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Italian Pages 96 Year 2005
GIULIANA SGRENA FUOCO AMICO feltrinelli (c) Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano ISBN 88-07-17112-0 1. Rapimento "Chi ci garantisce che non sei una spia?" Un uomo mi squadra fisso con gli occhi chiari e glaciali sotto una ke-fiah a scacchi bianchi e rossi. Accetto la sfida: "Nessuno ti può garantire che non sia una spia, tantomeno io: sono una giornalista, sono venuta qui per raccogliere le storie dei profughi di Falluja, se vi fidate di me parlate, altrimenti tacete". Ahmad non si arrende, mi ripete qualche fatto già noto come l'occupazione del General Hospital all'inizio dell'attacco americano contro Falluja che, aggiunge, è avvenuto "mentre una donna stava partorendo: è stata abbandonata lì con il cordone ombelicale ancora da tagliare!". Gli chiedo se lui era a Falluja durante l'attacco, ma mi risponde che in quel periodo era ricoverato in un ospedale di Baghdad per un problema a una gamba e anche la sua famiglia si trovava nella capitale per assisterlo. Inutile spiegargli che vorrei che mi raccontassero fatti meno noti. Continua a ripetermi slogan contro gli americani, mentre mi fissa dritto e minaccioso negli occhi. Più tardi saprò che aveva chiesto al mio autista se avevo una scorta, armata si intende. Il clima era ostile, tremendamente ostile, ma non volevo rinunciare a raccontare la storia della distruzione di Falluja attraverso i ricordi e le immagini di quella gente che l'aveva vissuta direttamente, o attraverso i racconti dei loro parenti rimasti intrappolati dall'assedio. Fino a quel momento le notizie, poche, erano giunte esclusivamente attraverso i giornalisti embedded con le truppe americane. La censura, tuttavia, non era riuscita a impedire lo "scoop" di Kevin Sites, il reporter della tv americana Nbc: aveva ripreso un marine mentre uccideva un combattente ferito e disarmato, steso sul pavimento della moschea di Falluja. Nonostante quelle immagini avessero fatto il giro del mondo, Kevin Sites era stato subito "espulso" dal corpo degli embedded perché non aveva rispettato le "regole d'ingaggio" e della censura. Qualche tempo dopo il marine che aveva sparato sarebbe stato assolto per aver agito per "legittima difesa". Altri giornalisti "arruolati" per Falluja mi hanno assicurato che non avrebbero mai più ripetuto l'esperienza. Non è stato risparmiato loro nulla: nemmeno il compito di scavare le trincee. Falluja era sempre stata la mia ossessione fin dal mio arrivo a Baghdad, e non solo quest'ultima volta. L'avevo "scoperta" alla fine dell'aprile 2003, dopo la prima rivolta che avrebbe fatto di questa cittadina il simbolo della resistenza contro l'occupazione. Ci tornavo a ogni mio viaggio in Iraq. Avevo incontrato persone molto disponibili con le quali era nata un'amicizia e una collaborazione. Erano convinti della necessità di far conoscere al mondo la realtà di Falluja e quindi mi aiutavano nel lavoro. Di solito l'appuntamento era a casa di Abu Mohammed, ma a ogni mio arrivo venivano "convocati" gli altri (a Falluja i telefoni allora funzionavano ancora). Così, tutti seduti per terra in un grande salone, seguendo la tradizione
tribale, si discuteva degli ultimi avvenimenti. Mustafa, un meccanico, era sempre il più informato: fin dalla mia prima visita mi aveva raccontato di quando, subito dopo la battaglia dell'aeroporto, una delle più cruente per l'occupazione di Baghdad, erano andati a cercare i corpi dei loro parenti e avevano trovato cadaveri carbonizzati e irriconoscibili. E fin da subito si era posta la domanda: quali armi erano state usate? Napalm? Fosforo? Dallo scorso giugno (nel 2004, prima del cosiddetto passaggio dei poteri al "governo iracheno provvisorio") Falluja era diventata off limits, l'isolamento che era stato imposto dopo il primo pesante attacco americano di aprile aveva esasperato i fallujani. I vari gruppi della resistenza si erano divisi in base alle matrici politico-tribali e religiose, estremizzando le loro posizioni. L'isolamento imposto dagli occupanti aveva favorito anche l'arrivo di arabi provenienti dall'estero. "Sappiamo che ci sono degli arabi," mi aveva detto un ragazzo fuggito da Falluja nel settembre 2004, quando la città veniva già bersagliata dai bombardamenti, "ma non abbiamo mai avuto contatti con loro." Da allora solo raramente ero riuscita a mettermi in contatto con i miei amici per telefono. Infine, con l'attacco del novembre 2004, anche la loro casa è stata ridotta in macerie. Che fine avevano fatto? Erano finiti anche loro tra le file dei profughi? Probabilmente, ma dove? Non avevo più notizie. Prima ancora delle elezioni, motivo che mi aveva portata in Iraq alla fine del gennaio 2005, mi ero dunque messa alla ricerca dei profughi di Falluja, quelli fuggiti prima o durante l'attacco. Non essendo riuscita a trovare i miei conoscenti dovevo esplorare altre strade. Non era facile. Mohammed, un amico che lavora con un'organizzazione non governativa italiana e che porta aiuti agli sfollati della città martoriata, mi aveva messa in guardia: "Io non ti ci porto dai profughi di Falluja, è troppo pericoloso, sono molto arrabbiati, non vogliono vedere nessuno, si fidano poco degli iracheni figurati degli occidentali!". Ho molto rispetto per
l'opinione di quell'amico, che mi ha sempre aiutata nei momenti difficili, ma sui profughi pensavo esagerasse, forse per una forma di iperprotezione. Il terrore dei sequestri ha cambiato la vita anche degli iracheni: quando ero a Baghdad, già in settembre durante il sequestro di Simona Torretta e Simona Pari, Manhaz e Ra'ad -Mohammed non voleva nemmeno sapere i miei programmi: "Se rapissero i miei figli non so quale potrebbe essere la mia reazione", ripeteva, e quindi preferiva restare all'oscuro dei miei spostamenti. Mi telefonava però spesso durante il giorno per sapere se ero ancora "tutta d pezzo", come diceva lui. Ovviamente non ero la sola interessata a Falluja e un amico fotografo mi ha dato una mano, indicandomi il luogo e la strada per trovare un campo di profughi fallujani. Il luogo era la moschea Mustafa che si trova dentro il cam-pus dell'Università Nahrein, l'ex Saddam University ribattezzata "Università dei due fiumi" (il Tigri e l'Eufrate) dopo la caduta del regime. La moschea, che appare da lontano come un enorme "guscio" verde, si trova ai margini del grande campus, isolata dagli istituti accademici. Intorno alla cupola sono montate le tende che ospitano alcuni profughi di Falluja, circa millecinquecento in tutto, dicono. Altre tende, trasformate in una sorta di paraventi di tela gialla, si sono insinuate fin dentro l'edificio, per proteggere dal freddo e dalla pioggia i poveri sfollati: da una parte le donne e dall'altra gli uomini. Al mio arrivo, con interprete e autista, entrambi sunniti -nell'Iraq sotto occupazione la scelta degli accompagnatori è un particolare da non sottovalutare -gli uomini stanno discutendo a piccoli gruppi, mentre le donne si aggirano con pentole e bacinelle, seguite da frotte di bambini inzaccherati di fango. Quel venerdì -4 febbraio 2005 -pioveva. L'immagine del campo era ancora più misera e triste. Ma sul finire della mattinata qualche spiraglio di sole avrebbe permesso ai fedeli di trascinare il tappeto verde della preghiera fuori dalla moschea per sottrarsi al freddo e all'umidità che regnava all'interno. Prima della preghiera però c'era tempo e, grazie all'autorizzazione dell'imam della moschea, lo sheikh Hussein, che ci aveva fatto sapere di essere impegnato nella preparazione del sermone, ho cercato di rompere quella cortina di ostilità che mi circondava, incurante del gruppetto di Ahmad che non mi perdeva di vista. Non volevo darmi per vinta, conosco la sofferenza di questa popolazione -ero stata a Falluja anche all'indomani dei bombardamenti -ed ero sicura di poter vincere le loro diffidenze. Inoltre, ho visitato campi profughi un po' dappertutto, dalla Somalia al Kurdistan, anche in condizioni peggiori di queste. Ovunque ho constatato la rabbia dell'impotenza o la rassegnazione, ma sono sempre stata accolta bene, mai come tra gli sfollati di Falluja mi ero scontrata con tanta diffidenza e ostilità (i confini tra i due sentimenti sono del resto molto labili). Mi ricordo quando, subito dopo la Prima guerra del Golfo, entrando in un campo profughi di kurdi iracheni in Turchia, dove imperversava il colera, mi avevano accolta con una ciotola d'acqua, che non avevo potuto rifiutare nonostante il rischio di contagio: era l'unico bene che possedevano. Il gesto era un segno di ospitalità. La situazione adesso è diversa, anche se ci troviamo nel cortile di una moschea, non c'è spazio per la tradizionale ospitalità. Mi rendo conto che tutti gli occidentali sono percepiti come nemici perché assimilati, senza eccezione, agli occupanti e in quanto tali responsabili anche della distruzione di Falluja. Anche per noi italiani, ormai da tempo, è difficile distinguerci dalle scelte del nostro governo: se all'inizio della guerra il clima e le sensibilità erano diverse, oggi, dopo due anni di occupazione, gli animi sono inevitabilmente esacerbati. E la mediazione dello sheikh Hussein, anche lui di Falluja, era servita solo a permettermi di entrare nel campo e non certo a proteggermi. Ma sul momento non me ne sono preoccupata più di tanto. Anche perché alcuni profughi invece hanno voglia, bisogno di parlare. Di raccontare. Comincia Abdallah, un
giovane di ventisei anni. Era tornato a Falluja poco prima dell'attacco, con il fratello, entrambi venditori di benzina al mercato nero, una delle attività più redditizie durante l'occupazione. Dovevano sgombrare la casa, dove erano stoccate le taniche piene di carburante, altrimenti al primo bombardamento l'abitazione sarebbe diventata un enorme rogo. Messa al sicuro la benzina, un amico aveva indicato loro l'unica via di salvezza, la sola strada rimasta ancora per-corribile per fuggire da Falluja. L'amico, Majid, invece rimane: non poteva abbandonare la sua gente, diceva. Autista di autoambulanze, raggiunge gli altri colleghi ventitré in tutto -nell'edifìcio adibito al pronto soccorso. I bombardamenti sono già iniziati da tempo -l'8 novembre 2004 -Majid è riunito con i suoi colleghi per organizzare il soccorso dei feriti quando una bomba colpisce anche l'edificio dove si trovano i soccorritori: solo sette sui ventitré presenti si sarebbero salvati. La situazione va di male in peggio. Dopo qualche giorno, i cadaveri cominciano a riempire le strade: non solo mancano l'elettricità e l'acqua, ma cominciano a scarseggiare i viveri. Per sfamarsi i cani dilaniano i cadaveri trovati per strada. E gli esseri umani? Quelli ancora rinchiusi dentro le mura di casa senza il coraggio di affacciarsi, terrorizzati dalle bombe e nauseati dal tanfo dei cadaveri? Un giorno, le truppe americane -racconta Majid -con un megafono invitano tutta la popolazione del quartiere (quella rimasta tappata in casa) a dirigersi verso un punto di raccolta, dove avrebbero trovato personale della Mezzaluna rossa (la Croce rossa locale) che distribuiva aiuti. Ma solo chi non era rinchiuso a Falluja sapeva che era stato impedito alla Mezzaluna di portare soccorsi. Così in due file separate -da una parte i maschi adulti e dall'altra donne e bambini -la gente si era diretta verso il "miraggio", superando i cadaveri abbandonati per strada e i cani che si accanivano su di loro. Ad aspettare i maschi c'erano però, invece degli aiuti, le manette. Erano considerati tutti combattenti, quindi interrogati con le cattive maniere e poi rinchiusi in un campo. Solo dopo qualche giorno, una volta
dimostrato che non aveva toccato esplosivi (con la prova del guanto di paraffina), Majid -con pochi altri viene liberato. Ma per andare dove? Vagando, solo e disperato, si dirige alla moschea, di solito luogo di rifugio. Non in questo caso: il pavimento era coperto di cadaveri. Gli americani avevano ucciso tutti i giovani riparatisi nel luogo di preghiera, gli aveva raccontato il guardiano, risparmiato solo grazie alla sua veneranda età. Majid nauseato e disperato non sa più dove andare. Era stato il vecchio guardiano della moschea a indicargli, poco lontano, una casa ancora abitata da un vecchio con tre donne e numerosi bambini. Dopo averlo rifocillato, il padrone di casa l'aveva però costretto ad andarsene: "Se ti trovano gli americani, ci uccidono tutti", gli aveva detto. Così Majid aveva ricominciato a scappare, senza meta, in cerca di una via di fuga, finché non attraversa il fiume, schivando i proiettili degli americani che inseguivano i fuggiaschi, raggiungendo la propria famiglia a Baghdad. Abdallah non vuole dire di più, ma da l'impressione di raccontare in terza persona una storia che è la sua, che conosce fin troppo bene. Probabilmente è una precauzione, si sente anche lui osservato dal gruppetto di uomini che ci tiene continuamente sotto tiro. Intanto, si avvicinano a noi alcuni bambini seguiti dalle madri. Le bambine ancora piccolissime sono già velate e le donne giovani sono coperte da veli neri integrali con solo due buchi al posto degli occhi. "Vi coprivate così anche a Falluja?" chiedo. "No, prima no, ma sappiamo che fa piacere allo sheikh Hussein," rispondono. Falluja, detta la "città delle moschee", vanta nelle sue madrasa (le scuole coraniche) la formazione dei più prestigiosi religiosi sunniti, come Najaf per gli sciiti. La tradizione religiosa l'ha trasformata in una città molto conser-vatrice: qui non si sono mai venduti alcolici e non si è mai aperto un cinema o un Internet café, mentre il velo è stato imposto alle donne con una fatwa (sentenza coranica). Si tratta però di un velo tradizionale e non in stile wahabita come quello portato ora dalle donne della moschea Mu-stafa. Il velo tuttavia non rappresenta un ostacolo alla nostra conversazione, anzi. Senza falsi pudori queste donne mi investono di parole: esprimono rabbia, disperazione, impotenza ma anche, soprattutto, dignità. Mi raccontano di tutto quello che hanno perso lasciando Falluja sotto le bombe. Una di loro mi dice di aver cercato di recuperare alme--no la dote della figlia, il cui matrimonio è stato impedito proprio dall'attacco americano. "Una mattina," racconta, "mi sono messa in macchina con due dei miei figli per tornare a casa. Otto ore di viaggio (la distanza tra Baghdad e Falluja è di cinquanta chilometri): code, posti di blocco, controlli..." Agli abitanti di Falluja oltre alle impronte digitali viene anche registrata la retina. "Quando finalmente siamo arrivati, ho trovato la casa distrutta, senza porte e finestre e la dote di mia figlia tagliata a pezzettini... oltre alla perdita anche lo sfregio. Che cosa potevo fare? Sono tornata a vivere qui sotto una tenda." E i dollari che vi hanno dato gli americani per ricostruire le case? "Che cosa ce ne facciamo di duecento dollari per una casa distrutta?" Faw-zia li ha persino rifiutati: "Non voglio i loro sporchi soldi, che poi sono i nostri perché li fanno con il nostro petrolio", afferma con orgoglio. Ora anche quei soldi sono finiti, agli abitanti sono stati distribuiti otto milioni di dollari. I profughi accampati intorno alla moschea vivono di aiuti, soprattutto iracheni, sostiene lo sheikh Hussein: "II governo non ci ha dato niente, anzi ci ha mandato la Guardia nazionale", ma proprio mentre lo dice sopraggiunge un furgoncino di una Ong islamica del Qatar. Scarica olio, pomodori, zucchero e qualche altra vettovaglia che i profughi si spartiscono mostrando la tessera del razionamento dei tempi dell'embargo durante il regime di Saddam, controfirmata però dall'imam. All'ora della preghiera, le 12 e 3 0, un tiepido sole riscalda i fedeli che si dispongono sul tappeto verde: gli uomini davanti, donne e bambini dietro. Ma c'è anche chi continua a vagare nel campo, corrucciato e
indifferente al sermone. Come ogni imam di questi tempi, anche lo sheikh Hussein non trascura la politica e accusa gli americani di aver distrutto Falluja con il pretesto di dare la caccia ai terroristi di Al Qaeda, "ma dov'è al Zarqawi?" è la domanda retorica che rivolge ai fedeli. Tranquillizzata dalla presenza dell'amico fotografo che mi aveva indicato il campo e che era comparso improvvisamente insieme all'imam prima dell'inizio della preghiera, aspetto la fine del sermone per ringraziare lo sheikh Hussein. Mi rendo conto di aver passato molto tempo alla moschea, ma lasciare il campo senza ringraziare l'imam sarebbe un'imperdonabile scortesia. Tuttavia, l'impresa non è facile: lo sheikh Hussein viene seguito da altri uomini nell'edificio spoglio che affianca la moschea e che fa da anticamera alla sua abitazione, da dove arrivano gli strilli dei bambini, che aumentano di volume nonappena qualcuno apre la porta per venirci a offrire della Pepsi cola. È allora che comincia a squillare il cellulare: lo sheikh tira fuori dalla tasca un telefonino tutto fregiato di simboli religiosi. I versetti coranici hanno sostituito la suoneria. Il contrasto tra tecnologia e ortodossia religiosa è eclatante, eppure -e non solo in questo caso -sembrano convivere tranquillamente. Poi, il religioso mi allunga un libretto in arabo sull'attacco a Falluja e il dépliant di un sito web che reca sulla copertina un'immagine della moschea al Kabir di Falluja, bombardata durante i combattimenti, con la scritta "Come fermare il male dell'odio?". Sheikh Hussein appare nervoso, a tratti distratto. Prima di rivolgersi a me, chiede al mio traduttore come si lavora con una giornalista, donna e occidentale. Il religioso alterna l'arabo all'inglese, intervengono anche i presenti che man mano vanno affollando la stanza. In Iraq è abituale che chiunque entri in una stanza s'inserisca o interrompa un colloquio in corso. Ci ho fatto l'abitudine e ne approfitto anch'io per sapere il parere dei nuovi arrivati. Tra gli accoliti dello sheikh il clima si fa di nuovo estremamente teso e ostile mentre parliamo di Falluja. Un anziano, dall'aria molto dignitosa, mi sfida. "Che cosa puoi fare per noi? Perché ti dobbiamo
rispondere, a che serve?" Inutile aggiungere che il discorso sull'importanza di far conoscere all'opinione pubblica internazionale le condizioni dei profughi, la distruzione di Falluja, una versione dei fatti diversa da quella dei giornalisti embedded con le truppe americane, viene accolto con estremo scetticismo. Falluja è distrutta, bisogna ricostruirla. E ci vogliono soldi, tanti soldi, è lo sheikh Hussein a quantificare: "Noi esigiamo lo stesso risarcimento chiesto a Gheddafi per le vittime di Lockerbie, dieci milioni di dollari per ogni vittima di Falluja". "E quante sono le vittime?" chiedo, visto che circolano diverse valutazioni sul numero dei morti, e i feriti non vengono nemmeno presi in considerazione. Lo sheikh Hussein butta lì una cifra: cinquemila. E poi aggiunge "combattenti". Sui civili non si sofferma. "Il conto delle vittime tuttavia è difficile da fare, in quei giorni nessuno si poteva muovere," ricorda Fadhil Badrani, un giornalista locale che collabora con la Reuters e che è rimasto a Falluja durante i bombardamenti, ma "una stima effettuata tra gli ospedali, gli imam e i cittadini parla di oltre tremila..." i cadaveri sono stati seppelliti "nei giardini delle case o sono rimasti sotto le macerie." ("Diario", 27 maggio 2005.) Mentre Mohammed Hadeed, uno dei primi medici a entrare a Falluja dopo i bombardamenti, riferisce che la valutazione dell'equipe di cui ha fatto parte calcola che le vittime siano tra le tremila e le cinquemila persone. Una cifra che si avvicina più a quella dello sheikh Hussein che a quella del comando militare Usa (tra i milleduecento e i milleseicento combattenti uccisi). Comunque, sembra che solo settecento siano stati seppelliti dopo un riconoscimento, mentre gli altri sono finiti in fosse comuni, spolpati dai cani o carbonizzati dalle armi americane. Evidentemente lo sheikh Hussein punta al rialzo: dieci milioni di dollari per cinquemila fa una bella somma. Una provocazione? No, lo sheikh Hussein sembra convinto di quel che dice e non arretrerà facilmente. Squilla il cellulare, l'imam non si prende nemmeno la briga di estrarlo dalla tasca. Dice di essere stanco, di essersi alzato all'alba, e ci congeda velocemente. "Qual è il suo nome?" chiedo prima di allontanarmi. "Metta solo Hussein altrimenti tornerà la Guardia nazionale." Sono parole che mi sono tornate in mente spesso nelle settimane successive. Insieme al fatto che non voleva essere fotografato. Ci allontaniamo "scortati" fino al cancello. Devo chiamare il giornale, le storie che mi hanno raccontato i profughi non sono certo uno scoop, ma sono quelle che fanno toccare con mano una realtà, sono il mio lavoro quotidiano. Prima di questi ho incontrato altri profughi fallujani che si erano rifugiati da parenti e mi avevano già parlato dei loro tentativi di tornare a Falluja. Mohammed l'ho incontrato a Sadr City, non è di Falluja ma vi si era trasferito ai tempi di Saddam per lavorare in una fabbrica che produceva autocarri di proprietà del ministero della Difesa. Insieme al lavoro con la guerra ha perso anche la casa, non ne ha più diritto non essendoci più la fabbrica (finita, come tutte quelle del ministero della Difesa, nelle mani degli americani che l'hanno poi chiusa). Mohammed mi racconta invece che due sue vicine sono tornate a Falluja, ma sono state avvisate dagli americani che prima la casa doveva essere disinfestata e per farlo hanno dato loro dei bidoni di detersivi speciali. "Mi hanno detto che hanno trovato l'appartamento coperto da una polverina bianca e quando hanno cominciato a toglierla una di loro si è sentita male, sanguinava da tutte le parti." Avrei voluto incontrare quelle donne ma gli eventi me l'hanno impedito. All'uscita della moschea Mustafa sono soddisfatta del lavoro fatto. Prima chiamo il giornale e mentre aspetto di essere richiamata decido di avvisare i colleghi italiani, con i quali ho un appuntamento a pranzo, del mio arrivo. L'appuntamento è alle due, guardo l'orologio, mancano solo dieci minuti. Il telefono sta ancora squillando quando alcuni spari mi riportano alla realtà. Usciti dal cancello della moschea, abbiamo appena superato la guardiola di protezione dell'università, peraltro senza vedere le guardie, evidentemente rimaste all'interno perché di venerdì non c'è molto da fare, oppure informate di cosa stava per succedere, due o
forse tre auto si mettono di traverso tra le barriere di cemento (che servono generalmente per rallentare il passaggio e permettere il controllo in entrata all'università) per impedire la nostra uscita. L'autista, Mohammed, preso dal panico, scappa a piedi cercando di evitare le pallottole sparate da uno dei rapitori. Wael, il traduttore, seduto davanti a me, cerca inutilmente di bloccare le portiere della mac-cruna. Un giovane robusto, aperta la portiera, mi trascina via, raccogliendo anche il mio cellulare caduto a terra prima ancora che la collega chiamata potesse rispondere; così, prima che l'uomo lo spegnesse, ha potuto seguire in diretta le fasi iniziali del mio rapimento. L'uomo mi carica su un'altra macchina, dove erano in quattro, oltre a me, stretta tra i due seduti dietro. Di fronte alle mie proteste, l'uomo seduto accanto all'autista girandosi e fissandomi dritta negli occhi mi dice: "Non temere siamo musulmani". Ma il suo sguardo, carico d'odio, non serve certo a rassicurarmi. Anzi. Ripenso a quando, alla vigilia della guerra -quella dichiarata, dei bombardamenti -nel marzo 2003, scrivendo un diario per il settimanale tedesco "Die Zeit", osservavo: "Forse se ci odiassero, se fossero aggressivi nei nostri confronti sarebbe più facile affrontarli. Invece no, sono gentili ma non servili, orgogliosi ma non arroganti, siamo noi gli incivili di fronte alla loro civilizzazione nata dalla Mesopotamia, seimila anni fa, che ha lasciato tracce indelebili nella storia dell'umanità. Chi sgancerà le bombe non li guarderà negli occhi". Sono passati due anni, di guerra e occupazione ed ecco il risultato: ora vedo quell'odio nei loro occhi, non sono più gentili, servili non lo sono mai stati, orgogliosi sì, ma anche violenti e mi stanno sequestrando. Sapevo che la degenerazione della guerra non ha limiti e porta anche a coinvolgere i civili e a utilizzare i sequestri, ma ora ne sono vittima: mi sento ostaggio delle mie convinzioni.
Perché proprio io? Me lo sono chiesta ogni giorno durante la prigionia durata quattro settimane, quattro lune. Perché rapire una giornalista che si era sempre battuta contro la guerra? Perché intervistare i profughi di Falluja, la città più martoriata, era diventata una trappola ? Allora non sapevo ancora che la collega francese Florence Aubenas e il suo collaboratore Hussein fossero stati rapiti esattamente nello stesso posto e sempre dopo avere intervistato i profughi. Dopo la mia liberazione, lo sheikh Hussein, che non sta più alla moschea Mustafa, mi avrebbe fatto arrivare un messaggio per dirmi che chi mi aveva rapita non faceva parte della resistenza, anzi queste azioni rovinavano l'immagine della resistenza, e che le donne che avevo incontrato al campo erano molto dispiaciute di quello che mi era successo. I miei rapitori sostenevano il contrario, ma forse tutti avevano saputo solo dopo avermi rapita chi ero e che cosa avevo fatto fino ad allora. Ero arrivata a Baghdad nel febbraio del 2003 per partecipare alla manifestazione contro la guerra che si svolgeva contemporaneamente in tutto il mondo. Ero rimasta sotto i bombardamenti anche quando tutte le ambasciate occidentali -Stati Uniti in testa -premevano affinchè partissimo, terrorizzandoci con le immagini degli effetti catastrofici del possibile uso di armi di distruzione di massa. Su nostra insistenza, per far fronte a un'eventualità del genere, anche l'ambasciata italiana ci aveva procurato il kit -maschere, tuta, filtri eccetera -contenuto in una grande borsa che dovevamo però lasciare depositata nella sede diplomatica. Dopo la spiegazione per l'uso di maschere e filtri mi ero convinta della loro inutilità, tuttavia non nascondo di aver provato una certa inquietudine. Nonostante la gara fosse tra chi si sbizzarriva di più nelle fantasie da Guerre stellari per alimentare il panico, l'idea di abbandonare il campo non mi aveva nemmeno sfiorata. Quando il mio giornale, per un eccesso di prudenza nei miei confronti, dopo averne discusso nelle riunioni di redazione -in cui pare che il più angosciato per la mia sorte fosse Luigi Pintor, ma purtroppo l'ho saputo per caso solo dopo la sua morte -mi aveva chiesto di rientrare, improvvisamente mi ero sentita perduta. Ero cosciente dei pericoli, ma non avevo paura e volevo essere testimone di quello che sarebbe successo. Per me era più angosciante partire che restare. Così sono -rimasta. Per raccontare la quotidianità degli iracheni prima sotto i bombardamenti, poi durante l'occupazione. Che altro non è che la continuazione della guerra. Falluja. Una cittadina di oltre duecentocinquantamila abitanti alle porte di Baghdad, sulla strada verso la Giordania. Questa posizione ha permesso ai fallujani di sviluppare i commerci e l'industria dei trasporti, oltre a quella delle costruzioni. Grazie alle fiorenti attività la città era infatti in espansione con quartieri fatti di case nuove e larghi viali, spesso polverosi. Questa città, nell'attacco del novembre 2004, è stata quasi rasa al suolo. Secondo fonti ufficiali del governo sono 36.955 le case colpite, tremilaseicento demolite, duemila bruciate, ventunomila occupate. Per quanto riguarda i negozi: milleottocento sono stati completamente distrutti, ottomilaquattrocento danneggiati, duecentocin-quantotto le fabbriche bruciate. A questi danni occorre aggiungere, secondo il dottor Hafid al Dulaimi, direttore della commissione cittadina per i risarcimenti, sessanta asili e scuole colpiti e sessantacinque tra moschee e luoghi religiosi danneggiati. Non solo, tra gli effetti dei bombardamenti c'è anche l'inquinamento: l'acqua potabile è contaminata dagli scarichi fognari. I danni calcolati dall'inge-gner Fawzi, anche lui della commissione per i risarcimenti, ammontano a seicento milioni di dollari, ma l'allora premier Iyad Allawi ne ha riconosciuto solo il 20 percento e, fino al giugno scorso, ne aveva assegnati solo il 10 percento. Secondo Mohammed Hadeed, medico di Falluja, sono trentunomila gli abitanti della città che aspettano ancora di essere risarciti. Molti tra coloro che hanno avuto la casa distrutta e non hanno un altro rifugio si sono accampati sulle macerie. L'attacco di novembre contro Falluja faceva parte di quella "offensiva finale" che doveva, secondo gli Stati
Uniti, permettere le elezioni del 30 gennaio 2005. Ma l'operazione "al Fajr" (l'alba) ha escluso non solo gli abitanti di Falluja, ma tutti i sunniti dalle elezioni. E dopo otto mesi la città resta blindata. Possono entrare solo i residenti attraverso sei varchi d'accesso supercontrollati e dopo un'accurata identificazione che implica attese di ore. Solo l'80 percento degli oltre duecentocinquantamila abitanti è tornato. Anche per questo è difficile fare un calcolo dei morti e degli scomparsi. L'offensiva finale americana era stata preceduta da altri pesanti attacchi, soprattutto nel mese di aprile, che invece del controllo americano sulla città avevano portato al suo isolamento. L'esercito statunitense voleva distruggere quello che in Iraq era diventato il simbolo della resistenza. Fin dall'aprile del 2003. Durante l'avanzata delle truppe, dopo l'occupazione di Baghdad, il 9 aprile 2003, i capi tribali e religiosi di Falluja, preoccupati dagli effetti che avrebbe potuto produrre nella città la presenza di soldati stranieri, avevano composto una delegazione per incontrare il comando Usa. Alla fine era stato raggiunto un accordo: non ci sarebbe stata opposizione all'occupazione, ma i militari non sarebbero entrati nella zona abitata, evitando di turbare la vita della "città delle moschee". L'accordo tuttavia non era stato rispettato: il 23 aprile i marine occupano la scuola elementare al Qaid e quando, il 28 aprile, la popolazione manifesta contro una decisione che impediva agli studenti di andare a scuola, i soldati Usa sparano contro i manifestanti, provocando quattordici morti e tre feriti gravi. Due giorni dopo, un'altra manifestazione e altri tre morti e sedici feriti. Cominciava così la resistenza degli iracheni contro l'occupazione. Intanto i marine si installavano in una base -Camp Baharia -alla periferia della città, mentre proseguivano pattugliamenti e perquisizioni. Messi in opera soprattutto di notte: i marine facevano irruzione nelle case, buttavano giù dal letto uomini, donne e bambini sotto la minaccia dei fucili. Poi i residenti venivano costretti a uscire per strada
mentre i militari perquisivano. Secondo la denuncia di molti abitanti, quando questi rientravano soldi e gioielli erano spariti. Accuse che a volte sono state "giustificate" dagli stessi militari sostenendo che i soldi sarebbero serviti per finanziare la resistenza. E se i militari non trovavano chi cercavano -sospettati sostenitori dell'ex raìs e ora combattenti -arrestavano un loro familiare, un figlio o a volte anche una donna. Pratica che continua. L'occupazione sconvolge la vita improntata al conservatorismo tribal-religioso: gli americani sono accusati di osservare le donne con binocoli o addirittura con raggi infrarossi. Tutto serve a far crescere l'ostilità nei confronti degli occupanti, che si trasforma subito in lotta anche armata. Fin dall'inizio dell'occupazione Falluja diventa così per gli iracheni il simbolo della resistenza e per gli americani un'ossessione: elicotteri abbattuti, mezzi militari distrutti, se ne vedono i segni sull'autostrada, dove i guardrail sono ridotti a viluppi di lamiere accartocciate. O, almeno, si vedevano quando era ancora possibile percorrere l'autostrada che da Baghdad porta ad Amman. Ora non più. Nella ribellione di Falluja non mancano episodi raccapriccianti come l'uccisione (il 31 marzo 2004) di quattro contractor della Blackwater (l'agenzia di sicurezza impiegata per proteggere l'ambasciatore Usa Negroponte e anche per fare il lavoro sporco in cui non si vuole coinvolgere direttamente l'esercito) uccisi, martoriati e trascinati in giro per la città prima di essere impiccati su un ponte che attraversa l'Eu-frate. La rappresaglia americana è pesantissima: la città viene prima circondata dai carri armati e il 4 aprile inizia l'attacco. I combattimenti durano due settimane, provocano almeno un migliaio di morti, ma non riescono a imporre il controllo americano su Falluja. Nonostante l'impiego di ingenti forze, l'esercito americano subisce un grave smacco: la città viene abbandonata il 10 maggio nelle mani della Brigata Falluja sotto il comando dell'ex generale di Saddam, Jassim Mohammed Saleh. Originario di Falluja, ha molta influenza sulla popolazione ma è poco manipolabi-le dagli americani e quindi dopo qualche giorno lo sostituiscono con l'ex compagno d'armi, il generale Mohammed Latif, meno potente e tacciato di "collaborazionismo". Gli americani costretti a lasciare Falluja volevano almeno recuperare la resistenza "saddamista" -correggendo parzialmente il più grave errore commesso dal proconsole Paul Bremer che al suo arrivo a Baghdad aveva sciolto l'esercito e il partito Baath -isolando così la componente islamista, con la quale invece il generale Saleh si era alleato. La "città delle moschee" da quel momento è controllata dai vari emiri -capi militari, tribali e religiosi -riuniti nella shura, il Consiglio dei mujaheddin. Che impone la legge del più forte: la sharia (la legge coranica) fatta rispettare da una corte islamica, che punisce anche le "spie" con la decapitazione. Tra i due leader spirituali dei mujaheddin, il più moderato e autorevole Dhafer al Obeidi della moschea Ha-dra al Mohammadiya e il più radicale Abdullah al Janabi (una grande e potente tribù alla quale appartiene anche lo sheikh Hussein della moschea Mustafa di Baghdad), è quest'ultimo a prevalere. I suoi infervorati sermoni pronunciati nella moschea Saad bin Abi Waqas sono seguiti anche da mujaheddin provenienti da altri paesi arabi. Ma lo sheikh al Janabi respinge qualsiasi responsabilità nell'uccisione di sei camionisti sciiti provenienti da Sadr City. Gli autisti sono stati uccisi e mutilati, il 5 giugno 2004, mentre attraversavano Falluja, perché considerati "collaborazionisti". Un episodio che mina la solidarietà degli sciiti nei confronti degli abitanti di Falluja (sunniti) durante l'attacco dell'aprile 2004. È questo "territorio liberato" che i wahabiti (fondamentalisti religiosi di scuola saudita, arrivati in Iraq negli ultimi anni del regime di Saddam) vogliono trasformare nel primo emirato dell'Iraq, sul modello dell'Afghanistan dei taleban: uomini incappucciati danno la caccia a chi consuma alcolici e droghe, poi lo frustano pubblicamente. Se gli americani volevano isolare i gruppi islamisti radicali ottengono esattamente
l'effetto contrario. Devono quindi vendicarsi con il pretesto di dare la caccia ai terroristi di al Zar-qawi. Ma anche il successivo attacco di novembre (sempre nel 2004), considerato dalla stampa americana ("New York Times", 15 luglio 2005) "la più feroce battaglia urbana combattuta dagli americani dopo il Vietnam", con la perdita di decine di soldati, probabilmente non raggiunge l'effetto sperato. La città è completamente blindata, sotto coprifuoco dalle dieci di sera: a luglio è ancora occupata da quattromilatrecento marine che vivono nelle case degli iracheni, pattugliano le strade costeggiate da rotoli di filo spinato, controllano i sei checkpoint di accesso alla città. Questo non impedisce alla guerriglia di attaccare i marine quotidianamente infliggendo loro notevoli perdite. Le truppe americane avevano setacciato casa per casa durante l'attacco, sequestrando grandi quantità di esplosivo, che tuttavia continua ad abbondare. Gli attacchi non risparmiano i "collaborazionisti" iracheni. Sono sfuggiti miracolosamente ad attentati i membri del nuovo consiglio comunale e il generale Mehdi Sabeen Hashin, comandante degli ottocento paramilitari che insieme a duemilaottocento soldati costituisce la forza militare irachena presente a Fal-luja. Anche se gli abitanti della città minimizzano il ruolo avuto dagli iracheni durante l'attacco di novembre, questa presenza è mal tollerata dai fallujani che accusano questi "sciiti venuti dal sud" di maltrattamenti. Anche coloro che auspicavano che la città tornasse tranquilla senza la presenza di gruppi armati e militanti islamisti "dopo l'ingiustizia con cui gli abitanti di Falluja sono stati trattati dalle truppe americane e irachene, ora preferiscono la resistenza, almeno così non saranno umiliati" ha dichiarato Abdul Jabbar Kadhim al Alwani, proprietario di un'officina meccanica al "New York Times" (15 luglio 2005). E per le truppe americane Falluja continua a essere un incubo, anche se non certamente l'unico. 2. Tempo
Faceva freddo, più del solito. L'inverno è rigido a Baghdad, ma quel giorno era anche umido, aveva piovuto, succede raramente in Iraq. La sciarpa che mi avvolge il capo e che mi ero messa per andare in moschea questa volta non mi risulta insopportabile, anzi, mi da calore e mi "isola" da quello che mi sta succedendo. Il venerdì le strade sono semideserte, il traffico scorre veloce senza i quotidiani ingorghi mentre, stretta tra i miei sequestratori, vengo portata nella prigione. Il mio sguardo disperato incrocia l'indifferenza dei pochi passanti distratti. Non ci vuole molto per arrivare in quella villetta, una tra le tante, che sarebbe diventata la mia cella. Arrivati a "casa", i sequestratori -sono rimasti in due -accendono la televisione, rassegnandosi a vedere il canale iracheno dopo i numerosi e inutili tentativi di far funzionare il satellite. Dopo poco più di mezz'ora, lo speaker dell'Iraqya tv annuncia il mio sequestro, con una tempestività eccezionale, frutto dell'agenzia italiana Ansa che aveva avuto la notizia in tempo reale. Inizia così una sorta di conto alla rovescia che sarebbe terminato solo con la mia liberazione. Da quel momento la nozione di tempo diventa per me un ossessione: la sua percezione ristretta o dilatata a dismisura a seconda delle occasioni. Essere privata di tutti i jniei oggetti personali, orologio compreso, e non sapere mai °ra accresce il mio disorientamento. A volte chiedo l'ora a quello dei miei rapitori che si spaccia per "bodyguard". "Perché lo vuoi sapere?" mi risponde sempre. All'inizio Hsien -così dice di chiamarsi portava l'orologio, poi evidentemente anche lui si è adeguato alle regole della prigione e, per non incorrere in tentazione, se l'è tolto. La stanza dove sono rimasta rinchiusa per ventotto giorni è senza luce: una grande finestra è stata bloccata da alcuni mobili, per impedire ogni contatto -anche solo visivo -con l'esterno. Quindi non riesco nemmeno a sapere se è giorno o notte. Solo in bagno, da una finestrella in alto, posso spiare l'alternarsi del sole e della luna, del giorno e della notte. Trascorro le mie giornate al buio. Il tempo non passa mai, questa è la sensazione: le ore, i giorni, le notti sono interminabili. Non riesco nemmeno a dormire. Quanto tempo dovrò restare rinchiusa? Come non perdere la percezione del tempo? Come contare i giorni? Mi viene in soccorso la mia sciarpa di pashmina nera: non l'ho mai abbandonata da quando l'avevo comprata in Pakistan, dove mi trovavo alla vigilia della guerra in Afghanistan e mi preparavo ad affrontare i rigori del freddo. Una sciarpa che purtroppo non ho più: quando sono tornata a casa, non l'ho trovata tra le cose riconsegnatemi dall'ospedale militare americano di Camp Vic-tory in un sacco nero di plastica. La pashmina ha una lunga frangia, sui suoi fili, ogni giorno che passo in cattività, faccio un nodo. Il primo giorno ne ho fatti quattro, per ricordare che era il 4 febbraio, il giorno del rapimento, come se fosse stato possibile dimenticarlo! Ho contato anche il numero di nodi possibili: settantatré da un lato e settantatré dall'altro, ma sperando sinceramente che la mia prigionia finisse prima. Aspetto ogni giorno quello che per me è il pomeriggio per fare il nuovo nodo, visto che sono stata sequestrata verso le due. Paradossalmente, in quelle condizioni anche la meticolosità diventa un punto d'onore. Ma come calcolare il trascorrere interminabile delle ore? L'unico aiuto mi viene dal muezzin di una moschea che chiama alla preghiera, cinque volte al giorno: alle 5 e 30 del mattino, alle 12 e 30, alle 15, alle 17 e 30 e alle 19 e 30. A volte i richiami sono più distinti, altre volte, si perdono nel vento, segno che la moschea non deve poi essere così vicina. Questi sono gli unici segnali che scandiscono il trascorrere del tempo e che interrompono il vagare senza meta della mia mente. Richiami che vengono rispettati anche dai miei sequestratori che sento pregare nella stanza accanto, soprattutto la mattina, quando i rumori della strada ancora non concedono distrazioni. Nemmeno i pasti hanno la stessa regolarità ed evidentemente devono dipendere da altre compatibilita. E dopo i miei continui rifiuti del cibo -nei primi tre giorni sono riuscita a ingurgitare solo succhi d'arancia, té e
qualche biscotto -a volte i sequestratori pretendono che sia io a chiedere di voler mangiare. Allora lascio perdere. Il menu è generalmente composto da zuppe, che io apprezzo particolarmente per il sapore e perché mi riscaldano, oltre a pollo e frutta. Ma apprezzo soprattutto la frutta che posso conservare e consumare durante la giornata occupando un po' del mio tempo. All'inizio anche il té centellinato serve a interrompere la monotonia pomeridiana, ma, essendo molto forte, alla fine non riesco più a berlo: accentua gli effetti del mio stress provocandomi forti nausee. Inutile chiedere un té meno forte, solo una volta mi è stata concessa un po' d'acqua calda per diluirlo. Sono rigidità che non so se dovute alle disponibilità o alla necessità (loro) di sottolineare il mio status di prigioniera. Altri disagi dipendono invece esclusivamente dal fatto che durante la prigionia devo condividere con gli iracheni gli effetti dei disastri provocati dall'occupazione, a partire dalla mancanza dei beni di prima necessità. Quando stavo in albergo non mi rendevo conto se l'elettricità di cui disponevamo dipendesse dal servizio pubblico o dal generatore, ora sì. Ora capisco le lamentele degli iracheni che ripetono "maku karaba" (niente elettricità), diventato uno slogan da scrivere persino sulla scheda elettorale (del 30 gennaio 2005) per annullarla. All'inizio i sequestratori mi avevano dato una lampada a olio, ma adesso, visto che l'aria nella stanza chiusa diventava irrespirabile, me l'accendono solo quando devo mangiare. E nemmeno sempre. L'energia elettrica non è che non ci sia mai, ma la distribuzione non supera le tre-quattro ore giornaliere, come posso constatare dalla lampadina che illumina la mia stanza e di cui io non controllo l'interruttore. I sequestratori lasciano la mia luce sempre accesa, così succede che dopo aver passato quasi l'intera giornata al buio, la lampadina mi accechi improvvisamente in piena notte, interrompendo così qualsiasi velleità di sonno, anche solo per poche ore. Per supplire alla mancanza di "karaba", la mia casaprigione è dotata di un generatore, ma anche i miei sequestratori devono fare i conti con la scarsità di
gasolio, recuperabile ormai quasi esclusivamente, e nemmeno sempre, al mercato nero e a prezzi esorbitanti. Quindi l'utilizzo è limitato alle ore serali. Mancanza di elettricità vuoi dire anche mancanza d'acqua (che passa attraverso il pompaggio dei depuratori), di riscaldamento, affidato prima a stufette elettriche (visto che il costo energetico era irrisorio) o (ora) a kerosene, ma con il solito problema della puzza e del malfunzionamento. Io, che soffro molto il freddo, passo le giornate a letto sotto una pesante trapunta. Ma quando l'immobilità e la perdita di qualche chilo cominciano a farmi barcollare, decido di dedicare una mezz'ora al giorno alla ginnastica, perché nel momento in cui mi avessero liberata avrei dovuto essere in grado almeno di camminare diritta. E poi il tempo non mi manca! Non solo. Mantenermi in forma fisicamente è anche un modo per affermare la mia dignità. La vita da ostaggio, privata della possibilità di svolgere qualsiasi attività -come leggere e scrivere -si concentra per buona parte sulla soluzione di problemi minuti ma essenziali, come farsi una doccia o tagliarsi le unghie. La doccia è spesso un miraggio e non solo a causa dell'atteggiamento rigido dei miei guardiani. Io non sopporto l'acqua fredda, quindi per farmi una doccia devo aspettare che l'acqua si riscaldi e per questo occorre almeno un'ora di erogazione di energia elettrica continuata. A volte, sebbene l'acqua riesca a riscaldarsi, quando finalmente mi butto sotto la doccia, salta la luce; l'acqua si esaurisce in un baleno senza lasciarmi godere dell'unico sollievo concessomi ogni tre o quattro giorni. Le cose più banali diventano un problema, come andare in bagno più delle due-tre volte al giorno previste dai carcerieri. Allora cerco di regolare le funzioni del mio corpo, misurando attentamente ogni sera la quantità di tisana più corrispondente ai miei bisogni e soprattutto all'imprevedibile durata della mia prigionia. La tisana era l'unico bene personale che mi era stato concesso di tenere con me, ne portavo sempre un pacchetto in borsa per ogni evenienza, anche grama come quella che stavo vivendo. Prima di allora non avrei mai immaginato che tagliarsi le unghie potesse diventare un problema. Dopo qualche settimana di prigionia, le unghie, troppo lunghe, cominciano a spezzarsi, ma non ho modo di tagliarle. I miei sequestratori non mi lasciano mai nulla che possa costituire un "pericolo": un accendino, le forbici, un coltello. Per giorni avevo chiesto, inutilmente, un paio di forbicine, poi finalmente un giorno mi viene concesso un tagliaunghie, ma solo per il tempo strettamente necessario. Per il resto, il vuoto. Ventiquattr'ore al giorno sola con me stessa, con i miei pensieri che vagano. Con il terrore di perdere il contatto con la realtà. Ascolto attentamente tutti i rumori. La casa dove sono tenuta prigioniera deve essere in un quartiere periferico di Baghdad, vi ero stata portata senza essere bendata, ma non sarei in grado di riconoscerlo: la città è enorme e il mio scarso senso dell'orientamento non mi è certo d'aiuto. A Baghdad so orientarmi a malapena nelle vie centrali -Saadun, Rashid Street eccetera -dove avevo trascorso la maggior parte del mio tempo. Comunque, ovunque mi trovi, cerco di rassicurarmi immaginando l'ambiente che mi circonda attraverso i rumori: il cigolio di un carretto che passa, il richiamo del ragazzo che vende il pane, il vociare di bambini che giocano per :a strada o in qualche giardino -il pomeriggio dopo la scuo-a ~. un gattino che miagola vicino alla mia finestra -o for-Se e solo una mia illusione che sia così vicino, perché amo tanto i gatti -, le ruote che sgommano a una curva, il clacson di un camion che passa tutte le mattine facendo un gran baccano, il battere contro i cancelli di ferro dei vicini o forse della casa dove io stessa mi trovo. A volte l'isolamento mi rende difficile stabilire le distanze. Suoni "amici" e rumori insopportabili, come quelli assordanti dei generatori che vanno avanti fino a tarda sera, offuscando i miei già torbidi pensieri. Quando finalmente si spengono, arriva netto il rombo assordante degli elicotteri americani che volteggiano sopra le case e a volte sembrano sfiorarci come se avessero
intenzione di atterrare sul tetto. Allora, se per caso le luci sono accese, i miei guardiani le spengono improvvisamente. Dubito che possa servire a mimetizzarci, visti gli strumenti tecnologici a disposizione degli americani, che potrebbero probabilmente intercettare persino le conversazioni. Ma questo non sembra preoccupare i miei sequestratori che, tra l'altro, fanno ampio uso dei telefoni cellulari. A volte sento suonare anche un telefono fisso, ma senza che nessuno risponda. Il traffico di aerei in alcuni momenti è tale da farmi pensare che sopra di noi debba passare una "rotta" aerea. Quando poi tutti i frastuoni finalmente si calmano, e spero di trovare un po' di tranquillità nel silenzio e persino nel buio che accresce il mio senso di claustrofobia, improvvisamente s'illumina sopra di me la lampadina, accecante. A ossessionarmi non è solo il tempo, ma anche la paura di perdere la memoria. A volte a casa scherzavamo sulle mie dimenticanze, ma ora è una vera ossessione. Non si tratta solo di contare i giorni della prigionia, ma anche di ricordare i tempi passati: ogni mattina mi riprometto di ricostruire un periodo della mia vita. Andare a frugare nella memoria, ripartendo dai ricordi più lontani dell'infanzia passata nell'Ossola, nella grande casa dei nonni, poi il liceo sul lago Maggiore, gli anni dell'università a Milano coincisi con la protesta del Sessantotto, e poi la militanza politica in gruppi della sinistra, extraparlamentare prima e parlamentare poi, che mi ha portata a Roma, fino ad arrivare a "il manifesto", nel 1988. E con "il manifesto" in giro per il mondo a seguire le crisi più cruente: dalla Somalia all'Algeria, dalla Palestina all'Afghanistan, fino ad arrivare in Iraq, la prima volta nel 1990 e poi a partire dal 2003. Dell'Iraq cerco di ricostruire i miei sette viaggi, su cui, penso, mi avrebbero interrogato i miei sequestratori. Cerco di ricordare nomi, luoghi: è un'esercitazione per impedire che la mia mente vaghi troppo liberamente in balia degli incubi. Che pure non riesco a evitare.
È comunque la settimana a scandire il mio tempo di prigionia: sono stata sequestrata di venerdì, giorno di festa, e fino al venerdì successivo non è successo nulla di rilevante, sono rimasta in attesa di un fantomatico interrogatorio che mi hanno annunciato (minacciato?) ma che non ci sarebbe mai stato. Il sabato mattina, con l'inizio della nuova settimana, mi fanno registrare il "video straziante". Poi un'altra settimana di attesa e il sabato successivo, il 19 febbraio -giorno della manifestazione di Roma -mi chiedono di scrivere una letteraalla mia famiglia -con una parte dedicata a Pier -spedita insieme al mio orologio. È la prova in vita che ha alimentato speranze e fantasie di trattative per tutta la settimana successiva. E poi nulla di nuovo fino alla domenica, quando, appena alzata, mi viene regalata una catenina d'oro. "Sarà il segno che le trattative vanno bene," ho pensato. E il pomeriggio un nuovo video: "Per noi la questione è conclusa", mi dicono. E io ci ho creduto. Il clima in cui è stato realizzato il nuovo video è decisamente diverso: devo ringraziare i miei rapitori per il trattamento avuto, con, a fianco, due mujaheddin superarmati di kalashnikov e Corano. Ma a preoccuparmi è soprattutto un proclama letto all'inizio del video, di cui ho cercato di carpirne il senso, ma inutilmente, ero troppo agitata. "Domani o dopo, te ne torni a Roma," mi dicono. Ancora un giorno o due. Invece ne è seguita la settimana più lunga. Fino al venerdì, quando dopo l'ultima preghiera (delle 19 e 30) mi è stata annunciata la partenza. Immediata. Era tardi, non me l'aspettavo più, almeno per quel giorno, un paio d'ore prima avevo chiesto perché non mi liberassero: "Ci sono ancora dei problemi da risolvere per il tuo trasferimento", mi avevano risposto. Poi l'annuncio improvviso. Il mio tempo subisce allora una brusca accelerazione. Che avrebbe subito un nuovo rallentamento durante la lunga attesa dei miei "liberatori". Poi la corsa verso l'aeroporto, bloccata dal "fuoco amico" americano. Per me le lancette dell'orologio si sono messe improvvisamente a correre in avanti, mentre per gli iracheni vanno continuamente all'indietro. Era la settima volta che tornavo a Baghdad dall'inizio della guerra nel 2003 e ogni volta trovavo la situazione peggiorata rispetto a prima. Da tutti i punti di vista: sicurezza, lavoro, vita quotidiana, condizione delle donne. Anche per gli iracheni il tempo si è dilatato. Darsi un appuntamento a Baghdad è diventato un azzardo. I problemi di sicurezza condizionano ogni uscita per strada -potendo, non si esce prima delle 10, l'ora delle autobombe -e impongono l'uso dell'auto: i bambini vengono accom-. pagnati fin sulla porta di scuola per evitare attentati e rapimenti. Chi ha un mezzo di trasporto evita di andare a piedi visto che non si può certo contare sui mezzi pubblici. Ai tempi di Saddam non era possibile importare macchine liberamente quindi, dopo la sua caduta, la corsa all'auto ha portato in Iraq un milione di auto in più. Le ampie strade e le superstrade di Baghdad dovrebbero comunque essere in grado di reggere l'aumento del traffico se le principali arterie non venissero spesso improvvisamente chiuse dai posti di blocco americani. Questi provocano, infatti, tremendi imbottigliamenti da cui è difficile districarsi, alimentati anche da chi, in mancanza di controlli, prende la strada contromano per cercare di liberarsi dall'ingorgo. Ma andare in auto vuoi dire anche procurarsi la benzina e chi non può permettersi di comprarla al mercato nero deve passare giorni e notti in coda davanti ai distributori, in attesa dei rifornimenti. Certo, anche la forte disoccupazione -si dice che superi l'80 percento -ha cambiato il modo di vivere degli iracheni. Persino i matrimoni sono rallentati: ci vogliono troppi soldi, almeno duemila dollari secondo Hsien, il mio "bodyguard". Mi ricordo invece l'esplosione di matrimoni alla vigilia della guerra, non solo dell'ultima, ma anche di quella del 1991. Anche allora mi trovavo a Baghdad e mi aveva sorpreso il numero di matrimoni:
visibili nei grandi alberghi dove gli sposi passano la prima notte, accompagnati fin sulla porta con grande clamore dai familiari e da bande con tamburi e canti, oltre agli "you you", il suono tipico emesso dalle donne arabe. Eppure, dietro tanto clamore non c'era euforia, bastava guardare l'espressione triste delle spose per rendersene conto. Piuttosto, l'imminenza della guerra imponeva la necessità di trovare un marito per fare fronte all'emergenza. Per le più fortunate, anche la possibilità di andare all'estero, ovviando alle restrizioni introdotte da Saddam negli ultimi anni, che imponevano alle donne con meno di quarantacinque anni di essere accompagnate da un parente uomo per lasciare il paese. L'urgenza di trovare un marito in vista della guerra imminente ha anche accelerato la tendenza a chiudersi nella propria tribù, aumentando i matrimoni tra consanguinei e la conseguente diffusione di malattie genetiche. Le nuove divisioni tra le varie comunità ed etnie in Iraq non faranno che accentuare questi problemi. Il confronto tra presente e passato tornava spesso nelle conversazioni con gli iracheni, prima del mio sequestro. Guerre, repressione, embargo hanno reso difficile la loro vita fin dagli anni ottanta, ma con l'arrivo degli americani la situazione è ulteriormente peggiorata. "Era meglio ai tempi di Saddam," cominciano a dire gli iracheni, anche quelli che ne hanno subito la sanguinosa repressione. Certo, non è facile fare un paragone con i tempi della dittatura sanguinaria del raìs. Quel che è sicuro è che un'altra generazione è perduta.
Vita-morte In bilico tra la vita e la morte. Speranza e disperazione, illusioni e delusioni si alternano durante la mia prigionia. Sola con i miei pensieri ventiquattr'ore al giorno, a volte temo di impazzire. Tutto quello che mi circonda viene da me interpretato come un messaggio di vita o un segnale di morte, reale o fittizio che sia, poco importa. Seleziono ogni rumore, seziono ogni comportamento, ogni sguardo. E, quando il mio pensiero corre sul filo della morte, a volte ho la sensazione di cominciare realmente a staccarmi dalla vita: improvvisamente non sento più il mio corpo, come se fosse dissociato dalla mente. Comincio a osservarmidall'esterno. È una sensazione che non ha nulla di trascendentale, è probabilmente una difesa: forse mi serve per esorcizzare la morte, oppure è un tentativo di evasione dalla stanza buia dove il mio corpo è rinchiuso. Man mano che passano i minuti la sensazione diventa, però, sempre più sgradevole, poi a scuotermi improvvisamente è il gelo che avverto ai piedi e comincio a recuperare la mia carne, pezzo per pezzo. In questi momenti, persino un sudore improvviso, provocato dalla montagna di coperte che mi avvolge, mi rassicura: sono viva. E sono sempre prigioniera, anche dei miei pensieri, altalenanti tra pessimismo e ottimismo, morte e vita. All'inizio prevale la paura di essere uccisa: i miei guardiani sono sempre a viso scoperto, questo mi convince, fin da subito, che non mi lasceranno uscire viva. "Evidentemente hanno già deciso di uccidermi, se non prendono precauzioni," mi ripeto. Le accuse che seguono, secondo le quali potrei essere una spia, non fanno che rafforzare la mia convinzione. Non è forse stato ucciso con questo pretesto Enzo Baldoni? Almeno questo hanno lasciato intendere i due giornalisti francesi prigionieri nel suo stesso posto. Del resto, come dimostrare il contrario? "Loro (riferendosi ai capi) hanno tutti i mezzi per verificarlo," sostengono i miei carcerieri. L'affermazione non mi tranquillizza, comunque, se è veramente così, scopriranno che non sono una spia, basta aspettare. La mia vita è appesa a un filo, un equivoco qualsiasi può spezzarlo. L'attesa è esasperante: ho aspettato per giorni che mi venissero a interrogare, mettendo a dura prova la mia memoria nel cercare di ricordare tutti gli oggetti che avevo nella borsa al momento del sequestro, i numeri di telefono, gli indirizzi, gli appunti, gli accrediti, e trovando per ognuno una motivazione, una giustificazione. Poi ho ripassato tutti i miei viaggi in Iraq, sono ben sette, dal febbraio del 2003: dove sono stata? Baghdad, Bassora, Mosul, Nassiryia, Kirkuk, Ker-bala, Najaf... Le immagini si sovrappongono, così come i nomi, i volti. Ripenso al mio primo arrivo a Baghdad, a quando per oltre un mese insieme agli iracheni avevo vissuto la speranza, o l'illusione, che la guerra potesse essere evitata. Ma poi, mentre la scadenza dell'ultimatum si avvicinava, la gente sfinita dalle guerre -contro l'Iran e la Prima guerra del Golfo -ed embargo -tredici anni -rassegnata esclamava: "Se deve cominciare, che cominci, purché finisca in fretta". L'attesa era snervante, ti toglieva ogni energia. Proprio come adesso: "Se mi devono uccidere, che !o facciano subito". Era anche lo stesso periodo dell'anno. Allora c'erano le tempeste di sabbia a rallentare l'avanzata delle truppe. Ora, Se ci sono quelle ventate di sabbia che riempiono l'aria di una polverina color ocra impedendo di vedere anche a pochi metri di distanza e che entra fin dentro le ossa, non lo so. Riesco solo ad avvertire se fuori c'è vento dal rumore della carta, infilata in un telaio di legno che copre un'apertura della parete; in passato deve essere servita per un condizionatore d'aria, sostituito poi da un ventilatore a pale che pende dal soffitto. A volte, quella carta che svolazza e scricchiola è una tentazione. Vorrei provare a strapparla e vedere se il telaio crolla: ha tutta l'aria di essere molto precario. Una tentazione intuita anche dai miei sequestratori
che mi hanno intimato di non toccare quella copertura. Anche perché se pure si fosse aperto un varco, non avrei mai potuto fuggire. I miei guardiani si affacciano al primo rumore, persino quando apro la porta dell'armadio, figuriamoci se fosse crollata tutta quella impalcatura! Non ho chance, seppure tentassi una fuga mi riprenderebbero subito o, peggio, mi ucciderebbero. Non penso seriamente alla fuga, è impossibile, questi pensieri mi servono solo a evadere mentalmente per qualche minuto dalla mia prigione, dal senso di claustrofobia che si accentua ogni volta che la chiave gira nella serratura e rimarca il mio isolamento dal mondo. La delusione è ancora più cocente quando, raramente, mi capita di appisolarmi e sognare di essere libera in qualche parte del mondo... il risveglio nella prigione è terribile! In quei momenti lo sconforto è totale. A volte sono arrivata ad auspicare che una bomba -dei terroristi, degli americani, poco importa -squarciasse quella parete che mi isola dal mondo. Ma i momenti di maggiore paura li ho vissuti allo scadere dell'ultimatum del Jihad. La rivendicazione, subito dopo il mio rapimento, e l'ultimatum al presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi: "Se entro lunedì sera non annuncia il ritiro delle truppe la uccidiamo". Li avevo sentiti la domenica sera, per caso, da un telegiornale di Euro-news, l'unico che ho potuto vedere durante la mia prigionia, a parte l'annuncio del mio rapimento dato dalla tv irachena. Ogni mia speranza in quel momento è crollata, i miei rapitori inutilmente hanno cercato di convincermi che era una rivendicazione falsa, che loro non sono del Jihad, che non sono tagliagole, che non vogliono uccidermi. Subito dopo questa pugnalata mi sono rintanata nella mia stanza e la chiave che girava nella serratura in quel momento è diventata quasi rassicurante: fino alla sera successiva non succederà nulla, mi consolo. Devo solo aspettare. Non ho molte speranze. Penso a Margaret Hassan, una donna della mia stessa età, sposata con un iracheno. Avevo parlato con suo marito qualche giorno prima del mio rapimento, dovevamo vederci. Non abbiamo fatto in tempo. Margaret in un drammatico appello al premier britannico Tony Blair aveva chiesto il ritiro delle truppe, inutilmente. Ugualmente inutile sarebbe stato un appello simile a Silvio
Berlusconi. Margaret non è stata risparmiata, anche se da anni -ultimamente con l'ong Care International era impegnata attivamente nel sostegno al popolo iracheno. Perché dovrebbero comportarsi diversamente con me? Il lunedì sera, allo scadere dell'ultimatum del Jihad, spio la faccia di Hsien: mi sembra diverso, preoccupato, sfuggente. Forse perché sarà proprio lui, insieme ad Ab-bas, a dovermi uccidere? E come faranno? Spero almeno, mi convinco, che, essendo una donna, mi evitino la decapitazione. Useranno la pistola, penso, magari coprendola con il cuscino per non fare rumore. Come se il rumore di un colpo di pistola potesse essere notato da qualcuno a Baghdad! L'attesa è più insopportabile che mai. Non riesco più a resistere: busso violentemente alla porta. Quando arrivano i miei guardiani, li accolgo con un urlo: mi volete uccidere lo so, lo leggo sulle vostre facce. Mi guardano interdetti: la loro sorpresa e incertezza mi appaiono come una conferma. Non riuscendo a rassicurarmi, mi propongono di guardare la televisione. Forse mi aiuterà a calmarmi. Mi permettono di entrare nella stanza che li ospita, dopo aver rassettato un po', io mi raggomitolo su una poltrona. La tv è sintonizzata su un canale che trasmette un film di guerra americano. Non saprei dire quale, vedo solo solldati, armi, spari, immagini di morte che alimentano ulteriormente la mia angoscia. Tanto vale tornare nella mia tana e aspettare. Perché si sono dimostrati così disponibili? Forse è solo per soddisfare un mio ultimo desiderio. L’ultima sigaretta del condannato a morte! Ma qui nessuno fuma. Di solito i miei rapitori si alzano alle 5, iri tempo per prepararsi per la preghiera delle 5 e 30 (alfajr). A volte uno di loro viene a controllare la mia stanza. Quel martedì mattina, li sento arrivare tutti e due, aprono d'un botto la porta e si fiondano dentro. Faccio un salto sul letto. "Eccoli, è l'ora!" penso, rassegnata. E invece: "Sei sveglia?" mi chiedono e poi se ne vanno chiudendo rumorosamente la porta. È stata la notte più lunga della mia vita! Non è stato certamente l'unico momento in cui abbia temuto di essere uccisa, ma è stato quello in cui più concretamente ho pensato che il filo della mia vita si sarebbe spezzato. Quando penso alla morte cerco di esorcizzarla attribuendo un senso alla mia vita passata. Mentre giorno per giorno ripercorro tutta la mia vita, ricordo amici, compagni persi di vista ormai da anni, molti li avrei ritrovati al mio ritorno nelle foto delle manifestazioni per la mia liberazione, nei messaggi, di persona. In particolare penso agli anni della militanza pacifista, all'inizio degli anni ottanta, quando pensavamo che il cuore del problema fosse il Mediterraneo, per questo si cominciavano a schierare le armi (i missili nucleari) più potenti nel Sud del nostro paese, a Comiso. Per questo, noi pacifisti italiani -schierati sia contro i missili americani sia contro quelli sovietici avevamo intessuto rapporti soprattutto attraverso il Mediterraneo con spagnoli, jugoslavi (allora c'era ancora la Jugoslavia), algerini, greci. E stato un periodo molto importante della mia vita, determinante per la mia formazione politica e soprattutto per la maturazione di una coscienza pacifista. I ricordi di quegli anni affollano la mia mente. Ma soprattutto, durante la mia prigionia, penso molto ai compagni di quelle esperienze politiche e umane così importanti che ora non ci sono in più: Josep Palau, spagnolo, è morto già da qualche anno, Sergio di Saraje-vo è rimasto vittima di un incidente sulla strada per l'Ungheria durante laGuerra dei Balcani. La ferita più recente è stata la morte improvvisa di Tom Benetollo, presidente dell'Arci. È morto nel giugno del 2004 quando ero a Baghdad, e il non aver potuto condividere il dolore per la sua scomparsa non mi aveva permesso di elaborare la sua perdita. Ora il ricordo di quei compagni mi suggerisce la conclusione di un'esperienza comune e in questo contesto anche la mia possibile fine trova
una "collocazione", anche se non una giustificazione, e mi serve per dare un senso alla mia morte. Ricordando il mio vagare per il mondo emergono i pericoli scampati: alla fine del 1992, alla vigilia dell'arrivo delle truppe straniere in Somalia, ero riuscita a raggiungere Mogadiscio da Nairobi, insieme ad altri tre colleghi, con un piccolo e vecchio aereo Cessna di un mercenario italiano, che doveva girare intorno alle nubi per evitare di disintegrarsi. L'aeroporto della capitale somala era chiuso per lo scontro tra le varie fazioni, noi eravamo stati i primi ad atterrare perché il mercenario aveva buone conoscenze tra i signori della guerra somali. Arrivare a Mogadiscio -a parte quando si andava con i militari -è sempre stato un azzardo, soprattutto quando si arriva al piccolo aeroporto che si trova a cinquanta chilometri dalla città, ma che è sempre in funzione per i trasporti di qat, una droga molto blanda su cui ruota un giro di affari notevole. Doveva invece essere il 1996, durante gli scontri in Kur-distan tra i due maggiori partiti -guidati da Talabani e Barzani, ora al governo a Baghdad -che mi ero ritrovata di sera a Shalaklava e nessuno voleva portarmi fino a Salaidin, dove mi aspettavano, perché era in vigore una specie di coprifuoco non dichiarato. Alla fine ero riuscita a trovare un passaggio, senza riflettere molto sulla mia sicurezza. Qualche anno prima, invece, nel 1991, mi ero ritrovata a Haq-qari al confine tra Turchia e Iran, dove si erano rifugiati i Profughi kurdi in fuga da Saddam dopo la Prima guerra del golfo. C'era il colera e io non trovavo nemmeno un posto. Per dormire; alla fine ho passato la notte in una stamberga, senza riuscire a chiudere occhio. E poi l'incredibile incidente vicino a Mazar i Sharif (in Afghanistan, nel 2002): a tacchina a tutta velocità aveva preso una buca e, scoppiata una gomma, era volata fuori strada, in pieno deserto, per fortuna non c'erano mine; dopo diversi capovolgimenti si era accartocciata, ma noi -io, il traduttore e l'autista -ne eravamo usciti miracolosamente salvi. Poi le peripezie durante gli sgozzamenti dei gruppi islamici armati in Algeria! Ma anche a Baghdad ero già stata sequestrata l'8 aprile 2003 da un gruppo di fedayn arabi che credevano fossi una spia. L'intervento di un ufficiale iracheno mi aveva salvata. Uno spavento seguito da un altro, quando, tornata in albergo, una cannonata aveva colpito lo stesso piano dell'Hotel Palestine dove stavo raccontando
ad alcuni colleghi la mia disavventura. Avevo sempre minimizzato i] pericolo, anche se non ho mai sfidato la sorte, ho sempre calcolato il rischio, ma ora, improvvisamente, ne ho una percezione diversa. Come se le chance a mia disposizione fossero finite. Ma la morte può avere un senso? Tutti i tentativi di esorcizzarla crollano quando penso a chi mi vuole bene. A Pier, alla mia famiglia. Allora mi concentro sui messaggi da lasciare loro, nel caso fosse decisa la mia morte. I miei carcerieri non saranno così trucidi da impedirmi di lasciare gli ultimi messaggi, penso. Non ho nulla su cui scrivere, me li scolpisco nella memoria. Penso alla mia nipotina Sofia, di nove anni, con la quale ho sognato di fare dei viaggi quando sarà più grande. Le scriverei: "Sofia, avrei voluto fare tanti viaggi con te, ma purtroppo il mio è già finito...". Al mio ritorno Sofia non ha voluto parlarmi per molti giorni, era scioccata, soprattutto per l'assedio dei giornalisti, anche senza aver visto le immagini del mio sequestro alla televisione. Appena sentiva il mio nome si metteva in un angolo a piangere. Avrei anche voluto dare indicazioni di seppellirmi con la bandiera della pace, quella regalatami dalla mia amica algerina Cherifa con la scritta in arabo "salam". Chissà se Pier si ricorda dove l'ho messa? E invece quella bandiera ora sventola sul mio terrazzo al posto di quella che avevamo esposto prima della guerra e che è andata in pezzi. Poi improvvisamente mi ribello a questi pensieri di morte: se mi uccidono affronterò la morte quando mi si presenterà e al dopo ci penseranno gli altri. Meglio pensare "positivo". Cerco di immaginare cosa farò tornando a casa: innanzitutto una vacanza. Con Pier avevamo già prenotato, per marzo, una settimana di vacanza sul Mar Rosso e, se non mi avessero sparato subito dopo la liberazione, avremmo anche fatto in tempo a mantenere la prenotazione. E poi prenderò dei gatti, mi mancano molto le mie tre micine, morte recentemente, una dopo l'altra, di vecchiaia. Anche loro hanno accompagnato la mia storia degli ultimi vent'anni. Quel gattino che miagola fuori dalla mia finestra mi fa sicuramente compagnia, ma mi fa anche venire una grande nostalgia di Mizzi, Mozzi e Saba! Ci saranno altri viaggi, di piacere e di lavoro. Anche i viaggi fatti durante le vacanze con Pier -cerco di ricostruirne le tappe durante la prigionia -sono sempre una ricerca, una scoperta, una verifica del mio lavoro quotidiano. Lo saranno ancora, dall'Africa all'America Latina, passando per il Medio Oriente. Avrò anche molto da scrivere: degli incontri fatti nei giorni prima del rapimento e della mia prigionia. Anche se è difficile immaginare come, mi rendo conto che comunque la mia vita dopo questa esperienza sarà diversa. Ho avuto modo di riflettere molto sui rapporti personali, sugli affetti, sugli errori e sulle priorità. Mentre passo da sentimenti estremi di pessimismo a quelli di ottimismo, cerco d'immaginare come potrò uscire dalla mia prigione. Intuisco che sono in corso trattative -dopo che ho dovuto scrivere una lettera, una "prova in vita" spedita insieme al mio orologio -i miei sequestratori me lo confermano, mi parlano ui un ' business man", spesso in viaggio, che farebbe da mediatore. Ma come andranno a finire queste trattative? Cer-co di spiare gli umori dei miei carcerieri per capirlo: a volte sono più tranquilli, a volte nervosi. Forse le cose vanno male, cosa chiederanno per rilasciarmi? Soldi? Troppi? Opre " loro obiettivo è politico, sicuramente c'è un obiettivo politico, ma solo politico? "In Italia ci sono le tue foto dappertutto. Ormai sei famosa, ti abbiamo resa famosa," mi dice a volte Abbas con aria soddisfatta. Inutile aggiungere che avrei preferito rimanere nell'anonimato, o conosciuta solo per quello che scrivo e non come ostaggio, e di quanto questa notorietà avrebbe cambiato la mia vita mi sarei resa conto solo dopo la liberazione. Cosa sta succedendo realmente fuori dalla mia stanza? In Italia? Penso all'appello rivolto a Pier, anche se secondo Hsien forse non è stato nemmeno diffuso. L'idea mi tranquillizza, meglio che non mi abbiano visto
in quello stato! Ma sicuramente si stanno muovendo: oltre alle foto, Abbas mi dice che ci sono manifestazioni ("Persone per le strade in piazza: Giuliana sì, Berlusconi no", è la sua sintesi), ma non riesco a capirne la portata. Sicuramente Pier si sta impegnando per la mia liberazione e con lui i compagni de] "manifesto". Quanto, lo scoprirò solo al mio ritorno. Anche la loro vita sarà cambiata, immagino. Ma la mia stanza chiusa e buia mi limita l'immaginazione. Abbas è evidentemente contento quando mi parla delle manifestazioni, ma non l'avevo mai visto così entusiasta come quando viene a riferirmi che i capitani delle squadre di calcio sono scesi in campo con la maglietta con la scritta "Liberate Giuliana". È esaltato, non riesco nemmeno a capire cosa vuoi dire esattamente, ma intuisco che Totti ha giocato con una t-shirt con scritto il mio nome. E lui ripete: "Ti immagini, Totti, proprio Totti!". Per un tifoso della Roma come lui è il massimo. Mi lascio sfuggire -più per sfida che per convinzione, visto che tifosa veramente non lo sono mai stata e non capisco nulla di calcio che io invece sono juventina, Abbas è deluso ma non rinuncia a magnificarmi il valore e la bellezza del suo beniamino. La sua euforia, seppur moderatamente, mi contagia: il linguaggi0 del calcio funziona, è questa la vera globalizzazione se esalta persino i miei sequestratori, superando ogni contrapposizione ideologica. I giorni passano scanditi dall'altalenarsi dell'umore. Pessimismo e ottimismo si susseguono mentre attendo i risultati delle trattative. Purché non s'interrompano, penso. Dopo il primo video, la lettera della "prova in vita", poi saggio registrato improvvisamente da Hsien (di solito i miei carcerieri non assistono alla fattura dei video o delle lettere) su una cassetta, incurante del fatto che la mia voce cancelli i versetti del Corano. Il messaggio -dice un uomo coperto con una kefiah bianca e rossa e un khamis color kaki, che l'accompagna -deve essere trasmesso con un telefono satellitare in Italia. La procedura mi sembra un po' strana, nia non ci bado troppo. Io mi aspetto sempre qualche novità all'inizio della settimana, il messaggio "telefonico"
invece me lo fanno registrare insolitamente di venerdì, rispettando più il fine settimana italiano che il calendario musulmano. Il sabato passa nell'inutile attesa di qualche nuovo segnale. Che arriva invece la domenica mattina: appena alzata, all'uscita dal bagno, i miei guardiani mi presentano un astuccio di velluto rosso, che contiene una catenina d'oro. Io la guardo stupita. "Te la manda il business man," mi dice Hsien. "Il nostro capo," aggiunge l'altro. L'atteggiamento di Hsien è evidentemente impacciato: non deve essere abituato a regalare gioielli alle donne. Un giorno mi ha detto che si vuole sposare, ma non ha ancora potuto farlo perché non ha i duemila dollari necessari per il matrimonio! Faccio onore al regalo mettendomi la collana, come loro mi suggeriscono. Lo giudico un segnale positivo: "Non mi regaleranno mica la catenina se hanno intenzione di uccidermi!". E infatti, qualche ora dopo, nel primo pomeriggio, improvvisamente sento una grande mobilitazione nella stanza accanto, un rumore di ferraglie, che poi avrei scoperto essere kalashnikov. Cerco di intuire di cosa si tratti quando qualcuno irrompe nella mia stanza, mi dice di indossare i miei abiti per registrare un nuovo video. "Per noi la questione è finita, dobbiamo registrare un video conclusivo, poi domani o dopo, te ne vai a Roma," mi dicono. Comincia un via vai di tavoli-ni> cestini di frutta per preparare lo scenario della nuova distrazione. Mi sento confusa, non so mai se credere a 4Uello che dicono o è solo una messa in scena, comunque non ho scelta, devo eseguire gli ordini. Mi trasferiscono nell'altra stanza, c'è più spazio. Mi fanno pettinare, questa volta mi recuperano uno specchio: per la prima volta rivedo la mia faccia dall'inizio della prigionia. L'immagine che vedo riflessa nello specchio non è certo esaltante, ma almeno mi vedo; finora, per ricordare i miei lineamenti ero stata costretta a riflettermi nell'ombra creata dalla lampadina sulla parete. Non ho tempo per molte riflessioni: "Devi dire che non ti abbiamo maltrattata e che ti abbiamo rispettata, metti in evidenza la catenina che ti abbiamo regalato (adesso capisco)...". Il tutto, pronunciato seduta dietro a un tavolino pieno di frutta, bibite e l'astuccio della mia collana, secondo la coreografia tradizionale araba. Potrei sentirmi rassicurata se non fosse per i due mujaheddin in divisa da combattimento, con tanto di kalashnikov in mano, uno dei quali ha anche il Corano, che mi affiancano. "Non ti preoccupare," mi ripetono vedendo la mia inquietudine, "domani o dopo te ne vai a Roma." "Davvero?" chiedo, guardando negli occhi -l'unica parte scoperta del suo corpo -il combattente che si trova alla mia destra. "I musulmani non mentono," risponde in inglese, trafiggendomi con lo sguardo. Non mi sento affatto rassicurata, tanto più che prima della mia "recita" è lui a leggere un proclama che inizia con le solite invocazioni ad Allah. Sono così tesa che non riesco a riconoscere nemmeno i vocaboli che di solito conosco, sento solo pronunciare il mio nome e temo che invece del commiato siano le condizioni per il mio rilascio. Mi risulta difficile essere tranquilla quando devo fare la mia registrazione, tanto più che le indicazioni che mi arrivano sono contraddittorie. Fatto il video, non mi resta che attendere. I timori sono ulteriormente alimentati dalla richiesta di una nuova registrazione da trasmettere via telefono. Lunedì, Hsien entra nella mia stanza e mi dice che devo registrare un messaggio diretto alla mia famiglia, in' dicando la data (come la prima volta), ma senza spiegarmi -forse non lo sa neanche lui -esattamente cosa devo dire. La richiesta mi appare strana, dopo il video del giorno prima, intuisco che deve essere intervenuta qualche interferenza. Mi ribello, ma poi cedo affermando che questa è l'ultima volta che registro un messaggio del genere, fatto senza nessuna spiegazione e quasi con un sotterfugio. Hsien, che questa volta è solo, accetta la mia condizione, titubante. Passa il lunedì, il martedì, ma la promessa di rimandarmi a Roma non si materializza. Mi assale il
pessimismo: qualcosa deve essere andato storto, forse la trattativa è fallita, qualche incidente all'ultimo momento. Chiedo notizie al mio "bodyguard", ma le risposte vaghe non fanno che accrescere i miei timori. La sera di mercoledì c'è un via vai, fino a tardi. Cellulari che squillano. Sento ripetere la parola "futur", la cena che rompe il digiuno in tempo di Ramadan. Non siamo in Ramadan, ma forse succederà qualcosa all'ora di cena, penso. Nulla. Il venerdì non ce la faccio più. Sento che almeno uno dei miei guardiani esce, andrà alla moschea, immagino. Fa freddo, è umido, piove a dirotto, l'acqua entra nella stanza attraverso l'intelaiatura coperta dai giornali, chiamo Hsien per avvisarlo, mi dice di lasciar perdere. Quando mi porta il pranzo, però, mi sembra un po' più vivace del solito. Ne approfitto: "Sei contento?", chiedo. "Shuiya, shuiya... (così, così)." "Perché me ne vado o perché resto?" insisto. "So che te ne andrai, ma non so quando." Poi chiama Abbas che conferma: "Ci sono ancora dei problemi per il trasferimento, a causa degli americani, ma si risolveranno". Passano le ore, mi rassegno, comunque, penso, non è per oggi, sarà già buio. Quando, invece, improvvisamente i miei due guardiani fanno irruzione nella stanza, vestiti di tutto punto, all'occidentale, e Hsien mi dice con fare baldanzoso e stringendomi la mano: "Congratulazioni, te ne vai a Roma". Io sono disorientata, non credo alle mie orecchie, mi assale la paura. Abbas mi sol-ecita: "Bisogna fare in fretta, indossa i tuoi vestiti". Nella !a Camera c'è un viavai continuo, non mi preoccupo se vedono mentre mi vesto. Peraltro la mia maglietta è ansi a , ^nata-Tengo la giacca del pigiama sotto, tanto non e. Mi viene restituita la borsa con i soldi, i documenti e un paio di occhiali da sole. Mancano, mi dicono, i due telefoni, la macchina fotografica digitale e, questo non lo dicono, i miei appunti. So benissimo che questo è il momento più pericoloso per me, i miei sequestratori me lo fanno notare: "Sei pronta? Sei tranquilla? Sei sicura?" mi ripetono. "Se non sei sicura aspettiamo: quando usciamo, se qualcuno ci ferma la polizia irachena, una pattuglia americana -non deve capire chi sei, altrimenti si apre il fuoco e noi tutti
saltiamo per aria." Sono consapevole del rischio, questo momento l'ho atteso per un mese e ora sono terrorizzata, ma l'idea della libertà mi da forza. Chiedo un vestito wahabita, che mi coprirebbe tutto il viso come quello che portavano Simona Pari e Simona Torretta al momento della liberazione -ma non me lo concedono. Mi fanno mettere i miei occhiali da sole, li imbottiscono di cotone, non vedo più nulla. "Abbiamo promesso alla tua famiglia che tornerai a casa sana e salva, ma stai attenta: gli americani non vogliono che tu torni viva in Italia," sono le ultime parole di Abbas, penso che sia solo uno slo-gan antiamericano, prima della liberazione. Poi mi portano fuori e mi fanno salire in macchina. Che non vedo perché sono bendata, diranno che era una carcassa ma non me ne rendo conto. Mi sento ancora sospesa tra la vita e la morte. Il viaggio non dura molto, la macchina si ferma in una pozzanghera, sento lo splash dell'acqua e il motore che si spegne. Il primo pensiero è che ci siamo impantanati, proprio sulla strada della mia liberazione! Non è così. Quello è il luogo dell'appuntamento. I miei sequestratori scendono dalla macchina: "Aspetta qui, ti verranno a prendere". Intorno a me voci di uomini in lontananza che suonano come confabulazioni, si sentono macchine della polizia correre a tutta velocità, ma evidentemente su una strada in lontananza. Immagino una delle tangenziali che collegano i quartieri della capitale, noi siamo probabilmente su una strada laterale a una certa distanza. Ma, soprattutto, a terrorizzarmi è un elicottero americano che vola sopra di me: me lo immagino che volteggia, si alza, si abbassa, si allontana e poi ritorna. Ogni volta che si allontana spero sia quella buona per il mio rilascio, ma non succede nulla e nel frattempo torna. E se atterra? Allora per me è finita: i miei sequestratori, che si tengono a debita distanza, mi faranno saltare per aria. Sono terrorizzata, ma non posso far altro che aspettare. L'attesa mi sembra un'eternità: la mia percezione del tempo è dilatata. Torna uno dei miei sequestratori e mi dice: "Ancora dieci minuti". Dieci minuti? Cosa posso fare in dieci minuti? Decido di contare, come quando ero piccola: un minuto sessanta secondi, conterò fino a seicento, lentamente così forse quando avrò finito qualcuno sarà già arrivato. Non è così. Continuo? È allora che alla paura si sovrappone un dubbio atroce: come farò a riconoscere chi mi viene a prendere? E se invece degli italiani fossero altri iracheni, di un altro gruppo, a prelevarmi? Non sarebbe la prima volta che un ostaggio venga ceduto da un gruppo a un altro. Anche se ho gli occhi bendati, mi rendo conto di una macchina che mi punta i fari addosso. Ho paura che mi scoprano, mi rannicchio sempre di più contro i sedili della macchina. Sono tutta vestita di nero, con la sciarpa nera in testa calata fino agli occhi, spero di non essere notata. Purtroppo è così, io non so che lì, in quel momento, ci sono gli agenti italiani che mi stanno cercando e che, non vedendomi, si allontanano, ma poi, per fortuna, tornano. Sono ancora immersa nei miei lugubri pensieri quando la portiera si apre: "Giuliana, Giuliana sono Nicola, sono amico di Gabriele e di Pier, è finita, ora sei libera. Vieni ti porto su un'altra macchina". La voce di Nicola Calipari fuga improvvisamente ogni mio timore, ogni dubbio. Sono venuti a liberarmi. Ne sono certa. Salgo, ancora bendata, sulla macchina che è venuta a prendermi. "°po qualche minuto posso liberarmi del cotone che mi copre gli occhi e mentre vedo Baghdad che si allontana, ancora incredula, comincio ad afferrare l'idea di poter riconquistare la mia libertà. Ho amato Baghdad dalla prima volta che l'ho visitata, nel dlcembre del 1990. Allora era molto diversa, una città ricca e grandiosa, mentre ora pare ripiegata su se stessa. Ho sofferto ogni volta che sono partita durante la guerra e l'occupazione, anche se la situazione era tremenda, lasciavo sempre qualcosa in sospeso e contavo su un ritorno, a breve scadenza. Non questa volta. Vedo le cupole delle moschee che si allontanano e provo un sollievo.
Baghdad si allontana Un sollievo per me e un dolore per gli iracheni che rimangono, mi sono fatta molti amici in questi ultimi due anni, alcuni se ne sono già andati, altri stanno cercando di farlo. Tuttavia, non è facile ottenere un passaporto e tan-tomeno un visto per un paese occidentale. Ma anche per gli iracheni, sempre sospesi tra la vita e la morte, la sicurezza resta il problema maggiore, l'incubo quotidiano, quando devono uscire o mandare i figli a scuola. Paura di essere colpiti dallo scoppio di un'autobomba, oppure finiti da una sventagliata di mitragliatrice americana per una manovra errata, quando i convogli militari s'infilano nel traffico infernale di Baghdad o semplicemente perché passi davanti a una base o un check point Usa nel momento sbagliato. Paura di essere rapiti. I sequestri non riguardano solo gli stranieri: sono migliaia gli iracheni presi in ostaggio. Per ricatto o per estorsione. Medici, docenti universitari, professionisti sono stati sequestrati per imporre loro di lasciare il lavoro nel paese sotto occupazione. Alcuni non sono più tornati a casa. Tra i sequestrati ci sono collaboratori di stranieri, ritenuti "collaborazionisti", come del resto quelli che lavorano per il governo o le istituzioni. Altri iracheni vengono rapiti per ottenere un riscatto, calcolato in base alla disponibilità della famiglia. Naturalmente, sull'importo si può anche trattare. Non sono risparmiati nemmeno i bambini, anche piccoli. Un amico mi aveva raccontato di un se-questratore che era tornato dai genitori a chiedere il biberon per dare da mangiare al piccolo sequestrato -di un anno -che piangeva disperatamente. Per questo i bambini vengono tenuti chiusi in casa dai genitori, non possono più giocare per strada o nei giardini. Mi ricordo di una madre che aveva persino assistito la figlia durante gli esami per paura di un rapimento, che per le ragazze, anche piccole, spesso comporta lo stupro. A Baghdad mi avevano persino parlato di un "ufficio per i diritti dei sequestrati", dove i familiari potevano rivolgersi per mettersi in contatto con i sequestratori dei loro cari e chiedere l'importo del riscatto. L'ufficio disponeva di telefoni cellulari e satellitari e tra i collaboratori vi erano anche poliziotti. Che in alcuni casi si
spartiscono il bottino. Un mio conoscente mi aveva raccontato del figlio di un suo vicino, benestante, sequestrato e per il quale era stato pagato un ingente riscatto. Il ragazzo, tuttavia, aveva riconosciuto il luogo dove era stato detenuto, dalla voce dell'imam diffusa dall'altoparlante della vicina moschea. Quando il padre si è rivolto alla polizia locale per denunciare il fatto e ottenere la restituzione dei soldi, gli è stato risposto che era troppo tardi, il malloppo si era già volatilizzato, compiici i poliziotti. Tutto a Baghdad si svolge nella più totale impunità.
4. Guerra Gli echi della guerra arrivano fin dentro la mia prigione attraverso il rombo degli elicotteri americani che si abbassano fino a sfiorare i tetti delle case o delle esplosioni che, solitamente di mattina, si sentono in lontananza. Le "solite" autobombe che segnano l'inizio della giornata, un'altra giornata di guerra. Quando ero ancora libera, e stavo all'Hotel Palestine, uscivo sul terrazzino della mia stanza per scorgere il luogo dell'esplosione dalla colonna di fumo che si alzava dalle macerie. Individuato il luogo si cercava di raggiungerlo. Non sempre era possibile: le voci si accavallavano, le notizie erano contraddittorie, le strade limitrofe venivano bloccate dai soldati americani o dalla polizia irachena. Ora invece i "segnali di fumo" posso solo immaginarli, a volte chiedo notizie ai miei sequestratori delle esplosioni di cui ci arriva l'eco, ma loro rispondono sempre vagamente e comunque senza commenti, e tantomeno rivendicazioni. Autobombe, attacchi alle truppe, elicotteri abbattuti... anche il mio sequestro è un atto di guerra. Ma perché hanno rapito proprio me? La domanda mi tormenta giorno e notte. Possibile che se vogliono veramente liberare il loro paese, come dicono di voler fare, non riescano a capire che sarebbe meglio che io potessi continuare a fare il mio lavoro? Possibile che alla "resistenza" -così si definiscono i miei sequestratori -non interessi far conoscere la realtà dei profughi di Falluja? Alla mia domanda i rapitori hanno seccamente risposto: "Questa è la guerra". Io stessa che avevo denunciato le degenerazioni di questo conflitto, avendo messo nel conto persino che avrebbero potuto rapirmi, non avevo compreso fino in fondo gli effetti perversi di questa degenerazione. Basta mettere piede sul territorio iracheno per entrare a tutti gli effetti in un territorio di guerra. Questo non l'avevo calcolato, ora me ne rendo conto. Non solo. Avere contatti con gli iracheni, andare in giro per fare il mio lavoro, mi rendeva più vulnerabile. Perché? "La gente potrebbe raccontarti delle cose che non devi sapere," mi dicono i rapitori, e "queste rivelazioni possono mettere in pericolo i gruppi della resistenza." Né gli occupanti, che hanno fatto una guerra con il pretesto delle menzogne, né gli occupati, che combattono gli occupanti, ma temono di far conoscere la loro realtà, vogliono testimoni. L'informazione diventa un nemico, un'altra vittima della guerra. Oggi, in una fase storica in cui le tecnologie permettono d'informare in tempo reale, una notizia può diventare un boomerang per chi fa la guerra. Quindi anche i giornalisti sono potenziali nemici. Con l'uccisione di Waleed Khaled, tecnico del suono della Reuters, colpito ripetutamente dal fuoco americano il 28 agosto 2005, sale a sessantasei il numero dei giornalisti morti in Iraq dall'inizio della guerra (ovvero dal marzo del 2003). In Vietnam, in vent'anni di guerra, avevano perso la vita sessantatré operatori dell'informazione. Un altro cameraman della Reuters, Ali Ornar Abraham al Ma-ladani, arrestato a Ramadi l'8 agosto 2005, è stato incarcerato ad Abu Ghraib senza nessuna imputazione. Giornalisti nel mirino, dunque. Eppure i sequestratori dipendono dalle notizie che arrivano attraverso il satellite dalle tv del Golfo, Al Jazeera e Al Arabiya, soprattutto. Nessun iracheno si fida della filoamericana Al Iraqya. Non solo. I gruppi
armati usano Internet per comunicare le loro rivendicazioni, vere o false Cne siano. E invece io ora sono chiusa in una stanza spoglia, senza un giornale o un libro da leggere, sognando una Penna e un pezzo di carta -non penso più nemmeno lontanamente a un computer -cercando di origliare qualche notizia dalla stanza accanto. Le uniche trasmissioni che riesco a riconoscere sono le inconfondibili partite di calcio che occupano il venerdì -quelle arabe -e la domenica -quelle occidentali. L'unico legame indissolubile, in grado di superare ogni frontiera -politica, ideologica, religiosa -è quello del calcio. Che però, per la mia incompetenza, mi esclude. Tutto questo rappresenta una sconfitta, che non oso ammettere, nemmeno a me stessa. Fino alla vigilia della mia ultima partenza mi ero battuta: bisogna correre il rischio, andare in Iraq, per informare sui terribili effetti della guerra. E così avevo fatto: a Baghdad ogni giorno uscivo dall'albergo, contrariamente alla maggior parte dei miei colleghi, scendevo sul terreno rifiutando l'"arruolamento" nei vari eserciti, rischiando. Ne ero consapevole. Alcuni colleghi, soprattutto stranieri, cominciano ad avere una scorta armata che forse può rappresentare un deterrente, ma in alcuni casi sono stati proprio i "protettori iracheni" a "vendere" i loro protetti ai gruppi armati. Una guerra sempre più sporca. Da tutti i punti di vista. L'allora ambasciatore statunitense, John Negroponte, ha esportato in Iraq il modello honduregno dell'uso dei contractor per i lavori più sporchi, quelli che non può fare l'esercito, innescando una nuova rivalità tra contractor superpagati e senza scrupoli, e soldati, meno pagati e comunque meno preparati, ma che sparano comunque contro chiunque (civili, naturalmente) pur di non rischiare. La prima accusa che mi hanno rivolto i rapitori è stata quella di essere una spia. E cercavano di supportare la loro accusa con dei fatti: "Sei stata a Nassiriya, lavori con gli agenti italiani? Perché ti interessa tanto Falluja, parli arabo (qualcuno l'ha detto in una intervista alla tv Al Ja-zeera), perché non ce l'hai detto?" (inutile spiegargli che conosco un po' di arabo ma non posso certo dire di conoscere la lingua). A quel punto
non parlavano più davanti a me temendo potessi capirli o forse solo per alimentare i miei timori. Poi, fortunatamente, hanno verificato che non sono una spia e questo mi ha certamente salvato la vita. Solo allora hanno accettato di inserire anche l'arabo come lingua di comunicazione nelle nostre complicate discussioni multilingue; un po' d'inglese, qualche parola di francese e l'arabo accompagnato da gesti. Cambiato il clima -gli umori dei sequestratori sono comunque estremamente mutevoli -per un breve periodo riesco persino ad avere uno scambio pomeridiano con Hsien. Mi insegna un po' di vocaboli in arabo (o meglio iracheno parlato, visto che è diverso dall'arabo classico da me studiato) e io glieli traduco in inglese. Questo mi serve a passare il tempo e a sentirmi meno isolata. Venuta meno l'accusa di essere una spia mi sento un po' rassicurata, ma resto comunque un ostaggio da usare come arma. Io, pacifista che non mi azzarderei a toccare un'arma, sono stata trasformata in un'arma! Mi sono ricordata allora dell'Algeria: una volta stavo realizzando un servizio sui gruppi di autodifesa armati (civili che si erano organizzati per difendersi dal terrorismo islamico) e una donna mi voleva fotografare mentre imbracciavo il suo fucile. Non avevo osato dirle che non l'avrei mai usato e avevo preso a pretesto l'eccessivo peso del kalashnikov. Ora sono costretta a vivere sotto la minaccia delle armi: Hsien ha un kalashnikov e Abbas una pistola. Sebbene né Hsien né Abbas mi abbiano mai minacciata direttamente. Gli ostaggi sono un'arma di guerra. Un potente mezzo di ricatto in un conflitto asimmetrico come quello iracheno. In due anni di occupazione tutti gli stranieri sono diventati nemici, non c'è più distinzione tra governi e opposizioni, tra chi ha passaporti dei paesi che hanno sostenuto la guerra e chi no. All'inizio della guerra questa distinzione esisteva, ora no, siamo diventati tutti "americani" e lo> come altri (Florence Aubenas e Hussein sono stati rapi-1 Un mese prima di me), sono "prigioniera di guerra". E co-e tale sono infatti trattata dai miei sequestratori, che ri-Pettano persino alcune "regole" scritte nelle convenzioni ernazionali, quando non si prevedeva ancora che si posse usare l'arma del sequestro per fare prigionieri. Convenzioni che invece gli americani non rispettano, perché nelle guerre preventive ai detenuti -a Guantanamo come ad Abu Ghraib -non viene più nemmeno riconosciuto lo status di "prigionieri di guerra". Io non riesco comunque ad accettare la mia condizione di "prigioniera" e questo mi permette di essere sempre combattiva e di mantenere con i rapitori un livello di scontro-confronto che non mi fa mai sentire succube. Uno scontro che nasce da differenze culturali, politiche, religiose e di genere, da loro difficilmente accettabili. Anche quando si parte da principi condivisibili la logica porta inevitabilmente a diverse conclusioni. Le differenze sono peraltro drammatizzate dalle condizioni in cui si svolge il confronto, che mi permettono di conoscere più da vicino un mondo altrimenti difficilmente avvicinarle. Purtroppo a un prezzo molto alto. Troppo. Mi sento prigioniera e vittima di una guerra alla quale io, come milioni di altri, mi sono opposta. Inutilmente. E ora mi sento doppiamente "sconfitta". Capisco le ragioni di chi si oppone all'occupazione ma non posso condividerne i metodi, l'uso dei civili, l'uccisione di altri iracheni, condannata anche dalle autorità religiose sunnite. Del resto i civili sono le principali vittime delle guerre moderne. Quelle fatte con le bombe intelligenti che poi tanto intelligenti non sono. Donne e bambini finiti sotto le bombe, sono loro la maggior parte delle vittime dell'invasione americana. Ripenso all'ospedale di HiUa, dov'ero andata durante i bombardamenti dell'aprile 2003, i feriti, decine e decine -oltre a una settantina di morti -ammucchiati persino nell'atrio, erano per la maggior parte bambini, anche di pochi mesi, donne e anziani, tutti colpiti da cluster bomb, le bombe a grappolo che per la loro stessa natura sono destinate a colpire civili. Si tratta infatti di ordigni che contengono ognuna circa
duecento submunizioni, dette "bomblet", grandi come la lattina di una bibita, i cui frammenti, esplodendo, colpiscono ovunque. E penetrando nel corpo provocano emorragie, spesso letali. Quelle che non esplodono subito -si calcola il 5 percento circa -restano sul terreno e diventano mine pericolose. Secondo il comando Usa Centcom, durante la guerra le trupPe americane hanno lanciato 10.782 cluster bomb, equivalenti a circa due milioni di munizioni, come riporta un rapporto di Human Rights Watch, a Bassora, Kerbala, Hil-la e in popolosi quartieri di Baghdad. Come avevo potuto verificare allora sia a HiUa sia a Baghdad, nel quartiere al Biladati, abitato dai palestinesi, le vittime sono soprattutto donne e bambini. Del resto, civili sono la maggior parte delle vittime di tutte le guerre moderne. Quante sono quelle della guerra irachena? Non esistono cifre ufficiali. Contrariamente a quanto avviene per le vittime occidentali. Ai primi di settembre, il numero dei soldati americani uccisi in Iraq dall'inizio della guerra (nel marzo 2003) supera i millenovecento, oltre quattordicimila i feriti. Questi sono i dati ufficiali, ma altre voci indicano cifre di molto superiori, non a caso Bush impedisce di riprendere le bare che tornano negli Stati Uniti. I morti iracheni invece non si contano, non ci sono dati sulle vittime dell'attacco del novembre 2004 a Falluja e le stime sono divergenti. Secondo l'Iraq Body Count (Ibc), un'organizzazione britannica che ogni giorno pubblica sul suo sito web una stima delle vittime, tra il marzo 2003 e il marzo 2005 i morti civili sono stati 24.865, di cui oltre quattromila donne e bambini. I dati, contenuti in un rapporto {Dossier on Civilian Casualties in Iraq 2003-2005) curato dal professor John Sloboda e realizzato dall'Iraq Body Count insieme all'Oxford Research Group, sono basati su quanto ricavato dalla stampa irachena e internazionale che cita fonti ospedaliere o degli obi-tori. Si deve quindi ritenere che le morti accertate siano sicuramente inferiori alla realtà. Inoltre, occorre aggiungere le vittime dei mesi seguiti alla conclusione della ricerca, che sono stati particolarmente sanguinosi.
La metà delle vittime riguardano Baghdad, dove vive un quinto dei circa venticinque milioni di abitanti dell'Iraq. Un terzo sono state registrate durante l'invasione, 6215 nel prino anno di occupazione, mentre nel secondo anno la cifra è quasi raddoppiata (11.351). Le vittime sono causate, sempre da azioni terroristichenei confronti dell'occupazione oppure anche dalle labili condizioni di vita della popolazione. È un dono il petrolio iracheno che però non arriva più: "maku karaba" (non c'è elettricità) è la notte. L'Iraq necessita di circa quindicimila barili, ma ne dispone di soli cinquemila, secondo Rashid ministro delle Risorse idriche. La elettricità, secondo gli americani, dovrebbe esserci per sedici ore al giorno a Baghdad, ma, come ho visto durante la mia prigionia, nella casa dove va per più di quattro-cinque ore. Gli ame-esso usato il taglio dei servizi -elettricità, come punizione collettiva nei quartieri più rsi che fossi ospitata in uno di questi, ma ìartieri, da quanto avevo sentito racconta-non era migliore. "La richiesta è aumen-comando Usa che afferma di aver incre-duzione di circa duecentotrentadue me-progetti dovrebbero incrementare la pro-ntrale elettrica di al Dora che rifornisce la trocentoventotto megawatt, secondo fonti )getti è stato assegnato all'impresa italiana sarà impegnata anche nel ripristino di par-de raffineria irachena, quella di Baiji (cir-chilometri a nord della capitale). Entrambi io già stati costruiti da italiani. Occorrono 1 venti miliardi di dollari per ripristinare gli brnitura di elettricità in tutto il paese, so-o iracheno dell'Elettricità Mihsin Shlash. rato un ambizioso piano quinquennale per ìzione di energia a diciottomila megawatt jgetto di cui non ha però fornito i dettagli, quanto riguarda i finanziamenti. In vista dell'emergenza estiva, quando la richiesta raggiunge i suoj picchi più alti, il ministro aveva chiesto aiuto ai paesi vici, ni: Siria, Turchia e Iran. Per ora chi se lo può permettere supplisce alla mancanza di elettricità con i generatori, cij cui si sono dotate il 39 percento delle case della capitale Perfarli funzionare, però, occorre il combustibile, che invece manca. È il peggiore paradosso di un paese che galleggia sul petrolio e dispone sulla carta delle seconde riserve mondiali di oro nero. La mancanza di benzina induce gli iracheni a giorni e notti di code che si snodano per interi quartieri intorno ai distributori, spesso chiusi in attesa di rifornimenti. L'erogazione generalmente avviene per targhe alterne e per un quantitativo limitato. L'alternativa sta nel ricorrere al mercato nero: un litro di benzina, che al distributore costa venti dinari (poco più di un centesimo di euro), viene venduto a cinquecento dinari. La benzina viene peraltro importata dal Kuwait e dalla Turchia, un ottimo business per l'Halliburton, la società già presieduta dal vicepresidente americano Dick Cheney (dal 1995 al 2000), sotto accusa per aver gonfiato le fatture di oltre 3,5 milioni di dollari. Questo non ha impedito al governo americano di assegnare nel luglio 2005 alla superfavorita società texana un nuovo contratto per cinque miliardi di dollari, dopo aver già ottenuto appalti per 9,1 miliardi. Per far fronte alla scarsità di combustibile in vista dell'inverno, la soluzione escogitata da un apposito comitato formato dal ministero del Petrolio è quello di ufficializzarne il razionamento attraverso l'emissione di appositi cou-pon per tutti i prodotti petroliferi, compreso il kerosene, usato per cucinare -vista la mancanza e il prezzo delle bombole di gas -per il riscaldamento e i generatori. Acqua Quando manca l'elettricità generalmente manca anche l'acqua, almeno quella pompata dagli impianti di depurazione. I bombardamenti hanno anche provocato rotture di tubi dell'acqua potabile, facendola mescolare a quella delle fognature. I primi investimenti non hanno per ora prodotto cambiamenti evidenti. Il paese, attraversato dal Tigri e dall'Eufrate, sta lottando anche con la scarsità d'acqua. Per ripristinare il sistema idrico -gravemente danneggiato da guerre e mancanza di manutenzione -occorrerebbero circa
quindici miliardi di dollari, secondo il ministro Latif Rashid. "L'Iraq è un paese ricco di risorse idri-che. Disponiamo di ampie riserve d'acqua, due grandi fiumi, con molti affluenti, l'area delle paludi," ha affermato Rashid durante una conferenza che si è tenuta a fine giugno ad Amman, "ma quello di cui l'Iraq ha bisogno sono grandi investimenti." Per riparare e costruire nuove dighe, canali di irrigazione, sistema fognario e stazioni di depurazione dell'acqua occorrono tra i dieci e i quindici miliardi di dollari. Gli Stati Uniti ne hanno stanziati 3,7 per ricostruire il sistema idrico, ma buona parte dell'ammontare è stato assorbito dalle spese per la sicurezza. I progetti finanziati dal ministero ammontano a quattrocento milioni di dollari. Il risultato è drammatico: alla fine del giugno 2005, con temperature che superavano i quaranta gradi, la maggior parte della capitale è rimasta senz'acqua per una settimana (mi ha scritto via e-mail un amico da Baghdad, in tono disperato). Le autorità attribuiscono la responsabilità di questa situazione ai sabotaggi. Dopo una settimana l'acqua è tornata nei quartieri di Mansur, Yar-muk e Khadimya, ma non in altri, come al Jihad e al Shur-ta, che a fine luglio, quando si è parlato di un nuovo sabotaggio -all'impianto di al Tarmia -erano ancora senza rifornimento idrico. "Per disperazione, la popolazione nella capitale ha cominciato a drenare acqua direttamente dal fiume, riutilizzando vecchi pozzi, o scavandone di nuovi nel giardino, facendo sorgere gravi preoccupazioni per la salute," riportava l'agenzia delle Nazioni unite Irin (Inte-grated Regional Information Network) il 24 luglio 2005. E mfatti, quando "Talib abu Younes ha appoggiato le labbra su un bicchiere d'acqua del rubinetto ha visto dei vermi che si muovevano sul fondo" (come si legge in un articolo di Leila Fadel, sul "Knight Ridder" del 26 luglio 2005). Evi. denternente era acqua che arrivava direttamente dal Tigri. Ho ripensato a quando, durante la mia prigionia, ero costretta a bere l'acqua del rubinetto! "Siamo costretti a prendere l'acqua dal pozzo del vicino. La usiamo per lavare e pulire, ma per bere dobbiamo comprare bottiglie di acqua minerale, che è costosa," sostiene Haifa Fayyad, un impiegato pubblico, che vive nel quartiere al Jihad della capitale, dove a fine luglio l'acqua mancava ormai da oltre un
mese. E sono in pochi a potersi permettere l'acqua minerale il cui prezzo, vista la richiesta, è salito da 0,50 a 0,75 dollari per litro, quasi un miraggio per una popolazione che vive ancora in stragrande maggioranza solo di razioni alimentari governative istituite durante l'embargo. Dopo la guerra, queste ultime sono state anche ridotte e distribuite saltuariamente. La soluzione del problema richiederà molto tempo; il fabbisogno della capitale è di 16,2 milioni di litri, ma anche se tutti gli impianti collocati sulla riva del Tigri funzionassero al meglio si arriverebbe a poco più di dieci milioni di litri. La penuria d'acqua non riguarda solo la capitale. Le autorità si giustificano parlando di sabotaggi, che pur essendoci realmente, spesso vengono utilizzati come pretesto per non assumersi le responsabilità. "In oltre la metà delle città, dove ci sono i maggiori problemi d'acqua non c'è stata nemmeno un'esplosione negli ultimi due anni," sostiene Liqaa Maki, una ricercatrice irachena, "il fatto è che finora non abbiamo visto reali investimenti nelle infrastrutture idriche." La ricercatrice porta l'esempio di al Rumaitha (una città a nord di Baghdad) dove "non c'è stata nessuna bomba, nessun assassinio negli ultimi due anni e non c'erano mai stati problemi d'acqua negli ultimi decenni. Ma questa settimana il governo ha tagliato l'acqua all'intera regione provocando proteste. Come può il governo attribuire la responsabilità alla resistenza quando questi problemi sono l'ovvio risultato di cattiva amministrazione e mancanza di investimenti?" conclude Liqaa MaJci (www.aljazeera.net, 28 giugno 2005). Pochi investimenti sono stati fatti al Sud -trenta milioni di dollari provenienti da Usa, Italia, Giappone e Canada, ma ne occorrerebbero cinquecento -per recuperare le paludi, inquinate dallo straripamento delle acque del figri e dell'Eufrate prima della confluenza nello Shatt al Arab, per millenni un ecosistema unico al mondo. Quello che nella Bibbia veniva definito il "giardino dell'Eden" e che, cinquemila anni fa, aveva visto nascere la civiltà dei sumeri. Quindici-ventimila chilometri quadrati di paludi, con isolotti che popolano l'immensa laguna su cui vivevano circa cinquecentomila persone in case di giunco -dove crescevano alberi, si rifugiavano milioni di uccelli durante le migrazioni. Mentre i pesci -soprattutto carpe, costituivano il 60 percento del consumo iracheno nel 1990 (sostiene Azzam Alwash, direttore dell'Eden Again Project). Tuttavia, secondo un rapporto dell'Orni, nel 2002 le paludi erano ridotte al 7 percento del territorio inizialmente occupato. A prosciugarle -con la costruzione di dighe e canali, che hanno compromesso anche l'agricoltura -è stata innanzitutto l'opera di Saddam che, dopo la Prima guerra del Golfo, e soprattutto dopo la rivolta degli sciiti, intendeva togliere agli oppositori del regime -sciiti e comunisti -l'ambiente in cui si nascondevano e dove diventavano inafferrabili come pesci nell'acqua. Non solo. A peggiorare la situazione hanno contribuito i paesi vicini -Turchia, Siria e Iran -deviando le acque dei due fiumi con la costruzione di dighe. E proprio la scarsità d'acqua rende ora difficile il recupero dell'habitat iniziale-II 40 percento del terreno è stato riallagato, ma per restaurare il naturale ciclo dell'acqua occorrono cure particolari, che richiedono tecnologie e quindi investimenti, n^a soprattutto un flusso d'acqua sufficiente a ripulire il terreno dal sale -che impedisce la crescita di piante -e dai solfuri. Nel territorio è stata riscontrata anche la presenza abnorme di selenio, un metallo tossico che, secondo i ricercatori, potrebbe accumularsi nella catena alimeritare, generando così un avvelenamento complessive dell'ecosistema. Un ulteriore pericolo per la salute della popolazione locale è costituito dall'inquinamento industriale e dagli effetti dei bombardamenti delle due guerre del Golfo (rifiuti tossici abbandonati dai soldati durante l'invasione; "National Geographic", aprile 2003) con l'uso, tra l'altro, di uranio impoverito. Gli effetti più diffusi sono allergie, aborti spontanei, malformazioni e tumori. Soprattutto a Bassora l'allarme è fecalizzato sull'alta
percentuale di bambini nati deformi, come denunciato da Suzie Alwash, moglie di Azzam direttore del progetto Eden Again. Finora circa quarantamila sfollati sono tornati nella zona delle paludi, mentre altri continuano a vivere nei villaggi vicini o nelle città in cui si erano trasferiti o erano stati deportati durante la fase di prosciugamento. Questa popolazione prima ancora del ripristino dell'ecosistema chiede aiuti immediati, soprattutto acqua potabile e assistenza sanitaria. Un altro disastro ambientale è dovuto ai residui tossici degli incendi dei pozzi petroliferi durante la Prima guerra del Golfo: secondo Jonathan Lash del World Resources In-stitute ci vorranno almeno cent'anni per eliminare i fattori contaminanti. E poi le mine accumulate durante le varie guerre e ancora inesplose: da otto a dodici milioni, secondo le stime del Mine Advisory Group. La situazione, dal punto di vista ambientale, è ulteriormente e notevolmente peggiorata dopo l'invasione del 2003, con l'uso, per la seconda volta, di munizioni all'uranio impoverito, e anche per i saccheggi di materiali tossici e pericolosi. "L'Iraq è il caso peggiore finora esaminato ed è difficile da comparare con altri. Dopo la Guerra dei Balcani abbiamo potuto intervenire immediatamente per la protezione, per esempio, del Danubio, ma non in Iraq," sostiene Pekka Haavisto, ex ministro finlandese e presidente della Task Force del Programma ambientale delle Nazioni unite. Una Chernobyl irachena Ai danni ambientali prodotti dai bombardamenti si devono sommare quelli provocati dai saccheggi di materiali tossici che sono seguiti all'invasione, senza che le forze di occupazione li impedissero. I casi più clamorosi sono quelli del Centro di ricerca nucleare di Tuwaitha e la raffineria di al Dora, ma ci sono anche
fabbriche di cemento e fertilizzanti, di cui l'Iraq era uno dei principali produttori, complessi industriali e militari. Dai magazzini della raffineria di al Dora, alla periferia sud di Baghdad, sono stati portati via o bruciati cinquemila barili di prodotti chimici tra cui il piombo tetraetile. Gli effetti dei saccheggi del complesso nucleare di Tuwaitha -cinquantasei chilometri quadrati -si potranno misurare solo nei prossimi anni. Il Centro per la ricerca nucleare di Tuwaitha si trova a una quarantina di chilometri a sud di Baghdad, ed è qui che si stava studiando il programma per la realizzazione della bomba atomica irachena. Ricerca abbandonata già nel 1981 dopo che Israele aveva bombardato il più potente dei reattori, fornito dai francesi. Ne restavano allora altri due, piccoli, uno russo e uno francese, non in grado di sostenere un programma per armamenti nucleari e comunque bombardati dagli americani nella Prima guerra del Golfo del 1991. Durante l'ultima guerra invece sul centro sono caduti solo due missili, forse persino per sbaglio. Comunque nel magazzino di stoccaggio -la cosiddetta "Location C" -si trovavano materiali radioattivi. A sollecitare alle truppe americane la protezione di quest'area era stato anche il direttore dell'Aiea (Agenzia internazionale per l'energia atomica), Mohammed el Baradei, che prima della guerra ne aveva la responsabilità. Inutilmente. Ero andata al centro di Tuwaitha appena si era diffuso l'allarme lanciato dai ricercatori nucleari iracheni, all'inizio di giugno. All'indomani dell'arrivo delle truppe americane, circa tremila barili di componenti nucleari (scorie radioattive e uranio arricchito) erano stati saccheggiati dal magazzino, senza che gli a°itanti del vicino villaggio di Ishtar riuscissero a impedirlo. La polvere gialla (orange calce) era stata sparsa sul pavimento del magazzino e, soprattutto, pensando fosse fertilizzante, anche sui campi. Con danni incalcolabili per l'inquinamento del terreno e delle falde acquifere. Non so. lo, i bidoni svuotati sono stati poi usati come contenitori dj acqua -molte delle case del vicino villaggio di al Wardhia non hanno acqua corrente -o usati per la raccolta del latte, visto che si tratta di una zona agricola. Resisi conto del disastro, il capo delle operazioni militari della zona, Kha-dar al Abbas Hamza, aveva cercato di recuperare i bidoni che non solo nessuno voleva restituire ma che in molti avevano già venduto. Nemmeno il tentativo di ricomprarli aveva avuto grande successo. La gente non si era resa conto della pericolosità perché gli effetti non erano immediatamente evidenti. Il rischio maggiore è quello del cancro, soprattutto leucemia. Ai primi esami, realizzati da specialisti iracheni, il livello di radioattività era risultato molto alto. "L'acqua è contaminata, le case sono contaminate, gli animali e persino le colture sono contaminate," aveva constatato Thair Ismael Jazim. "Abbiamo riscontrato alti livelli di radioattività persino nei letti di queste povere abitazioni, nei bagni e nell'orlo dei vestiti delle donne," aveva aggiunto Hamid al Bahily. Dopo insistenti richieste, prima ignorate dagli americani, alla fine l'Aiea è riuscita a inviare un proprio team per constatare il disastro. Sono stati in molti allora (anche il quotidiano britannico "The Times") a paventare il rischio di una nuova Chernobyl irachena. Già dimenticata, prima ancora di verificarne gli effetti. Gli effetti della guerra cominciano ad avere ripercussioni anche negli Stati Uniti, innanzitutto per la spesa: 5,6 miliardi di dollari al mese (finora duecentoquattro miliardi, settecentoventisette dollari per ogni cittadino Usa, senza contare i quarantacinque miliardi di dollari stanziati dal Congresso), importi superiori a quelli della Guerra del Vietnam. Un rapporto -ottantaquattro pagine dal titolo: "II pantano Iraq" -del think thank americano, l'Institute for Policy Studies and Foreign Policy (Ips), pubblica questi dati mentre l'America insorge per i ritardi della Casa Rianca negli aiuti alla popolazione colpita dall'uragano Latrina. Mancano soldi e uomini. Gli uomini della Guardia azionale da fare intervenire per i soccorsi non ci sono, per-hé inviati in Iraq. Il rapporto, il terzo dal 2004 redatto dall'Istituto contrario alla guerra, contiene anche un piano studiato
da Phyllis Bennis per un "immediato e completo ritiro delle truppe, contractor militari e società americane che sostengono l'occupazione Usa". Un ritiro permetterebbe agli Stati Uniti di uscire dal pantano iracheno in cui stanno affondando, ma anche agli iracheni di intraprendere una strada diversa da quella imposta dagli occupanti. Una rottura è indispensabile agli iracheni per individuare una via d'uscita dal caos e dal terrore in cui si trovano. Anche se nell'immediato, un ritiro delle truppe non comporterebbe certo una pacificazione. Forse è inevitabile uno scontro interno, peraltro già in corso, per trovare una via d'uscita. D'altro canto, i governi che hanno contribuito alla guerra e all'occupazione dovrebbero individuare delle forme di risarcimento e di aiuto umanitario al popolo iracheno, che non possono certo consistere in fucili e carri armati, ma in un aiuto reale alla ricostruzione senza passare attraverso la rapina delle risorse del paese. Resistenza "Noi iracheni abbiamo il diritto di combattere per liberare il nostro paese, come hanno fatto in Vietnam, in Algeria..." Il nuovo arrivato, un mujaheddin, che indossa una dishdasha e ha il capo coperto da una kefiah bianca e rossa, comincia a recitare queste parole leggendole da un foglietto che tiene stretto in mano, mentre altri si arrabattano tutt'intorno per preparare lo scenario per il mio primo video da prigioniera. Non posso credere alle mie orecchie, la rabbia cresce, contro il gruppo che mi ha sequestrata, ma anche contro di me: è come se fossi ostaggio delle mie stesse convinzioni. Non riesco più nemmeno ad ascoltare i miei rapitori -i soliti due "guardiani" non assistono alla drammatica sceneggiata -interrompo il mujaheddin e urlo: "E lo venite a dire a me che avete il diritto di combattere per liberare il vostro paese? A me che sono sempre stata contro la guerra, contro l'occupazione? Che volete da me? Proprio me dovevate rapire?". L'uomo -di cui posso vedere solo gli occhi attraverso le lenti da vista -resta calmo, non si scompone per la mia
reazione, quasi fosse prevista: "Lo sappiamo chi sei, ma questa è la guerra, qui siamo tutti in guerra e noi usiamo tutti i mezzi a disposizione, siamo costretti a usare anche te". Sono in trappola. Come potrò mai uscirne? I pensieri si accavallano mentre mi sistemano su uno sgabello davanti una parete bianca: non c'è nessun drappo, nessuna ri-vendicazione -penso tra me e me -forse l'aggiungeranno dop°-Anche se ci fosse una scritta, diffìcilmente riuscirei a decifrarla nell'affanno della registrazione (dopo la mia liberazione avrei saputo che avevano usato l'improbabile sigla di "Mujaheddin senza frontiere"). Per una settimana avevo aspettato questo momento, fin dai primi attimi dopo il sequestro mi avevano detto che volevano che io registrassi un video per chiedere il ritiro delle truppe italiane dall'Iraq, ero impaziente, tanto valeva farlo subito. Per vedere l'effetto. Non mi facevo illusioni: ora mi rendevo conto che mi stavo giocando la vita. Che un ultimatum avrebbe potuto avvicinare la mia fine. Mi hanno fatto indossare i miei vestiti, quelli che avevo al momento del rapimento, dicono che devo aggiustarmi i capelli, ma non è facile: dopo una settimana in cui sono rimasta a letto avvolta nella mia sciarpa nera me li sento tutti appiccicati e non ho nemmeno uno specchio. E poi non è sul mio aspetto fisico che mi voglio concentrare, non penso all'impatto che avrebbe avuto, soprattutto sulla mia famiglia, la mia comparsa sullo schermo. Il mio obiettivo è un altro. I miei rapitori che si definiscono mujaheddin, combattenti, vogliono veramente il ritiro delle truppe? E come possono non rendersi conto che con un ultimatum a Silvio Berlusconi non l'avrebbero mai ottenuto? Anche se molto politicizzati ragionano con logiche che portano a conclusioni molto diverse dalle mie. Comunque non intendo rinunciare alla mia battaglia: "Non è con un ultimatum al governo che si ottiene qualcosa e tantomeno con il ricatto di uccidermi, per di più io sono una giornalista di un piccolo giornale dell'opposizione, a chi volete che importi di me?". Loro mi rispondono che invece devo essere importante Perché il presidente del governo italiano, Berlusconi, ha chiesto l'intervento di tutti i paesi arabi e, sottolineano, per-sino dell'Arabia saudita. Io non mi dò per vinta: "Se pensate di uccidermi nel caso il governo italiano rifiuti le vostre richieste, è meglio che lo facciate subito, del resto è più facile uccidere una povera donna indifesa che andare per le strade a combattere le truppe americane superarmate". Alla mia provocazione la risposta è laconica: "Non vogliamo ucciderti, non siamo dei tagliagole". Allora qualche margine di mediazione può esserci, ma come fare? Come evitare che il mio messaggio diventi il classico: "Se non vi ritirate mi uccideranno?". Come far capire loro che le stesse forze che in Italia si sono battute, purtroppo inutilmente, contro la guerra ora si oppongono all'occupazione e che solo loro possono essere il giusto interlocutore di chi vuole la liberazione dell'Iraq? Ma se hanno rapito proprio me e ora mi tengono prigioniera non sono certo sensibili a discorsi pacifisti, sono convinti che solo con la violenza e la lotta armata si possano indurre gli americani a ritirarsi. Pur accettando l'opzione della lotta armata, come possono pensare di sconfiggere un esercito come quello statunitense? Quello che riescono però a fare è impedire all'esercito più potente del mondo, che ha occupato in pochi giorni l'Iraq, di controllarne territorio e risorse. E non è poco. A intralciare il lavoro dei "tecnici" del video interviene anche il solito black out elettrico. E mentre cercano una fonte alternativa di luce riesco a far accettare ai rapitori che il mio appello non si rivolga solo a Berlusconi e al governo, ma anche alle forze che sono contro la guerra. Per fare luce durante la ripresa viene trovato un neon "made in China" -come quasi tutti gli elettrodomestici in vendita in Iraq -che trasformerà il nero della mia felpa in verde, dando adito in Italia a numerose speculazioni sulla scelta del
colore del mio abito: verde islamico o militare, oppure? No, semplicemente una delle tante conseguenze della mancata erogazione dell'energia elettrica nell'Iraq occupato. Con l'installazione, seppur precaria, del neon si possono iniziare le riprese: il senso del mio messaggio viene, ovviamente, imposto dai miei sequestratori -che però in questo caso non mi puntano le armi -anche se io posso scegliere le parole, peraltro in una lingua che non è la mia e nemmeno la loro -tra l'inglese e il francese avevo scelto il secondo. Anche la scelta, casuale, del francese aveva fatto 68 slipporre dei legami tra il mio sequestro e quello della giornalista francese, Florence Aubenas. Ma è il tono del mio ap-Dgllo che non li soddisfa: "Sembra una recita scolastica, devi essere più convincente". Vogliono che drammatizzi. Forse per questo mi impongono di rivolgermi alla mia famiglia e, in particolare, a mio marito: "Solo lui ti può salvare, ma devi essere convincente. Devi dirgli di far sapere e vedere tutto quello che hai fatto, mostrare le foto", prima si erano informati sul suo lavoro. E quando mi rivolgo a lui chiamandolo per nome non basta, devo dire "mio marito", termine che non uso mai. Forse dubitano persino che abbia un marito visto che alla televisione nessuno avrà mai detto che sono sposata, non essendolo. Allora più che la convinzione mi assale l'emozione. Il risultato lo conoscete. Comunque, a onor del vero, non mi sembravano molto esperti di video. Tanto che, quando ho chiesto al mio "body-guard" se il video era stato trasmesso da Al Jazeera, mi aveva risposto che il satellite in quei giorni non funzionava -e quindi non potevano vedere le tv del Golfo -ma che comunque la registrazione era venuta male e forse non l'avrebbero nemmeno utilizzata. Un'ipotesi che mi rassicurava, almeno la mia famiglia non mi avrebbe vista in quelle condizioni! La battaglia sostenuta per la registrazione del video è stata in qualche modo il mio primo atto di resistenza contro quelli che si definiscono mujaheddin della resistenza irachena. Da quel momento resistere è
diventato il mio imperativo. Resistere per essere sempre in grado di contrastare i miei sequestratori, resistere per non lasciarmi abbnitire e diventare succube dei miei carcerieri, resistere per salvare la mia dignità. E come? Pensavo a chi aveva vissuto esperienze simili alla mia o anche molto più terribili: anni di prigionia, decenni d'isolamento. Per me il simbolo della dignità è sempre stato Nelson Mandela, ricordo ancora come fosse uscito indenne da ventisette anni di duro carcere dell'apartheid, presentandosi perfettamente all'altezza dell'appuntamento con la storia. Il ritratto di Nelson Mandela era sempre presente di fronte a me, solo io lo vedevo, nessuno lo poteva toccare. Era come un'icona che si stagliava sulla parete bianca di fronte al letto. Naturalmente non c'era nessun paragone possibile tra la mia prigionia e la sua, ma la sua forza illuminava la mia stanza buia. Per di più, mi ero convinta che se avessi resistito dentro la mia prigione, fuori sarebbe stata più forte la mobilitazione per liberarmi, come se fosse possibile una sorta di telepatia. Qualcosa del genere deve essere successo, anche se non si trattava di nulla di straordinario, ma semplicemente della forza di convinzioni da me condivise negli anni con compagni, conosciuti e sconosciuti. La domenica sera, due giorni dopo il mio sequestro, in un raro momento di flessibilità dei miei sequestratori che si è andata spegnendo con il passare dei giorni -ho potuto vedere un servizio su di me al telegiornale di Euronews, l'edizione in inglese. Le mie speranze non erano infondate: il giorno dopo il mio sequestro, in Campidoglio era già stata organizzata una fiaccolata, la mia foto aveva sostituito lo spazio una volta occupato da Simona Torretta, Si-mona Pari, Manhaz e Ra'ad. Alla mia si sarebbero aggiunte quelle di Florence Aubenas e Hussein Hanoun. Tanta gente, una zoomata aveva inquadrato anche le Simone, silenziose in un angolo, e consapevoli, più di altri. Sono esperienze che non si possono trasmettere. Ma l'improvviso ottimismo era scemato di fronte alla conclusione del servizio. Una rivendicazione del Jihad lanciava un ultimatum a Berlusconi: se non annuncia il ritiro delle truppe entro lunedì sera (era già domenica sera), la uccideremo. Prima l'incredulità, poi lo sconforto, l'angoscia. Per la prima volta qualcuno diceva che mi avrebbero uccisa, fissando una scadenza. Quando i miei guardiani si sono resi conto, forse per la mia reazione, dell'ultimatum annunciato alla tv, hanno cercato di rassicurarmi sostenendo che loro non erano del Jihad, che la rivendicazione era falsa, che non erano dei tagliagole. Inutile dire che i loro sforzi non mi tranquillizzavano affatto. I sequestratovi Ma chi erano i miei sequestratori? Se non fosse stato per il timore di essere ammazzata, forse avrei sopportato meglio anche le condizioni di detenzione. Perché nei momenti di "ottimismo" ritenevo che il mio sequestro potesse persino essere un'occasione per verificare daU"'interno" tutte le analisi che avevo fatto fino ad allora sulla resistenza. Non era facile. Fin dall'inizio, la mia preoccupazione principale era stabilire chi fossero i sequestratori: avevo scartato che si trattasse di delinquenza comune. I miei carcerieri mi dicevano di non essere "tagliagole" di al Zarqawi, io non mi fidavo certo delle loro affermazioni, anche se a volte avevo bisogno di crederci per sopportare quelle giornate buie. E poi lo scambio o lo scontro di opinioni che avevo più o meno regolarmente con loro mi portavano a credere che facessero effettivamente parte di quella nebulosa di gruppi autodefinita "resistenza irachena". I timori m'impedivano però di fare troppe domande e quindi mi limitavo a osservare e ascoltare per diradare la cortina di fumo con la quale cercavano di confondermi le idee. E solo alla fine avrei potuto trarre delle conclusioni. Anche se non nascondo che, a volte, frenavo a stento la curiosità, soprattutto quando erano loro a provocarmi, spiegandomi la distinzione
tra combattenti (mujaheddin, addestrati) e sostenitori (come il mio "bodyguard"). Mi dicevano anche di essere organizzati in piccole cellule (una decina di persone) per quartiere. E questo risulta anche da altre testimonianze. Una volta Abbas mi aveva persino chiesto se volessi fotografare i mujaheddin; me l'ero cavata rispondendogli che la mia macchina fotografica se l'erano presa loro... Al di là del tipo di organizzazione territoriale, che peraltro era molto capillare già ai tempi di Saddam, certamente questi mujaheddin si muovono sul territorio come Pesci nell'acqua. Peraltro è opinione diffusa che la preparazione della resistenza armata fosse iniziata ancora prima dell'intervento di Bush. Spesso in questi mesi mi sono tornate alla mente le minacce di Saddam agli americani poco prima della guerra: "Li lasceremo arrivare alle porte di Baghdad e poi li combatteremo strada per strada, casa per casa". Rifacendosi alla storia, come il raìs amava fare per dare maggiore enfasi alle sue affermazioni, Saddam definiva Bush "il novello capo mongolo", paragonandolo a Hulagu, le cui orde invasero la Mesopotamia otto secoli fa. E tuonava: "Con l'aiuto di Allah fermerò i mongoli alle porte di Baghdad. Come accadde a quel tempo, anche oggi un nuovo Hulagu vuole attaccarci e distruggerci". I "mongoli" non sono stati fermati. Ma "per gli americani non è stata una passeggiata come volevano far credere ai loro soldati", e questa è stata l'unica previsione indovinata dal raìs. A testimoniare, invece, la preparazione "preventiva" di una guerriglia da scatenare dopo l'invasione era stato Scott Ritter, il controverso ispettore -dal 1991 al 1998 -dell'Un-scom: dopo essere stato accusato dall'Iraq di essere una spia degli americani, ha a sua volta incolpato Washington di voler infiltrare spie tra gli ispettori. Ritter, riferendosi alle sue ispezioni, scriveva: "Mentre non ho riscontrato nessuna evidenza di armi di distruzione di massa, ho trovato un'organizzazione specializzata nella costruzione e nell'impiego di 'ordigni esplosivi artigianali', gli stessi che ora uccidono quotidianamente gli americani in Iraq" ("Christian Science Monitor", 10 novembre 2003). L'organizzazione cui fa riferimento Ritter è M-21, la direzione delle operazioni
speciali dell'intelligence irachena. Che la guerriglia abbia una componente organizzata e preparata è confermato anche da testimonianze riportate sulla stampa locale come "Iraq Today", che ha avuto una vita breve, o giornali internazionali come il "New York Times". D'altra parte, lo scioglimento del potente esercito e dei servizi di sicurezza di Saddam, subito dopo l'arrivo degli americani, ha lasciato in libertà -e all'inizio anche senza stipendio -circa quattrocentomila iracheni, ben addestrati e ben armati. I depositi di armi del regime, infatti, non sono stati smantellati o messi sotto controllo dagli Usa e quindi sono stati ampiamente saccheggiati. L'unica mercé che non manca in Iraq sono le armi. Anche se molti ex militari, con i quali ho parlato nell'estate del 2003, dicevano -forse per salvare la faccia -di essere stati nell'esercito per difendere il proprio paese e non Saddam, e ora provano una forte umiliazione per l'atteggiamento Usa: non è difficile immaginare contro chi abbiano puntato le loro armi. Esiste quindi sicuramente un nucleo organizzato della guerriglia, composto essenzialmente da ex baathisti (il partito aveva una propria milizia) ed ex militari. Non a caso le roccaforti della resistenza si trovano proprio nelle zone che più hanno fornito ufficiali all'esercito di Saddam: Baquba, Falluja, Samarra eccetera. A questi nuclei si sono sommate altre forze: tribali, islami-ste e anche nazionaliste. Viaggiando tra Falluja, Baquba e Balad, quando era ancora possibile spostarsi in Iraq, avevo parlato con molte persone -giovani e meno giovani -che pur non dichiarandosi parte della resistenza, la sostenevano o simpatizzavano, e si dicevano pronti ad aiutare i mujahed-din. Alcuni dei meno giovani -tra di loro c'era anche un ingegnere delle comunicazioni epurato da Saddam -dopo la caduta del raìs, che aveva snaturato il partito Baath, sognavano di poter tornare a quel progetto nazionalista, laico e socialista delle origini. Altri, invece, sostenevano la resistenza per riscattare l'umiliazione subita con l'occupazione, oppure per proteggere la società conservatrice dall'invasione occidentale. Altri ancora in nome dell'isiam, diventato un collante nel vuoto di potere. O, persine per disperazione: una donna, alla quale gli americani avevano appena ucciso il figlio -unico sostegno della famiglia -perché si era trovato a passare dove era in corso una perquisizione alla periferia di Baghdad, mi aveva detto: "Sono con la resistenza con il cuore". Accanto alla resistenza armata vi è infatti anche una resistenza pacifica, silenziosa, fatta di piccole azioni quotidiane, ma che non ha visibilità e, non usando le armi, non suscita clamore e non ottiene ascolto. Del resto, il fatto che la resistenza armata non abbia una rappresentanza politica riconosciuta rende difficile delinearne il profilo. I vari gruppi che si oppongono all'occu-Pazione coprono infatti un vasto spettro che si differenzia, anche notevolmente, sia sul piano politico sia per le forme di lotta, arrivando, in alcuni casi, a lambire le frange del terrorismo. Mujaheddin e jihadisti La liberazione dell'Iraq dall'occupazione straniera è la linea di demarcazione che distingue sostanzialmente i mujaheddin e gli "insorti" dai "jihadisti", che hanno trasformato l'Iraq, dopo l'insediamento americano, nel teatro di battaglia per il loro jihad contro l'Occidente. Quest'azione discende da una visione dell'"islam globale": combattere i miscredenti, gli infedeli, ovunque. La guerra, con il caos creato, ha offerto loro il terreno propizio. I "jihadisti" che provengono da paesi arabi e musulmani, hanno spesso un "passato" afghano e sono arrivati in Iraq senza problemi visto che le frontiere, dopo la caduta del regime, sono rimaste per lungo tempo completamente sguarnite. Si distinguono dalla resistenza per le forme di lotta e anche per gli obiettivi. La cultura di morte che motiva i kamikaze non fa parte della tradizione irachena, anche se all'interno dei Feddayn Saddam, la forza paramilitare guidata da Uday, figlio del raìs, vi era un gruppo di aspiranti al suicidio che, nelle sfilate alle quali avevo assistito alla vigilia della guerra, si distinguevano per le
loro tute bianche, mentre gli altri vestivano di nero. E proprio durante la guerra, il 30 marzo 2003, di fronte all'impossibilità di fermare l'avanzata delle truppe americane, un sottufficiale dell'esercito, Ali Hammad al Namani, si era fatto saltare per aria con la macchina imbottita di esplosivo di fronte a un posto di blocco americano uccidendo quattro marine e ferendone molti altri. Il protagonista della prima azione suicida in Iraq era stato insignito della massima onorificenza militare -la medaglia Um al Marik, la "madre di tutte le battaglie" -proprio dal raìs, Saddam Hussein. Il "martire" Ali apriva le porte al jihad in Iraq. Anche se, ricordo, in quei giorni il vero eroe per gli iracheni era un altro Ali, il contadino di Kerbala che con il suo fucile da caccia aveva abbattuto un elicottero Apache americano. Realtà o leggenda popolare? Poco importava, Ali serviva a rialzare il morale fortemente minato dalla sensazione d'impotenza di fronte all'avanzata inarrestabile degli invasori. Impotenza avvertita evidentemente anche dagli esponenti del regime in disfatta che, dopo aver accolto centinaia di "scudi umani" provenienti da molti paesi, soprattutto occidentali, e averli schierati a protezione dei punti strategici -acquedotti, raffinerie, centrali elettriche -ora alzavano il tiro con i kamikaze. In quei giorni (fine marzo 2003) l'allora vicepresidente Taha Yassin Ramadhan sanciva il jihad, la "guerra santa", come dovere "prescritto da Dio" per ogni musulmano minacciando l'esplosione di quattromila kamikaze provenienti dai paesi arabi. Ma l'esplosione sarebbe cominciata solo quando Ramadhan e Saddam erano già fuori gioco. Se i kamikaze sono prevalentemente "arabi" non iracheni, le vittime delle azioni suicide, metodo privilegiato dalle organizzazioni terroristiche, sono invece in gran parte proprio gli iracheni. In alcuni casi hanno la "colpa" di volersi arruolare nell'esercito o nella polizia, in altri solo quello di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Indubbiamente, la costruzione di un esercito in grado di controllare il territorio rappresenta un punto nevralgico per il futuro dell'Iraq. Molte, tra le aspiranti reclute che avevo intervistato
nel novembre del 2003, mi dicevano di volersi impegnare sia nella polizia sia nell'esercito per poter controllare il territorio iracheno, condizione indispensabile per riconquistare la propria sovranità e quindi chiedere il ritiro delle truppe straniere. Probabilmente, questi giovani peccano di ingenuità o semplicemente cercano una motivazione "patriottica" alla loro scelta di fare il poliziotto o il militare, in effetti una delle rare alternative possibili alla disoccupazione. Un'ingenuità che non tiene in debita considerazione gli interessi dei paesi che hanno condotto la guerra e che non abbandoneranno facilmente le risorse dell'Iraq. Comunque, la presenza sul territorio di un esercito iracheno, tanto più se efficiente, costituirebbe un grosso ostacolo per i "jihadisti", che fanno delle reclute irachene (considerate "collaborazionisti") uno dei loro obiettivi privilegiati. Il massacro di iracheni da parte di chi bene o male viene, o soprattutto veniva, identificato con la resistenza, aveva creato una situazione talmente insostenibile da indurre il Consiglio degli ulema a intervenire. Venerdì 25 giugno 2004, durante la preghiera, la condanna è risuonata unanime in tutte le moschee sunnite, da al Qora (la ex Um al Marik, sede del Consiglio degli ulema) fino a quella di Abu Hanifa, dove mi trovavo quel giorno. La moschea di Abu Hanifa, nel cuore del quartiere sunnita di Adhamiya, il cui splendido minareto era stato centrato da una cannonata nell'aprile del 2003, era il luogo in cui gli americani ritenevano si nascondesse Saddam. Il luogo sacro è un punto di riferimento dei mujaheddin. "Nessuno ha il diritto di uccidere un altro iracheno, anche se poliziotto. Queste uccisioni inquinano l'immagine della resistenza," avevano tuonato gli ulema e la parola d'ordine era stata subito condivisa dai fedeli, da me intervistati dopo la preghiera. C'era chi era contro l'uccisione anche degli americani, chi invece lo riteneva un male necessario, ma uccidere altri iracheni no, non è mai successo, è contro l'isiam, dicevano. Il successivo passo degli ulema era stata la condanna dei sequestri, la nuova arma di guerra. La condanna è arrivata però solo quando obiettivo dei sequestri sono diventati gli operatori umanitari e i giornalisti. Per i contractor era diverso, nessuno aveva preso posizione. I contractor sono i beneficiari della privatizzazione della guerra: si occupano della sicurezza e fanno il lavoro sporco per conto degli eserciti di occupazione o lavorando per le multinazionali. Se è chiaro l'obiettivo della resistenza: porre fine all'occupazione per recuperare la sovranità, non è invece chiaro quale futuro si prospetti per il paese. Non esiste infatti una rappresentanza politica riconosciuta della resistenza armata sunnita, una nebulosa di gruppi all'interno dei quali, come dicevamo, si trovano ex baathisti, islamisti, nazionalisti, leader tribali, che non hanno ancora trovato una figura rappresentativa in cui riconoscersi, forse perché ancora schiacciati dal peso del passato regime autoritario e dall'immagine di Saddam. Icona, peraltro, ricomparsa durante le manifestazioni contro la Costituzione. Anche se probabilmente nessuno, nemmeno gli ex saddamisti, pensa più a un ritorno dell'ex raìs. Questa è una debolezza non solo della resistenza, ma anche della stessa comunità sunnita, a sua volta ingabbiata dalla resistenza armata, che impone le proprie scelte. I sunniti finiscono quindi per guadagnare visibilità solo attraverso il Consiglio degli ulema, un'autorità religiosa riconosciuta, ma che non ha certo la stessa autorevolezza della marjayia guidata dal grande ayatollah Ali al Sistani, perché i sunniti non possono contare su una gerarchla del clero come gli sciiti. L'organismo religioso sunnita ha assunto spesso un ruolo sostitutivo nei rapporti con le autorità e anche nelle scelte politiche, ma non può certo supplire al generale vuoto politico di rappresentanza. Così spiega la posizione dei religiosi sheikh Hareth al Dhari, segretario dell'Associazione degli ulema: "La resistenza è una realtà che non può essere negata, riconosciuta da amici e nemici. Inoltre, la resistenza è un diritto legittimo di ogni popolo colpito da disastri come quelli che hanno
colpito il popolo iracheno. Siccome siamo parte del popolo e abbiamo un'influenza, sosteniamo la resistenza con convinzione. Sosteniamo la resistenza pregando, giustificandola, finché ci sarà occupazione. Non siamo i leader della resistenza, non vi partecipiamo e non la fi-nanziamo" (intervista ad Al Majd tv, 28 agosto 2005). I nuovi taleban Sul piano militare è certo che la resistenza pur essendo ben armata e ben addestrata, non possa competere con l'esercito americano, il quale tuttavia a sua volta non è in grado di sconfiggere una guerriglia che si muove su un territorio che conosce perfettamente e dove gode di appoggi e clità. La repressione, i bombardamenti, le torture e le discriminazioni non fanno altro che alimentare il sostegno alla resistenza. Che, tuttavia, non sempre è volontario. Non mancano, infatti, le imposizioni e le coercizioni da parte dei gruppi armati. Per esempio, alle elezioni del 30 gennaio 2005 molti sono stati puniti per aver trasgredito all'indicazione di non andare a votare, con il taglio della falange macchiata dall'inchiostro indelebile, segno distintivo di chi si era recato al seggio. Così come sono stati assassinati due politici sunniti che facevano parte della commissione per l'elaborazione della Costituzione. L'esecuzione di spie o di sospetti è all'ordine del giorno. Così come l'imposizione della legge islamica da parte di gruppi wahabiti che si ispirano ai taleban. L'offensiva dell'esercito americano nel triangolo sunnita è sostanzialmente fallita anche sul piano militare: i gruppi armati continuano a colpire, persino nella Falluja distrutta, con armi sempre più sofisticate e con obiettivi sempre più mirati. I bombardamenti a tappeto hanno penalizzato solo la popolazione, mentre i combattenti si trasferiscono con facilità da un luogo all'altro.
Anche i gruppi legati ad Al Qaeda sono sfuggiti agli attacchi. Prima della guerra esisteva un solo gruppo certamente legato all'organizzazione terroristica di Osama bin Laden: Jund al Isiam (soldati dell'isiam) fondato nel 2001 dall'unione di diversi gruppi sunniti fondamentalisti, uno dei quali proveniente dal Movimento islamico del Kurdi-stan. Qualche centinaio di elementi, per la maggior parte addestrati in Afghanistan, che si erano installati nella zona di Halabja (dove Saddam nel 1988 aveva gassato cinquemila persone), in Kurdistan, al confine con l'Iran. Qui avevano preso il controllo di qualche villaggio e sperimentato il loro modello politico basato sul califfato, imponendo alla popolazione una vita in stile taleban: bruciate le scuole per le bambine, uccise per strada le donne che non portavano il burqa. E poi la guerra contro l'Unione patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani, che controlla la zona. Il gruppo non aveva nessun legame con Saddam, a detta del suo emiro, mullah Krekar, un kurdo che vive in Norvegia dove ha ottenuto la cittadinanza per aver sposato una norvegese. "Come kurdo, credo sia il nostro nemico, e anche come musulmano ortodosso, credo che Saddam Hussein e il suo gruppo siano al di fuori dell'isiam," aveva dichiarato Krekar intervistato in Norvegia dalla Bbc, il 31 gennaio del 2003. Secondo Washington, invece, il raìs avrebbe in realtà finanziato il gruppo che dal 2003 avrebbe poi assunto il nome di Ansar al Isiam. Questa per Bush sarebbe stata la prova del legame di Saddam con il terrorismo. All'inizio dell'invasione, dunque, gli americani, insieme ai peshmerga di Jalal Talabani, hanno bombardato le basi di Ansar al Isiam nel Kurdistan, costringendo l'organizzazione a ridislocarsi un po' più a sud nella zona sunnita (Tikrit e Mosul). Fra le azioni più clamorose rivendicate dal gruppo con la sigla Ansar al Sunna (secondo alcuni si tratta di un semplice cambio di nome, secondo altri di un gruppo nato da una costola di Ansar al Isiam): gli attentati suicidi contro, non a caso, le sedi dei due maggiori partiti kurdi il primo febbraio 2004 ad Arbil (oltre cento morti) e quello alla mensa della base americana di Mosul il 21 dicembre 2004 (oltre venti i morti). E poi sequestri e uccisioni di ostaggi. Ma laverà scoperta, è stata fatta dal quotidiano britannico "The Guardian" (22 agosto 2005): Ansar al Sunna in collaborazione con il gruppo Tawhid, guidato dal leader di Al Qaeda in Iraq, Abu Musab al Zarqawi, controlla la cittadina agricola di Haditha, duecento chilometri a nordovest di Baghdad, sulle rive dell'Eufrate. Una cittadina dove i wahabiti (il capo sarebbe un arabo non iracheno) stanno sperimentando il loro califfato: alcol e musica vietati, donne velate e rapporti tra i sessi controllati, adulteri frustati. Anche la rete cellulare è stata bloccata, tanto i mujaheddin -anche qui si fanno chiamare così -usano walkie-talkie e telefoni satellitari, mentre la corsia destra sulle strade della città è riservata alle loro macchine. Le decapitazioni avvengono all'alba sul ponte Haqlania, all'entrata di Haditha. Se non può assistervi in diretta può trovare lo stesso portleriggio, al mercato, il dvd con la registrazione. Un ministato taleban, lo definisce l'articolo del giornale britannico, costituito sotto il naso degli americani, che un anno fa si erano vantati di essere riusciti, con il corpo ingegneri dell'esercito, a ripristinare il funzionamento della vicina centrale elettrica e a fornire alla cittadina di novantamila abitanti l'elettricità ventiquattr'ore al giorno. Probabilmente unico caso in Iraq. Sono i mujaheddin ora a incassare il successo e gli stessi militanti di Ansar al Sunna che si arrogano il diritto di decidere chi vive e chi muore a Haditha, come devono vestire gli abitanti e cosa devono vedere o sentire. Fino a un anno fa, la cittadina era una delle tante della provincia di Anbar, nel cuore del "triangolo sunnita", pe-riodicamente al centro degli scontri tra insorti e truppe americane. Ma ora i terroristi adottano una nuova tattica: quando gli americani arrivano a bombardare, loro se ne vanno abbandonando la popolazione sotto le bombe e tornano appena gli aerei sono scomparsi non vogliono fare la fine dei combattenti di Falluja. Sono infatti ancora una volta civili le vittime degli attacchi a Haditha come nelle vicine Rawa e Parwana, da dove arrivano appelli di medici che denunciano una vera e
propria crisi umanitaria: negli ospedali mancano antibiotici, ossigeno e altre medicine basilari. Ma per i militanti di Ansar al Sunna non vale la pena perdere le forze scontrandosi con le truppe straniere. Oltre agli Stati Uniti in Iraq bisogna combattere difatti gli "apostati" sciiti ora al governo, come indica il rappresentante di Al Qae-da in Iraq, Abu Musab al Zarqawi, che la leggenda vuole sia sostato a Haditha a metà agosto del 2005. I leader tribali locali temono i terroristi e quindi non si ribellano in nome dell'"ordine" che comunque i fondamentalisti mantengono, a colpi di frusta e decapitazioni. Proprio come i taleban in Afghanistan, fino aqualche anno fa. È questo il "modello afghano" che gli Stati Uniti volevano riproporre in Iraq, trasferendo a Baghdad anche l'ambasciatore di Kabul, l'americano-afghano Zalmay Kha-lilzad, un neoconservatore fedele a Bush? Invece di eliminare il terrorismo stanno generando le migliori condizioni per la sua diffusione. 6. Religione "Mi chiamo Abbas e lui Hussein," si presentano subito così i miei due "carcerieri" non appena gli altri due seque-stratori se ne sono andati lasciandoci in una casa, che sarà quella della mia prigionia, per quattro settimane. Abbas e Hussein, il nome dei due imam, figli di Ali, il capostipite dello sciismo, ai quali sono dedicate le due splendide moschee di una delle città sante sciite, Kerbala. Due enormi santua-ri sovrastati da minareti e cupole d'oro, costruiti uno di fronte all'altro, separati solo da un ampio viale di circa trecento metri, sempre affollato di pellegrini che arrivano anche dall'Iran. Forse vogliono farmi credere di essere sciiti, e a volte ci provano, o forse lo fanno solo per gioco. Come quando si parla dell'Ashura, le giornate di lutto in cui si celebra il martirio di Hussein e di Ali, con rituali truculenti: gli uomini si autoflagellano con catene di
ferro fino a coprirsi di sangue e, a volte, perdere i sensi o persino morire. Ai tempi di Saddam il rituale era vietato, ma dopo la sua caduta è stato ripreso, anche con maggior fanatismo. Quest'anno, la celebrazione nel decimo giorno del mese del moharrem, secondo l'Egira, viene a cadere proprio durante il mio sequestro. Abbas vuole farmi credere che sarebbe andato a Najaf Uà prima città santa per gli sciiti, dove si trova il mausoleo di Ali) proprio per l'Ashura. "Vuoi venire?" mi domanda. Co-ftte se si trattasse di una proposta seria, rispondo che quel rituale non mi entusiasma e non ci tengo assolutamente ad assistere a un inutile spargimento di sangue. Per la verità anche lui ha un'espressione di disprezzo, non capisco se è solo per il rituale o per gli sciiti in genere. Comunque, visti i nomi che si sono scelti, appena ripresami dallo shock del sequestro, ho soprannominato Ab-bas e Hussein "i Kerbala" e al primo nuovo venuto avrei affibbiato il nome di Ali, senza aspettare presentazioni. Anche loro stanno allo scherzo. Al di là dei nomi (avrei saputo dopo la mia liberazione che spesso i sequestratori sunniti usano nomi di "battaglia" sciiti), l'unico dubbio che non ho mai avuto è che fossero sunniti (peraltro, finora, gli sciiti non hanno usato l'arma del rapimento) e iracheni. E questo non era poco, anche se non era sufficiente per escludere che appartenessero a un gruppo terrorista della rete di Mussab al Zarqawi. Abbas e Hussein (o Hsien, nella versione colloquiale) erano solo dei guardiani, ma certamente non semplice manovalanza, avevano studiato -uno diceva di aver interrotto l'università con l'arrivo degli americani -ed erano politicizzati. Oltre a fingersi sciiti, senza grande successo e nemmeno troppa convinzione, volevano anche farmi credere di essere molto religiosi, ma non si sono mai definiti né salafiti né waha-biti (le correnti più fondamentaliste e con una visione rigorosa dell'isiam), come invece avevano fatto altri sequestratori. Appena arrivati nella casa-prigione eravamo stati riforniti di cibo e Hussein (lui mi sembrava il più interessato) era stato anche dotato di un registratore con alcune cassette di versetti del Corano. Tutti e due si alzavano alle cinque del mattino per pregare, ma mentre Hsien andava in giro per tutto il pomeriggio con il mangianastri, sparandosi versetti del Corano per ore, Abbas sembrava preferire le partite di calcio e i film alla tv. Difficile dire se la litania pomeridiana fosse una copertura o una convinta pratica religiosa. Tradizioni e convinzioni religiose spesso si confondevano nei loro comportamenti. E la mia diversità, di donna occidentale che gira sola per il mondo, anche se per lavoro, li sorprendeva e incuriosiva molto: "Come, tuo marito ti lascia andare in giro da sola?". A volte, riuscivo a intuire le loro curiosità, quando la sera si concedevano un po' di tempo per parlare con me: Hsien sapeva un po' d'inglese, Abbas qualche parola di francese e io usavo quel poco di arabo che conosco e poi dove non arrivavano le parole supplivano i gesti. Per la verità, in quelle situazioni mi sentivo un po' come una scimmietta allo zoo, ma la curiosità era reciproca e ne approfittavo. Appena sequestrata mi avevano chiesto l'età: cinquantasei anni. Sei sposata? Sì, non potevo certo spiegareche convivevo con il mio compagno da venticinque anni. Lui quanti anni ha? Cinquantatré. Cinquantatré? È più giovane di te! Ma la cosa che più li sconvolgeva era il fatto che non avessi figli. "E tuo marito non ti ha ripudiata? Ha un'altra moglie?" Inutile spiegare che avere figli è per noi una scelta, sarebbe stato complicato e non volevo sottolineare troppo le differenze. Ma evidentemente questo era un tarlo che rodeva le loro convinzioni e dopo qualche giorno uno di loro sarebbe venuto a chiedermi, con molta discrezione, se avessi mai consultato un medico per superare la mia supposta "infertilità". Devo ammettere che in alcuni momenti lo spirito mi veniva meno e non ho avuto la prontezza di azzardare che l'infertilità poteva non essere mia. Sicuramente l'affermazione li avrebbe sconvolti.
Nei momenti in cui protestavo perché mi trattenevano così a lungo, scherzando, rispondevano che mi conveniva restare in Iraq, potevo sempre trovare un marito (in questo caso non tenevano conto delle compatibilita locali con la mia età), e quando rispondevo che di marito me ne bastava uno, mi prendevano in giro: "Perché, credi che ti stia ancora aspettando? Nel frattempo sicuramente si sarà già trovato un'altra donna". Il cliché machista non fa grandi differenze tra Est e Ovest. Non sapevo tutto quello che stava facendo Pier per me, lo avrei scoperto solo al mio ritorno, jfia sicuramente era molto più di quanto avrei mai potuto immaginare. Contrariamente a quanto accaduto ad altre donne tenute in ostaggio, io durante la mia prigionia non ho mai Portato il velo né i carcerieri mi hanno mai chiesto di farlo. Quando ho registrato i video mi hanno sempre fatto vestire i miei panni, evidentemente volevano che mi presentassi per quella che sono. Quindi, quando mi mettevo la sciarpa nera in testa era solo perché avevo freddo. Ma nei brevi "scambi-scontri" di idee con i miei guardiani regolarmente spuntava la domanda: "Perché non ti converti all'isiam?". A volte per la verità, più che una vera domanda sembrava solo un argomento di conversazione, che scivolava inevitabilmente sulla domanda: "Ma è vero che sei 'shiyooi' (comunista)?". Io fìngevo di ignorare il significato della parola, ma sapevo benissimo che l'avevano sentito alla televisione, ogni volta che parlavano di me e del mio giornale, "il manifesto", "quotidiano comunista". Cercavo di evitare la risposta perché non sapevo cosa fosse peggio per loro: essere cristiana o comunista. E quasi sicuramente era peggio comunista: ai tempi di Saddam i cristiani avevano libertà di culto anche se non di proselitismo, mentre i comunisti venivano eliminati fisicamente. Loro la pensavano allo stesso modo? Era difficile capirlo, ma la loro insistenza mi insospettiva. Per ottenere una risposta, avevano cercato di mettermi con le spalle al muro tirando fuori l'esempio di Fidel Castro e io ancora una volta avevo dirottato il
discorso su Guantanamo, le torture in quel carcere dove erano rinchiusi i taleban o sospetti terroristi. Proprio a Guantanamo, il direttore del carcere, il generale Geoffrey Miller, aveva sperimentato il modello di torture che avrebbe poi esportato ad Abu Ghraib. Alla fine, non potendo più sfuggire all'insistenza -"sei shiyooi, sei shiyooi..." -avevo cercato di spiegare loro che si può essere comunisti e cristiani o comunisti e musulmani. Ma Hsien, uscendo dal suo solito riserbo, aveva sentenziato: "No, i comunisti sono senza dio". Questo mi aveva fatto riflettere: effettivamente "senza dio". Durante il sequestro mi è capitato di pensare ad amici atei come me ma che poi, di fronte a una situazione particolarmente difficile, a una perdita grave, avevano sentito il bisogno di cercare un punto di riferimento trascendentale. Io, nonostante le difficoltà, il rischio di essere uccisa, non ho mai sentito il bisogno di pregare, di trovare un dio cui rivolgermi, la mia ossessione era piuttosto quella di mantenermi legata alla realtà terrena. E invece, tornata a casa, tra le persone che hanno sofferto per il mio rapimento, che si sono mobilitate, che mi hanno scritto, o che ho incontrato casualmente, sono molte quelle che mi hanno detto di aver cercato un conforto, una speranza nella preghiera. "Abbiamo pregato tanto per te," mi sento spesso ripetere. Mentre io pensavo che se non avessi trovato la fede in questa drammatica vicenda forse non l'avrei trovata mai più. Chissà! Così, forse è per confermare le mie convinzioni, o per sconfessare la mia immagine di "miscredente" che una sera ho ceduto alle pressioni dei miei carcerieri: ho recitato una preghiera del Corano, ripetendo le loro parole. Innanzitutto hanno assunto la posizione dei fedeli sunniti -diversa dagli sciiti -durante la preghiera, e quando gliel'ho fatto notare, hanno apprezzato la mia conoscenza. Quella volta sì, per pregare, mi hanno fatto coprire il capo con la mia sciarpa nera. Ma per essere una buona musulmana, avevano aggiunto alla fine della recitazione, avrei dovuto coprirmi tutto il viso, lasciando scoperti solo gli occhi, come le donne wahabite. Proprio come le profughe di Falluja che si coprivano integralmente il corpo per compiacere lo sheikh Hussein. Ma visto il mio carattere ribelle avevano concluso che nemmeno quella foggia serviva a rendermi più sottomessa, come i religiosi fondamentalisti vogliono che sia la donna musulmana, anzi, secondo Abbas, mi sarei trovata meglio nei panni di combattente: anche i mujaheddin si nascondono sotto una kefiah o un panno nero. Ero invece riuscita a sottrarmi a una foto in foggia islamica sostenendo che la religione è una cosa seria e non ci si può scherzare. Temevo naturalmente per 1 utilizzo che avrebbero potuto fare di una mia foto (ero sem-Pre molto diffidente e ne avevo tutti i motivi). La prigionia mi faceva sentire la cappa della religione stentata dai rapitori ancora più opprimente. Forse perché l’azione -a partire dai compagni del "manifesto" e dalle donne che condividono questo mio impegno contro il fondamentalismo -era dunque di evitare di metterlo in evidenza anche se nell'epoca di Internet il compito risulta assai arduo. Comunque, su questo sono stati molto attenti anche amici e giornalisti arabi e soprattutto le associazioni di donne algerine, ben consapevoli del rischio che potevo correre Per fortuna almeno questo rischio l'ho evitato, i miei rapitori non erano salafiti, nonostante l'ostentazione di religiosità, dovuta forse più al fatto che l'isiam in Iraq sta diventando un elemento unificante nella lotta contro l'occupazione e l'Occidente. Reislamizzazione Venuto meno l'appeal del nazionalismo, si ricorre alla religione come elemento d'identità, e l'Iraq è stato in questo preceduto da altri paesi arabi, come l'Algeria. Il processo di islamizzazione di un paese laico, qual era l'Iraq governato dal partito Baath d'ispirazione vagamente socialista, era del resto già iniziato dopo la
Prima guerra del Golfo. Anche se la "conversione" di Saddam Hussein probabilmente rispondeva più allanecessità di garantirsi il sostegno delle masse arabe che a una fede improvvisamente trovata. È infatti dopo il 1991 che si cominciano a sentire per le strade i richiami dei muezzin, che si osserva ufficialmente il Ramadan, che l'alcool viene venduto in appositi negozi ma non può più essere consumato in pubblico, nemmeno negli alberghi frequentati da stranieri. Un'islamizzazione appariscente, persino volgare come quella mostrata dalla moschea Um al Mariq, poi ribattezzata al Qura, che rappresenta, come dice il nome stesso, la "madre di tutte le battaglie" e che fa sfoggio di minareti a forma di missili scud e di kalashnikov e affonda la base in un lago con la forma della nazione araba. Accanto una sorta di tabernacolo, all'interno del quale sarebbe custodita una copia del Corano scritta -si dice -con il sangue del raìs, che comunque non sono mai riuscita a vedere -così come molti altri che hanno cercato di farlo -perché tutte le volte che ci ho provato o non c'era il guardiano oppure erano in corso lavori di manutenzione. Baghdad era piena di monumentali moschee in costruzione quando è iniziata la guerra. Una di queste, sul terreno recuperato da un ex aeroporto, avrebbe dovuto essere la più grande del mondo, per esaltare le manie di grandezza di Saddam Hussein che l'avrebbe battezzata con il suo stesso nome, come quasi tutte le costruzioni monumentali in Iraq. E nessuno ha osato togliere le altissime gru impegnate nei lavori. Uno sfregio per i milioni di iracheni che soffrivano gli effetti più disastrosi dell'embargo. Uno sfoggio di simboli religiosi speculare alla crociata di Bush che fa una guerra per "esportare la democrazia", ma che nella realtà si traduce nell'imposizione di un regime teocratico. Il vuoto di potere provocato dall'abbattimento cruento del raìs è stato infatti riempito solo da quelle forze che, anche negli anni bui del regime sanguinario di Saddam, avevano mantenuto con la rete delle moschee una propria organizzazione. Non solo quindi luogo di preghiera e reclutamento ma anche di finanziamento: le moschee
sunnite erano sostenute da Saddam, mentre quelle delle città sante sciite godono tuttora di notevoli introiti provenienti da tutti i pellegrini, iracheni e no. Occorre aggiungere che a rafforzare il potere sciita contribuisce anche una gerarchla riconosciuta del clero, i cui massimi rappresentanti sono riuniti nella Hawza, una sorta di Vaticano sciita. Il capo attuale è l'autorevole grande ayatollah Ali al Sistani che esercita il suo potere anche in campo politico. Un impegno che alla fine potrebbe persino minarne l'autorevolezza in campo religioso. Poco gradita, tanto da essere costretto a smentirla, era stata la fatwa emessa dall'ayatollah all'inizio dell'invasione, con cui invitava gli iracheni a non combattere gli americani. Al di là di questo incidente, fin dall'indomani della caduta di Saddam, la Hawza ha sguinzagliato ovunque i pro-Pri mullah per garantirsi il controllo del territorio, prima ancora che rientrassero in Iraq dall'esilio i rappresentanti dei maggiori partiti religiosi sciiti, il Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (Sciiri) e il Dawa. Gli americani, il 9 aprile del 2003, non avevano ancora occupato Baghdad -i carri armati provenienti da Najaf erano fermi sul Tigri in attesa della colonna proveniente da al Kut -ma sia i militari sia i funzionari dell'ex regime si erano già dileguati e la città era preda dei saccheggiatori. Queste bande hanno continuato ad agire indisturbate mentre i carri armati prendevano possesso della capitale. Non si trattava dell'assalto ai forni di una popolazione affamata, ma di una vendetta che aveva ulteriormente umiliato il popolo iracheno, quello deciso a difendere la propria dignità. I primi a scendere per strada per riportare l'ordine, subito dopo l'arrivo degli americani, sono stati proprio i mullah. Andando verso quella che allora era ancora Saddam City e poi sarebbe diventata Sadr City a un semaforo, di fronte a una moschea, uomini armati fermavano le auto sospette sparando in aria, perquisivano i veicoli, recuperavano la refurtiva, auto comprese, la depositavano in un magazzino della moschea e arrestavano i responsabili dei furti più gravi. Subito mi era apparsa come una sorta di polizia religiosa. La conferma è giunta poco dopo, quando ho incontrato il loro capo, un mullah mandato dalla Hawza. Il saccheggio che aveva devastato ministeri, grandi magazzini, posti di polizia, uffici vari, non aveva risparmiato nemmeno gli ospedali, dove erano stati portati via macchinari, perfino vecchie incubatrici e letti. Quando sono arrivata ad al Kindi, uno dei maggiori ospedali della città, la situazione era desolante. Ora, che non c'era più nulla da saccheggiare, sull'angolo della strada era comparso persino un carro armato americano. Inutilmente, il personale sanitario aveva chiesto aiuto ai marine. Gli ammalati erano stati costretti a tornare a casa, quelli che ce l'avevano fatta, gli altri non avrebbero più avuto bisogno di cure. Qui erano ricoverate anche le vittime civili della guerra. Poi i medici si erano rivolti alle autorità religiose. L'ospedale era ora nelle mani di due mullah, uno sunnita e l'altro sciita, che cercavano di recupe" rare la refurtiva e il personale. Per garantire la sicurezza avevano schierato quelle che sarebbero poi diventate le milizie religiose. Hanno rimesso in piedi l'ospedale e imposto il rigore islamico. E un giorno una mia conoscente, presentatasi per far ricoverare il padre, ha rischiato di non poterlo far curare perché non indossava il velo. Solo la sua ostinazione ha imposto al mullah di turno il ricovero. In un primo tempo, tuttavia, a supplire alla devastazione degli ospedali erano state le moschee, grazie anche alle medicine intercettate ai saccheggiatori. Cominciava così dal basso la costruzione del potere e dell'ordine religioso. La polizia religiosa catturava saccheggiatori e criminali che venivano processati e puniti, secondo i dettami della sharia. Il passo successivo sarebbe stato la caccia agli esponenti del passato regime. Nello stesso tempo, la Hawza ha impedito che le forze militari entrassero nelle città sante, rimaste così
sempre sotto il controllo delle autorità religiose. Tranne quando le truppe Usa sono arrivate fin nel cuore di Najaf per dare la caccia ai seguaci di Muqtada al Sadr, contro il quale era stato emesso un mandato di cattura per l'uccisione di Abd al Khoi, figlio del famoso ayatollah Abdul Qasem, accoltellato a morte nella moschea, il 10 aprile 2003, poco dopo il suo rientro dall'esilio al seguito delle truppe americane. Allora i cannoni americani non avevano rispettato nemmeno i luoghi più sacri: il mausoleo dell'imam Ali e il grande cimitero della città, dove si fanno seppellire molti sciiti per essere più vicini al loro capostipite. Scontri sanguinosi che erano terminati con la mediazione di al Sista-ni, che ha così potuto riprendere il controllo della città. Fino ad arrivare nelle elezioni del 2005 a controllare il governo, dopo aver sponsorizzato (anche con una fatwa) la lista elettorale confessionale vincente. I risultati si sono visti subito. L'unico a sfidare il massimo leader religioso sciita è Muqtada al Sadr, che deve la sua popolarità alla fama del padre, Mohammed Sadeq, assassinato a Najaf nel 1999. ^ giovane e facinoroso Muqtada ha stabilito le proprie roc-caforti a Kufa, vicino a Najaf, e a Sadr City, l'enorme agglomerato sciita di Baghdad, già Saddam City, che ora ha preso il nome del venerato ayatollah, anche se i rivali di Muqtada preferiscono il nome originale di al Thawra (la rivoluzione). Ma nemmeno Muqtada, che con i suoi discorsi infuocati arringa le piazze, ha potuto evitare, in alcuni casi, di piegarsi al volere di al Sistani, come nelle elezioni del 30 gennaio 2005 in cui non ha votato ma ha dato indicazioni ai suoi fedeli di votare e ha piazzato suoi esponenti in diverse liste. E così molti dei suoi seguaci, compresi esponenti del Jaish al Mahdi, la milizia che ha spesso impegnato in scontri sanguinosi gli occupanti americani, sono andati ai seggi. L'altra faccia di questa influenza religiosa, è l'imposizione nel sud sciita della sharia, nella versione più vicina al modello iraniano. L'influenza iraniana è molto forte, non solo perché al Sistani è iraniano, ma perché filoiraniani sono i partiti religiosi sciiti -il Consiglio superiore per la rivoluzione islamica e il Dawa -in esilio a Teheran durante il regime di Saddam.
Anche Muqtada al Sadr, che è sempre rimasto in Iraq, ha i suoi riferimenti religiosi in Iran, a Qom. E la sua sede a Kerbala, come quelle degli altri partiti religiosi sciiti, è sempre frequentata da "consiglieri" iraniani. I pasdaran sono ormai di casa in Iraq. Anche se al Sistani, espressione della linea "quietista", non è un sostenitore della teoria dell'ayatollah Khomeini -elaborata proprio a Najaf -al velayat e faqih (supremazia del religioso), e non vuole infatti che il potere sia esercitato direttamente dai mullah. Il "quietismo" di al Sistani non significa rifiuto della politica ma salvaguardia del religioso: la religione può contaminare la politica ma non viceversa. Nonostante la forte influenza, nella costituzione varata nell'agosto 2005, Sistani non è riuscito a imporre lo stato islamico e quindi nemmeno la shar'ia come unica legge, anche se comunque l'isiam rappresenta la nuova identità dell'Iraq e diventa religione di stato. Le porte sono comunque aperte, basta avere pazienza e l'anziano leader (è nato a Mashad nel 1930 e ha studiato a Qom prima di trasferirsi a Najaf) ha già dimostrato di averne. E soprattutto quello che non è ancora riuscito a ottenere nella "green zone", la zona verde dove si trova il governo iracheno oltre ai protettori americani, l'ha già ottenuto sul terreno. L'influenza religiosa si è rafforzata anche in campo sun-nita, sebbene l'organizzazione più trasversale non riconosca una gerarchia del clero, e non vi sia quindi una personalità rappresentativa come l'ayatollah Ali al Sistani. Tuttavia, l'isiam è diventato in molti casi il collante delle forze eterogenee che si oppongono alla crociata di Bush. E il Consiglio degli ulema, che raccoglie i religiosi sunniti più rappresentativi, diventa il punto di riferimento per far passare indicazioni politiche -soprattutto attraverso i sermoni della preghiera del venerdì -per fare da mediazione nei conflitti e per condannare le "deviazioni" della resistenza. Se i conservatori sciiti sono ispirati dal modello iraniano, i fondamentalisti sunniti si rifanno alla scuola wahabi-ta saudita, che già da alcuni anni aveva inviato propri emis-sari in Iraq per fare proselitismo in alcune zone di osservanza sunnita come Mosul e Falluja. Una sorta di "reisla-mizzazione" che faceva leva sui settori più conservatori e ancora sotto il controllo tribale. Potere tribale e conservatorismo religioso andranno ad alimentare anche una parte della resistenza in zone come Falluja, pur senza arrivare all'estremizzazione del jihad (guerra santa) propugnata dai terroristi di Al Qaeda, che in Iraq sarebbero guidati dal giordano Mussab al Zarqawi. La resistenza ha nelle moschee un luogo di raduno e di propaganda. Tuttavia, l'estremizzazione wahabita, anziché unire, divide la resistenza e in alcuni casi spaventa la popolazione con le sue imposizioni e fustigazioni di giovani che bevono birra o ascoltano musica. Anche se la sorte peggiore tocca sempre alle donne, sia in campo sunnita che sciita. L'ordine religioso e lo spauracchio di una repubblica islamica spaventano i laici e i cristiani, e molti tra questi hanno già abbandonato il paese. Le donne che non portalo il Ve]o islamico sono minacciate e spesso non escono di Casa per paura di essere "acidificate". I bambini cristiani sono intimoriti a scuola. Anche le chiese paiono meno frequentate dopo gli attentati subiti. Sono quarantamila i cristiani -su un totale di circa settecentocinquantamila (3 percento della popolazione), la maggior parte di rito caldeo, cattolici orientali senza legami con Roma ma che rispettano il papa -che hanno abbandonato l'Iraq in sole due settimane dopo gli attentati contro le chiese dell'agosto 2004, secondo i dati dell'allora ministro delle Migrazioni, Pascale Warda. La maggior parte dei cristiani in fuga si è rifugiata in Siria e Giordania, in attesa di tempi migliori, ma chi può raggiunge i parenti in Australia o in Svezia, dove da tempo si sono stanziate comunità irachene. Non sono nuove le persecuzioni verso i cristiani in Mesopotamia, ma il regime sanguinario di Saddam aveva mostrato tolleranza nei confronti dei cristiani che avevano garantito il diritto di culto anche se non di proselitismo.
Oggi il proselitismo cristiano è un'accusa spesso associata a quella di spia a favore degli americani. Si tratta di un'imputazione spesse volte non infondata: sono molte le sette americane arrivate in Iraq, con molti soldi, sotto la copertura di Ong, che in cambio della conversione promettono agli iracheni aiuti e soprattutto il miraggio di un visto per gli Stati Uniti. Un altro dei tanti paradossi iracheni: uno fra i più laici tra i paesi arabi è caduto ora nelle mani dei partiti e delle milizie religiose. 7. Donne Mi sono sempre sentita a disagio quando sono stata costretta a vivere con soli uomini. Eppure mi è capitato spesso viaggiando in paesi arabi e musulmani: bar con soli uomini, strade invase da giovani appoggiati al muro (gli hit-tistes) come negli anni bui dell'Algeria, oppure uomini per le strade di Kabul affiancati, o meglio seguiti, da donne che sembrano fantasmi nascoste sotto i loro burqa, autobus con entrate separate per uomini e donne, come in Iran. Società mutilate. L'Iraq non lo era prima, ma rischia di diventarlo, anzi, lo sta già diventando. Quando mi sono ritrovata chiusa nella mia stanza-prigione controllata da due guardiani maschi, la mia mente è riandata a Kabul, nel maggio del 1998, ai tempi dei tale-ban. Allora mi era capitato di essere l'unica ospite e l'unica donna nell'Hotel Intercontinental, del cui fasto del passato rimanevano ben pochi segni, mentre gli scontri -non ancora terminati -tra gli "studenti di teologia", che controllavano la capitale, e i mujaheddin tagiki, che attaccavano dal Nord, avevano aperto ampi squarci nelle pareti. La notte ero veramente terrorizzata: sentivo voci maschili rincorrersi per i corridoi bui, lo sbattere di porte, il trillo di
qualche campanello, proprio come in un film dell'orrore. Non mi restava che guardare dalla finestra dell'hotel, che si trova su una collina che divide in due la città, le po-Cne e fioche luci in lontananza, dopo aver ammassato le scarse supellettili contro la porta della stanza. Poi l'attesa dell'alba, sperando che non succedesse nulla, perché nessuno avrebbe potuto intervenire in mio aiuto. I telefoni non funzionavano e con la ricetrasmittente prestatami dai funzionari del Programma alimentare mondiale non avrei potuto fare granché, poco esperta del suo funzionamento com'ero. Terrore, solitudine, ma quello che mi mancava di più, mi ero resa contro allora, era la complicità di una donna. Che non avrei potuto trovare, perché i taleban impedivano alle donne di lavorare e non potevano certo frequentare l'albergo riservato agli stranieri. Gli uomini sì, anzi, i taleban vi tenevano spesso le loro riunioni e mangiavano al ristorante, mentre io venivo nascosta dietro un paravento. L'Iraq non è l'Afghanistan dei taleban, ma la mia era una prigione. Tuttavia una differenza c'era tra il terrore di Kabul e quello di Baghdad, nonostante fossi prigioniera, quindi completamente nelle mani dei miei sequestra-tori, non ho mai temuto violenze sessuali. Per la verità non ho mai subito nemmeno violenze fisiche: non sono stata nemmeno mai legata o bendata, tranne che al momento del rilascio. Comunque, pensavo che la presenza di una donna sarebbe stata rassicurante per me. Ma era proprio quello che i miei sequestratori non volevano: rassicurarmi. La complicità di una donna i miei carcerieri sono però stati costretti a concedermela qualche giorno dopo il sequestro, quando ho sbattuto violentemente alla porta urlando: "Sto male, chiamate una donna, ho un problema di donne". E così dopo un po' una donna è venuta a informarsi per poi mandarmi l'occorrente, insieme ai vestiti e a qualche medicina, uno shampoo, un pettine, uno spazzolino per i denti, mentre per il dentifricio avrei dovuto aspettare settimane, e persino una crema idratante perché la pelle al chiuso e al buio si squamava. Una donna è venuta, l'ho sentita, le ho parlato, ma non l'ho vista, coperta com'era di veli. "Chiamami come vuoi," mi ha detto. "Karima?" Forse. Nemmeno la certezza di un nome inventato. Non riuscivo a dare un nome a un fantasma di cui non si vedevano nemmeno le mani infilate in lunghi guanti. Aveva intuito il mio disagio di donna costretta a vivere con soli maschi, ne aveva accennato, ma non era stata tenera nei miei confronti. Forse era la sua concretezza di donna, oppure la sua condizione a me sconosciuta, eppure sotto quel drappo nero intuivo una donna molto forte, volitiva, istruita -parlava correntemente arabo, inglese e francese -e molto arguta. Possibile che quello fosse il suo abito? Non potevo crederci anche se lo portava con una certa disinvoltura ed eleganza, quasi ci fosse abituata. Ma non era sottomessa come l'abito avrebbe potuto far credere, ne ero quasi sicura. Avrei cercato altre volte la sua complicità, nonostante la sua durezza, ma raramente mi sarebbe stata concessa. Anche perché quando chiedevo della donna, i miei guardiani si spaventavano, come se la temessero. Oppure temevano qualcos'altro che non riuscivo a capire? Come se ritenessero le donne pericolose, chissà se temevano anche me. A volte m'illudevo, soprattutto quando si mostravano felici all'idea che si avvicinasse il momento della mia liberazione. E anche quando Abbas m'intimava di piangere: "Perché non piangi?". In effetti ero io stessa a meravigliarmi, normalmente piango per ogni sciocchezza e invece da sequestrata mi sono venute le lacrime agli occhi solo quando, nel primo video, i miei sequestratori mi hanno detto di rivolgermi al mio compagno: erano lacrime di rabbia, soprattutto, e di emozione. Stavo sovraccaricando Pier del peso della mia liberazione, come se tutto dipendesse da lui. Non avrei voluto farlo, ma non avevo scelta. E se poi non mi avessero liberata? Era anche la prima volta -e temevo potesse essere anche l'ultima -che mi rivolgevo a lui dopo quel maledetto 4 febbraio. Prima ci sentivamo tutti i
giorni, con lui condividevo i risultati del mio lavoro, successi e insuccessi, problemi quotidiani e timori. Ora mi sentivo tremendamente sola. E poi mi luccicavano gli occhi anche quando parlavo stella mia famiglia, avevo un grande senso di colpa nei confronti dei miei genitori. Sono anziani, come avrebbero sopportato tutto questo? E siccome non gli davo la soddisfazione di piangere, Abbas mi diceva: "Pensa alla tua famiglia". Era per puro sadismo? Perché voleva esaltare le mie debolezze? Comunque non ci riusciva e di fronte alla mia fermezza concludeva: "Piangere ti aiuterebbe a sfogarti, dopo riusciresti anche a dormire". Forse aveva perfino ragione, ma io non piangevo e non avrei mai pianto. Fino al mio ritorno. Ora ho ricominciato a piangere, eccessivamente, forse sono le lacrime accumulate allora. La donna invece era diretta, al limite della crudeltà. Quando uno dei rapitori mi aveva detto: "Ti do la mia parola, non ti uccideremo", lei aveva aggiunto, "non hanno ancora deciso, comunque se ti ha dato la parola...". Ma poi mi aveva chiesto quale fosse il mio colore preferito per comprarmi gli abiti che avrei indossato durante la prigionia, come se il colore potesse alleviare l'incubo. Il mio colore preferito è il verde, ma in quel contesto non l'avrei mai detto e poi in quel momento preferivo il nero, era più appropriato. Non ho potuto avere uno scambio come avrei voluto con quella donna invisibile e presente solo in momenti particolari, di emergenza. Non è stato possibile. M'incuriosiva una donna così forte sotto abiti di sottomissione totale. E quando, al momento del mio rilascio, avevo chiesto abiti simili per mimetizzarmi nel caso gli americani ci avessero fermati per la strada, mi erano stati negati. Io dovevo essere quella che sono, solo loro potevano travestirsi, simulare, per non essere riconosciuti. Comunque, in qualche modo per me quella donna ha rappresentato una sfida, avvertivo la sua dignità, che gli abiti ingombranti non potevano nascondere, e questo mi stimolava a difendere la mia e ci sono riuscita. Nonostante i veli che annullavano le forme del suo corpo, mi stimolava a curare il mio. "Muoviti, altrimenti
non riuscirai nemmeno più a camminare quando dovrai andartene." Così avevo cominciato a fare ginnastica. "Come sei dimagrita, sei troppo magra," diceva. Io, che non avevo specchi, intuivo il dimagrimento solo quando mi reinfilavo i jeans per lavare il pigiama, oppure, qualche volta, di nascosto, per sentirmi di nuovo nei miei panni, per recuperare un po' di me stessa. Nel cercare di decifrare quella donna pensavo a tutte le donne incontrate durante i miei viaggi passati: alle algerine che per non assoggettarsi ai diktat islamisti hanno rischiato la vita, alle afghane che hanno tanto introiettato, negli anni dei taleban ma anche dei mujaheddin, la convinzione che la loro sicurezza è garantita dal burqa, da non riuscire a liberarsene. Pensavo soprattutto alle molte donne irachene incontrate durante i miei numerosi viaggi in Iraq: a Fawzia, che è stata perseguitata tutta la vita perché comunista, ma non ha mai lasciato l'Iraq dove ha passato, come il marito, molto tempo in prigione. A Khalifa Zakya, attrice di teatro risparmiata da Saddam forse solo per la sua popolarità, anche se incarcerata, che ora si dedica al lavoro umanitario a favore delle donne e degli orfani. A Uni Nidal, militante della prima ora della storica Lega delle donne irachene, la prima organizzazione femminile, che risale agli anni cinquanta, ai tempi della monarchia. Um Nidal con la sua chioma ormai bianca, la ritrovo sempre nella "nuova" sede della Lega -un ex centro di reclutamento militare disastrato -ricostituita dopo il ritorno delle militanti dall'estero o dal Kurdistan, dove anche lei si era rifugiata ai tempi di Saddam. A Mithal, con i suoi grandi occhi verdi, che ha subito le torture nel carcere di Abu Ghraib dove è stata rinchiusa per ottanta giorni e che avevo rivisto due giorni prima del mio rapimento. È l'unica ex prigioniera del famigerato carcere a raccontare la sua esperienza: essere passata per un carcere americano, avendo subito violenze sessuali, è una colpa indelebile, la vita di queste donne è segnata per sempre e persino quella delle loro figlie. Rilasciate da Abu Ghraib alcune donne sisono suicidate, altre sono state uccise. È difficile avere dati precisi su questo fenomeno, nessuno ne vuole parlare, è tabù. Pensavo anche a Yanar Mohammed, una donna laica, presidente dell'Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq (Owfi); minacciata di morte da gruppi islamisti. Delitti d'onore Dall'inizio dell'occupazione si è registrato un aumento delle violenze domestiche e soprattutto dei delitti d'onore, già diffusi ai tempi di Saddam, come risulta dall'ufficio legale dell'obitorio di Baghdad. "Uccisa per lavare la sua disgrazia," si legge in molti dei certificati di autopsia compilati da Faeq Ameen Bakr, direttore generale dell'Istituto di medicina forense di Baghdad. Si tratta dei casi in cui le donne vengono uccise dalla propria famiglia -su indicazione di leader religiosi o tribali che hanno sostituito nel frattempo la giustizia dei tribunali -per lavare l'onore. "Sono aumentati dopo la caduta di Saddam," sostiene il dottor Bakr, anche se, aggiunge, "è difficile verificarne il numero perché spesso questi delitti vengono nascosti." I motivi sono diversi: la donna rifiuta il matrimonio con l'uomo scelto dalla famiglia, oppure ne sposa uno non gradito, resta incinta o ancora viene stuprata (quattrocento sono le donne violentate nei primi quattro mesi di occupazione, secondo l'Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq). Del resto il "delitto d'onore" è praticamente impunito: il responsabile viene perseguito dalla legge solo se si autodenuncia e anche in questo caso la pena non può andare oltre i tre anni, anche se in genere non supera i sei mesi. Non solo di delitti d'onore si tratta. Rabiah, una donna sui qua-rant'anni, ha paura a uscire di casa. Quando era più giovane lavorava in un ministero, poi, siccome lo stipendio era così basso da non coprire nemmeno le spese per la baby-sitter che curava i suoi due figli, si era licenziata. Cresciuti i figli, si era di nuovo iscritta all'università per ottenere un diploma di interpretariato: voleva cambiare lavoro. Lo stava cercando quando è
iniziata la guerra. Lei, contrariamente a tutta la sua famiglia, non ha mai lasciato il paese pensando che il suo posto fosse qui, ma ora il disastro provocato dall'occupazione la preoccupa seriamente. Si rifiuta di portare il velo, come vorrebbero gli islamisti, ma soprattutto è terrorizzata dal fatto che la giustizia sia ormai nelle mani di religiosi e tribali. Rabiah non esce più di casa da sola -si fa accompagnare dal marito o da uno dei figli -perché se dovesse capitarle un incidente di macchina, secondo un'usanza tribale tornata in vigore, la parte offesa come risarcimento potrebbe chiedere la donna, per usarla a piacimento. Quanto durerà? "Ci vorranno decenni. E pensare che prima della guerra dicevamo 'che inizi purché finisca'," sostiene rassegnata Rabiah, incontrata in un quartiere residenziale di Baghdad. Il clima è peggiorato anche nelle università: i campus sono finiti sotto il controllo di organizzazioni islamiste che rivendicano la separazione dei sessi nelle varie facoltà, controllano l'abbigliamento -le ragazze non possono più portare i pantaloni e l'uso del velo è obbligatorio -e il comportamento degli studenti con le minacce. Che non restano verbali. Risultato? Ci sono sempre meno donne per le strade di Baghdad. Non solo sono meno numerose, ma anche meno visibili: scivolano via nelle loro gonne lunghe, quasi tutte velate, come per non farsi notare. Per sentirle parlare, animarsi, occorre andare al mercato o in un grande magazzino, confondersi con loro davanti a una vetrina di cosmetici e ritrovare una complicità tutta femminile, o accalcarsi a una bancarella di frutta dove si lamentano per i prezzi sempre più alti. I mariti le stanno sempre più sostituendo anche in questo impegno quotidiano. Non è però un sollievo: spesso fare la spesa rappresenta l'unico pretesto per uscire di casa. Anche se alcune donne sono scomparse proprio andando al mercato. Il lavoro non si trova, anche le donne che l'avevano l'hanno perso, persino il ritiro delle organizzazioni non governative le ha penalizzate. Le guerre e l'occupazione hanno provocato una regressione culturale che i movimenti islamisti alimentano imponendo i precetti religiosi: le donne è meglio
che stiano a casa e lascino il lavoro agli uomini, visto che ce n'è poco, e, comunque, se escono devono velarsi. "Le donne hanno due Scelte: affrontare le minacce di strupro ed essere poi ucci-Se dalla famiglia, o la reclusione in casa," sostiene Amai al Mi, militante per i diritti delle donne. La sicurezza che tutti invocano in Iraq per le donne vuoi dire protezione contro la violenza dell'occupazione, del terrorismo, i soprusi, i rapimenti e gli stupri. Ma come proteggere le donne che ogni giorno vengono picchiate, seviziate, stuprate tra le mura domestiche? L'Owfi, l'Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq -costituita nel 1993 a Sulaimaniya (Kurdistan) -dopo la caduta di Sad-dam ha esteso la sua attività in tutto il paese. Nell'estate del 2004 ha fondato a Baghdad la prima casa per donne che hanno subito violenze o che rischiano il "delitto d'onore". Il rifugio è segreto, sono due stanze e una cucina, dove "attualmente vivono otto donne", mi aveva raccontato Hadil Jawad, incontrata alla vigilia del mio rapimento nella sede dell'organizzazione, una piccola costruzione con giardino, controllata da guardie armate, nel centro dellacapitale. È Hadil, con il suo sorriso aperto e rassicurante, ad accogliere le giovani donne in cerca di aiuto. Dall'aspetto solare, poco più che trentenne, non si direbbe che anche lei sia passata per quell'orribile esperienza: è stata una delle prime ospiti di una casa-rifugio quando era capitata a Sulaimaniya, sfuggendo al padre che voleva ucciderla. Era fuggita da Baghdad nel 1993 con il suo innamorato, ma la sua non è stata un'avventura romantica. "Vengo da una famiglia tradizionale che non può tollerare che una donna possa scegliere un marito per amore. Avevo diciassette anni quando mi innamorai del mio vicino di casa. La nostra storia andava avanti da quattro anni, ma la mia famiglia non accettava che io lo sposassi, anche perché io sono sunnita e lui sciita. Quando mio padre si è reso conto che ero decisa a sposarlo ha cominciato a picchiarmi, a chiudermi in casa, cercando anche di farmi sposare un cugino. Non ci restava altra strada che la fuga: ci siamo sposati e poi siamo scappati verso Nord, prima a Kirkuk e poi a Sulaimaniya, perché mio padre minacciava di uccidermi e non trovandomi ha minacciato anche il padre di mio marito." Hadil è tornata nella sua città quando l'Owfi ha aperto una sede a Baghdad. "Ora lo rifaresti?" le avevo chiesto. "Certamente lo rifarei, sono felice, ho anche una bambina di tre anni, ma mi dispiace per le conseguenze subite dalle mie sorelle: dopo la mia fuga la più grande è stata lasciata dal marito, un'altra è stata costretta a sposare un uomo anziano e la più piccola ha dovuto abbandonare la scuola." Hadil sorride ma ogni volta che esce per strada è terrorizzata all'idea che qualcuno la possa riconoscere. "Ma non si può vivere recluse per tutta la vita," sospira. Dietro il suo sorriso si nascondono molti segreti, non solo i suoi, anche quelli delle donne che si rivolgono a lei grazie agli annunci pubblicati sul giornale dell'organizzazione, "Al Mousawat" (l'uguaglianza). Stupri dell'occupazione Altre vite spezzate, come quella di Liqa, ventisei anni, ora ricoverata per disturbi mentali. Lei non riesce nemmeno a parlare, ma accetta che sia Hadil a raccontarmi la sua tragica esperienza, vuole che sia resa nota. Perché Liqa è andata, rischiando, anche nella "zona verde", dove si trova il comando americano, per avere giustizia, ma senza ottenerla. Ecco la storia. Quando gli americani occupano Baghdad, nell'aprile del 2003, Liqa trova lavoro in un bar della base statunitense installatasi all'aeroporto. Con lei lavoravano altre donne irachene, ma c'era un soldato, di nome Harlow (è quello che si ricorda), che la seguiva sempre, soprattutto quando andava in bagno. Lei cercava di evitarlo, ma inutilmente. Un giorno il soldato le ha offerto una bibita. "Non c'era nulla di male nell'accettarla, e poi era sconveniente rifiutare." Ma nella bibita c'era della droga, si è sentita male e quando si è ripresa ha scoperto di essere stata stuprata. Il violentatore era
senza dubbio Harlow che per di più se ne vantava con gli altri commilitoni. Liqa, disperata e in collera, aveva denunciato la violenza subita al colonnello, che le Promise di prendere provvedimenti. Lei s'illudeva che avrebbe costretto Harlow a sposarla, unico risarcimento possibile in una società come quella irachena, non era più vergine e non avrebbe trovato un altro marito. Ma il prowedimento a cui pensava il colonnello era un altro: il soldato dopo qualche giorno è sparito, probabilmente rimpatriato, e con la sua partenza è venuta meno anche ogni speranza di risarcimento. Resasi conto, aveva urlato contro il colonnello che l'aveva sbattuta fuori dalla base. Disperata senza più T'onore" e il lavoro e senza nemmeno poter tornare a casa, perché se la sua famiglia avesse saputo l'avrebbe uccisa, si era rivolta all'associazione di Hadil. Qui le hanno trovato un avvocato per permettere a Liqa di denunciare lo stupro presso l'Autorità provvisoria della coalizione (Cpa) che, all'inizio del 2004, ancora esisteva (è stata sciolta nel giugno dello stesso anno). Liqa si era fatta forza, era entrata nella fortezza americana, nel Convention Centre che si trova nella "Green Zone", dove aveva subito anche una visita ginecologica. Alla fine il medico aveva sentenziato che non era più vergine ma che non c'erano tracce dello stupro. La sua pratica era stata affidata a una donna irachena, Shakla, che lavorava con gli americani proprio per i risarcimenti dei danni provocati dalle truppe occupanti. Ma un bel giorno è sparita anche Shakla e da allora la donna è caduta in una forte depressione. Liqa non è stata l'unica vittima di stupro, la sua amica Intisar che lavorava con lei allo spaccio, era stata stuprata dallo stesso soldato, ma non aveva avuto il coraggio di denunciarlo, continuando ad andare alla base. Si è incontrata qualche volta con Liqa, poi non se ne è saputo più nulla. Solo dopo la mia liberazione, da un articolo pubblicato dal quotidiano britannico "The Guardian" (l'8 marzo 2005) avrei saputo che soldati della terza brigata di fanteria, la stessa unità che ha sparato contro la macchina su cui viaggiavo insieme a Calipari e all'altro agente del Sismi, erano stati messi sotto inchiesta,
l'anno prima, per lo stupro di donne irachene. Queste denunce erano contenute in documenti (milleduecento pagine) che il quotidiano britannico aveva ottenuto dall'American Civil Liberties Union. Sotto inchiesta erano quattro soldati accusati di aver stuprato due donne irachene mentre erano di guardia allo spaccio! Erano stati interrogati molti soldati, ma non le donne. "So che le donne erano irachene. Ma non so se sono state stuprate, o erano prostitute o volevano solo fare sesso," aveva risposto agli investigatori un soldato. Così, alla fine, l'inchiesta era stata chiusa per mancanza di prove. Anche in altri casi di violenze sessuali i soldati non hanno mai subito condanne. Una brutta fine avevano fatto anche due giovani sorelle -di quattordici e quindici anni -di una famiglia estremamente povera che frequentavano i soldati americani installati nella ex sede del partito Baath a Sowera, un centro agricolo a una settantina di chilometri a sud di Baghdad, sul Tigri. Una notte, all'inizio di luglio del 2003, le due giovani avevano subito violenze sessuali tali da essere ridotte in fin di vita. Abbandonate in condizioni orribili davanti al vicino ospedale, una era morta e l'altra sparita. Secondo voci che avevo raccolto tramite conoscenze nel villaggio -dove la notizia, trapelata dal personale dell'ospedale, era tabù -quella sopravvissuta sarebbe stata assassinata dai parenti, su istigazione dei capi tribali e religiosi. Donne vittime degli americani, della società conserva-trice e dei fanatici islamisti che dopo la caduta di Saddam dettano legge. A volte le vittime sono giovanissime. Sul retro della sede deH'Owfi si aggira Rana, la più giovane delle donne ospiti dell'organizzazione. Per poter continuare gli studi è stata affidata a una famiglia. Sedici anni, piena di vita, ma tante sofferenze alle spalle, che Rana cerca, senza riuscirci, di celare sotto il suo abbigliamento moderno: jeans, maglietta e berretto dalla larga visiera che appena nasconde il suo trucco. La ragazza viene dal sud dell'Iraq, dove la società è ancora più tradizionalista e con-servatrice. I genitori, deboli, succubi dei figli maschi, non si sono mai presi cura delle femmine, anzi, hanno permesso che una figlia morisse per le botte dei fratelli, che le avevano leso il cervello. Rana non poteva nemmeno andare a scuola. "Non ne potevo più," racconta, "i miei fratelli mi picchiavano sempre, allora ho deciso di scappare di casa. Ho chiesto un passaggio, ma l'autista voleva rapirmi, così ho aperto la portiera e mi sono buttata fuori. Ferita, sono stata portata in una base americana che si trovava lì vicino. Vi sono rimasta due mesi, poi gli americani mi hanno detto che non potevo più restare, la legge irachena non lo permetteva. Un giorno è venuto a trovarmi un religioso, evidentemente mandato da mio fratello, che mi ha costretta a tornare a casa. Secondo uno zio, i miei fratelli avrebbero dovuto uccidermi per quello che avevo fatto. Io stavo male, non parlavo più, volevo suicidarmi, per 'guarirmi' un religioso mi faceva delle bruciature sul corpo, anche in testa." E mi mostra le cicatrici. "Finché un giorno sono riuscita a fuggire di nuovo e sono arrivata fino a Baghdad, avevo conservato l'indirizzo dell'Owfi che avevo trovato sulla rivista 'Al Mousawat'." Rana racconta che i fratelli appartengono a un gruppo di islamisti formato da iraniani, che sta facendo proseliti nel Sud. Ma non ha voluto aggiungere altro, per paura. La sua apparente spavalderia giovanile non riesce a nascondere la sua insicurezza di fronte a un futuro pieno di incognite. La sharia è già legge L'islamizzazione dell'Iraq e della vita politica, cominciata ancora prima della vittoria alle elezioni del 30 gennaio 2005 della lista confessionale sciita sponsorizzata dall'ayatollah Ali al Sistani, e proseguita con la priorità assegnata all'isiam in quanto fonte imprescindibile della Costituzione stessa, fa temere una pesante riduzione dei diritti delle donne. Saddam Hussein aveva mantenuto in vigore il codice della famiglia del 1959, considerato uno dei più progressisti del mondo arabo-musulmano, pur introducendo recentemente
delle limitazioni come l'obbligo per le donne, al di sotto dei quarantacinque anni, che viaggiano all'estero, di essere accompagnate da un "tutore". Il 29 dicembre 2003, approfittando del suo turno di presidenza del Consiglio governativo, l'ayatollah Abdelaziz al Hakim, lea~ der dello Sciiri, aveva varato la "misura 137" che aboliva il codice della famiglia in vigore sostituendolo con la shar'ia, la legge coranica. Solo un'immediata mobilitazione delle donne, ministre comprese, aveva svelato e bloccato la manovra del leader sciita. La contraddizione nella realtà irachena è che gli americani, che pure hanno sostenuto la presenza (con una quota del 25 percento) delle donne nell'assemblea parlamentare, sono pronti a compromessi sulla legge islamica, aprendo la strada a uno stato teocratico. E in questo caso, ancora una volta, le prime vittime sono le donne. Coscienti del pericolo che corrono, diverse associazioni di donne, in vista del referendum del 15 ottobre 2005, hanno lanciato una campagna contro la costituzione con lo slogan "il nostro voto per i nostri diritti". Già alle elezioni di gennaio, davanti ai seggi elettorali avevamo trovato donne sciite e anche cristiane che votavano l'odiato ex premier Iyad Allawi -considerato l'uomo della Cia -solo perché uomo forte e soprattutto laico, da opporre alla temuta ondata islamista, risultata comunque vincente nel paese con l'eccezione delle zone kurde. Se ne vedono già gli effetti. La sharia è stata imposta dagli uomini del leader sciita radicale, Muqtada al Sadr. Il 28 marzo 2005 durante un picnic nel parco Andalus di Bas-sora, la capitale dell'Iraq del Sud con un milione e mezzo di abitanti, circa quattrocento studenti della facoltà di Ingegneria sono stati presi d'assalto da una trentina d'Islamisti armati di bastoni, coltelli e kalashnikov. Hanno attaccato gli studenti accusandoli di essere "infedeli", ma se la sono presa soprattutto con le ragazze: "prostitute". "Ero seduta con alcune amiche al margine del giardino, quando un uomo mascherato, vestito di nero, si è piazzato davanti a noi chiedendoci minaccioso perché non portavamo Vhijab (il velo islamico). Ho sentito un colpo in testa. Ovun
que era il panico, ho sentito i giovani urlare e spari in aria. Mentre cercavo l'uscita sono stata colpita una seconda volta, con una sbarra di ferro. Per qualche minuto ho visto tutto nero," ha raccontato Celia Garabet, una ragazza cristiana di ventun anni, a Delphine Minoui ("Le Figaro", 11 aprite 2005). Da allora non esce più di casa. Sheikh Assad al Ba-Sri, rappresentante di Muqtada a Bassora rivendica l'azione: "Solo con la violenza bloccheremo la deriva morale, e siamo pronti a rifarlo se necessario... Durante il picnic, le ragazzeportavano camice troppo leggere e i ragazzi ballavano. È immorale!". Sono riusciti a imporre il velo alle ragazze musulmane, nel reparto maternità dell'ospedale della città impediscono ai medici maschi di curare le donne. Hanno instaurato un clima di terrore. Juliana Youssef Da-vud, insegnante di inglese, ricorda i fasti di Bassora prima dell'arrivo di Saddam, della guerra con l'Iran, proprio lì di fronte, della Prima guerra del Golfo, dell'embargo e di tutto quello che ne è seguito. "Quando avevo l'età dei miei studenti, andavo al cinema, il week-end andavamo al casinò, lungo la costa. Poi ci si ritrovava al cabaret. Si beveva birra, si organizzavano picnic tutte le settimane. Nessuno di questi piccoli piaceri è ormai concesso," racconta a Delphi-ne Minoui, con rimpianto, l'elegante insegnante. Allora portava anche la minigonna, proprio come ci avevano mostrato le donne di Kabul, che prima dell'arrivo degli islamisti facevano le ore piccole in quella che era considerata una delle capitali dello svago e della cultura in tutta la regione. Speriamo proprio che l'Iraq non faccia la fine dell'Afghanistan! Libanizzazione "Non sembra Babbo Natale?" Abbas si riferisce al grande ayatollah Ali al Sistani, il settantacinquenne leader sciita dalla lunga barba bianca, che compare ormai raramente in pubblico. Quando mi interrogano suiprotagonisti della scena politica e religiosa irachena, cerco sempre di mantenermi nel vago. È meglio non compromettersi: chissà come la pensano veramente i miei rapitori. Avevo fatto lo stesso quando Abbas mostrandomi la sua pistola mi aveva detto: "Vedi, c'è sopra l'immagine di Saddam". Io non l'avevo nemmeno vista senza occhiali -e avevo paura a tirarli fuori perché temevo che me li portassero via come avevano fatto con tutti i miei oggetti personali -ma poteva essere vero visto che l'immagine di Saddam era ovunque, quindi avevo annuito. "Che ne pensi di Saddam?" Ho subito pensato a una domanda trabocchetto: "Siete voi che dovete scegliere chi vi deve governare, io sono italiana e devo occuparmi di chi governa l'Italia. Quello che non posso accettare è che si faccia una guerra per abbattere un governo o che si sottoponga un popolo a un embargo di tredici anni e per questo posso lottare nel mio paese, ma qui la scelta tocca a voi non a me...". Abbas non insiste più di tanto, anche se poi ritorna alla carica. Invece non mi parla mai dei leader religiosi sunniti, riuniti nel Consiglio degli ulema. Tra gli ulema peraltro non vi è un'unica figura carismatica e autorevole come al Sistani, anche Perché tra i sunniti non esiste una gerarchla del clero come sono i più feroci oppositori dell'occupazione: hanno perso il potere e con esso la dignità. Sono loro ad alimentare le fila della resistenza e in qualche caso anche del terrorismo di al Zarqawi. Il terrorista, ritenuto legato ad Al Qae-da, teorizza la contrapposizione dei sunniti agli "apostati" sciiti. Infatti, se si tengono per buone le rivelazioni fatte dal "New York Times" (9 febbraio 2004) sul ritrovamento di una missiva inviata con un ed -dal leader dell'organizzazione terroristica al Tawheed al capo di Al Qaeda, Osama bin Laden, la strategia proposta da Abu Mussab al Zarqawi è quella di combattere i "maggiori codardi che Dio ha creato". Il riferimento è agli sciiti. Si legge infatti nella lettera: "La soluzione, e Dio solo lo sa, è di trascinare gli sciitinella battaglia. È l'unico modo per prolungare la durata della nostra battaglia contro gli infedeli. Se riusciamo
a trascinarli in una guerra settaria, i sunniti si sve-glieranno perché temono la distruzione e la morte da parte degli sciiti". E, che sia o meno il gruppo di al Zarqawi autore di tutti gli attentati contro le moschee, da allora le vittime tra i fedeli sciiti sono state centinaia. E al Zarqawi su un sito web ha celebrato la morte degli sciiti chiamandoli con disprezzo "scimmie" e la loro religione "un affronto a Dio". All'inizio, il grande ayatollah Ali al Sistani aveva cercato di evitare rappresaglie invitando gli sciiti a concentrarsi sul processo elettorale. Dopo le elezioni ha chiesto però al nuovo governo di "difendere il paese contro un annichilimento di massa". Al di là delle intenzioni di al Zarqawi, la solidarietà tra gli occupati, e soprattutto tra i più colpiti perché si ribellano all'occupazione, si è andata velocemente sfaldando, anche se non a favore di Al Qaeda, con l'eccezione di qualche frangia estrema. La contrapposizione tra sunniti e sciiti si è andata accentuando con il peggiorare della situazione. Fino ad arrivare alla strage del 31 agosto 2005 (circa mille morti e centinaia di feriti) tra le centinaia di migliaia di fedeli riunite nella moschea di Khadimiya per commemorare il settimo imam, Musa al Khadim, avvelenato aBaghdad nel 799 dopo Cristo per ordine del califfo abasside Harun al Rashid che lo riteneva suo rivale. È bastata una voce sulla presenza di kamikaze e forse qualche esplosione a provocare la precipitosa fuga dalle tragiche conseguenze. La tragedia ha assunto un forte significato simbolico: gran parte dei morti sono dovuti al crollo delle barriere del ponte che collega il quartiere sciita di Kadhimiya a quello di Adhamiya, sull'altra sponda del Tigri, roccaforte della resistenza sunnita. Inoltre, il corpo del "martire" celebrato sarebbe stato gettato nel fiume proprio dal ponte dove hanno trovato la morte molti fedeli, prima di essere sepolto nella splendida e monumentale moschea che dall'imam ha preso il nome di Kadhimiya. Dopo questa tragedia è come se la divisione tra comunità religiose fosse diventata ancora più profonda, anche se non sono mancati segni di solidarietà della popolazione sunnita verso i feriti sciiti.
Durante l'assedio dei combattenti del leader radicale sciita, Muqtada al Sadr, a Najaf, nell'agosto del 2004, erano arrivati aiuti anche dai sunniti. Così come a Falluja sotto assedio, nell'aprile del 2004, i convogli dei soccorsi erano organizzati insieme da sciiti e sunniti. Ma l'uccisione a Falluja, il 5 giugno dello stesso anno, di sei autisti sciiti che andavano a portare rifornimenti a una base americana, provenienti da Sadr City, aveva suscitato grande sdegno. Raccapriccianti le immagini dei loro corpi mutilati apparsi sulle prime pagine di alcuni giornali. Immediata la rappresaglia degli sciiti di Sadr City con l'uccisione di tre sunniti di Falluja. Nel novembre 2004, durante l'attacco successivo a Falluja, molto più pesante del precedente e che avrebbe comportato la distruzione della città, gli sciiti insieme ai kurdi, avrebbero fatto parte delle truppe d'assalto guidate dagli americani, anche se non si sa quanto abbiano veramente combattuto. La creazione delle forze di sicurezza e dell'esercito ha rappresentato un nuovo passo nella contrapposizione et-nico-confessionale. Lo scioglimento dell'esercito di Saddam ha di fatto escluso i sunniti, che l'ex raìs aveva favorito nelle carriere, anche se durante la guerra contro l'Iran (1980-88) alcuni ufficiali sciiti erano stati promossi. Non a caso. Combattere i fratelli sciiti iraniani costituiva una grande prova: aveva prevalso allora lo spirito nazionalista gli sciiti iracheni sono arabi e non persiani -sull'appartenenza religiosa. La prima sconfitta era stata inferta agli iraniani, nel 1982, proprio da un comandante sciita. Il raìs, nella propaganda di guerra, aveva del resto sfruttato proprio la storica contrapposizione tra gli arabi e i persiani, ergendosi a nuovo Saladino e definendo il conflitto una "Qadisiyah" dei tempi moderni. Qadisiyah era stata la battaglia con la quale gli arabi nel 637 dopo Cristo avevano sconfitto i persiani, permettendo l'espansione dell'isiam verso Est. Sull'onda di questa mobilitazione, alla fine degli anni ottanta, era nata l'illusione di una maggiore integrazione degli sciiti nelle istituzioni del paese, idea mai realmente concretizzata. I sunniti restavano l'elite privilegiata dal regime, mentre gli sciiti raggiungevano un buon livello culturale (molti intellettuali sciiti erano andati a ingrossare le fila del Partito comunista) e si espandevano economicamente soprattutto nelle zone dove rappresentano la maggioranza, capitale compresa. L'opposizione sciita repressa pesantemente -come quella kurda combatteva contro il regime di Saddam e il suo esercito, ma solo dopo la recente guerra e gli effetti perversi dell'occupazione -che ha favorito l'arrivo sulla scena irachena anche del terrorismo -le differenze hanno assunto connotati confessionali ed etnici. Le elezioni che si sono svolte il 30 gennaio 2005, volute soprattutto dagli occupanti per rispettare il piano di transizione e dimostrare il successo del "processo di democratizzazione" sono state un nuovo passo nel baratro della spartizione. Le elezioni sono espressione di democrazia se, e solo se, rappresentano il risultato, il coronamento di un processo di democratizzazione e coinvolgimento popolare, non il punto di partenza. Ciò vale soprattutto in un paese che in gran parte sfugge a qualsiasi controllo e dove il tessuto democratico è stato dilaniato prima dalla dittatura, e poi dalla guerra e dall'occupazione. Gli attacchi alle città ribelli -Samarra, Falluja, Baquba, Ramadi, Mo-sul -per "ripulirle dagli insorti" alla vigilia del voto, invece di favorire lo svolgimento delle elezioni, hanno ottenuto l'effetto opposto: la violenza utilizzata ha dimostrato che non è possibile esprimersi liberamente sotto occupazione e tanto meno votare, offrendo ulteriori argomenti a coloro che volevano impedire il voto. Risultato: la comunità sunnita non ha votato, per scelta contro l'occupazione -, per impossibilità -come avrebbero potuto votare i profughi di Falluja? -o per costrizione -a causa delle minacce dei gruppi della resistenza armata, che avrebbero poi punito gli scarsi votanti sunniti. Una minoranza importante (20 percento) è rimasta così sostanzialmente esclusa dal
processo in corso (con l'eccezione della lista dell'ex presidente al Yawar che ha eletto cinque deputati su un totale di duecentosettantacinque dell'assemblea), salvo poi cooptarne pochi esponenti nel governo e nella commissione deputata alla scrittura della Costituzione. Le altre due comunità, la sciita e la kurda, hanno invece partecipato al voto, appoggiando sostanzialmente il piano di Bush, anche se è da considerare che la lista confessionale sciita (Alleanza unita irachena, sponsorizzata da al Sistani che ha ottenuto il 48,2 percento dei voti e centoquaranta seggi) ha nel suo programma il ritiro delle forze di occupazione. Le immagini trasmesse dagli schermi occidentali mostravano solo coloro che votavano senza dare conto delle ragioni di chi invece non partecipava al voto. Questa rappresentazione mi ha ricordato il famoso abbattimento della statua di Saddam nella piazza Firdaus, subito dopo l'arrivo degli americani (il 9 aprile 2003). Stando alle immagini diffuse dalle televisioni occidentali sembrava che la piazza fosse affollata di iracheni esultanti, mentre i baghdadini erano ancora chiusi nelle loro case e gli unici in piazza erano i collaboratori delle centinaia di giornalisti intenti a illustrare l'evento. Il giorno delle elezioni mi era sembrato di tornare sul set dello stesso film, di cui fin dall'inizio si intuiva il brutto finale: il clima che si respirava quel giorno nella città sotto coprifuoco era quello dell'imminente catastrofe -molto simile a quello della vigilia dell'arrivo degli americani e non quello della festa per le prime elezioni libere del dopo Saddam. Certo Baghdad non è l'Iraq. In Kurdistan hanno votato in massa -alcuni anche due volte -garantendo una vittoria "bulgara" ai due partiti storici kurdi -il Partito democratico e l'Unione patriottica del Kurdistan -che insieme hanno ottenuto il 98 percento dei voti, il 25,7 sul piano nazionale. L'obiettivo della stragrande maggioranza dei kurdi è quello dell'indipendenza: lo dimostra il referendum che si è svolto insieme alle
elezioni del 30 gennaio 2005. Dovendo scegliere tra autonomia e indipendenza, il 98 percento di due milioni di partecipanti ha votato per quest'ultima. I leader kurdi hanno voluto questa prova di forza solo per avere maggior potere nelle trattative a Baghdad? Può darsi. Ma del progressivo distacco da Baghdad, maturato negli anni, ci sono altri segnali. Il 4 giugno 2005, ad Arbil, all'inaugurazione dell'Assemblea nazionale del Kurdistan -il parlamento regionale ottenuto dai kurdi dopo il 1991 -con la partecipazione del presidente dell'Iraq, il kurdo Ja-lal Talabani, non si è vista nessuna bandiera irachena. Non solo. I parlamentari che dovevano giurare la propria lealtà all'unità della regione kurda dell'Iraq, spesso si dimenticavano "dell'Iraq". La realtà del Kurdistan è molto diversa dal resto del paese: appoggiando l'invasione americana non ha subito danni di guerra e la regione ha potuto godere di investimenti che ne hanno accelerato lo sviluppo. Inoltre, a parte alcuni casi molto sanguinosi, il Kurdistan è stato sostanzialmente risparmiato dagli attentati terroristici, sebbene proprio nella zona kurda di Halabja nel 2001 si era installato il gruppo di al Ansar al Isiam, l'unico gruppo iracheno considerato legato ad Al Qaeda. Comunque, la battaglia dei kurdi per la propria indipendenza per ora si svolge a Baghdad: la formula del federalismo, nei fatti, viste le competenze attribuite al Kurdistan, prefigura uno stato confederale. Ma il vero nodo della questione kurda è l'attribuzione di Kirkuk, senza la quale un Kurdistan indipendente non avrebbe nessuna possibilità di sopravvivenza. La città è da sempre al centro di una contesa: per i kurdi è kurda, anzi dovrebbe diventare la capitale del Kurdistan (il governo e il parlamento ora hanno sede ad Arbil), Saddam l'aveva esclusa dal Kurdistan e anzi l'aveva "arabizzata" fin dagli anni settanta: prima favorendo il trasferimento di insegnanti da altre regioni con incentivi economici e poi scegliendola come residenza forzata per chi aveva trasgredito agli ordini del partito. I turcomanni rivendicano dal canto loro di essere stati i fondatori di Kirkuk e ora lamentano le discriminazioni operate dai kurdi nei loro confronti. Da quando sono arrivati in città, subito dopo l'invasione americana, i kurdi hanno avviato una caccia agli arabi: una pulizia etnica al contrario rispetto a quella di Saddam. Molti kurdi sono tornati per riprendersi le loro proprietà, ma la gente che vi abitava spesso non aveva nulla a che vedere con gli espropri operati dal raìs, presupposto per la cacciata dei kurdi. Comunque sono loro a pagarne le conseguenze. Molti arabi, minacciati, hanno svenduto o dovuto cedere le loro case per tornarsene nei luoghi di origine. La decisiva posta in gioco di Kirkuk è il petrolio: nei suoi campi petroliferi si estrae il 40 percento della produzione irachena. Con una fuga in avanti (ed evidentemente con l'avallo Usa), il governo kurdo ha già firmato contratti per la vendita del petrolio, che il ministero di Baghdad sta onorando, in attesa della definizione dello status di Kirkuk. La questione è stata finora rinviata (nemmeno gli americani, che pure devono molto ai loro alleati più fedeli, sono disposti a cedere completamente il controllo dell'oro nero di Kirkuk ai kurdi). Si era parlato anche di un referendum, che accelererebbe ulteriormente la pulizia etnica. Perché a Kirkuk, tra gli indigeni, non ci sono solo kurdi, ma anche arabi (la cui presenza è forte nella provincia), turcomanni, assiri e caldei. Contro lo stato federale proposto dai kurdi si schierano però anche gli sciiti, che dominano il governo dopo le elezioni del 30 gennaio 2005. Ma sono sensibili al tema del petrolio, nel Sud infatti si produce la maggior parte del greg-&o iracheno e la vecchia gestione centralizzata di Baghdad, sostengono gli sciiti, aveva favorito solo la capitale e la zona centrale abitata da sunniti che invece di petrolio non ne hanno. Per questo sono pronti a un compromesso, come dimostra il testo della Costituzione varato in agosto e avallato dal referendum il 15 ottobre 2005. Il federalismo non è l'unico punto di contesa tra sciiti e kurdi, tanto è vero che per formare il governo ci sono
voluti tre mesi. La lista che ha vinto le elezioni, sponsorizzata da al Sistani, è dominata da due partiti religiosi: il Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (Sciiri) di Abdelaziz al Hakim e il Dawa, del Primo ministro Ibrahim al Jaafari. Entrambi vogliono uno stato islamico, ispirato al modello iraniano. Iraniana è del resto la loro guida spirituale, Ali al Sistani, che pur vivendo in Iraq (a Najaf) da una quarantina d'anni, mantiene la nazionalità d'origine, tanto da non poter nemmeno votare. Ma per far votare gli iracheni ha emesso una fatwa, che con la democrazia non ha molto a che vedere, come del resto lo stato islamico propugnato. E questo dovrebbero ben saperlo i fautori della "democratizzazione" dell'Iraq. Lo stato islamico ha sostenitori anche fra i conservatori sunniti -wahabiti -che tuttavia non condividono la scelta del "modello iraniano", di matrice sciita. Lo smantellamento dello stato laico preoccupa invece i laici di tutte le confessioni e i maggiori partiti kurdi, fautori della laicità dello stato. Nelle elezioni (gennaio 2005) gli americani hanno sostenuto i partiti kurdi -incuranti dei brogli elettorali -anche per contrastare la valanga islamista sciita. Senza peraltro riuscirci e il candidato sciita sostenuto dagli Usa, l'ex premier Iyad Allawi, non è andato oltre il 13,8 percento. I kurdi, tuttavia, hanno dovuto cedere sull'isiam come fonte principale di legge -e per accertare che nessuna legge sia contraria alla sharia la Costituzione istituisce un'Alta corte religiosa -per ottenere l'avallo dei partiti religiosi sciiti sul federalismo. Comunque il governo kurdo potrà avvalersi della facoltà, che gli è concessa, di cambiare le legg1 federali in conflitto con la legislazione locale e inoltre la Costituzione ratificherà le leggi emanate dal governo kurdo dalla sua costituzione, nel 1992. Se kurdi e sciiti, per difendere i reciproci interessi, hanno raggiunto un compromesso sulla Costituzione, lo scontro rimane duro con la minoranza sunnita, soprattutto sul tema del federalismo. Un federalismo basato soprattutto sulla spartizione del petrolio. La Costituzione recita: "II petrolio e il gas sono proprietà di tutto il popolo iracheno" (articolo 109) e aggiunge: "II governo centrale amministra il petrolio e il gas estratti dai
pozzi attuali, insieme ai governi delle regioni e delle province che li producono" (articolo 110). Si parla solo di "pozzi in funzione" e quelli nuovi? Si prevedono anche risarcimenti rispetto all'utilizzo delle risorse in passato. Sono facilmente comprensibili i timori dei sunniti che non disporrebbero di pozzi, se Kirkuk venisse assegnata al Kurdistan. In nome del federalismo il governo kurdo avrà il controllo dei sessantamila peshmerga, la milizia kurda. Un altro punto di scontro con i sunniti è la "debaathiz-zazione", la procedura finalizzata a escludere gli esponenti dell'ex partito unico da cariche politiche e istituzionali, e soprattutto la riduzione del partito Baath al rango di un'organizzazione che propaganda il razzismo e il terrorismo. I sunniti, in vista del referendum del 15 ottobre, sono alla ricerca di alleanze trasversali con i più scettici sul tipo di federalismo, come il leader sciita radicale Muqtada al Sadr. Contro sono anche i laici e molte associazioni di donne. La legge di transizione prevede che una maggioranza di due terzi in tre province possa respingere la Costituzione. Un emendamento previsto per favorire i kurdi e che invece potrebbe diventare l'arma elettorale nelle mani dei sunniti astenutisi dal voto in gennaio. "Chiediamo al popolo iracheno di partecipare al referendum sulla Costituzione, e respingerla, dimostrando chi c'è dietro e chi l'ha formulata contro il volere del popolo iracheno," ha dichiarato sheikh Hareth al Dhari, segretario dell'Associazione degli ulema, in una intervista alla tv araba Al Majd, il 28 agosto 2005. Se il governo kurdo può cambiare le leggi di Baghdad, 1 Partiti religiosi sciiti, disponendo di milizie armate, non hanno aspettato la discussione sulla Costituzione per imporre l'applicazione della sharia, la legge coranica, in tutto il Sud dell'Iraq da loro controllato. Tutti i comportamenti non conformi all'interpretazione più rigida e conservatrice del Corano vengono puniti. Le prime vittime sono state le donne, che hanno dovuto cambiare abbigliamento e comportamento. Per imporre l'abolizione dell'alcol, che peraltro negli ultimi tempi del regime di Saddam veniva venduto ma non poteva più essere consumato in pubblico, sono stati dati alle fiamme i negozi di liquori, gestiti generalmente da cristiani. Alcuni proprietari sono rimasti carbonizzati nel loro stesso negozio, altri sono stati uccisi. La maggior parte dei cristiani sono stati così costretti a lasciare Bassora e il Sud per trasferirsi a Mosul -dove è insediata la più forte comunità cristiana -o emigrare. Il nuovo esercito nel mirino I sunniti, che hanno boicottato le elezioni, e gli sciiti, che hanno votato, concordano su un obiettivo: la fine dell'occupazione. Il ritiro delle truppe straniere era infatti, almeno sulla carta, uno dei punti del programma della lista sciita vincente. Stesso obiettivo, ma strategie diverse: i sunniti combattono con le armi le truppe Usa senza possibilità di vittoria, che peraltro nemmeno i marine possono ottenere sul campo; gli sciiti hanno puntato invece sulla conquista del potere per avere un giorno la possibilità di chiedere e ottenere il ritiro delle truppe. Stando alle affermazioni degli attuali governanti iracheni sotto tutela Usa, solo il controllo del territorio potrà infatti permettere al governo iracheno di chiedere l'allontanamento delle truppe straniere. I governi della coalizione sostengono sostanzialmente la stessa posizione, che per alcuni (Italia compresa) probabilmente vuoi dire disimpegno militare in cambio di una partecipazione alla rendita del petrolio oltre che una spartizione dei benefici della ricostruzione. Per altri, Usa soprattutto, una riduzione e un ridislocamento delle proprie truppe per evitare un ulteriore dissanguamento che penalizza in particolare le percentuali di gradimento di Bush nei sondaggi americani. La creazione del nuovo esercito iracheno e delle forze di sicurezza diventa dunque una questione
nevralgica. Quale esercito in un paese la cui unità nazionale è stata sacrificata sulle ceneri del regime baathista? Lo scioglimento dell'esercito e del partito Baath, che aveva un controllo capillare del territorio, sono stati fra i più tragici errori commessi dagli americani subito dopo il loro arrivo a Baghdad. Il paese è precipitato nel caos e la mancanza di controllo alle frontiere ha permesso l'arrivo in Iraq di gruppi di terroristi che hanno trasformato il paese in terreno fertile per combattere il loro jihad contro gli "infedeli" occidentali. Il compito di ridare all'Iraq un esercito è stato assunto dalle forze di occupazione. Compito arduo e non solo perché le reclute sono nel mirino di al Zarqawi che continua a farne strage, probabilmente con un duplice obiettivo: evitare che un esercito iracheno possa acquisire il controllo del territorio e magari perfino costituire il pretesto per chiedere l'allontanamento delle truppe degli "infedeli" e nello stesso tempo colpire gli "apostati" sciiti. Sono infatti essenzialmente sciite le reclute nel Sud del paese, mentre al Nord sono kurdi, a parte qualche ufficiale sunnita dell'esercito di Saddam riabilitato. Le nuove truppe d'assalto sono essenzialmente peshmerga, combattenti kurdi già addestrati in Kurdistan per combattere contro Saddam. E non poteva che essere così. I kurdi sono i più fedeli alleati degli americani e gli obiettivi da colpire sono soprattutto le zone dove più forte è la resistenza, nel cosiddetto 'triangolo sunnita" vicino al confine con il Kurdistan. Se i peshmerga sono in prima fila nelle unità da combattimento è chiaro che l'esercito non potrà mai avere come obiettivo la difesa di un Iraq unito. Queste unità sono infatti più fedeli al governo di Arbil che a quello di Baghdad. Del resto nessun ministro, presidente compreso, si avvale delle nuove forze di sicurezza irachene per la propria protezione, affidata invece a peshmerga appositamente addestrati. Lo stesso vale per gli esponenti governativi sciiti che si fanno proteggere dalle milizie dei loro partiti, fedeli più alle moschee e a Teheran che alle istituzioni di Baghdad. A questa debolezza intrinseca occorre aggiungere la corruzione che condiziona la formazione dell'esercito iracheno, nei numeri e negli armamenti. Da qui il ragionevole dubbio che queste truppe possano mai sostituire quelle straniere. Comunque, nemmeno le
truppe della coalizione sono in grado di controllare il territorio, come dimostrano i continui e sanguinosi attacchi subiti. Le forze armate irachene sono costituite in buona parte da "battaglioni fantasma": dopo l'addestramento molti soldati tornano a casa, mentre gli ufficiali continuano a intascare lo stipendio anche per i militari che si sono dileguati o che esistono solo sulla carta. "Gli Stati Uniti affermano che le forze di sicurezza possono contare su centocinquantami-la iracheni, ma dubito che ce ne siano più di quarantamila," ha dichiarato Mahmud Othman, un parlamentare iracheno, a un giornalista di "The Guardian" (24 luglio 2005). Ha anche citato un caso di corruzione clamoroso sulle spese militari: i trecento milioni di dollari spesi dal ministero della Difesa -compiici gli americani -per comprare ventiquattro elicotteri militari e altri equipaggiamenti dalla Polonia sono stati praticamente buttati via. Gli elicotteri arrivati a Baghdad erano stati fabbricati ventotto anni prima e il costruttore ne consiglia la rottamazione dopo venticinque anni! Quello deglielicotteri non è un caso isolato. È stato lo stesso ministro della Difesa iracheno, Ali Allawi, a denunciare il 18 settembre 2005 una truffa delle spese militari che ammonterebbe a un miliardo di dollari. Non si tratta solo dell'acquisto degli elicotteri polacchi, ma anche di blindati risultati perforabili con un proiettile sparato da un Ak47, e di mitragliatrici Mp5 Usa pagate tremilacinquecento dollari l'una e sostituite con un modello egiziano del valore di duecento dollari. In questo modo i poliziotti non sono certo in grado di far fronte alla guerriglia meglio armata e tantomeno ai terroristi. Ma perché gli americani non armano i poliziotti iracheni? Perché non si fidano, tanto da temere forme di connivenza con la resistenza: nella polizia, a differenza dell'esercito, ci sono sunniti ex poliziotti o ex ufficiali provenienti dall'esercito di Saddam. I timori degli occupanti in molti casi sono fondati. Come quando, durante l'attacco a Falluja, nel novembre del 2004, gruppi della resistenza si erano trasferiti a Mosul e non sono stati certamente ostacolati dalle forze dell'ordine. Nel triangolo sunnita la diffidenza tra polizia e truppe di occupazione è reciproca. E non sono mancati scontri sanguinosi. A Falluja, nel settembre del 2003, gli americani hanno ucciso otto poliziotti iracheni, che si erano trovati a passare davanti alla base americana, mentre inseguivano un'auto rubata. L'inefficienza dell'esercito iracheno potrebbe costituire per gli americani il pretesto per non ritirarsi dal paese. Guerra civile Tra i compiti condivisi dalle milizie dei partiti religiosi sciiti, le Brigate al Badr e i rivali del Jaish al Mahdi di Muqtada, arruolate in massa nella polizia, non vi è solo quello di imporre l'ordine islamico, ma anche quello di dare la caccia agli ex baathisti. Una caccia che ha già provocato migliaia di morti, almeno mille solo a Bassora. All'indomani della caduta di Saddam, nel giugno del 2003, ero stata a Bassora, dove la caccia era già iniziata a opera di un gruppo cosiddetto della "Vendetta islamica", che aveva come obiettivo gli esponenti dell'ex regime ma anche comunisti -che avevano riaperto le sedi -e il nuovo sindacato. Ora sono direttamente le milizie dei partiti religiosi, spesso infiltrati nella polizia, a realizzare la "debaathizzazione" informale. Secondo la denuncia di un giornalista freelance americano, Steven Vincent, assassinato dopo che un suo articolo sull'argomento era stato pubblicato sul "New York Times" (31 luglio 2005), i giustizieri di Bassora girano su un auto della polizia. Una conferma delle voci che circolalo in città, Vincent l'aveva avuta da un sottotenente di polizia che ovviamente aveva voluto mantenere l'anonimato: "Alcuni ufficiali della polizia stanno perpetrando a Basso-ra, ogni mese, centinaia di assassinii, in maggioranza di ex membri del partito Baath. Mi ha detto che c'è anche una sorta di 'macchina della morte': una Toyota Mark il bianca che
si aggira nelle strade della città portando a termine azioni non di competenza della polizia, ma per conto di gruppi estremisti religiosi". Del resto a gruppi religiosi appartiene la maggioranza dei membri della polizia: "II75 percento dei poliziotti è con Muqtada, un grand'uomo", aveva detto a Steven Vincent un ufficiale. È così che nelle sedi della polizia -come per la strada e ovunque -le immagini dei leader religiosi hanno sostituito gli onnipresenti ritratti di Saddam, rendendo esplicito che la polizia è più leale alla moschea che allo stato. Steven Vincent aveva denunciato anche il fatto che gli inglesi che controllano Bassora e che devono preparare le truppe e la polizia per essere sostituiti nel controllo del territorio, chiudono un occhio su quello che sta accadendo. E così uno dei furgoncini della polizia la sera del primo agosto ha potuto far sparire anche il giornalista freelance americano, ritrovato morto la mattina dopo. Le truppe britanniche sono state costrette ad aprire gli occhi quando il 19 settembre 2005 i poliziotti iracheni hanno arrestato due militari britannici travestiti da arabi, poi finiti nelle mani della milizia di Muqtaba, cui appartengono gli stessi poliziotti. Le vittime dei giustizieri sciiti sono soprattuto sunniti che vengono cacciati anche dall'università. Molti hanno venduto le loro case e si stanno trasferendo a Baghdad. Dove peraltro non sono al sicuro. Le squadre della morte sciite, legate al ministro degli Interni Bayan Jabr, un leader dello Sciiri e delle Brigate al Badr, sono accusate dell'assassinio di numerosi religiosi sunniti. Accuse prese in considerazione anche dal Primo ministro al Jaafari. Negli ultimi mesi sono aumentate le denunce di maltrattamenti e di uccisioni di sunniti da parte delle forze speciali di polizia, soprattutto dopo il ritrovamento di undici corpi di sunniti torturati e uccisi con una pallottola sparata dietro al capo. Gli undici, compreso un imam, erano stati arrestati durante un raid della polizia a nord di Baghdad all'alba del 10 luglio 2005. "Non è la prima volta che questo succede, vogliamo conoscere i responsabili di questi crimini," ha detto il capo dell'organizzazione religiosa sunnita Waqf, Adnan al Dulaimi, che ha chiesto un'inchiesta ufficiale sul caso. Nello stesso periodo un commando composto prevalentemente da sciiti ha fatto un raid nell'ospedale
Yarmuk a Baghdad, prelevando tredici sunniti accusati di essere dei combattenti. Sedici ore dopo i corpi di dieci di loro sono stati depositati all'obitorio. I malcapitati erano stati rinchiusi in un furgone blindato della polizia a una temperatura di quasi cinquanta gradi, morendo soffocati. La polizia -formata prevalentemente da kurdi e sciiti -più che prevenire la guerra civile, la sta alimentando. Quella che viene paventata come una terribile prospettiva, se le truppe straniere si ritirassero, è già una realtà che si sta concretizzando sotto i loro sguardi distratti. Tanto che parlare di guerra civile non è più un tabù nemmeno per l'ambasciatore americano a Baghdad, Zalmay Khalilzad, che da metà luglio ha sostituito Negroponte, il quale invece preferiva glissare sull'argomento. Anche se l'ex ambasciatore a Kabul parla di guerra civile come qualcosa che gli Usa devono fare di tutto per evitare. La vittoria iraniana La portata dell'affermazione delle forze religiose sciite, sponsorizzate dall'ayatollah Ali al Sistani, va oltre i confini dell'Iraq: praticamente ha creato le condizioni per la nascita di un secondo stato sciita, alleato di quello iraniano. E comunque anche se il "modello iraniano" non dovesse vincere le resistenze non soltanto dei laici, ma anche dei sunniti più fondamentalisti, che considerano lo scisma sciite un tradimento, la presenza iraniana in Iraq e la sua in-politica è già una realtà. I leader dello Sciiri -gli al , di cui è sopravvissuto solo Abdelaziz, dopo che il più carismatico fratello Mohammed Baqer è stato assassinato in un attentato a Najaf il 29 agosto 2003 -hanno passato gli anni dell'esilio a Teheran ospiti del regime iraniano. Erano stati i guardiani della Rivoluzione iraniana ad addestrare le Brigate al Badr, il braccio armato dello Scii-ri, che combattevano Saddam, facendosi carico anche degli interrogatori -e relative torture -degli iracheni fatti prigionieri dagli iraniani durante la guerra Iran-Iraq. Se i prigionieri non rinnegavano Saddam, il trattamento loro riservato non rispettava certo le Convenzioni di Ginevra, se invece si "pentivano" venivano arruolati direttamente nelle Brigate. Molti dei prigionieri erano sciiti perché usati da Saddam come carne da macello contro gli sciiti iraniani. Erano circa diecimila gli uomini delle Brigate al Badr rientrati in Iraq insieme ai loro leader dopo la caduta di Saddam. Teoricamente avrebbero dovuto arrivare disarmati, ma così non è stato e il loro numero è andato aumentando con il passare dei mesi. Tra i loro consiglieri vi sono sempre pasdaran arrivati da oltreconfine. Anche il più radicale Muqtada ha i suoi ispiratori nella città santa iraniana di Qom. Iraniani sono anche gli amici del Dawa, il primo partito religioso iracheno, fondato nel 1957 per contrastare l'influenza del Partito comunista che rappresentava allora la maggioranza della comunità sciita. Il governo di Baghdad non si limita a ispirarsi al "modello iraniano", ma difende anche gli interessi di Teheran: il leader dello Sciiri, Abdelaziz al Hakim, ha proposto il pagamento di miliardi di dollari in risarcimento di guerra. Una scelta in contrasto con il tentativo di Washington di far cancellare il debito di Saddam. Tra i progetti del ministro del Petrolio iracheno, Ibrahim Bahr al Ulum (sciita), c'è anche la costruzione di un oleodotto che colleghi Bas-sora al porto iraniano di Abadan. Ma l'aspetto più sorprendente nelle nuove relazioni tra Iraq e Iran è un trattato per la cooperazione militare, sottoscritto il 7 luglio 2005 a Teheran dai due ministri della Difesa, l'iracheno Saadoun al Dulaimi e l'iraniano Mohammed Najjar. Accordo che prevede anche l'addestramento militare. Forse questa parte dell'accordo sarà realizzata solo in futuro. Anche perché sarebbe davvero singolare che mentre gli Usa minacciano l'Iran per il pericolo nucleare, militari americani e iraniani si trovassero fianco a fianco nell'addestrare le truppe irachene. Soprattutto tenendo in conto la posizione del nuovo ministro della Difesa iraniano, Mohammed Najjar, già primo comandante delle guardie della rivoluzione in Medio Oriente impegnato a esportare la rivoluzione islamica e
a sostenere l'attività di gruppi filoiraniani. Nel suo primo discorso al Majlis (consiglio consultivo, il parlamento iraniano) ha sostenuto che dedicherà particolare attenzione alla "produzione di strumenti funzionali alla guerra asimmetrica". Una collaborazione tra i due paesi è già in corso a livello di intelligence. Le alleanze iraniane in Iraq, fin dai tempi di Saddam, non si limitavano a quella più "naturale" con gli sciiti, ma arrivavano anche all'Unione patriottica del Kurdistan. L'attuale presidente Jalal Talabani e i suoi seguaci quando fuggivano alla repressione di Saddam si rifugiavano in Iran. Non a caso, durante l'inaugurazione del parlamento kurdo, un uomo dell'intelligence iraniana, ha detto: "Gli uomini che abbiamo sostenuto sono ora al potere". Ma perché Bush ha favorito proprio l'arrivo al potere degli amici di Teheran? Un nuovo errore di calcolo? Pura miopia? "L'America oggi, dopo il fallimento della sua impresa in Iraq, vuole realizzare profitti immediati per favorire Bush e il suo governo. A Bush non interessa quello che succederà dopo, una volta lasciata la Casa Bianca," sostiene sheikh Hareth al Dhari, dell'Associazione degli ulema. Che aggiunge: "Bush e i suoi uomini non mostrano considerazione per gli interessi americani. Altrimenti, avrebbero spiegato al loro popolo i fallimenti della loro avventura, e avrebbero ritirato le loro forze dal paese" (da un'intervista ad Al Majd tv). Sicuramente Bush non si cura degli interessi degli Stati Uniti, e tantomeno di quelli iracheni. Con 1 guasti profondi provocati dall'occupazione e i tentativi di spartizione etnico-confessionale l'Iraq è giunto sull'orlo del baratro della libanizzazione. In questa situazione può bastare un incidente -nel 1975 a Beirut era stato l'attacco dei falangisti a un autobus e il massacro di ventisette palestinesi che erano a bordo -a far precipitare la situazione. E in Iraq gli incidenti non mancano. E molto più gravi, come quelli alla moschea di Kadhimiya. Eppure ancora oggi a Baghdad quando chiedi a qualcuno se è sciita o sunnita, ti risponde con orgoglio: "Sono iracheno". Fino a quando?
9. L'incidente Varie sensazioni si sovrappongono, non riesco ancora a sentirmi libera, mi contagia la tensione, l'inquietudine dei miei "liberatori": non siamo ancora al sicuro, dobbiamo arrivare all'aeroporto. Non riesco a smaltire il terrore accumulato durante il mese di prigionia e nell'attesa di poco prima. Nicola Calipari, che in macchina si è seduto dietro, vicino a me per farmi sentire più sicura, cerca di mettermi a mio agio. Mi ha fatto togliere il cotone dagli occhi e anche la sciarpa che mi avvolgeva il capo, che per me è sempre opprimente. "Ora sei libera," mi ripete, intuendo, evidentemente, che per me è ancora difficile rendermene conto. Poi chiama il suo capo, il direttore del Sismi, il generale Pollari, io non so dire altro che "grazie". Mi sento bene, ma come in alcuni momenti della mia prigionia non mi sento completamente in me stessa, è come se non riuscissi ancora a mettere i piedi per terra. Nicola cerca di riprendere la linea con l'Italia per farmi parlare con Pier o con Gabriele, forse in questo momento sono già arrivati a Palazzo Chigi... Ma non riesce e butta il telefono sul sedile davanti, mentre l'autista, da quando siamo partiti, continua a telefonare non so a chi -che stiamo arrivando all'aeroporto, "in tre". E mentre comincio a rendermi conto che non sono più prigioniera -l'agente al volante, che conosce bene Baghdad, dice che mancano solo settecento metri all'aeroporto -improvvisamente sono gli spari a interrompere tutte le mie emozioni. "Ci attaccano, ci attaccano," urla l'agente, di cui non conosco ancora nemmeno il nome. Ma chi ci attacca? Chi può essere, mi chiedo. I sequestratori li abbiamo lasciati da una ventina di minuti e non possono averci seguiti, non potrebbero mai arrivare in questa zona, controllata dagli americani. E non posso nemmeno credere che siano proprio gli americani a mitragliarci. Sono sicuramente stati avvisati del nostro arrivo, nei giorni successivi avrò la conferma. E invece sì, sono proprio loro. E il famoso "fuoco amico", i cui effetti non sono meno devastanti di quello nemico. Mentre l'autista, che è al telefono con il generale Pollari, continua a urlare che siamo dell'ambasciata italiana, Calipari mi butta giù, io finisco incastrata tra il sedile dell'autista e il mio, e lui mi copre con il suo corpo, per proteggermi. Gli spari arrivano infatti da destra, dove è seduto lui, insieme a un fascio di luce. Calipari deve essere stato colpito subito perché non dice più una parola. Andrea Carpani -questo il nome dell'autista che avrei saputo solo al mio ritorno in Italia -urla e Nicola tace. Io sono terrorizzata mentre la macchina viene bersagliata dai proiettili. E forse proprio il terrore me ne fa avvertire più di quanti siano in realtà. Finita la sparatoria, l'agente alla guida scende dalla macchina sempre parlando al telefono e urlando: "Siamo dell'ambasciata italiana", mentre alcuni soldati si avvicinano a lui e lo circondano. Io non riesco a muovermi, sono paralizzata, anche dall'angoscia: perché Nicola non parla? Non oso immaginare quello che è successo. Ma il suo corpo si appesantisce su di me e quando riesco a smuoverlo sento un rantolo. Stamorendo, è morto! No! L'uomo che mi ha liberata è morto, ed è morto per proteggermi. È come se la mialibertà fosse finita quando stava per cominciare. Tutte le emozioni si sono interrotte in quel momento. È una sensazione terribile sentirsi morire una persona addosso, è come se morisse anche una parte di te. E infatti dopo tutta quella pioggia di fuoco non riesco a capire se sono viva e credo di essere morta o se sono già morta e penso di essere ancora viva. Arrivano i soldati che ci hanno sparato: aprono la poi"' tiera di Nicola, gli sollevano il capo. "Shit!" fa uno di loro. Hanno l'aria sorpresa, ma non spaventata. Sono giovani. Ma non dovrebbero essere tanto inesperti se, come risulterà dall'inchiesta, sono quasi tutti graduati tranne due specializzati, composizione insolita per una pattuglia del genere. Accertata la morte di Calipari, vengono dalla mia parte per tirarmi fuori, io da sola non riesco a muovermi.
Allora mi rendo conto di essere stata ferita, sento colare il sangue, ma non ho nemmeno sentito il proiettile che mi ha attraversato la spalla sinistra. Eppure era grosso, calibro 7,62 millimetri (secondo il rapporto della commissione militare), e oltre a portarmi via un pezzo di muscolo (il deltoide) lasciandomi un buco di quattro centimetri di diametro, passando mi ha anche frantumato la testa dell'omero riempiendomi di schegge. I soldati mi tirano fuori, mi stendono per terra, sul selciato. Cominciano a tagliarmi tutto quello che ho addosso -cappotto, felpa, camicia -per scoprire la ferita. Resto così per terra, a torso nudo, almeno per un quarto d'ora, finché non arriva un mezzo per portarmi all'ospedale. Sono lontana da Andrea che sta affrontando i soldati che l'hanno circondato con le armi spianate. Da terra vedo in lontananza (a dieci forse venti metri, fuori dalla strada, nel prato) il mezzo militare, un Humvee, da dove ci hanno sparato. Un soldato si avvicina, in mano ha una flebo che cerca inutilmente di infilarmi in una vena del braccio destro, l'unico utilizzabile. Dopo la rottura di diverse vene, che mi hanno lasciato la mano e una parte del braccio pieni di ematomi per diversi giorni, rinuncia. ("L'ago era troppo grosso," leggerò nel rapporto.) A quel punto mi viene una sete atroce, chiedo dell'acqua, mi rispondono di aspettare perché di lì a poco sarò trasportata in ospedale. Non riesco ad aspettare, mi manca il respiro, mi sento chiudere in gola, soffoco. Arriva una bottiglia d'acqua, me ne danno un goccio, ma non basta a far-rai riprendere il respiro. Sento in lontananza che l'agente tarpani cerca di capire come sto, ma non riesco a dargli Nessuna indicazione. Si rassicura quando vede che mi alzo per salire sul mezzo che mi porta all'ospedale, lo stesso dal quale mi hanno sparato. Anche lui andrà all'ospedale -è ferito a un braccio -ma io non lo incontrerò. Non ci vuole molto -mi dicono quindici minuti -per arrivare all'ospedale, sebbene il mezzo su cui vengo trasportata proceda a dieci chilometri all'ora
Non siamo lontani dalla zona internazionale e quando arrivo all'ospedale militare americano mi sembra di entrare sul set di un episodio del telefilm E.R., medici in prima linea. Non è la prima volta che in Iraq mi trovo a far fronte a una realtà che non ha nulla da invidiare alla fic-tion, ma questa è per me la più drammatica. Chiedo subito di chiamare l'ambasciatore italiano, che peraltro vive nella zona verde e non ci mette molto ad arrivare. Intanto vengo assalita da un gruppo di medici e infermieri, chi mi tira da una parte e chi dall'altra. Un'infermiera mi toglie la catenina che mi hanno regalato i rapitori, mi danno l'ossigeno, poi cominciano a fare i soliti esami e da una lastra si vede subito che il polmone sinistro sta collassando. Due schegge hanno toccato la pleura e il polmone si è ritirato. Ecco perché non riesco a respirare! Mi investono con una raffica di domande e, siccome l'accento di alcuni di loro mi è particolarmente ostico, non rispondo subito. Allora mi mandano un medico che parla serbocroato! Poi si rendono conto che basta parlare un po' più lentamente per farsi capire, oltretutto sono in preda a uno shock. Si assicurano che non esistano controindicazioni per farmi l'anestesia totale. Prima posso vedere l'ambasciatore Gian-ludovico De Martino che mi fa parlare al telefono anche con Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Poi, mentre mi portano in sala operatoria, qualcuno si avvicina, da dietro -non lo vedo in faccia -e mi chiede se sono la giornalista che era stata rapita. La domanda non è certo tranquillizzante, fino ad allora mi avevano chie' sto solo nome e nazionalità, anche se evidentemente dovevano sapere chi ero. Ora sono nelle loro mani e non posso certo nascondermi. In fondo sono "alleati" degli italia" ni, ma il fatto, dopo quello che è successo, non mi tranquillizza per niente. Non ho scelta, anche l'intervento chirurgico è inevitabile per poter partire. Mi risveglio dall'anestesia in una sala di rianimazione: sono a letto seduta e così dovrò dormire per quasi un mese a causa del drenaggio che mi assorbe il liquido dal polmone. Intorno numerose flebo: una con l'antibiotico, l'altra contro l'infezione da proiettile -questo è il pericolo maggiore, mi diranno i medici in Italia poi la morfina, una per l'idratazione e non so che altro ancora, tutte infilate in una specie di valvola collegata direttamente all'aorta. Un'altra valvola è invece collocata sulla femorale, per ogni evenienza. Quando un flacone di liquido finisce emette un sibilo, insopportabile se l'infermiere di turno non arriva subito a sostituirlo. Io non mi posso muovere, il braccio sinistro è ingabbiato in un tutore per la rottura della testa dell'omero, e poi l'ossigeno, le flebo eccetera. Mi hanno detto che verranno a prendermi alle cinque del mattino, ma le ore non passano mai, in quella posizione scomoda, con dolori dappertutto. Non ho alcuna percezione del tempo, senza nemmeno un orologio. Dovrei esserci abituata. Sento un trambusto. Arriva per primo l'ambasciatore con alcuni agenti, mi dice che Pier è all'aeroporto. Io non riesco a immaginare che sia venuto fino a Baghdad -sarà all'aeroporto di Roma, penso -e così quando arriva con gli altri agenti che mi riporteranno in Italia sono veramente sorpresa. Finalmente una bella sorpresa! Anche se in quelle condizioni non riesco nemmeno a manifestare la mia gioia. I preparativi per la mia partenza sono lunghi: vista la mia situazione precaria era già pronto un medico americano per accompagnarmi -e non gli sarebbe dispiaciuto fare un salto in Italia e uscire dall'incubo di Baghdad, da Quanto avevo capito -ma la squadra arrivata dall'Italia comprende anche un medico e quello americano deve rinviare *a trasferta. Alla fine, tutto è pronto, sono le cinque e mezzo, devo solo firmare la ricevuta per recuperare i pochi be-ni che avevo con me al momento della sparatoria e che so-n°stati raccolti dai soldati, oltre alla catenina d'oro, che mi hanno tolto la sera prima e che non si trova più. Dico di cercarla, perché dovrei lasciarla agli americani? È più che altro un puntiglio. A un certo punto mi sembra di sentire
una voce che dice di averla trovata, ma nell'elenco non c'è e nemmeno nel sacco di plastica -uno di quelli neri della spazzatura -dove è stato buttato dentro tutto alla rinfusa: borsa, pantaloni, scarpe, l'astuccio rosso con il cuoricino che conteneva la catenina eccetera. Manca anche la sciarpa che era diventata un po' come la coperta di Linus. Questo mi dispiace davvero molto. Invece la catenina data per persa l'avrei ritrovata, grazie a una "soffiata", dopo essere tornata a casa, nascosta dentro le scarpe, che non avevo più usato dal momento del ferimento. Dopo il trasferimento in elicottero all'aeroporto, alle sette il decollo. Questa volta Baghdad si allontana davvero, anche se io non posso nemmeno alzarmi per guardare dal finestrino, sono sistemata in fondo all'aereo della presidenza del Consiglio, bloccata dall'apparecchio di drenaggio, e ogni movimento mi provoca il vomito. Sono peraltro abituata agli attcrraggi e ai decolli da Baghdad, molto particolari per evitare attacchi. Si arriva ad alta quota sopra la città e poi si scende velocemente a spirale. E anche al decollo occorre prendere subito quota. Tuttavia, viste le mie condizioni, il volo non potrà avvenire a una quota molto alta e ci vorranno cinque ore e mezza per arrivare Roma, due in più di quanto ci avevano messo per raggiungere Baghdad. Sbarco a Roma distrutta, ma finalmente a casa, anche se realmente nella mia casa avrei rimesso piede solo dopo aver passato tre settimane all'ospedale militare del Celio. Il Celio era una novità. Prima mi avevano detto che mi avrebbero portato all'ospedale Gemelli, dove la coincidenza con il ricovero del papa avrebbe sicuramente sovraccaricato l'ospedale di tensione mediatica. Del Celio avevo sentito parlare solo da amici che vi erano passati durante il servizio militare, molti anni addietro, e non ne conservavano un buon ricordo. Ma, soprattutto, essere ricoverata in un ospedale militare mi sembrava poco adatto a una pacifista. Anche se pensavo che doveva essere il luogo più attrezzato a curare ferite di arma da fuoco. Mi sarei ricreduta sull'ospedale militare, il Celio è stata un'altra delle involontarie positive scoperte fatte a causa della mia
disavventura. Non solo per l'efficienza e la professionalità del personale medico, ma anche per l'umanità e la solidarietà che mi ha circondata e la protezione dall'assalto della stampa e da un eccessivo afflusso di amici e conoscenti, che avrei salutato volentieri se solo fossi stata in condizioni di farlo. L'arrivo in Italia è stato segnato dolorosamente dalla morte di Calipari. Una persona che ho conosciuto solo per una ventina di minuti, ma che mi è apparsa subito straordinaria. Ne avrei avuto la conferma in Italia, innanzitutto da Gabriele e Pier che l'avevano incontrato durante il mio sequestro, dalla moglie Rosa, dai suoi compagni di lavoro, ma anche da chi l'aveva conosciuto prima, soprattutto quando lavorava all'ufficio immigrazione. Tanto è vero che in Italia è stato subito celebrato come un "eroe" nazionale e non solo dalle autorità ma anche dalla gente comune. Io non amo le definizioni retoriche, ma sicuramente Calipari e i suoi compagni mi hanno dato una nuova immagine di chi si sente "servitore dello stato", anche se neppure questa definizione è particolarmente felice. E comunque sia, una persona come Calipari non può morire impunemente, senza che si faccia il possibile per scoprire la verità su quello che è successo quella sera del 4 marzo a Baghdad, come ha chiesto anche il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi. Innanzitutto dovrebbero farlo il governo e le autorità che lo hanno celebrato come "eroe" e che hanno il potere, per esempio, di imporre alle autorità americane di rispondere alle rogatone avanzate dalla magistratura italiana. Non sarà facile perché la verità viene negata dagli americani, gli unici a sapere esattamente cosa sia accaduto. L'inchiesta militare americana dopo le contrastanti versioni dei fatti si è conclusa, come prevedibile, con un'assoluzione piena dei militari che hanno sparato e l'archiviazione del "caso Calipari" da parte degli Stati Uniti. La versione dei militari Usa era che la vettura su cui viaggiavamo andava forte (settanta-ottanta chilometri orari), non si è fermata ai ripetuti segnali -a voce, con le luci e spari in aria -e quindi sono stati costretti a sparare per fermare l'auto. Quella dei due testimoni italiani -l'agente Carpani e io, che sostanzialmente coincidono, anche se non ci siamo mai parlati -sostiene al contrario che la macchina non andava affatto forte (quaranta-cinquanta chilometri orari), non c'era stato alcun preavviso per fermarci, la macchina è stata illuminata contemporaneamente all'arrivo dei proiettili, ed è stata colpita da destra e all'altezza dei passeggeri, non al motore -dove è arrivato un solo colpo -o alle ruote per fermarla. Questa versione è stata sostenuta anche dal governo italiano, per la precisione dal ministro degli Esteri Gianfranco Fini, quando ha riferito alla Camera sulla dinamica dell'accaduto. L'atteggiamento del governo italiano ha indotto gli americani, che avevano già liquidato la questione come un banale "incidente", a nominare una commissione militare d'inchiesta includendo -fatto eccezionale -anche due rappresentanti italiani -il consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, l'ambasciatore Cesare Ragaglini, e il generale del Sismi Pierluigi Campregher-retrocessi però al rango di semplici osservatori, visto che non potevano nemmeno intervenire direttamente negli interrogatori. Inoltre, quando i due italiani sono arrivati a Baghdad (il 12 marzo) tutte le prove sul luogo della sparatoria erano state cancellate: la macchina rimossa e anche i proiettili perché, hanno detto gli americani, avrebbero potuto bucare le ruote dei mezzi militari! Io sono stata interrogata due volte dalla commissione guidata dal generale Peter Vangjel -una volta per iscritto e un'altra in teleconferenza con Baghdad -senza che la mia testimonianza fosse tenuta in alcuna considerazione. Quello che mi era parso preoccupare il generale era solo la coincidenza della mia testimonianza con quella dell'agente del Sismi. E probabilmente per questo nel rapporto americano è citata solo quella dell'agente, che non poteva essere ignorata. La commissione, nominata l'8 marzo, ha concluso i lavori con un rapporto, reso noto il 30 aprile 2005, che non è stato però accettato dai due rappresentanti italiani che ne hanno
redatto un altro, di segno completamente diverso. Di fatto gli americani confermano la loro versione nonostante le testimonianze spesso con-traddittorie dei soldati che facevano parte del posto di blocco mobile -scagionando completamente l'unico militare che, secondo la versione Usa, avrebbe sparato. Tutto regolare dunque. L'impunità dei soldati americani è ancora una volta salvaguardata. L'atteggiamento è giustificato, con arroganza, dal fatto che in Iraq si sta combattendo una guerra. Che Bush aveva dichiarato finita il primo maggio 2003 a bordo della portaerei Lincoln! Al di là delle affermazioni dei soldati che dicono di aver segnalato la loro presenza e la richiesta di fermarci con segnalazioni visive o sparando in aria eccetera -cosa assolutamente falsa -, un fatto che risulta da entrambi i rapporti, americano e italiano, è particolarmente inquietante: il comandante della pattuglia mobile, capitano Drew chiede ripetutamente al Toc (Tactical Operation Centre) del Battaglione di fanteria, a partire da poco prima delle venti, e a intervalli di pochi minuti, se può smobilitare il posto di blocco 541. "Il capitano comandante della compagnia ha dichiarato che era preoccupato per il fatto che, lasciando i suoi soldati in una posizione statica per più di quindici minuti, li avrebbe esposti a possibili attacchi," si legge nei rapporti (americano e italiano). Ma gli viene sempre detto che deve mantenere la posizione, finché all'ultima telefonata, la settima in circa mezz'ora, delle 20 e 30, non solo gli viene detto di non smobilitare, ma gli viene risposto: "La Divisione C aveva indicato di non spostarsi dai posti di blocco poiché il convoglio sarebbe passato sulla Route Irish entro circa venti minuti". Il convoglio cui si fa riferimento -conosciuto dopo il disvelamento degli omissis -è quello di Negroponte. L'ex ambasciatore americano a Baghdad non si muoveva mai se non in elicottero e aveva persino paura a mettere i piedi fuori dal suo palazzo, che era stato di Saddam, anche solo per fare una foto, come mi aveva raccontato un amico fotografo. E invece quella sera, non potendo usare l'elicottero per il cattivo tempo,
aveva deciso di andare a una cena a Camp Victory via terra e per poterlo fare aveva interrotto a lungo anche la strada su cui noi saremmo passati. Ma il blocco, quando noi siamo arrivati, era già stato rimosso perché Negroponte era già arrivato a destinazione. "Il convoglio Vip è partito dalla zona internazionale conquattro Humvee approssimativamente alle 19 e 45. È arrivato all'entrata di Camp Victory alle 20 e 10. Il convoglio ha raggiunto la destinazione a Camp Victory alle 20 e 20," si legge nel rapporto Usa, passando per un'altra strada, e sarebbe tornato in elicottero, visto che non pioveva più. Tutte le informazioni erano state trasmesse dalla scorta di Negroponte. Ma "non ci sono prove che indichino che il Battaglione di artiglieria abbia trasmesso le informazioni relative agli orari di partenza e arrivo del Vip ad altre unità", rileva il rapporto italiano. Per di più, alle venti e trenta l'agente alla guida della nostra macchina aveva già comunicato all'ufficiale di collegamento italiano, il generale Mario Marioli, vicecomandante del corpo d'armata multinazionale in contatto permanente con il suo vice americano, capitano Green, che stavamo arrivando e, guarda caso, saremmo arrivati proprio "venti minuti circa", dopo l'ultima comunicazione al capitano Drew. Perché? Il capo divisione poteva ignorare che Negroponte era già arrivato a destinazione? Sicuramente non poteva avere l'informazione che sarebbe passato alle venti e cinquanta sulla Irish Route, perché era falsa. Allora perché un'informazione sbagliata è stata passata al comandante della pattuglia mobile? E quale può essere stato l'effetto? Ammesso che non servisse alla copertura di qualcosa che non conosciamo, e probabilmente non conosceremo mai, come minimo queste false informazioni sono servite a creare un clima per cui T'incidente" diventava quasi inevitabile. Perché se i soldati, già sotto stress da parecchio tempo, si aspettavano proprio in quel momento il convoglio di Negro138 ponte e invece si sono visti arrivare una macchina irachena, non ci hanno pensato due volte prima di sparare, senza avvisi e verifiche, come fanno sempre. Di queste "posizioni di blocco" non si conoscono nemmeno le regole d'ingaggio, perché si tratta di "missioni" non codificate e quindi senza "disposizioni scritte". Le modalità di attuazione sono perciò affidate ai reparti che le realizzano. Nelle sale operative gli inquirenti non hanno trovato traccia dei "duty bg" (diario degli avvenimenti) di quel posto di blocco: vengono distrutti alla fine del turno di servizio! Illegalità totale. D'altra parte, in gergo, questi blocchi stradali vengono definiti, dagli occidentali, "illegai checkpoint" in quanto non vengono segnalati e non si conoscono le regole di ingaggio. La giustificazione perla mancata segnalazione di quel BP541, da parte dell'ufficiale Usa responsabile, è perlomeno patetica: i passeggeri dell'autovettura non avrebbero comunque compreso il significato di eventuali cartelli, in quanto scritti in arabo e in inglese (del tipo: "Stop", "Slow down" e "Danger"). E comunque i cartelli di quella unità non erano a disposizione, "da alcune settimane erano in mano a 'tecnici' che avrebbero dovuto coprirne con nastro adesivo alcune parti/frasi ritenute offensive per i civili" (!). Del resto a una specifica domanda sulla sua considerazione della sicurezza dei civili, il vicecomandante del dispositivo aveva risposto: "Tutto è pericoloso in Iraq". In questo modo vengono uccisi ogni giorno degli iracheni a Baghdad, senza che la loro morte diventi nemmeno notizia al pari delle vittime delle autobombe. La mancanza di rispetto dei civili a questi posti di blocco "illegali" sottolineata nel rapporto redatto dai due membri italiani della Commissione militare Usa è in netto contrasto con l'approccio americano secondo il quale qualsia-si azione di forza è giustificata perché in Iraq si agisce in stato di guerra. E questo stato di guerra, testimoniato da due rappresentanti del governo italiano, evidenzia l'incongruità della presenza italiana in Iraq che viene spacciata per "missione di pace". Se il rapporto è stato fatto proprio dal governo italiano, la logica conseguenza avrebbe dovuto essere il ritiro delle truppe. Cosa che non è stata nemmeno
presa in considerazione. Al contrario, il governo italiano ha ribadito la propria alleanza con Bush, nonostante abbia chiuso il caso Calipari, mentre il rapporto italiano sostanzialmente lo riapre sulla base delle testimonianze italiane (di Carpani e mia). La parola è passata così alla magistratura italiana che, dopo quasi due mesi dall'incidente, è riuscita a ottenere l'invio della Toyota Corolla su cui viaggiavamo al momento della sparatoria, per poterla esaminare. L'auto è arrivata in Italia il 27 aprile, quando già circolavano indiscrezioni sul rapporto della Commissione d'inchiesta militare Usa. Dalle prime indicazioni dei periti che hanno visionato l'auto risulterebbe che a sparare non sia stato un solo militare. E questo di per sé già smonterebbe il rapporto americano. Comunque, pur conoscendo i nomi dei soldati che facevano parte della pattuglia mobile grazie al disvelamento degli omissis, l'Italia non potrà mai procedere contro soldati americani, che sono coperti dall'impunità nel loro operato all'estero. Grazie ad accordi internazionali, infatti, i soldati americani possono essere processati solo negli Stati Uniti. E questi sono già stati assolti dalla Commissione Vangjel. Fino a dove potrà e vorrà arrivare la magistratura italiana? Molto dipenderà anche dalla volontà politica. Precedenti come il caso Cermis non lasciano spazio all'ottimismo. Anche perché il tempo stringe e l'inchiesta italiana dovrebbe concludersi entro marzo. Ma "non è possibile avere pace se non c'è giustizia" come scrive Rosa Calipari {Nicola Calipari, ucciso dal fuoco amico, "l'Unità"). 10. Italia Subito dopo il mio rapimento, dopo aver visto l'annuncio del sequestro dato con insolita tempestività dalla televisione irachena, mi chiedevo come Pier e i miei genitori lo avrebbero saputo e che effetto avrebbe fatto
loro. Sicuramente l'Ansa, l'agenzia di stampa italiana, aveva battuto subito la notizia, visto che dovevo vedermi a pranzo con l'inviato dell'agenzia e altri colleghi. La stessa Iraqya, dando la notizia, mostrava già alcune mie immagini. Al mio giornale, "il manifesto", è sicuramente arrivata quasi in tempo reale, appena prima della riunione di redazione. A molte domande avrei avuto una risposta solo al mio ritorno. Anche a queste. Il primo collega a leggere il dispaccio di agenzia a "il manifesto" era rimasto tanto scioccato da non riuscire a comunicarlo agli altri. Pier l'aveva saputo mentre lavorava nel suo studio da un amico che aveva visto il Tg3 delle dodici. La conferma l'aveva avuta dai compagni del giornale e aveva poi avuto il compito ingrato di comunicarlo a mia madre e lei agli altri. Spesso durante la mia prigionia avevo cercato d'immaginare le possibili reazioni in Italia: di Pier, dei miei familiari, di colleghi, degli amici e dell'opinione pubblica. Ma con tutta la fantasia possibile non ero riuscita a raffigurarmi quello che stava davvero succedendo al di fuori della mia prigione, e non solo in Italia, in tutto il mondo. Sono tasselli di un puzzle che sono andata ricostruendo in questi mesi, attraverso conversazioni, immagini, scritti, ma soprattutto parlandone con Pier. Così Pier ricorda quel giorno, venerdì 4 febbraio: "In quel momento è cominciato il film che avevo tanto temuto di dover interpretare e che fino ad allora avevo solo immaginato, forse per scaramanzia. Certo era una delle cose possibili a cui inevitabilmente pensavo tutte le volte che partivi per un viaggio. Questa sensazione l'avevo sentita più forte l'ultima volta, ma quasi certamente è il senno del poi. O forse il ricordo di come ti fosse andata bene già tre-quattro volte (in Somalia, Afghanistan, Iraq) mi faceva presagire che prima o poi qualcosa sarebbe potuto succedere. E subito dopo averlo saputo mi sono posto il problema di chi avvisare e come. Ho chiamato ì miei e i tuoi genitori prima che lo sapessero dal telegiornale dell'una. Poi ho cominciato la serie infinita di interviste per raccontare e ricordare chi eri, 'il manifesto' ha fatto una conferenza stampa, tutti chiedevano tue foto. Il giorno dopo sono andato al congresso dei Ds per partecipare a un dibattito, ma volevo anche chiedere ai dirigenti diessini un parere e qualche indicazione su chi contattare e di chi potermi fidare. I primi contatti con Gianni Letta e il Sismi comunque sono stati tenuti da Valentino Parlato e Gabriele Polo. Io li ho incontrati in una fase successiva, a trattativa già avviata. E così, a partire da sabato, ci si vedeva al giornale per discutere e valutare notizie e fatti provenienti dall'Iraq e decidere le iniziative da prendere, giorno dopo giorno. La sera si aspettava la telefonata da Palazzo Chigi, che poteva essere un 'buonanotte' oppure 'venite qui' se c'erano novità o questioni da discutere. Durante il giorno si trattava di gestire le richieste di notizie o interviste che provenivano dai media di tutto il mondo e accogliere le visite di esponenti politici e istituzionali di tutti gli schieramenti. Si è sempi"e trattato non solo di atti di cortesia, ma di solidarietà vera, segnata dalla convinzione comune di dover fare tutto il poS" sibile per ottenere la tua liberazione senza tralasciare nessuna ipotesi o canale possibile. E questo ha accomunato esponenti del centrodestra come del centrosinistra. "L'idea di una manifestazione nazionale è venuta quasi subito ed è nata -potremmo dire -da un'oggettiva domanda di mobilitazione che cresceva non solo nel movimento pacifista, ma anche in vasti strati di opinione pubblica in altre occasioni meno sensibili alle tematiche pacifiste. Inoltre -e questo è un punto molto importante -eravamo orientati ad accreditare la natura politica del sequestro o meglio le motivazioni politiche del gruppo dei rapitori. Questa convinzione nasceva sia dalle valutazioni del Sismi, sia da quelle dei giornalisti delle tv arabe del Golfo, in genere ben informati, e anche da quelle di forze politiche e istituzionali di paesi arabi vicini o amici del partito Baath. Esclusa quindi la matrice terroristica o puramente
delinquenziale si prefigurava una sfida di carattere politico cui occorreva rispondere sullo stesso livello e non solo con l'opzione pacifista e umanitaria, che andava comunque perseguita e che era quella, in qualche modo, seguita dal governo: 'Dovete liberarla perché è una pacifista, amica del popolo iracheno' (Fini). Abbiamo quindi pianificato una risposta politica a tutti i livelli possibili. Io ho partecipato volentieri a diverse trasmissioni televisive e radiofoniche evitando, a volte con fatica, le derive sentimentali o umanitarie, insistendo invece sul piano della critica alla politica della guerra, al ruolo dell'Italia nella campagna voluta da Bush e da Blair, forte dell'opinione della stragrande maggioranza degli italiani. Da qui la nostra parola d'ordine: 'Liberiamo Giuliana e tutti gli iracheni': ritiro delle truppe, non perché ti hanno rapita ma perché è la giusta politica che il nostro governo deve seguire soprattutto dopo che nelle elezioni irachene il candidato degli Usa, l'unico a sostenere la necessità della presenza delle truppe straniere, ha preso solo il 13 percento dei voti e hanno vinto quelli che chiedevano nel proprio programma il ritiro-. Con questo spirito ho partecipato a decine di dibattiti e interviste, spesso con Gabriele Polo. Ero disponibile con tutti, perché ritenevo fosse utile farlo. E quando in una trasmissione, fatta una volta trasmesso il tuo primo video, un ascoltatore mi aveva rimproverato di fare un comizio mentre avrei dovuto invece fare una colletta per la tua liberazione, ho risposto che mi avevi chiesto di fare proprio questo e trovavo inutile e patetica la figura del marito che gira a fare una colletta per la libertà della propria compagna. Naturalmente le apparizioni in tv, così come le visite dei politici, i messaggi -in particolare quello del presidente della Repubblica e del papa venivano da noi sollecitati, ma erano anche e soprattutto il frutto di una disponibilità e una partecipazione straordinaria dei media e delle istituzioni. Sono rimasto francamente stupito da questa disponibilità, non mi aspettavo un sostegno così diffuso e convinto -salvo le solite eccezioni -alle ragioni della tua liberazione e
anche, in fondo, alle tue scelte professionali; anche se, dopo la tua liberazione, le cose sono un po' cambiate." I miei rapitori, come avevate intuito, erano molto sensibili alle mobilitazioni per la mia liberazione, ma a me ha sorpreso molto l'eccitazione provocata dal fatto che i capitani delle squadre di calcio avessero indossato la maglietta con la scritta "liberate Giuliana". E soprattutto che a farlo sia stato anche Totti, di cui un mio sequestratore era un tifoso sfegatato. Com'è nata l'idea... "In realtà l'idea iniziale, contattando Franco Carraro, presidente della Federcalcio, era di chiedere la possibilità di esporre in tutti gli stadi uno striscione per la tua liberazione. A questa si è aggiunta l'iniziativa delle magliette che i capitani di tutte le squadre hanno indossato prima di iniziare la partita." L'unica manifestazione che io ho potuto vedere dalla mia prigionia è stata quella in Campidoglio, mi ha fatto un certo effetto veder stendere il mio ritratto, la gente in piazza con le candele. Mi ha dato subito coraggio, e l'impressione di non essere sola, abbandonata. Questa è stata la prima manifestazione, il giorno dopo il mio rapimento... "Fin da venerdì mi aveva chiamato Veltroni ed era nata l'idea di questa fiaccolata, ma non era stata -e non poteva esserlo -una grande manifestazione. Per questo avevo qualche preoccupazione per il corteo del 19 febbraio: il timore che diventasse una manifestazione di partiti, di militanti. Tra l'altro alcuni esponenti politici del centrosinistra avanzavano un dubbio reale: il rischio, crescendo la mobilitazione, di aumentare, per così dire, il prezzo del riscatto 'valorizzando' troppo l'ostaggio agli occhi dei rapitori mentre sarebbe stato meglio mantenere su tutta la vicenda un basso profilo. Devo ammettere che all'inizio -forse per paura -anch'io erosensibile a questa considerazione. È stato Valentino Parlato a tagliare corto: 'Questo è un sequestro di tipo politico e una maggior dose di politica serve a rafforzare il ruolo di Giuliana e a far capire ai sequestratori che è un errore da parte loro mettere a tacere una voce come la sua'. Naturalmente, si scommetteva sul fatto che ci fosse nei rapitori una qualche sensibilità politica, se fossero stati dei banditi tutto ciò non avrebbe avuto alcun senso. "Individuata la natura politica del sequestro, veniva da sé che alzare il livello politico della mobilitazione serviva a facilitare la trattativa e a far capire ai rapitori che poteva essere sbagliato e controproducente per loro portare alle estreme conseguenze il sequestro. Con la manifestazione si rispondeva poi a una domanda che proveniva non solo dal movimento pacifista, come la diffusione del tuo primo video ha confermato. Resto convinto, e l'abbiamo ve-rificato, che è stata la chiave di volta che ha almeno raddoppiato la partecipazione popolare. Ha avuto l'effetto di portare in piazza quella che potremmo definire 'gente comune': il video ha sollecitato i buoni sentimenti spesso latenti nel nostro paese. Su questo vale forse la pena di fare una riflessione: la grande mobilitazione di popolo che ha seguito il tuo rapimento in tante forme e iniziative non può spiegarsi solo con il valore in sé della tua vicenda. In altri casi, prima e dopo, non è avvenuta la stessa cosa. Certo l'appartenenza a 'il manifesto' e una storia politica lunga e ben definita sono cose importanti che espandono la cerchia di conoscenza o di stima, ma non bastano a spiegare quello che è successo. Credo che molta gente abbia visto in te un simbolo positivo per un insieme di cose: donna, giornalista combattiva, non una prima donna, coscienziosa, professionale, non debordante nei dibattiti, una persona normale, capace ma fragile, perché il video aveva segnalato la fragilità. Ecco, tutto ciò ha contribuito a costruire un simbolo. E un po' come il cormorano che nuota nel petrolio: muoiono centinaia di cormorani nello stesso modo, come muoiono tanti bambini di fame, ma poi succede che qualcuno di questi diventa il centro dell'attenzione, un simbolo, un'icona. Perché? Per tanti motivi: per il sistema di selezione e
diffusione mediatica delle notizie, perché la gente ha bisogno di riversare quello che di buono ha dentro di sé in qualcosa per cui valga la pena di credere e anche di scendere in piazza o forse non c'è un motivo: succede e basta. Tant'è che alla manifestazione del 19 febbraio hanno partecipato militanti pacifisti, ma anche tanta gente comune che non si era mai vista a manifestazioni pacifiste." Ma questa mobilitazione ha provocato una presa di coscienza della gente comune sui temi della guerra, sulla situazione in Iraq? "Ha obbligato a riflettere, ha smosso qualcosa, perché probabilmente la maggior parte della gente di questo paese non corrisponde al ritratto che spesso si fa dell'italiano menefreghista e berlusconizzato. La maggioranza non è così, ma forse non ha voglia, lo nasconde, ha timori e la tua vicenda è servita ai fini di una piccola presa di coscienza, offrendo un buona ragione per esprimersi e scendere in piazza. E in ogni modo ha portato al centro il problema della guerra in Iraq. Perché un conto sono le notizie dei telegiornali, altro è il rapimento di una persona che -se anche non conosci direttamente -impone di chiedersi che cosa stia veramente succedendo in Iraq. "Naturalmente non è stato per tutti così: alcuni giornali hanno dato voce a un'altra Italia che non si è fatta scrupolo prima, e dopo, di speculare e dileggiare la tua vicenda, ma questa è, in fondo, la controprova di quanto dicevamo prima. "C'è da notare anche che durante la manifestazione non ci sono stati slogan di critica a Berlusconi e Bush e questo non perché i manifestanti non lo pensassero, ma perché non era quello l'obiettivo. Quello che chiedevamo al governo era di prendere atto delle mutate condizioni della realtà irachena e di dare un segnale politico forte programmando il ritiro delle truppe. Tutto questo avveniva mentre noi -io e 'il manifesto' -mantenevamo strettissimi rapporti con il governo e con il Sismi senza alcuna tensione.
Ciascuno faceva il suo mestiere. Noi ritenevamo che la politica della trattativa del governo italiano fosse giusta e dall'altra parte Letta -che rappresentava il governo italiano -non disapprovava le nostre iniziative, compresa la manifestazione. Quindi c'è stata una politica parallela: da parte nostra mobilitazione contro la guerra, per la libertà tua e di tutti gli iracheni; da parte del governo la linea della trattativa e della pressione politica internazionale per la liberazione di una donna pacifista e amica del popolo iracheno. "Vorrei ricordare ancora due cose di quei giorni che credo descrivano bene il clima che si era creato e offrano una chiave di lettura interessante per capire l'umore profondo di questo paese. "Pochi giorni dopo il tuo primo video pensammo di pubblicare su 'il manifesto' in italiano e in arabo una mia lettera a te e ai tuoi rapitori nella speranza che potesse in qualche modo arrivare nella tua prigione e servisse anche a tenere viva l'attenzione sul tuo caso. "Cominciava così: 'Cara Giuliana, nel video mi sembravi un uccellino in gabbia...' ('il manifesto', 22 febbraio 2005). Ha avuto un effetto inimmaginabile, non in Iraq, naturalmente, ma qui: in decine di scuole i bambini hanno scritto 'pensierini' e fatto disegni su questa immagine dell'uccellino in gabbia. Molti li hanno spediti a 'il manifesto' e li hai potuti vedere quando sei tornata. Certamente , sono stati indotti a farlo dalle maestre, ma non è questo il punto. Hanno rappresentato un sentimento comune: i disegni e le parole esprimevano in forma semplice quello che in fondo tutti noi pensavamo. Mi piacerebbe in qualche modo pubblicarli. "L'altra cosa è stata la disponibilità del mondo dell'informazione e dello spettacolo. Intendiamoci: so benissimo che in quei giorni tu eri la notizia, tu, i tuoi genitori, in parte anch'io e quindi c'era un interesse 'professionale' a invitarci e farci parlare, ma il calore che sentivi dietro le quinte, le lacrime sincere di molte ragazze che partecipavano alle trasmissioni mattutine di intrattenimento, non erano un dovere professionale. "Quando poi decidemmo di organizzare un concerto all'Auditorium di Roma per sabato 5 marzo, augurandoci tutti che fosse una festa per la tua liberazione (disdetto poi per la tragedia della morte di Nicola), la disponibilità a partecipare fu assoluta da parte di tutti gli artisti contattati, alcuni anche a prezzo di qualche sacrificio, così come registrammo sempre la massima disponibilità a offrire spazi all'interno di spettacoli teatrali o televisivi per raccontare la tua storia o per fare appelli per la tua liberazione. "Resterebbe da chiedersi quanto di questa mobilitazione, di questa disponibilità di partecipazione e impegno, di questa domanda di nuova politica sia rimasta, si sia sedimentata o diventata memoria consapevole e progetto nel campo del centrosinistra. "Credo, francamente, nulla e non so dire perché, per responsabilità di chi, forse anche un po' nostra o forse semplicemente perché la politica attuale non ha gli strumenti e le antenne per cogliere appieno queste novità. La qualità della domanda politica rappresentata dalla gente comune che partecipava per la prima volta a una manifestazione o il sentimento che stava dietro ai disegni dei bambini non portano a interrogarci semplicemente sul rapporto con i movimenti, che esistono spesso solo come slogan o nell'immaginario di qualche presunto leader, ma ci impongo148 no un ripensamento di categorie interpretative e quindi anche di un progetto che non pare alla portata, con poche eccezioni, dei gruppi dirigenti della sinistra. Ma qui rischia-mo di andare fuori tema." Tornando, vedendo le foto, sentendo i racconti, ho notato che comunque tutte queste azioni erano segnate dall'ottimismo che nasceva dal successo delle manifestazioni ma probabilmente anche dalle trattative in corso. Anch'io da dentro la prigione avvertivo che c'era una trattativa e questo mi aiutava a sperare... "Della trattativa o dei contatti, naturalmente, sappiamo poco, ne intuiamo la natura politica e la tempistica
che procede abbastanza velocemente e con risultati tangibili. Arrivano le prove (la lettera eccetera). Questo filo non si interrompe fino alla crisi provocata dal tentativo di un'altra mediazione, quella di Maurizio Scelli, commissario straordinario della Croce rossa italiana, che probabilmente ha ritardato la tua liberazione, come si è ampiamente scritto di recente. Questo è stato un punto di vera crisi e certo oggi viene da chiedersi come sarebbero andate le cose se quell'intrusione non ci fosse stata, motivata tra l'altro forse solo da ambizioni personali. "In tutto questo periodo ho avuto la possibilità -anche se ovviamente limitata -di conoscere il lavoro del Sismi che, al di là della indiscussa professionalità, mi è sembrato abbia aggiunto nella tua vicenda un surplus di impegno e passione oltre quello che poteva essere il puro dovere d'ufficio, forse anche frutto di un apprezzamento del tuo lavoro." Uno di loro mi ha raccontato che nel loro ufficio di coordinamento avevano appeso una mia foto su una lavagna e la sera prima di andarsene mi salutavano dicendomi che presto mi avrebbero liberata... "Qui inizia il rapporto con Calipari, che io conosco tardi -aveva rapporti più stretti con Gabriele -dopo l'arrivo del tuo video." Ecco il video, a te che impressione ha fatto, perché mi hai parlato della reazione della gente, ma qual è stata la tua e quella di Calipari, visto che è stato motivo del vostro primo incontro. "La prima valutazione -anche se può sembrare paradossale -è stata rassicurante. Si trattava non solo di una prova in vita certa, ma le tue condizioni, al di là della drammaticità della situazione in cui veniva registrato il video, apparivano comunque confortanti: non eri legata, non c'erano segni di violenza, drappi neri, non c'erano uomini armati, i capelli erano sciolti e, guardandolo e riguardandolo, anche per la
terminologia usata, si capiva che stavi eseguendo degli ordini, recitando un copione. Comunque, sembravi presente a te stessa, in grado -pur nella tragedia -di reggere la situazione. Quello che abbiamo notato è stata la coincidenza tra la versione italiana e francese, come di chi avesse imparato a memoria una parte prestabilita. Impressione avvalorata dal fatto che a un certo punto ti interrompi, dici che ti sei sbagliata, che devi ricominciare, insomma apparivi in qualche modo consapevole di quello che stavi facendo. Tuttavia, la crudezza e la drammaticità del messaggio mi hanno profondamente segnato, soprattutto perché ti rivolgevi a me, sono stati un pugno nello stomaco. E lo sono stati particolarmente per tutti coloro che non hanno potuto fare questi ragionamenti. "Queste mie impressioni erano supportate dalle valuta-zioni di Calipari, il quale mi ha dato subito l'impressione di grande concretezza, serietà, riflessività e determinazione. Le sue parole e le sue argomentazioni sono state decisive per convincermi che la strada era quella giusta, che si stava lavorando bene e che si sarebbe ottenuto un risultato. Intendiamoci, lui non ha mai dato per scontato un esito positivo, non ha mai detto andrà tutto bene, diceva: la strada è quella giusta, stiamo lavorando, i risultati verranno, sempre però tenendo conto che ci sono molti pericoli in agguato." Comunque il suo atteggiamento ha contribuito a mantenere un certo ottimismo... "Ha dato l'idea che si stesse facendo tutto quello che si poteva fare, la situazione più critica in questi casi si vive nelle ore subito dopo il sequestro, quando non si sa ancora con chi si avrà a che fare e quando basta un niente per far precipitare tutto. Poi la situazione si consolida, si segue una strada, che non vuoi dire un unico canale ma un metodo nella ricerca degli interlocutori e una disponibilità al confronto. L'ottimismo era quindi il frutto della concretezza di un percorso, che aveva già dato risultati nel passato e della natura del sequestro, che ci aveva portato a escludere le ipotesi peggiori. Anche le esperienze passate, persino quella terribile di Baldoni, indicavano che superato un certo periodo e vista la natura del sequestro non c'è più interesse a uccidere l'ostaggio, naturalmente se è in corso una trattativa." Che effetto ti facevano rivendicazioni o notizie della mia uccisione... "Queste notizie erano precedute da indicazioni del Sismi che ne valutavano l'infondatezza. Dopodiché, facevano comunque un certo effetto. Anche se poi regolarmente seguivano le smentite." Voi vi aspettavate la liberazione. "Sì, quel venerdì pensavo che sarei partito per il Golfo per venirti a prendere. In realtà lo pensavo anche prima, all'inizio della settimana, Calipari era partito per chiudere la trattativa e tutto lasciava prevedere tempi stretti. Quindi, venerdì, quando la notizia è stata data, per prima, da Al Jazeera, non mi ha sorpreso, poi il telefono è andato in tilt e sono andato a 'il manifesto'. Da lì con Gabriele siamo corsi a Palazzo Chigi seguiti da qualche giornalista. Entrando dalla porta sul retro, senza nessun controllo, siamo saliti nell'ufficio di Gianni Letta, dove c'erano anche il direttore del Sismi, Niccolo Pollari, e un suo agente. Poi arriva anche Ber-lusconi e quindi Pollari, che aveva già parlato con te, esce dalla stanza per cercare di rimettersi in contatto perché ti potessi parlare anch'io. Invece, rientra tutto concitato e racconta quello che sta succedendo, avendo in diretta al telefono l'autista che parla di trecento-quattrocento colpi sparati contro l'auto. Di fronte alla nostra incredulità glielo richiede. Riferisce subito che Nicola è morto. E la signora? Prima dice che ti vede, che hai gli occhi aperti, che ti muovi e poi ti alzi... Sono dei minuti in cui intuiamo cosa può essere successo, ma non ne siamo ancora sicuri. Nicola è morto, questo sembra certo, anche se tutti noi speriamo che sia solo immobilizzato per le ferite e anche sulle tue condizioni non abbiamo certezze.
A questo punto succede una cosa terribile: l'agente dice di avere un fucile puntato all'orecchio e di dover spegnere il cellulare. Alla sollecitazione del direttore del Sismi di dire con chi sta parlando fa capire che ai soldati americani non importa nulla e la comunicazione si interrompe. Seguono quindici minuti di scoramento e impotenza. Sì, è proprio una sensazione d'impotenza quella che si ha, al di là delle parole, di fronte all'arroganza dell'alleato americano che decide e fa quello che vuole, essendo noi un alleato subalterno a volte anche scomodo, mai in grado di trattare alla pari, anche se, francamente, non mi aspettavo tanto. Cosa fare? Chi chiamare? Come ristabilire la comunicazione? Berlusconi è silenzioso forse già presagendo gli effetti dirompenti che ne sarebbero seguiti -Letta cerca il ministro Martino, l'ambasciatore italiano a Baghdad, Gianludovico De Martino, l'ambasciatore americano. Arriva un altro agente del Sismi, che parla con Pollari, decidono di partire per Baghdad. Berlusconi dice di portare anche me. A quel punto si organizza la partenza per venirti a prendere, anche se non sappiamo ancora se sarà possibile trasportarti. Gabriele va al giornale. Io resto ancora qualche minuto, ho uno scrupolo e chiedo a Berlusconi che cosa si potrà dire di tutto quello che è successo. Perché in quel momento non ero tanto sicuro che della morte di Nicola se ne sarebbe fatto un elemento di orgoglio nazionale anche se adesso, ripensandoci, mi sembra fosse inevitabile. Ma non si trattava solo della morte di Nicola: era in corso un'operazione segreta condotta da agenti italiani cui gli americani avevano sparato addosso, altri forse erano coinvolti o in pericolo, chiedo quale versione verrà data. Uscendo da Palazzo Chigi, cosa potrò dire a chi mi chiederà cosa è successo? Berlusconi non ha esitazioni: 'Tutta la verità', risponde secco. Me ne vado. Passo da casa per prendere le cose per te, senza sapere nemmeno cosa sarebbe servito. Prendo comunque una giacca. Parto per l'aeroporto di Ciampino, con una macchina del Sismi, che deve pure fermarsi a fare benzina. Dopo affannose ricerche del numero telefonico di Palazzo Chigi -che non mi sono
portato e che non ha nemmeno l'agente che mi accompagna -riesco a parlare con Letta, che nel frattempo era riuscito a mettersi in contatto con te. Questo mi rassicura. Arrivato a Ciampino, l'agente del Sismi che sta organizzando la nostra partenza è al telefono con i militari americani che controllano l'aeroporto di Baghdad e non vogliono lasciarci atterrare prima delle sei del mattino, quando è chiaro. L'agente non si lascia intimorire: noi partiamo lo stesso, abbiamo l'autorizzazione del presidente del Consiglio, se non volete farci atterrare tirateci giù. A quel punto, erano già le undici, siamo pronti -si era formata una vera e propria squadra di una decina di persone, c'era anche un medico -per partire. Siamo arrivati a Baghdad in tre ore e mezzo. Erano le quattro e mezzo, ora di Baghdad. C'è qualche problema per trovare i due elicotteri che ci devono portare all'ospedale dove sei ricoverata. Alla fine li troviamo e arriviamo all'ospedale, poi la storia la conosci." 11. Conclusioni È successo solo un paio di volte, che entrambi i miei guardiani si allontanassero dall'appartamento-prigione in cui ero tenuta in ostaggio. Improvvisamente, quando bussando alla porta nessuno mi rispondeva o veniva ad aprirmi, mi assaliva la paura dell'abbandono che si aggiungeva all'angoscia provocata dall'insopportabile claustrofobia. Il pensiero che -qualsiasi cosa potesse succedere -sarei morta rinchiusa dentro la mia stanza, come un uccello in gab-bia o, peggio, come un topo in trappola, mi terrorizzava. E ancora oggi quando mi tornano alla mente quei momenti rivivo il terrore di allora, mi prende la paura di essere abbandonata con una angoscia che non riesco a controllare. Non è l'unico retaggio della mia prigionia. Allora, costretta a passare giornate da sola senza poter scambiare qualche parola, un pensiero, sognavo di potermi confondere tra la folla -non solo per parlare ma anche per ascoltare delle voci -ora invece quando mi trovo tra molte persone mi prende l'ansia. Tanta gente mi fa paura. E per strada non posso sfuggire alle persone che mi riconoscono, spesso con discrezione mi fermano, sono soprattutto donne: "Siamo fiere di lei, continui così", dicono. Mi chiedo perché, imbarazzata. A volte sento il bisogno di restare sola -che gli amici non capiscono -forse per misurarmi con me stessa, le mie paure. Che sono molte. Come quella del buio: non riesco più a dormire con la luce spenta. A volte mi sveglio improvvisamente con il panico: dove sono? Poi una luce mi rassicura sul luogo. Mi è rimasto un senso d'insicurezza in tutto quello che faccio: dall'attraversare la strada all'andare in macchina. Ed è probabilmente questa insicurezza che mi fa vivere alla giornata, con la paura di fare progetti per il futuro. Ma, più della prigionia, penso sia l'effetto di quello che è successo dopo la mia liberazione: la sparatoria ha rotto un'emozione, che stavo iniziando a provare, la sensazione di tornare libera e la gioia di poterlo essere. Questa emozione è stata brutalmente spezzata e io non ho potuto e non potrò mai essere felice per la mia liberazione, perché è costata la vita alla persona che mi ha salvata. Comunque grazie a Nicola Calipari sono viva e libera. E forse un po' per volta riuscirò a vincere le paure e le angosce, a riacquistare fiducia in me stessa e a fare progetti. Prima di questa tragica avventura non facevo in tempo a tornare da un viaggio che già ne programmavo un altro. Ora questa irrequietezza è come se fosse imprigionata dentro di me. Forse tornerò come prima, sicuramente non smetterò di lottare, fin da subito, per sapere la verità sulla morte di Nicola Calipari. Il mio sequestro ha avuto un duplice effetto: una frustrazione sul piano professionale e una conferma sul piano politico. Fino alla vigilia della mia ultima partenza per Baghdad, sostenevo che nonostante la pericolosità della situazione, bisognasse correre il rischio per informare sugli effetti devastanti della guerra in
Iraq. Io, come altri, quel rischio l'ho corso, ma ho dovuto constatare che in questo momento in Iraq non c'è più la possibilità di lavorare. Di svolgere questo mestiere come lo intendo io: andare sul terreno, rappresentare la quotidianità della guerra e testimoniare delle sofferenze parlando con i protagonisti di quella realtà. Sono andata a intervistare i profughi di Falluja, tra gli iracheni quelli che forse più hanno sofferto sotto l'occupazione, e sono stata rapita. La giornalista francese, Florence Aubenas, è stata rapita esattamente nello stesso posto, un mese prima, ma l'avrei saputo solo dopo. Rapite dopo aver intervistato i profughi, forse persino proprio per averli intervistati, è la dimostrazione che in Iraq -chi ha il potere delle armi -non vuole testimoni. E dover accettare questa imposizione è in qualche modo una sconfitta. Non solo per me, ma anche per coloro che in Iraq hanno bisogno di far sentire la loro voce. Quelli che in ogni zona di conflitto -dalla Somalia all'Algeria, dalla Palestina all'Afghanistan e fino a prima del mio rapimento anche in Iraq -ho cercato di far parlare. Evidentemente -e questo è il mio rammarico -non avevo calcolato fino a che punto possa arrivare la degenerazione della guerra, pur avendola sempre denunciata: sono stati i miei rapitori a sbattermi in faccia la dura realtà. In Iraq sono saltati tutti i parametri possibili per potersi in qualche modo salvaguardare, è come trovarsi in una palude senza sapere dove mettere i piedi. Non che pensassi di poter essere immune dai rapimenti, anzi, in borsa avevo sempre l'indispensabile per la sopravvivenza in cattività, ma il sequestro mi ha fatto constatare che non ha più senso rischiare per informare. Il sequestro è stata la riprova che la resistenza armata (o almeno una parte) non è interessata ad avere un rapporto con l'esterno, visto che tratta tutti gli stranieri da nemici senza più fare distinzione tra militari che occupano il paese, contractor che fanno la guerra sporca, lavoratori umanitari impegnati a fianco dei più disagiati e giornalisti che vogliono raccontare una realtà diversa da quella vista dagli embedded attraverso il filtro (o la
censura) dei comandi militari. Ma, oggi, a causa del mio sequestro, il dover dire che non tornerò più in Iraq finché la situazione non sarà cambiata è l'ammissione di una sconfitta. Quello che mi è successo dopo la liberazione, la macchina colpita dal "fuoco amico", mi ha riportata alle origini della precipitazione della situazione in Iraq: la guerra. Con la guerra, la caduta di Saddam non ha portato la libertà ma l'imbarbarimento della Mesopotamia, culla di civiltà con i sumeri, gli assiri e i babilonesi. La realtà è questa... Per chi ha avuto la pazienza di arrivare alla fine del libro il doppio senso del titolo sarà chiaro. "Fuoco amico" non sono solo i colpi degli americani contro la macchina sulla quale viaggiavo insieme a due agenti del Sismi e che hanno ucciso Nicola Calipari, ma anche quelli "sparati" contro di me dai miei rapitori: io, impegnata contro la guerra e l'occupazione dell'Iraq, sono stata rapita da chi sosteneva di combattere per la liberazione del proprio paese. Per di più, sono stata rapita mentre cercavo testimonianze sugli effetti delle bombe che hanno distrutto Falluja, cercavo di dar voce a chi non può averla attraverso i giornalisti embedded. Perché proprio me? È la domanda che mi ha tormentata durante la prigionia. Che fortunatamente è finita. E poi, l'angoscia: perché proprio Nicola Calipari? Avremo mai una risposta? Non possiamo rinunciare a cercare la verità.