Gian Luigi Bravo-Roberta Tucci I Beni Culturali Demoetnoantropologici [PDF]

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Zitiervorschau

1. il patrimonio demoetnontropologico 1.1

beni culturali e cultura

Beni DEA  sottoinsieme del sistema “cultura”. Cultura (TYLOR, Primitive Culture 1871) è “l’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società”. Non corrisponde più all’istruzione: perde la connotazione elitaria, non concerne più l’individuo isolato. “Cultura”, in senso antropologico, sono tutte le conoscenze, credenze, modelli di comportamento e prodotti di un gruppo umano  l’uomo, ogni uomo, in quanto appartenente al gruppo umano, ne è portatore ed elaboratore. Tutte le società umane, in quanto tali, sono caratterizzate da cultura e creatrici della cultura stessa. In quanto “capacità ed abitudine acquisita”, la cultura si trasmette da una generazione a quella successiva è tradizione. (“Concetto di cultura”, 1972, USA, 200 definizioni di cultura elencate ed analizzate) Studiosi e ricercatori operanti nel campo delle scienze antropologiche sono focalizzati su due tipi di culture: *popoli extraeuropei (“primitivi”) *comunità rurali, scarsamente o per nulla alfabetizzate o istruite, delle popolazioni europee. L’insieme dei beni culturali DEA del nostro paese si è costituito attingendo principalmente a questi due bacini. “Bacino” delle comunità rurali europee maggior peso quanto a diffusione sul territorio e interventi di riproposta e valorizzazione. Società caratterizzate da marcate differenze di reddito, di potere e di prestigio, di stili di vita e di consumo, di accesso all’istruzione formale, e da un’ampia varietà di figure professionali e di ruoli funzionali.

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Il campo demoetnoatropologico comprende dunque le culture delle classi popolari, con una forte componente di oralità, campo spesso indicato come “folklore”, “tradizioni popolari”, “cultura popolare”. E’ un’impostazione ampiamente elaborata nel nostro paese fin dal 1860. Albero Mario Cirese (sviluppando alcune osservazioni di Gramsci, contenute nei Quaderni del carcere)  ridefinisce il folklore come la cultura – in senso antropologico – delle classi subalterne, caratterizzate da una specifica condizione socioeconomica (lavoro manuale ed esecutivo) e che sul piano politico hanno un accesso più ridotto agli strumenti del potere e subiscono l’egemonia delle classi dominanti. Le “tradizioni popolari” vengono quindi ricondotte a dei “dislivelli interni di cultura”. Nel nostro paese le classi subalterne coincidono con il mondo agropastorale (comunità rurale) e con la classe operaia, su cui, in questo momento, manca un flusso consistente di aggiornate ricerche antropologiche e sociologiche. Rispetto al secolo scorso sia la classe operaia che quella rurale hanno subito una battuta d’arresto. Gli studiosi delle tradizioni popolari (in Italia “demologi” o “demoantropologi”) non risultano essersi dedicati ad entrambe le classi subalterne di maggior peso  i lavori sulla classe operaia sono sporadici, anche se ci sono alcune importanti ricerche sul canto e utili raccolte di biografie. Conoscenze elaborate e materiale raccolto sono riconducibili al mondo agropastorale, in quanto i ricercatori hanno continuato a procedere secondo le tradizioni disciplinari, occupandosi principalmente di quel mondo e solo dopo di pescatori, artigiani e altre figure del lavoro preindustriale. Mentre il paese di industralizzava e urbanizzava, riducendo l’occupazione delle campagne, i demologi si concentravano sugli aspetti culturali antecedenti quei processi, meno uniformati su scala nazionale e più localmente differenziati.

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Questo ha portato all’elaborazione di conoscenze sostanzialmente rivolte al passato. Continuano a rimanere scarsi i lavori sia sugli operai, ieri e oggi, sia sulle altre classi subalterne nel presente, compresi i contadini produttivamente inseriti nel contesto attuale. Secondo bacino culturale da cui si costituiscono i beni DEA oggetti raccolti durante viaggi, esplorazioni, ricerche etnografiche e missioni in altri continenti, conservati in un numero ristretto di collezioni meno diffuse nel paese (es. Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini, Roma). Si tratta principalmente di acconciature, armi, strumenti di lavoro, maschere e una vasta gamma di reperti, tra cui sculture e intagli, che vengono molte volte ricondotti unicamente alla sfera artistica, ignorandone la destinazione originaria (magico-religiosa, politica, votiva, rituale). 1.2

la formazione dei beni demoetnoatropologici

Come ha luogo la costituzione del patrimonio dei beni DEA? Trattare di beni culturali implica il riferimento ad attività si conservazione e tutela. Per i beni DEA di tradizione popolare il problema preliminare è quello dell’individuazione. Per questi beni, sul piano delle definizioni ufficiali, disponiamo solo di elencazioni generiche. Una genericità burocratica nell’elencazione anche in rapporto al campo più ampio del patrimonio non DEA, ma riferirsi ad una tradizione colta e di élite riporta a discipline ben consolidate e valori estetici e storici condivisi, cioè ad una base di largo ed indiscusso consenso che rende l’individuazione di massima dei beni un fatto quasi scontato. La cultura delle classi subalterne è divenuta solo di recente un settore di studio e ricerca: ricostruirne le origini e tracciarne le vicende è un problema di notevole complessità.

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Raccolte dedicate allo studio della tradizione popolare solo a partire dal 1800 è caratterizzata dalla trasmissione orale, non possiede memorie esterne (biblioteche, musei ecc.) ed è priva di intellettuali che possano “mediare” con il “mondo esterno”. Ciò che il ricercatore riesce a ricavare è il passato della memoria, ossia intervistare i membri di quelle classi ed integrare le loro testimonianze con le fonti. La tradizione popolare è tradizione comunitaria e condivisa non spiccano apporti di personalità singole la trasmissione e l’elaborazione sono a livello famigliare o comunitario. Periodo risorgimentale e romantico poesia popolare considerata come testimonianza e veicolo di un messaggio di spontaneità ed genuinità, virtù identitarie, prodotto dell’anima di un popolo. Successivamente, con l’elaborazione delle osservazioni gramsciane sul folklore, questa “cultura delle classi subalterne” acquisisce nuovamente una dimensione valoriale: contributo alla creazione di una nuova coscienza sociale e concezione del mondo, “cultura di contestazione” alla logica dominante del profitto, componente e strumento della lotta di classe. Queste posizioni non appaiono attualmente in primo piano. Quelle che si sono affermate e sono state recepite sono sostanzialmente le acquisizioni della ricerca demoetnoantropolgica da qui parte il primo grosso impegno di elaborazione di schede di catalogo presso l’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione, nella seconda metà degli anni ’70, operata da demoantropologi ed etnomusicologi, la nota serie FK. Da qui nascono le collezioni del Museo nazionale di arti e tradizioni popolari di Roma, con materiali raccolti agli inizi del ‘900. Il Museo rispecchia, nella sua impostazione originaria, una concezione del popolo che ne promuove un’immagine da idillio pastorale (per il settore di abbigliamento si rifiutarono i tristi vestiti quotidiani e da lavoro, preferendo i costumi festivi e “belli” all’occhio dell’osservatore colto). Scelta di carattere ideologico, immagine del “bello popolare”, del popolo primitivo ma che risponde ad una categoria del gusto borghese  concezione delle classi subalterne come un insieme di varianti locali in un armonico contesto nazionale. 4

Distanziamento dell’immagine del popolo, cristallizzato come produttore immutabile di ingenua bellezza e curiosità. Discorso analogo per le collezioni con reperti provenienti da popoli di altri continenti. Un posto importante è occupato dagli oggetti di rilevanza simbolica e magico-religiosa, o, quelli che vengono ricondotti ad una dimensione estetica o artistica i popoli extraeuropei sono sequestrati in una dimensione lontana e poco connessa con la loro. Le testimonianze materiali schedate e conservate nei grandi musei rappresentano un patrimonio stabile, conservato ed esposto, ma ciò non significa che si tratti di un settore statico. Quello dei beni culturali di tradizione popolare è un patrimonio in espansione, sia per diffusione territoriale (crescita di musei locali, iniziative, feste, mostre ed eventi) sia per la sempre maggior importanza assunta dai beni DEA immateriali. Tutto questo si riflette sui procedimenti canonici della catalogazione e della tutela come affrontare la schedatura? Come procedere con i beni immateriali? Come tutelare e difendere un patrimonio diffuso, e soprattutto la sua parte immateriale (feste e cerimonie tuttora in uso)? Come proporsi una catalogazione e con quali criteri di selezione? 1.3

la rivitalizzazione delle tradizioni popolari

Fenomeno della rivitalizzazione delle tradizioni popolari e locali, folk revival. Tra il 1960 e il 1970 l’oggetto privilegiato è il canto popolare critica alla musica leggera corrente, musica tradizionale popolare come una cultura di classe, autonoma e antagonista, da riscoprire e diffondere tra le masse popolari. Il vero e proprio avvio alla revitalizzazione ha altri protagonisti, la cui attività ha effetti importanti ed è destinata a durare nel tempo. Nell’ultimo quarto del 900, nel Nord Italia, degli “intellettuali” locali (in quanto organizzatori della cultura e suoi diffusori) hanno trai loro interessi il canto popolare e la festa tradizionale. 5

Nascono gruppi come il Gruppo spontaneo di Magliano Alfieri (CN) che, già dagli anni ’60, ha messo insieme insegnanti, studenti, impiegati e qualche contadino per lavorare alla raccolta e alla registrazione, soprattutto mediante interviste all’interno della loro comunità, di canti del repertorio locale e di informazioni sul ciclo festivo. Hanno anche raccolto testimonianze materiali sulla realizzazione e la decorazione dei soffitti in gesso per la creazione di un Museo inaugurato nel 1994, che testimonia anche la continuità e la perseveranza del gruppo. I suoi membri sono attivi anche nella difesa dell’ambiente, del paesaggio, delle edicole votive e degli affreschi di carattere religioso, dei fabbricati rurali tradizionali. La loro appare come una reazione ad un’aggressione della società urbana ed industriale. Si propongono di salvaguardare, anche imparando a conoscerli meglio, i lasciti della tradizione locale  ritessere la rete dei rapporti comunitari, spesso messi in difficoltà dalla frenetica vita moderna, attraverso il vecchio apparato festivo e cerimoniale: la festa è non solo studiata, ma anche rimessa in scena. Tra le cerimonie prescelte sono di fondamentale importanza i riti di questua, dove gli attori riannodano materialmente le fila della vita locale passando da una casa all’altra a cantare e richiedere i doni. La festa rimarrà in assoluto l’oggetto principale delle iniziative di rivitalizzazione. Il patrimonio è quindi designato in funzione di una sorta di resistenza alla violenza dei processi di urbanizzazione ed industrializzazione. Il primo destinatario è proprio nelle comunità locali  interventi intesi ad una valorizzazione, ad una tutela che si risolve nella dimensione di una fruizione comunitaria. Uno dei riti di questua rimessi in vita dal Gruppo spontaneo è il quaresimale Canto delle uova (Canté i euv), che prevede percorsi notturni tra le case del paese e delle colline per raccogliere uova e altri doni richiesti con strofe canoniche.

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A questa rimessa in vita si accompagna anche una sostanziale innovazione: da questua virile e giovane diventa aperta a tutti, in particolare alle ragazze del Gruppo stesso. Nell’aprile del 1979 Canté i euv darà il nome ad una grande manifestazione musicale organizzata in provincia di Cuneo, che rimanda ad una concreta rivalutazione delle tradizioni locali, dei rapporti comunitari, del paesaggio e dei saperi contadini. Nel XXI secolo si registra qualche caso analogo, ma più legato al business dello spettacolo, come La notte della taranta nel Salento. Con l’inserimento delle ragazze la festa subisce una variazione. La riproposta ci presenta elementi tradizionali contaminati proprio nell’impegno a recuperarli, rivitalizzarli e comunicarli. Manifestazioni come il Canté i euv spettacolarizzato rappresentano una delle linee di sviluppo della rivitalizzazione della tradizione contadina e locale: ciò che era stato inizialmente recuperato e riproposto alla fruizione comunitaria diventa parte di un progetto di comunicazione e spettacolo più ampio, inteso a coinvolgere territori più estesi e ad attrarre anche da lontano un pubblico assai più largo ed eterogeneo. Il riferirsi a flussi turistici ha portato tra l’altro ad iniziative fondate più sull’imitazione di casi di successo o su mode superficialmente recepite che sul radicamento e l’interrogazione della memoria locale. Sempre più spesso celebrazioni ed eventi implicano la possibilità di consumare cibo di tradizione locale, vini ed altri prodotti, arrivando così ad una proposta più allettante e aprendo anche un nuovo campo di ricerca e di intervento, sul cibo, sui saperi ad esso connessi, sulle piccole unità produttive e sui prodotti locali in quantità limitata. Un altro aspetto importante del rinnovato interesse per la tradizione popolare è quello dei musei contadini e locali. Nell’ultimo quarto del Novecento sono aumentati esponenzialmente, anche in località di non grandi dimensioni, fino a raggiungere un numero superiore al migliaio con diffusione soprattutto nel Nord del paese.

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Tema privilegiato lavoro contadino e mestieri preindustriali, dei quali si raccolgono sul posto utensili e attrezzature, spesso simili in musei diversi delle stesse zone. Ciò ha portato, a volte, a considerare di minor interesse e utilità le collezioni in quanto ripetitive. Al contrario, la raccolta di oggetti simili in zone territoriali diverse, e la constatazione della loro diffusione su un territorio sono un’acquisizione di carattere scientifico, un contributo nel delineare diffusione e scambi di cultura. In secondo luogo non appare lecito applicare a reperti DEA criteri di originalità e unicità che potrebbero eventualmente valere per la produzione delle arti figurative colte e connessi capolavori. Infine, quella raccolta di oggetti è un patrimonio costituito spontaneamente e a prezzo di impegno volontario da una comunità, una risorsa di memoria, appartenenza e comunicazione, che sarebbe del tutto fuori luogo deprezzare altezzosamente o burocraticamente scoraggiare. Alcuni dei promotori intervistati riferiscono di sentirsi impegnati a conservare il ricordo del lavoro, delle conoscenze e della fatica dei padri. Questo ricordo consente di misurare i progressi economici compiuti, ma sta anche a testimoniare i prezzi per essi pagati. Tali progressi concedono “un più generalizzato accesso ad una sfera di disponibilità economiche superiori, ma insieme ci sono l’emigrazione, lo sradicamento, l’esilio, e più in generale la dura perdita di quel rapporto diretto e proprio con gli oggetti e le condizioni del sia pur misero e faticoso lavoro”. Un altro importante e prevalente oggetto di interesse tra i protagonisti della rivitalizzazione della cultura contadina tradizionale, accanto alla festa, è quello del lavoro; il tempo quotidiano della fatica e del lavoro e il tempo cerimoniale della comunicazione. Costruzione del passato e produzione dei suoi documenti attività diffusa, di massa esse vengono sottratte al monopolio dell’élite, in un processo che possiamo definire di democratizzazione. 1.4 conclusioni La riproposta di vecchie tradizioni è ormai un ampio campo di iniziativa culturale esteso a tutto il paese. Ha stimolato lavori di ricerca che ne hanno anche in anticipo riconosciuto e documentato il peso ed i caratteri, e ormai le indagini 8

sulla tradizione agropastorale e preindustriale non possono non tener conto di queste analisi della rivitalizzazione. Recuperare e rimettere in circolo il patrimonio della tradizione produzione di risorse per il territorio ricostruzione o rinsaldatura di reti di rapporti occasioni di associazione e di attività creativa comune con in primo piano elementi condivisi di storia e di appartenenza. Fruizione della propria tradizione e memoria importante campo di interazione, socialità e di espressività, complemento, alternativa ed arricchimento dei percorsi di vita multiculturalismo interno e fra generazioni. All’esterno, il coltivare le tradizioni, le memorie, le radici, fornisce un’immagine ampiamente apprezzata come positiva della comunità e del territorio. Una sorta di marchio di qualità con cui essi si presentano nell’arena più ampia per attrarre risorse, finanziarie, mediatiche e soprattutto turistiche e promuovere il mercato dei prodotti locali, anche immateriali (punti di accoglienza e ristorazione). Con l’affermazione e l’articolazione della riproposta, cresce l’attenzione da parte di importanti attori esterni: amministrazioni comunali, provinciali e regionali e fondazioni bancarie. Vengono finanziati manifestazioni ed eventi, spese in attrezzature o edilizia per musei, ma anche operazioni di schedatura e ricerca, con l’apporto di università e sopraintendenze. Complessità e rilievo anche economico di questi processi problemi riguardo alla qualità delle iniziative, alle possibili concessioni a mode superficiali, all’imitazione approssimativa e strumentale di casi di successo, al tentativo di compiacere i detentori del potere finanziario, commerciale, mediatico e politico. Gli addetti ai lavori hanno una loro responsabilità nel contribuire alla valutazione, alla promozione, allo sviluppo scientifico e documentario. Considereremo positivamente: *l’interesse e l’impegno documentario, la ricerca sul terreno e le interviste, con conseguente archiviazione e conservazione dei materiali 9

*la capacità e l’impegno a radicarsi nel territorio, il coinvolgimento dei testimoni interessati e intervistati, la presentazione locale dei materiali o delle loro elaborazioni, le attività associative nella comunità *la collaborazione con istituzioni scolastiche *nei rapporti con l’esterno, il privilegiare gli enti pubblici e le fondazioni, piuttosto che i partner commerciali, il ricorso a consulenze qualificate (universitarie, delle sopraintendenze ecc) per la ricerca e l’eventuale schedatura, ma anche per l’allestimento di mostre ed esposizioni Per le iniziative considerate discutibili sarebbe utile avanzare riserve costruttive e offrire alternative, attività complementari e consulenze, cercando di evitare imposizioni esterne centralistiche o burocratiche. L’ambito dei beni culturali DEA, della ricerca, dell’indagine e della catalogazione nasce sì dalle tradizioni scientifiche interessate, ma deve necessariamente essere integrato dallo studio e attento e articolato del territorio, delle iniziative e dei loro contenuti e finalità, degli attori sociali che ne sono i protagonisti. Questa impostazione consente di valorizzare al meglio il contributo di studiosi e ricercatori, della loro professionalità e delle loro istanze critiche. La loro creatività professionale viene ad esercitarsi nel quadro di un progetto di patrimonio, flessibile ed in progress. I beni DEA diffusi sul territorio non possono essere tutelati semplicemente registrandoli, schedandoli o mummificandoli in un enorme archivio che finisce per coincidere con il territorio stesso e la sua popolazione (al massimo se ne possono archiviare supporti multimediali e scritti). La loro tutela, soprattutto per quelli immateriali, sta nel renderli disponibili per tutti, la loro valorizzazione sta nel renderli oggetto di comunicazione. L’attuale attenzione per le tradizioni contadine e locali si colloca in un contesto in cui gli adetti al settore dell’agricoltura hanno subito una drastica constrazione e in cui le comunità rurali sono principalmente abitate da occupati in altri settori, spesso pendolari e fortemente interagenti con l’esterno. Le feste e le cerimonie non sono oggi strumentali alla scansione della vita e del lavoro di una comunità contadina, e le testimonianze 10

materiali rimandano a saperi, occasioni e tecniche ormai estranee ai più. Gli elementi di cultura contadina e locale rivestono una funzione prima non ignota ma oggi prevalente di rappresentazione e comunicazione, la messa in scena di simboli, valori, oggetti, immagini e modelli di comportamento da inserire come “tradizionali” nel quadro complesso delle culture, delle sperienze e dei consumi del presente.

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2. beni materiali e immateriali: territorio, rilevamento e documentazione Come è possibile individuare i beni DEA sul territorio, riconoscerli e farli emergere alla luce. Il rilevamento sul terreno assume particolare significato, diverso da altre tipologie di beni culturali maggiormente stabilizzate ed oggetivate. I beni DEA non sempre hanno in sé immediata visibilità fanno parte della vita stessa delle comunità che li esprimono e li producono. Per questo un primo approccio non può prescindere dall’osservazione diretta sul campo e dalla realizzazione di documentazioni scritte e/o audiovisive. 2.1 rilevamento sul terreno dei beni materiali Il rilevamento dei beni materiali DEA richiede il possesso di specifiche competenze tecniche tra loro molto diversificate (tecnologiche, meccaniche, riguardanti materie e tecniche di esecuzionefabbricazione) vere e proprie specializzazioni, che escludono genericità e che la figura dello specialista in beni DEA non sempre possiede. In alcuni casi si è aiutati da repertori consolidati come il testo di Scheuermeier relativo agli oggetti agropastorali e artigianali, sebbene non sia stato prodotto per questo scopo. Nella maggioranza dei casi però mancano dei testi di riferimento, e, in assenza di competenze specifiche, a volte diventa difficile anche il semplice riconoscimento di un manufatto. E’ anche vero che le nozioni tecniche non sono sufficienti a restituire la complessità di un bene materiale DEA in un dato territorio ed in un dato contesto  un BDM va compreso non solo per le sue caratteristiche tecniche, ma anche per tutti gli aspetti immateriali che lo qualificano e che soltalto il coinvolgimento della comunità consente di far emergere. Il rilevamento di uno strumento agricolo andrà eseguito individuandone la categoria tecnologica, raccogliendo testimonianze sul campo sul suo contesto d’uso, sulla sua storia individuale, sulla sua eventuale rivitalizzazione, sugli attori sociali coinvolti, sulle tecniche e sulle pratiche ad esso abbinate, sui proverbi e sui modi di 12

dire  senza tale aggiunta immateriale l’oggetto resta svuotato della sua vera essenza e poco comprensibile. Un approccio esclusivamente oggettuale ha fatto sì che spesso i beni DEA siano stati trattati come beni storico-artistici “minori” dagli storici dell’arte, oppure come beni archeologici “recenti” dagli archeologi, con il loro conseguente snaturamento. Nel rilevamento sul terreno è possibile coniugare i due approcci  in alcune griglie per la gestione delle interviste, elaborate da Gian Luigi Bravo, gli aspetti materiali si integrano con quelli immateriali, gli uni e gli altri sono in funzione del territorio e degli attori sociali che vi operano. Un altro esempio su come coniugare i due approcci arriva da da Ettore Guatelli, muoseografo spontaneo interno al mondo contadino, ed è esposto ne La falce qui i dati tecnici convivono con un ampio ed articolato quadro antropologico di carattere autobiografico. “Quando c’era la falciata… i vicini venivano a darti una mano a falciare una bella distesa d’erba. Ad ogni colpo se ne tagliava in spessore una spanna, di larghezza un metro o poco più…” Ma quali sono i BDM e dove è possibile rinvenirli? Fino a poco tempo fa erano individuati negli strumenti del lavoro contadino e pastorale, negli oggetti di uso quotidiano e festivo (costume, orificeria, ecc) e nei “mestieri tradizionali” (falegname, fabbro, ciabattino, ecc)  produzioni prevalentemente artigianali, seriali ma spesso personalizzate a livello individuale, oppure frutto di autocostruzione e di bricolage. Oggi questi oggetti appaiono in disuso, musealizzato, soppiantati da prodotti industriali. Sono anche oggetto di riuso funzionale es. vecchie reti da letto riutilizzate per la costruzione di recinti. Da un po’ di anni è in atto un revival dei mestieri artigiani, con la ripresa di produzioni di carattere locale, ormai in disuso (cesti, pizzi, gioielli), indirizzate a fini turistici e connesse al tema del “come eravamo”. Tali produzioni materiali non sono destinate a reali usi gli oggetti restano dei souvenir o dei polarizzatori di memoria.

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Occorre anche distinguere fra le produzioni artigianali innestate su effettivi saperi ed effettive pratiche locali e situazioni improvvisate, disancorate dalla realtà locale e create artificialmente a meri fini turistici. Nei casi “autentici” le ricostruzioni sono effettuate con estrema cura da appassionati o da eredi di determinate tradizioni familiari si tratta di processi di patrimonializzazione che riguardano la gestione della cultura da parte dei diversi gruppi sociali locali e che ci interessano per gli aspetti antropologici connessi alle politiche locali. C’è l’esigenza di aggiornare il concetto di bene DEA materiale, rendendolo coerente per la contemporaneità cosa si deve intendere oggi per beni DEA materiali? Interessante proposta, avanzata e messa in pratica da Pietro Clemente, riguardo gli “oggetti di affezione” il legame di un oggetto con una specifica produzione o una specifica funzione perde importanza: è il suo valore simbolico che ci interessa, nell’ambito di un particolare contesto di vita. E’ una proposta stimolante nell’ambito della ricerca scientifica e della connessa riflessione antropologica, anche se il criterio di attribuzione di valore su cui si basa resta distante da quello normativamente applicato ai beni culturali in Italia. Il patrimonio DEA materiale si compone anche di molti beni effimeri, che non hanno una durata stabile nel tempo addobbi floreali, strumenti musicali vegetali, ricoveri pastorali temporanei, costumi di carnevale, preparazioni alimentari ecc. Sono beni che costituiscono ulteriori specificità DEA, che devono essere rilevate con approccio adeguato. 2.2 rilevamento sul terreno dei beni immateriali Il rilevamento e la documentazione dei BDI presentano una notevole complessità non hanno una stabile presenza sul territorio, prendono vita come atti performativi in occasioni determinate o indeterminate, al di fuori delle quali non sono osservabili. E’ stato Alberto Cirese ad aver messo in relievo l’esistenza dei beni immateriali (“volatili”), come specifici del patrimonio DEA: “Canti o fiabe, feste o spettacoli, cerimonie e riti, per essere fruiti più volte devono essere ri-eseguiti o rifatti, ben diversamente da case o cassepanche o zappe la cui fruizione ulteriore non ne esige il ri14

facimento. I beni volatili sono identici e mutevoli e vanno perduti per sempre se non vengono fissati su memorie durevoli.” Fino a poco tempo fa i più immediati riferimenti ai beni immateriali hanno riguardato le tradizioni orali, le feste, i riti, la musica e la narrativa. All’inizio degli anni ’60 Paolo Toschi ha elaborato dei questionari per guidare il rilevamento delle tradizioni popolari connesse al ciclo della vita e dell’anno, ai santuari e ai pellegrinaggi. Negli ultimi anni il concetto di patrimonio immateriale si è andato ampliando e trasformando, fino ad acquisire un’accezione che comprende una pluralità di beni tra loro anche molto diversi, che caratterizzano le culture nelle forme di vita, nelle peculiarità e nelle differenze. Questo concetto include, accanto ai beni studiati da più tempo (giochi, danze, consuetudini giuridiche) anche spettacoli, comunicazioni non verbali (cinesica e prossemica), storie di vita, lessici orali, saperi, tecniche ecc., con riferimento non più soltanto all’ambito demologico (studio delle tradizioni e dei costumi popolari), ma all’intero patrimonio DEA. Una parte del patrimonio DEA immateriale è rappresentata da eventi (festivi, cerimoniali, rituali, spettacolari) connessi a scadenze cicliche annuali o pluriennali eventi facilmente accessibili nei loro aspetti fenomenici, ma che richiedono, per una piena comprensione, una preliminare “osservazione partecipante” all’interno della comunità. Un’altra parte del patrimonio DEA immateriale sono le performance connesse alla vita familiare, sociale e lavorativa interna alle comunità locali beni assai meno visibili saperi, tecniche, espressività che è difficile cogliere in funzione dei loro naturali contesti. Il loro rilevamento è possibile seguendo il naturale svolgimento delle attività e della vita entro determinati contesti sociali. Se ne può anche provocare l’esecuzione su richiesta, a fini di revival e di animazione locale, oppure a fini di ricerca. Quando il bene è frutto di un qualche specialismo (ambito musicale, teatrale, coreutico) se ne può provocare lo slittamento dal suo terreno “naturale” ad altri diversi terreni: scuole, teatri, studi di registrazione ecc. 15

Luogo privilegiato in cui i beni immateriali possono venire colti nel loro divenire e nelle loro potenzialità espressive e performative resta il territorio, dove tali beni si legano ai contesti locali. (Territorio come “vivaio” dei beni.) La dimensione territoriale si associa anche alla loro contemporaneità dove è possibile osservarli in contesti attuali, viventi e socializzati. I beni immateriali disegnano il territorio, qualificandolo nelle sue realtà e nelle sue “vocazioni”, costruiscono identità e memoria e rappresentano importanti risorse locali per uno sviluppo sostenibile (Huges De Varine). La visibilità del patrimonio culturale immateriale, al di fuori delle comunità locali che lo creano e ne fruiscono, dipende sempre dalle attività di rilevamento e di ricerca che vi vengono applicate e che ne consentono l’oggettivazione. Per questi beni il rilevamento sul terreno è già una prima forma di ricerca consente di osservarli e fissarli in modo stabile su supporti audiovisivi di varia natura. Supporti che sono espedienti di conservazione e di restituizione dei beni stessi, non dei sostituti. Proprio grazie al loro spessore diacronico, per l’irripetibilità e l’unicità che li contraddistinguono, i beni immateriali fissati su supporti audiovisivi e conservati in archivi multimediali rappresentano una grande ricchezza, al tempo stesso però li ripropongono sempre identici, privati della fluidità e dinamicità che caratterizzano il patrimonio vivente necessità di una ricerca dinamica, che preveda un’intensa attività di rilevamento e di verifica sul terreno e che consenta di coglierne la mutevolezza attraverso la moltiplicazione dei rilevamenti e l’articolazione delle documentazioni audiovisive. 2.2.1. alcuni punti critici Problemi sul rilevamento dei BDI sul terreno. Primo problema realizzazione delle documentazioni audiovisive secondo determinati standard di qualità. Il rilevatore deve possedere competenze metodologiche e tecniche in relazione all’utilizzo delle strumentazioni di ripresa sonora, fotografica e videofilmica, in modo da poter restituire a pieno il bene osservato, la cui natura unica e irripetibile non consente ulteriori, successivi approcci. 16

Secondo problema rendere esplicita la soggettività del ricercatore, inevitabilmente messa in atto nel rilevamento, dichiarando il punto di vista e le scelte di volta in volta adottate. L’attendibilità delle fonti da lui prodotte dipende dallo scrupoloso esercizio della sua professionalità. Terzo problema ricorso all’intervista nel rilevamento dei beni immateriali, soprattutto di quelli non connessi a scadenze calendariali. L’intervista non costituisce un bene culturale in sé, ma un mezzo mediante cui ottenere esecuzioni di beni immateriali, oppure acquisire informazioni o dati di varia natura intorno agli stessi. E’ possibile, e spesso utile, strutturare l’intervista attraverso l’utilizzo di specifici questionari. 2.3 beni etnomusicali I beni etnomusicali si distinguono per la loro polifunzionalità, per il valore estetico ad essi attribuito e per i processi di patrimonializzazione che gli stessi suscitano. Consistono sostanzialmente in esecuzioni musicali connesse alla tradizione orale, nell’ambito di sistemi musicali locali caratterizzati da diversità rispetto alla tradizione colta. Nei beni etnomusicali si individua la mutevolezza che caratterizza in generale i beni immateriali un brano non viene mai ri-eseguito in modo identico, viene leggermente variato e rielaborato a partire da un modello improvvisativo socialmente condiviso. L’esecutore riplasma constantemente il materiale musciale tradizionale secondo il contesto e secondo lo stato d’animo del momento e ne è dunque autore oltre che interprete. Le performance musicali possono legarsi ad eventi comunitari (feste, riti, cerimonie), a contesti sociali di quartiere, familiari, amicali, lavorativi (i canti di lavoro o sul lavoro), oppure ad occasioni estemporanee (serenate), anche solitarie (le suonate dei pastori all’aria aperta). Il patrimonio etnomusicale comprende anche beni materiali costituiti da strumenti musicali che possono essere esclusivi delle diverse tradizioni popolari locali (zampogne), oppure condivisi con lo strumentario colto (violino). 17

Nel corpus degli strumenti musicali popolari vi sono anche tipologie effimere, ricavate da materiali vegetali freschi, oppure costruite appositamente per determinare occasioni e poi smembrate. Ci sono anche strumenti musicali popolari “a occasione determinata” impiego esclusivamente nell’ambito di alcune scadenze rituali del ciclo dell’anno (raganelle per la settimana santa). Il rilevamento dei beni etnomusicali richiede ancora maggior precisione per la registrazione sonora, da cui si dovrà ricavare una riproduzione utilizzabile sia a fini di studio sia a fini di diffusione e valorizzazione. Nel rilevamento sul terreno bisogna distinguere la figura del musicista popolare “professionale”, riconosciuto dalla comunità e da se stesso come tale, da quella dell’informatore comune che si limita a condividere un sapere musicale collettivo. Il musicista popolare “professionale” è protagonista della vita musicale delle comunità locali, caratterizzato da continuità di azioni e comportamenti rappresenta in se stesso un bene culturale vivente. Registrare le musiche è un atto che produce fonti sonore primare: imprime su un supporto qualcosa di non presente prima, materializza un bene immateriale, fissa un’esecuzione “volatile” e la conserva a futura memoria, rendendolo fruibile e pubblico. Il disco rappresenta un’importante forma di mediazione culturale e di patrimonializzazione e valorizzazione delle musiche etniche e dei musicisti popolari, che hanno così l’opportunità di venire conisciuti oltre le proprie comunità di appartenenza. 2.3.1. alcuni punti critici Nell’ambito dei beni DEA immateriali, i beni etnomusicali si distinguono per essere anche al centro di una serie di processi riguardanti la produzione di spettacoli e di dischi nell’ambito del circuito della cosiddetta musica popolare. Processi che si avviano negli anni ’60 con il movimento del folk music revival: fenomeno di mediazione culturale e musicale che mette in circolazione musiche per quel tempo sconosciute alla maggior parte degli italiani. 18

Il movimento ha avuto una chiara impostazione politico-culturale, delineata da Gianni Bosio, secondo cui la restituzione della musica popolare alla gente avrebbe potuto costituire un veicolo di presa di coscienza musica popolare intesa soprattutto come canto, in grado di veicolare significati (canto contadino, operaio, sociale e politico). Gli interpreti erano principalmente intellettuali e musicisti, a cui si affiancavano alcuni protagonisti popolari: le teorie di Bosio si concretizzarono soprattutto nel Nuovo Canzoniere Italiano, con un’intensa ed appassionata attività musicale, spettacolare e discografica. Negli anni ’70, sorpattutto nel Sud Italia, gli interpreti popolari uscirono alla ribalta, dimostrando la vitalità e la forza musicale dei patrimoni vivi. In queli anni gli eventi connessi con la musica non venivano seguiti solo dagli studiosi, ma anche da schiere di appassionati. Le attività di ricerca e le pubblicazioni discografiche effettuate in ambito accademico circolavano in modo allargato e i dischi venivano ascoltati per il loro valore musicale, oltre che per quello documentario e scientifico. Oggi è in corso un’ulteriore fase frammentazione delle culture musicali locali, mescolanza ed ibridazione fra generi ed ambienti diversi, affermazione di uno specifico circuito musicale commerciale. Processi di cui non beneficiano le comunità locali, sostanzialmente escluse la gestione ruota intorno ad una serie di figure (appassionati, musicisti, giornalisti, manager) non sempre all’altezza di muoversi con la dovuta competenza nei delicati e complessi contesti culturali dei patrimoni orali. Le comunità locali cominciano a porre con forza la questione del diritto d’autore e a rivendicare la proprietà intellettuale delle proprie tradizioni musicali. Resta l’esigenza di affrontare la salvaguardia e la valorizzazione dei patrimoni etnomusicali viventi con la dovuta correttezza e il giusto rispetto nei confronti delle comunità locali e in particolare degli attori sociali protagonisti.

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I processi di patrimonializzazione delle musiche e dei musicisti tradizionali possono essere elementi di valorizzazione se gestiti con attenzione e consapevolezza. Anche se a volte tali fenomeni tendono ad opacizzare i significati e le pratiche connessi a determinati repertori musicali, cogliendone solo l’aspetto musicale disgiunto da altre funzioni che sono invece ritenute importanti a livello locale, come ad esempio quelle rituali (pizzica salentina, tammariate campane). 2.4. archivi sonori e audiovisivi Le documentazioni audiovisive dei beni immateriali, derivate dal loro rilevamento sul terreno, sono fonti primarie che trovano collocazione e conservazione in archivi multimediali. Le esecuzioni “congelate” dei beni immateriali consentono la fruizione e la valorizzazione di quegli stessi beni, oltre alla valorizzazione degli attori coinvolti e dei contesti territoriali e sociali interessati. Come beni audiovisivi, consistono in supporti materiali che vengono archiviati, conservati e tutelati secondo quanto previsto dalla legislazione e dalle conoscenze tecnologiche. 2.4.1. gli archivi nazionali La costituzione di archivi sonori ed audiovisivi in Italia ha preso avvio nell’immediato secondo dopoguerra (1948) Centro nazionale studi di musica popolare dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia  ha rivoluzionato la raccolta dei dati, prima scritta e tramite taccuino. Si inizia a ritenere che l’espressività verbale, le forme ed i comportamenti musicali, gli eventi di tradizione popolare abbiano necessita di venire rilevati sul campo, mediante apparecchiature di registrazione-ripresa per una loro stabile osservazione nel tempo e per una loro riproducibilità ai fini di studio e diffusione costruzione di équipe di ricerca ed utilizzo di attrezzature tecniche portatili. Dal 1948 ad oggi sono stati creati una pluralità di archivi sonori e visivi, che contengono un patrimonio sterminato di nastri magnetici, fotografie, pellicole imprescindibile punto di riferimento per gli studi antropologici ed etnomusicologici. Archivi di etnomusicologia dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia

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Il Centro nazionale studi di musica popolare (CNSMP), oggi Archivi di etnomusicologia, inizia la sua attività nel 1948, con l’assistenza della Radiotelevisione italiana (RAI). “Istituto per la raccolta e lo studio del folklore musicale italiano”, riceve un’impostazione specificamente etnomusicologica, avvalendosi dei migliori ricercatori e studiosi italiani e stranieri (Carpinella) e demoantropologi (de Martino, Cirese). Le raccolte di questo archivio sono caratterizzate da puntualità metodologica e accuratezza tecnica delle registrazioni sonore, quasi tutte effettuate con l’aiuto di fonici ed attrezzature professionali della RAI, spesso con l’aggiunta di fotografi. Dopo un lungo periodo di inattività, nel 1990, per iniziativa di Carpitella, il centro è stato riaperto agli studiosi con la sua nuova denominazione (Archivi di etnomusicologia) serie di progetti ed iniziative attualmente in corso, come il riordino e la schedatura informatizzata di tutto il materiale sonoro, l’acquisizione di nuove raccolte, la pubblicazione di dischi. Archivio etnico linguistico-musicale della Discoteca di Stato L’archivio etnico linguistico-musicale (AELM) della Discoteca di Stato nasce nel 1962, con lo scopo di documentare le varie forme dell’espressività orale tradizionale. Le raccolte si classificano in: -M, musicali -L, linguistiche -LM, linguistico-musicali Tra i raccoglitori ci sono, oltre agli etnomusicologi, anche demologi e linguisti, come Cirese. Fino al 1982 l’AELM ha promosso in prima persona attività di rilevamento sul terreno, incrementando le proprie raccolte. Ha anche prodotto un considerevole numero di dischi. La Discoteca di Stato possiede la più ampia raccolta italiana di dischi di etnomusicologia e di demologia. 21

Di recente ha ampliato le sue funzioni ed i suoi compiti, divenendo Museo dell’audiovisivo. Archivi audiovisivi del MNATP L’Archivio sonoro e l’Archivio fotografico moderno del Museo nazionale delle arti e tradizioni popolare (MNATP), nascono alla metà degli anni ’60 con lo scopo di conservare e ordinare documentazioni di ricerca relative soprattutto alla religiosità e alla ritualità popolari. Con il tempo si è arricchito di nuove acquisizioni di immagini ugualmente connesse con la ricerca scientifica la specializzazione disciplinare distingue in modo peculiare questo archivio. Possiede anche uno dei più importanti archivi nazionali di antropologia visiva. Archivio sonoro dell’Istituto Ernesto de Martino L’Archivio sonoro dell’Istituto Ernesto de Martino si è costituito come luogo “per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario”. E’ stato “un punto di raccordo tra interessi storici, socio-storici, antropologici ed etnomusicologici, un laboratorio per l’analisi del comportamento sociale del mondo oppresso e antagonista, per la valorizzazione della cultura orale e del canto sociale vecchio e nuovo.” Nell’archivio sonoro dell’istituto sono confluiti i risultati delle ricerche sul campo di numerosi studiosi del mondo popolare e proletario. Vi si trovano materiali di carattere musicale (canti popolari e sociali, danze, riti, rappresentazioni popolari), testimonianze sui momenti più significativi della storia del movimento operaio, biografie di militanti, registrazioni di manifestazioni sindacali e politiche. 2.4.2. gli archivi locali Gli archivi locali sono presenti in tutto il territorio nazionale.

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3. Beni materiali e immateriali: feste e musei 3.1 Beni materiali e immateriali La ripresa di attenzione per le tradizioni agropastorali e comunitarie e la loro riproposta si manifestano in due settori, ampliando così l’insieme dei beni, dalle testimonianze materiali a quelle immateriali: -la rivitalizzazione di feste e cerimonie -la creazione di musei etnografici locali La distinzione tra beni materiali e immateriali non va intesa in modo troppo rigido: in ogni artefatto si esprimono sia strumentalità che espressività e saperi. Ogni oggetto materiale, in quanto tratto di cultura, implica una sua immaterialità è proprio per questo che ci interessa. Anche i tratti chiamati immateriali si reggono su supporti fisici vari (accessori usati per una festa o un culto, strumenti musicali e ritmici, voce e corpo per il canto o la danza, la rappresentazione e la narrazione) e i saperi della tecnica e del lavoro sono in stretta connessione con utensili e attrezzature. Il bene immateriale è rilevabile in quanto prende vita in una performance porre l’accento sulla performance implica una conseguenza di fondo: l’importanza, per i beni volatili, dell’aspetto della comunicazione. Un bene materiale, ad esempio un aratro, trasferito in un museo perde la sua funzione originaria, lavorativa, strumentale o altra diventa una testimonianza di cultura e come tale deve essere fornito degli opportuni supporti informativi da parte degli studiosi e degli attributori. Questo significa attribuirgli una funzione di comunicazione: elaborare e fornirgli questi supporti equivale a ricostruire tutta la sua immaterialità di oggetto materiale, che rischia di evaporare nel contesto museale e che invece gli è propria in quello d’uso originario. Anche un bene durevole è materiale solo per un suo aspetto ed è in una proporzione significativa volatile sono necessarie performance, narrazioni e dimostrazioni dei soggetti competenti intervistati dai ricercatori. 23

Esigenza che ogni campagna di ricerca e catalogazione prenda in considerazione tutta la gamma di riferimenti, materiali e immateriali o volatili, ricostruibile per un dato insieme di beni DEA e che poi si orienti secondo questi stessi aspetti l’opera di valorizzazione e offerta alla fruizione degli utenti di tali beni. 3.2. Feste Nelle comunità contadine, prima delle fratture causate dai processi di industrializzazione e urbanizzazione, il tempo era scandito da un ciclo annuale di feste e cerimonie era “ritagliato” a misura della comunità stessa e delle sue attività. La performance rituale comportava uno stacco dal tempo delle attività produttive, domestiche e familiari. I riferimenti erano innanzitutto al calendario liturgico periodo della natività, Passione, Quaresima e Pasqua, patroni dei paesi e santi folkloristici importanti (S. Rocco e S. Giovanni Battista). Non meno importanti i ritmi impressi dall’andamento ciclico della natura, delle attività produttive agropastorali nel periodo del risveglio della terra, fra tardo inverno e primavera, si festeggiava il Carnevale, le celebrazioni della primavera si chiudevano con i Maggi. Per il primo giorno di Maggio si piantavano in paese alberi, o se ne staccava un ramo, e attorno ad essi si facevano dei cortei e giri di questua maschili o femminili. Oltre al tempo comunitario, feste e cerimonie scandiscono il ciclo della vita umana nascite, fidanzamenti, matrimoni, morti ecc. Nell’Italia del Nord si festeggiavano i giovani di leva, come in una sorta di passaggio all’età adulta e alla maturità sessuale. Le operazioni della riproposta risultano concentrarsi su alcuni particolari tipi di ricorrenze e di ritualità: - nel periodo del ciclo natalizio e del nuovo anno sono ricomparse forme di teatralità popolare dedicate alla Natività (es. presepi viventi) - il periodo più ricco di forme drammatiche di tradizione popolare è la settimana santa, con vere e proprie rappresentazioni della Passione di Cristo (es. processioni, quadri viventi).

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La Passione compare precocemente tra i fenomeni di rivitalizzazione della tradizione agropastorale Belvedere Langhe, anni ’70. I promotori e gli attori della festa sono i pendolari rapporto roganico tra i fenomeni della riproposta e i processi dello sviluppo. I pendolari, nell’alternanza tra contesti sociali e culturali differenti, trovano nella Passione un riferimento, una sorta di punto fermo. Al tempo stesso fungono da mediatori di esigenze e modalità espressive, contribuendo ad assegnare alla Passione codici e valenze inedite rispetto alla vecchia comunità. Ma anche per gli altri belvederesi la Passione rappresenta un’opportunità di mediazione verso la complessità della cultura e della realtà esterna. Per quanti risiedono e operano nei contesti urbanizzati ed economicamente avanzati, la possibilità di partecipare a questa offerta di ritualità e di compattezza d’interazione, sia pur concentrate in un tempo cerimoniale, funge da controparte ai disagi conseguenti ad un periodo di intense trasformazioni socioeconomiche, demografiche e culturali. - Dopo il ciclo di Natale e Capodanno c’è la ritualità del Carnevale, che in molti casi presenta dei richiami al mondo animale. A Magliano Alfieri, verso la metà degli anni ’70, il Gruppo spontaneo reintroduce nel rinato Carnevale le maschere della capra e dell’orso. La maschera dell’orso è caratterizzata da comportamenti aggressivi, e a volte è accompagnata da cacciatori armati di fucile che la trattengono con lunghe catene. In alcuni casi però i comportamenti dell’orso sono stati ridimensionati, sotto l’effetto di “suggerimenti” dei “rappresentanti locali del clero e dell’ordine pubblico”, con “l’appoggio della borghesia e dei benpensanti locali”. - Dopo il Carnevale segue il periodo quaresimale, con le cerimonie di questua (es. Canto delle uova). - Dopo la settimana santa e le Passioni, le ritualità del maggio numerosissime feste patronali. Anche qui, accanto a singolari persistenze cerimoniali e simboliche, può anche proseguire l’azione repressiva e normalizzatrice delle autorità ecclesiastiche. 25

La definizione in progress dell’insieme dei beni culturali DEA, la loro tutela e valorizzazione, si situano quindi in un contesto articolato e dinamico, in un possono persino rimanere vecchie contrapposizioni tra ufficialità della chiesa e delle classi letterate e tradizione contadina, e in cui oggi s’intrecciano riproposte e persistenze rifunzionalizzate in modo organico e inedito. Tutto questo esige di solida preparazione antropologica e storica, ma anche attenzione e sensibilità al concreto e al nascosto. 3.3. Musei, ecomusei La seconda componente in cui si esplica il rinnovato interesse per la tradizione agropastorale è quella dei musei contadini e locali, musei etnografici, in cui sono esposti principalmente reperti attinenti al lavoro manuale preindustrale: di coltivatori, poi di pastori, pescatori, fabbri ferrai, carradori, bottai, minatori, carbonai… La crescita numerica di questi musei negli ultimi due decenni del ‘900 è stata singolarmente rapida e diffusa. Si tratta comunque di una realtà in movimento: molti nuovi musei sono progettati e allestiti sul territorio, altri chiudono dopo un’esistenza effimera. La larga distribuzione dei musei sul territorio e nei comuni è espressione di un impegno capillare e dell’ampia disponibilità ad investire nella loro crezione e gestione di energie, risorse e tempo – come è avvenuto anche per la riproposta delle feste – con un’importanza essenziale del lavoro volontario non solo nella fase fondativa, ma per l’apertura dei musei e la guida dei visitatori mobilitazione popolare e spontanea per la costituzione e la tutela attiva del patrimonio DEA. La situazione presenta alti e bassi. Gli esemplari del patrimonio materiale locale vengono messi al riparo, difesi dall’impatto del tempo, dell’uso e delle intemperie. Ma, siccome sono il più delle volte raccolti presso le famiglie della comunità e offerti in un primo periodo alla fruizione locale, almeno inizialmente la conoscenza delle componenti immateriali di tali oggetti, i riferimenti tecnologici, rituali, simbolici, sociologici, è ancora data per scontata come sfondo del vivere quotidiano o almeno affidata alla memoria dei più anziani.

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Anche per questo i supporti di vario tipo (cartelli, scritti, schede) mostrano una diffusione limitata e irregolare. Senza lavoro di ricerca sul terreno e di documentazione, quel tipo di memoria e conoscenza per esperienza sbiadisce velocemente con il passare degli anni e con la scomparsa dei testimoni più anziani non è più possibile comunicarla, tanto più se il museo dura nel tempo e inizia a rivolgersi ad un pubblico esterno, alle scuole, ai turisti. La distribuzione territoriale dei musei locali, con l’addensamento al Nord, conferma, analogamente alla riproposta delle feste e cerimonie, come l’attenzione alle tradizioni agropastorali sia soprattutto l’effetto dello stesso sviluppo, dell’esperienza del mutamento e delle fratture e perdite che esso ha implicato. La riproposta contribuisce a collocarvi il richiamo alle radici e alla comunità, a inserire nel globale il locale con la sua irriducibile verità. 3.3.1. Sviluppi nei musei Nel corso della loro esistenza i musei locali mostrano segni di evoluzione quanto a trattamento delle collezioni e a rapporti con l’utenza e con le istituzioni. Si diffonde il ricorso ad esperti esterni per contenuti e ricerche ma anche per gli allestimenti. La semplice funzione della conservazione cessa di essere sempre quella primaria assume una più esplicita importanza quella della comunicazione: il museo viene considerato e trattato sempre più come una macchina per rappresentare e comunicare. Si va oltre il semplice ricorso a scritte, tabelloni, planimetrie, schemi e didascalie, né ci si limita a riorganizzare le esposizioni si fa uso di tutta una gamma di supporti e tecniche multimediali e informatiche (videocassette, complessi prodotti audiovisivi, zone computer, navigazione in ipertesti, percorsi virtuali tra più musei, installazioni scenografiche). Museo della zampogna+Museo della pastorizia esperienza dell’ascolto oltre a quella visiva. L’audizione di brani musicali per zampogna e dei richiami, canti, voci dei pastori e dei suoni e dei campanacci del gregge per la pastorizia sono una parte fondamentale della rappresentazione offerta, progettata 27

autonomamente come comunicazione non subordinata, anche se complementare, alle informazioni visive ed informatizzate è l’ascolto che può collocare il visitatore nella realtà culturale e territoriale che ha al centro il museo. Sempre più musei tendono a presentarsi come un centro di attività per la lettura, lo studio, la presentazione di un territorio, dei suoi caratteri etnografici e storici, delle sue memorie e delle sue testimonianze materiali cresce la loro importanza come referenti per la definizione e per la gestione del patrimonio DEA. Inventari, schede ed etichette sommarie sono sostituite con i modelli informatizzati standard elaborati nell’ambito dell’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione. 3.3.2. Ecomusei L’ecomuseo è una nuova emergenza, anche se in Europa ha vari precedenti storici: ha origine in Francia. E’ necessario risalire, per questa “invenzione francese”, agli inizi degli anni ’70 del ‘900, e al lavoro museografico ed organizzativo di importanti museologi. La nuova concezione intende mettere in rilievo il carattere essenziale e organico del rapporto di questa istituzione con il suo territorio, con l’ambiente e la popolazione, e insiste sul coinvolgimento attivo di quest’ultima. Un primo esempio di ecomuseo francese è quello del territorio che fa capo al grande centro carbonifero e metallurgico di Le Creusot. Qui, all’affermazione di queste attività industriali, che hanno segnato l’esistenza della popolazione e il paese dopo quelle rurali e artigianali, segue la crisi dell’acciaio: tutto un mondo cresciuto intorno agli insediamenti delle acciaierie e delle fornaci, ai trasporti per l’acciaio e ai quartieri operai, vive un periodo di precarietà e di incertezza. Il progetto è pensato nel 1971 e presto attivato. Si mobilitano la popolazione, le imprese, i sindacati, gli operai negli allestimenti espositivi, che si fondano sulle memorie, il recupero dei siti delle attività produttive, la documentazione e le ricerche sulle condizioni di vita attuali e passate: si ripercorrono con ampia partecipazione collettiva e sforzo di comunicazione la storia e i problemi del presente, quasi a creare un tessuto condiviso che consenta di inserirvi la crisi ed intravedere possibili sbocchi. 28

Altra significativa realizzazione francese è quella di Fresnes, un comune della banlieue parigina, che, nel corso della Seconda guerra mondiale ospitava un carcere trasformato dagli occupanti tedeschi in un disumano luogo di detenzione per ebrei, perseguitati politici e condannati a morte. Oppressa da questa eredità, la popolazione aveva chiesto a Parigi di cambiare il nome del comune, ma la direttrice dell’ecomuseo operò diversamente su quella memoria così persecutoria. Invece di tentare di neutralizzarla con la ricostruzione idilliaca del passato rurale, promosse l’impostazione di una ricerca e documentazione sul carcere e su Fresnes durante l’occupazione. Il passato così temuto ed esorcizzato rilevò episodi di solidarietà con gli ebrei, le difficoltà affrontate dagli abitanti nel periodo bellico, vicende e volti quotidiani di allora. Nuovamente la rielaborazione della memoria e dell’appartanenza si attua con gli strumenti della partecipazione e della creazione di conoscenza come prodotto diffuso e condiviso. Nel corso del tempo l’idea dell’ecomuseo si diffonde e realizzazioni diverse sono oggi osservabili in tutti i contenenti. Un ecomuseo è la varietà delle esperienze che si sono succedute nei diversi contesti. Il territorio che interessa il più delle volte viene individuato in base a una o più caratteristiche diffuse, di tradizioni locali, di attività e produzioni tradizionali, paesaggistiche, storiche, urbanistiche, industriali può avere un’estensione molto variabile ed essere riconducibile anche ad uno spazio urbano. Il dato costitutivo e specifico è il coinvolgimento della popolazione del territorio stesso, con le sue articolazioni economiche e sociali, le amministrazioni, le imprese, gli studiosi locali, i testimoni ed esperti delle tradizioni. E’ proprio in interazione continua e creativa con questa realtà complessa, stimolando e accettando ogni forma di partecipazione, che i promotori, esperti, funzionari e volontari degli ecomusei, provvederanno a delineare e ad attuare le attività.

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Un’associazione culturale, teatrale o un coro possono intervenire con ulteriori forme di iniziative l’ambito di attività e i contenuti proposti possono essere assai mutevoli, i risultati non scontati, l’apertura di nuovi campi di interesse fisiologica. Gli ecomusei non consistono in un contenitore chiuso, ma coprono e collegano organicamente in un programma di ricerche, mostre, interventi, itinerari, una serie di emergenze e problematiche in un dato territorio, tra le quali emergenze possono rientrare anche anche uno o più musei e collezioni locali. In Italia è un tipo di realizzazione recente, che ha iniziato più tardi dello sviluppo dei musei contadini e locali: allo stato attuale gli ecomusei nel nostro paese sarebbero 83, ¼ in Piemonte, seguito da Toscana, Trentino ed Emilia Romagna. Il Piemonte è stato la prima Regione ad approvare nel 1995 una legge intesa a coordinare, qualificare e sostenere gli sforzi degli ecomusei. In Italia c’è una grande variabilità delle realizzazione ecomuseali. L’attività degli ecomusei apre agli spazi urbani, alle organizzazioni e alle istituzioni della modernità, alle produzioni industriali, all’ambiente, e le ricerche che essa richiede e promuove implicano apporti multidisciplinari: tutto ciò pone problemi e dovrebbe stimolare creatività ed elaborazioni per quanto concerne l’insieme dei beni DEA, una concezione di cultura o tradizione popolare che non sia solo agropastorale o preindustriale. 3.4. Conclusioni I caratteri specifici degli ecomusei portano ad una considerazione importante la necessità di lavorare mantenendo un rapporto organico con la popolazione, le comunità, e di intrattenere con queste una regolare negoziazione, una contrattazione di senso su quanto si sta realizzando. Rapportarsi al contesto nelle sue articolazioni territoriali, socioeconomiche, culturali, associative, e agli attori sociali in gioco, tener conto di interazioni e conflitti, delle strategie identitarie in corso di attuazione, dei rapporti con l’esterno, con i centri di potere economico, politico e mediatico, dell’accesso ai flussi delle risorse, finanziare, turistiche, d’immagine. Questo stile di lavoro implica doti di sensibilità e di attenzione, uno sguardo acuto e imparziale, che eviti di concepire tutto il territorio 30

soltanto come lo scenario per la conservazione e la presentazione di un patrimonio. Implica inoltre la volontà e la capacità di impegnarsi in una prima documentazione sui caratteri del contesto, così da venire a conoscenza di una molteplicità di dati rilevanti (demografici, sull’occupazione, sulle unità produttive, sul turismo, sulle associazioni, ecc). Anche facendo tesoro delle conoscenze così acquisite sarà poi utile già preliminarmente realizzare interviste e colloqui con testimoni chiave locali, per raccogliere informazioni e opinioni sulle comunità e le loro articolazioni, i notabili, gli interessi in gioco, i processi e le iniziative in corso, le prospettive. In secondo luogo l’esperto e consulente esterno avrà cura di costruirsi una sufficiente conoscenza storico-etnografica del territorio, con particolare riferimento alle tradizioni popolari e locali e ai fenomeni della loro rivitalizzazione, ma anche alle strutture industriali, alle memorie operaie, agli insediamenti urbani. Questo aggiornamento preliminare è essenziale non solo per affrontare correttamente gli interventi che si è chiamati ad attuare, ma per stabilire e mantenere su fondamenti concreti, e significativi sul piano locale, una rete di rapporti, interazione, dialogo e cooperazione. Un corretto e lucido ordinamento di tutte queste conoscenza e il supporto di un’efficiente rete di rapporti daranno una solida base per interventi riusciti, efficaci e durevoli, il che è fondamentale per una reale tutela e valorizzazione del patrimonio.

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4. Istituzioni e legislazioni Lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri enti locali sono i soggetti istituzionalmente preposti alla conservazione, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Il Titolo V della seconda parte della Costituzione italiana stabilisce le attribuzioni allo Stato e alle Regioni in materia di beni culturali, assegnando al primo la potestà legislativa esclusica e alle seconde la valorizzazione in via concorrente con lo Stato. Stato tutela nei musei e sul territorio mediante gli organi centrali e perifericidel ministero per i Beni e le Attività culturali (MIBAC) allo scopo di conservare e trasmettere il patrimonio culturale alle future generazioni. Regioni valorizzazione dei patrimoni culturali regionali nei musei e sul territorio. I processi di conservazione, tutela e valorizzazione dei beni DEA riguardano tanto le istituzioni statali quanto quelle regionali, secondo modalità differenziate. Gli aspetti legati alla valorizzazione hanno finora prevalso su quelli legati alla tutela. 4.1 Lo Stato Il recente riassetto normativo statale, avviato nel 1998, ha ratificato i beni DEA come parte integrante del patrimonio culturale nazionale, nominandoli con un termine di significato unitario. La legislazione italiana in materia di beni culturali precedente al 1998 fa riferimento a tali beni in modo parziale e spesso ambiguo, con terminologie non unificate, legate a significati comprensibili solo se storicamente contestualizzati. I riferimenti all’”etnografia” e alle “primitive civiltà” vanno colti nella realtà italiana di quel periodo storico: “etnografia” ambito disciplinare successivamente definito come “demologia” “primitive civiltà” si collegava alle discipline paleoetnologiche e preistoriche, ma con un’ambiguità terminologica di fondo che generava confusione e intrecci interdisciplinari con l’”etnologia” extraeuropea. 32

Con l’emanazione del D.Lgs del 1998 i beni DEA entrano a far parte a pieno titolo dei beni culturali. Vengono definiti come “quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono una testimonianza avente valore di civiltà così individuati in base alla legge”. Con l’emanazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (2004) la normativa in materia di beni culturali è stata ulteriormente rivista e integrata. Il Codice rappresenta il frutto di una riforma organica della disciplina e tratta la materia dei beni culturali in modo omnicomprensivo, secondo una logica unitaria che include anche i beni paesaggistici. Nel Codice, i beni DEA sono riconfermati come parte del patrimonio culturale nazionale, ma vengono rinominati in beni etnoantropologici. Scelta motivata come “scientificamente più corretta”. In realtà, l’aggettivo “DEA” corrisponde al settore scientifico-disciplinare universitario M-DEA/01- Discipline demoetnoantropolgiche e, insieme al suo acronimo DEA, è ormai largamente conosciuto ed utilizzato in Italia anche al di fuori dell’ambito degli addetti ai lavori, costituendo di fatto un’espressione normalizzata sul cui contenuto vi è ampia convergenza. L’introduzione di un aggettivo più snello può rappresentare una semplificazione terminologica, ma resta tuttavia necessario che la riduzione non comporti la perdita di quell’unitarietà disciplinare di cui si è detto. Nell’art. 2 (Patrimonio culturale) del Codice emerge la natura di “cosa” attribuita al bene culturale. La scelta di fermarsi alla materialità del bene culturale male si adatta al patrimonio DEA, costituito in gran parte di beni immateriali che, per loro stessa natura, non sono né mobili né immobili e la cui salvaguardia e valorizzazione richiedono un’attenzione e una progettazione tutte particolari. Anche quando il Codice pone l’attenzione sulle questioni identitarie connesse al patrimonio culturale visto come “elemento costitutivo e rappresentativo dell’identità nazionale”, il riferimento resta sempre alle “cose”.

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Inoltre, per i beni DEA il Codice fissa parametri cronologici e d’autore analoghi a quelli che sono alla base della tutela del patrimonio archeologico e storico-artistico l’art. 10 esclude quelle di autore vivente o di esecuzione non anteriore a 50 anni. Il che vuol dire che, fatto salvo le poche collezioni mueali, tutti gli altri beni etnoantropologici sul territorio e in museo non hanno alcuna possibilità di venire tutelati sono beni quasi mai “d’autore” e raramente databili. Inoltre, il concetto di autore e il concetto di antichità di un manufatto non sono elementi pertinenti alla valutazione dei beni DEA, il cui valore va piuttosto individuato nell’essere essi testimonianze di forme di vita, di differenze culturali coltre nelle dinamiche sincroniche dei contesti sociali. Questo problema non è di poco conto nella definizione del patrimonio DEA. Se si esclude il suo carattere vivente e contemporaneo, se non si comprende come esso caratterizzi la società di oggi e sia al centro di estesi processi di patrimonializzazione, non resta, di tale patrimonio, che una pallida proiezione di senso passatista. La natura contemporanea dei beni DEA li collega alle opere d’arte contemporanea, per le quali il MIBAC ha mostrato grande sensibilità. C’è dunque da chiedersi quali sono i beni etnoantropolgici individuati e riconosciuti dal Codice: se solo quelli afferenti alle grandi raccolte storiche museali, oppure se anche i beni viventi sul territorio. Se solo i primi possono avere piano riconoscimento, allora, la gran parte del patrimonio DEA resta di fatto escluso dalla tutela. Quale tipo di tutela?  una tutela realizzata attraverso l’apposizione di vincoli e di una valorizzazione subordinata alla tutela stessa appare poco compatibile con l’insieme del patrimonio DEA materiale e immateriale. I beni immateriali non sono conservabili in quanto tali (natura “volatile”) l’unica forma di tutela ad essi applicabile è un’allargata e condivisa valorizzazione basata sulla conoscenza e quindi sulla ricerca. Immaginare delle forme inedite di tutela, dinamiche e non statiche, potrebbe essere un impegno per rendere maggiormente coerente l’intervento legislativo in questo settore.

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La terza parte del Codice è dedicata ai beni paesaggistici e presenta un notevole interessa anche per i beni DEA, benchè non vi siano mai citati. Fin dai primi articoli appare evidente come la nozione di paesaggio sia antropolgicamente costruita “per paesaggio si intende una parte omogenea del territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle reciproche interrelazioni. La tutela e la valorizzazione del paesagio salvaguardano i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili”. I beni etnoantropolgici sono attualmente rappresentati, presso il MIBAC, principalmente dal Museo nazione delle arti e tradizioni popolari (MNATP) e dalla Sopraintendenza al Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini, situati a Roma. Questi due istituti, oltre a possedere collezioni storiche di notevole entità e di grande importanza per la storia del pensiero antropologico italiano, svolgono anche compiti di consulenza a livello nazionale. Il Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari nasce nel 1923 (Regio museo di etnografia italiana) a partire dalle collezioni del Museo di etnografia italiana di Firenze, integrate attraverso la grandiosa opera di raccolta in tutta Italia coordinata da Lamberto Loria per la Mostra di etnografia italiana, nell’ambito dell’Esposizione universale di Roma del 1911. Il museo fu allestito solo nel 1956. Il Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini, inaugurato nel 1876 (Regio museo preistorico ed etnografico Luigi Pigorini), si è costituito intorno alle collezioni extraeuropee di Luigi Pigorini e di altri, a partire dal più antico nucleo della collezione Kircher (XVII secolo). Presneta una doppia identità, preistorica ed etnografica testimonia degli intrecci fra le due discipline, la paletnologia e l’etnologia, che hanno contribuito in tutta Europa alla nascita di musei dell’uomo e delle culture e che ancora oggi mantengono un rapporto di complementarietà scientifica fra di loro. I due musei nazionali sono finora rimasti separati nelle loro competenze: MNATP competente in materia di beni etnoantropolgici italiani Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini beni etnoantropologici extraeuropei 35

Nel 1998 il MIBAC ha istituito la Commissione nazionale per lo studio e la conservazione dei beni DEA, che persegue la promozione dei beni DEA a tutto campo. 4.4 Le Regioni e gli enti locali Fin dalla loro nascita alcune Regioni hanno prestato particolare attenzione ai beni DEA, vedendoli come testimonianze di identità e di memorie fortemente innestate sul territorio. Alcune normative regionali volte alla conoscenza, salvaguardia e valorizzazione dei beni DEA appaiono innovative e anticipatorie rispetto a quelle dello Stato. Regioni e Province hanno un ruolo concorrente con quello dello Stato gli spetta la valorizzazione. Il ruolo delle Regioni nella politica dei beni culturali è dunque ormai sussidiario e complementare a quello statate. In quanto enti territoriali le Regioni guardano ai beni culturali con un’ottica maggiormente focalizzata. Già a livello dei singoli Statuti regionali troviamo espliciti riferimenti ai beni DEA (Piemonte, Lazio, Molise). A livello normativo, il quadro regionale relativo ai beni DEA appare più articolato e in certi casi anche più soddisfacente di quello statale. Presso molte Regioni sosno stati creati specifici Centri di documentazione dedicati al patrimonio culturale, compreso quello DEA. A fronte di un crescente interesse per i beni DEA da parte delle Regioni e degli enti locali, resta da affrontare la questione della professionalità nel trattamento di questi beni. Finora tale aspetto è stato piuttosto trascurato: quasi nessuna Regione possiede specifici profili professionali e la gestione dei beni DEA viene affidata, spesso con casualità, ad altre figure professionali. Il documento del coordinamento interregionale degli assessori alla Cultura del 2005 esprime la necessità, fra le altre, di assicurare “l’idoneità tecnica del personle edelle strutture organizzative, quale che sia il tipo di funzione (tutela, valorizzazione, gestione ecc.)” e afferma 36

che “la professionalità e l’autonomia tecnico-scientifica del personale addetto costituiscono un elemento che condiziona sia il recupero della dimensione unitaria del bene culturale sia ogni possibiltà di intervento”. 4.4. Le organizzazioni internazionali L’UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) già nel 1989 ha cominciato ad affrontare la questione della salvaguardia della “cultura tradizionale e popolare” quale parte del patrimonio mondiale dell’umanità, attraverso la Recommendation for the Safeguarding of Traditional and Popular Culture. In questo documento viene riconosciuta la “fragilità estrema di certe forme della cultura tradizionale e popolare, particolarmente quelle concernenti gli aspetti che provengono dalle tradizioni orali e il rischio che questi aspetti possano andare perduti” e viene quindi fornita una serie di indicazioni in materia agli Stati membri. A partire dal 1997, l’UNESCO pone particolare attenzione sul patrimonio culturale immateriale (Intangible Cultural Heritage), per il quale ha costituito una sezione appositazione sedicata, con responsabilità verso le lingue locali e le forme di espressività popolari e tradizionali. L’UNESCO invlude nei patrimoni immateriali dell’umanità tanto le “espressioni popolari e tradizionali” (lingue, letteratura orale, musica, danza, giochi, mitologia, riti, costumi, saperi e pratiche artigiane), quanto gli “spazi culturali”, antropologicamente intesi come “luoghi” in cui si concentrano le attività popolare e tradizionali e “tempi” in cui ricorrono determinati eventi. Il riconoscimento dei Masterpieces of oral and Intangible Heirtage of Humanity avviene ogni due anni su segnalazione dei comitati nazionali, a partire dal 2001. 2001 Opera dei pupi siciliani 2005 “canto a tenore”, pratica polivocale pastorale esclusiva della Sardegna. La Conferenza generale dell’UNESCO del 2003 è stata dedicata al tema della tutela del patrimonio immateriale dell’umanità. E’ anche da ricordare la Dichiarazione universale sulla diversità culturale (Universal Declaration on Cultural Diversity, 2001), che afferma che la 37

diversità culturale è patrimonio condiviso dell’umanità ed è necessaria per il genere umano come la biodiversità lo è per la natura. La dichiarazione mira a preservare la diversità culturale come una risorsa vivente e quindi rinnovabile attraverso: - la salvaguardia del patrimonio linguistico dell’umanità - la conservazione e lo sviluppo del patrimonio culturale, soprattutto orale e immateriale - il rispetto e la protezione dei saperi tradizionali Anche l’ICOM (Internation Council of Museums) ha avviato un programma di attività sul tema del patrimonio immateriale. Conferenza generale a Seul, nel 2004 “la cultura non si manifesta soltanto in fome tangibili, ma anche attraverso forme immateriali, trasmesse di generazione in generazione mediante la lingua, la musica, il teatro, i comportamenti, i gesti, le pratiche, gli usi ed un’ampia gamma di ulteriori forme di mediazione. Il patrimonio immateriale comprende voci, valori, tradizioni, lingue, storia orale, vita popolare, creatività e tutto ciò che caratterizza una popolazione”. A seguito di questa Conferenza, l’ICOM ha anche rivisto la sua definizione di museo, integrandola con la nozione di immaterialità. Sul fronte della Comunità europea, nel 2001, durante la Conferenza dei ministri responsabili del patrimonio culturale, viene sottolineato come “la diversità dei patrimoni culturali, a livello locale, regionale e nazionale, assicuri alle popolazioni un senso primario di identità” e come dunque occorra operare affinchè le comunità locali scoprano identità e senso di appartenenza attraverso un’aumentata consapevolezza dei propri patrimoni culturali materiali, linguistici e spirituali, anche presenrvando l’artigianato tradizionale regionale e sviluppando la trasmissione dei saperi delle tecniche. 4.4. Le organizzazioni italiane Fra le organizzazioni nazionali, l’AISEA (Associazioni italiana per le scienze etnoantropologiche) riunisce gran parte dei demoetnoantropologi italiani accreditati presso le università, i musei e le istituzioni pubbliche e private. Dal 1992 al 2001 è stata attiva, all’interno dell’associazione, la sezione di Antropologia museale, il cui ulteriore sviluppo ha dato vita alla 38

SIMBDEA-AM (Società italiana per la museografia e i beni DEA antropologia museale). SIMBDEA-AM si propone come luogo di riflessione sui beni DEA e sul museo. Persegue il pieno riconoscimento del settore DEA nel sistema dei beni culturali italiano e ha anche carattere professionale, offrendo competenze sotto forma di studi, richerche, formazione, nel campo dell’antropologia museale e dei patrimoni culturali, a favore di enti pubblici e privati.

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5. Catalogazione La catalogazione dei beni DEA si colloca nell’ambito delle più generali operazioni applicate ai beni culturali e ambientali, volte al riconoscimento e alla conoscenza del patrimonio culturale, ai fini della sua conservazione, tutela e valorizzazione. A livello statale la struttura competente per la catalogazione del patrimonio culturale è l’Istituto centrale pr il catalogo e la documentazione (ICCD), che ha il compito, fra gli altri, di elaborare programmi di catalogazione generale dei beni fissandone la metodologia. Ha anche competenze nell’ambito della formazione per lo stesso settore disciplinare. Già a partire dall’inizio degli anni ’70 del ‘900 si hanno dei modelli di schede cartacee, da applicare alla catalogazione di diverse tipologie di beni culturali. Alla fine di quello stesso decennio l’ICCD comincia a strutturare le schede per la loro informatizzazione mediante appositi database nel 2003 viene creato un elaborato Sistema informativo generale del catalogo (SIGEC), che non accoglie solo schede, ma anche documenti multimediali ad esse connessi (foto, audio, video, cartografie, grafici ecc.). Parallelamente l’ICCD affina ed amplia la produzione di schede, per offrire degli strumenti sempre più mirati a restituire la complessità dei beni, mobili e immobili, all’interno delle varie categorie previste dalla normativa statale (beni storico-artistici, archeologici, architettonici, etnoantropolgoci ecc.). Con l’introduzione del SIGEC tutte le schede, già progettate fra loro in modo omogeneo, sono state ulteriormente uniformate mediante l’introduzione o la ristrutturazione di paragrafi comuni, che consentono la registrazione di dati uniformi e un’analoga possibilità di ricerca di base per le diverse tipologie di beni. I principali soggetti pubblici che si occupano di catalogazione del patrimonio culturale sono le strutture del Mibac e gli assessorati alla Cultura o i Centri di documentazione delle Regioni a statuto ordinario o speciale e delle Province autonome. 40

In misura minore vi collaborano anche le università. Le strutture del MIBAC hanno sempre utilizzato le schede emanate dall’ICCD. Le Regioni, fortemente impegnate nelle attività di catalogazione, si sono comportate, in passato, in modi piuttosto differenziati alcune hanno fatto proprie le schede ICCD, altre le hanno utilizzate modificandole, altre ancora si sono dotate di proprie schede autonome. Fino al 2001 Stato e Regioni hanno condotto le attività di catalogazione in modo separato, anche se non sono mancati casi di dialogo e i concrete collaborazioni. Nel 2001 lo Stato, le Regioni e le Province autonome hanno siglato un Accordo che stabilisce una serie di obbiettivi comuni in materia, prevedendo l’unificazione delle metodologie di catalogazione (delle schede) e l’attuazione e la messa in rete dei sistemi informativi, sia quello generale dell’ICCD, sia quelli regionali approntati e da approntarsi da parte delle Regioni. L’Accordo sottolinea anche il valore conoscitivo attribuito alla catalogazione “La catalogazione è lo strumento conoscitivo basilare per la gestione del territorio e la tutela, ed è lo strumento essenziale di supporto per la gestione e la valorizzazione del patrimonio immobile e mobile nel territorio e nel museo, nonché per la promozione e la realizzazione delle attività di carattere dialettico, divulgativo e di ricerca”. 5.1. Specificità demoetnoantropologiche Per i beni DEA l’attività di catalogazione si presenta in modo articolato e si colloca lungo due assi dicotomici: beni in musei e archivi/beni sul terreno; beni materiali/beni immateriali. La catalogazione delle collezioni museali o di meno strutturate raccolte di oggetti e quella dei documenti audiovisivi d’archivio presentano caratteristiche in comune. In ambedue i casi, le operazioni catalografiche si applicano a beni già raccolti o rilevati, i cui dati sono rintracciabili nelle documentazioni cartacee esistenti: inventari museali, schede da campo, relazioni di ricerca ecc, oppure nella memoria storica di museografi, raccoglitori o rilevatori. 41

In tali casi si rende spesso necessario integrare le documentazioni esistenti con la raccolta di dati aggiuntivi sul terreno (fonti orali e/o documentazioni audiovisive): operazione possibile se applicata a musei ed archivi locali, con territori di riferimento adiacenti, più difficile quando si lavora alle collezioni storiche dei musei nazionali, con territori d’orgine lontani nel tempo e nello spazio. Per la catalogazione dei beni materiali e immateriali sul territorio occorre effettuare sopralluoghi e rilevamenti, in modo da individuare i beni da schedare. Il patrimonio materiale può apparire facilmente rintracciabile in virtù della sua oggettualità, ma al di fuori di raccolte e collezioni precostituite non è facile rinvenire oggetti sul terreno. La catalogazione dei beni materiali sul territorio viene applicata quasi esclusivamente ai musei. La catalogazione dei beni immateriali appare più complessa e presenta una serie di problemi derivanti dalla natura performativa di tali beni, che per poter venire schedati devono essere osservati, rilevati e documentati. Ci sono anche prassi cataografiche connesse a ricerche tematiche territoriali, che si realizzano attraverso schedature integrate di beni materiali e immateriali. 5.2. Le schede FK Nell’ambito delle metodologie di catalogazione emesse dall’ICCD, nel 1978 furono progettate quattro schede denominate FK (Folklore), da utilizzarsi per catalogare alcuni fra gli aspetti più significativi delle culture di tradizione orale: -scheda FKO, cultura materiale (variante FKO-SM per gli strumenti musicali) - scheda FKM, documenti etnomusicali -scheda FKN, narrativa di tradizione orale -scheda FKC, cerimonie, riti, feste I quattro modelli presentavano disomogeneità anche significative tra loro, in primo luogo differenti forme di mediazione: dal prelevamente di oggetti (FKO), all’osservazione diretta di eventi (FKC), all’uso di fonti orali (FKM, FKN). 42

Alla base della loro compilazione vi erano, in tutti i casi, dati rilevati sul terreno, utilizzati in modo primario o secondario a senda che la schedatura fosse contestuale al rilevamento oppure venisse applicata a rilevamento già avvenuto, ossia a mteriali d’archivio o di museo. La FKO presentava molte analogie con la scheda OA dell’ICCD per i beni storico-artistici, sia nelle voci sia perché connessa a beni materiali e quindi a dati relativi a materie, misure, stato di conservazione ecc. LE FKM, FKN e FKC erano più specifiche e più problematiche per la particolare natura dei beni a cui si riferivano. Le tre schede, mai sottoposte a revisione, sono progressivamente cadute in abbandono. La scheda FKO è stata più volte discussa, riesaminata, riprogrettata e strutturata per l’informatizzazione nel 1989, andando a costituire l’attuale BDM. Oltre alle schede FK c’è anche una scheda E, specifica per i beni etnografici materiali extraeuropei, utilizzata soprattutto dal Museo preistorico etnografico Luigi Pigorini. Non è mai stata rivista né strutturata ed è quindi divenuta desueta. La scheda E è oggi da considerarsi inglobata nell’attuale scheda BDM, seppure quest’ultima non ne accolga tutti i contenuti specialistici. 5.3. Le schede BDM e BDI Le schede BDM (Beni demoetnoantropologici materiali) e BDI (Beni demoetnoantropologici immateriali) hanno per oggetto non più soltanto i beni demologici (folklorici), ma tutta l’ampia gamma dei beni DEA nella loro accezione unitaria. Derivano da una nuova fase di produzione schedografica dell’ICCD, basata sull’informatizzazione e sulla normalizzazione dei tracciati nascono come schede informatizzate. La scheda è costruita dal tracciato, dalla normativa e dai vocabolari. 5.3.1. La scheda BDM

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La scheda BDM per i beni DEA materiali rappresenta uno sviluppo e una successiva strutturazione della scheda FKO. Si compone di 18 paragrafi. Il paragrafo “Gerarchia” consente di classificare gli ogetti schedati come “semplici”, “complessi” o “aggregati”. La distinzione fra oggetti “semplici” e oggetti “complessi” si lega alla natura stessa degli oggetti, composti di più parti, oppure al modo in cui gli stessi vengono trattati per “convenzione” all’atto della catalogazione. Esempio di oggetto “complesso” abito inteso come risultato di una sommatoria di parti. In questo caso verrà compilata una scheda “madre” che riporterà i dati relativi all’oggetto nella sua globalità e tante sotto-schede per quante sono le componenti. Oggetti definiti come “aggregati” sono quelli che, pur avendo distinte individualità, presentano fra loro dei collegamenti mortaio e pestello, ceppo e incudine, collana con medaglione, pentola con coperchio. La compilazione delle schede BDM può avvenire a due livelli: -catalogazione, compilazione di tutte le voci presenti nel tracciato inerenti al bene schedato -precatalogazione, compilazione di un più ridotto numero di voci La scheda BDM è applicabile tanto a beni conservati in un museo quanto a beni presenti sul terriotrio, sebbene la struttura del suo tracciato la renda maggiormente indirizzata ad un uso museale, o comunque nell’ambito di collezioni e raccolte. Uno dei punti problematici della sua applicazione al terreno è proprio l’organizzazione delle relazioni fra oggetti complessi e loro componenti: un’organizzazione che, se è facilmente applicabile ai beni “congelati” presenti nei musei e nelle collezioni, mostra i suoi limiti sul campo per l’eccessiva rigidità che entra in contraddizione con le pratiche di variazione, di riutilizzo, di composizione/scomposizione, di bricolage, che caratterizzano l’uso concreto degli oggetti nelle comunità di riferimento. 5.3.2. La scheda BDI 44

La scheda BDI per i beni DEA immateriali è stata pubblicata nel 2002. Le modalità di progettazione di questa scheda si sono discostate da quelle praticate in passato. La scheda è nata a partire da una proposta della Regione Lazio e successivamente sviluppata in modo pluralistico, creata nel confronto tra soggetti diversi con esigenze ed esperienze differenziate. La scheda è stata progettata secondo un’accezione di beni immateriali fortemente estensiva ed articolata. E un tracciato del tutto nuovo, sperimentale, con cui si è cercato di offrire uno strumento unificato per catalogare una pluralità di beni (giochi, danze, spettacoli, tecniche, comunicazioni non verbali, autobiografie, onomastica e toponomastica orali, saperi, tecniche, consuetudini giuridiche ecc). Il tracciato è unico per tutti i beni DEA immateriali, necessariamente duttile, in grado di consentire la registrazione di una notevole quantità di dati relativamente a beni fra loro differenziati. Si applica tanto a beni rilevati contestualmente sul terreno (schedatura sul terreno), quando a beni rilevati in precedenza, fissati su supporti audiovisivi conservati in archivio (schedatura d’archivio). Nel caso della schedatura d’archivio la scheda è utilizzabile anche per la catalogazione dei beni DEA immateriali extraeuropei. In considerazione della natura specifica, “volatile”, di questi beni, la schedatura sul terreno prevede obbligatoriamente la realizzazione di un corredo audiovisivo (registrazioni/riprese sonore e/o videocinematografiche e/o fotografiche) per una stabile restituizione e fruizione del bene. I supporti ottenuti, da allegarsi alla scheda, costituiscono dei beni audiovisivi la cui conservazione e la cui tutela potranno avere dei riflessi sugli stessi beni DEA immateriali, per la loro natura difficilmente tutelabili. Nella schedatura d’archivio sarà invece sufficienze fare riferimento alla documentazione audiovisiva già conservata nell’archivio stesso, di cui la scheda erediterà tutti i dati. 45

In entrambi i casi c’è la possibilità di allegare documentazioni audiovisive integrative del bene, realizzate direttamente dal catalogatore nel corso del rilevamento (interviste, fotografie), oppure al di fuori del rilevamento (documenti d’archivio, documenti reperiti in loco, dischi, prodotti audiovisivi ecc). Il tracciato è impostato in modo descrittivo: fornisce un’ampia quantità di dati rinunciando ad analizzarli, anche se la descrizione è già una prima forma di analisi. Sono state pertanto escluse alcune voci, presenti nelle vecchie schede FK, come e soprattutto “funzione”. La scheda BDI si applica ai beni DEA immateriali nei loro aspetti performativi: concretizzazioni uniche e irripetibili di modelli astratti presenti nel terirtorio. Nella catalogazione di feste, pellegrinaggi, riti ecc., è buona norma compilare più schede, ciascuna relativa ad un segmento del bene complessivo, individuabile come bene nel bene e dotato di una relativa autonomia. In una festa religiosa popolare si potranno individuare una processione, dei canti, una leggenda di fondazione del culto, dei comportamenti devozionali e così via. Si potrà valutare se e come collegare tali schede tra di loro e/o mediante il paragrafo Relazioni. Nel campo Specifiche relazionali si potrà dare conto dei collegamenti e dei criteri adottati. Analogamente alla scheda BDM, anche per la BDI sono previsti due soli livelli di ricerca: -precatalogazione, che si applica di preferenza alla schedatura d’archivio -catalogazione, che si applica al rilevamento diretto sul terreno Il livello di catalogazione presuppone la compilazione di tutti i campo pertinenti alla tipologia specifica del bene preso in esame, nonché la realizzazione di almeno un allegato audiovisivo di restituzione del bene stesso.

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Il rilevamento dei dati e la compilazione della shceda BDI richiedono un’elevata professionalità che include anche il possesso di specifiche competenze metodologiche e tecniche, necessarie per la realizzazione del corredo audiovisivo. Questo richiede uno specifico percorso formativo per catalogatori DEA, attraverso cui acquisire opportune conoscenza e competenze, in aggiunta a quelle già acquisite nei percorsi di studio accademici. 5.4. Le schede FPF e AMRP Due specifiche schede per la catalogazione delle feste sono state elaborate nel 2000: -la scheda Festa progetto finalizzato (FPF) -la scheda Archivio multimediale della ritualità piemontese (AMRP) Queste due schede sono la versione “grande” e “piccola” di uno stesso modello. Sono state progettate per la catalogazione delle feste a partire da fonti differenziate: fonti scritte, audiovisive, derivate dal rilevamento diretto sul terreno. Analogamente alla scheda BDI, anche la scheda FPF è stata progettata per schedare specifiche performance in dati contesti “catalogare separatamente ogni evento festivo effettivamente registrato, dall’autore di una fonte o da apposita rilevazione di campo, invece di accumulare in un solo record notizie di diversa origine, talora divergenti se non contraddittorie, e di diversi periodi, con le derivanti incongruenze, ancora più manifeste per le immagini ed i suoni, e per gli insolubili problemi di integrazione o di scelta. Otteniamo così una scheda per una sola occasione, ognuna riferita ad una specifica performance e ad uno specifico contesto. La scheda FPF è la più ampia delle due, e nel suo insieme consente di registrare una vasta gamma di dati di rilevanza antropologica. “Essa presenta gli attori della cerimonia, i loro costumi, le azioni in cui ognuno s’impegna; il tipo di organizzatori e di partecipanti alla festa; il tipo di risorse di cui ci si giova; la presenza rituale di animali, vegetali, alimenti, elemente figurativi, sono e gestuali e altri ancora oggettuali. Si registrano le componenti rituali tipiche quali processioni, danze, 47

acrobazie, azioni drammatiche, questue, ecc. e le credenze e la documentazione orale connessa.” La scheda AMRP è più ridotta e strutturata in modo meno analitico. Offre una restituzione più concentrata delle informazioni essenziali. “La scheda registra vari dati di rilievo scientifico: gli spazi e i percorsi rituali, gli attori e i collegamenti con i cicli calendariali e produttivi; è mirata ad una pronta ricognizione della distribuzione delle cerimonie sul territorio, all’accertamento della qualità degli informatori e delle fonti cui sono dovute le notizie registrate. L’arricchimento con la dimensione multimediale è assicurato sia mediante le indicazioni relative ad archivi sonori, fotografici, filmici, video, iconografici, pertinentii, sia mediante l’apertura diretta ai contributi audio, video e fotografici da ogni scheda.” Le schede FPF e AMRP sono state utilizzate per una pluralità di ricerche svolte nel territorio piemontese. 5.5. Altre esperienze catalografiche Nell’ambito di ulteriori sistemi catalografici elaborati nel tempo per i beni DEA al di fuori dell’ICCD, l’esperienza più originale ed interessante è la Scheda centro di documentazione (SCD, 1988) un’unica scheda generale di rilevazione per i beni DEA materiali e immateriali, che in un secondo livello si diversifica per categorie, tenendo anche conto delle corrispettive schede FK. Ulteriori esperienze di schede, comunque collegate alle FK, sono le schede Oggetto, Documenti orari e Festa della Regione Sicilia, elaborate dalla cattedra di Antropologia culturale dell’Università di Palermo agli inizi del anni ’80 del ‘900. Nella seconda metà dello stesso decennio, schede per la rilevazione delle feste elaborate dagli antropologi afferenti alla ditta VIDEO Italia, nell’ambito dei “Giacimenti culturali”.

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6. Ricerca scientifica e formazione 6.1. La ricerca scientifica Beni culturali DEA patrimonio che si viene continuamente costituendo entro il sistema cultura. Sono rilevanti per la conoscenza di questo patrimonio e l’attività nel suo ambito tutte le ricerche finalizzate a rilevare e documentare aspetti della cultura di un dato territorio. (es. ciclo calendariale, Carnevale, forme di religiosità e di culto, tecniche produttive, strumentazione, saperi tradizionali, forme drammatiche, canto, danze.) Di particolare interesse sono le indagini che mettano in evidenza anche i fatti della riproposta e i fenomeni di innovazione ci permetteranno di inserire meglio nel quadro attuale la problematica della patrimonializzazione, della tutela attiva e della valorizzazione. Il lavoro dei ricercatori si è fin dall’inizio concentrato sul mondo agropastorale, ed è da questo materiale e questi presupposti che hanno preso avvio le considerazioni di carattere più generale, si sono indirizzate le ricerche e si è costituita la cassetta degli attrezzi della disciplina, e questo rimane un dato rilevante per il suo DNA. Per quanto riguarda il contesto urbano e operaio e le classi popolari come sono configurate oggi, il problema è dunque complesso è un ampio campo da affrontare, in un percorso lungo in cui potrà essere fruttuoso l’incontro con le discipline sociologiche e storiche. Esempio recente di ricerca indagine sulle operaie FIAT-SATA in un periodo di mutamento culturale e dell’organizzazione del lavoro. Ha un notevole rilievo anche il lavoro dedicato all’antropologia urbana atteggiamento degli abitanti di Pozzuoli, rilevato attraverso molte interviste sul terreno, nei confronti del ricco patrimonio archeologico della loro città  monumenti come mediatori di un rapporto con la loro storia, e ciò avviene perché questi sono funzionalmente inseriti in questo contesto, nel lavoro e nel tempo libero trascorso nelle vie della città. “Desacralizzazione dei monumenti”. 49

Lo stesso patrimonio DEA può acquisire vitalità, continuità e impatto comunicativo quanto meno venga, appunto, “sacralizzato”, separato pe run momentaneo consumo univocamente “culturale”, e quanto più invece sia lasciato alla sua normale polifunzionalità nel territorio. Ciò è stato vero per la prima fase della riproposta, ma rischia di essere rimesso in questione proprio dal suo successo, con il condizionamento esterno sempre più pesante dello show business, dei media, della moda e dell’attuale stile di consumo del tempo libero. Si pongono nuovamente e in modo diverso problemi di tutela. Potrebbero avere effetto proprio voci proveniente dalle comunità locali Puglia (Torrepaduli), interventi in difesa della festa di San Rocco. Nel quadro del successo delle manifestazioni musicali legate almeno nominalmente alla tradizione popolare salentina, la comunità locale ha subito un netto esproprio di questa festa: -invasione di pubblico giovanile che finisce per escludere gli anziani del posto -uso della musica continuo e rumoroso, con impiego di strumenti e percussioni estranee, anche africane -mancanza di attenzione alle modalità locali delle danze -indifferenza per i momenti e le pratiche di devozione della comunità Progetto “Proteggiamo Torrepaduli” restituire centralità alla comunità locale, alle sue competenze e devozioni tradizionali. Sensibilizzazioni di base: -no all’inquinamento austico -ritorno degli anziani nelle rotonde -rispetto per la scherma -rispetto per i devoti di San Rocco Tornando al problema delle classi subalterne urbane e delle loro culture, la questione non riguarda soltanto la disponibilità di ricerche, ma le modalità e i criteri con cui si possano tracciare, in riferimento a queste classi e culture, linee di delimitazione di un patrimonio DEA e di accesso ad esso. Il modo in cui finora si è costituito non è neutrale né fuori dalla storia i suoi interpretti hanno fissato modalità di riconoscimento e 50

accesso, di tutela, catalogazione e valorizzazione, mirate prevalentemente al mondo contadino. L’attenzione al presente non contadino implica dunque anche un lavoro non indifferente di osservazione ed elaborazione, in una prospettiva multidisciplinare, un ripensamento delle modalità di rilevazione, tutela e comunicazione. Potrà forse anche essere utile concepire beni culturali che non siano acquisiti in modo definitivo, ma la cui collocazione dipenda dalle vicende in cui sono stati coinvolti, dalla propensione dei loro portatori a mantenerli in vita, dalla loro aderenza a problematiche sentite dalla popolazione e dai suoi intellettuali. Ad esempio tutto ciò che è connesso all’ecomuseo di Le Creusot è destinato a durare oltre le contingenze critiche che ne hanno motivato la nascita? 6.2. La formazione Una preparazione sufficientemente ampia e articolta nel campo delle scienze antropologiche è una componente importante della formazione di chi si accinge ad operare nel campo dei beni culturali DEA. Nelle università italiane una prima cattedra di Antropologia risale al 1869-1870, a Firenze, ricoperta dal noto antropologo ed etnologo Paolo Mantegazza. Più recente è il primo corso di “Demopsicologia”, inaugurato a Palermo nel 1911, e tenuto da Giuseppe Pitrè, uno dei padri fondatori della demologia nel nostro paese. L’ordinamento attuale prevede una laurea, dopo un triennio di studi e la discussione di una tesi di estensione contenuta ed una laurea specialistica, dopo un ulteriore biennio e una dissertazione finale più impegnativa. Il passaggio dal triennio al biennio specialistico non è scontato: con una laurea triennale si può accedere a specialistiche diverse, e ciò può comportare il riconoscimento completo degli studi compiuti oppure soltanto parziale, con l’obbligo di aggiungere al piano di studi le materie essenziali che risultano mancanti. 51

Infine l’interessato può accedere ad un livello superiore che è quello del dottorato di ricerca tre anni di alta formazione. Il nuovo ordinamento è stato definito nel 2000. Per quanto riguarda il percorso triennale, tutti i corsi di laurea precedenti sono stati riordinati in 42 classi di laurea, e per ogni classe il MIUR ha indicato gli Obbiettivi formativi qualificanti e le Attività formative indispensabili. Le diverse materie che lo studente deve affrontare sono indicate nelle Attività formative. In ogni facoltà i corsi di studio proposti agli studenti dovranno rientrare nei criteri di una specifica classe di laurea e indicheranno quindi innanzitutto i settori scientifico-disciplinari ad essa pertinenti. Il nostro settore scientifico-disciplinare ha l’intitolazione M-DEA/01 Discipline demoetnoantropologiche e ha tra gli ambiti di indagine sia lo studio delle diverse aree territoriali del pianeta sia quello delle culture delle classi subalterne delle società occidentali. Esiste inoltre un settore L-ART/08 Etnomusicologia. Nel passare all’esame delle classi di laurea sono previsti tre diversi tipi di attività formative che sono, in ordine decrescente di importanza e di attinenza agli obbiettivi qualificanti di base, caratterizzanti e affini o integrative. Il peso di ogni tipo (di base, caratterizzanti, affini) è stabilito e misurato in termini di CFU, e per ognuno la tabella stabilisce il minimo di crediti da attribuire. Tra le 42 classi di laurea non ne è stata prevista alcuna dedicata specificamente agli studi DEA, anche se in alcuni casi sono stati istituiti dei percorsi con forte impronta antropologica entro corsi di laurea compresi in classi di laurea diverse (Bologna, Palermo, Roma, Siena e Torino). Nella parte sugli obbiettivi formativi qualificanti si dichiara esplicitamente che i laureati “svolgeranno attività professionali presso enti locali e istituzioni specifiche (sopraintendenze, musei, 52

biblioteche, archivi, cineteche, parchi naturali e orti botanici), nonché presso aziende e organizzazioni professionali operanti nel settore della tutela e della fruizione dei beni culturali”. Competenze essenziali come quelle concernenti la comunicazione e gli allestimenti, il rapporto con la popolazione e il territorio, la sua promozione, la gestione e lo sviluppo del patrimonio come risorsa, la schedatura multimediale e le nuove tecniche di presentazione, risultano oggetto secondario di apprendimento e addestramento. Nella parte della tabella relativa agli obbiettivi formativi qualificanti si specifica tra l’altro che i laureati dovranno acquisire acquisire conoscenza avanzate “per la predisposizione e conduzione di progetti nel campo della salvaguardia e valorizzazione dei beni entoantropologici” e potranno quindi “operare in strutture proposte alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio culturale delle comunità locali e nazionali”. Tuttavia per operare effettivamente “in strutture proposte alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio culturale”, risultano nuovamente assai scarse le basi per l’acquisizione di molte delle competenze essenziali con scarsa presenza nella tabella della classe triennale. L’ordinamento attuale prevede inoltre una classi di lauree specialistiche in Conservazione e restauro del patrimonio storicoartistico, dove, tra gli obbiettivi formativi, è citata anche la “valorizzazione dei beni culturali”.

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