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Italian Pages 437 Year 1982
MARIO BRETONE
TECNICHE E IDEOLOGIE DEI GIURISTI ROMANI
EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE
Gli studi, che questa collana si propone di accogliere, si situano in autonomi campi di ricerca e impiegano diversi strumenti filolo gici; ma si incontrano sulla comune linea teorica di una «storia del pensiero giuri dico». Come ogni altra scienza, anche la scienza giuridica tende a organizzarsi in una strut tura logica, a formulare coerentemente le sue proposizioni in un determinato orizzonte problematico. Essa può riconoscere il carat tere relativo e funzionale dei suoi concetti, o chiudersi in uno sterile gioco architettonico; ma rischia, in Ogni caso, di ridursi a un sapere tecnico soddisfatto del suo «purismo» e geloso della sua apparente neutralità. Farne la storia significa intenderla come opera non mai definitiva di uomini che agiscono in certi àmbiti sociali, politici, culturali; significa mettere allo scoperto i suoi consapevoli o inconsapevoli legami ideologici e le ragioni pratiche del suo esistere.
La giurisprudenza romana è una realtà del mondo antico, ma segna profondamente la tradizione giuridica europea, medievale e moderna. Intesa come un’« unica grande ope ra», vi ha esercitato un ruolo esemplare sino alle soglie del novecento e oltre. L ’immagine che noi ora ne abbiamo è diversa. Per com prenderla nel suo valore scientifico-letterario si deve anche interpretarla come fenomeno sociale: questi due aspetti si rivelano sempre piu intimamente legati l’uno all’altro. Ricostruire figure e ambienti determinati, — da Sesto Elio ai giuristi «amici» di Cice rone o solo suoi contemporanei, da Labeone, l’oppositore del regime augusteo, ai grandi maestri severiani, — è l’intento dei saggi raccolti in questo libro. U n’attenzione pun tuale è richiesta dalla peculiarità storica di una società in cui sono i notabili (in senso weberiano) a tenere per lungo tempo le leve deH’amministrazione e il controllo del di ritto. La ricerca è mossa da alcuni interroga tivi fondamentali: quali rapporti intercor rono, di volta in volta, fra il diritto e l’agire politico, e fra la scienza giuridica, l’oratoria, la storiografia e gli altri rami del sapere? Come mutano le idee intorno all’ordina mento giuridico, e quale funzione viene rico nosciuta, nei diversi momenti storici, al giu reconsulto?
Questa seconda edizione, a dieci anni dalla prima, include i nuovi studi dell’autore sulla giurisprudenza romana.
STORIA DEL PENSIERO GIURIDICO STUDI A CURA DI MARIO BRETONE E RAFFAELE AJELLO
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MARIO BRETONE
TECNICHE E IDEOLOGIE DEI G IU R IS T I R O M A N I Seconda edizione
EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE
Prima edizione, 1971 Seconda edizione, 1982
Copyright © 1982 by E.S.I. Edizioni Scientifiche Italiane - Napoli
PREFAZIONE
La giurisprudenza romana è un fenomeno storico che i mo derni osservano, non di rado, attraverso la lente deformante della tradizione romanistica, attenuandone o annullandone le disparità e i contrasti in un disegno uniforme, grandioso e fittizio. Le linee di questo disegno si precisano fra ottocento e novecento; come date estreme, indico il 1814, l’anno in cui appare il Beruf unsrer '/eit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft del Savigny, e il 1946, l’anno della History of Roman Legal Science di Fritz Schulz. In Savigny, l’idea della giurisprudenza romana come «unica grande opera» si lega all’altra di un suo valore esemplare: sensibile ai bisogni della prassi, ma anche capace di un sapiente «calcolo dei concetti», questa giurisprudenza diviene il «model lo» (e la suggestione durerà a lungo) del pensiero giuridico. La sua (unzione paradigmatica è finita per Schulz: settant’anni almeno di lavoro critico sulle fonti, e gli sviluppi autonomi della civilistica, hanno introdotto per vie differenti e parallele una prospettiva diversa da quella enunciata da Savigny e ripresa dalla Pandettistica dopo di lui. Tuttavia, anche per lo Schulz la giurisprudenza romana è un’«unica grande opera», di cui bisogna riscoprire le tendenze e i metodi, la struttura sociologica e la misura stilistica. Notava Rudolf Jhering, — insieme con Savigny, uno degli « autori » di Schulz, — che « una verità nuova, nella sua iniziale baldanza, oltrepassa facilmente il segno». L ’immagine, delineata da Schulz, della giurisprudenza romana come impersonale «Hauptperson», esagera due verità: la prima, è nella considera zione dei giuristi come ceto, e della scienza giuridica come sapere specializzato che non si esprime solo in libri, ma anche nell’anonimo lavoro legislativo di una burocrazia e in qualunque altro operare competente; la seconda, non nuova né profonda, è nel riliuto del biografismo come canone interpretativo ed espositivo.
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Rifiutare il biografismo, la rappresentazione cronachistica o eroica, non significa accogliere però il programma della History. Verso quest’opera fondamentale e ormai classica, è necessario lo stesso coraggio critico che Schulz ebbe verso la Geschichte di Paul Krüger, benché non si possa dire della History, come Schulz disse della Geschichte, che essa ha deluso «chi si attendeva di piu». Bi sogna andar oltre il suo orizzonte letterario e il suo ideale puri stico; approfondire la matrice ottocentesca dei suoi giudizi con clusivi; considerare le sue ipotesi critiche, che ne sono il nucleo rivoluzionario e fecondo, come provvisorie ipotesi di lavoro. Il confronto con la History non può essere astrattamente metodologico, ma deve farsi interno alla ricerca. Oggi avvertiamo sempre meglio la necessità di riannodare, con indagini minute, molti fili spezzati. La formazione culturale, filosofica e retorica, dei giuristi, le convinzioni e le valutazioni della classe da cui provengono, non restano senza influssi sulla loro opera; i giuristi non sono soltanto dei tecnici, ma anche dei politici: il nesso fra politica e diritto, nella società romana, è piu immediato e intrinseco di quanto non sembri al primo sguardo. Quel che si vuole dunque raggiungere non è un elenco, o una gerarchia, di nomi chiusi nella loro solitudine (il biografismo paventato da Schulz), ma un quadro storico complesso, nel quale abbiano un posto anche gli ingegni singoli, sia quelli innovatori sia quelli piu fedeli alle dottrine ricevute. Ripensare il diritto, e la scienza del diritto, come un momento della cultura antica, — con la consapevolezza, quindi, della loro distanza da noi, — vuol dire respingere, da un lato, la pretesa di attualizzarli (l’illusione di Savigny), dall’altro la pretesa di eredi tarli e custodirli semplicemente come tradizione. Per questa via, la romanistica (quella adulta e inquieta) può ancora incontrarsi, in modo non diretto e su un nuovo piano, con la riflessione giuridica moderna; la quale si viene liberando, con giustificata insofferenza, delle sue «basi romanistiche». I saggi raccolti in questo volume, tranne il primo, non sono inediti. Composti fra il 1963 e il 1970, si ripresentano ora con modifiche piu o meno ampie, ma solo formali. Rispetto agli altri,
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il primo saggio ha un taglio differente: copre un arco di tempo molto lungo, le fonti sono quasi sempre tradotte. Il suo proposito non è di raggiungere una sintesi impossibile, ma di seguire, in vari scorci, la riflessione sul diritto pubblico nei suoi legami con la teoria e la prassi politica. Esso è stato scritto per un fine comunicativo non specialistico, ed è destinato a un’opera collet tiva che ha le sue esigenze e le sue regole: la Storia delle idee politiche, economiche e sociali diretta da Luigi Firpo. Il discorso svolto in queste pagine non è unitario, e non può esserlo. Ha però un’ispirazione unica e affronta, da più lati, un medesimo problema: quello delle tecniche giurisprudenziali e del loro rapporto con le ideologie degli uomini che le adoperarono. Bari, settembre 1970.
M. B.
Questa seconda edizione del mio libro include le ricerche sulla giurisprudenza romana che sono venuto svolgendo nel decennio fra il 1971 e il 1980. Solo quella che reca il titolo «Giuristi e profani tra Repubblica e Principato» è inedita. Sono intervenuto qua e là, con piccole aggiunte (la più estesa, di una pagina, riguarda Aurelio Arcadio Carisio nel primo dei saggi raccolti) e molti tagli, resi necessari dal nuovo contesto. Sempre nel primo saggio, per esempio, ho molto ridotto l’appendice critico-bibliografica, con servando le parti essenziali e abolendo quelle solo informative (ormai inutili). Ho mutato talvolta la forma espositiva, ma sostanzialmente ho lasciato sempre le cose cosi com’erano. Anche i richiami alla letteratura rispecchiano i tempi diversi del mio lavoro, e la nota bibliografica finale non è guidata da un criterio di completezza. Rimettere le mani sui propri scritti, sia pure al solo scopo di dar loro un ordine, è un’operazione che ha sempre in sé qualcosa di spiacevole. Tuttavia diversi motivi possono giustificarla: in primo luogo il fatto che quegli scritti siano stati già pensati come tessere di un mosaico, o siano venuti lentamente rivelandolo. Può avere qualche peso anche il bisogno tutto soggettivo di raccogliere le fila, di tentare un bilancio. Il lavoro di revisione e di montaggio, la pazienza che esso richiede, gli sono solidali. Ripercorrere il
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cammino già fatto è anche un modo di costatarne i limiti e di renderli piu visibili. Le discussioni romanistiche e storico giuridiche di questi anni sono riuscite a scavare molto piu a fondo di quanto mai sia avvenuto prima. Esse mi convincono sempre di piu che, se alcune strade sono da tempo impraticabili (la pura e semplice «Dogmengeschichte» di impronta ottocentesca, lo stu dio del testo giuridico come un dato a sé, di cui la sola esegesi dovrebbe svelare il mistero), altre se ne aprono. Problemi che sembravano risolti possono essere visti in un’altra luce. La ricerca sui giuristi romani, sul loro sapere e agire specifico, è lontana dal chiudersi. Naturalmente quel sapere è l’opera di genera zioni. Nessun giureconsulto si è mai illuso di ricominciare tutto dal principio; anche un ingegno innovatore avvertiva di essere l’anello di una catena, di occupare il suo posto in una serie. Questo non significa che ogni momento segua all’altro in una successione rettilinea e semplice. I contenuti concettuali, di volta in volta costruiti, possono essere ripresi e sviluppati, ma anche annientati da fatti nuovi. U n’attenzione puntuale, su singole fi gure e ambienti determinati, ci è imposta se non altro dalla pecu liarità storica di una società in cui sono i « notabili » (in senso weberiano) a tenere per lungo tempo le leve dell’amministrazione e il controllo del diritto. Il tipico si concreta e si individualizza nella «biografia», e questa trapassa e si annulla nel tipico. Ma la ricerca sui giuristi deve favorire, non scoraggiare altre domande piu impegnative. Come si forma e muta il diritto nel suo insieme, come funzionano le sue strutture, quali nessi intercorrono fra queste e le situazioni economiche o quali distanze le separano? Il profilo piu importante del diritto romano è nelle sue «qualità puramente formali», da cui è stata segnata nel profondo la tradizione giuridica dell’Occidente. La ricerca sociologica e giuridico-comparatistica ha insistito su questo punto, ma la storiogra fia ha ancora parecchie cose da dire. Sarebbe davvero deplorevole se quanto guadagniamo attraverso l’analisi ravvicinata e minuta (come quella che si tenta in questo libro) di una grande esperienza teorico-pratica dovesse semplicemente compensare una diminu zione di sensibilità per altri problemi fondamentali. Anche la storiografia giuridica, come ogni altra storiografia, può muoversi
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di volta in volta secondo una rappresentazione diversa del tempo: dal fugace apparire e sparire dell’evento singolo, o dalla « Lebens zeit» di un individuo, alla «lunga durata» dei fenomeni collettivi e delle istituzioni. Lo storico del diritto deve saper fare i conti, ora piu di prima, da un lato con la sociologia e le scienze sociali, dall’altro con la filologia e l’ermeneutica. L’uso delle parole richiede un’attenzione adeguata. Io ho fatto ricorso, sin dal titolo, a un termine ambiguo e non neutrale (ma quali termini sono neutrali nell’àmbito delle scienze umane?). Ho però evitato di abusarne. Fare la guerra alle parole è, d’altra parte, altrettanto ingenuo che credere in una loro virtù taumaturgica. Qualcuno ha osservato che può esservi accordo sul fatto che le ideologie sono « nasty things»; ma non c’è accordo su che cosa ideologia significhi. Certo è difficile liberare il termine dalla sua carica emotiva, che l’impiego politico e propagandistico alimenta. Nella mia ricerca, esso è assunto nel suo significato piu ampio, senza un’intonazione negativa o peggiorativa. Indica un insieme o un sistema di opinioni, di credenze, di atteggiamenti e di «valori», un modo di pensare intorno all’uomo e al mondo, che orienta l’agire pratico e giustifica (o contrasta) l’esercizio del potere. Alle ideologie si possono riconoscere alcuni tratti caratteristici. Se condo la terminologia di Georges Duby, che accolgo, esse sono «globalizzanti», deformanti, concorrenti e stabilizzanti (una fun zione stabilizzatrice non è esclusa neanche per quelle rivoluzio narie). Non si scrive un libro senza trascorrere in solitudine un segmento, piu o meno lungo, della propria vita. Ma quanti incontri hanno contribuito a prepararlo? Le mie ricerche su Labeone e la cultura augustea furono avviate a Napoli, in anni lontani. Ne ho poi discusso con altri amici. Quale significato ha, per i giuristi romani, la tradizione? Questo interrogativo si incontra spesso in queste pagine; vi sono tornato anche altrove e non ho cessato di meditarvi. Nel 1979 ebbi la possibilità di discuterne nel corso di due lezioni e di un seminario tenuti a Vienna, Salisburgo e Innsbruck. E difficile dire il vantaggio che ne ho ricavato. Ai colleghi Herbert Hausmaninger, Heinrich
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Honsell, Franz Horak, Theo Mayer-Maly, Peter E. Pieler, Walter Selb, Wolfgang Waldstein, esprimo ora in modo particolare la mia gratitudine. Anche le conversazioni con Franz Wieacker, nei giorni sereni trascorsi a Göttingen alcuni anni fa, sono ben ferme nella mia memoria. E molto ho appreso da tutti coloro che si sono occupati della prima edizione del mio libro: ricordo soltanto Okko Behrends, Gerard Boulvert, Dieter Nörr, Peter Stein e, di nuovo, Franz Horak. Alcuni amici mi hanno dato una mano nelle ultime fasi del lavoro. Devo a Federico D ’Ippolito preziosi consigli. La lettura assidua e intelligente di una mia allieva, Amalia Sicari, mi è stata di grande aiuto; e piu di un errore di stampa mi è stato evitato, con la pazienza che si osserva solo nei giochi, dagli occhi limpidi di mia figlia Giovanna. Bari, marzo 1982
M. B.
Il primo dei saggi raccolti è stato pubblicato solo nella prima edizione di questo volume, e non ancora nella Storia delle idee politiche, economiche e sociali, in corso di stampa presso la U TET. Il secondo è il testo di una relazione per il III Colloquium Tullianum (Roma, 3-5 ottobre 1976), ed è apparso in Ciceroniana n.s. 3, 1978 e in Quaderni di stona 10, 1979. Il terzo si trova, con un titolo non proprio eguale, in Labeo 16, 1970. Il quarto è il testo di una relazione presentata al IV Congresso internazionale della Società italiana di storia del diritto (Napoli, 9-13 aprile 1980), ed è in via di pubblicazione negli Atti. Le tre «ricerche labeoniane» che compongono la quinta sezione del libro, sono state pubblicate (con una variazione nel titolo, per quanto riguarda la prima), in Quaderni di storia 8, 1978, nella Parola del passato 28, 1973 e in Rivista di filologia e di istruzione classica 3. 103, 1975. Il sesto saggio ha un titolo alquanto diverso in Labeo 9, 1963. Il settimo riproduce un articolo apparso in Labeo 11, 1965, integrandolo, quanto alla prima parte, con le osservazioni svolte nel corso universitario Linee delPEnchindion di Pomponio (Bari 1965, Torino 19742). L ’ottavo è il testo di una
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relazione presentata con il titolo Publius Mucius et Brutus et Manilius, qui fundaverunt ius civile (D . 1. 2. 2. 39) al II Congresso internazionale della Società italiana di storia del diritto (Venezia, 18-22 settembre 1967), ed è apparso nel primo volume degli Atti (Firenze 1971). Il nono è stato pubblicato in Labeo 16, 1970, e Γ «appendice» che lo segue riprende una «nota» apparsa in lura 27, 1976 [1979]. Le quattro «discussioni critiche» che costituiscono la decima sezione, si trovano in Rivista di filologia e di istruzione classica 3. 96, 1968; Labeo 15, 1969; Iura 24, 1973; Labeo 16, 1970. L ’undicesimo saggio, che chiude il volume, fa parte della Festschrift für Franz Wieacker zum 70. Geburtstag (Göttingen, Vandenhoek & Ruprecht, 1978).
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PENSIERO POLITICO E DIRITTO PUBBLICO
1. Secondo un’immagine consueta, che ha origini remote e, diversamente angolata, è rimasta salda nella tradizione giuridica europea, i giuristi romani sono gli artefici di una scienza del diritto privato. In questa immagine ha luce il lato piu specifico, piu proprio e autonomo della iuns prudentia\ vi si esprime (il termine ci è suggerito dallo Schulz) la sua «vocazione» profonda. Ma essa rischia di divenire arbitraria, se spinta oltre un certo limite. Le strutture e gli organi della comunità (dall’antico regnum allo stato imperiale), le sue funzioni e i suoi fini, non rimasero fuori dell’orizzonte di quei maestri, in cui noi siamo soliti identificare l’astratta figura del giureconsulto. Piuttosto si deve dire che le loro analisi non si tradussero sempre in forme letterarie peculiari, ma ebbero sede anche all’interno di opere essenzial mente privatistiche. Un altro avvertimento è necessario. La riflessione sul diritto pubblico, intesa in senso «tecnico» e non filosofico o speculativo, non sempre si lega a una scienza del diritto privato, o fu svolta da quegli stessi uomini che coltivarono quest’ultima. Essa è presente in scrittori che furono, in primo luogo, annalisti o antiquari (in una parola, storici), e si intreccia con la loro ricerca annalistica o antiquaria. Sarebbe ingiustificato, piuttosto che interrogarsi sulle ragioni di un cosi singolare scambio di esperienze, trascurare tutti costoro per rimanere fedeli allo schema tipico (o « idealtipico ») del giurista romano. Proprio questo schema è, a ben guardare, troppo restrittivo; e dobbiamo evitare di restarne imprigionati, se vogliamo ripercorrere l’itinerario né semplice né rettilineo di un pensiero, che guadagna la sua unità oltre le rigide (e convenzio nali) distinzioni delle professioni e dei generi letterari. La riflessione giuspubblicistica, con il suo corpo di dottrine tecnicamente elaborate, è a suo modo pensiero politico. Quelle
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dottrine, in apparenza prive di vincoli, maturano in una prassi, sottintendono valutazioni e credenze ideologiche. Gli uomini che furono giuristi, come altri oratori o storici, e non di rado tutte queste cose insieme, erano quasi sempre fra i membri piu autorevoli (all·attributo occorre trasferire l’antica pregnanza del sostantivo auctoritas) della classe dirigente romana. Le ideologie di cui erano partecipi, e che li guidavano spesso in un agire destinato a eternarsi nella forma dell’exemplum, non restavano divise dalle loro tecniche; né queste mantenevano rispetto a quelle una incontaminata purezza. Certo, riconoscerle nella trama fitta e sottile di un argomentare che aspira ad articolarsi secondo le interne ragioni della sua coerenza, non è facile e non è sempre possibile; e la difficoltà si aggrava per la condizione incerta dei dati di cui disponiamo, per la povertà, e talvolta la mancanza assoluta, di sicure notizie prosopografiche. Tuttavia, al tentativo non può sottrarsi una ricerca che voglia restituire concretezza ai suoi oggetti, e ricongiungere le posizioni teoriche alle vicende degli uomini che le vissero. Le dottrine, d’altra parte, non restano ancorate alle loro occasioni, né ai loro autori. Si trasmettono ad altre epoche, si diffondono e si volgarizzano, diventano simbolo e mito. I concetti giuspubblicistici, elaborati fra l’ultima Repubblica e l’età dei Severi, ritornano nella letteratura tardo-romana e bizantina: come «tradizioni senza spirito», «eredità morta», o come vecchie forme riempite di «un nuovo senso»1. 2. La giurisprudenza romana piu antica, pontificale e laica, coltivò in primo luogo l’attività cautelare e la pratica del re sponso. L ’attività cautelare (vi possiamo ricomprendere sia il cavere che Vagere, la preparazione degli schemi negoziali e la scelta o adattamento delle actiones) riguardava i rapporti fra i privati; ed anche il respondere, con cui si partecipava la soluzione tecnica di un quesito giuridico, si moveva quasi sempre in un àmbito privatistico. Ma fuori di quest’àmbito vi erano le sfere del sacro e 1 B. S nell, Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen3 (1955) 320, 321 = L a cultura greca e le ongini del pensiero europeo1 2 (1963) 335, 336.
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delle funzioni magistratuali, con la loro specifica disciplina; vi erano le relazioni con le altre comunità politiche. La prima, saltuaria documentazione scritta del pensiero giuridico romano fu nelle raccolte di pareri e di formule, negoziali e processuali; e, insieme, nelle raccolte di decreti e di istruzioni, che i magistrati e i sacerdoti compilavano per le esigenze del culto e l’esercizio delle cariche pubbliche. Quando venne ordinandosi in forme piu mature, quel pen siero scelse come suo fulcro la Legge delle XII tavole, che sin dalle origini era stata oggetto di una interpretazione innovativa e sapiente. I Tnpertita di Sesto Elio Peto Cato, console nel 198 e censore nel 194 a.C., sono un’opera dalla struttura composita; la quale comprende, oltre alla Lex XII tabularum, la interpretatio e quei moduli processuali denominati legis actiones1. Dei Tripertita di Sesto Elio, in cui gli antichi videro «come gli incunaboli del diritto», noi non sappiamo altro, se non che erano formati da quelle tre parti. Il rapporto fra di esse, e il loro contenuto (se si eccettua, s’intende, il dato normativo della legge decemvirale, nella misura in cui ci è noto), non sono definibili in modo sicuro; né valgono a illuminarli, se non a tratti, alcune rarissime citazioni da Sesto Elio, che verisimilmente derivano dai Tnpertita. Una congettura in ogni modo può essere formulata. Oltre a norme e istituti privatistici, nell’opera eliana dovevano aver posto norme e istituti di diritto pubblico; e, fra questi ultimi, alcuni di importanza rilevantissima per la costituzione cittadina. Alle XII Tavole risaliva, o si faceva risalire, il principio secondo cui «tutto ciò che il popolo ha deliberato da ultimo, deve considerarsi giuridicamente valido». Questo principio, che segna la raggiunta capacità normativa del popolo (nel suo momento comiziale), aveva suscitato notevoli contrasti politici; e i suoi limiti erano stati vivacemente discussi3. Il suo àmbito di efficacia, d’altra parte, andava precisato rispetto a quelle clausole che erano solitamente inserite nel testo delle leggi, con la funzione di ostacolarne, rispetto a certe norme, l’attitudine abrogativa4. Noi 2 Pomp. D. 1.2. 2. 38. 3 Liv. 7. 17. 12 ( = XII T ab , 12. 5); 9. 33. 8-9; 9. 34. 6-7. 4Cic. pro Caec. 33. 95; De domo 40. 106; pro Balbo 14. 32; Prob. 3. 14.
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non siamo in grado di dire se il libro di Sesto Elio commentasse il principio ora ricordato, o soltanto lo menzionasse. E un dubbio analogo circonda altre norme decemvirali, o ricondotte dalla tradizione ai decemviri: quella che enuncia il divieto di inrogare privilegia, cioè di presentare proposte legislative dirette a colpire individui determinati; o quella che stabilisce la competenza esclusiva del comizio centuriato {comitiatus maximus) nel condan nare a morte un cittadino, e che nella prospettiva ciceroniana si lega airistituto della provocatio ad populum5. * Comunque sia, è molto probabile che, come nel testo (autentico o rammodernato) delle XII Tavole, cosi anche nella prima opera «sistematica» della giurisprudenza romana si intrecciassero due temi dominanti: i poteri e le funzioni pubbliche, l’autonomia del singolo nelle sue molteplici forme. Attraverso Yinterpretatio delle «leggi antiche» (cosi le XII Tavole dovevano apparire già a Sesto Elio, che non sempre riusciva a intenderne il senso6), la giurisprudenza repubblicana, nei primi decenni del II secolo a.C., veniva dunque indagando, o almeno osservando, le strutture dell’ordinamento cittadino nel loro articolarsi. Ma ancor più di questo indagare od osservare, di cui ci sfugge la trama, interessa la persuasione che doveva guidarlo. Le XII Tavole, sorte dalla rivendicazione plebea dell’eguaglianza giuridica, rappresentano, per la pubblicistica fra l’ultima Repubblica e la prima età imperiale, la base stessa della città7. Il loro valore «politico» fu colto anche dai giuristi, e gelosamente custodito, fra il I secolo a.C. e il II d.C.: Servio Sulpicio Rufo, e poi Labeone e Gaio, ancora le commentano, quando si sono ormai consolidate piu complesse realtà normative come il ius gentium e il ius honorarium, e la scienza del diritto ha assunto compiti nuovi; altri, come Pomponio e Cecilio Africano, vi si soffermano con puntuale coscienza storiografica8. 5 Cic. De leg. 3. 4. 11; 3. 19. 44 = XII Tab., 9. 1-2; De re pubi 2. 31. 54; 2. 36. 61; pro Sestio 30. 65. 6 Lo apprendiamo da Cic. De leg. 2. 23. 59, su cui p. 76. L ’espressione gaiana leges vetustae è in D. 1. 2. 1. 7 Cic. De or. 1. 43. 193; 1. 44. 195; Liv. 3. 34. 6; Tac. Ann. 3. 27. 1. 8 Per Labeone e Gaio, rispettivamente L enel, Pal. 1, 501 e 242-6. Di
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Quel valore «politico» era presente, crediamo, anche a Sesto Elio, statista di antica nobiltà plebea oltre che giureconsulto. A determinarlo non era, né poteva essere, la portata codificatoria della legge arcaica, che anche per gli uomini del V secolo a.C. ebbe solo il fine di «dare concretezza di norma scritta a procedimenti e regole di rilevante importanza sociale»9. Era piuttosto il fatto che la legge nasceva dalla «necessità, implicita nell’esperienza della polis, di esprimere questa esperienza in termini di ordinamento, avente per soggetto ordinante lo stesso soggetto ordinato » 10. 3. Per Sesto Elio, il diritto era solo un aspetto del sapere civile11, che include fra l’altro le istituzioni e i costumi della città. Di questo sapere, il massimo rappresentante in quel tempo fu Catone il Censore, giureconsulto e storico, oratore e uomo politico12. Contemporaneo di Sesto Elio, egli ricopri la pretura nello stesso anno, il 198, in cui Sesto Elio fu console. A Catone il Censore, piuttosto che al figlio Catone Liciniano, appartengono probabilmente quei Commentarii iuris civilis di cui ci è pervenuto, per il tramite di Festo, un esiguo frammento sull’origine del nome mundus: un tema che l’augusteo C. Ateio Capitone affrontava nel VI libro della sua opera De pontificio iure". Il mundus, «bocca del mondo sotterraneo», si apriva tre giorni all’anno, e «tutta la città era in preda all’invasione dei morti usciti dalla terra»14. In quei giorni ogni affare pubblico veniva sospeso, secondo un rito antichissimo. Su questo rito Servio sappiamo che piu di una volta si era soffermato su disposizioni decemvirali (D. 9. 1. 1. 4; D. 50. 16. 237; Fest. 180, 25-26; 232, 3-4; 426, 18-29; 430, 20-22; 516, 33-518, 5 L. = L. 17, 86, 92, 93, 95, 96); ma non sappiamo se egli sia autore di un commentario. Quanto a Pomponio e ad Africano, si vedano D. 1. 2. 2. 4 e Geli. 20. 1 (molto importante). 9 C. G ioffredi, SDHI. 13-14 (1947-48) 42. 10P. F rezza, Άρχεΐον ιδιωτικού δικαίου = Archives de droit privé 16 (1953) 70. 11Cic. De or. 3. 33. 133. 12 Cic. De or. 3. 33. 135; Brutus 17. 65-66 (cfr. 85. 293-294); Corn. Nep. Cato 3. 1; Liv. 39. 40. 4-9; Plin. Nat. hist. 7. 27. 100; Quint. 12. 3. 9; 12. 11. 23. 13 Fest. 144, 13-23 = fr. 11 Strzel. 14J. B ayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine (1957) 26, 73 = La religione romana (1959) 27, 79.
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Catone doveva soffermarsi, come piu tardi C. Ateio Capitone, nei suoi Commentarii iuns civilis: opera nella quale, dunque, motivi giuridici si fondevano con motivi storico-antiquari. Il rapporto fra storiografia e sensibilità giuridica non è solo episodico; è continuo e profondo. Un tratto singolare delle Origines catoniane, che ci sono note solo dalle frammentarie testimonianze di scrittori successivi, è il silenzio sui nomi dei generali dalla prima guerra punica in poi. Gli antichi non trascurarono questo modulo stilistico, che non. aveva riscontro, o non ne aveva uno eguale, nella tradizione storiografica15. Noi stessi possiamo riconoscerlo in qualcuna delle pagine che Aulo Gellio ci ha fortunatamente tramandate: nel notissimo episodio del tribuno militare Quinto Cedicio, dove il nome del console è taciuto, e il tribuno è come tale paragonato allo spartano Leonida; e nel dialogo fra il dictator Carthaginiensium e il suo magister equitum (cosi sono indicati Annibaie e Maarbale) subito dopo la battaglia di Canne16. Il silenzio sui nomi ha anzitutto un significato polemico, di protesta (come è stato detto) verso l’ispirazione gentilizia e celebrativa, in senso appunto gentilizio, delPannalistica; e verso ogni credenza «eroica». Ma esso va oltre la sua occasione immediata, e lascia scoprire un’intenzione più interna. Dal singolo, e dal gruppo al quale il singolo appartiene, e al quale si estende la gloria che egli ha ottenuto con la sua virtus, lo sguardo si sposta sul populus Romanus, impersonale autore delle res gestae'7. Lo honos e la gloria spettano a ciascuno nella misura in cui sia riuscito ad acquistarseli; il ius e la lex, la libertas e la res publica sono oggetto di un communiter uti 18: nel sempre instabile equili brio fra questi valori essenziali, sono i secondi ad assumere un ruolo primario. In questa prospettiva, rilevante è il magistratus, la magistratura, dietro la quale scompare l’individuo che la ricopre. Chi abbia assunto il magistratus, e ne rivesta le insegne19, è in 15 Corn. Nep. Caio 3. 4; Plin. Nat. hist. 8. 5. 11. 16 Fr. 83 (Gell. 3. 7), 86 (Gell. 10. 24. 7), 87 (Gell. 2. 19. 9) P2. 17 Fest. 216, 20-23 L. 18 ORF4. 252=Fest. 408, 33-36 L. 19 Fr. 111 P2. = Fest. 128, 6-8 L.
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questo suo officium un organo della res publica·, la quale opera e agisce, si fa adulta e robusta20, per mezzo di lui. Il momento istituzionale ha nel pensiero di Catone una grande importanza. La sua ricerca storica, che per la prima volta adotta un punto di vista non esclusivamente romano ma italico, lo ha scelto come sicuro criterio ermeneutico. Parlando di Carta gine, Catone distingue le diverse «parti» del suo ordinamento: populus, optimates, potestas regia21. Questi termini si scandiscono in una successione significativa, individuando ciascuno un potere, un organo della comunità. Lo schema, che denuncia un sotterra neo vincolo con la speculazione greca e apre l’arduo problema del rapporto con Polibio (la «costituzione mista» sarà il tema centrale del libro VI delle Stone), doveva avere presumibilmente un impiego ampio, più di quanto gli scarsi e incerti frammenti delle Origines non ci consentano di intravedere. Questo interesse per il momento istituzionale ravviva, fuori di ogni angustia erudita, la memoria delle consuetudini remote, delle leges e degli iura da cui è governata la vita dei popoli22. Ma le istituzioni vivono nel tempo. In una celebre pagina ciceroniana, Catone distingue Roma dalle città greche: ogni città greca ha dietro di sé la figura di un legislatore (Licurgo o Teseo, Dracone o Solone o distene); Roma, invece, «non fu ordinata dall’ingegno di uno solo, ma di molti, e non nel corso di una sola vita umana, ma di alquanti secoli e generazioni»23. Anche l’idea della legge, come atto con cui la comunità consapevolmente si organizza — l’idea che ispira i Tnpertita di Sesto Elio, — si scopre in un significato più complesso e autentico. Mediante la legge (potremmo dire con Jhering) il diritto è giunto «ufficialmente alla coscienza di sé»; «mentre prima era esposto, come un’immagine nell’acqua, a tutte le fluttuazioni della superficie riflettente, ora è riflesso da uno specchio immobile»24. Ma la legge non esaurisce il 20 Cic. De re pubi. 2. 1. 3. 21 Fr. 80 P2. = Serv. in Verg. Aen. 4. 682. 22 Fr. 61 (Priscian. Inst. gram. 4. 4. 21 p. 129 H.), 62 (Serv. in Verg. Aen. 11. 567), 76 (Serv. in Verg. Aen. 9. 600), 81 (Priscian. Inst. gram. 6. 13. 69 p. 254 H.), 82 (Geli. 11. 1. 6), 94 (Priscian. Inst. gram. 7. 3. 10 p. 293 H.) P2. 23 Cic. De re pubi. 2. 1. 2. Il pensiero ritorna in 2. 21. 37. 24 R. J hering, Geist des römischen Rechts 2. I5 (1899) 35, 38.
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diritto. Essa va inserita nel contesto degli antichi mores, di tutti i civilia instituta, la cui origine non è soltanto legislativa. Di questa necessità i veteres interpretes ebbero acuta coscienza. 4. Il richiamo ai mores maiorum, ai costumi degli antenati, non fu solo un principio della politica e dell’etica catoniana. Anche gli uomini del ceto senatorio piu aperti alle suggestioni della cultura greca, come P. Cornelio Scipione Emiliano, vi ravvisarono un vincolante canone ideologico25. Del resto la speculazione di Panezio non contrastava il tradizionalismo della nobilitas, ma gli offriva se mai una compiuta teoria. La «politela», — momento necessario di una società gerarchicamente armonica, in cui si riflette l’ordine razionale governante il mondo, — piu che restare ancorata a uno schema astratto, tendeva a riconoscersi nella forma storica della res publica romana. L ’optima res publica era, in definitiva, quella che gli antenati avevano costruita, affidando alle generazioni future il compito di custodirla e difenderla26. Il significato che la tradizione assume per la classe dirigente romana illumina anche il nodo intrinseco fra historia e scientia tuns (nella misura almeno in cui questa si applichi ai problemi costituzionali o, in genere, pubblicistici). Se la res publica si era formata «nel corso dei secoli e delle generazioni», anche il ius publicum diveniva naturalmente l’oggetto di un conoscere storico (quali che fossero poi le vie, i metodi e gli intenti di quest’ultimo). Opere giuridico-antiquarie furono composte da autori di annali, vissuti intorno alla metà del II secolo a.C.; e interessi giuridico-antiquari vennero maturando, ora come prima, all’in terno della stessa ricerca annalistica. Per L. Cassio Emina la censura fu un «tema d’enorme importanza»27: egli se ne occupò, forse, in uno scritto ad essa dedicato; piu probabilmente nei suoi Libri annalium (o historiarum). Lo storico Q. Fabio Massimo Serviliano, console nel 142 e pontefice, sembra abbia composto, oltre agli Annales, un’opera di diritto pontificio. L ’ipotesi è 25 O RF4. 13 (Geli. 4. 20. 1-10); 14 (Geli. 5. 19. 15). 26 Cic. De re pubi 1. 21. 34; 1. 46. 70; De leg. 1. 6. 20. 27 S. M azzarino, Il pensiero storico classico 2. 1 (1966, 19744) 303.
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attendibile. Né è da escludere che un analogo nesso, fra annalistica e diritto pontificio, si sia prodotto in un altro scrittore, la cui fisionomia è però difficilmente ricostruibile: il Fabio Pittore contemporaneo di Servio Fulvio (il console del 135), «espertis simo di diritto, di antichità e di letteratura»28. Sulla linea di questa riflessione giuridico-antiquaria si colloca anche 1’« antichissimo libro» (antichissimo lo dice Sammonico Sereno, che ebbe a consultarlo per le sue indagini erudite fra il II e il III secolo d.C.) di L. Furio Filo, il console del 136; nel quale avevano posto i formulari della evocatio deum e della devotio: atti che rientravano nella competenza del magistrato romano29. Posto che la censura sia stata oggetto di uno scritto di L. Cassio Emina (come si disse, è lecito dubitarne), risalirebbe a lui la prima opera specifica sul ius magistratuum. In ogni modo, un punto rimane certo. L ’analisi, in pari tempo storica e giuridica, delle magistrature costituiva l’obbligato itinerario di un pensiero teso a liberare il problema della «politela» da ogni impostazione astrattamente speculativa, e a saldare la doctnna con Yusus, il momento teoretico con le reali esigenze della prassi30. Quell’itine rario fu seguito in due scritti che appartengono, poco piu o poco meno, all’ultimo trentennio del II secolo a.C.: i L ib i magistra tuum di C. Sempronio Tuditano e i L ib i de potestatibus di M. Giunio Congo Graccano. Entrambi questi storici-giuristi (è dub bio se il secondo sia anche autore di un’opera antiquaria dal titolo Commentarii) parteciparono, su posizioni diverse, alle vicende politiche del loro tempo. Sempronio Tuditano, console nel 129, non fu un sostenitore del programma democratico, com’è possi bile desumere da una notizia appianea31; Giunio Graccano, di una generazione piu giovane, trasse l’appellativo che lo distingue dall’amicizia con il minore dei Gracchi32. Nell’età graccana, la lotta politica raggiunse il suo punto piu acuto. Certamente lo schema bipartitico, che contrappone «otti 28 Cic. Brutus 21. 81. 29 Macrob. Sat. 3. 9. 6-13. 30 Cic. De leg. 3. 5. 12; 3. 6. 14. 31 App. Bella civ. 1. 19. 80. 32 Plin. Nat. hist. 33. 9. 36.
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mati» e «popolari», non permette di coglierne tutta la comples sità; ma essa neanche si riduce a uno scontro di gruppi o di fazioni, secondo la logica consueta di una società oligarchica. La sua misura è quella stessa della crisi economica che colpiva larghissimi strati sociali, non solo romani ma italici, e che faceva urgente il problema della riforma agraria e della estensione della cittadi nanza. In uno stato in cui diveniva sempre piu instabile Tequilibrio fra gli organi fondamentali (magistratura, assemblea e se nato), la lotta politica non era poi immune da riflessi sulla stessa costituzione cittadina. Il 133 a.C., Tanno del tribunato di Tiberio Gracco, è in questo profilo un anno decisivo. L ’abrogatio del tribuno Marco Ottavio da parte del concilio della plebe, voluta e ottenuta da Tiberio, sollevò il problema delicatissimo del rapporto fra magistrato e assemblea: Tuno e l’altra, più che termini indipendenti secondo una prassi consolidata, apparivano ora, e per la prima volta (almeno in guisa cosi netta), in un rapporto di subordinazione, nel quale spettava all’assemblea il ruolo più importante. Il problema investiva concretamente un magistrato della plebe; ma era inevi tabile che andasse oltre quel limite, per acquistare un significato generale e farsi veicolo di nuove persuasioni teoriche (l’idea greca della sovranità popolare non era rimasta senza ascolto). Il tribu nato della plebe, inizialmente estraneo all’ordinamento cittadino, era ormai entrato da tempo a farne parte. Senza arbitrio, si poteva considerarlo alla stregua di ogni altra magistratura,« e misurare quindi l’azione di Tiberio (la parte conservatrice aveva interesse a farlo) nella sua piu ampia incidenza costituzionale. La deposizione di Ottavio era forse l’evento piu grave, ma non era il solo. La candidatura di Tiberio per la rielezione al tribunato interrompeva una lunga consuetudine, e offriva agli ottimati il pretesto per formulare l’accusa di adfectatio regni; forse anche la nomina di Tiberio fra i tresvin agns dandis adsignandis indicandis, istituiti con la legge agraria da lui stesso proposta, aveva sollevato piu di un dubbio. D ’altra parte, gli strumenti di lotta di cui si servirono i conservatori non erano, quanto alla loro legalità, indiscutibili. Il senatus consultum ultimum, impiegato piu volte sullo scorcio della Repubblica, tendeva a instaurare un potere
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magistratuale sottratto al limite della provocatio, in un ordina mento (si badi) ché aveva imposto questo limite anche alla dittatura. Esso fu richiesto contro Tiberio; ma il console P. Mucio Scevola vi si oppose; solo piu tardi, nel 121 a.C., fu formulato senza ostacoli contro Gaio Gracco. Per reprimere il movimento graccano, il pontefice massimo P. Cornelio Scipione Nasica, il console del 138, fece ricorso contro Tiberio alla evocatio. L ’isti tuto della evocatio consentiva a ogni cittadino, quando il nemico era alle porte, di raccogliere armati per la difesa. Ora quell’istituto era impiegato, per la prima volta, contro altri cittadini; si trattò di un impiego abnorme, e il dissidio sulla sua legalità non tardò a manifestarsi (come dimostrano i giudizi giustificativi di P. Corne lio Scipione Emiliano e dello stesso P. Mucio Scevola). L ’eco delle controversie costituzionali, cosi vive a quel tempo, doveva avvertirsi negli scritti storico-giuridici di C. Sempronio Tuditano e M. Giunio Congo Graccano. Certo, il tono acceso delle orazioni e dei libelli politici lasciava il posto, in quegli scritti, al distendersi pacato dell’analisi tecnica e della memoria antiqua ria. Anche se potessimo leggerli interi, e non nei miseri frammenti che sono giunti sino a noi, non vi ritroveremmo la durezza dell’attacco rivolto contro Tiberio da T. Annio Lusco, il quale insiste — era un punto cruciale — sulla deposizione di Ottavio33; o degli scontri fra Gaio Gracco, la cui eloquenza era «fremente e appassionata»34, e Q. Elio Tuberone, il giureconsulto discepolo di Panezio, «aspro nella vita come nei discorsi»35. Ma la polemica restava, sottintesa, nel fondo. Nei Libri magistratuum C. Sempronio Tuditano indagava, fra l’altro, l’origine dei tribuni della plebe; che secondo la sua opinione, con la quale concordano parzialmente Cicerone e Attico, integralmente Livio, furono prima due, e divennero poi cinque per cooptazione36. Che egli si fermasse solo su questo punto, non è ammissibile. La sua ricerca si moveva non solo secondo un criterio (si direbbe) storico-evolutivo; ma anche 33 ORF4. 3 (Livi Per. 58); 4 (Plut. Ti. Gr. 14. 5-9). 34 Plut. Ti. Gr. 2. 3. 35 Cic. Brutus 31. 117. 36 Ascon. in Cornei. 76-77 Clark.
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secondo un criterio descrittivo-sistematico. Nel libro XIII, og getto di esame era il rapporto fra consul e praetor, fra imperium maius e impenum minus07, e l’intento era di definirlo sul piano giuridico-formale. Anche dei tribuni, della natura e struttura del loro potere, è lecito supporre che Tuditano proponesse una definizione; alcuni temi, come il ius intercedendi e la possibilità (o impossibilità) dell ’abrogatio, allora al centro del dibattito politico, dovevano essere considerati nella sua opera dall’angolo visuale dell’oligarchia senatoria. L ’argomento del De potestatibus di Giunio Graccano non era diverso da quello che Sempronio Tuditano aveva svolto nei Libn magistratuum. L ’esposizione si articolava, probabilmente, secondo le singole magistrature: il libro VII era dedicato ai questori3738; si può presumere che i sei precedenti, ordinandosi secondo l’importanza delle cariche, esaminassero il consolato, la censura, la pretura, l’edilità curule, l’edilità plebea, il tribunato della plebe. Anche nel profilo metodologico esiste, fra le due opere, un’analogia: come Sempronio Tuditano, anche Giunio Graccano portava nella sua ricerca un interesse storiografico. All’affinità dell’argomento e (almeno da un punto di vista generalissimo) del metodo, non corrispondeva però una eguale ispirazione politica. L ’appellativo Gracchanus testimonia che, nelle tormentate vicende di quegli anni, M. Giunio Congo non era dalla stessa parte di C. Sempronio Tuditano. E congettura sin troppo naturale che le sue convinzioni politiche non restassero estranee alla sua opera; che anzi la segnassero profondamente. Non manca, per questa congettura, un indizio notevole. Nel libro VII del De potestatibus lo storico-giurista si occupava, come dicemmo, dei quaestores. Egli ne faceva risalire a Romolo Vorìgo antiquissima. Ma Romolo e poi Numa, secondo la sua opinione, non « creavano » i questori sua voce, ma populi suffragio. Il punto della oùgo quaestorum era dibattuto, come Ulpiano ricorda, fra gli interpreti piu antichi. Ma colpisce, in Giunio Graccano, l’affer mazione che già in epoca regia fu necessario il voto del popolo per 37 Fr. 8 P2. = Gell. 13. 15. 4. 38 Ulp. D. 1. 13. l pr .
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la creazione di quei magistrati: affermazione, come è stato detto, «tendenziosa e sicuramente erronea»39, alla quale la storiografia successiva non prestò ascolto, quando non la respinse aperta mente40. Tendenziosa ed erronea, e perciò in grado di aprire uno spiraglio da cui si guarda piu lontano. Quello che si intravede, è una prospettiva che, mescolando (si direbbe con Leopold Ranke) «memoria antiquaria e concezione politica»41, riconduce ai pri mordi della città la funzione essenziale dell’assemblea popolare. 5. L’idea che lo stato, e i principii che lo reggono, abbiano la loro origine nei mores maiorum, — l’idea di Catone, — segna il pensiero politico anche nei decenni ultimi della Repubblica. La riflessione ciceroniana e la ricerca antiquaria di Varrone ripren dono, com’è noto, quell’antico motivo; il quale ritorna in Sallustio, intrecciandosi con l’altro, che ha in lui toni personalis simi, della crisi e della decadenza. Fra le opere di Varrone c’è un commentario dal titolo Εισαγωγικός, scritto per Pompeo all’assunzione del suo primo consolato (70 a.C.); e che andò presto perduto, già ai tempi del suo autore. Le regole sulla convocazione dell’assemblea senatoria vi avevano trovato una diligente sistemazione. Il loro nucleo origi nario consisteva nel mos maiorum. Nell’antica prassi, che manife stava ancora una volta la sua forza normativa, si era definito il «potere di consultare il senato» del dictator, dei consules, dei praetores, dei tribuni plebi, de\Yinterrex, del praefectus urbi, e l’ordine stesso di precedenza fra questi magistrati; sul tronco fondamentale della disciplina si era innestato il «diritto straordi nario» dei tnbuni militum consulari potestate, dei decemviri e, infine, dei triumviri rei publicae constituendae (che Varrone dovette aggiungere piu tardi, richiamandosi in alcune sue lettere poi riunite nel libro IV delle Epistolicae quaestiones a quel suo scritto ormai perduto). Anche all’antica prassi, rispetto alla quale ogni innovazione era attentamente registrata, risalivano le norme sui giorni e i luoghi idonei per il senatoconsulto, sui riti necessari, 39 C. C ichorius, Untersuchungen zu Lucilius (1908) 125. 40 Tac. Ann. 11. 22. 4; Plut. Pubi. 12. 3. 41 L. R anke, Weltgeschichte 2. 1 (1882) 22.
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sulle modalità riguardanti il funzionamento interno dell’assemblea42. ί ’Είσαγωγικός varroniano si proponeva come «guida» pratica per un magistrato «inesperto di cose civili»; ma la sua ispirazione profonda era quella delle opere maggiori. U n’ispirazione non diversa avevano anche il Liber de consulum potestate di Lucio Cincio, contemporaneo di Varrone (ma la sua attività si spinge, probabilmente, sin dentro l’epoca augustea), e i Libn de auspiciis di M. Valerio Messalla Rufo, console nel 53 a.C. e augure per cinquantacinque anni. Di queste due opere, la prima ricercava in tempi remoti, e nella realtà giuridico-religiosa delle popolazioni latine, le origini di usanze ancora attuali: come quella di salutare col nome di praetor colui che si allontanava da Roma per adempiere il suo ufficio di propretore o di proconsole. La seconda risaliva anch’essa sino ai primordi, indagando fra l’altro, sul filo di antichissime leggende, le cause della esclusione dell’Aventino dal pomerio della città43. La potestas consulis e gli auspicia non erano temi inconsueti. Quello degli auspicia era un tema varroniano. Sulla potestas consulis, fra le altre potestates, si era soffermato il pensiero storico-giuridico dell’età dei Gracchi, o immediatamente succes sivo. Un oggetto nuovo di indagine, destinato a una notevole fortuna nella giurisprudenza fra il II e il III secolo d.C., era invece rappresentato dalla res militans, a cui si intitola un ampio scritto di Lucio Cincio. Egli si occupava anche, in un libro apposito, dei comitia. Da una brevissima citazione di Festo sul valore del termine patricii, l’unica testimonianza di cui disponiamo (277, 2-3 L.), non è possibile farsi un’idea di quel libro. Il suo carattere antiquario è scontato, ma non si deve neanche escludere l’intento di riannodare i molti fili di una riflessione che, in stretto rapporto con la prassi politica, si era piu volte soffermata sui poteri dell’assemblea cittadina. Come vedemmo, Giunio Graccano nel De potestatibus aveva dato un enorme risalto al suffragium populi. Ma prima del De potestatibus, intorno al 136 a.C. (la sfortunata 42 Geli. 14. 7. M I; 14. 8. 2. 43 Si vedano, rispettivamente, Fest. 276, 15-277, 2 L. e Geli. 13. 14. 4-6.
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campagna di Numanzia del console C. Ostilio Mancino ci permette di fissare la data), fra il giurista M. Giunio Bruto e il giurista P. Mucio Scevola (il futuro console del 133) si era svolta un’importante polemica sul valore del iussum populi nella deditio e nella interdictio aqua et igni. L ’eco di quella polemica non si era spenta nel I secolo a.C., e durerà a lungo: attraverso Q. Mucio Scevola, console nel 95 a.C. e pontefice massimo, essa arriva sino a Pomponio e a Modestino44. 6. La crisi dello stato repubblicano, e del suo ordine tradizio nale, è testimoniata anche dai giuristi, che di quell’ordine furono, per vocazione, i custodi e gli interpreti. In una lettera a Cicerone, scritta ad Atene nel marzo del 45 a.C., Servio Sulpicio Rufo consola l’amico per la morte della figlia. Egli dice fra l’altro (ma tutta la lettera è un documento significativo, e avremo modo di occuparcene anche in séguito): In una sola volta tanti uomini illustri sono scomparsi, un danno immenso ha subito il dominio del popolo romano, tutte le province sono sconvolte; per la perdita di una sola, piccola anima di donna, ti addolorerai senza fine? Se costei non fosse morta ora, di qui a pochi anni le sarebbe pur accaduto di morire, perché nacque essere umano. Distogli, dunque, Panimo e la mente da questi pensieri, e ricorda piuttosto ciò che è degno della tua condizione; ricorda che ha vissuto quanto fu utile per lei vivere, e insieme con la repubblica; vide te, suo padre, pretore, console, augure; andò sposa a giovani del piu alto rango; ebbe quasi tutti i beni della vita, e ora che la repubblica è caduta, anche lei se ne è andata45.
44 Su Pomp. D. 50. 7. 18 (17) e Mod. D. 49. 15. 4 v. pp. 269-70. 45 Cic. ad Farri. 4. 5. 4 ...Modo uno tempore tot viri clanssimi interierunt, de impeno populi Romani tanta deminutio facta est, omnes provinciae conquassatae sunt; in unius mulierculae animula si iactura facta est, tanto opere commovens* Quae si hoc tempore non diem suum obisset, paucis post annis tamen ei monendum fuity quoniam homo nata fuerat. Etiam tu ab hisce rebus animum ac cogitationem tuam avoca atque ea potius reminiscere, quae digna tua persona sunty illamy quam diu ei opus fuerit, vixisse, una cum re publica fuissey te, patrem suum, praetorem, consulem, augurem vidisse, adulescentibus primanis nuptam fuisse, omnibus bonis prope perfunctam esse, cum res publica occideret vita excessisse.
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Restaurare la «repubblica» fu il compito che la «rivoluzione» augustea assegnò a sé stessa, dopo le vicende drammatiche delle guerre civili. Il principio della concordia cesariano-pompeiana ne costituì il postulato necessario. Del legame simbolico fra Cesare e Pompeo uno degli autori fu Q. Elio Tuberone, figlio del pompeiano L. Elio Tuberone, e pompeiano egli stesso sino alla sconfitta di Farsalo. Nell’orazione pronunciata due anni dopo Farsalo contro un altro pompeiano, Q. Ligario (che Cicerone difese vittoriosamente con una delle sue arringhe piu sconcertanti), Q. Elio Tuberone riconobbe a Cesare e a Pompeo insieme la volontà di salvare la res publica: la salvezza della res publica era stato il fine della loro contentio dignitatis46. Quel legame restò un valido ideale politico per l’antico anticesariano, divenuto frattanto «dottissimo nel diritto pubblico e nel privato» sotto la guida del suo maestro Aulo Ofilio47. E noi possiamo vederne ancora un riflesso nel rilievo che egli, giurista e storico, assegna alla volontà ripetutamente manifestata da Cesare, dal suo primo consolato sino all’inizio della guerra civile, di istituire erede Pompeo48. Il disegno conciliativo di Tuberone si incontrava con la volontà restauratrice degli augustei e con il loro proposito di recuperare, insieme con 1'antiquitas leggendariamente rivissuta, anche il piu recente passato. Si moveva nei limiti di un’ortodossia che non impediva, e in una certa misura poteva anche condivi dere, l’elogio di Livio a Pompeo49, sopportandone la sottile ambiguità; e che riusciva persino ad accogliere, privandolo di ogni forza polemica, il «m ito» di Catone Uticense, «buon cittadino» (secondo le parole di Augusto) perché non voleva che si modifi casse l’ordine costituito50. Una parte almeno del ceto senatorio era, del resto, incline a riceverlo. Noi lo sorprendiamo di nuovo nei Coniectanea di C. Ateio Capitone51, un altro giureconsulto 46 O RF4. 4 = Quint. 11. 1. 80. 47 D. 1.2. 2. 44; 46. 48 Fr. 11 P2. = Suet. lu i 83 1. 49 Tac. Ann. 4. 34. 3. 50 A O F5. 62 p. 173=Macrob. Sat. 2. 4. 18. 51 Fr. 4 Strzel. = Gell. 4. 10. 5-7.
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allievo di Ofilio, strettamente legato al nuovo regime. Ma quel disegno ebbe anche i suoi oppositori. Non credo che esercitasse una qualche attrattiva su M. Antistio Labeone, contemporaneo di Ateio Capitone e suo grande rivale. Labeone era un profondo studioso delle tradizioni giuridiche romane; ma non si limitò a indagarle. Dal suo punto di vista quelle tradizioni costituivano una realtà vivente, andavano custodite o ristabilite, e non era lecito discostarsene nell’agire pratico. In questo modo si manife stava il suo «senso della libertà». Agli augustei, e al loro portavoce Capitone, la libertas labeoniana sembrò irrazionale ed esorbitante52. Essa si realizzava nella condotta personale, ma implicava un significato politico. La «libertà» labeoniana fa tutt’uno con la difesa del vecchio stato, delle antiche strutture; è la libertà del ceto senatorio piu tradizio nalista, disposto a intese momentanee e praticamente opportune, ma intransigente sui valori culturali e sulle istituzioni della «repubblica». L ’ideologia non rimase estranea agli studia civilia. L’animo che «si fa antico con l’antico» (diremmo con Livio) dà alla ricerca labeoniana un’intonazione polemica. I mores maiorum sono il filo conduttore del suo pensiero. Disegnata dai mores appariva la potestas dei tribuni: secondo l’insegnamento varroniano, ne faceva parte il ius prendendi, ma non il ius vocandi, la facoltà di ordinare l’arresto di un cittadino e di eseguirlo, ma non la facoltà di rivolgergli ordini o citarlo per mezzo di un intermediario autoriz zato53. Nei Libn πιθανών, che furono riassunti da Paolo all’incirca due secoli piu tardi, Labeone afferma l’eguaglianza fra multa e poena (D. 50. 16. 244). Questa eguaglianza si instaura fra entità che sono ormai sostanzialmente dissimili (la dissimilitudo, per dirla con Paolo, può cogliersi in vari profili). Essa si giustifica solo all’interno di una «concezione dottrinale-storica», che ri porti la poena e la multa alla loro originaria radice, ravvisandovi la duplice manifestazione del potere punitivo magistratuale54. 52 Fr. 9 Strzel. = Gell. 13. 12. 1-2. 53 Geli. 13. 12. 3-6. 54 A. P ernice, Labeo. Römisches Privatrecht im ersten Jahrhundert der Kaiserzeit 1 (1873) 24-25; 2. I2 (1895) 16.
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La fedeltà alle istituzioni del passato non impedi a Labeone di essere, secondo il giudizio di Pomponio (che conosceva a fondo il suo pensiero), un «innovatore» (D. 1. 2. 2. 47). Non c’era in questo, per il modo di sentire dei giuristi classici (o di molti fra essi), nulla di contraddittorio. Egli «innovò» svolgendo con le risorse della sua scienza, che proprio allora cominciava a confron tare la sua ratio con la utilitas dei primi cauti interventi imperiali55, le possibilità implicite del ius. Il valore costitutivo, dinamico, della interpretatio viene alla luce, nella riflessione labeoniana sugli istituti di diritto privato, con singolare evidenza. Ma su un altro punto, in questo momento, occorre concentrare lo sguardo. Un dato della biografia di Labeone ha un valore non episo dico. Egli non andò oltre la pretura. La rinuncia a proseguire nella carriera politica, qualunque ne sia stato l’occasionale motivo, era sorretta dalla fiducia nel proprio impegno intellettuale, che piu tardi apparirà a Pomponio, con intuizione felicissima, come il tratto più caratteristico del suo lontano (e ormai leggendario) predecessore56. Essa si innesta nella tendenza, che si fa strada negli ultimi anni della Repubblica, a considerare non piu indissolubili honos e scientia iuns civilis, esercizio delle magistrature e scienza del diritto. Questi due momenti erano apparsi, sino ad allora, solidali. Riprendendo un motivo antico, C icerone ancora insiste sul legame fra la scientia iuris, e Γ eloquentia da un lato, l’esercizio degir^önor^FHalPältro. E un insistere sostenuto da un certo modo di intendere i doveri del cittadino. Lo ritroviamo nel primo libro del De oratore, negli sviluppi paradossali e sarcastici della Pro Murena, infine nelle tarde^pagine del De officiis. che fraTacrisi deglTfionores e la crisi della scientia iuris insinuano una dipendenza segreta57. L ’abbandono della concezione che possiamo dire (convenzio nalmente) «ciceroniana», l’emergere e il consolidarsi, con La55 Inst. 2. 25 pr. 56 D. 1. 2. 2. 47. 57 Cic. pro Mur. 9. 19-14. 30; De or. 1. 45. 198; 1. 55. 235; 1. 59. 253; De off. 2. 19. 6 5 /-fe .?,
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beone ma non solo con lui, di un valore autonomo della scienza del diritto, o più ampiamente degli studi civili, si inquadrano in un’esperienza molto complessa; nella quale si viene logorando (la testimonianza piu lucida è quella sallustiana) il concetto tradizio nale della virtus come strettamente congiunta al governo dello stato. Tutto questo non rimaneva senza effetti. L ’agire dei giuristi imperiali, e il loro pensiero, risente talvolta di quell’esperienza. 7. Alla polemica politica, anche dopo la «rivoluzione» augustea, i giuristi non rimasero estranei. L ’ideologia repubblicana non fu abbandonata, sebbene ora la sua difesa si identifichi sovente con la difesa del compromesso augusteo, insidiato da aspirazioni o soluzioni apertamente assolutistiche. Gli scrittori antichi registrano le punte estreme. Nonostante il suo accentuato «moralismo», l’affermazione di Svetonio che Caligola avrebbe voluto «abolire» l’uso della scientia iuns, è molto significativa58. Anche la bizzarra immagine senechiana, — morto Claudio, « i giureconsulti uscivano fuori dalle tenebre, pallidi, gracili, respi ranti appena, come se allora soltanto ritornassero in vita»59, — testimonia a suo modo una reale vicenda storica. Nel 65 d.C. Nerone impose l’esilio a C. Cassio Longino, poi richiamato in patria da Vespasiano60. Gli «istituti» e le «leggi degli antenati» compongono, per Cassio Longino, un ordine che è bene non alterare61. U n’affinità non superficiale unisce questo giureconsulto, membro autorevolissimo della nobilitas, a M. Antistio Labeone: un’affinità che si intravede oltre le pur notevoli differenze, e oltre il dissidio delle scuole a cui i loro due nomi sono, nella tradizione, antiteticamente riferiti. Se ancora resistono antichi legami ideologici, non è meno vero, però, il graduale inserirsi dei giuristi (dopo l’età giulioclaudia, e sino ai decenni intermedi del II secolo, essi provengono normalmente dalla nuova aristocrazia dei municipi italici e delle province occidentali) nella realtà politica e amministrativa del 58 Suet. Cai. 34. 2. 59 Sen. Apocol. 12. 2. 60 Tac. Ann. 16. 7; Suet. Nero 37. 1; Pomp. D. 1. 2. 2. 51-52. 61 Tac. Ann. 14. 43. 1.
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nuovo stato. Vi sono coinvolti anche quelli che, come Cassio Longino, più avvertono il vincolo di interessi e convinzioni tradizionali, e non rinunciano al dissenso; o nel cui pensiero si distinguono (è il caso, forse, di L. Nerazio Prisco) sottili venature di pessimismo. Le carriere, nei limiti in cui sono ricostruibili, forniscono elementi preziosi. Non di rado le magistrature repub blicane si intrecciano con gli incarichi imperiali, e con compiti nuovi di estrema responsabilità (L. Giavoleno Prisco, consul suffectus nelP86 d.C., ebbe affidato da Domiziano il governo della Germania superiore nel 90, poco dopo la rivolta scoppiata in quella provincia). L ’attività giurisprudenziale, nel profilo caratteristico del re sponso, non è piu a partire da Augusto un’attività libera; o che non abbia altro controllo se non quello spontaneo del corpo sociale; essa è un’attività «controllata» dal principe attraverso il ius respondendi, che il principe, in virtù della sua auctoritas, concede (più o meno) discrezionalmente62. Inoltre i giuristi maggiori sono chiamati a far parte, e con notevole frequenza da Adriano in poi, del consilium principis, che fra l’altro dirige la giurisdizione imperiale e ne sorveglia gli effetti normativi. Essi collaborano con l’imperatore, ne orientano la politica e ne assecondano i programmi (in epoca adrianea Salvio Giuliano portò a termine, come sembra, la «codificazione» dell’Editto pretorio). A poco a poco si viene delineando una loro fisionomia burocratica, a cui darà più netti contorni l’età severiana. Il ruolo dei giuristi nel Principato non è solo «amministrati vo». Essi concorrono a formarne le tendenze culturali e ideologi che. Fra gli ultimi anni di Cesare e i primi anni di Tiberio, Q. Elio Tuberone e C. Ateio Capitone avevano formulato, come ve demmo, il dogma della concordia cesariano-pompeiana. Al regno di Tiberio appartengono, presumibilmente, i Memorialia di Ma surio Sabino. I Memorialia ricostruiscono antichi istituti di diritto sacro e pubblico; il «recupero» che in essi si compie è sulla linea della restaurazione religiosa voluta da Augusto. Questi nessi, e altri che potrebbero essere utilmente fissati, sono rilevanti. Ma a 62 Pomp. D. 1.2. 2. 48-49.
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me preme soprattutto indagare in quali guise la giurisprudenza dei primi due secoli dell’Impero «interpreta» il nuovo assetto costitu zionale. Questa interpretazione non si è manifestata in modo sistematico, né in forme letterarie sue proprie; ma si lascia sorprendere attraverso cenni assai rapidi o formule conclusive, le quali sottintendono uno svolgimento piu complesso. Il nostro esame deve prendere l’avvio da alcuni dati, che sono noti ma di cui un’indicazione schematica non apparirà superflua. La politica augustea era stata sorretta da una volontà restauratrice. Le Res Gestae ne sono un documento lucidissimo: il motivo dominante di quella lunga iscrizione, alla quale Augusto si preoccupò di consegnare il significato «autentico» della sua vita, è il ritorno alla legalità repubblicana dopo la parentesi «rivoluzio naria» degli anni fa il 33 e il 28 a.C. Secondo la logica dell’ordina mento repubblicano è anzitutto definita la potestas del principe. Unitaria e assoluta nella sua sostanza politica, — il geografo Strabone, nei primi anni del regno di Tiberio, riconobbe in Augusto il titolare di una εξουσία αύτοτελής63, — essa fu sottopo sta «a un processo di differenziazione interna»64, e distinta in singoli poteri (ne costituivano il fulcro la tnbunicia potestas e 1’imperium proconsulare) secondo i consueti schemi istituzionali. Un altro tipico tratto augusteo è la definizione della suprema zia del principe in termini di auctoritas. Vocabolo polivalente, ricco di infinite risonanze, auctontas indica, fra l’altro, il prestigio morale e politico guadagnato con i propri meriti militari e civili. Le Res Gestae hanno nel capitolo XXXIV un brano decisivo, che si riferisce agli anni 28 e 27 a.C.: Nel mio consolato sesto e settimo, dopo che ebbi spento le guerre civili, e in un tempo in cui avevo con il consenso di tutti il pieno controllo di ogni cosa, io trasferii la repubblica dalla mia potestà nella disponibilità del senato e del popolo romano. Per questo mio merito fui chiamato, per senatoconsulto, Augusto... D opo quel tempo fui superiore 63 Strabo, Geogr. 6. 4. 2, C 288. 64 P. F rezza, Per una qualificazione istituzionale del potere di Augusto, Atti dell'Accademia toscana di scienze e lettere «La Colombaria» (1956, Firenze 1957) 126-7.
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a tutti in auctoritas; di potestas non ebbi nulla piu degli altri che mi furono colleghi in ogni magistratura65.
Nel dirsi superiore, quanto all·auctoritas, a ogni altro citta dino, ma investito di una potestas eguale a quella dei suoi colleghi (Agrippa e Tiberio soprattutto, che ebbero con lui la tribunicia potestas), Augusto vuole evitare (formalmente) ogni contrasto con Pordinamento repubblicano. DelPantitesi fra auctoritas e potestas il pensiero giuridico era il più idoneo ad avvertire il valore costruttivo, di principio. Un’os servazione del giureconsulto Proculo (vissuto nella prima metà del I secolo d.C.) può essere illuminante, anche se non riguarda specificamente il nostro problema. Dice dunque Proculo, nel libro Vili delle sue Epistulae, sforzandosi di definire i popoli «liberi» e «federati» nel loro rapporto con Roma: Popolo libero è quello non soggetto alla potestas di nessun altro popolo, sia esso federato n >hl Rcuhsida ( 1 9 3 8 11 i 1 9 5 6 ) ' i l H u n o k m Broom non. Idcinente tin hy/êintimu hen Kuiseridee in den A rennen der Urkunden (1964) 49-58, 203 H. I.a lettera ili Cìiustmi.mo a Ormisda ò esaminata da Λ . Λ . V a m i ii v, Justin the hirst. An Introduction to the Epoch o f Justinian the Great (1950) 79. La teoria dell'imperatore come νόμος έμψυχος — nella formulazione giustinianea, nelle sue remote ascendenze e nei suoi tardivi riflessi, — è oggetto di un prezioso articolo di A. Steinwenter, Νόμος έμψυχος. Zur
Geschichte einer politischen Theoriey Anzeiger der Akademie der Wissen schaften in Wien (phil. -hist. Klasse) 83 (1946) 250-68. Del tema si occupa nuovamente G .I.D . A alders, Νόμος έμψυχος, Politela und res publica. Beiträge zum Verständnis von Politik, Recht und Staat in der Antike dem Andenken R. Starks gewidmet, herausgegeben von P. Steinmetz (1969) 314-29. Su N ov. 105. 2. 4, si consideri la sottile osservazione di H. H unger, Prooimion, 118-9. Della Com pilazione di Giustiniano la storiografia contemporanea è impegnata a distinguere lo sviluppo graduale e le tendenze interne liberandola da fittizi e non giustificabili schematismi. L ’avvio fu dato da
IV P ringsheim, Die Entstehungszeit des Digestenplanes und die Rechtsschulen, Atti del Congresso intemazionale di diritto romano (Roma) 1 (1934) 449-94 = Gesammelte Abhandlungen 2 (1961) 41-72. Il divario di vedute fra G .G . A rchi, La valutazione critica del Corpus iuris, Rivista italiana per le scienze giuridiche 88 (1951) 225, 228-9, 232, 234, 236 = Giu stiniano legislatore (1970) 209, 214, 218-9, 221, 223-4, e F. Wieacker, Vulgarismus und Klassizismus im Recht der Spätantike (1955) 49, 57 nt. 200, 58 nt. 203, 59-60, sul «classicism o» giustinianeo rappresenta ancora un utile angolo di osservazione.
II CICERONE E I GIURISTI DEL SUO TEMPO
Equidem non modo eos novi qui sunt, sed eorum patres etiam et avos nec sepulcra legens vereor quod aiunt, ne memoriam perdam; his enim ipsis legendis in memoriam redeo mortuorum. C icero , Cato maior , 7. 21
1. I tre piani della ncerca. Il termine «giurista», riferito al mondo antico (ma le cose non cambiano, se lo riferiamo al mondo moderno), vede ampliarsi o restringersi il suo significato in misura anche cospicua. Qui è assunto nel suo valore più caratteri stico per l’esperienza romana. Con esso si indica il iuris consultus, il tecnico competente e autorevole, la cui funzione pratica fondamentale è il « responso », e la cui sfera conoscitiva è, almeno prevalentemente, il diritto privato. In queste pagine, nelle quali resteranno in ombra aspetti anche molto importanti, non mi propongo di indagare nei dettagli, come pure si potrebbe, i rapporti di Cicerone con i giuristi del suo tempo. Non mi accadrà nemmeno di nominarli tutti: se voles simo farlo, «la giornata» (potremmo dire) «non ci basterebbe». Il titolo, da questo punto di vista, promette più di quanto non venga in realtà mantenuto. Ma da un altro punto di vista promette un po’ meno. La ricerca non si limita infatti ai giuristi contempo ranei di Cicerone, ma risale indietro di oltre un secolo, lungo l’itinerario ricostruibile di una tradizione in gran parte orale: il limite estremo è rappresentato, ancora una volta, da Sesto Elio Peto e da M. Porcio Catone il Censore. Forse è opportuno essere piu precisi, e dire che la ricerca, e Pesposizione, saranno condotte su tre piani distinti, i quali piu che essere contigui si intersecano. In primo luogo, si individuano i giuristi che Cicerone conobbe, di cui fu amico o con i quali ebbe una qualche dimestichezza. Ma la giurisprudenza dell’età cicero niana ha un suo passato, di cui la memoria si conserva nel tempo. Occorre dunque, in secondo luogo, risalire almeno alcune delle vie attraverso cui la memoria di questo passato rifluisce nell’opera letteraria di Cicerone. Infine, è necessario interrogarsi sul senso di questo recupero. Quale «programma» culturale esso concorre a
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TECNICHE E IDEOLOGIE
definire, e in quale misura il programma corrisponde alla realtà della giurisprudenza coeva? L ’interrogativo appena formulato guida, a ben guardare, tutta la nostra ricerca. 2. La «scuola» dei Mudi e l'incontro con Rutilio. «Il prestigio di un uomo», scrive Cicerone nel primo libro del De officiis (39. 139), « deve avere il suo ornamento nella casa»: la casa di un uomo illustre accoglie molti ospiti, si apre a una moltitudine di persone di ogni specie. Una casa bella e ampia, ma vuota, screditerebbe il suo proprietario. Anche per il giureconsulto la casa è importante. Non meno dello spazio libero del foro, essa è il luogo della sua professione: un luogo che la fantasia metaforica può esaltare come 1’« oracolo di tutta la città» \ Secondo il giudizio unanime dei contemporanei, ne abitava una splendida, al Viminale, C. Aquilio Gallo, amico di Cicerone e suo collega nella pretura2. Ma ancora nell’età degli Antonini si ricordava quella di P. Cornelio Scipione Nasica Corcu lum, console nel 162 e nel 155 a. C., sulla via Sacra: gli era stata concessa con pubbliche spese, «perché si potesse piu facilmente consultarlo»3. Nella casa del giureconsulto si ritrovano insieme clienti e discepoli. Il respondere e il docere, il comunicare pareri giuridici tecnicamente formulati e l’insegnare diritto, avvengono in un momento solo4. Come manifestazione orale, il responso è anche una congiuntura didattica dalle implicazioni imprevedibili. Questo rimase un punto fermo, nella tarda Repubblica e anche dopo: almeno sino a quando un diverso ceto professionale, cosmo polita e burocratico, non prese il posto di quello cittadino e « libe ro»; e la consulenza, ormai sganciata da un insegnamento divenuto «accademico», non mutò natura, dispiegandosi in un àmbito mediterraneo e mondiale, fra interlocutori talvolta lontanissimi. 1 Cic .D e or. 1.45. 200. 2 Plin. Nat. hist. 17. 1. 2. Nel 66 a.C., C. Aquilio Gallo e Cicerone presiedono come pretori, rispettivamente, la quaestio de ambitu e quella de repetundis (pro Cluentio 53. 147 e B roughton , MRR. II 152). 3 Pomp. D. 1.2. 2. 37, dove è verisimilmente falso il prenome Gaius, e le parole « qui optimus a senatu appellatus est», abituali per il padre, denunciano uno scambio: cfr. F. M ünzer , Cornelius (353), RE. 4. 1 (1900) 1501. 4 Cic. Or. 41. 142-42. 143.
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Negli anni degli studi, Cicerone frequentò la casa di due giuristi celebri, Q. Mucio Scevola l’augure, ormai ultrasettan tenne, e Q. Mudo Scevola il pontefice; forse vide al lavoro anche il vecchio, e cieco, C. Livio Druso5. Sono anni terribili, fra le prime convulsioni della guerra marsica e le proscrizioni sillane imminenti. Cicerone apprese il diritto nel solo modo in cui si poteva apprenderlo allora, fra il 90 e l’80 (le cose d’altronde non muteranno che molto piu tardi): ossia stringendo un rapporto personale, «privatistico», col maestro, secondo la logica aristocra tica della trasmissione del sapere6. Le abitudini di Q. Mudo Scevola l’augure ci sono note. Lo vediamo levarsi di buon mattino, vecchio e malfermo in salute, per svolgere la sua funzione di consulente, nella casa affollata di visitatori7. Egli «non dava lezioni a nessuno; tuttavia, rispondendo ai quesiti di coloro che lo interrogavano, insegnava a quanti volessero prestare ascolto»8. In un modo non diverso doveva comportarsi Quinto Mucio il pontefice, al quale le preoccupazioni della rivolta italica (che, come console, non aveva certo contribuito a scongiurare), e il tentativo di assassinio di cui fu vittima ai funerali di Mario (nel gennaio dell’86)9, non tolsero il gusto dell’insegnamento giu ridico. Agli inizi dell’86 l’Augure era morto da non piu di un anno. Il Pontefice ne visse altri quattro. Fu ucciso nella primavera dell’82, per ordine del console Mario il giovane, insieme con C. Papirio Carbone, L. Domizio Aenobarbo e Publio Antistio, il suocero di Pompeo: cadde poco fuori della Curia, scrive Appiano, e il suo 5 Per i due Mudi, Cic. Brut. 58. 211 e Lael. 1. 1-2; Tac. Dial. 30. 3; Plut. Cicero 3. 2. Su C. Livio Druso, Cic. Brut. 28. 109 e Tusc. 5. 38. 112; Val. Max. 8. 7. 4. 6 Bastano le parole nusquam (numquam) discedere (Cic. De or. 1. 21. 97; Lael. 1. 1) a rendere in modo efficace il legame che stringe Yadulescens ai senes, scelti come guida con l’impegno di imitarli (De off. 1. 34. 122-123; 2. 13. 46). Su questo aspetto dell’educazione romana ha osservazioni molto fini W. S teidle, Einflüsse römischen Lebens und Denkens au f Ciceros Schrift «De oratore», Museum Helveticum 9 (1952) 11-15, 18, 24-25. 7 Cic. De or. 1. 45. 200 e Phil. VIII 10. 31. 8 Cic. Brutus 89. 306. 9 Per opera di C. Flavio Fimbria (pro cos. 85?): Cic. pro Roscio Am. 12. 33; Val. Max. 9. 11. 2.
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corpo fu gettato nel Tevere10. Durante il «regime» di Cinna e subito dopo si era adoperato, con altri autorevoli esponenti della nobilitas, per una intesa fra Siila e i suoi avversari11. Può darsi che la strada verso il sacrificio o il martirio (cosi amano dire gli studiosi moderni) egli l’abbia percorsa soltanto per un errore di calcolo12. Il «partito» mariano, dunque, colpisce definitivamente Scevola pochi mesi prima che Siila occupi Roma per la seconda volta. Certo contraria agli interessi mariani era stata, nel 95 a. C., la lex Licinia Mucia sugli alleati italici13. Ma, conTè risaputo, i confini fra i gruppi politici non sono costanti. Non è improbabile che, nel 92, la mano protettrice di Mario abbia tenuto Scevola al riparo dall’accusa di concussione che travolse, invece, P. Rutilio Rufo, il console del 105, suo legato in Asia e unito a lui da una stretta amicizia14. In quel processo celebre, l’austero comportamento di 10 App. Bella civ. 1. 88. 403-404. Anche Diodoro (37. 29. 5; 38-39. 17) e Velleio (2. 26. 2) collocano la strage dopo la sconfitta dell’esercito mariano a Sacriporto. La tradizione che fa capo a Livio (Per. 86) è diversa: Fior. 2. 9. 20-21; De vir. ili. 68. 2; Oros. 5. 20. 4. Si veda il commento di E. Gabba al primo libro dei Bella civilia appianei (19672) 232-4. Non mancano varianti nei particolari. Sull’uccisione di Scevola, Cicerone torna piu volte: De or. 3. 3. 10; Brut. 90. 311; De nat. deor. 3. 32. 80; ad Att. 9. 15. 2. 11 Della politica «conciliativa» di Q. Mucio Scevola il pontefice è testimone Cicerone, pro Roscio Am. 12. 33 e ad Att. 8. 3. 6, su cui D. R. Shackleton B ailey, Cicero's Letters to Atticus 4 (1968) 60-61, 332. Che il movimento teso a scongiurare la guerra civile fosse abbastanza ampio si desume anche da Cic. pro Roscio Am. 47. 136; Phil. XII 11. 27; Liv. Per. 83; App. Bella civ. 1. 77. 350-353; 1. 85. 383-387; 1. 95. 441. Cfr. U. L affi, Athenaeum 55 (1967) 260, e E. G abba, Esercito e società nella tarda Repubblica romana (1973) 403 (che però non menzionano, se vedo bene, la lettera di Cicerone ad Attico). 12 Cfr. E. B adian, Studies in Greek and Roman History (1964) 44 e nt. 98. 13 L ’applicazione di questa legge, — proposta dai due sapientissimi consules Scevola e Crasso (Cic. pro Com. 121 Schoell [Ascon. in Com. 67, 15-19 Clark]; De off. 3. 11. 47), con l’appoggio, come sembra, di M. Emilio Scauro, il console del 115 a.C., — diede luogo al processo contro lo spoletino T. Matrinius, un cliente di Mario, che quest’ultimo riuscì a proteggere con la sua auctoritas (Cic. pro Balbo 21. 48-49). Come osserva E. B adian, Studies in Greek and Roman History, 49, « the case was of importance far beyond its immediate scope». 14 E dubbio se il governatorato asiatico di Q. Mucio Scevola cada
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Rutilio apparve «socratico»15. Scevola fu uno dei difensori, e parlò (secondo il suo costume) «con semplicità e chiarezza»16, senza evitargli però la condanna. La sentenza, pronunciata dalla giuria equestre, fece scalpore, e Γ innocentia di Rutilio fu celebrata nei secoli17. Esule a Mitilene, dove vesti abiti greci18, divenne poi immediatamente dopo la sua pretura (98 a. C.?) o dopo il consolato (95 a. C.). La prima ipotesi è sostenuta soprattutto da Balsdon e Broughton, la seconda da Badian. Propendo per la prima, condivisa ora da B. A. M arshall, Athenaeum 64 (1976) 117-30, con un nuovo esame di Ascon. in Pison. 14, 24-15, 6 Clark = 20, 2-6 Stangl. L ’amministrazione costituì un exemplum, proposto ai nuovi magistrati da un decreto senatorio (Val. Max. 8. 15. 6) e spesso evocato nella polemica politica (Cic. Div. in Q. Caec. 17. 57; in Verrem II 2. 10. 27; 3. 90. 209). Scevola rimase nella provincia nove mesi (Cic. ad. Att. 5. 17. 5), e vi ebbe «onori quasi divini» (Diod. 37. 6), «gare ginniche e teatrali» periodiche (OGIS. II 437, 6 = IGRR. IV 297, 6 = S herk 47, 6; cfr. M. H assall - M. C rawford - J. R eynolds, JRS. 64, 1974, 219), che il «nemico» Mitridate non osò abolire (Cic. in Verrem II 2. 21. 51). Il comportamento suo e del legato Rutilio, ostile agli abusi dei pubblicani verso i provinciali, determinò la «vendetta» equestre contro Rutilio (Diod. 37. 5. 1; Liv. Per. 70; Val. Max. 2. 10. 5; 6. 4. 4; Veli. 2. 13. 2; Fior. 2. 5. 3; Ps.-Ascon. 202, 21-25 Stangl). Al «piano concertato dai cavalieri» Mario, probabil mente, non fu estraneo (Dio 28 fr. 97, 1-3); ma non si può ridurre ogni cosa, come avverte E.S. G ruen , Historia 15 (1966) 53-55; Roman Politics and the Criminal Courts, 149-78 B. C. (1968) 205, a un conflitto fra Rutilio e la factio mariana. Anche Scevola soffri della «inimicizia» dei pubblicani (Cic. pro Plancio 13. 33 e Schol. Bob. p. 133, 17-134, 1 H. = 158, 3-11 Stangl;adFam. 1. 9. 26), ma non come Rutilio: cfr. P. A. B runt , The Equites in the Late
Republic^ Deuxième Conférence internationale d'histoire économique,
1962, 1 (Ecole pratique des hautes études, Sorbonne, 6, Congrès et colloques 8, 1965) 119 e nt. 8. Che fosse proprio Mario a proteggerlo, cosi nel 92 come durante la strage dell’87, è una plausibile congettura di E. B adian, Studies in Greek and Roman History, 43-44, 57-58, 107-8. 15 Cic. De or. 1. 54. 231; Quint. 11. 1. 12-13. 16 Cic. De or. 1. 53. 229; Brut. 30. 115. 17 Da Cicerone (pro Font. 17. 38; in Pis. 39. 95; pro Scauro fr.d Clark [Ascon. 21, 14-17 Clark]; De nat. deor. 3. 32. 80; 3. 35. 86) sino a Orosio (5. 17. 12), attraverso Ovidio (ex Ponto 1. 3. 61-64), Velleio (2. 13. 2), Seneca (Ep. 24. 4; 67. 7; 82. 11; 98. 12; Deprov. 3. 4; 3. 7; ad Marc.. 22. 3), Quintiliano (5. 2. 4), Minucio Felice (5. 12) e Cassio Dione (28 fr. 97, 1-2). 18 Per sfuggire, agli inizi della prima guerra mitridatica, alla «crudeltà del re verso i togati»: Cic. pro Rah. post. 10. 27; v. anche Posid. F 36, II A p. 246, 2-3 Jacoby = F 253, 83-84 E.-K. = Athen. Dipnosoph. 5. 213b. Che proprio Rutilio avesse spinto Mitridate all’eccidio dei Romani in Asia, è una notizia di Teofane (F 1, II B p. 921, 25-27 Jacoby), generalmente considerata una insinuazione calunniosa (Plut. Pomp. 37. 2-3).
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cittadino di Smirne19. Qui, ormai vecchio, lo incontra Cicerone nel 78 a. C., durante il suo viaggio in Oriente20. Governatore della Cilicia, egli avrebbe poi preso a modello Γ «editto provinciale» che Scevola aveva redatto, con l’aiuto di Rutilio21, mezzo secolo prima22. I due Mucii, l’augure e il pontefice, e Rutilio, già apparten gono, rispetto a Cicerone, al passato. La loro contemporaneità con lui sta nel punto di saldatura fra generazioni alquanto lon tane. Di un altro giurista, Servio Sulpicio Rufo, Cicerone fu non solo amico ma anche coetaneo. Sono piu anziani i due maestri di Servio, L. Lucilio Balbo e C. Aquilio Gallo, ma il secondo (forse) solo di poco. Quasi di una generazione piu giovani, invece, Aulo Of ilio e C. Trebazio Testa, entrambi partigiani di Cesare. Il «pompeiano» Q. Elio Tuberone è ancora un adulescens23 nel 46 a. C., quando sostiene l’accusa contro Q. Ligario, e sino a quel momento non ha intrapreso o approfondito gli studi giu ridici. Lo farà di li a poco, con la guida di Aulo Ofilio. 3. La memoria del passato nel dialogo con gli anziani. I dati prosopografici potrebbero facilmente arricchirsi e complicarsi in 19 Cic. pro Balbo 11. 28; Tac. Ann. 4. 43. 5. V. anche Ovid. ex Ponto 1. 3. 65; Suet. De gramm. et rhet. 6. 20 Cic. De re pubi. 1. 8. 13; Brut. 22. 85. 21 La collaborazione fra i due è totale. Secondo le parole di Diodoro, 37. 5. 1, Q. Mucio Scevola έπιλεξάμενος τον άριστον τών φίλων σύμβουλον Κόιντον (?) Τοτίλιον μετ’ αύτοΰ συνήδρευε βουλευόμενος καί πάντα διατάττων καί κρίνων τα κατά τήν επαρχίαν. 22 La presenza, nell’editto emanato da Cicerone per la Cilicia, di norme tratte àz\Yedictum Asiaticum di Q. Mucio Scevola, è dichiarata in una lettera ad Attico (6. 1. 15) del febbraio del 50 a. C., su cui D. R. S hackleton B ailey, Cicero's Letters to Atticus 3 (1968) 92-93, 247-8. Il contenuto, e il metodo, del breve edictum cilicio sono discussi da G. P ugliese, Synteleia Arangio-Ruiz 2 (1964) 972-86, e da R. M artini, Ricerche in tema di editto provinciale (1969) 33-48. Sull’improbabile confronto con il famoso testo edittale del prefetto d’Egitto Tiberio Giulio Alessandro, in OGIS. II 669, si veda G. C halon , L ’édit de Tiberius Julius Alexander. Etude historique et exégétique (1964) 69-76 (in questo libro l’epigrafe è riprodotta, con un nuovo esame critico, dall’edizione di Evelyn White e Oliver); un cenno anche in R. K atzoff, TR. 37 (1969) 427. 23 Cic. pro Lig. 3. 8-9.
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trame piu fitte, ma non dobbiamo lasciarci tentare da questa possibilità. È meglio mettere in luce un altro punto, non allonta nandoci per il momento dagli anni giovanili di Cicerone. Attra verso il dialogo con i giuristi più anziani — un libero esercizio della mente «fra gentiluomini amici, che si conoscono benissimo fra loro » 24, — Cicerone ripercorre una tradizione giurispruden ziale, che più tardi, nelle sue opere, acquisterà un valore emble matico. La società romana e in ispecie quella della Repubblica, come ogni altra società aristocratica, non era priva di memoria. Anche ad essa si attagliano, a patto di liberarle da ogni intonazione intimistica o malinconica, le parole di un romanzo moderno, rievocativo della Mitteleuropa asburgica: «allora...non...era indif ferente che un uomo vivesse o morisse. Se uno veniva cancellato dalla schiera dei mortali, non entrava subito al suo posto un altro, per far dimenticare il defunto, ma restava un vuoto dov’egli mancava... Tutto ciò che cresceva aveva bisogno di molto tempo per crescere, e tutto ciò che periva aveva bisogno di un lungo tempo per essere dimenticato»25. Nel mondo romano la tradi zione, con le sue mediazioni autorevoli, orali e scritte, è un motivo dominante: lo è anche quando diviene oggetto di pole mica, anche quando se ne rifiutano gli elementi piu arcaici rappresentandoli in termini grotteschi. La giurisprudenza, come l’oratoria (l’altra «professione» ci vile che, congiunta con la ricchezza, apre la strada alla carriera politica)26, ha le sue cronache e la sua aneddotica. Q. Mucio 24 S haftesbury, Sensus communis: an Essay on the Freedom of Wit and Humour, Part 1, Sect. 5, Characteristics of Men, Manners, Opinions, Times l 4 (1727) 75. 25 J. R oth, Radetzkymarschy Werke, herausgegeben und eingeleitet von H. Kesten 2 (1975) 113-4. 26 Le due occupazioni civili, del giurista e dell’oratore, sono fondamen tali per un nobile, cosi come l’attività militare; esse concorrono, d’altra parte, nel fornire al novus homo la notorietà necessaria per aspirare alle cariche pubbliche. La giurisprudenza molto meno dell’oratoria? Parrebbe doverlo ammettere, in base a quanto Cicerone afferma nella pro Murena (v. p. 117). Ma io condivido l’acuto rilievo di T. P. W iseman, New Men in the Roman Senate, 139 B. C. - A. D. 14 (1971) 119: «Cicero’s highly biased account... of the jurist’s electoral disadvantages vis-à-vis the military man
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Scevola l'augure era uno «spiritoso» e «garbato narratore»27. Nonostante la sua proverbiale «severità», il pontefice sapeva essere non meno «affabile»28. La fisionomia di Rutilio, crediamo, non era diversa. Se si deve giudicare dalle pagine del Brutus (22. 85-88) sulla strage della Sila, e sulla difesa che Gaio Lelio e Servio Sulpicio Galba, l'uno dopo Paltro, si assunsero dei pubblicani che ne furono accusati, anche Rutilio, a cui appartiene il racconto delPepisodio, era abilissimo nelPannodare i suoi ricordi, risalendo molto indietro negli anni. Con questi uomini, lo studio del «diritto civile» non si esauriva in un'esperienza tecnica. Dal dialogo con loro, Cicerone apprese notizie e immagini dirette di una cultura giuridica piu antica: quella di Manio Manilio, il console del 149 a. C., di P. Mucio Scevola e P. Licinio Crasso Mudano (consoli rispettivamente nel 133 e nel 131), di M. Giunio Bruto (pretore intorno al 140): coetanei di Scipione Emiliano e di Panezio, o a loro molto vicini negli anni, variamente distribuiti nei gruppi intellettuali o (se si vuole usare questa parola) nei circoli di quel tempo. Come testimoni, i due Mucii e Rutilio non potevano risalire piu indietro. Può darsi che il piu vecchio dei tre, Q. Mucio Scevola l'augure (la cui nascita deve collocarsi intorno al 165 a. C .29), abbia «veduto» Sesto Elio Peto Cato, console nel 198 e and the orator unconsciously demonstrates just how much gratia a man could accumulate by specializing in the law». 27 Cicerone ricorda, nel De amicitia (1. 1), che egli soleva parlare memoriter et iucunde del suocero Gaio Lelio, e altrove lo chiama ioculator senex (ad Att. 4. 16. 3). In linea con il suo carattere sono il lungo intervento e le parole di commiato che Cicerone gli fa pronunciare in De or. 1. 9. 35-10. 44 e 1. 62. 265. un esempio dell’ironia dell’Augure è in De or. 2. 67. 269. Lucilio lo aveva già immortalato come uomo caustico nelle sue «satire»: 2. 84-86 M. = 2. 74-76 Krenkel (Cic. De or. 3. 43. 171); 2. 88-94 M. = 2. 89-95 Krenkel (Cic. De fin. 1. 3. 9). Bersaglio di questi versi è Tito Albucio e il suo maniaco ellenismo. 28 Cic. Brutus 40. 148. La seventas può dirsi proverbiale, se si considera l’aneddoto raccontato da Sesto Pomponio in D. 1. 2. 2. 43. 29 E la conclusione alla quale perviene G. V. S umner , The Orators in Cicero's Brutus. Prosopography and Chronology (1973) 55-56, sulla base di Cic. De re pubi. 1. 12. 18 e con un ragionato rifiuto di Cic. De or. 3. 18. 68, che indurrebbe a spostare la data più in alto, almeno al 171.
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censore nel 19430, ma a una condizione: che quest’ultimo sia vissuto molto a lungo, almeno sino al 155 a. C., l’anno del viaggio a Roma del peripatetico Critolao, di Diogene stoico e dell’accade mico Carneade31. In ogni modo, il giovanissimo Quinto Mucio non avrebbe potuto conservare che un’immagine assai vaga di Sesto Elio. Piuttosto, sia lui che l’altro Scevola, e Rutilio, dovettero raccogliere parecchie testimonianze eliane dai loro predecessori-contemporanei. Cosi dagli ambienti che egli fre quentava (e che facevano capo soprattutto a P. Mucio Scevola, a Gaio Lelio e a Servio Sulpicio Galba) era giunta a Rutilio l’eco dell’«ammirevole» e «molteplice» eloquenza dei tre ambasciatori filosofi. Come storico (e storico in lingua greca) Rutilio registra quel viaggio fra gli avvenimenti importanti; e non meno di Polibio è convinto che il suo valore vada oltre l’occasione che lo ha determinato32. In quegli stessi circoli, il ricordo di Sesto Elio, — legato da amicizia a P. Cornelio Scipione Africano maggiore e celebrato da Ennio33, — non era certamente meno vivo di quello del suo contemporaneo Catone. Sul filo della memoria, teso lungo le generazioni, la figura di Sesto Elio acquista lineamenti mitici. Il ricordo biografico tra passa nel simbolo. La riduzione simbolica si svolge dal De oratore 30 La notizia, della cui veridicità possiamo dubitare, è in Cic. De or. 3. 33. 133 (il socer di L. Licinio Crasso è appunto l’Augure). 31 Catone, in Cic. Cato maior 9. 27, parla di Sesto Elio come morto; e il dialogo si immagina avvenuto nel 150 a.C. 32 Fr. 3 P2. = Geli. 6. 14. 8 (cfr. Macrob. 1. 5. 15). Per i rapporti di Rutilio con Servio Sulpicio Galba, il console del 144 a. C., Gaio Lelio e P. Mucio Scevola, il console del 133, v. Cic. Brut. 22. 85-88; De off. 2. 13. 47; D. 1. 2. 2. 39-40. Piu discussa è la sua amicizia con P. Cornelio Scipione Emiliano, del quale fu tribuno militare a Numanzia (Cic. De re pubi. 1. 11. 17; De fin. 1 .3 .7 ; App. Iber. 14. 88): cfr. H. Strasburger, Hermes 94 (1966) 66-69; A. E. A stin , Scipio Aemilianus (1967) 84, 88-89; J. B riscoe, JRS. 64 (1974) 133. 33 Molto probabilmente negli Annales (10. 331 V2), con il verso famoso «egregie cordatus homoycatus Aelius Sextus», che Cicerone ripete più volte {De or. 1. 45. 198; De re pubi. 1.18. 30; Tuse. 1. 9. 18). Per catus nel senso di acutus, importante Varrone, De ling. Lat. 7. 3. 46. Il legame degli Elii con l’ambiente degli Scipioni, e in particolare di Sesto Elio con l’Africano maggiore, è un dato sicuro: cfr. T h . A. D orey, Scipio Africanus as a Party Leader, Klio 39 (1961) 192-5.
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al De re publica (1. 18. 30; 3. 22. 33), dal Brutus (20. 78) al De senectute (9. 27), dove Catone, abolendo ogni distanza temporale, avvicina Sesto Elio a Tiberio Coruncanio, il primo pontefice massimo plebeo. Nel De oratore, Sesto Elio era già stato scelto come esponente esemplare di una giurisprudenza aristocratica. Il suo nome ricorre tre volte nel primo libro (45. 198; 48. 212; 56. 240). Lo incontriamo di nuovo, insieme con quello di Manio Manilio, nel mezzo del terzo libro (33. 132-133), quando L. Licinio Crasso interrompe il discorso sulla elocutio e sui due generi dell’oratio civilis per riprendere e sviluppare un’osserva zione di Q. Lutazio Catulo sul legame intrinseco fra tutte le arti liberali. Non solo l’oratoria, dice Crasso, ma molte altre disci pline hanno visto ridotto il proprio àmbito per la divisione in settori specialistici (distributione partium ac separatione). Lo stato attuale della medicina non è piu quello del tempo di Ippocrate; lo stesso può dirsi per la geometria, se si considera Γidea che ne avevano Euclide e Archimede; o per la musica, la critica letteraria, le quali sono mutate dall’epoca di Damone e di Aristosseno, di Callimaco e del grammatico Aristofane. Queste discipline non erano allora cosi frantumate, discerptae, che nessuno potesse comprenderne la fondamentale unità, e ognuno ritagliasse per sé la sua zona di ricerca. A questo punto si incontrano le parole che ci interessano di piu, e che esprimono un pensiero proprio di Cicerone in un contesto di derivazione greca: Per quanto mi riguarda, io ho spesso sentito dire da mio padre e da mio suocero, che anche tra noi coloro che volevano distinguersi e acquistare fama per la loro sapienza, erano soliti abbracciare tutto il sapere, almeno quel sapere che allora costituiva il patrimonio della nostra città. Essi si ricordavano di Sesto Elio; ma anche noi abbiamo visto Manio Manilio passeggiare su e giu per il foro, — segno questo che uno si poneva con la sua esperienza a disposizione di tutti i suoi concittadini. D a costoro, — sia che passeggiassero come si è detto, sia che sedessero in casa sul loro seggio, — si andava allora per consultarli non solo su questioni giuridiche, ma anche sul matrimonio di una figlia, sull’acquisto di un fondo, sulla coltivazione di un campo, insomma su ogni genere di doveri o di affari34. 34 Equidem saepe hoc audivi de patre et de socero meo nostros quoque
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La sapienza di Sesto Elio nasce non tanto da un impegno teoretico, quanto dalle sue qualità morali e attitudini pratiche. Del resto, nel giudizio popolare, il nome di «sapiente» ebbe non di rado questa origine: fu cosi per Tiberio Coruncanio, rappresen tante della religiosità tradizionale, e per Lucio Acilio, uno degli «antichi interpreti» delle XII Tavole; fu cosi anche per Catone il Censore35. Lo sguardo deirantico giureconsulto non si indiriz zava, come lo sguardo degli «astrologi» enniani, alle «stelle nel cielo», «quando sorge il Capricorno o il Cancro o qualche altro segno di fiera»36. Rimaneva fermo piuttosto sulle cose che ci circondano e complicano la nostra esistenza quotidiana. Sono queste res turbidae che lo interessano37, piu del cielo stellato. Nelle parole che Ennio fa pronunciare ad Achille, « quod est ante pedes nemo spectat, caeli scrutantur plagas», è implicito un imperativo morale. E Ylphigenia> composta sul modello euripideo, si rapprehomines, qui excellere sapientiae gloria vellenty omnia, quae quidem tum haec civitas nossety solitos esse complecti. Meminerant illi Sex. Aelium; M\ vero Manilium nos etiam vidimus transverso ambulantem foroy — quod erat insigne eumy qui id faceret, facere civibus suis omnibus consilii sui copiam ad quos olim et ita ambulantis et in solio sedentis domi sic adibatury non solum ut de iure civili ad eosy verum etiam de filia conlocanday de fundo emendoy de agro colendo, de omni denique aut officio aut negotio referretur. 351 contemporanei giudicavano sapiens Tiberio Coruncanio, insieme con M*. Curio Dentato e C. Fabrizio Luscino (il primo console nel 290 a.C. e per altre due volte, il secondo console nel 282 e nel 278 a.C.): Cic. Lael. 5. 18; 11. 38-39; v. anche De or. 3. 15. 56 e 33. 134. Il nome del peritissimus pontifex (Cic. De dçmo 54. 139; De nat. deor. 1. 41. 115; 3. 2. 5) è unito spesso a quello dei due «eroi» poc’anzi ricordati: Cic. Brut. 14. 55; Cato maior 6. 15; 13. 43. Lucio Acilio fu detto sapiens nella stessa epoca di Catone il Censore: Cic. De leg. 2. 23. 59; Lael. 2. 6; Pomp. D. 1.2. 2. 38, dove il nome è P. Atilius. Che la perfecta sapientia di Catone sia dovuta, nella prospettiva ciceroniana {De or. 3. 33. 135; Cato maior 2. 4-5; Lael. 2. 6; 2. 9-10), non tanto alla sua doctnna quanto all*usus multarum rerum, è un punto sul quale non è necessario insistere. 36 Secondo le parole che Cicerone fa pronunciare a Gaio Lelio nel De re publica (1. 18. 30), Sesto Elio «aveva sempre sulle labbra» i versi àe\YIphige nia di Ennio {Seen. 242-244 V? = 185-187 Jocelyn): astrologorum signa in caelo quid sit observationis} / cum Capra aut Nepa aut exoritur nomèn aliquod beluarum, / quod est ante pedes nemo spectaty caeli scrutantur plagas. (Li ho trascritti secondo Jocelyn). 37 E ancora una reminiscenza enniana, forse dalle Eumenides {Seen. 141-144 V? = 316-318 Jocelyn), in Cic. De or. 1. 45. 199.
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sentava allora in un teatro dove il censore Sesto Elio, appunto, aveva separato per la prima volta i posti dei senatori, gli opulenti che sanno convincere col discorso, dal resto del pubblico38. La sapienza si ricongiunge, però, a un sapere. I Tnpertita eliani, il cui nucleo è costituito dalle XII Tavole, sono senza dubbio un’opera pratica: visti da questo angolo hanno molto in comune con la raccolta di «azioni» dello scriba-edile Gneo Flavio, piu antica di oltre un secolo. Ma essi non sono soltanto un’opera pratica. Per quanto possiamo intuire dalle esigue testimonianze, risalivano all’antica legge anche con un intento filologico-antiquario39. Non si comprende il senso dei Tnpertita, se sfugge il loro contesto politico-ideologico. I Tnpertita rispondono al bisogno di un ceto di governo che, appropriandosi della tradizione, costrui sce la sua cultura. Lontanissimi, su un piano letterario, dalle Storie di Fabio Pittore e dagli Annali del «filologo» Ennio, lo sono meno (forse) se si considera la loro ispirazione civile. 4. Giurisprudenza e cultura ellenistica. Quali che fossero le ambizioni della sua ricerca, resta fermo che un acuto senso della vita abilitò Sesto Elio alla «professione» di giureconsulto. Questo senso acuto della vita, sul quale insiste Cicerone (come Ennio prima di lui), non è una caratteristica del solo Sesto Elio; esso alimenta dal profondo il pensiero giuridico repubblicano, il quale 38 L ’iniziativa per l’introduzione del privilegio senatorio fu presa, oltre che da Sesto Elio, dall’altro censore del 194 a. C., C. Cornelio Cetego: suggerita da P. Cornelio Scipione Africano, console per la seconda volta, fu attuata dagli edili curuli: Cic. De bar. resp. 12. 24; pro Com. I 26 Schoell (Ascon. 69,14-18 Clark); Ascon. 69-70 Clark; Liv. 34. 44. 4-5; 34. 54. 3-8; Val. Max. 2. 4. 3 (dove posterioris Africani è un errore); 4. 5. 1; cfr. F. C assola, I gruppi politici romani nel III secolo a. C. (1962) 402-3, e F. D ’Ippolito, Labeo 17 (1971) 274-7 = I giuristi e la pitta. Ricerche sulla giurisprudenza romana della Repubblica (1978) 57-61. Gli opulenti, che sanno convincere col discorso, si contrappongono nella Hecuba di Ennio {Seen. 199-201 V? = 172-174 Jocelyn) agli ignobiles, e l’antitesi è modellata su quella euripidea fra οί δοκουντες e οί άδοξουντες. Quando parlano gli uni e gli altri, « eadem dicta eademque oratio aequa non aeque valet ». 39 Un intento simile si coglie nell’interpretazione del termine lessus. Sesto Elio pensava, con Lucio Acilio, a «un qualche abito funebre»; più tardi L. Elio Stilone ne fissò il significato come lugubris eiulatio: Cic. De leg. 2. 23. 59.
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non si lascia mai tentare troppo da suggestioni speculative. Ma la costruzione di una scienza richiede anche altro: la scoperta di nessi e rapporti, una topica argomentativa in luogo di una topica «formulistica», una costante attenzione al tipico attraverso la molteplicità dei dati. Alcuni decenni dopo Sesto Elio, il «dottissimo» Manio Manilio e i giuristi della sua generazione (P. Mucio Scevola e M. Giunio Bruto, in primo luogo) già si muovono su una linea diversa40. Tuttavia Manilio, nelle pagine ciceroniane, non si discosta da Sesto Elio, e rappresenta insieme con lui un sapere eminentemente pratico41. In ogni modo, cinquantanni pili tardi, la giurisprudenza romana visse l’esperienza di una ellenizzazione radicale. La sicura formazione greca di P. Rutilio Rufo non si lascia sorprendere nei pochissimi responsi che ancora leggiamo e nelle labili tracce dei suoi meditati (e complessi) programmi edittali42. Ma quella del pontefice massimo Q. Mucio Scevola è riconoscibilissima da quel poco che è giunto sino a noi. Ne è rimasta l’impronta nella metodologia topico-dialettica e nelle scelte terminologiche. Rutilio non era stato il primo senatore romano a scrivere in greco un libro di storia, o a ispirarsi a 40 Che fra i doctissimi di Lucil. Carni. 26. 595-596 M. = 26. 591-593 Krenkel debba riconoscersi anche Manio Manilio, è congettura largamente ammessa e resa plausibilissima da C. C ichorius, Untersuchungen zu Lucilius (1908) 105-8. 41 Oltre che nel brano del De oratore, 3. 33. 133, sul quale ci siamo soffermati, il nome di Manilio ricorre accanto a quello di Sesto Elio in 1. 48. 212; una diversa portata ha naturalmente ad Fam. 7. 22, su cui P. D e F rancisci, BIDR. 66 (1963) 93-94.1 tratti caratteristici del sapere di Manilio, nella prospettiva ciceroniana, emergono anche da altri luoghi: De or. 1. 58. 246; De re pubi. 1. 13. 20; 2. 15. 28-29; 3. 10. 17; 5. 3. 5; Brut. 28. 108 (dove è significativo il confronto con P. Mucio Scevola). 42 Gli interventi normativi di Rutilio come pretore (118 a. C.?) sono sicuramente attestati in Gai. 4. 35 e Ulp. D. 38. 2. 1. 1. La constitutio Rutiliana, da cui muove il discorso giulianeo in Vat. 1, è con ogni probabilità una regola giuridica, legata al nome del giureconsulto. Quanto al suo magnum munus de iure respondendi (Cic. Brut. 30. 113), sono giunte sino a noi solo le sententiae raccolte da Ulpiano in D. 7. 8. 10. 3; D. 33. 9. 3. 9; D. 43. 27. 1.2 (L. Rut. 1-3). Il dubbio che il Rutilio menzionato in questi frammenti non abbia nulla a che fare con il console del 105 a. C., si è posto piu volte da Mommsen in poi, ma non sembra ragionevole: cfr. in ultimo A. Watson, Law Making in the Later Roman Republic (1974) 32, 37-38, 55-56.
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modelli greci nel genere memorialistico e autobiografico43; ma Quinto Mucio il pontefice fu il primo, per quanto ne sappiamo, a dare un titolo greco (quello di 'Όροι) a un trattato giuridico44. Nel quadro della cultura ellenistica, dunque, la giurisprudenza romana non restò a lungo isolata. Né i rapporti con il pensiero greco riguardarono il solo piano tecnico-scientifico (logico, gram maticale e retorico). Fra la generazione di Sesto Elio e di Catone, e quella di Rutilio e di Quinto Mucio il pontefice, c’è l’insegna mento paneziano. Dei giuristi che si raccoglievano intorno a Panezio, Rutilio era certamente il più giovane: una diecina d’anni lo distanziavano da Q. Elio Tuberone e da Q. Mucio Scevola l’augure45. Manio Manilio e P. Mucio Scevola (posto che anche costoro lo abbiano frequentato per qualche tempo) contavano all’incirca la stessa età del filosofo rodio: nei confronti di Rutilio, sono dei senes La formazione stoica di Rutilio servi a Cicerone per idealiz zarne la figura. Gli uomini come Rutilio avevano appreso che la «filosofia» era soprattutto riflessione sulla natura e sul governo dello stato: la filosofia doveva guidare l’agire politico, piuttosto che distaccarsene o entrare in conflitto con esso; solo in modo secondario, poteva assolvere una funzione contemplativa o con solatoria. Il valore popolare (o « volgare ») di sapientia non veniva respinto, ma riformulato in termini piu evoluti: il sapiente era lo stesso uomo antico, che aveva innalzato la sua esperienza pratica, 43 Cfr. A. M omigliano , L o sviluppo della biografia greca (1974) 94-95. 44 L ’autenticità del Liber singularis δρων (L., Mucius 45-50) è sempre discussa, ma, d’accordo con P. S tein , Regulae iuris. From Juristic Rules to Legal Maxims (1966) 36-39, può essere persuasivamente difesa. 45 Gli «stoici» P. Rutilio Rufo, Q. Elio Tuberone il vecchio e Q. Mucio Scevola l’augure sono ricordati insieme in Ateneo, Dipnosoph. 6, 274 c-e = Posid. F 59, II A p. 260, 34-261, 7 Jacoby, su cui H. S trasburger, JRS. 55 (1965) 40. Posidonio è un testimone autorevolissimo del profondo legame di Rutilio con il suo maestro Panezio (Cic. De off. 3. 2. 10 = Posid. T 13, F 41c E.-K.). Oltre a Rutilio, prope perfectus in Stoicis (Cic. Brut. 30. 114), anche Scevola l’augure e Tuberone furono allievi di Panezio: per il primo, Cic. De or. 1. 10. 43; 1. 11. 45; 1. 17. 75; per il secondo, le fonti sono raccolte a p. 277 nt. 1. I nostri calcoli cronologici seguono G. V. S umner , The Orators in Cicero’s Brutus, 55-56, 70-71. 46 Circa i rapporti di Manilio e di P. Mucio Scevola con il «circolo scipionico», V. pp. 259, 359.
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la «memoria» e l’«u so »47, al piano di una teoria etico-politica. La strada verso la sapienza, per chi volesse avventurarvisi, era quella di Gaio Lelio48, e non piu quella di Sesto Elio e di Catone (se di tutti costoro teniamo presenti, com’è ovvio, le immagini ormai leggendarie). 5. Cicerone e Servio: il diritto nell·enciclopedia del sapere. Sapiente fra i giuristi, in questo significato non «popolare» ma cólto, fu Servio Sulpicio Rufo49. L ’amicizia con Cicerone attra versa l’intero arco della loro vita: dai lontani tempi degli studi e dei viaggi sino alPultimo incontro, il 5 gennaio del 43, quando Servio parti da Roma come ambasciatore del senato per il campo di Antonio, a Modena, e vi trovò la morte appena dopo averlo raggiunto: «lo accompagnammo per un tratto», — cosi l’amico ricorda, un mese piu tardi, — «e le parole che egli mi disse, al momento di separarci, sembravano un presagio del destino»50. Il legame di Cicerone con Servio fu continuo, e piu profondo di quanto non fosse quello con Gaio Aquilio, l’inventore delle «formule sul dolo», o con Gaio Trebazio, 1’« amabile» e racco mandatissimo giurista lucano destinatario dei Topica, il cui merito maggiore, probabilmente, fu di avere come allievo M. Antistio Labeone51. Neanche un’arringa famosa, insieme laudativa e piace 47 Figlia dell’ Usus e della Memoria è la Sapientia o Sophia nei versi di Afranio (298-299 R3.) citati da Gellio (13. 8. 3). Il parallelismo di sophia e sapientia è anche in Ennio, Annales 7. 218-219 V2. 48 La figura di Lelio è disegnata in termini «stoici» dal genero Gaio Fannio in Cic. Lael. 2. 6-7. 49 La sapientia di Servio era indiscutibile per i suoi contemporanei. Cicerone impiega il termine due volte nelle Epistulae {ad Fam. 4. 3. 1 e 4. 6. 1) e ancora due volte nella nona Philippica (1. 1 e 4. 8). Nella pro Murena, quando dice Servio sapientissimus atque ornatissimus (3. 7), non c’è ironia nonostante il contesto. (Che termini simili potessero prestarsi a un impiego ironico, lo dimostra Cicerone stesso nella pro Flacco, 31. 76). 5C Cic. Phil. IX 4. 9. La scomparsa di Servio, come Cicerone ripeteva in quei giorni {Phil. Vili 7. 22; IX. 1. 3-7. 17; XIII 14. 29) e scriveva a Gaio Tre bonio e a C. Cassio Longino {ad Fam. 10. 28. 3; 12. 5. 3), rappresentava un gravissimo danno per la repubblica. All’ambasceria, insieme con i consolari L. Pisone Cesonino e L. Marcio Filippo, si riferiscono anche Phil. VI 6. 13-17; XIII 9. 20-21; XIV 2. 4; ad Fam. 11. 8. 1. 51 Piu di una volta Cicerone indica C. Aquilio Gallo come suo conlega e
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volmente beffarda, che colpiva in Servio l’ufficio e Tarte del giureconsulto, riuscì a indebolirlo52. Una cultura raffinata sa anche prendersi in giro, e impiegare le armi sottili dell’ironia e delTumorismo. Non è stato detto, circa tre secoli fa, che senza il ridicolo «la ragione può difficilmente avere la sua prova»?53La sacralità «oracolare» dei pontefici, che generazioni di maestri laici avevano ereditata, era definitivamente infranta. La scienza giuri dica era costretta a osservarsi dall’interno, a porsi (o riproporsi) interrogativi che andavano oltre il suo sperimentato tecnicismo. Intorno al tempo del suo consolato, che cade nel 51 a. C., Servio era cosi «autorevole» come giureconsulto da sostenere favorevolmente il confronto con gli antichi: un anonimo, ma chiarissimo accenno nel De legibus (1. 5. 17) è significativo a questo riguardo54. Il suo profilo scientifico però si delinea, meglio che altrove, nelle pagine del Brutus (40. 150-42. 156), che contrapfam ilians {De nat. deor. 3. 30. 74; Top. 7. 32; De off. 3. 14. 60). La familiantas è certamente piu antica della colleganza nella pretura (v. p. 66). Nell’81, quando Cicerone difese P. Quinzio, Aquilio, già noto come giurista, presiedeva il collegio dei giudici (pro Quinctio 1. 1; 4. 17; 9. 33; 17. 53-54 e passim). Delle formulae de dolo malo si discorre, senza eccessivo tecnicismo, in un’arguta pagina del De officiis (3. 14. 58-60). Anche la pro Caecina (27. 77-78) loda la prudentia di Aquilio, che «non separò mai la ratio iuns civilis dalVaequitas». Il rapporto con C. Trebazio Testa, piu giovane di una ventina d’anni, è diverso. Trebazio si era affidato, ex adulescentia, all’amicizia di Cicerone, che non smise mai verso di lui il tono pedagogico: ad Fam. 7. 17. 2; 7. 19, sui Topica; era «amabile», come la sua patria Velia: ad Fam. 7. 20. 1. Queste tre lettere fanno parte di un gruppo di 17, tutte del libro settimo (6-22), indirizzate al giurista dal 54 al 44 a. C., forse «the happiest series» nell’ampio epistolario ciceroniano (E. F raenkel, JRS. 47 (1957) 66 = Kleine Beiträge zur klassischen Philologie 2, 1964, 75). Fuori di questo gruppo, è «delightful» la «raccomandazione» a Cesare in ad Fam. 7. 5. Sull’insegna mento impartito da Trebazio a Labeone, Pomp. D. 1.2. 2. 47. 52 L ’arringa è quella che Cicerone pronunciò durante il suo consolato, nel burrascoso novembre del 63, in difesa del console designato L. Licinio Murena. Servio, sconfitto nelle elezioni consolari (le stesse in cui era rimasto soccombente, per la seconda volta, Catilina), aveva accusato Murena di brogli elettorali, sulla base della lex Tullia de ambitu. 53 S haftesbury, Sensus communis: an Essay on the Freedom of Wit and Humour, Part 1, Sect. 4-5, Characteristics ofMeny Manners, Opinions, Times, l 4, 68 ss., 73. 54 Esso sarà ripreso altre due volte: ancora implicitamente in De off. 2. 19. 65, su cui pp. 87-88; in modo esplicito in Phil. IX 5. 10.
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pongono Servio a Q. Mucio Scevola il pontefice: piu che un oratore, egli è, nel senso pieno del termine, un giurista «dialetti co»; ma non è solo questo; alla competenza logico-giuridica e retorica aggiunge un’estesa cultura letteraria e un’estrema preci sione stilistica. Ancora piu viva, nel bene come nel male, è l’immagine che si ricava dalle Lettere di Cicerone e dalla Filippica nona, l’elogio funebre pronunciato nei primi giorni di febbraio del 43 a. C. Soprattutto dalle Lettere: le quali, fuori di ogni atmosfera eroica, fermano alcuni momenti della sua vita, fra il 50 e il 44, e rimandano fino a noi le ansie e le paure per la sicurezza perduta con il «crollo» della repubblica55. Un documento drammatico è, fra le Lettere ad Attico, la XIV del libro X, scritta da Cicerone a Cuma Γ8 maggio del 49, immediatamente dopo l’incontro con Servio, progettato in aprile con la mediazione di C. Trebazio Testa56. A Cicerone si presenta un uomo che parla fra le lacrime, turbato dal timore, sospettoso sia di Cesare che di Pompeo; che considera «terribile» la vittoria dell’uno o dell’altro: a parte 1’« audacia» o la «crudeltà» dei contendenti, egli vede nelle difficoltà finanziarie di entrambi un pericolo grave per i beni privati57. Questo documento potrebbe offrire un sostegno al giudizio di Mommsen, per il quale Servio era «un pavido che non desiderava altro se non di morire nel proprio letto»58: speranza vana in tempi nei quali la lotta politica 55 II nome di Servio ricorre molto spesso nella corrispondenza di Cicerone, la quale include, con le 18 (o 17) lettere che gli sono indirizzate (ad Farri. 4. 1-4; 4. 6; 13. 17-28a), due scritte da lui: ad Farri. 4. 5 e 12. 56 Cic. ad Farri. 4. 1, su cui R. Y. T yrrell - L. C. P urser, The Correspondence of M. Tullius Cicero 42 (1918) 213-5, e D. R. S hackleton B ailey, Cicero: Epistulae ad Familiares 1 (1977) 490-1. Lo svolgimento ulteriore del progetto, fra molte incertezze, è ricostruibile attraverso ad Fam. 4. 2. 1 e 4; ad Att. 10. 7. 2; 10. 9. 3; 10. 10. 4; 10. 12. 4; 10. 13. 2: cfr. F. M ünzer , Sulpicius (95), RE. 4 A 1 (1931) 854. 57 La difficultas pecuniarum di uomini ricchissimi come Pompeo e Cesare, temuta anche da Cicerone (ad Att. 10. 8. 2), è un paradosso solo apparente: cfr. M.W. F rederiksen , JRS. 56 (1966) 132. 58 II M ommsen, Römische Geschichte 37 (1882) 392-3, aveva presente, senza dubbio, la frase «multo se in suo lectulo malle, quidquid foret», che Cicerone registra nella lettera ad Attico di cui ci stiamo occupando. Su di essa, D.R. S hackleton B ailey, Cicero's Letters to Atticus 4, 280, 421.
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era combattuta, e spesso conclusa, con la violenza; e la violenza conosceva forme e gradi diversi, dalla rissa e lo scontro armato nelle strade al tumulto, all·assassinio, al bando e alla confisca dei beni, alla guerra civile. Altre testimonianze della sua vita valgono, forse, a liberare Servio da questa «condanna» storica, o a renderla meno drastica. D ’altra parte, le preoccupazioni politiche che egli manifesta fra l’aprile e il maggio del 49, — agli inizi dello scontro in Spagna fra l’esercito di Cesare e quello pompeiano d’Occidente, — non sono soltanto sue; anche se Cicerone sembra voler tenere un atteggia mento più risoluto, non direi che i suoi pensieri siano molto diversi59. Certo, quando il mondo della politica si fa minaccioso, Servio se ne allontana o tenta di farlo, rifugiandosi (se mai) in quello meno compromettente degli studi. Questa alternativa, però, non si pone solo a lui; può nascondere viltà momentanee o una piu intima mancanza di coraggio; ma non tanto interessa come spia di un temperamento, quanto come sintomo di una crisi piu complicata e profonda. La crisi investiva le istituzioni non meno che gli individui. Un pessimismo sottile si insinua nelle coscienze piu tradizionalistiche, ancora legate all’idea antica della «repubblica», alimenta toni patetici e risveglia visioni tragiche di ampiezza cosmica. Non è superfluo rileggere un testo serviano, che è giunto sino a noi attraverso l’epistolario di Cicerone e non è sfuggito alla sensibilità degli antichi e dei moderni: Al mio ritorno dall’Asia, mentre facevo vela da Egina verso Megara, mi misi a osservare il paese tutt’intorno: Megara stava davanti a me, Egina alle mie spalle, a destra il Pireo, a sinistra Corinto. Furono un tempo città fiorentissime, ora sono abbandonate e in rovina. Fra me e me cominciai a pensare: come osiamo noi, piccoli uomini dalla vita breve, lamentarci della morte di qualcuno di noi, quando con un solo sguardo vediamo i cadaveri di tante città?60 59 Cìc. ad Farri. 4. 2. 2-4; ad Att. 10. 1. 4; 10. 7. 1; 10. 8. 2. Queste lettere si collocano fra l’aprile e il maggio del 49. La regnandi contentio alla quale si accenna nella terza lettera, e il «Sullano more exemploque» riferito a Pompeo, richiamano riflessioni analoghe svolte alcune settimane o qualche mese prima (ad Att. 8. 11. 2 e 9. 7. 3). 60 Cic. ad Fam. 4. 5. 4 Ex Asia rediens cum ab Aegina Megaram versus
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Un anno dopo la sconfitta di Pompeo a Farsalo, Servio è a Samo; forse era in Oriente già da prima: «non in zona di guerra, ma in un luogo tranquillo, adatto al lavoro scientifico»61, come Pisola di Cercina della sua giovinezza62. A Samo M. Giunio Bruto, il futuro tirannicida, può ascoltarlo parecchie volte discu tere dei rapporti fra «diritto pontificio» e «diritto civile» (un argomento m udano)63. Quando ritorna alla vita politica, e ottiene nel 46 il governatorato di Acaia, Servio rimpiange (piu o meno sinceramente) il tempo sottratto alla «filosofia»64. Nel settembre di quell’anno Cicerone aveva scritto cosi alPamico in Grecia: Io ho ben fermo nella memoria che tu, sin dagli anni giovanili, sei stato un cultore appassionato di tutte le discipline, e hai appreso con la massima cura i precetti tramandati dai grandi sapienti sul modo migliore di condurre la vita. Questi insegnamenti sono utili, e nello stesso tempo piacevoli, quando si vive nelle migliori condizioni; in quelle in cui ora ci troviamo, non abbiamo nient’altro che possa renderci un poco sereni. Mi parrebbe un’impertinenza esortarti, — esortare te che sei un uomo cólto e naturalmente dotato, — a riprendere di nuovo quegli studi della tua gioventù. Ti dirò solo questo, e vorrei che tu ne fossi convinto: quando mi accorsi che non c’era più posto, né in senato né nel foro, per quell’arte alla quale mi ero dedicato, rivolsi ogni mia cura c attività alla
navigarem, coepi regiones circumcirca prospicere. Post me erat Aegina, ante me Megaraf dextra Piraeus, sinistra Corinthus, quae oppida quodam tempore fiorentissima fuerunt, nunc prostrata et diruta ante oculos iacent. Coepi egomet mecum sic cogitare: Hem! nos homunculi indignamury si quis nostrum interiit aut occisus est, quorum vita brevior esse debet, cum uno loco tot oppidum cadavera proiecta iacent?. 61 F. M ünzer, Sulpicius (95), RE. 4 A 1, 854-5, frainteso da P. M eloni, Servio Sulpicio Rufo e i suoi tempi, Annali Fac. lett. e fil. Univ. di Cagliari 13 (1946) 113. Dubbi in Shackleton B ailey, CQ. 54 (1960) 253 nt. 7. 62 Che Servio abbia soggiornato a Cercina nella piccola Sirte, con il suo maestro Aquilio Gallo, si ricava con qualche perplessità da Pomp. D. 1. 2. 2. 43. 63 Cic. Brutus 42. 156. 64 Cic. ad Fam. 4. 4. 5 A quo studio te abduci negotiis intellego ex tuis litteris, sed tamen aliquid iam noctes te adiuvabunt. Servio rimane nella provincia, verisimilmente con il titolo di proconsul, sino all’estate del 45: cfr. B roughton, MRR . II 299, 310.
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f i l o s o f i a . E a n c h e a lla t u a s c i e n z a , s t r a o r d i n a r i a e u n i c a , n o n è r i m a s t o o r m a i m o l t o p iu s p a z io ch e alla m ia '0 .
Cultore di tutte le discipline, omnium doctrinarum studiosus, Servio impersonava meglio di ogni altro, agli occhi di Cicerone, il «tipo» del giureconsulto. Bisogna riconsiderare attentamente, da questo angolo ottico, il De oratore. Nella definizione che Cice rone presta ad Antonio, il giureconsulto è uno specialista; il suo sapere tecnico, la conoscenza delle leggi e delle consuetudini, lo legittima a uno specifico ruolo pratico: assistere col «consiglio» i privati nel loro agire giuridico. La sua fisionomia è altra rispetto a quella del generale o dell’oratore o del politico «ispiratore e garante delle decisioni pubbliche»; cosi come, su un piano diverso, è altra rispetto a quella del grammatico o del poeta o del musico, o dello stesso filosofo, «che unico, per il suo dirigersi alla sapienza, coltiva interessi quasi illimitati » fC Ora, che al giurecon sulto spettassero compiti determinati, era un punto che nel dibattito culturale del I secolo a. C. poteva essere condiviso da tutti. Ma l’accordo mancava, e c’era viva polemica, sulla conce^ C i c . ad Fani. 4. 3. 3-4 Te autem ab initio aetatis memoria teneo summe omnium doctrinarum studiosum fuisse ommaque, quae a sapientissima ad bene vivendum tradita essent, summo studio curaque didicisse; quae quidem vel optimis rebus et usui et delectationi esse possent, his vero temporibus habemus aliud nihil, in quo adquiescarnus. Nihil jaciam insolenter neque te tali vel scientia vel natura praeditum hortabor, ut ad eas te referas artis, quibus a primis temporibus aetatis studium tuum dedisti; tantum dicam, quod te spero approba turum, me, postea quam illi arti, cui studueram, nihil esse loci neque in cuna neque in foro viderem, omnem meam curam atque operam ad philosophiam contulisse. Tuae scientiae excellenti ac singulari non multo plus quam nostrae relictum est loci. 66 S o n o f o n d a m e n t a l i i §§ 2 0 9 - 2 1 8 d el l i b r o 1. L a d e f i n i z i o n e d el « g i u r e c o n s u l t o » è al § 2 1 2 : Sin autem quaereretur quisnam iuris consultus vere nominaretur, cum dicerem, qui legum et consuetudinis eius, qua privati in civitate uterentur, et ad respondendum et ad agendum et ad cavendum P g rij^ esset... C h e n o n si d e ^ a c o n r o n d e r e in n e s s u n m o d o il iuris consultW^ébn Vorator, è r i b a d i t o ai §§ 2 3 4 - 2 3 6 . D a l p u n t o di v is ta di A n t o n i o ( c h e r i c h i a m a D e m o s t e n e ) a n c h e Vorator h a u n c a m p o l i m i t a t o : 1 . 6 1 . 2 6 0 - 2 6 2 ; 2. 15. 6 6 -16 .
7 0 ; n o n è i n d i s p e n s a b i l e c h e egli c o n o s c a il « d i r i t t o c i v i l e » ; o g n i s c ie n z a , o g n i ars, h a c o n t o r n i p r e c i s i e r i c h i e d e u n i m p e g n o s p e c i f i c o d a p a r t e àe\V artifex:
1. 58. 2 4 8 .
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zione «tecnico-razionalistica» che Antonio (ne sia o no intima mente convinto) rappresenta nel dialogo ciceroniano. Piuttosto che separare l’oratoria dalla politica, e Puna e l’altra dalla giurisprudenza, — e assegnare al filosofo o allo scienziato una collocazione autonoma nella società, — il ceto dirigente romano che si riconosceva in uomini come L. Licinio Crasso e Cicerone, si preoccupava di tenerle intrinsecamente unite67. Secondo questo modello «umanistico» (che doveva rivelarsi illusorio nella sua portata pratica, e acquistare rigidezze scolasti che), l’oratore è anche giurista (e il giurista, oratore) e filosofo e uomo di’ governo, custode autorevole di tradizioni e istituzioni che. andavano difese contro ogni progetto o minaccia eversiva, e contro ogni movimento intellettuale capace di indebolirle. Nell’oratoria, una τέχνη assai piu rilevante e difficile delle altre68, ^Sffarergono Î diversi rami del sapere; anche se ciascuno di essi può liberamente espandersi (nulla lo impedisce, per esempio, alla scienza giuridica), il nodo che li stringe, e il fine verso cui tendono, restano inalterabili. h7 L ’ u n i o n e fra l ’a t t i v i t à g o v e r n a t i v a , c h e r i g u a r d a o r m a i u n i m p e r o u n iv e r s a l e , e l ’ o r a t o r i a , e m e r g e c o n p a r t i c o l a r e f o r z a d a lle p a r o l e c h e Q . L u t a z i o C a t u l o r i v o l g e a C r a s s o in De or. 3. 32. 131. A l perfectus orator , di c u i C r a s s o v u o l e t r a c c i a r e le lin e e id ea li (1. 16. 7 1 ; 1. 17. 7 8 -7 9 ; 1. 62 . 2 6 4 ; 3. 17. 6 3 ; 3. 20 . 75 ; 3. 22 . 8 4 -8 5 ), è n e c e s s a r i o lo s t u d i o di t u t t e le d i s c i p l i n e d e g n e di u n u o m o li b e r o : 1. 16. 7 1 - 7 3 ; 3. 31 . 125, d a c o n s i d e r a r e i n s i e m e c o n 1. 2. 5; 1. 4. 16; 1. 5. 17; 1. 6. 20 . L ’ i n d i c a z i o n e è a n a l i t ic a (1. 34 . 1 5 8-1 59): perdiscendum ms civile, cognoscendae leges, percipienda omnis antiquitas, senatoria consue tudo, disciplina rei publicae, iura sociorum, foedera, pactiones, causa imperi cognoscenda est; e a n c o r a : legendi etiam poetae, cognoscendae historiae, omnium bonarum artium doctores atque scriptores et legendi et pervolutandi et exercita tionis causa laudandi, interpretandi, corrigendi, vituperandi, refellendi. L a
c o n o s c e n z a d e l « d i r i t t o c i v i l e » è i n d i s p e n s a b i l e : 1. 38 . 175; 1. 46 . 2 0 1 ; v. a n c h e 1. 5. 18; n é s o r p r e n d e l ’ i d e n t i f i c a z i o n e d el doctus orator c o l philosophus (3. 35. 143), e l ’u n it à , r i a f f e r m a t a b e n o l t r e la f o n t e i s o c r a t e a , di r e t o r i c a e f i l o s o f i a (3. 15. 5 6 -22 . 84): cfr. K . B ar wi c k , Das rednerische Bildungsideal Ciceros ( 1 9 6 3 ) 35 -3 9 , 6 7 , 6 9 -7 1 , 81. Il c a m p o d e l l ’e l o q u e n z a n o n h a p ra tic a m e n t e lim iti: 1. 14. 5 9 - 6 1 ; 3. 6. 2 3 ; 3. 20. 76 ; 3. 31. 122. C ’è, a lla b a s e , l ’ id ea c h e u n v i n c o l o u n i s c a t u t t e le bonae artes, c h e e sse s i a n o t e n u t e i n s i e m e d a u n a s o r t a di societas cognatioque: 3. 6. 2 1 ; 3. 33. 13 6; v. a n c h e pro Archia 1. 2. L u o r i d el De oratore, si i n s iste su l le g a m e fr a ms civile e eloquentia in Part. or. 28 . 10 0; Brut. 43 . 16 1; 59 . 2 1 3 - 2 1 4 ; 93 . 3 2 2 ; Or. 34 . 120. 68 C i c . De or. 2. 19. 8 3 -2 0 , 84 ; Brut. 6. 25 .
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Il diritto partecipa, dunque, di una «paideia» compiuta e tota litaria. Le radici di questa «paideia», nella quale il diritto (si badi) è un elemento nuovo, sono greche; ma l’assunto che fra tutte le discipline o le «arti» c’è «solidarietà» e «parentela» favoriva il recupero dei valori tradizionali, di una sapienza antica i cui esempi piu illustri erano Sesto Elio e Catone il Censore. Appunto il mito di Catone, — oratore e giureconsulto, generale e uomo di governo69, — acquista una singolare efficacia. Ma, come dicevamo, il modello umanistico doveva rivelarsi illusorio. Il nesso fra l’oratoria (politica e giudiziaria) e la giurisprudenza, riconosciuto da una lunga tradizione nobiliare, fu realizzato anche da uomini che si dedicarono in primo luogo al diritto, come Sesto Elio e Manilio^ P. Mudo Scevola, P. Licinio Crasso Mudano e^RuuKo Rufo, Q. JMiido^cevola il pontefice e lcT'stèsso Servio 70Γ ma^norT~era incontroverso, basti pensare all’atteggiamento, tutt’altro che isolato, di un Aquilio Gallo. Il suo regnum iudiciale (l’espressione ciceroniana non è priva di ironia) dipendeva esclusivamente dalla scienza giuridica; e in un modo altrettanto specialistico sembra si comportasse lo «stoico» L. Lucilio Balbo71. D ’altra parte, il legame «ideologico» fra
69 Cic. De or. 3. 33. 135. 70 Nessuno di questi nomi è assente in quella felice rassegna dell’oratoria romana che è il Brutus. Q. Mucio Scevola l’augure, che difese talvolta da sé in tribunale i propri interessi, « oratorum in numero non fuit» (Cic. Brut. 26. 102). Ma è un po’ strana la frase che Cicerone gli fa pronunciare nel De oratore (1. 10. 39): haec iura civilia, quae iam pridem in nostra familia sine ulla eloquentiae laude versantur, num aut inventa sunt aut cognita aut omnino ab oratorum genere tractata? Il cugino P. Licinio Crasso Muciano non sarebbe stato d’accordo con lui nel negare ogni laus eloquentiae alla sua famiglia di origine (v. Cic. De or. 1. 37. 170 e Gell. 1. 13. 10). Né sarebbe stato d’accordo Q. M udo Scevola il pontefice, il quale (poco prima del 91, l’anno in cui si immagina avvenuto il dialogo) si era impegnato nella causa Curiana e nella difesa di Rutilio: entrambe le volte, è vero, senza successo, ma non certo indegnamente. 71 L. Lucilio Balbo e C. Aquilio Gallo sono menzionati insieme, come maestri di Servio, in Cic. Brut. 42. 154. Per lo stoicismo del primo, unica fonte è Cic. De or. 3. 21. 78. L ’accenno al regnum iudiciale di Aquilio è in Cic. adAtt. 1. 1. 1, da confrontare con Div. in Q. Caec. 7. 24; in Verrem I 12. 35; II 2. 31. 77. Come tutti sanno, a chi gli proponeva una questione
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giurisprudenza e esercizio delle cariche pubbliche non poteva resistere a lungo. Il giurista-politico cede gradualmente il posto al giurista-tecnico, il cui «potere» ha altre fonti e segue itinerari differenti da quelli propri alla struttura aristocratica dello stato cittadino. In questa direzione, le biografie di un Ofilio, di un Trebazio, i quali rimasero sempre nell’ordine equestre, o anche di un Aquilio o di un Cascellio, offrono elementi preziosi72. Nello stesso pensiero ciceroniano è possibile cogliere una svolta critica. Gli undici anni che dividono il De officiis dal De oratore, sconvolgono persuasioni consolidate, o danno definitiva mente corpo a ansie che già si insinuavano. Nel De officiis viene approfondito il rapporto tra filosofia e politica, al quale gli altri scritti successivi alla morte di Cesare avevano dato un’enfasi nuova, rispetto alla produzione letteraria del periodo fra il 46 e le Idi di marzo del 4473. Nel De officiis viene anche ripreso il discorso sulla funzione pùbblica delle arti liberali, nella cui enciclopedia il diritto (come sappiamo) rientra. Tuttavia, in una prospettiva tradizionalistica, non poteva mancare un giudizio severo sulle condizioni della giurisprudenza. Cosi, fra i molti tratti ammirevoli dei nostri antenati, vi fu anche questo: essi tennero sempre in grandissimo onore lo studio e l’interpretazione di quel complesso di norme sapientemente organizzato che è il diritto civile. Sino agli sconvolgimenti dell’epoca attuale, vi si sono dedicati, conservandoli nel loro esclusivo possesso, i cittadini piu insigni; ora, come le cariche pubbliche, come tutti i gradi della carriera politica, anche lo splendore della scienza giuridica è andato distrutto; e ciò è tanto piu deplorevole, in quanto è avvenuto in un tempo in cui viveva un
di fatto, Aquilio era solito rispondere: «nihil hoc ad ius; ad Ciceronem» (Top. 12. 51). 72 Rilevante per C. Aquilio Gallo è, di nuovo, la lettera di Cicerone ad Attico ora richiamata; per Aulo Cascellio, Pomp. D. 1.2. 2. 45. Quanto ad Aulo Ofilio, che Cicerone menziona tre volte nel suo epistolario (adAtt. 13. 37. 4; ad Fam. 7. 21; 16. 24. 1), si veda Pomp. D. 1. 2. 2. 44; su C. Trebazio Testa, Sonnet, RE. 6 A 2 (1937) 2260. 73 In questa linea, condivisa da A.E. D ouglas, JRS. 65 (1975) 198-200, la «fruchtbarste Schaffensperiode» di Cicerone scrittore è indagata da K. Bringmann, Untersuchungen zum späten Cicero (1971) 9 ss., 182 ss., 248-50.
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uomo, che pari nel rango a tutti i suoi predecessori, li aveva certamente superati nella scienza del diritto74.
Il giurista al quale si allude senza nominarlo, è Servio Sulpicio Rufo. Ancora una volta la riflessione ciceroniana intorno alla scienza del diritto gli affida un ruolo esemplare.
74 Cic. De off. 2. 19. 65. Il testo latino è alle pp. 235-6.
in
IL RESPONSO NELLA SCUOLA DI SERVIO
... Galli hominis acuti et exercitati promptam et paratam in agendo et in respondendo celeritatem subtilitate diligentiaque superavit; Balbi docti et eruditi hominis in utraque re consideratam tarditatem vicit expedien dis conficiendisque rebus. C icero , Brutus, 42. 154
1. Nessun frammento dei Digesta giustinianei reca nella in scriptio il nome di Servio Sulpicio Rufo. La nostra conoscenza deirantico giureconsulto, coetaneo e amico di Cicerone, si affida alle citazioni dei giuristi successivi, e a quelle rintracciabili in altre fonti (in primo luogo, il De verborum significatu di Pompeo Festo e le Noctes Atticae di Aulo Gellio). Contengono poi, nella loro gran parte, pensiero serviano le due epitomi dei Digesta di Alfeno Varo, — Tuna dovuta a Paolo, l’altra anonima, — che i compila tori utilizzarono in luogo dell’opera originaria in quaranta libri, ricordata nelYlndex Florentinus (IV 1). Nel corso di queste pagine, adopero l’espressione «responso serviano» anche quando si tratta di responsi maturati nella scuola di Servio, ma non sicuramente riconducibili a lui. Non di rado, mi accadrà anche di impiegare i termini «regola» e «definizione». Con il termine «regola» indico una proposizione che enuncia, in termini generali e piu o meno riassuntivi, una disciplina giuridica. L’altro termine, quello di «definizione», ora si scambia con «regola», ora assume il signifi cato piu ristretto di spiegazione lessicalel. Secondo un criterio suggerito da Hugo Krüger i responsi di Servio si distinguono in due categorie: pareri dati a clienti interroganti (Prozessresponsa), decisioni giuridiche di natura scolastica (Kollegresponsa); eminentemente pratici i primi, teorici i secondi12. A questa distinzione si potrebbe forse riconoscere un 1 Trascureremo il punto se la regola sia da intendere dotata di un valore normativo o di un valore descrittivo, — se essa sia da intendere, si potrebbe dire, in senso «proculiano» o in senso «sabiniano»: questo è il tema centrale dell’elegante libro di P. Stein , Regulae iuris. From Juristic Rules to Legal Maxims (1966) 26 ss., 45, 48, 67 ss., su cui si veda F. W ieacker, ZSS. 84 (1967) 434 ss., 438. 2 H. K rüger, Studi Bonfante 2 (1930) 326-7.
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valore orientativo, ma essa rimane estrinseca. Nel responso serviano il momento «pratico» e quello «teorico» si saldano l’uno all’altro, non delimitano neanche formalmente due zone auto nome. Piu che guardare a colui che interroga, un allievo o un privato mosso da un suo concreto interesse3, è utile riferirsi alla struttura del «problema», della quaestio, e al legame fra la quaestio e la sua soluzione. L ’indole propria del responso serviano, la tendenza ad am pliarsi oltre il suo movente immediato, lo spinge talvolta verso una casistica ricca di varianti, nella quale l’ipotesi iniziale ne richiama altre e ne regge la trama; oppure a organizzarsi in un discorso logicamente rigoroso e a guadagnare, com’è stato detto, «una razionalità sistematica»4. Nel primo profilo, al responso famoso circa le mule capitoline (D. 9. 2. 52. 2, L. Alf. 7) se ne può aggiungere almeno un altro. Il regolamento censorio del dazio siciliano stabiliva: