Studiare Pedagogia (Cap. 1 e 2) PDF [PDF]

I saperi dell’educazione I saperi dell’educazione Giorgio Chiosso collana diretta da G iorgio Chiosso Comitato scie

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I saperi dell’educazione

I saperi dell’educazione

Giorgio Chiosso

collana diretta da

G iorgio Chiosso Comitato scientifico Alessandro Antonietti, Università Cattolica di Milano Elena Besozzi, Università Cattolica di Milano Massimo Baldacci, Università di Urbino Rita Casale, Bergische Universitàt Wuppertal Rosalinda Cassibba, Università di Bari Silvia Kanizsa, Università di Milano Bicocca Anna Marina Mariani, Università di Torino Concepción Naval, Universidad de Navarra Bernard Rey, Université Libre de Bruxelles Luisa Ribolzi, Università di Genova e Gruppo Clas Silvio Scanagatta, Università di Padova

Studiare pedagogia Introduzione ai significati dell'educazione

Antologia di testi a cura di Carlo Mario Fedeli Esercitazioni laboratoriali di Sara Nosari e Federico Zamengo

/ volum i della collana sono sottoposti a doppia valutazione anonima.

M ONDADORI U N I V E RS I TA

© 2018 Mondadori Education S.p.A., Milano Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-6184-580-0 Il Sistema Qualità di Mondadori Education S.p.A. è certificato da Bureau Veritas Italia S.p.A. secondo la Norma UNI EN ISO 9001:2008 per le atti­ vità di: progettazione, realizzazione di testi scolastici e universitari, stru­ menti didattici multimediali e dizionari.

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamen­ to totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. Le fotocopie per uso personale del lettore possono es­ sere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro paga­ mento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effet­ tuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

Realizzazione editoriale Coordinamento redazionale Alessandro Mongatti Redazione Carla Campisano Impaginazione Carla Campisano Progetto grafico Cinzia Barchielli, Marco Catarzi Progetto copertina Alfredo La Posta Prima edizione Mondadori Università, marzo 2018 www.mondadorieducation.it Edizioni 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 2022 2021 2020 2019 2018

La realizzazione di un libro comporta per lAutore e la redazione un attento lavoro di revi­ sione e controllo sulle informazioni contenute nel testo, sull’iconografia e sul rapporto che intercorre tra testo e immagine. Nonostante il costante perfezionamento delle procedure di controllo, sappiamo che è quasi impossibile pubblicare un libro del tutto privo di errori o refu­ si. Per questa ragione ringraziamo fin d’ora i lettori che li vorranno indicare alla Casa Editrice. Mondadori Università Mondadori Education Via Raffaello Lambruschini, 33 - 50134 Firenze Tel. 055.50.83.223 www.mondadorieducation.it Nell’eventualità che passi antologici, citazioni o illustrazioni di competenza altrui siano riprodotti in questo volume, l’editore è a disposizione degli aventi diritto che non si sono potuti reperire. L’editore porrà inoltre rimedio, in caso di cortese segnalazione, a eventuali non voluti errori e/o omissioni nei riferimenti relativi. Lineagrafìca s.r.l. - Città di Castello (PG) Stampato in Italia - Printed in Italy - marzo 2018 In copertina: Colorful imagination © bowie!5 / iStock / Getty Images Plus.

Indice Introduzione Capitolo 1. Educazione, formazione, istruzione, pedagogia 1. Gli ambiti del sapere pedagogico 2. L’educazione 2.1 L’educazione nella storia e nel senso comune 2.2 Perché è possibile l’educazione? 2.3 Gli stili educativi: educazione positiva, indiretta e relazionale 2.4 Contesti educativi formali, non formali e informali 2.5 I caratteri specifici dell’educazione 2.6 Cosa non è l’educazione 3. La formazione 3.1 Una prospettiva antica e nuova: la formazione

3.2 I nuovi spazi aperti dalla formazione 3.3 Quali rapporti tra educazione e formazione? 4. L’istruzione 4.1 Istruzione, apprendimento e scuola 4.2 Istruzione e apprendimento in rete 4.3 Istruzione e futuro della scuola 5. La pedagogia 5.1 Pedagogia e scienze dell’educazione 5.2 Qual è lo specifico della pedagogia? 5.3 Tra filosofia, politica e scienza sperimentale 6. Studiare pedagogia e saper fare pedagogia

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Esercizi Riferimenti bibliografici

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Capitolo 2. Le teorie dell'istruzione e della formazione

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1. L’apprendimento umano 1.1 Skinner/Bloom vs. Bruner/Ausebel 1.2 Le pedagogie dell’insegnamento 1.3 Le pedagogie dell’apprendimento 1.4 L’approccio costruttivista 1.5 Applicazioni didattiche 1.6 II m odello della «pedagogia differenziata» 1.7 Le intelligenze multiple di Howard Gardner 1.8 Le teorie della personalizzazione 1.9 Neuroscienze e apprendimento 1.10 II Cooperative Learning 1.11 Edgar Morin e l’apprendimento nella complessità 1.12 Riforma del pensiero eapprendimento per interconnessione 2. La formazione in età adulta 2.1 La formazione com e ricerca e azione 2.2 Come impara l’adulto secondo Malcolm Knowles 2.3 L’apprendimento trasformativo 2.4 La formazione nel mondo delle professioni 2.5 Apprendimento organizzativo e comunità di pratica 2.6 Modernizzare senza escludere

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VI

Indice

Indice

3.

La formazione in rete 3.1 Pensare in rete 3.2 Vivere la multimedialità 3.3 Come educare alla multimedialità

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Testi Esercizi Riferimenti bibliografici

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Capitolo 3. Liberals e comunitari

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1. L’ideale dell’amor proprio 1.1 Giustizia e diritti dell’io 1.2 L’educazione com e cura di sé 1.3 L’io cittadino del mondo 1.4 L’io tra razionalità e affettività 2. Vita comunitaria e bene comune 2.1 La critica all’individualismo liberal 2.2 Comprendere la tradizione 2.3 Praticare le virtù 2.4 I luoghi dell’educazione: famiglia, scuola, chiesa 3. La persona tra autonomia e appartenenza

Testi Esercizi Riferimenti bibliografici

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Capitolo 4. Le pedagogie dei valori e l'educazione morale

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1. A scesa, declino e ritorno dei valori 1.1 La critica alla nozione di valore 1.2 Valori oggettivi e valori personali 1.3 Antecedenti: Hessen e Forster 2. Tra politica e pedagogia: la proposta dei valori comuni 2.1 D ai valori comuni ai valori di cittadinanza 3. Tra etica sociale e pedagogia: diritti umani e vincoli di solidarietà 3.1 I diritti controversi 3.2 Non basta conoscere, occorre agire 3.3 L’educazione alla mondialità e alla pace 4. La formazione della decisione valoriale 4.1 II razionalismo etico di Lawrence Kohlberg 4.2 L’eredità di Kohlberg 4.3 Tools o f The Mirici e Character Skills 4.4 Gilligan vs. Kohlberg 4.5 Etiche della prossimità 4.6 L’educazione com e pratica morale

Testi Esercizi Riferimenti bibliografici Capitolo 5. L'educazione della persona 1. Persona e persone 2. L’educazione come esperienza sapienziale 2.1 La sapienza nella Bibbia 2.2 Ragione strumentale e ragione sapienziale in Jacques Maritain 2.3 Senso religioso e rischio educativo

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3. Incontro interpersonale, dialogo pedagogico e valore della parola 3.1 L’incontro con l’altro 3.2 La forza dell’empatia 3.3 L’uomo con l’uomo di Martin Buber 3.4 Romano Guardini e la pedagogia dell’incontro 3.5 La presenza dell’educatore e la forza della parola 3.6 Pedagogisti della parola: Paulo Freire e Lorenzo M ilani 4. La scuola per la persona 5. Le pedagogie al fem minile 5.1 Femminismo ed educazione 5.2 Femminismo e diritti dei bambini 5.3 Politica ed educazione in Hannah Arendt 5.4 Martha C. Nussbaum e la formazione delle capacità 5.5 II «sapere dell’anima» di Maria Zambrano 5.5 Nel Noddings e la pedagogia della cura 6 La sfida del postumano e la ragione sapiente

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Riferimenti bibliografici

Indice dei nomi

VII

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Introduzione È mia profonda convinzione che tra i compiti dei docenti universitari vadano annoverate la pubblicazione di volumi di carattere manualistico e la predisposizione di adeguati materiali di lavoro a scopi didattici. Questa affermazione farà forse storcere il naso a chi pensa che il professore universitario debba svolgere la sua attività soltanto a livello di «pura scienza». Eppure in passato non sono mancate molte e positive esperienze in tal senso in un gran numero discipline (Carducci, Pascoli, Gentile, Arnaldi, Abbagnano, per citare alcuni degli esempi più noti) senza che nessuno dei grandi «maestri» si sia sentito sminuito. A maggior ragione nella realtà odierna segnata da un’università ormai «di massa» è quanto mai necessario che gli studenti dispongano di testi e strumenti per l’apprendimento nei quali il rigore garantito dai risultati della ricerca si accompagni alla sapiente distribuzione delle conoscenze e alla agilità e chiarezza dell’esposizione. Chi meglio di quanti sono a quotidiano contatto d’un lato con la ricerca e, dall’altro, con i giovani può assolvere a tale compito? Con rammarico constato che purtroppo le attuali norme che regolano i processi di valutazione accademica non tengono in considerazione alcuna i lavori di alta divulgazione e la strumentazione didattica. La conseguenza è il rischio dell’impoverimento della manualistica universitaria perché è sempre più diffìcile attendersi che i professori più validi, specie se giovani ancora in fase di avanzamento della carriera, si occupino della preparazione di manuali e corsi di studi. L’impegno a rivedere il testo del 2009, 1 significati dell’educazione, e a farne una nuova edizione «riveduta e ampliata» (come si sarebbe detto un tempo) rientra nell’orizzonte sopra indicato. Lo scopo è infatti quello di porre a disposizione un testo di base nel quale raccogliere ciò che può essere utile conoscere introduttivamente a chi si avvia verso gli studi pedagogici. La nuova stesura si avvale delle osservazioni che ho raccolto tra colleghi e studenti e che mi sono state utili per migliorare - così spero - il testo che in più parti è stato anche notevolmente rimaneggiato e aggiornato nei contenuti. Il volume è articolato in quattro ambiti. Il primo capitolo illustra le specifiche caratteristiche della pedagogia vista come parte fondante le scienze dell’educazione. Nei capitoli successivi (dal secondo al quinto) - la seconda e più ampia parte - vengono presentate le principali teorie pedagogiche e della formazione contemporanee. Una cospicua sezione antologica - terza parte - dà la voce ai principali autori presentati nel corso della trattazione. Infine al termine di ciascun capitolo vengono proposte alcune esercitazioni per facilitare la comprensione personale.

C ap ito lo 1

Educazione, formazione, istruzione, pedagogia

1. Gli ambiti del sapere pedagogico 2. L'educazione 3. La formazione 4. L'istruzione 5. La pedagogia 6. Studiare pedagogia e saper fare pedagogia

§ 1. Gli ambiti del sapere pedagogico Come in tutti i saperi scientifici anche in quello relativo alla pedago­ gia e alle scienze dell’educazione esistono alcune parole-chiave decisive per la padronanza dei concetti fondamentali. Attraverso Fanalisi e l’approfondimento di queste parole-chiave (co­ me educazione, formazione, istruzione, stile educativo, apprendimento) è possibile accostare la competenza pedagogica e conoscere gli intrecci che intercorrono tra questa e le altre scienze dell’educazione. Non inizieremo perciò con la spiegazione della natura e delle carat­ teristiche della pedagogia, ma individueremo prima gli ambiti teorico­ pratici e i contesti socio-culturali d’interesse pedagogico. Soltanto in un secondo tempo vedremo in che modo la pedagogia può essere utile all’educazione.

Parole-chiave, ambiti e contesti

Il 2. L'educazione 2.1 L'educazione nella storia e nel senso comune Con la parola educazione nel corso della storia si sono indicati feno­ meni diversi come: -

-

il processo di trasmissione culturale, diverso per ogni situazione sto­ ricamente e culturalmente determinata, mediante il quale, all’inter­ no di alcune istituzioni sociali (famiglia, scuola, ecc.), viene struttu­ rata la persona umana e integrata nella società; l’organizzazione di un sistema finalizzato agli scopi di cui sopra; l’acquisizione dell’identità personale;

Educazione: diversi significati

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-

Il rapporto tra pratiche educative, vita sociale e regole etiche: passato e presente

Tre principali modalità

Educazione, formazione, istruzione, pedagogia

Studiare pedagogia

la promozione delle capacità personali fino alla loro piena manife­ stazione; l’azione degli adulti verso i minori nel duplice senso della cura mate­ riale e dell’intervento volto a «far crescere» e «provvedere all’altro»; il risultato raggiunto attraverso le attività predisposte a scopi di svi­ luppo e crescita degli individui.

Questi diversi significati sono tuttora presenti nel nostro senso co­ mune. Quando parliamo, ad esempio, di educazione è quasi spontaneo riferirci sia all’insieme dei valori, delle norme e delle istituzioni di cui una società dispone per il suo ordinato sviluppo e sia ai rapporti inter­ personali attraverso i quali si realizza lo scambio di conoscenze, espe­ rienze e sentimenti che le giovani generazioni stabiliscono con il mondo adulto. Entrambe queste condizioni sono necessarie perché esse siano fornite delle risorse indispensabili per diventare, a loro volta attori sulla scena della vita adulta. Occorre aggiungere che fino a qualche decennio fa era più scontato di oggi che le pratiche educative coincidessero con l’ingresso dei giovani nella vita sociale e nelle regole etiche secondo la tradizione/le tradizioni ereditate dai padri e secondo alcune prassi ampiamente condivise (cen­ tralità della famiglia, ruolo etico-civile della scuola, ecc.). Oggi questa impostazione appare alquanto indebolita. Ci troviamo di fronte a un’idea di introduzione all’età adulta più individualista e nu­ trita spesso dal desiderio di liberarsi dai vincoli tradizionali. Nei giovani è molto più diffuso che in passato, ad esempio, il senso di autosufficien­ za, di libertà, di consapevolezza del proprio valore. Gli adulti, a loro vol­ ta, hanno talvolta ridotto il loro ruolo a quello di semplici compagni di viaggio dei rispettivi figli e/o allievi fin quasi alla rinuncia in molti casi di qualsiasi atteggiamento che possa in qualche modo produrre frustra­ zioni o piccole sofferenze. Pur con questi cambiamenti resta tuttora valido un approccio all’agire educativo scandito da tre principali modalità tra loro interattive:

3

2.2 Perché è possibile l'educazione? Ma è possibile l’educazione? La prima questione da sciogliere in tema di educazione riguarda infatti l’educabilità dell’essere umano. L’educabilità è in funzione di ciò che pensiamo siano l’uomo, il suo destino e la sua felicità. Se non si cede alla concezione pessimistica - pur presente nella sto­ ria - dell’uomo, misero, impotente, legato a un destino già segnato o condizionato da contingenze obbliganti, l’educabilità costituisce un va­ lore originario irrinunciabile. La sua realizzazione dipende, ed è legata al tempo stesso, alla constatazione che il soggetto in formazione cambia e si trasforma sia in rapporto al trascorrere del tempo (il ciclo della vita) sia in relazione allo spazio e agli adulti che lo abitano (i contesti nei qua­ li essa si svolge, N osari 2002, p. 44). Attraverso tali esperienze egli con­ quista la sua condizione di adulto capace di libertà e di responsabilità. L’educabilità si può, dunque, descrivere come un condizione propria della condizione umana che si distende secondo modalità personali (e non mediante procedure standardizzate come accade invece nell’adde­ stramento) all’intersezione tra «possibilità» e «limiti», «tra opportunità, doti delle quali siamo portatori, in modo unico e singolare da un lato, e l’impossibilità di attuarle completamente, dall’altro» (Musaio 2010, p. 93). Detto in altro modo: l’educabilità è il processo che media la valoriz­ zazione delle risorse originarie di ciascuna persona e la consapevolezza che essa deve fare i conti con la dimensione della finitezza. L’educabilità consente di far transitare da potenziale a reale ciò che ogni minore è in grado di diventare come portatore di risorse, attitudini, caratteristiche proprie - i talenti - che chiedono di essere adeguatamen­ te forgiati e perfezionati per favorire il passaggio verso le responsabilità dell’età adulta.

L'educabilità

LA DEFINIZIONE

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una prima basata sulla necessità di preparare l ’individuo in vista dell’inserimento sociale, il che significa tenere conto delle norme e forme di vita comuni e della trasmissione del patrimonio culturale e del bisogno di provvedersi di conoscenze e competenze necessarie; una seconda centrata sullo sviluppo personale e dunque impegnata a promuovere tutte le potenziali capacità dell’individuo, a garantire la formazione del senso personale, a contrastare le forme palesi ed oc­ culte di autoritarismo, a valorizzare, in una parola, la prima risorsa dell’educazione e cioè il soggetto che cresce; una terza centrata sul principio della reciprocità tra adulto e minore'. l’educazione si svolge infatti nella prospettiva dinamica e interattiva tra la responsabilità di un adulto che fa proprio il compito di crescere un’altra persona e un minore che, ancora incapace e bisognoso, deve «imparare a vivere».

L'uomo non educabile La pedagogia scommette sulla educabilità dell'uo­ mo, ma deve anche considerare che esistono con­ cezioni critiche verso la educabilità stessa. Sen­ za scomodare il fatalismo mitico dell'antichità cui si rifanno le visioni del mondo di Omero e Esio­ do, si può fare riferimento, per esempio, ad alcune correnti psicoanalitiche che estremizzano la forza dell'inconscio oppure a quelle tesi neuroscientifi­ che secondo cui il comportamento umano sareb­ be determinato al 100% dal funzionamento del cervello, a sua volta, determinato dall'interazione tra geni ed esperienza (su questo tema vedi più ampiamente il Cap. 2, Par. 1.9).

Anche nell'ambito della Scuola di Francoforte (per esempio gli studi sull'autorità di Horkhei­ mer e Adorno, l'«uomo a una dimensione» di Marcuse) si ritrova una esplicita diffidenza ver­ so l'educabilità dell'uomo basata sulla sua liber­ tà. L'uomo non sarebbe libero ma condizionato, stretto tra le consuetudini autoritarie delle fam i­ glie, le forme di controllo dei sistemi politici e gli allettamenti della società consumistica. Più che di educazione si dovrebbe perciò parlare di semplice addestramento al lavoro e di om olo­ gazione sul piano delle pratiche sociali.

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Innatismo, tesi ambientalistiche e Jean Piaget

Studiare pedagogia

Resta da stabilire se l’educabilità sia connessa alla ereditarietà gene­ tica - l’innatismo secondo cui predominano i fattori genetici ed ereditari - oppure sia preferibile connetterla alle tesi behavioriste (o ambientali­ ste) che sostengono invece la dominanza dei fattori ambientali e cultu­ rali. Questo dualismo appare oggi meno divisivo di un tempo, specie do­ po gli studi di Jean Piaget in ordine alla epistemologia genetica (la gra­ duale conquista della conoscenza quale esito dei legami tra l’attività senso-motoria e i processi cognitivi). Nell’approccio pedagogico all’educabilità è da considerarsi più produttivo promuovere l’intreccio tra le va­ riabili genetiche e i fattori ambientali anziché stabilire il peso specifico di ognuno di questi elementi.

2.3 Gli stili educativi: educazione positiva, indiretta e relazionale Con l’espressione stile educativo si indica una modalità stabile di comportamento e di relazione tra educatore e soggetto in formazione che definisce il «clima» del contesto entro il quale si svolge l’azione educativa. L’ingresso della nozione di stile educativo nel linguaggio pedagogico si fa solitamente risalire alle ricerche di Kurt Lewin (18901947) che, sulla base di una sperimentazione avviata negli anni Trenta negli Stati Uniti, individuò tre principali categorie di stili nella vita dei gruppi: lo stile autoritario, lo stile laissez-faire, lo stile democratico. Secondo Lewin soltanto lo stile democratico poteva ritenersi piena­ mente educativo. La riflessione sugli stili educativi è oggi meno schematica e non am­ bisce a stabilire quale stile sia il più efficace, ma riconosce, a determina­ te condizioni, pari capacità educativa ai differenti modi di operare nella relazione educativa.

a. Lo stile direttivo o dell'autorità La funzione guida dell'adulto

L'autorevolezza

Caratteristiche e punti a favore. Quando l’agire educativo si svolge privilegiando la funzione guida dell’adulto si dà vita a un modello di­ rettivo. L’efficacia dipende principalmente - anche se non esclusivamente - dall’azione esperta dell’adulto educatore, dall’abilità di porge­ re il sapere e di veicolare comportamenti condivisi. Tale stile educati­ vo non necessariamente passivizza il minore, ma è affidato in gran parte alle qualità dell’educatore come il prestigio e la credibilità per­ sonali, la capacità di persuasione, l’abilità nella programmazione delle diverse fasi dell’apprendimento e nella gestione appropriata degli am­ bienti nei quali si svolgono le azioni educative (scuola, tempo libero, fruizione dei media, ecc.). Si dà, dunque, grande rilievo all’autorità in­ tesa come autorevolezza e non come autoritarismo e alla messa a pun­ to di procedure per razionalizzare/semplificare, ad esempio, gli ap­ prendimenti. Larga parte della cultura pedagogica è stata improntata a questo stile educativo (ad esempio Comenio, Locke, Durkheim, le teorie che subordinano i processi educativi e scolastici ad esigenze cul­ turali, sociali, economiche).

Educazione, formazione, istruzione, pedagogia

Limiti e rischi. Quando e se, tuttavia, l’autorità/autorevolezza diven­ ta autoritarismo e le procedure diventano soffocanti il modello direttivo perde la sua efficacia e si rivela dannoso. b. Lo stile non direttivo o della libertà Caratteristiche e punti a favore. Un secondo stile educativo conside­ ra prioritario lo sviluppo dell’io personale a partire dalla piena e auto­ noma valorizzazione delle risorse proprie della persona umana (capaci­ tà dell’individuo, libera formazione del senso personale, contrasto a ogni forma palese od occulta di autorità prevaricante, ecc.) e dal loro li­ bero esercizio. L’educatore è visto come «organizzatore di esperienze» (educazione negativa o non direttiva) nel quale immergere il discepolo. Nella storia della pedagogia il principale autore di riferimento dell’edu­ cazione non direttiva è Jean Jacques Rousseau; altri riferimenti riguar­ dano le pedagogie dell’attivismo e autori come Neill e Rogers. Limiti e rischi. Se la libertà si sgancia dalle regole sociali e si svolge come approccio libertario che assolutizza e idealizza la centralità del soggetto oppure la libertà è semplicemente l’esito di trascuratezza fami­ liare o scolastica lo stile non direttivo diventa una forma educativa inca­ pace di sostenere la crescita della persona.

La valorizzazione autonoma e il libero esercizio delle risorse proprie

c. Lo stile relazionale o della cooperazione Caratteristiche e punti a favore. Nello stile educativo basato sulla re­ lazione interpersonale l’attenzione si concentra sull’autenticità e reci­ procità del rapporto tra i due soggetti dell’azione educativa, ciascuno con un suo specifico ruolo, ma il cui destino (con il relativo successo/insuccesso educativo) appare strettamente intrecciato. Si può parlare di un processo cooperativo nel quale i due attori dell’evento educativo in­ tervengono ciascuno con la propria specificità e la propria responsabili­ tà. Importanti esperienze di pedagogie relazionali si trovano nel passato lontano, nella pratica socratica del dialogo fino al cosiddetto «metodo materno» di Pestalozzi e, in tempi più vicini, alla pedagogia dialogica di Buber e alla forma educativa dell’empatia. Limiti e rischi. Anche in questo contesto possono verificarsi esiti non soddisfacenti come ad esempio, la non autenticità della relazione quando essa è viziata da sentimentalismi, autoritarismi mascherati, ecc. oppure quando si verifica la confusione dei ruoli come nel caso dell’adulto che, per farsi accettare, diventa un «amico» oppure, al con­ trario, il minore è così ben protetto nella relazione al punto da rinun­ ciare alla propria autonomia. La differenza degli stili è da far risalire alla diversa combinazione degli ‘ingredienti’ che li connotano (autorità, libertà, relazione inter­ personale). Qual è lo stile più efficace? Non esistono ricette magiche che consen­ tano di governare a priori le situazioni educative in modo da adattare automaticamente lo stile più idoneo ed efficace. Nella realtà quotidiana

Autenticità e reciprocità del rapporto tra educatore e discepolo

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Impiego secondo contesto e caratteristiche

Studiare pedagogia

essi vanno interpretati come altrettante opportunità/strumenti da im­ piegare secondo i contesti e le caratteristiche dei soggetti. Non si può prevedere, infatti, a priori, quale degli stili sia più idoneo a rendere edu­ cativa una situazione se non lo si pone in relazione al «caso» nel quale viene impiegato rispetto al quale il decisore finale è l’educatore (o il gruppo degli educatori) che agisce. Si può soltanto avvertire che gli studi e le ricerche condotte in argo­ mento tendono ad evidenziare l’importanza della giustificazione e della coerenza rispetto alla scelta dello stile impiegato.

2.4 Contesti educativi formali, non formali e informali Situazioni e luoghi

Contesti formali

Contesti non formali

Contesti informali

Oltre che dagli stili adottati dagli educatori i processi educativi di­ pendono dalle situazioni e dai luoghi in cui essi si svolgono. Situazioni e luoghi possono essere intenzionali o formali, non formali e informali. Va precisato che nell’esperienza diretta del bambino o del giovane que­ sta distinzione all’atto pratico appare meno netta di quanto non risulti a livello di analisi teorica in quanto il contesto nel quale si compiono lo sviluppo e la maturazione personale è generalmente permeato di diversi aspetti, intenzionali e non. L’educazione infatti si svolge attraverso interventi ed esperienze dif­ ferenziate, alcune delle quali ben definite da norme e regole, talora ad­ dirittura analiticamente programmate e altre invece meno formalizzate e dal carattere più spontaneo e anche occasionale. a. Parliamo di contesti educativi formali quando ci si riferisce ad am­ bienti per loro natura destinati all’educazione come, ad esempio, la famiglia, la scuola, la formazione al lavoro, le comunità sostitutive delle famiglie, gli ambienti della formazione religiosa. In queste si­ tuazioni si pongono in atto strategie e si fa ricorso a persone che hanno ben individuate responsabilità (parentali nel caso dei geni­ tori o professionali nel caso degli insegnanti e degli educatori), per­ seguendo obiettivi specifici di natura cognitiva, affettiva, relazio­ nale, ecc. Il progetto educativo è solitamente esplicito e abbastanza ben definito, in qualche caso (come la scuola) anche programmato in modo sistematico. b. I contesti educativi non formali sono connotati dalla loro collocazio­ ne esterna ai sistemi di istruzione e di formazione, dal perseguimen­ to di scopi non intenzionalmente educativi (ad esempio il volontaria­ to o l’attività ricreativa e sportiva) e spesso essi sono scelti di propo­ sito dagli interessati per ampliare conoscenze ed esperienze. c. Ueducazione informale si compie nella realtà quotidiana ed è il frut­ to di conoscenze pratiche e contestuali alla vita personale e associa­ ta. L’attività non formale non è strutturata in termini di obiettivi di apprendimento, di tempi o di metodologie e nella maggior parte dei casi l’apprendimento informale non è intenzionale, ma scaturisce dalla necessità di risolvere problemi quotidiani o dal desiderio di col­ tivare particolari esperienze. Un esempio di educazione informale è

Educazione, formazione, istruzione, pedagogia

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quella legata all’impiego dei mezzi di comunicazione tecnologica e alla partecipazione della vita in rete. Ne\Yeducazione non formale e informale la figura dell’adulto educa­ tore è più sfumata e talvolta risulta addirittura assente.

2.5 I caratteri specifici dell'educazione Ueducazione intenzionale o formale - comunque impegnata a tenere conto di quanto viene appreso nell’ambito non formale e informale - si costituisce con maggiore organicità e vincoli intorno ad alcuni aspetti particolari e costanti sui quali si costituisce lo specifico dell’intervento educativo. Precisamente: a. il concetto di oltrepass amento e di divenire nel senso che qualsiasi intervento educativo presuppone scavalcare un confine a cui si è pervenuti, raggiungere nuovi traguardi ed equilibri di maturazio­ ne, rompere gli involucri che la finitezza umana continua a tessere intorno a ciascuno, un inesauribile «trasformare» e «trasformarsi». «Lo scopo dell’educazione è di permettere agli individui di conti­ nuare la loro educazione» (D ewey 1949, p. 147). I processi educa­ tivi, perciò, non riguardano soltanto i soggetti in età evolutiva, ma interessano anche gli adulti, gli anziani, ecc.: l’educazione perma­ nente è un dato strutturale, non accessorio, della vita umana in quanto umana; b. Yintenzione educativa intesa come il deliberato proposito di creare le condizioni e di porre in atto iniziative volte a promuovere la perso­ nalità di un soggetto non ancora autosufficiente oppure già adulto ma desideroso (o bisognoso) di essere aiutato ad impadronirsi di ul­ teriori conoscenze, di compiere nuove esperienze, ecc. (la gestione dell’intenzione educativa solleva uno dei problemi educativi più deli­ cati ed importanti, quello del rapporto tra l’autorità dell’educatore e la libertà del soggetto in formazione e intercetta la questione del ri­ corso allo stile educativo più efficace); c. la processualità, l’intervento educativo non si esaurisce in un atto singolo o in un’azione di breve durata. Esso necessita di dispiegarsi nel tempo su piani articolati e diversi e si costituisce attraverso un in­ sieme graduale-sequenziale di azioni e retroazioni di tipo personale, interpersonale e sociale e all’intersezione di processi funzionali e in­ tenzionali. Tra i processi educativi primari rientrano: - la costruzione dell’identità personale; - l’elaborazione del senso personale; - il dimensione dell’appartenenza; - la partecipazione operativa attiva (D izionario 1997, p. 858); d. la gradualità, l’azione educativa rispetta le capacità del soggetto, or­ ganizza gli interventi in forma propedeutica, predispone le attività in modo da evitare sia fenomeni di adultismo sia fenomeni di ritardismo. Nel primo caso si corre il rischio di anticipare impropriamente

Il concetto di oltrepassamento e di divenire

L'intenzione educativa

La processualità

La gradualità

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conoscenze, esperienze, ecc., nel secondo si esagera nell’attesa delle condizioni favorevoli per la loro piena padronanza. Globalità e unitarietà

Alcune teorie educative - specialmente quelle d’impronta personali­ stica - aggiungono ai caratteri specifici dell’educazione anche quello della globalità e della unitarietà in modo che l’uomo autonomo (l’«uomo educa­ to») sia il risultato di una maturazione complessiva che coinvolge parita­ riamente gli aspetti corporei, cognitivi, affettivi, relazionali, del senso.

2.6 Cosa non è l'educazione

Educazione non è...

... sviluppo

Siamo ora in possesso di tutti gli elementi in grado di identificare con sufficiente sicurezza i fenomeni educativi e, nel medesimo tempo, di precisare i rapporti tra l’espressione educazione e altre parole che spes­ so le sono associate o che, in qualche caso, sono addirittura impiegate come sinonimi.

a. L educazione non è sinonimo di sviluppo. Lo sviluppo è un concet­ to che appartiene alla cultura biologica e psicologica e riguarda «il cambiamento progressivo e costante che accompagna la persona lungo tutto l’arco evolutivo (dalla nascita alla morte), modificando ogni suo aspetto sia sul piano della struttura di personalità, sia nel­ le manifestazioni a livello comportamentale» (D izionario 1997 p 1097; A cone 1997). ... socializzazione b. L educazione non è riconducibile inoltre al concetto di socializzazione sia che lo si intenda dal punto di vista sociologico (attraverso quali prassi sociali si possono acquisire i comportamenti coerenti con la progressiva appartenenza e partecipazione alla vita sociale ovvero il legame tra la cultura di un gruppo ed i suoi membri, Gallino 1978) sia che lo si consideri sotto il profilo della psicologia sociale (i pro­ cessi psicologici [mentali ed evolutivi] che presiedono alla formazio­ ne della socialità dell’individuo) sia che lo si analizzi nell’ottica dell’antropologia sociale (nel qual caso si preferisce l’espressione inculturazione) che studia le dinamiche attraverso cui i membri di una società o di un gruppo vengono resi coscienti e partecipi dei modelli, dei valori e delle consuetudini culturali che si riferiscono a quel grup­ po o a quella società (Tentori 1990). ... servizi in favore c. Leducazione non è assimilabile neppure ai servizi in favore della delle persone persona con cui si attuano nuove, più moderne ed efficaci forme di aiuto alle persone proprie dell’area degli interessi socio-politico-eco­ nomici. Per quanto il concetto di assistenza sia notevolmente mutato negli ultimi decenni con un notevole ampliamento dell’attenzione verso la conquista dell’autonomia personale, resta pur sempre una profonda differenza tra il servizio alla persona e l’educazione. ... cura d. L’educazione è un’esperienza diversa dalla cura e, ancor più, dalla e cura terapeutica cura terapeutica. La categoria della cura è legata alla «mancanza» e al «bisogno» e all’idea di «uomo debole» incapace in trovare in se stesso le capacità fondamentali per la propria realizzazione. Se ciò è

Educazione, formazione, istruzione, pedagogia

certamente vero per le età iniziali della vita, per le stagioni più avan­ zate insistere troppo sulla cura significa confondere educazione con assistenza. Esistono tuttavia situazioni particolari (forme di disagio, devianza, forte rischio, ecc.) nelle quali l’intervento educativo può essere attuato soltanto quando sono stati in precedenza risolti o per lo meno avviati a soluzione problemi di natura patologica o comun­ que in grado di condizionare lo sviluppo della relazione educativa, e. L’educazione non è un’azione di addestramento, espressione con la quale si indica l’insieme di azioni volte a far acquisire destrezza, comportamenti standardizzati in determinate situazioni e capacità concrete di intervenire in situazioni che si ripetono con caratteristi­ che molto simili, soffocando qualsiasi iniziativa del soggetto (M ariani 2012).

... addestramento

il 3. La formazione 3.1 Una prospettiva antica e nuova: la formazione Altra espressione correntemente impiegata nella cultura pedagogica e nelle scienze dell’educazione è quella di formazione. Questa parola ri­ sente di un impiego che nel corso del tempo si è modificato. Il suo signi­ ficato originario (vedi box di approfondimento a pagina seguente) ha in­ fatti subito una profonda trasformazione, almeno nell’uso corrente, a partire dalla metà del secolo scorso. Risale a questo momento l’impiego della parola formazione con un significato equivalente all’inglese trai­ ning o al francese form ation , termini con connotati più tecnici e meno «umanistici», mutuati dal mondo delle professioni. Per cogliere questo slittamento semantico occorre fare riferimento alle spinte prodotte dalla cultura socioeconomica che negli anni Cin­ quanta e Sessanta ha approfondito i rapporti tra modernizzazione, pro­ cessi produttivi e sistema formativo. Particolare attenzione fu riservata all’aggiornamento professionale e tecnico di grandi masse di adulti poco alfabetizzati e scarsamente qualificati. L’esigenza di migliorare la for­ mazione dei lavoratori si incrociò con la graduale consapevolezza che, di fronte al rapido evolvere delle conoscenze e delle tecnologie produttive, era necessario avviare processi di formazione permanente e ricorrente per garantire il massimo di conoscenze possibili lungo tutta la vita (al­ meno come affermazione di principio). In conseguenza di questi cambiamenti di prospettiva, secondo alcu­ ni studiosi sarebbe oggi più appropriato ricorrere all’impiego della pa­ rola formazione anziché continuare a parlare di educazione. Nella «so­ cietà della conoscenza» quest’ultima, troppo condizionata dalle di­ mensioni etiche e valoriali tradizionali, sarebbe inadatta a rispondere alle esigenze pragmatiche di una società bisognosa di cittadini capaci di sopportare il peso della concorrenza economica mondiale e segnata da ideali e stili di vita plurali. L’accentuazione socioeconomica della formazione è stata in parte temperata dalla necessità di tenere conto - specialmente in società sem-

Profonda trasformazione del significato

Anni Cinquanta e Sessanta

La «società della conoscenza»

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Educazione, formazione, istruzione, pedagogia

Studiare pedagogia

LADEFINIZIONE La formazione nella storia: paideia-humanitas-Bildung L'espressione «formazione» ha una lunga storia (Cambi, in C ambi - F rauenfelder 1994, pp. 37-75). Il suo inizio si ritrova nella cultura greca ove la formazione/educazione dell'uomo libero era indicata con la parola paideia (nella cultura romana questo concetto fu espresso con la parola humanitas). Es­ sa indicava l'ideale stesso della formazione umana e cioè la realizzazione della àreté (in latino vìrtus), ideale comprensivo sia della formazione fìsica (la cura del corpo) sia della formazione civile, etica e culturale la cui massima espressione si manifesta­ va nella lealtà verso l'appartenenza alla polis e nella capacità di parlare e di argomentare. La cultura cristiana dei primi secoli fece sua la pro­ spettiva della paideia classica, integrandola tutta­ via con l'insegnamento evangelico. Secondo le antiche versioni della Bibbia e dei Padri della Chie­ sa, Cristo è il modello (la «forma») per eccellenza delle virtù. L'ideale educativo cristiano era perciò rappresentato nel «prendere forma simile a Cristo» e, dunque, esercitare la volontà per acquisire la mi­ sura di umanità (formar-si) sul modello del Cristo. Tema poi ripreso e trasformato in forme più laiche

dalla cultura umanistico-rinascimentale che pose l'ideale dell'uomo nella sua perfezione non solo ul­ traterrena, ma anche come stile di vita mondano. Una ulteriore reinterpretazione della formazione in senso classico fu proposta dalla cultura neouma­ nistica tedesca tra Sette-Ottocento con la ripresa e il rilancio della categoria della «formazione dello spirito umano» (Bildung) per iniziativa soprattutto di Goethe, Schiller, von Humboldt. In questa pro­ spettiva la formazione assume la fisionomia di un processo di realizzazione universale dell'esisten­ za in relazione ad un valore di cultura identificato nella coscienza-padronanza della tradizione umanistico-artistica colta nella sua esemplarità e pen­ sata, tuttavia, in continuo sviluppo che perennemente è rinnovata nell'interiorità personale che implica oggettivazione del soggetto, sublimazio­ ne dei suoi impulsi, costruzione del sé come spiri­ to (G ennari 1995). Un'antica e consolidata tradizione ha, dunque, considerato la formazione dell'uomo come un processo di acquisizione personale (educazione) di un modello ritenuto ideale.

LADEFINIZIONE La società della conoscenza Uno dei primi e più importanti testi che negli ul­ timi decenni ha orientato le scelte di governi e degli ambienti europei della scuola e dell'istru­ zione professionale è il libro bianco Insegnare e apprendere. Verso la società della conoscenza (Bru­ xelles, 1995). Le finalità degli interventi educati­ vi sono individuate, un po' riduttivamente, nel­ la soluzione del problema della disoccupazione e nella sopravvivenza del modello sociale euro­ peo di fronte alla competizione globale. Questo modello funzionale soprattutto alle esigenze del

mondo produttivo rappresenta una forte spinta a guardare alla formazione come a un'esperienza a metà tra la preparazione professionale disloca­ ta lungo l'arco della vita e la necessità di lavorato­ ri capaci e dalla professionalità flessibile. Poca at­ tenzione viene riservata ai bisogni e ai diritti dei giovani in quanto «persone» prima ancora che «cittadini» e «produttori-consumatori» anche se, in documenti europei successivi, si coglie m ag­ giore preoccupazione per le competenze sociali e di cittadinanza attiva.

pre più sollecitate da nuove situazioni sociali (per esempio la presenza di un alto numero di persone immigrate) - di aspetti più ampi della sola padronanza di competenze e abilità pratiche. Viene richiamata, in par­ ticolare, l’esigenza della promozione della reciprocità, della costruzione delle regole sociali e dei valori condivisi alFinterno di un progetto di cit­ tadinanza solidaristica e capace di non respingere, ma di valorizzare la diversità (D elors 1996).

3.2 I nuovi spazi aperti dalla formazione L’irrompere della formazione nel senso appena descritto - ossia con uno stretto rapporto con i contesti economici e professionali - nel terri­ torio educativo ha prodotto alcune importanti novità che cerchiamo di sintetizzare nei seguenti punti: a. la necessità di pensare la vita adulta come uno spazio di continuo ar­ ricchimento della condizione personale (lifelong learning) sia in ra­ gione delle esigenze del mondo produttivo e professionale (il sapere appreso nei primi decenni della vita diventa rapidamente obsoleto e ha bisogno di venire aggiornato) sia in relazione alle istanze perso­ nali (l’arco della vita è attraversato da molteplici e diverse stagioni evolutive: non solo infanzia, fanciullezza e adolescenza, ma anche le successive età della vita còme giovinezza, adultità, anzianità, vec­ chiaia) (D emetrio 2003); b. la definizione ed affermazione, conseguentemente, di una nuova di­ sciplina che, con intitolazioni talora diverse (educazione degli adulti, scienza della formazione, andragogia), indica un ambito di studio e di ricerca rivolto specificamente all’esplorazione della realtà adulta; c. il riconoscimento che il lavoro è un’esperienza importante per la ma­ turità della persona: al di là della scuola e delle università, si genera­ no processi formativi e si produce apprendimento nel mondo delle professioni, nei contesti lavorativi (le imprese, l’artigianato), attra­ verso l’apprendistato giovanile; d. il superamento della tradizionale convinzione che la preparazione al lavoro debba avere le caratteristiche proprie dell’addestramento a una specifica occupazione e sia piuttosto preferibile l’introduzione a un ampio spettro di competenze; e. l’esigenza che la scuola sia interattiva con gli ambienti professionali (vedi le esperienze di alternanza scuola-lavoro nelle scuole seconda­ rie, i tirocini e gli stage che affiancano i corsi universitari, le iniziati­ ve di formazione realizzate dalle università, da sole o d intesa con scuole e mondo del lavoro); f. l’apertura di sempre più numerose iniziative destinate alle persone adulte e anziane (ad esempio le università della Terza Età) finalizza­ te a soddisfare interessi personali, a offrire occasioni di consumo culturale, a colmare lacune connesse con i cambiamenti in corso (co­ me familiarizzare con le tecnologie, prevenire le malattie, ecc.).

Lifelong learning

Una nuova disdplina per la realtà adulta Lavoro e maturità

Ampio spettro di competenze Interattività

Iniziative rivolte a adulti e anziani

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3.3 Quali rapporti tra educazione e formazione? Da identificazione a distinzione

I rapporti tra educazione e formazione sono, dunque, passati dalla sostanziale identificazione (paideia=formazione=educazione) a una più netta distinzione e, secondo alcuni, alla vera e propria prevalenza della nozione di formazione rispetto a quella di educazione, in quanto in grado di meglio rispondere alla flessibilità oggi richiesta dalla realtà sociale ed economica. Valenze culturali Sbaglierebbe, tuttavia, chi tentasse di liquidare il mondo della for­ e novità mazione come semplice soluzione tecnica indotta da situazioni profes­ della formazione sionali determinate, senza coglierne anche le valenze culturali e le novi­ tà che esso prospetta. Chi pratica i territori della formazione si propone di sfuggire ad alcuni rischi della tradizione educativa (il moralismo, il «buonismo», una certa astrattezza legata ai «valori» o l’idea che i pro­ cessi educativi interessano soltanto la fase evolutiva dell’individuo, ecc.) e intende radicare il cambiamento della persona che cresce entro la complessità dinamica del mondo reale. Nel medesimo tempo è anche riduttivo pensare alla formazione in termini alternativi rispetto al concetto di educazione. Esiste una dimen­ sione interiore della progettualità esistenziale e dell’esperienza relazio­ nale rispetto a cui la prospettiva più specificamente educativa (in quan­ to esperienza di maturazione di sé, di relazioni significative e di finalità personali) conserva una propria legittima capacità di indagine, di pro­ posta, di orientamento e di riflessione. Analogie e sinergie Risulta, dunque, più utile individuare le analogie e le sinergie che tra educazione coinvolgono interattivamente educazione e formazione ( N o s a r i 2013) e formazione allo scopo di considerarli non come momenti distinti (e con esiti separa­ ti), ma come aspetti di uno stesso problema a cui ciascuna parte offre qualcosa di significativo. Tra le analogie e sinergie più significative si possono segnalare: la prospettiva intenzionale (in entrambi i casi ci si trova di fronte alla gestione del complesso e sempre dinamico rapporto autorità/ libertà); - 1accoglienza e la risposta ai bisogni del soggetto (il contesto accet­ tante e gratificante costituisce una condizione per il successo educativo/formativo); - l’incidenza delle esperienze relazionali (la gestione dell’interpersonalità è una variabile in grado di condizionare la qualità del risultato educativo/formativo); - il rapporto con l’etica (la collocazione di fronte alle esperienze di senso e di significato - il cosiddetto «mondo dei valori» - appare fon­ dante non solo in campo educativo in funzione della costruzione del senso personale, ma anche sul piano formativo come impegno di co­ noscenza, per esempio, rispetto alle implicanze etico-valoriali della committenza del progetto formativo o, più in generale, verso i pro­ blemi dell’economia e politici, ecc.); - la costruzione della cittadinanza intesa come modalità della convi­ venza e come tensione verso il perseguimento del «bene comune».

Educazione, formazione, istruzione, pedagogia

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li 4. L'istruzione 4.1 Istruzione, apprendimento e scuola Strettamente intrecciata con le nozioni di educazione e di formazio- Istruzione ne risulta una terza parola del vocabolario pedagogico e cioè quella di istruzione (dal latino instruere=rcndcre abile, costruire, insegnare, che deriva, a sua volta, da struere=ordinare a strati) impiegata, in genere, per designare l’attività mediante la quale si impartiscono e si apprendo­ no nozioni, conoscenze, abilità (istruzione scolastica, elementare, se­ condaria, professionale, programmata, ecc.). A l concetto di istruzione sono legate le nozioni di apprendimento e di scuola. La nozione di apprendimento è più ampia e complessa di quella rela- Apprendimento tiva all’istruzione. L’essere umano apprende infatti in vari modi nel cor­ so del suo sviluppo: per adattarsi all’ambiente, per imitazione e influen­ za sociale, in forma spontanea e sistematica (in questo caso attraverso la partecipazione di altre persone, i genitori, gli insegnanti, ecc.). L ap­ prendimento s’intreccia con l’istruzione quando si compie in forme or­ ganizzate socialmente come, ad esempio, la modalità scolastica. La nascita della scuola - le cui prime sicure testimonianze risalgono Scuola al III millennio a.C. - segna il passaggio dall’istruzione intesa come atti­ vità immediata e spontanea di trasmissione di saperi ed abilità a una at­ tività organizzata in appositi luoghi, in modo strutturato e compiuta me­ diante apposite tecniche di insegnamento. Per molti secoli non fu neces­ sario saper leggere e scrivere. Allo studio era destinato solo chi andava a ricoprire incarichi amministrativi o religiosi. Solo la diffusione del biso­ gno di conoscenza della società liberale e borghese nell’Ottocento ha portato all’affermazione del principio dell’istruzione obbligatoria e suc­ cessivi processi di modernizzazione sociale del secolo scorso hanno consacrato l’istruzione come diritto primario aperto a tutti (principio della «scuola di massa»).

LA DEFINIZIONE

La scuola di massa La diffusione moderna della scuola giunge alla sua maturazione più significativa verso la metà del secolo scorso con l'affermazione della «scuo­ la di massa» o «scuola aperta a tutti». Ancora per tutto il primo Novecento la scuola, pur estesa a tutti i bambini nei suoi gradi iniziali (scuola ele­ mentare), viene concepita (secondo un model­ lo che risaliva ai secoli precedenti) come un luo­ go di graduale selezione dei migliori in vista della preparazione del ceto dirigente. Questa impostazione è stata gradualmente - ma ir­

reversibilmente - sostituita dopo la seconda guerra mondiale dal principio che nelle società democrati­ che l'istruzione è un diritto primario da rispettare, as­ sicurando a tutti la possibilità di proseguire gli studi anche ai livelli superiori. Viene in tal modo superato il criterio della scuola selettiva. La scuola di massa è oggi non solo connotata da una frequenza generalizzata e 'lunga', ma anche dalla caratteristica della inclusività e cioè dell'in­ serimento nella vita scolastica di soggetti a vario titolo portatori di diversità.

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Dibattito tra istruzione e scuola

Studiare pedagogia

L intreccio di istruzione, apprendimento e scuola genera alcune questioni di rilevante interesse educativo e pedagogico: -

il rapporto tra istruzione, apprendimento scolastico ed educazione; le relazioni positive e critiche tra istruzione e apprendimento in rete; il futuro della scuola in quanto istituzione che tradizionalmente è de­ putata agli apprendimenti.

Intorno all’istruzione e alla scuola è oggi aperto un ampio dibattito che si può così schematicamente sintetizzare: alla scuola spettano anche compiti educativi oppure la sua funzione è strettamente legata alla tra­ smissione del sapere? Secondo una analisi pedagogica consolidata nel tempo non vi può es­ sere istruzione senza che essa sia intrinsecamente educativa: impadronirsi delle conoscenze culturali e delle competenze indispensabili per avvaler­ sene nella vita rappresenterebbe già una forma di tirocinio e di controllo mentale fondamentale in ordine all’educazione della personalità umana (vedi la tesi dell’istruzione educativa di Herbart a inizio Ottocento o, più vicino a noi, la teoria dell’istruzione di Hessen). Non solo: la scuola sareb­ be il primo e fondamentale laboratorio nel quale si vivono le regole che, in seguito, guideranno la partecipazione alla vita sociale (vedi la scuola de­ mocratica di Dewey) e un essenziale fattore di aggregazione sociale. Queste tesi sono messe in discussione da qualche decennio da una parte di studiosi che ritengono improprio caricare l’istruzione di finalità (e responsabilità) che oltrepassino la sua natura di luogo di apprendi­ menti. Essa dovrebbe limitare la sua azione alla trasmissione di saperi intellettuali e di competenze metacognitive (per esempio secondo la formula «apprendere ad apprendere») indipendentemente dall’educa­ zione intesa come avviamento a compiti finalizzati alla scoperta di sé, all’attribuzione di significati, all’interiorizzazione di norme e regole so­ ciali. Questi compiti andrebbero preferenzialmente riservati all’azione delle famiglie, dei gruppi sociali, delle comunità religiose. L istruzione, in altre parole, si dovrebbe configurare come un sapere misurabile, sperimentale, programmabile (vedi i teorici del mastery learning, del curricolo, ecc.) di natura diversa dai processi educativi aper­ ti, invece, alle diverse visioni dell’uomo e della società e condizionati dalla soggettività personale.

4.2 Istruzione e apprendimento in rete Le risorse online

La scuola tradizionale si trova sotto attacco anche per la sfida porta­ ta dalle risorse online per due principali ragioni: a) la rete offre una quantità inimmaginabile di dati, informazioni, proposte e b) il modo di avvalersene è molto più accattivante della normale vita d’aula. Parlare oggi d’istruzione e di apprendimento significa perciò confrontarsi con questa duplice novità. Si aprono questioni di notevole rilevanza. Risulta sempre più eviden­ te, ad esempio, che di fronte alle suggestioni quotidiane proposte dal

Educazione, formazione, istruzione, pedagogia

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web la nozione di apprendimento non può più essere quella, trasmessa Verso forme dal passato, di saper semplicemente acquisire le nozioni apprese dall’in­ di apprendimento segnante e dal libro di testo. La necessità di «saper scegliere» tra le of­ e problem solving ferte della rete implica la capacità di attivare processi idonei a sperimen­ tare forme di apprendimento problem solving, a confrontare tesi diver­ se, a stabilire gerarchie di qualità nelle informazioni apprese. Il web non può, dunque, restare fuori della scuola anche se, per altro verso, non si può far coincidere automaticamente web e scuola. Sembra, un po’ esagerato - per fare un solo esempio - pensare che non siano più necessari i libri di testo perché essi, come sostengono alcuni critici, rap­ presenterebbero un «sapere statico» mentre la rete è per sua natura «di­ namica». Ciascun allievo andrebbe addirittura posto nella condizione di «scrivere il proprio libro di testo». I libri di testo continuano anche nell’era del web ad avere una loro I libri di testo e il web utilità in quanto danno ordine al sapere, individuano i nuclei essenzia­ li delle varie discipline, consentono di ridurre la frammentazione delle nozioni e un’inutile perdita di tempo nel creare un proprio ordine mentale e culturale. Inutile poi ricordare, perché ogni giorno ce lo suggerisce l’esperien­ za, che un eccesso di web comporta rischi di dipendenza, forme di di­ sconnessione con la realtà, fughe entro mondi virtuali senza contare l’e­ ventualità dell’uso improprio e pericoloso che si può fare degli strumen­ ti infotelematici. Insomma possiamo provvisoriamente concludere (rinviando ad altra parte del volume una riflessione più ampia su questi argomenti, vedi Cap. 2, Par. 3.1, 3.2 e 3.3) che il web è semplicemente una opportunità e uno strumento di lavoro e, come tale, una possibile ri­ sorsa da valorizzare.

4.3 Istruzione e futuro della scuola Un altro grande dibattito percorre il mondo dell’istruzione scolastica e cioè se la scuola così come è organizzata oggi la cui origine è da far ri­ salire ai collegi del Sei-Settecento (edifici appositi, articolazione degli studenti in classi, programmi di insegnamento abbastanza standardizza­ ti distribuiti nelle discipline, insegnanti come detentori e dispensatori di sapere, ecc.) è ancora funzionale alle esigenze delle società attuali molto più varie, mobili, flessibili di quelle anche solo di mezzo secolo fa. Secondo alcuni studiosi sarebbe rischioso puntare tutto sulla «rifor­ ma della scuola». Occorrerebbero piani e progetti in grado di traghetta­ re il modello scolastico attuale (che ovviamente non può essere liquida­ to anche per le evidenti resistenze che qualsiasi progetto orientato in tal senso incontrerebbe specie tra gli insegnanti) verso soluzioni non più centrate soltanto sulla scuola («scuolacentriche»), ma «policentriche» in quanto organizzate in forma integrata intorno a una rete di proposte e offerte formative (scuola+formazione professionale+mondo delle imprese+offerte provenienti dal territorio, ecc.). Da queste semplici constatazioni scaturiscono alcuni interrogativi: come si potrebbero conciliare i tempi dell’apprendimento scolastico con

Una scuola ancora funzionale?

Studiare pedagogia

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Educazione, formazione, istruzione, pedagogia

L'APPROFONDIMENTO

E se si potesse fare a meno delle scuole? Le tesi più radicali sul futuro dell'istruzione prefigu­ rano una vera e propria «descolarizzazione» della società secondo quanto già previsto da alcuni stu­ diosi (lllich, Reimer) negli anni Settanta del secolo scorso. Di questa ipotesi c'è traccia in un impor­ tante documento dell'Ocse del 2001, Schooling for Tomorrow che illustra vari possibili scenari per l'i­ struzione del futuro ancora incerti tra «riscolariz­ zazione» e «descolarizzazione». Secondo questa seconda prospettiva si può imparare senza avere bisogno di scuole organizzate entro un sistema burocratico, rigido e costoso, utile a conservare

posti di lavoro per gli insegnanti, non sempre a ga­ rantire la buona qualità negli apprendimenti. Secondo i descolarizzatori in futuro,le scuole tra­ dizionali potrebbero venire sostituite da reti di ap­ prendimento libere di svolgersi secondo le esigen­ ze (sociali, produttive, religiose, locali) e la capacità della società stessa di auto organizzarsi e di offrire formazione lungo l'intero corso della vita. Le fami­ glie e le comunità locali dovrebbero cioè riappro­ priarsi della preparazione dei bambini e dei ragazzi senza delegare questo compito alle autorità pub­ bliche e a una specifica categoria di professionisti.

altre forme di conoscenza (non solo la rete, ma anche il lavoro, il volonta­ riato, ecc.); come dovrebbero essere ri-professionalizzati i milioni di do­ centi che operano attualmente nell’insegnamento scolastico (oltre sei mi­ lioni nella sola Unione Europea)? A chi competerebbe certificare (e come andrebbero certificati) i risultati acquisiti in forma libera attraverso l’e­ ventuale auto organizzazione della conoscenza? E ancora: come sostitui­ re i processi di socializzazione infantile e in età adolescenziale che si com­ piono nella vita scolastica, intrecciandosi con gli apprendimenti? ( C a ­ s t o l d i - C h io s s o 2017).

IH 5. La pedagogia 5.1 Pedagogia e scienze dell'educazione Il lavoro pedagogico

Disponiamo ora di tutti gli elementi utili per collocare nel suo giusto spazio di azione la pedagogia. Il lavoro pedagogico ha a che fare preci­ samente con quanto si è fin qui descritto: esso indaga e dà sistemazione alle azioni pratiche che si svolgono nei luoghi dell’educazione, della for­ mazione e delFistruzione/apprendimento. I suoi oggetti di studio sono: -

le finalità dell’intervento educativo da individuare in relazione alla natura del bene personale; le modalità attraverso cui perseguirlo; le relazioni che si stabiliscono tra i protagonisti del rapporto educativo; le condizioni di tempo e di luogo perché le relazioni siano efficaci; i contesti nei quali esse si svolgono; la gradualità e la natura culturale dei contenuti veicolati.

Per molti secoli la pedagogia si è occupata soprattutto dell’educazio­ ne dei bambini e dei fanciulli, della loro scolarizzazione e preparazione

religiosa. Tra il XVI e il XVI secolo essa si è costituita nelle forme mo­ derne che noi conosciamo (la pedagogia delle Rationes Studìorum, Comenio), operando per rendere più organizzata ed efficiente la scuola. Questa impostazione è durata oltre due secoli. Soltanto nel Novecento gli spazi pedagogici si sono ampliati verso l’educazione degli adulti, dei soggetti disabili, la formazione professionale, l’educazione in famiglia, ecc. a mano a mano che è maturata la convinzione che l’educazione e l’apprendimento non sono prerogativa (come a lungo si è creduto) sol­ tanto della prima fase della vita. Nel frattempo anche altre discipline - psicologiche, sociologiche, an­ tropologiche e anche biomediche - hanno accentuato l’interesse verso le tematiche educative e formative, integrando il punto di vista pedagogi­ co. A partire dai primi decenni del secolo scorso si è cominciato a parla­ re di scienze dell’educazione. La pedagogia che per antica consuetudine era depositaria - insieme alla filosofia e alla religione - del tema educa­ tivo ha dovuto perciò ripensare il proprio ruolo e la propria funzione nel nuovo orizzonte delle scienze dell’educazione.

5.2 Qual è lo specifico della pedagogia? Qual è, dunque, oggi lo specifico della pedagogia? Perché studiare pedagogia? Per rispondere a questa domanda occorre in primo luogo ri­ flettere sulla natura propria dell’approccio pedagogico all’educativo: a differenza di altre scienze umane esso non è solo descrittivo, ma anche propositivo/operativo. Il pedagogista infatti non si limita a stabilire co­ me «stanno le cose», ma cerca di rispondere, per un verso, agli interro­ gativi legati al «perché agire», e si prefigge, dall’altro, di indagare e pro­ porre «come agire». La competenza pedagogica unisce perciò inscindi­ bilmente sapere e saper fare, azione pratica e capacità riflessiva (Fabbri 1996; Milani 2000). La pedagogia come «sapere pratico». Vediamo in modo più detta­ gliato questo duplice aspetto della pedagogia. Il «perché agire» è in­ trinseco alla natura stessa dell’educazione perché essa è sempre guida­ ta da un’idea di uomo e di società. La pedagogia ha perciò rapporti inevitabili con la filosofia e con la politica, anche se non può essere vi­ sta soltanto come una semplice applicazione di teorie filosofiche e dot­ trine politiche. La sua legittimità è giustificata soprattutto dalla neces­ sità di sottrarre l’azione pratica al rischio di restare prigioniera della frammentarietà e occasionalità dell’empiria quotidiana e di inqua­ drarla entro orizzonti più vasti. La pedagogia rientra in quei «saperi pratici» (ad esempio medicina, ingegneria, agraria) che non si nutrono soltanto di analisi teorica. In quanto «saperi pratici» nel loro tradursi in azioni tengono conto di opi­ nioni, tradizioni, pratiche già sperimentate, considerate valide e assunte in base all’esperienza positiva compiuta. Questi tipi di sapere consento­ no di risolvere specifici problemi agendo sulla base di criteri affidabili che dipendono, a loro volta, non solo da automatismi procedurali prefis­ sati, ma da processi legati all’esercizio della capacità riflessiva ovvero

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Le scienze dell'educazione

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La riflessione sull'«esperienza buona»

Educazione, formazione, istruzione, pedagogia

Studiare pedagogia

della disposizione a rimettere in discussione, riallineare e replicare le esperienze, valorizzando quelle più valide. Il principio di credibilità e quello di riflessività possiedono una ra­ zionalità intrinseca e un ordine specifico che garantiscono, nel nostro caso, che il lavoro pedagogico si svolga entro criteri scientifici - e cioè secondo prassi documentabili e verificabili - e non solo con prospettive, come spesso viene rimproverato alla pedagogia, moralistiche o buoniste 0 generosamente volontaristiche. La prima fondamentale peculiarità della pedagogia è, dunque, il suo rapporto riflessivo con l’esperienza che si svolge nel tempo e nello spa­ zio e sulla cui analisi vengono mutuati gli orientamenti per una «educa­ zione buona» (P ellerey 1998 e 1999; B ertagna 2000 e 2010). La pedagogia come riflessione sull’«esperienza buona». Non è, dun­ que, il mondo dei valori - come spesso si tende a credere - a garantire il «bene pedagogico» e cioè il fondamento su cui si regge l’educazione buona. I «valori» sono esterni all’uomo e quando vengono catapultati, in nome della loro autorevolezza, nella prassi educativa non sempre sorti­ scono gli effetti desiderati. Ciò non significa, beninteso, che i valori siano ininfluenti nell’espe­ rienza educativa. Essi possono svolgere un ruolo importante, ma solo se essi vivono in una esperienza viva e se gli adulti, per primi, sono capaci di tradurli in azioni concrete. Valori, ad esempio, come la giustizia o la solidarietà hanno certamente in sé una forza attrattiva, ma a mobilitare 1giovani è soprattutto la constatazione che esistono persone giuste e so­ lidali che operano per il bene. L’educazione buona ha bisogno perciò di adulti capaci di introdurre chi sta crescendo nella vita attraverso, a sua volta, una «esperienza buo­ na». Non è pensabile che l’uomo faccia esperienza della vita da solo: so­ lo l’esperienza suscita esperienza e quindi mette l’uomo nella condizio­ ne di sperimentarla. Nulla è sostituibile alla forza che un’esperienza ha di comunicarsi e di attivare altri, perché questi sia messo in grado di vivere, a sua volta, la propria: soltanto un’esperienza unita e vivente può suscitare la capacità di un’esperienza unitaria e viva. Il bambino impara a vivere dal genitore, il piccolo guardando al grande (La sfida, 2009, p. 11).

In altre parole l’educazione ha bisogno di relazioni semplici e buo­ ne attraverso le quali si crea un reciproco scambio fatto di vicinanza e di emozioni positive il cui prototipo è l’agire dei genitori che per primi «rendono ragione al figlio della promessa che essi gli hanno fatto mettendolo al mondo» (A ngelini 1991 e 2002). Un aspetto specifico pedagogico riguarda perciò la formazione di educatori «adulti significativi» e cioè adulti «che non si propongono come un modello da imitare» ma adulti «capaci di interpretare 1’esistenza in modo inte­ ressante, in grado di permeare il loro interno immediato di buone qualità relazionali, culturali, affettive». I giovani chiedono di essere ascoltati, desiderano attenzione e sono alla ricerca di punti di riferi­ mento (G arelli 2017, p. 152).

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Gli «adulti significativi»

5.3 Tra filosofia, politica e scienza sperimentale La pedagogia intesa come «sapere pratico» evita due rischi tra loro opposti: a) considerare la pedagogia niente più che una filosofia ap­ plicata o un’applicazione coerente a una visione etico-politica della vita sociale e b) semplificare/ridurre la pedagogia a metodologia ed esercizio didattico. La pedagogia filosofica e politica. La pedagogia intesa come tradu­ zione nella realtà di un sistema filosofico o politico ha una lunga e impor­ tante tradizione. Tutti i maggiori studiosi del secolo scorso - d’impronta idealistica (Gentile, Lombardo Radice, Volpicelli), personalistica (Mari­ tain, Stefanini, Agazzi) ed esistenzialistica (Banfi, Bertin) - hanno esal­ tato le ragioni «filosofiche» della pedagogia. Chi più chi meno, l’evento educativo viene indagato come un processo che si svolge all’interno di ca­ tegorie proprie della riflessione speculativa come, ad esempio, la libertà, la possibilità, la creatività, il rischio, lo scacco, ecc. La pedagogia trarrebbe perciò la sua ragion d’essere dai grandi siste­ mi di pensiero i cui princìpi e visioni dell’uomo e della società andrebbe-

LA DEFINIZIONE

La dimensione generativa umana La costruzione di un sistema di relazioni

La pedagogia come costruzione di un sistema di relazioni. Questo si­ gnifica che il soggetto in formazione ha bisogno di sperimentare una re­ lazione accogliente nella quale si è accompagnati ed attivati sia sul pia­ no della vita affettiva sia in ordine alla vita intellettuale come capacità di ascolto e di comprensione, di interpretazione e di giudizio. Questo ti­ po di relazione umana è definita «generativa» nel senso che dà vita e si­ gnificato alle esperienze di volta in volta compiute. La pedagogia è mol­ to interessata a questo genere di relazione: presupposto dell’agire educa­ tivo è infatti la dimensione generativa umana e cioè quella particolare disposizione costituita da interessamento e cura, responsabilità e fedel­ tà, relazione e riconoscimento, trasmissione e tradizione. Come nessuno può darsi la vita così nessuno può diventare adulto da solo.

Per «dimensione generativa umana» si intende una forma di agire diretta a uno scopo libera­ mente scelto, immersa nel contesto e interes­ sata a migliorare il futuro. Il concetto di generatività molto deve, in origine, allo psicologo e psicoanalista di origini tedesche Erik Erikson (1902-1994) che se ne avvale per indicare lo sta­ dio adulto della vita. La generatività è infatti identificata con la sollecitudine dell'uomo ma­ turo di sostenere la crescita non solo dei propri figli, ma più ampiamente della nuova genera­

zione. La mancanza di generatività non è indo­ lore sia per la singola persona (che non riesce a oltrepassare il proprio narcisimo) sia per il gru p­ po sociale (che non riesce a costruire un futuro e si deve rassegnare alla stagnazione). Agire in forma generativa significa compiere scel­ te ricche di significato in grado di rappresenta­ re anche prospettive inedite, proiettare l'azione verso il futuro e cioè esercitare immaginazione e speranza, considerare la rilevanza delle ricadute sociali delle proprie azioni.

Educazione, formazione, istruzione, pedagogia

Studiare pedagogia

Come scienza sperimentale

ro veicolati mediante le forme sociali intermedie come famiglia, scuola, comunità civile. L’impegno pedagogico si dovrebbe tradurre, in altre parole, nell’indagine sulle forme preferibili dell’educazione. La stabilità politica e l’ordinato sviluppo della società sarebbero di­ rettamente dipendenti dalla forza persuasiva degli ideali filosofici e poli­ tici che, di volta in volta e attraverso le dinamiche democratiche, preval­ gono in un determinato periodo della storia. È appena il caso di segnala­ re che una eccessiva dipendenza della pedagogia dalla politica corre il rischio della sua ideologizzazione e strumentalizzazione in funzione del­ la conquista del consenso. Nei regimi totalitari (fascismo, nazismo, co­ muniSmo) questa dipendenza ha avuto esiti addirittura sconvolgenti. La pedagogia come scienza sperimentale. Per altro verso - e spesso in reazione proprio alle impostazioni filosofiche e, dunque, disposte su ampi spazi opzionali - si sono levate le voci che hanno invocato una pe­ dagogia capace di produrre un sapere controllabile, generato mediante procedure chiare e governate da passaggi sottoposti a controlli rigorosi. Solo attraverso la sua formalizzazione (cioè mediante l’impiego di strut­ ture garantite sul piano logico e sperimentale e dunque universalmente accettabili) la pedagogia conquisterebbe il diritto di stare alla pari e dia­ logare con le altre scienze umane impegnate sul terreno dell’educazio­ ne. I sostenitori di questa tesi si affidano alla obiettività assicurata dalla sperimentazione di metodi e pratiche. La centralità affidata al modello sperimentale e alle sue procedure di controllo e di verifica, molto caldeggiato dai sostenitori dell’assorbi­ mento della pedagogia nell’enciclopedia delle scienze dell’educazione (Mialaret, Visalberghi), accresce soprattutto la credibilità degli apporti metodologici e didattici legati, ad esempio, alla formazione e all’appren­ dimento scolastico. Ma estesa ad ampio raggio tale impostazione riduce la pedagogia a semplice pratica metodologica, senza tenere conto (o te­ nendone conto in misura molto relativa) che il processo educativo è dif­ ficilmente generalizzabile, frutto di contingenze non sempre facilmente definibili e, in ogni caso, affidato ai complessi e sottili giochi dell’incon­ tro e delle relazioni interpersonali.

6. Studiare pedagogia e saper fare pedagogia Un duplice scopo

Una solida preparazione culturale specifica

Questo libro ha un duplice scopo. In primo luogo si prefigge di ac­ compagnare quanti sono avviati a una professione educativa (educatori, formatori, insegnanti, animatori) a familiarizzare con il linguaggio pe­ dagogico e impadronirsi delle principali teorie che in tema di educazio­ ne, formazione, insegnamento si confrontano nel campo della pedago­ gia. Non bastano il buon senso, la generosità personale, la disposizione a stare volentieri con i giovani, la capacità di stabilire un buon dialogo con gli altri - tutte ottime qualità che facilitano certamente il lavoro educa­ tivo - per avere un valido professionista dell’educazione. Anche l’agire pedagogico (come del resto accade in tutte le profes­ sioni) ha come base indispensabile una solida preparazione culturale specifica, indispensabile per cogliere i fondamenti e situare le inten-

zioni su cui poggiano gli stili educativi degli educatori e i progetti mes­ si in campo. A tal fine le pagine che seguono sono organizzate in modo da presentare in ogni capitolo un insieme coerente di autori e testi che concentrano l’interesse rispettivamente verso le teorie dell’apprendi­ mento e della formazione (Cap. 2), il rapporto tra educazione vita so­ ciale (Cap. 3), l’analisi dei valori e la loro incidenza sul piano della for­ mazione (Cap. 4) e, infine, la presentazione degli approcci pedagogici centrati sulla persona (Cap. 5). Il libro è dunque finalizzato a «studiare pedagogia» non a «saper fare pedagogia» che è un processo assai più complesso e articolato e che impli­ ca un’azione diretta sul campo, la capacità progettuale, la consuetudine con la dimensione riflessiva e la gestione della relazione intersoggettiva.

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«Studiare pedagogia»

ESERCIZI Domande di verifica della preparazione «L’uomo non deve tanto costruire la sua vita, quanto proseguire la sua incompiuta nascita, de­ ve nascere via via lungo la propria esistenza, ma non in solitudine, bensì con la responsabilità di vedere e di essere visto, di giudicare e di essere giudicato, di dover edificare un mondo in cui possa venir racchiuso questo essere prematura­ mente nato e, in tale situazione, fare il proprio ingresso nel gran teatro del mondo». Il proseguimento dell’incompiutezza umana può seguire diverse linee processuali: educazione, formazione, istruzione. In che cosa si distinguo­ no questi processi? Quali le possibili relazioni? 1. Che cosa si intende con il concetto di «educabilità»? 2. Che cosa è uno stile educativo e in quali m o­ delli può esprimersi? 3. Come possono essere classificati i contesti educativi? 4. Q uali sono le azioni specifiche della peda­ gogia?

Discussion questions «L’educazione non è un’azione di addestramen­ to, espressione con la quale si indica l’insieme di azioni volte a far acquisire destrezza, comporta­ menti standardizzati in determinate situazioni e capacità di intervenire in situazioni che si ripeto­ no con caratteristiche molto simili. Anziché va­

lorizzare la libertà dell’uomo, l’agire addestrativo si avvale di comportamenti funzionali ad un determinato compito o esercizio» (p. 9). Se è vero che l’educazione non è semplice adde­ stramento, tuttavia non sono rari i casi in cui l’in­ tervento educativo si propone anche di «creare buone abitudini»: i genitori, ad esempio, inse­ gnano al proprio figlio a lavare i denti. Se imma­ giniamo la scena, si tratta di un addestramento. Questa operazione ha a che fare con l’educazio­ ne? Esiste una differenza tra «addestrare» e pro­ muovere «buone abitudini»? «Poiché non esistono ricette magiche che con­ sentono di governare a priori le differenti situa­ zioni educative i diversi stili vanno interpretati com e altrettante opportunità di intervento sul piano pratico secondo i contesti e le caratteristi­ che dei soggetti. Non si può prevedere, in via di principio, quale degli stili sia più efficace se non lo si pone in relazione al ‘caso’ nel quale viene impiegato [...]» (pp. 5-6). È difficile stabilire «prima» quale sia l’azione educativa più idonea. Questo significa, allora, che qualunque intervento possa essere idoneo? La capacità dell’educatore di adattarsi significa rinunciare a qualunque previsione personale, oppure può essere intesa come un invito, rivolto all’educatore, a non cristallizzarsi sulle proprie posizioni?

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Educazione, formazione, istruzione, pedagogia

Studiare pedagogia

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Le teorie dell'istruzione e della formazione

1. L'apprendimento umano 2. La-formazione in età adulta 3. La formazione in rete T1. Burrhus F. Skinner, L'insegnamento

C ap ito lo 2

Le teorie dell'istruzione e della formazione

e le contingenze d i rinforzo

T2. Jerome 5.Bruner, Come insegnare qualcosa a un bambino?

T3. Ernest Von Glasersfeid,

sovrinteso alle teorie educative. Un ulteriore incremento degli studi sulla mente umana si verificò tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scor­ so quando le teorie attivistiche subirono una sostanziale revisione critica. Sotto la spinta del confronto fra le due superpotenze del tempo, Stati Uniti e Unione Sovietica, e sollecitati da nuove esigenze produttive (me­ no semplici e schematiche rispetto al taylorismo fino allora dominante) e da una concezione più realistica e meno romantica dell’infanzia, uo­ mini di scuola, esponenti politici, psicologi e pedagogisti cominciarono a porsi nuove domande: senza togliere nulla ai meriti della pedagogia progressista, non era il caso di garantire ai bambini, oltre alla salvaguar­ dia dei loro tempi di sviluppo, dei loro interessi e delle loro propensioni, anche la possibilità di padroneggiare conoscenze e saperi coerenti con la maggiore complessità e varietà della cultura scientifica e tecnologica di metà Novecento?

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T13. Bertrand Schwartz, Trasformare il circolo vizioso dell'esclusione in un circolo virtuoso

T14. Norberto Bottani, Come stanno cambiando le modalità di apprendimento?

Costruttivismo e insegnamento

1.1 Skinner/Bloom vs. Bruner/Ausebel

T4. Philippe Meirieu, Il principio-cardine della pedagogia differenziata

T5. Howard Gardner, «Intelligenze multiple» ed educazione ■ per tu tti

T6. Rita Sidoli, / oeuraz?/ specchio e i processi educativi

T7. Mario Comoglio Miguel A, Cardoso, L'interdipendenza positiva concetto-chiave del

Cooperative Learning T8. Edgar Morin, Educare per l'era planetaria

T9. Malcolm S. Knowles, Come apprende l'adulto

T10. Jack Mezirow, Diventare più riflessivi, partecipativi, creativi

T11. Donald A. Schdn, La riflessione nel corso dell'azione o pensiero riflessivo

T12. Etienne Wenger, L'apprendimento attraverso la «comunità di pratica»

1. L'apprendimento umano La valorizzazione delle risorse intellettive e il miglioramento delle modalità attraverso le quali l’uomo s’impadronisce del sapere, costitui­ sce da sempre un oggetto privilegiato della riflessione pedagogica. La conoscenza è infatti una qualità costitutiva dell’esistenza umana e la sua acquisizione richiede l’esercizio di apposite abilità da parte di chi inse­ gna e specifiche disposizioni da parte di quanti apprendono. Insegnare e apprendere costituiscono le due facce di un medesimo problema: co­ me favorire e potenziare le conoscenze dell’uomo. Pensare all’uomo «educato» significa pensarlo fornito di quelle cono­ scenze necessarie per soddisfare i suoi bisogni, accumulate attraverso esperienze diverse come lo studio, la riflessione personale, l’esercizio pra­ tico, l’imitazione. La conoscenza è vitale perché permette di dare ordine alla realtà, interpretarla, risolvere i problemi, muoversi in essa e piegarla alle proprie esigenze. Migliorare i processi di apprendimento significa assi­ curare agli uomini e alle comunità umane maggiori chances di progresso, benessere, capacità produttiva, consapevolezza personale e politica. A partire specialmente dalla metà-fine del XIX secolo studiosi di varia formazione (non solo pedagogisti, ma anche medici e psicologi) si impegnarono a rendere la scuola più coerente con le attitudini e le capacità degli allievi, approfittando delle nuove acquisizioni maturate nell’ambito psicologico (ad esempio, Edouard Claparède, Ovide Decroly, Maria Montessori, William Heard Kilpatrick, Helen Parkhurst, Robert Dottrens). Si moltiplicarono gli sforzi per rendere più efficaci l’insegnamento e l’apprendimento scolastico e si iniziò a parlare di pedagogia scientifica. Da questo momento i risultati della ricerca psicologica ebbero sempre maggior peso nella elaborazione delle pratiche pedagogiche, sostituendo­ si gradualmente alle influenze filosofiche che avevano per lungo tempo

Per venire incontro a questa esigenza, nell’ambito della cultura psico­ Due linee di tendenza pedagogica statunitense si svilupparono due linee di tendenza, accomu­ nate dalla convinzione di dover andare «oltre» Dewey, superando sia il principio del semplice adattamento sociale sia quello secondo cui l’inse­ gnamento alla vita dovrebbe sempre essere adattato agli interessi dell’al­ lievo (B runer 1964). Da questo momento l’influenza degli studiosi statu­ nitensi su queste tematiche si fece sentire in modo sempre più rilevante. Le due tendenze riprendevano e rilanciavano orientamenti che si erano differenziati fin dall’inizio del secolo. La prima, nata dalla cultura comportamentista, si concentrò nella ricerca di strategie più efficaci per migliorare la qualità dell’insegnamento, puntando alla razionalizzazio­ ne e programmazione dei processi didattici, alla definizione di rigorose tassonomie, all’attivazione di sistematiche e ricorrenti procedure di ve­ rifica e valutazione, in una parola all’ottimizzazione delle prestazioni scolastiche. La seconda, di matrice cognitivista, privilegiò invece il raf­ forzamento delle potenzialità conoscitive, esaltandone le capacità di au­ toapprendimento e di trasferimento del sapere. In Skinner e Bloom, da una parte, e in Bruner e Ausebel, dall’altra, si possono individuare gli esponenti emblematici di queste tendenze. I primi si impegnarono principalmente a pianificare le condizioni esterne dell’apprendimento, i secondi si interessarono soprattutto all’indagine delle strutture mentali attraverso cui l’apprendimento si svolge e si mol­ tiplica. Da questi capiscuola scaturirono prassi educative molto diverse che hanno in vario modo condizionato la cultura pedagogica e scolastica statunitense ed europea. L’attenzione di Skinner e Bloom si rivolge soprattutto alle pratiche Skinner e Bloom d’insegnamento. L’efficacia di queste ultime dipende dalla capacità di predisporre un repertorio di comportamenti adattati all’ambiente, cioè di azioni poste sotto il controllo di appropriate procedure. Le conoscenze progrediscono nella misura in cui il soggetto produce comportamenti de­ siderati e questi sono rafforzati dall’effetto prodotto.

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La teoria dell'istruzione programmata

Le forme dell'insegnamento

Studiare pedagogia

Le teorie dell'istruzione e della formazione

«L’insegnamento è semplicemente l’organizzazione delle contingenze rafforzative» (Skinner 1970, p. 43), ovvero l’insegnamento è la ricerca sistematica di quali parametri situazionali il comportamento dell’individuo sia funzione. Si tratta, in sostanza, di organizzare i contenuti in for­ me sequenziali costruite attraverso la concatenazione di cause/effetti e unità di apprendimento/comportamento funzionali a obiettivi pianifica­ ti in modo organico e coerente in vista del conseguimento di un obietti­ vo generale (—*T1). Su questa base teorica Skinner innesta la teoria dell’istruzione pro­ grammata, che egli prospetta in forma automatizzata con l’impiego di apposite «macchine per insegnare», predisposte per assicurare appren­ dimenti efficaci e corretti. Con l’applicazione del principio dell’istruzio­ ne programmata gli studenti apprendono in modo graduale, lineare e sequenziale, iniziando con la soluzione di un problema semplice e pro­ gredendo fino a compiti più complessi. Il comportamento desiderato (o risposta) è rinforzato a ciascun passo dal feedback (ricompensa o rico­ noscimento) e dalla comparsa di un nuovo problema da risolvere. La moltiplicazione degli stimoli e dei comportamenti è garanzia di misura­ bilità e di osservabilità quasi laboratoriali. Bloom, a sua volta, parte dal presupposto che le capacità potenziali del soggetto che apprende non sono così statiche e predeterminate come a lungo si è creduto, ma sono condizionate soprattutto da tre fattori: il tempo, l’assi­ stenza didattica e i controlli che si mettono in atto durante l’insegnamento (B loom 1979). La «padronanza» di ciò che si apprende (mastery learning, B lock 1975 e 1977) dipende cioè più dalle forme con cui si attua l’insegna­ mento che dalle disposizioni personali. Tali forme sono individuate: a. in un modello organizzato per unità didattiche stabilite in funzione di obiettivi per il cui apprendimento si possono prevedere tempi differen­ ziati in rapporto alle capacità dei diversi alunni ed eventuali iniziative compensative e di sostegno (principio della programmazione didattica);

IPROTAGONISTI Skinner e Bloom Burrhus F. Skinner (1904-1990), psicologo statuni­ tense, è professore nell'Università di Harvard; la sua produzione è segnata da molteplici interessi di ri­ cerca tra cui spiccano quelli educativi e scolastici. Esponente del cosiddetto «comportamentismo ra­ dicale», il suo nome è legato alla pratica del condi­ zionamento operante e cioè una forma di condizio­ namento non automatica (come nel caso di Pavlov), ma legata alla possibilità di ottenere una ricompen­ sa (rinforzo). In linea con questa impostazione ela­ borò la teoria dell'istruzione programmata attuata mediante apposite «macchine per insegnare».

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b. in batterie di prove di verifica da somministrare agli alunni per indi­ viduarne ritardi e lacune e predisporre specifiche attività di recupe­ ro (principio della valutazione formativa). L’obiettivo è quello di ade­ guare, per quanto possibile, l’organizzazione dell’insegnamento alle difficoltà personali dell’allievo. Nel delineare una «nuova teoria dell’istruzione» Bruner e Ausebel si pongono da una prospettiva diversa. Essi rivolgono la loro attenzione all’analisi strutturale della conoscenza, soffermandosi in particolare sui processi di connessione e di derivazione che fanno scaturire un’idea dall’altra. Mentre Skinner non manifesta alcun interesse per il contenu­ to di quella che Piaget definì la «scatola nera», cioè la mente umana, Bruner e Ausebel sono invece interessati proprio ai processi che gover­ nano quanto entra nella scatola nera e quanto ne esce. La struttura della conoscenza è «costituita dalle grandi scoperte concettuali che portano ordine nelle osservazioni sconnesse, a dar signi­ ficato a ciò che possiamo imparare e a rendere possibile il dischiudersi di nuovi regni dell’esperienza» (B runer 1964, p. 22). Per Bruner la conoscenza più efficace è perciò quella che riproduce il processo di sco­ perta scientifica mediante l’attivazione di uno sforzo induttivo con il quale si procede «oltre» l’informazione fornita in modo diretto. L’intui­ zione consente di superare il dato immediato, permette di formulare nuove ipotesi e favorisce la padronanza delle strutture mentali in grado di assicurare gli apprendimenti successivi. La capacità o meno di «tra­ sferire» una conoscenza costituisce la spia che rivela se l’apprendimento è avvenuto oppure no (—*T2). Mentre Bruner individua diverse modalità conoscitive che possono essere anche autonome fra loro - nel senso che il soggetto può privile­ giarne una rispetto alle altre, orientandosi per esempio verso un pensie­ ro concreto piuttosto che formale - Ausebel privilegia l’aspetto della co­ noscenza paradigmatica (anziché l’equilibrio tra le diverse abilità), sot­ tolineando la superiorità del ragionamento formale rispetto ad altre forme di pensiero.

Bruner e Ausebel

Lo sforzo induttivo

IPROTAGONISTI Benjamin S. Bloom (1913-1999), pedagogista dell'Università di Chicago, è noto soprattutto per le innovazioni apportate nel cam po dell'organiz­ zazione didattica basata sul principio tassonomi­ co e cioè sulla individuazione e attuazione del­ la gerarchia degli obiettivi di apprendimento. A Bloom si devono inoltre innovazioni nell'ambito valutativo: la valutazione non è solo la certifica­ zione finale dell'apprendimento, ma può rappre­ sentare uno strumento per monitorare e miglio­ rare il percorso stesso.

Bruner e Ausebel Jerome S. Bruner (1915-2016), psicopedagogi­ sta, docente prima ad Harvard e poi ad Oxford, è considerato uno dei maggiori esponenti del­ la cultura cognitivista, autore di importanti stu­ di sull'apprendimento, sui rapporti tra appren­ dimento e cultura, sull'importanza educativa della narrazione. Il suo rapporto sulla crisi del si­ stema d'istruzione americano elaborato nel 1959 e pubblicato nel 1961 con il titolo The process of educatìon è considerato uno dei testi di maggior

rilevanza nel dibattito sull'apprendimento in età contemporanea. David P. Ausebel (1918-2008), psicologo dell'e­ tà evolutiva, è stato a lungo professore nella Ci­ ty University di New York. Il caposaldo della sua teoria è la nozione di apprendimento significativo (contrapposta a quello di apprendimento mecca­ nico): esso si compie quando gli individui proce­ dono nelle conoscenze, appoggiandosi a propo­ sizioni apprese in precedenza.

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La «struttura cognitiva»

Studiare pedagogia

Nella teoria di Ausebel risulta infatti fondamentale la nozione di «struttura cognitiva» intesa come l’insieme delle conoscenze che sono possedute dal soggetto in un determinato momento e influenzano il sen­ so dei contenuti appresi. Per imparare in modo significativo occorre po­ ter collegare la nuova informazione con proposizioni già possedute, at­ traverso un lavoro di selezione e identificazione dei concetti principali che si esplica attraverso i due processi complementari dell’analisi e della sintesi. Questo lavoro si compie al meglio quanto più profonda e artico­ lata è la relazione che lega le nuove conoscenze alla struttura cognitiva. Senza questa riorganizzazione mentale si verifica soltanto un ap­ prendimento meccanico che, trasferendo passivamente l’informazione in memoria - senza preoccuparsi di creare agganci o interazioni con la conoscenza precedente - dà vita a un sapere superficiale ed effimero, difficilmente recuperabile (di qui la sensazione di non ricordo) perché immagazzinato senza un criterio significativo (A usebel 1978).

1.2 Le pedagogie dell'insegnamento Modello naturalistico

Valorizzazione della razionalità cognitiva

Bisogno di integrazione

Dal punto di vista della prassi educativa, le tesi di Skinner/Bloom e di Bruner/Ausebel sono accomunate dalla dipendenza dalle discipline psicologiche secondo un impianto pedagogico che trova la sua giustifi­ cazione nelle leggi dello sviluppo fisico e intellettuale. Un tempo lo si sarebbe detto un modello «naturalistico» perché concepisce l’uomo co­ me un essere tra gli esseri, indagabile in tutte le sue manifestazioni fisi­ che e psichiche con criteri scientifici. Quanto più le ricerche ci restitui­ scono il funzionamento della mente, tanto più sono alte le probabilità di una buona educazione. In generale si può osservare che le psicologie dell’educazione di cui si è detto fin qui sono dominate da un approccio che valorizza soprattutto la razionalità cognitiva. Se si guarda questo impianto dal punto di vista della varietà delle esperienze umane - non tutte riconducibili alla dimensione intellettiva, ma animate anche da sentimenti, affetti, emozioni, dall’incon­ tro con l’altro e dall’apertura a «ciò che non è ancora» - si coglie una certa parzialità, solo in parte attenuata dalla consapevolezza che, come suggeri­ sce Bruner, oltre alla «mano destra» esiste altresì la «mano sinistra». Per cogliere il senso di quest’ultima espressione va ricordato che l’emisfero destro del cervello (dove è localizzata la sede delle esperien­ ze creative e artistiche) governa la mano sinistra, mentre l’emisfero si­ nistro (sede del linguaggio e della razionalità logica) governa la mano destra. Non bastano, insomma, i saperi razionali e la padronanza dei procedimenti cognitivi per far crescere una persona preparata a entra­ re attivamente nella vita: essi vanno integrati con le cosiddette «abilità della mano sinistra» in cui prevalgono gli aspetti narrativi, metaforici e artistici (B runer 1968). Le differenze tra le due posizioni sul piano delle applicazioni didat­ tiche non sono di poco conto. Attraverso Skinner, Bloom, Block, Gagné e molti teorici del curricolo (Nicholls, Frey) si svolge un intervento di­ dattico principalmente interessato a perfezionare le procedure dell’inse­

Le teorie dell'istruzione e deila formazione

gnamento, mentre lungo l’asse Bruner, Ausebel, Gardner (rafforzato in Europa dalle psicologie dell’educazione di estrazione postattivistica di cui diremo più avanti) si punta a forme di apprendimento centrate so­ prattutto sui processi mentali preposti alla costruzione delle conoscen­ ze. Nel primo caso ci troviamo di fronte a un modello pedagogico che privilegia la trasmissione del sapere, nel secondo a un modello che valo­ rizza il processo di elaborazione concettuale. Le pedagogie dell’insegnamento puntano alla razionalizzazione e ottimizzazione dell’organizzazione scolastica e dell’azione didattica: dalla definizione degli obiettivi di sistema e specifici si passa alla pro­ grammazione delle unità di apprendimento e all’adozione delle necessa­ rie tecniche di valutazione. Connettendo scientificamente input e ou­ tput si possono scoprire le regolarità dei comportamenti umani, indivi­ duando a quali sollecitazioni/rinforzi corrispondano certi esiti/risultati. Il pensiero dell’uomo viene concepito fondamentalmente come il conca­ tenarsi di passaggi logico-lineari secondo una prospettiva tipica delle te­ orie razionaliste ed empiriste. I parametri di riferimento dell’azione didattica sono identificati, per esempio, nel livello di esplicitazione dei compiti e degli obiettivi, nel grado di organizzazione interna di contenuti, materiali e prassi operati­ ve, nella frequenza delle procedure di verifica e recupero. L’azione dell’insegnante, in particolare, segue uno schema prestabilito articolato in diverse fasi. Quelle iniziali sono l’analisi della situazione di partenza, la definizione precisa degli obiettivi e la descrizione delle prestazioni che si attendono dall’allievo. Si passa quindi all’articolazione delle rela­ tive «unità didattiche» (ciascuna suscettibile di una verifica separata) che si susseguono in ordine logico l’una dopo l’altra, alla predisposizio­ ne dei materiali sulla base della loro idoneità a suscitare interesse e a trasmettere informazioni e, infine, alla definizione di meccanismi di au­ tocontrollo per garantire il successo delle procedure. La scomposizione/ ricomposizione delle varie fasi dell’insegnamento è garanzia di misura­ bilità e di osservabilità. A partire da questa base sono scaturite varie soluzioni pratiche an­ che combinate fra loro sul piano curricolare: programmazione per obiet­ tivi, percorsi per contenuti, varie tipologie di didattiche modulari. Tutte si ispirano alla convinzione che all’innalzamento qualitativo dell’inse­ gnamento in termini di razionalizzazione/ottimizzazione e all’arricchi­ mento quantitativo dell’offerta didattica corrispondano il miglioramen­ to della prestazione scolastica, la riduzione del numero degli insuccessi e il contenimento degli sprechi organizzativi.

Razionalizzazione e ottimizzazione dell'organizzazione scolastica e dell'azione didattica

1.3 Le pedagogie dell'apprendimento Nella categoria delle pedagogie dell’apprendimento rientrano tutti i modelli centrati sui processi di apprendimento del soggetto in formazio­ ne. L’attenzione si trasferisce dalle procedure ai processi, dai risultati in­ tesi in termini di contenuti alla promozione della capacità soggettiva di apprendimento. La finalità di queste pedagogie è in sostanza quella di

Dalle procedure ai processi soggettivi

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La didattica della ricerca

Le teorie dell'istruzione e della formazione

Studiare pedagogia

portare l’allievo alla capacità di apprendere in modo personale. I veri ri­ sultati attesi sono i «processi» che accompagnano il percorso didattico, riconosciuto come itinerario di cambiamento. Muta di conseguenza anche il ruolo dell’insegnante: non più un orga­ nizzatore-pianificatore di conoscenze predefinite, ma una guida esperta che pone gli alunni in situazioni aperte per stimolarne l’attività esplora­ tiva e creatrice. Cambiano anche gli strumenti valutativi, non più di na­ tura quantitativa, ma a struttura descrittivo-comprensiva. Non si tratta, infatti, di misurare i contenuti appresi, quanto di delineare le caratteri­ stiche del cambiamento personale. Rientrano in questa categoria varie tipologie d’intervento come la di­ dattica della ricerca, le pratiche del problem solving, lo strutturalismo didattico, e le proposte avanzate dagli esponenti della cosiddetta «peda­ gogia differenziata» e dai sostenitori della personalizzazione (vedi più avanti Par. 1.6,1.7 e 1.8). La didattica della ricerca spesso ordinata nella forma del problem solving si propone di far sperimentare all’allievo i passaggi essenziali dell’in­ dagine scientifica: la scuola è vista come una comunità di «principianti» e di «esperti» impegnati a interrogare e comprendere la realtà, elaboran­ do ricerche attraverso cui maturano atteggiamenti e abiti mentali di tipo esplorativo-critico e ottenendo la progressiva padronanza dei «quadri concettuali» funzionali all’apprendimento. Apporti significativi in tal senso sono venuti, nei decenni appena passati, anche dalle esperienze di­ dattiche di natura differente, come quelle del pedagogista francese Célestin Freinet, nonché da quegli studiosi che hanno elaborato piani didatti­ ci incentrati sulla capacità d’iniziativa del soggetto che apprende. Secondo Bruner la didattica centrata sull’alunno che scopre va siste­ matizzata entro un contesto che consenta di razionalizzare, tesaurizzare e trasferire il risultato raggiunto (strutturalismo didattico). I saperi cre­ scono e l’individuo presenta limiti cognitivi. Da qui l’esigenza dii indivi­ duare idee generali della disciplina da impiegare come architravi per la lettura dei fenomeni ad essa riconducibili.

IPROTAGONISTI Célestin Freinet Célestin Freinet (1896-1966) è stato un maestro francese noto per aver elaborato alcune «tecni­ che didattiche» basate sul coinvolgimento degli alunni in situazioni pratiche di vita. Per quanto la sua formazione e la sua cultura ideale e pedago­ gica sia del tutto estranea dal pragmatismo am e­ ricano nella quale si collocano Skinner e Bruner (Freinet fu un convinto marxista e comunista), anch'egli concorre a veicolare pratiche scolasti­ che centrate sull'allievo che apprende e sull'eser­ cizio della cooperazione tra gli allievi.

Le principali tecniche freinetiane sono l'uso della tipografia in classe, il testo libero costrui­ to dagli allievi in relazione alla loro esperienza, la biblioteca di lavoro, gli schedari di consulta­ zione e autocorrettivi e la corrispondenza interscolastica. La pedagogia di Freinet ha dato vita a un movi­ mento di rinnovamento scolastico che in Italia ha la sua principale manifestazione nel Movimento di Cooperazione Educativa.

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Una materia presentata in m odo da portare in luce la sua struttura logica ha una forza generativa che permetterà all’individuo di ricostruire i particolari o, per lo meno, gli consentirà di preparare uno schema funzionale dove i particolari potranno essere sistemati via via che si incontreranno [...]. Solo una mente ben formata ed il senso di poter dominare il sapere restano validi qualsiasi trasformazione operino il tempo e le circostanze (B runer 1964, pp. 23-24).

Da un lato i saperi vanno ricostruiti nei loro elementi generativi e di­ segnati secondo il loro ordine costitutivo, ovvero secondo parametri congrui alle operazioni di apprendimento («strutture disciplinari»); dall’altro il soggetto va orientato a esercitare attivamente i processi mentali più potenti ed «economici», ovvero corrispondenti alle proprie­ tà formali dei saperi curricolari («strutture cognitive»). L’insegnamento si configura come un’attività che offre occasioni di tirocinio delle strut­ ture cognitive attraverso la mediazione delle strutture disciplinari, rap­ presentandole secondo i codici (prassici, iconici, simbolici) congrui con le fasi evolutive del soggetto («strutture didattiche»). Centrare i curricoli sulla categoria della struttura garantisce, secon­ do Bruner, il raggiungimento di risultati positivi, come la possibilità di anticipare l’apprendimento dei concetti fondamentali perché per ogni età è possibile trovare un’adeguata modalità didattica. Consente poi di mettere a disposizione strumenti per continuare a imparare (è il caso delle discipline concepite come particolari metodologie di pensiero ap­ plicabili a determinate categorie di fenomeni) e, in generale, permette la facilitazione del transfert nell’apprendimento (l’apprendimento è ef­ ficace soltanto quando si estende al di là dei contenuti specifici su cui esso si è esercitato). Secondo lo strutturalismo didattico non conta insegnare e apprende­ re molte cose, destinate fatalmente a essere dimenticate o a diventare obsolete. Conta piuttosto capire come i prodotti della cultura sono stati raggiunti, con quali formalizzazioni, scelte metodologiche e sfumature semantiche e sintattiche ci si debba confrontare. L’ultimo Bruner insi­ ste, poi, sulla dimensione narrativa del sapere e della conoscenza, in quanto conoscere comporta attribuire significati socialmente rilevanti. Egli propone così un’immagine della mente umana soprattutto come ca­ pacità di riflessione e di discorso e non soltanto come funzione per la costruzione di associazioni mentali e problemi da risolvere. Non c’è contraddizione tra il primo e l’ultimo Bruner, in quanto le due sottolineature riflettono soltanto un diverso approccio: pensare, ap­ prendere, costruire significati sono tutte esperienze cognitive che non si possono sganciare dai contesti culturali. Ogni processo di apprendimen­ to si svolge, infatti, in una dimensione che fa riferimento a trame di si­ gnificati necessari per la sua comprensione. Comprendere significa, quindi, cogliere il posto occupato da un’idea o da un fatto nell’ambito di una più generale struttura di conoscenza, ovvero saper attribuire un si­ gnificato rispetto ai sistemi culturali di riferimento.

«Strutture disciplinari», «strutture cognitive» e «strutture didattiche»

Dimensione narrativa del sapere della conoscenza

Le teorie dell'istruzione e della formazione

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1.4 L'approccio costruttivista

Varie declinazioni del costruttivismo

La cognizione del soggetto

«costruttivisti sociali»

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Studiare pedagogia

Le pedagogie dell’apprendimento hanno ricevuto nuova linfa dalla riproposizione e riformulazione delle teorie psicologiche costruttiviste in linea con le analisi e le riflessioni definite a suo tempo da Piaget e da Vygotskij. Nel settembre del 2000 si è svolto a Ginevra un importante simposio internazionale durante il quale postpiagetiani europei e statu­ nitensi (fra gli altri Jean-Pierre Astolfi, Guy Cellérier, Ernest von Glasersfeld) hanno, in particolare, approfondito i processi educativi e i rap­ porti fra le varie declinazioni del costruttivismo. Non è un caso che il ti­ tolo del convegno parlasse di «costruttivismi» al plurale, raccogliendo le diverse espressioni del movimento postpiagetiano (B ottani 2001). Il costruttivismo è, in via generale, una teoria del soggetto che si «autocostruisce», integrando contemporaneamente i prodotti culturali e i processi mentali. Pur senza negare che se uno batte contro un muro pos­ sa farsi male, il costruttivista è del tutto a-realista, poiché non ammette che esista qualcosa nella mente definibile come una rappresentazione del mondo «là fuori». La cognizione è un adattamento interno dello stato psicofisico del soggetto e cioè la riorganizzazione delle proprie esperienze che non pre­ tendono in alcun modo di rappresentare lo stato del mondo. Pensare si­ gnifica eseguire, sul piano simbolico, un’azione sugli oggetti e, per esse­ re più precisi, una trasformazione degli oggetti. Il pensiero non è una fa­ coltà disincarnata il cui oggetto sarebbe la conoscenza di una verità, per se stessa obiettiva e assoluta, ma uno strumento che permette all’indivi­ duo di adattarsi a nuove circostanze. Il centro di controllo risiede, in al­ tre parole, all’interno delle persone e gli atteggiamenti/comportamenti vengono costruiti di volta in volta in modo originale. Non esiste, insomma, una realtà fuori di noi e un’altra dentro di noi. Conoscere non significa, quindi, osservare la realtà rispecchiandola, scoprirvi relazioni e nessi, bensì piuttosto costruire ipotesi interpretati­ ve valide ed efficaci per sapersi orientare nelle diverse situazioni. Il soggetto, da semplice «scopritore», diventa «inventore» della realtà. Ogni conoscenza si configura valida fino a quando risponde agli obiet­ tivi di adattamento richiesti al soggetto dall’esperienza. Solo quando le strutture di conoscenza si manifestano inadeguate, si attiva un nuovo processo costruttivo. Questa impostazione centrata sui processi individuali è stata poi arricchita dai «costruttivisti sociali» che hanno sottolineato come la conoscenza si svolga sempre entro un contesto che essa influenza e da cui è influenzata. Del resto fin dagli anni Trenta Vygotskij aveva indicato la stessa cosa in controtendenza con rimpianto individuali­ stico di Piaget (i postpiagetiani rimproverano al caposcuola di aver sottovalutato le conseguenze delle interazioni sociali sui processi di apprendimento). Il soggetto, agendo sull’ambiente circostante, elabora infatti sia siste­ mi di organizzazione del reale sia forme di arricchimento cognitivo, atti­ vando processi interattivi fra regolazioni sociali e sviluppo cognitivo se­ condo una causalità a spirale. È quanto segnala Willem Doise:

in ogni momento dello sviluppo, competenze specifiche permettono all’indi­ viduo di partecipare a interazioni sociali relativamente complesse che posso­ no dar luogo a nuove competenze individuali che potranno arricchirsi di nuovo con partecipazioni ad altre interazioni sociali (Crahay 2000, p. 178).

I costruttivisti sociali sono perciò interessati non solo alle azioni co­ gnitive individuali, quanto alle relazioni cognitive che intercorrono fra il soggetto e il contesto socioculturale in cui egli è implicato. La realtà e i prodotti di conoscenza sono interpretati come risultanti da processi di scambio, dialogo e negoziazione sociale. Sulla base di questi presupposti generali scaturiscono alcune linee guida circa la gestione pedagogica e delle attività didattiche:

le relazioni cognitive

a. principio della negoziazione: la costruzione della conoscenza è basa­ ta sia su modalità di «negoziazione interna» (ovvero sull’articolazio­ ne di modelli mentali che vengono impiegati per spiegare, predire, ri­ flettere sulla loro utilità) sia su forme di «negoziazione sociale», per­ ché la conoscenza non è mai fine a se stessa, ma poggia su un preciso contenuto da strutturare; b. principio della riproduzione: il processo di apprendimento non è effica­ ce se non sfocia in forme di conoscenza, sempre più varie e complesse; c. principio del contesto (o ambiente di apprendimento): 1 apprendi­ mento è favorito dalFimmersione degli alunni entro contesti di vita reale ancorati a compiti autentici; d. principio della padronanza degli strumenti cognitivi: la conoscenza risulta più efficace quando l’alunno è consapevole della strumenta­ zione concettuale a sua disposizione; e. principio della collaborazione tra chi apprende e l insegnante, a quest’ultimo spetta non solo sovrintendere sull’acquisizione degli ap­ prendimenti, ma predisporre gli ambienti più consoni allo scopo. Von Glasersfeld ha esemplificato in cinque punti (->T3) i comporta­ Mobilitare le energie menti virtuosi degli insegnanti che intendono opporre il «sapere concet- intellettuali degli allievi tualizzato», esito di una costruzione personale, alla routine del «sapere abitudinario». In sintesi: l’insegnamento non deve essere trasmissivo (l’insegnante non deve presentare verità precostituite) e va impostato con modalità didattiche che mobilitino le energie intellettuali degli al­ lievi (gli insegnanti non devono solo sapere la loro materia, ma anche sa­ perla presentare in forme efficaci). Perché gli allievi siano «attivi» occorre aiutarli a ricostruire i percor­ si mentali che li hanno portati a determinate conclusioni: è più impor­ tante saper ragionare che apprendere nozioni astratte. Occorre che gli insegnanti impieghino un linguaggio comprensibile e non specialistico. Infine è necessario far parlare gli allievi perché attraverso lo sforzo del­ la verbalizzazione, i concetti tendono a definirsi e a chiarirsi (Von Gla­ sersfeld in B ottani 2001, pp. 48-49). Nella prospettiva costruttivista il ruolo del soggetto che apprende co­ stituisce un imprescindibile punto di partenza. Egli viene concepito come l’attore principale capace di costruire e interpretare il mondo per adattar­

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Il ruolo del soggetto

Studiare pedagogia

si a esso non in forma statica, ma attiva. Il contributo autopoietico dei sog­ getti in apprendimento risulta affermato in una doppia prospettiva: dal basso per la profondità che le strutture cognitive rivelano in continui­ tà con le regolazioni organiche (superando in tal modo l’obiezione empi­ rista che si limitava a vedere solo le influenze esterne); dall’alto, per gli scambi fecondi che le strutture cognitive attivano con gli oggetti della produzione culturale (superando in questo modo l’obiezione idealista e gestaltista, che coglieva solo il carattere endogeno, e preformato, delle strutture cognitive) (D amiano 1998, p. 46).

1.5 Applicazioni didattiche Le pratiche didattiche

Problemsolving, problem finding e scaffolding

AH’impianto culturale e psicopedagogico costruttivista fanno riferi­ mento numerose pratiche didattiche (a titolo d’esempio: la Community of Learners di Ann Brown e Joseph Campione; l’apprendistato cognitivo di A. Collins, J.S. Brown e P. Duguid; gli ambienti per l’apprendimento ge­ nerativo del Cognition & Technology Group at Vanderbilt; gli ambienti di apprendimento intenzionale sostenuto dal computer di M. Scardamalia e C. Bereiter, il Problem Based Learning elaborato da H.S. Barrows ini­ zialmente nell’ambito della formazione del persona sanitario, vedi Calvani 2000; Varisco 2002) che hanno in comune alcuni elementi. Nella modalità costruttivista l’apprendimento si svolge aH’interno di progetti bene articolati piuttosto che in forma di problemi isolati; gli studenti vanno orientati non solo al problem solving, ma anche al p ro ­ blem finding e cioè alla scoperta di problemi emergenti a mano a ma­ no che la situazione si dipana, il risultato dell’apprendimento va com­ misurato in rapporto all’acquisizione di competenze esperte intese co­ me capacità di trasferire le conoscenze in azioni pratiche. Meglio se si lavora in contesti collaborativi nei quali è possibile sperimentare il confronto con gli altri e si offrono agli studenti occasioni di scaffol­ ding alla pari (termine impiegato per la prima volta da Bruner nel 1976 per indicare la metafora dell’intervento della persona più esperta che aiuta chi sta risolvendo un problema). Queste esperienze didattiche richiedono alcuni cambiamenti nella vita scolastica sia in rapporto agli aspetti organizzativi sia in relazione all’attività dei docenti. Per quanto riguarda i primi, gli studi sollecitano il superamento dell’aula scolastica tradizionale e la creazione di ambien­ ti di apprendimento e l’articolazione della classe per piccoli gruppi. In un ambiente di apprendimento costruttivista gli alunni sono in condizione di agire in uno spazio reale o virtuale usando stru­ menti, raccogliendo e interpretando informazioni, interagendo con altri attori (pari e/o insegnante/i)... Allo studente viene offerto un ampio ac­ cesso a risorse d’informazione di vario tipo (libri, materiale stampato, foto, videocassette, ecc.) e a strumenti di lavoro (tecnologie e program­ mi informatici, accesso a banche date, strumentazione scientifica per la ricerca, ecc.) (Varisco 2002, p. 158).

Le teorie dell'istruzione e della formazione

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Muta inevitabilmente anche il profilo professionale del docente che sempre più si avvicina, per alcuni aspetti, a quello di un abile regista che predispone per i suoi allievi una serie ben congegnata di attività che ne mobilitano le risorse e, per altri, a quello di un tutor che affianca e offre consulenza anziché svolgere il tradizionale compito dell’insegnante ero­ gatore di nozioni (vedi i cinque comportamenti virtuosi individuati da von Glasersfeld, pp. 79-80). 1.6 II modello della «pedagogia differenziata» Altri contributi didattici con scopi analoghi, ma con un punto di par­ tenza differente, riguardano le indicazioni emergenti nell’ambito della cosiddetta «pedagogia differenziata» (pédagogie différenciée), animato negli ambienti pedagogici francofoni da studiosi come Jean Vial, Louis Legrand, Michel Develay, Philippe Meirieu, Marguerite Altet e dai pro­ motori della «pedagogia del contratto» (M eirieu 1988; Sarrazy 1995). Anziché muovere dalla ricerca «del» metodo più funzionale, si sono esplorate le diverse caratteristiche della mente umana. Essi riprendono e reinterpretano un caposaldo della pedagogia nove­ centesca, cioè il principio dell’individualizzazione dell’insegnamento, proponendosi tuttavia non solo di perfezionarlo, ma anche di oltrepassar­ lo mediante la sottoscrizione di precisi impegni etici. Il fulcro della peda­ gogia differenziata e «del contratto» consiste infatti, da un lato, nell’ordinare il lavoro scolastico a misura degli allievi secondo pratiche e tecniche individualizzanti ormai consolidate e nella moltiplicazione dei metodi e delle prassi didattiche in funzione delle differenze esistenti fra gli allievi stessi: lezioni frontali, lavori di gruppo, tutorato, impiego di risorse audio­ visive e informatiche. Dall’altro è previsto che gli allievi sottoscrivano un vero e proprio contratto che si impegnano ad onorare. Lo scopo di mettere ciascuno nelle condizioni di attivare le proprie capacità cognitive e «costruire il suo apprendimento» è associato alla responsabilizzazione personale. La classe assume, così, la fisionomia di un laboratorio in cui ciascun allievo persegue il proprio piano di crescita cognitiva e ne rende periodicamente conto (—>T4). La creazione di contesti di apprendimento individuali o a piccoli grup­ pi, differenziati sul piano dei contenuti e a forte dinamica motivante, ha lo scopo di favorire il rispetto e valorizzazione delle diversità cognitive degli allievi, senza rinunciare a raggiungere (per quanto possibile) alcuni obiet­ tivi comuni. Questo principio si traduce sul piano pratico a) nell’organiz­ zazione flessibile della classe con molteplici percorsi di apprendimento, b) nella riflessione sulle strategie di apprendimento (metacognizione) e c) nel potenziamento delle capacità personali. Precisamente: a. La differenziazione riguarda l’impiego di varie prassi di lavoro didat­ tico predisposte in rapporto alle diverse situazioni di apprendimento (lezioni frontali, lavoro per gruppi, attività di laboratorio, attività di autoistruzione) e di comunicazione (scrittura, parola, immagine, computer). Il docente distribuisce e alterna le azioni pratiche in ra-

Pedagogia «differenziata» e «del contratto»

Il principio dell'individualizzazione dell'insegnamento

La responsabilizzazione personale

Le diversità cognitive

La differenziazione

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La metacognizione

Il potenziamento delle capacità cognitive

gione dei differenti livelli cognitivi degli alunni. Sono inoltre previsti momenti di «differenziazione simultanea» che consiste nell’assegna­ zione di compiti distinti agli allievi, in modo commisurato ai loro li­ velli di apprendimento. b. La costruzione personale del sapere richiede anche l’elaborazione progressiva e continua di metaconoscenze, cioè di strategie personali di apprendimento. Non è possibile stabilire metodi prefissati d’inse­ gnamento per portare un individuo ad apprendere. In ogni campo e in ogni contesto sussistono dei metodi personali da favorire e valo­ rizzare. La strategia più efficace perché questo processo avvenga è che il soggetto lo scopra riflettendo sulla condizione in cui si trova, interrogandosi sulla pertinenza delle procedure, valutando la loro ef­ ficacia cognitiva e il loro significato effettivo, in riferimento al com­ plesso delle proprie aspettative. Integrata nella vita quotidiana delle classi, in costante rapporto con le altre attività, la metacognizione porta l’allievo stesso a ‘monitorare’ gli apprendimenti, a controllarli, utilizzarli e svilupparli quando sarà necessario (A ltet 2000). c. Il terzo caposaldo della pedagogia differenziata riguarda il potenzia­ mento delle capacità cognitive. Questo è possibile se si creano alcune condizioni positive come «star bene a scuola» - sia sul piano fisico sia su quello psicologico e affettivo - e quando si stabilisce una stret­ ta intesa fra docente e allievo. Lo scopo è quello di organizzare e de­ finire un «progetto comune» nel quale gli obiettivi non sono apriori­ sticamente predeterminati, ma costruiti in ragione delle difficoltà in­ contrate, della complessità dei traguardi intermedi e finali e del com­ plessivo procedere dell’esperienza scolastica.

1.7 Le intelligenze multiple di Howard Gardner Necessità di un lavoro scolastico

Le teorie dell'istruzione e della formazione

Studiare pedagogia

Anche rimpianto didattico che scaturisce dal modello delle intelli­ genze multiple di Howard Gardner rinvia alla necessità di uno stile di lavoro scolastico differenziato e articolato in modo diverso dall’insegna­ mento per compartimenti rigidi e standardizzati. Nell’introdurre il volume Formae mentis (nel quale viene presentata per la prima volta in modo organico la teoria delle intelligenze multiple) lo psicopedagogista statunitense così presenta il punto di partenza della sua riflessione: metto in discussione l’assunto che l’intelligenza, comunque venga defini­ ta, possa essere misurata da strumenti standardizzati come test con car­ ta e matita su risposte brevi e batterie di domande (Gardner 1983).

Secondo lo studioso statunitense - tesi che egli afferma con il soste­ gno di numerose ricerche condotte su una molteplicità di casi (bambini dotati di diverse capacità intellettive, persone colpite da ictus con ridot­ te funzioni cognitive, ecc.) e in varie parti del mondo - ogni individuo fa uso in modo prevalente di un’intelligenza o di una combinazione di in­ telligenze attraverso cui seleziona, organizza e memorizza gli apprendi-

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IPROTAGONISTI Howard Gardner Howard Gardner (1943), docente presso l'Univer­ sità di Harvard, psicologo attento alle tematiche educative, è noto soprattutto per gli studi con­ dotti sull'intelligenza umana. Oltre a questo am­ bito di studio si è occupato dello sviluppo del­ le capacità artistiche nei bambini e della messa a punto di apposite metodologie per migliorare la loro capacità creativa. In tale direzione ha lavo­ rato a lungo neW'Harvard Project Zero, un gruppo di ricerca avviato da Nelson Goodman nel 1967

sull'educazione artistica e poi esteso su una vasta gamma di tematiche formative. In seguito ha di­ retto la ricerca Good Project avviata nel 1996, vol­ ta a individuare le strategie più efficaci per soste­ nere i giovani a rispettare i beni sociali e ad agire secondo regole etiche. Tra i suoi libri più noti, ol­ tre a Forma mentis (1983), Aprire le menti. La crea­ tività e i dilemmi dell'educazione (1991), Educare al comprendere (1993), L'educazione delle intelligenze multiple (1995) e Cinque chiavi per il futuro (2007).

menti. Ciascun soggetto, in altre parole, è connotato dall’intreccio di di­ verse intelligenze presenti in grado differente e in rapporto l’una con l’altra (Gardner 1987 e 1991). La massima efficacia educativa è connessa alla capacità di agire, te- La varietà intelligente nendo conto delle svariate configurazioni intellettuali dei soggetti. Gardner critica perciò l’impiego dei test per misurare l’intelligenza e gli apprendimenti (assai diffusi nella pratica scolastica americana) perché volti a rilevare principalmente - se non soltanto - due tipi di intelligen­ za, quella linguistica e quella logico-matematica. Esistono altre forme intellettive spesso trascurate come l’intelligenza spaziale, l’intelligenza sociale, l’intelligenza introspettiva, l’intelligenza corporea, l’intelligenza musicale, Tintelligenza naturalistica e l’intelligenza esistenziale (queste ultime due individuate in tempi successivi). Se si vuole assicurare a ciascun soggetto la massima espansione delle sue capacità e veramente raggiungere l’obiettivo dell’educazione per tut­ ti, occorre contrastare il tentativo di pianificare l’insegnamento e la va­ lutazione a mezzo dei test e insistere invece sulla necessità di un approc­ cio didattico organizzato in modo da rispondere «alFimmenso numero di variabili in gioco» secondo una logica che rispetti le diversità dell’in­ telligenza (—>T5). Questo tema è stato sviluppato in numerosi saggi suc­ cessivi a Formae mentis come, ad esempio, L’educazione delle intelligen­ ze multiple (1995) e Sapere per comprendere (1999). Gardner è molto sensibile al metodo di apprendimento proprio L'apprendistato dell’apprendistato basato su osservazione, imitazione e guida di un ma­ estro esperto nel quale interagiscono più forme di intelligenza e la com­ prensione è commisurata sulla capacità di risolvere problemi reali (quel­ la che Gardner definisce la «comprensione approfondita») e non è tara­ ta sulla memorizzazione di formule. Nel testo più recente apparso in Italia nel 2007, Cinque chiavi per il futuro, lo studioso americano ridisegna la topografia dell’intelligenza umana, ponendola in relazione alle sfide che si stagliano di fronte agli uomini del XXI secolo. Il punto di osservazione di Gardner muta par­ zialmente rispetto ai lavori che lo hanno reso noto. Il tema del «com-

Le teorie dell'istruzione e della formazione

Studiare pedagogia

Le qualità cognitive

prendere» viene esaminato non più in sé (come l’esito delPintreccio del­ le intelligenze) quanto in rapporto alle abilità cognitive necessarie per far fronte all’invasione dell’informazione, all’evoluzione degli stili di vi­ ta e alla difficoltà a regolarsi sul piano etico. Per attrezzare l’uomo a queste nuove sfide Gardner individua tre principali esigenze: saper gestire un ambito della conoscenza e del la­ voro (mente disciplinata); razionalizzare le informazioni (mente sinte­ tica) e esercitarsi nel pensare fuori dagli schemi per produrre nuove idee e nuovi modi di operare (mente creativa). A queste tre qualità co­ gnitive si affiancano la mente rispettosa (la consapevolezza delle diffe­ renze tra gli uomini e le culture) e la mente etica (l’accettazione delle proprie responsabilità).

1.8 Le teorie della personalizzazione

La nozione di personalizzazione

David Hopkins

In forma adiacente alle indicazioni della «pedagogia differenziata» e alle suggestioni che scaturiscono dalle analisi di Gardner si sono molti­ plicate, specialmente in Gran Bretagna, Canada e Australia, pratiche didattiche all’insegna della personalizzazione. La nozione di personalizzazione è alquanto complessa e piuttosto ambiziosa: in essa s’intrecciano difatti sia istanze sociali e progetti politi­ ci volti a rafforzare la partecipazione civica dei cittadini enunciate dai so­ stenitori del cosiddetto «welfare positivo» (sociologi e politologi come, ad esempio, Anthony Giddins e Ulrich Beck) e sia le strategie educative di pedagogisti ed esperti di politiche formative come David Hopkins, Tom Bentley, Charles Leadbeater, Michael Fullan. Una nozione, dunque, esplorata da diversi punti di vista e questo spiega perché nell’intitolare il paragrafo abbiamo impiegato la parola «teoria» al plurale. Alla tradizionale mentalità assistenzialistica che spesso anima i servizi alla persona i promotori del nuovo welfare oppongono l’obiet­ tivo di «aiutare le persone ad aiutare se stesse». Questo può avvenire se anziché concentrarsi soltanto sulla riduzione del disagio si lavora per promuovere e sostenere l’autonomia individuale nel senso di sa­ per scegliere nella molteplicità di offerte e proposte. Occorre perciò puntare a sostenere stili di vita e valori positivi e stimolare l’accresci­ mento del capitale umano (istruzione, formazione) e del capitale so­ ciale (servizi in rete, associazioni di cittadini) per correggere i com­ portamenti sleali e riscoprire le ragioni dell’etica personale e della re­ sponsabilità sociale. La personalizzazione dell’insegnamento/apprendimento s’inserisce in tale contesto generale e punta a formare persone capaci di essere au­ tosufficienti, attive e creative nella valorizzazione delle caratteristiche personali. Tenuto conto di queste implicanze, David Hopkins ha propo­ sto una interpretazione della personalizzazione a vasto raggio: non solo un’efficace strategia di apprendimento, ma «il fulcro stesso dell’azione educativa» in quanto essa «agisce sia sul piano dell’efficacia cognitiva sia su quello dell’attenzione rivolta alla crescita morale» (O c s e - C e r i 2008, p. 30). L’obiettivo ultimo delle pratiche personalizzanti è infatti

quello di mobilitare le risorse dell’individuo anche sul piano della parte­ cipazione civica e della responsabilità personale. I principali punti di riferimento pedagogici della personalizzazione sono i seguenti:

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I punti principali

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piena sintonia con il paradigma cognitivo-costruttivista: esiste uno stretto rapporto tra l’efficacia del sapere, la padronanza delle compe­ tenze e le modalità con cui esse sono direttamente elaborate (ovvero «costruite») dai soggetti che apprendono; tanto più siamo capaci di apprendere tanto più possiamo apprendere con maggiore efficacia; - valorizzazione, di conseguenza, più dei processi di comprensione che dello svolgimento di compiti prefissati: si tratta di predisporre am­ bienti di apprendimento e attuare forme didattiche in grado di favo­ rire l’acquisizione di saperi e competenze non standardizzate, ma ri­ spondenti alle caratteristiche, alle aspettative e al potenziale creativo di ogni persona; - formazione di buone abitudini utili all’individuo per apprendere lun­ go tutta la vita e per partecipare, discutere e condividere con gli altri le sorti della società. L’idea educativa di base è di coinvolgere gli alunni nella scelta di ciò che apprendono, nel modo di apprenderlo e nella individuazione degli obiettivi. Grande rilievo viene perciò assegnata alla centralità/capacità dello studente di scoprire e sviluppare il proprio stile di apprendimento: più le persone hanno infatti coscienza di ciò che si richiede loro, più si pongono le condizioni perché il loro apprendimento sia efficace. L’apprendimento personalizzato si basa insomma sul principio che Charles Leadbeater così enuncia:

L'apprendimento personalizzato

coloro che imparano migliorano le loro prestazioni se sono continuamente aiutati e impegnati a definire i propri obiettivi, nell’elaborazione di propri piani e scopi d’apprendimento, scegliendo le strategie cognitive più efficaci. I nuovi approcci maturati nel campo della valutazione, per esempio la «valutazione per l’apprendimento», si dimostrano a tal scopo particolarmente efficaci perché sono finalizzati soprattutto a stabilire l’efficacia dell’apprendimento, ossia ciò che è andato bene o male (O cse-C eri 2008, pp. 145-166).

La personalizzazione non è solo una strategia educativa interna alla scuola. Essa ambisce a modificare anche il «fuori della scuola», sugge­ rendo sinergie sempre più virtuose tra i diversi luoghi della educazione, scolastici e non, contesti e forme tecnologiche. Già da tempo e in modo sempre più incalzante la scuola subisce la concorrenza di altri ambienti di apprendimento. Ciò che viene appreso fuori dalle aule è altrettanto importante (e in qualche caso anche più importante) rispetto a quanto s’impara a scuola (B entley 1998). Non si tratta perciò di ritarare soltan­ to le pratiche scolastiche in rapporto all’impiego più incisivo delle tecno­ logie e alle nuove conoscenze nel campo dell’intelligenza (in particolare

Oltre la scuola

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Forme policentriche dei sistemi d'istruzione

L'insegnamento disciplinare

Le teorie dell'istruzione e della formazione

Studiare pedagogia

di quella che Derrick De Kerckhove ha chiamato «intelligenza connet­ tiva»), ma di reinterpretare il ruolo e la funzione della scuola (Campione - Tagliagambe 2008, pp. 216-233). Il futuro dei sistemi d’istruzione andrebbe disegnato in forme me­ no scuolacentriche e più policentriche (accanto alla scuola anche for­ mazione professionale, aziende, volontariato, ecc.), imperniato sulla capacità delle comunità locali e non solo per iniziativa dello Stato (scuola, famiglie, centri culturali e del tempo libero, ecc.) di mettere in campo buone pratiche anche sociali. Lo scopo è quello di far interagi­ re, secondo i bisogni propri di quelle specifiche comunità, educazione formale e non formale, tradizione e innovazione, responsabilità paren­ tali e vincoli sociali. Così considerati i processi educativi risultano, d’un lato, l’esito dell’interazione di istituzioni e agenzie che agiscono nell’educativo/formativo e, dall’altro, sono espressione di un sistema sociale vitale, attivo, dinamico capace di rispondere con pertinenza e concretezza alle aspet­ tative educative. La sfida educativa del futuro non potrà essere vinta se le scuole e le famiglie saranno lasciate sole, ma solo se la comunità nelle sue diverse articolazioni saprà farsi carico delle molteplici necessità, non più uniformi come in passato, che segnano il mondo della conoscen­ za e dell’educazione. Secondo alcuni studiosi (ad esempio Steiner - K hamsi 2004) la per­ sonalizzazione potrebbe diventare nel futuro una alternativa sia per mi­ gliorare l’apprendimento sia per riorganizzare i sistemi educativi attuali ancora fortemente standardizzati. Ciò potrebbe essere possibile me­ diante l’adozione di forme di insegnamento domiciliari realizzati attra­ verso apposite attività on line nonché con la messa a punto di program­ mi aggiuntivi al di fuori degli orari tradizionali. Se vogliamo restare aderenti alla realtà, questo futuro è ancora ab­ bastanza lontano ed è facile prevedere che i sistemi scolastici come li conosciamo oggi siano destinati a rimanere per molto tempo al centro delle politiche educative magari integrati da un’ampia scelta di offerte formative. Ma in ogni caso le teorie della personalizzazione spalanca­ no nuovi scenari per il futuro su cui la discussione è ormai aperta (Ca­ stoldi - Chiosso 2017).

LADEFINIZIONE L'intelligenza connettiva Con l'espressione «intelligenza connettiva» si indica una forma di connessione e collabora­ zione tra soggetti individuali e collettivi sulla base di una condivisione costruita di scambi re­ ciproci. Essa produce apprendim ento o innova­ zione, m igliorando le com petenze e le presta­

zioni non solo del sistema nel suo complesso, ma anche dei singoli che ne fanno parte. Nel continuo processo di scam bio interattivo l'i­ dentità privata infatti non si annulla in quella di gruppo, ma viene piuttosto continuam ente co ­ struita e ricostruita.

1.9 Neuroscienze e apprendimento Gli apporti delle ricerche condotte nell’ambito delle scienze cogniti­ ve e il rapido sviluppo delle neuroscienze negli ultimi decenni hanno in­ trodotto nuovi elementi di conoscenza della formazione del pensiero, utili anche nell’ambito della riflessione pedagogica e nella pratica didat­ tica. Quella che Howard Gardner definì già nel 1985 la «rivoluzione del­ le scienze della mente» ha gradualmente abbandonato la matrice ciber­ netica e funzionalista degli esordi interessata principalmente a evitare gli errori e a potenziare le prestazioni umane. Sotto la pressione di una visione più complessa del rapporto tra conoscenza, mente/cervello ed esperienza l’attenzione si è spostata verso l’origine e la natura stessa del pensiero e del suo rapporto con l’organo (il cervello) senza il quale esso non sussisterebbe. Aspetti di carattere generale. In questa sede non è possibile ricostru­ ire un complesso dibattito nel quale interagiscono soprattutto neuro­ scienziati, psicologi, filosofi. In estrema sintesi, intorno a questa ardua questione si confrontano due principali tesi. -

La prima è quella sostenuta da quanti ritengono che attraverso l’e­ splorazione del cervello e del suo funzionamento sia possibile inda­ gare anche la realtà della mente. Saremmo già nella possibilità di modulare il comportamento umano secondo varie azioni, da quella farmacologica a quella del condizionamento ambientale. La mente (e cioè l’insieme delle attività cognitive dell’essere umano dotato di co­ scienza, pensiero e linguaggio), insomma, sarebbe riducibile - secon­ do una schema culturale risalente al positivismo ottocentesco e sem­ plicemente aggiornato - a un puro dato biologico: non ci sarebbe più spazio per la coscienza come un tratto essenziale della persona uma­ na, ma saremmo in presenza soltanto di un insieme di processi in cui vengono filtrate le immagini del mondo: «siamo macchine dell’io, si­ stemi naturali di elaborazione dell’informazione, sviluppatisi nel corso del processo di evoluzione biologica su questo Pianeta» (M etzinger 2010, p. 237). - La seconda ritiene invece che l’identificazione mente/cervello sia una indebita e non giustificata semplificazione. Le neuroscienze al momento attuale non sono in grado di fornire dati incontrovertibi­ li tali da spiegare, ad esempio, il funzionamento della coscienza e come essa sia collegabile all’attività biolettrica dei neuroni. Non pochi neuroscienziati diffidano dell’approccio scientista e suggeri­ scono un accostamento alla mente multidimensionale: come espressione originale dell’individuo, collegata all’ambiente, dipen­ dente dai rapporti sociali e impegnata nell’azione. Il pensiero in­ fatti non sarebbe soltanto il prodotto dell’attività cerebrale, ma una continua «scoperta» mediante costruzioni di senso strettamente dipendenti dalle interazioni con la realtà. Esperienza e co­ noscenza, in altre parole, sarebbero reciprocamente generative e cioè produttrici di nuovi ed imprevedibili prodotti mentali (Santerini 2011, Capp. I e II).

La «rivoluzione delle scienze della mente»

Aspetti di carattere generale

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Letture diverse sul piano educativo

Educational Neuroscience

Il diverso orientamento intorno al rapporto tra cervello e mente - oltre ad aprire impegnative questioni d’ordine filosofico, per esempio sulla na­ tura del libero arbitrio - comporta letture assai diverse sul piano educati­ vo: se si pensa, ad esempio, che la coscienza non ha diritto di cittadinanza perché tutti i comportamenti dell’uomo sarebbero riconducibili a mecca­ nismi biologici, verrebbero meno le condizioni per l’educabilità dell’uomo che, nel migliore dei casi, potrebbe essere ‘modulato’ o addestrato a deter­ minate funzioni e scopi. Se invece la coscienza - e con quanto ad essa è collegato, a cominciare dalla volontà - è un’esperienza propria della per­ sona, allora il discorso educativo conserva tutta la sua efficacia. Poiché in materie così complesse è opportuno evitare drastici giudizi, il dibattito sul rapporto tra cervello e mente, tra determinismo e libertà è un invito ad accostare il tema dell’educabilità con la prudenza necessaria ad evitare interpretazioni estremizzate. I dati neuroscientifici offrono una pluralità di informazioni quanto mai utili, vere e proprie fonti da po­ tenziare e sviluppare, ma con l’avvertenza che il loro «senso pedagogico» è affidato a chi agisce sul terreno educativo (Cambi 2011, pp. 19-25). Scienze cognitive, neuroscienze e processi educativi. Se è poco pro­ babile che le neuroscienze siano in grado di esprimere l’ultima parola su «cos’è» la persona (al massimo possono descrivere come funzionano i processi mentali), esse possono comunque contribuire a migliorare im­ portanti aspetti della vita dell’uomo (per esempio nel campo delle ma­ lattie cerebrali) e, in ambito pedagogico, a concorrere nella riconsidera­ zione di talune questioni educative. Questo territorio è esplorato soprat­ tutto dagli studi e dalle ricerche riconducibili a varie denominazioni, la più frequente è quella di Educational Neuroscience (Geake 2009 oppu­ re di Brian-base Education). A questo riguardo occorre distinguere a) le indicazioni generali che scaturiscono dagli studi sulla mente e forniscono alcuni criteri di cui tenere conto nell’agire educativo e b) questioni più specifiche lega­ te a singoli problemi. a) Per quanto riguarda le prime si possono segnalare:

Le indicazioni generali

Le teorie dell'istruzione e delia formazione

Studiare pedagogia

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la plasticità del cervello intesa come capacità continua di ristruttu­ razione del rapporto con l’ambiente: tale caratteristica, particolar­ mente significativa nell’età evolutiva, persiste per tutta la vita e si manifesta anche in occasione di traumi, patologie invalidanti, inci­ denti. Esistono cioè infinite possibilità di apprendimento e di me­ moria legate sia all’accumulo delle conoscenze, sia alla capitalizza­ zione delle esperienze; la mente incorporata (secondo la definizione di D amasio 1994) nel senso che mente e corpo costituiscono un tutt’uno. Razionalità ed emotività si influenzano reciprocamente e la dimensione cognitiva è intessuta di affettività in misura ben superiore a quella solitamente immaginata. Le emozioni, anche se in forma diversa da quella razio­ nale, costituiscono un modo di arricchire le nostre conoscenze; la mente estesa e cioè capace di stabilire la continuità con quanto, materiale ed immateriale, è nell’orizzonte quotidiano dell’esperienza

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di ciascuna persona: sarebbe perciò improprio pensare a un «dentro di sé» e a un «fuori di sé» e più convincente sarebbe invece parlare della relazione tra «noi e gli altri»; 1Inconscio cognitivo (L eD oux 2003) che conferma in forma sperimen­ tale alcune fondamentali intuizioni psicoanalitiche: in primo luogo re ­ sistenza di un intenso lavoro cerebrale che si svolge a nostra insaputa.

b) Apporti più specifici riguardano, ad esempio, le strategie di com­ pensazione per allievi con ridotta memoria, gli interventi mirati per bambini con disturbi di attenzione, le diagnosi precoce delle difficoltà di lettura, la valorizzazione del rapporto emozioni/apprendimento. A l­ tri ambiti di scambio tra apporti neuroscientifici e la didattica riguarda­ no le condizioni ambientali in cui si svolge l’apprendimento, l’esercizio fisico, l’impatto delle tecnologie, la gestione degli alunni più dotati, la ri­ levanza attribuita agli apprendimenti per imitazione. Una più approfon­ dita conoscenza dello sviluppo del cervello in età evolutiva favorisce la comprensione del comportamento di bambini e adolescenti e consente di mettere a fuoco iniziative più efficaci sul piano della personalizzazio­ ne didattica e della socializzazione ( R i v o l t e l l a 2012, pp. 39-47).

1.10 II Cooperative Learning Non tutte le teorie contemporanee dell’apprendimento sono a base psicologica o addirittura a base neuroscientifica. L’apprendimento cooperativo (Cooperative Learning) è un ottimo esempio in tal senso: esso si ba­ sa sulla naturale disposizione dell’essere umano alla socializzazione sulla quale far leva non solo per favorire l’inserimento nella vita sociale, ma an­ che per agevolare l’apprendimento e migliorare le competenze cognitive. Un secondo presupposto del Cooperative Learning è che l’apprendimento si possa compiere non solo in forma diretta e asimmetrica (maestro-alun­ no) anche in forme orizzontali e simmetriche (alunno-alunno). Questo è possibile se il clima scolastico non è competitivo e se si favoriscono gli scambi di informazioni, materiali e strategie di apprendimento.

L'apprendimento cooperativo

LA DEFINIZIONE

I neuroni specchio Una delle scoperte più note e più recenti nell'am­ bito delle ricerche neuroscientifiche riguarda i neuroni specchio (—*T6), neuroni che si attivano non quando si compiono certe azioni, ma quan­ do esse sono viste. Per questa loro natura mimeti­ ca sono stati, per l'appunto, definiti «specchio». Es­ si forniscono solide indicazioni neurologiche per il trattamento di alcune importanti patologie (per esempio l'autismo) e per attività di formazione co­

me l'acquisizione del linguaggio e il potenziamen­ to delle abilità sociali ed empatiche. In particolare i neuroni specchio suggeriscono di riconsiderare il valore di forme di apprendimento giudicate fino a non molti anni or sono «tradizionali» come l'imita­ zione. Osservare qualcuno che svolge bene il pro­ prio compito significa far proprie in modo naturale delle competenze che possiamo poi sviluppare in modo personale.

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Confluenza di esperienze diverse

Il gruppo cooperativo

Studiare pedagogia

Le teorie dell'istruzione e della formazione

II Cooperative Learning è una corrente pedagogica nella quale confluiscono esperienze maturate in contesti ambientali e culturali di­ versi, come il Learning Together di David W. e Robert T. Johnson; lo Student Team Learning di Robert E. Slavin, presso l’Università J. Hopkins di Baltimora; il Group Investigation di Yael e Shlomo Sharan sperimentato soprattutto in Israele; il Collaborative Approach di Helen Cowie (Sheffield, Gran Bretagna); lo Structural Approach di Spencer e Miguel Kagan; la Complex Instruction di Elisabeth Cohen. In Italia le prime esperienze di apprendimento cooperativo sono state avviate verso la metà degli anni Novanta del secolo scorso per iniziativa del pedagogi­ sta salesiano Mario Comoglio e del sociologo trentino Giorgio Chiari. Le pratiche didattiche cooperative e di gruppo non rappresentano una novità assoluta nello scenario pedagogico degli ultimi decenni, co­ me dimostrano le esperienze compiute fin dagli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso da Roger Cousinet e da Célestin Freinet. II gruppo cooperativo è tenuto insieme innanzi tutto dalla condivisione di un obiettivo comune, ma questa caratteristica non è sufficiente per garantire che esso sia davvero «cooperativo» e non soltanto un generico lavoro di gruppo. Perché sia davvero tale esso deve soddisfare alcune altre caratteristiche tenute insieme dal principio dell’interdipendenza positiva (—>T7):

ra e la conoscenza reciproca, il riconoscimento delle competenze e le ric­ chezze dell’altro. Si rinforza attraverso esperienze, a volte insignificanti, a volte impercettibili, a volte occasionali, a volte impreviste, ma tutte orien­ tate nella stessa direzione. In altre parole, il clima potrebbe essere definito come lo «stile» relazionale che consente di mettere a proprio agio gli altri, soprattutto i compagni di lavoro, e di «sentirsi e stare bene» con loro. La costruzione del clima richiede tempi lunghi ed è una condizione molto fragile e precaria poiché può essere facilmente distrutta anche da reazioni minime di difesa, chiusura, antagonismo e rivalità. L’efficacia del lavoro cooperativo dipende, infine, dallo sviluppo di competenze sociali adeguate. Esse servono a regolare e a rendere effi­ cienti le relazioni interpersonali fra i membri del gruppo e includono comportamenti che inducono una corretta collaborazione. Orientano verso il compito e/o mantengono un buon clima di gruppo, ma al con­ tempo stimolano una corresponsabilità individuale. Esse possono esse­ re così riassunte:

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essere percepito da ogni componente come vitale: in molte situazioni di lavoro, di studio o di semplice vita quotidiana quanti fanno parte di gruppi, pur avendo obiettivi comuni, non sempre e non necessa­ riamente vivono comportamenti interdipendenti; essere accettato o condiviso da tutti i membri del gruppo: il componen­ te del gruppo che non accetta l’obiettivo, da risorsa preziosa e indispen­ sabile, diventa un ostacolo che può pregiudicare lo sforzo comune; indurre alla sfida: il gruppo va percepito come necessario rispetto all’obiettivo da conseguire; esso si forma attorno a un obiettivo per il quale le forze individuali sono ritenute insufficienti; gruppo e obiet­ tivo devono essere strettamente relazionati. Non ogni obiettivo esige per forza la presenza del gruppo; quando questa non è necessaria, è molto facile che si manifestino comportamenti di ‘disimpegno’ da parte di qualche partecipante.

Un altro punto qualificante del Cooperative Learning è il cosiddetto «clima» entro cui si svolge l’esperienza. Il clima può essere immaginato come una condizione distribuita a vari livelli. Esiste un clima di scuola, di classe e di gruppo. I livelli godono di una certa autonomia, ma la dif­ fusione garantisce a ognuno di essi sostegno e sviluppo. Poiché è bene che i gruppi lavorino in una comunità di apprendimento, lo sviluppo del «clima di classe», cioè di una relazione ricca, intensa, estesa e profonda di ogni studente con ogni compagno di classe, è il primo obiettivo da ri­ cercare (Chiari 1994). Il clima nasce per lo più da occasioni informali e occasionali come, per esempio, i comportamenti che esprimono atteggiamenti di stima, rispetto e accettazione reciproca. Esso si alimenta attraverso l’assistenza, l’apertu-

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Le competenze sociali

abilità comunicative faccia a faccia; abilità che permettono al gruppo di affrontare bene il compito ri­ chiesto (saper esprimersi e ascoltare, saper chiedere e dare aiuto, sa­ per riassumere e verificare la comprensione, saper stimolare il con­ fronto aprendo nuove prospettive e soluzioni); abilità che rendono il lavoro comune piacevole e gratificante (saper incoraggiare, saper facilitare la comunicazione, saper allentare le tensioni, saper risolvere i problemi interpersonali).

Una delle osservazioni critiche ricorrenti a proposito del Cooperati­ La responsabilità ve Learning riguarda il rischio di attenuare la responsabilità individua­ individuale le. Gli studi e le esperienze in materia distinguono innanzitutto fra una responsabilità individuale all’interno del gruppo e una all’esterno: la re­ sponsabilità verso l’interno del gruppo interviene quando lo studente ha uno specifico ruolo o compito da svolgere, la responsabilità verso 1ester­ no del gruppo esiste quando gli studenti sono chiamati a una valutazio­ ne individuale degli apprendimenti. Mentre nei tradizionali metodi di gruppo la valutazione assegnata ai singoli membri coincide generalmen­ te con quella data al gruppo, nel Cooperative Learning si prevede una valutazione individuale e una di gruppo. Questa posizione si giustifica con la definizione data sopra del con­ cetto di interdipendenza. Lo scopo comune è infatti raggiunto attraver­ so il lavoro dei singoli (e non potrebbe essere diversamente), ma questo può essere vanificato se qualche partecipante non svolge al meglio il compito assegnatogli. Non c’è dubbio che la mancanza di una specifica responsabilità individuale può generare difficoltà al lavoro cooperativo. Spesso gli atteggiamenti e/o i comportamenti di disimpegno e pigri­ zia dipendono da una inadeguata distribuzione del lavoro. Quando que­ sto accade c’è chi è gravato di obblighi e chi approfitta del lavoro altrui, chi si impegna anche per gli altri e qualcuno che si ritaglia spazi per fare il meno possibile. Se non riesce a costituirsi in forme realmente coope­ rative, il gruppo si trasforma da risorsa a strumento che penalizza i mi-

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Formazione delle competenze intersoggetive e dell'esperienza umana

Le teorie dell'istruzione e deita formazione

Studiare pedagogia

gliori (che si impegneranno meno) e agevola i peggiori, incoraggiando atteggiamenti individualistici e/o competitivi. I sostenitori dell’approccio cooperativo ne rimarcano la funzionalità non solo rispetto agli apprendimenti cognitivi, ma anche sul piano della formazione delle competenze intersoggettive e dell’esperienza umana in quanto esso induce a prendere in esame il punto di vista degli altri, a valutare le loro qualità o i loro limiti, ad apprezzarne le doti o a esprimere dissenso per qualche aspetto del loro comportamento. In altre parole spinge a conoscere e accettare gli altri [...]. Questo fa scaturire azioni concrete di partecipazione, di solidarietà verso l’altro e di cooperazione per facilitare il conseguimento dello scopo condiviso (Comoglio - Cardoso 1996, p. 63).

1.11 Edgar Morin e l'apprendimento nella complessità La «vera conoscenza» nella società complessa

Anche l’indagine di Edgar Morin sulla conoscenza nella realtà com­ plessa attuale si svolge in un orizzonte culturale non dominato dalla psi­ cologia. Essa fa infatti riferimento a una analisi filosofica critica verso le presunte «certezze» della conoscenza razionale e del metodo sperimen­ tale. La vita, l’evoluzione, il cambiamento, l’apprendimento nascono e si sviluppano in forme perturbate, all’interno di situazioni instabili e di turbolenza. Il caos non sarebbe il contrario dell’ordine, ma andrebbe identificato come una situazione di precarietà dalla quale si possono sviluppare situazioni nuove e del tutto originali. La «vera conoscenza» deve perciò accettare la prova del limite e dell’impotenza, della pluralità dei punti di vista, della prospettiva pro­ babilistica, del moltiplicarsi degli approcci metodologici. L’errore non ha un valore solo negativo, ma costituisce un’opportunità per ripensare un dato e scoprire una situazione imprevista. L’uso della ragione si fa più prudente, liberato «dai miti semplificatori delle rassicuranti filosofie della storia e ‘certezze’ nell’inarrestabile progresso e dai fideismi acriti­ ci, nonché dalle visioni anche tecnico-scientifiche troppo settoriali» (Cambi - Cives - Fornaca 1991, pp. 32-34).

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Il principio di complessità oltre ad essere una categoria filosofica si La complessità configura anche come una forma di analisi sociale. Sotto questo profi­ come analisi sociale lo Morin sottolinea che la società contemporanea è a-centrica, retico­ lare, senza gerarchie prestabilite, del tutto diversa dalla società del passato, ordinata secondo una scala gerarchica di valori condivisi che rappresentava la chiave di volta del sistema sociale e, al tempo stesso, dell’identità personale. L’uomo deve imparare, dunque, a convivere all’interno delle reti, La «ragione dei sistemi complessi e delle rotture di simmetrie, a familiarizzare con della possibilità» le dissolvenze e con il pluralismo metodologico, a costruire logiche in­ ter- e poli-disciplinari per definire nuovi schemi cognitivi, oltrepassare i confini disciplinari tradizionali e procedere a forme di ibridazione fra competenze scientifiche diverse. Alla «ragione della certezza» si sosti­ tuisce la «ragione della possibilità», capace di confrontarsi con il senso del limite, con il non ancora chiarito, con la multifattorialità, la proba­ bilità, il multidisciplinare. Cade così il mito della chiarificazione dell’universo, mentre viene stimolata l’avventura della conoscenza. Da qui l’esigenza di «pensare senza mai chiudere i concetti», di aspirare a totalità integratrici anche se nella consapevolezza della provvisorietà delle sintesi via via messe a punto. Tradotto in chiave educativa questo significa imparare a convive­ re con la precarietà, la diversità, la molteplicità delle esperienze, la libe­ razione dalla trama delle abitudini, l’abilità di muoversi «in termini di contesti dei contesti», e cioè reti di relazioni molto diverse dal semplice rapporto oggetto/soggetto e dalle categorie predeterminate (con l’inevi­ tabile tendenza a razionalizzare, schematizzare e organizzare i saperi secondo un approccio lineare). La vitalità del pensiero umano risiederebbe, perciò, nella sua capaci­ La «mente ecologica» tà di muoversi come «mente ecologica» e, dunque, nella possibilità e nella capacità di reagire, inviare e ricevere messaggi, di essere interatti­ va, di imparare dall’errore, di «ragionare sragionando».

LA DEFINIZIONE

La mente ecologica

1PROTAGONISTI Edgar Morin Edgar Morin (pseudonimo di Edgar Nahoum, 1921), sociologo e filosofo, è uno dei più noti intellettuali francesi, già direttore di ricerca presso il CNRS di Parigi, apprezzato per la sua vasta indagine sul rapporto natura-cultura in base al concetto di «complessità». Nei sei volumi della sua opera più importante, Il Metodo (1977-2004), Morin formula una proposta epistemologica e metodolo-

gica per ripensare le forme e le modalità di pensiero, di conoscenza e di insegnamento. Si tratta, dunque, di dar vita a un nuovo paradigma cognitivo capace di ricomprendere l'uomo e la società alla luce di una plurifattorialità che faccia giustizia degli approcci riduzionisti che si illudono di definire la totalità dei problemi alla luce di un'unica serie di fattori.

La nozione di «mente ecologica» o quella equi­ valente di «pensiero ecologizzante» è in gran parte dovuta alla riflessione di Gregory Bateson (1904-1980). Il m ondo è molto più com ­ plesso di quanto sospetti la scienza occidenta­ le razionalista. La coscienza individuale e quella collettiva della società possono comprenderne solo una piccola parte, ne colgono soprattut­ to le parti che cooperano e al contem po sono in com petizione fra loro. Idee, mentalità, attese

sono anch'esse sistemi viventi, che si evolvono e si m antengono in equilibrio proprio com e le diverse componenti dell'ecosistema fìsico. A p­ prendere si configura perciò, secondo Bateson, com e l'organizzazione e riorganizzazione dell'equilibrio/disequilibrio di un contesto rispetto al nuovo e all'ignoto: è, in sostanza, la storia del si­ stema stesso espressa nel continuo processo di transizione evolutiva da un livello di organizza­ zione ad un altro.

Studiare pedagogia

1.12 Riforma del pensiero e apprendimento per interconnessione Le sfide cognitive ed educative: la «riforma del pensiero»

L'attitudine generale

Accanto all’imponente riflessione sulla complessità e sul ruolo dell’uomo all’interno di quella che egli definisce la società-mondo un nuovo tipo di società globalizzata che rappresenta la quarta tappa della socialità umana dopo la paleo-società degli ominidi comparsi prima àtW Homo sapiens, l’archeo-società dei cacciatori-raccoglitori e la società storica organizzata intorno a forme statuali-teritoriali e all’istituzionalizzazione del sacro - , lo studioso francese ha esplorato in modo ampio anche i temi connessi con l’insegnamento e l’educa­ zione. Ne sono autorevoli documenti alcuni scritti apparsi tra il 1999 e il 2003 (soprattutto La testa benfatta e I sette saperi necessari all’edu­ cazione del futuro) che hanno suscitato notevole interesse e aperto un vivace dibattito. Il nostro tempo sarebbe scandito, secondo Morin, da alcune sfide co­ gnitive ed educative che rimescolano le carte rispetto al passato: la sfida del globale e del complesso, dell’espansione incontrollata del sapere, l’indebolimento del senso di responsabilità e del principio di solidarietà, il rischio di una forte regressione della democrazia (—>T8). La «sfida del­ le sfide» - il problema cruciale che riassorbe le singole sfide - è tuttavia individuata in una «riforma del pensiero», in grado di assicurare il pieno (e nuovo) impiego dell’intelligenza all’insegna di una «testa ben fatta». L’attitudine generale. La «riforma di pensiero» in grado di assicurare «teste ben fatte» è affidata alla formazione di due fondamentali «attitu­ dini». In primo luogo Morin parla dell’«attitudine generale»: più potente è l’intelligenza generale, più grande è la sua facoltà di trattare problemi speciali. L’educazione deve favorire l’attitudine generale della mente a risolvere i problemi e correlativamente deve stimolare il pieno impiego deH’intelligenza generale (Morin 2000, p. 16).

Si tratterebbe, in particolare, d’incoraggiare e di spronare «l’attitudi­ ne indagatrice e di orientarla sui problemi fondamentali», di coltivare l’esercizio del dubbio, «lievito di ogni attività critica», di esercitare la di­ sposizione a trasformare dettagli apparentemente insignificanti in «in­ dizi che consentono di ricostruire tutta una storia». L’incertezza è più educativa della certezza perché, non essendo appagante, fa crescere la conoscenza e insegna a convivere con l’imprevedibilità a lungo termine. Morin non prospetta una visione rassegnata e scettica dell’esistenza, bensì sottolinea il fatto che la risposta alle incertezze dell’azione è costituita dalla scelta meditata di una decisione, dalla coscienza di una scommessa, dall’elaborazione di una strategia che tenga conto delle complessità inerenti alle proprie finalità, che possa modificarsi in corso d’azione, in funzione dei casi, delle informazioni, dei cambiamenti di contesto e che possa prendere in considerazione anche l’eventuale siluramento dell’azione che avesse imboccato un corso dannoso (M orin 2001, p. 94).

Le teorie dell'istruzione e della formazione

Saper convivere e saper gestire l’incertezza si intreccia con la consa­ pevolezza di una condizione umana (precaria, casuale, complessa, iden­ tica e diversa al tempo stesso) e costituisce una delle condizioni per il successo educativo (M orin 2001, pp. 47-62). L’attitudine a contestualizzare. La seconda attitudine riguarda la «padronanza dei processi di contestualizzazione». A questo proposito Morin si affida all’immagine del «pensiero ecologizzante». Infatti, que­ sto situa ogni evento, informazione e conoscenza in una relazione di in­ separabilità con l’ambiente culturale, sociale, economico, politico e, be­ ninteso, naturale. La conoscenza isolata dei dati e delle informazioni non è sufficiente; perché essi abbiano senso vanno situati in un contesto. Ma neppure il contesto è sufficiente se non è accompagnato dallo sforzo di vedere come le conoscenze lo modifichino e lo chiariscano. Il pensiero diventa così anche «pensiero del complesso» perché non basta inscrivere ogni cosa in un quadro o in un orizzonte, ma si tratta «di ricercare sempre le relazioni e le inter-retroazioni tra ogni fenomeno e il suo contesto, le relazioni reciproche tutto-parti, e cioè come una mo­ difica locale si ripercuote sul tutto e come una modifica del tutto si ri­ percuote sulle parti» (M orin 2000, pp. 19-20). La formazione di queste attitudini è funzionale alla promozione del «pensiero che interconnette» (relier les connaissances): ad esso è affidato il compito di «rimpiazzare la causalità lineare e unidirezionale con una causalità circolare e multireferenziale», mitigando la rigidità della logica classica con una dialogica capace di concepire nozioni allo stesso tempo complementari e antagoniste, unendo la spiegazione alla comprensione. Il «pensiero che interconnette». Esso postula nuove modalità e forme organizzative dell’apprendimento: i curricoli centrati prevalentemente sulle discipline (sia nella versione che privilegia i contenuti sia nei termi­ ni della padronanza delle strutture) non sono infatti più efficaci per ri­ spondere alle esigenze espresse dalla cultura trans- e pluri-disciplinare propria della complessità. L’impianto disciplinare corrisponde, infatti, a una situazione e a una concezione del sapere e della cultura relativamen­ te stabili nei loro paradigmi essenziali, anche se in continuo accrescimen­ to quantitativo, e composti di elementi (le discipline) differenziati in rela­ zione alla specificità dell’oggetto di indagine o della procedura impiega­ ta. I processi di apprendimento dovrebbero invece svolgersi in modo tale da garantire, oltre alla specificità e alla padronanza disciplinare, l’intercomunicazione tra differenti campi di conoscenza e di ricerca. Per raggiungere questo scopo occorre mettere in atto processi di co­ struzione e di rappresentazione di reti concettuali in grado di promuo­ vere saperi senza chiusure definitive. Questi saperi dovrebbero oltre­ passare la tradizionale distinzione fra contenuti e metodi ed essere se­ gnati piuttosto da visioni multidimensionali e da logiche reticolari. Non ci sarebbe più un centro privilegiato da indagare, ma si dovrebbero concentrare risorse e attenzioni sulle relazioni che ogni apprendimento può allacciare con ciò che è contiguo. La distinzione tra le discipline andrebbe perciò vissuta non come separazione e accostamento, ma in termini di adiacenza: una frontiera aperta, una possibilità di elaborare un livello più alto di conoscenza.

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La padronanza dei processi di contestualizzazione

Formare il pensiero che interconnette

Un apprendimento (e un sapere) fatto di relazioni

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I due super-saperi

Studiare pedagogia

Il sapere, in altre parole, si configurerebbe come un intreccio di rela­ zioni non solo fra conoscente e conosciuto, ma fra conoscenti, conoscen­ ze pregresse esplicite e tacite, azioni intenzionali e non intenzionali. L’apprendimento sarebbe perciò l’esito di un’esperienza contestuale/ ecologica e il risultato di un’interazione diacronica e sincronica fra sog­ getto, oggetti materiali, significati sociali impliciti ed espliciti, azioni di altri soggetti, e via dicendo. Il suo svolgersi sarebbe sempre aperto a nuovi esiti, secondo una catena logica che si sviluppa attraverso continui aggiustamenti e ristrutturazioni di significati. Soltanto attraverso la riforma del «pensiero che interconnette» si può rispondere ai problemi globali del nostro tempo. Morin si muove all’interno di una rigenerazione di un umanesimo tutto mondano che, mentre rinuncia al ruolo di portavoce dell’orgogliosa volontà di domina­ re l’universo, si dovrebbe svolgere in senso solidaristico fra gli umani e tra umani, natura e cosmo. Due super-saperi per il futuro dell’umanità. A questo proposito Mo­ rin individua, infine, due super-saperi per il futuro dell’umanità: l’edu­ cazione alla comprensione e la formazione all’«identità e alla coscienza terrestre», intesa come consapevolezza di un comune destino che unisce tutti gli uomini del pianeta. Gli uomini dovrebbero «imparare a vivere, a condividere, a comunicare, a essere in comunione in quanto umani del pianeta Terra», tralasciando il fatto di «essere» all’interno di una comu­ nità. Un pensiero paidetico, cioè «capace di non rinchiudersi nel locale e nel particolare, ma capace di concepire gli insiemi [...] adatto a favorire il senso della responsabilità e della cittadinanza» con esiti anche esistenziali, etici e civici (M orin 2000, p. 101). L’obiettivo è quello di «civilizzare e solidarizzare la Terra, trasformare la specie umana in vera umanità [...] promuovere un’etica della comprensione planetaria» (M orin 2001, p. 80). Una prospettiva che, mentre ci fa rinunciare per sempre al mito della chiarificazione totale dell’universo, ci incoraggia tuttavia a continuare l’avventura della conoscenza.

2. La formazione in età adulta Teorie della formazione: una duplice spinta

A fianco delle teorie dell’istruzione si sono sviluppate le teorie della formazione centrate sulle condizioni e le prassi riguardanti l’apprendi­ mento in età adulta. Questo cospicuo ambito di riflessione all’interse­ zione di ricerche condotte da psicologi e sociologi con pedagogisti e for­ matori, è cresciuto in seguito a una duplice spinta: -

-

la constatazione che l’uomo si modifica in modo permanente, com­ pie esperienze, attraversa ruoli diversi e, dunque, può essere soggetto di educazione per l’intero ciclo della vita; le esigenze del mondo del lavoro e delle professioni che sollecitano flessibilità cognitiva, tensione creativa, sforzo continuo di riallinea­ mento delle competenze.

Le teorie dell'istruzione e della formazione

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Un primo contributo alla definizione delle teorie della formazione L'alfabetizzazione giunse negli anni Cinquanta e Sessanta dalle esperienze di alcuni im­ portanti organismi internazionali (l’Unesco, il Consiglio d’Europa) che intrapresero vaste campagne a favore della piena alfabetizzazione degli adulti, come passaggio obbligato per la crescita e lo sviluppo. Saper leg­ gere, scrivere e far di conto non potevano essere considerate soltanto abilità strumentali finalizzate a bisogni minimi, ma andavano poste in relazione a priorità d’ordine economico e sociale e alla necessità di una manodopera capace di stare al passo con il rinnovamento tecnologico dei metodi di produzione. Il concetto di alfabetizzazione, in altre parole, guadagnò nuovi obiet­ tivi: l’alfabetizzazione doveva comportare un insegnamento in grado di permettere all’analfabeta o al sottoalfabeta di integrarsi socialmente ed economicamente in un mondo nuovo in cui i progressi tecnici e scientifi­ ci sollecitavano conoscenze sempre più complesse e specialistiche. Il concetto di «alfabetizzazione» (in uso negli anni Cinquanta) fu, tuttavia, rapidamente superato in favore di quello di «educazione per­ manente», alla cui messa a punto contribuirono alcuni studiosi attivi ne­ gli ambienti degli organismi internazionali come Henri Janne, Paul Lengrand, Warner Rasmussen, Bertrand Schwartz, Jean Vial (L orenzetto 1976; D ebesse - M ialaret 1980) e, in Italia, Anna Lorenzetto e Mario Mencarelli. A ll’impostazione in prevalenza funzionalista degli alfabetizzatori si affiancò una tesi più «umanistica», basata sulla neces­ sità della persona di rivedere costantemente le proprie conoscenze, ri­ pensare le proprie esperienze, stabilire nuove relazioni. Con sempre Il lifelong learning maggiore insistenza si cominciò a pensare alla formazione come a un processo disteso per tutto il corso della vita (lifelong learning) coerente con l’esigenza della società democratica impegnata ad assicurare pari opportunità di apprendimento per tutti. Queste ambiziose visioni del futuro si intrecciarono con il rinnova­ mento delle strategie e dei metodi formativi in campo produttivo e aziendale. Il ricorso a tecnologie più complesse che affidavano alle macchine larga parte dei processi lavorativi prima compito dell’uomo (anni Sessanta-Settanta del secolo scorso), sollecitò nuove pratiche for­ mative. Il sistema non richiedeva più forme di addestramento relativa­ mente semplici, ma abilità professionali più articolate. Alle prescrizio­ ni fisse di compiti prestabiliti (le «mansioni»), si sostituirono i «ruoli», ossia insiemi di regole che tenevano conto di molte variabili, comprese le aspettative dei lavoratori. Cominciò a essere rivalutata anche l’im­ portanza delle dimensioni relazionali, sulla base della constatazione che l’uomo lavora con maggiori motivazioni se si sente parte di un’im­ presa cui si dedica con altri. Il lifelong learning risultò un processo ambivalente, animato da due istanze ora concepite in forme sinergiche ora viste in termini contrappo­ sti: un’educazione volta alla piena realizzazione personale e alla scoper­ ta della creatività individuale e/o un’attività piegata nel senso delle esi­ genze di aggiornamento delle comunità professionali e adeguata agli imperativi dettati dalla competizione economica. Questa irriducibile bi- Bidimensionalità dimensionalità (che riflette in sostanza la doppia identità della forma-

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Le teorie dell'istruzione e della formazione

Studiare pedagogia

zione adulta) rese oscillante il lifelong learning fra una vocazione «economicista» e una più espressamente culturale e «umanista».

2.1 La formazione come ricerca e azione La «teoria del campo»

L'impostazione circolare del principio ricerca-azione

Fu in questo contesto che maturò la valorizzazione delle ricerche e degli studi di Kurt Lewin, in particolare quella sulla «teoria del campo» messa a punto, in ambito psicologico, fin dagli anni Quaranta. Il concetto di campo, mutuato dalla fisica, è inteso come «la totalità dei fattori coesistenti considerati come interdipendenti». Tra questi fattori, nella determinazione del comportamento, è di fondamentale importan­ za il ruolo dell’ambiente, sia in quanto rappresentazione dell’ambiente fisico in cui la persona vive sia come insieme delle dimensioni non diret­ tamente osservabili. L’intreccio unitario di ambiente e persona delimita lo spazio di vita: la persona o il gruppo vivono un complesso di fatti in un tempo determi­ nato. Pertanto, lo spazio vitale della persona o del gruppo si identifica con la situazione presente, che comprende le relazioni esistenti, in ter­ mini di spazio topologico, fra le regioni e le sottoregioni in cui lo spazio stesso si suddivide. La teoria del campo è al tempo stesso un metodo per analizzare le relazioni causali e un insieme di costrutti per descrivere e interpretare i fenomeni psicologici e sociali. Secondo tale impostazione gli eventi so­ no determinati da forze che agiscono su di essi dentro i limiti di un cam­ po immediato, piuttosto che da forze che agiscono a distanza. Sulla base di questo assunto teorico, Lewin si convinse che l’attività di ricerca potesse oltrepassare i tradizionali orizzonti della cosiddetta «ricerca pura» - e cioè realizzata in condizioni sperimentali da ricerca­ tori specialisti - e svolgersi anche nella realtà in cui l’individuo agisce. La messa a punto della teoria del campo rispondeva a questa esigenza. Allo schema lineare-sequenziale dominato dalle procedure si sosti­ tuisce un’impostazione circolare in cui causa e azione agiscono in forma reciproca e sinergica (principio della ricerca-azione). In tal modo Lewin intese affermare non soltanto l’esigenza di fruibilità concreta della ricer­ ca (la ricerca non fine a se stessa, bensì in rapporto a una destinazione

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specifica), ma la natura intrinsecamente trasformatrice del processo di conoscenza e del rapporto tra ricercatore e individuo/gruppo con/su cui la ricerca si svolge. L’approccio lewiniano e dei suoi allievi fu tradotto in campo formati­ vo mediante percorsi di ricerca, di apprendimento, di decisione, un’e­ sperienza non separata rispetto al contesto lavorativo in cui si svolge, ma riflessione del sistema su se stesso e soluzione dei problemi che di volta in volta insorgono. La formazione ispirata al modello della ricerca-azio­ ne non è, dunque, un momento esterno al contesto nel quale si agisce ma è intrinsecamente associata tanto alla trasformazione della realtà men­ tre si fa ricerca, quanto dalla capacità di fare ricerca mentre si opera sul­ la realtà (Q uaglino - Carrozzi 1981; Q uaglino 1985). Questa prospettiva della formazione attiva e creativa nella quale è possibile cogliere un’evidente influenza dell’approccio alla conoscenza di Dewey (la conoscenza è un processo attivo di trasformazione della re­ altà) era destinata a influenzare in modo significativo e duraturo il mon­ do dell’apprendimento adulto.

2.2 Come impara l'adulto secondo Malcolm Knowles Un altro passaggio storico per il costituirsi della cultura formativa del mondo adulto è rappresentato dalle riflessioni sull’identità dell’adulto, dalle analisi sulle condizioni che ne favoriscono l’apprendi­ mento alle indagini sulle forme specifiche attraverso cui la mente adulta elabora la conoscenza, alle strategie didattiche più efficaci per favorire la conoscenza e la valorizzazione delle esperienze. In questo campo è giocoforza misurarsi con gli studi e le ricerche di Malcolm Knowles, una delle massime autorità del settore. Knowles ha ridefinito il quadro teorico della formazione adulta, situandolo in una nuova disciplina, l’andragogia (scienza della formazione adulta), da lui presentata, almeno nella fase iniziale della sua riflessione, in forme contrapposte alla pedagogia (scienza della formazione del fan­ ciullo). A questo tema Knowles dedicò un libro apparso nel 1973, che poi rielaborò più volte fino agli anni Novanta (in italiano Quando l’a-

L'andragogia

I PROTAGONISTI

IPROTAGONISTI

Malcolm Knowles

Kurt Lewin Kurt Lewin (1890-1947), psicologo di origine tede­ sca, dopo aver studiato in Germania si trasferì ne­ gli Stati Uniti nel 1932 per sfuggire alle persecuzioni razziali. Interessato soprattutto a comprendere co­ me si possano modificare i comportamenti degli uomini, egli sviluppò due notevoli teorie psicolo­ giche (la teoria del campo e la teoria della dinami­

ca di gruppo) e individuò due metodi di indagine (la ricerca-azione e la formazione alla gestione dei rapporti umani). I suoi libri più importanti sono sta­ ti tradotti in italiano negli anni Sessanta e Settan­ ta: Teorìa dinamica della personalità (1965); / conflitti sociali. Saggi di dinamica di gruppo (1972) e Teoria e sperimentazione in psicologia sociale (1972).

Malcolm Knowles (1913-1997), professore nelle Uni­ versità di Boston e del North Carolina, è considerato uno dei massimi esperti nel campo dell'educazio­ ne degli adulti, autore di una personale analisi delle trasformazioni educative in età adulta con la pro­ posta dell'andragogia. Tale termine deriva dall'in­ terazione di due parole greco, anér-andrós (uomo maturo, ma anche virilità) e àgein (condurre; lette­

ralmente esso significa «guidare uomini maturi»). L'impianto teorico e propositivo di Knowles si ba­ sa su due principali variabili: l'età e l'esperienza dei soggetti, che influenzano le condizioni e i contesti dell'apprendimento. Da qui la progressiva attenzio­ ne di Knowles per l'unicità dei soggetti in formazio­ ne, la loro individualità e la dimensione qualitativa delle biografìe individuali.

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Ipresupposti fondamentali

Studiare pedagogia

dulto impara, 1992), integrandolo con altre opere (in specie La forma­ zione degli adulti come autobiografia, 1996) allo scopo di approfondire l’impostazione iniziale. La prospettiva andragogica è connotata soprattutto dalla convinzio­ ne che gli adulti abbiano interessi e capacità diversi da quelli dei sogget­ ti in età evolutiva e che l’approccio formativo debba svolgersi secondo linee centrate sull’esperienza e con modalità meno direttive (o assolutamente non direttive) a differenza dell’intervento pedagogico tradiziona­ le nel quale l’allievo è situato in una posizione di dipendenza. Il successo della formazione in età adulta sarebbe perciò assicurato dalla capacità di procedere attraverso una progettazione e una costruzione in partner­ ship con i soggetti stessi. Questa tesi poggia su alcuni presupposti che Knowles individua nei seguenti punti: -

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Ifattori determinanti

il bisogno di conoscere: la ragione forte della formazione per gli adulti sta nel loro bisogno di accrescere le conoscenze; il concetto di sé come discente: gli adulti desiderano essere considera­ ti e trattati come persone in grado di gestirsi in modo autonomo; essi non possono essere semplicemente i destinatari di un’azione condot­ ta dall’esterno, al contrario essi ne sono sempre anche «autori»; il ruolo dell’esperienza·, gli adulti entrano in un’attività di formazione con un’esperienza personale che costituisce un fattore determinante per il successo/insuccesso degli apprendimenti; disponibilità ad apprendere in funzione di bisogni reali: gli adulti so­ no disponibili a impegnarsi in ciò che hanno bisogno di sapere e di saper fare in ragione delle situazioni della loro vita reale; i motivi della formazione sono le motivazioni dell’apprendimento; importanza delle motivazioni·, non sempre i moventi che spingono gli adulti ad apprendere sono concreti e pratici, come denaro o avanza­ mento di carriera, essendo spesso più potenti le pressioni interne co­ me l’autostima, la soddisfazione personale, la qualità della vita e via dicendo (—>T9).

II modello andragogico assegna inoltre particolare rilevanza al contesto nel quale si svolge l’apprendimento e, in specie, alla responsa­ bilità dell’adulto discente e alla sua partecipazione attiva al progetto formativo. I fattori che determinano il buon esito di quest’ultimo sono così individuati: -

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un clima favorevole nella triplice dimensione dell’ambiente fisico, della facilità dell’accesso ai materiali e del clima umano accogliente; la progettazione comune realizzata d’intesa tra i formatori e i di­ scenti; Vindividuazione di obiettivi rispondenti ai bisogni auto diagnosticati per superare il rischio della discrepanza tra la situazione di partenza e quella individuata come ottimale; la disponibilità di esperienze di apprendimento in cui esercitarsi in forma attiva;

Le teorie dell'istruzione e della formazione

— la gestione comune del programma intesa come facilitazione del proces­ so di apprendimento (il formatore non trasmette solo delle conoscenze, ma è soprattutto colui che accompagna e facilita l’apprendimento); - la valutazione finale rappresentata come la verifica del raggiungi­ mento o meno di nuovi livelli di competenze. Le tesi di Knowles sono state oggetto di numerose riflessioni criti­ La critica... che. L’obiezione più forte gli rimprovera di considerare l’educazione de­ gli adulti un campo separato e autonomo. Presentare l’andragogia come il momento dell’educazione autodiretta e attiva e la pedagogia la fase dell’educazione eterodiretta e passiva si configura come una lettura troppo schematica che sottovaluta l’incidenza della pedagogia attiva che, come è noto, valorizza molto l’iniziativa dell’allievo. Knowles ha risposto a questa critica rendendo più flessibile il proprio modello e collocando pedagogia e andragogia all’interno di un medesi­ mo continuum educativo nel quale esse si pongono in logica sequenzia­ le. Il modello pedagogico ne costituirebbe la fase iniziale e il modello ... e la risposta andragogico andrebbe identificato come la fase matura e attiva. A con­ ferma della revisione dell’iniziale radicalismo andragogico sta il muta­ mento di titolo con cui Knowles ritematizza la sua teoria: nella prima edizione del 1970 l’intitolazione era The M odem Practice of Aduli Education. Andragogy versus Pedagogy, dieci anni più tardi diventa From Pedagogy to Andragogy (K nowles 1980). Allo studioso statunitense è stata inoltre rimproverata la sua dichia­ rata «neutralità» rispetto alle ideologie o ai sistemi di valori. Secondo i suoi critici nel campo dell’educazione degli adulti, non sarebbe possibile immaginare un quadro teorico a prescindere da un contesto di valori per contrastare il rischio di manipolazione nascosto nei programmi d’intervento di stampo funzionalistico.

2.3 L'apprendimento trasformativo Le suggestioni di Jack Mezirow sull’«apprendimento trasformativo» Jack Mezirow (transformative learning, M ezirow 2003) rinviano a riflessioni e propo­ e il transformative ste che sviluppano ulteriormente le indicazioni di Knowles. Lo studioso learning americano approfondisce le ragioni e le condizioni sulla cui base gli adulti possono continuamente ripensarsi e riprogettarsi nel corso della vita, evitando di restare prigionieri di pregiudizi ideologici, abitudini consolidate, remore psicologiche. A tal fine Mezirow ritiene fondamentale imparare a riflettere sulla propria esperienza: la qualità delle nostre esperienze e convinzioni è di­ rettamente proporzionale alla riflessione che il soggetto è capace di svolgere nel contesto in cui opera. Quando si trovano ragioni che indu­ cono a dubitare della validità o dell’autenticità di asserzioni già condivi­ se e acquisite in precedenza, si mettono in moto strategie cognitive e motivazionali che spingono l’individuo a continuare ad apprendere. A ttraverso q u este tra n sizio n i si p o sso n o m o d ifica re sia g li sch em i di Memancipatory learning sig n ifica to veri e propri sia i criteri ch e li h a n n o d eterm in ati. I p a ssa g g i

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Studiare pedagogia

Le teorie dell'istruzione e della formazione

I PROTAGONISTI

JackMezirow Jack Mezirow (1923-2014) è stato a lungo docente presso il Teachers College della Columbia Univer­ sity di New York ove ha ricoperto per molti anni la direzione del Dipartimento di educazione su­ periore e degli adulti. Ha lavorato come consu­ lente per l'alfabetizzazione presso istituzioni co ­

me l'Unesco, l'Unicef e altre. Negli anni Sessanta ha operato come formatore di educatori nei Pae­ si in via di sviluppo. A contatto con queste real­ tà ha accostato gli studi e le esperienze di Paulo Freire che hanno esercitato sulla sua prospettiva di educatore degli adulti una notevole influenza.

dell’apprendimento trasformativo prevedono che, a partire da un «di­ lemma disorientante», il soggetto adulto approdi a un Sé modificato che consenta una reintegrazione nel contesto della propria vita sulla base delle condizioni dettate da una nuova prospettiva. Si verifica, in questo caso, quello che Mezirow definisce Yemancipatory learning, ovvero un processo in senso ricostruttivo non solo della quantità delle conoscenze, ma soprattutto degli schemi mentali su cui esse poggiano. Detto con le parole dello studioso americano la trasformazione delle prospettive è il processo attraverso cui si diventa critici sul come e sul perché i nostri assunti sono arrivati a condizionare il nostro modo di percepire, comprendere e sentire il mondo; si modificano queste strutture di aspettativa abituale per acquisire una prospettiva più inclusiva, discriminante e integrativa; e infine si fanno delle scelte o si intraprendono delle azioni, in base alle nuove conoscenze così acquisite (M ezirow 2003, p. 165).

La non staticità della conoscenza di sé

L'uomo della risposta

Se questo processo, poi, riuscirà a superare le dimensioni personali per assumere fisionomia sociale, ciò si tradurrà in un aumento di consa­ pevolezza critica, di motivazioni e di interessi. In tal modo Mezirow prospetta un’immagine di età adulta e anziana non statica, capace di cambiamento, continuamente disponibile a ricostruire il proprio «essere stati» ed «essere divenuti», in funzione di una sempre maggiore conoscenza di sé. Insomma, l’uomo che sa vivere appieno la propria condizione di adulto e anziano è quello che si inter­ roga senza sosta, si pone domande, sa accostarsi senza nostalgie al nuovo, sa rielaborare i propri vissuti, riscrivendo la propria biografia giorno dopo giorno (—►T10). Mezirow propone una drastica alternativa tra l’«uomo della risposta» e l’«uomo della domanda». L’uomo della risposta ha bisogno di certezze, è a suo agio solo nella sicurezza, cerca ripari e rifugi; trasforma la cono­ scenza in beni da possedere: più risposte ha a sua disposizione, più si sente ricco ed equipaggiato; per lui il sapere è elemento da capitalizzare. Il suo prestigio sociale dipende dal numero di risposte specifiche e par­ ticolari che riesce ad approntare nei differenti settori del sapere istitu­ zionalizzato. L’uomo della risposta si appella alla logica per dimostrare irrefutabilmente la «verità».

L’uomo della domanda non ha certezze, sa che non esiste altra sicu­ rezza che la capacità e la forza d’animo necessarie per affrontare situa­ zioni e problemi con la dovuta competenza e che tutte le altre sicurezze sono illusorie. Non esiste altro sapere che la relazione particolare con la frazione interiore ed esteriore dell’universo nella quale si trova e nella quale è chiamato ad agire. È persuaso di essere sostenuto dall’insieme dell’ordine umano di cui è il risultato, ma è nella solitudine del suo spiri­ to che è chiamato a decidere e a scegliere. L’uomo della domanda si ap­ pella alla dialettica; la logica è solo un aspetto dell’approccio scientifico, perché si arrivi alla conoscenza dei cambiamenti della realtà. Oltre la verità per lui c’è anche la vita. Per quanto possa piacere riconoscersi con il secondo dei due perso­ naggi, per quanto eroico sembri l’eterno pellegrino della ricerca, nessu­ no può dirsi totalmente identificato con l’uno o con l’altro. Istinto di si­ curezza e istinto di rischio si combattono nell’uomo, ciascuno presen­ tando incerte tendenze. I pericoli che corre il primo sono il dogmatismo e l’accumulazione, quelli che corre il secondo, l’evasione e la superficia­ lità. Sono immagini allo specchio di un unico soggetto, che a volte ricer­ ca certezze e a volte si lancia senza rete, che prima accetta il confronto, poi ripiega sulle proprie immutabili idee, che spera sempre di essere giunto a un punto fermo, quando invece il primo «evento-crisi» lo co­ stringe a ricominciare da capo (M ariani 2002).

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L'uomo della domanda

2.4 La formazione nel mondo delle professioni Uno degli autori con cui è indispensabile familiarizzare, inoltrando­ ci ora nello specifico territorio della formazione professionale, è D o­ nald A. Schòn, autore del volume di larga fortuna, Il professionista ri­ flessivo (1983, tradotto in italiano nel 1993) nel quale affronta il tema della preparazione dei professionisti e cioè di quegli specialisti che ope­ rano in forma autonoma e in regime di libere professioni (avvocati, me­ dici, psicologi, ingegneri, manager, ecc.). In questi casi la formazione non può essere un evento calato dall’alto attraverso gli «esperti», peggio ancora, poi, se immaginata come la sem­ plice applicazione di procedure. Essa va invece vista come un processo che esalta l’autonomia e l’iniziativa del professionista stesso. Al modello della razionalità tecnica - affidarsi agli «esperti» e alle loro procedure collaudate - Schòn oppone il modello della razionalità pratica, basato cioè sulla capacità riflessiva ovvero di far tesoro delle esperienze. I problemi non si presentano al professionista già impostati, definiti e pronti a essere risolti mediante protocolli prestabili. Al contrario, essi hanno bisogno di un’analisi preliminare attraverso la quale il professio­ nista mette a punto un intervento coerente con l’indicazione dei fini at­ tesi e le condizioni di fattibilità. La razionalità che orienta questo tipo di indagine è perciò una razionalità creatrice e non ordinatrice, esploratrice e non regolatrice, che tiene conto della particolarità e della unicità delle diverse situazioni

Il professionista riflessivo

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Studiare pedagogia

Le teorie dell'istruzione e della formazione

I PROTAGONISTI

Donald A. Schòn Donald A. Schòn (1930-1997), studioso statunitense di questioni organizzative e professionali, per mol­ ti anni è stato un consulente di importanti aziende, nonché docente presso il Massachusetts Institute of Technology di Boston. Si è principalmente oc­ cupato di tematiche riguardanti l'educazione de­ gli adulti e la formazione dei professionisti esper­

ti, spesso con testi realizzati in collaborazione con Chris Argyris (1923-2013), docente nell'Università di Harvard, studioso noto soprattutto per le sue ricer­ che suH'apprendimento organizzativo. La loro col­ laborazione ha dato origine a due saggi molto im­ portanti, La teoria in pratica (1992) e L'apprendimento organizzativo. Teoria, metodo, pratiche (1998).

ed esperienze e che consente di costruire conoscenza nello stesso corso di svolgimento delle azioni e delle pratiche um ane e di riflettere su tale costruzione (S t r ia n o 2001, p. 61).

Il modello deweyano

Il repertorio di pratiche

Una formazione rinnovabile

Anche Schòn è debitore, in sostanza, del modello deweyano della «co­ noscenza attraverso l’azione» e della «riflessione suH’indagine», che egli articola in un piano d’azione scandito in cinque tempi, proprio come sug­ gerisce Dewey: definizione di una situazione come problematica e unica; avvio di esperimenti esplorativi; «verifica della mossa»; verifica dell’ipote­ si; verifica della trasformazione della situazione (Schòn 1993, p. 169). Co­ noscenza e azione sono inscindibilmente collegate e i professionisti si pos­ sono perciò definire «indagatori che incontrano una situazione problema­ tica la cui realtà essi devono costruire» (Schòn 1993, p. 182). Sulla base della ricorrenza di situazioni differenti (o di sequenze di­ verse) si costituisce un «repertorio di aspettative, immagini e tecniche» (o repertorio di pratiche) che formano il bagaglio esperienziale del pro­ fessionista a tal punto da configurarsi come un vero e proprio elemento di conoscenza «tacito, spontaneo, automatico». Naturalmente questo bagaglio si può rivelare anche controproducente, se, anziché essere una base per l’ulteriore arricchimento, si manifesta nelle forme di un reper­ torio scontato, rigido, ripetitivo, assiomatico che rifiuta il nuovo e l’im­ previsto. Questo rischio è molto alto nella popolazione adulta, quando, dopo essersi impadronita di competenze specifiche, tende a ripeterle in modo stereotipato (—>T11). Per scongiurare un tale pericolo, occorre assicurare una formazione capace di rinnovarsi il cui itinerario è così tratteggiato da Schòn: -

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capacità di scomporre le strutture della realtà e di ricercare modi al­ ternativi di organizzarla; sistemazione ordinata e organica di casi da cui attingere per affron­ tare i problemi e le situazioni nuove; conoscenza delle principali teorie di ciascun sapere professionale per orientarsi in campi non ancora esplorati o che si presentano con tratti inediti; comprensione della «riflessione nel corso dell’azione» e delle condi­ zioni che la favoriscono o la impediscono in un determinato contesto.

Un’altra cospicua serie di contributi alla teoria della formazione in ambito professionale è giunta negli ultimi decenni dagli studiosi che hanno approfondito il rapporto fra apprendimento, esperienza lavorati­ va e vita personale con particolare riferimento ai lavoratori dipendenti. Per molto tempo in questo settore la formazione per obiettivi è stato considerata lo strumento più efficace, con molte analogie mu­ tuate dalle pedagogie dell’insegnamento: modalità in prevalenza lineari e sequenziali, progettazione come elaborazione di obiettivi e costruzione di sequenze didattiche prestabilite. La pratica della ricer­ ca-azione, specialmente sul versante delle professioni dipendenti e più condizionate dall’applicazione di procedure ha incontrato notevo­ li difficoltà a farsi strada. Al graduale declino delle prassi formative scandite da passaggi rigidi è corrisposta una maggiore attenzione all’interazione fra la cosiddetta «po­ larità organizzativa» (cioè il contesto in cui l’esperienza formativa si svol­ ge) e la «polarità individuale» (il soggetto che agisce), intesa non solo come «esperienza personale» tout court, ma soprattutto come relazione che gli individui stabiliscono con la propria esperienza professionale e personale. L’organizzazione (fabbrica, uffici, servizi, l’impresa in generale) ha assunto perciò una nuova fisionomia: non più soltanto luogo di produ­ zione, ma anche occasione e sede di apprendimento, di sviluppo di competenze, di crescita delle abilità e di sapere ovvero «un contesto nel quale gli individui conoscono e sperimentano e che può dunque essere presentato come spazio di formazione di una vera e propria intelligenza collettiva, quella che si estrinseca nell’attività comune di soggetti capaci ed efficienti» (Campione - Tagliagambe 2008, p. 173). Da qui il moltiplicarsi delle esperienze di «apprendimento organizzativo» (organizational learning o, secondo altri, learning organization), basato sul presupposto che «la sede dell’apprendimento è la realtà organizzata nella quale agiamo».

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L'apprendimento sul luogo di lavoro

2.5 Apprendimento organizzativo e comunità di pratica Caratteristica propria dell’apprendimento organizzativo sono la cir­ colarità del sapere, la capacità di comprendere e di comprendersi e di far emergere la progettualità e la creatività dei singoli, in una parola saper pensare e saper fare in comune. Questa esperienza riesce tanto meglio quanto più, sui luoghi di lavoro, si stabiliscono legami sociali significati­ vi e gratificanti e quanto più forte è il coinvolgimento attivo del singolo individuo nelFeconomia dell’organizzazione nel suo complesso. L’apprendimento organizzativo si articola intorno a tre fasi successi­ ve e concatenate: -

trasformazione dell’informazione in conoscenza (fase dell’arricchi­ mento personale); trasformazione delle conoscenze in sapere (passaggio dalla cono­ scenza individuale alla padronanza del sapere da parte dell’orga­ nizzazione);

Pensare e fare in comune

Le tre fasi

Le teorie dell'istruzione e della formazione

Studiare pedagogia

-

La competenza socializzata

La realtà della crisi

Wenger e la «comunità di pratica»

Scambi di informazioni e riflessioni

trasformazione del sapere in comportamenti operativi (con il doppio esito della realizzazione del cambiamento atteso e della creazione del­ le premesse per rinnovare il ciclo informazioni-conoscenza-saperecambiamento) (Quaglino 1999, pp. 222-223; A rgirys - Schòn 1998).

Così concepito l’apprendimento «è un fenomeno collettivo nel quale le conoscenze individuali si intrecciano, si confrontano e si combinano in un processo che coinvolge l’organizzazione nel suo insieme» (L ipari 2002, p. 121). L’apprendimento organizzativo rappresenta perciò il prin­ cipale veicolo attraverso cui è possibile favorire l’accrescimento delle ri­ sorse cognitive esperienziali e culturali, che, con il suo effettivo poten­ ziale, consente alle organizzazioni sopravvivenza e sviluppo. Muta, quindi, anche il modo di guardare alle competenze proprie di uno specifico campo professionale. La competenza perde la fisionomia individualistica, con cui viene in genere concepita, per assumere una di­ mensione socializzata: il bagaglio soggettivo di competenze costituisce infatti sia una risorsa sia uno stimolo per l’organizzazione che apprende. Di fronte alla necessità di fronteggiare situazioni nuove i gruppi sono spinti a una continua verifica delle proprie conoscenze e delle proprie capacità di produrre e di inventare innovazioni locali. Fin qui le proposte elaborate dagli studiosi impegnati a fare dei luoghi di lavoro anche luoghi di formazione. Occorre tuttavia precisare - per evi­ tare di descrivere una realtà più ipotetica che reale - che la grave crisi eco­ nomica che flagella le società occidentali ha spesso posto in discussione alcune acquisizioni che sembravano, fino a pochi anni orsono, abbastanza acquisite. La ricerca da parte delle aziende di profitti talora speculativi, la carenza di lavoro, la disponibilità sul mercato di una manodopera dispo­ sta a lavorare anche in condizioni di precarietà costituiscono altrettante condizioni negative per il rafforzamento di realtà nelle quali formazione, lavoro e soddisfazione personale si congiungono positivamente. Accanto agli studi di Argyris e Schòn - i pionieri di questa concezio­ ne dell’apprendimento collettivo - gli studi di Etienne Wenger sulle «comunità di pratica» hanno apportato nuove prospettive in una visione meno efficientistica con una più forte sottolineatura degli interessi individuali e dell’intensità delle relazioni interpersonali. Per comunità di pratica si intende un gruppo di persone che è impe­ gnato in una impresa condivisa e allo scopo di raggiungere il migliore ri­ sultato si mobilita, mediante regolari e reciproche interazioni, per far circolare conoscenze, competenze e buone pratiche. Non basta avere un interesse comune o stringere rapporti di amici­ zia per definirsi una comunità di pratica: essa si costituisce in funzione di precisi obiettivi in genere di tipo professionale. I membri possono la­ vorare gomito a gomito oppure anche non stare insieme tutti i giorni. La loro attività è in ogni caso legata e addirittura condizionata dagli scambi di informazioni e riflessioni. Wenger porta l’esempio dei pittori impressionisti francesi del secondo Ottocento: questi artisti avevano l’abitudine di incontrarsi nei caffè parigini per discutere lo stile della pittura che stavano inventando insieme anche se ciascuno lavorava se­ paratamente nel suo studio.

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I PROTAGONISTI

Étienne Wenger Étienne W enger (1952) è un ricercatore svizzero che si è specializzato presso l'Università del­ la California (Stati Uniti), consulente di varie e im portanti imprese, il cui nome è soprattutto associato a studi e ricerche nel cam po dell'ap­ prendim ento sociale e, in particolare, dell'ap­ prendim ento com e processo partecipato e condiviso.

Alla base della riflessione dello studioso elvetico sta l'affermazione secondo cui «l'apprendimen­ to è un processo intrinsecamente sociale che non può essere distinto dal contesto nel quale si manifesta». Oltre al volume Comunità di pratica (1998, in italiano nel 2006) Wenger ha pubblicato numerosi altri scritti tra cui L'apprendimento situa­ to (2006, con Jean Lave).

Il concetto di pratica connota il fare, ma un fare disposto entro un contesto sociale che assicura sostanza e significato: La prima caratteristica della pratica come fonte di coerenza di una comunità è l’impegno reciproco dei partecipanti. La pratica non esiste in astratto. E siste perché le persone sono impegnate in azioni di cui negoziano reciprocamente il significato. In questo senso, la pratica non risiede nei libri o negli strumenti, anche se può coinvolgere tutti i tipi di oggetti. N on risiede in una struttura preesistente, anche se non nasce in un vuoto storico. La pratica risiede in una comunità di persone e nelle relazioni di impegno reciproco attraverso le quali esse fanno tutto ciò che fanno. L’appartenenza a una comunità di pratica è dunque un patto di impegno reciproco. È ciò che definisce la comunità.

La comunità di pratica è perciò al tempo stesso, per usare i termini di Wenger, partecipazione e reificazione. Con la prima espressione s’indicano i processi di socializzazione tra i partecipanti, per reificazione s’intende il processo con cui si dà forma all’esperienza, producendo vere e proprie «entità materiali» prodotte dall’esperienza nelle quali si dà forma a un’idea. Qualunque comunità di pratica è l’esito di un intreccio di relazioni interpersonali, di nozioni esplicite, di conoscenza tacita, di obiettivi condivisi e tradotti in attività concrete. Secondo Wenger l’apprendistato è un caso emblematico di apprendi­ mento che si compie all’interno di una comunità di pratica. In questo ca­ so si assiste alla piena «corrispondenza tra conoscere e apprendere, tra la natura della competenza e il processo tramite il quale viene acquisita ed estesa» (Wenger, 2006, p. 120). L’apprendista non solo acquisisce in­ formazioni e impara attraverso l’esercizio diretto, ma diventa «una per­ sona differente con una diversa relazione con il mondo e con la comuni­ tà». Con l’apprendimento, in altre parole, si trasforma anche la sua iden­ tità in quanto all’acquisizione di un certo numero di informazioni o di competenze, si associa un nuovo modo di dare senso alla sua esperienza e di vivere il suo lavoro... Così l’apprendistato assomiglia a una sorta di viaggio sociale attraverso il

Partecipazione e reificazione

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Le teorie dell'istruzione e della formazione

Studiare pedagogia

I PROTAGONISTI

LA DEFINIZIONE

Bertrand Schwartz

La conoscenza tacita Il termine conoscenza tacita o implicita, o anche sapere tacito (in inglese, tacit knowledgé), viene impiegato soprattutto nel cam po delle discipli­ ne che studiano il funzionamento delle organiz­ zazioni ed è riconducibile a un'osservazione di Michael Polanyi (1891-1976, scienziato e filosofo di origini ungheresi) secondo cui possiamo co­ noscere molto più di quanto non sappiamo dire. L'attività di ciascuna persona come quella propria

dello scienziato si basa su abilità che non sempre possono essere spiegate in tutti i loro particolari. Si tratta insomma di una conoscenza non codifi­ cata, non contenuta in testi o manuali, non gestita attraverso una comunicazione strutturata; ma una conoscenza direttamente collegata alla capacità di comprensione dei contesti di azione, intuizioni, sensazioni che difficilmente possono essere com ­ prese da chi non condivide tale esperienza.

gruppo, un viaggio in cui la partecipazione in izia molto presto, evolvendosi verso una vera e propria comunità di pratica (W e n g e r 2006, p. 310).

Tanto l’apprendimento organizzato quanto l’esperienza delle comuni­ tà di pratica fanno molto affidamento sulle modalità proprie del pensiero riflessivo e cioè sulla capacità di tenere aperta la domanda, di alimentarla, provarla, inseguirla (—*T12). Più che alla competenza acquisita, esse sono attente ai processi attraverso cui la competenza si costruisce. Particolare attenzione viene perciò riservata alle fasi, ai tempi e anche alle modalità soggettive (autobiografiche) di articolazione dei processi formativi, alle condizioni che li favoriscono o li inibiscono, agli elementi di connessione e di continuità fra le strutture di conoscenza in gioco.

2.6 Modernizzare senza escludere Schwartz e l'equità dei diritti educativi

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Una interpretazione alquanto diversa del lifelong learning rispetto a quelle fin qui esaminate - meno funzionalistica e più solidaristica ispira­ ta a ideali socialisti - è offerta dalle ricerche e dalle esperienze di Ber­ trand Schwartz il cui interesse è rivolto soprattutto a livelli più modesti e marginali del mondo del lavoro dipendente. Secondo Schwartz le prospettive del lifelong learning vanno orienta­ te ad assicurare maggiore equità nella fruizione dei diritti educativi ed a creare una democrazia autentica e cioè solidale. Questo è possibile se le azioni formative puntano a combattere le disuguaglianze, a promuovere la partecipazione attiva e considerano il soggetto in formazione nella sua globalità di persona (—»T13). Lo studioso francese è convinto che si possa perseguire una politica economica d’avanguardia e competitiva senza abbandonare al loro de­ stino i meno fortunati. La formula «modernizzare senza escludere» (im­ piegata anche nella formula «modernizzare nella solidarietà») rende be­ ne il pensiero e la militanza di Schwartz ed è il titolo di un’associazione da lui fondata nel 1990 e di un volume pubblicato nel 1994 (tradotto in italiano l’anno successivo, S c h w a r t z 1995).

Bertrand Schwartz (1919-2016), di formazione scientifica e già direttore della Scuola per inge­ gneri minerari di Nancy in Francia, è stato promo­ tore di numerose iniziative di azioni di formazione per adulti a basse scolarità nei bacini carboniferi e metallurgici della Lorena colpiti della crisi e dalla disoccupazione. Professore di Scienze dell'educa­ zione a Paris IX dal 1972, nel 1981 è autore di un

importante rapporto commissionato dal Ministero dell'Educazione Nazionale sull'inserimento lavora­ tivo e sociale dei giovani. Tra il 1983 e il 1993 dirige i progetti avviati in varie zone della Francia a favo­ re dei giovani marginali e a rischio. Molti suoi libri sono stati tradotti in italiano: Un'altra scuola (1980); Educazione per gli adulti ed educazione permanente (1987) e Modernizzare senza escludere (1995).

Lo studioso francese rifiuta la tesi della fatalità dell’esclusione e di­ mostra che si possono trovare soluzioni idonee a riconciliare i soggetti trascurati dalla scuola con la conoscenza e il lavoro fino a reimmetterli nel circuito produttivo. Solo agendo nei territori della marginalità e combattendo l’esclusione è possibile dare soluzione alla palese contrad­ dizione tra l’affermazione di principio che «l’educazione è un diritto di tutti e per tutta la vita» e l’esclusione di migliaia di giovani dalle scuole e di milioni di adulti dal sapere. Il luogo privilegiato del lifelong learning è il territorio ove si svolge la vita sociale quotidiana e ove s’incontrano i problemi reali dei cittadini. Il sistema educativo, annota Schwartz, è invece tradizionalmente carat­ terizzato dalla separazione: dal lavoro, dall’ambiente, dalla vita. Nella realtà della scuola aperta a tutti non si possono immaginare le attività formative indifferenti al tessuto sociale del territorio. La dimensione lo­ cale si propone pertanto come il luogo di ricomposizione dei processi formativi e la sede ove si misura la concreta volontà di un’educazione ri­ volta a tutti ( S c h w a r t z 1980 e 1984). Entro questo quadro complessivo Schwartz ha avviato iniziative de­ stinate soprattutto a coloro che meno si avvalgono delle opportunità formative: i portatori di insuccessi scolastici, gli scolarizzati incompleti o parziali, gli adulti impegnati in attività scarsamente qualificate. Non è affatto scontato, per questi soggetti, entrare in formazione: più il lavo­ ro è faticoso e abbrutente, più le condizioni di vita sono precarie e i sa­ lari scarsi, e meno si pensa alla formazione. In più si aggiunge la diffi­ coltà psicologica di ammettere una condizione personale di ignoranza/ incompetenza e quella, correlata, a rivivere le frustrazioni di preceden­ ti fallimenti scolastici. Schwartz lamenta, inoltre, la persistenza di alcuni pregiudizi che condizionano ulteriormente l’efficacia della formazione dei soggetti de­ boli. Per esempio, il fatto che, mancando spesso di prerequisiti (soprat­ tutto linguistici), essi non avrebbero possibilità reali di conseguire com­ petenze significative. Altri pregiudizi riguardano la convinzione che chi non è stato capace di approfittare, a suo tempo, delle opportunità scola­ stiche e formative, avrebbe meno opportunità di successo rispetto a chi ha seguito un regolare percorso, e che per le aziende sarebbe più remu-

Verso il reintegro dei marginalizzati dalla scuola e dal sapere

I pregiudizi persistenti

Studiare pedagogia

nerativo espellere i lavoratori a basse mansioni anziché procedere alla loro riqualificazione. Lo studioso francese contrasta vigorosamente entrambe queste posi­ zioni. Anche soggetti con esiti scolastici non positivi possono reinserirsi nel circuito formativo, a patto che l’organizzazione delle attività rispon­ da a una serie di requisiti in grado di mobilitare le risorse latenti con op­ portune iniziative rimotivanti. L'apprendimento La principale strategia consiste nella concretezza reale delle espe­ commisurato rienze formative e della partecipazione personale: se si vuole costruire al soggetto un circuito virtuoso fra soggetti deboli e formazione va resa concreta la partecipazione degli interessati alla progettazione e valutazione delle attività formative, allo scopo di svilupparne l’autonomia e la responsabi­ lità. L’apprendimento non può perciò essere standardizzato, ma va com­ misurato alle capacità e alle aspettative dei soggetti coinvolti. Formazione e ambiente Secondo Schwartz non si può, inoltre, separare, come si è già detto, la formazione dall’ambiente: essa ha un senso se è capace anche di aiu­ tare a comprendere le ragioni della propria condizione sociale e politica. Formare, detto in altre parole, non significa soltanto trasmettere abilità e competenze, ma altresì fornire strumenti per decodificare la propria condizione di marginalità e di subalternità al fine di contrastarla e, per quanto possibile, di riscattarla. Costruire Con questa impostazione Schwartz riflette una sensibilità politica as­ coscienze critiche sai diffusa tra gli anni Settanta e Ottanta (basti ricordare, per esempio, Paulo Freire), secondo cui non è sufficiente fornire agli adulti abilità stru­ mentali, ma è fondamentale costruire anche coscienze critiche capaci di emanciparsi dalle condizioni di subalternità e di sfruttamento: «Le diffi­ coltà degli emarginati dalla vita sociale ed economica non si limitano alla mancanza o all’insufficienza di formazione. I loro problemi sono globali, legati alla loro storia e alla loro sfortuna» ( S c h w a r t z 1995, p. 222). I «disoccupati a vita» Con altrettanta energia viene criticata la tesi secondo cui sarebbe più utile per le aziende licenziare anziché reinvestire sui soggetti deboli o poco professionalizzati. Se i processi di cambiamento dei sistemi produttivi do­ vessero seguire la prima via, osserva Schwartz, si causerebbero milioni di «disoccupati a vita», giovani e adulti con bassi livelli di scolarità, che an­ drebbero assistiti per diversi decenni con incalcolabili costi non solo sul piano umano, ma anche su quello economico e sociale. Quelle che in un’a­ zienda sembrano, a prima vista, eccedenze di manodopera non qualificata, possono rivelarsi delle risorse preziose e in grado di svolgere compiti utili. Anche restando al livello del semplice calcolo economico e di con­ venienza, conclude lo studioso francese, è più utile ed efficace lavorare per l’inserimento e la formazione, anziché prendere la scorciatoia dell’esclusione.

B 3. La formazione in rete Rapporto tra apprendimento e nuove tecnologie

Di un’ultima (e davvero strategica, come vedremo) questione dob­ biamo occuparci per completare l’analisi delle teorie dell’istruzione e della formazione del nostro tempo: quale rapporto si stabilisce tra ap­

re teorie dell'istruzione e della formazione

prendimento e nuove tecnologie nella società dell’informazione (o della «piena conoscenza», secondo altre dizioni). Il particolare rapporto fra uomo-macchina nell’elaborazione della conoscenza apre interrogativi su questioni delicate come - per indicarne solo alcune - le strutture de­ gli apprendimenti legati ai linguaggi mediali, la formazione di persona­ lità in grado di selezionare i materiali forniti dalla rete infotelematica, la preoccupazione di non sacrificare i rapporti di socializzazione. Il mutare dell’informazione colloca la società contemporanea in una struttura spazio-temporale radicalmente nuova e al tempo stesso innesca cambiamenti a livello profondo: inaugura infatti nuove moda­ lità di produrre, muta la fonte di ricchezza, crea inediti stili di vita le­ gati al mondo della virtualità. Protagoniste in ogni senso dei muta­ menti in corso sono le reti infotelematiche. Accanto alla società dell’informazione non a caso si è infatti sviluppata la «società della rete» (—>T14). Si produce in rete, si lavora in rete, si fa ricerca in rete, si studia in rete, ci si scambia opinioni in rete. Ma è opportuno guardarsi dal cre­ dere che le reti del mondo, le reti della società in rete, siano composte esclusivamente dall’infrastruttura tecnologica chiamata Internet, in­ sieme con l’archivio planetario di documenti chiamato web. La rete ha assunto la fisionomia del modello organizzativo predominante nel quale l’ampiezza e la novità dei mezzi tecnologici si manifestano con tale forza da oscurare o, per lo meno, marginalizzare i fini. E proprio questa eccedenza «a infondere quel senso di libertà unico, senza pre­ cedenti» ( B a u m a n 1996, p. 194), perché la rete non sembra aver né principio né fine, ovvero non è dato sapere dove precisamente essa co­ minci e dove esattamente finisca. Nel modello a rete ciascun fruitore rappresenta un nodo nel quale af­ fluiscono, da diverse direzioni, materiali e informazioni e dal quale de­ fluiscono, in altre direzioni, materiali e informazioni trasformati in qualche modo e misura. La cablatura totale del mondo si porrebbe co­ me garanzia di libertà e civiltà per tutti: le autostrade informatiche co­ stituirebbero nel medesimo tempo un agente di globalizzazione (tutto circola dappertutto) e un fattore di accesso ai servizi e alle informazioni (tutto è disponibile per tutti). La tecnologia agirebbe in termini quasi salvifici garantendo una società completamente trasparente che, pro­ prio attraverso la trasparenza, assicurerebbe il massimo di felicità, equi­ tà, ordine sociale, progresso. Questa realtà non è immune da sospetti e analisi critiche. Secondo un’altra corrente di pensiero (per esempio Kumar 2000, pp. 45-50) lo sviluppo e la diffusione della nuova tecnologia non avrebbero introdotto nella società alcun principio od orientamento veramente innovatore. Ci troveremmo in presenza soltanto di una nuova fisionomia del capitali­ smo maturo, segnata dal mutamento delle modalità strumentali del la­ voro e degli scambi tra gli uomini. La notevole velocità di diffusione del­ le informazioni non produrrebbe cambiamenti così radicali e positivi come i suoi sostenitori vorrebbero far credere. I modelli esistenti sarebbero addirittura consolidati e rafforzati con l’ulteriore standardizzazione del lavoro e del tempo libero. Le reti pro-

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Le reti infotelematiche

Una società trasparente, libera, equa...

... irs. una nuova forma di capitalismo

Studiare pedagogia

durrebbero sempre più clienti consumatori che soggetti capaci di scelte e di cultura personale. Agli scarni manipoli dei lavoratori della cono­ scenza di altissimo profilo corrisponderebbero milioni di operatori di basso profilo il cui destino è quello di seguire passivamente strategie di routine. Nuove ingiustizie sociali si aprirebbero, infine, tra i produttori e gli utilizzatori della nuova tecnologia e coloro che ne sono solo clienti e consumatori passivi come i semplici cittadini o, a livello internazionale, i paesi più poveri.

3.1 Pensare in rete La varietà e l'insicurezza

L'immediatezza di interazione

I digitals natives e la cyberception

L'esternalizzazione

La rete si presenta con caratteristiche ambivalenti anche per altre ra­ gioni. Essa è al tempo stesso un’indefinita descrizione del mondo dell’esperienza e un mondo parimenti indeterminato che esiste per conto proprio, un autonomo universo parallelo. Ogni volta che si apre questa finestra sul mondo, si è sorpresi, quale che sia la nostra esperien­ za di internauti, dalla varietà dei materiali che in pochi istanti essa ci presenta. Se non fosse che un istante dopo si è colti da un senso di fibril­ lante insicurezza dinanzi alla possibilità che l’identità, la qualità, il con­ testo, la verità dei materiali che ci sono presentati siano altre da quelle che ci appaiono. L’insicurezza è una funzione del «potenziale di sorpresa» degli oggetti che si confrontano. La relazione con la rete e, in generale, l’impiego dei nuovi media genera negli utenti rilevanti modificazioni nel modo di recepire le in­ formazioni, trasmetterle, trattenerle e organizzarle, così come nel mo­ do di strutturare la comunicazione verso l’esterno e verso altre perso­ ne. Il soggetto sviluppa nuove abilità o, per lo meno, sperimenta un di­ verso modo di mettersi in rapporto con la realtà. L’antico scambio tra la mente e il mondo (noi cambiamo il mondo pensandolo e il mondo cambia noi con i suoi stimoli) è da reinterpretare in relazione all’ab­ battimento dei tempi di conoscenza. Fino a oggi ci voleva del tempo. Non si poteva semplicemente pensare una cosa e vedersela realizzata davanti agli occhi come per magia. Oggi la velocità di interazione è au­ mentata fino aH’immediatezza. Questa trasformazione implica il ripensamento delle funzioni della mente e, in particolare, delle sue modalità di apprendimento. Marc Prensky ha coniato l’espressione digitai natives per quanti crescono in un am­ biente segnato dalla presenza dei media digitali e Derrik de Kerckhove, a sua volta, ha parlato di cyberception. In che modo «la natura intrinseca­ mente interattiva dei media digitali genera una particolare ridefinizione dell’apparato cognitivo-percettivo» in conseguenza dell’immersione istan­ tanea alFinterno dello spazio del web? La cyberception prospetterebbe in­ fatti una «percezione del tutto differente rispetto a quella del mondo fisi­ co o a quella di natura introspettiva» ( F e r r i 2002, pp. 133-134). Con la cosiddetta «esternalizzazione dei processi mentali» si verifi­ ca lo spostamento all’esterno - sulla macchina - di alcune delle fun­ zioni proprie della mente umana. L’esternalizzazione della memoria (cioè la possibilità di archiviare dati concreti in un posto che non è la

Le teorie dell'istruzione e della formazione

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I PROTAGONISTI

Marc Prensky Marc Prensky (1946), statunitense, insegnante, scrittore e innovatore nel cam po delle tecno­ logie dell'apprendimento, è noto per le sue ini­ ziative e i suoi saggi sulle nuove pratiche peda­ gogiche necessarie per rivitalizzare il mondo dell'insegnamento ormai frequentato da bambi­ ni e ragazzi che crescono in un mondo digitaliz­ zato. Nel 2001 ha scritto due saggi nei quali viene proposta la metafora dei digitai natives e dei digi­ tai immigrants. Questa distinzione oggi però non sarebbe più sufficiente. La differenza tra i bam­

bini «digitalizzati» (per l'appunto i digitai natives) e gli adulti che faticano a orientarsi in esso {digi­ tai immigrants) è destinata a sfumarsi e, secondo Prensky, occorrerà fare riferimento ad altri con­ cetti per leggere la continua evoluzione tra l'uo­ mo e le tecnologie. In un articolo del 2009 lo stu­ dioso americano introduce il concetto di digitai wìsdom (saggezza digitale), una qualità che sem­ pre più distinguerà chi saprà avvalersi delle tec­ nologie in m odo appropriato e creativo e chi, in­ vece, non saprà farlo.

nostra testa) rappresenta l’esempio forse più scontato, ma assai perti­ nente: Yhard disk di un computer o la stessa rete si appropriano di una tipica capacità umana, ridefinendo in tal modo il confine tra sapere, erudizione e creatività. Ma il fenomeno della esternalizzazione ha dimensioni ben più vaste della memoria: sono infatti tutti i processi conoscitivi a sperimentare un nuovo approccio nel rapporto con la macchina e la rete. L’uomo cibernetico si aggira nel mondo secondo modalità del tutto nuove. Egli riposi­ ziona la connessione fra il suo io e il mondo, modificando i confini, il «dentro» e il «fuori» del sé. Quella che veniva considerata come una ra­ dicale opposizione tra soggetto e oggetto assume la fisionomia di una inedita forma di interazione multipolare tra soggetto e realtà. Dunque, ci troviamo ormai in una situazione ben più avanzata rispetto all’inter­ pretazione di Skinner dell’impiego del computer come sostituto dell’in­ segnante in alcune attività, che, se ben programmate e gestite con pro­ cedure corrette, possono rinforzare e ottimizzare le capacità di appren­ dimento degli allievi.

Nuova forma di interazione tra soggetto e realtà

I PROTAGONISTI

Derrik de Kerckhove Derrik de Kerckhove (1944), sociologo di origi­ ni belghe, da tempo vive in Canada ove insegna presso l'Università di Toronto. Stretto collabora­ tore di Marshall McLuhan, ne è considerato l'ere­ de intellettuale. Al suo nome sono associati la te­ oria dell'Intelligenza connettiva e lo studio sulle cosiddette «psicotecnologie». La rete ha creato uno spazio culturale radicalmente nuovo all'in­ terno del quale tutti possono partecipare alla sua

costruzione. Ogni testo fa parte di un immenso ipertesto collettivo che è il risultato della connes­ sione intellettiva di milioni di utenti. Più ampie sono le possibilità connettive e più è aperta l'ar­ chitettura del pensiero. Il cyberspazio sollecita la creazione di nuove forme di relazione tra mente e ambiente mediale con la modificazione, anche neurologica, degli scambi tra esterno e interno dell'esperienza umana.

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Learning machine

Il riposizionamento dell'apprendimento

Studiare pedagogia

Le teorie dell'istruzione e della formazione

Questo schema risulta superato da un impianto in cui, per rendere conto della natura del «pensare in rete», si saldano l’approccio costrut­ tivista sul piano della conoscenza e la prospettiva socioculturale delFapprendimento. Ciò significa, per dirla con Nelson Goodman, farsi «costruttori del mondo» (G oodman 1978), nel senso di farsi scopritori di nuove cono­ scenze che, entrando in circolo alFinterno della grande rete dei saperi, concorrono all’accrescimento del patrimonio culturale comune. Il com­ puter, in questa prospettiva, si comporta non solo come un’opportunità didattica di apprendimento e di autoapprendimento, ma si configura co­ me uno strumento particolarmente idoneo a favorire l’interazione dei diversi livelli e contesti di conoscenza. Anziché assoggettare l’uomo, ne esalterebbe le potenzialità e le capacità creative. Seymour Paperi, uno dei pionieri della cibernetica e della didattica digitale, parla del computer come di una vera e propria learning machi­ ne, e cioè di uno strumento che il soggetto - sia esso adulto o bambino - può gestire in modo flessibile e originale all’interno del nuovo spazio della conoscenza reso possibile dalla rete (Papert 1994). Saremmo, perciò, ben lontani dal rischio, prefigurato da Umberto Galimberti, della caduta del soggetto nel ruolo di «funzionario della tecnica», ma ci troveremmo, al contrario, di fronte a nuove e finora ine­ dite possibilità di reciproco arricchimento. A questa visione positiva e creativa dell’approccio infotelematico corrisponde la convinzione che essa è coerente con il riposizionamento delFapprendimento nella società della piena conoscenza. Il problema centrale non è più soltanto quello di aiutare individui e gruppi ad assor­ bire nuove conoscenze nel modo più efficace possibile, ma quello di metterli in condizione di poter eseguire la massima quantità di raccordi o passaggi da una conoscenza all’altra secondo una logica reticolare.

I PROTAGONISTI

Seymour Papert Seym our Papert (1928-1916), originario del Sud Africa, dopo aver studiato a Ginevra con Jean Piaget approda al Massachusetts Institute of Technology di Boston dove lavora ad un pro­ getto sull'Intelligenza artificiale, collaborando con Marvin Minsky. Personalità dagli interessi molteplici (matematico, informatico, studioso di questioni legate all'apprendimento e alla d i­ dattica multimediale), condivide con il costrut­ tivism o che l'apprendim ento è un processo di rappresentazioni interattive con il m ondo nel quale si agisce, ma reputa che questo proces­ so possa essere facilitato o rallentato in ragio­

ne della disponibilità o meno di materiali ap­ propriati. Secondo Papert la mente ha bisogno di materiali da costruzione per edificare il pensiero. A tal fine si dedica alla messa a punto di strumenti idonei a facilitare e rendere più efficace l'apprendimen­ to tra cui il sistema LOGO, un linguaggio di pro­ grammazione predisposto per i bambini e aiutarli a pensare in modo computazionale e a risolvere problemi. A lui si deve una forte spinta a favore dell'introduzione delle tecnologie digitali nell'ap­ prendimento scolastico in anni in cui l'informa­ tica appariva ancora una scienza per specialisti.

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Ci troveremmo insomma in presenza di una virtuosa sinergia tra la grande rete e le reti concettuali dei singoli individui; lo scopo dell’interven­ to educativo/formativo dovrebbe assicurare la padronanza di un metodo per codificare le informazioni dell’esperienza in dati o in procedure, per sviluppare il raggio di padronanza dell’esperienza del mondo tramite queste procedure, per generare nuove conoscenze tramite procedure corrette ed efficaci. Ciò che conta è poter riconoscere in ogni procedura informatica una mossa della mente e usare la procedura stessa come strumento e via per nuove conoscenze (M argiotta 1997, p. 170).

All’ottimismo dei novatori fa da controcanto la prudenza dei critici, Le finalità cioè di quanti non credono in quel cambiamento epocale evocato dai so­ e il conformismo stenitori della rete o, ancor più drasticamente, percepiscono le nuove alienato tecnologie come un potenziale nuovo strumento di conformismo aliena­ to (il «cretinismo digitale» denunciato da Umberto Eco). La tecnologia recherebbe in sé le condizioni e la possibilità di essere destinata a certi tipi di finalità piuttosto che ad altre. Non esisterebbe insomma una tec­ nologia «neutra», ma essa porterebbe inscritto in sé «il proprio pro­ gramma d’uso», risentendo di una progettazione a essa precedente (le procedure antecedenti i processi) e, dunque, di finalità se non proprio del tutto predeterminate, almeno in larga parte condizionate. Siamo poi così certi che il futuro sarà quasi automaticamente egemo­ Le «neuromitologie»: nizzato dai digitai natives i cui circuiti cerebrali starebbero mutando in se­ cautela e riflessione guito all’impiego corrente degli strumenti tecnologici? Le ricerche con­ dotte in varie direzioni invitano a qualche prudenza. Varie «neuromitolo­ gie» (cioè false costruzioni) mitizzerebbero gli effetti della digitalizzazione, a cominciare proprio dall’asserita generazione dei digitai natives. Molti bambini e ragazzi, infatti, non presentano le caratteristiche de­ scritte da Prensky sia per indole personale sia per la difficoltà (spesso di natura socioeconomica) dell’accesso universale alle tecnologie. Quanto al fenomeno del multitasking - tanto decantato come prerogativa dei na­ tivi - non solo è sempre esistito, ma sarebbe tutto da dimostrare che sia realmente una competenza in grado di assicurare al soggetto dei vantag­ gi (R ivoltella 2012, Cap. I). Occorrerebbe perciò sfuggire a facili luoghi comuni e accrescere la riflessione sulla natura stessa del media, sui rapporti con l’esperienza re­ ale e con la costruzione dei saperi nonché sulla struttura stessa dell’im­ pianto infotelematico e dei linguaggi ad esso connessi. I processi ri­ schiano di dipendere dalle procedure, con il rischio di un riduzionismo pragmatico segnato dall’appiattimento di tutte le dimensioni dell’uomo sulla performance operativa. Un altro nodo problematico riguarda il prevalere dell’approccio indi­ L'approccio viduale (e spesso individualistico) nell’esperienza della rete, a danno della individualistico dimensione naturalmente sociale dei processi educativi e formativi. La di­ della rete mensione privata dell’impiego della rete costituisce una realtà difficil­ mente contestabile. È possibile che i milioni di individui che quotidiana­ mente navigano in rete pensino di partecipare a una straordinaria impre­ sa collettiva, ma nella maggior parte dei casi i loro rapporti non generano

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L'«uomo elettronico»

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Studiare pedagogia

alcun senso autentico di comunità. A unirli non è nemmeno la voce uma­ na, ma al suo posto stanno «un certo numero di messaggi scritti, qualche briciola di sentimenti disincarnati, una serie di servizi tecnici e una mon­ tagna di inserzioni pubblicitarie elettroniche» (Kumar 2000, p. 217). Anziché esercitare il nostro «controllo» e favorire la nostra perso­ nale partecipazione all’ambiente sociale a noi più vicino, l’esperienza infotelematica sarebbe molto più banale e meno creativa di quanto si potrebbe pensare. L’esposizione degli strumenti infotelematici alla virtualità rischierebbe, in sostanza, di generare un «uomo elettronico» nutrito di immagini virtuali che ne metterebbero a repentaglio la stes­ sa identità esistenziale.

tamenti: essa introduce a «qualcosa di diverso» dalla comunicazione tradizionale e produce nuovi eventi e nuovi comportamenti. Vivere la multimedialità significa semplicemente prendere atto e imparare a convivere con una nuova realtà che si manifesta con fina­ lità, strumenti e regole sue proprie. Essa non mette in discussione il valore della comunicazione umana cui siamo abituati. La multimedia­ lità si propone come un’«altra» forma di interazione: si tratta di accet­ tarla per quello che è, cercando di migliorarne l’efficacia rispetto allo scopo perseguito. Ciascuno strumento e ambito di linguaggio va compreso all’interno dei codici dichiarati: non chiediamo a un ambiente tecnologico di realizzare l’ideale di perfezione che poi gli rimprovereremmo come titanica prova d’onnipotenza ( B r u s c h i - M a r ia n i 2002, p. 142).

3.2 Vivere la multimedialità Due rappresentazioni culturali e pedagogiche della rete

La pluralità significativa della rete: le intenzioni dei soggetti

Una nuova realtà

Ci troviamo, per dirla in breve, in presenza di due rappresentazioni culturali e pedagogiche della rete: da un lato una visione critica, preoc­ cupata di una possibile manipolazione delle menti e di una diffusa soli­ tudine; dall’altro una prospettiva specularmente rovesciata e disposta a valorizzarne tutte le intrinseche potenzialità facendone uno strumento indispensabile per la formazione del sapere personale. La prima poggia su una doppia analisi critica della rete vista come educazione che si con­ segna alla tecnologia e come luogo della solitudine individualistica. La seconda si muove nella prospettiva di una «pedagogia virtuale» in virtù della quale la rete, pur senza prescindere da doverose cautele, si propo­ ne come un ambiente ricco di inedite opportunità di socializzazione e di esperienza e, dunque, di apprendimento. Non è la realtà della rete «in sé», né alcuna proprietà «oggettiva» ad essa riconducibile che determinano la solitudine o la socialità dell’indi­ viduo; oppure l’efficacia o l’inefficacia didattica del docente che la im­ piega; o la superiorità o l’inferiorità di un corso on line rispetto a un cor­ so tradizionale. La rete si presenta piuttosto come un’entità comunicati­ va ad alta intensità interattiva cui è possibile attribuire un’indeterminata varietà di significati. Essa si può rappresentare come «uno spazio di ne­ goziazione tra prospettive differenti» secondo le intenzioni dei soggetti che se ne avvalgono. Ne risulta che la rete non può essere pensata «se non come un oggetto culturale della cui realtà sono parte integrante proprio quelle negoziazioni (scontro di opinioni, interpretazioni, usi so­ ciali) cui essa dà occasione» (R ivoltella 2003, p. 69). Il senso di Internet, per esempio, non appartiene insomma a Inter­ net, ma a chi se ne avvale. Inutile, dunque, affannarsi a compilare elen­ chi di prò o contro, di fattori positivi per un modo o l’altro di procedere rispetto alle opportunità offerte dai nuovi media. A l tempo stesso le nuove possibilità di comunicazione e di interazione si presentano con una loro specificità che le fa diverse da altre tipologie comunicative: «al­ la comunicazione tramite computer non ‘manca’ qualcosa rispetto alla comunicazione faccia a faccia: semplicemente la seconda ‘non’ è la pri­ ma» (B ruschi - M ariani 2002, p. 141). La tecnologia infotelematica non offre, cioè, soltanto accessi più rapidi e completi a eventi e compor-

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3.3 Come educare alla multimedialità È proprio in ragione della sua ormai «normale quotidianità» che il rapporto con i media intercetta i processi educativi, né più né meno di come si conoscono e si usano altri strumenti per l’apprendimento, a partire dai più antichi e consueti come il libro e l’annotazione degli appunti. Saper usare il computer, saper interagire con un ipertesto, saper ricavare dei materiali culturali dalle risorse di rete, saper stabilire rapporti di apprendimento con altri a distanza rappresentano altrettante opportunità per ampliare le strategie cognitive e potenziare le conoscenze. Oggi siamo in presenza della faticosa rincorsa della generazione adulta e degli insegnanti in particolare - formati in un contesto senza tecnologie o con tecnologie molto elementari - a colmare ritardi di mentalità e lacune anche di tipo tecnico. Una delle difficoltà è rap­ presentata, non a caso, nella cosiddetta «divergenza cognitiva» tra do­ centi e studenti. Questi ultimi vantano infatti in genere competenze superiori a quelle dei loro insegnanti, anche se il gap si sta gradual­ mente colmando. Gli studi e le ricerche nel campo dell’educazione alla multimedialità si snodano intorno a tre nuclei principali: -

l’acquisizione di abilità e conoscenze nell’uso degli strumenti multi­ mediali; la definizione degli ambienti di apprendimento e delle condizioni edu­ cative entro cui il loro impiego si può svolgere in condizioni ottimali; la formazione del senso critico e della capacità di discernimento.

Per quanto riguarda il primo e il secondo punto, è opportuno che l’in­ troduzione degli strumenti didattici multimediali sia graduale, accompa­ gnando il normale sviluppo dell’esperienza dei bambini e dei ragazzi (pas­ saggio dalla dimensione ludico-esperienziale a quella logico-concettua­ le). Diversi autori condividono il seguente schema quadrangolare:

Una nuova opportunità e la «divergenza cognitiva»

L'educazione alla multimedialità

Studiare pedagogia

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L'organizzazione di adeguati ambienti di apprendimento

Il costruttivismo

Il cooperative learning

abilità di tipo tecnico, connesse alla capacità di usare in modo appro­ priato lo strumento tecnologico; abilità relative all’accesso e alla comprensione dei contenuti, come saper decodificare codici multimediali o sapersi orientare nella rete in funzione di precise finalità e scopi; abilità riguardanti la pianificazione delle attività nel tempo sia in relazione a un progetto collaborativo sia in ragione di attività gesti­ te in proprio; abilità di interazione ossia capacità di sviluppare le opportune rela­ zioni in un ambiente virtuale (Calvani - R otta 2000, p. 157; F erri 2002; R ivoltella 2003).

In sintesi: la semplice abilità strumentale va progressivamente imple­ mentata con l’acquisizione di livelli di padronanza più complessi me­ diante la familiarità con più linguaggi comunicativi da impiegare con­ temporaneamente. Tutto ciò presuppone l’organizzazione di adeguati ambienti di apprendimento dove sperimentare le modalità di acquisizio­ ne delle abilità cognitive, cooperative ed emotive necessarie per il domi­ nio personale degli strumenti telematici. Disponiamo di qualificate ricerche che documentano come siano particolarmente congeniali al mondo delle tecnologie due importanti teorie dell’apprendimento già considerate nelle pagine precedenti: a) il costruttivismo e b) il Cooperative Learning. a. L’impianto costruttivista si affida infatti a tre princìpi coerenti con l’uso del computer e della rete: la conoscenza è prodotto di una co­ struzione attiva del soggetto; è strettamente ancorata a un contesto concreto; si svolge attraverso forme di interazione sociale. b. Le pratiche proprie dell’apprendimento cooperativo, a loro volta, consentono di rafforzare la dimensione dell’intersoggettività e della collaborazione in rete, contrastando il rischio dell’impiego indivi­ dualistico degli strumenti informatici. Il forum telematico, in specie, può rappresentare non solo un luogo ideale di scambio di opinioni e di costruzione collettiva di ipotesi, ma anche un luogo non burocra­ tizzato e non formalizzato dove lasciar liberamente emergere istan­ ze, intuizioni, esigenze, discussioni non condizionate dagli stati emo­ tivi che si verificano nelle situazioni in presenza. Gli apprendimenti mediati dalle tecnologie consentono di far inte­ ragire le potenzialità dell’insegnamento in presenza, la ricchezza (e l’arditezza) delle soluzioni tecniche di volta in volta messe a disposi­ zione e la capacità di elaborare strategie attive e «costruttive». Tanta ricchezza potrebbe tuttavia anche non essere sufficiente se si limita a restare nell’orizzonte di un funzionalismo tecnologico sia pure di altis­ simo livello e in grado di facilitare le conoscenze con soluzioni un tem­ po inimmaginabili. Non basta insomma distribuire in modo capillare computer e molti­ plicare i contatti in rete per misurare il «progresso» nel campo infotele­ matico. Certamente chi possiede più computer e sa meglio maneggiarli

Le teorie dell'istruzione e della formazione

gode di maggiori opportunità, ma il cuore educativo del problema sta al­ trove e precisamente nella «qualità» dell’esperienza tecnologica e cioè nella padronanza (e non sudditanza) strumentale, nella consapevolezza critica con cui l’uomo entra in rapporto con la quotidianità delle nuove tecnologie e con gli ambienti che queste gli dischiudono. Non è inutile sottolineare come la qualità di qualsiasi esperienza umana dipende dalla capacità di viverla in forma personale e cioè in grado di spiegare le ragioni di consenso e di dissenso. Qualunque azione umana è infatti governata da uno scopo rispetto a cui l’uomo può essere soggetto di decisione oppure semplice oggetto/strumento di un’azione determinata da altri. L’uomo capace di giudizio si preoccupa non solo di «come fare», ma si interroga anche su «perché fare» e «se è bene fare in quel modo».

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La «quantità» dell'esperienza tecnologica

T I Burrhus F. Skinner, L'insegnamento e le contingenze di rinforzo In questa pagina, tratta da uno dei suoi scritti più maturi, B.F. Skin­ ner, per lunghi anni professore di Psicologia ad Harvard e principale maestro e teorico del neocomportamentismo, illustra la struttura in­ terna del processo d ’insegnamento e il meccanismo fondamentale la contingenza di rinforzo - da cui dipendono la sua rilevanza ed ef­ ficacia formative.

I membri di altre specie «acquisiscono le loro conoscenze» gli uni dagli altri attraverso l’imitazione, un processo attribuibile sia alla sele­ zione naturale che al condizionamento operante. Essi a volte modellano il comportamento da imitare, ma solo i membri della specie umana sem­ brano farlo intenzionalmente perché altri poi li imitino. Il proporre mo­ delli è un tipo d’insegnamento, ma ha un effetto duraturo solo quando viene sostenuto da rinforzi positivi o negativi. Immaginiamo di trovarci in Giappone e di esserci recati da un mae­ stro di origami, cioè di quella particolare arte con cui si ottengono varie figure semplicemente piegando fogli di carta, senza usare né forbici né colla. Noi desideriamo imparare quest’arte, ma egli non parla la nostra lingua e noi non comprendiamo la sua. Egli però può mostrarci come si piegano i fogli. Avrà anche bisogno di dire in qualche modo quale sia il procedimento «corretto» e quale quello «sbagliato». Qualcuno gli ha detto che noi siamo esperti di condizionamento operante, ed allora ci mostra quello che dovremo fare: una colomba di carta. Egli ci dà un foglio quadrato di carta e ne prende uno anche lui. Poi esegue una prima piegatura con il suo foglio e aspetta che noi facciamo altrettanto. Solo quando l’avremo fatto, egli passerà a un’altra piegatura: è questo il suo

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modo per dire «corretto». Quando procediamo in maniera sbagliata, egli semplicemente aspetta: è questo il suo modo per dire «sbagliato». Quando proviamo di nuovo ed eseguiamo correttamente, egli passa a una successiva piegatura. E proseguiremo in questo modo fino a quando non avremo ottenuto una colomba di carta, con becco, petto, ali e coda, in modo tale che, muovendo la coda, si agitino le ali. È ovvio che noi non riusciremmo a eseguire le piegature da soli. Se fosse stato qualcosa di molto semplice (un aeroplano di carta, per esempio), forse ci saremmo riusciti, ma imparare una forma complessa richiede qualcosa di più. Il maestro ci dà un nuovo foglio di carta e ne prende uno anche lui. Questa volta egli ci guarda e aspetta. Siamo noi, ora, che dobbiamo eseguire la prima piegatura. Dopo che noi l’abbiamo eseguita, egli la esegue in maniera identica: è il suo modo di dire «corretto». Poi noi facciamo un’altra piegatura ed egli di nuovo ci segue. Ma dopo un’altra piegatura, egli semplicemente aspetta: è il suo modo di dire «sbagliato». Ne proviamo un’altra, ed egli ancora aspetta. A lla fine ci fermiamo. Non riusciamo ad eseguire la successiva piegatura. Forse egli ora la farà per noi, ma c’insegnerà più rapidamente se eseguirà la piegatura solo in parte, giusto per metterci in grado di proseguire da soli. Infine, completeremo una seconda colomba. Ancora non riusciremo a farne una senza aiuto, ma a mano a mano che ne facciamo delle altre, diminuisce sempre di più il bisogno di essere aiutati, e alla fine non si avrà più alcun bisogno di aiuto. Il maestro ha compiuto la sua opera. Ora sappiamo come costruire una colomba secondo l’arte origami. Cosa è accaduto? Nel modellare il comportamento da imitare, il maestro ha sollecitato il nostro comportamento, nel senso di disporlo ad attuarsi per la prima volta. Il nostro comportamento era inizialmen­ te del tutto imitativo, ma noi abbiamo compiuto un passo dopo l’altro. I passi successivi sostituivano lentamente il modello come uno stimolo discriminativo, e lo facevano tanto più rapidamente quanto meno mo­ dellato era il comportamento. Era questo il motivo per cui il maestro ci mostrava solo in parte ciò che avevamo dimenticato. Anziché sollecita­ re il primo passo, egli lo suggeriva. (Il suggeritore, nel teatro, fornisce all’attore solo una parte della frase dimenticata. Fornirgliela tutta sa­ rebbe recitarla). Prendendo in prestito l’espressione da un mago, il ma­ estro ‘fa scomparire’ sollecitazioni e suggerimenti rimuovendoli quanto più rapidamente possibile. Il comportamento verbale può essere insegnato nello stesso modo. Come ho già ricordato, io stesso ho insegnato alla mia figlia più piccola a recitare quindici versi di una poesia rapidamente e senza fatica, solle­ citando, suggerendo, e poi facendo scomparire i suggerimenti. Scrivevo i versi su una lavagna e le chiedevo di leggerli. I versi scritti sollecitava­ no il suo comportamento. Poi cancellavo alcune parole, per lo più a ca­ so, e le chiedevo di ‘leggere’ i versi. Essa riusciva a farlo, perché le paro­ le rimaste sulla lavagna costituivano degli efficaci suggerimenti. Poi cancellavo altre parole e le chiedevo di leggere i versi di nuovo. Nello spazio di pochi minuti, essa li ‘leggeva’, anche se sulla lavagna non c’era scritto più nulla.

Le teorie dell'istruzione e della formazione

Noi procediamo attraverso le stesse fasi, quando impariamo a me­ moria una poesia da soli. Sollecitiamo il nostro comportamento leggen­ do la poesia, e poi ne ripetiamo il più possibile senza aiuto, dando un’oc­ chiata al testo per averne sollecitazioni o suggerimenti, ma soltanto se­ condo il bisogno. Alla fine, recitiamo la poesia. Quando impariamo a costruire una colomba con la tecnica origami o impariamo a memoria una poesia, noi acquisiamo un comportamento di una data topografia di comportamento. Gli stimoli che assumono il con­ trollo sono generati dal comportamento stesso. Questo potrebbe sem­ brare un tipo inferiore di conoscenza, ma il comportamento verbale ri­ sulta sotto il controllo di altri tipi di stimoli alla stessa maniera. Noi in­ segniamo a un bambino molto piccolo a dire una parola, sollecitandola. Diciamo, per esempio, «papà» o «mamma» e rinforziamo qualsiasi ra­ gionevole approssimazione. Portiamo una risposta verbale sotto il con­ trollo di un oggetto mostrando l’oggetto, dicendo la parola e rinforzan­ do una sufficiente approssimazione: solleviamo un cucchiaio, diciamo «cucchiaio», e rinforziamo una risposta ragionevole; in seguito, aspet­ tiamo che sia data una risposta al solo apparire del cucchiaio. Insegnia­ mo ciò che significa una parola pronunciando questa parola e mostran­ do l’oggetto. In seguito, rinforziamo indicando l’oggetto quando abbia­ mo pronunciato la parola. Il progresso registrato nel costruire una colomba di carta e il recitare alcuni versi di una poesia senza alcun aiuto, oppure espressioni di piace­ re da parte dei genitori: sono altrettante conseguenze rinforzanti imme­ diate che, sotto questo aspetto, sono molto diverse da premi o punizioni in classe. Purtroppo, non è facile preparare simili conseguenze per ciò che debbono fare gli studenti. È a disposizione, tuttavia, un rinforzo molto potente, che non ha bisogno di essere inventato a scopi educativi; esso è indipendente da qualsiasi tipo particolare di comportamento, ed è quindi sempre a disposizione. Noi lo chiamiamo successo. Attraverso la storia della specie e la storia personale dell’individuo, manipolazioni dell’ambiente coronate da successo hanno preceduto le conseguenze che hanno svolto il loro ruolo nella selezione naturale e nel condizionamento operante. Una manipolazione coronata da successo rinforza qualsiasi cosa facciamo nell’ottenere una specifica conseguen­ za. Essa rinforza, ad esempio, l’atto di aprire una porta, dovunque si stia andando. E siamo più coscienti della sua importanza quando l’azione è priva di successo (per restare nell’esempio, quando la porta si blocca). La manipolazione dell’ambiente coronata da successo è un rinforzatore debole, ma può avere un effetto potente se si verifica abbastanza spesso. L’inconveniente, con le attività scolastiche che generalmente si svolgono in classe, è che gli studenti raramente fanno qualcosa che è immediata­ mente o visibilmente coronato da successo. [B.F. Skinner, La scuola del futuro, in Idem, Difesa del comportamentismo. Saggi re­ centi su istruzione e personalità, Armando, Roma, 1992, pp. 97-109, qui 101-104 (ed. orig. 1989)].

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T2. Jerome S. Bruner, Come insegnare qualcosa a un bambino? Nel saggio da cui è tratta questa pagina, redatto a metà degli anni Sessanta, Jerome S. Bruner espone in maniera articolata la sua vi­ sione del processo di «scoperta» come nucleo dell’apprendimento e della continua rielaborazione e superamento, da parte dell’essere umano, del sapere via via acquisito. I riferimenti a ll’esperienza d ’insegnamento, sperimentazione e ricerca dell’autore aiutano a comprendere meglio la genesi della sua teorizzazione e la rilevanza che essa ha acquisito per la didattica e la pedagogia nella seconda metà del Novecento.

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Non si sbaglia se si prende il fenomeno dell’apprendimento del lin­ guaggio come paradigma del conoscere; l’apprendimento del linguaggio è infatti molto vicino all’invenzione e ha molto poco in comune con ciò che comunemente chiamiamo processo di scoperta. Ci sono parecchie cose sull’apprendimento del linguaggio che mi colpiscono, poiché sono ricche di particolare interesse. Per esempio, nell’apprendimento del linguaggio, il bambino si trova in un ambiente linguistico in cui egli viene fuori con al­ cune espressioni: si impadronisce delle prime forme sintattiche che di so­ lito hanno la forma di una classe cardine e di una classe aperta, come «Tutti andati, mammina», «Tutti andati, papà» e «Tutto andato questo; tutto andato quello ». Il bambino, esposto linguisticamente ad un mondo adulto, procede non con una scoperta ma con un’invenzione che fa crede­ re un poco nelle idee innate, in una forma linguistica che semplicemente non è presente nel repertorio dell’adulto. Questo apprendimento del lin­ guaggio è costituito dall’invenzione o avanzamento con la grammatica, possibilmente in maniera istintiva, che poi si modifica a contatto col mon­ do. Il genitore prende il modo di parlare del bambino che non si conforma al mondo adulto e poi lo idealizza e lo espande, non permettendo al bam­ bino di scoprire casualmente, ma piuttosto fornendo un modello che è sempre presente. È la primissima forma di apprendimento del linguaggio. Così, nella cultura la primissima forma di apprendimento essenziale alla persona che diventa umana non è tanto la scoperta, quanto l’avere un modello. La costante fornitura di un modello, la costante esigenza di risposta alla risposta di un altro individuo, lo scambio reciproco tra due persone, costituiscono l’apprendimento dell’«invenzione», guidato da un modello accessibile. Se si vuole parlare dell’invenzione, forse la forma più primitiva di ap­ prendimento unicamente umano è l’invenzione di certi modelli che probabilmente escono da caratteristiche profondamente radicate del sistema nervoso umano, con una quantità di modelli che si verificano da parte di un adulto. Di conseguenza, dovunque si guardi, non ci si può in realtà allontanare facilmente dall’idea che la scoperta sia il mezzo principale per educare i giovani e, inoltre, l’unica cosa evidente è che sembra ci sia una componente necessaria nella cultura umana che è simile alla scoperta, cioè l’opportunità di andare ad esplorare la situazione.

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Sembra imperativo per il bambino sviluppare un approccio al nuovo ap­ prendimento che è più efficace in natura - un approccio alla cultura che permetta al bambino non solo di imparare la materia che viene presentata in un ambiente scolastico, ma di impararla in modo tale da poter usare l’in­ formazione per risolvere dei problemi. Per me, questa è la cosa più difficile: come insegnare qualcosa ad un bambino? Dico insegnare, sebbene sappia che la parola insegnare non è più molto di moda. Noi parliamo della cultura del bambino, o della programmazione dell’ambiente in modo che egli possa imparare, ma voglio sollevare una questione: come insegnare qualcosa a un bambino, come organizzare un ambiente del bambino, se si vuole, in modo tale che possa imparare qualcosa con l’assicurazione che userà la materia che ha appreso in maniera appropriata in una varietà di situazioni? Il problema di come insegnare a un bambino in modo tale che use­ rà appropriatamente il materiale, si suddivide, a mio avviso, in sei sot­ to-problemi. Il primo problema riguarda l’attitudine. Come si organizza l’appren­ dimento in modo tale che il bambino riconosca che, quando ha l’infor­ mazione, può andare oltre, che c’è concatenazione tra i fatti che ha im­ parato e altri dati e situazioni? Deve avere l’attitudine a poter usare la sua testa effettivamente per risolvere un problema, in modo che quando ha un minimo di informazione possa estrapolare l’informazione stessa, e se ha del materiale frammentario, deve essere in grado di organizzar­ lo. Alla base, questo è un problema attitudinale - qualcosa che si con­ trapporrà all’inerzia, in quanto riconoscerà che la materia che ha appre­ so costituisce un’occasione per progredire al di là di essa. Il secondo problema è quello della compatibilità. Come ottenere che il ragazzo si avvicini alla nuova materia che sta imparando in modo tale che egli la inserisca nel suo sistema di associazioni, suddivisioni, catego­ rie e strutture di riferimento, così che egli possa farla sua e possa così usare l’informazione compatibilmente con ciò che già conosce? Il terzo si riferisce alla necessità di fare in modo che il bambino sia attivo, così che possa sperimentare la sua personale capacità di risolvere problemi e abbia abbastanza successo da sentirsi ricompensato per l’e­ sercizio del pensare. Il quarto sta nel dare al bambino la pratica nelle capacità strumentali riferite all’uso dell’informazione e della soluzione di un problema. Questo è un problema altamente tecnico che ha a che fare non solo con la psicolo­ gia, ma con rapprendere quelle preziose scorciatoie valide in ogni campo del sapere che noi indichiamo col termine di «euristica». Non credo che la psicologia si fermi al livello della terminologia psicologica, quando parlia­ mo della cultura in questo particolare contesto. Quando un bambino im­ para qualche principio fondamentale della matematica che egli possa usa­ re, si ha un tratto caratteristico del processo del pensiero. Essenzialmente gli strumenti della mente non sono soltanto certi tipi di modelli di rispo­ sta, ma anche i concetti strumentali organizzati ed efficienti che derivano dal campo che si sta studiando. Non c’è niente di simile, per essere sicuri, alla psicologia dell’aritmetica, ma i grandi concetti aritmetici sono parte dei «ferri del mestiere» per pensare: contengono l’inventiva e le capacità ! strumentali di cui il bambino deve impadronirsi. i

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Il grande problema, a questo punto, consiste nel saper dare al bambi­ no la pratica nella utilizzazione di queste capacità, perché risulta che per quanto spesso si possano esporre delle idee generali - se lo studente non ha un’opportunità di usarle, non le userà con molta efficacia! Il quinto è uno speciale tipo di problema di cui voglio parlare come del «problema del nodo scorsoio». Il bambino, imparando in ambienti scolastici, farà molto frequentemente generi di cose che non è in grado di descrivere a se stesso. Gli psicologi continuano a vedere nei loro nuo­ vi studi ragazzi che sono in grado di fare molte cose, per esempio, ma­ neggiare con grande destrezza un braccio di bilancia, attaccando anelli ai chiodi su entrambe le parti di un fulcro e ottenendo equilibri piutto­ sto interessanti; ma gli stessi ragazzi non sono in grado di dire a parole quello che fanno e di convertire l’azione meccanica in una notazione compatta che potrebbero tenere in mente. Il sesto problema riguarda la natura della nostra capacità di trattare convenientemente il flusso di informazioni, così da poterlo usare nella soluzione del problema. Diciamo ancora brevemente due cose sul primo e sul quarto problema. L’apprendimento per scoperta generalmente non coinvolge tanto il proces­ so di guidare gli allievi alla scoperta di quello che è «al di fuori», ma piutto­ sto alla scoperta di quello che c’è nelle loro teste. Ciò richiede che siano in­ coraggiati a dire: «Mi fermo a pensare a questo; uso la mia testa; faccio qual­ che tentativo-ed-esperimento vicariante». C’è molto di più nella maggior parte delle teste (comprese le teste dei bambini) di quanto possiamo render­ ci conto, o di quanto siamo disposti a cercare di utilizzare. Dovete convince­ re gli studenti (o esemplificare per loro, che è di gran lunga più convincente) del fatto che nelle loro teste ci sono modelli impliciti che sono utili. Riguardo invece al problema delle abilità strumentali, vorrei notare che una di esse consiste nello spingere un’idea ai suoi limiti. Ad esempio, in una delle nostre classi sorgeva la questione del modo di trasmettere in­ formazioni da una generazione all’altra. Uno studente del quinto grado disse che la cosa avveniva per «tradizione», e questa formula vuota lasciò soddisfatta la maggior parte degli allievi: erano pronti a proseguire con l’argomento successivo. Io dissi che non capivo affatto che cosa intendes­ sero per «tradizione». Un ragazzo disse che è tradizione che i cani inse­ guano i gatti. Gli altri risero. Bene, il ragazzo deriso replicò dicendo che qualcuno dice che è un istinto, ma egli aveva un cane che non aveva mai inseguito un gatto, finché non vide un altro cane farlo. Ci fu un lungo si­ lenzio. I bambini a questo punto presero in mano la questione, reinventa­ rono l’idea di cultura, distrussero l’idea di istinto (anche ciò che vi era di buono) e finirono per l’esporre disordinatamente la maggior parte delle loro presupposizioni. Se avessi fermato prima la loro discussione, avrem­ mo contribuito alla formazione di menti passive. I bambini necessitavano proprio delle occasioni per mettere alla prova i limiti dei loro concetti e spesso questo crea un subbuglio che si adatta male al decoro di un’aula scolastica. È per questa ragione che io lo scelgo. [J.S. Bruner, Alcuni elementi del processo di scoperta, in Idem, Il significato dell’educa­ zione, Armando, Roma, 1994 (ed. orig. 1971), pp. 112-116 e 122],

Le teorie dell'istruzione e della formazione

T3. Ernest Von Glasersfeld, Costruttivism o e insegnamento Prolungando gli esiti degli studi di Piaget e di Vygotskij, il costrut­ tivismo prospetta una teoria dell’apprendimento basata sulla tesi che la conoscenza umana è un processo continuo di riorganizza­ zione dell’esperienza, indotto da perturbazioni esterne che non pretendono però di rappresentare in alcun m odo la situazione obiettiva del mondo. Per questo orientamento - rappresentato qui da uno dei maggiori esponenti, Ernest von Glasersfeld - conoscere significa sostanzialmente costruire ipotesi interpretative della real­ tà, valide ed efficaci per orientarsi nelle diverse situazioni, e d i­ sporre di strumenti interpretativi sempre più raffinati ed adeguati alla gestione della complessità del vivere.

Nella vita dell’uomo possiamo distinguere due principali modalità di apprendimento: un apprendimento, per così dire, abitudinario e un ap­ prendimento che definiremo «concettuale». Nel primo caso noi ci adeguiamo semplicemente alle consuetudini pra­ tiche della vita (come accade per molti nostri comportamenti quotidiani), nel secondo caso gli apprendimenti sono invece l’esito di una elaborata co­ struzione mentale, la concettualizzazione. Mentre nel primo caso prevale il codice dell’abitudine e della ripetizione, nell’altro il soggetto dà ordine e organizzazione alla realtà e al suo rapporto con la realtà mediante l’inte­ razione tra l’intelligenza cosciente e la realtà esterna. Gli insegnanti devono essere consapevoli di questa doppia modalità di apprendimento poiché essa implica due diverse modalità di insegnamento. Nel caso dell’apprendimento abitudinario è sufficiente la procedura dell’a­ dattamento (quando guido l’auto in Europa non è necessario che mi chie­ da perché la circolazione si svolge a destra, ma sono tenuto a rispettare le regole fissate dal codice stradale), mentre nel caso dell’apprendimento con­ cettuale noi siamo interessati alla piena comprensione e cioè alla padro­ nanza di un «sapere concettualizzato» [...]. Come attivare questo genere di sapere che risulta strategico per la pro­ mozione di una personalità che sa apprendere e dovrà apprendere per tutta la vita? Fisserò in cinque punti il mio pensiero. L’insegnante non deve presentare delle verità precostituite, ma è piut­ tosto tenuto a predisporre delle situazioni adatte a suscitare interrogativi e riflessioni tra gli alunni. Perché questo accada una delle condizioni è che i docenti siano ovviamente convinti che gli allievi «sappiano pensare» e non siano soltanto dei vasi da riempire. Non è sufficiente che gli insegnanti conoscano bene la loro materia: perché l’apprendimento sia efficace occorre che essi sappiano tradurla in una serie di repertori didattici che attivino la capacità di concettualizzazio­ ne degli allievi. Spesso gli insegnanti, anche i migliori, forniscono già l’esito finale della questione trattata senza aver cura che gli alunni sviluppino le loro strategie cognitive. Questo significa privilegiare la rappresentazione

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della realtà al posto della costruzione mentale che ci consente di organizza­ re la realtà. Quando gli allievi presentano il loro lavoro occorre evitare di esprimersi subito nel definirlo «giusto» o «sbagliato». Essi raramente giungono in modo casuale alle loro conclusioni. È più utile, invece, aiutarli a riflettere sulle modalità della loro concettualizzazione. Inoltre bisogna evitare di demotivare i ragazzi con giudizi troppo netti: essi hanno lavorato e hanno cercato di compiere il loro compito al meglio. Se noi trascuriamo la motiva­ zione rischiamo di indebolire la volontà di apprendere. Molte delle parole e dei modi di dire che gli insegnanti associano di solito al sapere scientifico evocano inizialmente negli alunni rappresentazioni mentali del tutto o in parte diverse. Per la comprensione concettualmente solida è necessario che le parole siano impiegate nel loro significato proprio: occorre perciò che l’insegnante abbia una qualche conoscenza circa i termi­ ni dei ragazzi e li aiuti a formarsi concetti appropriati. La comprensione concettuale si basa sulla capacità di riflessione. La co­ struzione di un concetto che rappresenta la realtà, in altre parole, è l’esito di una riflessione intorno a quella realtà. Il modo più semplice per introdurre gli alunni all’esercizio della riflessione è quello di farli parlare. Attraverso lo sforzo della verbalizzazione, i concetti tendono a definirsi e a chiarirsi. Quando gli allievi si trovano di fronte a un problema da risolvere, dobbiamo incoraggiarli a esprimersi, a prevedere le possibile soluzioni, a confrontare tesi diverse. Questo può avvenire sia con l’insegnante sia tra loro stessi e co­ stituisce quella che Silvio Ceccato ha definito la «coscienza operativa». Con il tempo ogni situazione di vita che si presenterà in forma problematica diven­ terà un’occasione di riflessione con se stessi. È questa la condizione per po­ ter apprendere per tutta la vita. [E. von Glasersfled, Constructivisme radicai et enseignement, in AA.VV., Constructivismes: usages etperspectives en éducation, Département de l’instruction publique-Service de recherche en éducation, Genève, 2001, pp. 38 e 48-49].

T4 Philippe Meirieu, Il principio-cardine della pedagogia differenziata In questa pagina Philippe Meirieu presenta in modo dettagliato, con riferimento anche alle diverse situazioni ed esigenze della di­ dattica, il principio-cardine della pedagogia differenziata, sottoli­ neando sia la diversità individuale dei modi di apprendere, sia la portata più generale, metacognitiva e culturale, della sua proposta metodologica.

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pedagogici, dei loro ritmi di assimilazione, delle loro culture e dei loro centri di interesse. Considerare e valutare l’allievo nei suoi processi differenziati di ap­ prendimento delle conoscenze non esclude il conseguimento di obiettivi comuni. A l contrario, questo è un principio fondamentale. Facendo rife­ rimento alle risorse e alle competenze proprie di ogni individuo, la dif­ ferenziazione deve costituire ogni processo di apprendimento. Per evita­ re qualsiasi schematizzazione, il processo di differenziazione non deve occupare la totalità delle ore scolastiche a disposizione delle diverse di­ scipline. Sarà invece necessario lavorare secondo il metodo più adatto variando il repertorio metodologico. Questo processo è costituito da un obiettivo prefissato. Si possono distinguere diversi livelli di differenziazione: 1. Nella classe, ogni professore nella sua disciplina a) Differenziazione successiva: si tratta di utilizzare progressiva­ mente degli strumenti differenti e diverse situazioni di apprendimento in modo tale che ogni allievo disponga di un livello minimo di possibi­ lità nei suoi processi di apprendimento. Inoltre, si potranno utilizzare metodi e strumenti diversi: la scrittura, la parola, Fimmagine, l’infor­ matica, ecc. Si potranno variare le situazioni: lavoro individualizzato, lavoro per gruppi. In questa forma di differenziazione, l’insegnante conserva e alterna dei metodi differenziati in rapporto ai diversi pro­ cessi di apprendimento. b) Differenziazione simultanea: consiste nel distribuire ad ogni allie­ vo un determinato lavoro da svolgere in classe in rapporto ai suoi biso­ gni e alle sue possibilità. Ci si sofferma su una questione che non è stata ben capita, si chiarisce una determinata nozione, si forniscono degli strumenti utili all’approfondimento personale, ecc. Questa forma di dif­ ferenziazione è particolarmente necessaria nelle discipline come la let­ teratura, dove le competenze da acquisire sono molteplici e i livelli di apprendimento degli allievi sono differenti a seconda della lettura, dell’ortografia, dell’espressione orale e della cultura letteraria. È neces­ sario tentare di adattare i metodi proposti a ciascun allievo (mentre al­ cuni allievi lavoreranno secondo le indicazioni o l’aiuto di uno speciali­ sta in didattica, altri beneficeranno delle spiegazioni dell’insegnante). In questo contesto di differenziazione, è essenziale servirsi di stru­ menti rigorosi per evitare qualsiasi dispersione: si stabiliranno dei pro­ getti di lavoro individuali che porteranno a delle valutazioni regolari. 2. Molte classi e una materia comune Un gruppo di professori della stessa disciplina possono suddividere l’orario scolastico in due tempi diversi:

Il principio fondamentale che deve presiedere la messa in atto della pedagogia differenziata consiste nel moltiplicare i metodi di apprendi­ mento in funzione delle differenze esistenti tra gli allievi. Queste diffe­ renze sono relative sia al livello delle loro conoscenze, dei loro profili

a. un tempo nelle classi eterogenee, dove sono definiti gli obiettivi, sono organizzati degli apprendimenti comuni e sono effettuate le valutazioni;

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b. un tempo in classi o raggruppamenti diversi, dove gli allievi sono ri­ partiti in funzione dei bisogni in campi differenziati di apprendimen­ to (gli orari delle classi e delPinsegnamento saranno stabiliti proprio in rapporto ai tempi impiegati). A seconda dei casi, la ripartizione degli allievi sarà stabilita in base ai seguenti criteri: - spiegazione di nozioni che non sono state assimilate dagli allievi; - formazione di capacità metodologiche (apprendere una lezione, fare un grafico, ecc); - esercizi differenziati per gli allievi più lenti ed esercizi finalizzati ad un ulteriore approfondimento per gli altri; - analisi delle nozioni in rapporto ai diversi contesti (facendo per esempio particolare riferimento all’espressione orale); - ulteriori approfondimenti in campi diversi di apprendimento; - utilizzazione di persone e di specialisti diversi in campo pedago­ gico per poter superare quelle difficoltà relazionali che derivano dall’uno o dall’altro allievo. L’interesse e il valore di questa formula deriva dalla sua grande fles­ sibilità e possibilità di utilizzazione, seguendo i bisogni e gli interessi de­ gli allievi nei diversi processi di apprendimento. In questa prospettiva è necessaria una collaborazione continua tra gli insegnanti al fine di ela­ borare e definire le teorie pedagogiche corrispondenti alle esigenze spe­ cifiche degli allievi ed evitare così numerose perdite di tempo nella ge­ stione di una classe. 3. Una classe e molte materie È possibile utilizzare le diverse discipline in un processo e in un con­ testo di differenziazione. I professori possono trovare una linea comune di insegnamento per favorire e valorizzare un programma di apprendi­ mento interdisciplinare (per esempio: ascolto, comprensione, analisi, sintesi, fare un grafico, ricerche, documentazioni, ecc.). Una volta stabi­ lito il programma, gli allievi sono invitati a lavorare nella materia da lo­ ro scelta. Nel consiglio di classe gli insegnanti dovranno garantire la re­ alizzazione dei programmi richiesti secondo le esigenze degli allievi. La messa in atto di un processo di differenziazione presuppone una peda­ gogia dell’autonomia. Portando progressivamente l’allievo ad un miglio­ ramento dei metodi e degli strumenti di apprendimento, l’insegnante permetterà all’allievo di divenire più lucido, più responsabile e autono­ mo nella gestione del suo lavoro scolastico. In ogni caso, comunque, un insieme di nozioni non costituisce, da solo, una cultura, né garantisce da sé i processi di apprendimento. In realtà, una cultura è un insieme di saperi che possiedono due caratteristiche apparen­ temente contraddittorie e necessariamente associate: questi saperi devono essere inseriti in un orizzonte di universalità - ed è proprio questo orizzon­ te che attribuisce loro un valore - e devono essere elaborati dal soggetto per permettergli di capire quelle situazioni particolari, individuali e a volte imprevedibili che dovrà affrontare. In altri termini, l’universalità della cul­ tura assume un valore in relazione agli apprendimenti particolari indivi­

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duali, così come le acquisizioni individuali devono riferirsi sempre a un orizzonte e a un contesto universale. La cultura nel suo insieme è sempre universale, ma si diversifica e si differenzia nel particolare. Questo processo è difficile ma necessario, ed è costitutivo di ogni processo educativo. L’individualizzazione non è un risultato istantaneo o immediato, ma piuttosto un processo che si caratterizza in una pro­ gressiva acquisizione individuale di contenuti culturali, mediante la quale il soggetto può fare esperienza della propria individualità, sco­ prendo al tempo stesso gli aspetti particolari e specifici del sapere. In relazione a ciò, si deve osservare che non esistono dei metodi pre­ fissati di insegnamento per portare un individuo ad apprendere una le­ zione di inglese, elaborare una dissertazione, preparare un viaggio, de­ dicarsi alla cura di un orto. In ogni specialità e in ogni contesto sussisto­ no dei metodi personali che vengono scoperti individualmente e che dovrebbero essere favoriti e valorizzati dagli specialisti in didattica con il supporto delle metodologie della psicologia generale. In realtà, la mi­ gliore metodologia è quella scoperta dall’individuo stesso che analizza le condizioni in cui si trova, si interroga sulla pertinenza delle procedure da utilizzare, valuta la loro efficacia e il loro valore affettivo e cognitivo, facendo riferimento a tutto il complesso della sua soggettività, in termi­ ni di soddisfazione e di sacrifici. [P. Meirieu, Le choix d ’éduquer, ESF, Paris, 1991, adattamento dalle pp. 137-142].

T5. Howard Gardner, «Intelligenze multiple» ed educazione per tutti Nella fase più avanzata delle sue ricerche Howard Gardner si è mi­ surato sempre più da vicino con le problematiche correlate all’istru­ zione scolastica. Dopo aver formulato la teoria delle «intelligenze multiple», e prima di giungere negli scritti più recenti all’individua­ zione di alcune idee-chiave per l ’educazione del futuro, egli ha svol­ to ampie ricerche su creatività, apprendimento e correlazione fra di­ scipline di studio e disciplina della mente. Dal saggio su quest 'ulti­ mo tema proponiam o la parte in cui l ’autore espone la sua concezione e la sua proposta di una «educazione per tutti».

Poiché sono uno psicologo con forti interessi pedagogici, la crescente attenzione emersa un po’ in tutto il mondo per i problemi dell’educazio­ ne mi ha fatto molto piacere. Dovunque stia viaggiando - negli Stati Uni­ ti, in Europa, in America Latina o in Estremo Oriente - c’è un punto su cui trovo sempre una convergenza sorprendente: la convinzione che la qualità del sistema educativo di una nazione sarà un fattore determinan­ te, forse il fattore determinante del suo successo nel nuovo secolo e oltre. Spesso tuttavia avverto anche un senso di frustrazione: un po’ ovunque il dibattito pedagogico appare confinato alla sfera delle prò-

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blematiche particolaristiche [...]. Queste discussioni, per quanto non prive d’importanza, eludono la questione fondamentale: la considera­ zione degli scopi dell’educazione, l’analisi delle ragioni per cui ogni so­ cietà deve dedicare importanti risorse umane ed economiche all’edu­ cazione dei giovani [...]. Ora, vorrei formulare la questione centrale del problema educativo in questi termini: in che modo i contenuti dell’istruzione devono essere presentati, acquisiti, usati e trasmessi ad altri? Sarò molto preciso. Se­ condo me, l’educazione deve ruotare attorno a tre componenti estremamente importanti, i cui nomi e la cui storia si perdono nelle tenebre di un passato molto lontano: c’è la sfera della verità, nella quale rientrano anche i corrispettivi negativi del falso e dell’indeterminabile; quella del­ la bellezza e della sua assenza dalle esperienze e dagli oggetti brutti, o kitsch; e c’è la sfera della morale, ossia di ciò che consideriamo bene e di ciò che consideriamo male. Per rendere ancora più chiara la partizione appena proposta, ricor­ derò tre argomenti di studio che secondo me gli esseri umani devono comprendere nella loro pienezza. Come esempio della sfera della veri­ tà propongo la teoria dell’evoluzione così com’è stata enunciata per la prima volta da Darwin e poi rielaborata da altri scienziati nel corso de­ gli ultimi centocinquant’anni. Come esempio della sfera della bellezza scelgo la musica di Mozart, e più precisamente Le nozze di Figaro. In­ fine, per dare un esempio di educazione nella sfera della morale, vorrei che gli individui conoscessero la sequenza di eventi nota come Olocau­ sto, cioè il sistematico genocidio degli ebrei e di alcuni altri gruppi da parte dei nazisti e di altri, prima e soprattutto nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Come gli studi scientifici e la ricerca artistica, così anche l’indagine storica può essere intrinsecamente affascinante. Quest’ultima, però, ha un significato più ampio. Secondo me, sapere in che modo gli altri han­ no affrontato le pressioni e i dilemmi della vita - nella storia passata, nel proprio tempo, e nella produzione artistica - significa essere meglio equipaggiati a pianificare il proprio futuro e le proprie decisioni. La conoscenza di esempi straordinari di verità, di bellezza e di bene è una conquista così significativa per gli esseri umani da poter trovare in se stessa la propria giustificazione. Ma secondo me tale conoscenza è importante anche per ragioni che trascendono la sfera della soggettività. I modi di pensare che si sono sviluppati nei secoli, ossia le discipline, so­ no gli strumenti migliori con cui affrontare quasi ogni argomento. In as­ senza delle conoscenze organizzate nelle discipline, gli individui non possono prendere parte in modo pieno al mondo in cui vivono - al mon­ do in cui tutti noi viviamo. Qualcuno penserà che questi argomenti, almeno superficialmente, siano già alquanto noti. In realtà le cose non stanno così. E qualcuno certamente mi obietterà: «Come pensare che la proposta educativa da lei avanzata in questo libro prefiguri un’educazione per tutti?». Essa è legata a un tempo particolare (l’età contemporanea), a un particolare orizzonte geografico (Europa occidentale e relative zone di influenza) e addirittura alla particolare personalità dell’autore.

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Ciò è vero solo in parte. In primo luogo, se tutti gli esseri umani si appassionassero a temi come l’evoluzione, Mozart e l’Olocausto, credo che avremmo buoni motivi per rallegrarcene. Esistono modi molto peg­ giori di allargare il proprio orizzonte. Tuttavia, non intendo certo affer­ mare che queste scelte sono le migliori né che sono le sole possibili. Ciò che intendo sostenere non è che tutti debbano essere in grado di spiega­ re che cos’è una specie, di discernere lo sviluppo delle melodie e il loro alternarsi con le romanze nell’opera di Mozart e di analizzare le ragioni per cui tanti tedeschi hanno accettato di essere complici dell’Olocausto. No. Sostengo, però, che un’educazione rivolta a tutti deve esplorare in modo abbastanza approfondito una serie di grandi conquiste umane che si riassumono nella nobile triade di vero, bello e bene. Ma un’altra obiezione è possibile: le categorie del vero, del bello e del bene non sono di per sé figlie di un certo tempo e di una certa cultura? Di nuovo, questo rilievo è vero, ma non decisivo. Effettivamente i con­ cetti di verità, bellezza e bene rispecchiano una cultura filosoficamente orientata. Altre culture hanno elaborato nozioni analoghe. Tuttavia, chi ne esaminasse concretamente le credenze e le pratiche scoprirebbe che ogni cultura esprime visioni peculiari di come il mondo è e come deve (e non deve) essere. E tali visioni implicitamente incarnano nozioni altret­ tanto peculiari della verità, della bellezza e della morale. Alla radice del discorso che sto impostando c’è anche un’altra ragio­ ne, più importante. In fondo, l’educazione mira a plasmare un certo tipo di individui - il tipo di persone che secondo me (e secondo altri) i giova­ ni devono diventare. Io desidero esseri umani che conoscano il mondo, che mettano a frutto le proprie conoscenze e che operino instancabil­ mente per modificare in meglio le proprie condizioni di vita. Questo de­ siderio potrà realizzarsi solo se gli studenti impareranno a comprendere il mondo così com’è stato ritratto da chi l’ha studiato con maggiore acu­ me e vissuto con maggiore consapevolezza; se acquisiranno familiarità con la gamma delle opere dell’uomo - dalle più elevate alle più umili, passando attraverso le esperienze ora tranquille ora tormentate dell’uo­ mo medio -, e se saranno capaci di analizzare la propria esistenza in ter­ mini di possibilità umane, comprese quelle che nessuno aveva mai pre­ visto. Le vie che conducono a questa saggezza sono certamente molte; in questo libro proporrò quella che preferisco. A mio giudizio, dunque, scopo centrale dell’educazione è la com­ prensione approfondita; e compito dell’educatore è quello di cercare di guidare i giovani a comprendere che cosa, in un dato contesto culturale, viene considerato vero o falso, bello o brutto, bene o male. Il problema ora è: possiamo far tesoro delle nostre conoscenze cre­ scenti in tema di sviluppo umano, di differenze individuali e di influen­ ze culturali per promuovere un innalzamento dei livelli di comprensione di larghi strati di studenti? In caso affermativo, siamo finalmente in gra­ do di assemblare i pezzi del puzzle dell’educazione efficace. In sintesi, tale educazione presuppone due condizioni. Gli educatori da un lato de­ vono riconoscere le difficoltà che gli studenti si trovano a fronteggiare nel loro cammino verso la comprensione autentica di temi e concetti im­ portanti, dall’altro devono tener conto delle differenze esistenti tra le

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menti degli studenti e, per quanto è possibile, programmare un’educa­ zione capace di adeguarsi alla loro infinita varietà. La mia tesi è che la teoria delle intelligenze multiple può diventare un alleato importante nella costruzione di un insegnamento efficace. Secondo me, la «prospettiva delle intelligenze multiple» può promuove­ re il comprendere almeno in tre modi. 1. Fornendo punti di accesso promettenti. La decisione pedagogica di quale sia il modo migliore per introdurre un tema è importante. Per gli studenti il primo approccio può riuscire affascinante o respingere. E in virtù di ciò che gli psicologi chiamano «effetto primo impatto», probabilmente la prima presentazione di un tema o gli espedienti con cui all’inizio si è cercato di conquistare l’attenzione degli studen­ ti resteranno impressi nella loro memoria. La teoria delle intelligen­ ze multiple è in grado di suggerire una ricca serie di percorsi con cui affrontare gli argomenti. 2. Offrendo analogie adatte. Per riuscire a farsi una prima idea di temi o argomenti del tutto sconosciuti, spesso è necessario ricorrere ad analogie con ciò che si è già conosciuto e compreso. I modelli desun­ ti da campi che ci sono familiari possono servirci a elaborare un’im­ magine iniziale di quello che ignoriamo completamente. Naturalmente ogni analogia ha pregi e difetti. Poiché per definizione analogie e modelli derivano da campi molto lontani, fra il tema cono­ sciuto e il veicolo più accessibile di cui ci si serve per illuminarlo ci sono insieme differenze importanti e somiglianze eloquenti. Un in­ segnante, ovviamente, deve valorizzare il potere dell’analogia, ma senza dimenticare di segnalarne i limiti e i possibili effetti fuorvianti. 3. Fornendo molteplici rappresentazioni delle idee centrali o essenziali dell’argomento. Ogni argomento o tema può essere articolato, a scopo didattico, in poche idee centrali o importanti. E l’insegnamento dovrà considerarsi riuscito nella misura in cui queste idee sono state compre­ se e possono essere applicate in modo pertinente in situazioni nuove. Spesso gli insegnanti rifletteranno su di esse in un modo particolare. Ma personalmente non credo che esistano idee importanti che possano essere pensate in un solo modo. Dirò di più: una caratteristica delle idee importanti è proprio che si prestano a essere rappresentate in più modi - o (se mi è consentito usare un’espressione che discuterò in seguito) che possono essere racchiuse in una molteplicità di «modelli linguistici». Un segno distintivo dell’esperto è la sua capacità di creare una famiglia di rappresentazioni, una molteplicità di modelli linguistici, una varietà di percorsi di avvicinamento all’idea principale - nonché di saper valutare nuove interpretazioni possibili. La prospettiva delle intelligenze multiple possiede una flessibilità che le permette di essere impiegata nello studio di argomenti estremamente specifici non meno che nell’esplorazione di temi generali. Occor­ re però tenere presente che i vari aspetti di questa teoria non possono essere usati con eguale efficacia per conseguire ogni e qualsiasi obietti­ vo pedagogico. In concreto, è vero che per ogni tema esistono più punti

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di accesso, più analogie e più modelli linguistici, ma non c’è nessuna ra­ gione per pensare che siano necessariamente sette, dodici o trentasette per ciascuno. Rientra nei compiti dell’educatore stabile quali punti di accesso siano più promettenti per particolari apprendimenti, valutarne l’efficacia relativa e riflettere sui successi e sugli insuccessi. Una selezio­ ne analoga deve essere fatta nell’indicazione delle analogie e dei model­ li linguistici adatti. Nelle pagine che seguono ho cercato di usare esempi che abbiano senso, non di inventare cose semplicemente per il gusto di occupare ogni spazio in una griglia prestabilita. [H. Gardner, Sapere per comprendere. Discipline di studio e disciplina della mente, Fel­ trinelli, Milano, 1999 (ed. orig. 1999), adattamento delle pp. 11-16 e 195-197].

T6. Rita Sidoli, / neuroni specchio e i processi educativi Sul finire del secolo scorso un’équipe di studiosi dell'Università di Parma individuò durante alcuni esperimenti condotti sulle scimmie macaco particolari processi mimetici legati ai cosiddetti «neuroni specchio». Secondo il prof. Giacomo Rizzolatti, a capo del gruppo dei ricercatori parmensi, il funzionamento di questi particolari neu­ roni indica che alla base dell’apprendimento c'è l ’azione e che esisto­ no due tipi di conoscenza: una oggettiva, l ’altra esperienziale. Si trat­ ta di un vero e proprio cambiamento di prospettiva rispetto ai princì­ pi classici basati sugli aspetti percettivi e dunque sul «vedere». La pedagogista Rita Sidoli, docente presso l ’Università Cattolica di Mi­ lano, indaga le possibili ricadute pedagogiche legate alla scoperta dei «neuroni specchio».

La recente scoperta dei neuroni specchio prospetta ricadute interes­ santi in ambito evolutivo ed educativo, in particolare per quanto è perti­ nente allo sviluppo del linguaggio, alla maturazione delle competenze sociali, alla messa in atto di abilità cooperative nell’ apprendimento e nei comportamenti prosociali. È come se - almeno in parte - l’acquisi­ zione della competenza comunicativa e linguistica, la capacità di stabili­ re relazioni sociali significative e le abilità di cooperazione nel persegui­ mento di obiettivi condivisi o nei percorsi di apprendimento fossero l’e­ sito di operazioni mentali, con base neuronaie, operazioni che solo gli esseri umani sanno fare in modo raffinato e con esiti filogenetici. I neuroni specchio non sono il motore unico delle abilità umane so­ pra elencate, ma ne costituiscono uno degli elementi irrinunciabili, con funzioni specifiche ed uniche. In sintesi, la scoperta di questo sistema neuronaie pone le basi per l’auto-etero rappresentazione delle esperien­ ze cognitive e dei vissuti emozionali caratterizzanti le tappe fondamen­ tali dello sviluppo umano. I primi dati sui neuroni specchio risalgono all’inizio degli anni Ot­ tanta del secolo scorso e riguardano gli studi sui primati, nello specifi-

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co i macachi, nella cui area premotoria, denominata F5, esistono circu­ iti neuronali deputati alla programmazione, al controllo e all’esecuzione di azioni finalizzate, ossia aventi uno scopo. Tali circuiti sono specificamente coinvolti nelle azioni riguardanti la mano e la bocca e si attivano anche quando l’azione non sia attuata ma solo immaginata, o quando essa sia osservata mentre è eseguita da un altro soggetto: da qui il no­ me di «neuroni specchio». Quale nesso fra i primati e gli umani? Gli studi neurologici attuali condividono l’assunto che la differenza fra gli umani ed i primati sia abbastanza sottile: negli esseri umani non compaiono strutture anatoi miche facilmente identificabili e totalmente nuove, quanto piuttosto I nuovi e più raffinati modi di funzionamento messi in atto dal sistema neuronaie già esistente. Come se coloro che successivamente sareb­ bero diventati Noi (Homo Sapiens Sapiens) avessero intrapreso una nuova strada evolutiva, avendo a disposizione gli stessi strumenti ini­ ziali, strumenti che nel tempo sarebbero cambiati, assumendo profili totalmente originali. Nelle ricerche riguardanti i primati appaiono caratteristiche sug­ gestive: i circuiti neuronali individuati sono collocati nell’emisfero sini­ stro, emisfero che nella maggior parte degli esseri umani è primaria­ mente coinvolto nella comprensione e produzione verbale e nella lateralizzazione con dominanza a destra. Tali circuiti neuronali sono situati nella zona parietale - frontale, che comprende le due aree de­ nominate F5 e PP. Qui sono presenti tre tipi di circuiti neuronali, di tipo motorio e visivo: -

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il primo tipo è costituito da neuroni che codificano i movimenti in azioni finalizzate (funzione motoria); il secondo tipo, chiamato «neuroni canonici», si attiva se stimolato visivamente da oggetti di forma e grandezza coerenti con le azioni fi­ nalizzate (funzione visiva); il terzo tipo è costituito da neuroni visuomotori che si attivano sia quando il soggetto agisce, sia quando egli vede l’azione altrui, coglien­ dola nel suo attuarsi ed anticipandone la finalità; come già detto, i neuroni di questo terzo tipo di circuito - per la loro funzione rispec­ chiante l’azione altrui, anche solo mimata - sono chiamati neuroni specchio. Un aspetto interessante consiste nel fatto che l’attivazione dello spettatore avviene solo in presenza di azioni finalizzate.

In altre parole, i primati hanno sviluppato la capacità di rappresen­ tarsi ed interpretare semanticamente gesti altrui, quali la suddivisione del cibo, la difesa dai predatori, i comportamenti connessi ai ruoli ge­ rarchici e ai compiti sociali. Anche in assenza dell’esecuzione diretta dell’azione, esiste una sua rappresentazione mentale che anticipa l’in­ tenzione altrui ed ha permesso alla specie lo sviluppo di un alto livello di socializzazione. Negli esseri umani, indagini successive - con la tecnica della riso­ nanza magnetica funzionale (fMRI) - hanno evidenziato come la zona

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dei neuroni specchio con funzioni motoria e visiva coinvolga l’intero cir- | cuito neuronaie, ossia le aree F5 e PF alle quali è dovuta la «rappresen- j tazione dell’azione». Anche negli esseri umani la sola visione di un’azione finalizzata compiuta da altri induce una forte attivazione delle aree premotoria e parietale? Ciò conferma l’ipotesi che nell’uomo siano presenti meccani­ smi di «risonanza» simili a quelli scoperti nei primati, con alcune diffe- ‘ renze interessanti. Il sistema dei neuroni specchio dell’uomo possiede proprietà non riscontrabili nella scimmia: esso codifica atti motori tran­ sitivi ed intransitivi; è in grado di selezionare sia il tipo di atto che la se­ quenza dei movimenti che lo compongono; infine, non necessita di una effettiva interazione con gli oggetti, attivandosi anche quando l’azione è semplicemente mimata. A conferma delle caratteristiche delle due aree sopra citate, negli es­ seri umani, una lesione sia nell’area di Broca, il corrispettivo umano dell’area FS dei primati, sia nel lobo parietale inferiore, omologo all’a­ rea PF nelle scimmie, produce deficit nel riconoscimento di azioni. Si può ipotizzare che tale competenza sia l’esito filogenetico di fasi j evolutive diverse: -

l’autocontrollo motorio durante l’esecuzione di una propria azione; l’autocontrollo visivo durante tale performance motoria; la generalizzazione successiva in virtù del controllo motorio e visivo dei gesti altrui; come ultima fase, la rappresentazione neuronaie delle azioni altrui e delle altrui intenzionalità esecutive.

Questo sarebbe il cammino filogenetico compiuto dalla specie umana fino a Homo Sapiens Sapiens; ora, il cucciolo dell’uomo nasce con una potenzialità pronta ad attivarsi già dai primi stadi evolutivi, tranne nei casi di patologie, quale, ad esempio, l’autismo. Le poche ri­ cerche sull’esistenza precoce della funzione dei neuroni specchio nello sviluppo infantile affermano che essa - pur in forma rudimentale possa essere attiva già verso i 6-7 mesi. D ’altra parte la capacità di imi­ tazione di prassie bucco-facciali, di movimenti delle mano e delle dita, di protrusione della lingua, di espressioni denotanti la condivisione di stati emozionali appaiono già nei primi giorni di vita. Tali comporta­ menti sarebbero un primo rudimentale «legame» fra chi agisce e chi imita. In età successiva, le ricerche hanno evidenziato che bambini fra i 9.5 ed i 10.5 anni, con alti punteggi in comportamenti empatici e in abilità sociali, mostravano buone prestazioni nell’imitazione di espres­ sioni denotanti stati emotivi con una significativa attivazione dei neu­ roni specchio. D ’altra parte, la rilevanza del deficit di imitazione è sta­ to riscontrato in una popolazione di bambini autistici confrontati con gruppi - omogenei per profilo evolutivo - affetti da altre disabilità: de­ ficit intellettivo, sindrome di Down, ritardo del linguaggio, sordità. Molte sono le competenze a cui i neuroni specchio offrono un sostra­ to funzionale, certo non esaustivo, comunque rilevante: l’imitazione e il suo carattere fondante l’apprendimento, il riconoscimento dell’intenzio-

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nalità nell’agire altrui, la nascita dell’intersoggettività, la competenza sociale e l’intelligenza empatica, l’acquisizione del linguaggio. [R. Sidoli, Neuroni specchio, linguaggio e competenza sociale, in M. Santerini, Educa­ zione morale e neuroscienze, La Scuola, Brescia, 2011, pp. 147-151],

T7. Mario Comoglio - Miguel A. Cardoso, L'interdipendenza positiva concetto-chiave del Cooperative Learning Il Cooperative Learning è qualcosa di più, e di diverso, dall’appren­ dimento di gruppo, di tipo più o meno tradizionale, largamente dif­ fuso e praticato nelle scuole di molti Paesi. L’elemento-cardine che lo distingue è il fenomeno della interdipendenza positiva, che viene a istituirsi fra i membri del gruppo e ne alimenta il dinamismo co­ gnitivo e operativo. In questa puntuale descrizione del Cooperative Learning possiamo anche cogliere la linea di continuità che lo uni­ sce ad alcuni momenti e figure centrali della pedagogia e della psico­ logia sociale del Novecento.

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Nonostante non ci sia un accordo unanime nel definire le caratteri­ stiche fondamentali del Cooperative Learning, gli studiosi tendono a considerare Vinterdipendenza positiva il concetto-chiave del metodo. Da un punto di vista generale, questo concetto è connesso all’analisi delle modalità di relazione che si stabiliscono tra le persone di un gruppo in vista di un obiettivo che intendono raggiungere. La natura e le caratteristiche fondamentali che lo definiscono sono state indagate nel corso di un lungo cammino di ricerca iniziato con le riflessioni di Dewey sull’idea di scuola come luogo di educazione dei giovani alla convivenza democratica, al senso di responsabilità personale e sociale del proprio apprendimento, e proseguito dapprima con i contributi di Lewin e poi con quelli di Deutsch e dei fratelli Johnson. Per chiarire il suo significato si può partire da una semplice analisi del comportamento umano. L’uomo agisce sempre per uno scopo. Ad esempio, legge «per» informarsi, studia «per» conoscere, lavora «per» guadagnarsi da vivere, mangia «per» sfamarsi, guarda la televisione «per» divertirsi, ecc. Anche quando apparentemente non fa nulla, in realtà ha uno scopo: quello di «lasciar passare il tempo». Tuttavia egli non sempre può raggiungere da solo o con le proprie forze gli scopi che si propone. La vittoria in un gioco richiede un avversario al quale conten­ dere il successo, la vendita di un prodotto è il risultato del lavoro finalizzato di un gruppo di persone, il superamento di una calamità naturale è possibile soltanto con la partecipazione e il contributo di molti. Al gior­ no d’oggi numerose attività professionali e ricerche scientifiche non pos­ sono essere svolte affidandosi unicamente alle capacità di una sola persona e la soluzione della maggior parte dei problemi sociali, politici ed economici esige la collaborazione di esperti di diversi settori.

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Il comportamento di gruppi di persone nel raggiungimento di uno scopo è stato all’origine della ricerca di Deutsch. La domanda fondamentale che egli si è posto è stata: come si comportano le persone che «insieme» vogliono perseguire uno scopo? I suoi studi sono stati prece­ duti da quelli di Lewin, che nel 1948 aveva visto nell’interdipendenza fra i membri l’essenza di un gruppo. Per Lewin un gruppo non si definisce tale perché è costituito da un insieme di persone, ma perché queste han­ no tra di loro una relazione per conseguire uno scopo. Deutsch ha sviluppato ulteriormente il concetto di interdipendenza, analizzandolo in rapporto a due diverse situazioni, e cioè quella nella ! quale gli individui perseguono un obiettivo comune in modo cooperati­ vo e quella nella quale, all’opposto, lo perseguono in modo competitivo. La distinzione è molto importante perché la specificità delle due situa­ zioni produce effetti significativamente differenti. Nella situazione cooperativa, gli individui sono vincolati fra loro in modo tale che la probabilità che ha uno di essi di conseguire il proprio obiettivo dipende dalla probabilità che hanno gli altri di conseguire il proprio. Tra di essi esistono, cioè, relazioni di interdipendenza «positi­ va» (promotively interdipendent), in quanto la condivisione dell’obietti­ vo comune diventa fattore propulsivo della crescita e dello sviluppo sia del singolo che dell’intero gruppo. Deutsch afferma in proposito che l’interdipendenza «positiva» specifica una condizione nella quale gli in­ dividui sono legati in modo tale che vi è una correlazione positiva tra il conseguimento dell’obiettivo di un individuo e quello degli altri. Nella situazione competitiva, invece, gli individui sono vincolati l’uno all’altro in modo che quanto più alta è la probabilità che ha uno di essi di raggiungere il proprio obiettivo, tanto più bassa diventa quel­ la che hanno gli altri di raggiungere il proprio. In questo tipo di rela­ zione, cioè, si stabiliscono relazioni di interdipendenza «negativa» tra gli individui (contriently interdipendent), in quanto il successo perso- j naie è perseguito a danno degli altri o contro di essi. Ancora Deutsch I sottolinea che l’interdipendenza «negativa» è la condizione nella quale gli individui sono legati l’uno all’altro in modo tale che vi è una corre­ lazione negativa tra il conseguimento dell’obiettivo di un individuo e quello degli altri. Nei suoi studi, egli non ha sviluppato il concetto di interdipendenza relativamente alla situazione individualistica, in quanto, com’è evidente, tale concetto si applica solo in un contesto di interazione sociale. In que­ sto caso, infatti, si può parlare di «assenza» di relazioni di interdipen­ denza. Ha invece approfondito l’analisi delle due situazioni, cooperativa e competitiva, individuando in esse due tipi di azioni fondamentali che possono essere indicate come efficaci o inefficaci in rapporto all’obietti­ vo di ciascuna di esse. Ha perciò definito efficaci le azioni che migliora­ no le possibilità di conseguire lo scopo e inefficaci quelle che le riduco­ no. Egli poi ha rilevato come gli effetti della situazione cooperativa sia­ no contrapposti a quelli della situazione competitiva in relazione a tre processi psicologico-sociali: la supplenza, la catexi positiva (l’investi­ mento di un’energia psicologica sugli oggetti e sugli eventi esterni) e Yinducibilità (apertura e disponibilità all’influenza). i

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In una situazione cooperativa, quando un membro del gruppo com­ pie azioni inadeguate e inefficaci al raggiungimento dello scopo, gli altri si impegnano a compensare gli effetti di tali azioni e a impedire che esse si ripetano. Un esempio tipico di questa situazione è quello di una gara a staffetta. Se un componente della squadra rimane indietro rispetto a un altro concorrente, i compagni impegnano tutte le loro ri­ sorse disponibili per recuperare lo svantaggio e conseguire la vittoria {supplenza). Le azioni efficaci determinano un coinvolgimento psico­ logico positivo, creando nuovi motivi di partecipazione (catexi positi­ va). Il motivo di ciò, secondo lo studioso, è da ricercarsi nel fatto che con lo sviluppo tra i membri di un interesse positivo al benessere dell’altro, ciascuno finisce per provare un piacere «vicario» del piace­ re del compagno. Quando le persone collaborano efficacemente tra di loro, è molto facile constatare una maggiore recettività all’influenza reciproca (inducibilità). Nei suoi studi, Deutsch ha ancora elencato una serie di effetti più det­ tagliati, prodotti da queste tre variabili nell’agire delle persone rispetto a situazioni competitive. Dal canto loro, D.W. Johnson e R.T. Johnson han­ no invece descritto i comportamenti e gli effetti derivanti da una interdi­ pendenza positiva, cogliendo delle relazioni bidirezionali tra impegno per i risultati, qualità delle relazioni interpersonali e salute mentale. In sintesi, se ci si colloca nella situazione in cui i membri di un grup­ po abbiano maturato la decisione di raggiungere tutti insieme un obiet­ tivo, appare evidente che essi debbono scambiarsi informazioni, pianifi­ care strategie, stabilire punti di contatto, condividere e manifestarsi le difficoltà incontrate, prestarsi reciproco aiuto, ecc. L’impegno cooperativo, perciò, non è solo funzionale allo scopo che si vuole raggiungere, ma estende anche il rapporto umano: induce, cioè, a prendere in esame il punto di vista degli altri, a valutare le loro qualità o i loro limiti, ad apprezzarne le doti o a esprimere dissenso per qualche aspetto del loro comportamento. In altre parole, spinge a conoscere e accettare gli altri. Quando c’è una vera collaborazione per un impegno comune, i membri di un gruppo hanno l’occasione di sviluppare una co­ noscenza reciproca, sinceri sentimenti di stima e di amicizia, intensa at­ tenzione verso l’altro, ecc. Tutto questo è tanto più convincente e sentito dai membri del gruppo per il fatto che questi comportamenti non sono formali ma nascono a motivo del desiderio di raggiungere il proprio obiettivo. Questo fa scaturire in tutti azioni concrete e sentite di parteci­ pazione, di solidarietà verso l’altro e di cooperazione per facilitare il conseguimento dello scopo condiviso. Perseguire con altri un obiettivo comune ha anche effetti benefici sulla salute mentale. Con questa espressione si intendono molte cose: valutazione realistica della stima di sé, buona resistenza allo stress, livel­ lo moderato di ansia, disponibilità e apertura verso gli altri, ecc. Varie ricerche hanno rilevato che il lavoro e l’impegno sostenuti con altri per il raggiungimento di obiettivi comuni sembrano influire in maniera positi­ va sull’equilibrio psicologico più che non il lavoro e l’impegno in una si­ tuazione di competizione o da soli. Lavorare cooperativamente rafforza

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l’equilibrio perché offre alle persone l’opportunità di sviluppare mag­ giori competenze sociali, di confrontarsi in modo amichevole e costrut­ tivo con gli altri, di ricevere da essi un aiuto in momenti di difficoltà, di scoraggiamento, di ansia e di manifestare senza timore il dissenso. Così, lavorare insieme in modo cooperativo potrebbe stimolare all’impegno coloro che lo rifiutassero per bassa stima di sé, per paura di sbagliare o di essere criticati e sollecitare in loro le qualità positive per raggiungere il successo. [M. Comoglio - M.A. Cardoso, Insegnare e apprendere in gruppo. Il Cooperative Learning, LAS, Roma, 1996, adattamento delle pp. 59-63].

T8. Edgar Morin, Educare per l'era planetaria In questa pagina, che riassume l ’istanza di rinnovamento dell’ap­ prendimento e della cultura sulla base del «pensiero che interconnet­ te», l’anima della sua proposta teorica, Edgar Morin delinea i tratti salienti di quella che egli chiama «era planetaria» e dell’atteggia­ mento mentale più adeguato a vivere e ad educare in essa, coscienti della condizione di errore e d ’incompiutezza che contraddistingue l ’esistenza umana.

L’era planetaria comincia tra la fine del XV secolo e gli inizi del XVI con la scoperta dell’America da parte di Colombo, la circumnavigazione della terra da parte di Magellano e la scoperta copernicana secondo la quale la terra è un pianeta che gira intorno al sole. L’era planetaria si è sviluppata attraverso la colonizzazione, la schiavitù, l’occidentalizzazio­ ne e, quindi, attraverso la moltiplicazione delle relazioni e interazioni tra le differenti parti del globo. L’epoca detta della globalizzazione, co­ minciata nel 1990, dà vita a un mercato mondiale e a una rete di comu­ nicazioni estremamente ramificata su tutto il pianeta. Gli sviluppi scien­ tifici, tecnici, economici promuovono un divenire planetario comune a tutta l’umanità e, al tempo stesso, minacce di morte nucleare e minacce di morte ecologica conferiscono all’umanità planetaria una comunanza di destino. È diventato di vitale importanza conoscere il destino plane­ tario che viviamo, tentare di percepire e concepire il caos degli avveni­ menti, delle interazioni e delle retroazioni, in cui si fondono e interferi­ scono i processi economici, politici, sociali, nazionali, etnici, religiosi, mitologici che tessono questo destino, sapere insomma chi siamo, ciò che ci accade, ciò che ci determina, ciò che ci minaccia, ciò che può illu­ minarci, avvertirci e, forse, salvarci. Ora, nel momento in cui il pianeta ha sempre più bisogno di spiriti adatti a comprendere i suoi problemi fondamentali e globali, adatti a comprendere la loro complessità, i sistemi di insegnamento, in qualsiasi paese, continuano a frazionare e separare conoscenze che dovrebbero

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essere collegate, a formare spiriti unidimensionali e riduttori, che privi­ legiano soltanto una dimensione dei problemi occultandone altre. La scienza economica in particolare, diventata regina e guida dei politici, non può concepire ciò che sfugge al calcolo, vale a dire le emozioni, le passioni, le gioie, i dolori, le aspettative, le speranze che sono l’essenza dell’esistenza umana. Anche la nostra formazione scolastica, universita­ ria, professionale fa di noi politici ciechi e ci impedisce di assumere la nostra condizione, ormai necessaria, di cittadini della Terra. Di qui la necessità vitale di «educare per l’era planetaria», cosa che richiede la ri­ forma del modo di conoscere, la riforma del pensiero, la riforma dell’in­ segnamento, essendo queste tre riforme interdipendenti. Avevo già affrontato questi problemi nel mio saggio La testa benfat­ ta, risultato di una missione senza risultato che avevo effettuato al Mi­ nistero dell’Educazione nazionale, e successivamente ne I sette saperi necessari all’educazione del futuro, testo ecumenico redatto su richie­ sta di Gustavo Lopez Ospina, direttore al’UNESCO del progetto inter­ disciplinare «Educare per un avvenire possibile». In seguito alla diffu­ sione di quest’opera e all’attività della cattedra itinerante «Edgar Morin per il pensiero complesso», istituita dall’UNESCO in America Latina, siamo stati coinvolti Radi Motta, Emilio-Roger Ciurana e io stesso in esperienze molteplici ed estremamente ricche in Colombia, Messico, Brasile, Bolivia, Argentina e Cile, che ci hanno convinto che era necessaria una nuova opera: -

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Per esaminare i problemi di metodo. Questo termine è spesso confu­ so con metodologia, cosa che irrigidisce il suo carattere programma­ tore; il metodo, qui, è una disciplina di pensiero che deve aiutare cia­ scuno a elaborare la propria strategia cognitiva, situando e conte­ stualizzando le sue informazioni, conoscenze e decisioni, rendendo ciascuno capace di affrontare la sfida onnipresente della complessi­ tà. Si tratta, più concretamente, di un «metodo di apprendimento nell’errore e nell’incertezza umani». Per dare senso al concetto di complessità. Questo termine è sempre più utilizzato, ma esprime non una delucidazione, bensì un’incapaci­ tà di descrivere, una confusione dello spirito. Si dice sempre più spes­ so «è complesso» per evitare di spiegare. Qui occorre fare un vero e proprio cambiamento di rotta e mostrare che la complessità è una sfida che lo spirito deve e può raccogliere, facendo appello ad alcuni principi che permettono l’esercizio di un pensiero complesso. Per chiarire infine il concetto stesso di era planetaria, nella sua pro­ spettiva storica e nella sua complessità multidimensionale, indican­ do che nella crisi generalizzata del nostro secolo nascente c’è l’e ­ mergenza di un’infrastruttura di società-mondo, che però non rie­ sce a prendere vita.

Il pensiero complesso rompe con la dittatura del paradigma di sem­ plificazione. Pensare in modo complesso è pertinente nei casi (quasi tutti) in cui ravvisiamo la necessità di articolare, relazionare, conte­

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stualizzare. Pensare in modo complesso è pertinente ogni volta che bi­ sogna pensare. Quando non si può ricondurre il reale né alla logica né all’idea. Quando non si può né si deve razionalizzare. Quando cerchia­ mo di andare al di là di ciò che è già conosciuto. Jean Piaget, nel suo libro Saggezza e illusioni della filosofia, indica che la filosofia (e questo vale nel caso del pensiero complesso) è una «presa di posizione ragionata» rispetto alla totalità del reale. Questa «posizione ragionata» si colloca sul terreno sdrucciolevole che si contendono la conoscenza scientifica, la conoscenza pratica, le cre­ denze e l’evidenza del non-sapere, e si vede sempre minacciata dalle ten­ denze unidimensionali del pensiero positivo, del funzionalismo e della riduzione del logos alla logica che finiscono per insterilire la riflessione. La tragedia delFinformazione si manifesta in ciascuno degli ambiti della conoscenza e della prassi sociale, attraverso l’aumento esponenzia­ le delle conoscenze e dei riferimenti. La tragedia della complessità si colloca sia a livello dell’oggetto della conoscenza sia a livello dell’opera di conoscenza. A livello del suo og­ getto, ci troviamo costantemente di fronte all’alternativa di scegliere tra il contenimento dell’oggetto della conoscenza, che mutila le sue solida­ rietà con gli altri oggetti e con il proprio ambiente (cosa che esclude, nel­ lo stesso tempo, i problemi globali e fondamentali) da una parte, e la dissoluzione dei contorni e dei confini che sommergono qualsiasi ogget­ to e che ci condannano, dall’altra parte, alla superficialità. A livello dell’opera, il pensiero complesso riconosce l’impossibilità e al tempo stesso la necessità di una totalizzazione, di una unificazione, di una sintesi. Deve, di conseguenza, tendere in modo tragico alla totaliz­ zazione, all’unificazione, alla sintesi, mentre combatte la pretesa a que­ sta totalità, a questa unità, a questa sintesi, poiché ha pienamente e irri­ mediabilmente consapevolezza dell’incompiutezza di ogni conoscenza, di ogni pensiero e di ogni opera. Questa triplice tragedia non è soltanto quella dello studente di scuola, quella di colui che elabora una tesi, quella del ricercatore, quel­ la dell’universitario; è la tragedia del sapere moderno. È certo che si può ignorare questa tragedia e continuare a lavorare, seguendo la nor­ ma tradizionale che privilegia la compartimentazione dei diversi ambi­ ti e il compimento delle opere. Ma d’ora in poi, l’incompiutezza si tro­ va al centro della coscienza moderna come un fantasma che infesta le biblioteche e gli archivi. Ecco perché è necessario che si tenga conto, nel campo dell’educa­ zione e dell’apprendimento, della coscienza dell’incompiutezza. Perché qualsiasi opera o progetto, invece che mascherare i suoi limiti, li eviden­ zia. Ciò non vuol dire che si allenti la disciplina intellettuale, ma che si inverta il suo senso, votandola alla realizzazione dell’opera nelFincompiutezza. La compiutezza di un’opera complessa non deve celare la sua incompiutezza, ma palesarla. [E. Morin (con E.R. Ciurana e R.D. Motta), Educare per l’era planetaria. Il pensiero complesso come metodo di apprendimento nella condizione umana di errore e incertez­ za, Armando, Roma, 2004, pp. 9-11,46,47-49 (ed. orig. 2003)].

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T9. Malcolm S. Knowles, Come apprende l'adulto

Malcolm S. Knowles, una delle massime autorità in tema di form a­ zione degli adulti, tra i fondatori, negli Stati Uniti, della Adult Education Associatimi, illustra in questa pagina i tratti distintivi della condizione adulta e le caratteristiche salienti del modo di apprende­ re che la differenzia dall 'infanzia. Si delineano così le fondamenta di quella che l ’autore ha proposto di chiamare andragogia, per distin­ guerla dalla tradizionale concezione dell'educazione lungo l'età evo­ lutiva (pedagogia). Prima di descrivere le ipotesi delFandragogia sui discenti e sull’ap­ prendimento, è utile esaminare che cosa intendiamo per «adulto». Pri­ mo, la definizione biologica: diventiamo adulti biologicamente quando raggiungiamo l’età della riproduzione - che alla nostra latitudine si situa nella prima adolescenza. Secondo, la definizione legale·, diventiamo adulti legalmente quando raggiungiamo l’età in cui la legge dice che possiamo votare, prendere la patente, sposarci senza patente, sposarci senza consenso e così via. Terzo, la definizione sociale: diventiamo adul­ ti socialmente quando iniziamo ad assumere un ruolo adulto, come quelli di lavoratore a tempo pieno, coniuge, cittadino con diritto di voto, e simili. Infine, la definizione psicologica: diventiamo adulti psicologi­ camente quando arriviamo a un concetto di noi stessi come persone au­ tonome e responsabili della nostra vita. Dal punto di vista dell’apprendimento, la definizione psicologica è la più cruciale. Ma mi sembra che il processo che porta a un concetto di sé come individuo autonomo inizia precocemente nella vita, e cresce pro­ gressivamente man mano che maturiamo biologicamente, iniziamo ad assumere ruoli da adulti (io facevo il venditore di riviste e gestivo la di­ stribuzione dei giornali dei ragazzi del liceo) e ci assumiamo sempre più le responsabilità di prendere le nostre decisioni. Così diventiamo adulti per gradi mentre attraversiamo l’infanzia e l’adolescenza, e il ritmo di crescita graduale è probabilmente accelerato se viviamo in case, studia­ mo in scuole e partecipiamo a organizzazioni giovanili che promuovono l’assunzione di maggiori responsabilità da parte nostra. Ma la maggior parte di noi probabilmente non sviluppa pienamente dei concetti di sé come persone autonome fino a che non lasciamo la scuola o l’università, troviamo un lavoro a tempo pieno, ci sposiamo e mettiamo su famiglia. Gli adulti sentono l’esigenza di sapere perché occorra apprendere qualcosa, prima d’intraprenderne l’apprendimento, ed hanno un concet­ to di sé come persone responsabili delle proprie decisioni e della propria vita. Una volta raggiunto quel concetto di sé sviluppano un profondo bi­ sogno psicologico di essere considerati e trattati dagli altri come perso­ ne capaci di gestirsi autonomamente. Si risentono e respingono le situa­ zioni in cui hanno la sensazione che gli altri stanno imponendo loro la propria volontà. Ma questo costituisce per noi un problema serio, nella

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formazione degli adulti: nel momento in cui si trovano ad affrontare un’attività etichettata come «formazione» o «training» o un altro dei lo­ ro sinonimi, ritornano al condizionamento ricevuto nelle loro preceden­ ti esperienze scolastiche, si mettono le orecchie d’asino della loro dipen­ denza, incrociano le braccia, si siedono e dicono «Insegnatemi». Nella mia esperienza ho incontrato continuamente degli adulti, che sono ov­ viamente autonomi in tutti gli altri aspetti della loro vita, che facevano pressione su di me perché dicessi loro cosa fare. Il problema si presenta quando pensiamo che siano veramente a questo punto e cominciamo a trattarli come bambini, perché allora creiamo in loro un conflitto tra il loro modello intellettuale - discente equivale a dipendente - e il loro bi­ sogno psicologico più profondo, forse inconscio, di autonomia. E il mo­ do in cui la maggior parte delle persone affronta i conflitti psicologici è di cercare di fuggire dalla situazione che li provoca - il che probabilmente rende conto in parte dell’alto tasso di abbandono di molti corsi volontari di formazione per adulti. Da quando ci siamo resi conto di questo problema, i formatori degli adulti si sono messi al lavoro per ereare delle esperienze di apprendimento in cui gli adulti sono aiutati nella transizione dalla dipendenza aH’autonomia. Gli adulti entrano in un’attività di formazione con un’esperienza che è maggiore di quella dei giovani, ma anche di qualità diversa. Sem­ plicemente perché hanno vissuto più a lungo, hanno accumulato più esperienza di quella che avevano da giovani. Ma si tratta anche di un diverso genere di esperienza. Quando avevo quindici anni, non avevo fatto l’esperienza di essere un lavoratore a tempo pieno, un coniuge, un genitore, un cittadino con diritto di voto; quando ne avevo trenta, avevo vissuto tutte queste esperienze. Questa differenza in quantità e qualità del vissuto esperienziale comporta numerose conseguenze per la formazione degli adulti. Da una parte, essa assicura che in ogni gruppo di adulti ci sarà una gamma più vasta di differenze individuali che nel caso di un gruppo di giovani. Qualsiasi gruppo di adulti sarà più eterogeneo - in termini di background, stile di apprendimento, motivazione, bisogni, interessi e obiettivi - di quanto non accada in un gruppo di giovani. Da qui deriva il grande accento posto nella formazione degli adulti sull’individualizza­ zione delle strategie d’insegnamento e di apprendimento. Dall’altra, essa significa che in molti casi le risorse di apprendimento più ricche risiedono nei discenti stessi. Di qui la maggiore enfasi posta nella formazione degli adulti sulle tecniche esperienziali - tecniche che si rivolgono all’esperienza dei discenti, come discussioni di gruppo, eser­ cizi di simulazione, attività diproblem-solving, metodo dei casi e metodi di laboratorio - rispetto alle tecniche trasmissive. Di qui, anche, la mag­ giore enfasi sulle attività di aiuto tra pari. Ma la maggiore esperienza può avere anche degli effetti potenziaimente negativi. Accumulando esperienza, tendiamo a sviluppare degli abiti mentali, delle prevenzioni e delle supposizioni che tendono a in­ durci a chiudere la nostra mente a nuove idee, intuizioni originali e modi di pensare alternativi. Di conseguenza, i formatori degli adulti stanno tentando di scoprire dei modi per aiutare gli adulti a esaminare

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le loro abitudini e i loro pregiudizi e ad aprirsi a nuove modalità di ap­ proccio. Addestramento della sensibilità, chiarificazione dei valori, meditazione e scale di dogmatismo sono fra le tecniche più usate per affrontare questo problema. C’è un’altra ragione, più sottile, per porre l’accento sul vissuto esperienziale dei discenti, ed ha a che fare con il loro senso di identità. I bambini piccoli derivano il loro senso di identità prevalentemente da ri­ ferimenti esterni - chi sono i loro genitori, i loro fratelli, sorelle e paren­ ti; dove vivono; e quali chiese e quali scuole frequentano. Maturando si * definiscono sempre più secondo le esperienze che hanno fatto. Per i bambini, l’esperienza è qualcosa che capita loro; per gli adulti, l’espe­ rienza rappresenta chi sono. Per esempio, quando avevo dieci anni, se mi avessero chiesto chi ero, probabilmente avrei risposto: «Mi chiamo Malcolm Knowles; mio padre è il dottor A.D. Knowles, veterinario; abi­ to al 415 di Fourth Street, Missoula, Montana; frequento la Roosevelt Grammar School in Sixth Street; e sono un membro della Sunday School alla chiesa presbiteriana in Fifth Street». Se qualcuno mi avesse chie­ sto chi ero a trent’anni, avrei risposto: «Mi chiamo Malcolm Knowles; ho partecipato come delegato al raduno mondiale dei boy scout a Berkinhead, in Inghilterra, nel 1929; ho studiato diritto internazionale all’Università di Harvard, laureandomi nel 1934; sono stato direttore della formazione per la National Youth Administration of Massachussetts dal 1935 al 1940» e così via. Derivavo la mia identità personale dal­ le mie esperienze. Nella formazione degli adulti, questo fatto implica che in ogni situazione in cui l’esperienza degli adulti viene ignorata o svalutata, essi sentono questo fatto come un rifiuto non solo della loro esperienza, ma di loro stessi come persone. Infine, in contrasto con l’orientamento centrato sulle materie, carat­ teristico dei bambini e dei giovani (almeno a scuola), l’orientamento dell’apprendimento degli adulti è centrato sulla vita reale. Gli adulti so­ no motivati a investire energia nella misura in cui ritengono che questo potrà aiutarli ad assolvere dei compiti o ad affrontare i problemi con cui si devono confrontare nelle situazioni della loro vita reale.

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[M.S. Knowles, Quando l’adulto impara. Pedagogia e andragogia, Angeli, Milano, 19962, pp. 76-80 (ed. orig. 1980)].

T10. Jack Mezìrow, Diventare più riflessivi, partecipativi, creativi Nel capitolo dedicato alla sintesi delle sue ricerche sull’apprendi­ mento trasformativo Jack Mezirow sottolinea il valore della teoria trasformativa come teoria e filosofia dell’educazione degli adulti. Ciò comporta, significativamente, una revisione e un cambiamen­ to dell’immagine e della funzione dell’educatore che si rivolge a questa peculiare categoria di discenti, delle metodologie che si de­ vono adottare e degli itinerari formativi che bisogna promuovere e percorrere.

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Non tutto l’apprendimento è trasformativo. Possiamo imparare ag­ giungendo semplicemente altre conoscenze ai nostri schemi di significa­ to, o apprendendo dei nuovi schemi di significato con cui interpretare la nostra esperienza. L’educazione degli adulti, in quanto sforzo intenzio­ nale finalizzato a facilitarne l’apprendimento, comporta evidentemente una responsabilità per questo tipo di apprendimento, e può costituire un’esperienza d’importanza cruciale per il discente. L’apprendimento trasformativo implica la trasformazione riflessiva delle convinzioni, degli atteggiamenti, delle opinioni e delle reazioni emotive che formano i nostri schemi di significato, o la trasformazione delle nostre prospettive di significato. La relazione che si crea tra l’edu­ catore e il discente adulto in questo tipo di apprendimento è simile a quella che si crea tra un mentore e un amico alle prese con un problema esistenziale, che però non ha ancora identificato chiaramente come fon­ te del suo dilemma. L’educatore aiuta il discente a identificare e a esa­ minare criticamente gli assunti - epistemologici, sociali e psicologici che stanno alla base delle sue convinzioni, dei suoi sentimenti e delle sue azioni; a valutare le conseguenze di questi assunti; a identificare e a esplorare dei set alternativi di assunti; e a testarne la validità attraverso la partecipazione al dialogo riflessivo. In sintesi, la mia visione e concezione dell’educazione degli adulti e, in essa, dell’apprendimento trasformativo si può riassumere nei se­ guenti punti. 1. L’obiettivo dell’educazione degli adulti è aiutare questi discenti a di­ ventare più criticamente riflessivi, a partecipare più pienamente e più liberamente alla dialettica razionale e all’azione, e a evolversi acqui­ sendo delle prospettive di significato più inclusive, più discriminanti, più permeabili e più integrative dell’esperienza. 2. La prima responsabilità dell’educatore degli adulti che vuole inco­ raggiare l’apprendimento trasformativo è promuovere la riflessione dei discenti sulle loro convinzioni o sui loro schemi di significato at­ traverso un esame critico della storia, del contesto e delle conseguen­ ze dei loro assunti e delle loro premesse. Una responsabilità col­ laterale è quella di creare delle comunità dialettiche, governate da norme coerenti con le condizioni di apprendimento ideali. 3. Le condizioni ideali per la partecipazione al dialogo critico sono an­ che le condizioni ideali per l’apprendimento adulto. 4. L’avvio e la facilitazione dell’apprendimento trasformativo da par­ te di un educatore sono attività etiche, anche se né l’educatore né il discente sono in grado di prevedere i risultati del processo, e anche se le azioni che vengono intraprese in seguito a quel processo possono rivelarsi pericolose o impossibili da attuare in un determina­ to momento. 5. L’educazione finalizzata all’apprendimento trasformativo è etica finché l’educatore non tenta di costringere, o d’indurre con la manipolazione, i discenti ad accettare il suo punto di vista, e li invita a sce­ gliere tra un’ampia gamma di prospettive. L’educatore, tuttavia, non è obbligato ad aiutare i discenti a intraprendere delle azioni che ri-

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sultano in conflitto con il suo codice etico, anche se i discenti hanno deciso d’intraprenderle dopo un confronto dialettico razionale. 6. Gli educatori degli adulti dovrebbero avere delle conoscenze psi­ cologiche, e una sensibilità psicologica, sufficienti ad aiutare dei discenti sani ad affrontare le distorsioni psicologiche più comuni nelle prospettive di significato, che impediscono loro di superare con successo i passaggi critici della vita adulta. Gli educatori do­ vrebbero essere in grado di distinguere tra questi discenti e quelli i cui problemi psichici richiedono un trattamento psicoterapico professionale. 7. L’apprendimento trasformativo comporta il passaggio all’azione, per attuare concretamente le indicazioni prodotte dalla riflessione critica. Quando le distorsioni affrontate dall’apprendimento tra­ sformativo sono di natura socioculturale, l’azione sociale diventa parte integrante del processo di apprendimento. L’azione sociale può determinare dei cambiamenti nelle relazioni, nelle organizza­ zioni, o nei sistemi politici, economici e culturali. La modifica dei si­ stemi richiede un’azione sociale collettiva, che spesso è frutto di un processo lungo e difficile. 8. Libertà, democrazia, uguaglianza, giustizia e cooperazione sociale sono alcune delle condizioni necessarie per una partecipazione otti­ male al discorso critico. Gli educatori degli adulti dovrebbero sup­ portare attivamente le iniziative educative e sociali che promuovono questi valori. Benché l’educazione finalizzata all’azione sociale col­ lettiva sia un’area di specializzazione all’interno dell’educazione degli adulti, tutti gli educatori degli adulti dovrebbero avere una conoscen­ za di base di questo processo. 9. Il processo di apprendimento e gli interventi educativi - analisi dei bisogni e fissazione degli obiettivi, determinazione della disponibilità all’apprendimento, definizione del programma didattico, erogazione del programma e valutazione dei risultati - sono intrinsecamente di­ versi in base alla preferenza del discente per l’apprendimento stru­ mentale o comunicativo. Benché entrambe le forme di apprendimen­ to siano presenti in quasi tutte le esperienze didattiche, l’enfasi sull’una o sull’altra implica degli interventi più specifici e mirati in quell’area. Gli approcci educativi più appropriati per l’apprendimento strumentale vengono spesso, ed erroneamente, applicati anche all’apprendimento comunicativo. 10.1 veri interessi del discente sono quelli che preferirebbe qualora aves­ se maggiori conoscenze, più libertà e delle prospettive di significato meno distorte. L’autenticità degli interessi di un discente viene misu­ rata in base alla loro congruenza con il concetto del Sé, o con quello di «vita sana», che ispira il discente stesso. L’analisi dei «bisogni» dei discenti andrebbe estesa fino a ricomprenderne i veri interessi. 11. La valutazione dei progressi compiuti per effetto dell’apprendimento trasformativo dovrebbe tentare di mappare la prospettiva di signifi­ cato iniziale del discente e confrontarla con quella successiva. Le dif­ ferenze analizzate dovrebbero includere i cambiamenti intervenuti negli interessi, negli obiettivi, nella consapevolezza dei problemi, nel­

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la consapevolezza dei contesti, nella riflessività critica e nell’azione, nell’apertura a delle prospettive alternative, nella capacità di parteci­ pare liberamente e pienamente alla dialettica razionale, e nella dispo­ nibilità ad accettare la validazione consensuale come modalità di problem solving nell’apprendimento comunicativo. [J. Mezirow, Apprendimento e trasformazione. Il significato dell’esperienza e il valore della riflessione nell’apprendimento degli adulti, Cortina, Milano, 2003 (ed. orig. 1991), pp. 215-218],

T11. Donald A. Schon, La riflessione nel corso dell'azione o pensiero riflessivo Il concetto di «riflessione nel corso dell’azione» è uno dei punti-car­ dine dell’a nalisi delle professionalità complesse - come ad esempio quelle del medico, dell’architetto, dello psicologo e anche dell’inse­ gnante e dell’educatore - elaborata da Donald A. Schon. Leggiamo, dallo studio che ha segnato un punto di svolta nella storia delle teo­ rie della formazione adulta in questo campo, le pagine che ne descri­ vono i caratteri essenziali e l ’architettura d ’insieme.

Per comprendere che cosa sia la riflessione nel corso dell’azione, dobbiamo prestare attenzione alla complessità del fenomeno del cono­ scere nella pratica. La riflessione di un professionista nel corso dell’azione non può esse­ re molto rapida. Essa è limitata dal «presente dell’azione», l’ambito temporale nel quale l’azione può ancora rendere differente una situazione. Il presente dell’azione può estendersi per minuti, ore, giorni, o anche settimane o mesi, in relazione alla velocità dell’attività e ai limiti della situazione che caratterizzano l’esercizio della pratica. Nei meccanismi di concessione reciproca propri dei comportamenti in tribunale, ad esempio, la riflessione di un avvocato nel corso dell’azione può aver luogo per una manciata di secondi, ma quando il contesto è quello di un caso di antitrust che si trascina da anni, la riflessione nel corso dell’azione può procedere pigramente per diversi mesi. Velocità e durata della riflessione nel corso dell’azione variano dunque in base alla velocità e durata delle situazioni che si incontrano nella pratica. Quando un professionista riflette nel corso della pratica e su di essa, i possibili oggetti della sua riflessione sono variabili al pari dei tipi di feno­ meni che sono di fronte a lui e dei sistemi di conoscenza che egli impiega. Egli può riflettere sulle norme e sugli apprezzamenti taciti che sono alla base di un giudizio, o sulle strategie e le teorie implicite in un tipo di comportamento. Può riflettere sulla sensibilità per una situazione che lo ha portato ad adottare una particolare linea di azione, sul modo in cui ha strutturato il problema che sta cercando di risolvere, o sul ruolo che ha costruito per se stesso nell’ambito di un più vasto contesto istituzionale.

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La riflessione nel corso dell’azione, in queste diverse forme, è così fondamentale per l’arte mediante la quale i professionisti talvolta fanno fronte alle problematiche situazioni «divergenti», tipiche della pratica. Quando il fenomeno in considerazione fuoriesce dalle categorie or­ dinarie del conoscere nella pratica, presentandosi come unico o instabi­ le, il professionista può far emergere e criticare la propria iniziale com­ prensione del fenomeno, costruire una nuova descrizione di quest’ulti­ mo e verificare la nuova descrizione attraverso un esperimento sul campo. Talvolta egli perviene a una nuova teoria del fenomeno mediante l’articolazione di una sensazione che egli ha riguardo a esso. Quando si trova bloccato in una situazione problematica che non riesce a trasformare facilmente in un problema trattabile, egli può costru­ ire un nuovo modo di impostare un problema - una nuova struttura che, secondo la definizione che darò di «esperimento di strutturazione», cer­ ca di imporre sulla situazione. Quando si trova di fronte a domande che appaiono incompatibili o incoerenti, può rispondere riflettendo sugli apprezzamenti che egli stes­ so e altri hanno elaborato riguardo alla situazione. Una volta che abbia acquisito consapevolezza di un dilemma, può attribuirlo al modo in cui ha impostato il problema, o anche al modo in cui ha strutturato il pro­ prio ruolo. Può allora scoprire un modo per integrare i valori in gioco nella situazione, o per scegliere fra di essi. Un esempio. Verso i trentacinque anni, nel periodo compreso fra la composizione de I Cosacchi e il successivo Guerra e Pace, Tolstoj prese a interessarsi all’educazione. Diede avvio a una scuola per i bambini nella sua tenuta a Yasnaya Polanya, visitò l’Europa per imparare gli ulti­ mi metodi didattici, e pubblicò un giornale sulla didattica, che ebbe per titolo il nome della scuola. Prima di stancarsi (un nuovo racconto probabilmente sostituì il suo interesse per la didattica), aveva costruito circa settanta scuole, creato un programma informale per la formazione degli insegnanti, e scritto un pezzo esemplare sulla valutazione della didatti­ ca, relativamente all’arte dell’insegnamento della lettura. In esso, dopo aver sostenuto che tale insegnamento dev’essere il più possibile indivi­ dualizzato, egli afferma che il migliore insegnante è «quello che ha sulla punta della lingua la spiegazione di ciò che preoccupa l’alunno». Il com­ plesso delle spiegazioni che l’insegnante è capace di dare gli fa acquisire «la conoscenza del maggior numero possibile di metodi e, soprattutto, non una cieca aderenza a un metodo, ma la convinzione che ogni meto­ do sia parziale, e che il metodo migliore sarebbe quello che meglio ri­ spondesse a tutte le possibili difficoltà incontrate da un alunno, vale a dire, non un metodo ma un’arte e un talento». Tolstoj arriva così ad af­ fermare che l’insegnante, «esaminando ogni imperfezione nella com­ prensione dell’alunno non come un difetto dell’alunno, ma come un difetto del proprio insegnamento, deve cercare di sviluppare in se stesso l’abilità di scoprire nuovi metodi». Un insegnante dotato di una simile arte o talento considera la difficoltà di un bambino nell’apprendimento della lettura non già come un difetto del bambino, ma come un difetto dell’insegnamento da lui impartito. Così deve trovare il modo di spiegare ciò che disorienta l’allievo. Deve effettua­

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re una ricerca sperimentale, immediatamente, nell’aula. E poiché le diffi­ coltà del bambino possono essere uniche, l’insegnante non può assumere che il proprio repertorio di spiegazioni sia sufficiente, anche se tali spiega­ zioni sono «sulla punta della lingua». Deve essere pronto a inventare nuovi metodi e deve sforzarsi di sviluppare in se stesso l’abilità di scoprirli. Potremmo continuare con molti altri esempi come questo, in cui qualcosa ricade al di fuori del campo della comuni aspettative. In tutti i casi, il professionista si lascia cogliere da sorpresa, perplessità e confu­ sione in una situazione che trova incerta o unica. Riflette sui fenomeni che sono di fronte a lui, e sulle precedenti comprensioni, implicite nel suo comportamento. Conduce un esperimento che serve a generare una nuova comprensione dei fenomeni e un mutamento nella situazione. Quando qualcuno riflette nel corso dell’azione, diventa un ricercato­ re operante nel contesto della pratica. Non dipende dalle categorie con­ solidate della teoria e della tecnica, ma costruisce una nuova teoria del caso unico. La sua indagine non è limitata a una decisione sui mezzi di­ pendente da un preliminare consenso sui fini, secondo il modello della razionalità tecnica o strumentale. Egli non tiene separati i fini dai mez­ zi, ma li definisce in modo interattivo, mentre struttura una situazione problematica. Non separa il pensiero dall’azione, ragionando sul proble­ ma sino a raggiungere una decisione che successivamente dovrà trasfor­ mare in azione. Poiché la sua sperimentazione rappresenta una sorta di azione, l’implementazione è costruita nell’ambito dell’indagine. Così la riflessione nel corso dell’azione può procedere, anche in situazioni ca­ ratterizzate da incertezza o unicità, perché non è limitata dalle dicoto­ mie della razionalità tecnica. La riflessione nel corso dell’azione, per quanto sia un processo stra­ ordinario, non è un evento raro. In verità, per qualche professionista riflessivo essa costituisce il fulcro della pratica. Tuttavia, poiché il pro­ fessionismo è ancora principalmente identificato con l’expertise tecni­ ca, la riflessione nel corso dell’azione non è generalmente accettata neppure da coloro i quali la esercitano - come una forma legittima di conoscere professionale. Molti professionisti, chiusi nell’idea di essere degli esperti tecnici, non trovano alcunché nel contesto della pratica che sia occasione di ri­ flessione. Sono diventati troppo esperti di tecniche di disattenzione se­ lettiva, scarto di categorie e controllo delle situazioni, tecniche che essi usano per preservare la stabilità della loro conoscenza nel corso della pratica. L’incertezza costituisce per loro una minaccia; la sua ammissio­ ne è un segno di debolezza. Altri, che sono più inclini alla riflessione nel corso dell’azione e ne hanno maggiore esperienza, tuttavia, si sentono profondamente in difficoltà perché non sono in grado di dire cos’è che sanno come fare, né sono in grado di giustificarne la qualità o il rigore. Per queste ragioni, lo studio della riflessione nel corso dell’azione è estremamente importante. Il dilemma fra rigore e pertinenza come cri­ terio dell’agire potrà essere rimosso se saremo in grado di sviluppare un’epistemologia della pratica che collochi la soluzione tecnica dei pro­ blemi all’interno di un più ampio contesto di indagine riflessiva, che mo­ stri che la riflessione nel corso dell’azione può essere rigorosa per propri

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meriti, e che leghi l’arte dell’esercizio della pratica in condizioni di in­ certezza e unicità all’arte della ricerca propria dello scienziato. È perciò possibile accrescere la legittimità della riflessione nel corso dell’azione e incoraggiarne un uso più ampio, profondo e rigoroso. [D.A. Schon, Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica pro­ fessionale, Edizioni Dedalo, Bar,i 1983 (ed. orig. 1983), riduzione dalle pp. 88-95].

T I 2. Etienne Wenger, L'apprendimento attraverso la «comunità di pratica» Scrittore, ricercatore e consulente, Etienne Wenger è, tra gli studiosi dell’ultima generazione, colui che più ha insistito sul carattere diffu­ sivo dell’apprendimento nel vivere e nella prassi sociale condivisa. In tale prospettiva, l ’a pprendimento attraverso le «comunità di prati­ ca» è ciò che sta propriamente alla base dei processi di strutturazio­ ne delle identità individuali e collettive, così come del divenire delle istituzioni sociali, politiche ed economiche - nonché del flusso di in­ formazioni e di cambiamenti che rinnovano incessantemente la fi­ sionomia e l ’azione delle une come delle altre.

Esistono tanti tipi di teorie dell’apprendimento. Ognuna di essi enfa­ tizza diversi aspetti di questo processo, e quindi serve finalità diverse. In qualche misura, queste differenze di enfasi riflettono una deliberata fe­ calizzazione su una faccia del problema multidimensionale dell’appren­ dimento, e in qualche misura evocano più fondamentali differenze sugli assunti circa la natura della conoscenza, del conoscere e dei fruitori del­ la conoscenza, e di conseguenza su ciò che conta nell’apprendimento. La teoria sociale dell’apprendimento che propongo non si sostituisce ad altre teorie dell’apprendimento che affrontano aspetti diversi del proble­ ma. Ma ha un suo set di assunti e una sua fecalizzazione. A ll’interno di questo contesto, presenta un livello coerente di analisi e mette a disposi­ zione uno schema concettuale da cui derivare un insieme organico di prin­ cipi generali e di raccomandazioni per capire e facilitare l’apprendimento. I miei assunti di fondo si possono sintetizzare come segue. Io parto da quattro premesse. 1. Siamo esseri sociali. Lungi dall’essere un’ovvietà, è questo un aspet­ to centrale dell’apprendimento. 2. La conoscenza (knowledge) è un fatto di competenza per tutta una serie di attività socialmente apprezzate: cantare intonati, scoprire leggi scientifiche, riparare macchine, scrivere poesie, agire in modo conviviale, acquisire la piena identità sessuale, ecc. 3. Conoscere (knowing) vuol dire partecipare al perseguimento di que­ ste attività socialmente apprezzate, ossia assumere un ruolo attivo nel mondo.

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4. Il significato - ossia il nostro fare esperienza del mondo e la nostra relazione attiva con esso come qualcosa di significativo - è ciò che al­ la fine l’apprendimento è chiamato a generare. Sulla base di questi assunti, la mia teoria si concentra prevalente­ mente sull’apprendimento come partecipazione sociale. Qui il termine «partecipazione» si riferisce non tanto al coinvolgimento locale in de­ terminate attività con determinate persone, quanto piuttosto a un pro­ cesso più inclusivo dell’essere partecipanti attivi nelle pratiche di comu­ nità sociali e nella costruzione di identità in relazione a queste comuni­ tà. Partecipare a una banda di ragazzini o a un team di lavoro, per esempio, è al tempo stesso una forma di azione e una forma di apparte­ nenza. Questa partecipazione influenza non solo ciò che facciamo, ma anche chi siamo e come interpretiamo ciò che facciamo. Tutti noi apparteniamo a delle comunità di pratica. A casa, sul lavo­ ro, a scuola, negli hobby, in qualunque fase della nostra vita, appartenia­ mo a svariate comunità di pratica. E quelle a cui apparteniamo cambia­ no nell’arco della nostra vita. Le comunità di pratica fanno parte integrante della nostra vita quo­ tidiana. Sono così informali e così pervasive da entrare raramente nel mirino di un’analisi esplicita, ma per quelle stesse ragioni sono anche del tutto familiari. Anche se l’espressione può suonare nuova, l’espe­ rienza non lo è affatto. In genere, le comunità di pratica non hanno un nome e non rilasciano tessere d’iscrizione. Ma se ci prendiamo la briga di considerare per un momento la nostra vita in quella prospettiva, pos­ siamo costruire tutti quanti un quadro piuttosto realistico delle comuni­ tà di pratica cui apparteniamo adesso, di quelle cui abbiamo appartenu­ to in passato e di quelle a cui probabilmente apparterremo in futuro. Possiamo anche farci un’idea abbastanza precisa di chi appartiene alle nostre comunità di pratica e del perché, anche se l’appartenenza non viene quasi mai sancita da un attestato o da una checklist di criteri qua­ lificanti. Inoltre siamo probabilmente in grado di distinguere le poche comunità di pratica di cui siamo membri attivi da quelle - decisamente più numerose - in cui occupiamo un ruolo, diciamo così, più periferico. L’apprendimento così come io l’intendo non è un’attività a se stante. Non è qualcosa che facciamo quando non abbiamo nient’altro da fare, o che smettiamo di fare nel momento in cui ci mettiamo a fare qualcos’al­ tro. Ci sono dei momenti nella vita in cui l’apprendimento si intensifica: quando le situazioni mettono in crisi il nostro senso di familiarità, quan­ do siamo sfidati ad andare oltre le nostre abituali risposte, quando vo­ gliamo impegnarci in nuove pratiche e vogliamo entrare a far parte di nuove comunità. Ci sono anche dei momenti in cui la società ci pone esplicitamente in situazioni nelle quali l’apprendimento diventa proble­ matico e richiede un approccio particolarmente attivo da parte nostra: partecipiamo a dei corsi, memorizziamo, sosteniamo degli esami e rice­ viamo un diploma. E ci sono dei momenti in cui l’apprendimento si con­ solida: il bambino pronuncia la prima parola, abbiamo un’illuminazione improvvisa quando l’osservazione di qualcuno ci fornisce un anello mancante, veniamo finalmente accettati a pieno titolo in una comunità.

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Ma le situazioni che mettono in primo piano l’apprendimento non sono necessariamente quelle in cui impariamo di più o più profondamente. Gli eventi di apprendimento a cui possiamo fare riferimento assomiglia­ no forse di più a delle eruzioni vulcaniche, le cui violente esplosioni rive­ lano, in un istante drammatico, il costante lavorio della terra. Appren­ dere è un’attività che possiamo dare per scontata - che la vediamo o no, che ci piaccia o meno il modo in cui si compie, che consista nel replicare il passato o nel distaccarsene. Anche il mancato apprendimento di ciò che si dovrebbe imparare in una determinata situazione comporta di so­ lito l’apprendimento di qualcos’altro. Anche se, come ho appena notato, l’apprendimento si può considera­ re un processo in qualche modo automatico, le società moderne lo vedo­ no ormai come un oggetto di preoccupazione - in tutti i possibili modi e per una quantità di ragioni. Noi sviluppiamo dei programmi scolastici nazionali, degli ambiziosi piani formativi aziendali, dei sistemi educativi complicati. Vogliamo indurre l’apprendimento, assumerne il controllo, indirizzarlo, accelerarlo, esigerlo o anche solo smettere di ostacolarlo. In ogni caso, vogliamo agire in qualche modo su di esso. Ma se procediamo senza riflettere sui nostri assunti fondamentali in merito alla natura dell’apprendimento, rischiamo sempre più che le no­ stre concezioni assumano delle ramificazioni fuorvianti. In un mondo che cambia e che diventa sempre più e sempre più rapidamente inter­ connesso, le preoccupazioni in tema di apprendimento sono certamente giustificate. Ma forse più dell’apprendimento in sé, è la nostra concezio­ ne di apprendimento che abbisogna di attenzione urgente quando deci­ diamo di occuparcene con l’intensità con cui ce ne occupiamo oggi. A n­ zi, più ci preoccupiamo della progettazione, più profondi sono gli effetti dei nostri discorsi sull’argomento che vogliamo affrontare. Più lontano si vuole arrivare, più conta un errore iniziale. Più diventiamo ambiziosi nei tentativi di organizzare la nostra vita e il nostro ambiente, più si estendono le implicazioni delle nostre prospettive, delle nostre teorie e delle nostre convinzioni. Più assumiamo la responsabilità del nostro fu­ turo su una scala sempre più vasta, più diventa imperativo riflettere sul­ le prospettive che informano le nostre attività. Un’implicazione fondamentale dei nostri tentativi di organizzare l’apprendimento è che dob­ biamo diventare riflessivi per quanto riguarda i nostri discorsi sull’apprendimento e i loro effetti sulle relative modalità di progettazio­ ne. Proponendo uno schema e una prospettiva di riferimento che consi­ dera l’apprendimento in termini sociali, io spero di rispondere a questa pressante esigenza di riflessione e di ripensamento. Una prospettiva non è una ricetta. Non prescrive esattamente cosa si deve fare. Semmai fa da guida su ciò a cui si deve dedicare attenzione, sulle difficoltà da aspettarsi e sul modo in cui affrontare i problemi. Se pensiamo, ad esempio, che la conoscenza consista in una serie di informazioni esplicitamente archiviate nel cervello, ha senso strutturare tali informazioni in unità ben progettate, riunire i destinatari di queste informazioni in un’aula dove sono perfettamente tranquilli e isolati da qualunque possibile distrazione, e fornire loro le informazioni nel modo più chiaro e succinto possibile. In questa prospettiva, quella che è ormai

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divenuta l’epitome dell’evento formativo ha molto senso: un insegnante che tiene una lezione tradizionale, in un’aula scolastica, in un centro di formazione aziendale o nella saletta di una biblioteca. Ma se crediamo che le informazioni archiviate con modalità esplicite rappresentino solo una piccola parte del conoscere, e che il conoscere (,knowing) implichi anzitutto una partecipazione attiva alle comunità sociali, allora il modello tradizionale non appare più così produttivo. Ri­ sultano ben più promettenti delle soluzioni originali per coinvolgere gli studenti in pratiche significative, per garantire loro l’accesso a risorse che ne facilitino la partecipazione, per allargare i loro orizzonti in modo che si possano avviare su percorsi di apprendimento con cui sono in gra­ do di identificarsi, e per coinvolgerli in azioni, discussioni e riflessioni che fanno la differenza per le comunità che essi valutano. [É. Wenger, Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Cortina, Mila­ no, 2006 (ed. orig. 1998), adattamento delle pp. 10-17].

T13. Bertrand Schwartz, Trasformare il circolo vizioso dell'esclusione in un circolo virtuoso Modernizzare senza escludere, l’opera più significativa di Schwartz, riassume e sistematizza il patrimonio più che trentennale di espe­ rienza e di riflessione maturato dall'autore, prima ingegnere in servi­ zio attivo nell’industria mineraria e metallurgica, poi ideatore e arte­ fice - anche per conto del Governo francese - di importanti organiz­ zazioni e progetti di riqualificazione e integrazione di giovani e adulti in precarie condizioni lavorative o sociali. L’analisi si concen­ tra qui sul fenomeno dell’esclusione precoce dalla scuola, alla ricer­ ca dei modi per invertire il suo meccanismo perverso.

L’esclusione delle persone considerate come difficilmente occupabili (i disoccupati o i sottoccupati) per il loro basso livello di scolarità non pone solo un problema di morale e di giustizia sociale; è anche una pra­ tica contraria all’interesse economico e allo sviluppo delle imprese. Escludendo delle persone poco formate, le imprese, senza rendersene conto, si penalizzano da sole e si lasciano scappare un’interessante op­ portunità della quale dovrebbero approfittare: l’emersione di situazioni nuove, qualificanti per gli operai e per le imprese. In questo contesto, ri­ fiutare, come fanno le imprese, coloro che esse percepiscono come dei «pesi morti», significa fare della contro-produttività. Questi «pesi mor­ ti», infatti, possono diventare delle forze vive, ed è questa l’essenza stes­ sa della mia battaglia: trasformare il circolo vizioso dell’esclusione in un circolo virtuoso (attraverso l’inserimento qualificante e la formazione). Escludere, significa distruggere. Quando non si assumono i disoccupati, giovani e meno giovani, con un basso livello di scolarità, si esclude. Quando si licenzia, si esclude.

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Quando, infine, si licenzia del personale non qualificato per riassumere, sei mesi o un anno più tardi, del personale più qualificato, si esclude an­ cora una volta. Questa pratica corrente è socialmente condannabile, giacché essa contribuisce a dequalificare ulteriormente gli esclusi e a di­ videre la società in due classi: quella dei vincitori, sempre più efficienti, che vengono avanti, decidono, riflettono, e quella dei rifiutati, sempre più numerosi, disoccupati, male o sottoccupati, minacciati dalla disoc­ cupazione, che risentono crudelmente del declassamento professionale, ma anche sociale e culturale, che li colpisce. L’esclusione non è una fatalità. Attualmente, data la sua crescita e la minaccia che rappresenta per il nostro equilibrio sociale, molti ne pren­ dono coscienza. Molti quadri e responsabili d’impresa hanno da poco cominciato a convenire sulla necessità di agire per la (ri)valorizzazione dell’esperienza degli operai che si trovano «più vicini» alle macchine. Conoscendo le macchine da vicino, tali lavoratori le «sentono» e ne pos­ siedono, per così dire, un «capitale di memoria» che rende possibili le previsioni. Questo capitale d’esperienza - che, d’altronde, è presente an­ che nei settori non industriali - è difficile da misurare e da definire: co­ stituito contemporaneamente di esperienze personali e collettive, esso comporta un insieme di conoscenze sperimentali complesse riguardanti sia i rapporti di lavoro con gli uomini, sia gli impianti, i macchinari, i prodotti, le informazioni, i dati. Il problema è, certo, più difficile da risolvere quando si tratta di inse­ rire dei giovani disoccupati senza esperienza. Eppure, delle Nouvelles qualifications «rinnovate» possono, in questo caso, dare delle risposte in quanto consentono un’esperienza di lavoro e, nello stesso tempo, un im­ pegno sulle disfunzioni (e, ovviamente, la distanza critica che apporta la formazione teorica). In ciò consiste l’interesse rappresentato dai tentativi concreti, sempre più numerosi, con cui si cerca di sviluppare la formazio­ ne attraverso la trasmissione della cultura operaia: si assiste così allo svi­ luppo di esperienze nelle quali degli operai, vicini all’età della pensione, vengono incaricati - ad esempio, sotto la forma del tutorato - di trasmet­ tere ai più giovani pratiche, conoscenze, ma anche esperienza e valori. Imparare ad affrontare l’imprevisto, acquisire un’esperienza, osser­ vare, sviluppare la propria autonomia, tutte queste capacità non richie­ dono quel tipo di concettualizzazione, né quelle competenze che si ac­ quisiscono nell’ambito scolastico. Questa non è una critica alla forma­ zione scolastica, ma a quei decisori che, nelle imprese, assumono unicamente sulla base di criteri scolastici, selezionando in funzione del­ la riuscita scolastica. Questa strategia è contestabile a doppio titolo, dal momento che non giunge che a dequalificare i diplomati sottoimpiegan­ doli e a escludere nuovamente coloro che il sistema scolastico aveva già escluso. Sviluppare invece un nuovo modo di formazione, fornire la pos­ sibilità di appropriarsi del sapere attraverso nuovi metodi, significa ope­ rare a favore della modernizzazione e, insieme, per l’inserimento dei di­ soccupati e dei giovani con un debole livello di formazione. A livello adulto, la formazione deve essere concepita come un pro­ cesso che riguarda l’evoluzione di tutta la persona. La trasformazione del vissuto in esperienza, e successivamente dell’esperienza in sapere,

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passa attraverso una maturazione interiore che accresce le capacità del­ la persona: giacché le nuove conoscenze predispongono a nuovi vissuti, più ricchi, accrescono, conseguentemente, l’esperienza, permettono l’ac­ quisizione di altri saperi e così di seguito. È per questo che la nozione di «deficit cognitivo», applicata a persone con un debole livello di scolarità tanto da talune imprese che da taluni formatori, mi sembra inaccettabile, e contesto anche il ragionamento secondo il quale i meglio formati sono i meglio impiegabili. Con ciò si dimentica che i «meglio formati» sono in realtà coloro che sono stati subito investiti del loro sapere, e che i più competenti sono non solo i «meglio formati», ma coloro che sono stati occupati di più e meglio. La competenza non proviene solamente dalla formazione, ma dall’impiego, dalla attualizzazione, nelle situazioni concrete, di questa formazione e dei mezzi dati a ciascuno per utilizzarla e svilupparla. E la politica della gestione delle «risorse umane» che qui è in causa. Il lavoro degli operai resterà devalorizzante finché lo si considererà tale, fintanto che se ne trascurerà l’aspetto intellettuale e riflessivo, fintanto che lo si considererà come fisso e stereotipato. Se invece gli si riconoscerà la componente creativa, se lo si valorizzerà, esso diventerà valorizzante. Non si tratta di assumere delle persone con un diploma di scuola secondaria superiore, non si tratta di formare sempre più diplomati che si inseriranno poi in un mondo lavorativo predefinito, si tratta, invece, di modificare l’organizzazione e le situazioni di lavoro: giacché è il contesto a essere o non essere - qualificante. Un diplomato in un contesto non qualificante regredirà. Un non diplomato in un contesto qualificante non cesserà di progredire. In questo spirito, ho presto adottato questa «morale» che, forse, La Fontaine non avrebbe rifiutato: «Un piccolo lavoro diventerà un grande lavoro se l’ambiente è qualificante». Dal mio punto di vista, stabilire una frontiera ermetica tra i lavori modesti e gli altri è una pratica molto pericolosa. In altri termini, i veri cambiamenti, quelli che non escludono, non possono che ispirarsi a una strategia: innalzare il livello di tutti - cosa che presuppone sia un’organizzazione del lavoro qualificante sia delle qualificazioni «riorganizzative», perché più i lavoratori si qualificheran­ no, più saranno in grado di debordare dai loro compiti, spingendo i re­ sponsabili a ripensare l’organizzazione generale del lavoro. Se le diffi­ coltà di realizzazione pratica di queste proposte sono notevoli, mi sem­ bra comunque essenziale affrontarle: anche se la risposta non sarà soddisfacente, i frutti da ricavare da una simile esperienza saranno per l’impresa più preziosi dell’accantonamento dei problemi che pone l’inse­ rimento e che comunque, presto o tardi, si ripresenteranno. La sfida fondamentale dei prossimi anni è quella di creare delle com­ petenze e dei rapporti di lavoro tali che ogni persona, nell’impresa, trovi il proprio posto, la propria autonomia. Ogni operaio non dovrebbe forse es­ sere «trattato, considerato... come un quadro»? Per ciò che mi concerne, considero i quadri come degli «operai», nel senso più nobile del termine. Lottare contro l’esclusione, inserendo dei giovani senza qualificazio­ ne, mantenere in servizio i dipendenti, in un contesto di responsabilizza­ zione collettiva, costituisce un piano d ’impresa nel quale ognuno può

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essere attivo, sentirsi mobilitato, un atto di modernizzazione nella soli­ darietà. Dirò di più: studiare costantemente la trasformazione, per j quanto piccola sia, dei «piccoli lavori» in lavori veri e propri, utili e ricoj nosciuti come tali, significa certamente creare occupazione. La mia con­ vinzione è che la modernizzazione, se posso dirlo, si farà a questo prez­ zo. L’esclusione, come la deresponsabilizzazione, sono nel tempo con­ troproducenti. In questo vi è un circolo vizioso: la derespónsabilizzazione demotiva, la mancanza di motivazione rende impossibile la formazione, aumenta la dequalificazione e si moltiplicano le disfunzioni. Proponen­ do di sostituire questo «auto-raffreddamento» con un «auto-riscalda­ mento», di trasformare questo circolo vizioso in circolo virtuoso, non predico solo un’azione morale: propongo una costruttiva politica econo­ mica e sociale del lavoro. [B. Schwartz, Modernizzare senza escludere. Un progetto di formazione contro l’emargi­ nazione sociale e professionale, Anicia, Roma, 1995 (ed. orig. 1994), adattamento delle pp. 229-236],

T14. Norberto Bottani, Come stanno cambiando le modalità di apprendimento? In apertura della Conferenza Internazionale « Un giorno di scuola nel 2020», Norberto Bottani ha fotografato nel modo che segue le trasformazioni attualmente in corso nei sistemi di apprendimento e di comunicazione. A suo giudizio, siamo di fronte a una vera e p ro ­ pria «rivoluzione», determinata dalla combinazione tra l ’accresciuto sapere delle neuroscienze sulle potenzialità e i meccanismi della mente umana e l ’ingresso nelle aule scolastiche dei giovani profon­ damente plasmati d all’esposizione alle tecnologie informatiche e dalla sempre maggiore loro utilizzazione fin dall’infanzia.

L’istituzione scolastica, che è rimasta immutata per secoli, sembra oggi essere entrata in una fase molto tormentata di trasformazioni acce­ lerate. È iniziata, per così dire, la «terza fase» dei cambiamenti su vasta scala della trasmissione delle conoscenze che è uno dei compiti, ma non il solo, assegnato alle scuole di qualsiasi tipo. La prima fase fu costituita dall’invenzione della scrittura, la seconda dall’invenzione della stampa, la terza è rappresentata dall’invenzione delle tecnologie dell’informa­ zione e della comunicazione. Le cose non sono più necessariamente ap­ prese dalla carta stampata, ma dallo schermo di una televisione o di un computer. Il modello scolastico della modernità (quello che risale al progetto della «Ratio Studìorum» dei gesuiti) è passato indenne attra­ verso i secoli, ma pare che sia proprio giunto al capolinea. Due fattori sono destinati a trasformare radicalmente l’impostazio­ ne, l’organizzazione, l’architettura dell’istituzione scolastica:

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uno è connesso alla lenta ma inarrestabile diffusione del capitale di conoscenze sul funzionamento della mente e le modalità di apprendi­ mento accumulate dalle scienze sociali, dalla psicologia genetica, dalle scienze cognitive, dalle scoperte delle neuroscienze, che spinge a modificare totalmente il binomio «insegnamento-apprendimento»; l’altro è lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e l’arri­ vo nelle scuole di generazioni di allievi cresciuti in un mondo model­ lato da queste tecnologie, i cosiddetti Digital Natives.

Le prossime riforme scolastiche non potranno fare a meno di inclu­ dere nei progetti di cambiamento della scuola le trasformazioni indotte dalle nuove tecnologie di trattamento e distribuzione dell’informazione. Le ripercussioni sui comportamenti sociali, le pratiche culturali, i con­ sumi mediatici e soprattutto sulle modalità d’apprendimento e d’accesso all’informazione sono, per quanto se ne possa sapere oggi giorno, più ra­ dicali e profondi di quanto non sia mai successo nel corso del secolo scorso. È il modo d’imparare e quello che si impara a scuola che è mes­ so in discussione. I nuovi media si sono diffusi in modo repentino, hanno invaso gli spa­ zi collettivi e privati, suscitando non pochi timori, interrogazioni e per­ plessità. Sono un pericolo per la scuola oppure una nuova potenzialità? Come trattarli? Come si possono usare per migliorare l’apprendimento scolastico? La scuola può farne a meno? Ignorarli? Neutralizzarli? Un progetto in corso presso il CERI-OCSE, e denominato New Mil­ lennium Learners - NML, si fonda sulla tesi, ancora da dimostrare, che l’emergenza di un nuovo tipo di discenti la cui lingua madre, in un certo senso, è il linguaggio numerico, ha un’influenza sull’educazione. L’obiet­ tivo del progetto è l’analisi dei comportamenti di questa nuova genera­ zione di discenti, la comprensione delle loro aspettative rispetto a quelle delle generazioni che li hanno preceduti, delle loro strategie d’apprendi­ mento, delle modalità d’interazione sociale, degli effetti sulle motivazio­ ni, della sequenza e dell’articolazione degli stadi di sviluppo mentale prodotti da questo nuovo linguaggio e dai codici che lo governano. In particolare il progetto è imperniato sull’impatto esercitato dalle nuove tecnologie numeriche sull’evoluzione e sullo sviluppo delle competenze cognitive, sulla formazione e successione degli stadi dell’apprendimento logico-formale, sull’evoluzione dei valori sociali e sull’emergenza di nuo­ vi comportamenti privati e collettivi nella trasmissione delle conoscenze. In questa direzione si collocano anche gli studi delle neuroscienze sulle ripercussioni mentali, psichiche, neuronali, connesse alla diffusio­ ne dei media digitali. Questi studi sono in pieno sviluppo e potrebbero contribuire a verificare se l’adozione massiccia di strumenti numerici nel corso della crescita modifichi le giunzioni intercellulari cerebrali che hanno a che fare con l’apprendimento e la memoria. Studi socio-etnografici svolti negli Stati Uniti hanno analizzato i com­ portamenti dei giovani che utilizzano i media digitali in contesti informa­ li e le implicazioni che se ne possono trarre dal punto di vista dell’appren­ dimento. Il cambiamento più rilevante messo in evidenza da questi studi è il passaggio da un atteggiamento prevalentemente «consumistico» (come

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quello che prevale nella maggioranza delle scuole) ad uno partecipativo o costruttivistico. La generazione digitale ormai entrata nelle scuole mani­ festa atteggiamenti del tutto diversi da quelli delle generazioni precedenti rispetto all’apprendimento ed alle conoscenze. Ci si può a questo punto chiedere se si possono sfruttare queste reazioni il cui rendimento dal pun­ to di vista degli apprendimenti non scolastici è innegabile, per potenziare e migliorare l’apprendimento scolastico. Uno degli aspetti più comunemente rilevati dalle indagini sull’uso dei nuovi media da parte dei giovani è l’apparizione di una cultura della partecipazione, della condivisione delle competenze e delle conoscenze. Secondo una ricerca svolta al Massachusetts Institute of Technology (MIT) da Henry Jenkins, Direttore del Comparative Media Studies Program, almeno un terzo degli adolescenti che usa Internet condivide con altri il contenuto di quanto fa. Queste reazioni favoriscono in parti­ colare il conseguimento di obiettivi che l’educazione scolastica si prefig­ ge regolarmente ma che consegue raramente (l’espressione artistica, la creatività, l’immaginazione, l’impegno civico, la produzione personale, lo scambio con altri, la discussione aperta). I membri di queste comunità virtuali possono o non possono incontrarsi fisicamente, ma si frequenta­ no assiduamente e si conoscono tra loro perfettamente. In generale sono convinti che la loro produzione abbia un valore, e stabiliscono forme nuove di connessione sociale. In questo modo si sta imponendo una concezione del tutto diversa del­ la perizia, della competenza, del sapere e del modo d’apprendere. Colui che sa non è l’insegnante, il professore, ma il migliore tra i pari. Per Mike Smith quel che cambia è il concetto di proprietà della conoscenza', questa è un patrimonio aperto, accessibile a tutti, ovunque, sull’istante. La cono­ scenza non è più un patrimonio esclusivo ma condiviso da tutti. Questa si­ tuazione obbliga a concepire modifiche sostanziali del modello vigente di produzione e diffusione delle conoscenze, e quindi anche dell’istituzione scolastica, che è una delle istituzioni che finora ha detenuto il monopolio dell’accesso al sapere - almeno a determinati tipi di sapere. Ora, come promuovere gli apprendimenti nel mondo delle reti infor­ matiche? La National Science Foundation (NSF) degli Stati Uniti ha ri­ tenuto indispensabile chiedersi come è possibile sfruttare le opportuni­ tà offerte dalla diffusione dei media numerici. Dal rapporto prodotto dal gruppo di lavoro emerge che le nuove tecnologie da sole non posso­ no risolvere i problemi della scuola, ma è verosimile che se fossero usati in modo appropriato questi nuovi strumenti potrebbero potenziare le opportunità educative e diversificare metodi e strategie d ’apprendimen­ to, «personalizzadoli». Il gruppo che ha preparato la relazione ritiene anche che sia necessario costruire un’infrastruttura cibernetica per l’ap­ prendimento e la ricerca. Per la National Science Foundation, gli Stati Uniti si trovano di fron­ te ad una svolta cruciale. Internet è ormai ad un livello sufficientemente avanzato per offrire strumenti inediti d’apprendimento e di lavoro non solo per la comunità scientifica ma per tutta la popolazione, di qualsiasi età e classe sociale. La congiunzione di tre fenomeni - la generalizzazio­ ne del web e del possesso delle attrezzature informatiche da parte della

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popolazione, lo sviluppo di strumenti numerici potenti, i progressi delle conoscenze sulle modalità di apprendimento - creano le condizioni per una radicale trasformazione della scuola. Comprendere e indagare gli sviluppi di questa ‘evoluzione’ è fondamentale per la scuola se si vuole tentare di incanalare queste variabili verso obiettivi positivi di efficacia ed equità. [N. Bottani, Come cambiano le modalità di apprendimento. Nuovi paradigmi per il X X I secolo, Presentazione della Conferenza Internazionale «Un giorno di scuola nel 2020», Torino 27-28 marzo 2009, http://www.fondazionescuola.it/magnoliaPublic/iniziative/ convegno-26-27marzo/Convegno.html].

ESERCIZI Domande di verifica della preparazione «Pensare all’uomo ‘educato’ significa pensarlo fornito di quelle conoscenze necessarie per soddi­ sfare i suoi bisogni, accumulate attraverso espe­ rienze diverse come lo studio, la riflessione perso­ nale, l’esercizio pratico, l’iinitazione. La conoscen­ za è vitale perché permette di dare ordine alla realtà, interpretarla, risolvere i problemi, muoversi in essa e piegarla alle proprie esigenze. Migliorare i processi di apprendimento significa perciò assi­ curare agli uomini e alle comunità umane maggio­ ri chances di progresso, benessere, capacità pro­ duttiva, consapevolezza sociale e politica» (p. 24). 1. Il proseguimento delfincom piutezza umana può seguire diverse linee processuali: educa­ zione, formazione, istruzione. In che cosa si di­ stinguono questi processi? Quali le possibili relazioni? 2. Con quali caratteristiche può esser pensato l’uomo «educato»? 3. Che cosa permette di fare la conoscenza? 4. Partendo dal testo, che cosa può significare migliorare i processi di apprendimento? 5. Quali obiettivi e quali metodi distinguono le teorie deH’insegnamento dalle teorie dell’ap­ prendimento? 6. Quali nuovi elementi sono stati introdotti dal­ le neuroscienze nell’ambito dei processi dell’apprendimento? 7. Quali sono le caratteristiche dell’apprendi­ mento in età adulta e quali le conseguenti pro­ poste formative? 8. In che cosa consiste la riforma del pensiero di Edgar Morin?

Analisi del testo Testo T7. Mario Com oglio - Miguel A. Cardoso, L'interdipedenza positiva concetto-chiave del Cooperative Learning «Nella situazione cooperativa, gli individui so ­ no vincolati fra loro in m odo tale che la proba­ bilità che ha uno di essi di conseguire il proprio obiettivo dipende dalla probabilità che hanno gli altri di conseguire il proprio. Tra di essi esi­ stono, cioè, relazioni di interdipendenza «posi­ tiva», in quanto la condivisione dell’obiettivo com une diventa fattore propulsivo della cresci­ ta e dello sviluppo sia del singolo che dell’intero gruppo. D eutsch afferma in proposito che l’in­ terdipendenza «positiva» specifica una condi­ zione nella quale gli individui sono legati in m o­ do tale che vi è una correlazione positiva tra il conseguim ento dell’obiettivo di un individuo e quello degli altri. Nella situazione competitiva, invece, gli individui sono vincolati l’uno all’al­ tro in m odo che quanto più alta è la probabilità che ha uno di essi di raggiungere il proprio obiettivo, tanto più bassa diventa quella che hanno gli altri di raggiungere il proprio. In que­ sto tipo di relazione, cioè, si stabiliscono rela­ zioni di interdipendenza «negativa» tra gli indi­ vidui, in quanto il successo personale è perse­ guito a danno degli altri o contro di essi. A ncora Deutsch sottolinea che l’interdipenden­ za «negativa» è la condizione nella quale gli in­ dividui sono legati l’uno all’altro in modo tale che vi è una correlazione negativa tra il conse­ guimento dell’obiettivo di un individuo e quello degli altri» (p. 91).

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1. Che cosa significa nel testo la locuzione «cor­ relazione positiva tra il conseguimento dell’obiettivo di un individuo e quello degli altri»? 2. Cosa si intende per «interdipendenza positi­ va»? 3. Quali differenze tra la «interdipendenza posi­ tiva» e la «interdipendenza negativa» in un gruppo?

Discussion questions «L’educazione finalizzata a ll’apprendimento trasformativo è etica finché l’educatore non ten­ ta di costringere, o d’indurre con la m anipola­ zione, i discenti ad accettare il suo punto di vi­ sta, e li invita a scegliere tra un’ampia gamma di prospettive. L’educatore, tuttavia, non è obbli­ gato ad aiutare i discenti a intraprendere delle azioni che risultano in conflitto con il suo codi­ ce etico, anche se i discenti hanno deciso d’intraprenderle dopo un confronto dialettico razio­ nale» (pp. 99-100).

Testo T4. Philippe Meirieu, Il principio cardine della pe­ dagogia differenziata «Il principio fondamentale che deve presiedere la messa in atto della pedagogia differenziata consiste nel moltiplicare i metodi di apprendi­ mento in funzione delle differenze esistenti tra gli allievi. Queste differenze sono relative sia al livello delle loro conoscenze, dei loro profili pe­ dagogici, dei loro ritmi di assimilazione, delle lo­ ro culture e dei loro centri di interesse [...]. Facendo riferimento alle risorse e alle com pe­ tenze proprie di ogni individuo, la differenzia­ zione deve costituire ogni processo di apprendi­ mento. Per evitare qualsiasi schematizzazione, il processo di differenziazione non deve occupare la totalità delle ore scolastiche a disposizione delle diverse discipline. Sarà invece necessario lavorare secondo il metodo più adatto variando il repertorio metodologico. Questo processo è costituito da un obiettivo prefissato» (pp. 80-81)

«Quando il fenomeno in considerazione fuorie­ sce dalle categorie ordinarie del conoscere nella pratica, presentandosi come unico o instabile, il professionista può far emergere e criticare la propria iniziale comprensione del fenomeno, co ­ struire una nuova descrizione di quest’ultimo e verificare la nuova descrizione attraverso un esperimento sul campo. Talvolta egli perviene a una nuova teoria del fenomeno mediante l’arti­ colazione di una sensazione che egli ha riguardo a esso» (p. 102).

1. In che cosa consiste il principio fondamentale di attuazione della pedagogia differenziata? 2. Che cosa riguardano le differenze? 3. Secondo quale metodo lavora la pedagogia differenziata?

1. In che modo è possibile pensare in m odo di­ verso ad uno stesso problema? 2. È possibile pensare autonomamente alla si­ tuazione in modo alternativo, oppure può essere utile un confronto con gli altri?

1. Il lavoro educativo può essere molto com ples­ so, perché spesso accade che si possano incon­ trare o scontrare diversi punti di vista. In che modo è possibile «gestire» questa complessità? 2. Quale il confine tra la proposta e l’imposizione?

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