maria e san Giovanni, 1560 circa, matita e carboncino su carta, cm 56x35, Londra, The British Museum

Michelangelo muore con il neoplatonismo ormai condannato dal Concilio di Trento, e l’idea plotiniana dell’Uno scompare, per ricomparire oltre un secolo dopo nel pensiero di Leibniz quando il filosofo pone le basi della monade, la quale sarà base teorica per il Michelangelo del contrappunto in musica, Johann Sebastian Bach, entrambi legati dalla stessa passione per la Passione di san Matteo.

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Michelangelo, Pietà Rondanini, particolare con i volti di Cristo e Maria, 1552-1564, marmo, altezza cm 195, Milano, Castello Sforzesco

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LA RISCOPERTA DEL TUTTO TONDO Nella scultura, il tutto tondo è l’antico, cioè la statua antica, sia maschile sia femminile, visibile da ogni punto di vista. I Bronzi di Riace, la Afrodite di Milo, la Vittoria di Samotracia sono statue a tutto tondo, stanno dentro lo spazio, perché ispirate dal concetto che la bellezza suprema è quella del corpo, infatti la prima scultura è il corpo. Iddio, dice Giorgio Vasari, è uno scultore che fece una forma per fare l’uomo, poi ci soffiò l’anima dentro e quello visse; quindi anche il Vasari, come molti altri della sua epoca, riteneva che l’arte per antonomasia fosse la scultura. Nel corso del Medioevo, però, l’arte della scultura aveva rinunciato sempre di più alla statua a tutto tondo per spostarsi sulle varie tecniche del bassorilievo. Perfino quelle che sembrano a tutto tondo sono nelle nicchie. La scultura medioevale, a grandi linee, ha una funzione sostanzialmente sacra. Serve a istoriare, non a decorare, gli esterni delle cattedrali dove si fa Biblia pauperum per la narrazione del sacro. Rare sono le opere con altre destinazioni e va tuttora ricordato che il bizzarro Bonifacio VIII fu il primo papa a farsi ritrarre in scultura mentre era ancora vivo, e per questo motivo fu accusato di idolatria, prese il famoso schiaffo di Anagni, fu deposto e messo da Dante all’Inferno. Certamente alcuni monumenti funebri già in quegli anni sono scultura da piazza, cioè osservabili sotto varie angolature; ne è esempio eccellente il monumento funebre a Bernabò Visconti. Ma le sculture per le grandi edificazioni del culto sono addirittura concepite per esser viste da lontano, da sotto s’intende, a tal punto che, riviste oggi nei musei, rendono la loro apparenza incomprensibile e spesso mi permetto di suggerire di sedersi a terra per guardarle in modo da recuperare la prospettiva angolare per la quale furono pensate.

Afrodite di Milo, 130 a.C. ca, marmo, altezza cm 202, Parigi, Musée du Louvre

Ageladas il Giovane di Argo, Tideo (Bronzo di Riace), 456-450 a.C., bronzo, altezza cm 198, Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale

Particolare del coronamento della facciata, con le sculture entro nicchie, della cattedrale di Reims, 1254 circa La questione muta radicalmente sin dagli albori del Rinascimento, quando, assieme alla riscoperta dei testi classici e al ritorno del gusto calligrafico della littera antiqua che sostituisce quella gotica, si ritrova il passato come exemplum per il futuro. Tale la tesi di Petrarca, tale sarà la tesi di Leon Battista Alberti quando, su chiamata di Eugenio IV, finisce a Roma con un incarico che precede, curiosità della storia, quello di Raffaello, e consiste nel diventare teoricamente “abbreviatore apostolico”, cioè membro della segreteria per la stesura dei documenti ufficiali. La riscoperta dell’antico è quella che farà inventare a Leon Battista Alberti la parola “gotico” per lo stile allora vigente, in quanto lo considera germanico e quindi barbaro. Da buon architetto qual era, aveva egli ricevuto l’incarico di rimettere in funzione i vecchi acquedotti ancora esistenti ma fuori uso. Lui farà “risurgere” le acque e inventerà così il Rinascimento, dove il passato potrà risorgere dalla terra che lo ricopre. E intanto si incomincia a scavare, a ritrovare. La letteratura appare assai facile da

riscoprire: basta andare nei conventi ad acquistare i codici antichi, mestiere che fa con somma e allegra competenza Poggio Bracciolini per conto di Cosimo il Vecchio. La ripresa degli studi filologici avrà conseguenze clamorose in quanto Lorenzo Valla riesce a dimostrare che il famoso Legato Costantiniano, che obbligherebbe il Papato a risiedere al Laterano, è una sonora bufala degli anni carolingi e quindi il papa torna a portare il soglio di Pietro sulla tomba di Pietro: se ne va in Vaticano e inizia il risanamento della basilica. La pittura antica rimane un mistero; bisognerà aspettare la fine del Quattrocento per riscoprire i fascini della Domus Aurea e degli affreschi sepolti. L’architettura è la questione più semplice, ovviamente, e i documenti stanno ancora in piedi. La statuaria importante verrà riscoperta solo agli albori del secolo successivo, quando riaffiorerà dal sottosuolo il miracolo del Laocoonte, il che stimolerà, poco dopo, gli scavi in città che riporteranno alla luce capolavori come l’Ercole Farnese. Ma fra metà Quattrocento e inizio Cinquecento appaiono comunque le epifanie del passato, talvolta in piccoli oggetti scultorei che gli umanisti antiquariali collezionano fra Venezia e Mantova, poi quando quel bizzarro e contorto papa ch’è Alessandro VI Borgia avvia gli scavi della villa di Adriano a Tivoli. La scultura antica diventa modello quotidiano, nelle collezioni dei Giardini medicei a Firenze come nelle raccolte romane. E si riscopre che la scultura non è da parete ma va vista a tutto tondo.

Bonino da Campione, Monumento a Bernabò Visconti, 1380-1385, marmo, altezza cm 325, Milano, Castello Sforzesco

Arnolfo di Cambio, Bonifacio VIII, 1298 circa, marmo, altezza cm 165, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo

LE STATUE CLASSICHE E IL NON-FINITO Attraverso alcune opere classiche che Michelangelo deve certamente aver visto durante il suo soggiorno romano, per esempio le statue di Antinoo, lo sfortunato amante dell’imperatore Adriano, possiamo indagare sulla provenienza dalla classicità del non-finito michelangiolesco. La prima testa è una versione di lusso, con una capigliatura fantastica avvolta in tralci di vite e lavorata tutta sottosquadra. In un secondo busto è invece una versione così fresca e lucida da sembrare addirittura cinquecentesca. Ma non vi è dubbio che sia antica, perché prevede la visione da sotto che il Rinascimento abolisce, come si vede nelle probabilmente numerose copie in bronzo che ne vennero fatte nel XVI secolo. In alcune repliche, per così dire “industriali”, dove era prevista la coloritura della chioma, i capelli venivano stuccati e dipinti d’oro e non richiedevano quindi la finitura perfetta del marmo. Una volta perduta la finitura e lo stucco, il Rinascimento ritrova statue archeologiche e bianche. Lo spettatore era illuso da ciò che in realtà era un semilavorato. L’exemplum antico era solo una sorta di ectoplasma dell’antichità che ingannava la percezione. Michelangelo di sicuro ha visto esemplari simili e per lui questi dovevano essere gli esempi esatti dell’antico che di fatto legittimavano il suo senso del non-finito. Visti questi modelli, il non-finito diventa il linguaggio comportamentale della sua creatività.

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Busto di Antinoo, metà del II secolo d.C., marmo, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino

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Guglielmo Della Porta, Antinoo come Dioniso, secondo quarto del XVI secolo, bronzo, Napoli, Palazzo Reale

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Busto di Antinoo, metà del II secolo d.C., marmo, altezza cm 81, Collezione privata

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Antinoo Farnese, 130-138 d.C., marmo, altezza cm 200, Napoli, Museo Archeologico Nazionale

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Antinoo Farnese, particolare della capigliatura

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GRANDI DAME E LIBERTÀ DI PENSIERO Personaggio interessante, Vittoria Colonna, sposata d’Avalos, con Federico da Montefeltro come nonno. Un avo feroce, una nipote coltissima intellettuale, la sua figura corrisponde a un’inattesa evoluzione femminile negli anni nei quali si passa dagli umanisti ai letterati. Sono donne d’alto quanto recente lignaggio, che magari discendono da tagliagole e diventano consapevoli intellettuali. Il prototipo è forse la figlia del tremendo papa Borgia e della bellissima Vanozza, quella Lucrezia, la quale, dopo tre mariti e amanti di qualità come il Bembo, già poeta ma non ancora cardinale, il cognato Gonzaga e il cavaliere francese Bayard, quello “sans peur et sans reproche”, muore mamma e in odore di santità, piena di lettere mirabili. E che dire di sua cognata, Isabella d’Este, che anima la corte dove suo marito tresca con Lucrezia, e diventa la più fine collezionista della sua epoca. O di quell’altra cognata ancora, protettrice del Bramante, la Beatrice d’Este che muore giovane moglie di Ludovico il Moro. Quando non stava a Ischia Vittoria Colonna aveva come vicina di feudo, nel castello di Fondi, Giulia Gonzaga, cantata dall’Ariosto. Fra l’una e l’altra passava il meglio degli intellettuali e artisti dell’epoca, compreso Sebastiano del Piombo, ma soprattutto i grandi influenzati dal vento riformatore. Juan de Valdés, lo spagnolo con un pezzo di famiglia passata sul rogo, lui già cameriere segreto del papa, poi erasmiano convinto, uno per il quale l’Umanesimo significava porre l’uomo al centro della questione della fede. E poi Ochino, Vicario generale dei cappuccini, i francescani da poco rifondati nella povertà, lui che riparerà a Ginevra nel 1542, dove entrerà in contatto con Calvino. Inoltre quel bravo e sfortunato pensatore del Carnesecchi, il fiorentino che sarà bruciato a Roma nel 1567 dopo che lei, Giulia Gonzaga, da morta verrà spogliata delle sue lettere nelle quali verranno trovate le prove del loro luteranesimo convinto. Che dire poi di Caterina Cybo? Aveva come nonno paterno papa Innocenzo VIII e come nonno materno Lorenzo il Magnifico, e quindi era esperta di perversioni curiali e diventerà protettrice dei nuovi cappuccini con una posizione fortemente critica contro le indulgenze. Tanta era l’Italia dell’intelligencija d’allora coinvolta. La moglie di Ercole II d’Este, duca di Ferrara è Renata di Valois-Orléans, vicinissima al pensiero di Calvino. Nella sua corte sboccia quel fiore ch’è l’Olimpia Morata, figlia di umanista e poetessa pensatrice che andrà a morire a Heidelberg per difendere le sue convinzioni religiose e che influenzerà prima d’andarsene Lavinia della Rovere.

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Agnolo Bronzino, Ritratto di Lucrezia Panciatichi, 1539, olio su tela, cm 104x84, Firenze, Galleria degli Uffizi La più bella di tutte è la Lucrezia Panciatichi, ritratta con la scritta sulla collana “amour dure sans fin”, l’amore dura senza fine, pensiero di Valdés. E con un marito condannato come anabattista nel 1551 e poi salvato, ritratto con lo stesso berretto e la stessa barba di Calvino e di Jan Hus. Tante erano le donne libere e tendenzialmente eretiche in questo periodo, ma non spaventatevi, tutto è finito col Concilio di Trento.

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Leonardo, La belle ferronière, 1495-1499, olio su tavola, cm 63x45, Parigi, Musée du Louvre

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Bartolomeo Veneto, Flora o Lucrezia Borgia (?), 1520-1525 ca, olio su tela, cm 43,6x34,6, Francoforte, Städel Museum

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Tiziano, Isabella d’Este, 1534-1536 ca, olio su tela, cm 102x64, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Cristofano Allori (attr.), Giulia Gonzaga, seconda metà del XVI secolo, olio su tavola, cm 143,5x108,5, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Francesco Bachiacca, Vittoria Colonna, 1535-1540, olio su tavola, cm 102,5x79,5, Tokyo, Tokyo Fuji Art Museum

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Jean Clouet, Renata di Valois, 1524, matita nera e sanguigna, cm 28,6x20,5, Chantilly, Musée Condé

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SAN LORENZO A FIRENZE Verso il 1419 Filippo Brunelleschi fu incaricato di rinnovare la basilica di San Lorenzo a Firenze, una delle chiese più antiche della città, e di costruire la cappella gentilizia dei Medici, l’odierna Sagrestia Vecchia, che erano i principali finanziatori del progetto. La chiesa è uno dei massimi esempi di architettura del Quattrocento, a croce latina a tre navate con cappelle; lo spazio è organizzato secondo il modulo regolare della campata quadrata, che scandisce la progressione prospettica. Il volume è sottolineato da membrature in pietra serena che disegnano le linee dei solidi che compongono l’edificio. La Sagrestia Vecchia, ultimata nel 1428, è costituita da un vano cubico coperto da una cupola ribassata sorretta da pennacchi. Tradizionale luogo di sepoltura di tutti i Medici fino all’estinzione del casato, l’edificio fu arricchito nel Cinquecento da una nuova cappella, la Sagrestia Nuova, commissionata a Michelangelo nel 1519 da Leone X per ospitare le tombe delle giovani generazioni. Successivamente, nel 1523 lo stesso artista fu incaricato, all’interno del medesimo complesso, anche della costruzione della Biblioteca Laurenziana dal successivo papa Clemente VII. TORNA AL TESTO

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IL SACCO DI ROMA Nel 1527 dopo che papa Clemente VII si era reso promotore della Lega di Cognac, alleanza fra Francia, Lombardia, Venezia, Firenze e il Papato, l’esercito imperiale di Carlo V scese in Italia e per dieci mesi occupò e saccheggiò Roma. Il sacco fu un evento dal punto di vista politico e militare poco influente, ma con un enorme significato simbolico e venne letto dai protestanti come punizione divina per un papa che si era allontanato dal cristianesimo. Crollava il mito di Roma e furono distrutte numerose opere d’arte. La discesa dell’esercito protestante verso la città santa, appena dieci anni dopo la pubblicazione delle tesi di Lutero, obbligò la chiesa a mettersi in discussione. Sono anni di forte turbolenza politico-religiosa e di costanti tensioni fra Papato e Impero. Il successore di Clemente, Paolo III Farnese, nel 1545 aprì il Concilio di Trento che sfociò nella Controriforma cattolica. TORNA AL TESTO

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Cima da Conegliano, Sant’Elena, particolare, Washington, National Gallery of Art

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La sensualità della campagna veneta Dice il topo di città al topo di campagna: “Faresti meglio a lasciare questi posti selvatici e provare le comodità della città. La vita è breve, finché sei in tempo vieni a godere il lusso, l’allegria e la gioia del benessere”. Sono parole anche di Orazio. È questa la morale del mio percorso di rilettura della pittura veneta, che nasce dall’incontro fra la cultura di campagna e quella di città.

Itopi di città di Venezia sono Bartolomeo Vivarini, Carlo Crivelli, Giovanni Bellini, Vittore Carpaccio, Tintoretto e Canaletto, severi e teatrali. I topi della campagna veneta sono invece Cima da Conegliano, Giorgione, Tiziano, Jacopo Bassano e Veronese, portatori d’una sensibilità sensuale dove la natura gioca un ruolo fondamentale. Tutte e due le categorie sono acquatiche, perché il Veneto così vuole (e perché qui anche la polenta è più liquida che in Lombardia). Questa idea della liquidità ci permette di superare la vecchia opposizione tra Firenze e Venezia (disegno contro colore) e di pensare che, se è vero che il colore non ha bisogno di disegno, è pur sempre portatore di segno. La storia di Venezia cambia sostanzialmente con la caduta di Costantinopoli e la scoperta dell’America. Cambia perché dal mare si comincia a pensare alla terra. E poi, nel 1508, c’è l’ultimo tentativo di reprimere la Serenissima, fatto dalla Lega di Cambrai che mette insieme l’Impero, la Francia e il Papato. Fino a quel momento, la pittura veneziana rappresenta sempre e solo la città, come si può vedere nel grandissimo quadro di Giovanni Mansueti, che racconta episodi della vita di san Marco, dipinto per la Scuola Grande di San Marco. Dopo quel bizzarro pasticcio, Venezia muterà direzione, guarderà definitivamente alla terraferma. Venezia inventa il Veneto e il Veneto cambierà Venezia.

La Venezia ideale di Carpaccio Per Vittore Carpaccio la questione è sostanzialmente la medesima, ma con 441

alcuni elementi in più. Nei suoi dipinti, come per esempio la Predica di santo Stefano, l’architettura è protagonista della fantasia, il mondo è pieno di gruppi che conversano come succede a Venezia, ma appaiono dei primi elementi naturali. È una natura immaginata, forse anche gli animali lo sono: l’artista non è mai uscito da Venezia. L’unica cosa che è certa è il movimento e la vita delle persone. Tre sono gli elementi che convivono sempre: le architetture, i personaggi che “ciacolano” e quantità infinite di coniglietti, cervi inattesi e uccelli imprevisti. Il massimo di questa sommatoria di elementi si trova nelle Storie di sant’Orsola. Nelle scene, come quella del Ritorno degli ambasciatori in Inghilterra, le architetture vere si sommano a quelle immaginate. Fa parte del ciclo un telero che narra la dipartita dell’ambasciatore d’Inghilterra, che ha appena consegnato la lettera in base alla quale la futura santa sta per sposarsi con il figlio del re di quel paese. Nel caso specifico, racconta una scena che nella Repubblica di allora era quotidiana, perché Venezia era la più potente sede diplomatica mai inventata fino a quel momento. Ogni giorno riceveva ambasciatori da ogni angolo dell’Occidente e ogni giorno arrivavano dispacci dai suoi stessi ambasciatori, sparsi nelle corti d’Europa e del Mediterraneo. Smistamenti rapidi di pergamene ancora oggi conservate a centinaia di migliaia presso la Biblioteca Marciana, cancelleria perenne per un’informazione pilastro del commercio e della politica. Ma nella pittura del Carpaccio appaiono anche, per la prima volta, i veri protagonisti della vita veneziana: il cane, quello che seguirà i veneziani fino a Canaletto, e la bricola, bella, rotta e naturale. Il mondo urbano e lagunare di Carpaccio sarà contaminato dai “topi di campagna”, ovvero da quei pittori che provengono da ogni angolo dell’entroterra veneto.

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Vittore Carpaccio, Predica di santo Stefano, intero, 1514, olio su tela, cm 148x194, Parigi, Musée du Louvre

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Vittore Carpaccio, Predica di santo Stefano, particolare, 1514, olio su tela, cm 148x194, Parigi, Musée du Louvre

Vittore Carpaccio, Ritorno degli ambasciatori in Inghilterra, particolare, 1495-1498, olio su tela, cm 297x525, Venezia, Gallerie dell’Accademia

Cima da Conegliano e le nuvole 444

Occorre allora partire da Conegliano, città di Giovanni Battista Cima. Fu costui un artista molto prolifico, che visse a lungo e vide le sue opere emigrare, così come poi sarebbero emigrati i veneti, nel mondo intero. Un artista in fondo operaio, che ha imparato da Giovanni Bellini un gusto preciso per la pittura, ma che ha anche saputo guardare ovunque attraverso l’Italia. Quante cose può raccontare un solo quadro, la Sant’Elena del 1495. Lei è innegabilmente veneziana, come lo sono tante veneziane della seconda metà del Quattrocento, raccontate dal Bellini. Ma vi sono qui due elementi che rendono il quadro molto più ancorato alla sua terra d’origine, Conegliano: lo straordinario corpetto della santa, così incredibilmente sexy, ben poco laico ma probabilmente molto bizantino nell’immaginario di chi lo ha dipinto, e la funzione fondamentale del paesaggio a sinistra e a destra della santa, preciso nella sua descrizione con il fiume e le casette agricole.

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Cima da Conegliano, Sant’Elena, 1495 ca, olio su tavola, cm 40x32, Washington, National Gallery of Art

Nel Riposo durante la fuga in Egitto del 1496-1498 si ritrova lo stesso corpetto sexy, indossato questa volta da santa Lucia; lo stesso castello in cima alla collina e poi le stesse nuvole venete. Lo stesso castello, lo stesso ingresso nella città, lo stesso ponte sono ancora nella Madonna con il Bambino della National Gallery di Londra, delicatissima, molto domestica e agricola, che guarda il suo bambino con una tenerezza materna disarmante. E ovviamente anche qui non mancano quelle nuvole venete, che continueranno a sopravvivere nella pittura di queste zone fino a Francesco Guardi. Sempre a Londra, alla National Gallery, si conserva un’altra Madonna, del 1505, dove il Bambin Gesù ha questa volta un aspetto meno preoccupato mentre la Vergine è ancor più giovane. Qui torna lo stesso ponte visto prima e finalmente si spiega la sua origine: non esiste da queste 446

parti, probabilmente è la citazione del ponte perfetto di Rimini, quello d’epoca tiberiana che s’inserisce elegantemente e con assoluta naturalezza fra edifici locali invece reali. Ritroviamo altre citazioni qui con le rovine di un tempio antico sopra una città contemporanea. Quanto è cittadina la manica perfettamente lavorata e quanto è deliziosamente agreste il velo della Madonna. Ma vi sono due elementi in più, passo ulteriore: la presenza di un cerbiatto cristologico, lo stesso che troviamo regolarmente in Carpaccio, e il soldato con la lancia in mano che ritroveremo invece nella Tempesta di Giorgione, del tutto simile a quello in versione arcangelo Michele nella Madonna con il Bambino e i santi Andrea e Michele ancora di Cima, grande tela che racconta tutto il riscatto della nascita di Cristo, sull’antichità distrutta. Ovviamente sempre sotto lo stesso paesaggio a lui contemporaneo, ma dove il racconto antiquariale è svolto con estrema sapienza. Sant’Andrea deriva da un’incisione del Mantegna e sempre da lui viene probabilmente molto del gusto per l’antichità, nonché la descrizione precisa e abbondante dei finti marmi. Ma è un’archeologia annusata più che assimilata veramente, dove i dettagli diventano allegramente locali e il famoso bucranio storico diventa una testa di mucca. In fondo non è bucranio, non è taurino, è una pubblicità dei latticini.

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Cima da Conegliano, Riposo durante la fuga in Egitto, 1496-1498, tempera e olio su tavola, cm 54x71,5, Lisbona, Museu Gulbenkian – Fundação Calouste Gulbenkian

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Cima da Conegliano, Sant’Elena, particolare

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Cima da Conegliano, Riposo durante la fuga in Egitto, particolare

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Cima da Conegliano, Madonna con il Bambino, 1496-1499, olio su tavola, cm 69x57, Londra, The National Gallery

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Cima da Conegliano, Madonna con il Bambino, particolare, Londra, The National Gallery

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Cima da Conegliano, Sant’Elena, particolare, Washington, National Gallery of Art

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Cima da Conegliano, Madonna con il Bambino, intero, 1505 ca, olio su tavola, cm 53x43,8, Londra, The National Gallery

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Cima da Conegliano, Madonna con il Bambino, particolare, 1505 ca, olio su tavola, cm 53x43,8, Londra, The National Gallery

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Cima da Conegliano, Madonna con il Bambino, particolare, 1505 ca, olio su tavola, cm 53x43,8, Londra, The National Gallery

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Cima da Conegliano, Madonna in trono tra i santi Giacomo apostolo e Girolamo, intero, 1489, olio su tela, cm 214x179, Vicenza, Museo Civico

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Cima da Conegliano, Madonna in trono tra i santi Giacomo apostolo e Girolamo, particolare, 1489, olio su tela, cm 214x179, Vicenza, Museo Civico

Certo il contatto con Mantegna è ancora più importante se si pensa che quasi negli stessi anni appaiono le attenzioni per un cielo che si intravede in mezzo alle foglie nella Madonna in trono tra i santi Giacomo apostolo e Girolamo del 1489. Una struttura architettonica perfetta con una passione per la prospettiva centrale, già coltivata nell’Italia centrale di quegli anni, ma che sarà codificata nell’architettura di Sebastiano Serlio pochi anni dopo; l’opera conserva della cultura gotica ormai solo la piccola lucertola, mentre esalta quelle trasparenze nuove che negli stessi anni appaiono a Mantova. Un dipinto perfettamente rinascimentale nella sua concezione 458

architettonica e nel suo ordine descrittivo. E ne deve essere stato proprio fiero Cima, del suo lavoro, se lo firma con tanta enfasi in un cartellino centrale proprio sotto la Madonna.

Cima da Conegliano, Madonna con il Bambino e i santi Andrea e Michele, 1505, olio su tela, cm 259x137, Parma, Galleria Nazionale

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Giorgione, La tempesta, particolare, 1503-1504, Venezia, Gallerie dell’Accademia

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Cima da Conegliano, San Girolamo nel deserto, 1500-1510 ca, olio su tavola, cm 63,5x100,5, Harewood, Harewood House Trust

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Cima da Conegliano, Trittico di Navolè, San Martino e il povero, inizio del XVI secolo, olio su tavola, cm 180x90, Vittorio Veneto, Museo d’arte sacra

Va tra l’altro valutato questo suo doppio comportamento, capace di essere talvolta ordinatissimo e talaltra tornando a una sorta di linguaggio dove tutto si accumula e si somma: il San Gerolamo nel deserto è visto contemporaneamente in contemplazione e mentre studia. Il luogo dove studia viene ripetuto una seconda volta, col leone famoso fedelissimo. Tutto compreso in un gioco di horror vacui totale, con lucertoloni e serpenti, uno sparviero dall’occhio attento sulla punta del ramo, una piccola scena agricola, mentre tutto sembra composto da una sovrapposizione di 462

paesaggini come in un collage. Non è una situazione reale: la lucertola è in lotta con il serpentello, il serpente è preoccupato perché il martin pescatore fra poco lo beccherà. Ritroviamo qui il cervo cristologico, e poi un contadino con l’asinello, le due pernici dalle zampe rosse che si dicono essere simbolo della tentazione, il rapace simbolo dell’orgoglio dal quale guarire. Il Trittico di Navolè è un dialogo con tutta la realtà visiva che si sta articolando nell’Italia del primo Cinquecento e dove ritrovo dei dettagli attraenti, come i cuoi rossi del cavaliere San Martino, al centro, allora molto di moda, e degli altri che appartengono invece proprio al suo modo di concepire. Quella precisione come intagliata delle facce è un elemento che si ritrova parecchie volte in Cima. Il Veneto povero è innegabilmente magro, scarno, come quell’incredulo san Tommaso, nel dipinto delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, che infila il dito nella piaga di Gesù. Ed è scarno anche il San Rocco del Polittico di Olera, dipinto in modo eccellente, che mostra la sua piaga alzando la camicia.

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Cima da Conegliano, Polittico di Olera, San Rocco, 1489 ca, olio su tavola, Olera, Chiesa parrocchiale

Venezia inventa il Veneto e il Veneto cambierà Venezia.

I misteri di Giorgione Da Castelfranco Veneto viene un altro grande di cui abbiamo pochissime opere certe, ma in quelle poche si concentra un mito: Giorgione. 464

Castelfranco è una fortezza voluta da Treviso per difendersi da Padova nel Duecento, franco il castello perché era libero da vincoli e da tasse, ma anche forse perché ha lasciato crescere una mentalità molto libera e libertaria. Lì, nella chiesa del piccolo borgo, si conserva una delle sue opere migliori: la Pala di Castelfranco, del 1505. Accanto alla chiesa, nella casa-museo che porta il suo nome, Giorgione lascia un fregio molto significativo, perché apre gli occhi su quel mondo curiosissimo, misto di astronomia e di astrologia, di matematica e di predizioni, secondo le inclinazioni mentali del matematico, medico e astrologo Giovan Battista Abioso che nel 1496 speculava sulla fine del mondo, e dove lo spirito scientifico si combina con l’origine sua campana. Mentre il Veneto, in contatto con quel mondo, entra in una dimensione che la pittura di allora non aveva ancora conosciuto: la dimensione dell’immaginario, quella dimensione molto napoletana in cui lo spirito scientifico si mescola con la fantasia, come si combinerà cent’anni dopo nella testa di Tommaso Campanella. Una dimensione che porta nel mondo del probabile e della surrealtà. Molto probabilmente Giorgione è il primo incrocio tra un’esperienza primordiale, leggermente naïf, e uno sviluppo immediatamente successivo consapevole e surrealista. Le tre età dell’uomo, del 1500-1501, sono emblematiche perché partono da un’iniziazione numerica, la più sofisticata di tutte: quella della musica. In fondo, cosa si dicono quegli altri due nel Doppio ritratto del 1502-1503, lui con il baffo già sviluppato e l’altro con il baffo sporgente, enigmatici e ambigui, con le puntine d’oro che cadono dal cappello e un’arancia selvatica in mano? E cosa bisbigliano quei due nel Ritratto di guerriero, lui così apparente e l’altro nascosto nell’ombra, che gli posa una mano sul braccio come per fermarlo? Tutti si sussurrano misteri arcani, che già apparivano nel primo Giorgione.

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Giorgione, Fregio delle arti liberali e meccaniche, particolare, 1502-1503 ca, affresco, Castelfranco Veneto, Museo Casa di Giorgione

Il Saturno in esilio del 1498, è triste e appunto saturnino, sotto un ombrello protettivo che a noi appare come una abatjour. Un offerente gli porge, per fargli sopportar la tristezza, un vassoio di fiori recisi, appena tagliati con delle forbici che tiene ancora infilate nella cintura. Riappare ancora una volta la musica in un mondo come fatato, dove ritrovo il cervo di sempre, accanto al pavone naturalmente, insieme con un leopardo che è molto meno improbabile del previsto perché nel 1402 ne arrivarono due a Venezia, mandati al seguito dell’ambasciata del Negus. Trovo poi un corvo o uno sparviero, trasformato in gazza. Ma attenzione, gazza è e non è. Tutto qui è il suo mistero, perché punta col becco in un foro della roccia dove prende forma l’ipotesi di un san Gerolamo, il quale anche lui è e non è. E poi ipotesi di paradisi terrestri improbabili, analoghi a quelli che in quegli stessi anni sta scrivendo e descrivendo Francesco Colonna nel suo Hypnerotomachia Poliphili.

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Giorgione, Le tre età dell’uomo, 1500-1501, olio su tavola, cm 62x77, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti

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Giorgione, Ritratto di guerriero, 1509 ca, olio su tela, cm 72x56,5, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Giorgione, Doppio ritratto (Ludovisi), 1502-1503, olio su tela, cm 77x66,5, Roma, Museo di Palazzo Venezia

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Giorgione, Saturno in esilio, intero, 1498 ca, olio su tavola, cm 59x49, Londra, The National Gallery

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Giorgione, Saturno in esilio, particolare, 1498 ca, olio su tavola, cm 59x49, Londra, The National Gallery

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Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, Corteo con ninfe, drago e putti, 1499, xilografia, Venezia, Biblioteca Marciana

In fondo, sin dagli esordi, in Giorgione tutto è e non è. Tutto è vero ed è fantasia, tutto è forse molto più fantasia che vero. E ricompaiono anche nel Giudizio di Salomone alcuni elementi stabili: la torre espressiva che forse ci sorride, ma anche no; i paesaggi incredibili che sono un cocktail di campagna e di Venezia; scene con personaggi vestiti a loro volta in modo particolarmente bizzarro. Come lo sono pure i tre personaggi curiosissimi nel Concerto, del 1508, anche se a mio parere non cantano affatto. Il barbuto è silenzioso, il personaggio centrale forse urla o 472

canta. Ma è straordinaria nella sua deformità la posizione del personaggio di sinistra che pare uscire già dalla mano di Gustave Doré. Diventa possibile così accettare con entusiasmo l’attribuzione recente del Cristo portacroce della Scuola Grande di San Rocco a Venezia, dove lo stesso dialogo s’instaura tra il Cristo e un bizzarrissimo barbuto, che potrebbe sembrare un magistrato spagnolo lasciato libero di correre per l’Europa. In secondo piano ancora due figure enigmatiche, simili a leonardesche caricature. A questo punto mi permetto di smontare le mille interpretazioni sorte intorno alla Tempesta, del 1503-1504: quadro mitico, un ciclone nell’ambito del dipingere. Possiamo cominciare qui a definire alcuni punti certi: è assolutamente sicuro che quel fulmine in lontananza non si sta abbattendo sulle Twin Towers di New York, i misterismi non esistono, esiste solo un’anticipazione formidabile del dibattito che nel XX secolo opporrà la metafisica di Giorgio de Chirico al mondo onirico di André Breton.

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Giorgione (o Tiziano), Cristo portacroce, 1510 ca, olio su tela, cm 70x100, Venezia, Scuola Grande di San Rocco

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Giorgione, Concerto (Sansone deriso), particolare, 1508 ca, olio su tela, cm 86x70, Collezione privata

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Giorgione, Giudizio di Salomone, 1495-1498, olio su tavola, cm 89x72, Firenze, Galleria degli Uffizi

Forse così riusciamo finalmente a capire un po’ meglio il Tramonto della National Gallery di Londra. Questo quadro è a sua volta incredibilmente bizzarro: diviso in due da un albero, come se l’albero fosse l’elemento principale. Con un san Giorgio inatteso che infilza il drago, mentre Filottete si fa curare il piede da Lemno, ma potrebbe anche essere soltanto un passeggiatore che si è slogato la caviglia. Comunque sia, le figure vivono in un paesaggio delicato e mentale, dove in fondo si scorge un mare dal colore verde e cupo, che mostra però altri aspetti inquietanti come a destra la roccia dalle sembianze di una capra in meditazione, mentre sulla sinistra la roccia si fa volto misterioso e orrendo. Una dimensione a mio parere nient’affatto simbolica, come sempre si crede, ma puramente onirica. Giorgione suona anche il manifesto d’una nuova sensualità con la Venere di Dresda; lo suona a quattro mani con un suo giovane socio che viene dalla 476

montagna, il cadorino Tiziano.

Giorgione, La tempesta, 1503-1504, olio su tela, cm 82x73, Venezia, Gallerie dell’Accademia

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Giorgione, Tramonto, 1506-1510, olio su tela, cm 73,3x91,4, Londra, The National Gallery

Jacopo Bassano, il vate dei piedi sporchi Bassano del Grappa è la città del Ponte degli alpini sul fiume Brenta – quante volte l’hanno distrutto! (L’ultima volta è successo durante la Seconda guerra mondiale ed è poi stato ricostruito, pare, secondo i disegni di Palladio). Ed è anche la città di Jacopo da Ponte, figlio di padre pittore, Francesco, un po’ rustico però non privo di una forte capacità espressiva e con un’attenzione tipicamente artigianale ai dettagli concreti. A trent’anni Jacopo è pittore maturo. Lo conferma la Sant’Orsola del 1542, dove già è chiara la sua personalità. Neanche lontanamente è afflitto da manie intellettuali dell’epoca, ma sicuramente è attento alla realtà che vive e che riporta con una precisione abbastanza commovente. La fanciulla martire è rustega, come le sue origini. Sono commoventi le unghie dei suoi piedi, di chi il sandalo lo porta poco, la sega da legno che per quanto leggermente scrostata è esattamente identica a quelle che si usavano fino a 478

vent’anni fa da queste parti e lascia apparire sulla sua dentatura i puntini bianchi del legno strappato.

Jacopo Bassano, Sant’Orsola tra i santi Valentino e Giuseppe, particolare, 1542, olio su tela, cm 168x106, Bassano del Grappa, Museo Civico

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Jacopo Bassano, Sant’Orsola tra i santi Valentino e Giuseppe, intero, 1542, olio su tela, cm 168x106, Bassano del Grappa, Museo Civico

Il Riposo durante la fuga in Egitto è del 1547. Cinquant’anni dopo sarà comprato dal cardinal Federico Borromeo, che in lui trova una serie di virtù estetiche assolutamente fondamentali. Ed è per quel periodo forse uno dei dipinti più potentemente realisti. Ma è anche un compendio di microcontraddizioni: la Madonna è già manierista, come se avesse dialogato con i colori dei fiorentini o forse con El Greco, se però il suo comportamento è aulico, la sua faccina è agreste. Il Bambino Gesù è proprio un puteo di quelli 480

classici. San Giuseppe è realmente preoccupato. E la sua condizione umile è rappresentata dai singoli dettagli, in modo formidabile nella precisione delle calze e dei calzari. E questi tre personaggi che non dovrebbero avere nulla a che fare in realtà con la fuga in Egitto, perché è una fuga da miserabili quindi senza servitù appresso, però tengono un asino dal muso perfetto e con la corda della musina arrotolata intorno all’orecchio per renderlo obbediente. Un’attenzione precisa alla vita degli animali. Chissà se possedere due cani, che appaiono costantemente, era per lui un segno di sudditanza alla psiche di Tiziano, che non concepiva mai un quadro senza un cagnetto. I cani li ritrovo esattamente in un dipinto del 1548 da poco acquistato dal Louvre.

Jacopo Bassano, Riposo durante la fuga in Egitto, intero, 1547, olio su tela, cm 118x158, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

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Jacopo Bassano, Riposo durante la fuga in Egitto, particolare, 1547, olio su tela, cm 118x158, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

Stessa Madonna, medesimo fanciullo rubicondo con il ciuffetto in testa, ammirato da un vegliardo chic, li incontriamo nell ’Adorazione dei Magi. Il vecchio, uno dei magi, indossa qui un vestito di sontuosa qualità, però è ritratto in una posizione assolutamente popolare, in ginocchio. E lascia apparire un paio di stivali in vacchetta rovesciata e con l’attaccatura degli speroni identica a quella che si usa ancora oggi. L’asino sulla sinistra sembra annusare l’oro, e in realtà il vero centro del quadro è proprio il vecchio genuflesso. A tal proposito Jacopo pare aver avuto qui un pentimento etico: ha ridato centralità al Gesù con una sorta di illuminazione stellare che lo colpisce. Si capisce che non ha mai visto un cammello, ma di vecchi in ginocchio che giocano affettuosamente con i bambini ne ha visti 482

tantissimi. Perché di anziani lui se ne intende, se aveva ritratto in questo modo Pietro Bembo, pelo bianco per pelo bianco, un po’ come se fosse concorrente degli altri grandi ritratti che in quegli anni Tiziano fa dei letterati.

Jacopo Bassano, Due bracchi legati al tronco di un albero, 1548-1550, olio su tela, cm 61x80, Parigi, Musée du Louvre

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Jacopo Bassano, Adorazione dei Magi, 1568 ca, olio su tela, cm 94x130, Birmingham, The Barber Institute of Fine Arts

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Jacopo Bassano, Discesa dello Spirito Santo, particolare, 1559 ca, olio su tela, cm 311,5x172,5, Bassano del Grappa, Museo Civico

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Jacopo Bassano, Discesa dello Spirito Santo, intero, 1559 ca, olio su tela, cm 311,5x172,5, Bassano del Grappa, Museo Civico

Nella Discesa dello Spirito Santo anche la Madonna è vecchia, come sta invecchiando lui stesso. Jacopo Bassano si intende di vita quotidiana, di dettagli materiali ma soprattutto di piedi sporchi. Ho visto in lui i piedi più sporchi della storia della pittura dei piedi sporchi. È la dichiarazione di libertà di una popolazione di campagna che vive a piedi nudi e contesta profondamente la Venezia delle ciabatte. E tutto ciò lo fa assimilando al 486

meglio la grande lezione di un Tiziano che sta diventando impressionista, dove non conta più il disegno ma solo la materia che va a formare l’immagine, e dove i contrasti tra i colori possono essere totali. Con Jacopo Bassano si verifica un fatto molto curioso: il manierismo diventa espressionismo, e i colori rosa, forse provenienti da Firenze, assieme agli azzurri dei fondi, forse provenienti dai primi tentativi di Giorgione, generano un cromatismo che El Greco porterà in Spagna. San Valentino battezza santa Lucilla riassume perfettamente l’itinerario d’una maturità raggiunta e di una qualità tecnica ormai totalmente dominata. Il cagnetto di Tiziano è tranquillo, la lezione è assimilata. La capacità di dipingere le stoffe è insuperabile, sia nell’argentato della santa che si fa battezzare, sia nel moiré della manica del paggetto. La croce è quella di casa, cioè quella di Bassano. Ma ciò che mi commuove in fondo sono i dettagli della quotidianità: una sedia con una impagliatura come quelle che si trovano in giro ancora da queste parti, le forbici, il cestino dei lavori che ogni buona fanciulla per diventar santa deve necessariamente praticare e, piccola nota conclusiva e centrale del dipinto intero, la mela. Il codice linguistico diventerà stabile nelle opere successive, nella raffigurazione esaltatoria del mondo contadino e dei suoi animali domestici. In un Veneto di lavoratori, che piacerà alla Controriforma nascente, Bassano si trasformerà da artista pop in artista di traino, a tal punto che i suoi figli, ormai alla terza generazione di pittori, sicuramente meno bravi di lui, saranno ormai signori sanciti, artisti-artigiani con una vera professione in mano.

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Jacopo Bassano, Ritratto di Pietro Bembo cardinale, 1545, olio su tela, cm 57x45, Budapest, Szépművészeti Múzeum

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Jacopo Bassano, San Valentino battezza santa Lucilla, 1575 ca, olio su tela, cm 183,5x129,5, Bassano del Grappa, Museo Civico

Il Veronese, lusso e seduzione Analizziamo infine il caso di Paolo Caliari detto il Veronese, perché viene da Verona. Viene dalla terraferma anche questo “topo”, con la sua idea di maschi convinti e seri anche quando diventano santi, con le carni morbide e biancastre delle sue femmine che si sostengono sempre il seno. Non per nasconderlo ma per porgerlo languidamente, come in questo capolavoro 489

autentico, Venere e Marte con Cupido, la dea dell’amore e il dio della guerra, infedeli, affogati in un lusso satrapico e veneziano. Veronese il tema mitologico di Venere e Marte lo celebrerà tante volte, ma in questo caso ancora una volta in modo straordinario. Le perle di lei e la pettinatura sono realizzate con piccoli colpetti leggeri di biacca, la stessa che ritroviamo nella pittura liquida che definisce le tende. Una passione per il segno che diventerà una cifra regolare della pittura veneta e che probabilmente è il vero contrappunto alla passione veneta per il colore. Perché per loro in realtà non è tanto il disegno che conta, quanto l’atmosfera, e l’atmosfera nasce dalla materia-colore. Mentre i fiorentini, da neoplatonici quali sono, ritengono che tutto derivi dall’idea, i veneti pensano che tutto dipenda da una matrice comune forse più materiale. E con un piccolo e nervosissimo tocco di pennello la materia la inventano, come in questa garza bianca, che sempre secondo i dettami scopre un seno di Europa.

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Veronese, Venere e Marte con Cupido, intero, 1575 ca, olio su tela, cm 47x47, Torino, Galleria Sabauda

La mitologia e l’antichità forniscono gli esempi, come nella splendida Lucrezia. In Giuditta e Oloferne tutto è sensuale, anche la faccia da contadina della protagonista. La storia complessivamente si riassume alla perfezione nel bellissimo trittico: Atteone che osserva Diana e le ninfe al bagno, Atalanta riceve la testa del cinghiale, Giove con Venere del Museum of Fine Arts di Boston. Ultimo punto evolutivo della Tempesta di Giorgione, la terraferma, il Veneto, è ormai un’arcadia erotica, dove la vita si svolge secondo i migliori parametri del Rinascimento diventato manierista, passando dalla tavola alla passeggiata intellettuale, e a quell’altra sublime questione… Però sempre sotto il segno della materia e del colore.

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Veronese, Venere e Marte con Cupido, particolare, 1575 ca, olio su tela, cm 47x47, Torino, Galleria Sabauda

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Veronese, Il ratto di Europa, 1575-1580, olio su tela, cm 240x307, Venezia, Palazzo Ducale

Veronese, Atalanta e Meleagro, 1562-1565, olio su tela, cm 26x101, Boston, Museum of Fine Arts

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Veronese, Atteone e Diana con le ninfe, 1562-1565, olio su tela, cm 25,7x101, Boston, Museum of Fine Arts

Veronese, Venere e Giove, 1562-1565, olio su tela, cm 27x101, Boston, Museum of Fine Arts

Con Veronese il lusso veneziano si trasferisce in campagna, dove, nelle ville palladiane, troverà l’opportunità dell’esaltazione massima, ed emuli infiniti del suo gusto e del suo fare.

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Veronese, Giuditta e Oloferne, 1580 ca, olio su tela, cm 195x176, Genova, Palazzo Rosso

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Veronese, Lucrezia romana, 1585, olio su tela, cm 109x90,2, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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LEGA DI CAMBRAI Il 10 dicembre 1508, sotto la guida di papa Giulio II, l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, Luigi XII di Francia, Ferdinando II d’Aragona, Alfonso I d’Este, Carlo III di Savoia e Francesco II Gonzaga si riunirono nella cosiddetta Lega di Cambrai (dal nome della cittadina francese in cui venne siglato il segretissimo trattato fra gli alleati). Il loro obiettivo era quello di sgominare la Serenissima Repubblica di Venezia, molto ambita per via della sua ricchezza, frutto di commerci e traffici via mare, e da qualche decennio protesa sempre di più verso la terraferma, tanto da far temere che volesse addirittura conquistare l’intera penisola. La guerra che ne seguì non ebbe episodi particolarmente eclatanti (fatta salva una schiacciante sconfitta veneziana nella battaglia di Agnadello del 1509) e la vicenda arrivò a una conclusione strategica quando il Papato si accorse che i francesi avrebbero potuto essere molto più pericolosi dei veneziani e decise di cambiare schieramento. L’anno successivo anche la Spagna e l’imperatore fecero lo stesso, e fu così che nel 1511 si assistette allo scioglimento della Lega di Cambrai e alla nascita della cosiddetta Lega Santa, questa volta con Venezia e contro la Francia. TORNA AL TESTO

HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI Nel 1499 Aldo Manuzio, umanista veneziano nonché primo e più raffinato degli editori del nostro Paese, stampa e pubblica un romanzo allegorico arricchito da 172 splendide xilografie, intitolato Hypnerotomachia Poliphili (che, tradotto, suona come “amoroso combattimento onirico di Polifilo”). Un libro ricco di misteri a partire dal suo autore, sulla cui identità a lungo si è dibattuto. Oggi si ritiene che sia stato scritto da Francesco Colonna perché, lette di seguito, le iniziali di tutti i capitoli danno la frase Poliam frater Franciscus Columna peramavit, ovvero: “Il fratello Francesco Colonna amò intensamente Polia”. È la storia di un’iniziazione: Polifilo viaggia nel sogno per ritrovare la sua amata Polia fra trabocchetti, interrogativi, prove, fantasticherie meravigliose, incubi terrificanti, fino al raggiungimento della Sapienza. L’opera ebbe una grande eco ai tempi della sua pubblicazione, tanto per la bellezza dell’oggetto libro in sé, quanto per i suoi intriganti e irrisolti contenuti. TORNA AL TESTO

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Tiziano, Danae, particolare, Madrid, Museo Nacional del Prado

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Il cagnolino di Tiziano Perché mai è così importante Tiziano? Raffaello, Michelangelo, Leonardo ci fanno subito venire in mente un’immagine. Di Tiziano sappiamo che è fondamentale, ma non sappiamo il perché. La questione è che questo straordinario artista non evoca un’immagine, ma un modo di fare immagine.

Questa storia inizia con il cardinale Borromeo, quando comincia a raccogliere la sua collezione per l’Ambrosiana. Da poco il suo collega cardinale Scipione Borghese ha comprato sul mercato d’arte L’Amor sacro e l’Amor profano, uno dei primi capolavori di Tiziano del 1514-1515. A Milano Federigo, per non esser da meno, esattamente come a Roma il cardinal Borghese, acquista Tiziano, ma uno molto particolare, l’Adorazione dei Magi, con la cornice già destinata a Diana di Poitiers. Un tempo nel dipinto il cavallo si grattava la testa contro la zampa e guardava verso un punto che non pare esistere, verso la base del palo. Il palo separa in due il dipinto componendolo come due predelle successive d’un racconto. È come se mancasse qualcosa in mezzo, perché, per quanto fosse importante il legname per Tiziano, un palo non può essere così centrale. Il quadro rivisto oggi, a restauro avvenuto, rivela una serie di particolari che sono tipici del modo di vedere di Tiziano: il personaggio che sembra proprio un veneziano con la cassa degli schèj in mano, il cavallo in una posizione di una naturalezza quasi contadina, i ferri della guerra raffigurati con l’attenzione di chi s’intende veramente di metalli. Ma la vera sorpresa è il palo che Tiziano mette in mezzo alla costruzione del quadro, perché sta per Tiziano in mezzo a tutte le costruzioni, visto che lui, oltre a dipingere, vende pali di legno. La pulitura ha rivelato una storia simpaticissima: il cagnetto presente in tutti i quadri di Tiziano, nanerottolo tremendo a pelo bianco e rosso, alza la zampa e compie il dovere che tutti i cani maschi hanno sempre compiuto davanti a tutti i pali del mondo. E ora si capisce il rapporto regolare fra Tiziano e la sua terra, quel rapporto che André Malraux è riuscito a riassumere in una frase 500

elegantissima: “Tiziano appendeva le sue Veneri alle nubi del Cadore”. Fondamentale quindi il cagnetto dipinto negli anni fra il 1559 e il 1560 in questa tela che fece soffrire Tiziano. Era stata commissionata da Ippolito d’Este, il cardinale colto e raffinato protettore dell’Ariosto. La voleva per il re di Francia Enrico II e per lusingarlo, appunto, l’aveva fatta incorniciare con una cornice dedicata alla di lui amante Diana di Poitiers. Ma il giovane re muore e il quadro rimane in Italia e torna sul mercato, alterato; lo compra così il cardinale di Milano, il quale annota, nelle sue carte a proposito del cane: “Quando Tiziano seppe che alla corte d’Ippolito d’Este era stato coperto il gesto oltraggioso, con le lacrime agli occhi disse che non c’era da stupirsi che persone ignoranti compissero tale scempio”.

Tiziano, Adorazione dei Magi, fotografia dei primi del Novecento con il dipinto di Tiziano prima dell’intervento di restauro

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Tiziano, Adorazione dei Magi, particolare, 1559-1560, olio su tela, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

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Tiziano, Adorazione dei Magi, intero, 1559-1560, olio su tela, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

Già allora, come si vede, i cagnetti contavano moltissimo, e questo era già apparso nel Ritratto di Clarice Strozzi nel 1542, quando lei, figlia di Maddalena de’ Medici e di Roberto Strozzi, era in esilio con i genitori a Venezia. C’era lo stesso cagnetto nella Venere di Urbino del 1538 e prima ancora, nel 1536-1537, addirittura nel ritratto della duchessa di Urbino, Eleonora Gonzaga. Cagnetto molto longevo (d’altronde si sa: più son piccoli più campano), che si rivede nella Cena in Emmaus e nel grande quadro della famiglia Vendramin.

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Tiziano, Ritratto di Clarice Strozzi, 1542, olio su tela, cm 115x98, Berlino, Gemäldegalerie

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Tiziano, Ritratto di Eleonora Gonzaga, 1536-1537, olio su tela, cm 114x103, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Tiziano, La famiglia Vendramin adora le reliquie della Vera Croce, particolare, 1543-1547, olio su tela, cm 206x288, Londra, The National Gallery

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Tiziano, Cena in Emmaus, particolare, 1540 ca, olio su tela, cm 169x244, Parigi, Musée du Louvre

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Tiziano, Venere di Urbino, particolare, 1538, olio su tela, cm 119x165, Firenze, Galleria degli Uffizi

Fra gli abeti del Cadore Tiziano nasce a Pieve di Cadore fra gli anni settanta e novanta del Quattrocento. Il palazzo dei Vecellio, dove secondo la tradizione gli affreschi sarebbero stati fatti da Tiziano giovane (ma non si sa), è la casa che gli si attribuisce come casa natale, perché lui nasce nell’ambito del patriziato cadorino. Da queste parti del mondo l’abete ovviamente abbonda, ma tra Quattro e (soprattutto) Cinquecento diventerà una vera e propria risorsa strategica per l’arsenale di Venezia e per la continuazione dell’impero marittimo della Serenissima. La svolta di Cambrai è in realtà fondamentale per la storia e la ricchezza del Cadore, perché, distrutta la flotta, persa la possibilità degli approvvigionamenti pugliesi, questi monti diventano centrali per la produzione del legname. D’altro canto sono anche di facile passaggio verso 508

Venezia, perché le vie delle acque che scendono dalle montagne costituiscono un sistema di trasporto ideale. Il percorso di produzione dell’abete è perfettamente documentato in una pergamena dei primi anni del Seicento. L’abete cresce in alta montagna, nel punto di connessione fra Cadore e Carnia; viene tagliato, portato giù lungo i fiumi, fino a un incrocio di triangolo fra valle e pieve, che è la ragione tra l’altro dell’importanza della città di Pieve. Poi scende lungo il Boite, il torrente cadorino, e si infila nel Piave, che diventa la grande autostrada del legname. Ed è proprio su questa risorsa strategica e fondamentale per la Serenissima che si siede Tiziano. Questo figlio di famiglia ricca ha talento e se ne va a bottega dal più grande dei veneziani, Giovanni Bellini, il pittore ufficiale della Repubblica, poi passa per Padova a farsi i muscoli pittorici, e si lega a quella stella cometa che è Giorgione. Quando muore Bellini, nel 1516, Tiziano prende il suo posto ufficiale. Perché così in fretta? Perché una carriera così rapida? Perché sta compiendo una rivoluzione del gusto che forse corrisponde anche al cambiamento degli orientamenti della Serenissima, la quale da potenza di mare sta diventando regina di terra. Lui, come Giorgione di Castelfranco, sta portando in città le virtù fisiche della campagna. Ne è prova tangibile la prima opera che realizza per la chiesa dei Frari, la Pala Pesaro, quella dove tutti gli equilibri di prima vengono messi in discussione. Jacopo Pesaro era già stato ritratto da lui per celebrare la vittoria sui turchi del 1502 con alle spalle papa Borgia che, per la prima volta, raccomanda ancora da vivo il comandante militare cardinale a san Pietro che, a scanso di equivoci, è seduto sul soglio romano antico. Il dipinto è posteriore ai fatti e serviva forse a dimostrare che Venezia, soggiogata dalla Lega del papa seguente, Giulio II, con san Pietro aveva buoni rapporti.

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Tiziano, Pala Pesaro, 1519-1526 ca, olio su tela, cm 478x268, Venezia, Santa Maria Gloriosa dei Frari

Il quadro dei Frari è successivo ancora negli anni e nella sequenza dei papi ma ribadisce il concetto. Il papa è rappresentato solo dalla medesima bandiera rossa, absit iniuria verbi, perché la porpora è allora ancora colore papale. Qui Jacopo Pesaro guarda san Pietro, sempre sul soglio con la chiave, il quale intercede presso la Madonna, in linea obliqua diretta. Per questo lei è decentrata rispetto alla tradizione. Gli altri Pesaro hanno la faccia soddisfatta di chi mastica potere e frutti di mare. Fenomenale il fanciullo che guarda in camera per attirare lo sguardo dello spettatore. Grandiosa la visione architettonica che sa di cinema. Tiziano aveva già 510

pochi anni prima dipinto l’Assunta, quella dove al pian di sotto tutto è popolar cadorino, e sopra, oltre la separazione, in alta quota dove sta Dio padre, tira il vento. Come tira il vento, nei medesimi anni nella Resurrezione di Cristo a Brescia, la città dove, sedata la rivolta e tornata Venezia padrona, si porta anche il nuovo linguaggio del pittore ufficiale. Nel Polittico Averoldi sono già presenti tutti i modi liberi della pittura successiva di Tiziano. Nel 1525 Tiziano, su raccomandazione dei Gonzaga, incontra Carlo d’Asburgo, non ancora Carlo V imperatore. Lo affascina e riesce a farsi fare conte palatino, onore mai concesso prima a un pittore. Gloria, carriera e danaro.

Tiziano, Jacopo Pesaro presentato a san Pietro da papa Alessandro VI Borgia, 1503-1506, olio su tela, cm 145x183, Anversa, Musée Royal des Beaux-Arts

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Tiziano, Polittico Averoldi, particolare con Cristo risorto, 1520-1522, olio su tavola, cm 278x253, Brescia, San Nazaro e Celso

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Tiziano, Assunta, 1516-1518, olio su tavola, cm 690x360, Venezia, Santa Maria Gloriosa dei Frari

La terza età creativa Ma di Tiziano ciò che mi colpisce di più è la longevità, vera e calcata con tale esagerazione che suo figlio Pomponio sosteneva che fosse morto a centotré anni. Ciò che lui fa più o meno negli ultimi vent’anni della sua vita, 513

quando decide di tornare parzialmente nella sua patria di origine e qui organizza la più potente delle fabbriche di produzione pittorica esistenti allora in alta Italia, dovrebbe sollevare simpatiche discussioni sulla creatività della terza età. L’arte dei vecchi è cosa curiosa, chiede più visceralità che intellettualismo. Tiziano è diventato una sorta di esperto della terza età, a tal punto che la sua Ultima Cena, quella del duca d’Alba, pare un’Ultima Cena fatta in gran parte da uomini e da apostoli della terza età. Giovanni rimane giovanissimo, ma le barbe grigie abbondano, i dettagli precisi sul tavolo e nelle facce sono perfettamente conformi a quel senso di realtà che chiede la Controriforma. Mi sembra un po’ invecchiato anche il cagnetto.

Tiziano, Ultima Cena, 1550-1557, olio su tela, cm 167x225, Madrid, Palazzo Liria, Collezione dei duchi d’Alba

Ultima fase della sua pittura, il materiale pittorico si disfa, in alcuni casi viene abbandonato l’uso del pennello, lui fa quello che farà Edvard Munch alcuni secoli dopo, lascia invecchiare i dipinti finché diventano durissimi e ci lavora sopra una seconda volta, spesso con dei colpi di materia messi giù addirittura con le mani, come nel San Giacomo apostolo. Certo lui sul tema della vecchiaia si era cimentato da tempo, perché quando ritrae Paolo III 514

Farnese il papa è già vecchio, ma lui è un artista sostanzialmente nel pieno delle sue forze. Questo suo diritto a ritrarre in un modo particolarmente aggressivo, quasi agricol-ironico, gli proviene forse dall’amicizia con il più provocatore degli intellettuali di quegli anni che è Pietro Aretino. Egli stesso diventa tra l’altro vecchio, degno assolutamente di nota, nel ritratto fattogli da uno dei suoi ammiratori che porta il nome adatto al caso, Pietro della Vecchia. Egli ha capito molto di Tiziano nella stesura della materia, nella capacità di far rilevare la catena d’oro con un piccolo leggero colpo di pennello. Lui invece, Tiziano, ha capito tutto del suo ruolo, lo troviamo cosciente di se stesso, capace di scrivere lettere di protesta a Filippo II per farsi pagare e addirittura capace di fingere in quegli anni di avere novant’anni per meritare un versamento più rapido.

Tiziano, Ultima Cena, particolare, Madrid, Palazzo Liria, Collezione dei duchi d’Alba

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Tiziano, Ultima Cena, particolare, Madrid, Palazzo Liria, Collezione dei duchi d’Alba

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Tiziano, San Giacomo apostolo, 1566 ca, olio su tela, cm 89x67, Venezia, San Lio

Questa stessa sottile ironia la ritrovo nel ritratto che lui fa a Francesco I dopo la prigionia, arrogante, leggero, francesissimo nella pettinatura, con i capelli che gli scendono in testa, e geniale nella capacità di far intuire la veste attraverso un semplice colpo di pennello.

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Pietro Della Vecchia, Ritratto immaginario di Tiziano, 1635 ca, olio su tela, cm 115x92, Collezione privata

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Tiziano, Ritratto di Francesco I, 1538, olio su tela, cm 109x89, Parigi, Musée du Louvre

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Tiziano, Autoritratto, 1560 ca, olio su tela, cm 96x75, Berlino, Gemäldegalerie

Il mercato dell’arte, che spesso è un handicap per le mostre perché spinge a esporre opere assai vicine al dubbio, ogni tanto è un colpo di fortuna e sa di miracolo, ed è il caso del Ritratto di donna con fanciulla, risorto dall’oblio dopo una pulitura, che irrompe fino ai giorni nostri come certi rari bozzetti del XIX secolo, le facce sono compiute e il resto sta nel flou della sperimentazione, ma la parte terminata contiene una capacità di rappresentazione stupefacente. Questo modo di far capire con semplici e leggerissimi colpi di pennello, che visti da vicino sembrano privi di significato, tornerà solo con Velázquez; da lui passerà a Goya, e da questi a Manet. Tiziano, l’agreste di montagna, porta a Venezia un altro modo di vedere 520

che è molto vicino e confortato dalla visione di Giorgione, l’agreste di collina. Irrompe la natura e la fisicità nel dipingere, quindi il nudo di donna, quello della Venere di Dresda come prototipo giorgionesco, quello delle due ragazze così innaturalmente svestite nel Concerto campestre in mezzo agli artisti vestiti. Un quadro questo che è al Louvre e forse ha stimolato Manet nel Déjeuner sur l’herbe.

Gli anni della sensualità Negli ultimi venticinque anni della sua vita Tiziano trova un cliente d’eccezione, Filippo II. Era figlio dell’imperatore Carlo V, suo primo grande cliente, l’uomo che dominava il regno più vasto del mondo, quello sul quale il sole non cala mai, dalle Indie fino all’America latina. Con la masticazione inversa come quella del padre, bello come tutti gli Asburgo, geniale nel raccogliere quadri ma frugale nel pagarli. E in quei venticinque anni a Tiziano succede ciò che accadrà alcuni secoli dopo a Pablo Picasso: entra in un giro appassionato e creativo di sensualità. Tiziano riprende tutte le storie delle Metamorfosi di Ovidio per trasformarle in un enorme panorama di pettegolezzi sulle marachelle di Giove: la divina e olimpica erotomania di Giove e i vari modi che lui inventa per circuire e procreare nell’infinito mondo femminile della mitologia antica, come la Danae fecondata da una pioggia d’oro, la quale, per un cadorino a Venezia è ovviamente fatta di monete d’oro.

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Tiziano, Ritratto di donna con fanciulla, 1555 ca, olio su tela, cm 88x80, Collezione privata

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Tiziano, Concerto campestre, 1509-1510, olio su tela, cm 110x138, Parigi, Musée du Louvre

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Tiziano, Venere con suonatore di liuto, 1565-1570, olio su tela, cm 165x209, New York, The Metropolitan Museum of Art

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Tiziano, Danae, 1553, olio su tela, cm 129x180, Madrid, Museo Nacional del Prado

L’unica che non appare mai è Giunone, perché lei è la vera padrona di casa pronta a punirlo. In cambio, questo percorso gli consente di recuperare l’intera sua storia passata e di rendere semmai giunoniche le Veneri che ha già dipinto trent’anni prima e che qui riprendono un sapore nuovo molto più evoluto nella pittura e nella forma del corpo. Con personaggi nuovi come il suonatore di liuto che hanno già assorbito tutta l’eleganza della cultura rinascimentale portata al livello più avanzato della propria autodigestione, quelli che ricompariranno nel Seicento sotto il pennello del Caravaggio. Tra l’altro in questi anni maturi continua il grande gioco dei ritratti come il ritratto fantastico di Paolo III Farnese a dimostrare che il potere non logora, incurva, come si è ben dimostrato nella storia recente. Poi il ritratto magistrale dell’antiquario Strada a ricordare l’amore di Tiziano per le cose antiche e le lettere. Una passione per le lettere alle quali non era stato iniziato da studi sofisticati, ma dall’amicizia con Pietro Aretino arrivato a Venezia, forse legato a sua sorella zitella, quella che accudisce i suoi figli quando rimane vedovo. Questa amicizia lo porterà a 525

rappresentare l’Aretino in una serie di ritratti formidabili da un punto di vista esecutivo, inserendolo nei grandi ritratti del mondo veneziano sia di potere sia d’intelletto. All’amico Aretino chiede addirittura di posare per far Pilato nell’Ecce Homo, un dipinto potentissimo degli anni della maturità cioè del 1543, realizzato su commissione per un mercante fiammingo e da lui firmato con la fierezza del titolo di Cavaliere dello Speron d’oro ottenuto dall’imperatore dieci anni prima. Un quadro-posteggio pieno di personaggi famosi, che non riconosciamo più tutti necessariamente, se non almeno Alfonso D’Avalos, il famoso governatore per conto di Carlo V, che parla all’orecchio di Solimano. E come sempre il cagnetto rosso del cadorino.

Tiziano, Ritratto di Paolo III Farnese, 1546 ca, olio su tela, cm 89x79, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Tiziano, Ritratto di Jacopo Strada, 1568, olio su tela, cm 125x95, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Tiziano, Ritratto di Pietro Aretino, 1545, olio su tela, cm 97x76, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti

Tiziano maturo, dopo trent’anni di attività convinta, è diventato una sorta di inventore del cinematografo, perché pone il suo occhio in una posizione non lontana da quella che assumerà fra poco Ejzenštejn. Tiziano, l’artista che le tre età della vita le ha vissute con un così profondo convincimento da averle rappresentate in un dipinto, l’Allegoria della Prudenza: giovane allegro come un cane, maturo e forte come un leone e vecchio con la saggezza del vecchio lupo. Tiziano, che guarda il proprio destino da vecchio con sicurezza assoluta e talmente accertata da cambiare addirittura il suo modo di dipingere, nel suo autoritratto del 1560, oggi a Berlino, rappresenta la collana segno del cavalierato con dei minimi colpi di pennello sopra una camicia dipinta con piccoli e rapidi cenni di biacca e rifinita con strofinamenti che spappolano la 528

pittura. Come spappolano la pittura gli strofinamenti per definire con un nulla le mani.

Tiziano, Ecce Homo, intero, 1543, olio su tela, cm 242x361, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Tiziano, Ecce Homo, particolare, 1543, olio su tela, cm 242x361, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Il disfacimento della materia non è il disfacimento della vita ma è un nuovo modo di imparare la pittura da vecchio, che lui applica non solo ai soggetti mitologici, e così detti erotici, ma che usa pure per portare la medesima sensualità nel grande soggetto religioso. Come nel caso del San Sebastiano dell’Ermitage che si staglia sulla linea d’orizzonte che sembra quella di una città industriale infiammata come quella di un dipinto del XIX secolo e che si conclude con dei gesti di pennello di una ferocia inattesa che troveremo solo nel XX secolo, quando la pittura accetterà tutta la gestualità dell’Espressionismo. 530

Questa pittura la ritrovo analoga anche nei dipinti che fa ancora per Venezia, come il grande telero dell’Annunciazione per San Salvador nel quale la velocità della pittura impressiona perché la velatura di un secolo prima è stata integralmente dimenticata. La velatura, la tecnica di dipingere un colore trasparente sulla base di un altro colore già disposto così da generare il senso e la profondità dei volumi, viene sostituita dalla materia medesima che è al contempo anche disegno.

Tiziano, Allegoria della Prudenza, 1565-1570, olio su tela, cm 76x68, Londra, The National Gallery

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Tiziano, Annunciazione(Incarnazione), 1560-1565, olio su tela, cm 403x235, Venezia, San Salvador

Tutto cambia. Bellini è sepolto, tutto è ebollizione di materia, ha già quel sapore spesso della grande gastronomia ottocentesca francese. A Venezia, dove gioca fra le copie e trova un soggetto di una santa Margherita dipinta nell’ambito post raffaellesco o vicino a Raffaello, con un fantastico drago a bocca aperta che spiega cos’era per i toscani e per i romani il disegno da colorare rispetto a ciò che sarà il suo lavoro, dove il disegno non è altro che mettere il colore, è nel dipingere che si disegna, non c’è più una base sotto, 532

tutta la base sta nella testa e nella pancia. Lo stesso soggetto, lo stesso serpente, con in più però un teschio da memento mori posato in fondo a destra e un paesaggio sulla linea dell’orizzonte che è uno sguardo nella notte dei tempi, quella notte dei tempi che segna il destino di Tiziano, la sua religiosità carica di pathos così adatta allo stile nuovo della Controriforma, così intensa da cambiare la mitologia nel Marsia, dove il cagnetto ormai morto è ricordato, così visionaria da lasciare intuire la fine terribile della sua propria morte di peste, dopo avere visto portar via dai monatti il figlio pittore, il prediletto Orazio, al quale dedica l’ultimo quadro, una intercessione alla Madonna dinnanzi a un Cristo morto con i segni della peste bubbonica. Quella che uccide anche lui, rispettosamente lasciato morire in casa propria. Eccolo Tiziano, l’artista diventato famoso fra gli artisti. Maestro nel senso viscerale della parola.

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Raffaello e aiuti, Santa Margherita, 1520 ca, olio su tela, cm 192x122, Vienna Kusthistorisches Museum

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Tiziano, Santa Margherita, 1562, olio su tela, cm 242x182, Madrid, Museo Nacional del Prado

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Tiziano, La punizione di Marsia, 1570-1576, olio su tela, cm 212x207, Kroměříž, Palazzo Arcivescovile

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Tiziano, Pietà, particolare, 1575 ca, olio su tela, cm 378x347, Venezia, Gallerie dell’Accademia

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L’ESALTAZIONE DELLA CELLULITE Tiziano è uno di quei grandi artisti in grado di inventare archetipi e influenzare, con il proprio operato, tantissimi altri artisti. La sublime lezione della sua carnosità converte il fiammingo Pieter Paul Rubens, o forse, meglio, lo legittima fino nella direzione dell’esaltazione storica della cellulite. È un affetto tenero, quasi gastronomico per la cicciosità, per il ginocchietto leggermente grassottello che porterà Rubens a scegliere l’allora giovanissima, ma tutt’altro che esile, Elena Fourment, da tempo sua modella, come seconda moglie, senza le tristi costrizioni di oggi che gli avrebbero forse suggerito di ricorrere a un chirurgo plastico. Rubens si ispira a Tiziano, in un certo senso lo ricopia, come nella Dama con ventaglio, solo che in Tiziano la signora è furbetta come una veneta, è vestita con leggerezza e porta un gioiello di ricca qualità. In Rubens si arricchisce la veste ma cala la qualità del gioiello. In cambio lei non è più furbetta, è ambigua come una olandese. E, come lascia intendere l’ammiccante piccola foglia di alloro che appare fra i seni, forse è pronta per essere cucinata.

Tiziano, La toeletta di Venere, 1555 ca, olio su tela, cm 124,5x105,5, Washington, National Gallery of Art

Pieter Paul Rubens, Venere allo specchio, 1615, olio su tela, cm 124x98, Vaduz, Sammlungen des Fürsten von Liechtenstein

Tiziano, Dama con ventaglio, 1566 ca, olio su tela, cm 102x96, Dresda, Gemäldegalerie

Pieter Paul Rubens, Dama con ventaglio, 1612-1614, olio su tela, cm 96x73, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Pieter Paul Rubens, Ritratto di Elena Fourment, 1638, olio su tavola, cm 176x83, Vienna, Kunsthistorisches Museum

LA LEGA SANTA Dopo lo scioglimento della Lega di Cambrai, per iniziativa del pontefice Giulio II, nel 1511 si riuniscono Stato Pontificio, Venezia, la Svizzera, Ferdinando II d’Aragona e, in un secondo momento, anche Enrico VIII d’Inghilterra e l’imperatore Massimiliano I, tutti contro la Francia. L’obiettivo era quello di strappare al sovrano d’Oltralpe le sue conquiste sul suolo italiano, prima fra tutte il Ducato di Milano. La vicenda si risolse nel solito pasticcio, fra cambi di schieramenti, conquiste e perdite di territori. Firenze tornò ai Medici e la Romagna al papato, ma qualche anno più tardi la Francia, ora alleata con Venezia e lo Stato Pontificio, riconquistò Milano. TORNA AL TESTO

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PIETRO ARETINO Licenzioso, esuberante, indisciplinato: se oggi a tutti noi Pietro Aretino (1492-1556) è noto per lo più per i suoi Sonetti lussuriosi (poesie dall’esplicito contenuto erotico), ai suoi contemporanei saltò più all’occhio la sua insofferenza verso il potere e le gerarchie (“flagello dei principi” lo nominò l’Ariosto; “d’ognun disse male, fuorché di Cristo / scusandosi col dire: ‘Non lo conosco’”, ribadì Paolo Giovio). Per quanto, da buon letterato rinascimentale, dovette anch’egli in un qualche modo accattivarsi le giuste amicizie. L’Aretino lo fece prima a Perugia, dove studiò pittura, poi a Roma, da cui però dovette allontanarsi quando si scoprì che era lui l’autore delle frasette satiriche in protesta contro la Chiesa che apparivano ogni giorno sulla statua del Pasquino. A partire dal 1527 visse a Venezia, dove fra gli altri conobbe anche Tiziano, e qui morì, quasi trent’anni più tardi. TORNA AL TESTO

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Parmigianino, Storie di Diana e Atteone, Putti, 1524-1525, affresco, Fontanellato, Rocca Sanvitale

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Eccentrici e fantastici fuori dal coro L’Italia del Cinquecento è piena di misteri reconditi. Mentre di giorno rompe gli schemi estetici perfetti del Rinascimento e si dà al Manierismo, sviluppato intorno all’idea sempre più sofisticata dello stupire, affabulare e intrigare, l’Italia celata, privata e notturna, gioca ogni tipo di scherzo e di bizzarria.

Che cosa si intende quando nella storia dell’arte si parla di Manierismo? Di solito la definizione si riferisce a un arco temporale che vede il suo fulcro fra 1520 e 1563, dalla morte di Raffaello alla chiusura del Concilio di Trento, e in mezzo moltissime cose accadono, politiche, religiose, artistiche, e molti sono i semi di successivi sviluppi in Italia e in Europa. Il termine, secondo il Vasari, viene da “maniera” (anche oggi si dice “alla maniera di” quando ci si veste come o ci si ispira a qualcuno) e in questo caso il modello era il modo di far pittura di Leonardo, Raffaello e Michelangelo. Ma ben più interessante e preciso, a questo proposito, è un sonetto di Agostino Carracci che recita: “Chi farsi buon pittore cerca e desia / Il disegno di Roma abbia alla mano / La mossa con l’ombrar veneziano / E il degno colorir di Lombardia / Di Michelangel la terribil via / Il vero naturale di Tiziano / Di Correggio lo stil puro e sovrano / E di Raffael la giusta simmetria / Del Tibaldi il decoro e il fondamento / Del dotto Primaticcio l’inventare / E un po’ di grazia del Parmigianino”. Andiamo allora a vedere più da vicino il Parmigianino, che di grazia fu pieno. E anche chi, nelle lunghe nottate italiane e asburgiche, unì follia e sapere per dar vita alle più erudite stramberie: l’Arcimboldo.

Parmigianino di Francia Parmigianino è il soprannome del pittore Girolamo Francesco Maria Mazzola, “ino” perché era di corporatura minuta e aspetto gentile, nato a Parma nel 1503, una delle punte massime di questo atteggiamento culturale 547

che percorre gran parte del XVI secolo. Alcuni suoi dipinti sono autentici miracoli della storia della pittura, gioielli transgenici senza tempo. Il Ritratto di giovane donna del 1530-1531, per esempio, mi interessa in modo particolare: l’acconciatura è descritta con la precisione di un cesello mentre la veste a un occhio maldestro potrebbe sembrare non finita. In realtà questa pittura preimpressionista e libera serve a far comprendere fino in fondo la leggerezza a batuffolo delle vesti. La stessa sensazione “tattile” restituita dal batuffolo che tiene in mano La schiava turca.

Parmigianino, La schiava turca, 1531-1532, olio su tavola, cm 67x53, Parma, Galleria Nazionale

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Parmigianino, Ritratto di giovane donna, 1530-1531, olio su tavola, cm 50x46,4, Vienna, Kunsthistorisches Museum

La trasversalità storica di Antea addirittura mi spaventa, perché mi ricorda l’incisività di Goya ma visto con gli occhi di Manet. E per rivedere le mani di Malatesta Baglioni dovrò aspettare almeno i cento anni che lo separano da Velázquez, ma senza quello stesso sorriso ignoto sotto la pelliccia di lince. E con un gesto così quotidiano da sembrare quello di un signore fissato in una polaroid. È fortemente realistico, anzi reale, il Ritratto di uomo con libro, che per un istante sospende la lettura per guardare il pittore. Così come Lorenzo Cybo che, avvolto nelle sue sete e nei suoi velluti, si accorge per un attimo di essere guardato. Chi è veramente questo curioso genio parmigiano che a trentasei anni è 549

vecchio e a trentasette muore dopo essersi dato all’alchimia? E che si ritrae una quindicina di anni prima come un adolescente leggiadro, in un piccolo tondo che appare come uno specchio convesso nel quale la mano destra in primo piano è prorompente e deformata?

Parmigianino, Antea, 1535, olio su tela, cm 135x88, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte

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Parmigianino, Ritratto di Malatesta Baglioni, 1527-1528, olio su tavola, cm 117x98, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Parmigianino, Ritratto di Lorenzo Cybo, 1526 ca, olio su tavola, cm 126,5x104,5, Copenaghen, Statens Museum for Kunst

Parmigianino, realista all’inverosimile, è però capace al tempo stesso di una visione quasi deformata della realtà. Sarà artista fondamentale in una città, Parma, che non sapeva ancora quanto anche lei stessa lo sarebbe diventata. Dopo circa centocinquant’anni d’appartenenza alla Milano dei Visconti e degli Sforza, Parma diventa francese. Nel 1521 l’esercito pontificio e quello spagnolo sconfiggono definitivamente i francesi e la città ha un governatore pontificio eccellente, Francesco Guicciardini, intellettuale che conosciamo per la sua Storia d’Italia. Nel 1545 papa Paolo III Farnese crea il ducato di Parma e Piacenza e lo affida al figlio illegittimo, Pier Luigi, coetaneo del Parmigianino. I dipinti di Parmigianino sono autentici miracoli della storia della pittura, gioielli transgenici senza tempo. 552

Parmigianino, Ritratto di uomo con libro, 1523-1524, olio su tela, cm 70x52, York, City Art Gallery

E qui inizia una di quelle mie letture trasversali e un po’ provocatorie della storia dell’arte, perché reputo che il fatto che Parmigianino sia nato nel 1503, quindi francese in qualche modo, non sia cosa priva d’influenza sulla sua pittura. Appartiene infatti a una generazione nata a cavallo del secolo, di cui fanno parte Benvenuto Cellini, Primaticcio, Rosso Fiorentino, Giulio Romano, Perin del Vaga e Bronzino. Dettagli significativi: Rosso Fiorentino ha quasi la stessa età di Francesco I, re di Francia, mentre Cellini la stessa di Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero. E i loro anni saranno caratterizzati dalla lotta fra re, imperatore e papa. Talmente personale oltre che politico lo scontro fra i due monarchi che 553

tenteranno di risolverlo in un duello vero e proprio, che però non avverrà mai. Nel frattempo, infatti, Francesco I viene fatto prigioniero nella battaglia di Pavia, in cui perde tutto fuorché l’onore, e sarà confinato per un anno a Madrid.

Parmigianino, Autoritratto allo specchio, 1523, olio su tavola emisferica, ø cm 24, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Il Papato rimane schiacciato dal conflitto e il Rinascimento non finisce con la morte di Raffaello nel 1520, ma piuttosto con il sacco di Roma nel 1527, quando anche Rosso Fiorentino è fatto prigioniero dai Lanzichenecchi e il Cellini uccide con un colpo di archibugio il connestabile di Borbone. Il sacco di Roma del 1527 è l’11 settembre del Rinascimento. La questione si risolve parzialmente come in una soap opera: Francesco I, ottenuta la libertà dei figli tenuti in ostaggio tra il 1526 e il 1529, rimasto vedovo, sposa nel 1530 Eleonora d’Asburgo, sorella di Carlo V. Cambia l’atmosfera in tutta 554

l’Europa.

Parmigianino, Madonna dal collo lungo, particolare, 1534-1540, olio su tavola, cm 219x135, Firenze, Galleria degli Uffizi

Dal collo lungo alla coscia lunga Parmigianino dipinge negli anni trenta del Cinquecento la famosa Madonna dal collo lungo, oggi agli Uffizi. E per capire, non solo Parmigianino, ma un’opera come quest’ultima, bisogna riflettere su quella che era l’idea dell’arte tra il 1530 e il 1540.

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Parmigianino, Madonna dal collo lungo, intero, 1534-1540, olio su tavola, cm 219x135, Firenze, Galleria degli Uffizi

I testi di quel periodo – Benedetto Varchi, Giorgio Vasari, lo stesso Michelangelo – affermano un concetto molto semplice, ma assolutamente condivisibile: l’arte non deve rappresentare la natura, il vero, che vediamo. Il vero è banale, racconta se stesso e basta, non interessa. L’artista deve rappresentare la natura idealizzata, cioè il vero percepito attraverso il filtro della mia idea, dell’idea che mi sono fatto del vero. Antonio Paolucci mi ha fatto notare come nella Madonna dal collo lungo i volti degli angeli tentino di assomigliare per analogia alla forma del vaso che uno di loro porta. È una forma di forzatura estrema, è una forma di 556

irrealismo che parte dalla realtà idealizzata. Questa è la “maniera”. Malgrado un breve viaggio a Roma, la formazione di Parmigianino era stata sostanzialmente locale, legata all’esempio del Correggio, suo predecessore in Emilia, e a Mantova. Il Correggio ha quattordici anni più di lui eppure dal Parmigianino imparerà una cosa, che per sua fortuna dimenticherà subito dopo: la forma esiste senza un contorno preciso, come nel Compianto sul Cristo morto. Conserverà invece un’altra lezione, e cioè che le composizioni possono avere dei movimenti come dei colpi di vento, nei quali i personaggi possono essere tirati per mano l’uno dall’altro e formare un unico intreccio: lo si vede bene nella Madonna della scodella alla Galleria Nazionale di Parma.

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Correggio, Compianto sul Cristo morto, 1524-1525, olio su tela, cm 157x182, Parma, Galleria Nazionale

La questione si comprende meglio se analizziamo il primo lavoro significativo del Parmigianino, gli affreschi del 1524-1525 a Fontanellato, nella Rocca Sanvitale. Il pittore ha vent’anni quando Galeazzo Sanvitale e la moglie Paola Gonzaga gli commissionano la decorazione di uno stanzino buio, con una sola porta di accesso e nessuna finestra. Il soffitto contiene un curiosissimo specchio dal significato assolutamente misterioso che sta al centro di un cielo aperto. Ricorda perfettamente quelli celebri di Mantova.

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Correggio, Madonna della scodella, 1528-1530, olio su tavola, cm 218x137, Parma, Galleria Nazionale

Quattro metri per quattro, o poco più; un’intensità strepitosa, una pittura ancora acerba dove però il “vento”, il movimento, è già presente. Le citazioni vanno da Mantegna a Correggio. Diana al bagno, mitologica, ha già la tipica acconciatura degli anni futuri, mentre il modo di dipingere del Parmigianino va oltre ogni epoca di riferimento. La padrona di casa a seno nudo ha già il collo lungo e un po’ distorto a cigno, tiene la mano con quel gesto affettato che nel Rinascimento non c’era e diventerà invece tipico del Manierismo. La bambina che tiene il bimbo, forse quello defunto della coppia Sanvitale, ha già quel musetto impertinente che tornerà 559

molto più avanti nei lavori del pittore. L’impertinenza si fa anche ambiguità in questi abbracci, quell’ambiguità che troveremo tra pochi anni nella grande scuola di Fontainebleau. I putti sono già fruttivendoli scapigliati. Il levriero di Diana al guinzaglio ha l’eleganza dei cani di Sigismondo Malatesta dipinti da Piero della Francesca. E mentre i cani da caccia sono rappresentati in un’azione immaginaria, quelli da guardia e quelli degli affetti, la cagna probabilmente appartenuta allo stesso pittore, sono potentemente realistici e hanno una parentela stretta con quelli imponenti della Camera degli sposi di Mantova. Cinquant’anni dopo questi primi esperimenti saranno diventati il linguaggio che arriverà fino in Francia.

Parmigianino, Storie di Diana e Atteone, Putti e uno scorcio di cielo, 1524-1525, affresco, Fontanellato, Rocca Sanvitale, Volta della sala del Parmigianino

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Parmigianino, Storie di Diana e Atteone, Coppia di ninfe

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Parmigianino, Storie di Diana e Atteone, Paola Gonzaga tra putti

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Parmigianino, Storie di Diana e Atteone, Cane da caccia, Fontanellato, Rocca Sanvitale

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Parmigianino, Autoritratto con cagna gravida, 1518-1540, penna e inchiostro marrone su carta, cm 30,4x20,3, Londra, The British Museum

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Parmigianino, Testa di cane, 1523-1525, carboncino rosso su carta, cm 35x24, Parigi, Musée du Louvre

Sempre alla Rocca Sanvitale, come spesso accade agli edifici da difesa del Trecento e del Quattrocento che si travestono da edifici rinascimentali, c’è un loggiato con documento pittorico che m’interessa moltissimo: sono affreschi quasi scomparsi perché sono stati martellati per essere riutilizzati come pareti da ridipingere. Sotto le martellature però traspaiono alcuni elementi molto interessanti di una scena che riprende il gusto dell’antichità romana, con dei bagnanti che sembrano quelli dei dipinti ritrovati a Roma fra Quattro e Cinquecento. Intorno all’affresco c’è una divertentissima decorazione a grottesche tutta costituita da personaggi femminili a coscia 565

lunga e a collo lungo, compresa una elegantissima Diana cacciatrice in versione affusolata come il suo cane levriero. Siamo già nel 1580, nel pieno del Manierismo.

Andrea Mantegna, Il ritorno dalla caccia, particolare dei cani, 1465-1474, affresco e tempera a secco, Mantova, Palazzo Ducale, Camera degli sposi

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Parmigianino, Storie di Diana e Atteone, Morte di Atteone, Fontanellato, Rocca Sanvitale

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Piero della Francesca, Sigismondo Malatesta davanti a san Sigismondo, particolare dei cani, 1451, affresco, Rimini, Tempio Malatestiano

Verso il nord, o l’esportazione della “coscia lunga” La turbolenza politica dei tempi fa riflettere gli artisti, apre la strada del nord e in particolare verso quelle Fiandre dove era nata l’alternativa al Rinascimento italiano e dove, con Van Eyck a San Bavone, si era affermato come elemento unificante del mondo visibile non la prospettiva, non il disegno, ma la luce. Il miracolo della luce che fa sì che, dal pelo del gatto alla goccia di rugiada su un fiore, tutto quanto sia poeticamente unificato. A questa linea di derivazione si affianca quella curiosa pittura del Parmigianino che è contemporaneamente visionaria, allucinata e mistica. La tensione del gioco delle ottiche deformate rimane sempre presente come nella Madonna di san Zaccaria, dove il braccio di san Zaccaria sembra quasi poggiare sulla cornice.

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Parmigianino, Madonna di san Zaccaria, 1530-1531 ca, cm 75x60, olio su tela, Firenze, Galleria degli Uffizi

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Parmigianino, Pallade Atena, 1532-1533 ca, olio su tela, cm 64x45,4, Hampton Court, The Royal Collection

E nei ritratti? Ebbene nei ritratti questa tensione va a risolversi nei dettagli, nella perfezione del capello di Pallade Atena, nella qualità degli ori e diventa alla fine una tensione ancora una volta squilibrante ma psicologica. Ricordandosi sempre quella curiosa presenza che viene dal nord Europa, “incarnata” dal drago che finisce nella rappresentazione della Pala di santa Margherita. Posizioni sempre contorte e leggermente scomode, irreali, come per Eros che fabbrica l’arco, ma con accenni di realismo nei dettagli che fanno addirittura venire i brividi. Il bastone è perfetto; la lama del coltello e la sua 570

attaccatura sono una descrizione quasi fotografica. Il segreto sta nei riccioli di legno, che sono gotici. D’altronde le piccole incisioni di Martin Schongauer circolavano come le figurine Panini all’epoca. Così come forse da quell’ambiente viene la sua stesura quasi incisa dei panneggi. Parmigianino, in quanto artista d’avanguardia, inaugura lo stile della “coscia lunga”, al quale s’inchina anche il suo maestro Correggio e da cui nascono donne oblunghe e ritratte in posizioni scomode come quelle della Saliera di Cellini o la Venere di Lambert Sustris che s’intrattiene con Cupido. Sono passati pochi anni e il collo lungo è diventato una moda trasversale: la Madonna della rosa è assolutamente elegante e goticheggiante nell’abito, pieno di pieghe cesellate come se venissero da un’incisione su pietra gotica, lui più sdolcinato di così non lo possiamo immaginare, con un piccolo braccialettino di corallo al braccio che sembra plastica come di plastica sembra anche la rosa. Primaticcio questo gusto lo esporterà in Francia; o forse sono i francesi che trovano in lui un gusto che sa già di essere francese. Il Rinascimento e il Classicismo di fatto arrivano in Francia per un percorso molto particolare. Quando Francesco I torna dalla prigionia in Spagna, invece di recarsi a Parigi si ritira a Fontainebleau, a 50 chilometri di distanza, ed è subito Manierismo. Ovviamente dire Rinascimento significava chiamare gli italiani. Arrivarono l’uno dopo l’altro, i più bravi: Benvenuto Cellini, che qui da orafo diventa scultore; Rosso Fiorentino, che essendo matto poi qui si suicida; infine Primaticcio, che divenne sovrintendente di tutti gli edifici reali e in un qualche modo primo portatore convinto di quella idea nuova di pittura “alla maniera di”.

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Parmigianino, Pala di santa Margherita, intero, 1529-1530 ca, olio su tavola, cm 222x142, Bologna, Pinacoteca Nazionale

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Parmigianino, Pala di santa Margherita, particolare, 1529-1530 ca, olio su tavola, cm 222x142, Bologna, Pinacoteca Nazionale

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Parmigianino, Eros che fabbrica l’arco, 1532-1533, olio su tela, cm 135x65,3, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Parmigianino, Madonna della rosa, 1529-1530, olio su tavola, cm 109x88,5, Dresda, Gemäldegalerie

Curioso tipo, Francesco I, che di letteratura invece si appassionava: a lui si devono il nucleo di raccolta che oggi forma la biblioteca di Parigi e la protezione di Rabelais, il medico alternativo che creò Gargantua e Pantagruel. Francesco, inventore dello spreco e del lusso, formerà la Scuola di Fontainebleau, dove abbondano gioielli e feste, eros ambiguo e thanatos ironico nella morte dell’amorino.

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Lambert Sustris, Venere e Amore, 1540 ca, olio su tela, cm 75x139, Parigi, Musée du Louvre

Un po’ castelletto francese, tardogotico, un po’ voglia d’italianità nei decori. In realtà la ricetta del Manierismo a Fontainebleau è semplicissima: basta prendere le proporzioni classiche del Rinascimento e stiracchiarle. Il verde della campagna francese vede apparire per la prima volta la finestra a timpano, tanto cara a Michelangelo, qui “messa in soffitta”. Un elegante gesto gallico, forse un po’ kitsch. È questa la ricetta non solo per l’architettura ma anche per tutte le arti plastiche, scultura e pittura. Si allunga la coscia, si fa di tutto per essere erotici, e quelle gambe portano direttamente alla calza moderna.

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Veduta dello scalone d’onore del Louvre con la Ninfa di Benvenuto Cellini, Parigi

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Jean Clouet, Francesco I, 1525 ca, olio su tavola, cm 96x74, Parigi, Musée du Louvre

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Francesco Primaticcio, Stanza della duchessa d’Estampes, figure a stucco, Fontainebleau, Castello

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Benvenuto Cellini, Ninfa, 1542, bronzo, cm 205x409, Parigi, Musée du Louvre

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Benvenuto Cellini, Saliera di Francesco I, 1540-1543, ebano, oro e smalti, altezza cm 26, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Fra religione e alchimia Nel frattempo Parmigianino conclude il breve ciclo della sua vita con un capolavoro, l’affresco nella volta del presbiterio di Santa Maria della Steccata a Parma. Realizzato nei tempi rubati allo studio dell’alchimia, rappresenta la parabola delle Tre vergini sagge e Tre vergini stolte tratta dal Vangelo di Matteo, tema nuovo per l’Italia ma non per la cattedrale di Strasburgo e neanche per le immaginette di Martin Schongauer. È qui che le sue figure femminili raggiungono il massimo dell’espressività, le une corrucciate dal loro senso di responsabilità, mentre quelle stolte sembrano felici, civettuole 581

e ammiccanti. Il tutto in un tripudio di decorazione dove si mescolano verdure da minestrone e ridenti caproni dall’occhio lucido, citazioni della Chiesa e dello studio alchemico, il quale a sua volta è cosa fortemente nordica.

Parmigianino, Tre vergini sagge, 1535-1539, affresco, Parma, Santa Maria della Steccata

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Parmigianino, Tre vergini stolte, particolare, 1535-1539, affresco, Parma, Santa Maria della Steccata

Il risultato stilistico come abbiamo visto avrà grande fortuna, collo torto e coscia lunga diventeranno il marchio di Bartolomeo Ammannati a Firenze, quell’Ammannati che da Parmigianino sembra avere imparato la forma e l’eros e dall’altro inventore delle alternative, Giulio Romano, la lezione dell’architettura che propone con il rifacimento di Palazzo Pitti.

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Martin Schongauer, Vergine stolta, 1426, stampa, cm 12x8, Chantilly, Musée Condé

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Veduta del sottarco di Santa Maria della Steccata con l’affresco di Parmigianino delle Tre vergini sagge e Tre vergini stolte, 1535-1539

Nel giardino di Boboli, dietro al palazzo, di fronte agli interventi di Ammannati, troviamo l’ultimo risultato di questo stile, il Giambologna (anche se la sua scultura prima è proprio a Bologna, il Nettuno muscolato sulla fontana adiacente a Piazza Maggiore, lui con la città non ha niente a che fare: si chiama così perché il suo vero nome è Jean de Boulogne, da una cittadina delle Fiandre). Artista curioso ed eccellente, trova il suo stile oblungo proprio in Italia, senza sapere che forse era originario proprio delle 585

sue parti. Poi, da noi in Italia, si cambia strada, si mettono le mutande al Giudizio Universale di Michelangelo, ancora vivo, e la coscia lunga fra poco scomparirà. Mentre la Controriforma impone all’Italia altri ritmi, come quelli dei Carracci per esempio, i grandi nudi oblunghi tornano a casa, a Bruxelles. L’eros bizzarro che verrà vietato dalla Controriforma in Italia invece piacerà moltissimo a Rodolfo II, quando, divenuto imperatore, si trasferirà a Praga all’inizio del Seicento.

Giambologna, Fontana dell’Oceano, 1570, marmo, altezza cm 325, Firenze, Giardino di Boboli

La parabola del fantastico, da Milano a Vienna 586

La cultura occidentale ha avuto un momento plasmante di un’identità comune del fantastico durante il Medioevo e poi lentamente fino al mondo delle fantasticherie di oggi. Uno degli artisti che ha partecipato a questa evoluzione è l’Arcimboldo; nato a Milano nel 1526, trascorre i suoi anni di formazione in Lombardia, dove la bottega paterna lavorava per la Veneranda Fabbrica del Duomo, dando saggi del proprio valore “così nella pittura come in diverse bizzarrie”, come afferma lo storico milanese Paolo Morigia. Da Milano Arcimboldo invece prende curiosamente la strada opposta e se ne va a Vienna. Perché forse lì le libertà della fantasia sono esaltate e si apprezza senza reprimerlo ogni manierismo. Cresciuto fra i dotti di Milano, si ritrova così da Massimiliano II, in quella che veniva definita un’aula cum pluribus viris doctissimis ornata.

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Giovanni Karcher, su cartone di Giuseppe Arcimboldo, Dormitio Virginis, 1561-1562, arazzo, lana e seta, cm 423x470, Como, Cattedrale

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Guarnitura per l’arciduca Ferdinando II del Tirolo, 1580-1595 ca, acquerello, cm 48,5x35,5, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Anonimo milanese, Borgognotta all’antica, 1560 ca, ferro azzurrato e ageminato in oro e argento, altezza cm 39, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Anonimo milanese, Borgognotta “alla romana antica”, 1554 ca, ferro brunito e ageminato in oro e argento, altezza cm 35, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Il gioco del sapere e le allegorie fantastiche Del 1563, cioè un anno dopo il suo arrivo, è già la fantastica composizione che è chiamata l’Estate, che contiene un po’ di tutto: i frutti noti, gli agli, le pere, le ciliegie e una marasca brillante che forma l’occhio. Contiene anche 591

delle curiosità come la pannocchia di grano turco che è appena arrivata dall’America, la melanzana, scoperta recente che viene dall’Oriente, mentre il carciofo è lì già da un po’. Il tutto in una veste di spighe d’oro che reca la sua firma e la sua data, come raccontava Plinio il Vecchio della pittura greca antica. L’Estate nasce ovviamente en pendant con l’Inverno, sempre nello stesso anno. Qui la testa è fatta da un vecchio albero invernale morto, la capigliatura con l’unica pianta che rimane verde da quelle parti in Austria anche d’inverno: l’edera. Mentre la bocca è un doppio fungo, sporge in evidenza l’unico frutto che circola d’inverno perché arriva dall’Italia, il limone. Questi soggetti avranno un tale successo che Arcimboldo li replicherà più d’una volta nella sua vita, e finiranno nelle più importanti collezioni d’Europa. Vi è una versione posteriore di circa una decina d’anni alle Quattro stagioni, con cornice fantastica, conservata all’interno delle collezioni del Louvre. Un Autunno molto più raffinato dove la precisione della pittura dei frutti entra in un incredibile dialogo con un fregio di fiori che è dipinto in modo molto più libero e a colpi di pennello ben più rapidi. Anche qui la pera è straordinaria perché è leggermente bacata, come la mela della Canestra di frutta del Caravaggio. Ed è formidabile la barba che esce dal fungo e che sta sotto una bocca che è in realtà una castagna. Tutta roba d’autunno, ulivo compreso. Il Louvre ha le Quattro stagioni in una sorta di edizione integrale, perché realizzata proprio negli anni settanta del Cinquecento, di cui forse la Primavera è la meno attraente perché è la più statica, sebbene la descrizione botanica sia intrisa di una perfezione che mi ricorda la grande tradizione leonardesca milanese, declinata con le indicazioni che venivano fra Quattro e Cinquecento dal mondo fiammingo. Qui i fiori sono tutti elementi che poteva avere sott’occhio, non escono da racconti di botanica, è roba indigena.

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Giuseppe Arcimboldo, Estate, 1563, olio su tavola, cm 67x50, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Giuseppe Arcimboldo, Inverno, 1563, olio su tavola, cm 66x50, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Quattro sono le stagioni e quattro sono gli elementi che verranno raffigurati nello stesso modo bizzarro e intrigante. Il Fuoco, tutto ciò che si può fare con il fuoco: la pietra focaia in faccia, i baffi fatti con i cerini di allora cioè dei piccoli stecchini di legno impregnati nella cera, la miccia in testa, la candela spenta che forma l’occhio. Il baffo per l’accensione e sotto il lume a olio acceso, il collo formato da una candela a quattro stoppini, sotto un mortaio, un cannone e una pistola sono il mezzobusto. È il fuoco degli Asburgo e, per capir meglio che si tratta di loro, la figura porta al collo il Toson d’oro: la massima decorazione del casato asburgico dopo che Carlo 594

V aveva ereditato la Borgogna, dove l’ordine fu creato, da parte materna. Della Terra si può ammirare solo una riproduzione perché il dipinto ha avuto una di quelle curiose storie da mercato: passò dai musei viennesi a quelli della provincia austriaca, la provincia austriaca negli anni Cinquanta del Novecento lo scambiò e finì in mani private, ma in cambio rappresenta il potere asburgico fino in fondo e tutti gli animali della favolosa ménagerie che l’imperatore possedeva. Sicché l’elefante è copia dal vero, come le belve feroci venute da fuori Europa. Rimangono gli altri due segni della potenza del casato: la famosa leonté, la pelle di leone che si metteva addosso anche Ercole, e il Vello d’Oro che generò il Toson d’oro.

Caravaggio, Canestra di frutta, particolare, 1597 ca, olio su tela, cm 47x31, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

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Giuseppe Arcimboldo, Autunno, particolare, 1573, Parigi, Musée du Louvre

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Giuseppe Arcimboldo, Estate, 1573, olio su tela, cm 76x63, Parigi, Musée du Louvre

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Giuseppe Arcimboldo, Primavera, 1573, olio su tela, cm 76x63, Parigi, Musée du Louvre

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Giuseppe Arcimboldo, Inverno, 1573, olio su tela, cm 76x63, Parigi, Musée du Louvre

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Giuseppe Arcimboldo, Autunno, 1573, olio su tela, cm 76x63, Parigi, Musée du Louvre

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Giuseppe Arcimboldo, Fuoco, 1566, olio su tavola, cm 66,5x51, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Giuseppe Arcimboldo, Terra, intero, 1570, olio su tavola, cm 63x49, Collezione privata

Il fuoco si capisce, la terra si verifica, molto più bizzarro è invece il caso del terzo elemento, perché l’Acqua bisogna scoprirla. Non ci sono pesci che si mangiavano abitualmente in Austria, ma solo pesci di mare Mediterraneo e anche un caso di pesce esotico. Forse la tartaruga è marina e neanche lei si trovava da quelle parti, quindi per realizzare questo dipinto si dovevano consultare documenti particolari, che aiutassero a comprendere i misteri marini: documenti come quelli conservati a Vienna nella Biblioteca Nazionale, probabilmente realizzati da Giorgio Liberale.

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Giuseppe Arcimboldo, Terra, particolare, 1570, olio su tavola, cm 63x49, Collezione privata

La passione per le ricerche era ovunque in Europa; la passione per le collezioni era tipica dei principi del Nord. La passione per la ricerca scientifica invece dimora in Italia, che ne è il centro. L’umanista e medico senese Pietro Andrea Mattioli pubblica la sua enciclopedia sul mondo vegetale, il Compendium de plantis omnibus, una cum earum iconibus, a Venezia nel 1571. Ulisse Aldrovandi, per Georges-Louis Leclerc de Buffon, uno dei padri fondatori dell’Enciclopedia francese, è da considerarsi il fondatore delle scienze naturali nella cultura occidentale. Appartiene a un momento molto particolare dell’evoluzione della cultura scientifica nella seconda metà del Cinquecento perché proviene dallo studio della filosofia e della medicina, in generale dagli studi complessivi del gioco del sapere come vi poteva esser destinato allora un ragazzo di ottima famiglia. E segue la lettura averroiana di Aristotele, quella che consente di immaginare che la ricerca si faccia, ancora nella cultura araba, tenendo conto del dialogo possibile con la teologia, ma prendendo come punto fermo l’indagine sperimentale. La sua vita si evolve in modo molto lineare, perché assume la prima cattedra di Storia di scienze naturali all’Università di Bologna nel 1561. Poi inizia una collezione infinita di reperti bizzarri e di reperti lontani, li coniuga con l’elaborazione di un giardino botanico che darà le essenze necessarie per le ricerche e infine decide di pubblicare. Sicché gran parte delle cose narrate 603

verranno trasformate in disegni e acquerelli e poi in xilografie. Un Ulisse molto particolare, quell’Aldrovandi, che navigò fra i pesci per la conoscenza, in un percorso attraverso il plausibile, il raro, il bizzarro e talvolta attraverso immagini così strane da avere spazio di dialogo solo con il mondo del fantastico. Lui riuscì allora a combinare lo studio della cosa vera con l’elaborato più sottile e inquietante della fantasia. Il risultato delle sue ricerche fece delle università italiane dell’epoca, soprattutto Bologna e Padova, il centro della diffusione del sapere naturalistico e medico. Si stava allora liberando quello che sarebbe diventato un dato stabile nuovo della nostra fantasia, l’invenzione di un immaginario esterno al subconscio, che si declinava nel mondo della natura, della mitologia antica e in quello celeste dei santi. Si separavano i fantasmi medioevali, una volta unitari, in quelli subconsci dei nordici riformati e in quelli apparenti dei controriformati. E la corte viennese, a metà strada, assorbiva tutto. Vita di corte lussuosa e sublime, dove trionfavano la fantasia e il gusto della sorpresa.

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Giorgio Liberale (?), Polpo, 1598 ca, acquerello su pergamena, cm 87x64, Vienna, Österreichische Nationalbibliothek

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Giuseppe Arcimboldo, Acqua, 1566, olio su tavola, cm 66,5x50,5, Vienna, Kunsthistorisches Museum

Le meraviglie degli Asburgo Nella corte delle meraviglie di Massimiliano II si accumula ogni tipo di oggetto per una vita di parate e di grandi feste: lo scudo con i più forti di sempre, Ercole in varie posizioni e Davide che mozza la testa a Golia, l’elmo zoomorfo o la spada inutilizzabile con l’elsa ricavata da un corallo. Meraviglie di una vita che Arcimboldo documenta perfettamente, perché 606

è uno dei progettisti delle feste, che passano dall’area pubblica all’area privata della camera: la Wunderkammer, “camera delle meraviglie” in cui nobili e benestanti collezionavano ogni tipo di stramberia o eccezionalità, per il proprio personale godimento o, più spesso, per quello dei propri ospiti: la conchiglia montata in argento, la noce di cocco che viene cesellata, il corallo che ritorna su un altarolo d’argento, il cappello del buffone con i sonagli ricavato a sua volta da una noce di cocco, le uova di struzzo. I fantastici cristalli di rocca realizzati a Milano, quelli dei Miseroni e dei Saracchi. A Massimiliano succede a Vienna il figlio Rodolfo II, imperatore bizzarro che decide di abbandonare Vienna per Praga, obbligando Arcimboldo a seguirlo nel 1583 per affidargli incarichi sofisticatissimi. Alla fine il gioco della fantasia è totale e le costruzioni dell’Arcimboldo diventano tali che si possono vedere come normali dipinti, ma anche rovesciate, come curiosità descrittive di facce inattese e inquiete. Si stava applicando al cibo la medesima fantasia manierista che si applicava alle altre arti. Il sapore e il sapere ovunque. Questi elementi hanno sempre un valore simbolico, difatti il Bibliotecario viene rappresentato non con i simboli del potere, ma con gli strumenti del sapere. Arcimboldo tornerà a Milano sul finire della sua vita, verrà fatto conte palatino e da lì manderà al suo protettore ultimo e più fantasioso il ritratto più bizzarro, Rodolfo II come Vertumno. Una sommatoria di tutto ciò che produce frutti: è un esempio di ciò che dovrebbe essere l’impero nelle mani di Rodolfo II. Verrà poi sepolto quasi settantenne a Milano, Arcimboldo o Arcimboldi, a seconda di come lo si vuol chiamare.

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Giuseppe Arcimboldo, L’imperatore Massimiliano II d’Asburgo con la moglie Maria di Spagna e i figli Anna, Rudolf e Ernst, 1553, olio su tela, cm 240x188, Innsbruck, Castello di Ambras

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Giuseppe Arcimboldo, Slitta con putti, ante 1585, penna e acquerello su carta, cm 29,4x25,5, Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

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Manifattura milanese, Rotella con le fatiche di Ercole, 1560 ca, ferro azzurrato e ageminato in oro e argento, ø cm 60, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Manifattura milanese, Daga con impugnatura di corallo, seconda metà del XVI secolo, ferro dorato e argentato, corallo, velluto e cuoio, cm 83, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Giuseppe Arcimboldo, Rodolfo II come Vertumno, 1590 ca, olio su tavola, cm 68x56, Castello di Skokloster

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DISEGNI SENZA TEMPO L’enigma della grazia del pittore parmigiano con la sua inspiegabile trasversalità storica rimane aperto. La sua visione del mondo incredibilmente fuori dal tempo si rivela chiarissima nei disegni, con immagini così moderne da sembrare del XIX secolo. O in un colloquio già cinematografico di amanti come lo schizzo a penna che sembra quasi già un quadro di Watteau. I disegni raccontano sempre delle verità insospettabili, come i ceselli di facce chine viste di fronte che mi ricordano curiosamente quelle di Raffaello, ma con in più un sapore fiammingo che si ritrova negli angioletti del gotico internazionale. Sono segni che vedremo ricomparire nella cultura francese romantica della prima metà dell’Ottocento. Le Canefore studiate per la decorazione di Santa Maria della Steccata hanno la turbolenza visiva dei decori sotto il terzo impero. Come se il Liberty esistesse con quattro secoli di anticipo.

Parmigianino, Canefore, Studio per la Steccata, 1534-1535, inchiostro su carta, cm 42x26, Parma, Galleria Nazionale

Parmigianino, Canefore, Studio per la Steccata, 1534-1535, inchiostro e guazzo su carta, cm 93x68, Parigi, Musée du Louvre

Alfons Maria Mucha, Le stagioni, 1906 ca, litografia, cm 53x102, Collezione privata

Parmigianino, Studio di testa, 1526-1527 ca, sanguigna su carta, cm 22x21, Parigi, Musée du Louvre

Parmigianino, Amanti in un bosco, 1527, incisione, cm 14,7x10,3, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage

SAPORI E SAPERI La mutazione del Rinascimento intellettuale e letterato in festosità di corte manierista corrisponde anche a una trasformazione fondamentale dell’etica che passa dalla mente allo stomaco. E appaiono i primi trattati di cucina, grazie alla stampa. Non solo avviene questa mutazione all’interno delle singole corti, ma sempre di più l’Europa si fa luogo di mescolanze. E crogiolo totale è la corte di Vienna, nella quale confluiscono sia le pratiche fiamminghe sia quelle padane. È lo stesso movimento che porta di qua e di là i musici come Orlando di Lasso fra Fiandre e Sicilia e che fa suonare la recente invenzione del violino da un capo all’altro del continente così come fa tintinnare le padelle. A Ferrara vien pubblicato nel 1549 il libro di ricette di Cristoforo da Messisbugo; è l’anno successivo alla morte del cuoco degli Este, rinomato in tutto il Settentrione seppure ancora oggi non c’è dato sapere se fosse italiano o fiammingo, e la pubblicazione serve a conservare la memoria della sua arte. È lui così a diventare il primo cuoco mitico. Nel 1554 appare il Della natura dei vini e dei viaggi di Paolo III descritti da Sante Lancerio, suo bottigliere: questa volta l’opera è postuma a papa Farnese. La cucina diventa argomento del pensiero, della pittura e della fantasia. L’Arcimboldo vi si districa con maestria, e trova due complici nel fiammingo Joachim Beuckelaer e nel cremonese Vincenzo Campi. Ma è un gioco intellettuale visivo non solo suo, un gioco che fa scuola se negli stessi anni si ritrova probabilmente in area milanese una stampa intitolata Cucina, realizzata con vari mezzi di cucina e la testa del cuoco è commentata: “Quando all’uomo insaziabile dispiacque le ghiande usà per cibo e nutrimento Questa figura mia nel mondo nacque A dilettare il gusto a suo contento Onde non più la purità dell’acque cade nel variato condimento Ma mille sughi d’erbe e mille odori Che all’appetito danno mille sapori”.

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Anonimo (da Arcimboldo), Humani Victus Instrumenta: Ars Coquinaria, 1569, stampa, cm 23,2x18,4, Copenaghen, KunstindustriemuseetBildesamlingen

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Giuseppe Arcimboldo, Ciotola di verdura, 1590-1593 ca, olio su tavola, cm 35x24, Cremona, Museo Civico “Ala Ponzone”

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Giuseppe Arcimboldo, Ortolano, 1590-1593 ca, olio su tavola, cm 35x24, Cremona, Museo Civico “Ala Ponzone”

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Giuseppe Arcimboldo, L’arrosto, 1570 ca, olio su tavola, cm 39x37, Collezione privata

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Giuseppe Arcimboldo, Il cuoco, 1570 ca, olio su tavola, cm 39x37, Collezione privata

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LA GENEALOGIA DELLA MASCELLA Non sarebbe successo nulla di veramente importante alla corte degli Asburgo senza la personalità curiosa e a parere d’alcuni contorta di Rodolfo II d’Asburgo. Era afflitto l’imperatore bizzarro da quella mascella allungata tipica del casato, la quale secondo alcuni è prova di fantasia acuta, e la quale forse fu la causa del rapporto fra l’avo Massimiliano I e Albrecht Dürer, che per lui compose il noto Trionfo di Massimiliano d’Asburgo, la stampa più lunga dell’epoca e innegabilmente la più folle, alla quale avevano partecipato una pletora fra i migliori incisori suoi contemporanei. Forse fu quella la prima operazione maoista di comunicazione del potere dello Stato visto che venne appesa un po’ ovunque negli edifici pubblici dell’impero. E, nell’intimo della reggia, Massimiliano I raccoglieva pure il meglio di Hieronymus Bosch, suo suddito dei Paesi Bassi, che però era particolarmente gradito soprattutto a Filippo II di Spagna. Il nipote di Massimiliano I, Carlo V, poco scherzava anche lui, visto che era il fortunato e perenne collezionista di Tiziano, e d’un Tiziano adulto e ben convinto delle sue mitologie. Sicché, per non essere da meno, Rodolfo II si dedicò a ogni stramberia dello spirito, fra le quali la più significativa fu sicuramente quella di abbandonare Vienna per andare a Praga, dove nel castello s’impegnò negli esoterismi più inattesi, dalle ricerche alchemiche alla frequentazione regolare del rabbino Loew, l’inventore del Golem. L’incontro fra l’imperatore e l’Arcimboldo fu tale che ognuno diventò pan per i denti dell’altro. La fantasia allora era all’ordine del giorno e le indicazioni delle ricerche coeve di Ulisse Aldrovandi ebbero innegabile influsso. Il castello di Praga divenne così la prima vera Wunderkammer d’Europa. Fra elementi veri, denti di narvalo, possibili corna d’unicorno, naturalità immaginarie e sogni alchemici, si posero le fondamenta d’una duplice modernità, quella scientifica e quella surreale.

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Albrecht Dürer, Trionfo di Massimiliano d’Asburgo, particolare, 1518, acquerello su carta, cm 46x256, Vienna, Albertina

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Hans Burgkmair il Vecchio, Trionfo di Massimiliano I, particolare, 1512, incisione, cm 46x256, Vienna, Albertina

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Albrecht Dürer, Ritratto di Massimiliano I, 1519, olio su tavola, cm 74x62, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Tiziano, Ritratto di Carlo V, 1560 ca, olio su tela, cm 110x91, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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Sofonisba Anguissola, Ritratto di Filippo II, 1564 ca, cm 88x72, Madrid, Museo Nacional del Prado

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Hans von Aachen, Ritratto di Rodolfo II, 1590 ca, cm 60x48, Vienna, Kunsthistorisches Museum

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LOTTA FRA CARLO V E FRANCESCO I Tra gli anni venti e i quaranta del XVI secolo l’Europa fu dilaniata da una serie di scontri tra gli esponenti delle due principali potenze: Carlo V d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, a capo inoltre di Spagna, Austria, Napoli, Sicilia e Sardegna, contro Francesco I, re di Francia. Gli obiettivi dei due erano chiari: il primo avrebbe voluto conquistare la Borgogna e, magari, estendere il proprio impero a tutta l’Europa; il secondo intendeva mantenere i propri territori ed espanderli, inglobando anche il Ducato di Milano e i Paesi Bassi. L’ago della bilancia fu lo Stato Pontificio che, durante questo lungo periodo di conflitti, strinse alleanza con l’uno o con l’altro a seconda della convenienza. Le battaglie furono cruente e senza esclusione di colpi (basti pensare all’arcinoto sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi nel 1527), e spesso vennero interrotte dalla mancanza di fondi da parte di entrambi i sovrani più che da schiaccianti vittorie. L’ultimo atto della sanguinosa guerra fu la pace di Crépy del 1544, che vide trionfante Carlo V sul rivale francese. L’imperatore rinunciò alla Borgogna, il re all’Italia. Chi più di tutti pagò le spese, invece, fu il Ducato dei Savoia, che ne uscì sostanzialmente annientato: si riprenderà solo nel tardo Settecento. TORNA AL TESTO

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FONTAINEBLEAU Un castello, in quel di Fontainebleau (cittadina a sud di Parigi) esisteva già fin dal XII secolo, ma la sua forma attuale, e la grandezza che rappresentò per l’arte europea nel corso del Cinquecento, la si deve al re Francesco I. Come nota Antonio Paolucci, “Francesco I sposa l’estetica italiana perché, essendo il re di un grande paese, doveva darsi (dare a se stesso, alla sua corte e al suo regno) un’immagine adeguata, e questa potevano darla solo gli italiani. Qualsiasi tirannello di Urbino o di Osimo aveva più gusto e più cultura estetica e più capacità di persuasione estetica, attraverso le forme dell’arte, del re di Francia. Questo, lui che era un uomo intelligente, lo capì subito. Incomincia così il secolo italiano per Parigi, il quale dura con le regine Medici, prima Caterina, poi Maria, praticamente fino a metà del Seicento”. Per volontà del sovrano, a Fontainebleau arrivano diversi artisti italiani che lasciano il segno: Leonardo da Vinci, l’architetto Sebastiano Serlio, Benvenuto Cellini, il Primaticcio, Rosso Fiorentino. L’eco delle loro opere è tale da dar vita a un vero e proprio movimento artistico in suolo francese, significativamente chiamato Scuola di Fontainebleau. TORNA AL TESTO

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MILANO NEL CINQUECENTO Occupata dai francesi, Milano aveva perso definitivamente l’indipendenza nel 1499. Nello stesso anno abbandonava la città, e in seguito l’Italia, pure il più famoso dei suoi artisti, Leonardo da Vinci. Bramante era già andato a Roma. Gli artisti milanesi della generazione successiva verranno formati ai dettami della Controriforma da san Carlo Borromeo, tutto ordine e fede, e poi se ne andranno in Spagna a insegnare alla corte vagante un gusto e uno stile di vita: Pellegrino Tibaldi a far pittura e Sofonisba Anguissola a insegnare, oltre alla pittura, anche le buone maniere, la forchetta e le feste. La città passa attraverso mezzo secolo di alternanze tra francesi, imperiali e tentativi di ripristinare il ducato sforzesco. Nel 1530 vi entra definitivamente Carlo V, prima addirittura di farsi incoronare imperatore a Bologna. La città sarà governata da Ferrante Gonzaga e, se si può dire che fioriranno le fortificazioni, le grandi mura spagnole, non altrettanto fioriranno le arti, almeno le arti maggiori, perché la città rimane luogo di produzione ed eccellenza di armi, oggetti strani e di gran lusso. L’imperatore si dimette nel 1556 e lascia al figlio Filippo II la Spagna, comprese le colonie, le Fiandre, Napoli e Milano, e al fratello Ferdinando I l’Austria con i domini dell’Europa centrale. La casa d’Asburgo si separa, pur mantenendo in comune solo la mascellona e la masticazione inversa. Milano è ormai ispanica per mantenere tre futuri diritti: poter scrivere sul pompelmo il prezzo cadauno, tuttora in spagnolo, consentire un giorno al Manzoni di scrivere i Promessi Sposi e permettere ai cuochi milanesi di oggi di mettere lo zafferano della paella nel risotto. TORNA AL TESTO

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IL MUSEO ULISSE ALDROVANDI DI BOLOGNA Il Museo Ulisse Aldrovandi contiene un complesso percorso fra gli oggetti più strani. L’incredibile raccolta fatta in vita dallo studioso (18 000 “diversità di cose naturali” e 7000 piante essiccate in quindici volumi, più altri libri che raccoglievano illustrazioni delle creature più impensabili e molto altro ancora) verrà portata a Palazzo Poggi nel 1742, per volontà di un papa illuminato, Prospero Lambertini, Benedetto XIV, che pure proviene da Bologna. Nel corso dell’Ottocento la collezione venne smembrata, per poi essere recuperata il più possibile all’inizio del secolo successivo. È fantastico ciò che oggi vi si ritrova, perché la chimera mostruosa serve ancora a far capire il legno della xilografia che ne discende e accanto si vede la riproduzione dell’acquerello che la riproduce. Oltre alla collezione di Aldrovandi, il museo contiene anche i reperti naturalistici di Luigi Ferdinando Marsili, altro bolognese illustre, attivo tra i secoli XVII e XVIII. TORNA AL TESTO

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Moretto, Natività con i pastori, san Gerolamo e un donatore, particolare, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

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L’occhio lombardo Nord e sud d’Italia sono davvero così distanti? Sì, se si pensa alle abitudini alimentari: polenta e spaghetti per esempio sono l’ossimoro italico perfetto, l’accostamento impossibile degli opposti. Un po’ meno, se si guarda alla storia dell’arte e in particolare alla pittura, dove nord e sud si fondono a volte in modo inatteso.

La Brescia di Romanino e Moretto Per approfondire l’indagine pittorica e studiare quel particolare modo di vedere che chiamerei l’occhio lombardo, partiamo dalla Val Trompia. All’inizio del Quattrocento, in provincia di Brescia, nasce un artista fondamentale: è Vincenzo Foppa, che lavorerà in quell’area e fino a Milano, lasciando una serie di segni che sembrano mescolarsi culturalmente con il Veneto, ma che hanno un’origine arcaica così fortemente gotica da far capire che nel suo sangue scorre il cromosoma longobardo. Venezia ha grande influenza sui suoi territori occupati, ma non riesce a rompere equilibri preesistenti, quelli delle valli, le radici del gusto della Val Trompia con i tromplini, della Val Camonica con i camuni e quelli della Val Brembana, non per nulla antenati di Pacì Paciana, sorta di Robin Hood della bergamasca, brigante idolo delle folle, che hanno una forza propria tanto autonoma da tracciare un percorso preciso nella storia della pittura. Nel 1516, dopo il sacco francese per mano di Gaston de Foix, quando Brescia torna definitivamente sotto il dominio della Serenissima, sarà modificato il piano urbanistico e Venezia vi manderà i suoi migliori artisti a operare: solo allora si avrà una contaminazione e un cambiamento nel gusto. La chiesa di San Nazaro e Celso contiene forse il più bel quadro di Moretto, l’Incoronazione della Vergine e santi, con vesti svolazzanti perfette e un san Francesco con le stigmate. E dietro l’altare, il capolavoro di Tiziano giovane, con un Cristo risorto del 1520-1522, che influenza tutti gli artisti locali. 637

Moretto, Incoronazione della Vergine e santi, 1534, olio su tavola, cm 400x198, Brescia, San Nazaro e Celso

La città conserva una preziosa raccolta di opere del Moretto, nella Pinacoteca Tosio Martinengo (attualmente non visitabile), che permette un’indagine attenta dell’artista. Alessandro Bonvicino, detto il Moretto, si forma alla scuola di Vincenzo Foppa e del Romanino, altro pittore tutto lombardo, assolutamente concreto. Nella Cena in Emmaus di Girolamo di Romano, detto il Romanino appunto, la parte inferiore del dipinto è estremamente rivelatrice con la sua brocca posata realisticamente per terra e una ciotola dimenticata sopra a coprirla, le frange della tovaglia, un 638

tavolo intarsiato con un gusto perfetto e dietro un Cristo che curiosamente ha i calzari. Sulla destra, un piedone che più popolare di così non si potrebbe immaginare. Il giovanotto di servizio è ammiccante ed equivoco. Brescia in effetti si trova a metà strada fra la Lombardia e Venezia e passa dal cupo di alcuni sentimenti tizianeschi a un senso di realismo perenne, come nelle facce della Natività, dove la Madonna e san Giuseppe non potrebbero essere più locali: una Madonna contadina dal labbro umido e un Giuseppe operaio. Divina è la scena perché divina è la seta del manto della Madonna.

Vincenzo Foppa, I tre crocifissi, 1450 ca, tempera su tavola, cm 68x38, Bergamo, Accademia Carrara

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Tiziano, Polittico Averoldi, 1520-1522, olio su tavola, cm 278x253, Brescia, San Nazaro e Celso

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Romanino, Cena in Emmaus, 1532-1533, affresco strappato, cm 297x249, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

Moretto impara l’arte dal Romanino e in particolare proprio il gusto per le stoffe, come si può vedere nell’Incoronazione della Vergine e santi. La Cena in Emmaus di Moretto, della metà degli anni venti del Cinquecento, è un vero capolavoro, equilibrato, maturo e ritmato. La composizione ha il rigore di una scena teatrale e riprende il meglio delle lezioni dei suoi anni, quella di Tiziano e di Lorenzo Lotto. Il tavolo è disposto, come nella Cena in Emmaus del Romanino, in modo prospettico, ma con un dettaglio in più: una vera gallina lessa posata su un autentico piatto di peltro, probabilmente già caduto e ammaccatosi, in mano all’unico personaggio vestito alla perfezione, una fanciulla lussuosa nel vestito e 641

assolutamente agreste nella faccia locale. Questo senso della realtà è bizzarrissimo. Il realismo delle vesti dei due bambini protetti da san Nicola nella Pala Rovelli, muta già il suo senso perché assume piccole valenze romantiche, là dove l’architettura, sullo sfondo, mostra la propria antichità.

Romanino, Natività, particolare, 1525, olio su tela, cm 240x180, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

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Romanino, Natività, intero, 1525, olio su tela, cm 240x180, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

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Romanino, Incoronazione della Vergine, particolare, 1545, olio su tela, cm 450x335, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

Immagine di un mondo antico che il cristianesimo sta superando con la nascita del Salvatore, nella grande Natività con i pastori, san Gerolamo e un donatore, dove ricompaiono le rovine, segno di un tempo che passa come la scortecciatura degli alberi. Mentre è perfettamente contemporaneo il bacile con l’acqua in ottone tornito, roba da bresciani. E il cesto, al di là del significato liturgico dei panni, con quello rosso che allude alla Passione, preannuncia già il cesto famosissimo che più tardi dipingerà Caravaggio.

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Moretto, Cena in Emmaus, 1526, olio su tela, cm 147x305, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

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Moretto, Pala Rovelli, particolare, 1539, olio su tela, cm 245x193, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

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Moretto, Natività con i pastori, san Gerolamo e un donatore, particolare, 1550 ca, olio su tela, cm 412x276, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

Realismo e pathos: perfettamente realista la croce e pathos totale quello dell’angelo che piange, nel Cristo e l’angelo. E infine scene assolutamente normali lasciano spazio a verismi che riappariranno solo nella pittura del XIX secolo.

Il capolavoro ligneo di Lotto Spostiamoci di valle e andiamo in Val Brembana. Bergamo Alta ha una stratificazione architettonica densa di qualità che ruota intorno alla 647

cattedrale di Santa Maria Maggiore, con quello che era il suo Battistero, costruito dall’architetto scultore Giovanni da Campione e spostato, all’inizio del XX secolo, dalla sua posizione originaria di fronte al duomo. La Cappella Colleoni, opera rinascimentale di Giovanni Antonio Amadeo, presenta campionari di colonne d’ogni stile, per dimostrare quanto possa il gotico essere internazionale, e statue dal sapore nordeuropeo. Il portone di Santa Maria Maggiore è sempre trecentesco con facce forti, rudi e locali, mentre l’interno è un incontro di materiali d’ogni sorta: il legno, lo stucco, la pittura, la tappezzeria di Bruxelles, nulla a che vedere con il rigore austero della Lombardia milanese. Forse è stata l’influenza veneziana a cambiare il tono, ma probabilmente la questione è molto più profonda e lontana nel tempo. L’interno manierista e poi barocco si annida nell’edificio romanico come la polpa nel guscio d’un frutto e lascia sopravvivere, negli interstizi e nelle torri, l’architettura originaria e le decorazioni medievali, i muri dipinti ad affresco, i cavalieri misteriosi di epoche lontane nei matronei ormai chiusi e le macchine invece necessarie alla movimentazione seicentesca. Ma il vero capolavoro della chiesa sono le tarsie lignee del coro disegnate da Lorenzo Lotto e realizzate da Giovan Francesco Capoferri, tra il 1524 e il 1532. Un’opera di qualità assoluta, iniziatica, esoterica, misteriosa. I coperchi degli scranni, anch’essi decorati con simboli, ricoprono l’opera definitiva che narra storie dell’Antico Testamento.

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Moretto, Cristo e l’angelo, 1550 ca, olio su tela, cm 209x126, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

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Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), Allegoria del Chaos Magnum, 1524, tarsia lignea, cm 60x50, Bergamo, Santa Maria Maggiore

Una scoperta magnifica: alcuni pannelli, come quello in cui il consigliere vecchio del re Davide uccide quello nuovo, mostrano il racconto biblico inserito in una perfetta architettura rinascimentale. Un dramma antico nel mondo dell’equilibrio perfetto. L’uso sapiente dei legni e le diverse tonalità delle essenze vanno a sostituire gli impasti cromatici della pittura.

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Giovanni da Campione, Protiro settentrionale della cattedrale di Santa Maria Maggiore, XIV secolo, Bergamo

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Giovanni Antonio Amadeo, particolare della facciata della Cappella Colleoni, 1476, Bergamo

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Maestranze lombarde, Fortezza, XIV secolo, marmo, Bergamo, Santa Maria Maggiore, Battistero

La parte forse più commovente è quella della iconostasi, in cui si torna al suo valore etimologico di portatrice di immagine. Uno sportello fantastico è quello con Noè e l’arca, dove Noè si fa indicare la strada da Dio. Gli animali sono in coppia perfetta. Due cavalli e due elefanti. Il toro che segue distratto la vacca. Il cervo e la cerbiatta perché Lotto sta inventando Walt Disney. L’orso e l’orsa stanno giocando. L’asino solitario raglia e viene replicato come in un fumetto mentre raglia una seconda volta tentando di commuovere il cammello, ma rivolgendosi in realtà al gallo, con la sua 653

gallina a fianco. La questione teologica fra maiali e oche rimane quella dell’incontro fra la pecora e il caprone, fra il bene e il male, perché anche il male sale sull’arca e verrà traghettato nel futuro. Lorenzo Lotto è sicuramente l’inventore europeo del fumetto, ma lo è in modo particolare per i suoi disegni, per i coperchi con le scene allegoriche carichi di significati arcani, di curiosi misteri numerici, di citazioni bibliche, e di citazioni cabalistiche che fra poco dovranno scomparire, perché lui è lontanissimo dallo spirito della Controriforma. Con queste tarsie Lotto realizza la Cappella Sistina della falegnameria.

Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), Allegoria di Giuseppe venduto dai fratelli, post 1524, tarsia lignea, cm 43,7x40, Bergamo, Santa Maria Maggiore

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Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), Allegoria deI pianto di Davide, 1527, tarsia lignea, cm 43,7x40, Bergamo, Santa Maria Maggiore

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Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), L’arca di Noè, 1525, tarsia lignea, cm 68x101, Bergamo, Santa Maria Maggiore

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Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), Passaggio del Mar Rosso, 15261527, tarsia lignea, cm 68x99, Bergamo, Santa Maria Maggiore

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Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), Consegna delle tavole della legge a Mosè, 1525, tarsia lignea, cm 41,6x43, Bergamo, Santa Maria Maggiore

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Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), Giona e la balena, 1525, tarsia lignea, cm 41,8x43, Bergamo, Santa Maria Maggiore

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Giovan Battista Moroni, Cavaliere in rosa, 1560, olio su tela, cm 216x123, Collezione privata

I ritratti bergamaschi di Moroni Ma Bergamo, città spagnola nella seconda metà del Cinquecento, è tappa fondamentale per indagare anche il pittore che in un certo senso chiude il percorso iniziato nel Quattrocento da Vincenzo Foppa: Giovan Battista 660

Moroni, con il suo famosissimo Cavaliere in rosa, nelle sue sete eccellenti della fine del Cinquecento, in una posa spavalda e con uno sguardo che più bergamasco di così non si potrebbe immaginare. Un grado di realismo che lo trasporta immediatamente fino a oggi. Con il motto ispanico in una Bergamo ispanica: mas el çaguero que el primero. Un incrocio geniale fra realismo, lussi e senso di un’antichità che sopravvive nei suoi ruderi. Un mondo bergamasco molto più colto del previsto, come la poetessa Isotta Brembati, dalle idee lunghe e dal collo corto, sul quale poggia la pelliccia che serve a raccogliere le pulci che cadessero dalla capigliatura, arricchita con la dolce testolina rifatta dal gioielliere in modo da poterla prendere in mano e scuoterla. Sciccheria pari solo al ventaglio di struzzo.

Giovan Battista Moroni, Ritratto di anziana donna in nero, 1572-1573, olio su tela, cm 95x76, Collezione privata

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Giovan Battista Moroni, Ritratto di Isotta Brembati, 1552 ca, olio su tela, cm 160x114,9, Collezione privata

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Giovan Battista Moroni, Trasfigurazione di Gesù sul Monte Tabor, 1564-1565, olio su tela, cm 200x150, Comun Nuovo, Santissimo Salvatore

Moroni ritrattista diventa anche Moroni pittore nell’ambito della Controriforma, ma con una sua particolare e curiosa schizofrenia: nella Trasfigurazione di Gesù sul Monte Tabor, il mondo reale è al piano di sotto, rimane un mondo oggettivo capito e definito. Il mondo teologico, al piano di sopra, entra in un’area linguistica, dove dell’equilibrio e delle qualità di prima rimangono solo tracce straordinarie nelle vesti. Ma tutto cambia quando si passa dalla celebrazione alla narrazione evangelica vera e propria; lo si può osservare nell’Ultima Cena, capolavoro assoluto dove tutto torna a posto. Un san Giovanni indigeno, un oste di casa che porta un vino sicuramente locale, che corrisponde a una natura morta 663

assolutamente perfetta, pagnotta compresa, dinnanzi a un Giuda che ha infilata nella cintura la squallida borsa del tradimento. Mentre gli altri apostoli sono seduti con un senso di realismo da copertina della “Domenica del Corriere”, di Walter Molino, dipinti in una qualità di contrasto cromatico fenomenale fra il rosa e l’azzurro del crepuscolo. Un realismo estremamente innovativo anche rispetto ai passi fatti nella Venezia di Tiziano. Il personaggio col baffo, sulla destra, che appoggia il mento sulla mano, potrebbe uscire da una pellicola neorealista degli anni Cinquanta. Ritratti senza tempo. Ma i temi religiosi espressi secondo i dettami ufficiali del Concilio di Trento, in realtà, non sembrano corrispondere alla vocazione naturale di Moroni; la sua vera specialità continua a rimanere il ritratto, dove rappresenta gentiluomini della sua epoca vestiti di nero, che potrebbero apparire già come in una redingote del XIX secolo, oppure personaggi storici in gorgiera, transepocali, fuori dal tempo, spavaldi e arroganti.

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Giovan Battista Moroni, Ultima Cena, particolare, 1567, olio su tela, cm 295x195, Romano di Lombardia, Santa Maria Assunta e Giacomo Maggiore

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Giovan Battista Moroni, Ultima Cena, intero, 1567, olio su tela, cm 295x195, Romano di Lombardia, Santa Maria Assunta e Giacomo Maggiore

Caravaggio: talentaccio e caratteraccio Da questo mondo del realismo proviene un colosso della pittura, Caravaggio. È ormai quasi certo però che Michelangelo Merisi non venga da Caravaggio, come potrebbe risultare dal nome attribuito che è poi quello del luogo d’origine dei genitori, ma da Milano. Qualche anno fa un attento studioso “non accademico”, quindi probabilmente attento sul serio alle cose, 666

ha ritrovato in una chiesa di Milano un atto di battesimo, quindi certificato di nascita, che cita lui e suo padre. Questo legittimerebbe più facilmente il carattere complesso del Merisi, che è quello d’un uomo irascibile come spesso lo sono gli abitanti di Caravaggio, mezzi milanesi e mezzi bergamaschi, uomini di tempra forte come si sa, ma è pure quello contorto e sofferente dei lombardi forgiati dalla Controriforma di san Carlo Borromeo.

Caravaggio, Cena in Emmaus, 1601, olio su tela, cm 141x196,2, Londra, The National Gallery

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Caravaggio, Cena in Emmaus, particolare, Londra, The National Gallery

Caravaggio, l’uomo che rivoluziona il modo di vedere e di dipingere alla fine del Cinquecento. Il pittore dal destino maledetto. Caravaggio è realmente un rivoluzionario perché riesce, un po’ per via del caratteraccio, un po’ per via del talentaccio, a rompere con qualsiasi cosa fosse avvenuta prima nelle varie iconografie dell’Italia tardorinascimentale e manierista. L’evoluzione della pittura è rapidissima fra le due versioni della Cena in Emmaus: la prima dipinta a Roma nel 1601, ancora con tutte le tracce delle sue origini lombarde, ivi compresa la passione per la natura morta, la pagnotta bergamasca e il cestino di frutta cardinalizio. Cinque anni dopo, Caravaggio è appena scappato da Roma, dove ha ferito mortalmente Ranuccio Tomassoni per questioni di donne o di denaro. In fuga dipinge la seconda versione della Cena in Emmaus e del quadro precedente rimangono solo la brocca e la tovaglia bianca poggiata sul tappeto antico che fa Oriente.

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Caravaggio, Cena in Emmaus, 1606, olio su tela, cm 141x175, Milano, Pinacoteca di Brera

Sono scomparse le ombre, il Cristo è diventato drammatico, la tavola si è svuotata, il pane è meridionale e si mangia solo erba cotta. La teatralità assoluta e gestuale del Cristo rockstar è sostituita da un Cristo sciamano e l’aneddotica stracciarola è stata sostituita dal pathos. Una volta a Napoli in realtà il realismo precedente viene totalmente superato e Caravaggio inizia un percorso che è inarrestabile verso la cultura del Barocco. Nelle Sette opere di misericordia tutto si fa teatro, i piedi e le mani sono finalmente puliti, la carità popolana porge il seno ma è molto più sublimata che realistica, la Vergine e il Bambino sono avvolti nella dolcezza. I due angeli sono in una torsione che è identica a quella che sta realizzando nel marmo negli stessi anni Francesco Mochi per il Duomo di Orvieto. Loro sicuramente non si conoscono, ma c’è nell’aria qualcosa di nuovo e la vecchia separazione tridentina fra la realtà bassa e quella alta si è finalmente unificata in un’opera unica. 669

D’altra parte, nel Cinquecento, erano molti gli artisti del nord che emigravano verso Napoli in cerca di lavoro: dal bergamasco Cosimo Fanzago a Cesare da Sesto, fino appunto a Caravaggio. Qua era già arrivato, da un secolo ormai, il realismo d’origine nordeuropea, grazie ad artisti come Pietro e Giovanni Alamanno, o all’arrivo dei quadri di Rogier van der Weyden e di Van Eyck. I lombardi vengono dunque a Napoli a studiare, imparano la lezione e la uniscono al loro naturalismo contadino padano.

Caravaggio, Cena in Emmaus, particolare, Milano, Pinacoteca di Brera

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Caravaggio è realmente un rivoluzionario perché riesce, un po’ per via del caratteraccio, un po’ per via del talentaccio, a rompere con qualsiasi cosa fosse avvenuta prima nelle varie iconografie dell’Italia tardorinascimentale e manierista.

Caravaggio, Sette opere di misericordia, 1606-1607, olio su tela, intero, cm 390x260, Napoli, Pio Monte della Misericordia

Le Sette opere di misericordia di Caravaggio ha l’atmosfera di un vicolo napoletano dove avviene di tutto: la donna con il bambino in braccio 671

affacciata al balcone, tra le lenzuola stese ad asciugare grazie al vento che soffia in queste stradine strette e scure, perché i raggi del sole non arrivano fin laggiù. Dovunque c’è un gran movimento, tutti sono intenti a fare qualcosa: un uomo beve, la prostituta allatta il vecchio, carcerato e affamato, e dietro l’angolo si avverte la presenza della morte, che qui è di casa tanto quanto la vita. Cambia la percezione dello spazio in Caravaggio, non più rinascimentale e prospettico, ma costipato, stretto e costretto: ci si soffoca, ma questo succede perché è vissuto, alimentato, raccontato, abitato dalla presenza dell’uomo, dalla nascita alla morte.

Caravaggio, Sette opere di misericordia, 1606-1607, olio su tela, particolare, cm 390x260, Napoli, Pio Monte della Misericordia

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Francesco Mochi, Angelo annunciante, 1605-1608, marmo, altezza cm 185, Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo

Poi il pittore scappa anche da Napoli e va a Malta dai famosi Cavalieri, che curiosamente cominciano ad apparire come se fossero usciti da un quadro di Moroni, con la spada nella mano e il rosario nell’altra. E con il foro nell’orecchio, a ricordo d’una esistenza molto più avventurosa del previsto. A Malta dipinge alcune opere straordinarie, fra le quali la famosa e terribile Decollazione di san Giovanni Battista, quadro che solo chi ha conosciuto le prigioni per esperienza personale può avere concepito. Poi litiga anche con i Cavalieri ed è costretto a scappare di nuovo, questa volta in Sicilia e ormai inseguito dalle due polizie più potenti del mondo, quella 673

papalina e quella maltese. La lezione della Decollazione di Malta ormai è stabile, basata su due punti: la grande dimensione e la voglia di non riempire più integralmente lo spazio, che diventa immenso e non misurabile, ma misurato dalle vicende dell’uomo.

Caravaggio, Ritratto di Antonio Martelli, cavaliere di Malta, 1608-1609, olio su tela, cm 118,5x95, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti

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Caravaggio, Decollazione di san Giovanni Battista, 1608, olio su tela, cm 361x520, La Valletta, San Giovanni

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Caravaggio, Seppellimento di santa Lucia, 1607-1608, olio su tela, cm 408x300, Siracusa, Santa Lucia al Sepolcro

Da Malta parte e in un primo passo, a Siracusa, riprenderà proprio questo concetto compositivo, quando realizza il Seppellimento di santa Lucia. Stessa impostazione userà anche per la Resurrezione di Lazzaro di Messina. Incredibile qui la figura del Cristo: la sua faccia è in ombra, si manifesta attraverso il passaggio della luce. Lo spazio quasi non c’è, è tutto buio e tutto impenetrabile. Si vede bene però il gesto dell’uomo Cristo che allunga il braccio e fa risorgere il morto. E incredibile è pure il degradare dall’alto verso il basso della fisionomia dei volti, la prima donna stupita, la seconda drammaticamente partecipe e sotto il cadavere. Caravaggio ormai non è più 676

un pittore della realtà, è un pittore dell’esistenza. Questo mondo realista fu totalmente dimenticato all’inizio del XX secolo; nei manuali di storia dell’arte si spiegava che erano tutti artisti di cattivo carattere e di cattivo gusto e che quelli di buon gusto erano quelli come Guido Reni. Poi arrivò Roberto Longhi con una colossale e geniale revisione critica. In realtà cambiava il mondo e si stava guardando la realtà del quotidiano con lo stesso occhio con cui si guardava quella realtà lì. E poi arrivò, come loro ultimo e sublime discendente, Pier Paolo Pasolini, che riuscì a collegare il nord e il sud e andò come Caravaggio a morire assassinato su una spiaggia.

Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, 1609, olio su tela, cm 380x275, Messina, Museo Regionale

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LOTTO E I MISTERI DELLE TARSIE LIGNEE Le arti non sono necessariamente sempre solo quelle che la storia della pittura ci ha trasmesso. L’immaginario dei nostri antenati rinascimentali era ben più complesso di quello che ritroviamo all’interno delle pinacoteche. L’immaginario voluto dalla Controriforma in poi è quello che sulle pareti delle chiese, nei grandi teleri dei pittori e nello svolazzo delle sculture, serviva alla Propaganda Fide, cioè all’insegnamento immaginifico dei fedeli in sostituzione delle interpretazioni personali dei testi che, come ben aveva dimostrato Lutero con la sua traduzione della Bibbia, rischiavano di essere altamente pericolose. L’Italia da allora e i Paesi di osservanza cattolica in generale optano per un saggio analfabetismo trasversale e popolare che sembra tuttora durare. In cambio, l’immaginario si plasma in altre direzioni, laddove la mescolanza delle opere assume quell’elegante plurale latino di opus che diventa opera. Da allora l’Italia è patria del melodramma. Nondimeno altri immaginari continuano a evolvere, soprattutto fra i letterati, i privilegiati della struttura sociale e ovviamente il clero avveduto. Un immaginario formidabile è quello conservato nel segreto delle pagine dei codici miniati. Un altro ben più facile da consultare è quello delle tarsie lignee, delle sculture nei cori delle chiese con mirabili esecuzioni di ebanisteria non visibili ai più. Basta pensare alle tarsie dello Studiolo di Federico da Montefeltro a Urbino di Benedetto da Maiano con le loro inattese magie, oppure a quelle di Santa Maria in Organo a Verona realizzate da Fra Giovanni nell’area discreta e iniziatica della sacrestia. Le tarsie corrispondono a un punto mediano fra le miniature conservate nei libri e destinate solo all’occhio avvertito e le pitture destinate a tutti. Le tarsie hanno il diritto di contenere i segreti che gli iniziati possono conoscere. Ecco perché i corpi geometrici di Luca Pacioli, raccolti in un esemplare unico che Leonardo destinò al duca di Milano, si ritrovano a uso del clero informato a Verona. Di tutti i cicli il più intrigante è innegabilmente quello di Lorenzo Lotto a Bergamo, in Santa Maria Maggiore. Lotto è un artista che oggi potremmo definire anarchico. Contrariamente ai rinnovatori della pittura veneziana che sono per lo più uomini di terra che portano in laguna una sensibilità nuova e meno astratta di quella quattrocentesca dei maggiori protagonisti passati, uomini terrigni come Tiziano e Paolo Veronese, Lotto è un oriundo veneziano che se ne andrà a celebrare la propria indipendenza ai confini estremi, quelle terre appena conquistate della bergamasca o quei luoghi d’un altro mondo che sono le Marche. Lotto è alternativo ed eretico e lo è pure in quella sua pittura, apparentemente più popolare di quella dei concorrenti ma in realtà più protestataria e talvolta quasi protestante. Eretico dello stile e dei cromatismi, conservatore nella sua passione per le velature alla Bellini e il suo diniego per la nuova passione degli impasti tanto cari agli uomini di terraferma, troverà nella commessa bergamasca uno spazio di libertà estrema. È forse per questo motivo che, così come nelle Marche inventerà i cromatismi vivaci quasi già manieristi, a Bergamo pone le basi per Walt Disney. Ma per

nulla è banalizzante il suo percorso; mantiene ambiti misterici che tuttora appaiono decifrabili solo agli iniziati, come nell’Allegoria della Virtù e del Vizio.

Benedetto da Maiano, Tarsia con un leggio, particolare, 1465 ca, Urbino, Palazzo Ducale, Studiolo di Federico da Montefeltro

Giovanni da Verona, Tarsia con armadio aperto, particolare, 1494-1499, tarsia lignea, Verona, Santa Maria in Organo

Dodecaedro vuoto (da un disegno di Leonardo), in Luca Pacioli, De Divina Proportione, 1498, disegno, Milano, Biblioteca Ambrosiana

Lorenzo Lotto, Allegoria della Virtù e del Vizio, 1505, olio su tavola, cm 56,6x42,2, Washington, National Gallery of Art

LE FOGLIE DI CARAVAGGIO Se fino al giorno prima gli adolescenti non erano altro che putti di marzapane cresciuti un po’ troppo, per Caravaggio sono invece ragazzacci raccolti per strada in base ai suoi curiosi umori e, dicono le malelingue, in base ad alcune sue perverse inclinazioni. Di recente Alberto Arbasino ha diviso la tipologia italiana in due categorie: la “volpe argentata”, ovvero i signori chic con i capelli grigi, e “l’abbacchio alla romana”. Il Bacchino malato di Caravaggio, dipinto nel 1593, appartiene ovviamente alla seconda di queste due categorie! Ma la provocazione va oltre, rispetto al Bacco grasso, felice e necessariamente ubriaco, in un immaginario che dall’antichità è saltato direttamente nel Rinascimento. Il suo personaggio rappresenta la patologia del day after e al vino non ci pensa più, ma guarda sconsolato l’uva e le pesche. Attenzione, si tratta di un’opera giovanile di Caravaggio, dipinta poco tempo prima della famosa Canestra di frutta. Le foglie di vite, invece che nel cestino, qui stanno in testa al malcapitato e anche la veste è discinta in una pittura che non è realista ma è realtà. Il cestino detto Canestra di frutta del Caravaggio è uno di quei quadri che abbiamo già visto tutti mille volte. È il prototipo della natura morta, anche se ha alcuni nonni nella pittura del Cinquecento e lui è del 1597. Ma ha degli antenati ben più nobili nelle pitture parietali di Pompei e di Oplontis, dove esattamente lo stesso cestino, intrecciato nel medesimo modo, contiene dei fichi che hanno millecinquecento anni di più. Poi per tutto il Medioevo si è cessato di dipingere le cose immobili che mangiamo, ma si è continuato a intrecciare i medesimi cestini: ce n’è uno, a metà del Quattrocento, nello Studiolo del duca Federico a Urbino. Caravaggio non ne sapeva nulla e ha quindi dipinto un’immagine che risiede nel fondo della nostra anima mediterranea. E non avrebbe per nulla amato l’espressione “natura morta” inventata più tardi dai francesi e neppure la versione inglese ancora più tarda di still life che vuol dire “natura immobile” e che viene dallo Stillleben (con tre elle in fila) tedesco, che è una “natura silenziosa”. La sua composizione è talmente viva da essere reale, e la mela è bacata come la sua anima, le foglie tutte un po’ rovinate come il suo futuro, i fichi già passatelli. Tutto modernissimo, compresa l’ombra sulla linea del tavolo, perché il cestino, come il suo autore, è in bilico. Inizio di carriera d’un ragazzo di ventisei anni, immediatamente acquistato dal cardinale Federigo Borromeo e più di recente voluto da Carlo Azeglio Ciampi sulle vecchie centomila lire.

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Cesto di fichi, I secolo a.C., affresco, Oplontis, Villa di Poppea

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Caravaggio, Bacchino malato, intero, 1593 ca, olio su tela, cm 67x53, Roma, Galleria Borghese

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Caravaggio, Bacchino malato, particolare, 1593 ca, olio su tela, cm 67x53, Roma, Galleria Borghese

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Caravaggio, Canestra di frutta, 1597 ca, olio su tela, cm 47x31, Milano, Pinacoteca Ambrosiana

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INDICE DEGLI ARTISTI Aachen Hans von Ritratto di Rodolfo II, Vienna, Kunsthistorisches Museum Ageladas il Giovane di Argo Tideo (Bronzo di Riace), Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale Agostino di Duccio Ritratto di Sigismondo Malatesta, Rimini, Museo Civico Alberti Leon Battista Tempio Malatestiano, Rimini Allori Cristofano (attr.) Giulia Gonzaga, Firenze, Galleria degli Uffizi Amadeo Giovanni Antonio Particolare della facciata della Cappella Colleoni, Bergamo Anguissola Sofonisba Ritratto di Filippo II, Madrid, Museo Nacional del Prado Anonimo (da Arcimboldo) Humani Victus Instrumenta: Ars Kunstindustriemuseet-Bildesamlingen

Coquinaria,

Copenaghen,

Anonimo milanese Borgognotta all’antica, Vienna, Kunsthistorisches Museum Borgognotta “alla romana antica”, Vienna, Kunsthistorisches Museum Antonello da Messina Crocifissione, Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten Araldi Alessandro Volta delle grottesche, Parma, Monastero di San Paolo, Appartamento della badessa, Camera delle Grottesche

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Arcimboldo Giuseppe Acqua, Vienna, Kunsthistorisches Museum Autunno, 2, Parigi, Musée du Louvre Estate, Parigi, Musée du Louvre Estate, Vienna, Kunsthistorisches Museum Fuoco, Vienna, Kunsthistorisches Museum Inverno, Parigi, Musée du Louvre Inverno, Vienna, Kunsthistorisches Museum L’arrosto/Il cuoco, 2, Collezione privata L’imperatore Massimiliano II d’Asburgo con la moglie Maria di Spagna e i figli Anna, Rudolf e Ernst, Innsbruck, Castello di Ambras Ortolano/Ciotola di verdura, 2, Cremona, Museo Civico “Ala Ponzone” Primavera, Parigi, Musée du Louvre Rodolfo II come Vertumno, Castello di Skokloster Slitta con putti, Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe Terra, 2, Collezione privata Arnolfo di Cambio Bonifacio VIII, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo Bachiacca Francesco Vittoria Colonna, Tokyo, Tokyo Fuji Art Museum Baldassarre d’Este Ritratto di Borso d’Este, Milano, Castello Sforzesco, Pinacoteca Bartolomeo Veneto Flora o Lucrezia Borgia (?), Francoforte, Städel Museum Bassano Jacopo Adorazione dei Magi, Birmingham, The Barber Institute of Fine Arts Discesa dello Spirito Santo, 2, Bassano del Grappa, Museo Civico Due bracchi legati al tronco di un albero, Parigi, Musée du Louvre Riposo durante la fuga in Egitto, 2, Milano, Pinacoteca Ambrosiana Ritratto di Pietro Bembo cardinale, Budapest, Szépművészeti Múzeum 689

San Valentino battezza santa Lucilla, Bassano del Grappa, Museo Civico Sant’Orsola tra i santi Valentino e Giuseppe, 2, Bassano del Grappa, Museo Civico Beato Angelico Crocifissione, Firenze, Convento di San Marco Bellini Giovanni Crocifissione, Collezione Banca Popolare di Vicenza Guarino veronese consegna la sua traduzione di Strabone a Jacopo Antonio Marcello, Albi, Médiathèque municipale Pierre Jacopo Antonio Marcello consegna il manoscritto a René di Anjou, Albi, Médiathèque municipale Pierre Santa Giustina, Milano, Museo Bagatti Valsecchi Bembo Bonifacio Ritratto di Francesco Sforza, Milano, Pinacoteca di Brera Benedetto da Maiano Tarsia con un leggio, Urbino, Palazzo Ducale, Studiolo di Federico da Montefeltro Bertoldo di Giovanni e bottega di Andrea Della Robbia (?) L’origine delle anime dal grembo della Natura e l’inizio del loro percorso terreno, Poggio a Caiano, Villa Medicea Böckstiegel Peter August Ritratto di Hanna Böckstiegel, Collezione privata Bonino da Campione Monumento a Bernabò Visconti, Milano, Castello Sforzesco Bosch Hieronymus Trittico del Giudizio Universale, 2, Vienna, Akademie der Bildenden Künste Bottega di Giotto Adorazione dei Magi, Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco

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Botticelli Sandro Allegoria della Primavera, 2, Firenze, Galleria degli Uffizi Giuliano de’ Medici, Washington, National Gallery of Art La calunnia, Firenze, Galleria degli Uffizi Novella di Nastagio degli Onesti: Il banchetto nel bosco, Madrid, Museo Nacional del Prado Pala di San Barnaba, Firenze, Galleria degli Uffizi Punizione dei ribelli, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina Ritratto di Simonetta Vespucci, Francoforte, Städel Museum Sant’Agostino, Firenze, Ognissanti Bronzino Agnolo Ritratto di Lucrezia Panciatichi, Firenze, Galleria degli Uffizi Burgkmair il Vecchio Hans Trionfo di Massimiliano I, Vienna, Albertina Cagli Corrado Veduta ideale di Roma, Collezione privata Canova Antonio Paolina Borghese, Roma, Galleria Borghese Capoferri Giovan Francesco Allegoria deI pianto di Davide, Bergamo, Santa Maria Maggiore Allegoria del Chaos Magnum, Bergamo, Santa Maria Maggiore Allegoria di Giuseppe venduto dai fratelli, Bergamo, Santa Maria Maggiore Consegna delle tavole della legge a Mosè, Bergamo, Santa Maria Maggiore Giona e la balena, Bergamo, Santa Maria Maggiore L’arca di Noè, Bergamo, Santa Maria Maggiore Passaggio del Mar Rosso, Bergamo, Santa Maria Maggiore Caravaggio Bacchino malato, 2, Roma, Galleria Borghese Canestra di frutta, 2, Milano, Pinacoteca Ambrosiana Cena in Emmaus, 2, Londra, The National Gallery Cena in Emmaus, 2, Milano, Pinacoteca di Brera 691

Decollazione di san Giovanni Battista, La Valletta, San Giovanni Resurrezione di Lazzaro, Messina, Museo Regionale Ritratto di Antonio Martelli, cavaliere di Malta, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti Seppellimento di Santa Lucia, Siracusa, Santa Lucia al Sepolcro Sette opere di misericordia, 2, Napoli, Pio Monte della Misericordia Caroto Giovan Francesco Fanciullo con disegno di pupazzo, Verona, Museo di Castelvecchio Carpaccio Vittore Predica di santo Stefano, 2, Parigi, Musée du Louvre Ritorno degli ambasciatori in Inghilterra, Venezia, Gallerie dell’Accademia Sant'Agostino nello studio, Venezia, Scuola di San Giorgio degli Schiavoni Cellini Benvenuto Ninfa, Parigi, Musée du Louvre Saliera di Francesco I, Vienna, Kunsthistorisches Museum Cima da Conegliano Madonna con il Bambino, 2, 3, 4, 5, Londra, The National Gallery Madonna con il Bambino e i santi Andrea e Michele, Parma, Galleria Nazionale Madonna in trono tra i santi Giacomo apostolo e Girolamo, 2, Vicenza, Museo Civico Polittico di Olera, San Rocco, Olera, Chiesa parrocchiale Riposo durante la fuga in Egitto, 2, Lisbona, Museu Gulbenkian – Fundação Calouste Gulbenkian San Girolamo nel deserto, Harewood, Harewood House Trust Sant’Elena, 2, 3, 4, Washington, National Gallery of Art Trittico di Navolè, San Martino e il povero, Vittorio Veneto, Museo d’arte sacra Cimabue Crocifissione, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco Maestà di Santa Trinita, Firenze, Galleria degli Uffizi Clouet Jean Francesco I, Parigi, Musée du Louvre 692

Renata di Valois, Chantilly, Musée Condé Cole Thomas Sera in Arcadia, Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art Colonna Francesco Hypnerotomachia Poliphili, Corteo con ninfe, drago e putti, Venezia, Biblioteca Marciana Correggio Compianto sul Cristo morto, Parma, Galleria Nazionale Danae, Roma, Galleria Borghese Educazione di Cupido, Londra, The National Gallery Madonna del latte, Budapest, Szépművészeti Mùzeum Madonna della scodella, Parma, Galleria Nazionale Martirio dei santi Placido, Flavia, Eutichio e Vittorino, Parma, Galleria Nazionale Noli me tangere, Madrid, Museo Nacional del Prado particolare della decorazione della Camera della Badessa, 2, Parma, Monastero di San Paolo Ritratto di gentildonna, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage Testa di Cristo, Los Angeles, J. Paul Getty Museum Venere e Cupido spiati da un satiro, Parigi, Musée du Louvre Degas Edgar Il Calvario, copia da Mantegna, Tours, Musée des Beaux-Arts Del Cossa Francesco Trionfo di Minerva, Ferrara, Palazzo di Schifanoia, Salone dei Mesi Della Porta Guglielmo Antinoo come Dioniso, Napoli, Palazzo Reale Della Vecchia Pietro Ritratto immaginario di Tiziano, Collezione privata Di Bartolo Domenico 693

Celestino III concede privilegi di autonomia all’ospedale, Siena, Pellegrinaio dell’Ospedale di Santa Maria della Scalan Donatello Crocifisso, Padova, basilica del Santo Il miracolo del neonato, Padova, basilica del Santo Duccio di Buoninsegna Madonna Rucellai, Firenze, Galleria degli Uffizi Dürer Albrecht Autoritratto a tredici anni, Vienna, Albertina Crocifissione, Collezione privata Due studi di proporzioni di un nudo maschile, Amburgo, Kunstalle Giaggiolo, El Escorial, Monastero di San Lorenzo, Biblioteca Il bagno delle donne, Brema, Kunsthalle Ritratto di Massimiliano I, Vienna, Kunsthistorisches Museum Trionfo di Massimiliano d’Asburgo, Vienna, Albertina Foppa Vincenzo I tre crocifissi, Bergamo, Accademia Carrara Fra Bartolomeo Adorazione del Bambino, Roma, Galleria Borghese Francesco di Giorgio Martini Porte a tarsie lignee con la città ideale, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale Gentileschi Artemisia Danae, Saint Louis, Saint Louis Art Museum Gentileschi Orazio Danae, Cleveland, Cleveland Museum of Art Ghiberti Lorenzo L’incontro tra Salomone e la regina di Saba, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo 694

Giambologna Fontana dell’Oceano, Firenze, Giardino di Boboli Giorgione Concerto (Sansone deriso), Collezione privata Giorgione Cristo portacroce, Venezia, Scuola Grande di San Rocco Doppio ritratto (Ludovisi), Roma, Museo di Palazzo Venezia Fregio delle arti liberali e meccaniche, Castelfranco Veneto, Museo Casa di Giorgione Giudizio di Salomone, Firenze, Galleria degli Uffizi La tempesta, 2, Venezia, Gallerie dell’Accademia Le tre età dell’uomo, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti Ritratto di guerriero, Vienna, Kunsthistorisches Museum Saturno in esilio, 2, Londra, The National Gallery Tramonto, Londra, The National Gallery Giotto Coretto, Padova, Cappella degli Scrovegni Crocifisso, 2, 3, Firenze, Santa Maria Novella Enrico Scrovegni presenta il modello della cappella, Padova, Cappella degli Scrovegni Giudizio Universale, 2, 3, 4, Padova, Cappella degli Scrovegni Madonna d’Ognissanti, 2, Firenze, Galleria degli Uffizi Storie della Vergine, L’angelo annuncia a Gioacchino che è stato esaudito, Padova, Cappella degli Scrovegni Storie di Cristo, Le nozze di Cana, Padova, Cappella degli Scrovegni Storie di Cristo, L’adorazione dei Magi, Padova, Cappella degli Scrovegni Storie di san Francesco, Il dono del mantello, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco Storie di san Francesco, Il presepe di Greccio, 2, 3, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco Storie di san Francesco, Il sogno di Innocenzo, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco Storie di san Francesco, La cacciata dei diavoli da Arezzo, 2, Assisi, Basilica 695

Superiore di San Francesco Storie di san Francesco, La prova del fuoco davanti al sultano, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco Storie di san Francesco, La rinuncia ai beni paterni, 2, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco Storie di san Francesco, San Francesco dinanzi al Crocifisso in San Damiano, 2, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco Veduta della controfacciata della Cappella degli Scrovegni, Padova, Cappella degli Scrovegni Giotto (?) Volta dei Dottori della Chiesa, 2, 3, Assisi, Basilica Superiore di San Francesco Giovanni da Campione Protiro settentrionale della cattedrale di Santa Maria Maggiore, Bergamo Giovanni da Verona Tarsia con armadio aperto, Verona, Santa Maria in Organo Goltzius Hendrick Danae dormiente, Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art Gozzoli Benozzo Corteo dei Magi, 2, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi, cappella dei Magi Petrarca, Dante e Giotto, Montefalco, Museo Civico di San Francesco San Bonaventura, Montefalco, Museo Civico di San Francesco Storie di san Francesco, La cacciata dei diavoli da Arezzo, Montefalco, Museo Civico di San Francesco Grünewald Matthias Crocifissione, Colmar, Musée d’Unterlinden Guercino Et in Arcadia ego, Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini Ingres Jean-Auguste-Dominique Il bagno turco, Parigi, Musée du Louvre 696

Kälberer Paul Ritratto di famiglia, Collezione privata Karcher Giovanni, su cartone di Giuseppe Arcimboldo Dormitio Virginis, Como, Cattedrale Klimt Gustav Danae, Vienna, Collezione privata Leonardo Adorazione dei Magi, Firenze, Galleria degli Uffizi Annunciazione, Firenze, Galleria degli Uffizi Autoritratto, Torino, Biblioteca Reale Codice Atlantico, Studi di macchine volanti, Parigi, Bibliothèque Nationale de France Codice Atlantico, Velivolo, Milano, Biblioteca Ambrosiana Codice di Anatomia, I muscoli delle spalle, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection Codice di Anatomia, Studio di proporzioni del volto e dell'occhio, Torino, Biblioteca Reale Disegno botanico, stella di Betlemme, anemone ed euforbia, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection Due teste di animali mostruosi, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection Espressioni di rabbia in cavalli, leoni e in un uomo, 2, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection Falcate e operazioni aritmetiche, Milano, Biblioteca Ambrosiana Gatti, leoni e un drago, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection Il feto e i muscoli delle pelvi, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection La belle ferronière, Parigi, Musée du Louvre La colonna vertebrale, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection La Gioconda, Parigi, Musée du Louvre Ritratto di Cecilia Gallerani (La Dama con l’ermellino), Cracovia, Museo Czartoryski Ritratto di musico, Milano, Pinacoteca Ambrosiana 697

San Gerolamo, Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana San Giovanni Battista, Parigi, Musée du Louvre Sant’Anna Metterza, Londra, The National Gallery Studi per il Monumento Trivulzio, Windsor Castle, Royal Library, The Royal Collection Studio di cavallo e cavaliere, Collezione privata Ultima Cena, 2, Milano, Cenacolo Vinciano Uomo vitruviano, Venezia, Gallerie dell’Accademia Vergine delle rocce, 2, 3, Londra, The National Gallery Vergine delle rocce, Parigi, Musée du Louvre Liberale Giorgio (?) Polpo, Vienna, Österreichische Nationalbibliothek Limbourg Pol de Agosto, miniatura da Les Très Riches Heures du Duc de Berry, f. 8v, Chantilly, Musée Condé Lippi Filippino La visione di san Bernardo, Firenze, Chiesa della Badia Lo Scheggia Cassone Adimari, Firenze, Galleria dell’Accademia Lotto Lorenzo Allegoria della Virtù e del Vizio, 2, Washington, National Gallery of Art Annunciazione, Recanati, Pinacoteca Civica Mabuse Danae, Monaco, Alte Pinakothek Maestranze lombarde Fortezza, Bergamo, Santa Maria Maggiore, Battistero Maestro dei Crocifissi blu Christus Patiens, 2, Assisi, Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco e Collezione Perkins 698

Maestro della Croce 432 Crocifisso con storie della Passione e della Redenzione, 2, Firenze, Galleria degli Uffizi Maestro della Croce 434 Crocifisso con otto storie della Passione, 2, Firenze, Galleria degli Uffizi Maestro della Croce delle Oblate Madonna con Bambino e due angeli, Firenze, Galleria dell’Accademia Maestro della Vita della Vergine Crocifissione, Kues, cappella dell’Ospizio di San Nicolò Maestro di San Francesco Crocifisso, Arezzo, San Francesco Manifattura milanese Daga con impugnatura di corallo, Vienna, Kunsthistorisches Museum Rotella con le fatiche di Ercole, Vienna, Kunsthistorisches Museum Mantegna Andrea Compianto sul Cristo morto, Milano, Pinacoteca di Brera Cristo in pietà sorretto da due angeli, Copenaghen, Statens Museum for Kunst Crocifissione, 2, 3, 4, Parigi, Musée du Louvre Famiglia e corte di Ludovico Gonzaga, 2, 3, 4, Mantova, Palazzo Ducale, Camera degli sposi I Trionfi. Portatori del bottino e dei trofei di armature reali, Londra, Hampton Court, The Royal Collection Il ritorno dalla caccia, Mantova, Palazzo Ducale, Camera degli sposi Madonna con il Bambino e un coro di cherubini, 2, Milano, Pinacoteca di Brera Martirio di san Cristoforo e Trasporto del corpo del santo, 2, 3, 4, 5, 6, 7, Padova, chiesa degli Eremitani, cappella Ovetari Minerva che scaccia i Vizi dal Giardino delle Virtù, Parigi, Musée du Louvre Oculo del soffitto, Mantova, Palazzo Ducale, Camera degli sposi Pala di San Zeno, 2, 3, Verona, San Zeno Pala Trivulzio, 2, Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco Parnaso, Parigi, Musée du Louvre 699

Ritorno da Roma del cardinale Francesco Gonzaga, Mantova, Palazzo Ducale, Camera degli sposi Sacra Famiglia con santa Elisabetta e san Giovannino, 2, Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, Gemäldegalerie Sacrificio di Isacco, Vienna, Kunsthistorisches Museum Sofonisba, Londra, The National Gallery Masaccio Resurrezione del figlio di Teofilo e san Pietro in cattedra, Firenze, Santa Maria del Carmine, cappella Brancacci Trinità, Firenze, Santa Maria Novella Memling Hans Ritratto di uomo con medaglia, Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten Michelangelo Anima dannata, Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe Bacco ebbro, Firenze, Museo Nazionale del Bargello Biblioteca Laurenziana, 2, 3, Firenze Bruto, Firenze, Museo Nazionale del Bargello Centauromachia, Firenze, Casa Buonarroti Cristo Risorto, Roma, Santa Maria sopra Minerva Crocifisso, Firenze, Casa Buonarroti Crocifisso, Firenze, Santo Spirito David, 2, 3, 4, Firenze, Galleria dell’Accademia Giudizio Universale, 2, 3, 4, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina Il Crepuscolo, Tomba di Lorenzo de’ Medici, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova Il Giorno, Tomba di Giuliano de’ Medici, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova La Notte, Tomba di Giuliano de’ Medici, 2, 3, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova L’Aurora, Tomba di Lorenzo de’ Medici, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova 700

Madonna con il Bambino, Bruges, Notre-Dame Madonna della Scala, Firenze, Casa Buonarroti Mosè, 2, Roma, San Pietro in Vincoli Pietà, 2, Città del Vaticano, basilica di San Pietro Pietà Bandini, 2, Firenze, Museo dell’Opera del Duomo Pietà Rondanini, 2, Milano, Castello Sforzesco Profeta Ezechiele, 2, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina Progetto per la tomba di Giulio II, Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe San Matteo, Firenze, Galleria dell’Accademia Sibilla Delfica, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina Studio per una crocifissione con Maria e san Giovanni, Londra, The British Museum Tomba di Giuliano de’ Medici duca di Nemours, 2, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova Tomba di Giulio II, Roma, San Pietro in Vincoli Tomba di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino, 2, Firenze, San Lorenzo, Sagrestia Nuova Tondo Pitti, Firenze, Museo Nazionale del Bargello Volta della Cappella Sistina, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Cappella Sistina Mochi Francesco Angelo annunciante, Orvieto, Museo dell’Opera del Duomo Montorfano Donato Crocifissione, Milano, Cenacolo Vinciano Moretto Cena in Emmaus, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo Cristo e l’angelo, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo Incoronazione della vergine e santi, Brescia, San Nazaro e Celso Natività con i pastori, San Gerolamo e un donatore, 2, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo Pala Rovelli, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

701

Moroni Giovan Battista Cavaliere in rosa, Collezione privata Ritratto di anziana donna in nero, Collezione privata Ritratto di Isotta Brembati, Collezione privata Trasfigurazione di Gesù sul Monte Tabor, Comun Nuovo, Santissimo Salvatore Ultima Cena, 2, Romano di Lombardia, Santa Maria Assunta e Giacomo Maggiore Mucha Alfons Maria Le stagioni, Collezione privata Munch Edvard Grido, Oslo, Munch-museet Niccolò dell’Arca Compianto sul Cristo morto, Bologna, Santa Maria della Vita Parmigianino Amanti in un bosco, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage Antea, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte Autoritratto allo specchio, Vienna, Kunsthistorisches Museum Autoritratto con cagna gravidan, Londra, The British Museum Canefore, Studio per la Steccata, Parigi, Musée du Louvre Canefore, Studio per la Steccata, Parma, Galleria Nazionale Eros che fabbrica l’arco, Vienna, Kunsthistorisches Museum La schiava turca, Parma, Galleria Nazionale Madonna dal collo lungo, 2, Firenze, Galleria degli Uffizi Madonna della rosa, Dresda, Gemäldegalerie Madonna di san Zaccaria, Firenze, Galleria degli Uffizi Pala di santa Margherita, 2, Bologna, Pinacoteca Nazionale Pallade Atena, Hampton Court, The Royal Collection Ritratto di giovane donna, Vienna, Kunsthistorisches Museum Ritratto di Lorenzo Cybo, Copenaghen, Statens Museum for Kunst Ritratto di Malatesta Baglioni, Vienna, Kunsthistorisches Museum Ritratto di uomo con libro, York, City Art Gallery Storie di Diana e Atteone, Cane da caccia, Fontanellato, Rocca Sanvitale 702

Storie di Diana e Atteone, Coppia di ninfe, Fontanellato, Rocca Sanvitalen Storie di Diana e Atteone, Morte di Atteone, Fontanellato, Rocca Sanvitale Storie di Diana e Atteone, Paola Gonzaga tra putti, Fontanellato, Rocca Sanvitalen Storie di Diana e Atteone, Putti, Fontanellato, Rocca Sanvitale Storie di Diana e Atteone, Putti e uno scorcio di cielo, Fontanellato, Rocca Sanvitale, Volta della sala del Parmigianinon Studio di testa, Parigi, Musée du Louvre Testa di cane, Parigi, Musée du Louvre Tre vergini sagge, Parma, Santa Maria della Steccata Tre vergini stolte, Parma, Santa Maria della Steccata Perugino Pietro Adorazione dei Magi, Città della Pieve, Oratorio di Santa Maria dei Bianchi Perugino Pietro Adorazione dei Magi, 2, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria Madonna del sacco, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti Polittico Albani, Roma, collezione Torlonia Polittico della Certosa di Pavia, Arcangelo Michele, Londra, The National Gallery Ritratto di Francesco delle Opere, Firenze, Galleria degli Uffizi San Bernardino restituisce, post mortem, la vista a un cieco, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria Perugino Pietro San Bernardino risana da un’ulcera la figlia di Giovanni Antonio Petrazio da Rieti, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria San Bernardino risana un giovane travolto da un toro, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria Petrus Christus Ritratto di certosino, New York, The Metropolitan Museum of Art Picasso Pablo Studio per Les Demoiselles d’Avignon, Berlino, Nationalgalerie, Museum Berggruen 703

Piero della Francesca Dittico di Urbino, Ritratto di Battista Sforza, Firenze, Galleria degli Uffizi Dittico di Urbino, Ritratto di Federico da Montefeltro, Firenze, Galleria degli Uffizi Dittico di Urbino, Trionfo di Federico, Firenze, Galleria degli Uffizi Flagellazione, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche La Resurrezione di Cristo, Sansepolcro, Museo Civico Leggenda della Vera Croce, Adorazione della croce e incontro tra Salomone e la regina di Saba, Arezzo, San Francesco Leggenda della Vera Croce, Battaglia di Eraclio e Consroe, Arezzo, San Francesco Leggenda della Vera Croce, Scoperta e prova della vera Croce, Battaglia di Eraclio e Cosroe, Arezzo, San Francesco Leggenda della Vera Croce, Sogno di Costantino, Arezzo, San Francesco Leggenda della Vera Croce, Vittoria di Costantino su Massenzio, Arezzo, San Francesco Madonna con il Bambino e quattro angeli, Williamstown, Clark Art Institute Madonna del parto, Monterchi, Museo della Madonna del Parto Madonna di Senigallia, 2, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche Pala di Brera, 2, 3, Milano, Pinacoteca di Brera Polittico della Misericordia, Sansepolcro, Museo Civico Polittico della Misericordia, Crocifissione, Sansepolcro, Museo Civico Polittico della Misericordia, Madonna della Misericordia, Sansepolcro, Museo Civico Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta, Parigi, Musée du Louvre San Giuliano, Sansepolcro, Museo Civico Sigismondo Malatesta davanti a san Sigismondo, Rimini, Tempio Malatestiano Veduta generale della Cappella Maggiore con la Leggenda della Vera Croce, Arezzo, San Francesco Piero di Cosimo Ritratto di Simonetta Vespucci, Chantilly, Musée Condé Pinturicchio San Bernardino restituisce, post mortem, la vista a un cieco, Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria 704

Pisanello San Giorgio e la Principessa, Verona, Santa Anastasia Pisano Nicola Ercole, Pisa, Battistero Pontormo Ritratto di Cosimo il Vecchio, Firenze, Galleria degli Uffizi Poussin Nicolas I pastori dell’Arcadia, Parigi, Musée du Louvre Primaticcio Francesco Danae, Fontainebleau, Galleria di Francesco I Stanza della duchessa d’Estampes, figure a stucco, Fontainebleau, Castello Quarton Enguerrand Pietà di Avignone, Parigi, Musée du Louvre Raffaello Cristo benedicente, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo Il sogno del cavaliere, Londra, The National Gallery La belle jardinière, Parigi, Musée du Louvre La dama con liocorno, Roma, Galleria Borghese La deposizione (Pala Baglioni), Roma, Galleria Borghese La Fornarina, 2, Roma, Museo Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini La muta, Urbino, Galleria Nazionale delle Marche La scuola di Atene, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura La Scuola di Atene, 2, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura La scuola di Atene, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura Madonna Esterházy, Budapest, Szépművészeti Múzeum Parnaso, 2, 3, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura Ritratto di Baldassar Castiglione, Parigi, Musée du Louvre Ritratto di Bindo Altoviti, Washington, National Gallery of Art Ritratto di Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino, Collezione privata Sposalizio della Vergine, Milano, Pinacoteca di Brera 705

Tre Grazie, Chantilly, Musée Condé Trionfo di Galatea, 2, Roma, Villa Farnesina Raffaello (da) Giuliano de’ Medici, New York, The Metropolitan Museum of Art Raffaello e aiuti Incendio di Borgo, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza dell’Incendio Santa Margherita, Vienna, Kunsthistorisches Museum Rembrandt Danae, San Pietroburgo, Museo Statale dell’Ermitage Romanino Cena in Emmaus, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo Incoronazione della Vergine, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo Natività, 2, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo Rubens Ritratto di Elena Fourment, Vienna, Kunsthistorisches Museum Rubens Pieter Paul Dama con ventaglio, Vienna, Kunsthistorisches Museum Venere allo specchio, Vaduz, Sammlungen des Fürsten von Liechtenstein Schiavone Giorgio Madonna in trono con il Bambino, 2, Londra, The National Gallery Schlichter Rudolf Ritratto di Bertolt Brecht, Collezione privata Schongauer Martin Vergine stolta, Chantilly, Musée Condé Scuola pisana Crocifisso con storie della Passione, 2, Pisa, Museo Nazionale di San Matteo Scuola veneto-bizantina 706

Giudizio Universale, Torcello, Santa Maria Assunta Sebastiano Del Piombo Cristo che porta la croce, Madrid, Museo Nacional del Prado Pietà, Viterbo, Museo Civico Polifemo, Roma, Villa Farnesina Ritratto del cardinale Ferry Carondelet e del suo segretario, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza Ritratto di Andrea Doria, Genova, Palazzo del Principe Ritratto di Anton Francesco degli Albizzi, Houston, The Museum of Fine Arts Ritratto virile in armatura, Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art Sebastiano Del Piombo (?) Giudizio di Salomone, Kingston Lacy, National Trust Sebastiano Del Piombo (copia da) Flagellazione, Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister Squarcione Francesco Polittico de Lazara, Padova, Musei Civici agli Eremitani Sustris Lambert Venere e Amore, Parigi, Musée du Louvre Tiepolo Giambattista Giove e Danae, Stoccolma, Universitet Konsthistoriska Institutionen Tintoretto Danae, Lione, Musée des Beaux-Arts Tiziano Adorazione dei Magi, 2, Milano, Pinacoteca Ambrosiana Adorazione dei Magi, fotografia dei primi del Novecento con il dipinto di Tiziano prima dell’intervento di restauro Allegoria della Prudenza, Londra, The National Gallery Annunciazione (Incarnazione), Venezia, San Salvador Assunta, Venezia, Santa Maria Gloriosa dei Frari 707

Autoritratto, Berlino, Gemäldegalerie Cena in Emmaus, Parigi, Musée du Louvre Concerto campestre, Parigi, Musée du Louvre Dama con ventaglio, Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister Danae, 2, Madrid, Museo Nacional del Prado Danae, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte Ecce Homo, 2, Vienna, Kunsthistorisches Museum Isabelle d’Este, Vienna, Kunsthistorisches Museum Jacopo Pesaro presentato a san Pietro da papa Alessandro VI Borgia, Anversa, Musée Royal des Beaux-Arts La famiglia Vendramin adora le reliquie della Vera Croce, Londra, The National Gallery La punizione di Marsia, Kroměříž, Palazzo Arcivescovile La toeletta di Venere, Washington, National Gallery of Art Pala Pesaro, Venezia, Santa Maria Gloriosa dei Frari Pietà, Venezia, Gallerie dell’Accademia Polittico Averoldi, 2, Brescia, San Nazaro e Celso Ritratto di Carlo V, Vienna, Kunsthistorisches Museum Ritratto di Clarice Strozzi, Berlino, Gemäldegalerie Ritratto di donna con fanciulla, Collezione privata Ritratto di Eleonora Gonzaga, Firenze, Galleria degli Uffizi Ritratto di Francesco I, Parigi, Musée du Louvre Ritratto di Jacopo Strada, Vienna, Kunsthistorisches Museum Ritratto di Paolo III Farnese, Vienna, Kunsthistorisches Museum Ritratto di Pietro Aretino, Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti San Giacomo apostolo, Venezia, San Lio Santa Margherita, Madrid, Museo Nacional del Prado Ultima Cena, 2, 3, Madrid, Palazzo Liria, collezione dei duchi d’Alba Venere con suonatore di liuto, New York, The Metropolitan Museum of Art Venere di Urbino, Firenze, Galleria degli Uffizi Tura Cosmè Anta d’organo della Cattedrale con san Giorgio, Ferrara, Museo della Cattedrale Van der Goes Hugo 708

Trittico Portinari, 2, 3, 4, Firenze, Galleria degli Uffizi Van Eyck Jan Polittico dell’Agnello Mistico, 2, 3, 4, 5, 6, 7, Gand, San Bavone Veronese Atalanta e Meleagro, Boston, Museum of Fine Arts Atteone e Diana con le ninfe, Boston, Museum of Fine Arts Giuditta e Oloferne, Genova, Palazzo Rosso Il ratto di Europa, Venezia, Palazzo Ducale Lucrezia romana, Vienna, Kunsthistorisches Museum Venere e Giove, Boston, Museum of Fine Arts Venere e Marte con Cupido, 2, Torino, Galleria Sabauda Verrocchio e Leonardo Battesimo di Cristo, Firenze, Galleria degli Uffizi Arte Baoulé Pendente antropomorfo, Parigi, Musée du quai Branly Arte Greca Afrodite di Milo, Parigi, Musée du Louvre Arte kota Reliquiario a figura di antenato, Berlino, Ethnologisches Museum Arte romana Antinoo Farnese, 2, Napoli, Museo Archeologico Nazionale Busto di Antinoo, Città del Vaticano, Musei Vaticani, Museo Pio Clementino Busto di Antinoo, Collezione privata Cesto di fichi, Oplontis, Villa di Poppea

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CREDITI FOTOGRAFICI © 2011 Her Majesty Queen Elizabeth II/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 © 2013 A. Dagli Orti/Scala, Firenze 1 © 2013 Cameraphoto/Scala, Firenze 1, 2, 3, 4, 5, 6 © 2013 Cameraphoto/Scala, Firenze - Conc. MIBAC 1 © 2013 Copyright The National Gallery, London/Scala, Firenze 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18 © 2013 DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26 © 2013 Digital Image Museum Associates/LACMA/Art Resource NY/Scala, Firenze 1 © 2013 Foto Art Media/Heritage Images/Scala, Firenze 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 © 2013 Foto Austrian Archives/Scala, Firenze 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 © 2013 Foto Opera Metropolitana Siena/Scala, Firenze 1 © 2013 Foto Scala, Firenze 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 76, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 91, 92, 93, 94, 95

17, 37, 57, 77,

© 2013 Foto Scala, Firenze - Conc. MIBAC 1, 2, 3, 4, 5, 6, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66, 67, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 93, 94, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 103, 104

12, 32, 52, 72, 92,

7, 8, 9, 28, 29, 48, 49, 68, 69, 88, 89,

10, 30, 50, 70, 90,

11, 31, 51, 71, 91,

© 2013 Foto Scala, Firenze/Fondo Edifici di Culto - Ministero dell'Interno 1, 2, 3, 4 © 2013 Foto Scala, Firenze/Luciano Romano - Conc. MIBAC 1 710

© 2013 Foto Scala, Firenze/Mauro Ranzani 1 © 2013 Image copyright The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/Scala, Firenze 1, 2, 3 © 2013 Mark E. Smith/Scala, Firenze 1 © 2013 Musée du Quai Branly/Scala, Firenze 1 © 2013 Museo Thyssen-Bornemisza/Scala, Firenze 1 © 2013 Museum of Fine Arts, Boston. Tutti i diritti riservati/Scala, Firenze 1 © 2013 The Calouste Gulbenkian Foundation/Scala, Firenze 1, 2 © 2013 The Museum of Fine Arts Budapest/Scala, Firenze 1, 2 © 2013 Veneranda Biblioteca Ambrosiana/DeAgostini Picture Library/Scala, Firenze 1, 2, 3, 4 © 2013 Wadsworth Atheneum Museum of Art /Art Resource, NY/Scala, Firenze 1, 2 © 2013 White Images/Scala, Firenze 1, 2, 3, 4, 5, 6 © Archivio dell'arte/Luciano Pedicini 1, 2, 3 © Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur für Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12 © Lessing/Contrasto 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 © Mauro Ranzani 1 © Musée du Louvre-Grand Palais/Angèle Dequier - RMN-Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari 1 © RMN-Grand Palais (domaine de Chantilly)/Franck Raux 1 Age/Marka 1, 2, 3, 4 Angèle Dequier/ © Musée du Louvre, Grand Palais /Dist. RMN -Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari 1 Angèle Dequier/RMN-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari 1, 2 Archivi Alinari, Firenze 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 Archivi Alinari, Firenze - Conc. MIBAC 1, 2

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Archivi Alinari/Archivio Brogi, Firenze 1 ARCHIVIO RCS 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 54 Archivio Seat/Archivi Alinari 1, 2, 3 Artothek/Archivi Alinari 1 Bridgeman Art Library/Archivi Alinari 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19 Christian Jean/ RMN-Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari 1 Courtesy National Gallery of Art, Washington 1, 2, 3, 4, 5, 6 Courtesy National Gallery of Denmark 1 DeA Picture Library, concesso in licenza ad Alinari 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12 Fine Art Images/SuperStock 1, 2 Finsiel/Archivi Alinari - Cont 1 Foto Courtesy OEW-Ravensburg 1 Foto Michelangelo Spadoni 1 Foto Nicolò Orsi Battaglini/Archivi Alinari, Firenze - Conc. MIBAC 1 Foto Rabatti e Domingie 1 Foto Studio Amendolagine-Barracchia 1 Foto Studio Marco Rapuzzi 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10 Foto Ultreya/Takashi Okamura 1, 2, 3, 4, 5 Franco Cosimo Panini Editore © su licenza Fratelli Alinari 1, 2, 3, 4, 5, 6 Gérard Blot/RMN-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari 1, 2 Giovanni Mereghetti/Marka 1 Hervé Lewandowski/RMN-Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari 1, 2, 3 Iberfoto/Archivi Alinari 1, 2 712

Jean-Gilles Berizzi/RMN-Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 Jean-Pierre Lagiewski/RMN-Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari 1 Kunsthalle, Brema/Bridgeman Art Library/Archivi Alinari 1 Kunsthistorisches Museum, Library/Archivi Alinari 1

Vienna/Ali

Meyer

-

Bridgeman

Art

Martine Beck-Coppola/© Musée du Louvre, Grand Palais /Dist. RMN Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari 1 Michel Urtado/RMN-Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari 1 Mondadori Portfolio/AKG Images 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14 Mondadori Portfolio/Electa - Conc. MIBAC 1 Mondadori Portfolio/Electa/Antonio Quattrone 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9 Mondadori Portfolio/Electa/Antonio Quattrone - CONC. MIBAC 1, 2, 3 Mondadori Portfolio/Electa/Enzo Brai 1 Mondadori Portfolio/Electa/Luciano Romano 1, 2 Mondadori Portfolio/Electa/Marco Ravenna 1 Mondadori Portfolio/Electa/Mauro Magliani - Conc. MIBAC 1, 2 Mondadori Portfolio/Electa/Paolo e Federico Manusardi - Conc. MIBAC 1 Mondadori Portfolio/Electa/Sergio Anelli 1, 2, 3, 4, 5, 6 Mondadori Portfolio/Electa/Sergio Anelli - Conc. MIBAC 1, 2 Mondadori Portfolio/Picture Desk Images 1, 2, 3, 4, 5 Musée des Beaux-Arts, Tours/Lauros/Giraudon Library/Archivi Alinari 1

-

Bridgeman

Art

National Trust Photographic Library/Derrick E. Witty/The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari 1 Philippe Fuzeau/RMN-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari 1 Raccolte Museali Fratelli Alinari (RMFA), Firenze 1 Raffaello Bencini/Archivi Alinari, Firenze 1 713

Raffaello Bencini/Archivi Alinari, Firenze - Conc. MIBAC 1, 2 Raux Franck/RMN-Réunion des Musées Nationaux distr. Alinari 1 René-Gabriel Ojéda/RMN-Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari 1, 2, 3, 4, 5 RMN-Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari 1 Shutterstock 1 Stéphane Maréchalle © (Musée du Louvre) RMN-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari 1, 2 Stéphane Maréchalle/RMN-Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari 1 Stéphane Maréchalle/RMN-Réunion des Musées Nationaux/distr. Alinari 1 Thierry Le Mage/© Grand Palais (musée du Louvre) RMN-Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari 1 Tokyo Fuji Art Museum, Tokyo - Bridgeman Art Library/Archivi Alinari 1 Tony Querrec/RMN-Réunion des Musées Nationaux/ distr. Alinari 1 Ursula Edelmann - Artothek/Archivi Alinari 1 Veneranda Biblioteca Ambrosiana - Milano/DeA Picture Library, concesso in licenza ad Alinari 1, 2, 3, 4, 5, 6

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