Una lezione di storia
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Zitiervorschau

Titolo originale

Une leçon d ’histoire

© 1986 Les Editions Arthaud, Paris © 1988 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino Traduzione di Piero Arlorio ISBN 8 8 - 0 6 - 1 1 3 8 3 - 6

FERNAND BRAUDEL

UNA LEZIONE

DI STORIA Chàteauvallon Giornate Fernand Braudel 18 , 19, 20 ottobre 1985

Piccola Biblioteca Einaudi

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Indice

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Chàteauvallon 19&'j di Maurice Aymard

Una lezione di storia 3

18 ottobre: il Mediterraneo

6 10 14 18 23 26 30 35 40 44 53 55 59 62 64 65 66 68

La formazione delle culture mediterranee L ’uomo biologico nel Mediterraneo II tempo bizantino nel mondo mediterraneo II Mediterraneo musulmano II Mediterraneo, l’Atlantico e l’Europa II Mediterraneo nell’orizzonte degli Europei dell’Atlantico La galera, regina del Mediterraneo da Salamina a Lepanto Problemi del Mediterraneo nei secoli xix e xx II Mediterraneo delle tensioni Venezia e Bisanzio... ...e Istanbul Maometto e Carlomagno La storia comparativa, la lunga durata e la storia Biologia e lunga durata Mosca, nuova Bisanzio? L ’autonomia dei Mediterranei... ... e la Rivoluzione francese Bilancio

75 83

Economia politica e storia economica II capitalismo, un gioco truccato?

19 ottobre: il capitalismo

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INDICE

p. 86 89 100 102 106 109 115 122 124 127 13 1 133 135

II capitalismo: continuità o mutamento? Capitalismo commerciale e produzione industriale in Asia prima del 1800 Elementi endogeni del capitalismo indiano Capitalismo brasiliano: crescita o sviluppo? Tecnica, scienza e società II capitalismo: nemico del mercato? Per una storia economica La rivoluzione industriale del Medioevo Capitalismo, struttura camaleontica Capitalismo ed economia-mondo Stato e capitalismo L ’esempio indiano Viatico per il futuro

14 1 15 1 15 ; 162 164 169 176 182 190 192

Fernand Braudel e la storia della Francia I primi contadini della Francia Dai « paesi » alla nazione francese La «Francie» Per una teoria ecologica degli insediamenti industriali L ’arbre des Etats et Offices de France Capire Fernand Braudel Storia, geografia e popolamento Funzione delle finanze nell’Antico Regime Fernand Braudel in persona

201 206 209 2 11

Si può parlare di una visione filmica della storia? di Marc Ferro Film e contro-storia, il film, agente della storia La Francia: demografia e politica di Hervé Le Bras Antropologia della Francia di Emmanuel Todd

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I partecipanti al colloquio

20 ottobre: la Francia

I laboratori

Chàteauvallon 1985

La scomparsa improvvisa di Fernand Braudel, il 29 no­ vembre 1985, a poco pili d ’un mese dal convegno di Chà­ teauvallon, ha conferito un diverso significato alle tre gior­ nate (18, 19 e 20 ottobre) a lui dedicate: le ha trasformate drasticamente in una specie di apoteosi dopo la sua elezione all’Académie Française avvenuta all’inizio dell’estate prece­ dente e, per un altro verso, ne ha fatto una festa d’addio, se non altro per chi aveva avuto la fortuna di prendervi parte. Costoro non potranno dimenticare facilmente il perfetto equilibrio realizzatosi nel corso delle tre giornate tra qualità del dibattito e riuscita dello spettacolo: dibattito e spettaco­ lo dominati dalla costante presenza dello storico sempre prontissimo a raccogliere inviti e suggestioni degli interlocu­ tori, per guardare col dovuto distacco critico alla propria opera, per giudicarsi e nello stesso tempo «riaffermarsi» senza mai stancare. Il buon esito della festa fu anche garantito da un ambien­ te particolarmente ben scelto. Chàteauvallon, vera oasi di distensione e di cultura, col suo auditorium, il suo teatro e le sue aule di riunione, alle porte di Tolone, in posizione domi­ nante rispetto al Mediterraneo; e poi, naturalmente, il pub­ blico, composto di insegnanti, studenti e ricercatori prove­ nienti perlopiù dalla zona. Invitando Fernand Braudel e or­ ganizzando attorno alla sua persona una manifestazione di portata eccezionale, Gérard e Marielle Paquet miravano a raggiungere forse il punto più alto di una serie di incontri decentrati rispetto a Parigi; garantendo prima di tutto tran­ quillità e tempo necessari all’elevata qualità dei dibattiti re-

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Iativi a personalità di assoluto spicco nel campo delle scienze storico-sociali: Prygogine, Lévi-Strauss, Axelos e altri. Dopo qualche esitazione, Fernand Braudel si era lasciato tentare prestandosi al gioco e accettandone sino in fondo le regole, ivi comprese quelle più costrittive. Cosi, sotto lo sguardo implacabile delle telecamere di Gérard Martin, ten­ ne una vera e propria lezione, ad una terza del collège di To­ lone, dedicata all’assedio di questa città nel 1707: un capito­ lo del primo volume di quella Identità de la Trance che aveva appena terminato; ma anche, e soprattutto, una «lezione di storia» - da cui il titolo di questo libro e del film realizzato in quell’occasione - , intesa a mostrare, tanto agli allievi che ai professori, come si poteva e si doveva insegnare storia, concretamente, partendo sempre dall’avvenimento per arri­ vare a cogliere le strutture più profonde che, nel caso in que­ stione, erano costituite dalle regole della guerra all’inizio del secolo xvra e dei grandi equilibri dello spazio francese. Se­ guirono poi tre giornate di discussione dedicate rispettiva­ mente ai temi delle sue tre opere principali, il Mediterraneo, il capitalismo e la storia della Francia. Tre giornalisti di nome e di fama accettarono il difficile compito di conduttore. Christine Ockrent, redattrice capo e presentatrice in video dei telegiornali di Antenne 2 (e oggi a T F i) per Civiltà e imperi del Mediterraneo. Paul Fabra, re­ dattore economico di «Le Monde», per Civiltà materiale economia e capitalismo. Albert Du Roy, giornalista radiote­ levisivo e redattore capo dell’«Evénement du Jeudi», per YIdentité de la Trance. Sette o otto ricercatori di gran nome introducevano quotidianamente il dibattito con interventi che potevano assumere la forma del commento o dell’esame critico. Tutti costoro erano stati scelti d’accordo con Fer­ nand Braudel nel duplice intento di raccogliere degli amici intorno alla sua persona e di assicurare di volta in volta la massima ampiezza cronologica, geografica, tematica e disci­ plinare. Al riguardo le regole del gioco erano semplicissime: Fernand Braudel poteva intervenire in qualsiasi momento; vuoi per rispondere, vuoi per interrogare. Ne derivò, come si potrà constatare leggendo il presente volume, una notevo­ le varietà tra giornata e giornata, incontro e incontro. Un po’ tutti lasciarono ampio spazio all’ispirazione del momen­

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to, e Fernand Braudel più di tutti, sempre pronto a rilancia­ re la discussione. Le domande spontanee e nient’affatto scontate del pubblico indicavano come anch’esso si trovasse a proprio agio. Già l’ordine delle giornate implicava una certa progres­ sione. Civiltà e imperi del Mediterraneo, pubblicato nel 1949, ha formato diverse generazioni di storici e costituisce un punto di riferimento obbligato. La genesi del Capitalismo anteriore alla rivoluzione industriale costituisce un amplia­ mento della «scrittura» braudeliana a livello mondiale; un’incursione un po’ provocatoria nel campo degli economi­ sti, altrettanto sguarnito della storia. Già annunciata d’im­ minente pubblicazione, 1’Identità de la France, nell’ottobre 1985, era ancora in cantiere, e i diversi intervenuti ne ave­ vano potuto leggere al massimo qualche decina di pagine: sufficienti per suscitarne la curiosità; insufficienti per ren­ dersi conto dell’ampiezza del progetto. La prima giornata, in particolare, avrebbe potuto esaurir­ si rapidamente: invitava a dialogare con un’opera verso la quale tutti i partecipanti non potevano far altro che ricono­ scere il proprio debito, come del resto, più in generale, nei confronti del suo autore. Procedette tuttavia molto bene al­ l’insegna dell’apertura. Apertura temporale, nella direzione della preistoria e del primo popolamento del mondo mediterraneo; ma anche del presente e del futuro immediato, in­ certo e inquietante. Apertura spaziale, in costante riferi­ mento agli spessori continentali dell’Europa e ai mondi esterni al Mediterraneo, ¡’Atlantico e l’oceano Indiano so­ prattutto, in chiara rivincita nei confronti di quel mondo mediterraneo che per cosi lungo tempo aveva attratto a sé le loro ricchezze. Aperture alle tematiche, infine, con ampi spazi per la biologia e la medicina; e per le tecniche della guerra. Fu un po’ come se tutti, sulla scorta di Fernand Braudel, non volessero rassegnarsi a registrare, nel mezzo del secolo xvn, l’uscita del Mediterraneo dalla «grande sto­ ria», e desiderassero ritrovare intatte, come riparate e pro­ tette da una lunga durata plurimillenaria, tutte le sue possi­ bilità anche in relazione all’avvenire. L ’ammiraglio Denis

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doveva poi ricordare - prima di mostrarcele la sera stessa, sulla cartina della sua sala comando, dove si poteva avere un colpo d’occhio dei posizionamenti e degli spostamenti di ciascuna nave delle diverse flotte che controllano il Mediter­ raneo da est a ovest - la realtà delle contrapposizioni strate­ giche che oggi fanno di questo mare «il crocicchio più insi­ curo del pianeta terra». Un demografo avrebbe poi sottoli­ neato il prevedibile radicale capovolgimento degli equilibri tra le due rive, nord e sud, del Mediterraneo, che prima o poi comporterà l’attuale crescita - una delle più rapide del mondo - della popolazione della riva meridionale, cosi a lungo dominata dall’altra anche a causa del suo relativo sot­ topopolamento. Il Mediterraneo non ha certamente finito di appassionarci, inquietarci, stupirci. Nella seconda giornata, la «civiltà materiale» firn per pas­ sare in secondo piano rispetto al «capitalismo». La pubbli­ cazione separata del primo volume della trilogia, già nel 1967, ha infatti imposto all’attenzione di tutti l’esistenza di questo mondo, per lungo tempo predominante, della produ­ zione corrente dei beni e dei servizi, dominato dall’autocon­ sumo e dagli scambi a cortissimo raggio, che viveva, essen­ zialmente, «al di sotto del mercato»: un mondo nel quale Fernand Braudel vedeva per certi aspetti l’analogo dell’at­ tuale economia sommersa. Più problematiche, per non po­ chi studiosi, rimangono invece le tre idee forza della costru­ zione finale (1979). Da una parte, c’è la questione della ge­ rarchia dei diversi livelli dell’economia, che fa del capitali­ smo una «sovrastruttura» più che un «modo di produzio­ ne», collocandolo al di sopra del mercato, delle sue regole e della sua trasparenza. D ’altra parte c’è quella della continui­ tà di un modello unico di capitalismo, di gran lunga prece­ dente la rivoluzione industriale, della quale avrebbe profit­ tato per svilupparne a proprio esclusivo vantaggio le possibi­ lità, senza però esserne generato. C ’è, in ultimo, la questio­ ne delle gerarchie spaziali dell’economia-mondo, la realtà del controllo e dell’«accumulazione del surplus» esercitata dai paesi che ne abitano il centro, unitamente a quella delle possibilità effettive che i paesi periferici hanno o meno di sottrarsi a questo dominio. Contestata da Paul Fabra - che

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condivideva inoltre il sospetto degli economisti di professio­ ne nei confronti della credenza di Fernand Braudel, definita «romantica», nei cicli di Kondratieff - la distinzione tra ca­ pitalismo e mercato fu invece accettata da Gérard Jorlan e Immanuel Wallerstein che, per altro, vi sottolineava auto­ nomamente l’importanza, ritenuta addirittura determinante dell’intervento dello Stato. Davanti alle obiezioni di Alber­ to Tenenti, Fernand Braudel precisò la propria concezione secondo la quale non si ha permanenza di un capitalismo sempre identico a se stesso, ma si ha bensì continuità di un modello fondamentale del capitalismo; ossia quello di una minoranza che si situa al culmine della gerarchia e dispone di una libertà di scelta. D ’altra parte, però, rispondendo a Laszlo Makkai, Braudel confermava la specificità - dovuta ai suoi effetti di messa in moto - della rivoluzione indu­ striale dei secoli xvm e xix rispetto a quelle che l’hanno pre­ ceduta. E ribadiva altresì, in opposizione a Immanuel Wal­ lerstein, che il capitalismo può unicamente svilupparsi sul­ l’onda di una vittoria sulle limitazioni e le costrizioni poste dallo Stato, non esitando, il capitalismo, a giocare, contro lo Stato, l’ultima carta delle libertà della «società civile». Re­ lativamente alle gerarchie spaziali dell’economia-mondo non emerse invece un vero e proprio disaccordo. Secondo K. N. Chauduri - che confermava così l’esistenza di economie­ mondo esterne all’Europa e per lungo tempo indipendenti dalla stessa, l’Asia, anteriormente al 1800, aveva fatto regi­ strare per secoli, sia una produzione artigianale di massa de­ stinata all’esportazione, sia degli scambi regolari a lunghis­ sima distanza, con relativa affermazione di un capitalismo commerciale. Ma tutto ciò avveniva sulla base di forme ra­ dicalmente diverse da quelle realizzatesi in Europa, senza innescare alcuna trasformazione rivoluzionaria del modo di produzione e dei rapporti di comando; col che l’Asia si sa­ rebbe appunto trovata, a breve distanza di tempo, nell’im­ possibilità di opporre una qualche resistenza all’espansione dell’economia-mondo europea. Per Celso Furtado, l’esem­ pio dell’economia brasiliana contemporanea - che ha sacri­ ficato lo sviluppo alla crescita e approfondito ulteriormente le distanze in seno ad una società destabilizzata - costitui­ sce la testimonianza più genuina dei limiti di un’industrializ­

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zazione decisa e attuata, in ambito periferico e in stato di crisi, a partire dal settore tradizionale dell’esportazione, del quale occorreva salvare le strutture. Ancor incompiuta, l 'Identità de la France offriva il destro ad un altro genere di dialogo, che si coagulò intorno a due poli. Il primo, costituito dalle reazioni, e dagli apporti, della pre- e della protostoria, della geografia, della storia medieva­ le e moderna, al tentativo di collocare la realtà francese in una prospettiva di lunghissima durata applicata a tutti i li­ velli della stessa: tentativo e tentazione di Fernand Braudel al crepuscolo della sua vita. Jean Guilaine, Etienne Juillard, Claude Raffestin, Karl-Ferdinand Werner e Emmanuel Le Roy Ladurie, coi loro rispettivi interventi invitavano Fer­ nand Braudel a precisare la propria collocazione e le proprie specifiche posizioni relativamente allo spazio, al tempo, alla religione e alla cultura. Il secondo polo della discussione fu attivato da Theodore Zeldin che, come avvertendo, senza per altro averla letta, la dimensione autobiografica dell’ope­ ra che Braudel stava preparando, tirò appunto in causa l’uo­ mo Braudel e il suo rapporto con la storia: storia vissuta, storia insegnata, storia come passione e come attività del­ l’intelligenza. A questa forma di provocazione amichevole rispose una forma di confidenza lucida e ironica: l’ultimo fulmineo colpo d’occhio di uno storico capace di cogliere nello stesso istante presente e passato; e anche di commisu­ rare successi e sconfitte, prima di uscir di scena. M AU RICE AYM ARD

Febbraio 1988.

UNA LEZIONE DI STORIA

Il Centre de Rencontres di Châteauvallon (Toulon-Ollioules), fon­ dato e diretto da Henri Komatis e Gérard Paquet, ha promosso, nei giorni 18, 19 e 20 ottobre 1985, le «Giornate Fernand Braudel». L ’or­ ganizzazione di questo colloquio è stata curata da Marielle Paquet; alla quale si deve anche, con l’aiuto di Véronique Christol e Gilbert Buti, la redazione del presente volume, che raccoglie le comunicazioni e le di­ scussioni delle tre giornate.

Il colloquio ha potuto aver luogo grazie all’aiuto: del Conseil Régio­ nal Provence-Alpes-Côte d ’Azur; del Ministère de la Recherche; del Ministère de la Culture; del Ministère de l’ Education Nationale; del Secrétariat d ’Etat aux Universités; del Ministère des Relations Exté­ rieurs; della città di Tolone e del Conseil Général du Var.

18 ottobre: il Mediterraneo

Ch r i s t i n e o c k r e n t Buongiorno e grazie di esser pre­ senti sin dall’inizio di queste tre giornate dedicate a Fer­ nand Braudel e alla sua opera. Giornate piuttosto ecceziona­ li per il valore dei relatori e per la presenza del nostro eroe; raramente, infatti, un colloquio può beneficiare di altrettan­ ta cultura, humor e affidabilità. Questa prima mattina è dedicata al Mediterraneo, culla del pensiero di Fernand Braudel. I relatori tratteranno aspetti assai diversi data la vastità del tema; trovando tutta­ via un elemento unificante nel contributo scientifico e me­ todologico di Fernand Braudel, al quale cedo subito la pa­ rola. fern a n d b r a u d el Ringrazio Christine Ockrent. Voi tutti avete potuto osservare il Mediterraneo, quel Mediter­ raneo che stamattina avete il piacere di vedere davanti ai vostri occhi, cosa che costituisce un vantaggio non da poco. Perché non si tratta qui di dibattere su La Méditerranée, os­ sia il libro da me scritto e pubblicato nel 1949, bensì sul Me­ diterraneo reale e sulla sua vita, odierna, passata, remota. Confesso che le specializzazioni dei partecipanti a questa ta­ vola rotonda mi fanno un po’ paura...! Siamo un po’ come i membri d ’un’orchestra che dispon­ gano di strumenti diversissimi, e il problema è se il nostro dibattito produrrà o meno qualche sinfonia. Vorrei iniziarne il lavoro preparatorio. Il Mediterraneo è un continuum, o, se si preferisce, una continuità, o, se si preferisce, un insieme. Sicché, se prendo in esame un aspetto qualsiasi del Mediterraneo, sia esso re­ lativo a una sua zona geografica o a un momento della sua

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UNA LEZIO N E D I STORIA

storia, diventa importante che il modo in cui pongo e tratto il problema possa coniugarsi con altri approcci e altri sce­ nari. I tedeschi sono soliti dire che il Mediterraneo è un mon­ do in sé, eine Welt fùrsich. Dicono anche che è ein Welttbeater, un teatro di dimensioni mondiali, o un teatro del mon­ do. E arrivano ad affermare - con espressione ormai dive­ nuta familiare negli studi storici - che si tratta di una economia-mondo, eine Weltwirtschaft-, ossia non un’econo­ mia che riassume in sé quella mondiale, bensì l’economia di una parte del globo che costituisce un insieme, un insieme assai difficile da rappresentare. Si tratta dunque, come ha giustamente detto Christine Ockrent, di un problema di metodo. Ho meditato a lungo sul Mediterraneo chiedendomi in primo luogo con quale occhio guardarlo per poterlo com­ prendere e poi ricostituire nel suo insieme. Ho cominciato a lavorare sul Mediterraneo nel 1922 - in anni che mi ricor­ dano la giovinezza e che a molti di voi appariranno addirit­ tura remoti - e ho portato a termine la mia opera solo nel 1947, cioè venticinque anni dopo. Insomma, mi ci è voluto un po’ di tempo per arrivare a vedere il Mediterraneo nel suo insieme. E , più precisamente, ho dovuto aspettare il 1935: un’attesa durata tredici anni! Quando ho avuto la for­ tuna di sbarcare a Dubrovnik, cioè a Ragusa. Vi si trovano degli archivi meravigliosi, e per la prima volta ho avuto la possibilità di vedere del naviglio, dei carghi e dei velieri far rotta per il mar Nero, o risalire, al di là di Gibilterra, sino a Londra, Bruges, Anversa. E cosi che ho cominciato a capire il Mediterraneo. Ma capirlo non è sufficiente, il problema è infatti come presentarlo. Vorrei farvi alcune rapide confi­ denze che spero illuminanti. Ho avuto la sfortuna, o la for­ tuna, di passare poco più di cinque anni in prigione. Ero sul­ la linea Maginot. E mi è toccata una brutta esperienza nean­ che tanto breve: dal 1941 mi trasferirono nella cittadella di Magonza, oggi felicemente scomparsa: una prigione vera­ mente terribile per mancanza di spazio. Ero uno dei pochis­ simi prigionieri a conoscere, seppur non certo perfettamen­ te, il tedesco. Traducevo per i miei compagni di prigionia i notiziari della radio tedesca ed ero uno dei pochi a leggere

IL MEDITERRANEO

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con grande attenzione la stampa tedesca. Il nostro problema era far fronte in qualche modo agli avvenimenti che agitava­ no il mondo; ci dicevamo: « Non hanno tutta quella rilevan­ za che sembrano avere». Cercavamo di guardare oltre questi movimenti di bassa e alta marea alla ricerca di qualcosa di diverso e piti stabile. Adottavamo, insomma, quello che quasi subito chiamai «il punto di vista del Padre Eterno». Per il Padre Eterno un anno è un’inezia e un secolo un bat­ ter d’occhio. E a poco a poco, sotto la storia delle fluttuazio­ ni, sotto la storia evenemenziale e di superficie, ho preso ad interessarmi della storia quasi immobile, di quella storia che si muove, ma si muove lentamente, della storia ripetitiva. Nel Mediterraneo dei secoli xv e xvi con l’arrivo dell’in­ verno le navi rientrano nei porti. Ricominceranno a solcare il mare solo con la bella stagione, in aprile. Questo movi­ mento lo osserverete puntualmente tutti gli anni; al di là dei diversi avvenimenti, situazioni, civiltà che fioriscono e si realizzano nell’area mediterranea. Un movimento non dissi­ mile da quello delle greggi che salgono ai pascoli estivi per ri­ discendere in inverno nelle pianure meno fredde. Sono mo­ vimenti ripetitivi e continuativi nell’immutabilità. Questa storia immobile, una storia che ho finito per chiamare di lunga durata, è la struttura della storia; quella che spiega la storia. Essa ci spiega il Mediterraneo e un paese come il no­ stro. Sono ormai alla conclusione. Se saprò esser chiaro mi ca­ pirete immediatamente; altrimenti vuol dire che dovrò rico­ minciare da capo. La storia della Francia odierna, con le sue crisi, i suoi movimenti, le sue impazienze e le sue dispute politiche, questa Francia che ha tutta l’aria di forgiare il pro­ prio destino, galleggia in realtà su una storia profonda, su una storia non certo immobile, ma quasi immobile. E la sto­ ria del mondo, una storia che segue certe direzioni e, al di là del nostro agitarci, dei nostri intenti, desideri e fantasmi, ci convoglia in un movimento di carattere generale. E appunto ciò che ho cercato di mostrarvi, di indicarvi. Spero che sarà possibile orchestrare le singole relazioni, e, nella lunga durata, metterle a confronto, al fine di co­ glierne pienamente portata e significato. Volevo dire solo questo.

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UNA LEZION E DI STORIA

Ch r i s t i n e o c k r e n t La parola è all’archeologo Jean Guilaine che, alla luce del metodo braudeliano, ci riporta all’infrastruttura della storia, o se non altro alle sue origini.

La formazione delle culture mediterranee. je a n g u il a in e II Mediterraneo sul quale soffermo la mia attenzione è tra i più antichi; un Mediterraneo che co­ nosciamo esclusivamente sulla base di dati archeologici. Non è il Mediterraneo dei cacciatori-raccoglitori, ossia il più antico; ma quello dei primi agricoltori, che risale all’incirca al periodo 8000-2000 a. C.: insomma il Mediterraneo del Neolitico e della prima Età del bronzo. Si può parlare sin da questi tempi remoti di una certa uni­ tà del Mediterraneo? Se si parte dall’ipotesi che: a) le prime coltivazioni di cereali e leguminose si sono avute nel sudovest asiatico; b) l’addomesticamento di animali si è realiz­ zato in una zona che va dall’Anatolia ai monti Zagros e alla Palestina; c) secondo i botanici e i paleontologi queste pian­ te e questi animali addomesticati sono poi stati trasmessi al­ le coste occidentali; allora si può pensare che questa diffu­ sione di piante, animali e tecniche abbia potuto cementare, con l’emergere di popolazioni sedentarie, una certa unità culturale mediterranea. Senza voler risalire a date troppo lontane: verso l’8ooo a Gerico si vive già di agricoltura, e già si costruiscono mu­ ra imponenti. Nella stessa epoca, in Occidente, bande di cacciatori-raccoglitori vivono ancora di piante non coltivate e della caccia del cervo e del cinghiale. Soffermiamoci sul periodo compreso tra il 6000 e il 5000 a. C ., sul vi millen­ nio. E un periodo interessante; in questo millennio infatti l’economia di produzione e le prime comunità contadine si estendono in pratica all’intera area mediterranea. Su questa base, alcuni archeologi hanno ipotizzato una specie di civiltà mediterranea primitiva, databile al Neolitico più antico, che sarebbe nata nel Levante, ossia nella Turchia del sud, in Si­ ria e in Libano, donde si sarebbero diffusi, in modo invero un po’ meccanico per l’intero bacino mediterraneo, i primi villaggi, la coltura del grano e dell’orzo, i primi animali do­ mestici e le prime terrecotte. In appoggio a tale tesi, questi

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studiosi di preistoria facevano presente che le terrecotte a decorazione impressa ritornavano spesso come un denomi­ natore comune negli strati neolitici più antichi dei siti mediterranei. Essi attribuivano inoltre queste terrecotte ai primi coloni, a quei pionieri, insomma, che le avrebbero diffuse in Occidente assieme all’economia di produzione. A quell’epoca, il popolamento della maggior parte delle isole era ormai compiuto o in via di compimento, cosa che testimonia la conoscenza diffusa della tecnologia della navi­ gazione d’altura. D ’altra parte, ricerche sempre più appro­ fondite hanno dimostrato l’esistenza di una marcata com­ partimentazione culturale a partire dal Neolitico più antico; sicché, il passaggio al Neolitico dell’area mediterranea sem­ bra piuttosto caratterizzarsi come risultato di un processo di acculturazione, ossia come assunzione di imprestiti tecnici da parte delle popolazioni indigene, non come semplice frut­ to di colonizzazione. Di primo acchito, e già a partire dalle prime civiltà contadine, è possibile constatare delle differen­ ze nelle tecniche di edificazione e relativi materiali, nelle ca­ ratteristiche e nella durata degli insediamenti, nelle cerami­ che, negli utensili di pietra e nelle forme di espressione sim­ bolica. Ed è anche possibile distinguere alcune aree cultura­ li: l’Anatolia, il mondo egeo, l’area apulo-dalmata, il mondo franco-iberico, che sono come separati da filtri (il primo tra Asia Minore e penisola greca; il secondo tra Grecia occiden­ tale, Albania e Italia del sud; il terzo nella zona del Tirreno). Il primo Mediterraneo agricolo era già suddiviso in compar­ timenti. Altri esempi si possono trarre da periodi più recenti, co­ me il m e iv millennio. Ci si trova allora davanti a comunità più numerose, insediate in maniera definitiva, dotate spesso di luoghi di sepoltura comuni e di ossari. Piuttosto curiosa­ mente, nonostante i progressi tecnici debbano aver avuto delle ripercussioni positive sulla navigazione, le comparti­ mentazioni perdurano e talvolta si fanno più marcate. Mi soffermerò sugli esempi costituiti dai megaliti, dagli ipogei, dalle tecniche architettoniche della pietra, dalla metallurgia, dal ruolo delle isole. I megaliti. E ormai definitivamente tramontato il tempo in cui in archeologia, quasi accecati dal supposto grande in-

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flusso delle civiltà orientali, si pensava che le prime tombe megalitiche fossero state erette in Oriente e, solo in seguito, in Occidente. I progressi nel campo della datazione, grazie in particolare al carbonio 14, hanno dimostrato che il megalitismo nasce alle due estremità del Mediterraneo: in Palesti­ na, con i monumenti costruiti da popoli del iv millennio già allo stadio dell’Età del rame; in Portogallo e Bretagna, al po­ lo opposto, dove ci si trova in presenza di civiltà che ignora­ no del tutto la metallurgia e che cominciano a costruire delle tombe comuni di tipo megalitico. Per un paio di millenni, e in qualche caso anche di più, il Mediterraneo vedrà fiorire un’architettura variegata, per lo più limitata a zone ristrette e prive di reciproche influenze genetiche. Si può dire la stessa cosa a proposito delle tombe scavate nella roccia - o ipogei - , che costituiscono un altro elemento culturale caratteristico dell’area mediterranea, dal­ la Palestina e Cipro sino all’Andalusia e al Portogallo. A par­ tire dai più antichi esempi noti (i protoipogei di Bonu Ighinu intorno al iv millennio; gli ipogei di Ózieri in Sardegna e di Serra d ’Alto nell’Italia sudorientale, circa 3500 a. C .; le caverne artificiali del Ghassulien in Palestina, circa la stessa epoca) ci si trova in presenza, in particolare verso la fine del iv millennio e poi per l’intera durata del in, per non dire ol­ tre, di un rigoglio creativo difficilmente riconducibile ad un unico filo conduttore. I muri di pietra a secco sono un altro esempio su cui si è costruita una pretesa unità mediterranea. Si tira in ballo in­ fatti, talvolta, una specie di pre-ellenizzazione, nel corso della quale gente dedita al traffico e proveniente dall’Egeo avrebbe fondato in Occidente, e più precisamente nella pe­ nisola iberica, delle colonie in tempi molto antichi (m mil­ lennio). Alcune caratteristiche architettoniche comuni ad al­ cune località del Mediterraneo (muri in pietra, recinti e ba­ stioni semicircolari) nell’Egeo (Chalandriani, Egina, Lerna) e nella penisola iberica (Los Millares, Zambuyal), hanno po­ tuto fornire una qualche base a questa tesi. Ma, in realtà, si tratta di un tipico esempio di processo di convergenza in­ dipendente, data tanto più l’assenza, nella stessa epoca, di anelli di congiunzione nella zona del Mediterraneo centrale. L ’avvento della metallurgia conferma la compartimenta­

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zione del Mediterraneo. Quest’ultimo si è mostrato assai poco ricettivo nei confronti dei Calcolitici precoci dell’Anatolia (a partire dal v millennio) e dei Balcani (iv millennio). Il vero decollo della metallurgia vi si verificherà solo nel m millennio, con produzioni affatto diversificate nelle aree dell’Egeo, delle penisole italiana e spagnola. Non c’è biso­ gno di affermare che ci si trova in presenza di invenzioni in­ dipendenti, basta constatare che le cose sono andate come se ciascuna area avesse realizzato una produzione tipica ba­ sata sulla specificità del suo potenziale minerario. Il ruolo delle isole deve essere sempre accuratamente precisato quando si vuole tentare un’interpretazione delle aree culturali del Mediterraneo. A lungo considerate come « trampolini di civiltà », le isole sono in realtà luogo di due fenomeni contraddittori: di fenomeni di conservazione e di rifugio che dànno luogo a realizzazioni tardive e barocche (le Tombe dei Giganti in Sardegna, le Navetas delle Baleari); ma anche di fenomeni di rinnovamento e di accelerazio­ ne che conferiscono loro un ruolo pionieristico, come nel ca­ so della prima comparsa dei centri proto-urbani nelle isole dell’Egeo nordorientale (Poliochini, Thermi) e nelle Cicladi (Phylalakopi). L ’Egeo, del resto, ha conosciuto uno sviluppo urbano piuttosto lineare: a partire da questi primi centri cui seguirono, nel tempo, i palazzi cretesi e gli agglomerati mi­ cenei; mentre l’Occidente resisterà ancora a lungo alla for­ mazione di centri urbani. Da ultimo bisogna fare punto sul concetto di spazio mediterraneo. Se è attestata una notevole circolazione in area egea a partire dal 2500 (epoca del primo commercio «inter­ nazionale»), è invece più difficile affermare su basi scienti­ fiche l’esistenza di relazioni con l’Italia peninsulare e la Si­ cilia. Il filtro adriatico vi si oppone ancora fortemente. Re­ lazioni commerciali col Mediterraneo centrale si sviluppe­ ranno solo nella media Età del bronzo in Occidente, grazie alle impostazioni, attestate da documenti in ogni caso non anteriori al 1600, di ceramiche micenee in Italia meridiona­ le, Sicilia, Eolie e Sardegna. Le condizioni per un vero e proprio mercato commerciale tra Egeo e Italia si realizzaro­ no solo nel 11 millennio. Che conclusioni si possono trarre? Che nel corso di cin­

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que millenni di proto-storia antica il Mediterraneo ha costi­ tuito un laboratorio formidabile, nel quale si sono verificate delle esperienze che hanno prodotto delle culture notevoli; ma queste civiltà si sono scarsamente irradiate. I fenomeni di convergenza sono stati piuttosto numerosi; ma i contatti piuttosto limitati. Il primo accenno di rottura della limita­ zione di questi spazi si ha nell’Egeo del in millennio; ma bi­ sognerà attendere ancora molti secoli perché un primo im­ pulso miceneo s’irradi, dalle coste asiatiche, sia verso l’Egit­ to sia verso il Mediterraneo centroccidentale. Ch r is t in e o c k r e n t Ringrazio Jean Guilaine. Affronte­ remo adesso un altro aspetto della lunga durata nel Mediter­ raneo, col dottor Grmek, che ci spiegherà come il Mediterraneo costituisca anche uno spazio-mondo biologico.

L ’uomo biologico nel Mediterraneo. m ir k o d r a z e n g r m e k Ho appena sentito fregiare il professor Braudel del titolo di eroe, pontefice, storico esem­ plare della lunga durata; aggiungo che gli compete anche quello di dottore in medicina honoris causa. Egli guarda il Mediterraneo in maniera assai simile a quella in cui un me­ dico osserva il corpo, le funzioni e il comportamento dei suoi pazienti. «E certa, comunque, - scrive Fernand Brau­ del nella sua grande opera - l’unità architettonica dello spa­ zio mediterraneo, di cui le montagne costituiscono lo “sche­ letro” : uno scheletro ingombrante, smisurato, onnipresente, e che fora ovunque la pelle » [Civiltà e imperi del Mediterra­ neo nell’età di Filippo II, voi. I, p. 11]. Fernand Braudel esa­ mina questa pelle per cercar di capire che cosa pulsa nel cuo­ re. Dall’osservazione dei sintomi esterni, dei fenomeni di superficie, delle convulsioni momentanee della storia, egli induce dei processi profondi, delle reazioni sotterranee, del­ le permanenze strutturali e delle lente evoluzioni. Guardan­ do al Mediterraneo come ad un organismo, Fernand Brau­ del sottolinea l’unità fondamentale di uno spazio determina­ to. Ma dedica anche un capitolo all’unità umana. A ll’epoca in cui scrisse il libro non si possedevano le attuali conoscen­ ze biologiche sul polimorfismo genetico dei popoli mediter­

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ranei, grazie alle quali oggi sappiamo che esso presenta una mescolanza straordinaria sin dai tempi preistorici. Azzardo, per brevità, una definizione impropria, schematica e in cer­ to senso scorretta: i popoli del Mediterraneo sono caratte­ rizzati da una particolare impurità razziale. Presenta una mescolanza assolutamente straordinaria di geni formatisi in seno a popolazioni che in una precedente epoca storica ave­ vano caratteristiche distinte. Le ricerche di J.-L. Angel sugli scheletri della Grecia arcaica e classica attestano un’estrema variabilità antropomorfica. Nello spazio mediterraneo non si assiste solo a quella compenetrazione di civiltà ormai am­ piamente dimostrata dagli storici, ma anche a uno straordi­ nario rimescolamento di fattori genetici. Ed è proprio nei grandi crogioli culturali - la Grecia arcaica e classica del se­ colo v i i sino al iv, Roma all’inizio della nostra era, i paesi arabi nel Medioevo, la Spagna del Rinascimento - che si realizza questo rimescolamento. Un altro fenomeno biologico, credo pivi conosciuto, è l’u­ nificazione microbica verificatasi all’incirca nei primi secoli della nostra era. Per la storia delle epidemie, il capitolo de­ dicato da Fernand Braudel alle comunicazioni, e in partico­ lare ai tempi postali, è assai illuminante. I microbi viaggiano come le lettere. Le lettere sono portate da esseri umani che sono anche portatori di microbi patogeni. I percorsi delle comunicazioni tracciati da Braudel sono esattamente quelli delle malattie contagiose. E , inversamente, studiando il pro­ pagarsi delle epidemie, si può ricostruire la rete viaria com­ merciale. Fernand Braudel ha scritto degli splendidi capitoli sulla rilevanza delle endemie: merito singolare, dato che la mag­ gior parte degli storici si sono perlopiù limitati ad interessar­ si alle epidemie. Si conosce sufficientemente bene la storia della peste e del colera; molto meno bene quella della mala­ ria e della tubercolosi, «assassine» terribili e tanto più mici­ diali in quanto silenziose. Il paludismo costituisce un problema molto complesso che gli storici hanno potuto districare solo recentissimamen­ te grazie al notevole progresso delle ricerche biologiche. In precedenza ci si limitava ad una spiegazione di tipo eziologi­ co piuttosto semplicistica: le paludi e l’aria insalubre; senon-

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ché esse non ne costituiscono la «causa» in senso stretto. In­ fatti, se non si conoscono le caratteristiche biologiche del germe e del vettore, al pari delle differenze tra i diversi ger­ mi e i diversi vettori interessati, non si possono mettere a punto rimedi efficaci per combattere questa realtà epide­ miologica. Prendiamo ad esempio la famosa spedizione ateniese in Sicilia. Disponiamo di alcuni testi di medicina dell’epoca di Pericle e sappiamo che quando gli Ateniesi organizzarono questa spedizione in Sicilia, alla fine del secolo v a. C ., co­ noscevano unicamente la febbre terzana benigna. Sbarcati in Sicilia, si trovano davanti alla febbre terzana maligna, di cui ignorano l’esistenza, e la considerano una malattia tra­ scurabile. Cosi il corpo di spedizione ateniese rimase vittima di una trappola biologica perché i suoi comandanti militari e i medici sottovalutarono le conseguenze di una forma par­ ticolarmente grave di paludismo. Altrettanto importanti per la ricerca storica sono gli studi relativi ai vettori del paludismo. Le zanzare sono diverse in relazione alla diversità dei luoghi e dei suoli. Giustamente Fernand Braudel sottolinea nella sua opera che i confini del­ le zone paludose sono diversi dalle frontiere politiche: le en­ demie se ne infischiano della politica. E questi confini ten­ dono a disporsi verticalmente. «La montagna nutre la pia­ nura», scrive Braudel: ossia il Plasmodium e determinati mi­ crobi gastrointestinali non si diffondono sulle alture. Prendiamo ora in considerazione l’aspetto che riguarda più direttamente l’uomo e che è oggetto di studio solo da poco tempo: intendo i costumi, l’immunità dovuta al contat­ to prolungato e, soprattutto, l’importanza dell’alimentazio­ ne. Quest’ultima è stata analizzata dal punto di vista quan­ titativo ma non qualitativo. Ma vi sono determinate sostan­ ze necessarie alla produzione delle immunoglobuline speci­ fiche. E determinate carenze spiegano l’enorme e improvvi­ sa diffusione delle malattie microbiche tra popolazioni apparentemente ben alimentate. Va inoltre ricordata l’im­ munità ereditaria determinata da malattie che proteggono dal paludismo, come ad esempio l’anemia mediterranea: la talassemia. Si tratta di una malattia assai grave, grazie alla quale, però, la popolazione di una zona paludosa può vedere

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enormemente aumentate le proprie possibilità di sopravvi­ vere alla malaria. In genere gli storici hanno avanzato due tipi di spiegazio­ ne: a) la malaria fa si che la gente non sia più in grado di col­ tivare la terra, da cui il degrado dell’agricoltura; b) i disordi­ ni politico-sociali e le sconfitte militari si ripercuotono nega­ tivamente sull’agricoltura, da cui l’aumento dei terreni pa­ ludosi e del conseguente paludismo. Fernand Braudel ha sa­ puto sfuggire a queste trappole. Egli osserva infatti molto opportunamente che la malaria riduce la capacità lavorativa dei contadini, ma anche che si diffonde se l’azione del con­ tadino si allenta: insomma, è insieme causa e conseguenza. E in effetti sembra esservi una specie di «doppio gioco», quasi un circolo vizioso, sicché diventa assai difficile indivi­ duare il fattore scatenante. Per quanto riguarda l’Italia e il mondo greco, osserviamo un peggioramento della situazione sanitaria intorno al secolo iv a. C., verso il n o m, in un certo periodo dell’alto Medioe­ vo, durante il Rinascimento. Perché proprio in questi mo­ menti e non in altri? Per il momento nessuno sa dare una ri­ sposta. E veniamo ad un problema tra i più seri e rilevanti della storia dell’umanità: l’incremento demografico e relativo au­ mento della vita media. È un fenomeno che finisce per con­ dizionare tutti gli altri. E non è facile darne una spiegazio­ ne. Quanta parte vi ha la dimensione biologica? E quanta quella umana? Alfred Perrenoud ha pubblicato recentemen­ te sulle «Annales» un articolo sul ruolo avuto dal biologico e dall’umano nella diminuzione della mortalità nel corso dei secoli. Non ha dato alcuna risposta definitiva; ma ha mo­ strato molto chiaramente che l’impennata demografica del­ l’Europa, frutto della diminuzione della mortalità, non può essere del tutto spiegata sulla base dei provvedimenti adot­ tati dagli uomini. Questi provvedimenti, infatti, non costi­ tuiscono una spiegazione esaustiva perché, per quanto im­ portanti, come la vaccinazione di Jenner e la clorazione del­ l’acqua, sono stati adottati quando la morbosità era già in declino. Studi demografici molto dettagliati hanno dimo­ strato, ad esempio, che la vaccinazione col B C G è interve­ nuta in un momento in cui si ottenevano già buoni risultati

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per via chirurgica e con l’areoterapia, e poi con gli antibio­ tici. Tuttavia, benché l’intervento dell’uomo non sia sempre all’origine del trend, è anche vero che oggi esso fa si che non si ripresentino determinate cause. La determinazione del ruolo avuto rispettivamente dal fattore biologico e da quello umano sarà unicamente possibile grazie alla stretta collaborazione tra storici e biologi, avendo la massima attenzione ai fatti storici. Trattando delle miserie nuove e antiche, Fernand Braudel pone delle domande molto pertinenti, solleva delle que­ stioni di grande portata alle quali lo storico non è in grado di rispondere unicamente coi propri strumenti, e i biologi pos­ sono per il momento chiarire solo in parte. In campo scien­ tifico, porre il problema correttamente significa avviarne la soluzione. Ch r i s t i n e o c k r e n t Ringrazio il dottor Grmek per la sua relazione particolarmente incisiva su un tema appassio­ nante che non mancherà di suscitare molte domande. Darei ora la parola al Rettore signora Ahrweiler che ci parlerà del tempo bizantino nel mondo mediterraneo.

Il tempo bizantino nel mondo mediterraneo. HÉLÈNE a h r w e i l e r Caro amico, si è parlato di lei come di un eroe; posso chiamarla pontifex? dato che lei oggi è co­ me un ponte tra tutti noi. Anche nei miei confronti, che re­ sto all’interno di un’area conosciuta grazie a lei, ossia il Me­ diterraneo, ma presento uno sconosciuto: Bisanzio. Lei ha spesso affermato che in campo storico qualsiasi ve­ rità vale solo nelle grandi linee. Cercherò pertanto di pre­ sentare la lunga durata di un Impero insieme mediterraneo e europeo sin dalla nascita. Una prima osservazione: il tem­ po bizantino è assai pili ampio dei limiti cronologici di que­ sto Impero (330-1453). Perché? Perché mentalità, compor­ tamenti e tecniche che caratterizzano questo periodo affon­ dano le loro radici nell’antichità. Analogamente, le realtà bi­ zantine, intendo le nuove realtà che emergono nel corso del

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millennio bizantino, prolungano il tempo bizantino oltre il I4 53\ A titolo d’esempio: Ulisse e Enea sono i simboli della per­ manenza dell’antichità in epoca bizantina; mentre san Nico­ la e la Xeniteia, la nostalgia, il rimpianto del proprio paese, prolungano nell’immaginario collettivo il tempo bizantino ben dopo Bisanzio. Il tratto più caratteristico della modernità bizantina rima­ ne l’accettazione del cristianesimo; ma questo carattere di modernità è dato anche dallo spostamento di gruppi e di in­ tere popolazioni nello spazio mediterraneo, per motivi che hanno a che fare con il mare, ossia i suoi commerci e la sua conquista. Che cosa significa precisamente conquistare il Mediterra­ neo? « Se vedi in sogno il mare e le onde, rassicurati perché diventerai padrone del mondo »: lo scrive un autore del se­ colo x nel suo Trattato dell'interpretazione dei sogni. Un impe­ ratore della stessa epoca, Niceforo Foca, che riconquistò le isole di Creta, Cipro e parte della Sicilia strappandole agli Arabi, dichiarava all’inviato dell’imperatore germanico: «La navigazione sui mari è in mano mia»; come dire: «Il mondo è in mano mia». Di che mare si tratta? Per i Bizantini il ma­ re s’identifica con l’alto mare, col pelagos - secondo il ter­ mine più in uso allora - , con la mesogeios. Il termine mesogeios è piuttosto inusitato ma designa una realtà affatto fa­ miliare per i Bizantini. Perché? Perché il dominio dei mari rivendicato da Bisanzio nel nome dell’eredità greco-romana, o più esattamente nel nome della propria vocazione univer­ sale, si estende al Mediterraneo nella sua globalità: il Mediterraneo col suo prolungamento naturale del Ponto Eusino, che fa di Costantinopoli il punto chiave dell’asse che ricolle­ ga Gibilterra al Bosforo Cimmerio. È questo mare, un tempo percorso da un capo all’altro dalle navi degli imprenditori greci di cui Ulisse resta la figu­ ra emblematica, questo mare poi dominato dalla pirateria sinché Roma non vi stabilirà la pax romana, la pace mediter­ ranea, a costituire l’eredità raccolta da Bisanzio. Bisanzio considerò il Mediterraneo un lago romano, ossia un lago bi­ zantino. Poiché Bisanzio fu sempre chiamata Roma e, se­ condo l’affermazione di Bury: «Bisanzio non è mai esistita,

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è stata Roma a morire nel 1453 »; un’esagerazione che qui possiamo quasi accettare. L ’Impero bizantino è nato «grande e fragile», si potrebbe dire in termini braudeliani. Sin dalla sua nascita Bisanzio considerò il Mediterraneo un mare interno che doveva ap­ punto permettergli di tenere sotto controllo un vasto Impe­ ro che si estendeva su tre continenti: Europa, Asia e Africa. La rete di basi navali che avvolge il Mediterraneo fa pensare a un controllo marittimo assai efficace. Costantinopoli viene approvvigionata col grano egiziano. Sono i naucleri - gli ar­ matori commercianti - a trasportarne i prodotti sino alla lontana Tuie, a stare ai documenti, e sono bizantini i porti d ’approdo delle materie prime provenienti dall’Occidente e daU’Estremo oriente. All’epoca di Giustiniano il mondo me­ diterraneo è unificato sotto l’egida di Costantinopoli: le stel­ le imperiali sono visibili in Nubia e nel Caucaso, sino al mar Caspio e a Gibilterra. Al centro di questa oikumene, insom­ ma del mondo civilizzato, si trova quel Mediterraneo che appartiene a Bisanzio ed è dominato da Costantinopoli, quel Mediterraneo che è ancora un lago cristiano. Lo Stato è strumento di Costantinopoli, della sua volontà di controlla­ re questo lago. Col trascorrere degli anni, l’impero diventa, per citare ancora Braudel, una specie di «sobborgo di Costantinopo­ li», e la Propontide resta sempre, nel suo insieme, un avam­ porto della grande capitale bizantina. L ’equilibrio si spezza bruscamente con la comparsa nelle acque mediterranee di un’altra potenza navale, marittima e «mondiale». Mi riferisco alla creazione del califfato di Da­ masco, califfato degli Omayyadi che, non va dimenticato, hanno costruito la loro flotta con l’aiuto di marinai bizanti­ ni. Con questa prima flotta dotata di equipaggi greci, gli Arabi potettero lanciare le loro truppe in operazioni di con­ quista e di saccheggio delle isole e del litorale. Ancor prima della fine del secolo vn, Costantinopoli fu assediata per ma­ re e per terra, mentre all’altra estremità del Mediterraneo, in Spagna, gli Arabi fondavano lo Stato di Cordova. Tutto ciò presuppone la conquista dell’intera Africa bizantina e il ridimensionamento del dominio bizantino sull’Egeo e lo Io­ nio. L ’area della «mezzaluna» e l’area della «croce» sono or­

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mai due aree in conflitto lungo una frontiera marittima per la quale si combatte aspramente. Il risultato di questa dispu­ ta, di questi contrasti e di questi conflitti, è la cessazione delle attività commerciali e della navigazione. «In campo storico qualsiasi verità vale solo nelle grandi li­ nee»: infatti ci sono delle eccezioni all’interno di questo ma­ re interno e, come dice Lopez con qualche esagerazione, «i rivieraschi del Mediterraneo sono ormai dei semplici conta­ dini dediti allo strumento delle acque ». Tra i due regimi, quello bizantino da una parte e musul­ mano dall’altra, s’instaura una specie d ’intesa. Un esempio può essere il condominio su Cipro. Ha un carattere sui gene­ ris che merita di essere analizzato; precisa infatti che le im­ poste pagate dai Ciprioti debbono venir suddivise tra Arabi e Bizantini. Insomma, quest’isola diventa una specie di pun­ to d’incontro tra nemici ormai secolari. Spartizione delle en­ trate fiscali a Cipro; spartizione del potere de facto nel Me­ diterraneo. Siamo ben lontani dall’epoca in cui il Mediterra­ neo era un lago bizantino. La militarizzazione del Mediterraneo, con le flotte arabe sparse per tutti i porti del Sud, induce sul versante cristiano un ripiegamento su se stessi da parte di ciascuno e la divisio­ ne in seno alla cristianità. Divisione segnata, grosso modo, dalla linea di demarcazione che percorre l’Adriatico, con i cristiani ortodossi a est e i cristiani cattolici a ovest. Un di­ vorzio che si realizza alla fine del secolo ix, per non dire al­ l’inizio, con l’incoronazione di Carlo Magno. Questa linea che divide la cristianità all’interno del Mediterraneo si con­ fonde con la linea che divide «mezzaluna» e «croce». Sa­ ranno le città italiane a riprendere, con le crociate, la guerra contro gli infedeli. Esattamente nel momento in cui l’impe­ ro bizantino diventa una specie di ristretto sobborgo di C o­ stantinopoli che resterà ancor libera sino al 1453. Finisco dicendo semplicemente questo: quando si citano le grandi capitali mediterranee, Atene, Roma, Gerusalem­ me, non bisognerà più dimenticare Costantinopoli. In quan­ to nuova Roma, essa è cristiana; in quanto nuova Gerusa­ lemme, la si può ritrovare come componente in tutte le me­ tropoli delle nostre civiltà europee e mediterranee. Nel seco­ lo iv, le coste euro-asiatiche del Bosforo furono preferite da

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Costantino alla regione di Troia, di Ilio, per costruirvi la ca­ pitale di un mondo rinnovato, ossia del mondo cristiano. Enea e Ulisse, rispettivamente figure centrali del mondo troiano e simbolo dell’unità greco-romana del Mediterra­ neo, hanno lasciato il posto a san Nicola, santo di Myra e di Bari. La durata bizantina, al pari dell’unità mediterranea, è espressa dal Libro dei miracoli di san Nicola, il cui nome, pronunciato con rispetto anche dai marinai musulmani, è venerato su tutte le sponde del Mediterraneo. Ancora una volta penso si possa concludere con un’affer­ mazione del nostro maestro: « Il passato non è mai comple­ tamente passato, e talvolta il presente si avvicina più al pas­ sato che al futuro». Ch r i s t i n e o c k r e n t Grazie a Hélène Ahrweiler per la vivacità e la concisione. Dopo Bisanzio, dopo i principi chia­ ve di Braudel ripresi in maniera forte da Hélène Ahrweiler - ossia il concetto di tempo e quello di spazio-mondo - pro­ pongo di passare al Mediterraneo musulmano assieme al professor Mantran.

Il Mediterraneo musulmano. ro bert m an tran Si tratta in effetti di un seguito natu­ rale. Ringrazio la signora Ahrweiler per aver menzionato più volte l’IsIam, e molto a proposito. Menzionerò a mia volta Bisanzio, anche perché non dimentico di esser stato un bizantinista, e la mia «conversione» non ha mutato i miei sentimenti. Ringrazio inoltre il nostro maestro, al quale i miei studi sul Mediterraneo musulmano devono moltissimo. L ’espressione «Mediterraneo musulmano» designa co­ munemente il dominio arabo in Mediterraneo e, più tardi, il dominio ottomano: essa sottolinea cosi implicitamente l’a­ spetto religioso. Si parla di Mediterraneo romano, di Mediterraneo bizantino, di Mediterraneo di Carlo V, di Mediter­ raneo degli Spagnoli, ecc., ma si dice «Mediterraneo musul­ mano». Non è un’espressione neutra. Esprime una visione del mondo mediterraneo di stampo occidentale, europeo, la­ tino. Rientra in una tradizione culturale che ha contrasse­ gnato la durata mediterranea per più d’un millennio: dal

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secolo v i i ai nostri giorni. Ed è anche segno dell’ignoranza, più o meno intenzionale, dei diversi elementi che compon­ gono questo mondo; considerato invece come un tutto unico e definito unicamente sulla base della religione. Ma il mon­ do dell’ IsIam è assai variegato e nient’affatto monolitico. Soffermiamoci sulla prima espansione musulmana, ossia il periodo arabo che va dal secolo vii al x circa: si può con­ statare che l’obiettivo essenziale dell’ondata conquistatrice seguita alla morte di Maometto fu la sottomissione all’IsIam di territori in mano agli infedeli e non l’islamizzazione degli abitanti di questi territori. L ’islamizzazione è esclusa, si tratta invece di conquista di terre non musulmane: è la vo­ lontà individuale che deve portare all’IsIam, mentre la ma­ nifestazione della potenza dell’IsIam deve spingere alla con­ versione. Se non altro nella fase iniziale, non c’è volontà di sottomettere i popoli ad un’unica religione. Insomma, la conversione non era il fine della conquista; forse anche per una specie di identificazione tra Islam e arabo; per cui gli Arabi si ritenevano unici «titolari» della fede rivelata da Maometto, i veri «detentori» della religione. La superiorità di questa fede la si dimostrava con la sottomissione dei non musulmani. Cosa che si è realizzata, nel Mediterraneo, nei confronti delle popolazioni insediate sulle coste orientali del Medio oriente e sulle coste meridionali, ossia dell’intera Africa del nord. Per la maggior parte queste popolazioni non erano greche e si convertirono all’IsIam a poco a poco. Le ultime conversioni di cristiani nordafricani datano dei secoli x-xi, sono cioè posteriori di quattro secoli alla conqui­ sta. E vi sono cristiani rimasti tali in Siria, Libano, Palestina ed Egitto. La conversione allTslam di alcune di queste po­ polazioni è probabilmente dovuta all’intento sempre più dif­ fuso di entrare a far parte di una società trionfante, vittorio­ sa, di esservi ammesse senza riserve. Di conseguenza, i mu­ sulmani, minoritari in Mediterraneo al momento della con­ quista, diventarono maggioritari, col passar del tempo, nei territori da loro occupati. Parallelamente all’espansione religiosa si ha un’espansio­ ne culturale. La lingua araba, veicolo della religione, diventa anche veicolo d’una nuova civiltà, con caratteri originali ispirati alle tradizioni culturali arabe, ma anche alle tradi­

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zioni locali dei popoli rivieraschi del Mediterraneo; per­ ché è di fatto impossibile negare puramente e semplicemen­ te Bisanzio, l’eredità romana, e persino quella dell’antichità greco-romana. I Bizantini hanno trasmesso la filosofia greca agli Arabi che, a loro volta, hanno trasmesso la propria civil­ tà all’insieme del mondo arabo-mediterraneo musulmano. Certo la conquista militare araba ha contribuito a modi­ ficare il paesaggio umano e religioso del Mediterraneo; ma è grazie alla sua civiltà che il mondo musulmano ha avuto un ruolo di protagonista con le sue filosofie, i suoi scienziati, i suoi medici, i suoi mercanti. Tra il secolo vra e la prima me­ tà del ix il Mediterraneo è percorso da un capo all’altro dal commercio musulmano esercitato da mercanti musulmani sunniti e sciiti. Dalle coste spagnole a quelle del Medio oriente e oltre, il Mediterraneo li fa ritrovare in terra musul­ mana, in un mondo che capiscono e conoscono. Tutti questi uomini che sostanziano l’espansione musulmana, al pari del­ la supremazia musulmana sui mondi antico, bizantino, cri­ stiano e medievale, hanno contribuito alla diffusione di que­ sta civiltà attraverso due grandi aree mediterranee: la Spa­ gna dapprima, e poi la Sicilia. E in questo modo hanno fatto si che, per tre secoli, il mondo cristiano-medievale abbia be­ neficiato della fioritura intellettuale e artistica, sebbene in misura più limitata, dei musulmani. La signora Ahrweiler ci ha appena parlato delle grandi capitali mediterranee. Anche nel mondo musulmano mediterraneo esistono delle grandi capitali: Damasco, Il Cairo, fondata alla fine del secolo x, Fez, Kai'rouan, Cordova e molte altre; esse sono creazioni originali di una civiltà che non si può espungere dal mondo della storia. Tra i secoli xi e xv il mondo musulmano mediterraneo si ripartisce. Vede nascere dinastie locali, non arabe questa volta; dinastie berbere in Nordafrica, dinastie turche (Selgiuchidi, Mamelucchi e altri) in Medio oriente. Ma il domi­ nio dell’IsIam continua sulla fascia meridionale e orientale del Mediterraneo, ed è in questo momento che l’islamizzazione si estende sensibilmente. Perché se i mercanti occi­ dentali, i Genovesi, i Veneziani, gli Amalfitani e altri, occu­ pano un posto sempre più rilevante nel grande commercio mediterraneo, ciò non significa certo la scomparsa dei mer­

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canti musulmani. Questi esercitano infatti validamente lun­ go le coste, siriane, egiziane, nordafricane, del Maghreb. Non sono più i grandi commercianti d’un tempo, ma resta­ no degli indispensabili intermediari. Passiamo ora al secondo grande periodo della presenza musulmana nel Mediterraneo: l’impero ottomano. Si esten­ de dall’Asia minore - l’odierna Anatolia, l’attuale Turchia - all’Europa balcanica non conquistata dagli Arabi. Per contro, non comprende né la Spagna né la Provenza, né al­ cune altre zone mediterranee, come la Sicilia, ad esempio. Questo periodo è caratterizzato da un governo centrale assai forte che s’incarna nella persona del sultano e del suo brac­ cio destro, il gran visir; ma anche da un sistema amministra­ tivo territoriale suddiviso in province. Alcune godono di un’autonomia relativamente ampia: l’Egitto, le Reggenze barbaresche (Algeria, Tunisia, Tripolitania). Il potere otto­ mano si fonda su un esercito e un’amministrazione di prim’ordine. La scoperta degli archivi ottomani e la relativa utilizzazione, che risale a una quarantina d ’anni fa, hanno permesso di rivedere un buon numero di idee e di pregiudizi relativi agli Ottomani. Non sono precisamente degli stinchi di santo, anzi; e non credo che la signora Ahrweiler vorrà smentirmi... Tuttavia, anche se i problemi politici contem­ poranei portano a nascondere questa realtà, al tempo degli Ottomani non ci fu né islamizzazione né ottomanizzazione delle popolazioni locali. Esse conservarono i loro caratteri specifici, la loro religione, la loro lingua, molto spesso l’orga­ nizzazione sociale, i regolamenti locali, le attività economi­ che. Gli Ottomani esigevano danaro, prodotti e uomini, ma non hanno mai cercato di ottomanizzare a tutti i costi, di turchificare ogni popolo e ogni gruppo; ciascuna regione po­ tè conservare i suoi caratteri specifici, cosa che spiega l’e­ mergere, nel xvm e soprattutto nel xix secolo, di quei nazio­ nalismi di cui, credo, si parlerà tra poco. Come si esercitò l’influenza dell’Islam sul mondo mediterraneo durante il periodo ottomano? Tramite un potere forte, dotato di un esercito e di una marina non trascurabile la cui ossatura era spesso costituita da Greci diventati Otto­ mani. Perché questi Ottomani non sono esclusivamente Turchi, ma altresì Arabi, Armeni, Greci, Serbi, Egiziani,

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Nordafricani. L ’Impero ottomano è un mondo non del tutto unitario e assai variegato che riconosce, però, la supremazia di un potere centrale impersonato dal sultano. L ’influenza dell’IsIam si realizza grazie al potere, ma anche grazie al po­ polamento turco in particolar modo nei Balcani: in Bulgaria, di cui si parla molto proprio in questi giorni; in alcune zone della Grecia e dell’attuale Iugoslavia: la Bosnia, la zona di Sarajevo. E si realizza soprattutto con la costruzione di mo­ numenti religiosi, in particolar modo di moschee. Si è soliti parlare di stile architettonico ottomano: in realtà, entrando in questa zona della Bosnia, o percorrendo quella parte con­ siderevole di mondo mediterraneo che va dalla Siria e l’E ­ gitto sino ad Algeri, si può ritrovare, in ogni angolo già sot­ toposto all’impero ottomano, uno stile genuinamente impe­ riale caratterizzato dalla costruzione di grandi moschee. Questa architettura segna i confini geografici di un predo­ minio che va dalla Iugoslavia all’Algeria passando per l’Oriente mediterraneo. Al pari di tutti gli imperi, dopo aver conosciuto un perio­ do di grande prosperità - nel secolo xvi con Solimano il Magnifico, periodo celebrato da Fernand Braudel - , l’im ­ pero ottomano perde la propria importanza economica. Il Mediterraneo è abbandonato da un certo numero di mer­ canti occidentali, non certo di secondo rango, attratti dall’o­ ceano Atlantico e dall’oceano Indiano e, oltre, dal Pacifico. A partire da questo momento, l’impero vede svanire parte delle sue ricchezze, vede ridursi considerevolmente ciò che ne costituiva la forza e, indebolito, diventa oggetto delle brame delle grandi potenze. Nel secolo xix, queste ultime, sulla base di interessi clientelari sia politici sia religiosi, mi­ rano a smembrarlo e a spartirselo. Qualcosa che si chiamerà più tardi la «questione d ’Oriente». Ch r i s t i n e o c k r e n t Grazie al professor Mantran. Mau­ rice Aymard parlerà ora proprio di ciò cui Robert Mantran ha appena accennato: quella specie di flusso storico dall’Eu­ ropa strettamente mediterranea all’Europa atlantica, richia­ mandoci cosi un altro precetto braudeliano: la storia è prima di tutto geografia.

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Il Mediterraneo, l ’Atlantico e l ’Europa. M a u r ic e a y m a r d Siamo qui per toglierci qualche sod­ disfazione, ossia ribadire i nostri disaccordi e approfittare della presenza di Fernand Braudel per fargli delle domande; e anche per stuzzicarlo un po’ , garbatamente s’intende. E stato lui stesso, del resto, che ci ha invitati ad occuparci del Mediterraneo attuale, del Mediterraneo nel quale vivremo, spero ancora a lungo, nei prossimi decenni. Sulla base della sua opera vorrei interrogarmi sui rapporti tra Mediterraneo e Europa. Nel suo libro egli privilegia la lunga durata del Mediterra­ neo, le continuità, le permanenze. Sembra invece meno in­ teressato alle dinamiche che il Mediterraneo ha attivato e subito; mentre le spaccature che vi si sono verificate sono presentate come spaccature interne, profonde, come quella dei tre mondi separati (cristianità occidentale, Bisanzio, Islam) che ancor oggi lo compongono. Mi piacerebbe porre delle domande a Fernand Braudel sulle spaccature e i rap­ porti assai ambigui che si sono avuti tra Mediterraneo e Eu­ ropa atlantica, dapprima, e Europa tout court, in seguito. Ho l’impressione che l’Europa nella quale viviamo sia stata costruita dal Mediterraneo anche per quanto riguarda le sue profonde divisioni. La signora Ahrweiler ricordava poco fa la frontiera che separava Roma e Bisanzio: una frontiera che si è prolungata sino al Baltico - cosa che non può conside­ rarsi puramente casuale - e che vige ancor oggi. Ritorniamo alla lunga durata e concediamoci un millennio: dalla fine del primo alla fine del secondo. Quest’Europa, almeno mi sem­ bra, ha realizzato la propria autonomia assai lentamente al­ l’inizio, più velocemente e più violentemente in seguito, e si è costruita a partire dal Mediterraneo e grazie al Mediterra­ neo; ma nello stesso tempo contro il Mediterraneo: si tratta forse della situazione nella quale ancor oggi viviamo. Il Mediterraneo ha dato molto all’Europa atlantica il cui nucleo europeo si situa nell’Europa nordoccidentale, tra Senna e Reno, punto di partenza della riconquista europea sia in direzione est che sud. Il Mediterraneo ha cosi finito per imporre il proprio modello di vita. Ha regalato all’Eu­

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ropa atlantica le piante che coltivava, in particolare la vite, che si è spinta molto a nord, in luoghi dove sembra difficile si sia potuto produrre in precedenza un vino bevibile. Le ha trasmesso inoltre il suo standard di consumi, una religione monoteista, un’organizzazione religiosa dominata da Roma sino alla Riforma. Su un orizzonte più vasto, il Mediterra­ neo ha dato a quest’Europa romanizzata le sue tecniche, la sua strumentazione concettuale e culturale, la sua lingua, il diritto, le istituzioni statali e un urbanesimo che conferiva peso e autorità alle città nei confronti del territorio circo­ stante popolato dai villani, ossia dai pagani. E le ha conse­ gnato per intero il prestigio della scrittura, con l’indefessa trascrizione dei manoscritti, con i suoi monaci che copiano e ricopiano sino alla notte dei tempi continuando l’opera de­ gli scribi dell’antichità. Le ha consegnato gli strumenti per la misura del tempo, il quadrante solare, sin nel nord della Scozia; la clessidra, sino in Olanda, dove gelava nei periodi più freddi dell’inverno. E mi piacerebbe molto scrivere un romanzo che cominciasse con questa frase: « L ’acqua gelava nelle clessidre... » Si trattava infatti di un vero e proprio simbolo che il Me­ diterraneo proiettava sin nell’Europa del nord. Il successivo sviluppo mostra che l’Europa atlantica, tra Medioevo e epo­ ca moderna, non ha rinnegato in tutto e per tutto quest’ere­ dità. E anzi, in molti casi, l’ha conservata e arricchita, pur sviluppando la propria autonomia. Ha cosi inventato quella serie di strumenti tecnici la cui diffusione ha scandito la sto­ ria dell’Occidente medievale sino ai nostri giorni. In tutto ciò l’Europa atlantica ha giocato una specie di doppio gioco. Le tappe di questo sviluppo sono relativamente ben indivi­ duate, ordinarle secondo una prospettiva sarà tuttavia di una certa utilità. Il Medioevo ci fa registrare una rivoluzione agricola con la rotazione delle colture, una rivoluzione dei sistemi di tra­ sporto e degli obblighi collettivi, la riorganizzazione dei campi, la comparsa dell’aratro pesante a ruote variabili, il cavallo come animale da lavoro e relativa bardatura, la car­ retta, il timone sul dritto di poppa. Gli storici della tecnolo­ gia hanno ampiamente insistito su queste grandi invenzioni della fine del I millennio che sono alla base del notevole svi­

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luppo dell’Europa nordoccidentale. Poi l’Europa è andata progressivamente affermando, contro la pretesa monopo­ listica del latino, anche nel campo dell’insegnamento, la molteplicità delle lingue locali, delle lingue volgari, sinché una di queste lingue volgari - in un primo momento il fran­ cese, poi l’inglese - non intacca il monopolio della cultura dotta. L ’Europa atlantica ha inventato nuove tecniche che af­ fiancano a quelle del legno una metallurgia più sofisticata che permette una maggiore utilizzazione del ferro. Ha in­ ventato anche nuove macchine, come i mulini ad acqua e gli orologi meccanici, che i Fiamminghi costruiscono persino in Sicilia, ripercorrendo a ritroso quel cammino che aveva por­ tato alla fabbricazione di clessidre nell’Europa del nord. Al­ l’Europa atlantica si deve l’invenzione dell’artiglieria e della stampa, che rivoluzionerà il modo di produzione e le forme di diffusione della scrittura. Infine, e soprattutto, l’Europa atlantica ha imposto una duplice e decisiva spaccatura del­ l’unità: affermando, contro la concezione di uno Stato uni­ tario di dimensioni imperiali, quella di uno Stato che coinci­ de con l’autorità di un principe e che s’identificherà poi con la nazione. E questo il mondo nel quale ancor oggi viviamo e che consideriamo il quadro normale e necessario della vita politica, insomma dell’equilibrio da mantenere o da imporre tra forze contrastanti. Tutte queste novità l’Europa atlantica ha tentato d’imporle, non senza successo, sia verso sud che verso est. È a partire dall’Europa nordoccidentale, infatti, che si è avuta la grande spinta in direzione dell’est, una spinta che si è cerca­ to evidentemente di contenere sul piano politico tra i secoli xvi e xvn, ma i cui effetti si ritrovano ugualmente negli ele­ menti generali, di civiltà, nell’urbanesimo, nelle stesse mo­ dalità di funzionamento dello Stato. Fernand Braudel, alla luce dei lavori che lei ha dedicato al capitalismo e poi alla Francia non sarebbe oggi tentato, se dovesse riscrivere Civiltà e imperi del Mediterraneo, di ricom­ prendervi questa dinamica di lunga durata, una durata più che millenaria, anzi quasi di un millennio e mezzo? Non si spaventi, è un impegno che in ogni caso non le si chiede di

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onorare entro domattina: ma riscriverebbe oggi lo stesso libro? fern a n d br a u d el Certamente no. Ch r i s t i n e o c k r e n t Risposta telegrafica che non chiude però definitivamente la partita, e anzi potremmo averne una prosecuzione immediata. Maurice Aymard ha infatti bril­ lantemente trattato le spaccature in seno al Mediterraneo, e il professor Godinho, storico portoghese, si appresta ad illu­ strarci il ruolo avuto dagli Europei delTAtlantico nel Mediterraneo.

Il Mediterraneo nell’orizzonte degli Europei dell'Atlantico. v it t o r in o m . g o d in h o Come si presenta questa Europa che comprende Mediterraneo e mare del Nord? Il Mediter­ raneo è un mondo costituito da diverse eredità; uno spazio in cui s’incrociano civiltà, economie, tecnologie: una zona di conflitti ma anche di collaborazione, con città assai ricche e un mondo contadino diversificato, con un’attività commer­ ciale intensissima basata su una navigazione capillare e d’im­ portanza primaria. A ll’altro polo il mare del Nord e il Baltico, attivissimi e già «industrializzati» sin dai secoli xi e xn come ha ben di­ mostrato Michael Postan, non registrano quella stratifica­ zione di ricchezza che si ritrova in Mediterraneo. Vi si ritro­ va invece un commercio di prodotti voluminosi e pesanti (cereali, metalli, pesce, sale) cui corrispondono diversi tipi di navigazione: le galere del mare Interno vi sono del tutto as­ senti. Tra questi due mondi mercanti e viaggiatori si spostano per via fluviale o via terra, si recano alle fiere e stabiliscono ben presto delle relazioni tra regioni « industrializzate » co­ me l’Italia settentrionale e i Paesi Bassi. Grazie alla circola­ zione via terra queste regioni costituiscono un insieme: vi si diffonde una civiltà, una civiltà attestata dall’architettura romanica e da quella gotica. Oltre lo stretto di Gibilterra, e al di qua della Manica, l’Europa atlantica si presenterebbe come una «periferia», un’appendice? E sarebbero quindi stati dei «Mediterranei»

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ad investirvi, a fondare imprese, a diffondere una tecnolo­ gia, favorendo cosi una crescita ritenuta assai lenta sino alla fine del secolo xv? In effetti, le carte degli atlanti storici in­ dicano che in linea generale si è portati a ridurre questo «Atlantico europeo» ad una specie di zona di transito tra Mediterraneo e mare del Nord. Cerchiamo di adottare una diversa prospettiva. La realtà è che questo mondo atlantico si è sviluppato assai presto, sin dai secoli xi-xn. Uno svilup­ po da porsi in relazione, entro limiti ben determinati, con i due complessi economici e culturali di cui abbiamo appena parlato. Certo, ha potuto giovarsi, a sud, dell’apporto isla­ mico, fondamentale per quanto riguarda la navigazione, l’organizzazione del commercio, l’espansione delle città; e si è anche giovato dell’apporto del Nord, in particolare di quello dei Normanni per quanto riguarda le coste della G a­ lizia. Ma questi apporti non bastano a spiegare uno sviluppo che va da Siviglia, Lisbona e Oporto sin nel cuore del golfo di Guascogna, che costeggia la Bretagna, penetra nella Ma­ nica, raggiunge il sud-ovest dellTnghilterra e dell’Irlanda, da Bristol a Galway. Questo mondo si fonda su una produzione autoctona, olio, vino, cereali, legno: i cantieri navali sono attivissimi e il ferro della Biscaglia - quantitativamente maggiore della totalità del ferro mediterraneo - renderà possibile il grande decollo, l’ingresso nell’epoca moderna. S ’inventano navi di nuovo tipo - le naves, le coquas come le si chiama nel Mediterraneo - col timone sul dritto di poppa che permette a Biscaglini e Portoghesi di allontanarsi dalle coste e inoltrarsi nell’Atlantico. S ’instaura cosi una vasta rete di comunicazioni: le tele d’Irlanda sbarcano in Portogallo, i prodotti dell’Algarve im­ boccano la via del Nord... Sin dal secolo xn si possono tro­ vare Portoghesi nel Mediterraneo orientale, in Levante, ma anche a Bruges; pescano nelle acque territoriali inglesi. Un vero e proprio complesso economico si costituisce nell’Euro­ pa atlantica contando unicamente sulle proprie forze; esso estende le sue propaggini, da una parte, nel mare del Nord, dall’altra nel Mediterraneo. Il pesce portoghese arriva rego­ larmente nei porti di Valencia e di Barcellona. I Biscaglini percorrono regolarmente il Mediterraneo occidentale: sono

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i carrettieri del mare Interno, tra i porti dell’Africa, del Maghreb, i porti della Catalogna, di Valencia, delle Baleari e delle coste italiane dove anche i Portoghesi sono presenti in gran numero: vi esercitano la pirateria, cercano noli nei diversi porti del Mediterraneo, si diffondono infine verso il Nord. Insomma, questo mondo atlantico ha una sua dinami­ ca che non può essere unicamente spiegata in base all’effetto di dinamizzazione determinato dall’impatto con le econo­ mie mediterranee e nordiche. E questo è un primo punto da tener presente. Certo i «Mediterranei» sono presenti in questo comples­ so atlantico, ma la presenza italiana si fa veramente conside­ revole solo oltre Southampton, mentre non lo è né a Bristol né a Galway né nei porti cantabrici; d’altra parte, la presen­ za dei « Mediterranei » nei porti portoghesi non sarà mai co­ si dinamica come nei porti castigliani. Precondizioni di que­ sto sviluppo del complesso atlantico sono l’annessione, nel 1 200, delle signorie di Biscaglia e delle Asturie alla Corona di Castiglia; la riconquista a partire dalle vie marittime; la conquista di Siviglia nel 1 148 ad opera del ricco mercante Bonifazio. Certo, la creazione di quello che ho chiamato « complesso atlantico» si giova della convergenza di tecnologie mediter­ ranee e atlantiche, ed è innegabile l’importanza della pre­ senza degli Italiani con le loro galere per quanto riguarda la guerra navale; ma né la marina galiziana, né quella cantabrica, né quella portoghese si sono costituite grazie ad essi. So­ no gli apporti culturali e non la presenza dei mercanti italia­ ni a caratterizzare l’influenza del Mediterraneo sul mondo Atlantico. Gli Italiani vi hanno contribuito con le loro cono­ scenze, la bussola, le carte nautiche - «la carta di navigare» - a partire dalla fine del secolo xm. E questo è un fatto im­ portantissimo, perché tale cartografia innesca un’evoluzione e una rivoluzione culturale decisiva in sintonia con i cambia­ menti economico-sociali. Prima d’allora si disponeva d’una cartografia simbolica e mitica, con una Terra inscritta in un cerchio o un’ellisse, un oceano cosparso di isole (isole della Felicità, isole Fortuna­ te o dell’infelicità), cui seguiva una ripartizione in due siste­ mi: uno ternario e l’altro quaternario. Quattro fiumi scen­

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devano dal Paradiso e terminavano in tre bracci: il Nilo, il Niger, il Senegai, e tutto veniva costruito - i punti cardina­ li, i venti, ecc. - sulla combinazione di questi due sistemi. Si trattava insomma di un mondo mitico che aveva la fun­ zione di rappresentare il destino dell’uomo e il destino della Terra, e non quella di costituire una rappresentazione fisica della Terra. La «carta di navigare», invece, basata sulla rosa dei venti, fa riferimento all’uso della bussola, calcola il per­ corso « a stima » e consente una rappresentazione funziona­ le: ciò di cui ha bisogno il navigante per far ritorno al porto di partenza o ritrovare la rotta di destinazione. Questa carta «operativa» si perfezionerà pur restando inserita nella car­ tografia mitica. Vi si ritroverà cosi un centro effettivamente noto e conosciuto, il Mediterraneo, all’interno di un mondo circostante simbolico. Questa cartografia si svilupperà sin verso la metà del se­ colo xv, limitandosi però a sfruttare le sue potenzialità in­ terne. La traduzione di Tolomeo non le arrecherà alcun van­ taggio reale, perché Tolomeo era troppo avanzato col suo si­ stema di coordinate, e troppo arretrato con tutte le sue fan­ tasie e le sue concezioni erronee, come ad esempio quella della chiusura dell’oceano Indiano. Tutto ciò non poteva non portare ad un’impasse. Senonché, proprio in quell’epo­ ca, si profila una nuova cartografia del complesso atlantico ad opera di Jaime di Maiorca, che nel 14 10 si trasferisce in Portogallo ad insegnare cartografia. Questa nuova cartografia si basa sia sulla nautica, con la sua osservazione delle stelle e del sole, sia sul calcolo delle distanze determinate a partire dalle diverse altezze degli astri, sia, infine, sul calcolo delle latitudini, e quindi sulla scala delle latitudini che ne consente una rappresentazione moderna. La conoscenza precisa delle coste consente di si­ tuare questo Mediterraneo in un insieme sempre più realisti­ co e, se si confronta il mappamondo - detto portoghese del 1502 con l’atlante catalano del 1375-8 1, non si può non vederne la grande differenza. E il mondo, finalmente! È la possibilità di pensare gli imperi! E si tratta di un nuovo stru­ mento politico, perché, senza cartografia, non si può pensa­ re né in termini di Stato nazionale, né in termini di politica internazionale. Ma in tutti questi cambiamenti il Mediter­

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raneo è un po’ trascurato. I cartografi non si curano di cor­ reggere l’errore di latitudine che ricorre in tutte le carte del Mediterraneo e che situa sullo stesso parallelo Gibilterra e il mar Nero. Si tratta del resto di un genere di errori che ver­ ranno corretti solo nel 1527-29, e di una correzione che in genere non sarà riportata nella cartografia posteriore. Il Me­ diterraneo resta cosi quel mondo che fu concepito nel secolo xv, benché integrato in un insieme assai più vasto: d’ora in avanti non sarà piti rappresentato isolatamente, ma ricolle­ gato all’Atlantico e all’oceano Indiano. Nonostante l’instaurazione di economie oceaniche, nono­ stante l’oscillazione tra periodi di recessione e di ripresa do­ vuti all’industrializzazione e ai nuovi circuiti commerciali, nonostante le ripetute crisi (che non colpirono il solo Mediterraneo, come la crisi dell’industria tessile inglese o quella della rotta del Capo), il Mediterraneo non è dunque stato annientato dall’espansione oceanica. E anzi direi che è la re­ te di scambi su scala mondiale che ha sostenuto e impronta­ to questa economia mediterranea creando nuove possibilità per i mercanti e, più in generale, per i popoli mediterranei, in direzione dell’Atlantico e dell’oceano Indiano. Il Mediterraneo ha potuto conservarsi grazie all’espansione atlan­ tica. Ch r is t in e o c k r e n t Grazie al professor Godinho. Per quanto ci riguarda restiamo nel mondo della navigazione. Alain Guillerm, uno dei maggiori specialisti di storia della marineria, ci parlerà del ruolo della galera, di quella che na­ viga, naturalmente.

La galera, regina del Mediterraneo da Salamina a Lepanto. a l a in g u il l e r m Quello che colpisce della galera, la pri­ ma cosa che bisogna prendere in considerazione, è la sua bellezza. Non esiste costruzione navale altrettanto bella. Bellezza e razionalità contraddistinguono la galera, perché la serie di vincoli che impone, dovuti al numero di rematori e alle tecniche di fabbricazione, esigono un estremo rigore. Ho voluto premettere queste cose prima di entrare nel te­ ma braudeliano della lunga durata.

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Citiamo un’affermazione di Augustin Jal datata 1840: « La galera affusolata del secolo xvm è una versione piutto­ sto fedele della galera egiziana del secolo xv a. C. E un dato non privo di valore agli occhi degli scienziati». Un secolo prima, Montesquieu scriveva invece: «C i è impossibile va­ lutare la marina degli antichi perché abbiamo abbandonato una pratica nella quale avevamo acquisito una grande supe­ riorità nei loro confronti ». Sono le due affermazioni che mi sembrano riassumere l’opposizione che si ha tra storia classica, quella di Montes­ quieu, e storia della lunga durata, quella di Jal, che gli ar­ cheologi hanno scoperto con un secolo di anticipo rispetto agli storici, per poi nuovamente smarrirla per mancanza di una «visione interscienze», come direbbe Fernand Braudel. Suddividiamo ora il nostro studio della galera in tre pun­ ti: quello di un popolo, perché ogni popolo aveva la sua gale­ ra; quello di una nave; quello di una battaglia decisiva. Per quanto riguarda il primo punto, dirò: la galera è un dono del Nilo. Sono stati gli Egiziani a creare la galera. Di­ scendevano il Nilo col vento e il favore della corrente. Il problema era risalirlo; hanno costruito delle barche più affu­ solate. La più antica galera conosciuta data del 2650 a. C. E la fedele compagna del faraone Cheope, che doveva essere un po’ megalomane; questa galera ha infatti una lunghezza di 43 metri e una larghezza di 6. Sono le dimensioni de La Réale di Luigi X IV , quasi esattamente. Passiamo ora ad una storia che possiamo conoscere un po’ meglio, quella dei Fenici e dei Greci che hanno a che fare con l’invenzione della bireme e della trireme. I Fenici - in primo luogo grazie alla creazione della città-stato oligarchica e commerciale, nella quale il re non è più il despota ma sem­ plicemente il rappresentante del potere religioso - rivolu­ zionano il sistema di propulsione aggiungendo un secondo ordine di rematori invece di allungare la nave. Perché se la si fosse allungata oltre un certo limite - cosa che probabil­ mente i cedri del Libano avrebbero consentito - , la nave non avrebbe potuto virare per l’eccessiva lunghezza. Dun­ que ci troviamo davanti a questa rivoluzione tecnologica delle navi poliremi. Poi, nel secolo vii a. C ., quando la bireme s’è ormai dif-

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fusa, Aminocle inventa a Corinto la trireme. Si registra cosi un nuovo considerevole aumento della forza propulsiva. La trireme ha 170 rematori e può imbarcare 200 uomini. E già una piccola nave, lunga 35-40 metri e larga 3,50, senza con­ tare le impavesate. Col suo sperone di bronzo diventa deci­ samente efficace. E veniamo alla battaglia: Salamina. Quando il re di Per­ sia, il Re dei Re, decide d’invadere la Grecia - questa volta seriamente, non come a Maratona - con un vero esercito e una vera flotta, la battaglia decisiva di Salamina si svolge se­ condo uno schema affatto classico. Ma chi affrontano le 380 navi greche? I Fenici. L ’affermazione di Eschilo: «duecento incrociatori leggeri operavano in appoggio all’armata del mare», significa a mio avviso duecento triremi fenice. I Greci vinsero la battaglia assai semplicemente. A una signo­ ra che gli chiedeva come faceva a vincere le battaglie, un ge­ nerale rispose: «Attacco al centro e accerchio le ali». La bat­ taglia di Salamina è stata vinta in questo modo. I Fenici so­ no stati speronati e affondati con l’arrembaggio. In seguito, la nave classica, quella delle grandi conquiste dell’antichità, sarà la quinquereme. La quinquereme è da porsi in relazione al problema che le potenze ellenistiche pongono a Roma. La quinquereme è una nave più larga, di 4,80 metri per 40 di lunghezza, che presuppone però la sco­ perta di una soluzione tecnica che la renderà quasi perfetta, visto che non esistono navi assolutamente perfette: il primo ordine di remi è al livello dell’acqua ed è costituito da nor­ mali remi corti; il secondo prevede due rematori e non più uno solo; il terzo, che sarebbe troppo alto, è «alleviato», dal punto di vista dello sforzo da produrre, dalla presenza del­ l’impavesata. I Romani, peraltro, trasformeranno questa im­ pavesata, sporgente dalle due fiancate, in ponte di combat­ timento dando cosi la possibilità di operare alla loro fan­ teria. Duello tra Cartagine e Roma, prima guerra punica, che è una guerra navale, quindi vittoria punica, perché i Romani dispongono di marinai ma non di alleati marittimi. Poi i Ro­ mani inventano un’arma: il rostro, ossia una passerella che offre un ponte d ’arrembaggio alla legione che può cosi ma­ novrare sull’acqua come a terra. È la rovina di Cartagine: gli

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sforzi di Annibaie, come dice l’ammiraglio Mahan, saranno del tutto vani, per mancanza di punti d ’appoggio. Potrà at­ traversare la Spagna, le Gallie, l’Italia, ma non avrà punti d’appoggio in mare. Ha detto Polibio: « Senza il dominio sui mari Roma non avrebbe mai conquistato Cartagine, né la Macedonia, né vinto i Seleucidi, i discendenti di Alessandro». Si può ag­ giungere che non avrebbe conquistato l’Egitto dei Lagidi e di Antonio e di Cleopatra. Per quanto riguarda la battaglia di Azio, è ormai assodato, dopo il libro pubblicato dal pro­ fessor Tarn nel 1930, che non si avevano, da una parte, del­ le navi mostruose e gigantesche in mano a Marco Antonio né, dall’altra, delle piccole imbarcazioni, in mano ad Otta­ viano, il futuro Augusto. Del resto basta leggere VEneide di Virgilio: contiene una descrizione della battaglia molto det­ tagliata. Non sappiamo se vi abbia presenziato, in ogni caso dovette essere molto ben informato. E descrive una batta­ glia tra navi delle stesse dimensioni. Da una parte e dall’al­ tra c’è una flotta colossale di 400 quinqueremi. La riserva era in mano a Cleopatra; invece di utilizzarla, abbandonò il campo, e il suo amante fu ancor più vigliacco di lei a se­ guirla. Una cosa molto interessante - ma qui vi hanno appena parlato di Bisanzio assai meglio di quanto non possa farlo io - , è che con Bisanzio si ha la resurrezione della marina poliremica. Il dromone, ossia il corridore di cui parla Giusi­ mo nella sua cronaca, è in grado di raggiungere una velocità uguale a quella della quinquereme che da tempo non si è più in grado di costruire; e anzi, il dromone è più veloce delle pi­ roghe dei Goti. E una nave che riattualizza gli aspetti carat­ teristici della guerra antica; una tecnica che Bisanzio non deve aver dimenticato, come ci ha appena detto la signora Ahrweiler. Il dromone è dotato di uno sperone sommerso analogo a quello delle navi antiche e di due vele latine. Gra­ zie al libro di Fernand Braudel sul capitalismo sappiamo che la vela latina era molto antica. Il dromone ha duecento re­ matori disposti su due piani. Combina un ponte di combat­ timento riparato, in basso (questo ponte ha anche la funzio­ ne di riparare i rematori), con un ponte, in alto, dove si tro­

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vano dei rematori parzialmente armati («alla leggera»), che possono sia remare sia combattere. E stato detto che il dromone costituiva una sintesi armo­ niosa tra trireme e quinquereme. In ogni caso, grazie al dro­ mone e ai fuochi greci, Leone Isaurico ha potuto rompere l’assedio di Costantinopoli nel 7 17 -18 : una vittoria che ha salvato la civiltà cristiana dalla civiltà araba (al di là di qual­ siasi giudizio di valore). Basta leggere qualcosa in proposito: « Si è giustamente sostenuto che con la sua resistenza vitto­ riosa Leone Isaurico ha salvato non solo Bisanzio ma l’intera civiltà dell’Europa occidentale». «Il 7 18 è una data di signi­ ficato mondiale, è la più grande impresa della storia ro­ mana». Poi Veneziani e Genovesi s’affacciarono sull’Egeo. In un primo momento Venezia disponeva di una flotta di non più di 30 galere, che costituivano la squadra del golfo Adriatico. Da quando cominciano ad intervenire le armate del mare turche con 150 navi, l’arsenale di Venezia si trasforma in un’enorme officina di tipo moderno, dove si prefabbricano e si montano in serie le galere non appena scatta l’allarme, non appena la flotta turca esce dal Bosforo. Ma poi Venezia abbandonò lo schema a ordini di remi so­ vrapposti. Era uno schema che presupponeva la trireme dapprima ciascun uomo su ciascun banco manovrava un solo remo, in seguito un solo remo era manovrato da tre remato­ ri. La trireme si rivelò disastrosa per la repubblica di Vene­ zia: i suoi rematori erano degli uomini liberi, dei Croati, e il loro salario era proibitivo. Le galere russe che battevano la costa veneziana e croata per reclutare dei rematori, si ritro­ vavano davanti sempre lo stesso problema: il loro costo, cui andava aggiunto quello degli operai degli arsenali. Inoltre, i Croati, remavano per Venezia; ma, in altri momenti e circo­ stanze, diventavano «uscocchi» e pirati: un inconveniente piuttosto spiacevole. Il momento di massima gloria veneziana coincide con Le­ panto, non per merito dei Veneziani, peraltro, spirito di conciliazione a parte; bensì per merito di Don Giovanni d’Austria, che riuscì a convincere i Veneziani ad imbarcare il lercio spagnolo sulle loro galere. Una cosa che poteva rive­ larsi una follia: l’ambiguità di Filippo II era tale da giustifi­

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care il timore dei Veneziani: il timore che il tercio, non appe­ na imbarcato sulle 70 galere di Venezia, se ne impadronisse puramente e semplicemente. Alla fine, le capacità diploma­ tiche di Don Giovanni riuscirono a mettere insieme una fanteria omogenea su un fronte di combattimento formato da duecento galere cristiane (aU’incirca, si tratta infatti di dati controversi). Chi c’era sull’altro fronte? Duecento gale­ re turche con la migliore fanteria del mondo, i Giannizzeri. Le due migliori fanterie del mondo si affrontarono in una battaglia di galere. Si è creduto a lungo che fosse stata l’ar­ tiglieria a vincere questa battaglia. In realtà è stata la fante­ ria «spagnola». Si è anche creduto che le galeazze veneziane avessero fatto strage della flotta turca; in realtà hanno cola­ to a picco una sola galera turca, danneggiandone probabil­ mente altre tre o quattro. S ’impone una duplice conclusione. Il vascello dotato di cannoni è, in epoca posteriore a Lepanto, indispensabile com’è indispensabile, nella nostra epoca, la forza di dissuasio­ ne nucleare. Tuttavia voglio ricordare un esempio: in un mare interno - che non è il Mediterraneo - , Mahan descri­ ve l’ultima battaglia di galere, che ebbe luogo, in maniera in­ solitamente sanguinosa per l’epoca (1790), tra Svezia e Rus­ sia: battaglia nella quale i Russi furono annientati, nel golfo di Finlandia, dalla flotta a remi del re di Svezia. «La Svezia, nostra amica, nostra alleata, ma il suo re non amava le rivo­ luzioni, ed ha firmato immediatamente la pace, invece di ve­ nire in soccorso della Repubblica francese». Ma la mia vera conclusione fa riferimento a quanto appe­ na detto da Maurice Aymard: da quando è scomparsa la ga­ lera, il Mediterraneo, solcato dalle flotte militari, non appar­ tiene più ai popoli mediterranei! Ch r is t in e o c k r e n t Grazie a Alain Guillerm per la sua appassionata rievocazione del remo. Volgiamoci ora a pro­ blemi più attuali con André Nouschi, che ci parlerà del Me­ diterraneo nei secoli xix e xx.

Problemi del Mediterraneo nei secoli xix e xx. a n d ré n o u sch i Prenderò in considerazione, prima di tutto e soprattutto, il Mediterraneo in sé. Perché, come

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Fernand Braudel ha appena ricordato riprendendo un’e­ spressione tedesca: «Il Mediterraneo è un mondo in sé». In­ tenzionalmente, quindi, accennerò solo di sfuggita ai paesi mediterranei. Con la fine del secolo xvm, e soprattutto dal­ l’inizio del secolo xix, il traffico commerciale mediterraneo registra un incremento eccezionale; incremento che perdura di decennio in decennio nonostante le guerre che oppongo­ no le grandi potenze. Un solo dato è sufficiente a fornire la misura di questo incremento: il traffico di Marsiglia, primo porto del Mediterraneo, si moltiplica di circa venticinque volte tra 1834 e 1950. Tra 1834 e 19 14 , il traffico di Marsiglia si moltiplica per sedici; l’incremento maggiore si ha intorno al 1870, quando si passa da 4,5 milioni di tonnellate a 2 1. Il primo porto del Mediterraneo rispecchia i mutamenti della congiuntura in­ ternazionale e francese: nel corso delle due guerre mondiali il Mediterraneo si fa insicuro a causa dello scontro in atto tra belligeranti: ne deriva una considerevole diminuzione dei traffici, più sensibile tra 1939 e 1945 che tra 19 14 e 19 18 . La crisi del 1929 rallenta sensibilmente il traffico por­ tuale; mentre la seconda guerra mondiale ha delle conse­ guenze drastiche, azzerando, praticamente, a partire dal 1943, il commercio marsigliese. L ’altro indicatore del traffico mediterraneo è costituito dal canale di Suez, che sembra modellarsi, a partire dal 1969, sul movimento marsigliese; con la sola differenza, tra le due curve, che a Suez la ripresa comincia nel 1942, ossia assai prima che a Marsiglia. Questa crescita straordinaria, eccezionale, la più consi­ stente mai realizzatasi nel traffico marsigliese, rispecchia piuttosto fedelmente il complesso del traffico mediterraneo. A Napoli e a Genova si verifica una crescita all’incirca dello stesso ordine di grandezza. Consideriamo questo traffico marittimo un po’ più in dettaglio. Si struttura, prima di tutto e soprattutto, come traffico tra paesi dell’Europa industrializzata e paesi in via di sviluppo - Africa e Asia essenzialmente - , con esporta­ zione di prodotti dell’industria manifatturiera da una parte, e importazione di prodotti agricoli o minerari, ivi compreso il petrolio, dall’altra.

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Nel 1906, lo storico di Marsiglia P. Masson mette I’aci cnto sul ruolo e la consistenza del commercio coloniale, che costituisce all’incirca la quarta parte, in termini di valore, del commercio del porto. Dopo la seconda guerra mondiale, il traffico petrolifero ridicolizza per cosi dire tutti gli altri, e conferisce al commercio mediterraneo la sua attuale dimen­ sione gigantesca. Nel 1983, il commercio di Marsiglia supera gli 86 milioni di tonnellate, di cui 63 di soli idrocarburi (73,2 per cento): Marsiglia diventa cosi il primo porto petrolifero francese e supera largamente Le Havre; anche se non bisogna dimenti­ care che a Marsiglia arrivano i prodotti petroliferi destinati a numerosi partner europei, cui verranno fatti pervenire tra­ mite la pipe-line che collega Marsiglia a Karlsruhe. Il commercio mediterraneo costituisce dunque una quota considerevole del volume mondiale. All’importazione di pro­ dotti finiti e manifatturieri, e relativa importazione di prodotti minerari e di materie prime, corrisponde un inter­ scambio finanziario squilibrato tra costa settentrionale e co­ sta meridionale del Mediterraneo. I paesi industrializzati Francia, Italia, Spagna, Gran Bretagna, Germania e, molto più tardi, i Balcani - esportano lavoro a prezzo elevato: ne deriva una bilancia commerciale attiva. Per contro, i pro­ dotti minerari, i prodotti agricoli, le materie prime, seguono l’andamento della congiuntura mondiale: i loro prezzi sono al ribasso. Tutto ciò si ripercuote evidentemente sul mondo mediterraneo, sulla circolazione del Mediterraneo. Il Mediterraneo è dunque il mare degli squilibri finanzia­ ri e commerciali? Certamente; ma è anche il mare attraverso il quale transitano gli investimenti dei paesi industrializzati - dei paesi ricchi - in direzione dei paesi dell’Africa e del­ l’Asia. Sotto questo aspetto si può rilevare una notevole continuità tra secoli xix e xx. Se si analizzano i dati su base decennale, si constata un’indubbia permanenza di flusso fi­ nanziario considerevole dai paesi ricchi in direzione dell’A ­ frica e dell’Asia: sia sotto forma di sovvenzioni dei ministeri del Tesoro, sia d’investimenti privati, sia d’investimenti in­ dustriali - Compagnie Française des Pétroles, per esempio, o altre città minerarie e imprese industriali. H. Feis e R. Cameron hanno calcolato l’ammontare di questi investimenti



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finanziari nei paesi mediterranei. Nel 19 14 , la Gran Breta­ gna investe 125,5 milioni di lire sterline, la Francia 18,4 mi­ liardi di franchi oro, la Germania 7 miliardi di marchi; ossia: nel caso della prima, un po’ più del 3 per cento del totale dei suoi investimenti; 40,6 per cento nel caso della seconda; 29,7 per cento nel caso della terza. Oggi questi investimenti sono stati sostituiti dalla conces­ sione di prestiti da parte delle varie potenze: tra queste, Sta­ ti Uniti e U RSS, oltre i paesi europei tradizionalmente pre­ statori. Ci si può chiedere se il meccanismo non sia rimasto in realtà lo stesso e, soprattutto, non produca gli stessi effet­ ti: ossia trasferimento di ricchezza dai paesi africani e asia­ tici verso i paesi industrializzati prestatori. E inoltre ben no­ to che questi prestiti s’accompagnano spesso a una concor­ renza piuttosto smaccata, come nel caso dell’Egitto, dove Americani e Sovietici si sono lanciati in una competizione che ha portato alla crisi di Suez del 1956, grazie alla quale i Sovietici hanno potuto consolidare le loro posizioni politico­ strategiche nel Mediterraneo e nel mondo arabo. Vorrei tuttavia far presente che, se i paesi petroliferi del Medio oriente dispongono, sin dal 1973, di una tale quanti­ tà di capitali da poterli trasferire in Europa o negli Stati Uniti partecipando all’espansione dei paesi industrializzati, nel caso dell’Algeria i guadagni derivati dal petrolio e dal gas sono reinvestiti nel bilancio statale algerino e contribuisco­ no alla costruzione della nuova struttura economica del paese. Vi è poi un terzo elemento da sottolineare: riguarda il tra­ sferimento di potere e di popolazione. Il Mediterraneo degli ultimi due secoli è stato l’arteria della circolazione degli uo-i mini (e in proposito bisognerà prima o poi riconsiderare se­ riamente e spassionatamente la colonizzazione). Si tratta in­ fatti di un fenomeno che va ben al di là della semplice occu­ pazione e amministrazione di un territorio. È certamente un trasferimento di potere e l’assunzione di potere su un deter­ minato paese, ma non bisogna dimenticare tutte le sue im­ plicazioni. In primo luogo, ed è quello che qui ci interessa, la colonizzazione significa che molte centinaia di migliaia di uomini hanno attraversato il mare. Voglio ricordare il flusso di uomini dall’Europa verso il Maghreb che personalmente

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valuto in 700 000 unità tra il 1830 e il 1950 (e non dimenti­ chiamo l’incremento demografico conseguente l’insedia­ mento di questi uomini e queste donne!) Bisogna poi ag­ giungere i 400 000 Europei insediatisi in Palestina tra il 1920 e il 1940 - che creeranno lo Stato d ’Israele - , arrivia­ mo cosi alla cifra piuttosto impressionante di 110 0 0 0 0 uo­ mini! Insomma, gli ultimi due secoli hanno assistito al più grande flusso migratorio che abbia mai attraversato il Mediterraneo; cosa che implica dei rapporti di tipo culturale e et­ nico, dei trasferimenti di ideologie e di culture, con conse­ guente creazione di nuove mentalità, tanto da modificare notevolmente il paesaggio umano del mondo mediterraneo. L ’altra faccia di questo scambio è costituita dalle migra­ zioni di lavoratori provenienti dall’Africa e dall’Asia. È una realtà che conosciamo molto bene in Francia ma che esiste anche in Germania e in un certo numero di altri paesi euro­ pei. Si ritiene comunemente che questo trasferimento di po­ polazione oscilli intorno ai 2 milioni di unità e forse raggiun­ ga i 3 milioni. A questa cifra vanno aggiunti i trasferimenti intereuropei - Italiani, Spagnoli e Portoghesi in direzione della Francia e dell’Europa centrale - , si arriva cosi a un trasferimento complessivo di parecchi milioni di uomini. Gli scambi tra etnie e culture, le nuove sintesi e trasformazioni di mentalità che conseguono a questi movimenti di popola­ zione sono un fenomeno rilevante. Questo fenomeno, appa­ rentemente poco visibile, non potrà non dar luogo a delle conseguenze di lunga durata, non ripercuotersi struttural­ mente a livello sociale e umano, e gli storici non potranno ignorarlo. Il Mediterraneo s’inserisce cosi in forma direi addirittu­ ra clamorosa nel meccanismo mondiale dell’economia, nel meccanismo mondiale della circolazione commerciale e fi­ nanziaria, nel meccanismo mondiale della circolazione degli uomini e delle idee. Per ciò stesso diventa posta in gioco tra le grandi potenze; un’arteria di grande importanza strategi­ ca. Del Mediterraneo come luogo di conflitti vi parlerà ora l’ammiraglio Denis, che è molto più competente di me. Ch r is t in e o c k r e n t Grazie a André Nouschi, che tra l’altro ha già presentato l’ammiraglio Denis, cui cedo imme­ diatamente la parola.

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a l a in d e n is Voglio in primo luogo sottolineare l’abili­ tà di una regia che, come nei grandi processi, dà, in ultima istanza, la parola alla difesa. Ch r i s t i n e o c k r e n t In ogni caso alla difesa della ma­ rina.

Il Mediterraneo delle tensioni. a l a in d e n is Per parlare delle tensioni del Mediterraneo o del Mediterraneo delle tensioni bisogna prima di tutto sce­ gliere un linguaggio. Aristotele fu il primo a definire il baci­ no del Mediterraneo «grande lago di pace». Mi resta il dub­ bio che abbia voluto prestar ascolto unicamente alle grida dei delfini guerci che s’ aggirano in questo bacino sempre nello stesso senso per non perder di vista la costa col loro unico occhio sano. Bisognerà allora usare il linguaggio mili­ taristico di Temistocle a Salamina, di Agrippa ad Azio, dei protagonisti della battaglia di Lepanto o di quella di Malta nel 19 4 1, per i quali il Mediterraneo è ben il mare delle guerre? O bisognerà usare il linguaggio odierno, pudico e freddino, freddino da far gelare l’acqua nelle clessidre, e parlare del mare delle crisi, di tempo di crisi? Crisi che ab- 1 biamo il dovere di analizzare, comprendere e tentar di risol­ vere. Credo che tutti i presenti condividano la speranza di Ari­ stotele. Sfortunatamente tutti i presenti possono anche con­ statare gli episodi di guerra e restar quotidianamente colpiti dal contrasto tra aspirazione alla pace della maggior parte e realtà odierna. La realtà del bacino mediterraneo si caratte­ rizza come imposizione permanente, pressoché permanente, di conflitti; conflitti che si suole chiamare limitati o locali tra paesi rivieraschi o limitrofi. Si tratta in sostanza di guer­ re civili tra fazioni rivali, di guerre di religione tra confessio­ ni diverse e, da quindici vent’anni a questa parte, dell’emergere del terrorismo, nazionale e internazionale. Cosi, ne­ gli ultimi quarant’anni, tra il 1945 e oggi, sono sorti nel ba­ cino mediterraneo - citando alla rinfusa - i conflitti arabo­ israeliano, franco-algerino, anglofranco-egiziano e greco-tur­ co, accanto alle tensioni più o meno latenti e permanenti che

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ancor oggi possiamo constatare tra Algeria e Marocco, Tuni­ sia e Libia; né vanno dimenticati i risvolti di carattere terro­ ristico della questione palestinese e della rivoluzione irania­ na, come della guerra tra Iran e Iraq. Direi che basta e avan­ za! Cercando di evitare qualsiasi valutazione politica, per natura congiunturale e mutevole, si possono individuare quattro fattori di crisi: 1) l’antica contrapposizione tra mondo cristiano e musul­ mano, che risale al secolo vn ma sembra oggi in via di riattivazione; 2) la particolare situazione dello Stato ebraico e il contra­ sto con i paesi islamici che lo circondano; 3) il dislivello economico tra mondo industriale relativa­ mente ricco a Nord, e mondo in via di sviluppo relati­ vamente povero a Sud; 4) il fattore demografico: crescita galoppante da una par­ te, stagnazione, ossia diminuzione dall’altra. Sul piano geografico, parametro essenziale per quanto ri­ guarda la strategia, il mar Mediterraneo presenta due carat­ teristiche fondamentali: 1) zona di cerniera tra Nord e Sud, e vi si affrontano Est e Ovest ormai da una quarantina d ’anni; 2) è un bacino suddiviso in tre bacini più piccoli, cui le ri­ spettive nazioni rivierasche possono facilmente limita­ re o vietare l’accesso (come si verifica appunto attual­ mente nel caso del bacino centrale). Dal punto di vista militare, e in particolare navale, si ha una duplice presenza in zona: quella delle nazioni riviera­ sche, ovviamente; ma anche quella di nazioni che rivie­ rasche non sono, tra cui quelle che dispongono delle forze armate più potenti a livello mondiale: gli Stati Uniti d’Ame­ rica e l’Unione Sovietica. Nel Mediterraneo, la marina ame­ ricana tiene mediamente dieci grandi unità da combatti­ mento, quattro sottomarini d’attacco a propulsione nuclea­ re, sei unità anfibie con 1800 marines a bordo, una decina di unità d’appoggio, un centinaio di aerei imbarcati modello recente (Corsaire-2, F 14), oltre ad altri mezzi complemen­ tari. La marina sovietica è presente a sua volta con un navi­

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glio imponente: otto unità da combattimento, sei sottoma­ rini d’attacco, venti unità d ’appoggio e circa otto navi spia molto attive e molto discrete. Per quanto riguarda le nazioni rivierasche, citiamo, a nord, Spagnoli, Francesi e Italiani. L ’intera marina italiana è in zona; Spagnoli e Francesi debbono invece suddividersi su due teatri, quello atlantico e quello mediterraneo. La Francia, tuttavia, schiera nel Mediterraneo il potenziale più efficace e più consistente dopo quello degli Stati Uniti; è in­ fatti la sola ad avere delle portaerei e un’aviazione imbarca­ ta, unico strumento che consente, se non di evitare l’evento, perlomeno di influire sull’evoluzione dell’evento. A est, vi sono due marine d’una certa importanza: la marina greca e la marina turca. Ma di questi tempi sono più impegnate a fronteggiarsi vicendevolmente che a collaborare in seno ad un’alleanza della quale per altro fanno entrambe parte. Alla periferia meridionale del bacino si ha l’emergere di forze ar­ mate, prevalentemente terrestri e aeree, ma anche navali, che costituisce una minaccia assai seria. Grazie agli introiti petroliferi, alcuni paesi di questa zona hanno potuto svilup­ pare, nel corso degli ultimi quindici anni, un potenziale mi­ litare considerevole. La Libia, per esempio, dispone oggi di un numero di aerei pressoché equivalente a quello dell’avia­ zione francese, e più missili mare-mare di tutte le nostre for­ ze navali nel Mediterraneo. I rischi di tensione e di scontro variano in relazione alle diverse zone e all’evoluzione della congiuntura; ma in linea generale sono aumentati in seguito alla diffusione del terrorismo e alle reazioni che di solito comporta. Ad esempio: all’assassinio di cittadini israeliani ] sulla spiaggia di Larnaca, a Cipro, ha fatto seguito la distru­ zione, in Tunisia, della sede dell’Olp ad opera dell’aviazione israeliana; mentre al dirottamento della Achille Lauro ha fatto seguito il dirottamento di un Boeing 737 egiziano. Ci­ to questi fatti perché segnano la comparsa di episodi di ter­ rorismo sullo spazio marittimo, cosa estremamente preoccu­ pante. Il Mediterraneo è dunque nuovamente il crocevia più in­ sicuro del pianeta. A breve termine non ci si possono fare il­ lusioni di miglioramento. La questione libanese ha scatenato accese rivalità, odi ed esasperazione. Bisogna prender atto

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con rammarico che, nel caso del Libano, data la mancanza di un esercito sufficientemente forte, la calma, e quindi la pace, potrà eventualmente essere ristabilita solo da un eser­ cito straniero. Gli Israeliani non sono riusciti in questa im­ presa: il tempo dei Siriani s’avvicina... Intrinseca nella logi­ ca della rivoluzione iraniana, e sullo sfondo delle passioni re­ ligiose, la guerra Iraq-Iran ha reso ancor più ambiguo il com­ portamento di alcune nazioni rivierasche limitrofe. La Li­ bia, infine, al centro del bacino, opera in modo a dir poco dinamico e talvolta impulsivo, tanto da costituire indubbia­ mente un fattore di squilibrio sia nel Mediterraneo sia altro­ ve. Grazie alla consistenza delle sue forze armate, la Libia interviene con una certa pesantezza, nel teatro mediterra­ neo, sia sulla frontiera orientale con l’Egitto, sia sulla fron­ tiera occidentale con la Tunisia del presidente Burghiba, sia sulle cerniere settentrionali dell’Africa nera. In questo contesto mediterraneo cosi scabroso, la Francia vuole riservarsi libertà d ’azione e poter prestare eventuale soccorso a coloro cui è legata per interesse o per amicizia sul­ la scorta della tradizione, della storia e della politica. Si ado­ pera altresì a smussare gli antagonismi, a ridurre le tensioni. Come sta per esempio facendo da circa tre anni in Libano, a proprio rischio e pericolo, basando essenzialmente il suo in­ tervento sulle forze navali di cui dispone nel Mediterraneo. Per esemplificare: negli anni 1983-84 abbiamo dislocato da­ vanti alle coste libanesi sino a quattordici unità da guerra, tra cui una portaerei, per 245 giorni, ossia per otto mesi con­ secutivi; il che significa avere assicurato la presenza in pros­ simità di queste coste amiche di 4000 marinai, esattamente il doppio delle forze dislocate a terra. Se poi vogliamo tener conto delle sostituzioni e degli avvicendamenti, possiamo dire che 20000 nostri marinai di leva hanno operato nel cor­ so di tre anni al largo di Beirut in acque territoriali libanesi. Vorrei concludere dicendo che le testimonianze assolutamente straordinarie di simpatia e di attaccamento che ci so­ no state tributate nel corso di questo lungo soggiorno trien­ nale in terra Libanese, al pari di ogni genere di aiuti che gli abitanti di questo paese hanno spontaneamente richiesto ai nostri concittadini ivi residenti e alle nostre forze armate, costituiscono, al di là delle esperienze anche durissime che

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abbiamo dovuto affrontare e subire, una conferma che il no­ stro impegno, qui come in altre zone, può non essere inutile. Ch r i s t i n e o c k r e n t Ringrazio l’ammiraglio Denis. Vor­ rei ora riproporre a Fernand Braudel la domanda di Maurice Aymard: «Dopo quanto ha sentito, come riscriverebbe oggi

Civiltà e imperi del Mediterraneo? » Venezia e Bisanzio... fern an d br a u d el La domanda è talmente complessa che non risponderò direttamente. Questa mattina, un ami­ co, un collega, oserei persino dire un allievo, mi ha lanciato una piccola sfida. E , non immaginando quanto la sua do­ manda potesse turbarmi, mi ha chiesto: « Se lei dovesse rico­ minciare da capo Civiltà e imperi del Mediterraneo, lo scrive­ rebbe come l’ha scritto nel 1947?» Credo proprio che non si rende ben conto della complessità della domanda che mi ha posto! Ho impiegato venticinque anni a scrivere la prima edizione di Civiltà e imperi del Mediterraneo, poi almeno una quindicina per dimenticarlo; oggi credo finalmente di averlo dimenticato del tutto. Mi capita di fare dei brutti sogni. Naturalmente non mi colloco all’inferno ma in purgatorio; e in purgatorio sono condannato a rileggere Civiltà e imperi del Mediterraneo. Non potete immaginare lo stato di tensione, il disagio e le diffi­ coltà che ciò mi suscita! E adesso mi si chiede: «E se lei do­ vesse ricominciare da capo Civiltà e imperi del Mediterraneo? A dire il vero l’ho ricominciato già una volta, Civiltà e imperi del Mediterraneo. Dopo il 1949, data della prima edizione del libro, ho continuato a frequentare per cinque sei anni i fondi degli archivi. Mi ero messo in testa l’idea, molto peri­ colosa, di non aver abbracciato uno spazio cronologico suf­ ficiente; che non bisognava partire dal 1550 per arrivare al 1600, ma che bisognava partire almeno dal 1450. Ho cosi trascorso alcuni mesi negli archivi di Venezia e di Simancas alla ricerca di documenti anteriori al 1550. Inoltre, quando nel 1963 si tradusse il mio libro in inglese, mi sono vergo­ gnato di non tener conto di quanto s’era pubblicato sull’ar­ gomento dal 1949 in poi. Da una parte il destino mi è stato

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piuttosto favorevole, ma, d’altra parte, bisogna prima o poi pagare questi favori. Ho avuto molti allievi - dei discepoli come suol dirsi - e su che cosa hanno lavorato? sul Mediter­ raneo. Di conseguenza, intorno al i960, Civiltà e imperi del Mediterraneo aveva bisogno di una revisione. Ho lavorato per un anno e ho rifatto un buon terzo del libro. E Maurice Aymard mi chiede, oggi, non di rifarlo per un terzo, bensì per intero. Dovete convenire che non mi chiede poco! Se dovessi rifarlo - e con l’aiuto delle persone che mi sie­ dono accanto a questa tribuna non sarebbe poi un’impresa cosi proibitiva - , non comincerei nemmeno dal 1450, ma circa dai secoli xi-xn. Sbagliando, naturalmente. Poi prose­ guirei, come ha fatto l’ammiraglio Denis, sino al 1985. E ov­ vio che avrei bisogno di almeno altri venticinque anni. E s­ sendo nato nel 1902 si può immaginare che avrei qualche difficoltà a portarlo a termine! Tuttavia ho piuttosto chiaro il modo in cui procederei. Il Mediterraneo costituisce un mondo, dunque è una spe­ cie di campo sperimentale, ed ho l’impressione che quando è possibile osservarlo attentamente - cosa impossibile, pe­ rò, nel caso di secoli troppo remoti - si può constatare che c’è sempre una zona del Mediterraneo che esercita un certo predominio sulle altre e per cosi dire si alimenta delle altre. All’epoca dell’impero romano, l’insieme Mediterraneo è unificato per la prima volta nella storia. Si dice: «Il Mediter­ raneo è diventato un lago romano». Una discreta formu­ la; non corrisponde completamente a verità, ma, insomma, pressappoco. Ora, in questo mondo costituito dall’impero romano, per davvero «un mondo in sé», c’è una regione, quella del Rettore dell’Università di Parigi che mi siede ac­ canto, che esercita un certo predominio sul povero mondo occidentale: perché non si fiorisce e non si risplende se non a condizione di sfruttare gli altri. E lei sa bene, signora Ret­ tore, che Bisanzio, di cui lei ha celebrato bagliori, lumi e fa­ sti, è pur sempre il frutto dello sfruttamento del mondo oc­ cidentale e del mondo mediterraneo. Credo che ne sia con­ vinta, vero? HÉLÈNE AHRW EILER Si, assolutamente; ma credo tutta­ via che Bisanzio abbia fatto bene! Perché questa è la regola del Mediterraneo.

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fern an d b r a u d el Credo che lei intenda dire che, se non vi fosse stata preponderanza dalle parti del Ponto Eusino o di Bisanzio, vi sarebbe stata preponderanza da qualche altra parte. E noi, in Occidente, ci saremmo forse dati da fa­ re, e saremmo stati noi a sfruttarvi! h é l è n e a h r w e il e r Ma lei non c’era ancora! fern a n d br a u d el E invece no; noi c’eravamo già. C ’è una catena che risale a ritroso a partire da lei come a partire da me; una catena che risale molto indietro nel passato sino a perdervisi. E , nonostante tutto, nel n secolo d. C. la no­ stra famiglia è costituita da molte più unità di quella odier­ na: insomma lei c’era e ci ha sfruttati. h é l è n e a h r w e il e r Oggi a me domani a te! fer n a n d b r a u d e l Lei ha trovato la giusta espressione, la formula ideale. Si sfrutta, ci s’arricchisce, ci s’addormenta sugli allori, si ha bisogno di farsi servire dagli altri e, al mo­ mento buono, gli altri ci fanno a pezzi, ci smembrano. Tutti possono misurare quanto ciò che dico sia gravido di conse­ guenze; perché per quanto riguarda le spaccature intervenu­ te nel mondo Mediterraneo non ci si deve lasciar trarre in inganno dalle apparenze: non è stato l’IsIam ad avere il so­ pravvento su Bisanzio - la signora Ahrweiler non ha osato dircelo - ma Bisanzio sull’IsIam, e non solo grazie alle gale­ re, ma anche grazie ai fuochi greci. Insomma, avete saputo trarvi d’impaccio assai bene, all’epoca. H ÉLÈN E a h r w e i l e r Anche grazie al dromone! fern a n d br a u d el Anche grazie al dromone. Forse oc­ correrebbe riparlarne un poco; potrebbe essere assai utile. Lei comunque si rende conto di che cos’è un dromone, nevvero?! h é l è n e a h r w e il e r Un po’ più chiaramente, adesso. Ma, quello che vorrei sapere, è quanti anni può durare una galera? fern a n d b r a u d el Si può trovare una risposta a partire dal secolo n; prima non lo so. Forse venticinque anni, a con­ dizione che la galera non navighi d’inverno. A Venezia, nel secolo xvi, le galere le si tira in secco e le si mette al riparo delle volte dell’arsenale; poi, quand’è ora di riprendere il mare ad aprile, le si ripara, le si tira fuori, le si arma e le si butta nell’andirivieni tra Adriatico e mar Egeo. Dunque le

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galere durano venticinque anni quando tutto fila liscio; quando tutto va storto durano non più di due tre anni. Lei non si trova d ’accordo con Alain Guillerm? Lei non crede che i dromoni costituissero una grande flotta? h é l Èn e a h r w e il e r No; ma credo che la flotta dei dro­ moni non poteva esistere isolatamente, senza il complemen­ to di una serie di altre imbarcazioni molto più piccole. E queste piccole imbarcazioni tonde componevano quelle flot­ te commerciali, guidate appunto dai dromoni, che hanno fatto la grandezza di Bisanzio; ossia che hanno permesso a Bisanzio di sfruttare gli altri. fern an d b r a u d el Alain Guillerm è obbligato a darle ragione: per una forma di cortesia, in primo luogo; ma anche perché lei conosce la questione assai meglio di lui. Dunque, lei ha perfettamente ragione. Ma poi, sia quel che sia, Bisan­ zio incappa in un’avventura, di cui lei non ci ha parlato, se ricordo bene, che è piuttosto spiacevole: dopo aver saccheg­ giato il mondo occidentale un bel giorno è saccheggiata e sbranata dall’esterno, perché noialtri Veneziani... a n d ré n o u sc h i «Noialtri Veneziani»! non è male come espressione. fern an d br a u d el Venezia è un po’ il mondo orientale coltivato in serra; ma è già in tutto e per tutto il mondo oc­ cidentale. E i Veneziani hanno finito per prender piede in questo impero più splendente degli altri, persin più splen­ dente dell’IsIam, per poi tranquillamente distruggerlo. La fi­ ne di Bisanzio data 12 15 . h é l È n e AHRW EILER Lei mi vuole spudorata... Sono or­ todossa e greca d ’origine, è quindi per pudore che non ho osato dire quella verità che lei ci sta annunciando con grande eleganza e altrettanto distacco. Bisanzio è stata distrutta... fern a n d br a u d el Assassinata! h é l Èn e a h r w e il e r Assassinata dai suoi correligionari cristiani: Bisanzio, detta la scismatica. E questo un divorzio che paghiamo ancor oggi; perché quando sentiamo dire nelle aule universitarie «disputa bizantina», «è la solita Bisan­ zio», ciò significa semplicemente che l’intera storiografia d’ispirazione ecclesiastica, di provenienza gesuitica, assunzionista e simili, conosce malamente Bisanzio sulla scorta

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dello scisma e delle crociate. E allora, diciamo finalmente le cose in maniera semplice e chiara: le crociate, forse, hanno trasferito molta più gente in Oriente che non le colonie... (vivaci proteste dalla tribuna). fern a n d br a u d el Si difenda! a n d ré n o u sc h i Ma si sa benissimo cosa c’era al seguito delle crociate! Molta meno gente rispetto ai colonizzatori! ro bert m antran C ’erano milleduecento cavalieri e quattromila fanti. h Él è n e a h r w e il e r Ma io metto nel conto Veneziani, Italiani ecc. E vi posso dare anche la seguente informazione: che quando i crociati discendono il Danubio, Bisanzio, che non è altro che uno Stato accentratore, vuole riscuotere l’imposta e il «passaggio»; infatti invia i suoi notai a contare le barche che trasportano i crociati, e così noi possiamo sa­ pere quante migliaia erano. Ma naturalmente è ben nota la mania d’esagerazione greca!... fern an d br a u d el Solo gli Italiani e noi possiamo dire la verità... h é l è n e a h r w e il e r Eustazio di Tessalonica dice che nessun numero poteva dare un’idea di che cos’era effettiva­ mente l’arrivo dei crociati! Ma noi la sappiamo più lunga... mi riferisco alla seconda crociata e non alla prima... fern an d br a u d el Io mi riferisco alla quarta, ma fa lo stesso... h é l è n e a h r w e il e r Io le metto in fila una dopo l’altra! E ne vien fuori veramente quella che chiamo la lunga durata della diffidenza; perché è a partire dalla prima crociata che si cominciò a diffidare di tutto ciò che proveniva dall’Occidente, dalle «terre barbare», come dicevano. Non è più il numero che conta, ma la qualità dell’impresa... fern a n d b r a u d el Come anche lei può constatare, An­ dré Nouschi, siamo in due ad aver torto alla luce di quello che dice la signora Ahrweiler. a n d ré n o u sch i Ma non posso accettare questo modo insinuante e contorto di negare la realtà. fern a n d b r a u d el Se si parla di mille uomini all’epoca delle crociate bisogna valutare questa cifra in rapporto alla globalità della popolazione mediterranea.

II. MEDITERRANEO h Él è n e a h r w e i l e r

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zione m o n d ia le d e ll’ ep o ca. fern an d b r a u d el Siamo in due ad avere torto alla luce ili quello che lei dice, è chiaro come il sole; ma che cosa pen­ sa, lei, dei Veneziani? Noialtri Veneziani, l’impero bizanti­ no l’abbiamo smembrato da vivo, esattamente come prescri­ vono i libri di cucina quando dicono « Il coniglio vuole esse­ re spellato vivo»! Noi abbiamo pelato viva Bisanzio e abbia­ mo visto, a partire dal 1 204, Veneziani e Genovesi arrivare sino al Ponto Eusino, sin nel mar Nero, riserva di caccia di Costantinopoli. Ma Costantinopoli vive solo grazie al fatto di sfruttare le coste del mar Nero. Dunque, si è avuta una vera e propria distruzione. Vi sono testimonianze sullo stato di miseria di Bisanzio nel secolo xv; lei le conosce certamen­ te! Sul modo in cui i Latini la sfruttano a tutti i livelli! E quando si presenta la minaccia turca, che cosa fanno i suoi Bizantini? Non la fronteggiano. La scelta è tra salvezza as­ sieme ai Latini e una sorta di prigionia con i Musulmani. Hanno fatto la loro scelta. h é l è n e a h r w e il e r II motto della flotta bizantina è: «Preferisco vedere in città il caffetano turco piuttosto che la tiara latina». fer n a n d b r a u d el E stupefacente! Si parla delle odier­ ne tensioni nel Mediterraneo; ma in passato la regola non era molto diversa! Ed è stupefacente che la cristianità orto­ dossa abbia preferito l’IsIam a una possibile intesa con un papa romano, per altro assai conciliante, e con dei Latini che non volevano altro che far soldi. Ma quello che si è verifica­ to nel caso di Bisanzio sta per verificarsi per il mondo occi­ dentale; e con ciò mi ricollego alle critiche piuttosto severe di Maurice Aymard. Il mondo mediterraneo, ossia la Spa­ gna, più una parte della Francia, più l’Italia - l’Italia soprat­ tutto - è la meraviglia vivente, la zona che fa fortuna: ancor oggi, a Firenze, a Genova, a Milano e un po’ in tutte le città italiane, si possono ritrovare le tracce di quest’antica gran­ dezza. Ma, sfortunatamente, è sempre la stessa cosa: i Me­ diterranei - come ha ben sottolineato Vittorino Godinho arrivano a farsi servire dalle navi portoghesi, si fanno reca­ pitare a domicilio il pesce salato dell’oceano Atlantico e, al momento buono, quando, a partire dal 1297, data ben cer­



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tificata, realizzano la connessione tra Mediterraneo e mare del Nord, allora si servono del posto tappa di Lisbona, sfrut­ tandola e congestionandola. Ma la conseguenza, la giusta conseguenza, è che i poveri ne usciranno vittoriosi. La storia del Mediterraneo è incredibilmente morale. C ’è la grandez­ za del Mediterraneo occidentale, la grandezza dell’Italia, poi un bel giorno tutto si capovolge a vantaggio delle genti del Nord. Insomma, Maurice Aymard, che cosa ne dice di questa gente del Nord? M a u r ic e a y m a r d Da quale punto di vista? fer n a n d b r a u d e l Da quello che è il mio punto di vista. Sono tutt’orecchi. Riscriverebbe, lei, Civiltà e imperi del Me­ diterraneo come io l’ho scritto nel 1947? Ma u r ic e a y m a r d Ma io volevo chiederle se, dopo aver lavorato sul capitalismo e sulla Francia - perché la sua Francia è certamente mediterranea, ma anche notevolmente nordica e inserita in vasti orizzonti - se, dicevo, questa du­ plice esperienza non implichi un ripensamento del suo Me­ diterraneo a partire, tra l’altro, da una data anteriore. fern an d brau d el E giungendo, tra l’altro, a una data molto posteriore. M a u r ic e a y m a r d Come lei ha appena detto: i poveri escono sempre vittoriosi: è una storia molto morale. Ma, nella storia attuale, i poveri usciranno ancora una volta vit­ toriosi? fern an d br au d el E cco la controprova che bisogna sempre diffidare degli amici, dei discepoli e, più in genera­ le, degli storici: perché la questione non è posta come io l’ho posta in rapporto ai secoli xvi e xvn. A quell’epoca c’è un’Europa, l’Europa del nord, che è povera, miserabile. Un’Europa che fa il duro mestiere del trasportatore via ma­ re, e che si avvantaggia sul mondo mediterraneo e vi penetra a forza e violentemente. Non crediate che l’invasione che ha luogo verso la fine del secolo xvn, a partire dal 1690-95, av­ venga in tutta tranquillità. L ’arrivo della gente del Nord l’arrivo degli Inglesi, l’arrivo degli Olandesi - è una specie di guerra senza esclusione di colpi in lungo e in largo per l’intero Mediterraneo e, di nuovo, il primato passa da un popolo che è stato a lungo ricco, e che si è addormentato

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sugli allori della propria ricchezza, a dei poveracci. Ho, o non ho ragione, caro Rettore? h e l Èn e a h r w e il e r II p ro b le m a è d i sap e re ch i so n o i p o v e ri o ggi. fer n a n d b r a u d e l Nelle scienze umane quando si risol­ ve un problema se ne pone per ciò stesso un altro. Per me, i poveri sono quelli che sono meno ricchi dei ricchi. h e l Èn e a h r w e il e r Allora posso risponderle, perché mi ha suggerito un’idea. Siamo nel 1204. A questa data i po­ veri si trovano nella stessa Bisanzio. Quegli stessi che de­ scrivono il fasto di Costantinopoli, non appena vanno in pe­ riferia s’imbattono in contadini poveri e attoniti ai quali di­ cono: «Ecco che siete nudi, ecco che siete depredati dai bar­ bari crociati e latini, ecco che conoscerete Yisopoliteia, ossia il nostro stesso regime». In sostanza, trovo la povertà anche all’interno della grandezza, e se gli Stati territoriali hanno smesso di essere degli Stati del Mediterraneo per formare un’area mediterranea, ciò è una conseguenza del fatto che all’interno di questi Stati le economie-mondo hanno dato luogo a delle periferie dal potenziale assolutamente distrut­ tivo. fer n a n d br a u d e l Mi sembra un linguaggio familiare; ma non so sino a che punto chi ci ascolta può seguirci in que­ sto tipo di discorso. Dunque mi rivolgo nuovamente a lei per porle un’ulteriore domanda: si discute della povertà e della ricchezza; ma io non ho mai fatto la conoscenza, per cosi dire, di contadini ricchi. h e l Èn e a h r w e il e r Ad eccezione dei grandi proprietari terrieri d’Oriente. fer n a n d b r a u d e l I grandi proprietari non sono dei contadini. Ne chieda conferma ai nostri colleghi, a Christi­ ne Ockrent. Ch r i s t i n e o c k r e n t Sono una semplice giornalista. E vorrei appunto porle una domanda che si ricollega in parte ai dubbi di André Nouschi sulla questione dell’emigrazione. In questo mondo mediterraneo - dato per scontato che esi­ sta ancora come spazio-mondo, sebbene sia un problema che andrebbe forse riconsiderato - , le migrazioni cui assistiamo attualmente determineranno una specie di definitivo ribal­ tamento del Mediterraneo del sud sul Mediterraneo del

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nord? E con questo intendo riferirmi all’allusione un po’ im­ pertinente - ma si tratta di uno storico! - di Maurice Aymard; ossia se i più poveri stanno rientrando a loro volta in quella certa logica...? fern an d br au d el Ma sono proprio attaccato da tutti! C h r i s t i n e OCKRENT E solo una domanda, la mia. fern an d brau d el Se i poveri vinceranno nel Mediter­ raneo? An d r é n o u s c h i Mi sembra che ci troviamo in presenza di una domanda mal posta. fer n an d br au d el Tutte le domande sono mal poste quando non vi si trova una risposta. andrÉ n o u sch i Per quale motivo si è poveri, per quale motivo si è ricchi? Lei ha appena detto che intendeva atte­ nersi ai secoli xvi e xvn. D ’accordo; ma quello che vorrei sa­ pere è se, per caso, non siano gli stessi Mediterranei la causa del loro impoverimento, per aver dilapidato quella straordi­ naria fortuna che per altro avevano saputo costruirsi; se non abbiano per caso trascurato bellamente un buon numero di dati di realtà e, in particolare, diciamo le cose senza mezzi termini, il fatto che il Mediterraneo sta loro scappando di mano. Tra il 1640 e il 1750, i Mediterranei non sono più pa­ droni del proprio destino. Non controllano più le due estre­ mità della catena. fern an d br au d el Certo; ma è una cosa che si verifica molto lentamente, ed essi non se ne rendono conto. an d ré n o u sch i Ed è appunto la ragione per cui questa situazione ci mette un secolo, un secolo e mezzo, a dipanar­ si. Ci s’arricchirebbe veramente solo quando si controllano le due estremità della catena. Quando Venezia ha le sue agenzie commerciali a Bisanzio, sul mar Nero, sulle coste dell’Anatolia, come le hanno Genova, Pisa e Amalfi, allora si arricchiscono. Ma a partire dal momento in cui non con­ trollano più una delle due estremità della catena, dal mo­ mento in cui non sono più in grado di controllare la circola­ zione nel Mediterraneo, allora avviene il tracollo. Né gli am­ miragli, né i commercianti si smentiranno su questo punto. fer n an d br a u d el Lei sta cercando degli appoggi ester­ ni e non so se li troverà; ma quello che dice è assolutamente giusto. E non ho nessuna intenzione di divertirmi a cavillare

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sulle sue parole. Ma per parlare seriamente: lei sottolinea chiaramente che la fortuna dei popoli del Mediterraneo è esterna al Mediterraneo; ossia hanno sfruttato gli altri. An d r e n o u s c h i La fortuna è sempre legata allo sfrutta­ mento dell’altro. ... e Istanbul. ro bert m a n tr a n Chi sono i Mediterranei nei secoli xvi e xvn? Né i Veneziani, né i Genovesi. Solo chi controlla i mercati, le due estremità della catena, da Occidente sino agli sbocchi del Mediterraneo sul Medio oriente, ha il pote­ re; e questi sono gli Ottomani. Schematizzando si può dire che sono gli eredi diretti dei Greci; quelli che hanno calzato gli stivali dei Bizantini. Certo, Istanbul è una copia - anche se non del tutto identica - di Costantinopoli, perché pre­ senta una continuità nella strutturazione formale del potere, nei sistemi di pensiero, nei sistemi commerciali ed economi­ ci... ma ispirandosi ad un altro ideale. Il termine «ottoma­ no» significa assai più di «turco»: implica quella grandezza dellTmpero ottomano magnificata dai resoconti di viaggio degli occidentali. Questo mondo che viene dall’Oriente, e s’impone con la forza delle sue conquiste, drena ricchezze e domina il mercato: bisogna fare i conti con lui. fer n an d b r a u d el Non credete a Robert Mantran non bisogna mai credere agli storici, soprattutto se speciali­ sti - , perché è accecato dall’amore per l’impero ottomano. Ma l’impero ottomano non è nemmeno riuscito ad impadro­ nirsi del Marocco; dunque non dispone di uno sbocco sull’o­ ceano Atlantico. Povero Impero ottomano! E riuscito a stento a crearsi uno sbocco sul mar Rosso, lo ha conservato per un po’ per poi perderlo; si è conquistato uno sbocco sul golfo Persico, ma non sull’oceano Indiano. Insomma, un grande Impero che arriva sino alle porte del paradiso, alle porte della ricchezza, ma senza riuscire a forzarle... Non è d’accordo? ro bert m a n t r a n E vero; ma Bisanzio non ha fatto molto di più! h Él Èn e a h r w e il e r Ma allora?!

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an d r é n o u sch i A ll’epoca, anche se l’impero ottomano ha una marina organizzata da Greci e Bizantini... fer n a n d b r a u d e l La marina greca esiste ancor oggi. an d r é n o u sch i Si, ma la marina greca non è la marina di Bisanzio, oggi. fer n an d b r a u d el Bisanzio è morta da tempo. an d ré n o u sch i Ma non è piuttosto stupefacente che né l’impero bizantino, durato un millennio, né l’impero otto­ mano, durato quattro secoli, non sono riusciti a conquistare l’intero Mediterraneo? Non sarà per caso dovuto alla dislo­ cazione geografica e territoriale di questi imperi? fer n an d b r a u d el Sì, ma con una differenza: che l’im ­ pero bizantino è durato molto più a lungo, ha raggiunto uno splendore assai maggiore dell’impero ottomano, se non sba­ glio. an d r é n o u sch i In presenza di una diversa congiuntu­ ra, però. fern an d b r a u d el L ’Impero bizantino ha vissuto a lun­ go perché era situato sul Mediterraneo buono, sul Mediter­ raneo fruttifero, quello che consente di spingersi sin nel cuo­ re dell’Asia, sino all’oceano Indiano. E tuttavia, al tempo di Giustiniano, c ’è stato il dramma della seta. h Él è n e a h r w e i l e r Posso dire una parola? Perché la questione si fa piuttosto seria. Abbiamo bruciato le tappe. Sono pronta a consentire che il tempo non esiste; ma non bisogna farlo esistere scavalcandolo ad ogni piè sospinto. Bi­ sanzio inizia nel secolo iv e dura sino al xv... fern an d br au d el Ah, no! h é l è n e a h r w e il e r Sino al xn, se preferisce, o al xm... non m’interessa molto, qui. fer n a n d b r a u d e l Lei scavalca i secoli, ma a ritroso! h é l è n e a h r w e il e r Ne sono obbligata. È importante dirlo: nella durata bizantina vi sono dei tempi differenti; dei tempi che corrono a precipizio e degli altri piuttosto lenti. Soffermiamoci su un primo periodo, sino al secolo vn: lo si voglia o no Bisanzio è dappertutto. Un testo del secolo vi, quello di Cosma, lo testimonia. Questo monaco si reca nel­ l’oceano Indiano, e, Indicopleuste, al ritorno non si limita a parlare della seta ma scrive un trattato di cosmografia, ossia una descrizione del mondo secondo la concezione bizantina.

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« L ’Impero - scrive questo monaco - vivrà in eterno perché fu il primo a credere in Cristo», cosa piuttosto normale in bocca a un monaco; ma, soprattutto, aggiunge, lo sottolineo: «perché tutte le nazioni si servono della sua moneta per commerciare ». fer n an d b r a u d el D ’accordo. Ma si tratta della cosmo­ grafia di un monaco che per la prima volta presenta la mone­ ta come elemento di una cosmografia! Perché, sebbene Bi­ sanzio non si estenda politicamente sino all’oceano Indiano, vi è tuttavia commercialmente presente; cosa altrettanto im­ portante.

Maometto e Carlomagno. fer n an d b r a u d el Ha ragione. Ma ritorniamo sui no­ stri passi e andiamo a stuzzicare Robert Mantran. Lei ha scavalcato l’IsIam e ci ha parlato soprattutto degli Ottoma­ ni. Le propongo di riconsiderare le tesi di Henri Pirenne. Sono stato suo allievo ed è stata per me un’occasione mera­ vigliosa per imparare qualcosa quand’ero giovane. Henri Pirenne riteneva che, in seguito all’espansione musulmana nel Mediterraneo, il « lago romano » cambiò bandiera e diventò feudo musulmano, e che la chiusura del Mediterraneo in se­ guito alle conquiste musulmane comportò la decadenza del mondo occidentale e l’avvento del feudalesimo. Come si po­ ne oggi la questione, Robert Mantran? ro bert m a n t r a n Le tesi di Henri Pirenne esposte in Maometto e Carlomagno sono un po’ superate. Non sono in­ fatti unicamente in gioco l’IsIam e ciò che rimaneva del mondo mediterraneo: alcuni elementi esterni, invasioni bar­ bariche ecc., contribuirono al frazionamento dell’Europa e dell’impero romano. La distruzione dell’impero romano co­ minciò da nord. fer n an d b r a u d el La decadenza del mondo occidentale era cominciata assai prima delle invasioni barbariche: i bar­ bari sono entrati nel mondo occidentale perché era in deca­ denza. Dunque, siamo di nuovo al punto di partenza, e la sua non è un’argomentazione. ro bert m a n t r a n E una constatazione. E in co n testab i­ le, alm eno m i sem b ra , ch e la creazio n e d e ll’ im p e r o a ra b o ­

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musulmano - a partire dalla seconda metà del secolo vìi e soprattutto dall’inizio dell’vili - abbia contribuito a ricrea­ re una potenza politica, economica, militare e religiosa: a quell’epoca non vi è ancora traccia della futura profon­ da scissione all’interno dell’IsIam. E tale unità conferisce un’importanza sostanziale a questo insieme territoriale e umano per altro non completamente islamizzato; gli confe­ risce una grande importanza commerciale data anche la di­ sgregazione del mondo europeo. Il mondo europeo vive uni­ camente grazie ai bisogni dei Musulmani, di schiavi, certo, ma anche di materie prime, e in particolare di legname. Ve­ nezia e altre città assumono un ruolo da protagoniste. Si as­ siste alla creazione di uno Stato economicamente molto im­ portante che, come più tardi il mondo ottomano, costituisce un polo d’attrazione. Ma non dimentichiamo un altro ele­ mento importantissimo: la scomparsa di Bisanzio. La signo­ ra Ahrweiler parla spesso e volentieri di mondo bizantino mediterraneo; ma che cos’è questo mondo a partire dal seco­ lo v i i ? Esso è ridotto in un angolo settentrionale del Mediterraneo: non possiede più nulla né in Egitto, né in Siria, né in Palestina, né in Nordafrica. Bisanzio si appresta a perde­ re la Sicilia, Creta, Cipro - anche se in seguito si potrà par­ lare di un effettivo condominio a Cipro. Bisanzio si è ristret­ ta, ma si vendicherà in altro modo. Nonostante tutto si crea una potenza che eserciterà un peso considerevole sull’Euro­ pa, e grazie ad essa l’Europa ritornerà a vivere e a ricosti­ tuirsi a poco a poco. Probabilmente non le ho risposto in maniera esaustiva. Ma si tratta di un dibattito che va ben oltre la pura e sempli­ ce riconsiderazione critica di Maometto e Carlomagno. fer n an d b r a u d el Lei ha risposto in modo veramente magnifico; ma, tra universitari, non ci si limita a farsi sala­ melecchi. Io possiedo un’arma segreta terribile. Non ne ho totale fiducia ma la sfodero ugualmente. Il miglior conosci­ tore del primo Islam, e dell’IsIam nei secoli x e xi, si chiama­ va Asthor, professore a Gerusalemme. La sua teoria mi sem­ bra magnifica. Non so se sia del tutto esatta; ma si tratta di una teoria veramente bella. A suo avviso, e credo che abbia ragione, su una vasta area del Mediterraneo si verificano delle oscillazioni molto lunghe, sia verso la prosperità sia

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verso una certa decadenza; un malessere, ma si tratta di ma­ lesseri durevoli. Ora, quando i Musulmani si affacciano sul Mediterraneo sono per cosi dire favoriti da una specie di re­ gresso quasi generale che non risparmia né Bisanzio, né il Medio oriente, né l’Egitto, né il Nordafrica: un regresso che fa si che il Mediterraneo, contrariamente a quanto riteneva Henri Pirenne, non si trasformi in un «lago musulmano»; non è né un lago dei cristiani né dei musulmani. Questa spe­ cie di regresso generalizzato non significa che le navi scom­ paiono dal Mediterraneo, ma che cristianità e Islam sono ri­ sospinti ciascuno dalla propria parte. ro bert m a n t r a n Le teorie di Asthor sono molto affa­ scinanti, ma non sono sufficientemente fondate. La lunga durata non basta più, bisogna anche tener conto dei diversi periodi che si susseguono. A un certo momento il mondo musulmano ha esercitato un predominio, è vero; ma in un altro momento era più debole rispetto agli altri, è altrettanto vero: insomma, le oscillazioni esistono, ma sono molto più corte di quanto non si creda comunemente, molto più limi­ tate temporalmente; sicché non si possono elaborare statisti­ che e dati validi per quattro o cinque secoli, dall’inizio del­ l’IsIam alla sua caduta. Sotto questo aspetto Claude Cahen argomenta in maniera assai più profonda e più convincente di Asthor; sottolineando in primo luogo le risorse interne del mondo musulmano sui diversi piani. Cahen ritiene che sul piano economico, pur non essendo autosufficiente, era abbastanza forte per condizionare le altre potenze facendo valere a suo favore una serie di fattori. fern an d b r au d el Per fortuna che Asthor non è qui; perché si difenderebbe come un leone! ro bert m a n t r a n In genere gli Islamici non seguono le sue teorie. fern an d b r a u d el Lei ha pronunciato una parola che evidentemente la soddisfa e la tranquillizza, mentre per quanto mi riguarda non mi mette affatto il cuore in pace. Perché si avanza una teoria proprio quando una situazione non è «fondata». ro bert m a n tr a n Bisogna fornire dei dati verificabili dagli altri. Le teorie, se non sono verificabili, non sono più tali.



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fer n an d br au d el La teoria di Pirenne ha stimolato più studi e ricerche di quanto non avrebbe fatto una spiegazione corretta. Le teorie sono indispensabili nel campo delle scien­ ze sociali, della ricerca storiografica; come nel caso di tutte le scienze, del resto. h é l è n e a h r w e il e r Mi si consenta una parola sul pae­ saggio umano al momento dell’arrivo degli Arabi. I Bizanti­ ni ritengono la prima battaglia tra Arabi e Bizantini, a Yarmuk, niente di più che una scaramuccia locale di scarsissima importanza; e ritengono altresì l’IsIam un’eresia cristiana al pari di tante altre che sorgono in questa fetta di mondo. fer n a n d br a u d e l E vero, è un’eresia! h é l è n e a h r w e il e r Analizziamo la carta dell’espansio­ ne musulmana. Essa comprende, appunto, tutti i popoli che si sono separati da Costantinopoli per motivi religiosi, ma anche a causa della pressione fiscale esercitata su questi po­ poli essenzialmente rurali. Siamo dunque in presenza di uno sfaldamento endobizantino. Ed ecco perché parlavo in precedenza di poveri e di ricchi all’interno di questo «Stato fragile». Questi sfalda­ menti endobizantini si sono trasformati in una rottura defi­ nitiva ad un dato momento, quello dell’iconoclastia; è del resto l’unica parola di origine bizantina rimasta nell’odierno lessico occidentale. È interessante notare che sono iconoclasti tutti coloro che vantano un’eredità culturale greco-romana e che cono­ scono l’antichità che pur ha fornito una raffigurazione del sacro. Ma gli iconoduli sono amici degli Arabi perché il com­ mercio si fa via mare, e non ci si può permettere il lusso di privarsi di questa risorsa. Si va dagli Arabi per commerciare; ma anche, lo sappiamo tutti, per rubare le spoglie di san Marco ad Alessandria, e poi portarle a Venezia. fern an d br au d el Lei è quindi dalla parte degli icono­ duli? h é l è n e a h r w e il e r Sono assolutamente iconoclasta per natura, ma rigorosamente incodula per quanto riguarda il mondo bizantino. m ir k o d r a z e n g r m e k Mi si consenta di ricordare in proposito l’importanza del fattore biologico. Per combattere e commerciare occorrono uomini. Ora, è impossibile soprav­

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valutare i danni causati dalla peste di Giustiniano. Le cro­ ciate sono state enormemente condizionate dal tifo, lo scor­ buto e altri fenomeni di ordine sanitario. Dal punto di vista delle endemie, l’impero ottomano fu un paese particolar­ mente malsano e colpito. Un paradosso molto significativo: la nascita della medici­ na occidentale e i suoi grandi balzi in avanti corrispondono ai momenti in cui le cose vanno male. Cosi, ad esempio, la medicina ippocratica corrisponde all’inizio del decadimento sanitario della Grecia. Sino al secolo xdc la medicina ha ben pochi effetti sul decorso delle malattie. La grande epoca del­ la medicina araba corrisponde a un’epoca di recrudescenza delle epidemie. fer n an d br a u d el Oggi la medicina sembra compiere dei notevoli progressi: lo ritiene un sintomo di decadenza? m ir k o d r a z e n g r m e k N o , perché dall’inizio del secolo x ix i rapporti tra medicina e scienza si sono modificati, e lo sviluppo della m edicina non è più un sintomo di peggiora­ mento della situazione sanitaria.

Ch r i s t i n e o c k r e n t Dopo tutti questi fuochi d’artificio lanciati dalla tribuna, propongo di passare alle domande de­ gli altri partecipanti. La prima è rivolta a Fernand Braudel dal signor Berger, direttore dell’Institut d’Etudes Arabes et Islamiques dell’Università di Bordeaux: «Lei ha affermato di preferire la storia comparativa alla storia tradizionale da lei stesso praticata in passato. La storia comparata delle ci­ viltà è praticata in Francia e altrove, fa parte della metodo­ logia attuale?»

La storia comparativa, la lunga durata e la storia. fer n an d b r a u d el Si, preferisco la storia comparativa che, per me, è la storia basata sulla lunga durata. Se si met­ tono da parte gli avvenimenti, gli uomini che monopolizza­ no un po’ troppo i riflettori della storia tradizionale, se si trascurano le fluttuazioni economiche, della politica e simili, ci si trova davanti una storia profonda che si «deforma» as­ sai lentamente; sicché la storia di lunga durata offre degli spettacoli mai radicalmente diversi e sempre comparabili. Giungo ad affermare che non è possibile una storia scienti­

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fica in assenza del metodo comparativo. Infatti, attenendosi alla visione della storia tradizionale, che cosa si può compa­ rare? Degli avvenimenti dell’epoca di Napoleone III con de­ gli avvenimenti dell’epoca di Luigi X IV , il che mi sembra un’eresia, un anacronismo. La storia si trova cosi ad ignora­ re le possibilità che a torto o a ragione le prospetto. Ma de­ sidererei che il collega di Bordeaux venga qui in tribuna, perché avrà certamente qualcosa da dire oltre ciò che mi son permesso di rispondergli. berger Lei mi ha risposto che bisogna praticare una storia basata sulla lunga durata. Ma quello che mi ha colpito poco fa, è che, alla domanda di Maurice Aymard relativa a un possibile rifacimento della sua opera sul Mediterraneo, lei abbia risposto che comincerebbe in epoca assai anteriore e si spingerebbe in epoca assai posteriore... E, infatti, preci­ samente il problema cui ci si trova davanti se si vuole prati­ care la storia comparativa. Forse lei fa una piccola distinzio­ ne tra storia comparativa e storia comparata? fern an d b r au d el Comparata e comparativa; mi sem­ bra troppo sottile. Per «sbrogliare» la sua domanda occorre­ rebbero ore e ore di discussioni. Facciamo allora un esempio alla portata di tutti. La storia di lunga durata la ritrovo come soggiacente alla storia che la Francia sta vivendo; come quel­ la che struttura e comanda la storia della Francia. Molti uo­ mini politici sembrano aver la sensazione che gli storici futu­ ri gli tengano gli occhi puntati addosso. In realtà, ciò che im­ porta determinare è se le decisioni che si prendono giorno dopo giorno, sul piano politico, siano conformi alla deriva della Francia su una storia profonda che è tanto la sua quan­ to la storia del mondo. A mio avviso la storia profonda, la storia di lunga durata, struttura - e dico struttura nel senso di comanda - le storie di superficie. Naturalmente lei non è obbligato ad accettare questo mio punto di vista. Ma una storiografia che non sia in grado di indicare alcuna regola tendenziale mi sembra una specie di diversivo, oltreché estranea al ragionamento scientifico. Si tratta di una specie di difesa personale, Io ripeto, e naturalmente lei non è affat­ to tenuto a prenderla per buona. Forse la signora Ahrweiler può prenderla per buona: è seduta vicino a me ed è quasi ob­ bligata a venirmi in aiuto.

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h é l è n e a h r w e il e r Prendiamo un esempio legato al­ l’attualità. In occasione degli ultimi avvenimenti polacchi l’intera Francia ha manifestato la propria solidarietà. Questi stessi avvenimenti sono pressoché passati inosservati nel mio paese d’origine, dove per altro la gente adora la libertà. Quando ne chiedevo conto stupita, mi si rispondeva: « E un affare “cattolico” ; il papa è polacco e cattolico; il nostro, in­ vece, è un affare tra ortodossi ». Ma quando Cipro è stata invasa, quali reazioni si sono avute in Francia?... Dunque sono gli avvenimenti del 1 204 (presa di Bisanzio da parte dei Veneziani) a spiegare non solamente gli atteggiamenti ma anche le prese di posizione odierni. fern an d br au d el E un esempio magnifico! Natural­ mente io cito sempre degli esempi che sembrano darmi ra­ gione. Prendiamo la storia della Riforma nel secolo xvi, la spaccatura in due del mondo occidentale che segue piuttosto curiosamente la linea del Reno e del Danubio; ossia l’antica frontiera di Roma. Questa frontiera ha avuto una vita tor­ mentata. Quand’ero prigioniero nella cittadella di Magonza osservavo le chiese gesuitiche che si profilavano all’orizzon­ te; ed ero certo di una cosa, che il mondo latino aveva ricon­ quistato la linea del Reno, linea assai importante per profon­ dissime ragioni di telestoria. La storia comanda da distanze prodigiose. L ’Africa del nord, plasmata da Roma - impresa nella quale Roma ha avuto più successo di noi - , ha aperto le sue porte, non proprio facilmente, è vero, all’IsIam. Ma non bisogna dimenticare che il mondo orientale vi era già passato prima e che vi si conduce una vita molto dura. Ai tempi di sant’Agostino i contadini parlavano ancora punico. Si assiste a fenomeni analoghi nella Spagna meridio­ nale, dopo la conquista araba, dove l’Andalusia soffre per molti motivi, ma anche per delle ragioni remote. C ’è dun­ que una storia di lunga durata che bisogna assolutamente ri­ conoscere per quanto sia difficile da rintracciare; ma che d’altra parte rischia di essere troppo comoda come spiega­ zione degli avvenimenti: è possibilissimo abusare della sto­ ria di lunga durata. Molto probabilmente non abbiamo dato una risposta al nostro collega di Bordeaux; ma è appunto quello che si veri­ fica nella maggior parte dei casi.

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Ch r is t in e o c k r e n t II signor Duval, esperto di soft­ ware, fa una domanda al dottor Grmek: «Parlando della scomparsa delle malattie dipendenti dal fattore umano, lei intende dire che l’evoluzione del polimorfismo genetico del­ le popolazioni potrebbe aver comportato un accrescimento della resistenza alle malattie? »

Biologia e lunga durata. m ir k o d r a z e n g r m e k Precisiamo prima di tutto che il fattore umano significa qualsiasi intervento dell’uomo sul­ l’ambiente: gli animali non intervengono sull’ambiente ma vi si adattano, in maniera darwiniana o lamarckiana. L ’uo­ mo, invece, può intervenire attivamente sia sull’ambiente sia su se stesso. Precisiamo, in secondo luogo, che il fattore biologico riassume ciò che l’uomo non è in grado di control­ lare. E d’ora in avanti parleremo solo di malattie infettive perché il problema riguarda un fenomeno d’immunità. Passando alla domanda specifica, diciamo che quello che qui interessa è la resistenza dell’uomo ai parassiti. Diciamo anche, semplificando un po’, che oggi vi sono due grandi teorie immunitarie: la prima ritiene che l’uomo possa immu­ nizzarsi indipendentemente dalla struttura chimica dell’ag­ gressore; l’altra, che egli deve disporre di qualcosa di preesi­ stente che corrisponde all’antigene. E questa seconda teo­ ria, neodarwiniana, a fornire la risposta migliore alla sua do­ manda. Se c’è polimorfismo genetico, allora diventa molto probabile che la possibilità di sviluppare un’immunità speci­ fica sia maggiore, che ci siano delle risorse interne al genoma per rispondere a un attacco dall’esterno. Anche se non è di­ mostrato con assoluta certezza, tutto porta a credere che il polimorfismo genetico favorisca l’accrescimento dell’immu­ nità. All’incirca sino al secolo xix, i medicamenti (ad eccezione del chinino e di pochissimi altri) non avevano alcuna inci­ denza sulle malattie di rilevanza sociale. La medicina non aveva dunque pressoché alcuna possibilità di intervenire sul­ la morbosità generale né sulla mortalità; ma l’uomo poteva intervenire tramite l’alimentazione. C ’è un’unità alimentare

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del mondo mediterraneo: l’olio e il grano, prima del mais e della patata. Grazie all’utilizzazione dell’olio le popolazioni mediterranee non sono state affette da arteriosclerosi e da altre malattie analoghe, almeno sino ad un recente passato. Ma se le malattie cardiache erano relativamente poco fre­ quenti, l’insufficienza di vitto carneo ha determinato, all’incirca sino al secolo xvm , un’enorme fragilità nei confronti delle malattie infettive. fern an d br a u d el E possibile separare il biologico dal­ l’umano e l’umano dal biologico? Una malattia scompare in seguito all’intervento umano, oppure in seguito a un feno­ meno spontaneo e profondo della biologia? La scomparsa della peste le da ragione o torto? m ir r o d r a z e n g r m e k II problema posto dalla scompar­ sa della peste non è ancora del tutto risolto. La peste non è una malattia dell’uomo; bensì una malattia dei roditori che, in alcuni periodi storici piuttosto circoscritti, si è rivelata molto nefasta per l’uomo. Un parassita non ha alcun interes­ se biologico ad uccidere chi lo ospita. La peste umana non sarebbe esistita se non fosse stata nello stesso tempo una malattia dei roditori. La «peste» di Atene non era peste. In senso stretto si sono avute solo tre grandi epidemie di peste: la peste di Giustiniano, nel seco­ lo v; la peste nera, nel secolo xiv, che creò problemi gravis­ simi e annosi, benché il tifo esantematico non le sia stato molto da meno con i suoi effetti deleteri; la peste della Manciuria, nel secolo xix, che miete ancora vittime negli Stati Uniti: le vittime umane sono attualmente piuttosto rare, ma la popolazione dei roditori selvaggi continua ad esserne for­ temente colpita. Noi non sappiamo con precisione per quale motivo la peste insorga o scompaia; molto probabilmente in­ tervengono delle mutazioni batteriche, dei fattori alimenta­ ri, delle abitudini ecc. fer n an d b r a u d el Che cosa ne pensa del colera? M ir k o d r a z e n g r m e k Contrariamente alla peste, il co­ lera è una malattia propria dell’uomo, endemica in certe zo­ ne, in particolar modo nell’ìndia gangetica. E una malattia che in Europa si manifesta per la prima volta nel 1830, ed è da porsi in relazione a determinate abitudini nell’uso delle

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acque. La sua scomparsa dal mondo occidentale è dovuta al­ l’adozione di misure igieniche di ordine collettivo. Ch r i s t i n e o c k r e n t Una domanda della signora Vin­ cent alla signora Ahrweiler: «Milan Kundera istituisce un parallelo tra civiltà russa o sovietica e civiltà bizantina per quanto attiene la concezione delle libertà; concezione radi­ calmente diversa da quella della civiltà occidentale. Che ne pensa in proposito? »

Mosca, nuova Bisanzio? HÉLÈNE a h r w e i l e r Non mi stupisce che Milan Kunde­ ra s’interessi alla lunga durata; conosco un poco il suo modo di pensare e di porre i problemi. Ma facciamo un po’ i bizan­ tini! L ’uomo antico ha sempre servito la misura, perché l’uo­ mo era la misura di tutte le cose, e la misura di tutte le cose era l’uomo: era una massima dell’antica Grecia. Ci si stupi­ sce allora nel constatare che la posterità dell’antichità greca, insomma l’uomo bizantino, abbia dimenticato la misura per servire l’ordine. Il termine taxis, che significa grado o ordi­ ne, caratterizza l’intera struttura e la piramide dello Stato bizantino col suo vertice, ossia l’imperatore. Non si poteva contestare questo ordine senza essere considerati iconocla­ sti, senza essere tacciati di barbarie. Infatti c’erano due spe­ cie di barbari: quelli che dall’esterno si opponevano all’ordi­ ne politico territoriale di Bisanzio; ma anche coloro che con­ testavano quello che noi oggi chiameremmo il «regime»: questi erano i barbari interni. Ma, ovviamente, quello che veniva messo in discussione non era il «regime», bensì l’in­ sieme dei valori, il patrimonio nella sua globalità, tutte le tradizioni che costituivano la quintessenza del mondo bi­ zantino. Pertanto, dato che il mondo russo è un mondo or­ todosso, ossia ha il suo antenato in Bisanzio, è quasi natura­ le che rifletta lo stesso rispetto dell’ordine. La concezione delle libertà propria delle civiltà russa, sovietica e bizantina è dunque radicalmente diversa dalla nostra; e voglio qui ri­ cordare che il termine «democrazia», coniato dai Greci, si­ gnificava l’accesso alla parola e l’assunzione di responsabili­ tà da parte del demos all’interno della città; mentre questo

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stesso termine di «democrazia» significava a Bisanzio, nel corso dell’intera epoca bizantina, anarchia e potere in mano al popolo. Ch r i s t i n e o c k r e n t Jacques Buget, giornalista, rivolge all’ammiraglio Denis una domanda simile a quella da me po­ sta poco fa: «Il Mediterraneo esiste ancora?» Questo gior­ nalista è stato in Libano. «Davanti alla cronaca quotidiana si ha l’impressione che, con l’agonia di questo paese, stia an­ che per tramontare una certa immagine insieme sentimenta­ le e culturale del Mediterraneo, che lo vedeva luogo d’in­ contro, di scambi e di coabitazione. La spartizione di Cipro, la situazione dei Palestinesi, la scomparsa delle comunità ebree nei paesi arabi mediterranei non farebbero che con­ fermare questa impressione. Secondo lei il Mediterraneo esiste ancora? » L 'autonomia dei Mediterranei... a l a in d e n is Sarei portato a rispondere di si. Vorrei ri­ ferirmi alla partita che avrà luogo questa sera, a Tolone, tra il Paris-Saint-Germain e lo Sporting-Club di Tolone. Come lei ben saprà, quando negli stadi le cose non vanno per il giusto verso si squalifica il campo e si gioca altrove, in cam­ po neutro. Il Mediterraneo richiama un po’ questa situazio­ ne. Rispetto alle epoche passate che abbiamo ricordato è in­ tervenuto un fatto nuovo: la presenza di armamenti nucleari in diversi paesi vicini al Mediterraneo (sei, forse sette, at­ tualmente): l’Unione Sovietica, la Francia, quelli dell’altra costa, la costa atlantica, gli Stati Uniti d ’America. Tutto sommato, questo armamento è servito allo scopo. Da una quarantina d’anni non ci sono più grandi guerre, non si assi­ ste più a uno scontro massiccio e diretto e relative immani stragi; ma il successo di questo mezzo di protezione dalla guerra ha dato luogo, proprio in seguito al suo buon funzio­ namento, alle azioni indirette alle quali assistiamo partico­ larmente nel Mediterraneo: i giocatori non si affrontano più sul campo di casa o su quello dell’avversario, ma in campo neutro, nel Mediterraneo. Detto in altri termini: il Mediter­ raneo esiste ancora, ma i popoli del Mediterraneo non ne so­

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no più i proprietari esclusivi. Per quanto ci riguarda cerchia­ mo di far valere i nostri diritti legittimi e di tenere a rispet­ tosa distanza coloro che sono un po’ troppo invadenti. Ch r i s t i n e o c k r e n t Q uest’ultima domanda ci riporta alla storia o, meglio, a un dibattito storiografico più teorico e più tradizionale. La domanda è posta da Christine Lau­ rent, archivista: « V i sono attualmente alcuni storici che si richiamano alla lunga durata per isolare e privare di signifi­ cato la Rivoluzione francese. A ltri, poi, si rifiutano di co­ glierne i caratteri distintivi rispetto ad altre epoche. In una prospettiva di lunga durata, la Rivoluzione francese non an­ drebbe invece collocata nel contesto dei secoli xvm e x ix , dell’ ascesa della borghesia, per esempio?»

...e ia Rivoluzione francese. fern an d brau d el Sono costretto a rispondere un po’ frettolosamente a una domanda tanto interessante quanto perspicua. Christine Laurent è un’archivista, è insomma un’addetta ai lavori, e si stupisce che, richiamandosi prete­ stuosamente alla lunga durata, si cancelli la Rivoluzione francese. E stato appena pubblicato un libro, Comprendre la Révolution [Capire la Rivoluzione], che commette quest’er­ rore, che sacrifica a questa tendenza. Invece, la Rivoluzione francese dev’essere studiata in tutti i suoi aspetti, e nella prospettiva del secolo xvm ovviamente, ma anche in quella del xix. La Rivoluzione francese si è in realtà completamen­ te realizzata solo un secolo dopo il 1789, anche per quanto riguarda il suo linguaggio ed alcune verità di cui è stata por­ tatrice. C ’è voluto un intero secolo! E se è utile studiare la Rivoluzione francese alla luce della lunga durata, è altrettan­ to legittimo studiarla sulla breve o media durata. Occuparsi della Rivoluzione francese significa ancor oggi, come lo era ai tempi della mia gioventù intorno al 1920, assumere in qualche modo una posizione politica. Ma a dire il vero la Ri­ voluzione francese, nonostante ci si avvicini al suo bicente­ nario, non occupa più il primo posto: non è né colpa sua né colpa degli storici!

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Se si colloca la Rivoluzione francese nella prospettiva della lunga durata ci si rende conto che ha portato all’esaltazione del nazionalismo... nei paesi medio­ rientali... nei paesi africani... fern an d br au d el Mi sembra che la Rivoluzione fran­ cese abbia già abbastanza responsabilità per attribuirle an­ che quella dell’esaltazione dei nazionalismi. Sarebbe succes­ sa esattamente la stessa cosa anche se non avesse avuto luo­ go. Quando insegnavo in America latina parlavo della Rivo­ luzione francese non secondo la lunga durata, ma sulla scor­ ta di Mathiez, presentando i membri della Convenzione come uomini comuni. Insomma facevo onestamente il mio mestiere, e, alla fine delle lezioni, gli studenti mi prendeva­ no letteralmente d ’assedio, e mi dicevano: «Noi, la Rivolu­ zione francese, la stiamo aspettando! » E un’affermazione che mi sembra molto bella. Ma alla Rivoluzione francese si contrappone un po’ superficialmente la Rivoluzione russa, e cosi il suo ricordo sbiadisce nella memoria degli storici e nel­ l’opinione pubblica francese... HÉLÈNE a h r w e i l e r Ci s’aspettava luglio ed è arrivato ottobre o novembre. ALAIN g u i l l e r m Per me la Rivoluzione francese resta figlia del secolo xvm, di Colbert e di Vauban, della creazio­ ne dello Stato centralizzato moderno, che essa ha in certo modo portato a compimento. Le origini della Rivoluzione francese le si possono ritrovare nell’elogio funebre di Vau­ ban tenuto da Fontanelle... fer n a n d b r a u d el Ma si potrebbe anche dire che la Ri­ voluzione francese data del tempo delle guerre di religione, che la Lega... ALAIN g u i l l e r m Ma la Lega non ha creato uno Stato centralizzato. M ir k o d r a z e n g r m e k La Rivoluzione francese è costa­ ta molte vite umane; ma è proprio allora che si è incomincia­ to a praticare la vaccinazione. La vaccinazione di Jenner ha salvato più vite umane di quante non siano riuscite a di­ struggerne la Rivoluzione e le guerre napoleoniche, ed è dunque comparsa sull’orizzonte della storia in un momento particolarmente opportuno. Per quanto riguarda la Rivolu­ zione cinese, i grandi successi ottenuti in termini di durata andré

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e qualità della vita sono dovuti ai risultati raggiunti dalla medicina moderna. Non hanno nulla a che vedere con la R i­ voluzione, sebbene siano poi stati attribuiti all’ ideologia. Ch r is t i n e o c k r e n t Grazie al dottor Grm ek per queste informazioni che rimettono un po’ i puntini sulle i. Prima di separarci, almeno per oggi, affidiamo a Fernand Braudel il compito di concludere questa prima giornata.

Bilancio. fer n a n d b r a u d e l M i sono lasciato un po’ troppo tra­ scinare sulle ali della discussione! Per concludere veramente sul Mediterraneo avremmo bisogno di riflettere ancora a lungo e di dialogare altrettanto a lungo. M i piacerebbe che ciascuno di voi dicesse se le nostre discussioni, che avrebbe­ ro certo potuto esser più soddisfacenti, ma che sono state in ogni caso appassionanti, sono anche state fruttuose. Insomma, abbiamo se non altro imboccato la strada giusta? v it t o r in o M. GODiNHO A conclusione di questo dibatti­ to mi rimane una certa insoddisfazione. Bisognerebbe ricon­ siderare il caso degli imperi. Sono o no arrivati alle porte del paradiso? A l momento dell’espansione islamica l’Atlantico non esisteva ancora. Quando gli Ottomani esercitavano un certo predominio, l’Atlantico era in via di costruzione, ma s’ ignorava che il nuovo mondo costituiva un vero e proprio continente, sicché non esercitava molte attrattive. E biso­ gnerebbe anche riparlare dell’oceano Indiano. G li imperi di cui abbiamo parlato poggiavano su una rete commerciale ca­ rovaniera e su truppe terrestri, sicché i loro orizzonti e il modo di concepire la strategia erano terrestri e non oceanici; nemmeno marittimi. Tra l’altro, non disponevano neppure di una cartografia per poter pensare in termini di Impero marittimo. Bisognerebbe anche riconsiderare le resistenze di tipo culturale. Maurice Aym ard ricordava poco fa che la religio­ ne parti dal Mediterraneo per arrivare sino alla costa atlan­ tica. M a gli studi più recenti dimostrano che la cristianizza­ zione non fu affatto totale, e che le antiche credenze perdu­ rano in modo quasi incredibile. Bisogna poi sottolineare che il M editerraneo ha opposto una lunga resistenza alle inno­

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vazioni della navigazione marittima. Tanto che l’errata collocazione dal punto di vista della latitudine si perpetua nella cartografia del Mediterraneo sino al secolo xvn . Ciò nono­ stante, alcune innovazioni hanno avuto luogo: i M editerra­ nei adottano le naves e abbandonano le galere per far rotta verso l’Inghilterra e il Portogallo. fer n a n d b r a u d e l Ringrazio Vittorino Godinho per aver voluto ricordare l’oceano Indiano, perché il Mediterra­ neo è ancor oggi al centro di « alte pressioni » e di « perturba­ zioni» che evolvono in direzione dell’oceano Indiano. Per poter dire qualcosa di definitivo sul destino del M editerra­ neo, di ieri come di oggi, bisogna avere un occhio a ciò che succede nell’oceano Indiano. ro bert m an tr an II mondo musulmano non è mai sta­ to, in nessun momento, un mondo totalmente mediterra­ neo. M a pur occupando una sola parte del M editerraneo si trova in posizione strategica, fondamentale perché collega Mediterraneo ed oceano Indiano. E il mondo musulmano a mettere in contatto il mondo mediterraneo, il mondo euro­ peo, col mondo della Russia centrale e, oltre ancora, col mondo della via della seta. L ’Islam ha svolto un ruolo poli­ tico, economico e culturale della massima importanza. Trovo grave che nei licei e in tutti gli altri istituti d ’inse­ gnamento francesi non si consideri maggiormente la lunga durata, soprattutto per quanto riguarda la conoscenza di mondi diversi da quello francese ed europeo. Soffriamo gra­ vemente di europocentrismo; viviamo nell’ ignoranza quasi totale dei mondi diversi dal nostro, si tratti della Cina, del­ l’india, dell’ IsIam... N e risultano delle gravi incomprensioni da parte nostra, e lo spettacolo che ci viene oggi offerto sulla scena del mondo è tale da rendere piuttosto urgente l’educa­ zione alla tolleranza e l’apertura alla conoscenza degli altri. A questo fine è necessario l’impegno di tutti. an d r é n o u sc h i Personalmente, sono angosciato dal Mediterraneo. M i sembra sbriciolato, lo percepisco vera­ mente come sbriciolato; ma non tanto per le contrapposizio­ ni, bensì perché i M editerranei non sono più padroni del proprio destino. Sono altri a regnare su di loro, a regolarne la vita, sino a stabilire il prezzo di un chilo di pane, di un li­ tro d ’olio o di vino. È una situazione molto grave. Il Medi-

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terraneo che avrebbe dovuto essere un mare di pace si è tra­ sformato in luogo di scontri e di rivalità, e solo molto rara­ mente di cooperazione. Sono preoccupato per il futuro, non tanto il mio quanto quello dei nostri figli. Desidererei viva­ mente che venissero meno le ragioni di questa preoccupazio­ ne. Come Robert Mantran ribadisco che è necessario uno sforzo di comprensione, di analisi e di tolleranza deH’altro. Ma mi sembra che attualmente la tolleranza non regni affat­ to sul Mediterraneo. fern an d b r a u d el Quello che lei dice è particolarmente triste, anche perché nel Mediterraneo regna la stessa tolle­ ranza che altrove. E la storia ad aver «sfigurato» il Mediter­ raneo; e la storia non si può cancellare. Vi si fronteggiano ci­ viltà in atteggiamento tutt’altro che fraterno, ma purtroppo è sempre stato cosi. an d r é n o u sch i E vero, ma bisogna essere lucidi. Non bisogna «indorarsi la pillola». fer n an d b r a u d el Ma è molto meglio trangugiare una pillola dorata che una pillola piombata. an d r é n o u sch i Non sono d’accordo. Se si dice ai Me­ diterranei: «La situazione è grave, rischiate di soccombere», è meglio dirglielo senza mezzi termini, nella speranza che reagiscano. fern an d br au d el La situazione è grave per il mondo, non solo per il mondo mediterraneo... Ed ora a lei, signora Rettore. h é l è n e a h r w e il e r Se lei permette, ad esso non è il Rettore! fern an d br au d el Ecco come vanno le cose, non si sa mai esattamente con chi si stia parlando! h é l è n e a h r w e il e r Conosciamo il Mediterraneo attra­ verso i documenti dei ricchi: «entrano nella storia» quelli che hanno avuto un grande destino mediterraneo. Il destino bizantino era quello di estendersi sull’insieme del Mediter­ raneo. C ’è un diritto nella storia, un diritto alla storia per tutti i popoli che, peraltro, non tutti hanno ancora esercita­ to. E tutto questo mi sembra conferire una tonalità partico­ lare alla storia. Per quanto riguarda in particolare i nostri la­ vori avrei alcune osservazioni: in primo luogo le continuità e le permanenze. Ossia i fattori biologici, gli uomini, le pian­

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te, gli animali; ma anche la geografia e alcuni fatti che ri­ guardano l’uomo, come ad esempio gli spostamenti presso­ ché generalizzati all’intera area, di singoli, di gruppi e d’in­ tere popolazioni che s’insediano nei paesi del Mediterraneo. La nostalgia, il dolore della partenza, il mal di patria sono una caratteristica del mondo mediterraneo. Ma poi vado alla ricerca delle unità o dell’unità del mon­ do mediterraneo e mi accorgo di non riuscire a trovarla. Di­ cevo stamattina che il termine mesogeios - il sogno di navi­ gare in alto mare - è praticamente assente e lo si ritrova so­ lo nelle opere colte. Allora, per ritrovare l’unità mediterra­ nea, bisogna rivolgersi alla cartografia, alla galera, ossia al­ l’unità sui mari. E bisognerebbe forse rivolgersi anche alla toponomastica per vedere come queste unità si sovrappon­ gono. Non abbiamo avuto tempo di parlarne. Ancora un’os­ servazione: l’unica unità bizantina è data dalla presenza di uno Stato forte: la talassocrazia. Questa parola non è stata pronunciata, e allora è forse opportuno dire che quando una talassocrazia viene meno si ha l’insorgere della pirateria nel­ le acque del Mediterraneo, e che la reazione a questa pirate­ ria porterà all’istituzione del diritto marittimo internaziona­ le; con una serie di convenzioni bilaterali, in un primo mo­ mento, seguite dalla determinazione delle acque territoriali. E questi sono dei punti che non abbiamo preso in esame. Vi sono poi le spaccature, indubbiamente, il tempo preci­ pitoso, corto, breve, vissuto nell’immediato, e ogni zona, ogni filtro ripresenterà le sue spaccature. Oggi, purtroppo, non ci troviamo a vivere una spaccatura, ma un vero e pro­ prio sbriciolamento. m ir r o d r a z e n g r m e k Non è facile reperire l’unità po­ litica né l’unità culturale del Mediterraneo. Ma c’è l’unità biologica, l’unità dei geni, l’unità dell’alimentazione; anche se quest’ultima è meno marcata che in passato. Sono felice di essere stato invitato a parlare con degli storici, ciò mi ha dato l’opportunità di attirare la vostra attenzione su un aspetto della storia troppo spesso trascurato. a l a i n d e n is Vi ringrazio per avermi fatto partecipare a una discussione in cui si è trattato molto di storia, che non è il mio campo. Vorrei ritornare al diritto marittimo cui ha appena accen­

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nato la signora Ahrweiler. In occasione di tre conferenze (Caracas, New York e Ginevra) si è cercato di elaborare un diritto marittimo internazionale valido per tutto il mondo. Sono state istituite delle zone economiche. Il Mediterraneo resta l’unica area in cui questo diritto non è applicabile e, in ogni caso, non applicato. Credo che andasse segnalato. La storia è un elemento fondamentale delle nostre azioni. L ’azione militare - è un termine che non mi piace molto, ma si tratta di azione di forza, di azione violenta - è fonda­ ta sullo studio di avvenimenti storici analoghi. E sono molti quelli ai quali si sarebbe potuto o si dovrebbe far riferimen­ to quotidianamente. Cosi, a trent’anni di distanza (1954, accordi di Ginevra; 1984, accordi di Tripoli) mi sono trova­ to esattamente nella stessa situazione. Nel primo caso si trattava del ritiro del corpo di spedizione francese dall’Indo­ cina; nel secondo caso della presenza francese nel Ciad... Ora ci troviamo davanti a una fonte di preoccupazione e di attualizzazione del rischio nel Mediterraneo. Ed è appun­ to questo rischio che noi cerchiamo di tener sotto controllo. Di conseguenza, siamo stati indotti a dislocare, nel corso de­ gli ultimi tre anni, 20 000 marinai davanti alle coste libane­ si, al fine di assistere le popolazioni che vivono su questo territorio e che sono duramente provate dagli eventi attuali. a l a in g u il l e r m Vorrei rivolgermi prima di tutto alla signora Ahrweiler per segnalarle che Mahan traduce il ter­ mine talassocrazia con sea power. Dunque, possiamo consta­ tare che il concetto è presente tanto nel mondo greco che nel mondo anglosassone; mentre non esiste un analogo con­ cetto francese. Vorrei anche ricordarle che in occasione del­ l’invasione di Cipro, Rossana Rossanda - d’accordo che si tratta d’un’italiana - ha scritto: «In che mondo viviamo? I Borboni sono a Madrid e i Turchi a Cipro». E la visione del­ la lunga durata da parte di un giornale italiano di estrema si­ nistra. Per ritornare ai Greci e ai Turchi, l’ammiraglio ha detto prima: «Si neutralizzano», ed è una cosa veramente triste! Ora, esiste un patto balcanico tra queste due nazioni alle quali è venuta ad aggiungersi l’U.S. Navy. Questo patto bal­ canico dovrebbe essere riattivato. In caso contrario i Russi diventeranno una potenza mediterranea. Voglio concludere

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con una nota d ’ottimismo. Si deve al generale De Gaulle la creazione di un profondo legame spirituale francoarabo che comprende anche il Libano. G li A rabi non riescono ad in­ tendersi tra di loro; si pone quindi il problema di operare una scelta. N oi abbiamo scelto, per esempio, il M arocco e, con ciò, Gheddafi. C i sono attualmente cinquecento tecnici francesi che si battono in difesa del Marocco e per questo gli Algerini ci detestano. Il rischio è di far fallimento dall’oggi al domani. Ma la Francia, con la sua potenza navale, a fron­ te dei due imperi mondiali e continuando la sua politica d ’a­ micizia francoaraba in maniera attiva, può assicurare un mi­ nimo di autonomia ai paesi mediterranei. je a n g u il a in e Da archeologo smarrito in mezzo agli storici vorrei tuttavia concludere da archeologo. Voglio qui richiamare i problemi della pratica scientifica. I materiali con cui lavora l’ archeologo non sono quelli dello storico. Non dispone di testi scritti. Lavora su tempi che, almeno mi sembra, risultano piuttosto oscuri allo storico: ne deriva che è un po’ emarginato in questo dibattito. H o cercato di di­ mostrare che non c’era uno spazio mediterraneo, uno spazio o area culturale almeno; bensì uno spezzettamento. Solo a partire dal n millennio, quando nasce la scrittura, quando s’istituisce una piramide sociale - ho citato il caso di M ice­ ne - , quando incomincia la capitalizzazione e il commercio, solo allora il Mediterraneo è solcato dai destini che mettono praticamente in gioco tutti i territori che si estendono lungo le sue coste, tanto che da questo punto di vista le talassocra­ zie punica, greca ed etrusca sono dei semplici epifenome­ ni. Concludo augurandomi che l’ archeologia, che ha ormai smesso di essere una disciplina puramente ausiliaria della storia, possa continuare a incrociare le sue armi con quelle della storia, arricchendola coi propri insegnamenti. Ma u r ic e a y m a r d Pur ricordando che il nostro punto di partenza era il Mediterraneo del secolo xvi, mi chiedo se abbiamo onorato i nostri impegni nei confronti dell’udi­ torio. fer n a n d b r a u d e l

N o.

Abbiamo alle spalle dei millenni alla luce dei quali parlare di un Mediterraneo per altro molto M a u r ic e

aym ard

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cambiato, e che ha visto cambiare la sua dimensione inter­ nazionale tra i secoli x v i e xvn. I millenni ci rassicurano. Ma il solo che abbia potuto individuarvi una continuità è il dot­ tor Grmek. Per quanto ci riguarda abbiamo cercato di ritro­ vare la permanenza delle più antiche sfaldature del terreno. M a la storia che suscita attualmente le nostre proccupazioni non ha dei millenni alle spalle, bensì solo un paio di secoli. E la storia che ha assistito alla frantumazione degli imperi, gli Austroungarici, alla colonizzazione e alla decolonizzazione; la storia che ha visto la creazione di venticinque Stati attor­ no al Mediterraneo (di cui alcuni cosi fragili da non sembra­ re neppure veri e propri Stati) che non hanno ancora adotta­ to quei comportamenti, né si sono assunti quelle responsabi­ lità che sarebbero necessarie al mantenimento di un equili­ brio mediterraneo simile a quello che si è realizzato in passa­ to, cosi come si è avuto in passato un equilibrio europeo. Forse abbiamo parlato un po’ troppo di povertà e di ricchez­ za, e certo troppo poco di potere e di inferiorità, di potere e di dipendenza. Condivido le preoccupazioni di André Nouschi. Sono rimasto affascinato, questa mattina, dal Mediter­ raneo di Jean Guilaine, questo Mediterraneo megalitico in cui una ventina di protagonisti operavano delle innovazioni a livello locale, in cui non c ’era ancora diffusione; quella dif­ fusione che oggi si realizza unicamente a partire da due grandi imperi extramediterranei. M i piacerebbe molto un Mediterraneo in cui, come nel il o iv millennio a. C ., cia­ scun protagonista ritrovasse una grande capacità e, questo è il punto, una grande libertà di innovare in modo da reinven­ tare qualcosa di veramente diverso. Si tratta di un’utopia? Temo proprio di si. C h r i s t i n e OCKRENT Da giornalista constato che in que­ st’ultimo giro d ’opinioni si è finalmente approdati ai proble­ mi di attualità. Si è soliti ripetere che l’attualità non è quo­ tata sul mercato della storia, tanto che può succedere che i lumi della spiegazione pur brillante, fornitaci tra gli altri da Fernand Braudel sulla scorta della lunga durata, non siano talvolta in grado di illuminare sufficientemente i fenomeni che oggi ci rendono inquieti.

19 ottobre: il capitalismo

pau l fabra È per me un onore e un piacere trovarmi a fianco di Fernand Braudel. Il suo nome è associato a tali ca­ pacità e conoscenze che non mi stupisco di vedervi cosi nu­ merosi. Dialogheranno davanti a voi, e poi assieme a voi, eminenti ricercatori di diverse discipline, storici, economi­ sti, filosofi, sociologi, e di diversi paesi, India, Brasile, Stati Uniti d’America, Ungheria, Francia.

Economia politica e storia economica. paul fabra Dedicheremo questa giornata al concetto di «capitalismo». Lo stesso Fernand Braudel ha scritto di aver esitato ad utilizzare questo termine perché non si tratta di un termine neutro. In effetti non si presenta come una definizione di tipo scientifico: se ancor ieri era connotato soprattutto negativamente, non pochi, oggi, lo sventolano come una bandiera. Il capitalismo viene cosi confuso o iden­ tificato col liberismo che, in maniera invero inattesa, naviga oggi col vento in poppa. « Lo scambio è antico come la storia degli uomini », ha scritto Fernand Braudel. Ma, a suo avviso, il capitalismo è una sovrastruttura che occorre distinguere dall’«economia di mercato». Nei tre volumi di Civiltà materiale, economia e capitalismo egli definisce sviluppo, natura e portata di questi due fenomeni, tra xv e x v i i i secolo, presentandoli appunto come distinti. E una tesi che suscita pili problemi di quanti non ne risolva, come si verifica del resto normalmente nel caso di modelli che mirano a una spiegazione complessiva.

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Secondo Fernand Braudel, un modello è «simile a una nave: la si costruisce sulla terra ferma e poi la si mette in ma­ re. Galleggerà? Navigherà?» Il modello da lui elaborato è in grado di tenere il mare? La risposta è decisamente affermativa per quanto riguar­ da l’ aspetto più propriamente storico, trattato in maniera magistrale. La sua tesi è che tra presente e passato pur remoto non si ha mai totale discontinuità, e la dimostra superbamente tra­ sformando in «vita vissuta» l’enorme massa di informazioni che ci fornisce. Il suo modo di procedere è agli antipodi di quello di M ichelet, ma caratterizzato dalla stessa capacità prodigiosa di «animare», di suscitare nel lettore, assieme al­ l'impressione di movimento, un’emozione di tipo estetico. E impossibile dar conto dell’ordine del mondo - di cui fan­ no ben parte gli orrori della storia degli uomini e quelli dei cataclismi naturali, al pari dei passi falsi dell’economia di mercato - se non si è in grado di cogliere ciò che, in man­ canza di un termine migliore, siamo ancor oggi costretti a chiamare bellezza di questa creazione ininterrotta. Fernand Braudel spiega in maniera nuova la funzione avuta da quei capitalisti che, sin dall’ alba dei Tempi moder­ ni, ossia già in pieno Medioevo, furono sia grandi commer­ cianti, sia manifatturieri, sia finanzieri, in quanto sostanzial­ mente capaci, ed è appunto una loro caratteristica, di sce­ gliere di volta in volta la forma d ’investimento più redditi­ zia; di quei capitalisti, insomma, che, guardando ben oltre le mura che cingono lo Stato-città (Bruges, Venezia, Anversa, Genova...), a partire dal quale s’irradia la loro attività, san­ no tessere una rete di scambi altamente remunerativi che istituisce, abbracciando una considerevole estensione terri­ toriale, quella che egli chiama un’«economia-mondo» (l’in­ sieme delle economie-mondo formando l’economia mondia­ le). In questa rete è presa, e ben presto manovrata come dal­ l’alto, l’economia di mercato propriamente detta, il cui pro­ totipo è dato dalle fiere, dove gli scambi riguardano fonda­ mentalmente i prodotti e i servizi offerti da una moltitudine di piccoli fabbricanti e artigiani. Sorgono però i primi dubbi quando questa magistrale de­ scrizione della vita economica viene usata per fondere la ben

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nota distinzione tra economia di mercato e capitalismo. Si può ipotizzare che tali dubbi trovino giustificazione nel fat­ to che questa imponente storia degli scambi difetterebbe di un concetto preciso di ciò che è lo scambio? E un’ipotesi autorizzata dalle esitazioni di Braudel tra la concezione dell’economia che la vuole vitalizzata dalla dina­ mica dell’offerta, e quella che sottolinea l’effetto trainante della domanda. Si tratta di una questione di fondo: se l ’eco­ nomia di scambio, e dunque il capitalismo, si sviluppa, do­ vrà pur esservi al suo interno una specie di principio dinami­ co. E un problema che ci riporta all’analisi dello scambio e ai grandi economisti: Ricardo, Smith, Jean-Baptiste Say e la sua famosa «legge degli sbocchi». Secondo quest’ultima, in materia di scambio, l’offerta precede la domanda, perché la domanda non può essere soddisfatta se non da un’offerta precedente. Fernand Braudel non esita ad affermare che Keynes «ha tranquillamente rovesciato» questa legge che già Ricardo aveva fatta propria con la semplice dichiarazione che i pro­ dotti si scambiano con prodotti, che non è altro che la più ra­ dicale affermazione del primato dell’offerta. M a in verità questa legge non è stata affatto confutata in epoca contem­ poranea, bensì se ne sono deliberatamente ignorate le impli­ cazioni in termini di governo dell’economia nazionale. E questa ignoranza ha generato l’illusione che si possa stimo­ lare durevolmente la domanda senza preoccuparsi dell’offer­ ta; o, in altre parole, distribuire un reddito il cui ammontare sia superiore (ed è la normale conseguenza di un deficit di bilancio permanente) al totale del reddito erogato dall’appa­ rato produttivo sotto forma di salari, imposte, dividendi ecc. Ritengo che si possa dimostrare piuttosto agevolmente che l’ aver trascurato la relazione organica tra offerta e do­ manda, che trova appunto espressione, seppur in forma ru­ dimentale, nella «legge degli sbocchi», abbia originato que­ gli scompensi cui vanno imputati sia il perdurare sia la gravi­ tà della crisi attuale. Non si sta forse improvvisamente riscoprendo che l’uo­ mo, per poter essere consumatore, deve essere prima pro­ duttore?



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Ma l’interpretazione di Braudel deve essere sottoposta a una prova ancor più cruciale: è in certo senso lo stesso Brau­ del a sollecitarla, quando fa sua la tesi di John Galbraith se­ condo la quale la grande impresa può «amministrare» il mercato, e su questa base giunge ad affermare che «le leggi economiche non esistono per la grande impresa». Su que­ st’ affermazione poggia in definitiva la sua tesi dell’« esterio­ rità del capitalismo» (rispetto all’economia di mercato), che costituisce il muro maestro della sua costruzione teorica. Insomma, per Fernand Braudel l’economia di mercato è quella che garantisce il rapporto tra mondo della produzio­ ne, da una parte, e consumo, dall’ altra. E l’economia di mercato sarebbe quella in cui, in qualche modo, i produttori tengono conto del valore d ’uso; mentre il capitalismo sareb­ be interessato unicamente al valore di scambio. È questa una concezione nella quale si può intravedere un larvato omaggio alla teoria marxista, dalla quale, per altro, la visio­ ne di Braudel si discosta, quando riconosce, al mercato, giu­ stamente, la virtù della trasparenza. Ma il progresso economico non è forse consistito nel sot­ toporre progressivamente il mondo della produzione all’im­ perio dello scambio? Come risultato di quella divisione del lavoro che comporta la specializzazione delle mansioni e la diversificazione delle imprese? Le multinazionali, che dislo­ cano fabbriche e laboratori per trarre il massimo vantaggio dalla differenza dei costi, sono diventate addirittura mae­ stre in questo gioco. Sicché, prima di chiedersi se hanno ac­ quisito la capacità di sottrarsi alla legge del mercato, sarebbe più opportuno prendere atto che la loro esistenza è fondata sulla piena utilizzazione di questa legge. Si tratta del resto di un fenomeno che Braudel non ignora, ma che analizza per cosi dire in maniera periferica. Per Fernand Braudel l’eco­ nomia di mercato è influenzata dalla concorrenza, mentre il capitalismo, in quanto dispone di enormi capitali accumula­ ti, può permettersi «il gioco, il rischio, le carte truccate». Non è facile sottrarsi al fascino della descrizione di Braudel! E tuttavia, la concorrenza non è spesso, per non dire sempre, più accanita proprio al livello del mercato interna­ zionale dove appunto si esercita l’ attività delle grandissime imprese? Secondo la teoria di Braudel, la concorrenza a li­

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vello di mercato nazionale riguarderebbe i piccoli esercizi e non i supermercati. A quale concetto di concorrenza fa rife­ rimento un autore che sostiene, come fa appunto Braudel, che essa si situa al di sotto dei monopoli, « riservata alle pic­ cole e medie imprese»? (sottolineatura mia). Non siamo forse di fronte a una concezione contraddittoria di tipo più senti­ mentale che scientifico? E non sarà per caso un’ analoga forma di romanticismo quella che porta Braudel a considerare con la massima atten­ zione la teoria di K ondratieff sui cicli di lunghissima dura­ ta (almeno quarantanni)? Si può comprendere l’ attrattiva esercitata sullo storico da una tale rigida scansione del tem­ po economico; ma ciò non autorizza a discutere l’ipotesi di Kondratieff, contestata dalla maggior parte degli economi­ sti, come se presentasse tutti i requisiti della verisimiglianza e dell’attendibilità. D ’ altra parte, va detto che l’opera di Braudel illumina una dimensione solitamente trascurata dagli economisti di professione. Egli è tra i primi, se non il primo, ad aver illu­ strato la funzione organizzatrice delle grandi città: quelle medievali, poi Venezia e Genova, attorno alle quali è andata via via organizzandosi l’economia-mondo, seguite da Anver­ sa nel secolo xvi, Amsterdam nel xvn, quindi Londra e, og­ gi, New York. La domanda che Braudel si pone in proposito è come mai queste città prive di un potente Stato alle spalle - con la sola eccezione di New Y ork che poggia sulla grande potenza degli Stati Uniti - abbiano potuto imporre un de­ terminato ordine alla vita economica. Le sue risposte sono probabilmente implicite, ma a mio avviso dovrebbero essere esplicitate. E forse, il fatto che queste città arrivino ad im­ porsi pur mancando di uno Stato potente alle spalle è dovu­ to al fatto che lo scambio risulta vantaggioso per tutti, ivi compresi i loro partners; insomma sembra che queste città offrano vantaggi a tutti coloro che sono in relazione con lo­ ro, ivi compresa la periferia. E storicamente provato che si crea una forma di gerarchia in seguito all’organizzazione dell’economia in zone distinte chiamate «economia-mondo». Ciascuna di queste zone è in­ fatti diversificata. M a non è forse vero, a stare alla teoria economica, che il mercato tende a livellare costi e profitti?

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Certo la contraddizione è parzialmente acuita dall’irruzione del capitalismo, almeno nell’accezione braudeliana, che ri­ prende in qualche modo l’idea marxista secondo la quale lo scambio, pur fondato su un rapporto d ’uguaglianza, finisce per fondare la disuguaglianza. M a non è affatto detto che si debba accettare a braccia aperte questa visione della realtà secondo la quale la periferia sarebbe votata ad esser sempre più povera dell’area centrale. E una visione che mi sembra spesso contraddetta dai fatti: nel mondo occidentale, oggi organizzato attorno agli Stati Uniti, il livello di vita degli Europei ha praticamente raggiunto, e in alcuni paesi persino superato, quello degli Americani. C ’è il pericolo che il «braudelismo» capiti a fagiolo per consolare, invero un po’ a buon mercato, gli orfani del mar­ xismo, ossia quella schiera d ’intellettuali preoccupati di ri­ definire un pensiero di sinistra. In maniera molto affasci­ nante, forse fin troppo affascinante, Immanuel Wallerstein avanza l’ipotesi che il trionfo dell’economia di mercato po­ trebbe rivelarsi come il segno dell’ avvento del... socialismo (in seguito all’eliminazione della «sovrastruttura» capitali­ stica). Il dato paradossale, almeno mi sembra, è che la tesi di Braudel presenta la maggior fecondità allorché è sviluppata in direzione dell’utopia: l’assoggettamento dell’intera atti­ vità economica propriamente detta alla legge della concor­ renza non è infatti la miglior garanzia di razionalità? Il per­ petuarsi delle grandissime imprese e delle holdings non è d ’ostacolo alla ricerca della massima produttività? E appunto ciò che sembra (ri)scoprirsi oggi. fer n an d b r a u d el C i sono mille modi per entrare in un’opera anche quando se ne è l’ autore. V i si può entrare dalla finestra oppure attraverso una porta secondaria; ma lei è certamente entrato per la porta principale. E d ha posto molto chiaramente i problemi, non credo tutti, ma certa­ mente i principali; e soprattutto mi ha dato la dimostrazione che lo storico dell’economia non può essere un economista. Per ragioni analoghe, del resto, un economista che tien con­ to della storia è un animale piuttosto raro; perché è una cosa piuttosto scomoda... Non arriverò a dire di non aver letto i grandi economisti, ma dico che non li ho mai presi troppo sul serio. Preferisco osservare la vita economica nella sua

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realtà. Lo storico riporta ciò che vede; cerca di analizzare quello che si svolge davanti ai suoi occhi. Non s’abbandona alle teorie degli economisti, nemmeno alle vecchie dispu­ te sull’offerta e sulla domanda. Lei ha accennato a JeanBaptiste Say e l’ha giustamente difeso. A mio avviso, però, Say corrisponde un po’ , nel campo dell’economia politica, ai padri fondatori della storia tradizionale: gli rimprovero una certa mancanza di vivacità, e anche d’orgoglio... Forse per gentilezza, lei non ha sufficientemente sottoli­ neato che, per me, il capitalismo è un fenomeno che riguar­ da la sovrastruttura, la minoranza e la latitudine. Tutte le volte che ho studiato i grandi capitalisti - mercanti, ban­ chieri... - sono rimasto stupito dall’esiguità del loro nume­ ro. Nel 1840 l’alta finanza francese è rappresentata da una quarantina di famiglie, diciamo duecento persone al massi­ mo, e nemmeno tutte attive. Nel secolo xviii i grandi com­ mercianti marsigliesi studiati da Charles Carrière non am­ montano a più d’un’ottantina di persone. Tutte le volte che si guarda con occhio obiettivo a quello che chiamo il capita­ lismo attivo si resta quasi sconcertati dal ristretto numero di persone che lo manovrano. Ma vorrei soprattutto insistere sulla suddivisione della vi­ ta materiale su tre piani. Per me, il mercato rappresenta l’e­ quatore. A Sud dell’equatore c’è l’emisfero meridionale, os­ sia il baratto, lo scambio. E solo a Nord dell’equatore, nel­ l’emisfero settentrionale, si può trovare il capitalismo. L ’e­ misfero Sud, ossia il piano del baratto, è quello che in ita­ liano si chiama «economia sommersa», e se questa realtà dell’economia «nera» non trova riscontro, allora la mia co­ struzione crolla dalle fondamenta. Lei ha ripetuto spesso - dicendo una cosa che mi arrovel­ la perché è ineccepibile - che i tentativi di spiegazione che si forniscono in un libro corrispondono a delle certezze e a delle preoccupazioni: nel campo nel quale mi sono impegna­ to le preoccupazioni sono indubbiamente maggiori delle cer­ tezze. Debbo dire, inoltre - e so bene che si tratta di una cosa difficile da far capire agli altri, ancorché abbia per me un significato molto preciso - che non ho scelto spontanea­ mente di scrivere quest’enorme libro; ma che mi è stato im­ posto. Mi è stato amichevolmente imposto dall’uomo che ho

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stimato di più e che ha avuto più influenza su di me: Lucien Febvre. Egli aveva da poco concepito una collana di storia generale intitolata Destins du Monde della quale ho dovuto assicurare la continuazione dopo la sua scomparsa nel 1956. Lucien Febvre aveva in animo di scrivere Pensées et croyances d ’Occident du x v r au xvn r siècle, un libro che avrebbe dovuto affiancare e completare il mio dedicato a Civiltà ma­ teriale, economia e capitalismo. Il mio libro è stato irrimedia­ bilmente privato di questo accompagnamento, ed è profon­ damente segnato dal fatto di rapportarsi esclusivamente alla vita economica. Lei, Paul Fabra, cerca di spiegare l’inegua­ glianza dello scambio tramite le regole dell’economia. E il ti­ pico difetto degli economisti. Lei propone una spiegazione di tipo endogeno; mentre uno storico come me preferisce uscire dall’economia per andarsene alla ricerca di spiegazio­ ni di tipo esogeno. Insomma, quando cerco di andare al di là della disuguaglianza economica mi rendo subito conto che è il corrispondente della disuguaglianza sociale. Non conosco società umane esenti dalla disuguaglianza: né nel mondo at­ tuale, né nel vasto campo dell’esperienza storica. Nel campo delle scienze umane, e forse anche in quello delle scienze esatte, porre o risolvere un problema significa porre un nuo­ vo problema. «Porre un problema è l’inizio e la fine della storia. Senza problemi, non ci sono storie» - diceva Lucien Febvre. Per ritornare alla disuguaglianza sociale: la ritrovo anche nelle società più primitive, ancor prima della stessa storia, tanto che la disuguaglianza mi si pone come un pro­ blema di fondo che cerco di spiegare - e forse ne sorridere­ te - con l’animalità sociale: nella misura in cui l’uomo è un animale sociale è anche in qualche modo vittima della collet­ tività nella quale vive. Non c’è collettività senza disugua­ glianza, senza gerarchia. La disuguaglianza economica è con­ seguenza della disuguaglianza sociale. Ecco quello che volevo dire per il momento. Avrei ancora molte altre cose da puntualizzare, ma preferisco che prima prendano la parola gli altri relatori; io mi difenderò dopo! PAUL f a b r a II compito di iniziare questa discussione spetta a Gérard Jorland. Vi ricordo solo che si tratta di un filosofo e che il suo intervento tratterà del «capitalismo fuo­ ri gioco».

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Il capitalismo, un gioco truccato? Ge r a r d j o r l a n d Vorrei ritornare alla distinzione opera­ ta da Fernand Braudel tra capitalismo ed economia di mer­ cato. Contrariamente a Paul Fabra la ritengo inoppugnabile. Del resto non la si ritrova solo presso gli storici. Anche gli economisti sono soliti considerare, da una parte, la concor­ renza perfetta, il libero scambio e, dall’altra, la concorrenza imperfetta, la concorrenza monopolistica. Fernand Braudel afferma con molta chiarezza che l’economia di mercato è ba­ sata sulla concorrenza e che vi si realizza uno scambio egua­ le, mentre il capitalismo crea e sfrutta delle situazioni di mo­ nopolio che danno luogo a uno scambio ineguale. Questa di­ stinzione consente di spiegare la disuguaglianza tra le diver­ se aree del mondo in epoca moderna come conseguenza del dominio europeo? Questo dominio costituisce, per citare Fernand Braudel: «il nodo gordiano della storia del mon­ do... il problema fondamentale della storia del mondo mo­ derno...» E allora il problema diventa quello di determinare se la disuguaglianza del mondo è opera del capitalismo che avreb­ be truccato le carte. In altre parole: se lo scambio è ineguale, ossia un vero e proprio inganno, un gioco truccato? Perso­ nalmente ne dubito, perché non vedo come una struttura di lunga durata qual è il capitalismo avrebbe potuto mantenersi su una forma d’inganno. «Si può ingannare qualcuno inde­ finitamente e il mondo intero per una volta, ma non si può ingannare indefinitamente il mondo intero» - afferma un proverbio americano. La disuguaglianza del mondo è un problema storico, un fatto storico e, in quanto tale, ha una sua data. Per datarlo mi rifaccio alle stime di Paul Bairoch, che constata: nel 1800 il prodotto nazionale pro capite è di circa 200 dollari (al valore odierno) all’incirca in tutte le aree del mondo (Europa, Cina, India); ma nel 1976 ammonta a 2325 dollari in Europa occidentale e a 350 dollari in Cina e nel Terzo Mondo. In altre parole: in poco più d’un secolo e mezzo una situazione di uguaglianza si è trasformata in una situazione di accentuata disuguaglianza. Le date citate sono importanti perché mostrano che la disuguaglianza del mon­

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do ha una causa: questa causa è stata chiamata rivoluzione industriale. Che cos’è la rivoluzione industriale? Come la si può spie­ gare? Mi limito a riprendere la spiegazione illuminante for­ nita da Fernand Braudel: la rivoluzione industriale è il pas­ saggio da una civiltà del legno e della carbonella a una civiltà del ferro e del carbon fossile. Alcuni dati tratti dallo stesso Braudel ne dànno un’idea: nel 1789 l’Europa brucia 200 mi­ lioni di tonnellate di legna, ma intorno al 1840 ne brucia so­ lo più 100 milioni. D ’altra parte: nel 1790 l’Europa produce 600 000 tonnellate di ferro, ma, nel 18 10 , 1 100 000 tonnel­ late, e, nel 1840, 2 800 000 tonnellate. Innovazione tecno­ logica? Certamente, ma con conseguenze sul piano strettamente economico come si può facilmente capire se ci si rifà al modello costruito dall’economista americano Simon Kusnets. Egli spiega nel modo seguente (semplificherò al massi­ mo) il terremoto che ha segnato il passaggio dalle società preindustriali anteriori al secolo xix alle economie industria­ li contemporanee: in una società preindustriale il capitale ac­ cumulato è un capitale lordo; nelle nostre economie occiden­ tali contemporanee, il capitale accumulato è invece un capi­ tale netto. La differenza tra capitale lordo e capitale netto è data dal deprezzamento. In altre parole: prima della rivolu­ zione industriale le società debbono risparmiare, sottrarre al consumo una quantità di ricchezza pari alla nostra, ma all’u­ nico fine di conservare l’efficienza del loro apparato produt­ tivo. Si tratta di un’analisi economica che conferma appieno l’immagine intuitiva che ci si può fare di una società che di­ spone unicamente di strumenti di produzione in legno, ossia fragili e rapidamente deteriorabili, rispetto a una società che dispone di strumenti di produzione cosi durevoli da avere una vita economica inferiore alla loro vita tecnica. Le mac­ chine oggi utilizzate nell’industria potrebbero durare una cinquantina d’anni; vengono però in genere sostituite nel gi­ ro di otto anni, non perché diventino inutilizzabili, ma per­ ché sono disponibili nuove macchine tecnologicamente più progredite: ne deriva che il semplice fatto del rinnovamento del macchinario implica un aumento di capacità produttiva. È questo cambiamento, questa mutazione del capitale fisso ad aver consentito al capitalismo di passare da quello che

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sino al secolo xvrn era stato sostanzialmente un capitalismo commerciale e finanziario, a un capitalismo industriale che realizza l’ accumulazione del capitale in forma sostanzial­ mente endogena. Il passaggio alla civiltà del ferro come cambiamento eco­ nomico che comporta l’effetto economico appena descritto, è un cambiamento che ha a sua volta una causa economica. Infatti, nel secolo x vm si è cominciato a fabbricare il ferro con il carbón fossile per il seguente motivo: perché in Inghil­ terra, la legna, ossia il combustibile, ossia i costi del vecchio modo di produzione si facevano eccessivi. A ll’epoca era la Svezia a detenere il monopolio della produzione di ferro di alta qualità, e la Svezia cominciava a diventare una potenza baltica in grado di dar fastidio all’Inghilterra. Allora quest’ultima si trovò costretta a cercare il modo di sottrarsi al monopolio svedese. E un esempio di quella che si può chia­ mare concorrenza monopolistica. In altre parole: il capitali­ smo ha una sua forma di concorrenza: è la concorrenza tra monopoli, la corsa verso una posizione di egemonia produ­ cendo a costi inferiori. Si può verificare lo stesso fenomeno in quella che è stata chiamata «rivoluzione del cotone». Perché si passa al mac­ chinismo nell’industria cotoniera del secolo xvm ? Perché l’ india è il maggior produttore tessile. In Inghilterra i lavo­ ratori lottano contro l’eventuale diminuzione di salari rela­ tivamente alti. N e deriva che l’ Inghilterra ha un unico mo­ do di lottare contro la concorrenza dell’ìndia: l’introduzio­ ne massiccia delle macchine. E appunto un altro esempio di concorrenza monopolistica; e particolarmente significativo perché la concorrenza dei tessuti indiani sui mercati europei non era esercitata in prima persona dagli Indiani, bensì dagli Europei: erano infatti commercianti inglesi e olandesi gli imprenditori dei tessuti indiani sulle piazze europee. Analo­ gamente, oggi, la concorrenza esercitata dai paesi del Terzo Mondo recentemente industrializzati è opera dei capitalisti dei paesi centrali. Il capitalismo sarebbe dunque all’origine della disugua­ glianza del mondo perché gioca con carte truccate? Perso­ nalmente non lo credo. Ritengo invece che sia il cambia­ mento della base materiale della nostra civiltà ad aver creato

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questa disuguaglianza. Il capitalismo esisteva già prima co­ me capitalismo finanziario, commerciale e industriale, e ha sempre seguito le stesse regole del gioco, prima e dopo la ri­ voluzione industriale. Semplicemente, mi sembra che il gioco giocato dal capita­ lismo e quello dell’economia di mercato non siano gli stessi. Facendo riferimento alla teoria matematica dei giochi si po­ trebbe dire: il gioco dell’economia di mercato è equilibrato perché si tratta di un gioco di puro azzardo che nessuno è in grado di dominare; mentre il capitalismo non è un gioco equilibrato in quanto influenzato dall’abilità dei giocatori. E , com’è noto, questo genere di giochi ammette soluzioni stabili unicamente in presenza di uno o due giocatori, men­ tre se essi sono più numerosi si dànno solo soluzioni instabi­ li. Per quanto mi riguarda, ritengo quindi che la distinzione tra economia di mercato e capitalismo sia ancor più netta di quella operata da Braudel. pau l fabra Ringrazio Gérard Jorland che ha saputo esprimersi con precisione e altrettanta concisione. Alberto Tenenti affronterà ora una questione di tipo metodologico: « L ’analisi del capitalismo preindustriale può illuminare an­ che i periodi successivi?»

Il capitalismo: continuità o mutamento? Al b e r t o t e n e n t i Stiamo dibattendo sostanzialmente lo stesso problema; per quanto mi riguarda lo affronterò da un punto di vista prevalentemente storico. Adotto la stessa terminologia di Braudel per cui non ho bisogno d ’insistere sul concetto « braudeliano » di economia-mondo; tanto più che abbiamo la fortuna e il piacere di avere qui tra noi Im­ manuel Wallerstein. Voglio tuttavia sottolineare che per Fernand Braudel ogni economia-mondo ha il suo proprio ca­ pitalismo; che vi sono sempre state delle economie-mondo (se non proprio da sempre se non altro da moltissimo tem­ po); che, di conseguenza, vi sono sempre stati dei capita­ lismi. Ma non è questo il punto sul quale intendo avanzare delle riserve o dei dubbi. Vorrei piuttosto allargare la discussione

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a un problema che ci riguarda tutti, perché il rapporto tra sto­ ria e presente non è un rapporto fittizio, bensì attivo, profondo e complessivo. Come ho già detto, per Fernand Braudel ci sono sempre state delle economie-mondo (con un centro, una periferia ecc.) e altrettanti capitalismi, per cui egli si pone criticamen­ te nei confronti della concezione secondo la quale sarebbe possibile una cronologia del capitalismo e delle sue diverse fasi. Per Braudel, il gioco capitalista è uguale nel secolo xm a Firenze, nel secolo x v i ad Amsterdam, e oggi in altre parti del mondo. Per Braudel il capitalismo sembra avere delle fa­ si (nonostante egli parli talvolta di protocapitalismo, ossia di una forma antecedente a quella del capitalismo vero e pro­ prio). Braudel scrive testualmente: « Il capitalismo è una vec­ chia avventura. Quando inizia la rivoluzione industriale il capitalismo ha ormai un lungo passato fatto di esperienze non solo commerciali ». Braudel sottolinea la pluralità dei capitalismi ma finisce per non imbattersi mai nel vero capi­ talismo, che per lui attraversa le età e l ’intero corpo della storia, tanto che, sempre richiamandosi alla lunghissima du­ rata, ci mette in guardia dal lasciarci ipnotizzare da un capi­ talismo perdendo di vista gli altri: perché se per un verso ri­ tiene che i capitalismi non sono mai uguali tra loro, per altro verso ritiene che il capitalismo è sostanzialmente sempre lo stesso. N e deriva che la forma di capitalismo con la quale oggi abbiamo a che fare non è una forma definitiva, nono­ stante il suo perdurare, perché ne seguiranno delle altre, in quanto vi saranno probabilmente degli altri capitalismi. E si­ ste dunque un vero capitalismo? Braudel risponderebbe di no; rifiutando nello stesso tempo quella visione del capitali­ smo secondo la quale esso progredisce continuamente da una fase all’ altra, sino al raggiungimento del vero capitali­ smo, che si realizzerebbe tardivamente scompigliando la produzione. In altri termini, egli si oppone alla concezione secondo la quale vi sarebbe un capitalismo commerciale - o protocapi­ talismo - che non è ancora compiutamente capitalismo. Tutto ciò ci riporta al passato della nostra civiltà e alle ra­

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dici della problematica odierna. Sempre secondo Fernand Braudel, infatti, colonialismo e imperialismo sono preceden­ ti alla rivoluzione industriale e destinati a perdurare perché vanno di pari passo col capitalismo, che è sempre una que­ stione di gerarchia: una gerarchia che non è detto sia esclu­ sivamente economica. M a in questo modo ci troviamo a do­ ver fare i conti con la rivoluzione industriale, e, in proposi­ to, la domanda che vorrei porre a Fernand Braudel è la se­ guente: «Lei pensa che la fase capitalistica attuale (fase capi­ talistica che segue ad altre, lasciando impregiudicato se si tratti di una vera e propria fase o meno) costituisca vera­ mente una fattura da cui deriverebbe una profonda trasfor­ mazione del capitalismo in quanto organizzazione della vita economica e sociale? » Nell’ultimo volume della sua trilogia intitolato I tempi del mondo, Fernand Braudel sembra talvolta attribuire alla ri­ voluzione industriale una funzione decisiva, tanto da giusti­ ficare la suddivisione del tempo del mondo in due periodi: prima e dopo il secolo xvm . E cosi egli parla di due crescite: una precedente e l’ altra successiva alla rivoluzione industria­ le, che non è evidentemente un evento di breve durata, ma una svolta che ha caratterizzato la storia europea e mondiale per un periodo piuttosto lungo, trasformandola profonda­ mente. E all’interno di questo quadro che Braudel ci parla di crescita moderna e di crescita tradizionale, di nascita del­ l’industria e di un capitalismo nuovo interamente votato alla produzione industriale. M a ciò suscita un altro problema: Tutto ciò corrisponde veramente alla realtà? E lecito affermare che il capitalismo che ha spianato la strada al mondo attuale è sostanzialmente identico al capitalismo delle epoche precedenti? Come si può ben vedere non si tratta di una questione di quantità né di proporzioni, bensì di una questione di sostanza. Se ele­ menti e ingredienti del capitalismo attuale sono gli stessi dei precedenti capitalismi, allora si può concludere, consenten­ do con Fernand Braudel, che il capitalismo col quale abbia­ mo a che fare dall’epoca della rivoluzione industriale non è, nonostante la sua apparente novità, cosi sostanzialmente di­ verso dai capitalismi delle altre epoche. Insomma, quello che mi premeva sottolineare è che Fer-

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nand Braudel, pur accordando - e sarebbe piuttosto arduo non farlo - importanza cruciale alla rivoluzione industriale (che comporta trasformazioni che vanno al di là della sem­ plice produzione), non ritiene affatto che essa caratterizzi il vero capitalismo. Cosi, noi saremmo indubbiamente entrati in un’altra era; ma questa non sarebbe una ragione sufficien­ te per ritenere che la problematica sia radicalmente mutata. Questa affermazione «braudeliana» presenta molte im­ plicazioni: ciò che noi consideriamo specifico del nostro tempo, della nostra attualità, viene proiettato in tal modo in una dimensione atemporale. Una visione della realtà storica che troviamo ribadita in affermazioni come la seguente: «Cerco di offrirvi un modello della vita economica che va dalla vita quotidiana alla vita dello scambio e al capitalismo. Modello che si è presentato e si ripresenta in ogni luogo e in ogni epoca, sebbene più in alcuni che in altri, e che conti­ nuerà a ripresentarsi ». Insomma, non dobbiamo lasciarci ipnotizzare dal presen­ te perché il capitalismo costituisce una struttura permanente della vita umana alla quale non si è mai sfuggiti né mai si sfuggirà. PAUL f a b r a Ringrazio Alberto Tenenti e attendo con molto interesse la risposta di Fernand Braudel. Abbiamo la fortuna di avere qui con noi due storici indiani che affronte­ ranno una problematica non più centrata sull’Europa. Il si­ gnor Chaudhuri ci parlerà infatti del capitalismo commer­ ciale e dei problemi della produzione industriale asiatica an­ teriormente al secolo xix.

Capitalismo commerciale e produzione industriale in Asia prima del 1800. K. N. c h a u d h u r i La storia dello sviluppo industriale, dell’organizzazione economica e della struttura sociale del­ l’Asia nel suo complesso in epoca precedente la rivoluzione industriale europea non è ancora stata scritta. Tuttavia la problematica connessa alla produzione indu­ striale si presta bene, indipendentemente dal periodo preso in esame, ad un approccio comparativo, non foss’altro per­

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ché questo genere di problemi dipende meno di altri dai ca­ pricci del tempo. Secondo gli storici dell’economia asiatica, lo sviluppo del­ l’agricoltura presuppone una divisione per quanto primitiva del lavoro: in gran parte dell’Asia, i membri delle comunità contadine accoppiavano coltivazione della terra e attività di tessitura; mentre i lavoratori dell’artigianato industriale, carpentieri, fabbri, vasai, svolgevano anche attività agricole. Nelle società rurali la specializzazione dell’attività lavora­ tiva non è mai esclusiva. La produzione di tipo industriale esige una certa economia di scala anche quando si basa su una tecnologia primitiva. N ell’ambito di un mercato troppo ristretto, lavoratori manuali e artigiani non possono sperare di guadagnarsi la vita esercitando la loro attività a tempo pieno; come, del resto, ha ben mostrato Adam Smith in un passo spesso citato relativo ai mercati di paese. Peraltro, l’e­ sistenza di terre eccedentarie consente a lavoratori e artigia­ ni di premunirsi in modo quasi naturale contro le variazioni, eccezionali e usuali, della domanda, dedicandosi appunto al­ l’ attività agricola nei periodi di congiuntura sfavorevole. E un fenomeno cui si assiste anche nell’india induista, dove il sistema delle caste impedisce qualsiasi mobilità sociale orga­ nizzando la popolazione orizzontalmente. M a poiché lo sta­ tus del lavoratore manuale è in ogni caso basso a livello di gerarchia sociale, non ha alcuna rilevanza il fatto che egli sia un tessitore o un piccolo coltivatore. Questo modello basato sull’equilibrio tra coltivazione della terra, autoconsumo e at­ tività di tipo industriale si applica - almeno questa è la mia ipotesi - all’intera Asia: dal M edio oriente, all’india, al Sud-est asiatico, alla Cina e al Giappone. Nella determinazione delle condizioni salariali, la consi­ derazione sociale in cui sono tenuti i lavoratori manuali en­ tra in misura altrettanto considerevole delle vere e proprie considerazioni di carattere economico. Nei paesi islamici si ha un marcato antagonismo tra artigiani ed élites dirigenti. Le origini non arabe della maggior parte dei lavoratori urba­ ni ne ha probabilmente ostacolato la completa integrazione in una struttura sociale fondata sul concetto di assoluta uguaglianza politica, nonostante che costoro, in quanto os­ servanti i precetti dell’IsIam, fossero per ciò stesso, agli oc­

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chi della legge, su un piano di perfetta uguaglianza rispetto agli altri fedeli. Sembra che solo in Cina e in Giappone la funzione socia­ le dell’ artigianato sia stata considerata con un certo favore dalla burocrazia. Insomma, condizionamenti di carattere economico e sociale hanno mantenuto l’industria asiatica in uno stato di permanente instabilità, spingendo gli artigiani a trasformarsi in lavoratori agricoli nei momenti di crisi.

D ’altra parte, occorre distinguere tra industrie strettamente locali e industrie che operano su un mercato di una certa ampiezza rifornendo una clientela più differenziata. L ’area connessa alla produzione locale supera raramente le 15 miglia (24 km), ossia la distanza che si può percorrere in una giornata di marcia. I prodotti che entrano nel commer­ cio interregionale e internazionale percorrono invece tragitti assai pili lunghi. I preziosi tessuti di cotone di Dacca, nel­ l’india orientale, o le seterie cinesi della bassa valle dello Yang-tse-kiang debbono percorrere migliaia di chilometri prima di raggiungere le ricche dimore di Ispahan e Bagdad, per non parlare di Kyoto e di Eto. E la distanza/tempo a istituire il legame necessario e vitale tra capitalismo com­ merciale e produzione industriale destinata all’esportazione. L ’incremento della ricchezza di origine non agricola, il gra­ do di monetizzazione dell’economia e la stessa specializza­ zione della produzione agricola sono strettamente dipenden­ ti dalla proiezione dell’ attività industriale oltre i limiti del mercato locale. Nel periodo compreso tra il 1000 e il 1750 circa sorgono, in diverse zone dell’Asia, delle industrie proiettate verso l’esportazione. E solo a partire dal 1800 che l’Europa è stata in grado di competere con quella che era la supremazia tradizionale dell’Asia in termini di tecnologia industriale, di costi e di offerta di prodotti manifatturieri. Le domande cui dobbiamo rispondere si configurano al­ lora piuttosto chiaramente: grazie a quale processo economi­ co le grandi nazioni commerciali che si chiamano Cina e In­ dia hanno potuto raggiungere una simile posizione in campo industriale? E in qual misura l’ attuale dibattito sulla natura del capitalismo commerciale e la protoindustrializzazione è in grado di spiegare l’esperienza asiatica? Negli ultimi tren­ tan n i la storia dello sviluppo capitalistico è stata ampiamen-

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te studiata. Sono state tra l’altro condotte delle interessanti analisi della teoria marxiana sui modi storici di produzione e, a partire dal 1972, questo annoso dibattito ha assunto una forma nuova in seguito all’adozione del concetto di protoin­ dustrializzazione. Personalmente mi sono interessato a que­ sta problematica sulla scorta dei miei studi sul commercio dei tessuti indiani praticato dalla Compagnia inglese delle Indie orientali nel corso dei secoli xvn e xvm . Mendel e Mark Elvin hanno fornito un importante contributo alla ri­ cerca sull’industrializzazione premoderna, e io ho studiato in maniera approfondita le teorie elaborate in proposito da questi due storici. Vorrei pertanto sottoporle qui ad alcune critiche sulla base delle mie ricerche. La teoria della protoindustrializzazione è in realtà fonda­ ta su due esperienze storiche distinte ugualmente tratte dal­ la storia europea. Esse riguardano, da una parte, la migra­ zione, nei secoli xiv e xv, delle industrie laniere dai centri urbani, controllati dalle corporazioni di mestiere, verso le zone rurali, e, d ’altra parte, la dipendenza, ipotizzata, di queste industrie rurali dal capitale commerciale, grazie all’a­ dozione del sistema detto del putting-out (lavoro a domici­ lio). Insomma, la teoria della protoindustrializzazione ri­ guarda in maniera specifica la situazione europea in un de­ terminato momento della sua storia, sicché una sua applica­ zione all’Asia rischia di veder crollare le sue stesse ipotesi di base. Che funzione ha avuto il capitalismo commerciale nello sviluppo della produzione industriale proiettata verso l’e­ sportazione? Analizzando la situazione precedente la rivolu­ zione industriale, Marx indica due condizioni necessarie alla produzione. In primo luogo, egli opera una distinzione di fondo tra produzione destinata al produttore stesso e produ­ zione destinata allo scambio, che chiama «produzione di merci». In secondo luogo, egli ritiene che i mercanti, in quanto capitalisti, esercitino un ruolo fondamentale nell’or­ ganizzazione della produzione delle merci e relativa distri­ buzione. Ma la specificità dello sviluppo economico asiatico e la conseguente differenza da quello europeo sono spiegabili sulla base delle condizioni che hanno caratterizzato l’evo­

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luzione del commercio di lunga distanza e non in base alla teoria marxista sul modo di produzione. I prodotti dei tre grandi comparti industriali asiatici (tessuti, metalli, cerami­ ca) erano scambiati nell’intera area dell’oceano Indiano e potevano anche inserirsi nelle correnti di traffico intercon­ tinentale penetrando nel Mediterraneo. Immettendo le pro­ duzioni locali sui mercati più lontani, i commercianti hanno svolto una funzione indubbiamente fondamentale. Ma è im­ possibile far rientrare i rapporti economico-sociali assai par­ ticolari esistenti tra mercanti e artigiani nelle categorie in cui si articola il triplice processo di transizione marxiano dal modo feudale al modo precapitalistico di produzione. Inol­ tre, la tessitura del cotone e della seta, al pari della fabbrica­ zione degli oggetti metallici e di porcellana, erano localizzati tanto nei centri urbani quanto nelle zone rurali. Nella storia dell’industria asiatica non si è mai verificata una migrazione sistematica, dalla città in direzione della campagna, della do­ manda commerciale di prodotti artigianali. Esaminiamo ora le caratteristiche fondamentali del capitalismo commerciale asiatico e la relativa organizzazione regionale della produ­ zione. In Asia, la logica delle relazioni economiche internaziona­ li era profondamente condizionata dal carattere discontinuo dei mercati. Un duplice filtro separava produttori e consu­ matori: lo spazio geografico e il tempo. Questa particolare caratteristica delle transazioni commerciali fece del com­ mercio un’attività che esigeva disponibilità e accumulazione del capitale. In un sistema economico chiuso, spazialmente limitato, non è necessario instaurare un circuito capitalistico complesso. Ma il commercio interregionale e quello di gran­ de distanza non possono funzionare senza capitale. Nel las­ so di tempo che intercorre tra investimento iniziale richiesto ai commercianti al fine di procurarsi i beni da esportare, la spedizione e la vendita di questi stessi beni su mercati lonta­ ni realizzando cosi il profitto, prende corpo un vero e pro­ prio meccanismo capitalistico. Il livello d’integrazione di un’economia locale in un sistema di scambi più ampio di­ pende sia dal suo sviluppo interno, sia dall’estensione della sua influenza commerciale. A partire dall’epoca della dina­ stia Song in Cina sino alla metà del secolo xvm, il commer­

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ciò via mare e carovaniero ha esercitato una funzione cultu­ rale fondamentale nella società asiatica. Prodotti come l’ar­ gento e l’oro, le spade e le armature, la seta, le mussole, le spezie, l’incenso e i cavalli di razza erano considerati segno di civiltà e ritenuti indispensabili alla vita raffinata e lussuo­ sa. Ma le merci preziose non erano sufficienti a sostenere il commercio intercontinentale dell’Eurasia. Per zavorrare il naviglio a vela che solcava i mari bisognava affiancare delle merci pesanti e di scarso valore agli articoli pregiati e legge­ ri. Molte regioni che si affacciavano sull’oceano Indiano in­ tegravano la loro insufficiente produzione alimentare con importazioni provenienti da altre regioni fortemente ecce­ dentarie dal punto di vista agricolo. Il commercio di cereali e di prodotti alimentari era sufficientemente garantito per permettere a regioni cronicamente deficitarie di specializ­ zarsi nella produzione di merci industriali, soprattutto delle quali esisteva una domanda costante. La densità della popo­ lazione di queste zone era condizionata non solo dalla geo­ grafia e dall’economia locale ma anche dal volume del com­ mercio di lunga distanza. Nel mar Rosso e nel golfo Persico, la sopravvivenza di intere comunità dipendeva dalle impor­ tazioni di prodotti alimentari provenienti dall’india e dal­ l’Egitto. Nelle province costiere della Cina pur produttrici di riso, l’elevata densità della popolazione richiedeva, nel se­ colo xvi, l’importazione di riso coltivato nelle zone agricole a bassa densità del Sud-est asiatico. Per gli storici dell’Asia non v ’è dubbio che esista uno stretto rapporto tra capitale, precondizione per il commercio di lunga distanza, e mercan­ ti. Per quanto mi riguarda, non vedo per quale necessità i mercanti, gruppo sociale particolare, avrebbero dovuto di­ ventare anche proprietari legali, amministratori e beneficiari del capitale. In passato, la comunità commerciale asiatica svolgeva un gran numero di funzioni capitalistiche, e, in seguito al peso delle tradizioni sociali, giuridiche e politiche si è perpetuata la separazione tra mercanti-capitalisti e gli altri gruppi socia­ li. Ed esistette certamente un capitalismo preindustriale in Medio oriente, come in India in Cina o in Giappone. Ma in queste nazioni commerciali, i mercanti e i banchieri non avevano la possibilità di investire in attività di interesse

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pubblico regolate da leggi particolari e incoraggiate dallo Stato. G li europei che investivano denaro in titoli emessi dalle repubbliche di Venezia e di Genova o dai Paesi Bassi correvano dei rischi finanziari; ma questi titoli erano legal­ mente riconosciuti e potevano essere usati come ipoteche. Diversa era la situazione dei mercanti indiani o cinesi che prestavano danaro alle élites amministrative o le aiutavano a convertire le imposte riscosse. I mercanti lavoravano per il profitto, ma contrariamente alla burocrazia e ai proprietari terrieri, entrambi ereditari, la loro condizione materiale era instabile.

In tutte le società asiatiche, gli altri fattori della produ­ zione, ossia la terra e il lavoro, erano divisibili - bastava aver danaro sufficiente per acquistare delle terre e impiegar­ vi della manodopera; il capitale commerciale e industriale, invece era e restava completamente in mano ai soli gruppi mercantili. Le classi dirigenti asiatiche non si posero il pro­ blema, almeno sembra, se fosse preferibile regolare giuridi­ camente gli investimenti commerciali, garantendo cosi un introito permanente allo Stato, piuttosto che tassare diret­ tamente i mercanti. Prima del 1800, in Asia, il capitalismo commerciale è imponente ma privo di sistemazione giuridica e socialmente sottovalutato. Il commercio di lunga distanza sulle rotte dell’oceano Indiano era indubbiamente un’attivi­ tà di tipo capitalistico. Il guadagno dei tessitori, dei filatori, degli allevatori di bachi da seta, dei fabbri e dei proprietari delle piantagioni di spezie dipendeva dal meccanismo dei prezzi che presiedeva le transazioni commerciali. D ’altra parte, in Asia, lo Stato è poco interessato ai rapporti tra ne­ gozianti e produttori. I mercanti si richiamano frequente­ mente alla legislazione sui contratti commerciali e i debiti per controllare e imporsi agli artigiani, ma i funzionari usa­ no raramente la propria autorità per appoggiarli, salvo quan­ do ciò non rientri nei loro disegni. Nel 1742, nella città por­ to di Surat, India occidentale, si verifica un conflitto tra go­ verno e tessitori di cotone: l’intera comunità dei tessitori in­ dù entra in sciopero e disattende gli impegni assunti con i commercianti: questi ultimi non dispongono di alcuno stru­ mento per costringerli a riprendere il lavoro. Insomma: il capitalismo commerciale asiatico non poteva

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svilupparsi secondo le stesse modalità del capitalismo indu­ striale europeo; come M arx capi del resto perfettamente. A mio modo di vedere, lo ripeto, la concezione che fa riferi­ mento ad una posizione di potere dei commercianti nei con­ fronti degli artigiani non si adatta alla situazione asiatica, e non è nell’articolazione dei rapporti sociali e tra le forze pro­ duttive che va ricercata la specificità della relazione tra ca­ pitale commerciale e produzione industriale. I mercanti asiatici intervengono direttamente nella produzione indu­ striale unicamente per salvaguardare delle specifiche esigen­ ze commerciali imposte dal mercato: costi relativi, tipo e ca­ ratteristiche dei prodotti industriali, tempi di consegna, tra­ sporto e, infine, approvvigionamento del capitale-lavoro e finanziamento dei rischi commerciali. E invece molto più difficile individuare le ragioni che possono aver spinto i la­ voratori dell’ artigianato industriale a passare da un sistema di produzione locale a un sistema proiettato verso i mercati interregionali e internazionali. C om ’è noto, per quanto ri­ guarda la storia industriale dell’ Europa, questa ragione risie­ de nella distruzione del modo di produzione feudale. M a questo schema non si applica all’Asia. Per un verso, infatti, le grandi civiltà asiatiche hanno sviluppato, storicamente as­ sai presto, una produzione industriale per l’ esportazione, partecipando cosi attivamente agli scambi commerciali ed economici internazionali. Per altro verso, le loro economie a carattere locale erano basate sulla figura del contadinofittavolo e volte essenzialmente alla produzione di beni di consumo primari. Questi lavoratori avevano raggiunto un certo equilibrio economico-sociale dovuto al duplice status di lavoratori dell’ artigianato industriale e dell’agricoltura. Se questa ricostruzione che porta a un modello statico è sto­ ricamente corretta, non si capisce perché gli artigiani avreb­ bero dovuto lasciarsi in qualche modo dominare dai com­ mercianti. È tuttavia possibile che questa rappresentazione statica del sistema asiatico di produzione locale sia del tutto falsa nel caso delle attività industriali. Occorre pertanto esa­ minare gli elementi storici che possono aver influenzato il meccanismo delle relazioni tra commercio e industria. Tra le cause della migrazione degli artigiani verso la città ritroviamo sia l’incremento demografico sia la scarsità di

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terre coltivabili. M a quella che richiede di essere nettamen­ te definita è la fase storica nel corso della quale l’artigiano, scarsamente qualificato e occupato solo parzialmente in quanto tale, diventa un lavoratore a tempo pieno e altamen­ te qualificato. La divisione del lavoro premoderna non è unicamente determinata da problemi di costi e di prezzi re­ lativi, ma anche dalle preferenze sociali e dalle capacità indi­ viduali. La società ricompensa il tessitore di seta, il cesella­ tore dell’ avorio e il fabbricante di porcellane in relazione al­ la qualità e alla bellezza degli oggetti da lui prodotti. Tutte le società apprezzano i prodotti altamente qualifi­ cati al di là delle diverse scale di valori. La preferenza accor­ data da determinati gruppi sociali agli oggetti di lusso fab­ bricati in luoghi lontani ed esterni alla sfera economica loca­ le è alla base del commercio premoderno di lunga distanza. Il consumo di seta cinese da parte dell’aristocrazia giappone­ se del secolo x v i, ha offerto ai Portoghesi la possibilità di impiantare una rete commerciale tra le più redditizie dell’ Estremo oriente. Tuttavia, l’interesse per i prodotti artigiana­ li di lusso e le sue ripercussioni sul piano commerciale non basta a spiegare la specializzazione degli artigiani né il loro ingresso nel grande circuito commerciale. Tanto più che un commercio fiorente e ramificato si estendeva all’intera Asia pur componendosi, prevalentemente, di tele di poco valore, di terracotte e di utensili di ferro e rame: gli acquirenti di questi beni necessari alla vita quotidiana erano sia ricchi sia gente comune. A l grande mercato delle stoffe che aveva luo­ go annualmente a Gedda e alla M ecca in occasione dello fyagl, i tessuti correnti fabbricati in Egitto e in India occi­ dentale costituivano il grosso delle vendite. Questa enorme domanda di prodotti industriali comportò lo sviluppo di un commercio marittimo regolare di grande respiro e trova giu­ stificazione in un dato squisitamente sociale: la tradizione esigeva infatti che i pellegrini musulmani indossassero dei particolari indumenti bianchi per recarsi al santuario. È sta­ to dimostrato che il commercio dei tessuti legati allo hagg ga­ rantiva occupazione a numerosi tessitori di cotone delle zo­ ne urbane e rurali del Gujarat e del Deccan. E interessante notare che questi particolari tessuti di co­ tone esportati in direzione del mar Rosso erano anche ven­

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duti in grande quantità sul mercato interno indiano. Sicché i lavoratori dell’industria tessile potevano scegliere tra due mercati sui quali collocare la loro produzione. Cosa che è del resto confermata da altri dati di fatto. In Cina, per esempio, questi stessi tessuti di cotone erano anche utilizzati dal go­ verno: per il pagamento in natura dei salari, per il vestiario dell’esercito, per rifornire di tessuti le zone di confine del nord al fine di scambiarli con i cavalli e il bestiame dei no­ madi. L ’immagine della comunità di villaggio chiusa in se stessa e autosufficiente, in stato di perfetto equilibrio, ha affasci­ nato gli osservatori europei del secolo xix; tanto che in un celebre passo Marx ha scritto: «Il modo di produzione (in India e in Asia) poggia sull’unione di attività agricole e indu­ striali di tipo domestico, cui si aggiunge in India il possesso in comune del suolo su cui si basano le comunità di villaggio (sistema che esisteva originariamente in Cina) ». Ma è ormai provato che questa immagine fu creata dagli storici e dagli amministratori coloniali in funzione di antidoto all’emergere della società industriale. Secondo l’eminente antropologo Marshall Shalins, valore di scambio e commercio facevano parte integrante dell’economia già nell’età della pietra. Per chiarire sino in fondo il mio punto di vista voglio qui azzardare una generalizzazione. A mio avviso, l’artigianato industriale qualificato costituiva una forma di lavoro a se stante e un’unità produttiva. Il riconoscimento e il valore sociale dell’artigiano derivavano dalla sua capacità di pro­ durre dei beni che esigevano un’elevata qualificazione. Per raggiungere questa qualificazione si richiedevano un lungo apprendistato e doti naturali. La famiglia o la casta di questo artigiano potenziale costituivano il quadro indispensabile per la trasmissione delle capacità necessarie. Ma questo ge­ nere di lavoratori era obbligato a produrre dei beni indu­ striali a tempo parziale e a dedicarsi anche all’agricoltura, per assicurarsi i mezzi di sussistenza, da eventi storici di na­ tura accidentale - guerre, carestie, epidemie - che distrug­ gevano periodicamente la base materiale del commercio in­ terregionale e internazionale. Le migrazioni di artigiani da una località all’altra alla ricerca di migliori opportunità sono una costante della storia dell’Asia. All’inizio del secolo xix,

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quando il governo Ch’ing chiude il porto di Amov, i tessito­ ri di seta e i fabbricanti di porcellane, interessati alla clien­ tela costituita dalle navi straniere, emigrano prontamente verso sud in direzione di Cantón. Queste migrazioni costi­ tuiscono un modo di sfuggire alle conseguenze delle calami­ tà naturali, di sottrarsi all’oppressione politica e di far fronte allo scadimento di determinati mercati. Da alcuni anni gli storici sono particolarmente interessati all’estensione e alla rilevanza del sistema di putting-out nelle relazioni industriali asiatiche in epoca anteriore al 1800. Nel periodo da noi preso in esame si hanno due modelli di organizzazione del mercato. Secondo il primo, i produtto­ ri indipendenti si autofinanziano e vendono i loro prodotti a mediatori e grossisti a prezzi stabiliti sulla base della libera contrattazione. Nel secondo modello, i produttori ricevono un anticipo in denaro, o, più raramente, sotto forma di ma­ terie prime, impegnandosi, in cambio, a fornire una deter­ minata quantità di prodotti entro una data altrettanto de­ terminata. I produttori hanno sempre l’esigenza, sia che producano per il mercato locale sia per l’esportazione, di co­ noscere anticipatamente natura e quantità delle merci da produrre. Nel caso dei mercati giornalieri o settimanali gli orientamenti dei consumatori sono piuttosto facilmente pre­ vedibili, sicché tessitori e artigiani del metallo o della terra­ cotta possono basarsi sull’esperienza diretta per regolare convenientemente la propria produzione sia in termini di quantità sia di prezzo. Ma nel caso di prodotti molto parti­ colari destinati all’esportazione e collocabili solo in misura assai limitata sul mercato locale, sono i commercianti e i grossisti ad assumersi il rischio dell’operazione. Infatti, la forma di contratto che prevede anticipi è frequentissima nel caso dei tessuti pregiati di cotone e di seta come in quello delle porcellane di valore. In quanto produttori, gli artigiani disponevano di quella conoscenza tecnica che mancava sia ai negozianti sia agli intermediari: conoscenza tecnica che con­ sentiva loro di scegliere i migliori filati di cotone o di seta come la terra più adatta ecc. La forma di contratto basata sugli anticipi applicata in Asia è diversa dal Verlagssystem o putting-out system dell’in­ dustria laniera europea del secolo xvi. Essa scaturisce dalla

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struttura commerciale delle economie asiatiche e non deriva né dal cambiamento del modo di produzione né dall’esisten­ za di rapporti caratterizzati da una figura predominante. In conclusione: vorrei insistere sul fatto che in Asia sono stati i mercanti e i negozianti che, in epoca già molto antica, hanno reso possibile lo sviluppo estremamente differenziato della produzione industriale premoderna. PAUL f a b r a Grazie al signor Chaudhuri. Noi restiamo in Asia col signor Barun De, professore a Calcutta, che chia­ rirà alcuni aspetti della protostoria del capitalismo indiano.

Elementi endogeni del capitalismo indiano. barun de Data la mia scarsa conoscenza della lingua francese mi limiterò ad indicare alcuni indirizzi di ricerca at­ tualmente seguiti dalla storiografia indiana. L ’idea corrente che si ha del capitalismo indiano è strettamente modellata sulla realtà presente, della quale si è inoltre portati a trascurare il rapporto di continuità col passato a causa di un evento storico di indubbia portata: l’impatto della colonizzazione. Ma nella scansione cronologica della storia indiana, e precisamente nell’epoca che va dal secolo vn al xvn circa, si possono ritrovare gli elementi caratteristi­ ci di una specie di protostoria di un capitalismo indiano di matrice non unicamente esogena, ossia indotto dalla colo­ nizzazione, ma, al contrario, endogeno, che avrebbe poi re­ gistrato un’evoluzione - o involuzione - subordinandosi al capitalismo coloniale. La storiografia indiana sta effettuando delle ricerche di tipo nuovo (in parte pubblicate, in parte in corso di pubbli­ cazione) che evidenziano una serie di elementi estremamen­ te originali, e generalmente trascurati dalla storiografia eu­ ropea, grazie ai quali è possibile istituire dei confronti assai significativi con quanto verificatosi in Europa nella stessa epoca. Questi elementi caratteristici e originali riguardano sia la forma di accumulazione capitalistica delle corporazioni industriali (o dei banchieri Multahani), sia i traffici dei mer­ canti che operano su scala regionale in Bengala, nell’ìndia del sud, nel Deccan, nel Rajastan... Industriali, banchieri e

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mercanti praticavano delle particolari forme di prestito agli artigiani che, pur operando nell’ambito di piccoli laboratori, assicuravano una produzione suscettibile di essere collocata su un mercato di grandi dimensioni. Era il caso, ad esempio, dei tessuti, del salnitro, dell’oppio e di numerose altre dro­ ghe... Ed è appunto sulla base di questa realtà che va istitui­ to il confronto con quanto si è verificato in Europa. In proposito faccio riferimento ai lavori dello storico so­ vietico Cicerov relativi ai sistemi di scambio costieri e ai si­ stemi commerciali di base nella pianura gangetica. Si tratta di una ricerca ancora in corso, ma grazie alla quale è sin d ’o­ ra possibile reperire nel subcontinente indiano un’artico­ lazione tra produzione industriale e distribuzione commer­ ciale a lunga distanza analoga a quella europea nella stessa epoca. V a inoltre ricordato che, anche durante l’epoca coloniale, mercanti e banchieri indiani hanno saputo organizzarsi in modo da conservare delle posizioni che, pur dipendendo dall’apparato coloniale, consentivano di continuare ad eser­ citare e controllare un certo numero di attività importanti: nel settore dei lavori pubblici in particolare (costruzione di strade e simili), dove il sistema su commissione consentiva di investire nella proprietà terriera e di trarre vantaggio dal­ le trasformazioni. C osi costoro hanno potuto trarre vantag­ gio dal totale dissesto dell’artigianato indiano, rurale e urba­ no, determinato dalla concorrenza europea, per impiantare una rete di industrie in città come Calcutta, Amelabad, Bom bay, D ehli... E d è appunto tutto ciò ad aver conferito a questo capita­ lismo indiano di matrice endogena un carattere compradore, come direbbero gli specialisti di storia del capitalismo. Il fi­ ne di questo brevissimo intervento è evidenziare quella pro­ fondissima continuità che fu interrotta dalla subordinazione dei mercanti e dei capitalisti indiani al sistema coloniale mondiale. pau l fabr a Lasciamo l’Asia per volgerci allo « sviluppo tardivo in America latina», prendendo ad esempio il Brasile - paese assai caro a Fernand Braudel - di cui ci parlerà C el­ so Furtado, ambasciatore brasiliano presso la C E E .

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Capitalismo brasiliano: crescita o sviluppo? c elso fu r tad o In Brasile si da per scontato che lo svi­ luppo del capitalismo industriale abbia prodotto una pro­ gressiva eterogeneità sociale: come si vede è una tesi oppo­ sta a quella che ho sentito avanzare questa mattina. E chiaro che il capitalismo non ha eliminato le disuguaglianze sociali (queste sono sempre esistite e continuano ad esistere), ma ha comportato un aumento reale dei salari contestualmente al­ l’incremento della produttività. Insomma, in generale il ca­ pitalismo non ha costituito unicamente un processo di cre­ scita, ma anche di sviluppo: è un dato storico incontroverti­ bile. Ma in un paese a sviluppo capitalistico tardivo qual è il Brasile, non compare questa tendenza all’omogeneizzazione sociale: proprio perciò l’analisi di questo caso particolare consente una visione più articolata dello sviluppo capitalistico moderno. L ’industrializzazione, elemento fondamentale dello svi­ luppo brasiliano postbellico, non è stata tanto il risultato di una precisa scelta politica, quanto la conseguenza indiretta di misure adottate occasionalmente nell’intento di sostenere le strutture tradizionali. G li acquisti di enormi quantità di caffè operati dal governo brasiliano al solo fine di immagaz­ zinarlo e distruggerlo, hanno creato delle particolari condi­ zioni di domanda interna e di protezionismo verso l’esterno che hanno reso possibile l’espansione industriale iniziatasi negli anni trenta. Questa stessa politica di sostegno del prez­ zo del caffè sul mercato internazionale ha poi portato il go­ verno brasiliano, negli anni cinquanta, ad adottare delle mi­ sure che distinguevano tra importazioni «essenziali» e «non essenziali», che hanno finito per favorire il processo di indu­ strializzazione. Il fatto che l’industrializzazione sia stata una specie di sottoprodotto delle difficoltà che attraversate dal « tradizio­ nale» settore dell’importazione ha comportato un certo nu­ mero di conseguenze negative. Cosi, tra l’altro, la conversio­ ne necessaria all’adattamento dell’infrastruttura, di un’eco­ nomia basata sull’esportazione di prodotti di prima necessi­ tà, alle esigenze dell’industrializzazione non ha potuto es­

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sere attuata nel tempo richiesto. Un primo piano d ’investi­ menti nelle infrastrutture - il piano Salte (Sanità-Alimen­ tazione-Trasporti) - , elaborato nell’immediato dopoguerra, è fallito per mancanza di capitali. E solo nel 1955 si giunse all’istituzione di una banca di sviluppo per finanziare la rico­ struzione dell’infrastruttura nel settore dei trasporti e dell’e­ nergia. Analogamente, solo alla fine degli anni cinquanta si cominciò ad occuparsi degli squilibri regionali aggravatisi in seguito ad un protezionismo indiscriminato a tutto danno delle regioni più povere. La conseguenza più pesante di questo ritardo è stata cer­ tamente l’ulteriore concentrazione del reddito; cui contri­ buirono anche l’elasticità dell’offerta di manodopera e le agevolazioni in materia di cambio e fiscale agli investimenti in capitale fisso. In assenza di un’adeguata politica fiscale, questa concentrazione del reddito si è tradotta, nel caso del­ le classi a reddito elevato, in una marcata propensione al consumo; mentre le condizioni di vita della grande maggio­ ranza della popolazione segnavano il passo. Questo particolare processo di industrializzazione ha cer­ tamente modificato la struttura sociale del Brasile ed è all’o­ rigine delle difficoltà di ordine politico. Ancora nel 1930, la struttura sociale del Brasile ricalcava sostanzialmente quella del secolo precedente alla fine dell’epoca coloniale. L ’econo­ mia del paese era ancor sempre basata sull’esportazione di alcune derrate tropicali (il caffè soprattutto) prodotte nelle grandi piantagioni, e lo stato traeva le sue entrate essenzial­ mente dal commercio estero. I 4/5 della popolazione viveva nelle grandi fazendas ed era di fatto sottomessa all’autorità dei grandi proprietari terrieri. Solo una minima parte della popolazione concentrata nelle città partecipava alla vita po­ litica oltre all’oligarchia dei proprietari terrieri. Le elezioni si tenevano a voto palese ed avevano un valore puramente simbolico. Le autorità amministrative, pur dipendendo for­ malmente dal governo centrale, erano sottoposte allo stretto controllo dei grandi proprietari della zona. I governi dei sin­ goli Stati erano i massimi esecutori degli interessi di questi signori ed eleggevano il presidente della Repubblica. Per al­ tro, chi occupava il potere non difettava certo dei mezzi per

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mantenervisi. Questo è un po’ il quadro del Brasile alla vigi­ lia degli anni trenta. La struttura di questo sistema politico tradizionale è stata profondamente modificata dalla urbanizzazione accelerata verificatasi negli ultimi cinquantanni e dai suoi corollari: in­ dustrializzazione ed espansione relativa del pubblico impie­ go. In seguito al maggior tasso di alfabetizzazione delle zone urbane, la maggioranza degli elettori ha finito per coincidere con quella parte di elettorato sulla quale l’oligarchia tradi­ zionale aveva minori possibilità di controllo. Questo cam­ biamento si profila dal 1946, con il ritorno alla democrazia rappresentativa, e si fa sempre più evidente sino al putsch militare del 1964. Dal 1946 al 1964, il potere esecutivo fu esercitato da individui appoggiati da un elettorato relativa­ mente indipendente e consapevole dei propri interessi. Tut­ tavia, questo potere politico di tipo nuovo non fu mai com­ pletamente accettato dalla classe dominante tradizionale, con la conseguenza di uno stato di tensione talvolta molto acuto, le cui manifestazioni più clamorose furono il suicidio di Getulio Vargas (1954), le dimissioni di Janio Quadros (1961) e la defenestrazione manu militari di Joao Goulart (1964). La sostanziale instabilità della vita politica brasiliana de­ gli ultimi decenni si spiega con i cambiamenti sociali che ho testé segnalato. In presenza di una classe dirigente ormai anacronistica, i gruppi industriali avevano scarsa possibilità di influire sui centri decisionali. Inoltre, l’industria è stata a lungo in posizione di dipendenza sia dal settore dell’espor­ tazione, per la valuta necessaria al pagamento dei semilavo­ rati e del macchinario importati, sia dallo Stato, per i finan­ ziamenti concessi agli investimenti. Va inoltre osservato che anche il particolare sviluppo della classe operaia ha ostacola­ to l’assunzione di un’identità «classica» da parte della bor­ ghesia industriale. A differenza di quanto verificatosi in Eu­ ropa nel secolo xix, l’urbanizzazione brasiliana non ha com­ portato una rapida trasformazione della professionalizzazione e relativa rapida crescita del numero dei lavoratori del­ l’industria: ha invece portato alla formazione di una massa eterogenea. L ’industrializzazione non ha distrutto alcun ar­ tigianato secolare. L ’operaio brasiliano della prima genera­

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zione non ha affatto avuto la sensazione di vivere un proces­ so di scadimento sociale. Data la sua provenienza da un am­ biente contadino estremamente arretrato, ha invece avuto l’impressione di attingere immediatamente il livello della classe media ed ha cosi maturato una scarsa coscienza di classe. Il settore di popolazione urbana che ha fatto registrare l’incremento pili accelerato - nelle medie e grandi città so­ prattutto - è costituito da sottoccupati utilizzati occasional­ mente in lavori non qualificati specialmente nelle opere pubbliche. Il livello di vita di questo settore di popolazione è nettamente inferiore a quello garantito dal salario minimo stabilito per legge nelle zone urbane. L ’afflusso ininterrot­ to verso le città di questo tipo di popolazione è spiegabile unicamente in base alle caratteristiche della struttura agraria del paese. Ad eccezione di alcune zone, l’agricoltura brasiliana adot­ ta tecniche rudimentali e i suoi costi tendono ad aumentare in seguito all’esaurimento della fertilità naturale dei suoli e proporzionalmente alle distanze che separano le zone agri­ cole dai principali centri di consumo. Secondo il censimento del 1975, i «minifundia» dall’e­ stensione media di 3,45 ettari rappresentavano il 52 per cento dell’ammontare numerico delle aziende agricole; ma, dal punto di vista dell’estensione, solo il 2,7 per cento del­ l’intera superficie agricola. Le aziende di medie e grandi di­ mensioni sfruttano solo parzialmente le terre di cui dispon­ gono, mentre gran parte della popolazione rurale è ammas­ sata in appezzamenti minuscoli. Confrontando il censimen­ to del 1975 con quello del 1950 si registra una diminuzione del 25 per cento della estensione media dei «minifundia» a fronte del loro aumento dal 34 per cento al 52 per cento nel­ l’ammontare numerico delle aziende agricole. Per questo in­ sieme di motivi il livello di vita di gran parte della popola­ zione rurale è ben lungi dal migliorare, tanto che essa ab­ bandona la campagna alla ricerca di altre occupazioni in area urbana. Questo ribaltamento sociale, che ha portato ad opporre alla classe dirigente tradizionale una massa urbana eteroge­ nea, non poteva non conferire alla vita politica brasiliana

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una crescente instabilità, che finirà per favorire l’intervento dei militari nel marzo 1964. Ma il problema è rimasto nei suoi aspetti generali sostanzialmente lo stesso, perché il go­ verno militare non ha intaccato né la struttura agraria né il quadro legislativo cui va in gran parte imputata la ripartizio­ ne profondamente ineguale del reddito. La crescita econo­ mica del periodo del « miracolo » ha aggiunto a questi pro­ blemi quelli di un considerevole debito estero e di una dra­ stica concentrazione del reddito, con la conseguenza di ren­ dere ancor più difficile il passaggio a una conformazione so­ ciale più stabile. Cosi il Brasile costituisce ancor oggi, nel­ l’ambito del capitalismo moderno, un caso esemplare: quello di un paese nel quale lo sviluppo è stato sacrificato sull’alta­ re della pura e semplice crescita economica. pau l fabra Ringrazio Celso Furtado per il suo inter­ vento e cedo la parola a uno storico ungherese, Laszlo Makkai, che ci parlerà della tecnica nella storia del capitalismo.

Tecnica, scienza e società. laszlo m a k k a i «Ciascun rilancio economico o sociale ha un suo supporto tecnico » scrive Fernand Braudel nel pri­ mo volume della sua trilogia. E continua: «In questo senso la tecnica è regina: perché cambia il mondo... Nella tecnica si condensa l’intero spessore della storia degli uomini: perciò gli storici che ne trattano in maniera specialistica non riesco­ no quasi mai a coglierne l’intera portata». Braudel si chiede poi: «esiste una tecnica in sé?» e conclude: «la risposta sarà negativa ». Le tecniche al plurale esistono praticamente, visibilmente e concretamente solo nelle aziende agricole, nei laboratori artigiani e nelle fabbriche, la cui organizzazione dipende per altro più dai rapporti sociali che dal progresso tecnico. Si tratta di una realtà ben presente a Fernand Braudel, che in­ fatti scrive: «La tecnica ristagna o progredisce impercettibil­ mente da una “rivoluzione” all’altra, da un’innovazione al­ l’altra. Tutto si svolge come se esistessero dei sistemi di fre­ naggio sempre in funzione, di cui avrei desiderato sottoli­ neare l’effetto assai più di quanto non mi sia riuscito».

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Si tratta di affermazioni ricche di implicazioni e tali da aprire delle nuove prospettive di ricerca su funzione e collo­ cazione della tecnica nella storia della civiltà e, in particola­ re, nella storia del capitalismo. Infatti, se vi sono dei freni che agiscono continuamente sul progresso tecnologico, ciò implica l’esistenza di un progresso tecnologico potenzial­ mente continuo rallentato da freni e «sbloccato» da «rivo­ luzioni ». E significa altresì che esiste una tecnica in sé, quel­ la nella quale appunto si condensa lo spessore della storia de­ gli uomini, che si può cogliere nella sua intera portata anche interessandosi alle pratiche tecniche, ma soprattutto alle pratiche umane, ossia guardando anche agli imperativi tec­ nici ma soprattutto alle attitudini umane: insomma pren­ dendo in considerazione ciò che costituisce un complemento e un potenziamento dell’organismo biologico dell’uomo gra­ zie alla esteriorizzazione in strumenti dei gesti che compon­ gono il suo lavoro, e all’esteriorizzazione in linguaggio arti­ colato del suo pensiero. In seguito a questa esteriorizzazione il lavoro cerebrale e muscolare si separa dall’individuo e di­ venta un oggetto suscettibile di essere trasferito, scambiato, accumulato. Nel cervello è immagazzinata quella stessa in­ formazione impressa nella memoria che si trasforma in og­ getto grazie alla scrittura, alla tipografia, al registratore e, oggi, al computer. Le informazioni appartengono quindi al campo della tec­ nica. Nel processo d ’interazione cui dànno luogo, l’esterio­ rizzazione del lavoro muscolare e quella del lavoro cerebrale si pongono come gli strumenti principali della socializzazio­ ne umana. Più di qualsiasi altra lunga durata in campo stori­ co, la tecnica è caratterizzata dalla massima lunga durata perché è nello stesso tempo soggetto e oggetto dell’ominizzazione. Non c’è più motivo, pertanto, di mettere in discussione il carattere perpetuo e ininterrotto del progresso tecnico. «Ci sono sempre migliaia di innovazioni latenti e in stato di dor­ miveglia che si configurano ora come gioco ora come uto­ pia», scrive Fernand Braudel. Proprio perciò è importante ricercare la provenienza dei sistemi di frenaggio che inter­ rompono o rallentano il progresso. Tali sistemi di frenaggio sono in primo luogo di natura sociale. Per vincere la resi­

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stenza di certi materiali occorre reperire una nuova fonte di energia e inventare lo strumento che la concretizzi. In as­ senza di imperativi di ordine demografico o sociale, il pro­ gresso tecnologico ristagna. Ne è un esempio il caso piutto­ sto noto degli aborigeni australiani che, ancora all’arrivo dei colonizzatori europei, conoscono unicamente utensili sem­ plici, nonostante l’arco, classico esempio di utensile compo­ sto, sia stato inventato e diffuso sin dal neolitico. Un altro esempio di parziale ristagno del progresso tecnologico sareb­ be dato dai secoli che seguirono la peste nera del 1348 -51, ossia proprio il periodo storico che Braudel analizza magi­ stralmente nella sua trilogia. In questo periodo, infatti, la ri­ voluzione industriale tarda a verificarsi a causa della man­ canza delle condizioni sociali per la sua realizzazione, dato che la strumentazione meccanica e le fonti energetiche ne­ cessarie al suo avvio sono già state scoperte. Cosi il rinnova­ mento tecnologico fu dirottato verso l’arte militare e lo svi­ luppo delle comunicazioni come indicano le grandi realizza­ zioni dell’epoca: l’artiglieria, la stampa, la navigazione e, non dimentichiamolo, il carro ad asse anteriore girevole. Il capitalismo di questo periodo è alimentato dalla guerra e dal commercio, si stabilisce nella periferia delle città e nei porti, muove verso il mercato degli scambi e finisce per dominarlo. Le condizioni economiche, sociali e politiche di questo do­ minio sono ben note, non altrettanto le condizioni tecniche. In La dinamica del capitalismo, Fernand Braudel scrive: «La scienza è solo una sovrastruttura tardiva della tecnica nonostante vi sia presente sin dai suoi primi balbettii». Nel secolo xvn la scienza smette di balbettare con l’aiuto della tecnica. Infatti i grandi scienziati dell’epoca, i Galileo, i Torricelli sono anche dei grandi tecnici. Inventano e si co­ struiscono gli strumenti utili alla loro ricerca: il pendolo, il termometro, il barometro, il telescopio, che sono tutti stru­ menti di misurazione. Del resto, proseguendo sulla via della misurazione precisa della materia e dell’energia non si arriva forse alla standardizzazione dei meccanismi della macchina semiautomatica e poi automatica, conditio sine qua non della produzione «massificata» che contraddistingue il capita­ lismo? «La tecnica è regina», afferma Fernand Braudel, e cer­

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tamente lo è sempre stata; ma, riprendendo la sua metafora, vorrei aggiungere che « senza un principe consorte anche la scienza rimarrebbe ferma ai balbettìi». Il secolo xvn può so­ lo assistere al fidanzamento di questa coppia il cui matrimo­ nio sarà celebrato nel secolo xix. «La rivoluzione industriale non è un risultato del progresso tecnologico» afferma inec­ cepibilmente Fernand Braudel. Ma neppure di quello scien­ tifico, e nel suo insieme sembra dipendere piuttosto dalla ri­ voluzione tecnologica medievale. Il capitalismo non ha inventato nulla di nuovo; ma ha li­ berato la tecnica dai sistemi di frenaggio economico-sociali grazie alle sue enormi possibilità d’investimento e alla sua fame insaziabile di cercare e scovare nuove fonti di profitto. L ’età classica del capitalismo è quella in cui il capitale rea­ lizza un matrimonio perfetto coniugando la ricerca con la produzione. « Scompaiono gli oratori e compaiono i labora­ tori», ha detto Einstein. E un periodo in cui la tecnica è ve­ ramente regina, ma unitamente al proprio consorte: il «re­ scienza». L ’odierna rivoluzione tecnico-scientifica è figlia di quel matrimonio. La scienza si è fatta tecnica nei laboratori e la tecnica si è fatta scienza nei politecnici. Ma si tratta di monarchie costituzionali con tanto di parlamento: la società. Secondo Fernand Braudel: «la società comanda la scienza e la tecnica sulla base dei propri bisogni». Indubbiamente, so­ lo che i bisogni sono ancora stabiliti da chi occupa il livello superiore della gerarchia sociale: i capitalisti. pau l fabr a Grazie a Laszlo Makkai per averci parteci­ pato le sue riflessioni su questo enorme problema. Imma­ nuel Wallerstein, direttore del Centro Fernand Braudel di New York, prende in esame l’opera di Fernand Braudel dal punto di vista dell’apporto da essa fornito alla conoscenza del capitalismo.

Il capitalismo: nemico del mercato? im m a n u e l w a l l e r s t e in Ancor quarant’anni fa il ruolo del mercato nel capitalismo sembrava piuttosto chiaro. Il mercato entrava nella definizione del capitalismo non solo come elemento chiave del suo funzionamento; ma lo defi­

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niva anche in opposizione alle due realtà antitetiche cui si era soliti rapportare il capitalismo: il feudalesimo, a monte; il socialismo, a valle. La tendenza era di presentare il feuda­ lesimo come un sistema premercato e il socialismo come un sistema postmercato. E uno schema ormai inutilizzabile: non tanto perché sem­ plicistico, bensì perché falso almeno per tre motivi. Rispetto al 1945, la ricerca sulla società feudale si è note­ volmente approfondita e ha dimostrato che questa società non può essere concepita come una struttura chiusa basata esclusivamente sulla sussistenza nel quadro d’un’economia detta naturale. In realtà esistevano dei mercati un po’ dap­ pertutto e come intrecciati nella logica del funzionamento di questo sistema storico. Evidentemente questo sistema pre­ sentava delle notevoli differenze rispetto al capitalismo: non vigeva la tendenza a trasformare tutti i prodotti in merce; i mercati potevano essere sia strettamente locali sia ad ampio raggio, ma raramente «regionali»; il grande commercio con­ cerneva essenzialmente gli articoli di lusso. Tuttavia, quanto più dettagliata si faceva l’analisi del fenomeno, tanto più sfumava la sua contrapposizione con quanto si verificherà in seguito col capitalismo. D ’altra parte, il socialismo reale ha mostrato negli ultimi anni un interesse pratico per il mercato che ha assunto un duplice aspetto. In primo luogo, gli studiosi sono sempre più concordi nell’affermare che non è cosi vero che i paesi detti socialisti o comunisti siano usciti dal mercato mondiale in maniera assoluta e definitiva. In secondo luogo, al livello na­ zionale, in quasi tutti i paesi del blocco socialista ha avuto luogo un grosso dibattito sui vantaggi di una certa liberaliz­ zazione del mercato interno: è stato elaborato persino un nuovo concetto, quello del «socialismo di mercato». Insomma, sia la realtà feudale sia la realtà socialista con­ traddicono il vecchio schema teorico. Ma anche la realtà ca­ pitalistica lo falsifica, ed è appunto sotto questo riguardo che l’opera di Braudel ha avuto una funzione fondamentale. Il punto essenziale della sua recente trilogia è la distinzione nell’ambito della realtà capitalistica di tre componenti, e l’applicazione del termine «mercato» ad una sola di esse. In particolare, Braudel ridefinisce la relazione tra mercato e

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monopolio. Si era soliti considerare concorrenza e monopo­ lio come due poli tra i quali oscillava, per cosi dire, il mer­ cato capitalistico. Braudel, invece, li considera come due strutture continuamente in lotta, e riserva la qualifica di «capitalisti» ai soli monopoli. In questo modo egli rovescia i termini del dibattito teori­ co. Invece di considerare il mercato come elemento chiave del sistema capitalistico realizzatosi nella storia, egli attri­ buisce tale centralità ai monopoli. Sono i monopoli che do­ minano il mercato a costituire la specificità del nostro si­ stema e, insieme, a differenziarlo nettamente dalla società mondiale - e forse anche dal sistema socialista mondiale, ammesso che esista. Si tratta di un vero e proprio ribalta­ mento di prospettiva che, per altro, non è stato sinora suffi­ cientemente valorizzato. Sia Adam Smith che Karl Marx si rifacevano al vecchio tipo di prospettiva e, soprattutto, concordavano su un pun­ to fondamentale: quello che considerava la concorrenza ca­ pitalistica come normale - normale ideologicamente e nor­ male statisticamente - e il monopolio come eccezionale. Da una parte bisognava poi spiegare il monopolio; mentre dal­ l’altra bisognava combatterlo. Si tratta di un’ideologia ancor oggi molto radicata non solo nell’opinione comune ma an­ che nel pensiero degli specialisti. Senonché, statisticamente non è cosi vero che il monopo­ lio è cosi raro. Anzi è sempre più evidente il contrario (basta leggere Braudel): non solo i monopoli sono sempre esistiti nel capitalismo, ma hanno sempre avuto una funzione di primaria importanza. Del resto, questi monopoli sono sem­ pre stati controllati dai maggiori e più potenti accumulatori di capitale: tanto che tutta la loro abilità nel rastrellare siste­ maticamente il capitale si basava sulle loro capacità di met­ tere in piedi simili monopoli. Mi sembra che si possa trarre una triplice importante le­ zione dalla lettura di Braudel: una lezione, tra l’altro, che sfata molti pregiudizi o, se non altro, si contrappone all’opi­ nione dominante. Partiamo dalla ben nota distinzione tra i diversi tipi di borghesi o di capitalisti: i mercanti, gli indu­ striali, i finanzieri. Quanto inchiostro è stato versato, e con­ tinua ad esserlo, per dimostrare il presunto predominio di

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un settore sugli altri in un determinato momento della sto­ ria moderna. Quante teorie sono state elaborate per rico­ struire, un po’ sul modello della storia naturale, lo sviluppo dal capitale commerciale al capitale industriale al capitale fi­ nanziario? Quanta confusione continua a farsi sulla funzio­ ne e l’esistenza stessa dei capitalisti agrari? Eppure si tratta di un problema che non è un problema. Braudel dimostra chiaramente che i grandi manovratori si occupano sempre di tutto: dal commercio alla produzione al finanziamento. Solo avendo le mani in pasta in tutti i settori si può sperare di trarne dei vantaggi di tipo monopolistico. Solo i falliti si specializzano, limitandosi ad essere mercanti o industriali. Dunque, la distinzione da operare non è quella tra mer­ canti, industriali e finanzieri... bensì tra specializzati e non specializzati. Esiste una strettissima correlazione tra questa prima distinzione e la distinzione grande/piccolo, mondiale/locale/nazionale, regime di monopolio / regime di concor­ renza: ossia tra ciò che Braudel chiama capitalismo e ciò che chiama mercato. Visti in questa prospettiva, anche molti altri problemi si riveleranno dei non problemi: la datazione dell’internazio­ nalizzazione del capitale (i monopoli sono sempre stati «in­ ternazionali»); la spiegazione dei ripetuti «tradimenti» delle borghesie (il trasferimento del capitale da un settore all’altro costituisce addirittura il modello di comportamento dei mo­ nopoli in relazione al mutamento delle congiunture). Il tipo di spiegazione della cosiddetta rivoluzione industriale ingle­ se della fine del secolo xvrn cambia cosi radicalmente, e la domanda diventa: come mai in questo determinato momen­ to si realizzò la possibilità di trarre dei profitti di tipo mono­ polistico dalla produzione tessile tanto da attrarre il grande capitale? La seconda importante lezione è meno direttamente braudeliana; tuttavia i suoi scritti ci aiutano a combattere una certa resistenza di ordine ideologico a riconoscere la se­ guente verità: il monopolio è un fatto politico. Sarebbe im­ possibile dominare l’economia, soffocare o limitare la dina­ mica del mercato senza appoggio politico. È necessaria la forza, la forza propria dell’autorità politica, per erigere delle

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barriere di natura non economica che impediscano di acce­ dere alle transazioni economiche, per imporre dei prezzi in­ giustificati, per garantire degli acquisti non prioritari. L ’idea che il capitalista (nel senso di Braudel) possa esistere senza Stato, ossia contro lo Stato, è semplicemente cervellotica. Ho detto senza Stato; il che non significa necessariamente uno Stato controllato in tutto e per tutto dal capitalista: an­ zi, talvolta, è addirittura il contrario. Ma se questo è vero, ne deriva un radicale cambiamento della connotazione «destra/sinistra» delle lotte politiche nel mondo moderno. Non si tratta, non si è mai trattato di una lotta politica riguardante la legittimità o meno dell’interven­ to dello Stato nella vita economica. Lo Stato è un elemento costitutivo del funzionamento del sistema capitalistico. E la disputa si limita più prosaicamente a chi debba trarre i bene­ fici della singola misura adottata dallo Stato. E un modo di considerare la faccenda che ci aiuta a demistificare un certo genere di dibattiti politici. Braudel getta poi acqua sul fuoco dell’entusiasmo solita­ mente riservato ai progressi tecnologici; tematica cara alla maggior parte dei seguaci di Marx e di Smith. I grandi balzi in avanti tecnologici ridanno forza e vigore al settore mono­ polistico. Ogni volta che il mercato riconquista un po’ di terreno contro i monopoli, aumentano il numero degli at­ tori, riducendo costi, prezzi e profitti, si (ma chi è questo « si »?) cerca di compiere un grande balzo in avanti tecnolo­ gico, per rilanciare l’espansione dell’economia-mondo capi­ talistica - e per restaurare i blasoni delle grandi società ca­ pitalistiche, ricostituendo un altro settore esclusivo e alta­ mente redditizio per un’altra trentina d’anni. A questi elogi di Braudel debbo far seguire la segnalazio­ ne di una possibile distorsione cui possono prestarsi le sue tesi. Le si potrebbe, infatti, far confluire verso una forma di nuovo romanticismo da piccoli libertari contro le imposizio­ ni del cattivo grande e grosso, col conseguente rischio di ri­ spolverare una visione neopoujadista del mondo. Per salvarci, per salvare Braudel da un esito cosi negati­ vo, mi permetterò di riprendere il grande slogan della Rivo­ luzione francese (e cosi mi ricollego anche a quest’altra gran­ de tematica braudeliana costituita dalla storia della Francia):

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libertà, uguaglianza, fraternità. Queste tre parole sono sem­ pre state riferite a tre concetti intesi separatamente. Da qua­ si duecento anni si continua a discutere se si tratti di tre concetti compatibili. La libertà e l’uguaglianza non vanno forse in direzione opposta a quella della fraternità? Ecc., ecc. Ma forse vale la pena riconsiderare questa trinità alla luce dell’analisi del capitalismo fornita da Braudel. Se il mercato, dominio dei piccoli, dominio della libertà, si trova in conti­ nua lotta contro i monopoli, dominio dei grandi, dominio dell’imposizione, e se i monopoli esistono unicamente grazie a qualche provvedimento statale, non ne deriva forse che la lotta contro le disuguaglianze politiche, economiche e cultu­ rali è una sola e unica lotta? I monopoli dominano negando libertà e uguaglianza nell’arena economica, e di conseguenza nell’arena politica e in quella culturale (anche se non abbia­ mo trattato questo aspetto). Schierarsi dalla parte del mon­ do del «mercato» braudeliano mi sembra, in fin dei conti, una forma di lotta per realizzare questa uguaglianza del mondo; ossia, lottare per le libertà umane e, a partire da questo, lottare per la fraternità, perché la logica di questa lotta non consente l’esistenza del subumano. Ed eccoci al­ l’ultima capriola: è possibile che il trionfo del mercato (nel senso di Braudel), dato che non è certo il contrassegno esclusivo del sistema capitalistico, si riveli come il segno del socialismo mondiale. Che bella capriola! E chiaro che con questo ci addentriamo in una discussio­ ne che non riguarda più il passato storico ma un futuro assai difficile da costruire. Ed è questa l’ultima lezione che si po­ trebbe trarre dalla lettura di Braudel. Non sarà affatto facile assicurare la vittoria del mercato di Braudel. Sotto un certo aspetto, la storia degli ultimi cinquecento anni è la storia della continua sconfitta di questo mercato. La sola speranza che Braudel ci consegna è data dal fatto che il mercato, o meglio le persone che lo animano, non hanno mai accettato questa sconfitta. Ogni mattina riprendono la loro ardua lot­ ta per contrapporsi a coloro che vogliono imporsi, boicot­ tandoli economicamente ed erodendo la loro base politica. paul fabra Grazie a Immanuel Wallerstein. Il suo in­ tervento ha scatenato l’entusiasmo in sala! Fernand Braudel

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risponderà ora alle domande implicite ed esplicite contenute negli interventi di ’stamattina.

Per una storia economica. fer n an d br a u d el Voglio cominciare da lei, Paul Fabra. Lei ha cercato di mettere in dubbio ciò che si chiama un’economia-mondo: piuttosto sbrigativamente perché è un’espressione che mal s’adatta al puro linguaggio degli eco­ nomisti. Accanto a me siede un sociologo, antropologo, sto­ rico ed economista pronto a venirmi in soccorso: Immanuel Wallerstein che, al pari di me, per «economia-mondo» in­ tende un mondo che costituisce un’economia in sé. Non bi­ sogna confondere economia-mondo con «economia mondia­ le ». Ma non c’è alcun motivo per cui l’economia mondia­ le non possa costituire un’economia-mondo. Stamani lei mi ha detto: «Lei pretende che nell’economia-mondo la perife­ ria sia più povera del centro». Ma oggi c’è un’economiamondo, ed è il mondo occidentale. Costituisce un insieme abbastanza coerente il cui centro si trova provvisoriamente a New York, e l’Europa vi occupa una posizione che non si può dire periferica ma piuttosto «pericentrale». E a questo punto Paul Fabra ha avanzato un’argomentazione a suo av­ viso decisiva: «Il livello di vita di quest’Europa semiperife­ rica ha ormai raggiunto quello degli Stati Uniti, cosa che fal­ sifica le sue affermazioni». Ma io non ritengo quest’argo­ mentazione cosi decisiva, perché si fonda su un solo indica­ tore: che il livello di vita europeo (e ammettiamo pure che sia vero per la Germania, la Svizzera e la Francia, ma non lo è certo per l’Inghilterra) è uguale a quello degli Americani. Ma ciò che importa è sapere se si tratta di un’onda lunga, di una realtà di lunga durata o invece di qualcosa di momenta­ neo. Bisognerebbe insomma sapere se questa infrazione alla regola del gioco durerà a lungo o per poco. L ’economiamondo la si può valutare solo sulla lunga durata. Gradirei una sua risposta. PAUL f a b r a Mi farebbe piacere poterle dar ragione... fer n an d br a u d el Non mi fa piacere che mi si faccia piacere...

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PAUL f a b r a La sua è un’argomentazione molto astuta perché in realtà né io né lei possiamo rispondere. fern an d br a u d el E invece io posso rispondere! Perché i giochi non sono ancora fatti. E tra cinquant’anni che si do­ vrà vedere... pau l fabra Se bisogna aspettare cinquant’anni per ve­ dere. .. fern an d br au d el Sono molto paziente, posso aspetta­ re cinquant’anni! Non bisogna attaccare un collega delizioso come Paul Fabra, ma temo che su questo punto abbia pro­ prio torto. pau l fabra Ammetto che... fer n a n d b r a u d el Non sia troppo pronto ad ammette­ re... perché se l’economia-mondo non riguarda delle realtà strutturali, ossia di lunga durata, allora bisogna metterla da parte. pau l fabra Forse posso azzardare una soluzione di compromesso... fern an d br a u d el Preferisco che ciascuno mantenga le sue posizioni... pa u l fabr a Se nell’economia c’è un centro dominatore il cui livello di vita è superiore al mondo che lo circonda im­ mediatamente, e ancor più superiore a quello più distante, è anche possibile che questo dislivello sia dovuto all’azione di fattori esogeni, ossia non propriamente economici; mentre i fattori economici agirebbero invece nel senso del livella­ mento. E sarebbe appunto su questo piano economico che il mercato svolge la sua funzione. Negli anni in cui ho cominciato a fare il giornalista si di­ scuteva molto di Mercato comune. E l’obiezione di fondo contro il Mercato comune faceva presente l’impossibilità di mettere insieme dei paesi ricchi come Bénélux e Ruhr da una parte, e paesi più arretrati come la Francia e ancor più l’Italia, dall’altra: il dislivello tra gli uni e gli altri non avreb­ be potuto non aumentare. Pierre Mendès-France, che non ha sempre brillato per le sue doti profetiche, prevedeva un’emigrazione in massa degli operai francesi verso la Ruhr. Ma quello che posso constatare oggi è che quel dislivello è diminuito invece di aumentare.

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fern an d br a u d el Ma lei considera il Mercato comune alla stessa stregua d’un’economia-mondo. Mentre è solo un frammento di economia-mondo. Dov’è il centro? Certo, la Germania ovest è un partner superiore agli altri; ma questa sua superiorità le deriva dal particolare rapporto che ha con New York. PAUL f a b r a Nella sua argomentazione c’è qualcosa che non mi convince. Perché, se tra cinquant’anni ci troveremo davanti a un dislivello, ossia il livello di vita dell’Europa oc­ cidentale sarà inferiore al livello di vita americano, allora lei avrà ragione. Ma in caso contrario lei si limiterà a dire: «Il centro dell’economia-mondo è cambiato». Insomma, lei avrà ragione in tutti i casi. im m a n u e l w a l l e r st e in Non credo che il problema si ponga in questi termini. Perché quello che importa è se nel giro di cinquanta o cent’anni si realizzerà un cambiamento radicale nella struttura dell’economia-mondo. Lei, Paul Fa­ bra, ritiene che si sia realizzata una specie di convergenza nello standard di vita di tutti i settori; mentre la teoria dell’economia-mondo capitalista ipotizza che la gerarchia si mantenga, che permanga un polo. Ma il semplice fatto che alcune regioni assumano un ruolo diverso non intacca la struttura. Anche se l’Europa diventa più importante degli Stati Uniti, ma permangono un centro e una periferia, la teoria resta in piedi. Evidentemente la teoria è anche in gra­ do di spiegare le ragioni di questi avvicendamenti di ruolo. fern an d br a u d el Io sono un po’ sconcertato dal modo in cui lei, Paul Fabra, usa il termine «esogeno». Perché mi sembra che lo usi un po’ per dire che quando dei fatti non economici agiscono su un’economia, allora si tratta di fatti esogeni. Mentre mi sembra piuttosto evidente che la posi­ zione dell’Europa nell’economia-mondo non dipende tanto da qualcosa che non sarebbe economico, bensì dall’insieme economico. Il centro di un’economia-mondo è sempre costi­ tuito da un’area che gode di una certa superiorità sulle altre. Ma questo non significa che il livello di vita medio degli Sta­ ti Uniti debba essere necessariamente superiore a quello eu­ ropeo. Una zona che gode di una certa superiorità è una zo­ na in cui i problemi non si pongono nello stesso modo che in una zona periferica o semiperiferica.

UNA LEZIONE DI STORIA Lo stesso problema lo si ritrova in quanto ha detto Gérard Jorland. Lo conosco da molto tempo e abbiamo spesso discusso assieme. Ho trovato la sua relazione di stamattina veramente eccezionale. Tuttavia non concordo in tutto e per tutto con lui. Ha usato un’espressione tratta dal mio vo­ cabolario: «giocare con le carte truccate». Giocare con le carte truccate sarebbe la caratteristica di quella sovrastrut­ tura che io ritengo essere il capitalismo. Il capitalismo non avrebbe alcuno scrupolo a truccare le carte. Ma non è cor­ retto usare un’espressione - e poiché sono stato io ad usarla me ne assumo interamente la colpa - che sembra implicare un giudizio d’ordine morale. Il capitalismo non è né buono, né cattivo, né morale, né baro: è com’è, e il nostro problema non è giudicarlo ma capirlo. Ge r a r d j o r l a n d Ho usato questo termine appunto per criticarlo. Lei usa più volte l’espressione: «il capitalismo è un gioco truccato». fern an d br a u d el Ma appunto, « truccato» è implicita­ mente un giudizio di valore. Ge r a r d j o r l a n d Non c’è dubbio. fern an d br au d el Allora diciamo che il capitalismo è un gioco diverso. Sui tre piani dell’economia si gioca rispettiva­ mente a domino, a tombola e a dama. Sono tre giochi diversi. Nella mia vita quotidiana io non posso giocare lo stesso gioco dei Rothschild. E non è che i Rothschild barino nei miei con­ fronti; è che io non ho la possibilità di giocare come loro. Ge r a r d j o r l a n d Sono completamente d’accordo... fer n an d b r a u d el Non esser mai d ’accordo! Ge r a r d j o r l a n d Lo scopo del mio intervento era dimo­ strare che l’idea di pensare l’economia in termini di teoria dei giochi è molto feconda; perché la differenza tra gioco ca­ pitalistico e gioco dell’economia di mercato può essere riconsiderata sulla base della differenza che la teoria matema­ tica delle probabilità istituisce tra i giochi di puro azzardo, che sono giochi equilibrati e stabili a lungo termine, e i giochi d ’azzardo nei quali entra - come dicono i matematici - l’abi­ lità dei giocatori e che sono dei giochi instabili. fer n an d b r a u d el Trovo il tuo riferimento alla teoria dei giochi ineccepibile perché non implica alcun giudizio di ordine morale.

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Ma ritorniamo a Paul Fabra. Egli ha affermato che la concorrenza leale e trasparente - per parlare come gli eco­ nomisti tedeschi - è quella che io chiamo mercato; ma che la concorrenza esiste anche al vertice - ossia tra le grandi potenze del capitalismo - perché esse debbono sottostare alle leggi tendenziali dell’economia politica. PAUL f a b r a Lei sostiene che la concorrenza è traspa­ rente a quello che lei, sottolineo lei, chiama il piano del mer­ cato, mentre non lo sarebbe al piano superiore. Ma non si potrebbe, al limite, sostenere il contrario? Perché nei merca­ ti che possiamo chiamare rudimentali la trasparenza non è poi cosi presente: sulla maggior parte dei mercati operano delle piccole imprese che non tengono nemmeno la contabi­ lità. Sicché si potrebbe sostenere che nelle grandi imprese la trasparenza è perlomeno uguale. fer n a n d b r a u d e l Ma è la trasparenza della contabilità, non la trasparenza del gioco. La trasparenza è un modo di ri­ costruire il gioco, è un documento, se preferisce. pau l fabra Allora dirò che il piano superiore sa servirsi delle leggi del mercato, utilizzarle; che è in grado di valutare tutti i vantaggi che se ne possono trarre; ma anche se non c’è che un piccolo passo tra questa affermazione e dire che trae per sé questi vantaggi... io non intendo compiere questo piccolo passo. Mi limito semplicemente a dire che le multi­ nazionali hanno capito perfettamente il funzionamento del mercato e che sono in grado di organizzare investimenti e produzione in modo da trarne il massimo profitto. Il che non significa assolutamente che esse siano al di sopra delle leggi del mercato: del resto, la crisi che stiamo attraversando mostra quanto esse siano vulnerabili. fer n an d b r a u d el Certo, perché lei crede di ritrovare il termine «mercato» sia all’ultimo piano che al piano di mezzo. pau l fabra Ma è appunto questa dicotomia che pone dei problemi, perché per me il capitalismo è un’economia fatta di scambi e, di conseguenza, un’economia di mercato. fer n an d br a u d el Allora lasciamo da parte il termine mercato. E diciamo che c’è un’economia di scambi - che io ritengo trasparente - costituita in passato dalle fiere e dai mercati. E poi diciamo anche che c’è un’economia di scambi

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che non è trasparente, ed è quella costituita in passato dai grandi mercati di Amsterdam, Venezia, Anversa, Marsiglia ecc., che mettono a profitto delle informazioni... PAUL f a b r a Ma questo prova semplicemente che il mer­ cato è ancora imperfetto, a uno stadio ancora rudimentale, e che l’informazione non circola. fer n a n d br a u d el O piuttosto circola limitatamente a un mondo molto ristretto. PAUL f a b r a A ben guardare i grandi economisti aveva­ no già capito come avrebbe proceduto il capitalismo. E vo­ glio citare qui quello che considero il più grande di tutti, an­ che se credo che a lei non piaccia molto, intendo David R i­ cardo. fer n an d b r a u d el Ah, no! Quello è uno che mi piace; quello che non mi piace è Jean-Baptiste Say. PAUL f a b r a Ricardo scrive da qualche parte che tutti i mercati sono monopolistici, ma sul breve periodo. E a suo avviso la concorrenza s’instaura perché questa posizione di monopolio non può essere mantenuta quando si entra nella sfera dello scambio. Alcuni potranno conservare questo mo­ nopolio un po’ più a lungo, ma altri solo per qualche giorno o addirittura per poche ore. im m a n u e l w a l l e r st e in Ma il profitto realizzato nel breve periodo non dura solo qualche giorno, ma qualche de­ cina d’anni. Prendiamo l’esempio dell’acciaio. Cent’anni fa si trattava d’una produzione marcatamente monopolistica: il termine «cartello» è nato appunto in quel contesto. Insomma, alcune grandi industrie monopolizzavano questa produzione e ne traevano enormi profitti. Ma la domanda proveniva da un mercato cosi vasto che ci si è messi a pro­ durre acciaio un po’ dappertutto: ha cominciato l’india, se­ guita dalla Corea del sud. Ne è derivata una situazione di vera e propria concorrenza, e le grandi industrie americane, francesi, inglesi, giapponesi hanno lasciato perdere l’acciaio ormai non più redditizio, l’hanno mollato agli altri. Attual­ mente, gli ordinatori costituiscono ancora un monopolio, domani sarà il caso della biotecnologia o di qualcos’altro. Pur di trarne dei grandi profitti si è disposti a rischiare la perdita della posizione di monopolio, ma quando la si perde veramente se ne sono già tratti grandi profitti.

IL CAPITALISMO

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fern an d br au d el WaUerstein ed io parliamo lo stesso linguaggio; un linguaggio diverso dal suo, Paul Fabra. Il ter­ mine « mercato » le serve per contraddire le nostre afferma­ zioni, ma non per comprenderci. pau l fabra Non mi aiuta a contraddirvi, bensì a situa­ re correttamente le vostre affermazioni che, tra l’altro, nella prospettiva di lungo termine da voi adottata non falsificano affatto le leggi del mercato. L ’esempio dell’acciaio, rappor­ tato appunto a un periodo di cinquanta o cent’anni, dimo­ stra che alla fine la sequenza implicitamente prospettata da Ricardo - prima il monopolio e poi il mercato - si realizza puntualmente. im m a n u e l w a l l e r s t e in Ma si realizza riproducendo il monopolio! Del resto i grandi accumulatori... pau l fabra I grandi accumulatori!? Non pochi produt­ tori d’acciaio ci hanno lasciato le penne perché non avevano la scienza infusa. fer n an d b r a u d el Prendiamo il caso della rivoluzione industriale. E un fenomeno che non ha origine ai piani alti dell’economia; ma a quelli piuttosto bassi e per certi aspetti addirittura al pianterreno. La rivoluzione tessile si organizza quasi autonomamente, si autofinanzia, e solo intorno al 1830 il capitalismo londinese metterà le mani sull’industria tessile. Poi, quando si accorgerà che il tessile non è più suf­ ficientemente redditizio, lo mollerà e passerà ad occuparsi delle ferrovie. La caratteristica del gioco che si svolge al pia­ no superiore dell’economia è la possibilità di passare da un monopolio all’altro. Paul Fabra ha appena ricordato il mio interesse per il lun­ go termine. Ma l’importanza fondamentale del lungo termi­ ne non deriva certo dal fatto che m’interessa; bensì dal fatto che costituisce la storia profonda dell’umanità: quella in rap­ porto alla quale l’intera storia si struttura. Il lungo termine rappresenta le mie coordinate: quelle in cui colloco i proble­ mi. Un monopolio ci lascia? Niente paura, se ne trova un al­ tro! E la morte del capitalismo del nonno e del padre, ma non del capitalismo del figlio e del nipote. Il vantaggio e la superiorità del capitalismo sono dati dal­ la possibilità di scegliere. Invece noi, poco attrezzati, siamo immersi nei nostri affari, non riusciremo a tirarci fuori,

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UNA LEZIONE DI STORIA

stiamo per affondare. Per quanto riguarda le multinazionali: certo, attualmente, non sono un «capolavoro» di dinami­ smo, ma piuttosto una specie di limite massimo delle impre­ se che occupano l’ultimo piano dell’economia. Le grandi im­ prese non sono mai all’origine delle innovazioni tecnologi­ che più radicali. Questi cambiamenti partono dalla base. Naturalmente le grandi imprese ne sono a conoscenza, ma non le utilizzano sinché la tecnologia precedente consente loro un certo profitto.

La rivoluzione industriale del Medieovo. fer n an d b r a u d el Vorrei un po’ provocare il mio amico Laszlo Makkai. Laszlo, mi hai fatto talmente tanti compli­ menti che mi vien quasi voglia di contestarti... perché non sei stato ragionevole... perché non hai cercato, come fanno certi economisti francesi e no, l’origine sociale del cambia­ mento. Sei un medievalista e i medievalisti sembrano aver occhi solo per la rivoluzione industriale del Medioevo. Ma tu ci credi a questa rivoluzione industriale del Medioevo? la szlo m a k k a i Si, ma a una rivoluzione tecnologica. fern an d b r au d el La rivoluzione industriale, quella del secolo xvm, è una vera rivoluzione industriale, perché ne ha messa in orbita una, poi un’altra, poi un’altra ancora. Insomma: si ha rivoluzione industriale solo quando l’innova­ zione è tale da determinarne un’intera serie. I mulini a ven­ to e i mulini ad acqua si sono moltiplicati e perfezionati ma la «rivoluzione» è rimasta al palo. E un po’ come se oggi fos­ simo rimasti alle innovazioni della produzione tessile in In­ ghilterra, o a quella della fusione del coke. Mentre la rivolu­ zione industriale del secolo xvm non si traduce in nessun equilibrio, e l’equilibrio si rompe da sé per cosi dire. laszlo m a k k a i A mio modo di vedere, è l’origine so­ ciale dell’innovazione a «originare» il progresso, lo stesso progresso tecnico, e il progresso tecnico è una cosa in sé. So­ no i meccanismi di frenaggio ad essere sociali nell’evoluzio­ ne tecnica. fer n an d b r a u d e l Si, ma oggi, sfortunatamente, non ci sono più meccanismi di frenaggio, o molto pochi. Un’in­

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novazione aspetta al massimo tre o quattro anni, poi esplode... laszlo m a k k a i Si, nei momenti di crisi come nei secoli xi, xvm e xix, perché i sistemi di frenaggio sono assai più importanti della stessa evoluzione tecnica. Questa procede un po’ automaticamente, un po’ come un dato biologico. L ’organizzazione comporta l’innovazione. Lei stesso ha scritto che nella storia ci sono sempre migliaia di possibilità innovative allo stato latente. Come nel caso di Erone nel­ l’antichità o di Leonardo nel Rinascimento... Sono delle utopie, delle scommesse radicate in una situazione sociale. La funzione del capitalismo rispetto al progresso tecnico è unicamente quella di liberare la tecnica dai sistemi di fre­ naggio sociali. PAUL f a b r a Se ho capito bene, ciò di cui si discute è se la rivoluzione industriale e tecnica del Medioevo sia con­ frontabile con quella del secolo xvm . fer n an d b r a u d el La bardatura o il timone sul dritto di poppa non appartengono ad un insieme coerente in grado di creare un mondo economico nuovo. A mio avviso si ha vera rivoluzione industriale solo quando questa è cosi perentoria da non limitarsi ad infrangere il precedente equilibrio, ma spalanca la porta a una dinamica di trasformazioni. pau l fabra L ’espressione « rivoluzione industriale » è una metafora con tutti i limiti delle metafore. Ma anche i fatti hanno detto la loro. E mi sembra indubbio che ciò che è cominciato due secoli fa avanza ancor oggi e con passo an­ cor più accelerato. E possibile ritrovare nella storia dell’u­ manità, almeno per quanto la conosciamo, qualcosa di si­ mile? fer n an d b r a u d el Secondo Lévi-Strauss, solo la rivolu­ zione neolitica. È una discussione che potrebbe continuare all’infinito; ma vorrei dire all’amico Makkai che se lui è in­ teressato ai sistemi di frenaggio, io, certo per spirito di con­ traddizione, sono interessato alle accelerazioni. Oggi non si chiede più il nostro parere; la società non è più in grado di filtrare molto a lungo le innovazioni. La robotica, per esem­ pio, sta invadendo la vita industriale.

UNA LEZIONE DI STORIA

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Capitalismo, struttura camaleontica. fer n an d b r a u d el Sono in mezzo ad amici e mi com­ porto in maniera vergognosa: invece di dar loro ragione fac­ cio di tutto per dimostrare che sono io ad aver ragione. Al­ berto Tenenti, lei ha dimostrato una cosa molto interessante di cui non sono sicuro di aver compreso l’intera portata. Insomma, mi ha detto: « C ’è una successione di capitalismi». E io voglio ricordarle che Marx ha avuto parecchie esitazio­ ni nel fissare la data d’inizio del capitalismo. L ’ha poi fissata nel secolo xvi in coincidenza con l’apertura delle grandi rot­ te atlantiche, il che non gli ha impedito di porsi il problema se nelle città italiane dei secoli xn e xm non si potesse già re­ gistrare l’affermarsi di una specie di capitalismo. Se non sbaglio, lei mi ha accusato di servirmi di un vecchio modello per parlare di una realtà nuova. Al b e r t o t e n e n t i Non credo di aver commesso questo peccato pur avendone commessi degli altri: le ho infatti chiesto perché lei insista sul fatto che il capitalismo ha un unico modello...

fe rn a n d b ra u d e l

T u l’hai detto: «h a un unico mo­

dello».

lei a dirlo. pretenderesti di non averlo det­ to... Non bisogna essere cosi sottili nel difendersi. L ’hai det­ to o non l’hai detto? Al b e r t o t e n e n t i L ’ho citata. L ’ho detto citandola. fern an d br au d el Tu hai detto che c’era un unico mo­ dello. Al b e r t o t e n e n t i Allora intendiamoci bene. Io ho det­ to che lei propone un modello per la comprensione del capi­ talismo e che la sua spiegazione si presenta come un model­ lo. Ma non ho detto che il capitalismo abbia un unico mo­ dello. Ho invece detto che lei pretende che il capitalismo ab­ bia un unico modello fondamentale che resterebbe inva­ riato. fer n an d br a u d el Si, ma non dimentichiamo che le idee importanti vanno sempre sottolineate in rosso. La mia pretesa è che ci sia un modello fondamentale del capitalismo. Al b e r t o

tenenti

fe rn a n d b r a u d e l

È stato

Tu

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IL CAPITALISMO Al b e r t o

ten en ti

D ’accordo: ma dove lo situa cronolo­

gicamente? fern an d br au d el Ma lascia che prima lo definisca nei miei termini. Se il modello che mi serve per spiegare il capi­ talismo è lo stesso all’epoca di Francesco I, di Fallières o del presidente René Coty, bisogna pure che ci siano delle coin­ cidenze. E io pretendo che ci siano queste coincidenze. Per me il capitalismo si ha solo:

- quando c’è sovrastruttura (e fa uno); - quando c’è un numero ristretto di attori (e fa due); - quando questi attori hanno la possibilità di scegliere, ossia possono smettere di fare una cosa per farne un’al­ tra (e fa tre). Ciò che contraddistingue il capitalista odierno e il grande mercante del passato è il fatto di non fare mai la stessa cosa. Al b e r t o t e n e n t i Lei conferisce grande importanza alla rivoluzione industriale, ma nello stesso tempo sembra dire che non ha mutato la natura essenziale e fondamentale del capitalismo. Ne deriva che secondo lei la rivoluzione indu­ striale non segna l’inizio del capitalismo. fer n an d b r a u d el

ALBERTO t e n e n t i

E u n ’ id ea m arx iste g g ia n te .

N o , è la sua.

fer n an d br a u d el No, tu stai difendendo l’idea marxi­ steggiante che la rivoluzione industriale scodella un capita­ lismo violento: il che è vero, ma è anche vero che questo ca­ pitalismo violento obbedisce a delle regole antiche. Al b e r t o t e n e n t i Ma è proprio questo il punto che le chiedo di chiarire, perché per quanto mi riguarda ho una certa esitazione ad ammettere che ci troviamo in un’epoca cui s’attaglia il capitalismo ad essa precedente. fer n a n d br a u d el Rifacciamoci all’esempio del capita­ lismo francese anteriore al 1850, nel periodo della monar­ chia di luglio: l’industria francese sta assimilando, con con­ seguenze positive peraltro, le trasformazioni tecniche attua­ te dall’industria inglese. Questo avviene sia all’epoca della Restaurazione, sia all’epoca di Luigi Filippo. Ma gli indu­ striali trovano crediti solo al proprio interno: sono costretti a finanziare mutualmente il proprio «autofinanziamento». Questo autofinanziamento è realizzato in maniera piuttosto

I2Ó

UNA LEZIONE DI STORIA

semplice: gli industriali si scambiano reciprocamente delle commesse con pagamento dilazionato, sicché grazie a questi scambi riescono ad assicurare sia la vita delle imprese sia il finanziamento. Questo meccanismo continua ad operare si­ no al momento in cui nasce anche da noi l’alta finanza, che per altro non si rivolge immediatamente all’industria. Solo intorno agli anni 1850-60 l’alta finanza s’interesserà all’in­ dustria che, proprio perciò, cambierà in qualche modo la sua natura. Proprio in quanto sovrastruttura il capitalismo estende le sue propaggini verso il basso: non si tratta di una sovrastrut­ tura che vive nell’isolamento, lontano dalle altre. Ci sono momenti in cui il capitalismo acquista maggior spessore, una maggiore importanza, e cosi prende il sopravvento sull’eco­ nomia di mercato. Su questo siamo d’accordo? im m a n u e l w a l l e r s t e in Per me, sono d’accordo. fernand brau d el E tuttavia io sono un po’ dispiaciu­ to, perché tutti sono d’accordo con me salvo che uno dei miei più cari amici, Alberto Tenenti. Al b e r t o t e n e n t i Ma il mio intento era solo sapere sino a che punto lei era d’accordo con se stesso. fern an d br a u d el Non è sufficiente esser d ’accordo con se stessi per aver ragione. Bisogna esser d’accordo con la realtà. E ciò che bisogna determinare è se il modello di cui mi servo è valido o meno. Al b e r t o t e n e n t i I miei dubbi riguardavano la validità di questo modello per tutte le specie di economie-mondo o di capitalismo. Le differenze di scala e l’effetto della situa­ zione politico-sociale possono dar luogo a tali difformità da giustificare la domanda: è possibile mettere su uno stesso piano il capitalismo anteriore alla rivoluzione industriale e quello odierno? O forse non ci si trova davanti ad una svolta che ha posto le cose su un piano diverso? fern an d b r a u d el II capitalismo che sta oggi diffon­ dendosi nel mondo assomiglia a quello dell’epoca di Napo­ leone III. Naturalmente è anche diverso per certi aspetti. Il capitalismo è strutturalmente camaleontico: i camaleonti cambiano colore ma restano sempre camaleonti. im m a n u e l w a l l e r st e in Ma lei sta facendo un po’ una schivata...

IL CAPITALISMO fer n an d b r a u d el

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Non

c ’è

dubbio! Ma prova a metter­

ti tu al mio posto. im m a n u e l w a l l e r st e in Nella storia del nostro piane­ ta si sono avute numerose economie-mondo e ciascuna con­ teneva una specie di capitalismo nascente. Ma una sola economia-mondo è riuscita a sopravvivere nei secoli e a svi­ luppare una robusta struttura capitalistica. E in definitiva è diversa da tutte le altre economie-mondo perché è soprav­ vissuta sufficientemente a lungo per far si che la vera strut­ tura del capitalismo si realizzasse pienamente.

Capitalismo ed economia-mondo. fern an d br au d el Ho discusso con Immanuel Waller­ stein per ore e ore perché eravamo in disaccordo. Ma alla fi­ ne mi ero convinto d’averlo convinto. Invece debbo consta­ tare con dispiacere che in ogni caso tu resti solo d’accordo con te stesso... im m a n u e l w a l l e r s t e in Spererei anche con la realtà... fern an d br au d el Non saprei dirlo. Se si potesse rico­ minciare daccapo la storia, rimettere le cose al punto di par­ tenza e vedere che cosa è realmente successo, la storia di­ venterebbe una scienza; ma la storia non è una scienza. Sono sicuro che vi interesserà molto la grande differenza che c’è tra Immanuel e me. Lui accetta la lezione di Marx e pretende che la biografia del capitale inizi nel secolo xvi con la dipendenza d’una regione periferica - con gli schiavi, le miniere, le piantagioni... - a tutto vantaggio di un’Europa che si arricchirà a scapito degli altri. Insomma, pretende che ci sia un’economia-mondo europea a partire dal secolo xvi e che questa economia-mondo è resa possibile unicamente dal capitalismo. Non la pensi forse cosfr im m a n u e l w a l l e r s t e in No, perché lei ha detto: «que­ sta economia-mondo è resa possibile unicamente dal capita­ lismo». Mentre io dico: « l’economia-mondo in sé deve ave­ re una struttura economica che si chiama capitalismo ». Una decina d’anni fa ero del parere che non esistesse una mol­ teplicità di economie-mondo, ma lei è riuscito a convincer­ mi del contrario. Cosi oggi sono disposto ad ammettere

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che esistessero delle economie-mondo prima del secolo xvi; ma sono anche convinto che ciascuna di queste economie­ mondo si sia o disintegrata o trasformata in un impero-mon­ do a causa di contraddizioni interne alla propria struttura. Ma per una ragione piuttosto strana, che tra l’altro richiede una spiegazione, ciò non si è verificato nel caso di quella economia-mondo che si è costituita nel secolo xvi: ne deriva che il vero capitalismo ha cominciato a realizzarsi a partire da allora. fer n a n d b r a u d e l In Europa c’è un capitalismo sin dal­ le fiere di Champagne, con le lettere di cambio, anticipi di capitali ecc... Il mio ragionamento, e vi farà probabilmente sorridere, è comunque il seguente: ho letto molti libri di bio­ logia con scarso profitto, perché in un primo momento li ca­ pisco per benino, ma quando voglio utilizzarli nei miei lavo­ ri mi scivolano tra le dita come l’acqua e non riesco ad affer­ rarli. C ’è tuttavia un’espressione che mi piace molto: Vevo­ luzione biologica - che rischia molto di assomigliare all’evo­ luzione storica - è irreversibile. Ossia: quando qualcosa si è prodotto, diciamo il punto A, si passa al punto B e non si può ritornare da B ad A. Esempio: in altri tempi i mammiferi vivevano in ambien­ te marino: hanno potuto trasformarsi da esseri marini in es­ seri terrestri, ma non si è mai vista un’evoluzione in senso inverso; non si è mai visto un essere terrestre ridiventare un essere marino. E se questo è vero com’è vero, è necessario che, nell’evoluzione biologica dell’essere marino in essere terrestre, l’essere terrestre sia preesistente. Quindi, se l’evo­ luzione biologica non avviene del tutto a caso, quel capitali­ smo che emerge in modo violento nel secolo xvi doveva es­ ser preesistente in modo virtuale, potenziale. Osereste contestare un ex ministro, un economista di grandi capacità e un ambasciatore brasiliano? Celso, dicci per favore se le tue conoscenze dello sbocciare del capitali­ smo in terra brasiliana dà almeno un po’ di ragione agli uni o agli altri; ma soprattutto a me. c elso fu r tad o Vorrei contribuire a quest’interessante discussione sul capitalismo di mercato non unicamente sulla base dell’esperienza di ciò che si è verificato nel mio paese,

IL CAPITALISMO

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ma facendo anche riferimento agli anni trascorsi qui in rap­ porto piuttosto stretto con Fernand Braudel. Mi sembra che stiamo maneggiando i concetti in manie­ ra un po’ troppo generica. Il termine «mercato» può riferirsi a fatti molto diversi. E evidente che il mercato non coincide con lo scambio: Braudel ha quindi ragione quando afferma che lo scambio esiste da sempre. Anche il selvaggio brasilia­ no scambia, e lo scambio può essere realizzato sia con tecni­ che molto sofisticate, sia al livello di rapporti puramente personali. Ma il mercato è uno scambio complesso che com­ porta l’esistenza della moneta: non necessariamente la mo­ neta cui siamo soliti far riferimento, perché ci sono anche delle forme mediate di moneta. Il mercato si trasforma so­ stanzialmente dal momento in cui compare la moneta; la moneta entra a far parte del meccanismo. Ma la faccenda non si esaurisce qui: perché in Europa, sebbene solo in Eu­ ropa, l’evoluzione del mercato ha comportato l’instaurazio­ ne generalizzata del mercato della terra e del mercato della manodopera. E con ciò si ha un radicale cambiamento nello scambio, perché il mercato classico è basato sullo scambio di merci: è un mercato orizzontale. All’epoca del mercato oriz­ zontale il sistema di produzione era programmato dalla so­ cietà. Era la società a collocare gli individui in una posizione funzionale nel sistema di produzione. A partire dal momen­ to in cui il sistema di mercato si generalizza, con la compravendita della manodopera, si realizza conseguentemente un notevole aumento delle possibilità di razionalizzare e calco­ lare: ed è qui che s’impianta il capitalismo. Certo il capitali­ smo è sempre esistito, e in ciò concordo con Braudel, perché penso che, non appena si profila sul mercato una qualche forma di potere, si ha capitalismo in quanto esiste scambio ineguale. E lo scambio ineguale esiste come conseguenza di quella forma di dominio cosi ben spiegata da François Perroux. Questo dominio trae la sua origine dall’informazione, dall’innovazione e da molte altre cose. Dunque: a partire dal momento in cui si ha generalizzazione del principio del mer­ cato, si ha rafforzamento e generalizzazione di questo domi­ nio. Il capitalismo, da sempre più o meno presente nella so­ cietà, si trasforma a questo punto in forma dominante del­ l’organizzazione della produzione: nessuno infatti potrebbe

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UNA LEZIONE DI STORIA

sostenere che nel Medioevo è predominante un’organizza­ zione della produzione di tipo capitalistico. Ed è appunto il predominio di questo tipo di organizzazione della produzio­ ne che spalanca le porte al processo di accumulazione che, per delle ragioni complesse e connesse alla storia dell’Euro­ pa, concepisce e genera la rivoluzione che impronta la nostra epoca. Voglio concludere con un’osservazione relativa alla tecno­ logia. Sono completamente d’ accordo con Makkai: la tec­ nologia è presente in modo diciamo virtuale in tutte le socie­ tà. Ma la sua materializzazione è legata, come ha detto mol­ to bene Braudel, a stimoli di carattere sociale. Ritengo insie­ me essenziale e determinante, per la nostra epoca, il fatto che questi stimoli allo sviluppo della creatività tecnologica abbiano comportato una parallela accelerazione e intensifi­ cazione dello sviluppo economico. Ma la nostra epoca è ca­ ratterizzata da questo fenomeno di accelerazione della tec­ nologia anche perché essa dipende dal mercato generalizzato e dall’accumulazione accelerata. fern an d br au d el Celso, ti avevo chiesto un aiuto ami­ chevole. Avresti dovuto dire: «Braudel ha perfettamente ra­ gione, il capitalismo brasiliano corrisponde in tutto e per tutto a quello che lei dice». A San Paolo, capitale del Brasile in quanto a industriosità, li chiamano gran-fìnos. Tu sai bene chi sono questi « grandi fini », questi tipi molto distinti che ho conosciuto nel 1939, che sapevano accoglierti in maniera squisita e rappresentavano delle ricchezze semplicemente favolose. Forse oggi non sono più gli stessi; ma questa è una prima congiuntura che depone a mio favore. Ma ce n’è an­ che un’altra: la divisione dell’economia sulla base della pre­ ponderanza spaziale, secondo dislivelli zonali. Nessuno me­ glio di te sa che per molto tempo c’è stato un litorale brasi­ liano estremamente industrioso, e un interno, il sertao, che non lo è affatto. Ecco un sistema di economia-mondo! c elso fu r tad o Applicherò al Brasile il suo concetto di lunga durata. In una determinata fase di sviluppo di una ci­ viltà, come potrebbe essere quella europea, alcuni fattori esercitano una funzione essenziale. Nel caso del Brasile que­ sto fattore è rappresentato dalla dipendenza esterna. E im­ possibile capire la lunga durata brasiliana se si prescinde da

IL CAPITALISMO questa caratteristica basilare del sistema: ossia la sua dipen­ denza da chi innesca il processo dall’esterno. Ritorniamo all’odierna esplosione tecnologica. Da dove proviene la domanda di tecnologia? E evidentemente un processo di dimensione mondiale quello che dinamizza la domanda di tecnologia. Ma questa non è né l’unica né la ve­ ra risposta. Chi ha finanziato l’esplosione tecnologica nel settore elettronico e in molti altri negli ultimi trent’anni? Insomma, ci troviamo in una fase della civiltà in cui il processo di creatività tecnologica è di fatto orientato, in quanto finanziato, dai bilanci militari, i cui obiettivi non so­ no precisamente la creazione di una civiltà più giusta di quella in cui viviamo. fern an d br a u d el Grazie Celso, ringrazio sentitamen­ te Sua Eccellenza, e vado a cercarmi qualche altra grana. Immanuel, ti prego di darmi una mano. Spiegami perché lo Stato è indispensabile al capitalismo, cosi io ti potrò dimo­ strare il contrario.

Stato e capitalismo. im m a n u e l w a l l e r s t e in I o sostengo che in un sistema di economia-mondo capitalistica non si può detenere il mo­ nopolio, o qualcosa di simile, senza l’aiuto dello Stato. Que­ sto aiuto può assumere molte forme. Per esempio lo Stato può istituire formalmente il monopolio: in questo caso elimi­ na la concorrenza all’interno o all’esterno del paese. Oppure lo Stato fornisce un aiuto alla creazione di nuove tecnologie lasciando poi liberi i capitalisti di avvantaggiarsene. Lo Sta­ to dispone di molti strumenti per aiutare i grandi accumula­ tori di capitale a creare i loro monopoli più o meno durevoli. Qualche giorno fa ho letto una statistica secondo la quale il Brasile occupa il terzo posto nella produzione mondiale dei calcolatori. Gli Stati Uniti se ne preoccupano e utilizzano la forza dello Stato americano per smantellare un certo prote­ zionismo brasiliano che, di fatto, ristabilisce una specie di concorrenza reale. Lo Stato americano riuscirà a fornire un aiuto effettivo alle Compagnie americane per capovolgere questa situazione? Non so rispondere; ma so che in ogni ca­

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so non si può essere IB M senza Stato americano: o utiliz­ zandolo o raggirandolo. fern an d br au d el II fatto è, Immanuel, che la società si divide in due: la società politica e la società civile. Se ci si at­ tiene al reddito nazionale, la Francia odierna è divisa in due: cinquanta per cento allo Stato e cinquanta per cento alla so­ cietà civile. Non voglio dire con questo che la società civile sia il capitalismo. Ma se si ritorna alle origini, si constata che non può esserci capitalismo in un paese in cui lo Stato sia troppo forte. La monarchia francese ha un sacco di meriti, ivi compresi quelli che non le sono ancora stati attribuiti: ha impedito lo sviluppo capitalistico della Francia, e precisamente all’epoca di Luigi X IV . Ai tempi di Samuel Bernard c’era il progetto di creare la Banca di Francia. Non se n’è fatto nulla perché i capitalisti avevano un unico timore: che il governo, che già s’impadroniva della ricchezza nazionale tramite le imposte, finisse prima o poi per comportarsi in maniera sleale nei confronti del capitale della banca. E se c’è stato sviluppo del capitalismo in Europa e nella stessa Fran­ cia - visto che poi anche la Francia non è stata risparmiata -, ciò è dovuto al fatto che in un dato momento storico si sono verificate delle circostanze che hanno consentito la distru­ zione dello Stato da parte della società civile, ossia il feuda­ lesimo, che ha demolito lo Stato in maniera addirittura esemplare. Ovviamente un nuovo feudalesimo sarebbe og­ gi impensabile, ciò nondimeno lo Stato ne risulterebbe di­ strutto. Un paese che non abbia visto sorgere alcun sistema di demolizione dello Stato, si chiami questo sistema feuda­ lesimo o in altro modo, vedrà fallire i suoi tentativi di svi­ luppo capitalistico: la Cina ne costituisce l’esempio per ec­ cellenza. Il Giappone, invece, ha avuto il suo feudalesimo, ha demolito il suo Stato, e in mezzo alle sue rovine, come un frutto avvelenato o appetitoso, il capitalismo ha potuto pro­ sperare. PAUL f a b r a Passiamo ora alle domande formulate per iscritto dal pubblico. Una si riallaccia alla tematica testé af­ frontata ed è rivolta a Celso Furtado: « L ’attuale situazione brasiliana è frutto del capitalismo o di uno Stato che non ha saputo realizzare le riforme e le necessarie mediazioni?» c e l so fu r ta d o Non so se chi ha posto la domanda in­

IL CAPITALISMO

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tenda riferirsi al debito brasiliano o a qualche altra cosa. L ’attuale situazione del Brasile è assai complessa e lo Stato brasiliano non può agire indipendentemente da quelle che sono le istituzioni sociali brasiliane. Non si può parlare di uno Stato tutto proiettato verso lo sviluppo industriale e la trasformazione, visto che le vecchie strutture, profonda­ mente radicate nelle strutture agrarie, sono sostenute da questo Stato. L ’industrializzazione del Brasile si realizzò in concomitanza col dissesto dell’economia tradizionale dovu­ to alla crisi mondiale seguita al 1929. La profonda trasfor­ mazione registrata dal Brasile in questi ultimi anni riguarda l’organizzazione sociale, l’urbanizzazione, che è una conse­ guenza dell’industrializzazione. pau l fabra Vi sono ora tre domande rivolte agli storici indiani. Nel subcontinente indiano, le città hanno avuto la stessa funzione, nel plasmare e fondare l’economia, che nel­ l’area mediterranea ed europea?

L'esempio indiano. barun de Le città dell’Asia meridionale non hanno avuto una funzione analoga a quelle europee per un motivo di fondo: perché le città indipendenti erano pressoché inesi­ stenti. La città libera non rientra nella concezione indiana. Le città erano il tramite della politica statale rispetto alla campagna e perciò si sono trasformate in fortezze. Uno sto­ rico indiano ha definito questa struttura «feudalesimo dal­ l’alto e feudalesimo dal basso»: ossia, le grandi città control­ lavano le piccole città che, a loro volta, controllavano la campagna. Il che non significa che in queste città non vi fos­ sero dei mercati, che hanno appunto svolto quella funzione economica che ho descritto nel mio precedente intervento. paul fabra La seconda domanda sull’india è rivolta a K. N. Chaudhuri: «Lei ritiene che se l’india e l’Asia fossero rimaste estranee al capitalismo occidentale vi si sarebbe ugualmente sviluppato un capitalismo vero e proprio? La re­ ligione avrebbe influenzato questo sviluppo? E possibile un confronto con quanto si è verificato più tardi in Giappone, in Corea e a Taiwan?»

6

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k . N. c h a u d h u r i Nell’intervento di questa mattina ho sottolineato la differenza tra capitalismo industriale e capi­ talismo commerciale. Non v ’è dubbio che vi fosse un capita­ lismo commerciale in Asia, ma le sue basi giuridiche e sociali erano diverse da quelle europee. Perciò era piuttosto impro­ babile, se non impossibile, che si trasformasse in un capita­ lismo industriale sul modello europeo. Per quanto riguarda il Giappone e la Corea, si tratta di una prospettiva affatto diversa, perché si è trattato piuttosto di una rivoluzione tec­ nologica rapportata alle condizioni locali e, nel secolo xx, di un capitalismo industriale endogeno come già si era verifica­ to nell’Europa del secolo xix. PAUL f a b r a La terza domanda sull’india è rivolta a Barun De: « L ’innesto del capitalismo occidentale sul proto­ capitalismo indiano ha finito per attecchire? E stato posi­ tivo?» baru n de H o qualche difficoltà a risponderle in manie­ ra diretta. La mia posizione in proposito è all’incirca la se­ guente: in India, gli strati protocapitalistici, gli strati endo­ geni emersi dal mercato indiano, non sono mai riusciti a conquistarsi una posizione di predominio prima dell’avven­ to del colonialismo; tanto che, trovandosi ancora nel secolo xvm in contraddizione con le forze dominanti indiane, ac­ colsero con favore l’ipoteca coloniale britannica. D ’altra parte, il colonialismo britannico non favori puramente e semplicemente lo sviluppo di questi strati protocapitalistici «subordinati», bensì ne distrusse nello stesso tempo la base artigianale. Si realizzò cosi una specie di dialettica tra di­ struzione e conservazione all’interno della quale si sviluppa­ rono le alternative nazionali indiane. Tale dialettica era ine­ vitabile, né in sé negativa; anzi, sebbene abbia qualche esi­ tazione ad affermarlo, necessariamente positiva, se non al­ tro rispetto a quello che avrebbe potuto verificarsi se non vi fosse stato l’intervento britannico. PAUL f a b r a C ’è ora una domanda rivolta a Fernand Braudel e a me: «Nel 1985 si può constatare il parziale falli­ mento dei modelli economici ereditati dal passato o, se non altro, la loro obsolescenza. Nel 2000 le esigenze dell’umani­ tà non riguarderanno più unicamente la soddisfazione di bi­ sogni materiali, ma si avrà una domanda di tipo culturale e

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morale. Quale viatico per il futuro può fornirci Fernand Braudel alla luce della sua saggezza e della sua conoscenza della storia lenta? »

Viatico per il futuro. fer n an d b r a u d el Si tratta di una domanda meraviglio­ sa, ma per la risposta bisogna rivolgersi al Padreterno. Non c’è dubbio: i modelli economici disponibili si applicano ma­ lamente alla realtà attuale. Gli economisti stanno compien­ do degli sforzi disperati, ma il loro compito è terribilmente difficile. Possono verificare se il modello funziona o meno solo dopo averlo messo in pratica. Allo stato, si è quasi sicuri di una cosa: che tutti i modelli posti in atto per raddrizzare la situazione resteranno inefficaci sinché la crisi non avrà la gentilezza di scomparire. Sicché tutti i giudizi negativi e le accuse che si possono lanciare contro questo o quel governo per non aver saputo realizzare una politica economica effica­ ce non hanno, a mio avviso, un gran valore; perché proba­ bilmente tutti sarebbero andati incontro allo stesso falli­ mento. Analogamente, se la situazione mondiale si raddriz­ zerà, come spero, se la crisi avrà la gentilezza di dileguarsi, tutti i governi otterranno dei successi, anche nel caso che non lo meritino. La domanda si rifà anche alla «mia saggezza». Al massi­ mo si può essere saggi per se stessi - e non ne sono neanche cosi sicuro - ; ma essere saggi per gli altri è veramente diffi­ cile; essere saggi rispetto al futuro, poi, mi sembra impossi­ bile. Mi sembra chiaro che le nostre società hanno bisogno di un nutrimento meraviglioso. La decadenza - non so se momentanea o più duratura - della Chiesa cattolica ha la­ sciato un vuoto terribile che verrà necessariamente colmato in maniera positiva o negativa. Perché l’uomo non può fare a meno del meraviglioso; non può smettere di fantasticare; non può smettere di ricercare una giustificazione alla sua presenza sulla terra: state tranquilli che sinché ci saranno de­ gli uomini ci sarà domanda di beni preziosi, di idealismo. Chi fornirà questi beni preziosi? Spetta alla società e alla cul­ tura. Si tratta di dar credito o di non dar credito alla cultura.

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Non è una cosa facile. Sto lavorando sulla storia religiosa della Francia. Essa mostra che ogni volta che si ha una panne della religione, si ha anche una sostituzione. E si verificherà necessariamente una sostituzione. Ma l’uomo potrà vivere con una religione razionalista? E una tale impresa che dubi­ to del suo successo. Sono pessimista. La mia saggezza?! Co­ me potete ben vedere ha le gambe piuttosto corte. PAUL f a b r a Rispondo a mia volta alla domanda sull’ob­ solescenza dei modelli economici e le esigenze culturali del­ l’uomo. Sarebbe ora che i teorici dell’economia decidessero se nel modello economico debba essere prioritaria l’offerta oppure la domanda. Dalla fine del secolo xix l’economia contemporanea ritiene che sia la domanda. E cosi essa non dispone di alcuno strumento teorico per far fronte a quello che può esser ritenuto il peggior pericolo per l’economia (non m’importa qui se la si vuole chiamare «di mercato» o «capitalistica»). Pericolo che consiste nell’assoggettare alle leggi economiche e di mercato non solo l’insieme dell’attivi­ tà umana, ma anche l’intera personalità umana. Cosa che il linguaggio comune esprime dicendo: tutto si compra tutto si vende, basta stabilire un prezzo. E forse questo il vero e proprio scandalo dell’economia di mercato, e penso che il capitalismo susciti spesso una certa diffidenza perché in fon­ do ci autorizza a pensare: in questo sistema comandato dal danaro chi dispone di danaro può disporre di tutto. In un modello economico basato sulla domanda non c’è argine possibile contro questo abuso che diventa connaturato al ca­ pitalismo e all’economia di mercato. Se invece si basa l’economia sull’offerta, ossia sul lavoro dell’uomo, sullo sforzo dell’uomo, si arriva a una conclusio­ ne assai più costruttiva sia sul piano economico sia su quello politico-economico. La seguente: l’economia di mercato (o il capitalismo o entrambi, se si preferisce) riguardano unica­ mente ; prodotti del lavoro dell’uomo. Il che costituisce in­ tanto una limitazione del campo dell’economia di mercato alle merci, ai beni e ai servizi prodotti dal nostro lavoro, dal nostro lavoro, preciso, nel senso economico del termine; ma, soprattutto, lascia il dovuto spazio alla domanda culturale o morale. Ritengo pertanto che, se non si vuole accedere a una vi­

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sione troppo pessimistica del futuro, se non ci si vuole rap­ presentare l’economia politica come puro e semplice ostaco­ lo sul nostro cammino, si debba convenire che la vita econo­ mica, pur importantissima, è solo lo «stomaco», e che all’in­ terno della stessa teoria economica si possono trovare i mez­ zi per contrastare la sua pretesa di comandarci. fer n an d b r a u d el Grazie Paul Fabra. Lei ha risposto alla domanda assai meglio di me, ma desidero ugualmente aggiungere una cosa: se l’offerta aumenta, aumenta imme­ diatamente anche la domanda. La domanda è in grado di di­ vorare tutto; tanto che quello che ritengo più pericoloso nel nostro futuro è il momento in cui si avrà un’eccessiva offer­ ta di tempo libero. Il lavoro è stato una tale condanna per gli uomini! Il lavoro è un modo cosi efficace di dimenticarsi della sorte e del destino dell’uomo, che mi chiedo che cosa succederà il giorno in cui non si avrà più questo riparo, il giorno in cui si avrà troppo tempo libero a disposizione. Si è avviata una politica culturale del tempo libero che non rie­ sco a veder bene dove ci porterà. Ho paura delle culture pre­ fabbricate. E un problema appassionante che meriterebbe di essere trattato molto più a lungo. PAUL f a b r a C ’è un’altra domanda per Fernand Brau­ del: «Quando lei afferma: “il capitalismo è una sovrastruttu­ ra” , intende sovrastruttura nell’accezione marxista del ter­ mine? » fern an d br a u d el Per me il termine «struttura», si ca­ ratterizzi poi come sovrastruttura o infrastruttura, designa realtà sociali, economiche e culturali di lunga durata. La re­ ligione, per esempio, è un fenomeno di lunga durata. Il mio disaccordo con Marx sta nel fatto che egli disprezza un po’ le sovrastrutture, nel senso che ciò che si trova in basso è in qualche modo il buon diritto, la morale buona; mentre ciò che si trova in alto è l’aspetto criticabile. Per quanto mi ri­ guarda non connoto cosi l’alto e il basso, bensì li accetto en­ trambi. im m a n u e l w a l l e r s t e in Lei non considera la struttura dal punto di vista marxista. Secondo Marx l’infrastruttura esercita un controllo sulla sovrastruttura, mentre per lei la sovrastruttura esercita una specie di dominio. Insomma si ha l’impiego dello stesso termine ma non nello stesso senso.

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fer n an d br a u d el Per me, un fenomeno strutturale è un fenomeno durevole; cosa che non ha nulla a che fare con lo strutturalismo di Levi-Strauss né di alcuni sociologi e filo­ sofi francesi. Ho qui davanti agl’occhi un paio di domande del pubbli­ co che trovo molto intelligenti e anche divertenti. Ecco la prima: «Davanti al capitalismo che è fenomeno di minoranza (sono stato io a dirlo) e gode di libertà di scelta (sono stato io a dirlo); davanti alla disuguaglianza economica (ancora una volta sono stato io a prospettarla) che bisogna accettare per­ ché da sempre vi è disuguaglianza sociale a causa dell’anima­ lità sociale dell’uomo (se ho utilizzato questo termine è pro­ prio terribile!), bisogna rassegnarsi? Proprio alla luce di que­ sto tipo di analisi, mi sembra che Io storico dovrebbe impe­ gnarsi concretamente, andando al di là della semplice pro­ posta di verificare la correttezza della propria riflessione teorica». È vero, in tutta la mia vita mi sono impegnato politicamente non più d’un paio di volte. La riflessione storica è fra­ gile, spesso inapplicabile al presente, che le resta in qualche modo estraneo. Ma per farmi perdonare confesso di aver sempre nutrito un’enorme ammirazione per Jean-Paul Sar­ tre. Non dico certo di concordare con lui al cento per cento, e quando ho analizzato un po’ più da vicino il suo pensiero mi sono convinto che era spesso lui ad aver torto e non io; ma ho sempre ammirato il suo continuo impegno. Io non ho fatto altrettanto e lo confesso come una manchevolezza. Rispondo adesso all’altra domanda: «La memoria del no­ stro vissuto storico (espressione molto alla moda) condiziona (i buoni vecchi maestri direbbero che “condizionare” è ter­ mine straniero) il nostro divenire?» Sfortunatamente si. Ma che cosa s’intende per divenire personale, divenire di una società o divenire di un paese? Nel caso d’un gruppo umano sufficientemente consistente, nonostante la volontà, nonostante i tentativi, nonostante il desiderio di operare per il meglio, nonostante i progetti di riforma, nonostante le esplosioni rivoluzionarie, avviene un po’ come per una zattera sospinta dalla corrente di un fiu­ me. Un fiume che non scorre molto velocemente. Infatti se

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scorresse molto velocemente ci saremmo già accorti da tem­ po della realtà di una storia sottostante. Ma non ce ne siamo accorti perché la velocità è pressoché impercettibile. Pertan­ to io sono su una posizione che non riconosce grande libertà agli uomini e - cosa che mi fa molto dispiacere - tanto nei concetti e nelle teorie che elaboro, quanto nelle mie rifles­ sioni quotidiane, la libertà degli uomini mi sembra sempre più limitata. Purtroppo ho una gran paura di non sbagliarmi.

20 ottobre: la Francia

Femand Braudele la storia della Francia. Al b e r t d u r o y Diamo inizio alla terza giornata Fernand Braudel. Giornata che sarà un po’ diversa dalle prece­ denti. Fernand Braudel ha pubblicato le sue opere dedicate al Mediterraneo e al capitalismo ma non ancora quella dedi­ cata alla Francia, di cui attendiamo, come un avvenimen­ to, l’imminente pubblicazione del primo volume. Fernand Braudel mi ha gentilmente concesso di leggere le pagine in­ troduttive del suo manoscritto. Desidero citarvene alcuni brani, e in particolare la primissima frase, quella che apre il volume:

Voglio dirlo una volta per tutte: amo la Francia con la stessa passione, esigente e complessa, di Jules Michelet: ac­ cettando le sue virtù e i suoi difetti, ciò che mi piace di più e ciò che mi piace di meno. Questa frase mi sembra una specie di confessione che per lei la Francia non è un argomento qualunque; cosa che desi­ dererei ci chiarisse meglio. La sua passione per la Francia non è stata tardiva - e, contrariamente a quanto ha affer­ mato ieri, lei si è «impegnato» nei momenti decisivi - , ma, per cosi dire, le si è presentata tardi l’occasione di scrivere sull’oggetto della sua passione. Forse per timidezza; o per pudore? Oppure per scarso interesse verso uno spazio rite­ nuto troppo angusto? Dopo la frase citata, il manoscritto prosegue: Ma questa passione non si manifesterà nelle pagine di quest’opera... Lo storico deve condannare la propria persona a una specie di silenzio...

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Le chiedo allora, se scrivendo questa storia dell’oggetto della sua passione, le sia riuscito di osservare questo genere di silenzio a proposito di ogni tematica, di ogni epoca, di ogni luogo, di ogni personaggio? E le chiedo anche se in al­ cuni casi le sia stato particolarmente difficile osservare que­ sto silenzio. Vorrei ora citare un’altra affermazione in cui lei precisa la natura di questo silenzio: Bisogna liberarsi dalle passioni legate al nostro modo di essere, alla nostra collocazione sociale, alle nostre particolari esperienze, ai nostri moti d’indignazione e alle nostre infa­ tuazioni, alle nostre mediazioni personali, al nostro modo di vivere, alle molteplici interferenze della nostra epoca... Sono stato molto colpito da queste parole perché vi ravvi­ so, a costo di sembrare immodesto, una corrispondenza tra il « travaglio » dello storico e quello del giornalista per attin­ gere l’obiettività o, se non altro, praticare l’onestà. Infatti, se è vero che il primo è legato a un tempo brevissimo, evene­ menziale, mentre il secondo è interessato alla storia pro­ fonda; è anche vero che, in fin dei conti, noi giornalisti, e voi storici, miriamo allo stesso genere di obiettività. La mia prima domanda è semplicissima: che cos’è la Francia per lei? fern an d b r a u d el E proprio una domanda cui non so rispondere. Bisogna evitare le definizioni; almeno secondo il mio modo di vedere. La definizione è una specie di sacri­ ficio della propria persona. Ho discusso a lungo con un gran­ dissimo economista, François Perroux. Per abitudine defi­ nisce per prima cosa il significato delle parole e i termini del problema esattamente come un teologo. E io non mi stanca­ vo di ripetergli, per altro invano, che definire in questo mo­ do precisissimo significa strozzare la discussione. Come si fa a discutere una volta che tutto è definito? Per quanto mi ri­ guarda mi sono vietato di arrivare a una definizione della Francia prima di averne completato il periplo. Il primo volu­ me della mia opera s’intitola L'identità cIella Francia. Ma l’i­ dentità della Francia sarò in grado di definirla solo dopo aver scritto l’ultima pagina del libro. Al b e r t d u ROY Lei scrive una Storia della Francia e non una storia dei Francesi.

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fer n a n d b r a u d e l C ’è anche chi ha scritto la storia dei Francesi con intenti piuttosto maliziosi. Potrei citarne qual­ che esempio, ma non voglio tirare in ballo delle persone che avrei quasi potuto conoscere, che comunque sono morte e non possono replicare. C ’è anche una Storia dei Francesi che non mi piace affatto, una storia molto reazionaria che strat­ tona la Francia a destra e a manca, per cosi dire; ma direi piuttosto a destra... Al b e r t d u r o y Per quali motivi ha scelto di scrivere una Storia della Francia? fernand brau d el E una faccenda piuttosto intricata dove i buoni motivi si mescolano ai cattivi. Un motivo addi­ rittura ottimo è il seguente: ho trascorso gran parte della mia vita fuori della Francia. Sono stato in Nordafrica, in Sudamerica, in Italia, in Spagna e in Germania per lunghi an­ ni. E adesso che sono giunto alla conclusione della mia esi­ stenza ho un po’ la sensazione di non essermi comportato del tutto lealmente nei confronti del mio paese. Tanto che per cattiva coscienza, per saldare questa specie di debito mi sono buttato a capofitto nella Storia della Francia. C ’è poi un altro motivo: meno buono ma più profondo. Negli ultimi due anni d’insegnamento al Collège de France cominciai a parlare della Francia. Sino ad allora ero stato un professore discreto, voglio dire con un uditorio interessato ma assai meno numeroso di quello che mi sta davanti in que­ sto momento. Sennonché, non appena cominciai a parlare della storia della Francia mi trovai davanti aule sovraffolla­ te. Sono andato in pensione nel 1972, e poiché non posso vivere senza lavorare, ho cominciato a mettere per scritto quella Storia della Francia di cui avevo cominciato a parlare. Dunque c’è anche un ottimo motivo: il mio bisogno dijavorare. Non si tratta di una scelta cosi razionale; semplicemen­ te ho bisogno di cominciare la mia giornata molto presto e di finirla molto tardi. C ’è poi un ultimo motivo che costituisce un po’ la mia giustificazione. La mia concezione storiografica si concretiz­ za in quella che si è soliti chiamare «la nuova storia», forse per distinguerla dalla «nuova, nuova storia», visto che i miei allievi s’ispirano ad una concezione diversa dalla mia. E cosi ho voluto applicare i principi fondamentali e le ragioni di

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fondo di questa «nuova storia» - una nuova storia per altro piuttosto antica - a un esempio che ne facilitasse la com­ prensione. Forse è piti facile parlare di «nuova storia» in ri­ ferimento al capitalismo o al Mediterraneo che non alla Francia, ma con minori possibilità di farsi capire direttamente. Inserendo la Francia nella lunga durata scombussolo il lettore che si trova obbligato a reagire e quindi a fare uno sforzo di comprensione. A l b e r t d u ROY Lei ha passato una discreta parte della sua vita a scombussolare le persone e le idee invalse. Le sem­ bra che i trentenni, quarantenni, cinquantenni del giorno d’oggi continuino sulla stessa linea? fern an d br a u d el Vi sono sempre dei conflitti genera­ zionali. Io appartengo a una generazione più vecchia di quel­ la strettamente corrispondente alla mia data di nascita. So­ no stato contemporaneo di Lucien Febvre e Marc Bloch. Ne deriva che tra me e quelli che potrei chiamare i miei «disce­ poli », i miei successori, c’è un profondo, profondissimo ia­ to, tanto che la «nuova, nuova storia» è assai diversa dalla mia. Ma è ovvio che le auguro un grandissimo successo. La mia concezione storiografica, quella che applico alla Francia, rimanda a una storia di tipo globale, ossia una sto­ ria arricchita dal contributo di tutte le scienze umane. Non si tratta dunque di scegliersene una e di sposarsela, bensì di vivere in concubinato con tutte le scienze umane. Non pos­ so certo aver scritto una storia globale della Francia; tutta­ via l’ho tentato. I miei successori sono più ragionevoli e si applicano prima di tutto alla storia delle mentalità: una sto­ riografia che trova i suoi brillantissimi esponenti in storici più giovani di me di venti, trenta e quarant’anni. Al b e r t d u r o y Nelle prime pagine della Storia della Francia lei parla di nascita dell’unità a partire dalla nascita delle ferrovie e della generalizzazione della scuola elementa­ re. Come lei stesso avverte, si tratta di una posizione che può non piacere; d’altra parte lei sostiene che non è possibi­ le far nascere l’unità francese - con Giovanna d’Arco né con la Rivoluzione francese. fer n a n d b r a u d e l Dico in tutta sincerità che credo di aver ragione. Forse avrei dovuto essere un po’ più indulgen­ te con Giovanna d’Arco, visto che è lorenese come me.

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Quando riesco a prestar fede a tutto ciò che è stato scritto sul suo personaggio arrivo persino a provare un grande affet­ to per lei. Tuttavia non credo che la Francia, voglio dire una Francia unita e coesa, esista già alla conclusione del regno di Carlo V II. E solo Dio può sapere quali profondi sentimenti mi leghino alla Rivoluzione francese: ho del resto comincia­ to la mia vita di storico con uno studio sulla Rivoluzione francese che, in quegl’anni, suscitava l’interesse di molti sto­ rici. Tuttavia, nonostante i rivolgimenti, le fratture e le no­ vità che ha comportato non credo che la Francia abbia rea­ lizzato sin da allora una vera e propria coesione. Al b e r t d u r o y Tuttavia lei oggi critica l’atteggiamento di devozione nei confronti della Rivoluzione francese! fer n an d b r a u d el Quand’ero giovane la Rivoluzione francese era un po’ un campo di battaglia e intorno ad essa si svolgeva un conflitto di fondo. C ’erano «combattenti» da una parte e dall’altra. Lavorare sulla Rivoluzione francese si­ gnificava impegnarsi a favore di una certa concezione della Francia. Era un impegno di tipo politico e culturale. Ma oggi mi sembra che tutto ciò sia tramontato. Quanto più ci allon­ taniamo dalla Rivoluzione tanto più si esaurisce la sua capa­ cità di influire, il suo valore emblematico, la sua stessa eco. Al b e r t d u r o y Per qual motivo le ferrovie hanno potu­ to realizzare quell’impresa che non fu possibile a Giovanna d’Arco? fern an d br au d el Da una parte Giovanna d’Arco, os­ sia l’intera poesia della tradizione francese; dall’altra le fer­ rovie! Questa vittoria della prosa mi lascia nonostante tutto la bocca amara! Il libro di Eugene Weber, tradotto in fran­ cese col titolo La fin des terroirs, è un libro che mi piace mol­ to. Rende l’idea di una certa Francia, la Francia meridionale dell’inizio secolo: ci si rende conto che non è ancora stata veramente incorporata nella Francia. La Francia acquista coesione, si fa vieppiù coesa, con la riduzione degli spazi, delle distanze. Al f r e d d u r o y Che ruolo ha avuto lo Stato, in positivo e in negativo, rispetto a questo processo di coesione? fern an d br a u d el II ruolo dello Stato è sempre terribi­ le. E una realtà che si può toccare con mano. La monarchia francese ha conquistato province diverse e le ha appiccicate

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le une alle altre, talvolta con violenza e cecità. La Rivoluzio­ ne francese è pur sempre la Repubblica una e indivisibile. Quando si parla di decentramento mi vien voglia di dire: «Io sono per la Francia una e indivisibile». Significa porre malamente la questione... Al b e r t d u r o y Lei pensa che il decentramento vada in direzione opposta di questa Francia una e indivisibile? fer n an d br a u d el E una faccenda molto complicata! Il decentramento mi piace ma nello stesso tempo mi fa paura. Mi sembra che arrivi al momento sbagliato e che incontrerà molte difficoltà. Il governo centrale è attualmente dieci vol­ te, cento volte più forte che all’epoca di Napoleone, mille volte più forte che all’epoca di Luigi X IV , e allora come si può pretendere di decentralizzare? Al b e r t d u r o y Nel suo libro scrive: « La casa può sem­ pre prender fuoco». Intende alludere alle differenze che po­ trebbero trascinare i Francesi in una specie di guerra civile permanente? fern an d b r a u d el Proprio cosi; anche se in pratica non c’è paese dove non vi sia pericolo d’incendio. Un paese vita­ le è un paese diviso. Non vi sarebbe unità francese senza le sottostanti divisioni. Al b e r t d u r o y Mi stupisce che lei attribuisca un ruolo talmente positivo allo Stato da farne non solo un fattore di unità ma anche di uniformità. fern an d br a u d el Unità... Uniformità... come vede so­ no due parole che hanno qualcosa in comune. Al b e r t d u ROY Ma la seconda ha una connotazione ne­ gativa. Le piacerebbe una Francia caratterizzata dall’unifor­ mità? fer n a n d b r a u d el Non mi piace lo Stato com’è oggi, lo subisco. Mi sembra una mostruosità che lo Stato soffochi a tal punto la società francese. La cosa peggiore è la mancanza di libertà. Non so prevedere il futuro della Francia. Dubito che lo Stato possa fare marcia indietro. Forse potrebbe an­ cora far marcia indietro se dipendesse solo da lui; ma ci sono troppi Francesi che s’adoprano ad amplificarlo. Desidererei che lo Stato si concentrasse nella realizzazione delle sue fun­ zioni specifiche e per il resto ci lasciasse vivere in santa pa­ ce. Morte al fiscalismo!

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Al b e r t d u r o y Poco fa lei ha accennato alla storia delle mentalità. Ritiene che la mentalità dei Francesi consentirà di limitare in futuro il ruolo dello Stato? Si sente spesso ri­ petere che i Francesi hanno ormai il gusto dell’assistenza. fern an d br au d el Non ne sono cosi sicuro. E lo Stato che ci ha asserviti, che ci ha piegati a certe forme di obbe­ dienza. Al b e r t d u r o y Ma questo asservimento può sollevare dalle responsabilità; eliminare il rischio, soprattutto. fern an d br a u d el Temo che questa forma di sicurezza che sta estendendosi all’intera società francese presenti più svantaggi che vantaggi. Certo, dei vantaggi per i poveri e per chi non è riuscito nella vita. D ’altra parte sono convinto che senza Sécurité Sociale la Francia avrebbe conosciuto un profondo rivolgimento sociale dopo il 1945. Insomma, si è evitata una rivoluzione, forse buona, forse cattiva! ALBERT DU ROY La disputa attuale, o meglio il dibattito teorico che si ha attualmente sul liberalismo e la ridefinizio­ ne del ruolo dello Stato, non potrebbe sfociare in una sorta di sfilacciamento dei legami tra Stato e società? fern an d br au d el Lei conosce la situazione attuale as­ sai meglio di me. Il liberalismo è tutta una scena! Ci si pro­ mette il liberalismo. Poi, quando con tutta probabilità il go­ verno della Francia sarà cambiato, il liberalismo continuerà a troneggiare nei discorsi, ma non si realizzerà nella pratica. Il mio timore è che lo Stato non possa più fare marcia indie­ tro. Chi potrebbe prenderne il posto? Si è ormai infognato in tali spese... Si è infognato in una cosa orripilante: la na­ zionalizzazione delle grandi imprese. È una cosa di cui non mi sento corresponsabile: ho fatto il possibile per denunciar­ la come una pessima soluzione, non tanto sul piano teorico ma sul piano strettamente pratico. Conosco sufficientemen­ te bene l’Italia per sapere che le nazionalizzazioni vi sono state avviate dal fascismo. E voglio qui affermarlo in tono dimesso, senza alzar la voce perché non voglio in alcun mo­ do suscitare l’applauso, che si è trattato di un errore clamo­ roso commesso dall'Italia. Lo Stato non doveva nazionaliz­ zare e invece è proprio quello che ha fatto. Al b e r t d u r o y So che non bisogna mai estrapolare una frase dal contesto, tuttavia, nel suo libro di prossima pubbli­

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cazione, si può leggere: «La nazione può esistere unicamen­ te in netta contrapposizione a qualcos’altro». Debbo con­ cluderne che lei è un nazionalista? fer n a n d b r a u d el Come posso cavarmela? Risponden­ dole si e no. Ma le rispondo di si. Ho avuto tutti i vantaggi e gli svantaggi di appartenere a una determinata regione del­ la Francia, e di appartenervi profondamente. Se ¡’Università fosse stata cortese nei miei confronti, nel 1923 sarei stato nominato professore al liceo di Bar-le-Duc e vi avrei trascor­ so l’intera vita. Insomma sono un uomo dell’est. Il Barrois non è precisamente Lorena, ma è già quasi Lorena. Noi Lorenesi siamo una popolazione Francese annessa tardivamen­ te alla Francia: nel 1766, neanche tantissimo tempo fa. Solo che invece di aver la Francia davanti o intorno a noi, l’ab­ biamo dietro di noi. Siamo per cosi dire addossati alla Fran­ cia. E sembra una cosa proprio strana: Lucien Febvre in Franca-Contea, Marc Bloch in Alsazia, io in Lorena... Un raggruppamento piuttosto curioso... E siamo là per vegliare con lo sguardo rivolto verso l’Europa centrale. Siamo là per vegliare alla sicurezza e alla salvaguardia della Francia. Sia­ mo dei Francesi di tipo molto particolare. Credo di essermi abbastanza liberato dalla mentalità della mia infanzia, ma non ho la pretesa di essermene liberato completamente. Non mi ritengo nazionalista. Ho vissuto a lungo all’estero e son diventato Italiano di cuore, Spagnolo per passionalità e, prima del 1939, amai perdutamente la Germania; poi son diventato Brasiliano al cento per cento. Insomma, poco a poco, quasi inconsapevolmente, ho perso il mio nazionali­ smo francese. Lo sono stato; ma non sono più un naziona­ lista... Al b e r t d u r o y Tutto ciò rimanda alla domanda che vo­ levo porle. Nella sua opera di prossima pubblicazione intito­ lata L'identità della Francia lei parla del «trionfo clamoroso del plurale, dell’eterogeneo». E lo ha or ora dimostrato; dal­ le sue parole risulta infatti che lei è diventata una personali­ tà cosmopolita. Un paese si arricchisce, oppure è un sintomo pericoloso se diventa multiculturale? fer n an d br a u d el «Multiculturale»: dipende un po’ dal significato che si attribuisce a questa parola. Se vuol dire che ci sono più culture che dialogano e scambiano, allora il

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multiculturale mi va bene. Se invece vuol dire che una cultu­ ra parte in tutte le direzioni per soddisfare le esigenze più disparate, allora sono contrario. Al b e r t d u r o y Preciserei un attimo su questo punto oggi molto dibattuto, tanto più che gli storici, pur essendo rivolti al passato, possono benissimo interessarsi del presen­ te. Voglio qui alludere al dibattito in corso sulla presenza degli immigrati in Francia. Costituiscono un arricchimento o una minaccia? fer n an d b r a u d el Sono favorevole all’immigrazione. La Francia si è costruita con le immigrazioni, sia in senso fi­ sico sia culturale. La fioritura della Francia sarebbe impen­ sabile senza la sua apertura al mondo e in particolare all’Eu­ ropa. La grandeur intellettuale della Francia è una grandeur europea. Per fare un esempio, dico che l’aver aperto il cuore e le braccia all’intellettualità polacca è stata una grande vittoria della Francia dopo il 1945. L ’istituzione di cui faccio parte, l’Ecole des Hautes Etudes - alla quale debbo molto e cui credo anche di aver dato qualcosa - ha accolto più di mille borsisti polacchi tra il 1958 e il 1980. Abbiamo nuovamente insegnato il francese all’intera élite polacca, tanto che in Po­ lonia si discutono delle tesi di laurea in francese. C ’è stato un periodo in cui quasi tutti i matematici del Collège de France erano polacchi. Mi sembra una cosa piuttosto straor­ dinaria. Ho creato la Maison des Sciences de l’Homme con un signore nato a Vienna che aveva studiato negli Stati Uni­ ti, e ho avuto per collaboratore un altro signore di origine fiorentina. Si possono fare delle belle cose con chi è nato al di fuori dei confini della Francia. Al b e r t d u r o y Ma oggi non si tratta di aprire all’Euro­ pa, bensì al Mediterraneo, all’Africa. fern an d b r a u d el Ma si sono ottenuti dei notevolissi­ mi successi anche nel caso dell’immigrazione nordafricana e in particolare algerina. L ’Algeria è rimasta legata alla lingua francese ed offre delle possibilità addirittura favolose alla Francia. Ma la Francia sembra non rendersene conto; forse non è disposta a sostenere le spese. Basta pensare che ci so­ no scrittori Algerini e Nordafricani di grandissimo talento che si esprimono in francese.

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Ma ritorniamo alla sua domanda. Ho vissuto a lungo in Nordafrica e provo una simpatia immediata per i taxisti pa­ rigini e gli intellettuali algerini, marocchini e tunisini: tutta gente che a mio avviso dà molto alla Francia. Ma non accet­ to che ci siano degli Algerini nati in Francia che rifiutano di prestare servizio militare pur rivendicando tutti i diritti dei cittadini francesi: lo trovo un modo piuttosto strano di inte­ grarsi e mi irrita profondamente. Che in Francia ci siano dei musulmani mi va benissimo, è appena ovvio; ma non posso sopportare gli integralisti. Mi spiego meglio: il mio timore è che ci siano degli immigrati che richiedano un processo di assimilazione della durata di cinquanta, sessanta, magari cent’anni. Al b e r t d u r o y Ma per costoro assimilazione non signi­ ficherebbe abbandono della loro cultura? fer n an d br au d el Sì e no. Perché non si tratta tanto di cultura, quanto di civiltà, di radici profonde, ossia della loro religione e del diritto civile basato su questa religione; di un diritto civile, insomma, che può contrastare con quello fran­ cese. Temo l’insorgere d’improvvise guerre di religione: non ne abbiamo affatto bisogno. Al b e r t d u r o y Un’ultima domanda. Lei ha scritto: «Non credo né alla parola né al concetto di decadenza...» fer n a n d b r a u d e l G li storici sono dei registi. Si può drammatizzare il passato e non c’è niente di male. Ma la de­ cadenza è un espediente ormai scontato. C ’è la decadenza di Venezia, la decadenza dell’Europa, la decadenza della Spa­ gna, insomma ogni genere di decadenza. Alla decadenza del­ l’Europa, a quella della Francia, non credo proprio. Voglio essere uno storico al di sopra delle passioni, come del resto tutti gli storici. Non dovrei pertanto dirlo, ma lo dico con tutta sincerità: ho una certa nostalgia della grandeur della Francia. E una cosa irrazionale! Ho vissuto in Nordafrica e sono stato benissimo. In America latina - allora ero appena trentenne - riempivo i teatri di San Paolo con le mie confe­ renze. L ’effetto alone che il generale De Gaulle continua a suscitare è appunto connesso alla grandeur della Francia oggi tramontata. Il generale De Gaulle ci ha regalato, per cosi di­ re, alcuni anni d’illusione. Cosi non ci siamo accorti subito

LA FRANCIA che la Francia non era più il centro del mondo. Ma non esse­ re più il centro del mondo non significa decadenza. Al b e r t d u r o y Diamo ora la parola ai relatori. Jean Guilaine ci riporta al v millennio a. C. per parlarci dei primi contadini che hanno dissodato la terra francese.

Iprim i contadini della Francia. JEAN g u i l a i n e Diciamo prima di tutto che si assiste a una duplice transizione al Neolitico. E grosso modo nel cor­ so del v millennio a. C. che, sul territorio che costituirà più tardi la Francia, fa la sua comparsa l’economia di produzio­ ne: colture cerealicole, allevamento di ovini, caprini, bovini, suini. Si tratta di animali e piante di origine allogena, ma quello che ci interessa sono le particolari condizioni in cui si realizza l’adattamento delle tecniche di allevamento e agri­ cole al futuro territorio francese. Ed è appunto sotto questo aspetto che si configurano due casi nettamente diversi. Nel sud del paese, in Provenza, in Linguadoca e nelle zo­ ne periferiche, l’introduzione dell’agricoltura cerealicola e dell’allevamento fu favorita dai contatti per via marittima con gruppi dell’area del Tirreno già passati al Neolitico. Si tratta insomma di un fenomeno di acculturazione. Nei diversi habitat non si ha drastica rottura con l’epoca prece­ dente per quanto riguarda i siti. Per un certo periodo l’agri­ coltura convive con la caccia. L ’allevamento degli ovini e dei caprini diventa ben presto considerevole. Nell’est della Francia e nella zona del Bacino parigino la configurazione è radicalmente diversa. Non appena entra in gioco, l’economia agricola «sfonda» decisamente sull’onda di un fenomeno di colonizzazione che trae origine dall’Eu­ ropa centrale ed è caratterizzato da modalità standardizzate: coltura di amidacee e dell’orzo, allevamento basato preva­ lentemente sui bovini, costruzione di grandi case di legno dello stesso tipo, dalla Cecoslovacchia al Bacino parigino. Il centro e l’ovest della Francia sono progressivamente conquistati secondo due direttrici provenienti da queste due zone geografiche, di modo che, intorno al 4000 a. C., agri­

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coltura e allevamento sono praticati sull’insieme del futuro territorio francese. Da questo momento in poi, ossia dal 4000-3500 a. C., emergono le prime tendenze all’uniformità che porteranno, entro certi limiti, alla omogeneizzazione dell’intero territo­ rio che costituirà la Francia. In che modo? Con la comparsa di località piuttosto estese sintomo di accresciuta sedentarizzazione. Queste località hanno dimen­ sioni spesso considerevoli in rapporto all’epoca. Nel Bacino parigino esse sono anche dell’ordine di 20 ha, e possono rag­ giungere 30 ha nella valle della Garonna, per esempio. Inoltre, questi agglomerati sono spesso delimitati da fos­ sati, palizzate, terrapieni. Queste grandi località scompariranno peraltro nel corso del iv e in millennio e ancora del 11, per ricostituirsi molto più tardi, nell’età del ferro, ossia nel corso del 1 millennio. Un’altra tendenza all’uniformità è data dalla conquista di nuove porzioni di territorio rispetto alla prima ondata agri­ cola, cosa che si concretizza in una maggiore diversificazio­ ne dell’habitat con l’occupazione di tavolati e speroni. Non v ’è infatti dubbio che l’agricoltura preistorica sia stata inizialmente molto selettiva per quanto riguarda i ter­ reni da mettere a coltura; privilegiando determinate terraz­ ze alluvionali di loess e di terre leggere facili da lavorare. Questi dissodamenti erano attuati disboscando e deb­ biando, dopo di che il terreno veniva preparato con la zap­ pa. Si ritiene che questo procedimento abbia causato un ra­ pido impoverimento del terreno, donde la necessità di ricor­ rere spesso a nuovi terreni e di praticare un’agricoltura cicli­ ca. In linea generale si pensa che nel corso del Neolitico, os­ sia in tremila anni di storia, si sia passati da un’agricoltura rotativa in ambiente forestale ad un’agricoltura più stabiliz­ zata, con brevi periodi a maggese, anche in conseguenza del­ la pressione demografica. Per quanto riguarda la forma dei campi primitivi, la palinologia rivela talvolta, sin dall’inizio del Neolitico, la pre­ senza di associazioni vegetali caratteristiche di siepi ed arbu­ sti, il che fa pensare alla sistemazione di siepi con la funzio­ ne di delimitare campi e zone contadine; insomma ad un

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paesaggio molto segnato dall’uomo, se non altro nel caso delle aree dissodate. Bisogna peraltro aggiungere che l’ara­ tro semplice compare solo nel ni millennio, ossia dopo due­ mila anni che si lavora con la zappa. Debbo inoltre far presente, per quanto riguarda l’alleva­ mento, che ovini, caprini, bovini e suini venivano allevati sostanzialmente per la carne; ma che molto presto i buoi, per esempio, furono utilizzati come animali da tiro per ripu­ lire i campi e trascinare gli alberi necessari alle costruzioni. Il cavallo, che fu addomesticato nel corso del rv millennio nelle steppe dell’Europa orientale, fa la sua comparsa in Oc­ cidente nel in millennio quale animale da tiro, contempora­ neamente, per altro, alla ruota e ai primi carretti. E anche degno di interesse che, a partire dal iv millennio, si verifichi l’ampliamento degli orizzonti e la realizzazione dei primi circuiti commerciali. E probabile che nel Neolitico vigesse l’autarchia per quanto riguarda la produzione ali­ mentare. Si può invece constatare che i materiali necessari ad approntare determinati utensili giungevano spesso da molto lontano, sicché doveva già esistere tra le varie comu­ nità una certa qual interdipendenza. Infatti assistiamo alla realizzazione di veri e propri circui­ ti di distribuzione per quanto concerne le pietre necessarie alla fabbricazione di utensili di uso quotidiano; circuiti che talvolta abbracciano distanze dell’ordine di un migliaio di chilometri. Si tratta di un movimento che, evidentemente, s’intensificherà in maniera notevole nell’Età del bronzo, con la circolazione di materiali grezzi quali rame, stagno e ambra; ma anche di prodotti finiti quali armi e utensili. Le società del Neolitico o della protostoria, erano eguali­ tarie o di tipo gerarchico? L ’unico strumento di cui disponiamo per cercar di rispon­ dere a questa domanda è l’analisi dei sepolcri che, si può pensare, dovevano riflettere in qualche modo lo status socia­ le. Che cosa ne possiamo trarre? Prima di tutto che le tombe dell’inizio del Neolitico, sia­ no semplici fosse o casse, non rimandano a una gerarchia ben definibile. Le nostre regioni, però, dalla Vandea alla Bretagna, alla Normandia, acquisiscono rapidamente dei ca­ ratteri originali con la costruzione di grandi tombe megaliti­

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che di dimensioni spettacolari. Nelle tombe più antiche, quelle del iv millennio, il numero degli individui inumati è limitato e ciascuno sembra occupare un posto ben determi­ nato. Probabilmente ciò non escludeva una certa selezione, dato che la tomba megalitica poteva esser riservata a deter­ minati componenti della società. In seguito, invece, le tom­ be dolmeniche tenderanno a diventare dei veri e propri os­ sari. La costruzione dei megaliti ha del resto richiesto una con­ siderevole mobilitazione di individui ed energie realizzata da capi politici e/o religiosi, ancorché dotati di potere solo temporaneo. La piramidizzazione si accentuerà nel corso del m e n mil­ lennio, ossia nel corso dell’Età del rame e del bronzo, quan­ do capi e piccoli monarchi locali si fanno inumare, per esem­ pio in Bretagna, in enormi tumuli circondati da mobili pre­ ziosi, oggetti metallici e gioielli. Queste tombe del n millennio prefigurano i sepolcri a tu­ mulo dei notabili dell’Età del ferro: il sepolcro di Vix e al­ tre tombe della Borgogna e della Champagne ne sono un esempio. Domanda conclusiva: come si colloca la Francia in questo panorama? E esistita un’unità culturale del suo territorio dal Neolitico alla fine dell’Età del ferro? Dal punto di vista archeologico sarei tentato di risponde­ re negativamente: in quelle epoche esistettero unicamente delle aree culturali i cui confini, sempre fluttuanti, non cor­ rispondevano evidentemente alle frontiere naturali del no­ stro paese. Si può infatti parlare a mo’ d’esempio: di un’area del Mediterraneo occidentale che, estendendosi dall’Italia alla penisola Iberica, comprende il sud della Francia; di un’area atlantica, dal Portogallo alle isole britanniche; di un’area continentale che unisce l’est della Francia al mondo dell’Europa centrale. Quest’area continentale sarà caratte­ rizzata da un maggior dinamismo verso la fine della proto­ storia, istituendo il rito, prontamente generalizzato, dell’incenerimento e, in seguito, generando quegli elementi motori della società costituiti dalle élites hallstattiane e poi celtiche. Voglio concludere con una battuta avventurandomi in un campo, quello della Storia, che non è il mio. Esiste, all’epo­

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ca della conquista romana, una nazione francese ante litteram, ossia il sentimento di appartenenza a una stessa e vasta comunità? Credo di no; se non altro all’inizio delle ostilità. Come dimostrano piuttosto chiaramente le rivalità perma­ nenti tra popoli gallici, dalle quali Cesare seppe trar profitto con molta abilità. Ma d’altra parte, se si analizzano più nettamente le riva­ lità e le divisioni delle popolazioni galliche, si può forse sco­ prire che il gusto per il buon vino, caratteristico del tempe­ ramento francese, era già indubbiamente presente. Al b e r t d u r o y Ringrazio Jean Guilaine. Continuiamo la nostra esplorazione della Francia con un allievo di Marc Bloch e Lucien Febvre, il geografo Etienne Juillard, che considera la formazione della nazione francese in una pro­ spettiva geografica.

Dai «paesi» alla nazione francese. e t ie n n e ju il l a r d Lei è stato cosi gentile da inviarmi il manoscritto del terzo capitolo del libro sulla Francia che sta per pubblicare. Credo che lo abbia fatto per due motivi: perché è quello più direttamente geografico e perché pensa­ va che, in quanto geografo, avrei probabilmente eccepito sul suo contenuto. Si tratta infatti di un capitolo dal titolo in­ tenzionalmente provocatorio: «La geografia ha inventato la Francia?» In altre parole: l’identità della Francia deriva da un certo determinismo geografico? Nella mia ingenuità cre­ devo che il dibattito sul determinismo fosse stato chiuso una volta per tutte dalla condanna senza appello pronunciata dal nostro comune maestro Lucien Febvre nel 1922; condanna alla quale non ho mai smesso di ispirare il mio lavoro. Ma lei sembra in qualche modo voler riaprire questo dibat­ tito. La prego pertanto di scusarmi se continuo a considerarlo ormai concluso e di conseguenza non entrerò nel merito. fer n an d b r a u d el E cosi sicuro della sua posizione? e t ie n n e ju il l a r d Posso anche aver torto; ma da cin­ quantanni respiro aria di antideterminismo geografico. Credo inoltre di aver dimostrato coi miei scritti che la fac­ cenda poteva essere impostata diversamente.

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fer n a n d b r a u d e l Mi sembra che lei risolva il proble­ ma un po’ troppo sbrigativamente. Se non c’è determinismo geografico, dove va a finire la scienza geografica? e t ie n n e ju il l a r d E appunto quello che vorrei spiegare. Sono convinto che vi sia una considerazione di tipo geogra­ fico della realtà che consente di sottrarsi all’accusa di deter­ minismo. Se il contributo della geografia al problema dell’identità francese dovesse limitarsi a caratterizzare alcuni tratti della fisionomia del territorio, cui sarebbe per altro sempre possi­ bile negare valore di spiegazione, si tratterebbe davvero di un ben scarso contributo. Ma il geografo non si limita a stu­ diare lo spazio che si vede con gli occhi. C ’è un altro modo di prendere in considerazione il territorio, di ricercare la lo­ gica interna. Questo modo consiste nello scomporlo in unità funzionali, ossia in unità che acquistano identità unicamen­ te all’interno di un meccanismo funzionale. Si tratta insom­ ma, essenzialmente, di una gerarchia di zone d’influenza, di piccole e di grandi città, di città che vengono considerate in quanto organizzano un determinato territorio, che è appun­ to quello sul quale s’irradiano. E allora le domande che la geografia si pone diventano del tipo seguente:

- In quale quadro dimensionale la popolazione compie le operazioni che le sono essenziali? - Qual è la frequenza delle sue relazioni con un quadro più vasto? - Questa frequenza è sufficiente a suscitare un certo sentimento di appartenenza a questo quadro? Per rispondere a queste domande la geografia studia in particolare ogni genere di migrazioni della popolazione: mi­ grazioni per lavoro, migrazioni legate al commercio, migra­ zioni per studio, migrazioni matrimoniali - ovviamente non si tratta del viaggio di nozze, bensì di quando si parte alla ri­ cerca di un coniuge - , migrazioni occasionali, temporanee, definitive. Da questo studio, la geografia trae quelli che si possono chiamare gli orizzonti migratori delle diverse com­ ponenti della popolazione; ossia, in altre parole, l’orizzonte della loro esistenza, la loro immagine del mondo circostante.

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Ed è, appunto, rifacendomi a quest’altro modo di concepire la ricerca geografica, che vorrei mostrare come essa possa contribuire alla soluzione del problema relativo alla genesi della nazione francese. Insomma, si tratta di determinare da quale momento in poi l’insieme dei Francesi, ivi compresa quella che viene talvolta chiamata la Francia profonda, si so­ no sentiti membri di una stessa comunità. Dopo aver sentito le domande di Albert Du Roy e le ri­ sposte che lei gli ha dato, so già in partenza che finirò per ri­ badire alcuni suoi punti di vista, e anche che lo farò in ma­ niera enormemente più sbrigativa, impacciata e superficiale di quanto non abbia fatto lei. Voglio tuttavia tentare di illu­ strare quale può essere il contributo propriamente geografi­ co alla soluzione di questo problema. Inizio con una domanda molto semplice. Sarebbe possibi­ le identificare la Francia su una serie di cartine dell’Europa occidentale in cui non figurassero le frontiere politiche? Ov­ viamente no; per quanto si possano analizzare i rilievi, i cli­ mi, le densità della popolazione, la vita economica ecc. C ’è tuttavia un elemento fisionomico tipicamente francese: la configurazione della rete ferroviaria e di quella delle grandi strade. La Francia è infatti l’unica a presentare la ben nota tela di ragno già oggetto di tante descrizioni, che, tra l’altro, più che una tela è una stella, essendo pressoché unicamente composta da linee che si dipartono a raggiera dal punto in cui si trova la capitale. Tanto che si può dire che questo sia il contrassegno impresso sul territorio di uno Stato più cen­ tralizzato di quelli confinanti, e anche centralizzato assai presto, visto che la rete delle grandi strade reali ha comin­ ciato a configurarsi sin dal secolo xvi. Ma osserviamo più attentamente questa rete; partendo dalle prime cartine a grande scala, dalle più antiche, quella di Cassini della fine del secolo xvm, quella di Capitaine del­ l’inizio del secolo xix, e poi le prime edizioni della carti­ na militare 1 / 8 0 000 che risalgono all’incirca al decennio 1830-40. Ci accorgiamo cosi che le grandi radiali che si dipartono da Parigi si sovrappongono a un mosaico di piccole reti loca­ li, a loro volta «stellari», le cui ramificazioni, però, non pre­ sentano mai una lunghezza superiore alla ventina di chilo­

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metri. Queste reti avevano come centro le centinaia di città, circa quattrocento, di piccole e medie dimensioni che costel­ lavano la Francia dell’inizio del secolo xix. E questo è l’indi­ zio d’una realtà umana antichissima: quella dei «paesi», de­ rivati spesso dal pagus gallico, e altrettanto spesso caratteriz­ zati da un vecchio nome, paese di Caux, Thiérache, Gàtinais, Sologne... Con il loro capoluogo, dove ha sede il mer­ cato e, più tardi, la scuola, l’ospedale, essi costituiscono le cellule della vita regionale. Su questi « paesi » si modellarono i baliati e i siniscalcati dell’antica Francia. Quando poi nel 1790 s’istituirono le nuove circoscrizioni amministrative, i distretti ricalcarono perlopiù queste suddivisioni e, alcuni anni dopo, gli arrondissements hanno preso il posto dei distretti talvolta raggrup­ pandoli. Possiamo dunque dire, parlando un po’ all’ingrosso, che la maggior parte degli arrondissements del secolo xix (allora erano più numerosi di oggi) erano gli eredi degli anti­ chi «paesi». Ma questi arrondissements - ed è questo il pun­ to - nella prima metà del secolo xix erano ancora chiusi in se stessi. Né del resto avrebbe potuto essere diversamente. Infatti, la ventina di chilometri che misurava all’incirca il raggio del circondario di un capoluogo, corrispondevano già a due, tre, quattro ore di percorso, a seconda dello stato del­ le strade e dei sentieri, del rilievo, della stagione, del mezzo di locomozione. Cerchiamo ora di vedere come funzionano queste cellule di vita collettiva; com’è stato fatto recentemente a proposi­ to dell’Alsazia da un mio allievo, Roland Schwab, in una te­ si che ricostruisce quella che nella presentazione mi sono az­ zardato a definire ontogenesi di una regione. In questo lavo­ ro si dimostra come intorno al 1850, ad eccezione di pochi notabili, di alcuni funzionari dell’amministrazione e di qual­ che ambulante, la gran massa della popolazione compisse la quasi totalità delle operazioni quotidiane all’interno di que­ ste cellule: dal recarsi al mercato, a scuola, all’ospedale, sino alla ricerca di un coniuge e sino alla stessa diffusione del giornale che, perlopiù, era strettamente locale e letto da un’infima minoranza. Si può affermare che, intorno alla metà del secolo xix, buona parte del territorio francese era ancora caratterizzata

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dalla giustapposizione di questi ambienti ristretti che forma­ vano, com’è stato detto, un «reticolo» e che avevano all’incirca la stessa importanza. Solo nelle zone situate nelle vici­ nanze di Parigi o maggiormente industrializzate si era pro­ gressivamente organizzato un quadro dipartimentale. Per al­ tro, con la sua superficie media di 6000 kmq, il dipartimen­ to, creato con l’intento di ridimensionare le antiche pro­ vince frammentandole, restava di fatto ancor troppo esteso, tanto che un prefetto non poteva raggiungerne i punti più periferici in meno di sei otto ore. Raggiungere Parigi richie­ deva invece giorni di viaggio non appena ci si trovasse all’e­ sterno della sua zona d’influenza immediata. Tra i diparti­ menti e quella che era la capitale di uno Stato già marcatamente centralizzato c ’erano notevoli difficoltà di collega­ mento. Lo conferma la testimonianza di un osservatore par­ ticolarmente acuto quale Stendhal. Il suo Lucien Leuwen è di guarnigione a Nancy nel 1832. E constata che « tutti se ne impipano del Prefetto e del G e­ nerale. Sono ai margini, non contano nulla. E la nobiltà lo­ cale a dettar legge». Per contro, a Parigi, questa nobiltà on­ nipotente risulta del tutto sconosciuta. Rivolto al capo del partito orleanista, il dottor Du Poirier, Lucien Leuwen dice: «Ma, mio caro dottore, la sua nobiltà di provincia risulta del tutto sconosciuta a non più di trenta leghe dal paese di resi­ denza». «Cosa dice, signore [replica il dottore quasi indi­ gnato], anche Madame de Commercy, cugina dellTmperatrice d’Austria e discendente degli antichi sovrani di Lore­ na?» «Certamente, mio caro dottore, Parigi conosce la no­ biltà di provincia unicamente tramite i discorsi ridicoli dei trecento deputati di Monsieur de Villèle». Va precisato che il dottor Du Poirier «non aveva mai visto Parigi... E se la fi­ gurava popolata da atei scatenati come Diderot, da dissacra­ tori come Voltaire e da gesuiti potentissimi che facevano co­ struire dei seminari più grandi delle caserme». Non v ’è dubbio che la grande politica si faceva a Parigi; né che la provincia pagava le imposte e aveva i suoi deputa­ ti. Ma in questa situazione come si può parlare di nazione? Si può forse dire che la popolazione francese aveva il senti­ mento di appartenere a una comunità, che era animata da quel desiderio di vivere assieme di cui parla Renan? Evidente

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mente no. Non solo la popolazione rurale (circa l’8o per cen­ to del totale), ma anche i notabili delle città uscivano rara­ mente dal loro arrondissement o al massimo dal loro diparti­ mento; cosa spiegabilissima se si tien conto del tempo ri­ chiesto dagli spostamenti e del loro costo, degli ostacoli di ordine linguistico e religioso, dell’analfabetismo ancor mol­ to diffuso, della portata degli interessi locali, di tutto ciò che riusciva a vanificare gli sforzi dei prefetti, facendo dei «pae­ si» e delle antiche province altrettante piccole patrie locali con proprie abitudini di vita. E peraltro molto significativo che i movimenti regionalisti si siano sviluppati nel corso del secolo xix come se l’ampliamento degli orizzonti dell’esi­ stenza avesse portato a una presa di coscienza della comuni­ tà regionale prima che della comunità nazionale. Ma queste regioni erano tra loro diversissime, sicché quello che abbiamo detto è ancor troppo schematico. L ’ana­ lisi dal punto di vista geografico della strutturazione interna delle regioni denuncia infatti tempi molto diversi nel proces­ so di presa di coscienza regionale e nazionale: l’Ovest è iso­ lato sia verso l’esterno sia al suo stesso interno, in quanto estraneo al grande traffico economico e caratterizzato da un habitat disperso che ne ha a lungo ritardato l’unificazione linguistica e la partecipazione alla vita nazionale; il Nord, l’Alto Reno e Lione, invece, presentano degli orizzonti in­ dustriali più ampi delle regioni di appartenenza, con le loro borghesie pariginizzanti e le loro campagne urbanizzate; tra questi estremi vi sono poi molte altre situazioni diversifi­ cate... Ed è appunto su questo sostrato eterogeneo che intervie­ ne, alla fine del secolo xix, tutta quella serie di cambiamenti tecnologici, sociali, politici e culturali che faranno uscire, in maniera più o meno rapida, i vari dipartimenti dal loro iso­ lamento: le ferrovie, il servizio militare, il suffragio univer­ sale, la diffusione della stampa parigina, le emigrazioni per motivi di lavoro incentivate dai grandi lavori pubblici che si effettuano a Parigi e dalle industrie del Nord e dell’Est. Il cambiamento più decisivo è certamente quello verificatosi nei trasporti; non soltanto in seguito alla costruzione delle grandi linee di comunicazione, ma anche per l’allestimento, nel periodo della Terza Repubblica, di una fitta rete di pie-

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cole linee locali. Diventa cosi possibile coprire in un paio d’ore la distanza che separa una prefettura dai confini del relativo dipartimento: se nel 1840 occorrevano ancora tre giorni per recarsi da Marsiglia a Parigi, nel 1880 sono suffi­ cienti quindici ore. E la rete delle radiali di cinquecento chi­ lometri e oltre che si dipartono da Parigi ricalca, ma su scala nazionale, quella delle strade regionali di una ventina di chi­ lometri che si dipartono dalle piccole città. L ’orizzonte mi­ gratorio dei Francesi coincide ormai con l’intera Francia. Non sono solo più i giovani ambiziosi di Balzac e di Sten­ dhal ad abbandonare la provincia per andare a cercar fortu­ na a Parigi. La capitale attrae e trattiene, ormai, centinaia di migliaia di uomini e donne per motivi di lavoro. Nei primi tempi vi nascono delle specie di ghetti, quello dei Bretoni, degli Alverniati ecc. Ma già a partire dalla generazione seguente il grande cro­ giuolo parigino entra in funzione e al suo interno si fondono i particolarismi provinciali; tanto che Bretoni, Alverniati, Savoiardi e Corsi acquistano l’accento parigino e guardano con sufficienza alla «provincia», che immaginano nel suo complesso altrettanto sottosviluppata dei villaggi poverissi­ mi in cui abitano i loro nonni. Ma anche chi rimane nelle re­ gioni di appartenenza si modella poco a poco sullo stampo parigino. Si può dire che alla vigilia della prima guerra mon­ diale, pur non essendo stati cancellati tutti i caratteri origi­ nali delle province, gli abitanti del nostro paese si sentono nella grandissima maggioranza membri di una comunità per quanto riguarda il modo di vita e il tipo di civiltà. Questo processo di rimescolamento e uniformazione ha prodotto il «Francese» che nel 19 14 -18 difese il suolo della patria con la stessa determinazione con la quale suo nonno avrebbe di­ feso il proprio pezzo di terra. Questo quadro troppo rapido aveva il semplice scopo di indicare quale potrebbe essere lo specifico apporto del geo­ grafo al problema della genesi della nazione. Si tratta d ’un approccio molto terra terra, come del resto esige l’etimolo­ gia. Esso non si basa né su uno spazio astratto né su uno spa­ zio immutabile, ma sull’analisi delle strutture funzionali di questo spazio e delle interrelazioni che si istituiscono tra le sue parti in rapporto all’evoluzione dei contesti tecnologici,

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economici e politico-sociali. Pur nell’ambito dei diversi fat­ tori esplicativi che intervengono, si tratta di un elemento da non trascurare. Al b e r t d u r o y Grazie a Etienne Juillard. Karl Ferdi­ nand Werner, storico tedesco, tratterà un momento nodale della storia della formazione della Francia.

La «Francie». k a r l Fer d in a n d W e r n e r Mi sento nello stesso tempo svantaggiato e avvantaggiato: mi piace molto la lingua fran­ cese ma non la padroneggio completamente - si tratta in­ somma di un buon matrimonio ma, in compenso, non so­ no il primo a prendere la parola, sicché potrò rifarmi ad ar­ gomenti già trattati da altri. Mi è piaciuta molto la risposta di Fernand Braudel alla prima domanda di Albert Du Roy; risposta che potrebbe tradursi cosi: «La mia storia della Francia sarà la mia defini­ zione della Francia». Il che significa: la Francia non è una realtà data ma il portato della sua storia, e chi vuole ritrovar­ la tutta e subito rischia di non trovare la strada. Non c’è una Francia bell’e fatta ma molte pre-France. La mia seconda osservazione concerne la geografia e, sen­ za voler entrare nel merito del dibattito sul determinismo, faccio tuttavia presente che la dimensione continentale fini­ sce per imporsi: è un fatto che vale per il blocco iberico, per le isole britanniche e anche per il territorio francese. Faccia­ mo un esempio: se nel secolo x h l’unificazione politica del territorio di Barcellona, della Septimania*, e della Proven­ za è ancora pensabile, non lo è certamente più quando entra in gioco la dimensione continentale. Albert Du Roy ha citato un’affermazione di Fernand Braudel: «La nazione francese può esistere unicamente in netta contrapposizione a qualcos’altro». È un fatto innega­ bile. Ritorno da un colloquio sulla Neustria. Tutti gli inter­

* [Nome che designava il territorio di Béziers dove, dall'inizio dell’impero romano, si era insediata una colonia di veterinari della Septima Legio. In seguito si chiamerà Septimania l’intera parte meridionale della Gallia, che comprendeva, oltre Béziers, Carcassona, Agde, Maguelonne, Nimes, Elne e Lodève].

LA FRANCIA venuti concordavano sul fatto che la Neustria, uno dei nu­ clei essenziali della Francia, si costituì in contrapposizione sia ai Romani sia ai Germani. I nuovi Franchi, quelli nati dalla simbiosi delle popolazioni gallo-romane e franche al­ l’interno del regno di Clodoveo, non vogliono essere, a par­ tire dal secolo vn, né Romani né Germani. In linea generale, in Gallia come in Francia, coloro che sono già insediati si uniscono per contrapporsi alle forze che considerano stra­ niere. Prendiamo ora in considerazione l’evoluzione storica che si è avuta tra Neolitico e tarda antichità, momento nodale nella formazione della Francia. C ’è in primo luogo la Gallia con le sue strutture geografi­ che regionali, le sue cellule della vita regionale, di cui ha già parlato Etienne Juillard; poi c’è la Gallia con una struttura sociale rigida, gerarchica, nella quale l’aristocrazia ha un ruolo importantissimo. Questa Gallia fa parte dapprima del­ l’impero romano, poi dell’impero cristiano. Le strutture re­ ligiose, cristiane, vengono ad aggiungersi alle strutture so­ ciali rigidamente gerarchiche. L ’importanza dell’impero che si è soliti ritenere, indebitamente, crollato nel 476, è perlo­ più sottovalutata: i dogmi cristiani non vengono forse stabi­ liti alla corte dell’imperatore? La gerarchia romana resta in­ tatta. Il re merovingio, il re dei Franchi, fa parte di questa gerarchia. Ma il suo regno è il primo regno barbarico catto­ lico in terra romana, cosa che rimarrà quale titolo di gloria dei Franchi e della Francia. Questo regno franco si estende su un’area assai meno considerevole di quella dell’impero, ma domina ugualmente grandi spazi. Si tratta della versione «franca» del mondo latino in area bilingue. E un fatto es­ senziale per la storia della futura Francia. La Gallia è divisa in due «Francies»: il nord-est è affatto diverso dal regno ori­ ginario di Clodoveo e trae origine da una Francia Rhittensis con capitale Colonia. Verso la fine del regno di Clodoveo, i grandi del regno di Colonia si dànno a Clodoveo, lo eleggo­ no re, ma non gli si sottomettono mai veramente. Questa parte orientale della Gallia non sarà mai veramente integra­ ta nello Stato di Clodoveo: rimarrà sempre l’Austrasia, un po’ in disparte e parzialmente autonoma. Ma questo mondo franco, merovingio, che diventerà il mondo carolingio, non

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è bipartito, come ritenevano gli Alemanni, bensì tripartito. A ovest c’è la Neustria, a est l’Austrasia, quindi la Germania. Nel secolo v i i , questa Germania è in parte convinta da Dagoberto a stringere un’alleanza contro l’Austrasia che gli crea alcune difficoltà. Si tratta della prima alleanza tra est e ovest contro il centro. Nel secolo vin, i Carolingi, che sono degli Austrasici, sottomettono la Neustria a ovest e la Ger­ mania ad est, quindi acquisiscono Roma e l’impero. Ma nel secolo ix, dopo la spartizione dell’impero a Ver­ dun (843), le due potenze periferiche, la «Francie» di Carlo il Calvo e la Germania di Ludovico II il Germanico si allea­ no. Ed ecco nuovamente l’est e l’ovest contro il centro. Con la disfatta di quest’ultimo si chiarisce inequivocabilmente che i regni dell’est e dell’ovest non dipendono più dall’im ­ pero. Si lascia al centro, all’impero, il titolo imperiale, ma a partire da quest’epoca il regno di Francia diventa indipen­ dente dall’imperatore perché un re dei Franchi ha gli stessi diritti dell’imperatore. Questo punto del trattato di Verdun non è sempre tenuto presente come si dovrebbe. In seguito si avrà la riunificazione dell’est, della Germania con la Lotaringia e l’Italia: il Sacro Impero. Ma il regno occidentale, il solo erede diretto di Clodoveo, il primo re cristiano ed erede di tutto ciò che lega questa re­ galità - attraverso san Dionigi, san Remigio e Reims - al mondo cristiano, è dotato di una regalità eccezionale; eredi­ tà che si tramanda attraverso san Luigi, Giovanna d’Arco... Dunque siamo davanti ad un’eredità e a un mito fondati su una verità storica. Ossia a un elemento antichissimo che non basta certo a fare la Francia e i Francesi ma che fornisce due elementi essenziali: un contenuto ideale e delle frontiere. Al b e r t d u r o y Grazie a Karl Ferdinand Werner. Clau­ de Raffestin, geografo svizzero, tratterà un argomento di geo-storia: «I nuovi insediamenti industriali nelle zone peri­ alpine».

Per una teoria ecologica degli insediamenti industriali. Cl a u d e r a f f e s t i n È un po’ imbarazzante per un geo­ grafo svizzero sedere a una tribuna da cui si parla della Fran-

LA FRANCIA eia. Per evitare di prendere delle posizioni che potrebbero scandalizzare qualcuno dei presenti, mi atterrò a una zona, le Alpi, cui Fernand Braudel ha dedicato alcune pagine den­ sissime di Civiltà e imperi del Mediterraneo. Le Alpi costituiscono un paradosso e possono provare quella forma di voluttà che deriva dall’essere desiderate da tutti e di non appartenere a nessuno: perciò farò riferimento alla Francia unitamente ad altri paesi. E mia intenzione affrontare un problema di geografia economica che interromperà la serie di interventi rivolti al passato storico, considererò infatti questo problema anche in una prospettiva futura. Intendo altresì evidenziare delle strutture nel senso braudeliano del termine, ossia dei depo­ siti del tempo che s’accumulano nelle Alpi dal punto di vista economico. Non si tratta di un modello ma di semplici indi­ zi, si potrebbe dire di un modello indiziario sui nuovi inse­ diamenti industriali nelle Alpi. In primo luogo bisogna spendere alcune parole sull’evolu­ zione dei sistemi tecnologici o, come direbbe il grande geo­ grafo Pierre Gourou, delle strutture d ’inquadramento. Co­ minciamo dal 1782, data della comparsa ufficiale della mac­ china a vapore di James Watt, che non appartiene certo alla storia delle Alpi ma che la influenzerà notevolmente. Sino al 1782, l’industria delle Alpi è tradizionalmente basata sul­ l’acqua e sulla legna, ossia sull’utilizzazione delle risorse lo­ cali. Cosa che non esclude, ovviamente, non solo delle rela­ zioni all’interno del quadro regionale, ma anche al suo ester­ no. E la macchina a vapore a segnare l’avvento del primo si­ stema tecnologico; esso è derivato dalla rivoluzione indu­ striale e basato sul carbon fossile, il ferro e il vapore. Ciò significa: l’apertura al mondo grazie alla ferrovia; l’inizio della ristrutturazione spaziale; un nuovo tipo di siderurgia e di metallurgia: per le Alpi inizia l’innovazione. Poi le cose assumono un andamento precipitoso. Verso il 1880 fa la sua comparsa un altro tipo d’industria; è legata all’elettricità e a nuovi materiali - l’alluminio, per esempio - si chiama elet­ trochimica ed elettrometallurgia. Questo nuovo sistema tec­ nologico, il terzo nell’ordine, s’avvia molto lentamente in­ torno al 1880 e ci accompagna sino alla seconda guerra mon­ diale, esaurendo le sue possibilità espansive negli anni ses­

UNA LEZIONE DI STORIA santa-settanta. A questo tipo d’industria si sostituisce il tu­ rismo, che resta a lungo l’attività preponderante nelle Alpi. Ma si nutrono ormai dubbi sempre maggiori che il turismo possa garantire il futuro economico delle zone alpine. Le stazioni sciistiche si moltiplicano e si diversificano al pari delle offerte di settimane «bianche», «verdi» ecc. Si ha cioè uno sfruttamento più razionale, ma sarà sufficiente ad assi­ curare l’esistenza delle popolazioni locali? Personalmente ne dubito, e penso anche che il turismo, per tutta una serie di ragioni, non debba occupare da solo l’intero orizzonte della riflessione economica: è necessario diversificare le possibi­ lità in modo da garantire una certa stabilità socio-economica e socio-demografica. E cosi, dopo un secolo, nelle Alpi si prospetta un quarto sistema tecnologico che deriva dagli stessi cambiamenti tecnologici ed economici che stanno per altro vivendo molti paesi di antica industrializzazione. Le grandi industrie classiche - siderurgia, metallurgia, auto­ mobilistica e meccanica - sono in crisi. E una cosa ben no­ ta. Si automatizzano e robotizzano a ritmo sfrenato. Licen­ ziano e creano disoccupazione. Il nuovo sistema tecnologico in fase di costruzione, fondato sulla robotica, l’informatica e la biotecnologia è basato su un tipo d’informazione scien­ tifica e tecnica nello stesso tempo di base e applicata, ed ha molta maggior rilevanza al livello dell’invenzione e dell’in­ novazione che non della produzione e della riproduzione. Questo sistema è alimentato da una manodopera molto at­ tenta alla qualità della vita, esigente in fatto di habitat, di tempo libero e apertura al mondo. I fornitori di questa in­ formazione scientifica e tecnica annettono un particolare valore alla «localizzazione» del loro lavoro, nel senso che prediligono quelle località che offrono il maggior numero di vantaggi possibili raggiungibili nel minor tempo possibile; oltre ad essere già di per sé altamente soddisfacenti. Nei precedenti sistemi economici, gli insediamenti dipendevano dai classici fattori della produzione - materie prime, ener­ gia, disponibilità di manodopera qualificata e specializza­ ta - , ma, raramente, per non dire mai, dalla presenza di condizioni di vita che incentivassero l’insediamento di un personale di altissimo livello. Oggigiorno le esigenze sono di altro tipo e il problema po-

LA FRANCIA irebbe venir formulato nel modo seguente: Quali sono gli insediamenti ottimali al fine di attirare la manodopera crea­ trice e inventiva? Le imprese del futuro, le imprese di «punta» costituiran­ no la cerniera tra ciò che si chiama ancora - ma il termine è già oggi insoddisfacente - il secondario e il terziario. Que­ ste imprese elaboreranno dei sistemi e dei programmi indu­ striali che potranno poi essere realizzati da ditte appaltatrici situate nelle zone industriali tradizionali. Nella scelta del­ l’insediamento avrà considerevole importanza l’ ambiente col suo clima e il suo paesaggio. Poco fa, Fernand Braudel sembrava chiedersi con una punta di preoccupazione che co­ sa resterebbe da fare a noi geografi se scomparisse il deter­ minismo. Vorrei tranquillizzarlo. Lo spazio non è l’unico og­ getto di studio della geografia, che, anzi, è soprattutto inte­ ressata al modo in cui gli uomini conoscono e si rapportano praticamente a quella realtà che si chiama spazio. Del resto quella di Braudel voleva essere più che altro una provocazio­ ne nei nostri confronti, dato che è stato lui stesso a scrivere, nelle prime pagine di Civiltà e imperi del Mediterraneo, di praticare «una certa geografia e una certa storia». E appun­ to, questa «certa geografia» e questa «certa storia», ossia la geo-storia, va esattamente nella direzione di quanto ho ap­ pena detto. Per ritornare ai problemi di dislocazione spaziale del nuo­ vo sistema tecnologico, la domanda che si pone lo studioso di geo-storia potrebbe essere la seguente: Quali sono i luoghi da privilegiare? Le zone di contatto tra pianura e montagna oppure quelle tra mare e montagna? Il luogo dovrà poi offri­ re i servizi di una metropoli senza essere necessariamente un grande agglomerato. Dovrà trovarsi nelle vicinanze di gran­ di città ma anche del mare e della montagna per il tempo li­ bero. Insomma, occorre trovare delle località che offrano delle condizioni ottimali dal punto di vista fisico, sociale e cultu­ rale senza comportare i «prezzi» dei grandi agglomerati. I luoghi non inquinati e tuttavia non distanti dalle reti di ser­ vizi risulteranno particolarmente ambiti. Vi sono località che corrispondono a queste caratteristiche e alcune stanno già attrezzandosi. Ho qui davanti agl’occhi una cartina che

UNA LEZIONE DI STORIA indica le possibili zone di sviluppo delle suddette nuove at­ tività. Sono prevalentemente situate sul margine peri-alpino - versante nord - come una specie di periferia a contatto con le pianure, dove, come direbbe Fernand Braudel, «la circolazione riacquista notevole velocità ». Ed è appunto in queste zone che stanno attualmente sviluppandosi delle nuove attività industriali, delle piccole aziende per le quali l’informazione è assai più importante dell’energia, i pro­ grammi degli elaboratori assai più importanti del macchina­ rio d’officina. Certo, anche le officine meccaniche sono ne­ cessarie a queste imprese; ma forse dislocate all’interno delle Alpi, nelle grandi vallate, dove sarà possibile effettuare la pura e semplice produzione. A mio avviso, le zone più favo­ revoli sono attualmente il circondario di Grenoble, l’area peri-alpina bavarese, il Baden-Württemberg e anche la re­ gione di Salisburgo, benché meno accessibile dei grandi la­ ghi svizzeri e italiani. La zona dei laghi che comprende il la­ go Maggiore, il lago di Lugano, quelli di Como e del Garda sta assistendo ad una notevole fioritura di queste imprese straordinariamente innovative, mentre quelle che assicura­ no la pura e semplice produzione stanno cominciando a risa­ lire le vallate come dimostrano le statistiche. Queste zone creative possono utilizzare vantaggiosamente la manodope­ ra industriale sviluppatasi nel precedente sistema tecnologi­ co, affidandole tutta una serie di operazioni strettamente le­ gate alla produzione. Queste zone potrebbero offrire dei nuovi modelli di industrializzazione convogliando cosi nuo­ vi investimenti verso le Alpi. Delle piccole imprese mera­ mente esecutive potrebbero essere associate alle impre­ se creatrici di novità industriali. Le Alpi ritornerebbero progressivamente a costituire il punto nodale degli scam­ bi tra Europa del nord e Europa del sud, riprendendo quel­ la funzione di «commutatore» che hanno svolto per secoli: funzione di commutatore, di mega-commutatore! Che cosa si può dire in definitiva di questo modello indi­ ziario? E un sogno, un’utopia, una fantasticheria? Nient’affatto; perché le zone indicate su questa cartina sono già in piena attività, tanto che, per ciò che concerne il versante nord, la Ruhr comincia a guardar con preoccupazione la «di­

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scesa» di attività estremamente interessanti in direzione della Baviera. Va detto infine che queste nuove attività sono assai più contemplative di quelle di vecchio tipo e rimandano a quella che si potrebbe chiamare una « teoria ecologica degli inse­ diamenti», che tiene nel dovuto conto, giustamente, i fatto­ ri favorevoli alla contemplazione, nell’accezione laica del termine, s’intende. A l b e r t d u ROY Emmanuel Le Roy Ladurie ci presenta ora l’organigramma della monarchia francese nel 1579. Ser­ ge Bonin, del laboratorio di cartografia dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales è coautore del grafico illu­ strato nell’intervento. L 'arbre des Etats et Offices de Fratice. e m m a n u e l l e r o y l a d u r ie L ’incontro odierno ha co­ me tema centrale Fernand Braudel e la Francia. Concerne in particolare la nazione come «insieme di uomini uniti da un carattere comune dovuto a un destino comune », o come sto­ ria solidificata. In Francia, lo Stato monarchico ha avuto una funzione fondamentale nel consolidare la nazione, fatto che giustifica la presentazione di questo organigramma della Monarchia francese. Si tratta di un tentativo di visualizzare l’apparato dello Stato nazionale nel suo insieme, ossia, in certo senso, il codice genetico di quella che verrà chiamata la patria. L ’autore di questo organigramma, per altro già noto at­ traverso i lavori di Mastellone, è certo Charles de Figon. Figon non usa il termine organigramma bensì quello di albero: arbre des Etats et des Offices de France [albero degli Stati e de­ gli Uffici della Francia]. Si tratta di una metafora antica: la Bibbia, Genesi e Apocalisse, si apre e si chiude facendo rife­ rimento ad un albero. Secondo Colette Beaune, nel corso del Medioevo la Francia è paragonata a un albero che appas­ sisce e rifiorisce. Anche il Rinascimento parla delle scienze come dei diversi rami che si dipartono da uno stesso albero. L ’originalità di Figon sta nel fatto di aver utilizzato que­ st’immagine per rappresentare lo Stato. Non ne conosco

UNA LEZIONE DI STORIA molti altri esempi in epoca anteriore ai nostri moderni orga­ nigrammi. Figon è autore di un’opera intitolata Discours des Etats et OJfices du Gouvemetnent [Discorso sugli Stati e gli Uffici del Governo] che non fu precisamente un best-seller. Fu colla­ boratore del cardinale Bertrand al tempo di Enrico II, quin­ di guardasigilli; lo ritroviamo segretario della regina di Na­ varca e poi assistente di un segretario di Stato di Enrico III. Sua moglie intrattenne alcune relazioni sentimentali con dei personaggi di spicco dell’epoca. Figon sembra essere una specie di Rastignac meridionale « salito a Parigi » al seguito dei suoi protettori. La sua opera cade in un momento di notevole fervore del pensiero politi­ co ed è di poco posteriore agli anni in cui Caterina de’ Medi­ ci e Michel de l’Hospital realizzano una relativa indipenden­ za dello Stato dalla Chiesa. Alcuni teorici protestanti invita­ no alla riflessione politica. Figon, probabilmente un cattoli­ co che non aderisce alla Lega Santa, resta cattolico ma con qualche apertura al protestantesimo. Accetta dunque l’invi­ to a riflettere sullo Stato e il suo lavoro testimonia, tra l’al­ tro, la robustezza dello Stato all’epoca delle guerre di reli­ gione, che non sembrano affatto aver sradicato l’albero in questione. Secondo Figon, l’organizzazione dello Stato ha il suo cen­ tro nel tronco-asse della giustizia, incarnato dal Cancelliere che può anche essere guardasigilli. Solo nel 16 6 1, infatti, il Cancelliere perderà questa posizione centrale a vantaggio di colui che si chiamerà Controllore Generale delle Finanze. Il primo fu Colbert, che riunì in un’unica funzione quelle che oggi corrispondono al Ministero delle finanze e al Ministero degli interni. Nel 1579, due rami principali si dipartono dal tronco: a sinistra, il grande ramo giudiziario incarnato dal Parlamen­ to, e in primo luogo dal Parlamento di Parigi; a destra, il grande ramo finanziario rappresentato dalle Chambres des Comptes [Camere dei conti]. Questo secondo ramo raggiun­ ge poi la Trésorerie de l ’Epargne [Tesoreria del risparmio], che presiede alla spesa statale e si spinge sino alla Recette Générale [Riscossione generale], centro geometrico delle ri­ scossioni e delle entrate fiscali. La linfa grezza sale dall’hu-

LA FRANCIA mus del ceppo infrastrutturale del Conseil du roi [Consiglio del re], arriva sino al Parlamento e ridiscende a sinistra in direzione di diversi organismi, sottocommissioni del Parla­ mento (Requêtes du Palais, Chambre du Trésor, Commissaires délégués) [Richieste del Palazzo, Camera del Tesoro, Com­ missari delegati]. Seguendo un altro percorso, la linfa grezza continua a salire verso gli organismi intermedi e subalterni dell’apparato giudiziario incarnati da 15 000 - 20 000 uffi­ ciali, che oggi chiameremmo funzionari. Dunque: 20 000 funzionari governavano 16 milioni di Francesi; ma scoppia­ va spesso la guerra civile... La linfa elaborata scende dalle foglie. Sono le istanze di giustizia avanzate dai contribuenti, la catena degli appelli che vanno dai tribunali inferiori sino al più prestigioso - il Parlamento - passando per una serie di tribunali intermedi. Su questa base è possibile tratteggiare una specie di arborescenza gerarchica. Per le funzioni giudiziarie minori - che competono alle municipalità - abbiamo gli Echevins et Con­ suls des villes [Scabini e Consoli delle città], i notaires [notai] - cari a Zeldin - notaires royaux, che sono dei giuristi molto importanti all’epoca, e le migliaia di juges seigneuriaux [giu­ dici signorili]. A partire da questi numerosissimi personaggi si percorro­ no le ramificazioni di ciò che chiamerei la rete idrografica degli appelli; perché gli appelli vanno dal tribunale meno im­ portante al tribunale più importante, poi verso i confluenti essenziali - i juges royaux, poi verso il torrente ancor più im­ portante dei baliati e siniscalcati. I titolari - Balivi e Sini­ scalchi, che corrispondono dal punto di vista del territorio, ma non da quello delle funzioni, ai nostri Prefetti - sono anche concepiti come giudici, e più precisamente come dei Presidenti di tribunale, il che non vieta che esercitino anche delle funzioni amministrative. Il grosso affluente dei Balivi e dei Siniscalchi si butta a sua volta nel grande fiume dei Parlamenti che riceve tutti gli appelli che scorrono dalle giu­ risdizioni succitate. Altri torrenti analoghi, sempre nella stessa zona dell’albero, corrispondono ai Maîtres des Ports et Passages [Maestri dei porti e passaggi], alla Table de Marbre [Tavola di marmo], verso la quale confluiscono gli appelli provenienti dai tribunali dell’ Amirauté [Ammiragliato] e

Taglio e vendita, dei boschi

Ufficiali delle alte giustizie signorili Scabini e consoli delle città

Ubena e gaggio

Conservatore dei privilegi delle università

imposte

w Prevosto della corte delle monete

Giudici del criminale

V

Laudemio Controllori generali delle gabelle

Magistrati delle acque e foreste

^

Censi e rendite

Tratta foranea

\

Aiuti, concessioni, decurtazioni

Soldo di 50 000 k uomini Decime, donativi

Corte sovrana legli aiuti clic finanze

Corte sovrana delle monete

Gran maestro e riformatore generale delle acque Ammiragliato e foreste

Ricevitoria g e n e r a l e ^ ^ Prestiti Ufficiali * e controllori dei magazzini del sale

Prevosti dei marescialli generali e provinciali

Ricevitoria delle partite diverse

Ricevitoria Ricevitorie generali dei reliquati

Connestabili e marescialli di Francia

Maestri dei porti e passaggi

Tavola di marmo

Balivi e siniscalchi

Giudici e magistrati dei presidiali

Camera dei conti

Commissari delegati

Intendenti delle finanze del re

Referendari del palazzo

Tesoreria della casa Straordinario di guerra

A

f Tesoreria dei cento gentiluomini e delle guardie

Referendari della regia azienda

Ambasciate e viaggi

Cancelleria guardasigilli Gran prevosto della regia azienda

e delle finanze

Gran consiglio

Segretari di Stato e degli ordini

Governatori delle province

Rendite e pensioni

Segretari di Stato

Consiglio privato e di Stato del re

R e di F r a n c i a

Ricompense, donativi, beneficenze Offerte, canonicati, minutarie

Denaro degli ufficiali di giustizia e di finanza

Ambasciatori

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delle Acque e Foreste, ai Consuls et Bourses des Marchands [Consoli e Borse dei mercanti], soprattutto ai Présidiaux, tri­ bunali creati da Enrico II negli anni 1550. Tutta questa rete idrografica scorre verso il Parlamento. Figon precisa chiara­ mente, al «modo di Saussure», di non essere interessato alla diacronia, ossia alle date di fondazione dei diversi organi­ smi, ma alla sincronia, ossia al modo in cui funziona il tutto. Voglio sottolineare, alla destra dei Présidiaux, la presenza dei Prévôts des Maréchaux [Prevosti dei Marescialli], ossia la Maréchaussée [Giurisdizione dei marescialli], antenata del­ l’attuale polizia, che sarà perfezionata da Luigi X IV con l’i­ stituzione della carica di luogotenente di polizia. Lasciamo ora il settore ovest del quadrante, ossia lo Stato della Giusti­ zia, per prendere in esame l’est del quadrante, ossia lo Stato delle Finanze. Abbandoniamo gli out puts statali, la produ­ zione giudiziaria che, come abbiamo visto, si «realizza» co­ me una specie di contropartita alla domanda di giustizia avanzata dalla popolazione, per interessarci agli in puts, ossia le entrate fiscali, che sono « realizzate » per far fronte alla domanda di danaro necessario allo Stato. Sottolineiamo in primo luogo, sulla scorta di Michel An­ toine, che il Cancelliere, negli anni intorno al 1570, esercita ancora una notevole influenza sull’amministrazione finan­ ziaria. Influenza che la Cancelleria perderà solo all’epoca di Colbert, quando si avrà sdoppiamento tra albero della giu­ stizia e albero delle finanze, cosa che appunto non si è anco­ ra verificata nel 1579. Accenniamo appena ad alcune ramificazioni di minore importanza come la Cour Souveraine des Monnais [Corte So­ vrana delle Monete] col suo Prévôt e i suoi Trésoriers de Fran­ ce et Généraux des Finances [Tesorieri di Francia e Generali delle Finanze], che perde importanza dopo il Rinascimento, o come la Cour des Aides [Corte delle Imposte]. Notiamo tuttavia che vigono già i plurisecolari metodi francesi: quan­ do un istituto amministrativo non ha praticamente pili alcu­ na funzione, ci si bada bene dal sopprimerlo: gli si affianca un altro istituto più funzionale. Ma arriviamo a quello che conta: la Chambre des Comptes, che ci conduce al «nodo» costituito dalla Trésorerie de TEpargne e dalla Recette Générale. Si tratta di due elementi es-

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senziali. Dal tesoro del risparmio, Fondato da Francesco I nel 1523, provengono i fondi per le spese della Corte o Mai­ son du Roi [Casa del Re]. Le riscossioni delle sedici généralités fondate nel 1542 che corrispondono all’incirca alle attuali province - conflui­ scono nella Recette Générale. Rientrano in queste riscossioni generali: le imposte dirette - taglie e tributi - , le dogane, la tassa sul vino e sul sale, le imposte daziarie sulle fiere. A nord-ovest del nostro grafico si trova il Domaine Royal [Demanio reale], con i suoi diritti signorili, i suoi tagli di le­ gna, le sue ammende [amendes] e le sue condanne [condamnations]. Il Re, infatti, è anche un grande proprietario terrie­ ro e un signore molto potente. In pratica, il Domaine Royal non costituiva, almeno percentualmente, una voce molto ri­ levante del bilancio; aveva tuttavia una certa importanza dal punto di vista della tradizione. Le critiche che stamattina Fernand Braudel muoveva alle nazionalizzazioni mi hanno rammentato Enrico IV che, quando vedeva un edificio in rovina, esclamava puntualmente: «D ev’essere mio». Come si vede non mancano i precedenti in materia! Ritorniamo alle imposte reali. Esse rappresentano pili del 90 per cento delle riscossioni: sono costituite dalle imposte dirette e indirette, ma anche dagli emprunts [prestiti], collo­ cati nel nord-est del quadrante, e dalle recettes des parties casuelles [riscossioni delle partite varie], in pratica le vendite degli uffici. Nel sud-est del quadrante, l’albero rappresenta il settore delle spese. Parte dalla Recette Générale e abbraccia un enor­ me settore, quello degli out puts - o produzioni dello Stato - o indotto dello Stato. Questi out puts sono alimentati da­ gli in puts, ossia dalle riscossioni fiscali e finanziarie. Su due grandi rami discendenti troviamo due settori di diversa rile­ vanza a forma di salice piangente: la Corte - Maison du Roi - che può significare anche 1 o 000 persone al servizio di Caterina de’ Medici e Carlo IX (le loro spese sono: argente­ ria, caccia, scuderie, il Grand Ecuyer [Gran Scudiero] è in­ fatti un personaggio molto importante). Si profila cosi un as­ se secondario, dall’alto al basso, che si diparte dal Domaine du Roi per scendere verso la Corte; Max Weber lo chiame­ rebbe «Monarchia patrimoniale». Si profila altresì, all’estre­

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ma destra del grafico, un asse «moderno»: in alto, a destra, le imposte e, verso il basso, le spese statali. E qui abbiamo una vera «prefigurazione» di quello che costituisce un setto­ re di spesa «moderno»: le spese ordinarie di guerra, le spese straordinarie di guerra - le fortificazioni, la marina, l’arti­ glieria. Scendiamo ancora più in giù, nella zona più bassa. Per trovarci le paghe di chi lavora per la Giustizia e le Finanze, insomma il trattamento dei funzionari. Una vera miseria! Ma è anche vero che i funzionari, mal pagati dallo Stato, si rifacevano coi « tributi »! Chi troviamo alla base del tronco? I Governatori provin­ ciali a sinistra, gli Ambasciatori a destra - Grand Prévôt de l ’Hôtel du Roi [Gran Prevosto del Palazzo del Re], Gran Conseil du Roi [Gran Consiglio del Re] ma soprattutto delle istituzioni dal grande avvenire: i Secrétaires d ’Etat [Se­ gretari di Stato], antenati dei nostri Ministri, dato che la funzione propriamente ministeriale nacque allora con i Se­ crétaires d ’Etat. Non dimentichiamo però gli Intendents des Finances [Intendenti delle Finanze], che oggi chiameremmo Sottosegretari di Stato alle finanze. E, soprattutto, non di­ mentichiamo i Maîtres des requêtes de l ’hôtel du Roi [Maestri delle richieste del palazzo del Re], quelli che Pierre Goubert chiamerà «la classe politica del regime» e Pierre Chaunu «la tecnostruttura»; ossia gli antenati, sebbene solo putativi, dell’odierno potere dell’apparato. Questo albero rappresen­ ta, con tutte le sue deformazioni, la miglior fotografia di cui disponiamo dello Stato francese del Rinascimento; è la ma­ trice dell’Antico Regime e di una società tradizionalista. A l b e r t d u ROY Grazie a Emmanuel Le Roy Ladurie. Do ora la parola a Theodore Zeldin, storico inglese amante della Francia e dei Francesi...

Capire Femand Braudel. t h e o d o r e z e l d in Non ho preparato una relazione scritta. Penso molto semplicemente che ci si trovi qui riuniti non solo per rendere omaggio a Femand Braudel, per espri­ mergli la nostra simpatia, per dirgli del piacere che abbiamo

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provato leggendolo e che ci deriva dalla presenza di un uo­ mo cosi saggio e insieme cosi giocoso; ma anche perché vor­ remmo capirlo un po’ meglio. Secondo me Braudel è uno storico notissimo e un perso­ naggio sconosciuto. Ieri sera gli ho chiesto: «Chi l’ha capi­ ta?» Mi ha risposto: «Beh... forse qualcuno dalle parti dell’Argentina... » E già qualcosa che ci sia qualcuno! Sono quarant’anni che pubblica dei libri con la stessa dif­ ficoltà a farsi capire e a far accettare la sua «nuova storia». Per me è una specie di artista, un poeta, e gli artisti incom­ presi mi interessano molto. Si tratta inoltre di una situazio­ ne che non riguarda solo gli artisti ed è sempre più diffusa. La società nella quale viviamo è una società in cui non ci si capisce. A partire dalla fine della guerra, in particolare, gli individui si differenziano sempre più gli uni dagli altri per­ ché dispongono di una gamma di scelte sempre maggiore. L ’insegnamento sortisce un effetto contrario a quello che ci si attenderebbe: ciascuno interpreta l’insegnamento a pro­ prio modo. Il professore non riesce a comunicare quello che vorrebbe. Nel mondo d’oggi si verifica dunque una specie di progressiva cacofonia che contraddice quella unificazione che lei ha attribuito alla ferrovia. Perciò non voglio presen­ tare una mia relazione, ma preferirei porre alcune domande a Fernand Braudel, nell’intento di costringerlo a mostrare un po’ il suo vero volto che per me resta nascosto come die­ tro a un muro. Fernand Braudel: lei pensa che con la pubblicazione della sua Storia della Francia sarà finalmente capito? fer n an d b r a u d el Sarò capito di storto, ma è già una soddisfazione; perché se gli altri non ti capiscono affatto co­ minciano a definirti. Sono sicuro che il mio libro sarà accol­ to benevolmente e considerato con una certa attenzione; quanto poi a capirmi... Non sono stato capito per tutta la vi­ ta, a cominciare da me stesso. E una faccenda piuttosto complessa. t h e o d o r e z e l d in Lei non vuole essere definito. E una cosa che non piace a molti, perché trovano queste definizio­ ni troppo semplicistiche... fern an d br au d el Le risponderò quasi subito... ma pri­ ma vorrei che lei arrivasse alle sue conclusioni.

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THEODORE z e l d i n Ma vorrei arrivarci chiacchierando con lei e non con un mio discorso. fernand brau d el Ma lei è capace di fare un discorso, visto che l’ha cominciato. Al b e r t d u r o y H o l’impressione che Fernand Braudel non aspetti altro di poter esser lui a porle delle domande! t h e o d o r e z e l d in D ’accordo. Allora le farò delle altre domande. La prima riguarda l’impossibilità di comunicare cui ho accennato prima. Aderendo a questo convegno avevo comunicato il titolo della mia relazione: «La nazione in quanto oggetto della ricerca storica». Insomma un problema metodologico. Ma se fossimo per caso al tramonto dell’era delle metodologie? Quello che mi piace di Fernand Braudel è che non rispet­ ta le regole che raccomanda agli altri! Non è una cosa da po­ co, perché rispettare le regole è piuttosto noioso. E allora mi chiedo: se si è cosi temerari da dare dei consigli, che cosa succede? Per quanto mi riguarda, direi che la «nuova, nuova storia» è: bisogna stupire! In passato, lo storico diceva in maniera piacevole e interessante ciò che tutti pili o meno sa­ pevano; oggi non è più sufficiente. fer n an d b r a u d el Si dice in maniera spiacevole ciò che tutti ignorano! t h e o d o r e z e l d in Ma non basta. C ’è un motivo per il quale non si può scrivere sulla Francia. Io ci ho provato: mi sono ritagliato un pezzettino di Francia e mi sono reso conto che avrei dovuto leggere una tale quantità di libri da rendere ormai impossibili imprese del tipo di quella di Michelet. E allora: lei, da dove ha tratto questo coraggio? fer n a n d b r a u d e l Lei crede che il fato mi punirà? t h e o d o r e z e l d in Sicuramente. fern an d br au d el La Storia della Francia sarà la mia passione, nel significato particolare di «occasione di soffe­ renza ». t h e o d o r e z e l d in Ma va benissimo! Perché alla fine lei ci dirà che cos’è la Francia. fern an d br au d el Ma personalmente io conosco già la fine. Aspetto gli altri...

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t h e o d o r e z e l d in Invece spero proprio di no, perché quando si scrive un libro è sempre meglio non conoscerne il significato! fern an d br au d el Non so se vi rendete conto della le­ zione di metodo che Zeldin sta dandoci; anzi, peggio, che sta dandomi! t h e o d o r e z e l d in In seguito, lei avrà occasione... fern an d b r a u d el Al seguito non ci penso... t h e o d o r e z e l d in Allora le faccio un’altra domanda, perché lei le vuole tutte e subito. E affronto il problema del­ l’immobilità, che è una delle sue ossessioni. fern an d br a u d el E una domanda che va posta a Em­ manuel Le Roy Ladurie, perché è lui a dire «immobilità», mentre io dico «ripetizione». Allora che cosa sceglie? Le Roy Ladurie, ossia il futuro; oppure me, ossia la ripetizione, le formulazioni vecchio stile, retro... t h e o d o r e z e l d in Mi piace il retro. Se si tenta di stu­ diarla con attenzione, di comprenderla - cosa peraltro im­ possibile - , la data particolarmente interessante è il 1929, anno di fondazione delle «Annales» e di avvenimenti molto importanti a livello mondiale; ma anche della pubblicazione di un libro ignorato cui vorrei far riferimento. Talvolta la si chiama - e mi scuso di riprendere una definizione che a lei non piace - «il papa della storia»... fern an d br au d el Non ho ancora preso gli ordini; tut­ tavia! t h e o d o r e z e l d in E allora mi chiedo: perché il papa è Francese? fern an d b r a u d el Perché non tutti i papi possono esse­ re Polacchi! t h e o d o r e z e l d in Posso ricordarle che c’è un candidato inglese al papato? fe rn a n d b ra u d e l Non sarà mica lei?

t h e o d o r e z e ld in fe rn a n d b ra u d e l

N o.

Un rivale? Un antipapa?... E morto ignorato ai Francesi. Si trat­ ta di Lewis Namier. Nel 1929 ha scritto un libro meraviglio­ so, il suo capolavoro, sulle strutture politiche al tempo di Giorgio III. E la «Revue Historique» si è degnata di conce­ dergli un rigo: «Si tratta di un libro piuttosto insolito e se ne t h e o d o r e z e l d in

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può raccomandare la lettura dell’introduzione». Ma in In­ ghilterra lo consideriamo il nostro maggior storico di questo secolo. fer n a n d b r a u d e l Concordo con gli Inglesi. t h e o d o r e z e l d in Mi fa molto piacere questo riconosci­ mento. Solo che i suoi compatrioti ne conoscono appena il nome. fern an d b r a u d el Sono sicuro che Le Roy Ladurie lo conosce a fondo. t h e o d o r e z e l d in Ma non mi riferisco ai grossi calibri, bensì ai professori di liceo, che non hanno letto questo libro. fer n an d b r a u d el Non ha il diritto di generalizzare... t h e o d o r e z e l d in Ma ho il diritto di indurne la doman­ da seguente: Come viaggiano i libri attraverso i paesi? Lei sta per pubblicare una Storia della Francia. Se avesse comin­ ciato con questo libro, quale sarebbe stata la sua carriera? fern an d br au d el Sarei rimasto professore di liceo a vita. KARL F e r d in a n d W e r n e r Vorrei dire qualcosa in propo­ sito. Tra gli storici francesi, Fernand Braudel è tra quelli che hanno più parlato ai Francesi degli altri paesi. Per la prima volta la storia mondiale, o meglio la Storia degli uomini, è stata fatta in maniera intelligentissima e nuova e, tra l’altro, parlando relativamente poco dei France­ si. Un’impresa che in Francia non aveva precedenti, e anche molto coraggiosa. Per questo motivo, sulla scia del discorso di Zeldin le vorrei chiedere se ci sia una ricerca internazio­ nale, o, in altre parole, se vi sia già una reale cooperazione internazionale sui diversi argomenti tra cui la Francia. Per­ ché la Francia è un tema fondamentale non solo per i Fran­ cesi. Non ho alcun dubbio, del resto, che il suo libro sulla Francia abbia fatto tesoro di tutta la sua massa di conoscen­ ze relative alle altre nazioni. fer n an d b r a u d el I miei maestri sono stati Lucien Febvre e Marc Bloch. E Marc Bloch diceva: «Non c’è la storia della Francia, c’è la storia dell’Europa». Ma in realtà nean­ che questa gli bastava, e una volta confidò ad un altro stori­ co: «Non c’è una storia dell’Europa, ma una storia del mon­ do». Cosi, mi sento in qualche modo colpevole per aver scritto una storia della Francia, perché non riuscirò a realiz-

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zare quest’integrazione tra storia dell’Europa e storia del mondo. Ma chiedo scusa a Theodore Zeldin per averlo in­ terrotto. t h e o d o r e z e l d in Per concludere al riguardo, mi chie­ do quale importanza può avere il fatto che lei non è un Fran­ cese come gli altri. fernand brau d el Ma io sono un Francese come gli altri! t h e o d o r e z e l d in E stato lei a rammentarci di aver vis­ suto a lungo all’estero. E questa non è la norma. fern an d b r a u d el Ma ho anche vissuto a Parigi, in Sa­ voia, in Provenza... t h e o d o r e z e l d in Ma negli anni decisivi, negli anni in cui ha elaborato le sue concezioni, lei era all’estero. fe rn a n d b r a u d e l H o cominciato a capire qualcosa in Brasile. Lo spettacolo che si offriva ai miei occhi era uno «spettacolo storico», un tale spettacolo di gentilezza a livel­ lo sociale che ho cominciato a vedere la vita sotto un altro aspetto. In Brasile ho trascorso i più begl’anni della mia vita. Anche se ho poi dovuto pagarne le conseguenze diventando una specie di espatriato. Cosi mi lascio spesso e volentieri af­ fascinare da chi mi sta intorno. Se parlassimo ancora qualche ora assieme sono sicuro che mi sentirei molto Inglese. t h e o d o r e z e l d in Mi piacerebbe affrontare con lei il problema dello stile. Quale tipo di sviluppo prevede per la storia futura? Acquisire nuove informazioni diventa sempre più problematico! Forse la storia dovrebbe cercare, invece, di colmare il ritardo che ha accumulato rispetto alle arti pla­ stiche, che da tempo, ormai, hanno lasciato da parte il desi­ derio di riprodurre il mondo per cercare di conferire una nuova forma ai fatti, di creare qualcosa. fer n an d b r a u d el Lei insomma vorrebbe una storia astratta? Una storia che non sarebbe più una storia ma una libera creazione? t h e o d o r e z e l d in Mi chiedo se non si sia già comincia­ to a farlo. fer n a n d b r a u d e l Può darsi. Ma lei ha parlato di stile. E c’è uno stile che fa si che la «nuova, nuova, nuova storia» assomigli alla «nuova, nuova storia» e persino alla «nuova» puramente e semplicemente. Il fatto è che gli storici francesi

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sono dei maestri nella loro lingua. È vero per Emmanuel Le Roy Ladurie come per Georges Duby che scrivono divina­ mente e sono degli storici di gran classe. Sanno maneggiare la lingua francese. G li storici che troveranno ascolto all’o­ recchio dell’opinione pubblica saranno quelli che domine­ ranno la lingua francese. THEODORE z e l d i n E un ragionamento stupendo! Con­ cordo pienamente. Come concordo sul fatto che la Francia è insufficiente per scrivere una storia della Francia. Bisogna considerare le cose globalmente per poter capire il significa­ to della Francia; cosi come bisogna conoscere della gente co­ me Namier per poter capire chi è Braudel. Insomma, è nella scrittura e nell’arte... fer n an d b r a u d el Vi sono anche alcuni geografi che scrivono divinamente: Etienne Juillard, per esempio. t h e o d o r e z e l d in Non mi resta altro che applaudire! Al b e r t d u r o y II dialogo, per altro già cominciato, può tranquillamente proseguire. Vorrei pertanto chiedere a Fer­ nand Braudel quali considerazioni gli hanno ispirato i diver­ si interventi.

Storia, geografia e popolamento. fern an d b r a u d el Mi sono lasciato affascinare da Theodore Zeldin ed ho parlato un po’ troppo a lungo con lui, bisogna quindi che acceleri i tempi parlando con gli altri, anche perché vorrei ritornare a Zeldin. Ho ascoltato con molto piacere Guilaine che è un vero principe dell’odierna ricerca storica francese. Domina l’area della ricerca preistorica come nessun altro. Conoscere la preistoria e padroneggiare il linguaggio è una cosa; ma domi­ nare il linguaggio e prendere in esame da par suo la vera sto­ ria della Francia, è tutt’altra cosa. Perché se i contadini co­ minciano ad esistere in epoca preistorica, allora vuol dire che la vera, profonda, biologica storia della Francia affonda le sue radici ben prima di ciò che si chiama storia, ben prima dell’inizio della scrittura. L ’ho ascoltato attentamente e vo­ glio porgli una domanda. Se risponde «si» sono salvo, se ri­ sponde «no» sono in un mare di guai. Ho letto l’opera di

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uno studioso di preistoria: La Géographie prékistorique di Nougier, e vi ho trovato un dato che mi ha entusiasmato; ossia che, probabilmente, nel 11 millennio prima di Cristo, c’erano quattro o cinque milioni di abitanti in quello che og­ gi costituisce il territorio della Francia. Il che vorrebbe dire che costoro sono la sostanza della Storia della Francia e che quelli che verranno in seguito a insediarsi in casa nostra Romani e tutti gli altri che si è soliti chiamare barbari - non sono poi cosi numerosi rispetto ai Galli. La storia vera, la storia biologica, la storia profonda, è la storia che si ha ben prima di Cristo, ben prima del 1 o 11 millennio. Insomma, Jean Guilaine, lei deve rispondere «si» alla mia domanda. Naturalmente non è obbligato, ma sarebbe proprio una per­ sona a modo se lo facesse. JEAN g u i l a i n e A rischio di non sembrare una persona a modo risponderò in maniera ambigua. Le stime di Nougier si riferivano essenzialmente al ni millennio, che è anche l’e­ poca che ci ha lasciato il maggior numero di habitat preisto­ rici. Nougier aveva constatato, nella zona tra la Senna e la Loira, un numero particolarmente elevato di «stazioni» neolitiche, e ne concluse una densità umana piuttosto eleva­ ta. Ma noi non sappiamo se tutti questi siti siano strettamente contemporanei. Si può insomma constatare l’esisten­ za di habitat attribuibili al in millennio, ma qual è la loro reale contemporaneità? E se si fosse verificata una succes­ sione nel tempo? Insomma non abbiamo la possibilità di de­ terminare con precisione il secolo. Il dottor Riquet ha invece proposto un altro procedimen­ to consistente nel vagliare la documentazione antropologica disponibile relativamente a quel periodo - periodo del qua­ le disponiamo anche di numerosi sepolcri, sepolcri collettivi: grotte funerarie naturali e artificiali, monumenti megalitici. Dopodiché si cerca di stabilire per quanto tempo è stata utilizzata la tomba, al fine di determinare a quante genera­ zioni siano appartenuti i reperti ossei esaminati. Quindi si passa a stimare, con valutazioni di tipo un po’ soggettivo, la percentuale delle tombe distrutte nel corso di 5-6000 anni di erosione e di distruzioni operate dagli uomini. Se ben ri­ cordo, i dati forniti da Riquet sulla base di questo procedi­ mento sono nettamente inferiori a quelli di Nougier, arri­

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vando al massimo a mezzo milione di abitanti alla fine del Neolitico. Naturalmente anche il modo di procedere di Riquet non esclude la domanda: ma è sicuro che gli individui di cui si ri­ trovano i resti nei sepolcri collettivi riflettano dal punto di vista demografico la reale dimensione della comunità? Tutti i defunti finivano nel sepolcro collettivo? E da escludersi che vi fossero degli individui che venivano sotterrati in se­ polcri più ordinari come le fosse? Se si risponde in senso af­ fermativo, è chiaro che bisogna modificare, aumentandoli, i risultati cui è giunto Riquet. Insomma, come si può vedere si tratta di una faccenda piuttosto complicata. Inoltre bisogna tener conto di un’altra cosa. Infatti, per quel periodo, per il ni millennio, abbiamo a disposizione un numero elevato di siti. Ma nel 11 millennio ci troviamo da­ vanti a un vero e proprio crollo. Perché? Come vede anche lei, la preistoria è difficile da maneggiare. e m m a n u e l l e r o y l a d u r ie Ma una cifra si potrà pur avanzare. JEAN g u i l a i n e Credo che ci si possa attenere alle cifre di Riquet: da 200 000 a 500 000 persone nel Neolitico come base. fern an d br au d el Potrebbe benissimo aver torto, non gli costerebbe nulla; ma temo proprio che abbia ragione! Lo specialista ha sempre ragione contro lo storico che ha sem­ pre troppe pretese. Tuttavia, alla fine della sua preistoria succede qualcosa: un tale subbuglio, un comparire di nuovi popoli e di nuove culture che rimanda di necessità a un numero notevole di in­ dividui. Credo che lei conosca il geografo Pierre Bonnaud. A mio avviso, tra i giovani, è il più grande di tutti. Ha lotta­ to con i nomi di luogo, con l’onomastica, e, grattando per bene il terreno, ha ritrovato la preistoria: una preistoria drammatica, soprattutto per i Celti; ma, nello stesso tempo, testimone di uno sviluppo addirittura sorprendente dei Cel­ ti stessi. E mi piacerebbe che Guilaine desse ragione a Bon­ naud per il mio tramite; ma passiamo ad un altro punto... Etienne Juillard: la sua relazione è stata magnifica. Del resto lei non è capace di far delle relazioni men che magnifi­ che. Ma debbo raccontare una cosa che mi è successa, una

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cosa divertente che però mi ha anche un po’ rattristato. Etienne Juillard non voleva parlare del mio libro senza aver­ lo letto. Allora, per non costringerlo a leggere un libro di cir­ ca ottocento pagine, ho scelto per lui una foglia del carciofo, il terzo capitolo intitolato: La Geografia ha inventato la Fran­ cia? Interrogativo al quale rispondo ovviamente «no»; ma con un certo qual piacere di riprendere alcune vecchie affer­ mazioni di Vidal de la Bianche. La valle del Rodano, l’istmo francese ha forse determinato la forma della Francia?... Insomma, la passione per la geografia mi ha portato ad una geografia molto più antica di quella di Juillard. Sennonché, gli ho mandato il terzo capitolo e il suo intervento richiama molto da vicino il contenuto del secondo capitolo intitolato: Le regole del popolamento: le città, i borghi, i villaggi. Per me è stata una piacevole conferma: nella sua relazione ho trova­ to delle formulazioni migliori delle mie, tanto che ne ho pre­ so nota e modificherò il mio libro sulla base di queste formu­ lazioni e della sua terminologia molto illuminante. Ma sape­ te che cosa avrebbe fatto se gli avessi dato da leggere il se­ condo capitolo? Una relazione sul terzo capitolo. Ed è ap­ punto questo il problema; la difficoltà... In attesa di risolverli, riapro una tale querelle con Etienne Juillard che lo prego sin d’ora di non replicare. Non pochi geografi, tra cui Pierre Gourou che entrambi ammiriamo, sono dell’avviso, come lei, caro Juillard, che lo spazio è il contenitore di un’esperienza umana assai variegata. Cosi si buttano sull’esperienza umana e dimenticano lo spazio. Io li accuso di despazializzare la storia. Sicché, ovviando a que­ sto inconveniente, ho come l’impressione di restituire alla geografia i suoi antichi diritti. Questo si può chiamare e non chiamare determinismo. In La Terre et l'évolution humaine, Lucien Febvre non è affatto giunto alla pura e semplice ne­ gazione dello spazio. Il «possibilismo» di Lucien Febvre è un determinismo mitigato, ma resta un determinismo. Etienne, le chiedo per favore di non rispondermi perché sto già rivolgendomi agli altri relatori. Al b e r t d u r o y Voglio tuttavia chiedergli se per caso non desideri rispondere. e t ie n n e ju il l a r d E io risponderò. Non credo di aver despazializzato. Quello che ho inteso dire, e credo che costi­

UNA LEZIONE DI STORIA tuisca già una fondata condanna del determinismo, è che il significato dei dati spaziali è variabile; cambia in funzione di un intero arsenale di altri fattori, tecnologici, economici, so­ ciali, sicché non si può parlare dell’esistenza di un determi­ nismo spaziale. C ’è una componente spaziale all’interno di un complesso di altri fattori, e inoltre questa componente spaziale non è stabile, non è data una volta per tutte. fer n an d b r a u d el Certo, ma si tratta della più impor­ tante e della più antica, ossia quella che conta per la storia profonda. Hai parlato di migrazioni, hai persino citato Sten­ dhal, ma credo che tu ti renda conto che non basta per af­ frontare il problema in profondità. Nemmeno Stendhal ba­ sta da solo a negare il determinismo geografico. Se potessi ritornare sull’argomento, è un punto molto importante e non vorrei aver l’aria di stuzzicarti a man salva. e t i e n n e ju il l a r d II terzo capitolo mi ha molto interes­ sato perché parla della valle del Rodano, della navigazione sul Rodano; avrei tuttavia aggiunto qualcosa. Lei sostiene che il Rodano non ha avuto una funzione gran che impor­ tante per la formazione dello spazio francese, e in particola­ re Lione, la vocazione di Lione ecc. fer n an d b r a u d el E tuttavia il Rodano è stato riattrez­ zato. e t ie n n e ju il l a r d Ma oggi ci sono trenta milioni di ton­ nellate di petrolio che scorrono sotto terra lungo il Rodano. fer n an d br a u d el Ma il Rodano non ne ha colpa. e t ie n n e ju il l a r d II Rodano non ne avrà colpa, ma il canalone si. Ospita la principale strada ferrata francese e l’autostrada verso Parigi e la Germania. fern an d b r a u d el Sta ritornando al determinismo geo­ grafico; ha detto: «c’è il canalone». e t ie n n e ju il l a r d Questa affermazione mi permette di riagganciarmi a quanto stavo dicendo. Il significato di que­ sto canalone è radicalmente cambiato, e più volte, nel corso della storia, in rapporto al contesto tecnico, al contesto eco­ nomico, al contesto demografico. Il Rodano ha smarrito la sua funzione. Poi l’ha ritrovata. Probabilmente la perderà di nuovo. Non si tratta di determinismo. fer n an d b r a u d e l E invece si tratta proprio di determi­ nismo. Il determinismo vuol dire che un certo numero di

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cause comporta un certo numero di effetti. Il dramma della valle del Rodano è come l’abbiamo attrezzata: sarà valoriz­ zata unicamente se il canalone del Rodano si dirige verso il Reno, ossia se si trascura il Bacino parigino. k a r l Fe r d i n a n d W e r n e r Forse un Tedesco può rispon­ dere con maggiore facilità, perché il Rodano consentirà alla futura Gallia di accedere al Mediterraneo senza dover tran­ sitare attraverso le Alpi. Il tavolato occidentale europeo of­ fre il vantaggio di collegare Nord e Sud senza la barriera del­ le Alpi. E un fatto impresso indelebilmente nel futuro della Gallia e della Francia, che agirà come una piattaforma gire­ vole permettendo alle acquisizioni del Mediterraneo di pas­ sare nell’Europa centrale e settentrionale. È un dato impres­ so indelebilmente nella geografia. fer n an d b r a u d el Ma il Rodano ci ha traditi, noi pove­ ri Francesi, perché l’unità della Francia non si è saldata lun­ go il solco del Rodano, contrariamente a quanto pensava Vidal de la Bianche. Ma tralasciamo questi problemi, e visto che Karl Ferdi­ nand Werner è intervenuto mi rivolgo a lui. Non mi limito ad apprezzare la sua precedente relazione, ma voglio anche raccomandare la lettura del primo volume della Histoire de France pubblicata da Arthème-Fayard sotto la direzione di Jean Favier. Questo primo volume redatto da lei è veramen­ te splendido. E devo riconoscere che è molto confortante poter constatare che è stato scritto da un grande storico te­ desco. La sola menzogna pronunciata stamattina da Karl Ferdinand Werner è l’affermazione di non dominare la lin­ gua francese. Nella sua opera ho molto apprezzato quella sensazione che lei sa suscitare, per cui avvenimenti che si svolgono sulla remota scena medievale li percepiamo anche per gli effetti che si protraggono sino ai nostri giorni. Lei prende posizio­ ne per una storia di lunga portata. Nel suo intervento ha ac­ cennato molto rapidamente a una divisione spaziale in tre parti: potrebbe riprenderla brevemente? KARL FERDINAND W e r n e r In effetti è molto importante che il mondo franco non sia bipartito ma tripartito. Il secolo xx non ha considerato con sufficiente attenzione la genesi della Germania e della Francia, per insistere invece eccessi­

UNA LEZIONE DI STORIA vamente sulle lotte franco-tedesche. Eppure le testimonian­ ze parlano chiaro: le popolazioni non avevano alcuna idea di questo tipo d’appartenenza. Prima deU’arrivo di Cesare la Gallia non esisteva, in compenso continua ad esistere ben dopo l’arrivo dei Franchi. Si tratta di una Gallia sostanzial­ mente divisa in due parti; divisione che peraltro ha impron­ tato l’intera storia occidentale, ivi compresa la storia dell’In­ ghilterra conquistata dai Normanni francesizzati. Non è in­ fatti qui che si forma, dal punto di vista linguistico, quel mondo anglo-francese che dominerà la storia moderna? Per altro, la Germania, al pari dell’Italia, sono conquiste di que­ sta Gallia franca e cristiana. Ma qui non vorrei entrare in ul­ teriori dettagli. Desidererei invece ritornare ad una concezione che lei ha espresso discutendo con Etienne Juillard. E un po’ come se lei avesse svelato un sogno: la massa umana che costituirà la futura Francia sarebbe già in loco, di conseguenza il numero dei nuovi arrivati sarebbe in definitiva minimo. Non si trat­ ta di una concezione un po’ «paurosa» della Francia? La Francia non ha bisogno di questa paura; ha invece bisogno di acquisire tutte le ricchezze veicolate da coloro che vi arri­ vano, siano Celti, Romani o «Barbari». E un’affermazione che non minimizza affatto l’importanza fondamentale di co­ loro che, arrivati a loro volta per ondate successive, erano già presenti su questo territorio. Mi permetto di insistere su questo punto perché penso ci si debba guardare da questa specie di paura. Si può talvolta constatare un’altra tendenza: gli uomini vorrebbero veder forgiata la loro unità in un passato molto lontano richiaman­ dosi ad un mito. Cosi, nel secolo vìi, a nord della Loira, le popolazioni si autodefinivano franche in quanto soggette al Rex Francorum. Le popolazioni di questa regione sapevano perfettamente che in precedenza c’erano stati dei Gallo­ romani. E allora? I testi del secolo vn asseriscono allora che i Gallo-romani furono cacciati o massacrati: si tratta di una « tabula rasa » che funziona a colpo sicuro al fine di creare un’unità. E un fatto che si può constatare anche in Inghilterra. Non si pretende infatti ancor oggi che i Sassoni abbiano cac­ ciato o massacrato al loro arrivo le popolazioni precedenti?

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Una tendenza analoga si è presentata anche in Germania. Bisogna insomma riconoscere la funzione di quelli che so­ no arrivati dopo senza con ciò cancellare quella svolta da chi già si trovava in queste regioni. Perché è esattamente la sim­ biosi di questi due elementi ad aver dato origine alle nostre attuali nazioni. fer n a n d b r a u d e l Professor Werner, lei è terribilmen­ te ottimista. E ci ha persino detto che noi non abbiamo poi cosi massacrato i Gallo-romani. E una cosa veramente bella; una scoperta per di più! Insomma, i Gallo-romani sono so­ pravvissuti. E se sono sopravvissuti hanno svolto una fun­ zione. Ma non sin dall’epoca di Clodoveo, che sarebbe un po’ troppo presto. Ossia si possono trovare degli elementi che si manifesteranno in seguito, e che bisogna considerare se si accetta che la storia è pur sempre una forma di evolu­ zione biologica. Quello che lei dice è molto consolante: in­ somma solo nella nostra epoca il massacro sarà un vero mas­ sacro: in passato si massacrava molto di meno. Voglio ora rivolgermi al professor Raffestin autore di una meravigliosa relazione: un’opera di cesello più che una trat­ tazione geografica. Cosi ci ha fatto conoscere della gente che lavora ma che non lavora; non degli uomini intelligenti ma dei superintelligenti che sanno vivere comodamente. Dapprima si sono sistemati all’imbocco delle valli alpine; poi, a differenza dell’acqua che scorre verso il basso, hanno avuto la felice idea di risalire. Per quanto mi riguarda prefe­ risco l’interno, perché preferisco scalare. Insomma, lei è un determinista o no? Perché sembra proprio che gli sbocchi delle valli alpine esistano. Cl a u d e r a f f e s t i n In tal caso sono determinista per quanto riguarda l’alea. Ho ricordato poco fa le strutture d’inquadramento di cui parla Gourou... Molte cose dipen­ dono dalle tecniche adottate... fern an d b r a u d el Ma queste tecniche non sono mica delle mongolfiere e sono adottate in uno spazio. Sicché an­ che lei è obbligato a ritornare allo spazio; quello spazio che non è certo sempre uguale a se stesso, che si trasforma, ma che poi resta quasi sempre uguale a se stesso. Cl a u d e r a f f e s t i n Perfettamente d’accordo; ma si di­ spone di mezzi per sottrarsi agli imperativi dello spazio.

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fer n an d br au d el Senza però mai arrivare a toglierli di mezzo completamente. La storia della Francia si è svolta al­ l’interno di un determinato spazio. Non mi piace il termine «Esagono», ma l’esagono che configura il territorio francese esiste in tutta la sua realtà.

Funzione delle finanze nell’Antico Regime. Adesso vorrei stuzzicare un po’ il mio vecchio amico Em­ manuel Le Roy Ladurie. Intanto vorrei chiedergli se si rende veramente conto di che capolavoro ha trovato: perché si tratta proprio di un ca­ polavoro. Ma nello stesso tempo mi vengono i sudori freddi, se penso a quando sostenevamo gli esami, ai tempi dei tem­ pi, e ci interrogavano su questo schema senza sottoporcelo. C ’erano dei tali competenti delle istituzioni francesi che qualsiasi cosa gli si rispondesse era sbagliata. E io mi son fat­ to un po’ l’idea che questo schema è la dimostrazione che nessuno è in grado di dominare tutto il rigoglio delle istitu­ zioni francesi. Lei ha trasformato lo schema in un meccanismo da orolo­ gio; una trasformazione indubbiamente riuscita, ma anche cosi trasformato conserva tutte le sue difficoltà, non solo perché ci sono molte cose, ma anche perché mancano delle cose. Si può dire: guardate com’era intelligente la monarchia francese che riusciva a governare il paese con ventimila per­ sone (dato non molto più attendibile dei cinque milioni di abitanti che io ho attribuito alla «Francia» nel 11 millennio avanti Cristo!) Ma mi sembra impossibile che si possa gover­ nare un paese di tali dimensioni, con le sue lentezze, con le sue franchige, unicamente grazie a ventimila persone. Sono quindi necessarie delle complicità. C ’è bisogno della Chiesa inoltre, della nobiltà inoltre, dei mercanti inoltre. Lo Stato non è solo. C ’è un’intera società intorno a lui. Nel suo schema molto semplificato compare «Giustizia» da una parte e «Finanze» dall’altra. Ma non compare l’am­ ministrazione... E l’ufficiale dell’Antico Regime era definito come colui che giudica e che amministra. Ecco la differenza

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tra Giustizia e Amministrazione!... E poi non le sembra che il termine «Finanze» sia pericoloso? e m m a n u e l l e r o y l a d u r ie Si; ma era il termine utiliz­ zato. fer n a n d b r a u d e l E un termine pericoloso perché i fi­ nanzieri sono uomini d ’affari che non maneggiano denaro proprio ma quello del re. Intascandone una parte, tra l’altro, mentre lo maneggiano; una parte più consistente di quella costituita dai loro emolumenti. Poi accanto ai finanzieri ci sono dei banchieri che, soprattutto all’epoca di Francesco I, sono molto importanti. Il grande problema della monarchia francese è quello di riscuotere una notevole quantità di imposte che, però, non le sono mai sufficienti. Allora da un giro di vite, ma poi ar­ riva a un punto che non è più possibile. Cosi è costretta a ri­ volgersi a delle persone che le prestano del danaro obbligan­ dola a dei rimborsi considerevoli. Nel secolo xvi c’è stato quel periodo veramente incredibile nel quale la monarchia francese s’è rivolta a Lione. Era una piazza piena di soldi. Si poteva prendere a prestito quel che si voleva, una cosa ma­ gnifica! Una pompa finanziaria perfettamente efficiente. Non solo i ricchi prestavan danaro, ma anche le persone di condizione modesta. Ma tutta questa storia s’è conclusa con un tal disastro, nel 1557, che il capitalismo nascente ha ab­ bandonato la monarchia, che ha poi dovuto viversene sola soletta. G li ufficiali anticipavano il danaro perché erano al servizio del re. Su questo siamo d’accordo? EM M ANUEL LE ROY LADURIE SÌ. fer n an d b r a u d el Insomma, si rende conto: si mette in mano a un candidato al concorso a cattedra lo schema e gli si dice: «ci spieghi un po’ ». Lei pensa che se la possa cavare? E terribile! e m m a n u e l l e r o y l a d u r ie Lo schema lascia in effetti un po’ in ombra l’esercito, che vi compare insufficientemen­ te; la Chiesa che vi compare solo tramite le decime; i finan­ ziamenti e i banchieri; prende però in considerazione i giu­ dici signorili, i notai e le municipalità. Si tratta insomma di un albero degli uffici e di un albero della giustizia e della fi­ nanza in senso stretto. Non bisogna pertanto chiedergli più di quanto non possa dare. Se si avesse il coraggio di compie-

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tare il pensiero di quel tal Figon, vi si potrebbero aggiungere dei cerchi contenenti la Chiesa, l’esercito ecc. Ma personal­ mente non ho osato andare oltre il documento; sono rimasto fedele a una specie di empirismo storiografico. fer n an d b r a u d el Non so di quanti schemi bisognereb­ be disporre per poter capire le istituzioni dell’Antico Re­ gime. e m m a n u e l l e ROY l a d u r i e In linea generale questo al­ bero è valido dal regno di Francesco I all’avvento di Colbert. A partire da Colbert non ha più valore. fer n an d b r a u d el Insomma, Colbert è già cartesiano, a tutto nostro svantaggio.

Fernand Braudel in persona. Mi rivolgo adesso a Theodor Zeldin che questa mattina ha voluto tirarmi in ballo direttamente. Mi ha accusato di essere una strana razza di francese, facendomi un po’ irrita­ re, perché è vero e falso. Temo proprio che la fama che im­ provvisamente mi ha avvolto sia, dal punto di vista storico, un avvenimento infausto. Ho avuto moltissimi allievi cui sono molto affezionato e coi quali ho avuto delle divergenze; e si presenterà certo l’occasione di averne delle altre. Mi ripetono spesso: «Lei ha avuto una vita particolarmente privilegiata». Ma io protesto vivacemente. Ho detto ieri, parlando di Jean-Paul Sartre, che si era impegnato sul piano francese e su quello interna­ zionale in maniera molto più brillante di quanto non abbia fatto io. Cosi, senza volerlo, o forse volendolo inconsapevol­ mente, sono stato ingiusto nei miei confronti. Allora vi chie­ do di stare ad ascoltarmi per un attimo, può darsi, persino, che non vi annoiate troppo. Ho avuto una vita difficile. Più che difficile, difficilissi­ ma. Ma ho sempre conservato il piacere di vivere. Tanto che non ho mai perso tempo a lamentarmi. E ne avrei da lamen­ tarmi! Non l’ho fatto perché detesto la vanagloria. E anche perché penso che la vita che ho condotto finirebbe per dare un’immagine di me stesso fin troppo elogiativa, più elogia­ tiva di qualsiasi elogio.

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Ho passato la mia vita a esser trombato dalla vita univer­ sitaria francese e dalla vita francese pura e semplice. Appar­ tengo a quel genere di uomini cui piacciono le riforme, cui piace apportare dei miglioramenti. Con grande ingenuità mi sono illuso che fosse facile. Ma in realtà non ci sono mai riu­ scito del tutto. Quando sono ritornato dalla prigionia nel 1945... ma non vorrei fare della retorica... sono stato incaricato di tenere un corso alla Sorbona sulla storia dell’America latina. L ’Ame­ rica latina è stata l’incantesimo della mia vita. Ho tenuto al­ cune lezioni: non ho avuto un successo prodigioso ma straordinariamente prodigioso. Cosi mi sono chiuso in fac­ cia le porte della Sorbona, perché si è subito avvertito quale pericolo potevo rappresentare per la storia tradizionale. Ho incontrato spessissimo delle persone che con molta benevo­ lenza mi hanno dirottato in qualche binario morto. Sono stato cosi nominato al Collège de France: un vero e proprio sollievo per l’Università francese perché il Collège de France non ha il diritto al conferimento di titoli. L ’Università fran­ cese non realizzava che il Collège de France - come ancor oggi col mio successore Emmanuel Le Roy Ladurie - confe­ risce in certo senso una posizione di superiorità. Ma non avevo il diritto di rilasciare dei diplomi. In seguito, con un certo coraggio, ho tentato di creare una facoltà che fosse una Facoltà di Scienze Umane in senso globale. Sono contrario alle Facoltà di Lettere, Facoltà di Diritto ecc. Cosi - il caso è sempre piuttosto strano nella vi­ ta di ciascuno di noi; è l’ironia della storia - sono stato no­ minato, guarda caso, e penso che chi di voi conosce la storia dell’Università mi capisca perfettamente, sono stato, dice­ vo, per sei anni presidente della commissione del concorso a cattedra di storia; finché un ministro, non di destra ma di si­ nistra, mi ha dato il benservito. Forse il fatto di essere stato scaricato in questo modo ave­ va attirato un po’ di attenzione sulla mia persona; sia come sia, un mese o due dopo esser stato messo alla porta rispunto in quello che allora si chiamava il piano quinquennale. Ho cominciato a fare dei disastri. Ho lanciato la proposta, in un articolo pubblicato sulle «Annales» firmato Chambon, di una Facoltà di Scienze Sociali. Costituì una tale minaccia

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che si tenne una riunione veramente incredibile con un ri­ sultato che ha lasciato traccia sino ai nostri giorni, almeno nella nomenclatura. Le Facoltà di Diritto diventarono Fa­ coltà di Diritto e di Scienze Economiche, mentre le Facoltà di Lettere presero a chiamarsi Facoltà di Lettere e di Scien­ ze Umane. Sarà stato perché ero un caratteraccio... se non altro ho avuto il gran vantaggio di esser ributtato sulla ricerca. E un privilegio fantastico. Il Collège de France significa ricerca. Insieme a Lucien Febvre e qualcun altro abbiamo messo in piedi la V I' section dell’Ecole des Hautes Etudes suscitan­ do l’ironia generale perché non conferisce titoli universitari. Esiste un diploma dell’ Ecole des Hautes Etudes, ma non rientra nella gerarchia dei titoli. Insomma, sul binario morto in cui ci avevano parcheggiati ci hanno lasciato instradare la V I' section des Hautes Etudes de Sciences Economiques et Sociales. In Francia non si sono degnati di servirsi di noi? Benissimo; siamo stati utilizzati all’estero! La V I' section de l’Ecole des Hautes Etudes è stata la più grande istituzio­ ne tra il 1929 e il 1968. Dio sa a quanta gente ho dato fasti­ dio! Poi, Christian Fouchet, che nutriva un sentimento di grande amicizia nei miei confronti - per altro ricambiato mi ha nominato in una commissione per la riforma. Al mio posto non ne avreste approfittato? Io ne ho approfittato si­ no in fondo e sono riuscito ad ottenere che il concorso a cat­ tedra venisse profondamente modificato. Lo confesso a bas­ sa voce e nascondendo il volto: non mi piacciono i concorsi perché fiaccano chi riesce e rovinano chi fallisce. Insomma non lo trovo affatto ragionevole: essere obbligati in sei ore, senza disporre delle conoscenze necessarie, a produrre un elaborato di venti-venticinque pagine! Con venticinque pa­ gine si è promossi, con venti si ha un voto molto basso, con quattro si è stangati. Incredibile! Perché, per rispondere alle domande che fanno ancor oggi parte del gioco, si è dovuta far indigestione di nozioni sui vari manuali, un accumulo di mezze conoscenze invece di approfittare della propria gio­ ventù per imparare il tedesco, il latino, il greco, l’economia politica. Insomma sono riuscito in qualche modo a modifica­ re l’esame; Christian Fouchet sprizzava felicità da tutti i po­ ri all’idea di poter far qualcosa. Diceva persino: «si potreb­

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be sopprimerlo». Allora si è assistito a delle riunioni della Commissione di Christian Fouchet assolutamente incredibi­ li! Il direttore dell’Ecole Normale Supérieure una volta mi ha chiesto: «M a se gli studenti non si preparano all’esame che cosa faranno?» E tutti gli hanno risposto: «Qualche al­ tra cosa». Ma lui non si è ritenuto soddisfatto. E non cre­ diate che la faccenda si sia risolta a mio favore. Christian Fouchet è andato a trovare Pompidou - Pompidou gli dava del «tu» (è una regola fissa: gli uomini politici si danno tutti del «tu» dall’epoca della Terza Repubblica) - e gli dice: «Se continui ad occuparti di questo benedetto esame ti met­ to alla porta». Allora Christian Fouchet ci ha riflettuto su a lungo e non c’è stata nessuna riforma. Insomma sono sempre stato trombato su tutta la linea. È chiaro che in quanto sostenitore delle riforme sono un uomo profondamente di sinistra. Ma sia la sinistra che la destra mi hanno trattato a pesci in faccia tutte le volte che la mia buo­ na volontà non mi faceva né un uomo della destra né un uo­ mo della sinistra. Quando ultimamente la sinistra è arrivata al potere ha fatto benissimo a spazzare un sacco di cose, ma non a nazionalizzare come ha fatto. Il mio giudizio negativo si basa su quanto ho potuto constatare direttamente in Ita­ lia. La mia non è una posizione teorica; si fonda su dati mol­ to concreti. Potrei continuare ancora a lungo a raccontarvi la mia vita... Al b e r t d u r o y Quando poco fa Theodore Zeldin ha detto che lei era un Francese «anomalo», credo intendesse dire che la storia della sua vita ce la rappresenta come un in­ dividuo rivolto verso l’esterno. Ma all’esterno, i Francesi so­ no in genere considerati come unicamente rivolti verso se stessi; insomma egocentrici e convinti che l’unica vera cul­ tura al mondo sia quella francese. E rispetto a quest’imma­ gine dei Francesi che lei è «anomalo». Ma lei ritiene fonda­ to questo tipo d’immagine dei Francesi? fer n an d b r a u d el E una domanda che bisognerebbe ri­ volgere a Theodore Zeldin: ha studiato i Francesi come si studiano le cavie. Insomma, Theodore Zeldin era questo che intendeva dire? E che cosa ne pensa di questa cavia francese?

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THEODORE z e l d i n Sono felicissimo di esser riuscito a far parlare della propria vita una di queste cavie di rango che sa raccontare cosi bene. E sono interessato alla sua vita per­ ché la storia è costituita dalla storia degli individui. A l b e r t d u ROY Le affermazioni di Fernand Braudel re­ lative al decentramento hanno fatto scalpore: lo testimonia­ no il gran numero di domande che ci sono giunte dall’udi­ torio. fe rn a n d b r a u d e l Rispondo senza preoccuparmi trop­ po del fatto che non si concordi col mio punto di vista, cer­ cate di capirmi. Ammiro enormemente l’onestà dei funzio­ nari francesi, un’onestà che non ho sempre ritrovato negli altri paesi. Il mio timore è che la burocrazia improvvisata che comporterà il decentramento provinciale non sia dello stesso livello qualitativo. Come vedete sono molto cattivo... A l b e r t d u ROY Le leggo ora un paio di domande su questo tema: « L a diffidenza di Fernand Braudel nei con­ fronti del decentramento è veramente giustificata? Perso­ nalmente non penso - è Y ves Delahaye del M inistero degli esteri, a parlare - che il decentramento rappresenti un peri­ colo per l’ unità nazionale; non si tratta infatti di un movi­ mento centrifugo, bensì di un trasferimento di competenze e di mezzi dal vertice alla base. Consentirà quindi una mag­ gior partecipazione del cittadino al governo del paese, cosa che mi sembra consolidarne l’ unità». fe rn a n d b r a u d e l Spero proprio che lei abbia ragione. Non sono affatto desideroso di veder avverate le mie previ­ sioni piuttosto pessimistiche. M a l’ affermazione che il tra­ sferimento dal vertice alla base non inneschi una forza cen­ trifuga mi sembra una pretesa piuttosto strana. Infatti è un po’ come prendere il centro di un cerchio e trasferirne alcu­ ni elementi sulla circonferenza. ALBERT d u ROY La seconda domanda contiene una cri­ tica precisa nei suoi confronti: «M i sembra che la posizione di Fernand Braudel sia ambigua. E il nazionalismo a ispirare il suo giudizio negativo sul decentramento? Teme forse che la nazione smetta di essere una e indivisibile? M a, d ’ altra parte, la sua denuncia del ruolo eccessivo esercitato dallo Stato dovrebbe portarlo ad approvare il decentramento. Va anche sottolineato che non ha preso posizione sul capitali­

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smo. E sembrerebbe che, in quanto storico, non voglia prendere posizione sul decentramento. Se ho ben capito, in­ fatti, egli ha preso posizione in proposito in quanto citta­ dino». fer n a n d b r a u d e l Perché questa distinzione tra stori­ co e cittadino? Si tratta di un’unica e sola persona. E chiaro che posso mettere a tacere il cittadino e far parlare solo lo storico, ma è altrettanto chiaro che possono parlare tutt’e due. Al b e r t d u r o y C ’è qualcu n o che le rim p ro vera d i d are un g iu d izio ap rio ristico sul d e c en tram en to , v isto ch e non è an cora sta to rea lizza to . fern an d b r a u d el Spesso soggiorno in provincia, nelle Alpi. Se fossi stato sufficientemente coraggioso avrei inten­ tato delle azioni legali contro certi Comuni. Perché trovo inaccettabile che, sull’onda dello sviluppo delle stazioni scii­ stiche, ci sia chi si arricchisce alle spalle dei trasporti pubbli­ ci, dell’illuminazione delle città ecc. Lo ripeto, il mio timore è la diffusione di tutta un’organizzazione che non sarà carat­ terizzata da quell’onestà che ritrovo quasi immancabilmente nella burocrazia francese, di cui si parla peraltro cosi male. È chiarissimo che non sto rispondendo alle domande. Ma questo è quello che sento, che penso; se poi si realizzerà il decentramento potrò anche applaudire, ma... e m m a n u e l l e r o y l a d u r ie

È u na co sa tro p p o ir r iv e ­

ren te rico rd a re ch e il fin a n z ia m e n to d ei p a rtiti p o litici, sia d i destra sia d i sinistra, passa spesso per delle o perazioni im ­ m o biliari re a lizza te nel q u ad ro del d e c e n tra m e n to , sia a li­ vello m u n icip ale sia regio n ale? A l b e r t d u ROY Non so se sia troppo irriverente, so pe­ rò che corrisponde alla realtà. e m m a n u e l l e r o y l a d u r ie Diciamo dunque che que­ sto problema esiste, ma che non si può ricentralizzare per ri­ solverlo. Al b e r t d u r o y Hubert Caron, insegnante, le pone una domanda relativa alla sua concezione della storia: «Lei ha definito la storia globale “una storia arricchita da tutte le scienze umane” . Questa affermazione che tradisce un inten­ to di totalizzazione e di unificazione del sapere che tipo di rapporti intrattiene con una filosofia della storia?»

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fe rn a n d b r a u d e l I compatrioti di Karl Ferdinand Werner mi hanno ripetutamente rimproverato di non elabo­ rare una filosofia della storia. Ma in primo luogo non ne sarei capace e in secondo luogo non voglio farlo. Si tratta piuttosto di capire bene la lezione delle «Annales», della scuola delle «Annales», e anche della «nuova, nuova storia», ossia che tutte le scienze umane debbono essere sussunte dalla storia per farne delle scienze ausiliarie. M a si tratta anche di scienze ausiliarie piuttosto pericolose perché il campo dello storico non ha frontiere la storia è un po’ un porto di mare - , sicché queste scienze umane, queste scienze sociali aggrediscono la storia e le su­ scitano un sacco di problemi. Sino a far sorgere la domanda se il compito della storia consista nel raccontare il passato oppure nel collaborare alla unificazione delle scienze umane, a quella che io chiamo l’«interscienza». Io mi schiero per « l’interscienza». Il conflitto che esiste tra me e le «Nouvelles Annales», tra me e Emmanuel Le Roy Ladurie - e sto per dire una cosa che farà un enorme piacere a Zeldin! - sta nel fatto che io non esito a sacrificare la storia nel tentativo di salvare le scienze umane: accuso l’economia politica di es­ sere imperfetta; rimprovero alla geografia di non scendere troppo in profondità; per quanto riguarda la sociologia mi li­ mito ad arrabbiarmi moltissimo! e Dio sa quanto la sociolo­ gia m’ appassioni! M a quei sociologi che credono di trovare la verità della società osservandola con la lente d ’ingrandimento o rizzan­ do le orecchie ai minimi rumorini dell’ attualità dimostrano di non avere il senso della prospettiva. Se facessi della pittu­ ra astratta non direi che la pittura astratta è migliore; ma di­ co che questa è la storia che mi piace, quella per la quale de­ sidero lavorare. Al b e r t d u r o y Qualche giorno fa lei ha tenuto una le­ zione a dei bambini di 13 -14 anni di una scuola di Tolone sull’« assedio di Tolone nel 1707». I bambini, mi hanno det­ to i miei colleghi che li hanno intervistati, si sono dimostrati molto interessati... fe rn a n d b ra u d e l

altro...

Credo di averli divertiti, se non

LA FRANCIA Al b e r t d u r o y Si è trattato di un racco n to , m a di tea tro ch e h a n n o a p p re zz a to m o lto ...

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fo r­

fer n an d b r a u d el Ma io non sono un buon attore, è questa la scocciatura! Al b e r t d u ROY Che consigli darebbe a un giovane pro­ fessore di storia? fer n an d b r a u d el In primo luogo gli direi: « Mio caro giovanotto, i consigli valgono quel che valgono. Io te li do, ma sarai tu a pagarne il prezzo ». Oggi l’insegnante è prigioniero dei programmi. E vi pre­ go di non credere a tutte le inesattezze che si sono dette in proposito: non sono io l’autore dei programmi di storia. Ed­ gar Faure mi ha nominato presidente della Commissione di riforma dell’insegnamento della storia nella scuola seconda­ ria. La Commissione si è riunita otto volte. Non è arrivata ad alcuna conclusione. Dunque non ho nessuna responsabi­ lità. Tuttavia, se dipendesse da me, nei primi anni insegne­ rei la storia tradizionale, la storia-racconto: si raccontano le cose e poi si fa una pausa di riflessione per spiegare le cose più importanti; inoltre nulla vieta che si inseriscano qua e là delle brevi considerazioni d ’ordine sociologico, economico ecc. La storia degli ultimi e degli ultimissimi anni la riserve­ rei invece alle sole classi terminali. Perché trovo insensato, aberrante, che al baccalauréat s’interroghino i ragazzini sul periodo 1945-85 come si fa oggi. Sono sicuro che se fossi l’e­ saminatore stangherei qualsiasi storico al baccalauréat\ E stangherei anche me, se mi sottoponessi a un simile esame! I vostri applausi mi dànno ragione e io do ragione ai vostri applausi. Trovo anche inammissibile che gli esami siano congegnati per bocciare. Non può continuare cosi; nei primi anni di me­ dicina si studiano un sacco di cose che non hanno nulla a che vedere con il reale esercizio della medicina, e questo per una sola ragione: per sfoltire il numero dei futuri medici! Lo sanno tutti che questa è la verità. Ed è cosi in tutti i campi. L ’accesso alla scuola superiore dovrebbe essere facilitato con un insegnamento più consono al modo di essere dei sin­ goli studenti. In Inghilterra si fanno delle cose veramente eccellenti sotto questo riguardo. A Oxford ci sono studenti di Lettere che studiano solo

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greco. In Francia ti obbligherebbero a studiare anche il lati­ no, il francese e persino la storia. Bisogna lasciare alla gente una certa libertà di seguire le proprie inclinazioni... Sono stato io a ripristinare il commento del testo all’esame di con­ corso. I candidati sono poco più che ragazzini. Quando fan­ no un buon commento se ne rendono conto, e quando gli si dice che l’esame è finito se ne dispiacciono, vorrebbero re­ stare ancora un altro quarto d ’ora per mostrare quello che valgono. Il candidato dovrebbe essere messo sempre a suo agio; messo nella condizione di far valere al massimo le sue capacità. A lb e r t du r o y Che impressione le hanno fatto questi tre giorni? fern a n d b ra u d e l M i sono divertito moltissimo. Molti amici mi hanno detto: « Non essere irragionevole come al so­ lito». V i sembra che abbia seguito il loro consiglio?

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Si può parlare di una visione filmica della storia? di M arc Ferro. È un merito di Fernand Braudel esser stato tra i primi a capire la funzione del film nell’ambito dell’analisi storiogra­ fica. Peraltro, è uno dei pochissimi storici ad aver utilizzato le immagini e gli oggetti come fonte d ’informazione e di ri­ flessione allo stesso titolo delle altre fonti, e non, invece, co­ me semplici supporti per illustrare tesi elaborate sulla base di altri documenti o per altre vie. Cosi egli creò all’ Ecole Pratique des Hautes Etudes (VP section) una Direction d ’ Etudes, intitolata Cinema e Storia che non aveva equivalenti nelle altre istituzioni. Allora la storiografia non prendeva in alcuna considerazione i docu­ menti cinematografici; oppure lo studio del cinema era sepa­ rato dalle Sciences Sociales, con la sola eccezione della lingui­ stica. Negli U S A , poi, cinema e storia non avevano alcun rapporto. Ma quello che si è verificato negli ultimi vent’anni con la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa e il loro in­ gresso in tutte le case, sino al raggiungimento di una posizio­ ne di monopolio nella diffusione della conoscenza, in parti­ colare nel Terzo Mondo, ha per cosi dire messo lo storico davanti ad un fatto compiuto, costringendolo a considerare il film non un semplice documento ma addirittura una for­ ma particolarmente importante del discorso sulla storia. Co­ si ha acquistato sempre maggior rilevanza la domanda se­ guente: il film consente una maggior comprensione dei feno­ meni storici? Il cineasta li guarda con occhio nuovo? Quale * Si riportano qui di seguito le comunicazioni dei responsabili dei laboratori pomeridiani cui ha partecipato un vasto pubblico.

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parte ha la creatività dell’artista nel raccontare e analizzare il passato, nel coglierne i rapporti col presente? E chiaro che qui ci si riferisce in particolar modo al film storico. Ma tutti i film non sono forse Storia? Il film storico può essere considerato sotto diversi punti di vista. Quello più diffuso, che si richiama alla tradizione erudita, consiste nel verificare la correttezza della ricostru­ zione: se, per esempio, i soldati francesi del 19 14 non porti­ no l’elmetto, mentre di fatto hanno cominciato a portarlo solo nel 19 16 ; se gli ambienti corrispondano alla realtà sto­ rica; se i dialoghi siano autentici. La maggior parte dei ci­ neasti è attenta a questa forma di erudizione e per garantirsi ricorre spesso all’aiuto di storici «esterni», i cui nomi figu­ rano poi un po’ sperduti nei titoli di testa. Naturalmente ci sono dei cineasti più esigenti che si trasformano in storici, prendono a frequentare gli archivi e restituiscono ai dialoghi la loro patina antica sino a ricorrere al dialetto slesiano o della Normandia qualora lo ritengano necessario. Cercano anche di limitare al massimo la ricostruzione in studio per evitare effetti stonati di cattivo gusto, cosi scelgono con cu­ ra gli ambienti rimasti immutati dall’epoca cui il film e la sua trama si riferiscono. Sono metodi di lavoro del genere, che peraltro non escludono altri tipi di esigenze, ad aver contri­ buito all’affermazione di registi come René Allio e Bertrand Tavernier. Anche il «mondo» di Bertolucci ha a che fare con questo genere di cose: nella Strategia del ragno, un sem­ plice fazzoletto rosso, un’impercettibile variazione dell’illu­ minazione, significano figurativamente il ritorno a un lonta­ no passato, a un passato immaginario. Lo sguardo di stampo positivistico non esclude il riferi­ mento a differenti valutazioni. La realizzazione del Nevskif e del Rublev, per esempio, è opera di due artisti altrettanto esigenti: entrambi molto documentati, dotati di spiccata sensibilità, assai abili nell’immaginare e ricreare un’epoca particolarmente drammatica, hanno, tuttavia, riconosciuto lo stesso periodo storico (o quasi) realizzando due film che divergono su un punto essenziale; nel Nevskij, infatti, il ne­ mico mortale è il Tedesco, mentre nel Rublev è il Tartaro, il Cinese. In quest’ultimo film, poi, la salvezza della Russia si

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deve alla santità, al cristianesimo, mentre nel Nevskij si ha un’intenzionale laicizzazione dell’eroe. Cosi l’ ideologia del film diventa un elemento valutativo distinto dalla capacità del regista - com’è del resto evidente. D i fatto, però, quest’ altro tipo di considerazione interfe­ risce col primo. Talvolta arriva addirittura a sostituirvisi: il film storico è apprezzato sia per il suo significato sia per la sua essenza. Non c ’è da stupirsi se nell’ultimo mezzo secolo, in una società dominata dalle ideologie, il criterio che fa ri­ ferimento ad esse ha spesso preso il sopravvento. C osi Abel Gance e Jean Renoir forniscono due versioni contrastanti della Rivoluzione francese: la prima, bonapartista e incon­ sciamente prefascista, inneggia all’uomo provvidenziale; la seconda, marxisteggiante e populista, finisce per ignorare l’esistenza stessa dei «grandi uomini». In entrambi i casi, insomma, il cineasta sceglie tra i fatti storici quelli che me­ glio servono la sua tesi e trascura gli altri, accontentandosi e accontentando chi condivide il suo punto di vista. Anche Orizzonti di gloria è costruito sullo stesso principio, e il suc­ cesso del film testimonia la sua capacità di corrispondere perfettamente alle attese di chi si ispira a una fede antimili­ tarista. Il film storico che si ispira a questa concezione non diffe­ risce molto dalle altre forme di discorso sulla storia: il ro­ manzo storico, i lavori accademici ecc. Anche in rapporto al teatro si ha una scarsissima specificità cinematografica, fon­ data unicamente sugli angoli di ripresa, totali, primi piani in dissolvenza, maggiore elaborazione del rapporto suono im­ magine ecc. Non v ’è dubbio che questo genere di film con­ tribuisca alla comprensione storica e alla diffusione di cono­ scenze storiche: hanno una funzione pedagogica; ma sono scarsamente interessanti per quanto concerne il contributo scientifico del cinema alla comprensione dei fenomeni sto­ rici. Sono la semplice trascrizione filmica di una visione della storia elaborata da altri. Non v ’è dubbio che, grazie anche alla scelta di trame in­ novative, vi siano dei cineasti che hanno contribuito in pri­ ma persona alla comprensione dei fenomeni storici, com­ prensione che le forme tradizionali del discorso storico non

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avevano saputo veicolare. Visconti, per esempio, ne II crepu­ scolo degli dèi fornisce un grande contributo alla compren­ sione di come il nazismo si sia diffuso nell’alta borghesia te­ desca. In questo caso, forma e tematica hanno l’effetto o la funzione di velare l’ideologia latente del film che, peraltro, continua ad avere un’origine esterna. In Visconti, questa ideologia consiste in una visione globale della storia come decadenza, tanto che i suoi film sono una specie di elegia a tutto ciò che scompare in seguito all’ avvento del nuovo. E invece diverso il caso di tutti quei film che, a partire da un fatto quotidiano, svolgono una duplice funzione, che non è specifica del cinema, poiché prima del suo avvento e con- j temporaneamente al suo sviluppo, Zola, Camus o Sartre procedono, come Renoir, RosselUni, Godard o Chabrol, per una via analoga, utilizzando appunto il semplice fatto quo­ tidiano come rivelatore del meccanismo sociale e politico. Solo che il film ha saputo utilizzare questo filone molto me­ glio del romanzo e degli storici spesso a rimorchio: filone che il cinema ha dapprima limitato al solo presente ma sta ora estendendo anche al passato. Un caso analogo è quello di tutta una serie di film che, seguendo un percorso parallelo a quello degli storici, forniscono un’analisi della vita quotidia­ na della società del passato - e valga per tutti l ’esempio de L'albero degli zoccoli e di Farrebique - inaugurando per cosi dire l’era della storia anonima, ossia quella che reagisce e su­ bisce i contraccolpi della «grande» storia, i contraccolpi dei grandi avvenimenti, le loro tragiche conseguenze. Ne deriva che la capacità di analisi, o di contro-analisi del cinema si esplica propriamente solo a determinate condizio­ ni. Tra le quali, in primo luogo, quella che i cineasti, al pari di certi scrittori, romanzieri e storici, si pongano in una po­ sizione di autonomia rispetto ai modi di vedere istituzionali del momento - cosa che per esempio non si verifica nel caso dei realizzatori di film di propaganda o comunque conformi all’ideologia dominante - , perché in caso contrario la loro opera è semplicemente complementare, magari in forma nuova, alla visione invalsa. Cosi, tralasciando il film spettacolare di pura evasione con la funzione pedagogica che gli è propria - da Cecil B. de Mille a Sacha G uitry - , la distinzione fondamentale non

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è tra film nei quali la storia costituisce il quadro, come per esempio La Grande Illusione, e film di soggetto storico, co­ me per esempio Aleksandr Nevskij, perché la storia ammette un’infinità di approcci dotati di valore di verità. Si tratta quindi, piuttosto, di distinguere tra film che s’inseriscono in una determinata corrente di pensiero - sia essa dominante o minoritaria - e film che, invece, propongono uno sguardo indipendente e innovatore sulla società. La stessa distinzio­ ne, del resto, si ripresenta tra film documento e film di mon­ taggio, dove i primi forniscono alla conoscenza storica un contributo di valore incalcolabile, degli archivi inediti. La seconda condizione indispensabile è che la scrittura sia di matrice cinematografica e non ricalchi il teatro filma­ to, utilizzando appunto i mezzi specifici del cinema (carrelli, montaggio parallelo, campo, controcampo). Si possono cosi distinguere più categorie di «film sto­ rici»: - quelli che ripropongono gli stereotipi del modo di pen­ sare dominante o minoritario e che non istituiscono al­ cun legame reale con i rapporti sociali reali. Per esem­ pio i film ambientati nelle colonie, come dimostrano J. Richards per l’impero britannico e S. Chevaldonne per gli ex possedimenti francesi; - film di propaganda di tutte le specie, film che si pro­ pongono più di esercitare un’azione sulla storia che non di elaborare un’analisi originale; - film che ricostruiscono pezzo per pezzo un’analisi ba­ sandosi su un procedimento puramente cinematografi­ co, come fa Ejzenstejn in Staéka [Scioperò], che costitui­ sce una trascrizione filmica dell’analisi marxista del modo di produzione capitalistico in un caso determina­ to: una fabbrica russa anteriore al 1905; - film che forniscono un’analisi originale e indipendente del meccanismo storico-sociale e che, nello stesso tem­ po, la esprimono con mezzi propriamente filmici, come Fritz Lang, in M, che attraverso la vicenda di un ma­ niaco sessuale arriva a tratteggiare il meccanismo di funzionamento della repubblica di Weimar.

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Come si può vedere il tipo di analisi non dipende né dal genere cinematografico (documentario, ricostruzione, rico­ stituzione) né dall’epoca cui si riferisce. E possibile che un film sul presente fornisca un’analisi del passato migliore di quella di un film cosiddetto storico.

Film e contro-storia, il film , agente della storia. Ci si è resi conto ormai da tempo che un film sul presente costituisce un’opera di storia o, più precisamente, di contro­ storia, dato che, si tratti di opera di « finzione » o meno, il contenuto dell’immagine va sempre al di là dell’immagine stessa: insomma l’immagine non è la semplice riproduzione del «reale», di ciò che l’operatore crede che sia la realtà. Gli esempi non mancano. Analizzando i film agricoli degli anni 1930, Ronald Hubscher osserva che le inquadrature ripetu­ te delle mani, in corrispondenza delle diverse fasi della siste­ mazione del vigneto, erano dettate dalla volontà di sottoli­ neare l’abilità del gesto; ma, d’altra parte, un certo scarto tra conoscenza e tecnica emerge in alcuni aspetti dell’orga­ nizzazione del lavoro, sicché il film rivela questa realtà in maniera del tutto involontaria. Questa contro-analisi può esplicarsi a diversi livelli: in primo luogo a quello del reper­ torio dei gesti, degli oggetti, dei comportamenti sociali ecc. Poi a quello della struttura e dell’organizzazione sociale, es­ senzialmente nei film non documentaristici che non hanno la funzione di informare. Vi sono poi dei film in cui l’inten­ to esplicito di svelare i meccanismi più nascosti di un siste­ ma sociale - gli aspetti visibili sono elementi da storia tradi­ zionale - porta alla realizzazione d’un’opera di contro­ storia che suscita la reazione di tutti i sistemi istituzionali: organizzazioni politiche e sindacali, enti morali, stampa ecc. Da questo punto di vista, cineasti come Lev Kulesov, Fritz Lang, René Clair, Jean-Luc Godard - per restare nel vec­ chio continente - possono considerarsi i veri eredi dei ro­ manzieri del secolo xix, i grandi storici del loro tempo. An­ cor più dei precedenti, alcuni erano perfettamente consape­ voli di disporre di uno strumento eccezionale per mostrare il carattere illusorio della storia, per proporre la loro verità:

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due giganti del cinema, Abel Gance e Charlie Chaplin han­ no saputo darci un’opera troppo coerente perché se ne possa dubitare (realizzando La Grande Illusion, Jean Renoir ha creduto di poter agire sulla storia, nel senso della pace...) La verità di quanto detto è confermata dal fatto che oggi il film

costituisce una forma particolarmente efficace di contro-storia-, una forma più che un punto di vista. Non intendo tanto i film che hanno battuto i record d’incasso, ad eccezione, seb­ bene ciò sia avvenuto con un certo ritardo e non in patria, dei grandi film sovietici degli anni 1920. Bensì i film realiz­ zati con pochi mezzi che, in certi casi anche se non sempre, consentono a un gruppo di prendere la parola. In passato, e a suo modo, rispetto all’imperialismo e al capitalismo trion­ fanti, in un momento in cui i film sovietici erano vietati al­ l’estero, l’opera di Joris Ivens ha presentato alcune di queste caratteristiche, come nel caso di Borinage (1931), per esem­ pio. In seguito, però, quest’opera ha cambiato statuto per­ ché, oggi, l’intero apparato del partito, dello Stato in cui la rivoluzione ha trionfato, l’ha trasformata ed essa è diventata espressione del discorso ufficiale. Oggi, di fronte alla concentrazione della stampa, sono le mini-organizzazioni, i gruppi poco strutturati ad utilizzare il film, sia che si tratti di opere di militanti realizzate da cinea­ sti, sia che si tratti di film realizzati dal gruppo stesso. Come si verifica appunto nel caso del cinema al femminile, del ci­ nema degli immigrati; ma anche del cinema regionale, del­ la campagna francese. Da questo punto di vista l’opera di Trolle e Dafarge si colloca al confine tra cinema della contro-storia e cinema completamente autonomo: per primi hanno dato la parola, sin dal tempo dello shah, agli ayatollah e agli abitanti delle bidonville di Teheran; per primi hanno fatto si che potesse esprimersi La Colere corse [La rabbia cor­ sa, 1974]. Raramente gli sono stati concessi gli schermi (ad eccezione che in Germania federale), e altrettanto raramen­ te ne hanno parlato radio e giornali. I film militanti dei mo­ vimenti femministi hanno, invece, ricevuto un’accoglienza migliore, ma questo proprio perché c’erano delle mini­ organizzazioni a sostenerli. Ma le grandi opere filmiche della contro-storia provengo­ no ovviamente da quelle società dove il regime politico non

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ammette un libero sviluppo della storia che, per esprimersi, assume una forma cinematografica. Cosi, il cinema polacco si serve della storia per meglio esprimere la dissidenza inter­ na: come mostra chiaramente L. M. Rawicki, la seconda guerra mondiale è un momento privilegiato per la critica ra­ dicale del regime, tanto che i film che la utilizzano come quadro o direttamente come soggetto rappresentano circa la terza o quarta parte dell’intera produzione; si tratta di un vero e proprio record europeo. In U RSS la televisione ha preso il posto dell’agit-prop, e i film si sono emancipati in maniera anche notevole; tanto che non è facile spiegarsi co­ me mai si sia potuto produrre un numero cosi elevato di opere dapprima vietate dalla censura e poi autorizzate, ope­ re di cui Rublev costituisce un po’ il prototipo. Il cinema georgiano in generale, e quello di Ioseliani in particolare, è interessante dal nostro punto di vista perché si colloca a me­ tà strada tra la contestazione e la dissidenza... L ’Africa nera è un’altra area in cui i film hanno costituito una forma particolarmente importante di contro-storia. Gli storici hanno esitato a lungo a richiamare i misfatti non tan­ to della colonizzazione, che costituiscono ormai un punto obbligato, quanto quelli dell’IsIam e dello schiavismo arabo in particolare. Non ha invece avuto alcuna esitazione Sembene Ousmane, la cui macchina da presa presenta l’IsIam trionfante del secolo xvrn come una forma particolare di to­ talitarismo contro il quale lottano sino alla morte i CecLdo. In altro contesto storico, i cineasti indiani dell’America latina non esitano ad affermare, in Sangue di condor, che «la realtà nazionale boliviana è caratterizzata da due forze: il popolo che si batte per la vita e l’imperialismo che semina morte». Negli Stati Uniti, Native Americans on film and vi­ deo fornisce un catalogo dei film della resistenza indiana. Sono circa una trentina, prodotti per la maggior parte dopo il 1968, senza contare i film sugli Indiani realizzati da antropologi. Costituiscono un importante complemento della contro-storia scritta, che ha una minore diffusione, visto lo stato e la posizione subordinata in cui si trovano oggi le tri­ bù e le nazioni indiane degli Stati Uniti e del Canada. Uno dei film più degni di nota è The Black Hills are not for sa­ le [Le Black Hills non sono in vendita] di Sandra Osawa, si

I LABORATORI

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tratta di un videotape che mostra come il generale Custer abbia violato il trattato di Laramie stipulato con i Sioux nel 1868, e come, nel 1978, i Sioux abbiano ottenuto parziale riparazione. Non si tratta precisamente di un western... Il cinema americano nel suo complesso consente di veri­ ficare in che rapporto siano la visione della storia diffusa dalla conoscenza tradizionale e quella che trova rappresen­ tazione nei film: esse non sono necessariamente coincidenti.

La Francia: demografia e politica

di Hervé Le Bras.

Nonostante tre secoli (almeno) di centralismo, la Francia è ben lungi dall’essere uniforme: educazione, famiglia, pro­ fessione, mortalità, voto politico cambiano secondo le regio­ ni senza motivo apparente. Le spiegazioni tradizionali forni­ te dalle scienze sociali, perlopiù basate sull’economia o sulla divisione delle classi sociali, spiegano in realtà ben poco. Anche il richiamo ai fenomeni culturali non dà molti risulta­ ti, perché assume come dato ciò che andrebbe invece spiega­ to come un risultato. Si è cosi passati ad esorcizzare il pro­ blema, da circa un secolo a questa parte, predicendo la pros­ sima sparizione delle diversità regionali appiattite dalla «modernità». E possibile spiegare l’eterogeneità nazionale a due condi­ zioni: esaminarla dettagliatamente e studiarla sulla lunga du­ rata. Le differenze regionali sono infatti frutto di una resi­ stenza assai antica e profonda all’unificazione politica del territorio; ad esse si ispirano l’autonomia regionale e l’autorganizzazione locale in tutte le loro sfaccettature. Se le si considera sotto questo punto di vista, diventa possibile co­ glierne l’intima razionalità. Resistenza all’unificazione, autonomia, organizzazione, sono tutti termini che rimandano al concetto di riproduzio­ ne sociale, ossia al ricondursi della società da una generazio­ ne all’altra. La Francia è divisa in parti che hanno visto svi­ lupparsi delle modalità originali, coerenti e incompatibili di equilibrio sociale col succedersi delle generazioni. Struttura­ zione politica e cicli della vita familiare sono strettamente

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UNA LEZIONE DI STORIA

connessi a queste modalità: i comportamenti demografici, le migrazioni, età e frequenza dei matrimoni, fecondità, mor­ talità, dimensione della famiglia, rapporti tra generazioni modellano il controllo sociale e la mobilità. Il controllo della mobilità sociale e, in particolare, la limi­ tazione della mobilità verso il basso costituiscono un grande problema della società: nessuna società è in grado di soppor­ tare troppo a lungo un cumulo eccessivo di aspirazioni fru­ strate. Ed è proprio qui che politica e demografia si mesco­ lano profondamente. Per quanto riguarda la Francia, si possono individuare tre diverse modalità di questo metabolismo demopolitico: esse sono rispettivamente correlate al cattolicesimo, alla famiglia e al centralismo parigino. Il cattolicesimo che caratterizza certe regioni non è tanto espressione di una fede misteriosa, quanto di una forza po­ litica quale si può ritrovare in Polonia o in Irlanda e, in un’altra religione, in Iran. In Francia il cattolicesimo si è particolarmente radicato in quelle regioni che godevano di una certa indipendenza nell’Antico Regime e che si sono op­ poste alla Rivoluzione. Esso si fonda su una demografia piuttosto curiosa, fatta di matrimoni tardivi, di celibato dei poveri e dei figli di famiglia numerosa in modo da consenti­ re un’ascesa sociale piuttosto limitata. La famiglia complessa, nelle regioni laiche, meno indipen­ denti delle zone clericali, ha anche una funzione strutturan­ te. Ma, in quanto società troppo angusta, non è stata in gra­ do di resistere ai cambiamenti intervenuti negli ultimi cento anni, e sopravvive più che altro come forma di rifiuto. Il centralismo parigino finisce poi per imporsi; dal Bacino parigino si diffonde verso sud, verso Bordeaux da una parte e, attraverso la Borgogna, in direzione del Rodano, dall’al­ tra. Accompagnandosi alla famiglia nucleare, al matrimonio in giovane età, alle migrazioni, al lavoro salariato, tenta di ridimensionare le due forze precedenti e più antiche che gli si oppongono. La lunga resistenza della Francia all’industrializzazione, la forza del mondo contadino, la debolezza delle migrazioni, l’immigrazione straniera, la situazione attuale in termini di fecondità, mortalità e scolarizzazione, la distribuzione della

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I LABORATORI

disoccupazione, del lavoro femminile, del divorzio e delle nascite al di fuori del matrimonio acquistano un significato se le si ricolloca in questa logica delle «tre France» politiche e demografiche. Le due relazioni introduttive al «laboratorio» si sono sof­ fermate su queste tematiche prima di affrontare problemi pivi specifici posti dagli uditori che hanno portato ad esami­ nare in particolare: - la caratteristica di unicità dell’andamento demografico della Francia nel secolo xix e, in particolare, l’estrema debolezza della sua crescita in confronto a quelle degli Stati confinanti; le cause e le conseguenze di questa specificità e, in particolare, le sue ripercussioni a livello ideologico a partire dal secolo xx, che si sono configu­ rate come eugenetica e natalismo; - l’interpretazione delle scelte elettorali in termini di rottura dell’equilibrio familiare e di rifiuto dell’omoge­ neizzazione voluta da Parigi: dal voto montagnardo del 1849, ai voti Pc e Fn del 1984, passando per i risultati elettorali di Mitterand e Tixier nel 1965, si può rein­ terpretare la geografia elettorale senza ricorrere alle ideologie, e tenendo presente, invece, quell’equilibrio tra le tre France cui si è accennato sopra.

Antropologia della Francia

di Emmanuel Todd.

Il concetto braudeliano di lunga durata sottolinea che la storia è attraversata da elementi stabili o a lentissima evolu­ zione. Questo concetto di lunga durata ha come suo possibi­ le sbocco l’antropologia storica; disciplina di matrice più in­ glese che francese sviluppatasi verso l’inizio degli anni set­ tanta in seguito ai lavori di storici come Peter Laslett o di antropologi-storici come Alan Macfarlane. I lavori della scuola di Cambridge hanno evidenziato un elevato grado di stabilità delle strutture familiari attraverso i secoli, se non altro nel periodo 1600-1900. Nel caso della Francia, l’analisi antropologica mostra la permanenza, all’incirca almeno sino al 1975, di forme fami­

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UNA LEZIONE DI STORIA

liari diverse nelle diverse province e regioni del paese. Il censimento del 1975, che fornisce dei dati molto tipizzati per gli ambienti agricoli, rurali e urbani, consente di distin­ guere due grandi tipi, dominanti, rispettivamente, nel Sud e alla periferia dell’Esagono; nel Bacino parigino inteso in senso molto ampio. In Occitania (ad eccezione della fronte mediterranea), nella bassa Bretagna, in Alsazia e in alcune regioni dell’e­ stremo nord è predominante la famiglia-stirpe, sistema basa­ to sul lignaggio i cui fondamenti sono la continuità del grup­ po domestico e la trasmissione del patrimonio sia culturale sia materiale. In ambiente rurale, questo tipo familiare com­ portava, tradizionalmente, la formazione di un nucleo com­ posto da tre generazioni, dove un erede era designato dalla consuetudine o dai genitori alla successione a capo dell’im­ presa. Questo sistema che prevede la permanenza di un fi­ glio adulto e sposato sqtto la tutela dei genitori, è da consi­ derarsi autoritario al livello dei rapporti genitori/figli. Ed è da considerarsi non egualitario al livello dei rapporti tra fra­ telli; infatti, poiché designa un successore diseredando in pratica gli altri figli, li costringe all’emigrazione o al celibato. Nel cuore del Bacino parigino, ossia la parte centrale e politicamente dominante dell’Esagono, è presente, proba­ bilmente dalla fine del Medioevo, un tipo familiare opposto a tutti i livelli a quello della periferia e del Mezzogiorno. Il sistema familiare nucleare del Bacino parigino si basa sulla necessaria indipendenza delle generazioni e sull’altrettanto necessaria uguaglianza tra fratelli. Il raggiungimento dell’età adulta da parte dei figli implica la formazione, col matrimo­ nio, di nuove unità domestiche separate da quella dei geni­ tori. La suddivisione del patrimonio tra i figli è di tipo egua­ litario. Identificato e trasferito sulla cartina geografica, questo dualismo familiare e antropologico della Francia (che non esclude ovviamente l’esistenza di tipi secondari o residuali) può valere come elemento esplicativo essenziale della storia nazionale. L ’inerzia delle strutture familiari consente la spiegazione della ricomparsa periodica, nella storia cultura­ le, ideologica e demografica del paese, di costanti legate alla geografia. Per poter interpretare correttamente la crisi prò­

I LABORATORI

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testante del secolo xvi, la rivoluzione politica del xvm, il so­ cialismo del xx, l’espansione culturale realizzata dal Mezzo­ giorno dopo il 1950, la fecondità relativamente elevata del Nord, occorre tener conto dell’esistenza e dell’azione eser­ citata da valori familiari stabilizzati, invisibili e inconsci che costituiscono, ciò nondimeno, un elemento fondamentale della vita sociale.

I partecipanti al colloquio

BRAUDEL FERNAND (Francia) Dell’Académie Française. Fondatore, nel 1962, della Maison des Scien­ ces de l’Homme. Cofondatore, con Lucien Febvre e Charles Morazé del­ la V I ' section de l’ Ecole Pratique des Hautes Etudes, di cui è preside dal 1956 al 1972. Professore al Collège de France dal 1949 al 1972. Di­ rettore della rivista «Annales (Economies, Sociétés, Civilisations)». Na­ to nel 1902 a Luméville-en-Ornois (Meuse), agrégé di storia nel 19 23 è nominato professore di liceo in Algeria (Constantine) s in o a li9 3 2 .I n Algeria «scopre» il Mediterraneo. E quindi trasferito a Parigi (licei Pa­ steur, Condorcet, Henri IV). Nel 1935 ottiene la cattedra all’Università di San Paolo del Brasile. Nel 19 38 lascia il Brasile per Parigi e l’Ecole Pratiques des Hautes Etudes. Nello stesso anno è mobilitato e destinato al fronte alpino. Nel luglio 1940 è fatto prigioniero sulla linea Maginot e internato sino al maggio 1945, prima a Magonza poi a Lubecca. A que­ sto periodo risale l’intuizione fondamentale di organizzare su un triplice piano temporale la sua tesi di Stato che redige «a memoria». Discuterà questa tesi nel 1947, col titolo La Méditerranée et le monde méditerranéen à l'époque de Philippe II, che sarà pubblicata nel 1949 (a spese dell’auto­ re). E eletto al Collège de France. Nel giugno 1984 è eletto all’Académie Française (seggio di André Chamson). Fernand Braudel è morto il 28 no­ vembre 1985. O p e re p r in c ip a li:

La Méditerranée et le monde méditerranéen à l'époque de Philippe II, Paris 1949, 4 “ ed. riveduta e ampliata, 1979 [trad. it. Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino 1976 , 2 voli.]. Navires et marchandises à l ’entré du port de Livoume (1347-1611), in col­ laborazione con Ruggiero Romano, Paris r 9 5 1.

Ecrits sur ¡ ’Histoire, Paris 1969 [trad. it. Scritti sulla storia, Milano 1973]. Civilisation matérielle, économie et capitalisme (xv'-xvni' siècle), Paris 1980, 3 tomi [trad. it. Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli xv-xvw), Torino 1977-82, 3 voli.]. Le monde actuel, Paris 1963 [trad. it. Il mondo attuale, Torino 1966, 2 voli.].

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UNA LEZIONE DI STORIA

L'Europe, Arts et Métiers Graphiques, 1980. Venise (fotografie di Folco Quilici), Paris 1984. Il secondo Rinascimento. Due secoli tre Italie, Torino 1986. La Dynamique du capitalisme, Parigi 1985 [trad. it. La dinamica del ca­ pitalismo, Bologna 19 8 1]. La Mediterranée, Paris 1985 [trad. it. Il Mediterraneo, Milano 1987]. De l'or du Soudan à l'argent d'Amérique, in «Annales E .S .C .» , 1946. Misère et banditisme, ivi, 1947. Il Mediterraneo d elxvn secolo, in « Storia e economia », 19 55. Histoire et Sciences Sociales: la longue durée, in «Annales E .S .C .» , 1958. La démographie et les dimensions des sciences de l ’homme, ivi, i960. La mort de Martin de Acuna, 4 février 1585, in Mélanges Marcel Bataillon, 1963.

La Méditerranée (a cura di Fernand Braudel), Arts e Métiers Graphiques, 19 7 7 , 2 voli.

Le Monde de Jacques Cartier, Paris 1984. Filmografia. La Méditerranée (1977), dodici trasmissioni televisive coprodotte da Eu­ ropa i , FR 3 e la R A I.

L ’Homme européen (19 8 1), coprodotto da FR 3 e RA I. Nella serie «Mémoire», l’ IN A ha dedicato due trasmissioni a Fernand Braudel (15 e 22 agosto 1984); interviste a cura di J.-C . Bringuier e D. Froissant.

AHRWEILER HÉLÈNE (Francia) Nata ad Atene nel 1926. Recteur de l’Académie, Chancelier des Univer­ sités de Paris. Vicepresidente del Consiglio superiore dell’ Education Na­ tionale. Professoressa alla Sorbona. Direttrice del Centre de Recherche d’ Histoire et Civilisation Byzantines et du Proche-Orient Chrétien. O p e re p r in c ip a li:

Recherches sur l'administration de l'Empire byzantin, Paris i960. L ’Histoire et la géographie de la région de Smyme entre les deux occupations turques {10 8 1-1)17), Paris 1965. Byzance et la mer. La marine de guerre, la politique et les institutions ma­ ritimes de Byzance aux vw-xw siècle, Paris 1966. Etudes sur les structures administratives et sociales de Byzance, London

I9 7 I-

L'Idéologie politique de l'Empire byzantin, Paris 1975. Byzance: pays et territoires, London 1976.

I PARTECIPANTI AL COLLOQUIO

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A Y M A R D M A U R IC E (Francia)

Nato nel 1936 a Tolosa. E x allievo dell’ Ecole Normale Supérieure. Agrégé di Storia. Directeur d’ Etudes all’Ecole Pratique des Hautes Etudes. Amministratore aggiunto della Maison des Sciences de l’Homme. O p ere p r in c ip a li:

Economia e società: uno sguardo d'insieme, in Storia d'Italia Einaudi. Le regioni, voi. La Sicilia, Torino 1987. Presentazione a F. Braudel, Il secondo Rinascimento cit. Fernand Braudel (a cura di), La Méditerranée, l'Espace et l ’Histoire cit. Fernand Braudel (a cura di), L'Europe cit. George Duby e Philippe Ariès (a cura di), Histoire de la Vie privée, Paris 1986.

C H A U D H U R I K . N. (Inghilterra)

Nato nel 1934 in India. Professore all’Università di Londra. Specializ­ zato in storia economica asiatica. O p e re p r in c ip a li:

The English East India Company: the study of an early Joint-Stock company (1600-1640), London 1965. The Economic Development of India under the East India Company (1814i8y8), Cambridge 19 7 1. The Trading World o f Asia and the English East India Company (16601760), Cambridge 1978. Economy and Society: essays on Indian economic and social history, DehliO xford 1979.

Trade and Civilisation in the Indian Ocean, an economic history from the rise o f Islam to 1750, Cambridge 1985. D E B A R U N (India)

Nato nel 1932 a Calcutta. Direttore del Centro di studi di scienze sociali di Calcutta (1973-83). O p e r e in c o l la b o r a z io n e :

Freedom struggle, New Dehli 1972. Perspectives in Social Sciences, Calcutta 1977.

D EN IS A LA IN (Francia)

Nato nel 1928. Promosso contrammiraglio nel 1983. Dal 1984 coman­ dante della squadra navale francese del Mediterraneo.

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UNA LEZIONE DI STORIA

DU RO Y A L B E R T (Francia)

Nato nel 1938. Redattore capo de «l’ Evenement du Jeudi». Collabora­ tore di Antenne 2. Editorialista a Radio Monte-Carlo. O p ere p r in c ip a li:

Le Choix d ’un métter, Paris 1963. La Guerre des Belges, Paris 1968. Le Roman de la rose (in collaborazione), Paris 1982. F A B R A P A U L (Francia)

Nato nel 1927 a Parigi. Redattore capo di «Le Monde». Editorialista e responsabile del supplemento settimanale «Le Monde de Peconomie». Collaboratore di numerose riviste straniere. O p e re p r in c ip a li:

Y-a-t-ilun Marché Commun, Paris 1965. L 'Anticapitalisme, Paris 1974. FE R R O M A R C (Francia)

Nato a Parigi nel 1924. Dottore in lettere. Maître de conférence à l’ Ecole Polytechnique. Directeur d’ Etudes all’ Ecole Pratique des Hautes Etudes dove fonda una nuova disciplina: «Cinema e storia, studio teo­ rico dei rapporti tra film e società». Condirettore delle «Annales E .S .C .» d a l 1969. O p e re p r in c ip a li:

La Révolution de 19 17, Paris 1967-76, 2 voli. [trad. it. La rivoluzione del 19 17 , Firenze 1974]. La Grande Guerre, Paris 1969 [trad. it. La grande guerra (1914-1918), M i­ lano 1972].

Cinéma et Histoire, Paris 1977 [trad. it. Cinema e storia, Milano 1980]. L'Occident devant la Révolution soviétique, Bruxelles 1980. Des Soviets au communisme bureaucratique, Paris 1980. Comment on raconte l ’Histoire aux enfants à travers le monde entier, Paris 19 8 1 [trad. it. Uso sociale e insegnamento della storia, Torino 1982]. L'Histoire sous surveillance, Paris 1985. FU RTAD O C ELSO (Brasile)

Nato nel 1920 a Pombal. Ministro della cultura (febbraio 1986) del Bra­ sile. Membro della direzione nazionale del PM D B (Partito per il movi­ mento democratico brasiliano). Direttore della Divisione sviluppo eco­ nomico della C E P A L (Commissione economica per l’America latina). Direttore generale della SU D E N E (Sovrintendenza per lo sviluppo del Nordeste) dal 1959 al 1964. Ministro della pianificazione (1962-63).

I PARTECIPANTI AL COLLOQUIO

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O p e re p r in c ip a li: O mito do desenvolvimento, Rio de Janeiro 1974.

Formaçâo econòmica do Brasil, Rio de Janeiro 1959 [trad. it. La forma­ zione economica del Brasile, Torino 1970]. Prefaçâo a nova economia politica, Rio de Janeiro 1976 [trad. it. Introdu­ zione alla nuova politica economica, Milano 1979]. GODINHO VICTO RIN O M . (Portogallo)

Nato nel 19 18 a Lisbona. Professore all’Università di Lisbona. Dottore in lettere alla Sorbona. E x ministro della Pubblica istruzione e della cul­ tura. O p e re p r in c ip a li:

Economia do Impériu Portuges, Lisbona 1967. Introduçao a Historia Economica, Lisbona 1970. A Estrutura da Antiga Sociedade Portuguesa, Lisbona 19 7 1 . G R M E K M IR K O D R A ZEN (Iugoslavia)

Nato a Krapina in Iugoslavia nel 1924. Dottore in medicina. Docteur èsLettres et ès-Sciences. Premiato dall’Académie Française, dall’Académie des Sciences, dall’Académie nationale de Médicine. Directeur d’études ail’ Ecole Pratique des Hautes Etudes. O p ere p r in c ip a li:

Les Maladies à l'aube de ¡a civilisation occidentale, Paris 1983 [trad. it. Le malattie all'alba della civiltà occidentale, Bologna 1985], Préliminaire d ’une étude historique des malades, in «Annales E .S .C . », 1969. G U IL A IN E JE A N (Francia)

Directeur de recherche al Centre Nationale de Recherche Sociale. Di­ recteur d’études all’ Ecole Pratique des Hautes Etudes. Responsabile di scavi archeologici in Italia, Francia e nella penisola Iberica. Le sue ricer­ che sulle prime comunità rurali in area mediterranea dedicano ampio spazio ai problemi dello sviluppo culturale, alla identificazione del pae­ saggio paleostorico e alla prima socializzazione del territorio. O p e re p r in c ip a li:

L ’Age du Bmnze en Languedoc occidental, Roussillon, Ariège, Paris 1972. Premiers bergers et paysans de l ’Occident méditerranéen, Paris - La-Haye 1976.

L ’Abri Jean-Cros. Essai d'approche d ’un groupe humain du Néolitique an­ cien dans son environnement, Toulouse 1979.

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UNA LEZIONE DI STORIA

La France d ’avant la France, Paris 1980. La Préhistoire française. Les civilisations néolitiques et proto-historiques de la France (a cura di Jean Guilaine), Paris 1976. L'Age du Cuivre européen. Civilisations à vases campaniformes (a cura di Jean Guilaine), Paris 1984.

GUILLERM ALAIN (Francia) Nato nel 1944. Maîtrise de Philosophie. Docteur en Sociologie e Doc­ teur ès-Lettre. Direttore del Seminario di strategia navale. Condirettore del Laboratorio di sociologia della conoscenza. O p e r e in c o l la b o r a z io n e : - e Yves Bourdet, Clefs pour l ’autogestion, Paris 1976. - e Auffray, Baudouin e Collin, La Grève et la Ville, Paris 1979. - e Aufray, Baudouin e Collin, Feux et lieux, Paris 1980. - e J . Guillerm (a cura di), Stratégie navale et Dissuasion, Paris 1985.

JORLAND GERARD (Francia) Nato nel 1946. Agrégé de Philosophie. Docteur ès-Lettre. Ricercatore al Centre de Recherches Historiques. O p e re p r in c ip a li:

La Science de la Philosophie, Paris 1980. Le problème Adam Smith, in «Annales E .S .C .» , luglio-agosto 1984.

JUILLARD ETIENNE (Francia) Nato a Parigi nel 19 14 . E x allievo di Marc Bloch e Lucien Fabvre. Pro­ fessore di geografia umana all’Università di Strasburgo (1945-74). O p ere p r in c ip a li:

La Vie rurale en Basse-Alsace, Paris 19 5 3. L ’Economie du Canada, Paris 1964. L'Europe rhénane, Paris 1968. La «Région», contributions à une géographie générale des espaces régionaux, Grenoble 1974.

Structures agraires et paysages ruraux (in collaborazione), in «Annales de l’E st», 1957.

LE BRAS HERVÉ (Francia) Nato nel 1943. E x allievo dell’Ecole Polytechnique. Directeur d’Etudes all’Ecole Pratique des Hautes Etudes. Directeur de Recherche all’IN E D . Redattore capo della rivista «Population».

I PARTECIPANTI AL COLLOQUIO

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O p e re p r in c ip a li : Child and Family in developped countries, O C D E , 1978. - e Emmanuel Todd, L ’Invention de la France, Paris 19 8 1.

LE ROY LADURIE EM M ANUEL (Francia) Nato nel 1929. Professore al Collège de France. O p ere p r in c ip a li:

L'Histoire du Languedoc, Paris 1962. Les Paysans de Languedoc, Paris 1966. Histoire du climat depuis lA n Mil, Paris 1967 [trad. it. Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall’anno mille, Torino 1982]. Le Territoire de ¡ ’Historien, Paris 1973-78, 2 voli. [trad. it. Le frontiere dello storico, Bari 1976]. Montaillou, village occitan, Paris 1979 [trad. it. Storia di un paese: Montaillou, Milano 1977]. Le Cameval de Romans, Paris 1979 [trad. it. Il carnevale di Romans, M i­ lano 19 8 1].

Paris-Montpellier, Pc/Psu, 1945-196), Paris 1982. L ’Argent l'amour et ta mort en Pays d ’Oc, Paris 1980; Pierre Prion (in col­ laborazione con Orest Ranum), Paris 1986 [trad. it. Il denaro, l ’amore, la morte in Occitania, Milano 1983].

MAKKAI LASZLO (Ungheria) Nato a Budapest nel 19 14 . Membro dell’Accademia delle Scienze un­ gherese. Presidente della Società Storica ungherese. Direttore della ri­ cerca all’ istituto Storico dell’Accademia Ungherese. Professore all’Università di Budapest. O p e re p r in c ip a li:

Histoire de Transylvanie, Parigi 1946. Les Sources d ‘énergie dans l ’économie du Moyen-Age, Prato 19 7 2 . Les Caractères originaux du féodalisme en Europe orientale, 19 7 2 . L'Apport de l'Europe orientale aux moyens de transport, 1979. Ars Historica. On Braudel, in «Review », 19 8 1. L ’ingénieur de la Renaissance en Hongrie, in Mélanges Braudel, 1977. MANTRAN ROBERT (Francia) Professore emerito all’ Università di Provenza. Corrispondente dell’Institut (Academie des Inscriptions et Belles Lettres). Presidente del Comitato internazionale di Studi pre-Ottomani e Ottomani.

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UNA LEZIONE DI STORIA

O p e re p r in c ip a li:

Istanbul dans la seconde moitié du x v w siècle, Paris 1962. La Vie quotidienne à Costantinople au temps de Soliman le Magnifique et de ses successeurs, Paris 1965 [trad. it. La vita quotidiana a Costantino­ poli ai tempi di Solimano, Milano 1985]. L'Expansion musulmane (vur-xi’ siècles), Paris 1979 [trad. it. L'espansio­ ne musulmana dal vu all'xi secolo, Milano 1978]. Histoire de la Turquie, Paris 1983. - e Jean Sauvaget, Règlements fiscaux ottomans: les provinces syriennes, Paris-Damasco 19 5 1 . - e Maurice Fleury, Les Régimes politiques des pays arabes, Paris 1968. - e Georges Duby , L'Eurasie: xi'-xw siècles, Paris 1982. in Robert Fossier (a cura di), Le Moyen-Age, voli. Il e III, Paris 1982 [trad. it. Storia del Medioevo, voli. II e III, Torino 1985 e 1987].

N O U SCH I A N D RÉ (Francia)

Nato nel 1922 a Costantina (Algeria). Agrégé d ’Histoire. Docteur èsLettres. Professore all’ Università di Nizza. Direttore del Centre de la Méditerranée Moderne et Contemporaine (Nizza). Responsabile del­ la cooperazione universitaria con i paesi mediterranei per l’Università di Nizza. O p e re p r in c ip a li :

La Naissance du nationalisme algérien (1919-1954), Paris 1979. Initiation aux Sciences Historiques, Paris 1977. Le Commentaire de textes et de documents historiques, Paris 1969. Luttes pétrolières au Proche-Orient, Paris 19 7 1 [trad. it. Le lotte per il pe­ trolio nel Medio Oriente, Milano 19 7 1]. La France et le Pétrole, Paris 19 8 1. O C K R E N T C H R IS T IN E (Francia)

Nata a Bruxelles nel 1944. Diplomata aU’Institut d’Etudes Politiques di Parigi e alI’Università di Cambridge. Redattore capo a Antenne 2, re­ sponsabile dei telegiornali delle 20,30 dal 1982 al 1985. Cronache su R T L nel 1986. R A F F E S T IN C LA U D E (Svizzera)

Nato nel 1936 . Professore di geografia all’Università di Ginevra. O p ere p r in c ip a li:

Pour une géographie du pouvoir, Paris 1980 [trad. it. Per una geografia del potere, Milano 19 8 1].

I PARTECIPANTI AL COLLOQUIO

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Géographie des frontières (in collaborazione), Paris 1974. Travail, Espace, Pouvoir (in collaborazione), Paris 1979.

T E N E N T I A L B E R T O (Italia)

Directeur d’ Etudes all’Ecole Pratique des Hautes Etudes. Membro della British Academy. O p e re p r in c ip a li :

Il senso della morte e l'amore della vita nel Rinascimento (Francia e Italia), Torino 1977.

Firenze da Comune a Lorenzo il Magnifico, Milano 1972. La civiltà europea nella storia mondiale, vol. II: La formazione del mondo moderno: xiv-xvn secolo, Bologna 1980. Il prezzo del rischio. L ’assicurazione mediterranea vista da Ragusa (i j ó j ¡ 39i), 19 8 5 - e R. Romano, Alle origini del mondo moderno, Milano 1967.

TODD E M M A N U E L (Francia)

Nato nel 19 5 1. Diplômé de l’ Institut d’Etudes Politiques de Paris. Dot­ torato in storia a Cambridge. Capo del servizio di documentazione all’IN E D . O p ere p r in c ip a li:

La Chute finale, Paris 1976. Le fou et le prolétaire, Paris 1979. La Troisième planète, structures familiales et développement, Paris 1984. con Hervé Le Bras, L'Invention de la France, Paris 19 8 1.

W A L L E R S T E IN IM M A N U E L (Stati Uniti)

Nato nel 1930. Professore di sociologia all’Università dello Stato di New York. Direttore del «Centre Fernand Braudel» dell’Università dello Sta­ to di New York. Dottore Honoris Causa dell’Università di Parigi-VII. O p e re p r in c ip a li :

The Modem World-System, New York - London 1974-80 [trad. it. Il si­ stema mondiale dell’economia moderna, Bologna 1978-82]. Spazio economico, in Enciclopedia Einaudi, voi. 1 3 , Torino 19 8 1. Historical Capitalism, New Y ork 1983 [trad. it. Il capitalismo storico. Economia, politica e cultura di un sistema mondo, Torino 1985].

UNA LEZIONE DI STORIA

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WERNER KARL FERDINAND (Repubblica Federale Tedesca) Nato nel 1924. Professore di storia medievale alle Università di Heidel berg e Mannheim. Direttore dell’Institut historique allemand di Parigi. Direttore della rivista «Francia». O p e re p r in c ip a li:

Les Origines (avant TAn Mil), in Jean Favier (a cura di), Histoire de France, Paris 1984.

Politische Struktur derfränkischen Welt, in Theodor Schieder (a cura di), Handbuch der europäischer Geschichte, vol. I: Europa im Wandel von der Antike zum Mittelalter, Stuttgart 1979. ZELDIN THEODORE (Gran Bretagna) Nato nel 19 3 3 in Inghilterra. Dottore delPUniversità di O xford. O p ere p r in c ip a li:

The Politicai System ofNapoleon III, London 1958. Emile Ollivier and thè Liberal Empire o f Napoleon III, O xford 1963. France 1848-1945, O xford 19 7 7 , 2 voli. The French, New York - London 1983.

Stampato per conto della Casa editrice Einaudi presso le Industrie Grafiche G. Zeppegno & C. s. a. s., Torino c.L. 1 1 3 8 3 Ristampa 0

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