È questo l'Islam che fa paura [PDF]

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Zitiervorschau

TAHAR BEN JELLOUN

È QUESTO

L’ISLAM CHE FA

PAURA

È QUESTO L’ISLAM CHE FA PAURA

Tahar Ben Jelloun È QUESTO L’ISLAM CHE FA PAURA Traduzione di Anna Maria Lorusso

BOMPIANI

© 2015 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli, 8 – 20132 Milano ISBN 978-88-58-77019-1 Prima edizione digitale 2015 da prima edizione Bompiani febbraio 2015

PREFAZIONE Solitudine dell’intellettuale di cultura musulmana che si trova a dover scegliere fra la sua libertà di coscienza di cui gode in Francia, e l’appartenenza alla Umma islamica che non gli permette di esercitare la sua libertà

Tutto ciò che riguarda l’islam è ormai tragico. L’islam è dunque così vulnerabile? La minima divergenza può far venir fuori folle di fanatici, isterici, che bruciano bandiere ed effigi dei capi di Stato europei! Verrebbe da dire: “Calmatevi!, è solo un disegno! E il profeta non sta in questa caricatura, perché il profeta è uno Spirito, superiore, impossibile da percepire coi sensi, impossibile da rappresentare in tutta la sua bellezza e il suo umorismo. Non riducete il profeta a questo livello!” Ma questo discorso non è fattibile. La Umma si impone a tutti i musulmani, i

buoni e i cattivi. Non ci si può sottrarre. Si nasce musulmani, si muore musulmani. Lasciare l’islam è una rottura che costa cara. Alla fine del percorso c’è l’apostasia. Anche se sulla Terra non è prevista punizione, gli Stati musulmani non fanno altro che pronunciare condanne a morte, o indegnità civica. Del resto la caratteristica dei folli è di essere sordi e ciechi. Un giorno alla fine di una conferenza all’università di Fès, uno studente si alzò e mi fece questa domanda: “Lei crede in Dio?” Mi presi un momento di silenzio e risposi: “È una domanda indiscreta; non sono tenuto a risponderle.” Si sollevò un vocio agitato nell’anfiteatro. Capii che mi trovavo davanti a un tribunale estemporaneo. Parlai del principio di libertà di coscienza, del diritto di vivere in privato la

propria fede o mancanza di fede, la libertà di scegliere la propria vita e la propria solitudine. Fatica sprecata. Questo discorso andava a battere contro numerosi muri, e resistenti. Inascoltabile. Inaccettabile. Qualcuno urlò: “Sei ateo e non osi confessarlo.” “Non mi incastrerete in questa trappola. Rivendico la mia libertà di tenere per me la mia vita religiosa e non condividerla.” Urla e fischi nella sala. Era fatta... Il preside mi fece uscire da una porta secondaria e mi fece lasciare Fès, la mia città natale, la sera stessa. Questo incidente risale a parecchio tempo fa. La considero la prima manifestazione di intolleranza religiosa del Marocco. Era il 1977! Da allora non ho mai smesso di riflettere sull’islam, di interrogarlo, di leggere i suoi testi e i suoi commenti. Tanto sono

emozionato e colpito dalla bellezza del testo coranico, quanto tremo di paura leggendo certi versetti a proposito delle punizioni riservate ai non credenti, a coloro che dubitano e che sono politeisti. È stato mio padre a liberarmi da queste paure: si preoccupava che non praticassi in modo costante questo islam onnipresente. Mi disse: “Non devi rendere conto a nessuno su questa Terra. Sei responsabile dei tuoi atti davanti a Dio. Se fai dal male, ti ritroverai il male; se fai del bene, ti ritroverai il bene. L’importante è avere dignità, essere onesti, giusti, rispettare la parola data, rispettare i genitori, gli insegnanti, essere retti, solidali, fraterni. Sul resto, vedrai. Dio è molto grande nella sua misericordia.” Nonostante tutto, in questi ultimi trent’anni, l’islam è diventato uno degli attori più importanti della vita politica e sociale della Francia e anche dell’Europa.

Ho scoperto con la laicità un campo di libertà che non esiste in nessun paese musulmano (neanche in Turchia, paese laico in teoria ma che lo è nei fatti sempre meno). Questo valore è un segno di civiltà. La separazione tra Stato e Chiesa, tra Stato e Sinagoga, tra Stato e Moschea non è negativa. Al contrario, è un segno di rispetto verso tutte le religioni. Ma l’islam fa fatica ad accettare la laicità. Certi musulmani l’accettano, altri non capiscono il senso di questa separazione. La laicità implica la libertà di espressione. A partire da questo postulato, non c’è limite a questa parola. Che la cosa ci piaccia o meno, dobbiamo ammettere che coloro che si esprimono a parole, con disegni, caricature, poesie, sono persone libere, assolutamente libere. È difficile far accettare questo postulato: la libertà di espressione è totale. I milioni di immigrati che lavorano in Europa non sono abituati a vedere e a sentire dei

blasfemi. Non fa parte della loro cultura. I cristiani o gli ebrei, invece, se incontrano un blasfemo, non ci fanno caso. È a partire dal momento in cui (30 settembre 2005) il quotidiano danese Jyllands-Posten ha chiesto a una decina di disegnatori di fare dei disegni del profeta dei musulmani, delle caricature il cui obiettivo fosse non solo provocare reazioni violente ma anche affermare il carattere fondamentale di questa libertà cui tengono i popoli europei, che la popolazione musulmana, nella sua maggioranza ha scoperto a sue spese i danni della libertà di espressione. I disegni rappresentavano Maometto in un modo indecente, orribile. Per il mondo musulmano erano degli insulti, un attentato alla dignità di una persona sacra. Inammissibili. Difficile per un europeo immaginare cosa questa iniziativa avrebbe provocato, come sua reazione, nel mondo musulmano. Molte manifestazioni, molta violenza, molta incomprensione.

È allora che la mia solitudine mi si è rivelata: non mi riconoscevo in queste persone isteriche; non approvavo la pubblicazione di quelle caricature pur riconoscendo ai loro autori il diritto di farle e di renderle pubbliche. Per me tutto ciò avrebbe dovuto essere trattato con indifferenza. Ripeto che il profeta Maometto non sta in questi disegni: è uno spirito, quello di un uomo semplice diventato un uomo eccezionale. Il profeta sfugge a questi disegni. Resta l’idea che uno se ne fa. In questo ognuno è libero di immaginarsi quello che vuole. Non si può inventare una polizia all’entrata dell’immaginazione di ogni disegnatore o cronista. Con la tragedia del 7 gennaio 2015 seguita da quella del 9 gennaio, non si può più tacere o accontentarsi di dire: “Non è questo l’islam.” Certo, siamo tutti d’accordo. Ma da dove deriva questo islam che fa paura, che minaccia, uccide, sgoz-

za e semina il terrore? Tale barbarie macchia l’islam. È così. Ma la domanda che mi consuma è: come si è potuto versare tutto quell’odio e quella bestialità nella testa di quei tre individui riuscendo a far credere loro che questo è l’islam? È perché ci sono nella storia di questa religione dei momenti in cui il profeta ha fatto la guerra, dei momenti e un contesto preciso in cui la jihad, prima difensiva, è diventata jihad di conquista. Nella sura IV, “Le donne”, versetto 74, è scritto: “A colui che combatte nella strada di Dio, che sia ucciso o vittorioso, noi riserviamo una ricompensa immensa.” Questo versetto, interpretato in modo letterale, con una certa solennità, potrebbe convincere coloro che esitano a impegnarsi sulla strada della guerra. Una guerra per cosa, per chi? Mistero.

PERCHÉ QUESTO ISLAM FA PAURA?

“Papà, ti faccio una domanda che ti farà innervosire, immagino che in molti te la facciano in questi giorni: dimmi, dobbiamo avere paura dell’islam? E perché sempre più persone qui in Europa hanno paura dell’islam?” “Prima di tutto, di quale islam parli?” “Perché? Ne esistono diversi?” “No, ma esistono molte interpretazioni diverse dei testi che fondano questa religione, l’ultima rivelata. Come sai, l’islam è una religione monoteista – un solo Dio, chiamato Allah – che si è ispirata alle altre due religioni monoteiste, il giudaismo

e il cristianesimo. Come ogni religione, anche l’islam non ha mai smesso di avere e di subire gli effetti di interpretazioni divergenti e anche contraddittorie. Dunque c’è l’islam e poi ci sono coloro che lo tirano verso il polo della violenza perché la loro lettura non ha colto le sfumature e le basi del pensiero islamico. Gli fanno dire quello che non dice.” “Ma la gente non fa distinzioni fra le varie interpretazioni dei testi. La gente ha paura dell’islam perché vede che certe persone uccidono, massacrano e sgozzano musulmani e non musulmani che chiamano miscredenti in nome dell’islam. È naturale che si abbia paura e che si provi rabbia.” “Non si può ridurre l’islam a queste immagini orribili in cui dei criminali commettono i peggiori crimini in nome della religione di Maometto. Tu hai ragione a essere arrabbiata. Ma sappi una cosa: da circa trent’anni le prime vittime di questo islamismo violento sono gli stessi musulmani.”

“Ma cosa sta succedendo nel mondo? Siamo in guerra?” “In un certo senso questa è una guerra, ma di tipo nuovo. Gli avversari non sono a viso scoperto. E questa guerra si fa anche attraverso internet e i social network.” “Ma perché i capi musulmani non si sollevano e condannano questi assassini?” “Perché nell’islam sunnita non ci sono gerarchie, non ci sono sacerdoti, né vescovi, né papi. Il credente è responsabile direttamente davanti a Dio. Dunque non c’è nessuno che possa parlare a nome di tutti i musulmani. Gli sciiti, l’altro ramo dell’islam, hanno instaurato una gerarchia; hanno dei mullah, degli ayatollah, dei muftì ecc. Detto questo, dopo gli attentati del 7 gennaio 2015, la maggior parte dei musulmani è sconvolta e non ammette che si facciano massacri nel nome dell’islam.” C’è disagio nella società musulmana, perché ogni volta che un attentato viene commesso nel nome dell’islam, i credenti si sento-

no male, non ne sono per niente contenti e sanno che la loro reputazione ne risentirà. Alcuni ulema, cioè teologi, persone che hanno studiato in profondità i testi, come il rettore dell’università di al-Azhar al Cairo, hanno condannato gli attentati del 7 e del 9 gennaio. Ma la loro autorità non equivale a quella del papa.” “Immagino che dopo gli attentati del 7 gennaio 2015 contro la redazione del giornale Charlie Hebdo e contro un supermercato kosher di Parigi, i musulmani francesi si siano sentiti a disagio…” “Certo, questa barbarie ci ha tutti scioccati, abbiamo pianto perché erano dei semplici giornalisti, dei disegnatori, dei poeti, dei vignettisti, non avevano odio, né pregiudizi. Il loro lavoro era prendere in giro tutto e tutti. Purtroppo ci sono state persone che sono state soddisfatte di questi massacri che hanno fatto diciassette vittime. Non sono state numerose, ma ci sono state. Così, mentre tutta la Francia ha osservato un minu-

to di silenzio all’indomani degli attentati, ci sono state settanta scuole e istituti in cui degli studenti si sono rifiutati di rendere omaggio ai morti innocenti. È un numero insignificante, certo, perché le scuole francesi sono sessantaquattromila e lì tutto è andato come doveva andare, ma è preoccupante.” “Come può essere che tutta la Francia sia sconvolta (non si è mai vista una tale unanimità) e che dei giovani nelle periferie dicessero ‘Io non sono Charlie, se la sono cercata, non dovevano permettersi di toccare il nostro profeta’?” “Sì, la stampa ha riferito che alcuni provavano ‘ammirazione e anche fascinazione’ per gli assassini della redazione di Charlie. Lo slogan che ha avuto molto successo anche in America ‘Io sono Charlie’ è diventato per alcuni ‘Io non sono Charlie, sono Kouachi et Coulibaly’ [gli assassini]. Jean-Marie le Pen, presidente onorario del Front National, ha dichiarato: ‘Io non sono Charlie’.

Un insegnante, Jamel Guenaoui, portavoce di un ‘collettivo democratico dei colori della diversità’ ha detto al giornalista del Figaro (il 14 gennaio 2015): ‘Non hanno nulla da fare. Hanno un odio incredibile dentro se stessi. Bisogna farli uscire da quell’ambiente perché inizino ad accettare gli altri e di conseguenza se stessi. Sono disorientati, pronti a seguire il primo eroe o il primo tribuno…’ Il fatto che dei disegnatori avessero fatto delle caricature del profeta Maometto ha dato loro l’occasione di protestare e di rivendicare la propria identità musulmana. È per questo che non smetto di sollecitare nella società un lavoro in profondità. Queste persone sono state talmente marginalizzate, dimenticate, isolate che hanno dato vita a un gruppo chiuso, con le sue proprie leggi e le sue regole. La polizia non entra in certi quartieri. Pensa che sia troppo pericoloso e soprattutto che non servirebbe a niente.”

“Cosa sanno queste persone dell’islam?” “Niente o quasi niente. Pezzi di versetti o slogan, per giustificare il proprio odio. Ma nell’estate del 2014, quando l’esercito israeliano bombardava in continuazione Gaza, quando abbiamo sentito Hollande e Valls sostenere senza riserve Israele, il loro odio sarà diventato ancor più feroce. In questi giorni ci sono stati degli studenti delle superiori nelle periferie che hanno detto ‘perché osservare un minuto di silenzio per gli ebrei ammazzati quando quest’estate nessuno ha fatto un minuto di silenzio per i palestinesi’? Questo problema esiste e nutre la distanza che questi ragazzi sentono fra sé e lo Stato. Alcuni sono solidali con la causa palestinese come i cittadini ebrei sono solidali con quella di Israele. Secondo le stime dell’ONU, durante questa guerra sono morti 2104 palestinesi, di cui quindici bambini. Israele ha perso settantuno persone.

Sì, hanno un sentimento forte di ingiustizia perché vedono che le vittime palestinesi non vengono trattate con la stessa compassione che si riserva ai soldati israeliani. Due pesi, due misure. Questo conflitto e il modo in cui i politici e i media lo trattano gioca un ruolo importante nella rottura fra questi giovani e il resto della società francese.” “Ti rifaccio la mia domanda: dobbiamo avere paura dell’islam? Siamo in guerra?” “Direi che dobbiamo avere paura di coloro che si servono di questa religione per governare e per dominare gli altri; sì, i jihadisti ci fanno paura, anche se tutti sanno che non sono dei rappresentanti dell’islam reale. Sono loro che ci fanno la guerra, una guerra di tipo nuovo, il nemico esiste, minaccia, semina il terrore, ma non ha volto, non ha un luogo preciso, è ovunque. È difficile da combattere.” “Dunque, c’è di che aver paura… Gli

italiani, i francesi, gli europei insomma hanno ragione ad avere paura dell’islam e di certi musulmani. Mi riferisco all’islam reale, dove in effetti la donna non gode degli stessi diritti dell’uomo; esiste la possibilità della poligamia, del ripudio, e anche della lapidazione come succede in Arabia Saudita, in Pakistan o in Iran. Quando la donna eredita, eredita solo la metà rispetto a un maschio ecc.” “Su questo ti chiedo di leggere il mio altro libro, L’islam spiegato ai nostri figli. Lì spiego questi aspetti, anche se non li approvo. Se gli europei guardano alla condizione della donna, restano sconvolti, oppure se guardano a quando si applica la sharia con rigore, come per esempio nel tagliare la mano a chi ha rubato, o lapidare una donna ritenuta colpevole di adulterio o nel tagliare la testa di un condannato per un delitto comune, l’islam ci fa paura e ne prendiamo le distanze.” “Quindi capisci il fatto che non vedano

di buon grado che l’islam si diffonda nelle loro città? È quello che dice la Lega Nord: bisogna aver paura e fare di tutto per non far entrare i musulmani in Italia... In Francia un giornalista ha perfino parlato di ‘deportazione’!” “La Lega Nord in Italia come il Front National in Francia o il Partito nazionaldemocratico di Germania (NPD), o il Partito della Libertà austriaco (FPÖ) o Interesse fiammingo (Vlaams Belang) in Belgio, o il partito neonazista Alba dorata in Grecia, sono dei partiti di estrema destra il cui punto fondamentale è la lotta contro l’immigrazione soprattutto quando è musulmana. Generano paura nelle persone senza spiegare perché gli immigrati sono lì. Che siano o meno musulmani. Hanno capito che generando paura negli elettori, questi voteranno per loro. In qualche modo, grazie alla paura dell’islam vincono le elezioni. D’altra parte, capisco che le persone mal informate abbiano paura,

soprattutto se la loro sicurezza non è ben garantita da coloro che dovrebbero invece occuparsene. È più facile suscitare paura e provocazione che rassicurare le persone. È stato sufficiente un attentato il 19 marzo 2012 commesso da un giovane francese di origine immigrata, Mohamed Merah, per gettare il sospetto su tutti i musulmani di Francia (Merah ha ucciso tre militari a Montauban e quattro ebrei di cui tre bambini a Tolosa). Oggi con i tre terroristi che si rifanno all’islam e uccidono diciassette persone in piena Parigi, diventa molto difficile salvare l’immagine dell’islam. È semplice dire che è una forzatura, che si ignora cos’è il vero islam; le persone per la maggior parte generalizzano e condannano l’islam nel suo insieme. È un dato di fatto.” “È stato così per l’attacco a Charlie Hebdo!” “Sì, da quando questo settimanale di satira ha pubblicato nel 2006 le caricature

del profeta Maometto, la redazione è stata minacciata; nel 2010 le hanno incendiato i locali; il 7 gennaio 2015 sono stati uccisi tutti membri della redazione. Gli assassini hanno detto: ‘Abbiamo vendicato il profeta.’ Ma il profeta, o meglio: il suo spirito, non ha chiesto loro nulla. Per queste persone e per i capi che li dirigono e li manipolano, quei disegnatori hanno commesso il crimine supremo, quello della blasfemia, hanno fatto la caricatura del profeta, lo hanno ridicolizzato. Ecco perché questi due assassini sono stati mandati a perpetrare il massacro.” “Parli delle caricature pubblicate nel giornale danese?” “Sì, sono state riprodotte in Charlie Hebdo, che in più ha pubblicato altri disegni con la caricatura del profeta.” “E per questo hanno ucciso dodici persone…” “In realtà non volevano solo uccidere Cabu, Wolinski, Charb, e tutti gli altri, ma

volevano anche seminare il terrore e colpire la libertà di invenzione, scrittura, disegno, canto, la possibilità di essere ironici, critici, satirici ecc. Tanto sangue versato a causa dell’umorismo! Ma nessuna religione ama l’umorismo e il riso. Da qui a uccidere, certo… è orribile. “Insomma io, in quanto ragazza di cultura musulmana, non posso ridere o ironizzare sulla religione?” “Sì, puoi farlo ma non in un paese musulmano. In Europa hai il diritto di esprimerti quando vuoi e nei modi che vuoi. Puoi scrivere, disegnare, dipingere, cantare… nessuno ha il diritto di vietare questa libertà. E però dei fanatici possono crearti dei problemi. In Francia esiste una libertà fondamentale, la libertà d’espressione. Questa viene da lontano, da Voltaire, da Rabelais, da Zola ecc. È una tradizione che caratterizza questo paese. Da sempre ha avuto giornali satirici che hanno scherzato sulla religione. Charlie Hebdo ha fatto

centinaia di copertine col papa ridicolizzato, maltrattato, insultato, ma è la libertà.” “Ma perché pubblicare dei disegni che ridicolizzano il profeta di più di un miliardo di credenti? Non è una provocazione per insultare e umiliare i musulmani?” “È una provocazione di pessimo gusto; capisco i credenti che si sono sentiti insultati, perché la cosa riguardava un santo. Ma viviamo in un paese in cui la blasfemia è sempre esistita.” “La Francia è un paese laico.” “Sì, ma per quei fanatici la laicità è una forma di ateismo. Non sanno cosa rappresenta. Per loro chi commette una blasfemia diventa un apostata, ovvero qualcuno che viene estromesso dalla comunità musulmana. Versare il suo sangue diventa lecito, o meglio: il suo sangue deve essere versato. Sono queste le parole utilizzate dall’ayatollah Khomeyni quando ha lanciato una fatwa per assassinare lo scrittore inglese di origine indiana e musulmana Salman

Rushdie, l’autore dei Versetti satanici. Era il 1988. Questa condanna non è mai stata cancellata. Rushdie è sempre minacciato, anche se oggi ormai vive normalmente. Uccidere per un romanzo! Terribile!” “Quindi l’islam è violento!” “È uno degli aspetti di questa religione. Secondo il Corano, Dio provvede ai musulmani che perdono la retta via. Ma in casi come questi non è Dio a punire i romanzieri; è un vecchio, che non può accettare la libertà di creare, di immaginare, di inventare. Rushdie racconta solo una storia, non ha scritto un saggio per colpire l’islam. Ma questa fatwa ha incoraggiato altri a uccidere, in particolare uno dei traduttori di Rushdie è stato pugnalato.” “È terribile. Torniamo ai fratelli Kouachi. Sono dei francesi, nati in Francia da genitori immigrati. Perché si sono comportati in modo così barbaro? Come si arriva a questo estremismo sanguinario? Come si diventa assassini senza pietà?”

“Effettivamente sono francesi ma si sentivano veramente francesi? Sono persone che sono state lasciate presto a se stesse, senza scolarizzazione, senza un percorso formativo; delinquenti che sono stati in prigione, che ne sono usciti, la testa vuota o anzi, piena di confusione. Sono state prede ideali per il reclutatore che lavorava per la jihad. Erano stati in contatto con un certo Farid Benyettou, un maestro, con un carisma che doveva averli impressionati. Quest’uomo aveva saputo indottrinarli, aveva saputo trovare le parole giuste per parlare loro. Poi forse anche altri si sono incaricati di fargli il lavaggio del cervello e riempirglielo di slogan islamisti. Quest’uomo aveva fatto sei anni di prigione, era stato condannato per ‘associazione a delinquere in una rete terrorista’. Nel 2008, il tribunale di Parigi lo aveva considerato il capo di una cosca chiamata delle ButtesChaumont, che reclutava giovani per andare a combattere in Iraq. I fratelli Kou-

achi erano stati preparati da lui, poi sono stati presi in carico da altri individui che li hanno armati e addestrati per fare attentati in Francia. Oggi sappiamo che questi crimini sono stati rivendicati da Al Qaeda, che ha base in Yemen.” “I fratelli Kouachi e Coulibaly, il ragazzo che ha ucciso la donna della polizia e i quattro ebrei che si trovavano nel supermercato kosher, sono dei musulmani?” “Per la schiacciante maggioranza dei musulmani, sono degli ignoranti e dei criminali che si servono dell’islam come copertura per realizzare i propri programmi. Non c’è nulla di peggio dell’ignoranza accresciuta dall’arroganza. Va detto però che, anche se si dimostra in tutti i modi che sono dei cattivi musulmani, per la maggior parte della gente è questo il volto orribile dell’islam che resta impresso. Ci vorrà molto lavoro da parte dei media, molta pedagogia nelle scuole per cancellare questa immagine.”

“Sì, ma loro sono andati alla redazione proprio per punire con la morte coloro che avevano osato pubblicare delle caricature di Maometto. Per loro, è chiaro, il profeta è stato insultato e dunque lo vendicano.” “Quei disegni non andavano presi sul serio perché per me, per ogni vero musulmano, del profeta non si possono fare caricature, è uno spirito, uno spirito superiore, non rappresentabile da una matita. Bisognava reagire a questa cosa con indifferenza. Sinceramente, quando vedi questi disegni, ti fanno pensare a un profeta? Inoltre, non bisogna dimenticare che la Francia è un paese in cui la libertà di coscienza così come la libertà di espressione orale e scritta sono sacri. La censura non esiste più. Se sei francese, devi accettare questa legge. Se sei francese e musulmano, devi rispettare la legge dello Stato. Essere cittadini significa questo. Ora, i Kouachi e il loro amico Coulibaly hanno agito come esecutori di

un islam costruito dalla centrale del terrorismo internazionale di Al Qaeda.” “A me, in quanto francese di cultura musulmana, tutto ciò spaventa: in Francia non si possono uccidere delle persone che sono state blasfeme. Siamo in un paese democratico e laico. Si ha il diritto di criticare la religione.” “Sì, la Francia si è battuta per decenni per arrivare nel 1905 a stabilire la laicità nel paese, vale a dire la separazione fra Chiesa e Stato. Ovviamente i religiosi non erano contenti. Ma la ragione ha avuto la meglio sulla fede. La laicità non consiste nell’odio per le religioni, al contrario: vanno rispettate tutte le religioni e tutte le credenze, ma queste devono restare nella sfera privata, non devono invadere la sfera pubblica, che è di competenza dello Stato. Esiste il diritto alla libertà di coscienza, cioè ogni cittadino ha il diritto di credere in Dio o di non credere. Può anche scherzare sulla religione. Non andrà in prigione per questo.

Esiste poi la libertà di espressione. Questa libertà è sacra. Questo aspetto della società francese è rifiutato da una parte dei musulmani francesi. Forse è anche a causa di questo che alcuni non si integrano o restano al di fuori dell’identità francese. Per tornare alla questione delle caricature, Le Figaro del 15 gennaio 2015 ha pubblicato un reportage dal Cairo che riferisce della collera della gente, fra cui Ashraf Adly, un professore di teologia all’università al-Azhar che parlando del numero di Charlie Hebdo pubblicato dopo la morte della sua redazione dice: ‘Cercano davvero noie quelli lì! Deploro l’attentato di cui sono stati vittime. Ma per noi Maometto è sacro. Non va toccato. Allora che non si lamentino se si beccano delle altre pallottole.’ Un altro aggiunge: ‘Più disegni insultanti ci saranno, più ci saranno reazioni estremiste.’ A Gerusalemme il gran muftì Mohammad Hussein ha anche lui denunciato questo ‘insulto’ che ha ‘ferito i senti-

menti di quasi due miliardi di musulmani nel mondo’.” “Capisco. Immagino che nessun paese arabo o musulmano sia laico.” “Solo la Turchia ufficialmente è laica, dall’arrivo al potere di Mustafa Kemal Atatürk nel 1924. Ma la Turchia attuale, quella governata da Erdogan, è più incline all’islamismo. A parte questo caso, nessun paese della sfera musulmana, dal Maghreb passando per l’Africa e l’Asia fino al Vicino Oriente, è laico. Il dibattito, il semplice dibattito sulla laicità, è impossibile. Ogni tanto ci sono degli intellettuali in Egitto, Marocco e in Tunisia che pongono il problema, ma restano minoritari. Niente laicità significa niente critica, niente dubbi, niente contestazioni. L’islam è sacro. Non lo si deve toccare. Questo vuol dire anche che i musulmani si sentono vulnerabili. È successa la stessa cosa ai cattolici quando la società civile nel XIX secolo ha iniziato a reclamare la separazione della Chie-

sa dallo Stato. I religiosi si sono battuti, la Chiesa ha protestato, ma la legge ha finito per essere approvata nel dicembre 1905. Da allora la religione non è più intoccabile, lo Stato non deve più finanziare delle scuole religiose, non ha il diritto di interferire con questa o un’altra religione.” “L’altro giorno mi hai detto che la Tunisia ha osato votare una costituzione straordinaria…” “Sì, dopo la rivoluzione, malgrado la presenza islamista del movimento al-Nahda, il parlamento ha votato per una costituzione rivoluzionaria, unica nel mondo arabo e musulmano, perché vi si accorda la ‘libertà di coscienza’ e l’uguaglianza di diritto dell’uomo e della donna. È un fatto unico. Bisogna dire che questo è stato possibile perché il vecchio presidente Habib Bourghiba (1903-2000) aveva facilitato le cose e aveva imposto un diritto di famiglia che riconosceva gli stessi diritti all’uomo e alla donna. In Tunisia c’è una tradizio-

ne di lotta per l’uguaglianza. È Bourghiba che ha liberato la donna tunisina. Alcuni fondamentalisti hanno cercato di cambiare il diritto di famiglia, ma per fortuna non ci sono riusciti; hanno però ucciso delle persone che non erano d’accordo col loro programma.” “Perché gli altri paesi non hanno seguito l’esempio tunisino?” “Perché hanno paura del loro popolo. La modernità è difficile da far entrare nelle mentalità e nei comportamenti. La modernità si misura dal posto della donna nel sistema sociale. La modernità è il riconoscimento dell’individuo, mentre nelle società arabo-musulmane sono il clan, la famiglia, la tribù che hanno priorità, non l’individuo. Da qui la mancanza di progresso sociale, da qui l’attaccamento all’islam in quanto elemento comune a tutte le classi sociali. Se alcuni si allontanano dall’islam pubblicamente, si sentiranno come perduti. L’islam gioca un ruolo consolatorio.

Questo aspetto va colto. In ogni modo, la laicità non è la cancellazione della religione, ma il fatto che essa resti nei cuori e nei luoghi di culto. La religione non deve occuparsi di politica, non è un’ideologia, è una spiritualità di cui l’uomo ha bisogno per rispondere alle sue angosce. Bisogna rispettare questo bisogno, quale che sia la propria posizione rispetto alla fede.” “Dopo la strage del 7 e del 9 gennaio, ci sono state reazioni da parte dei musulmani non fanatici?” “Sì, l’11 gennaio 2015 un gruppo di sessantasette intellettuali, artisti, scrittori, universitari del mondo musulmano ha pubblicato un appello per dire che ‘sono indispensabili delle riforme nel mondo musulmano per fare opposizione a questa guerra (quella dei jihadisti). La cittadinanza, l’eguaglianza, la libertà di coscienza, lo Stato di diritto e tutti i diritti umani sono degli antidoti indispensabili. […] La risposta a questa guerra consiste nel rico-

noscere a nell’affermare la storicità e l’inapplicabilità di un certo numero di testi che la tradizione presenta e trarne le conclusioni […] Questi combattenti sono nutriti da testi islamici che esortano alla violenza, che hanno a che fare con il contesto di un’altra epoca, oggi sorpassata. Tutti i soggetti coinvolti, a iniziare dai religiosi e dalle autorità di ogni paese, devono dichiararli inadatti, sorpassati e inapplicabili. Questa posizione deve essere l’inizio di una autentica riforma del campo religioso di ogni paese, che deve andare anche al di là del campo religioso, una uniformazione delle legislazioni […] tutti i discorsi o le organizzazioni che vogliono incoraggiare o promuovere queste radicalizzazioni, l’odio, il razzismo, devono essere criminalizzati. I programmi scolastici e i discorsi dei media, così come le prediche delle moschee, devono essere conformi agli ideali universali di libertà di coscienza e ai diritti umani individuali. Non esiste una reli-

gione superiore un’altra. L’umanità è una e indivisibile. Ecco, tu mi dirai: ha solo sessantasette firme. Ma la petizione esiste e sarà firmata da molte persone.” “Un’altra domanda: l’islam, tenuto conto di ciò che mi hai detto, è possibile in una democrazia laica come la Francia?” “Certo che è possibile, bisogna che i musulmani reinventino un islam senza questi aspetti, che lo rendono incompatibile con le leggi della Repubblica. Dei tentativi ci sono stati, ma siamo lontani dall’avere un islam sereno, tranquillo, vissuto nella sfera privata, che rispetta le leggi del paese in cui si esprime… Quando per esempio un uomo accompagna sua moglie al pronto soccorso e vuole che il medico che la ausculta sia una donna, è inammissibile. Lo stesso si dica quando dei genitori vietano alle figlie di fare ginnastica a scuola perché sarebbero vestite in modo che le loro forme sarebbero visibili: non è possibile.”

“Ma pensi quindi che l’islam possa essere riformato come auspicano i sessantasette firmatari della petizione?” “Tutte le religioni a un certo punto hanno dovuto affrontare questo problema. L’islam resiste. Eppure quando si rileggono i testi scritti all’epoca del profeta o anche durante i secoli dei Lumi fra il IX e il XII secolo, viene da dire che l’islam potrebbe tornare un giorno a questa intelligenza, questa chiarezza, questa età dell’oro. Ma sono all’opera forze regressive che impediscono qualsiasi dibattito sulla questione. Ti faccio un esempio: in Egitto c’è stata una corrente riformista, rappresentata da Muhammad Abduh (1849-1905); questi aveva lavorato con un altro riformista, teologo della liberazione, Jamal al-Din al-Afghani (1838-1897). Hanno cercato di liberare i testi religiosi dalla loro camicia di forza antica e rigida. Tutti e due razionalisti, dicevano ‘in caso di conflit-

to fra la ragione e la tradizione, bisogna tornare alla ragione’. Mettevano la libertà e la responsabilità dell’uomo prima di tutto. Detto diversamente, facevano della religione un quadro in cui l’uomo deve fare lo sforzo di interpretare i testi in modo intelligente, ovvero adeguato al contesto storico in cui vive. Si rifacevano ad Averroè quando diceva: ‘Lo spirito umano può raggiungere con la ragione la verità della religione.’ I loro tre credo erano: 1. Acquisire il coraggio di pensare; 2. Vedere le cose quali sono; 3. Realizzare la libertà di spirito lottando contro i pregiudizi e sottomettendosi solo alla verità. Un altro riformatore si ispirerà a questi due pensatori: il siriano Muhammad Rachid Redha (18651935). Ma una volta trasferitosi in Arabia Saudita, sarà influenzato dalle tesi di Muhammad ibn Abd al-Wahhab che voleva un islam duro e puro con l’applicazione rigida della sharia, cosa che

caratterizza ancora oggi il wahabismo, dogma dei paesi del Golfo. Negli anni novanta del XX secolo, uno scrittore egiziano, Nasr Hamid Abu Zayd (1943-2010) ha scritto un’opera in cui proponeva una lettura critica, vale a dire filosofica del Corano, Critica del discorso religioso (Actes Sud, 1999). È stato espulso dall’università, dichiarato dai teologi di al-Azhar ‘apostata’, ovvero fuori dall’islam, espulso dalla casa islam, scomunicato, indicato per essere combattuto e anche ucciso; lo hanno separato da sua moglie (un apostata non può sposare una musulmana) obbligando questa a divorziare, altrimenti sarebbe stata sua complice, rientrando così anche lei nell’apostasia. La coppia è riuscita a fuggire; l’uomo e la donna si sono esiliati nei Paesi Bassi, dove lui è morto di malattia ma anche di collera di dolore. Ci sono stati alcuni liberi pensatori celebri, alcuni dei quali in passato sono stati condannati a morte e uccisi.”

“Come si diventa jihadisti?” “Prima di tutto ti spiego il significato di jihad nel Corano. Si tratta di ‘fare il massimo di sforzo possibile’ nel senso di superare se stessi; la jihad è una resistenza contro le tentazioni negative, una ricerca spirituale. È solo più tardi che la jihad è diventata sinonimo di conquista, nel momento in cui sono iniziate le guerre di frontiera fra il mondo musulmano e il mondo bizantino. Da allora di questo concetto si è conservato solo il significato bellico e aggressivo.” “Come si diventa oggi adepti di questa jihad guerriera?” “Basta essere disponibili: niente lavoro o un lavoro non molto soddisfacente, niente cultura, niente educazione, nessuna famiglia strutturata, e poi serve un incontro… È stato così per i fratelli Kouachi che dopo la strage hanno gridato: ‘Abbiamo vendicato il profeta.” Erano stati arruolati. A volte dei ragazzi che non sono

né credenti né militanti scelgono la jihad per spirito di avventura o per denaro. Ci sono mercenari fra gli jihadisti in Siria e in Iraq.” “Ma dietro tutto ciò esiste un capo, una specie di boss che decide tutto?” “Da quando al-Baghdadi si è autoproclamato califfo, e dice che ha intenzione di estendere in tutto il mondo lo Stato islamico, si sa che esiste una sovrastruttura ben organizzata, che lavora molto con i social network e attraverso le nuove tecnologie dell’informazione. La maggior parte degli ufficiali che fanno la guerra sotto l’autorità di al-Baghdadi provengono dall’esercito di Saddam Hussein. Questo ‘Stato islamico’, noto con il nome di ISIS (acronimo dell’espressione araba che significa Stato islamico in Siria e in Iraq) è stato finanziato dallo Stato e da alcuni privati. Entrando in Iraq, hanno svuotato tutte le banche e hanno iniziato a trafficare nel mercato nero del petrolio. Questo fa sì che siano ricchi e si-

ano molto ben armati. Non sono degli improvvisati.” Sul piano ideologico, il loro teorico si chiama Abu Moussab al-Suri. È lui che ha pensato non solo lo “Stato islamico” ma anche le strategie per reclutare giovani europei, sia di origine musulmana, sia convertiti. Verso la fine del 2014 si contavano circa cinquemila combattenti jihadisti di provenienza europea in Siria e Iraq. Questi soldati vengono formati e mandati a combattere; alcuni, o perché non sono adatti o perché se lo sono meritato, vengono rispediti al loro paese di origine per costituire delle cellule dormienti che agiranno poi, il giorno in cui verrà loro dato ordine di commettere attentati. Non sono più mercenari che combattono per denaro, ma soldati silenziosi convinti di svolgere un dovere religioso che li porterà al paradiso.” “Papà, ma questa guerra è fatta nel nome dell’islam!? E vuoi che le persone non abbiano paura?”

“Abbiamo tutti paura, perché abbiamo a che fare con dei combattenti che sono fanatici e che non fanno differenza fra sgozzare un montone il giorno dell’Aid e tagliare la gola a un ostaggio. Ovvio che si ha paura. Ma come si fa a dimostrare alla gente che non è questo l’islam?” “Anche io cerco di dire che non è questo l’islam, ma sento che la gente non è convinta.” “Dopo la rivoluzione iraniana nel 1978 e soprattutto dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York, l’America ha fatto di tutto e pianificato di tutto per fare dell’islam il nuovo nemico dell’Occidente. Prima, durante la guerra fredda, l’America aveva un nemico ed era l’Unione Sovietica; sembra che gli americani fossero alla ricerca di un nemico di cui occuparsi. Oggi ce l’hanno, grazie alle spettacolari azioni di Al Qaeda, grazie anche ai talebani che non sono riusciti a battere. L’islam è diventato sinonimo di crudeltà, di regressione,

di barbarie. Difficile separare l’islam da queste immagini di stragi, da quei video in cui si vedono dei selvaggi tagliare la testa a un ostaggio occidentale. È questo che inquina l’islam e i suoi valori. Più che mai i paesi musulmani devono mobilitarsi per denunciare questi atti di barbarie.” “Denunciare non basta… Bisognerebbe agire…” “Ma i paesi occidentali sono ipocriti. Sanno che in Arabia imperversa la rigidità del wahabismo. Le donne non hanno quasi nessun diritto. Non possono neanche guidare la macchina. Eppure quando si tratta di fare affari, gli europei chiudono gli occhi su questi aspetti scandalosi.” “I paesi europei hanno accolto migliaia di immigrati provenienti da paesi musulmani. Come fare per vivere accanto a loro?” “Il problema non si pone per gli immigrati che vivono in Europa da molto tempo, che lavorano, che pagano le tasse

e vivono tranquillamente. Pur essendo integrati, come ti ho detto sono comunque sconvolti quando vedono che un giornale pubblica le caricature del Profeta. Per loro si tratta di una persona sacra. Farne una caricatura è una cosa inammissibile per tutti i credenti. Significa colpire i loro ideali. È insopportabile, e dunque non chiedete loro di approvare quel che fanno gli occidentali che ridicolizzano le religioni.” Il problema nasce con l’emergere di quella che viene chiamata ‘seconda generazione’, ovvero la generazione dei loro figli. Sono nati in Europa e hanno la carta d’identità europea. Sono cresciuti nel vuoto culturale. I loro genitori erano spesso sopraffatti dagli impegni e hanno lasciato loro la massima libertà. Vivere in periferie malsane, tossiche, non facilita poi la situazione. C’è un tasso di disoccupazione che raggiunge il 45 per cento; è disperante, se si pensa che quello nazionale (in Francia) è del 10 per cento. Alcuni non si sentono

del tutto francesi, si sono allontanati dalla Francia e hanno trovato nell’islam più che un conforto, più che una risposta alle loro angosce: un’identità. È a partire da qui che si arriva al tunnel che inizia con la piccola delinquenza, passa per il carcere, e poi si viene presi per mano da indottrinatori che prospettano un avvenire radioso nella lotta contro questo Occidente che li disprezza o li ignora. Da quel momento, uscendo dalla prigione, alcuni sono disponibili per andare a combattere contro i ‘miscredenti’.” “Papà, ma l’islam, non le sue escrescenze disastrose, non l’islamismo, il fondamentalismo, l’islam sano, può essere compatibile con la democrazia e con la laicità?” “È proprio perché sempre più musulmani vivono una buona relazione di comprensione con le altre comunità, in Francia, che alcuni dei loro figli sono arrabbiati e per estensione i dirigenti dell’ISIS, coloro che vogliono stabilire uno ‘Stato islamico’

nel mondo, fanno di tutto per creare problemi mettendoli contro la società francese. Se si arriva a dimostrare concretamente che si può essere musulmani praticanti e vivere bene con gli altri, si potrà dire che l’islam e la democrazia sono compatibili. Il musulmano in generale non accetta il sistema della laicità. Perché l’islam per lui è tutto: una religione, una morale, una visione del mondo, una pratica quotidiana… Il credente non può immaginare un paese musulmano che separi la Moschea dallo Stato. Non è impossibile, ma al di là della Turchia, nessuno stato islamico ha osato spingersi verso la laicità.” “Papà, la gente si chiede che errori abbia commesso l’Occidente verso i musulmani.” “Penso che gli errori vengano da lontano, dall’epoca della colonizzazione. Le memorie algerine e francesi, per esempio, sono ancora piene di ferite, ferite ancora aperte. Ci sono stati troppa violenza, troppo di-

sprezzo e troppa umiliazione. Le relazioni non si sono risolte. Dopo l’indipendenza, ci sono stati dei grandi flussi migratori voluti e incoraggiati dalla Francia. Non si può dire però che gli immigrati musulmani del Maghreb o dell’Africa nera abbiano trovato il paradiso in Francia. Sappiamo quante sofferenze, quanti sacrifici e malintesi ci sono stati fra la Francia e gli immigrati. Prima dell’emergere dell’integralismo religioso – verso la fine degli anni settanta – c’erano dei luminari universitari, specialisti dell’islam e del mondo arabo, degli orientalisti che hanno studiato questa religione e i suoi popoli con intelligenza, empatia e benevolenza. Cito i più famosi: Jacques Berque, Maxime Rodinson, Vincent Monteil, Louis Massignon (grande specialista del poeta mistico Mansur alHallaj), André Miquel (traduttore delle Mille e una notte), Régis Blachère e il poeta Jean Grosjean (traduttore del Corano), Henry Corbin (specialista dello sciismo)

ecc. Questi pensatori hanno lavorato senza pregiudizi. Oggi sono stati rimpiazzati dai giornalisti. Alcuni sono buoni osservatori, ma la sensibilità che manifestavano i vecchi orientalisti non esiste più. Agli occhi di molti musulmani l’errore principale dell’Occidente sta nella politica di due pesi e due misure nel conflitto tra Israele e Palestina. A torto o a ragione, gli immigrati e in particolare i loro figli (di nazionalità francese) si arrabbiano ogni volta che i paesi europei prendono le difese sistematicamente degli israeliani. È un dato di fatto. La vivono come un’ingiustizia. Ricordi la dichiarazione di François Hollande il primo giorno della guerra contro Gaza nel luglio 2014 (“Il diritto di Israele a difendersi…”)? Neanche una parola di comprensione verso i palestinesi, nessuna menzione delle perdite civili palestinesi. Questo errore si è largamente diffuso sui social network. Anche se l’Eliseo poi ha pubblicato un comunicato che voleva es-

sere equilibrato, la comunità musulmana in Francia ne ha un pessimo ricordo. Tutto ciò poi non giustifica assolutamente che dei Merah, dei Kouachi e dei Coulibaly uccidano disegnatori o bambini ebrei in nome dell’islam e, nel caso di Merah, in nome della Palestina.” “Un’altra domanda: i musulmani sono razzisti, o piuttosto vittime del razzismo altrui?” “Perché vuoi che i musulmani sfuggano, come per miracolo, al flagello del razzismo che riguarda tutta l’umanità? Sono razzisti come tutti. Anche loro non vogliono mescolarsi con le altre diverse culture, avendo un’altra religione o essendo senza religione, agonistici o atei. La sfiducia è generale. Non è che siccome si è vittima di razzismo si è vaccinati contro il razzismo.” “Visto il numero sempre più alto di musulmani nel mondo (si parla di tre miliardi e trecento milioni) pensi che l’avvenire sia loro?”

“Io so che l’elemento religioso è importante e che il secolo è dominato da questioni relative all’islam. Il cattolicesimo è in regresso. La vocazione per diventare preti è sempre meno diffusa fra i giovani cristiani. Io tendo a minimizzare l’importanza della religione nel mondo ma allo stesso tempo è nel nome dell’islam che l’ISIS fa la guerra al mondo.” “A quando la fine di ciò che viene detta islamofobia?” “La paura dell’islam esiste, a volte senza sfumature, senza una giustificazione reale. Fa tutt’uno col razzismo. Gli immigrati nel loro insieme non provocano nessuno. Alcuni fra loro hanno voluto imporre un modo di vita rigorista alla moglie e alle figlie in particolare: il velo integrale, il burqa, il fatto di non frequentare luoghi misti ecc. Le tensioni che scuotono oggi il mondo musulmano hanno origine dalla condizione della donna. Tutto ruota attorno al corpo delle donne. In fondo, è

un problema di sessualità non risolto. È il corpo delle donne che focalizza le diverse scelte: bisogna coprirlo, impedirgli di essere libero, non mostrarlo, non dargli la possibilità di muoversi e vivere liberamente… È un problema di paura. Al di là di questo aspetto psicologico e anche psicanalitico che sconvolge l’Occidente e anche i musulmani che hanno uno spirito aperto e intelligente, a mio avviso il principale responsabile dell’islamofobia nel mondo è stato Bin Laden con i suoi luogotenenti che hanno seminato il terrore nel mondo. Oggi è il sistema dell’ISIS e dei suoi mercenari. Il grande professore Henry Laurens, che ha la cattedra di storia contemporanea del mondo arabo e musulmano al Collège de France, lo conferma (Le Figaro, 15 gennaio 2015): ‘Penso che la prima causa dell’islamofobia derivi da certi musulmani che incitano all’odio, cosa diversa dall’antisemitismo classico, che non era una reazione a un comportamento o a un’azione.

Preferisco non usare il termine razzismo, che fa riferimento alla biologia nello stesso momento in cui dice che le razze non esistono. Preferisco il termine anglosassone hate crime, crimine di odio.’” “Ma come lottare contro questo ‘crimine di odio’?” “Sta in gran parte ai musulmani cambiare qualcosa nel loro modo di vivere in Occidente. È con l’educazione e la cultura che si può lottare contro questa immagine di un islam che fa paura. Quando si legge con intelligenza il Corano, ci si rende conto che è un testo di grande bellezza, pieno di poesia e di umanità. Ma appena si mettono gli occhiali della lettura letterale, quando si interpreta il testo in modo ristretto, si può fargli dire quello che si vuole. Del resto l’Occidente non sente il bisogno di conoscere più approfonditamente l’islam, la sua cultura, la sua civiltà. Si limita ai fatti di violenza che si inscrivono in

una guerra fra due visioni del mondo. Non si può lottare contro l’islamofobia se non lottando contro l’ignoranza da entrambe le parti. Non c’è uno scontro di civiltà, c’è solo uno scontro di ignoranze, e questo scontro è terribile perché genera infelicità, guerre e razzismo.”

LEGGERE IL CORANO

“Papà, spiegami la differenza tra islam e islamismo, perché in questo momento sento parlare molto nei media di islamismo a proposito della persone che hanno ucciso la redazione di Charlie Hebdo. Dodici morti, uccisi da due uomini iper-armati molto determinati che dicono di aver ‘vendicato il profeta’.” “L’islamismo è una deriva dell’islam nel senso di una deviazione, un allontanamento. Alcune persone trasformano l’islam da religione di pace in ideologia che semina il terrore. L’islamismo può anche essere chiamato fondamentalismo, vale a dire ri-

torno all’islam degli inizi, l’islam del VII secolo, ritorno ai suoi fondamenti interpretati secondo una visione ristretta, limitata e soprattutto falsa del messaggio del profeta Maometto. Si potrebbe anche dire integralismo, che significa ripiego su di sé. Attaccamento cieco a dei principi che non tollerano alcuna messa in discussione, alcun punto di vista differente, alcuna lettura altra dei testi sacri.” “Pensi che queste persone che uccidono innocenti abbiano letto il Corano?” “Penso che anche se lo hanno letto, non lo hanno capito, oppure sanno perfettamente che il messaggio di Dio e del profeta proibisce di uccidere ma fanno finta di obbedire a ordini piovuti dal cielo, mentre provengono da cellule terroriste di Al Qaeda collocate nello Yemen o in Pakistan. Queste persone forse sono naïf, ma hanno accumulato molte frustrazioni, una certa quota di odio cieco per tutto e chiunque, al punto da passare all’azione in

modo sconcertante. Ma l’ignoranza e l’attrazione mediatica per la celebrità li animano e li spingono a commettere l’irreparabile.” “Però non sono tutti poveri e ignoranti, abbiamo visto anche terroristi usciti dalle università e che provenivano da un ambiente agiato.” “Sì, in questi casi agiscono per convinzione o per volontà di dominare il mondo. Ma comunque sia, il fatto di mescolare la religione musulmana con un’impresa criminale è un colpo terribile per l’islam.” “Ma, papà, tu non credi che l’islam contenga i germi di questa violenza?” “Le religioni hanno tutte fatto ricorso alla violenza e alla guerra per imporsi o difendersi. Ma nessun versetto del Corano autorizza l’assassinio premeditato di persone innocenti. Eppure tutto ciò deriva dalla lettura che si fa del Corano e degli hadit (i detti del profeta).” “Papà, ma stai rileggendo il Corano?”

“Sì.” “Ma l’hai già letto più volte.” “Sì, ma è un libro così ricco che ne occorrono molte letture.” “Non è il libro che hai imparato a memoria quando eri bambino?” “Sì, figlia mia. Come tutti i ragazzi della mia generazione, sono stato mandato alla scuola coranica che c’era nella moschea del nostro quartiere, e un vecchio ce lo faceva ripetere versetto per versetto.” “E te lo ricordi ancora?” “Sì, la memoria funziona bene, ma all’epoca imparavo a memoria delle sure, cioè dei capitoli, senza capirne veramente il senso. Il vecchio non ci spiegava il Corano; il suo ruolo consisteva nell’obbligarci ogni giorno a imparare a memoria alcuni versetti, che poi dovevamo recitare il giorno dopo.” “E tu ci riuscivi?” “La paura! La paura non mi dava scelta.”

“Se no?” “Se no prendevamo bastonate sulle piante dei piedi. Non era divertente.” “Mi fa ridere immaginarti coi piedi all’aria…” “Be’, comunque la mia memoria ha registrato tutto.” “Allora perché rileggi questo libro?” “Perché ci sono molti modi di leggerlo; sto sperimentando un nuovo metodo.” “Cioè?” “Vedi, figlia mia, il Corano è il libro sacro dei musulmani, come la Bibbia lo è per i cristiani e la Torah per gli ebrei. Ogni religione ha il suo testo di riferimento. Ma sappi che i tre libri hanno dei punti in comune. L’essenziale sta nel saper leggere adeguatamente questi testi, la cui portata deve essere universale ed eterna. Voglio dire: bisogna saperli leggere in modo intelligente.” “Spiegami il tuo metodo.” “Per farlo, ti darò una piccola lezione

di storia. Sai che il Corano è l’insieme dei messaggi che il profeta Maometto aveva ricevuto da Allah attraverso l’intermediario dell’angelo Gabriele. Era stato scelto da Dio come suo messaggero presso le tribù arabe che, all’epoca, adoravano degli idoli di pietra. Questo succedeva nel 622 dell’era cristiana.” “Sì, ma perché dici che ci sono più modi di leggere il Corano?” “Perché all’epoca, c’erano anche persone che hanno interpretato il Corano in modo simbolico e metaforico. La lettura del Corano deve essere intelligente, vale a dire che bisogna evitare di prendere le frasi alla lettera. Bisogna cercare di cogliere lo spirito che sta dietro ciò che il testo racconta.” “Ma bisogna essere bravi per capire le metafore!” “No, basta capire che Dio parla per simboli e immagini, e che questi simboli e immagini non sono realistici… Se dico per

esempio che quest’uomo ha perso la testa, questo non vuol dire che è stato decapitato, ma che ha perso la ragione. Si tratta di una metafora. Quando Dio per esempio evoca le persone che non credono in lui, dice ‘sono degli smarriti’, hanno perso il loro cammino, percorrono una strada sbagliata: è un’altra metafora. Quando si dice ‘la mano di Dio’ questo non significa che si tratta di una mano in carne ed ossa, è un’immagine, una figura immateriale.” “Sì, ho capito.” “Ci sono state, quindi, delle lotte fra coloro che leggevano il Corano in modo letterale e coloro che chiedevano di leggerlo in modo che si ritrovasse lo spirito del testo, confidando nella ragione. Detto altrimenti, ci sono state persone che non volevano interpretare la parola di Dio, e persone che facevano affidamento sull’intelligenza umana e la libertà. Ancora oggi, incontriamo entrambi gli atteggiamenti: coloro che sono fanatici, che non vogliono discutere e che

non accettano che si pensi in modo diverso da loro, e poi coloro che credono alla libertà dell’uomo e alla sua intelligenza; che cercano un dibattito intorno a queste idee e che vengono trattate dagli altri come miscredenti, e per questo perseguitate.” “Mi hai già parlato dell’integralismo, del fondamentalismo, e di coloro che interpretano male la parola di Dio. Ma perché si fanno dire al Corano cose che non ha detto?” “Quando il profeta Maometto morì l’8 giugno 632, non lasciò consegne riguardo ai versetti che l’angelo Gabriele gli aveva trasmesso. I suoi compagni li conoscevano a memoria, alcuni li avevano trascritti su dei supporti. Il Corano in quanto corpus, in quanto Mushaf, però, non esisteva. Ci vorranno altri vent’anni prima che Othman, il terzo califfo, riunisca una commissione, composta da sei compagni del profeta qualificati, perché proponesse un testo unificato.”

“Dunque per una ventina di anni il Corano non è esistito?” “Il Corano era nelle memorie, nei cuori di queste persone, ma non esisteva in quanto corpus, libro materiale. Le cose sono andate così: le sure furono prima riprodotte senza vocali. Poi due secoli dopo è stata resa disponibile per il grande pubblico una versione con le vocali. È a partire da quel momento che nella lettura del Corano si sono contrapposte due visioni del mondo. Da una parte i teologi appartenenti alla corrente mutazilita, razionalisti che leggono il testo in modo simbolico e metaforico. Per loro, ‘la volontà divina è razionale e giusta; gli uomini possono coglierne il senso e adeguarvi le loro azioni’. Parallelamente filosofi come al-Kindi, alFarabi, Avicenna e Averroè studiano la natura in sé e non la natura come testimone della potenza divina. Queste correnti che oggi verrebbero definite moderne trovano di fronte a sé dei tradizionalisti per i qua-

li non solo il Corano è increato, ma deve anche essere letto in modo letterale senza alcuna distanza né interpretazione. Il fondatore di questa scuola si chiama Ahmad Ibn Hanbal. Egli non riconosce il libero arbitrio dell’essere umano. Pensa che la potenza divina sia incomprensibile alla ragione umana. È quest’ultima corrente che avrà la meglio e finirà per alimentare quello che secoli più tardi sarà detto integralismo, fondamentalismo, i cui teorici sono prima Ibn Taymiyya (XIV secolo), poi più tardi Muhammad ibn Abd al-Wahhab, un saudita del XVIII secolo che farà dell’islam un dogma duro e puro, quello che imperversa oggi in Arabia Saudita e Qatar. Applicazione rigida della sharia. Fanatismo e oscurantismo. In breve: una visione del mondo retrograda e in opposizione allo spirito che ha segnato i primi secoli dell’islam. Se i versetti non sono tributari né del tempo né dello spazio, nessuna compren-

sione ne è possibile. È la sconfitta della ragione di fronte al dogma di una parola di Dio della stessa natura di Dio. Ora, leggendo bene il Corano si scopre che è il contrario che vi è argomentato. Molti versetti sono arrivati a noi in un contesto preciso, regolando e commentando situazioni che si davano in un momento particolare. Altri versetti hanno una portata che va al di là del quadro temporale. Dirlo oggi è una provocazione che gli oscurantisti non possono tollerare perché metterebbe in pericolo il loro opportunismo, che abbrutisce le masse e le spinge verso un islam snaturato, deviato dalla sua essenza e dalla sua ispirazione. È difficile combattere il fanatismo. Qualsiasi forma di dialogo è impossibile. Lo si vede in questo momento anche in Egitto e in Tunisia, in cui la corrente modernista, vale a dire laica e per un sistema realmente democratico, è in balia dai salafiti che rifiutano qualsiasi discussione. La sconfitta della ra-

gione è anche quella dell’umanesimo che si trova nel Corano. Evidentemente l’ignoranza spesso ha la meglio sul sapere. La nozione di imprescrittibilità del Corano si è tradotta in una rigidità in contraddizione con l’incitazione ad acquisire sapere quale è espressa in numerosi versetti. Lo scrittore Mahmoud Hussein nel libro Penser le Coran (Grasset, 2009) riassume il problema in questi termini. ‘Mostrando che l’islam è al contempo un messaggio divino e una storia umana, reintegrando la dimensione del tempo là dove la tradizione vuole vedere solo l’eternità, ritrovando la verità viva della Rivelazione sotto le interpretazioni che pretendono di fissarla una volta per tutte, il pensiero riformatore è una scuola di libertà e di responsabilità. Offre a ogni credente la fortuna di coniugare la propria fede in Dio con la sua intelligenza del mondo.’ Restituendo la parola di Dio alla sua origine, al suo contesto, non la si snatura.

Ma fino a che il sapere viene allontanato e sostituito da fatwa arbitrarie e senza fondamento, l’islam resta in ostaggio fra l’ignoranza e l’opportunismo ideologico. Grazie ai libri di Mahmoud Hussein, il dibattito è possibile; ed è necessario e anche urgente, specie in questi tempi di confusione in cui l’islamofobia progredisce ogni giorno facendo strage nelle coscienze e nelle menti. Se si rifiuta il dibattito l’avvenire di questa religione sarà sempre più compromesso. Mahmoud Hussein conclude dicendo anche: ‘Privandosi di una comprensione personale, liberamente elaborata, dell’universo che il Corano offre, i tradizionalisti amputano una parte intima della loro identità, della propria personale sicurezza. E così assumono la tendenza a ripiegarsi su se stessi e a isolarsi dal resto del mondo, piuttosto che a lanciarsi, con le altre componenti dell’umanità, nell’avventura di un destino comune.’” “Ti faccio una domanda semplice ma

per me fondamentale. Quali sono i principi fondamentali dell’islam?” “Ti posso rispondere senza andare a controllare i testi. Devi sapere in cosa l’islam, in quanto ultima religione rivelata, è una religione di pace e di tolleranza, visto che il suo nome, islam, è la radice della parola ‘Pace’. Primo principio: credere in un solo Dio, unico, onnipotente. Per diventare musulmano si dichiara ‘che non esiste che un solo Dio e che Maometto è il suo profeta’. Secondo principio: seguire alla lettera i cinque pilastri dell’islam che sono: le cinque preghiere quotidiane che si situano in funzione del sole; fare il ramadan, astenersi dal mangiare, dal bere e dall’avere relazioni sessuali dall’alba al tramonto del sole durante un mese di 29 o 30 giorni; fare l’elemosina, al Zakat, che rappresenti il dieci per cento delle entrate; fare il pellegrinaggio alla Mecca se il credente ne ha

i mezzi ed è in buona salute. Questi cinque pilastri sono i fondamenti dell’islam. Resta che tutto ciò deve essere accompagnato da una condotta morale che segue i valori di base dell’umanità: non rubare, non mentire, non tradire, non uccidere, non uccidersi (è una provocazione della volontà divina), non fare del male… Sono gli stessi valori che tutte le religioni insegnano. Bisogna aggiungere la solidarietà, la fraternità, la pietà e il rispetto della spiritualità. Il Corano condanna qualunque attentato alla vita di un innocente (sura 5, versetto 32): ‘Colui che ha ucciso un uomo che non ha ucciso, o che non ha commesso violenza sulla Terra, è come se avesse ucciso tutti gli uomini; e colui che salva un sol uomo è considerato come se avesse salvato tutti gli uomini.’”

CHE FARE ORA?

“Il problema è complesso. La Francia come il Belgio, i Paesi Bassi e l’Italia fra gli altri, hanno delle difficoltà con i giovani nati dall’immigrazione maghrebina o africana. Quando il 45 per cento di questi giovani non trova lavoro, quando questi passano le giornate a trascinarsi per strada, quando la loro disperazione sale, questo produce una rabbia e una collera che li rende disponibili a qualsiasi avventura: traffico di droga, associazione a delinquere, oppure rifugio nella religione. In questi casi, la loro testa è vuota e non chiede altro che essere riempita. Basta che incontrino

due o tre persone che agiscono nel nome dell’islam per entrare in quel progetto.” “Si dice che le prigioni siano piene di questi giovani dall’identità incerta…” “Sì, quando commettono un delitto (spesso delitti minori), vengono mandati in prigione, qualche volta in via cautelativa e poi aspettano anni per arrivare davanti a un giudice. Il sentimento di ingiustizia ha la meglio su tutto il resto. In prigione, vengono contattati da reclutatori, persone il cui mestiere è trovare giovani disposti non solo ad abbracciare l’islam, ma anche ad agire per difenderlo e farlo trionfare in Occidente. Il discorso è studiato bene. In più, questi reclutatori propongono loro del denaro e una volta partiti per la Libia, l’Iraq o lo Yemen, la loro famiglia riceve una ricompensa. Si capisce subito com’è facile costruire un terrorista. Nel frattempo il suo paese, quello in cui è nato, non si preoccupa assolutamente di ciò che diventerà. Le periferie sono luoghi patoge-

ni, cioè tossici, che generano delinquenza, violenza, diseguaglianze e ingiustizia. La Francia per esempio, malgrado tutti i segnali d’allarme dati dai sociologi, dagli osservatori, dai militanti, non ha fatto nulla per curare queste periferie pericolose. Sia a destra che a sinistra, c’è stata la stessa politica: non fare nulla o fare un minimo, per camuffare i problemi. Gli uomini politici hanno saputo che le periferie sono pericolose, hanno lasciato fare, non hanno realizzato la gravità di questo pericolo.” “Eppure, papà, ci sono più di mille giovani francesi di origine immigrata o convertiti all’islam che sono partiti per andare a combattere in Siria.” “Sì, la paura del governo è che un giorno alcuni fra quelli partiti per combattere in nome dell’islam ritornino e proseguano la lotta sul territorio francese.” “E quindi, cosa fare?” “Sul breve termine, non so. Sul lungo termine, ci sono delle cose da fare.

Guardare ai manuali scolastici e insegnare in modo obiettivo la storia delle tre religioni monoteiste. Nello stesso tempo, tutto l’insegnamento dovrebbe essere accompagnato da un’idea precisa: insegnare ai bambini la tolleranza, il rifiuto del fanatismo, spiegare i meccanismi del razzismo. In breve, elaborare una pedagogia ambiziosa per lottare in modo profondo e obiettivo contro le derive che portano al terrorismo. Guardare a ciò che succede nelle prigioni. Designare degli imam, dare loro i mezzi per chiarire le menti dei giovani reclusi e prepararli e reinserirsi nella vita attiva. Lottare contro i reclutatori. Guardare a cosa succede nelle moschee: gli imam non dovrebbero più essere finanziati da Stati stranieri. Nessuno dovrebbe autoproclamarsi imam. Per diventare imam, bisognerebbe seguire un percorso formativo ed essere ben preparati a fare un lavoro non di proselitismo ma di pacificazione.

Ma la cosa più difficile sarà cambiare sguardo e politica di fronte ai giovani delle periferie. C’è un deficit di cittadinanza, una grande frattura sociale, fra questa generazione e i genitori, fra questi giovani e la società francese che non li riconosce davvero. Il discorso del primo ministro francese Manuel Valls il 20 gennaio 2015 è stato giudicato estremista: ha parlato di ‘una apartheid territoriale, sociale, etnica in Francia’. Prima di lui degli intellettuali che si lamentavano di essere vittime di ‘razzismo anti-bianchi’ hanno utilizzato questo termine terribile: apartheid. Uno di loro ha detto: ‘Quando prendo la metropolitana, mi sento in una condizione di apartheid, perché sono il solo bianco nel vagone.’ Oggi, dei funzionari svuotano i cassetti in cui hanno accumulato, senza leggerle, delle relazioni allarmanti sulla situazione delle periferie e dei progetti di azioni da intraprendere. Sono sempre di attualità,

vent’anni, quindici anni dopo. Quale che sia il governo, questa piaga è stata da sempre trattata con riformine, spolverature, per poi dimenticare, nascondendo la polvere sotto il tappeto. Resta un altro problema che non riguarda le periferie: il posto dell’islam nella nostra società. La domanda da farsi è: quale posto l’islam può lasciare alla società? È capace di recuperarsi, far parte del paesaggio senza rumore né furore, senza fanatismi né deviazioni? Non è l’islam che va cambiato, sono i musulmani. Per questo vanno previste e intraprese azioni educative che coinvolgano diverse generazioni.”

APPENDICE

Questa appendice è composta di articoli che ho scritto fra il 2012 e il 2015 per giornali diversi. Le Monde, le Point, la Repubblica, Lavanguardia, www.le360.ma/fr, il New York Times e il nuovo settimanale francese senza pubblicità 1. Può essere che alcune idee vengano dette e sviluppate più di una volta. Non mi sembra però cosa grave: la ripetizione non può nuocere alla comprensione. [TBJ]

SETTE PAROLE

Mi sarebbe piaciuto fare un disegno, qualche tratto che finisse nel cielo, disegnare un albero strappato le cui radici andassero verso le nuvole, un albero o una foresta distrutti in pochi minuti ed eliminati dall’esistenza, ma questa mattina non so più disegnare, sono seduto, non rassegnato ma colpito dalle parole che arrivano da ogni parte e gravano con tutto il loro peso sulle mie spalle. Queste parole mi ossessionano, non mi lasciano da mercoledì mattina, il 7 gennaio 2015. Sono le parole che accorrono quando il dolore ci sommerge, quando la tristezza si posa sui no-

stri occhi e fa male. Parole che risuonano e il cui senso si perde, talvolta schiacciato contro un vetro come una mosca cieca. La prima parola che si è imposta alla mia mente è: LIBERTÀ. Era per ritrovarla che avevo lasciato il Marocco nel 1971. Il paese era in “stato d’eccezione”. La polizia aveva pieni poteri. Arbitrarietà. Repressione. Più nessuna libertà. La fuga, l’esilio. Coloro che hanno decimato la redazione di Charlie Hebdo avevano come obiettivo anche quello di mettere fine alla libertà nel paese di Voltaire. Per fortuna la libertà da qualche tempo porta un giubbotto antiproiettile che la protegge. No, “la libertà non è stata assassinata”, come ha scritto un quotidiano. È incarnata nel popolo di Francia, in piedi, che è uscito spontaneamente mercoledì sera, una candela o una matita in mano per dire: “Je suis Charlie”. La seconda parola: COLLERA.

Sì, sono nero di collera: nero, blu, rosso. La mia collera è agitata, bruta, senza sfumature. Essa solca la mia memoria e ne trae qualche ricordo, come quando dei bambini venivano giustiziati all’entrata della scuola, o altri bambini a Homs si trovavano con la pelle bruciata dal gas chimico di Assad. La lista è lunga. Mi volto indietro e guardo con attenzione all’ultimo disegno di Charb in cui chiedeva a un terrorista: “Allora, niente attentati?” “C’è tutto il mese di gennaio per farvi gli auguri.” Degli auguri che hanno fatto scorrere il sangue di artisti, poeti, raccontatori di storie, disegnatori senza odio, senza pregiudizi; innocenti che mettevano colore e umorismo sui nostri problemi. Si divertivano a decifrare l’attualità con insolenza, pertinenza, intelligenza. La terza parola: ISLAM. Come all’indomani dell’11 settembre 2001, ho subito pensato che l’islam sareb-

be stato sul banco degli accusati. Saranno i musulmani a pagare questo conto di terrore e crimine. Persone modeste, lavoratori coscienziosi, famiglie prese in ostaggio dagli attori del Male. Persone preparate in Iraq o nello Yemen hanno imparato a uccidere con una ferocia e una freddezza che cercano di coprire col velo della religione. Islam, salam, pace, serenità... in lutto. La quarta parola è UN SORRISO, quello di Cabu. Come ha detto Daniel Pennac durante la trasmissione “La Grande Librairie”: “Come si può sparare una raffica di mitraglietta sul viso d’angelo di Cabu?” Incomprensibile. Assassinare un sorriso, quell’immensa gentilezza, un eterno adolescente, un danzatore talmente leggero da poter volare sopra le nostre teste, una stella che è passata a tutta velocità... Quel sorriso non mi lascia; è la sua tessera da giornalista e da giullare. La quinta parola: VENDETTA. Hanno detto: “Abbiamo vendicato il Profeta.”

Ma il suo spirito non gli ha mai chiesto niente. Il profeta Maometto, quando si rivolgeva ai suoi soldati prima di una battaglia, raccomandava loro espressamente di “Non uccidere le donne, i bambini, i vecchi; di non strappare una sola palma o un albero; di non distruggere le case; e se si incontrano dei monaci nelle loro celle, che li lascino in pace” (si veda il libro Al-Sîra di Mahmoud Hussein). Sesta parola: IGNORANZA. Sono l’ignoranza e la paura che suscitano, provocano, fondano il razzismo e l’intolleranza. Uno può non essere mai stato a scuola ed essere comunque generoso e buono. Ma la cosa peggiore è l’assenza totale di educazione. Più che mai gli scrittori, gli artisti, gli intellettuali, gli artigiani, tutti coloro che possono farlo, dovrebbero andare nelle scuole, parlare ai bambini, suscitare in loro la voglia di poesia, il desiderio di vivere viaggiando fra i libri, i quadri, i film.

Dalla scuola bisognerebbe passare alle prigioni. Anche lì si dovrebbe fare un lavoro importante, perché si tratta di mostrare a dei ragazzi, che si sono scontrati con la vita, che esistono anche altri percorsi, che la religione è una questione privata, che la spiritualità è più essenziale di certe dimostrazioni di religiosità che finiscono nel far versare del sangue innocente. Settima parola: RESISTENZA. In questi ultimi tempi, la Francia della crisi stava esprimendo idee che avevano un cattivo odore. La Francia stava perdendo lentamente la sua anima, non riconosceva più il suo patrimonio, le sue tradizioni. Menti ristrette e meschine hanno occupato i media per dire, sotto il peso della propria mediocrità o del proprio egoismo, quanto questo paese si è lasciato “invadere”, quanto la sua identità è stata offuscata, resa infelice perché contaminata, quanto potrebbe ritrovare la sua identità e la sua grandezza se ci si liberasse di tutti i

meteci venuti non per vendere la propria forza lavoro ma per approfittare della sua bontà. Così da certe trasmissioni televisive sono partiti umori e voci; insinuazioni grossolane hanno lasciato filtrare un razzismo decaffeinato, un razzismo in apparenza light ma che provoca le stesse sventure, le stesse catastrofi del razzismo arrogante. Il 7 gennaio 2015 è stato come avrebbe detto Cabu “un pugno in faccia”, una faccia che non vuole tacere, che non vuole più tollerare i discorsi di questa gentaglia abbastanza furba da giocare con la libertà e la democrazia, schiacciando quelli che non possono difendersi. Dobbiamo resistere non solo al terrore pianificato dai nemici della democrazia ma anche ai discorsi e programmi di coloro che portano la Francia verso la bruttezza, la paura e l’odio.

A CALDO LO STATO DELLA FRANCIA DOPO IL 7 GENNAIO 2015

Dopo la preghiera di venerdì 9 gennaio alla Grande Moschea di Parigi, i credenti sono usciti con degli striscioni in cui, sullo sfondo della bandiera francese, stava scritto: “Non toccate il mio paese”, riferimento allo slogan dell’associazione SOS Racisme “Non toccate il mio piatto”. Ciò vuol dire che la maggior parte dei musulmani francesi si sente pienamente francese e vorrebbe che la maggior parte della società li considerasse tali. Altri cartelli dicevano che i terroristi che hanno ucciso i giornalisti di Charlie Hebdo così come colui che ha preso in ostaggio i clienti del supermerca-

to kosher non sono musulmani. In questo modo queste persone esprimono non solo la loro volontà di essere dei cittadini come gli altri, ma condannano senza ambiguità coloro che pretendono di agire nel nome dell’islam. Al di fuori di Parigi, gli imam di molte moschee francesi hanno denunciato con fermezza questi crimini. Resta che degli elementi marginali si sono invece divertiti a scrivere tweet sulla morte dei disegnatori di Charlie Hebdo. I sei milioni di musulmani francesi possono anche dire e ridire il loro rifiuto del terrorismo nel nome dell’islam; resta un sospetto negativo nella testa della maggior parte dei francesi. Difficile considerare innocente la religione di Maometto, non che sia colpevole ma da decenni è in corso un attento lavoro di preparazione da parte degli islamisti, nelle periferie, nelle moschee e nelle prigioni. Un lavoro molto efficace che è consistito nel proporre ai giovani un’identità forte,

un ideale con una prospettiva di avvenire. L’islam è diventato più di una religione: una morale e una cultura, quelle che la Francia non era riuscita a dare a migliaia di ragazzi francesi di origine immigrata. A partire da questo schema, il reclutamento per andare ad addestrarsi in Iraq, Yemen, Pakistan o Libia, diventa facile. Il lavaggio del cervello si fa in poche settimane. È così che Al Qaeda e ora l’ISIS hanno reclutato migliaia di ragazzi che sono pronti a dare la vita per il trionfo dell’islam ovunque nel mondo. L’istinto di vita è stato sostituito da quello di morte, la morte degli altri, i miscredenti; è la loro morte che permette a questi giovani di diventare martiri con un posto in paradiso. In Francia lo Stato non si è preoccupato sul serio e in profondità delle condizioni delle periferie in cui vivono o sopravvivono giovani non strutturati, pronti a qualsiasi avventura, dal traffico di droga alla criminalità violenta. È in questo spazio

lasciato vuoto dallo Stato che i reclutatori islamisti intervengono. Del resto il discorso sempre più razzista del Front National, cui va aggiunta tutta una corrente di intellettuali che rimette in discussione il fondamento dell’identità francese, accusando gli immigrati e i loro bambini di essere elementi che inquinano questa identità, alla fine hanno facilitato l’espansione dell’islamismo fra i giovani, la cui francesità non è riconosciuta in modo naturale. Con gli attentati del 7 gennaio 2015 organizzati il giorno dell’uscita in libreria del romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione, la Francia ha ricevuto un pugno allo stomaco. È stata colpita, traumatizzata. Cosa che ha spinto Houellebecq a interrompere la promozione del suo libro, che immagina una Francia governata nel 2022 da un presidente musulmano che riporta le donne in casa e permette la poligamia. Prima di Houellebecq, Éric Zemmour, un giornalista e polemista, ha pubblicato

Le suicide français, in cui il declino della Francia è spiegato con l’influenza nefasta del maggio 1969, con l’immigrazione, col matrimonio fra omosessuali e col femminismo. Questo libro dalle idee molto conservatrici e reazionarie ha avuto un successo immenso in libreria, con oltre 400.000 copie vendute. Zemmour si allinea in modo obiettivo con le tesi del Front National anche se dichiara di non averlo voluto fare. È in questo contesto di paura e di incitazione all’odio verso l’islam e al rifiuto degli stranieri non europei, che hanno avuto luogo gli attentati che hanno causato 19 morti e una decina di feriti. Il problema è che, qualsiasi cosa facciano i francesi di confessione musulmana, la loro immagine ora è negativa. Loro ne soffrono, ma la cosa non è nuova. Ben prima degli attentati, i discorsi dell’estrema destra e di alcuni intellettuali hanno stigmatizzato l’islam, accusandolo di essere incompatibile con la democrazia. I francesi

hanno paura, o più esattamente vengono impauriti. Il Front National ha fatto della paura il suo credo. Denuncia l’immigrazione come se i milioni di immigrati fossero degli invasori, persone che non fanno che approfittare dei sostegni sociali della Francia; sarebbero loro i responsabili della disoccupazione. Questo discorso non tiene. Come ha spiegato l’economista americano Tyler Cowen in un articolo pubblicato sul New York Times, “Una strategia economica per i paesi sviluppati: assorbire più immigrati”, “i paesi occidentali devono avere paura dell’invecchiamento delle loro popolazioni, più che della loro immigrazione”. Fa l’esempio del Giappone in cui la diminuzione, a partire dal 1997, della parte di giapponesi in età lavorativa ha eroso le performance economiche del paese. Se domani, per effetto della bacchetta magica, tutti gli immigrati musulmani ritornassero a lavorare nei loro paesi, la Francia

si fermerebbe e crollerebbe sia sul piano economico che su quello demografico. La Francia così è in tensione tra un’estrema destra sempre più forte (i sondaggi prevedono la sua presidente Marine le Pen al secondo turno dell’elezione del presidente della repubblica nel 2017), e le sue tradizioni di accoglienza e di asilo, fra una destra che chiede la chiusura delle frontiere e una sinistra che vuole restare in accordo con i suoi principi umanisti. Ma gli attentati del 7 e 9 gennaio che tutta la Francia ha vissuto con molta emozione, stanno cambiando il paese. Domenica 11 gennaio, per la prima volta dal 1990, quando François Mitterrand aveva manifestato dopo la profanazione delle tombe ebree, un presidente della Repubblica accompagnato dai suoi pari europei ha condotto la più importante manifestazione della Francia dal dopoguerra. Tutti i cittadini erano invitati a sfilare in silenzio. Tutti, salvo coloro che appartengono

al Front National. Questa esclusione mette all’angolo questo partito, che ha sempre gridato che non lo si considera un partito come gli altri. Tutto ciò cambierà qualcosa nella vita quotidiana degli immigrati musulmani e dei loro figli? Per cambiare davvero serve una nuova politica, una presa in carico delle periferie e un riconoscimento dell’identità di questi giovani francesi lasciati fino a oggi a se stessi, vittime del razzismo quando cercano lavoro o quando vanno a divertirsi nei locali notturni. L’islam resterà a lungo uno spaventapasseri; farà paura e farà fatica a integrarsi nel tessuto sociale della Francia. Per questo le autorità dovrebbero occuparsi del reclutamento degli imam, controllare i loro discorsi, non accettare che siano finanziati da paesi stranieri come l’Arabia Saudita o l’Iran; dovrebbero anche concentrare i propri sforzi nelle prigioni, diventate un luogo ideale per l’indottrina-

mento e, all’uscita, per il reclutamento in vista della jihad. Infine, si dovrebbero concentrare gli sforzi nelle scuole, in cui i manuali scolastici dovrebbero essere rivisti e in cui dovrebbero essere tenuti corsi sul razzismo o sulla storia delle religioni. La Francia è ferita. Al di là della crisi economica che fa sì che la disoccupazione continui ad aumentare, al di là del suo coinvolgimento nel Nord del Mali e contro l’ISIS, essa ha bisogno di pacificare la società, di lottare più efficacemente contro il razzismo e contro l’antisemitismo. François Hollande ha fatto della lotta antirazzista la “causa nazionale” del 2015. Ma il razzismo non si fermerà come per miracolo il 1° gennaio 2016.

RESISTENZA

L’attacco a Charlie Hebdo è un episodio di guerra. Salvo che i giornalisti che sono stati assassinati non erano dei guerrieri. Erano senza odio, senza pregiudizi. Erano perfino poeti, vignettisti, pazzi di libertà, geni le cui armi erano matite e colori, intelligenza fantasia e luce. È una guerra contro la libertà di scrivere, di disegnare, di creare. Una guerra senza volto contro la laicità, contro la tradizione della satira, dello humour, della derisione, della critica acerba e feconda. Avrebbero voluto riesumare Voltaire, Montaigne e Rabelais e fare delle loro opere un fuoco assassino.

La Francia è impegnata in lotte importanti. Dovrebbe sapere che è minacciata e che è l’obiettivo designato di tutti coloro che combatte in nome di valori che rappresentano il suo patrimonio e il suo onore. I suoi soldati sono sul campo e danno la caccia ai terroristi che, nel nome dell’islam, commettono massacri di assoluta barbarie, sgozzano innocenti, rapiscono donne e ragazze, le violano e poi le vendono come schiave. La Francia pensava che non sarebbe mai stata macchiata da questo orrore. Peccato, è appena successo e nel modo peggiore. Abbiamo tutti perso degli amici in questa strage. La libertà ha perso dei cittadini fra i suoi migliori elementi, dei visionari, persone che ci illuminavano decifrando l’attualità con rara pertinenza. Bisogna essere chiari. Anche se gli assassini hanno urlato “Allah Akbar”, è anche contro l’islam e i musulmani che hanno agito. È una guerra alla democrazia, le cui istituzioni e le cui leggi rendono pos-

sibile un islam repubblicano. È da molto tempo che i musulmani francesi lo hanno capito; forse non si mobilitano abbastanza per denunciare con fermezza questi assassini che macchiano l’islam e il messaggio del profeta. È raro che siano invitati nelle trasmissioni con una grande audience. Oggi, più di prima, sanno che non sfuggiranno alle sovrapposizioni, al sospetto e alla diffidenza, anche se i politici dicono il contrario. Ma accettare questo significherebbe stare al gioco di questi assassini senz’anima, determinati e crudeli nel seguire questa deriva. Negli ultimi tempi, si direbbe che è iniziata una caccia all’islam e ai musulmani, stigmatizzati di continuo, indicati a dito ogni volta che una certa Francia perde sicurezza o si lascia andare a trovare dei capri espiatori per spiegare la crisi morale o la paura del domani o semplicemente per guadagnare elettori. C’era nell’aria qualcosa di brutto, qualcosa di malsano, voci

e umori in cui il razzismo trasudava dalle pagine di libri che hanno avuto parecchia eco. Un razzismo decaffeinato, che non ha l’aria di essere dannoso, ma che si nasconde dietro supposizioni, anticipazioni. Si è fatto commercio di paure e di odi, di fantasmi e di crisi di identità. Gli immigrati extracomunitari erano nel mirino. Oggi hanno difficoltà, sono infelici perché dei barbari hanno commesso un crimine atroce nel nome della loro religione. Bisogna che la Francia colga il messaggio di questo nuovo terrore: la guerra è entrata nel suo territorio. In che misura è preparata per affrontare degli assassini iper-armati, apparentemente ben addestrati e decisi a seminare morte ovunque? Al di là di questa prova, al di la dell’emozione e della collera, al di là del bisogno di giustizia, occorre che la società francese, i suoi partiti politici di destra come di sinistra, la sua società civile, che tutti noi, prendiamo coscienza che i fondamenti del

nostro paese, i suoi valori e le sue tradizioni sono direttamente prese di mira e minacciate, che non si tratta della semplice deriva di qualche farabutto che vuole vendicarsi, ma è la cattiva volontà radicale e feroce di impedire che dei musulmani possano vivere la propria religione in terra laica, nel rispetto delle leggi della Repubblica; è la volontà di isolarli e farne dei nemici della Francia. È per questo che dobbiamo resistere: siamo tutti coinvolti.

INTERPRETAZIONI IL CORANO NON VA PRESO ALLA LETTERA

I musulmani hanno bisogno di chiarimenti. Ciò che fa l’ISIS ha a che vedere con l’islam o piuttosto ne è un’eresia, una pura invenzione di Al Baghdadi, autoproclamatosi califfo per giustificare la sua sete di male e la sua volontà di prendere il potere fino a regnare su tutti i musulmani del mondo? Quando si consulta il Corano e certe sue interpretazioni, è chiaro che l’islam ha conosciuto periodi di lotta e di grande violenza, in particolare ai suoi inizi. Esistono dei versetti che ordinano di combattere con le armi affinché l’islam trionfi. Questa fase si situa dopo l’Egira di Mao-

metto a Medina nel 622. Il profeta ha dei nemici, persone che non solo non credono al suo messaggio ma cercano anche di distruggerlo. Il versetto 29 della sura IX è chiaro e va letto nel contesto dell’epoca, e non sullo sfondo di oggi: “Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo di capitolazione (Jizya), e siano soggiogati.” Nella stessa sura al versetto 73: “O Profeta, combatti i miscredenti e gli ipocriti, e sii severo con loro.” Maometto lotta contro i suoi avversari, in particolare contro gli ebrei di Medina e altri adoratori di idoli di pietra. Ogni riconoscimento del messaggio divino si accompagna a drammi e tragedia. La storia delle religioni lo prova. Il problema sta nel riportare nel VII secolo la nostra epoca moderna. Non si pos-

sono spostare i contesti e la storia a proprio piacimento, secondo i propri bisogni. L’ISIS, invece, funziona come se i quindici secoli che ci separano dall’apparizione dell’islam fossero stati cancellati da una bacchetta magica. Questi combattenti dell’odio fanno una lettura pedissequa del Corano, prendendo alla lettera tutto ciò che vi è rivelato. Nessuna metafora, nessun simbolo, nessuna distanza, nessuna intelligenza. Purtroppo è questa lettura riduttiva, semplicistica e che finisce per essere falsa, che si è imposta dal XVIII secolo in poi, dopo che Muhammad ibn Abd al-Wahhab, un teologo saudita, ha anteposto a tutto il dogma della sharia, generando un islam duro e integralista che ha il nome di wahabismo. L’Arabia Saudita e il Qatar seguono questo rito. Come il messaggio brutale dell’ISIS ha potuto attirare dei giovani europei, di cul-

tura musulmana o da poco convertiti? Questa visione dell’islam e delle sue promesse ha sedotto persone la cui identità non era solida, persone che hanno pensato che impegnandosi in questa lotta, avrebbero trovato una ragion d’essere e di vita. Perché la società occidentale non ha dato loro delle chance, perché sono percepiti come degli europei di seconda scelta, perché constatano che la contestazione del sionismo e la solidarietà coi palestinesi sono considerati come una forma di antisemitismo, perché il discorso dei reclutatori parla loro direttamente e allora loro pensano di aver trovato ciò che gli manca, un’identità che li conforta e li rassicura. Alcuni vanno in Siria e in Iraq per queste ragioni, altri per il gusto dell’avventura e del denaro. Perché l’ISIS è ricco e paga i suoi combattenti in contanti. Il vero islam si perde un po’ in tutto questo e così si vedono donne tutte in nero rimproverare ad altre donne, anche loro coperte dalla testa

ai piedi, di portare un velo non abbastanza spesso! È in nome di questo islam nostalgico dei suoi inizi che l’ISIS occupa un terzo dell’Iraq e un quarto della Siria. È ciò che la coalizione americana-europea-araba vorrebbe frenare, grazie ai suoi attacchi sempre più forti.

DISTRUGGERE

Quando nel marzo 2001 i talebani hanno distrutto due grandi statue di Buddha nel nord-ovest della valle di Swat in Afghanistan, non è bastata tutta l’emozione del mondo civilizzato per fermare quest’azione criminale perpetrata nel nome dell’islam. Anzi, aver fatto esplodere una statua alta più di quaranta metri e antica milletrecento anni ha fatto godere quegli ignoranti pericolosi. Le nevrosi e le frustrazioni che poi un giorno scoppiano si annidano qualche volta nel fondo dell’inconscio, distruggendo secoli di civilizzazione. Il piano di queste persone è distruggere tutte le trac-

ce delle antiche civiltà buddhiste. Al di là di questa impresa di distruzione, i talebani impediscono le vaccinazioni dei bambini contro la polio, saccheggiano le botteghe dei parrucchieri e i rivenditori di video. Oggi altri barbari aggrediscono i mausolei di Timbuctu minacciando di bruciare un tesoro di manoscritti rari e magnifici. Il peggior nemico dell’uomo è l’ignoranza, in più quando è arrogante e sodisfatta di sé ci si trova di fronte a dei criminali che nessuno potrà fermare, se non una forza brutale quanto la loro stessa stupidità. Un teologo di nome Muhammad ibn Abd al-Wahhab ha scritto dei testi che predicano un islam duro e puro, letto e interpretato alla lettera, in modo chiuso e senza possibilità di discussione. Questa ideologia ha creato un rito detto “wahabita”, rito scelto dai salafisti. È quello che impone l’esercizio della sharia e l’applicazione delle regole e delle leggi con un rigore anacronistico.

I paesi del Maghreb sono sfuggiti a questo rito. Ma quando in Algeria il partito del fronte islamico di salvezza (FIS) è stato escluso dalle autorità alle elezioni del 1991, è scoppiata una guerra civile in cui quegli islamisti frustrati hanno iniziato la jihad contro lo Stato e coloro che lo sostenevano. Più di centomila morti. Fra questi islamisti, alcuni sono stati formati nelle scuole wahabite dell’Arabia Saudita. Uno dei loro primi crimini è stata la distruzione dei marabutti che ospitavano i santi che il popolo venerava. Il wahabismo proibisce i marabutti, i mausolei e le statue. Non deve esistere, infatti, per loro, alcun intermediario fra il credente e Allah. L’unico che può rivestire questo ruolo di mediatore è il profeta Maometto. Tutti gli altri sono solo usurpatori. I distruttori di Timbuctu urlavano: “È haram, è haram.” Ma hanno torto. Ciò che è proibito nell’islam è l’adorazione degli idoli di pietra e la confusione del Dio unico con un’altra

divinità. L’islam ortodosso come anche il giudaismo proibiscono l’adorazione di figure il cui culto è spesso misterioso. Le due religioni monoteiste ritengono che i marabutti siano una forma di sopravvivenza dell’epoca pagana. Ma in realtà, si tratta di costumi che non hanno conseguenze sulla fede. Ogni città, ogni villaggio ha il suo santo. Distruggere il suo mausoleo è stupido. Quanto alle statue, sono opere d’arte, un patrimonio ammirato da turisti che vengono da tutto il mondo. In Marocco, esistono 652 santi, di cui 221 ebrei; fra questi santi, 26 donne, ciascuna col suo mausoleo. Su questo totale di santi, 126 sono venerati da ebrei e musulmani. Ogni anno gli ebrei originari del Marocco li celebrano con dei pellegrinaggi. Che sia in Marocco o in Mali, in Algeria o in Tunisia, la gente ama “affidarsi” ai propri santi. È una credenza che ha a che fare più con la superstizione che con la razionalità scientifica. Il Marocco ha da

sempre permesso alla sua gente di partecipare a questi culti. In questo paese c’è una tradizione di confraternite. I loro membri non commettono il crimine di confondere Allah con i propri santi. Fanno parte della cultura popolare del paese. Le persone che agiscono in modo distruttivo in Mali non sono persone di cultura; sono militanti che hanno forse imparato a memoria il Corano ma che non lo hanno assolutamente capito. E bisogna ricordarsi che dietro questa barbarie c’è il dogmatismo sostenuto dagli Stati e dai movimenti salafiti, come coloro che minacciano oggi la rivoluzione in Egitto e Tunisia. Alcuni gruppi armati, veri e propri commandos, danno la caccia agli innamorati nei giardini pubblici, attaccano i caffè e i ristoranti sospettati di servire vino, distruggono le opere d’arte e impediscono qualsiasi dibattito sulla religione e la laicità. È quanto è successo in Tunisia nel maggio scorso. Lo Stato non è abbastan-

za forte per vietare queste aggressioni e i conseguenti problemi di ordine pubblico. In Marocco, un uomo che si è autoproclamato imam in una moschea di Oujda è stato arrestato. Si chiama Abdallah Nihari. Andate in Internet e guardate i suoi video. Ignoranza e arroganza. La polizia è dovuta intervenire perché in una delle sue prediche ha lanciato una fatwa contro un giornalista che ha osato domandare l’abrogazione di un testo di legge che vieta relazioni sessuali al di fuori del matrimonio. La giustizia lo ha accusato di incitazione al terrorismo. La stampa ne ha parlato abbondantemente e il suo arresto è stato un segnale lanciato a coloro che hanno osato prendere il posto dello Stato e della giustizia nella gestione del diritto. L’anno scorso, alcuni imam delle moschee marocchine incitavano all’odio le altre religioni e lanciavano degli anatemi contro i cristiani e gli ebrei. Lo Stato è di nuovo intervenuto per ricordare che l’islam riconosce gli altri pro-

feti e le altre religioni monoteiste e ha vietato qualsiasi discorso razzista. Purtroppo, il Mali ha perso la sua autorità di fronte ai separatisti pericolosi. Oggi il paese è diviso e il Nord è nelle mani di ignoranti che colpiscono l’islam e i musulmani nel mondo. Il dovere di ogni musulmano oggi è di dire e ripetere che l’islam non ha niente a che vedere con questa barbarie. È questo il ruolo degli intellettuali, dei professori e anche dei giornalisti. Dirlo e ripeterlo perché all’Occidente, o almeno ad alcuni dei politici dell’Occidente, piace sostenere che islam e terrorismo siano la stessa cosa.

LA SETE DEL MALE Nella testa di Mohamed Merah, ucciso il 22 marzo 2012, dopo aver assassinato a sangue freddo sette persone, di cui tre bambini ebrei, davanti alla propria scuola a Tolosa

La scuola non mi piace, la scuola non mi è mai piaciuta. È così. Ho provato a fare come tutti gli altri, ma io non sono come tutti gli altri. Ho fatto degli sforzi per lavorare e guadagnarmi da vivere onestamente. Non ho mai avuto la sensazione di essere perduto. Sono pieno di energie. Amo la vita quando procede velocemente, quando fa rumore e quando si rompe la noia col fracasso. Non mi piace che ci si occupi troppo di me, mi piace sentirmi libero, correre, stupire le ragazze, essere fuori dal comune. Una sera del 2005 non sono riuscito a trattenermi di fronte a un’educatrice che

faceva delle prediche, e le ho dato un pugno in faccia. Lo so, non bisogna picchiare le donne, ma ho perso la pazienza. A partire da quando avevo 15 anni, sono sempre stato tenuto sott’occhio. Sorvegliato, nel mirino della squadra anticrimine, chiamato davanti al giudice. Ero diventato un caso. Malgrado tutto lavoravo, non facevo niente di male, e poi un giorno, è stato più forte di me, ho attaccato una donna in una banca. A quel punto non si scherzava più. Diciotto mesi di carcere duro. Il tempo di riflettere, di imparare e di pensare all’avvenire. Il mio fratello maggiore, Abdelkader, aveva trovato la sua strada: quella del buon musulmano. Barba, pantaloni e tunica lunga. Sua moglie coperta dalla testa ai piedi. Si trovava bene in quella parte. Mia madre non si lamentava mai di lui. In prigione facevo degli errori grossolani. Non era il momento di fare il furbo. Avevo progetti. Facevo il Ramadan come tutti i musulmani in prigione. Un giorno mi hanno raccontato

la storia di un tizio che si chiamava Khaled Kelkal, un algerino venuto in Francia con sua madre. Anche lui aveva scoperto che il suo posto non era in Francia; si era messo a fare stronzate. Anche lui è stato condannato alla prigione per furto a mano armata. Uscendo, è diventato un buon musulmano e voleva esser utile. Ha commesso diversi attentanti nel 1995. È stato abbattuto come un cane dalla polizia nei pressi di Lione. Anch’io ho un piano. Non mi piacciono gli ebrei. Sono ovunque. Un giorno ho chiesto alla maestra perché gli ebrei non fanno gli spazzini. Mi ha sgridato. Quando sono andato in Afghanistan, mi sono reso conto di quanto la Francia disprezzi l’islam e preferisca gli ebrei, Sono andato anche in Pakistan. Ho avuto qualche problema. Ma sono riuscito a scappare. Mio fratello mi sorvegliava. C’è sempre stato solo lui per me. Ero bravo a riparare le ingiustizie che la Francia commetteva. La Francia non ci ama. Non mi ha vo-

luto come soldato. Se ne pentirà. Le sparerò qualche colpo alla schiena per punirla di uccidere i miei fratelli in Afghanistan. Io sono francese. Sì, sulla carta. Ma non sono algerino, né arabo. Sono musulmano, un buon musulmano. Ecco la mia identità. Non sono il solo a preferire questa identità a quella francese che utilizzo per spostarmi. In fondo, so chi sono: un liquidatore. Mi piace vedere le teste cadere, mi piace vedere i miei nemici decapitati con la sega. Non guardatemi così! Dico la verità. Ho costruito una bella cittadina in calcestruzzo in cui mi ritrovo solo, e sogno. Pianifico, mi esercito, faccio il giudice e imparo a controllarmi. È finito il tempo in cui davo pugni alle donne. Ora sono passato a una fase più seria. Le armi so come procurarmele. Bisogna che mi organizzi. Dalla mia cittadella, osservo gli altri, i poveri della mia razza. Sono lì, senza lavoro, si trascinano per strada, nessuno se ne occupa. Invecchiano a vista d’occhio. Merda,

cosa aspettiamo per reagire, per bruciare questa merda di Francia che ci tratta come rifiuti? Sono anni che ci disprezza. Mi sono sentito per molto tempo umiliato da questo paese che si definisce come quello dei diritti dell’uomo. Dei diritti? Per niente. Razzismo, polizia, sorveglianza e persecuzione. C’è tutto ciò che serve per fare di noi dei paria, dei banditi. Noi siamo dei bastardi. Mia madre sta zitta, Non parlatemi di mia madre. Accetta che suo figlio marcisca in prigione. Be’, ho una bella vista e guardo dall’alto della mia bolla questo mondo marcio in cui i musulmani sono disprezzati, in cui si uccidono i bambini palestinesi e i fedeli in Afghanistan, e nessuno dice niente. Bene, smuoverò tutto, farò ordine in questa merda. Ho bisogno di esercitarmi ancora. Bisogna avere sangue freddo. Penso al talebano che ci faceva subire delle prove molto dure. Era senza pietà. Ho rischiato più volte di crepare. Ma quando mi ha insegnato a fare

la preghiera, ho capito che il cuore deve indurirsi, perché la missione resti solida, seria. Passerò all’azione. Niente sentimenti, niente stati d’animo. La morte non esita. Se dubito, sono fottuto. Bisogna essere precisi, puntare alla testa. I miei obiettivi, li sceglierò al momento opportuno. Una cosa è sicura: metterò la Francia in ginocchio.

NEL RESTO DEL MONDO IL PETROLIO, LO STATO JIHADISTA, LE SUE ORIGINI E LE SUE MINACCE

G.W. Bush ha iniziato Ci si chiederà a lungo quale è stata la motivazione principale di G.W. Bush nell’invadere l’Iraq nel marzo 2003. Non era l’esistenza delle armi di distruzione di massa, né il fatto di portare la democrazia alla gente irachena come se quel sistema di valori fosse una pillola da prendere il mattino per essere democratici la sera, né era il semplice benessere della popolazione di quel paese, né la volontà di fermare un dittatore. Ciò che ha spinto G.W. Bush a impegnare il suo paese in un’avventura militare dalle conseguenze e dalle implicazioni

numerose e pericolose è stato il petrolio. Mettere le mani sull’energia di quel paese. Il secondo grave errore commesso dal Pentagono è stato di sciogliere l’esercito regolare iracheno, renderlo inefficace, senza scopo e senza base. Risultato: l’Iraq è oggi uno Stato minacciato da attivisti senza fede né legge, impostori e falsificatori che utilizzano l’islam e il Corano come mezzo per prendere il potere e conquistare i paesi vicini. Non solo l’Iraq è diventato il territorio di tutti i terrorismi ma in più è stato il quadro di una nuova guerra di religione fra sciiti e sunniti. Mentre prima queste due tendenze dell’islam vivevano in pace, in una buona coesistenza, ecco che G.W. Bush decide di devastare l’Iraq e di rimettere le sue sorti a un primo ministro parziale, che privilegia gli sciiti e umilia i sunniti. L’ISIS prospererà, occuperà un terzo dell’Iraq e un quarto della Siria, ucciderà tutti coloro che non sono fuggiti, massa-

crerà degli innocenti, prenderà in ostaggio degli stranieri, li sgozzerà e invierà le riprese dell’orrore a tutto il mondo via Internet. L’ISIS ha superato di gran lunga Al Qaeda. La sua crudeltà, la sua barbarie, la sua determinazione hanno sorpreso il mondo musulmano e l’Occidente. Al Baghdadi si è autoproclamato califfo e ha instaurato sul territorio che occupa uno “Stato islamico”, chiamando a raccolta i musulmani del mondo intero ad allearsi con lui come ai tempi in cui Baghdad era il centro del mondo islamico.

La fedeltà col sangue degli altri Mai Hervé Gourdel, guida alpina, avrebbe immaginato andando nella regione di Tizi Ouzou in Algeria, paese che amava, di incontrare i banditi che lo hanno rapito e poi usato come elemento di

ricatto presso le autorità francesi perché queste interrompessero i bombardamenti sulle truppe e sui materiali dell’ISIS. È stato sgozzato dai “soldati del califfato”, gli stessi che avevano dichiarato fedeltà ad Al Baghdadi. Ma questo non bastava, bisognava dare una prova di ciò che erano capaci. Questa prova è stata la decapitazione di quell’appassionato di montagna, Hervé Gourdel. La fedeltà al preteso Stato islamico si è espressa col sangue di un innocente. L’Algeria sta indagando sul caso, cercando gli assassini nascosti su quelle montagne di difficile accesso. Questi jihadisti hanno intrapreso un percorso di violenza che uccide e distrugge tutti coloro che non stanno dalla loro parte. Tutto il mondo è preso di mira: i cristiani, gli ebrei, i musulmani sciiti, i sunniti non abbastanza fanatici, i democratici e i laici. Al mondo che non si sottomette ad Al Baghdadi è stata dichiarata una guerra a oltranza. Come ha dichiarato uno dei

suoi luogotenenti, portavoce del gruppo terrorista, Abou Mohammed al-Adnani, in un messaggio pubblicato in diverse lingue: “Dovete uccidere in particolare il cattivo e sporco francese infedele. Rompetegli la testa a colpi di pietre, uccidetelo con un coltello, investitelo con la macchina, fatelo precipitare nel vuoto, soffocatelo o avvelenatelo.” Ci si chiede, oggi che il dramma è stato consumato, come tutto ciò sia stato possibile e come il mondo civilizzato sia arrivato a farsi travolgere da questa banda di assassini.

Le origini di questa aberrazione Le catastrofi storiche non avvengono a caso. Sono preparate, talvolta annunciate. Non le si può paragonare a degli incidenti della Storia. Appena si approfondisce un po’, si riescono a rintracciare le loro origi-

ni, si stabiliscono le loro premesse, si trovano gli elementi che le hanno favorite e preparate. È così, ogni volta ci si stupisce e si grida all’orrore come se non avessimo un passato, una memoria. Lo “Stato islamico” jihadista del sinistro autoprocalamato califfo Abu Bakr alBaghdadi viene da lontano. Bisogna risalire ai tempi in cui questo individuo non era ancora nato. Per semplificare, datiamo la sua origine al 29 agosto 1966, il giorno in cui il presidente egiziano Nasser ha fatto impiccare Sayyid Qutb, un intellettuale oppositore e leader del movimento di Fratelli musulmani. Un martire. All’epoca, l’islam non era ancora utilizzato come arma di guerra. Si opponevano i suoi valori a quelli del progressismo marxisteggiante e soprattutto totalitario. Nasser ha represso con ferocia migliaia di oppositori islamici e anche democratici. La Siria e l’Iraq seguivano una ideologia Baath che era vagamente socialista e soprattutto com-

pletamente laica. Ma nessuno Stato arabo era democratico. Il potere si ereditava di padre in figlio o si conquistava con la violenza dei colpi di Stato. Grande ammiratore di Nasser, il giovane Gheddafi arrivò al potere con un colpo di Stato il 29 settembre 1969. Non fece del suo paese uno Stato moderno, al contrario: lo mantenne nella sua condizione tribale e soprattutto finanziò movimenti terroristi ovunque nel mondo. La seconda data importante è la nascita della Repubblica islamica dell’Iran, con l’arrivo dell’ayatollah Khomeyni che diceva nel 1978 che “l’islam o è politico o non è”. Nello stesso momento in cui gli afghani cacciavano gli occupanti sovietici nel nome dell’islam. Il seguito è noto. Intervento americano ed emergenza dei talebani, precursori della barbarie; il culmine fu la distruzione dell’arte greco-buddhista detta del Gandha¯ra per mano dei taleba-

ni nel 1998, poi la distruzione con la dinamite del grande Buddha nella valle del Bamiyan nel marzo 2001. Poi proteste e soprattutto alcune reazioni ufficiali nel mondo musulmano. A partire dalla fine degli anni settanta, le nozioni di jihad e di Repubblica islamica si impongono e arrivano a contaminare la rivoluzione palestinese, che non utilizzava la religione e tanto meno l’islam come ideologia di lotta. Per isolare Yasser Arafat, Ariel Sharon incoraggia discretamente la creazione di Hamas. Sciiti e sunniti si oppongono come noto in Libano dove lo Hezbollah è molto attivo, armato e finanziato dall’Iran attraverso il suo alleato siriano presente sul suolo libanese. Oggi questo movimento dà man forte a Bashar al-Assad contro i ribelli laici e democratici. Ci sarebbe stato comunque un accordo fra al-Assad e i leader jihadisti, che egli nei suoi bombardamenti risparmia. Dunque nel mondo arabo e musulma-

no è l’assenza di un’autentica democrazia, è l’autoritarismo dei capi illegittimi, è l’accumulazione di ingiustizie sociali aggravate dalla corruzione e dall’arbitrarietà che complicheranno le cose, a dare vita ad aberrazioni come l’attuale “Stato islamico” che va dall’Iraq alla Siria e minaccia gli altri paesi della regione. Ma senza l’invasione illegale e insensata dell’Iraq da parte dell’esercito americano nel marzo 2003, questo paese non sarebbe stato quel campo di rovine che è, base del terrorismo internazionale. Non fosse che per questo, G.W. Bush dovrebbe essere giudicato dal tribunale penale internazionale. Ma non si sottopone a giudizio un vecchio presidente americano. Il discorso di al-Baghdadi, i suoi metodi barbari, la sua utilizzazione dei media e dei social network affascinano e attirano giovani non solo originari dei paesi arabi ma anche dei paesi europei. Si sente spesso la dolorosa domanda:

questa violenza è insita nell’islam? Si potrebbe rispondere ricordando la storia del cattolicesimo, ma questo significherebbe schivare una questione imbarazzante. Evidentemente l’islam prega per la pace e la tolleranza, coltiva valori umanisti, ma nella stesso tempo vi vediamo la jihad, la lotta contro i miscredenti, l’apostasia e molte altre cose che sono interpretate in modi diversi. Tutto è relativo e tutto dipende dall’interpretazione che si dà a questo o quel versetto ma mai l’islam ha sollecitato il suicidio come strumento di massacro, mai l’islam ha detto che bisogna prendere degli ostaggi e decapitarli, mai ha diffuso l’ignoranza per indurre in errore gli spiriti deboli o malevoli. Se dei crimini sono stati commessi nel nome dell’islam, sta ai musulmani mobilitarsi per smascherare questi barbari, ma i musulmani non lo fanno perché hanno dei dubbi o perché hanno paura o peggio di tutto, perché approvano in silenzio ciò che succede.

Lo “Stato islamico” jihadista è una seria minaccia per tutto il mondo arabo ma anche per l’Europa. Migliaia di giovani europei di cui solo alcuni sono di origine maghrebina, altri sono convertiti, si trovano ora sul fronte della guerra che conduce questo pseudo-califfo. Un giorno torneranno in Europa senza essere individuati, senza che nessuno lo sappia, e passeranno all’azione. Perché nella testa di al-Baghdadi e dei suoi simili, la lotta contro l’Occidente è inevitabile così come la lotta contro gli Stati arabi non sottomessi all’islamismo. Resta da capire chi finanzia, chi arma questo “Stato” sanguinario. Bisogna ricordare che gli Stati del Golfo hanno portato in modo ufficioso il loro aiuto ad alcuni di questi movimenti. Anche di recente, l’Arabia Saudita ha condannato ufficialmente questo “califfato” selvaggio ma ricchi privati del Qatar e dell’Arabia Saudita sono stati generosi con questi combattenti che lottano per un islam oscurantista e totalitario.

Cosa fare? Se l’America e l’Europa non si impegnano di più, nel giro di qualche mese vedremo dei jihadisti europei seminare il terrore nelle città d’Europa e nel Maghreb. L’islamismo radicale ha dichiarato guerra all’Europa e al Maghreb. I primi attacchi americani e francesi sono cominciati. Ma sarebbe un errore credere che questi siano sufficienti a mettere fuori gioco e nuocere ad al-Baghdadi e ai suoi seguaci. Bisogna definire una politica comune fra il mondo arabo e l’Occidente per prevenire queste aberrazioni criminali. Bisogna prendere sul serio il discorso di al-Baghdadi. Ha fatto le sue prove decapitando due sfortunati ostaggi. Se non viene combattuto con le armi che servono, se non viene annientato militarmente, fisicamente, lui andrà avanti, farà l’infelicità dei paesi vicini, manderà i suoi sbirri a uccidere degli innocenti attraverso il mondo. Anche se l’islam ha le spalle larghe, è urgente che i paesi musulmani sappiano che

questo Stato jihadista è destinato a destabilizzarli, a rovinarli e a trasformarli in un autentico inferno. Un’indagine rigorosa dovrebbe cercare le origini dei locatori dei fondi di questo Stato, perché i furti che hanno commesso nelle banche di Mossul non sono sufficienti per mantenere un esercito così forte. Che gli Stati arabi si sveglino e che si uniscano, non fosse che per isolare i barbari, disarmarli e giudicarli. Se no, non ci sarà più sicurezza in nessun luogo.

È quasi una guerra mondiale Il 24 settembre 2014, i missili americani hanno colpito una decina di raffinerie di petrolio situate a Rakka e Deir Ez Zor nel Nord-Est della Siria, sotto il controllo dei jihadisti. Lo “stato islamico” dovrebbe controllare una ventina di pozzi di petrolio situati in Iraq e Siria. Poiché i finanziatori dei

fondi privati venuti da certi paesi del Golfo hanno interrotto i loro aiuti, i jihadisti hanno subito occupato i pozzi di petrolio e le loro raffinerie. Vendono fra 20 e 60 dollari al barile (che invece costa sul mercato circa 100 dollari). Cosa che assicura loro un guadagno quotidiano stimato fra gli 1 e i 2 milioni di dollari, abbastanza per finanziare ampiamente la guerra che conducono nel mondo. Il 28 settembre, l’esercito americano ha colpito duramente anche gli impianti di gas in Siria allo scopo di tagliare tutte le risorse di finanziamento dei jihadisti. Come e chi compra questo petrolio? Ogni guerra ha i suoi trafficanti, i suoi contrabbandieri e i suoi intermediari. In questo caso, sono numerosi e arrivano dai paesi vicini. Alcuni comprano il petrolio a metà prezzo, altri lo conservano in attesa di tempi migliori per approfittarne. L’America e la Francia hanno capito che si doveva iniziare a colpire queste fonti di guadagno importanti. Se ne sono appena

resi conto, se crediamo a ciò che Obama ha dichiarato il 28 settembre 2014, e cioè che ciò che viene chiamato “Stato islamico” è forte, organizzato e determinato. Non è costituito da una banda di briganti. È una organizzazione senza fede né legge che uccide tutti coloro che non condividono le sue idee: i miscredenti, i cristiani o gli ebrei, gli sciiti senza eccezioni, i sunniti se non sono abbastanza fanatici, e soprattutto coloro che esprimono la minima riserva sulla sua esistenza o le sue azioni. I paesi del Golfo hanno una responsabilità importante nell’emergere e nello svilupparsi di questo fenomeno che ha superato Al Qaeda e le sue cellule diffuse nel mondo. Il califfato di al-Baghdadi funziona con altre ambizioni e con molti mezzi. Avrebbe ricevuto parecchio denaro da privati dell’Arabia Saudita, del Qatar e del Kuwait. Evidentemente non abbiamo alcuna prova di questi finanziamenti. Tutti però ne parlano. Le autorità hanno chiuso gli occhi su

questo aspetto, pensando che un movimento sunnita forte avrebbe generato un altro Iran, il loro nemico di sempre. Ma è successo che il califfato avesse altri piani: stabilire ovunque uno Stato islamico. Ha iniziato col chiedere al mondo musulmano di giurargli fedeltà come se fossimo nel VII secolo, all’inizio dell’espansione dell’islam. Solo alcuni individui hanno risposto a tale richiesta. Ma il mondo musulmano, così diverso e così complesso, non poteva in alcun caso rassegnarsi ad accettare uno sgozzatore come rappresentante dei musulmani. È stato necessario che venissero presi di mira gli interessi degli americani e degli occidentali perché reagissero. Al-Baghdadi pensava che decapitando gli ostaggi, giornalisti innocenti, e filmando questo orrore, avrebbe fatto cedere i capi americani e francesi. È successo il contrario. Per fortuna cinque stati del Golfo partecipano a questa guerra (l’Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati Arabi, il Bahrein e la Giordania). Dalla fine di

settembre, la Turchia ha deciso di unirsi alla coalizione anti-jihadista. È importante, perché la Turchia, per la sua posizione geografica, per i suoi legami col mondo arabo e con l’islam, può giocare un ruolo importante in questa guerra soprattutto in Siria. Potrebbe servire da retrovia per l’aviazione e servirsi di questa base per andare a colpire le posizioni del DAESH. La disapprovazione è quasi generale. Il grand mufti dell’Arabia Saudita ha denunciato al-Baghdadi e gli ha negato la legittimità di proclamarsi califfo. I musulmani francesi hanno manifestato il loro rifiuto categorico del DAESH urlando nelle manifestazioni: “Questo non è l’islam.” Movimenti di giovani hanno sfilato a Londra coi cartelli “NOT IN MY NAME”.

La Siria è al cuore dei problemi La strategia consigliata da Putin era semplice: infiltrare gli oppositori laici con

estremisti islamici e far arrivare al mondo il messaggio che era preferibile un paese retto da Assad che una repubblica islamica che avrebbe ricominciato a uccidere tutti i cristiani presenti in territorio siriano. Mentre una ventina di commandos islamici si proclamavano di Al Qaeda, altri movimenti come al-Nusra si sono autoinvitati al conflitto siriano, rendendo l’opposizione laica e democratica debole. È grazie a questo conflitto che i jihadisti di al-Baghdadi si sono infiltrati in Siria e poi in Iraq, aiutati in questo da vecchi ufficiali dell’esercito iracheno, da Baath nostalgici dell’esercito di Saddam Hussein e da altri avventurieri che vedevano in questo movimento “la rivincita dei sunniti sugli sciiti”, perché il primo ministro iracheno al-Maliki aveva fatto di tutto per privilegiare gli sciiti contro i sunniti nel paese. Con la sua cattiva politica, partigiana e ingiusta, ha obiettivamente preparato il terreno all’ISIS. Il grande errore dell’America e degli

europei è stato di minacciare Bashar alAssad di rappresaglie se avesse superato il limite utilizzando armi chimiche contro il suo popolo. Bachar, probabilmente sotto il consiglio di Putin, ha gasato nel mese di agosto 2013 migliaia di siriani, fra cui un numero enorme di bambini. Barak Obama si è innervosito, François Hollande si è scocciato, il mondo ha gridato allo scandalo, il mondo aspettava delle reazioni immediate e importanti capaci di far uscire di scena Bashar al-Assad. Ma niente è stato fatto. Gli si è fatta una lezione, lo si è obbligato distruggere quel che restava delle armi chimiche e poi si sono dimenticate le migliaia di morti che aveva ucciso con armi convenzionali. La vittoria di Bashar al-Assad, la vittoria di Putin che oppone sistematicamente il veto a ogni condanna per crimini del suo amico siriano. E perché l’America e l’Europa hanno dimostrato la loro debolezza, le loro esitazioni, la loro mancanza di determinazione, che un

individuo come al-Baghdadi si è sentito autorizzato ad avanzare con le sue truppe di mercenari e ha occupato una parte dell’Iraq e della Siria. Sono stati necessari diversi mesi, è stato necessario che degli ostaggi occidentali si facessero sgozzare in pubblico perché l’opinione mondiale spingesse i potenti e formare una coalizione per colpire l’ISIS.

L’islam e la violenza Questa violenza è contenuta nell’islam o si serve dell’islam per reclutare adepti? Come tutte le religioni, anche l’islam ha visto dei periodi di violenza in cui il profeta Maometto ha dovuto battersi per far trionfare la verità. Non ha mai sostenuto però che bisogna uccidere degli innocenti né che ci si deve suicidare procurando la morte altrui. L’islam proibisce qualunque forma di suicidio. Suicidarsi significa sfi-

dare la volontà di Dio. Il suicidio fatto nel senso della jihad non è mai menzionato nei testi dell’islam. Ciò che tenta di fare l’ISIS I musulmani sanno che si stanno uccidendo degli innocenti in loro nome. Alcuni si sono mobilitati per denunciare questa forzatura. Resta il problema dei giovani europei figli di immigrati musulmani o dei convertiti recenti all’islam, che hanno raggiunto l’ISIS in Iraq e Siria. Sono alcune migliaia (mille francesi). Alcuni credono di fare la jihad per andare in paradiso, altri sono stati attratti dall’avventura e dalla guerra. Tutti hanno un problema di identità, una stabilità personale che non è consolidata. L’intenzione dell’ISIS è di metterli alla prova sul terreno della guerra e poi rimandarli nei loro rispettivi paesi per fare attentati nel nome del califfato dall’egemonia planetaria. È questo che temono i governi europei e le autorità del Maghreb. Il ritorno dei ragazzi, il cui cervello e la cui logica però sono

cambiati, facendo di loro degli assassini a comando. Dunque la storia del califfato e dell’instaurazione di uno “Stato” islamico, non è finita anche se gli americani e il loro alleati arriveranno a vincerli.

PRIMAVERA ARABA: UN BILANCIO MITIGATO

Quale che sia l’evoluzione dei paesi arabi, una constatazione si impone: i popoli arabi non hanno più paura dei dittatori e sono decisi a battersi per la loro dignità. Non possiamo dimenticarci della quantità di persone, uomini e donne, morte durante le rivolte, in Egitto, Tunisia, Bahrein, Yemen, Libia. Morti anonimi. Morti perché trionfino dei valori in società da troppo tempo tenute lontane dalla libertà e dalla giustizia. Come i loro genitori e i loro nonni hanno combattuto per l’indipendenza e contro il colonialismo, gli uomini e le donne di oggi non esi-

tano a scendere nelle strade per reclamare i propri diritti.

Egitto, ritorno dell’esercito L’anno 2013 sarà stato segnato dallo scacco degli islamisti arrivati al potere. È stato il popolo, con le sue manifestazioni frequenti e determinate, a rifiutarli per primo, prima ancora che fossero rispediti alle loro moschee o alcuni in prigione. La situazione diventata invece violenta in Egitto. Certo, il vecchio presidente Mohamed Morsi è stato destituito e arrestato ma i suoi partigiani non hanno lasciato fare e hanno resistito con tutti i mezzi a loro disposizione, inclusa la violenza visto che ci sono stati numerosi attacchi armati dei posti di polizia, che hanno fatto ogni volta molti morti. Non solo lui si era assunto pieni poteri, ma non aveva neanche reagito quando nel giugno 2013 dei cittadini scii-

ti erano stati linciati in un paese vicino al Cairo o anche quando alcune chiese copte erano state incendiate nel paese. L’esercito non ha scelto il metodo soft; non ha esitato a sparare sulla folla quando i partigiani di Morsi sono usciti a manifestare. Violenza contro violenza. Cosa che contraddice la volontà di instaurare nel paese uno Stato di diritto. La “democrazia” dei militari è piuttosto particolare. Fa spesso ricorso alla repressione. Non si può dire che un anno dopo l’arrivo dei militari al potere il paese sia totalmente placato. Non bisogna dimenticare che il movimento dei Fratelli musulmani è molto antico (nato nel 1920), ben organizzato e ha sempre combattuto con i militari. Il vecchio presidente Nasser, che era laico e si diceva rivoluzionario, aveva fatto impiccare nel 1966 Sayyid Qutb, uno dei fondatori dei Fratelli. Il suo successore Anwar al-Sadat è morto sotto i colpi di un gruppo armato islamista; quanto a Mubarak, pur

diffidando di questa opposizione, era riuscito a canalizzarla. Ne è prova il fatto che i Fratelli non abbiano partecipato per niente alla rivoluzione della primavera araba nata in piazza Tahrir. È più tardi, quando saranno organizzate le elezioni, che si metteranno in moto e arriveranno a far eleggere il loro rappresentante, Mohamed Morsi. Al-Sisi, anche lui, vuole essere eletto presidente della Repubblica. Per questo si è autoproclamato maresciallo! È assurdo quanto il potere possa rendere stupidi e crudeli. Maresciallo! E perché no Premio Nobel della Pace?! Dopo tutto l’ex generale al-Sisi ha espulso i Fratelli musulmani dal potere e messo in prigione il loro capo. Lo ha fatto per ristabilire la pace in Egitto? No, doveva mostrare la propria forza e far condannare a morte semplici oppositori. Non so se questa sentenza sia stata eseguita, ma quando l’esercito dà l’ordine di fucilare degli oppositori, allora ci trovia-

mo di fronte al modo migliore per aprire le porte a una guerra civile. Oggi una nuova costituzione è stata redatta da una commissione composta da cinquanta personalità di tutte le tendenze salvo quella islamica. L’islam è sempre la religione di Stato, malgrado l’esistenza di circa l’8 per cento di cittadini di confessione copta. La sharia, iscritta nella costituzione nel 1962 da Sadat, in questo testo è stata mantenuta. Questa costituzione sarà proposta al popolo con un referendum. Delle nuove elezioni legislative e presidenziali saranno organizzate, nella speranza che arrivino al potere dei civili. Tuttavia il generale al-Sisi, l’uomo che ha rimosso Mohamed Morsi, divenuto nel frattempo maresciallo, ha annunciato il 26 marzo 2014 di essere candidato alle presidenziali e ovviamente verrà eletto. La stessa settimana l’esercito ha fatto condannare a morte 529 Fratelli musulmani! Questa finzione di una giustizia rapida si rifà alle vec-

chie abitudini dittatoriali. Il popolo egiziano così è avvertito. Ogni opposizione sarà repressa con forza e rigore. Così il processo emerso dalla primavera araba è lontano dall’essere giunto alla sua conclusione. L’Egitto soffre degli stessi mali da più di mezzo secolo: sovrappopolazione, corruzione, assenza dello Stato di diritto, povertà e difficile educazione alla democrazia, cosa che lascia il campo libero al discorso religioso o alla forza dei militari. In ogni modo, come l’Algeria, il paese è sempre stato governato da militari a partire dalla rivolta degli ufficiali nel 1952. L’aiuto americano di poco meno di 2 miliardi di dollari è stato sospeso (aiuto che risale a quando lo Stato egiziano ha firmato la pace con Israele, che riceve più del doppio di questa somma), l’Arabia Saudita e altri paesi del Golfo a parte il Qatar hanno offerto 16 miliardi ai nuovi dirigenti, che potranno così risolvere i problemi economici più urgenti.

Il re Abdallah in persona aveva dichiarato il suo appoggio al nuovo potere egiziano “di fronte al terrorismo”. Ha chiamato “gli egiziani, gli arabi e i musulmani a opporsi a tutti coloro che tentano di destabilizzare il paese”. Il suo ministro degli affari esteri, il principe Sa’ud bin Faysal, si è mostrato ancora più esplicito, rifiutando la responsabilità delle violenze sulla confraternita dei Fratelli musulmani. I paesi del Golfo, anche se vivono sotto l’influenza della sharia e seguono il sistema wahabita, con un islam duro e puro, temono il progresso dei Fratelli musulmani nel mondo, perché si sentono minacciati in modo diretto dall’appetito di questo movimento. Il 2014 sarà cruciale, perché si capirà se il popolo egiziano si sarà veramente riconciliato con se stesso e se la democrazia in quanto insieme di valori e principi sarà davvero realizzata o piuttosto solo usata come tecnica elettorale senza instaurare un autentico Stato di diritto.

Il turismo, principale risorsa economica del paese, è morto, o quasi. I problemi e gli attentati hanno creato un’insicurezza che non incoraggia gli stranieri a recarsi in questo bel paese. Del resto, gli ufficiali di alto grado continuano a essere parte integrante degli affari finanziari, regalo che del vecchio presidente Mubarak. Controllerebbero il 25 per cento dell’economia del paese, senza considerare le preparazioni necessarie in caso di attacco esterno. L’esercito sarebbe alla testa, dal punto di vista economico, di 29 province. La manodopera è gratuita perché è fatta di soldati pagati dallo Stato. Un osservatore ha attirato l’attenzione delle autorità sul declino della capacità tattica e operativa di questo esercito. Gli aerei F-16 così come i tanks M1A1 forniti dall’America non sono più in buono stato.

Tunisia, la speranza In Tunisia gli islamisti di el-Nahda e l’opposizione laica sono riusciti a designare un nuovo primo ministro, l’attuale ministro dell’industria, Mehdi Jomaâ. Deve presiedere a un governo interinale apolitico e preparare le elezioni che avranno luogo il primo trimestre del 2014. Lo stato d’emergenza è stato prolungato. Come in Egitto, il turismo non funziona quasi più, il Club Med di Hammamet è stato appena chiuso. La crisi politica che dura da due anni è stata segnata dall’assassinio di due uomini politici, il sindacalista Chokri Belaïd e il deputato di opposizione Mohamed Brahmi; il governo islamista non è riuscito a eliminare il terrorismo degli estremisti salafiti. Il paese resta segnato da una certa instabilità e si aspetta molto dalla nuova costituzione. Come in Egitto, il 2014 sarà l’anno della messa alla prova delle promesse democra-

tiche. Due visioni del mondo e della società continuano a opporsi: laici contro tradizionalisti. Il problema è che ci sono troppi partiti politici e siamo lontani dal sistema dell’alternanza. Tuttavia, il 14 dicembre 2013 è stata adottata una legge sulla “giustizia transizionale”. Ispirata all’esperienza di paesi come il Marocco e il Sudafrica che avevano optato per la giustizia e la riconciliazione dopo decenni di repressione, questa legge promossa dalla “commissione di verità e dignità” è stata giudicata positiva da molti gruppi politici tunisini. Il portavoce ufficiale del ministero dei diritti dell’uomo, Chekib Darwich, ha precisato che questa legge è stata elaborata sulla base di “un approccio partecipativo che vede coinvolte tutte le parti”. Cosa che è un progresso per la futura pulizia politica di un paese. È in questo contesto e con queste attese che l’albero della primavera araba sta dando i suoi primi frutti in Tunisia. È la prima volta che un paese ara-

bo e musulmano include nella sua nuova costituzione l’uguaglianza fra l’uomo e la donna (“le cittadini e i cittadini sono uguali davanti alla legge senza discriminazioni”) e allo stesso tempo riesce a mettere da parte la sharia instaurando la libertà di coscienza (“Lo Stato è il guardiano della religione. Esso garantisce la libertà di coscienza e di credenza e il libero esercizio de culto”). Lo Stato garantisce anche la libertà di espressione e vieta la tortura fisica e morale (“La tortura è un crimine imprescrivibile”). Non solo la Tunisia grazie al coinvolgimento della società civile, e in particolare grazie alla battaglia delle donne, è riuscita a respingere il partito islamista el-Nahda nelle moschee, ma nello stesso tempo ha aperto il paese a una modernità che manca drammaticamente nel resto del mondo arabo. L’uguaglianza dei diritti significa che non ci saranno più poligamia né ripudio, significa anche che l’asse eredita-

rio non obbedirà più alle leggi dell’islam che accordano una parte all’uomo e mezza parte alla donna. Sura 4, versetto 12: “Quanto ai vostri figli, Dio vi ordina di attribuire loro una parte uguale a quella di due figlie.” L’uguaglianza è anche un passo verso la parità nei salari. In Europa si continua a pagare un uomo più di una donna per la stessa mansione. Forse la Tunisia darà il buon esempio, ribaltando il quadro e facendo così indietreggiare i pregiudizi e gli arcaismi. L’uguaglianza dei diritti fra l’uomo e la donna è esattamente ciò che gli islamisti non possono accettare. Perché quello che l’utilizzazione della religione in politica nasconde, è la paura della donna, la paura della sessualità liberata della donna, la paura che l’uomo ha di perdere la supremazia che gli accordano certi versetti. L’integralismo religioso è ossessionato dal sesso. È per questo che l’uomo cerca di velare

la donna, che sia sua moglie, sua sorella o sua madre. Bisogna nasconderla, renderla invisibile. Bisogna uccidere il desiderio perché secondo gli integralisti tutti i problemi della società nascono dalla libertà della donna. Fanno l’esempio dell’Occidente in cui la liberalizzazione dei costumi avrebbe provocato la destrutturazione della cellula familiare. La lotta dei tunisini per la liberazione dell’uomo e della donna non risale a ieri. Bisogna riconoscere che negli anni sessanta fu il vecchio presidente Habib Bourghiba (1903-2000) a lanciare nelle strade il programma di liberazione della società tunisina. In un primo tempo diede alla Tunisia il codice di diritto di famiglia più progressista del mondo arabo. L’istituzione di questo codice di diritto privato che risale al 13 agosto 1956 è stato un passo essenziale sulla strada della modernità. È venuto poi un tentativo di laicizzazione della società. Bourghiba ha avuto

il coraggio di presentarsi in televisione in un giorno di digiuno del Ramadan dicendo, prima di bere un bicchiere di spremuta di arancia: “La Tunisia porta avanti la sua lotta per lo sviluppo economico; il Ramadan ritarda questa lotta, ma durante la guerra ai soldati è permesso di mangiare e bere; consideriamoci in guerra per lo sviluppo.” Coloro che si rifiutavano di rinunciare alle proprie idee religiose erano liberi di praticare la loro fede. Gli altri erano altrettanto liberi di mangiare e bere pubblicamente. Fu una decisione storica. Oggi simili dichiarazioni provocherebbero manifestazioni molto violente. La religione ha assunto un peso troppo importante nella vita delle persone, a causa delle frustrazioni e delle delusioni politiche. È per questo che la nuova costituzione tunisina segna una data importante nella storia di una primavera che ha rischiato di trasformarsi in un incubo infernale. Ma le cose non sono concluse. Ancora è necessario che le

elezioni legislative e presidenziali possano confermare nelle urne questo progresso e questa scelta della società. La partita non è vinta. Le forze della regressione non sono state disarmate. I salafiti non sono scomparsi dal paesaggio tunisino e di tanto in tanto si manifestano attaccando le forze di polizia e i cittadini che vivono liberamente. Il loro movimento Ansar al Sharia (“i difensori della sharia), diretto da un veterano della guerra in Afghanistan il tunisino Abu Iyadh, è stato classificato dal governo come “un’organizzazione terrorista”. Se la Tunisia consolida questo cambiamento nella costituzione, se riesce a metterla in pratica, tutto il mondo arabo sarà sotto osservazione, soprattutto il vicino algerino che ha il diritto di famiglia più retrogrado del Maghreb. Quanto al Marocco, anche se ha modificato il codice di diritto privato, non ha osato toccare il problema ereditario. I paesi del Golfo, in particolare l’Arabia

Saudita e il Qatar seguono il rito wahabita che è un dogma rigido e retrogrado che risale al XVIII secolo. Oggi le donne hanno iniziato a manifestare in Arabia per avere il diritto di guidare; in questo paese si continua ad applicare la sharia. L’ipocrisia occidentale cui piace firmare succosi contratti con questi paesi fa finta di non sapere che sta trattando con dei campioni della regressione. Si vedrà nell’immediato futuro come questi paesi reagiranno di fronte alla svolta storica ed eccezionale di una nazione che si è messa sul cammino della laicità, posto che questa non è il rifiuto della religione ma la separazione della sfera pubblica e di quella privata, con la libertà di credere o di non credere. La nuova costituzione ha eliminato anche il riferimento all’apostasia. L’Egitto per esempio nel passato ha condannato a morte dei cittadini che avevano fatto una lettura non ortodossa del Corano. Sono stati indicati come apostati, crimine assoluto dal punto di vista islamico.

Libia, alla ricerca di uno Stato di diritto La primavera libica è lontana dal dare i suoi frutti. Dal 20 ottobre 2011, giorno in cui Gheddafi è stato linciato dalla folla, la Libia, per quanto liberata da questa famiglia di gangster, non è riuscita a trovare una base comune per un nuovo inizio. Si tratta in effetti di costruire uno Stato. La Libia è composta da un insieme di tribù (85 le principali); il 20 giugno 2012 ci sono stati degli scontri che sono durati più di una settimana fra combattenti della città di Zintan a sud-est di Tripoli e membri della tribù Machachia. Centocinque morti e più di cinquecento feriti. Secondo Le Figaro del 17 marzo 2014, “dal 2011 circa 1200 persone sono state uccise fra vendette, scontri fra milizie e azioni criminali”. A causa di vent’anni di embargo, la popolazione ha imparato a vivere con la crisi. Dall’elezione di un’assemblea costituente il 7 luglio 2012, la situazione politica non

è adatta per l’instaurazione di uno Stato di diritto. Il caos è mantenuto da attivisti probabilmente di Al Qaeda e da nostalgici armati del gheddafismo. Si è venuto a sapere anche che dei “gruppi federalisti” hanno creato nel novembre 2013 un “governo autonomo” in Cirenaica, luogo storico della lotta contro Gheddafi. L’aeroporto di Tripoli è controllato dalla tribù di Zintan. Mentre la Libia produceva un milione e mezzo di barili di greggio al giorno, oggi ne produce solo 250.000. Sembra che un petroliere nord-coreano avrebbe caricato del greggio nel porto di Sidra e sia partito senza pagare la fattura. È in questo disordine che Ali Zeidan, primo ministro, è stato destituito l’11 marzo 2014 da un voto di sfiducia del parlamento. Ha preferito andarsene in Germania dove vive una parte della sua famiglia. Ma senza stabilità, senza strutture politiche ben salde, la Libia fa fatica a trasformare la sua rivoluzione in un’era di pace

in cui viga il diritto. Il disordine ha permesso al terrorismo di rafforzarsi a livello di armi, cosa che ha facilitato le manovre di destabilizzazione del Mali grazie a orde di mercenari che con la scusa di difendere l’islam prendono ostaggi e trafficano con la droga.

La Siria, una tragedia pianificata da Putin, l’Iran e alcuni mercenari Mentre in Egitto e in Tunisia il 2014 potrebbe essere l’anno della stabilizzazione e della pace, in Siria il piano iraniano e russo per sostenere Bashar al-Assad sembra prendere terreno e soprattutto fare dell’opposizione dei ribelli un campo di battaglia fra islamisti estremisti e laici democratici non aiutati né dall’Europa né dagli Stati Uniti. Cosa strana e paradossale: l’Iran si batte contro islamisti sostenuti dal Qatar e dall’Arabia Saudita. L’Hezbol-

lah, partito di Dio, armato e finanziato dall’Iran, è con Assad. La genialità di Putin è stata nello spingere Assad a togliere ogni legittimità e credibilità ai ribelli infiltrandoli di estremisti che minacciavano la comunità cristiana siriana. Questo scenario ha funzionato così bene che ha convinto gli anti-Assad a essere prudenti e a non aiutare una ribellione che, se trionfasse, instaurerebbe una repubblica islamica dove Al Qaeda avrebbe i suoi rappresentanti. Dopo più di tre anni di guerre e più di centoquarantamila morti, per la maggior parte civili, fra cui undicimila bambini (numeri delle Nazioni Unite) con milioni di siriani rifugiati in Libano e nel resto del Vicino Oriente, Bashar al-Assad sta vincendo la sua guerra contro il suo popolo. Nel frattempo, gli occidentali assistono senza fare niente a questa tragedia in cui trionfa il male assoluto rappresentato dal clan Assad già responsabile dell’assassinio di 20.000 cittadini a Hama nel 1982, e an-

cora peggio alla vittoria del crimine istituito contro la libertà. La tragedia siriana è la cosa peggiore che sia successa al mondo arabo dalla sconfitta degli arabi con Israele. Anche la guerra civile libanese è stata una guerra di tutti contro tutti, stupida e inutile. Ma in questo caso, si tratta di una guerra condotta da almeno tre paesi contro un popolo che ha iniziato a manifestare pacificamente nel marzo 2011 e che in risposta ha ricevuto gli spari dell’esercito del clan alawita. La vittoria del crimine e la sua legittimità sono stati assicurati da Putin che ha pianificato questa guerra. Ciò costituirà una vergogna per le nazioni civili e si dirà “è complicato” per giustificare una passività che ha fatto precipitare questa vergognosa vittoria. Quanto ai paesi arabi, la loro responsabilità è immensa. Va detto, certo, che ogni stato era occupato a ristabilire l’ordine nelle proprie strade. La lega degli Stati Arabi, da parte sua, ha mostra-

to molte volte tutta la sua incapacità nel fare qualsiasi cosa nella regione. I popoli lo sanno e certe volte ignorano perfino l’esistenza di questa istituzione, che è utile solo ai suoi membri, che parlano, parlano e non fanno niente.

Il Marocco, un’eccezione In questo quadro in cui comunque niente è definitivo, il Marocco sembra un’eccezione; non ha visto una primavera nel senso di una violenta messa in discussione del regime. Il re Mohamed VI ha anticipato le riforme con una nuova costituzione seguita da elezioni libere e trasparenti, che hanno visto la maggioranza del Partito per la giustizia e lo sviluppo (PJD), islamista non violento. Il re ha nominato primo ministro il capo di questo partito, il quale ha costituito un governo di coalizione. Il paese funziona malgrado mali

difficili da tenere sotto controllo, come la corruzione, le diseguaglianze e un sistema economico liberale senza problemi. La crescita è dell’ordine del 4 per cento e le previsioni sono ottimiste. Ma il re, molto dinamico, lavora senza sosta per fare del Marocco un “paese emergente” aperto sia all’Occidente che all’Africa. Il paese andrebbe ancora meglio se non dovesse affrontare le manovre segrete del vicino algerino che blocca ogni soluzione politica al problema del Sahara, territorio marocchino occupato nel passato dalla Spagna e che questa ha lasciato nel momento dell’agonia di Franco. Il Marocco l’ha recuperato con una marcia, la famosa “Marcia verde” che aveva unito 350.000 marocchini nel novembre 1975. La primavera sta arrivando. Non è tutto rose e fiori. Capita che le resistenze alla modernità siano più forti del processo di cambiamento e di democratizzazione. Le persone sono impazienti. Vogliono che

tutto cambi abbastanza rapidamente, ma si dimentica che il mondo arabo è diverso e poco simile al resto, e mostra ovunque un punto comune, il non riconoscimento dell’individuo. La rivoluzione sarà completa quando permetterà che l’individuo, entità unica e singolare, emerga. È quello che è riuscita a fare la rivoluzione francese.

PERCHÉ LA “PRIMAVERA ARABA” HA FAVORITO GLI ISLAMISTI?

Perché le rivolte arabe hanno favorito più l’islamismo che la democrazia, anche se i militanti religiosi non hanno né iniziato né realmente partecipato a queste rivolte popolari? La prima ragione che si impone è l’assenza di democrazia in questi paesi; il fatto di organizzare delle elezioni qui è una tecnica, non una cultura ben assimilata. Nessuno Stato arabo è giunto finora a essere uno Stato di diritto. La seconda ragione sta nelle preoccupazioni suscitate dalla crisi economica e finanziaria che sta scuotendo il mondo. La

sfera religiosa diventa un rifugio metafisico. Contro l’assurdità del denaro virtuale, contro la speculazione che causa la rovina di milioni di famiglie, il musulmano esibisce la sua religione; la mette davanti a ogni cosa e ne fa una protezione magica e soprattutto consolante. L’islam è di natura conciliante. Consiglia la pazienza e il ricorso a Dio. Il popolo tunisino e quello egiziano per esempio hanno scelto per la maggior parte l’islam come propria cultura e identità. A quanto pare si sentono a proprio agio nell’esercizio quotidiano di questa religione e ne sono fieri. Ciò deriva dal fatto che le dittature che li hanno dominati per decenni sono state percepite come emanazioni della politica occidentale. L’Occidente nel suo insieme – Europa e America del Nord – è considerato come il complice di questi dittatori ma anche come il soggetto che ha fornito una cultura laica in opposizione alle tradizioni ancestrali di una società in cui l’islam è sempre

stato vissuto come una morale e la fonte di una grande cultura. La laicità è intesa dagli islamisti non come una separazione della religione dallo Stato, ma come una negazione della religione, un ateismo mascherato che non osa affermarsi direttamente. Ogni discussione a questo proposito viene rifiutata. Esiste tuttavia una società civile che fa della laicità il suo cavallo di battaglia, ma essa è minoritaria e combattuta da argomenti fallaci e demagogici, e in certi casi dalla violenza criminale. Benvenuto, dunque, Islam come ideologia, morale, cultura e identità! La tendenza è alquanto integralista perché segue il wahabismo, dal nome del teologo del XVIII secolo che sosteneva un islam duro e puro senza sfumature e senza libertà di interpretazione. Negli anni novanta, alcuni wahabiti venuti dall’Arabia Saudita hanno distrutto dei marabutti in Algeria affermando che il principio della santità è illegittimo e antimusulmano. Altri mi-

litanti di questa corrente hanno da poco distrutto dei mausolei in Tunisia, mausolei in cui sono sepolti personalità considerate sante dalla maggior parte del popolo. Il 20 maggio 2012 militanti salafisti hanno manifestato a Kairouan esibendo sciabole, scandendo il nome di Bin Laden, facendo un appello, dal sito Kapitalis.com, a “uccidere gli ebrei, i laici e i miscredenti”. Secondo delle stime ufficiali, quattrocento moschee su cinquemila sono nelle mani di questi radicali violenti che vanno anche a caccia degli innamorati nei parchi. Questo islam trionfante dà sicurezza a buon mercato. Si legge sul volto dei militanti e dirigenti islamici una beata soddisfazione. Sono felici. La loro cultura non è stata importata dall’esterno né imposta dagli occidentali. Sentono che ormai niente più si oppone ai loro progetti. In Marocco c’è una resistenza. Il 27  maggio 2012, a Casablanca c’è stata una grande manifestazione contro la po-

litica del governo islamista e per la dignità. Anche se le riforme proposte da alcuni ministri sono state slittate o scartate, esiste una volontà di islamizzare la società. Il marocchino ha sempre sentito di appartenere all’islam senza bisogno di urlarlo sui tetti. Non ha bisogno oggi che gli si ricordi questa dimensione, visto che fa parte della sua vita. La tolleranza è una tradizione in questo paese, salvo che in certi particolari momenti, quando si eclissa: quando dei giovani osano mangiare pubblicamente durante il mese del Ramadan o quando pretendono una cultura universale, soprattutto musicale. La sera del 24 maggio 2012 a Rabat, durante il festival internazionale della musica Mawazine, ho visto una folla di più di centomila giovani cantare in coro col gruppo hard rock Scorpions ed esibire striscioni dei fans club di questi rockers esuberanti. Stessa cosa per il cantante giamaicano Jimmy Cliff (convertito all’islam), o Lenny Kravitz o Mariah Carey.

Questo festival è stato combattuto dagli islamisti e dalla loro stampa. Ma non è stato annullato e per fortuna, perché il grande pubblico potesse assistere gratuitamente a diversi concerti. L’alto patronato del re Mohamed VI non è cosa indifferente. Questo capo di Stato è molto abile: discute col capo del suo governo, media, consiglia e allo stesso tempo incoraggia il pluralismo culturale e l’apertura al mondo. Il caso del Marocco è interessante perché esiste una società civile dinamica che considera l’islamismo solo come una tappa nel processo di democratizzazione del paese. Tappa seguita con attenzione dalla stampa e dai movimenti di contestazione. Resta un punto nero: il processo fatto al vignettista Khalid Gueddar e la condanna a un anno di prigione del rapper Mouad Belghouat. Gli islamisti non amano né l’umorismo né la satira. Diverso è il caso dell’Egitto. Un paese in cui la rivoluzione non ha ancora espres-

so tutte le speranze del popolo. Ma la resistenza dei rivoltosi che vedono la loro rivoluzione confiscata da fanatici è presente e non si è rassegnata. Le elezioni presidenziali hanno provato almeno una cosa: ogni voce conta e malgrado qualche frode, c’è attesa fino all’ultimo minuto. Non si può truccare tutto e fare delle elezioni su misura come faceva Mubarak prima. Gli islamisti hanno ottenuto solo un ottavo dei voti. Hanno però la concorrenza dei salafiti che vogliono l’applicazione immediata della sharia e l’intervento dello Stato in campo economico. Sono, del resto, dei nemici dichiarati dei copti. I loro militanti vengono da quartieri popolari poveri. Paragonati a loro, i Fratelli musulmani sembrano il male minore. Il loro pubblico si colloca nelle classi medie e sono per il liberalismo economico. Mohamed Morsi ha delle chances di farcela e se è il caso, dovrà trovare un accordo con i militari che tirano le fila della situazione e faranno di tutto

per mantenere il controllo dei buoni affari (gestiscono più del 20 per cento dell’economia del paese) che Mubarak aveva concesso loro. Anche se una legge vieta ai membri del regime precedente di presentarsi alle elezioni, il generale Ahmad Shafiq, ultimo primo ministro di Mubarak, è riuscito ad aggirare questa legge ed eccolo all’ultimo turno dell’elezione presidenziale. Bisogna dire che ha il voto massivo dei copti e dei nostalgici del mubarakismo. I militari lo sostengono; dopo la rivoluzione, più di dodicimila ragazzi sono stati arrestati e condannati da tribunali militari eccezionali e altri cittadini sono stati uccisi durante le manifestazioni. Quale che sia il risultato finale, il popolo egiziano è cosciente che la tappa islamista (non per forza quella dei salafiti, che sarebbe la più dura) è ineluttabile. Messi di fronte alla realtà, si screditeranno. La delusione è quasi programmata. Lo Stato di diritto non si fa per decreto;

si costruisce giorno per giorno attraverso le prove e le esigenze di una reale cultura della democrazia. In Siria, una gran parte dei cristiani sostiene Bashar al-Assad temendo l’arrivo dei salafisti in caso di vittoria degli insorti. Lo scenario islamista del dopo Assad è plausibile anche se l’opposizione minimizza l’importanza di questa corrente. Non è una ragione per accettare o minimizzare la gravità dei crimini commessi dalla famiglia al-Assad, educata da un padre abituato all’eliminazione fisica di qualsiasi oppositore (ricordiamo il massacro di Hama nel 1982). Un ultimo punto a sostegno della vittoria degli islamisti un po’ in tutto il mondo arabo: la paura dell’islam in Europa è sempre più coltivata da politici e intellettuali che parlano di “fascismo verde” e di minacce all’identità europea. Riprendono le tesi del giornalista americano

Christopher Caldwell che aveva fatto delle ricerche sull’avanzare della religione musulmana nei paesi europei sostenendo in un’intervista che “l’islam è in grado di travolgerla demograficamente e filosoficamente” e che non è “assimilabile alla cultura europea”. Questa opinione ha nutrito l’islamofobia latente che ha permesso all’estrema destra in Europa di raggiungere risultati inquietanti, come in Norvegia, Finlandia, Paesi Bassi e Serbia, per non parlare del successo del Front National in Francia o quello dei Democratici svizzeri e del Partito nazionalista svizzero (26,6 per cento). In fondo, la paura dell’islam è un buon alleato dell’estremismo e del razzismo. Certi islamisti usano le stesse strategie per rifiutare ciò che viene dall’Occidente e soprattutto coloro che sostengono il dialogo tra le religioni. Con la loro attitudine provocatoria, sfidano i valori della repubblica e preoccupano le popolazioni europee.

Del resto, quello che è in gioco oggi nel mondo arabo è l’avvenire della modernità. Per il momento, sembra vincere la regressione.

TERRORE E POLIZIA

Si chiamava Sayyid Bilal, aveva 31 anni. Musulmano praticante, ma senza connivenze coi gruppi terroristi, viveva ad Alessandria con la giovane moglie, incinta per la seconda volta. Mercoledì 5 gennaio, riceve una telefonata dagli uffici della Sécurité Nationale: “Venga questa sera alle 22; porti una coperta, ne avrà bisogno.” All’ora stabilita, si presenta, ignorando la ragione di questo strano “invito” ma non avendo niente da rimproverarsi, non si fa troppe domande. Ventiquattr’ore più tardi, un medico dell’ospedale pubblico telefonò alla sua

famiglia. “Abbiamo trovato all’ingresso dell’ospedale il corpo inanimato di Bilal. Potete venire a vederlo.” Stupore. Il corpo è stato selvaggiamente torturato. I genitori hanno potuto appena riconoscere il figlio, hanno fatto giusto in tempo a scattare qualche foto. Perché poi è stato dato ordine di seppellirlo, il giovedì sera e non all’indomani, giorno della grande preghiera. La famiglia sporge denuncia. Le si ordina di ritirarla, pena il rischio di ritrovarsi in un campo di internamento. La stampa riferisce questa vicenda. La Sécurité Nationale lascia fare. Il messaggio è chiaro. Bisogna che il cittadino viva nella paura. Nel frattempo, ci saranno stati centinaia di arresti sommari… Il caso dell’Egitto non è eccezionale. Ciò che succede da settimane in Tunisia e in Algeria prova quanto il cittadino arabo sia disprezzato, umiliato. In modo discrezionale, può essere arrestato, torturato o semplicemente assassinato. È purtroppo

quel che succede in molti paesi arabi. In Tunisia, a Sidi Bouzid, capita a un mercante di frutta e verdura, Mohamed Bouazizi (26 anni) che, a forza di molestie e umiliazioni da parte della polizia, si è immolato nel fuoco. Dopo, i confronti con la polizia hanno generato una cinquantina di morti e di feriti. L’11 gennaio, dei manifestanti a Kasserine urlavano: “Siamo tutti Bouazizi.” Ben Ali fa appello all’esercito. Sa che resterà impunito, che nessun tribunale penale internazionale gli chiederà conto di quel che sta facendo. In Algeria, paese in cui l’esercito non ha mai lasciato il potere dal 1962, ogni contestazione viene repressa nel sangue (sommosse del pane nel 1988; interruzione del processo elettorale nel 1990, seguita da una guerra civile che ha causato decine di migliaia di morti). Ciò che caratterizza la maggior parte dei regimi arabi è l’illegittimità e l’impuni-

tà. Assenza di libertà, disprezzo della volontà popolare, repressione della minima opposizione, giustizia truccata, azioni arbitrarie; la leva generale è la corruzione. Tutto ciò è risaputo, è stato detto, eppure il fatto di saperlo e denunciarlo non impedisce a questi regimi di perseverare nella loro esistenza e nella loro arroganza. Si direbbe che Dio ha maledetto questi paesi, li avrebbe abbandonati a dei ceffi brutali e crudeli. Lo scrittore algerino Rachid Mimouni (1945-1995) aveva descritto tutto questo in un romanzo, La maledizione. Parlava del suo paese. Purtroppo questa maledizione riguarda una gran parte del mondo arabo e dura da molto tempo. Regimi emersi da colpi di Stato, presidenti che si “fanno eleggere” con percentuali che sfiorano il 99 per cento, un disprezzo profondo per il cittadino, le ricchezze del paese accaparrate da individui che tirano le fila di tutto nell’ombra. La manna petrolifera

e del gas dell’Algeria è una risorsa solo per un’oligarchia. In Tunisia tutto succede in famiglia. Man bassa sul paese. Tutti questi regimi che sanno di marcio, non disturbano la buona coscienza degli europei. Troppi interessi in gioco. Si chiudono gli occhi a causa del petrolio e del gas e ci si rassicura dicendo che questi dirigenti sono il male minore, un ultimo baluardo contro l’integralismo islamico. Si accetta un Ben Ali perché sarebbe laico, si tollerano le stravaganze di Gheddafi perché si spera che firmi contratti importanti e si accetta che compensi a suon di milioni le famiglie delle vittime degli attentati in cui il suo paese è stato coinvolto. Si lascia fare Mubarak, perché dell’Egitto si vuole conoscere solo Abu Simbel, Luxor e il cielo azzurro anche in inverno. Il terrorismo di Al Qaeda è evidentemente un alleato oggettivo di questi regimi. Nel nome della lotta contro il terrorismo, diamo la caccia a tutti i suoi oppositori. La

cosa peggiore è che questa politica di repressione di tutto ciò che si muove ha finito per negare la possibilità di creare un partito suscettibile di costituire, un giorno, un’alternanza democratica. È quel che avviene in Tunisia, Algeria, Libia. Potrei sgranare all’infinito i casi di ingiustizia, i casi di violenza subiti dai cittadini nel mondo arabo. Non è cosa nuova e non si riesce a capire come questi regimi potranno sparire. In Marocco, con la morte di Hassan II e l’allontanamento del suo ministro degli interni che eseguiva le sue basse manovre inconfessabili, siamo passati a un’era nuova. Non è che tutto sia soddisfacente, ma Mohamed IV lavora instancabilmente per dotare il paese di infrastrutture che favoriscano una democratizzazione della vita politica. Anche se la stampa spesso è molestata dal potere, essa è anche abbastanza libera (una libertà sorvegliata). Lo spazio in cui il peso si sente è il campo dell’istruzione e della salute. Ci

sono anche il flagello della corruzione e della povertà. Ma gli anni di piombo in cui le persone sparivano, venivano torturate nei commissariati, sono passati. Ogni tanto c’è ancora qualche strascico. Ma il Marocco ha fatto dei progressi nel campo dei diritti dell’uomo e il re vigila affinché non rinnovi le vecchie abitudini di uno Stato di polizia che non riconosce gli individui e i loro diritti. Coi tempi che corrono e senza farsi troppe illusioni, bisogna approfittarne.

IL LORO CRIMINE: ESSERE RAGAZZE E ANDARE A SCUOLA

La barbarie del movimento criminale di Boko Haram in Nigeria è senza limite. Di fronte: l’impotenza ferita delle nazioni civilizzate. Il 14 aprile 2014 delle orde selvagge hanno invaso un liceo di Chibok e hanno catturato 276 ragazze fra i 12 e i 17 anni. Cinquantatré fra loro sono riuscite a scappare. Le altre sono state violentate e percosse in attesa di essere vendute come schiave. Il loro crimine? Essere ragazze e andare al liceo. Per chi è campione di regressione e violenza selvaggia, queste due cose sono insopportabili. Questo orrore ci riguarda tutti. Quan-

do la sete del male si accompagna all’ignoranza e all’odio, essa punta anzitutto ai bambini, perché non possono difendersi, perché nessun genitore ha immaginato mandando le proprie figlie a scuola che le gettava nelle braccia dell’ignominia e della brutalità sanguinaria. La cosa ci riguarda perché Boko Haram pensa che “l’educazione occidentale sia peccato” e che queste scolare, invece di pensare a sposarsi, si stanno contaminando con tale offesa a Dio. Ma quale Dio? Tutti hanno condannato la presa di questi ostaggi e le torture subite da queste ragazzine. “Ridateci le nostre figlie”: slogan gentile ma ingenuo. Bisognava urlarlo in tutto il mondo per esprimere solidarietà. Ma di fronte alla crudeltà, alla violenza selvaggia più abietta, gli slogan sono suonati molto deboli e senza efficacia. Bisognava, bisognerebbe, non solo aiutare la polizia e l’esercito della Nigeria a recuperare le ragazze, ma anche fare sì che

i soldati di molti paesi che partecipano alle Nazioni Unite intervengano per assicurare la sicurezza dei bambini che frequentano le scuole in Nigeria. Non sappiamo ciò che i capi di Stato africani riuniti da François Hollande all’Eliseo hanno deciso di fare. Oggi sono già passati due lunghi mesi di calvario per quelle ragazze. Allora a cosa servono le Nazioni Unite, gli Stati democratici, a cosa servono le scoperte scientifiche, i progressi tecnologici, i mezzi di comunicazione più sofisticati, se non si può fare nulla per impedire a un bastardo di disporre di 223 ragazzine, di violentarle, martirizzarle, bruciarle e venderle come bestiame che non serve più? Gridare, denunciare, urlare, manifestare sono gesti che Boko Haram non capisce, al limite la cosa lo divertirà, è divertente per lui vederci protestare. Sa che nessuno Stato e probabilmente nemmeno la Nigeria gli sbarrerà la strada. In ogni caso, le ragazze formano uno scudo. Cosa fare in

questi giorni in cui possiamo immaginare facilmente le sofferenza di queste ragazze? La nostra compassione non è sufficiente e il loro bisogno di consolazione è incommensurabile. Allora cosa fa Goodluck Jonathan, il presidente della Nigeria? Sa (sì, lo sa) che ogni ora che passa è l’inferno, che segna col suo marchio il corpo delle ragazze? L’inferno fa dei buchi nella testa e massacra queste infelici. Anche se riuscissero a sfuggire a questo inferno, la loro vita sarebbe già bruciata, derubata, fatta a pezzi. La lotta conto il terrorismo che si svolge quotidianamente negli aeroporti è quasi ridicola. Coloro che uccidono i bambini non passano di lì. Hanno i loro circuiti, quelli per cui transita la droga, quelli che permettono di prendere ostaggi occidentali in cambio di ricchi riscatti. Sì, la democrazia è impotente di fronte alla mafia, al crimine, alla barbarie. Eppure noi sappiamo che nel loro sonno agitato, nei loro sogni bruciati, nella

loro speranza senza fiato, le 223 studentesse guardano all’Occidente, alla libertà, ai valori dell’umanesimo e della solidarietà. Cosa possiamo fare? Sentiamo le loro voci, immaginiamo le loro sofferenze. Allora chiediamo all’Europa, all’America, chiediamo al mondo tutto, umiliato da questi crimini, di fare pressione sui responsabili nigeriani e anche sull’ONU che, per una volta, prenda un’iniziativa fuori dall’ordinario e faccia ciò che deve per restituire queste ragazze alle loro famiglie.

NELLA TESTA DI BASHAR AL-ASSAD

È per effrazione che sono entrato nella testa del presidente siriano. È una fortezza inaccessibile. Prima di riuscire ad avvicinarsi, bisogna superare ben sette sbarramenti. Alta sicurezza. Paura e diffidenza. Bashar si tiene a distanza, come già faceva suo padre, Hafez al-Assad. Il quale, a quanto si racconta, un giorno fece fucilare i sette soldati incaricati di filtrare il passaggio di chiunque avesse appuntamento con lui. A Hafez piaceva giocare a scacchi con un suo amico d›infanzia. Ogni pomeriggio l’amico si presentava e doveva essere perquisito sette volte prima di approdare alla

sala dei giochi. Ma un giorno, dopo averlo visto tante volte, i soldati lo lasciarono passare senza compiere il loro lavoro. Quando Hafez venne a saperlo, ordinò di far giustiziare quei disgraziati per aver mancato ai loro doveri. Il piccolo Bashar è al corrente di quest’episodio, uno tra tanti, non meno sanguinosi. Anche lui è irraggiungibile. E non senza una buona ragione. Quando si uccide, si rischia di essere uccisi. Ecco perché si prendono le precauzioni necessarie, e magari anche qualcuna in più. La sua testa non è molto grande. È occupata da fieno, spilli e lame da rasoio. Non so perché. Il suo cervello è calmo. Niente stress né nervosismo. Non so come faccia ad avere questa tranquillità. L’ha ereditata o ha fatto dei corsi serali per imparare a uccidere senza che questo lo disturbi, senza che sia minimamente preoccupato dall’infelicità che semina? Mi sono fatto piccolissimo e ho teso l’orecchio. Perché il piccolo pensa, e non esita davanti alle idee audaci:

“Ho imparato tutto dal mio defunto padre, grande uomo di stato e uomo sensibile, colto e grande stratega. Ricordo che Henry Kissinger lo apprezzava molto; e mi disse di avere a sua volta grande simpatia per il segretario di Stato americano, di cui ammirava l’intelligenza e il realismo politico. Si intendevano. Mio padre mi ricordava come quell’uomo avesse fatto eliminare fisicamente Salvador Allende e lo avesse sostituito con Pinochet. In questi ultimi tempi mi accade di entrare in comunicazione con mio padre. Fantastico. Mi detta lui ciò che devo fare. Mi incoraggia e mi indica i percorsi da seguire. Mi ha detto di recente che se le cose peggiorassero, dovrei tornare in Libano, perché né lui né io abbiamo approvato il mondo in cui il nostro esercito è stato espulso da questo paese nel 2005. Anche la morte di Hariri e di alcuni altri ingrati non ha potuto cancellare la vergogna che questi libanesi ci hanno inflitto. Per il momento,

va bene. Resisto, Niente panico. Innanzi tutto, io non sono né Saddam né Gheddafi. Non sarò ridicolizzato dagli americani, e non mi farò sgozzare dai fanatici. Quei due si sono fatti prendere perché il loro livello di intelligenza non era alto. Ma io appartengo alla famiglia Al-Assad, un clan unito e solidale. Una grande famiglia, che ha le sue tradizioni. Io non mi muovo a casaccio. Sto resistendo contro un complotto internazionale. Non ho nessuna voglia di vedere il mio Paese trasformato in una repubblica islamica, sotto la guida di analfabeti. Mio padre mi ha insegnato che in politica bisogna avere un cuore di bronzo. Niente sentimenti, nessuna debolezza. Perché io mi gioco la testa e la vita di tutta la mia famiglia. I farabutti che stanno mettendo la Siria a ferro e fuoco hanno solo ciò che si meritano. Si parla di “primavera araba”! Cos’è questa storia? Dov’è questa primavera? Non è che siccome degli agitatori incoscienti occupano dei posti pubbli-

ci che allora cambia il ritmo e il senso delle stagioni. A casa mia, quella che loro chiamano “primavera” non passerà. Ho dato ordine di sospendere questa stagione fino alla vittoria. Perché la primavera dovrebbe essere sinonimo della mia scomparsa? Non solo non morirò, ma prima li ammazzerò tutti quanti prima. Lo dice l’islam: se occorre sacrificare due terzi di un popolo per mantenere in vita il suo terzo migliore, non si deve esitare. Io applico questa legge, antica quanto gli arabi. E ricordo che la Siria è un paese laico, come la Francia, che all’improvviso mi tradisce e mi fa le prediche. E il povero Obama che mi condanna e parla di atrocità!?! Perché si mette in mezzo? Non ha visto quello che il suo esercito ha fatto in Iraq e in Afghanistan? Di che mi si rimprovera? Di dare all’esercito l’ordine di sparare sui dimostranti? Se non lo facessi perderei il mio posto, e non mi farei più rispettare. Guardate il mio amico Mubarak, che da un giorno

all’altro si è ritrovato espulso dal suo palazzo. Ha mancato di determinazione e di volontà. L’esercito lo ha tradito. Poveretto, che decadenza! Malato, depresso, viene trasportato in barella per essere giudicato! Il popolo è ingrato. Dimentica presto ciò che un presidente fa per lui. Il mio esercito è composto in maggioranza da uomini fedeli. I disertori l’hanno pagata cara. Io non ho patemi d’animo. Mi difendo; anzi, direi che la mia è legittima difesa. Ho preso la precauzione di mettere al sicuro mia moglie Asma e i miei tre figli, Hafez, Zein e Karim. È normale: mi comporto come un buon marito e padre di famiglia. Vedo padri irresponsabili che incitano i loro figli a manifestare, sapendo perfettamente che potrebbero essere uccisi da qualche pallottola vagante. Mi dicono che sono morti dei bambini. Non riesco a crederlo, e considero i loro genitori responsabili di una tale disgrazia, perché non c’è disgrazia peggiore della perdita di

un figlio. Ricordo il dolore di mio padre il giorno in cui Basil, mio fratello maggiore, morì in un incidente d’auto. Ricordo il suo pianto. Sì, ho visto mio padre piangere davanti all’ingiustizia del destino che gli aveva tolto l’adorato figlio. Mio padre, quest’uomo eccezionale che ha fatto della Siria un grande paese e che ha reso al vicino Israele la vita dura, questo presidente ha pianto perché non poteva neanche vendicarsi, Basil morto, ucciso dalla strada. Non poteva certo bombardare la strada che era stata fatale per il figlio che preparava alla sua successione. Non ha potuto sopportare di essere contrariato. Io nemmeno. Non sopporterò mai di essere criticato o combattuto. Le Nazioni Unite hanno cercato di infangarmi, e mi hanno chiesto di dimettermi. È un’ingerenza nella politica interna della Siria. Che questa assemblea di fantocci mi lasci i pace. Partire? Per andare dove? Mi hanno forse preso per un Ben

Ali? Non sono certo disposto a salire su un aereo per andare a mendicare asilo politico nel mondo! Fortunatamente, sia la Cina che la Russia del mio amico Putin hanno opposto il loro veto. Anche il mio amico Ahmadinejad è dalla mia parte. Mi chiama spesso e mi dice di non cedere. Esiste pur sempre una giustizia. Gli insorti sono terroristi, agenti pagati dall’Europa, e anche da taluni paesi arabi che hanno qualche conto da regolare con me. Basta seguire qualche trasmissione su Al Jazeera per capire che il complotto esiste. Mi parlano di torture! È del tutto normale usare la tortura per prevenire massacri, evitando che persone innocenti cadano sotto le pallottole dei cattivi siriani. Ho in mano il paese, e tengo testa a chi vuole instaurare un altro regime. Dovrebbero ringraziarmi, e aiutarmi a proteggere la Siria dal pericolo islamista. So come gli islamisti tratteranno la mia tribù, gli alawiti, e le minoranze cristiane e armene. Il

Vaticano dovrebbe accorrere in mio aiuto, invece di condannarmi. Ma per fortuna quelle sono soltanto parole. Ben altro è ciò che stanno facendo ora gli europei: congelano i beni che possiedo in Europa e cercano di asfissiare la popolazione bloccando gli scambi commerciali. Sono azioni meschine e disoneste. Ce l’hanno con me perché la Siria ha sempre tenuto testa al nemico sionista. Non si è mai inchinata di fronte a Israele. L’indomani del massacro di Hama – avevo allora 17 anni – mio padre mi disse: vedi, figliolo, se non avessi agito con tanta fermezza stasera non saremmo più qui. Aveva ragione. Io pure so bene dove dormirei stasera se non bombardassi Homs: all’obitorio! Perciò bisogna smetterla di parlare a vanvera. A Hama i morti furono ventimila (e allora nessuno reagì); ora, per non più di ottomila morti tra Homs, Draa, Damasco e Hama, è scoppiato un putiferio! Sapete perché Asma, la mia cara mo-

glie, mi ha sposato? Per i valori che incarno. Lo ha dichiarato su Paris Match del 10 dicembre 2010. E sapete perché ho studiato oftalmologia? Perché sono allergico alla vista del sangue.” Nell’uscire da quella testa, un piede mi è rimasto impigliato in un intrico di fili elettrici. Bashar è collegato alla centrale della tortura. Per passare il tempo, è lui che preme il pedale per trasmettere le scariche ai genitali dei suppliziati. Sembra che questo lo diverta e rafforzi la sua determinazione ad alleggerire la Siria dei suoi due terzi ritenuti cattivi.

SIRIA: IL COMPLOTTO PUTIN

Uff! Si respira. La distruzione dell’arsenale chimico di Bashar al-Assad è iniziato. Il dittatore siriano ha perfino riconosciuto i suoi errori. A dire il vero non tutti, ma quelli relativi all’uso delle armi chimiche. In quanto distruttore di un paese, ha scoperto che con la chimica si fa prima e si ottengono grandi risultati. Comunque alla fine, tutto bene. Anche John Kerry, il segretario di Stato americano, è contento. Lo ha appena annunciato e ha anche ringraziato Putin di averlo aiutato. Be’, questa sì che è strategia. Facciamo un passo indietro.

Il 27 settembre scorso le Nazioni Unite sono riuscite a mettersi d’accordo: la risoluzione 2118 annuncia la distruzione dell’arsenale chimico di Bashar al-Assad. Se non rispetta gli impegni presi, ci saranno sanzioni. Bisogna comunque che Mosca non si opponga. Insomma, i 110.000 morti, i due milioni di rifugiati e i cinque milioni di profughi non contano. Bashar al-Assad si presenta al mondo con le mani pulite, la coscienza tranquilla e la vittoria assicurata. Si permette anche di chiudere la porta agli europei alla futura conferenza detta di Ginevra 2, che si svolgerà verso gennaiofebbraio 2014. È un uomo appagato. Più niente lo ferma e non incorre in nessuna condanna né persecuzione da parte del tribunale penale internazionale. Se la cava bene. Ma la sua vittoria è la sconfitta del diritto e della giustizia, è la sconfitta degli Stati democratici, è la legittimazione della barbarie, la messa alla porta dei valori della civiltà. Se ho capito bene, è autorizzato

a proseguire il massacro del suo popolo a condizione che non utilizzi le armi chimiche. Morire sì, ma non asfissiati. Bisogna accettare di farsi uccidere da pallottole, o da bombe e altri missili, da armi dette “convenzionali”. Soprattutto: niente gas. La morte diventa strana quando è provocata da un’arma invisibile. Tutti quelli che l’esercito di Bashar ha ucciso per due anni e mezzo, sono stati uccisi in modo “legale”, perfino “legittimo” secondo il parere di alcuni. Ma Bashar ha osato superare una linea rossa e d’improvviso abbiamo dovuto dimenticare il disastro che ha provocato con le armi classiche. Cosa che ha disturbato il sonno di Barack Obama e mandato fuori di sé François Hollande. Gli altri si sono rifugiati nella complessità di questa guerra per non intervenire o anche per sperare nella vittoria di Bashar perché con lui, almeno i cristiani non sarebbero massacrati. La propaganda del regime è ben condotta. Una società americana avrebbe ricevuto

250 milioni di dollari per infiltrare in modo intelligente e sottile i media occidentali. Grazie a Putin, le uccisioni potranno continuare di giorno e di notte. La consegna delle armi prosegue tranquillamente. Coloro che moriranno domani, moriranno solo un po’, non troppo, ma moriranno comunque. L’Occidente non ne è molto fiero. Quanto alle Nazioni Unite, questo soggetto pesante e inefficiente pensa di aver fatto il suo dovere riuscendo a far votare la risoluzione 2118. Una risoluzione tiepida che, a conti fatti, conforta al-Assad nella sua determinazione a massacrare il suo popolo. Bashar resterà impunito. È cresciuto con le leggi della giungla. Si veste con eleganza, si fa la barba tutte le mattine, chiama la moglie e i figli per sapere se hanno dormito bene poi incontra suo fratello e il suo stato maggiore e pianifica nella più assoluta disinvoltura i massacri successivi. Il popolo siriano non ha fortuna con questa famiglia. Il padre che aveva preso

il potere con un colpo di Stato nel 1970 lo ha trasmesso al figlio nel 2000 ricordandogli che solo una dittatura poliziesca senza pause è capace di mantenerlo al potere. Versare il sangue degli oppositori è un dettaglio. Serrare le file della tribù è essenziale. Il resto, la democrazia, la libertà, la giustizia ecc. sono invenzioni dell’ipocrisia occidentale. Quando nel 1982 venne a sapere che degli oppositori si sarebbero riuniti a Hama, attese che tutti fossero là; poi chiuse la città e la fece bombardare per tutta la notte. Più di ventimila morti. Silenzio della stampa. Questo crimine è rimasto impunito. Il popolo siriano continua a non avere scelta. I ribelli sono stati infiltrati da mercenari jihadisti pagati da Stati che un giorno dovranno rendere conto di tutto ciò al mondo. Questa complessità, questa mancanza di unità nei ranghi degli insorti, questa intrusione di agenti del terrorismo internazionale nella liberazione della Siria,

procurano degli argomenti a coloro che esitano ancora o perfino rifiutano di sostenere la libertà contro la barbarie. In questo sta la vittoria del clan al-Assad: aver confuso le piste, aver provocato crimini attribuendoli agli insorti. Ha anche cercato di addossare l’attacco del 21 agosto con le armi chimiche ai ribelli. Oggi più nessuno crede a questa tesi. Dalla metà di settembre, Human Rights Watch ha dimostrato con molte prove e molti documenti l’origine e i dettagli di quell’attacco. La responsabilità di Bashar al-Assad è totale e incontestabile. Oggi degli agenti delle Nazioni Unite procederanno alla distruzione dell’arsenale chimico della Siria ufficiale. Questo non resusciterà le centinaia di bambini morti come se dormissero né i loro genitori. Ma le apparenze sono salve. Al cattivo Bashar è stata data una lezione. Gli si sono poi promesse altre bastonate se ricominciasse a utilizzare questi prodotti inodori,

incolori ma efficaci. Il complotto, probabilmente pensato dall’antico capo del KGB, ha funzionato. Buttiamo un po’ di gas sulla popolazione, la cosa farà scandalo, le brave persone urleranno, i capi di Stato si irriteranno, e così l’utilizzo delle armi convenzionali sarà normalizzato e nessuno si troverà a dire niente. Il gas ha avuto per effetto di cancellare il conto di decine di migliaia di morti, uccisi dal regime siriano. Quanto a Mosca, il suo veto resterà, incrollabile. Siamo tutti rassicurati: più nessuno morirà in Siria sotto anestesia generale. Che progresso!

RITORNO DEI JIHADISTI: L’ORIGINE DEL MALE

Alcuni pensano che quella che già viene chiamata la “Terza guerra d’Iraq” sia “assurda” e “inutile”. Forse. È vero che il risveglio dell’America e dell’Europa è tardivo, che il fatto di bombardare dei blindati che appartengono a mercenari fanatici non sradicherà un califfato autoproclamato le cui radici vengono da molto lontano. Combattere le persone dell’ISIS è più che necessario. Mi chiedo perché gli Stati del Golfo non partecipano militarmente a questa lotta. Avrebbero dovuto farlo, se non altro per farsi perdonare di aver aiutato e finanziato in modo priva-

to o ufficioso alcuni combattenti in nome dell’islam. La Francia ha paura del ritorno di coloro che si sono arruolati in Siria e in Iraq accanto ai jihadisti, il cui odio verso l’Occidente è pari solo alla loro determinazione a imporre uno “Stato islamico” ovunque il loro furore arrivi a colpire. Come dare la caccia ai “contaminati dalla jihad”? Bisognerà prima di tutto scovarli, conoscerli e poterli fermare, incolpare e giudicare. E poi? Avremo chiuso con questa aberrazione nata in territorio francese? Niente di meno certo. Alcuni politici chiedono di ritirare loro la cittadinanza francese. Non solo questo non è facile ma non risolverebbe il problema. “Folli di Dio” ce ne saranno sempre. La testa del giovane francese di famiglia immigrata o recentemente convertito che, tentato dall’avventura della jihad e che si decide a seguire un reclutatore al punto da ritrovarsi in un territorio in cui l’istinto di

vita è stato sostituito da quello di morte, la morte inferta e la morte accettata, quella testa soffriva di un vuoto siderale aggravato da qualche seria preoccupazione. Un vuoto che ha presto riempito con tutto ciò che sognava: avere un’identità, poterla consolidare sul campo, avere dei riferimenti spirituali, ideologici, dare un senso alla sua vita pur essendo disposto a perderla nella guerra e ritornare “al paese dei miscredenti” per fare l’infelicità di tutti coloro che non la pensano come lui, coloro che ha imparato a odiare al punto da trovarne la morte necessaria, normale. Era così la testa di Mohamed Merah, e anche quella di Mehdi Nemmouche. Inseguire questo tipo di persone rassicurerà alcuni cittadini. Ma il fondo del problema resta intatto. Emil Cioran diceva che è del tutto naturale che i giovani siano attratti da idee radicali e cadano nel fanatismo (lui stesso non ne è stato esente). I convertiti sono noti per averne anche di

più. Ma che dire di coloro che sono nati in un ambiente musulmano i cui genitori praticano un islam tranquillo, moderato e pacifico? Sono spesso vittime che hanno fatto cattivi incontri e che seguono questi sedicenti imam che li dirigono poi verso l’avventura jihadista utilizzando argomenti elaborati nell’ignoranza e nella malafede (sulla bandiera nera di questo esercito sta scritto: “Allah Messaggero Maometto”, cosa che in arabo è scorretta). Non tutti i bambini francesi nati da immigrati cadono in questa trappola. Ma, rispetto alla minoranza che è partita per combattere per il trionfo di uno Stato islamico (sono un migliaio su circa due milioni), non è una nuova legge sul terrorismo che sistemerà il problema di fondo. Quei ragazzi sono persi. Sia che muoiano come “martiri” sul fronte, sia che rientrino a casa, svuotati della loro umanità e pronti a eseguire qualsiasi ordine, anche quello di uccidere dei bambini di una scuola ebrai-

ca. Il caso Merah è vivo nella memoria di alcuni. Non è percepito come un assassino, un folle furioso assetato di riconoscenza e di spettacolo. È considerato da alcuni come un eroe di una causa non detta, non proclamata. Il lavoro che deve essere intrapreso sarà lungo. Bisognerà scavare in profondità. Attaccare il problema alle radici piuttosto che in superficie per scaricarsi la coscienza. Si tratta infatti di affrontare le periferie patogene, malsane, produttrici di vuoto e di aberrazioni. Dopo la Marcia dei giovani contro il razzismo trent’anni fa, sono state lanciate molte allerta. Nessun governo, di destra o di sinistra, ha preso misure determinanti che si siano imposte. Se oggi dei giovani trovano la propria salvezza all’interno di un esercito mercenario che uccide innocenti non è per caso. Non solo bisognerà raddoppiare la vigilanza per impedire che al loro ritorno, se vengono individuati, commettano

attentati prescritti da Al Qaeda o dallo pseudo-califfo al-Baghdadi, ma bisognerà anche cercare di disintossicarli, di rimetterli sulla strada del diritto. Inoltre, bisognerà rivedere la nostra politica cittadina, fare in modo che la mescolanza sociale sia una vera realtà. Eliminare i luoghi di segregazione. Permettere una vera adesione identitaria ai valori della nostra repubblica. Riempire tutto il vuoto. Il cammino è lungo. E non vedo nulla, a questo stadio, che sia stato intrapreso e possa portarci a quel punto.

LA POESIA COME ORIZZONTE

I poeti muoiono nell’indifferenza generale. Così è la nostra epoca. Ignoranza e mediocrità. Impostura e arroganza. Rumori e disordine. Il caos è in noi. Avanza e ci porta via qualcosa, di tanto in tanto ci calpesta ma non diciamo niente. Siamo vittime consenzienti di un grande degrado di valori. Questo “noi” include molti popoli e molte culture. In ogni epoca, le pulsioni barbare si sforzano di distruggere l’edificio della cultura. Pensare, immaginare, creare, commuovere e stupirsi, diffondere il sapere e privilegiare lo spirito, dare all’intelligenza tutte le occasioni possibili, fare dell’uomo

colui che porta al livello più alto la dignità e la grazia, instaurare lo Stato di diritto garante della giustizia e della libertà, tutto questo arsenale umano è da bandire secondo i barbari. Non sono delle bestie, degli animali. No, la specie animale è nobile e rispettabile. Non abbiamo mai visto dei leoni riunirsi e allearsi per pianificare la distruzione di altri animali perché non si comportano come loro o perché sono liberi. Né strategie né armi sofisticate. Queste sono una prerogativa della specie umana. Samih al-Qasim è morto. L’ho saputo da una radio marocchina. È stato detto fra un massacro e i risultati di una partita di calcio. Colui che ha scritto “Ti amo nei limiti della morte” se ne è andato il 19 agosto 2014, dopo aver preso coscienza delle cifre ufficiali degli uomini e delle donne uccise a Gaza dall’esercito israeliano: duemilasedici. E la guerra ad armi diseguali continua.

Dove si annida l’estinzione della poesia? La poesia è ancora possibile? Più che mai. Sono proprio la barbarie, l’infelicità crudele e quotidiana, la stupidità degli uomini, l’odio e le sue burrasche, la morte golosa, la vita annullata, a reclamare poesia, a esigere da noi di trovare le parole giuste, il respiro essenziale per dire il mondo, il dolore del mondo, la creazione del tutto. Dire senza illusioni di riparazione né di cambiamento. Dire e dire fino a che l’animo esulti, la vita scoppi e faccia cadere i muri. I poeti sono testardi e i drammi anche. Numerosi e vari. Con la stessa brutalità di sempre, la costanza del male si nasconde in noi talvolta a nostra insaputa. Compare e noi ci conviviamo. Questo è l’errore. Allora arriva, come un colpo di febbre, il bisogno di consolazione. A che pro? C’è poesia solo nella “intranquillità” del mondo. Nel furore dell’ignobile. Nei detriti dei sogni spezzati. Nella cenere lasciata da corpi irradiati, bruciati, annien-

tati. Non lamentarsi. Non piangere né stupirsi. Imparare e insegnare la banalità del tragico. Come fare diversamente? Mentire, mentirsi, raccontarsi storie, attaccarsi a un ramo d’albero dalle radici soffocate e reclamare l’umano. Intanto andare nel deserto più vicino e urlare come se si fosse su un palcoscenico interpretando un’opera dove tutto è stato messo in scena senza talento, pasticciato, disconosciuto. Come dice Mahmoud Darwish rivolgendosi agli occupanti israeliani: Voi ci mettete la spada, noi ci mettiamo il sangue Voi ci mettete l’acciaio e il fuoco, noi ci mettiamo la carne Voi ci mettete un carro, noi ci mettiamo le pietre Voi ci mettete la bomba lacrimogena, noi ci mettiamo la pioggia… (1988)

Da allora la barbarie ha conquistato nuovi territori, nel nome questa volta dell’islam. Povero islam! Quanti crimini vengono commessi nel tuo nome! Che orrore viene esibito al mondo! In questi momenti la cultura si dilegua, evapora coi visi strappati alla pelle e lanciati nella fornace di una guerra uscita da caverne buie in cui ai bambini viene insegnato l’oscurantismo. Disfatta del pensiero, sconfitta del rigore, anestesia del dubbio: questo è il cammino intrapreso dai barbari. Se l’intelligenza è l’incomprensione del mondo, allora noi siamo in questo momenti pieni di intelligenza e di impotenza. Scrivere senza niente aspettarsi dalle parole. Non vale più la pena diffidarne. Non si sente più il rumore della loro caduta. Troppe urla e troppo furore riempiono il cielo di cattivi presagi. Contro le spade che tagliano le teste, noi speriamo nella pioggia, nella freschezza del mattino

con ancora l’odore dell’amore, il profumo dei sogni. Siamo stupidi, sogniamo perché non siamo adatti alla battaglia. Abbiamo solo le parole, le parole passeggere riferite dai vivi. Cadono come grandine sull’asfalto della nostra miseria, della nostra pietà vagabonda, inutile, senza scopo, senza spezie. Eppure bisogna scrivere, dire, scrivere con rigore, e peccato se il presente si perde negli scoppi delle bombe.