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George Orwell LA STRADA DI WIGAN PIER Titolo dell’opera originale “The Road to Wigan Pier” Traduzione di Giorgio Monicelli Introduzione di Francesco Marroni ©1960 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Introduzione Pubblicato nel marzo 1937, “La strada di Wigan Pier” si configura innanzitutto come una testimonianza ideologicamente eterodossa sulla crisi degli anni trenta, un documento drammatico e vivo in cui l’esperienza vissuta da Orwell tra i minatori disoccupati dell’Inghilterra Settentrionale viene dispiegata più con la scrittura creativa del romanziere che con le annotazioni sociologiche del giornalista. Si tratta quindi di un’opera che va ben oltre l’indagine sulla povertà commissionata nel 1936 dal Left Book Club, tanto più se pensiamo che, nella seconda parte del libro, l’orizzonte tematico viene ampliato notevolmente con le polemiche osservazioni sul socialismo britannico, non disgiunte da un’accesa requisitoria contro il falso ideale rivoluzionario dei cosiddetti “poetini effeminati”, cioè Auden, C. Day Lewis, Stephen Spender e altri. Per quanto l’opera sia informata da una profonda tensione morale e artistica, è nondimeno giusto dire che, in modo più o meno evidente, agisce al suo fondo più di una tradizione – il Carlyle di “Cartismo” e “Passato e presente”, il William Morris dei saggi sul socialismo romantico e anti–industriale, nonché il Cobbett radicale e ribelle delle “Cavalcate rurali”. Né del resto possiamo trascurare i riferimenti espliciti che l’autore fa alla narrativa sulle Cinque Città di Arnold Bennett e, ancor più, a “Tempi difficili” di Charles Dickens – due romanzieri dai quali Orwell mutua un linguaggio altamente connotativo nella descrizione del mondo industriale che, con il suo desolante squallore, finisce per costituire una sorta di estetica del “brutto” paesaggistico. Non solo tradizioni ottocentesche, ma anche diverse e talora contrastanti matrici ideologico–culturali del dibattito contemporaneo confluiscono in “Wigan Pier“, che mette a nudo, come ha notato Richard Hoggart, ”una moltitudine di contraddizioni del pensiero orwelliano“, tra le quali emerge come costante ambivalenza dell’universo semantico dello scrittore anglosassone quella tra l’urgenza di una trasformazione rivoluzionaria della società e il convincimento, esplicitamente confessato, che le cose non potranno mai essere cambiate sulla faccia della terra. In definitiva, “La strada di Wigan Pier” chiude la prima fase di un processo di decantazione dell’esperienza
orwelliana, un apprendistato costituito da una serie di esperimenti artistici che, incentrati sulla rappresentazione autobiografica della povertà e della sofferenza, segnano, secondo Raymond Williams, “un notevole ampliamento della letteratura“ e, nel contempo, apprestano il terreno alle più compiute e coerenti realizzazioni narrative della favola morale di “La fattoria degli animali” e della memorabile utopia negativa di 1984. Che “La strada di Wigan Pier” fosse animato in primo luogo da uno spirito polemico e anticonformistico dovette apparire subito evidente all’editore Victor Gollancz il quale decise di pubblicare il volume con una prefazione chiarificatrice scritta di suo pugno, in cui, senza mezzi termini, prendeva le distanze dalle idee espresse dallo scrittore, che poco si attagliavano alla stretta ortodossia socialista del Left Book Club. In aggiunta, è significativo che l’editore, prevedendo le reazioni negative dei soci, tenesse a precisare, non senza un mal celato imbarazzo, che la serie di ritratti di militanti socialisti satiricamente abbozzati nell’opera scaturivano dalla visione semplicistica e distorta di un intellettuale piccolo–borghese ancora vittima dei pregiudizi della sua classe d’origine. Ancora nella prefazione veniva difesa la politica di industrializzazione accelerata dell’Unione Sovietica contro quelle che venivano considerate le ingiuste critiche dello scrittore, indignato dalla venerazione fideistica del nuovo stato russo e dei suoi progressi tecnologici, che era un tratto saliente del conformismo intellettuale di quegli anni. E’ certo che per Orwell il problema principale è quello di presentare ciò che noi oggi chiameremmo il “volto umano” del socialismo, e non già di ricostruire il dibattito teorico sulle “sacre sorelle, tesi, antitesi e sintesi“, che, stando al suo giudizio, nulla hanno a che vedere con l’istintiva adesione alla causa socialista da parte del proletariato, proprio perché chi conosce il significato della miseria non può non collocarsi sul versante della lotta per il socialismo. Non un approccio scientifico e dialetticamente motivato quindi, ma una concezione piuttosto empirica e riduttiva in cui, sotto il nome della difesa dei valori tradizionali dinanzi all’avanzata del fascismo, finiscono paradossalmente per trovare spazio sia il vagabondo che vive sotto i ponti del Tamigi, sia il conservatore preoccupato dalla minaccia nazista alla civiltà occidentale. Va da sé che alla base di un simile atteggiamento non riscontriamo né la lezione marxiana sul materialismo storico, né la strategia leninista della conquista del potere da parte della classe operaia, ma al contrario una visione del mondo individualistica tesa a negare ogni dogmatismo ideologico che conduce inevitabilmente sulla strada del totalitarismo. In breve, Orwell si batte contro le verità ultime delle dottrine rivelate e ufficiali, contro il “nulla salus extra ecclesiam” tipico dello sclerotizzante assolutismo di partito, per il quale conta più “il culto del Capo“ che l’emancipazione delle masse. A questo punto vale la pena di ricordare il lucido studio di Alan Sandison, “The Last Man in Europe: An Essay on George Orwell” (1974), in cui si individua una tensione morale peculiarmente protestante nel pensiero orwelliano, caratterizzato dall’eresia rispetto all’ideologia dominante nonché da un persistente senso di colpa derivato dal retaggio puritano. Di qui anche la questione dell’identità intesa come creazione di una nuova personalità sociale purgata dalle colpe ereditate dalla classe di origine; appare chiaro allora come l’individualismo orwelliano si colleghi intimamente a una problematica interiore che, sul piano letterario, emerge sin dalle prime prove narrative per poi manifestarsi compiutamente, pur nella permanenza di aporie e dilemmi, in “La strada di Wigan Pier”, che possiamo senza dubbio interpretare anche come una confessione autobiografica intrisa di puritane angosce e proponimenti autopunitivi. Per questo motivo il “viaggio” verso la classe operaia inglese diviene per Orwell solamente il pretesto per
misurarsi ancora una volta con l’esperienza della povertà; conseguentemente, lo squallore dei distretti minerari, anziché essere posto al centro dell’indagine, assurge a tramite e contesto privilegiato di una storia di redenzione personale. Ne deriva anche il carattere precipuamente artistico di tale “quest”, segnando essa il passaggio dal poliziotto dell’impero britannico Eric Blair il vero nome di Orwell – allo scrittore impegnato nella ricerca di strumenti espressivi atti ad esprimere, senza retorica e funambolismi, quelli che egli stesso in un saggio chiama “i veri fatti“, ”le cose così come sono“. A ben guardare, la prima parte di “Wigan Pier” – che pare ricollegarsi parzialmente a “Senza un soldo a Parigi e a Londra” per la prevalente attenzione al particolare significativo e crudo – vuole mostrare al lettore la partecipazione fisica del narratore– protagonista al dramma quotidiano dei disoccupati e di tutti coloro che la società sembra avere dimenticato. Per questo, a uno stile epigrammatico e asciutto fa riscontro il ricorrente uso dell’iperbole e di metafore iperboliche, che, oltre a rivelare il bisogno dell’autore di rendere tanto più convincenti e indimenticabili le descrizioni di quel mondo, mettono a nudo un’enfasi narrativa che si discosta notevolmente dai propositi documentaristici del libro. Del resto, il coinvolgimento attivo del personaggio–Orwell rientra appieno in un’operazione mirante a creare letterariamente un’alternativa alla parte negata del proprio io; mediante la trasposizione narrativa di un’esperienza realmente vissuta, il narratore si trova a verificare anche la propria collocazione ideologico– esistenziale, che risulterà tanto più affrancata dal “peso della colpa”, quanto più la sofferenza e la miseria si saranno rivelate epifanicamente nel momento della loro emergenza letteraria. Non per nulla, sin dalle prime battute del libro, il personaggio– Orwell impone subito la sua presenza che, in un contesto non dissimile dal romanzo proletario “Love on the Dole” (1933) di Walter Greenwood, ci appare come il filtro attraverso cui passeranno le vicende e i fatti riportati. Pertanto, con l’adozione di un punto di vista circoscritto e fondamentalmente soggettivo, l’autore limita di molto il valore documentario della sua ricerca e, in pari tempo, fa di “Wigan Pier” un testo in cui l’autobiografia sembra essere il punto di mediazione tra il desiderio orwelliano di riferirsi a esperienze reali e una ricca vena poetico–immaginativa. Se è vero che il diario tenuto nel periodo del soggiorno nei distretti minerari – cioè dal 31 gennaio al 25 marzo 1936 – risulta un documento prezioso per analizzare il processo di rielaborazione alla base del lavoro orwelliano, va nondimeno precisato che solo una parte delle esperienze in esso registrate troveranno spazio nel volume commissionato dal Left Book Club. Tutto ciò giunge a confermare che Orwell scrisse “Wigan Pier” operando una precisa selezione narrativa volta a cogliere, per molti versi, gli aspetti più vistosi della condizione dei disoccupati, trascurando invece l’analisi approfondita e documentata che pure gli era stata esplicitamente richiesta. Né va dimenticato che lo stesso ordine cronologico degli avvenimenti viene stravolto, al punto che possiamo parlare di un montaggio funzionale all’esigenza di dare enfasi al fenomeno della povertà e, di conseguenza, anche alla salvezza sociale emotivamente cercata dallo scrittore, che, tramite il linguaggio, tenta di conferire una nuova dimensione al suo io. Di questo procedimento si ha una chiara esemplificazione già nel capitolo primo con l’entrata in scena dei Brooker e della loro lurida pensioncina, della quale ci viene offerta una descrizione minuziosa e ossessiva – ambienti soffocanti e polverosi, sudiciume e molliche ammuffite sparse un po’ dovunque, una cucina le cui maleodoranti emanazioni sembrano raggiungere ogni angolo della casa, per non dire del deprimente ritratto della padrona, sempre sdraiata su un sofà informe a crogiolarsi nella sua non ben precisata malattia. In ogni caso, questo personaggio descritto con dovizia di particolari si pone come efficace metafora della
paralisi morale ed economica degli anni trenta. A proposito della cronologia degli avvenimenti, qui va aggiunto che, nelle annotazioni diaristiche, quella dei Brooker non è in effetti la prima pensione in cui alloggia lo scrittore; è certamente la più decrepita e impressionante, la più idonea quindi a rappresentare la tipica pensione degli “slums” di centri industriali come Wigan e Sheffield. Sul piano letterario l’effetto è poderoso, al punto che queste pagine iniziali si configurano come una sorta di antinferno prima della discesa negli strati più bassi della società; non a caso l’ambiente dei Brooker viene descritto come un luogo sotterraneo in cui persone e scarafaggi si aggirano strisciando tra mucchi di rifiuti e letti disfatti. A dire il vero, la metafora del viaggio sotterraneo si trasforma in esperienza reale quando Orwell scende nelle viscere della terra per sperimentare di persona il lavoro nelle miniere. Se nella descrizione degli abitanti dei quartieri poveri viene sottolineato il decadimento fisico e morale, nel caso dei minatori prevale il registro sentimentale e idealizzante che è ben lungi dal proporre un’immagine realistica e sociologicamente valida delle vere condizioni di lavoro nei pozzi. Dotati di grande forza e agilità atletica, i minatori orwelliani fanno pensare, con i loro corpi seminudi e perfetti, più al Lawrence di “L’arcobaleno” e “Donne innamorate” – ove la vitalità degli operai si contrappone alla sterilità e freddezza dei padroni che all’effettivo sfruttamento cui, in quegli anni di crisi, essi erano sottoposti. Ma il punto di vista orwelliano è quello del narratore, pertanto non può meravigliare se i minatori sono dipinti come una razza a sé stante, un microcosmo sotterraneo da cui dipende gran parte della vita in superficie: “[...] tutti noi dobbiamo ‘realmente’ la relativa decenza della nostra vita a quei poveri schiavi sotterra, anneriti fino agli occhi, con le gole piene di polvere di carbone, che spingono avanti le loro pale con braccia e ventre dai muscoli d’acciaio“. E’ fuor di dubbio che Orwell guarda i minatori con l’umiliazione di chi si sente fisicamente e moralmente inferiore, senza tentare un’analisi dei nessi concreti che legano il mondo della miniera al più vasto contesto sociale. Né meno sentimentale ci appare il quadretto familiare descritto nel capitolo settimo, nel quale l’umile interno di una casa operaia diviene “locus” ideale e idealizzato di perfetta armonia domestica, un ambiente raccolto e sereno lontano dalle tensioni sociali che scuotono l’intera nazione. Ovviamente si tratta della visione metastorica della classe operaia che si giustifica, come ha notato Raymond Williams in “The Country and the City“ (1973), solo alla luce di una certa persistente nostalgia per il decennio edoardiano, nel quale, come in alcune pagine di “Una boccata d’aria”, l’autore scorge un periodo di grande sicurezza e serenità per tutte le classi sociali; è forse inutile aggiungere che anche in questo caso l’immaginazione orwelliana sta ricreando un passato in realtà mai esistito. D’altra parte, è pur vero che a una simile rappresentazione sentimentale del mondo operaio fa riscontro l’esplicita confessione di Orwell sul senso di repulsione fisica che egli prova al cospetto della classe lavoratrice, proprio perché permangono sempre, nonostante il desiderio di scrollarseli di dosso, i pregiudizi e gli atteggiamenti di un intellettuale borghese. Secondo lo scrittore, è questo fastidioso disgusto per i segni fisici della povertà a costituire l’invalicabile barriera tra la classe operaia e gli intellettuali progressisti. Non a caso “Leitmotiv” del libro è proprio l’ossessivo e crudo resoconto dei vari odori, più o meno sgradevoli e respingenti, emanati da persone e cose incontrate dal narratore nel suo viaggio attraverso gli “slums” delle città industriali. Per molti versi, l’operaio orwelliano rinvia ai ripugnanti Yahoo descritti da Swift nei “Viaggi di Gulliver”: in entrambi i casi, dietro la finzione letteraria, si nasconde la personale avversione per il contatto fisico con i propri simili.
In definitiva, sarebbe sbagliato considerare “La strada di Wigan Pier” un testo di analisi sociologica e politica. Più precisamente esso rientra in quella fase della storia letteraria in cui, come ha notato recentemente David Lodge in “The Modes of Modern Writing” (1977), superata la concezione della storia come terribile incubo, gli scrittori si dedicano a una riscoperta del fatto storico adottando nuovi modelli di scrittura – l’autobiografia, il resoconto di viaggio, il diario diventano gli strumenti letterari per ricercare un rapporto più diretto con la realtà: basti qui ricordare “Journey Without Maps” (1936) di Greene, “Letters from Iceland” (1937) di Auden e MacNeice, “Journey to a War” (1939) di Auden e Isherwood, “Autumn Journal” (1939) di MacNeice. E se è vero che il linguaggio metonimico della macchina da presa costituì una fonte di ispirazione per molti scrittori degli anni trenta, ben si comprende allora come il fenomeno letterario si inscriva nel nuovo modo di osservare la realtà che l’arte cinematografica pareva indicare. E’ questo il contesto in cui si cala “Wigan Pier”, che, nonostante taluni evidenti limiti artistici e irrisolte contraddizioni di natura ideologica, resta indubbiamente un testo di primaria importanza per la messa a fuoco delle diverse componenti del pensiero orwelliano; qui per la prima volta si delinea chiaramente quell’impegno morale contro ogni forma di sopraffazione delle libertà individuali che fa di Orwell, non solo “la coscienza di una generazione“, ma anche e soprattutto una delle voci più coraggiose e profetiche del nostro secolo. Francesco Marroni.
Nota biobibliografica George Orwell, il cui vero nome è Eric Arthur Blair, nasce nel 1903 a Motihari (India), dove il padre presta servizio come funzionario amministrativo dell’impero britannico. A soli otto anni viene mandato a studiare in patria, dapprima alla St. Cyprian’s e poi al King’s College di Eton, dove resta fino al 1921. A diciannove anni interrompe gli studi per arruolarsi nella Indian Imperial Police: per cinque anni rimane in servizio a Mandalay (Birmania), in cui vive la difficile esperienza del colonialismo. Di questi anni è testimonianza il suo primo romanzo, “Burmese Days”, pubblicato nel 1934 da Harper (New York). Nel 1927, dopo un breve soggiorno inglese, decide di dimettersi dalla polizia per seguire la vocazione di scrittore. Nella primavera del 1928 si reca a Parigi, dove, tra umili mestieri e difficoltà economiche, comincia a scrivere i suoi primi articoli. L’anno successivo, tornato in Inghilterra, vive per qualche anno con i genitori e successivamente si trasferisce nel Middlesex, dove si guadagna da vivere insegnando in scuole private. Nel 1933 l’editore Gollancz pubblica “Down and Out in Paris and London”, il primo libro ad essere dato alle stampe, in cui racconta la personale esperienza del vagabondaggio e della miseria. Per qualche tempo lavora come commesso in una libreria londinese e nel 1935 comincia a recensire romanzi per il «New English Weekly»: lo stesso anno Gollancz pubblica “A Clergyman’s Daughter”. L’anno seguente, su incarico del Left Book Club diretto da Gollancz, si reca nel Lancashire e nello Yorkshire per documentarsi sulle condizioni della classe operaia: risultato di questa ricerca è “The Road to Wigan Pier”, pubblicato nel 1937. Nel 1936 sposa Eileen O’Shaughnessy mentre, sempre l’editore Gollancz, pubblica “Keep the Aspidistra Flying”. Alla fine dello stesso anno si trasferisce in Spagna con la moglie prendendo parte alla guerra civile nelle file repubblicane: milita nel piccolo gruppo di estrema sinistra del Partido Obrero de Unificaci¢n Marxista. Ferito alla gola nella battaglia di Huesca, alla fine del giugno 1937 lascia la Spagna e torna in patria: “Homage to Catalonia”, pubblicato nel 1938 da Secker E Warburg, è la drammatica
storia di questa esperienza. Intanto, una malattia polmonare lo obbliga a trascorrere l’inverno in Marocco. Al ritorno, nel 1939, pubblica presso Gollancz “Coming Up for Air”. Con lo scoppio della guerra, dichiarato inabile al servizio militare, si arruola alla Home Guard: diventa redattore letterario del «Tribune» e comincia a scrivere “Animal Farm”. Nel marzo 1945 muore la moglie e nell’agosto gli editori Secker E Warburg pubblicano “Animal Farm”. Intanto collabora anche all’«Observer» e al «Manchester Evening News». Nel febbraio del 1946 vengono dati alle stampe i “Critical Essays”. Trascorre l’estate 1947 nell’isola di Jura, al largo della costa scozzese, completando la prima stesura di “Nineteen Eighty–Four”. Malato gravemente di tubercolosi, nel dicembre viene ricoverato in sanatorio. Dopo questo primo ricovero ritorna a Jura per ultimare la revisione del romanzo, che viene pubblicato nel 1949 da Secker E Warburg. Con l’aggravarsi della malattia, viene ricoverato nello University College Hospital di Londra nel settembre 1949. Nell’ottobre successivo sposa Sonia Bronwell, redattrice della rivista «Horizon». Muore il 23 gennaio 1950 all’età di quarantasei anni.
OPERE DI GEORGE ORWELL “Down and Out in Paris and London“, Londra, 1933; ed. it. ”Senza un soldo a Parigi e a Londra“, Milano, 1967. “Burmese Days”, New York, 1934; ed. it. “Giorni in Birmania”, Milano, 1948. “A Clergyman’s Daughter“, Londra, 1935; ed. it. ”La figlia del reverendo“, Milano, 1969. “Keep the Aspidistra Flying“, Londra, 1936; ed. it. ”Fiorirà l’aspidistra“, Milano, 1960. “The Road to Wigan Pier“, Londra, 1937; ed. it. ”La strada di Wigan Pier“, Milano, 1960. “Homage to Catalonia”, Londra, 1938; ed. it. “Omaggio alla Catalogna”, Milano, 1948. “Coming Up for Air”, Londra, 1939; ed. it. “Una boccata d’aria”, Milano, 1966. “Inside the Whale”, Londra, 1940. “The Lion and the Unicorn”, Londra, 1941. “Animal Farm”, Londra, 1945; ed. it. “La fattoria degli animali”, Milano, 1947. “Critical Essays”, Londra, 1946. “The English People”, Londra, 1947. “Nineteen Eighty–Four”, Londra, 1948; ed. it. “1984”, Milano, 1950. “Shooting an Elephant”, Londra, 1950. “Such, Such Were the Joys”, New York, 1953. “England Your England”, Londra, 1953. “Collected Essays”, Londra, 1961. “Decline of the English Murder and Other Essays”, Harmondsworth, 1965. “The Collected Essays, Journalism and Letters”, a cura di Sonia Orwell e Ian Angus, 4.
volumi, Londra, 1968; in italiano è apparsa una scelta, a cura di Enzo Giachino, “Tra sdegno e passione”, Milano, 1977. “The Freedom of the Press”, articolo inedito apparso per la prima volta sul «Times Literary Supplement», 15 settembre 1972.
PARTE PRIMA. CAPITOLO 1. Il primo suono la mattina era il calpestio degli zoccoli delle operaie giù per l’acciottolato. Prima di quello, suppongo, c’erano le sirene della fabbrica che non ero mai sveglio per udire. Eravamo generalmente in quattro nella camera da letto, che era una vera tana, con quell’aria degradata, provvisoria delle camere che non servono al loro giusto scopo. Anni prima lo stabile era stato una comune casa d’abitazione, e quando i Brooker l’avevano presa per attrezzarla a tripperia e pensione, avevano ereditato alcune delle suppellettili più inutili e non avevano mai avuto l’energia di rimuoverle. Noi dormivamo pertanto in quello che era ancora identificabile come un salotto. Dal soffitto pendeva un massiccio lampadario di vetro su cui la polvere si addensava al punto da sembrare pelame. E a ricoprire quasi del tutto una parete c’era un immenso, odioso rottame, una via di mezzo tra una credenza e una bancarella, con un mucchio di sculture in legno, cassettini e specchietti, e c’erano un tappeto, un tempo sontuoso, con le impronte di anni di secchio dell’acqua sporca, e una di quelle antiquate poltrone di crine, dalle quali uno invariabilmente scivola a terra ogni qual volta tenti di sedervi. La camera era stata trasformata in stanza da letto con l’introduzione a viva forza di quattro squallidi letti in mezzo a tutto l’altro ciarpame. Il mio letto si trovava nell’angolo parete più vicina alla porta. C’era un altro letto posto trasversalmente ai piedi del mio e a stretto contatto (doveva essere così, o la porta non avrebbe potuto aprirsi), così che ero costretto a dormire con le gambe piegate in due; se le tendevo, davo un calcio nella nuca dell’altro dormiente. Questo era un uomo anziano chiamato signor Reilly, meccanico, o qualcosa del genere, occupato in superficie in una delle miniere di carbone. Per fortuna doveva recarsi al lavoro alle cinque del mattino, così che potevo allungare le gambe e godermi un paio d’ore di sonno regolare dopo che se n’era andato. Nel letto di fronte dormiva un minatore scozzese che, rimasto infortunato lavorando in un pozzo (un grosso macigno lo aveva inchiodato sul terreno e c’erano volute due ore per toglierglielo di dosso), aveva ricevuto un’indennità di cinquecento sterline. Era un bell’uomo robusto sulla quarantina, dai capelli brizzolati e i baffetti, che assomigliava più a un sergente maggiore che a un minatore e soleva starsene a letto la mattina fino a tardi, fumando una corta pipetta. L’altro letto era occupato da tutta una serie di commessi viaggiatori, piazzisti e traffichini in genere, che generalmente non si fermavano più di un paio di notti. Era un letto a due piazze e di gran lunga il migliore della camera. Io stesso ci avevo dormito durante la mia prima notte nella pensione, ma ne ero stato abilmente allontanato per lasciare il posto a un altro cliente. Credo che tutti i nuovi venuti passassero la loro prima notte nel letto a due piazze, che era usato, per così dire, come esca. Tutte le finestre erano tenute rigorosamente chiuse da un
rosso sacchetto di sabbia incastrato nel fondo, e la mattina la stanza puzzava come la gabbia di un furetto. Non te ne accorgevi quando ti levavi, ma se uscivi dalla stanza e poi ci rientravi, il fortore ti colpiva in piena faccia come un ceffone. Non ho mai scoperto quante camere da letto contenesse la casa, ma, strano a dirsi, c’era un bagno, che risaliva a prima dei Brooker. A pianterreno c’era la solita cucina–soggiorno, con la sua immensa stufa sempre aperta, accesa giorno e notte. La illuminava un semplice lucernario, perché un lato di essa era la bottega vera e propria e l’altro comprendeva la dispensa, che si apriva in una specie di oscuro sotterraneo, dove si teneva la trippa. A bloccare parzialmente la porta della dispensa si stendeva un sofà informe su cui la nostra padrona di casa, signora Brooker, giaceva perennemente ammalata, avvolta in sudice coperte. Aveva una gran faccia giallo–pallida, ansiosa. Nessuno sapeva con certezza che male avesse; io sospetto che il suo unico disturbo vero fosse il troppo mangiare. Di fronte al fuoco c’era quasi sempre una corda con appesa della biancheria appena lavata e nel centro della stanza troneggiava il gran tavolo di cucina su cui la famiglia e tutti i pensionanti consumavano i pasti. Non ho mai visto quella tavola del tutto allo scoperto, ma ho visto i suoi vari involucri in diverse occasioni. Sul fondo, c’era uno strato di giornali vecchi, macchiati di Worcester sauce; sopra, una tela cerata bianca e appiccicosa; sopra, una coperta di saia verde; e sopra ancora una tovaglia di ruvido lino, mai cambiata e rarissimamente tolta. Generalmente, le briciole della prima colazione si trovavano ancora in tavola all’ora di cena. M’ero abituato a riconoscere le briciole individuali a vista e a seguire il loro procedere su e giù per la tavola di giorno in giorno. La bottega era un locale freddo e angusto. Sull’esterno della vetrina alcune lettere bianche, relitti di antiche pubblicità di cioccolata, erano sparpagliate come stelle. All’interno, una lastra di pietra su cui stavano le grandi e bianche pieghe di trippa, con quella sostanza grigia, fioccosa, detta “black tripe”, trippa nera, e gli spettrali, translucidi piedi di porco già bell’e bolliti. Era la comune tripperia di paese, del tipo detto “tripe and pea”, trippa e piselli, e non vi si vendeva molto altro, se si eccettui pane, sigarette e scatolame. “Tè diversi” era annunciato sulla vetrina, ma se un avventore chiedeva una tazza di tè, era solitamente rimandato con una scusa. Il signor Brooker, sebbene disoccupato da due anni, era minatore di mestiere, ma lui e sua moglie avevano gestito botteghe di vario genere, come attività secondaria, per tutta la loro vita. C’era stato un periodo in cui avevano avuto un “pub”1, ma era stata tolta loro la licenza per avere permesso il gioco di azzardo nel locale. Non credo che il loro commercio abbia mai reso; apparteneva a quel genere di persone che si occupano di commercio soprattutto per avere qualcosa di cui brontolare. Brooker era un uomo bruno, dalle ossa minute, acido, d’aspetto irlandese e sbalorditivamente sudicio. Non credo di avergli visto una sola volta le mani pulite. Con la signora Brooker perennemente invalida era lui che si occupava quasi totalmente della cucina e come tutti coloro che hanno sempre le mani sporche aveva un modo di maneggiare le cose peculiarmente intimo, prolungato. Se ti porgeva una fetta di pane imburrato, ci trovavi sempre la nera impronta di un pollice. Anche la mattina di buon’ora, quando scendeva nella misteriosa tana dietro il sofà della moglie a pescare la trippa, le sue mani erano già nere. Ho udito dagli altri pensionanti racconti paurosi sul luogo dove si conservava la trippa. Si diceva che gli scarafaggi vi scorrazzassero a sciami. Non so quante consegne di trippa fresca ordinassero i Brooker, ma certo a lunghi intervalli, perché la signora Brooker soleva datare da esse gli eventi della vita quotidiana. «Vediamo un po’, ho 1 Spaccio di bevande con annesso piccolo ristorante. (N.d.R.)
ordinato tre quantitativi di trippa congelata dopo quel fatto» eccetera eccetera. A noi pensionanti non veniva mai data trippa da mangiare. Allora credevo che lo si dovesse al fatto che la trippa era troppo cara; mi sono poi convinto ch’era semplicemente perché la sapevamo troppo lunga in merito alla trippa. Gli stessi Brooker, m’ero accorto, non ne mangiavano mai. I soli inquilini permanenti erano il minatore scozzese, signor Reilly, due vecchi pensionati e un disoccupato di nome Joe: era il tipo di persona che non aveva cognome. Il minatore scozzese era uno scocciatore, appena lo si fosse conosciuto un po’. Come moltissimi disoccupati passava troppo tempo a leggere giornali, e se non lo si teneva a bada era capace di sproloquiare per ore e ore su argomenti come il “pericolo giallo”, gli infortuni in miniera, l’astrologia, il conflitto tra scienza e religione. I due vecchi pensionati erano stati scacciati dalle loro case, come al solito, dal “Means Test!2. Versavano i loro dieci scellini settimanali ai Brooker, e ricevevano in cambio il genere di trattamento che ci si può aspettare per dieci scellini; vale a dire, un letto in soffitta e pasti principalmente a base di pane e burro. Uno di loro era di tipo “superiore” e moriva di un male di natura maligna, cancro, credo. Scendeva dal letto soltanto nei giorni in cui andava a ritirare la pensione. L’altro, chiamato da tutti old Jack, era un ex minatore di settantotto anni, che aveva lavorato per più di mezzo secolo nei pozzi. Era sveglio e intelligente, ma, cosa abbastanza curiosa, sembrava soltanto ricordare le esperienze della sua infanzia ed avere dimenticato completamente le moderne tecniche meccaniche e i progressi degli scavi minerari. Soleva raccontarmi episodi di lotte con cavalli selvaggi nelle anguste gallerie del sottosuolo. Quando seppe che mi proponevo di scendere in alcune miniere di carbone, assunse un tono sdegnoso e dichiarò che un uomo della mia statura (sei piedi e due pollici e mezzo) non sarebbe mai riuscito a fare il “viaggio”; fu inutile dirgli che il “viaggio” era grandemente migliorato rispetto ai suoi tempi. Ma si mostrava cordiale con tutti e soleva salutarci tutti con un simpatico urlo di “Buonanotte, ragazzi!”, mentre si arrampicava su per le scale verso il suo letto, posto chi sa dove sotto i travicelli. Ciò che più ammiravo in old Jack era che non mendicava mai; verso la fine della settimana restava generalmente senza tabacco, ma rifiutava sempre di fumare quello degli altri. I Brooker avevano assicurato la vita dei due vecchi pensionati presso una delle compagnie da mezzo scellino alla settimana. Si diceva che li si fosse uditi chiedere ansiosamente all’assicuratore «quanto potesse vivere la gente quando avesse il cancro». Joe, come lo scozzese, era un gran lettore di giornali e passava quasi tutta la giornata nella biblioteca pubblica. Era il tipico disoccupato scapolo, una creatura dall’aria abbandonata, chiaramente cenciosa, con una faccia rotonda, quasi infantile, su cui era visibile un’espressione ingenuamente maliziosa. Sembrava più un povero bimbo trascurato che un uomo fatto. Suppongo che sia la completa mancanza di responsabilità che fa sembrare tanti di questi uomini più giovani della loro età. Dal suo aspetto, davo a Joe un ventotto anni e sbalordii nel sapere che ne aveva quarantatré. Aveva il gusto delle frasi sonore ed era molto fiero dell’astuzia con cui era riuscito a non sposarsi. Spesso mi diceva «Le catene matrimoniali sono troppo pesanti» con l’impressione, evidentemente, che questa fosse un’osservazione quanto mai sottile e peregrina. Il suo reddito totale si aggirava sui quindici scellini alla settimana, e ne pagava sei o sette ai Brooker per il letto. A volte lo vedevo prepararsi una tazza di tè sulla stufa della cucina, ma per il resto consumava i pasti fuori; pasti che dovevano essere, suppongo, principalmente di pane e margarina, con sacchetti di pesce e patatine fritte. 2 Tassa sul reddito. (N.d.T.).
Oltre a costoro, c’era poi una clientela volante di commessi viaggiatori della specie più povera, di attori girovaghi – sempre numerosi nel Nord dell’Inghilterra, perché quasi tutti i “pubs” maggiori assumono artisti di varietà per la fine di settimana – e produttori di abbonamenti giornalistici. Questa categoria era di un tipo che non avevo mai incontrato. Il loro lavoro mi sembrava così senza speranze, così scoraggiante che mi chiedevo come qualcuno potesse rassegnarvisi, quando la prigione si presentava come un’alternativa meno squallida. Erano assunti principalmente da periodici settimanali o domenicali che li inviavano di cittadina in cittadina, forniti di carte topografiche e con una lista delle strade che essi dovevano “lavorare” ogni giorno. Se non riuscivano a fare un minimo di venti abbonamenti al giorno, erano licenziati. Fino a quando mantenevano i loro venti ordini al giorno ricevevano un piccolo salario, due sterline alla settimana, mi pare; per una cifra di abbonamenti superiore alla ventina, percepivano una provvigione minima. La cosa non è poi così impossibile come sembra, perché nei distretti operai ogni famiglia acquista un settimanale da due penny e lo cambia con un altro dopo due o tre settimane; ma dubito che uno riesca a conservare un lavoro di quel genere molto a lungo. I giornali assumono poveri rottami umani, impiegati e commessi viaggiatori senza lavoro e altri disperati del genere, che per un po’ fanno sforzi frenetici e riescono a mantenere le vendite al minimo necessario; poi, appena il bestiale lavoro ha ragione di loro, stremandoli, sono licenziati e nuovi elementi sono assunti al loro posto. Ne conobbi due che lavoravano per uno dei settimanali più diffusi. Entrambi erano uomini in età con famiglia a carico, e uno anzi era nonno. Si arrabattavano dieci ore al giorno, sempre in piedi, “lavorando” le strade affidate loro, e poi restavano in piedi fino a tardi, la sera, a riempire moduli per qualche imbroglio che il loro giornale aveva organizzato: uno di quegli schemi per il quale ti viene “dato” un servizio di terracotta se sottoscrivi un abbonamento di sei settimane e insieme mandi anche un vaglia di due scellini. Quello grasso, il nonno, di solito si addormentava con la testa su un mucchio di moduli. Né l’uno né l’altro potevano permettersi la sterlina settimanale che i Brooker esigevano per la pensione completa. Pagavano una piccola somma per il letto e consumavano tutti vergognosi in un angolo della cucina dei pasti a base di pancetta e pane e margarina, tolti dal fondo delle loro valigie. I Brooker avevano un esercito di figli e figlie, gran parte dei quali se n’erano andati da un pezzo di casa. Alcuni erano in Canadà, «al Canadà» come soleva dire il signor Brooker. Avevano soltanto un figlio che viveva nei paraggi, un giovanottone di tipo porcino che, impiegato in un garage, veniva spesso a casa per i pasti. La moglie era presente tutto il santo giorno coi suoi due bambini e quasi tutto il bucato e la cucina erano sbrigati da lei e da Emmie, la fidanzata di un altro figlio, che lavorava a Londra. Emmie era una ragazza bionda, dal naso aguzzo e l’aria infelice, che, operaia in una delle fabbriche con un salario di fame, passava comunque tutte le sue sere in schiavitù nella famiglia Brooker. Venni a sapere che il matrimonio era continuamente rimandato e non ci sarebbe stato mai, probabilmente, ma il signor Brooker s’era già impadronito di Emmie come nuora e la rimproverava di continuo in quel particolar modo, guardingo e affettuoso, che hanno gli invalidi. Il resto delle faccende domestiche era sbrigato, o non sbrigato, dal signor Brooker. La signora Brooker ben di rado si levava dal suo sofà in cucina (vi passava anche la notte, oltre che la giornata) e si sentiva troppo male per fare qualunque cosa che non fosse la ingestione di pasti grandiosi. Era Brooker che attendeva al negozio, serviva ai pensionanti i pasti e “faceva” le camere da letto. Passava sempre con lentezza incredibile da un’odiata faccenda a un’altra. Spesso i letti
erano ancora da fare alle sei del pomeriggio e in qualunque ora del giorno avevi la probabilità d’incontrare sulle scale Brooker, con un vaso da notte pieno, ch’egli stringeva in una mano, il pollice ben dentro l’orlo. La mattina, se ne stava seduto accanto al fuoco con una tinozza d’acqua sporca, sbucciando patate alla velocità di un film al rallentatore. Non ho mai visto nessuno capace di sbucciare patate con un’espressione simile di accigliato risentimento. Potevi vedere l’odio per quel “maledetto lavoro da femmina“, come lui lo chiamava, fermentargli dentro, specie di amarissima linfa. Era uno di quegli uomini che possono rimasticare i loro rancori come in un rumine. Naturalmente, poiché me ne stavo in casa parecchio, ero venuto a sapere di tutti i guai dei Brooker, e di come ognuno li truffasse e si mostrasse ingrato con loro, e di come la bottega non rendesse e la pensione permettesse loro appena di vivere. In base al tenor di vita locale non si può dire che i Brooker se la passassero poi molto male, perché, in un modo che mi sfuggiva, Brooker stava eludendo il “Means Test“ e riceveva un sussidio dalla P.A.C., ma il loro principale piacere consisteva nel parlare dei loro guai a chiunque avesse la pazienza di ascoltarli. La signora Brooker aveva l’abitudine di lagnarsi per ore intere d’orologio, distesa sul sofà, flaccida montagna di grasso e di autocommiserazione, ripetendo le stesse cose all’infinito. «Sembra che non vengano più clienti da noi al giorno d’oggi. Non so proprio come sia. La trippa è là sul banco che aspetta, per giorni e giorni, ed è una trippa così bella, anche! Non è duro, sopportare una cosa simile, eh?» eccetera eccetera eccetera. Tutte le lamentazioni della donna finivano con quel «Non è duro, sopportare una cosa simile, eh?» come il ritornello d’una ballata. Certo, era vero che il negozio non rendeva. In tutta la bottega si respirava quell’inconfondibile atmosfera polverosa, infettata dalle mosche di un esercizio che sta andando in malora. Ma sarebbe stato del tutto inutile spiegare loro perché nessuno mettesse piede nella loro bottega, anche se qualcuno avesse avuto il coraggio di farlo; né il marito né la moglie erano in grado di capire che le defunte mosche della carne supine in vetrina dall’anno prima non sono favorevoli a un prospero commercio. Ma ciò che realmente li tormentava era il pensiero di quei due vecchi pensionati che vivevano in casa loro, usurpando lo spazio del pavimento, divorando cibarie e pagando soltanto dieci scellini alla settimana. Non credo che perdessero veramente dei soldi coi vecchi pensionati, anche se di certo il profitto di dieci scellini la settimana doveva essere molto ridotto. Ma ai loro occhi i due vecchi rappresentavano una specie di terribili parassiti, aggrappatisi a loro e viventi della loro carità. Potevano tollerare old Jack, perché se ne stava fuori di casa quasi tutto il giorno, ma detestavano profondamente quello che se ne stava sempre a letto, chiamato Hooker. Brooker aveva uno strano modo di pronunciarne il nome, senza l’H e con la U lunga: “Iuker”. Le lamentele che dovetti sentire a proposito del vecchio Hooker e della sua litigiosità, della noia di dovergli rifare il letto, di come egli «non volesse mangiare» questo e «non volesse mangiare» quello, della sua infinita ingratitudine e, soprattutto, dell’egoistica ostinazione con cui si rifiutava di morire! I Brooker ardentemente desideravano nel modo più manifesto che egli morisse. Quando ciò fosse accaduto, avrebbero potuto almeno riscuotere i soldi dell’assicurazione. Avevano l’aria di sentirselo dentro, occupato a succhiare la loro sostanza giorno dopo giorno, come se fosse stato un verme vivente nei loro intestini. A volte, Brooker sollevava lo sguardo dalle patate che stava sbucciando, cercava i miei occhi e con un’espressione di amarezza indicibile sul volto e uno scatto del capo verso il soffitto, verso la camera del vecchio Hooker «Che fregatura, eh?» diceva. Non c’era bisogno di dire di più; avevo già
saputo tutto sulle maniere e le abitudini del vecchio Hooker. Ma i Brooker avevano lamentele d’ogni genere nei riguardi di tutti i loro pensionanti, me compreso, naturalmente. Joe, percependo un sussidio, rientrava praticamente nella stessa categoria dei vecchi pensionati. Lo scozzese pagava una sterlina alla settimana, ma restava in casa quasi tutto il giorno e i Brooker non amavano «vederselo sempre tra i piedi per casa», per usare la loro espressione. I produttori di abbonamenti giornalistici erano fuori dalla mattina alla sera, ma i Brooker serbavano loro rancore perché si portavano a casa la cena, e perfino il signor Reilly, il loro miglior inquilino, era in disgrazia perché la Brooker diceva che la svegliava, quando scendeva da basso la mattina. Non riuscivano mai, si lagnavano perpetuamente, ad avere la categoria di pensionanti che avrebbero voluto: della classe fine, “commercianti per bene” che pagavano la pensione completa e restavano fuori tutto il giorno. Il loro cliente ideale avrebbe dovuto essere quello che pagava trenta scellini alla settimana e non rientrava che per coricarsi. Ho notato che la gente che fa pensione quasi sempre odia i suoi pensionanti. Vuole i loro quattrini, ma li considera degli intrusi e ha un modo di fare curiosamente guardingo, geloso, che in fondo è la determinazione di non permettere al pensionante di sentirsi troppo a casa sua. E’ il risultato inevitabile del cattivo sistema per cui il pensionante vive in casa di qualcun altro senza essere della famiglia. I pasti in casa Brooker erano uniformemente disgustosi. Per la prima colazione ti servivano due sottili fettine di pancetta affumicata con un pallido uovo fritto e pane e burro che spesso era stato tagliato la sera prima e sempre aveva impronte di pollice. Per quanto delicatamente provassi, non riuscii mai a persuadere Brooker a lasciarmi tagliare da me il mio pane e burro; intendeva porgermelo lui stesso, una fetta dopo l’altra, e ogni fetta artigliata saldamente da quel largo pollice nero. A colazione c’erano di solito quei pasticci di carne da tre penny che si vendono già bell’e pronti in scatola facevano parte, credo, delle scorte del negozio – con patate lesse e budino di riso. Per l’ora del tè, altro pane imburrato e focaccine dall’aspetto consunto che probabilmente erano state comperate come roba stantia dal panettiere. A cena era servito un po’ di pallido e cascante formaggio del Lancashire e biscotti. I Brooker definivano sempre riverentemente questi biscotti come “croccanti alla crema”à «Prendete un altro croccante alla crema, signor Reilly. Vi piacerà un croccante alla crema col formaggio»à sorvolando in tal modo sul fatto che c’era solo formaggio per cena. Alcune bottiglie di Worcester sauce e un barattolo semipieno di marmellata risiedevano in permanenza sulla tavola. Era cosa usuale spargere su ogni cosa, anche un pezzo di formaggio, della Worcester sauce, ma non ho mai visto nessuno sfidare il barattolo di marmellata, che era un ammasso indescrivibile di vischiosità e di polvere. La Brooker consumava i pasti separatamente, ma partecipava anche con uno spuntino a qualunque pasto fosse in corso e armeggiava con grande perizia per quello che lei chiamava “il fondo della pentola“, intendendo con ciò la tazza di tè più forte. Aveva l’abitudine di pulirsi continuamente la bocca con una delle sue coperte. Verso la fine della mia permanenza, ella cominciò a strappare brandelli di giornale per quello scopo e alla mattina il pavimento era spesso cosparso di pallottole di carta viscida, che vi restavano per ore e ore. L’odore della cucina era spaventoso, ma, come quello della camera da letto, uno finiva per non notarlo più dopo un po’. Mi colpì l’idea che, come pensione, quel posto dovesse essere normale nelle zone industriali, perché in complesso i pensionanti non si lagnavano. Il solo che per quel che ne so lo avesse mai fatto fu un piccolo popolano londinese, bruno e dal naso aguzzo, che viaggiava per conto di una marca di sigarette. Non era mai stato nel Nord prima d’ora e credo che fino a poco tempo prima avesse avuto un posto migliore e fosse avvezzo a scendere negli alberghi commerciali. Quella era stata la sua prima rivelazione di come
alloggiavano i ceti veramente poveri, la specie di posto in cui le misere tribù di piazzisti e commessi viaggiatori dovevano cercar rifugio nel loro interminabile girovagare. La mattina, mentre ci vestivamo (aveva dormito nel letto a due piazze, naturalmente), lo vidi guardarsi intorno per la squallida stanza con una specie di sbalordito disgusto. Incontrò il mio sguardo e improvvisamente pensò che fossi anch’io uno del Sud. «Luridi porci maledetti!» disse con passione. Dopo di che fece la valigia, scese da basso e con grande forza d’animo disse ai Brooker che quella non era la specie di casa a cui era abituato e che se ne andava all’istante. I Brooker non poterono mai capire perché. Furono sbalorditi e offesi. Quanta ingratitudine! Lasciarli così per nessuna ragione dopo una sola notte! Ne discussero poi in seguito innumerevoli volte, esaminando il problema da tutti i lati. E l’episodio andò ad arricchire la loro scorta di lagnanze. Il giorno in cui trovai un vaso da notte pieno sotto la tavola della prima colazione decisi di andarmene. Quel luogo cominciava a deprimermi. Non erano soltanto la sporcizia, i fetori e il cibo immondo, ma la sensazione di decadenza stagnante e priva di senso, la sensazione di essere penetrato in qualche recesso sotterraneo, dove la gente si aggirava strisciando, proprio come scarafaggi, in una interminabile confusione di lavori degradanti e di meschine lagnanze. La cosa più terribile in gente come i Brooker è il modo con cui ripetono all’infinito sempre le stesse cose. Si finisce per avere l’impressione che non siano affatto persone reali, ma specie di fantasmi che recitano perennemente la stessa futile filastrocca. Alla fine le chiacchiere di autocommiserazione della Brooker – sempre le stesse lamentele, all’infinito, e sempre terminanti con quel tremulo uggiolio di «Non è duro, sopportare una cosa simile, eh?» – mi rivoltò ancor più della sua abitudine di forbirsi la bocca con pezzi di giornali. Ma non serve a nulla dire che gente come i Brooker ispira semplicemente disgusto e cercare di non pensarci più. Perché essi esistono a decine e centinaia di migliaia; sono uno dei sottoprodotti caratteristici del mondo moderno. Non li si può trascurare, se si accetta la civiltà che li ha prodotti. Perché questo è parte almeno di ciò che l’industrialismo ha fatto per noi. Colombo navigò l’Atlantico, le prime macchine a vapore si misero vacillando in moto, i quadrati britannici stettero saldi sotto i cannoni francesi a Waterloo, i furfanti ciechi d’un occhio dell’Ottocento lodavano Dio e si riempivano le tasche; e questo è il risultato di tutto ciò: il labirinto dei quartieri miserabili e oscure cucine sul retro, con gente vecchia e malata che gira intorno ad esse, continuamente, come scarafaggi. E’ una sorta di dovere osservare e fiutare luoghi simili ogni tanto, soprattutto fiutarli, per non dimenticare che esistono; sebbene, forse, sia meglio non fermarcisi troppo a lungo. Il treno mi portò via, attraverso lo scenario mostruoso di cumuli di scorie, ciminiere, montagne di rottami di ferro, canali fetidi, viottoli di melma mista a cenere e incrocicchiati da orme di zoccoli. Eravamo in marzo, ma il tempo era stato orribilmente freddo e ovunque c’erano monticelli di neve annerita. Attraversando lentamente i sobborghi della città, passammo davanti a file interminabili di casette grigie, miserabili, ad angolo retto con la scarpata della ferrovia. Sul retro d’una di quelle case, una giovane donna, ginocchioni sulle pietre, frugava con un bastone nella tubatura di piombo che proveniva dall’acquaio interno e che suppongo fosse ingorgata. Ebbi tempo di vedere ogni cosa di quella donna, il grembiule di tela di sacco, i suoi goffi zoccoli, le braccia arrossate dal freddo. Ella alzò lo sguardo al passaggio del
treno, ed io fui quasi sul punto di incontrare quello sguardo. Aveva il volto pallido e tondo, la solita faccia esausta della ragazza di “slum” 3 che ha venticinque anni e ne dimostra quaranta, grazie ad aborti e fatiche; ed era improntata, quella faccia, alla più desolata, disperata espressione che io abbia mai visto. Mi colpì allora il pensiero che noi tutti ci sbagliamo quando diciamo che «Non è per loro la stessa cosa che sarebbe per noi» e che la gente cresciuta nelle baracche e in vicoli sordidi non può immaginare altro che baracche e vicoli sordidi. Perché ciò che vidi nella sua faccia non era l’ignara sofferenza di un animale. Ella era ben consapevole di quanto le stava accadendo, capiva chiaramente come me che terribile sorte sia doversene stare ginocchioni nel freddo intenso, sulle viscide pietre di un retro di baracca, a frugare con un bastone in un tubo di scarico intasato di sporcizia. Ma in breve il treno raggiunse l’aperta campagna, e ciò parve strano, quasi innaturale, quasi che l’aperta campagna fosse stata una specie di parco; ché nelle zone industriali si ha sempre la sensazione precisa che fumo e sporcizia debbano continuare per sempre e nessuna parte della superficie della terra debba sfuggire loro. In un piccolo paese come il nostro, sudicio e gremito, sei costretto a prendere la degradazione quasi come fatto sicuro. Cumuli di scorie e ciminiere sembrano un paesaggio più normale e probabile di prati e alberi, ed anche nelle profondità della campagna, quando pianti il forcone nel terreno ti aspetti quasi di portare alla luce una bottiglia spezzata o una scatoletta arrugginita. Ma là ora la neve si stendeva vergine di orme ed era così alta che soltanto le cime di pietra dei muretti di cinta si vedevano, serpeggiando su per le alture come viottoli neri. Rammentai che D. H. Lawrence, scrivendo di questo stesso paesaggio, o di un altro nelle vicinanze, ebbe a dire che i colli ricoperti di neve s’increspavano lontanando all’orizzonte “come muscoli”. Non era l’immagine che si sarebbe presentata alla mia immaginazione. Ai miei occhi la neve e i muriccioli neri erano soprattutto simili a un abito bianco striato da tutto un intrico di tubicini neri. Sebbene la neve fosse intatta, il sole splendeva fulgido e dietro i finestrini chiusi del vagone si aveva l’impressione che fuori facesse caldo. Secondo il calendario, eravamo in primavera, e qualche uccello aveva anche l’aria di crederlo. Per la prima volta in vita mia, in un tratto di terreno sgombro presso la linea ferroviaria, vidi amoreggiare delle cornacchie. Lo facevano sul terreno e non, come mi sarei aspettato, su di un albero. Il modo del loro corteggiarsi era curioso. La femmina se ne stava col becco aperto e il maschio le camminava intorno e sembrava imbeccarla. Ero in treno da meno di mezz’ora, ma sembrava che un’immensa distanza dividesse la cucina nel retro dei Brooker da quelle deserte distese nevose, dal fulgore del sole e dai grandi uccelli scintillanti. Il complesso dei distretti industriali è realmente una sola immensa città, con circa la stessa popolazione della Più Grande Londra, ma, fortunatamente, con una superficie maggiore; così che anche nel suo cuore c’è ancora spazio per tratti di nettezza e di decenza. Pensiero incoraggiante. Per quanto abbia tentato, l’uomo non è ancora riuscito a spargere la sua sporcizia dappertutto. La terra è così vasta e ancora così vuota che perfino nel sudicio cuore della civiltà trovi campi dove l’erba è verde anzi che grigia; forse, a cercarli, si potrebbero perfino trovare fiumi e torrenti con dentro pesci vivi anzi che scatole di salmone. Per molto tempo, forse un’altra ventina di minuti, il treno continuò a correre per l’aperta campagna, prima che la civiltà del suburbio cominciasse a stringersi intorno a noi, dopo di che comparvero le baracche della periferia, e infine le montagne di scorie, le 3 Viuzza sudicia di quartiere povero, ora sta a significare quartiere operaio miserabile. (N.d.R.)
ciminiere fumanti, gli altiforni, i canali e i gasometri di un altro centro industriale.
CAPITOLO 2. LA nostra civiltà, con buona pace di Chesterton, si fonda sul carbone, più completamente di quanto uno se ne renda conto solo quando abbia smesso di pensarci. Le macchine che ci conservano vivi, e le macchine che creano le macchine, dipendono tutte direttamente o indirettamente dal carbone. Nel metabolismo del mondo occidentale il minatore di carbone è secondo in importanza soltanto all’uomo che coltiva il suolo. E’ una specie di cariatide sudicia, sulle cui spalle poggia quasi tutto ciò che “non” è sudicio. Per questa ragione il processo vero e proprio mediante il quale si estrae il carbone val la pena di essere studiato, se ne avete l’occasione e la voglia di prendervi il disturbo. Allorché scendete in una miniera di carbone, è importante cercare di mettersi di fronte alla barriera di carbone, quando i “caricatori” sono all’opera. Ciò non è facile, perché quando la miniera è in attività i visitatori rappresentano una seccatura e non sono incoraggiati, ma se vi scendete in qualunque altro momento è possibile che ne veniate. via con un’impressione del tutto errata. Di domenica, per esempio, una miniera sembra quasi pacifica. Il tempo di scendervi è quando le macchine rombano e l’aria è nera di polvere di carbone e quando potete vedere veramente quello che i minatori devono fare. In occasioni del genere la miniera è un autentico inferno, o ad ogni modo corrisponde alla mia immagine mentale dell’inferno. Sono presenti quasi tutte le cose che uno s’immagina siano all’inferno: calore, frastuono, confusione, tenebra, aria fetida e, soprattutto, spazio intollerabilmente angusto. Tutto meno il fuoco, perché non c’è fuoco laggiù, se si eccettuino i fiochi raggi di luce delle lampade Davy e delle torce elettriche, che penetrano a stento nelle nuvole di polvere di carbone. Quando finalmente siate scesi nella miniera – e lo scendervi è già un lavoro in sé: lo spiegherò un po’ più innanzi – voi strisciate attraverso l’ultima fila di puntelli del pozzo e scorgete davanti a voi una nera parete scintillante, alta un metro e venti circa. E’ il fronte del carbone. Sul vostro capo si stende il liscio soffitto composto della stessa roccia da cui il carbone è stato estratto; sotto, avete ancora la roccia, così che la galleria in cui vi trovate è alta soltanto come lo stesso davanzale di carbone, forse non arriva neppure a un metro. La prima impressione di tutto, dominante ogni altra cosa per un po’, è il fracasso spaventevole, veramente assordante, della catena di rimozione, che porta via il carbone. Non potete spingere lo sguardo molto lontano, perché la nebbia fatta dalla polvere di carbone respinge il raggio luminoso della vostra lampada, ma potete vedere sui due lati la fila di uomini seminudi inginocchiati, un uomo ogni quattro o cinque metri, intenti a spingere la pala sotto il carbone caduto, per scagliarselo rapidamente sopra la spalla sinistra. Lo caricano sulla catena di trasporto, un nastro mobile di gomma, largo una sessantina di centimetri, che scorre a un metro o due alle loro spalle. Lungo questa fascia un fiume scintillante di carbone scorre costantemente. In una grande miniera trasporta via alcune tonnellate di carbone al minuto. Lo porta in qualche punto delle gallerie principali, dove è lanciato in cassoni capaci di mezza tonnellata e di là trascinato alle gabbie e issato fino all’aria aperta. E’ impossibile osservare i caricatori all’opera senza sentire una fitta d’invidia per la loro robustezza. E’ un terribile lavoro, il loro, una fatica quasi sovrumana a confronto delle capacità di una persona ordinaria. Perché essi non soltanto rimuovono quantità mostruose di carbone, ma lo fanno anche in una positura che raddoppia o triplica lo sforzo. Devono
restare inginocchiati per tutta la durata del lavoro – non potrebbero levarsi in piedi senza colpire col capo il soffitto – e si può facilmente constatare, provando, che sforzo tremendo questo significhi. Spalare il carbone è relativamente facile quando si stia ritti, perché si può usare il ginocchio e la coscia per spingere il carbone con la pala; ginocchioni, tutto lo sforzo si esercita sul braccio e i muscoli addominali. E le altre condizioni non rendono esattamente la situazione più facile. C’è il calore – varia, ma in alcune miniere è soffocante – e la polvere di carbone che vi riempie la gola e le narici e vi si raccoglie intorno alle ciglia, e l’interminabile fracasso del nastro trasportatore, che in uno spazio ristretto è come il fragore di una mitragliatrice. Ma i caricatori sembrano e lavorano come se fossero fatti di ferro. Sembrano realmente di ferro – statue ai ferro battuto – sotto la liscia polvere di carbone che si appiccica loro dalla testa ai piedi. E’ solo quando vedete i minatori nella miniera, nudi, che vi accorgete che splendidi uomini siano. La maggioranza sono piccini (uomini alti si trovano male in quel lavoro) ma quasi tutti hanno corpi magnifici; spalle ampie, che si restringono verso la vita esile e duttile, e piccole natiche pronunciate e cosce vigorose, senza una sola oncia di carne in più in tutto il corpo. Nelle miniere più calde, indossano soltanto un paio di mutandine leggere, zoccoli e ginocchiere; nelle miniere caldissime, soltanto zoccoli e ginocchiere. E’ impossibile dire, guardandoli, se siano giovani o vecchi. Possono avere qualunque età, fino a sessanta ed anche sessantacinque anni, ma quando sono neri e nudi sembrano tutti uguali. Il loro lavoro, non potrebbe farlo nessuno che non avesse il corpo di un giovanotto e, inoltre, la figura di un atleta: basterebbero poche libbre di carne in più alla cintura e quel continuo piegarsi sarebbe impossibile. Non potete dimenticare mai quello spettacolo una volta che lo abbiate visto: la fila di figure chine, inginocchiate, nere di fuliggine dappertutto, intente a spingere le enormi pale sotto il carbone con forza e rapidità stupende. Lavorano per sette ore e mezzo, teoricamente senza interruzione, perché non c’è periodo di riposo. In realtà, riescono a strappare un quarto d’ora circa in una data fase dei turni, per consumare il cibo che si sono portati, di solito un pezzo di pane e lardo e una bottiglia di tè freddo. La prima volta che mi trovai a osservare i caricatori al lavoro, posi inavvertitamente la mano su un disgustoso grumo di sostanza viscida sepolto nella polvere di carbone. Era una cicca di tabacco masticato. Quasi tutti i minatori masticano tabacco, che ha fama di essere buono contro la sete. Probabilmente dovrete scendere in numerose miniere di carbone prima di potervi fare un’idea abbastanza chiara dei processi in corso intorno a voi. Ciò si deve soprattutto al fatto che il semplice sforzo di andare da un luogo all’altro rende difficile osservare qualunque altra cosa. In un certo senso rappresenta perfino una delusione, a meno che sia qualche cosa di diverso da quello che vi aspettavate. Entrate nella gabbia, che è una cassa d’acciaio larga come una cabina telefonica e lunga due o tre volte. Contiene dieci uomini, ma i minatori la gremiscono come sardelle in scatola e un uomo alto non può starvi ritto. Le porte d’acciaio si chiudono su di voi e l’uomo che opera il meccanismo sopra vi cala nel vuoto. Subite il solito momentaneo attacco di nausea e provate quel senso d’imbottimento alle orecchie, ma non avete una eccessiva impressione di moto, finché non siate giunti presso il fondo, quando la gabbia rallenta così bruscamente che giurereste che ha ripreso a salire. Nel pieno della corsa la gabbia tocca probabilmente i cento chilometri orarii; in alcune delle miniere più profonde raggiunge anche di più. Quando strisciate fuori dalla gabbia in fondo al pozzo vi trovate forse a quattrocento metri nel sottosuolo. Vale a dire che avete sopra di voi una montagna di notevoli dimensioni; centinaia di metri di roccia compatta, ossa di animali estinti, terreni sedimentari, selci, radici di piante vive, prati verdi e mucche
che vi pascolano, tutto ciò sospeso sulla vostra testa e sostenuto soltanto da puntelli di legno non più grossi del vostro polpaccio. Ma a causa della velocità a cui la gabbia vi ha calato sul fondo e della tenebra assoluta attraverso cui avete viaggiato, non vi sentite più in basso di quel che vi sentireste in fondo alla metropolitana di Piccadilly. Quelle che sorprendono, d’altra parte, sono le immense distanze orizzontali che si devono percorrere sotto terra. Prima di scendere in una miniera, io mi ero vagamente immaginato che il minatore uscisse dalla gabbia e si mettesse a lavorare a uno strato di carbone a qualche metro di distanza. Non m’ero reso conto del fatto che prima ancora di iniziare il suo lavoro il minatore può dover strisciare per corridoi e passaggi lunghi come da London Bridge a Oxford Circus. Da principio, naturalmente, un pozzo di miniera scende direttamente presso il filone di carbone. Ma a misura che quel filone viene sfruttato e se ne raggiungono di nuovi, l’inizio dei lavori si fa sempre più lontano dal fondo del pozzo. Se il fondo del pozzo dista un chilometro e seicento metri dal fronte del minerale, questa è probabilmente una distanza media; quattro chilometri e ottocento metri sono una distanza abbastanza normale; si dice anche che ci siano miniere dove la distanza si aggira sugli otto chilometri. Ma sono distanze, queste, che non si possono paragonare a quelle in superficie. Perché durante tutto quel chilometro e seicento o quei quattro chilometri e ottocento che siano, non c’è un sol punto eccettuato il passaggio principale, e nemmeno molti in quello, dove un uomo possa starsene ritto in piedi. Non osservate l’effetto di ciò fino a quando non abbiate percorso qualche centinaio di metri. Vi avviate, un po’ incurvato, per la galleria fiocamente illuminata, larga da due a tre metri e alta sì e no un metro e sessanta, con le pareti fatte di lastre argillose, come quelle di pietra del Derbyshire. Ogni metro o due, ci sono puntelli di legno che sostengono i pali e i travi maestri; alcuni travi sono allacciati in curve fantastiche, sotto le quali strisciate tutti ingobbiti. Di solito è un guaio camminare sul terreno, tutto un alto strato di polvere o di aguzzi frammenti di lastre argillose, e in alcune miniere dove l’acqua trapela c’è tanto fango quanto in un cortile rustico. C’è anche il binario per i cassoni del minerale, come quello di una ferrovia in miniatura con traversine poste a una quarantina di centimetri l’una dall’altra, ma è terribilmente faticoso a camminarci sopra. Tutto è grigio di polvere argillosa; c’è un acuto odore di polvere, che sembra essere lo stesso in tutte le miniere. Vedete macchine misteriose la cui funzione non vi riesce mai d’imparare e fasci di attrezzi tenuti insieme da corde e a volte topolini che saettano via dal raggio luminoso delle lampade. Sono straordinariamente comuni, soprattutto nelle miniere dove esistono o sono esistiti dei cavalli. Sarebbe interessante sapere come siano arrivati fin là, innanzi tutto; forse, cadendo giù per il pozzo, poiché si dice che un topo possa cadere da qualunque altezza senza farsi male, essendo la sua area superficiale così estesa rispetto al suo peso. Vi stringete contro la parete per lasciar passare file di cassoni che procedono con lenti sussulti verso il pozzo, trainati da un interminabile cavo di acciaio, operato dalla superficie. Strisciate attraverso cortine di tela di sacco e massicci sportelli di legno, che, quando siano aperti, lasciano passare violente raffiche d’aria. Questi sportelli sono un elemento importante del sistema di aerazione. L’aria espulsa è risucchiata da un pozzo mediante ventilatori e l’aria fresca entra dall’altro automaticamente. Ma se lasciata a se stessa l’aria seguirà il circuito più breve, lasciando i settori più profondi della miniera non aerati; così che tutte le scorciatoie devono essere separate con pareti divisorie. Da principio camminare curvi è quasi un giuoco, ma è un giuoco che vi stanca presto. Io
sono handicappato dal fatto di essere eccezionalmente alto, ma quando il soffitto cala a un’altezza di un metro e venti e anche meno, la faccenda si fa grave per chiunque non sia un nanerottolo o un bambino. Dovete non solo chinarvi fino ad essere piegato in due, ma dovete anche tenere su la testa per tutta la marcia, così da poter vedere pali e travi e scansarli quando vi ci troviate sotto. Avete, pertanto, un continuo crampo al collo, ma questo è nulla in confronto al dolore che sentite alle ginocchia e alle cosce. Dopo meno di un chilometro il dolore si trasforma (non esagero) in un tormento inenarrabile. Cominciate a chiedervi se riuscirete mai ad arrivare a destinazione e, più ancora, come farete a tornare indietro. La vostra andatura diviene sempre più lenta. Giungete a un tratto di un paio di centinaia di metri dove il soffitto si presenta eccezionalmente basso e voi dovete ingegnarvi a procedere tutto acquattato. Quindi, ad un tratto, il soffitto si spalanca fino a un’altezza misteriosa – la scena di un’antica frana di roccia, probabilmente – e per una intera ventina di metri potete starvene ritto. Il sollievo è prepotente. Ma subito poi c’è un altro tratto basso di un centinaio di metri e quindi una serie di travi, sotto cui dovrete strisciare. Vi gettate carponi; anche questo è un sollievo dopo tanto procedere acquattati. Ma quando arrivate alla fine dei travi e cercate di rimettervi ritto, vi accorgete che le vostre ginocchia si sono messe temporaneamente in sciopero e si rifiutano di sollevarvi. Implorate una sosta, ignominiosamente, e dite che amereste riposare per un minuto o due. La vostra guida (un minatore) è comprensivo. Sa che i vostri muscoli sono ben diversi dai suoi. «Soltanto altri quattrocento metri» vi dice in tono incoraggiante; a voi pare che avrebbe anche potuto dire altri quattrocento chilometri; un minatore li percorrerebbe in poco più di venti minuti. Giunto finalmente alla meta, dovete stendervi sulla polvere di carbone a riacquistare un po’ di forza prima di poter addirittura guardare con un minimo d’intelligenza il lavoro in corso. Il ritorno è ancor peggio dell’andata, non solo perché siete già stanco, ma perché il viaggio di ritorno al pozzo è probabilmente in lieve salita. Passate per i tratti di soffitto basso alla velocità di una tartaruga e non vi vergognate di chiedere una sosta quando le ginocchia non vi reggono più. Perfino la lampada che portate diviene una seccatura ed è probabile che quando inciampate la lasciate cadere; dopo di che, se è una lampada Davy, si spegne. Passare strisciando sotto i travi diviene sempre più uno sforzo, e a volte vi dimenticate di chinarvi. Cercate di camminare a testa bassa, come fanno i minatori, e allora picchiate la spina dorsale. Perfino i minatori battono la spina dorsale abbastanza spesso. E’ questa la ragione per cui nelle miniere molto calde, dove è necessario stare seminudi, la maggior parte dei minatori hanno quelli che chiamano “bottoni giù per la schiena“, vale a dire un’ammaccatura permanente su ogni vertebra. Quando la galleria è in discesa, i minatori talvolta applicano gli zoccoli, che sono cavi sotto, ai binari dei carrelli e si lasciano scivolare a destinazione. Nelle miniere dove il “viaggio” è particolarmente difficoltoso, tutti i minatori portano bastoni lunghi una ottantina di centimetri, incavati sotto l’impugnatura. Nei tratti normali si tiene la mano in cima al bastone e nei luoghi bassi si fa scivolare la mano dentro l’incavo. Questi bastoni sono di grande aiuto e gli elmetti di legno – invenzione relativamente recente – sono un dono del cielo. Sembrano elmetti d’acciaio dell’esercito francese o italiano, ma sono fatti d’una sorta di midollo e leggerissimi, e così resistenti, che si può ricevere un colpo violentissimo sulla testa senza sentirlo. Quando finalmente tornate alla superficie siete stato forse tre ore sotto terra e avete percorso poco più di tre chilometri, ma siete più spossato di quel che sareste dopo una passeggiata di quaranta chilometri in superficie. Per
una settimana poi avete le cosce così irrigidite che scendere le scale è un’impresa durissima: dovete procedere di sghembo, secondo una tattica particolarissima, senza piegare le ginocchia. I vostri amici minatori notano la rigidezza della vostra andatura e vi canzonano per questo («vi piacerebbe lavorare in miniera, eh?»). Ma perfino un minatore che sia rimasto assente a lungo dal lavoro – per malattia, per esempio quando torna in fondo al pozzo, soffre come un dannato durante i primi giorni. Può sembrare che io esageri, sebbene nessuno che, sceso in un pozzo antiquato (e la maggior parte dei pozzi, in Inghilterra, sono di tipo antico), si sia spinto realmente fino al fronte del carbone sia disposto ad ammetterlo. Ma ciò che voglio sottolineare è questo: che quella terribile faccenda di andare e tornare strisciando, che per qualunque persona normale sarebbe già di per sé una durissima giornata di lavoro, non fa addirittura parte del lavoro del minatore, è semplicemente un extra, come lo è la quotidiana scarrozzata in metrò per l’impiegato della City. Il minatore fa questo viaggio di andata e ritorno, e inserite in mezzo come una fetta di prosciutto nel pane, ci sono sette ore e mezzo di lavoro forsennato. Non ho mai percorso molto più di un chilometro e seicento metri per arrivare al fronte del carbone; spesso si tratta di una marcia di quasi cinque chilometri, nel qual caso io e quasi tutti gli altri che non sono minatori non arriveremmo mai a destinazione. E’ questo il punto che abbiamo le maggiori probabilità di trascurare. Quando pensiamo a una miniera di carbone pensiamo alla profondità, al calore, alle tenebre, alle figure annerite che si accaniscono sul filone di minerale; non pensiamo, necessariamente, a quei chilometri di andata e ritorno. E poi c’è la questione del tempo. Un turno di miniera di sette ore e mezzo non sembra eccessivamente lungo, ma si deve aggiungervi almeno un’ora al giorno per il “viaggio”, più spesso due ore e talvolta tre. Naturalmente, il viaggio non è, dal punto di vista tecnico, lavoro, e pertanto il minatore non è pagato; ma è come lavoro, in quanto non ne differisce minimamente. Certo non è per i minatori quello che sarebbe per voi o per me. Sono avvezzi a farlo fin dall’infanzia, hanno i muscoli relativi bene induriti, e possono andare e venire sotterra con un’agilità impressionante e quasi sinistra. Un minatore abbassa la testa e corre, a passi lunghi e ondeggianti, per tratti dove io posso soltanto avanzare barcollando e incespicando. Sul luogo del lavoro li si vede a quattro gambe, girare intorno ai puntelli del pozzo quasi come cani. Ma è un gravissimo errore credere che vi si divertano. Ho parlato di ciò con gran numero di minatori e tutti ammettono che il “viaggio” è una fatica improba; in ogni caso quando li udite parlar della miniera fra loro, il “viaggio” è sempre uno degli argomenti che toccano. Si dice che una squadra smonta sempre più rapidamente di quanto non si sia recata sul lavoro; ciò non ostante tutti i minatori affermano che il venir via, dopo una dura giornata di lavoro, è particolarmente penoso. Fa parte del loro lavoro e vi si sottomettono di buon grado, ma rappresenta certo una sfacchinata. E’ paragonabile, forse, alla scalata di una piccola montagna prima e dopo la vostra giornata di lavoro. Dopo che siate disceso in due o tre miniere, cominciate ad avere un’idea più o meno vaga dei processi in corso nel sottosuolo. (Devo dire, a questo proposito, che non so assolutamente nulla dell’aspetto tecnico d’una miniera: sto semplicemente descrivendo quello che ho visto.) Il carbone si trova in filoni sottili fra enormi strati di roccia, così che, essenzialmente, il processo di estrazione è come quello di scavar fuori lo strato centrale da una cassata. In antico i minatori solevano staccare direttamente il carbone con piccone e leva di ferro, lavoro molto lento, perché il carbone, quando si trova allo stato greggio, è duro quasi come la roccia. Oggi il lavoro preliminare è fornito da una scavatrice elettrica, che come principio è un’immensa sega a nastro che, robustissima, opera orizzontalmente
anzi che verticalmente, con denti lunghi cinque centimetri buoni e grossi da uno a due centimetri. Può muoversi in avanti e all’indietro meccanicamente e gli uomini che la operano possono rotarla da una parte e dall’altra. Incidentalmente emette uno dei fragori più spaventosi che io abbia mai udito e solleva nuvole di polvere di carbone che rendono impossibile di vedere a più di un metro al massimo e quasi impossibile il respiro. La macchina viaggia lungo il fronte del carbone, scavando alla base del minerale e minandolo alla profondità di un metro e mezzo circa; dopo di che è relativamente facile estrarre il carbone alla profondità a cui è stato minato. Dove sia difficile a raggiungersi, lo si dovrà rompere con esplosivi. Un uomo fornito di perforatrice elettrica scava nel carbone dei fori a intervalli regolari, inserisce la carica di esplosivo, tappa il foro con argilla, corre a nascondersi dietro un angolo, se ce n’è uno nei paraggi (l’uomo dovrebbe ritirarsi a una distanza di circa venticinque metri) e dà la corrente elettrica. Ciò non mira a estrarre il carbone, ma soltanto a romperlo, allentarlo. Talvolta, naturalmente, la carica è troppo forte, e allora non soltanto fa saltar fuori il carbone, ma anche crollare il soffitto. Dopo che lo scoppio si è verificato, i “caricatori” (“fillers”) possono far rotolare fuori il carbone, spezzettarlo e caricarlo sul nastro di trasporto. Il carbone viene fuori dapprima in massi mostruosi che possono pesare fino a venti tonnellate. Il nastro di trasporto lo scarica nei cassoni e questi sono spinti nella galleria centrale e appesi a un cavo d’acciaio che gira interminabilmente e li trascina fino alla gabbia. Quindi vengono issati e, alla superficie, il carbone si seleziona passando attraverso crivelli e quando sia necessario è anche lavato. Nei limiti del possibile, la “terra” – vale a dire la pietra argillosa – si utilizza per la costruzione delle gallerie sottostanti. Tutto quello che non può essere utilizzato è mandato in superficie e ammonticchiato; di qui i mostruosi “cumuli di terriccio“ – i “dirt–heap” – simili a grigie montagne lebbrose, che sono lo scenario caratteristico dei distretti carboniferi. Quando il carbone è stato estratto alla profondità a cui la perforatrice è arrivata, il fronte del minerale è avanzato di cinque piedi, o un metro e sessantacinque. Si mettono nuovi sostegni per puntellare il tetto recentemente esposto e durante il nuovo turno il nastro di trasporto è smontato, portato innanzi di un metro e sessantacinque e riconnesso. Per quanto possibile, le tre operazioni di taglio, scoppio ed estrazione sono fatte durante tre turni separati, il taglio nel pomeriggio, lo scoppio la notte (c’è una legge, non sempre rispettata, che proibisce ch’esso si verifichi quando ci siano altri uomini al lavoro lì vicino) e il “carico” col turno del mattino, che dura dalle sei fino all’una e mezzo. Anche quando seguite il processo di estrazione del carbone, probabilmente lo seguite solo per breve tempo, ed è solo quando abbiate cominciato a fare qualche calcolo che vi rendete conto dello stupendo compito che i “caricatori” eseguono. Normalmente ogni uomo deve aprire uno spazio largo da quattro a cinque metri. La perforatrice ha minato il carbone alla profondità di un metro e sessantacinque, così che se il filone di minerale è alto un metro, un metro e venti, ogni uomo deve staccare, rompere e caricare sul nastro qualcosa tra sette e dodici metri cubi di carbone. Vale a dire che, attribuendo a un metro cubo un peso di ventisette “hundredweight” (1 hundredweight = chilogrammi 50,8), ogni uomo smuove e solleva carbone a una velocità prossima alle due tonnellate orarie. Ho appena l’esperienza sufficiente di piccozza e pala per avere un’idea di che cosa ciò significhi. Quando scavo una fossetta nel mio giardino, se rimuovo due tonnellate di terra in un pomeriggio, ho la sensazione di essermi guadagnato la cena. Ma la terra è sostanza molto trattabile a paragone del carbone e non devo lavorare inginocchiato, trecento metri sotto terra, in un calore soffocante e inghiottendo polvere di carbone a ogni respiro; né devo camminare per quasi due chilometri piegato in due prima di cominciare il lavoro. La fatica del minatore sarebbe tanto al di là delle mie forze quanto fare evoluzioni su di un trapezio o vincere la
Grande Lotteria Nazionale. Non sono un lavoratore manuale e voglia Dio che non lo sia mai, ma ci sono alcune specie di lavoro manuale che potrei fare, se lo dovessi. Al massimo potrei essere un discreto spazzino o un giardiniere piuttosto inetto o anche un bracciante agricolo d’infimo ordine. Ma in virtù di nessun concepibile sforzo o addestramento potrei divenire un minatore; quell’attività mi ucciderebbe in qualche settimana. Osservando dei minatori di carbone al lavoro, ci si rende conto momentaneamente di come gente diversa abiti in universi differenti. Laggiù, dove si scava il carbone, esiste una specie di mondo a sé stante di cui uno può vivere tutta la sua vita senza mai aver udito parlare. Probabilmente una maggioranza di persone preferirebbe addirittura non sentirne parlare. Tuttavia esso è la necessaria contropartita del nostro mondo alla superficie. Praticamente tutto ciò che facciamo, dal mangiare un gelato ad una traversata dell’Atlantico, e dal cuocere una pagnotta a scrivere un romanzo, sottintende l’uso del carbone, direttamente o indirettamente. Per tutte le arti della pace il carbone è necessario; se poi scoppia la guerra, lo è ancora di più. In tempo di rivoluzione il minatore deve continuare a lavorare o la rivoluzione dovrà fermarsi, perché la rivoluzione esattamente come la reazione abbisogna di carbone. Qualunque cosa possa accadere alla superficie, piccone e pala devono continuare senza una pausa, o almeno senza fermarsi per più di qualche settimana al massimo. Affinché Hitler possa marciare al passo dell’oca, il Papa denunciare il bolscevismo, i tifosi di cricket affollarsi da Lord’s e i poetini effeminati grattarsi reciprocamente la schiena, il carbone deve continuare a saltar fuori. Ma in complesso noi non ce ne rendiamo conto; sappiamo tutti che “dobbiamo avere il carbone”, ma ben di rado o mai ci ricordiamo che cosa significhi procurarsi il carbone. Sono qui, seduto a scrivere davanti al mio confortevole fuoco di carbone. E’ aprile, ma ho ancora bisogno di fuoco. Una volta ogni quindici giorni il carro del carbonaio si ferma davanti alla porta di casa e uomini in giubbotto di pelle portano il carbone in casa in robusti sacchi che sanno di pece e lo rovesciano sonoramente nella carbonaia sotto le scale. E’ solo molto di rado, quando faccio un preciso sforzo mentale, che connetto questo carbone a quel remoto lavoro nelle miniere. E’ semplicemente “carbone”, qualcosa che devo assolutamente avere; una sostanza nera che arriva misteriosamente non sai bene di dove, come la manna, solo che la devi pagare. Potreste molto facilmente attraversare in macchina tutta l’Inghilterra settentrionale senza ricordare una sola volta che a centinaia di metri sotto la strada che state percorrendo i minatori stanno staccando il carbone. E tuttavia in un certo senso sono i minatori che spingono avanti la vostra macchina. Il loro mondo illuminato dalla luce delle lampade è così necessario al mondo soprastante della luce del sole come la radice lo è al fiore. Non è passato molto tempo da quando le condizioni nelle miniere erano peggiori di ora. Sono ancora vive pochissime vecchie decrepite che in gioventù ebbero a lavorare sotterra, con una bardatura intorno alla vita e una catena che passava loro tra le gambe, striscianti a quattro gambe trascinando cassoni di carbone. Solevano continuare questo lavoro anche quando erano incinte. E anche ora, se il carbone non potesse essere prodotto senza donne incinte che lo trascinano avanti e indietro, immagino che glielo lasceremmo fare piuttosto che restare privi di carbone. Ma il più delle volte, naturalmente, preferiremmo dimenticare che esse lo fanno. La stessa cosa avviene con tutte le specie di lavori manuali; ci tengono in vita e noi dimentichiamo che esistono. Più di ogni altro, forse, il minatore può rappresentare il prototipo del lavoratore manuale, non solo perché il suo lavoro è così esageratamente orribile, ma anche perché è così virtualmente necessario e insieme così lontano dalla nostra esperienza, così invisibile, per modo di dire, che siamo capaci di
dimenticarlo come dimentichiamo il sangue che ci scorre nelle vene. In un certo senso è umiliante osservare dei minatori al lavoro: suscita in noi un dubbio momentaneo sulla nostra condizione di “intellettuali” e di persone superiori in senso generale. Infatti ci si convince, al meno nel momento in cui si guarda, che è solo perché dei minatori sudano sangue che le persone superiori possono rimanere superiori. Voi e io e il direttore del “Times Literary Supplement e i poetini effeminati e l’arcivescovo di Canterbury e il compagno X, autore di un “Marxismo per gli Infanti“, tutti noi dobbiamo “realmente” la relativa decenza della nostra vita a quei poveri schiavi sotterra, anneriti fino agli occhi, con le gole piene di polvere di carbone, che spingono avanti le loro pale con braccia e ventre dai muscoli d’acciaio.
CAPITOLO 3. Quando il minatore sale dal pozzo la sua faccia è così pallida che ci se ne accorge anche attraverso la maschera della polvere di carbone. Ciò si deve all’aria corrotta che ha respirato e quel pallore passerà dopo qualche minuto. Per un inglese del sud, nuovo ai distretti minerari, lo spettacolo della fine di un turno di alcune centinaia di minatori sciamanti fuori dal pozzo è insolito e lievemente sinistro. Le loro facce esauste, con la sporcizia annidata in tutte le cavità, hanno un’espressione feroce, selvaggia. In altri momenti, quando le loro facce sono pulite, non c’è molto che li distingua dal resto della popolazione. Camminano con andatura molto eretta, le spalle quadrate (una reazione al continuo procedere piegati in due sotto terra), ma in maggioranza sono uomini piuttosto bassi e gli abiti grossolani e fuor di misura nascondono lo splendore dei loro corpi. Ciò che più chiaramente si nota in loro sono le cicatrici azzurrastre sui loro nasi. Ogni minatore ha cicatrici azzurrastre sul naso e sulla fronte, e le porterà seco fino alla morte. La polvere di carbone, di cui l’aria sotto terra è satura, penetra in ogni taglio, in ogni ferita, quindi la pelle vi cresce sopra formandovi una chiazza bluastra simile a un tatuaggio, che infatti è. Alcuni dei minatori più anziani hanno per questo motivo la fronte venata come un formaggio Roquefort. Appena risalito alla superficie, il minatore si gargarizza con un po’ d’acqua per togliersi l’eccesso di polvere di carbone dalla gola e dalle nari, e poi se ne va a casa, a lavarsi o a non lavarsi, secondo il suo temperamento. Da quel che ho visto, direi che una maggioranza di minatori preferisce prima cenare e poi lavarsi, come farei anch’io nei loro panni. E’ cosa normale vedere un minatore seduto davanti al suo tè con una faccia da cantante negro, del tutto nera, eccettuate delle labbra straordinariamente rosse, ripulitesi attraverso l’atto del mangiare. Consumato il pasto, l’uomo prende una tinozza d’acqua piuttosto capace e vi si lava molto metodicamente, prima le mani, poi il petto, il collo e le ascelle, quindi gli avambracci, la faccia e il cuoio capelluto (è al cuoio capelluto che la sporcizia si attacca più tenacemente), infine la moglie impugna uno straccio di flanella e gli lava la schiena. L’uomo si è lavato soltanto la metà superiore del corpo e probabilmente il suo ombelico è ancora un nido di polvere di carbone, ma anche così ci vuole una discreta abilità a ripulirsi passabilmente con una sola tinozza d’acqua Per parte mia, ho constatato di aver bisogno di due bagni completi dopo essere sceso in una miniera di carbone. Il solo togliersi la sporcizia dalle ciglia è già cosa che richiede di per sé una decina di minuti. In alcune delle miniere di carbone più grandi e attrezzate ci sono dei bagni all’uscita dal pozzo. Ciò rappresenta un enorme vantaggio, perché non soltanto il minatore può lavarsi completamente ogni giorno, con ogni comodità e perfino nel lusso, ma nei bagni dispone
di due armadietti, dove può tenere gli abiti di lavoro separati da quelli ordinari, così che entro una ventina di minuti dal momento in cui è emerso nero come un negro, può andarsene ad assistere a una partita di calcio vestito a dovere. Ma sono relativamente poche le miniere che abbiano bagni, anche perché un filone di carbone non dura in eterno e non vale necessariamente la pena di costruire bagni pubblici ogni qual volta si apra un nuovo pozzo. Non riesco ad avere cifre precise, ma sembra probabile che al massimo un minatore su tre abbia accesso a un bagno di miniera. Probabilmente una grande maggioranza di minatori è completamente nera dalla cintola in giù per almeno sei giorni alla settimana. E’ loro quasi impossibile lavarsi completamente nelle loro case. Ogni goccia d’acqua deve essere riscaldata, e in un minuscolo tinello che contiene, oltre alla batteria di cucina e a una quantità di mobili, anche una moglie, alcuni bimbi e talvolta un cane, manca semplicemente lo spazio per un bagno vero e proprio. Anche con una tinozza è molto facile spruzzare i mobili. La gente del ceto medio ha la passione di dire che i minatori non si laverebbero propriamente nemmeno se potessero, ma questa è una sciocchezza, come è dimostrato dal fatto che, dove esistono bagni di miniera, praticamente tutti gli uomini li usano. Soltanto tra i minatori più vecchi sussiste il pregiudizio che a lavarsi le gambe ci «si busca la lombaggine». Inoltre, i bagni di miniera, là dove esistono, sono pagati interamente o parzialmente dai minatori stessi, attraverso il “Miners’ Welfare Fund 4. Talvolta sottoscrive la compagnia mineraria, talaltra il Fondo sostiene l’intera spesa. Ma senza dubbio ancor oggi le vecchie signore delle pensioni di Brighton continuano a ripetere che «anche a dare a quei minatori i bagni, li userebbero soltanto per tenerci il carbone». In realtà è sorprendente che i minatori si lavino tanto regolarmente, dato il poco tempo che hanno a disposizione tra il lavoro e il sonno. E’ un grave errore credere che la giornata lavorativa di un minatore sia soltanto di sette ore e mezzo. Sette ore e mezzo sono il tempo passato in realtà sul lavoro, ma, come ho già spiegato, si deve aggiungere a questo il tempo impiegato a “viaggiare”, che raramente è meno di un’ora e può spesso richiedere tre ore. Per giunta, moltissimi minatori devono impiegare un considerevole periodo di tempo nel raggiungere il pozzo o nel tornarsene a casa. Ovunque nei distretti industriali c’è un’acuta carenza di case ed è soltanto nei minuscoli villaggi minerari, là dove il villaggio sia raggruppato intorno al pozzo, che gli uomini possono avere la sicurezza di abitare presso il lavoro. Nelle cittadine minerarie più grandi, che ho visitato, quasi tutti si recavano al lavoro in autobus; una mezza corona alla settimana sembrava essere la somma normale da spendersi per il trasporto. Un minatore in casa del quale abitavo lavorava nel turno del mattino, che era dalle sei all’una e mezzo. Doveva alzarsi ogni mattina alle quattro meno un quarto e non rincasava prima delle tre del pomeriggio. In un’altra casa dove ho abitato un ragazzo di quindici anni lavorava nel turno di notte. Usciva per recarsi al lavoro alle nove di sera e rincasava alle otto del mattino, faceva colazione e poi se ne andava subito a letto, dove dormiva fino alle sei del pomeriggio; così che il tempo per lo svago e il divertimento di cui poteva disporre era di circa quattro ore al giorno: in realtà molto meno, quando si deduca il tempo per lavarsi, mangiare e vestirsi. Gli adattamenti a cui deve sottoporsi la famiglia di un minatore che passi da un turno di lavoro a un altro devono essere penosi all’estremo. Se il capo famiglia lavora nel turno di notte, rincasa in tempo per la prima colazione, se nel turno del mattino torna a casa verso la metà del pomeriggio, e se nel turno pomeridiano ritorna nel cuor della notte; e in ogni caso, naturalmente, vuole il pasto principale della giornata appena rientrato. Noto che il 4 Fondo assistenza dei minatori. (N.d.R.)
rev. W. R. Inge nel suo libro “England” accusa i minatori di ingordigia. In base alle mie osservazioni, direi che mangiano incredibilmente poco. La maggioranza dei minatori con cui ho abitato mangiava ancor meno di me. Molti di loro dichiarano di non poter dare appieno la loro attività quotidiana se hanno consumato prima un pasto molto abbondante, e il cibo che portano seco rappresenta soltanto uno spuntino, di solito pane e grasso, con tè freddo. Lo portano in una specie di tegamino di latta chiamato “snap–can”, che essi tengono affrancato alla cintura. Quando un minatore torna a casa a notte tarda, la moglie lo attende alzata, ma quando il minatore è nel turno di mattina sembra che l’usanza per lui sia di prepararsi la prima colazione da sé. A quanto sembra, l’antica superstizione che sia cattivo segno vedere una donna prima di andare al lavoro nel turno di mattina non è ancora scomparsa del tutto. In antico, si dice, un minatore a cui fosse accaduto di incontrare una donna di buon mattino spesso le voltava le spalle e per quel giorno non si recava al lavoro. Prima di conoscere le zone carbonifere, condividevo l’illusione largamente diffusa che i minatori fossero pagati relativamente bene. Si sente liberamente affermare che un minatore è pagato dieci o undici scellini per ogni turno e dopo una piccola moltiplicazione se ne conclude che ogni minatore guadagna circa 3 sterline5 la settimana o 150 sterline annue. Ma l’affermazione che un minatore riceva dieci o undici scellini ogni turno è delle più ingannevoli. Tanto per cominciare, è soltanto il “produttore” di carbone vero e proprio che riceve questa cifra; un “manovale” per esempio, che si occupa del tetto, percepisce una mercede minore, di solito otto o nove scellini per turno. Inoltre, quando il “produttore” di carbone è pagato a cottimo, tanto per tonnellata estratta, come avviene in molte miniere, egli deve dipendere dalla qualità del carbone; un guasto alle macchine o una “falla” – vale a dire una striscia di roccia che interrompe la continuità del filone di minerale – possono privarlo dei suoi guadagni per un giorno o due di seguito. Ma in ogni caso non si deve mai pensare al minatore come a un operaio che lavori sei giorni la settimana per cinquantadue settimane l’anno. Quasi certamente ci sarà un discreto numero di giorni in cui sarà “lasciato a casa”. Il guadagno medio per turno prestato da ogni minatore di ogni età e d’ambo i sessi, in Gran Bretagna nel 1934 era di 9 scellini e 1 tre quarti di pence. (Dal “Collier Year Book and Coal Trades Directory” per il 1935.) Se ognuno avesse lavorato per tutto il tempo, ciò avrebbe significato che il minatore guadagnava un po’ più di 142 sterline l’anno, o quasi 2 sterline e 15 scellini la settimana. Il suo vero reddito, tuttavia, è di gran lunga inferiore a questo, perché 9 scellini e 1 tre quarti di pence è semplicemente un computo medio su turni di lavoro effettivamente prestato e non tiene conto dei giorni vuoti. Ho sotto gli occhi cinque buste–paga di un minatore dello Yorkshire, corrispondenti a cinque settimane – non consecutive – di lavoro prestato agli inizi del 1936. Facendone una media, il salario approssimativo settimanale che esse rappresentano è 2 sterline, 15 scellini e 2 pence; questa è una media di quasi 9 scellini e 2 e mezzo pence per turno. Ma queste buste–paga sono del periodo invernale, quando quasi tutte le miniere lavorano a pieno regime. A misura che la primavera trascorre, l’estrazione di carbone rallenta e un numero sempre più grande di minatori sospendono temporaneamente il lavoro, mentre altri ancora tecnicamente in attività sono lasciati a casa per un giorno o due ogni settimana. E’ ovvio pertanto che 150 sterline o anche 142 rappresentano una sopravvalutazione 5 Sterlina oro, corrispondente a 8 grammi, cioè a circa 7 mila lire attuali. (N.d.R.).
eccessiva del reddito annuo del minatore. In realtà, per l’anno 1934 il reddito medio approssimativo di tutti i minatori di Gran Bretagna fu soltanto di 115 sterline, 11 scellini e 6 pence. Variava considerevolmente da distretto a distretto, toccando punte massime di 133 sterline, 2 scellini e 8 pence in Scozia, mentre a Durham rimase lievemente inferiore a 105 sterline o poco più di 2 la settimana. Prendo queste cifre da “The Coal Scuttle”, del signor Joseph Jones, sindaco di Barnsley, Yorkshire. Il signor Jones aggiunge: “Queste cifre coprono il guadagno tanto dei giovani quanto degli adulti e tanto delle categorie più pagate quanto di quelle menoà ogni guadagno particolarmente elevato sarebbe incluso in queste cifre, come lo sarebbero il reddito di certi funzionari e di altri dipendenti a paga elevata, insieme con le somme più ragguardevoli pagate per lavoro straordinarioà ‘Le cifre, essendo delle medie, non illustrano la situazione di migliaia di operai adulti i cui guadagni furono sostanzialmente inferiori alla media e che percepirono soltanto da 30 a 40 scellini, o meno, la settimana’“. Il corsivo è del signor Jones. Ma si voglia osservare che anche queste misere paghe sono paghe approssimative, teoriche. Su di esse grava ogni specie di trattenute, dedotte settimanalmente dal salario del minatore. Ecco qui un elenco di trattenute settimanali datomi come tipico in un distretto del Lancashire: Assicurazioni (disoccup. e malattie): 1 scel. 5 pence Noleggio lampada: 6 pence Manutenzione attrezzi: 6 pence Controllo del peso del minerale: 9 pence Ambulatorio: 2 pence Ospedale: 1 pence Fondo Beneficenza: 6 pence Contributi sindacali: 6 pence Totale: 4 scel. 5 pence. Alcune di queste trattenute, come il Fondo Beneficenza e i contributi sindacali, sono, per così dire, responsabilità propria del minatore, altre sono imposte dalla compagnia mineraria. Non sono le stesse in tutti i distretti. Per esempio, l’iniquo imbroglio di far pagare al minatore il noleggio della sua lampada (a sei pence la settimana, egli si compera la lampada parecchie volte nel corso di un anno) non è diffuso dappertutto. Ma le trattenute paiono totalizzare sempre più o meno la stessa cifra. Nelle cinque buste–paga del minatore dello Yorkshire, il guadagno medio settimanale lordo è di 2 sterline, 15 scellini e 2 pence; il guadagno netto medio, dedotte le trattenute, è di sole 2 sterline, 11 scellini e 4 pence: una riduzione di 3 scellini e 10 pence alla settimana. Ma la busta–paga, naturalmente, registra soltanto trattenute che sono imposte da, o pagate attraverso, la compagnia mineraria; si devono poi aggiungere i contributi sindacali, che portano la riduzione totale a qualcosa più di quattro scellini. Probabilmente non è esagerato dire che trattenute di un genere e di un altro sottraggono quattro scellini circa dalla paga settimanale di “ogni” minatore adulto. Così che le 115 sterline, 11 scellini e 6 pence che rappresentavano il salario medio del minatore in tutta la Gran Bretagna nel 1934 devono realmente essere qualcosa più vicino alle 105 sterline. A titolo di compenso, molti minatori ricevono assegnazioni in natura, potendo acquistare carbone per uso personale a prezzo ridotto, solitamente otto o nove scellini la tonnellata. Ma secondo il signor Jones succitato «il valore medio di tutte le assegnazioni in natura nella totalità della nazione non supera le quattro pence al giorno». E queste quattro pence al giorno hanno come contropartita, in molti casi, la somma che il minatore deve spendere in mezzi di trasporto da e per il pozzo. Così, prendendo l’industria carbonifera nel suo insieme, la somma che il minatore può realmente portare a casa e chiamare sua non supera in media, e forse non raggiunge nemmeno, le due sterline alla settimana. Frattanto, quanto carbone produce il minatore medio?
Il tonnellaggio di carbone estratto annualmente per persona occupata nelle miniere sale costantemente se pur piuttosto lentamente. Nel 1914 ogni minatore produsse, in media, 253 tonnellate di carbone; nel 1934 ne ha prodotte 280 6. Questa naturalmente è una cifra media per minatori d’ogni genere; quelli che lavorano realmente intaccando il fronte del carbone, ne estraggono una quantità enormemente maggiore: in molti casi, probabilmente, più di mille tonnellate a testa. Ma prendendo 280 tonnellate come cifra rappresentativa, val la pena di notare quale immenso risultato essa rappresenti. Se ne avrà un’idea più precisa comparando il lavoro di tutta una vita di minatore con quello di qualcun altro. Se io vivrò fino a sessant’anni avrò probabilmente prodotto una trentina di romanzi, o abbastanza da riempire due scaffali d’una libreria di formato medio. Nello stesso periodo, il minatore medio produce 8400 tonnellate di carbone; quantità di carbone sufficiente a pavimentare Trafalgar Square per una profondità di sessanta centimetri o a rifornire di combustibile sette numerose famiglie per più di un secolo. Delle cinque buste–paga che ho ricordato più sopra, non meno di tre sono timbrate con le parole “trattenuta per mortalità“ (”death stoppage“). Quando un minatore cade vittima di un infortunio mortale sul lavoro, gli altri minatori hanno la consuetudine di fare una sottoscrizione, generalmente di uno scellino a testa, a favore della vedova, sottoscrizione che viene raccolta dalla compagnia mineraria e automaticamente trattenuta sulle paghe. Il particolare significativo è dato qui dal “timbro di gomma”. La media degli infortuni fra i minatori è così elevata, a confronto con quella di altre attività, che le morti sono accettate come cosa normale, quasi come si farebbe in una guerra minore. Ogni anno un minatore su novecento circa muore sul lavoro e uno su seicento resta ferito; molte di queste ferite, naturalmente, sono di lieve entità, ma un discreto numero di esse corrisponde a invalidità permanente. Ciò significa che se la vita di lavoro di un minatore è di quarant’anni, egli ha soltanto sette probabilità su una di sfuggire a un infortunio e non molto più di venti su una di sfuggire a un infortunio mortale. Nessun’altra attività di lavoro ha un simile margine di rischio; la più rischiosa dopo quella mineraria è rappresentata dalla flotta commerciale, dato che un marinaio su poco meno di 1300 rimane vittima di un infortunio ogni anno. Le cifre che ho citato si riferiscono, naturalmente, a minatori nel loro insieme; per quelli che realmente lavorano sotto terra la proporzione degli infortuni sarebbe molto più elevata. Ogni minatore con una lunga anzianità di servizio al quale io abbia avuto occasione di parlare o era rimasto vittima egli stesso di qualche grave incidente o aveva visto morire qualcuno dei suoi compagni di lavoro; e non c’è famiglia di minatori che non abbia da raccontare di padri, fratelli o zii morti sul lavoro. («E allora precipitò per quasi duecentocinquanta metri e non ne avrebbero trovato nemmeno i pezzettini, se non avesse avuto addosso quel giorno una tela incerata nuova» eccetera eccetera.) Alcuni di questi racconti sono semplicemente raccapriccianti. Un minatore, per esempio, mi descrisse come un suo compagno di lavoro, addetto al puntellamento del soffitto della galleria – un “dataller”, come li chiamano in miniera fosse rimasto sepolto sotto una frana di roccia. gli altri accorsero in suo aiuto e riuscirono a liberargli la testa e le spalle, onde potesse respirare, e lui era vivo e scambiò con loro alcune parole. Quindi i minatori si avvidero che il soffitto stava per crollare di nuovo e dovettero fuggire per salvarsi; il “dataller” rimase sepolto per la seconda volta. Di nuovo essi dovettero accorrere e gli liberarono ancora la testa e le spalle, e anche questa volta l’uomo era vivo e scambiò altre parole con loro. Quindi il soffitto crollò per la terza volta e questa volta i compagni non poterono accorrere a liberargli il capo per parecchie ore, durante le quali, naturalmente, l’infelice era morto. 6 “The Coal Scuttle. Il Colliery Year Book and Coal Trades Directory“ fornisce una cifra lievemente superiore. (N.d.A.)
Ma il minatore che mi raccontò la storia (era rimasto sepolto egli stesso una volta, ma aveva avuto la fortuna di rimanere con la testa incastrata fra le gambe, così che c’era un minimo di spazio che gli aveva permesso di continuare a respirare) non riteneva che questa fosse delle più impressionanti. Il suo significato particolare, per lui, era che il puntellatore aveva sempre saputo che il punto in cui lavorava non era sicuro e ogni giorno s’era recata al lavoro aspettandosi una disgrazia. «E si era talmente fissato sulla disgrazia che aveva preso l’abitudine di baciare la moglie prima di recarsi al lavoro. E lei mi disse poi che erano più di vent’anni che non la baciava.» La causa più ovviamente comprensibile di disgrazie è l’esplosione del gas, che è sempre più o meno presente nell’atmosfera del pozzo. C’è una lampada speciale che si usa per saggiare il gas presente nell’aria, e quando il gas è presente in grandi quantità può essere rivelato dalla fiamma, che diviene azzurra, di un’ordinaria lampada Davy. Se lo stoppino può essere tirato su al massimo della sua estensione e la fiamma continua ad essere azzurra, la proporzione di gas è pericolosamente elevata; è, comunque, difficile a scoprirsi perché non si distribuisce uniformemente per tutta l’atmosfera, ma tende ad accumularsi in fratture e crepacci. Prima d’iniziare il lavoro un minatore spesso saggia la presenza del gas ficcando la sua lampada in tutti gli angoli. Il gas può esplodere per una scintilla durante operazioni di mine, o da una favilla fatta sprizzare da un piccone contro la roccia, o da una lampada difettosa, o da “gob fires“, fuochi a generazione spontanea che covano nella polvere di carbone e sono difficilissimi a spegnersi. I grandi disastri minerari che si verificano di tanto in tanto e nei quali parecchie centinaia di uomini rimangono uccisi, sono causati di solito da esplosioni; per cui si tende a pensare agli scoppi come al principale pericolo del lavoro in miniera. In realtà, la grande maggioranza delle disgrazie si deve ai normali pericoli d’ogni giorno nel pozzo; in particolare, a crolli del soffitto. Ci sono, per esempio, “pot–holes”, fori circolari da cui un sasso abbastanza grosso per uccidere un uomo fuoresce con la velocità di un proiettile. Con una sola eccezione, per quel che posso ricordare, tutti i minatori ai quali ho parlato hanno detto che i nuovi macchinari e in generale l’accelerazione del ritmo di produzione hanno reso il lavoro più pericoloso. Ciò può essere in parte dovuto a spirito conservativo, ma essi sono in grado di dare molte ragioni. Innanzi tutto, la velocità con cui ora si estrae il carbone significa che per parecchie ore di seguito un tratto di soffitto pericolosamente esteso rimane non puntellato. Poi c’è la vibrazione, che tende ad allentare tutto, e il rumore, che rende più difficile percepire segni di pericolo. Bisogna ricordare che la sicurezza del minatore sotto terra dipende largamente dalla sua abilità e sollecitudine. Un minatore sperimentato afferma di sapere in virtù d’una specie d’istinto quando il soffitto non è sicuro, per usare i suoi stessi termini, egli “può sentire il peso su di sé”. Può, per esempio, udire il lieve scricchiolio dei puntelli. La ragione per cui puntelli di legno sono ancora preferiti generalmente a sostegni di ferro è che un puntello di legno prossimo a crollare dà l’avviso scricchiolando, mentre una travatura metallica cede inaspettatamente. Il fracasso terribile delle macchine rende impossibile udire qualunque altro suono, e così il pericolo è accresciuto. Quando un minatore è ferito, è naturalmente impossibile soccorrerlo immediatamente. Giace schiacciato sotto alcuni quintali di pietra in qualche terribile cripta sotterranea, e anche dopo che sia stato estratto bisogna trascinarne il corpo per un chilometro o due, forse, per gallerie dove nessuno può tenersi ritto. Di solito, quando si parla a un uomo rimasto ferito in miniera, si scopre che l’incidente gli è occorso un paio d’ore prima che lo portassero alla superficie. A volte, naturalmente, avvengono incidenti anche alla gabbia.
La gabbia sfreccia per alcune centinaia di metri all’insù o all’ingiù alla velocità di un treno espresso ed è manovrata alla superficie da qualcuno che non può vedere ciò che avviene nel pozzo. Dispone di indicatori molto delicati per sapere fin dove si sia spinta la gabbia, ma è possibile ch’egli commetta un errore, e ci sono stati casi in cui la gabbia si è infranta in fondo al pozzo al massimo della sua velocità. E questo ci sembra un terribile modo di morire. Perché mentre la piccola scatola di acciaio scende sibilando nelle tenebre, deve venire un momento in cui i dieci uomini chiusi nel suo interno si accorgono che qualche cosa deve essere andato male; e i restanti secondi prima che essi finiscano in frantumi sono piuttosto penosi a pensarsi. Un minatore mi raccontò di essersi trovato una volta in una gabbia in cui qualcosa non funzionava più. Non rallentò quando avrebbe dovuto farlo e gli uomini nel suo interno pensarono che il cavo si fosse spezzato. In realtà, giunsero in fondo sani e salvi, ma quando l’uomo uscì dalla gabbia si accorse di avere un dente rotto; tanto aveva serrato i denti strettamente nell’angosciosa attesa del terribile momento. A prescindere dagli incidenti, i minatori sembrano godere ottima salute, e infatti così deve essere, quando si pensi agli sforzi muscolari a cui sono sottoposti. Sono facili ai reumatismi e un uomo debole di petto non resiste a lungo in quell’aria satura di polvere, ma la malattia industriale più caratteristica è il nistagmo. E’ una affezione degli occhi che costringe i globi oculari a bizzarre oscillazioni, appena si avvicinino a una fonte luminosa. E’ dovuta presumibilmente al prolungato lavoro nella semioscurità e talvolta culmina nella cecità totale. I minatori invalidati in questo o qualunque altro modo sono risarciti dalla compagnia mineraria, talvolta con una somma globale, talaltra con una pensione settimanale. Questa pensione non supera mai i ventinove scellini alla settimana; se è inferiore ai quindici scellini, l’infortunato può anche percepire qualcosa dal sussidio disoccupati o dalla P.A.C. Se fossi un minatore invalido per cause di servizio, preferirei senz’altro la somma globale, perché comunque saprei allora di avere avuto i miei quattrini. Le pensioni per invalidità non sono garantite da nessun fondo statale, così che se la compagnia mineraria fallisse, con essa finirebbe anche la pensione del minatore invalido, anche se questi abbia il diritto di figurare tra gli altri creditori. A Wigan stetti per qualche tempo con un minatore affetto da nistagmo. Poteva vedere fino in fondo alla stanza, ma non molto di più. Aveva percepito un sussidio di ventinove scellini settimanali per gli ultimi nove mesi, ma la società mineraria parlava ora di metterlo in “sussidio parziale” di quattordici scellini la settimana. Tutto dipendeva dall’eventualità che il medico lo dichiarasse idoneo al lavoro leggero “in superficie”. Ma anche se il medico lo avesse dichiarato idoneo non ci sarebbe mai stato, inutile dirlo, lavoro leggero per lui, ma egli avrebbe potuto percepire il sussidio e la compagnia risparmiare quindi dici scellini settimanali. Osservando quell’uomo recarsi agli uffici della miniera per riscuotere il sussidio, fui colpito dalle profonde differenze che ancor oggi sono determinate dalla “condizione sociale”. Ecco là un uomo che, rimasto semicieco nel corso d’una delle attività più utili e redditizie, percepiva una pensione a cui aveva perfettamente diritto, ammesso che chicchessia abbia diritto a qualche cosa. E tuttavia non poteva, per così dire, “chiedere” la sua pensione, non poteva, per esempio, ritirarla quando e come avesse voluto. Doveva recarsi negli uffici minerari una volta la settimana a un’ora fissata dalla compagnia e quando era arrivato là era costretto ad attendere per ore nel vento gelido. Per quel che ne so, era anche tenuto a toccarsi il berretto e dimostrare la sua gratitudine a chiunque lo pagasse; ad ogni modo doveva perdere un pomeriggio e spendere sei pence in autobus. E’ molto differente per un membro della borghesia, anche
quando si tratta di un membro scalcagnato come il sottoscritto. Anche quando io sono sul punto di morire di fame ho certi diritti derivanti dalla mia condizione borghese. Non guadagno molto più di quanto guadagni un minatore, ma almeno i miei compensi sono versati nella mia banca signorilmente e posso ritirarli quando lo desideri. E anche quando il mio conto è esaurito, gli impiegati della banca sono ancora passabilmente cortesi. Questa faccenda di meschini disagi e mancanze di decoro, di essere tenuti ad aspettare in piedi, di dover fare ogni cosa secondo il comodo altrui è implicita nella vita della classe operaia. Mille influenze costringono di continuo l’operaio in una parte passiva. Egli non agisce, ma subisce l’azione altrui. Si sente schiavo di una misteriosa autorità ed è fermamente convinto che “quelli” non gli permetteranno mai di fare questo, quello, o quell’altro. Una volta, quando facevo il raccoglitore di luppolo domandai ai sudati raccoglitori (guadagnano un po’ meno di sei pence all’ora) perché non formassero un sindacato. Mi fu immediatamente risposto che “quelli” non lo avrebbero mai permesso. Chi erano “quelli”? domandai. Nessuno sembrava saperlo; ma evidentemente “quelli” erano personaggi onnipotenti. Un individuo d’origini borghesi vive la sua vita con qualche speranza di ottenere ciò che gli sta a cuore, entro limiti ragionevoli, si capisce. Di qui il fatto che in tempi difficili la gente “educata” tende ad andare al fronte; non è gente più dotata degli altri e la sua “educazione” è in generale del tutto inutile in sé, ma essi sono avvezzi a una certa dose di deferenza e conseguentemente hanno la sfrontatezza necessaria a un comandante. Che essi “andranno” al fronte sembra una cosa certa, sempre ed ovunque. Nella “Storia della Comune” di Lissagaray c’è un passaggio interessante in cui si descrivono le fucilazioni che si verificarono dopo la soppressione della Comune. Le autorità fucilavano i capi della sommossa e poiché non sapevano chi fossero i capi della sommossa, si dettero a sceglierli in base al principio che coloro appartenenti alle classi più elevate fossero i capi. Un ufficiale passava in rivista una fila di prigionieri, scegliendone i tipi che avevano l’aria più probabile. Un uomo fu fucilato perché aveva un orologio, un altro perché «aveva la faccia intelligente». Non amerei essere fucilato per avere una faccia intelligente, ma sono d’accordo che quasi in ogni rivolta i capi tendano ad essere gente con un minimo d’istruzione e d’educazione.
CAPITOLO 4. Quando ci si aggiri per le cittadine industriali si finisce per smarrirsi in labirinti di casette di mattoni annerite dal fumo, suppuranti in un caos informe intorno a vicoli fangosi e giardinetti cinerei, dove stanno pattumiere puzzolenti, file di biancheria mal lavata stesa ad asciugare e gabinetti semicrollanti. Gli interni di queste case sono sempre quasi identici, sebbene il numero delle stanze vari da due a cinque. Ogni casa ha un salottino quasi esattamente uguale, di dieci o quindici piedi quadrati, con un lato occupato dalla cucina, nelle più ampie c’è anche un retrocucina, nelle più piccole l’acquaio e la batteria delle pentole sono nel salotto. Dietro la casa c’è il giardinetto, o parte di un giardinetto suddiviso fra parecchie case, abbastanza ampio per la pattumiera e il gabinetto. Non una sola casa ha l’impianto dell’acqua calda. Credo che si possano percorrere centinaia di chilometri di strade abitate da minatori, ognuno dei quali, quando al lavoro, diventa nero dalla testa ai piedi ogni giorno, senza mai passare davanti a una casa in cui si possa fare il bagno. Sarebbe stato molto semplice fare un impianto d’acqua calda basato sulla cucina, ma il costruttore ha voluto forse risparmiare dieci sterline per ogni casa non facendolo, e poi quando queste case furono costruite nessuno immaginava che i minatori
abbisognassero di bagni. Perché va notato che queste case sono in maggioranza vecchie, vecchie almeno di cinquanta o sessant’anni, e moltissime di esse non sono adatte, giudicando in base a un criterio ordinario, ad essere abitate da esseri umani. Continuano ad essere affittate semplicemente perché non ve ne sono altre da scegliere. E questo è il fatto centrale in merito alle abitazioni nelle zone industriali: non che le case siano misere e squallide, malsane e prive di qualunque comodità, o che siano distribuite in miserabili quartieri incredibilmente sudici raccolti intorno a fonderie ruttanti, a canali fetidi e montagne di scorie che le inondano di fumo sulfureo – sebbene tutto questo sia perfettamente vero – ma semplicemente che non ci sono case a sufficienza. «Carenza di abitazioni» è una frase che si è largamente diffusa dopo la guerra 7, ma dice ben poco a chiunque goda di un reddito superiore alle dieci sterline settimanali, o anche alle cinque, quanto a questo. Dove gli affitti sono alti la difficoltà non consiste nel trovar casa, ma nel trovare inquilini. Percorrete pure qualunque strada di Mayfair e vedrete cartelli con “Affittasi” alla metà delle finestre. Ma nelle zone industriali la mera difficoltà di trovare una casa è una delle peggiori esasperazioni della povertà. Significa che la gente si adatterà a tutto, a ogni angolo e a ogni buco per quanto miserabili, al tormento degli insetti, dei pavimenti sfondati e delle pareti incrinate, a ogni estorsione da parte di padroni di casa spilorci e di agenti ricattatori, pur di avere un tetto sulla testa. Sono stato in case impressionanti, case in cui non vivrei una sola settimana nemmeno se mi si pagasse, e ho scoperto che gli inquilini vi abitavano da venti o trent’anni e speravano solo di aver la fortuna di morirvi. In generale, condizioni simili sono prese come naturali, ma non sempre. Vi sono persone che non sembrano rendersi conto del fatto che esistono cose come abitazioni decenti e considerano cimici e tetti sfondati come opere di Dio; altre si scagliano risentite contro i padroni di casa; ma tutte si aggrappano disperatamente alle loro case, temendo il peggio. Fino a quando la crisi delle abitazioni continuerà, le autorità non potranno far molto per rendere le case attuali più abitabili. Possono “condannare” una casa, ma non possono ordinare di abbatterla fino a quando l’inquilino non abbia un’altra casa ove andare; e così le case condannate rimangono in piedi e sono ancor peggio per il fatto di essere condannate, perché naturalmente il padrone non spenderà più un soldo per una casa che prima o poi sarà demolita. In una città come Wigan, per esempio, ci sono in piedi più di duemila case che sono state condannate da anni, e interi quartieri della città sarebbero condannati in blocco se ci fosse la minima speranza che altre case saranno costruite in loro sostituzione. Città come Leeds e Sheffield hanno molte migliaia di case che sono tutte di un tipo condannato, ma che rimarranno ancora in piedi per decenni. Ho visitato gran numero di case in varie città e villaggi minerari e preso appunti sulle loro caratteristiche essenziali. Credo che sia meglio dare un’idea delle loro condizioni trascrivendo qui qualche estratto, preso più o meno a caso, del mio taccuino. Sono soltanto brevi note e avranno senza dubbio bisogno di certe spiegazioni, che darò più avanti. Eccone qui alcune su Wigan: 1. Casa, nel quartiere di Wallgate. Tipo cieco, sul retro. Una camera a pianterreno, l’altra su. Camera soggiorno misura 12 piedi per 10, camera al di sopra lo stesso. Stanzino sotto le scale misura cinque piedi per cinque e serve da dispensa, retrocucina e carbonaia. Le finestre si aprono. Distanza della latrina, 50 metri. Fitto, 4 scellini e 9 pence, tributi, 2 scellini e 6 pence, totale, 7 scellini e 3 pence. 7 La prima guerra mondiale. Questo libro fu scritto nel 1937 (N.d.T.)
2. Un’altra, nei pressi. Misure come sopra, ma nessun sottoscala, semplicemente un recesso profondo due piedi contenente l’acquaio, niente spazio per la dispensa, eccetera. Fitto, 3 scellini e 2 pence, tributi, 2 scellini, totale, 5 scellini e 2 pence. 3. Un’altra come sopra, ma totalmente priva di sottoscala, soltanto lavandino in sala soggiorno, proprio dietro la porta d’ingresso. Fitto, 3 scellini e 9 pence, tributi, 3 scellini, totale, 6 scellini e 9 pence. 4. Casa nel quartiere Scholes. Stabile condannato. Una camera sopra, un’altra sotto. Camere 15 piedi per 15. Lavandino e pentole in salotto, carbonaia sotto le scale. Pavimento sfondato. Nessuna delle finestre si apre. La casa è decentemente asciutta. Il padrone di casa è un brav’uomo. Fitto, 3 scellini e 8 pence, tributi, 2 scellini e 6 pence totale, 6 scellini e 2 pence. 5. Altra casa nei pressi. Due camere sopra, due sotto e carbonaia. Le pareti vanno semplicemente a pezzi. L’acqua cade abbondantemente nelle camere superiori. Pavimento sfondato. Le finestre a pianterreno non si aprono. Padrone di casa cattivo. Fitto, 6 scellini, tributi, 3 scellini e 6 pence, totale, 9 scellini e 6 pence. 6. Casa in Greenough’s Row. Una camera sopra, due sotto. Sala soggiorno 13 piedi per 8. Le pareti tendono a crollare e in casa piove. Le finestre sul retro non si aprono, ma quelle sul davanti, sì. Dieci in famiglia con otto figli tutti d’età molto vicina. La corporazione cerca di sfrattarli per superaffollamento, ma non riesce a trovare un’altra casa dove alloggiarli. Padrone di casa cattivo. Fitto, 4 scellini, tributi, 2 scellini e 3 pence; totale, 6 scellini a 3 pence. Questo per quanto riguarda Wigan. Ho altre pagine dello stesso tipo. Eccone una su Sheffield, esempio tipico delle molte migliaia di case miserabili di Sheffield: Casa in Thomas Street, a tre piani, con una stanza per ogni piano. Cantina nel sottosuolo. Sala di soggiorno, 14 piedi per 10, e camere al piano di sopra corrispondenti. Lavandino in sala di soggiorno. L’ultimo piano non ha porta, ma dà direttamente sulle scale. Le pareti in sala soggiorno lievemente umide, quelle nelle stanze superiori vanno a pezzi e trasudano umidità da tutte le parti. La casa è così buia che si deve tenere accesa la luce tutto il giorno. Elettricità calcolata in 6 pence al giorno (probabilmente, un’esagerazione). Sei in famiglia, genitori e quattro figli. Il marito (sussidio della P.A.C.) è tisico. Un figlio all’ospedale, gli altri sembrano in buona salute. Gli inquilini abitano questa casa da sette anni. Sarebbero disposti a traslocare, ma non c’è nessun’altra casa disponibile. Fitto, 6 scellini e 6 pence, tributi compresi. Ecco qualche altro appunto su Barnsley: 1. Casa in Wortley Street. Due camere al piano superiore, una da basso. Acquaio e rami in sala di soggiorno, carbonaia nel sottoscala. Il lavandino è talmente consumato da essere quasi piatto e trabocca continuamente. Pareti non troppo solide. Luce a gas, con contatore a penny. Casa molto buia e la luce a gas valutata a 4 pence al giorno. Le camere superiori sono in realtà una sola grande stanza divisa in due da una tramezza.
Pareti in pessimo stato: quella della camera posteriore attraversata completamente da grossa crepa. Le intelaiature delle finestre vanno a pezzi, devono essere rinforzate con pezzi di legno. Piove in più punti. La fognatura passa proprio sotto la casa e d’estate puzza, ma la Corporazione «dice che loro non possono farci nulla». Sei persone abitano la casa, due adulti e quattro bambini, il maggiore dei quali quindicenne. Gli altri, meno uno, ricoverati in ospedale: sospetta tubercolosi. La casa è infestata da cimici. Fitto, 5 scellini e 3 pence, tributi compresi. 2. Casa in Peel Street. Due camere su, due giù e ampia cantina. Sala di soggiorno 10 piedi quadrati, con lavandino e rami. L’altra camera a pianterreno ha le stesse dimensioni, probabilmente concepita come salotto, ma usata come camera da letto. Camere al primo piano delle stesse dimensioni di quelle inferiori. Stanza di soggiorno molto buia. Luce a gas stimata a 4 pence e mezzo al giorno. Distanza dalla latrina, quasi 70 metri. Quattro letti nella casa per otto persone: due vecchi genitori, due ragazze adulte (la maggiore ha ventisette anni), un giovanotto e tre bambini. I genitori hanno un letto, il figlio maggiore un altro, e le rimanenti cinque persone si dividono gli altri due. Cimici molto aggressive: «Non le potete tenere a freno, quando fa molto caldo». Indescrivibile squallore nella camera da basso e puzzo quasi intollerabile al piano di sopra. Fitto, 5 scellini e 7 pence e mezzo, tributi compresi. 3. Casa a Mapplewell (piccolo villaggio minerario presso Barnsley). Due camere superiori, una a pianterreno. Camera di soggiorno 14 piedi per 12. Lavandino in camera di soggiorno. Intonaco screpolato e che si stacca dalle pareti. Forno senza ripiani. Gas che perde lievemente. Camere al primo piano ognuna 10 piedi per 8. Quattro letti (per sei persone, tutte adulte), ma «un letto non serve», probabilmente per mancanza di lenzuola e coperte. La camera più vicina alle scale non ha porta e le scale non hanno ringhiera, così che quando si scende dal letto ci si trova con un piede penzoloni nel vuoto e si può precipitare per tre metri sul piancito. II legno del pavimento è così marcio che uno può vedere attraverso di esso la camera sottostante. Cimici, ma «io le tengo a bada con la polvere per le pecore». La strada di terra battuta davanti a questi abituri è tutta un cumulo di fanghiglia e dicono che d’inverno sia intransitabile. Latrina di pietra a un’estremità del giardinetto in condizioni semirovinose. Gli inquilini sono domiciliati in questa casa da ventidue anni. Sono in arretrato di 11 sterline col fitto e stanno pagando 1 scellino in più alla settimana per pareggiare. Il padrone di casa ora non lo accetta più e ha iniziato le pratiche per lo sfratto. Fitto, 5 scellini, compresi i tributi. E così via, all’infinito. Potrei moltiplicare esempi di questo genere per ventine di volte, li si potrebbe moltiplicare per centinaia di migliaia, se chiunque decidesse di fare un’ispezione casa per casa attraverso i distretti industriali. Frattanto, alcune delle espressioni da me usate esigono una spiegazione. Case “back–to-back” sono case costruite in una, ogni lato della casa essendo la facciata di un’altra casa, così che se si passa davanti a una fila di quelle che sembrano dodici case, in realtà se ne vedono non dodici, ma ventiquattro. Le case di facciata danno sulla strada e quelle sul retro rispondono al giardinetto posteriore, e c’è soltanto una via d’uscita da ogni casa. L’effetto di tutto ciò è ovvio. Le latrine si trovano nel cortiletto sul retro, così che se abitate sul lato fronteggiante la strada, per recarvi alla latrina o all’immondezzaio, dovete uscire dalla facciata e fare tutto il giro dell’isolato, distanza che può arrivare fin quasi a duecento metri; se vivete nel retro, d’altra parte, la
vostra vista si stende su una fila di latrine. Ci sono anche case del tipo detto “blind back”, o retro cieco, che sono singole case, ma in cui il costruttore ha omesso di praticare una porta posteriore, per puro dispetto, evidentemente. Le finestre che si rifiutano di aprirsi sono una caratteristica peculiare delle vecchie cittadine minerarie. Alcune di queste cittadine sono così minate da antichi scavi che il terreno cede continuamente e le case sopra scivolano di lato. A Wigan ci si trova a passare davanti a intere file di case che sono slittate fino a raggiungere angoli incredibili, con le finestre che si trovano da dieci a venti gradi fuori dell’orizzontale. A volte, le facciate fanno pancia al punto che la casa sembra incinta di sette mesi. Può essere rifatta, ma anche la nuova facciata comincia in breve a gonfiarsi. Quando una casa si affloscia del tutto, allora le sue finestre si chiudono ermeticamente per sempre e la porta deve essere rifatta. Ciò non desta nessuna sorpresa locale. La storia del minatore che torna a casa dal lavoro e scopre che può entrare in casa soltanto abbattendo la porta d’ingresso con un’ascia è considerata buffa e divertente. In alcuni casi, ho annotato “padrone di casa buono” o “padrone di casa cattivo”, perché ci sono grandi variazioni in quel che gli affittuari di questi abituri dicono dei loro padroni di casa. Ho scoperto – forse, uno può anche aspettarselo – che di solito i piccoli proprietari sono i peggiori. Non fa piacere dir questo, ma si può capire perché sia così. Idealmente, il tipo peggiore di padrone di casupole operaie è un uomo grasso e perverso, preferibilmente un vescovo, che trae un immenso reddito da fitti estorti. In realtà, è una povera vecchia che ha investito i risparmi di tutta una vita in tre casupole miserabili, ne abita una e cerca di vivere con l’affitto delle altre due, non avendo mai, di conseguenza, un soldo per le necessarie riparazioni. Ma semplici appunti come questi valgono soltanto come promemoria per me stesso. A me, rileggendoli, rammentano tutto ciò che ho visto, ma non possono in se stessi dare un’idea precisa di quali siano le condizioni dominanti in quei terribili abituri del nord. Le parole sono cose tanto deboli e inadeguate. A che può servire una breve frase come «tetto che perde» o «quattro letti per otto persone»? il genere di cose su cui lo sguardo scivola, senza registrare nulla. Eppure quale quantità di miseria e di sofferenza può coprire! Prendiamo il problema del superaffollamento, per esempio. Spessissimo abbiamo otto e anche dieci persone che vivono in una casa di tre locali. Uno di questi locali è una sala di soggiorno e poiché probabilmente misura una dozzina di piedi quadrati e contiene, oltre alla batteria di cucina e al lavandino, un tavolo, alcune sedie e una credenza, non v’è spazio per un letto. Così che abbiamo otto o dieci persone che dormono in due piccole stanze, probabilmente al massimo in quattro letti. Se alcune di queste persone sono adulte e devono recarsi al lavoro, tanto peggio. In una casa, ricordo, tre ragazze adulte si dividevano lo stesso letto e tutte andavano a lavorare ad ore diverse, ognuna disturbando le altre quando si levava o si coricava; in un’altra casa, un giovane minatore che lavorava nel turno di notte dormiva di giorno in un lettino in cui un altro membro della famiglia dormiva di notte. C’è una difficoltà supplementare quando vi siano figli già grandi, dato che non si può far dormire adolescenti e ragazze nello stesso letto. In una famiglia che ebbi a visitare, c’erano padre, madre, figlio e figlia d’età intorno ai diciassette anni e soltanto due letti per l’intera famiglia. Il padre dormiva col figlio e la madre con la ragazza; era il solo accomodamento che eliminasse il pericolo di un incesto. C’è poi il tormento del tetto che lascia filtrare la pioggia e delle pareti che trasudano umidità, cosa che d’inverno rende alcune stanze quasi inabitabili. Ci sono gli insetti. Una volta che le cimici siano entrate in una casa, vi
rimangono fino al giorno del giudizio; non c’è modo di sterminarle. E poi, le finestre che non si aprono. Non ho bisogno di mettere in rilievo che cosa significhi ciò d’estate, in una stanzetta di soggiorno soffocante, dove il fuoco, su cui tutta la cucina è fatta, deve essere acceso più o meno di continuo. E poi ci sono le particolari pene implicite nelle case “back– to-back”. Una corsa di cinquanta metri per raggiungere il gabinetto o l’immondezzaio non è precisamente un incentivo a tenersi puliti. Nelle case di facciata – ad ogni modo in una viuzza secondaria, dove la Corporazione non interferisce – le donne si abituano a gettare le immondizie fuori della porta di casa, così che il fossetto di scolo è sempre ingombro di foglie di tè e croste di pane. E val la pena di considerare che cosa sia per un bimbo crescere in uno dei vicoli sul retro dove il suo sguardo è limitato da una fila di latrine e da un muro. In luoghi come questi una donna non è che una povera schiava, che sfacchina a un’infinità di lavori. Può tener su il morale, ma non può tener su il tenore della sua pulizia e del suo ordine personali. C’è sempre qualcosa da fare, senza comodità e quasi letteralmente senza spazio ove muoversi. Appena hai lavato la faccia a un bambino, ecco che un altro ha la faccia sporca; non hai ancora rigovernato le pentole e i piatti di un pasto che già devi preparare il successivo. Ho trovato grandi variazioni nelle case che ho visitato. Alcune erano decenti quanto era possibile aspettarsi, date le circostanze, altre erano così impressionanti che non spero di poterle descrivere adeguatamente. Tanto per cominciare, l’odore, elemento dominante ed essenziale, è indescrivibile. E poi, lo squallore e la confusione! Una tinozza piena d’acqua sudicia qua, un catino colmo di piatti sporchi là, stoviglie da lavare ammonticchiate in un angolo, pezzi di giornali sparsi dovunque, e al centro sempre la stessa terribile tavola coperta d’una tovaglia di tela cerata unta e vischiosa e ingombra di tegami, ferri da stiro, calze rammendate a metà, tozzi di pane muffito e di formaggio avvolto in carta sporca di giornale! E la congestione di una minuscola stanza, dove l’andare da una parete all’altra è una traversata complicata, tra suppellettili e mobili vari, con una fila di capi di biancheria che stesi ad asciugare vi sbattono in faccia a ogni vostra mossa e coi bambini spesso sotto i piedi come una colonia di funghi! Ci sono scene rimaste vividamente impresse nella mia memoria. La camera di soggiorno quasi nuda di una casupola in un piccolo villaggio minerario, dove l’intera famiglia era disoccupata e tutti sembravano denutriti; e la grossa famiglia di figlioli adulti, maschi e femmine, sdraiati senza scopo un po’ dovunque, tutti stranamente uguali nei rossi capelli, nelle splendide strutture e nei volti appuntiti, rosi dalla malnutrizione e dall’ozio; e un giovane alto, che, seduto accanto al fuoco, e troppo indifferente per accorgersi perfino dell’ingresso di uno sconosciuto, si denudava lentamente un piede d’una calza appiccicosa. Una squallida stanza a Wigan, dove tutti i mobili sembravano fatti con casse da imballaggio e doghe di botte e per giunta cadevano a pezzi; e una vecchia dal collo nero di fuliggine e i capelli sugli occhi la quale vituperava il padrone di casa in un accento irlandese misto di cadenze del Lancashire; e la di lei madre, d’oltre novant’anni d’età, che seduta in fondo alla stanza sul barile che le serviva da seggetta ci guardava vacuamente, con una faccia giallastra, incretinita. Potrei riempire pagine e pagine coi ricordi di simili interni. Naturalmente, lo squallore delle case di questa gente è a volte colpa loro. Anche se viveste in una casa “back–to-back” con quattro figli e un reddito complessivo di trentadue scellini e sei pence alla settimana dalla P.A.C. non ci sarebbe “necessità” di avere dei vasi da notte non vuotati in giro per la vostra camera di soggiorno. Ma è ugualmente certo che condizioni e ambiente non incoraggiano il rispetto di sé e il decoro personale. Il fattore
determinante è probabilmente il numero dei bambini. I migliori interni che io abbia visto erano sempre di case senza bimbi o di case in cui c’erano soltanto uno o due bambini; con, diciamo, sei bimbi in una casa di tre locali è assolutamente impossibile mantenere qualunque cosa in stato decente. Una cosa molto notevole è che le peggiori miserie non sono mai a pianterreno. Potreste visitare moltissime case, anche tra i più poveri dei disoccupati, e riportarne un’impressione errata. Questa gente, potreste riflettere, non può essere poi tanto male in arnese, se ha ancora una discreta quantità di mobili e di stoviglie. Ma è nelle stanze superiori che la desolazione della miseria si rivela in tutta la sua realtà. Se ciò sia perché l’amor proprio induce la gente ad attaccarsi fino all’ultimo ai mobili della loro sala di soggiorno, non so, ma certo molte delle stanze da letto che ho visto erano luoghi spaventevoli. Tra persone disoccupate da anni di fila direi che è l’eccezione avere qualcosa di simile a un cambio completo di lenzuola e coperte da letto. Spesso non c’è nulla che possa essere chiamato coperte, ma solo un mucchio di vecchi cappotti e di stracci d’ogni genere su una lettiera di ferro arrugginito. In tal modo il superaffollamento è aggravato. Una famiglia di quattro persone che conobbi, padre, madre e due figli, possedeva due letti, ma poteva usarne soltanto uno, perché non aveva sufficienti coperte, lenzuola e materassi per l’altro. Chiunque voglia vedere gli effetti della carenza di case nei loro aspetti più gravi dovrebbe visitare le orribili abitazioni–carovana, che esistono numerose in molte città settentrionali. Fin dalla fine della guerra, nella completa impossibilità di trovar casa, parte della popolazione traboccò in quartieri cosiddetti temporanei in carovane fisse. Wigan, per esempio, con una popolazione di circa 85000 anime, conta almeno 200 abitazioni– carovana, ognuna con una famiglia, forse per un totale di un migliaio di persone circa. Quante di queste colonie–carovana esistano per tutte le zone industriali sarebbe difficile affermare con precisione. Le autorità locali sono reticenti in merito e il censimento del 1931 sembra aver deciso di ignorarne l’esistenza. Ma per quel che io posso scoprire attraverso indagini personali, le si trova in massima parte nelle principali città del Lancashire e dello Yorkshire, e forse anche più a nord. La probabilità è che per tutto il settentrione dell’Inghilterra ci sono alcune migliaia, forse decine di migliaia di “famiglie” (non individui) che non hanno altra casa se non una carovana fissa. Ma la parola “carovana” è delle più ingannevoli. Evoca il quadro di un accampamento di zingari, intimo e raccolto, nella bella stagione, naturalmente, con fuochi di legna scoppiettanti, i bimbi che colgono more e biancheria multicolore, svolazzante da una fila di cordicelle. Le colonie–carovana di Wigan e Sheffield non sono niente di simile. Ho dato un’occhiata ad alcune di esse, ho esaminato quelle di Wigan con particolare attenzione e non ho mai visto uno squallore simile se non in Estremo Oriente. Infatti, quando le vidi, mi ricordai immediatamente dei sudici canili in cui ho visto abitare i “coolies” indiani in Birmania. Ma, a dire il vero, nulla in Oriente può essere altrettanto penoso, perché in Oriente non si ha il nostro freddo penetrante e vischioso con cui combattere, e poi il sole è un disinfettante. Lungo le rive del motoso canale di Wigan ci sono estensioni di terreno abbandonato su cui le carovane sono state scaricate come immondizie da un secchio. Alcune sono autentiche carovane zingaresche, ma decrepite e bisognose d’ogni specie di riparazioni. In maggioranza, sono vecchi autobus a un sol piano (gli autobus piuttosto piccini d’una decina di anni fa), a cui sono state tolte le ruote e che si reggono su rinforzi di legno. Alcune sono semplici furgoni con in cima delle stecche semicircolari, su cui è teso un
tendone, così che la gente dentro non ha che il tendone a dividerla dall’aria aperta. All’interno, queste abitazioni sono di solito larghe cinque piedi, alte sei (non sono riuscito a stare completamente ritto in nessuna di esse) e lunghe da sei a quindici piedi. Alcune, suppongo, sono abitate da una persona soltanto, ma non ne ho visto nessuna che contenesse meno di due persone e alcune di esse ospitavano famiglie numerose. Una, per esempio, di quattordici piedi di lunghezza, conteneva sette persone, sette persone in circa 450 piedi cubici di spazio, il che significa che ogni persona aveva come abitazione totale uno spazio di “gran lunga“ minore di quello d’un gabinetto pubblico. La sporcizia e la congestione di questi luoghi sono tali che non si possono immaginare bene se non avendoli saggiati coi propri occhi e soprattutto col proprio naso. Ognuno contiene una minuscola cucina da campo e quel po’ di mobilia che vi si può ficcare a viva forza: talvolta due letti, più spesso uno solo, in cui l’intera famiglia deve accucciarsi il meglio che può. E’ quasi impassibile dormire sul pavimento, perché l’umidità filtra dal basso, Mi hanno mostrato dei materassi che erano ancora umidi e spremuti alle undici della mattina. D’inverno fa così freddo che le cucine devono essere tenute accese giorno e notte, e le finestre, inutile dirlo, non si aprono mai. L’acqua proviene da un idrante comune all’intera colonia, e alcuni dei membri di questa devono fare da 150 a 200 metri per ogni secchio d’acqua. Manca qualunque impianto igienico. I più costruiscono un casotto che serva da latrina sulla minuscola striscia di terreno che circonda la loro carovana, e una volta la settimana scavano una profonda fossa in cui seppellire i rifiuti. Tutti coloro che ho visto in questi luoghi, specialmente i bambini, sono indicibilmente sporchi, e non dubito che siano anche pieni di pidocchi. Non potrebbe essere diversamente. Il pensiero che mi assillava, mentre andavo da una carovana all’altra, era: che cosa deve succedere in questi interni gremiti quando qualcuno muore? Ma questo, naturalmente, è il genere di domanda che non si osa fare. Alcune di queste persone vivono nelle loro carovane da parecchi anni. Teoricamente la Corporazione sta abolendo le colonie–carovana e trasferendone gli inquilini in case vere e proprie; ma dato che le case non sono costruite, le carovane rimangono in piedi. La maggioranza delle persone alle quali ho parlato aveva rinunciato all’idea di poter mai avere ancora un’abitazione decente. Erano tutti senza lavoro, e un posto e una casa sembravano loro ugualmente remoti e impossibili. Alcuni avevano l’aria d’infischiarsene; altri si rendevano perfettamente conto dell’atroce squallore in cui vivevano. M’è rimasta impressa la faccia di una donna, una faccia consunta come un teschio, su cui era un’espressione di sofferenza intollerabile e di degradazione. Ne dedussi che in quel terribile porcile, lottando per tenere pulita la sua numerosa covata di figli, ella doveva provare quello che proverei io se fossi tutto ricoperto di sterco. Bisogna ricordare che questa gente non sono zingari, sono onesti cittadini inglesi che hanno avuto tutti, meno i bambini nati nelle carovane, una casa, a suo tempo; inoltre, le loro carovane sono di gran lunga inferiori a quelle degli zingari e non offrono il grande vantaggio di essere mobili. Senza dubbio, ci sono ancora persone del ceto medio che ritengono come le “classi inferiori” non risentano di questo stato di cose e che, se dovessero trovarsi a passare col treno davanti a una colonia–carovana, ne dedurrebbero subito che la gente vi abita per sua elezione. Non discuto più ormai con questo genere di persone. Ma val la pena di notare che gli abitanti di una carovana non risparmiano nemmeno denaro, vivendoci, perché pagano più o meno gli stessi affitti che pagherebbero per le case. Non ho mai saputo di fitti inferiori ai cinque scellini settimanali (cinque scellini per 200 piedi cubici di spazio!) e
ci sono addirittura casi in cui l’affitto arriva ai dieci scellini. Qualcuno deve fare degli ottimi affari con queste carovane! Ma chiaramente la loro esistenza è dovuta alla carenza di abitazioni e non direttamente alla povertà. Una volta, parlando con un minatore, gli chiesi quando la crisi degli alloggi avesse cominciato a farsi acuta nel suo distretto; mi rispose: «Quando ce lo hanno detto» volendo dire che fino a epoca recente il suo tenor di vita era così basso che la popolazione riteneva quasi ogni grado di superaffollamento una cosa normale. Aggiunse che quando era bambino nella sua famiglia dormivano in undici in una stanza senza farci troppo caso e che in seguito, divenuto grande, era andato a stare con la moglie in una delle case vecchio stile “back–to-back”, in cui non soltanto dovevi percorrere duecento metri per andare alla latrina, ma spesso dovevi fare la fila, quando ci eri arrivato, dato che la latrina era in comune con trentasei persone. E quando sua moglie s’era ammalata del male che poi l’aveva uccisa, doveva sempre fare quel viaggio di duecento metri per andare al gabinetto. Questo, egli disse, era il genere di cose a cui la gente aveva dovuto adattarsi «finché non gliene avevano parlato». Non so se questo sia vero. Quel ch’è certo, è che nessuno ora ritiene tollerabile dormire in undici in una stanza e che perfino la gente con redditi comodi si sente vagamente turbata al pensiero degli “slums”, o quartieri operai. Da qui il gran parlare sui “nuovi alloggi” e la “demolizione degli ‘slums’” che si è fatto a intervalli fin dalla fine della guerra. Vescovi, uomini politici, filantropi e così via godono di parlare in tono pio della “demolizione degli ‘slums’”», perché così possono deviare l’attenzione da piaghe più gravi ancora e sostenere che abolendo le baracche si abolisce la povertà. Ma tutte queste chiacchiere hanno dato risultati sorprendentemente scarsi. Da quel che se ne può scoprire, la congestione non è migliorata, se mai è lievemente peggiore, di quel che non fosse una dozzina di anni fa. Vi sono certo grandi differenze nella velocità con cui le diverse città affrontano il problema dei loro alloggi. In alcune città le costruzioni edilizie sembrano essere giunte quasi a un punto morto, in altre procedono con ritmo serrato e il padrone di casa privato tende a scomparire. Liverpool, per esempio, è stata largamente ricostruita, soprattutto grazie agli sforzi della Corporazione. Anche Sheffield è in rapido corso di demolizione e di ricostruzione, anche se, forse, considerando la bestialità senza precedenti dei suoi quartieri operai, non abbastanza rapido8. Perché la ricostruzione edilizia abbia avuto in complesso un ritmo così lento e perché certe città possano contrarre prestiti allo scopo tanto più facilmente di altre, non so. A questi problemi dovrebbe rispondere chi sia meglio di me al corrente di come funzioni il meccanismo delle amministrazioni locali. Una casa della Corporazione costa normalmente dalle tre alle quattrocento sterline; costa meno quando sia costruita da “mano d’opera diretta” che quando sia costruita per contratto. Il fitto di queste case dovrebbe in media superare lievemente le venti sterline annue, esclusi i tributi, così che si sarebbe indotti a pensare che, anche tenendo conto delle spese straordinarie e degli interessi del prestito, dovrebbe convenire alla Corporazione costruire tante case quante possono essere affittate. In molti casi, naturalmente, dovrebbero essere abitate da gente sussidiata dalla P.A.C., così che le istituzioni locali si limiterebbero semplicemente a prendere soldi da una tasca per metterli in un’altra, vale a dire versando denaro sotto forma di sussidi e riprendendoselo sotto forma di fitto. Ma devono pagare il sussidio in ogni caso, e attualmente una parte di 8 Il numero di case della Corporazione in costruzione a Sheffield al principio del 1936 era di 1398. Per sostituire completamente l’area degli “slums”, si dice che Sheffield abbisogni di 100000 case. (N.d.A.)
quel che versano è incamerato dai padroni di casa privati. Le ragioni date per il ritmo troppo lento delle costruzioni sono la deficienza di fondi e la difficoltà di ottenere terreni da costruzione: le case della Corporazione, infatti, non sono erette gradatamente, ma a blocchi, talvolta di centinaia di case alla volta. Una cosa che sempre mi colpisce come misteriosa è che tante città settentrionali provvedono a costruirsi immensi e lussuosi edifici pubblici nello stesso tempo in cui hanno necessità assoluta, urgente di case d’abitazione. La città di Barnsley, per esempio, ha speso recentemente quasi 150000 sterline per una nuova sede del municipio, sebbene ammettesse di avere bisogno di almeno 2000 nuove case operaie, per non parlare dei bagni pubblici. (I bagni pubblici a Barnsley comprendono “diciannove” vasche di tipo antiquato, coperte parzialmente, e questo in una città di 70000 abitanti, quasi tutti minatori, nessuno dei quali ha il bagno in casa!) Con centocinquantamila sterline la città avrebbe potuto costruire 350 case della Corporazione e restare ancora con diecimila sterline da spendere per il palazzo del municipio. Tuttavia, come dico, non è mia intenzione comprendere i misteri dell’amministrazione locale. Mi limito a registrare il fatto che c’è un disperato bisogno di case e queste, in complesso, sono costruite con paralitica lentezza. Tuttavia, se ne costruiscono e i blocchi residenziali della Corporazione, con le loro innumerevoli file di casette rosse, tutte molto più simili fra loro di due piselli (donde è venuta questa espressione? I piselli hanno grande individualità) sono una caratteristica costante alla periferia delle città industriali. Quanto all’aspetto che esse hanno e ai confronti che si possono fare con le case degli “slums”, posso darne meglio un’idea riportando qui altri due estratti del mio diario. Le opinioni degli inquilini sulle loro case variano grandemente, così darò un estratto favorevole e un altro sfavorevole. Entrambi riguardano Wigan e tutt’e due le case del tipo più economico, “senza salotto”: 1. Casa del blocco di Beech Hill. “Pianterreno”. Ampia sala di soggiorno con camino e cucinetta, credenze e tavolo supplementare, pavimento a mattonelle. Piccola anticamera, cucina piuttosto ampia. Attualmente cucina elettrica noleggiata dalla Corporazione allo stesso prezzo di una cucina a gas. “Primo piano”. Due stanze da letto piuttosto grandi e una minuscola: adatta soltanto come ripostiglio, o camera da letto provvisoria. Bagno, gabinetto, con acqua calda e fredda. Un piccolo giardino. I giardini variano per tutto il blocco, ma tutti molto piccoli. Quattro in famiglia, genitori e due bambini. Il marito ha un buon posto. Le case si presentano costruite bene e sono piacevoli a guardarsi. Varie restrizioni, ad esempio è proibito tenere pollame o piccioni, prendere pensionanti, subaffittare o comunque speculare sulla casa senza permesso della Corporazione. (Il permesso è rilasciato con facilità nel solo caso dei pensionanti e in nessun altro). Gli inquilini sono molto soddisfatti della casa e se ne sentono fieri. Le case di questo blocco sono tutte ben tenute. La Corporazione provvede alle riparazioni, ma esige dagli inquilini che tengano la casa pulita, eccetera. Fitto, 11 scellini e 3 pence, inclusi tributi. Percorso in autobus per il centro, 2 pence. 2. Casa del blocco Welly. “Pianterreno”. Sala di soggiorno, 14 piedi per 10, cucina molto più piccola, minuscola
dispensa sotto le scale, stanza da bagno piccola ma buona. Cucina a gas, luce elettrica. Gabinetto esterno. “Primo piano”. Una stanza da letto, 12 piedi per 10, con piccolo caminetto, un’altra delle stesse dimensioni, ma senza caminetto, un’altra, 7 piedi per 6. La stanza da letto migliore ha un piccolo armadio a muro. Giardino, circa 20 metri per 10. Sei in famiglia, genitori e quattro figli, il maggiore dei maschi ha diciotto anni, la maggiore delle femmine ventidue. Nessuno lavora, meno il figlio maggiore. Inquilini molto scontenti. Le loro lagnanze sono: «La casa è fredda, umida, sferzata dalle correnti. Il caminetto in sala di soggiorno non dà calore e riempie la stanza di polvere, forse perché costruito troppo basso. Caminetto nella miglior camera da letto troppo piccolo per servire a qualche cosa. Le pareti al piano di sopra piene di crepe. Data la inutilità della minuscola camera da letto, 5 dormono in una sola stanza, 1 (il figlio maggiore) nell’altra». Giardini di questo blocco tutti trascurati. Fitto, 10 scellini e 3 pence. Distanza dal centro cittadino un po’ più di un miglio (non c’è autobus qui). Potrei moltiplicare gli esempi, ma questi due basteranno, poi che i tipi di case della Corporazione non variano molto da una località all’altra. Due cose sono immediatamente ovvie. La prima è che nel caso peggiore le case della Corporazione sono migliori degli “slums” che esse sostituiscono. Il semplice possesso di una camera da bagno e di un pezzetto di giardino compenserebbe quasi ogni svantaggio. La seconda è che esse hanno fitti molto più elevati. E’ cosa abbastanza comune essere sfrattato da una casa condannata, per la quale paga da sei a sette scellini la settimana, per vedersi assegnare una casa della Corporazione, dove dovrà pagarne dieci. Ciò tocca soltanto gli operai che hanno lavoro o lo hanno avuto fino a epoca recente, perché quando un uomo è sulle liste della P.A.C. il suo diritto è stabilito in misura di un quarto del sussidio da lui percepito, e se il fitto è superiore a quel quarto, il suo assegno è aumentato proporzionalmente; in ogni caso, ci sono certe categorie di case della Corporazione, nelle quali gente che percepisce il sussidio non può entrare. Ma ci sono altri modi in cui la vita in un blocco della Corporazione è cara, si sia occupati o no. Innanzi tutto, dati gli affitti più alti, le botteghe del blocco sono molto più care e scarseggiano di numero. Poi, in una casa relativamente ampia e isolata, lontana dalla muffita confusione dello “slum”, fa molto più freddo e bisogna bruciare più combustibile. Infine, c’è la spesa, specialmente per un uomo che abbia lavoro, di andare e venire dalla città. Quest’ultimo è uno dei problemi più lampanti del rinnovamento edilizio. L’abolizione degli “slums” significa una popolazione molto più diffusa. Quando si ricostruisce su vasta scala, ciò che effettivamente si fa è lo svuotamento del centro cittadino, per ridistribuirlo alla periferia. Tutto ciò è ottimo, in un certo senso; si fa uscire la gente da fetidi vicoli per portarla in luoghi dove abbia spazio per respirare; ma dal punto di vista della gente stessa, quel che si è fatto è stato di prenderla per andare a scaricarla a otto chilometri dal loro lavoro. La soluzione più semplice sarebbe quella degli appartamenti. Se la gente dovrà vivere nelle grandi città, farà bene a imparare a vivere sulla testa gli uni degli altri. Ma la popolazione operaia del settentrione non ha molta simpatia per gli appartamenti; anche dove questi esistono, sono sprezzantemente chiamati “dozzina”. Quasi tutti vi diranno che «vogliono una casa tutta loro» ed evidentemente una abitazione nel cuore di un
ininterrotto blocco di case lungo cento metri sembra a ognuno più «tutta sua» di un appartamentino posto a mezz’aria. Per tornare alla seconda delle due case della Corporazione che ho testè menzionato: l’inquilino si lamentava che la casa era fredda, umida e così via. Forse la casa era mal costruita, ma in modo ugualmente probabile l’uomo esagerava. Era venuto da un sudicio tugurio che, nel cuore di Wigan, m’era occorso di visitare precedentemente; mentre era là, l’uomo aveva fatto di tutto per ottenere una casa della Corporazione, e appena ottenutala ha cominciato a voler tornare nello “slum”. Ciò appare come un puro capriccio, ma nasconde un motivo di lagnanza perfettamente genuino. In moltissimi casi, forse la metà, ho scoperto che gli inquilini delle case della Corporazione non le amano in realtà. Sono lieti di abbandonare il fetore delle catapecchie in cui hanno vissuto, sanno che per i loro bambini è meglio avere spazio in cui giocare, ma non si sentono realmente a casa loro. Le eccezioni sono rappresentate solitamente da persone che hanno un buon posto e possono quindi permettersi di spendere un po’ di più per il carbone, le suppellettili e i trasporti urbani e che in ogni caso appartengono al tipo “evoluto”. Agli altri, tipici abitatori di “slums”, manca il fetido tepore dello “slum”. Si lagnano che «fuori, in campagna» vale a dire in periferia «muoiono di freddo». E’ un fatto che quasi tutti i blocchi residenziali della Corporazione sono notevolmente squallidi d’inverno. Alcuni, che ho visitato, appollaiati su pendici spoglie e gessose e spazzati da venti gelidi, sarebbero luoghi orribili in cui vivere. Non è che gli abitatori di “slums” non possano fare a meno della sporcizia e della promiscuità, come ama credere la borghesia panciuta. (Si veda, per esempio, la conversazione sulla demolizione degli “slums”, nello “Swan Song” di Galsworthy, in cui l’accarezzata convinzione del “rentier”, che è l’abitatore di “slum” a fare lo “slum” e non viceversa, è messa in bocca a un ebreo filantropo.) Si dia al popolo una casa decente e il popolo imparerà in breve a tenerla in modo decente. Inoltre, con una bella casetta in cui vivere il popolo impara ad avere più rispetto di sé e ad essere più pulito e i suoi figli possono cominciare a vivere con maggiori probabilità di riuscita. Ciò non ostante, in un blocco residenziale della Corporazione si respira un’atmosfera quasi carceraria e coloro che vi abitano ne sono perfettamente consapevoli. Ed è qui che ci si trova di fronte alla difficoltà centrale del problema degli alloggi. Quando si cammina per i fumosi quartieri operai di Manchester si pensa che basterà solo demolire quelle abominazioni e costruire case decenti al loro posto. Ma il guaio è che distruggendo gli “slums” si distruggono contemporaneamente altre cose. Di case c’è un bisogno disperato e non se ne costruiscono con rapidità sufficiente; ma nei limiti in cui il rinnovamento edilizio si verifica, si verifica – e forse è inevitabile – in un modo mostruosamente disumano. Non voglio dire soltanto che le case sono nuove e brutte. Tutte le case devono essere nuove a un dato momento, e a dire il vero il tipo di casa della Corporazione attualmente in costruzione non è poi tanto brutto a guardarsi. Alla periferia di Liverpool sorgono quelle che ammontano a intere cittadine, consistenti interamente in case della Corporazione, le quali sono esteticamente gradevoli; i blocchi di appartamenti operai nel centro della città, modellati, credo, sugli appartamenti operai di Vienna, sono edifici senza dubbio belli. Ma c’è qualche cosa di spietato e senz’anima in tutta la faccenda. Si prendano, per esempio, le restrizioni che vi affliggono in una casa della Corporazione. Non vi si permette di tenere la casa e il giardino secondo il vostro gusto: in alcuni blocchi c’è perfino un regolamento che impone l’obbligo d’una specie di siepe per ogni giardinetto. Non vi si consente di allevare pollame o piccioni. I minatori dello Yorkshire sono appassionati allevatori di piccioni viaggiatori; li tengono nel
giardinetto sul retro della casa e, la domenica, li tirano fuori e li fanno gareggiare. Ma i piccioni sono volatili disordinati e, naturalmente, la Corporazione li elimina. Le restrizioni sulle botteghe sono più severe. Il numero di botteghe in un lotto residenziale della Corporazione è rigidamente limitato e si dice che le preferenze vadano tutte alla Cooperativa e ai negozi a catena; ciò può non essere strettamente vero, ma certo questi sono i negozi che di solito vi si vedono. Tutto questo può già rappresentare un disagio notevole per il pubblico in generale, ma dal punto di vista del negoziante indipendente è un disastro. Molti piccoli esercenti sono stati completamente rovinati da qualche piano di rinnovamento edilizio che non ha tenuto conto della loro esistenza. Un’intera sezione della città è condannata in blocco; in breve le case sono demolite e la gente è trasferita in qualche lotto residenziale a miglia di distanza. In questo modo, tutti i piccoli esercenti del quartiere si vedono portar via l’intera clientela in un sol colpo, senza ricevere un soldo d’indennizzo. Non possono trasferire la loro bottega nel nuovo nucleo residenziale, perché anche se potessero permettersi il trasloco e l’affitto molto più elevato, probabilmente si vedrebbero rifiutare la licenza. Quanto ai “pubs” (le birrerie e liquorerie tipicamente inglesi), sono banditi quasi completamente dai lotti residenziali, e i pochi che rimangono sono malinconici locali in falso stile Tudor, allestiti dalle grandi fabbriche di birra e costosissimi. Per gente del ceto medio tutto ciò sarebbe un disturbo, vorrebbe dire dover fare a piedi un miglio per bere un bicchiere di birra, ma per una popolazione operaia, che usa il “pub” come una specie di circolo, è un grave colpo alla vita della collettività. E’ un notevole passo avanti trasferire degli abitatori di “slums” in case decenti, ma è anche una sfortuna che, per la particolare indole del nostro tempo, si ritenga anche necessario privarli degli ultimi vestigi della loro libertà. Il popolo stesso lo sente, ed è questo sentimento che esso razionalizza quando si lagna che le sue nuove case, di tanto migliori, come case, di quelle che ha abbandonate, sono fredde e incomode e prive di “domesticità”. Penso a volte che il prezzo della libertà non sia tanto un perenne vigilare quanto una perpetua sporcizia. Ci sono alcuni nuclei residenziali della Corporazione in cui i nuovi affittuari sono sistematicamente disinfestati prima di poter entrare nelle loro nuove case. Tutti i loro effetti personali, meno quelli che hanno indosso, sono tolti loro, esposti a vapori disinfettanti e mandati alla nuova casa. E’ una procedura che ha dei vantaggi, perché è un peccato che la gente debba portare le cimici in case nuovissime (una cimice vi seguirà dappertutto entro i vostri bagagli, appena ne abbia una mezza occasione), ma è anche il genere di cosa che vi fa desiderare che la parola “igiene” possa essere bandita dai dizionari. Le cimici sono un guaio, ma uno stato di cose in cui degli uomini siano disposti a farsi lavare come pecore è un guaio ancora peggiore. Ma forse, quando si tratti di demolizioni di “slums”, occorre accettare come normale una certa somma di restrizioni e di crudeltà. Tutto sommato, la cosa più importante è che la gente viva in case decenti e non in porcili. Ho visto troppi “slums” per cadere in rapimenti chestertoniani nei loro riguardi. Un luogo dove i bambini possano respirare aria pura e le donne avere quel minimo di comodità che risparmi loro un lavoro da schiave e un uomo un pezzetto di giardino ove zappare, deve essere migliore delle fetide viuzze di Leeds e Sheffield. Tirando le somme, i lotti residenziali della Corporazione sono migliori degli “slums”; ma solo di un piccolo margine. Quando mi occupavo del problema delle abitazioni ebbi a visitare numerose case, forse cento o duecento case in tutto, in varie cittadine e villaggi minerari. Non posso concludere questo capitolo senza ricordare la straordinaria cortesia e la cordialità con cui sono stato accolto dovunque. Non andavo solo avevo sempre qualche amico tra i disoccupati locali a
farmi da guida – ma anche così, é un’impertinenza andare a ficcare il naso nelle case di gente sconosciuta, chiedendo di vedere le crepe sulle pareti della stanza da letto. Ma tutti sono stati sbalorditivamente pazienti e hanno avuto l’aria di comprendere quasi senza spiegazioni perché li interrogassi e che cosa volessi vedere. Se una persona non autorizzata entrasse nella “mia” casa e cominciasse a chiedermi se dal tetto ci piove e se le cimici mi diano molto disturbo e che cosa penso del padrone di casa, molto probabilmente la manderei al diavolo. Ciò mi accadde solo una volta, e in questo caso la donna che interrogavo era lievemente sorda e mi prese per una spia delle tasse sul reddito; ma si raddolcì anche lei dopo un po’ e mi dette le informazioni che volevo. Mi si dice che sia di pessimo gusto per uno scrittore citare le recensioni dei suoi scritti, ma devo qui contraddire un recensore del “Manchester Guardian”, che dice a proposito d’un mio libro: “Domiciliato a Wigan o Whitechapel, il signor Orwell eserciterà sempre un infallibile potere: quello di chiudere gli occhi dinanzi a tutto ciò che è buono, per procedere al più appassionato vilipendio dell’umanità.“ Errato. Il signor Orwell è stato “domiciliato” a Wigan per un bel po’ e questo non gli ha ispirato nessun desiderio di vilipendere l’umanità. Ha amato profondamente Wigan, la sua gente, non il panorama. Infatti, ha una sola pecca da rimproverarle, ed è in merito al famoso “pilastro di Wigan”, che si era ripromesso di ammirare. Ahimè! Il “pilastro di Wigan” è stato demolito e non si conosce più con certezza nemmeno il punto in cui si levava.
CAPITOLO 5. Quando si vedono le cifre di disoccupazione aggirarsi intorno al valore di due milioni d’individui, è fatalmente facile interpretare ciò nel senso che due milioni di persone sono senza lavoro e il resto della popolazione se la passa relativamente bene. Confesso che fino a qualche tempo fa anch’io avevo l’abitudine di ragionare così. Solevo calcolare che, computando i disoccupati ufficiali a due milioni in cifra tonda e aggiungendo i bisognosi in genere e coloro che per una ragione o per un’altra non erano stati registrati, si poteva ritenere che il numero di persone denutrite in Inghilterra (perché chiunque percepisca il sussidio o si trovi in condizioni analoghe non mangia abbastanza) si aggirasse, al massimo, intorno ai cinque milioni d’individui. Questa è un’enorme sottovalutazione, perché, in primo luogo, le sole persone che figurano nelle cifre di disoccupazione sono quelle che realmente percepiscono il sussidio, vale a dire, in generale, capifamiglia. I familiari di un disoccupato non figurano sulla lista, a meno che essi pure non percepiscano un sussidio separato. Un funzionario del Labour Exchange mi disse che per ottenere il vero numero delle persone che “vivono del” sussidio (non di quelle che lo ricevono), bisogna moltiplicare le cifre ufficiali per qualcosa più di tre. Questo soltanto porta il numero dei disoccupati a circa sei milioni. Ma inoltre ci sono grandi quantità di operai che hanno lavoro, ma che, da un punto di vista finanziario, potrebbero essere altrettanto bene disoccupati, perché non percepiscono nulla che si possa descrivere come salario per vivere9. Considerando questi e i loro familiari a carico, insieme 9 Per esempio, un censimento recente delle fabbriche di cotone del Lancashire ha rivelato il fatto che più di 40000 dipendenti occupati a pieno regime ricevono meno di trenta scellini settimanali a testa. A Preston, per prendere una sola città, il numero di operai che percepivano “più” di 30 scellini la settimana era di 640 e quello di dipendenti che guadagnavano “meno” di 30 scellini settimanali era di ben 3113. (N.d.A.)
con i pensionati in età avanzata, gli invalidi e altri di questo genere, si avrà una popolazione “denutrita” di più di dieci milioni. Consideriamo le cifre relative a Wigan, che può essere presa come esponente tipico dei distretti industriali e minerari. Il numero di operai assicurati è di circa 36000 (di cui 10000 donne). Di questi il numero di disoccupati al principio del 1936 si aggirava intorno alle 10000 unità. Ma ciò avveniva d’inverno, quando le miniere lavorano a pieno regime; d’estate, i disoccupati saliranno probabilmente a 12000. Moltiplichiamo per tre, come sopra, e avremo 30000 o 36000. La popolazione complessiva. Wigan è di poco inferiore alle 87000 unità; così che in ogni momento più d’una persona su tre dell’intera popolazione – non soltanto degli operai registrati – o percepisce il sussidio o ne vive indirettamente. Questi dieci o dodicimila disoccupati comprendono un nocciolo consistente di quattro o cinquemila minatori che da sette anni a questa parte sono ininterrottamente senza lavoro. E Wigan non si trova in condizioni peggiori di tante altre città industriali. Anche a Sheffield, che da qualche anno se la passa abbastanza bene grazie alle guerre e alle voci di guerra, la proporzione di disoccupati è suppergiù la stessa: uno su tre degli operai registrati è senza lavoro. Quando un operaio diviene disoccupato, finché i suoi bollini dell’assicurazione non siano esauriti, egli ha “pieno godimento” del sussidio, come segue: Singolo operaio: 17 scellini settim. Moglie: 9 scellini settim. Per ogni figlio sotto i 14 anni: 3 scellini settim. Così che in una famiglia–tipo composta di genitori e tre figli, uno dei quali sia maggiore di quattordici anni, il reddito totale sarebbe di 32 scellini settimanali, oltre a tutto ciò che possa guadagnare il primogenito. Quando i bollini sono esauriti, prima di passare alla P.A.C. (Public Assistance Committee), l’operaio riceve un “beneficio provvisorio“ di ventisei settimane dall’U.A.B. (Unemployment Assistance Board), le cui modalità sono: Singolo operaio: 15 scellini settim. Marito e moglie: 24 scellini settim. Figli 14 – 18: 6 scellini settim. Figli 11 – 14: 4 scellini 6 pence settim. Figli 8 – 11: 4 scellini settim. Figli 5 – 8: 3 scellini 6 pence settim. Figli 3 – 5: 3 scellini settim. In questo caso il reddito percepito attraverso l’U.A.B. da una famiglia–tipo di cinque persone sarebbe di 37 scellini e 6 pence alla settimana, qualora nessuno dei figli lavori. Quando un operaio dipende dall’U.A.B. un quarto del suo sussidio è considerato come affitto, con un minimo di 7 scellini e 6 pence la settimana. Se l’affitto che egli paga è più di un quarto del suo sussidio, riceve un’assegnazione straordinaria, ma se è meno di 7 scellini e 6 pence, una somma corrispondente è dedotta dal suo sussidio. I versamenti alla P.A.C. sono fatti teoricamente dai tributi locali, ma sono garantiti da un fondo centrale. Ecco le cifre dell’assistenza:
Operaio singolo: 12 scellini 6 pence settim. Marito e moglie: 23 scellini settim. Figlio maggiore: 4 scellini settim. Ogni altro figlio: 3 scellini settim. Essendo a discrezione dei corpi locali, queste cifre variano lievemente e un singolo operaio può o non può percepire ogni settimana 2 scellini e 6 pence straordinari, giungendo così a una cifra settimanale di 15 scellini. Quanto all’U.A.B., un quarto del sussidio di un uomo sposato è considerato come affitto. Così nella famigliatipo esaminata sopra, il reddito totale sarà di 33 scellini la settimana, un quarto dei quali considerato affitto. Inoltre, nella maggioranza dei distretti un’assegnazione per il carbone di 1 scellino e 6 pence alla settimana (1 scellino e 6 pence è l’equivalente di circa mezzo quintale di carbone) è garantita per sei settimane prima e sei settimane dopo la festività natalizia. Si vede pertanto che il reddito di una famiglia usufruente di sussidio si aggira sui trenta scellini in media la settimana. Un quarto di questi trenta scellini è assorbito dall’affitto, e ciò vale a dire che la persona media, bambino o adulto che sia, deve essere nutrito, vestito e scaldato, e ogni altra cosa del suo mantenimento, con sei o sette scellini settimanali. Enormi gruppi di persone, probabilmente almeno un terzo dell’intera popolazione dei distretti industriali vivono su queste basi. Il “Means Test” (Accertamento sul Reddito) è attuato con estremo rigore e siete suscettibile di vedervi rifiutare il sussidio al più lieve indizio che percepiate denaro da qualche altra fonte. I lavoratori portuali, per esempio, che solitamente sono ingaggiati per la mezza giornata, devono presentarsi a firmare al Labour Exchange due volte al giorno; se non lo fanno, se ne deduce che sono stati a lavorare e il loro sussidio è corrispondentemente ridotto. Ho visto casi di evasione al “Means Test”, ma direi che nelle città industriali, dove sussiste ancora una certa quantità di vita collettiva e ognuno ha vicini che lo conoscono, è molto più difficile che non a Londra. Il metodo usuale per un giovane che realmente viva coi genitori consiste nel procurarsi un domicilio di comodo, così che sotto ogni apparenza egli risulta vivere in proprio e pertanto ha diritto a ricevere un sussidio separato. Ma spionaggio e maldicenza abbondano. Un tale di mia conoscenza, per esempio, fu visto nutrire i polli del vicino, mentre questo era assente. Le autorità furono informate che egli aveva «un lavoro come guardiano di galline» ed ebbe grandi difficoltà a confutare la denuncia. A Wigan la barzelletta favorita riguardava un uomo al quale era stato rifiutato il sussidio, perché «occupato in un lavoro di trasporto di legna da ardere». Era stato visto, si diceva, trasportare legna da ardere nottetempo. Egli dovette spiegare che non trasportava legna da ardere, ma stava invece traslocando al chiaro di luna. La “legna da ardere” erano i suoi mobili. Gli effetti più crudeli e dannosi del “Means Test” sono il modo in cui scinde le famiglie. I vecchi, spesso costretti al letto, ne sono cacciati dalle loro case. Un vecchio pensionato, per esempio, se vedovo, vive normalmente con l’uno o l’altro dei suoi figli; i suoi dieci scellini settimanali vanno nel calderone delle spese di casa e probabilmente il vecchio non è trattato male. Ma sotto il “Means Test” egli passa come “pensionante” e se non si muove di casa il sussidio dei figli subisce una decurtazione. Così, a settanta o settantacinque anni, deve ripiegare in qualche pensione, a versare i suoi dieci scellini settimanali alla padrona e a morire di fame. Ho visto io stesso molti casi del genere. Si verificano in questo momento in tutta Inghilterra, grazie al “Means Test”. Tuttavia, non ostante la terribile diffusione della disoccupazione, è un fatto che la povertà – l’estrema povertà – è meno visibile nel Nord industriale che a Londra. Tutto è più
povero e più squallido, ci sono meno automobili e meno gente benvestita, ma ci sono anche meno persone palesemente in miseria. Perfino in grandi città come Liverpool o Manchester si è colpiti dalla scarsità di mendicanti. Londra è una specie di vortice che attrae ogni specie di derelitti ed è così vasta che la vita vi è solitaria e anonima. Finché non abbiate infranto la legge nessuno si occuperà di voi e potete andare in malora come non potreste assolutamente fare in una città dove fossero vicini che vi conoscono. Ma nelle città industriali l’antico modo di vivere in comune non è ancora scomparso, la tradizione è ancor forte e quasi tutti hanno una famiglia, e quindi, potenzialmente, un focolare domestico. In una città di 50 o 100000 abitanti non c’è una popolazione casuale e pertanto non giustificata; nessuno dorme per le strade, per esempio. Inoltre, c’è questo da dire in merito alle norme sulla disoccupazione, che esse non distolgono la gente dallo sposarsi. Un uomo e una donna con ventitré scellini alla settimana non sono lontani dalla fame, ma possono sempre metter su una casa, o qualcosa di simile; se la passano immensamente meglio di uno scapolo che viva con quindici scellini alla settimana. La vita di uno scapolo disoccupato è paurosa. Egli vive talvolta in una comune pensione, più spesso in una camera “ammobiliata” per la quale paga di solito sei scellini alla settimana, cercando di trarre il miglior partito dai nove che gli restano (diciamo sei scellini alla settimana per il vitto e tre per vestirsi, fumare e divertirsi). Naturalmente non può né nutrirsi né mantenersi a dovere, e un uomo che paghi sei scellini settimanali per la sua stanza non è invogliato a starsene fuori di casa più di quanto non sia necessario. Passerà quindi la giornata a oziare nella biblioteca pubblica o in qualunque altro posto dove faccia caldo. Quella dello stare al caldo è quasi la sola preoccupazione di uno scapolo senza lavoro d’inverno. A Wigan il rifugio preferito era il cinema, che là è incredibilmente a buon mercato. Si può sempre avere un posto per quattro pence e in certe sale, per la matinée, si può anche sedere con due pence. Anche chi sia affamato sarà lieto di spendere due pence pur di abbandonare il freddo atroce di un pomeriggio invernale. A Sheffield mi condussero in una sala pubblica alla conferenza di un pastore, e fu di gran lunga la conferenza più sciocca e la peggio detta che abbia mai udito o mi sia mai aspettato di udire. Mi accorsi che m’era assolutamente impossibile ascoltare seduto fino alla fine; i piedi, infatti, mi portarono fuori automaticamente, come di loro iniziativa, ancor prima della metà. Eppure la sala era gremita di disoccupati; sarebbero rimasti seduti là a sentire ben di peggio, pur di starsene al calduccio. Ho visto a volte operai scapoli usufruenti del sussidio vivere nella più squallida miseria. Rammento in una città di averne visto un gruppo occupare, più o meno illecitamente, una casa abbandonata che cadeva praticamente a pezzi. Avevano messo insieme dei frammenti di mobili, presumibilmente pescati tra i rifiuti, e ricordo che la loro unica tavola era un vecchio lavabo col piano di marmo. Ma questo genere di cose è eccezionale. Un operaio scapolo è una rarità e, quando sia sposato, un uomo vede la sua vita poco mutata, relativamente, dalla disoccupazione. La sua casa è impoverita, ma è pur sempre una casa, e si può notare ovunque che la situazione anormale creata dalla disoccupazione – l’uomo è senza lavoro, mentre quello della donna continua come prima – non ha alterato la relativa condizione dei sessi. In una casa operaia il padrone è l’uomo e non, come in una casa del ceto medio, la donna o il bambino. Non vedrete praticamente mai, per esempio, in una casa operaia l’uomo occuparsi di qualche faccenda domestica. La disoccupazione non ha mutato questa convenzione, il che, a dire il vero, sembra piuttosto ingiusto. L’uomo è in ozio dalla mattina alla sera, ma la donna è affaccendata come sempre, anche di più, semmai, perché deve mandare avanti la baracca con meno denaro.
Ma, per quel che ne so, la donna non protesta. Credo che le donne, esattamente come gli uomini, pensino che un uomo perderebbe la sua mascolinità se, solo perché disoccupato, si trasformasse in una “casalinga”. Ma non c’è dubbio sull’effetto debilitante, mortificante all’estremo della disoccupazione su tutti, scapoli o ammogliati e sugli uomini ancor più che sulle donne. Le migliori intelligenze non sanno resistervi. M’è occorso una volta o due di conoscere operai disoccupati di autentica capacità letteraria; ve ne sono stati altri che non ho conosciuto ma di cui avevo letto gli scritti su qualche rivista. Ogni tanto, a lunghi intervalli, questi uomini scriveranno un articolo o un racconto che sono evidentissimamente migliori di gran parte della roba che viene esaltata dai recensori editoriali. Perché allora fanno così poco uso del loro ingegno? Hanno tutto il tempo che vogliono; perché non si mettono a tavolino a scrivere libri? Perché per scrivere libri si ha bisogno non soltanto di comodità e di solitudine – e la solitudine non è mai facile a raggiungersi in una casa operaia – ma si ha anche bisogno di tranquillità di spirito; non si può accingersi serenamente a nulla, non si può evocare quello spirito di speranza fiduciosa senza cui niente può essere creato, con la nuvola tetra e malvagia della disoccupazione che incombe sul capo. Tuttavia, un disoccupato che abbia dimestichezza coi libri può sempre dedicarsi alla lettura. Ma, e l’operaio che non può leggere se non a fatica? Prendete un minatore, per esempio, che lavori nel pozzo fin dall’infanzia e sia stato allevato per fare il minatore e null’altro. Come diamine riempirà le sue giornate vuote? E’ assurdo dire che dovrebbe andare in cerca di qualche lavoro. Non c’è lavoro di cui andare in cerca e tutti lo sanno. Non si può andare a cercare ogni giorno lavoro per sette anni. Ci sono le assegnazioni di lavori agricoli, che occupano il tempo e aiutano a nutrire la famiglia, ma in una grande città le assegnazioni di lavori agricoli sono soltanto per una piccola parte dei disoccupati. Ci sono poi gli “occupational centres“, che ebbero inizio qualche anno fa per venire in aiuto ai disoccupati. In complesso questa iniziativa è stata un fallimento, ma alcuni centri sono ancora attivi. Ne ho visitato uno o due. Ci sono baracche in cui gli uomini possono stare al caldo e si tengono corsi regolari di falegnameria, calzoleria, lavorazione delle pelli, tessitura a mano, lavori in vimini, eccetera eccetera; il concetto fondamentale essendo che i disoccupati possono fabbricare mobili ed altre cose, non da vendersi, ma per le loro proprie case, con strumenti e attrezzi gratuiti e materiali a buon mercato. Quasi tutti i socialisti coi quali ho parlato denunciano questa iniziativa come denunciano il progetto – di cui si parla sempre, ma che non si pone mai in atto – di dare ai disoccupati piccole proprietà personali. Dicono che gli “occupational centres” sono semplicemente un espediente per tenere tranquilli i disoccupati e dar loro l’illusione che si stia facendo qualche cosa per loro. Indubbiamente questo è il motivo sottaciuto. Tenete un uomo occupato a rattoppare scarpe e avrà meno probabilità di- leggere il “Daily Worker” 10. C’è inoltre una mefitica atmosfera da Y.M.C.A. in questi luoghi, che respirate appena vi poniate piede. I disoccupati che li frequentano appartengono in massima parte al tipo che si sfiora il berretto e vi dice untuosamente che è membro della “Temperance League” e vota conservatore. Ma anche qui vi sentite diviso in due. Perché probabilmente è meglio che un uomo perda il suo tempo anche in sciocchezze come lavoretti in vimini che non fare assolutamente nulla per interminabili anni. 10 Organo del partito comunista inglese. (N.d.T.)
L’attività di gran lunga migliore in favore dei disoccupati è quella della N.U.W.M., “National Unemployed Workers’ Movement”. E’ un’organizzazione rivoluzionaria, volta a tenere uniti i disoccupati, a impedir loro di fare i crumiri durante i periodi di sciopero e a dar loro assistenza legale contro il “Means Test”. E’ un movimento nato dal nulla attraverso gli spiccioli e gli sforzi dei disoccupati stessi. Ho studiato attentamente il N.U.W.M. e ammiro profondamente gli uomini, in cenci e affamati come gli altri, che mantengono in vita questo organismo. Ancor più ammiro il tatto e la pazienza con cui lo fanno; perché non è facile strappare anche un penny la settimana a gente che vive del sussidio di disoccupazione. Come ho già avuto occasione di dire, la classe operaia inglese non ha molto talento per il comando, ma è straordinariamente dotata per l’organizzazione. L’intero movimento sindacale delle Trade Unions lo dimostra; come lo dimostrano gli eccellenti circoli operai – una specie di “pubs” cooperativi in grande stile, splendidamente organizzati – così comuni nello Yorkshire. In molte città il N.U.W.M. ha ricoveri e organizza conferenze di oratori comunisti. Ma anche in questi ricoveri gli uomini che li frequentano non fanno altro che starsene seduti intorno alla stufa e giocare, a volte, a domino. Se questo movimento potesse fondersi con qualcosa di simile agli “occupational centres” sarebbe ancor più vicino a ciò che occorre. E’ terribile vedere un uomo capace logorarsi e spegnersi, anno dopo anno, in un ozio estremo, irrimediabile. Non dovrebbe essere impossibile dargli la possibilità di usare le braccia e di fare mobili ed altro per la sua casa, senza trasformarlo in un bevitore di cacao dell’Y.M.C.A. Possiamo anche affrontare il fatto che alcuni milioni di uomini in Inghilterra non avranno mai – a meno che non scoppi una guerra – un lavoro vero e proprio prima di andarsene sotterra. Una cosa che probabilmente si potrebbe, e certamente si dovrebbe, fare come ovvia e naturale, è dare a ogni disoccupato un pezzetto di terra e strumenti gratuiti, se decidesse di farne domanda. E’ doloroso che uomini i quali devono mantenersi in vita col sussidio della P.A.C. non possano avere nemmeno la opportunità di coltivare verdure per le loro famiglie. Per studiare la disoccupazione e i suoi effetti, è necessario recarsi nelle aree industriali. Nel Sud la disoccupazione esiste, ma è sparsa e del tutto discreta. Ci sono molti distretti rurali in cui un disoccupato è una cosa quasi inaudita e non si ha dovunque lo spettacolo d’interi quartieri cittadini che vivono del sussidio e della P.A.C. E’ solo quando si abita in strade dove nessuno ha lavoro, dove trovare lavoro sembra probabile come possedere un aeroplano e molto meno probabile di vincere cinquanta sterline al Football Pool 11, che si comincia ad afferrare i mutamenti che sono in atto nella nostra civiltà. Perché un mutamento è in corso, non c’è dubbio in merito. L’atteggiamento della sommersa classe operaia è profondamente diverso da quello che era sette od otto anni fa. Mi resi conto per la prima volta del problema della disoccupazione nel 1928. In quel periodo ero appena tornato dalla Birmania, dove la disoccupazione era soltanto una parola, ed ero andato in Birmania quand’ero ancora ragazzo e il “boom” del dopoguerra non s’era ancora esaurito del tutto. Quando vidi per la prima volta da vicino dei disoccupati, la cosa che mi sbalordì e mi atterrì fu scoprire che molti di loro si “vergognavano” di essere senza lavoro. Ero molto ignorante, ma non così ignorante da immaginare che, quando la perdita di mercati esteri costringe due milioni alla disoccupazione, questi due milioni siano da biasimare più di coloro che hanno preso biglietti non vincenti della Calcutta Sweep. Ma a quel tempo nessuno si curava di ammettere che la disoccupazione era inevitabile, perché ciò sarebbe stato come ammettere che essa sarebbe probabilmente continuata. I ceti medi parlavano ancora di «indolenti 11 Qualcosa di simile al nostro Totocalcio. (N.d.T.)
fannulloni che prendono il sussidio» e dicevano che «questi uomini potrebbero tutti trovar lavoro, solo che volessero» e naturalmente queste opinioni s’infiltravano nella stessa classe operaia. Ricordo il profondo stupore che mi colpì quando mi mescolai per la prima volta con vagabondi e mendicanti e potei constatare che una notevole proporzione, forse un quarto, di questi esseri, che avevo imparato a considerare parassiti cinici, induriti, erano invece giovani minatori, operai cotonieri, tutti bravi ragazzi, che guardavano il loro destino con la stessa specie di opaco stupore di un animale in trappola. Non riuscivano a capire, semplicemente, che cosa stesse accadendo loro. Erano stati allevati per il lavoro, ed ecco! sembrava che non avrebbero avuto mai più una probabilità di lavorare. Nelle loro condizioni, era inevitabile che essi fossero ossessionati, in un primo tempo, da un sentimento di degradazione personale. Era questa la mentalità sulla disoccupazione, in quei giorni: era un disastro che capitava a “te” come individuo e per il quale eri “tu” da biasimare. Quando un quarto di milione di minatori resta senza lavoro, fa parte dell’ordine delle cose che Alf Smith, un minatore che abita in un vicolo di Newcastle, rimanga disoccupato. Alf Smith è semplicemente uno di quei duecentocinquantamila, un’unità statistica. Ma nessun essere umano trova facile considerare se stesso una mera unità statistica. Finché Bert Jones, che abita dall’altra parte della strada, ha ancora lavoro, Alf Smith ha tutte le probabilità di sentirsi disonorato, un fallito. Da qui il terribile sentimento d’impotenza e di disperazione che è quasi il male peggiore della disoccupazione, di gran lunga peggiore di qualunque durezza, peggiore della demoralizzazione che nasce dall’ozio forzato, e meno cattivo soltanto della degenerazione fisica dei figli di Alf Smith, nati nel periodo della P.A.C. Chiunque abbia visto la commedia di Greenwood, “Love on the Dole”, deve ricordare quel terribile momento in cui il povero, buono, stupido operaio batte il pugno sul tavolo e grida: «O Dio, mandami un po’ di lavoro!». Non è un’esagerazione teatrale, è un tratto tolto di peso dalla vita. Questo grido deve essere stato lanciato, quasi con le stesse parole, in decine di migliaia, forse in centinaia di migliaia di case inglesi, negli ultimi quindici anni. Ma non credo che si ripeta ancora, o almeno non tanto spesso. Questo è il punto reale: la gente ha cessato di scalciare sotto le frustate. Dopo tutto, anche i ceti medi – sì, anche i circoli di bridge nelle città di provincia – cominciano ad accorgersi che c’è una cosa chiamata disoccupazione. Frasi come «Mia, cara, “non” credo a tutte queste assurdità sulla disoccupazione. Ma come, non più tardi della settimana scorsa avevamo bisogno di un uomo per ripulire dalle erbacce il giardino, ebbene, non siamo riusciti a trovarne uno! Non hanno “voglia” di lavorare, questa è la verità!» che si udivano a ogni tè per bene cinque anni fa, stanno facendosi percettibilmente più rare. Quanto al ceto operaio stesso, ha guadagnato immensamente in fatto di cognizioni economiche. Credo che il “Daily Worker” abbia fatto molto in questo campo: la sua influenza è del tutto superiore e sproporzionata alla sua tiratura. Ma in ogni caso gli operai hanno avuto il modo di imparare e assimilare bene la lezione, non solo perché la disoccupazione è tanto diffusa, ma perché dura da tanto tempo. Quando la gente vive di sussidio da anni di fila a un dato momento comincia ad abituarvisi, e l’andare a ritirare il sussidio, pur restando una cosa sgradevole, cessa di essere vergognosa. Si è venuta così minando l’antica tradizione, indipendente, ostile all’ospizio, così come l’antica paura del debito è minata dal sistema della vendita a rate. Nei vicoli di Wigan e di Barnsley ho visto
ogni specie di privazioni, ma probabilmente ho visto molta meno miseria consapevole di quanta ne avrei vista dieci anni fa. L’operaio ha comunque afferrato il concetto che la disoccupazione è cosa a cui non può porre rimedio. Non soltanto Alf Smith è senza lavoro, ora; anche Bert Jones è disoccupato ed entrambi sono “a casa” da anni. C’è una grande differenza di situazione quando le cose sono le stesse per tutti. Abbiamo così la popolazione che si è adagiata, per così dire, a vivere tutta la vita del sussidio della P.A.C. E ciò che mi sembra ammirevole, forse anche incoraggiante, è che gli operai sono riusciti a questo senza andare spiritualmente a pezzi. Un operaio non si disintegra sotto la tensione della povertà come avviene a una persona del ceto medio. Prendiamo, per esempio, il fatto che la classe operaia non ha nulla in contrario a sposarsi col sussidio. La cosa dispiace alle vecchie signore di Brighton, ma è prova dell’essenziale buon senso operaio; il lavoratore si rende conto che perdere il lavoro non significa non essere più un uomo. Così che in certo senso la situazione nelle aree depresse non è poi così cattiva come potrebbe essere. La vita vi è ancora abbastanza normale, più normale di quanto si abbia realmente da aspettarsi. Le famiglie sono impoverite, ma il sistema familiare non si è spezzato. La gente vive infatti una versione ridotta della sua vita di un tempo. Invece d’infuriarsi col suo destino ha reso tollerabile la situazione abbassando il tenor di vita. Ma gli operai non abbassano necessariamente il tenor di vita rinunciando alle spese voluttuarie e concentrandosi sul puro necessario; più spesso è proprio il contrario, il sistema più naturale, a pensarci bene. Da qui il fatto che in un decennio di crisi economica senza precedenti, il consumo di tutti i beni di lusso a buon mercato si è accresciuto. Le due cose che hanno probabilmente segnato la differenza più profonda sono il cinematografo e la produzione in serie di abiti a buon mercato dopo la guerra. Il ragazzo che abbandona la scuola a quattordici anni e trova un lavoro senza avvenire, a vent’anni sarà disoccupato, probabilmente per tutta la vita; ma per due sterline e dieci pence col sistema delle vendite rateali potrà comperarsi un abito, che, per qualche tempo e a una certa distanza, parrà confezionato su misura da un sarto di Savile Row. Una ragazza potrà apparire come un figurino a un prezzo ancora più basso. Potete avere in tasca soltanto tre mezzi pence ed essere privo di qualunque prospettiva al mondo, con solo l’angolo di una stanza da letto tutta crepe come casa, ma nel vostro vestito nuovo potete starvene sull’angolo della via, sognando ad occhi aperti di essere Clark Gable o Greta Garbo, il che vi compensa di molte cose. E anche a casa c’è quasi sempre la teiera pronta – una “bella tazza di tè” – e papà, che è disoccupato dal 1929, è per il momento felice, perché ha avuto un’informazione sicura che dà come cavallo vincente Cesarevitch. Il commercio ha dovuto adeguarsi dopo la guerra alla domanda di una clientela sottopagata e malnutrita, col risultato che un genere di lusso è ormai quasi sempre più a buon mercato d’uno di prima necessità. Un paio di scarpe brutte e solide costa il doppio di due paia ultraeleganti. Col prezzo di un pasto completo si possono avere due libbre di dolci a buon mercato. Non si può avere molta carne per tre pence, ma si può avere una bella quantità di pesce con patatine fritte. Il latte costa tre pence la pinta (poco più di mezzo litro), la stessa birra “leggera” ne costa quattro, ma potete avere sette compresse di aspirina con un penny e si può sempre spremere quaranta tazze di tè da un pacchetto d’un quarto di libbra (poco più di un etto). E soprattutto c’è il giuoco, il più a buon mercato di tutti i lussi. Anche gente prossima a morir d’inedia può acquistare qualche giorno di speranza («Qualcosa per cui vivere» come dicono) puntando un penny su una lotteria irlandese. Il gioco d’azzardo organizzato è sorto ormai quasi al livello di un’industria
nazionale. Si consideri, per esempio, un fenomeno come i Football Pools, con un movimento annuo di circa sei milioni di sterline, quasi tutte uscite dalle tasche di operai. Mi trovavo nello Yorkshire quando Hitler rioccupò la Renania. Hitler, Locarno, il fascismo e la minaccia di guerra suscitarono localmente una scintilla sì e no d’interesse, ma la decisione della Football Association di sospendere la pubblicazione in anticipo delle date degli incontri (tentativo, questo, di colpire i Football Pools) sprofondò l’intero Yorkshire in un accesso di furore. E poi c’è lo strano spettacolo della moderna scienza elettrica, che rovescia miracoli sulla gente a pancia vuota. Potete rabbrividire tutta la notte per mancanza di coperte, ma la mattina potete andarvene alla biblioteca pubblica a leggere le notizie che sono state telegrafate a vostro beneficio da San Francisco e Singapore. Venti milioni di persone non mangiano abbastanza, ma tutti, letteralmente, in Inghilterra possono ascoltare una radio. Ciò che abbiamo perduto in cibo, lo abbiamo guadagnato in elettricità. Intere sezioni della classe operaia che sono state depredate di tutto ciò di cui realmente abbisognano ne sono compensate, in parte, da lussi a buon mercato che mitigano la superficie della vita. Ritenete tutto ciò desiderabile? No, io no. Ma forse l’adeguamento psicologico a cui la classe operaia visibilmente si sottopone è il meglio che possa fare, date le circostanze. Gli operai non sono diventati rivoluzionari e non hanno nemmeno perduto il rispetto di sé; si sono semplicemente mantenuti calmi e si sono adattati a fare del loro meglio con un tenore di vita a base di pesce e patatine fritte. L’alternativa sarebbe Dio sa quali continuati tormenti di disperazione o anche dei tentativi insurrezionali che, in un paese energicamente governato come l’Inghilterra, potrebbero soltanto portare a futili massacri e a un regime di repressione spietata. Naturalmente, lo sviluppo postbellico di generi voluttuari a buon mercato è stato una fortuna per i nostri governanti. E’ molto verosimile che pesce e patatine fritte, calze di seta, salmone in scatola, cioccolata a prezzi modici (cinque tavolette da due once per sei pence), il cinematografo, la radio, il tè forte e i Football Pools abbiano fra tutti evitato la rivoluzione. Così che ci sentiamo dire ogni tanto che tutta la faccenda è un’astuta manovra della classe dirigente – una specie di “pane e circensi” – per tenere a bada i disoccupati. Ciò che ho visto della nostra classe dirigente non mi convince che abbia molta intelligenza. La cosa è avvenuta, ma attraverso un processo inconscio: l’interazione affatto naturale tra la necessità da parte dell’industriale di un mercato e il bisogno, da parte di gente semiaffamata, di palliativi a basso prezzo.
CAPITOLO 6. Quand’ero uno scolaretto, soleva venire in classe una volta ogni trimestre un professore a tenere delle lezioni eccellenti su famose battaglie del passato, quali Blenheim, Austerlitz, eccetera. Gli piaceva molto citare la massima di Napoleone «Un esercito marcia col proprio ventre» e alla fine della sua lezione si volgeva ad un tratto verso di noi e domandava: «Qual è la cosa più importante al mondo?». Noi dovevamo urlare «Il cibo!» e se non lo facevamo restava molto deluso. Evidentemente, aveva ragione in un certo senso. Un essere umano è innanzi tutto un ricettacolo di alimenti; le altre funzioni e facoltà possono essere più divine, ma in fatto di tempo vengono dopo. Un uomo muore ed è sepolto, e tutte le sue parole e le sue azioni vengono dimenticate, ma il cibo che egli ha mangiato vive dopo di lui nelle ossa sane o
marce dei suoi figli. Credo che si possa plausibilmente sostenere che i mutamenti di dieta siano più importanti dei mutamenti di dinastia o addirittura di religione. La Grande Guerra, per esempio, non sarebbe mai potuta scoppiare se non fosse stato inventato il cibo in scatola. E la storia degli ultimi quattrocento anni in Inghilterra sarebbe stata immensamente diversa se non si fosse verificata l’introduzione di radici commestibili e vari altri vegetali alla fine del Medio Evo e, un po’ più tardi, non ci fosse stata l’introduzione di bevande non alcooliche (te, caffè, cioccolata) e anche di liquori distillati a cui gli inglesi, bevitori di birra, non erano avvezzi. Eppure è curioso osservare come la suprema importanza del cibo sia raramente riconosciuta. Si vedono ovunque statue di uomini politici, poeti, vescovi, ma nessuna dedicata a un cuoco o a un salsicciaio o a un ortolano. L’imperatore Carlo Quinto ha fama di avere eretto una statua all’inventore delle aringhe affumicate, ma questo è il solo caso di cui mi sovvenga in questo momento. Così forse la cosa realmente importante nei riguardi dei disoccupati, la cosa realmente fondamentale a voler guardare il futuro, è la dieta di cui essi vivono. Come ho già avuto occasione di dire, la famiglia di un disoccupato medio vive su un reddito di circa trenta scellini alla settimana, dei quali almeno un quarto è assorbito dall’affitto. Val la pena di esaminare particolareggiatamente come il denaro residuo sia speso. Ho qui un bilancio che fu preparato per me da un minatore disoccupato e da sua moglie. Li avevo pregati di farmi un elenco che rappresentasse con la massima esattezza ciò che spendevano in una settimana tipo. Il sussidio di quest’uomo era di trentadue scellini settimanali e oltre alla moglie egli aveva a carico due figli, uno di due anni e cinque mesi, l’altro di dieci mesi. Ecco l’elenco: Fitto: 9 scell. mezzo penny Circolo d’abbigliamento: 3 scell. Carbone: 2 scell. Gas: 1 scell. 3 pence Latte: 10 pence e mezzo Quote sindacali: 3 pence Assicurazione (sui figli): 2 pence Carne: 2 scell. 6 pence Farina (12 Kg.): 3 scell. 4 pence Lievito: 4 pence Patate: 1 scell. Grasso: 10 pence Margarina: 10 pence Pancetta affumicata: 1 scell. 2 pence Zucchero: 1 scell 9 pence Tè: 1 scell. Marmellata: 7 pence e mezzo Cavoli e piselli: 6 pence Carote e cipolle: 4 pence Avena: 4 pence e mezzo Sapone, detersivi, eccetera: 10 pence Totale: 1 sterlina 12 scell. In aggiunta alle voci dell’elenco, bisogna includere tre pacchetti di latte in polvere, forniti settimanalmente per il piccino dall’Infants' Welfare Clinic. Qualche commento si rende qui necessario. Innanzi tutto, l’elenco trascura molte cose: lucido per le scarpe, pepe, sale, aceto, fiammiferi, legna minuta per accendere il fuoco, lamette per barba, sostituzione di utensili e usura di mobili e coperte, per dire le prime voci che mi vengono in mente. Qualunque spesa di questo genere ne ridurrà altre. Una spesa più gravosa è il tabacco. L’uomo di cui parlo era un fumatore moderato, ma anche in questo caso il tabacco non gli costava meno di uno scellino alla settimana, significando perciò un’ulteriore riduzione di alimenti. I “circoli di abbigliamento”, a cui i disoccupati versano tanto denaro ogni settimana, sono gestiti in tutte le città industriali dai grossi commercianti di tessuti. Senza di essi sarebbe assolutamente impossibile ai disoccupati comperare abiti nuovi. Non so se comperino o no anche lenzuola e coperte attraverso
questi circoli. La famiglia di cui parlo non aveva quasi lenzuola e coperte per i letti. Nella lista riportata più sopra, se includete uno scellino per il tabacco e lo sottraete con le altre voci non alimentari, rimanete con sedici scellini, cinque pence e mezzo. Diciamo sedici scellini e non teniamo conto del bimbo, dato che questo godeva il latte settimanale passatogli dalla Welfare Clinic. Questi sedici scellini devono procurare tutto il nutrimento, “compreso il combustibile”, per tre persone, due delle quali adulte. La prima domanda è se sia possibile a tre persone essere propriamente nutrite con sedici scellini alla settimana. Quando era in corso la polemica sul “Means Test” ci fu una disgustosa diatriba pubblica sul minimo settimanale con cui un essere umano può essere tenuto in vita. Per quel che posso ricordare, una scuola dietetica parlò di cinque scellini e nove pence, mentre un’altra scuola, più generosa, si spinse a cinque scellini, nove pence e mezzo. Dopo di che furono inviate lettere ai giornali da parecchie persone che sostenevano di non spendere più di quattro scellini la settimana per il vitto. Ecco qui un bilancio settimanale (fu pubblicato dal “New Statesman” e anche da “News of the World”), scelto da me tra molti altri: 3 pagnotte di pane di farina integrale 1 scell. mezza libbra di margarina: 2 pence e mezzo mezza libbra di grasso: 3 pence 1 libbra di formaggio: 7 pence 1 libbra di cipolle: 1 pence e mezzo 1 libbra di carote: 1 pence e mezzo 1 libbra di biscotti spezzati: 4 pence 2 libbre di datteri: 6 pence 1 scatola di latte evaporato: 5 pence 10 arance: 5 pence Totale 3 scell. 11 pence e mezzo. Si voglia notare che questo bilancio “non fa cenno di combustibile”. Infatti, l’autore della lettera esplicitamente dichiarò che non poteva permettersi di comperare il combustibile e mangiava pertanto tutti i suoi alimenti crudi. Se la lettera fosse genuina o una simulazione non ha importanza per il momento. Ciò che credo si ammetterà da tutti è che questo elenco rappresenta il tipo di spesa più saggia che si possa escogitare; se doveste vivere con tre scellini e undici pence e mezzo alla settimana, non potreste trarne più valore in cibarie di quanto esso faccia. Così forse è possibile nutrirsi adeguatamente col sussidio della P.A.C., se ci si concentra esclusivamente sui viveri essenziali; ma non diversamente. Ora si confronti questo elenco con quello del minatore disoccupato che ho riportato sopra. La famiglia del minatore spende soltanto 10 pence alla settimana in verdure fresche e dieci pence e mezzo in latte (si ricordi che un membro della famiglia è un bambino inferiore ai tre anni) e niente in frutta; ma spende uno scellino e nove pence in zucchero (vale a dire circa otto libbre di zucchero) e uno scellino in tè. La mezza corona spesa in carne “potrebbe” rappresentare qualche bistecca e un po’ di stufato; probabilmente potrebbe anche rappresentare, se pur non sempre, quattro o cinque scatolette di manzo. La base della sua dieta, pertanto, è pane bianco e margarina, manzo in scatola, tè zuccherato e patate: una dieta deprimente. Non sarebbe meglio se quella famiglia spendesse più denaro in cose sane come arance e pane integrale o se addirittura, come l’autore della lettera al “New Statesman”, risparmiasse sul combustibile e mangiasse carote crude? Sì, sarebbe meglio, ma il fatto è che nessun comune essere umano sarà mai disposto a fare una cosa del genere. L’ordinario essere umano preferirebbe morir di fame piuttosto che vivere di pane nero e carote crude. E il guaio caratteristico è questo, che meno quattrini si hanno e meno ci si sente disposti a spenderli in cibo sano. Un milionario può apprezzare a colazione, la mattina, succo d’arancia e biscotti leggeri; un disoccupato no. Qui si rivela la tendenza di cui ho parlato alla fine del precedente capitolo. Quando si è disoccupati, quando cioè non si mangia abbastanza, e si è tormentati, annoiati e depressi, non si ha
voglia di mangiare tediosi cibi sani. Si ha voglia di qualcosa un po’ “stuzzicante”. C’è sempre qualche cibo appetitoso e a buon mercato che vi tenta. Ma sì, prendiamo tre pence di patatine fritte! Andiamo a comperarci un gelato da due pennies! Metti l’acqua sul fuoco, ché ci beviamo una bella tazza di tè! Ecco come lavora la vostra mente quando percepite il sussidio della P.A.C. Pane bianco con margarina e tè bene inzuccherato non vi nutrono molto, ma sono più buoni (almeno, molti lo pensano) del pane nero unto di grasso e dell’acqua fresca. La disoccupazione è un tormento senza fine che deve essere continuamente temperato, soprattutto da una tazza di tè, l’oppio degli inglesi. Una tazza di tè o anche un’aspirina sono molto meglio, come stimolante momentaneo, d’un tozzo di pane nero. I risultati di tutto ciò sono visibili in una degenerazione fisica che potete osservare direttamente, usando i vostri occhi, o in via derivata, dando uno sguardo alle statistiche essenziali. Il livello fisico nelle città industriali è terribilmente basso, più basso ancora che a Londra. A Sheffield si ha la sensazione di camminare in mezzo a una popolazione di trogloditi. I minatori sono uomini splendidi, ma solitamente sono piuttosto bassi, e il semplice fatto che i loro muscoli siano induriti dal costante lavoro non significa che i loro figli inizino la vita con fisico migliore. In ogni caso i minatori sono fisicamente il fior fiore della popolazione. Il segno più evidente della denutrizione è il pessimo stato della dentatura di ognuno. Nel Lancashire, dovreste cercare molto a lungo, prima di trovare un operaio con denti naturalmente buoni. Anzi, si trovano addirittura pochissime persone con denti naturali, eccettuati i bambini; e perfino i denti dei bambini hanno un fragile aspetto azzurrino, che rivela, credo, deficienza di calcio. Alcuni dentisti mi hanno detto che nei distretti industriali una persona sopra i trent’anni con ancora qualcuno dei suoi denti sta diventando un’anomalia. A Wigan numerose persone mi hanno dichiarato che secondo loro è molto meglio togliersi i denti quando ancora si sia il più giovani possibile. «I denti sono una maledizione» ebbe a dirmi una donna. In una casa dove risiedevo abitavano, oltre a me, cinque persone, la più vecchia intorno ai quarantacinque anni, il più giovane un ragazzo di quindici. Di costoro, il ragazzo era il solo che possedesse denti suoi, denti che del resto avevano l’aria di non resistere un pezzo. Per quel che riguarda poi le statistiche, il fatto che in ogni grande città industriale il tasso di mortalità e quello di mortalità infantile dei quartieri più poveri siano circa il doppio di quelli dei quartieri d’abitazione benestanti – molto più del doppio in alcuni casi – non abbisogna di commenti. Naturalmente, non si deve immaginare che le condizioni fisiche prevalentemente cattive siano dovute soltanto alla disoccupazione, perché è probabile che il livello fisico medio stia declinando in tutta l’Inghilterra da moltissimo tempo, e non soltanto tra i senza lavoro delle regioni industriali. Ciò non può essere dimostrato statisticamente, ma è una conclusione a cui non ci si può sottrarre se si usano gli occhi, anche in zone rurali e perfino in una città prospera come Londra. Il giorno in cui la salma di re Giorgio Quinto stava attraversando Londra diretta a Westminster, mi accadde di restare intrappolato per un’ora o due nella folla in Trafalgar Square. Sarebbe stato impossibile a chiunque, guardandosi intorno, non essere colpito dalla degenerazione fisica dell’Inghilterra moderna. La gente che mi circondava non apparteneva alla classe operaia per la massima parte; era tutta gente del tipo tra il negoziante e il commesso viaggiatore, con una sfumatura di agiatezza. Ma che aspetto avevano mai! Membra misere, facce malaticce, sotto il piangente cielo di Londra. Non c’era un uomo ben costruito o una donna degna d’essere guardata, non si vedeva in nessun
punto un colorito sano. Al passaggio della salma del re, gli uomini si tolsero il cappello e un amico che si trovava tra la folla dall’altra parte dello Strand ebbe poi a dirmi: «L’unico tocco di colore dovunque era dato dalle teste calve». Anche le Guardie, mi parve – ce n’era uno squadrone che marciava accanto alla bara – non erano più quelle che apparivano un tempo. Dove sono andati a finire quegli uomini colossali, che, con toraci simili a barili e baffi come ali d’aquila, attraversavano la visuale della mia infanzia venti o trent’anni fa? Sepolti, suppongo, sotto il fango delle Fiandre. In loro vece ci sono questi ragazzi esangui, che sono stati scelti per la loro statura e che per conseguenza sembrano canne da luppolo incappottate, la verità essendo che ormai nella moderna Inghilterra un uomo alto più di sei piedi è solitamente tutto pelle e ossa e non molto altro. Se il fisico inglese è in declino, ciò senza dubbio si deve parzialmente al fatto che la Grande Guerra scelse accuratamente il milione di uomini migliori d’Inghilterra e li massacrò, in gran parte prima che avessero avuto tempo di generare. Ma il processo deve essersi iniziato ancor prima e lo si deve attribuire in definitiva a modi di vivere malsani, vale a dire all’industrialismo. Non intendo l’abitudine di vivere inurbati probabilmente le città sono più sane della campagna, sotto molti rispetti – ma la moderna tecnica industriale che vi fornisce surrogati di tutto a buon mercato. Possiamo trovare alla lunga che il cibo in scatola è un’arma più micidiale della mitragliatrice. E’ da rimpiangere che la classe operaia britannica – quanto a questo, l’intera nazione inglese – sia tanto ignorante e sciupona in fatto di cibo. Ho messo in rilievo altrove quanto sia civile l’idea che di un pasto ha un manovale francese in confronto a quella che ha un manovale inglese, e non posso credere che uno possa mai assistere in una casa francese allo sciupio di cibo che abitualmente si vede in quelle britanniche. Naturalmente, nelle case più povere, dove tutti sono disoccupati, non si assiste a uno sciupio vero e proprio, ma quelli che possono permettersi di sciupare cibarie spesso lo fanno. Potrei fornire esempi impressionanti di questo. La stessa abitudine settentrionale di cuocersi ogni famiglia il proprio pane è lievemente dissipatrice in sé, perché una donna costretta a sgobbare dalla mattina alla sera non può cuocere il suo pane più d’una volta o al massimo due volte la settimana, ed è impossibile prevedere quanto pane andrà sprecato, così che generalmente una certa quantità di pane deve essere gettata via. Normalmente, si mettono nel forno sei pagnotte grosse e dodici piccole tutte in una volta. Ciò rientra nel vecchio, generoso modo inglese di considerare la vita, ed è una qualità simpatica, ma, coi tempi che corrono, disastrosa. Dappertutto, l’operaio inglese, a quel che mi risulta, rifiuta il pane scuro; di solito è impossibile comperare pane integrale in un distretto operaio. Gli operai talvolta ne danno la ragione dicendo che il pane scuro è “sporco”. Sospetto che la vera ragione sia che in passato il pane scuro sia stato confuso col pan nero, che è tradizionalmente associato col papismo e gli zoccoli di legno. (C’è molto papismo e ci sono molti zoccoli di legno nel Lancashire. Peccato che non abbiano anche il pane nero!) Ma il palato inglese, specialmente il palato del lavoratore, respinge ormai il cibo buono quasi automaticamente. Il numero di persone che preferiscono i piselli in scatola e il pesce in scatola ai veri piselli e al vero pesce deve essere ogni anno più in aumento, e moltissimi che potrebbero permettersi latte vero nel tè preferiscono di gran lunga consumare latte in scatola, perfino quell’atroce latte in scatola che è fatto di zucchero e farina e porta scritto sul barattolo a lettere cubitali NON ADATTO AI BAMBINI. In alcuni distretti si stanno facendo ora sforzi per insegnare ai disoccupati qualcosa di più sul valore degli alimenti e su un modo più intelligente di spendere il denaro. Quando si sente parlare di una cosa come questa, non si
sa più da quale parte tenere. Ho udito un oratore comunista sul palco infuriarsi per questa cosa. A Londra, disse, gruppi di dame del gran mondo hanno ora il coraggio di entrare in molte case dell’East End per dare lezioni sul modo migliore di fare la spesa alle mogli dei disoccupati. L’oratore interpretava il fatto come un esempio della mentalità che caratterizza la classe dirigente inglese. Prima si condanna una famiglia a vivere con trenta scellini alla settimana, e poi si ha la maledetta sfacciataggine di insegnarle come spenderli. Il comunista aveva perfettamente ragione, sono d’accordo con lui al cento per cento. Ciò non ostante, è sempre un peccato che per mancanza di una tradizione adeguata, il popolo debba ingollare della porcheria come il latte in scatola, senza nemmeno sapere che è inferiore a quello prodotto dalla mucca. Dubito, tuttavia, che i disoccupati possano beneficiare in definitiva degli insegnamenti ricevuti sul modo di spendere i loro quattrini più economicamente. Perché è soltanto il fatto che non sono economici quello che mantiene i loro sussidi così elevati. Un inglese assistito dalla P.A.C. percepisce quindici scellini la settimana perché quindici scellini la settimana rappresentano la più piccola somma con la quale può ragionevolmente mantenersi vivo. Se fosse, diciamo, un coolie giapponese o indiano, che può vivere di riso e cipolle, non riceverebbe quindici scellini la settimana, potrebbe considerarsi fortunato se gli fossero dati quindici scellini al mese. I nostri sussidi di disoccupazione, per miseri che siano, sono concepiti in modo da corrispondere a una popolazione dal tenor di vita altissimo e con scarse nozioni di economia. Se i disoccupati imparassero ad essere migliori amministratori si troverebbero in condizioni economiche visibilmente migliori, e immagino che non passerebbe molto tempo prima che il sussidio fosse ridotto in proporzione. C’è una sola grande facilitazione per i disoccupati nel Nord, e questa è il basso prezzo del carbone. Ovunque nelle zone carbonifere il prezzo al minuto del carbone è di circa uno scellino e sei pence il mezzo quintale; nell’Inghilterra del Sud è di circa mezza corona. Inoltre, minatori occupati possono di solito acquistare carbone direttamente dalla miniera a otto o nove scellini la tonnellata e quelli che hanno una cantina nella loro casa spesso ne stivano una tonnellata in una volta sola, per poi rivenderla (illecitamente, suppongo) ai disoccupati. Ma indipendentemente da questo, c’è un’immensa e sistematica ruberia di carbone da parte dei disoccupati. La chiamo ruberia perché tecnicamente lo è, sebbene non porti danno a nessuno. Nel terriccio che viene espulso dai pozzi è frammista una certa quantità di carbone in frantumi e i disoccupati passano molto tempo a recuperarlo dalle montagne di scorie. Per tutto il giorno si vede su quelle strane alture grigiastre gente andare e venire con sacchi e cesti nella fumea solforosa (molti cumuli di scorie ardono sotto la superficie), per fare bottino delle minuscole pepite di carbone sepolte qua e là. S’incontrano uomini che vengono via, spingendo stranissime e meravigliose biciclette fatte in casa biciclette fatte di parti arrugginite trovate tra i cumuli di rifiuti, senza sellino, senza catena e quasi sempre senza gomme – attraverso le quali sono gettate sacche e borse con forse venticinque chili di carbone, frutto d’una mezza giornata di ricerche. In periodi di sciopero, quando tutti sono a corto di combustibile, i minatori escono di casa armati di picconi e pale e vanno a scavare nei mucchi di scorie, donde l’aspetto di collinette che molti di questi mucchi hanno. Durante scioperi prolungati, in punti dove siano affioramenti di carbone, essi hanno scavato miniere superficiali, che si addentrano per ventine di metri sotterra.
A Wigan la concorrenza fra disoccupati per il carbone di rifiuto è divenuta così accanita da portare a una straordinaria usanza, detta “scalata del carbone”, che val la pena di vedere. Mi stupisce, anzi, che non sia stata mai filmata. Un minatore disoccupato mi condusse a vederla un pomeriggio. Arrivammo sul posto, una catena montuosa di antichi cumuli di rifiuti con una piccola ferrovia che correva nella valletta sottostante. Circa duecento uomini in cenci, ognuno con un sacco e il martello da minatore sotto le falde della giubba, erano in attesa sul “broo”. Quando le scorie emergono dal pozzo sono caricate su dei carrelli che una locomotiva traina sulla cima di un’altra montagna di scorie lontana un quarto di miglio e là li lascia. Il processo della “scalata del carbone” consiste nell’arrampicarsi sul convoglio in movimento; ogni vagoncino sul quale siate riuscito ad arrampicarvi mentre è in moto conta come “vostro”. Dopo qualche minuto, il trenino comparve. Con un urlo selvaggio, un centinaio di uomini si precipito giù per il pendio per raggiungere il convoglio mentre percorreva la curva. Anche sulla curva il treno non procedeva a meno di venti miglia all’ora. Gli uomini vi si scagliarono sopra, afferrandosi agli anelli sulla parte posteriore dei carri e issandosi fino in cima, grazie ai respingenti, cinque o dieci uomini per ogni carro. Il macchinista non vi badò. Portò la locomotiva fino in cima al mucchio, si sganciò dai vagoni e ricondusse la sua macchina fino al pozzo, dal quale dopo qualche minuto ritornò con un’altra fila di carri. Ci fu un nuovo frenetico arrembaggio di figure cenciose, come prima. Alla fine soltanto una cinquantina di uomini non erano riusciti ad arrampicarsi né sul primo né sul secondo convoglio. Salimmo fin sulla cima della montagna di scorie. Gli uomini stavano scaricando a colpi di pale il terriccio dai vagoni, mentre più in basso le loro mogli e i loro bambini, ginocchioni, rapidamente frugavano con le mani nude nel terriccio bagnato, estraendone pezzi di carbone grossi come un uovo e anche meno. C’era una donna che bisognava vedere come piombasse su ogni minuscolo frammento di minerale, come se lo pulisse sul grembiule, lo osservasse minuziosamente per accertarsi che fosse davvero carbone, prima di ficcarlo gelosamente nel sacco. Naturalmente, quando ci si arrampica su un vagone, non si sa in precedenza che cosa possa contenere; può contenere vero e proprio terriccio o semplicemente roccia schistosa sfaldatasi dal soffitto delle gallerie. Se è un vagone di roccia schistosa non contiene carbone, ma spesso si trova nella roccia schistosa un’altra roccia infiammabile chiamata “cannel”, che assomiglia molto a quella schistosa, ma è lievemente più scura e si spacca in linee parallele, come l’ardesia. E’ abbastanza buona come combustibile non tanto da essere valutabile commercialmente, ma abbastanza da essere avidamente ricercata dai disoccupati. I minatori sui vagoni della roccia schistosa ne sceglievano il “cannel” e lo spezzavano coi loro martelli. Sul fondo della valletta, gli uomini che non erano riusciti ad arrampicarsi sui due treni spigolavano i minuzzoli di carbone che rotolavano giù per la scarpata, frammenti che non erano più grossi di una nocciuola, ma essi erano contenti lo stesso di impossessarsene. Restammo là fin che il treno non fu scaricato del tutto. In un paio d’ore i disoccupati avevano vagliato il terriccio fino all’ultimo granello. Si buttarono ora il sacco sulla spalla o lo gettarono di traverso sulla bicicletta e si avviarono per la loro marcia di oltre due miglia sulla via del ritorno a Wigan. La maggior parte delle famiglie avevano raggranellato un mezzo quintale ognuna di carbone o di “cannel”, così che fra loro dovevano aver rubato da cinque a dieci tonnellate di combustibile. Questa faccenda di svaligiare il treno delle scorie si verifica a Wigan ogni giorno, d’inverno almeno, e presso più d’una miniera. E’, naturalmente, pericoloso all’estremo. Nessuno si ferì quel pomeriggio in cui mi trovavo là, ma un uomo aveva avute amputate
tutt’e due le gambe alcune settimane prima e un altro aveva perduto parecchie dita una settimana dopo. Tecnicamente, si tratta di furto, è un fatto, ma, come sanno tutti, se non lo rubassero il carbone andrebbe sciupato. Ogni tanto, per amor di forma, le compagnie minerarie denunciano qualcuno per furto di carbone, e nel numero di quella mattina del giornale locale un paragrafo annunciava che due uomini erano stati multati di dieci scellini. Ma nessuno bada ai processi di questo genere – infatti uno degli operai nominati dal giornale era là quel pomeriggio – e gli spigolatori di carbone sottoscrivono collette tra di loro per pagare la multa. La cosa è normale. Tutti sanno che i disoccupati devono trovare il carbone in qualche modo. Così ogni pomeriggio alcune centinaia di uomini rischiano la vita e alcune centinaia di donne frugano nella fanghiglia per ore, e tutto questo per una ventina di chili di combustibile infimo, del valore al massimo di nove pence. La scena è rimasta impressa nella mia memoria come una delle mie immagini del Lancashire: le donne tarchiate, avvolte nello scialle, coi loro grembiuli di tela di sacco e i pesanti zoccoli neri, ginocchioni nella fanghiglia cinerea e nel vento tagliente, alla ricerca febbrile di qualche pezzetto di carbone. Sono contente di poterlo fare. D’inverno hanno disperatamente bisogno di fuoco, questo è più importante quasi del mangiare. Intanto, tutt’intorno, fin dove l’occhio può giungere, vi sono le montagne di scorie e i congegni di sollevamento delle miniere, e non una di queste miniere riesce a vendere tutto il carbone che è capace di produrre. Questo dovrebbe fare impressione al maggiore Douglas.
CAPITOLO 7. Viaggiando verso il Settentrione, l’occhio, avvezzo al Sud o all’Est, non vede grandi differenze, finché non si sia oltre Birmingham. A Coventry si potrebbe benissimo essere al Finsbury Park e il Bull Ring di Birmingham non differisce molto dal Market di Norwich, e fra tutte le città delle Midlands si stende una striscia di civiltà rurale indistinguibile da quella del Sud. E’ solo quando ci si spinga ancora un po’ più al nord, alle città del vasellame, e oltre, che si comincia a incontrare l’autentico squallore dell’industrialismo, uno squallore così orrendo, così paralizzante che si è costretti, per modo di dire, a venire a patti con esso. Una montagna di scorie è nel migliore dei casi un che di brutto, perché tanto insensato e inutile. E’ qualcosa semplicemente scaricato per terra, come lo svuotamento di una pattumiera di gigante. Alla periferia delle città minerarie si vedono paesaggi spaventevoli, dove il tuo orizzonte è limitato tutto intorno da grigie montagne seghettate e sotto i piedi hai fanghiglia e cenere e sul capo i cavi d’acciaio dove cassoni pieni di terra viaggiano lentamente per miglia di campagna. Spesso i cumuli di scorie ardono e di notte si possono vedere i rivoletti di fuoco serpeggiare qua e là ed anche le azzurre fiammelle di zolfo muoversi lente, sempre sul punto di spegnersi, si direbbe, e sempre pronte a ravvivarsi. Anche quando un cumulo di scorie crolla, come fa alla fine, vi cresce sopra una malerba bruna, ed esso conserva sempre la sua superficie ondulata. Uno di questi cumuli negli “slums” di Wigan, usato ora come campo per giuochi, sembra un mare grosso improvvisamente congelato; “il materasso di lana“, lo chiamano localmente. Anche tra qualche secolo, quando l’aratro passerà sui luoghi dove un tempo si estraeva il carbone, i siti degli antichi cumuli di scorie saranno distinguibili da un aeroplano. Rammento un pomeriggio d’inverno nei terribili paraggi di Wigan. Tutt’intorno si stendeva il paesaggio lunare dei cumuli di rifiuti e a nord, attraverso i
passi, per così dire, tra le montagne di scorie, potevi vedere le ciminiere industriali vomitare i loro pennacchi di fumo. Il viottolo lungo il canale era un miscuglio di cenere e di fango gelato, tutto incrociato dalle impronte d’innumerevoli zoccoli, e tutt’intorno, lontanando insieme con le montagne di scorie, si stendevano i “baleni”, pozze d’acqua stagnante che si era infiltrata nelle fosse createsi in seguito al cedimento di antichi pozzi. Faceva orribilmente freddo. Le pozze d’acqua erano coperte d’uno strato di ghiaccio color terra d’ombra, i barcaioli erano imbacuccati fino agli occhi in tela di sacco, le saracinesche delle chiuse portavano pinnacoli di ghiaccio. Sembrava un mondo da cui la vegetazione fosse stata bandita; nulla esisteva se non fumo, roccia, ghiaccio, fango, ceneri e acqua fetida. Ma perfino Wigan è bella a paragone di Sheffield. Sheffield, suppongo, potrebbe vantare il diritto di essere chiamata la più brutta città del mondo antico: i suoi abitanti, che la vogliono preminente in ogni cosa, possono cominciare da questo punto. Ha una popolazione di mezzo milione di anime e contiene meno edifici decenti di un villaggio medio dell’East Anglia con cinquecento abitanti. E il fetore! Se in rari momenti cessate di sentire odore di zolfo è perché avete cominciato a respirare gas. Anche il magro fiume che attraversa la città è solitamente d’un giallo vivido per le sostanze chimiche che lo inquinano. Una volta mi fermai improvvisamente in una strada e cominciai a contare le ciminiere di fabbrica che potevo vedere; ne contai trentatré, ma ne avrei viste molte di più se l’aria non fosse stata oscurata dal fumo. Una scena soprattutto si è impressa nella mia memoria. Un orribile tratto di terreno improduttivo (in qualche modo, là nel Nord, un tratto di terreno incolto raggiunge uno squallore che sarebbe impossibile perfino a Londra), pelato del minimo filo d’erba dal passaggio degli uomini e sparso di giornali e di vecchie padelle. A destra, una fila isolata di case desolate, ognuna di quattro stanze, color rosso cupo e annerite dal fumo. A sinistra, una prospettiva sconfinata di ciminiere industriali, l’una dopo l’altra, lontananti fino a perdersi in una vaga foschia nerastra. Alle mie spalle, la scarpata della ferrovia eretta con le scorie degli altiforni. Di fronte, oltre la striscia di terreno incolto, una costruzione cubica di mattoni rossi e gialli, col cartello “Thomas Grocock, Impresa Trasporto Carbone”. Di notte, quando non potete vedere le orribili forme delle case e la nerezza di tutto, una città come Sheffield assume una specie di sinistro significato. A volte, le nubi di fumo alla deriva sono rosee di zolfo, e fiamme dentellate, come seghe circolari, scaturiscono a forza di sotto alle cappe delle ciminiere di fonderia. Attraverso i cancelli spalancati delle fonderie, si scorgono infocati serpenti di ferro trasportati qua e là da uomini illuminati da una luce rossa e si odono il sibilo e i tonfi dei martelli a vapore e l’urlo del ferro sotto il colpo. Le città del vasellame sono quasi ugualmente brutte in un modo più meschino. Proprio tra le file di minuscole case annerite, quasi facessero parte della strada, ci sono le “‘pot banks’”, camini conici di mattoni, simili a gigantesche bottiglie di borgogna, sepolti nel suolo e che ti vomitano il loro fumo quasi in faccia. Ti imbatti in mostruosi baratri d’argilla larghi centinaia di piedi e profondi quasi altrettanto, con vagoncini arrugginiti di una ferrovia a catena che si arrampicano su di un lato, e sull’altro degli operai sospesi nel vuoto come raccoglitori di finocchi marini a scavare il fianco del baratro con le loro piccozze. Passai di là mentre nevicava e perfino la neve era nera. La cosa migliore che si può dire in merito alle città del vasellame è che sono molto piccine e cessano bruscamente. A meno di dieci miglia di distanza potete trovarvi in una campagna incorrotta, sulle colline quasi nude, e le città del vasellame non sono che uno sgorbio in distanza. Quando si osserva tanta bruttezza, due domande vi colpiscono. Primo, è proprio inevitabile questa bruttezza? Secondo, conta poi molto?
Non credo che ci sia nulla d’implicitamente e inevitabilmente brutto nell’industrialismo. Uno stabilimento o anche un’officina del gas non sono obbligati per loro natura ad essere brutti, non più di un palazzo o di un canile o di una cattedrale. Tutto dipende dalla tradizione architettonica del periodo. Le città industriali sono brutte perché occorse loro di sorgere in epoche in cui i sistemi moderni di costruzione in acciaio e di riduzione del fumo erano sconosciuti e tutti erano troppo occupati a far quattrini per poter pensare ad altro. E continuano ad essere brutte in gran parte perché i settentrionali si sono abituati a questo genere di cose e non se ne accorgono. Moltissimi abitanti di Sheffield o di Manchester, se respirassero una boccata d’aria sulle scogliere di Cornovaglia, direbbero probabilmente che non sa di nulla. Ma dopo la guerra l’industria ha rivelato la tendenza a spostarsi verso il sud e così facendo é divenuta quasi bella. Il tipico stabilimento postbellico non è una tetra caserma o un caos atroce di fuliggine e di ciminiere in eruzione; è una costruzione d’un bianco scintillante, fatta di cemento, vetro e acciaio e circondata da verdi prati e campi di tulipani. Si guardino le fabbriche dinanzi alle quali si passa viaggiando da Londra su un treno della G.W.R.; possono non rappresentare un trionfo estetico ma certo non sono così brutte come l’officina del gas di Sheffield. Ma in ogni caso, sebbene la bruttezza sia la cosa più ovvia dell’industrialismo e quella contro la quale si scaglia ogni nuovo venuto, dubito che essa sia centralmente importante. E forse non è nemmeno desiderabile che, l’industrialismo essendo quello che è, debba imparare a camuffarsi da qualche altra cosa. Come ha giustamente osservato Aldous Huxley, un tetro opificio satanico dovrebbe assomigliare a un tetro opificio satanico e non a un tempio di misteriose e splendide divinità. Inoltre, anche nella peggiore città industriale, accade di vedere molte cose che non sono brutte nel senso estetico ristretto. Una ciminiera che vomiti fumo o uno “slum” fetido sono ripulsivi soprattutto perché sottintendono vite deformate e bimbi malati. Li si guardi da un punto di vista puramente estetico e potranno avere un certo macabro fascino. Mi accorgo che qualunque cosa insolita in modo offensivo finisce generalmente con l’affascinarmi anche quando io l’abomini. I paesaggi birmani, che, quando n’ero circondato, mi impressionavano al punto da assumere l’elemento di un incubo, sono poi rimasti così ossessivamente impressi nella mia mente che sono stato costretto a scrivere un romanzo su di essi per liberarmene. (In tutti i romanzi sull’Oriente il paesaggio è il vero protagonista.) Sarebbe probabilmente molto facile trarre una sorta di bellezza, come fece Arnold Bennett, dalla nera tetraggine delle città industriali; si può agevolmente immaginare Baudelaire, per esempio, intento a scrivere una poesia su un cumulo di scorie. Ma la bellezza o la bruttezza dell’industrialismo hanno ben poca importanza. Il vero male dell’industrialismo affonda le radici in uno strato molto più profondo ed è del tutto inestirpabile. E’ importante ricordare ciò, perché si è sempre tentati di pensare che l’industrialismo sia innocuo purché lindo e ordinato. Ma quando si vada nel Nord industriale ci si accorge, indipendentemente dal paesaggio insolito, di entrare in un mondo sconosciuto. Ciò è in parte a causa di certe reali differenze, ma ancor più a causa dell’antitesi Nord–Sud che ci è stata fatta assimilare ormai da gran tempo. Esiste in Inghilterra un culto curioso della nordicità, una specie di snobismo nordico. Un abitante dello Yorkshire di passaggio nel Sud troverà sempre il modo di farvi capire che vi considera un inferiore. Se gli chiedete perché, vi spiegherà che è soltanto nel Nord che la vita è “vera” vita, che l’attività industriale data dal Nord è la sola attività “vera”, che il Nord è popolato da gente “vera” e il Sud semplicemente da “rentiers” e loro parassiti. Il settentrionale ha carattere, è severo, tenace, coraggioso, col cuore in mano e democratico; il meridionale è snob, effeminato e indolenteà questa ad ogni modo è la
teoria. Di conseguenza il meridionale va nel Settentrione, almeno quando ci va per la prima volta, col vago complesso d’inferiorità dell’uomo incivilito che si avventuri fra selvaggi, mentre il cittadino dello Yorkshire, come lo scozzese, cala su Londra con lo spirito del barbaro avido di bottino. E sentimenti di questo genere, che sono il risultato della tradizione, non si lasciano temperare da fatti evidenti. Come un inglese alto sì e no un metro e settanta e con una circonferenza toracica di ottanta centimetri al massimo si sente in quanto inglese fisicamente superiore a Carnera (dato che Carnera è un “dago”, un lazzarone mediterraneo), così è il rapporto tra un settentrionale e un meridionale d’Inghilterra. Rammento un ometto insignificante dello Yorkshire, che con ogni probabilità sarebbe fuggito a perdifiato se un fox–terrier gli avesse abbaiato contro, e che mi diceva come nell’Inghilterra del Sud egli si sentisse “un invasore feroce”. Ma il culto è spesso adottato da gente che non è settentrionale di nascita. Un anno o due fa, un amico mio, cresciuto nel Sud ma ora residente nel Nord, mi conduceva a bordo della sua macchina per il Suffolk. Attraversammo un villaggio piuttosto ameno. Il mio amico guardò con disapprovazione le casupole del villaggio e disse: “Naturalmente quasi tutti i villaggi dello Yorkshire sono orribili; ma la popolazione dello Yorkshire è gente splendida. Quaggiù è esattamente il contrario: magnifici villaggi e gente fradicia. Tutti gli abitanti di queste casette son gente priva di qualunque valore, assolutamente di qualunque valore.“ Non potei a meno di chiedergli se per caso conoscesse qualcuno in quel villaggio. No, non conosceva nessuno; ma poiché eravamo nell’East Anglia, quelle popolazioni erano ovviamente composte di gente indegna. Un altro amico mio, sempre meridionale di nascita, non trascura occasione di lodare il Nord a detrimento del Sud. Ecco uno stralcio d’una sua lettera inviata a me: “Mi trovo a Clitheroe, Lancsà A mio avviso, i corsi d’acqua sono molto più attraenti in regioni montuose e di brughiera che non nel grasso e molle Sud. ‘L’affettato e argenteo Trent’, dice Shakespeare; e tanto più meridionale, tanto più affettato, dico io.“ Abbiamo qui un esempio interessante del culto nordicizzante. Non soltanto voi e io e ogni altro inglese del Sud siamo liquidati come “grassi e molli”, ma perfino l’acqua, quando si spinga a nord di una data latitudine, cessa di essere H 2 O per divenire qualcosa di misticamente superiore. Ma l’interesse di questo brano sta nel fatto che l’autore della lettera è un uomo di notevolissima intelligenza e di idee molto avanzate, ii quale non avrebbe che disprezzo per il nazionalismo nelle sua forma ordinaria. Servitegli qualcuna di tali frasi correnti quale «Un inglese vale tre stranieri» ed egli la respingerà con orrore. Ma quando si tratta del Nord contro il Sud, lo troverete dispostissimo a generalizzare. “Tutte” le distinzioni nazionalistiche – ogni diritto a proclamarsi migliori di qualcun altro solo perché si ha un cranio di forma diversa o si parla un dialetto differente – sono del tutto spurie, ma sono importanti finché la gente vi creda. Non c’è dubbio sulla convinzione connaturata dell’inglese secondo la quale tutti quelli che vivono più a sud di lui gli sono inferiori; perfino la nostra politica estera è ispirata a un certo grado a questa convinzione. Ritengo pertanto che valga la pena di porre in rilievo quando e come sia venuta in essere. Quando il nazionalismo divenne per la prima volta una religione, gli inglesi guardarono una carta geografica e notando che la loro isola si trovava in posizione molto elevata
nell’emisfero settentrionale, elaborarono la piacevole teoria che più vivi a nord, più diventi virtuoso. Le fanfaluche che mi furono spacciate quand’ero piccolo generalmente cominciavano con lo spiegare nel modo più ingenuo che un clima freddo rendeva le popolazioni energiche, mentre uno caldo le faceva indolenti, donde la disfatta dell’Armada spagnola. Questa panzana sulla superiore energia degli inglesi (che in realtà sono il popolo più indolente d’Europa) è diffusa da almeno cento anni «Meglio è per noi» scrive un collaboratore della “Quarterly Review” del 1827 «essere condannati alle più dure fatiche per il bene del nostro paese che non a una vita di mollezze tra olivi, vigneti e vizi» “Olivi, vigneti e vizi“ riassume la normale mentalità britannica nei riguardi delle razze latine. Nella mitologia di Carlyle, Creasey, eccetera il “northener”, o settentrionale (detto “teutonic”, poi “nordic”) è dipinto come un tipo robusto e vigoroso, dai baffi biondi e la morale immacolata, mentre il “southerner”, o meridionale, è astuto, vile e licenzioso. Questa teoria non è mai stata portata alle sue estreme conseguenze, che imporrebbero la necessità di assumere che il miglior popolo del mondo è l’esquimese, ma ha sottinteso l’ammissione che le popolazioni le quali vivono a nord di noi sono superiori a noi stessi. Da qui, in parte, il culto della Scozia e delle cose scozzesi, che ha segnato così profondamente la vita inglese degli ultimi cinquant’anni. Ma è stata l’industrializzazione del Nord a dare all’antitesi Nord–Sud la sua particolare sfumatura. Fino a tempi relativamente vicini la parte settentrionale dell’Inghilterra era la parte arretrata e feudale e quel po’ d’industrie che potevano esserci erano concentrate a Londra e nel Sud–Est. Nella Guerra Civile, per esempio, guerra, per dirla in parole povere, di quattrini contro il feudalesimo, il Nord e l’Ovest erano per il re e il Sud e l’Est per il Parlamento. Ma col crescente uso del carbone l’industria passò nel Nord e là si creò un nuovo tipo d’uomo, l’uomo d’affari settentrionale che si è fatto da sé, il signor Rouncewell e il signor Bounderby di Dickens. L’uomo d’affari settentrionale, con la sua odiosa filosofia del “‘get on or get out’” (o fai o vai), fu la figura dominante del diciannovesimo secolo e, come una specie di tirannico cadavere, ancora ci governa. E’ il tipo divinizzato da Arnold Bennett, il tipo che inizia con mezza corona in tasca e finisce con cinquantamila sterline, e il cui vanto principale è di essere, dopo aver fatto i quattrini, uno scocciatore ancora più grande di prima. All’analisi, la sua unica virtù risulta essere il talento di fare quattrini. Ci è stato detto di ammirarlo, perché, sebbene potesse essere di mente ristretta, avaro, ignorante, avido e grossolano, aveva coraggio ed energia, “faceva”; in altre parole, sapeva guadagnare denaro. Questo genere di chiacchiere è ormai del tutto anacronistico, ché l’uomo d’affari del Nord non è più prospero. Ma le tradizioni non sono distrutte dai fatti e la tradizione del “coraggio” settentrionale perdura. Si pensa ancora vagamente che un settentrionale “farà”, vale a dire farà quattrini, là dove uno del Sud non riuscirà. Nel cuore più segreto di ogni scozzese e di ogni originario dello Yorkshire che se ne vengano a Londra c’è l’immagine di un se stesso simile al ragazzetto che inizia vendendo giornali per via e conchiude come Lord Mayor. Ed è proprio ciò che sta alla base della sua presunzione. Ma dove si può commettere un grande errore è nell’immaginare che questo sentimento si estenda alla autentica classe operaia. Quando andai per la prima volta nello Yorkshire, alcuni anni fa, m’ero aspettato di ritrovarmi in un paese di zotici villanacci. Ero avvezzo all’“Yorkshireman” di Londra, con le sue interminabili arringhe e il suo orgoglio nel supposto vigore del suo dialetto («“Un punto in tempo ne salva cento“, come diciamo noi nel West Riding») e m’aspettavo di dover sopportare una dose notevole di villanie. Ma non ebbi in sorte nulla del genere e meno che mai tra i minatori. Anzi, i minatori del
Lancashire e dello Yorkshire mi trattarono con una cortesia e una gentilezza addirittura imbarazzanti; perché se c’è un tipo d’uomo a cui mi sento inferiore, è un minatore di carbone. Nessuno, certo, mi disprezzò per venire da una regione differente del paese. Ciò ha la sua importanza, quando si ricordi che gli snobismi regionali inglesi sono un nazionalismo in miniatura; ché si è indotti a credere che lo snobismo di campanile non è una caratteristica della classe operaia. C’è tuttavia una reale differenza fra il Nord e il Sud, e c’è almeno una sfumatura di verità nel quadro che raffigura l’Inghilterra meridionale come una enorme Brighton popolata di sfaccendati. Per ragioni climatiche, la parassitaria classe dei reddituari tende a stabilirsi nel Mezzogiorno. In una città cotoniera del Lancashire potreste probabilmente andare avanti per mesi e mesi di fila senza udire una sola volta un accento “educato”, mentre non c’è una sola città nell’Inghilterra meridionale dove lanciando una pietra non si colpisca la nipote di un vescovo. Di conseguenza, mancando una piccola nobiltà da imitare, la borghesizzazione della classe operaia, sebbene si verifichi nel Nord, si verifica più lentamente. Tutti gli accenti settentrionali, per esempio, persistono tenaci, mentre quelli meridionali tendono a scomparire dinanzi al cinema parlato e alla B.B.C. Onde il tuo accento “educato” ti bolla come straniero piuttosto che come un esponente della piccola nobiltà; e questo è un immenso vantaggio perché rende molto più facile entrare in contatto con la classe operaia. Ma è mai possibile divenire realmente intimi della classe operaia? Dovrò parlare di questo più avanti; qui dirò soltanto che non lo credo possibile. Ma senza dubbio è più facile nel Nord che nel Sud trattare con elementi operai su basi approssimativamente di parità. E’ abbastanza facile vivere in casa di un minatore ed essere accettato come uno della famiglia; con, diciamo, un bracciante agricolo delle contee meridionali probabilmente sarebbe impossibile. Ho visto della classe operaia quel tanto che basti ad evitar di idealizzare gli operai, ma so che si può imparare molto in una casa operaia, solo che vi si possa andare a vivere. Il punto essenziale è che i vostri ideali e pregiudizi borghesi sono messi alla prova dal contatto con altri ideali e pregiudizi che non sono necessariamente migliori, ma sono certo diversi. Prendiamo per esempio la diversità d’atteggiamento nei riguardi della famiglia. Una famiglia operaia rimane connessa insieme come fa una famiglia del medio ceto, ma il rapporto è molto meno tirannico. Un operaio non ha il peso morto del prestigio della famiglia appeso al collo come una macina di mulino. Ho accennato più sopra che un uomo del ceto medio va del tutto a pezzi sotto l’influenza della povertà; e ciò si deve generalmente al comportamento della sua famiglia, al fatto che quell’uomo ha una miriade di parenti che lo assillano e lo tormentano giorno e notte per non essere riuscito a far quattrini. Il fatto che la classe operaia sappia cooperare e il ceto medio no è dovuto probabilmente alle loro differenti concezioni della fedeltà familiare. Non si può avere un’effettiva associazione sindacale di lavoratori del ceto medio, perché in periodi di sciopero quasi ogni moglie borghese istigherebbe il marito a fare il crumiro e a prendere il lavoro dell’altro. Un’altra caratteristica operaia, sconcertante in un primo momento, è la schiettezza nei riguardi di chiunque l’operaio ritenga suo pari. Se offrite a un operaio qualcosa che egli non vuole, vi dirà che non la vuole; una persona del ceto medio l’accetterà evitando così di offendervi. E inoltre, si consideri l’atteggiamento degli operai verso l’“educazione”. Quanto diverso dal nostro e quanto immensamente più sano! Gli operai hanno spesso un vago rispetto per la cultura negli altri, ma là dove l’“educazione” tocchi la loro vita sanno vedere fino in fondo e la respingono in virtù di un istinto salutare.
Ci fu un tempo in cui ero solito piagnucolare su scene del tutto immaginarie di ragazzi quattordicenni trascinati via recalcitranti dalle loro lezioni e sottoposti a lavori terribilmente duri. Mi sembrava atroce che la maledizione del “lavoro” dovesse abbattersi su chi aveva soltanto quattordici anni. Naturalmente, so ora che non c’è un solo ragazzo di famiglia operaia che non veda l’ora in cui potrà lasciare la scuola. Lui vuole lavorare sul serio, non perdere il tempo in ridicole sciocchezze come la storia e la geografia. Per il ceto operaio, l’idea di restare sui banchi della scuola fino a quando sei quasi adulto pare semplicemente riprovevole e non virile. Che cosa buffa, un giovanotto grande e robusto di diciotto anni, che dovrebbe portare a casa ogni settimana almeno una sterlina per i suoi vecchi e invece se ne va a scuola in una uniforme ridicola e si busca anche delle vergate per non aver fatto i compiti! Lui è un uomo quando l’altro è ancora bambino. Ernest Pontifex, in “Way of All Flesh“, di Samuel Butler, dopo aver dato uno sguardo alla vita reale, si volse a ricordare l’educazione avuta a scuola e poi all’università e la trovò un «pervertimento debilitante e disgustoso». C’è molto nella vita borghese che appare debilitante e disgustoso quando lo si consideri dal punto di vista operaio. In una casa della classe operaia – non penso per il momento a case di operai disoccupati, ma ad altre relativamente prospere – si respira un’atmosfera calda, onesta, profondamente umana, che non è molto facile trovare altrove. Direi che un operaio manuale, se con lavoro fisso e con una buona paga – un “se” che diviene sempre più grande ha maggiori probabilità di essere felice di un uomo “educato”. La sua vita domestica sembra rientrare più naturalmente in una forma sana e armoniosa. Sono rimasto spesso colpito dalla facile compiutezza, dalla perfetta simmetria, per così dire, che sono peculiari di una casa operaia nei suoi momenti migliori. Specialmente nelle sere d’inverno dopo il tè, quando il fuoco splende nel camino e danza riflesso nel parafuoco di metallo, quando papà, in maniche di camicia, siede nella poltrona a dondolo su di un lato del camino leggendo delle finali alle corse di cavalli e mamma siede dall’altro lato col suo lavoro di cucito, e i bambini sono stati resi felici con un penny di caramelle alla menta, e il cane si lascia beatamente rosolare abbandonato sul tappetino di stracci, è bello trovarsi in un ambiente simile, purché uno non solo possa trovarcisi, ma essere anche abbastanza parte di esso per sapersi accettato come normale. Questa scena si ripete nella maggioranza delle case inglesi, sebbene non più tante quante erano prima della guerra. La sua felicità dipende soprattutto da un solo problema: se papà abbia lavoro. Ma si noti che il quadro da me evocato, di una famiglia operaia; seduta intorno al fuoco di carbone dopo aver cenato con pesce affumicato e tè, appartiene soltanto al nostro particolare periodo di tempo e non potrebbe appartenere né al futuro né al passato. Facciamo un balzo in avanti di duecento anni in un futuro da Utopia e la scena è del tutto diversa. Non una delle cose che ho immaginato esisterà ancora. In quel tempo in cui non c’è più lavoro manuale e tutti sono “educati” è estremamente improbabile che papà sia ancora un uomo rozzo che, le mani deformate dal lavoro, ama starsene seduto in maniche di camicia e dice: “Mi stavo vegnendo su per la strada”. E non ci sarà un fuoco di carbone nel camino, ma chi sa che specie di invisibile diffusore termico. I mobili saranno fatti di gomma, vetro e acciaio. Se ancora ci saranno cose come giornali della sera, non riporteranno di sicuro notizie sulle corse di cavalli, perché il gioco d’azzardo non avrà più senso in un mondo senza miseria, dove il cavallo sarà scomparso dalla faccia della terra. Anche i cani saranno stati soppressi per motivi d’igiene. E non ci saranno neppure molti bambini, se i sostenitori del controllo delle nascite l’avranno avuta vinta. Ma retrocediamo nel Medio Evo e ci troviamo in un mondo quasi altrettanto estraneo. Una capanna senza finestre, un focherello di legna che ti soffia in faccia il fumo perché non c’è né cappa né
camino, pane muffito, «Poor John», cimici, scorbuto, un bambino che ti muore un anno, un bambino che ti nasce il successivo e il prete che ti atterrisce con racconti sull’inferno. Cosa abbastanza strana, non sono i trionfi dell’ingegneria e della tecnica moderne, né la radio, né il cinematografo, né i cinquemila romanzi che si pubblicano annualmente, né le folle alle gare di Ascot, Eton e Harrow, ma il ricordo degli interni di case operaie specialmente come li ho veduti talvolta nell’infanzia prima della guerra, quando l’Inghilterra era ancora prospera – che mi dice come la nostra età non sia stata del tutto cattiva a viversi.
PARTE SECONDA. CAPITOLO 8. La strada che va da Mandalay a Wigan è lunga e le ragioni per averla presa non sono immediatamente chiare. Nei precedenti capitoli di questo libro ho dato un resoconto piuttosto frammentario di varie cose che ho visto nelle regioni carbonifere del Lancashire e dello Yorkshire. Mi sono recato colà un po’ perché volevo vedere che cosa sia la disoccupazione di massa nella sua fase peggiore e un po’ per osservare da vicino la più tipica sezione della classe operaia inglese. Ciò era necessario per me come parte del mio aderire al socialismo. Perché prima di sentirci sicuri di essere genuinamente socialisti si deve decidere se le cose al presente siano tollerabili o non tollerabili e si deve assumere un atteggiamento definito sul problema terribilmente difficile del classismo. Qui sarò costretto a fare una digressione e a spiegare come il mio atteggiamento si sia formato nei riguardi del classismo. Ovviamente ciò implica la necessità di scrivere dei brani autobiografici, e non lo farei se non ritenessi di essere sufficientemente tipico della mia classe, o meglio della mia sottocasta, per avere una certa importanza sintomatica. Nacqui in quel ceto che si potrebbe definire piccola borghesia medioelevata. Il ceto medio– elevato, che ebbe i suoi giorni migliori tra il 1885 e il 1895, con Kipling come suo poeta laureato, era una specie di montagna di relitti lasciati indietro quando la marea della prosperità vittoriana si ritirò. O forse sarebbe meglio cambiare la metafora e descrivere i relitti non come una montagna, ma come un sedimento, il sedimento della società che aveva un reddito fra le 2000 e le 300 sterline all’anno: la mia famiglia non era molto lontana da quest’ultima cifra. Si noti che definisco la società in termini monetari, perché questo è sempre il metodo più rapido di farsi intendere. Comunque, il punto essenziale sul sistema classista inglese è che non è del tutto spiegabile in termini di quattrini. Parlando grosso modo, è una stratificazione finanziaria, ma è anche interpenetrato da una specie di nebbioso sistema di casta; qualcosa di simile a un moderno villino malcostruito e infestato da fantasmi medioevali. Da qui il fatto che l’alto ceto medio si spinge o si spingeva fino a comprendere redditi annui così bassi come trecento sterline, redditi, cioè, molto più bassi di quelli della piccola borghesia senza ambizioni mondane. Probabilmente ci sono paesi dove si possono arguire le opinioni di una persona dal suo reddito, ma in Inghilterra a far così non si è mai certi di non sbagliare; si devono sempre prendere in considerazione anche le tradizioni della persona in oggetto. Un ufficiale di marina e il suo droghiere hanno con ogni probabilità lo stesso reddito, ma non sono persone equivalenti e si troverebbero dalla stessa parte soltanto in eventi di vastissime proporzioni come una guerra o uno sciopero generale, e forse nemmeno allora.
Naturalmente è ovvio ora che l’alto ceto medio è liquidato. In ogni città di provincia dell’Inghilterra meridionale, per non parlare delle desolate distese di Kensington e di Earl’s Court, coloro che lo conobbero nei giorni del suo splendore, sono in agonia, vagamente amareggiati da un mondo che non si è comportato come avrebbe dovuto. Non apro mai uno dei libri di Kipling o non entrò mai in uno di quegli enormi negozi malinconici che erano una volta la meta favorita dell’alto ceto medio, senza pensare “Mutamento e decadenza in tutto quello che vedo intorno“. Ma prima della guerra l’alto ceto medio, sebbene già non troppo prospero, si sentiva ancora sicuro di sé. Prima della guerra o eri un “gentleman” o non lo eri, e se eri un “gentleman” lottavi per condurti di conseguenza, quale che potesse essere il tuo reddito. Tra coloro con 400 sterline all’anno e coloro con 2000 o anche 1000, c’era un divario immenso, ma era un divario che quelli dalle 400 sterline annue facevano del loro meglio per ignorare. Probabilmente il segno di distinzione dell’alto ceto medio era che le sue tradizioni non erano in modo alcuno commerciali, ma soprattutto militari, burocratiche e professionali. La gente di questa classe non possedeva terra, ma si sentiva proprietaria di terre al cospetto di Dio e si dava un tono semiaristocratico dedicandosi alle professioni e alla carriera militare piuttosto che al commercio. I ragazzini solevano contare i noccioli di prugna nel loro piatto e predire il loro avvenire cantilenando «Esercito, Marina, Chiesa, Medicina, Legge»; e perfino tra queste la “Medicina” era lievemente inferiore alle altre e soltanto inserita per amor di simmetria. Far parte di questa classe quando ti trovavi al livello delle 400 sterline annue era una bizzarra faccenda, perché significava che la tua nobiltà era puramente teorica. Vivevi, per così dire, contemporaneamente su due piani. In teoria, sapevi tutto riguardo ai domestici e al modo di dar loro la mancia, ma in pratica avevi un solo cameriere, al massimo due, fissi in casa. In teoria, sapevi portare i tuoi abiti e ordinare un pranzo, ma in pratica non potevi mai permetterti di andare da un sarto di nome o di recarti in un ristorante alla moda. In teoria, sapevi andare a caccia e a cavallo, ma in pratica non avevi cavallo da montare e non un pollice di terreno cui cacciare. E questo che spiega l’attrattiva esercitata dall’India (più recentemente dal Kenya, dalla Nigeria, eccetera) sull’alto ceto medio. Coloro che vi si recavano non ci andavano per far quattrini, ché un militare o un funzionario non fa quattrini; ci andavano perché in India, con cavalli a buon mercato, caccia gratuita e orde di servi di colore, era facile giocare al “gentleman”. Nel genere di famiglia decaduta, ma che vuol salvare le apparenze, della quale parlo, c’è di gran lunga più coscienza della povertà che in qualunque famiglia operaia al di sopra del sussidio. Reddito, abiti e rette scolastiche sono un incubo perenne, e ogni spesa voluttuaria, anche un bicchiere di birra, rappresenta una prodigalità ingiustificabile. Praticamente tutto il reddito della famiglia va nel salvar le apparenze. E’ ovvio che gente di questo genere si trova in una posizione anormale e si potrebbe essere tentati di non tenerne conto, come di pure eccezioni e pertanto prive d’importanza. In realtà, tuttavia, queste famiglie sono o erano moltissime. Gran parte dei pastori e dei maestri di scuola, per esempio, quasi tutti i funzionari anglo–indiani, parecchi ufficiali dell’esercito e della marina, e un bel numero di professionisti e artisti rientrano in questa categoria. Ma la reale importanza di questa classe è che essa funge da ammortizzatore per la borghesia. La vera borghesia, composta da coloro con 2000 sterline annue e oltre, ha il suo denaro posto come una spessa imbottitura fra se stessa e la classe che essa deruba; ammesso che sia consapevole dell’esistenza della “gente bassa”, ne è consapevole in quanto composta di impiegatucoli, domestici e bottegai.
Ma è del tutto diverso per i poveri diavoli del gradino inferiore che lottano per vivere una vita gentilizia con quello che è praticamente un reddito operaio. Costoro sono spinti in un certo senso in intimo contatto col ceto operaio e sospetto che sia da loro che deriva l’atteggiamento tradizionale dell’alta borghesia verso la gente “comune”. E qual è questo atteggiamento? Un atteggiamento di beffarda superiorità punteggiato da scoppi di odio violento. Si guardi qualunque numero del “Punch” degli ultimi trent’anni. Si troverà dappertutto come cosa ovvia che un operaio, in quanto tale, è una figura ridicola, salvo in certi momenti, quando rivela di essere troppo prospero, nel quale caso cessa di essere buffo per diventare un demone. Non val la pena di sprecare il fiato per denunciare questo atteggiamento. E’ meglio, piuttosto, esaminare come sia sorto, e per far questo bisogna rendersi conto del fatto che i ceti operai appaiono come quelli in mezzo ai quali vivono, ma hanno abitudini e tradizioni differenti. Una famiglia come quella di cui parlo è più o meno nella stessa posizione di una famiglia di “poveri bianchi” abitante in una strada dove tutti gli altri sono negri. In circostanze del genere, dovrete aggrapparvi alla vostra gentilità perché è la sola cosa che abbiate; e intanto sarete odiato per il vostro atteggiamento tronfio, l’accento e i modi che vi marchiano come un appartenente alla classe dei padroni. Ero piccolo, molto piccolo, non avevo più di sei anni, quando mi resi conto per la prima volta delle distinzioni di classe. Prima di quell’età, i miei eroi principali erano stati generalmente operai, perché sembravano sempre intenti a fare cose interessanti come pescare, battere il ferro o costruire case. Ricordo i braccianti di una fattoria della Cornovaglia i quali solevano farmi andare sulla seminatrice mentre seminavano rape e a volte prendevano le pecore e le mungevano per farmi bere il latte; e i muratori che stavano fabbricando una casa nuova accanto alla nostra e mi facevano giocare con la calcina fresca e dai quali imparai per la prima volta la parola “bà” 12; e l’idraulico, ricordo, in fondo alla strada, coi bambini del quale andavo a caccia di nidi d’uccelli. Ma non passò molto tempo prima che mi si proibisse di giocare coi figli dell’idraulico; erano “ordinari” e mi si disse di stare lontano da loro. Era una cosa un po’ snob, se volete, ma anche necessaria, perché gente del ceto medio non può permettere che i suoi figli imparino a parlare con accento plebeo. Così, prestissimo, la classe operaia cessò di essere una razza di creature amiche e meravigliose e divenne una razza di nemici. Ci accorgemmo che ci odiavano, ma non potemmo mai capire perché, e naturalmente attribuimmo la cosa a pura e intensa cattiveria. A me, nella mia prima infanzia, a quasi tutti i ragazzi di famiglie come la mia, la gente “comune” sembrava quasi subumana. Avevano facce rudi e volgari, accenti atroci, modi grossolani, odiavano chiunque non fosse come loro e se ne avevano l’opportunità ci insultavano brutalmente. Questo era il nostro modo di vederli, e sebbene erroneo, era comprensibile. Perché bisogna ricordare che prima della guerra c’era molto più odio di classe “dichiarato” di quel che non ci sia ora. In quegli anni avevi molte probabilità di essere insultato solo perché apparivi come un membro dei ceti superiori; oggi, d’altra parte, hai ancor più probabilità di essere adulato bassamente. Chiunque abbia più di trent’anni può ricordare quando era impossibile a una persona ben vestita transitare a piedi per una strada di quartiere operaio senza essere accolta da grida di dileggio. Interi quartieri delle grandi città erano considerati malsicuri a causa di quei giovinastri furfanteschi detti “hooligans” (un tipo 12 “Bitch”, donnaccia. (N.d.T.)
oggi quasi estinto), e ovunque i figli della strada londinesi, con la loro voce squillante e la loro mancanza di scrupoli intellettuali, potevano rendere impossibile la vita a coloro che consideravano inferiore alla propria dignità rispondere loro per le rime. Il terrore ricorrente delle mie vacanze, quand’ero bambino, erano le bande di “cads”, ragazzacci ineducati che ti si buttavano addosso spesso in cinque o dieci contro uno. D’altra parte, durante l’anno scolastico, eravamo noi ad essere in maggioranza e i “cads” ad avere la peggio; rammento un paio di selvagge battaglie in forze nel freddo inverno 1916-17. E questa tradizione di ostilità aperta tra ceti superiore e inferiore era evidentemente la stessa da più di un secolo. Una tipica vignetta del “Punch” degli anni intorno al 1860 era quella di un piccolo “gentleman” dall’aria nervosa e impressionabile, che passava a cavallo per la strada di un quartiere operaio inseguito da un codazzo di monelli che urlavano: «E’ arrivato l’elegantone! Spaventiamogli il cavallo!». Vi immaginate dei ragazzini di strada che oggi cercassero di spaventargli il cavallo? Molto probabilmente lo circonderebbero insistenti, nella vaga speranza di ricevere una mancia. Da una dozzina d’anni in qua la classe operaia inglese è diventata servile con una rapidità impressionante. Doveva accadere, perché l’orribile arma della disoccupazione ha sottomesso l’operaio. Prima della guerra la sua situazione economica era relativamente forte, perché, sebbene non ci fosse sussidio su cui contare, non c’era molta disoccupazione e la potenza della classe padronale non era così evidente come oggi. Un uomo non si vedeva la rovina di fronte ogni qual volta trattasse con impertinenza un “elegantone” e naturalmente trattava con impertinenza un “elegantone” tutte le volte che gli sembrasse di poterlo fare senza rischi. G. J. Renier nel suo libro su Oscar Wilde, fa rilevare come gli strani, osceni scoppi di furor popolare che accompagnarono il processo di Wilde fossero essenzialmente di natura sociale. La plebe di Londra aveva colto in stato d’inferiorità un membro del gran mondo e ora badava a farcelo restare. Tutto questo fu naturale e perfino corretto. Se si tratta il popolo come la classe operaia inglese è stata trattata negli ultimi due secoli, c’è da aspettarsi che se n’abbia a male. D’altra parte, i figli delle famiglie borghesi povere non possono essere biasimati se sono stati cresciuti nell’odio del ceto operaio, tipicizzato ai loro occhi nelle bande predaci dei “cads”. Ma c’è un’altra, e più grave, difficoltà. Arriviamo ora al vero segreto delle distinzioni di classe in Occidente, la vera ragione per cui un europeo di origini e educazione borghesi, anche quando si definisce comunista, non può pensare se non con un profondo sforzo a un operaio come a un suo pari. Si riassume in quattro tremende parole che la gente oggi dice con cautela, di rado, ma che durante la mia infanzia si udivano con grande frequenza: “La gente bassa puzza”. Ecco che cosa ci insegnavano, che “la gente bassa puzza”. E qui, ovviamente, ci troviamo di fronte a una barriera insuperabile. Perché nessun sentimento di simpatia o di antipatia è così fondamentale come un sentimento fisico. L’odio di razza, l’odio di religione, differenze di educazione, di temperamento, d’intelletto, perfino differenze di codice morale, possono essere superate; ma la ripugnanza fisica non si può superare. Potete avere dell’affetto per un assassino o un sodomita, ma non per un uomo dall’alito fetido, abitualmente fetido, intendo. Per quanto bene possiate augurargli, per quanto possiate ammirare il suo carattere e la sua mente, se gli puzza il fiato, è un uomo orribile e, nel più segreto fondo del cuore, lo odiate. Può non avere grande importanza che il borghese
medio sia allevato nell’idea che la classe operaia è ignorante, pigra, beona, triviale e disonesta; è quando vi si cresce nell’idea che l’operaio è anche sporco che si fa il guaio. E nella mia infanzia ci crescevano nell’idea che la gente del popolo è sporca. Molto presto nella vita acquisivi il concetto che c’è qualcosa di repulsivo in un corpo d’operaio; non eri disposto ad avvicinarlo più di quanto potessi. Vedevi un tarchiato manovale grondante sudore camminar per la strada col suo piccone sulla spalla, guardavi la sua camicia sbiadita e i suoi pantaloni di velluto ordinario induriti dalla sporcizia di un decennio; pensavi ai nodi e agli strati di cenci luridi sotto, e al disotto di tutto il corpo non lavato, scuro (così solevo immaginarlo), dal fortore acuto di lardo. Osservavi un vagabondo togliersi le scarpe in un fossoà Uff! Non ti passava veramente per il capo che al vagabondo poteva non piacere d’avere i piedi neri. E anche la gente bassa che sapevi essere pulita – i domestici, per esempio – era lievemente scostante. L’odore della sua traspirazione, lo stesso tessuto della sua epidermide erano misteriosamente diversi dalla tua. Chiunque sia cresciuto al corrente delle buone creanze e in una casa con bagno e una persona di servizio ha tutte le probabilità di avere avuto questi sentimenti; donde l’elemento abissale, insuperabile delle distinzioni di classe in Occidente. Strano quanto ciò si ammetta di rado. In questo momento posso ricordare un solo libro in cui ciò è detto senza impostura, ed è “On a Chinese Screen”, di Somerset Maugham. L’autore descrive un alto funzionario cinese che arriva in una locanda sul margine della strada, burrascoso e insolentendo tutti per far sentire a ognuno quanto lui sia un supremo dignitario e loro vermi. Cinque minuti dopo, avendo asserito la sua dignità nel modo che a lui sembra adatto, si mette a mangiare in perfetta amicizia coi portatori del suo bagaglio. Come funzionario pensa di dover far sentire la sua presenza, ma non ritiene che i facchini siano di un’argilla differente dalla sua. Ho osservato in Birmania innumerevoli scene del genere. Tra i mongoli – tra tutti gli asiatici, per quel che ne so io – c’è una specie di naturale uguaglianza, una spontanea intimità tra uomo e uomo, che è semplicemente impensabile in Occidente. Maugham aggiunge: “In Occidente siamo divisi dai nostri simili dal nostro senso dell’odorato. Il lavoratore è il nostro padrone, incline a dominarci con una mano di ferro, ma non si può negare che puzzi: nessuno può stupirsene, perché un bagno all’alba, quando si deve correre al lavoro prima che la sirena dello stabilimento si metta a fischiare non è una cosa piacevole, né i lavori pesanti invitano alle finezze; e non ci si cambia di biancheria più spesso di quel che si possa, quando il bucato della settimana è fatto da una moglie dalla lingua tagliente. Non incolpo l’operaio perché puzza, ma resta il fatto che egli puzza. Ciò rende i rapporti sociali piuttosto difficili per le persone dalle nari sensibili. Il bagno mattutino divide le classi in maniera più efficace di nascita, ricchezza o educazione.“ Intanto, la “gente bassa” puzza veramente? E’ naturale che, nell’insieme, sia più sudicia dei ceti elevati. E non può essere altrimenti, date le condizioni in cui vivono gli operai, e dato che a tutt’oggi meno della metà delle case inglesi ha il bagno. Inoltre, l’abitudine di lavarsi completamente tutti i giorni è molto recente in Europa e i ceti operai sono generalmente più conservatori della borghesia. Ma gli inglesi stanno diventando visibilmente più puliti e noi possiamo sperare che tra un centinaio di anni siano puliti quasi come i giapponesi. E’ un peccato che coloro i quali idealizzano la classe operaia ritengano così spesso necessario lodare ogni caratteristica della classe lavoratrice e sostengano pertanto che la sporcizia è qualcosa di meritorio in sé. Qui, cosa abbastanza strana, il socialista e il sentimentale cattolico democratico tipo Chesterton si stringono
talvolta la mano; entrambi vi diranno che la sporcizia è sana e “naturale” e la pulizia un capriccio se non addirittura un lusso13. Non sembrano vedere che essi danno semplicemente colore al concetto che la classe operaia è sudicia per sua elezione e non per necessità. In realtà, coloro che hanno accesso a un bagno solitamente ne fanno uso. Ma la cosa essenziale è che il ceto medio crede che gli operai in genere siano sudici – abbiamo visto nel brano citato sopra che lo stesso Maugham lo crede – e, peggio ancora, crede che in certo qual modo siano “inerentemente” sudici. Da bambino, una delle cose più terribili che potessi immaginare era di bere a una bottiglia dopo che ci aveva bevuto un manovale. Una volta, avevo tredici anni, venivo in treno da una città dove s’era tenuto un mercato e il vagone di terza classe era gremito di pastori e di porcari che erano andati a vendere le loro bestie. Qualcuno tirò fuori una bottiglia di birra e la passò in giro; la bottiglia viaggiò da una bocca a un’altra bocca e a un’altra ancora, tutti ingollando una buona sorsata. Non posso descrivere l’orrore che provai nel vedere la bottiglia venire un po’ alla volta verso di me. Se avessi avvicinato le labbra a quella bottiglia dopo tutte quelle bocche maschili di gente bassa ero certo che mi sarei messo a vomitare; d’altra parte, se mi avessero offerto da bere non avrei osato rifiutare per timore di offenderlià vedete come la schizzinosità del ceto medio operi nei due sensi. Ormai, grazie a Dio, non ho più sentimenti del genere. Il corpo di un operaio, in quanto tale, non mi ripugna più di quello d’un milionario. Non mi piace nemmeno ora bere da una bottiglia o da una tazza dove abbia bevuto un’altra persona, un altro uomo, intendo: se si tratta di una donna, è diverso; ma almeno il problema della classe non c’entra. E’ stato il mescolarmi ai vagabondi che me ne ha guarito. I vagabondi non sono poi troppo sporchi, per quel che riguarda gli inglesi, ma hanno la fama di esserlo, e quando abbiate diviso il letto con un vagabondo e bevuto il tè nella stessa gavetta, avrete l’impressione di avere visto il peggio e di non temerne più gli orrori. Mi sono dilungato su questi argomenti perché li ritengo vitalmente importanti. Per liberarvi delle distinzioni di classe bisogna cominciare col capire come una classe appaia quando è vista con gli occhi di un’altra. E’ inutile dire che i ceti medi sono snob e non pensarci più. Non si va avanti di un altro passo se non ci si rende conto che lo snobismo è avvolto in una specie di idealismo. Deriva dai primordi dell’educazione, quando a un bambino borghese si insegna contemporaneamente a lavarsi il collo, a essere pronto a morire per la patria e a disprezzare la “bassa gente”. Mi si accuserà qui di essere indietro coi tempi, perché sono stato bambino prima e durante la guerra e si può sostenere che i ragazzi oggi sono allevati con concetti più illuminati. E’ probabilmente vero che il sentimento di classe è per il momento assai meno invelenito di quel che fosse una volta. I ceti operai sono più remissivi là dove solevano essere apertamente ostili, e l’industria postbellica degli abiti a buon mercato e il generale addolcirsi dei modi hanno temperato le differenze superficiali tra classe e classe. Ma senza dubbio il sentimento essenziale rimane. Ogni persona appartenente al ceto medio ha un pregiudizio di classe latente, cui abbisogna ben poco per ridestarsi; e se la persona ha più di quarant’anni probabilmente nutre la radicata convinzione che la sua propria classe sia stata sacrificata a beneficio di quella inferiore. Provate a dire al tipo di uomo medio d’origini sociali elevate, il quale lotta per salvar le apparenze con un reddito di non più di quattro o cinquecento sterline all’anno, che è membro di una classe parassitaria e 13 Secondo Chesterton, la sporcizia è semplicemente una specie di “disagio” (“discomfort”) e pertanto si classifica come automortificazione. Purtroppo il disagio della sporcizia è sofferto da altre persone. Non è poi tanto disagevole essere sudici, almeno non così disagevole come fare un bagno freddo in un mattino di inverno. (N.d.A.)
sfruttatrice, ed egli vi prenderà per matto. Con perfetta sincerità, vi illustrerà una dozzina di ragioni per cui egli vive di gran lunga peggio di un operaio. Ai suoi occhi gli operai non sono una razza soggiogata di schiavi, ma una sinistra marea che sale a sommergere lui, la sua famiglia, i suoi amici, spazzando via dall’esistenza ogni cultura e ogni cosa civile. Da qui quella bizzarra tema guardinga che la classe operaia non abbia a diventar troppo prospera. In un numero del “Punch” dell’immediato dopoguerra, quando il carbone si vendeva ancora a un prezzo molto elevato, c’è una vignetta dove quattro o cinque minatori dai volti cupi e sinistri corrono a bordo di un’automobile da quattro soldi. Un amico che sta passando chiede loro dove l’abbiano presa «L’abbiamo comperata!» rispondono. Questo, vedete, “è quel che ci vuole per Punch“: che dei minatori acquistino un’automobile, anche se in quattro o cinque, è una mostruosità, una specie di delitto contro natura. Questa era la mentalità dominante una dozzina di anni fa, ed io non vedo indizio di mutamenti fondamentali. Il concetto che la classe operaia sia stata assurdamente accarezzata, disperatamente rammollita da sussidi, pensioni, istruzione gratuita, eccetera, è ancora largamente diffuso; è stato solo un po’ scosso, forse, dalla recente ammissione che la disoccupazione esiste. Per moltissime persone del ceto medio, probabilmente per una forte maggioranza di quelle che hanno superato la cinquantina, il tipico operaio si reca ancora all’ufficio di collocamento in motocicletta e usa la vasca da bagno per tenerci il carbone: «E so che non mi vorrai credere, mio caro amico, se ti dico che “si sposano”, realmente si sposano, col sussidio:!». Il motivo per cui l’odio di classe sembra in diminuzione è che oggi tende a comparir sempre meno sulla stampa, un po’ per l’abitudine invalsa nel nostro tempo di dire cose sgradevoli il meno possibile e un po’ perché i giornali e anche i libri oggi devono rivolgersi a un pubblico operaio. Di norma potete studiarlo meglio nelle conversazioni private. Ma se si vuole qualche esempio stampato, varrà la pena di dare un’occhiata agli “obiter dicta”14 del defunto professor Saintsbury. Saintsbury era un uomo di grande cultura e sotto certi riguardi un eccellente critico letterario, ma quando parlava di politica o di economia differiva dal resto della sua classe soltanto nel fatto che aveva la pelle di un rinoceronte ed era nato troppo presto per vedere la minima ragione di aspirare a un comune incivilimento. Secondo Saintsbury, l’assicurazione contro la disoccupazione semplicemente «contribuiva a mantenere un esercito di indolenti fannulloni» e l’intero movimento sindacale non era altro che una specie di mendicità organizzata: “‘Pauper’ è oggi quasi passibile di azione giudiziaria, non è vero, quando usato come parola? sebbene essere poveri, nel senso di essere totalmente o in parte mantenuti a spese di altre persone sia l’aspirazione ardente, e in grado notevole soddisfatta, di una larga proporzione del nostro popolo e di tutto un partito politico.“ (2. Album). Va notato, tuttavia, che Saintsbury ammette che la disoccupazione è tenuta a esistere e, infatti, egli ritiene che debba esistere, finché i disoccupati siano fatti soffrire il più possibile: “Non è forse il lavoro “saltuario” il segreto stesso e la valvola di sicurezza di un sistema lavorativo generalmente sicuro e sano? àIn un complesso stato industriale e commerciale l’impiego continuo con salari regolari è impossibile; mentre una disoccupazione alimentata dal sussidio di poco inferiore alla paga di lavoro, è demoralizzante dal principio e rovinosa alla sua più o meno rapida fine.“ (Ultimo Album). Che cosa esattamente avvenga ai “lavoratori saltuari” quando non salti fuori nessun 14 Opinioni espresse incidentalmente. (N.d.R.)
lavoro saltuario Saintsbury non dice. Presumibilmente (Saintsbury parla con approvazione delle “buone Leggi per l’Assistenza Pubblica“) dovranno andare all’ospizio di mendicità o dormire per le vie. Quanto all’idea che ogni essere umano abbia diritto ovviamente all’opportunità di guadagnarsi almeno una vita sopportabile, Saintsbury la respinge con disprezzo: “Anche il ‘diritto alla vita’à non va oltre il diritto alla protezione dall’omicidio. La carità certamente vorrà, la moralità forse potrà e il pubblico vantaggio forse dovrà aggiungere a questa protezione eccezionali provvidenze per la continuazione della vita; ma è opinabile se la pura giustizia lo esiga. Quanto all’insana dottrina che l’essere nato in un dato paese dia diritto al possesso del suolo di questo paese non merita nemmeno d’essere presa in considerazione.“ (Ultimo Album). Val la pena di riflettere per un istante sugli stupendi sottintesi di quest’ultimo brano. L’interesse di passaggi come questi (e sono sparsi per tutta l’opera di Saintsbury) risiede nel fatto che siano stati addirittura pubblicati. La maggior parte della gente si vergogna a mettere cose del genere sulla carta. Ma ciò che Saintsbury dice qui è ciò che ogni vermiciattolo con cinquecento sicure sterline all’anno “pensa” e quindi in un certo senso bisogna ammirarlo per dirlo. Ci vuole davvero del fegato ad essere “apertamente” un simile furfante. Questa la mentalità di un reazionario dichiarato. Ma che dire del borghese le cui idee non sono reazionarie, ma progressive? Sotto la maschera rivoluzionaria, è poi realmente così diverso dall’altro? Un borghese abbraccia il socialismo e forse s’iscrive addirittura al partito comunista. Ciò, che reale differenza fa? Ovviamente, vivendo nella struttura della società capitalistica, egli deve continuare a guadagnarsi da vivere, e non lo si può biasimare se si afferra alla sua posizione economica borghese. Ma c’è qualche mutamento nei suoi gusti, nelle sue abitudini, nei suoi modi, nella sua mentalità, nella sua “ideologia” per usare il termine dei comunisti? C’è il minimo mutamento in lui, oltre al fatto che ora egli vota laborista, o, quando possibile, comunista alle elezioni? E’ da notarsi che egli continua a frequentare abitualmente le persone del suo ceto; si sente infinitamente più a suo agio con un membro della sua classe, il quale lo ritiene un pericoloso bolscevico, che con un membro della classe operaia, il quale si suppone condivida le sue idee; i suoi gusti in fatto di cibo, vino, abiti, libri, quadri, musica, balletto sono ancora riconoscibilmente gusti borghesi; e particolarità straordinariamente significativa, invariabilmente sposa una donna della sua classe. Si osservi qualunque socialista borghese. Si osservi il compagno X, membro del partito comunista di Gran Bretagna e autore di un “Marxismo per gli Infanti”. Si dà il caso che il compagno X è un vecchio etoniano. E’ pronto a morire sulle barricate, in teoria, comunque, ma vi accorgete che egli porta ancora l’ultimo bottone del panciotto sbottonato. Idealizza il proletariato, ma è notevole quanto poco assomiglino le sue abitudini a quelle di un proletario. Forse una volta, per pura bravata, ha fumato un sigaro con ancora la fascetta intorno, ma gli sarebbe quasi impossibile fisicamente portarsi dei pezzi di formaggio in bocca infilzati nella punta del coltello, o starsene in casa col cappello in testa o bere il tè nel piattino. Forse, le buone creanze a tavola non sono una cattiva dimostrazione di sincerità. Ho conosciuto un buon numero di socialisti borghesi, ho ascoltato per ore le loro tirate contro la loro stessa classe, eppure mai, nemmeno una sola volta, ne ho visto uno che avesse
adottato il modo di stare a tavola di un proletario. Ma, alla fin fine, perché no? Perché un uomo che crede che tutte le virtù risiedano nel proletariato debba ancora prendersi il disturbo di sorbire la minestra senza far rumore con le labbra? Può essere solo perché nel segreto del suo cuore è convinto che i modi del proletariato sono disgustosi. Così che, vedete, egli ancora risponde agli insegnamenti della sua infanzia, quando gli si diceva di odiare, temere, disprezzare la classe operaia.
CAPITOLO 9. Quando avevo quattordici o quindici anni ero un insopportabile piccolo snob, ma non peggio degli altri ragazzi della mia età e del mio ceto. Suppongo che non ci sia luogo al mondo in cui lo snobismo sia tanto onnipresente o coltivato in forme tanto sottili e raffinate quanto in una scuola media inglese. Qui almeno non si potrà dire che l’“educazione” inglese venga meno al suo compito. Si dimenticherà il latino e il greco nel giro di pochi mesi dopo aver lasciato la scuola – ho studiato il greco per otto o dieci anni, ed ora, a trentatrè anni, non so nemmeno ripetere l’alfabeto greco – ma il nostro snobismo, a meno che non lo si voglia sradicare da quell’erbaccia rampicante che è, ci resta attaccato addosso fino alla tomba. A scuola mi trovavo piuttosto a disagio, perché in compagnia di ragazzi che, in massima parte, erano molto più ricchi di me, ed io ero allievo di una costosa scuola media solo perché avevo vinto una borsa di studio. Questa è l’esperienza comune a tutti i ragazzi della piccola borghesia, figli di pastori, funzionari anglo–indiani, eccetera e gli effetti che ebbe su di me furono probabilmente i soliti. Da una parte mi indusse ad aggrapparmi più strettamente che mai alla mia gentilità; dall’altra, mi colmò di risentimento contro quei ragazzi che avendo genitori più ricchi dei miei non trascurarono di farmelo pesare. Disprezzavo chiunque non potesse essere descritto come un “gentleman”, ma odiavo anche i ricchi soprattutto quelli che lo erano da troppo poco tempo. La cosa corretta e gentile, secondo me, era essere di nobile nascita, ma non aver quattrini. Questo fa parte del “credo” della piccola borghesia. Ha un sapore romantico, da giacobita esule, molto confortante. Ma quegli anni, durante e subito dopo la guerra, erano un tempo strano per andare a scuola, perché l’Inghilterra era più vicina alla rivoluzione di quel che sia stata poi o fosse stata da un secolo a quella parte. Passava per quasi tutta la nazione un’ondata di sentimenti rivoluzionari che è stata poi invertita e dimenticata, ma che si è lasciata dietro vari depositi di sedimento. Essenzialmente, sebbene non si potesse allora, com’è comprensibile, vederla in prospettiva, era una rivolta della gioventù contro la vecchiaia, un risultato diretto della guerra. In guerra i giovani erano stati sacrificati e i vecchi s’erano condotti in un modo che, anche a questa distanza di tempo, è orribile a vedersi: s’erano comportati con severo patriottismo standosene al sicuro, mentre i loro figli cadevano falciati dalle mitragliatrici germaniche. Inoltre, la guerra era stata condotta soprattutto da uomini vecchi ed era stata condotta con suprema incompetenza. Nel 1918 chiunque fosse sotto i quarant’anni ce l’aveva coi suoi maggiori e lo spirito antimilitaristico che seguì naturalmente ai combattimenti si dilatò in una rivolta generale contro l’ortodossia e l’autorità. In quel periodo era diffuso tra i giovani un curioso culto dell’odio per i “vecchi”. Il predominio dei “vecchi” era ritenuto responsabile d’ogni male noto all’umanità ed ogni istituzione accettata, dai romanzi di Walter Scott alla Camera dei Lords, era derisa solo perché dei “vecchi” l’avevano in favore. Per parecchi anni fu di gran moda essere un
“‘bolshie’”, come il popolo chiamava allora i simpatizzanti comunisti. L’Inghilterra era piena di maldigerite opinioni antinomiche. Pacifismo, internazionalismo, umanitarismo d’ogni genere, femminismo, amore libero, riforma del divorzio, ateismo, controllo delle nasciteà cose come queste ricevevano miglior attenzione di quella che avrebbero avuta in tempi normali. E naturalmente l’umore rivoluzionario si estendeva a coloro che erano stati troppo giovani per andare in guerra, anche a ragazzi delle scuole medie. In quell’epoca tutti pensavamo di essere creature illuminate di un’era nuova, che si spogliavano dell’ortodossia imposta loro da quei detestati “vecchi”. Conservavamo, fondamentalmente, la mentalità snob della nostra classe, ritenevamo per certo di poter continuare a ritirare i nostri dividendi e adagiarci in attività di lavoro molli e facili, ma ci sembrava naturale nello stesso tempo essere “agin the government”, contro il governo. Ci prendevamo gioco dell’O.T.C. (Officers Training Corps), della religione cristiana, e anche, forse, delle partite sportive e della famiglia reale, e non ci accorgevamo di partecipare semplicemente a un moto universale di disgusto per la guerra. Due episodi mi sono rimasti impressi come esempi del bizzarro sentimento rivoluzionario di quel tempo. Un giorno, il professore d’inglese ci sottopose una specie di questionario relativo alle nostre cognizioni generali; una delle domande era: «Quali credi che siano i dieci più grandi uomini viventi?». Di sedici ragazzi che componevano la nostra classe (età media: circa diciassette anni) quindici inclusero Lenin nel loro elenco di sommi uomini viventi. Era, quella, una costosa scuola media piuttosto snob, ed eravamo nel 1920, quando gli orrori della Rivoluzione Russa erano ancora vivi nella mente di ognuno. C’erano state poi le cosiddette celebrazioni della pace del 1919. I nostri maggiori avevano deciso di farci celebrare la pace nel modo tradizionale, schiamazzando cioè sul nemico sconfitto. Dovevamo marciare a passo di parata per il cortile della scuola, portando torce e cantando canzoni aggressive sul tipo di “Rule Britannia”15. I ragazzi, sia detto a loro merito, misero in ridicolo l’intera manifestazione e cantarono canzoni blasfeme e parole sediziose sui motivi degli inni previsti. Non credo che la cosa avverrebbe nello stesso modo oggi. Certo, i ragazzi di scuola media che m’accade di conoscere oggi, anche quelli più intelligenti, hanno opinioni molto più di destra di quel che non fossero la mia e quelle dei miei contemporanei una quindicina di anni fa. Così che, a diciassette o diciotto anni d’età, io ero nello stesso tempo snob e rivoluzionario. Ero contro ogni autorità, avevo letto e riletto tutte le opere pubblicate di Shaw, Wells e Galsworthy (a quel tempo considerati ancora scrittori pericolosamente “progressisti”) e mi definivo, con molta disinvoltura, socialista. Ma non avevo un’idea molto precisa di che cosa volesse dire socialismo ed ero lontanissimo dal credere la classe operaia composta di esseri umani. A distanza e attraverso i libri – “Il popolo dell’abisso” di Jack London, per esempio – potevo agonizzare sulle sue sofferenze, ma continuavo a odiarla e a disprezzarla, ogni qual volta mi trovassi vicino a uno dei suoi membri. Mi rivoltava sempre il loro modo di parlare e mi infuriavo alle loro maniere. Bisogna ricordare che proprio in quel periodo, immediatamente dopo la guerra, gli operai inglesi erano in uno stato d’animo battagliero. Era quello il periodo dei grandi scioperi minerari, quando si pensava a un minatore come a un demone incarnato e ogni sera le vecchie signore guardavano sotto il letto per paura che vi si fosse nascosto Robert Smillie. Per tutta la durata della guerra e per qualche tempo poi c’erano stati alti salari e molto lavoro; la situazione stava ora tornando peggiore del normale e naturalmente la classe operaia resisteva. Gli uomini che avevano combattuto erano stati attratti ad arruolarsi da promesse vistose ed illusorie ed ora se ne tornavano a casa in un mondo che non aveva né lavoro né 15 Poesia di James Tompson, musicata da T. A. Arne, di carattere patriottico. (N.d.R.).
case. Inoltre, erano stati in guerra ed erano ritornati a casa col tipico atteggiamento del militare nei riguardi della vita, atteggiamento che in modo fondamentale è, non ostante la disciplina, da fuorilegge. C’era una diffusa turbolenza nell’aria. A quel tempo appartiene la canzone col famoso ritornello: “There’s nothing sure but The rich get richet and the poor get children; In the mean time, In between time, Ain’t we got fun? “16 Il popolo non s’era ancora adattato a tutta una vita di disoccupazione temperata da innumerevoli tazze di tè. Aspettava ancora vagamente l’Utopia per cui aveva combattuto, e ancor più di prima era apertamente ostile alla classe che parlava con l’accento giusto. Così che agli ammortizzatori della borghesia, come il sottoscritto, la “gente bassa” appariva ancora brutale e repulsiva. Se mi volgo a ricordare quel periodo, mi sembra che consumassi la metà del tempo a denunciare il sistema capitalistico e l’altra metà a infierire sull’insolenza dei bigliettari di autobus. Non avevo ancora vent’anni quando me ne andai in Birmania, nella Indian Imperial Police. In un “avamposto dell’Impero” come la Birmania il problema della lotta di classe appariva a prima vista passato in archivio. Non c’era, qui, un palese attrito di classe, perché la cosa di suprema importanza non era se tu avessi o no frequentato le scuole che bisogna frequentare, ma se la tua pelle era tecnicamente bianca. Come stato di fatto, la maggior parte dei bianchi in Birmania non appartenevano al tipo che in Inghilterra sarebbe chiamato del “gentleman”, ma, eccettuati i semplici soldati e qualche individuo socialmente indefinibile, vivevano come “gentlemen” – avevano domestici, cioè, e chiamavano il pasto della sera “pranzo” – e ufficialmente erano considerati come appartenenti tutti alla stessa classe. Erano “bianchi” in opposizione all’altra classe, inferiore, dei “‘natives’”, gli indigeni. Ma nei riguardi dei “natives” non si nutriva lo stesso sentimento che si nutriva in patria per la “gente bassa“. Il punto essenziale era che gli “indigeni”, i birmani, ad ogni modo, non davano l’impressione di essere fisicamente ripulsivi. Li si guardava dall’alto in basso come “indigeni”, ma eri dispostissimo a trattarli in modo fisicamente intimo; e ciò, osservai, avveniva anche nel caso di bianchi che coltivassero i più fanatici pregiudizi di razza. Quando si abbia un esercito di servitori è facile diventare pigri in breve tempo, ed io, per esempio, mi lasciavo abitualmente vestire e spogliare dal mio boy birmano. Tutto ciò, perché il ragazzo era birmano e non disgustoso; non avrei potuto tollerare di lasciare un servitore inglese maneggiarmi con tanta familiarità. Sentivo nei riguardi di un birmano quasi quello che sentirei nei riguardi di una donna. Come quasi ogni altra razza, i birmani hanno un odore caratteristico, che non so descrivere: è un odore che ti dà come un formicolio ai denti, ma che non mi ha mai disgustato. (Incidentalmente, gli orientali dicono che “noi” abbiamo odore. I cinesi, credo, dicono che un bianco puzza come un cadavere. I birmani dicono lo stesso, sebbene io non abbia mai trovato un birmano così scortese da dirmelo in faccia.) E in un certo senso il mio modo di fare era giustificabile, perché se si guardano bene i fatti si deve ammettere che i mongolici in massima parte hanno corpi di gran lunga più belli della maggioranza dei bianchi. Si confronti la serica pelle compatta del birmano, la quale non si raggrinza per nulla se non dopo la quarantina, quando del resto si prosciuga come del cuoio essiccato, con la pelle di grana grossa, flaccida e cascante dell’uomo bianco. Il bianco ha lunghi e bruttissimi peli 16 “Non v’è nulla di certo se non che i ricchi fanno più soldi e i poveri fanno figli; nel frattempo, frattanto, non ci siamo divertiti?“ (N.d.T.).
che gli crescono sulle gambe e le braccia e gli formano una orribile chiazza sul petto. Il birmano ha soltanto un ciuffo o due di duri peli neri nei punti appropriati, per il resto è completamente glabro e spesso anche imberbe. Il bianco diviene quasi sempre calvo, il birmano ben di rado o mai. Il birmano ha denti perfetti, sebbene scoloriti generalmente dal succo di betel, quelli del bianco invariabilmente marciscono. Il bianco è generalmente malfatto, e quando ingrassa si rigonfia nei posti più inattesi; il mongolico ha ossa bellissime e da vecchio conserva quasi le stesse forme della gioventù. Ammettiamo pure che la razza bianca generi una minoranza d’individui che per qualche anno sono supremamente belli; ma in complesso, si dica quel che si vuole, sono di gran lunga meno avvenenti degli orientali. Ma non pensavo tutte queste cose quando scoprii che la “bassa gente” inglese è tanto più repellente degli “indigeni” birmani. Io pensavo ancora nei termini dei miei pregiudizi di classe acquisiti così presto nella vita. Avevo poco più di vent’anni quando fui aggregato per breve tempo a un reggimento britannico. Ammiravo, naturalmente, e amavo quei soldati come ogni ragazzo ventenne ammirerebbe e amerebbe dei vigorosi e allegri giovanotti di cinque anni maggiori, con le medaglie della Grande Guerra sul petto. Eppure, non ostante tutto, essi mi ripugnavano lievemente; essi erano “plebe” e non ci tenevo a star loro troppo vicino. Nelle torride mattine, quando la compagnia marciava per la strada ed io marciavo alla retroguardia con uno dei subalterni più giovani, il sentore di quelle centinaia di corpi in traspirazione davanti a me mi rivoltava lo stomaco. E questo, si badi, era puro pregiudizio. Perché un soldato probabilmente è così inoffensivo, fisicamente, come è possibile esserlo a un maschio bianco. Egli è generalmente giovane, gode quasi sempre ottima salute grazie all’aria aperta e al moto e una rigorosa disciplina lo costringe a tenersi pulito. Ma non potevo allora vedere le cose da questo punto di vista. Tutto quello che sapevo è che era sudore “plebeo” quello che respiravo e la sola idea di ciò mi dava il mal di mare. Quando in seguito mi liberai dei miei pregiudizi di classe, o almeno d’una parte di essi, ciò avvenne in modo molto tortuoso e mediante un processo che richiese alcuni anni. Quello che mutò il mio punto di vista sul problema classista fu qualcosa connesso solo indirettamente al problema, qualcosa di quasi irrilevante. Mi trovavo ormai nella polizia indiana da cinque anni, in capo ai quali odiavo l’imperialismo che servivo con un’intensità che probabilmente non posso chiarire. A chi respiri la libera aria d’Inghilterra questo genere di cose non è pienamente intelligibile. Per odiare l’imperialismo si deve esserne parte. Visto dal di fuori il dominio britannico in India appare – anzi, “è” – benevolo ed anche necessario; e tali, senza dubbio, sono il dominio francese nel Marocco e quello olandese a Borneo, perché i popoli solitamente governano gli stranieri meglio di quel che governino se stessi. Ma non è possibile far parte di un siffatto sistema senza riconoscerlo come una tirannide ingiustificabile. Anche l’anglo–indiano più stolido è consapevole di ciò. Ogni faccia “indigena” che egli vede per via gli ricorda la sua mostruosa intrusione. E in maggioranza gli anglo–indiani, intermittentemente almeno, non sono così compiaciuti della loro posizione come molti in Inghilterra credono. Ho udito la gente più inaspettata, vecchi furfanti fradici di gin con alti incarichi nel Governo fare osservazioni come questa: «Lo so bene che non abbiamo nessun diritto in questo maledetto paese. Ma ormai ci siamo e per amor di Dio cerchiamo di rimanerci». La verità è che nessun uomo moderno, nel profondo del cuore, crede che sia giusto invadere un altro paese e tenerne la popolazione soggiogata con la forza. L’oppressione straniera è un male molto più ovvio e comprensibile dell’oppressione
economica. Così noi in Inghilterra docilmente ammettiamo di essere derubati allo scopo di mantenere nel lusso mezzo milione di oziosi indegni, ma combatteremmo fino all’ultimo uomo piuttosto che essere dominati da cinesi; similmente, gente che vive su dividendi non guadagnati senza il minimo scrupolo di coscienza, vede abbastanza chiaramente come sia errato e ingiusto andare a padroneggiare in un paese straniero dove nessuno ti vuole. Il risultato è che ogni angloindiano è ossessionato da un senso di colpa che di solito egli nasconde il meglio che può, perché non c’è libertà di parola e il solo fatto di essere stato udito fare qualche osservazione sediziosa potrebbe rovinargli la carriera. Per tutta l’India, ci sono inglesi che detestano il sistema di cui sono parte; e solo di tanto in tanto, quando siano del tutto certi di trovarsi in compagnia di persone sicure, lasciano traboccare la loro amarezza nascosta. Rammento una notte passata in treno con un tale dell’Educational Service, a me totalmente sconosciuto, dal nome che non ho mai potuto scoprire. Faceva troppo caldo per dormire e passammo la notte chiacchierando. Una buona mezz’ora di cauti sondaggi convinse ognuno di noi che l’altro era “sicuro”; dopo di che per ore intere, mentre il treno procedeva lentamente sussultando per la notte nera come la pece, seduti sulle nostre cuccette con bottiglie di birra a portata di mano, maledicemmo l’Impero Britannico, lo maledicemmo dall’interno, intelligentemente e intimamente. Ci fece bene a tutt’e due. Ma avevamo parlato di cose proibite e nella triste luce del mattino, mentre il treno faticosamente strisciava entro Mandalay, ci separammo con la stessa aria colpevole di una coppia adultera. Da quel che ho potuto osservare io, quasi tutti i funzionari angloindiani hanno momenti in cui la coscienza li turba. Le eccezioni sono rappresentate da uomini i quali fanno qualcosa di probantemente utile e che comunque dovrebbe essere fatto lo stesso, tanto se gli inglesi fossero m India quanto se non ci fossero: ufficiali forestali, per esempio, medici, ingegneri. Ma io ero nella polizia, ero cioè nel meccanismo stesso dell’oppressione. Inoltre, nella polizia vedi da vicino le azioni disonorevoli dell’Impero, e c’è una bella differenza tra il compiere un’azione disonorevole e il semplice trarne profitto. La maggioranza della gente approva la punizione capitale, ma quella stessa maggioranza non vorrebbe fare il lavoro del boia. Anche gli altri europei residenti in Birmania guardavano con un lieve disprezzo la polizia per le brutalità che doveva commettere. Rammento che una volta, mentre mi trovavo d’ispezione in un posto di polizia, un missionario americano che conoscevo molto bene venne a trovarmi non mi ricordo più a quale scopo. Come la maggior parte dei missionari nonconformisti, era un perfetto somaro, ma uomo eccellente. Uno dei miei viceispettori indigeni stava usando la maniera forte con un sospetto (ho descritto questa scena in “Giorni birmani”). L’americano stette a guardare per un po’ e infine, volgendosi verso di me con aria pensosa mi disse: «Non mi piacerebbe fare il vostro lavoro». Frase che mi colmò di una vergogna orribile. Era “quello” dunque il genere di lavoro che avevo! Perfino un asino di missionario americano, un nemico delle bevande alcooliche e delle donne, nato nel Middle West, aveva il diritto di guardarmi con disprezzo e commiserarmi! Ma avrei dovuto provare la stessa vergogna anche se non ci fosse stato nessuno a farmela sentire. Avevo cominciato a nutrire un odio indescrivibile per l’intera macchina della cosiddetta giustizia. Si dica quel che si vuole, ma il nostro codice penale (molto più umano, incidentalmente, in India che in Inghilterra) è una cosa orribile. Ci vuole gente straordinariamente insensibile per applicarlo. Gli infelici detenuti accoccolati nelle fetide gabbie delle camere di sicurezza, le facce grigie, sottomesse dei condannati a molti anni, le natiche coperte di cicatrici degli uomini flagellati a colpi di bambù, donne e bambini ululanti di dolore quando i loro uomini erano
condotti via da un mandato di arrestoà cose come queste sono al di là di ogni sopportazione quando uno se ne senta in un modo o nell’altro direttamente responsabile. Assistetti una volta all’impiccagione di un uomo; mi parve cosa peggiore di mille assassinii. Non ho mai messo piede in una prigione senza sentire (e in massima parte i visitatori di una prigione provano la stessa sensazione) che il mio posto era dall’altra parte delle sbarre. Pensai allora – e lo penso ancor oggi, per questo – che il peggior criminale che abbia mai camminato su questa terra è moralmente superiore al giudice che lo condanna alla forca. Ma naturalmente dovetti tenere queste idee per me, a causa del silenzio quasi assoluto che è imposto a ogni inglese in Oriente. Alla fine elaborai una teoria anarchista secondo cui ogni governo è malvagio, la punizione è sempre più nociva del delitto e che ci si potrebbe fidare sul buon comportamento della gente se soltanto la si lasciasse in pace. Non erano, naturalmente, che sciocchezze sentimentali. Vedo oggi, come non vedevo allora, che è sempre necessario proteggere la gente pacifica dalla violenza. In ogni condizione della società in cui il delitto possa dare un profitto, è necessario avere un severo codice penale e saperlo applicare senza pietà; l’alternativa è Al Capone. Ma la sensazione che il castigo in sé sia malvagio sorge ineluttabilmente in coloro che devono impartirlo. Non mi stupirebbe scoprire che anche in Inghilterra molti poliziotti, giudici, direttori di prigione e simili sono ossessionati dal segreto orrore di quello che fanno. Ma in Birmania era una duplice oppressione quella che noi commettevamo. Non solo impiccavamo la gente, la cacciavamo in carcere e così via; facevamo tutto questo nella capacità di indesiderati invasori stranieri. Gli stessi birmani non hanno mai riconosciuto realmente la nostra giurisdizione. Il ladro che noi mettevamo in prigione non pensava a sé come a un criminale giustamente punito, ma come alla vittima di un conquistatore straniero. Ciò che gli si faceva era semplicemente un’inutile crudeltà senza senso. La sua faccia, dietro le solide sbarre di tek della camera di sicurezza e quelle di ferro del carcere, lo diceva chiaramente. E sfortunatamente non mi ero allenato ad essere indifferente all’espressione della faccia umana. Quando tornai in patria per una licenza nel 1927 ero già parzialmente deciso ad abbandonare il mio lavoro, e qualche boccata d’aria inglese mi risolse. Non sarei tornato per essere un elemento di quell’ignobile dispotismo. Ma io volevo molto di più del semplice sottrarmi al mio lavoro. Per cinque anni avevo fatto parte di un sistema di oppressione e ciò mi aveva lasciato la coscienza inquieta. Il ricordo di innumerevoli facce (facce di detenuti sul banco degli accusati, di uomini in attesa nelle celle della morte, di subordinati con cui avevo fatto il gradasso e di vecchi contadini che avevo mortificato, di servi e facchini che avevo preso a pugni in momenti di rabbia – quasi tutti fanno cose del genere in Oriente, se non d’abitudine, comunque, in più di un’occasione; gli orientali possono essere provocanti all’estremo -) mi ossessionava intollerabilmente. Ero consapevole di un immenso peso di colpa che dovevo espiare. Immagino che tutto ciò possa sembrare esagerato; ma se faceste per cinque anni un lavoro che disapprovate profondamente, con ogni probabilità sentireste lo stesso. Avevo ridotto ogni cosa alla semplice teoria che gli oppressi hanno sempre ragione e gli oppressori sono sempre nel torto: teoria errata, ma conseguenza naturale dell’essere voi stesso uno degli oppressori. Sentivo di dover sottrarmi non soltanto all’imperialismo ma ad ogni forma del dominio dell’uomo sull’uomo. Volevo sommergermi, scendere in mezzo agli oppressi, essere uno di loro e schierarmi al loro fianco contro i loro tiranni. E, soprattutto perché avevo dovuto riflettere e scoprire ogni cosa in solitudine, avevo finito per portare il mio odio
dell’oppressione al di là d’ogni limite. In quel periodo, il fallimento mi sembrava essere la sola virtù. Ogni sospetto di carriera, di “successo” nella vita anche nel senso di riuscire a guadagnare qualche centinaio di sterline all’anno, mi pareva spiritualmente turpe, una specie di prepotenza. Fu in questo modo che i miei pensieri si volsero verso la classe operaia inglese. Era la prima volta che mi rendevo realmente conto della classe operaia, e tanto per cominciare era solo perché mi forniva un’analogia. Gli operai erano le vittime simboliche dell’ingiustizia, avendo la stessa parte in Inghilterra come i birmani l’avevano in Birmania. In Birmania il problema era stato d’una semplicità estrema: i bianchi erano in alto e i neri in basso, e pertanto la tua simpatia andava ovviamente ai neri. Mi rendevo conto ora che non c’era nessun bisogno di andare fino in Birmania per trovare la tirannide e lo sfruttamento. Qui, in Inghilterra, sotto i tuoi piedi, c’era la sommersa classe operaia, che pativa sofferenze profonde, in maniera diversa, quanto ogni dolore che un orientale abbia mai conosciuto. La parola “disoccupazione” era sulle labbra di tutti. Il fatto era più o meno nuovo per me, dopo la Birmania, ma le sciocchezze che i ceti medi continuavano a ripetere («Questi disoccupati sono tutti inoccupabili17» eccetera eccetera) non ebbero il potere d’ingannarmi. Mi domando spesso se questo genere di chiacchiere inganni gli stessi idioti che le fanno. D’altra parte, non avevo in quel tempo nessun interesse per il socialismo o qualunque altra teoria economica; mi sembrava allora – e mi sembra a volte anche ora, per questo – che l’ingiustizia economica avrà fine il momento in cui vorremo porle fine, non prima, e se sinceramente vogliamo che abbia fine, il metodo seguito ha ben poca importanza. Ma non sapevo nulla delle condizioni della classe operaia. Avevo letto le cifre relative ai disoccupati, ma non avevo cognizione di ciò che implicavano; soprattutto, ignoravo il fatto essenziale che la povertà “rispettabile” è sempre la peggiore. Il terribile destino di un onesto operaio improvvisamente gettato in mezzo a una strada dopo tutta una vita di continuo lavoro, le sue lotte tormentose contro leggi economiche che non comprende, la disintegrazione delle famiglie, il corrosivo senso di vergognaà tutto ciò andava al di là della mia esperienza. Quando pensavo alla povertà, ci pensavo in termini di fame e di abbrutimento. Perciò la mia mente si volse immediatamente verso i casi estremi, i reietti sociali: vagabondi, mendicanti, criminali, prostitute. Costoro erano “gli infimi tra gli infimi” ed era questa la gente con cui volevo entrare in contatto. Ciò che volevo profondamente, in quel periodo, era di trovare un modo di uscire del tutto dal mondo rispettabile. Riflettei su ciò a lungo, studiai perfino delle parti del mio piano in ogni particolare; come poter vendere tutto, dar via tutto, cambiar nome e cominciare senza denaro e con soltanto gli abiti che si hanno indosso. Ma nella vita reale nessuno mai fa questo genere di cose; a parte parenti e amici di cui bisogna tener conto, è dubbioso che un uomo evoluto possa farlo, sol che ci sia qualche altra via aperta davanti a lui. Ma almeno sarei potuto andare fra quella gente, vedere quali fossero le loro vite e sentirmi temporaneamente parte del loro mondo. Una volta che fossi stato fra loro e accettato da loro, avrei toccato il fondo, e (questo era ciò che sentivo: mi rendevo conto anche allora di quanto fosse irrazionale) parte della mia colpa mi avrebbe abbandonato. Riflettei ancora e mi decisi sul da farsi. Me ne sarei andato travestito convenientemente a Limehouse, a Whitechapel e altri luoghi consimili, dormendo in misere pensioni e diventando amico di scaricatori di porto, venditori ambulanti, relitti umani, mendicanti e, se possibile, criminali. E mi sarei informato sui vagabondi, sul come entrare in contatto 17 Nel testo: “These unemployed are all unemployables”, che non è esattamente traducibile. (N.d.T.).
con loro e quale fosse la procedura esatta per essere ammessi nell’infermeria del ricovero di mendicità; e poi, quando avessi avuto la certezza di saper bene ogni cosa, mi sarei dato al vagabondaggio anch’io. Il principio non fu facile. Bisognava camuffarsi ed io non ho mai avuto talento per recitare. Non posso, per esempio, cambiare il mio accento, se non per qualche minuto al massimo. Immaginavo – si noti la paurosa coscienza di classe dell’inglese – di dover essere identificato come “gentleman” appena avessi aperto bocca; così che mi preparai una storiella di guai e di disdetta da raccontare nell’eventualità che qualcuno mi avesse interrogato. Mi procurai il genere adatto di panni e li insudiciai nei punti appropriati. Sono una persona difficile a travestirsi, essendo anormalmente alto, ma sapevo almeno quale sia l’aspetto di un vagabondo. Quante poche persone lo sanno, a proposito! Si guardi qualunque vignetta di vagabondo sul “Punch”: sono sempre in ritardo di vent’anni.) Una sera, dopo essermi preparato in casa di un amico, uscii e mi spinsi bighellonando verso levante, finché arrivai in una pensioncina in Limehouse Causeway. Era un luogo tetro, dall’aria sudicia. Avevo visto che era una pensione d’infimo ordine per il cartello appeso a una finestra: “Buoni letti per soli uomini“. Cielo, come dovetti fare appello a tutto il mio coraggio per risolvermi a entrare! La cosa sembra ridicola ora. Ma, capite, avevo ancora un po’ paura della classe operaia. Volevo entrare in contatto con loro, diventare perfino uno di loro, ma continuavo a ritenerli gente di un altro pianeta, pericolosa; entrare nell’andito oscuro di quella pensioncina fu per me come scendere in qualche pauroso luogo sotterraneo, una fogna pullulante di ratti, per esempio. Entrai, certo di dover fare subito a pugni con qualcuno. Quella gente si sarebbe subito accorta che non ero uno di loro e pertanto ne avrebbe dedotto ch’ero andato là per spiarli; e allora mi si sarebbero gettati addosso e mi avrebbero buttato fuori: ecco ciò che mi aspettavo. Sapevo di doverlo fare, ma la prospettiva non mi rallegrava. Entrato che fui, un uomo in maniche di camicia comparve non so da dove. Era il “deputy”, il commesso, ed io gli dissi che volevo un letto per la notte. Il mio accento, notai, non lo colpì; si limitò a chiedermi nove pence, dopo di che mi fece strada fino a una cucina malodorante illuminata da un caminetto, sotto terra. C’erano scaricatori, manovali e qualche marinaio che seduti intorno giocavano a dama e bevevano tè. Mi degnarono sì e no d’una occhiata. Ma era un sabato sera e un giovane e robusto scaricatore di porto era ubriaco e girava traballando per la stanza. Si volse, mi vide e mi venne incontro sulle gambe malferme con la grossa faccia paonazza protesa in avanti e un pericoloso luccichio negli occhi imbambolati. Mi irrigidii. La scazzottatura era già alle viste, dunque! L’istante dopo lo scaricatore mi crollava sul petto gettandomi le braccia al collo. «Prenditi una tazza di tè, amico!» gridò con voce di pianto. «Prenditi una tazza di tè!» Mi presi una tazza di tè. Fu una specie di battesimo. Dopo di che le mie paure svanirono. Nessuno mi fece domande, nessuno rivelò offensive curiosità; tutti furono cortesi e mi accettarono per quello che apparivo. Rimasi due o tre giorni in quella pensione e qualche settimana più tardi, avendo raccolto una certa quantità d’informazioni sulle abitudini dei poveri e dei bisognosi, mi detti per la prima volta alla strada. Ho descritto tutto questo in “Down and Out in Paris and London” (quasi tutti gli episodi descrittivi sono realmente accaduti, sebbene siano stati poi rimaneggiati nel libro) e non voglio ripetermi. Più tardi ho vissuto in strada per periodi di tempo molto più lunghi talvolta per mia elezione, talaltra per necessità. Ho abitato in pensioncine d’infimo ordine per mesi di seguito. Ma è questa mia prima spedizione che si è impressa con particolare
nitidezza nella mia mente, proprio per la sua natura insolita, bizzarra, per la bizzarria di trovarmi finalmente laggiù in mezzo “agli infimi tra gli infimi” e in termini di assoluta parità con gente operaia. Il vagabondo, è vero, non è un tipico individuo del ceto operaio; tuttavia, quando ci si trovi fra vagabondi si è ad ogni modo confusi in una sezione – o sottocasta della classe operaia, cosa che per quel che ne so non ti può capitare in nessun altro modo. Per parecchi giorni bighellonai per i sobborghi settentrionali di Londra con un vagabondo irlandese. Ero il suo compagno, temporaneamente. La notte dividevamo la stessa cella ed egli mi raccontò la storia della sua vita ed io gliene raccontai una fittizia della mia e ci accordammo per elemosinare a turno alla porta di case dall’aspetto promettente, dividendoci poi i proventi. Ero molto felice. Ero là, in mezzo a “gli infimi tra gli infimi”, sulle fondamenta rocciose del mondo occidentale! La barriera classista era stata abbattuta, o sembrava abbattuta. E laggiù, nella squallida e, in realtà, terribilmente noiosa bassura dei vagabondi io provavo una sensazione di liberazione, di avventura, che sembra assurda oggi a ripensarci, ma che allora era sufficientemente vivida.
CAPITOLO 10. Ma sfortunatamente non si risolve il problema classista diventando amici di vagabondi. Al massimo, facendolo, ci si libera di qualche pregiudizio di classe. Vagabondi, pezzenti, criminali, reietti sociali generalmente sono esseri eccezionali e non più rappresentativi della classe operaia nel suo insieme di quanto l’intellighenzia letteraria non lo sia di quella borghese. E’ molto facile essere in rapporti di intimità con un “intellettuale” straniero, ma non è affatto facile coltivare rapporti di intimità con un qualunque straniero rispettabile del ceto medio. Quanti inglesi, per esempio, hanno visto l’interno di una comune famiglia francese della media borghesia? Con molta probabilità sarebbe del tutto impossibile fare una cosa simile, a meno di non entrare in quella famiglia attraverso un matrimonio. E più o meno avviene la stessa cosa con la classe operaia britannica. Nulla di più facile che essere in rapporti di amicizia intima con un tagliaborse, quando si sappia dove andarlo a cercare; ma è difficilissimo essere amici intimi con un muratore. Ma perché è così facile essere in termini di parità con reietti sociali? Mi sono sentito dire spesso: «Eppure sono certo che quando vi trovate con dei vagabondi, questi non vi accettano davvero come uno di loro, no? Non possono non accorgersi che voi siete diverso, non possono non avvertire il vostro accento, non è così?» eccetera, eccetera. A dire le cose come stanno, una buona proporzione di vagabondi, molto più di un quarto, direi, non si accorgono di niente di questo genere. Tanto per cominciare, molte persone non hanno orecchio per l’accento e ti giudicano esclusivamente dagli abiti che indossi. Mi ha spesso colpito questo fatto, quando mendicavo alla porta sul retro delle case; delle persone rimanevano palesemente stupite del mio accento “educato”, altre non se ne accorgevano minimamente: ero sudicio e in cenci e questo era tutto quanto vedevano. Inoltre, affluiscono vagabondi da tutte le parti delle Isole Britanniche e la diversità di accenti inglesi è immensa. Un vagabondo è avvezzo a udire ogni specie di accenti fra i suoi compagni, alcuni così insoliti per il suo orecchio, che egli non riesce quasi a intenderli, e un uomo che venga, poniamo, da Cardiff o da Durham o da Dublino, non sa necessariamente quale degli accenti meridionali inglesi sia quello “educato”. Ad ogni modo, uomini che parlino con accento e pronuncia “educati”, anche se rari tra vagabondi, non sono sconosciuti. Ma anche quando i vagabondi si accorgano che si è di origini
diverse dalla loro, questo non altera necessariamente il loro atteggiamento. Dal loro punto di vista, la sola cosa che conti è che anche tu, come loro, ti sei dato al vagabondaggio. E in quel mondo non usa fare troppe domande. Puoi raccontare agli altri la storia della tua vita, se lo desideri, e moltissimi vagabondi lo fanno al minimo incoraggiamento, ma non hai l’obbligo di farlo e qualunque storia tu racconti è sempre accettata senza discussione. Perfino un vescovo potrebbe stare a suo agio fra vagabondi, sol che indossasse panni adatti; ed anche se sapessero che è un vescovo, probabilmente non ne farebbero il minimo caso, purché sapessero anche o credessero che egli è genuinamente un uomo rovinato e reietto. Una volta che siate in quel mondo e apparentemente parte di esso, non ha più nessuna importanza quello che possiate essere stato un tempo. E’ una specie di mondo entro un altro mondo, dove tutti sono uguali, una piccola squallida democrazia, forse la cosa che esista in Inghilterra più vicina a una democrazia. Ma quando si venga alla normale classe operaia, la situazione è del tutto diversa. Per prima cosa, non c’è scorciatoia per giungere a stare con gli operai. Si può diventare un vagabondo semplicemente indossando gli abiti adatti e facendosi ricoverare nel primo ospedale di mendicità, ma non si può diventare un manovale o un minatore di carbone. Non si può avere un posto di manovale o di minatore nemmeno se si è all’altezza del compito. Attraverso la politica socialista si può entrare in contatto con l’intellighenzia della classe operaia, ma costoro non sono più rappresentativi di vagabondi o scassinatori. Per, il resto ci si può soltanto mescolare con elementi operai vivendo in casa loro come pensionante, cosa che ha sempre una pericolosa rassomiglianza con l’andare tra gli “slums” a scopo di curiosità turistica. Ho vissuto per alcuni mesi in case di minatori. Consumavo i pasti con la famiglia, mi lavavo nel lavandino in cucina, dividevo le camere da letto con minatori, bevevo birra con loro, giocavo a carte con loro, parlavamo insieme per ore e ore. Ma sebbene fossi tra loro, e spero e confido che non mi trovassero uno scocciatore, non ero dei loro, ed essi lo sapevano meglio ancora di me. Per quanto possiate voler loro bene, per interessante che possiate trovar la loro conversazione, c’è sempre quel maledetto disagio della differenza di classe, come il pisello sotto il materasso della principessa. Non è una questione di simpatia o di antipatia, soltanto di “differenza”, ma sufficiente a rendere impossibile una vera intimità. Anche con minatori che si definivano comunisti scoprii di dover ricorrere a espedienti delicati e discreti per non farmi dare da loro del “signore”; e tutti, se non in momenti di grande animazione, addolcivano il loro accento settentrionale a mio beneficio. Avevo affetto per loro e spero che essi lo avessero per me; ma mi aggiravo in mezzo a loro come un estraneo, e ne eravamo tutti consapevoli. Da qualunque parte vi volgiate, questa maledizione della differenza di classe vi si parà dinanzi come una muraglia. O meglio, non tanto come una muraglia quanto come la parete di vetro di un acquario; è così facile fingere che non ci sia e così impossibile penetrarla. Purtroppo oggi è di moda fingere che il vetro sia penetrabile. Naturalmente tutti sanno che il pregiudizio di classe esiste, ma nello stesso tempo ognuno sostiene che “lui”, chi sa per quale mistero, ne è immune. Lo snobismo è una di quelle colpe che possiamo discernere in ogni altro, mai in noi. Non solo il socialista credente e praticante, ma ogni “intellettuale” considera cosa naturale di essere almeno “lui” al di fuori del fracasso classista; “lui”, diversamente dal suo prossimo, può vedere fino in fondo l’assurdità della ricchezza, del grado sociale, dei titoli, eccetera. «Io non sono uno snob» è ormai una specie di credo universale. Chi c’è che non abbia irriso alla Camera dei Lords, alla casta militare, alla famiglia reale, alle scuole statali, alla gente che coltiva la caccia alla
volpe, alle vecchie signore delle pensioni di Cheltenham, agli orrori della buona società di provincia e alla gerarchia sociale in generale? Farlo è diventato un gesto automatico. E lo si nota particolarmente in molti romanzi. Ogni romanziere che voglia fare sul serio assume un atteggiamento ironico verso i suoi personaggi di ceto elevato. Infatti, quando un romanziere deve introdurre una persona di classe chiaramente superiore – un duca, un baronetto, eccetera – in una delle sue trame, finisce sempre per prenderlo più o meno istintivamente in giro. Si può ravvisare un’importante causa sussidiaria di ciò nella povertà del linguaggio che oggi usano i ceti elevati. Il linguaggio della gente “educata” è ormai così privo di vita e di carattere che un romanziere non può servirsene minimamente. Il modo di gran lunga più facile di renderlo divertente è di farne la caricatura, che è come voler credere che ogni personaggio altolocato sia un somaro incapace. Il trucco è adottato per imitazione da romanziere a romanziere, tanto che alla fine diviene quasi un riflesso condizionato. E intanto ognuno sa nel segreto del suo cuore che tutto ciò è solo un’impostura. Tutti condanniamo le distinzioni di classe, ma ben poche persone intendono seriamente abolirle. E qui ci imbattiamo nel fatto importante che ogni opinione rivoluzionaria attinge parte della sua forza alla segreta certezza che nulla può essere cambiato. Se si vuole una buona illustrazione di questo, varrà la pena di studiare i romanzi e le commedie di John Galsworthy, tenendo conto della loro cronologia. Galsworthy è un magnifico esemplare dell’umanitario prebellico, sensibile, sentimentale. Egli parte da un morboso complesso di compassione, che si spinge addirittura fino all’idea che ogni donna maritata sia un angelo incatenato a un satiro. Egli è scosso da un perpetuo tremito di indignazione per le sofferenze di impiegati sfiniti dal lavoro, di braccianti agricoli mal pagati di donne cadute, di criminali, prostitute, animali. Il mondo, come lo vede Galsworthy nei suoi primi libri (“The Man of Property, Justice”, eccetera), è diviso in oppressori e oppressi, con gli oppressori seduti in cima come mostruosi idoli di pietra che tutta la dinamite al mondo non può rovesciare. Ma è poi tanto certo che egli voglia realmente rovesciarli? Anzi, nella sua battaglia contro una tirannide inamovibile, è trattenuto dalla consapevolezza proprio della sua inamovibilità. Quando comincia inaspettatamente a succedere qualche cosa, e l’ordine mondiale che egli ha conosciuto minaccia di crollare, Galsworthy modifica leggermente il suo punto di vista in proposito. Così che, avendo cominciato come paladino dei diseredati contro la tirannide e l’ingiustizia, finisce chiedendo (vedi “The Silver Spoon”) che la classe operaia inglese, per guarire dei suoi mali economici, sia deportata nelle colonie come tanti capi di bestiame. Se fosse vissuto dieci anni di più, sarebbe molto probabilmente arrivato a qualche delicata varietà di fascismo. E’ il destino inevitabile del sentimentale. Tutte le sue opinioni mutano e si trasformano in quelle opposte al primo tocco della realtà. La stessa vena di rugiadosa insincerità male assimilata corre in ogni opinione “avanzata”, progressiva. Prendiamo il problema dell’imperialismo, per esempio. Ogni intellettuale di sinistra è antimperialista per antonomasia. Sostiene di essere estraneo a quel brutto affare dell’Impero nello stesso modo automatico e virtuoso con cui sostiene di essere estraneo a quel brutto affare del classismo. Anche l’intellettuale di destra, che non è definitivamente in rivolta contro l’imperialismo
britannico, finge di considerarlo con una specie di ironico distacco. E’ così facile, fare dello spirito a proposito dell’Impero Britannico. Il fardello dell’uomo bianco e “Rule Britannia“ e i romanzi di Kipling e gli scocciatori anglo–indiani, chi potrebbe sol menzionare cose del genere senza un sogghigno? E c’è una sola persona evoluta che, non abbia almeno una volta in vita sua scherzato in merito a quel vecchio sergente indiano il quale aveva detto che se gli inglesi abbandonassero l’India non rimarrebbe tra Peshawar e Delhi una sola rupia o una sola vergine? Questa è la posizione nei riguardi dell’imperialismo del tipico sinistrista, ed è posizione quanto mai flaccida e vuota. Perché, in ultima analisi, il solo quesito importante è: “Vuoi che l’Impero, Britannico resti in piedi, o vuoi che si disintegri?“. E nel fondo dell’anima nessun inglese, e tanto meno quel genere di persone che fanno dello spirito sui colonnelli anglo–indiani, vogliono che si sfasci. In fondo, indipendentemente da ogni altra considerazione, l’elevato tenor di vita che godiamo in Inghilterra dipende dal tenere noi l’Impero con mano ferrea, soprattutto le parti tropicali dell’Impero, quali l’India e l’Africa. Sotto il sistema capitalistico, affinché l’Inghilterra possa vivere con relativo agio, cento milioni di indiani debbono vivere tormentati dalla fame: stato di cose atroce, ma a cui diamo il nostro assenso ogni qual volta montiamo in un taxi o mangiamo un piatto di fragole alla panna. L’alternativa è di gettare l’Impero a mare e ridurre l’Inghilterra a una fredda isoletta insignificante, dove tutti dovremmo lavorare durissimamente e vivere soprattutto di aringhe e patate. Questa è l’ultimissima cosa che voglia un uomo di sinistra. Tuttavia, il sinistrista continua a pensare di non essere moralmente responsabile dell’imperialismo. E’ prontissimo ad accettare prodotti dell’Impero e a salvarsi l’anima ridendo degli uomini che tengono in piedi l’Impero. E’ a questo punto che si comincia a comprendere l’irrealtà dell’atteggiamento dei più verso il problema classista. Finché si tratta soltanto di migliorar la sorte degli operai, ogni persona onesta è d’accordo. Prendiamo un minatore di carbone, per esempio. Tutti, meno pazzi e furfanti, amerebbero vedere i minatore in migliori condizioni. Se, per esempio, i minatore potesse arrivare al fronte del carbone a bordo di un comodo carrello, invece di doversi trascinare carponi, se potesse lavorare in turni di tre ore invece che di sette ore e mezzo, se potesse vivere in una casa decente con cinque stanze da letto e bagno e avere un salario di dieci sterline alla settimana, che splendida cosa sarebbe! Inoltre, chiunque usi il cervello, sa perfettamente bene che tutto ciò sta nell’ordine delle cose possibili. Il mondo, almeno potenzialmente, è immensamente ricco; lo si sviluppi nel modo in cui potrebbe svilupparsi, e potremmo tutti vivere come principi, supponendo che lo volessimo. E anche a un’occhiata molto superficiale l’aspetto sociale del problema appare ugualmente semplice. In un certo senso, è vero che quasi tutti amerebbero vedere abolite le differenze di classe. Ovviamente questo perenne disagio tra uomo e uomo, del quale soffriamo nell’Inghilterra moderna, è una maledizione, oltre che un fastidio. Donde la tentazione di credere che possa essere estirpato dall’esistenza con qualche muggito di buona volontà da giovane esploratore. Piantatela di darmi del signore, ragazzi miei! Non siamo tutti uomini, forse? Su, diventiamo amici, rimbocchiamoci le maniche tutti assieme e ricordiamoci che siamo tutti uguali, e poi che diavolo può contare che io sappia che tipo di cravatta si deve portare e tu no, e io sorbisca la minestra senza far troppo rumore e tu la sorbisca facendo un gorgoglio d’acqua nel tubo di scarico? E avanti di questo passo, all’infinito. Tutte chiacchiere del genere più pernicioso, ma molto attraenti, quando siano espresse in modo adatto. Purtroppo non si fa un solo passo avanti, col semplice desiderare l’abolizione delle
differenze di classe. Più esattamente, è necessario desiderarne l’abolizione, ma il nostro desiderio non ha efficacia, a meno che non si afferri che cosa esso implica. Il fatto che si deve affrontare è che l’abolizione delle distinzioni di classe significa l’abolizione di una parte di noi stessi. Prendiamo me, membro tipico del ceto medio. E’ facile per me dire che voglio liberarmi delle differenze di classe, ma quasi tutto ciò che penso e faccio è il risultato di differenze di classe. Tutte le mie nozioni – nozioni del bene e del male, del piacevole e dello spiacevole, del buffo e del serio, del bello e del brutto – sono essenzialmente nozioni piccoloborghesi; il mio gusto in fatto di libri, di cibi e di abiti, il mio senso dell’onore, il modo in cui so stare a tavola, il giro delle mie frasi, il mio accento, perfino i movimenti caratteristici del mio corpo, sono i prodotti di un genere particolare di educazione e di una nicchia particolare a mezza via della scala sociale. Quando capisco questo capisco anche che non serve a nulla dare una manata sulle spalle di un proletario, dicendogli che è un uomo bravo quanto me; se voglio avere un autentico rapporto con lui, devo fare uno sforzo per il quale molto probabilmente non sono preparato. Per tirarmi fuori dal brutto affare classista, devo sopprimere non solo il mio snobismo personale, ma anche quasi tutti gli altri miei gusti e pregiudizi. Devo alterare me stesso così completamente che alla fine non sarei più riconoscibile come la stessa persona. E sottinteso non soltanto il miglioramento delle condizioni della classe operaia e l’abbandono delle forme più stupide di snobismo, ma una totale rinuncia all’atteggiamento che hanno nei riguardi della vita i ceti medi e medioelevati. E che io dica sì o no dipende probabilmente dal grado in cui afferro ciò che mi si chiede. Molta gente, tuttavia, crede di poter abolire le differenze di classe senza dover fare il minimo cambiamento sgradevole nelle proprie abitudini e “ideologia”. Da qui le fervide attività anticlassiste che si possono vedere in atto un po’ dappertutto. Ovunque, ci sono persone di buona volontà che sinceramente credono di lavorare per il rovesciamento delle differenze di classe. Il socialista borghese si entusiasma per il proletariato e organizza “scuole estive” in cui il proletario e il borghese pentito sono tenuti a cadere nelle braccia l’uno dell’altro e ad essere fratelli per sempre; e i visitatori borghesi ne vengono via dicendo quanto tutto ciò sia stato meraviglioso e edificante (i proletari se ne vengono via dicendo qualcosa di totalmente diverso). E poi c’è il Gesù ultrasuburbano che si insinua, residuo della sbornia implicita nel periodo di William Morris, ma ancora sorprendentemente comune, il Gesù che se ne va intorno dicendo: «Perché dobbiamo livellarci sul livello “minimo”? Perché non livellarci in “alto”?» e propone di portare la classe operaia sul livello “più alto” (secondo lui), mediante l’igiene, il succo di frutta il controllo delle nascite, la poesia, eccetera. Perfino il duca di York (oggi re Giorgio Sesto) dirige un accampamento, dove ragazzi delle scuole medie e ragazzi dei quartieri operai dovrebbero mescolarsi esattamente alla pari, e si mescolano per il momento, un po’ come gli animali in una di quelle gabbie “famiglia felice“ dove un cane, un gatto, due furetti, un coniglio e tre canarini rispettano una tregua armata con su di sé l’occhio del domatore. Tutti questi sforzi deliberati e consapevoli in senso anticlassista rappresentano, ne sono convinto, un gravissimo errore. A volte sono soltanto futili, ma dove rivelano un risultato definitivo, questo solitamente serve ad accentuare il pregiudizio di classe. Ma, a pensarci bene, non ci si poteva aspettare nulla di diverso. Si è forzato il passo e stabilito un’uguaglianza innaturale, inquieta tra classe e classe; la risultante frizione porta alla
superficie ogni sorta di sentimenti che diversamente avrebbero potuto restare sepolti, forse per sempre. Come ho detto a proposito di Galsworthy, le opinioni del sentimentale si trasformano in quelle opposte al primo contatto con la realtà. Grattate il pacifista medio e troverete il nazionalista fanatico. Il borghese membro dell’Independent Labour Party e il barbuto bevitore di succhi di frutta sono anima e corpo per una società senza classi fino a quando vedano il proletariato attraverso un telescopio alla rovescia; costringeteli a un “reale” contatto con un proletario – fate che si prendano a pugni con un pesciaiolo ubriaco, un sabato sera, per esempio e saranno capaci di ripiegare sul più banale snobismo borghese. Tuttavia, nella stragrande maggioranza i socialisti borghesi hanno ben poche probabilità di farla a pugni con pesciaioli ubriachi; quando hanno un genuino contatto con la classe operaia, è di solito con l’intellighenzia operaia. E questa è nettamente divisibile in due tipi differenti. C’è il tipo che rimane classe operaia, che continua a lavorare come meccanico o scaricatore di porto o qualunque altro sia il suo lavoro, e non si cura di cambiare le abitudini e l’accento della sua classe, ma “si coltiva” nelle ore libere e lavora per i’I.L.P. o il partito comunista; e c’è il tipo che muta il suo genere di vita, almeno esternamente, e per mezzo di borse di studio statali riesce ad arrampicarsi fino al ceto medio. Il primo è uno dei migliori tipi d’uomo che si possano avere. Alcuni da me conosciuti, nemmeno il conservatore più tetragono potrebbe fare a meno di amarli e ammirarli. L’altro tipo, con eccezioni – D. H. Lawrence, per esempio – è meno ammirevole. Innanzi tutto, è un peccato, sebbene conseguenza naturale del sistema delle borse di studio, che il proletariato debba tendere a compenetrarsi nel ceto medio attraverso l’intellighenzia letteraria. Perché non è facile aprirti a viva forza la strada nell’intellighenzia letteraria, ove ti accada di essere un uomo come si deve. Il moderno mondo letterario inglese, ad ogni modo quella sezione di esso composta d’intellettuali a oltranza, è una specie di giungla velenosa dove solo le male erbe possono prosperare. E’ possibile diventar letterati e conservare la propria rettitudine ove si sia scrittori definitivamente “popolari” – un autore di romanzi gialli, per esempio – ma essere un “highbrow”, un intellettuale puro, con un appoggio nelle riviste più sussiegose, significa darsi a orribili campagne di manovre, intrighi e adulazioni. Nel mondo dei puri intellettuali si fa carriera, quando la si fa, non tanto per le proprie capacità letterarie, quanto per saper essere l’anima e la vita di “cocktail–parties” e baciare il deretano a verminose piccole celebrità. Questo, dunque, è il mondo che apre più prontamente le sue porte al proletario che si stia sollevando fuor della sua classe. Il ragazzo “intelligente” di famiglia operaia, il genere di ragazzo che vince borse di studio e non ovviamente atto a una vita di lavoro manuale, può trovare altre vie per salire al ceto superiore – un tipo lievemente diverso, per esempio, sale attraverso la politica del partito laburista – ma la via letteraria è di gran lunga la più consueta. Oggi la Londra letteraria pullula di giovani d’estrazione proletaria i quali devono la loro educazione a borse di studio. Molti di loro sono persone molto sgradevoli, tutt’altro che rappresentativi della loro classe, ed è una vera disdetta che quando una persona di origini borghesi riesca a incontrarsi a faccia a faccia con un proletario in termini di assoluta parità, sia questo il tipo che più comunemente incontra. Perché la conseguenza è che il borghese, il quale idealizza il proletariato finché non ne faccia la conoscenza, ricadrà in veri e propri eccessi di snobismo. Il processo è talvolta comicissimo a osservarsi, se vi accade di osservarlo dall’esterno. Il povero borghese pieno di buone intenzioni, impaziente di abbracciare il suo fratello proletario, balza in avanti con le braccia aperte; e solo un istante dopo è già in
ritirata, alleggerito da un prestito di cinque sterline, esclamando: «Oh, ma diamine, quel tizio non è un “gentleman”!». La cosa che sconcerta il borghese in un contatto di questo genere è di trovare qualcuna delle sue professioni presa sul serio. Ho fatto notare che le opinioni dell’“intellettuale” medio sono in massima parte spurie. Per puro spirito d’imitazione si fa beffe di cose in cui in realtà crede. Si prenda, a mo’ d’esempio fra tanti, il codice d’onore della “public school”, della scuola media superiore, col suo “spirito di gruppo” e «Non si colpisce l’avversario quando è a terra» e tutto il resto di queste ben note fanfaluche. Chi non ne ha riso? Chi, definendosi “intellettuale” oserebbe non riderne? Ma la cosa diviene leggermente diversa quando s’incontra qualcuno che ne ride “dall’esterno”; così come passiamo la nostra vita a dir male dell’Inghilterra, ma andiamo su tutte le furie quando sentiamo uno straniero dire esattamente le stesse cose. Nessuno è stato più di spirito, nei riguardi delle “public schools”, di “Beachcomber”, del l’“Express”. Sogghigna, perfettamente a ragione, del ridicolo codice morale che considera barare al gioco il peggiore di tutti i peccati. Ma amerebbe Beachcomber che uno dei suoi amici fosse colto mentre bara a carte? Ne dubito. E’ solo quando s’incontra qualcuno di cultura ed educazione differenti dalle nostre che si comincia a scoprire quali siano realmente le nostre opinioni. Se siete un “intellettuale” borghese anche voi v’immaginate prontamente di essere divenuto nonborghese, in un modo o in un altro, perché trovate facile ridere del patriottismo, della Chiesa d’Inghilterra, della cravatta della cara vecchia Università, del colonnello Blimp e di tutto il resto. Ma dal punto di vista dell’“intellettuale” proletario, che almeno per origine è genuinamente estraneo alla cultura borghese, le nostre assomiglianze col colonnello Blimp possono essere più importanti delle nostre differenze. Con ogni probabilità considera noi e il colonnello Blimp praticamente come persone equivalenti; e in un certo senso ha ragione, anche se né noi né il colonnello Blimp lo ammetteremmo. Così che l’incontro del proletario e del borghese, quando riescano a incontrarsi, non sempre è l’abbraccio di fratelli che si sono ritrovati dopo anni e anni di lontananza; troppo spesso è il cozzo di culture estranee l’una all’altra, che possono incontrarsi soltanto in guerra. Ho guardato tutto ciò dal punto di vista del borghese che vede le sue opinioni segrete sfidate ed è ricacciato su posizioni di spaventato conservatorismo. Ma si deve anche considerare l’antagonismo che si accende nel proletario “intellettuale”. Grazie ai suoi sforzi e talvolta con terribili sofferenze egli ha potuto strapparsi alla sua classe sociale per un’altra, dove conta di trovare una più vasta libertà e maggior raffinatezza intellettuale; e, molto spesso, tutto quello che trova è un vuoto, un silenzio di morte, una totale mancanza di caldi sentimenti umani, insomma d’ogni vera forma di vita. A volte la borghesia gli sembra un’accozzaglia di fantocci con nelle vene quattrini e acqua invece di sangue. Questo ad ogni modo è quello che “dice”, e quasi ogni giovane intellettuale di origini proletarie vi farà questo genere di discorsi. Donde la tendenza “proletaria” di cui oggi soffriamo. Tutti sanno, o dovrebbero ormai sapere, come si svolge: la borghesia è “morta” (termine offensivo favorito, ormai, e molto efficace perché privo di qualunque significato), la cultura borghese è in fallimento i “valori” borghesi sono spregevoli, e così via: se volete degli esempi, prendete un numero qualunque della “Left Review“ o leggete uno dei giovani scrittori comunisti, quali Alec Brown, Philip Henderson, eccetera. La sincerità di molti di questi scritti è opinabile, ma D. H. Lawrence, che era sincero, qualunque altra cosa possa non essere stato, esprime lo stesso pensiero innumerevoli volte. E’ curioso come insista sull’idea che la borghesia inglese è “morta” definitivamente, o per lo meno evirata.
Mellors, il guardacaccia nell’“Amante di Lady Chatterley” (in realtà, lo stesso Lawrence), ha avuto l’opportunità di uscire dalla sua classe sociale e non vuole affatto tornarvi, dato che la classe lavoratrice inglese ha varie “abitudini sgradevoli”; d’altra parte, la borghesia, con la quale egli si è mescolato a un certo grado, gli sembra mezzo morta, una razza di eunuchi. Il marito di Lady Chatterley, simbolicamente, è impotente nel reale senso fisico. E poi c’è la poesia sul giovane (ancora una volta lo stesso Lawrence), che «salì fin sulla cima dell’albero», ma ne discese dicendo: “Oh you ve got to be like a monkey if you climb up the tree! You ve no more use for the solid earth and the lad you used to be. You sit in the boughs and gibber with superiority. They all gibber and gibber and chatter, and never a word they say comes really out of their guts, lad, they make it up half wayà I tell you something’s been done to ‘em, to the pullets up above; there’s not a cock bird among ‘em,“ eccetera, eccetera.18 E’ difficile dirlo in termini più espliciti. Forse per gente “sulla cima dell’albero“ Lawrence intende soltanto la vera borghesia, coloro che rientrano nella categoria delle 2000 sterline annue e oltre, ma ne dubito. Più probabilmente egli intende chiunque sia più o meno compreso nella cultura borghese, chiunque sia stato cresciuto con un accento ricercato e in una casa con un domestico o due. E a questo punto ci si rende conto del pericolo rappresentato dal linguaggio “proletario”, conto, intendo, del terribile antagonismo che esso linguaggio è capace di suscitare. Perché quando si giunga a un’accusa come questa, ci si trova di fronte a una muraglia nuda e liscia. Lawrence mi dice che, per essere stato in una “public school”, io sono un eunuco. E allora? Posso esibire un certificato medico in opposizione, ma a che servirebbe? La condanna di Lawrence rimane. Se mi dite che sono una canaglia, posso emendare la mia condotta, ma se mi dite che sono un eunuco mi tentate a reagire in qualunque modo sembri attuabile. Se volete farvi nemico un uomo, ditegli che i suoi mali sono incurabili. Questo è quindi il risultato preciso di quasi tutti gli incontri fra proletari e borghesi: essi mettono a nudo un reale antagonismo, che è intensificato dal linguaggio “proletario”, prodotto esso stesso dai forzati contatti tra classe e classe. La sola procedura intelligente è di andare lenti e di non forzare l’andatura. Se in segreto vi credete un “gentleman” e come tale superiore al garzone dell’erbivendolo, sarà molto meglio dichiararlo chiaramente piuttosto che dire un mucchio di bugie sull’argomento. Alla fine, dovrete abbandonare il vostro snobismo, ma è fatale fingere di abbandonarlo prima che vi sentiate realmente disposto a farlo. Frattanto si può osservare da ogni lato il triste fenomeno del borghese che è un ardente socialista a venticinque anni e un conservatore tutto sussiego a trentacinque. In un certo senso il suo ripiegamento è abbastanza naturale, ad ogni modo si può vedere lo sviluppo delle sue idee. Forse una società senza classi non significa uno stato di cose beato in cui noi tutti continueremo a comportarci esattamente come prima, eccetto che non ci saranno più odio di classe e pose snobistiche; forse significa un mondo tetro in cui tutti i nostri ideali, le nostre norme, i nostri gusti, la nostra “ideologia” non avranno più significato alcuno. Forse, questa faccenda di buttare all’aria le classi sociali non è così semplice come 18 «Oh, devi essere come una scimmia se ti arrampichi sull’albero! Non ami più la solida terra e il giovanotto che eri un tempo. Te ne stai seduto tra i rami e cicalecci con superiorità. Tutti quanti ciarlano e cicalecciano garruli e non dicono mai una sola parola che salga loro dai precordi, ragazzo mio, ma la inventano a mezza viaà. Ti dico che gli hanno fatto qualcosa, a quei pollastrelli lassù; non c’è un solo gallo fra loro.» (N.d.T.)
sembrava! Anzi, è una cavalcata selvaggia nel buio e può darsi che alla fine di essa il sorriso sia sulla faccia della tigre. Con sorrisi amorosi e di leggera protezione noi ci accingiamo ad accogliere i nostri fratelli proletari, ed ecco! i nostri fratelli proletari – per quel che noi possiamo capirli – non chiedono il nostro abbraccio, ci chiedono il nostro suicidio. Quando il borghese vede la cosa “sotto” questo aspetto si dà alla fuga, e se la sua fuga è abbastanza rapida, può anche portarlo al fascismo.
CAPITOLO 11. Intanto, e il socialismo? Non occorre mettere in rilievo che in questo momento ci troviamo in una tremenda confusione, una confusione così grave che anche le persone più ottuse trovano difficile non rendersene conto. Viviamo in un mondo in cui nessuno è libero, quasi nessuno è sicuro e in cui è quasi impossibile essere onesti e conservarsi in vita. Per vastissime sezioni della classe operaia le condizioni di vita sono quali ho descritto nei primi capitoli di questo libro e non c’è nessuna probabilità che queste condizioni mostrino il menomo indizio di miglioramento. Il meglio che la classe operaia inglese possa sperare è un’occasionale diminuzione temporanea della disoccupazione, quando questa o quell’industria siano artificialmente stimolate, per esempio, dal riarmo. Anche i ceti medi per la prima volta nella loro storia sentono il disagio del momento critico. Non conoscono ancora la fame propriamente detta, ma in numero sempre più grande si ritrovano a divincolarsi in una rete mortale di frustrazione, in cui è sempre più difficile convincersi che si è o felici, o attivi, o utili. Anche i fortunati alla vetta, la vera borghesia, sono ossessionati periodicamente dalla consapevolezza dei mali più in basso e ancor più dai timori di un futuro minaccioso. E questa è semplicemente una fase preliminare, in un Paese ancor ricco delle rapine di secoli. Tra non molto potranno verificarsi Dio sa quali orrori; orrori cui, in quest’isola ben riparata, non abbiamo neppure una conoscenza tradizionale. E intanto chiunque usi il cervello sa che il socialismo, come sistema mondiale e applicato con generosità, è una via d’uscita. Ci metterebbe in grado almeno di aver da mangiare a sufficienza, pur privandoci di ogni altra cosa. Infatti, da un punto di vista, il socialismo è tale un buon senso elementare che a volte mi stupisce che non si sia già stabilito. Il mondo è una zattera che naviga nello spazio con, potenzialmente, grande abbondanza di provviste per tutti; l’idea che tutti si debba cooperare badando a che ognuno dia la sua equa parte di lavoro ed abbia la sua equa parte di provviste, sembra così clamorosamente ovvia da far credere che nessuno possa non accettarla, a meno che non abbia qualche corrotto motivo di restare aggrappato al sistema attuale. Ma il fatto che dobbiamo affrontare è che il socialismo non si sta impiantando. Invece di andare innanzi, la causa del socialismo sta visibilmente retrocedendo. In questo momento i socialisti quasi dappertutto sono in ritirata dinanzi al furioso attacco del fascismo e gli eventi si verificano con velocità terribile. Mentre scrivo queste righe le forze fasciste spagnole stanno bombardando Madrid ed è molto probabile che prima che il libro sia stampato noi si abbia ancora un altro paese fascista da aggiungere all’elenco, per non parlare di un controllo fascista del Mediterraneo, che potrebbe avere l’effetto di consegnare la politica estera britannica nelle mani di Mussolini. Non voglio tuttavia discutere qui i maggiori argomenti politici. Quel che mi preme è il fatto che il socialismo sta perdendo terreno esattamente là dove dovrebbe guadagnarne. Con tanto in suo favore – ché ogni ventre vuoto è un argomento in favore del socialismo – l’“idea” di socialismo è accettata meno estesamente d’una decina di anni fa. La media persona raziocinante ormai non solo non è socialista, ma è
attivamente ostile al socialismo. Può darsi che questo si debba soprattutto a errati metodi di propaganda. Ciò significa che il socialismo, nella forma in cui ci è presentato, ha in sé qualcosa d’implicitamente sgradevole, qualcosa che respinge proprio coloro che dovrebbero volare in suo aiuto. Qualche anno fa questo sarebbe potuto parere poco importante. Sembra soltanto ieri che i socialisti, specialmente i marxisti ortodossi, mi dicevano con un sorriso di superiorità che il socialismo sarebbe venuto da sé per un misterioso processo chiamato “necessità storica”. Può darsi che questa opinione sussista ancora, ma è stata scossa, per dire il minimo. Da qui i bruschi tentativi da parte dei comunisti di vari paesi di allearsi alle forze democratiche che da anni essi sabotavano. In un momento come questo è disperatamente necessario scoprire semplicemente perché il socialismo sia venuto meno al suo richiamo. E non serve liquidare l’attuale antipatia per il socialismo come prodotto della stupidità o di motivi corrotti. Se vogliamo allontanare questa antipatia dobbiamo comprenderla, il che significa penetrare nel pensiero del comune avversario del socialismo, o almeno considerare con serenità il suo punto di vista. Pertanto, e piuttosto paradossalmente, per difendere il socialismo occorre cominciare attaccandolo. Negli ultimi tre capitoli ho cercato di analizzare le difficoltà che il nostro anacronistico sistema di classe solleva; dovrò ritornare sull’argomento, perché credo che il modo attuale, oltremodo stupido, di trattare il problema classista possa fugare una quantità di socialisti potenziali nel fascismo. Nel capitolo che segue mi propongo di analizzare certi assunti sottintesi che alienano dal socialismo molte menti sensibili. Ma nel presente capitolo mi limiterò a trattare le obiezioni ovvie, preliminari, la cosa cioè che i non socialisti (non intendo il tipo «E da dove devono saltar fuori i quattrini?») cominciano sempre col dire quando li si accusa in proposito. Alcune di queste obiezioni possono sembrare frivole o contraddittorie, ma non è questo il punto; io mi limito a parlar di sintomi. E’ importante tutto ciò che aiuta a capire perché il socialismo non sia accettato. E prego di notare che discuto “per” il socialismo, non contro di esso. Ma per il momento io sono “advocatus diaboli”. Io sto dando valide ragioni per l’atteggiamento di quel genere di persona che ha simpatia per gli scopi fondamentali del socialismo, ha senno sufficiente a vedere che il socialismo “funzionerebbe”, ma in pratica si dà sempre alla fuga, quando si nomini il socialismo. Interrogate una persona di questo tipo e spesso otterrete la risposta semi–frivola: «Io non sono contrario al socialismo, ma lo sono ai socialisti». Logicamente, è un argomento ben povero, ma a molti sembra aver un certo peso. Come avviene per la religione cristiana, la peggior pubblicità al socialismo è rappresentata dai suoi fautori. La prima cosa che deve colpire ogni osservatore esterno è che il socialismo nella sua forma sviluppata è una teoria limitata interamente ai ceti medi. Il tipico socialista non è, come credono tremule vecchiette dabbene, un operaio d’aspetto feroce con una tuta sporca e la voce roca; o è un giovane snob bolscevizzante, che nel giro di cinque anni molto probabilmente avrà fatto un ricco matrimonio e si sarà convertito al cattolicesimo romano, o, ancor più tipicamente, è un ometto compito e affettato, con un impiego di concetto, di solito segretamente astemio e spesso con disposizioni vegetariane e una storia di non conformismo alle spalle e, soprattutto, con una posizione sociale chè egli non ha nessuna intenzione di compromettere. Quest’ultimo tipo è sorprendentemente comune nei partiti socialisti d’ogni sfumatura; forse è stato tolto in blocco dal vecchio partito liberale. In aggiunta a costoro, c’è l’orribile prevalenza – davvero preoccupante – di eccentrici e di
svitati, ovunque si raccolgano dei socialisti. A volte si ha l’impressione che le sole parole “socialismo” e “comunismo” attraggano a sé con forza magnetica ogni bevitore di succhi di frutta, ogni nudista, ogni portatore di sandali, ogni maniaco sessuale, quacchero, guaritore naturista, pacifista e femminista d’Inghilterra. Un giorno, questa estate, stavo attraversando in autobus Letchworth, quando a una fermata salirono due vecchi dall’aspetto impressionante. Erano entrambi sulla sessantina, di statura molto bassa, rosei e paffuti, e a testa nuda. Uno era oscenamente calvo, l’altro aveva lunghi capelli grigi alla Lloyd George. Indossavano camicie color pistacchio e pantaloni corti cachi, nei quali i loro grossi deretani erano pigiati così strettamente che si sarebbe potuta studiarne ogni pozzetta. La loro comparsa provocò un lieve moto d’orrore sull’imperiale dell’autobus. L’uomo seduto accanto a me, un commesso viaggiatore, credo, mi lanciò un’occhiata, poi volse lo sguardo sui due, mi guardò ancora e mormorò: «Socialisti» come chi dicesse: “pellirosse”. Aveva probabilmente ragione: il Partito Laburista Indipendente teneva le sue lezioni estive a Letchworth. Ma il punto è che per lui, uomo comune, uomo strambo e socialista erano sinonimi. Secondo lui, probabilmente, ogni socialista non poteva non avere qualcosa di eccentrico in sé. E un’idea del genere esiste perfino tra gli stessi socialisti. Per esempio, ho sotto gli occhi il prospetto di un’altra scuola estiva che stabilisce le sue condizioni settimanali e quindi mi chiede di dichiarare «se la mia dieta sia comune o vegetariana». Ritengono cosa normale, capite, che sia necessario fare questa domanda. Questa specie di cose basta già di per sé ad allontanare un mucchio di brave persone. E il loro istinto è perfettamente sano, perché l’originale in fatto di dieta è per definizione una persona disposta a tagliarsi fuori dalla società umana nella speranza di aggiungere cinque anni di vita alla sua carcassa; vale a dire una persona che ha troncato ogni contatto col genere umano. A questo bisogna aggiungere il triste fatto che i più dei socialisti borghesi, mentre teoricamente aspirano a una società senza classi, restano attaccati come pece ai miserabili frammenti del loro prestigio sociale. Ricordo le mie sensazioni d’orrore la prima volta che partecipai a una riunione di sezione del Partito Laburista Indipendente, a Londra. (Avrebbe potuto essere diverso nel Nord, dove la borghesia è meno fittamente diffusa.) Queste meschine bestiole, pensai, son forse i campioni della classe operaia? Perché ogni persona presente, maschio o femmina che fosse, portava le peggiori stigmate di spocchiosa superiorità della piccola borghesia. Se un autentico operaio, un minatore sporco di carbone, per esempio, si fosse improvvisamente fatto avanti in mezzo a loro, chi sa come si sarebbero mostrati imbarazzati, indispettiti, pieni di disgusto; alcuni, direi, sarebbero fuggiti stringendosi il naso con due dita. Si può osservare la stessa tendenza nella letteratura socialista, che, anche quando non è apertamente scritta dall’alto in basso, è sempre totalmente estranea alla classe operaia in linguaggio e modo di pensare. I Cole, i Webb, gli Strachey, eccetera, non sono “esattamente” scrittori proletari. E’ dubbio che qualcosa definibile come letteratura proletaria esista attualmente – perfino il “Daily Worker”, organo dei comunisti britannici, è scritto in inglese “standard” del Sud – ma un buon autore di commedie musicali si avvicina a produrre qualcosa del genere più di qualunque scrittore socialista a cui io possa pensare. Quanto al gergo tecnico dei comunisti, è tanto lontano dal linguaggio comune quanto quello di un manuale di matematica. Ricordo di aver udito il discorso di un oratore comunista a un pubblico operaio. Era un discorso zeppo delle solite cose libresche, tutto frasi lunghissime, parentesi e “ciò non ostante” e “comunque possa essere”, oltre alle consuete espressioni a base di “ideologia”, “solidarietà proletaria”, “coscienza di classe” e così via. Dopo di lui si levò a parlare un operaio del Lancashire e parlò alla folla nel largo dialetto del luogo. Non
c’erano molti dubbi su chi dei due fosse stato più vicino al pubblico, ma non credo per un solo momento che l’operaio del Lancashire fosse un comunista di stretta osservanza. Perché bisogna ricordare che un operaio, finché rimane un autentico operaio, non è mai, o lo è ben di rado, socialista nel senso completo, logicamente coerente. Molto probabilmente vota laburista, o anche comunista, sol che ne abbia l’opportunità, ma il suo concetto del socialismo è del tutto diverso da quello del socialista formatosi sui libri, un gradino più su. Per il comune operaio, il tipo d’operaio che s’incontra in qualunque “pub” il sabato sera, il socialismo non è molto di più che salari migliori, meno ore lavorative e nessuno che ti spadroneggi. Per il tipo più rivoluzionario, quello che partecipa alle marce della fame ed è sulla lista nera dei padroni, la parola socialismo è una specie di grido di riscossa contro le forze dell’oppressione, una vaga minaccia di violenza futura. Ma, a quanto risulta alla mia esperienza, nessun vero operaio afferra i sottintesi più profondi del socialismo. Spesso, a mio avviso, è socialista più autentico del marxista ortodosso, perché ricorda, cosa che l’altro così spesso dimentica, che il socialismo significa giustizia e dignità. Ma ciò che non afferra è che il socialismo non può essere ristretto alla mera giustizia economica e che una riforma di tale vastità è suscettibile di operare immensi cambiamenti nella nostra civiltà e nel nostro modo di vivere. La sua visione del socialista avvenire è una visione dell’attuale società da cui sono stati esclusi i peggiori abusi e con l’interesse imperniato sulle stesse cose di oggi: vita di famiglia, lo spaccio di bevande spiritose, o “pub”, il calcio e la politica locale. Quanto all’aspetto filosofico del marxismo, tutto quell’insieme di sofisticherie con le sue tre misteriose entità, tesi, antitesi e sintesi, non ho mai conosciuto un operaio che nutrisse per esso il più lieve interesse. E’ vero naturalmente che moltissimi individui di “origine” operaia sono socialisti del tipo libresco, teorico. Ma non si tratta mai di individui che siano “rimasti” operai; voglio dire che non lavorano con le mani. Appartengono o al tipo di cui ho parlato nel precedente capitolo, quello che s’insinua nel ceto medio attraverso l’intellighenzia letteraria, o al tipo che diventa deputato laburista o un elevato funzionario dei sindacati operai. Quest’ultimo tipo è uno degli spettacoli più desolanti al mondo. Egli è stato scelto per battersi a favore dei suoi compagni, e quello che tutto ciò rappresenta per lui è un posto comodo e la possibilità di “migliorare”. Non soltanto mentre si batte, ma per il “fatto stesso” di battersi contro la borghesia egli stesso diviene borghese. E intanto è possibilissimo che sia rimasto un marxista ortodosso. Ma devo ancora trovare un minatore, un metallurgico, un cotoniero, uno scaricatore, manovale o altro lavoratore del braccio, che sia “ideologicamente” preparato. Una delle analogie fra comunismo e cattolicesimo romano è che soltanto gli individui “evoluti” sono completamente ortodossi. La cosa che più immediatamente ti colpisce nei cattolico–romani inglesi – non intendo i veri cattolici, ma i convertiti: Ronald Knox, Arnold Lunn “et hoc genus“ – è l’intensa consapevolezza che hanno di sé. Apparentemente essi non pensano mai, e certamente non scrivono mai, altro che “sono” cattolici romani; questo singolo fatto e la lode a se stessi che ne deriva formano tutta la merce in magazzino del letterato cattolico. Ma la cosa davvero interessante a proposito di questa gente è il modo in cui hanno elaborato le supposte implicazioni dell’ortodossia fino a implicare le più minute particolarità della vita. Perfino i liquidi che beviamo, a quanto pare, possono essere ortodossi o eretici; donde le campagne di Chesterton, “Beachcomber”, eccetera, contro il tè e in favore della birra. Secondo Chesterton bere tè è “pagano”, mentre bere birra è “cristiano” e il caffè è “l’oppio del puritano”. E’ una disdetta per questa teoria che i cattolici abbondino nel movimento “temperante” e i più grandi bevitori di tè al mondo siano i cattolicissimi irlandesi; ma ciò che qui mi interessa è la mentalità che può fare perfino del cibo e delle bevande un’occasione per l’intolleranza religiosa. Un cattolico della
classe operaia non sarà mai così assurdamente coerente; non passa il tempo a meditare sul fatto di essere cattolico romano e non è particolarmente consapevole di essere diverso dal suo prossimo non cattolico. Andate a dire a uno scaricatore irlandese negli “slums” di Liverpool che la sua tazza di tè è pagana, ed egli vi darà del pazzo. E anche in cose più serie non afferrerà sempre le implicazioni della sua fede. Nelle case cattolicoromane del Lancashire vedete il crocefisso sulla parete e il “Daily Worker“ sul tavolo. E’ soltanto l’uomo “educato”, specialmente il letterato, che sa essere bigotto. E, “mutatis mutandis”, lo stesso avviene per il comunismo. Il credo, non lo si trova mai nella sua pura forma nell’autentico proletario. Si può dire, tuttavia, che anche se il socialista teorico, di formazione libresca, non è un operaio, almeno è attivato dall’amore per la classe operaia. Egli si studia di spogliarsi della sua condizione borghese e di combattere dalla parte del proletariato, che, ovviamente, deve essere il suo motivo. Ma lo è poi? A volte osservo un socialista – il tipo di socialista intellettuale, che scrive opuscoli e trattatelli, col suo “pullover”, i suoi capelli in disordine e le sue citazioni da Marx – e mi domando che cosa diavolo sia realmente il suo motivo. E’ spesso difficile credere che sia l’amore per qualcuno, specialmente per la classe operaia, dalla quale lui, più di ogni altro, è il più lontano. Il motivo sottinteso di molti socialisti, credo, è semplicemente un senso ipertrofico dell’ordine. L’attuale stato di cose li offende non perché causi miseria, ancor meno perché renda la libertà impossibile, ma perché è disordinato; ciò che essi fondamentalmente desiderano, è ridurre il mondo a qualche cosa che assomigli a una scacchiera. Prendiamo le commedie di un uomo come Shaw che per tutta la sua vita è stato socialista. Quanta comprensione o almeno coscienza della vita della classe operaia rivelano? Lo stesso Shaw dichiara che puoi portare un operaio sul palcoscenico solo “come oggetto di compassione“; in pratica, egli non lo porta sul palcoscenico nemmeno come oggetto di compassione, ma semplicemente come una specie di personaggio comico di W. W. Jacobs: il buffo, fatto su misura, East Ender, oltre a quelli che appaiono nel “Maggiore Barbara” e nella “Conversione del Capitano Brassbound”. Nel migliore dei casi, il suo atteggiamento verso la classe operaia è quello beffardo del “Punch”, nel peggiore (si pensi, per esempio, al giovane che simboleggia le classi diseredate in “Misalliance) trova gli operai semplicemente spregevoli e disgustosi. La povertà e, ciò che più conta, gli abiti mentali indotti dalla povertà, sono una cosa che deve essere abolita “dall’alto”, con la violenza, se necessario; forse, preferibilmente con la violenza. Da qui la sua venerazione per i “grandi” uomini e la simpatia perle dittature, fasciste o comuniste che siano; per lui, a quanto sembra, (si vedano le sue osservazioni in merito alla guerra italo–abissina e alle conversazioni Stalin–Wells) Stalin e Mussolini sono persone quasi equivalenti. Abbiamo la stessa cosa in forma più delicata nella autobiografia della moglie di Sidney Webb, opera che ci fornisce, involontariamente, un quadro quanto mai rivelatore del socialista magnanimo, visitatore di catapecchie operaie. La verità è che per molti individui, che si dicono socialisti, la rivoluzione non significa un movimento di masse al quale sperano di associarsi; ma un corpo di riforme che “noi”, gli intelligenti, imporremo “loro”, ai “ceti inferiori”. D’altra parte, sarebbe un errore considerare il socialista intellettuale una creatura senza sangue, totalmente incapace di emozione. Pur dando molto di rado grandi prove di affetto per gli sfruttati, è perfettamente capace di dar prova di odio – una sorta di bizzarro odio teorico, “in vacuo” – contro gli sfruttatori. Donde il grande, annoso divertimento socialista di denunciare la borghesia. E’ strana la
facilità con cui quasi tutti gli scrittori socialisti possono sferzare se stessi fino a raggiungere uno stato di furore cieco contro la classe alla quale, per nascita o per adozione, essi medesimi invariabilmente appartengono. A volte l’odio per l’ideologia e le abitudini borghesi è così esteso da colpire perfino i personaggi borghesi di certi romanzi. Secondo Henri Barbusse, quelli dei romanzi di Proust, Gide, eccetera, sono «personaggi che vorresti appassionatamente vedere dall’altra parte di una barricata». “Una barricata“, nientemeno. A giudicare da “Le Feu”, avrei creduto che l’esperienza delle barricate avesse lasciato in Barbusse un certo disgusto. Ma l’immaginario colpo di baionetta nel corpo di un “borghese”, che presumibilmente non reagisce, è un po’ diverso dal fatto reale. Il miglior esempio di letteratura antiborghese in cui mi sia imbattuto è “The Intelligentsia of Great Britain”, di Mirsky. E’ un libro molto interessante e scritto con abilità, e dovrebbe essere letto da chiunque voglia comprendere come sia sorto il fascismo. Mirsky (già principe Mirsky) era un russo bianco, emigrato in Inghilterra e per alcuni anni insegnante di letteratura russa presso la London University. In seguito si convertì al comunismo, ritornò in Russia e pubblicò questo libro come una specie di “smascheramento” dell’intellighenzia britannica da un punto di vista marxista. E’ un libro violentemente maligno, con un tono inequivocabile di “Ora che non sono più sotto le vostre grinfie, posso dire tutto quello che mi pare di voi“ presente in ogni pagina, e indipendentemente da una deformazione generale delle cose contiene più d’una inesattezza lampante e probabilmente intenzionale: come, per esempio, quando si dichiara Conrad «non meno imperialista di Kipling», D. H. Lawrence è descritto come autore di «pornografie a base di corpi ignudi» e vittorioso nel suo tentativo di «distruggere ogni indizio delle sue origini proletarie», quasi che Lawrence fosse stato un norcino che si arrampicasse fino alla Camera dei Lords! Questo genere di scritti è particolarmente irritante, quando si pensa che è rivolto a un pubblico russo, il quale non è in grado di verificarne l’accuratezza. Ma ciò a cui penso in questo momento è all’effetto di un libro simile sul pubblico inglese. Abbiamo qui uno scrittore di estrazione aristocratica, un uomo, che, probabilmente, non ha mai rivolto la parola in vita sua a un operaio come a un suo pari, e che lancia urla di velenosa diffamazione contro i suoi colleghi “borghesi”. Perché? A giudicar dalle apparenze, per pura malignità. Egli si batte “contro” l’intellighenzia britannica, ma quale lo scopo della sua battaglia? Il libro stesso non ci dà la minima indicazione in proposito. Per cui, l’effetto preciso di libri come questi è di dare a chi sta al di fuori l’impressione che nel comunismo non ci sia altro che “odio”. E qui ancora una volta ravvisiamo quella strana assomiglianza tra comunisti e convertiti al cattolicesimo romano. Se volete trovare un libro così perverso come “The Intelligentsia of Great Britain”, il luogo più adatto dove cercare è tra gli apologisti cattolici romani più popolari. Vi scoprirete lo stesso veleno e la stessa insincerità, anche se, per rendere giustizia ai cattolici, non vi troverete di norma la stessa mancanza di buone creanze. Strano che fratello spirituale del compagno Mirsky debba essere padreà! Il comunista e il cattolico non dicono la stessa cosa, nel senso che dicono addirittura cose opposte, e ognuno getterebbe con gioia l’altro nell’olio bollente, se le circostanze lo permettessero; ma dal punto di vista di chi si trova al di fuori, i due si assomigliano in modo impressionante. Il fatto è che il socialismo, “nella forma in cui oggi è presentato”, si rivolge soprattutto ai tipi insoddisfacenti o addirittura disumani. Da una parte abbiamo il socialista che non pensa, dal cuore caldo, il tipico socialista operaio, che vuole solo abolire la povertà e non sempre afferra ciò che tutto questo sottintende. Dall’altra, abbiamo il socialista intellettuale, formatosi sui libri, il quale
comprende che è necessario gettare la nostra presente civiltà nella spazzatura ed è dispostissimo a farlo. E questo tipo proviene, innanzi tutto, interamente dal ceto medio e da una parte cittadina e senza radici dello stesso ceto medio. Cosa ancor più sfortunata, questo tipo include – tanto che a uno che guardi dal di fuori ne sembra addirittura composto – il genere di persone di cui ho parlato; gli schiumanti accusatori della borghesia, gli annacquati riformatori, di cui Shaw è il prototipo, e i giovani, astutissimi arrampicatori social–letterati che sono oggi i comunisti (gli stessi che saranno fascisti fra cinque anni, perché questo è l’andazzo), e finalmente tutta quella deprimente tribù di donne magnanime, di uomini in sandali e di barbuti bevitori di succhi di frutta, attirati in massa dall’odore del “progresso” come mosche da un gatto morto. Il comune galantuomo, che ha simpatia per gli scopi “essenziali” del socialismo, riceve l’impressione che non ci sia posto per la sua specie in qualunque partito socialista che faccia sul serio. Peggio ancora, è portato alla cinica conclusione che il socialismo sia una sorta di cataclisma che probabilmente verrà, ma deve essere differito il più a lungo possibile. Naturalmente, come ho già accennato, non è leale giudicare un movimento dai suoi seguaci; ma il punto è che la gente lo fa invariabilmente e la concezione popolare del socialismo è tinta dalla concezione di un socialista inteso come persona noiosa e sgradevole. Il “socialismo” è dipinto come uno stato di cose in cui i nostri socialisti più canori si sentirebbero perfettamente a loro agio. E ciò porta un grave danno alla causa. L’uomo comune può non riluttare dinanzi a una dittatura del proletariato, se gliela sapete prospettare con garbo; ma offritegli una dittatura dei pedanti presuntuosi, e sarà pronto a battersi. C’è la diffusa sensazione che qualunque civiltà in cui il socialismo fosse realtà si troverebbe con la nostra nello stesso rapporto di una bottiglia nuovissima di borgogna coloniale con qualche cucchiaio di Beaujolais di gran classe. Viviamo, ammettiamolo pure, tra le rovine di una civiltà, ma è stata ai suoi tempi una grande civiltà, e qua e là fiorisce ancora quasi indisturbata. Conserva ancora il suo “bouquet”, per così dire; mentre l’immaginario futuro socialista, come il borgogna coloniale, ha soltanto sapore di ferro e acqua. Donde il fatto, davvero disastroso, che un artista di qualche valore non si lascerà mai convincere a entrare nell’ovile socialista. Ciò è particolarmente vero per lo scrittore le cui opinioni politiche sono più direttamente e ovviamente connesse al suo lavoro più di quel che non siano, poniamo, quelle di un pittore. Chi voglia guardare bene in faccia la realtà dei fatti deve ammettere che quasi tutto ciò che si può definire letteratura socialista è noioso, insipido, malriuscito. Consideriamo la situazione in Inghilterra al momento presente. Un’intera generazione si è ormai familiarizzata con l’idea del socialismo; e tuttavia il livello d’alta marea, per così dire, della letteratura socialista è rappresentato da W. H. Auden, una sorta di Kipling senza spina dorsale, e dai poetini ancor più tenui che gli sono associati. Ogni scrittore di vaglia e ogni libro degno di essere letto si trovano dall’altra parte. Sono disposto a credere che sia diversamente in Russia – della quale, tuttavia, non so nulla – perché, presumibilmente, nella Russia postrivoluzionaria la sola violenza degli eventi avrebbe dovuto generare una vigorosa letteratura di vario genere. Ma è certo che nell’Europa occidentale il socialismo non ha dato nascita a una letteratura degna di questo nome. Non molto tempo fa, quando i problemi erano meno chiari, c’erano scrittori di qualche vitalità che amavano chiamarsi socialisti, ma usavano il termine come una vaga etichetta. Così, il fatto che Ibsen e Zola si definissero socialisti non vuol dire altro che erano “progressivi”, mentre nel caso di Anatole France significa solo che egli era anticlericale. I veri scrittori socialisti, gli scrittori propagandisti, sono sempre stati tediosi e vuoti parolai,
come Shaw, Barbusse, Upton Sinclair, William Morris, Waldo Frank, eccetera, eccetera. Naturalmente non intendo insinuare che il socialismo deve essere condannato solo perché i letterati non lo amano; non voglio nemmeno insinuare che dovrebbe necessariamente dar vita a una letteratura sua propria, sebbene io consideri un gran brutto segno che non abbia prodotto una sola canzone degna di essere cantata. Voglio solo indicare il fatto che scrittori di autentico ingegno sono di solito indifferenti al socialismo, quando non gli siano attivamente e pericolosamente avversi. E questo è un disastro, non solo per gli scrittori stessi, ma per la causa del socialismo, che ha grande bisogno di loro. Questo, dunque, l’aspetto superficiale della ripugnanza pel socialismo dell’uomo comune. Conosco a fondo tutta la tediosa materia, perché l’ho vista dai suoi due opposti. Tutti quello che dico qui, l’ho già detto ad ardenti socialisti che cercavano di convertirmi e mi è stato già detto da annoiati non–socialisti che io cercavo di convertire. L’intera faccenda si riassume in una specie di “malaise” causata dall’antipatia per particolari individui socialisti, specialmente del tipo presuntuoso, che citano Marx a tutto spiano. E’ puerile lasciarsi influenzare da questo genere di cose? E sciocco? E’ addirittura biasimevole? E’ tutto questo, ma il punto è che ciò accade e quindi è importante tenerlo presente.
CAPITOLO 12. Esiste tuttavia una difficoltà molto più grave delle obiezioni locali, temporanee di cui ho parlato nel capitolo precedente. Di fronte al fatto che le persone intelligenti sono spesso dall’altra parte della barricata, il socialista tende ad attribuire il fatto a motivi di corruzione (consci o inconsci) o all’opinione, errata per ignoranza, che tanto il socialismo non “funzionerà” mai, o alla semplice paura degli orrori e dei disagi del periodo rivoluzionario, prima che il socialismo sia stabilito. Senza dubbio, tutti questi motivi sono importanti, ma ci sono moltissimi individui che non sono influenzati da nessuno di essi e sono tuttavia avversi al socialismo. La ragione del loro no al socialismo è spirituale, o “ideologica”. Essi lo combattono, non perché non “funzionerà”, ma proprio perché “funzionerà” troppo bene. Ciò di cui hanno paura non sono le cose che dovranno accadere durante la loro vita, ma quelle che dovranno accadere in un futuro remoto, quando il socialismo sarà una realtà. Molto di rado ho conosciuto socialisti convinti i quali potevano capire che la gente benpensante può essere respinta dagli “obiettivi” verso cui il socialismo sembra tendere. Il marxista, soprattutto, respinge questo genere di cose come sentimentalismo borghese. I marxisti di regola non sono molto capaci di leggere il pensiero dei loro avversari; se lo fossero, la situazione in Europa potrebbe essere meno disperata di quello che è in questo momento. In possesso di una tecnica che sembra spiegare tutto, non si prendono spesso la briga di scoprire che cosa avvenga nella testa degli altri. Ecco, per esempio, un’illustrazione del genere di cose che voglio dire. Nell’analizzare la teoria largamente diffusa – la quale è in un certo senso indubbiamente vera – che il fascismo è un prodotto del comunismo, N. A. Holdaway, uno dei più acuti scrittori marxisti che l’Inghilterra possieda, scrive come segue:
“La veneranda leggenda secondo cui il comunismo porta al fascismoà L’elemento di verità che essa contiene è questo: che la comparsa dell’attivismo comunista avverte la classe dirigente che i partiti social–democratici non sono più in grado di tenere a freno la classe operaia e che la dittatura capitalista deve assumere un’altra forma, se vuol sopravvivere.“ Vedete qui i difetti del metodo. Per avere scoperto la sottintesa causa economica del fascismo. Holdaway tacitamente assume che il lato spirituale del fenomeno non ha nessuna importanza. Il fascismo viene eliminato come diversivo della “classe al potere”, la qual cosa è vera in fondo. Ma ciò in sé spiegherebbe soltanto perché il fascismo eserciti un fascino sui capitalisti. E i milioni di individui che non sono capitalisti, che in senso materiale non hanno nulla da guadagnare dal fascismo e ne sono spesso consapevoli e che, ciò non di meno, sono fascisti? Evidentemente, la loro adesione ha seguito una linea puramente ideologica. Possono essere stati spinti dalla paura a rifugiarsi nel fascismo solo perché il comunismo attaccava o sembrava attaccare certe cose (patriottismo, religione, eccetera), che si trovano a un livello più profondo del motivo economico; e in “questo” senso è verissimo che il comunismo porta al fascismo. E’ un peccato che i marxisti si concentrino quasi sempre nel lasciare i loro gatti economici scappar da sacche ideologiche; ciò in un senso rivela la verità, ma con questa penalità, che la maggior parte della loro propaganda non colpisce il bersaglio. E’ il no spirituale al socialismo, specialmente come si manifesta negli individui sensibili, quello che voglio esaminare in questo capitolo. Dovrò analizzarlo piuttosto a lungo, perché è molto diffuso, molto potente e, tra socialisti, quasi completamente ignorato. La prima cosa da osservarsi è che l’idea del socialismo è più o meno inestricabilmente collegata con l’idea della produzione industriale. Il socialismo è essenzialmente un credo “urbano”. Si è sviluppato più o meno simultaneamente con l’industrialismo, ha sempre affondato le radici nel proletariato urbano e nel l’intellettualismo urbano, ed è certo che non avrebbe potuto sorgere che in una società industriale. Dato l’industrialismo, l’idea del socialismo si presenta naturalmente, perché la proprietà privata è tollerabile solo quando ogni individuo (o famiglia o altro nucleo unitario) è almeno in parte autosufficiente; ma effetto dell’industrialismo è proprio quello di rendere impossibile a ognuno d’essere autosufficiente anche per un solo istante. L’industrialismo, superato che abbia un livello minimo, “deve” portare a qualche forma di collettivismo. Non necessariamente al socialismo, com’è naturale; forse, potrebbe portare allo Stato schiavista di cui il fascismo è una specie di preannuncio. E anche il contrario è vero. La produzione industriale sottintende il socialismo, ma il socialismo come sistema mondiale presuppone la produzione industriale, perché esige certe cose che sono incompatibili con un tenor di vita primitivo. Esige, per esempio, continue intercomunicazioni e scambi di merci fra tutte le parti della terra; esige un certo grado di controllo accentrato; esige un tenor di vita approssimativamente uguale per tutti gli esseri umani e probabilmente una certa uniformità di educazione. Possiamo ritenere pertanto che qualsiasi mondo, in cui il socialismo fosse una realtà, sarebbe così intensamente meccanizzato come lo sono gli Stati Uniti in questo momento, probabilmente molto di più. In ogni caso, nessun socialista penserebbe di negarlo. Il mondo socialista è sempre dipinto come un mondo completamente meccanizzato, immensamente organizzato, dipendente dalla macchina, come le antiche civiltà dipendevano dallo schiavo. Fin qui tutto bene, o tutto male. Molti individui, forse una maggioranza, capaci di pensare
non amano una civiltà basata sulle macchine, ma chiunque non sia uno sciocco sa che è assurdo parlare in questo momento di fare a pezzi le macchine. Ma purtroppo il socialismo, come solitamente presentato, è connesso all’idea del progresso meccanico, non soltanto come necessario sviluppo ma come un fine in sé, quasi una specie di religione. Questa idea è implicita, per esempio, in quasi tutto il materiale di propaganda che si scrive sul rapido progredire meccanico nella Russia sovietica (diga del Dnieper, trattori, eccetera). Karel Capek precisa ciò molto bene nell’agghiacciante chiusa di “R.U.R.”, quando i robot, dopo avere assassinato l’ultimo essere umano, annunciano l’intenzione di “costruire molte case” (solo per il gusto di costruirle, capite). La specie di individuo che prontamente accetta il socialismo è anche la specie di individuo che guarda al progresso meccanico, “come tale”, con entusiasmo. E ciò è talmente vero che i socialisti sono spesso incapaci di capire che esiste l’opinione opposta. Di norma, l’argomento più persuasivo a cui possano pensare è di dirvi che la presente meccanizzazione del mondo è niente a paragone di ciò che vedremo quando il socialismo si sarà stabilito. Dove oggi c’è un solo aereo, in quei giorni ce ne saranno cinquanta! Tutto il lavoro che è fatto oggi dalla mano sarà allora fornito dalle macchine; tutto ciò che oggi è di cuoio, legno o pietra sarà fatto di gomma, vetro o acciaio; non ci sarà disordine alcuno, non ci sarà incertezza alcuna, non ci saranno distese desertiche, selvagge, non ci saranno belve feroci, male erbe, malattie, non ci sarà né povertà né doloreà e così via e via. Il mondo socialista sarà soprattutto un mondo “in ordine“, un mondo efficiente. Ma è precisamente da questa visione del futuro come una specie di scintillante mondo wellsiano che rifuggono le menti sensibili. Vogliate osservare che questa versione, essenzialmente da ventre pieno, del “progresso”, non è una parte integrale della dottrina socialista; ma si è finita per crederla tale, col risultato che il conservatorismo temperamentale, latente in ogni specie di persone, è facilmente mobilitato contro il socialismo. Ogni persona sensibile conosce momenti in cui sospetta delle macchine e a un certo grado anche delle scienze fisiche. Ma è importante saper scegliere i vari motivi, profondamente diversi in epoche diverse, dell’ostilità verso la scienza e le macchine, e trascurare invece la gelosia del letterato moderno, che odia la scienza perché la scienza ha rubato alla letteratura il fascino del meraviglioso. Il più remoto attacco in forze che, a quanto ne so, sia mai stato sferrato contro la scienza, si trova nella terza parte dei “Viaggi di Gulliver”. Ma l’attacco di Swift anche se brillante come “tour de force”, è irrilevante e perfino sciocco, perché scritto dal punto di vista forse sembrerà strano dir ciò proprio dell’autore dei “Viaggi di Gulliver“ – di un uomo privo d’immaginazione. Agli occhi di Swift la scienza era soltanto una specie di futile rastrellar letame e le macchine assurdi aggeggi che non avrebbero mai funzionato a dovere. La sua norma era quella dell’utilità pratica ed egli non aveva la lungimiranza necessaria a saper vedere che un esperimento che non è per il momento dimostrabilmente utile può dare risultati in futuro. In altra parte del libro egli definisce impresa migliore di tutte quella di «far crescere due fili d’erba là dove prima ne cresceva uno solo»; non vedendo, a quanto sembra, che è proprio questo che la macchina può fare. In seguito, le macchine cominciarono a funzionare a dovere, le scienze fisiche allargarono il loro campo ed ecco sorgere il famoso conflitto tra religione e scienza che tanto agitò i nostri avi. Quel conflitto è ormai spento ed entrambe le parti si sono ritirate gridando vittoria, ma una vena antiscientifica ancora sussiste nelle menti dei pensatori religiosi. Per tutto il diciannovesimo secolo voci di protesta si levarono contro la scienza e le macchine (si veda “Tempi difficili” di Dickens, per esempio), ma solitamente per la ragione piuttosto superficiale che l’industrialismo nelle sue prime fasi era brutto e crudele. L’attacco di Samuel Butler contro la macchina nel ben noto capitolo di “Erewhon” è una
cosa diversa. Ma lo stesso Butler viveva in un’epoca meno disperata della nostra, un’epoca in cui era ancora possibile a un uomo d’ingegno essere un dilettante per una parte del tempo e pertanto l’intera faccenda gli parve una specie di esercizio intellettuale. Egli vedeva con sufficiente chiarezza la nostra abietta subordinazione alla macchina, ma, anzi che preoccuparsi di trarne le conseguenze, preferì esagerarla per amor di quello ch’era poco più d’uno scherzo. E’ soltanto nella nostra epoca, in cui la meccanizzazione ha finalmente trionfato, che possiamo realmente “sentire” la tendenza della macchina a rendere impossibile una vita pienamente umana. Non c’è probabilmente nessuno che, capace di pensare e di sentire, non abbia occasionalmente guardato una “gaspipe chair” e non si sia detto che la macchina è la nemica della vita. Di norma, tuttavia, questo sentimento è più istintivo che ragionato. La gente sa che in un modo o nell’altro il “progresso” è una truffa, ma giunge a questa conclusione mediante una specie di stenografia mentale; il mio compito qui sta nell’indicare i logici passaggi che vengono solitamente saltati. Ma innanzi tutto bisogna chiedersi, qual è la funzione della macchina? La sua funzione fondamentale, è ovvio, consiste nel far risparmiare lavoro e il genere di persone alle quali la civiltà meccanica sembra interamente accettabile ben di rado vede la minima ragione di guardare più lontano. Ecco qua, per esempio, un individuo che afferma, anzi urla, di sentirsi completamente a suo agio nel moderno mondo meccanizzato. Cito da “World Withot Faith” (Mondo senza fede) di John Beevers. Questo è quanto egli dice: “E’ pura follia dire che l’uomo medio di oggi con un salario settimanale che va da 2 sterl. 10 scel. a 4 è un tipo inferiore a un bracciante agricolo del diciottesimo secolo. O del bracciante o coltivatore di qualsiasi comunità esclusivamente agricola d’oggi o del passato. Non è, semplicemente, vero. E’ così maledettamente stupido mettersi a proclamare a gran voce gli effetti civilizzatori del lavoro nei campi e nelle fattorie come mettersi a inveire contro il lavoro che si fa, per esempio, in una grande fabbrica di locomotive o di automobili. Il lavoro è un fastidio. Noi lavoriamo perché dobbiamo e tutto il lavoro si fa perché ci procuri tel tempo libero e i mezzi per passare questo tempo libero il più gradevolmente possibile.“ E ancora: “L’uomo avrà tempo ed energia sufficienti a cercare il suo cielo sulla terra senza preoccuparsi del soprannaturale. La terra sarà un luogo così piacevole che al prete e al parroco non resterà più nulla da dire. Un sol colpo netto ha già tolto loro metà dell’imbottitura.“ Eccetera, eccetera, eccetera. C’è un intero capitolo in questo senso (il 4 dell’opera di Beevers) e non è privo d’interesse come esempio di adorazione della macchina nella sua forma più profondamente banale, ignorante e miope. E’ l’autentica voce di un vasto settore del mondo moderno. Ogni consumatore d’aspirina dei sobborghi più esterni gli farebbe fervidamente eco. Notate l’acuto gemito iroso («Non è, semplicemente, vero») con cui Beevers reagisce alla supposizione che suo nonno possa essere stato uomo migliore di lui; e alla supposizione ancor più orribile che se noi tornassimo a un modo di vivere più semplice egli potrebbe dover indurire i muscoli in un lavoro manuale. Il lavoro vedete, è fatto per procurarci del tempo libero, dice lui. Tempo libero per che cosa? Per divenire più simili al signor Beevers, presumibilmente. Anche se in realtà dal genere dei suoi discorsi in fatto di cielo sulla terra si possa buttarsi a indovinare che cosa gli piacerebbe che fosse la civiltà: una specie di
Lyons Corner House che durasse in “saecula saeculorum” e divenisse sempre più grande e rumorosa. E in ogni libro di chiunque si senta a casa sua nel mondo delle macchine – in ogni libro di H. G. Wells, per esempio – si troveranno passaggi dello stesso tenore. Quante volte non l’abbiamo udita quella mucillaginosa serqua di argomenti edificanti su «le macchine, questa nostra nuova razza di schiavi, che renderanno all’uomo la libertà» eccetera, eccetera. Per queste persone, evidentemente, il solo pericolo rappresentato dalla macchina è il suo possibile uso a scopi di distruzione; come, per esempio, gli aeroplani sono utilizzati in guerra. Guerre e imprevedibili disastri a parte, il futuro è visto come una marcia sempre più rapida del progresso meccanico; macchine per lavorare meno, macchine per pensare meno, macchine per soffrire meno, igiene, efficienza, organizzazione, più igiene, più efficienza, più organizzazione, più macchine, fino a sbarcare finalmente nell’ormai notissima Utopia wellsiana, di cui Huxley ha fatto una caricatura indovinatissima in “Brave New World”, paradiso di omettini grassi. Naturalmente nei loro sogni ad occhi aperti del futuro gli omettini grassi non si vedono né piccoli né grassi; ma Uomini Divini. Ma perché dovrebbero essere uomini divini? Tutto il progresso meccanico tende a una sempre maggiore efficienza: in ultima analisi, dunque, a un mondo in cui non avvengono errori. Ma in un mondo dove non avvenisse mai nulla di errato, molte qualità che Wells considera “divine” non sarebbero nulla di più della facoltà animalesca di muovere le orecchie. Gli esseri di “Men Like Gods” e “The Dream” sono rappresentati, ad esempio, come prodi, generosi, fisicamente forti. Ma in un mondo dal quale il pericolo fisico fosse stato bandito – ed evidentemente il progresso meccanico tende a eliminare il pericolo – avrebbe il coraggio fisico qualche probabilità di sopravvivere? “Potrebbe” sopravvivere? E perché la forza fisica dovrebbe sopravvivere in un mondo dove non ci fosse più la necessità di lavorare con le braccia? Quanto a virtù quali la generosità, la fedeltà, eccetera in un mondo dove non avvenisse mai nulla di errato, sarebbero non solo irrilevanti, ma probabilmente inimmaginabili. Il fatto è che molte delle qualità che ammiriamo negli esseri umani possono funzionare soltanto in opposizione a qualche genere di disastro, dolore o difficoltà; ma la tendenza del progresso meccanico è di eliminare disastri, dolori, difficoltà. In libri come “The Dream” e “Men Like Gods” si presume che virtù quali la forza d’animo, il coraggio, la generosità, eccetera rimarranno in vita perché sono virtù mirabili e attributi necessari di un completo essere umano. Presumibilmente, per esempio, gli abitanti di Utopia creerebbero pericoli artificiali allo scopo di esercitare il loro coraggio e si eserciterebbero coi manubri per indurire muscoli che diversamente non sarebbero mai costretti a usare. E qui si osserverà l’enorme contraddizione che di solito è presente nell’idea di progresso. La tendenza del progresso meccanico è di rendere il vostro ambiente comodo e sicuro; ma voi vi sforzate di conservarvi coraggioso e duro. Vi spingete furiosamente in avanti e nello stesso istante vi tirate disperatamente indietro. E’ come se un agente di cambio londinese si recasse in ufficio vestito d’una cotta di maglia e insistesse nel voler parlare latino medioevale. Così, in ultima analisi, il campione del progresso è anche il campione degli anacronismi. Intanto, presumo che la tendenza del progresso meccanico sia di rendere la vita sicura e comoda. Cosa discutibile, perché a un dato momento l’effetto di qualche recente invenzione meccanica potrebbe apparire essere precisamente il contrario. Prendiamo ad esempio la transizione dal cavallo al veicolo a motore. Di primo acchito si potrebbe dire, considerato l’enorme tributo di vittime preteso dalle disgrazie stradali, che l’automobile
non tenda esattamente a rendere la vita più sicura. Ciò non ostante, la tendenza di tutte le macchine è di farsi sempre più sicure e più facili a manovrarsi. Il pericolo di disgrazie scomparirebbe se decidessimo di affrontare seriamente il nostro piano di rinnovamento stradale, come finiremo col fare prima o poi; e intanto l’automobile si è sviluppata a un punto tale che chiunque non sia cieco o paralitico può imparare a guidare in poche lezioni. Ormai ci vuole molto meno polso e abilità a guidar bene un’automobile che non un cavallo; tra una ventina d’anni non ci sarà più bisogno affatto di polso e abilità. Si deve dire, dunque, che, considerata la società nel suo insieme, il risultato della transizione dal cavallo all’automobile ha rappresentato un aumento di comodità, di umana mollezza. Poi salta fuori qualcuno con una nuova invenzione, l’aeroplano, per esempio, che non sembra a prima vista rendere la vita più sicura. I primi uomini che si levarono in volo a bordo di aeroplani erano superlativamente coraggiosi e ancor oggi ci vuole una bella dose di fegato per fare il pilota. Ma la stessa tendenza di cui sopra è in atto. L’aereo, come l’auto, saranno costruiti in modo da riuscire nella manovra e nel funzionamento i più semplici possibile; un milione di ingegneri e di tecnici stanno lavorando, quasi inconsciamente, in questa direzione. Finalmente – questo è almeno l’obiettivo, che potrebbe anche non essere mai raggiunto del tutto avremo un aereo il cui pilota non abbisognerà di maggior abilità o coraggio di un infante nella sua carrozzina. E ogni progresso meccanico va e deve andare in questa direzione. Una macchina si evolve diventando più efficiente, vale a dire, più semplice; per cui l’obiettivo del progresso meccanico è un mondo semplice all’estremo, il che può o non può significare un mondo popolato di semplicioni. Wells probabilmente replicherebbe che il mondo non potrà mai diventare semplicione, perché, per alto che possa essere il livello di efficienza raggiunto, c’è sempre qualche difficoltà maggiore alle viste. Per esempio (questa è un’idea favorita di Wells: se n’è servito in non so più quante perorazioni), quando abbiate messo perfettamente a punto questo nostro pianeta, vi accingerete all’immensa impresa di raggiungerne e colonizzarne un altro. Ma ciò significa semplicemente spingere l’obiettivo più avanti ancora nel futuro; l’obiettivo stesso rimane il medesimo. Colonizziamo un altro pianeta, e la corsa del progresso meccanico ricomincia da capo; al mondo straordinariamente semplificato si sostituisce il sistema solare straordinariamente semplificato, l’universo stesso semplificato. Nel vincolarvi all’ideale dell’efficienza meccanica, vi vincolate all’ideale della mollezza, dell’agio. Ma la mollezza è repulsiva; e così ogni progresso appare come una lotta frenetica verso un obiettivo che sperate e pregate non sia mai raggiunto. Ogni tanto, ma non troppo spesso, trovate qualcuno il quale capisce che ciò che solitamente si chiama progresso sottintende anche quella che si chiama normalmente degenerazione, qualcuno, tuttavia, che ciò non ostante è favorevole al progresso. Donde il fatto che nell’Utopia di Shaw una statua fu eretta a Falstaff, come al primo uomo che abbia mai fatto un discorso in favore della codardia. Ma il guaio è immensamente più grave di tanto. Fino a questo momento mi sono limitato a mettere in rilievo l’assurdità di mirare al progresso meccanico ed anche alla conservazione delle virtù che il progresso meccanico rende inutili. Il problema che si deve considerare è se ci sia una sola attività umana che non sarebbe menomata dal predominio della macchina. Funzione della macchina è di risparmiare lavoro. In un mondo compiutamente meccanizzato, tutto il lavoro più faticoso ed estenuante sarà fornito dalle macchine, che ci lasceranno in tal modo liberi di occuparci di cose più interessanti. Espresso in questi termini, il fatto appare splendido. Ti dà il voltastomaco vedere una mezza dozzina di
uomini sudar sangue nello scavare una trincea per una conduttura d’acqua, quando qualche macchina abilmente escogitata potrebbe scavare la terra in un paio di minuti. Perché non affidare il lavoro alle macchine e lasciare gli uomini liberi di andare a fare qualche altra cosa? Ma ecco sorgere la domanda, che altro hanno essi da fare? Si suppone che gli uomini siano stati liberati dal “lavoro”, onde possano fare qualche altra cosa che “lavoro” non è. Ma che cosa è lavoro e che cosa non lo è? E’ lavoro scavare, fare il falegname, piantare alberi, cavalcare, pescare, cacciare, prendere fotografie, costruire una casa, cucinare, cucire, guarnire cappelli, riparare motociclette? Tutte queste cose rappresentano del lavoro per qualcuno e tutte le stesse cose sono un giuoco per qualcuno. Ci sono infatti ben poche attività che non possano essere classificate come lavoro o come giuoco a seconda di come si decida di considerarle. Il bracciante liberato dal suo scavare può voler passare le ore libere, o almeno una parte di esse, a sonare il pianoforte, mentre il pianista di professione può essere anche troppo lieto di uscir di casa per andare a lavorare in un campo di patate. Da qui l’antitesi tra lavoro, inteso come qualcosa d’intollerabilmente tedioso, e il non–lavoro, inteso come qualcosa di desiderabile, è falsa. La verità è che quando un essere umano non è occupato a mangiare, a bere, a dormire, a far l’amore, a ciarlare, a giocare d’azzardo o semplicemente a bighellonare intorno – e queste cose non colmeranno tutta una vita – ha bisogno di lavorare e di solito ne va in cerca, anche se non lo chiami lavoro. Sopra il livello del deficiente di terzo o di quarto grado, la vita deve essere vissuta in termini di sforzo. Perché l’uomo non è, come sembrano supporre i comuni edonisti, uno stomaco che cammina; possiede anche una mano, un occhio, un cervello. Cessate di servirvi delle mani e avrete amputato una grossa porzione della vostra coscienza. Ed ora consideriamo di nuovo quella mezza dozzina di uomini che stavano scavando una trincea per una condotta d’acqua. Una macchina li ha liberati dalla necessità di scavare ed essi si svagheranno con qualche altra cosa, la falegnameria, per i esempio. Ma qualunque cosa vogliano fare, scopriranno che un’altra macchina li ha liberati di quella pure. Perché in un mondo compiutamente meccanizzato non ci sarebbe bisogno di fare il falegname, il cuoco o di riparare motociclette più che non ve ne sia di scavare trincee. Non ci sarebbe più nulla, dal catturare una balena allo scolpire un nocciolo di ciliegia, che non potrebbe essere compiuto da qualche macchina. La macchina usurperebbe perfino le attività che noi definiamo “artistiche”; lo sta già facendo, attraverso il cinematografo e la radio. Meccanizziamo il mondo al massimo delle sue possibilità di meccanizzazione e da qualunque parte vi volgiate ci sarà sempre una macchina che vi priverà della possibilità di lavorare, vale a dire di vivere. A prima vista, questo potrebbe sembrare privo d’importanza. Perché non si dovrebbe andare avanti col nostro “lavoro creativo” e non tener conto delle macchine che potrebbero farlo in nostra vece? Ma non è così semplice come sembra. Eccomi qua, tenuto a lavorare otto ore al giorno in un ufficio di assicurazioni; nelle ore libere voglio fare qualche cosa di “creativo”, così che scelgo di lavorare un po’ da falegname: tanto da farmi un tavolo, per esempio. Si noti che fin dal primo momento c’è una punta di artificio in tutta la faccenda, dato che le fabbriche possono darmi un tavolo di gran lunga migliore di quello che potrei farmi da me. Ma anche quando mi accingo a fabbricarmi il tavolo, non mi è dato sentire nei suoi riguardi ciò che lo stipettaio di un secolo fa sentiva per il suo tavolo, ancor meno ciò che Robinson Crusoe sentiva per il suo. Perché ancor prima che io cominci, gran parte del lavoro è già stato fatto per me dalle macchine. Gli strumenti di cui mi servo esigono il minimo di abilità.
Posso avere, per esempio, delle pialle capaci di dare qualunque sagoma; lo stipettaio di cent’anni fa avrebbe dovuto eseguire il lavoro con cesello e sgorbia, che richiedevano grande abilità d’occhio e di mano. Le assi che compero sono già piallate e le gambe nascono rapidamente sotto il tornio. Posso perfino andare dal legnaiuolo e comperare tutte le parti della tavola già fatte e che abbisognano soltanto di essere connesse, così che il mio lavoro si riduce a piantare qualche cavicchio e a servirmi di un pezzo di carta vetrata. E se è così oggi, nel futuro meccanizzato sarà così infinitamente di più. Con gli strumenti e i materiali che allora saranno disponibili, non ci sarà possibilità di errore e quindi nemmeno ci sarà bisogno alcuno di abilità. Fare un tavolo sarà più facile e noioso di sbucciare una patata. Date le circostanze, è assurdo parlare di “lavoro creativo”. In ogni caso, le arti manuali, vale a dire l’artigianato (che deve essere tramandato attraverso l’apprendistato) saranno da gran tempo scomparse. Alcune sono già scomparse, per la concorrenza della macchina. Guardatevi intorno per qualunque cimitero di campagna e vedete se potete trovare una lapide tagliata a dovere dopo il 1820. L’arte, o piuttosto l’abilità, della pietra lavorata è morta così completamente che ci vorrebbero secoli per farla rivivere. Ma si potrebbe dire: perché non tenere la macchina e tenere il “lavoro creativo“? Perché non coltivare gli anacronismi come un “hobby” per le ore libere? Molte persone si sono gingillate con questa idea, che sembra risolvere bellamente i problemi posti dalla macchina. Il cittadino di Utopia, ci dicono, rincasando dalle sue due ore quotidiane di lavoro, consistente nel girare una manopola nello stabilimento di pomodori in scatola, deliberatamente ritornerà a un più primitivo modo di vivere e soddisferà il suo istinto creativo con qualche lavoretto d’intagli decorativi, o smaltando stoviglie di terracotta, o dedicandosi a un telaio a mano. E perché questo quadro è un’assurdità, qual è infatti? Per un principio che non è sempre riconosciuto, quantunque sia sempre messo in pratica: che fino a quando la macchina sia presente, si ha l’obbligo di usarla. Nessuno attinge acqua dal pozzo, quando si può girare un rubinetto. Si osserva una buona illustrazione di ciò nel campo dei viaggi. Chiunque abbia viaggiato con metodi primitivi in un paese sottosviluppato sa che la differenza fra questo genere di viaggio e il moderno viaggiare a bordo di treni, automobili, eccetera, è la differenza tra la vita e la morte. Il nomade che cammina o cavalca, col bagaglio ammucchiato sul dorso di un cammello o su un carro a buoi, può patire ogni specie di disagi, ma almeno vive la sua vita viaggiando; mentre per il passeggero di un treno espresso o di un supertransatlantico il viaggio è un interregno, una specie di morte temporanea. E finché esisterà la ferrovia, si dovrà viaggiare per ferrovia, o con l’auto o l’aereo. Sono qui, a quaranta miglia da Londra. Quando voglio spingermi a Londra, perché non carico il mio bagaglio su un mulo e mi avvio a piedi, accingendomi a una marcia di due giorni? Perché con gli autobus della Green Line che mi passano accanto sibilanti ogni dieci minuti, un tal viaggio sarebbe intollerabilmente fastidioso. Perché si possano godere metodi di viaggio primitivi, è necessario che nessun altro metodo sia disponibile. Nessun essere umano vuol fare checchessia in modo più scomodo di quel che sia necessario. Da qui l’assurdità di quel quadro dei cittadini di Utopia che si salvano l’anima con lavoretti decorativi. In un mondo dove tutto possa essere fatto dalle macchine, tutto sarà fatto dalle macchine. Tornare deliberatamente a metodi primitivi, usare strumenti arcaici, porre piccoli ostacoli idioti sulla propria strada, sarebbe dar prova di dilettantismo, darsi arie da falso artista, rendersi ridicoli. Sarebbe come sedersi solennemente a tavola per far colazione con posate di pietra. Tornate al lavoro manuale nell’età delle macchine e sarete
ricaduti nell’Ye Olde Tea Shoppe o nella villa Tudor coi falsi travi inchiodati alla parete. La tendenza del progresso meccanico, dunque, è di frustrare il bisogno umano di sforzo e di creazione. Esso rende inutili e perfino impossibili le attività dell’occhio e della mano. L’apostolo del “progresso” dirà che ciò non ha importanza, ma potrete metterlo con le spalle al muro facendogli notare a quali estremi orribili può essere portato il processo. Perché, per esempio, usare le mani addirittura, perché usarle anche per soffiarsi il naso o far la punta a una matita? Non sarà difficile applicarsi alle spalle qualche aggeggio di gomma e acciaio lasciando così le braccia avvizzire ed essiccarsi in moncherini di pelle ed ossa, no? E così con ogni organo e ogni facoltà. Non c’è realmente ragione perché un essere umano debba fare più che mangiare, bere, dormire, respirare e procreare; ogni altra cosa può essere fatta per lui dalle macchine. Quindi la logica conclusione del progresso meccanico è di ridurre l’essere umano a qual cosa che assomigli a un cervello sotto spirito. Questa è la meta alla quale già tendiamo, anche se, naturalmente, non si voglia arrivarci; così come un uomo che beve una bottiglia di whisky al giorno non ha nessuna intenzione di prendersi la cirrosi epatica. L’obiettivo sottinteso del “progresso” è, non “esattamente”, forse, il cervello sotto spirito, ma comunque un orribile abisso subumano di mollezza e inettitudine. E il guaio è che attualmente la parola “progresso” e la parola “socialismo” sono inseparabilmente connesse nella mente quasi di ognuno. L’individuo che odia le macchine considera cosa ovvia odiare il socialismo; il socialista è sempre favorevole alla meccanizzazione, alla razionalizzazione, alla modernizzazione, o almeno crede di dover loro essere favorevole. Recentemente, per esempio, un membro illustre dell’Independent Labour Party mi confessava con una specie di pensoso pudore – come se si trattasse di alcunché lievemente scandaloso – di essere “appassionato dei cavalli”. I cavalli, vedete, appartengono allo scomparso passato agricolo, e ogni sentimento per il passato porta con sé un vago sentor di eresia. E tutto ciò in se stesso è sufficiente a spiegare l’allontanamento dei benpensanti dal socialismo. Una generazione fa, non c’era individuo intelligente che non fosse in un senso o nell’altro un rivoluzionario; oggi saremmo più vicini alla verità se dicessimo che non c’è individuo intelligente che non sia reazionario. In proposito varrà la pena di paragonare “The Sleeper Awakes“ di H. G. Wells con “Brave New World” di Aldous Huxley, scritto trent’anni più tardi. Ognuno di questi romanzi è un’Utopia pessimistica, una visione d’una specie di paradiso di pedanti presuntuosi, nel quale tutti i sogni dell’individuo “progressivo” si avverano. Considerato semplicemente come esempio di narrativa fantastica “The Sleeper Awakes” è a mio avviso di gran lunga superiore, ma è afflitto da gravi contraddizioni per il fatto che Wells, nella sua qualità di gran sacerdote del “progresso” non può scrivere in tono convinto contro il “progresso”. Egli traccia il quadro di un mondo scintillante, stranamente sinistro, in cui la classe privilegiata conduce un’esistenza di superficiale, smidollato edonismo, e gli operai, ridotti a uno stato di estrema schiavitù e ignoranza subumana, sgobbano come trogloditi in caverne sotterranee. Appena si esamini questa idea – ulteriormente sviluppata in una splendida novella di “Stories of Space and Time” ci si avvede della sua incoerenza. Perché, nel mondo immensamente meccanizzato che Wells immagina, gli operai dovrebbero avere a sgobbare più duramente di oggi? Sappiamo che la tendenza della macchina è di eliminare il lavoro, non accrescerlo. Nel mondo della macchina gli operai potrebbero essere ridotti schiavi,
essere maltrattati e perfino malnutriti, ma non sarebbero certo condannati a un incessante lavoro manuale; ché, in questo caso, quale sarebbe la funzione della macchina? Potete avere macchine che forniscano tutto il lavoro oppure esseri umani che forniscano tutto il lavoro, ma non potete avere e le une e gli altri. Questi eserciti di operai del sottosuolo, con le loro uniformi blu e il loro linguaggio degenere, semiumano, sono stati inventati soltanto «per farvi accapponare la pelle». Wells vuole insinuare che il “progresso” potrebbe imboccare la strada sbagliata; ma il solo male che egli si prenda il disturbo d’immaginare è l’ineguaglianza: una classe che detiene tutta la ricchezza e il potere e opprime l’altra, a quanto pare per pura malignità. Basterà darle una spintarella, egli sembra dire, rovesciare la classe privilegiata passare dal capitalismo mondiale al socialismo, nella fattispecie – e tutto sarà a posto. La civiltà delle macchine deve continuare, ma i suoi prodotti devono essere ripartiti equamente. Il pensiero che egli non osa affrontare è che la macchina stessa può essere il nemico. Così nelle sue più caratteristiche Utopie (“The Dream”, “Men like Gods”, eccetera) Wells ritorna all’ottimismo e a una visione dell’umanità, “liberata” dalla macchina, come d’una razza di esseri illuminati, che, intenti a fare bagni di sole, non hanno altro argomento di conversazione che la loro superiorità sugli antenati. “Brave New World“ appartiene a tempi più recenti e a una generazione che ha capito bene l’inganno del “progresso”. Ha le sue contraddizioni (la più importante è posta in rilievo; in “The Coming Struggle for Power” di John Strachey), ma rappresenta almeno un attacco memorabile al tipo più ventripotente del perfezionismo. Tenuto conto delle esagerazioni implicite nella caricatura, il libro esprime probabilmente ciò che una maggioranza di individui pensosi sente nei riguardi della civiltà meccanica. L’ostilità della persona sensibile alla macchina è in un certo senso non realistica, per il fatto evidente che la macchina è venuta per rimanere. Ma come disposizione mentale merita che ci se ne occupi abbastanza estesamente. La macchina deve essere accettata, ma sarà bene probabilmente accettarla come si accetta un narcotico: con riluttanza, cioè, e diffidenza. Come un narcotico, la macchina è utile, pericolosa e causa di assuefazione. Più spesso ci si abbandona ad essa, più stretta si fa la sua presa. Vi basterà guardarvi intorno in questo momento per vedere con quanta sinistra rapidità la macchina stia facendoci cadere in suo potere. Innanzi tutto, c’è il terribile pervertimento del gusto che è stato già portato da un secolo di meccanizzazione. Questo è quasi troppo evidente e troppo generalmente ammesso perché vi sia bisogno di parlarne. Ma come singolo esempio, prendiamo il gusto nel suo senso più ristretto: il gusto dei buoni cibi. Nei paesi intensamente meccanizzati, grazie alle cibarie in scatola, alla conservazione in refrigeranti, agli aromi sintetici, il palato è quasi un organo morto. Come potete vedere guardando nella bottega di qualunque fruttivendolo, quello che la maggioranza degli inglesi intende per mela è un grumo di cotone idrofilo colorato che viene dall’America o dall’Australia; divorerà queste cose, palesemente con piacere, e lascerà le mele inglesi marcire sulla pianta. E’ l’aspetto lucente, standardizzato, fatto a macchina della mela americana che attira; il gusto superiore della mela inglese è qualcosa che semplicemente non si nota. Oppure guardate presso ogni droghiere o salumiere i formaggi e il burro “miscelato”, avvolti nella stagnola, di produzione industriale; guardate le triste file di scatolette che usurpano sempre più spazio in qualunque bottega di generi alimentari, latterie comprese; guardate un panino svizzero da sei penny o un gelato alla crema da due penny; guardate il sudicio sottoprodotto chimico che la gente ingolla sotto il nome di birra. Ovunque guardiate, vedrete qualche lucido e sgargiante articolo fatto a
macchina trionfare dell’articolo antiquato che sa ancora di qualche altra cosa che non sia segatura. E ciò che vale per i cibi vale anche per mobili, case, abiti, libri, divertimenti e ogni altra cosa che forma il nostro ambiente. Ci sono ormai milioni di individui, e crescono di numero ogni anno, pei quali il baccano di una radio è non solo più accettabile, ma sfondo più “normale” ai loro pensieri, del mugliar di un bove o del canto degli uccelli. La meccanizzazione del mondo non sarebbe mai potuta andar molto avanti, se il gusto, anche i calici gustativi della lingua, fosse rimasto incorrotto, perché in tal caso la maggioranza dei prodotti della macchina non sarebbe stata semplicemente richiesta dai consumatori. In un mondo sano non ci sarebbe domanda di cibi in scatola, aspirina, grammofoni, sedie tubolari, mitragliatrici, quotidiani, telefoni, automobili, eccetera, eccetera; e d’altra parte ci sarebbe domanda continua di oggetti che la macchina non può produrre. Ma ormai la macchina è qui e i suoi effetti corruttori sono quasi irresistibili. Uno inveisce contro di essa, ma continua a servirsene. Perfino un selvaggio dalle vergogne scoperte, se gli se ne offre l’occasione, apprenderà i vizi della civiltà nel giro di pochi mesi. La meccanizzazione porta al decadimento del gusto, il decadimento del gusto porta alla domanda di articoli fatti a macchina e da questi a una maggior meccanizzazione, e così il circolo vizioso è stabilito. Ma in aggiunta a questo c’è la tendenza da parte della meccanizzazione del mondo a procedere per così dire automaticamente, lo si voglia noi o no. Ciò si deve al fatto che nell’uomo occidentale moderno la facoltà dell’invenzione meccanica è stata alimentata e stimolata fino a raggiungere quasi la condizione di un istinto. Gli individui inventano nuove macchine e migliorano quelle esistenti quasi inconsciamente, un po’ come un sonnambulo che continua ad agire nel sonno. In passato, quando si considerava cosa normale che la vita su questo pianeta è dura o comunque faticosa, sembrava destino naturale continuare a servirsi dei rozzi strumenti dei nostri antenati, e soltanto pochi eccentrici, a distanza di secoli l’uno dall’altro, proponevano innovazioni; ecco perché attraverso periodi di tempo lunghissimi cose come il carro a buoi, l’aratro, la falce, eccetera rimasero radicalmente immutate. E’ dimostrato che si usano le viti fin dalla più remota antichità e tuttavia è stato soltanto verso la metà del secolo scorso che è venuto in mente a qualcuno di fabbricare viti a punta; per migliaia di anni esse erano rimaste con l’estremità piatta e bisognava praticare un foro là dove si dovevano inserire. Nel nostro tempo una cosa simile sarebbe impensabile. Perché quasi ogni moderno individuo occidentale ha le sue facoltà inventive più o meno sviluppate; l’uomo occidentale inventa macchine con la stessa naturalezza con cui un polinesiano nuota nelle acque della sua isola. Affidate a qualunque individuo dell’occidente un lavoro manuale e subito comincerà a ideare una macchina che faccia quel lavoro per lui; dategli una macchina e lui penserà a vari modi di migliorarla. Capisco questa tendenza abbastanza bene, perché in una mia inetta maniera ho anch’io questo genere di mentalità. Non ho né la pazienza né le capacità meccaniche di ideare una macchina in grado di funzionare, ma vedo continuamente, per così dire, i fantasmi di eventuali macchine che potrebbero risparmiarmi la fatica di usare il cervello o i muscoli. Una persona con un’inclinazione per la meccanica più definita ne costruirebbe probabilmente qualcuna e la farebbe funzionare. Ma dato il nostro attuale sistema economico, che egli potesse costruirle – o piuttosto, che qualcun altro potesse beneficiarne – dipenderebbe dalla certezza o meno che avessero un valore commerciale. I socialisti hanno ragione, dunque, quando affermano che il ritmo del progresso meccanico sarà più rapido una volta che il socialismo si sia stabilito. Data una civiltà meccanica, il processo di invenzione e miglioramento continuerà sempre, ma la tendenza del capitalismo è di rallentarlo, perché in regime capitalistico ogni invenzione che non prometta profitti immediati è negletta; alcune, anzi, che minacciano di ridurre i profitti
sono soppresse così spietatamente come il vetro flessibile menzionato da Petronio 19. S’instauri il socialismo – si rimuova il principio del profitto – e l’inventore avrà mano libera. La meccanizzazione del mondo, già abbastanza rapida, sarebbe o comunque potrebbe essere enormemente accelerata. Ed è prospettiva, questa, lievemente sinistra, perché è chiaro anche oggi che il processo di meccanizzazione si svolge senza controllo. Esso si verifica semplicemente perché l’umanità ne ha preso l’abitudine. Un chimico perfeziona un nuovo metodo di sintetizzare la gomma, o un meccanico escogita un tipo nuovo di perno di stantuffo. Perché? Non per uno scopo chiaramente inteso, ma semplicemente per l’impulso di inventare e migliorare, divenuto ormai istintivo. Mettete un pacifista a lavorare in una fabbrica di bombe e in due mesi egli avrà ideato un nuovo tipo di bomba. Da qui la comparsa di prodotti diabolici quali i gas venefici, che nemmeno i loro inventori potevano sperare fossero di vantaggio all’umanità. Il nostro comportamento nei riguardi di cose come i gas tossici “dovrebbe” essere quello del re di Brobdingnag nei riguardi della polvere da sparo; ma dato che viviamo in un’era meccanica e scientifica, siamo contagiati dall’idea che, qualunque altra cosa accada, il “progresso” deve continuare e il sapere non deve essere mai soffocato. Verbalmente, senza dubbio, saremmo tutti d’accordo sul fatto che la macchina è fatta per l’uomo e non l’uomo per la macchina; in pratica, ogni tentativo di arrestare lo sviluppo della macchina ci appare come un attacco al sapere e perciò una specie di bestemmia. E anche se tutta l’umanità improvvisamente si rivoltasse contro la macchina e decidesse di rifugiarsi in un più semplice modo di vivere, una siffatta evasione sarebbe ancor sempre immensamente difficile. Non servirebbe, come in “Erewhon” di Butler, spaccare tutte le macchine inventate dopo una certa data; dovremmo anche distruggere l’abito mentale che, quasi involontariamente, si metterebbe a ideare nuove macchine appena le vecchie fossero state distrutte. E in tutti noi c’è almeno una sfumatura di quest’abito mentale. In ogni paese di questo mondo il grande esercito di tecnici e di scienziati, col resto di noi ansimanti alle loro calcagna, marcia sulla strada del “progresso” con la cieca persistenza di una colonna di formiche. Un numero relativamente scarso di persone vuole che ciò accada, moltissimi son coloro che non lo vogliono attivamente, ma il fenomeno accade. Il processo di meccanizzazione è diventato esso medesimo una macchina, immenso veicolo rutilante che ci porta come un turbine non sappiamo precisamente dove, ma con ogni probabilità verso il mondo imbottito di Wells e il cervello sotto spirito. Queste, dunque, le ragioni del processo alla macchina. Se sia processo valido o no, ha ben poca importanza. Il punto è che argomenti come questi o molto simili a questi verrebbero ripetuti da chiunque sia ostile alla civiltà della macchina. E sfortunatamente, per quell’associazione di idee, “socialismo–progresso-macchine–Russiatrattori-igiene– macchine-progresso“, che si verifica nella mente quasi di tutti, di solito è la “stessa” persona che è ostile al socialismo. Il genere d’individuo che detesta il riscaldamento centrale e le sedie tubolari è anche il genere d’individuo che quando nominate il socialismo mormora qualche cosa sullo “Stato alveare” e si allontana con espressione rattristata. Da quel che mi risulta, ben pochi socialisti afferrano perché sia così o addirittura che “sia” così. 19 Per esempio: alcuni anni fa un tale inventò un tipo di puntina per grammofono che sarebbe durata per decenni. Una delle grandi compagnie costruttrici di grammofoni acquistò il brevetto, e da allora nessuno ne ha udito più parlare. (N.d.A.)
Spingete in un angolo un socialista del tipo verboso, ripetetegli la sostanza di ciò che ho detto in questo capitolo e state a sentire il genere di risposta che avrete. A dir la verità avrete parecchie risposte; mi sono talmente familiari che le so quasi a memoria. In primo luogo vi dirà che è impossibile “tornare indietro” (o anche “far indietreggiare la lancetta del progresso”; come se la lancetta sull’orologio del progresso non fosse stata fatta retrocedere più d’una volta, e con bella violenza, nella storia dell’umanità!), dopo di che vi accuserà di essere un oscurantista medioevaleggiante e comincerà a diffondersi sugli orrori dell’Evo Medio, sulla lebbra, l’Inquisizione e così via. In effetti, quasi tutti gli attacchi al Medio Evo e al passato in generale da parte di apologisti della modernità sono fuori luogo, perché il loro trucco essenziale consiste nel proiettare un uomo moderno, con la sua schizzinosità e il suo altissimo tenor di vita, in un’epoca in cui simili agi e comodità erano totalmente inimmaginabili. Ma si noti che in ogni caso questa non è una risposta. Perché l’antipatia per un futuro meccanizzato non implica la più lieve tenerezza per questo o quel periodo del passato. D. H. Lawrence, più saggio del medioevalista, decise di idealizzare gli etruschi, dei quali sapeva convenientemente poco. Ma non c’è nessun bisogno di idealizzare nemmeno gli etruschi, o i pelasgi, o gli aztechi, o i sumeri, o qualunque altro romantico popolo scomparso. Quando si immagina una civiltà desiderabile, la si immagina semplicemente come un obiettivo; non c’è bisogno di fingere che sia mai esistita nello spazio e nel tempo. Insistete su questo punto, spiegate che volete soltanto rendere la vita più semplice e strenua, anzi che più complessa è più molle, e il socialista allora ne dedurrà che vogliate recedere a uno “stato di natura”, intendendo qualche fetida caverna del paleolitico: come se non ci fosse la minima differenza tra un raschietto di pietra focaia e le acciaierie di Sheffield, o tra una barchetta di pelli e il transatlantico “Queen Mary“! Ma finalmente riceverete una risposta abbastanza soddisfacente e che sarà più o meno concepita così: “Sì, quello che dici è tutto abbastanza giusto, in un certo senso. Indubbiamente sarebbe molto nobile temprare noi stessi e fare a meno di aspirina, riscaldamento centrale e tutto il resto. Ma il fatto, vedi, il fatto è che nessuno lo desidera seriamente. Significherebbe ripiegare su una vita agricola, che vuol dire sgobbare in modo bestiale e non è affatto la stessa cosa che dilettarsi di giardinaggio. Io non ho nessuna voglia di sgobbare come un forzato, tu nemmeno, nessuno che abbia il senso della realtà può volerlo. Tu parli così semplicemente perché non hai mai lavorato un giorno solo in tutta la tua vita“ eccetera, eccetera. Ora questo in un certo senso è vero. E’ come dire: “Siamo mollià per l’amor di Dio restiamo molli!“ che almeno sarebbe realistico. Come ho già fatto notare, la macchina ci tiene nella sua morsa ed evadere sarà immensamente difficile. Ciò non ostante questa risposta è invero una evasione, perché non riesce a chiarire che cosa intendiamo quando diciamo di “volere” questo o quello. Io sono un moderno semintellettuale degenerato e morrei se non avessi ogni mattina di buon’ora la mia tazza di tè ogni venerdì il mio “New Statesman”. Chiaramente non “voglio”, per un verso, ridurre la quantità delle mie bevande alcooliche, pagare i miei debiti, fare abbastanza moto, essere fedele a mia moglie, eccetera eccetera. Ma per un altro verso, più serio e durevole, voglio tutte queste cose, e forse per lo stesso verso voglio una civiltà in cui il “progresso” non sia identificabile con un mondo reso sicuro per degli omettini grassi. Questi or ora abbozzati sono i soli argomenti che io sia
riuscito a ottenere da socialisti intelligenti e istruiti, ogni qual volta abbia tentato di spiegare loro come essi allontanino possibili aderenti. Naturalmente c’è anche il vecchio argomento che il socialismo verrà comunque, lo voglia o non lo voglia il popolo, sempre in virtù di quella cosetta risparmiatrice di guai che è la “necessità storica“. Ma la ”necessità storica“, o meglio la fede in essa, non ha saputo sopravvivere a Hitler. Intanto la persona capace di pensare, per intelletto solitamente di sinistra ma per temperamento spesso di destra, si aggira presso la porta dell’ovile socialista. Indubbiamente sa che dovrebbe essere socialista. Ma osserva innanzi tutto l’ottusità dei singoli socialisti, poi la manifesta flaccidezza degli ideali socialisti, e si allontana. Fino a epoca recente era naturale deviare verso l’indifferentismo. Dieci, anche cinque, anni fa, i letterati tipici scrivevano libri sull’architettura barocca e si sentivano al di sopra della politica. Ma questo atteggiamento sta diventando difficile ed anche inelegante. I tempi si fanno più difficili, i problemi più netti, la certezza che nulla mai cambierà (vale a dire, che i vostri dividendi saranno sempre sicuri) è meno prevalente. Il muretto su cui siede il letterato, un muretto comodo un tempo come il cuscino di velluto dello stallo d’una cattedrale, gli pizzica ora il didietro in modo intollerabile, sempre più egli rivela la disposizione di scendere o da una parte o dall’altra. E’ interessante notare quanti dei nostri scrittori eminenti, che una dozzina di anni fa erano corpo e anima in favore dell’arte per l’arte e avrebbero considerato troppo volgare addirittura votare alle elezioni generali, stanno ora assumendo un punto di vista politico definito; mentre quasi tutti gli scrittori più giovani, almeno quelli che non sono meri buffoni, sono stati “politici” fin dal principio. Credo che quando verrà il momento critico correremo il pericolo grave che il movimento principale degli intellettuali tenda verso il fascismo. Quando il momento critico verrà è difficile a dire; dipende, probabilmente, dagli avvenimenti in Europa; ma può darsi che fra due anni, e forse un anno, noi si raggiunga il momento decisivo. E quello sarà anche il momento in cui ogni persona retta e ragionevole saprà con certezza che il suo posto dovrebbe essere coi socialisti. Ma non si muoverà di sua iniziativa; troppi antichi pregiudizi le sbarrano la strada. Dovrà essere persuasa, e con metodi che sottintendano la comprensione del suo punto di vista. I socialisti non possono permettersi di perdere altro tempo a predicare ai convertiti. Il loro compito oggi è di creare socialisti il più rapidamente possibile; mentre invece, e troppo spesso, creano dei fascisti. Quando parlo di fascismo in Inghilterra, non penso necessariamente a Mosley e ai suoi inaccettabili seguaci. Il fascismo inglese, quando verrà, sarà probabilmente d’una specie blanda e sottile (è presumibile, ad ogni modo ai primordi, che “non” si “chiamerà” fascismo) e c’è da dubitare che dragoni pesanti dello stampo di Mosley possano essere presi molto sul serio dalla maggioranza del popolo inglese; anche se varrà la pena di tener d’occhio Mosley, ché l’esperienza insegna (vedi le carriere di Hitler, Napoleone terzo, eccetera) che per un arrivista politico è talvolta un vantaggio non essere preso troppo sul serio agli inizi della carriera. Ma quello a cui penso in questo momento è la mentalità fascista, che al di là d’ogni dubbio sta guadagnando terreno tra gente che dovrebbe saper comportarsi meglio. Il fascismo come appare all’intellettuale è una specie d’immagine riflessa, non proprio del socialismo, ma di un plausibile camuffamento del socialismo. E si riassume nella determinazione di fare l’opposto di qualunque cosa il socialista mitico faccia. Se presentate il socialismo in una cattiva luce, una luce ingannevole – se lasciate credere alla gente che esso più o meno è pronto a gettare la civiltà europea nella spazzatura al comando di bacchettoni marxisti – rischiate di gettare gli intellettuali fra le braccia del fascismo. Ispirate loro una paura che li costringe ad assumere una specie di rabbioso atteggiamento difensivo, nel quale si rifiutano, semplicemente, di ascoltare la
parola socialista. Un atteggiamento simile è già chiaramente discernibile in scrittori come Pound, Wyndham Lewis, Roy Campbell, eccetera, nella maggioranza degli scrittori cattolici e in molti del gruppo Douglas Credit, in certi romanzi popolari e perfino, a guardar bene sotto la superficie, in intellettuali conservatori del tipo più superno come Eliot e i suoi innumerevoli seguaci. Se volete qualche inequivocabile illustrazione dello sviluppo di sentimenti fascisti in Inghilterra, ponete mente a qualcuna delle numerosissime lettere, che, scritte alla Stampa durante la guerra italo–abissina, approvavano l’azione italiana, ed anche all’ululato di gioia che salì dai pulpiti tanto cattolici quanto anglicani (vedi il “Daily Mail” del 17 agosto 1936) al sorgere del fascismo in Spagna. Per combattere il fascismo è necessario comprenderlo, ossia, ammettere che in esso si trova anche qualcosa di buono, oltre a moltissimo male. In pratica, naturalmente, non è che un’infame tirannide e i suoi metodi per conquistare e conservare il potere sono tali che perfino i suoi più zelanti apologisti preferiscono parlare d’altro. Ma il sentimento soggiacente al fascismo, quello che per primo attira gente nel campo fascista, può essere meno spregevole. Non si tratta sempre, come la “Saturday Review” vorrebbe far credere, del terrore paralizzante del babau bolscevico. Chiunque abbia dato un’occhiata al movimento sa che il gregario fascista è spesso una bravissima persona, sincerissimamente desiderosa, per esempio, di migliorare la sorte dei disoccupati. Ma più importante ancora è il fatto che il fascismo deriva la sua forza dalle varietà tanto buone quanto cattive dello spirito conservatore. A chiunque abbia il senso della tradizione e della disciplina esso giunge col suo richiamo già bell’e pronto. Probabilmente, è molto facile, quando si abbia la testa colma della specie più indelicata di propaganda socialista, vedere nel fascismo l’ultima linea difensiva di tutto ciò che è buono nella civiltà europea. Perfino il bravaccio fascista nella sua peggiore rappresentazione simbolica, col manganello di gomma in una mano e la bottiglia d’olio di ricino nell’altra, non si sente necessariamente un bravaccio; più probabilmente si sente come Orlando al passo di Roncisvalle, nell’atto di difendere la cristianità dalla barbarie. Dobbiamo ammettere che se ll fascismo avanza ovunque, la colpa è in gran parte degli stessi socialisti, e in parte va all’erronea tattica comunista di sabotare la democrazia, vale a dire di segare il tronco su cui si è a cavalcioni; ma ancor più al fatto che i socialisti hanno, per così dire, presentato la loro causa dalla parte sbagliata. Non hanno mai messo chiaramente in luce che gli scopi essenziali del socialismo sono giustizia e libertà. Con gli occhi incollati ai fatti economici, hanno continuato con l’assunto che l’uomo non ha anima ed esplicitamente o implicitamente hanno stabilito la meta di un’Utopia materialistica. Di conseguenza il fascismo ha potuto far leva su ogni istinto che si rivolti contro l’edonismo e una meschina concezione del “progresso”. Ha potuto atteggiarsi a sostenitore della tradizione europea e fare appello alla fede cristiana, al patriottismo e alle virtù militari. E’ qualcosa peggio che inutile scartare il fascismo come “sadismo collettivo” o “di massa”, o qualche altra facile etichetta del genere. Se sostenete che è soltanto un’aberrazione che in breve tempo si esaurirà da sola, vi cullate in un sogno dal quale vi desterete nel momento in cui qualcuno vi darà una manganellata sulla testa. La sola via possibile sta nell’esaminare il fenomeno fascista, capire che c’è qualcosa da dire a suo favore e infine rivelare chiaramente al mondo che qualunque cosa buona sia nel fascismo, è implicita anche nel socialismo. Per il momento la situazione è disperata. Anche se non dovesse capitarci nulla di peggio,
ci sono le condizioni che ho descritto nella prima parte di questo libro e che non sono destinate a migliorare col nostro attuale sistema economico. Ancor più urgente è il pericolo della dominazione fascista in Europa. E a meno che la dottrina socialista possa, in una forma effettiva, diffondersi ampiamente e rapidissimamente, non v’è certezza che il fascismo possa essere mai rovesciato. Perché il socialismo è il solo vero nemico che il fascismo deve affrontare. I governi capitalistico–imperialisti, anche se essi pure stanno per essere saccheggiati, non si batteranno con la minima convinzione contro il fascismo come tale. I nostri governanti, quelli di loro che capiscono la situazione; preferirebbero probabilmente cedere ogni pollice quadrato dell’Impero Britannico all’Italia, alla Germania e al Giappone, piuttosto che vedere il socialismo trionfare. Era facile ridere del fascismo quando ci immaginavamo che fosse una forma di nazionalismo isterico, in quanto sembrava ovvio che gli stati fascisti, ognuno considerandosi come il popolo eletto e patriottico per eccellenza “contra mundum”, avrebbero finito per azzuffarsi tra loro. Ma non sta accadendo nulla del genere. Il fascismo è ormai un movimento internazionale, la qual cosa significa non soltanto che le nazioni fasciste possono allearsi a scopo di rapina, ma che tendono, sia pure brancolando, sia pure ancora semi–inconsciamente, verso un sistema mondiale. Ché alla visione dello Stato totalitario si sta sostituendo la visione del mondo totalitario. Come ho già rilevato, l’evoluzione della tecnica meccanica deve sfociare in definitiva in qualche forma di collettivismo, ma non occorre necessariamente che questa forma sia egualitaria; vale a dire, non occorre che sia socialismo. Con buona pace degli economisti, è molto facile immaginare una società mondiale, economicamente collettivistica – cioè, col principio del profitto eliminato – ma con tutto il potere politico, militare e educativo nelle mani di una piccola casta di dominatori e di loro scherani. Questo, o qualcosa di simile, è l’obiettivo del fascismo. E questo, naturalmente, è lo stato schiavista, o piuttosto il mondo schiavista; sarebbe probabilmente una forma stabile di società ed è anche possibile, se si tien conto delle enormi ricchezze del mondo quando siano scientificamente sfruttate, che gli schiavi saranno ben nutriti e contenti. Si suole parlare dell’obiettivo fascista come dello “Stato alveare”, il che fa un grave torto alle api. Un mondo di conigli dominato da ermellini colpirebbe meglio nel segno. E contro questa possibilità bestiale che dobbiamo coalizzarci. La sola cosa in base alla quale possiamo coalizzarci è il sottinteso ideale del socialismo: giustizia e libertà. Ma è un’esagerazione definire questo ideale “sottinteso”. E ormai quasi del tutto dimenticato. E’ stato sepolto sotto innumerevoli strati di presuntuosità dottrinaria, di diatribe di partito e di “progressismo” miope, fino a ridursi come un diamante nascosto sotto una montagna di escrementi. Compito del socialismo è di riportarlo alla luce. Giustizia e libertà! Queste sono le parole che devono risonare come una fanfara per tutto il mondo. Per molto tempo, almeno da dieci anni a questa parte, il diavolo ha avuto per sé tutte le canzoni migliori. Noi siamo giunti a uno stadio in cui la stessa parola “socialismo” evoca, da una parte, un quadro di aeroplani, trattori e immense fabbriche di vetro e acciaio; dall’altra, di vegetariani dalle barbe sfilacciate, di commissari bolscevichi (mezzi gangster e mezzi grammofono), di fervide dame in sandali, di marxisti ruminanti polisillabi, di quaccheri fuggitivi, di fanatici del controllo delle nascite e di arrivisti del partito laburista. Il socialismo, almeno in quest’isola, non sa più di rivoluzione e di cacciata di tiranni; sa di
stortura, di adorazione delle macchine e dello stupido culto della Russia. A meno che non eliminiamo questo sapore, e rapidamente, il fascismo può vincere.
CAPITOLO 13. E in definitiva, c’è qualcosa che possiamo fare? Nella prima parte di questo libro ho illustrato per sommi capi in quale pasticcio ci troviamo; in questa seconda parte, ho cercato di spiegare perché, a mio parere, tante brave persone sentano ripugnanza per il solo rimedio che abbiamo, il socialismo. E’ chiaro che la necessità più urgente dei prossimi anni è per noi di aggregarci queste brave persone prima che il fascista giuochi la sua carta decisiva. Non voglio sollevare qui la questione dei partiti e degli espedienti politici. Più importante d’ogni etichetta di partito (anche se di certo la semplice minaccia del fascismo porterà in essere tra breve qualche genere di Fronte Popolare) è la diffusione della dottrina socialista in forma effettiva. La gente deve essere messa in grado di agire come socialista. Ci sono, ritengo, innumerevoli individui che, senza accorgersene, simpatizzano con i fini essenziali del socialismo e potrebbero essere guadagnati alla sua causa quasi senza sforzo, se soltanto si sapesse trovare la parola giusta. Chiunque conosce il significato della povertà, chiunque nutra un odio genuino per la tirannide e la guerra, è, potenzialmente, dalla parte dei socialisti. Mio compito, dunque, è qui di suggerire – in termini molto generali, necessariamente – come si possa operare una riconciliazione tra il sodalismo e i suoi avversari più intelligenti. Innanzi tutto, occupiamoci degli avversari stessi, e per avversari intendo tutti quegli individui i quali hanno capito che il capitalismo è un male, ma si rendono conto del senso di disagio e di nausea che li coglie alla minima menzione del socialismo. Come ho già detto, ciò si può far risalire a due cause principali. Una è la personale inferiorità di molti singoli socialisti; l’altra è il fatto che il socialismo troppo spesso si accoppia a una concezione sbracata e atea del “progresso”, la quale rivolta chiunque sia sensibile alla tradizione o ai rudimenti d’un senso estetico. Esaminiamo per primo il secondo punto. Il disgusto per il “progresso” e la civiltà meccanica, così diffuso tra la gente sensibile, è difensibile soltanto come atteggiamento mentale. Non è valido come ragione di ripulsa del socialismo, perché presuppone un’alternativa che non esiste. Quando dite: “Sono avverso alla meccanizzazione e alla standardizzazione, sono dunque avverso al socialismo“: dite in realtà: ”Sono libero di fare a meno della macchina, se così volessi“ che è un nonsenso. Noi tutti dipendiamo dalla macchina, e se le macchine cessassero di lavorare la maggioranza di noi morrebbe. Si può detestare la civiltà meccanica, probabilmente avete ragione di detestarla, ma per il momento non si tratta di accettarla o respingerla. La civiltà meccanica è “qui”, onnipresente, e si può soltanto criticarla dall’interno, perché tutti noi ci troviamo nel suo interno. Sono semplicemente degli idioti romantici coloro che si lusingano di essere fuggiti, come il letterato snob nella sua villa in stile Tudor con bagno e acqua calda e fredda, e come il “vero uomo” che se ne va a fare il primitivo nella giungla con un fucile Mannlicher e quattro furgoni carichi di cibarie in scatola. E quasi certamente la civiltà meccanica continuerà a trionfare. Non c’è motivo di credere che distruggerà se stessa o cesserà di funzionare di propria iniziativa. Da qualche tempo è di moda dire che tra breve la guerra distruggerà completamente la civiltà; ma sebbene la prossima guerra – guerra di enormi proporzioni – debba essere certamente così orribile da far sembrare tutte le precedenti un giochetto, è immensamente improbabile che essa
imponga un arresto al progresso meccanico. E’ vero che un paese estremamente vulnerabile come l’Inghilterra, e forse tutto l’occidente d’Europa, potrebbe essere ridotto al caos con qualche migliaio di bombe ben centrate, ma nessuna guerra è attualmente pensabile che possa spazzar via l’industrialismo da tutti i paesi contemporaneamente. Rassegniamoci al fatto che il ritorno a un modo di vivere più semplice, più libero, meno meccanizzato, per desiderabile che possa essere, non si verificherà. Questo non è fatalismo, è semplice accettazione dei fatti. E’ insensato avversare il socialismo con la scusa che si avversa lo Stato alveare, perché lo Stato alveare è già qui. La scelta non è ancora fra un mondo umano e un mondo inumano, ma semplicemente fra socialismo e fascismo, che è, questo, nella sua forma migliore, socialismo svuotato delle sue virtù. Compito dell’individuo ragionevole, quindi, non è di respingere il socialismo ma di decidersi a umanizzarlo. Una volta che il socialismo stia in un certo senso per essere, quelli che hanno capito completamente l’inganno del “progresso” si accorgeranno probabilmente di opporgli resistenza. Infatti la loro particolare funzione è di resistergli. Nel mondo delle macchine essi devono rappresentare una specie di opposizione permanente, cosa ben diversa dal fare dell’ostruzionismo o dal tradire. Ma io sto parlando del futuro. Per il momento la sola via possibile aperta a un galantuomo, per quanto anarchico o conservatore possa essere di temperamento, deve lavorare per l’edificazione del socialismo. Nessun’altra cosa può salvarci dalla miseria del presente o dall’incubo del futuro. Opporsi al socialismo “ora”, quando venti milioni di inglesi non mangiano abbastanza per la loro fame e il fascismo ha conquistato mezza Europa, è un suicidio. E’ come iniziare una guerra civile mentre i Goti stanno varcando la frontiera. E’ dunque tanto più importante liberarsi di quei pregiudizi, dettati dalla mera paura contro il socialismo, che non si fondano su nessuna seria obiezione. Come ho già detto, molti che non sono respinti dal socialismo, lo sono dai socialisti. Il socialismo, così com’è presentato ora, non attira soprattutto perché appare, ad ogni modo dall’esterno, come il balocco di originali, dottrinari, bolscevichi da salotto e così via. Ma val la pena di ricordare che ciò è solo perché si è permesso a originali e dottrinari di arrivarci prima; se il movimento fosse animato da cervelli migliori e da gente più seria, i tipi discutibili cesserebbero di dominarlo. Per il momento bisogna stringere i denti e ignorarli; appariranno molto più piccoli e insignificanti quando il movimento sarà stato umanizzato. Inoltre, sono irrilevanti. Dobbiamo batterci per la giustizia e la libertà, e il socialismo significa giustizia e libertà, quando sia stato spogliato d’ogni sciocchezza. Sono soltanto gli elementi essenziali che bisogna ricordare. Dir no al socialismo perché tanti socialisti individuali sono uomini nulli è assurdo come rifiutar di viaggiare in treno perché vi è antipatica la faccia del bigliettario. In secondo luogo, occupiamoci del socialista stesso, in particolar modo del tipo di socialista verboso, autore di opuscoli e trattati. Siamo giunti a un momento in cui è disperatamente necessario che gli uomini di sinistra di tutte le sfumature dimentichino le loro diatribe e si uniscano. In realtà ciò sta già verificandosi in piccola misura. Evidentemente, dunque, il genere di socialisti più intransigenti devono oggi allearsi con uomini che non sono in perfetto accordo con loro. Normalmente questi socialisti intransigenti sono, e a ragione, alieni dal farlo, perché vedono il gravissimo pericolo, diluendo l’intero movimento socialista, di ridurlo a qualche specie di vana impostura rosa pallido, ancor più inutile dello stesso partito laburista parlamentare. In questo momento,
per esempio, esiste il grande pericolo che il Fronte Popolare, che il fascismo presumibilmente porterà in essere, non sarà di carattere autenticamente socialista, ma soltanto una manovra contro i fascismi italiano e germanico (non inglese). Così la necessità di unirsi contro il fascismo potrebbe trascinare i socialisti in un’alleanza con i loro peggiori nemici. Ma il principio su cui basarsi è questo: non si è mai in pericolo di stringere alleanze sbagliate, quando si tengano gli elementi essenziali del proprio movimento bene in vista. E quali sono gli elementi essenziali del socialismo? A che cosa mira un vero socialista? Suppongo che un vero socialista sia colui che aspira – non soltanto lo pensa desiderabile, ma vi aspira attivamente – a vedere rovesciata la tirannide. Ma immagino che la maggioranza dei marxisti ortodossi non accetterebbe questa definizione, o l’accetterebbe soltanto con molti brontolii. A volte, ascoltando i discorsi di costoro, e ancor più quando leggo i loro libri, ricevo l’impressione che, per loro, l’intero movimento socialista non sia più d’una specie di stimolante caccia all’eretico, un saltellare avanti e indietro di frenetici stregoni al battito di tam–tam e al canto di “Fi, fe, fo, fum, fiuto l’odor del sangue di un deviazionista di destra!“ E per questo genere di cose che è tanto più facile sentirsi socialisti quando si è tra gente operaia. Il socialista operaio, come il cattolico operaio, è debole in dottrina e difficilmente apre bocca senza dire un’eresia, ma ha il nocciolo del problema nel sangue. Non gli sfugge il fatto centrale che il socialismo significa il rovesciamento della tirannide, e la “Marsigliese”, se fosse tradotta a suo beneficio, lo attrarrebbe assai più profondamente di qualunque dotto trattato sul materialismo dialettico. In questo momento è una perdita di tempo insistere che l’accettazione del socialismo significa accettazione del lato filosofico del marxismo, più la debita adulazione della Russia. Il movimento socialista non ha tempo di essere una coalizione di materialisti dialettici; deve essere una lega degli oppressi contro gli oppressori. Si deve attirare l’uomo che fa sul serio e si deve cacciar via il liberale dalla parola soave che vuole l’annientamento del fascismo straniero per poter continuare a ricevere pacificamente i suoi dividendi, il tipo di impostore, che dirige mozioni “contro il fascismo e il comunismo”, contro topi, cioè, e veleno per topi. Il socialismo significa rovesciamento della tirannide, tanto in patria quanto negli altri paesi. Finché terrete “questo” fatto bene in vista, non avrete mai molti dubbi su chi siano i vostri reali sostenitori. Quanto a minori dissidi – e il più profondo dissidio filosofico è privo di importanza di fronte alla salvezza di venti milioni di inglesi, le cui ossa marciscono di denutrizione – il tempo di discuterne verrà poi. Non credo che il socialista debba sacrificare uno solo degli elementi essenziali, ma certo dovrà fare un grande sacrificio di elementi esteriori. Sarebbe un aiuto enorme, per esempio, se l’odor di stramberia che ancora aleggia intorno al movimento socialista potesse essere disperso. Se tutti i sandali e le camicie color pistacchio che lo affliggono fossero ammucchiati insieme e bruciati, e ogni vegetariano, astinente e redentore fossero mandati a casa a Welwyn Garden City a fare in pace i loro esercizi yoga! Ma questo, temo, non si verificherà. E’ possibile invece che il tipo più intelligente di socialista desista dall’alienare eventuali sostenitori con sistemi sciocchi e irrilevanti. Ci sono tante altre piccole presunzioni che si potrebbero abbandonare così facilmente! Prendiamo per esempio l’insopportabile atteggiamento del marxista tipico nei riguardi della letteratura. Dei tanti che mi vengono in mente, darò un solo esempio. Può sembrare banale, ma non lo è. Nel vecchio “Worker’s Weekly” (uno dei precursori del “Daily Worker”) usciva regolarmente una colonna di argomenti letterari sul tipo di “Libri sul tavolo del direttore”. Per alcune settimane di fila sulla colonna s’era parlato abbastanza diffusamente di Shakespeare; per cui un irato lettore scrisse al giornale nel seguente tenore: «Caro compagno, non vogliamo più leggere niente di questi scrittori borghesi sul
tipo di Shakespeare. Non potresti darci qualche cosa d’un po’ più proletario?» eccetera, eccetera. La risposta del direttore fu semplice: «Se vorrete compulsare l’indice dei nomi in fondo al “Capitale” di Marx» scrisse «troverete che Shakespeare vi è menzionato parecchie volte». E si voglia notare che questo bastò a tacitare il lettore rispettabile. E’ questa la mentalità che allontana tante degne persone dal movimento socialista. E poi c’è l’orribile gergo che quasi tutti i socialisti credono necessario usare. Quando l’individuo comune ode frasi come “ideologia borghese“, ”solidarietà proletaria“ e ”espropriazione degli espropriatori“ non ne è attratto, ne è semplicemente disgustato. Anche la singola parola “compagno” ha avuto la sua piccola parte malefica nello screditare il movimento socialista Quanti indecisi si sono arrestati sull’orlo del precipizio, dopo essere andati, forse, a qualche comizio e avere osservato socialisti un po’ tronfi darsi debitamente l’un l’altro del “compagno”, e infine sono sgattaiolati via, delusi, nel più vicino spaccio di birra! E il loro istinto non è sbagliato; che senso ha infatti appiccicarsi addosso un ridicolo cartellino che, anche dopo un lungo esercizio, non si può menzionare senza un singulto di vergogna? E’ inevitabile vedere il comune osservatore convincersi nell’idea che essere socialista significa calzare sandali e bofonchiare di materialismo dialettico. Dobbiamo mettere bene in chiaro che nel movimento socialista c’è posto per esseri umani, o la partita è chiusa. E questo solleva una grande difficoltà, perché significa che il problema classista, in quanto distinto dal mero stato economico, deve essere affrontato più realisticamente di quel che non si faccia ora. Ho dedicato tre capitoli a esaminare la difficoltà classista. Il fatto principale che penso ne sia risultato è che il sistema classista inglese, sebbene sopravvissuto alla sua utilità, ciò non di meno le è sopravvissuto è non dà il minimo segno di voler morire. E’ apportatore di notevole confusione l’assumere, come fa così spesso il marxista ortodosso (si veda per esempio il libro, interessante sotto vari aspetti, di Alec Brown, “The Fate of the Middle Classes”), che la condizione sociale è determinata esclusivamente dal reddito. Economicamente, non c’è dubbio, ci sono due classi, la ricca e la povera, ma socialmente c’è tutta una gerarchia di classi, e le buone creanze e le tradizioni apprese nell’infanzia dai membri di ogni classe non soltanto sono diversissime, ma – e questo è il punto essenziale – persistono generalmente dalla nascita alla morte. Da qui gli individui anomali che trovate in ogni classe sociale. Trovate scrittori come Wells e Bennett che sono divenuti immensamente ricchi ed hanno conservati intatti i loro pregiudizi anticonformistici piccolo–borghesi; trovate milionari che non sanno pronunciar bene una sola parola; trovate piccoli bottegai che guadagnano molto meno di un comune muratore e che, tuttavia, si considerano (e sono considerati) socialmente superiori al muratore; trovate ragazzi che hanno fatto sì e no le elementari, i quali governano province indiane, e gente che ha fatto ginnasio e liceo e vende aspirapolvere a rate. Se la stratificazione sociale corrispondesse esattamente alla stratificazione economica, l’uomo che ha fatto il liceo assumerebbe un accento cockney il giorno in cui il suo reddito scendesse sotto le 200 sterline annue. Ma lo fa? Anzi, immediatamente diviene venti volte più “studi classici” di prima. Si aggrappa alla sua “vecchia cravatta” studentesca come a una corda di salvataggio. E perfino il milionario dalla pronuncia scorretta, pur andando in alcuni casi da un maestro di dizione e imparando a parlare con un accento da B.B.C., ben di rado riesce a camuffarsi così totalmente come vorrebbe. E’ infatti difficilissimo evadere, culturalmente, dalla classe in cui si è nati. Col declino della prosperità, le anomalie sociali si fanno più comuni.
Non si ha un maggior numero di milionari dalla pronuncia scorretta, ma sempre più individui che hanno fatto il liceo e vendono aspirapolvere e sempre più negozianti che finiscono all’ospizio. Vasti settori del ceto medio si stanno gradualmente proletarizzando; ma il punto importante è che essi non adottano, almeno nella prima generazione, una mentalità proletaria. Prendiamo me, per esempio, con educazione borghese e reddito proletario. A quale classe sociale appartengo? Economicamente appartengo alla classe operaia, ma mi è quasi impossibile pensare a me stesso se non come a un membro della borghesia. E nell’ipotesi che io dovessi decidere con chi andare, con chi mi metterei, con la classe elevata che cerca di farmi morire d’inedia o con la classe operaia la cui educazione non è la mia? E’ probabile che personalmente, in ogni questione importante, io mi schieri con la classe operaia. Ma, e le decine e centinaia di migliaia di altri individui che si trovano più o meno nella mia stessa posizione? E quell’altra categoria sociale di gran lunga più vasta, numerabile a milioni d’individui, questa volta – i commessi d’ufficio e gli impiegati con mezze maniche d’ogni specie e descrizione – le cui tradizioni sono meno nettamente borghesi, ma che certamente non vi ringrazierebbero se li chiamaste proletari? Tutti questi individui hanno gli stessi interessi e gli stessi avversari della classe operaia. Tutti sono derubati e spadroneggiati dallo stesso sistema. Ma quanti di loro se ne rendono conto? Quando il momento della crisi giungesse, quasi tutti si schiererebbero dalla parte dei loro oppressori e contro coloro che dovrebbero essere i loro alleati. E’ facile immaginare una classe media stritolata e ridotta in fondo all’abisso della miseria e che ancora rimane di sentimenti ferocemente antioperai: costituendo così, naturalmente, un partito fascista già bell’e pronto. E’ ovvio che il movimento fascista deve accogliere lo sfruttato ceto medio prima che sia troppo tardi; soprattutto deve accogliere il ceto impiegatizio, tanto numeroso e, se sapesse coalizzarsi, tanto potente. L’ultimissima persona in cui potete sperare di trovare opinioni rivoluzionarie è un commesso di negozio o un viaggiatore di commercio. Perché? In gran parte, direi, per il linguaggio “proletario” di cui è infarcita la propaganda socialista. Allo scopo di simboleggiare la lotta di classe, si è modellata la figura più o meno mitica del “proletario”, un pezzo d’uomo muscoloso ma oppresso, vestito d’una tuta sporca, in contraddistinzione d’un “capitalista”, un uomo grasso e perfido, in cappello a cilindro e pelliccia. E’ tacitamente inteso che non c’è nessuno tra i due; mentre la verità è, naturalmente, che in un paese come l’Inghilterra un quarto circa della popolazione sta proprio tra i due. Se intendete parlare sulla “dittatura del proletariato“ sarà una precauzione elementare cominciare con lo spiegare chi sia il proletariato. Ma per la tendenza socialista a idealizzare il lavoratore del braccio in quanto tale, la cosa non è mai stata sufficientemente chiarita. Quanti dell’infelice esercito tremante di commessi e dipendenti di negozio, che sotto certi aspetti sono ancor più da commiserare d’un minatore o di uno scaricatore di porto, pensano a se stessi come a proletari? Un proletario – così si è insegnato loro a credere – significa un uomo senza colletto. Così che quando cercate di scuoterli parlando loro della “lotta di classe”, riuscite soltanto a spaventarli; dimenticano i loro salari di fame, ricordano il loro accento coltivato e volano in difesa della classe che li sfrutta. I socialisti hanno qui un compito di notevole impegno. Devono dimostrare, al di là d’ogni possibilità di dubbio, esattamente dove passi la linea di demarcazione tra sfruttatore e sfruttato. Ancora una volta si tratta di restare attaccati all’essenziale; e il punto essenziale
qui è che tutti gli individui con redditi bassi e incerti si trovano nella stessa barca e devono combattere nello stesso campo. Probabilmente potremmo cavarcela parlando un po’ meno di “capitalista” e “proletario” e un po’ più di rapinatori e rapinati. Ma ad ogni modo dobbiamo abbandonare quella abitudine ingannevole di sostenere che soltanto i proletari sono lavoratori del braccio. Bisogna far assolutamente capire al commesso di negozio, al tecnico, al viaggiatore di commercio, al piccolo borghese che è sceso “coi piedi sulla terra“, al droghiere di paese, all’impiegato statale d’infimo grado e a tutti gli altri casi dubbi, che “essi sono” il proletariato e che il socialismo lavora per loro almeno quanto per il manovale e il bracciante. Non si deve lasciarli credere che la battaglia sia tra coloro che non sanno parlare in lingua e coloro che sanno; perché se lo credono, si schiereranno con quelli che parlano in lingua. Quello che voglio dire è che i diversi ceti devono essere persuasi a far causa comune senza, per il momento, essere persuasi ad abbandonare le loro differenze sociali. E questo può sembrare pericoloso. Ricorda un po’ troppo l’accampamento estivo del duca di York e quel malinconico genere di discorsi sulla cooperazione delle classi e sulla necessità che tutti si rimbocchino le maniche, che è tutta polvere negli occhi, o fascismo, o tutt’e due. Non può esserci cooperazione tra classi i cui veri interessi siano opposti. Il capitalista non può cooperare col proletario. Il gatto non può collaborare col topo; e se il gatto propone una forma di collaborazione e il topo è così sciocco da accettare, in breve il topo finirà tra le fauci del gatto. Ma è sempre possibile cooperare finché la cooperazione avvenga su una base di interessi comuni. Coloro che devono agire insieme sono tutti quelli che si conducono servilmente verso il padrone e tutti quelli che rabbrividiscono al pensiero dell’affitto da pagare. Ciò significa che il piccolo possidente deve allearsi col bracciante agricolo, il dattilografo col minatore, il maestro di scuola col meccanico di garage. C’è qualche speranza d’indurli a ciò, quando si sia riusciti a far loro capire quale sia il loro interesse. Ma ciò non accadrà se i loro pregiudizi sociali, che in alcuni di loro sono radicati almeno come qualunque considerazione economica, siano punzecchiati senza necessità. C’è, in fin dei conti, un’autentica differenza di educazione e di tradizioni tra un impiegato di banca e uno scaricatore di porto, e il senso di superiorità del bancario è profondamente radicato. In seguito egli avrà il dovere di liberarsene, ma non è questo il momento più adatto per chiedergli di fare tanto. Sarebbe dunque un grandissimo vantaggio se quel continuo, insignificante e meccanico punzecchiare i borghesi, che fa parte di quasi tutta la propaganda socialista, fosse abbandonato per il momento. In tutto il pensiero e gli scritti di sinistra – dagli articoli di fondo del “Daily Worker” alle colonne umoristiche del “New Chronicle” – si perpetua una tradizione anti–cortesia, uno schernire persistente e spesso molto stupido le buone maniere e gli ideali dei ceti evoluti (o, per, usare il gergo comunista, i “valori borghesi”). E’ in gran parte una impostura, venendo come viene da punzecchiatori della borghesia che sono essi medesimi borghesi, ma fa gran danno, perché lascia che un problema minore ne ostacoli uno maggiore. Storna l’attenzione dal fatto centrale che la povertà è povertà, tanto se il tuo strumento di lavoro è un piccone quanto se è una penna stilografica. Ancora una volta eccomi qua, con le mie origini borghesi e un reddito complessivo che non supera le tre sterline settimanali. Quale che sia il mio valore, sarebbe meglio attirarmi dalla parte socialista che farmi diventar fascista. Ma se doveste continuamente vessarmi per la mia “ideologia borghese”, se mi faceste capire che in un modo sottile sono un essere inferiore perché non ho mai lavorato con le mie mani, riuscireste soltanto a trattarmi da
nemico. Perché mi dite o che sono inerentemente inutile o che dovrei alterarmi in un modo che è al di là del mio potere. Non posso proletarizzare il mio accento o certi miei gusti e opinioni, e non lo vorrei anche se potessi. Perché dovrei farlo? Non domando a nessuno di parlare il mio dialetto; perché qualcuno dovrebbe chiedermi di parlare il suo? Sarebbe molto meglio prendere queste miserabili stimmate di classe per autentiche e accentuarle il meno possibile. Sono paragonabili a una differenza di razza e l’esperienza insegna che si “può” collaborare con degli stranieri, anche con stranieri che non ci piacciono, quando sia realmente necessario. Economicamente, mi trovo nella stessa barca del minatore, del manovale e del bracciante; mi si ricordi questo fatto ed io mi batterò al loro fianco. Ma culturalmente sono diverso dal minatore, dal manovale e dal bracciante; mettete ciò in particolare rilievo, e potrete armarmi contro di loro. Se fossi un’anomalia solitaria, non conterei, ma ciò che è vero di me è anche vero d’innumerevoli altri. Ogni impiegato di banca che trema all’idea del licenziamento, ogni negoziante che vacilla sull’orlo della bancarotta sono essenzialmente nella stessa posizione. Essi rappresentano il ceto medio che sta sprofondando e molti di loro si aggrappano alla loro signorilità con l’idea che essa possa mantenerli a galla. Non è buona politica “cominciare” dicendo loro di buttar via la cintura di salvataggio. Esiste il pericolo manifesto che tra qualche anno vasti settori dei ceti medi abbiano un brusco e violento scarto a destra. Così facendo possono divenire formidabili. La debolezza della classe media è consistita finora nel fatto che i suoi componenti non hanno mai imparato a coalizzarsi; ma se li spaventate tanto da spingerli a coalizzarsi “contro” di voi, potreste accorgervi d’avere stuzzicato il diavolo. Abbiamo avuto un breve cenno di questa possibilità durante lo sciopero generale. Riassumendo: Non ci sono probabilità di sanare le condizioni da me descritte nei primi capitoli di questo libro, o di salvare l’Inghilterra dal fascismo, se non porteremo in essere un effettivo partito socialista. Dovrà essere un partito con intenzioni autenticamente rivoluzionarie e dovrà essere abbastanza forte numericamente per agire. Potremo riuscirci soltanto se offriremo un obiettivo che la gente comune riconoscerà come desiderabile. Più d’ogni altra cosa pertanto ci occorre una propaganda intelligente. Meno “slogans” a base di “coscienza di classe” di “ideologia borghese” e di “solidarietà proletaria”, per tacer delle sacre sorelle, tesi, antitesi e sintesi; e più a base di giustizia, di libertà e della condizione del disoccupato. E si parli meno di progresso meccanico, trattori, diga del Dnieper, il più recente stabilimento di salmoni in scatola a Mosca; questo genere di cose non è parte integrante della dottrina socialista e allontana molta gente di cui abbisogna la causa socialista, ivi compresi quasi tutti coloro che sanno tenere la penna in mano. Tutto quello che occorre è martellare e ribadire bene nella coscienza pubblica due fatti. Uno, che gli interessi di tutti gli sfruttati sono gli stessi; l’altro che il socialismo e il comune decoro possono andare perfettamente d’accordo. Per quel che riguarda il problema terribilmente arduo delle differenze di classe, la sola condotta possibile per il momento è di procedere con calma e non spaventare la gente più del necessario. E soprattutto basta con quegli sforzi atletici d’abolire le classi. Se appartenete alla borghesia, non siate troppo impazienti di balzare avanti ad abbracciare i vostri fratelli proletari; possono non gradirlo e se lo dessero a vedere vi accorgereste forse che i vostri pregiudizi di classe non sono così morti come credevate. E se appartenete al proletariato, per nascita o al cospetto di Dio, non sghignazzate troppo automaticamente alla cara vecchia cravatta di scuola; essa copre ideali e fedeltà che vi potrebbero riuscire utili se sapeste come usarli.
Tuttavia credo esserci qualche speranza che quando il socialismo fosse un problema vivo, una cosa cioè di cui gran numero d’inglesi sinceramente s’interessasse, le difficoltà classiste potrebbero risolversi più rapidamente di quanto oggi sembri concepibile. Tra qualche anno o avremo quell’effettivo partito socialista di cui abbiamo bisogno, o non lo avremo. Se non lo avremo, allora sarà l’avvento del fascismo: probabilmente una viscida forma anglicizzata di fascismo, con poliziotti istruiti anzi che gorilla nazisti e il leone e l’unicorno invece della svastica. Ma se l’avremo, ci sarà da lottare, forse in senso materiale, perché la nostra plutocrazia non se ne starà tranquilla sotto un governo genuinamente rivoluzionario. E quando i ceti largamente diversi che, necessariamente, formerebbero qualunque autentico partito socialista, avessero combattuto a fianco a fianco, sentirebbero diversamente gli uni nei riguardi degli altri. E allora forse questa vergogna dei pregiudizi di classe svanirà e noi della borghesia che sprofonda – il maestro privato, il famelico giornalista indipendente, la figlia di colonnello zitella con 75 sterline all’anno, il diplomato di Cambridge senza lavoro, il comandante di nave senza nave, i commessi, gli statali, i viaggiatori di commercio e i tre volte falliti negozianti di tessuti di provincia – potremo sprofondare senza lotte ulteriori nella classe operaia a cui apparteniamo, e probabilmente quando vi saremo non sarà poi così terribile come avevamo temuto, perché, dopo tutto, non abbiamo altro da perdere che la nostra erre moscia.