Friedrich Nietzsche
 8867230220, 9788867230228 [PDF]

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Zitiervorschau

Mia cara Lou, la Sua idea di una riduzione dei sistemi filosofici ai documenti personali dei loro autori è davvero il pensiero di una «mente sorella»: io stesso, a Basilea, ho esposto in questo senso la storia della filo­ sofia antica, e amavo dire a quanti mi ascol­ tavano: «Questo sistema è stato confutato ed è morto, ma la persona che vi sta dietro non è confutabile, la persona non può consi­ derarsi morta» - Platone, ad esempio [...]. Per quanto concerne la Sua «Caratterizza­ zione di me stesso » che, come Lei scrive, ri­ sponde a verità , mi ha fatto venire in mente quei miei versi della Gaia scienza , [...] dal titolo «Richiesta». Indovini un po’ , mia ca­ ra Lou, quel ch’ io richiedo? [...] Ieri pomeriggio ero felice: il cielo era azzur­ ro, faria mite e tersa, ero nella Rosenthal, richiamatovi dalla musica della Carmen. Sono rimasto seduto là per tre ore, e ho be­ vuto il secondo cognac di quest’ anno, in ri­ cordo del primo (ah! com’era cattivo!), e in­ tanto meditavo, in tutta innocenza e malizia, se non avessi una qualche predisposizione alla follia. Alla fine mi sono detto: no. Poi è iniziata la musica della Carmen e per una mezz’ora sono stato sopraffatto dalle lacri­ me e dal batticuore. Quando leggerà queste cose, Lei concluderà di certo: sì! e prenderà un appunto per la «Caratterizzazione di me stesso ». Venga presto a Lipsia, ma presto davvero! Perché soltanto il 2 ottobre? Adieu, mia ca­ ra Lou! (.Lettera di Friedrich Nietzsche a Lou von Salomé a Stibbe, Lipsia, presumibilmente il 16 settembre 1882) A CURA Di ENRICO DONAGGIO E DOMENICO M. FAZIO

In copertina: Friedrich Nietzsche nel 1882. (Fotografia di Gustav Sci) ni Irci



TESTI E DOCUM ENTI

Lou von Salomé nel 1882. (Fotografia di Heinrich Wirth)

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TESTI E DOCUMENTI

• 188 LOU ANDREAS -SALOMÉ FRIEDRICH NIETZSCHE A CURA DI E N R IC O DO N A G G IO E D O M E N IC O M. FAZIO

SE

Titolo originale: Friedrich Nietzsche in seinen Werken

© 2 0 0 9 SE SR L V IA M A N IN 1 3 - 2 0 1 2 1 M IL A N O

INDICE

Nota al testo

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FR IE D R IC H N IE T Z SC H E

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Una lettera di Nietzsche a mo’ di prologo

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1. La sua natura

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2. Le sue trasformazioni

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3. Il « sistema Nietzsche »

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p o st f a z io n e

di Domenico M. Fazio

Appendice iconografica

193 227

NOTA AL TESTO

La presente edizione è stata realizzata sulla base dell’esemplare appartenuto al Nietzsche-Archiv di Weimar dell’edizione originale, pubblicata a Vienna nel 1894. L’esemplare, catalogato il 21.X.1908 con la segnatura Kat/15, è oggi con­ servato presso la Herzogin Anna Amalia Bibliothek di Weimar, con la segnatura Ma. 487, e reca ancora alcune glosse di pugno di Elisabeth Förster-Nietzsche. Nel corso della traduzione, tuttavia, si è tenuta presente anche la precedente edizione italiana Nietzsche. Una biografia intellettuale, traduzione di A. Barbaranelli e G. Maragliano, con un saggio introduttivo di M. Ciampa e N. Fusini, pubblicata a Roma dalla casa editrice Savelli nel 1979 e ormai da tempo fuori commercio. I termini che nell’edizione originale erano evidenziati con il carattere spa­ ziato sono stati resi con il corsivo. Sono stati conservati, fra parentesi tonda, i rimandi agli scritti di Nietzsche contenuti nel testo, ed eventuali riferimenti mancanti sono stati aggiunti fra parentesi quadra. I numeri arabi sono quelli degli aforismi, i numeri romani corrispondono invece ai paragrafi. Le note, salvo quelle racchiuse tra parentesi quadra, sono dell’autrice. I numeri tra pa­ rentesi quadra che ricorrono nel testo corrispondono alle pagine dell’edizione originale. Per i testi di Nietzsche si è fatto riferimento all’edizione italiana del­ le Opere, condotta su testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, Milano 1964. Per Omero e la filologia classica è stata utilizzata l’edizione degli Appunti filosofici 1867-1869. Omero e la filologia classica, a cura di G. Campioni e E Gerratana, Milano 1993. Per le lettere di Nietzsche a Rèe anteriori al 1880 è stata adoperata l’edizione dell 'Epistolario 1875-1879, condotta su testo critico stabilito da G. Colli e M. Montinari, traduzione italiana di M.L. Pampaioni Fama, «N otizie e note» a cura di F. Gerratana e G. Campioni, Milano 1995. E .D . D .M .F .

FRIEDRICH NIETZSCHE

A uno sconosciuto, in fedele ricordo

Le due fotografie riprodotte da Lou Andreas-Salomé nel suo volume Friedrich Nietzsche in seinen Werken.

UNA LETTERA DI NIETZSCHE A MO’ DI PROLOGO

Mia cara Lou, la Sua idea di una riduzione dei sistemi filo­ sofici ai documenti personali dei loro autori è davvero il pen­ siero di una « mente sorella »: io stesso, a Basilea, ho esposto in questo senso la storia della filosofia antica, e amavo dire a quanti mi ascoltavano: « Questo sistema è stato confutato ed è morto, ma la persona che vi sta dietro non è confutabile, la per­ sona non può considerarsi morta » - Platone, ad esempio [...]. Qui, nel frattempo, il professor Riedel, il presidente del­ l’Associazione musicale tedesca, si è infiammato per la mia «musica eroica» (mi riferisco alla Sua Preghiera alla vita) la vuole assolutamente e non è impossibile che la possa ar­ rangiare per il suo splendido coro (uno dei primi in Germa­ nia, la «Associazione di Riedel»), Potrebbe essere, per così dire, un piccolo sentiero lungo il quale giungere entrambi in­ sieme fino ai posteri - fatte salve altre vie. Per quanto concerne la Sua «Caratterizzazione di me stes­ so » che, come Lei scrive, risponde a verità, mi ha fatto veni­ re in mente quei miei versi della Gaia scienza, a p. io, dal ti­ tolo «Richiesta». Indovini un po’, mia cara Lou, quel ch’io richiedo? [...] Ieri pomeriggio ero felice: il cielo era azzurro, l’aria mite e tersa, ero nella Rosenthal, richiamatovi dalla musica della Car­ men. Sono rimasto seduto là per tre ore, e ho bevuto il secon­ do cognac di quest’anno, in ricordo del primo (ah! com’era cattivo!), e intanto meditavo, in tutta innocenza e malizia, se non avessi una qualche predisposizione alla follia. Alla fine -

1 [La lettera, scritta da Lipsia in risposta a una missiva di Lou Salomé an­ data perduta e risalente presumibilmente al 16 settembre 1882, è ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, Kritische Gesamtausgabe hrsg. von G. Colli und M. Montinari, Berlin-New York 1975, voi. m , tomo 1, Briefe von Nietzsche 1880-1884, lettera n. 305 a Lou von Salomé a Stibbe, Lipsia, presumibil­ mente il 16 settembre 1882, pp. 259-260. I versi di La gaia scienza a cui si fa riferimento nella lettera recitano: « So il cuore di uomini molti / E non so, di me, quel ch’io sono! / Troppo il mio occhio m ’è presso —/ Quel che vedo e che vidi non sono. / Più d ’aiuto a me stesso sarei, / Se potessi situarmi più lontano. / Non sì lontano come il mio nemico, / Che già l’amico mio troppo è distante - / Ma a metà strada tra me stesso e lui! / Indovinate voi quel ch’io richiedo? » («Scherzo, malizia e vendetta», 25).]

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FR IE D R IC H N IET ZSC H E

mi sono detto: no. Poi è iniziata la musica della Carmen e per una mezz’ora sono stato sopraffatto dalle lacrime e dal batti­ cuore. Quando leggerà queste cose, Lei concluderà di certo: sì! e prenderà un appunto per la « Caratterizzazione di me stesso ». Venga presto a Lipsia, ma presto dawero! Perché soltanto il 2 ottobre? Adieu, mia cara Lou! Suo F.N.

I.

LA SUA NATURA

Per quanto l ’uomo possa espandersi con la sua conoscenza, apparire a se stesso obiettivo: alla fine non ne ricava nient’altro che la propria biografia. Umano, troppo umano , 1,513

[3] « Mihi ipsi scripsi!» esclama ripetutamente Friedrich Nietzsche nelle sue lettere, dopo aver portato a termine un’opera. E la frase deve certo avere la sua importanza se a pronunciarla, riguardo a se stesso, è il primo stilista vivente, l’uomo a cui, come a nessun altro, è riuscito di dare espres­ sione compiuta a ciascuno dei suoi pensieri, anche alle sfu­ mature più sottili. Ma per chi sa leggere gli scritti di Nietz­ sche si tratta anche di una frase rivelatrice che rimanda all’o­ scurità in cui si trovano tutti i suoi pensieri, al velo mosso che li avvolge in mille forme; che rimanda al fatto che egli in fondo pensava soltanto per sé, scriveva per sé, giacché de­ scriveva soltanto se stesso, volgeva in pensieri il proprio io. [4] Se il compito principale del biografo è quello di far lu­ ce sul pensatore attraverso l’uomo, ciò vale in modo partico­ lare per Nietzsche poiché in lui, come in nessun altro, si è ve­ rificata una piena coincidenza tra le sue opere e la sua biogra­ fia. Anche nel suo singolo caso vale dunque quanto da egli af­ fermato in generale sui filosofi nella lettera sopra menzionata: i loro sistemi andrebbero passati al vaglio sulla base dei « do­ cumenti personali» degli autori. Un’idea che avrebbe poi tro­ vato espressione nelle parole: « Mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino ad ora ogni grande filosofia: l’autoconfessione, cioè, del suo autore, nonché una specie di non volu­ te e inavvertite mémoires» (Al di là del bene e del male, 6). Questo pensiero faceva da guida anche alla mia descrizio­ ne del carattere di Nietzsche, citata nella lettera precedente, che ebbi modo di leggere e discutere con lui nell’ottobre del 1882. Il lavoro conteneva un abbozzo della prima parte di questo libro e alcune sezioni della seconda; il contenuto del­ la terza parte, il «sistema Nietzsche» vero e proprio, non aveva ancora visto la luce. Con il trascorrere degli anni, sulla scia delle opere che si susseguivano veloci, questo ritratto è venuto assumendo dimensioni sempre più estese e alcune sue parti sono già state pubblicate in forma di saggio.1 [5] 1 Una caratterizzazione complessiva di Nietzsche, in cui vengono per la prima volta individuati e definiti con precisione i tre periodi della sua evolu-

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Per quanto mi riguarda si trattava esclusivamente di delinea­ re i tratti salienti della fisionomia spirituale di Nietzsche, quelli sulla cui base soltanto possono essere intese la sua filo­ sofia e la sua evoluzione. A tal fine mi posi volontariamente dei limiti sia dal punto di vista della considerazione puramente teoretica, sia da quel­ lo della descrizione di vicende biografiche puramente perso­ nali. Né l’uno né l’altro aspetto dovevano essere trattati in forma troppo ampia se si voleva che le linee di fondo della na­ tura nietzscheana venissero distintamente alla luce. Chi in­ tendesse valutare Nietzsche sulla base della sua importanza teoretica, sulla base di ciò che la filosofia a venire può impa­ rare da lui, si allontanerà deluso senza cogliere la sostanza del suo valore. Il valore dei suoi pensieri, infatti, non risiede nel­ l’originalità teoretica, né in ciò che può essere fondato o con­ futato per via dialettica, bensì soltanto nella forza interiore con cui, nelle sue pagine, una personalità parla in quanto per­ sonalità, in ciò che, secondo le sue stesse parole, può esser sì confutato ma non «considerato morto». Chi, d’altro canto, intendesse muovere dalle vicende esteriori della vita di Nietz­ sche per cogliere il suo animo, si troverebbe tra le mani sol­ tanto un vuoto involucro da cui lo spirito si è dileguato. Si può infatti affermare che Nietzsche non abbia mai vissuto volgendosi verso l’esterno:1ogni esperienza della sua vita era così profondamente interiore da riuscire a esprimersi soltan­ to nel dialogo a quattr’occhi o nei pensieri racchiusi nelle sue opere. L’insieme di monologhi di cui [6] sono in sostanza composte le sue raccolte di aforismi in più volumi forma un solo grande libro di memorie con al fondo l’immagine del suo spirito. E proprio quest’immagine che io cerco di tratteggia­ re: l ’esperienza del pensiero nel suo significato per l’animo di Nietzsche - quel che di sé egli confessa nella sua filosofia. Sebbene da alcuni anni il nome di Nietzsche venga citato più di frequente di quello di qualsiasi altro pensatore, e benzione intellettuale, apparve sul supplemento domenicale della «Vossische Zeitung», numeri 2, 3 e 4, 1891. La «Freie Bühne» presentò inoltre una esposizione più dettagliata di singoli punti con il titolo di Zum Bilde Fried­ rich Nietzsches, fascicoli 3, 4 e 5, anno 11, 1891 e fascicoli 3 e 5, anno m , 1892; « D a s Magazin für Litteratur» dell’ottobre 1892 con quello di Ein Apokalyptiker e « D e r Zeitgeist», 20, 1893, con quello di Ideal und Askese. 1 «P e r quanto riguarda la vita, le cosiddette “esperienze” - chi di noi ha anche soltanto una sufficiente serietà per queste cose? O abbastanza tempo? A questo proposito temo che non si sia mai stati veramente “dentro la fac­ cenda” : appunto non abbiamo là il nostro cuore - e neppure il nostro orec­ ch io» (Genealogia della morale, «P refazion e», 1).

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che siano in molti a prendere la penna sia per procacciargli adepti sia per polemizzare contro di lui, ciò nondimeno egli è rimasto pressoché uno sconosciuto per quel che riguarda i tratti di fondo della sua personalità spirituale. Da quando in­ fatti la sparuta e dispersa schiera dei suoi lettori - quella che egli ha sempre avuto, composta da quanti lo sapevano legge­ re davvero - si è ingrossata fino a diventare una vasta schiera di seguaci, da quando ampie cerehie si sono impadronite di lui, a Nietzsche è toccato il destino che incombe su ogni au­ tore di aforismi; alcune delle sue idee, estratte dal contesto e rese dunque interpretabili a piacere, sono divenute formule e parole d’ordine buone per tutte le tendenze che riecheggiano nella battaglia delle opinioni, nello scontro tra i partiti da cui Nietzsche si è tenuto del tutto alla larga. E vero che egli deve la sua fama, acquisita con rapidità, a questa situazione, allo strepito che improvvisamente si è levato intorno al suo nome rimasto fino ad allora nel silenzio; ma proprio per questa ra­ gione, ciò che di meglio, di assolutamente unico e incompa­ rabile egli aveva da offrire non è forse stato notato né preso in considerazione, o è stato addirittura risospinto in un’oscu­ rità ancora più fitta di quella in cui si trovava in precedenza. Molti tuttavia lo esaltano ancora con voce più forte, con tut­ ta l’ingenuità di una credula mancanza di senso critico, ri­ portando involontariamente alla mente una sua amara sen­ tenza: «Parla il deluso: “Ho teso l’orecchio per udire l’eco e ho sentito soltanto lodi”» (Al di là del bene e del male, 99). Nessuno di loro lo ha veramente seguito, lontano [7] dagli altri e dalle scaramucce di ogni giorno, da solo nella commo­ zione del suo animo; nessuno è stato al fianco di questo spiri­ to solitario, difficile da scrutare, comune e straordinario, che osò farsi carico di cose mostruose e che crollò sotto il peso di una mostruosa follia. Nietzsche sembra dunque stare in mezzo a quelli che lo elogiano come uno straniero o un eremita che in quella cer­ chia smarrisca soltanto la via e a cui nessuno ha ancora tolto il manto per cogliere la sagoma nascosta; sembra stare in quella compagnia con il monito del suo Zarathustra sulle lab­ bra: « Tutti costoro parlan di me la sera, seduti intorno al fuo­ co essi parlano di me, ma nessuno pensa - a me! Questo è il silenzio nuovo che ho imparato: il loro strepito intorno a me stende un manto sui miei pensieri» [Così parlò Zarathustra, « Della virtù che rende meschini »]. Friedrich Wilhelm Nietzsche è nato il 15 ottobre 1844, unico figlio maschio di un pastore protestante, a Röcken nei

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pressi di Lützen, da dove suo padre venne successivamente trasferito a Naumburg. Ricevette la sua prima formazione nella vicina scuola di Pforta e poi si iscrisse come studente di filologia classica all’università di Bonn, dove allora insegnava il noto filologo Ritschl. Frequentò quasi esclusivamente le le­ zioni di quest’ultimo, a cui si legò molto anche dal punto di vista personale e lo seguì a Lipsia nell’autunno 1865. Al pe­ riodo di studi in questa città risale il primo incontro con Ri­ chard Wagner - le cui opere erano già note a Nietzsche -, co­ nosciuto nel 1868 in casa della sorella, moglie del professor Brockhaus. Nel 1869, ancor prima della laurea, l’università di Basilea chiamò il ventiquattrenne Nietzsche alla cattedra del filologo Kiessling, trasferitosi allo Johanneum di Amburgo. Nietzsche fu dapprima [8] professore straordinario e, di lì a poco, ottenne l’ordinariato in filologia classica; l’università di Lipsia gli concesse il titolo di dottore senza che dovesse so­ stenere l’esame finale. Oltre ai corsi universitari, prese a tene­ re lezioni di greco nella terza e ultima classe del Pädagogium di Basilea - un istituto intermedio tra ginnasio e università -, presso cui insegnavano anche altri professori universitari co­ me lo storico della cultura Jacob Burckhardt e il filologo Mähly. In questa scuola egli ebbe un grande ascendente sui suoi allievi; la sua rara dote di avvincere e far crescere i gio­ vani, stimolandoli, potè dispiegarsi appieno. Burckhardt eb­ be a dire una volta di lui: « Basilea non ha mai avuto finora un insegnante del genere». Burckhardt faceva parte della cer­ chia più ristretta degli amici di Nietzsche, che comprendeva anche lo storico della chiesa Franz Overbeck e il filosofo kan­ tiano Heinrich Romundt. Con questi ultimi Nietzsche condi­ vise un alloggio che dopo la pubblicazione delle Considera­ zioni inattuali fu soprannominato, nella buona società di Ba­ silea, la « casa dei veleni ». Sul finire del suo soggiorno a Basilea Nietzsche visse per un certo periodo insieme alla sorella Elisabeth, quasi sua coeta­ nea, che avrebbe successivamente sposato l’amico di gioventù Bernhard Forster e si sarebbe recata con lui in Paraguay. Nel 1870 Nietzsche prese parte come infermiere volontario alla guerra franco-prussiana; non molto tempo dopo comparvero i primi minacciosi sintomi di un’emicrania che si manifestava con dolori e malesseri acuti e periodicamente ricorrenti. A voler prestare fede alle dichiarazioni dello stesso Nietzsche, erano questi dolori di origine ereditaria gli stessi da cui il pa­ dre fu ucciso. All’inizio del 1876 si sentiva così malato agli oc­ chi e al capo da doversi [9] far sostituire al Pädagogium; da

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quel momento le sue condizioni peggiorarono al punto da far­ gli sfiorare più volte la morte. «Scampato un paio di volte al­ la soglia della morte, ma terribilmente sofferente - vivo alla giornata, e ogni giorno ha la sua storia clinica ». Sono queste le parole con cui Nietzsche descrive, in una lettera a un amico, i dolori in mezzo ai quali egli trascorse circa quindici anni.1 Passò invano l’inverno 1876-1877 nel mite clima di Sor­ rento, dove si trovava in compagnia di alcuni amici: da Roma era giunta a trovarlo Malwida von Meysenbug, amica di lun­ ga data (autrice del celebre Memorie di un’idealista e disce­ pola di Wagner); dalla Prussia occidentale, il dottor Paul Rèe, a cui fin da allora lo legavano amicizia e affinità di aspirazio­ ni. Alla piccola compagnia si era unito anche un giovane di Basilea, malato di petto, di nome Brenner, che tuttavia morì di lì a poco. Poiché nemmeno il soggiorno al Sud produsse effetti benefici sui suoi dolori, nel 1878 Nietzsche pose fine al suo insegnamento al Pädagogium e, nel 1879, alla sua docen­ za universitaria. Da allora condusse esclusivamente una vita solitaria, in parte in Italia - per lo più a Genova - in parte tra le montagne svizzere, specialmente nel piccolo villaggio di Sils-Maria, in Engadina, non lontano dal Passo del Maloja. Il corso esteriore della sua vita pare dunque concluso e, per così dire, giunto alla fine, mentre la sua esperienza di pen­ satore comincia veramente solo in questo momento: il pensa­ tore Nietzsche, del quale ci occuperemo in queste pagine, ci viene distintamente incontro soltanto al termine di questa se­ rie di vicende biografiche. Nondimeno, allorché prenderemo in esame i diversi periodi della sua evoluzione intellettuale, [io] dovremo nuovamente tornare con maggior precisione sulle esperienze e sui mutamenti, per ora soltanto abbozzati, che il destino gli aveva tenuto in serbo. La sua vita e la sua produzione si dividono fondamental­ mente in tre periodi, ciascuno della durata di un decennio, che s’innestano l’uno sull’altro. L’insegnamento di Nietzsche a Basilea durò dieci anni, dal 1869 al 1879; l’attività di filologo coincide quasi per intero con il decennio del suo discepolato presso Wagner è con la pubblicazione di quelle opere che sono sotto l’influsso della metafisica di Schopenhauer; questo secondo decennio durò ' [F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, edizione condotta su testo critico stabilito da G . Colli e M. Montinari, trad. it. di M .L. Pampaioni Fama, «N otizie e n ote» a cura di F. Gerratana e G. Campioni, Milano 1995, lette­ ra n. 869 a Paul Rèe, St. Moritz, fine luglio 1879, p. 383.]

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dal 1868 al 1878, anno in cui, quale segno di un mutamento di rotta filosofica, egli inviò a Wagner la sua prima opera po­ sitivistica: Umano, troppo umano. All’inizio degli anni settanta risale il suo legame con Paul Rèe, che si sarebbe interrotto nell’autunno del 1882 contem­ poraneamente alla conclusione di La gaia scienza, l’ultima tra le opere di Nietzsche che ancora poggi su di una base positi­ vistica. Nell’autunno 1882 Nietzsche prese la decisione di rinun­ ciare per dieci anni a ogni attività letteraria. In quel periodo di assoluto silenzio intendeva vagliare l’esattezza della sua nuova filosofia, che si volgeva in direzione della mistica, per quindi, nel 1892, far ritorno sulla scena come suo profeta. Ma egli non tenne fede a questo proposito e, proprio negli anni ottanta, dispiegò una produttività pressoché ininterrotta per poi ridursi al silenzio ancor prima dello scadere del decennio da lui prospettato: un violento attacco di emicrania pose fine all’improvviso, nel 1889, a ogni forma di lavoro intellettuale. Ma il lasso di tempo compreso tra la rinuncia alla cattedra di Basilea e la fine di ogni attività [11] durò a sua volta un de­ cennio, dal 1879 al 1889. A partire da quel momento Nietz­ sche visse malato presso la madre a Naumburg, dopo un bre­ ve soggiorno nella clinica del professor Binswanger a Jena. Le due foto che compaiono in questo libro ritraggono Nietzsche nel suo ultimo decennio di sofferenze. Ed è certo questo il periodo in cui la sua fisionomia e tutto il suo aspet­ to esteriore paiono ricevere l’impronta più caratteristica: il periodo in cui ogni sua espressione era già tutta pervasa da una vita interiore profondamente agitata, che si dava a vede­ re anche in ciò che egli cercava di trattenere o di nascondere. Vorrei dire che questo elemento nascosto, il presentimento di una solitudine silenziosa, era quel che in un primo momento e con forza colpiva nell’aspetto di Nietzsche, ciò che affasci­ nava in lui. All’osservatore frettoloso la sua figura non pre­ sentava infatti nulla che desse nell’occhio: l’uomo di media statura, dagli abiti estremamente semplici, ma anche estre­ mamente curati, dai tratti distesi e dai capelli castani pettina­ ti all’indietro, poteva facilmente passare inosservato. Il con­ torno della bocca, sottile e quanto mai espressivo, veniva quasi interamente nascosto dai grossi baffi pettinati in avan­ ti; aveva una risata sommessa, un modo di parlare senza fra­ gore, un’andatura cauta e meditabonda con le spalle che un po’ s’incurvavano; era difficile immaginarsi un uomo del ge­ nere in mezzo a una folla: portava su di sé il segno di chi re­

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sta in disparte, di chi sta da solo. Di incomparabile bellezza e di tale nobiltà di forma da attirare involontariamente lo sguardo erano invece le mani di Nietzsche, delle quali egli stesso credeva che rivelassero il suo spirito. In Al di là del be­ ne e del male (288) si trova un’annotazione a riguardo: « E si­ stono uomini che inevitabilmente hanno spirito, [12] comun­ que vogliano tergiversare e tenere le mani dinanzi agli occhi rivelatori (- come se la mano non fosse rivelatrice! -) ». Anche gli occhi di Nietzsche erano rivelatori. Benché se­ miciechi, non possedevano nulla di quel carattere indagato­ re, ammiccante, involontariamente importuno che è proprio di molti miopi; parevano semmai i custodi e i guardiani di autentici tesori, di muti segreti che nessuno sguardo indi­ screto avrebbe dovuto violare. La debolezza della vista con­ feriva ai suoi tratti un incanto del tutto particolare poiché, invece di riflettere le impressioni esteriori e cangianti, resti­ tuiva soltanto quel che egli traeva da dentro di sé. Questi oc­ chi guardavano verso Finterno e al tempo stesso —ben oltre gli oggetti più vicini - lontano o, meglio, al suo interno come in una lontananza. In fondo tutta la sua ricerca altro non fu che un esplorare l’anima umana in direzione di mondi da scoprire, verso «le sue non ancora fino in fondo esaurite pos­ sibilità» [Al di là del bene e del male, 45) che egli, inesausto, creava e ricreava di continuo. Quando poi si dava a vedere così com’era, nel corso di una conversazione a quattr’occhi che lo agitava, allora una luce commovente poteva compari­ re e poi sparire nei suoi occhi; ma se era di umore tetro allo­ ra era la solitudine cupa, quasi minacciosa, che parlava da quegli occhi come da profondità inquietanti - quelle profon­ dità in cui restò sempre solo, che non poteva dividere con nessuno, innanzi alle quali anche lui stesso talvolta provava orrore e in cui, alla fine, sprofondò il suo animo. Anche il contegno di Nietzsche suscitava la stessa impres­ sione di segretezza e riservatezza. [13] Nella vita di ogni gior­ no era di una grande cortesia e di una mitezza quasi femmi­ nile, di un’equanimità duratura e benevola; traeva diletto da forme signorili di relazione con gli altri e vi attribuiva una grande importanza. Ma vi era sempre in ciò anche il gusto del travestimento - mantello e maschera per una vita interiore quasi mai messa a nudo. Mi ricordo che quando parlai per la1 1 Un’importanza analoga egli assegnava alle sue orecchie eccezionalmen­ te piccole e ben modellate, di cui ebbe a dire che erano le vere « orecchie per le cose inaudite» (Così parlò Zarathustra, «P rologo di Zarathustra».)

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prima volta con Nietzsche —era un giorno di primavera, nel­ la chiesa di San Pietro a Roma - nei primi istanti fui colpita e tratta in inganno dalla sua compitezza ricercata. Ma una tale compitezza non poteva ingannare a lungo in quel solitario che portava la maschera con gli stessi modi maldestri con cui chi viene dai monti o dal deserto indossa la giacca dell’uomo di mondo. Ben presto si affacciò la domanda che egli stesso avrebbe poi compendiato nelle parole: « In occasione di tut­ to quello che un uomo rende manifesto, si può domandare: che cosa nasconderà? Da che cosa deve distogliere lo sguar­ do? Quale pregiudizio deve suscitare? E poi ancora: fino a che punto giunge la sottigliezza di questa dissimulazione? E, così facendo, in che cosa costui s’inganna?» [Aurora, 523]. Questo aspetto rappresenta soltanto l’altro lato di quella solitudine alla cui luce deve essere intesa tutta la vita interio­ re di Nietzsche - un autoisolamento e un relazionarsi soltan­ to a se stesso che crescevano di continuo. Con l’aumentare della solitudine, ogni forma di esteriorità si muta in parvenza, in semplice velo ingannatore che la profondità solitaria tesse intorno a sé per farsi superficie che lo sguardo umano possa intendere. « Gli uomini che pensano profondamente appaiono a se stessi commedianti nei rap­ porti con gli altri, perché allora, per essere capiti, devono sempre simulare una superficie» {Umano, troppo umano, n, 232). Persino i pensieri di Nietzsche, [14] nella misura in cui vengono formulati in guisa teoretica, potrebbero essere mes­ si in conto a questa superficie dietro la quale, profonda e mu­ ta come l’abisso, sta la vita interiore da cui sono emersi, simi­ li a una « scorza che tradisce l’esistenza di qualcosa, ma an­ cor di più la nasconde» {Al di là del bene e del male, 32); in­ fatti, egli scrive: « O si nascondono le proprie opinioni o ci si nasconde dietro le proprie opinioni» {Umano, troppo uma­ no, l i , 338). Trova poi una bella definizione di se stesso allor­ ché parla di quanti stanno «nascosti sotto mantelli di luce» {Al di là del bene e del male, 44), di chi si fa velo della chia­ rezza dei propri pensieri. In ogni fase della sua evoluzione intellettuale noi troviamo Nietzsche alle prese con qualche forma di mascheramento, ed è sempre una di queste forme a caratterizzare effettiva­ mente il livello di sviluppo che le corrisponde: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera. [...] Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spi­ rito profondo cresce continuamente una maschera » {Al di là del bene e del male, 40).

LA SUA NATURA

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« - Chi sei tu, viandante? [...] Riposati qui. [...] Ristorati! L... ] Che cosa ti serve per ristorarti? [ ...] - “Per ristorarmi? Per ristorarmi? Oh curioso che sei, che vai mai dicendo? Ma dam­ mi ti prego...” - Cosa? Cosa? Parla! - “Una maschera ancora! Una seconda maschera!” ...» {Al di là del bene e del male, 278). E non potrà non colpirci il fatto che nella misura in cui la sua solitudine e la sua arzigogolata relazione con se stesso si fanno esclusive, anche il significato del travestimento si fa più profondo e la vera natura e il vero essere si rendono sem­ pre meno visibili, retrocedendo dietro le forme esteriori o l’apparenza che sta in primo piano. Già in II viandante e la sua ombra Nietzsche tratta de « L a mediocrità come masche­ ra». [15] «L a mediocrità è la maschera più felice che lo spi­ rito superiore possa portare, poiché essa non fa pensare alla gran massa, cioè ai mediocri, che si tratta di mascheramento: e tuttavia egli la mette su proprio per loro, per non irritare loro, anzi non di rado per compassione e bontà» (175). Que­ sta maschera innocua si sarebbe poi mutata in una maschera tremenda che avrebbe nascosto cose ancora più tremende: « E talvolta la follia stessa è la maschera per un sapere infeli­ ce troppo certo » {Al di là del bene e del male, 270), - e infine in un’ingannevole istantanea della risata divina che anela a trasfigurare il dolore in bellezza. Nel quadro della sua ultima mistica filosofica Nietzsche è così andato gradualmente affondando in un’estrema solitudine nel cui silenzio ci è im­ possibile seguirlo, di cui null’altro ci resta - quali simboli e accenni - se non le maschere ridenti dei suoi pensieri e la lo­ ro interpretazione; Nietzsche, invece, è già divenuto per noi ciò che una volta si firmò in una lettera: « Smarrito per sem­ pre» (lettera dell’8 luglio 1881 da Sils-Maria).1 Questa intima solitudine, questo isolamento, rappresenta­ no la cornice immutabile dalla quale, attraverso tutte le sue metamorfosi, il volto di Nietzsche ci guarda. Per quanto si travesta, egli porta sempre con sé « il deserto e la sacra inva­ licabile zona di frontiera, dovunque vada » {Il viandante e la sua ombra, 337). E in una lettera dall’Italia del 31 ottobre 1880, indirizzata a un amico,2trova espressione anche il biso­

1 [Si tratta di una cartolina indirizzata a Paul Rèe, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. m , tomo 1, lettera n. 124 a Paul Rèe a Stibbe, Sils-Ma­ ria, 8 luglio 1881, pp. 101-102.] 2 [Si tratta ancora una volta di Rèe; la cartolina inviata da Stresa è ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. in, tomo 1, lettera n. 59 a Paul Rèe a Stibbe, Stresa, 31 ottobre 1880, p. 44.]

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gno che la sua esistenza esteriore possa corrispondere a quest’intima solitudine: «L a solitudine, la perfetta solitudine, mi si mostra con sempre maggior evidenza come il rimedio, così come una passione naturale [ 16] - e la condizione in cui possiamo realizzare le nostre cose migliori la dobbiamo crea­ re anche a costo di molti sacrifici ». Fu però la sofferenza fisica che lo costrinse a mutare la sua solitudine interiore in una esteriore quasi altrettanto perfet­ ta, che lo allontanò dagli uomini e che rese possibile solo a grandi intervalli anche lo scambio con amici - raro e sempre a quattr’occhi. Sofferenza e solitudine, sono dunque questi i due grandi segni del destino nell’evoluzione intellettuale di Nietzsche, segni che si fanno tanto più marcati quanto più ci si appros­ sima alla fine. E sino alla fine essi mostrano un singolare e duplice aspetto che li fa apparire come un caso della vita, ma anche come una necessità intimamente voluta e condizionata da quanto accadeva nella sua anima. Anche la sua sofferenza fisica infatti, non diversamente dalla sua riservatezza e dalla sua solitudine, era il riflesso e il simbolo di qualcosa di profondo - e ciò in modo così immediato da far sì che egli Faccettasse, anche nelle sue vicende esteriori, come un buon amico o un compagno di strada che il destino gli aveva tenu­ to in serbo. In una lettera di condoglianze da Sils-Maria, di fine agosto 1881, scrisse queste parole: «M i affligge sempre sapere che Lei soffre, che Le manca qualcosa, che ha perso qualcuno: in me, invece, la sofferenza e la privazione fanno parte della sostanza e non, come nel Suo caso, di quel che di non necessario e di non ragionevole vi è nella vita».1 A questo motivo sono da ricondurre i singoli aforismi, sparsi nelle sue opere, sul valore del dolore per la conoscenza. In essi Nietzsche descrive l’influsso sul pensiero degli stati d’animo dell’uomo malato e dell’uomo tornato alla salute, segue [17] con finezza il trascorrere di questi stati d’animo nella più alta sfera spirituale. Una malattia che torna periodi­ camente a manifestarsi, quale era quella di Nietzsche, divide costantemente un momento della vita dall’altro, una fase speculativa da quella che la precede. Questa doppia vita con­ sente di conoscere e avere consapevolezza di una duplice na­ tura delle cose. Fa sì che ogni cosa possa apparire sempre 1 [Si tratta nuovamente di una lettera a Rèe; per il passo in questione: F. Nietzsche, Briefwechsel, dt., voi. in, tomo 1, lettera n. 144 a Paul Rèe a Stibbe, Sils-Maria, fine agosto 1 88 1, p. 124.]

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nuova allo spirito - prenda «un nuovo sapore» come Nietz­ sche ebbe a dire una volta in modo quanto mai appropriato ICrepuscolo degli idoli, «Morale come contronatura», 3] - e consente uno sguardo del tutto nuovo su ciò che è più con­ sueto e quotidiano. Quel che esiste da sempre acquista così qualcosa della freschezza e della lieve rugiada dell’aurora, poiché una notte lo separa dal giorno precedente. Ogni gua­ rigione diventa dunque per Nietzsche una palingenesi di se stesso e al contempo della vita attorno a lui e sempre di nuo­ vo la sofferenza viene «inghiottita nella vittoria». Se è lo stesso Nietzsche ad accennare al fatto che la natura della sua sofferenza fisica si riflette in certa misura nelle sue opere e nei suoi pensieri, lo stretto legame tra pensiero e sof­ ferenza emerge in modo ancor più chiaro quando si prende in esame l’insieme della sua produzione e del suo sviluppo intellettuale. Qui non ci si trova infatti di fronte a quei gra­ duali cambiamenti della vita intellettuale attraverso i quali passa chiunque cresca fino a raggiungere la forma che gli è naturale, ai mutamenti di una normale crescita, bensì a muta­ menti e variazioni repentine, ad alti e bassi della condizione mentale che paiono quasi seguire un loro ritmo e che, in ulti­ ma istanza, non sembrano corrispondere ad altro che a un ammalarsi e a un guarire del pensiero. Solo muovendo dall’indigenza più estrema di tutta la sua indole, soltanto prendendo le mosse dalla più tormentata brama di guarigione, gli si schiudono nuove conoscenze. Ma non appena [18] vi si consacra per intero, appena trova in es­ se un attimo di requie e le assimila alle proprie energie, allo­ ra viene colto come da un nuovo attacco febbrile, come da un inquieto e impellente eccesso di energia interiore che volge in ultimo il suo aculeo contro di sé e fa di lui stesso la sua ma­ lattia. « Soltanto una sovrabbondanza di forza è la dimostra­ zione della forza», afferma Nietzsche nella prefazione del Crepuscolo degli idoli-, in questa sovrabbondanza la sua forza si cagiona sofferenza, si sfoga in lotte dolorose, si eccita in tormenti e commozioni di cui il suo animo vuole divenire fe­ condo.1Affermando con orgoglio: «Q uel che non mi uccide, mi rende più forte » (Crepuscolo degli idoli, « Sentenze e frec­ 1 « C ’è un’inclinazione intellettuale per ciò che nell’esistenza è duro, rac­ capricciante, malvagio e problematico, in conseguenza di un benessere, di una salute straripante, di una pienezza dell’esistenza? [... ] Ci sono forse —un problema per psichiatri - nevrosi della saluteì ». (« Tentativo di autocritica », nuova edizione di La nascita della tragedia dallo spirito della musica [1886].)

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ce», 8) egli si flagella non fino a uccidersi, non fino alla mor­ te, ma proprio fino a quelle febbri e a quelle ferite di cui ha bisogno. Questa esigenza del dolore corre attraverso l’intera evoluzione di Nietzsche e ne costituisce l’autentica fonte spi­ rituale-, essa trova l’espressione più adeguata nelle parole: « Spirito è la vita che taglia nella propria carne: nel suo pati­ re essa accresce il suo sapere - lo sapevate? E la felicità dello spirito è questa: essere unto e consacrato dalle lacrime come vittima del sacrificio - lo sapevate? [...] Voi conoscete dello spirito solo le scintille: ma non avete occhi per l’incudine che 10 spirito è, e nemmeno per la crudeltà del suo maglio! » (Co­ si parlò Zarathustra, «D ei saggi illustri»), «Q uel tendersi dell’anima nella [19] sventura, [...] il suo brivido allo spetta­ colo della grande rovina, la sua ingegnosità e valentia nel sopportare, nel perseverare, nell’interpretare, nell’utilizzare la sventura, e tutto quanto in profondità, mistero, maschera, spirito, astuzia, grandezza a essa toccò in dono - non lo rice­ vette forse in mezzo ai dolori e alla disciplina plasmatrice del grande dolore? » (Al di là del bene e del male, 225). In questo modo di procedere viene ancora una volta alla luce con particolare evidenza qualcosa di duplice: da un lato l’intimo nesso, nella natura nietzscheana, tra vita speculativa e vita interiore, la dipendenza della sua mente dai bisogni e dalle emozioni della sua sfera intima; dall’altro, però, la pe­ culiarità per cui da questa stretta connessione devono nasce­ re sempre nuovi patimenti; ogni volta che si deve attingere la somma chiarezza, la chiara luce della conoscenza, l’anima deve prendere ad ardere di un fuoco che, tuttavia, non può mai defluire in calore benefico, ma deve invece ferire con vampate abbacinanti e fiamme che guizzano; anche in questo caso, come ebbe a dire nella lettera menzionata in preceden­ za, vi è « la sofferenza come sostanza » della vita. Come la sofferenza fisica fu afl’origine dell’isolamento este­ riore di Nietzsche, così è nella sua sofferenza psichica che va colta una delle cause più profonde del suo spiccato indivi­ dualismo, della sua tenace insistenza sul «singolo» come « solitario » nella specifica accezione nietzscheana. La storia del «singolo» è senz’altro una storia di dolore e non può es­ sere paragonata ad alcuna forma di individualismo generico. 11 suo contenuto mira assai meno all’« autosufficienza » che all ’«autosopportazione». Nei dolorosi alti e bassi del suo spi­ rito, si può leggere la storia di altrettante ferite [20] che egli si infligge; Nietzsche tenta di occultare quest’eroica lotta con se stesso allorché pone al di sopra della propria filosofia que-

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stc audaci parole: « Questo pensatore non ha bisogno di nes­ suno che lo confuti: a ciò gli basta se stesso» (Il viandante e la sua ombra, 249). La sua straordinaria capacità di venire ogni volta a capo del più duro superamento di sé, di sentirsi sempre a casa in mez­ zo a nuove conoscenze, sembra esistere soltanto per rendere ancora più impressionante la separazione da quel che ha ap­ pena acquisito. «Arrivo! Abbatti la tua capanna e vienimi in­ contro! » gli impone lo spirito; e con mano caparbia egli si priva del rifugio e si pone di nuovo in cerca delle tenebre, del­ l’avventura e del deserto, con il lamento sulle labbra: «Devo muovere ancora in avanti il piede, questo stanco piede ferito: e poiché devo, ho spesso per le più belle cose che non mi sep­ pero trattenere uno sguardo irato - giacché non mi seppero trattenere» (La gaia scienza, 309). Non appena un modo di considerare le cose gli diviene congeniale, eccolo porre in pra­ tica le sue stesse parole: « Chi attinge il proprio ideale, per ciò stesso lo oltrepassa» (Al di là del bene e del male, 73).1 Il mutamento delle opinioni e Vimpulso alla trasformazione sono dunque profondamente radicati nella filosofia di Nietz­ sche, sono d’importanza decisiva per il tipo di conoscenza a cui essa perviene. Non a caso, nel canto finale di Al di là del bene e del male, egli si definisce come « un lottatore che trop­ pe volte se stesso [21] ha domato [...]. Troppe volte ha con­ teso con la sua stessa forza, ferito e impedito dalla sua stessa vittoria » [« Da alti monti. Epodo »]. Nel quadro di questa eroica disponibilità a rinunciare alle proprie convinzioni, questo impulso al mutamento prende addirittura il posto, nell’animo nietzscheano, della fedeltà al­ le proprie convinzioni,2 In 11 viandante e la sua ombra egli af­ ferma: «N oi non ci faremmo bruciare per le nostre opinioni: non siamo abbastanza sicuri di esse. Ma ci faremmo forse bruciare per poter avere e per poter cambiare le nostre opi­ nioni» (333). E nelle pagine di Aurora questo proposito vie­ ne espresso con le belle parole: «M ai trattenere o tacere a te stesso qualcosa che può essere pensato contro il tuo pensie1 Si veda anche questo aforisma: «Q uando, un giorno, arriviamo a tocca­ re la nostra meta - mostriamo con orgoglio quali lunghi viaggi abbiamo fat­ to per giungervi. In verità non c’eravamo accorti d ’essere in viaggio. Ma ap­ punto per questo c’eravamo spinti tanto lontano da illuderci di essere, in ogni luogo, a casa nostra» (La gaia scienza, 253). 2 Per questo motivo egli definisce le convinzioni «nem ici della verità»: « L e convinzioni sono nemici della verità più pericolosi delle m enzogne» (Umano, troppo umano, i, 483).

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ro! Promettilo a te stesso! Ciò rientra nella prima rettitudine del pensare. Ogni giorno devi anche muovere contro te stes­ so la tua campagna di guerra. Una vittoria e una trincea con­ quistata non sono più faccende tue, ma della verità, - ma an­ che la tua sconfitta non è più affar tuo! » (370). Le frasi sono precedute dal titolo « In che senso il pensatore ama il suo ne­ mico». Ma questo amore per il nemico nasce dall’oscuro presentimento che in quello possa essere celato un amico fu­ turo e che nuove vittorie attendano soltanto colui che cade sconfitto; nasce dal presentimento che questo processo psi­ chico di autotrasformazione, sempre uguale e sempre dolo­ roso, rappresenti per Nietzsche l’inaggirabile presupposto di ogni energia creatrice: « È lo spirito che ci salva, perché non bruciamo e ci carbonizziamo completamente [...]. Liberati dal fuoco, procediamo allora, sospinti dallo spirito, di opi­ nione in opinione [...] come nobili traditori di tutte le cose» (Umano, troppo umano, 1, 637); [22] «noi dobbiamo diventa­ re traditori, commettere infedeltà; abbandonare sempre di nuovo i nostri ideali» (Umano, troppo umano, 1, 629). Nella misura in cui si chiudeva in se stesso, questo solita­ rio doveva per così dire moltiplicarsi, smembrarsi in una mi­ riade di pensatori; soltanto così egli riusciva ad avere una vi­ ta spirituale. L’istinto che lo spingeva a ferirsi era solo un aspetto del suo istinto di autoconservazione: soltanto gettan­ dosi sempre di nuovo nella sofferenza riusciva a sottrarsi al proprio dolore. « Solo al tallone io sono invulnerabile. [...] E solo dove sono sepolcri, sono anche resurrezioni. - Così cantò Zarathustra» (Cosiparlò Zarathustra, «Il canto dei se­ polcri»); lui, a cui una volta la vita «ha confidato questo se­ greto»: «Vedi, disse, io sono il continuo, necessario supera­ mento di me stessa» (Cosìparlò Zarathustra, «Della vittoria su se stessi»).1 1 Fu questo istinto a fare di lui, più di quanto egli stesso volesse ammet­ tere, quel «d o n Giovanni della conoscenza» che descrive come segue: « Nella caccia e negli intrighi della conoscenza - su su fino alle stelle più al­ te e lontane della conoscenza - è ingegnoso, formicolante di desiderio e ne gode, finché non gli resta più nulla cui dar la caccia se non quel che nella co­ noscenza è l’assolutamente nocivo, come fa il bevitore, che finisce per darsi all’assenzio e all’acquavite. Così, alla fine, s’incapriccia dell’inferno - è l’ul­ tima conoscenza, quella che lo seduce. Forse anch’essa lo delude, come ogni cosa quando è conosciuta! E allora dovrebbe starsene immobile per tutta l’eternità, inchiodato alla delusione, trasformato lui stesso nel convitato di pietra, con un desiderio di un’ultima cena della conoscenza che non gli toc­ cherà mai più - poiché l’intero mondo delle cose non avrà più un boccone da offrire a questo affam ato» (Aurora, 327).

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Su null’altro Nietzsche ha invero meditato più a lungo e più a fondo che su questo autentico enigma della sua natura, e su null’altro le sue opere ci informano con altrettanta dovi­ zia come su questo tema: per lui, in fondo, tutti gli enigmi del­ la conoscenza non erano null’altro che ciò. Tanto più a fondo si conosceva, tanto più palesemente [23] tutta la sua filosofia diventava un gigantesco riflesso del suo autoritratto - e tanto più ingenuamente egli attribuiva ciò all’immagine riflessa. Come tra i filosofi gli astratti autori di sistemi hanno univer­ salizzato i propri concetti sino a farne un sistema di leggi che regola il mondo, cosi Nietzsche universalizza la sua anima ad anima del mondo. Ma per tratteggiare l’immagine di quest’a­ nima non c’è prima bisogno di ricondurre l’insieme delle sue teorie a lui stesso, come si farà nelle parti successive di questo libro. Una certa comprensione di essa è già possibile a questo punto dell’esposizione, dove Nietzsche viene considerato sol­ tanto in riferimento alle sue doti intellettuali. La ricchezza di queste predisposizioni era troppo variegata perché a Nietz­ sche riuscisse di conservarla secondo un ordine preciso: la vi­ talità e la volontà di potenza di ciascun talento e degl: impul­ si del suo spirito condussero necessariamente a una rivalità mai messa a tacere tra le diverse doti. Fianco a fianco, senza mai conoscere pace e tiranneggiandosi a vicenda, conviveva; no in Nietzsche un musicista di grande talento, un pensatore dallo spirito libero, un genio religioso e un poeta nato. Egli stesso tentò di spiegare su questa base la particolarità della sua personalità intellettuale e si pronunciò spesso sul tema nel corso di approfondite conversazioni. Nietzsche distingue due grandi insiemi di caratteri: quello in cui i diversi sentimenti e i diversi istinti si trovano in ar­ monia tra loro, formando una sana unità, e quello in cui gli istinti e i sentimenti si reprimono e si combattono vicende­ volmente. Paragona la situazione del primo insieme - a livel­ lo del singolo individuo - a quella dell’umanità al tempo del branco, prima dell’emergere di una forma di stato: come in quella situazione l’individuo possiede la propria individua­ lità e il proprio sentimento di potenza solo nella cerchia ri­ stretta del branco, [24] così avviene per i singoli istinti nel chiuso della personalità di cui costituiscono la quintessenza. Le nature che appartengono al secondo insieme, invece, vi­ vono nella propria interiorità così come vivrebbero gli uomi­ ni durante una guerra di tutti contro tutti: la personalità stes­ sa, in certa misura, si dissolve in un aggregato di personalità istintuali dispotiche, in una molteplicità di soggetti. Questa



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condizione può essere superata soltanto se si riesce a istituire dall’esterno una forza superiore, un’autorità più forte in gra­ do di dominare tutte le altre, come fa la legge di un organi­ smo statale per la quale esistono solamente poteri a essa sot­ toposti. Infatti, quel che nei caratteri che abbiamo descritto per primi accade da sé, in modo istintivo - l’inquadramento del singolo nella totalità -, qui deve essere conquistato e strappato alle singole brame tiranniche creando una gerar­ chia inesorabilmente rigida degli istinti tra loro.1 E a questo punto che Nietzsche scorge la possibilità di uri autoaffermazione complessiva attraverso la sofferenza di ogni singola parte. Qui sta rinchiuso in nuce il significato ori­ ginario della dottrina della décadence, che egli svilupperà in seguito, insieme al pensiero fondamentale secondo cui esiste la possibilità che si diano capacità e azioni eminenti attraver­ so una sopportazione e un patimento continui. In una paro­ la, qui gli si mostra il significato dell’eroismo come ideale. A strapparlo all’ideale e alla sua tirannia fu la sua straziante im­ perfezione: « Le nostre manchevolezze sono gli occhi con cui vediamo l’ideale » (Umano, troppo umano, u , 86). [25] «Che cosa rende eroici? Muovere incontro al proprio supremo dolore e insieme alla propria suprema speranza» (La gaia scienza, 268). E vorrei aggiungere ancora tre afori­ smi che egli mi scrisse una volta2 e che mi paiono chiarire in modo più netto la sua concezione: « Il contrario dell’ideale eroico è l’ideale dell’armonico sviluppo onnilaterale - un op­ posto bello e assai desiderabile! Ma un ideale soltanto per uomini profondamente buoni. (Ad esempio: Goethe) ».3 Quindi: «Eroismo - è il convincimento di un uomo che aspira a un obiettivo rispetto al quale egli non tiene conto di «D over combattere gli istinti - questa è la formula della décadence-, fin­ tantoché la vita è ascendente, felicità e istinto sono eguali» (Crepuscolo degli idoli, « Il problema di Socrate », 11 ) : questo egli afferma e così egli distingue un décadent da una natura signorile. 2 [Si tratta di tre dei sei aforismi che Nietzsche scrisse durante il soggior­ no a Tautenburg con Lou Salomé nell’agosto 1882; l’autrice ha trascritto soltanto tre di essi non rispettando la successione e la numerazione proposte da Nietzsche: F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. m , tomo 1, lettera n. 287 a Lou von Salomé a Tautenburg, Tautenburg 8-24 agosto 1882, pp. 242-243.] 3 Nietzsche, sia qui detto di passaggio, intende la figura di Goethe in mo­ do del tutto differente da come la intenderà alcuni anni dopo (nel Crepusco­ lo degli idoli). In questo aforisma egli vede ancora in Goethe l’opposto del­ la sua natura priva di armonia; successivamente, invece, uno spirito a lui profondamente affine che non conosceva armonia, ma che aveva rimodella­ to se stesso in modo armonico attraverso l’esercizio e il talento.

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sé. Eroismo è la buona volontà nei confronti del tramonto assoluto di se stessi ». E infine il terzo aforisma: « Gli uomini che aspirano alla grandezza sono normalmente uomini cattivi; è il solo modo che hanno di sopportarsi». Il termine «cattivo», così come il termine «buono» che compare negli aforismi precedenti, non deve essere assunto in questo contesto secondo il suo significato corrente, né in un’accezione valutativa, ma solo come la designazione di uno stato di fatto; in quanto tale, esso designa costantemente per Nietzsche la « guerra interna » a un animo umano, quella stes­ sa condizione che egli avrebbe definito più tardi con l’espres­ sione «anarchia negli istinti». Nella sua ultima fase di creati­ vità, dopo avere ormai assunto un determinato orientamento teorico, questa condizione della singola anima si estende fino a diventare un’immagine dell’intera civiltà umana; le parole d’ordine recitano allora: [26] guerra interna = décadence, e vittoria = tramonto dell’umanità in vista della creazione di un’umanità superumana; in origine, però, si trattava soltanto di un’immagine della sua propria anima. Nietzsche distingue la natura armonica o unitaria e la natu­ ra eroica o scissa secondo i due tipi dell’uomo dell’azione e del­ l’uomo della conoscenza; in altre parole: il tipo di natura oppo­ sta alla sua e la sua propria natura. Uomo dell’azione può di­ ventarlo, a suo avviso, l’uomo non diviso e non frammentato, l’uomo dell’istinto, la natura signorile. Se questi segue la pro­ pria evoluzione naturale, il suo carattere si farà sempre più si­ curo e nettamente pronunciato, la sua forza compressa avrà modo di scaricarsi in azioni sane. Gli ostacoli che il mondo esterno potrà forse mettergli di fronte, conterranno sempre per lui anche una sfida e una sollecitazione: nulla è infatti più con­ sono alla sua natura della lotta coraggiosa con la realtà esterna, in nulla l’integrità della sua salute si dà tanto a vedere come nella sua abilità bellica. Per grande o piccolo che possa essere il suo intelletto, esso è a ogni modo al servizio di questa fresca forza naturale e di ciò che le fa bene e le giova - non intralcia i suoi fini, non la disperde, non se ne va per la sua strada. Le cose stanno in modo del tutto diverso per l’uomo della conoscenza. Invece di cercare una salda unione dei propri istinti, che li protegga e li conservi, egli lascia che si sparpa­ glino nel modo più ampio possibile; quanto più ampio è lo spazio che riescono ad abbracciare, tanto meglio; quante più sono le cose verso cui tendono i loro tentacoli, e che toccano, vedono, ascoltano, annusano, tanto più adatti essi risultano ai

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suoi fini, ai fini della conoscenza. La vita, infatti, è ormai per lui un «mezzo della conoscenza» (La gaia scienza, 324) ed egli grida ai suoi compagni: [27] « Vogliamo essere noi stessi i no­ stri esperimenti e le nostre cavie! » (La gaia scienza, 319). Ri­ nuncia così volontariamente all’unità di se stesso: quanto più il suo soggetto è polifonico, tanto più gli è caro: Tagliente e mite, rozzo e delicato, Alla mano e bizzarro, sozzo e mondo, Un convegno di saggi e di buffoni: Tutto ciò voglio essere e son io, Colomba a un tempo e serpente e porco ! (L a g a ia sc ie n z a , « Scherzo, malizia e vendetta», 11)

Noi uomini della conoscenza - egli afferma - dobbiamo infatti essere riconoscenti « a Dio, al diavolo, alla pecora e al verme dentro di noi [...], con anime manifeste e occulte, di cui difficilmente si potrebbero scorgere le intenzioni ultime, con prosceni e quinte che nessun piede riuscirebbe a percor­ rere sino alla fine [...], noi siamo dalla nascita gli amici giura­ ti e gelosi della solitudine» (Al di là del bene e del male, 44). L’uomo della conoscenza possiede un’anima che «ha la scala più lunga e può giungere alla maggiore profondità [...], l’ani­ ma dall’estensione più ampia, che dentro di sé può correre ed errare e vagare [...]; che fugge se stessa, raggiungendosi nel­ l’orbita più vasta; l’anima più saggia, cui la follia parla più suadente di tutto: — la più capace di amare se stessa, in cui tutte le cose hanno il loro corso e ricorso, flusso e riflusso» (Cosìparlò Zarathustra, « Di antiche tavole e nuove »). Con un’anima di questo genere si diventa un «mille-piedi e un mille-tentacoli» (Al di là del bene e del male, 205), sem­ pre in procinto di sfuggire a se stessi per raggiungere cose di­ verse: « Una volta che si sia trovato se stesso, bisogna essere capaci di tempo in tempo di perdersi - e poi di ritrovarsi; presupposto che si sia un pensatore. [28] A questo è infatti dannoso essere legato sempre a una stessa persona » (Il vian­ dante e la sua ombra, 306). Lo stesso intendono dire i versi: Già guidare me stesso m’è odioso! Mi piace, come gli animali del bosco e del mare, Smarrirmi per un buon tratto di tempo, Almanaccando intanarmi in un labirinto soave, E finalmente, dalle lontananze, attirare me stesso a casa, E sedurre me stesso a me stesso! (L a g a ia sc ie n z a , «Scherzo, malizia e vendetta», 33)

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Questi versi sono intitolati II solo, vale a dire colui che se ne sta il più possibile appartato dalle pretese e dalle battaglie ilei mondo; chi conduce una vita del genere diventa sempre meno bellicoso nei confronti del mondo esterno, nella misu­ ra in cui la sua sfera interiore viene stordita e scossa dalle guerre, le vittorie, le sconfitte e le conquiste che hanno luogo nei suoi istinti. Nell’isolamento di chi è immerso in se stesso e nell’ampliamento dei propri confini, questa vita cerca inve­ ce un manto che la risparmi e la protegga dalle vicende della vita esteriore con il loro clamore e il loro pericolo - ma ciò nondimeno essa si trova sempre in lotta e viene sempre feri­ ta; a quest’uomo della conoscenza ben si attaglia la descrizio­ ne: «U n uomo che costantemente vive, vede, ascolta, sospet­ ta, spera, sogna cose fuori dall’ordinario; che viene colto dai suoi stessi pensieri quasi dal di fuori [...], come da quel ge­ nere di avvenimenti e di fulmini che è suo proprio » {Al di là del bene e del male, 292). Al suo interno, infatti, l’atteggiamento bellicoso degli istinti non è venuto meno, ma si è caso mai accresciuto: « Ma chi considera i fondamentali istinti umani, per vedere fino a che punto proprio essi possano qui essere entrati in giuoco come geni ispiratori (oppure demoni e coboldi), si accorgerà che [...] [29] ognuno di questi, nella sua singolarità, sarebbe disposto anche troppo volentieri a presentare precisamente se stesso come l’ultimo fine dell’esistenza e come il più legit­ timo signore di tutti gli altri istinti. Ogni istinto infatti è bra­ moso di dominio: e come tale cerca di filosofare». Proprio per questo motivo la conoscenza dell’uomo di conoscenza offre una « decisiva testimonianza di quel che egli è - vale a dire in quale disposizione gerarchica i più intimi istinti della sua natura siano posti gli uni rispetto agli altri » {Al di là del bene e del male, 6). Nonostante ciò, attraverso la conoscenza, in questa guerra interna ha luogo una metamorfosi che le conferisce un nuovo significato - un significato salvifico e redentore; nella cono­ scenza, infatti, tutti gli istinti trovano un fine comune, una direzione verso cui tendere nella misura in cui è proprio la conoscenza quel che ciascun istinto vuole conquistare. La di­ spersione del capriccio e la tirannia dell’arbitrio sono così in­ franti. Gli istinti tengono ferma la loro « molteplicità di sog­ getto », ma la sottomettono a un potere più elevato che li co­ manda come dei servitori o degli strumenti; rimangono belli­ cosi e selvaggi, ma rispetto allo scopo della loro guerra di­ vengono all’improvviso degli eroi chiamati a combattere e a

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versare il loro sangue; l’ideale eroico campeggia sul lorc egoismo e indica l’unica via possibile verso la grandezza. I pericolo dell’anarchia è così scampato a tutto vantaggio d una sicura « struttura sociale degli istinti e degli affetti ». Mi torna ora alla mente una frase pronunciata da Nietzsche che esprime in modo assai caratteristico la gioia dell’uomc della conoscenza per l’ampiezza e la profondità che la sua na­ tura è in grado di abbracciare - il piacere che ne deriva di po­ ter intendere la sua vita come un « esperimento di chi è volte alla conoscenza» (La gaia scienza, 324): [30] «Somiglio a una vecchia fortezza, resistente alle intemperie, con molte cantine e sotterranei nascosti; non mi sono ancora insinuato fino a] fondo dei miei cunicoli bui, non sono ancora giunto alle mie cavità sotterranee. Non dovrebbero reggere il peso dell’inte­ ro edificio? Non dovrei potermi arrampicare dalle mie pro­ fondità sino a tutte le superfici della terra? Non potremmo fa­ re ritorno a noi stessi attraverso ogni cunicolo buio? ».' Lo stesso stato d’animo è reso anche dall’aforisma 249 di La gaia scienza intitolato « Il sospiro dell’uomo della cono­ scenza»: «O h, questa mia cupidigia! In quest’anima non di­ mora alcun disinteresse; ma, piuttosto, un sé bramoso di tut­ to, che vorrebbe vedere attraverso molti individui come at­ traverso i suoi stessi occhi e mercé loro vorrebbe afferrare, come per mezzo delle sue stesse mani - un sé che va sempre a riprendersi anche tutto il passato, che niente vuole perdere di quel che potrebbe appartenergli. Oh, questa fiamma della mia cupidigia. Oh, se potessi rinascere in cento esseri! ». In tal modo il carattere avvolgente e vorace di una natura disarmonica e «senza stile» risulta un enorme vantaggio: «S e noi volessimo ed osassimo un’architettura secondo la modalità delle nostre anime [...], nostro modello dovrebbe essere il labirinto» (Aurora, 169); non un labirinto, però, in cui l’anima si smarrisce, ma un labirinto attraverso il cui in­ trico essa giunge alla conoscenza. « Bisogna avere ancora un caos dentro di sé per partorire una stella danzante» (Così parlò Zarathustra, «Prologo di Zarathustra»): questa senten­ za di Zarathustra vale per quell’anima che è nata per un’esi[Nel diario per Rèe scritto a Tautenburg nell’agosto 1882, nel quale so­ no annotati i suoi colloqui con Nietzsche, l’autrice aveva scritto: «V i sono, nel carattere di Nietzsche, come in una vecchia fortezza, molti sotterranei oscuri e molti trabocchetti segreti che sfuggono all’osservatore superficiale e tuttavia costituiscono la sua vera natura»; cfr. Friedrich Nietzsche, Paul Rèe, Lou voti Salomé. Die Dokumente ihrer Begegnung, hrsg. von E. Pfeiffer, Frankfurt 1970, p. 185.]

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stcnza stellare, per la luce come suo autentico nume tutelare, per la sua autentica trasfigurazione. Nietzsche ha descritto questo con il titolo di «U na specie luminosa di ombra»: [31] « Proprio accanto agli uomini affatto notturni si trova quasi regolarmente, come a essi attaccata, un’anima di luce. Essa è per così dire l’ombra negativa che quelli gettano» {Il vian­ dante e la sua ombra, 258). Quest’anima di luce risulta tanto più luminosa quanto più possente e notturna, e dunque quanto più tirannica e perico­ losa, è la natura che, per così dire, si lascia bruciare in essa, che getta tutte le sue doti come materiale infiammabile den­ tro il sacro fuoco. Il modo in cui ciò accade varia secondo la prospettiva gnoseologica adottata dall’uomo della conoscen­ za: la concezione nietzscheana della «conoscenza» cambia nei diversi periodi della sua evoluzione intellettuale e, di conseguenza, anche quel che egli definisce la « gerarchia in­ terna degli istinti » si riassesta nel movimento della lotta che ha luogo all’interno di questa ricca natura geniale. Si può di­ re che la storia dell’evoluzione spirituale di Nietzsche sia co­ stituita nell’essenziale dalle figure cangianti di questi riasse­ stamenti finché, nel suo ultimo periodo, l’intera sua vita inte­ riore prende a riflettersi in teorie filosofiche - finché l’anima d’ombra e l’anima di luce non divengono rappresentanti del­ l’umano e del superumano. Il processo psicologico descritto nelle pagine precedenti permane tuttavia lo stesso, nei suoi tratti di fondo, attraverso tutte le metamorfosi. Con le parole di Nietzsche: « Se si ha del carattere, si ha anche una propria tipica esperienza inte­ riore, che ritorna sempre» {Al di là del bene e del male, 70). Ora, è proprio questa la sua tipica esperienza interiore, che sempre ritorna, da cui egli sempre si risollevò, innalzandosi sopra di sé, nella quale infine sprofondò e andò in rovina. Ma in una tale esperienza non poteva che rovinare. Nel medesimo processo che sempre di nuovo gli assicurava gua­ rigione ed esaltazione, si celava già infatti il momento patolo­ gico [32] di questo tipo di evoluzione intellettuale. Ciò non balza subito all’occhio. Si poteva anzi supporre che, in una forza capace di curarsi in questo modo, dovesse essere rac­ chiusa tanta salute quanta se ne trova nella pacata tranquil­ lità con cui le forze si dispiegano armoniose. O addirittura una salute ancora più grande, giacché è in grado di rafforzar­ si e dare prova di sé anche in quelle situazioni che cagionano febbri e ferite; poiché è in grado di trasformare lotte e malat­ tie in uno stimolo per la vita e per la conoscenza, in sprone e

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perspicacia rispetto ai suoi scopi: una salute dunque che ab­ braccia, senza ricevere danno, lotta e malattia. E così Nietzsche, soprattutto in ultimo, soprattutto nel momento in cui era più malato, avrebbe voluto che la storia della sua sofferenza venisse intesa come la storia di una gua­ rigione. Questa natura possente riusciva senz’altro a curarsi e a ritrovarsi nel suo ideale conoscitivo anche tra dolori e con­ trasti. Appena raggiunta la guarigione, essa aveva però nuo­ vamente bisogno di lotte e sofferenze, di febbre e ferite. Era lei che, dopo essere riuscita a guarire, le chiamava di nuovo a sé, si volgeva contro se stessa, quasi traboccando, per scivo­ lare in una nuova situazione di malattia. Sopra ogni obiettivo della conoscenza raggiunto, sopra ogni gioia legata a una guarigione, stavano le parole: « Chi attinge il proprio ideale, per ciò stesso lo oltrepassa », infatti « troppa fu la sua gioia per non mutarsi in fastidio » (La gaia scienza, « Scherzo, ma­ lizia e vendetta», 47); e Nietzsche si sentiva «ferito dalla sua gioia» (Così parlò Zarathustra, « I l fanciullo con lo spec­ chio»), « Causarsi dolori. [33] La spregiudicatezza di pensie­ ro è spesso segno di uno stato interno agitato che desidera stordimento» (Umano, troppo umano, 1, 581). La salute non è dunque l’istanza superiore e soverchiante che trasforma l’elemento patologico, in quanto secondario, in un suo strumento, ma entrambe - salute e malattia - si condizionano e sono addirittura racchiuse l’una nell’altra: in­ sieme rappresentano una peculiare scissione di se stessi ali’in­ terno di un’unica vita spirituale. È quest intima scissione che si trova alla base del processo spirituale descritto finora. All’apparenza, la poliedricità, la « molteplicità di soggetto » della natura che desidera in modo disarmonico dovrebbe venire superata faufgehoben] in una unità superiore, in un fine che indichi la direzione. Ma all’in­ terno dell’anima multiforme questo processo si attua in mo­ do tale per cui è un solo istinto a sottomettere tutti gli altri; per dirla altrimenti: la poliedricità viene ridotta a una scissio­ ne che si fa sempre più profonda. Come la salute riesce solo in misura ridotta a contenere, soverchiandolo, l’elemento ma­ lato, altrettanto poco 1 istinto dominante riesce a contenere e controllare effettivamente tutta la sfera interiore nel momen­ to in cui la pone al servizio della conoscenza: con i suoi occhi spirituali, l’uomo della conoscenza guarda certamente a se stesso come a una seconda natura, ma resta pur sempre pri­ gioniero della propria; è soltanto in grado di scinderla, non di coglierla nel suo insieme. Ben lungi dall’essere un potere che

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unisce, quello della conoscenza è quindi piuttosto un potere che divide, ma la profondità della scissione crea l ’apparenza che la meta di tutti gli impulsi si trovi al loro esterno. A causa ili questa autoillusione, tutte le forze premono con entusia­ smo in direzione della conoscenza, come se in tal modo po­ tesse riuscir loro di sottrarsi a se stesse e alla loro scissione. [34] A ogni modo si potrebbe credere che almeno una sorta di unità della vita nel suo complesso venga raggiunta per il fatto che da un lato la vita istintuale, con lo sguardo della conoscenza rivolto su di lei, attinge una straordinaria consapevolezza, mentre dall’altro il pensiero riceve un inu­ suale vitalità dal mondo delle emozioni e degli istinti. Il risul­ tato, tuttavia, è esattamente l’opposto, poiché il pensiero dis­ solve l’immediatezza di tutti gli impulsi interiori e d’altro canto i moti dell’interiorità mitigano costantemente il rigore del pensiero. In tal modo, di fatto, la scissione complessiva penetra sempre più a fondo in ogni singola parte. Ma, nonostante una gratificazione elevata, addirittura li­ beratrice, che cosa si ricava da una forma di autoinganno co­ sì palese? Che cosa fa sì che un’illusione sia in grado di ren­ dere felice e trasfigurare l’intero esistente nonostante conti­ nue malattie e ferite? Con questa domanda siamo giunti al­ l’autentico «problema Nietzsche»; essa ci rimanda innanzi tutto alla segreta relazione esistente in lui tra l’elemento sano e quello patologico. Mentre infatti la pluralità dei singoli istinti non legati tra loro si scinde, per così dire, in due entità che si fronteggiano a vicenda delle quali una domina e l’altra serve - per l’uomo viene a crearsi la possibilità di percepire se stesso non soltan­ to come un essere diverso, ma anche come un essere superio­ re. Nel momento in cui sacrifica a se stesso una parte del pro­ prio io, egli si trova a un passo da un ’esaltazione religiosa. Nei turbamenti del suo spirito, in cui immagina di realizzare l’ideale eroico della rinuncia e della dedizione autentiche, fa erompere in se stesso un afflato religioso. [35] Fra tutte le grandi doti di Nietzsche non ve n’era nes­ suna, più di quella del genio religioso, che fosse legata in mo­ do tanto inesorabile e profondo alla totalità del suo spirito. In un’altra epoca, in un altro periodo culturale, una dote simile non avrebbe certo consentito a questo figlio di un pastore pro­ testante di diventare un pensatore. Ma sotto le spinte del no­ stro tempo, il suo spirito religioso prese la via della conoscen­ za, pur riuscendo a realizzare ciò che desiderava con 1 urgen­ za dell’istinto, quale espressione naturale della sua salute, sol­

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tanto in modo malato; vi riuscì cioè soltanto attraverso una re­ lazione con se stesso, invece che con una potenza vitale ester­ na e più grande di lui. In tal modo egli ottenne esattamente il contrario di ciò a cui aspirava: non una più alta unità del suo essere, ma la sua più intima scissione, non la fusione di tutti i sentimenti e gli istinti in un individuo indiviso, ma il loro dis­ sidio in un « dividuo ». Aveva pur sempre raggiunto una salu­ te, ma con i mezzi della malattia; una vera forma di adorazio­ ne, ma con i mezzi dell’inganno; una vera autoaffermazione e autoesaltazione, ma solo arrecando a se stesso delle ferite. Nel potente afflato religioso da cui origina ogni conoscen­ za di Nietzsche si trovano dunque indissolubilmente intrec­ ciati in un nodo sacrificio di sé e autoapoteosi, crudeltà che vuole Pannientamento e brama di autodivinizzazione, infer­ mità dolente e convalescenza vittoriosa, ebbrezza di fuoco e fredda consapevolezza. Si avverte in esso la connessione de­ gli opposti che dipendono senza tregua l’uno dall’altro; si av­ verte il traboccare e lo spontaneo precipitare [36] nel caos, nelle tenebre e nell’orrore, di forze eccitate e tese allo spasi­ mo e poi ancora un insistere verso la luce, la tenerezza: l’insi­ stere di una volontà che « si libera dall’oppressione della pie­ nezza e della sovrabbondanza, dalla sofferenza dei contrasti in lui compressi» («Tentativo di autocritica», nuova edizione di La nascita della tragedia dallo spirito della musica) - un caos che vorrebbe far nascere il Dio, che lo deve far nascere. «N ell’uomo creatura e creatore sono congiunti: nell’uomo c è materia, frammento, sovrabbondanza, creta, melma, as­ surdo, caos; ma nell’uomo c’è anche il creatore, il plasmato­ re, la durezza del martello, la divinità di chi guarda e c’è an­ che un settimo giorno... » {Al di là del bene e del male, 225). E in queste parole si dà a vedere come una continua soffe­ renza e una continua autodivinizzazione si condizionino a vi­ cenda, come luna crei sempre da capo il suo opposto, non diversamente da quello che Nietzsche trova espresso nella storia del re Vigvamitra, «che da millenarie martirizzazioni di sé acquistò un tale senso di potenza e una tale fiducia in se stesso da intraprendere la costruzione di un nuovo cielo [...]. Chiunque abbia mai una volta edificato un “nuovo cielo” trovò la potenza per questa impresa unicamente nel suo pro­ prio inferno» {Genealogia della morale, ni, io). Un altro luo­ go in cui egli ricorda questa leggenda si trova in Aurora, im­ mediatamente dopo la descrizione di quei sofferenti assetati di potere che hanno eletto se stessi a oggetto più degno della loro brama di violenza: « Il trionfo dell’asceta su se stesso, il

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suo occhio che, volto in tal modo all’interiorità, vede l’uomo scisso in un essere che soffre e in un essere che fa da spetta­ tore, e soltanto a partire da quel momento s’affisa nel mondo esteriore per raccogliere da esso il legno, per così dire, [37] del proprio rogo, quest’ultima tragedia dell’istinto dell’eccellere, in cui continua ancora ad esistere soltanto una perso­ na che si carbonizza in se stessa [...]» . Questo brano, che contiene la descrizione di ogni ascesi quale finora si è data e dei suoi motivi, si conclude con l’osservazione: « Sì, realmen­ te, con l’asceta, il circolo di questa aspirazione ad eccellere è forse pervenuto alla sua fine, esaurendo quindi in sé il suo svolgimento? Non potrebbe questo cerchio ancora una volta essere ripercorso a partire dal suo principio, con la salda fon­ damentale disposizione interiore dell’asceta e, al tempo stes­ so, del dio compassionevole? » (Aurora, 113). In Umano, troppo umano egli afferma al riguardo: «S i dà un atteggiamento di sfida verso se stessi, alle cui più sublima­ te manifestazioni appartengono varie forme di ascesi. Certi uomini hanno cioè un bisogno così grande di esercitare la lo­ ro forza e la loro sete di dominio che [...] finiscono col tiran­ neggiare certe parti del proprio essere. [...] Questo spezzare se stesso, questo scherno per la propria natura, questo spernere se sperni, così apprezzato dalle religioni, è propriamen­ te un altissimo grado di vanità. [...] L’uomo prova una vera voluttà nel violentarsi con pretese eccessive e nel divinizzare poi nella sua anima questo qualcosa che tirannicamente esi­ ge» (1, 137); e ancora: «Propriamente, cioè, a lui importa so­ lo di scaricare la sua emozione; allora, per alleviare la sua tensione, afferra magari le lance dei nemici e se le affonda nel petto» (1, 138); e infine: «Egli flagella la sua divinizzazione di sé col disprezzo di sé e la crudeltà, si allieta al selvaggio in­ sorgere delle cupidigie [...], sa tendere un laccio al suo affet­ to, ad esempio a quello dell’estrema sete di potenza, sicché esso trapassi in quello dell’estrema [38] umiliazione e la sua anima maltrattata venga strappata con questo brusco contra­ sto da tutti i suoi cardini [...]; è questa in fondo una rara spe­ cie di voluttà che egli desidera, ma forse quella voluttà in cui sono intrecciate in un nodo tutte le altre. Novalis, per espe­ rienza e per istinto una delle autorità in fatto di santità, svela una volta con ingenua gioia l’intero segreto: “E assai stupefa­ cente che l’associazione di voluttà, religione e crudeltà non abbia già da gran tempo attirato l’attenzione degli uomini sulla loro intima parentela e comune tendenza”» (1, 142). Un’indagine corretta su Nietzsche è in effetti nella sostan­

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za un indagine di psicologia religiosa; è solo nella misura in cui si riesce a far luce sull’ambito della psicologia della reli­ gione che partono chiari fasci di luce sul significato del suo carattere, sulla sua sofferenza e sulla sua autobeatificazione. Tutta la sua evoluzione procede in certa misura dal fatto che egli perse la fede, dall’« emozione per la morte di Dio », que­ sta emozione tremenda che riecheggia ancora fin nell’ultima opera che Nietzsche compose già sulla soglia della follia, fin nella quarta parte cioè del suo Cosi parlò Zarathustra. [39] La possibilità di trovare nelle forme più diverse della divinizzazio­ ne di se stesso un surrogato1 «per il Dio perduto»-, è questa la storia del suo spirito, delle sue opere, della sua malattia. È la storia deli’« inclinazione religiosa nel pensatore», che conser­ va la sua forza anche dopo la distruzione del Dio a cui era ri­ volta e alla quale possono essere applicate queste parole di Nietzsche: « Il sole è già tramontato, ma il cielo della nostra vita arde e risplende ancora di esso, sebbene non lo vediamo più» (Umano, troppo umano, 1, 223). O si legga invece il toc­ cante sfogo sentimentale dell’«uomo folle»; «Dove se n’è an­ dato Dio? - gridò - ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucci­ derlo-. voi ed io! Siamo noi tutti i suoi assassini! [...] Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della di­ vina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? [...] Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti co­ loro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano sta­ te tutte le storie fino ad oggi! » (La gaia scienza, 125). Nel suo ultimo periodo di creatività, Nietzsche fornisce a se stesso la risposta a questo sfogo di tormento e nostalgia, con

Si veda in La gaia scienza quanto viene detto sull’adempimento della missione umana attraverso la creazione di Dio da parte dell’uomo: «P arla l ’uomo pio. Dio ci ama perché ci ha creato! / “L’uomo creò D io” - ribattete voi, o sottili. / E amar non deve quel che lui ha creato? / Perché l’ha creato, perfin negarlo dovrebbe? / Ciò zoppica, ha lo zoccolo del diavolo » (« Scher-’ zo, malizia e vendetta», 38).

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le parole di Zarathustra: [40] «Morti sono tutti gli dèi: ora vo­ gliamo che il superuomo viva » (Così parlò Zarathustra, « Della virtù che dona»); parole queste con cui diede espressione al più intimo fondamento spirituale della sua filosofia. La nostalgia di Dio, con il suo tormento, divenne un im­ pulso alla creazione di Dio, e ciò dovette necessariamente esprimersi nella divinizzazione di se stesso. Con sguardo feli­ ce Nietzsche colse nel fenomeno religioso l’eccezionale sod­ disfacimento dell’aspirazione più individuale, la volontà di trarre da sé la più sublime felicità. Questo individualismo, che è il cuore nascosto di ogni fenomeno religioso, questo « sublime egoismo », che fluisce in modo libero e spontaneo in tutto quel che è religioso nel momento in cui crede di es­ sere in relazione con una forza vitale o divina che proviene dall’esterno, in Nietzsche, l’«uomo della conoscenza», fu ri­ sospinto su di sé. Egli giunse così a far propria nel suo inti­ mo l’empietà che l’intelletto gli imponeva con forza insieme alla sua ardita conclusione: «Se vi fossero degli dèi, come potrei sopportare di non essere dio! Dunque non vi sono dèi» (Così parlò Zarathustra, «Sulle isole Beate»). A queste parole della seconda parte dello Zarathustra si possono colle­ gare le altre: « E persino nella tua vanità sarà adorazione! » {Cosìparlò Zarathustra, «D ei sublimi»). In esse trova espres­ sione il pericolo che aleggia sul « solitario » e sul « singolo » che deve dividersi e sdoppiarsi: «Uno è sempre troppo in­ torno a me [...]. Sempre uno per uno - finisce per fare due! » (Così parlò Zarathustra, « Dell’amico »). La posizione che Nietzsche assunse nei confronti di que­ sto dualismo, il modo in cui si difese o cedette di fronte a es­ so, e i fenomeni in cui ne cercò le tracce - tutto ciò condizio­ na il variare delle sue conoscenze come i tratti peculiari delle sue diverse fasi intellettuali, finché alla fine questo dualismo divenne per lui un’allucinazione e una visione, una realtà do­ tata di vita che gli offuscò lo spirito e gli soffocò l’intelletto. [41] Non riuscì più insomma a difendersi a lungo da se stes­ so: fu questo il dramma dionisiaco del « destino dell’anima » {Genealogia della morale, «Prefazione») in Nietzsche stesso. La solitudine della vita interiore nella quale lo spirito vuole giungere al di là di se stesso non è mai più profonda e dolo­ rosa di quanto lo sia nella sua fase conclusiva. Si potrebbe dire che il muro più compatto tra quelli che Nietzsche co­ struì intorno a sé sia quello di una parvenza dolce, divina, scintillante che gli aleggia attorno, un miraggio che ne sfuma e dilegua i confini. Ogni via verso l’esterno torna sempre alle

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profondità di questo io che alla fine deve diventare Dio e mondo, paradiso e inferno - ogni via conduce un passo più in là, verso l’ultima profondità e il tramonto. Questi tratti di fondo della natura di Nietzsche danno conto di quell’elemento, al contempo raffinato ed esaltato, che al pari di una spezia piccante è mescolato a ciò che di grande e significativo vi è nella sua filosofia. Esso viene gu­ stato nel modo più intenso dai palati non corrotti di menti giovani e sane o anche da chi, nella pace tranquilla di conce­ zioni fideistiche, non ha mai sperimentato sulla propria pelle tutte le lotte infuocate e tremende di uno spirito libero con aneliti religiosi. Ma è anche questo, in buona misura, che ha fatto di Nietzsche il filosofo del nostro tempo. In lui ha infat­ ti assunto una forma tipica ciò che agita nel profondo la no­ stra epoca, quell’« anarchia negli istinti » delle forze creatrici e religiose che vogliono saziarsi con troppa irruenza per po­ tersi accontentare delle briciole che cadono per loro dal ta­ volo della conoscenza moderna. Che non possano acconten­ tarsi delle briciole, [42] ma che al tempo stesso non possano venir meno nel loro atteggiamento nei confronti della cono­ scenza - insaziabili nella loro brama appassionata, quanto instancabili nello stento e nella privazione: ciò costituisce il tratto maestoso e impressionante della filosofia di Nietzsche. Questo è anche ciò che essa esprime in formulazioni sempre nuove: una serie di poderosi tentativi di risolvere questo pro­ blema della tragedia moderna, questo enigma della sfinge moderna per poi gettarla nell’abisso. Ma proprio per questa ragione è sull’uomo e non sul teore­ ta che dobbiamo indirizzare il nostro sguardo al fine di tro­ vare una via tra le opere di Nietzsche; l’acquisizione, il risul­ tato delle nostre considerazioni non consisterà perciò in una nuova immagine teorica del mondo che ci si darà a vedere nella sua verità, ma neU’immagine di un’anima umana nella sua combinazione di grandezza e malattia. La rilevanza filo­ sofica delle metamorfosi nietzscheane sembra in un primo momento venire ridotta dal fatto che in esse avviene esatta­ mente ogni volta lo stesso processo. Essa viene invece raffor­ zata e accentuata dal fatto che il mutare delle concezioni coinvolge sempre la sua natura. A mutare non sono cioè sol­ tanto le linee di fondo di una teoria, ma anche ogni suo stato d’animo, l’aria, la luce, mutano insieme a loro. Mentre inten­ diamo pensieri confutarsi l’un l’altro, scorgiamo mondi spro­ fondare e mondi nuovi emergere. Proprio su ciò riposa l’au­ tentica originalità dello spirito di Nietzsche: attraverso il me­

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dium della sua natura, che riferisce ogni cosa a se stessa e ai suoi bisogni più intimi, ma che pure a ogni cosa si abbando­ na, gli si schiudono esperienze e fatti di universi speculativi che noi invece sfioriamo soltanto con l’intelletto senza mai coglierne l’autentica profondità, [43] né dunque trarne im­ pulsi creativi. Da un punto di vista teoretico egli si richiama a maestri e modelli a lui estranei, ma i loro elementi fecondi e le loro acquisizioni sono per lui soltanto lo stimolo per di­ spiegare la sua vera produttività.1Il minimo turbamento av­ vertito dal suo spirito basta a produrre in lui una pienezza di vita interiore e di esperienza di pensieri. Una volta ebbe a di­ re: «Esistono due specie del genio; quello che soprattutto procrea e vuole procreare e quello che si lascia volentieri fe­ condare e partorisce» (.4 / di là del bene e del male, 248). Nietzsche apparteneva senza dubbio alcuno alla seconda specie. Nella sua natura spirituale vi era - in notevoli dimen­ sioni —qualcosa di femminile,2 ma egli era in certa misura un genio perché gli risultava quasi indifferente da dove prove­ nisse lo stimolo. Se noi proviamo a raccogliere tutto quel che ha fecondato la sua terra, [44] allora ci ritroviamo davanti a qualche modesto seme di grano; ma se entriamo nella sua fi­ losofia, allora prende a stormirci attorno una foresta di albe­ ri che regalano ombra, ci avviluppa la prodiga vegetazione di una natura grandiosa e selvaggia. La sua superiorità consiste­ va nel fatto di offrire a ogni singolo seme che cadeva sul suo terreno interiore quel che egli stesso aveva indicato come il contrassegno dell’autentico genio: «U n nuovo e fecondo ter­ reno germogliante con una forza fresca di foresta vergine e non sfruttata» {Il viandante e la sua ombra, 118). 1 Pur prescindendo da quei pensatori che hanno determinato direttamente le varie fasi dell’evoluzione nietzscheana, molti dei suoi pensieri si possono già rinvenire in filosofi precedenti. Su questa circostanza, del tutto inessenziale rispetto all’autentico valore di Nietzsche, hanno recentemente insistito, con il più grande clamore, persone a cui soltanto il caso ha messo tra le mani questo o quel libro di filosofia. In questo mio scritto non si fa espressamente riferimento alcuno alla posizione di Nietzsche nella storia della filosofia, poiché ciò avrebbe presupposto un esame dettagliato e siste­ matico delle sue singole tesi in base al loro valore oggettivo, il che deve esse­ re affidato a un lavoro specifico. 2 A volte, quando lo avvertiva in modo particolare, era propenso a ritene­ re quello femminile come l’autentico genio: « Gli animali la pensano diver­ samente dagli uomini riguardo alle donne: per loro la femmina è un essere che produce [...]. L a gravidanza ha reso le femmine più miti, più caute, più timorose, più contente di soggiacere: allo stesso modo la gravidanza dello spirito genera il carattere del contemplativo che è affine a quello femminile: sono le madri m aschili» (ha gaia scienza, 72).

2.

L E SU E TRASFO RM AZIONI

Il serpente che non può disquamarsi, perisce. Così pure gli spiriti ai quali si impedisce di mutare le loro idee: cessano di essere spirito. Aurora , 573

[47] La prima trasformazione a cui approdò Nietzsche nella sua vita spirituale risale agli albori della sua infanzia o, quanto meno, della sua fanciullezza. Si tratta della rottura con la fede cristiana, una separazio­ ne di cui si parla di rado nelle sue opere. Ciò nonostante es­ sa può essere considerata come il punto di partenza delle sue trasformazioni poiché getta una luce particolare sugli aspetti caratteristici della sua evoluzione. Le affermazioni in mate­ ria, che ho avuto modo di discutere con lui in modo partico­ larmente approfondito, riguardavano principalmente i moti­ vi che provocarono questa rottura. Nella maggior parte dei casi, infatti, sono motivi intellettuali quelli che spingono gli uomini di inclinazione religiosa ad abbandonare, attraverso dolorosi conflitti, la loro fede. Ma allorché, in casi più rari, il distacco origina dalla vita interiore, il processo si svolge allo­ ra senza conflitti né sofferenze: l’intelletto disgrega infatti so­ lo quel che è già morto da tempo, un cadavere. Nel caso di Nietzsche ebbe luogo un singolare intreccio di queste due possibilità: non furono soltanto motivi intellettuali a liberar­ lo dalle idee inculcategli fin dai primi anni di vita, né la vec­ chia fede svanì in risposta ai bisogni del suo animo. Egli in­ vece insisteva sempre sul fatto che [48] il cristianesimo della parrocchia dei suoi genitori avesse aderito alla sua anima in modo « liscio e morbido » « come una pelle sana », e che l’os­ servanza di ogni precetto cristiano gli fosse risultata facile come il seguire una propria predisposizione. Nietzsche con­ siderava questo suo « talento » per ogni religione, quasi inna­ to e inalienabile, come una delle ragioni della simpatia che i cristiani seri gli riservavano ancora quando un profondo abisso spirituale già lo separava da loro. L’istinto oscuro che per la prima volta lo spingeva fuori da una cerchia di pensieri che gli stavano a cuore si risvegliò proprio in seno a questa calda sensazione di «sentirsi a ca­ sa» da cui l’indole di Nietzsche si sentiva avvolta. Per con­ quistare se stesso attraverso una poderosa evoluzione, il suo spirito richiedeva lotte dell’anima, dolori ed emozioni; aveva bisogno che il suo animo attuasse la separazione da questa

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quieta situazione di pace perché la sua forza creatrice dipen­ deva dall eccitazione e dall’esaltazione della sua sfera inte­ riore: Vesigenza del dolore nella «natura decadente» si mani­ festa per la prima volta nella vita di Nietzsche. «In tempi di pace l’uomo guerriero si scaglia contro se stesso » {Al di là del bene e del male, 76) e si esilia nell’estra­ neità di pensieri in cui egli, da quel momento in poi, è desti­ nato a vagare eternamente senza sosta né requie. Ma in que­ sta irrequietezza prende a vivere per Nietzsche un’insaziabile nostalgia che guarda indietro al paradiso perduto, mentre la sua evoluzione intellettuale lo spinge ad allontanarsi sempre più da esso in linea retta. Discutendo dei mutamenti che si era già lasciato alle spal­ le, Nietzsche ebbe a dire una volta quasi scherzando: [49] « Sì, così adesso inizia e va avanti il cammino - fino a dove? Quan­ do sarà stato percorso fino in fondo, dove si andrà allora? Se si esaurissero tutte le possibili combinazioni, cosa ne segui­ rebbe? E in che modo? Non si dovrebbe giungere di nuovo alla fede? Magari a una fede cattolica? ». E il pensiero nasco­ sto che faceva da sfondo a questa affermazione uscì dall’om­ bra con le parole che egli aggiunse in seguito, seriamente: «A ogni modo il circolo potrebbe essere più probabile della stasi». Un movimento che ritorna su di sé, che non giunge mai a un punto d’arresto: è questo in verità il tratto distintivo del­ lo spirito nietzscheano. Le combinazioni possibili non sono affatto infinite, ma al contrario alquanto limitate, poiché l’impulso che sospinge in avanti, che ferisce se stessi, che non fa giungere i pensieri allo stato di quiete, scaturisce in tutto e per tutto dall’intima natura della personalità: per lon­ tano che paiano vagare, anche i pensieri permangono costan­ temente legati ai medesimi processi dell’animo che li costrin­ gono ogni volta al servizio dei bisogni dominanti. Avremo modo di vedere in quale misura la filosofia di Nietzsche de­ scriva realmente un circolo e di come alla fine, in alcune del­ le sue più intime e segrete esperienze di pensiero, l’adulto si riaccosti al fanciullo, sicché per il corso della sua filosofia valgono le parole: « Ecco un fiume che di rigiro in rigiro ri­ fluisce alla sorgente!» (Cosìparlò Zarathustra, «Della virtù che rende meschini»). Non è dunque un caso se Nietzsche, nel suo ultimo periodo di creatività, sia pervenuto alla sua mi­ stica dottrina dell’eterno ritorno: l’immagine del circolo - di un eterno cambiamento in un’eterna [50] ripetizione - sta co­ me un simbolo miracoloso e un segno segreto sulla porta di accesso alle sue opere.

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Quale suo primo «giuoco d’infanzia letterario» (Genealo­ gia (lidia morale, «Prefazione»), Nietzsche nomina un saggio della sua fanciullezza - dal titolo Sull’origine del male - in cui «com ’è logico» fece di Dio «il padre del male». Anche nel corso delle conversazioni menzionava questo saggio per dimostrare il fatto di essersi dedicato a lambiccamenti filoso­ fici già in un periodo in cui si trovava ancora stretto nell’insegnamento filologico della scuola di Pforta. Se seguiamo Nietzsche dalla sua infanzia ai suoi anni di tormazione e quindi al lungo periodo della sua attività di fi­ lologo, vediamo chiaramente anche in questo caso come fin dall’inizio la sua evoluzione, persino da un punto di vista meramente esteriore, si svolgesse all’insegna di una certa au­ tocostrizione. Già la rigorosa formazione filologica doveva costituire una costrizione per l’ardore di questo giovane spi­ rito la cui copiosa creatività non trovava di che nutrirsi. Questo vale in particolare per l’indirizzo seguito dal suo maestro Ritschl. Questi rivolgeva principalmente l’attenzio­ ne, tanto dal punto di vista del metodo che da quello dei problemi, sulle relazioni formali e sui nessi esteriori, mentre l’intimo significato delle opere letterarie restava sullo sfondo. Ciò lasciò tuttavia un segno sul particolare modo di procede­ re di Nietzsche il quale, successivamente, trasse esclusivamente i suoi problemi dal mondo interiore, con la propen­ sione a subordinare l’elemento logico a quello psicologico. Ciò nondimeno fu proprio qui, con questa rigida discipli­ na e su questo terreno pietroso, che il suo spirito produsse così precocemente frutti maturi e prodotti eccezionali. Una serie [51] di eccellenti ricerche filologiche1 costella la sua strada dagli anni di formazione fino alla cattedra di Basilea. Non è inverosimile supporre che uno scatenamento troppo precoce di tutto il patrimonio intellettuale di Nietzsche attra­ verso lo studio della filosofia o delle arti lo avrebbe da subito 1 I lavori filologici di Nietzsche sono i seguenti: Per la storia della silloge teognidea, in «Rheinisches M useum », voi. 22; Contributi alla critica dei lirici greci. I. Il lamento di Danae di Simonide, in «Rheinisches M useum », voi. 23; DeLaertiiDiogenisFontibus, in «Rheinisches M useum », voll. 23-24; Analecta Laertiana , in «Rheinisches M useum », voi. 25; Contributi alla storia delle fonti e alla critica di Diogene Laerzio, Scritto augurale del Pädagogium di B a­ silea, 1870; Certamen quod dicitur Homeri et Hesiodi e codice Fiorentino post H. Stephanum denuo ed. F.N., in «A cta societatis philologae Lipsiensis», a cura di F. Ritschl, voi. 1; inoltre II trattato fiorentino su Omero ed Esiodo, la loro stirpe e il loro agone, in «Rheinisches M useum », voll. 25 e 28. E opera di Nietzsche anche l’indice dei primi ventiquattro volumi del « Rheinisches M useum » (1842-1869), compilato su disposizione di Ritschl.



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sviato verso quella sfrenatezza a cui sembrano approssimarsi alcune delle sue ultime opere. Il freddo rigore della scienza filologica gli offrì invece, per un certo lasso di tempo, quel legame che univa e teneva insieme i suoi « molteplici impul­ si », pur rivelandosi anche una catena per molte delle cose che in lui stavano assopite. Proseguendo nei suoi studi specialistici egli ebbe però modo di avvertire in che misura la forza di talenti fino ad al­ lora trascurati lo tormentasse e lo inquietasse non meno di un profondo dolore. Era in particolare l’impulso verso la musica da cui non riusciva a distogliersi e spesso gli capitò di tendere l’orecchio verso note musicali, mentre avrebbe volu­ to porsi in ascolto di pensieri. Le note lo accompagnarono lungo gli anni come un lamento in musica, finché la sua emi­ crania gli rese impossibile ogni esercizio musicale. [5 2] Ma per quanto grande possa essere stato il contrasto tra il Nietzsche filologo e quello che si occupa di filosofia, non mancano certo numerosi elementi di mediazione che da un periodo conducono all’altro. Proprio la direzione di ri­ cerca seguita da Ritschl, che pareva rendere più acuto questo contrasto, veniva invece incontro a una certa particolarità dello spirito di Nietzsche, rafforzando e consolidando la sua propensione a produrre. Nell’indirizzo del maestro si rinve­ niva l’aspirazione a una certa perfezione artistica dal punto di vista formale e a una trattazione virtuosistica delle que­ stioni scientifiche resa possibile da una loro rigorosa delimi­ tazione e dal soffermarsi su di un aspetto ben determinato. In Nietzsche, l’esigenza di limitarsi volontariamente e di concentrarsi su di un compito, di portarlo a termine in modo puramente artistico, è in stretto rapporto con l’impulso fon­ damentale della sua natura, quello cioè di andare ogni volta al di là di ciò che egli ha prodotto, di allontanarlo da sé come una faccenda sbrigata, come qualcosa che appartiene al pas­ sato. Un tale alternarsi di compiti e problemi è ovvio per il fi­ lologo; la tipica affermazione nietzscheana: «U na cosa, quando è spiegata, cessa di interessarci » (Al di là del bene e del male, 80) potrebbe averla scritta un filologo; per costui, infatti, fare luce su di una questione oscura significa effetti­ vamente mutare quest’ultima in una faccenda già sbrigata di cui non è più necessario occuparsi. Ma i motivi che condizio­ nano il frequente mutamento di pensieri nietzscheano sono profondamente diversi, ed è perciò quanto mai interessante osservare come in questo punto gli estremi della filologia e della filosofia paiano toccarsi e come Nietzsche [53] sia riu-

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scilo a imporre la propria soggettività anche in questo travesi imento per lui estraneo - quello del sobrio filologo - in questo assoggettamento quanto mai spirituale. Il filologo non si occupa mai di qualcosa mettendo in gio­ co ciò in cui crede, la sua umanità, non lo assimila in alcun modo e vi rimane vincolato solo finché gli è di qualche utilità per risolvere il suo problema. Per Nietzsche, al contrario, oc­ cuparsi di un problema significa prima di ogni altra cosa co­ noscere, cioè, farsi scuotere; e convincersi di una verità vuol dire per lui venire sopraffatto da un’esperienza, « essere man­ dato gambe all’aria», come ebbe a dire in un’occasione. Egli si faceva carico di un pensiero come di un destino che coin­ volge tutta la persona e la tiene in sua balia; viveva il pensie­ ro molto più di quanto non lo pensasse, ma lo faceva con un fervore così appassionato, con una dedizione così smisurata, che finiva per esaurirvi tutto se stesso; e, al pari di un destino vissuto fino in fondo, il pensiero si staccava nuovamente da lui. Soltanto in quella dimensione di sobrio distacco che se­ gue naturalmente a emozioni di questo genere egli consenti­ va a una conoscenza ormai lasciata alle spalle di agire su di lui in modo puramente intellettuale, soltanto allora le si consa­ crava con la lucidità e la calma del suo intelletto indagatore. Il suo notevole impulso al mutamento nell’ambito delle co­ noscenze filosofiche era condizionato dall’impulso smisurato verso emozioni sempre nuove di natura oltre modo spiritua­ le; la somma chiarezza era così per lui soltanto il fenomeno che sempre si accompagna alla sazietà e all’estenuazione. Ma i suoi problemi non lo abbandonavano nemmeno in questa estenuazione, e la sazietà concerneva soltanto le solu­ zioni che occultavano temporaneamente la fonte dell’inquie­ tudine. [54] La soluzione a cui perveniva era quindi ogni volta il segno di un mutamento di stato d’animo-, soltanto co­ sì, infatti, il problema poteva essere conservato e la soluzione cercata ogni volta da capo. Se la prendeva allora con autenti­ co odio contro tutto quel che stava dietro la soluzione, che lo aveva condotto a essa, che gli era stato d aiuto per trovarla. Dal momento che « una cosa, quando è spiegata, cessa di in­ teressarci», Nietzsche, in fondo, non voleva sapere nulla del­ la soluzione definitiva di un problema, e qualsiasi parola esprimesse all’apparenza la completa risoluzione di un pen­ siero valido rappresentava per lui la tragedia della sua vita; non voleva infatti che un giorno i problemi della sua ricerca potessero smettere di interessarlo; voleva invece che conti­ nuassero a smuoverlo nel più profondo dell’animo ed era in

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certa misura adirato verso la soluzione che lo derubava del problema; quindi le si gettava ogni volta addosso con tutta la finezza e la raffinatezza della sua scepsi e la costringeva, pro­ vando gioia per il male altrui - contento della propria soffe­ renza e del danno che così si arrecava! - a restituirgli di nuo­ vo il suo problema. Si può perciò affermare fin da ora con un certo diritto che ciò che tratteneva a lungo lo spirito appassionato di Nietz­ sche all’interno di un indirizzo speculativo, di un modo di considerare le cose, ciò che ne rendeva impossibile un ulte­ riore cambiamento e trasformazione, doveva restare per lui, in ultima istanza, qualcosa di tnsptegabile\ doveva resistere alla forza di tutti i tentativi di trovare una soluzione, estenua­ re la sua intelligenza con enigmi mortali, quasi crocifiggerlo a questi enigmi. Allorché infine, procedendo lungo questa via, l’eccitazione del suo animo era divenuta più intensa della forza intellettuale che essa spronava con violenza, soltanto a quel punto non vi era più per lui alcuna via di scampo [55] e di fuga. La fine del cammino si perdeva allora necessaria­ mente nell oscurità, nel dolore e nel segreto, con i sentimen­ ti mossi che assillavano i pensieri, abbattendosi su di essi co­ me un mare in tempesta. Chi intenda seguire fino in fondo il sentiero zigzagante di Nietzsche, giungerà al punto in cui questi, colto da orrore in­ nanzi all ultima spiegazione e all’ultima soluzione del proble­ ma, si getta al fondo dell’eterno enigma della mistica. Ma lo spirito di Nietzsche si distingueva per due altre do­ ti che, in ugual misura, tornarono utili al filologo e, in segui­ to, al filosofo. La prima era il suo talento per le sottigliezze, la sua genialità nel trattare le cose più fini, quelle che richie­ dono una mano delicata e sicura per non essere distrutte o deturpate. E questa la dote che, a mio avviso, avrebbe fatto successivamente di lui uno psicologo ancor più raffinato che grande, o meglio: il più grande nel cogliere e dar forma alle finezze. Quanto mai significativa è l’espressione che egli uti­ lizzò una volta (Il caso Wagner, 3) per indicare il modo in cui le cose si presentano agli occhi dell’uomo della conoscenza: «L a filigrana delle cose». Connessa a questo aspetto è l’inclinazione a seguire le trac­ ce di ciò che è nascosto e recondito, a portare alla luce quel che si cela; il colpo d’occhio per ciò che è oscuro insieme al­ l’intuizione e alla sensibilità che colmano istintivamente le la­ cune lasciate dal sapere: su ciò poggia gran parte della genia­ lità di Nietzsche e questo è strettamente legato alla sua gran­

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de potenza artistica in cui lo sguardo su quel che è unico e di­ stinto si slarga magnificamente in un’ampia e libera visione del contesto generale, del quadro d’insieme. [56] Egli ha po­ sto questo talento al servizio di una critica rigorosamente filo­ logica, per leggere con scrupolo1tra le righe dei testi quel che di sbiadito e dimenticato essi contenevano; in questo sforzo si spinse tuttavia oltre l’ambito dei suoi studi eruditi. Il modo in cui ciò avvenne ci introduce al suo più significativo lavoro fi­ lologico, quello sulle Fonti di Diogene Laerzio. Dedicarsi alla stesura di questo scritto costituì per Nietz­ sche l’occasione di studiare a fondo la vita degli antichi filo­ sofi greci e la sua relazione con la vita dei greci nel suo com­ plesso. Nelle sue opere successive, segnatamente in Umano, troppo umano, sarebbe ritornato una volta sul tema. Leggen­ do queste pagine si può osservare come egli abbia potuto in­ stallarsi e lambiccarsi il cervello tra le macerie della tradizio­ ne, volgendo in poesia le figure andate perdute negli spazi vuoti, nelle parti deturpate, ricreandole e aggirandosi entu­ siasta « fra creazioni del tipo più potente e più puro ». Scruta dentro al tramonto di quell’epoca « come nel laboratorio di uno scultore di tali tipi». E lo avvince mirabilmente immagi­ narsi che in esso si siano potute abbozzare le prime prove di un tipo di filosofo ancora più elevato, quale forse gli sarebbe parso Platone « rimasto immune dalla mafia di Socrate ». Ma tutto ciò è tuttavia qualcosa di più di un mero passaggio dal­ l’atteggiamento del filologo a quello del filosofo. Quel che si rivela nella nostalgia creatrice dei suoi pensieri, mentre egli è costretto a esercitare una critica sobria, mette già a nudo [57] il punto sommo e conclusivo della sua ambizione; non a caso Nietzsche ha fatto il suo ingresso nella filosofia non gra­ zie a studi specialistici, ma attraverso una profonda com­ prensione della vita filosofica nel suo significato più intimo. E se volessimo indicare il fine per cui furono ingaggiate, at­ traverso tutte le metamorfosi, le lotte di questo spirito insa­ ziabile, non si potrebbero trovare parole più indicative di quelle dell’agognata scoperta « di una nuova possibilità di vi­ ta filosofica rimasta fino allora ignorata» (Umano, troppo umano, 1, 261). Questo scritto puramente filologico si colloca così imme­ 1 La sua lettura era quella che egli una volta definì il «leggere b en e» e cioè «lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini, lasciando porte aperte, con dita ed occhi delicati...» (Aurora, «Prefazione alla nuova edizione» [1886]).

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diatamente a ridosso di tutta la serie delle opere successive, — simile a una piccola porta seminascosta nelle mura che dan­ no accesso al grande edificio. Aprendola il nostro sguardo sfiora la lunga fuga degli spazi interni, fino all’ultimo, fino al più buio. E chi si arresta sulla soglia e getta uno sguardo al1 interno non può non pensare senza meraviglia alla forza possente che ha disposto pietra su pietra in un disegno com­ plessivo: una forza che ha adornato ogni singolo elemento profondendo ricchezza, che ha costruito innumerevoli corri­ doi e nascondigli segreti, quasi avesse in mente la realizzazio­ ne di un labirinto - e che pure con ferrea coerenza ha sem­ pre tirato diritto nella sua opera. Gli studi greci non solo fecero presagire a Nietzsche le sue aspirazioni più intime e vedere per la prima volta in modo distinto la meta della sua recondita nostalgia, ma gli indica­ rono anche il cammino lungo cui avrebbe potuto avvicinarsi a questa meta. Furono infatti questi lavori a mostrargli il quadro culturale complessivo deU’ellenismo antico, [58] a dispiegargli le immagini di un’arte e di una religione tramon­ tate contemplando le quali, con avidi sorsi, poteva bere « una vita fresca e piena ». Pose così la propria erudizione filologi­ ca al servizio di ricerche di storia della cultura, di estetica e di filosofia della storia, superandone il formalismo. Il significato della filologia diventò così ai suoi occhi qual­ cosa di diverso e di più profondo; essa « non è né una Musa né una Grazia, ma una messaggera degli dèi; e come le Muse scesero in mezzo ai contadini beoti afflitti e tormentati, così essa viene in un mondo di colori e immagini cupi, pieno dei dolori più profondi e incurabili e racconta consolatrice delle figure di dèi belle e luminose in un lontano paese incantato, azzurro e felice ». Sono, queste, parole della prolusione di Nietzsche all’uni­ versità di Basilea, Omero e la filologia classica, che venne stampata soltanto per gli amici (Basilea 1869). Due anni più tardi fu pubblicato (Basilea 1871) un altro piccolo scritto che seguiva lo stesso indirizzo intellettuale, Socrate e la tragedia, che confluì poi quasi per intero, soltanto con alcune variazio­ ni marginali nello sviluppo dei pensieri, nella prima grande opera filosofica di Nietzsche, data alle stampe nel 1872: La nascita della tragedia dallo spirito della musica (Lipsia, E.W. Fritsch, ora C.G. Naumann).1 [59] In questi due lavori Al suo apparire questo libro suscitò la più vivace disapprovazione da parte della congrega dei filologi; l’autore aveva avuto l’ardire di fondare le

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Nietzsche fondò le sue tesi di filosofia della cultura ancora su basi strettamente filologiche; essi contribuirono perciò a far circolare il suo nome nell’ambiente dei filologi. Nondimeno questi scritti mostrano il cammino che egli si è già lasciato al­ le spalle muovendo da studi specialistici, attraverso l’arte e la storia, per approdare alla circoscritta visione del mondo di una determinata posizione filosofica: si tratta della visione del mondo di Richard Wagner e dell’intreccio della sua aspi­ razione artistica con la metafisica di Schopenhauer: sfoglian­ do quest’opera ci ritroviamo in mezzo al cerchio incantato del maestro di Bayreuth. Attraverso Wagner, Nietzsche riuscì a fondere appieno tra loro filologia e filosofia e a inverare per la prima volta la fra­ se con cui, rovesciando una sentenza di Seneca, aveva chiuso il suo studio su Omero e la filologia classica: « Philosophia facta est [60] quae philologia fuit»\ « con ciò si vuole dire che ogni attività filologica deve essere racchiusa e circondata da una concezione filosofica del mondo in cui ogni elemento singolo e isolato si volatilizza come qualcosa di riprovevole, finché rimane solo il tutto, quel che è unitario». L’incantesimo che per anni fece di Nietzsche il discepolo di Wagner può essere effettivamente spiegato rammentando il fatto che Wagner intendeva realizzare, all’interno della vita tedesca, quello stesso ideale di cultura artistica che Nietzsche aveva incontrato, come ideale, all’interno della vita greca. La metafisica di Schopenhauer, in ultima istanza, non aggiunge sue affermazioni non soltanto sulle tesi del riprovevole filosofo Arthur Scho­ penhauer, ma anche sulle intuizioni artistiche dell’allora parimenti oltrag­ giato «m usicista dell’aw enire» Richard Wagner. Un giovane filologo di spicco, Ulrich von Wilamowitz-Möllendorff, che oggi è uno dei rappresen­ tanti più prestigiosi della filologia classica in Germania, divenne, in modo non particolarmente felice ed elegante, il portavoce della posizione unilate­ rale della congrega. Senza render in alcun modo giustizia alla peculiarità del libro di Nietzsche, lo attaccò con la massima violenza da una prospettiva stret­ tamente filologica nell’opuscolo Filologia d e ll avvenire! Risposta alla « N a ­ scita della tragedia» di F.N., Berlino 187z. In difesa dell attaccato scesero in campo coloro ai quali il libro era principalmente rivolto: Richard Wagner, l’artista, con una lettera aperta a Nietzsche apparsa sulla «N orddeutsche Allgemeine Z eitung» del 23 giugno 1872, ed Erwin Rohde, che già a quel­ l’epoca aveva fornito validissima dimostrazione della sua profonda cono­ scenza dell’antichità greca. Nello scritto polemico dallo stile eccellente Filo­ logia deretana. Lettera di un filologo a Richard Wagner, Lipsia 1872, egli si pose sul terreno scelto dall’avversario e respinse al mittente le obiezioni e le accuse avanzate da questi; a ciò Wilamowitz rispose poi con una replica. Fi­ lologia dell'avvenire! Atto secondo. Risposta al tentativo di salvataggio della «N ascita della tragedia» diF.N ., Berlino 1873.

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null’altro se non una sublimazione di questo ideale nella sfe­ ra mistica, nell’imperscrutabile pienezza di senso, quasi un’accentuazione che la vita e la conoscenza artistica ricevo­ no in virtù àzìVinterpretazione metafisica. Questa accentua­ zione può essere avvertita nel modo più netto se si opera un confronto tra Socrate e la tragedia e l’integrazione e l’amplia­ mento di questo scritto nelle pagine di La nascita della trage­ dia dallo spinto della musica. In questo libro Nietzsche tenta di ricondurre ogni evoluzione dell’arte all’azione di due «im ­ pulsi artistici della natura » contrapposti, che egli, rifacendo­ si alle due divinità artistiche dei greci, chiama dionisiaco e apollineo. Il primo impulso comprende l’elemento orgiastico quale aveva modo di erompere nelle estasi gioiose, nella me­ scolanza di dolore e piacere, gioia e sgomento, nell’ebbrezza immemore delle feste dionisiache in cui i limiti e i consueti confini della vita venivano annullati; in queste situazioni l’in­ dividuo pare tornare a fondersi nella totalità della natura, mandando in frantumi il pnncipium mdividuationis, [61] «e si apre la via verso le Madri dell’essere, verso l’essenza intima delle cose». Attraverso il fenomeno fisiologico dell’ebbrezza ci accostiamo ancor di più all’essenza di questo impulso. L’arte che le corrisponde è la musica. Il suo opposto è rap­ presentato dall’impulso che conferisce forma, incarnato in Apollo, il dio di tutte le capacità figurative. In lui si trovano riunite la moderata limitazione, la libertà da ogni emozione violenta e la calma piena di saggezza. Deve essere considera­ to come « la magnifica immagine divina del principium individuationis», «della cui legge l’individuo, vale a dire l’osser­ vanza dei limiti dell’individualità » è « la misura nel senso el­ lenico». La potenza dell’impulso da esso simboleggiato si palesa fisiologicamente nella bella parvenza del mondo oniri­ co. La sua arte è quella plastica della scultura. Nella conciliazione e nell’unione di questi due impulsi ini­ zialmente in conflitto, Nietzsche riconosce l’origine e l’essen­ za della tragedia attica, la quale, come frutto della concilia­ zione delle due divinità artistiche avverse, è un’opera d’arte tanto dionisiaca quanto apollinea. Nata dal coro ditirambi­ co, che celebrava le sofferenze del dio, essa è in origine sol­ tanto un coro in cui i cantanti venivano a tal punto incantati e trasformati dall’eccitazione dionisiaca da sentirsi servitori della divinità, Satin, e da considerare Dioniso come loro si­ gnore e padrone. Con questa visione, che nasce dal suo in­ terno, il coro raggiunge uno stato di perfezione apollinea. Il dramma, inteso come «la rappresentazione apollinea sensi­

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bile di conoscenze e moti dionisiaci», è compiuto. «Quelle parti corali di cui la tragedia è intrecciata sono dunque in certo modo la matrice [...] del vero e proprio dramma»; ne sono [62] l’elemento dionisiaco, mentre il dialogo ne costimisce la componente apollinea. In esso gli eroi del dramma parlano dalla scena come immagini apollinee in cui si ogget­ tiva l’originario eroe tragico Dioniso, semplici maschere die1ro cui si nasconde la divinità. Nelle ultime pagine di questo mio libro potremo vedere in che modo Nietzsche, proprio nei suoi ultimi anni, riprese an­ cora una volta questi pensieri tentando di presentare le diver­ se fasi della sua evoluzione e il mutare delle sue idee non co­ me immediate produzioni della sua mente ma, in certa misu­ ra, soltanto come maschere indossate arbitrariamente, «im ­ magini apollinee » dietro le quali il suo ego dionisiaco, con di­ vina superiorità, era rimasto eternamente uguale. Compren­ deremo alla fine le ragioni di quest’illusione. Il valore che Nietzsche assegna all’elemento dionisiaco è caratteristico della sua natura spirituale: da filologo egli ha cercato, attraverso l’interpretazione della cultura dionisiaca, una nuova via d’accesso al mondo degli antichi; da filosofo ha posto quest’interpretazione alla base della sua prima vi­ sione unitaria del mondo. Nel suo ultimo periodo di attività, alla fine di tutte le sue successive trasformazioni, questa con­ cezione del mondo fa nuovamente la sua comparsa: essa è certamente cambiata in quanto è venuto meno il suo rappor­ to con la metafisica di Schopenhauer e di Wagner, ma è an­ che rimasta uguale a se stessa in quel che i suoi più riposti impulsi spirituali cercavano di esprimere; mutata sembra es­ serlo nelle immagini e nei simboli della sua ultima esperien­ za, la più intima e la più solitaria. E il motivo di ciò è che Nietzsche ha trovato nell’ebbrezza dionisiaca qualcosa di af­ fine alla sua [63] propria natura: quella nascosta unità essen­ ziale di sofferenza e godimento, di vulnerabilità e divinizza­ zione di se stesso - gli eccessi a cui si innalza la vita dello spi­ rito, in cui tutti i contrasti si condizionano e si annullano e su cui ancora una volta dovremo soffermarci. L’indirizzo intellettuale seguito dall’uomo teoretico ed estraneo a ogni forma di intuizione, che si inaugura con la fi­ gura di Socrate, rappresenta la forma di opposizione più net­ ta all’elemento dionisiaco e alla cultura artistica nata da esso. Nella Nasata della tragedia Nietzsche tenta di descrivere a grandi linee lo sviluppo di questo atteggiamento spirituale muovendo da Socrate, attraverso secoli di scienza e filosofia,

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fino ai giorni nostri. Con Socrate, la cui dottrina della ragio­ ne si rivolge contro gli istinti ellenici originari al fine di im­ brigliarli, « si capovolge il gusto greco per la dialettica » e ini­ zia quella marcia trionfale del teoreta che intende indagare i fondamenti ultimi dell’essere attraverso la considerazione ra­ zionale e, per suo tramite, presume di poterli anche correg­ gere. Soltanto la critica kantiana ha segnato la fine di questo ottimismo, indicando i limiti della conoscenza teoretica e, come Nietzsche ha poi osservato in tono scherzoso, riducen­ do la filosofia a una «dottrina dell’astinenza [...] che non sa varcare la soglia e ricusa meschinamente a se stessa il diritto d’accesso » (Al di là del bene e del male, 204). In tal modo es­ sa creò, secondo Nietzsche, lo spazio per la rigenerazione della filosofia a opera di Schopenhauer che, lungo la via del­ la conoscenza intuitiva, dischiuse infine un accesso all’essere insondabile e alle sue varie forme. Tra il 1873 e il 1876 Nietzsche dà alle stampe, nello spirito della sua opera precedente e con [64] il titolo complessivo di Considerazioni inattuali, quattro piccoli scritti destinati ad agire « contro il tempo, e in tal modo sul tempo e, speriamo­ lo, a favore di un tempo futuro » [Sull’utilità e il danno della storia per la vita, «Prefazione»]. Il primo di essi, intitolato David Strauss: l’uomo di fede e lo scrittore, consiste in una critica distruttiva del libro, oltremodo elogiato all’epoca, La vecchia e nuova fede e in una lotta energica all’intellettuali­ smo unilaterale della cultura moderna. Di più duraturo inte­ resse è il secondo pregevolissimo scritto, Sull’utilità e il dan­ no della storia per la vita, la cui tesi fondamentale ricompare nelle ultime opere nietzscheane, in forma modificata ma non per questo meno evidente della sua concezione del dionisia­ co. Il termine « storia » [Historie] designa in queste pagine il concetto di vita intellettuale, inteso in senso del tutto genera­ le, in opposizione a quello di vita degli istinti; conoscenza del passato, scienza di ciò che è stato, in opposizione alla piena forza vitale del presente e del divenire. Lo scritto affronta la questione: «Come è possibile subordinare il sapere alla vi­ ta? » e precisa il punto di vista dell’autore con l’affermazio­ ne: « Solo in quanto la storia serve la vita, vogliamo servire la storia ». Ma essa la serve fintanto che la più importante fun­ zione spirituale dell’uomo rimane del tutto integra di fronte agli influssi dissolventi, opprimenti e onnipervasivi del pen­ siero: «L a forza plastica di un uomo, di un popolo o di una civiltà, voglio dire quella forza di crescere a modo proprio su se stessi, di trasformare e incorporare cose passate ed estra-

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nee, di sanare ferite, di sostituire parti perdute, di riplasmare in sé forme spezzate». In caso contrario si forma nel nostro animo [65] un caos di ricchezze estranee, che affluiscono in noi senza che siamo in grado di controllarle e assimilarle, e la cui molteplicità mette perciò in serio pericolo il carattere or­ ganico e unitario della nostra personalità. Diventiamo allora il passivo campo di battaglie confuse in cui si scontrano sen­ za tregua i pensieri, gli stati d’animo e le valutazioni più di­ verse; soffriamo per le vittorie degli uni e per le sconfitte de­ gli altri senza essere capaci di fare di noi stessi il signore di tutte queste vicende. Qui viene fatto per la prima volta un accenno al tanto di­ scusso concetto nietzscheano di decadenza, che svolgerà un ruolo così importante nelle opere successive. Non a caso que­ sta prima illustrazione del pericolo insito nella decadenza ci riporta alla mente il modo in cui abbiamo precedentemente descritto la condizione psichica di Nietzsche; in questo luo­ go ne possiamo già riconoscere l’origine: si tratta del tor­ mento nascosto che a questo spirito appassionato cagionava il costante accalcarsi di conoscenze e flussi di pensiero tra­ volgenti, la violenza con cui ogni suo pensiero e ogni sua co­ noscenza agivano sulla sua vita interiore, sicché la pienezza di esperienze in intimo contrasto tra loro rischiava di mandare in frammenti i chiusi confini della sua personalità. E lui stes­ so a riconoscerlo nella prefazione allo scritto in questione: « Non dev’essere taciuto che le esperienze che suscitarono in me quei sentimenti tormentosi, io le ho attinte per lo più da me stesso e dagli altri le ho attinte solo per paragonarle».1 Quel che egli [66] scopriva in se stesso diveniva così per lui il pericolo generale per tutta un’epoca e si dilatava poi fi­ no a diventare il pericolo mortale per tutta l’umanità che lo invocava come liberatore e salvatore. Da questa circostanza deriva però una peculiare ambiguità che attraversa tutto lo scritto e che balza immediatamente all’occhio di un esperto lettore di Nietzsche: infatti, proprio ciò che suscitava le sue perplessità nei confronti dell’imperante spirito del tempo, e che certo era qualcosa di fondamentalmente diverso dai pro­ blemi del suo animo, viene poi rivolto da Nietzsche, senza fa­ re distinzione di sorta, contro due cose del tutto diverse tra 1 Si veda la « Prefazione » che introduce la nuova edizione del secondo volume di Umano, troppo umano [1886] dove si afferma: «C iò che dissi con­ tro la “malattia storica” , lo dissi come uno che di essa imparava lentamente, faticosamente a guarire ».

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loro. In primo luogo contro l’atrofia di una vita spirituale ric­ ca e piena provocata dall’influsso frigido e paralizzante di un unilaterale istruzione dell’intelletto: «D a ultimo l’uomo moderno si porta in giro un’enorme quantità di indigeribili pietre del sapere, che poi all’occorrenza rumoreggiano pun­ tualmente dentro di noi, come avviene nella favola». «Allora sì che il sentimento all’interno riposa simile a quel serpente che ha ingoiato conigli interi e si stende poi tranquillamente al sole, evitando tutti i movimenti tranne quelli necessari. [...] Tutti quelli che passano di là hanno solo il desiderio che una tale cultura non perisca di indigestione». In secondo luogo, invece, proprio contro l’influsso eccessivamente vio­ lento, eccitante e perturbante del pensiero sulla vita psichica, contro il conflitto da esso innescato tra forze pulsionali pri­ mordiali e sconnesse. La differenza è simile a quella tra ottusità e follia. In Nietzsche stesso i pensieri più astratti erano soliti mutarsi in forze emotive che prendevano a trascinarlo in modo imme­ diato e imprevedibile. Nel quadro della nostra epoca da lui abbozzato, [67] le due azioni contrapposte dell’intelletto do­ vevano dunque necessariamente confondersi e, per quanto ri­ guarda una di esse - lo scatenarsi caotico della vita psichica furono due cause diverse a fondersi luna nell’altra. Non si tratta infatti soltanto di semplici influssi dell’intelletto, del pe­ ricolo che l’elemento razionale rappresenta per quello istinti­ vo, ma anche degli influssi di epoche quanto mai remote che abbiamo ereditato e fatto nostri, i quali, scaturiti un tempo da una fonte intellettuale, vivono oggi in noi soltanto in for­ ma di istinti e di valutazioni del sentimento. La personalità chiusa in se stessa non sta dunque solo sot­ to la minaccia che proviene dall’esterno, ma anche sotto quel­ la che essa porta dentro di sé, che è nata insieme a lei, di quel­ la « contraddittorietà degli istinti » che è ciò che eredita ogni epigono giacché gli epigoni non sono mai di sangue puro. Il superamento del danno che la storia - appresa o vissuta può in questo senso arrecare può avvenire rivolgendosi in di­ rezione di « ciò che non è storico ». Con questa espressione Nietzsche intende il ritorno all’inconscio, alla volontà di non sapere, alla chiusura d’orizzonte senza cui non c’è vita: « Ogni vivente può diventare sano, forte e fecondo solo en­ tro un orizzonte ». « Ciò che non è storico assomiglia ad una atmosfera avvolgente, la sola dove la vita può generarsi ». « È vero, solo per il fatto che l’uomo pensando, ripensando, pa­ ragonando, separando, unendo, limita quell’elemento non

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siorico, solo per il fatto che dentro quell’avvolgente nuvola di vapore nasce un chiaro e lampeggiante raggio di luce cioè solo per la forza di usare il passato per la vita e [68] di i rasformare la storia passata in storia presente, l’uomo diven­ ta uomo: ma in un eccesso di storia l’uomo viene nuovamen­ te meno». La sua forza si misura in base alla quantità di storia che egli sopporta e supera, in base alla forza dell’elemento non storico in lui: « Quanto più la natura intima di un uomo ha radici forti, tanto più egli si approprierà o impadronirà del passato; e se si immaginasse la natura più potente e immane, essa si potrebbe riconoscere dal fatto che per lei non ci sa­ rebbe nessun limite del senso storico, ove questo agisse in modo soffocante e dannoso; ogni cosa passata, propria ed estraneissima, essa l’attirerebbe a sé, l’introdurrebbe in sé, trasformandola per così dire in sangue. Una tale natura, ciò che non vince, lo sa dimenticare; esso non esiste più, l’oriz­ zonte chiuso e completo, e niente può rammentare che al di là di esso ci sono ancora uomini, passioni, dottrine e scopi ». Uno spirito di questo tipo si rapporta alla storia nei tre modi in cui, in generale, ci si può rapportare a essa senza ca­ dérne preda: la considera come storia monumentale, posan­ do il suo sguardo sulle grandi figure del passato, mettendole in relazione con la sua opera e la sua volontà senza tuttavia perdersi in esse, ma considerandole come entusiasmanti pre­ cursori e compagni di strada. S’immerge nella storia antiquaria nel momento in cui si ag­ gira per tutto il passato come chi si muove tra i luoghi di una vita precedente, tra i luoghi della sua infanzia in cui anche il minimo dettaglio sembra molto importante e significativo: «Egli concepisce le mura, la porta turrita, l’ordinanza muni­ cipale, la festa popolare come un [69] diario illustrato della sua gioventù, e in tutte queste cose ritrova se stesso, la sua forza, la sua diligenza, il suo piacere, il suo giudizio, la sua follia e le sue cattive maniere. Qui si poteva vivere, egli si di­ ce, giacché si può vivere; qui si potrà vivere, giacché siamo tenaci e non ci si può spezzare da un giorno all’altro. Così, con questo “noi”, egli guarda oltre la caduca e peregrina vita individuale, e sente se stesso come lo spirito della casa, della stirpe e della città». Guarderà infine anche alla storia in modo critico, per dis­ sodare il passato al fine di edificare il futuro, fine per cui ha bisogno della più grande forza vitale poiché più grande del pericolo di diventare un sognatore o un collezionista, è il pe­

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ricolo di rimanere un distruttore: « È sempre un processo pericoloso, pericoloso cioè per la vita stessa. [...] Infatti, da­ to che noi siamo i risultati di generazioni precedenti, [...] non è possibile staccarsi del tutto da questa catena. [...] Ar­ riviamo nel miglior caso a un conflitto fra la natura ereditaria e avita e la nostra conoscenza; [...] noi piantiamo una nuova abitudine, un nuovo istinto, una seconda natura, sicché la prima natura rinsecchisce. È un tentativo di darsi per così di­ re a posteriori un passato da cui si vorrebbe derivare, in con­ trasto con quello da cui si deriva. [...] Ma qua e là la vittoria arride lo stesso, e c’è [...] una notevole consolazione: quella cioè di sapere che anche tale prima natura è stata una volta, quando che sia, una seconda natura, e che ogni seconda na­ tura che vinca diventa una prima natura». In certa misura si possono applicare questi tre modi di considerare la storia ai tre periodi dell’evoluzione di Nietz­ sche, prendendo [70] l’avvio da quello antiquario, che coin­ cide con la sua attività di filologo, facendogli seguire la con­ cezione monumentale, che lo vide sedere come discepolo ai piedi di grandi maestri, per giungere infine al positivismo del suo periodo maturo che può essere definito come quello cri­ tico. Ma dopo aver superato quest’ultima fase, le tre prospet­ tive si fusero in una, nella quale, come si avrà modo di vede­ re, i pensieri contenuti in questo scritto torneranno di nuovo in forma misteriosa e commovente, nell’accentuazione estre­ ma e paradossale della tesi secondo cui l’elemento storico è subordinato alla vita individuale, la cui condizione costante è l’elemento non storico. La natura forte, che egli descrive come al contempo stori­ ca e non storica, è così un erede di tutto il passato, ed è dun­ que fuori dal comune per la pienezza della sua esperienza, ma è un erede che sa rendere davvero feconda la sua ricchez­ za perché la possiede effettivamente, ne è il signore e non ne risulta posseduto e dominato. Un erede o un epigono di tale sorta è poi sempre, al contempo, il capostipite di una nuova civiltà e, quale detentore del passato, un creatore dell’avveni­ re: la ricchezza che egli diffonde porta anche con sé i frutti di tempi futuri. E uno dei grandi «inattuali» che sono immersi in un lontano passato, che additano a un lontano futuro, ma che stanno nel loro tempo sempre come stranieri, benché il presente concentri e produca in loro la sua massima forza. In queste considerazioni si trova la prima formulazione di pensieri dell’ultimo periodo creativo di Nietzsche: un sin­ golo, il genio di tutta l’umanità, è in grado di interpretare,

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muovendo dal presente, l’intero passato e con ciò anche di determinare il senso e la finalità dell’avvenire inteso come un tutto. [71] Osservate esclusivamente dall’esterno, le radici di questa intuizione mostrano di risalire fino all’attività di filo­ logo di Nietzsche che lo indusse a impadronirsi, attraverso la conoscenza, di altre civiltà. Sapere ed essere furono sempre un’unica cosa per il suo spirito; e così, per Nietzsche, essere filologo classico equivaleva a essere greco. Ciò doveva di cer­ to rinforzare quella contraddittorietà degli istinti che lo an­ gustiava e il cui culmine era ai suoi occhi la contrapposizione di antico e moderno - ma doveva anche racchiudere in sé gli strumenti per combatterla, e cioè la possibilità di costruire il futuro attraverso un passato superiore al presente, di mutar­ si da uomo del suo tempo in epigono di più antiche civiltà e in primogenito di una civiltà nuova.1 Le ultime due Considerazioni inattuali di Nietzsche —Scho­ penhauer come educatore e Richard Wagner a Bayreuth —sono dedicate a due di questi individui « inattuali » il cui tempo è il passato e il futuro. Queste due statue erette con traboccan­ te entusiasmo in onore del genio mostrano con particolare chiarezza in quale misura la nuova civiltà dell’individuo inat­ tuale, a cui Nietzsche aspira, culmini in un culto del genio stesso. In lui l’umanità non trova infatti soltanto il suo edu­ catore, la sua guida, il suo profeta, ma anche la sua autentica ed esclusiva meta finale. L’idea secondo cui « tutte le produ­ zioni della natura non esistono se non in funzione degli indi­ vidui isolati» è uno di quei pensieri schopenhaueriani che Nietzsche non ha mai abbandonato. Qualcosa nella parte più riposta del suo animo [72] fremeva insaziabilmente per in­ nalzare l’elemento egoistico al rango di ideale del sé, così co­ me anelava in direzione del lato oscuro di questo sublime de­ stino dell’uomo, verso la solitudine e l’eroismo. Nel suo periodo intermedio egli prese apparentemente le distanze da questa prima concezione del genio, perché essa aveva visto venire meno lo sfondo metafisico su cui solo il profilo del grande « singolo » poteva stagliarsi nella sua so­ vrumana importanza come una figura di un mondo superio­ re e più vero. Ma l’idea del culto del genio conteneva uno 1 «N o n dev’essere taciuto che [...] solo in quanto sono allievo di epoche passate, specie della greca, giungo a esperienze così inattuali su di me come figlio dell’epoca m oderna» (Sull’utilità e il danno della storia per la vita, «P refazione»).

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spunto in direzione di ciò che Nietzsche, alla fine del suo percorso intellettuale, avrebbe nuovamente rielaborato con un colpo di geniale follia. Il valore positivo del genio assunse infatti per lui un’importanza talmente superiore a quella del­ la concezione schopenhaueriana - in funzione di sostituto di un’interpretazione metafisica della vita - che questa finì per rappresentarne solo un debole contraltare.

Fintanto che il culto del genio rimane un culto da metafi­ sico nel quadro della physis umana, esso comprende una se­ rie continua, una catena di « singoli » che possiedono pari va­ lore e dignità sia per quanto riguarda la loro natura, sia per quanto attiene alla loro importanza. Essi non vengono consi­ derati come segmenti di una linea evolutiva dell’essere uma­ no, essi « non continuano magari un processo, ma vivono si­ multaneamente e fuori dal tempo », formano « una specie di ponte sul selvaggio fiume del divenire. [...] Un gigante grida all’altro attraverso i desolati intervalli dei tempi, e l’alto col­ loquio degli spiriti prosegue, non disturbato dai nani petu­ lanti e chiassosi che strisciano sotto di loro ». Dal momento che è questo «n an o» a determinare tutta la storia dell’evolu­ zione, [73] le sue vicende così come le sue leggi, una cosa sol­ tanto è allora certa: « Lo scopo dell’umanità non può trovar­ si alla fine, ma solo nei suoi più alti esemplari » [Sull’utilità e il danno della storia per la vita, ix]. Ma dal momento che anche gli esemplari più alti esprimo­ no soltanto quel che sta al fondo dell’essere umano, quale sua essenza metafisica, essi si distinguono dalla massa degli uomini meno per una differenza che non per uno svelamento essenziale, per una nudità divina, mentre l’uomo della massa ha migliaia di veli che coprono la sua vera natura - veli che appartengono tutti al mondo e alla superficie della vita e che possono qua e là rendersi impenetrabili. «Il grande pensato­ re, quando disprezza gli uomini, disprezza la loro pigrizia: poiché per causa sua essi appaiono come merce di fabbrica [...]. L’uomo che non vuole appartenere alla massa non deve far altro che cessare di essere accomodante verso se stesso » [Schopenhauer come educatore, 1). L’educazione amorevole e la premura nei confronti di tutti sono dunque la conseguen­ za di questo modo di vedere le cose il quale, nel senso più profondo, pone tutti sullo stesso piano poiché rende onore al nucleo metafisico avvolto in ogni velo; da nulla esso risulta quindi più distante come dalle tarde richieste nietzscheane di schiavitù e tirannia. Ma allorché, come accade nella matura riflessione di Nietz­

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sche, questo sfondo metafisico si dissolve, quando l’essere sovrasensibile si perde nell’infinito divenire del reale, allora il singolo può sollevarsi al di sopra della massa soltanto in virtù di una differenza essenziale che equivale a una superiore dif­ ferenza di grado: incarnando la quintessenza di questo pro­ cesso, egli lo ingloba in sé per quanto possibile nella sua to­ talità, mentre l’uomo della massa è in grado di viverlo e in­ carnarlo soltanto in modo cieco e frammentato. [74] Questo singolo sarebbe dunque in certa misura il solo in grado di da­ re un senso a quella lunga evoluzione che si chiama storia; egli non sarebbe composto di materia sovrasensibile, come l’uomo schopenhaueriano, ma sarebbe in tutto e per tutto un creatore e, come tale, sarebbe in grado di fungere da sostitu­ to di quel significato delle cose in cui il metafisico ripone la sua fede. In luogo di molte singolarità di pari rango, che si elevano sopra le vicende umane come una catena di monti più alti e uniti tra loro, nell’ultima filosofia di Nietzsche si ri­ trova soltanto il grande Solitario, che intende se stesso come la vetta del tutto; verso l’alto egli risulta ancora più solo de­ gli altri poiché, come punto conclusivo dell’evoluzione, è l’esemplare supremo del genere umano; verso il basso, però, è molto più duro e dispotico di quelle singolarità giacché la massa e la vita, considerate in loro stesse o da un punto di vi­ sta metafisico, non significano nulla. Egli deve soltanto forni­ re loro, su, fino al vertice, un determinato ordine gerarchico. Risulta facile comprendere perché solamente con questa fi­ gura il culto del genio assuma dimensioni straordinarie: ve­ nuta meno l’interpretazione metafisica che innalzava di prin­ cipio l’uomo schopenhaueriano in un ordine di cose superio­ re, ora il genio può soltanto convincere ricorrendo a mezzi straordinari. Quattro sono i problemi della prima fase filosofica di Nietzsche con cui egli, seppure in forma sempre differente, si è confrontato fino all’ultimo: il dionisiaco, la decadenza, l’inattuale, il culto del genio. Li ritroveremo sempre, e insie­ me ritroveremo Nietzsche: come egli infatti esprime sempre se stesso nella sua filosofia, così anche modella in modo ca­ ratteristico questi pensieri. Considerati nel [75] loro mutare e nella loro varietà, essi paiono quasi imperscrutabili ed ec­ cessivamente complessi; se si tenta al contrario di giungere al nucleo di ciò che, in ogni mutamento, permane identico, si rimarrà allora sorpresi della semplicità e della costanza dei suoi problemi. «Sempre un altro e sempre lo stesso», avreb­ be potuto dire Nietzsche di sé.

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Che la visione del mondo di Wagner e Schopenhauer ab­ bia potuto acquisire una simile importanza per Nietzsche e che più tardi, dopo tante battaglie e da posizioni intellettuali del tutto opposte, abbia potuto ancora una volta riaccostarsi ai pensieri fondamentali di quella, indica in che misura essa andasse incontro a tutta la sua natura ed esprimesse ciò che in lui stava assopito. Elevato dalla sua occupazione di filolo­ go a quella di filosofo, si dovette senza dubbio sentire come un prigioniero a cui vengono tolte le catene. In precedenza le sue migliori energie erano infatti legate; adesso poteva respi­ rare, adesso tutto in lui era libero. I suoi impulsi d’artista po­ tevano ora godere appieno delle rivelazioni della musica di Wagner; la sua forte inclinazione verso le esaltazioni religio­ se e morali trovava una costante possibilità di accrescimento nell’interpretazione metafisica di quest’arte. L’ampiezza e la solidità del suo sapere si posero al servizio della nuova visio­ ne del mondo che si rifletteva nella sua concezione della gre­ cità. Poiché nella persona di Wagner il genio era divenuto realtà, poiché egli era per così dire «il salvatore che redi­ me», a Nietzsche toccò il ruolo dell’uomo della conoscenza, del sensale della scienza: in tal modo non venne meno al compito del filosofo. Ma la conoscenza così acquisita fu solo l’occasione per dispiegare per intero la sua natura artistica e religiosa e proprio questo fatto dimostra l’importanza che ciò aveva per il suo spirito. Quello a cui aveva già [76] aspi­ rato durante i suoi anni di formazione filologica, allorché studiava la vita degli antichi filosofi, era adesso una verità: il pensiero un’esperienza, la conoscenza un lavorare e un crea­ re insieme in vista di una nuova civiltà; nel pensiero tutte le forze dell’anima dovevano agire insieme: era di tutto l’uomo che vi era bisogno. Nietzsche esprime soltanto l’estasi libera­ toria in cui è assorto, allorché, alla fine del suo Socrate e la fi­ lologia classica, prorompe nelle parole: «Ahimè! Il fascino di queste lotte sta nel fatto che chi le guarda deve anche com­ batterle! ».' Come i diversi talenti della sua natura possono ora vivere appieno e svilupparsi, così questo periodo della vita di Nietz­ sche appaga completamente anche quel bisogno profondo, quasi femminile, di adorazione personale, di levare gli occhi al cielo; un appagamento che in seguito, e con dolore, egli tro[Si tratta, evidentemente, di un errore dell’autrice, giacché uno scritto di Nietzsche che porti come titolo Socrate e la filologia classica non esiste. E difatti la citazione di Nietzsche si trova in La nascita della tragedia, xv.]

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vera in se stesso. Per quanto profonda fosse la gioia che trae­ va dalla filosofia di Schopenhauer e Wagner, con tutto il suo modo di considerare le cose, quel che però più contava per lui era il suo rapporto personale con Wagner, lo sguardo incon­ dizionato che questi gli rivolgeva. Il suo entusiasmo si accen­ deva per una personalità in cui credeva di vedere incarnato l’ideale della sua propria natura. La gioia prodotta da una si­ mile fede spande sui pensieri contenuti nei suoi primi scritti filosofici qualcosa di sano, quasi di ingenuo, che si differenzia in modo netto da ciò che contraddistingue le opere successi­ ve. È come se lo si vedesse capire e decifrare se stesso soltan­ to attraverso l’immagine del suo maestro Wagner e del suo fi­ losofo Schopenhauer. Con timore istintivo egli respinge an­ cora quell’arte di fare di se stesso, in modo consapevole, l’og­ getto e 1’« esperimento di chi è volto alla conoscenza» [La gaia scienza, 324], [77] l’arte che lo avrebbe successivamente reso così grande e così malato. «Come può l’uomo conoscer­ si? Egli è una cosa oscura e velata; e se la lepre ha sette pelli, l’uomo può trarsene settanta volte sette e non potrà dire: “Ec­ co, questo tu sei realmente, questa non è più corteccia”. Inol­ tre è un inizio tormentoso, rischioso, scavare se stessi in tal modo e discendere con violenza per la via più breve nel poz­ zo del proprio essere. Quanto facilmente, nel far ciò, egli può ferirsi in modo tale che nessun medico riesca a guarirlo» {Schopenhauer come educatore, 1). E perciò egli lancia un ap­ pello ai giovani che desiderano scrutare dentro se stessi: « Che cosa ti ha attratto, che cosa ti ha dominato e in pari tempo ti ha reso felice? Metti davanti a te la serie di questi og­ getti venerati e forse essi ti mostreranno [...] una legge, la leg­ ge fondamentale del tuo te stesso vero e proprio. Confronta questi oggetti, guarda [...] in che modo essi formano una sca­ la sulla quale fino ad ora ti sei arrampicato verso te stesso; giacché la tua vera essenza non sta profondamente nascosta dentro di te, bensì immensamente al di sopra di te ». Con una schiettezza che in seguito, all’epoca della più do­ lorosa autoanalisi, andrà smarrita, Nietzsche mette in mostra i motivi per cui fin dall’inizio egli ha ardentemente agognato questa condizione di discepolo, una « guida e in pari tempo un maestro severo»: «Devo indugiare un poco in una rap­ presentazione che nella mia giovinezza era frequente ed ur­ gente come nessun’altra. Quando un tempo mi abbandona­ vo come volevo ai desideri, pensavo che il terribile sforzo e l’impegno di educare me stesso mi sarebbe stato risparmiato dalla sorte, [78] se al momento giusto avessi trovato come

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educatore un filosofo, un vero filosofo, cui si potesse obbedi­ re senza ulteriori esitazioni, perché di lui mi sarei fidato più che di me stesso» [Schopenhauer come educatore, 11]. E interessante notare come, a tal fine, Nietzsche cerchi di scoprire dietro al pensatore Schopenhauer, lo Schopenhauer uomo ideale,1 e come, nei confronti di Wagner, muova da una profonda affinità delle loro nature. Sorprende, in effetti, la consonanza tra le doti naturali e spirituali di Wagner, così come Nietzsche le descrive, e la « polifonicità » delle sue pro­ prie doti quale risulta dalla prima parte di questo libro. Nel­ le pagine di Richard Wagner a Bayreuth, infatti, egli scrive: «Ciascuno dei suoi impulsi tendeva allo smisurato, tutte le qualità che procuravano la gioia di vivere volevano scatenar­ si e soddisfarsi ciascuna per conto proprio; quanto più gran­ de era il loro numero, tanto più grande era il tumulto, tanto più ostile il loro incrociarsi» (ni). Appena Wagner raggiunse la «virilità spirituale e mora­ le », questa « molteplicità » riuscì a comporsi e, al contempo, subì una peculiare scissione: « La sua natura appare semplifi­ cata in maniera terribile, lacerata in due impulsi e sfere. Giù in fondo ribolle, in impetuosa corrente, una volontà violenta, che per tutte le vie, cavità e gole, vuole per così dire uscire al­ la luce e aspira alla potenza ». [79] « L’intero fiume si preci­ pita ora in questa, ora in quella valle, e si sprofonda nelle go­ le più oscure: - nella notte di questo semisotterraneo ribolli­ re, apparve, alta su di lui, una stella ». Diamo uno sguardo al­ l’altra sfera di Wagner: « È l’esperienza originaria più pecu­ liare, che Wagner vive in sé e venera come un segreto religio­ so: [...] quella meravigliosa esperienza e conoscenza, secon­ do cui l’una sfera del suo essere rimaneva fedele all’altra; [...] la sfera creativa, innocente e più luminosa a quella oscu­ ra, indomabile e tirannica» (11). «N el comportamento reciproco delle due forze più pro­ fonde, nella devozione dell’una all’altra, risiedeva la grande necessità, per la quale soltanto egli poteva rimanere intero e se stesso» (m). Verso la fine di questo scritto, Nietzsche tenta di com« Presentivo di aver trovato in lui quell’educatore e filosofo che da tan­ to tempo cercavo. Certo soltanto come libro e questa era una grande man­ canza. Tanto più mi sforzai di vedere attraverso il libro e di rappresentarmi l ’uomo vivente, il cui grande testamento dovevo leggere e che prometteva di fare suoi eredi soltanto coloro che volevano e potevano essere qualcosa di più che suoi semplici lettori: vale a dire suoi figli e discepoli » [Schopenhauer come educatore, 11].

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prendere anche la musica di Wagner muovendo da questa peculiarità che gli risulta così affine e concepisce il genio mu­ sicale wagneriano come una sorta di rispecchiamento dello stato della sua anima: « Come la sua musica si assoggetti, con una certa crudeltà di risoluzione, all’andamento del dramma, che è inesorabile come il destino, mentre l’anima ardente di quest’arte è avida di vagare senza redini nella libertà e nella solitudine» (ix). « Sopra tutti gli individui sonori e la lotta delle loro pas­ sioni, sopra tutto il vortice dei contrasti, si libra [...] uno strapotente intelletto sinfonico, che genera continuamente la concordia dalla guerra». « Mai Wagner è più Wagner di quando le difficoltà si de­ cuplicano ed egli può dominare in situazioni veramente gran­ di [80] con la gioia del legislatore. Domare impetuose masse contrastanti, trasformandole in ritmi semplici, attuare una sola volontà attraverso una sconcertante molteplicità di esi­ genze e desideri». Ma proprio questa affinità delle loro nature bifronti avreb­ be alla fine sospinto l’evoluzione intellettuale di Nietzsche su di una propria strada solitaria che lo avrebbe prima o poi se­ parato da Wagner. Appena raggiunto il punto più alto del suo percorso, Nietzsche accenna però il primo passo che lo avrebbe inevitabilmente fatto cadere verso il basso. Egli sem­ bra dunque rovesciare del tutto la realtà dei fatti quando, an­ ni dopo, nel suo ingiusto libello intitolato II caso Wagner, so­ stiene: « La più grande esperienza della mia vita fu una guari­ gione. Wagner appartiene semplicemente alle mie malattie» {Il caso Wagner, «Prefazione»), La sua evoluzione assume infatti un carattere patologico soltanto molto tempo dopo la sua rottura con Wagner; del suo periodo wagneriano si po­ trebbe anzi dire, in un certo senso, che appartiene ai suoi momenti alti di salute. Ciò nondimeno, non si può non pre­ stare ascolto a quanto di vero contiene l’affermazione prece­ dente, vale a dire al fatto che Nietzsche, in quell’epoca, non aveva ancora raggiunto il punto più alto della sua evoluzione per quanto sano e felice avesse potuto essere in quegli anni. Una tale salute poteva però essere mantenuta soltanto a costo della grandezza. Perché il discepolo divenisse maestro, doveva fare ritorno a se stesso; ma poiché nel suo intimo egli desiderava, con l’urgenza della necessità, diventare un disce­ polo nel senso religioso del termine, non gli restò altra possi­ bilità se non quella di riunire in se stesso discepolo e mae­ stro, non fosse altro che per trarne sofferenza e per precipi­



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tare in una patologica fusione dei due ruoli. [81] Per questo suo sentiero della grandezza valgono le parole dello Zarathu­ stra: « Vetta e abisso - è ora saldato in unità! » [Cosìparlò Za­ rathustra, « Il viandante »]. Il distacco di Nietzsche da Wagner è stato interpretato nei modi più vari, andando alla ricerca di motivazioni puramen­ te ideali - un irresistibile anelito di verità - o sulla base di motivi umani, troppo umani. In questa vicenda, in realtà, le due cause s’intrecciano in modo del tutto analogo a quanto già riscontrato in occasione del suo distacco dalla fede. Pro­ prio il fatto di aver trovato un pieno soddisfacimento, la quiete dell’anima e una patria per il suo spirito, proprio il fatto che la visione del mondo di Wagner gli risultava morbi­ da e liscia come una « pelle sana », lo stuzzicava a togliersela di dosso, gli faceva apparire « la sua somma felicità come un disagio », Io faceva sentire « ferito dalla sua felicità ». Alla na­ scita del suo « spirito libero » può così essere applicata in ge­ nerale la sua «supposizione sull’origine del libero pensiero» umano da un eccesso di beatitudine dei sensi nel quadro di una visione del mondo già data: «Come i ghiacciai ingrossa­ no quando nelle zone equatoriali il sole dardeggia sui mari con più ardore di prima, così può ben darsi che anche un as­ sai forte e dilagante libero pensiero sia testimonianza del fat­ to che in qualche punto l’ardore del sentimento è straordina­ riamente cresciuto» (Umano, troppo umano, i, 232). Soltanto in mezzo alla sofferenza cercata e voluta il suo spirito si formò la dura e pugnace corazza, armato della qua­ le sarebbe poi sceso in campo contro i suoi antichi ideali. Ri­ nunciando a ciò che è bello e edificante, [82] e sciogliendo al contempo l’ultima forma di dipendenza, egli provò senz’al­ tro un senso di liberazione, una liberazione che rappresenta­ va tuttavia anche un gesto di rinuncia di cui ebbe a soffrire come di una ferita, pur essendosela inferta da sé. Del tutto inattesa per Wagner, la rottura si compì in forma definitiva allorché questi, con il suo Parsifal, approdò a orien­ tamenti cattolicheggianti, mentre l’evoluzione spirituale di Nietzsche, con un repentino mutamento di rotta, si era indi­ rizzata verso la filosofìa positivistica degli autori inglesi e fran­ cesi. Il distacco da Wagner non fu soltanto una separazione di spiriti, ma anche la lacerazione di un rapporto in cui entram­ bi erano stati così vicini come solo padre e figlio, o come due fratelli soltanto possono esserlo. Nessuno dei due poteva di­ menticarlo del tutto, nessuno dei due poteva completamente rassegnarsi. Ancora nell’autunno 1882, sei mesi prima della

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morte di Wagner, durante il festival di Bayreuth e in occasio­ ne della prima rappresentazione del Parsifal, si fece il tentati­ vo di pronunciare il nome di Nietzsche di fronte al maestro. Nietzsche risiedeva allora vicino a Bayreuth, nel paesino turingio di Tautenburg nei pressi di Dornburg, e la sua vecchia amica Malwida von Meysenbug pensava, seppure a torto, che si sarebbe riusciti a convincere Nietzsche a recarsi a Bayreuth per riconciliarsi con Wagner. Ma il tentativo fallì; Wagner ab­ bandonò pieno di irritazione la sua stanza e proibì di pro­ nunciare ancora il nome di Nietzsche in sua presenza. La let­ tera di Nietzsche che qui riproduciamo1risale all’incirca allo stesso periodo e descrive in modo abbastanza convincente la sua posizione riguardo alla rottura con Wagner: [83] Dunque, mia cara amica, finora tutto procede bene e saba­ to, tra otto giorni, ci si vedrà di nuovo. Forse la mia ultima lettera non è giunta nelle Sue mani? La scris­ si domenica, quattordici giorni or sono. Ciò mi addolorerebbe; in essa Le descrivevo un m o m e n to m o lto felice-, mi sono toccate tante cose buone tutte in una volta, e la «più buona» di queste era la Sua lettera di assenso ! Intanto: quando ci si fida di qualcuno, allora possono andare smarrite p e rfin o le lettere. L’ho pensata molto e nella mia mente ho diviso con Lei tante di [84] quelle cose che esaltano, commuovono e rasserenano, che è co­ me se avessi vissuto insieme alla mia venerabile amica. Se Lei sapes­ se quanto è strano e nuovo tutto ciò per un vecchio eremita come me! - Quante volte ho dovuto ridere di me stesso! Per quel che riguarda Bayreuth, sono felice di non dover essere là; eppure, se potessi starLe accanto come uno spirito, sussurrandoLe all’orecchio questo e quello, allora riuscirei a sopportare perfino la musica del P a r s i fa l (altrimenti non riesco a sopportarla). Gradirei che Lei prima leggesse ancora il mio piccolo scritto R i ­ c h ard W agn er a Bayreuth-, l’amico Rèe lo possiede di certo. Ho vis­ suto [85] così legato a quell’uomo e alla sua arte - è stata una lunga, totale passione: non riesco a trovare nessun’altra parola. La necessa­ ria rinuncia, quel ritrovare-me-stesso che diventava infine necessa­ rio, fanno parte delle cose più aspre e melanconiche del mio desti­ no. Le ultime parole che Wagner mi ha scritto si trovano in un bel­ l’esemplare con dedica del Parsifal-, «Al mio caro amico Friedrich Nietzsche. Richard Wagner, Consigliere ecclesiastico superiore». Esattamente nello stesso periodo gli giunse tra le mani, speditogli da me, U m an o , tro p p o u m a n o - tutto fu ch iaro , ma fu anche tutto finito. 1 [Si tratta di una lettera da Tautenburg del 16 luglio 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. in, tomo 1, lettera n. 269 a Lou von Salomé a Stibbe, Tautenburg, 16 luglio 1882, pp. 228-229.]

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Quante volte, in ogni possibile [86] cosa, ho fatto esperienza pro­ prio di questo: «tutto chiaro, ma anche tutto finito», E quanto sono fortunato, mia amata amica Lou, di poter pensare riguardo a noi due: “tutto all’inizio, e tuttavia tutto chiaro!”. Si fidi di me! Fidiamoci di noi! Con i più cordiali auguri per il Suo viaggio Il Suo amico Nietzsche

[87] Quando rileggo questa breve descrizione, allora me lo rivedo davanti allorché, durante un viaggio che facemmo insieme dall’Italia attraverso la Svizzera, visitò con me la te­ nuta di Tribschen, vicino a Lucerna, il luogo in cui aveva tra­ scorso con Wagner un periodo indimenticabile. A lungo, molto a lungo sedette in silenzio sulla sponda del lago, im­ merso in grevi ricordi; quindi, disegnando con la punta del bastone sulla sabbia umida, parlò con voce sommessa di quei tempi andati. Quando alzò lo sguardo, stava piangendo. La sofferenza fisica più intensa di Nietzsche venne a coin­ cidere con il suo distacco interiore ed esteriore dal wagnerismo e dalla filosofia di Schopenhauer. In quegli anni visse tra crisi e dolori fisici e psichici che lo condussero vicino alla «morte del corpo e dell’anima ». La sua malattia si manifestò negli anni di massima produttività, di un confronto eccessi­ vamente variegato ed estenuante con ricerche scientifiche e problemi filosofici, con i movimenti culturali a lui contempo­ ranei, con l’arte di Wagner e la sua musica. Non è certo un ca­ so che anche l’ultimo e fatale attacco di emicrania si sia ma­ nifestato sul finire degli anni ottanta, ancora una volta dopo un incredibile periodo di creatività e produttività intellettua­ le. Quando si sentiva in forma e in salute, in possesso di tut­ te le sue forze vitali, allora si trovava sempre a un passo dalla malattia; e i periodi di ozio e di quiete involontaria gli procu­ ravano sempre sollievo e rallentavano l’incombere della cata­ strofe. Da un punto di vista puramente fisico, in ciò si ri­ specchia qualcosa di quegli aspetti tipicamente patologici dell’«eccesso di salute» della sua vita intellettuale che, [88] dopo aver raggiunto il suo apice, era solita traboccare nella malattia. Da questa condizione, tuttavia, con la forza tenace della sua natura fuori dal comune, egli riusciva sempre a ri­ conquistare la salute. Finché riusciva a dominare i dolori e a sentirsi in pieno possesso della sua capacità di lavorare, la sofferenza non riu­ sciva ancora a essere di detrimento alla sua resistenza vitale e

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•alla sua capacità di affermarsi. Ancora il 12 maggio 1B78, egli scriveva con animo tranquillo in una lettera da Basilea: «L a salute è malferma e pericolante, ma - stavo quasi per dire: “che m’importa della mia salute?”» .1 Il 14 dicembre dello stesso anno, tuttavia, segue un accen­ no al ritiro daH’insegnamento, che egli reputa necessario: « La mia condizione è un limbo misto ad atroci tormenti, non posso negarlo. Probabilmente è finita la mia attività accade­ mica, forse anche qualsiasi attività, e possibilmente... ecc.».2 L quindi l’amaro lamento: « Sembra che non ci sia più rime­ dio, i dolori sono stati davvero pazzeschi ».3 « Ma l’ordine è sempre questo: “Sopporta! Rinuncia!”. Ahimè, viene a noia anche la pazienza. Ci vuole pazienza ad aver pazienza! ».4 Da ultimo, con il tono di una resa tranquilla, una lettera da Ginevra del 15 maggio 1879: «Io non sto bene, ma sono allenato da tempo a sopportare il dolore e continuerò a tra­ scinare il mio fardello - ma non più per molto, spero! ».5 Poco dopo rinunciò al suo incarico di professore e la soli­ tudine lo avvolse per sempre. La rinuncia all’attività didatti­ ca gli riuscì penosa - era in fondo la rinuncia a ogni lavoro scientifico in senso stretto. [89] Testa e occhi - egli si defini­ sce « un malato che ora è anche cieco per nove decimi e che non riesce più a leggere se non per un breve quarto d’ora e soffrendo» - 6 gli impedirono d’allora in poi di sviluppare quantitativamente i suoi pensieri attraverso studi di più vasta portata. L’ampiezza e la molteplicità del suo campo d’indagi­ ne è testimoniata dalla grande varietà delle sue lezioni tenute all’università e al Pädagogium di Basilea. È vero che in quegli anni Nietzsche si limitò allo studio dell’ellenismo e che restò filosoficamente legato alle catene di un determinato sistema metafisico. Ma il successivo liberarsi 1 [Si tratta di una lettera a Paul Rèe, ora in F. Nietzsche, Epistolario 18751879, cit., lettera n. 720 a Paul Rèe, Basilea, 12 maggio 1878, p. 291.] 2 [Si tratta ancora di una lettera a Rèe, scritta il 23 aprile 1879 e non il 14 dicembre 1878, ora in F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 844 a Paul Rèe, Basilea, 23 aprile 1879, p. 365.] ’ [Nietzsche si esprime così ancora con Rèe: F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 613 a Paul Rèe, Sorrento, 7 maggio 1877, p. 210.] 4 [Così Nietzsche a Rèe: F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 781 a Paul Rèe, Basilea, 14 dicembre 1878, p. 330.] ’ [Nietzsche scrive a Rèe da Ginevra il 15 aprile e non il 15 maggio 1879: F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 842 a Paul Rèe, Ginevra, 15 aprile 1879, p. 363.] 6 [Si tratta ancora di una lettera a Rèe: F. Nietzsche, Epistolario 18751879, cit., lettera n. 879 a Paul Rèe, St. Moritz, settembre 1879, pp. 391-392.]

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dai vincoli di questo sistema avrebbe potuto avere effetti ben più benefici se le sue condizioni di salute fossero state diver­ se. Il quadro della vita greca, in cui allora riteneva di leggere, con gli occhi del metafisico, i tratti fondamentali dell’immagine del mondo e della vita degli uomini, avrebbe potuto gradualmente ampliarsi, con il proseguire dell’attività scien­ tifica, in direzione di un quadro complessivo dell’evoluzione del mondo. Grazie al genio della sua sensibilità raffinata e alla capacità artistica di creare immagini, era quasi predestinato a realizzare grandi cose nel campo della storia della filosofia. Il suo impulso a produrre avrebbe così potuto non smarrirsi nella sfera della soggettività. Aveva poi spesso avuto modo di constatare che quanto più alati, impellenti e appassionati so­ no i pensieri, tanto più vasta e severa deve essere la materia a cui essi vanno legati e subordinati. Nelle sue opere c’imbat­ tiamo così, fino all’ultimo, in sforzi sempre nuovi e infecondi di espandersi verso l’esterno e di fornire un fondamento scientifico al suo pensiero - e in tutto ciò vi è qualcosa del vano [90] colpo d’ala dell’aquila prigioniera. Egli era costret­ to dalle sue condizioni di salute a fare di se stesso la materia dei propri pensieri, a porre il suo io alla base della propria visione filosofica del mondo, ricavandola così dalla propria interiorità. In condizioni diverse non avrebbe forse prodotto qualcosa di tanto particolare e dunque di così assolutamente unico. Ma ciò nonostante non si può tornare con lo sguardo su questo punto di svolta del destino nietzscheano - su que­ sta inconsueta coazione all’isolamento e alla segregazione senza il più profondo rammarico, non si può sfuggire alla sensazione che egli qui non colga una grandezza che gli era riservata. A questo punto su Nietzsche calò la notte. I suoi ideali di un tempo, la sua salute, la sua capacità di lavorare, la sua cer­ chia d’influenza - tutte le cose che avevano regalato calore, luce e splendore alla sua vita, svanirono una dopo l’altra. Fu un crollo spaventoso, sotto le cui macerie rimase come sepol­ to. Fu l’inizio dei suoi «tempi bui» (Il viandante e la sua om­ bra, 191). Gli scritti che seguono non nascono, come i precedenti, da una pienezza accumulata e accessibile al suo animo, non sono composti muovendo da una meta che egli crede di avere rag­ giunto; narrano piuttosto di come egli si orienti nella notte, di come proceda lentamente a tastoni; sono i passi tormentati, combattuti e infine vittoriosi in direzione di una meta oscura. «Mentre proseguivo da solo,» avrebbe confessato anni

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dopo a proposito di questo periodo «tremavo; non passò molto e fui malato, più che [91] malato, ossia stanco, per l'incontenibile delusione di fronte a tutto ciò che a noi uomi­ ni moderni restava per entusiasmarci... ». Ma non lo vediamo farsi largo tra le rovine lamentandosi - e a ragione egli indica l’elemento d’interesse di quegli scritti «nel fatto che qui par­ la uno che soffre e rinuncia come se non soffrisse e non ri­ nunciasse» (Umano, troppo umano, 11, «Prefazione»), Ancora una volta egli si trasforma in qualcuno che crea e che scopre sempre del nuovo. S’immerge in profondità sotto questo mondo di macerie, mina e scalza ancora una volta le sue fondamenta, e scruta con occhi avvezzi alle tenebre i te­ sori nascosti e i segreti del sottosuolo. Un secondo Trofonio che con astuzia entra ed esce sgattaiolando e che riesce anco­ ra a far luce sul mondo là fuori e sui suoi enigmi. Così lo ve­ diamo, «all’opera [...] un essere sotterraneo, uno che perfo­ ra, scava, scalza di sottoterra. [...] Lo si vedrà avanzare len­ tamente, cautamente, delicatamente implacabile, senza che si tradisca troppo la pena che ogni lunga privazione di luce e di aria comporta». E a tal proposito ci giunge quella domanda fiduciosa, con cui egli stesso tornerà a guardare a questi anni e a cui l’esame della sua evoluzione successiva fornirà una ri­ sposta; « Non sembra forse che » questo essere voglia « avere la sua propria lunga tenebra, il suo mondo incomprensibile, occulto, enigmatico, perché avrà anche il suo mattino, la sua liberazione, la sua aurora}... » (Aurora, «Prefazione alla nuo­ va edizione» [1886]). [92] Mia cara amica, il cielo è ora chiaro sopra di me! Ieri a mez­ zogiorno era come se fosse il mio compleanno: Lei inviò il Suo as­ senso, il regalo più bello che qualcuno potesse mai farmi - e mia so­ rella mi spedì delle ciliegie. Teubner mi mandò le prime bozze della G a i a scienza-, e inoltre era giunta a compimento l’ultimissima parte del manoscritto, e quindi il lavoro di sei anni (1876-1882), tutto il mio «spirito libero»! Oh, che anni! [93] Che tormenti d’ogni sor­ ta, che solitudine e che disgusto della vita! E contro tutto questo, in certo qual modo contro la morte e la vita, mi sono preparato questo farmaco, questi miei pensieri con le loro piccole strisce di c ie lo se n ­ za n u b i sopra di loro: - oh, amica cara, penso così spesso a tutto ciò, sono scosso e toccato e non so come la cosa possa essere riuscita-, compassione per me stesso e sentimento di vittoria mi riempiono interamente. Poiché è una vittoria, e una vittoria totale - è riappar­ sa perfino la salute del corpo, non so come, [94] e tutti mi dicono che sembro più giovane che mai. Il cielo mi protegge dalle follie! Ma d’ora in poi, se Lei vorrà consigliarmi, allora io sarò consigliato bene e non avrò più nulla da temere. -

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Per quel che riguarda 1in v e r n o , ho pensato se r ia m e n te e d e sc lu si­ a Vienna; i progetti invernali di mia sorella sono del tutto indipendenti dai miei, e non vi è quindi nessun pensiero recondito. Il Sud Europa non è ora nei miei pensieri. Non voglio più essere so­ lo e voglio imparare di nuovo a diventare un uomo. Ah, in questa materia ho ancora quasi tutto da imparare! [95] Riceva il mio ringraziamento, amica cara! Tutto andrà bene, come Lei ha detto. Al nostro Rèe, con tutto il cuore! Interamente Suo v a m e n te

F.N. Tautenburg presso Dornburg Turingia.1

È con questi sentimenti di pena e di ammirazione per se stesso che Nietzsche ritorna su quella fase del suo sviluppo intellettuale di fronte alla quale noi ora ci troviamo. Possia­ mo subito notare come il suo elemento caratteristico siano fin dall inizio le lotte e le ferite messe in conto per appro­ priarsi di una nuova visione del mondo, la profonda malattia da cui [96] egli infine plasmò la sua nuova salute. La sua ori­ ginalità dovette perciò palesarsi molto meno nelle idee e nel­ le teorie che andava elaborando che nella forza con cui si se­ parò dal vecchio ideale per poterle concepire. Non arrivò cioè, come succede a molti, alla consapevolezza di una mag­ giore autonomia e di un’attività spirituale più personale at­ traverso un’evoluzione intellettuale fredda e indifferente nei confronti dei pensieri acerbi che essa si lascia alle spalle. Ci arrivò soltanto attraverso una ribellione violenta contro il proprio passato, in cui i fattori intellettuali furono un ele­ mento concomitante più che decisivo. Notiamo perciò come, in un primo momento, Nietzsche accetti sempre i nuovi pen­ sieri così come li trova, con una certa mancanza di autono­ mia, accogliendoli cioè dapprima in modo acritico. Nel frat­ tempo, infatti, tutta la sua energia è assorbita dalle esperien­ ze più intime, e le nuove teorie in quanto tali - per ricorrere a un’espressione a lui cara - costituiscono soltanto una prov­ visoria «filosofia di proscenio» [Al di là del bene e del male, 289], mentre dietro le quinte, nascosta, si svolge la lotta del­ l’anima, il vero processo che conta.

[Si tratta di una lettera del luglio 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. ni, tomo 1, lettera n. 256 a Lou von Salomé a Stibbe, Tautenbure x luglio 1882, pp. 216-217.]

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(guanto più saldamente egli è legato al passato, e quanto maggiore è la forza con cui il balzo verso il nuovo esige uno sradicamento totale dal vecchio terreno spirituale, tanto più profondo è il significato interiore della metamorfosi. Si può dunque affermare, in un certo senso, che proprio l’apparenic mancanza di autonomia interiore con cui Nietzsche si ab­ bandona a un nuovo modo di pensare che gli è estraneo te­ stimonia la forza di un’autonomia eroica. Mentre i pensieri die gli sono più cari lo tengono ancora avvinto, egli si lascia andare inerme [97] in sfere di pensieri di fronte alle quali si sente ancora un estraneo, anzi, segretamente, un avversario, ma con queste belle parole nel cuore: «Una vittoria e una trincea conquistata non sono più faccende tue, ma della ve­ rità, - ma anche la tua sconfìtta non è più affar tuo! » (Aurora, 370, «In che senso il pensatore ama il suo nemico»). È questo un elemento da non perdere di vista se si vuole rendere giustizia al brusco mutamento d’opinione di Nietz­ sche e se si vuole comprendere l’origine della sua prima ope­ ra positivistica, un’opera nata dal suo spirito in modo così sorprendente e inaspettato. Ancora nel 1B76 era infatti ap­ parsa l’ultima delle Considerazioni inattuali, il libretto Ri­ chard Wagner a Bayreuth scritto con traboccante entusiasmo, e già nell’inverno 1876-1877 uscì la prima delle sue raccolte di aforismi, Umano, troppo umano. Un libro per spinti liberi (« Consacrato alla memoria di Voltaire in occasione della ce­ lebrazione dell’anniversario della sua morte, il 30 maggio 1778»), insieme a un’appendice, Opinioni e sentenze diverse (Ernst Schmeitzner editore, Chemnitz 1878). Per nessun al­ tro libro valgono con maggior diritto le parole che egli ebbe a scrivere sulle opere di questo periodo: « I miei scritti parla­ no solo dei miei superamenti: dentro ci sono “io” , con tutto ciò che mi fu nemico. [...] Solitario ormai [...] presi [...] partito contro di me e per tutto ciò che mi faceva male e mi riusciva duro» (Umano, troppo umano, l i , «Prefazione alla nuova edizione» [1886]). Quest’opera riflette con tale chiarezza il suo stato d’animo di quel periodo, che essa pare contenere due parti del tutto diverse tra loro: da una parte il Nietzsche positivista, ancora lontano dal raggiungere una posizione autonoma, [98] che non ci offre quasi nulla di suo nelle nuove teorie che ha ap­ pena acquisito, ma che può soltanto indicarci il luogo in cui ora si trova, da quale nuova «pelle» egli si è fatto passiva­ mente ricoprire. Dall’altra il Nietzsche che lotta e patisce, che si libera con risolutezza dei vecchi ideali e che, in questa



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lotta, ci mostra la commovente pienezza della più originale vi­ ta speculativa attraverso l’ardore con cui si volge contro il suo vecchio io e si procura ferite. Su questa base deve anche esse­ re intesa la passione e la mancanza di riguardi con cui egli muove contro Wagner e le posizioni che questi sostiene. N es­ suno è meno capace di una giustizia calma e ponderata di chi ha appena mutato le proprie opinioni e lo ha fatto non per motivi puramente intellettuali, bensì muovendo dall’elemen­ to «um ano, troppo um ano» che sta al fondo della sua pro­ pria indole. Non scagliamo nessun pensiero tanto lontano da noi, e con maggiore forza, di quello da cui ci siamo appena se­ parati attraverso un doloroso conflitto e innanzi al quale an­ cora stiamo, feriti e sconvolti, pieni di oscure lacerazioni che il nostro orgoglio cerca di tenere nascoste: vi è in tutto ciò un odio, come l’eco di un amore che non potremo mai scordare.

Quanto mai indicativo della rapidità e della profondità di questo mutamento è il fatto che anche in questa occasione esso prese le mosse da un rapporto personale. Come il rovello maggiore nella lotta contro il vecchio ideale di conoscenza fu la rottura di un amicizia, così anche la nuova forma di cono­ scenza ebbe a incarnarsi per Nietzsche in una persona. Quanto più dolorosa era stata la solitudine in cui la rottura deU’amicizia lo aveva sospinto, tanto più intimo divenne il rapporto che Nietzsche strinse con Paul Rèe, poiché, come gli scrisse una volta, [99] «per il solitario l’amico è un pen­ siero più prezioso che per chi sta in mezzo a molti» (ti otto­ bre 1880, dall’Italia).1 Se il rapporto con Richard Wagner fu caratterizzato dal­ l’esclusività con cui Nietzsche gli si dedicava e lo ammirava, da una forma di discepolato, il suo legame di amicizia con Rèe costituì più una sorta di comunanza intellettuale che non tro­ vava un ostacolo nel fatto che i due amici vivevano lontani e che Rèe poteva lasciare solo di tanto in tanto la sua residenza nella Prussia occidentale per incontrarsi con Nietzsche in luoghi diversi. Anche se, a dire il vero, già il 19 novembre 1877 da Basilea, dove viveva ancora tra i suoi compagni di idee, Nietzsche si lamentava per la distanza che a causa di una malattia di Rèe lo separava da molto dall’amico: « Spero di sentire presto da Lei, amico mio, che i maligni spiriti della malattia se ne sono andati del tutto: allora, per il Suo nuovo anno, non avrei altro da augurare a me stesso se non che Lei [Si tratta di una lettera da Stresa, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. ni, tomo i, lettera n. 59 a Paul Rèe a Stibbe, Stresa, 31 ottobre 1880, p. 44.]

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rimanga quello che è, e che continui ad essere per me quel che è stato in questo ultimo anno. [...] Certo però debbo dirLe che nella mia vita non avevo mai avuto tante gioie dall’amici­ zia quante ne ho avute quest’anno per merito Suo, per tacere di quel che ho imparato da Lei. Quando sento parlare dei Suoi studi, mi viene sempre l’acquolina in bocca per la voglia della Sua compagnia; noi siamo fatti proprio per intenderci bene, ci incontriamo, io credo, sempre a metà strada, come buoni vicini ai quali viene in mente sempre nello stesso mo­ mento di farsi visita, e si incontrano quindi al confine dei lo­ ro possedimenti. Forse è più nelle sue possibilità [ioo] che nelle mie superare la grande distanza tra Stibbe e Basilea; posso sperare in questo senso per l’anno nuovo? Quanto a me, sono troppo sofferente e malandato perché non mi sia le­ cito chiedere il più grande piacere che esista, anche se la ri­ chiesta è immodesta - una bella conversazione tra noi due su cose umane, una conversazione personale e non epistolare, che sono sempre meno in grado di sostenere».1 Quanto più le sofferenze fisiche costringevano Nietzsche alla solitudine, e quanto più doveva vivere isolato, lontano da tutti gli uomini per potere sopportare queste sofferenze, tan­ to più struggente era il desiderio di vedere l’amico capace di fare della sua solitudine una «solitudine a due» [Zweisamkeit]: «Dieci volte al giorno vorrei essere da Lei, con Lei» (lettera da Basilea, dicembre 1878).2*In spirito continuo a legare il mio futuro al Suo» (da Ginevra, maggio 1879). «H o dovuto rinunciare a molti desideri, ma non ancora a quello di vivere insieme a Lei —non ho rinunciato al mio “giardino di Epicuro”» (da Naumburg, l’ultimo giorno d’ot­ tobre del 1879).4 I violenti dolori e le crisi di cui Nietzsche soffriva risve­ gliarono in lui pensieri di morte che conferivano a ogni in­ contro un significato profondo; «Quanta felicità mi ha rega­ lato, mio amico caro, straordinariamente caro! » esclama do­ po uno di questi incontri. « L’ho dunque ancora vista e tro­ vata un’altra volta, come il mio cuore me ne aveva serbato il ricordo; quei giorni furono come un’ebbrezza continua, pia­ 1 [F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 671 a Paul Rèe, Basi­ lea, 19 novembre 1877, p. 261.] 2 [Ivi, lettera n. 781 a Paul Rèe, Basilea, 14 dicembre 1878, p. 330.] 5 [Si tratta della lettera da Ginevra del 15 aprile 1879 citata in preceden­ za: F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 842 a Paul Rèe, Gine­ vra, 15 aprile 1879, p. 364.] 4 [Ivi, lettera n. 899 a Paul Rèe, Naumburg, 31 ottobre 1879, p. 408.J

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cevole. Le confesso che spero di non rivederLa più, la mia salute ne risulta scossa troppo in profondità, il tormento troppo persistente, a che mi giovano tutti gli sforzi per domi­ narmi e la mia pazienza? Sì, a Sorrento c’era ancora da spe­ rare, [iot] ma è tempo passato. Così mi ritengo fortunato di averLa avuta, amico mio, cordialmente amato».1 In questi anni i due svilupparono opinioni tanto più con­ cordanti, quanto più comuni erano i loro studi. Per lo più Rèe procurava a Nietzsche i libri di cui aveva bisogno, legge­ va a voce alta per l’amico dagli occhi dolenti e viveva con lui una relazione e un continuo scambio di pensieri sia epistola­ re, sia diretto. «M io carissimo amico [...] » - scrive Nietzsche dopo una separazione piuttosto lunga - «Per quando saremo insieme - se m’è dato provare ancora questa felicità - ho pronte mol­ te cose dentro di me. E per quel momento è pronta anche una cassettina di libri intitolata Réealia, ci sono anche delle buone cose che Le faranno piacere. Può mandarmi un libro istruttivo, possibilmente di autore inglese,2ma tradotto in te­ desco e con bei caratteri grandi? Io vivo assolutamente senza libri, cieco per nove decimi come sono, ma dalle Sue mani accetterò volentieri il frutto proibito. - Evviva la coscienza, ora che avrà una sua storia e che il mio amico se ne è fatto lo storico! Fortuna e prosperità sul suo cammino. Vicino a Lei con tutto il cuore, il Suo Friedrich Nietzsche ».3 [102] E una volta ancora, variando le espressioni: «Con tutte le cose buone che Lei fa e che ha in animo di fare, la ta­ vola sarà imbandita anche per me, e il mio appetito di Réealismo è molto vivo, Lei lo sa».4 [F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. m , tomo 1, lettera n. 5 a Paul Rèe a Stibbe, Naumburg, fine gennaio 1880, p. 7.] 2 A quei tempi Nietzsche viveva in un’ammirazione per gli studiosi e per i filosofi inglesi che, tempo dopo, si mutò nel suo opposto; in Umano, troppo umano, 11, 184, egli li definisce ancora le «nature integre, complete e com­ pletanti » e in una lettera a Rèe definisce la filosofia inglese contemporanea « l ’unica di buon livello filosofico che oggi esista». Coerentemente, l’unica cosa che in questo periodo egli ancora stimi nel suo antico maestro Scho­ penhauer è « il suo duro senso dei fatti, la sua onesta volontà di cose chiare e razionali, che lo fa spesso apparire così inglese» (La gaia scienza, 99). [Per la lettera a Rèe cfr. F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 643 a Paul Rèe, Rosenlaui, primi di agosto 1877, p. 240.] 5 [F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 869 a Paul Rèe, St. Moritz, fine luglio 1879, p. 384. Il riferimento alla storia della coscienza al­ lude alla nuova opera di Rèe, La nascita della coscienza, Berlino 1885.] 4 [F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 737 a Paul Rèe, Basi­ lea, verso la fine di luglio 1878, p. 305.]

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Il Réealismo fu dunque la prima forma in cui Nietzsche ac­ cettò il realismo filosofico e seppellì il vecchio idealismo. Non apprezzò soltanto, ma sopravvalutò addirittura - come documenta una lettera all’autore ancora conservata - 1la pri­ ma piccola opera di Rèe, apparsa anonima, le Osservazioni psicologiche (Cari Duncker, Berlino 1875), delle sentenze se­ condo lo stile e lo spirito di La Rochefoucauld. Gli autori preferiti di Rèe divennero ora anche i suoi preferiti: gli scrit­ tori di aforismi francesi, La Rochefoucauld, La Bruyère, Vauvenargues, Chamfort, influenzarono in questo periodo lo sti­ le e il pensiero di Nietzsche in modo straordinario. Degli scrittori filosofici francesi, d’intesa con Rèe, prediligeva Pa­ scal e Voltaire, dei romanzieri Stendhal e Mérimée. Di im­ portanza più profonda fu tuttavia per lui la seconda opera di Rèe, L’origine dei sentimenti morali (Ernst Schmeitzner, Chemnitz 1877),2 che in certa misura costituì, nel periodo successivo, la professione di fede positivistica di Nietzsche. Il libro lo avvicinò ai positivisti inglesi, a cui anche Rèe si era accostato, che egli prese tosto a preferire alle opere tedesche dello stesso genere. Il principale elemento d’attrazione del positivismo era rappresentato per Nietzsche dalla risposta al­ la domanda che Rèe affrontava nel suo libro, vale a dire la domanda intorno all’origine del fenomeno morale. [103] Per Rèe essa coincideva con la domanda sui fondamenti della san­ zione di sentimenti altruistici; le sue ricerche si indirizzavano in primo luogo contro i sistemi etici della metafisica tradizio­ nale. E poiché l’etica di Wagner e di Schopenhauer poggiava sull’altruismo e sul suo valore come sentimento metafisico, Nietzsche aveva trovato proprio nel libro di Rèe le armi più adatte per la sua lotta contro la visione del mondo che aveva 1 [Si tratta di una lettera di Nietzsche a Rèe dell’ottobre 1875, ora in F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 492 a Paul Rèe, Basilea, 22 ottobre 1875, pp. 112-113, che terminava con queste parole: « [ .. .] Con la preghiera di accogliere benevolmente il mio ringraziamento per aver pub­ blicato le Sue massime - dimostrando così che la salute spirituale del Suo prossimo Le sta a cuore».] 1 L’opera viene citata da Nietzsche in Umano, troppo umano, r, 37. [Il pas­ so in questione recita: « Qual è comunque la proposizione principale a cui giunge, attraverso le sue penetranti e taglienti analisi dell’umano agire, uno dei più arditi e freddi pensatori, l’autore del libro Sull’origine dei sentimenti morali? “L’uomo morale” egli dice “non è più vicino al mondo intelligibile (metafisico) dell’uomo fisico” . Questa proposizione [...] potrà forse un gior­ no, in un qualche futuro, servire come l’accetta che reciderà alla radice il “bi­ sogno metafisico” degli uomini: [...] ma in ogni caso come una proposizione dalle più importanti conseguenze, feconda e terribile insieme, e che scruta il mondo in quel modo bifronte, proprio di tutte le grandi conoscenze».]

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abbandonato. « L’origine dei sentimenti morali » diventò co­ sì il vero oggetto della sua ricerca e il suo nuovo scritto può essere definito, in breve, come il tentativo di giungere a pie­ na consapevolezza intorno alla nullità dei suoi ideali di un tempo attraverso uno sguardo sulla storia della loro origine. Lungo questa via tutto il suo filosofare si trasforma in una analisi e in una storia dei pregiudizi e degli errori umani; il metafisico si trasforma in psicologo e in storico, ponendosi sul terreno di un positivismo disincantato e coerente. Nietzsche aderì nel modo più rigoroso alla scuola positivi­ stica inglese e alla sua nota posizione che riconduce i giudizi di valore e i fenomeni morali all 'utilità, alla consuetudine e all 'oblio delle originarie motivazioni utilitaristiche; non è perciò necessaria alcuna spiegazione specifica delle sue teo­ rie, è sufficiente indicare il luogo da cui le ricava. Si leggano ad esempio passi come questo di Umano, troppo umano-. « La storia dei [...] sentimenti morali si svolge nelle seguenti fasi principali. Prima si dicono buone o cattive singole azioni senza alcun riguardo ai loro motivi, ma solo per le loro con­ seguenze utili o dannose. Presto però si dimentica l’origine di queste designazioni e ci si immagina che [104] la qualità di “buono” o “cattivo” inerisca alle azioni in sé, senza ri­ guardo alle loro conseguenze» (1, 39). «Quanto poco morale apparirebbe il mondo senza la dimenticanza! Un poeta po­ trebbe dire che Dio ha posto la dimenticanza come custode sulla soglia del tempio della dignità umana» (1, 92). Il cammi­ no percorso dalla cosiddetta moralità delle azioni può essere indicato con le parole: « Ora per abitudine, eredità e educa­ zione, originariamente perché il vero - come anche l’equo e il giusto - è più utile e procura più onore del non vero» (11, 26). Quindi, nell’aforisma 40 di II viandante e la sua ombra-. « L ’importanza del dimenticare nel sentimento morale. Le stesse azioni che nella società originaria furono in un primo tempo ispirate dallo scopo deli’utilità comune, furono suc­ cessivamente compiute da altre generazioni per altri motivi: per paura o per rispetto di coloro che le esigevano e racco­ mandavano, oppure per abitudine, in quanto sin dall’infan­ zia le si erano viste fare intorno a sé, oppure per benevolen­ za, in quanto il compierle creava dappertutto gioia e volti consenzienti, o per vanità, in quanto venivano elogiate. Tali azioni, in cui il motivo principale, quello dell’utilità, sia stato dimenticato, si chiamano poi morali». « Il contenuto della nostra coscienza è tutto ciò che negli anni dell’infanzia ci fu regolarmente richiesto senza motivo »

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(Il viandante e la sua ombra, 52), mentre quel che è sorto nel torso della storia dell’umanità nel modo testé descritto, viene Iramandato al singolo uomo come un insieme di concetti mo­ rali rigorosi e sanzionati dalla religione. «Il costume rappre­ senta le esperienze di uomini passati su quanto si presumeva utile e dannoso, - ma il sentimento del costume (eticità) non si ricollega a quelle esperienze come tali, bensì all’età, [105] alla santità, alla indiscutibilità del costume» {Aurora, 19). L’intera opera risulta così pervasa da ciò a cui già il titolo allude in modo caratteristico: un lavoro concettuale di distru­ zione, la messa a nudo senza riguardi del carattere «troppo umano» di tutto quel che fino a ora veniva ritenuto sacro, eterno e sovrumano. Per cogliere la rigida unilateralità e l’esa­ gerazione con cui in queste pagine Nietzsche si rivolge con­ tro se stesso, vale la pena di esaminare la sua nuova posizio­ ne rispetto a quei quattro punti che erano stati oggetto di un’interpretazione opposta nel suo precedente periodo filo­ sofico: 1’« elemento dionisiaco », il « concetto di decadenza », 1’« inattuale» e il «culto del genio». Al posto di Dioniso, quale custode e protettore del nuovo tempio della verità troviamo ora quel Socrate tanto denigra­ to in precedenza. « Se tutto va bene, verrà il tempo in cui, per promuovere il proprio avanzamento spirituale e morale, si prenderanno in mano i Memorabili di Socrate a preferenza della Bibbia, e in cui Montaigne e Orazio saranno utilizzati come messaggeri, e guide per la comprensione del più sem­ plice e imperituro mediatore-saggio, Socrate. A lui ricondu­ cono le strade delle più diverse maniere filosofiche di vita, che sono in fondo le maniere di vita dei diversi temperamenti, sta­ biliti dalla ragione e dall’abitudine, e tutti quanti rivolti con la loro punta verso la gioia di vivere e di se stessi [ ...] » {Il viandante e la sua ombra, 86). Questa vittoria dell’elemento socratico, della ragione e dell’impassibilità del saggio sull’e­ lemento dionisiaco, l’esaltazione degli istinti e l’ebbrezza vi­ tale dimentica di se stessa, culmina nella frase: « L ’uomo scientifico è l’ulteriore sviluppo dell’uomo artistico» [106] {Umano, troppo umano, 1, 222) e di tutto quel che si basa sul­ l’intelligenza invece che sull’ebbrezza, infatti « l ’artista è già di per sé un essere rimasto indietro» {Umano, troppo umano, 1, 159). La nascita dello spirito socratico rappresenta perciò un eccezionale progresso per la Grecia: « Prendere le forme dagli altri popoli, non crearle, ma trasformarle col dar loro il più bell’aspetto - ciò è greco: imitare, non per l’uso, bensì per l’illusione artistica, [...] ordinare, abbellire, appianare - così

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si procede da Omero fino ai sofisti del terzo e quarto secolo dell’era volgare; e questi ultimi non sono altro che facciata, parola pomposa e gesto entusiastico e si rivolgono solamente ad anime svuotate e avide di apparenza, di suono e di effetto. Ed ora si apprezzi la grandezza di quei greci d’eccezione che crearono la scienza! Chi racconta di loro, racconta la storia più eroica dello spirito umano! » (Umano, troppo umano, n , 221; si veda anche Aurora, 544, riguardo al «tripudio sulla nuova invenzione del pensiero razionale» di allora). La tesi secondo cui tutto ciò che attiene alla sfera del senti­ mento origina dai giudizi e dalle deduzioni concettuali viene contrapposta a quanti sostengono che la vita istintuale è la più alta forma di vita: « I sentimenti non sono niente di ulti­ mo, di originario; dietro ai sentimenti stanno giudizi e ap­ prezzamenti di valore che abbiamo ereditato nella forma di sentimenti [...]. L’ispirazione che discende dal sentimento è nipote di un giudizio - e spesso di un falso giudizio! In ogni caso non del tuo proprio giudizio! Aver fiducia nel proprio sentimento, significa obbedire al proprio nonno e alla pro­ pria nonna e [107] ai loro progenitori, più che agli dèi che so­ no in noi: la nostra ragione cioè e la nostra esperienza » (Au­ rora, 35). I «nobilmente entusiasti», che tentano di impedire che il sentimento venga subordinato alla ragione, inducono a un «pervertimento intellettuale» (Aurora, 543). «A questi entusiasti ubriaconi l’umanità deve gran parte dei suoi mali [...]. Oltre a ciò quegli esaltati impiegano tutte le loro forze nel radicare dentro la vita la loro fede nell’ebbrezza quasi fos­ se la fede nella vita stessa: un’orribile fede! Come i selvaggi vengono oggi rapidamente guastati dall’“acqua di fuoco” e periscono, così l’umanità è stata lentamente e fino in fondo guastata per tutti i versi dalle spirituali acquaviti di sentimen­ ti inebrianti [•••] » (Aurora, 50). « [...] Non pensano che an­ che la conoscenza della più brutta realtà è bella [...]. La gioia degli uomini della conoscenza accresce la bellezza del mondo [...]: due uomini tanto fondamentalmente diversi come Pla­ tone e Aristotele concordavano su ciò che costituisce la su­ prema felicità [...]: lo trovavano nel conoscere, nell’attività di un intelletto bene esercitato, che sa rinvenire e inventare (non già, semmai, nell’“intuizione” [...], non nella visione, [...] e neppure nel fare, [...])! » (Aurora, 550). Così tramonta il precedente culto del genio:1« Ah, la glo­ 1 Si vedano in Umano, troppo umano, 1, gli aforismi 162: « Culto del genio per vanità» e 164: «P ericolo e guadagno nel culto del genio».

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ria a buon mercato del “genio” ! Come hanno fatto presto a erigergli il trono, a trasformare l’adorazione in una consue­ tudine! Si continua sempre a star proni dinanzi alla forza 1108] - secondo un’antica abitudine da schiavi - eppure, se deve essere stabilito il grado di venerabilità, è decisivo, nella forza, soltanto il grado di ragione» (Aurora, 548). E iniziata l’epoca degli spiriti forti e schietti, la smodata venerazione della genialità artistica è di ostacolo alla «progressiva, virile educazione dell’umanità» (Umano, troppo umano, 1, 147). Al­ l’apparenza, il genio lotta sì «per la superiore dignità e im­ portanza dell’uomo», ma «non vuole a nessun costo farsi privare delle interpretazioni che alla vita conferiscono splen­ dore e profondità, e si ribella contro metodi e risultati freddi e schietti », invece di fare un passo indietro di fronte alla più importante « dedizione scientifica al vero in ogni forma, per spoglio che possa apparire» (Umano, troppo umano, 1, 146). Se si analizza la cosiddetta «ispirazione», si nota come l’opera d’arte non sia tanto il prodotto del miracolo di una fantasia creativa, ma del « giudizio » che osserva, ordina, sce­ glie - « come ora, dai taccuini di Beethoven, si vede che egli ha composto le più belle melodie a poco per volta e quasi tra­ scegliendo da molteplici spunti. [...] L’improvvisazione arti­ stica rimane molto in basso rispetto al pensiero d’arte scelto con serietà e sforzo» (Umano, troppo umano, 1, 155). Il genio è dunque qualcosa che può essere appreso in misura assai maggiore di quanto per lo più non si ritenga: «N on parlate di doni naturali, di talenti innati! Si possono nominare gran­ di uomini di ogni specie, che furono poco dotati. Ma essi ac­ quistarono grandezza, divennero “geni” [...]: essi avevano tutti quella solida serietà di mestiere, che impara a formare perfettamente le parti [109] prima di osar comporre un gran tutto; a tal fine essi prendevano tempo, perché provavano un piacere maggiore nel far bene il piccolo, il secondario, che nel mirare all’effetto di un insieme abbagliante» (Umano, troppo umano, 1, 163). In queste pagine - in cui Nietzsche pensa al miracolo di Wagner - l’impulso a spiegare e a smi­ nuire il miracolo della genialità è così forte quanto lo sarà, nella sua ultima fase intellettuale, quello di parlare in favore del genio - questa volta del vero genio - e di glorificarlo. In questo momento ogni vera grandezza gli appare addirittura come un destino, poiché essa tenta di « soffocare molte forze e germi più deboli », mentre sarebbe auspicabile e giusto che a vivere non fossero soltanto i grandi uomini, ma che venisse insieme « concessa aria e luce anche alle nature più deboli e

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delicate» {Umano, troppo umano, i, 158). « I l pregiudizio a fa ­ vore della grandezza. Gli uomini sopravvalutano manifesta­ mente ogni cosa grande ed eminente. [...] Le nature estreme attirano troppo l’attenzione degli altri; ma è altresi necessa­ ria una cultura molto più meschina per lasciarsi avvincere in questo caso» {Umano, troppo umano, 1, 260). Nietzsche non trova mai sufficienti parole per fustigare l’orgoglio di chi si ritiene un’eccezione rispetto alla genera­ lità: « E fantasticheria credere di essere un miglio di strada avanti e che l’intera umanità segua la nostra via. [...] Non bi­ sogna pronunciare così facilmente la parola dell’orgoglioso isolamento» {Umano, troppo umano, 1, 375). Il più delle vol­ te, infatti, questa fantasticheria si basa su di una fatua illusio­ ne riguardo ai motivi di quel che facciamo e non facciamo; il vero pensatore sa che un’accentuazione tanto marcata [n o] delle differenze di rango tra gli uomini non è giustificata e che 1’« umano », anche nei suoi sentimenti più nobili e alti, resta pur sempre qualcosa di «troppo umano». Forte di questa idea egli è in grado di porsi allo stesso livello di tutti gli altri e, proprio perciò, di sollevarsi con il pensiero al di sopra del­ la sua natura inadeguata. « Verrà forse un tempo in cui que­ sto coraggio del pensiero sarà così radicato, che come l’estre­ ma superbia esso si sentirà al di sopra degli uomini e delle co­ se, - un tempo in cui il saggio, essendo l’uomo più di chiun­ que altro coraggioso, vedrà, più di chiunque altro, se stesso e l’esistenza sotto di sé ?» {Aurora, 551). Il saggio tende perciò a valutare le azioni degli uomini in base al loro carattere « troppo umano »: « Si sbaglierà di rado se si ricondurranno le azioni estreme alla vanità, quelle mediocri all’abitudine e quelle meschine alla paura» {Umano, troppo umano, 1, 74). L’importanza della vanità quale motivo principale delle azioni umane viene costantemente sottolineata e valorizzata da Nietzsche, e nel libro di Rèe le era dedicato tutto un capi­ tolo. « Chi nega la vanità in sé la possiede di solito in forma così brutale, da chiudere istintivamente gli occhi di fronte ad essa, per non doversi disprezzare» {Umano, troppo umano, n, 38). «Come sarebbe povero lo spirito umano senza la va­ nità! » {Umano, troppo umano, 1, 79). La vanità, la «cosa in sé umana» {Umano, troppo umano, n, 46). «L a peste peggio­ re non potrebbe nuocere tanto all’umanità quanto se un giorno si dileguasse in quest’ultima la vanità » {Il viandante e la sua ombra, 285). Infatti, anche ciò che siamo soliti consi­ derare come forza o come il potere consapevole di chi vale più di ogni altro è per lo più soltanto una manifestazione del­

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la vanità di mettersi in mostra. [111] L’uomo vuole valere più di quanto la sua forza gli consenta effettivamente di valere. « Hgli nota per tempo che non ciò che è, ma ciò che viene considerato, lo sorregge o lo perde: ecco l’origine della va­ nità» (Il viandante e la sua ombra, 181, «L a vanità come la grande utilità»). In quest’ultimo aforisma Nietzsche equipa­ ra l’individuo forte a quello vanitoso, astuto, furbo, che na­ sconde la propria paura e la propria mancanza di difese ac­ crescendo la considerazione in cui viene tenuto dagli altri. Le affermazioni a tal riguardo si trovano in spiccato contrasto con la sua più tarda teoria delle nature servili e di quelle si­ gnorili, così come con quella dell’originaria natura sociale dell’individuo (cfr. al riguardo anche l’aforisma «Vanità co­ me sopravvivenza di uno stato non sociale », in II viandante e la sua ombra, 31). La vanità si dilegua nella misura in cui l’uomo superiore prende consapevolezza dell’uguaglianza o della somiglianza delle motivazioni umane e si riconosce nel carattere « troppo umano » dei suoi impulsi che lo pone sul­ lo stesso piano di tutti gli altri uomini. L’unica differenza che davvero conta tra gli uomini è quel­ la relativa al tipo e al grado delle loro facoltà intellettuali; no­ bilitare gli uomini non significa altro che portare Yintelligen­ za tra loro. Anche ciò che da un punto di vista morale può es­ sere definito cattivo, nella maggior parte dei casi si dimostra condizionato da abiezione e abbrutimento spirituale. « Molte azioni vengono dette cattive, mentre sono soltanto stupide, perché il grado di intelligenza che si decise per esse era mol­ to basso» (Umano, troppo umano, 1, 107). L’incapacità di va­ lutare correttamente il danno o la sofferenza che si arreca ad altri fa sì che il cosiddetto delinquente, colui che è rimasto ar­ retrato nel proprio sviluppo intellettuale, possa sembrare particolarmente [112] crudele e spietato. «S e l’individuo combatte questa lotta in modo che gli uomini lo dicano buo­ no, o in modo che lo dicano cattivo, di ciò decide la misura e la conformazione del suo intelletto» (Umano, troppo umano, 1, 104). «G li uomini che ora sono crudeli devono essere da noi considerati come gradi residui di civiltà precedenti [...]. Sono uomini arretrati il cui cervello, per tutti i possibili casi nel decorso del processo ereditario, non ha continuato a svi­ lupparsi così delicatamente e molteplicemente» (Umano, troppo umano, 1,43). Sono gli uomini del declino. Quanto più progredito è infatti un uomo, tanto più si raffina, si mitiga, anzi in certa misura si assottiglia la grezza forza istintuale del­ le passioni primitive dalla quale ancora sgorgano le azioni

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dell’uomo arretrato. «Buone azioni sono cattive azioni subli­ mate; cattive azioni sono buone azioni imbruttite e abbrutite. [...] I gradi della capacità di giudizio decidono da che parte uno si lasci trarre [...]. Anzi, in un determinato senso, tutte le azioni sono ancor oggi stupide, perché il più alto grado di intelligenza umana [...] sarà sicuramente ancora superato: e allora [...] si compie il primo tentativo di vedere se l’umanità possa trasformarsi da un’umanità morale in un’umanità sag­ gia» (Umano, troppo umano, i, 107). Suo tratto distintivo sarà che negli uomini « l’istinto di violenza » si farà « più de­ bole », « la giustizia in tutti più grande », mentre cesseranno «violenza e schiavitù» (Umano, troppo umano, 1, 452). Da in­ vidiare sono gli uomini a cui le consuetudini di generazioni hanno trasmesso in eredità un animo mite, compassionevole e amorevole: « L’origine da antenati buoni costituisce la vera [113] nobiltà di nascita; un’unica interruzione di quella cate­ na, cioè un antenato cattivo, sopprime la nobiltà di nascita. Bisogna chiedere a chiunque parli della propria nobiltà: non hai nessun uomo violento, avaro, dissoluto, malvagio o cru­ dele fra i tuoi antenati? Se egli in buona scienza e coscienza può rispondere di no, se ne ricerchi l’amicizia » (Umano, trop­ po umano, 1, 456). «Il mezzo migliore per cominciare bene ogni giornata è, svegliandosi, pensare se non si possa in que­ sta giornata procurare una gioia almeno a una persona. Se ciò potesse valere come un sostitutivo dell’abitudine religiosa del­ la preghiera, il prossimo trarrebbe vantaggio da questo cam­ biamento» [Umano, troppo umano, 1, 589]. E questa magni­ ficazione dei sentimenti delicati e compassionevoli a discapi­ to non solo della brutale rozzezza, ma anche della passione entusiastica dell’ebbrezza religiosa o artistica, risuona altresì in questa bella giustificazione dell’irreligiosità: «N el mondo non c’è abbastanza amore e bontà per poterne far dono anche a esseri immaginari» (Umano, troppo umano, 1, 129).1 Avremo modo di vedere in seguito con quanta forza l’ulti­ ma filosofia nietzscheana si scagli contro questo modo d ’in­ tendere la morale della compassione e questo indebolimento della vita degli istinti, e di come Nietzsche riservi il nome di uomo superiore soltanto a chi conserva in sé tutta la pienez­

1 Questo possesso di « amore e bontà » come le erbe e le forze più salutari nel commercio degli uomini (Umano, troppo umano, 1, 48) possiede un valo­ re ancora maggiore del grande e celebrato sacrificio del singolo; ancora « più potentemente » ha contribuito « alla formazione della civiltà » quella benevo­ lenza continua, amichevole, che crea i «momenti piacevoli» della vita.

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za delle passioni [114] e degli istinti - quindi all’uomo « cat­ tivo». A questo punto della sua evoluzione, invece, non rie­ sce a concepire alcun valore umano al di fuori della bontà e del disinteresse, poiché essi soltanto rappresentano il supe­ ramento del nostro passato di animali. E soltanto l’uomo saggio, dunque, che si dovrebbe chia­ mare «buono», non perché sia di natura diversa dall’uomo che saggio non è, ma perché la condizione umana originaria si è in lui spiritualizzata e, in virtù di ciò, si è « addolcita ogni intemperanza nella sua costituzione» {Umano, troppo uma­ no, 1, 56). «L a piena risolutezza del pensare e del ricercare, ossia il libero pensiero divenuto proprietà del carattere, ren­ de moderati nell’agire giacché indebolisce la cupidigia» (1, 464). «In tal modo [...] si dilegua sempre più [...] l’eccessi­ va eccitabilità dell’animo. Egli [il saggio] si aggira alla fine tra gli uomini come un naturalista fra le piante e percepisce se stesso come un fenomeno che eccita fortemente solo il suo istinto conoscitivo» (1, 254). Ogni grandezza umana si basa su di un affinamento di quel che è legato all’istinto; l’uomo superiore nasce soltanto dalla cancellazione dell’elemento animale, come un « non-più-animale », pensato in modo me­ ramente negativo; in quanto «essere dialettico e razionale», egli è il « superanimale » (1, 40), in cui può a poco a poco met­ tere radici « una nuova abitudine, quella di comprendere, di non amare, di non odiare, di guardare dall’alto» (1, 107). Un « superuomo », al contrario, un essere dalle qualità po­ sitive, nuove e superiori, era in quell’epoca per Nietzsche una fantasticheria totale, e l’escogitarla, la dimostrazione più forte della vanità umana. « Ci dovrebbero essere creature do­ tate di spirito più di quanto non siano gli uomini, anche solo per gustare a fondo l’umorismo insito nel fatto [115] che l’uomo si considera lo scopo dell’intera esistenza del mondo, e l’umanità è veramente soddisfatta solo se può assegnarsi una missione mondiale» {Il viandante e la sua ombra, 14). « Una volta si cercava di pervenire al sentimento della sovra­ nità dell’uomo, indicando la sua origine divina: questa è ora divenuta una via proibita, poiché alla sua porta c’è la scim­ mia accanto ad altri orribili animali, e digrigna intelligentis­ sima i denti come per dire: non oltre in questa direzione! Così ora si tenta la direzione opposta: la strada verso cui va l’umanità deve servire a dimostrare la sua sovranità [...]. Ahimè, anche così non si arriva a niente! [...] Per quanto alto possa risultare lo sviluppo dell’umanità - che forse finirà per essere assai più in basso di quanto non fosse al principio -



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non c’è per essa alcun trapasso in un ordine più elevato, co­ me non potrebbero la formica e il verme auricolare innalzar­ si, al termine della loro “carriera terrestre”, all’affinità con Dio e all’eternità. Il divenire si strascica dietro l’essere stato: perché mai in questa eterna commedia ci dovrebbe essere un’eccezione [...]? Basta con questi sentimentalismi! » (Au­ rora, 49). Se un uomo riuscisse a penetrare a fondo nella vita, allora dovrebbe « disperare del valore della vita; se riuscisse ad abbracciare e sentire in sé l’intera coscienza dell’umanità, egli proromperebbe in una maledizione contro l’esistenza; giacché in complesso l’umanità non ha mete, e per conse­ guenza l’uomo [...] può trovare in essa non la sua consola­ zione e il suo sostegno, ma la sua disperazione» {Umano, troppo umano, 1, 33). Quindi «il primo principio della nuova vita » recita: « Bisogna organizzare la vita su ciò che è più si­ curo e dimostrabile: [n é ] non, come finora si è fatto, su ciò che è più lontano, più indeterminato e che ha l’orizzonte più nuvoloso» {Il viandante e la sua ombra, 310). Si deve diven­ tare di nuovo «buoni vicini delle cose prossime» {Il vian­ dante e la sua ombra, ié) e, invece di bearsi nell’« inattua­ lità » del passato e del futuro più remoti, incarnare i pensieri più alti della conoscenza del proprio tempo. L’umanità, in­ fatti, può ora avere di mira, in luogo di tutti quegli obiettivi fantastici, «la conoscenza della verità quale unica immensa meta» {Aurora, 45). «Verso la luce —l’ultimo tuo movimen­ to; un giubilo di conoscenza - l’ultimo tuo accento» {Uma­ no, troppo umano, 1, 292). E possibile che un intellettualismo così eccessivamente svi­ luppato risulti di danno alla felicità e alla capacità di vivere dell’umanità, che sia in un certo senso un « sintomo di deca­ denza», - ma in questo periodo il concetto di decadenza coincide per Nietzsche con quello della più nobile grandezza: «Forse potrà anche darsi che l’umanità perisca per questa passione della conoscenza [...]. Non sono amore e morte fra­ tello e sorella? [...] Piuttosto che retroceda la conoscenza noi tutti preferiamo che l’umanità perisca! » {Aurora, 429). Un ta­ le «epilogo tragico della conoscenza» {Aurora, 45) sarebbe giustificato, poiché nessun sacrificio è troppo grande per es­ sa: « Fiat veritas, pereat vita! ». Questo motto riassumeva allo­ ra l’ideale conoscitivo nietzscheano - lo stesso motto contro cui, ancora poco tempo prima, egli si era scagliato con il più grande accanimento e che, soltanto pochi anni dopo, avrebbe combattuto con pari violenza: il rovesciamento di questo mot­ to può dunque essere considerato la quintessenza della sua

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prima, così come della sua tarda dottrina. La volontà di vita a ogni costo, anche a quello della conoscenza della vita: [i 17] è questa la «nuova dottrina» che Nietzsche avrebbe successi­ vamente contrapposto a quell’infiacchimento della vita la cui comprensione culmina nel riconoscimento della mancanza di valore di ogni cosa creata; «Nella maturità della vita e del­ l’intelligenza l’uomo è colto dal sentimento che suo padre eb­ be torto a generarlo» (Umano, troppo umano, 1, 386); infatti « ogni fede nel valore e nella dignità della vita è basata su un pensiero non puro» (Umano, troppo umano, 1, 33). Seguendo i pensieri di Nietzsche in questo gruppo di ope­ re, si può distintamente avvertire la costrizione interna che lo portò ad accentuarli fino a conseguenze sempre più aspre e il grado di autocontrollo con cui ciò avvenne. Ma proprio in virtù del contrasto tra questa idea di conoscenza e i suoi desideri e bisogni più intimi, la conoscenza della verità di­ venne per lui un ideale - assunse ai suoi occhi il valore di una forza più alta, distinta, superiore. La costrizione, a cui in tal modo si sottomise, gli fece assumere nei confronti di questo ideale un atteggiamento entusiastico, quasi religioso, e gli re­ se possibile quella scissione di se stesso, motivata religiosamente, di cui Nietzsche aveva bisogno; quella scissione gra­ zie alla quale l’uomo della conoscenza può osservare dall’al­ to i propri sentimenti e i propri impulsi come se fossero una seconda natura. Sacrificandosi, per così dire, per la verità co­ me per una potenza ideale, egli pervenne a una liberazione dagli affetti di tipo religioso che accese in lui un fuoco, qua­ le nessuna liberazione calda e pacifica dai suoi intimi deside­ ri e inclinazioni avrebbe potuto far divampare. In modo al­ quanto paradossale, tutta la sua lotta contro l’ebbrezza, tutta la sua magnificazione [118] della mancanza di passioni, sem­ brano così, in questo periodo, soltanto un tentativo di giun­ gere all’ebbrezza attraverso una violenza su se stesso. La sua metamorfosi si compie perciò in modo estremo; si potrebbe addirittura affermare che l’energia impiegata per pronunciare un sonoro e spregiudicato « S ì !» all’indirizzo del nuovo modo di pensare, rappresenti solamente l’atto di violenza di un «N o! » con cui egli cerca di soggiogare la sua natura e i suoi bisogni più profondi. La « spregiudicata fred­ dezza e la tranquillità dell’uomo della conoscenza » - il suo ideale in questa fase della sua evoluzione - rappresentavano una specie di supplizio sublime che egli riuscì a sopportare grazie alla risolutezza con cui concepiva le sofferenze della vita dell’anima come una delle «malattie per le quali occor­

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rono cataplasmi ghiacci» {Umano, troppo umano, i, 38) - e che fanno anche bene, poiché «il freddo pungente è uno stimolante altrettanto efficace di un grado di calore più ele­ vato ». Il suo accordo con l’indirizzo speculativo di Rèe non si pa­ lesa perciò mai con tanta evidenza come nella prima opera, Umano, troppo umano, all’epoca in cui, dunque, egli soffriva nel modo più intenso per la separazione da Wagner e dalla sua metafisica. E fu il carattere di Rèe a fargli spesso da guida nel suo eccessivo intellettualismo; sulla sua base modellò un’immagine ideale che gli servì da regola: la superiorità del pensatore sull’uomo, l’indifferenza per ogni valutazione pro­ veniente dalla vita affettiva, la dedizione incondizionata e senza riguardi alla ricerca scientifica si profilarono innanzi a lui come un nuovo e superiore tipo di uomo della conoscenza e conferirono alla sua filosofia la sua impronta peculiare. [119] Mosso dal bisogno di vedere incarnati in una forma umana i pensieri puramente scientifici che desumeva dal po­ sitivismo, Nietzsche restò tuttavia preso al laccio dall’imma­ gine di una personalità specifica e determinata, che gli riusci­ va del tutto contraria, tormentandosi per poterne accentuare ancor di più i tratti. Il fatto che, per evolversi, avesse sempre bisogno di negare se stesso, e che per crescere intellettual­ mente avesse bisogno di sofferenza volontaria, chiarisce an­ che in questo caso l’apparente contraddizione per cui, per salvare la propria autonomia dall’influsso di Wagner e della metafisica, cadde ancora una volta in balia di un potere estraneo, cercò di rinunciare al suo io. Né nella natura del­ l’indirizzo filosofico seguito, né nel suo rapporto con Rèe vi erano motivi perché ciò avvenisse: le ragioni erano legate esclusivamente alla sua natura. Fu questa soltanto a spinger­ lo in direzione di un rapporto stretto con un’altra persona e i suoi pensieri; lo spinse, per così dire, a pensare e creare uno «spirito collettivo» {Umano, troppo umano, 1, 180). È in que­ sto senso che, inviandogli il suo Umano, troppo umano, Nietzsche potè scrivere all’amico: « A Lei appartiene, agli al­ tri viene regalato! »' - per poi aggiungere: «Tutti i miei ami­ ci ritengono concordemente che il mio libro sia stato scritto e provenga da Lei: mi congratulo perciò per questo nuovo lavoro [...]. Evviva il Réealismo [...]! ».12 1 [F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 717 a Paul Rèe, Basi­ lea, 24 aprile 1878, p. 290.] 2 [Ivi, lettera n. 743 a Paul Rèe, Grindelwald, io agosto 1878, pp. 308-309.]

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In questo modo, tra i due amici nasce una peculiare forma di complementarietà del tutto opposta a quella che si era avuta un tempo tra Nietzsche e Wagner. Per Wagner - il ge­ nio dell’arte - Nietzsche avrebbe dovuto essere il pensatore e l'uomo della conoscenza, l’intermediario scientifico della nuova cultura artistica. Ora, al contrario, era Rèe il teoreta I i 20] e Nietzsche lo completava ricavando le conseguenze pratiche dalle sue teorie e cercando di stabilirne il significato per la cultura e per la vita. Su questo punto, intorno al pro­ blema del valore, le personalità intellettuali dei due amici prendevano strade diverse. Là dove l’uno smetteva, l’altro cominciava. Come pensatore dall’approccio rigidamente unilaterale, Rèe non si fece mai influenzare da simili questio­ ni; era lontano dalla ricchezza spirituale, artistica, filosofica e religiosa di Nietzsche, ma, dei due, era la mente più acuta. Guardava con stupore e interesse il modo in cui i fili dei suoi pensieri, orditi con rigore e precisione, si mutavano, tra le mani incantate di Nietzsche, in tralci vivi e fiorenti. Tipico delle opere di Nietzsche è il fatto che anche gli er­ rori e le inesattezze che esse contengono schiudano una pie­ nezza di stimoli tale da accrescerne il significato complessivo, anche là dove ne diminuisce il valore scientifico. Caratteristi­ co delle opere di Rèe è invece il fatto che esse contengano più carenze che errori; ciò viene espresso con la massima chia­ rezza dalla frase conclusiva della breve prefazione a 11origine dei sentimenti morali; « In questo scritto vi sono delle lacune, ma le lacune sono meglio dei riempitivi! ». La geniale polie­ dricità di Nietzsche apre invece nuovi scorci proprio su re­ gioni di cui la logica non possiede la chiave d’accesso, in cui si vede cioè costretta a lasciare alla conoscenza le sue lacune. Se il fondersi appassionato della vita speculativa con la vi­ ta interiore nel suo complesso era un tratto peculiare di Nietzsche, un tratto di fondo dell’indole spirituale di Rèe era invece la scissione netta e portata all’estremo di pensiero e sentimento. Alla genialità di Nietzsche corrispondeva il fuo­ co [121] che ardeva vivace dietro i suoi pensieri e che li face­ va brillare di una luce la cui potenza essi non avrebbero mai potuto acquisire grazie soltanto alla comprensione logica; la forza intellettuale di Rèe si basava invece sulla fredda imper­ turbabilità della dimensione logica di fronte a quella psichi­ ca, sull’acutezza e il limpido rigore del suo pensiero scientifi­ co. Il pericolo per Rèe era rappresentato dall’unilateralità e dalla chiusura di questo pensiero, dalla mancanza di quel fiu­ to raffinato e lungimirante che richiede più comprensione

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che comprendonio; per Nietzsche, diversamente, il pericolo stava in quella sconfinata capacità di sentire e nella dipen­ denza dei prodotti del suo intelletto dai sentimenti e dai mo­ ti dell’animo. Anche quando il suo modo di pensare pareva trovarsi in momentanea contraddizione con i desideri e gli impulsi segreti del suo cuore, era proprio da questa lotta e da questo scontro brutale con quei desideri e quegli istinti che egli traeva la sua più elevata capacità conoscitiva. L’indole spirituale di Rèe, per contro, pareva escludere ogni contribu­ to della vita affettiva a questioni attinenti la sfera della cono­ scenza, una volta che l’esito del processo gnoseologico corri­ spondeva al suo sentimento personale. Il pensatore che era in lui guardava infatti dall’alto, con senso di superiorità e di estraneità, l’uomo che era in lui, suggendogli così, in un cer­ to senso, parte della sua energia e, insieme a essa, del suo egoismo. In luogo di questo, nel carattere di Rèe, non vi era null’altro se non una profonda, notevole e illimitata bontà d’animo, le cui manifestazioni rappresentavano un’interes­ sante e toccante antitesi alla fredda sobrietà e al rigore del suo pensiero. Nietzsche, al contrario, possedeva quell’alato amor proprio che si riversava nei suoi ideali gnoseologici fi­ no al punto da confondersi quasi con essi e porsi di fronte al mondo [122] con l’entusiasmo dell’apostolo e di colui che converte. Dietro all’intesa teoretica, nascosta sotto il velo dei pensie­ ri, vi è dunque una profondissima diversità di sentire dei due amici. Quel che per l’uno costituiva l’espressione naturale della propria indole, era tutto il contrario dell’indole dell’al­ tro; ma proprio per questo i due avevano lo stesso ideale. Nietzsche stimava e sopravvalutava in Rèe ciò che gli riusci­ va più difficile, giacché l’intimo significato della sua trasfor­ mazione consisteva ancora una volta per lui in una costrizio­ ne di se stesso: «M io caro amico e perfezionatore! » lo chia­ ma infatti in una lettera « come potrei tener duro senza os­ servare di tanto in tanto la mia natura, per così dire, in un metallo puro o in una forma più elevata, io, che sono a mia volta un frammento, [...] se, in quei rari, rari e buoni mo­ menti, non scrutassi di fuori la terra migliore dove si aggira­ no le nature complete e perfette! ».* Ma questa abnegazione incurante di sé non è che la via1 1 [Si tratta di una lettera a Rèe dell’agosto 1881, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. in, tomo 1, lettera n. 144 a Paul Rèe a Stibbe, SilsMaria, fine agosto 1881, p. 124.]

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lungo cui egli, nel quadro di una nuova visione del mondo, si la largo verso un nuovo sé; non è che la dolorosa condizione in cui egli crea e modella ancora una volta i frutti dello spiri­ lo altrui che ha preso su di sé, per trarne uno spirito suo, ori­ ginale e colmo di vita. Sono, come sempre, le doglie che ac­ compagnano la nuova creazione, garantendogli di vivere ap­ pieno e di rinnovarsi in essa con tutto il suo essere e le sue energie. La storia dell’evoluzione di Nietzsche in questa meta­ morfosi e del suo liberarsi di essa, è in fondo la storia della sua esperienza interiore, la storia delle lotte della sua anima. Nei lavori che appartengono a questo periodo - dal suo [123] primogenito, che gli diede molte preoccupazioni, Umano, troppo umano, fino all’atmosfera profondamente commossa e gioiosa di La gaia scienza, che in certa misura appartiene già al periodo successivo - questa evoluzione si dispiega di fron­ te a noi. In tutte queste opere, in una serie di raccolte di afo­ rismi, egli ha voluto innalzare « l ’immagine e l’ideale dello spirito libero »,' dello spirito libero nei suoi pensieri riguardo ogni ambito del sapere e della vita, e ancor più nella pienez­ za stessa delle sue esperienze speculative. La tonalità emotiva in cui ciascuno di questi libri è venuto alla luce s’imprime ogni volta in essi come ciò che hanno davvero di caratteristi­ co già a partire dal titolo. I titoli di Nietzsche non sono mai ricavati in modo casuale da una materia astratta o indifferen­ te; sono in tutto e per tutto immagini di processi interiori, ma sono in tutto e per tutto dei simboli. Così, sul finire degli an­ ni settanta, riassunse in poche parole il contenuto fondamen­ tale della sua solitaria esistenza di pensatore, allorché sul frontespizio del suo secondo lavoro scrisse: Il viandante e la sua ombra (Ernst Schmeitzner, Chemnitz 1880). Con quest’opera egli ha fatto ritorno nella solitudine di se stesso dall’ardore delle sue prime, appassionate lotte: il guer­ riero si è fatto viandante il quale, invece di portare attacchi astiosi alle abbandonate contrade del suo spirito, esamina la terra del suo esilio volontario per vedere se il terreno pietro­ so non si lasci coltivare e se non possegga anch’esso, in qual­ che luogo, uno strato di terra fertile. Lo scontro roboante con l’avversario si è dissolto nel tranquillo dialogo con se stesso: il solitario presta ascolto ai propri pensieri come in una con­ versazione a più voci, vive in loro compagnia come fossero1 1 [Ivi, lettera n. 251 a Lou von Salomé a Stibbe, Tautenburg, 27-28 giu­ gno 1882, p. 213.]

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un’ombra che lo accompagna ovunque. Ma gli appaiono fo­ schi, monotoni e spettrali, [124] anzi tanto grandi e minac­ ciosi come lo sono soltanto le ombre, quando il sole è al tra­ monto. Non a lungo, però, poiché la sua vicinanza li priva progressivamente di ciò che hanno di umbratile: quel che era pensiero e pallida teoria acquista sonorità e sguardo, forma e vita. Ma questo è il processo interiore attraverso cui Nietz­ sche si appropria e dà nuova forma a quel che è nuovo e in­ consueto: infondendogli vita, aiutandolo a raggiungere una pienezza vitale. Si potrebbe affermare che Nietzsche si sceglie le più malinconiche ombre del pensiero per nutrirle con il proprio sangue, per vederle infine mutarsi - sia pure tra per­ dite e ferite - nella propria persona, nel proprio doppio. Nella misura in cui i pensieri di cui si attornia accolgono in loro tutta la ricchezza del suo essere, nella misura in cui si sa­ ziano lentamente di tutta la sua magnifica forza e del suo ar­ dore, la tonalità d’animo di Nietzsche si fa più alta e fiducio­ sa. Si avverte come egli percorra passo a passo la strada verso se stesso, cominci a sentirsi a suo agio nella sua nuova «p el­ le », cominci a vivere appieno la sua singolarità, come un vian­ dante che dopo dure fatiche torni finalmente a casa. Non vuo­ le più raggiungere la meta speculativa del suo compagno Paul Rèe, vuole la sua meta. Questo lo si capisce perfino dalle let­ tere in cui egli ammira pur sempre il teoreta: « Fra l’altro so­ no sempre più ammirato di come si dimostra agguerrita la Sua esposizione sotto l’aspetto logico. Ecco, di una cosa del gene­ re io non sono capace, tutt’al più sospirare un poco o cantare - ma dimostrare in modo da dare al cervello un senso di pia­ cere, questo sa farlo Lei, ed è cento volte più importante».1 [125] In questo «cantare e sospirare» è proprio la sua ge­ nialità a imporsi sulla sua coscienza come il talento per i più bei lamenti e i più begl’inni di vittoria che abbiano mai ac­ compagnato una battaglia del pensiero, come il talento crea­ tivo di volgere in musica interiore anche il pensiero più fred­ do e ripugnante. Se il musicista che era in lui avesse cessato di sfogarsi a sue spese, allora egli sarebbe svanito, una singo­ la nota nella nuova grande melodia della totalità. E, in effetti, quel che conferisce alle opere e ai pensieri di questo periodo un significato del tutto particolare è la nuova unità che il suo carattere ha acquistato grazie al fatto che tut­ ti i suoi istinti e i suoi talenti si sono progressivamente posti [F. Nietzsche, Epistolario 1875-187$, cit., lettera n. 627 a Paul Rèe, Rosenlauibad, seconda metà di giugno 1877, p. 222 J

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ni servizio dell’unica grande meta della conoscenza. Il Nietz­ sche artista, poeta, musicista, inizialmente represso e sotto­ messo con violenza, prende a farsi sentire, subordinato tutta­ via al pensatore e ai suoi scopi; ciò gli ha consentito di « can­ ni re e sospirare» le sue nuove verità in modo tale da elevarlo al rango di primo stilista del tempo presente.1 1 126] Prendere in esame il suo stile per quanto concerne le sue cause e i suoi presupposti è dunque qualcosa di più di un’indagine sulla semplice forma in cui vengono espressi i suoi pensieri: significa ascoltare in segreto la più intima natu­ ra di Nietzsche. Lo stile di queste opere trae infatti origine dalla dissipazione, fatta di sacrificio ed entusiasmo, di grandi doti artistiche a vantaggio di una conoscenza rigorosa, dall’a­ spirazione ad esprimere questa conoscenza rigorosa, e null’altro che essa, ma non in un’universalità astratta, [127] ma nella sfumatura più individuale, così come essa si riflette in ogni sentimento di un’anima commossa e inquieta. Già nelle opere del suo primo periodo Nietzsche era riuscito a riversa­ re in forma compiuta l’interiorità e la pienezza più vive; solo ' Si vedano i seguenti aforismi che Nietzsche annotò una volta per me [in una lettera dell’agosto 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. in, tomo 1, lettera n. 288 a Lou von Salomé a Tautenburg, Tautenburg, 8-24 agosto 1882, pp. 243-245]:

La dottrina dello stile 1. L a prima cosa che conta è la vita: lo stile deve vivere. 2. Lo stile ti si deve adeguare in funzione di una persona ben precisa alla quale vuoi comunicare te stesso (Legge della doppia relazione). 3. Prima di poter scrivere, bisogna sapere esattamente: «Q uesto lo direi o lo reciterei in questo e questo m odo». Scrivere deve essere un’imitazione. 4. Poiché a chi scrive mancano molti mezzi della recitazione, in generale egli deve prendere a modello un tipo di recitazione molto espressivo: la co­ pia di ciò, lo scrivere, risulterà necessariamente molto più pallida. 5. La ricchezza di vita si rivela nella ricchezza di gesti. Bisogna imparare a sentire ogni cosa - lunghezza e brevità delle frasi, le interpunzioni, la scelta dei vocaboli, le pause, la successione degli argomenti - come un gesto. 6. Attenzione al periodo! Hanno diritto al periodo soltanto gli uomini che, anche nel discorrere, posseggono un ampio respiro. Nei più, il periodo è un’affettazione. 7. Lo stile deve fornire la dimostrazione del fatto che si crede ai propri pensieri, che non li si pensa soltanto, ma li si sente. 8. Quanto più è astratta la verità che si vuole insegnare, tanto più si devo­ no sedurre a essa solamente i sensi. 9. Il tatto del buon scrittore di prosa quando sceglie i suoi strumenti sta nell’accostarsi a ridosso della poesia, ma nel non sconfinare mai in essa. 10. Non è cortese e avveduto anticipare al proprio lettore le obiezioni più facili. È molto cortese e molto avveduto far sì che il proprio lettore esprima da solo la quintessenza della nostra saggezza.

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ora, però, egli apprese a congiungerle all’acutezza e al rigore di un sapere spassionato: come un anello d’oro esso cinge la pienezza della vita in ciascuno dei suoi aforismi, conferendo loro, proprio grazie a ciò, un incanto particolare. Nietzsche creò così, in certa misura, un nuovo stile nella filosofia che fi­ no a quel momento aveva inteso soltanto il tono della tratta­ zione scientifica o il discorso poetante dell’entusiasta: egli creò lo stile del caratteristico, che esprime il pensiero non sol­ tanto in quanto tale, ma con tutta la ricchezza di tonalità emo­ tive della risonanza della sua anima, con tutti i nessi del senti­ mento, sottili e segreti, che una parola o un pensiero possono risvegliare. Con questa sua particolarità Nietzsche non padro­ neggia soltanto il linguaggio, ma si innalza anche al di sopra dei limiti di quel che non può essere espresso in maniera ade­ guata attraverso di esso, facendo risuonare nella tonalità emo­ tiva quel che altrimenti sarebbe rimasto muto nella parola. In nessun altro spirito, come in quello di Nietzsche, il me­ ro contenuto del pensiero riusciva a mutarsi in modo così completo in qualcosa di veramente vissuto, giacché la vita di nessun altro individuo si risolse così integralmente nell’idea di diventare creativo nell’ambito del pensiero, ma con tutta la propria interiorità di uomo. I suoi pensieri non si distin­ guevano, come accade di solito, dalla vita reale e dalle sue vi­ cende: costituivano piuttosto l’autentico e il solo evento del­ la vita di questo solitario. E, di fronte a questo fatto, anche l’espressione più viva che egli riusciva a trovare per descri­ verlo, gli sembrava pallida e fiacca: «Ahimè, che cosa siete [128] mai voi, miei pensieri scritti e dipinti! » si lamenta nel bell’aforisma finale di Al di là del bene e del male (296). « Or non è molto eravate ancora così versicolori, giovani e mali­ ziosi, così colmi di spine e di droghe segrete, che mi facevate starnutire e ridere —e ora? [...] Che cosa, infatti, scriviamo e dipingiamo noi, mandarini del pennello cinese, eternizzatori delle cose che si lasciano scrivere, che cosa soltanto siamo ca­ paci di dipingere? Ahimè, sempre unicamente quel che ap­ punto è destinato ad appassire e comincia a perdere il suo profumo! Ahimè, sempre tempeste dileguanti e affievolite e tardi sentimenti ingialliti! Ahimè, sempre soltanto uccelli che presero stanchi il volo e fuggirono via, e che ora si lascia­ no acchiappare dalla mano - dalla nostra mano! [...] Ed è soltanto per il vostro meriggio, o miei pensieri scritti e dipin­ ti, che io possiedo colori, molte variopinte dolcezze e cin­ quanta gialli e marroni e verdi e rossi: - ma questo non basta a far indovinare quale aspetto avevate nel vostro mattino, voi

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improvvise faville e prodigi della mia solitudine, voi, miei vecchi, amati — malvagi pensieri! ». H dunque essenziale immaginarsi Nietzsche, nelle sue pas­ seggiate calme e solitarie, portarsi a spasso un paio di afori­ smi, il risultato di una lunga conversazione muta con se stes­ so, - non ricurvo sullo scrittoio, non con la penna in mano: « lo non scrivo soltanto con la mano: / Anche il piede vuol scrivere sempre» canta in ha gaia scienza («Scherzo, malizia e vendetta», 52). Mare e monti gli stanno attorno durante le sue passeggiate tra i pensieri, come lo sfondo più produttivo | 129] per questa figura di solitario. Al porto di Genova fece un sogno, vide un mondo nuovo spuntare su di un orizzonte velato, nell’aurora, e trovò la frase del suo Zarathustra-. «B el­ lo è guardare verso mari lontani, dalla sovrabbondanza» (Così parlò Zarathustra, « Sulle isole Beate »). Tra i monti dell’Engadina riconobbe se stesso, come in un riflesso di gelo e di ardore, dal cui connubio erano originate tutte le sue lotte e le sue trasformazioni: «In molti paesaggi di natura scopria­ mo di nuovo noi stessi, con piacevole brivido; è la più bella rassomiglianza», afferma egli a tal proposito, « [...] in tutto il [...] carattere [...] di quest’altopiano, che si è accampato senza paura accanto agli orrori delle nevi eterne, qui dove Italia e Finlandia si sono strette in alleanza e dove sembra es­ serci la dimora di tutti i toni argentei della natura» {Il vian­ dante e la sua ombra, 338). Di questo luogo, con i suoi «p ic­ coli laghi appartati» da cui «la solitudine in persona pareva guardarlo con i suoi occhi », egli parla anche in una lettera: « La sua natura è affine alla mia, non ci stupiamo l’uno del­ l’altro, e anzi ci sentiamo familiari».1 L’emicrania e il dolore agli occhi costringevano Nietzsche a lavorare per aforismi; ciò corrispondeva però in misura sempre maggiore anche alla sua indole spirituale, che non ve­ deva i propri pensieri di fronte a sé in una concatenazione continua, così come li si fissa su carta quando si lavora in mo­ do sistematico, ma prestava invece loro ascolto come in un dialogo a due, un dialogo sempre interrotto e ripreso che prendeva spunto da singoli dati di fatto e che il suo [130] «orecchio per le cose inaudite» (Così parlò Zarathustra, « Prologo di Zarathustra ») riusciva a percepire come una pa­ rola effettivamente pronunciata. 1 [Si tratta di una lettera a Rèe scritta da St. Moritz nel 1879, ora in F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 869 a Paul Rèe, St. Moritz, fine luglio 1879, p. 383.]

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« Non riesco a scrivere, anche se lo farei davvero volentieri » appunta in una cartolina (gennaio 1881, dall’Italia). «Ahimè, gli occhi\ Non so più cosa fare, mi tengono letteralmente lon­ tano, a forza, dalla scienza - e cosa posseggo oltre a essi? Già, le orecchie! si potrebbe dire». Egli prese tuttavia con grande serietà questo tendere l’orecchio e questo prestare ascolto, e non vi è nessuna frase dei suoi libri a cui non possa venire ap­ plicato quel che egli scrisse una volta, in una delle sue lettere: « Sono sempre occupato in questioni linguistiche molto sot­ tili; l’ultima decisione riguardo a un testo obbliga all’“ascol­ to” più scrupoloso della parola e della frase. Gli scultori chia­ mano quest’ultimo lavoro ad unguem».1 Quando Nietzsche, nel 1881, portò a termine la sua terza opera su basi positivistiche, Aurora (Ernst Schmeitzner, Chemnitz 1881), il processo di vitalizzazione e di individualizzazio­ ne delle teorie che aveva fatto proprie era giunto a piena con­ clusione. Quest’opera e, in pari misura, quella successiva, mi paiono quindi le più importanti e ricche di contenuto di que­ sto periodo intermedio. Nelle loro pagine, infatti, a Nietz­ sche è riuscito il superamento pratico di quell’eccesso di in­ tellettualismo a cui, senza dubbio, ancora sottostava, in una sorta di martirio volontario, in Umano, troppo umano-, è riu­ scito cioè a integrare questo intellettualismo con la sua inte­ riorità e la sua individualità e ad approfondirlo in modo umano, senza che il terreno scientifico su cui esso poggiava gli crollasse sotto i piedi —senza che il rigore con cui indaga­ va i suoi problemi venisse meno. [131] La sua natura gli era stata d’aiuto nel confutare le unilateralità e le asprezze della sua filosofia pratica e a plasmare, dalle battaglie intellettuali degli ultimi anni, un tipo più vitale di uomo della conoscen­ za. La subordinazione della vita degli affetti al pensiero si era compiuta in Nietzsche —come abbiamo avuto modo di vede­ re - attraverso una dedizione all’ideale di verità di una po­ tenza interiore tale da far sì che, proprio per suo tramite, l’importanza della vita affettiva per il pensiero gli si dovesse ri­ velare. In modo impercettibile, l’accento fondamentale si spostò dunque per lui dal procedimento puramente intellet­ tuale alla potenza del sentimento che è in grado di porsi al servizio anche delle verità più fredde e sgradevoli, semplicemente perché sono delle verità. Al posto della forza dell’in­ 1 [Si tratta di una lettera all’autrice del giugno 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. in, tomo 1, lettera n. 251 a Lou von Salomé, Tauten­ burg, 27-28 giugno 1882, p. 213.]

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telletto, è la forza dell’anima che comincia a diventare ciò che determina il valore di un pensatore come uomo. Ed è fa­ cile vedere come, lungo questa via, il valore di un nuovo mo­ do di pensare dovesse progressivamente aumentare agli oc­ chi di Nietzsche, quello di una filosofia maldisposta verso lutto ciò che attiene alla sfera dell’intelletto. In nessuno dei suoi libri, come in Aurora, si possono in­ travedere i passaggi sottili e i nessi concettuali che conduco­ no dal suo periodo positivistico a quello successivo, a una fi­ losofia mistica della volontà. Il passaggio dall’antico al nuovo costituisce l’elemento di grande attrattiva e il valore del li­ bro, così come era il caso di Umano, troppo umano. In modo del tutto contrario da quelle pagine, però, dove, dal punto di vista teoretico, venivamo posti di fronte al fatto compiuto di un mutamento di opinione, in cui il sentimento dolente cer­ ca lentamente di ritrovarsi. Qui, invece, [132] ogni possibi­ lità di un mutamento di prospettiva teorica viene ancora re­ spinta con forza come la « tentazione dell’uomo scientifico », mentre l’anima, ancora bramosa e procedendo a tastoni, al­ lunga i suoi tentacoli verso ciò che è proibito, sebbene l’in­ telletto ancora glielo vieti. Sono dunque espressioni di un lie­ ve oscillare, singole esplosioni di una vita psichica profonda­ mente agitata, quelle da cui noi, colmi di presagi, deduciamo quel che accadrà dal momento che esse, in uno stato d’animo del genere, posseggono un’ingenuità involontaria e un’im­ mediatezza che Nietzsche altrimenti disdegna. In queste pa­ gine egli si tradisce di continuo, senza supporre di mettere a nudo, vagliando e censurando ogni possibilità di «tentazio­ ne », quel che di segreto e nascosto vi è nella sua vita interio­ re, sicché noi crediamo di vedere come il suo io passato e quello futuro si confessino l’un l’altro desideri e speranze re­ condite all’insaputa di una filosofia dell’intelletto all’appa­ renza ancora integra. Ribellandosi contro questi desideri e queste speranze, egli grida a se stesso nell’aforisma «N on fa­ re della passione l’argomento della verità»; « O voi [...] no­ bilmente entusiasti, io vi conosco! [...] Vi accanite [...] fino ad odiare la critica, la scienza, la ragione. [...] Immagini co­ lorate in cui occorrerebbero fondamenta razionali! Fuoco e potenza di espressioni! [...] Voi sapete creare luci ed ombre ed oscurare con la luce\ [...] Quanto siete assetati di trovare n o m in i [...] in questa condizione - che è quella del perverti­ mento intellettuale - e di accendere le vostre fiamme al loro tizzone!» {Aurora, 543). È soltanto con l’ultima filosofia nietzscheana che si comprende del tutto come sia proprio lui

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stesso, [133] quello a cui rivolge questo monito: «Niente sa­ rebbe più assurdo del voler aspettare ciò che la scienza stabi­ lirà un giorno definitivamente sulle prime e ultime cose [...]. L’impulso a voler assolutamente avere in questo campo solo sicurezze, è un rigurgito religioso, niente di meglio» {Il vian­ dante e la sua ombra, 16). In mezzo alle tante ribellioni contro se stesso, fa tuttavia anche capolino, isolato, il tedio per la severa moderazione che la conoscenza intellettuale impone a se stessa e per la « ti­ rannide del vero»; «N on saprei per quale ragione l’egemo­ nia e l’onnipotenza della verità dovrebbero essere desidera­ bili; [...] ci si deve poter riposare di essa nella non verità: al­ trimenti ci diventerà noiosa [...] » [Aurora, 507). E agli arti­ sti contro cui rivolge le proprie ingiurie, egli grida addirittu­ ra con nostalgia: «O h, se i poeti volessero ridiventare quel che devono essere stati una volta: - veggenti, che ci racconta­ no qualcosa del possibile! [...] Se volessero farci sentire anzi­ tempo qualcosa delle virtù futureì O di virtù che non esiste­ ranno mai sulla terra, benché potrebbero esistere in qualche luogo del mondo - di astri dalla purpurea fiamma e di intere vie lattee della bellezza! Dove siete voi, astronomi dell’idea­ le?» (Aurora, 551). Nelle pagine di Aurora noi vediamo così non solo come Nietzsche lotti contro le brame segrete che stanno crescendo in lui, ma come anche vi ceda, abbandonandosi all’anelito di qualcosa di nuovo, nel presentimento di uno scopo della co­ noscenza che va profilandosi innanzi ai suoi occhi. I due mo­ menti si confondono in modo significativo, in quanto pro­ prio il più grande ardore dell’anima che [134] Nietzsche im­ piega in vista dell’ideale della conoscenza, indica sempre che in lui ha già avuto inizio il tramonto di quell’ideale a cui si era arreso solo con riluttanza al tempo in cui era fermamente convinto della sua verità e della sua necessità. È questa 1’« or­ bita solare dell’idea», così come lui stesso l’ha descritta sulla base della propria esperienza: «Quando un’idea sta appena salendo all’orizzonte, la temperatura dell’anima è di solito molto fredda. Solo a poco a poco l’idea sviluppa il suo calo­ re, e questo diventa massimo [...], quando la fede nell’idea si sta già di nuovo abbassando » {Il viandante e la sua ombra, 207). Nello stesso scritto, tuttavia, egli caratterizza se stesso con queste parole: «Quelle persone che cominciano lenta­ mente e solo con difficoltà si familiarizzano con una cosa, hanno talvolta successivamente la qualità dell’accelerazione

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tostante, - sicché da ultimo nessuno sa dove la corrente pos­ sa portarli» (ivi, 331). 1/d forza di un’interiorità che s’infiamma lentamente e a fa­ ti ca, ma in modo tanto più ineluttabile e irresistibile, - que­ sta traboccante pienezza doveva infine allontanarlo dal posi­ tivismo e condurlo verso nuovi orizzonti concettuali. In aperto contrasto con quella «mancanza di affetti» che aveva magnificato in precedenza, egli intravede ora il suo ideale nel latto che l’uomo della conoscenza sia l’uomo di «un unico, alto sentimento, che sia l’incarnazione di un unico, grande stato d’animo»; il suo «stato d’animo abituale» deve essere « quello che fino a oggi è entrato solo una volta ogni tanto nelle nostre anime, come un qualcosa d’eccezionale avvertito con un brivido: un movimento continuo tra l’alto e il basso, e il sentimento dell’altezza e della profondità, un costante sali­ re come su delle scale e al tempo stesso un abbandonarsi co­ me su nubi» (La gaia scienza, 288). Un «uomo della cono­ scenza » di questo tipo ha ora davanti a sé, come una tenta­ zione, quel che una volta [135] rappresentava per lui un peri­ colo: «Librarsi! Vagabondare! Folleggiare! » (La gaia scienza, 46). E in Aurora, con il titolo «L a disposizione d’animo fe­ stiva», si afferma: «Proprio per quegli uomini che bruciano del loro anelito di potenza, è indescrivibilmente gradevole sentirsi soggiogati. Affondare, d’improvviso, giù negli abissi di un sentimento come in un vortice! Lasciarsi strappare le briglie di mano e starsene a guardare un movimento per chis­ sà dove! » (271). È con questo stato d’animo di festa, di sovrabbondanza e di dovizia, ricavata e acquisita dalle conoscenze più sobrie, in quest’incanto di quiete e riposo dopo una lunga giornata di lavoro, che Nietzsche scivola dentro al mondo della mistica. È la « felicità del contrasto » ciò che egli cerca al suo interno, del contrasto rispetto alla freddezza, al rigore e all’intellettualismo del modo di pensare positivistico: fondare da capo la conoscenza sui moti entusiastici del sentimento, della vita affettiva, e subordinarla agli slanci creativi della volontà. Questa «aurora» non è più una luce pallida, fredda, che illumina soltanto dietro di sé; alle sue spalle già si va levando un sole che riscalda e dà vita; e mentre Nietzsche si trova an­ cora nella grigia penombra del crepuscolo, i suoi occhi guar­ dano ormai all’orizzonte, a quell’apparizione chiara e pro­ mettente. «V i sono tante aurore che ancora devono risplen­ dere»: egli scrisse queste parole del Rgveda quale motto sul frontespizio del suo libro, senza ancora l’ardire di credere di

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essere lui stesso chiamato ad accendere quella luce nel cielo della conoscenza. Il libro contiene Veritieri sui pregiudizi mo­ rali- [136] un’aggiunta al titolo a mo’ d’integrazione - e pa­ re volere ancora partecipare di quello spirito dissolvente e negatore delle opere precedenti; sulle sue pagine aleggia però ormai uno spirito sognante e speranzoso, che certo solo qua e là riesce a esprimersi appieno, ma che in silenzio riflet­ te su come sia possibile giungere, prescindendo da tutti i pre­ giudizi, a nuovi giudizi di valore, su come sia possibile diven­ tare il creatore di nuovi valori. « Quando infine saranno an­ nientate anche tutte le consuetudini e i costumi sui quali si sostiene la potenza degli dèi, dei sacerdoti, dei redentori, quando dunque sarà morta la morale nel suo antico significa­ to: verrà allora... sì, che cosa verrà allora?» (Aurora, 96). La caduta e il rovesciamento dell’antico non sono più un punto d’arrivo, piuttosto una prospettiva, un inizio, un ap­ pello a tutte le migliori forze spirituali. «Qualcosa ancora verrà - la cosa più importante ancora verrà» promette l’au­ rora, rosseggiando e illuminandosi sempre più. Un anno dopo aver dato alle stampe Aurora, Nietzsche mi scrisse per la prima volta delle sue nuove speranze filosofiche e dei suoi nuovi progetti: « Dunque, mia carissima amica, Lei tiene sempre in serbo per me una buona parola e piacerLe mi dà una gran gioia. La spaventosa esistenza di rinunce che mi tocca condurre, e che è dura come una restrizione asceti­ ca della vita, conosce alcuni modi per consolarsi che me la rendono sempre più preziosa del non essere. Alcune grandi prospettive dell’orizzonte spirituale e morale sono le mie più possenti fonti vitali. Sono proprio contento che la nostra amicizia affondi le sue radici e le sue speranze proprio in questo terreno. Nessun altro può rallegrarsi così di cuore C13 7 ^ Per tutto quello che Lei ha fatto e ha in progetto di fa­ re! Il Suo fedele amico F.N. ».' Poco tempo dopo, nelle ultime righe di un’altra lettera, egli esclamava: «Anch’io adesso ho delle aurore intorno a me, e non quelle del libro! Ciò a cui non credevo più [...] mi sembra ora possibile —come l’aurora dorata sull’orizzonte di tutta la mia vita futura... ».2

[Si tratta di una lettera da Naumburg, scritta nel giugno 1882, ora in F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. ni, tomo 1, lettera n. 240 a Lou von Salomé ad Amburgo, Naumburg, presumibilmente 12 giugno 1882, p. 204.] [In realtà si tratta di una lettera da Naumburg del 7 giugno dello stesso anno, quindi di poco precedente quella appena citata da Andreas-Salomé: F.

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Questa atmosfera, che con la violenza della nostalgia evo­ ca un nuovo mondo spirituale, lontano, all’orizzonte, a offri­ re una compensazione per tutto quel che la critica e il dubbio hanno distrutto, risuona nel modo più limpido nelle parole fi­ nali di Aurora, quelle in cui Nietzsche tenta di intendere il suo modo di pensare critico e negatore come un segnale in di­ rezione di nuovi ideali: « Perché proprio in quella direzione, laggiù dove sono fino ad oggi tramontati tutti i soli dell’uma­ nità? Un giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua a oc­ cidente, anche noi speravamo di raggiungere un’India, ma che fu il nostro destino naufragare nell’infinito? Oppure, fratelli miei? Oppure?» (Aurora, Conclusione [575, «N oi, aerei na­ viganti dello spirito»]). Quando nel 1882 portò a termine la sua Gaia scienza, per Nietzsche la sua India era già diventata una certezza: credeva di essere approdato sulle coste di un mondo sconosciuto, an­ cora privo di nome, enorme, del quale non si sapeva nient al­ tro se non che doveva trovarsi al di là di tutto quel che il pen­ siero può contestare, di tutto quel che il pensiero può di­ struggere. Un mare ampio, apparentemente sconfinato, tra lui e ogni [138] possibilità di una nuova critica mediante concetti: al di là di ogni critica, egli pensava di aver raggiun­ to la terraferma. L’esultanza spavalda di questa certezza risuona nei versi che scrisse sull’esemplare di La gaia scienza che mi dedicò: Amira - disse Colombo - più non fidarti di alcun genovese! Nell’azzurro egli sempre si affisa, Troppo lo attrae ciò che è più lontano!

Chi lui ama, gli piace allettarlo Al di fuori dello spazio e del tempo Sopra a noi con stelle sfavillano, Attorno a noi freme l’eternità.

Ma rispetto alla totale novità di quel continente e al suo trovarsi al di là di ogni possibile critica, Nietzsche era caduto in inganno; si trattava dell’errore opposto a quello di ColomNietzsche, Briefwechsel, cit., voi. h i , tomo 1, lettera n. 237 a Lou von Salomé ad Amburgo, Naumburg, 7 giugno 1882, pp. 200-201, in cui tuttavia si parla della «possibilità dorata sull’orizzonte di tutta la mia vita futura...».] 1 [La dedica, che risale all’inizio del novembre 1882, è ora in F. Nietz­ sche, Briefwechsel, cit., voi. in, tomo 1, lettera n. 321 a Lou von Salomé a L i­ psia, Lipsia, inizio di novembre 1882, p. 271, trad. it. in F. Nietzsche, Opere, Milano 1964, voi. vi, tomo 4, pp. 7 4 -77-1

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bo che, cercando il Vecchio, trovò il Nuovo. Poiché Nietz­ sche, in effetti, dopo una circumnavigazione del globo, era approdato, senza accorgersene e giungendo dal lato oppo­ sto, proprio sulla costa di quel continente da cui era origina­ riamente salpato e che credeva di essersi lasciato alle spalle per sempre nel momento in cui si era allontanato dalla meta­ fìsica. Avremo modo di vedere come tutte le opere del suo ul­ timo periodo nascano da questo vecchio terreno, sebbene sulla loro crescita e sulle loro caratteristiche abbiano influito le esperienze degli ultimi anni. E indiscutibile che uno degli elementi che Nietzsche ap­ prezzò maggiormente nell’indirizzo di pensiero positivistico era rappresentato dallo spazio di tolleranza che esso, entro certi limiti, poteva offrire a tutti i suoi cambiamenti di umo­ re e alle oscillazioni del suo sentimento: per questo vi restò legato per un certo periodo. Non lo chiudeva in catene, co­ me aveva inevitabilmente fatto la metafisica, ma gli indicava solamente una direzione di marcia; non gli imponeva un si­ stema della conoscenza, ma gli metteva a disposizione, nella [139] sostanza, soltanto un nuovo metodo conoscitivo. Per questa ragione anche la sua emancipazione dal positivismo non fu così violenta e repentina come la sua svolta wagneria­ na; non fu uno spezzarsi di catene, ma un perdersi e un an­ dar fuori rotta —« E tutto il mio peregrinare e ascendere montagne: non era altro che una necessità e un ripiego per uno che non sapeva come aiutarsi: - la mia volontà tutta non vuole se non volare» (Così parlò Zarathustra, «Prima che il sole ascenda»). «H o imparato ad andare: da quel momento mi lascio correre» (Così parlò Zarathustra, «D el leggere e scrivere»). Ma anche questa trasformazione nietzscheana si verificò in modo così irresistibile e irrevocabile come la pre­ cedente. Prima o poi, infatti, egli si sarebbe dovuto spingere oltre una considerazione puramente empiristica delle sue problematiche, oltre la limitazione di principio all’ambito dell esperienza; data la sua forma mentis, non poteva rinun­ ciare per molto, in una forma o nell’altra, a una «filosofia delle cose ultime e supreme». In fondo non si trattava che di vedere lungo quale silenziosa via secondaria sarebbe tornato di soppiatto là dove abitano gli dèi e i superuomini. Nietzsche scrisse una volta a Rèe: «Ahimè, mio buon ami­ co carissimo [...] leggo, con mio sommo dispiacere, che Lei è malato. Che cosa sarà di noi, se ora, nei nostri “anni mi­ gliori”, appassiamo così miseramente [...]. Che il destino vo­ glia riservarci una bella vecchiaia perché forse il nostro mo-

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ito di pensare si attaglia a quell’età nel modo più naturale, come una pelle sana? Ma se almeno non dovessimo attende­ re tanto! Il pericolo sarebbe che perdessimo la pazienza». I'. Nietzsche la perse del tutto. «G ià la pelle mi si raggric­ cimi e si fende», canta infatti poco tempo dopo in un brutto verso12 di La gaia scienza, e [140] sotto la «pelle da vecchio» dello «spassionato uomo della conoscenza» si agita possente quell’impulso al ringiovanimento mosso dal quale Nietzsche, già al tramonto, scrisse un’apoteosi della vita, della vita eterna. 11 destino non ebbe bisogno di tenergli in serbo nessuna vecchiaia. Ma quale base della nuova dottrina che intendeva annun­ ciare, quale unico fondamento affidabile su cui questa potes­ se venire edificata, Nietzsche pensava ancora in quegli anni a una giustificazione scientifica. Proprio in questa fase di tran­ sizione lo vediamo colto dal più vivace desiderio di dedicarsi a quelle ricerche di ampio respiro a cui aveva dovuto rinun­ ciare per lunghi anni. Seguì, con instancabile interesse e par­ tecipazione, gli studi che Ree aveva intrapreso a partire dal 1878 per ampliare e consolidare i pensieri del suo primo libro di filosofia morale. Quando Rèe, nel 1881, comunicò a Nietz­ sche che sperava di portare a termine la sua opera ancora pri­ ma della fine dell’anno, ricevette questa risposta colma di gioia; « Questo stesso anno [...] deve anche dare alla luce l’o­ pera in cui io, nell’immagine del legame [Zusammenhang] e della catena dorata, posso dimenticare la mia povera, fram­ mentata filosofia ! Che magnifico anno il 1881 ! >>.3 Lo scritto in questione, La nascita della coscienza (Berlino 1885), fu tuttavia portato a termine da Rèe soltanto quattro anni più tardi, dopo che Nietzsche, frattanto, si era da tempo levato di dosso l’ultimo lembo del suo « spirito libero » e ave­ va già dato alle fiamme, con la consueta energia, la vecchia pelle. Ma a causa del vivo interesse con cui aveva preso parte agli studi di Rèe per quel libro, questo assunse un valore par­ ticolare per [141] la sua vita intellettuale. Egli non si basò tuttavia su La nascita della coscienza nello stesso modo in cui, precedentemente, in Umano, troppo umano, si era basato sull’ Origine dei sentimenti morali. La differenza tra 1 ultimo pe­ 1 [F. Nietzsche, Epistolario 1875-1879, cit., lettera n. 762 a Paul Ree, Basi­ lea, 20 ottobre 1878, pp. 317-318.] 2 [«Scherzo, malizia e vendetta», 8.] ’ [F. Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. in, tomo 1, lettera n. 144 a Paul Rèe a Stibbe, Sils-Maria, fine agosto 1881, p. 124.]

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riodo intellettuale di Nietzsche e quello positivistico che lo precede consiste nel fatto che nella sua ultima fase egli non si limitò più a esprimere il significato riposto di alcune teorie già esistenti, ma si consacrò all’audacissimo sviluppo di un suo proprio sistema, aspirando ad abbandonare lo stile afori­ stico e frammentario. Se l’atteggiamento da « spirito libero » lo aveva spinto a interiorizzare le proprie conoscenze nella grande profondità dell’esperienza e del sentimento, era la forza appassionata di quest’esperienza interiore che lo spin­ geva ora a sgravarsi in determinati pensieri e teorie; lo spin­ geva a realizzarsi in visioni del mondo nuove e conchiuse. Nell’estate del 1882 Nietzsche prese la decisione di dedi­ carsi per un certo numero di anni a quel genere di studi che gli sembrava indispensabile per la costruzione sistematica della sua «filosofia dell’avvenire», lo studio delle scienze na­ turali. A tal fine intendeva rinunciare alla sua vita al Sud, per poter seguire delle lezioni a Parigi, Vienna o Monaco. Qual­ siasi attività letteraria avrebbe dovuto interrompersi per die­ ci anni, finché il nuovo non fosse soltanto giunto a piena ma­ turazione in lui, ma avesse anche trovato il modo di fornire dimostrazione scientifica della sua esattezza. Qualche tempo dopo, anche Rèe avvertì il bisogno di con­ frontarsi con le scienze della natura, che fino a quel momen­ to erano rimaste estranee tanto a lui quanto a Nietzsche. Egli, tuttavia, non intendeva utilizzarle come materiale per la costruzione [142] delle sue ipotesi filosofiche, ma aveva inve­ ce il desiderio, dopo avere terminato il suo libro, di lasciar li­ beramente agire su di sé dei nuovi pensieri e di uscire com­ pletamente dal suo ristretto ambito specialistico. Si rivolse così alla medicina, tornò a studiarla, e sostenne l’esame di stato con l’idea di dedicarsi per un lungo periodo alla psi­ chiatria per poi fare ritorno, lungo questa via traversa, alle scienze umane. Dal punto di vista intellettuale i due amici non furono mai tanto lontani come allora, quando, in appa­ renza, sembravano ancora una volta tendere verso la stessa cosa: erano giunti ai poli opposti della loro indole e del loro spirito.1Ciò si esprime in modo significativo anche nel fatto che i dieci anni di silenzio che Nietzsche aveva in programma furono quelli della sua maggiore produttività, mentre Rèe non ha ancora oggi raggiunto il punto in cui la sua vecchia 1 Vedi nell’aforisma 279 di La gaia scienza, intitolato «Am icizia stellare», le belle parole con cui Nietzsche si accomiatò allora da questa comunanza spirituale.

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produzione e le sue nuove conoscenze riescono a fondersi in­ sieme e a spronarlo verso una nuova e più elevata attività. I,’emicrania impedì a Nietzsche di mettere in pratica le sue decisioni; l’inverno 1882, alle porte, lo trova già nella sua cella da eremita a Genova. Ma anche in migliori condizioni di salute, il progetto non sarebbe stato portato a termine. N ietzsche, infatti, non era più in quella situazione di attesa in cui lo spirito può accogliere stimoli esterni e accettare spon­ taneamente idee che lo turbano; era già stato troppo intensa­ mente sollecitato a produrre per potere ancora essere scon­ volto da qualcosa che avrebbe potuto porre un freno al suo impulso creativo. [143] Infatti, mentre per sprigionare le sue lorze creative aveva bisogno - sia pure tra sofferenze e vitto­ rie su se stesso - di un influsso fecondo proveniente dall’e­ sterno, e anche se nel momento in cui si consacrava a una nuova conoscenza rinunciava a se stesso nell’entusiasmo di un istinto di fusione, una volta che la «fecondazione» era avvenuta egli pareva rendersi inaccessibile e chiuso rispetto a ogni nuovo possibile influsso, tutto preso dalla sua condizio­ ne e da quel che la vita voleva ottenere da lui. E quando ri­ volgeva la sua attenzione verso l’esterno, era solo per fare spazio, quale che fosse il prezzo da pagare, alla vita che do­ veva nascere in lui, mai, invece, per esaminare ancora una volta e per mettere in questione la propria condizione esi­ stenziale. Il secondo rifiuto forzato, per motivi di salute, a studi scientifici di ampio respiro, lo condusse questa volta a un ri­ sultato opposto a quello dell’epoca della rottura con Wagner e del suo periodo positivistico. Allora, infatti, esso fu il moti­ vo per cui, invece di fondare nuove teorie, Nietzsche cercò di far fruttare per la propria interiorità quelle altrui di cui si era appropriato e di verificare i loro effetti sul suo animo. Ades­ so, invece, questa rinuncia lo spinge a volgere in certa misu­ ra in poesia le basi teoretiche di cui risulta sprovvisto. E pro­ prio in questo consiste uno dei tratti fondamentali dell’ulti­ ma filosofia nietzscheana: il bisogno di ampliarsi in modo si­ stematico, come se si trattasse di ricavare dai più svariati am­ biti del sapere la prova dell’esattezza del suo pensiero creati­ vo, rappresenta in realtà un tentativo violento di creare uno spazio per esso; un godere appieno della propria dimensione interiore con una sovranità tale da far sì che la sua immagine del mondo si trasformi involontariamente in una culla per la propria opera. A ciò corrisponde il fatto che, a partire da questo momen-

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to, tutte le sue teorie, per paradossali che possano sembrare, acquistano un carattere tanto più [144] personale, quanto più universale è il modo in cui paiono concepite, quanto più generale è il valore a cui esse aspirano. E il loro nucleo si na­ sconde però dietro a un tal numero di veli, e il segreto del lo­ ro significato ultimo dietro a un tal numero di maschere, da far sì che le dottrine che dovrebbero esprimerli risultino in ultimo quasi soltanto immagini e simboli di un’esperienza in­ teriore. Manca, infine, qualsiasi intenzione di accordarsi e di intendersi con altri: «Il mio giudizio è il mio giudizio: diffi­ cilmente anche un altro potrà vantare un diritto su di esso » (Al di là del bene e del male, 43) —e al contempo il suo giudi­ zio diviene, per decreto, legge universale,- un ordine per l’u­ manità intera. In conclusione, per Nietzsche, intima ispira­ zione e rivelazione al mondo esterno si fondono insieme al punto che egli ritiene che la sua vita interiore racchiuda l’in­ tero universo e crede che il suo spirito contenga in sé, in for­ ma mistica, la quintessenza di ciò che esiste e la metta al mondo: «Per me - come potrebbe esistere un al-di-fuori-dime? Non esiste un fuori! » (Così parlò Zarathustra, «Il con­ valescente»). A conferma del fatto che l’ultimo periodo di attività di Nietzsche consiste interamente nell’interpretazione filosofica della vita della sua anima, in una sua lettera egli definisce La gaia scienza - l’opera che inaugura questa fase - « il più per­ sonale tra i miei libri»1 e, in un’altra lettera, di poco prece­ dente alla pubblicazione di quest’opera, si lamenta: « Il ma­ noscritto risulta, come accade di rado, impubblicabile. Ciò discende dal principio del mìhi ipsi scribo \ ».2 In effetti Nietzsche non ha mai scritto così esclusivamente per se stesso come in questo periodo in cui si accingeva ad attribuire al proprio io l’intera sua concezione del mondo, a spiegare ogni cosa a partire da esso. Il momento mistico del­ le nuove dottrine nietzscheane [145] è già dunque presente, sebbene ancora nascosto nell’elemento puramente personale da cui origina. Questi aforismi rappresentano perciò dei mo­ nologhi - monologici come mai lo furono gli scritti di Nietz­ sche -, delle digressioni a mezza voce addirittura, spesso concepite come una muta pantomima di uno spirito che de­ ve occultare più che far vedere. Da essi, i pensieri della « filo1 [E Nietzsche, Briefwechsel, cit., voi. in, tomo 1, lettera n. 292 a Paul Rèe a Stibbe, Naumburg, fine agosto 1882, p. 247.] 2 [Ivi, lettera n. 235 a Paul Rèe a Stibbe, Naumburg, 29 maggio 1882, p. 199.]

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solia dell’avvenire» ci rivolgono già la parola, ma ci stanno ancora attorno come figure velate, il cui sguardo cupo ed enigmatico si posa su di noi, non perché, come in Aurora, esprimano soltanto dei presagi e siano ancora privi di tratti consolidati e di contorni sicuri, ma perché a bella posta gli è sialo messo un velo e raccomandata riservatezza. Nietzsche pare starci di fronte con il dito sulle labbra e proprio da ciò noi capiamo che desidera confessarci molto, che desidera con­ lessarci tutto. Ma gli è difficile parlare senza riserve, poiché anche in que­ sto caso è ancora una volta dolore quel che egli deve confes­ sare. E in un senso assai più profondo e doloroso di quanto non fosse fino a ora, anche questa volta la filosofia di Nietz­ sche ci dà accesso ai tormenti e ai supplizi della sua esperien­ za, ma in modo tale che persino i duri scontri e le rinunce del suo periodo positivistico ci paiono ora ingenui e innocui. Ciò può sembrare a prima vista contraddittorio, poiché l’ultima filosofia di Nietzsche nasce proprio dall’impulso a costruire, al posto di teorie positivistiche per cui ormai provava avver­ sione, una concezione del mondo che corrispondesse app ie­ no alle sue più intime aspirazioni. La sua ultima trasforma­ zione ha dunque inizio tra l’esultanza e la gioia. [146] Ma non si può dimenticare il fatto che questa forma estrema di rac­ coglimento in se stesso, questo tentativo di costruire una vi­ sione del mondo a propria immagine e somiglianza, porta in piena luce il dolore che Nietzsche provava per se stesso, la so­ stanza più profonda del suo essere. Nelle sue trasformazioni gnoseologiche egli aveva finora tentato di sottrarsi a questo dolore di se stesso, tiranneggiando e torturando una parte del proprio sé attraverso l’altra; in tutte le trasformazioni del­ l’uomo teoretico, tuttavia, l’uomo concreto era rimasto im­ mutato ed eternamente uguale a se stesso, con tutte le sue pe­ ne. Soltanto ora che Nietzsche non si costringe e non si mor­ tifica più, soltanto ora che dà piena voce al suo struggimento, si comprende appieno in quale tormento egli vivesse, si av­ verte finalmente il grido di liberazione da se stesso, per una natura opposta alla sua, per una metamorfosi completa e de­ finitiva, per un cambiamento non delle singole conoscenze, ma di tutto l’uomo e della sua interiorità. Si può pienamente vedere come egli tendesse la mano, disperato, al di fuori di sé, verso l’esterno, verso un ideale che potesse salvarlo e che cer­ cava muovendo dall’antitesi di se stesso. Si poteva dunque prevedere che non appena Nietzsche avesse liberamente tra­ sformato il contenuto della sua anima nel contenuto del mon-

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do, che non appena avesse ricavato le leggi del mondo dalla sua esperienza più intima, la sua filosofia avrebbe tratteggia­ to una visione tragica del mondo: egli doveva infatti concepi­ re il genere umano come una specie ibrida, sofferente di se stessa, dall’evoluzione disperatamente patologica, la cui esi­ stenza non trova alcuna giustificazione in sé, ma in una spe­ cie assolutamente diversa, superiore di superuomini verso cui poteva costituire soltanto un ponte. La meta finale dell’uma­ nità era dunque il tramonto e il sacrificio in nome di questo ideale a essa antitetico. [147] Soltanto all’inizio dell’ultima filosofia nietzscheana si mostra dunque con assoluta chiarezza fino a qual punto l’impulso fondamentale che domina la sua natura e la sua co­ noscenza sia quello religioso. Le diverse filosofie sono per Nietzsche altrettanti surrogati di Dio che lo devono aiutare a poter fare a meno di un ideale mistico di Dio al di fuori di se stesso. Le sue ultime dottrine confessano che non vi riuscì. E proprio per questo motivo nelle sue ultime opere noi ci im­ battiamo ancora una volta in una lotta tanto appassionata contro la religione, la fede in Dio e il bisogno di salvezza: per­ ché egli era così pericolosamente vicino a tutto questo. Nelle sue parole trova espressione un astio per l’angoscia e l’amore con cui vorrebbe convincersi della sua forza divina, non fa­ cendo parola della sua miseria umana. Scorgiamo allora at­ traverso quale autoillusione e quale astuzia segreta Nietzsche riesca a risolvere il tragico conflitto della sua vita, - il conflit­ to di avere bisogno di Dio e, tuttavia, di doverlo negare. Mo­ dellando cioè dapprima, con fantasia ebbra di struggimento, sognando estasiato come in una visione, il mistico ideale del superuomo per poi, al fine di salvarsi da se stesso, tentare con un balzo mostruoso di identificarvisi. Egli finisce così per di­ ventare una figura doppia, per metà uomo malato e sofferen­ te, per metà superuomo redento e sorridente. L’uno lo è co­ me creatura, l’altro come creatore, l’uno come realtà, l’altro come una realtà superiore misticamente concepita. Sovente però, ascoltando i suoi discorsi, si avverte con orrore che egli ha elevato a oggetto di culto qualcosa che in verità non esiste nemmeno per lui, e si riflette sulla sua frase: « ...E chissà che fino a oggi in tutti i grandi avvenimenti non si sia verificata appunto la stessa cosa: che la moltitudine [148] abbia adora­ to un dio - e che il “dio” sia soltanto una povera vittima sa­ crificale! » (Al di là del bene e del male, 269). « Dio come vittima sacrificale » è davvero un titolo che po­ trebbe essere apposto sull’ultima filosofia di Nietzsche, rive-

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limilo nel modo più palese l’intima contraddizione che essa ioni iene, quell’esaltazione di gioia e dolore che confluiscono l'ima nell’altra senza distinguersi. Abbiamo avuto modo di osservare in precedenza come Nietzsche avesse compiuto la sua ultima trasformazione muovendo da uno stato d’animo

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    In alto: la macchina per scrivere di Nietzsche. In basso: una pagina dattiloscritta datata 17 febbraio 1882.

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    La copia di Nietzsche del libretto del Parsifal di Richard Wagner, che muore a Venezia il 13 febbraio 1883,

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    Manoscritto del Crepuscolo degli idoli, del 1888.

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