Duso - Dalla Teoria Alla Pratica - La Grammatica Nella Classe Di L2 PDF [PDF]

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A10 305

L'autrice ringrazia della concessione dei diritti di riproduzione gli autori e le case editrici che hanno risposto positivamente. Resta invece a disposizione degli aventi diritto con cui non è riuscita a comunicare.

Elena Maria Duso

Dalla teoria alla pratica: la grammatica nella classe di italiano L2

Copyright © MMVII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065

ISBN

978–88–548–1393–9

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: ottobre 2007

Ai miei adorati Francesco e Giulio e alla piccola Matilde in arrivo

INDICE p. 9

PRESENTAZIONE

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1. FARE GRAMMATICA NELLA CLASSE DI ITALIANO L2? 1.1. Le risposte della ricerca

p. 19 p. 20 p. 21 p. 22 p. 22 p. 24 p. 25 p. 28 p. 29

2. COSA INSEGNARE. I CONTENUTI 2.1. Il concetto di “grammatica” 2.2. Una grammatica funzionale alla comunicazione 2.3. Scelta e sequenziazione degli argomenti: i criteri 2.3.1. Generalità 2.3.2. Frequenza, marcatezza e salienza dell’input 2.3.3. Difficoltà formale 2.3.4. Bisogni specifici degli apprendenti 2.4. Gradualità e ciclicità

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3. COME INSEGNARE. 1. I METODI. RIFLESSIONI TEORICHE SULL’INSEGNAMENTO DELLA GRAMMATICA 3.1. Premessa 3.2. Dal vecchio al nuovo paradigma 3.3. Krashen e l’opzione zero 3.4. Il ritorno della grammatica nei metodi comunicativi 3.5. Focalizzare la forma (Focus on form) 3.6. Tecniche incentrate sull’input 3.6.1. La Presa di coscienza (Consciousness Raising) 3.6.2. La Processazione dell’input (Input Processing) e l’Istruzione basata sul sistema di processazione dell’input (Processing Instruction) 3.7. Approcci incentrati sull’output 3.8. Alcuni modelli teorici dell’apprendimento di una L2 3.9. Conclusioni: un compromesso

p. 33 p. 34 p. 35 p. 38 p. 40 p. 42 p. 46 p. 48 p. 54 p. 59 p. 62 p. 65 p. 65

4. COME INSEGNARE. 2. LA GRAMMATICA NELLA CLASSE DI ITALIANO L2: RIFLESSIONI METODOLOGICHE. 4.1. Premessa 7

Indice

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p. 65 p. 69 p. 70 p. 76 p. 76 p. 87 p. 93 p. 94 p. 97 p. 99 p. 104 p. 109

4.2. Il tempo da dedicare alla grammatica 4.3. Approccio induttivo e deduttivo: chiarimenti terminologici 4.4. Mettere a fuoco le forme 4.5. Esercitare le forme. La pratica 4.5.1. La pratica guidata 4.5.2. La pratica più libera 4.6. Un atteggiamento eclettico 4.7. Gli “esperimenti grammaticali” 4.8. La scelta dell’input 4.9. Quale lingua per riflettere sulla lingua? 4.10. L’analisi contrastiva 4.11. Riflessione metalinguistica e correzione degli errori

p. 156 p. 170

5. GLI STRUMENTI: LE GRAMMATICHE PER INSEGNARE L’ITALIANO L2. 5.1. Premessa 5.2. Quali grammatiche? 5.3. Le grammatiche descrittive 5.3.1. Grammatiche descrittive per italofoni con impostazione tradizionale 5.3.2. Grammatiche descrittive per italofoni con impostazione meno tradizionale 5.3.3. Grammatiche descrittive specifiche per stranieri 5.4. Le grammatiche pedagogiche: uno statuto complesso 5.4.1. I criteri della rassegna 5.4.2. Grammatiche pedagogiche per studenti 5.4.2.1. Grammatiche pedagogiche con esercizi 5.4.2.2. Strumenti parziali 5.4.3. Grammatiche pedagogiche senza esercizi 5.4.4. Strumenti ludici 5.4.5. Grammatiche pedagogiche per insegnanti 5.5. Un esempio concreto: la selezione dell’ausiliare nella formazione di un tempo composto nelle diverse grammatiche 5.5.1. Analisi delle grammatiche 5.5.2. Considerazioni finali e proposte operative

p. 179

Bibliografia

p. 117 p. 117 p. 118 p. 119 p. 120 p. 126 p. 132 p. 137 p. 141 p. 141 p. 142 p. 149 p. 150 p. 151 p. 151 p. 155

Presentazione Questo libro nasce dal tentativo di indagare, analizzando saggi teorici e strumenti didattici, e confrontandosi con l’esperienza in classe, quali sono le specificità dell’insegnamento della grammatica di una lingua seconda, con particolare riguardo all’italiano. Mentre per lingue come l’inglese o lo spagnolo la bibliografia sull’insegnamento della grammatica è infatti ricchissima, per l’italiano essa appare ancora abbastanza scarna, e, soprattutto, frammentata. Contributi estremamente significativi non mancano, ma essi sono spesso parziali, datati e di difficile reperimento o ancora non specificamente indirizzati all’italiano L2.1 Il titolo Dalla teoria alla pratica: la grammatica nella classe di italiano L2 fa riferimento alla struttura del volume, organizzato come un percorso in cinque capitoli, che introducono gradualmente il lettore alla pratica dell’insegnamento, dopo averlo fatto riflettere sull’importanza della riflessione metalinguistica attraverso una sintesi degli studi di ricerca teorica. Se infatti il primo capitolo vaglia studi sperimentali condotti in ambito anglosassone ed italiano sull’opportunità di introdurre all’interno di un approccio comunicativo momenti di riflessione sulla lingua, i capitoli successivi si soffermano sul come insegnare la grammatica dell’italiano e sugli strumenti utili per farlo. Il secondo capitolo in particolare chiarisce il significato che ha assunto ai giorni nostri il termine “grammatica”, e si incentra sui criteri di selezione e messa in sequenza degli argomenti da insegnare. Il terzo capitolo presenta invece un breve excursus sulla ricerca nell’ambito dell’insegnamento della grammatica dagli ultimi vent’anni del secolo scorso ad oggi, a partire da Krashen e dai metodi comunicativi. Vengono presentate dunque in italiano proposte metodologiche (Consciousness Raising, Input Ehancement, ecc.) sviluppatesi per l’insegnamento di lingue seconde come l’inglese e lo spagnolo, che a differenza dell’italiano, contano su di una notevole

1

Cito in particolare il mio debito con Prat Zagrebelski 1985, Ciliberti 1991, Giunchi 2000 e 2002, Andorno, Bosc e Ribotta 2003.

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Presentazione

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tradizione di insegnamento e sono da molti anni oggetto di studi didattici.2 Il quarto capitolo passa alla parte più pratica, presentando alcune riflessioni su problemi contingenti, quali il tempo da dedicare alla riflessione sulla lingua, il tipo di esercizi da utilizzare per le diverse fasi (con ricca esemplificazione), la terminologia da impiegare in classe, le tecniche di correzione degli errori. Il quinto capitolo infine presenta i “ferri del mestiere” dell’insegnante, ossia consiste di una dettagliata rassegna delle grammatiche dell’italiano, sia descrittive che pedagogiche, a partire dalla fine del secolo scorso. Alla descrizione vengono affiancate delle schede esplicative tese ad individuare le principali caratteristiche ed i punti maggiormente interessanti per il docente di italiano L2. Un lungo paragrafo finale poi esemplifica la differenza tra le diverse grammatiche nella trattazione di un argomento quale la selezione dell’ausiliare nella formazione dei tempi composti. Ringraziamenti Questo libro deve moltissimo all’esperienza di insegnamento a stranieri, in particolare studenti appartenenti al programma di scambio Erasmus presso il Centro Linguistico di Ateneo dell’Università di Padova e lavoratori immigrati presso l’Associazione Unica Terra di Padova, e dai laboratori rivolti agli insegnanti (o aspiranti tali) del Master di Italiano L2 dell’Università di Padova. Molte delle idee sono inoltre scaturite dalla riflessione e dalla sperimentazione che hanno accompagnato la stesura del Sillabo di italiano come L2 recentemente edito da Lo Duca (2006): dichiaro quindi il mio debito con i colleghi CEL e Tecnici linguistici dell’Università di Padova (Cristina Capuzzo, Elena Folcato, Ivana Fratter, Luisa Marigo, Luigi Pescina, Benedetta Zatti) e soprattutto con Maria G. Lo Duca, la nostra guida, alla quale devo anche l’incoraggiamento a scrivere di questo 2

Il costante confronto con la bibliografia in lingua inglese comporta la necessità di adattare un linguaggio tecnico che spesso non ha riscontri diretti in italiano. La nostra scelta è stata quella di lasciare in inglese termini entrati nella glottodidattica, come input, output, drill; di tradurre invece – nel modo più letterale possibile – la terminologia più specifica, come ad esempio i nomi dei diversi approcci (Focus on form “focalizzazione sulla forma”) e le citazioni bibliografiche, pur lasciando anche, magari in nota, il corrispettivo in inglese. Particolari problemi ha posto il termine practice, che non ha une esatto corrispettivo in italiano, ma che forse dovrebbe tradursi con una perifrasi del tipo “esercitazione pratica”, o simili. In questo caso specifico, abbiamo scelto di adottare il calco “pratica”, che assume quindi precisa connotazione tecnica.

Presentazione

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argomento ed il continuo sostegno. Ringrazio poi della lettura e dei commenti Maria P. Lo Duca e Laura Vanelli. La responsabilità del contenuto resta comunque mia.

Capitolo 1 Fare grammatica nella classe di italiano L2? 1.1. Le risposte della ricerca Per 2500 anni la lingua straniera è stata insegnata secondo il metodo utilizzato per le lingue classiche, ossia il metodo grammaticaletraduttivo, che prevedeva la presentazione esplicita delle regole e esercizi su queste attraverso la pratica della traduzione dalla lingua di partenza alla lingua di arrivo. A partire dalla metà del XX secolo però, la nascita di nuove teorie sui meccanismi di apprendimento delle lingue e la conseguente loro applicazione alla glottodidattica hanno messo in crisi la metodologia tradizionale, portando in un primo momento ad un rifiuto totale dell’insegnamento grammaticale esplicito, poi ad un lungo processo di riabilitazione (su questo il capitolo 3). Oggi prevale nettamente l’idea che la grammatica nella classe di L2 vada insegnata. Ma perché? Quali sono le ragioni che hanno spinto a ciò? Partiamo da un dato di fatto: a partire dagli anni ’90, la ricerca sull’apprendimento della L2 (sintesi in Spada 1997, Ellis 1997: 51-55) ha dimostrato che un insegnamento puramente comunicativo, che si incentra cioè sul significato, trascurando la riflessione sulla forma, sviluppa sì le capacità discorsive degli studenti, la loro spigliatezza, la fluenza, ma è carente dal punto di vista dell’accuratezza formale: diversi studi hanno verificato ad esempio che giovani canadesi che seguivano programmi di immersione totale nel francese come L2 o in classi di inglese come L2, dopo molti anni di insegnamento, commettevano ancora moltissimi errori di tipo morfosintattico (Spada 1997: 76). Ciò non vale necessariamente per tutti gli apprendenti, né tanto meno per tutte le strutture: ce ne sono molte infatti che, essendo particolarmente rilevanti dal punto di vista della comunicazione o molto frequenti nell’input, vengono acquisite facilmente in modo naturale, inconscio; ma ve ne sono altre che – per motivi diversi (scarsa salienza nell’input, distanza tipologica tra L1 ed L2, difficoltà formale, si veda poi par. 2.3.3) – appaiono resistere all’apprendimento implicito e

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Capitolo 1

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non possono essere apprese – o possono esserlo molto lentamente – senza un’istruzione esplicita (Schimdt 1990, N. Ellis 2005). Sembra dunque che l’ipotesi di Krashen dell’ “input comprensibile + 1”, secondo la quale per apprendere una seconda lingua è sufficiente essere sottoposti ad un input leggermente al di sopra della propria conoscenza (si veda 3.2), su cui si è fondata la cosiddetta “versione forte” dei metodi comunicativi, non trovi riscontro nella realtà, o almeno trovi un riscontro parziale. Molti studi hanno cercato di indagarne le cause; una risposta importante è venuta da Schmidt (1990, 2001), il quale ha sostenuto che per apprendere una struttura non basta essere esposti passivamente ad essa, ma bisogna “notarla” nell’input. Schmidt (1990, 2001) infatti osserva che è possibile un apprendimento di tipo implicito, incidentale, quando un compito comunicativo orienta da sé l’attenzione dell’apprendente su costrutti rilevanti dell’input. Quando invece le forme linguistiche non sono portatrici di strutture cruciali per il compito da portare a termine, è difficile che vengano notate. L’attenzione dell’apprendente è infatti selettiva e tende a concentrarsi sul significato prima che sulla forma (Van Patten 1996, si veda par. 3.6.2). La molla che fa scattare l’apprendimento di una forma linguistica è dunque il noticing, ossia il “notare” in modo consapevole, conscio. Schimdt (1990) sostiene che mentre l’input comprensibile è condizione necessaria per apprendere, ma da sé non basta, il noticing è condizione necessaria e sufficiente per convertire l’input in intake, ed arriva a definire l’intake «quella parte dell’input che l’apprendente nota» (Schmidt 1990: 139).1 Del resto studi di neuropsicologia hanno dimostrato che la necessità di prendere coscienza delle forme (consciousness)2 non caratterizza solamente l’acquisizione di una seconda lingua, ma qualsiasi tipo di apprendimento. La Global Workspace Theory di Baars (1983, 1997) 1

«Intake is that part of the input that the learner notices». Per consciousness si intende “la presa di coscienza metalinguistica”, «la conoscenza formale e consapevole, frutto di un processo di apprendimento guidato in un contesto educativo formale, che può aver luogo a scuola o mediante lo studio autonomo», del funzionamento di una lingua, in opposizione a “consapevolezza linguistica” ossia «la conoscenza informale, intuitiva, generalmente interiorizzata attraverso il processo di acquisizione spontanea della propria lingua o di qualsiasi lingua “assorbita” in contesto naturale» (Giunchi 2000: 41-42, che si rifà a Titone 1992: 22). 2

Fare grammatica nella classe di italiano L2? Le risposte della ricerca

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ad esempio, paragona il nostro sistema cognitivo ad un teatro, nel quale la presa di coscienza delle forme è una sorta di porta, di interfaccia, che dà accesso ad una parte essenziale del sistema nervoso: L’intero palcoscenico del teatro corrisponde alla memoria in funzione, il sistema della memoria immediata nel quale noi parliamo a noi stessi, visualizziamo i luoghi e le persone, e pianifichiamo le azioni. Nel teatro in funzione, la c. focale agisce come un fascio di luce sul palcoscenico. Gli eventi consci se ne stanno lì, monopolizzando il tempo alla ribalta. La macchia luminosa è poi circondata da un margine […] o penombra […] di eventi associati vagamente consci. L’informazione che viene dal fascio di luce è globalmente distribuita al vasto pubblico di tutti i modelli inconsci che noi usiamo per adattarci al mondo. Il teatro collega eventi molto limitati che prendono spazio sul palcoscenico con un vasto pubblico, così come la c. coinvolge informazioni limitate che danno accesso al vasto numero di fonti inconsce della conoscenza. La c. è l’organo di pubblicità del cervello. È come una facilitazione per accedere, disseminare e scambiare le informazioni e per esercitare attenzione e controllo globali. La c. è l’interfaccia (N. Ellis 2005: 312).3 prestare attenzione – divenire conscio di un materiale – sembra essere il rimedio sovrano per imparare qualsiasi cosa, applicabile a generi di informazione molto diversi. È il solvente universale della mente (Baars 1997: 304)4.

Si può aiutare l’apprendente a notare una forma utilizzando molte tecniche, a diverso grado di esplicitezza (che illustreremo in parte nel capitolo 3), ma sicuramente la riflessione metalinguistica5 diretta risul3

«The entire stage of the theatre corresponds to working memory, the immediate memory system in which we talk to ourselves, visualize place and people, and plan actions. In the working theatre, focal consciousness acts as a bright spot on the stage. Conscious events hang around, monopolizing time in the limelight. The bright spot is further surrounded by a fringe […] or penumbra […] of associated, vaguely conscious events. Information from the bright spot is globally distributed to the vast audience of all of the unconscious modules we use to adapt to the world. A theatre combines very limited events taking place on the stage with a vast audience, just as consciousness involves limited information that creates access to a vast number of unconscious sources of knowledge. Consciousness is the publicity organ of the brain. It is a facility for accessing, disseminating, and exchanging information and for exercising global coordination and control. Consciousness is the interface». 4 «Paying attention – becoming conscious of some material – seem to be the sovereign remedy for learning anything, applicable to many very different kinds of information. It is the universal solvent of the mind». 5 Utilizzeremo spesso l’etichetta già ampiamente in uso a partire dai programmi della scuola media italiana del 1979, di “riflessione metalinguistica” o di “riflessione sulla lingua” che − come sottolinea Prat Zagrebelskj (1985: 64 n. 5) − ha il pregio di sottolineare «sia il

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Capitolo 1

ta particolarmente adeguata allo scopo e tutto sommato naturale, in quanto rispecchia processi che avvengono all’interno di ciascun apprendente. La linguistica acquisizionale infatti, una nuova branca della linguistica applicata che studia l’apprendimento di una L2 (Chini 2005)6, sviluppando idee nate con Chomski (par. 3.2), ha rivelato che l’acquisizione di una L2, come quella di una L1, avviene attraverso la progressiva elaborazione di ipotesi sui dati forniti dall’input, ipotesi che portano l’apprendente a scoprire, a ricostruire, un poco alla volta, il sistema della lingua d’arrivo (Lo Duca 2004b). Il percorso che l’apprendente compie, soprattutto ai primi stadi, è sempre lo stesso, indipendentemente dalla lingua di partenza, che può, al massimo, accelerare o rallentare il processo (si veda poi 2.3.1). Per acquisire una lingua quindi l’apprendente deve fare delle ipotesi su di essa, ossia attivare un processo di riflessione metalinguistica che può avere diversi gradi di consapevolezza ma che comunque esiste e che riguarda tutti. La scuola dunque deve prendere atto di questo processo, e ha il compito di facilitarlo, esplicitando tale riflessione e cercando di guidarla, nella consapevolezza che se l’insegnamento esplicito non può alterare l’ordine di acquisizione, può sicuramente accelerarlo. Ci si potrebbe chiedere tuttavia se davvero la riflessione esplicita sulla lingua può giovare a tutti gli apprendenti o se invece è opportuno fare delle distinzioni tra le diverse tipologie di apprendenti. Studi sulle modalità di apprendimento condotti negli ultimi anni (per una sintesi Chini 2005 cap. 3-6, DeKeyser 2002, Pallotti 1998 cap. 4-6) rivelano che mentre i bambini hanno la possibilità di impara-

ruolo attivo e cosciente dello studente sia l’allargamento dell’ambito dei fenomeni linguistici considerati» (si veda par. 2.1). 6 In generale in questo volume intendiamo per lingua seconda (L2) qualsiasi tipo di lingua appresa in età successiva alla lingua materna (LM) o lingua prima (L1), ossia come etichetta sovraordinata che comprende sia la lingua straniera (LS), cioè «la lingua non materna appresa in un Paese dove normalmente non è parlata (ad es. il russo in Italia o in Marocco)» (Chini 2005: 12), sia la lingua seconda in senso stretto, cioè la lingua non materna appresa in un Paese in cui è la lingua parlata normalmente dalla maggioranza della popolazione. Dove necessario, distingueremo invece i concetti di L2/LS.

Fare grammatica nella classe di italiano L2? Le risposte della ricerca

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re una lingua implicitamente in modo perfetto, da parlante nativo, se sottoposti ad un input ricco, in un’età compresa tra i 6/7 e i 16/17 anni ogni individuo perde gradualmente tale potenzialità. È molto difficile pertanto che un adulto riesca ad apprendere perfettamente una L2, a meno che egli non sia dotato di notevoli capacità analitiche (quella che Krashen definiva aptidude): dopo la soglia dei 16/17 anni infatti buona parte della grammatica di una L2 si apprende esclusivamente per via esplicita (è la Fundamental Difference Hypothesis di BleyVroman 1988). Va precisato che l’aptitude è differente dalla scolarizzazione, non coincide con essa (DeKeyser 2002: 515), pertanto non pare faccia differenza il grado di istruzione dell’apprendente, benché sia innegabile che l’adulto istruito, essendo più abituato a procedimenti di astrazione quali sono spesso quelli più comuni di riflessione metalinguistica, incontra minori difficoltà nel processo di riflessione. Anche l’apprendente di profilo culturale più basso tuttavia, ad esempio il lavoratore immigrato, compie lo stesso lavorio di riflessione interna e ne è consapevole in quanto è in grado di verbalizzare alcuni processi, come ha dimostrato una ricerca condotta da Vedovelli 1990 su immigrati che apprendevano l’italiano L2 in contesto spontaneo. Anche con tale tipo di apprendente dunque la riflessione sulla lingua, se condotta in modo appropriato, può portare a buoni risultati. Infine, i bambini: la ricerca sostiene che qualsiasi bambino (che non abbia particolari deficit cerebrali) può apprendere perfettamente una lingua anche in modo implicito, ed anzi riesce meglio così che attraverso la via dell’esplicitazione, purché sia sottoposto ad un input molto ricco quale solo un programma di immersione totale in una LS o la vita in un contesto di L2 possono permettere (DeKeyser 2002: 520). Il che non significa che un corso comunicativo di due o tre ore la settimana sia sufficiente. In tal caso, potrebbe essere che il supporto di una qualche forma di riflessione sulla lingua, anche in questo caso opportunamente condotta, magari in forma più giocosa, meno analitica, possa giovare all’apprendimento della L2. Il problema più grosso dunque per un insegnante di L2 non è se proporre una riflessione esplicita sulla lingua ma come farlo, in modo da non tornare indietro a metodi del passato, ma da rispettare la centralità della comunicazione.

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Capitolo 1

Cercheremo dunque, sulla base degli studi fatti anche su altre L2, di riflettere su cosa insegnare, e come farlo, senza fornire “un” metodo preconfezionato, ma presentando diverse alternative possibili, e discutendone i pro e contro.

Capitolo 2 Cosa insegnare. I contenuti 2.1. Il concetto di “grammatica” A partire dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso il concetto di “grammatica” ha subito una profonda revisione, sia in prospettiva teorica che glottodidattica. Con “grammatica” oggi non si indica più solo il tradizionale nucleo di regole morfosintattiche di una lingua, ma «quell’insieme di regole che permettono ad un parlante di comprendere e produrre frasi corrette nella sua lingua, cioè la sua competenza linguistica» in termini chomskiani (Prat Zagrebelsky 1985: 6). Anziché identificarsi con una lista delle proprietà formali di una lingua, sganciata dai contesti di uso, la grammatica viene oggi riconosciuta nel suo carattere comunicativo, come mezzo per mediare le parole e i contesti (Giunchi 2000: 7). Il concetto di grammatica quindi si riferisce ai diversi livelli della lingua illustrati nella lista seguente. - Livello fonologico: non solo insegnamento della pronuncia delle singole lettere o parole, ma attenzione al ritmo, alle curve di intonazione. - Livello morfosintattico: il nucleo tradizionale, con apertura alle nuove scoperte della grammatica (si pensi a concetti quali sintagma, valenza del verbo, deissi, dislocazioni, ecc.). - Livello pragmalinguistico: analisi dei principali atti comunicativi (del tipo: salutare e rispondere ai saluti, chiedere e dare informazioni, ecc.) e degli indici linguistici ad essi correlati (formule di saluto, forme per indicare data ed ora, ecc.) - Livello sociolinguistico: attenzione alle diverse varietà della lingua (scritta, parlata) e ai registri (formale, informale). - Livello lessicale: analisi degli aspetti più sistematici del lessico, dal punto di vista semantico (usi figurati, relazioni di sinonimia, iperonimia, ecc.) e morfologico, con particolare attenzione ai procedimenti di formazione delle parole, quali derivazione tramite affissi, al-

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Capitolo 2

terazione e composizione. Tali procedimenti costituiscono per l’apprendente un mezzo potente di analisi e decodificazione del significato delle parole sconosciute ed insieme un mezzo economico di arricchimento lessicale (Bozzone Costa 1986: 193; Lo Duca 2006: 74; Lo Duca e Duso, in stampa; Duso in stampa). - Livello testuale: attenzione agli elementi che caratterizzano il testo, scritto o orale (in particolare individuazione di anafore, catafore, connettivi testuali quali segnali discorsivi per il parlato e segnali interpuntivi per lo scritto), analisi delle tipologie testuali nella loro specificità (per una prima introduzione si veda Andorno 2003, e, in chiave didattica, Beltramo 2000). Lavorando sul testo narrativo ad esempio si punterà sulla concatenazione degli eventi, sugli indicatori temporali e sulle informazioni tempo/aspettuali suggerite dai tempi verbali utilizzati. Il testo descrittivo invece si presta ad un lavoro sulle espressioni di luogo, sull’aggettivazione, sui tempi della descrizione (presente ed imperfetto indicativo) (si veda poi 4.5.2). 2.2. Una grammatica funzionale alla comunicazione L’estensione del concetto di grammatica la rende dunque un sistema molto complesso ed impossibile da presentare nella sua totalità anche avendo a disposizione tempi molto lunghi. È ovvio dunque che non tutto ciò che è insegnabile va insegnato, e che in un corso di durata limitata l’insegnante dovrà per forza fare scelte precise. Ma cosa è più importante insegnare? Il criterio fondamentale dovrebbe essere quello di una lingua funzionale alla comunicazione. Nella fattispecie, l’insegnante dovrà valutare attentamente i bisogni comunicativi dei suoi apprendenti per definire gli obiettivi del corso. Se ad esempio lo scopo per cui essi stanno imparando l’italiano è quello di comunicare nella vita quotidiana, l’insegnante insisterà maggiormente sugli aspetti funzionali e pragmatici della lingua e di conseguenza sugli indici linguistici relativi (chiedere informazioni: frasi interrogative, formule di cortesia, pronomi allocutivi, ecc.; dare istruzioni: imperativo, pronomi personali tonici ed atoni, ecc.), senza dimenticare di insegnare ad usare i segnali discorsivi che tanto caratterizzano la lingua parlata.

Cosa insegnare. I contenuti

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Se però il corso si propone scopi differenti, ad esempio quello di rafforzare la capacità di affrontare testi universitari scritti, le regole da insegnare andranno estratte da un corpus di testi dell’ambito disciplinare studiato, e riguarderanno ad esempio le strutture sintattiche (subordinate più frequenti, nessi argomentativi) ed il lessico (in particolare le nominalizzazioni). In un corso per dottorandi che devono essere aiutati a scrivere tesine in L2, si dovrà invece puntare molto di più sulla grammatica del testo, insistendo sugli elementi di coesione e coerenza, sullo sviluppo dell’argomentazione, e così via. Prat Zagreblesky (1985: 65) ricorda inoltre che «la riflessione sulla lingua deve contenere informazioni aggiornate ed adeguate alla realtà dei fatti linguistici». La lingua che viene presentata in classe cioè deve essere il più possibile vicina a quella che poi gli studenti si trovano ad affrontare nella vita reale. Dal momento però che la lingua è un organismo vivente, soggetto a continua evoluzione, nessuna grammatica è in grado di fotografare una situazione stabile. D’altra parte gli studenti, quelli stranieri in particolare, hanno bisogno di punti fermi, di regole semplificate ed adeguate al loro stadio di interlingua. Trovare un equilibrio tra queste due esigenze non è certo facile, tuttavia appare più produttivo rendere consapevoli gli studenti delle aree di oscillazione, affinché di fronte alla comunicazione reale non vengano a perdere fiducia nelle informazioni apprese in classe. La scelta delle grammatiche di riferimento è da questo punto di vista molto importante: devono essere recenti e registrare le oscillazioni d’uso. Un esempio può essere costituito dal sistema dei pronomi indiretti atoni, e nella fattispecie dall’uso di gli per loro e per le. Come vedremo in seguito (par. 5.3.3) le più aggiornate grammatiche di riferimento descrivono tutte le oscillazioni d’uso, pur esprimendosi in modo differente sulla correttezza dell’uso di gli per le. L’insegnante accorto non potrà dunque né negare l’esistenza della forma loro (che spesso nello scritto si trova ancora), né l’uso sempre più invasivo della forma gli per le, registrando tuttavia che gli è tendenzialmente ammesso per la terza persona plurale, mentre è ancora considerato scorretto per il femminile singolare, ma che la situazione è in rapida evoluzione.

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Capitolo 2

2.3. Scelta e sequenziazione degli argomenti: i criteri La selezione degli elementi linguistici su cui focalizzare l’attenzione degli studenti deve essere molto accurata, in particolare quando non si disponga di un sillabo appositamente studiato per la propria tipologia di apprendente, come ad esempio il sillabo di Lo Duca (2006), calibrato sulle esigenze degli studenti universitari in scambio. Anche di fronte ad un sillabo così dettagliato però l’insegnante dovrà fare i conti con gli individui reali che compongono la sua classe, cercando di stabilire cosa sia più importante per loro, a seconda delle lingue materne e dei bisogni specifici di essi. Tenteremo quindi di raggruppare in tre punti i criteri su cui basare la scelta e la messa in sequenza degli indici linguistici. 2.3.1. Generalità È evidente che andranno insegnate prima le forme1 più generali, più utili e poi le più specifiche. Ciò significa in primo luogo che bisogna rispettare l’ordine naturale di acquisizione. Come già rilevato nella premessa, la ricerca ha dimostrato che chi apprende una L2 tende a seguire un percorso acquisizionale comune, almeno fino ad un certo punto, e che l’istruzione esplicita, se non può alterare l’ordine con cui vengono apprese le strutture, può tuttavia accelerarne il processo. L’ipotesi dell’insegnabilità (Teachability Hypotesis) di Pienemann (1985) inoltre sostiene che l’insegnamento può promuovere davvero l’acquisizione solo nel caso in cui l’apprendente sia “pronto”, ovverosia quando la sua interlingua è vicina allo stadio in cui potrebbe acquisire naturalmente la struttura che si vuole insegnare. Per l’italiano sono state disegnate le sequenze acquisizionali di molte forme (per una sintesi si veda Giacalone Ramat 2003), ad esempio per il verbo è stata messa a punto la scala seguente:

1 Avvertiamo che sulla base della bibliografia consultata (ad esempio Doughty e Williams 1998: 211), utilizzeremo “forme” in senso estensivo, indicando sia le “forme” linguistiche vere e proprie, sia le “regole” (il termine rules descrive «la realizzazione, la distribuzione e l’uso delle forme» ivi: 211, traduzione nostra).

Cosa insegnare. I contenuti

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Tavola 1: La sequenza acquisizionale del verbo italiano (da Giacalone Ramat 2003: 23) Presente (e Infinito) > (Ausiliare) Participio passato > Imperfetto > Futuro > Condizionale > Congiuntivo

L’apprendente cioè comincia ad usare il verbo al presente, spesso alla terza persona, per poi introdurre il passato prossimo. Spesso però il participio passato viene utilizzato senza ausiliare, ed ha in un primo momento valore aspettuale (indicando cioè finitezza) più che temporale. Come sottolinea Pallotti (1998: 51) «la prima opposizione morfologica a comparire è quella che oppone azioni passate o concluse e azioni presenti o continuate». In seguito compaiono l’imperfetto (quindi la distinzione morfologica tra eventi passati di tipo puntuale e durativo); infine, e non in tutti gli apprendenti, futuro, condizionale e congiuntivo. Tale sequenza, come sottolinea Giacalone Ramat, ha tendenzialmente valore implicazionale e permette quindi di riconoscere il livello raggiunto da un apprendente nel settore del sistema verbale. Per esempio, l’uso autonomo del futuro da parte di un apprendente implica l’uso autonomo di presente, participio passato – con ausiliare o meno – e di imperfetto, mentre non dice nulla sulla capacità dell’apprendente di utilizzare forme di condizionale e congiuntivo (Giacalone Ramat 2003: 23).

L’insegnante che non la rispettasse però, e decidesse ad esempio di introdurre il tempo imperfetto in fase iniziale, prima che gli apprendenti abbiano avuto modo di cogliere la distinzione aspettuale tra finito/non finito e temporale tra presente/passato, non permetterebbe loro – secondo l’ipotesi dell’insegnabilità – di compiere progressi significativi. Non tutte le strutture di una lingua comunque si collocano in un momento preciso della scala acquisizionale: Pienemann (1985) distingueva tra i tratti che maturano (developmental features) e i tratti che variano (variational features), sostenendo che mentre per insegnare i primi è necessario rispettare un ordine ben preciso, per i secondi invece c’è maggior libertà, e possono essere proposti a diversi livelli, anche se non è detto che l’effetto dell’istruzione esplicita sia duraturo. Pienemann esitava però nel definire cos’è un tratto “che varia”. Un e-

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sempio per l’italiano potrebbe essere costituito dalle preposizioni di luogo, con le sottili distinzioni tra l’uso di a/in (vado al bar/in pizzeria, al mare/in montagna). È un tratto che di solito viene proposto già ai primissimi livelli, ma che continua a presentare difficoltà anche ad un apprendente di livello C1,2 in quanto non obbedisce a criteri precisi. 2.3.2. Frequenza, marcatezza e salienza nell’input Andranno insegnate prima le strutture più frequenti della lingua, poi quelle più specifiche: il passato prossimo ad esempio – almeno in gran parte d’Italia – è più frequente e quindi più utile del passato remoto, viene acquisito prima anche naturalmente e merita pertanto di venir presentato molto prima del passato remoto. Il concetto di frequenza è vicino a quello di marcatezza: le forme non marcate – le più comuni e regolari – precederanno quelle marcate (Giacalone Ramat 2003: 153): ad esempio l’insegnamento della diatesi attiva precederà quello della passiva, quello delle subordinate in forma esplicita precederà quello delle implicite (al gerundio o al participio; si veda ad esempio Giacalone Ramat 2003b: 192-95 e 208-209 per il gerundio, e qui par. 4.10), con le opportune eccezioni. Pensiamo alla sintassi della frase semplice: l’insegnante accorto presenterà fin da subito l’ordine naturale della frase (SVO), lasciando a momenti successivi la scoperta di possibili inversioni (ad esempio con certi tipi di verbi, i cosiddetti inaccusativi: «È arrivato Giovanni»), e ai livelli più avanzati strutture marcate come le dislocazioni, le frasi scisse (il sillabo di Lo Duca 2006 ad esempio le colloca solo al livello C1). Tuttavia non potrà prescindere dall’introdurre molto presto la frase interrogativa parziale, ossia quella introdotta da pronomi ed avverbi interrogativi («Che cosa fa Luca?», «Quando arriva Luisa?»), data la sua alta frequenza nell’input, anche se richiede la posposizione del soggetto. Una variabile da considerare in rapporto alla frequenza di una forma è infine la sua salienza, ossia la facilità che ha l’apprendente nel notarla nell’input. La salienza di una forma dipende dalla sua rilevan2

Qui e in seguito facciamo riferimento ai sei livelli stabiliti dal Quadro comune europeo di riferimento (Bertocchi e Quartapelle, 2002).

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za comunicativa, ma anche da questioni formali, ad esempio il peso “fonico” che essa ha. Esistono infatti forme frequenti nell’input ma poco salienti, come potrebbero essere per l’italiano gli articoli, in genere poco rilevanti o addirittura ridondati dal punto di vista comunicativo, in quanto il nome dà già precise indicazioni su genere e numero. Per di più gli articoli, essendo in genere monosillabi, sono poco percepibili dal punto di vista fonico. La ricerca ha sottolineato che l’insegnamento esplicito dovrebbe insistere particolarmente sulle forme frequenti ma poco salienti, perché l’apprendente potrebbe non notarle neppure nell’input, rischiando la fossilizzazione: vi sono infatti apprendenti di italiano L2 provenienti dell’est dell’Europa, ad esempio i polacchi, che, pur acquisendo in contesto spontaneo e con facilità un italiano complessivamente piuttosto corretto, omettono regolarmente gli articoli che nella loro L1 infatti mancano. Solo un insegnamento esplicito o un feedback costante da parte di parlanti nativi potranno permettere loro di “notare” la presenza degli articoli e di ristrutturare la propria interlingua. 2.3.3. Difficoltà formale Anche il criterio della difficoltà formale ha un suo peso, in quanto necessariamente forme più facili risulteranno più semplici da apprendere e da insegnare rispetto a forme più difficili. Tuttavia talvolta appare oggettivamente difficile stabilire quali sono le forme “facili” e quali quelle “difficili” di una lingua: molto spesso la difficoltà di una struttura è soggettiva in quanto può essere influenzata da diversi fattori, primo tra tutti dalla maggior o minor congruenza a forme presenti nella L1. Un argomento ritenuto di solito complesso per chi impara l’italiano come la distinzione tra tempi perfettivi ed imperfettivi, a partire dall’opposizione tra passato prossimo ed imperfetto, risulterà certamente molto più digeribile per un apprendente francofono o ispanofono che possiede tale distinzione nella sua lingua madre, che per un apprendente anglofono o tedescofono, che non la possiede. La ricerca si è chiesta se la difficoltà formale renda una regola un buon candidato per la riflessione metalinguistica. Vi sono sostanzialmente due posizioni: c’è chi sostiene che strutture che sono semplici linguisticamente e presentano una chiara relazione tra forma e signifi-

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cato, come in inglese il passato regolare in -ed, siano dei buoni candidati per l’istruzione esplicita (ad esempio Pica 1983, 1985), e chi sostiene – al contrario – che regole di quel tipo, proprio perché sono più facili e in genere più salienti nell’input, possono essere acquisite facilmente anche da sole, mentre l’istruzione formale andrebbe riservata in particolare alle strutture più complesse (Hulstijn e De Graff 1994). La scelta dipenderà anche dal tempo che la classe ha a disposizione: se è poco, e se ci si trova in un contesto di lingua seconda in cui molto input è comunque disponibile, l’insegnante può decidere di soffermarsi esplicitamente solo sulle forme più complesse, lasciando agli studenti la possibilità di “scoprire” da soli le più semplici (Doughty e Williams 1998a: 225). Ma cosa rende una forma difficile? Intanto la non “congruenza con forme della L1” (Ellis 1997: 70). Abbiamo visto infatti che uno dei fattori che più condizionano il processo di apprendimento di una L2 è la madrelingua degli apprendenti (Doughty e Williams 1998a: 226). Oltre al caso appena citato di distinzioni che possono essere presenti o meno in una delle due lingue, vi sono anche regole che si realizzano in maniera opposta in ciascuna di esse. Per uno studente anglofono che apprende l’italiano (o il francese) ad esempio, l’ordine dei pronomi personali diretti all’interno della frase risulta essere un argomento “difficile”, in quanto l’interferenza della propria L1 lo spingerebbe ad utilizzare costrutti opposti a quelli della lingua obiettivo, come ad esempio «Io vedo li» (I see them) anziché «Io li vedo». I see the children. Io vedo i bambini.

Æ Æ

I see them. Io li vedo

Benché oggi si tenda a guardare con sospetto ad un insegnamento fondato principalmente su basi contrastive (ma su questo si veda poi 4.10), sicuramente la conoscenza della lingua madre dei propri studenti aiuterà l’insegnante di italiano LS, o che comunque lavora con classi linguisticamente omogenee, ad individuare i punti su cui insistere maggiormente. Nelle classi miste invece la difficoltà relativa che hanno alcune strutture costituisce un ostacolo cui si deve cercare di ovviare, pensando a percorsi integrativi. Ad esempio si possono proporre

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esercitazioni differenziate per gli studenti di lingue materne diverse: mentre ad un tedescofono sarà necessario offrire molti stimoli ed esercitazioni per arrivare a comprendere bene la distinzione passato prossimo/imperfetto, con un ispanofono sarebbe più opportuno insistere sulla selezione degli ausiliari (essere/avere) per formare il passato prossimo. Il fatto che nella sua lingua la selezione degli ausiliari differisca molto dall’italiano infatti comporta per lui una pesante interferenza. Di fronte a compiti di tipo più comunicativo, come la narrazione di storie, può essere utile al contrario stimolare studenti di LM molto diverse a lavorare insieme, in gruppo, in modo che si aiutino a vicenda sfruttando proprio le conoscenze che derivano dalle loro L1. La difficoltà può poi dipendere da fattori inerenti alla regola stessa: si pensi ad esempio alla morfologia verbale dell’italiano, con il suo ampio ventaglio di modi, tempi, persone con desinenze sempre diverse tra loro e le frequentissime irregolarità. Oltre alla morfologia, va considerata anche la sintassi: la teoria della Processabilità di Pienemann (Pienemann 1998 e, con estensione, Pienemann, Di Biase e Kavaguchi 2005) si sofferma sul ruolo della sintassi nell’acquisizione di una L2. Scrivono Bettoni e di Biase: l’acquisizione della grammatica della L2 segue la sequenza implicazionale con cui sono attivate le procedure durante la produzione del parlato, e la sequenza dipende dalla distanza sintattica tra gli elementi i cui tratti richiedono lo scambio d’informazione: più lontani sono sintatticamente, maggiore è il costo di elaborazione per l’apprendente (Bettoni e Di Biase 2007a, in stampa).

Gli studi di Pienneman, e le applicazioni di essi all’italiano (si veda in particolare Bettoni e Di Biase 2005, Bettoni e Di Biase 2007a e 2007b, Di Biase e Kawaguchi 2002) dimostrano come la distanza tra le parole, l’ordine che esse assumono all’interno della frase, la struttura argomentale del verbo e le funzioni grammaticali dei diversi elementi incidono notevolmente sul grado di difficoltà che incontra l’apprendente straniero e cercano di disegnare una sorta di sequenza acquisizionale. L’accordo entro il sintagma nominale (tutti buoni) ad esempio risulta molto più semplice da acquisire dell’accordo soggetto e aggettivo predicativo (le mele sono buone). Analogamente, una frase del tipo Lucia bacia Renzo è molto più facile di Renzo lo bacia Lucia,

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essendo più lineare. Sicuramente tali studi hanno bisogno di essere sistematizzati, ma già ora possono dare preziose indicazioni alla glottodidattica. La complessità di una regola è legata anche alla sua “realizzabilità” (è la reliability introdotta da Hulstijn e De Graaff 1994): sono più facili da apprendere le regole che si realizzano nella maggior parte dei casi piuttosto che quelle che hanno molte eccezioni: un buon esempio per l’italiano può essere costituito dal comparativo introdotto da più, che prevede pochissime eccezioni, derivanti dal latino (migliore, peggiore, ecc.), ma che in genere tende ad essere stabile. Vi sono infine regole così complesse da non essere ancora del tutto chiare neppure ai linguisti e che riguardano ad esempio per l’italiano la morfologia derivativa. Un esempio può essere rappresentato dalla selezione dei suffissi deverbali –mento e –zione per i nomi d’azione: oggi è possibile darne una descrizione abbastanza precisa (Gaeta 2004), che però, oltre ad essere molto “tecnica”, richiede considerazioni semantiche a volte eccessivamente dettagliate e sottili per chi apprende l’italiano come L2, e contempla comunque molte eccezioni. Di fronte a casi come questo è opportuno chiedersi se vale la pena spendere molte ore di insegnamento, tentando di darne una descrizione sistematica (quello che viene definito sistem learning), o se non sia il caso piuttosto di puntare al loro riconoscimento, con formule generali del tipo «se trovi un nome che finisce in -mento o in –zione, esso indica molto probabilmente un’azione e deriva da un verbo», e all’apprendimento della singola forma come item linguistico (item learning cfr. Doughty e Williams 1998a: 222 con bibliografia). 2.3.4 Bisogni specifici degli apprendenti Un altro fattore che non si può trascurare e che può interferire con i precedenti è quello dei bisogni specifici degli apprendenti. L’esempio più chiaro è quello della forma di cortesia, che in italiano risulta particolarmente complessa. Comporta infatti l’uso della terza persona, del cosiddetto congiuntivo di cortesia rispetto al molto più semplice imperativo, difficoltà notevoli nella selezione dei pronomi e nell’accordo. Nonostante la sua complessità tale argomento risulta essere di fondamentale importanza per molti apprendenti, non solo per gli studenti

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universitari che devono relazionarsi con i professori, ma anche per lavoratori immigrati: per non commettere gaffe socioculturali che possono interferire con i loro bisogni primari (ottenere documenti, trovare un lavoro), devono potersi rivolgere in modo appropriato a funzionari di uffici pubblici e a datori di lavoro. Pertanto sembra opportuno trattare la forma di cortesia fin dalle prime lezioni di un corso di italiano L2: all’inizio, evidentemente, andranno introdotte solo le forme più significative, presentandole come item lessicali. Ci si focalizzerà ad esempio sui saluti del tipo “buongiorno”, “buonasera”, sulla forma lei e sull’uso delle terza persona anziché del tu, e si introdurranno forme verbali utili del tipo: “scusi”, “entri”, “senta”, ecc. Mano a mano che gli studenti progrediscono tali item verranno quindi scomposti ed analizzati come forme grammaticali. Ovviamente, ciò comporta una buona dose di gradualità e di frazionamento delle regole. 2.4. Gradualità e ciclicità Le esigenze didattiche impongono spesso di presentare le regole in modo generico e parziale sia all’insegnante che al manuale. Ciò però rischia di creare nell’apprendente un senso di insicurezza e l’impressione di eccessivo frazionamento. Molto spesso capita che di fronte a manuali anche buoni ma che presentano le regole gradualmente, gli studenti lamentino un eccessivo “disordine” nell’affrontare la grammatica. Cosa fare dunque per mantenere la necessaria gradualità ma rassicurare gli apprendenti ? Nella presentazione orale l’insegnante può ovviare ricorrendo ad anticipazioni («Adesso abbiamo visto che l’imperfetto ha principalmente questi due usi, poi vedremo che può averne anche altri»), richiami («Ricordate che abbiamo visto diversi modi per presentare un’azione futura? Bene, ora vediamo che esiste anche il tempo futuro...») o comunque formule di raccordo per rendere consapevoli gli studenti del fatto che le regole presentate sono parziali e che però, poco alla volta, essi stanno sistematizzando la propria grammatica. Un buon testo può cercare invece di rimediare al problema attraverso la presentazione di tavole o di schemi riassuntivi finali, che raccol-

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gano e sintetizzino le diverse porzioni delle regole presentate. Se ciò non avvenisse, l’insegnante può comunque fornire propri schemi agli studenti o consigliare loro una grammatica di riferimento (si veda la rassegna del cap. 5). Molti apprendenti trovano infatti rassicurante avere delle sintesi dove trovare raggruppate le regole di cui si stanno impadronendo. Presentare le regole gradualmente, seguendo tappe compatibili con quelle dell’acquisizione naturale, ricorrendo ad input arricchiti o autentici e prevedendo attività di pratica e produzione non dà comunque garanzia di successo: come ricordava efficacemente D’Addio Colosimo (1996) «tra input e output… c’è di mezzo il mare». Spesso una struttura entra in quella che viene definita “memoria a breve termine” dell’apprendente, ma viene poi dimenticata nel giro di poche settimane. L’acquisizione di una lingua infatti non è un processo lineare, ma ciclico: fondamentale appare pertanto tornare periodicamente sulle regole, per arricchirle e rinforzarle. Il corso di l’italiano L2 che adotta più marcatamente il metodo comunicativo, costituito dai volumi Uno e Due del Gruppo Meta, ad esempio, si comporta egregiamente in questo senso, dato che affronta il futuro in quattro diverse tappe. In un primo momento alla fine del primo volume (Unità 24), partendo da un dialogo in cui due amici fanno programmi per il giorno successivo, il volume presenta una serie di strutture linguistiche che possono servire per parlare del futuro senza utilizzare la forma verbale del futuro (presente indicativo + marcatori temporali, dovere + infinito; presente o imperfetto di pensare + infinito o, per esprimere desideri al futuro: voglio/vorrei + infinito; mi piacerebbe + infinito) e propone una serie di attività comunicative ed esercizi sul tema. Quindi, all’inizio del secondo volume, il tempo futuro viene inserito in un breve testo introduttivo al libro (Unità 2, p. 16), ne viene analizzata la forma e ne vengono presentati alcuni usi attraverso testi di diversa tipologia (la poesia di Pavese Ancora cadrà la pioggia; alcune pubblicità, un trailer, ecc.) offerti allo studente in modo che faccia delle ipotesi sui contesti in cui si usa. Non vengono fornite spiegazioni esplicite, ma compare solo una nota di questo tipo:

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Osserva gli usi del futuro in questi testi. Ma attenzione, non sempre quando si parla di futuro si usa questo tempo. Ti ricordi dell’unità 24 di Uno? Per ora osserva i casi in cui si usa il futuro per parlare del futuro e cerca di capire le differenze. Ci torneremo su (Uno, p. 18).3

Nell’unità 9 (circa a metà del secondo volume) si torna a parlare del futuro, ma nell’uso modale, per esprimere probabilità, e viene introdotto il futuro anteriore (–«Che ore sono?» –«Saranno le tre»; – «Che ora era?» –«Saranno state le tre»). L’unità 10 è dedicata per intero alla ricapitolazione delle diverse forme per parlare del futuro presentate in precedenza e si sofferma ampiamente su di esse, con dettagliate spiegazioni sui contesti d’uso. Viene introdotto inoltre l’uso del futuro in frasi subordinate (del tipo «se trovi un quadrifoglio, sarai fortunato», «spero che sarà una buona settimana»). Naturalmente tutto avviene in un contesto ricco di input autentici (pubblicità, oroscopi, testi letterari) o semiautentici (dialoghi). Forma e significato sono dunque sempre in stretta relazione tra loro.

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Corsivo nostro.

Capitolo 3 Come insegnare. 1. I metodi Riflessioni teoriche sull’insegnamento della grammatica nella classe di L2 3.1. Premessa Il capitolo presenta una breve panoramica degli studi sull’insegnamento della grammatica di una L2 e dei principi teorici che vi stanno sotto, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, con la nascita dei metodi comunicativi. Se il paragrafo 2 condensa in pochi righe studi già disponibili in italiano (si vedano ad esempio Ciliberti 1994, Pallotti 1998, Giunchi 2000, 2002, Chini 2005), i paragrafi successivi si basano principalmente su ricerche fatte per l’insegnamento di lingue come l’inglese e lo spagnolo L2, le quali, avendo da sempre una diffusione molto maggiore, hanno avuto anche una più solida tradizione di insegnamento e sono state oggetto di studi anche in ambito didattico. La ricerca sull’apprendimento e l’insegnamento della lingua italiana invece, iniziata negli anni ’80, è ancora agli stadi iniziali, e si è orientata soprattutto sull’analisi delle sequenze acquisizionali (si vedano in particolare i lavori del Gruppo Pavia e la sintesi di Giacalone Ramat 2003). Gli studi sull’insegnamento della grammatica, a parte poche eccezioni (per cui si veda il cap. 5) sono ancora quasi del tutto assenti, o consistono in adattamenti di modelli ed approcci didattici elaborati per altre lingue (ad esempio Liverani Bertinelli e Benati 2001, Benati, Van Patten e Wong 2005) o per l’italiano come L1 (Lo Duca 2004).

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Capitolo 3

3.2. Dal vecchio al nuovo paradigma Come già detto, per molti secoli, la seconda lingua è stata insegnata seguendo il metodo in voga per l’insegnamento delle lingue classiche in epoca tardo medievale, sancito poi dalla Grammaire générale et raisonnéé de Port Royal (1660), che prevedeva lo studio delle regole e la loro applicazione in esercizi di vario tipo, per arrivare alla traduzione dei testi letterari (Giunchi 2002: 108-115). Tale metodo, chiamato grammaticale-traduttivo, considerava fondamentale per l’apprendimento della lingua lo studio delle regole grammaticali ed utilizzava un approccio deduttivo, in quanto si partiva dall’enunciazione della regola, per poi passare – per deduzione – all’esemplificazione e alla pratica. Dal momento che la riflessione grammaticale era al centro del processo dell’insegnamento, veniva fatto ampio uso dell’apparato metalinguistico. Già negli anni ’30-’40 del secolo scorso erano nati però i cosiddetti metodi naturali, basati su un’immersione totale del discente nella lingua oggetto d’apprendimento, come un bambino nella lingua materna. A mettere davvero in crisi l’approccio grammaticale-traduttivo fu soprattutto il metodo audio-orale, impostosi negli Stati Uniti tra la seconda guerra mondiale ed i primi anni ’60: l’esigenza di insegnare rapidamente le lingue straniere ai soldati dell’esercito comportava infatti la necessità di tecniche di apprendimento diverse e più rapide. Tale metodo si appoggiava sul comportamentismo di Skinner, una corrente della psicologia che postulava come motore fondamentale dell’agire umano un meccanismo di azione-reazione: anche il linguaggio veniva considerato un comportamento, ed ogni azione linguistica una risposta ad uno stimolo. Acquisire una L2 significava dunque impadronirsi di una serie di abitudini senso-motorie, diverse da quelle della propria LM, che si contraevano mediante condizionamento (Giunchi 2002: 115). Ciò comportava un insegnamento della L2 basato su procedure di tipo ripetitivo e manipolativo: si partiva in genere da un dialogo modello che si chiedeva di replicare e memorizzare, proseguendo poi con batterie di “esercizi-trapano” (i pattern drills), meccanici, basati sulla ripetizione, con variazioni minime, di una struttura. L’apprendimento avveniva quindi per analogia, uniformazione ad un modello, attraver-

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so un processo di tipo induttivo per cui si passava dall’esercizio alla regola. La riflessione esplicita sulle regole della lingua era considerata invece inutile, anzi persino dannosa, in quanto poteva bloccare l’apprendente nel processo di automatizzazione delle strutture. A partire agli anni ’70 però ci furono profonde innovazioni nel campo della linguistica, che portarono grossi cambiamenti anche nella glottodidattica. Fondamentale fu il ruolo di Chomsky che, criticando il comportamentismo, propose una spiegazione completamente diversa dell’apprendimento della lingua: in ciascun individuo a suo avviso è presente una sorta di Grammatica Universale, che consiste di principi (leggi assolute, universali) validi per tutte le lingue, e di parametri, che invece variano e danno conto della diversità delle lingue, i quali vengono progressivamente “scoperti” nei primi anni di vita. Il bambino che apprende la lingua materna non lo fa imitando il comportamento degli adulti ed acquisendo delle abitudini, ma ha in sé una sorta di dispositivo di acquisizione linguistica innato (il LAD = Language Acquisition Device), attraverso cui è in grado di formulare regole sulla lingua e di generare, in base ad esse, qualsiasi costruzione. Chomski parlava di L1, ma secondo alcuni studiosi la Grammatica Universale è accessibile, almeno parzialmente, anche a chi apprende una seconda lingua (si veda la sintesi di Chini 2005: 30-32). La teoria del LAD venne in qualche modo ripresa ed elaborata da Krashen con l’ipotesi dell’organizzatore e del Monitor (si veda Chini 2005: 33-35, e qui 3.3). Krashen (1982) propose anche la distinzione fondamentale tra “acquisizione” ed “apprendimento”, intendendo con “acquisizione” (acquisition) un processo naturale, induttivo, inconsapevole, e con “apprendimento” (learning) un processo generalmente consapevole, frutto di esposizione implicita e guidata alle regole della lingua. Secondo Krashen i due processi avvengono in parti diverse del cervello, tra di essi non vi è alcuna possibilità di scambio e solo il primo garantisce l’effettiva interiorizzazione di una certa struttura. 3.3. Krashen e l’opzione zero Per Krashen (1982, 1990) il termine “grammatica” può essere inteso in due sensi: in primo luogo, esso può designare il Monitor, «quella parte

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del sistema interno dell’apprendente che pare sia responsabile dell’elaborazione linguistica consapevole» (Dulay, Burt e Krashen 1985: 99). Per entrare in uso tuttavia, il Monitor necessita di condizioni ottimali: l’apprendente deve avere tempo (quindi può ricorrere ad esso nella produzione scritta o nel discorso pianificato piuttosto che nella comunicazione spontanea) e deve essere «concentrato sulla correttezza o sulla forma» (focused on form Krashen 1990: 30). In ogni caso, l’uso del Monitor fa parte dell’apprendimento e non dell’acquisizione spontanea, che è per Krashen l’unica vera via per imparare una L2. In secondo luogo “grammatica” può significare la materia, l’oggetto di studio: a tale proposito tuttavia Krashen (1990: 40-41) evidenzia che l’insegnamento della grammatica può dar luogo ad apprendimento solo se in classe si utilizza la lingua obiettivo come mezzo di istruzione, e se sia gli studenti che l’insegnante sono particolarmente interessati alla grammatica. In tale situazione infatti l’insegnante, parlando di grammatica, offre agli studenti un input comprensibile e da loro sentito come rilevante. Il filtro affettivo è pertanto basso perché gli studenti sono concentrati sul significato e non sul mezzo. Sotto però vi è un inganno: mentre essi credono di imparare attraverso il messaggio che viene loro comunicato, in realtà stanno imparando attraverso il mezzo utilizzato. Qualsiasi soggetto interessante per loro potrebbe svolgere la stessa funzione, purché in aula si facesse uso della lingua obiettivo. Per Krashen infatti l’apprendimento guidato necessita di una sola cosa: un input comprensibile e dotato di significato (comprensible and meaning bearing Krashen 1985), che contiene strutture leggermente al di sopra di quelle già possedute dall’interlingua dello studente. È l’ipotesi dell’«input comprensibile + 1». La produzione (l’output), viceversa, non ha nessuna funzione rilevante nel processo di acquisizione, ma è un segnale che essa ha avuto luogo (Krashen 1985). Nel 1983 Krashen stesso, assieme all’ispanista Terrel, elaborò un approccio che metteva in pratica le sue teorie: l’Approccio naturale (Natural Approach), chiamato “naturale” da un lato perché rinunciava all’insegnamento della grammatica, dall’altro perché la lingua veniva insegnata seguendo tappe e principi propri dell’acquisizione “naturale” di chi apprende spontaneamente (Giunchi 2002: 123-24; per una descrizione dell’approccio, Longo 1998).

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Il pensiero di Krashen fu inizialmente interpretato come una critica all’insegnamento esplicito delle regole grammaticali e diede vita alla cosiddetta “opzione zero” o dei “non-interventisti” (la “versione forte” dei metodi comunicativi): era la posizione di chi, basandosi appunto sulle teorie di Krashen e di altri ricercatori (ad esempio Dulay e Burt 1973), pensava che l’istruzione grammaticale dovesse essere abbandonata in favore di un insegnamento più naturale, incentrato sui significati e basato su compiti (task)1 di tipo comunicativo. Un ottimo esempio è costituito dal Communicational Teaching Project sperimentato in India da Prabhu (1987; per una descrizione si veda Brumfit 1984), attraverso corsi di inglese interamente fondati su sillabi procedurali (ossia basati sui compiti), che non erano pianificati in partenza ma venivano negoziati durante l’insegnamento, laddove l’insegnante si rendeva conto che uno specifico compito poteva essere utile ai bisogni degli studenti in quella particolare situazione. Prabhu (1982: 2) infatti riteneva che mentre gli apprendenti si applicavano alla soluzione di un problema, ed erano quindi concentrati sul significato, parti subconscie della loro mente percepissero ed astraessero alcune delle strutture linguistiche presenti nei testi. I sillabi dunque, anziché soffermarsi su «quali parti del contenuto dovessero essere imparate», indicavano «che cosa doveva essere fatto in classe» (da Prabhu e Carrol 1980: 2), ossia presentavano una serie di attività, che mettevano gli apprendenti di fronte a dati linguistici (ad esempio una mappa, una tavola di orari) in inglese e chiedevano loro di risolvere un problema (ad esempio come fare per raggiungere una certa località). La struttura della lezione prevedeva quindi tre momenti: un pretask, in cui l’insegnante svolgeva un compito simile a quello che dovevano affrontare poi gli studenti, con la collaborazione di alcuni di loro; il task vero e proprio durante il quale gli studenti lavoravano per 1

Con task (in italiano “compito comunicativo” o anche “attività”) si intende «un tipo di attività che spinge l’apprendente a comprendere, manipolare, produrre e interagire nella lingua target, mentre la sua attenzione è focalizzata principalmente sul significato piuttosto che sulla forma» (Scalzo 1998: 144 n. 12, che lo trae da Nunan 1989: 10). Un task è inoltre «un’attività didattica completa che coinvolge più abilità contemporaneamente come ad esempio ascoltare, parlare, prendere appunti e può essere svolto in classe ma anche fuori» (ivi: 144). Per un approfondimento sull’insegnamento basato sui compiti si vedano ad esempio Bygate, Skehan e Swain (2001) ed Ellis (2003), con ricca bibliografia.

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lo più individualmente ed una fase finale di feedback in cui l’insegnante doveva limitarsi a giudicare la soluzione del compito, ma non la lingua utilizzata. Egli dunque non interveniva sistematicamente, ma solo occasionalmente, sugli errori che ostacolavano la comunicazione. 3.4. Il ritorno della grammatica nei metodi comunicativi Non tutti interpretarono però il pensiero di Krashen in modo così estremista. Significativa è ad esempio la posizione dello stesso Terrel, il quale nel 1991 prende le distanze dai non intervenzionisti e cerca di definire il ruolo della grammatica nell’apprendimento di una L2, sottolineando che essa «sembra essere un aiuto all’apprendente nel processo di acquisizione, rendendo certe forme grammaticali più salienti e perciò aiutando l’apprendente a stabilire corrette connessioni tra forma e significato» (Terrel 1991: 62).2 A suo avviso infatti, la riflessione esplicita, pur non potendo alterare le sequenze di acquisizione, può aiutare ad accelerare i tempi e a trovare delle strategie, innanzitutto agendo come una sorta di “pianificatore in anticipo” (advance organizer Terrel 1991: 58) che aiuta a processare i dati forniti dall’input, dando alcune informazioni sulla sua organizzazione o sulla segmentazione, informazioni che possono ridurre l’ansietà dello studente di fronte ad un testo complesso. Nel caso di regole morfologicamente complesse inoltre, l’insegnamento grammaticale esplicito può agire da “focalizzatore” (focuser Terrel 1991: 59) per evidenziare il rapporto tra contenuto e forma. L’idea è quella di incrementare la comparsa di strutture morfologicamente complesse ma magari poco salienti nell’input (come le marche di numero e di tempo nei verbi delle lingue romanze), in modo che l’apprendente le possa notare con maggior facilità. L’informazione grammaticale viene dunque utilizzata come una sorta di “organizzato-

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«Is seen as ad aid to the learner in the acquisition process by making certain grammatical forms more salient and thereby aiding the learner to establish correct meaning-form connections».

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re dell’input” (input oganizer Terrel 1991: 59), come nel seguente esempio che Terrel fa per lo spagnolo: Tavola 1: Ruolo dell’Istruzione grammaticale (Grammatical instruction) nel metodo comunicativo (da Terrel 1991: 59) I’m going to describe to you a typical Sunday in my life. Notice that all the verbs I will use end in -o. Spanish uses this ending on verbs to refer to the speaker: “I”. Sample input: Los domingos me levanto más tarde, a veces à las diez y a veces a las once. Luego, desayuno cereal. Casi sempre ablo por teléfono a mi hermano, Pablo. En la tarde salgo con algún amigo a pasear. […] This narrative can be continued with fifteen to twenty utterance, all of which contain a verb from ending in -o.

Infine, l’insegnamento grammaticale esplicito permette di monitorare il proprio output. Mentre però Krashen sembrava pensare che il Monitor potesse venir utilizzato solo nella produzione controllata, Terrel (1991: 61) ritiene invece che sia possibile farvi ricorso anche nel parlato spontaneo, ad esempio per ricostruire forme del paradigma di un verbo non ancora incontrate nell’input. Se un apprendente conosce l’infinito spagnolo cortar e sa che il participio passato dei verbi in -ar fa -é, può ricostruire facilmente la forma corté e usarla in un contesto significativo. In questo modo lo stesso output diventa – per l’apprendente – a sua volta una forma di input. Un esempio di come la grammatica si possa integrare in un insegnamento di tipo comunicativo è offerto da Ur (1988) che, nelle linee guida premesse ad un volume di attività e giochi per l’inglese L2, sostiene che la conoscenza implicita od esplicita delle regole senza dubbio è essenziale per padroneggiare la lingua, e che essa può essere temporaneamente oggetto della lezione, purché però sia intesa come uno dei mezzi di acquisizione della lingua come un intero, non come un fine in sé stesso (Ur 1988: 5). L’insegnamento per Ur (1988: 7-8) comprende quattro tappe: 1. Presentazione (Presentation): attraverso un breve testo orale o scritto si presenta alla classe un testo dove appaiono le strutture grammaticali in questione. Lo scopo è che l’apprendente noti le strutture e il legame forma-significato, affinché essi entrino nella memoria a breve termine.

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2. Isolamento e spiegazione (Isolation and Explanation): è lo stadio in cui ci si concentra sulle strutture grammaticali. L’obiettivo è che lo studente possa capire i vari aspetti della struttura (suoni, significati, funzioni). In questa fase può essere necessario utilizzare la lingua madre della classe. 3. Pratica (Practice): consiste in una serie di esercizi in classe o a casa, ed ha lo scopo di far assorbire allo studente le strutture e trasferirle dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine. Per Ur (1988) è la fase più importante nel processo di apprendimento. Gli esercizi possono essere di tipo diverso, più strutturali (ad esempio riempimenti di spazi o trasformazioni di frasi), o più orientati alla comunicazione. Appartengono a questa tipologia, ritenuta più motivante, attività caratterizzate da vuoti di informazione (information gap) o basate sul gioco, come ad esempio la costruzione di storie collettive per esercitare gli studenti nell’uso dei tempi passati o la soluzione di problemi utilizzando i verbi modali (may, might, could, ecc.). 4. Test: ha la funzione di mostrare sia all’insegnante che all’apprendente stesso fino a che punto egli domini le strutture sulle quali ha fatto pratica. L’obiettivo fondamentale di questa fase è quello di fornire feedback, senza il quale è impossibile andare avanti nell’apprendimento. 3.5. Focalizzare la forma (Focus on form) Tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90 del secolo scorso si svilupparono diverse correnti teoriche ed approcci volti a cercare un’integrazione tra grammatica e insegnamento comunicativo. Il più noto, e quello che in qualche modo comprende anche gli altri, è quello del “focalizzare la forma” (Focus on form). Long (1991: 45-46) per primo introdusse la distinzione tra il tradizionale Focus on forms (“focus sulle forme linguistiche”), che caratterizza gli approcci sintetici all’insegnamento di una L2, incentrati sull’accumulazione di strutture linguistiche, e il focus on form che, secondo la sua definizione:

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attrae apertamente l’attenzione degli studenti sugli elementi linguistici quando essi appaiono incidentalmente in lezioni il cui focus prevalente è sul significato o sulla comunicazione (Long 1991: 46).3

Successivamente, Long e Robinson specificano che il Focus on form spesso consiste di un occasionale spostamento dell’attenzione agli elementi del codice linguistico – da parte dell’insegnante e/o uno o più studenti – provocato da problemi percepiti con la comprensione o la produzione (Long e Robinson 1998: 23).4

Spada (1997) poi, all’interno di una preziosa rassegna sugli effetti del Focus on form sull’insegnamento, amplia il concetto, indicando con focused instruction: ogni tipo di sforzo pedagogico usato per attirare l’attenzione degli apprendenti sulla forma linguistica sia implicitamente che esplicitamente. Ciò può includere e l’insegnamento diretto della lingua (per esempio attraverso le regole grammaticali) e/o le reazioni agli errori dell’apprendente, ossia il feedback correttivo (Spada 1997: 73).5

La differenza principale tra la definizione di Long e quella di Spada sta nel fatto che mentre nel caso di Long (1991) l’attenzione è incentrata sul significato e le attività sulla forma vengono presentate solo in caso di bisogno, ma senza essere predeterminate, per Spada (1997), pur restando al centro il significato, le attività di focalizzazione sulla lingua possono anche essere predeterminate. Nel 1998 è uscito un volume di saggi volti a precisare meglio e a chiarire il significato dell’espressione (Doughty e Williams 1998). Doughty e Williams (1998: 4) riprendono la distinzione tra Focus on forms e Focus on form, ma specificano che essi non sono due opposti, come lo sono forma e significato (form e meaning). Piuttosto, Focus 3

«Focus on form […] overtly draws students’ attention to linguistic elements as they arise incidentally in lessons whose overriding focus is on meaning or communication». 4 «Focus on form often consists of an occasional shift of attention to linguistic code features – by teacher and/or one or more students – triggered by perceived problems with comprehension or production». 5 «… any pedagogical effort which is used to draw the learners’ attention to language form either implicitly or explicitly. This can include the direct teaching of language (e.g. through grammatical rules) and/or reactions to learner’s errors (e.g. corrective feedback)».

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on form comprende in sé un focus sugli elementi formali della lingua, mentre il Focus on forms si limita a quello e il focus sul significato (focus on meaning) lo esclude (ivi: 4).6 Quello che distingue il Focus on form da altri approcci è che la riflessione sulla forma coinvolge gli apprendenti per un periodo breve e non separato dal focus sull’uso e sul significato (Doughty 2001: 211). Particolarmente interessante per l’applicazione alla didattica risulta essere l’intervento conclusivo delle curatrici della raccolta, Catherine Doughty e Jessica Williams (dal titolo Pedagogical choices in Focus on form), le quali riassumono in una tavola i compiti e le tecniche possibili per focalizzare una forma. Li ordinano a seconda del grado di invadenza (obtrusivity) (ivi: 257-60) e di maggior o minor esplicitezza. Tali tecniche si distinguono in quanto tendono a privilegiare la fase dell’input o quella dell’output. 3.6. Tecniche incentrate sull’input Tra le tecniche meno intrusive e più implicite Doughty e Williams (1998a) segnalano “l’inondazione dell’input” (input flooding), che prevede di fornire all’apprendente testi molto ricchi delle strutture che si vogliono mettere a fuoco, in modo che egli abbia maggiori opportunità di notarle (senza però che ci sia nessun accorgimento per evidenziarle), e l’“arricchimento dell’input” (input enhancement), che può differire a seconda del grado di elaborazione, andando dalla semplice segnalazione della forma oggetto di interesse attraverso particolari caratteri tipografici (sottolineatura, carattere diverso) nei testi scritti o attraverso il tono della voce nei testi orali, alla spiegazione della struttura attraverso una precisa terminologia metalinguistica.

6 «Focus on formS and focus on form are not polar opposites in the way that form and meaning have often been considered to be. Rather, a focus on form entails a focus on formal elements of language, whereas focus on formS is limited to such a focus, and focus on meaning excludes it. Most important, it should be kept in mind that the fundamental assumption of focus-on-form instruction is that meaning and use must already be evident to the learner at the time that attention id drawn to the linguistic apparatus needed to get the meaning across».

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Tavola 2: Esempio di arricchimento dell’input sui pronomi personali in inglese (tratto da White 1998: 107-109) Appendix 1. The Frog Prince – Enhanced version Once upon a time there was a king. He had a beautiful young daughter. For her birthday, the king gave her a golden ball that she played with every day. The king and his daughter lived near a dark forest (…) Princess, King or Frog? Who does the underlined word refer to? Write P in the blanks if it refers to the princess, write K in the blank if it refers to the king, and write F in the blank if it refers to the frog. If necessary, look back at the story. The first is done for you. 1. For her birthday, he give her a golden ball. 2. The princess lived with him near a dark forest. 3. She played with her golden ball. 4. She dropped her golden ball. (ecc.)

__K__ ______ ______ _______

Tali tecniche, che prevedono una manipolazione esterna dell’input, rischiano però di non essere sempre efficaci: può accadere infatti che gli apprendenti si accorgano dei segnali esterni, ma che l’input resti «non saliente ai loro meccanismi di apprendimento» (Sharwood Smith 1991: 121 in Doughty e Williams 1998a: 237). Un altro approccio che punta essenzialmente sulla comprensione dell’input (e fa parte quindi dei comprehension-based approaches, per cui si veda Gary 1978), si basa sui cosiddetti “compiti di interpretazione” (interpretation task), che hanno lo scopo di aiutare l’apprendente a “visualizzare” (mapping) il rapporto tra forma e funzione (Ellis 1997: 152-53), e sono disegnati in modo da promuovere il noticing. Tali attività in genere non fanno uso di metalingua, o ne fanno un uso molto limitato. Un esempio è costituito dall’attività della tavola 5, costruita per attrarre l’attenzione sulle “costruzioni predicative legate all'ambito psicologico” (psichological predicate constructions), in genere complesse per chi impara l’inglese. Lo studente, posto di fronte alle immagini, deve solo indicare se le frasi che sente pronunciare le descrivono correttamente o meno. In un secondo momento ripeterà le frasi.

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Tavola 5: Esempio di compito di interpretazione (da Ellis 1997: 156, traduzione nostra) Comprehending Listen to the sentences and decide whether they describe the pictures below. If you think they describe the picture put a tick. If you think they do not, put a cross. If you like you can request the teacher to repeat a sentence. (Ascolta le frasi e decide se descrivono le immagini che stanno sotto. Se pensi di sì, metti un segno. Se pensi di no, metti una croce. Se vuoi puoi chiedere all’insegnante di ripetere la frase)

3

1

She loved his hairstyle. (A lei è piaciuto il suo taglio di capelli)

2

She appreciated his singing. (A lei è piaciuto il suo modo di cantare)

Her mother annoyed him. (La madre di lei lo ha seccato)

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4

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His present offended her. (Il suo regalo l’ha offesa)

ecc.

Si tratta insomma di offrire degli stimoli cui l’apprendente deve dare risposte (orali o scritte), per lo più non verbali. Tali attività dovrebbero essere orientate inizialmente sul significato e solo in un secondo momento sulla forma: alla base di approcci di questo tipo sta infatti l’idea che chi sta imparando, soprattutto se in fase iniziale, non debba produrre direttamente la lingua obiettivo, ma solo processarla; nel frattempo egli ha però l’occasione di visualizzare come una certa forma viene utilizzata per veicolare una particolare funzione comunicativa. Secondo Ellis (1997: 152) la ricerca ha dimostrato che i compiti di interpretazione non sono solo atti a promuovere la scorrevolezza e la capacità comunicativa (proficency) degli apprendenti, ma li aiutano anche ad interiorizzare specifiche strutture grammaticali È fondamentale però che ad esse segua un feedback esplicito ed immediato sulla correttezza delle risposte date (ivi: 159). Hanno conosciuto poi particolare successo due approcci che cercano di rendere salienti determinate forme nell’input manipolandolo attraverso operazioni più sottili, e certamente più esplicite: la Consciousness Raising Grammar e la Processing Instruction. Tali approcci non corrispondono pienamente ai requisiti che il Focus on form dovrebbe avere secondo la definizione di Long (1991), ma si possono almeno in parte far rientrare in esso (Doughty e Williams 1998a : 239-40).

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3.6.1. La Presa di coscienza (Consciousness Raising) Con “Presa di coscienza” o “Coscientizzazione” (Consciousness Raising, d’ora in poi CR) Rutherford e Sharwood Smith (1988a: 107)7 si riferiscono al «deliberato tentativo di attrarre l’attenzione dell’apprendente specificamente sulle proprietà formali della lingua d’arrivo».8 Per loro infatti la grammatica è un potenziale facilitatore per l’acquisizione della competenza linguistica, ma non ha niente a che fare con l’uso di quella competenza per il raggiungimento di uno speciale oggetto comunicativo o della fluenza comunicativa, cioè il controllo automatico delle strutture (ivi: 114). L’apprendente non è visto come una tabula rasa da colmare ma come un collaboratore (contributor), che, messo di fronte a dei dati, può fare delle ipotesi, testarle e pervenire a delle generalizzazioni (Rutherford 1987: 17-24). L’idea centrale dell’insegnamento basato sulla “Presa di coscienza” è infatti quella di proporre agli apprendenti degli input, e di spingerli a lavorare in piccoli gruppi, che analizzino gli input attraverso procedimenti molto diversi, che possono andare dalla pura osservazione all’espressione articolata delle regole.9 Rutherford si sofferma in particolare sui procedimenti impliciti e prevede attività di due tipi: a. quelle che chiedono agli apprendenti di formulare un giudizio o di effettuare una scelta, proponendo loro testi o frasi (possibilmente ricavate dalle loro stesse produzioni) ed invitandoli ad esprimersi sulla correttezza; b. quelle che propongono un compito da completare o un problema da risolvere (ivi: 164); tali attività, a differenza delle precedenti, oltre a coinvolgere il giudizio e la capacità di discernimento dell’apprendente, gli chiedono di agire in base alle sue intuizioni: ad 7

La traduzione è dello stesso Sharwood Smith 1990, 105-107. «The deliberate attempt to draw the learner’s attention specifically to the formal properties of the target language». 9 «The matter of raising the learner’s grammatical consciousness is a multi–faceted one […]. It can involve anything from mere observation to (for some teachers) the articulation of actual rules» (Rutherford 1987: 160). 8

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esempio si possono offrire testi da riaggiustare, sostituendo frasi coordinate con frasi subordinate relative. Tavola 3: Esempio di CR task (tratto da Rutherford 1987: 165) Dear Sir, I am writing in response your company’s announcement [AND your company’s announcement appeared in last Sunday’s edition of the Tampa Herald] of an opening for a system analyst [I assume that the position has not already been filled]. I enclose my résumé [and one more piece of information should now be added to my résumé].

Successivamente Ellis (1997) definisce meglio un CR task come: un’attività pedagogica in cui si forniscono all’apprendente dati di L2 e si chiede loro di completare alcune operazioni su/con essi, allo scopo di arrivare alla comprensione esplicita di alcune proprietà linguistiche della lingua target (Ellis 1997: 160).10

Un esempio di questo tipo potrebbe essere quello della tav. 4: lo studente viene messo di fronte a brevi frasi della lingua obiettivo ed invitato a comprendere e spiegare le regole facendo uso della terminologia metalinguistica. Tavola 4: Altro esempio di CR task (tratto da L. Soars e J. Soars, New Headway English Course, Student’s Book, Oxford, Oxford University Press, 1996, p. 117 in Ryo e Gardner 2005: 5) Read the sentences and answer the questions ‘I’m with my husband’, she said. She said (that) she was with her husband. What is the basic rule about the use of tenses in reported speech?

Compiti del genere danno agli apprendenti la possibilità di interagire tra di loro nella lingua obiettivo nel momento in cui la stanno impa10 «A CR task is a pedagogic activity where the learners are provided with L2 data in some form and required to perform some operation on or with it, the purpose of which is to arrive at an explicit understanding of some linguistic property or properties of the target language».

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rando: la grammatica diventa quindi, contemporaneamente, oggetto e soggetto dell’insegnamento. Ellis (1997: 161-62) propone inoltre un elenco dei diversi tipi di operazioni che possono essere richieste all’interno di questi compiti: • identificazione di strutture (gli apprendenti sono ad esempio invitati a sottolineare la presenza di specifiche strutture in un testo); • giudizi (gli apprendenti sono invitati ad esprimersi sulla correttezza o l’appropriatezza delle strutture date); • completamenti; • modifiche (riordini, sostituzioni); • insiemistica (gli apprendenti sono invitati a classificare specifici item estraendoli dall’input ed inserendoli in categorie determinate); • abbinamenti; • produzione di regole. 3.6.2 La Processazione dell’input (Input Processing) e l’Istruzione basata sul sistema di processazione dell’input (Processing Instruction)11 Vicino al concetto di “Presa di coscienza” è quello di “Processazione dell’input” (Input processing, d’ora in poi IP), un modello teorico dell’apprendimento di una L2, proposto per la prima volta negli Stati Uniti da Van Patten (1990, 1996, poi 2002, Benati, Van Patten e Wong 2005) e adattato ad altre lingue, tra le quali l’italiano (Benati 2000, Liverani Bertinelli e Benati 2001, Benati, Van Patten e Wong 2005). Van Patten (1990) parte dall’ipotesi della centralità dell’“input comprensibile e dotato di significato” di Krashen (1982: 65), ma dimostra attraverso prove empiriche come gli apprendenti, soprattutto i principianti, abbiano difficoltà a prestare attenzione contemporaneamente alla forma e al significato. Afferma poi che solo quando ha 11

La traduzione è di Benati in Van Patten, Benati e Wong (2005: 9).

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compreso il significato dell’input, l’apprendente è in grado di prestare attenzione alla forma della lingua (Van Patten 1990: 296). Con IP si indica dunque un percorso che combina due fasi: la fase di percezione12 della forma e la fase del “notare” (noticing, “coscientizzazione” per Benati, Van Patten e Wong 2005: 40). L’IP «consta del tentativo da parte del discente di stabilire possibili relazioni formali significato/funzione durante la fase di esposizione (comprensione/interpretazione) all’input» (ivi: 41). Il processo di apprendimento di una L2 – secondo Van Patten – è in realtà la somma di tre diversi processi, in stretta relazione tra loro: Tavola 6: I tre processi dell’acquisizione (adattato da Van Patten, Benati e Wong 2005: 53, figura 5) I II III Input → materiale appreso [intake] → sistema linguistico interno → risposta [output] Processo I: input processing Processo II: accomodation, restructuring Processo III: access, production procedures

Con IP si intende il processo 1, ossia la fase che va dall’input all’intake.13 È attraverso l’input che l’apprendente formula delle relazioni tra la forma ed il significato. Naturalmente non tutto quello che appartiene all’input riesce ad essere processato e a diventare intake, in quanto l’attenzione dell’apprendente è limitata. Il modello di Van Patten si articola dunque in diversi principi (Van Patten 2002: 758 e, in italiano, Benati, Van Patten e Wong 2005: 41-46, 60) che descrivono le strategie attraverso le quali l’apprendente processa l’input, stabilendo ad esempio che egli tende a processare l’input prima per il significato che per la forma, e in particolare prima per gli elementi lessicali, a partire da quelli inseriti all’inizio della frase. 12

«La percezione di una forma si riferisce ai vari segnali o stimoli a cui il discente viene esposto» (ivi: 40). 13 Si ricordi che per Van Patten l’intake non rappresenta esclusivamente la porzione dell’input filtrata dall’apprendente, ma «include anche materiale che è stato processato non correttamente (erronee relazioni forma/significato)» Van Patten, Benati e Wong (2005: 41).

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Per quanto riguarda la morfologia poi, vengono processati prima gli elementi grammaticali che sono portatori di significato comunicativo (more meaningfull, come ad esempio potrebbe essere il caso del gerundio –ing in inglese) rispetto a quelli che lo sono meno (less meaningfull, come la –s della terza persona singolare del presente dei verbi in inglese). Una volta stabilite le strategie generali di processazione dell’input, la domanda che si sono posti Van Patten ed i ricercatori a lui legati è stata la seguente: «è possibile manipolare o alterare la fase di processazione dell’input così da rendere l’intake più ricco grammaticalmente?» (Liverani Bertinelli e Benati 2001: 82). Il modello teorico dell’IP ha dato luogo pertanto a un approccio didattico chiamato “Istruzione basata sul sistema di processazione dell’input” (Processing instruction, d’ora in poi PI, una versione revisionata in Van Patten 2002, Benati, Van Patten e Wong 2005), adattato all’italiano da Benati (2000), Liverani Bertinelli e Benati (2001) e Benati, Van Patten e Wong (2005). Con PI si intende: un approccio esplicito all’insegnamento della grammatica il cui scopo principale è di assicurarsi che il discente noti la regola nell’input che riceve e che attraverso un tipo di attività basata sulla comprensione ed interpretazione della regola stabilisca una serie di relazioni forma-significato (Liverani Bertinelli e Benati 2001: 119).14

Diversamente dall’approccio grammaticale tradizionale, che si focalizza sulla produzione della regola o della struttura, quindi sull’output, mettendo così “il carro davanti ai buoi” (Benati 2000: 476, ma già Van Patten 1993) dato che chiede al discente di produrre una regola quando non ha ancora avuto il tempo di crearsene una rappresentazione mentale attraverso l’input, l’approccio PI si concentra invece sull’input e lavora su di esso, cercando di arricchirlo il più possibile e di alterare la fase della processazione, in modo che una porzione mag14 «It is a type of explicit instruction whose aim is to get learners to attend to forms in the input as it might be a prerequisite for acquisition, particularly if instruction is directed at enabling L2 learners to establish form meaning connections during comprehension» Van Patten (1996: 86).

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giore di input diventi intake. Si propone pertanto di far notare la forma presente nell’input attraverso attività rivolte prima di tutto al significato. In un primo momento non si richiede la produzione della forma, ma compaiono poi esercitazioni che spingono l’apprendente a manipolarla e produrla, per via orale e scritta (Liverani Bertinelli e Benati 2001: 84). L’approccio PI prevede essenzialmente tre momenti (illustrati in italiano in Benati, Van Patten e Wong 2005: 63-78) che riassumiamo. • L’elemento grammaticale da focalizzare viene introdotto esplicitamente, ma in forma scomposta e semplificata. Ad esempio per introdurre il futuro indicativo, soggetto dello studio di Benati (2000), l’insegnante indica agli apprendenti – utilizzando la loro lingua materna – che ci sono due strategie per riconoscere il tempo futuro in italiano. La prima è che la prima persona dei verbi regolari si forma aggiungendo una -ò all’infinito meno la -e finale, e che la parte finale è uguale per i verbi in -ere e in -ire. La seconda è che l’accento è sempre sulla –o finale, elemento utile per distinguere il futuro dal presente. Tavola 7: Informazione esplicita offerta nella prima fase del PI (da Van Patten, Benati e Wong 2005: 125) Io

Arrivare arriv-er-ò

Prendere prend-e-rò

Partire part-ir-ò

• Vengono indicate quelle che potrebbero essere le strategie di acquisizione erronee che gli apprendenti della L2 tendono ad utilizzare, in modo da evitare che l’apprendente processi l’input in maniera scorretta. • Vengono poi presentate delle “attività di input strutturato” (structured input activities), etichetta che si riferisce a «ogni tipo di esercitazione che diriga il discente ad alterare le sue strategie di processazione» (Benati, Van Patten e Wong 2005: 65). Secondo gli studi di Benati è questo il momento fondamentale dell’approccio PI.

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Tali attività devono essere preparate seguendo dei principi guida (illustrati da Van Patten e Lee 1995: 106-107 per lo spagnolo, Benati, Van Patten e Wong 2005, 65-74 in generale, e 74-77 per l’italiano) che prevedono ad esempio di presentare un solo elemento per volta, di incentrare l’attenzione sul significato, di passare gradualmente dalla singola frase (più adatta alle limitate capacità di processazione iniziale dell’apprendente) al testo. Il loro scopo è quello di aiutare a processare l’input, ad esaminarlo e a comprenderlo meglio; devono essere costruite con molta attenzione, in modo da spingere l’apprendente a mettere in atto le strategie corrette. Prendiamo l’esempio del futuro studiato da Benati: secondo il modello IP, l’apprendente tende a processare prima le informazioni fornite da un elemento lessicale (domani), poi quelle derivanti da un elemento morfologico (lavorerò). Mette cioè in atto una strategia di acquisizione che potrebbe spingerlo a processare scorrettamente l’input: bisogna dunque renderlo consapevole di questa tendenza e spingerlo ad alterare la strategia, attraverso attività che lo inducano a prestare più attenzione ai morfemi che al lessico. L’input delle attività viene dunque alterato rimuovendo gli elementi lessicali che indicano il tempo, in modo che egli sia incoraggiato «a processare l’elemento grammaticale per completare l’attività (si altera così la strategia di apprendimento che gli impedisce di processare l’elemento morfologico verbale» (Benati, Van Patten e Wong 2005: 65). Fanno parte di queste esercitazioni sia attività di tipo “referenziale”, che chiedono ad esempio di stabilire quando si svolge un’azione dell’input a partire da una frase contando solo sull’elemento grammaticale, sia attività di tipo “affettivo”, che riguardano cioè l’esperienza diretta degli studenti. Li si può invitare ad esempio ad esprimere opinioni personali sugli argomenti presentati nell’input, in modo da coinvolgerli maggiormente (Benati, Van Patten e Wong 2005: 71). Si noti che lavorando in un contesto di LS, Benati utilizza la lingua materna degli apprendenti per la riflessione metalinguistica.

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Tavola 8: Attività di input strutturato per l’insegnamento del futuro (tratto da Benati, Van Patten e Wong 2005: 126) [a. Attività di tipo affettivo] Alessandro is making New Years resolutions. Look at six sentences and indicate whether are or not each statement applies to you. Compare your response with someone else. Notice the spoken stress on the first person singular on the future tense. L’anno prossimo Vale per me Non vale per me 1. studierò tutti I giorni. □ □ 2. prometto che non arriverò all’Università in ritardo. □ □ 3. metterò in ordine la mia camera. □ □ ecc…. [b. attività di tipo referenziale] You are going to hear some sentences in Italian. Select whether each sentence you heard occurred in the present or in the future. Keep in mind that future tense forms (especially for the 1st person) has the spoken stress on the final vowel of the endings, and not on the stem vowel. 1. a) present b) future 2. a) present b) future 3. a) present b) future 4. a) present b) future ecc. Trascrizione 1. 2. 3. 4. Ecc.

Guardo il film in televisione. Tornerò in treno con tuo fratello. Resto a casa tutto il giorno. Passerò le vacanze con amici.

Secondo la sperimentazione di Benati (Benati, Van Patten e Wong 2005, 104-19) il fattore determinante del successo dell’approccio PI non è tanto la componente esplicita iniziale, quanto la pratica attraverso le attività di input strutturato. Meno spazio invece tale approccio riserva alla fase di produzione o output, alla quale Van Patten assegna sì un ruolo, in particolare per quanto riguarda l’incremento della scioltezza comunicativa, ma che considera non determinante per l’apprendimento in sé (su questo ar-

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gomento si veda in particolare Van Patten 2000, 2002: 795-86; 2003: 169; per alcune proposte di attività di output strutturato per l’italiano si veda Benati, Van Patten e Wong 2005: 79-85). 3.7. Approcci incentrati sull’output Gli approcci incentrati sull’input sono stati criticati proprio per il fatto di trascurare il momento della produzione, dell’output, sulla base di considerazioni di ordine psicolinguistico e pedagogico che ora esamineremo. Se dunque nel decennio che concludeva il XX secolo sembrava che fosse sancita la superiorità di un insegnamento grammaticale basato principalmente sull’input, un filone di ricerche particolarmente vivo oggi (si vedano ad esempio Grove 1999, Izumi 2002, Izumi 2003, Morgan-Short e Wood Bodwen 2006, Toth 2006, con ulteriore bibliografia) sta dimostrando invece che, benché il ruolo dell’input rimanga fondamentale, il ruolo dell’output è altrettanto importante, e che riguarda direttamente l’acquisizione e non solamente – come sosteneva invece Van Patten – l’efficacia e la scioltezza comunicativa. Tali studi si appoggiano su quella che è stata definita l’“Ipotesi dell’output comprensibile” (Comprehensible output hypothesis) di Swain (1985, poi riproposta da Swain 1995), che va ad integrare l’“Ipotesi dell’input comprensibile” (Comprehensible input hypothesis) di Krashen, senza sostituirsi ad essa. Osservando classi di immersione totale nel francese in Canada, Swain (1985) ha notato infatti che l’esposizione ad un input comprensibile, pur garantendo buoni risultati sul piano della scioltezza, della confidenza nell’uso della lingua e della comprensione, non è condizione sufficiente a raggiungere un livello di produzione accurato. Nonostante gli errori di tipo morfosintattico infatti, la comunicazione tra l’apprendente e l’insegnante “comunicativo” che utilizza tecniche di riformulazione e chiarificazione del messaggio dei suoi allievi (si veda poi il recasting par. 4.11), è sufficientemente comprensibile. L’apprendente pertanto non è spinto a rendere il suo output più corretto, più chiaro (Swain 1985: 249) di quello che già è. Per Swain (1985, 1995) non basta che gli apprendenti si limitino a parlare e a scrivere, ma è necessario che si sforzino, facendo uso di

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tutte le loro risorse, e che riflettano sulla propria produzione, considerando come renderla più appropriata ed accurata (Swain 1993: 16061). Per Swain infatti, l’output, in particolare se è “spinto” (pushed output) e seguito da una fase di correzione da parte dell’insegnante,15 oltre a promuovere la fluenza, svolge tre funzioni fondamentali. • Può servire all’apprendente per notare lo scarto esistente tra quello che vorrebbe dire e quello che può dire (noticing/triggering function, Swain 1995: 129-30). • Grazie al feedback di ritorno da parte dell’insegnante, può costituire per l’apprendente che lo produce una sorta di verifica delle proprie ipotesi sulla lingua (hypothesis testing function, ivi: 131-32). Infatti durante la fase di feedback, di negoziazione del significato in classe, l’apprendente modifica la propria produzione, e questo processo contribuisce all’apprendimento. • Può avere una funzione metalinguistica, almeno nel caso di particolari compiti comunicativi che sollecitino la riflessione sulla lingua (metalinguistic function, ivi: 132). Un’efficace tecnica basata sull’output che spinge l’apprendente a far ricorso al metalinguaggio è secondo Swain 1998, quella del dictogloss, piuttosto diffusa nell’insegnamento di altre lingue seconde e sicuramente da valorizzare anche per l’italiano L2. L’insegnante legge due volte un breve testo, denso (si tratta di input arricchito), a velocità normale, dando poi agli studenti il compito di ricostruirlo sulla base di alcuni appunti presi durante la lettura (Swain 1998: 70). Gli studenti lavorano in piccoli gruppi confrontando appunti e conoscenze. Le diverse versioni dei gruppi vengono poi analizzate e comparate tra di loro e con l’originale. In questo modo, gli apprendenti possono praticare le strutture su cui l’attività si focalizza. Durante la fase di confronto, il testo finale viene scritto alla lavagna. È in quel momento che l’insegnante interviene, ricorrendo eventualmente a spiegazioni metalinguistiche più o meno esplicite. La ricerca di Swain (1998), incentra15

Ellis (1997: 49) ad esempio definisce pushed output come «sustained output that pushes at the limits of the learner’s current state of development».

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ta sulla distinzione tra imparfait/passé composé in francese L2 indica però che l’esplicitazione delle regole in questa fase sembra aiutare di più gli studenti a interiorizzarle. Swain e Lapkin (1995: 375) inoltre sottolineano che l’output forza l’apprendente a muovere «dai processi semantici prevalenti nella comprensione ai processi sintattici necessari nella produzione», nel senso che quando parla deve codificare un messaggio preverbale, sforzandosi dunque a cercare le strutture adeguate . Insomma, come sintetizza bene Izumi: l’output Hypothesis di Swain sostiene che l’output può, a certe condizioni, promuovere acquisizione della lingua permettendo agli apprendenti di mettere alla prova e di sforzare le loro capacità di interlingua. Così facendo l’apprendente può riconoscere problemi nella sua interlingua sia attraverso il feedback interno – l’output promuove processi sintattici e auto-monitoraggio − sia attraverso feedback esterno – l’output sollecita il feedback dagli interlocutori, insegnanti, ecc. Questo riconoscimento può spingere l’apprendente a generare alternative cercandole nella conoscenza già esistente o ad andare a cercare input rilevante con attenzione più focalizzata e con bisogni comunicativi identificati più chiaramente (Izumi 2003: 171).16

Ma perché l’output gioca un ruolo importante? Uno studio particolarmente interessante che cerca di chiarirne le motivazioni è quello di Izumi (2002). Volendo confrontare l’efficacia di una tecnica di insegnamento basata solo sull’arricchimento dell’input (d’ora in poi IE, Input Enhancement), con una basata solo su output, ed infine con una terza, che combina le altre due, Izumi (2002) ha studiato l’apprendimento dei pronomi in spagnolo L2, dividendo i suoi studenti in quattro gruppi che venivano sottoposti a tecniche di istruzione grammaticale e di pratica differenti. Il primo gruppo (istruito secondo IE) doveva semplicemente leggere il testo input, suddiviso in piccole porzioni, e rispondere ad alcune domande su di 16

«In sum Swain’s output hypothesis claim that output can, under certain conditions, promote language acquisition by allowing learners to try out and stretch their IL capabilities. In so doing, learners may recognize problem in their IL through internal feedback − output promotes syntactic processing and self monitoring or external feedback − output invites feedback from interlocutors, teachers, etc. This recognition may prompt the learner to generate alternatives by searching existing knowledge or to seek out relevant input with more focused attention and with more clearly identified communicative needs».

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esso. Il secondo (istruito con tecniche basate sull’output) invece doveva leggere il testo, e ricostruirlo, cercando di avvicinarsi il più possibile all’originale. Il terzo gruppo doveva svolgere entrambi i compiti. Un quarto gruppo infine non veniva sottoposto a nessun trattamento particolare e fungeva da gruppo di controllo. Alla fine tutti e quattro i gruppi venivano sottoposti a test di verifica, e dovevano redigere un breve testo in L1 per dimostrare cosa avevano capito (ivi: 545-48). I risultati hanno evidenziato che gli apprendenti esposti esclusivamente ad IE non ottenevano gli stessi risultati degli altri due gruppi. Izumi (2002) dunque ne deduce che l’input, pur essendo fondamentale, non è sufficiente da solo all’apprendimento. Per lo meno per acquisire strutture complesse di una L2 infatti, c’è bisogno che l’apprendente “noti” le forme. È quella che Schmidt (1990) definiva la fase del “notare” (noticing), indicando con tale termine il processo di “attenzione” (attention), registrazione conscia della forma (si veda 1.1). Appoggiandosi a studi di psicologia cognitiva però, Izumi va oltre, e chiarisce che tale fase si compone di due diversi momenti (ivi: 571): 1. l’individuazione (sensory detection) degli elementi chiave; 2. ulteriori processi cognitivi che connettono e mettono in relazione i singoli elementi, li catturano in coerenti set strutturali. L’IE sembra arrestarsi al primo stadio, in quanto permette sì agli apprendenti di notare le forme (la detection), ma poi non dà loro l’opportunità di compiere il passo successivo. Le attività basate sull’output invece, in particolare sull’“output spinto”, non solo promuovono l’individuazione delle nuove forme, ma consentono di mettere in atto quei processi integrativi necessari per costruire una struttura coerente tra gli elementi individuati (per ulteriori approfondimenti si veda anche Izumi 2003). In questo caso quindi la critica ad un insegnamento incentrato esclusivamente (o quasi) sulla comprensione dell’input ed invece la valorizzazione della fase di output si appoggiano su motivazioni di ordine psicolinguistico, che hanno a che fare con i processi cognitivi. Le critiche agli approcci incentrati sull’input tuttavia sono state dettate anche da ragioni d’ordine pedagogico. Significativa è ad esempio

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la polemica tra Ellis (1993) e Hopkins e Nettle (1994): nel 1993 Ellis, sulla base della ricerca teorica, era intervenuto nell’«ELT Journal», una rivista diffusissima tra i docenti di inglese come L2, per sostenere la maggior efficacia di un insegnamento basato sulla “Presa di coscienza” piuttosto che sul metodo tradizionale del PPP (Presentation, Practice, Production), e per criticare la sua assenza dai manuali per l’insegnamento dell’inglese. Gli risposero Hopkins e Nettle (1994), evidenziando che gli approcci basati su CR erano già usati da molti docenti e da autori di materiali didattici, ma che la pratica resta comunque molto presente nei manuali. La proposta di sostituirla completamente con un approccio del tipo CR infatti non incontra la domanda pratica né degli insegnanti, né degli apprendenti, che si sentono frustrati a non poter applicare le strutture che vengono loro presentate. Ricollegandosi a tale dibattito più recentemente Ryo e Gardner (2005) hanno esaminato nove manuali per l’insegnamento dell’inglese come L2 di livello intermedio editi tra il 1991 e il 2000, in riferimento ad alcune strutture linguistiche, concludendo che in essi la pratica occupa ancora uno spazio essenziale. Ogni manuale esaminato prevede infatti una fase di pratica dopo la presentazione delle strutture. Nonostante i ricercatori insistano sull’efficienza della “Presa di coscienza” rispetto alla pratica, e i loro argomenti siano convincenti, per Ryo e Gardner (2005) gli insegnanti di lingua non sono pronti ad abbandonare i familiari esercizi di pratica. Le aspettative dei discenti infatti impediscono loro – in casi come questo – di seguire i suggerimenti della ricerca teorica. Tuttavia gli autori dei manuali spesso alternano CR tasks ai practice tasks, preferendo così combinare strategicamente i due approcci piuttosto che sceglierne uno solo (ivi: 10). Questa tensione si avverte anche nei volumi di metodologia: Thornbury (2001) ad esempio, un ottimo manuale per la formazione degli insegnanti di inglese, nel capitolo titolato Un compromesso? suggerisce di combinare tecniche di noticing con esercizi di pratica.

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3.8. Alcuni modelli teorici dell’apprendimento di una L2 Le riflessioni precedenti ci spingono ad interrogarci più da vicino sui processi cognitivi di apprendimento di una lingua seconda, che rimangono però ancora in parte inesplorati. Un teoria che ha goduto e continua a godere di un certo successo è l’Adaptive control Theory (ACT) di Anderson (1993) e divulgata da DeKeyser (1998), secondo la quale ci sono due tipi diversi di conoscenza: la conoscenza “dichiarativa” (‘conoscenza che’) ossia la conoscenza esplicita di fatti (ad esempio Napoleone fu sconfitto nel 1815), e la conoscenza “procedurale” (‘conoscenza come’) che si manifesta nella forma di produzione di regole, di un comportamento. L’esempio che fa DeKeyser (1998: 49) è quello della combinazione di una serratura: quando un impiegato prende possesso per la prima volta di un ufficio, riceve la combinazione per aprire la porta. All’inizio la impara a memoria, poi la applica sempre più automaticamente. Alla fine può anche aver dimenticato la formula (aver perso cioè la conoscenza dichiarativa), ma sa aprire la porta (possiede la conoscenza procedurale). La sua segretaria invece deve possedere entrambe le conoscenze, dal momento che deve saper aprire la porta, ma anche, eventualmente, saper dare la combinazione ad altri. Se si impara una lingua per comunicare è necessario raggiungere la conoscenza procedurale: la teoria di Anderson nella versione di DeKeyser (1998) prevede dunque che ci debba essere una prima fase di introduzione esplicita di una forma affinché l’apprendente ne abbia una conoscenza dichiarativa, e che poi, attraverso la pratica (nella forma di drill comunicativi, per cui si veda il cap. 4), tale conoscenza venga lentamente proceduralizzata, fino ad arrivare all’automatizzazione. L’insegnamento grammaticale esplicito per DeKeyser dovrebbe addirittura precedere la presentazione del testo input, in quanto rende le strutture salienti e permette all’apprendente di riconoscerle nel testo e di stabilire facilmente il nesso tra forma e contenuto. Seguendo questo modello, DeKeyser è diventato uno dei principali sostenitori della versione forte della posizione dell’interfaccia (strong interface position), secondo la quale ci sarebbe una stretta interrelazione tra apprendimento esplicito ed apprendimento implicito di una L2. Non solo

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infatti la conoscenza esplicita deriverebbe dalla conoscenza implicita, ma sarebbe possibile anche passare dalla conoscenza esplicita alla implicita attraverso la pratica (R. Ellis 2005: 144). La posizione opposta (no interface position) era invece quella di Krashen (si veda par. 3.2), per il quale tra apprendimento (esplicito) ed acquisizione (implicita) non vi sarebbe nessuna relazione e pertanto la conoscenza esplicita delle regole grammaticali non può convertirsi in conoscenza implicita. La via di mezzo – che ci appare la più convincente – è quella rappresentata dalla versione debole della posizione dell’interfaccia (weak interface position), sostenuta ad esempio da Ellis (1993, 1994, 2003, 2005), secondo cui invece la conoscenza esplicita può agire da facilitatore della conoscenza implicita attraverso la fase del notare, a patto che l’apprendente sia pronto per acquisire le strutture proposte, secondo l’ipotesi di Pienemann (Ellis 1993). Tavola 9: Il ruolo della conoscenza esplicita nell’acquisizione della L2 (da Ellis 1997: 123)

Analizziamo lo schema proposto da Ellis (1997: 123). Innanzitutto,

l’input può diventare intake solo se le forme sono state “notate” dall’apprendente (Schmidt 1990). Una volta che una struttura è stata

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notata, essa può diventare parte dell’interlingua dell’apprendente a patto che egli riesca – attraverso un processo di confronto (comparing) – a notare la differenza rispetto alla sua interlingua attuale (è la fase che viene definita noticing the gap). A questo punto l’apprendente potrà integrare la nuova struttura nel suo sistema. Se si tratta di introdurre quello che viene definito un item learning (ad esempio una parola o una formula del tipo «Sto bene, grazie»), il processo non pone particolari problemi e può avvenire anche per via implicita. Se invece la ristrutturazione coinvolge il system learning, il processo risulta più complesso. È a questo punto che la conoscenza esplicita attraverso l’istruzione focalizzata sulla forma (form focused instruction) può servire a sviluppare la conoscenza implicita. La posizione dell’interfaccia debole è difesa anche da N. Ellis (2005) che recentemente, sulla base di ricerche di neurobiologia a proposito delle aree del cervello coinvolte nei processi di apprendimento, ha sostenuto che i due tipi di conoscenza esplicita ed implicita sono sì separati, hanno sede in parti differenti del cervello, ma sono in continua interrelazione tra loro «come lo yin e lo yang» (N. Ellis 2005: 336). N. Ellis (2005) si sofferma ancora sul ruolo della pratica, rivalutando anche i drill ed il ruolo dell’analogia che definisce “focus sulle relazioni” (ivi: 329). A suo avviso, la pratica, che ha quattro effetti principali, definiti: “accesso potenziato”, “schematizzazione”, “divisione in parti”, e “automatizzazione” (improved access, schematization, chunking e automatization N. Ellis 2005: 333), permette di automatizzare le strutture, rendendole, un poco alla volta un comportamento meccanico: chi apprende una L2 è paragonabile ad un cuoco che impara a fare la besciamella. In un primo momento avrà bisogno di concentrarsi su tutte le piccole operazioni necessarie e di prestare loro molta attenzione, ma poi diventerà sempre più rapido nell’esecuzione della ricetta, per arrivare alla fine a preparare un’ottima besciamella svolgendo contemporaneamente altri compiti (ivi: 333). Questi studi darebbero dunque scientificità alla tesi, non nuova, secondo cui la riflessione sulla forma e la pratica guidata agevolano il passaggio da una conoscenza esplicita, dichiarativa, delle regole ad una conoscenza implicita, automatica, della lingua.

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3.9. Conclusioni: un compromesso Abbiamo visto dunque che il ruolo della pratica, che risultava centrale nell’insegnamento tradizionale e in quello comunicativo, ma che poi era stato fortemente ridimensionato dagli approcci basati sull’input, torna ad essere rivalutato sulla base di studi sperimentali che ne dimostrato l’effettiva validità sul piano cognitivo e pedagogico. Il lungo dibattito partito da Krashen tuttavia è servito per sottolineare la fondamentale importanza dell’input e del lavoro del “notare” fatto su di esso. A questo punto la soluzione proposta per l’inglese come L2 (si veda par. 3.7), ossia quella del compromesso appare essere la migliore. Da un lato gli studi sulla “Presa di coscienza” e sulla “Processazione dell’input” hanno dimostrato come il metodo “tradizionale” che – dopo aver brevemente presentato le regole – spingeva l’apprendente a produrle senza concedergli il tempo di interiorizzarle davvero, rischiava di essere controproducente, in quanto non adeguato ai processi cognitivi. D’altro canto però, è evidente che concentrare il lavoro della classe esclusivamente sulla comprensione dell’input non risponde alle esigenze degli apprendenti, i quali – imparando una lingua a scopo essenzialmente comunicativo – hanno bisogno appunto di comunicare, cioè necessitano della fase della produzione. La pratica è momento imprescindibile nell’insegnamento, fin dai primi momenti, con la dovuta cautela per tipologie di discenti che partendo da lingue molto lontane possono necessitare di una fase iniziale di silenzio, come ad esempio i cinesi per l’italiano L2. Con apprendenti europei o che comunque conoscono altre lingue europee, sembra utile prevedere fin dalle prime lezioni semplici attività di riflessione sulla lingua seguite da momenti di produzione, eventualmente piuttosto guidata all’inizio.

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Tavola 10: L’apprendimento di una nuova forma e il ruolo dell’insegnamento esplicito Processo che deve compiere l’apprendente per assimilare una nuova forma Recepire l’input Notare Confrontare con il già noto e notare somiglianze e differenze Esercitarsi, produrre Ristrutturare il proprio sistema (capire e produrre schemi più ampi)

Compiti dell’insegnamento per aiutare il processo interno all’apprendente Fornire input valido da analizzare Aiutare a notare la forma: renderla saliente nell’input, evidenziare i nessi forma-significato Fornire altre forme simili (e/o dissimili) Proporre attività di pratica della forma e correggere gli errori (feedback) Riflettere esplicitamente

Il “fare grammatica” nella classe di lingua dunque prevede sostanzialmente due momenti centrali, con tipologie di attività distinte tra loro. Una prima fase di analisi dell’input, che ha lo scopo di guidare la comprensione del rapporto forma-significato, di far notare le strutture, e di aiutare a processarle correttamente, si avvarrà di attività più vicine ai CR task (cfr. Ellis 1997: 162- 63, e ivi, par. 3.6.1). Una seconda fase invece serve a spingere l’apprendente all’utilizzo delle nuove strutture, allo scopo di integrarle con il già noto, ristrutturando la propria interlingua. È in questo momento che per favorire la produzione si fa ricorso alla pratica, possibilmente passando da attività più strutturate ad attività più libere. Nel capitolo successivo esamineremo come vengono affrontate le due fasi nella didattica dell’italiano come L2, sulla base dei più recenti manuali.

Capitolo 4 Come insegnare. 2. La grammatica nella classe di italiano L2: riflessioni metodologiche 4.1. Premessa Il seguente capitolo presenterà alcune riflessioni metodologiche riguardanti l’insegnamento della grammatica nella classe di italiano L2, esaminando in particolare gli aspetti pratici: quanto tempo dedicare alla grammatica, quale tipologia di attività preferire per le diverse fasi, correggere o meno gli errori e come farlo, ecc. Le esemplificazioni sono tratte dai più recenti manuali per l’insegnamento dell’italiano (Bibliografia, par. 3), da alcune grammatiche pedagogiche (si veda 5.4.2.1) e dal corso di italiano on-line A spasso con Virgilio,1 o sono state elaborate dall’autrice del volume. 4.2. Il tempo da dedicare alla grammatica Nei capitoli precedenti abbiamo evidenziato come la riflessione sulla lingua sia un momento importante nell’insegnamento di una L2, in quanto aiuta lo studente a notare le forme e a trasferirle nell’intake, promuovendo la ristrutturazione della sua interlingua. Tuttavia non bisogna dimenticare che secondo la glottodidattica moderna la grammatica è funzionale alla comunicazione e deve avere un ruolo contenuto, e non primario, nella lezione rispetto alla presentazione dell’input e alla pratica comunicativa.

1

Si tratta di un corso di italiano on-line di livello A1 creato dai Collaboratori ed esperti linguistici e dai Tecnici del Centro linguistico di Ateneo dell’Università di Padova, che sarà reso pubblico a partire dal 2008. Hanno lavorato alla sezione di grammatica in particolare Alessandra Riva e Fulvia Virginio, tesiste del Master in Didattica dell’Italiano come L2 di Padova, e le Collaboratori ed esperte linguistiche Elena Maria Duso e Cristina Capuzzo.

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Anche di fronte ad un sillabo formale, bisogna sicuramente fare delle scelte. Il sillabo per studenti universitari in scambio di Lo Duca (2006) ad esempio, che combina aspetti funzionali con altri più strettamente linguistici e testuali, prevede per ogni livello un repertorio molto ampio di indici grammaticali: secondo l’autrice (Lo Duca 2006: 40) si tratta anzi di «tutti gli indici linguistici meritevoli di essere assunti in un programma di insegnamento […] esposti con il tasso di analiticità ritenuto necessario a discriminarne senza incertezze l’ambito e i confini». Non è indicato tuttavia, come precisa la stessa Lo Duca (ivi: 81), il grado di esplicitezza con cui gli indici vanno presentati, né se essi siano destinati solo ad una ricezione passiva o invece se si richieda agli studenti anche una produzione attiva. Troppe sono infatti le “variabili in gioco” da considerare (tempo a disposizione, lingua materna degli studenti, ecc., ivi). Non tutti gli aspetti potranno dunque essere trattati in modo esplicito in classe o divenire oggetto di riflessioni approfondite, altrimenti il tempo ad essi dedicato esaurirebbe le ore in aula. Sta al singolo docente scegliere quelli che sono indici indispensabili per quel livello, e che sono particolarmente rilevanti per quella specifica classe (con i suoi obiettivi, le diverse lingue materne dei suoi componenti, ecc.). Alcuni di essi necessitano infatti di riflessione esplicita, dato che la loro complessità formale e funzionale è tale da richiedere un serio sforzo da parte degli apprendenti, altri invece possono essere lasciati all’acquisizione intuitiva, perché molto presenti nell’input o congruenti ad elementi delle lingue materne degli apprendenti. Come suggerisce Lo Duca dunque: ci si potrà limitare a proporre un certo compito, un particolare genere testuale, un frammento della grammatica dell'italiano solo attraverso la presentazione insistita degli stessi nei materiali, affinché gli allievi arrivino a notare forme e strutture in modo autonomo, senza esplicito richiamo da parte del docente; si potrà invece puntare alla esplicitazione dei fenomeni, testuali e grammaticali, inducendo una riflessione guidata sugli stessi, con l’obiettivo in questo caso dichiarato di indurre una piena consapevolezza sulle regole della lingua, e di facilitarne l'acquisizione attraverso un'esercitazione mirata e opportunamente controllata; e si potrà scegliere, anche caso per caso, una delle molte possibili posizioni intermedie fra i due estremi. Si tratta di scelte complesse che riguardano la sfera decisionale del docente (Lo Duca 2006: 81).

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Si noti che si allude qui ad una coesistenza tra tecniche di insegnamento esplicito, che prevedono la presentazione diretta, consapevole, delle forme, e tecniche di insegnamento implicito nella forma dell’ “inondazione dell’input” (si veda par. 3.6.). Parlando di “tempo” da dedicare alla grammatica inoltre vi è un altro aspetto rilevante da considerare, ossia il momento da riservarle all’interno dell’unità didattica. Esaminiamo i due modelli di unità oggi in auge per l’italiano L2. Il più noto, proposto da Freddi (1994, ma introdotto già negli anni ’70) e ripreso con aggiustamenti da Balboni (1994), prevede che la riflessione sulla lingua venga solo dopo le attività di motivazione e di globalità, nella fase di analisi e sintesi e che si susseguano un primo momento induttivo, di osservazione ed estrazione delle regole, e un successivo momento di fissazione e reimpiego, prima più passivo, poi più attivo delle stesse. Tavola 1: Modello di unità didattica (da Freddi 1994: 112 )

Un modello più recente è stato proposto da Vedovelli (2002: 13341), alla luce del Quadro Comune europeo, ed insiste maggiormente sul testo, considerato il “nodo centrale di senso” attorno a cui ruotano tutte le operazioni didattiche (ivi: 137). L’unità didattica di Vedovelli, definita come «una sequenza organicamente coesa di operazioni e funzioni» (ivi: 134), pur presentando una struttura interna non lontana dalla precedente, appare più libera nella sua articolazione. Infatti Vedovelli (ivi: 134) insiste sul fatto che, poiché l’unità è semplicemente «una proposta di riorganizzazione del flusso di interazioni sociali e comunicative», in un contesto che è quello del rapporto tra docente ed allievi, non può essere prevedibile e fissa, ma più indefinita, creativa. Anche in questo caso comunque si prevedono momenti di verifica del-

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la comprensione, attività di comunicazione, riflessione metalinguistica e metacomunicativa, attività di rinforzo: Tavola 2: Schema di unità didattica (da Vedovelli 2002: 137)

La riflessione metalinguistica viene considerata da Vedovelli come una costante che accompagna i diversi momenti: Tutte le attività vanno accompagnate da una costante fase di monitoraggio, di riflessione sugli usi linguistico-comunicativi, sulle strategie di comunicazione messe in atto, sugli atteggiamenti e i comportamenti degli attori del processo di comunicazione, ecc. Questa fase, che potremmo chiamare di riflessione metalinguistica e metacomunicativa, può prendere le forme che gli insegnanti riterranno più opportune a seconda degli allievi, della tipologia delle loro motivazioni e le loro competenze. Rappresenta un momento ineludibile in ogni equilibrato processo di comunicazione didattica, cioè di comunicazione finalizzata allo sviluppo di una competenza linguistico comunicativa (Vedovelli 2002: 140).

Un manuale che organizza particolarmente bene l’unità didattica e che scandisce con precisione le varie fasi appare essere Viaggio nell’italiano (Bozzone Costa 2004, per i livelli B2-C1). Esso prevede diversi momenti di attività sulla grammatica: dopo la presentazione del testo input, la verifica della comprensione globale ed analitica, e l’esplorazione del lessico, vi è una prima fase di riflessione induttiva, in cui ad esempio gli studenti sono invitati a rintracciare le strutture da focalizzare e ad evidenziarle in vario modo (si veda l’esempio della

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tav. 5). Seguono quindi degli esercizi di reimpiego, prima abbastanza guidato, poi più libero, che comprendono sempre momenti di pratica orale e/o scritta. Lo stesso procedimento viene utilizzato più di una volta qualora le strutture da presentare siano più di una. Alla fine dell’unità vi sono esercizi di riepilogo di diversa complessità. 4.3. Approccio induttivo e deduttivo: chiarimenti terminologici Prima di procedere, vale la pena di soffermarsi anche su una distinzione metodologica importante. Nel capitolo 3 (in particolare 3.2) abbiamo fatto riferimento alla distinzione tra approccio induttivo e approccio deduttivo. La controversia tra induttivismo e deduttivismo è stata da tempo superata: già Krashen (1982) puntualizzava che un approccio non è migliore dell’altro, ma che entrambi appartengono alla sfera dell’apprendimento piuttosto che a quella all’acquisizione, anche se l’approccio induttivo assomiglia di più all’acquisizione naturale in quanto l’apprendente viene messo di fronte a dati da cui deve ricavare delle regole. L’efficacia dell’uno o dell’altro approccio dipende piuttosto dallo stile cognitivo dell’apprendente. Studi specifici (ad es. Hartnett 1974, Krashen, Seliger e Hartnett 1974, Seliger 1975) hanno dimostrato che si usano meccanismi neurologici differenti: mentre i deduttivi usano soprattutto l’emisfero sinistro del cervello e sono più analitici, gli induttivi seguono molto l’analogia ed usano di più l’emisfero destro del cervello. L’insistere sull’approccio che non si confà al singolo individuo può creare ansia e far innalzare le barriere del “filtro affettivo”. Hammerly (1975) inoltre ha evidenziato come alcune strutture siano più adatte ad una presentazione deduttiva, altre si apprendano meglio con un approccio induttivo.2

2

Hammerly (1975: 18) sostiene che per lingue come lo spagnolo e il francese circa l’80% delle strutture si presta ad un insegnamento di tipo induttivo, ma che il restante 20% delle strutture, che comprende soprattutto quelle assenti nella lingua materna dell’apprendente, è più adatto ad un approccio deduttivo: regole così complesse infatti non potrebbero essere estrapolate facilmente a partire da un piccolo numero di esempi. Tra queste strutture cita la differenza tra ser/estar per lo spagnolo, tra imparfait/passé composé per il francese, o il congiuntivo, le funzioni dei casi nelle lingue che li hanno, come il russo o il tedesco.

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Sebbene oggi siano considerati più importanti altri criteri (cap. 2), la distinzione comunque rimane. La didattica moderna delle lingue appare privilegiare l’approccio induttivo che meglio si accorda con il concetto di centralità del discente. Anche il Quadro comune europeo dà indicazioni abbastanza precise in questo senso (Bertocchi e Quartapelle 2002: 186; Andorno, Bosc e Ribotta 2003: 50). Effettivamente la grande maggioranza dei manuali per l’italiano L2 dichiara di adottare un approccio “induttivo” alla grammatica. Ma cosa si intende oggi per induttivo? Cercheremo di esaminare il concetto a partire dalle attività di riflessione esplicita proposte dai più recenti manuali di italiano come L2. 4.4. Mettere a fuoco le forme. Una vecchia interpretazione di “induttivismo” appare quella di In italiano (Chiuchiù, Minciarelli e Silvestrini 19901), che infatti applica il metodo diretto, ossia audio-orale (Andorno, Bosc e Ribotta 2003: 56). Ogni unità del manuale si apre con un breve dialogo, seguito da una lunga serie di drill che inducono lo studente ad apprendere – per imitazione – le strutture focalizzate. Solo alla fine vengono presentate delle tavole di sintesi grammaticale, che fanno un uso marginale di metalinguaggio. Tavola 3: Esempio di drill (tratto da In italiano, Chiuchiù, Minciarelli e Silvestrini 19901: 5). 3. Rispondere 1. Chi è Marianne? (svizzera) 2. Chi è Laura? (italiana) 3. Chi è Olga? (russa) 4. Chi è Carmen? (spagnola)

È una ragazza svizzera. __________________ __________________ _________________

Nei manuali più recenti tuttavia le attività volte alla focalizzazione della forma, e di conseguenza alla “scoperta” delle regole sono più vicine ai CR task di Ellis (1997: 162-63 e qui, par. 3.6.1). In particolare si offre un testo input (orale o scritto) e si chiede all’apprendente di svolgere una (o più) delle seguenti operazioni.

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a. CLASSIFICARE (griglie, insiemistica): è una delle tecniche più diffuse. Ai livelli iniziali ed intermedi in genere, si offre un breve testo e si chiede di completare delle griglie che contengono una riflessione esplicita, attraverso i dati forniti dal testo. Tavola 4: Riempire una griglia (da Rete 1, Mezzadri e Balboni 2000 : 38) Alla scoperta della lingua. Leggi nuovamente i testi e prova a completare la tabella. Articolo determinativo Maschile …il…. medico ……. studente .…… impiegato

Femminile ……. casalinga ……. infermiera

A livelli più avanzati invece si possono offrire esempi degli usi di una certa forma e chiedere poi all’apprendente di classificarli, come nella tavola seguente. Tavola 5: Classificare (da Viaggio nell’italiano, Bozzone Costa 2004: 272-73) Condizionale passato Leggi gli esempi tratti dal libro ‘Io non ho paura’ e rifletti sul perché viene usato il condizionale passato. Prova anche a fare un confronto con la tua lingua materna. Che cosa si usa in questi casi? FATTI O DESIDERI CHE NON SI SONO REALIZZATI NELPASSATO/IPOTESI IRREALE (NEL PERIODO IPOTETICO) Mi sarebbe piaciuto trasformarmi in un pipistrello e volare sopra la casa. A un certo punto ho cominciato ad assopirmi, a ragionare più lentamente, mi sono fatto forza e mi sono detto che se mi addormentavo sarei morto.

FUTURO NEL PASSATO

Mi sono infilato gli occhiali in tasca. Senza Maria non ci vedeva, aveva gli occhi storti e il medico aveva detto che si sarebbe dovuta operare prima di diventare grande.

Classifica le frasi che seguono in base all'uso del condizionale passato. Esempio: C’era ancora un po’ di luce ma entro mezz’ora sarebbe calata la notte. Questa cosa

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non mi piaceva tanto. (futuro nel passato) 1. Era più sveglio del Teschio, gli sarebbe stato facilissimo spodestarlo, ma non gli interessava diventare capo. 2. “Sono inciampata. Mi sono fatta male al piede e... gli occhiali si sono rotti!” Le avrei dato uno schiaffone. Era la terza volta che rompeva gli occhiali da quando era finita la scuola. 3. Per penitenza il Teschio l’aveva obbligata a slacciarsi la camicia e a mostrarci il seno. Aveva un po’ di tette, uno sputo, niente a che vedere con quelle che le sarebbero venute entro un paio di anni. 4. Ho pensato a mia sorella. Ho detto che era troppo piccola per gareggiare e che non era valido, avrebbe perso. 5. Si è messo a sghignazzare aspettandosi che anche noi avremmo fatto lo stesso, ma non è stato così. 6. Se lo dicevo, il Teschio, come sempre, si prendeva tutto il merito della scoperta. Avrebbe raccontato a tutti che lo aveva trovato lui perché era stato lui a decidere di salire sopra alla collina. 7. Papà non ripartiva. Era tornato per restare. Aveva detto a mamma che non voleva vedere l'autostrada per un po’ e si sarebbe occupato di noi. 8. Ho nascosto la bicicletta come avrebbe fatto Tiger con il suo cavallo, mi sono infilato nel grano e sono avanzato a quattro zampe. 9. Ma se lo avevano nascosto lì ci doveva essere una ragione. Papà mi avrebbe spiegato tutto. 10. Mi sono arrampicato al mio solito posto, a cavalcioni di un grosso ramo che si biforcava, e ho deciso che a casa non sarei più tornato.

b. COMPLETARE: tale tecnica appare particolarmente diffusa, quasi l’unica in alcuni manuali come Espresso 1 (Ziglio e Rizzo 2001). Viene fornito un testo iniziale, preferibilmente orale, e si chiede poi allo studente (in genere al secondo ascolto) di completare delle frasi o un cloze mirato sulle strutture linguistiche in esame. Lo scopo è di far notare certe forme, con l’idea che vengano messe meglio a fuoco se lo studente fa la sforzo di catturarle e fissarle attraverso la scrittura. Possono poi seguire o meno attività di riflessione esplicita, o domande destinate ad avviare la riflessione metalinguistica. Per l’esemplificazione si veda l’attività 4a della tav. 6. c. RISPONDERE A DOMANDE: anche questa è una tecnica diffusissima nei manuali di italiano L2 di ogni livello. Le domande hanno lo scopo di guidare l’attenzione dello studente sulle forme e sulle loro caratteristiche (ad esempio la posizione, la distribuzione), e di condurlo a piccoli passi alla scoperta della regola.

La grammatica nella classe di italiano L2: riflessioni metodologiche

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Tavola 6: Esempio che riassume completamento, classificazione con griglia e risposta alle domande (da Contatto 1, Bozzone Costa, Ghezzi e Piantoni 2005: 123) Gli aggettivi e i pronomi possessivi 4a Ascolta il dialogo e inserisci i possessivi e i nomi mancanti. Buongiorno vorrei ritirare (1)_________ (2)_________, (3) _________ invernale. A che nome? [...] Guardi, è questo? Sì, questi pantaloni sono (4) _________ (5) _________, ma quella non è (6) _________ (7) (8) _________, il colore è simile. [...] Ah, eccola. Guardi, forse è questa. È (9) _________ (10) _________? Sì, è quella. [... ]. 4b Completa la tabella e rispondi alle domande. io il mio

tu ………..

Lei il Suo

lui/lei ………..

noi il nostro

voi ………..

loro il loro

vestito

………..

………..

………..

la sua

………..

la vostra

la loro

giacca

………..

i tuoi

i Suoi

………..

i nostri

………..

i loro

le mie

………..

le sue

………..

le vostre

le loro

pantalo ni scarpe

a. Che cosa c’è prima dell’aggettivo possessivo? b. A quali persone si riferisce l'aggettivo possessivo “suo”? c. Perché l'aggettivo possessivo di terza persona plurale si differenzia dagli altri aggettivi possessivi?

d. EVIDENZIARE: dato un testo scritto, si chiede allo studente di sottolineare o cerchiare una forma. In genere poi si riflette su quella forma. Nei manuali per l’italiano L2 non è una tecnica diffusissima, soprattutto ai livelli iniziali, evidentemente perché per evidenziare una forma bisogna almeno saperla riconoscere. Un manuale destinato ai livelli B2-C1 come Viaggio nell’italiano (Bozzone Costa 2004) invece può ricorrere più facilmente a tale modalità: l’attività della tav. 7 mette a fuoco l’uso del gerundio. È la prima volta che nel manuale si parla del gerundio ma sicuramente l’apprendente di quel livello lo conosce almeno per averlo incontrato nella perifrasi progressiva (stare + gerundio) che in genere viene proposta già ai livelli iniziali (si veda poi il par. 4.10).

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All’esercizio di riconoscimento è abbinato un esercizio di interpretazione. Lo studente infatti – attraverso alcune domande – viene guidato ad una corretta interpretazione dell’impiego del gerundio e delle restrizioni cui esso va soggetto. Tavola 7: Sottolineare e spiegare (da Viaggio nell’italiano, Bozzone Costa 2004: 292) A. Rileggi il testo di pp. 387-389 e sottolinea i gerundi (4 casi). Per ciascun caso devi:

- dire che significato ha il gerundio. - sostituirlo, quando possibile, con una frase secondaria esplicita. - dire se il soggetto della secondaria introdotta dal gerundio è uguale o diverso dal soggetto della frase principale. - dire in che posizione compaiono eventuali pronomi. Esempio: Chi, pur lavorando, non guadagnava abbastanza da sfamarsi, chi aveva delle vendette private da compiere, diventava brigante. Chi, anche se lavorava non guadagnava abbastanza da sfamarsi, chi aveva delle vendette private da compiere, diventava brigante. (significato concessivo) (soggetti uguali: chi lavorava, chi guadagnava). E. FORMULARE LE REGOLE:

si propongono agli studenti delle frasi, costruite a tavolino o tratte da un testo input, e si chiede loro di formulare la regola. Tavola 8: Esercizio di produzione di una regola tratto da Rete 2 (Mezzadri e Balboni 2001: 16) Alla scoperta della lingua Osserva le frasi, qual è la regola? Sai nuotare? Sapete dove abita Michela? Conoscete l’indirizzo di Michela?

sapere + ……………………………. sapere + …………………………….. conoscere + …………………………

Particolarmente utili a questo proposito appaiono gli schemi vuoti. Un interessante lavoro di Cesarini (1995) si sofferma sul loro ruolo nell’aiutare l’apprendente a sistematizzare e formulare la regola, dopo la fase di scoperta induttiva. Per “schema vuoto” si intende una sorta di “scheletro della regola” (Cesarini 1995: 113) all’interno del quale lo studente inserisce i dati che ha raccolto. Secondo Cesarini (ivi: 113-

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14) l’uso dello schema vuoto è più funzionale rispetto alla semplice risposta a delle domande, perché da un lato concede agli studenti meno veloci di arrivare con i loro tempi alla formulazione della regola, dall’altro fornisce loro il supporto metalinguistico. Spesso infatti l’apprendente, soprattutto ai primi livelli, pur comprendendo la regola in base agli esempi, non riesce a formularla perché non possiede ancora la lingua tecnica necessaria. Tavola 9: Uso dello schema vuoto per le reggenze verbali (da Cesarini 1995: 116)

Le tecniche effettivamente impiegate per far scoprire la grammatica in modo induttivo sono dunque sostanzialmente cinque. Rispetto alle proposte teoriche che abbiamo visto esistere per l’insegnamento dell’inglese, ne mancano alcune, in particolare: • •

tecniche di arricchimento dell’input (input enhancement); giudizi di grammaticalità: se non ci si può aspettare che studenti principianti esprimano giudizi sull’utilizzo (o sul mancato utilizzo) di una forma, con studenti di livelli più avanzati tale tecnica potrebbe venire utilmente impiegata, o almeno viene impiegata in ambito anglosassone.

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Nel complesso, quindi, le proposte per una riflessione sulla lingua di tipo induttivo non sono molte, e in genere i manuali tendono a preferirne alcune ad altre. Quasi sempre poi non viene adottato un approccio esclusivamente induttivo, ma un approccio misto, in cui alcuni elementi vengono presentati in modo deduttivo o attraverso una domanda che dovrebbe far riflettere lo studente, ma a cui si dà immediatamente dopo la risposta corretta. Evidentemente, le difficoltà nascono dalla specificità dell’approccio in sé, che se da un lato ha l’indubbio vantaggio di rendere lo studente più attivo, dall’altro presenta alcune problematiche, comportando una certa difficoltà di gestione per l’insegnante, che deve riuscire a guidare gli studenti laddove essi tenderebbero a perdersi, e soprattutto richiedendo tempi piuttosto lunghi. Per essere davvero efficace un metodo che sia realmente induttivo necessita di tempi di processazione delle informazioni sufficienti a far entrare le nuove forme nella memoria a lungo termine e ad interiorizzarle anche attraverso la pratica. 4.5. Esercitare le forme. La pratica Abbiamo passato in rassegna gli esercizi più utili a scoprire e a formulare le regole. Quali sono invece le attività più adatte a fissarle e praticarle? Nel capitolo 3 abbiamo osservato come sia nel metodo tradizionale PPP (Presentation, Practice, Production) che all’interno degli approcci comunicativi si prevedeva un passaggio graduale da una pratica guidata ad una pratica più libera. La ricerca sui processi cognitivi (ad esempio DeKeyser 1998, N. Ellis 2005) sembra avvalorare ancora oggi tale prassi, pur con alcuni correttivi. 4.5.1. La pratica guidata Corder (1983: 380-85) distingueva tra gli “esercizi di pratica induttiva”, in genere meccanici (mechanical exercices), “esercizi senza significato” (meaningless exercices), volti a scoprire e formulare le regole, e gli “esercizi di verifica delle ipotesi” (ivi: 383, hypothesis testing exercices), detti anche “risolutivi di problemi” (problem-solving

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exercices), o “esercizi dotati di significato” (meaningfull exercices), che hanno invece lo scopo di praticarle e di verificarne la conoscenza. Tra gli esercizi di questo secondo tipo distingueva ulteriormente tra gli “esercizi di riconoscimento” (ivi: 383, recognition exercices), che chiedono all’apprendente di compiere una scelta tra due o più forme date, delle quali solo una è accettabile (in particolare la scelta multipla) e necessitano di una competenza meno pienamente sviluppata nella forma focalizzata, e invece gli “esercizi di produzione” (production exercices). Essi chiedono all’apprendente di produrre lui stesso la forma che renderà accettabile la frase (Corder 1988: 140) e sono in genere gli ultimi ad essere proposti, prima della pratica libera. Cercheremo anche noi di analizzare diverse tipologie di esercizi, partendo dai più meccanici per andare verso una sempre minor automaticità. a. I DRILL: per praticare le regole nel modo più guidato possibile vengono spesso utilizzati “esercizi-trapano” (i pattern drills), originariamente concepiti, come abbiamo visto, per scoprire per via induttiva le regole. I drill erano molto utilizzati nel metodo audio-orale, e proponevano un modello da ripetere invariato o con variazioni minime (per esempio nel lessico), allo scopo di far procedere lo studente per analogia, fino a fissare determinate strutture (si veda ad esempio la tav. 3). La critica al metodo audio-orale e il passaggio al nuovo paradigma determinarono un netto rifiuto di tali esercitazioni, ritenute inutili in quanto – essendo attività puramente meccaniche – non sembravano offrire agli apprendenti lo stimolo comunicativo, considerato la molla essenziale per l’apprendimento. Tuttavia in tempi più recenti i drill sono stati rivalutati, ed è stata riconosciuta loro un’utilità nel momento di passaggio tra la presa di coscienza di una struttura e la sua fissazione (si veda par. 3.8, ad esempio N. Elllis 2005: 327-29, Andorno, Bosc e Ribotta 2003, Balboni 1998: 95-101, Ciliberti 1994 10.2.1). I drill infatti si prestano bene ad interiorizzare le regole, perché consentono di fissare nella memoria, attraverso la ripetizione, delle strutture evitando il più possibile gli errori. Si tratterà piuttosto di rendere i drill più comunicativi, evitando di proporre frasi isolate e prive di significato per gli apprendenti, e cercando invece di contestualizzarle e di legarle alla loro esperienza per-

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sonale. I drill possono ad esempio consistere di semplici domande, che però riguardano la vita quotidiana, da proporre a coppie di studenti. Tavola 10: Esempio di drill sull’uso degli avverbi già, ancora, sempre, mai (tratto da Bozzone Costa, Ghezzi e Piantoni 2005: 104) 1 In coppia. Pensate ai luoghi dove siete stati in vacanza. Chiedete al vostro compagno se li conosce, se ci è già stato o se non c’è mai stato. Sì, ci sono già stato Ci = a Roma Sei già stato a Roma ? No, non ci sono mai stato

Molto utile può rivelarsi l’impiego di foto o immagini: per esercitare gli studenti su articoli, deittici e pronomi possessivi ad esempio, l’insegnante può chiedere di portare una fotografia di famiglia e di lavorare in coppia facendosi domande del tipo: –«Chi è questa?» – «Questa è mia nonna», –«E questo?» –«È mio fratello». A volte il desiderio di conoscere il proprio pari può essere una molla comunicativa sufficiente a non far apparire l’esercizio demotivante. Altrimenti si può tentare di dotarlo di maggior interesse abbinandogli un’attività comunicativa che sfrutti le informazioni acquisite per colmare un vuoto di informazione (information gap). Nell’esempio precedente della fotografia si potrebbe chiedere alla coppia di studenti di arrivare a stabilire una serie di analogie e differenze tra le due famiglie da esprimere poi di fronte alla classe («Mia nonna è morta, la sua no. Mio padre ha sessant’anni, il suo cinquantasei. I nostri fratelli vanno ancora a scuola», ecc.). Anche i disegni si prestano efficacemente a tale scopo: la tavola 11 esemplifica un’attività che, pur puntando sulla ripetizione automatica di determinate strutture, viene arricchita di senso dalla richiesta di portare a termine un compito preciso (disegnare la mappa della stanza) e dalla molla della competitività.

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Tavola 11: Esempio di drill più comunicativo sull’uso della struttura ce l’ho e sugli indicatori di luogo Attività da eseguire in coppia. Disegna una pianta della tua stanza, e indica uno o due punti di riferimento (ad es. la porta e la finestra). Poi dai la pianta al tuo compagno. Lui ti farà delle domande sugli oggetti che possiedi e sulla loro posizione e li disegnerà sulla pianta. Poi scambiatevi il ruolo: lui ti darà la pianta della sua stanza e tu gli farai le domande. Alla fine controllate se le piante corrispondono alla realtà delle vostre stanze. Vince chi è andato più vicino. Fatevi delle domande di questo tipo: - Hai un armadio? - Sì ce l’ho. - Dov’è? - In basso a destra. - Hai un tavolo? - Sì, ce l’ho. - Dov’è? - Di fronte all’armadio.

b. ABBINAMENTI: si può chiedere di abbinare immagini e parole, o parole e parole, o parole e frasi, che ad esempio spieghino le parole. È un esercizio molto usato nei manuali di italiano L2 per presentare ad esempio la perifrasi stare + gerundio (tav. 12 B) Tavola 12 (A) Abbinamento tra frasi principali e subordinate (da Nocchi 2002: 69)

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Tavola 12 (B) Abbinamento immagini e frasi (da Nocchi 2002: 47)

C. RIORDINI: si tratta di riordinare parole all’interno di una frase o di riordinare sequenze di testo. Esercizi del primo tipo sono molto utili per fissare la struttura di particolari frasi, come le interrogative introdotte da pronomi o avverbi interrogativi («Chi è tuo fratello?», «Quando arriva Anna?») o le frasi negative:

Tavola 13: Riordino di frase per esercitare la forma negativa (dal corso on-line A spasso con Virgilio, livello A1) Esercizio 1: Metti in ordine le frasi. Ci sono sempre una domanda e una risposta. Esempio: No fame grazie fame hai ho non. - Hai fame? - No, grazie, non ho fame. 1. gatto no gatto un avete non un abbiamo. 2. volete grazie birra vino preferiamo no. 3. freddo abbiamo freddo non avete non. 4. siete siamo no studenti studenti non. 5. Marco no Anna a e casa sono.

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Il riordino di sequenze di un testo permette invece di far esercitare gli studenti sulle strutture anaforiche, o sull’uso dei connettivi. La tav. 14, ad esempio, presenta un riassunto da riordinare, proposto a studenti principianti nella seconda metà del loro corso (il corso on-line A spasso con Virgilio), alla fine di un’unità didattica che si sofferma sui seguenti indici linguistici: accordo del passato prossimo, subordinate causali introdotte da perché, subordinate temporali introdotte da quando. Il testo riassume un breve filmato che lo studente ha visto prima in brevi spezzoni, poi per intero: l’argomento ed il lessico sono quindi già noti. Tavola 14: Riordino di sequenze di un testo (dal corso on-line A spasso con Virgilio, livello A1) Hai visto l’intero filmato. Ora completa il riassunto del filmato: metti in ordine le frasi. Venerdì scorso Ivana ha telefonato ad Elena perché si trovava a Padova. Di solito lei vive a Milano…. A Ivana è andata a casa prima degli altri. Quando l’ha salutata, Elena ha chiesto di Alberto. Ha presentato Alberto ad Ivana perché vuole trovare un fidanzato per lei … B quando sono andati a visitare il teatro dei pupi a Palermo. C Dopo cena, tutti insieme hanno guardato le foto della Sicilia. Elena ha dato informazioni a Carlo e a Ivana, perché loro vogliono andare in vacanza lì l’estate prossima. D Elena è stata molto contenta e l’ha invitata a cena a casa di Francesco, con altri amici. E La cena è stata sabato. Elena ha cucinato dei piatti siciliani, Ivana ha portato la cassata, una torta siciliana e Carlo il vino… F Ma Ivana non ha detto niente di preciso … solo che Alberto è simpatico. Domani Elena la chiama per sapere di più… G Ma ha fatto un piccolo errore: ha portato vino pugliese, non siciliano! Prima di cena, Francesco ha mostrato agli amici un pupo siciliano. Lo ha regalato a Elena

d. SCELTE MULTIPLE: si tratta di completare una frase o un testo scegliendo la forma adeguata tra le diverse forme date. La scelta mul-

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tipla però, che appare adeguata agli esercizi di comprensione, presenta una serie di problemi per praticare la grammatica, in particolare qualora vengono utilizzati distrattori “inventati”, che possono attrarre troppo l’attenzione dell’apprendente. Tavola 15: Esempi di scelte multiple A. Scegli il verbo corretto. Oggi io _____________ al cinema. 1. ando 2. vado 3. vao 4. vai

B. Completa le frasi scegliendo tra le tre possibilità. 1. Pensavo che tu fossi/ eri/sia andato a vedere quel film! 2. Giulio si chiedeva chi gli faceva /abbia fatto/avesse fatto quel meraviglioso regalo.

Nel caso A ad esempio lo studente, sulla base della congruenza tra il distrattore n. 1 (ando) e le ipotesi di regolarizzazione che fa nella propria interlingua (lavorare > lavoro, mangiare > mangio, quindi andare > ando), può facilmente essere indotto all’errore; se l’esercizio non viene corretto o la correzione è comunque affrettata, egli rischia di fissare nella propria memoria la forma scorretta, trovando proprio nell’esercizio una conferma ad un’ipotesi sbagliata. Appare opportuno pertanto evitare tale tipologia, o almeno riservarla a studenti dei livelli più alti e preferire forme comunque esistenti a forme inventate, giocando ad esempio sulle alternanze di genere/numero e, per i verbi, di persona, di tempo o di modo. e. TRASFORMAZIONI o MANIPOLAZIONI: è una tipologia piuttosto tradizionale che consiste nel trasformare frasi (ad esempio passare dal plurale al singolare) o brevi testi. Se la trasformazione di una frase può essere un lavoro un po’ meccanico, la trasformazione di un testo risulta più interessante e complessa per lo studente e genera solitamente discussione in classe. Una possibilità ancora poco sfruttata nei manuali di italiano L2 è quella di passare da un genere letterario all’altro, ad esempio trasformare un dialogo in una lettera per lavorare sui pronomi personali, o una pagina di diario in un articolo di cronaca (tav. 16). Altrimenti è sufficiente variare semplicemente il punto di vista, o chiedere di passare dalla forma positiva a quella negativa (tav. 17).

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Tavola 16: Esempio di trasformazione per esercitare il trapassato prossimo e la forma passiva (livelli B2-C2) Leggi un breve articolo di cronaca.

Rovereto Il gallo disturba? 250 euro di multa Il giudice del tribunale di Rovereto ha condannato due anziani coniugi di Arco a pagare 250 euro di multa perché il canto del loro gallo disturbava i vicini. Il 17 ottobre 2001 Maria Chiaretti e Giovanni Mastro erano stati portati in tribunale, dopo che avevano ignorato le ripetute richieste dei vicini di allontanare il gallo dalla loro abitazione. A seguito delle polemiche sorte intorno al caso il sindaco di Arco il 28 giugno 2001 aveva invitato i suoi cittadini ad evitare ogni disturbo notturno alla quiete pubblica causato dal canto di un gallo. Per chi non lo faceva, aveva previsto una multa di 250 euro. Ieri è uscita la sentenza finale, che condanna i coniugi Mastro al pagamento della multa. (Adattato da “Padova. In città” giovedì 11 luglio 2002) Poi prova a trasformare l’articolo in un racconto, assumendo il punto di vista del gallo. Tavola 17: Trasformazione per esercitare l’uso della forma negativa non … mai (tratto dal corso on-line A spasso con Virgilio, livello A1) Trasforma le frasi in frasi negative. Esempio: Parlo con la gente. > Non parlo con la gente. Mi diverto sempre al circo. > Non mi diverto mai al circo. Sono una persona felice: rido sempre, amo divertirmi con gli amici, lavoro volentieri perché ho dei colleghi simpatici. Anna e Marco vanno sempre d’accordo. Stanno insieme da molto tempo e si conoscono bene: lui è molto sportivo e lei fa sempre sport.

f. CACCIA ALL’ERRORE: è più motivante della scelta multipla ed in genere gradita agli studenti perché sollecita il gusto della scoperta. Si presentano loro frasi o brevi testi e si chiede di identificare gli errori che riguardano una certa forma o regola. L’esempio seguente, destinato a studenti di livello iniziale, si focalizza sulla scelta dell’ausiliare per formare il passato prossimo.

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Tavola 18: Caccia all’errore (dal corso on-line A spasso con Virgilio, livello A1) Ecco una cartolina che Elena e Francesco hanno scritto agli amici dalla Sicilia. Ci sono 4 errori. Sai trovare gli errori? Palermo, 20 luglio Ciao carissimi, come state? Come è andato il vostro viaggio? Avete passato delle belle vacanze? È letto i vostri sms e mi sembrate contenti! Noi in Sicilia abbiamo stato benissimo, adesso stiamo tornando: oggi abbiamo visto Monreale e il palazzo dei Normanni, a Palermo. Splendidi! Abbiamo trovato un ristorante molto buono ed economico. Finalmente siamo mangiato la pasta alle melanzane! Francesco ha fatto molte foto a Palermo, ed io ho deciso di fare una festa siciliana al nostro ritorno. Siamo comprato un bel regalo per voi! Un abbraccio e a presto. Elena e Francesco E ora correggi gli errori: scrivi qui le forme corrette del passato prossimo. Mantieni l’ordine del testo: ________________; ________________;

________________; ________________. g. CORREZIONE DI TESTI DEGLI STUDENTI: è una tecnica che assomiglia alla precedente, ma si basa su testi (orali o scritti) prodotti dagli stessi apprendenti. Si presta particolarmente bene alla riflessione su argomenti già noti, perché fa riferimento alla capacità degli apprendenti di discriminare gli usi scorretti di una data forma. Un esempio può essere il seguente: lavorando con una classe di livello intermedio alto (B2), prevalentemente composta da tedescofoni ed anglofoni, sulla distinzione tra tempi perfettivi ed imperfettivi, argomento che rimane difficoltoso anche dopo molti anni di insegnamento esplicito per studenti che non possiedono la stessa distinzione nella loro lingua madre (par. 2.3.3.), abbiamo scelto un breve compito scritto di una studentessa tedesca della classe, particolarmente divertente per il contenuto. Lo abbiamo trascritto alla lavagna depurandolo prima degli errori non connessi al soggetto trattato, in modo che essi non distraessero l’attenzione. Abbiamo poi suddiviso gli studenti in piccoli gruppi chiedendo loro di identificare gli errori relativi all’uso dei tempi verbali, e di cercare di proporre una correzione motivata.

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Tavola 19: Correzione di uno scritto di uno studente Leggete il testo e trovate gli errori dei tempi verbali. Malinteso con la lingua italiana A una amica succedeva qualcosa di divertente. Lei viveva da una famiglia italiana, che aveva due figli. Uno era sempre molto chich e a lui piaceva uscire e incontrare ragazze. Una volta quando la mia amica e lui si incontravano, lei voleva mostrare qualche foto con il suo lab top.3 La reazione era strana, lui sembrava molto sorpreso. Ha chiesto solo se loro volevano farlo adesso e nella sua camera oppure nella camera della mia amica. Mentre lei andava nella sua camera, ha capito che cosa lui ha pensato. Lei pronunciava lab top come “letto”. Con la faccia rossa, lei prendeva il lab top e mostrava le foto in cucina. (tedesca, B2)

Uno studente ha ad esempio corretto il “succedeva” iniziale commentando che «Se M. dice succedeva vuol dire che succedeva sempre, o molte volte», ed una compagna ha risposto: «Ma lei dopo dice una volta e vuole dire che è una cosa speciale, non che sempre succedeva qualcosa di divertente», dando così l’avvio ad una discussione sull’aspetto abituale dell’imperfetto. È interessante notare che spesso riflessioni di questo tipo vengono da apprendenti che, non avendo determinate strutture nella loro lingua madre, sono abituati a compiere uno sforzo maggiore per “catturarle” e farle proprie. Sono utili però anche agli studenti di lingue che invece hanno le stesse strutture, perché li costringono a soffermarsi in modo conscio su regole che altrimenti sarebbero rimaste implicite nella loro mente. Il pregio maggiore di queste attività è tuttavia dovuto al fatto che – se ben scelte – permettono di mantenere uno stretto legame tra forma e contenuto (stavamo infatti parlando in classe dei malintesi che possono accadere quando si parla una lingua straniera), e che coinvolgono gli studenti, i quali, riconoscendo i loro punti deboli, si sentono particolarmente stimolati nel cercare di porvi rimedio. h. COMPLETAMENTI E CLOZE: l’esercizio forse più utilizzato per praticare le forme è quello della frase bucata da completare. Particolarmente motivante ed utile in quanto comporta l’impiego di abilità integrate è il cloze “mirato” il quale, a differenza del cloze tradizionale 3

Lab top = computer portatile.

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(che prevede un buco ogni sette parole), si incentra su determinate strutture o forme. Benché si adatti anche a verificare la conoscenza di regole in ambito frasale (Marello 1991: 164), esso è ideale per esercitare strutture a livello testuale, ad esempio connettivi, subordinatori, pronomi anaforici, ecc. Rispetto ad altre tipologie di esercizi, il cloze appare vantaggioso da due punti di vista: in primo luogo, è un’attività che integra riflessione sulla lingua e sul contenuto, in quanto obbliga lo studente a leggere bene un testo e a capirne il significato prima di riempire i buchi; in secondo luogo nella fase di correzione e confronto sollecita la discussione metalinguistica. Spesso infatti accade che uno degli studenti proponga soluzioni diverse da quelle previste, ma comunque accettabili. Inoltre, le scelte errate degli apprendenti possono accendere spie importanti sui processi di apprendimento e sulle interlingue. Tavola 20: Cloze mirato sul presente indicativo (da Nocchi 2002: 59)

i. DICTOGLOSS: è una tecnica non diffusa nell’insegnamento dell’italiano come L2 ma utilizzata in modo proficuo per altre lingue, che consiste nel leggere alla classe due un breve testo e nel farlo ricostruire il più esattamente possibile a gruppi di studenti (per una descrizione della procedura si veda par. 3.7, per un esempio par. 4.11). È un’attività particolarmente adatta a notare la differenza (il gap) tra la propria interlingua e la lingua obiettivo nel momento del confronto con l’insegnante.

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4.5.2.La pratica più libera Una volta che le nuove strutture siano state focalizzate e praticate in contesti guidati, si può passare alla pratica più libera. A questo punto la scelta delle attività è molto più ampia ed è condizionata dalla tipologia della forma o regola che si vuole praticare. Come sottolineano infatti Celce Murcia e Hilles (1988: 10), autrici di un ottimo manuale per la formazione degli insegnanti di inglese L2, la lingua presenta tre diverse dimensioni: una dimensione sociale (che si riferisce al ruolo degli interlocutori), una dimensione semantica (che si riferisce al significato) ed una discorsiva (che riguarda ad es. l’ordine delle parole, la coesione di un testo, la sequenziazione delle informazioni, ecc.). Gli argomenti grammaticali andranno quindi trattati in maniera diversa a seconda della dimensione della lingua cui possono essere associati. Un argomento come l’uso del congiuntivo di cortesia e l’uso dei pronomi personali diretti ed indiretti appare ad esempio essere legato alla dimensione sociale; si presterà particolarmente bene quindi ad essere praticato tramite dei role-play o delle drammatizzazioni. Ad un gruppo di studenti universitari europei in scambio di livello B1-B2 si potrebbe proporre allora di simulare il primo approccio tra lo studente e il professore italiano che coordina lo scambio. In questo modo gli studenti lavorerebbero sull’uso della forma di cortesia in un contesto significativo dal punto di vista della comunicazione, dal momento che lo sentirebbero plausibile ed utile per loro. La rappresentazione delle scene realizzate dai gruppi di fronte alla classe e all’insegnante potrebbe offrire poi il pretesto per offrire feedback sia sulla forma (correzione degli errori) che sul contenuto, con paragoni tra le diverse forme di saluto, ed osservazioni sulla gestualità e sui comportamenti più appropriati. La tecnica della narrazione di storie (story-telling) si adatta invece bene alla pratica dei tempi verbali del passato e degli indicatori di tempo: la scelta è vastissima. Si può chiedere agli studenti di raccontare una fiaba tradizionale del loro paese, lavorando per gruppetti della stessa nazionalità, o di narrare una storia a partire da alcune parole o immagini offerte loro. A tale proposito, in un manuale destinato all’insegnamento della grammatica inglese, Thorbury (2001: 22-23) osserva che, a volte, limitarsi a raccontare al compagno quello che ve-

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de illustrato in un’immagine o in una serie di vignette può essere noioso e demotivante per lo studente; pertanto suggerisce di rendere l’operazione più stimolante creando un vuoto di informazione come nell’attività della tav. 21. Si fornisce a ciascun membro di una coppia una delle due sequenze di immagini. Raccontandosi l’un l’altro il contenuto della propria sequenza, i due studenti devono decidere se può trattarsi della stessa storia e cercare di ricomporla. Tavola 21: Narrazione di storie con vuoto d’informazione (da Thornbury 2001: 22-23)

Motivanti, soprattutto nelle classi caratterizzate da un’atmosfera rilassata e confidenziale, sono i racconti personali, a patto che

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l’insegnante riesca a trovare soggetti significativi per tutti, ad esempio il viaggio di arrivo in Italia per un gruppo di immigrati, il primo esame o l’ingresso nella facoltà per studenti universitario o simili. L’uso delle immagini si presta poi a praticare molte strutture diverse: lo abbiamo già proposto come stimolo per i drill, e per la narrazione, ma è adatto anche ad esercitare la tipologia testuale della descrizione con le specificità linguistiche ad essa connesse, come l’uso dell’imperfetto o delle preposizioni di luogo. L’immagine seguente ad esempio (tav. 22, A) è adatta a far utilizzare gli indicatori spaziali («a destra», «vicino all’albero», «davanti alla fontana»…), le frasi interrogative («Chi è questo?», «Che cosa sta facendo l’uomo sotto l’albero»), le frasi relative («È un uomo che legge un libro») o le relative scisse («C’è un uomo che corre»). L’immagine (B) invece fa parte di un attività che chiede agli studenti di scrivere le istruzioni per mettere in ordine le stanza di una casa. È utilissima per esercitare le preposizioni di luogo e l’imperativo («metti i libri sul tavolo», «metti i vestiti nell’armadio», ecc.). Tavola 22 A: Uso delle immagini per la descrizione (illustrazione di Maurizio Ribichini, tratta da Un giorno in Italia, 1. Chiappini e De Filippo 2002: 50)

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Tavola 22 B: Uso delle immagini per la descrizione (illustrazione di Maurizio Ribichini, tratta da Un giorno in Italia, 1. Chiappini e De Filippo 2002: 99)

Un’attività piuttosto diffusa nelle classe di L2 è quella di far descrivere ad una coppia di studenti la propria abitazione. Mentre uno descrive, l’altro deve disegnare la struttura ed ammobiliarla. Volendo poi concedere maggior spazio alla fantasia, si può proporre agli studenti di assumere il ruolo di una coppia che deve arredare la propria casa. Con queste ultime attività siamo entrati nel campo della cosiddetta “glottodidattica ludica” (per una breve sintesi Caon e Rutka 2004), che si situa all’interno dell’approccio umanistico-affettivo, e sottolinea l’importanza del gioco quale fonte di motivazione valida per tutte le età. Il gioco infatti, se coinvolgente, tiene alta l’attenzione, abbassa il filtro affettivo, e permette quindi di imparare più facilmente. Le attività ludiche possono coinvolgere coppie di studenti, come nei casi appena visti, o di battaglie navali, di ricerche di particolari attraverso un’immagine (ad esempio il classico “Trova le differenze” della «Settimana enigmistica»).

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Vi sono poi i giochi di squadra, che coinvolgono un maggior numero di persone e stimolano la competitività. Andorno, Bosc e Ribotta (2003: 92) propongono ad esempio la sfida dei participi: Tavola 23: Gioco di squadra, la sfida dei participi (da Andorno, Bosc e Ribotta 2003: 92) Sfida di participi Proposta di lavoro

livello: elementare

La classe è divisa in due squadre che si posizionano una di fronte all’altra. A turno ogni membro di una squadra sfida un membro dell’altra squadra a flettere al participio un verbo (proponendo le forme irregolari, più difficili). Per ogni risposta corretta la squadra ottiene un punto. Ogni giocatore può proporre solo verbi di cui conosce a propria volta il participio, altrimenti la squadra proponente è penalizzata di un punto. Vince la squadra che totalizza più punti. Questo gioco può essere realizzato per il ripasso e la memorizzazione di diversi elementi e strutture.

Ed infine ci sono anche i giochi “solitari”: Grammagiochi di Balboni (1999) ad esempio offre molteplici proposte di problemi da risolvere (problem solving), parole crociate, battaglie navali, tutte incentrate su argomenti grammaticali, dalla prosodia (scansione in sillabe; divisione delle parole) alla morfosintassi (articoli, espressioni di tempo, preposizioni di luogo, tempi verbali del passato, uso del congiuntivo, ecc). I manuali per l’insegnamento dell’italiano come L2 oggi più diffusi propongono sempre più spesso attività di pratica giocosa: Espresso 1 (Ziglio e Rizzo 2001) ad esempio ogni due o tre unità presenta una sezione “Facciamo il punto”, che attraverso una sorta di gioco dell’oca consente di praticare in modo divertente le strutture e le regole focalizzate in precedenza. Proposte per l’esercizio della grammatica dell’italiano in forma giocosa vengono anche articoli e volumi specifici, come Gandi e Zacchi (1998) e Caon e Rutka (2004). Rientrano nella didattica ludica anche le soluzioni di problemi (problem solving activities), che abbiamo visto essere alla base del sillabo procedurale di Prabhu (1987). Si propone agli studenti un problema da risolvere, in lingua, fornendogli una serie di dati e invitandolo a trovare una soluzione.

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Un esempio classico è il seguente: Tavola 24: Esempio di soluzione di problemi (adattato da Celce Murcia e Hilles 1988: 140) C’è un contadino che vuole traghettare se stesso, un cane, una gallina e un sacco di grano al di là del fiume. Possiede una piccola barca, con la quale può trasportare solo un animale o il sacco di grano alla volta. Però non può lasciare il cane solo con la gallina perché la mangerebbe, né la gallina sola con il grano, perché lo mangerebbe. Cosa deve fare il contadino per trasportare con sicurezza tutti dall’altra parte del fiume?

Naturalmente con attività di questo tipo, come in genere con tutti i compiti comunicativi, il rischio è che gli studenti portino a termine il compito egregiamente, utilizzando però strutture diverse da quelle previste. Ellis (1997: 79) ricorda infatti che i compiti in cui l’uso di particolari strutture è davvero essenziale sono pochi rispetto ai compiti in cui l’uso di determinate strutture è facoltativo o non necessario, e che è più facile crearli nel caso della ricezione che della produzione (ivi: 83). Occorre pertanto uno sforzo da parte dell’insegnante nel reperire compiti in cui l’apprendente sia obbligato a ricorrere a certe strutture, sforzo cui si può ovviare suggerendo agli studenti quali strutture utilizzare. Nell’attività della tav. 24, ad esempio, dovrebbe invitarli ad usare la forma deve + infinito, o i connettivi causali, proponendo lui stesso delle frasi, o facendo notare quelle presenti nello stesso testo offerto («perché lo mangerebbe»). Fondamentali diventano allora le istruzioni. Tavola 25: Esempio di problema da risolvere per esercitare l’uso del condizionale presente e delle frasi causali Devi andare in vacanza in un’isola deserta. Cosa ti porteresti per sopravvivere un mese? Puoi scegliere solo 5 oggetti tra quelli della lista seguente. Leggila, scegli i tuoi 5 oggetti e spiega perché li porteresti con te. Forma delle frasi simili a quelle dell’esempio: Mi porterei una tenda, perché voglio dormire al riparo. sacco a pelo, tenda, pentola, accendino, libro, cellulare, televisione, forchetta, bottiglia, carte da gioco, pila.

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Tavola 26: Esempi di attività per la pratica libera Tecniche da utilizzare

Genere testuale

Uso di immagini

Narrare

- Uso dei tempi verbali - Indicatori di tempo - Anafore, uso degli articoli - Paragoni, comparazioni (Mia sorella una volta era studentessa di biologia, adesso fa…)

Descrivere

- Indicatori spaziali - Preposizioni di luogo - Interrogative a risposta sì/no (C’è un albero?); interrogative introdotte da pronomi ed avverbi interrogativi (Chi è quell’uomo? Dov’è la banca? Quanti alberi ci sono?) - Pronomi relativi (Chi è quello? È un uomo che corre).

Narrazione di storie

Role-play e drammatizzazioni

Narrare

Presentazioni, colloqui di lavoro, telefonate… Argomentare

Forme da esercitare

- Tempi verbali del passato - Indicatori di tempo - Connettivi di tipo temporale - Pronomi anaforici - Imperativo, congiuntivo di cortesia - Pronomi personali (tu/lei; le/la, ecc..) - Congiuntivo introdotto da verbi di opinione (penso che…). - Connettivi di tipo argomentativo (dal momento che …., quindi,…)

4.6. Un atteggiamento eclettico Nei precedenti paragrafi abbiamo descritto un approccio possibile all’insegnamento della grammatica che si basa sugli studi della psicologia cognitiva e si avvale dei risultati migliori di diversi metodi pre-

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cedenti. È un approccio graduale, completo, con solide basi teoriche. Non riteniamo tuttavia che sia l’unico possibile e che l’insegnante debba per forza adottarlo sempre. Dal momento che la ricerca acquisizionale dimostra che non tutte le strutture si apprendono allo stesso modo (Doughty e Williams 1998a: 211), è opportuno che anche l’insegnamento esplicito sappia variare le tecniche a seconda del soggetto trattato. Un buon insegnante dovrebbe conoscere le diverse metodologie di insegnamento della L2 (Serra Borneto 1998: 19) e saper ricavare ciò che c’è di buono in ciascuna di esse. Ad esempio l’approccio del Total Phisical Response di Asher (1977; per una breve descrizione si veda Visciola 1998) può suggerire come presentare forme come l’imperativo o le preposizioni di luogo a classi di livello iniziale, che non possiedono ancora una lingua abbastanza ricca. Il docente potrebbe lavorare con l’intera classe o con un singolo studente impartendo alcuni semplici ordini, come «Markus alzati in piedi! Chiudi la porta! Apri la finestra, vai a destra, adesso gira a sinistra!», ecc. Lo studente comincerà così a comprendere la forma e a rispondere agli ordini, pur senza utilizzare l’imperativo. Successivamente, l’insegnante potrebbe chiedere agli apprendenti di fare lo stesso, prevedendo magari dei piccoli premi o pegni per chi sbaglia. Anche la linguistica dei corpora può fornire utili suggerimenti per la riflessione sulla lingua, specialmente nelle fasi di formazione e verifica delle ipotesi. Argomenti che si prestano bene all’analisi attraverso un corpus sono ad esempio l’uso delle preposizioni, dei subordinatori, di congiunzioni (anche) o di avverbi come già, ormai, ancora, finalmente. L’insegnante potrebbe chiedere a piccoli gruppi di studenti di esaminare l’uso di un determinato avverbio e di proporre, attraverso la consultazione di un corpus, delle ipotesi sul significato e sulla posizione di esso, per poi confrontarsi con l’intera classe. 4.7. Gli “esperimenti grammaticali” Lo Duca (2004) presenta un metodo di riflessione sulla lingua piuttosto interessante per studenti italofoni, sostenendo però che con opportuni aggiustamenti si adatta anche agli stranieri. Tale metodo infatti si

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propone di rendere gli studenti protagonisti attivi nella costruzione di una loro grammatica, guidandoli alla scoperta delle regole: anziché fornire pacchetti di conoscenze già strutturati [si tratta] di coinvolgere gli stessi allievi nella strutturazione delle conoscenze, mettendo in moto quelle capacità di base che sono l’osservazione, la classificazione, il confronto, l’ordinamento, l’inclusione, la categorizzazione (Lo Duca 2004: 23).

L’ora di grammatica diventa una sorta di “ora di laboratorio” (ivi: 26) nella quale docente e studenti conducono una serie di esperimenti con la lingua, confrontandosi contemporaneamente con i dati reali (interviste ad altri parlanti, corpora, esempi da loro stessi creati), con la propria competenza di nativi ma anche con le grammatiche dell’italiano. Gli esperimenti riguardano ad esempio i tempi del passato (in particolare l’uso dell’imperfetto, la distinzione tra tempi perfettivi/imperfettivi e tra passato prossimo/remoto), il suffisso -ino, ecc. Lo Duca (ivi: 175) ritiene che tali esperimenti siano trasferibili, con accorgimenti, anche alla classe di italiano L2 e che anzi il processo di riflessione ed analisi sulla lingua stessa sia particolarmente adatto ad un insegnamento di tipo comunicativo (ivi: 176). Ovviamente, bisogna fare i conti con il fatto che gli stranieri hanno una conoscenza della lingua molto inferiore rispetto a quella dei bambini e dei ragazzi nativi, e quindi avranno a disposizione molti meno dati per «procedere ai necessari raffronti, pervenire a generalizzazioni appropriate, verificare tali generalizzazioni col ricorso a nuovi dati» (ivi: 175). Sarà dunque l’insegnante a dover fornire i dati e a costruire percorsi più rigidi per evitare che gli apprendenti si perdano, per spingerli ad individuare regole ed eccezioni, e per verificare le ipotesi. L’insegnante dovrà poi costruire con cura assieme alla classe il vocabolario metalinguistico necessario alla discussione. Siamo d’accordo che un procedimento del genere sia adatto alla classe di italiano L2, in particolare in un contesto di lingua seconda, dove l’apprendente ha possibilità di accesso molto maggiori ai dati di lingua reale; la necessità di raccogliere dati può anzi favorire il suo incontro con i nativi che dovrà intervistare o sollecitare ad esprimere giudizi di grammaticalità. Tuttavia, è evidente che tale metodologia può essere adattata a studenti di livello intermedio-avanzato, piuttosto che ai principianti, che non possiedono ancora la metalingua necessa-

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ria per poter discutere, attivamente, della lingua. Con loro tuttavia è importante creare l’habitus mentale a non attendersi delle regole fisse, rigide e valide comunque, ma a saper cercare nell’input delle regolarità, senza spaventarsi troppo qualora i conti non tornino. Inoltre non appare praticabile applicare tale metodologia a tutte le regole o strutture grammaticali, ma sono necessarie delle scelte a monte. È infatti più utile esplorare in maniera induttiva anche un solo argomento, purché centrale nel sillabo di quel livello, costruendo un percorso ben fatto e graduale, piuttosto che tentare di trattare induttivamente molti diversi argomenti. Un esempio può essere costituito dai tempi verbali del passato per un corso di livello A2 o B1, o dall’uso del congiuntivo per un corso B2. Bisognerà scegliere cioè un soggetto che crei problemi a tutti gli apprendenti della classe, che sia quindi percepito come rilevante da essi, e infine che sia di ampia portata, in modo che permetta di esplorare input differenti sia in base al canale (scritto vs. parlato) che al tipo testuale. Tavola 27: Esempio di esperimento sull’uso del passato remoto (per il livello C1) - Attraverso un testo scritto si riepiloga la forma del passato remoto, regolare e irregolare; - L’insegnante chiede agli studenti di registrare in una o due settimane gli usi del passato remoto con cui vengono a contatto, nello scritto e nel parlato, attraverso schede manuali o messaggi e-mail da destinare ad un forum. - L’insegnante chiede agli studenti di lavorare in piccoli gruppi, che cercano di unificare le loro schede e di stabilire i diversi usi con esempi. Ad esempio: a) Si usa nelle favole (C’era una volta una bambina che si chiamava Capuccetto rosso. Un giorno la mamma le chiese di andare dalla nonna e di portarle un cestino con dolci e vino. La bambina partì subito …). - Attraverso un brain storming in classe, vengono presentate le diverse categorie. - L’insegnante invita gli studenti a fare una ricerca nelle diverse grammatiche dell’italiano per verificare le loro ipotesi. - Si ridiscute l’argomento in classe. L’insegnante cercherà di orientare la discussione in particolare sulla differenza tra la norma dell’italiano standard e le tendenze

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dell’italiano parlato (ad esempio Gambarara 1994). Quindi sulla diffusione diatopica del passato remoto, cercando di partire il più possibile dagli esempi registrati dagli studenti. Esempio: Hans: Ho sentito dire da un mio amico «Ieri andai a Venezia». Insegnante: E da dove viene il tuo amico? Hans: Dalla Puglia. Insegnante: Ma di solito qui in Veneto che tempo si usa? Hans: Il passato prossimo… - Si discutono i casi in cui il passato remoto non può essere sostituto dal passato prossimo (cfr. Cortelazzo 1997) - Si decide insieme se per quegli studenti è importante o meno apprendere in forma attiva il passato remoto.

4.8. La scelta dell’input Un argomento che ha appassionato la letteratura glottodidattica degli anni ’70-’80 del secolo scorso, ma che ora appare superato, riguarda la scelta di input autentico o costruito appositamente per scopi didattici. Il Quadro comune europeo infatti, mettendo al centro del processo di apprendimento il testo, ha evidenziato che testi autentici di nativi (ad esempio giornalisti), testi prodotti da apprendenti o da autori di manuali sono soltanto testi tra altri, e che l’importante è che essi obbediscano alle regole proprie del genere cui appartengono. Come sottolinea Vedovelli (2002: 73) dunque, «non è più il criterio del testo autentico a rappresentare la discriminante tra una buona e una cattiva glottodidattica, ma è la gestione delle caratteristiche di testualità che ogni testo porta con sé a rappresentare tale salto di qualità». Dal punto di vista della riflessione sulla lingua variabili importanti da considerare nella scelta dell’input sono costituite dal livello della classe e dalla struttura che si vuole focalizzare. Per essere notata, infatti, una struttura deve essere saliente (si veda 2.3.2.); se però non lo è di per sé, si può tentare di renderla tale facendola comparire più volte, seconda la tecnica dell’“inondazione dell’input” (si veda 3.6). L’input arricchito viene dunque ad avere un ruolo importante nella fase del notare le forme.

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Input autentici possono viceversa essere più efficaci nel presentare fenomeni del parlato, quali ad esempio le focalizzazioni contrastive, le dislocazioni, l’uso dei segnali discorsivi nel parlato. L’input comunque non deve essere necessariamente un testo che proviene da canali esterni alla classe, scritti o orali. A volte infatti può risultare molto più efficace un racconto personale dell’insegnante, soggetto in genere interessante per i suoi studenti. Durante il racconto essi possono cercare di prendere appunti, e poi fare domande che dimostrino la comprensione. L’insegnante potrà in seguito chiedere loro di riassumere la sua esperienza, in modo da far reimpiegare le forme proposte. Un docente con buona capacità di improvvisazione può anche sfruttare un episodio accaduto ad uno degli studenti, elicitando le strutture che interessano attraverso domande dirette o invitando i compagni a formulare delle ipotesi. Ad esempio un insegnante che sta lavorando sull’uso del passato, potrebbe notare un giorno che uno dei suoi allievi ha un braccio ingessato e dire «Guardate, Marc si è rotto un braccio. Probabilmente ha avuto un incidente. Potete provare a immaginare cos’è successo?». Gli studenti in piccoli gruppi formulano delle ipotesi e le propongono a Marc («Sei caduto dalla bicicletta mentre andavi all’Università?»), che risponderà sì o no. L’insegnante intanto trascrive alla lavagna le frasi prodotte. Alla fine lo stesso Marc potrebbe raccontare l’accaduto. Anche l’uso di oggetti reali (realia), come confezioni di cibo, cartelli di divieto, può aiutare: un collega particolarmente creativo ha proposto un’intera lezione sui pronomi personali atoni e tonici dopo aver notato sul banco di un suo studente un pacchetto di sigarette che recava la scritta «Il fumo danneggia gravemente te e chi ti sta intorno». Lo spunto suggerito da quella frase gli ha permesso di presentare il sistema dei pronomi, evidenziando l’enfasi che assume la forma tonica (te), e assieme di affrontare un’interessante discussione sui danni provocati dal fumo.

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4.9. Quale lingua per riflettere sulla lingua? Un aspetto problematico riguarda la lingua da utilizzare nei momenti di riflessione metalinguistica, soprattutto nelle fasi iniziali, quando l’impiego della L2 comporta il rischio di insegnare «il non noto attraverso il non noto» (Prat Zagrebelsky 1985: 67). Qualora la classe sia linguisticamente omogenea o esista comunque una lingua franca comune a tutti gli studenti, nulla vieta di impiegarla per la presentazione della grammatica. È opportuno però passare il prima possibile all’uso della L2, in quanto discutere sulla lingua in una classe di lingua appare la situazione comunicativa più autentica che si possa immaginare (Courtillon 1989: 118; Ciliberti 1995: 24-25). Si pone poi il problema dell’uso o meno di una terminologia metalinguistica precisa. In questo caso però la scelta appare essere strettamente condizionata dal tipo di pubblico che si ha di fronte: se con apprendenti acculturati, ma soprattutto abituati a riflettere sulla lingua, può essere opportuno utilizzare una terminologia tecnica, che permette tra l’altro di risparmiare tempo e di favorire la consultazione autonoma di grammatiche di riferimento, con apprendenti di livello culturale più basso o comunque poco addestrati alla categorizzazione grammaticale, può invece essere più utile limitare il metalinguaggio, utilizzando forme più neutre. Anziché dire che «il passato prossimo è una forma verbale che serve ad esprimere un’azione compiuta nel passato, formato da un ausiliare + un participio passato», in una fase iniziale si potrebbe ad esempio generalizzare dicendo che «per formare il passato di un verbo si aggiunge al tema del verbo un pezzettino, -to: mangiato, lavorato, fatto + essere o avere», o addirittura, come suggerisce Pallotti (1999: 185): «se vuoi dire ieri, tanto tempo fa, devi dire -to», e presentando esempi di questo tipo: Tavola 28: Presentare il passato prossimo Oggi mangio la pizza Lucia oggi non lavora Oggi vai al mare. Said parte domani.

Æ Æ Æ Æ

Ieri ho mangiato la pizza Ieri ha lavorato molto Ieri sei andato al lavoro. Said è partito ieri

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In ogni caso è buona prassi che l’insegnante e la classe costruiscano progressivamente un proprio “vocabolario” metalinguistico, utilizzando termini su cui ci sia un accordo di base: anche tra gli stessi studenti del programma Erasmus, fortemente scolarizzati, vi sono apprendenti che provengono da tradizioni di insegnamento della lingua piuttosto lontane tra di loro, per cui se per un tedesco concetti come pronome diretto/indiretto, accusativo/dativo sono molto familiari, per un inglese o un olandese, abituati ad un insegnamento di tipo funzionale più che formale della lingua, possono non esserlo affatto. La lingua usata per la riflessione, sia orale che scritta, dovrebbe essere ridondante, semplice e schematica. Soprattutto ai livelli iniziali ad esempio è opportuno adottare criteri di semplificazione linguistica. Dal punto di vista sintattico per la lingua delle istruzioni ad esempio è bene evitare di utilizzare forme impersonali o passive, del tipo: «il passato prossimo si usa per…», «la perifrasi stare + gerundio viene usata per…», ricorrendo piuttosto alla seconda persona singolare dell’imperativo («usa il passato prossimo per…» ) che, pur non essendo una delle prime forme verbali che viene utilizzata attivamente dall’apprendente, è così frequente nell’input da venir sicuramente compresa fin dalle fasi iniziali. Le frasi devono essere brevi, semplici, lineari e legate tra loro in maniera esplicita, anche a costo di una certa ridondanza. Vanno evitate strutture troppo difficili per il livello degli studenti, come gerundi, participi passati, subordinate complesse (come le finali introdotte da affinché o anche le relative introdotte però dalla forma indiretta cui). Laddove sia inevitabile, è preferibile utilizzare le congiunzioni che appaiono prima nell’acquisizione spontanea (quando, perché, per + infinito, che). Si veda ad esempio la tav. 29. Tavola 29: Esempi di semplificazione sintattica L’accento non va scritto qualora si trovi all’interno di una parola, tranne nei casi in cui serva per distinguere parole scritte nello stesso modo ( i prìncipi sono i figli dei re; i princìpi sono i valori delle persone).

Non scrivere l’accento quando è dentro una parola (ad es. amòre). Ma scrivi l’accento quando è necessario per riconoscere due parole che sono scritte allo stesso modo. prìncipi = figli dei re princìpi = valori delle persone.

La grammatica nella classe di italiano L2: riflessioni metodologiche L’articolo determinativo, che indica entità nota, si accorda in genere e numero col nome a cui si riferisce.

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L’articolo determinativo indica in modo preciso, determinato una persona o una cosa che conosci. L’articolo determinativo sta sempre vicino al nome e ha il genere (maschile o femminile) e il numero (singolare o plurale) del nome.

Dal punto di vista del lessico, bisognerà cercare di usare un linguaggio che sia il più chiaro possibile, privilegiando ad esempio tra due sinonimi quello più semplice e magari vicino all’inglese (o alla lingua materna dell’apprendente). Tavola 30: Esempio di semplificazione lessicale I verbi della prima coniugazione terminano in –are => finiscono

Laddove non sia possibile evitare termini più tecnici, possono essere molto utili le riformulazioni, le perifrasi o gli esempi che chiarificano subito le affermazioni. Tavola 31: Esempi, riformulazioni e perifrasi (dal corso on-line A spasso con Virgilio, livello A1) Aggettivi qualificativi invariabili per genere e numero Ho comprato una camicia rosa

Osserva Ho comprato una camicia rosa. Oggi metto i pantaloni rosa. In italiano ci sono aggettivi invariabili, che non cambiano mai, cioè restano uguali nel genere e nel numero con nomi maschili, femminili, singolari e plurali.

È utile poi adottare accorgimenti grafici o di intonazione della voce per evidenziare la parte che interessa di più, come ad esempio il grassetto ed il neretto nella scheda seguente (tav. 32).

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Tavola 32: Accorgimenti grafici per evidenziare (dal corso on-line A spasso con Virgilio, livello A1) Le frasi interrogative introdotte da pronomi o avverbi interrogativi Chi è Lei? Dove abita la signora Alice?

Le frasi interrogative possono iniziare con pronomi o avverbi interrogativi (chi, che cosa, dove…?). Di solito i pronomi e gli avverbi interrogativi sono all’inizio della frase (chi è Lei? Dove abita la signora Alice?). Il soggetto della frase è alla fine (chi è Lei? Dove abita la signora Alice?)

Fondamentale è poi l’uso di schemi, tabelle, grafici che sintetizzino le regole: l’impatto che essi hanno nello studente a livello di comprensione è molto più immediato rispetto a quello che avrebbe una lunga spiegazione orale o un ampio periodo scritto. In 4.4 (punto E) ci siamo soffermati sull’uso dello schema vuoto (per cui si veda Cesarini 1995), particolarmente utile in quanto guida l’apprendente a formulare una regola che egli riesce ad estrapolare dagli esempi ma che fatica ad esprimere, non possedendo ancora la metalingua necessaria. Lo schema vuoto può consistere di una tabella riassuntiva, a volte parzialmente compilata che sintetizza i dati e prepara alla verbalizzazione della regola (si veda la tav. 9), ma, per Cesarini (1995: 120) anche di semplici immagini che traducono “visivamente” il significato di parole. Tavola 33: Immagini utilizzate per spiegare il valore degli avverbi di tempo: mai, raramente, qualche volta, spesso, sempre (da Cesarini 1995: 120)

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Spesso infatti l’immagine “parla” e riesce molto più efficace di tante spiegazioni: ci sono argomenti grammaticali come ad esempio la perifrasi stare + gerundio o i pronomi e gli aggettivi dimostrativi questo, quello nel loro valore deittico ed anaforico per i quali una semplice figura sostituisce egregiamente una spiegazione dettagliata che inevitabilmente fa uso della metalingua. La tavola 34 illustra la differenza tra la presentazione dei dimostrativi fornita da una grammatica pedagogica per studenti (che si avvale frequentemente di immagini, si veda poi 5.4.2.1) e quella fornita da una grammatica descrittiva, sempre per studenti stranieri, che non utilizza le immagini. Non vi è bisogno di commenti su quale delle due, a livello pedagogico, sia più efficace: mentre la prima fa capire immediatamente il significato dei due aggettivi, la seconda si limita a descriverlo. Tavola 34: Importanza dell’uso delle immagini nelle istruzioni grammaticali (tratti, rispettivamente, da Mezzadri 1996: 36 e Trifone e Palermo 2007: 82)

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La tavola seguente sintetizza dunque gli accorgimento utili a semplificare la lingua delle istruzioni grammaticali. Tavola 35: Alcuni accorgimenti da impiegare per la lingua delle istruzioni ai livelli iniziali - Servirsi della seconda persona dell’imperativo («usa il passato prossimo per…»), anziché di forme impersonali, passive o passivanti («il passato prossimo si usa/viene usato per…»); - utilizzare frasi brevi, sintatticamente semplici, legate tra loro in maniera esplicita; - evitare il più possibile strutture troppo complesse per il livello cui sono gli studenti, come ad esempio gerundi o particolari subordinate (relative introdotte da preposizione + cui, finali con affinché); - evitare l’uso eccessivo di pronomi anaforici, a costo di una certa ridondanza; Le frasi interrogative possono iniziare con pronomi o avverbi interrogativi (chi, che cosa, dove…?). I pronomi e gli avverbi interrogativi sono sempre all’inizio della frase (Chi è lei? Dove abita la si gnora Alice?). Il soggetto della frase è alla fine (Chi è lei? Dove abita la signora Alice?). - utilizzare ampiamente riformulazioni In italiano questi aggettivi sono invariabili, cioè non cambiano mai e perifrasi i pronomi che indicano una quantità o una qualità non precisa, gli indefiniti, sono…; - adottare particolari accorgimenti grafici (nello scritto) o di intonazione (nel parlato) per sottolineare la porzione di testo che interessa di più (Chi è Lei? Dove abita la signora Alice?); - utilizzare tabelle, schemi vuoti e immagini utili alla comprensione.

4.10. L’analisi contrastiva Se nella sua forma estrema l’approccio contrastivo (Fries 1945, 1957) è stato criticato (si vedano ad esempio Dulay, Burt e Krashen 1985, cap. 5), nulla toglie che nel momento della riflessione esplicita confronti tra strutture della lingua obiettivo la madrelingua o le altre L2 degli apprendenti possano risultare utili e motivanti. Come ricorda

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Pozzo (1995: xii) infatti, il confronto interlinguistico «incentiva la tendenza scientifica a esaminare le differenze, la formulazione di ipotesi» ed è pertanto una molla cognitiva molto potente. Naturalmente, la contrastività non dovrebbe essere fine a se stessa, ma venire proposta come un confronto tra le strutture dell’italiano e delle principali lingue europee (o non europee) solo laddove «una somiglianza possa corroborare l’apprendimento o un’interferenza possa essere evitata» (Skytte 1994: 223). Tale procedimento avrà un duplice esito: da un lato, faciliterà l’acquisizione dell’italiano, dall’altro, contribuirà a rafforzare capacità già ottenute in altre lingue (ivi). Un buon esempio di come un riferimento contrastivo possa aiutare la comprensione di strutture dell’italiano può essere quello della doppia negazione con mica molto diffusa nel parlato. Immaginiamo che in un testo autentico degli studenti di livello intermedio trovino questa forma e che l’insegnante decida di riflettere su di essa, facendo notare che si tratta appunto di un tratto tipico dell’italiano parlato, in particolare settentrionale. Una prima proposta potrebbe essere quella di proporre un accostamento tra una frase italiana ed una francese molto semplice, supponendo che il francese possa essere già noto (come lingua materna o lingua seconda) ad almeno alcuni degli studenti. L’insegnante potrebbe scrivere una frase italiana alla lavagna e sollecitare una traduzione da parte degli studenti, o semplicemente presentare entrambe le frasi e far notare il parallelismo tra le strutture (non … mica/ne … pas), evidenziando che la doppia negazione proviene dai dialetti settentrionali (più vicini alla Francia), ma si è poi diffusa in tutta Italia. Tavola 36: Esempio di un approccio contrastivo. La struttura non … mica

Io non mangio mica carne. Je ne mange pas de la viande.

Di fronte a studenti particolarmente ricettivi e curiosi, si potrebbe poi andare a cercare varianti dialettali della stessa costruzione, utilizzando la competenza dei parlanti nativi o anche gli atlanti linguistici (ad esempio il veneto «no magno mia»), o proporre una piccola ricerca sull’origine della particella mica (dal lat. MICA ‘briciola di pane’),

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oppure un confronto interlinguistico, indagando la presenza o assenza della doppia negazione nelle lingue degli studenti. Il riferimento contrastivo in questo caso, oltre a facilitare la spiegazione della forma, offre un interessante spaccato sociolinguistico, inducendo a riflessioni di tipo diatopico sulla diffusione di una determinata forma. Il ricorso alla grammatica contrastiva è, per ovvi motivi, più adatto all’insegnamento di lingue affini e nelle classi monolingui, mentre presenta maggiori difficoltà nel caso di classi multilingui, nelle quali però potrebbe costituire un interessante strumento di confronto interculturale. Talvolta inoltre è proprio il confronto tra parlanti lingue diverse a permettere di evidenziare meglio gli errori di interferenza. Prendiamo ad esempio il caso del gerundio, argomento che si presta molto bene al confronto contrastivo tra l’italiano e le altre lingue europee, e che in genere viene trattato in modo poco approfondito sia dalle grammatiche di riferimento sia dalle grammatiche pedagogiche. A tale proposito, sarebbe opportuno che l’insegnante interessato ad affrontare bene l’argomento si servisse di saggi specifici sul gerundio, quali Lonzi (1991), Solarino (1996), Giacalone Ramat (2003b: 181-90). Molte grammatiche ad esempio si limitano a dire che gerundio presente ha valore di contemporaneità, mentre è stato notato che esso, oltre ad indicare la contemporaneità, può avere anche valore di anteriorità e posteriorità, e che a volte la posizione rispetto alla frase principale è rilevante per stabilirne il valore (Giacalone Ramat 2003b: 184; Solarino 1996: 23). Solarino (1996: 72) a esempio sottolinea che il gerundio con valore di posteriorità in genere segue, e non precede, la frase principale. Tavola 37: Esempi di gerundio con valore temporale diverso (da Giacalone Ramat 2003b: 184, che trae gli esempi da Solarino 1996) (1) Passeggiavamo, conversando amabilmente (contemporaneità). (2) Partendo alle otto, arriverai in tempo (anteriorità). (3) L’auto ha travolto un pedone, finendo contro un camion (posteriorità).

Uno studio sull’acquisizione del gerundio da parte dei non italofoni condotto da Giacalone Ramat (2003b) su un corpus di apprendenti mi-

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sti ma prevalentemente non europei ha evidenziato che il gerundio appare nelle interlingue piuttosto tardi, solo dopo che le marche morfologiche di finitezza sono state acquisite, quando cioè l’apprendente ha sviluppato almeno parzialmente l’imperfetto (sulla sequenza acquisizionale dei tempi verbali si veda anche 2.3.1). Tavola 38: Acquisizione spontanea del gerundio (adattato da Giacalone Ramat 2003b: 207) presente > ausiliari > participio passato >imperfetto > gerundio

Il gerundio inoltre compare più tardi delle altre forme non finite (participi e infinito), ed è complessivamente meno frequente (ivi: 207). Il primo gerundio che viene acquisito è quello che fa parte della perifrasi progressiva («sto facendo»), poi viene il gerundio di predicato (predicate gerunds) nelle frasi principali («Anna canta andando in bicicletta»), quindi il gerundio di frase (sentence gerunds) nelle subordinate («Avendo fame, Anna mangia un panino»).4 Nonostante sia semplice dal punto di vista formale, per Giacalone Ramat il gerundio non viene in genere acquisito precocemente, e non viene usato spesso neppure da apprendenti avanzati. È infatti “opaco”, cioè presenta una relazione tra forma e significato poco trasparente. Inoltre, è una struttura “opzionale”, non indispensabile: esistono infatti subordinate esplicite, più semplici, che coprono pressoché tutti i possibili valori delle implicite al gerundio. Il gerundio dunque è un mezzo per esprimere la subordinazione avverbiale più marcato rispetto alla forma finita, e come tale viene appreso più tardi (Giacalone Ramat 2003b:193; sul concetto di marcatezza si veda 2.3.2). Una nostra ricerca, tuttora in corso, rivela però che gli studenti universitari europei in scambio (Erasmus) tendono ad usare il gerundio fin dai primissimi livelli, anche se spesso in modo inappropriato. Gli errori non riguardano tanto la forma, quanto piuttosto gli ambiti d’uso, che vengono estesi rispetto alla norma anche perché nell’italiano con-

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Sulla distinzione tra i due tipi di gerundio si veda Lonzi (2001: 571 e ss.).

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temporaneo vi sono restrizioni maggiori che in altre lingue. In particolare, gli studenti utilizzano: • il gerundio coreferenziale all’oggetto o ad altri complementi, laddove la lingua standard ricorrerebbe ad una frase relativa, in particolare in dipendenza da verbi di percezione (tav. 39, caso A); • il gerundio nel costrutto presentativo (“c’è x facendo”) al posto della pseudorelativa (“c’è X che fa…”) (tav. 39, caso B); • il gerundio al posto dell’infinito, sostantivato come soggetto della frase (tav 39, caso C, numeri 1-2) o retto da preposizione (tav. 39, caso C, numeri 3-4). È in genere l’interferenza della propria L1 o anche di un’altra L2, a spingere gli apprendenti a commettere un errore piuttosto che un altro. Tavola 39: Errori nell’uso del gerundio commessi da studenti europei in scambio A. 1. Ho visto … un uomo de mezza eta sopra una scala parlando (=che parla) (spagnolo, A2). 2. Arrivava al stagno e vedeva la stessa cosa: il riccio, sorrisando (=che sorrideva) e facendo (= che faceva) un cenno! (tedesca, A2) 3. In fondo a questa spiaggia, possiamo vedere il cielo blu e sotto, il mare, anche blu pero possiamo vedere anche gli onda bianca arrivando (=che arrivano) a la spiaggia (spagnolo, A2). B. 1. C’erano tanti i turisti andando (=che andavano) lì (ceco, A2). 2. In questa foto c'è un Torero facendo (=che fa) una gara contro una tartaruga (spagnolo, A2). 3. Sulla foto c'e un bambino piccolo giocando (=che gioca) con una bambola (ceco A2). C. 1. E mi manca molto andando (=andare) ai locali per gli studenti (inglese, B2). 2. Ma comunque, trascorrendo (= trascorrere) tempo all' estero è sempre meglior che studiare una lingua solo con libri a casa (tedesca, A2). 3. A la cima non c'era posto per metere la tenda, e quindi aviamo continato caminando (=a camminare) (spagnolo A2). 4. Ho continuato il apprendimento [del latino] per 9 anni e passo a passo è emerso lo senso e una picola gioia studiando(=di studiare) la storia e legendo (=di leggere) le opere originale (tedesco A2).

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Nella pratica didattica è opportuno presentare il gerundio con gradualità, in modo da rispettare l’ordine di acquisizione naturale. La sequenziazione sarà quella suggerita dalla linguistica acquisizionale: si partirà dunque dal gerundio nella perifrasi progressiva, che può essere introdotta già alla fine di un livello iniziale (A1 o inizio A2), per arrivare ai gerundi nelle subordinate implicite (livelli B1-B2).5 Solo in un secondo momento, o con studenti più avanzati (B2, C1), che già ne conoscono la forma e le funzioni principali in italiano, potrebbe essere utile un approfondimento contrastivo, per aiutare gli apprendenti a focalizzare i propri errori e a riflettere sull’interferenza della loro lingua materna o delle lingue di appoggio. Si potrebbe fornire dunque alla classe una lista di frasi scorrette, prodotte dagli apprendenti stessi o da altri, magari di livello più basso, e chiedere loro di lavorare in piccoli gruppi, per cercare gli errori e correggerli, motivandoli. Per una migliore riuscita dell’attività, si consiglia di formare gruppi non omogenei per lingua, onde evitare che il trasfer dalla loro L1 impedisca di vedere gli errori. In ogni caso, la fase di focalizzazione contrastiva deve seguire la presentazione della forma o della struttura. Come opportunamente ricorda Calvi (1995) infatti: nel campo della morfosintassi la presentazione intralinguistica degli argomenti deve precedere quella interlinguistica, cui non sempre è necessario arrivare; in buona parte, l’appropriazione delle proprietà morfologiche può avvenire senza riferimenti alla LM (Calvi 1995: 139).

4.11. Riflessione metalinguistica e correzione degli errori Sull’opportunità di correggere gli errori e su come e quando farlo vi è una ricca letteratura, che contempla opinioni molto diverse. In genere però oggi sembra esserci un sostanziale accordo che almeno nel momento della riflessione metalinguistica la correzione degli errori sia importante.

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Il sillabo di Lo Duca (2006) ad es. inserisce la perifrasi progressiva al livello A1, il gerundio semplice in frasi subordinate in B2 e il gerundio composto, più raro, in C1.

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Le motivazioni sono sostanzialmente due: intanto, vi è un fattore di tipo affettivo e psicologico per cui l’apprendente, in particolare l’adulto, richiede una correzione esplicita: come sottolineano Cattana e Nesci (2000: 92), infatti «la grammatica rappresenta in genere per l’adulto un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi per far fronte alla frustrazione e al senso di insicurezza generati dalla necessità di apprendere una lingua straniera». Inoltre, se in accordo con Corder (1967) e con la teoria dell’interlingua consideriamo l’errore come una tappa dell’apprendimento, una spia delle ipotesi che l’apprendente sta facendo sulla lingua che impara, è evidente che è necessario anche che egli riceva una verifica di tale ipotesi nella forma di feedback da parte dell’insegnante. Tale feedback può diventare anzi una sorta di input rafforzato. Se non riceve correzioni neppure da chi è istituzionalmente deputato a farlo, l’apprendente rischia di non percepire la distanza esistente tra una forma da lui prodotta e la lingua standard, e di non colmarla mai, arrivando alla fossilizzazione, soprattutto per le strutture che incidono meno sulla comunicazione e che quindi vengono notate più difficilmente (ad esempio l’accordo soggetto e predicato: «Anna è bello»). Il problema non è allora se correggere o no, ma quello di scegliere che tipo di correzione preferire. Nella letteratura in lingua inglese vi è ancora ai nostri giorni un dibattito acceso tra chi è a favore di un feedback implicito, in particolare nella forma della riformulazione implicita (il recasting, si veda ad esempio Doughty 2001, Doughty e Varela 1998) e chi invece sostiene la necessità di un tipo di feedback più esplicito, dove la riformulazione dell’enunciato erroneo è seguita da una spiegazione metalinguistica, anche minima (ad esempio Ellis, Loewen e Erlam 2006). La riformulazione in forma corretta da parte dell’insegnante della frase prodotta dallo studente (recasting)6 ha incontrato particolare successo presso insegnanti che adottano il metodo comunicativo, che 6

Secondo la definizione di Long e Robinson (1998: 23) «corrective reformulations of a child’s or adult learner’s (L1 or L2) utterances that preserve the learners intended meaning». Per un’analisi delle diverse definizioni di recast si veda ora Ellis e Sheen (2006).

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– almeno nella versione più estrema – stigmatizza la correzione dell’errore in quanto innalza il filtro affettivo dell’apprendente, inibendo la sua produzione. Anziché dunque intervenire con correzioni esplicite, l’insegnante “comunicativo” puro preferisce utilizzare la tecnica della riformulazione, che ha una duplice funzione: da un lato rappresenta una forma di interazione tra insegnante e classe, dall’altro funge da feedback, offrendo come alternativa alle strutture scorrette prodotte dall’apprendente strutture conformi alla lingua obiettivo. In sostanza, la riformulazione tenta di riprodurre in classe una delle forme più tipiche dell’insegnamento della lingua madre ai bambini. Quando il bambino che comincia a parlare produce infatti un enunciato che contiene una o più forme scorrette, il genitore tende a riformularlo, proponendo la forma corretta. È stato dimostrato che il bambino in genere ripete la forma corretta e un po’ alla volta la fissa (per una sintesi sugli studi sul recasting in L1 si vedano ad esempio Doughty e Varela 1998: 116-18; Nicholas, Lightbown e Spada 2001: 722-32). I lati positivi di questa tecnica appaiono pertanto i seguenti: • riproduce in classe una forma di interazione naturale, molto vicina a quella che avviene tra genitore e figlio e tra chi impara una L2 e un nativo; • non interrompe il flusso della comunicazione; • svolge un ruolo di input particolarmente rilevante: poiché infatti la riformulazione si configura come immediata reazione alla produzione dell’apprendente, permette a quest’ultimo di comparare le forme corrette con quelle da lui prodotte (Nicholas, Lightbown e Spada 2001 721-22), e per di più in un momento in cui il suo interesse comunicativo è molto alto. Insomma, per autori come Doughty e Varela (1998: 114-15), la riformulazione costituisce il miglior esempio di focus on form comunicativo, e corrisponde perfettamente alle caratteristiche individuate da Long (1991) (si veda 3.5.). Tuttavia è stato sottolineato che certe forme troppo indirette di riformulazione non permettono all’apprendente neppure di individuare dove sta l’errore (Carrol 2001: 355), e che la riformulazione dell’insegnante rischia di venir interpretata dallo studente come con-

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ferma al contenuto del messaggio piuttosto che come correzione della forma. Nicholas, Lightbown e Spada (2001: 720), ad esempio, pur sostenendone l’efficacia, evidenziano come tale tecnica sia utile solo qualora sia chiaro all’apprendente che essa riguarda l’accuratezza della forma e non il contenuto del suo messaggio. Inoltre, la riformulazione sembra poter giovare all’acquisizione nella misura in cui l’apprendente nota i cambiamenti apportati dall’interlocutore rispetto alla struttura da lui prodotta. Una forma particolare è quella della “riformulazione correttiva” (corrective recasting) di Doughty e Varela (1998: 123-24),7 che, anziché consistere – come nella versione più semplice – nella pura produzione della forma corretta della lingua obiettivo, si suddivide in due momenti distinti: l’insegnante cioè prima ripete la forma scorretta dell’apprendente ponendo l’accento sull’errore, quindi la riformula, con enfasi sulla struttura della lingua obiettivo. Tavola 40: Esempio di riformulazione correttiva (tratto da Doughty e Varela 1998: 124, traduzione nostra) José: I think that the worm will go under the soil. [Penso che il verme andrà sotto il terreno] Teacher: I think that the worm will go under the soil? [Penso che il verme andrà sotto il terreno?] José: (no response) (non risponde) Teacher: I thought that the worm would go under the soil. [Pensavo che il verme sarebbe andato sotto il terreno] José: I thought that the worm would go under the soil. [Pensavo che il verme sarebbe andato sotto il terreno]

La seconda possibilità è quella della correzione esplicita, di tipo metalinguistico. Di fronte ad un caso come quello della tav. 40, l’insegnante che scegliesse la seconda via, potrebbe invece sottolineare che il contesto richiede l’uso del passato, e sollecitare l’apprendente a produrlo da solo, magari aiutandolo in caso di difficoltà. Non è detto infatti che la correzione esplicita consista esclusivamente nella produ7

Secondo la definizione di Doughty e Varela (1998: 123-24): «(1) repetition to draw attention followed by (2) recast to provide the contrastive L2 forms».

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zione della struttura corretta e della regola sottointesa da parte dell’insegnante. Un intervento di questo tipo rischierebbe al contrario di essere poco produttivo per l’apprendente, in quanto lo rende troppo passivo. Più utile sembra, in generale, sollecitare lo studente e la classe ad una riflessione che conduca gradualmente all’auto-correzione. Tavola 41: Esempio di correzione esplicita Juan: Pensavo che Pietro è già arrivato. Insegnante: Mmm. C’è qualcosa che non va… Ana: Sì, ci vuole il congiuntivo. Insegnante: Perché? Ana: Perché il verbo è pensavo… non è una cosa sicura. Juan: Ah, è vero: pensavo che Pietro arrivasse già. Insegnante: Sì, ci vuole il congiuntivo. E il tempo va bene? Quando è arrivato Pietro? Juan: Prima. Pensavo che Pietro fosse arrivato già … no, fosse già arrivato! Insegnante: Benissimo!

La correzione appare infatti efficace se stimola lo studente a lavorare per risolvere il problema. Le fasi ideali di una buona correzione potrebbero essere dunque essere sintetizzate nell’elenco seguente. • L’insegnante seleziona gli errori su cui soffermarsi. Non tutti gli errori infatti hanno lo stesso peso e meritano uguale attenzione. La selezione dipenderà dal livello degli apprendenti, dagli obiettivi del corso, dal tipo di errori. Cattana e Nesci (2000: 51) distinguono tra “errori pre-sistematici o occasionali”, che vengono commessi prima che l’apprendente «sia consapevole dell’esistenza di regole che governano quel determinato sistema linguistico» (ibidem); “errori sistematici o cristallizzati”, che caratterizzano il momento in cui l’apprendente sta imparando una regola o sta formulando le sue ipotesi sul funzionamento di una particolare struttura, ed infine “errori postsistematici”, ossia gli errori che lo studente commette quando conosce la regola ma non riesce sempre ad applicarla correttamente. È evidentemente sugli ultimi due tipi che vale la pena di soffermarsi. • L’insegnante segnala la tipologia dell’errore (ad esempio indica che il problema risiede nella scelta dei tempi passati) e, dove possi-

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bile, cerca di far emergere la differenza (il gap) rispetto ad enunciati corretti. • Una volta fatto notare il problema, cercherà però di rendere lo studente più attivo possibile, adottando tecniche diverse a seconda del tempo a disposizione e del tipo di errore e guidandolo verso la forma corretta. Se la correzione prende spunto da un esercizio grammaticale, ad esempio, è utile proporre l’esercizio prima per casa, in modo che tutti abbiano il tempo necessario per riflettere, e poi discuterne insieme in classe. Una tecnica utile laddove si vogliano affrontare errori postsistematici che caratterizzano l’intera classe è invece quella della gara di correzione su un testo scritto: l’attività seguente si incentra su alcuni elementi chiave del discorso formale, l’uso dei pronomi personali (lei, voi) e del congiuntivo (in frasi dipendenti o nella forma del congiuntivo di cortesia). L’insegnante presenta brevi testi scritti di studenti di livelli diversi, dopo averli epurati dagli errori che al momento non interessano. Gli studenti, suddivisi in gruppetti, devono rintracciare tutti gli errori presenti nei testi, eventualmente in un tempo prefissato. Il gruppo che arriva per primo alla soluzione o scova più errori, vince, mentre gli altri otterranno un punto per ogni errore scovato. Tavola 42: Proposta di testi da far correggere agli studenti (livelli B1-B2) FORMALE/INFORMALE Leggi le seguenti lettere, scritte da studenti Erasmus non italiani, e correggi gli errori. Fai attenzione: - ai pronomi personali (Lei/tu, lei/voi) e alla coerenza tra le diverse forme (Lei/la/le; voi/vi, ecc.); - ai modi verbali (indicativo per congiuntivo).

Chiarissima professoressa M., Sono studentessa di Psicologia all'università di Landau in Germania e vorrei chiederLa se è possibile frequentare alcuni corsi del terzo anno per il semestre prossimo e ricevere alcune informazioni riguardo a quei corsi. La ringrazio anticipatamente e Vi prego di gradire i miei migliori saluti. (tedesca A2)

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Gentile Dottoressa C., Sono studente francese venuto qui per fare il mio Master di Storia con il programma Erasmus. Ho bisogno di aiuto e soprattutto di parlare con lei ed eventualmente vi chiedere informazioni e consigli per fare la mia tesi perché non parlo bene la lingua italiana e non conosco bene i posti come le biblioteche o gli altri centri di documentazione. In attesa di una risposta, vi ringrazio anticipatamente. Cordialmente. (francese A2) Egregio Signore, Per la presenta lettera, mi permetto di scriverli per conoscere l' elenco delle lezioni che posso seguire durante il primo semestre del anno accademico 2003-2004 nel dipartimento di storia dell’arte e anche di archeologia. Infatti sono una studentessa belga e vengo in Erasmus nella sua università. Devo già compilare un documento per la mia università con tutte le lezioni alle quali voglio partecipare e indicare i numeri di ECTS. Così il suo aiuto mi è prezioso. Nella speranza di ricevere una risposta favorevole alla mia domanda, vuole, egregio Signore, accogliere i miei distinti saluti. (belga, A2) Egregio signore, lunedì mattina sono andata all'ufficio postale di Via Portelo, a pagare la bolletta del telefono. Mi hanno fatto aspettare moltissimo tempo (due ore) e poi, quando è arrivato il mio turno, l'impiegato, molto scortese, non mi ha dato tutte le informazioni che volevo e quelle che mi ha dato erano sbagliate. Penso che gli impiegati devono essere più cortesi perché lavorano con, e per, la gente. Comunque, vorrei che questo fosse parlato con loro o almeno Lei lo pensasse. Grazie per la sua attenzione. In attesa di una sua risposta colgo l'occasione per porgerLa distinti saluti. (spagnola, B1) Egregio professore, sono la studentessa B. B. di Graz che fa l’Erasmus a Padova l'anno prossimo. Volevo comunicarLa la mia data d'arrivo e chiederLa alcune informazioni dei corsi universitari. Mi interesserebbe il corso di pedagogia interculturale e per questo vorrei sapere l’orario di questo corso, in quale aula si farà e quanti crediti si ricevono. La ringrazio in anticipo per le informazioni. Cordiali saluti. (austriaca B2) Egregio Signore, li scrivo questa lettera in riferimento all' annuncio sul corso d'italiano che si svolgerà il prossimo mese di gennaio nel Centro Linguistico di Ateneo, per domandarli informazioni sul corso. Mi piacerebbe sapere la durata del corso, il costo, i diversi livelli che ci sono, i numeri di crediti che riceverò e se la frequenza al corso è obbligatoria. Pure se devo comprare qualche libro o testo per seguire le lezioni. Senz'altro, nella speranza di ricevere la sua risposta presto, li ringrazio della sua attenzione. Cordiali saluti. (spagnola, B2)

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Anche il dictogloss (si veda 3.7) si presta particolarmente a questo tipo di lavoro. Il testo che l’insegnante proporrà ai suoi studenti deve essere breve, con frasi semplici, ricco delle strutture che interessano. L’esempio seguente (tav. 43) può servire ad esercitare l’uso dei tempi verbali o degli indicatori di tempo. Il ruolo dell’insegnante è piuttosto limitato: una volta che ha letto due volte un breve testo, lascia lavorare gli studenti in piccoli gruppi, e interviene nella fase finale, dopo la trascrizione del testo alla lavagna, per aiutare gli apprendenti ad arrivare alla versione originaria, eventualmente sollecitando la riflessione sulla lingua con alcune constatazioni e domande (ad esempio: «Mentre ha vissuto non va… che tempo ci vuole di solito dopo mentre?»). Può inoltre decidere di scrivere alla lavagna alcuni dei vocaboli meno noti agli studenti classe, in modo che la loro attenzione si concentri esclusivamente sugli elementi da focalizzare. Tavola 43: Esempio di testo per un dictogloss (livelli A2-B1) FABRIZIO DE ANDRÉ Fabrizio de Andrè è un cantante di origine genovese. È nato a Genova il 18 febbraio 1940. Durante la guerra, ha vissuto con la sua famiglia in campagna ed è tornato a Genova solo tre anni dopo la fine. All’Università studiava legge, ma si è fermato quando gli mancavano sei esami alla laurea. Da allora, si è dedicato solo alla musica. I suoi album più importanti sono usciti tra il 1970 e il 1996. Si è sposato due volte, ed ha avuto due figli. Mentre viveva in Sardegna, una banda di banditi sardi lo ha sequestrato, e lo ha tenuto prigioniero per quattro mesi. Nel 1998, mentre faceva un tour per l’Italia, si è sentito male. È morto l’11 gennaio 1999 di un male incurabile.

Almeno nel caso degli errori più significativi è utile prevedere delle attività di rinforzo. Per avere dei buoni suggerimenti si vedano Cattana e Nesci (2000).

Capitolo 5 Gli strumenti: le grammatiche per insegnare l’italiano come L21 5.1. Premessa Una volta presentati alcuni principi teorici e questioni metodologiche per l’insegnamento della grammatica, resta da approfondire quali possono essere gli strumenti a disposizione dei docenti e degli apprendenti l’italiano come L2. L’offerta di grammatiche dell’italiano appare molto ricca: già grazie ad alcuni volumi usciti tra la fine degli anni ’80 ed i primi anni ’90, la lingua italiana era considerata una delle meglio descritte del mondo. Oggi poi, a quelle che Radtke (1991) definiva le “nuove grammatiche italiane” (Dardano e Trifone 19902, Renzi 1988, Serianni 1988, Schwarze 1988), se ne sono aggiunte altre, che verranno illustrate nei paragrafi successivi (5.3.1-5.3.3). Ma all’insegnante di italiano L2 che volesse scegliere una grammatica su cui basare la propria preparazione, cosa consigliare? Esiste, tra le grammatiche di riferimento, una grammatica “ideale” per lui? Ci sono strumenti pensati appositamente per la sua formazione? Nel 1997 due esperte dell’insegnamento della lingua, Maria G. Lo Duca e Anna Ciliberti (in Ciliberti, Maggini e Lo Duca 1998) notavano che, nonostante la comparsa di ottime grammatiche descrittive dell’italiano, mancava ancora una grammatica pedagogica (d’ora in poi g.p.), ovverosia una grammatica appositamente destinata all’insegnamento dell’italiano a stranieri. Come unico esempio esistente ricordavano Lepschy e Lepschy (19811), in origine pensato per studenti anglofoni (si veda poi 5.4). Del resto “una” g.p. – sosteneva Ciliberti – non può esistere; si può parlare al massimo di “grammatiche pedagogiche”, in quanto esse, per definizione, non possono che essere contrastive (Ciliberti, Maggini e Lo Duca 1998: 9). Lo Duca auspicava almeno la pubblicazione di una grammatica di riferimento 1

Il capitolo costituisce la rielaborazione della rassegna di Duso (2006).

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appositamente pensata per lo studente di italiano L2 che elencasse in modo semplice e con esempi, «“tutte” le regole fondamentali, le strutture centrali, e anche quelle molto frequenti, nell’italiano contemporaneo» (ivi: 16), assieme a strumenti o corsi destinati a presentare i fenomeni in schede, con una corretta progressione, e a volumi con giochi, attività e tecniche finalizzate all’insegnamento grammaticale. Nei paragrafi successivi esamineremo se e come è cambiata la situazione, cercando di definire bene la tipologia delle grammatiche ed esaminando quelle oggi disponibili sul mercato. 5.2. Quali grammatiche? Ciliberti (1991: 9-10) sulla scorta della precedente bibliografia suddivide le grammatiche in tre diversi tipi: 1. GRAMMATICHE TEORICHE: hanno «lo scopo di validare una particolare teoria o un qualche aspetto di essa» (ivi, 9), danno in genere una descrizione parziale della lingua e sono destinate a specialisti (come esempio viene citato Chomsky 1965); 2. GRAMMATICHE LINGUISTICHE [O DESCRITTIVE]: hanno «lo scopo di esplicitare le conoscenze che il destinatario già possiede implicitamente in quanto parlante della lingua descritta» (ivi, 9); 3. GRAMMATICHE PEDAGOGICHE O DIDATTICHE: sono grammatiche «per l’insegnamento delle lingue con l’obiettivo pratico di presentare i “fatti” della lingua oggetto di studio – anzi alcuni fatti della lingua – in modo tale da facilitare l’apprendimento» (ivi, 10). Nella nostra indagine tralasceremo le grammatiche teoriche, dal momento che sono poco adatte all’insegnamento di una lingua straniera, e ci concentreremo piuttosto sulle grammatiche linguistiche, che preferiamo chiamare “descrittive” e soprattutto sulle grammatiche pe-

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dagogiche, edite nell’ultimo decennio in Italia. Trascureremo infatti le grammatiche dell’italiano pubblicate all’estero, considerata l’impossibilità di controllare un mercato editoriale ormai vastissimo: i paesi in cui l’italiano viene insegnato come lingua straniera sono sempre più numerosi (De Mauro, Vedovelli, Barni e Miraglia 2002; Balboni e Santipolo 2003) e spesso tendono a produrre da sé gli strumenti per la descrizione e l’insegnamento della lingua, scegliendo in genere un’organizzazione della materia diversa da quella in auge in Italia, che è, tradizionalmente, per forme. Come nota Lo Duca (2006: 52), infatti, grammatiche come Proudfoot e Cardo (1997) per anglofoni o Schwarze (1988-19951) per tedescofoni combinano insieme grammatica formale e funzionale. Trascureremo anche le grammatiche scolastiche destinate a studenti italofoni. 5.3. Le grammatiche descrittive Le grammatiche descrittive, che hanno «lo scopo di rendere esplicita la conoscenza che il parlante nativo già possiede nella propria lingua» e pertanto si propongono «di descrivere tutta la lingua o parti di essa, utilizzando in genere un approccio eclettico» (Prat Zagrebelsky 1985: 7), hanno importanza fondamentale sia, con le dovute cautele, per il discente straniero sia, e soprattutto, per l’insegnante di italiano L2, il quale a seconda della sua formazione e delle sue esigenze di approfondimento, potrà scegliere tra i molti strumenti disponibili. Le grammatiche descrittive dell’italiano oggi sul mercato sono piuttosto diverse tra loro a seconda del tipo di pubblico cui si rivolgono (di madrelingua o, specificamente, di stranieri), e dell’impostazione, più tradizionale (Serianni 1997, Dardano e Trifone 1997, Patota 2006) o più “innovativa” (Renzi, Salvi e Cardinaletti 2001, Andorno 2003, Salvi e Vanelli 2004). Cercheremo di analizzarle sulla base dei seguenti punti: • •

impostazione e contenuti; lingua descritta;

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tipo di pubblico; utilità per il docente di italiano L2.

5.3.1. Grammatiche descrittive per italofoni con impostazione tradizionale Prenderemo come punto di partenza di questa rassegna il 1997, anno in cui sono state riedite due grammatiche molto note: Serianni (1997) e Dardano e Trifone (1997). Serianni (1997) esce come seconda edizione di un manuale del 1988 nella serie delle Garzatine e si presenta come un volume compatto e maneggevole, arricchito da un ottimo glossario curato da Patota, utile non solo per risalire al testo, ma anche «come prontuario grammaticale ordinato alfabeticamente a cui ricorrere ogni volta che si vuole ottenere un’informazione o risolvere un dubbio sull’italiano in tempi rapidi e in forma facilitata» (Serianni 1997: V): si veda ad esempio la voce “soggetto” che sintetizza le principali informazioni, o la voce spegnere/spengere dove vengono date nozioni relative alla diffusione diatopica delle due forme. L’impianto è quello tradizionale: “Fonologia e grafematica”, “Analisi logica e analisi grammaticale”, “Il nome”, “L’articolo”, “L’aggettivo”, “Numerali”, “Pronomi ed aggettivi pronominali”, “La preposizione”, “Congiunzioni e segnali discorsivi”, “L’interiezione”, “Il verbo”, “L’avverbio”; “Sintassi della proposizione”, “Sintassi del periodo”, “La formazione delle parole”. La lingua descritta è «l’italiano comune: quello che chiunque scrive (o dovrebbe o vorrebbe scrivere) e che è non solo scritto, ma anche parlato dalle persone colte in circostanze non troppo informali» (Serianni 1997: VII), con molteplici esempi tratti dalla tradizione letteraria, da quotidiani, o inventati. Oltre a descrivere la lingua attuale, spesso Serianni offre approfondimenti storici e dà indicazioni relative alla norma, al punto da essere considerato “moderatamente prescrittivo” (Cortelazzo 1991: 114).

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Benché Serianni appaia essere ancora lo strumento più completo e ricco per una descrizione “tradizionale” dell’italiano,2 e dunque uno dei fondamentali “ferri del mestiere” per l’insegnante di italiano L2, è probabilmente eccessivo per l’apprendente che non sia votato a sua volta all’insegnamento o ad una conoscenza quale quella richiesta nelle Facoltà ad indirizzo linguistico-letterario. Se infatti nell’introduzione all’edizione del 1988 Serianni assimilava lo straniero progredito all’italofono nativo, Rovere (1991: 126-27), docente di lingua all’Università di Hedeilberg, sosteneva che così non è nella realtà. «Più del parlante nativo lo straniero ha bisogno di spiegazioni funzionali, di descrizioni sintattiche in cui fattori semantici e pragmatici siano integrati» ed analizzava la trattazione del si, non ritenendola abbastanza completa e chiara per lo straniero. Si augurava quindi che «i bisogni di informazione del discente straniero avanzato (e dei docenti di italiano L2) alla ricerca di regole più esplicite e articolate possibili» potessero trovare risposta in manuali destinati specificatamente a loro (ibidem). Serianni (1997: VII) dunque parla genericamente di un “lettore colto non specialista” e non pare una casualità che ad un suo allievo, Giuseppe Patota, si debba invece l’edizione di una grammatica descrittiva appositamente pensata per lo straniero (Patota 2003). Dardano e Trifone (1997) è invece la versione non scolastica di un precedente manuale molto diffuso nelle scuole superiori (Dardano e Trifone 19902), e va piuttosto oltre i tradizionali canoni di una “grammatica”. La descrizione tradizionale della lingua (fonetica, morfologia e sintassi) è infatti accompagnata da quello che gli autori definiscono «un insieme di percorsi informativi riguardanti in particolare la linguistica storica, la sociolinguistica, la linguistica testuale e pragmatica», volti a dare al lettore una panoramica della «complessa rete di riferimenti i cui si pongono i vari fenomeni presenti nell’italiano di oggi» (Dardano e Trifone 1997: XIX). Il volume si apre con un capitolo su metodi e percorsi della linguistica (con accenni a significante/significato, langue/parole, caratteristiche del latino volgare, ecc.), per proseguire con cenni sulla situazione linguistica in Italia oggi. Se2

Per un esame più approfondito rimandiamo alle numerose recensioni che il volume ha avuto, in particolare: Berruto (1990); Gerben de Boer (1990); Radtke (1991); Lepschy (1989); Giovanardi (1989); Stammerjohann (1989); Thorton (1991); Patota e Persiani (2002).

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guono poi la parte morfosintattica (“La frase semplice”, “Il nome”, “Il verbo”, “La frase complessa”), una parte sul testo, la formazione delle parole, il lessico, la fonologia, la retorica e perfino la poesia, la metrica e l’errore. All’interno dei diversi capitoli vi sono spesso “intertesti”, ossia inserti con approfondimenti di tipo storico (ad esempio per l’articolo vi è una dotta appendice che si sofferma sulla nascita dell’articolo, sulla diversa distribuzione di il/lo nell’italiano antico, e sulle lingue che sono prive di articolo), di tipo teorico (dopo il capitolo sulle preposizioni ad esempio si parla di Fillmore e “Il caso del caso”, p. 366), e talvolta di tipo contrastivo (dopo il capitolo sul pronome si riflette sulla non obbligatorietà del pronome soggetto in italiano rispetto ad altre lingue europee, pp. 264-65). La descrizione è in genere tradizionale. Rispetto all’edizione scolastica, che descriveva l’italiano «delle persone colte, e, in particolare, l’italiano scritto formale» (Dardano 1991: 13) sembra esservi una maggior apertura all’italiano neostandard. La quantità del materiale contenuto, che rende il testo simile ad una piccola enciclopedia, può servire come prima panoramica sui diversi aspetti della lingua italiana al docente che non ha alle spalle studi specifici su di essa, ma è sicuramente esorbitante rispetto alle esigenze dell’utente straniero. Una via di mezzo fra tradizione e modernità rappresenta invece la grammatica di Lo Duca e Solarino (2004), anch’essa parziale riedizione di una precedente grammatica scolastica (Lo Duca e Solarino 1990). Dall’impostazione scolastica originaria è restata l’estrema chiarezza della lingua, che la rende adatta anche ad un pubblico non italofono. Come vuole il titolo, Una grammatica ragionevole, si tratta di un manuale ragionevolmente semplice, ragionevolmente normativo (la formazione didattica delle due autrici le rende però particolarmente attente ad analizzare e spiegare gli errori di bambini e ragazzi italiani) e soprattutto attento a “ragionare” sulle regole proposte. Ad una prima parte, che segue una scansione ed una terminologia tradizionali (“Suoni”, “Segni”, “Categorie”, “La frase”, “Il periodo”), pur arricchendosi delle nuove acquisizioni della linguistica moderna, quali ad esempio le riflessioni su Acktionsart, sull’intonazione della frase, o sulla valenza del verbo, si affiancano cinque capitoli dedicati

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al lessico e alla grammatica del testo, che sembrano meritevoli di particolare attenzione da parte dei docenti (e dei discenti) di italiano L2. Per il lessico, il capitolo 5, “Parole e significato”, che si concentra sulla parola e sull’uso del dizionario (con le categorie di significati complementari, opposti, inversi, sinonimi, espressioni idiomatiche e metafore), è completato dal capitolo sulle regole di formazione delle parole, molto chiaro, ricco di schemi e contenente concetti per lo più esclusi dalle grammatiche, come ad esempio le riflessioni sulle forme possibili anche se non esistenti e sulla cosiddetta “deriva semantica” (metafora presa dalla geologia ed utilizzata per designare quel processo attraverso il quale, «una volta formate ed entrate nel lessico di una lingua, anche le parole derivate, con il passare del tempo subiscono mutamenti di significato» Lo Duca e Solarino 2004: 231). Segue la parte incentrata sul testo, che vede, rispettivamente, un capitolo su “Testi e situazioni” con attenzione al canale (rilevanti i paragrafi dedicati a fenomeni del parlato, come deissi e le false partenze), al registro, all’argomento (i linguaggi settoriali) ed alla tipologia testuale; un capitolo su “Referenti testuale ed anafore” ed infine un capitolo su “I connettivi”. La lingua descritta è l’italiano standard e neostandard, con esempi inventati, tratti dall’uso comune. Caratteristica di questa grammatica è la presenza di una rubrica dal titolo “Valentina impara a parlare”, con piccoli aneddoti e riflessioni sull’acquisizione del linguaggio da parte dei bambini italofoni, che si presta a sottolineare parallelismi e divergenze rispetto all’acquisizione dei non nativi. Piuttosto nuova per impostazione è anche Patota (2006), che il titolo descrive come Grammatica di riferimento dell’italiano contemporaneo, ma che appare come una seconda edizione, in parte arricchita, di Patota (2003), specificamente dedicata agli stranieri (si veda 5.3.3). Probabilmente infatti è stato proprio il confronto con grammatiche dell’italiano prodotte all’estero, che seguono spesso un’impostazione funzionale, a suggerire all’autore una diversa organizzazione della materia. L’approccio seguito è – in un primo momento – quello tradizionale: ad una prima parte dedicata a “Suoni e lettere” e “Punteggiatura”, segue la seconda (“Forme e frasi”) con capitoli su “Il nome”; L’aggettivo”, “Il verbo” e “Pronomi e aggettivi pronominali” che raggruppa pronomi personali, possessivi, dimostrativi, allocutivi. Oc-

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cupano un posto a parte i relativi, affiancati alla frase relativa, gli interrogativi, inseriti nel capitolo dedicato a “Domande, risposte, esclamazioni”, e gli indefiniti, inseriti nel capitolo su “Altri pronomi ed aggettivi pronominali”. La terza parte, intitolata “Rapporti” e destinata più specificatamente alla sintassi, segue invece un’impostazione innovativa, più di tipo funzionale che formale: anziché introdurre un elenco di frasi coordinate e di subordinate, come tradizionalmente avviene nelle grammatiche italiane, Patota sceglie di raggruppare le proposizioni in base alla loro funzione, con capitoli del tipo “Collegare, aggiungere, escludere” (dove trovano posto sia le congiunzioni coordinanti del tipo e, non, ma, né, anche, pure, ecc., che le congiunzioni subordinanti fuorché, eccetto che, a meno che, ecc.); “Indicare un tempo, un luogo, un modo”. Dopo un breve capitolo riservato alla formazione delle parole, concludono il volume due capitoli, o piuttosto due schede. La parte quinta, titolata “Argomenti”, si rifà alla grammatica valenziale e presenta un quadro delle reggenze richieste da oltre 1600 verbi italiani. In genere vengono proposte «le reggenze obbligatoriamente richieste dal verbo in base alla sua valenza; in alcuni casi, però, sono registrate costruzioni non obbligatorie ma frequenti, la cui indicazione può aiutare soprattutto gli utenti stranieri a costruire una frase italiana in forma sintatticamente corretta» (Patota 2006: 330), sulla scia di quanto avevano fatto Trifone e Palermo (20001, 20072; si veda la tav. 2), nella loro grammatica appositamente pensata per l’apprendente straniero. La sesta parte infine è costituita da una sorta di “Schedario”, che contiene 80 brevi schede di sintassi, analisi logica e del periodo. Nelle singole schede le tematiche possono essere trattate facendo riferimento a categorie grammaticali recenti, ad esempio “Il soggetto” viene descritto facendo uso della grammatica valenziale (ossia «il soggetto è l’argomento principale di cui parla il verbo, ed è anche l’elemento che dà al verbo la desinenza di persona e di numero e, in alcuni casi, di genere» ivi: 431), ma anche utilizzando categorie più tradizionali, quelle che tutti hanno conosciuto a scuola, ad esempio i complementi, o la classificazione delle proposizioni. La grammatica di Patota è infatti programmaticamente “eclettica”, nel senso che tenta «di “fare il punto”, profittando […] delle esperienze» degli studi di grammatica degli ultimi anni, nei tre diversi indirizzi presi dalla grammaticografia

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(ossia «grammaticografia scientifica di destinazione universitaria, grammaticografia scolastica e grammaticografia italiana per stranieri», ivi: 462). La lingua descritta è l’italiano contemporaneo, nella sua varietà standard e neostandard, con attenzione alle varietà regionali, sia all’interno del testo (ad esempio introducendo la forma buonasera, si dice «il momento della giornata in cui si passa dal buongiorno alla buonasera varia da regione a regione: in Toscana ci si saluta con il buonasera già dal primo pomeriggio, in Sardegna dopo aver consumato il primo pasto, indipendentemente dall’ora», ivi: 235), che in schede specifiche, come ad esempio quella su “Passato prossimo e remoto” (ivi:104), “Il voi al posto del lei” (ivi: 203). Non mancano brevi inserti che confrontano l’italiano e le altre lingue (come “Il voi al posto del lei” ibidem). L’esemplificazione è in genere tratta dall’italiano contemporaneo, dell’uso, ma non mancano del tutto esempi provenienti dalla letteratura del Novecento, sempre opportunamente evidenziati. L’autore dedica infatti particolare attenzione agli ambiti d’uso delle forme presentate, non solo segnalando forme letterarie, burocratiche o regionali, ma anche distinguendo l’appartenenza ad un registro medio o alto, con formule del tipo «la scelta tra qualche ed alcuno, quando è possibile, dipende soprattutto dai contesti d’uso: qualche è usata nell’italiano medio e informale, mentre alcuno è tipica dell’italiano formale (soprattutto scritto)» (Patota 2006: 239). Corredano i singoli capitoli inoltre molte schede destinate a risolvere dubbi frequenti, ad esempio “Espressioni e parole da scrivere separate” ed “Espressioni e parole da scrivere unite” (p. 24), o “Due piccoli problemi con l’articolo” (che si sofferma su “L’articolo e il titolo di un’opera” e “L’articolo nell’indicazione della data”) o di approfondimento (“Il plurale dei composti con capo” p. 53; “L’ausiliare dei verbi intransitivi” p. 97). Il pubblico “ideale” è dunque piuttosto vasto, in quanto si estende dagli studenti e dai professionisti «a tutti coloro che quotidianamente si confrontano, per motivi di lavoro, o per semplice curiosità», con la lingua italiana (dal retro di copertina). Proprio con l’intento di rendere la sua grammatica accessibile a tutti (ivi: 462), Patota dichiara di volere rinunciare al metalinguaggio grammaticale, aggiornato o più tradi-

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zionale, sostituendo ad esempio termini tecnici come “morfemi, o “lessemi” o “parti del discorso” con il più neutro “parole”, o adottando perifrasi (per i pronomi e gli aggettivi indefiniti ad esempio usa “pronomi e aggettivi che non precisano” ivi: 237). Rinuncia inoltre a fornire informazioni teoriche che non abbiano immediata ricaduta nella pratica, ad esempio non fa distinzione tra nomi concreti ed astratti (ivi: 462). 5.3.2. Grammatiche descrittive per italofoni con impostazione meno tradizionale Un’impostazione molto diversa dalle precedenti ha invece la Grande grammatica italiana di consultazione, ossia Renzi, Salvi e Cardinaletti (2001), riedizione parzialmente aggiornata della versione del 1988-1995. Questo testo si presenta come un voluminosa raccolta di articoli monografici – distribuiti in tre volumi ed affidati ad autori diversi – che costituiscono la somma degli acquisti più recenti della linguistica generativa e non, trattati spesso dai protagonisti stessi della ricerca. La trattazione è di tipo discendente, parte dalla frase (vol. I ) e scende alle parti del discorso (nome, aggettivo, verbo). Segue un volume sui tipi di frase, sulla deissi e la formazione delle parole. Per ammissione dello stesso Renzi (1988: 18) la sua grammatica «presenta essenzialmente una sintassi dell’italiano», mentre manca completamente una sezione per la fonologia. La Grande grammatica si propone di descrivere il complesso degli usi linguistici non dialettali nella loro articolazione di stili bassi (informali) e alti (burocratici, letterari). Al centro della descrizione sta comunque l’italiano dell’uso medio, o neostandard (Albrecht 1991: 89): pur non mancando esempi tratti dalla letteratura, prevalgono decisamente le frasi prodotte dagli autori stessi sulla base dell’ipotesi chomskiana secondo la quale «i dati pertinenti per illustrare i fenomeni della grammatica italiana sono principalmente costituiti dalle manifestazioni dei giudizi che ogni parlante è in grado di dare su aspetti e livelli diversi della propria lingua» (Cordin 1991: 78). Le frasi presentate possono essere anche dubbiose (e vengono segnalate con il punto interrogativo) o non accettabili, agrammaticali (e vengono segnalate con l’asterisco). La scelta è stata criticata da più parti, in quanto il ri-

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schio è di presentare degli idioletti, in particolare settentrionali, provenendo gli autori per lo più dal nord Italia. La Grande grammatica non solo non è normativa, ma è puramente descrittiva ed addirittura “antipuristica” (Albrecht 1991: 89): come rileva Cordin (1991: 82) presenta infatti tra le frasi non giudicate inaccettabili costrutti che molti insegnanti segnerebbero in rosso, ad esempio il relativo che per in cui («il giorno che ti ho conosciuto»), o ridondanze pronominali del tipo «a me mi piace», ecc. Già Andorno, Bosc e Ribotta (2003: 150) hanno sottolineato che tale grammatica «non si presta all’uso pratico, ma costituisce per gli insegnanti più interessati all’approfondimento delle loro conoscenze linguistiche dell’italiano uno strumento aggiornato e prezioso». Quale uso può farne il docente di italiano L2? Intanto, potrà consultarla per aggiornarsi sulle acquisizioni della linguistica ancora parzialmente escluse dalle grammatiche più tradizionali: si veda l’ottimo capitolo sulla deissi curato da Laura Vanelli, argomento al quale ad esempio Serianni (1997) dedica solo qualche annotazione nel capitolo sui pronomi, mentre risulta particolarmente ostico per lo straniero che spesso non trova corrispondenze esatte nella propria lingua. Nel suo Sillabo di italiano L2 infatti Lo Duca (2006) sceglie di dedicare alla deissi un spazio apposito all’interno del paragrafo delle “Forme e strutture testuali”, riconoscendone l’importanza. Renzi, Salvi e Cardinaletti (2001) potrà poi essere di giovamento per i docenti per riaggiustare e completare le proprie conoscenze su argomenti particolarmente complessi, come il verbo, o come solido punto di partenza per intraprendere ricerche specifiche. La ricchissima bibliografia è inoltre un aiuto prezioso per affrontare i diversi temi. Si ispira alla Grande grammatica senza volerne essere semplicemente una riduzione Salvi e Vanelli (2004). Come dice il titolo (Nuova grammatica italiana), il volume non è una semplice riedizione della versione del 1992, ma è stato completamente riscritto ed adattato. Dal punto di vista contenutistico si registrano diverse modifiche, rese possibili dall’uscita del secondo e terzo volume della Grande grammatica di consultazione, oltre che dalle nuove scoperte della ricerca (a volte non registrate nemmeno nella Grande grammatica, come ad esempio la classificazione dei verbi sia dal punto di vista sintattico che semantico, per la quale si rinvia a Jezek 2003 e l’analisi delle valenze

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dei verbi italiani, per cui si rinvia a Lo Duca 2003). Non mancano poi cambiamenti anche dal punto di vista dell’esposizione, che si propone di essere più chiara e didattica, soprattutto per «concetti e analisi che si distaccano maggiormente dalla tradizione grammaticale» (ivi: 12). L’attributo di “nuova” grammatica si riferisce però soprattutto all’impostazione che vuole distinguersi da quella tradizionale: i due autori si propongono infatti di descrivere le principali strutture morfologiche e sintattiche della lingua italiana a partire da un’impostazione strutturalista e generativa, che comunque rimane nello sfondo, pur influenzando la scelta degli argomenti trattati. Il tentativo è quello di offrire uno strumento che faccia «da ponte tra la visione scientifica moderna dei fatti linguistici e l’insegnamento nella scuola, ancora purtroppo molto spesso legato a schemi tradizionali di cui la ricerca scientifica ha da tempo mostrato l’inconsistenza» (ivi: 13). La struttura è pertanto molto diversa da quella delle grammatiche più tradizionali, come ad esempio Serianni (1997): manca del tutto la parte sulla fonologia e i temi scelti riguardano prevalentemente la sintassi e la morfosintassi, pur con importanti eccezioni come il primo paragrafo del Capitolo 8 (“Il verbo”), titolato proprio “Morfologia”, nel quale viene proposta un’efficace descrizione morfologica dei verbi. Anziché presentare come di consueto liste di paradigmi, gli autori cercano infatti di trovare delle regolarità nelle irregolarità, raggruppando i verbi per tipologie: particolarmente funzionale risulta ad esempio la descrizione dei verbi irregolari, che vengono suddivisi in cinque schemi paradigmatici. La prima parte del volume si sofferma sulla frase semplice, esaminando le principali “Funzioni grammaticali” come soggetto, oggetto diretto e indiretto, ecc.; “La classificazione lessicale dei verbi”; “Le principali strutture di frase” (ad esempio frase accusativa, inaccusativa), “L’accordo” ed “Il verbo”. La seconda parte presenta poi la nozione di sintagma (nominale, aggettivale, preposizionale, avverbiale). La terza è dedicata alla frase complessa: è interessante l’analisi delle proposizioni, fatta sia in base alla forma del verbo (per cui abbiamo proposizioni all’infinito, al gerundio, al participio e di modo finito), sia in base alla funzione (per cui abbiamo argomentali, extranucleari ed attributive). Infine, la quarta parte si sofferma su alcuni problemi generali, sia sintattici (“L’ordine delle parole nella

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frase”, “La negazione”, “La deissi”) che morfologici (“La formazione delle parole”). Quale italiano si descrive in questa grammatica? Non vi sono indicazioni precise in proposito, ma, come notato da Chiari (2005: 228) «scorrendo il volume si arriva ad un’immagine della lingua piuttosto ricca, variegata e pluriforme; un italiano piuttosto articolato che comprende vari stili comunicativi, diversi registri, differenti livelli di formalità». Rispetto alla versione precedente anche il destinatario è stato – opportunamente – ridefinito: il volume del 1992 infatti faceva parte di una collanina dal titolo “Strumenti per l’italiano”, nata all’interno di un progetto del Ministero degli Affari esteri, e affidato all’Accademia Della Crusca e a Nencioni, Baldelli e Sabatini. Tale progetto prevedeva la preparazione di testi e manuali per l’insegnamento dell’italiano all’estero: i primi destinatari erano dunque gli insegnanti di italiano come lingua straniera e gli apprendenti stranieri. Il pubblico reale però è stato soprattutto quello di italofoni iscritti ai corsi universitari di lingue. Effettivamente, l’impostazione di matrice generativista, e di conseguenza la scelta degli argomenti e l’impiego di una terminologia specifica e diversa da quella tradizionale (si pensi a nozioni quali “sintagma”, “verbi inaccusativi”, “costruzione fattitiva”), rimasti anche nell’edizione del 2004, rendono il manuale piuttosto difficile da utilizzare per un apprendente straniero (che non sia iscritto ad un corso universitario di Linguistica) e spesso ostico anche per l’insegnante madrelingua non abituato alle categorie grammaticali moderne. Uno strumento difficile dunque, ma non certo inutile per il docente di italiano L2: proprio la specializzazione nel dominio sintattico, e la presenza di concetti rivisti alla luce delle nuove scoperte scientifiche, rendono Salvi e Vanelli (2004) un manuale prezioso, da usare come integrazione alle grammatiche più tradizionali, o per mettere a fuoco fenomeni che in quelle sono quasi totalmente assenti (come la già ricordata deissi o la categoria dei verbi inaccusativi, ma anche l’ordine delle parole nella frase o la concordanza dei tempi), o per analizzare gli stessi argomenti ma a partire da un punto di vista differente, con risultati a volte migliori. Non lontano da Salvi e Vanelli (2004), anche se adotta un’impostazione più tradizionale, è Andorno (2003), che si presenta come

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una rivisitazione dei più banali concetti di morfosintassi appresi a scuola per mostrare come essi possano essere approfonditi e problematizzati, come, a partire da essi, si apra la strada per uno studio della lingua sotto molteplici punti di vista, come questi possano essere utilizzati come strumenti per analizzare e capire la struttura della lingua che parliamo» (Androno 2003: 3).

Andorno sceglie volutamente di mantenere la terminologia e la struttura tradizionale, dalla parola alla frase, ritenendo che sia punto di partenza comune a tutti, ma la arricchisce di riflessioni normalmente trascurate, ad esempio sul modo, sul tempo (scansione anaforica, scansione deittica), sull’aspetto, oltre che di concetti che di solito non entrano in una grammatica italiana ma che sono recuperati da studi di linguistica e pragmatica. Il volume è diviso in cinque parti: dopo l’introduzione, vi sono il capitolo “Classi di parole” (che descrive le classi tradizionali come nomi, aggettivi, ecc., ma ad esempio raggruppa articoli, aggettivi dimostrativi, indefiniti ed esclamativi sotto la recente categoria degli “specificatori” p. 19); “Le forme” (dedicato alla morfologia nominale: genere, numero, caso, ecc.); “La frase” (che analizza le parti della frase, come soggetto e predicato, introducendo però categorie come “attanti” e “valenze”; ed esamina le espansioni della frase nucleare e la frase complessa), ed infine un capitolo su “Enunciato e contenuto informativo della frase”, dove si analizza la frase non più dal punto di vista sintattico ma del contenuto (frasi dichiarative, interrogative, ottative, ecc.). Anche qui Andorno introduce concetti come dato/nuovo; topic/comment, focus, e si sofferma sui «costrutti specifici per segnalare la struttura informativa», quali il “c’è” presentativo, la focalizzazione contrastiva, la frase scissa, le dislocazioni, il tema libero. Com’è evidente dunque, mancano sezioni caratteristiche delle grammatiche tradizionali (come fonologia e formazione delle parole), ed invece vengono introdotte categorie di recente acquisizione alle quali è bene che i docenti di italiano L2 comincino ad abituarsi, anche perché spesso appaiono più funzionali. La lingua descritta è l’italiano standard, ma anche neostandard, con molta attenzione alle costruzioni che lo caratterizzano, come appunto dislocazioni, focalizzazioni, uso del pronome ci, ecc. Il libro è dedicato «a coloro che vogliano scoprire cosa significa far ricerca in grammatica» (Andorno 2003: 3), ma appare particolarmente

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utile per gli insegnanti di italiano L2, che spesso si trovano a dover affrontare domande dei loro studenti la cui risposta non è affatto scontata. Attraverso la lettura di agili capitoli e la soluzione dei molteplici esercizi proposti, il lettore viene infatti addestrato alla riflessione critica sui problemi grammaticali ed alla metodologia induttiva. Spesso ad esempio Andorno inizia un paragrafo proponendo degli esempi e chiedendo di descrivere la regole (si veda la tav. 1). Gli esercizi, tra l’altro, spesso possono venire proposti nella classe di italiano L2 di livello intermedio alto-avanzato (tav. 1), con eventuali adattamenti e comunque suggeriscono un metodo di lavoro all’insegnante. Tavola 1: Riflessioni metalinguistiche proponibili anche a studenti stranieri di livello intermedio-avanzato (tratto da Andorno 2003: 25) 2.5.11 Indefiniti con valore di qualificatori esistenziali ___________________________________________________________________ 18. Descrivete con una parafrasi il diverso significato degli aggettivi diversi e certi nelle seguenti frasi: Si sono registrati diversi casi di infezione Si sono registrati casi diversi di infezione Certe fonti danno la nave per dispersa Fonti certe danno la nave per dispersa

___________________________________________________________________ [...]

2.5.12. Indefiniti con valore negativo Gli indefiniti di tipo negativo nessuno e alcuno quantificano il nome cui si riferiscono nel senso di “nessun individuo della classe”. Mentre nessuno ha di per sé valore di indefinito negativo, per cui può occorrere anche autonomamente, alcuno ricorre sempre in presenza di una negazione. (40) Non ho alcuna intenzione di ascoltarti ___________________________________________________________________ 19. Basandovi sul confronto tra le coppie di esempi, provate ad individuare al regola di occorrenza della negazione non in presenza dell’indefinito nessuno. Non ho visto nessun uomo mascherato Nessun uomo mascherato, ho visto In nessun caso ti accompagnerò Non ti accompagnerò in nessun caso

___________________________________________________________________

Particolare attenzione merita poi il capitolo sugli avverbi, tema che in genere viene affrontato in modo troppo rapido nelle grammatiche

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dell’italiano, mentre è alquanto ostico per gli stranieri, che trovano difficoltà soprattutto nella posizione da attribuire agli avverbi nella frase. Andorno (2003) li suddivide secondo classi strutturali e ne analizza le proprietà, soffermandosi in particolare sulla posizione: gli avverbi modificatori di sintagma e di predicato, gli avverbi modificatori di focus, gli avverbi circostanziali, che modificano la frase nucleare, e gli avverbi frasali, che modificano frasi ed enunciati frasali. Sicuramente la classificazione è più complessa di quella consueta (che li suddivide in base al significato in avverbi qualificativi, di tempo, di luogo, ecc.), ma all’interno di essa l’insegnante potrà trovare spiegazioni più efficaci sulla loro collocazione. Apprezzabili infine i riferimenti bibliografici presenti alla fine di ogni capitolo, nei quali Andorno, oltre a rimandare a saggi più specifici, analizza anche la presenza o assenza degli argomenti affrontati nelle principali grammatiche descrittive (Serianni 1997, Renzi, Salvi e Cardinaletti 2001) e le eventuali discordanze. 5.3.3. Grammatiche descrittive specifiche per stranieri Un posto particolare nella rassegna meritano poi due grammatiche descrittive che si rivolgono, esplicitamente o meno, ad un pubblico di stranieri: Trifone e Palermo (20011, 20072) e Patota (2003). Trifone e Palermo (20072) si dichiara come pensata genericamente per un pubblico non specialista, tra cui anche lo straniero. In realtà fin dal principio gli autori avevano in mente gli studenti che frequentano i corsi di italiano dell’Università per Stranieri di Siena, tutti non italofoni. Ad essi infatti il volume si adatta in particolare «per l’attenzione riservata a settori di regolarità debole del sistema» (dal retro di copertina), come ad esempio la formazione del plurale di nomi ed aggettivi, l’uso delle preposizioni, le espressioni idiomatiche. L’impostazione è tradizionale: “Suoni e lettere”, “L’articolo”, “Il nome”, “Gli aggettivi” (qualificativi e pronominali sono distinti in due diversi capitoli), “Il pronome”, “Il verbo”, “L’avverbio”, ecc., per arrivare al capitolo sulla formazione della parole. Ogni capitolo è concluso da due schede, segnalate anche graficamente da colori distinti: la prima di approfondimento (quella che conclude il capitolo sulla frase semplice riguarda ad esempio la scissione

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e la dislocazione), la seconda destinata ad esporre e, se possibile risolvere, dubbi frequenti, presentati proprio come domande: “La gente pensa o la gente pensano?” (per presentare casi di accordo a senso), o “Vivere in Roma o vivere a Roma?” (per l’uso delle preposizioni di luogo). Anche all’interno dei capitoli vi sono riquadri colorati che isolano questioni particolarmente problematiche per i non nativi (ad esempio “C’è passato e passato” p. 134, sull’uso del passato prossimo e remoto): l’intero volume si segnala infatti per l’estrema cura tipografica, che va a tutto vantaggio della consultabilità. Oltre all’uso delle schede citate, di inchiostri di colori diversi, e di molteplici caratteri (grassetto, corsivo, sottolineato), gli autori si avvalgono di particolari simboli grafici, che contrassegnano fenomeni o annotazioni che si ripetono (debitamente segnalati in copertina). Frequentissimi sono poi le tabelle e gli schemi, particolarmente efficaci per visualizzare le regole. Seguono, oltre ad un indice analitico, due appendici molto utili allo straniero: la prima, più tradizionale, presenta la coniugazione dei verbi irregolari; la seconda, presenta – con esempi – le reggenze di oltre cinquecento verbi ad alta frequenza. Accanto ad ogni verbo, sono segnalate infatti in colonne le preposizioni che reggono un nome o un verbo, con esempi. Per continuare ad esempio (si veda la tav. 2) si segnala che esso ammette sia la costruzione transitiva (quando il complemento oggetto è obbligatorio), sia intransitiva, con complemento indiretto e che, in questo caso, regge le preposizioni a e per. Si segnala inoltre che viene usato un ausiliare diverso a seconda che il verbo si riferisca a persone o cose. La prima colonna dà poi indicazioni sulla categoria del verbo, specificando se esso è pronominale, copulativo, impersonale, causativo o modale.

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Tavola 2: Appendice sulle reggenze verbali (da Trifone e Palermo 20072: 298)

La lingua descritta è l’italiano dell’uso, standard e neostandard. Va notata la tolleranza dimostrata dai due autori nei confronti delle deviazioni dallo standard, per cui, ad esempio, a proposito dell’espansione dell’uso del pronome atono indiretto gli osservano che «gli al posto di loro è accettabile anche in alcuni tipi di scritto, gli al posto di le è ancora relegato al parlato colloquiale» (Trifone e Palermo 2007: 110). Non mancano poi indicazioni sul registro. Da una grammatica ideale anche per gli stranieri ad una grammatica intenzionalmente dedicata agli stranieri il passo è breve. Patota (2003) nasce proprio come Grammatica di riferimento della lingua italiana per stranieri, e inaugura una collana della Le Monnier dedicata alla lingua e alla cultura italiana in collaborazione con la Dante Alighieri.3 Nella prefazione Patota spiega come l’opera, familiarmente battezzata la “Grammatica della Dante”, si sia venuta formando grazie al costante confronto con gli insegnanti della società. La sua specifici3

Società che dal 1889 ha il compito di tutelare e diffondere la lingua italiana nel mondo e di ravvivare i legami culturali con gli italiani all’estero.

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tà si rivela nello spazio che l’autore dedica ad argomenti particolarmente ostici per chi acquisisce o insegna l’italiano come L2. Resta tuttavia una grammatica di riferimento e non una grammatica pedagogica, in quanto affronta tutti gli argomenti tradizionali, in modo esaustivo e non graduato, benché in taluni casi l’autore cerchi di tener conto dell’esigenza della gradualità tipica di chi apprende una lingua straniera, decidendo ad esempio di non inserire una distinzione complessa quale quella tra diatesi attiva e passiva all’inizio del capitolo sul verbo, ma di posticiparla. Come tuttavia egli sa bene (Patota 2005: 8789), il conflitto tra le esigenze di sistematicità di una grammatica di riferimento e le esigenze di gradualità dell’utente non nativo è pressoché irresolubile. Non ci soffermeremo sulla struttura, in quanto la grammatica è quasi identica a Patota (2006), già descritta, ad eccezione delle due schede finali aggiunte in quell’edizione, che sicuramente andrebbero recuperate (in particolare la quinta, sulle valenze dei verbi). Il linguaggio forse è ancora più semplificato, in quanto vi sono maggiori perifrasi chiarificatrici. Ad esempio nel capitolo 8 i pronomi indefiniti sono etichettati come «Pronomi ed aggettivi che alludono a una quantità, a una qualità o a un’identità non precisata». La terminologia tradizionale è tuttavia recuperata nella guida di consultazione curata da Giuseppe Ricci e disponibile anche in rete (nel sito della Le Monnier), allo scopo di aiutare chi è abituato ad essa a ritrovare i fenomeni. Va notato poi che all’interno della presentazione dei diversi argomenti, Patota dà ampio spazio a quelli che potrebbero essere punti critici per l’apprendente non italofono, ad esempio la collocazione delle parole (si vedano le numerose pagine riservate alla posizione degli aggettivi). Allo stesso scopo valgono le frequenti schede destinate a rispondere a domande tipiche dei non nativi (ad esempio: “Il verbo si accorda sempre?”, “Qualcosa è maschile o femminile?” p. 308) e comunque ad indurli ad evitare gli errori più comuni. Si segnalano inoltre le efficaci schede di riepilogo, incentrate ad esempio sugli usi di che/chi o dei verbi pronominali in –la. Talvolta Patota introduce confronti tra elementi della sintassi italiana e quella di altre lingue europee, intraprendendo una strada in genere battuta dalle grammatiche pedagogiche. L’utilità di tali confronti, sia per l’apprendente che per l’insegnante attento all’analisi contrasti-

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va, spingerebbe a rammaricarsi della loro rarità, ma è facile comprendere che insistervi sarebbe stato piuttosto difficoltoso per chi, come Patota, non si rivolge ad un pubblico straniero monolingue, come facevano ad esempio Lepschy e Lepschy (1977), i quali, partendo dalle difficoltà incontrate dagli anglofoni si avvalevano frequentemente del raffronto tra L1 e L2. Oltre all’organizzazione diversa della materia, caratterizza il volume la grande attenzione riservata ad aspetti lessicali: come precisa lo stesso Patota (2005: 87) infatti, egli ha «rinunciato alla distinzione tra grammatica e vocabolario, accogliendo nel testo spesso inserti che appartengono […] alla lessicografia». La cura riservata agli aspetti pragmatici della lingua lo ha «spinto a dare spazio a materiali che non appartengono alle grammatiche destinate agli italiani, ma che è importante siano presenti in una grammatica destinata agli stranieri: saluti, espressioni di cortesia, forme e formule (le cosiddette “frasi fatte”) […] che ad uno straniero risultano oscure» (ibidem). Il fenomeno è evidentissimo nella trattazione del verbo, dove accanto alla trattazione dei tempi, delle irregolarità, è riservato ampio spazio ai diversi significati che i singoli verbi possono assumere. All’interno del paragrafo sui verbi irregolari, ad esempio, oltre che sulla flessione e sulle particolarità grammaticali, ci si sofferma sui diversi significati che possono avere verbi come andare (che può valere ‘gradire, desiderare’ e ‘piacere, avere in simpatia’) e fare (‘raccogliere, esercitare un mestiere o una professione’, ecc.) e sulle espressioni fisse del tipo (andare a genio, andare a male, andare a ruba, ecc. o far fuori, fare a pezzi, fare a pugni, ecc.). Come nel caso di Patota (2006), la lingua descritta è la lingua d’uso, con frequenti incursioni nel campo dell’italiano dell’uso medio, o neostandard, ad esempio laddove presenta l’uso dell’imperfetto indicativo nell’ipotesi irreale (Patota 2003: 383). Tuttavia, la grammatica di Patota non si limita ad una semplice descrizione dei fenomeni, ma li commenta con giudizi sull’accettabilità. Riferendosi ad esempio all’espandersi dell’uso del pronome gli a danno di le e loro, sentenzia che «in sostituzione di a lei l’uso di gli non è ammissibile; in sostituzione di a loro […] l’uso di gli è invece ammissibile, soprattutto nell’italiano colloquiale» (ivi: 251). Altrove, critica l’uso di anglicismi quali “ok, esatto” (ivi: 293), sostenendo che «impoverisce la lingua».

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Evidentemente la scelta di Patota è dettata dall’idea – sia pure condivisibile – che rispetto al madrelingua l’utente straniero necessiti – e chieda – una maggior prescrittività, avendo bisogno di quelle che Ciliberti (in Ciliberti, Lo Duca e Maggini 1998: 15) definiva “isole di affidabilità” per orientarsi. Tuttavia, il rischio è quello di un’eccessiva chiusura rispetto alla lingua parlata che gli apprendenti sentono intorno a loro. In ogni caso, il volume appare un insostituibile punto di riferimento tanto per l’apprendente straniero, a partire almeno da un livello intermedio, che per il docente di italiano L2. Nel complesso dunque il settore delle grammatiche descrittive appare essere ricchissimo, sia di strumenti per italofoni che, finalmente, di strumenti specifici per stranieri. Va registrata semmai la presenza di uno iato tra le grammatiche con approccio più tradizionale (Serianni 1997, Patota 2006, Trifone e Palermo 2007) e quelle più influenzate dalla grammatica moderna (Renzi, Salvi e Cardinaletti 2001, Andorno 2003, Salvi e Vanelli 2004), iato che richiederebbe da parte del docente di italiano L2 l’utilizzo di almeno due manuali con impostazione diversa da integrare tra loro. 5.4. Le grammatiche pedagogiche: uno statuto complesso Prima di passare in rassegna le grammatiche disponibili per chi apprende l’italiano come L2, ci soffermeremo sullo statuto di grammatica pedagogica, concetto che nonostante gli studi specifici ad esso dedicati (si veda ad esempio Rutherford e Sharwood Smith 1988, Giunchi 1990, Ciliberti 1991, Titone 1992, Giunchi 2000) rimane ancora piuttosto vago e passibile di differenti interpretazioni. Il concetto è stato introdotto da Noblitt (1968), che definiva “grammatica pedagogica” «la grammatica di una lingua straniera che abbia come obiettivo l’acquisizione di quella lingua». Corder (1973) precisava poi che «una GP è caratterizzata da un suo approccio ai fatti della lingua e poiché esso può manifestarsi in ogni tipo di materiale una GP può coincidere con un libro di testo, un brano, un insieme di esercizi» (Ciliberti 1991: 13). Analogamente Saporta (1966: 36) riteneva che una GP fosse costituita da materiali didattici usati per sviluppare capacità di produrre frasi in lingua straniera in modo appro-

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priato. Per entrambi quindi, una g.p. non si identificava necessariamente con un libro di grammatica, ma poteva comprendere un insieme di materiali vari (regole, esercizi, ecc.). Ciliberti (1991: 23) invece, in una pubblicazione volta a mettere a punto il concetto di g.p., adotta una definizione più restrittiva, escludendo ad esempio i riferimenti grammaticali dei libri di testo, o i materiali didattici e le versioni semplificate di grammatiche linguistiche. A suo avviso «una GP è [...] un tipo di grammatica che cerca di adattarsi alle necessità di un gruppo di discenti, funzionando da meccanismo di facilitazione, nel senso che induce il discente a concentrare l’attenzione su quelle caratteristiche e su quelli attributi criteriali dei concetti linguistici che, altrimenti, dovrebbe indurre da solo» (ivi: 5). Ciliberti ne definisce quindi le caratteristiche, stabilendo che una g.p.: • • •

è incentrata sull’uso; è orientata alla soluzione di problemi; è basata su strategie di apprendimento;

ed i criteri di valutazione. I principi che sottostanno alla creazione di una g.p., e di conseguenza anche alla sua valutazione, sono i seguenti. a. Utilità per il suo destinatario: il destinatario determina il grado di esplicitezza che la grammatica dovrà possedere: «una descrizione troppo esplicita ed analitica può risultare poco utilizzabile; d’altro canto una descrizione teoricamente coerente può risultare non sufficientemente esaustiva» (Ciliberti 1991: 29). b. Funzionalità: la g. deve cioè descrivere la lingua in relazione al suo uso nella comunicazione reale (ivi: 30). Se la L2 viene insegnata a scopo prevalentemente comunicativo, la riflessione metalinguistica non solo dovrà essere incentrata sulla lingua che si usa nella comunicazione, ma contemplare, oltre agli aspetti più propriamente linguistici, anche «quelli situazionali e sociali della comunicazione» (ivi: 30).

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c. Operatività: La descrizione deve essere «condotta in modo essenziale e finalizzata all’apprendimento» (ivi: 31), non deve essere né ridondante né gratuita (ibidem), ma al contrario “economica ed efficace” (Ciliberti 1987: 53). A tale proposito una g.p. trascurerà tutte le generalizzazioni che non sono necessarie al tipo di apprendenti cui si rivolge, in quanto ad esempio appartengono anche alla loro lingua. Ciò evidentemente presuppone un’analisi contrastiva che fornisca informazioni di tipo inter- ed intra-linguistico rilevanti per la formulazione delle generalizzazioni necessarie a quel particolare gruppo di discenti. Tali caratteristiche rendono la g.p. piuttosto diversa da una grammatica descrittiva. Nel paragrafo 5 esamineremo più in dettaglio le specificità di una g.p. rispetto alle g. descrittive. Per ora, vorremmo limitarci ad adottare una definizione abbastanza generale: [una g.p.] non costituisce un’applicazione di una teoria bensì offre una presentazione dell’informazione della lingua a scopi pedagogici; […] non deve rispettare alcun criterio di coerenza interna, ed è, per sua natura, eclettica. Essa inoltre si pone come traguardo ottimale di attivare ed arricchire progressivamente la capacità d’uso della lingua da parte di chi apprende. La prerogativa essenziale della grammatica pedagogica è quella di assumere il punto di vista del parlante non nativo […] si tratta dunque di un modello concepito per rispondere alle esigenze di apprendimento di una seconda lingua, che si manifesta in forme diverse a seconda che si rivolga all’insegnante o allo studente, e non dell’applicazione alla didattica di un modello teorico o descrittivo. Se rivolta all’insegnante […] fornisce principi e suggerimenti metodologici per la presentazione della grammatica, se diretta agli apprendenti offre invece definizioni informali, tabelle, schemi, verbalizzazioni utili all’interiorizzazione delle regole (Giunchi 2000: 10-11).

Nell’intervento di cui si è già parlato del 1997 (ivi, 5.1), Lo Duca e Ciliberti consideravano come g.p. per l’italiano esclusivamente il manuale di Lepschy e Lepschy (1981), sul quale dunque vale la pena di soffermarsi brevemente. Si tratta di un adattamento, piuttosto che di una vera e propria traduzione, di una grammatica per anglofoni edita nel 1977 e volta a descrivere l’italiano contemporaneo. Nell’introduzione, gli autori specificano di offrire una grammatica “progressiva”, in cui ogni sezione presuppone solo quelle che la precedono, e insieme “descrittiva, di riferimento” (1981: 1) destinata sia agli studiosi della lingua italiana, che agli studenti che la stanno apprendendo (ivi: 3).

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L’edizione italiana dunque ha omesso la maggior parte dei riferimenti contrastivi rispetto alla lingua inglese e presenta un efficace quadro di storia della lingua, seguito da un sintetico profilo grammaticale (“Fonologia”, “Scrittura”,“Articolo”, “Preposizioni e preposizioni articolate”, “Congiunzioni”, “Nome ed aggettivi”, Comparativi e superlativi”, “Avverbi”, Pronomi personali”, “Possessivi”, Interrogativi e relativi”, “Negativi”, “Dimostrativi”, “Indefiniti”, “Numerali”, “Verbi”), e da una descrizione più dettagliata di sedici punti della sintassi scelti dai due autori, all’epoca docenti di lingua italiana a Reading, in quanto particolarmente ostici per il loro pubblico di studenti. Tra di essi segnaliamo ad esempio l’ordine delle parole, l’uso dell’articolo, la posizione degli aggettivi, la concordanza di aggettivi e di participi passati, la posizione degli aggettivi e degli avverbi, l’uso del si (riflessivo, passivante, impersonale). La descrizione si avvale anche di categorie linguistiche moderne, ad esempio un capitolo si sofferma sulle “costruzioni con causativi e percettivi” e tenta di usare gli schemi ad albero di matrice generativista per illustrare anche al profano le operazioni di cui si servono le teorie sintattiche. Vengono proposti esempi anche inventati, ma con l’avvertenza che alcuni di essi possono risultare “duri” ad alcuni parlanti e che è meglio siano evitati dagli stranieri. Conclude il volume un paragrafo titolato “Costruzioni con o senza proposizione”, composto da un elenco di verbi con la loro costruzione, simile a quello di Trifone e Palermo (2007) (si veda la tav. 2). La lingua descritta è l’«italiano colto come viene effettivamente usato, scrivendo e parlando, piuttosto che come certe grammatiche e dizionari prescrivono che dovrebbe essere»(ivi: 2). Laddove non sembrasse esservi una norma nazionale unitaria, gli autori hanno seguito l’uso settentrionale, che pareva loro dotato di maggior prestigio (ibidem). La scelta degli argomenti ed il linguaggio utilizzato basterebbero da soli a definire gli utenti ideali del manuale: studenti universitari anglofoni che frequentano facoltà linguistiche e che sono pertanto particolarmente interessati alla riflessione metalinguistica. Si tratta dunque di uno strumento ottimo nel suo genere, ma piuttosto specifico e non adatto a qualsiasi utente. Ma da allora cosa è stato fatto?

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5.4.1. I criteri della rassegna Limitiamo il campo d’azione ai materiali esclusivamente destinati all’approfondimento della grammatica, a costo di trascurare corsi di italiano che dal punto di vista della presentazione delle regole e delle attività finalizzate alla fissazione e al reimpiego appaiono eccellenti, in particolare Bozzone Costa (20042). Come per le grammatiche descrittive inoltre, focalizziamo la rassegna sugli strumenti usciti a partire dalla metà degli anni ’90 in Italia. Distingueremo inoltre, come Giunchi (2000: 11), ma già Corder (1983: 366-73), tra grammatiche pedagogiche per lo studente e quelle per l’insegnante: se per il primo tipo di utente sono uscite nell’ultimo decennio molte pubblicazioni, mancano quasi completamente per l’italiano volumi volti a guidare il docente nella trasposizione didattica dell’apparato grammaticale dell’italiano, con pochissime eccezioni che vedremo nel paragrafo 5.4.5. 5.4.2. Grammatiche pedagogiche per studenti Con g.p. per lo studente ci riferiamo dunque a strumenti non necessariamente legati al lavoro in classe ma che possono fungere da corredo al corso e al manuale adottato. In particolare ci soffermiamo sui testi che intendono descrivere tutte o almeno le principali strutture dell’italiano, riservando solo un breve paragrafo (5.4.2.2) a strumenti parziali. L’impostazione seguita da tali manuali è però piuttosto diversa, a riprova del fatto che non esiste una sola interpretazione di “grammatica pedagogica”: tenteremo quindi di raggrupparli secondo le caratteristiche esterne, distinguendo innanzitutto tra grammatiche contenenti anche attività didattiche ed esercizi, e grammatiche che ne sono prive. 5.4.2.1. Grammatiche pedagogiche con esercizi Se, come sostiene Ciliberti (1991: 25) «una GP non costituisce soltanto un’opera di informazione, ma anche un’opera di formazione, che tenta di far scoprire all’allievo i legami tra le risorse linguistiche, da un lato, e le intenzioni comunicative del locatore, la particolare situa-

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zione comunicativa, e le strutture e le formazioni sociali dall’altro», si può definire pedagogica la grammatica di Bertocchi e Lugarini (2004). Essa si propone di essere un corso che segue «le più moderne tendenze della riflessione grammaticale per far acquisire all’allievo specifiche competenze metalinguistiche» (retro di copertina); a tale scopo «le regole non vengono “date” ma si apprendono, si costruiscono assieme allo studente attraverso un percorso di osservazione, analisi e riflessione a partire da frasi e brevi testi» (ibidem). Fin dall’inizio quindi lo studente viene apostrofato con il tu, e condotto alla scoperta delle regole attraverso una serie di esempi e domande che dovrebbero farlo riflettere. Quello che però è possibile fare oralmente in classe (come ha dimostrato Lo Duca 20042), non sempre è facilmente adattabile al formato cartaceo. E infatti, nel volume spesso le risposte corrette seguono immediatamente le domande, cosicché allo studente non è concesso di formulare ipotesi anche sbagliate per arrivare gradualmente alla norma (si veda ad esempio la tav. 10). L’impostazione è tradizionale (“La struttura della frase”, “Il nome e il gruppo nominale”, “Il pronome”, “Il verbo e la sua morfologia”; “Analisi della frase semplice” e “La frase complessa”) e seguono strumenti sussidiari (“Strumenti per la scrittura”, “La formazione di parole”, “Tavole grammaticali”, “Esercizi di riepilogo”, “Glossario finale”). Il linguaggio è semplice e chiaro, ma l’apprendente viene guidato ad apprendere la terminologia grammaticale tramite definizioni dettagliate e attraverso gli esercizi, che molto spesso sono costituiti da affermazioni da completare sulla base della riflessione sulla lingua appena conclusa, del tipo: «Le trasformazioni che il nome subisce nella sua desinenza si definiscono come…», «La flessione del nome è il… che la lingua usa per fare in modo che la forma del nome indichi i cambiamenti nel… e qualche volta nel…» (p. 125). Queste caratteristiche nel loro complesso rendono tale grammatica adatta ad un pubblico di stranieri abbastanza preciso: gli studenti di scuola superiore o di un corso di grammatica universitario, che devono imparare ad utilizzare sia una lingua corretta che una terminologia metalinguistica specifica. A tale proposito però, il seppur apprezzabile glossario finale, in italiano/inglese/francese è di parziale utilità in quanto non permette il confronto con la lingua madre della grande

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maggioranza degli studenti immigrati nelle scuole italiane (albanesi, cinesi, marocchini, rumeni, ecc.). Abbastanza varia la tipologia degli esercizi, che prevede abbinamenti, completamenti, scelte multiple, trasformazioni. Manca purtroppo (o è rarissimo) il cloze (testo con i buchi), più efficace in genere delle frasi isolate. Si segnalano tuttavia gli esercizi dedicati alla testualità ed alla coesione, che concludono un capitolo normalmente assente nelle grammatiche ma particolarmente utile per gli studenti stranieri. Un’impostazione molto diversa da quella di Bertocchi e Lugarini (2004), e più vicina alle g.p. di altre lingue come l’inglese (ad esempio Schrampfer Azar 1999, Murphy 2002) hanno invece i volumi di Mezzadri (1996), Nocchi (2002) e Latino e Muscolino (2005), tutti rivolti a studenti di livello iniziale ed intermedio. Mezzadri (19961) è corredato da un volume di ulteriori esercizi e da una versione in cdrom. È disponibile anche in inglese. Si segnala l’esistenza di una versione ridotta, privata quasi del tutto dagli esercizi, con l’eccezione di una piccola appendice finale contenente test di autovalutazione (Mezzadri 2003), anch’essa in italiano o in inglese. Il manuale è composto da 96 microunità che presentano nella pagina di sinistra le regole grammaticali e a destra i relativi esercizi di consolidamento. Fin dall’inizio l’autore avverte che «non si tratta di una grammatica normativa onnicomprensiva, ma di uno strumento di supporto per l’uso pratico ed immediato della lingua» (Introd., p. 5). Le spiegazioni sono “essenziali” senza essere però banali, adottano un linguaggio semplice, che pur evitando tecnicismi inutili, non esclude i termini essenziali (pronomi, complemento diretto/indiretto, ecc.), chiariti del resto da un’utile Guida terminologica (Appendice 3). Aiutano lo studente anche le numerosissime tabelle che sintetizzano le spiegazioni e visualizzano immediatamente i fatti principali, oltre che le simpatiche immagini, funzionali alla comprensione degli esempi.

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Tavola 3: Immagine utilizzata per presentare la perifrasi stare per + infinito (da Mezzadri 1996: 116)

Il testo risponde abbastanza bene anche ai criteri di gradualità e di ciclicità: le 96 unità cercano di presentare gli argomenti in base alla loro complessità, partendo da essere e avere, e dai verbi regolari, per arrivare alle subordinate che reggono il congiuntivo. Talvolta purtroppo l’esigenza di sistematicità prevale su quella di gradualità, spingendo l’autore ad accorpare ad esempio le schede sui plurali dei nomi regolari (unità 8) e irregolari (unità 9). Gli argomenti complessi vengono però in genere suddivisi in porzioni e presentati in diverse unità, che non necessariamente si susseguono: il passato prossimo ad esempio è trattato nelle unità 31(dove si dà la forma, una tavola dei participi passati e le prime indicazioni sull’accordo), 32 (dove ci si concentra sull’uso e sulla scelta dell’ausiliare), e 36 (incentrata sull’opposizione con l’imperfetto). Gli esercizi sono vari, spaziando dall’abbinamento, al riempimento di spazi, alle domande aperte, alle manipolazioni, alla scelta multipla. Come nel caso di Bertocchi e Lugarini (2004) si tratta però quasi sempre di frasi o di porzioni di esse, da completare o manipolare, mentre appaiono molto raramente testi: l’esigenza di comprimere spiegazioni ed esercizi in due facciate penalizza in questo caso la complessità delle attività, che appaiono a volte un po’ troppo strutturali. La soluzioni degli esercizi sono in un volume a parte.

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La lingua descritta è quella standard, con alcune incursioni nell’’italiano neostandard (ad esempio nella scheda 69 sul congiuntivo si segnala che con i verbi di opinione «nell’italiano parlato spesso si sostituisce l’indicativo con il congiuntivo, anche se non è corretto»). Nocchi (2002) (di cui esiste anche una versione in inglese), suddivide gli argomenti grammaticali in 32 schede, le quali però raggruppano diverse sotto-schede (sotto “Articolo” ad esempio compaiono articolo indeterminativo, articolo determinativo e distinzione d’uso tra i due tipi). Ogni quattro o cinque schede vi è un test di controllo sugli argomenti che precedono. La batteria di attività ed esercizi proposti appare essere più varia e stimolante rispetto a quella di Mezzadri (1996), anche per una precisa scelta editoriale della Alma edizioni, che cerca di produrre manuali di impostazione giocosa e piacevole. L’esercizio a frase unica è qui raro: sono presenti invece molti piccoli testi da completare su argomenti che si sforzano di suscitare l’interesse dello studente grazie al contenuto, che sia un indovinello su una città o su un personaggio italiano, una barzelletta o un brano che presenta un argomento di cultura italiana (il caffè, film come I vitelloni, fatti politico-economici come Tangentopoli, ecc.). Le soluzioni degli esercizi sono interne al volume. È il seguito di Nocchi (2002) la grammatica di Nocchi e Tartaglione (2006), dedicata agli studenti di livello intermedio-avanzato (B1-C1 del Quadro Comune) che vogliano «perfezionare la loro conoscenza della lingua» italiana (dal retro di copertina). Il volume presenta infatti schede di sintesi ed esercizi di ricapitolazione sugli argomenti già trattati in Nocchi (2002) (il presente, il passato, il futuro, ausiliare avere o essere, l’articolo, ecc.) ed aggiunge schede su particolari costruzioni (far fare), su quelle che vengono definite, un po’ genericamente, “parole difficili da utilizzare” (addirittura, anzi, mica), e sulla formazione delle parole (stranamente però vengono analizzati gli alterati e i composti, ma non i derivati). Sono invece suddivise in due volumi le grammatiche di Simula 1999, di Latino e Muscolino (2005), Guida, Martina e Pepe 2006. Simula (1999) comprende Le Basi grammaticali della lingua italiana ed un secondo volume Intermedio-avanzato; entrambi sono strutturati in modo simile alle g.p. descritte, ma sono più poveri di immagini e tabelle. Alla presentazione delle regole seguono esercizi di

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vario tipo, con predominanza di trasformazioni e soprattutto di completamenti, in genere di frasi. Seguono poi appendici con cenni di fonetica, metrica e tavole di sintesi dei modi e tempi verbali, oltre ad esercizi di riepilogo. Le soluzioni degli esercizi sono disponibili a parte. I due volumi di Latino e Muscolino (2005) sono dedicati, rispettivamente, al livello elementare (A1-A2 del Quadro comune) e al livello intermedio (B1-B2). La struttura è simile a quella delle grammatiche precedenti: schede con la presentazione delle regole ed esercizi. Seguono un’appendice di tavole sinottiche e le chiavi degli esercizi. La suddivisione in due volumi permette di trattare in dettaglio i singoli argomenti. Al congiuntivo ad esempio sono riservate ben 43 pagine (contro le 10 di Mezzadri e le 13 di Nocchi). Appare interessante ed adeguata alla pratica didattica corrente la scelta di suddividere in schede differenti, ma poste in sequenza, i diversi ambiti d’uso di una forma. Ad esempio, il condizionale è presentato attraverso sette tappe successive, ciascuna accompagnata da una serie di attività: condizionale presente (forma); condizionale passato (forma); condizionale presente per esprimere la cortesia; per i desideri; per la possibilità; per i consigli; condizionale passato per esprimere il futuro nel passato. Le informazioni offerte sono aggiornate sull’italiano contemporaneo, anche se a volte ciò implica decise prese di posizione da parte delle due autrici, non sempre necessariamente condivisibili ma almeno dichiarate con onestà e motivate. Ad esempio, nella scheda del passato remoto, dopo aver illustrato la forma e gli usi (con le differenze diatopiche), le autrici concludono che: l’italiano standard – modellato sulla lingua parlata nel nord ovest – non prevede l’uso del passato remoto nella lingua parlata e nello scritto informale […]. L’insegnamento attuale della lingua italiana spinge gli studenti stranieri all’apprendimento della lingua standard (e non del modello toscano) e quindi non è necessario imparare un uso attivo del p.r. Tuttavia, poiché questo tempo verbale è comunemente presente nella letteratura […] e in testi scritti di tipo formale (ad es. in testi universitari) è molto importante saper riconoscere questo verbo e saper ricondurre le sue complesse forme verbali al giusto verbo infinito d’origine (o, nel caso della lingua parlata, al passato prossimo corrispondente nell’italiano standard) (Latino e Muscolino 2005: 72).

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È piuttosto varia la tipologia delle attività, che prevede sia esercizi più tradizionali (coniugare i verbi, abbinamenti, completamenti, trasformazioni, ecc.), sia attività più libere e spesso a risposta aperta (ad esempio «Leggi la lettera e rispondi dando dei consigli»; «Scrivi una storia sulla base delle informazioni date»; ecc.). Sono rare ma presenti attività di riconoscimento dei diversi usi di una forma (ad esempio «In quali frasi si usa il condizionale come futuro nel passato?» p. 176). Esercitarsi con la grammatica di Guida e Martina (2006) (A1A2) e Guida e Pepe (2006) (B1-B2) si presenta invece come un quaderno di lavoro dedicato allo studente e suddiviso in Unità, ognuna delle quali è introdotta da un dialogo, che presenta in contesto le strutture oggetto di studio, seguito da una dettagliata scheda grammaticale su di esse e da molteplici esercizi, a risposta chiusa o aperta, per praticarle. Viene infine una sezione dedicata all’approfondimento del lessico, che presta particolare attenzione alle locuzioni idiomatiche, a proverbi e modi di dire. Mancano però le soluzioni degli esercizi, il che rende difficile l’utilizzo autonomo da parte dello studente. Buona parte degli argomenti presentati nel primo volume si ripetono nel secondo, ma con approccio a spirale: se ad esempio l’Unità “Il nome” del primo volume si sofferma sui nomi in –o/-a, i nomi in –e, i nomi con una sola forma per maschile e femminile, oltre che sulle particolarità grafiche e fonetiche (plurali irregolari dei nomi in co, -go, in -logo, in -cia e -gia), nel secondo la scheda si ripete, ma si estende poi ai nomi difettivi, o con doppio plurale, ai nomi composti, e agli alterati. È apprezzabile l’intenzione di evitare il più possibile le frasi isolate e di proporre invece le strutture in testi più ampi, anche se per lo più si tratta di dialoghi appositamente costruiti e non di testi autentici, ed essi non sono seguiti da nessuna attività volta alla scoperta autonoma, induttiva, delle regole. Se così fosse stato, il manuale avrebbe potuto forse essere assimilato ad una “grammatica in contesto”. Il concetto di grammatica in contesto è oggi molto diffuso in ambito anglofono e strettamente collegato a quello di grammatica del discorso e di pragmatica (si veda Celce-Murcia e Olsthain 2000 con bibliografia): la grammatica non viene intesa come un insieme regole esemplificate attraverso sentenze isolate, ma parte da un’analisi dettagliata, per lo più

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induttiva, di un discorso in un contesto reale, magari tratto da un corpus, da cui si estrapolano poi regole o tendenze.4 Proprio Grammatica in contesto si definisce quella di Gatti e Peyronel (2006), destinata a giovani e adulti stranieri di livello principiante (dai 15 anni in su), che tuttavia non sembra distinguersi molto dalle altre g.p. esaminate. La differenza consiste nell’abbinare alle schede grammaticali (costituite dalla presentazione della regola e da esercizi) delle schede successive che si soffermano sulle aree lessicali, basate sugli argomenti che secondo il Livello soglia del Consiglio d’Europa caratterizzano la fascia del pubblico prescelto (cibi e bevande, abbigliamento, abitazioni, ambiente…). Le schede sul lessico riprendono i punti grammaticali appena introdotti. Se tuttavia alcune volte l’abbinamento è plausibile, ad esempio alla scheda sul “Passato prossimo” è abbinata la scheda lessicale sul “Tempo cronologico” (stagioni, mesi, ore, momenti della giornata, principali festività) o a quella sui “Possessivi” la scheda sui nomi di parentela, in altri casi appare poco motivato: alla scheda sugli “Interrogativi” ad esempio è associata quella sui trasporti. Il solo punto in comune è però un eserci4 Una delle più note ‘grammatiche in contesto’ per l’inglese è ad esempio Exploring Grammar in Context di Carter, Hughes e Mc Carthy (2000): fin dalla premessa (p. VII) gli autori sottolineano come il loro manuale si differenzi dagli altri perché utilizza esempi provenienti da contesti reali, di grammatica in uso. Pur non mancando talvolta singole frasi che illustrano particolari fenomeni, in genere gli esempi contengono sentenze o estratti di conversazioni, tratti da due importanti corpora per l’inglese (il CIC Cambridge International corpus e il CANCODE corpus) e mostrano la g. nel suo contesto. Viene inoltre prestata particolare attenzione alla grammar of choice (p. VII), evidenziando ad esempio perché in un certo contesto si può fare un’elissi e in un altro no. L’approccio tende ad essere induttivo: si parte dai testi e si fanno lavorare gli apprendenti nel ricercare e formulare le regole. Ogni unità prevede quattro sezioni: a) “Introduzione” (Introduction): contiene uno o due esercizi basati, dove possibile, su esempi (in genere autentici) che orientano sul tema proposto, ad esempio testi con vari esempi di passato, seguiti da domande di riflessione. b) “Scoprire gli schemi d’uso” (Discovering patterns of use): contiene esercizi di grammatica in contesto, corredati di osservazioni che aiutano a capire regole ed eccezioni. c) “Grammatica in azione” (Grammar in action): presenta altri esercizi basati sui dati presentati, che esplorano più pienamente gli schemi (Patterns) ed ulteriori “osservazioni”, che si focalizzano su scelte proprie del parlato o dello scritto. Viene riservata particolare attenzione alle strutture idiomatiche e agli usi della lingua quotidiana. d) “Rinforzo” (Follow up): attività aperte che possono comprendere miniprogetti, ulteriori esplorazioni dei dati per approfondimenti fuori dalla classe o da soli. Seguono ulteriori esercizi, le soluzioni, note ed un glossario.

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zio di abbinamento domande/risposte, dove si usano aggettivi e avverbi interrogativi («Quanto cosa il biglietto del tram?», «Dove è la fermata del bus?»). 5.4.2.3. Strumenti parziali Prima di concludere, un cenno a due manualetti, che senza essere g.p. complete, offrono comunque materiale molto utile. Naddeo (1999) e De Giuli (2001) si soffermano su argomenti particolarmente ostici per l’apprendente straniero: Naddeo sull’uso dei pronomi (in particolare i pronomi personali diretti, indiretti combinati, le particelle ci e ne, e i verbi pronominali del tipo farcela, pentirsene) e De Giuli sull’uso delle preposizioni. Si rivolgono ad apprendenti di tutti livelli, e sono composti da esempi d’uso, spiegazioni grammaticali (in genere efficaci, arricchite da immagini, tabelle e sintesi finali), e da una ricca serie di esercizi, di tipologia molto varia: trasformazioni, riempimento di spazi, cloze, scelte multiple, attività e giochi vari (quiz, indovinelli, giochi a squadre, ecc.). Come nel caso di Nocchi (2002), gli esercizi presentati risultano piuttosto accattivanti per l’apprendente. Tavola 4: Cloze sui pronomi personali e la forma di cortesia (da Naddeo 1999: 22)

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5.4.3. Grammatiche pedagogiche senza esercizi Privi di esercizi ed accomunati da una presentazione delle regole molto sintetica sono Peccianti (1997) e Tartaglione (2003). Peccianti (1997) racchiude in un volumetto denso, ma agile, una Grammatica d’uso della lingua italiana rivolta a stranieri. La scelta e la descrizione dei fenomeni linguistici sono state fatte sulla base di criteri di frequenza e utilità: l’autrice privilegia ciò che è fondamentale per comunicare in modo efficace. Dà molto spazio agli argomenti di maggior difficoltà per gli stranieri, quali ad esempio le preposizioni o i pronomi personali. Le descrizioni dei fenomeni sono precedute da esempi dell’uso quotidiano, della lingua viva. Oltre ai capitoli che trattano argomenti più tradizionali, si segnala il capitolo 32 su «Gli usi e le regole pragmatiche», che si sofferma sulle forme di cortesia, i turni di parola, salutare e presentarsi, chiedere ed esprimere l’ora, e su «Usi e strutture particolari della lingua parlata» (frasi nominali, scisse, dislocazioni, ecc.). Ulteriormente semplificata appare invece Tartaglione (2003), di dimensioni ancora più ridotte, che volutamente sceglie di descrivere una grammatica vicina a quella del parlato e affronta quindi argomenti spesso trascurati dalle grammatiche tradizionali (come l’uso del verbo averci in frasi del tipo «C’hai una sigaretta?», «Non è venuta perché non c’ha avuto tempo»). Il manualetto è costituito da schede che presentano di volta in volta la forma sotto osservazione ed una serie di esempi, commentati a margine attraverso note in colore diverso e davvero essenziali, nelle quali si cerca di evitare il più possibile l’impiego di termini tecnici: nel capitolo sul passato prossimo, ad esempio, anziché parlare di accordo, Tartaglione annota che «il passato prossimo dei verbi che usano avere finisce sempre con -o» mentre «il passato prossimo dei verbi che usano essere finisce con -o, -a, -i, -e» (p. 12). Molto più complesso è invece Chiuchiù e Chiuchiù (2005), che si rivolge sia ad apprendenti stranieri che a docenti di italiano, ed è costituito da una serie di tavole sinottiche che presentano contemporaneamente elementi grammaticali, funzionali e lessicali per un pubblico di livello principiante, con approfondimenti per i livelli intermedioavanzati. Alle schede si aggiungono un’utile tavola su «Tendenze e mutamenti dell’italiano contemporaneo», che segnala anche se una

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forma è accettata (ad esempio il dativo gli per loro; il pronome soggetto lui per egli) o meno (Penso che tutti sono d’accordo; sognamo per sogniamo; perchè, benchè, ecc.); alcune immagini da usare nella didattica e tre tavole manoscritte per la lavagna luminosa, volte ad illustrare come sintetizzare le regole senza far uso di spiegazioni metalinguistiche esplicite. È allegato un CD con drill incentrati sui fonemi più problematici per lo studente straniero. 5.4.4. Strumenti ludici In 4.5.2. ci siamo soffermati sull’uso del gioco nel praticare la grammatica. Se per l’insegnamento dell’inglese come L2 le pubblicazioni di volumi e schede di giochi grammaticali sono diffusissime, a partire da quelli che sono ormai dei “classici” dell’insegnamento comunicativo, come Rinvolucri (1984), e Ur (1988), per l’italiano L2 non esiste molto materiale specifico. Segnaliamo in particolare Balboni (1999) ed alcune delle attività proposte da Caon e Rudtka (2004), volume che però non è incentrato sulla grammatica. All’interno di questa categoria possiamo inserire anche Mezzadri (2006), Cantagramma, due volumetti dedicati rispettivamente al livello elementare (A1-A2)ed intermedio (B1-B2), e destinati ad esercitare la grammatica attraverso le canzoni: presentano infatti testi di cantautori italiani dagli anni ’60 in poi, con attività di comprensione e di riflessione sulla lingua. Li accompagnano due CD con le canzoni. 5.4.5. Grammatiche pedagogiche per insegnanti Anche in questo ambito la definizione di g.p. sembra applicabile a strumenti molto diversi tra loro. Idealmente, una g.p. per l’insegnante dovrebbe infatti coincidere con una g. di riferimento che però, oltre a fornire «una descrizione fonologica, sintattica e semantica della lingua oggetto di studio, dia anche informazioni di ordine psicolinguistico, didattico e metodologico» (Ciliberti 1991: 20 da Zimmermann 1979). In senso più ampio però vengono considerate g.p. anche volumi che si rivolgono ai docenti presentando tecniche e metodologie per l’insegnamento della grammatica. Giunchi (2005), ad esempio, propone per l’insegnamento dell’inglese come L2 una grammatica del pri-

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mo tipo, ossia The grammar Book di Celce-Murcia e Larsen-Freeman (1999), corposo volume destinato ad insegnanti di inglese come L2, che affronta i temi più importanti adottando uno schema “forma-usosignificato”. «La scelta della teoria di riferimento è compiuta in base alle specifiche peculiarità di ogni elemento della lingua inglese nella prospettiva di chi apprende» (ivi, 42). Come esempio di grammatiche pedagogiche del secondo tipo Giunchi (2005: 42) cita invece trattazioni quali quelle di Rutherford (1987), Fotos (1993), ecc., che «hanno messo in evidenza i rapporti possibili tra le strutture formali della lingua oggetto di studio che è possibile portare a livello di consapevolezza. Questi ricercatori hanno suggerito le procedure pedagogiche per realizzare il risveglio di tale coscienza e per sviluppare l’apprendimento delle caratteristiche linguistiche». Se tali trattazioni sono abbastanza tecniche, il docente di inglese ha a disposizione anche ottimi manuali pratici, che presentano indicazioni metodologiche e proposte di attività pratiche per la classe, tra i quali segnaliamo ad esempio Celce-Murcia e Hilles (1988), o il più recente Thornbury (2001). Per l’italiano come L2 invece le proposte sono ancora molto scarse: non solo mancano assolutamente strumenti del primo tipo, e sembrano difficile da realizzare, considerando che in Italia vi è in genere una certa separazione di competenze tra i grammatici, gli esperti di glottodidattica e psicolinguistica e gli insegnanti di italiano come L2, ma sono scarsi anche quelli del secondo tipo. Tra i più recenti, si segnalano i già citati Liverani Bertinelli e Benati (2001), Benati, Van Patten e Wong (2005), entrambi volti a presentare, applicandolo all’italiano, l’approccio della “Processazione dell’input” (si veda 3.6.2). Gli argomenti grammaticali studiati sono futuro e concordanza tra nome ed aggettivo. Un manuale particolarmente utile alla formazione del docente di italiano L2 è Andorno, Bosc e Ribotta (2003). Nei primi capitoli le autrici si soffermano sul concetto di grammatica, sulla presentazione della grammatica in manuali che seguono metodologie diverse, sulle differenti tipologie di esercizio, sull’intervento dell’insegnante, e sulle caratteristiche di alcune grammatiche descrittive. Presentano dunque i “ferri del mestiere” e si soffermano su alcune problematiche (quale

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lingua insegnare? quali esercizi utilizzare?). In mezzo a tali riflessioni inseriscono però numerose “Proposte di lavoro”, ovverosia schede che suggeriscono all’insegnante come introdurre in classe un certo argomento, fornendogli sia spunti teorici ed esempi da cui partire, sia esercizi. I fenomeni esaminati sono particolarmente significativi per gli studenti stranieri, ad esempio l’uso delle preposizioni di luogo in, su, a, l’alternanza tra passato prossimo e imperfetto; spesso poi le proposte si estendono a fenomeni solitamente esclusi dalla grammatiche di impostazione più tradizionale, frutto invece delle moderne ricerche linguistiche. Si segnalano ad esempio le proposte sugli “specificatori”, categoria introdotta da Renzi 1988 e passata poi in Salvi e Vanelli (2004) e in Andorno (2003), o quelle sulla valenza del verbo. Viene analizzato inoltre il rapporto tra “Grammatica e pragmatica” (cap. 6): la tav. 5 illustra ad esempio efficaci esercizi sull’uso delle particelle temporali già, ormai e finalmente, il cui significato appare in genere difficile da comprendere per gli stranieri ma anche difficile da esplicitare per l’insegnante. Dopo essersi soffermata sul significato delle singole particelle, proponendo anche spiegazioni contrastive, l’autrice del capitolo, Paola Ribotta, presenta le due attività che seguono. Tavola 5: Proposte di lavoro sulle particelle temporali già, ormai, finalmente (da Andorno, Bosc e Ribotta 2003: 174-76)

38 Le parcelle ormai e finalmente PROPOSTA DI LAVORO LIVELLO: AVANZATO Ecco un esercizio che permetterà ai vostri allievi avanzati di esercitarsi nell’uso di ormai e finalmente. L’esercizio consiste nell’inserimento di questa o quella particella in contesti caratteristici. La distribuzione dovrà risultare complementare:

1a) …… ho trovato un lavoro. Era un anno che lo cercavo! 1b) ……ho trovato un lavoro. Non potrò più svegliarmi tardi la mattina. 2a) …… Lucia ha diciott’anni: non è più una bambina. 2b) …… Lucia ha diciott’anni: quanto ha atteso questo giorno! 3a) Purtroppo, Teresa vive …… in un’altra città. 3b) …… Teresa vive in un’altra città. 4a) Volevo provare ancora, ma, che vuoi, ……! 4b) …… sei arrivato! Ti abbiamo atteso a lungo Cf. Soluzioni

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Le parcelle già e ormai PROPOSTA DI LAVORO

LIVELLO: AVANZATO

Vi proponiamo alcune contestualizzazioni pertinenti per la distinzione delle due particelle, delle quali potete servirvi se qualche studente vi chiederà (e non è improbabile) quando bisogna usare già e quando ormai. GIÀ vs. ORMAI INTERROGABILITÀ:

1a) Sei già arrivato? No, non ancora (interrogabilità) 1b) *Sei ormai arrivato? No, non ancora (non interrogabilità) PORTATA: 2a) Ci siamo visti già ieri (specificatore di sintagma) 2b) *Ci siamo visti ormai ieri (avverbio di frase) COMPONENTE DELL’ANTICIPO: 3a) Sono solo le due e sei già qui (anticipo) 3b) ??Sono solo le due e sei ormai qui? ORMAI vs. GIÀ PARENTETICITÀ

4a) Sono vecchio, ormai (parenteticità) 4b) *Sono vecchio, già (non parenteticità) USO ASSOLUTO: 5a) Che vuoi fare? Ormai! (uso assoluto) 5b) Che vuoi fare? *Già! PORTATA RECIPROCA: 6a) Ormai Luigi ha già dieci anni (già nella portata di ormai) 6b) *Luigi ha già ormai dieci anni (*ormai nella portata di già) CONCLUSIONE DI UN PROCESSO: 7a) (Dopo molto esercizio) Ormai dovresti sapere come si fa un’equazione! 7b) (Dopo molto esercizio) ??Dovresti già sapere come si fa un’equazione! PERDUTA POSSIBILITÀ: 8a) A: Mi compri la nutella? B: Ormai ti ho comprato la marmellata … ma se vuoi ti compro anche la nutella 8b) A: Mi compri la nutella? B: Ti ho già comprato la marmellata … ma se vuoi ti compro anche la nutella

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ESERCIZIO: Completa con ormai o già: …… è tardi. Non faremo più in tempo. Sono solo le tre e ho …… finito! Hai …… comprato il regalo? Sì, l’ho comprato …… da un mese. È …… la fine del mese …… non vale più la pena di partire. Dopo due anni di studio intenso, …… parlo l’italiano con facilità. Dopo due soli mesi, Gianna parla …… l’inglese con scioltezza. Abbiamo …… visto questo film? No, non ancora. Ma oggi è l’ultimo giorno di proiezioni, …… non lo vedremo più. Cf. Soluzioni

Andorno, Bosc e Ribotta (2003) si configura quindi come una vera e propria g.p., almeno per alcuni argomenti. Molto utile sarà poi la consultazione di monografie e saggi sul concetto di grammatica pedagogica come Prat Zagrebelsky (1985), Desideri (1995), Giunchi (1990), Ciliberti (1991) che, pur essendo un po’ datati e non sempre incentrati sull’italiano, danno utilissimi suggerimenti su come insegnare la grammatica di una L2. Per concludere, possiamo osservare che, mentre il settore delle grammatiche di riferimento è ormai molto ricco, quello delle grammatiche pedagogiche, nonostante i molti progressi dell’ultimo decennio, resta ancora carente: non mancano tanto i materiali per gli studenti, quanto piuttosto quelli finalizzati ad aiutare i docenti nella trasposizione didattica delle regole e regolarità di una lingua complessa com’è l’italiano. 5.5. Un esempio concreto: la selezione dell’ausiliare nella formazione di un tempo composto nelle diverse grammatiche Per evidenziare meglio le differenze tra le diverse grammatiche appena presentate abbiamo scelto un argomento della lingua italiana da utilizzare come termine di confronto, ovverosia la selezione dell’ausiliare nella formazione dei tempi composti. Si tratta infatti di uno dei principali nodi nell’apprendimento della nostra lingua da parte degli stranieri, in quanto presenta difficoltà sia per chi proviene da lingue distanti, sia per chi invece proviene da lingue affini, come ad esempio lo spagnolo, che seleziona sempre avere. Nello stesso tempo, sembra essere anche uno degli argomenti più complessi da descrivere per i gramma-

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tici e gli studiosi di linguistica, che propongono – come vedremo – spiegazioni diverse tra loro, o non ne propongono affatto. Esamineremo dunque come il tema della selezione dell’ausiliare viene trattato dalle diverse grammatiche seguendo l’ordine della rassegna: passeremo cioè dalla grammatiche per italofoni a quelle specifiche per stranieri, per arrivare alle grammatiche pedagogiche, mettendo in evidenza le loro peculiarità. 5.5.1. Analisi delle grammatiche Le grammatiche per italofoni di impostazione tradizionale descritte in 5.3.1 tendono a non soffermarsi molto sulla selezione dell’ausiliare. Vi è infatti chi (Dardano e Trifone 1997, Lo Duca e Solarino 2004) si limita ad accennare all’argomento, ritenendo che, mentre tutti i verbi transitivi vogliono l’ausiliare avere, per gli intransitivi non sembrano esservi regole precise. Per risolvere i dubbi dunque tali autori consigliano di consultare un dizionario o un parlante esperto. Tavola 6: La selezione dell’ausiliare nella formazione dei tempi composti in alcune grammatiche per italofoni Come si vede, alcuni verbi intransitivi vogliono l’ausiliare essere, altri l’ausiliare avere; non esiste una regola che permetta di stabilire quale ausiliare debba essere usato con ciascun verbo. Nei casi di dubbio si confronti un dizionario (Dardano e Trifone 1997: 287). I verbi transitivi formano i tempi composti solo con l’ausiliare avere […]. Quelli intransitivi possono formare i tempi composti con essere oppure con avere (tavola di es.). Non esiste una regola generale per stabilire quale sia l’ausiliare richiesto dal verbo: ad usare gli ausiliari giusti si impara solo attraverso l’uso. In casi di dubbio o di verbi mai usati in precedenza è perciò consigliabile consultare qualche parlante esperto (Lo Duca e Solarino 2004: 43-44)

Altri studiosi tentano invece di fornire delle spiegazioni, che però appaiono piuttosto complesse: molto difficilmente un insegnante di italiano L2 potrebbe adattarle al proprio pubblico. Un esempio è costituito da Serianni (1997), il quale riporta un’ipotesi che risale a Leone (1970), e prima ancora, almeno in parte, a Porena (1938), illustrata nella tavola seguente (par. 34). Esposta l’ipotesi, Serianni stesso fa no-

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tare però l’esistenza di casi che la contraddicono (par. 35), avvalendosi di esempi letterari, presi da romanzi dell’Otto-Novecento, ma anche da giornali contemporanei, e conclude che i punti fermi sono ben pochi (par. 36), anche se nell’italiano contemporaneo si assiste ad «una lenta espansione di avere ai danni di essere» (ivi; sull’argomento si può vedere Serianni 2006: 144-45). Tavola 7: Scelta dell’ausiliare con i verbi intransitivi secondo Serianni (1997: 27677) 34. Non è possibile «dare una regola che permetta di stabilire quale ausiliare debba essere usato con ciascun verbo» intransitivo (Dardano-Trifone 1985: 200) e alcuni grammatici si rassegnano a compilare liste di verbi che richiedono essere o avere […] In generale la coniugazione con avere implica un soggetto attivo, o meglio «atteggia l’azione verbale in dipendenza dal soggetto» (Leone 1970: 24), mentre con essere ci si limita a cogliere lo stato in cui il soggetto viene a trovarsi (quindi «ha camminato», ma «è cresciuto»). Ma allora perché si dice «è tornato» o «l’autista ha sbandato»? In Leone 1970 si esamina attentamente la questione, sviluppando un’idea di M. Porena e con l’intento di arrivare a un quadro di riferimento complessivo. Il verbo intransitivo richiederebbe essere quando il participio può adoperarsi come attributo; richiederebbe avere quando l’uso attributivo non è possibile, tranne che il participio non sia sentito come aggettivo autonomo: in tal caso «l’ausiliare avere è necessario per restituire ad esso la sua dignità verbale». Quindi: a) Hanno l’ausiliare essere, tra gli altri, i verbi accadere, arrivare, cadere, costare, morire, nascere, succedere, venire, perché i rispettivi participi passati ammettono l’uso attributivo «gli avvenimenti accaduti quest’anno», «il treno arrivato poco fa», «la casa costata tanti sacrifici», e così via. b) L’ausiliare avere figura invece in verbi come camminare, cenare, contravvenire, dormire, giocare, piangere, viaggiare, in quanto i rispettivi participi passati non possono fungere da attributi (tranne che non ammettano valore passivo «un uomo pianto universalmente», «un giorno sognato a lungo», ecc.); non si può dire *un viandante camminato (per ‘che ha camminato’), *il bambino dormito (per ‘che ha dormito’), ecc. […] c) Ancora avere si adopera con verbi quali esagerare, navigare, riposare, sbandare, nonostante la possibilità di un participio passato con valore attributivo («severità esagerata», «politico navigato», ecc.), poiché tali participi sono ormai avvertiti dai parlanti come aggettivi autonomi e l’ausiliare avere è necessario quando si voglia sottolinearne l’uso verbale «sei esagerato con tuo figlio» (aggettivo)/«hai esagerato con tuo figlio» (verbo). 35. Tuttavia è solo l’uso, in questo caso particolarmente oscillante, a stabilire i confini tra i diversi gruppi. Con bastare (personale), ad esempio, la possibilità di un uso at-

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tributivo del participio esiste ma è remota («i soldi bastati a me basteranno anche a noi due»): ed ecco che accanto al prevalente ausiliare essere («i loro mezzi personali non sarebbero bastati» Manzoni, I Promessi Sposi, I 50) si trova, – o almeno si trovava fino a ieri – anche avere; «una lunghissima vita […] avrebbe appena bastato ad appagar il mio cuore» (Nievo, Le confessioni di un italiano). […] 36. Ben pochi, dunque, i punti fermi. Si può comunque rilevare una tendenza che opera nell’italiano contemporaneo: una lenta espansione di avere ai danni di essere (cfr. SATTA 1981: 334). Talvolta avere può essere favorito dalla concomitanza di uso transitivo e intransitivo; così per servire […]è abbastanza naturale che accanto ad essere figuri avere («una toga ormai consunta che gli aveva servito, molti anni addietro, per perorare» Manzoni, I Promessi Sposi III 17; «non ho servito a nulla, non abbiamo servito a nulla» Piovene, cit in SATTA); e allo stesso modo vivere − che ammette abbastanza spesso un oggetto interno, molto raro invece in morire − accetta avere («come aveva sempre vissuto» Deledda, L’incendio nell’oliveto, 16) mentre non sarebbe possibile *aveva morto se non nell’accezione arcaica e letteraria di ‘uccidere’ («loro erano consapevoli di chi lo aveva morto» Levi, Le parole sono pietre). Ma altre volte una spiegazione del genere non reggerebbe: si vedano tre esempi di verbi con l’ausiliare avere in cui ci aspetteremo essere secondo il criterio del Leone (gruppo a): «il vestito troppo largo e donnesco che aveva appartenuto alla madre» Moravia, Gli indifferenti, 96), «aveva sgusciato attraverso gole minacciose» (Tomasi di Lampedusa, cit. in Satta 1981: 334), «salvo qualche insulto e qualche provocazione, ha prevalso la partita a biliardo» (A. Cavallari, nella «Repubblica», 11.6.1987, 1).

La descrizione che viene data della selezione dell’ausiliare sembra ancora incerta e risulta comunque improponibile a studenti stranieri che difficilmente (e solo a livelli altissimi) possono avere la padronanza linguistica necessaria ad individuare quando un participio passato si possa usare con valore attributivo e quando no. Le grammatiche di impostazione meno tradizionale presentate al punto 5.3.2, essendo di matrice generativista, sono maggiormente orientate sulla sintassi; tendono dunque a non affrontare neppure il problema della selezione dell’ausiliare nei tempi composti. Renzi, Salvi e Cardinaletti (2001) ad esempio, all’interno dei loro tre grossi volumi, non riservano neppure un paragrafo alla questione. Analogamente fa Andorno (2003), mentre Salvi e Vanelli (2004), che nella loro prima versione si rivolgevano a stranieri e ad insegnanti di italiano all’estero, inseriscono una breve osservazione nel paragrafo “Tempi composti dei verbi”. La soluzione proposta ci sembra la più adeguata a descrivere il funzionamento della lingua italiana su questo specifico punto, e si

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avvale della moderna categoria dei “verbi inaccusativi”, sulla quale varrà la pena di soffermarsi un momento. Oltre alla consueta distinzione tra verbi transitivi e non transitivi, Salvi e Vanelli (2004: 49-54) propongono un’ulteriore specificazione: i verbi non transitivi vengono suddivisi in intransitivi (camminare, russare, tossire, ecc.) ed inaccusativi (semplici, come arrivare, partire, o pronominali, come pentirsi, disperarsi, ecc.) (ivi: 49-51). Inaccusativi e intransitivi sono caratterizzati da proprietà diverse, tra cui proprio la selezione dell’ausiliare (essere per gli inaccusativi, avere per gli intransitivi). Gli inaccusativi hanno particolari proprietà, sia semantiche (non agentività e telicità, ivi: 51-52) sia, soprattutto, sintattiche: il loro soggetto condivide infatti alcune caratteristiche dell’oggetto dei verbi transitivi. Sono proprio queste particolarità a permettere di distinguerli dagli intransitivi: • il soggetto delle frasi inaccusative occupa la posizione che normalmente spetterebbe all’oggetto diretto (ivi: 56; ad esempio Sono arrivati i bambini); • il soggetto delle frasi inaccusative «non può essere pronominalizzato con un clitico accusativo» (ivi), ma può essere pronominalizzato con il ne partitivo (Sono arrivati molti attori/Ne sono arrivati molti); • i verbi inaccusativi ammettono l’uso del cosiddetto “ne genitivo” (ivi: 58-59; esempio: È diminuito il prestigio dell’imperatore/Ne è diminuito il prestigio; Si è allargata la cerchia degli utenti/ Se ne è allargata la cerchia, ibidem); • i verbi inaccusativi ammettono la costruzione del participio assoluto, con soggetto posposto (Appena arrivato Piero, Maria abbandonò la sala). Quest’ultima caratteristica ricorda da vicino la proposta di Leone (1970): i verbi il cui participio ammette valore attributivo sono quelli che ammettono anche la costruzione del participio assoluto, cioè sono gli inaccusativi. Leone (1970) dunque, e prima di lui Porena (1938) si erano avvicinati alla soluzione del problema, ma ne avevano descritto solo un aspetto, mancando ancora dei mezzi sintattici necessari a descrivere il fenomeno con esattezza.

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Questa dunque la proposta di Salvi e Vanelli per la selezione degli ausiliari: Tavola 8: Selezione degli ausiliari nei tempi composti per Salvi e Vanelli (2004: 107-108) 8.2 I TEMPI COMPOSTI DEL VERBO __________________________________________________ Come si può vedere dai paradigmi in 8.1, una parte dei tempi del sistema verbale italiano non viene espressa morfologicamente, ma attraverso una costruzione grammaticale composta da un verbo ausiliare e dal participio perfetto del verbo. Parliamo in questo caso di perifrasi verbali […]; in particolare, le perifrasi con il participio costituiscono i tempi composti del verbo […] Gli ausiliari dei tempi composti sono essere e avere. Abbiamo essere con i verbi inaccusativi, semplici (1a) e pronominali (1b) […], con i verbi transitivi quando uno degli argomenti sia un clitico riflessivo (1c-d) […] e con i verbi usati nella costruzione del si impersonale (1e) [...]: (1) a. È arrivato Piero (inaccusativo semplice) b. Piero si è arrabbiato (inaccusativo pronominale) c. Piero si è invitato alla festa (clitico riflessivo Oggetto Diretto) d. Piero se lo è immaginato (clitico riflessivo Oggetto Indiretto) e. Si è dormito (si impersonale) Con altri verbi abbiamo avere: (2) a. Piero ha visto Maria (transitivo) b. Maria ha dormito (intransitivo) Alcuni verbi possono presentare sia l’ausiliare essere che l’ausiliare avere, possono cioè comportarsi sia come verbi inaccusativi che come verbi intransitivi o transitivi. In genere questa differenza sintattica è accompagnata da una differenza semantica. Oltre ai casi discussi in 4.3, ricordiamo quello dei verbi meteorologici, con i quali la variante inaccusativa sottolinea il risultato (3a), quella intransitiva l’evento (3b) (ma esiste una tendenza ad usare avere anche in esempi come 3.a) (3) a. È piovuto molto. b. Ha piovuto per tre giorni. Con altri verbi la differenza è legata al carattere agentivo del Soggetto (cfr. 4.3); così mancare è intransitivo se il Soggetto è AGENTE (4a), ma è inaccusativo se il soggetto è OGGETTO (4b). (4) a. Piero ha mancato di parola. b. Gli è mancato il coraggio.

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Anche in questo caso però si pone un grosso problema agli insegnanti di italiano come L2: tale descrizione del fenomeno “selezione degli ausiliari” è proponibile agli apprendenti stranieri? La spiegazione richiederebbe che essi possedessero un prerequisito non da poco, ossia la nozione di inaccusatività. Per stabilire se un verbo è inaccusativo infatti bisogna ricorrere a prove sintattiche piuttosto complesse: ammette la costruzione del participio assoluto? Il soggetto può essere pronominalizzato con il ne? La pronominalizzazione con il ne è ad esempio un argomento molto complesso: il sillabo Lo Duca (2006) suggerisce di cominciare a presentare il pronome ne esplicitamente solo al livello B1 (rimandando tra l’altro proprio alla presentazione di Salvi e Vanelli 2004: 201202), ma l’esperienza in classe dimostra che persino apprendenti altamente scolarizzati come gli studenti appartenenti al programma Erasmus fanno fatica a padroneggiarlo ancora al livello C1. È dunque oltremodo difficile pensare che la spiegazione di Salvi e Vanelli (2004) possa essere proposta a degli studenti del livello A1, che per la prima volta incontrano il problema della selezione dell’ausiliare nella costruzione del passato prossimo. Abbiamo osservato che le grammatiche di riferimento per italofoni non si soffermano in genere molto sul problema o, se lo fanno, non danno descrizioni facilmente trasferibili poi nell’insegnamento dell’italiano come L2. Del resto, il fenomeno è strettamente legato alla loro destinazione: di fronte a scelte di questo tipo il nativo non abbisogna di regole cui appoggiarsi, in quanto la sua “grammatica interiore” lo guida implicitamente nella scelta. Diverso il caso di Patota (2006), che rappresenta in buona sostanza una riedizione di Patota (2003), manuale pensato per non italofoni, e che quindi esamineremo in seguito. Ci aspetteremo invece che riservassero maggior attenzione al problema le grammatiche di riferimento per stranieri: anche nei manuali di questo tipo, tuttavia, coesistono soluzioni molto diverse tra loro. C’è infatti chi si limita ad osservare che non vi sono regole precise, come Trifone e Palermo (2007: 120-21), che dedicano all’argomento poche righe (tav. 9), o come Bertocchi e Lugarini (2004), che cercano di spingere induttivamente lo studente a scoprire la stessa regola, ossia che i verbi transitivi selezionano avere, mentre gli intransitivi generalmente selezionano essere, ma con molte eccezioni (tav. 10).

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Tavola 9: Selezione degli ausiliari nei tempi composti per Trifone e Palermo (2007: 120-21) (1) 7.4.2 La scelta dell’ausiliare Avere si usa con tutti i verbi transitivi attivi e con un buon numero di verbi intransitivi: ho mangiato (transitivo), ho parlato (intransitivo). Essere si usa con parecchi intransitivi, con i verbi riflessivi e pronominali, con i verbi impersonali e con tutti i tempi della coniugazione passiva: sono arrivati (intransitivo), mi sono specchiato (riflessivo), si è arrabbiato (pronominale), è successo un incidente (impersonale), sei stato salvato (passivo). Possiamo essere sicuri dell’ausiliare solo se si tratta di un verbo transitivo (che richiede avere) o di verbi passivi, pronominali, impersonali (che richiedono essere). Negli altri casi non esistono regole precise. Inoltre alcuni verbi vogliono entrambi gli ausiliari senza differenza di significato (ho vissuto/sono vissuto in Inghilterra), altri richiedono ausiliari diversi a seconda del significato (L’aereo ha volato per otto ore, ma L’aereo è volato a Stoccolma); altri ancora a seconda del soggetto (animato: l’ammalato ha [o è] migliorato; inanimato: il tempo è migliorato). […] Tavola 10: Selezione degli ausiliari nei tempi composti per Bertocchi e Lugarini (2004: 183-84) (2) Osserva ora i tempi composti nelle seguenti frasi: 1. Aldo è venuto da me mercoledì scorso. 2. Aldo ha comprato un abito nuovo. 3. Sei andato a vedere la partita? 4. Hai visto un bel film ieri sera? È sempre utilizzato il verbo essere? □ Sì □ No No, i verbi comprare e vedere non utilizzano, per la formazione dei tempi composti, il verbo essere. Vi sono dunque verbi che formano i tempi composti il verbo essere, e vi sono altri verbi che formano i tempi composti con avere. Quando allora, per formare i tempi composti dei verbi, si usa il verbo essere e quando il verbo avere? Rispondi. I verbi venire (è venuto) e andare (sei andato) sono □ transitivi □ intransitivi? Sono intransitivi. I verbi comprare (ha comprato) e vedere (hai visto) sono invece □ transitivi □ intransitivi? Sono transitivi.

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Possiamo affermare che i verbi transitivi formano i tempi composti con il verbo □ avere □ essere. Esatto con il verbo avere. Possiamo affermare invece che, generalmente, i verbi intransitivi formano i tempi composti con il verbo □ essere □ avere. Esatto, con il verbo essere. In questa particolare funzione i verbi essere e avere sono chiamati VERBI AUSILIARI. VERBI INTRANSITIVI CON “AVERE” Alcuni verbi intransitivi formano i tempi composti con il verbo avere (ad esempio: Io ho camminato a lungo, Chiara ha viaggiato spesso). Non esiste perciò una regola di formazione dei tempi composti precisa: occorre osservare l’uso che al lingua fa di questi verbi. La grande maggioranza dei verbi intransitivi usa però il verbo essere.

Lepschy e Lepsckhy (1984: 132) invece, pur ricorrendo alle generalizzazioni («Di regola i transitivi si coniugano con avere e gli intransitivi con l’ausiliare essere […]. I verbi impersonali si coniugano con essere […]. I verbi cosiddetti pronominali o riflessivi […] vanno con l’ausiliare essere») presentano poi una fitta casistica di esempi in cui analizzano le diverse possibilità. Tavola 11: Selezione degli ausiliari nei tempi composti per Lepschy e Lepschy (1981: 132-34) Ausiliari. Di regola i transitivi si coniugano con l’ausiliare avere e gli intransitivi con l’ ausiliare essere. Diamo una lista di alcuni verbi comuni che vanno con essere: accadere, andare, arrivare, bastare, bisognare, cadere, comparire, costare, dipendere, diventare, entrare, essere, morire, nascere, parere, partire, piacere, restare, rimanere, riuscire, scappare, sembrare, sparire, spiacere, stare, succedere, venire.

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I verbi impersonali normalmente si coniugano con essere: è capitato, è successo; ma gli impersonali che si riferiscono al tempo che fa possono andare con essere o con avere: è piovuto o ha piovuto, era nevicato o aveva nevicato. I verbi cosiddetti pronominali o riflessivi (cioè quelli che hanno un pronome riflessivo) vanno con ausiliare essere: mi sono sbagliato, si è stancato, si è lavato le mani, si sono scritti. Abbiamo quindi: si è messo la matita in tasca ma ha messo la matita in tasca; si è scritto un appunto ma ha scritto un appunto; si sono mangiati la torta ma hanno mangiato la torta. Se con un verbo che richiede l’ausiliare essere si usa dovere, potere o volere, questi tre verbi nei tempi composti vanno con essere o con avere: è dovuto partire o ha dovuto partire; non è potuto arrivare o non ha potuto arrivare; è voluto venire o ha voluto venire. Nelle costruzioni verbo più infinito, se infinito è riflessivo e il pronome riflessivo sale ad attaccarsi al verbo reggente […] questo va con l’ausiliare essere: si è cominciato a spostare ma ha cominciato a spostarsi (con un pronome non riflessivo l’ausiliare non cambia, con i verbi transitivi: lo ha cominciato a spostare e ha cominciato a spostarlo; altrimenti ho cominciato ad andarci e ci sono cominciato ad andare) si è dovuto portare la valigia alla stazione ma ha dovuto portarsi al valigia alla stazione; se l’è potuto mangiare ma ha potuto mangiarselo; se ne è voluto andare ma ha voluto andarsene. Nelle costruzioni con modale + infinito riflessivo il modale preferisce l’ausiliare essere solo quando il pronome riflessivo si attacca al modale: si evitano forme come è voluto andarsene. Si noti l’infinito passato in deve essersi portata la valigia alla stazione, che indica probabilità, mentre si è dovuto portare la valigia alla stazione non indica probabilità, ma necessità (dovere non ha il senso epistemico ma quello deontico). Anche con i riflessivi troviamo la stessa differenza fra può essere partito e è o ha potuto partire; deve essere sceso e è o ha dovuto scendere. Certi verbi vogliono (i) l’ausiliare avere quando sono usati transitivamente, e (ii) l’ausiliare essere quando sono usati intransitivamente: aumentare (i) quel negoziante ha aumentato il prezzo; (ii) gli spinaci sono aumentati di prezzo; avanzare (i) ha avanzato un’ipotesi interessante; (ii) la marea è avanzata fino alle capanne; cambiare (i) hai cambiato casa, (ii) sei cambiato molto; cessare (i) hai cessato i versamenti, (ii) il vento è cessato; cominciare (i) ha cominciato il mio libro; (ii) lo spettacolo è cominciato; continuare (i) ha continuato il lavoro; (ii) il lavoro è continuato; derivare (i) lui ne ha derivato una conclusione interessante; (ii) ne è derivata una conseguenza interessante; diminuire (i) mi hanno diminuito lo stipendio; (ii) la febbre gli è diminuita; esplodere (i) ha esploso una raffica di mitra; (ii) è esplosa una bomba; finire (i) hanno finito le pulizie; (ii) la commedia è finita alle 10 […] Convenire con il significato di “accordarsi, accettare” vuole avere: hanno convenuto che era meglio, altrimenti vuole essere: erano convenuti in piazza; non gli è convenuto accettare. Correre (e così saltare, volare) può essere usato intransitivamente con entrambi gli ausiliari, ma vuole essere quando indica direzione o destinazione, come in è corso via; è corso a casa, ma ha corso tanto; ha corso due chilometri; quando ha corso, deve riposarsi; con oggetti come rischio, pericolo, l’ausiliare è avere: non abbiamo corso nessun rischio. Durare con avere indica resistenza: queste scarpe hanno durato molto, e con essere durata temporale: la commedia è durata due ore. Mancare col senso di “essere assente” vuole essere: gli è mancato il coraggio; è mancato all’appello; col senso di “essere privo, non avere, trascurare” vuole avere: ha mancato di coraggio, ha mancato di parola, ha mancato ai suoi doveri; ha mancato all’appuntamento. Procedere con il senso di “progredire” vuole essere: è proceduto notevolmente”; con il senso di “comportarsi” vuole avere: ha proceduto da persona onesta. Suonare, che abbiamo visto sopra con l’ausiliare avere come

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transitivo, quando è usato intransitivamente vuole essere e di solito viene prima del nome: è suonata la sveglia, è suonato il campanello; oppure avere e di solito va dopo il nome: la sveglia ha suonato, le campane hanno suonato a festa; il pianista ha suonato male. Altri verbi possono andare con entrambi gli ausiliari: appartenere: questo libro ha o è appartenuto a Ugo; attecchire: queste parole non hanno o non sono attecchite nell’italiano.

Evidentemente, i due studiosi ritengono che sia necessario aiutare lo studente straniero in un punto così ostico della lingua italiana, ma preferiscono affrontare casi singoli piuttosto che fornire generalizzazioni non convincenti. Ancora diversa è invece la soluzione di Patota (2003: 122-23; poi ripresa in Patota 2006: 97). Egli infatti, pur ammettendo che non esistono regole sistematiche, ritiene utile dare indicazioni pratiche: dopo aver introdotto gli ausiliari infatti, presenta una scheda di sintesi: “Quali verbi hanno come ausiliare avere e quali verbi hanno come ausiliare essere” (tav. 12), in cui cerca di fornire anche per i verbi intransitivi alcune generalizzazioni che possano quantomeno orientare l’apprendente nella selezione. Tavola 12: Gli ausiliari essere e avere (da Patota 2003: 122-24) Quali verbi hanno come ausiliare avere e quali verbi hanno come ausiliare essere I tempi composti dei verbi italiani si formano o con l’ausiliare avere o con l’ausiliare essere: di solito una forma esclude l’altra. Non esiste una regola sistematica che determini la scelta dell'uno o dell’altro ausiliare; tuttavia possono aiutarci alcune indicazioni di carattere pratico. In generale, il verbo avere si adopera come ausiliare: [a] di se stesso: “Marco non ha avuto molta fortuna”; [b] di tutti i verbi transitivi (cioè quelli che reggono un complemento oggetto diretto), tranne i verbi riflessivi: “Susanna ha incontrato una cara amica”); [c] di alcuni verbi intransitivi (che non possono reggere un complemento oggetto diretto, ma solo un complemento indiretto con preposizione): “Ho passeggiato un po’ per Via Veneto”. In generale, il verbo essere si adopera come ausiliare: [a] di se stesso: “Ieri sono stato a Macerata”; [b] delle forme verbali passive: “Lucia è apprezzata da tutti”; [c] dei verbi riflessivi e pronominali: “Giuseppe si è pentito di quello che ha detto” [d] della maggior parte dei verbi intransitivi: “Il treno è arrivato in ritardo”.

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Capitolo 5

L'ausiliare dei verbi intransitivi Come si è detto, dei verbi intransitivi alcuni hanno come ausiliare avere, altri (la maggioranza) hanno come ausiliare essere. In linea generale, hanno come ausiliare avere i verbi intransitivi che indicano un’azione effettivamente compiuta, agita dal soggetto (con esclusione dei verbi che indicano movimento): dormire, pranzare, cenare, parlare, gridare ecc.: ho dormito, ho pranzato ecc.; invece, hanno come ausiliare essere i verbi che indicano un processo subito o sperimentato dal soggetto, come nascere, crescere, ringiovanire, invecchiare, morire, ecc.: “Federico è nato nel l990”; “Hai visto come è cresciuta Valeria?”, ecc.: I verbi di movimento hanno generalmente come ausiliare essere: andare, venire, partire, entrare ecc.: “Claudia è partita per Milano”; “È entrato in casa un ladro”, ma non mancano verbi di movimento che hanno come ausiliare avere (per esempio camminare, passeggiare, viaggiare: “Ho camminato tutta al mattina”, “Ho camminato molto”, ecc). Si può notare che i verbi del primo gruppo mettono in primo piano il fatto e il risultato del movimento in sé, mentre i verbi del secondo gruppo mettono in primo la qualità, il tipo del movimento. I verbi correre e passare, che quando indicano movimento hanno come ausiliare essere, quando significano “sperimentare” e ‘trascorrerere” reggono un complemento oggetto diretto e hanno come ausiliare avere. Si noti la differenza: COMPLEMENTO OGGETTO DIRETTO

Era tardi e sono corso a casa./Ho corso un brutto rischio. Sono passato per il centro./Ho passato una settimana a Cortina. Anche alcuni altri verbi costituiscono un’eccezione alla regola dell’ausiliare unico: i loro tempi composti possono fermarsi sia con essere sia con avere, senza differenze, o con differenze di significato. Ecco i più comuni: appartenere atterrare cominciare durare emigrare finire

è appartenuto è atterrato (“L'aereo è atterrato”) è cominciato (“L’estate è cominciata male: piove sempre!”): è durato (“La pioggia è durata tutta la notte”) è emigrato (se segue un complemento: “Mio zio è emigrato in Australia”) è finito (“La festa è finita”)

ha appartenuto ha atterrato (“Ha atterrato l’avversario”) ha cominciato (“Ha cominciato quel quadro un anno fa”) ha durato (“Carlo ha durato poco in quell’incarico”) ha emigrato (se non segue un complemento: “Mio zio ha emigrato”) ha finito (“Ha finito i compiti”)

Le grammatiche per insegnare l’italiano come L2 fiorire franare grandinare inciampare naufragare

nevicare piovere prevalere sbandare scivolare vivere

volare

è fiorito è franato è grandinato è inciampato è naufragato (detto di una cosa: “La nave è naufragata”, “L’impresa è naufragata”) è nevicato è piovuto è prevalso è sbandato è scivolato è vissuto (per indicare che l’azione o l’avvenimento sono conclusi: “La nonna di Marco è vissuta più di novant’anni”) è volato

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ha fiorito ha franato ha grandinato ha inciampato ha naufragato (detto di una persona: “Quei poveretti hanno naufragato al largo delle coste siciliane”) ha nevicato ha piovuto ha prevalso ha sbandato ha scivolato ha vissuto (per indicare che l’azione o l’avvenimento durano ancora: “Mario ha sempre vissuto da ricco”) ha volato

Nelle grammatiche pedagogiche poi, il tentativo di dare regole pratiche va ancora oltre: si veda ad esempio la soluzione adottata da Mezzadri (1996: 74), al quale spetta in qualche modo il ruolo di “capostipite” della nuova generazione di grammatiche pedagogiche dell’italiano. Intanto, egli inserisce la selezione dell’ausiliare non in un capitolo specificatamente dedicato agli ausiliari, ma nella scheda sul passato prossimo, laddove effettivamente gli apprendenti incontrano per la prima volta un tempo composto che richiede di compiere una scelta tra essere ed avere. Inoltre, schematizza ulteriormente rispetto a Patota (2003), proponendo delle regolarizzazioni basate su criteri insieme sintattici (transitivi/intransitivi) e semantici in senso lato (verbi che indicano moto, stato, cambiamento di stato), che in genere funzionano, pur presentando diverse eccezioni.

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Capitolo 5

Tavola 13: Passato prossimo e scelta degli ausiliari (da Mezzadri 1996: 74)

Analogamente si comportano gli autori delle grammatiche pedagogiche successive, Nocchi (2002: 70) e Latino e Muscolino (2005: 6061), le quali propongono anche esercizi per abituare lo studente a inserire i verbi in una delle categorie presentate.

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Tavola 14: Esercizio per distinguere i diversi tipi di verbi sulla base di criteri sintattici o semantici (da Latino e Muscolino 2005: 61)

Chiuchiù e Chiuchiù (2005: 64-65) poi propongono la stessa classificazione di Mezzadri, ma cercano di specificare quali sono i verbi di movimento che vogliono essere e quali avere, ricorrendo, implicitamente, al concetto di telicità. Tavola 15: L’ausiliare con i verbi di movimento (Chiuchiù e Chiuchiù 2005: 64)

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5.5.2. Considerazioni finali e proposte operative. Tutte le grammatiche esaminate ricorrono dunque alla nozione di transitivo/intransitivo e tralasciano o cercano di risolvere in modi diversi il problema della selezione dell’ausiliare con i verbi intransitivi. Le grammatiche pedagogiche si distinguono dalla altre in quanto tentano di schematizzare e di fornire generalizzazioni che orientino l’apprendente nella scelta anche laddove ci sono maggiori incertezze (ossia con i verbi intransitivi). Ma che valore hanno queste generalizzazioni? Recentemente Rastelli (2006: 19), linguista e docente di italiano L2, facendo riferimento ad una discussione avvenuta in una mailing-list di insegnanti di italiano L2 sull’argomento, e alle generalizzazioni da essi fornite, osserva: «Molte grammatiche oggi dispensano liste di verbi che si coniugano in un modo o nell’altro, qualche volta abbozzando una spiegazione che gli insegnanti intelligenti non si sentono mai di sposare perché decine di controesempi sono già pronti non appena la regola sembra funzionare» (ivi: 15). Obietta inoltre che le categorie di transitivo ed intransitivo adottate da tutti sono «antiche, tradizionali e certo conosciute dalla maggior parte degli studenti, ma sono anche ambigue ed inappropriate. La linguistica le ha messe in discussione da decenni» e propone di fissare invece una regola per selezionare l’ausiliare che «assorba e vada oltre l’opposizione transitivo/intransitivo» (ivi: 18), partendo dall’ASH (Ausiliary Selection Hierarchy) formulata da Sorace (2004) per diverse lingue. La distinzione che propone si basa su criteri semantici, ed è riassunta nel seguente schema. Tavola 16: Selezione dell’ausiliare essere o avere secondo Rastelli (2006: 18) VERBI CHE SELEZIONANO AVERE:

Il soggetto grammaticale compie un’attività che ha una certa durata e della quale ha il pieno controllo. Di questa attività non è visualizzata la fine. Spesso questa attività implica un oggetto su cui è esercitata o che la subisce. VERBI CHE SELEZIONANO ESSERE:

Il soggetto non “fa” propriamente qualcosa. Al soggetto piuttosto “succede” qualcosa, che di solito è un cambiamento di luogo o di stato. Nell’idea suggerita dal verbo di solito sono visualizzati una fine o un punto di arrivo.

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Come già sottolineato da Maggini (2006: 3) tuttavia, sembra piuttosto difficile proporre dei ragionamenti metalinguistici così fini agli studenti dei livelli iniziali (A1-A2), ai quali viene presentato il problema della selezione dell’ausiliare per il passato prossimo. Tanto più difficile se si tiene conto del fatto che spesso essi mancano «di un’esperienza di educazione linguistica, intesa come capacità di autoriflessione sui meccanismi che regolano la propria madre lingua così come le altre lingue apprese» (ivi, 4). Inoltre, l’ipotesi di Sorace (2004), per quanto affascinante ed innovativa, non pare ancora abbastanza consolidata da spingere a rinunciare del tutto a categorie che, seppure invecchiate, sono ancora conosciute da tutti, ed accettate dalla grande maggioranza delle persone. La descrizione fornita delle grammatiche pedagogiche come Mezzadri (1996) invece è sicuramente semplificata, non funziona sempre (si vedano ad esempio i verbi che indicano un movimento ma selezionano avere) e non descrive perfettamente il sistema, tuttavia essa sembra tenere, per studenti dei primi livelli, in quanto è operativa, funzionale e fa riferimento a categorie in genere note almeno agli studenti europei (quella appunto di transitivo/intransitivo). Andrà semmai corretta ed integrata dall’insegnante, che ad esempio parlerà fin da subito di verbi “pronominali” piuttosto che di verbi riflessivi (infatti incontrarsi, ricordarsi, trasferirsi funzionano esattamente come alzarsi).5 Si veda come esempio questa proposta per studenti di livello iniziale. Tavola 17: Passato prossimo: scelta dell’ausiliare(dal corso on-line A spasso con Virgilio, livello A1) Il passato prossimo si forma con l’ausiliare essere o avere + il participio passato. In generale vogliono l’ausiliare avere: • il verbo avere Anna ha avuto paura. •

tutti i verbi transitivi (cioè i verbi che possono avere un com-

plemento diretto, senza preposizione) 5

Lo Duca (2006: 125) scrive ad esempio «i verbi pronominali sono nella nostra terminologia tutti i verbi che si coniugano con l’ausilio di un pronome personale atono».

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172 Ho mangiato una mela. Abbiamo visitato la chiesa. •

alcuni verbi non transitivi (cioè i verbi che non possono avere

un complemento diretto: telefonare, parlare, camminare, viaggiare, ecc.) Ivana ha telefonato a Elena. Elena e Francesco hanno parlato per ore. Lisa ha viaggiato con il treno. Vogliono l’ausiliare essere: • il verbo essere Elena è stata brava. •

tutti i verbi pronominali (alzarsi, chiamarsi, svegliarsi, lavarsi, trasfe-

rirsi ecc.) Carlo si è alzato, si è lavato, si è fatto la barba e si è vestito. Lisa si è trasferita a Padova. •

molti verbi di movimento (andare, venire, salire, scendere, ecc.) Alice è andata in montagna.



verbi che indicano uno stato (essere, stare, rimanere, ecc.) L’estate scorsa Alessandro e Sara sono stati a casa.



i verbi che indicano un cambiamento di stato (nascere, morire, cresce-

re, diventare, ecc.) Lisa è nata nel 1978. Tuo figlio è cresciuto molto. Mio nonno è morto nel 1998. • ecc.

altri verbi molto frequenti come: piacere, sembrare, succedere, toccare, I tuoi amici mi sono piaciuti molto. Il film di ieri mi è sembrato bello. È successa una cosa strana.

Attenzione! Ci sono verbi che possono avere l’ausiliare avere o essere: • con lo stesso significato (piovere, nevicare, ecc.): Ieri ha piovuto molto/Ieri è piovuto molto

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• con significati diversi (cominciare, finire, ecc.): sono verbi che possono essere transitivi o non transitivi. Quando sono transitivi hanno avere, quando non sono transitivi hanno essere. Transitivo Non transitivo Finire Tommaso ha finito i compiti. Il corso di inglese è finito ieri. cominciare Sofia ha cominciato un nuovo liIl film è cominciato bro. da cinque minuti.

Sia chiaro: le informazioni fornite in schede di questo tipo non pretendono di descrivere in modo esauriente il tema, ma solo di fornire delle prime generalizzazioni al fine di aiutare l’apprendente che deve imparare a comunicare scorrevolmente nella L2. Una volta che esse siano state assimilate, e che le capacità di riflessione metalinguistica degli studenti si siano affinate, si può andare oltre, cercando di presentare con maggior accuratezza il fenomeno, ma all’inizio possono essere un utile sussidio pedagogico. Riteniamo infatti che una grammatica pedagogica debba tentare il più possibile di fornire delle regole o almeno delle generalizzazioni. Se esse sono scientificamente fondate ovviamente è meglio; se però non lo sono ancora del tutto, magari perché la ricerca non è ancora arrivata a descrivere in modo soddisfacente il fenomeno, può essere comunque utile cercare di offrire dei criteri, pur ammettendo in modo chiaro che non sono sempre validi. Per l’apprendente è infatti meglio avere un criterio che funziona otto volte su dieci che non averlo affatto. Prendiamo l’esempio dei verbi di movimento: osserviamo che mentre seleziona l’ausiliare essere un numerosissimo gruppo di verbi di questo tipo, costituito per di più in gran parte da verbi ad alta frequenza e dunque precocemente appresi anche dai non nativi (andare, venire, salire/scendere, entrare/uscire, arrivare/partire, giungere, fuggire, sparire, scappare), seleziona invece avere un numero molto più ristretto di verbi, i quali hanno per giunta una semantica più specifica (come camminare, correre, danzare/ballare, giocare, girare, nuotare, passeggiare, remare, ecc.). Si potrebbe dunque generalizzare dicendo in prima battuta a dei principianti che «in genere i verbi di movimento prendono essere, anche se ci sono delle eccezioni», per poi specificare ulteriormente nei livelli successivi (A2-B1), andando ad esempio nella direzione di Patota (2003) che, come abbiamo visto, si rifà al tipo di

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azione («verbi che mettono in primo piano il fatto, il risultato in sé» vs. «verbi che mettono in primo piano la qualità, il tipo del movimento»). Si tratta comunque di un ragionamento metalinguistico piuttosto fine, che si adatta ad apprendenti adulti, scolarizzati, abituati all’astrazione, ma che potrebbe funzionare meno bene con studenti più giovani o meno abituati a riflettere sulla lingua. Con questi ultimi si potrebbe lavorare piuttosto sull’analogia, e, basandosi su una semantica forse più “di superficie”, costruire, o meglio far costruire agli studenti, degli ulteriori raggruppamenti. Si potrebbe partire ad esempio da un testo che contestualizzi la riflessione metalinguistica, sul tema del tempo libero, dei viaggi e dello sport. Il testo (scritto o orale) dovrebbe contenere, oltre ad alcuni verbi di movimento con essere, molti verbi con avere, appartenenti ad aree semantiche abbastanza omogenee. A partire da esso quindi, si potrebbe proporre alla classe un esercizio come il seguente. Tavola 18: Proposta di attività sui verbi di movimento che selezionano avere

Certo, si tratta di una descrizione superficiale, ma a volte essa aiuta l’apprendente più di un criterio astratto, come può essere quello di pensare a chi ha il controllo dell’azione. L’obiettivo di regolarizzazioni ed attività di questo tipo è quello di far entrare nei primi tempi in

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funzione il Monitor dell’apprendente, dandogli dei punti fermi che lo possano orientare concretamente. Osserviamo gli esempi che seguono: Tavola 19: Esempi di focalizzazione sulla selezione dell’ausiliare con i verbi di movimento (1) Livello A1 Juan: Ieri sera ho andato in discoteca. Insegnante: Ho andato? È un verbo di movimento, ricordi? Juan: Mmm… sì, sono andato in discoteca… (2) Livello A2 Insegnante: Hai fatto sport questa estate? Per esempio hai nuotato, hai giocato a tennis? Xavier: Sì, ho nuotato, ho pattinato, ho ballato tutte le sere.

Nel caso (1) l’apprendente spagnolo Juan utilizza per andare l’ausiliare avere, come nella sua lingua madre. L’insegnante, anziché correggerlo direttamente, gli dà come feedback un appiglio, ricordandogli la generalizzazione proposta («I verbi di movimento hanno in genere essere»). Subito lo studente fa entrare in funzione il Monitor, e si autocorregge. Se si dà credito all’ipotesi dell’interfaccia nella versione debole (si veda par. 3.8), si ritiene che un poco alla volta nell’apprendente entreranno in funzione meccanismi di automatismo per cui gli verrà quasi spontaneo utilizzare essere per i verbi di movimento consueti come andare, venire. Allo stesso modo nel caso (2), lo studente di livello un poco più avanzato (A2-B1, ad esempio), che si è abituato ad usare correttamente verbi che rientrano nell’area semantica dello sport e che hanno l’ausiliare avere, dovrebbe estendere, per analogia, avere anche ad altri della stessa area. Fin qui, abbiamo fatto riferimento ad apprendenti dei primi livelli. La nozione di ciclicità (descritta in 2.4) prevede però che uno stesso argomento possa essere presentato più volte, con diverso grado di complessità. Anche la riflessione metalinguistica può essere approfondita a seconda della maturità linguistica degli studenti ed ovviamente dei loro bisogni. Qualora si ritenga che l’argomento “selezione dell’ausiliare” meriti un approfondimento ulteriore, o perché gli studenti fanno ancora molti errori, o perché essi mostrino di desiderare

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Capitolo 5

una descrizione più approfondita del fenomeno varrà la pena di insistere ancora, adottando criteri di descrizione meno elementari. A partire almeno da un livello C1, nel momento in cui gli studenti possono padroneggiare costruzioni come il ne pronominale e il participio assoluto, dunque, potrebbe essere proposta la nozione di inaccusatività e quindi la descrizione della selezione dell’ausiliare di Salvi e Vanelli (2004), con un test sintattico (tav. 20) arricchito, eventualmente, da considerazioni semantiche (tav. 21). Esclusivamente con classi particolarmente interessate alla riflessione metalinguistica, ci si potrebbe spingere ancora oltre, provando ad analizzare le categorie proposte da Rastelli (2006), magari in confronto con la L1 e le altre L2 parlate dagli studenti. Tavola 20: Proposta di descrizione della selezione degli ausiliari per un livello C1 (sulla base di Salvi e Vanelli 2004) Leggi le frasi ed indica se sono corrette oppure no. -I tuoi genitori sono andati al mare? -Sì, sono arrivati ieri sera. -Dove avete passeggiato ieri pomeriggio? -Abbiamo girato per la città e poi siamo saliti sulla torre del Duomo. Ieri Marco e Giovanna sono andati sui colli, ed hanno camminato molto. Sono corrette questa frasi? Perché si dice sono andati ma hanno camminato, hanno passeggiato? La scelta dell’ ausiliare nei tempi composti. Ricordi? Nei tempi composti alcuni verbi vogliono l’ausiliare essere, altri avere. Forse tu conosci già dei criteri per distinguerli, ma ora li puoi approfondire. Vogliono avere: tutti i verbi transitivi (fare, dire, prendere, ecc.); i verbi intransitivi (camminare, funzionare, sorridere, ecc…); Vogliono essere: i verbi pronominali (lavarsi, pentirsi, incontrarsi); i verbi inaccusativi (arrivare, venire). Verbi transitivi = quelli che sono seguiti da un complemento oggetto Verbi NON transitivi = quelli che NON sono seguiti da un complemento oggetto.

Le grammatiche per insegnare l’italiano come L2

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Si distinguono in:

INTRANSITIVI (ausiliare avere) INACCUSATIVI (ausiliare essere)

I verbi inaccusativi sono verbi NON transitivi il cui soggetto ha proprietà simili a quelle che ha l’oggetto dei verbi transitivi. Come li riconosci? - il soggetto si trova spesso dopo il verbo: È arrivato Giovanni. - il soggetto può essere sostituito dal pronome ne: Sono venuti molti ragazzi> Ne sono venuti molti. Sono scese due signore > Ne sono scese due. - si possono trasformare in participi assoluti: I ragazzi arrivarono e la lezione cominciò. Arrivati i ragazzi, la lezione cominciò.

Una volta sottoposta agli studenti questa sorta di test sintattico per stabilire se un verbo è inaccusativo o meno, ci si può soffermare anche sulle sue proprietà semantiche, in particolare sulla telicità, magari partendo da esempi che la chiariscano: Tavola 21: La telicità (esempi tratti da Salvi e Vanelli 2004: 52) Osserva le frasi: (1a). Gianni ha corso per tre ore. (1b). Gianni è corso a casa. (2a). L’aereo ha volato a lungo sopra le case. (2b). L’uccello è volato via per lo spavento. Perché nei casi 1a e 2a si usa l’ausiliare avere e nei casi 1b e 2b essere? Qual è la differenza?

A differenza delle generalizzazioni fornite in precedenza però, descrizioni come le precedenti non hanno la funzione immediata di aiutare l’apprendente a scegliere l’ausiliare giusto, e quindi a comunicare più correttamente, ma piuttosto lo inducono a riflettere in profondità sui meccanismi che regolano la lingua italiana, e al limite possono

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Capitolo 5

fungere da sostegno cui ricorrere per casi isolati. Ad esempio un insegnante di italiano come lingua straniera non madrelingua potrebbe aver bisogno di tali criteri per stabilire qual è l’ausiliare corretto richiesto da verbi che conosce meno, dato che probabilmente non possiede quell’istinto che guida il nativo nella scelta. Come risulta chiaro dunque, è necessario badare sempre allo scopo del corso e al tipo di pubblico che si ha di fronte: ogni g.p. deve partire da un’analisi dettagliata del suo utente, e presentare di conseguenza la lingua di cui egli necessita, illustrando ad esempio quelle strutture o regole che per lui presentano delle difficoltà (perché non sono presenti nella sua L1), ed utilizzando la metalingua ed il tipo di descrizione più indicato allo scopo. Non esiste dunque una grammatica pedagogica “migliore” o valida per tutti, ma tante grammatiche che si prestano ad utenti ed usi diversi. La selezione degli argomenti proposti, la metalingua impiegata, il tecnicismo delle formulazioni dipenderà strettamente dal pubblico classe, ed, ovviamente, dalla formazione e dalle capacità dell’insegnante. Se infatti un insegnante linguisticamente preparato come Rastelli, magari perché padroneggia perfettamente un argomento, ha anche la capacità di presentare regole così complesse ai suoi studenti, e questi d’altra parte riescono a comprendere la riflessione metalinguistica e a rielaborarla, facendola entrare in qualche modo nella memoria a lungo termine, quindi nella pratica, ben venga. Qualora però le condizioni non siano queste, è forse meglio ricorrere a soluzioni che, pur essendo meno “scientifiche”, siano più utili agli studenti. Spezzata una lancia a favore delle generalizzazioni, va tuttavia precisato che non è opportuno voler cercare a tutti i costi di fornire regole o regolarizzazione per quei fenomeni che, palesemente, non ne abbiano, e siano piuttosto idiosincratici, come ad esempio l’uso di certe preposizioni (si pensi ad esempio alla scelta di a/in per il luogo).

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AREE SCIENTIFICO–DISCIPLINARI

Area 01 – Scienze matematiche e informatiche Area 02 – Scienze fisiche Area 03 – Scienze chimiche Area 04 – Scienze della terra Area 05 – Scienze biologiche Area 06 – Scienze mediche Area 07 – Scienze agrarie e veterinarie Area 08 – Ingegneria civile e Architettura Area 09 – Ingegneria industriale e dell’informazione Area 10 – Scienze dell’antichità, filologico–letterarie e storico–artistiche Area 11 – Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche Area 12 – Scienze giuridiche Area 13 – Scienze economiche e statistiche Area 14 – Scienze politiche e sociali

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