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Italian Pages 564 Year 1986
DEAN KOONTZ STRANGERS (Strangers, 1986) A BOB TANNER il cui entusiasmo in una fase cruciale è stato più importante di quanto egli possa immaginare. PARTE PRIMA Tempo di crisi Un amico fedele è una forte difesa. Un amico fedele è la medicina della vita. Apocrifo Una terribile oscurità è scesa su di noi, ma non dobbiamo arrenderci a essa. Dobbiamo alzare lanterne di coraggio e trovare la strada per arrivare al mattino. Anonimo membro della Resistenza francese (1943) 7 novembre - 2 dicembre 1 Laguna Beach, California Dominick Corvaisis andò a dormire sotto una leggera coperta di lana e un fresco lenzuolo bianco, disteso da solo nel suo letto, ma si svegliò altrove, nell'oscurità in fondo al grande armadio guardaroba, nascosto dietro giacche e giubbotti. Era rannicchiato in posizione fetale, i pugni strettamente serrati, i muscoli del collo e delle braccia indolenziti per la tensione di un brutto sogno che non ricordava. Non si era reso conto di aver lasciato la comodità del suo letto durante la notte, ma la scoperta non lo sorprese. Era successo in altre due occasioni, e di recente. Il sonnambulismo aveva affascinato tanta gente nel corso della storia.
Anche Dom ne era affascinato, dal momento in cui ne era divenuto una sconcertata vittima. Aveva trovato riferimenti a sonnambuli in scritti che risalivano fino al 1000 a.C. Gli antichi persiani credevano che il corpo vagante di un sonnambulo cercasse il suo spirito, che se n'era andato per conto suo durante la notte. Nei secoli bui del Medioevo, invece, il fenomeno era imputato a possessione demoniaca o licantropia. Dom Corvaisis non si preoccupava della sua malattia, benché ne fosse turbato e un po' imbarazzato. Come romanziere, era intrigato da queste nuove avventure notturne, perché per lui ogni nuova esperienza era altro materiale su cui lavorare. Ma oggettivamente, per quanto potesse trarre profitto dal proprio sonnambulismo facendone uso creativo, questo era una malattia. Uscì carponi dall'armadio, e il dolore al collo si estese alla testa e alle spalle. Aveva i crampi alle gambe e fece fatica ad alzarsi in piedi. Come le altre volte, provò una certa vergogna. Ora sapeva che il sonnambulismo era una condizione alla quale anche gli adulti erano vulnerabili, ma ancora lo considerava un problema infantile. Come bagnare il letto. Con indosso i pantaloni del pigiama, a torso nudo, senza pantofole, attraversò a passo strascicato il salotto, il breve corridoio, passò nella camera da letto e di lì nel bagno. Allo specchio, aveva l'aspetto di un uomo dissipato, un libertino appena emerso da una settimana di peccato. In realtà, aveva pochi vizi. Non fumava, né esagerava nel mangiare, né assumeva droghe. Beveva poco. Gli piacevano le donne, ma non saltava dall'una all'altra; credeva nell'impegno in una relazione. Infatti, non dormiva con una donna da - quant'era ormai? - quasi quattro mesi. Aveva quel brutto aspetto sciupato, stravolto, solo quando si svegliava e scopriva di aver fatto uno di quei tragitti notturni fuori programma fino a un letto improvvisato. Ogni volta si sentiva esausto. Sebbene dormisse, quelle non erano notti di riposo. Si sedette sul bordo della vasca, alzò la gamba piegata per guardare la pianta del piede sinistro, poi controllò la pianta del piede destro. Nessuna delle due era tagliata, graffiata o particolarmente sporca, quindi non aveva lasciato la casa durante l'attacco di sonnambulismo. Si era svegliato in armadi anche le altre volte, una la settimana prima e l'altra dodici giorni prima, e neanche in quelle occasioni aveva i piedi sporchi. Se la sua sensazione di aver camminato per chilometri era fondata, doveva aver fatto innumerevoli giri della sua piccola casa. Una lunga doccia calda gli tolse quasi completamente di dosso l'indolenzimento. Era un trentacinquenne
snello e in forma, con capacità di recupero commisurate alla sua età. Quando ebbe finito la colazione si sentiva quasi un essere umano. Dopo aver indugiato con una tazza di caffè sulla veranda, studiando la gradevole geografia di Laguna Beach, che digradava dalle colline verso il mare, andò nel suo studio, certo che la causa del suo sonnambulismo fosse il lavoro. Non tanto il lavoro in sé, quanto il sorprendente successo del suo primo romanzo, Crepuscolo a Babilonia, che aveva terminato nel febbraio precedente. Il suo agente aveva messo Crepuscolo all'asta, e con grande stupore di Dom aveva concluso un accordo con la Random House, che aveva pagato un anticipo considerevolmente alto per un'opera d'esordio. Prima che fosse passato un mese erano stati venduti i diritti per trame un film (permettendo a Dom di comprarsi la casa e di pagarla all'atto dell'acquisto), e il Club degli editori aveva acquistato il libro. Dom aveva lavorato sette mesi, sessanta, settanta e anche ottanta ore alla settimana scrivendo quel libro, per non parlare del tempo che gli ci era voluto solo per prepararsi a scriverlo, ma gli sembrava di aver fatto il grande salto da una decorosa povertà al successo, così, da un momento all'altro. L'ex povero Dominick Corvaisis occasionalmente coglieva un'immagine dell'ora ricco Dominick Corvaisis in uno specchio o una finestra argentata dal sole, si vedeva indifeso, e si domandava se davvero meritasse quello che gli era piovuto addosso. A volte temeva di essere diretto verso il crollo. Tutto quel trionfo e quelle acclamazioni comportavano un notevole stress. Alla sua pubblicazione, fissata per il febbraio successivo, Crepuscolo si sarebbe dimostrato all'altezza delle aspettative, giustificando l'investimento della Random House, o sarebbe stato un fiasco umiliante? Avrebbe potuto ripetersi o il suo successo di scrittore era solo un fuoco di paglia? In ogni sua ora di veglia, queste domande gli giravano per la mente con insistenza, come avvoltoi, e lui supponeva che quelle stesse domande lo assillassero quando dormiva. Era per questo che camminava nel sonno; tentava di scappare da quelle incessanti preoccupazioni, cercando un luogo segreto per riposare dove le sue ansie non potessero raggiungerlo. Ora, alla sua scrivania, accese il word processor IBM e richiamò il capitolo diciotto del suo nuovo libro, ancora senza titolo. Il giorno prima si era fermato a metà della sesta pagina del capitolo e ora intendeva riprendere dal punto in cui si era interrotto, ma quando il testo fu visualizzato sullo schermo, vide una pagina piena dove ce n'era stata solo mezza. Per un
momento restò a fissare le verdi linee di lettere luminose, sbattendo le palpebre, poi scosse la testa, come a negare l'evidenza di quello che aveva davanti agli occhi. Improvvisamente sentì un freddo umido dietro al collo. Non era l'esistenza di quelle righe che non ricordava di aver scritto a fargli venire i brividi; era quello che le righe dicevano. Per di più, non avrebbe dovuto esserci una pagina sette, e invece c'era. E trovò anche un'ottava pagina. Mentre faceva scorrere sul video il materiale memorizzato sul dischetto, le sue mani divennero appiccicaticce. La stupefacente aggiunta al suo lavoro era solo una frase di due parole, ripetuta centinaia di volte: Ho paura. Ho paura. Ho paura. Ho paura. Doppia spaziatura, quadruplo margine, quattro frasi per riga, tredici righe a pagina sei, ventisette righe a pagina sette, altre ventisette a pagina otto: faceva 268 ripetizioni della frase. La macchina non le aveva create da sé, perché era semplicemente un'ubbidiente schiava, che faceva quel che le si diceva di fare. Ed era assurdo ipotizzare che qualcuno si fosse introdotto nottetempo nella casa per manomettere il suo testo immagazzinato elettronicamente. Non c'erano segni di scasso e non riusciva a pensare a nessuno che potesse fargli un simile scherzo. Chiaramente, era andato al word processor durante l'attacco di sonnambulismo e aveva ossessivamente battuto quella frase 268 volte, anche se non ricordava assolutamente di averlo fatto. Ho paura. Paura di cosa, del sonnambulismo? Era un'esperienza che lo lasciava disorientato, per lo meno quando si svegliava, ma non era un'impresa che potesse causargli tanto terrore. Era spaventato dalla rapidità della sua ascesa letteraria e temeva di ripiombare altrettanto rapidamente nell'anonimato. Eppure non riusciva a liquidare completamente il fastidioso pensiero che questo non avesse niente a che fare con la sua carriera, che la minaccia che sentiva su di sé fosse qualcosa di tutt'altro genere, qualcosa di strano, qualcosa che sfuggiva alla sua coscienza, ma che il suo inconscio percepiva e aveva tentato di trasmettergli per mezzo di quel messaggio lasciato mentre lui dormiva. No. Sciocchezze. Questa era solo l'iperattiva immaginazione del romanziere al lavoro. Lavoro. Quella era la migliore medicina per lui.
Del resto, dalle sue ricerche sull'argomento, sapeva che in genere il sonnambulismo non perdurava negli adulti. Pochi sperimentavano più di una mezza dozzina di episodi, solitamente limitati entro un arco di sei mesi o meno. C'erano buone probabilità che il suo sonno non sarebbe mai più stato complicato da vagabondaggi notturni, e non gli sarebbe più capitato di svegliarsi rannicchiato e rattrappito in fondo a un armadio. Cancellò le parole indesiderate dal dischetto e riprese a lavorare al diciottesimo capitolo. Quando guardò l'orologio, fu sorpreso di vedere che era l'una passata. Era giunto all'ora di pranzo senza accorgersene. Anche per la California meridionale faceva caldo per essere novembre, così mangiò sulla veranda. Le palme frusciavano alla brezza leggera e l'aria era profumata di fiori autunnali. Con grazia ed eleganza, Laguna scendeva fino alle coste del Pacifico. L'oceano brillava sotto la luce del sole. Finendo il suo ultimo sorso di Coca, Dom a un tratto inclinò all'indietro la testa, guardò l'azzurro risplendente del cielo sopra di sé, e rise. "Visto? Nessuna spada di Damocle." Era giovedì, 7 novembre. 2 Boston, Massachusetts La dottoressa Ginger Marie Weiss non si sarebbe mai aspettata guai nel negozio di gastronomia Bernstein's, ma fu lì che cominciò tutto, con l'incidente dei guanti neri. Ginger era una donna che sapeva cavarsela in qualsiasi situazione. Accettava di buon grado qualunque sfida la vita le presentasse, le difficoltà erano il suo pane. Si sarebbe annoiata se la sua strada fosse stata sempre facile, senza ostacoli. Tuttavia, non aveva mai considerato che alla fine avrebbe potuto trovarsi di fronte un problema che non era in grado di gestire. Oltre che sfide, la vita dispensa lezioni, e alcune sono più gradite di altre. Alcune lezioni sono facili, altre difficili. Altre sono devastanti. Ginger era intelligente, ambiziosa, di bell'aspetto, gran lavoratrice e cuoca eccellente, ma il suo principale vantaggio nella vita era che nessuno la prendeva sul serio al primo incontro. Era esile come un fuscello, un gra-
zioso folletto che sembrava inconsistente e amabile. Di solito gli altri la sottovalutavano per settimane o mesi, realizzando solo gradualmente che lei era una formidabile concorrente, collega o avversaria. La storia dell'aggressione subita da Ginger era leggenda al Columbia Presbyterian Hospital di New York, dove aveva prestato servizio di internato quattro anni prima. Come tutti gli interni, aveva spesso lavorato per turni di sedici ore e più, giorno dopo giorno, e aveva lasciato l'ospedale con energia sufficiente a malapena per trascinarsi a casa. Un caldo, umido sabato notte di luglio, al termine di una giornata di lavoro particolarmente pesante, si stava dirigendo a casa poco dopo le dieci, quando venne accostata da un massiccio uomo di Neanderthal con mani grandi come pale di badile, braccia enormi, collo inesistente e fronte sfuggente. "Prova a gridare," le disse, balzandole addosso all'improvviso, "e ti faccio sputare i denti." Le afferrò il braccio e glielo torse dietro la schiena. "Hai capito, puttana?" Non c'erano altri pedoni nei paraggi, e le macchine più vicine erano due isolati più in là, ferme a un semaforo. Nessun aiuto in vista. Lui la spinse in un angusto passaggio di servizio tra due edifici, disseminato di immondizia e rischiarato da un unico fioco lampione. Ginger andò a sbattere contro un bidone di spazzatura, facendosi male al ginocchio e alla spalla, inciampò, ma non cadde. Ombre tentacolari la avvilupparono. Con inutili piagnucolii e strozzate proteste, fece sentire sicuro il suo aggressore, perché all'inizio pensava avesse una pistola. Assecondare sempre un uomo armato, si disse. Mai resistere. Chi oppone resistenza finisce con una pallottola in corpo. "Muoviti!" le ordinò a denti stretti, dandole un altro spintone. La costrinse a entrare in un portone rientrante a tre quarti del passaggio, non lontano dall'unico lampione in fondo al vicolo, poi cominciò a riversare oscenità, dicendole cosa avrebbe fatto con lei dopo averle preso i soldi, e anche nella tenue luce Ginger poté vedere che non era armato. Improvvisamente riprese a sperare. Il vocabolario di sconcezze del bruto era raccapricciante, ma le sue minacce sessuali erano così stupidamente ripetitive da risultare quasi ridicole. Comprese che era solo un poveraccio grosso e stolido, che faceva affidamento sulle sue dimensioni per ottenere quel che voleva. Uomini di quel genere raramente avevano armi. I suoi muscoli gli davano un'illusoria sensazione di invulnerabilità, quindi probabilmente non aveva nemmeno alcuna nozione di tecniche di lotta.
Mentre lui svuotava la borsa che gli aveva docilmente consegnato, Ginger fece appello a tutto il suo coraggio e gli assestò un calcio dritto all'inguine. Il colpo lo fece piegare in due. Senza perdere un istante, lei gli afferrò una mano e gli piegò con forza l'indice all'indietro, finché il dolore divenne atroce quanto quello ai genitali. Una radicale, violenta retroflessione dell'indice poteva rapidamente mettere fuori combattimento qualunque uomo, indipendentemente dalla sua taglia e forza. Con quell'azione, lei stava sforzando il nervo digitale sul dorso della sua mano e simultaneamente i sensibilissimi nervi mediano e radiale nel palmo. L'intenso dolore si trasmetteva anche ai nervi acromiali della spalla e nel collo. Con la mano libera, lui la afferrò per i capelli e tirò. Il dolore le annebbiò la vista, ma lei strinse i denti e piegò ancora di più l'indice del suo prigioniero. La sua implacabile pressione lo convinse rapidamente a lasciar perdere ogni tentativo di contrattaccare. Lacrime involontarie gli sgorgarono dagli occhi e l'uomo si lasciò cadere in ginocchio, strillando e imprecando, impotente. "Lasciami! Lasciami andare, puttana!" Ginger, grondante di sudore, gli strinse l'indice con entrambe le mani e indietreggiò cautamente, trascinandolo fuori del vicolo come fosse un pericoloso cane alla catena. Costretto a seguirla strisciando su una mano e sulle ginocchia, lui le arrancò dietro strepitando un'agghiacciante varietà di minacciose imprecazioni, lo sguardo inebetito da un impulso omicida. La sua faccia rozza e cattiva si fece meno visibile mentre si allontanavano dalla luce, ma lei poté lo stesso vedere che era tanto distorta dal dolore, dalla furia e dall'umiliazione da non sembrare umana: la faccia di uno spirito maligno. Avevano faticosamente guadagnato una quindicina di metri quando lui fu sopraffatto dal male alla mano e dalle nauseanti ondate di dolore che salivano dai suoi testicoli lesi e si vomitò addosso. Lei non osò lasciarlo andare. Ora, avendone l'opportunità, non si sarebbe limitato a tramortirla di botte: l'avrebbe uccisa. Disgustata e terrificata, lo costrinse ad avanzare ancora più in fretta di prima. Raggiungendo il marciapiede, non vide alcun passante che potesse chiamare la polizia per lei, così tirò il suo malcapitato aggressore in mezzo alla strada: il traffico si fermò a quell'insolito spettacolo. Quando finalmente arrivarono i poliziotti, il sollievo di Ginger fu di gran lunga inferiore a quello del delinquente che l'aveva assalita.
In parte, la gente sottovalutava Ginger perché era minuta. Era ben fatta, ma certamente non una bionda esplosiva. Comunque, bionda lo era, e la particolare sfumatura argentata dei suoi capelli catturava l'attenzione di un uomo, che la vedesse per la prima o per la centesima volta. Anche sotto un sole splendente, i suoi capelli ricordavano il chiaro di luna. L'eterea luminosità dei capelli, i lineamenti delicati, gli occhi azzurri che erano l'immagine della gentilezza, il collo alla Audrey Hepburn, le spalle esili, i polsi sottili, le mani affusolate e la vita stretta: tutto contribuiva a un'ingannevole impressione di fragilità. Per di più, era per natura quieta e osservatrice, due qualità che potevano essere scambiate per timidezza, e la sua voce era così dolce e musicale che chiunque poteva facilmente lasciarsi sfuggire la nota di sicurezza e autorità che vibrava sotto il suo tono carezzevole. Ginger aveva ereditato i capelli biondo platino, gli occhi cerulei, la bellezza e l'ambizione da sua madre, Anna. Dal padre, Jacob, aveva preso la piccola statura, la voce morbida, l'intelletto e la gentilezza. Avevano formato una strana famiglia, loro tre, a vederli dall'esterno: il padre ebreo, con una statura da fantino, il nome tedesco ma la carnagione sefardita; la madre svedese, alta una buona spanna più del marito, bionda e gloriosamente femminile; e la figlia, piccola anche se sua madre non lo era, bionda benché suo padre fosse scuro, con una bellezza del tutto differente da quella della madre, più discreta ed evanescente. I suoi genitori erano le uniche persone che non avevano mai sottovalutato Ginger. Erano sempre stati fieri della loro "ragazza d'oro" (così la chiamavano), che aveva preso le migliori qualità di entrambi ed eccelleva in qualunque cosa facesse. Lei li aveva amati tutt'e due così completamente e intensamente che ancora adesso non sapeva trovare le parole per esprimere quello che avevano significato per lei. Aveva compiuto da poco i dodici anni quando sua madre morì in un incidente automobilistico. I parenti di Jacob pensarono che lui e Ginger sarebbero andati alla deriva senza di lei. Tutti sapevano quanto i tre fossero stati uniti, ma soprattutto sapevano che Anna era stata il motore del successo della famiglia. Lei aveva preso il meno ambizioso dei fratelli Weiss Jacob il sognatore, Jacob il docile, Jacob col naso sempre immerso in un libro giallo o di fantascienza - e lo aveva fatto diventare qualcuno. Lavorava come dipendente in una gioielleria quando lo aveva sposato, ma quando era morta non solo si era messo in proprio, ma aveva due negozi. Nessuno pensava che Ginger sarebbe stata in grado di prendere il posto di Anna: anche se era tre anni avanti negli studi rispetto ai suoi coetanei, ai
loro occhi era ancora una bambina. Ma la stavano sottovalutando. Occorreva qualcuno che si occupasse di suo padre, della casa e del bilancio familiare, così lei se ne assunse la responsabilità con vigore, entusiasmo ed efficienza. A neanche tredici anni aveva completamente in mano la conduzione domestica, e senza che il suo rendimento scolastico ne risentisse. Ebbe un lieve calo di profitto solo in coincidenza col primo attacco di pancreatite di suo padre, quando passava ogni sera con lui all'ospedale. Jacob restò tenacemente aggrappato alla vita; era smorto e debole quando lei conseguì la laurea in medicina, ma tenne duro finché ebbe fatto sei mesi di internato. Tuttavia, dopo tre attacchi di pancreatite, si ammalò di cancro al pancreas, e morì prima che Ginger avesse finalmente deciso di andare al Boston Memorial per fare tirocinio come chirurgo, invece di perseguire una carriera come ricercatrice. Poiché Ginger aveva passato più anni con Jacob che con sua madre, i suoi sentimenti verso di lui erano comprensibilmente più profondi, e la sua perdita fu ancora più devastante di quanto lo fosse stata quella di Anna. Tuttavia affrontò quel momento diffìcile come faceva con qualunque sfida le si presentasse e terminò il suo internato con ottime referenze. Quindi si recò a Stanford, in California, per un impegnativo programma biennale di specializzazione in patologia cardiovascolare e, dopo un mese di vacanza (il più lungo periodo di riposo che si fosse mai concessa), tornò a Boston, conobbe il dottor George Hannaby (primario di chinirgia al Memorial, famoso per aver aperto la strada a tecniche d'avanguardia in varie operazioni cardiovascolari) e lavorò per tre quarti del suo servizio di due anni come assistente interno, senza il minimo intoppo. Poi, un martedì mattina di novembre, andò da Bernstein's Delicatessen a comprare qualcosa, e cominciarono ad accadere cose terribili. L'incidente dei guanti neri. Quello fu l'inizio. Il martedì era il suo giorno libero, e a meno che uno dei suoi pazienti avesse una grave crisi, la sua presenza all'ospedale non era necessaria né richiesta. Durante i suoi primi due mesi al Memorial, con l'entusiasmo e l'inesauribile carica che la caratterizzavano, era quasi sempre andata al lavoro anche nei suoi giorni di riposo, perché non c'era nient'altro che preferisse fare. Ma George Hannaby aveva messo fine a quell'abitudine non appena era venuto a saperlo: l'esercizio della medicina era un'attività stressante, e ogni medico aveva bisogno di tempo libero, anche Ginger Weiss. "Se tiri troppo," le aveva detto, "non sarai solo tu a risentirne, ma anche
il paziente." Così ogni martedì dormiva un'ora in più, faceva la doccia e beveva due tazze di caffè mentre leggeva il giornale seduta al tavolo della cucina, vicino alla finestra che dava su Mount Vernon Street. Alle dieci si vestiva, percorreva a piedi diversi isolati fino a Charles Street e faceva scorta di prodotti di gastronomia da Bernstein's, poi tornava a casa e mangiava leggendo Agatha Christie, Dick Francis, John D. MacDonald, Elmore Leonard, a volte un Heinlein. Benché il relax fosse ancora ben lontano dal piacerle quanto il lavoro, cominciò gradualmente ad apprezzare il suo tempo libero, e il giovedì cessò di essere il giorno temuto che era stato quando aveva iniziato con riluttanza a osservare la settimana di sei giorni. Quel brutto martedì di novembre partì bene - freddo, con un grigio cielo invernale, frizzante e corroborante più che deprimente - e la sua routine la portò da Bernstein's (affollato, come al solito) alle dieci e ventuno. Ginger passò da un capo all'altro del lungo bancone, scegliendo tra le delicatezze esposte con ghiotto piacere. Il negozio era un calderone di deliziosi aromi e suoni allegri: pane caldo, cannella, risate, aglio, chiodi di garofano; rapide conversazioni in cui l'inglese era variamente insaporito da accenti che andavano dallo yiddish al bostoniano, al corrente gergo giovanile; nocciole tostate, crauti, sottaceti, caffè; rumore di argenteria. Quando Ginger fu servita, pagò il conto, si infilò i guanti di lana blu e prese il sacchetto, avviandosi oltre i tavolini dove una dozzina di persone stavano facendo una tardiva prima colazione. Tenendo il sacchetto col braccio sinistro, cercò di riporre con la mano libera il portafogli nella borsetta. Aveva appunto gli occhi abbassati sulla borsa quando raggiunse la porta, e in quello stesso momento entrò un uomo con un soprabito di tweed grigio e un colbacco nero, distratto quanto lei; si scontrarono. Lei fece un passo indietro, vacillando. Lui le prese il sacchetto prima che potesse cadere, poi le mise una mano sul braccio per sorreggerla. "Mi dispiace," si scusò. "Ero soprappensiero." "Colpa mia," rispose Ginger. "Non stavo guardando dove andavo." L'uomo le porse il sacchetto. Lei lo prese, ringraziando, e notò i suoi guanti neri. Erano chiaramente costosi, di ottima pelle, accuratamente rifiniti, ma non avevano niente che potesse giustificare la sua istantanea e violenta reazione, niente di insolito, niente di strano, niente di minaccioso. Eppure, lei si sentiva minacciata. Non dall'uomo. Lui era normale, pallido, con la faccia grassoccia e occhi gentili dietro gli spessi occhiali di tartaruga. Inspiegabilmente, irragionevolmente, erano i guanti stessi a terrorizzar-
la. Il respiro le si mozzò in gola, il cuore prese a martellare. La cosa più bizzarra fu che ogni cosa e persona nel negozio cominciarono a svanire, come non fossero reali, ma immagini di un sogno che si dissolve al risveglio. La gente che faceva colazione ai tavolini, i ripiani carichi di cibi in scatola, gli espositori, l'orologio alla parete, il barile della salamoia, i tavoli e le sedie, tutto sembrò emanare una tremula luminescenza e sfumare in una nevosa foschia, come se una nebbia densa si stesse alzando da un qualche misterioso regno sotterraneo. Solo i portentosi guanti non svanirono; anzi, mentre li fissava si fecero più definiti, stranamente più vividi, più reali e sempre più minacciosi. "Signorina?" La voce dell'uomo sembrò venire da molto lontano, dal fondo di un lungo tunnel. Mentre le forme e i colori tutt'intorno a lei sbiadivano verso il bianco, i suoni le giungevano amplificati; l'allegro chiacchierio si fece assordante, il tintinnio dell'argenteria stridente; l'acciottolio di piatti e il rumore del registratore di cassa elettronico divennero un frastuono intollerabile, e tutto si fuse in un boato che le rimbombava nelle orecchie. Non riusciva a distogliere gli occhi dai guanti. "Qualcosa non va?" le domandò l'uomo, alzando una mano guantata verso di lei. Neri, aderenti, lucidi... con cuciture precise lungo le dita... di pelle a grana appena visibile... tesi sulle nocche... Stordita, disorientata, oppressa da una tremenda, indefinibile paura, improvvisamente seppe che doveva fuggire: ne andava della sua vita. Non sapeva perché. Non comprendeva il pericolo. Ma sapeva che se non fosse scappata sarebbe morta lì dov'era. Il suo battito cardiaco, già veloce, diventò frenetico. Il respiro che le era rimasto bloccato in gola ora si liberò con un flebile gemito. Ginger si lanciò in avanti, come all'inseguimento del patetico suono che le era sfuggito. Stupita della propria reazione ai guanti neri ma incapace di essere fredda in proposito, sconcertata dalle sue azioni nell'attimo stesso in cui le compiva, stringendosi al petto il sacchetto, oltrepassò l'uomo con cui si era scontrata. Fu solo vagamente conscia di averlo urtato, facendogli quasi perdere l'equilibrio. Doveva aver aperto di scatto la porta, anche se non ricordava di averlo fatto, e poi fu fuori, nella pungente aria di novembre. Il traffico di Charles Street - clacson, motori rombanti, stridio di pneumatici - passava alla sua destra, e le vetrine di Bernstein's sfrecciarono via alla sua sinistra mentre correva.
Poi il mondo attorno a lei svanì completamente e sprofondò in un indistinto grigiore, le gambe che si muovevano veloci, i lembi del soprabito svolazzanti, come se stesse correndo attraverso un amorfo paesaggio onirico, stordita dalla paura. Dovevano esserci molte altre persone sul marciapiede, persone che schivò o spinse da parte, ma lei non era consapevole della loro presenza. Era conscia solo del bisogno di scappare. Corse rapida come un cervo, benché nessuno la inseguisse, le labbra contratte in una smorfia di puro terrore, anche se non poteva identificare il pericolo da cui fuggiva. Corse, come impazzita. Temporaneamente cieca, sorda. Persa. Minuti dopo, quando la foschia si diradò, si ritrovò in Mount Vernon Street, appoggiata contro una ringhiera in ferro battuto lungo la gradinata d'ingresso di una casa signorile in mattoni rossi. Era aggrappata alle sbarre, le mani così serrate che le facevano male le nocche, la fronte sulla pesante ringhiera, come fosse una sconsolata prigioniera abbandonata contro la porta della sua cella. Era sudata e ansante. Aveva la bocca arida, amara. Le bruciava la gola e il petto le doleva. Era stravolta, incapace di ricordare come fosse arrivata lì, come se ondate di amnesia l'avessero sospinta su una spiaggia sconosciuta. Qualcosa l'aveva spaventata, ma non riusciva a ricordare cosa. Gradualmente la paura si placò, e il suo respiro riprese un ritmo quasi regolare; il suo battito cardiaco rallentò un poco. Alzò la testa e sbattè le palpebre, guardandosi attorno cauta e perplessa mentre la sua vista offuscata si schiariva lentamente. Sollevò la faccia finché vide gli spogli rami neri di un tiglio e il basso, cupo cielo di novembre oltre l'albero scheletrico. Antiquati lampioni a gas in ferro emanavano una fioca luce, attivati da selenoidi che avevano scambiato la mattinata invernale per il calare della sera. Ai piedi della collina il traffico era intenso dove Mount Vernon incrociava Charles Street. Bernstein's Delicatessen. Ma certo. Era giovedì, e lei era da Bernstein's quando... quando qualcosa era accaduto. Cosa? Cosa era successo da Bernstein's? E dov'era la borsa della spesa? Si staccò dalla ringhiera di ferro, alzò le mani, e si premette sugli occhi i guanti di lana blu. Guanti. Non i suoi, non questi guanti. L'uomo miope col colbacco. I suoi guanti di pelle nera. Era questo che l'aveva spaventata. Ma perché era stata presa dall'isteria, sopraffatta dalla paura alla loro vi-
sta? Cosa c'era di così spaventoso in un paio di guanti neri? Dall'altra parte della strada, un'anziana coppia la stava fissando e lei si domandò cosa avesse fatto per attirarne l'attenzione. Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricostruire nemmeno sommariamente il suo percorso su per la collina. Gli ultimi tre minuti - forse di più? - erano completamente vuoti. Doveva aver corso su per Mount Vernon Street in preda al panico e, a giudicare dalle espressioni sulle facce di quelli che la stavano osservando, doveva aver dato spettacolo. Imbarazzata, si avviò esitante giù per Mount Vernon Street, da dove era venuta. In fondo alla discesa, appena svoltato l'angolo, trovò il sacchetto di carta marrone di Bernstein's in terra. Era rovesciato, e alcuni pacchetti ne erano usciti, ma gli incarti non si erano rotti. Prima di raccoglierlo, restò a fissarlo per lunghi secondi, cercando di ricordare il momento in cui lo aveva lasciato cadere. Ma dove avrebbe dovuto esserci quel momento, nella sua memoria c'era solo grigiore, nulla. Cosa mi sta succedendo? Sconcertata dalla sua incomprensibile perdita di controllo, con le ginocchia tremanti, si incamminò verso casa. Il suo respiro formava nuvolette di vapore nell'aria fredda. Dopo qualche passo si fermò, indecisa, poi tornò indietro, dirigendosi verso Bernstein's. Si fermò fuori del negozio, e dovette aspettare solo un minuto o due prima che l'uomo col colbaceo e gli occhiali di tartaruga uscisse col proprio sacchetto di acquisti. "Oh." Lui sbattè le palpebre, sorpreso. "Io... senta, le ho detto che mi dispiace? Da com'è uscita... be', mi è venuto il dubbio di aver solo pensato di scusarmi..." Ginger guardò la sua mano destra rivestita di pelle nera che reggeva il sacchetto. Parlando, l'uomo gesticolava con la mano libera, e lei la seguì mentre descriveva un breve svolazzo nell'aria gelida. Adesso i guanti non la spaventavano. Non riusciva a immaginare come la loro vista avesse potuto gettarla nel panico. "È tutto a posto. La stavo aspettando per scusarmi. Ero un po' tesa... sa, ho avuto una mattinata insolita," si giustificò brevemente lei. "Buona giornata," gli disse andandosene frettolosamente. Benché non abitasse lontano, il tragitto fino a casa le sembrò un viaggio epico attraverso una vasta distesa di asfalto grigio. Cosa mi sta succedendo? Sentiva più freddo di quanto l'aria di novembre potesse giustificare.
Ginger viveva al primo dei quattro piani di una casa di Beacon Hill, che nel diciannovesimo secolo era appartenuta a un banchiere. Aveva scelto quel posto perché le piacevano i dettagli d'epoca: elaborate cornici sul soffitto, medaglioni sopra le porte, massicce porte di mogano, porte-finestre a bovindo, due camini (in salotto e in camera da letto) con mensole di marmo intagliato e lucidissimo. Le stanze avevano un senso di permanenza, continuità, stabilità. Ginger dava molta importanza alla costanza e alla stabilità, forse per reazione alla perdita della madre avvenuta quando aveva solo dodici anni. Continuando a tremare nonostante l'appartamento fosse caldo, sistemò i suoi acquisti in cucina, poi andò in bagno e si guardò attentamente allo specchio. Era molto pallida, e non le piacque l'espressione spiritata dei suoi occhi. "Cos'è successo là fuori, shnook?" chiese in yiddish al proprio riflesso. "Sei stata una vera meshuggene, lascia che te lo dica. Totalmente farfufket. Ma perché? Tu sei il dottore importante, no? E allora, dimmi, perché?" Ascoltando la propria voce, si rese conto di essere seriamente in difficoltà. Jacob, suo padre, era stato un ebreo in virtù del suo patrimonio genetico e culturale, e fiero di esserlo, ma non era stato ebreo in virtù delle sue pratiche religiose. Andava raramente alla sinagoga e osservava le festività allo stesso modo in cui molti cristiani poco convinti celebravano il Natale e la Pasqua. Ginger era ancora un passo più lontana dalla religione di suo padre, perché si dichiarava agnostica. Inoltre, mentre l'ebraismo di Jacob era integrale, evidente in qualunque cosa facesse, non si poteva dire altrettanto di Ginger. Se le fosse stato chiesto di definire se stessa, lei avrebbe risposto: "Donna, medico, drogata del lavoro, non impegnata politicamente", e altre cose, prima di ricordarsi finalmente di aggiungere "ebrea". Le sole volte in cui lo yiddish spuntava nella sua parlata erano quando si trovava in qualche guaio, quando era profondamente preoccupata o spaventata, come se nel suo subconscio sentisse che quelle parole possedevano un potere scaramantico, che agivano da talismano contro qualunque sfortuna e catastrofe. "Correre per le strade, facendo cadere la spesa, dimenticando dove ti trovi, spaventata quando non c'è niente di cui aver paura, comportandoti come una qualsiasi farmishteh," disse sdegnata alla propria immagine. "La gente che ti ha visto penserà sicuramente che sei una shikker, e la gente non va da dottori alcolizzati. Nu?" Il magico potere delle antiche parole ebbe un qualche effetto: non gran-
ché, ma abbastanza da riportarle un po' di colore sulle guance e ammorbidire il suo sguardo vitreo. Smise di tremare, ma si sentiva ancora gelata. Si lavò la faccia, spazzolò i capelli biondo platino e indossò un pigiama e una vestaglia, la sua abituale tenuta per un tipico giovedì di ozio. Poi andò nella piccola camera da letto supplementare che usava come studio, prese dalla libreria una consunta enciclopedia medica e la aprì alla lettera F. Fuga. Conosceva il significato della parola, e non sapeva perché fosse andata a consultare il dizionario quando non poteva dirle niente di nuovo. Forse il dizionario era un altro talismano. Se avesse guardato la parola stampata nero su bianco, essa avrebbe cessato di avere qualunque potere su di lei. Sicuro. Voodoo per i superistruiti. Nonostante ciò, lesse la definizione: FUGA [lat. fuga]. Seria dissociazione della personalità. Deambulazione immotivata e incontrollata equivalente a un attacco epilettico. Allo stato di fuga segue solitamente perdita di memoria circa le azioni compiute durante la crisi. Chiuse il dizionario e lo ripose sullo scaffale. Avrebbe potuto consultare altri volumi per avere informazioni più dettagliate sulla fuga, le sue cause e i suoi significati, ma decise di non insistere sull'argomento. Semplicemente non poteva credere che il suo passeggero attacco fosse sintomo di un serio problema patologico. Forse era stressata; lavorava troppo, e il sovraccarico l'aveva portata a quell'unica, isolata fuga. Un blackout di due o tre minuti. Un piccolo avvertimento. Avrebbe continuato a usufruire del suo giorno di riposo e avrebbe cercato di smontare un'ora prima ogni giorno, e non ci sarebbero stati altri problemi. Aveva lavorato sodo per diventare un dottore, come sua madre aveva sperato, per onorare la memoria dei suoi genitori facendo di sé qualcosa di speciale. Le era costato impegno e sacrifici arrivare fin là. Aveva passato più fine settimana a lavorare, rinunciando a vacanze e divertimenti. Ora, tra soli sei mesi, avrebbe terminato il suo periodo di internato, iniziando a esercitare come professionista, e non intendeva permettere che qualcosa interferisse con i suoi programmi. Niente l'avrebbe defraudata dei suoi sogni. Niente. Era martedì, 12 novembre.
3 Elko County, Nevada Ernie Block aveva paura del buio. L'oscurità in casa lo innervosiva, ma era l'oscurità dell'esterno, il vasto nero della notte lì, nel nord Nevada, che lo terrorizzava. Durante il giorno preferiva stanze con molte lampade e finestre, ma di notte cercava stanze con poche finestre o, meglio ancora, nessuna, perché a volte gli sembrava che la notte premesse contro i vetri, come fosse una creatura viva che cercava di raggiungerlo e inghiottirlo. Non gli dava alcun sollievo tirare le tende, perché sapeva che la notte era là fuori in attesa di un'occasione. Si vergognava profondamente di se stesso. Non sapeva spiegarsi perché recentemente lo avesse assalito quella paura. Naturalmente, milioni di persone avevano la sua stessa fobia, ma erano quasi tutti bambini, e lui aveva cinquantadue anni. Venerdì pomeriggio, il giorno dopo il Ringraziamento, Ernie stava lavorando da solo nell'ufficio del motel. Faye era andata nel Wisconsin a trovare Lucy, Frank e i nipoti, e non sarebbe tornata fino a martedì. A dicembre avrebbero chiuso il motel per una settimana e sarebbero andati entrambi a Milwaukee per passare il Natale con i ragazzi, ma questa volta Faye era andata sola. Gli mancava terribilmente. Gli mancava perché era sua moglie da trentun anni, e anche la sua migliore amica. Gli mancava perché l'amava ancora di più di quando l'aveva sposata. E perché senza di lei le notti sembravano più lunghe, più fonde, più nere che mai. Alle due e mezzo del pomeriggio Ernie aveva già pulito tutte le stanze e cambiato la biancheria, e il Tranquility Motel era pronto per la prossima ondata di viaggiatori. Era il solo alloggio nel giro di venti chilometri, appollaiato su un poggio a nord dell'autostrada. La città di Carlin e il piccolo villaggio di Beowawe erano più vicini, ma dal Tranquility Motel non si scorgeva nessuno dei due centri abitati. Di fatto, dal parcheggio non era visibile nessun altro edificio in alcuna direzione, e probabilmente non c'era al mondo un motel che avesse un nome più appropriato di quello. Ora Ernie era nell'ufficio, e stava ritoccando con la vernice per legno qualche graffio sul bancone di quercia dove gli ospiti firmavano il registro, tanto per ingannare il tempo fino al tardo pomeriggio, quando sarebbero
arrivati i primi clienti dall'interstatale 80. Se non avesse tenuto la mente occupata, avrebbe cominciato a pensare al rapido calare della notte di novembre e a preoccuparsi dell'oscurità incombente, e allora, quando fosse realmente scesa la sera, sarebbe già stato agitato come un gatto con una lattina legata alla coda. L'ufficio del motel era un tempio consacrato alla luce. Dall'ora di apertura fino alle sei e mezzo di mattina, ogni sorgente luminosa era rimasta accesa. Una lampada fluorescente a braccio flessibile gettava un pallido rettangolo sul feltro verde del piano di lavoro dietro il bancone. Una lampada a stelo d'ottone brillava in un angolo vicino allo schedario. Sul lato esterno del bancone c'era un espositore girevole di cartoline, uno da parete con una quarantina di libri in edizione economica e un altro pieno di opuscoli e cartine stradali, una slot machine solitària vicino alla porta e un divano beige affiancato da tavolini, su ciascuno dei quali era posata una lampada. Inoltre c'era una plafoniera in vetro smerigliato con due lampadine e, naturalmente, una grande finestra che occupava buona parte della parete frontale. Il motel era rivolto a sud-sudovest, così a quell'ora del giorno i raggi obliqui del sole filtravano attraverso l'enorme vetrata, dando una tinta ambrata alla parete bianca dietro al divano. Quando Faye era lì, Ernie non lasciava tutte le luci accese, perché lei avrebbe certamente fatto osservazioni sullo spreco di energia. Lasciare anche una sola lampada spenta lo faceva sentire a disagio, ma preferiva sopportarne la spiacevole vista che tradire il proprio segreto. Per quel che ne sapeva, Faye non si era accorta della fobia che lo aveva preso negli ultimi quattro mesi, ed era meglio così: si vergognava di quella sua improvvisa stranezza, e non voleva che lei si preoccupasse. Non conosceva la causa di quell'irragionevole paura, ma sapeva che prima o poi l'avrebbe sconfitta. Era una condizione temporanea; non era il caso di umiliare se stesso e mettere in ansia la moglie. Rifiutava di credere che fosse una cosa seria. In cinquantadue anni non si era quasi mai ammalato. Era stato in ospedale una sola volta, dopo essersi preso due pallottole nella schiena durante il suo secondo turno di servizio in Vietnam. Non c'erano mai stati casi di malattia mentale nella sua famiglia e, poco ma sicuro, non sarebbe stato lui, Ernest Eugene Block, il primo a finire sul lettino di uno psichiatra. Ne sarebbe venuto fuori da solo, per quanto strano e sconcertante fosse quel che gli stava accadendo. Tutto era cominciato in settembre, con un vago disagio che cresceva in lui con l'avvicinarsi della notte e non lo abbandonava fino all'alba. All'ini-
zio non gli succedeva ogni notte, ma andò costantemente peggiorando, e per la metà di ottobre il crepuscolo portava sempre con sé un inesplicabile malessere psicologico. Al principio di novembre il malessere era divenuto paura, e durante le ultime due settimane la sua ansia era cresciuta al punto che adesso le sue giornate erano misurate - e quasi totalmente definite - da quest'assurda paura dell'arrivo del buio. Negli ultimi dieci giorni aveva evitato di uscire dopo il tramonto, e fino a quel momento Faye non sembrava averlo notato, ma non poteva durare. Era ridicolo. Ventotto anni di servizio nei marine e gli sudavano le mani alla sola idea del tramonto. A vederlo, pareva impensabile che potesse avere paura di qualcosa. Tutto in lui dava un'impressione di grande solidità. Era alto e robusto, con spalle massicce, il torace ampio e il collo grosso. I suoi ispidi capelli grigi erano tagliati a spazzola, lasciando intravedere l'ossatura del cranio, e i suoi lineamenti erano regolari e attraenti, ma così squadrati che sembrava scolpito in un blocco di granito. Eppure, ora passava e ripassava il pennello con precisione maniacale su graffi quasi inesistenti, solo per non pensare all'approssimarsi della sera. Alle tre e quarantacinque decise finalmente che il bancone era a posto. Fuori, la qualità della luce era cambiata, non più color miele, ma di un arancio ambrato, e il sole stava scendendo verso ovest. Alle quattro ricevette i primi clienti, una coppia della sua età che stava tornando a Salt Lake City dopo aver passato una settimana a Reno dal figlio. Ernie chiacchierò con loro, e gli dispiacque quando presero la chiave e salirono nella loro camera. La luce del sole ora era completamente arancio, un arancio brunito, senza più traccia di giallo. Le alte nuvole sparpagliate in cielo si erano trasformate da bianchi velieri in galeoni oro e scarlatti che scivolavano verso est sopra il Grande Bacino in cui giaceva quasi l'intero stato del Nevada. Dieci minuti più tardi un uomo cadaverico, che stava visitando la zona per incarico del Bureau of Land Management, prese una camera per due giorni. Di nuovo solo, Ernie cercò di non guardare l'orologio, né le finestre, perché oltre i vetri il giorno si stava dissanguando. Non mi lascerò prendere dal panico, disse a se stesso. Sono stato in guerra, ho visto il peggio che un uomo possa vedere, e per Dio, sono ancora qui. Non andrò nel pallone solo perché sta arrivando la notte. Per le quattro e cinquanta la luce del sole non era più arancione ma rosso sangue.
I battiti del suo cuore aumentarono, e cominciò a sembrargli che la sua cassa toracica fosse diventata una morsa che gli attanagliava gli organi vitali. Andò alla scrivania, chiuse gli occhi e fece qualche esercizio di respirazione per calmarsi. Accese la radio. A volte la musica aiutava. Il sole raggiunse l'orizzonte e cominciò lentamente a inabissarsi. Il cremisi del pomeriggio sfumò in un blu elettrico, poi in un luminoso porpora che gli ricordò la fine del giorno a Singapore, dove era stato di stanza per due anni come guardia all'ambasciata quando era una giovane recluta. Arrivò. Il tramonto. Poi peggio. La notte. Le luci esterne, compresa l'insegna al neon blu e verde chiaramente visibili dalla strada, si erano accese automaticamente al sopraggiungere del crepuscolo, ma questo non lo faceva sentire meglio. L'alba era lontana un'eternità. La notte era appena cominciata. Col calare del sole, la temperatura esterna era scesa sotto lo zero. Ernie Block sudava. Alle sei, Sandy Sarver arrivò dal bar-tavola calda annesso al Tranquility Motel, un piccolo posto di ristoro dal menu limitato, che serviva il pranzo e la cena agli ospiti del motel e a camionisti di passaggio per l'autostrada; la colazione per gli ospiti, a base di panini al latte e caffè, era inclusa nel prezzo, e veniva servita in camera: bastava chiederla la sera prima. Sandy, trentadue anni, e suo marito, Ned, gestivano il locale per Ernie e Faye; Sandy serviva ai tavoli e Ned cucinava. Vivevano in una roulotte vicino a Beowawe, e andavano avanti e indietro col loro vecchio pickup Ford. Ernie sussultò all'arrivo di Sandy, perché quando si aprì la porta ebbe l'irrazionale paura che il buio sarebbe balzato nell'ufficio come una pantera. "Ti ho portato la cena," disse Sandy, rabbrividendo nella gelida folata che era entrata con lei. Posò una piccola scatola di cartone senza coperchio sul bancone. Conteneva un cheeseburger, patatine fritte e una lattina di Coors. "Ho pensato che ti ci sarebbe voluta una birra per lavare via tutto questo colesterolo." "Grazie, Sandy." Sandy Sarver non era un granché da guardare: sembrava banale e slavata, scialba, eppure aveva più potenziale di quanto lei immaginasse. Le sue gambe erano troppo magre, ma non brutte. Le sarebbe bastato ingrassare un po' per avere un aspetto decente. Era praticamente priva di seno, ma a-
veva una flessuosità che compensava la scarsezza di curve, e possedeva un'attraente delicatezza femminile evidente nell'ossatura esile, le braccia sottili e il collo da cigno. Aveva inoltre una grazia raramente visibile ma incantevole, di solito camuffata dalla sua abitudine di strascicare i piedi quando camminava e di sedersi con le spalle curve. I suoi capelli castani erano pesanti e opachi, probabilmente perché li lavava con sapone invece che shampoo. Non usava mai trucco, neanche un filo di lucidalabbra. Le sue unghie erano rosicchiate e trascurate. Comunque, era buona e generosa, e per questo Ernie e Faye avrebbero voluto che potesse avere un aspetto migliore e ottenere di più dalla vita. A volte Ernie si preoccupava per lei, allo stesso modo in cui si preoccupava per sua figlia Lucy prima che conoscesse Frank e lo sposasse, diventando così palesemente, perfettamente felice. Avvertiva che qualcosa di brutto era successo a Sandy Sarver molto tempo prima, che aveva subito un colpo molto pesante, non tanto da spezzarla, ma abbastanza per insegnarle a tenere la testa bassa e ad aspettarsi poco per difendersi dalle delusioni, dal dolore e dalla crudeltà umana. Ernie strappò la linguetta della lattina di birra. "Ned fa i migliori cheeseburger che io abbia mai mangiato," disse assaporando l'aroma che saliva dalla scatola. Sandy sorrise timidamente. "È una benedizione avere un uomo che cucina." La sua voce era sommessa, mite. "Specialmente nel mio caso. Io proprio non ci so fare." "Ma va'. Scommetto che sei un'ottima cuoca," replicò Ernie. "Oh, no, non io," si schermì lei. "Non lo sono mai stata, e mai lo sarò." Ernie notò la pelle d'oca sulle sue braccia, lasciate scoperte dalle maniche corte della divisa. "Non dovresti uscire in una sera come questa senza un maglione. Ti prenderai qualcosa." "Non io," dichiarò Sandy. "Io... mi sono abituata al freddo molto tempo fa." Sembrava strana come affermazione, e il modo in cui la formulò fu ancora più strano. Prima che lui potesse pensare a un modo per indurla a scoprirsi e a spiegare cosa intendesse, lei si diresse verso la porta. "Ci vediamo più tardi, Ernie." "Oh... c'è molto lavoro?" "Un po'. E tra poco arriveranno i camionisti per la cena." Aprì la porta e si fermò sulla soglia, lasciando entrare una ventata d'aria fredda. Il boccone gli si fermò in gola. La porta aperta lo stava esponendo ai pericoli del-
l'oscurità. "Certo che ce n'è di luce qui dentro. Potresti prenderti la tintarella." "Ecco... è per i clienti. Entrare in un ufficio poco illuminato... be', l'impressione è che sia sporco." "Oh! Io non ci avrei mai pensato. A me questi particolari sfuggono. Be', adesso devo correre." Ernie trattenne il fiato finché la porta rimase aperta, tirò un sospiro di sollievo quando Sandy se la richiuse alle spalle. La guardò passare in fretta davanti alle finestre e scomparire dalla sua vista. Non riusciva a ricordare di averla mai sentita vantare una virtù. Invece, non esitava mai a sottolineare i suoi difetti e manchevolezze, reali o immaginali che fossero. Era una brava ragazza, ma talvolta una compagnia un po' tetra. Naturalmente, quella sera anche una compagnia tetra era la benvenuta. Gli dispiacque vederla andare via. Al bancone, mangiando in piedi, Ernie si concentrò sul cibo, senza mai alzare gli occhi finché ebbe finito, servendosene per distogliere i propri pensieri dall'irrazionale paura che lo faceva sudare freddo. Alle sei e cinquanta, otto delle venti stanze del motel erano occupate. Era la seconda sera di un ponte di quattro giorni, e c'erano in giro più viaggiatori del solito; ne avrebbe date almeno altre otto se avesse tenuto aperto fino alle nove. Non poteva farlo. Era un marine, in pensione da sei anni, ma sempre un marine, per il quale le parole "dovere" e "coraggio" erano sacre, e non aveva mai mancato di svolgere il proprio compito, neanche in Vietnam, neanche con proiettili che sibilavano e bombe che scoppiavano e gente che moriva tutt'intorno a lui, ma era incapace di tenere aperto l'ufficio fino alle nove. Non c'erano tende alle grandi finestre e sulla porta a vetri, nessun modo per sfuggire all'oscurità. Ogni volta che la porta si apriva si sentiva morire, perché non c'era alcuna barriera tra lui e la notte. Guardò le sue mani grandi, forti. Stavano tremando. Aveva lo stomaco sottosopra. Era così nervoso che non riusciva a star fermo. Camminò avanti e indietro lungo il bancone. Armeggiò con questo e quello. Finalmente, alle sette e un quarto, si arrese all'ansietà e, con un interruttore sotto il bancone, accese il segnale di TUTTO ESAURITO all'esterno e chiuse a chiave la porta. Spense le lampade una alla volta, ritraendosi verso il fondo della stanza man mano che le ombre guadagnavano terreno. Si avviò su per le scale che portavano al suo appartamento, al primo piano. Si sforzò di salire a passo normale, dicendosi che era sciocco avere paura, che niente si
annidava negli angoli bui dell'ufficio, niente poteva seguirlo. Niente, che idea ridicola, niente, assolutamente niente. Ma rassicurazioni di questa sorta erano del tutto vane, perché non era qualcosa nel buio a spaventarlo; piuttosto, era l'oscurità in sé che lo terrorizzava, la mera assenza di luce. Cominciò ad affrettarsi, aggrappandosi al corrimano. Poi, suo malgrado, si lasciò prendere dal panico e fece i gradini due alla volta, di corsa. Arrivato in cima, irruppe nel salotto, tastò freneticamente la parete cercando l'interruttore, spense le ultime luci di sotto, sbattè la porta tanto forte che l'intero muro sembrò tremare e vi si appoggiò contro con la schiena, mentre il cuore gli martellava in petto, ansimante. Non riusciva a smettere di tremare. Poteva sentire l'odore acre del proprio sudore. Quasi tutte le luci dell'appartamento erano rimaste accese durante il giorno, e le tende erano tutte tirate, le persiane chiuse; non si intravedeva nemmeno uno scorcio dell'oscurità oltre le finestre. Corse da una stanza all'altra, accendendo le lampade ancora spente. Quando ebbe ripreso il controllo di se stesso, telefonò al ristorante e disse a Sandy che non si sentiva bene e aveva chiuso presto. Preferiva che non lo disturbassero per portargli gli incassi della giornata: glieli avrebbero dati il mattino dopo. Disgustato dall'odore pungente della sua traspirazione - non tanto dall'odore in sé quanto dalla totale perdita di controllo che rappresentava - Ernie fece una doccia, indossò biancheria pulita e una vestaglia calda e infilò le pantofole. Fino a quel giorno, nonostante la sua sconcertante apprensione, aveva sempre dormito al buio, anche se non senza ansia, né senza l'aiuto di un paio di birre. Ma le ultime due notti, da quando Faye era in Wisconsin, era riuscito a prendere sonno solo con la costante compagnia del lume sul comodino. Sapeva che anche quella notte avrebbe avuto bisogno di quel conforto. Ma come avrebbe fatto al ritorno di Faye? Sarebbe riuscito a riabituarsi a dormire senza una luce accesa? E se Faye avesse spento le luci... e lui si fosse messo a strillare come un bambino impaurito? L'idea di una simile umiliazione gli fece stringere i denti per la rabbia e lo spinse alla finestra più vicina. Posò una robusta mano sulle tende tirate. Esitò. Il suo cuore faceva l'imitazione di una mitragliata attutita. Ernie era sempre stato una sicurezza per Faye, una roccia alla quale lei
poteva aggrapparsi. Era questo che un uomo doveva essere: una roccia. Non poteva deludere Faye. Doveva superare questa bizzarra afflizione prima che lei tornasse dal Wisconsin. Il pensiero di quello che c'era oltre il vetro gli inaridì la bocca e lo fece di nuovo rabbrividire, ma sapeva che il solo modo per sconfiggere quella cosa era affrontarla. Era questa la lezione che la vita gli aveva insegnato: essere audace, affrontare il nemico, dare battaglia. Questa filosofia d'azione aveva sempre funzionato per lui. La finestra dava sul retro del motel, attraverso i vasti prati e le colline degli altipiani disabitati, e la sola luce là fuori era quella delle stelle. Doveva scostare le tende, guardare quel tenebroso paesaggio, resistere, sopportarlo. Il confronto diretto sarebbe stato un purgante che avrebbe eliminato il veleno dal suo organismo. Ernie scostò le tende. Sbirciò nella notte, e si disse che quella perfetta oscurità non era poi così male: profonda e pura, vasta e fredda, ma non ostile, non certo una minaccia personale. Eppure, mentre guardava, immobile e inamovibile, porzioni del buio sembrarono spostarsi, fondersi in forme indistinte e tuttavia solide, masse di pulsante e più densa oscurità, fantasmi in agguato nella notte che da un momento all'altro potevano lanciarsi verso la fragile finestra. Serrò le mascelle, appoggiò la fronte contro il vetro gelido. I brulli altipiani del Nevada, un enorme spazio aperto, ora sembrarono espandersi ancora di più. Non poteva vedere le montagne ammantate dalla notte, ma avvertiva che stavano magicamente recedendo, che i terreni pianeggianti tra lui e le montagne stavano diventando più vasti, estendendosi per centinaia di chilometri, poi migliaia, avanzando rapidamente verso l'infinito, finché improvvisamente si trovò al centro di un vuoto immenso, indescrivibile. Tutt'intorno a lui c'era il nulla, oltre le umane capacità di misurazione, oltre l'immaginabile, un terribile vuoto, a destra e sinistra, davanti e dietro, sopra e sotto, e a un tratto non poté respirare. Fu peggio di qualunque cosa avesse mai provato prima. Una paura che andava più in profondità, sconvolgente nella sua potenza. E lo dominava totalmente. All'improvviso fu conscio di tutto il peso di quell'enorme oscurità, e gli parve che stesse scivolando inesorabilmente su di lui. Muri altissimi di opprimente oscurità gli stavano crollando addosso, schiacciandolo, togliendogli il fiato. Gridò e fece un balzo indietro. Cadde in ginocchio mentre le tende tornavano a posto con un lieve fruscio. La finestra era di nuovo coperta. L'o-
scurità era scomparsa. Attorno a lui c'era luce, luce benedetta. Reclinò la testa, rabbrividì e prese grandi boccate d'aria. Andò carponi fino al letto e si issò sul materasso, dove rimase a lungo ad ascoltare il battito del proprio cuore: sembrava il rumore dei passi di qualcuno che prima correva, poi camminava veloce dentro di lui. Invece di risolvere il suo problema, il confronto diretto lo aveva peggiorato. "Cosa mi sta succedendo?" disse ad alta voce, fissando il soffitto. "Buon Dio, cosa mi sta succedendo?" Era venerdì, 22 novembre. 4 Laguna Beach, California Sabato, per disperata reazione a un altro inquietante episodio di sonnambulismo, Dom Corvaisis consumò fino in fondo, metodicamente, le proprie energie. Per sera intendeva essere così esausto che avrebbe dormito immobile come un sasso racchiuso da tempo immemorabile nel grembo della terra. Alle sette di mattina, con la fredda bruma della notte che ancora indugiava nei canyon e tra gli alberi, fece mezz'ora di vigorosa ginnastica sulla veranda che guardava sull'oceano, poi mise le scarpe da jogging e corse per dodici faticosi chilometri lungo le strade scoscese di Laguna Beach. Passò le cinque ore seguenti dedicandosi a pesanti lavori di giardinaggio, poi indossò il costume da bagno, mise un paio di teli di spugna sulla sua Firebird e ando alla spiaggia. Prese un po' di sole e nuotò molto. Dopo aver cenato da Picasso, camminò per un'altra oretta lungo le vie del centro scarsamente popolate da turisti fuori stagione, poi finalmente tornò a casa. Svestendosi in bagno, Dom si sentiva come se fosse a Lilliput, con un migliaio di minuscoli omini che lo tiravano giù con dei rampini. Beveva raramente, ma ora buttò giù un bicchierino di Rémy Martin. A letto, crollò nell'attimo stesso in cui spense la luce. Le crisi di sonnambulismo si stavano facendo più frequenti, e ormai il problema era diventato il punto focale della sua vita. Stava interferendo col suo lavoro. Il nuovo libro prometteva bene - conteneva le cose migliori che avesse mai scritto - ma non riusciva più ad andare avanti. Nelle ultime due settimane si era svegliato in un armadio in nove occasioni, quattro volte nelle ultime quattro notti. La cosa aveva cessato di sembrargli curiosa e
divertente. Aveva paura di andare a dormire perché, nel sonno, perdeva il controllo di se stesso. Il giorno prima, venerdì, si era finalmente deciso ad andare dal suo medico, il dottor Paul Cobletz, a Newport Beach. Sebbene con difficoltà, gli raccontò del suo sonnambulismo, ma si scoprì riluttante e incapace di esprimere la reale profondità e serietà della sua preoccupazione. Dom era sempre stato molto riservato: lo aveva reso tale un'infanzia trascorsa fra una dozzina di famiglie adottive, affidato a sostituti di genitori, alcuni dei quali indifferenti o perfino ostili, e tutti presenze desolatamente temporanee nella sua vita. Era restio a spartire con altri i suoi pensieri più intimi, se non con l'aiuto dei personaggi creati dalla sua fantasia. Di conseguenza, Cobletz non fu eccessivamente allarmato. Dopo un'accurata visita, dichiarò che Dom era fisicamente in forma perfetta, e attribuì il sonnambulismo allo stress, alla prossima pubblicazione del romanzo. "Non pensi che dovrei fare qualche esame?" chiese Dom. "Tu sei uno scrittore: ti sarai lasciato trasportare dall'immaginazione," disse Cobletz. "Stai pensando a un tumore al cervello, vero?" "Be'... sì." "Hai mal di testa? Vertigini? Visione annebbiata?" "No." "Ti ho esaminato gli occhi. Non c'è alcuna alterazione della retina, nessuna indicazione di pressione intracraniale. Qualche inspiegabile episodio di vomito?" "No." "Confusione mentale? Ti capita mai di ridere o sentirti euforico senza apparente motivo? Niente del genere?" "No." "Allora non vedo la necessità di fare esami, al momento." "Pensi che abbia bisogno di... una psicoterapia?" "Santo cielo, no! Sono sicuro che ti passerà presto." Quand'ebbe finito di rivestirsi, Dom guardò il dottore chiudere lo schedario. "Pensavo che forse qualche sonnifero..." "No, no," dissentì recisamente Cobletz. "Non ancora. Non credo negli psicofarmaci come prima risorsa. Te lo dico io cosa devi fare, Dom. Sta' lontano dal lavoro per qualche settimana. Niente attività cerebrale e molto esercizio fisico. Va' a letto stanco ogni notte, tanto stanco da non riuscire nemmeno a pensare al libro che stai scrivendo. Un breve periodo così, e sarai guarito. Ne sono convinto."
Sabato, Dom cominciò la cura prescritta dal dottor Cobletz, dedicandosi all'attività fisica, ma con più flagellante abnegazione di quanto il medico avesse suggerito. Piombò in un sonno profondo non appena toccò il letto, e al mattino non si svegliò in un armadio. Ma non si svegliò nemmeno nel suo letto. Questa volta era nel garage. Riprese conoscenza in un soffocante stato di terrore, ansante, e il cuore gli batteva tanto forte che sembrava avrebbe potuto spaccargli le costole con i suoi colpi furiosi. Aveva la bocca secca, i pugni stretti, e crampi dappertutto, in parte per l'eccesso di esercizio del giorno prima, ma anche a causa dell'innaturale e scomoda posizione in cui aveva dormito. Durante la notte, a quanto pareva, aveva preso due teloni impermeabili da uno scaffale sopra il banco di lavoro e si era infilato in uno stretto spazio di servizio dietro la caldaia. Era lì che si trovava adesso, nascosto sotto le incerate. "Nascosto" era la parola giusta. Non si era coperto con i teloni solo per proteggersi dal freddo. Si era rifugiato dietro la caldaia e sotto i teloni perché Si stava nascondendo da qualcosa. Da cosa? Anche adesso, mentre Dominick scostava le incerate e si metteva faticosamente a sedere, mentre il sonno recedeva e i suoi occhi si abituavano all'ombra del garage, l'intensa paura che aveva accompagnato il suo risveglio gli rimase tenacemente attaccata. Paura di cosa? Un incubo. Ma certo. Doveva aver sognato di essere inseguito da qualche mostro, e quando, nel sogno, era scappato e aveva cercato un nascondiglio, era andato a nascondersi anche nella realtà, infilandosi dietro la caldaia. La sua Firebird bianca appariva spettrale nella vaga luce che filtrava dalle prese d'aria nelle pareti e la finestrella isolata sopra il banco di lavoro. Attraversando il garage a Dom parve di essere lui stesso un fantasma. In casa, andò direttamente nel suo ufficio. La luce del mattino che inondava la stanza gli fece strizzare gli occhi. Si sedette alla scrivania nei suoi sudici calzoni del pigiama, accese il word processor ed esaminò il materiale sul floppy disk che aveva lasciato nella macchina. Il dischetto era come lo aveva lasciato martedì; non conteneva niente di estraneo al libro a cui stava lavorando. Dom aveva sperato di aver lasciato nel computer un messaggio che lo aiutasse a capire la fonte della sua ansia. Quella cognizione era chiaramen-
te nascosta nel suo subconscio e non riusciva a emergere alla superficie della sua coscienza. Durante gli attacchi di sonnambulismo, il subconscio prendeva il sopravvento, ed era possibile che cercasse di comunicare l'informazione tramite il word processor. Ma fino a quel momento non lo aveva fatto. Spense la macchina e rimase a lungo seduto a guardare oltre la finestra, verso l'oceano, ponendosi domande a cui non sapeva rispondere. Più tardi, in camera da letto, mentre andava in bagno, trovò qualcosa di strano. C'erano chiodi sparsi sul tappeto, e dovette fare attenzione a dove metteva i piedi. Si chinò a raccoglierne alcuni. Erano tutti uguali: chiodi di acciaio, da falegname, lunghi tre centimetri. Dall'altra parte della stanza vide due oggetti che lo attirarono là. Sotto la finestra, dalla quale le tende erano state scostate, c'era una scatola di chiodi, piena solo a metà perché parte del suo contenuto si era rovesciato sul pavimento. Accanto alla scatola c'era un martello. Dom lo raccolse e lo soppesò, aggrottando le sopracciglia. Cosa aveva fatto in quelle solitarie ore notturne? Alzò lo sguardo al davanzale e vide tre chiodi scintillanti al sole. A giudicare dall'evidenza, si era preparato a inchiodare le finestre. Gesù. Qualcosa lo aveva spaventato a tal punto da indurlo a inchiodare le finestre e barricarsi in casa, ma prima che potesse mettersi all'opera la paura lo aveva sopraffatto ed era corso a rifugiarsi in garage, nascondendosi dietro la caldaia. Lasciò cadere il martello, si rialzò, guardò dalla finestra. Fuori c'erano solo cespugli di rose fioriti, una piccola striscia di prato e un muretto coperto d'edera che delimitava il giardino; al di là, un verde pendio portava a un'altra casa. Un paesaggio incantevole, rasserenante. Non poteva credere che fosse stato differente la notte prima, che qualcosa di minaccioso si fosse annidato nell'oscurità là fuori. Eppure... Per un po' Dom Corvaisis guardò il giorno farsi più brillante, guardò le api suggere le rose, poi cominciò a raccogliere i chiodi. Era domenica, 24 novembre. 5 Boston, Massachusetts
Dopo l'incidente dei guanti neri, passarono due settimane senza altri attacchi. Nei giorni che seguirono l'imbarazzante scena da Bernstein's, Ginger Weiss rimase nervosa, in attesa di un'altra crisi. Era insolitamente concentrata su se stessa, acutamente conscia delle proprie condizioni fisiologiche e psicologiche, cercando subdoli sintomi di un serio disturbo, attenta al minimo segnale di una nuova imminente fuga, ma non notò niente di allarmante. Non aveva mal di testa, né attacchi di nausea, né dolori alle giunture o ai muscoli. Gradualmente la sua sicurezza tornò al consueto livello elevato. Era ormai convinta che la sua crisi fosse interamente da imputarsi allo stress, un'aberrazione che non si sarebbe mai più ripresentata. Le sue giornate al Memorial erano più intense che mai, George Hannaby, primario di chirurgia - un uomo alto e corpulento che parlava piano, camminava piano e dava un'ingannevole impressione di indolenza - manteneva un alto ritmo di lavoro, e benché Ginger non fosse l'unico medico interno a lavorare sotto di lui, attualmente era la sola a farlo esclusivamente con lui. Fece da assistente in molti, forse la maggior parte, dei suoi interventi: innesti di aorta, amputazioni, bypass poplitei, embolectomie, toracotomie, installazioni di pace-maker temporanei e permanenti, e altro ancora. George osservava ogni sua mossa, pronto a sottolineare ogni minima imperfezione nella sua tecnica. Nonostante la sua aria da orso bonario, pretendeva molto e non tollerava la malavoglia, l'inettitudine o la sbadataggine. Poteva essere feroce nelle sue osservazioni, e faceva tremare tutti i giovani dottori. Il suo disprezzo non era solo bruciante; era disidratante, cauterizzante. Alcuni interni consideravano George tirannico, ma a Ginger piaceva assisterlo proprio perché i suoi standard erano così alti. Sapeva che le sue critiche, per quanto caustiche, erano motivate unicamente dall'attenzione per il paziente, e lei non le prendeva mai come un fatto personale. Quando finalmente si fosse guadagnata la sua approvazione... be', sarebbe stato quasi come avere la benedizione di Dio in persona. L'ultimo lunedì di novembre, tredici giorni dopo quella strana crisi, Ginger assistette all'inserimento di un triplo by-pass cardiaco su Johnny O'Day, un cinquantatreenne agente di polizia di Boston costretto alla pensione anticipata dalla malattia cardiovascolare. Johnny era robusto, con la faccia rubizza, i capelli scompigliati e allegri occhi azzurri, semplice, con la risata pronta nonostante i suoi problemi. Ginger si sentiva particolar-
mente attratta da lui perché le ricordava suo padre, pur non avendo alcuna somiglianzà con Jacob Weiss. Aveva paura che Johnny O'Day sarebbe morto e che ciò sarebbe accaduto, in parte, per colpa sua. Non aveva ragione di credere che lui fosse più vulnerabile di altri cardiopatici. Di fatto, Johnny era relativamente a basso rischio. Era dieci anni più giovane della media dei pazienti sottoposti a by-pass cardiaco, con maggiori capacità di ripresa. Il suo disturbo cardiaco non era complicato da altre condizioni debilitanti, come flebiti o pressione sanguigna eccessivamente alta. Le sue prospettive erano incoraggianti. Ma Ginger non riusciva a svincolarsi dalla paura in cui si trovava sempre più impigliata con l'avvicinarsi dell'ora dell'operazione. Forse la sua apprensione derivava dal senso di familiarità che Johnny le ispirava; o forse era del tutto gratuita e le sarebbe sembrata sciocca e ridicola in retrospettiva. Forse. Entrando nella sala operatoria al fianco di George, si domandò se le mani le avrebbero tremato. Le mani di un chirurgo non devono mai tremare. La sala era tutta rivestita di piastrelle, bianche e verde acqua, piena di apparecchiature di acciaio e cromate. Le infermiere e un anestesista stavano preparando il paziente. Johnny O'Day giaceva sul tavolo operatorio a croce, le braccia aperte, i palmi rivolti in su e i polsi pronti a ricevere gli aghi endovenosi. Agatha Tandy, un'infermiera professionale privata che era stata assunta da George Hannaby piuttosto che dall'ospedale, tese sottili guanti di lattice sulle mani appena lavate del suo capo, poi su quelle di Ginger. Il paziente era stato anestetizzato. Era arancione di tintura di iodio dal collo al polso, coperto con strati di tela verde dai fianchi in giù. I suoi occhi erano tenuti chiusi con cerotti perché non si inaridissero. La sua respirazione era lenta ma regolare. Un registratore stereo portatile era posato su uno sgabello in un angolo: George preferiva tagliare con l'accompagnamento di Bach, e quella musica rilassante ora colmava la stanza. Non servì a calmare Ginger. Qualcosa, un segreto affannoso, tesseva una trama di gelo nel suo stomaco. Hannaby prese posizione al tavolo. Agatha si mise alla sua destra con il vassoio degli strumenti. Un'infermiera si teneva pronta a prendere qualunque cosa potesse essere richiesta dagli armadietti lungo la parete. Un'infermiera assistente dai grandi occhi grigi notò un lembo di tela verde fuori
posto e si affrettò a rimboccarlo sotto il corpo del paziente. L'anestesista e la sua infermiera erano alla testa del tavolo, dove controllavano la fleboclisi e l'elettrocardiogramma. Ginger prese il suo posto. L'equipe era pronta. Ginger si guardò le mani; erano ferme, ma dentro tremava come una foglia. Nonostante la sua sensazione di disastro imminente, l'intervento andò benissimo. George Hannaby operò con una rapidità, una sicurezza e un'abilità perfino più impressionanti del solito. Per due volte si fece da parte e chiese che Ginger completasse una parte dell'operazione. Ginger sorprese se stessa: lavorò con la sua abituale sicurezza, e la tensione fu tradita solo da una tendenza a sudare più del normale. Comunque, l'infermiera era sempre lì ad asciugarle la fronte. Più tardi, al lavabo, George commentò: "Come un orologio." "Tu sembri sempre così rilassato," osservò lei, insaponandosi le mani sotto l'acqua calda, "come se... come se non fossi un chirurgo... come se fossi solo un sarto che deve modificare un vestito." "Posso dare quest'impressione," replicò George, "ma in realtà sono sempre teso. Non per niente tengo Bach in sottofondo." Il chirurgo finì di sciacquarsi le mani. "Tu eri molto tesa oggi." "Sì," ammise Ginger. "Eccezionalmente tesa. Succede." Grande e grosso com'era, George a volte aveva gli occhi di un dolce, tenero bambino. "La cosa importante è che questo non abbia inciso sulle tue prestazioni. Sei stata precisa come sempre. Prima categoria. E questo il segreto: usare la tensione a proprio vantaggio." "Sto imparando, credo." Lui sorrise. "Al solito, sei troppo dura con te stessa. Io sono fiero di te, ragazza. C'è stato un momento, prima, in cui ho pensato che avresti fatto meglio a lasciar perdere la medicina e a guadagnarti da vivere facendo la macellaia in qualche supermercato, ma adesso so che ce la farai." Lei ricambiò il sorriso, ma il suo fu forzato. Era stata più che tesa. Era stata presa da una fredda, cupa paura che avrebbe potuto facilmente sopraffarla, e questo era qualcosa di diverso da una sana tensione. Quella paura era qualcosa che non aveva mai provato prima, qualcosa che, ne era sicura, George Hannaby non aveva mai provato in vita sua, non in una sala operatoria. E se non fosse riuscita a superarla, se la paura fosse diventata la sua compagna costante mentre operava?
Quella sera alle dieci e mezzo, mentre stava leggendo a letto, suonò il telefono. Era George Hannaby. Se la chiamata fosse arrivata prima, si sarebbe spaventata, pensando a un grave peggioramento di Johnny O'Day, ma ormai aveva ritrovato la padronanza di sé. "Spiacente, Miss Weiss no a casa. Io no parla inglese. Prego richiamare prossimo aprile." "Se voleva essere un accento spagnolo," disse George, "era atroce. Se voleva essere orientale, era semplicemente terribile. Fortuna che hai scelto la medicina, e non la recitazione." "Tu, invece, avresti potuto far carriera come critico teatrale." "Certo. Ho l'occhio raffinato e sensibile, il freddo giudizio e l'intuito infallibile di un critico di prim'ordine, non trovi? Ora chiudi la bocca e ascolta: ho buone notizie. Penso che tu sia pronta, ragazza mia." "Pronta? Per cosa?" "La grande occasione. Un trapianto d'aorta." "Vuoi dire... non solo assisterti? Farlo tutto da me?" "Primo chirurgo per l'intera operazione." "Un trapianto d'aorta?" "Certo. Non ti sei specializzata in chirurgia cardiovascolare per praticare appendicectomie per il resto della vita." Ginger ora sedeva eretta sul letto. Il cuore le batteva più rapido, ed era accaldata per l'eccitazione. "Quando?" "La settimana prossima. C'è una paziente che verrà ricoverata giovedì o venerdì. Si chiama Fletcher. Esamineremo insieme la sua cartella mercoledì. Se le cose procedono secondo il programma, penso che saremo pronti per tagliare lunedì mattina. Naturalmente, spetterà a te fissare eventuali ulteriori esami e dare il nulla osta all'operazione." "Oh, Dio." "Te la caverai benissimo." "Tu sarai lì, vero?" "Ti assisterò... se pensi di aver bisogno del mio aiuto." "E mi sostituirai se dovessi andare in tilt." "Non dire sciocchezze. Non succederà." Ginger ci pensò un momento. Suo padre le diceva sempre che avrebbe potuto fare qualunque cosa si mettesse in testa, anche cavalcare su una giraffa fino alla luna. "No. Non succederà." "Questa è la mia Ginger. Puoi fare qualunque cosa, basta che tu lo voglia," "Anche andare sulla luna a cavallo di una giraffa."
"Cosa?" "Niente. Scherzo privato." "Senti, lo so che sei arrivata molto vicina al panico questo pomeriggio, ma non devi preoccupartene. È una cosa che succede a tutti gli interni. La chiamano strizza. Di solito arriva prima, quando si comincia ad assistere nelle operazioni. Per te è arrivata più tardi, tutto qui. E anche se immagino che ti abbia un po' scombussolata, dovresti essere contenta che sia successo. È un'esperienza che fa maturare, una specie di prova del fuoco. E tu l'hai superata splendidamente." "Grazie, George. Saresti stato ancora meglio come allenatore di una squadra di baseball che come critico teatrale." Qualche minuto dopo, conclusa la conversazione telefonica, Ginger si lasciò ricadere contro i cuscini e si abbracciò; era così contenta che rise da sola. Dopo un po' andò all'armadio e vi frugò dentro fino a trovare l'album fotografico di famiglia. Se lo portò a letto e rimase lì seduta a sfogliare le foto di Jacob e Anna, desiderando di poter in qualche modo condividere il suo trionfo con loro. Più tardi, nella stanza buia, mentre stava in precario equilibrio tra il sonno e la veglia, finalmente comprese perché avesse avuto tanta paura quel pomeriggio. Non era quel che chiamavano strizza. Anche se non era riuscita ad ammetterlo fino a quel momento, aveva temuto che, nel bel mezzo dell'operazione, avrebbe perso il controllo, dandosi alla fuga, come aveva fatto quel martedì, due settimane prima. Se fosse stata colta da un crisi del genere mentre stava adoperando un bisturi, o eseguendo una delicata sutura... Quel pensiero le fece spalancare di colpo gli occhi e il sonno che si stava avvicinando di soppiatto si ritrasse come un ladro colto con le mani nel sacco. Rimase a lungo sdraiata rigida, a fissare le scure e minacciose forme dei mobili della camera da letto e la finestra, dove le tende non del tutto tirate rivelavano una striscia di vetro resa argentata dalla luna e dal chiarore dei lampioni della strada sottostante. Poteva accettare la responsabilità di essere primo chirurgo in un trapianto d'aorta? La sua crisi era certamente stata un episodio isolato. Non sarebbe mai più capitato niente del genere. Ma se la sentiva di mettere alla prova quella teoria? Il sonno riprese la sua strisciante avanzata e la sopraffece, anche se solo per poco.
Martedì, dopo una puntata riuscita da Bernstein's, molto cibo e diverse placide ore in poltrona con un buon libro, Ginger riconquistò la sua sicurezza e cominciò a guardare alla sfida che aveva davanti con impazienza e con un grado e genere di apprensione del tutto normali. Mercoledì le condizioni di Johnny O'Day dopo il triplo bypass continuavano a migliorare e il paziente era di ottimo umore. Erano queste le soddisfazioni che davano un senso ad anni di studio e duro lavoro: preservare la vita, alleviare sofferenze, dare speranza e felicità a chi aveva conosciuto la disperazione. Ginger assistette all'impianto di un pace-maker che filò senza il minimo intoppo, eseguì un'aortografia e stette con George mentre esaminava sette persone che gli erano state mandate da altri medici. Visti tutti i nuovi pazienti, George e Ginger studiarono per una mezz'ora i dati clinici della candidata al trapianto d'aorta - una donna di cinquantatré anni, Viola Fletcher. Ginger decise di farla ricoverare giovedì per gli esami e i preparativi. Salvo controindicazioni, l'intervento si sarebbe svolto il lunedì mattina. Tra una cosa e l'altra, il mercoledì volò, e per le sei e mezzo Ginger aveva già messo insieme una giornata di dodici ore, ma non era stanca. Di fatto, sebbene nulla la trattenesse all'ospedale, era riluttante ad andarsene. George Hannaby era già tornato a casa. Ginger si attardò in reparto chiacchierando con i pazienti, ricontrollò qualche cartella e infine andò nell'ufficio di George per dare un'altra occhiata ai dati clinici di Viola Fletcher. Gli studi medici erano nell'ala posteriore dell'edificio, separati dall'ospedale. A quell'ora i corridoi erano praticamente deserti. Le suole di gomma delle scarpe di Ginger cigolavano sui pavimenti tirati a lucido. L'aria sapeva di disinfettante al pino. La sala d'aspetto, l'ambulatorio e l'ufficio privato di George Hannaby erano bui e silenziosi; Ginger trascurò di accendere tutte le luci passando per le stanze più esterne. Giunta in studio, accese solo la lampada della scrivania mentre si dirigeva verso l'archivio. La porta era chiusa, ma George le aveva dato una copia di tutte le chiavi. Prese la cartella di Viola Fletcher dallo schedario e la portò con sé alla scrivania di George. Si sedette sulla grande poltrona di pelle, aprì la cartelletta alla luce della lampada e solo allora notò un oggetto che inchiodò la sua attenzione e le mozzò il fiato. Era un normalissimo oftalmoscopio, uno strumento che ogni medico usa per esaminare l'interno dell'occhio durante qualsiasi visita di routine. Non aveva niente di insolito, e certo niente di minaccioso, eppure la sua
vista la colmò di un improvviso senso di terribile pericolo. Stava sudando freddo. Il cuore le batteva così forte che il suono pareva venire dall'esterno, come se qualcuno stesse suonando un tamburo sulla strada di là dalla finestra. Non riusciva a staccare gli occhi dall'oftalmoscopio. Come già era successo con i guanti neri, ogni altro oggetto nella stanza cominciò a svanire, finché il lucente strumento fu l'unica cosa che poteva vedere in tutti i dettagli. Era conscia di ogni piccolo graffio e minuscola tacca sulla sua impugnatura. Ciascun particolare della sua forma divenne a un tratto enormemente importante, come se l'oftalmoscopio fosse il fulcro dell'universo, o un arcano strumento dal catastrofico potenziale distruttivo. Disorientata, resa all'improvviso claustrofobica da una cappa opprimente di paura che era calata su di lei come un grande mantello bagnato, spinse indietro la poltroncina e si alzò, ansimando, gemendo. Sentiva un caldo soffocante e, nello stesso istante, un freddo che le penetrava nelle ossa. L'impugnatura dell'oftalmoscopio scintillava come fosse fatta di ghiaccio. La lente brillava come un iridescente e raggelante occhio alieno. La sua determinazione a resistere ora si dissolse rapidamente. Il suo cuore era stretto in una glaciale morsa di terrore. "Scappa, o morirai," disse una voce dentro di lei. "Scappa o morirai." Le sfuggì un grido, che suonò come la dolente richiesta d'aiuto di una bambina sperduta e spaventata. Si allontanò vacillando dalla scrivania, inciampò in una sedia, quasi cadde. Attraversò lo studio, irruppe nell'anticamera, fuggì per il corridoio deserto, strillando senza quasi emettere un suono, cercando una salvezza che non trovava. Voleva aiuto, una faccia amica, ma era l'unica persona in tutto il piano, e il pericolo incalzava. La minaccia sconosciuta, in qualche modo incarnata dall'innocuo oftalmoscopio, si stava avvicinando. Corse più veloce che poteva e i suoi passi rimbombarono nel corridoio. Scappa o morirai. Calò la nebbia. Qualche minuto dopo, quando la foschia si dissipò, quando fu di nuovo consapevole di ciò che aveva attorno, si ritrovò sulla scala di sicurezza. Non ricordava di aver lasciato il corridoio e imboccato l'uscita d'emergenza. Era seduta su un pianerottolo di cemento tra due piani, schiacciata nell'angolo, la schiena contro il muro di pietra grigia, e fissava la ringhiera davanti a lei. Una spoglia lampadina isolata brillava dietro una griglia di filo
di ferro. A destra e a sinistra rampe di scale salivano e scendevano nell'ombra, prima di raggiungere altri pianerottoli illuminati. L'aria era umida e fredda. Solo il suo respiro affannoso rompeva il silenzio. Era un posto desolato, specialmente quando la vita stava andando a pezzi e c'era bisogno della rassicurazione di luci e gente. I muri grigi, la luce cruda, le ombre, la ringhiera di ferro... Il posto sembrava un riflesso della sua disperazione. La sua folle corsa, e qualsiasi altro comportamento bizzarro avesse esibito nella sua inesplicabile fuga, evidentemente non aveva avuto spettatori, altrimenti adesso non sarebbe stata sola. Perlomeno, nessuno sapeva. Non era una gran consolazione. Lei sapeva, ed era fin troppo. Rabbrividì, non esattamente per la paura, perché l'insensato terrore che l'aveva presa era svanito. Rabbrividì perché aveva freddo, e aveva freddo perché i vestiti le si erano appiccicati addosso, bagnati, intrisi di sudore. Alzò una mano, si asciugò la faccia. Si rimise in piedi, guardando su per le scale, poi giù. Non sapeva se si trovava sopra o sotto il piano dove George Hannaby aveva il suo ufficio. Dopo un momento decise di scendere. I suoi passi echeggiarono sinistramente. Per qualche ragione, le venne in mente una tomba. "Meshuggene," disse tra sé, tremante. Era mercoledì, 27 novembre. 6 Chicago, Illinois La prima domenica di dicembre iniziò fredda, sotto un basso cielo grigio che prometteva neve. Entro quel pomeriggio sarebbero caduti i primi fiocchi, e prima di sera un candido strato di neve avrebbe imbellettato la città. All'ora di cena la bufera sarebbe stata il principale argomento di conversazione, dalla Costa d'Oro alle baracche della periferia, eccetto che nella parrocchia di St. Bernadette; lì, nelle case dei fedeli della chiesa cattolica, non si sarebbe parlato d'altro che del gesto sconvolgente che padre Brendan Cronin aveva compiuto durante la prima messa di quel mattino. Padre Cronin si alzò alle cinque di mattina, recitò le preghiere, si fece la doccia e la barba, indossò la berretta e la veste talare, prese il breviario e lasciò la canonica. Aveva trent'anni, ma con i suoi occhi verdi dallo sguardo diretto, gli ingovernabili capelli ramati e la faccia lentigginosa dimostrava meno della
sua età. Era in sovrappeso di qualche chilo, ma su di lui il grasso si distribuiva in modo omogeneo, cosicché appariva uniformemente pienotto. Dall'infanzia al secondo anno di seminario il suo soprannome era stato Ciccio. Indipendentemente dal suo stato d'animo, padre Cronin sembrava quasi sempre contento. La sua faccia aveva un naturale aspetto da cherubino e i suoi lineamenti arrotondati non si prestavano a esprimere collera, malinconia o dolore. Quel mattino appariva abbastanza in pace con se stesso e con il mondo, sebbene in realtà fosse profondamente turbato. Entrato in sagrestia, senza accendere le luci, andò all'inginocchiatoio, chinò il capo e pregò il Divino Padre di renderlo un buon prete. In passato, questo atto di devozione privato prima dell'arrivo del sagrestano e del chierichetto lo aveva colmato di esultanza, di fronte alla prospettiva di celebrare la messa. Ma ora, come gli capitava spesso da quattro mesi a quella parte, la gioia lo aveva abbandonato. Sentiva solo una greve, desolante indifferenza. Irrigidendo le mascelle, come se potesse imporsi uno stato di estasi spirituale, ripetè la sua invocazione, elaborata sulla precedente, ma ancora si sentiva freddo, vuoto. Dopo essersi lavato le mani e mormorato da Domine, padre Cronin posò la berretta sull'inginocchiatoio e andò a indossare i paramenti liturgici. Era un uomo sensibile, con un animo da artista, e nella grande bellezza della cerimonia aveva sempre percepito un disegno di ordine divino, un'eco della grazia di Dio. Di solito, passandosi l'amitto di lino sulle spalle, mettendosi il camice bianco in modo che gli ricadesse ordinatamente addosso fino alle caviglie, si sentiva pervaso dalla soggezione all'idea che proprio a lui, Brendan Cronin, toccasse un simile onore. Di solito. Ma non oggi, né nelle ultime settimane. Vestendosi, non provò maggiore emozione di un operaio che stesse indossando una tuta prima di andare a lavorare in fabbrica. Quattro mesi prima, all'inizio di agosto, padre Brendan Cronin aveva cominciato a perdere la fede. Il tarlo del dubbio si era insinuato dentro di lui, corrodendo gradualmente le sue convinzioni. Per qualunque prete la perdita della fede era qualcosa di devastante, ma per Brendan Cronin era peggio. Lui non aveva mai nemmeno brevemente preso in considerazione la possibilità di essere qualcosa di diverso da un prete. I suoi genitori erano molto religiosi e avevano alimentato in lui la devozione alla chiesa. Tuttavia, non era diventato un prete per far piacere a loro. Semplicemente, per quanto banale ciò potesse sembrare in quell'epo-
ca di agnosticismo, era stato "chiamato" al sacerdozio in età molto giovane. Ora, benché la fede se ne fosse andata, il suo sacro ufficio continuava a rappresentare la parte essenziale della sua immagine di sé; eppure sapeva che non poteva continuare a dir messa, a pregare e a confortare gli afflitti quando per lui non era che una sciarada. Brendan Cronin si sistemò la stola intorno al collo. Mentre indossava la pianeta, la porta che dava sul cortile si aprì di colpo e un ragazzino irruppe nella sagrestia. "Buongiorno, padre!" "Buongiorno, Kerry. Come va?" A parte il fatto che i suoi capelli erano di un rosso molto più acceso di quelli di padre Cronin, Kerry McDevit avrebbe potuto essere il fratellino minore del prete: paffuto, lentigginoso, con due impertinenti occhi verdi. "Bene, padre. Ma là fuori fa un freddo della Madonna!" Il ragazzino si morse il labbro, realizzando di essersi espresso in modo poco opportuno dato il luogo in cui si trovava. Se non si fosse sentito così depresso, Brendan sarebbe stato divertito dall'imbarazzo del chierichetto, ma nello stato mentale in cui si trovava non riuscì a mettere insieme nemmeno l'ombra di un sorriso indulgente. Indubbiamente il suo silenzio fu interpretato come severa disapprovazione, perché Kerry abbassò gli occhi e raggiunse in fretta l'armadietto, dove si tolse il giaccone, la sciarpa e i guanti e prese la sua veste nera e la cotta. Brendan sollevò il manipolo, baciò la croce al suo centro e se lo sistemò sull'avambraccio sinistro, e ancora non sentì niente. Né fede, né gioia. Al loro posto era rimasto solo quel freddo, pulsante, doloroso vuoto. Guardando il suo chierichetto indossare la cotta, rimpianse la semplice fede che lo aveva tanto a lungo confortato e sostenuto. Se n'era andata solo per poco, o l'aveva perduta per sempre? Quand'ebbe finito di vestirsi, Kerry fece strada attraverso la porta che immetteva all'interno della chiesa; poi, evidentemente avvertendo che padre Cronin non lo stava seguendo, si lanciò uno sguardo alle spalle, con un'espressione perplessa sul viso. Brendan Cronin esitò. Attraverso la porta aveva una visione laterale del crocifisso torreggiante sulla parete in fondo e dell'altare. L'effetto che gli fece quella parte della chiesa lo sgomentò. Era come se la vedesse obiettivamente per la prima volta e non riusciva a immaginare perché mai l'avesse considerata un territorio sacro. Era solo un luogo. Un luogo come qualunque altro. Se fosse uscito là fuori adesso, se avesse affrontato i soliti riti
e le litanie, sarebbe stato un ipocrita, avrebbe truffato l'intera congregazione. La perplessità sulla faccia di Kerry McDevit si era trasformata in preoccupazione. Il ragazzo guardò i fedeli che padre Cronin non poteva vedere, poi di nuovo il sacerdote. "Come posso dire messa quando non credo più?" si domandò Brendan. Ma non c'era altro da fare. Tenendo il calice vicino al petto con la mano sinistra, finalmente seguì Kerry, e per un momento il volto di Cristo sembrò rivolgergli uno sguardo pieno d'accusa dalla croce. Come al solito, meno di cento persone erano presenti per la prima funzione. Le loro facce apparivano stranamente pallide e luminose, come se quel mattino Dio non avesse permesso a veri credenti di intervenire, ma avesse inviato una delegazione di angeli del giudizio a testimoniare del sacrilegio di un prete dubbioso, che osava celebrare la messa nonostante il suo diminuito status. Col progredire della messa, la disperazione di padre Cronin si fece sempre più profonda. Dal momento in cui recitò l'Introibo ad altare Dei, ogni passo della cerimonia acuì il suo sconforto. Quando Kerry McDevit trasferì il messale dal lato dell'altare riservato alla lettura dell'Epistola a quello riservato alla lettura del Vangelo, si sentì così spiritualmente ed emotivamente spossato che riuscì a malapena ad alzare le braccia, poté a stento trovare la forza per concentrarsi sul Vangelo e leggere i versetti del sacro testo. I volti dei fedeli si sfocarono davanti ai suoi occhi. Quando arrivò al canone della messa, bisbigliava appena. Sapeva che Kerry adesso lo fissava apertamente allibito, ed era certo che la congregazione si era accorta che qualcosa non andava. Era sudato e tremante. L'orribile grigiore in lui ora si fece più cupo, volgendo rapidamente al nero, e gli parve di precipitare vorticosamente in un vuoto scuro e spaventoso. Poi, mentre prendeva l'ostia nelle mani e la elevava, pronunciando le parole che significavano il mistero della transustanziazione, si sentì improvvisamente in collera con se stesso per la sua incapacità di credere, in collera con la chiesa per non essere riuscita a fornirgli una migliore corazza contro il dubbio, in collera perché gli sembrava di aver sprecato la vita rincorrendo miti idioti. La sua ira si surriscaldò, raggiunse il punto di ebollizione, si trasformò in un bruciante vapore di rabbia. Un grido furioso gli eruppe dalla gola e scagliò il calice dall'altra parte dell'altare, mandandolo a sbattere contro una statua della Vergine, spruzzando vino tutt'attorno.
Kerry fece un salto indietro e nella navata un centinaio di persone trasalirono simultaneamente, ma quella reazione di sgomento non ebbe alcun effetto su padre Cronin. Con una rabbia che era la sua sola difesa contro una disperazione suicida, sbattè a terra con una manata la patena con le particoe per la comunione. Lanciando un altro grido, per metà di rabbia e per metà di dolore, si infilò una mano sotto la pianeta, si strappò la stola dal collo e la gettò in terra, poi volse le spalle all'altare e corse in sagrestia. Lì, la rabbia sfumò improvvisamente com'era arrivata; si fermò e rimase dov'era, barcollante, stordito. Era domenica, 1° dicembre. 7 Laguna Beach, California Quella prima domenica di dicembre Dom Corvaisis pranzò con Parker Faine sulla terrazza di Las Brisas a un tavolo con vista sul mare, riparato dal sole da un ombrellone. Il bel tempo reggeva bene quell'anno. Mentre la brezza portava loro le strida dei gabbiani, l'odore salmastro del mare e quello dolce dei gelsomini che crescevano lì vicino, Dominick raccontò a Parker ogni imbarazzante e angoscioso dettaglio della sua sempre più impegnativa battaglia contro il sonnambulismo. Parker Faine era il suo migliore amico, forse la sola persona al mondo con cui potesse aprirsi così, anche se in apparenza i due avevano ben poco in comune. Dom aveva un fisico atletico e slanciato; Parker, invece, era tarchiato e corpulento. Sempre ben rasato, Dom andava dal barbiere a tagliarsi i capelli ogni tre settimane; Parker aveva barba, capelli incolti e sopracciglia cespugliose. Sembrava un incrocio fra un lottatore professionista e un beatnik degli anni cinquanta. Dom beveva poco e si ubriacava facilmente, mentre la sete di Parker era leggendaria, e la sua capacità di reggere l'alcool prodigiosa. Dom era un solitario per natura, lento a fare amicizia; Parker aveva il dono di sembrare un vecchio amico un'ora dopo averlo conosciuto. Aveva cinquant'anni, quindici più di Dom, ed era ricco e famoso da quasi un quarto di secolo; si sentiva benissimo nei panni dell'uomo di successo, e proprio non riusciva a capire il disagio di Dom per il denaro e la notorietà che gli stavano arrivando grazie a Crepuscolo a Babilonia. A vederli adesso - Dom in calzoni sportivi e camicia a scacchi marrone e Parker in scarpe da tennis blu, sgualcitissimi calzoni bianchi di co-
tone e una camicia fiorata bianca e blu portata fuori della cintura - davano l'impressione di essersi vestiti per impegni del tutto differenti, di essersi incontrati fuori del ristorante per puro caso e di aver deciso sul momento di pranzare insieme. Ma nonostante fossero così diversi in tante cose, erano diventati grandi amici, perché sotto certi aspetti importanti si somigliavano. Erano entrambi artisti di notevole talento - Dom scrittore, Parker pittore - e benché Parker avesse maggiore facilità a fare nuove conoscenze, tutti e due davano un enorme valore all'amicizia. Si erano conosciuti sei anni prima, quando Parker si era trasferito in Oregon per diciotto mesi, in cerca di nuovi soggetti per una serie di paesaggi eseguiti nel suo personalissimo stile, che sposava con successo l'iperrealismo con un'immaginazione surreale. Durante la sua permanenza aveva accettato di tenere una lezione al mese all'Università di Portland, dove Dom aveva una posizione nel dipartimento d'inglese. Ora, mentre Parker mangiava di gusto nachos grondanti di guacamole e panna acida, Dom sorseggiava lentamente una Modelo Negra, raccontando delle sue avventure notturne. Quel mattino, per la quarta volta, si era svegliato dietro la caldaia in uno stato di puro terrore, e la sua continua incapacità di mantenere il controllo di sé lo aveva lasciato demoralizzato e del tutto privo di appetito. Non assaggiò neanche i nachos, e quando ebbe finito la sua storia aveva bevuto solo mezza bottiglia, perché anche la forte, scura birra messicana aveva un gusto poco gradevole quel giorno. Parker, dal canto suo, aveva buttato giù tre margarita doppi, e ne aveva già ordinato un quarto. Comunque, l'attenzione del pittore non era minimamente annebbiata dall'alcool. "Gesù, amico mio, ma perché non me ne hai parlato prima, settimane fa?" "Mi sentivo ridicolo." "Cazzate," commentò a voce bassa il pittore. Il cameriere messicano arrivò con il margarita di Parker e chiese se desiderassero ordinare il pranzo. "No, no. Il pranzo della domenica è una scusa per bere troppi margarita e io sono ben lontano dall'averne bevuti troppi. Che tristezza, ordinare il pranzo dopo appena quattro margarita! Questo ci lascerebbe il pomeriggio vuoto. Ci ritroveremmo per la strada senza niente con cui tenerci occupati, e allora senza dubbio finiremmo per metterci nei guai e attirare l'attenzione della polizia. Sa Dio cosa potrebbe accadere. No, no. Per evitare la galera e proteggere la nostra reputazione, non dobbiamo ordinare il pranzo prima delle tre. Anzi, guarda, portami un altro margarita. E ancora un po' di que-
sti magnifici nachos. E altra salsa, più piccante, se ne avete. E anche un piatto di cipolle tritate, per favore. E un'altra birra per il mio morigerato amico." "No," disse Dom. "Non ho ancora finito questa." "È appunto quel che intendo per 'morigerato', irrecuperabile puritano che non sei altro. Ormai sarà calda." La prorompente carica vitale di Parker Faine, il suo inesauribile, ribollente entusiasmo, per Dom erano sempre una sferzata d'energia. Normalmente sarebbe stato divertito dalla sua vigorosa performance; oggi, però, era troppo preoccupato. Mentre il cameriere si allontanava, una piccola nuvola passò davanti al sole e Parker riportò la sua attenzione su Dom, come se gli avesse letto nel pensiero, chinandosi verso di lui nell'ombra divenuta improvvisamente più buia. "Allora, vediamo di capirci qualcosa. Tu non pensi che il problema sia semplicemente correlato allo stress... alla pubblicazione del tuo libro?" "Lo pensavo. Ma ora non più. Voglio dire, se il problema fosse stato di lieve entità, potrei credere che ci siano dietro preoccupazioni di carriera. Ma, Gesù, le mie ansie per Crepuscolo non sono davvero tanto grandi da generare un comportamento così insolito, così ossessivo... così pazzesco. Ormai cammino quasi tutte le notti, e non è solo questo lo strano. La profondità della mia trance è incredibile. Pochi sonnambuli sono in un simile stato comatoso, e neppure compiono azioni complesse come le mie. Stavo tentando di inchiodare le finestre, capisci? E uno non tenta di inchiodare le finestre di casa solo per chiudere fuori le preoccupazioni per la sua carriera!" "Forse sei preoccupato per Crepuscolo più di quanto tu ti renda conto." "No. Non ha senso. Di fatto, visto che il nuovo libro continuava ad andare bene, le mie ansie per Crepuscolo hanno cominciato a sfumare. Onestamente, non puoi venirmi a dire che secondo te tutta questa follia notturna salta fuori da qualche incertezza sulla mia carriera." "No, non posso," riconobbe Parker. "Striscio in fondo a quegli armadi per nascondermi. E quando mi sveglio dietro la caldaia, quando sono ancora mezzo addormentato, ho la netta sensazione che qualcosa mi stia dando la caccia, e se mi trova mi ucciderà. Ieri mi sono svegliato urlando 'Sta' lontano! Sta' lontano!' E stamattina, il coltello..." "Coltello?" Parker trasalì. "Non mi avevi parlato di un coltello." "Mi sono svegliato ancora dietro la caldaia. Avevo un coltello da macel-
laio. L'ho preso dalla cucina mentre dormivo." "Per proteggerti? Da cosa?" "Da qualunque cosa... da chiunque mi stia dando la caccia." "E sarebbe?" Dom si strinse nelle spalle. "Non ne ho idea." "Questo non mi piace affatto. Avresti potuto ferirti, anche seriamente." "Non è questo che mi spaventa maggiormente." "No? E cosa, allora?" "Che potrei... potrei ferire qualcun altro." Faine lo guardò incredulo. "Vuoi dire... che potresti essere preso da un raptus omicida mentre dormi? Assurdo." Il pittore scolò il resto dei suo margarita. "Santo cielo, che idea melodrammatica! Rilassati, amico mio. Tu non sei il tipo dell'omicida." "Se è per questo, non pensavo di essere nemmeno il tipo del sonnambulo." "Oh, cazzate. C'è una spiegazione per questo. Tu non sei matto. I matti non dubitano mai della loro salute mentale." "Credo che dovrei consultare uno psichiatra. E fare dei test clinici." "I test clinici, sì. Ma lascia stare lo psichiatra. E una perdita di tempo. Tu non sei più nevrotico di quanto tu sia psicotico." Il cameriere tornò con altri nachos, salsa, cipolle, e un quinto margarita. Parker consegnò il bicchiere vuoto in cambio di quello pieno. "Mi domando se il tuo problema sia in qualche modo collegato al tuo cambiamento di due estati fa," disse, mettendo il guacamole e le cipolle sulle sfoglie di mais. "Quale cambiamento?" chiese Dom, perplesso. "Sai di cosa sto parlando. Quando ti ho conosciuto, sei anni fa, a Portland, eri un pallido e schivo lumacone, senza il minimo spirito d'avventura." "Lumacone?" "È vero, e lo sai. Avevi intelligenza e talento, ma ti faceva paura usarli. Avevi paura della competizione, del fallimento, del successo, della vita. Volevi solo tirare avanti senza farti notare. Vestivi senza uno stile, parlavi sottovoce, in modo quasi incomprensibile, evitavi in tutti i modi di attirare l'attenzione su di te. Ti eri rifugiato nel mondo accademico perché lì c'era meno competizione. Eri un timido coniglio rannicchiato nella sua tana sotto terra." "Ah, sì? Se ero così disgustoso, perché mai ti sei preso il disturbo di cer-
care la mia amicizia?" "Perché, zuccone che non sei altro, ho guardato oltre la tua ritrosia e la tua simulata banalità, attraverso la tua maschera scialba. Ho avvertito qualcosa di speciale in te, ne ho scorto dei barlumi. E questo che io faccio, sai. È questo che fa ogni bravo artista. Vedere quello che altri non possono." Parlando, Parker continuava ad abbuffarsi di nachos e guacamole con avidità quasi maniacale. "Certo che è stata dura snidarti dal tuo buco. Ricordi da quanto tempo ci conoscevamo, quando ti sei finalmente deciso a confidarmi di essere uno scrittore? Tre mesi!" "Be', a quell'epoca non ero realmente uno scrittore." "Avevi cassetti pieni di storie! Più di cento racconti brevi, e non uno che fosse stato sottoposto all'attenzione di un editore! Non solo perché avevi paura di un rifiuto: avevi paura anche che venissero accettati. Paura del successo. Per quanti mesi ho dovuto martellarti, per convincerti a mandarne un paio in lettura?" "Non ricordo." "Io sì. Ho dovuto spingerti, pregarti e insistere per sei mesi prima di farti capitolare. Io sono un tipo estremamente persuasivo, ma tu cominciavi a sembrarmi un caso disperato. E anche quando i tuoi racconti iniziarono a vendere, bastò che io ritornassi qui, lasciandoti di nuovo a te stesso, perché tu ti rintanassi ancora nel tuo buco." Dom non poté ribattere nulla, perché era tutto vero. Dopo aver lasciato l'Oregon ed essere tornato a Laguna Beach, Parker aveva continuato a incoraggiarlo con lettere e telefonate, ma non era stato sufficiente a motivarlo. Si era convinto di essere solo uno scrittore mediocre, sebbene più di venti dei suoi racconti fossero stati pubblicati in neanche un anno. Smise di inviare le sue novelle alle riviste e si fabbricò rapidamente un altro guscio per rimpiazzare quello che Parker lo aveva aiutato a infrangere. Aveva ancora l'impulso di scrivere, ma riprese l'abitudine di confinare le sue storie nell'ultimo cassetto della scrivania. Parker aveva continuato a spronarlo a scrivere un romanzo, ma lui era certo di avere troppo poco talento e autodisciplina per cimentarsi con un'impresa così grande e complessa. Era tornato alla sua piatta esistenza, cercando solo di passare inosservato. "Ma due estati fa hai subito una metamorfosi," riprese Parker, dopo aver tracannato il suo margarita. "Improvvisamente hai buttato all'aria la tua carriera di insegnante. Hai saltato il fosso e sei diventato uno scrittore a tempo pieno. Di punto in bianco, ti sei trasformato in un bohémien. Perché? Non sei mai stato chiaro su questo. Perché?"
Dominick aggrottò le sopracciglia, considerò la domanda per un momento e fu sorpreso di non averci mai pensato molto, prima d'ora. "Non lo so. Davvero non lo so." Mentre il sole californiano si riaffacciava da dietro le nuvole, bevve un sorso della sua birra e sospirò. Il posto che aveva all'università di Portland era solo provvisorio, così, quando gli era stato offerto un incarico permanente come insegnante di inglese e scrittura creativa al Mountainview College, nello Utah, aveva accettato, se non con entusiasmo, almeno con sollievo, perché per lui era importante avere delle garanzie. Era partito per lo Utah alla fine di giugno, con un piccolo rimorchio agganciato alla sua auto, carico per lo più di vestiti e libri, ed era arrivato a Mountainview verso la metà di luglio. "Quando lasciai Portland, quell'estate di due anni fa, ero contento delle mie nuove prospettive. Ma poi, all'ultimo momento... non so cosa fu, ma l'idea di riprendere il tipo di vita che avevo condotto fino ad allora mi fu insopportabile. Ero stanco di essere un coniglio, come dici tu." "Sì, ma come mai tutto a un tratto?" "Non lo so." "Devi avere qualche idea. Ci avrai pensato parecchio, no?" "Sarai sorpreso, ma non ci ho pensato parecchio." Dom volse gli occhi al mare per un lungo momento, guardando una dozzina di barche a vela e un grande yacht che si muovevano maestosamente lungo la costa. "Ho appena compreso quanto poco ci ho pensato. Strano... solitamente sono fin troppo autoanalitico." "Ah-ah!" esclamò Parker. "Sapevo di essere sulla pista giusta! Quindi i tuoi cambiamenti di allora sono in qualche modo collegati ai tuoi problemi di adesso. Andiamo avanti. Hai detto a quelli del Mountainview College che non volevi più il posto. E poi?" "Ho preso un piccolo appartamento in città. Non un granché, solo una camera più servizi, ma aveva una bella vista sulle montagne." "E hai deciso di vivere dei tuoi risparmi mentre scrivevi un romanzo, giusto?" "Non avevo molto in banca, ma sono sempre stato un tipo frugale." "Comportamento impulsivo. Rischioso. E per niente da te," osservò Parker. "Allora, perché lo hai fatto? Cosa ti aveva cambiato?" "Credo che l'insoddisfazione covasse dentro di me da molto tempo, e per quando arrivai a Mountainview aveva raggiunto un tale livello che fui costretto a cambiare." Parker si appoggiò contro lo schienale della sedia. "No, amico mio. De-
v'esserci dell'altro. Senti, tu stesso hai detto che quando sei partito da Portland eri contento come una pasqua delle tue prospettive a Mountainview. Ma quando sei arrivato là, non hai esitato a gettare tutto all'aria, trasferirti in una soffitta e rischiare di ridurti alla fame, in nome della tua arte. Che diavolo ti è successo durante quel lungo viaggio dall'Oregon allo Utah? Qualcosa deve averti dato un bello scossone, abbastanza forte per strapparti al tuo compiacimento." "Macché. E stato un viaggio del tutto tranquillo." "No. Qualcosa è successo, almeno dentro la tua testa." Dominick si strinse nelle spalle. "Per quel che ricordo, ero perfettamente rilassato. E il viaggio è stato piacevole. Me la sono presa comoda, guardavo il paesaggio..." "Amigo!" tuonò Parker, facendo sobbalzare il cameriere, che stava passando lì vicino. "Un margarita! E un'altra cerveza per il mio amico." "No, no," protestò Dom. "Io..." "Tu non hai ancora finito quella birra," lo interruppe Parker. "Lo so, lo so. Ma la finirai e ne berrai un'altra, e un po' per volta ti lascerai andare, e arriveremo in fondo a questa faccenda. Sono sicuro che le cause del tuo sonnambulismo siano da cercare nei fatti di quell'estate di due anni fa. Lo sai perché ne sono così sicuro? Te lo dico subito perché. Nessuno attraversa due crisi di personalità in due anni per ragioni totalmente slegate l'una dall'altra. Deve per forza esserci un nesso." Dom fece una smorfia. "Io questa non la definirei esattamente una crisi di personalità." "Ah, no?" Chinandosi in avanti, abbassando la testa arruffata, Parker mise nelle sue parole tutto il vigore della sua forte personalità. "Davvero non la definiresti una crisi, amico mio?" Dom sospirò. "Be'... sì. Forse potrei. Una crisi." Lasciarono Las Brisas nel tardo pomeriggio, senza essere arrivati ad alcuna risposta. Quella notte Dom andò a letta inquieto, domandandosi dove si sarebbe svegliato al mattino. E al mattino, più che svegliarsi, praticamente eruppe dal sonno con un grido lacerante e si ritrovò dentro un'oscurità totale, claustrofobica, invischiato in qualcosa di freddo, appiccicoso, strano, vivo. Scalciando, dimenandosi, tirando colpi alla cieca, riuscì a liberarsi e scappò a quattro zampe attraverso quel buio nauseante, pazzo di paura, finché andò a sbattere contro il muro. La stanza rimbombava di colpi e grida, una spaventosa caco-
fonia della quale non riusciva a identificare la fonte. Strisciò lungo la parete fino a raggiungere un angolo e lì, con le spalle al muro, si girò con gli occhi sbarrati verso la camera buia, certo che la vischiosa creatura gli sarebbe balzata addosso dalle tenebre. Cosa c'era con lui nella stanza? Il rumore si fece più forte: grida, colpi, uno schianto, altre grida. Ancora intontito dal sonno, i sensi distorti dall'isterismo e troppa adrenalina in circolo, Dom era convinto che la cosa dalla quale si era nascosto fino allora lo avesse infine raggiunto. Aveva cercato di sfuggirle dormendo in armadi e dietro la caldaia, ma quella notte non se l'era lasciato scappare: lo teneva in pugno; non poteva più nascondersi; era la fine. Dal buio, qualcuno o qualcosa gridò il suo nome, e Dom realizzò che qualcuno lo chiamava da un minuto o due, forse di più. "Dominick, rispondimi!" Un altro schianto, poi uno scricchiolio di legno infranto. Rannicchiato nell'angolo, Dom finalmente si svegliò del tutto. L'appiccicosa creatura non era reale. Apparteneva a un sogno. La voce che lo chiamava era quella di Parker Faine. Mentre i residui di terrore lasciati dal suo incubo si dissolvevano, un altro schianto, il più forte di tutti, generò una reazione a catena di distruzione, un frastuono che culminò con l'apertura di una porta e l'intrusione della luce nell'oscurità. Dom restò abbagliato per un momento; poi, strizzando gli occhi, vide la massiccia figura di Parker stagliata nel vano della porta contro la luce del corridoio. La porta era chiusa a chiave, e Parker aveva dovuto forzarla a spallate. "Dominick, stai bene?" Nel sonno, Dom non si era limitato a chiudersi a chiave in camera: vi si era barricato. Davanti alla porta erano ammassati il cassettone, i due comodini e la poltrona. "Solo un sogno. Un incubo." "Alla faccia dell'incubo," commentò Parker, entrando nella stanza. "Ti sentivo urlare fin dalla strada. Che accidenti stavi sognando?" "Non ricordo," rispose Dom, ancora rannicchiato nell'angolo, troppo esausto per alzarsi. "Sapessi che piacere vederti, Parker. Ma... che diamine ci fai qui?" Parker sbattè le palpebre. "Come che ci faccio? Mi hai telefonato non più di dieci minuti fa. Gridavi aiuto. Dicevi che loro erano qui e stavano per prenderti. Poi hai attaccato."
Dom si sentì avvampare per l'umiliazione. "Quindi mi hai davvero telefonato nel sonno," disse il pittore. "Lo immaginavo. Non sembravi nemmeno tu. Per un momento ho pensato di chiamare la polizia, ma sospettavo che il tuo sonnambulismo c'entrasse qualcosa." "Ho perso il controllo, Parker. Qualcosa si sta spezzando dentro di me." "Basta con queste idiozie. Non voglio più udire niente del genere." Dom si sentiva come un bambino avvilito. Dovette fare uno sforzo per non mettersi a piangere. "Che ore sono?" "Le quattro passate." Parker guardò verso il letto, e improvvisamente cambiò espressione. "Oh, Cristo. Questo non mi piace, amico. Non mi piace affatto." Appoggiandosi al muro, Dom si alzò sulle gambe malferme per vedere di cosa Parker stesse parlando, ma quando lo vide rimpianse di averlo fatto. Sul letto era disposto un arsenale: la sua automatica calibro 22 che di solito teneva nel comodino; tre diversi coltelli da macellaio; una mannaia; un martello; l'ascia che usava per spaccare la legna per il camino e che, per quanto ricordava, era nel garage. "Cosa ti aspettavi, un'invasione di russi? Cos'è che ti spaventa tanto, Dom?" "Non lo so. Qualcosa nei miei incubi." "Ma cosa sogni, insomma?" "Non lo so." "Non riesci a ricordare niente?" "No." Dom rabbrividì violentemente. Parker gli andò vicino, gli mise una mano sulla spalla. "Su, ora va' a farti una doccia e vestiti. Io vedrò di mettere insieme qualcosa per colazione. Okay? Poi... poi credo che sarebbe meglio fare un salto da quel tuo dottore, appena apre lo studio. Mi pare sia il caso che ti dia un'altra occhiata." Dom annuì. Era lunedì, 2 dicembre. 2 dicembre - 16 dicembre 1 Boston, Massachusetts
Viola Fletcher, una maestra di scuola elementare cinquantottenne, madre di due figlie e moglie felice, vivace e arguta, dalla risata contagiosa, adesso era silenziosa e immobile, distesa sul tavolo operatorio. La sua vita era nelle mani della dottoressa Weiss. Per la prima volta, Ginger aveva il ruolo di primo chirurgo in una difficile operazione. Dietro quel momento stavano anni di studio e un immenso bagaglio di sogni e speranze. Provava un senso di orgoglio misto a umiltà all'idea di quanta strada aveva fatto. E aveva una paura da star male. La paziente era stata anestetizzata e avvolta in freschi teli verdi. Del suo corpo non era visibile che la porzione del torso interessata dall'operazione, un riquadro di carne spennellato di tintura di iodio. Anche la sua faccia era nascosta sotto un telo sistemato a tenda, come ulteriore precauzione contro le conseguenze infettive della ferita che presto sarebbe stata praticata nell'addome. L'effetto finale era quello di una spersonalizzazione del paziente, e questo era un bene per il chirurgo, poiché gli risparmiava di vedere un volto umano trasformarsi in una maschera di morte se, per disgrazia, le cose si fossero messe al peggio. Alla destra di Ginger, Agatha Tandy, l'infermiera, era pronta con bisturi, divaricatori, pinze emostatiche e altri strumenti. Le varie infermiere, l'anestesista e la, sua assistente, tutti aspettavano l'inizio dell'operazione. George Hannaby stava dall'altra parte del tavolo, e la sua presenza era molto rassicurante. Ginger tese la mano destra, e Agatha vi mise un bisturi. Una sottile, brillante curva di luce sottolineava l'affilata lama dello strumento. Il registratore stereo di George stava su un tavolino nell'angolo, e gli amplificatori diffondevano le familiari note di Bach. Ginger esitò, la mano posata sulle linee tracciate sul torso della paziente, e respirò a fondo. Stava ricordando l'oftalmoscopio, i lucidi guanti neri... Comunque, per quanto terrificanti, quegli incidenti non avevano distrutto la sua sicurezza. Dopo l'ultimo attacco si era sempre sentita bene: forte, attenta, energica. Se avesse notato la minima debolezza o confusione mentale, avrebbe rinviato l'operazione. Del resto, non aveva studiato tanto, non aveva lavorato sette giorni la settimana per tutti quegli anni solo per gettare all'aria il suo futuro a causa di due aberranti momenti di isterismo dovuti al troppo stress. Tutto sarebbe andato bene, proprio bene. L'orologio alla parete segnava le sette e quarantadue. Ora di cominciare. Eseguì la prima incisione. Con pinze emostatiche, divaricatori, e un'impeccabile abilità che non mancava mai di sorprenderla, andò in profondità,
fendendo pelle, adipe e muscolo. Presto l'apertura fu larga abbastanza per accogliere sia le sue mani, sia quelle del suo assistente, George Hannaby, se ci fosse stato bisogno del suo aiuto. Le due infermiere ausiliarie si avvicinarono al tavolo, una per parte, presero le impugnature dei divaricatori e tirarono delicatamente indietro i bordi della ferita, separandone le pareti. Agatha Tandy, con un soffice panno assorbente, tamponò la fronte di Ginger, badando a evitare le lenti sporgenti dei suoi occhiali da chirurgo. Sopra la mascherina, gli occhi di George sorrisero. Lui non stava sudando. Eia raro che gli capitasse. Ginger chiuse rapidamente i vasi recisi e rimosse le pinze. Nei brevi intervalli tra i concerti di Bach e il silenzio alla fine del nastro, prima che venisse girato, i suoni più forti che si sentivano nella sala erano le sibilanti esalazioni e le gementi inalazioni del polmone artificiale che respirava per Viola Fletcher. La paziente non poteva respirare da sé, perché era paralizzata da un rilassatore muscolare derivato dal curaro. Benché totalmente meccanici, quei suoni avevano un che di angosciante, e certo non aiutavano Ginger a superare la sua apprensione. Quando era George a operare, l'atmosfera non era così pesante. Lui riusciva a scambiare battute con la sua équipe, allentando la tensione, senza tuttavia ridurre la concentrazione sul loro vitale compito. Ma Ginger semplicemente non poteva pretendere da se stessa una simile prestazione: sarebbe stato come giocare a pallacanestro, masticare chewing-gum e risolvere difficili problemi matematici allo stesso tempo. Completata l'escursione nel ventre, fece scorrere le mani lungo il colon e stabilì che era sano. Con compresse di garza umida fornite da Agatha, raccolse gli intestini, li sistemò sulle lame a spatola dei divaricatori e li affidò alle infermiere, che li tennero scostati dall'incisione, esponendo così l'aorta. Dal petto, l'aorta passava nell'addome attraverso il diaframma, correndo parallela alla colonna vertebrale. Immediatamente sopra l'inguine, si divideva nelle due arterie iliache che portavano alle arterie femorali nelle gambe. "Ecco qua," disse Ginger. "Un aneurisma. Proprio come nei raggi x." Come per confermare le sue parole, diede uno sguardo alle lastre della paziente fissate sullo schermo luminoso alla parete di fronte al tavolo operatorio. "Appena sopra la sella aortica." Agatha le tamponò la fronte. L'aneurisma, un cedimento della parete dell'aorta, aveva permesso all'ar-
teria di dilatarsi su entrambi i lati, formando un'estrusione a forma di manubrio, piena di sangue, che batteva come un secondo cuore. Questa condizione causava difficoltà nel deglutire, insufficienza respiratoria, forte tosse e dolori toracici; e se il vaso dilatato fosse scoppiato, la morte sarebbe sopraggiunta rapidamente. Mentre fissava l'aneurisma pulsante, Ginger fu sopraffatta da un senso di mistero quasi religioso, una profonda soggezione, come se fosse passata dal mondo reale in una sfera mistica, dove il significato stesso della vita le sarebbe stato presto svelato. La sua sensazione di potere, di trascendenza, scaturiva dalla comprensione del fatto che poteva combattere la morte che era in agguato in quel corpo, e vincere. Da un pacchetto sterile, Agatha aveva preso una sezione di aorta artificiale, un grosso tubo scanalato che si divideva in due tubi più piccoli, le arterie iliache, fatto interamente di dacron. Ginger la posizionò sull'incisione, ne regolò le dimensioni con un paio di piccole, affilate forbici e la restituì ad Agatha, la quale la mise in una vaschetta di acciaio inossidabile che già conteneva un po' del sangue della paziente, muovendola avanti e indietro perché si bagnasse completamente. Sarebbe rimasta immersa nel sangue finché si fosse coagulato un po'. Una volta installata, Ginger vi avrebbe fatto scorrere dentro un po' di sangue, lasciando che coagulasse un po', poi l'avrebbe svuotata prima di cucirla. Il sottile strato di sangue rappreso avrebbe aiutato a prevenire fuoriuscite, e col tempo il costante flusso sanguigno avrebbe formato una neointima, un nuovo rivestimento impermeabile praticamente indistinguibile da quello della vera arteria. La cosa sorprendente era che il vaso artificiale non costituiva soltanto un adeguato sostituto per la sezione d'aorta danneggiata, ma era perfino superiore a quello naturale; tra cinquecento anni, quando di Viola Fletcher non sarebbero rimaste che polvere e ossa sgretolate dal tempo, l'innesto di dacron sarebbe stato ancora intatto, ancora forte e flessibile. Agatha tamponò la fronte di Ginger. "Come ti senti?" domandò George. "Bene," rispose Ginger. "Tesa?" "Solo un po'," mentì lei. "È un autentico piacere guardarti lavorare, dottore." "Mi associo," disse una delle infermiere ausiliarie. "Anch'io," aggiunse l'altra. "Grazie," rispose Ginger, sorpresa e compiaciuta.
"Hai una certa grazia nell'operare," continuò George, "una leggerezza di tocco, una splendida sensibilità di mano e di occhiò che, mi dispiace doverlo dire, non è facile riscontrare nella nostra professione." Ginger sapeva che George Hannaby non dava mai voce a un complimento insincero. Era veramente fiero di lei! Si sentì sommersa da una calda ondata di emozione. Se fosse stata in qualunque altro posto le sarebbero venute le lacrime agli occhi, ma lì, nella sala operatoria, tenne a freno i suoi sentimenti. L'intensità della propria reazione a quelle parole le fece capire come lui avesse completamente assunto il ruolo di figura paterna nella sua vita: la sua lode le dava altrettanta soddisfazione che se fosse venuta dallo stesso Jacob Weiss. Da quel momento il suo stato d'animo migliorò notevolmente. L'inquietante possibilità di una crisi si allontanò lentamente dai suoi pensieri, e la maggiore sicurezza le permise di lavorare con ancora più grazia di prima. Niente poteva andare storto adesso. Controllò metodicamente il fluire del sangue attraverso l'aorta, esponendo e chiudendo temporaneamente tutti i vasi che si diramavano da essa, usando sottili lacci emostatici per quelli minori e pinze di varie dimensioni per le arterie più grandi, comprese quelle iliache e l'aorta stessa. In poco meno di un'ora, aveva fermato tutto il sangue che attraverso l'aorta arrivava alle gambe della paziente, e il pulsante aneurisma aveva cessato la sua derisoria imitazione del cuore. Con un piccolo bisturi, punse l'aneurisma; ne uscì un fiotto di sangue e l'aorta si sgonfiò. La aprì, incidendo lungo la parete anteriore. In quel momento la paziente si trovò senza un'aorta, più impotente e dipendente dal chirurgo che mai. Ora non si poteva più tornare indietro. Da questo punto in poi, l'operazione doveva essere condotta non solo con la maggiore attenzione, ma anche con la più prudente rapidità. Sull'equipe scese il silenzio. La poca conversazione che c'era stata fino a quel momento cessò del tutto. Il nastro di Bach era di nuovo finito, e nessuno si mosse per girarlo. Il tempo era scandito dai sibili e dai risucchi del polmone artificiale e dai bip-bip dell'elettrocardiografo. Ginger prese la sezione d'aorta in dacron dalla vaschetta d'acciaio e ne cucì la sommità all'arteria, usando un filo estremamente sottile. Poi, con la parte superiore innestata e quella inferiore chiusa da pinze emostatiche, colmò di sangue il vaso sintetico e lasciò che coagulasse ancora. Durante tutte queste fasi dell'operazione non era stato necessario che Agatha le asciugasse il sudore dalla fronte. Ginger sperava che George lo
avesse notato. Senza bisogno che le venisse detto che era di nuovo ora di sentire musica, l'infermiera libera rimise il nastro. Ginger aveva ancora ore di lavoro davanti a sé, ma proseguì senza sentire la minima stanchezza. Piegò indietro i teli verdi, scoprendo le cosce della paziente, e praticò altre due incisioni, al disotto delle pieghe inguinali. Pinzando e legando vasi, arrivò a esporre e separare le arterie femorali. Come aveva fatto prima con l'aorta, usò lacci sottili e una varietà di pinze per interrompere il flusso sanguigno attraverso quei campi vascolari, poi aprì entrambe le arterie dove sarebbero state cucite le estremità della biforcazione del vaso in dacron. Un paio di volte si sorprese a canticchiare seguendo la musica, e la facilità con cui ora lavorava dava da pensare che fosse stata un chirurgo già in una vita precedente, predestinata a questo lavoro. Tornando all'addome aperto, tolse le pinze dal fondo del vaso artificiale, lo svuotò, poi ne infilò le due diramazioni nella carne intatta, facendole passare oltre le pieghe inguinali, fino alle incisioni praticate nelle arterie femorali. Cucì le due estremità della forcella, ripristinò la circolazione nella rete vascolare e guardò con genuino piacere l'aorta riprendere a pulsare. Per venti minuti cercò falle e le chiuse, usando filo forte e sottile. Per altri cinque minuti guardò attentamente, in silenzio, il vaso trapiantato pulsare come qualunque normale, sana arteria, senza alcun segno di filtrazione cronica. "Ora di chiudere," annunciò infine. "Splendido lavoro," commentò George. Ginger era contenta che la sua faccia fosse nascosta dalla mascherina, perché doveva avere l'espressione del classico scemo che ride. Chiuse le incisioni nelle gambe della paziente. Prese gli intestini dalle infermiere, che erano chiaramente esauste e non vedevano l'ora di lasciare i divaricatori; li risistemò al loro posto, e di nuovo li percorse delicatamente con le dita per accertarsi che non ci fossero irregolarità. Non restava che rimettere in sede il tessuto muscolare e l'adipe, richiudendo strato dopo strato, e infine suturare l'incisione originale con forte filo nero. L'assistente dell'anestesista scoprì la faccia di Viola Fletcher. L'anestesista le tolse i cerotti dagli occhi, chiuse l'anestesia. L'infermiera spense il registratore, interrompendo il concerto di Bach a metà di un passaggio. Ginger guardò la donna: era pallida, ma non eccessivamente tirata. Aveva ancora la maschera del respiratore sulla faccia, ma stava ricevendo solo
una miscela di ossigeno. Le infermiere si allontanarono e si tolsero i guanti. Le palpebre di Viola Fletcher ebbero un fremito, e un gemito le uscì dalle labbra. "Mrs Fletcher?" la chiamò ad alta voce l'anestesista. La paziente non rispose. "Viola?" disse Ginger. "Viola, mi sente?" La donna non aprì gli occhi, ma benché fosse più addormentata che sveglia, le sue labbra si mossero. "Sì, dottore," rispose con voce impastata. Ginger accettò le congratulazioni dell'equipe e lasciò la sala operatoria con George. Mentre si toglievano i guanti, la mascherina e la cuffia, si sentiva come piena di elio, sul punto di sfuggire ai vincoli della forza di gravita. Ma a ogni passo verso i lavandini perdeva un po' di baldanza. Una tremenda stanchezza si impossessò di lei. Aveva le spalle e il collo indolenziti. La schiena le faceva male. Le sue gambe erano rigide, i piedi affaticati. "Mio Dio," disse, "sono a pezzi!" "Lo credo bene," replicò George. "Hai cominciato alle sette e mezzo, ed è quasi ora di pranzo. Un trapianto d'aorta è dannatamente debilitante." "Ti senti così anche tu, dopo averne fatto uno?" "Naturale." "Ma la stanchezza mi è piombata addosso così, all'improvviso... Lì dentro mi sentivo splendidamente. Avrei potuto andare avanti ancora per ore." "Lo so." George le rivolse un sorriso affettuoso e divertito. "Lì dentro, ti sentivi un dio. E un dio non è mai stanco." Cominciando a lavarsi le mani, Ginger si appoggiò stancamente contro il lavandino e si chinò un poco in avanti, così che si ritrovò a guardare dritto lo scarico, l'acqua che mulinava nel bacino di acciaio, la schiuma di sapone portata via dal vortice d'acqua, intorno e giù nello scarico, intorno e intorno e giù nello scarico, intorno e giù, giù, giù... Questa volta, il panico la prese ancora più inaspettatamente che da Bernstein's o nell'ufficio di George il mercoledì prima. In un istante la sua attenzione fu interamente concentrata sullo scarico, che a un tratto sembrava pulsare e farsi sempre più grande, come fosse stato vivo, un essere maligno. Lasciò cadere il sapone e, con un gemito di terrore, fece un balzo indietro, si scontrò con Agatha Tandy e diede un altro grido strozzato. Sentì vagamente George chiamare il suo nome, ma la sua figura stava svanendo come un'immagine cinematografica in dissolvenza alla quale si stesse sovrapponendo un primo piano di vapore, nuvole o nebbia, e non sembrava
più reale. Agatha Tandy, il corridoio, le porte, tutto stava svanendo, eccetto il lavandino, che sembrava diventare sempre più grande e solido, iperreale. Un senso di pericolo mortale calò su di lei. Ma non era che un normale lavandino, per l'amor di Dio; doveva restare aggrappata alla realtà, resistere alle forze che la spingevano verso il precipizio. Solo un lavandino. Solo un normale scarico. Solo... Corse via. Da ogni parte, la foschia si addensò attorno a lei, e Ginger perse la consapevolezza delle proprie azioni. La prima cosa di cui si rese conto fu la neve. Soffici fiocchi bianchi volteggiavano lievi davanti a lei, scendendo pigramente a terra. Alzò la testa, guardando oltre le torreggianti pareti dei vecchi edifici che aveva intorno, e vide uno squarcio rettangolare di basso cielo grigio. I cristalli di neve le imbiancarono i capelli e le sopracciglia e le si sciolsero sul viso, ma Ginger realizzò lentamente che le sue guance erano già bagnate di lacrime, e stava ancora piangendo sommessamente. Poi si rese conto del freddo. Ne sentiva i morsi sul viso, le filtrava attraverso il camice. Aveva le mani intirizzite, e tremava incontrollabilmente. Era acquattata in un angolo, le braccia strette intorno alle gambe piegate: una posizione di difesa e terrore. Il calore del suo corpo spillava attraverso ogni punto di contatto con l'asfalto gelido sotto dì lei e il muro di mattoni dietro la sua schiena, ma non aveva la forza né la volontà di alzarsi e tornare dentro. Con assoluta disperazione, ricordò di essersi fissata sullo scarico del lavandino, il folle panico, la collisione con Agatha Tandy, l'espressione allibita di George Hannaby. Poi nella sua memoria c'era un vuoto, ma immaginava di essere fuggita da pericoli immaginali, sconvolgendo i colleghi, e senza dubbio compromettendo irrimediabilmente la propria carriera. Premette più forte la schiena contro la parete di mattoni, desiderando che succhiasse il suo calore ancora più in fretta. Stava seduta in fondo a un vicolo cieco, un passaggio di servizio che conduceva nel cuore del complesso ospedaliero. Alla sua sinistra, doppie porte di metallo davano accesso alla stanza della caldaia, e oltre queste c'era l'uscita di sicurezza. Inevitabilmente, le tornò in mente l'aggressione subita durante il suo periodo d'internato a New York, all'uscita dal Columbia Presbyterian. Quella notte era stata trascinata in un vicolo molto simile a questo; ma allora, lei era stata padrona della situazione, vittoriosa, mentre adesso era una perdente, in netta discesa invece che in ascesa, debole e
smarrita. Percepiva una tetra ironia nel fatto di aver toccato il punto più basso della sua vita proprio in un posto come quello. Tutto lo studio, il lavoro e i sacrifici, tutte le speranze e i sogni erano stati vani. All'ultimo momento, con una brillante carriera praticamente in pugno, aveva tradito George, Jacob, Anna, e se stessa. Non poteva più negare l'evidenza: in lei c'era qualcosa che non andava, qualcosa di abbastanza grave da precluderle un futuro come chirurgo. Psicosi? Un tumore al cervello? O forse un aneurisma cerebrale? La porta dell'uscita di sicurezza si aprì di colpo con uno stridio di cardini non oliati e George Hannaby uscì nel vicolo, affannato. Camminava in fretta, incurante del rischio di scivolare sullo strato di neve fresca, ma come la vide si bloccò, scuro in volto, e Ginger pensò che si stesse rammaricando di tutto il tempo che le aveva dedicato, della particolare attenzione con cui l'aveva seguita. Lui aveva creduto in lei, ma adesso gli aveva dimostrato di essersi sbagliato. Aveva tradito la sua fiducia, anche se a causa di qualcosa che sfuggiva al suo controllo, e si sentiva spregevole per questo. Le venne da piangere ancora più forte. "Ginger?" George Hannaby era visibilmente scosso. "Ginger, cosa ti succede?" Lei riuscì a rispondergli solo con un disperato, involontario singhiozzo. Attraverso le lacrime, la figura di George le apparve tremula, sfocata. Avrebbe voluto che se ne andasse e la lasciasse a macerare nell'umiliazione. Non capiva di peggiorare le cose, stando lì a guardarla mentre era in quello stato? La neve adesso era più fitta. Altre persone apparvero nel vano della porta, ma lei non riuscì a identificarle. "Ginger, parlami, ti prego," la scongiurò George, avvicinandosi. "Che cosa c'è? Dimmelo. Dimmi cosa posso fare." Lei si morse il labbro, cercò di reprimere le lacrime, ma cominciò a singhiozzare ancora più forte. "Ho q-qualcosa c-che non va," disse con voce esile, rotta dal pianto. George si chinò di fronte a lei. "Cosa? Cos'è che non va?" "Non lo so." Lei era sempre riuscita a risolvere da sé qualsiasi problema le si presentasse. Lei era Ginger Weiss. Era diversa. Era una ragazza d'oro. Non sapeva come chiedere un aiuto di questo genere, a questo livello. "Qualunque cosa sia, possiamo risolverla," affermò George. "Mi stai ascoltando? Lo so quanto sei fiera della tua fiducia in te stessa. Mi sono
sempre mosso con cautela, perché so che non ti piace essere aiutata. Tu vuoi fare tutto da te. Ma questa volta non puoi cavartela da sola, né devi. Ci sono qua io, e tu ti appoggerai a me, che ti piaccia o no. Hai capito?" "Io... ho rovinato tutto. Ti ho deluso." Lui riuscì a trovare un piccolo sorriso. "Deluso? Tu? Impossibile, ragazza mia. Io e Rita abbiamo solo figli maschi, ma se avessimo avuto una figlia, l'avremmo voluta esattamente come te. Tu sei una donna speciale, dottoressa Weiss. Per me sarebbe un onore e un piacere se ora tu ti appoggiassi a me, come fossi davvero mia figlia, e mi permettessi di aiutarti, come se io fossi il padre che hai perso." Le tese una mano. Lei la prese e la strinse forte. Era lunedì, 2 dicembre. Molte settimane sarebbero passate prima che Ginger apprendesse che altre persone, in altri posti, tutte a lei sconosciute, stavano vivendo inquietanti variazioni del suo incubo. 2 Chicago, Illinois Alle otto e venti di mattina, giovedì 5 dicembre, padre Stefan Wycazik aveva celebrato la prima messa, fatto colazione, e ora si era ritirato nel suo studio nella casa parrocchiale per un'ultima tazza di caffè. Allontanandosi dalla scrivania, si fermò a guardare attraverso la grande portafinestra gli alberi spogli incrostati di neve nel cortile e cercò di non pensare ad alcun problema della parrocchia. Questo era un momento tutto per sé, ritagliato nella giornata, e ci teneva molto. Tuttavia, i suoi pensieri andarono inesorabilmente a padre Brendan Cronin, lo scandalo di St. Bernadette. Brendan Cronin, che aveva lanciato il calice. Non poteva capacitarsene. Era assurdo, totalmente assurdo, Padre Wycazik era quello che si poteva definire un prete d'assalto. Aveva trentadue anni di sacerdozio alle spalle, e prima che il cardinale lo assegnasse in permanenza alla parrocchia di St. Bernadette gli erano stati affidati gli incarichi più diversi e delicati, tanto che nella gerarchia dell'arcidiocesi veniva definito "l'asso nella manica di Sua Eminenza". Era stato affiancato a diversi preti che stavano attraversando crisi di vario genere, aiutandoli a rimettersi in carreggiata con la sua fede granitica, e aveva passato sei anni d'inferno in Vietnam, all'orfanotrofio di Nostra Signora della Misericordia a Saigon. Quando Saigon cadde, lui, il suo superiore e tredici
suore fuggirono con centoventisei bambini; nel massacro che seguì vi furono centinaia di migliaia di morti, ma anche di fronte a quella strage Stefan Wycazik non dubitò mai che centoventisei vite fossero un numero molto significativo, e non si lasciò mai prendere dallo sconforto. In tutta la sua vita sacerdotale, padre Wycazik non era mai stato sfiorato dal dubbio, e questo gli rendeva difficile capire perché, durante la prima messa della domenica precedente, la fede di padre Brendan Cronin si fosse dissolta così totalmente da spingerlo a scagliare il sacro calice dall'altra parte del presbiterio in un gesto di rabbia e disperazione. Di fronte a un centinaio di fedeli. Buon Dio. Ed era già una fortuna che non fosse successo durante una delle altre tre messe, alle quali c'era maggiore affluenza. Inizialmente, quando Brendan Cronin era arrivato a St. Bernadette, oltre un anno e mezzo prima, non gli era piaciuto molto. Per prima cosa aveva studiato al North American College di Roma, a detta di tutti la più prestigiosa istituzione educativa entro la giurisdizione ecclesiastica. Ma benché fosse un onore essere invitati a frequentarla, e chi ne usciva fosse considerato la crema del sacerdozio, spesso sfornava schizzinosi rammolliti, con un'opinione troppo alta di sé. Spesso queste persone sentivano che insegnare catechismo ai bambini era indegno di loro, uno spreco delle loro menti sottili, e trovavano le visite ai sofferenti un compito indicibilmente sgradevole dopo le glorie di Roma. In aggiunta alla macchia di aver studiato a Roma, padre Cronin era grasso. Be', non proprio grasso, ma certamente in carne, con una morbida faccia tonda e liquidi occhi verdi che, al primo incontro, sembravano denotare un animo indolente e forse facile alla corruzione. Padre Wycazik, invece, era un polacco dalla grossa struttura ossea, e nella sua famiglia non c'era mai stato un uomo grasso. I Wycazik discendevano da minatori emigrati dalla Polonia alla fine del secolo; arrivati negli Stati Uniti, si erano trovati occupazioni faticose in acciaierie, cave e cantieri e avevano formato famiglie numerose, che potevano essere mantenute solo sobbarcandosi lunghe ore di onesto lavoro, così non avevano avuto il tempo per ingrassare. Stefan era cresciuto con l'istintivo concetto che un vero uomo dovesse essere solido ma asciutto, con spalle larghe, collo grosso e giunture rese nodose dal duro lavoro. Ma con sua sorpresa, Brendan Cronin si era rivelato un volonteroso lavoratore. Non aveva acquisito alcuna presunzione durante i suoi studi a Roma. Era sveglio, di buon carattere, simpatico, e gli piaceva visitare i sofferenti, insegnare ai bambini e raccogliere fondi. Era il miglior curato che
padre Wycazik avesse avuto in diciotto anni. Era per questo che il suo exploit di domenica - e la perdita di fede che lo aveva provocato - lo aveva lasciato così interdetto. Naturalmente, a un altro livello, Stefan Wycazik si sentiva stimolato dalla necessità di ricondurre Brendan Cronin all'ovile. Aveva cominciato la sua carriera come aiuto ai sacerdoti in difficoltà, e adesso era stato ancora una volta chiamato a ricoprire quel ruolo. Questa nuova sfida lo riportava alla gioventù, rinnovando il suo slancio vitale. Ora, mentre beveva un altro sorso di caffè, sentì bussare alla porta dello studio. Volse lo sguardo all'orologio sulla mensola del camino. Era di bronzo dorato e mogano intarsiato, con un preciso movimento svizzero. Donato da un parrocchiano, era il solo oggetto elegante in una stanza che vantava un mobilio prettamente utilitario e piuttosto mal assortito, più una logora imitazione di tappeto persiano. Secondo l'orologio, erano le otto e trenta in punto. "Vieni avanti, Brendan," disse Stefan, girandosi verso la porta. Quando entrò nello studio, padre Brendan Cronin non appariva più sereno di domenica, lunedì, martedì e mercoledì, quando si erano incontrati in quella stessa stanza per discutere la sua crisi spirituale e cercare il modo di ristabilire la sua fede. Era così pallido che le lentiggini spiccavano come scintille sulla sua pelle, e per contrasto i capelli sembravano più rossi del solito. Il suo passo aveva perso l'elasticità. "Siediti, Brendan. Caffè?" "No, grazie." Brendan si lasciò cadere su una vecchia poltrona mezzo sfondata. Hai fatto una colazione come si deve? avrebbe voluto chiedergli Stefan. O hai solo buttato giù una fetta di pane tostato col caffè? Ma il suo curato aveva trent'anni, e non voleva sembrare una chioccia. "Hai letto quel che ti ho suggerito?" domandò invece. "Sì." Stefan aveva sollevato Brendan da tutti i doveri parrocchiali e gli aveva dato libri e saggi che argomentavano l'esistenza di Dio e la follia dell'ateismo da un punto di vista intellettuale. "E hai riflettuto su quello che hai letto," continuò Stefan. "Allora... hai trovato qualcosa che ti aiuti?" Brendan sospirò e scosse la testa. "Continui a pregare il Signore di guidarti?" "Sì. Senza risultato."
"Continui a cercare le radici di questo dubbio?" "Non ne trovo." Stefan era sempre più frustrato dalla taciturnità di padre Cronin, del tutto insolita per il giovane prete. Normalmente, Brendan era estroverso, loquace, ma da domenica si era chiuso in se stesso, e aveva cominciato a parlare piano, lentamente, e mai a lungo, come se ogni parola fosse denaro e lui uno spilorcio che lesinava il centesimo. "Ma non è possibile," insistette padre Wycazik. "Dev'esserci qualcosa da cui è nato questo dubbio, un seme, un principio." "Non so." La voce di Brendan era a malapena udibile. "So solo che c'è, ed è come se ci fosse sempre stato." "Ma non c'era: tu credevi! Hai detto che hai cominciato ad avvertirlo lo scorso agosto. Ma cos'è stato a farlo scattare? Dev'esserci stato un fatto preciso, o più d'uno, che ti ha indotto a riconsiderare la tua filosofia." Brendan esalò un flebile "No." Padre Wycazik avrebbe voluto gridare, scrollarlo, scuoterlo dalla sua cupa apatia. Invece disse pazientemente: "Molti ottimi preti sono stati travagliati da crisi spirituali. Perfino alcuni santi. Ma tutti avevano due cose in comune: la loro perdita di fede era un processo graduale, durato molti anni prima di sfociare in una crisi; e tutti potevano indicare specifici incidenti o osservazioni che l'avevano provocata. L'ingiusta morte di un bambino, per esempio. O una pia madre colpita dal cancro. Omicidio. Violenza. Perché Dio permette che esista il male? Perché la guerra? Le fonti del dubbio sono innumerevoli e, anche se la chiesa dà delle risposte, a volte la fredda dottrina è di poca consolazione. Brendan, il dubbio sorge sempre da precise contraddizioni tra il concetto della divina misericordia e la realtà dell'umana sofferenza." "Non nel mio caso." Gentile ma insistente, padre Wycazik continuò: "E il solo modo di vincere il dubbio è concentrarsi sulle contraddizioni che ti assillano e discuterne con una guida spirituale." "Nel mio caso, la fede mi è... mi è crollata sotto i piedi... tutto a un tratto... come un pavimento che sembrava perfettamente solido e invece era marcio." "Tu non rimugini su morti ingiuste, malattie, violenza, guerra? Come un pavimento marcio, eh? Un crollo improvviso?" "Esatto." "Cazzate!" disse Stefan, balzando in piedi.
L'esclamazione e il brusco movimento fecero sussultare padre Cronin. Alzò di scatto la testa, gli occhi sgranati per la sorpresa. "Cazzate," ripetè padre Wycazik, accompagnando la parola con un'espressione accigliata, poi voltò le spalle al suo curato. In parte intendeva provocare il giovane prete e costringerlo a uscire da quella specie di trance in cui lo aveva spinto l'autocommiserazione, ma in parte era realmente irritato dalla ostinazione di Brendan a trincerarsi dietro il suo sconforto, chiudendosi a riccio. Girato verso la finestra, i cui vetri scossi dal vento erano ornati da una trina di gelo, si rivolse al curato in tono reciso. "Prete convinto in agosto e ateo a dicembre, così, senza una ragione? Impossibile. Il tuo cambiamento ha per forza dei motivi, anche se li nascondi a te stesso; e finché non ti deciderai ad ammetterlo, ad affrontarli, rimarrai in questo stato penoso." Un silenzio di piombo calò nella stanza. Poi, il sordo ticchettio dell'orologio di bronzo e mogano. Infine, Brendan Cronin parlò. "Padre, non sia in collera con me, la prego. Io nutro tanto rispetto per lei e tengo talmente al nostro rapporto che la sua ira, oltre a tutto il resto, è troppo per me in questo momento." Compiaciuto di essere riuscito almeno a incrinare il guscio protettivo di Brendan col suo piccolo stratagemma, padre Wycazik si girò di nuovo verso di lui, poi gli andò vicino a rapidi passi. "Non sono in collera con te, Brendan," lo rassicurò, mettendogli una mano sulla spalla. "Preoccupato. Frustrato, perché non lasci che ti aiuti. Ma non in collera." Il giovane prete alzò lo sguardo. "Padre, mi creda, non c'è niente che io desideri più del suo aiuto per uscire da questa situazione. Ma sinceramente, il mio dubbio non nasce da alcuna delle cose che lei ha menzionato. Davvero non so da dove venga. Resta... be', un mistero." Stefan annuì, strinse la spalla di Brendan, poi tornò a sedersi dietro la scrivania e chiuse gli occhi per un momento, pensando. "Bene, Brendan, la tua incapacità di identificare la causa del crollo della tua fede indica che non è un problema intellettuale, quindi nessuna lettura ispiratrice ti sarà d'aiuto. Se è un problema psicologico, le radici sono nel tuo subconscio, in attesa di essere rivelate." Quando riaprì gli occhi, Stefan vide che il suo curato sembrava interessato all'ipotesi che si trattasse semplicemente di una disfunzione della sua psiche. Questo significava che Dio non aveva abbandonato Brendan, dopo tutto; Brendan aveva abbandonato Dio. Una responsabilità personale era molto più facile da affrontare dell'idea che Dio fosse irreale o avesse volta-
to la schiena. "Come saprai, il padre provinciale della Compagnia di Gesù per l'Illinois è Lee Kellog. Ma forse non sai che ha al suo servizio due psichiatri, gesuiti anche loro, che si occupano dei problemi mentali ed emotivi dei preti del nostro ordine. Potrei farti entrare in analisi con uno di questi psichiatri." "Davvero potrebbe?" Brendan si chinò in avanti. "Sì, in un secondo momento. Ma non subito. Se ti metti in analisi, il padre provinciale riporterà il tuo nome alla prefettura disciplinare, che comincerà a indagare sulle tue azioni dell'ultimo anno per vedere se hai violato qualcuno dei tuoi voti." "Ma io non..." "Lo so che tu non. Ma il lavoro del prefetto disciplinare consiste nell'essere sospettoso. La cosa peggiore è che, anche se la tua analisi portasse a una cura, il prefetto ti terrebbe d'occhio per anni, il che limiterebbe alquanto le tue possibilità. E sarebbe un peccato, padre Brendan, perché fino all'attuale congiuntura, ho sempre pensato a te come a un prete destinato ad arrivare lontano: monsignore, e forse più in alto ancora." "Oh, no. Certamente no. Non io," si schermì Brendan. "Sì, tu. E se superi questo problema, puoi ancora andare lontano. Ma una volta finito sul libro nero del prefetto, non saresti più ritenuto del tutto affidabile: nel migliore dei casi, arriveresti a diventare un semplice parroco, come me." Un sorriso guizzò agli angoli della bocca di Brendan. "Sarebbe un onore - e una vita ben spesa - se arrivassi a diventare come lei." "Ma tu puoi andare oltre ed essere di maggiore utilità alla chiesa. E sono convinto che ne avrai l'opportunità. Perciò voglio che tu mi dia tempo fino a Natale per aiutarti a trovare un modo per uscire da questo impiccio. Basta con i discorsi d'incoraggiamento. Basta con le discussioni sulla natura del bene e del male. Invece, metterò in pratica alcune delle mie teorie sui disturbi psicologici. Da me riceverai un trattamento dilettantistico, ma penso valga la pena di tentare. Solo fino a Natale. Poi, se il tuo malessere è ancora così grande, se non ci siamo avvicinati a una soluzione, ti metterò nelle mani di uno psichiatra gesuita. D'accordo?" "D'accordo," rispose Brendan. "Perfetto!" Padre Wycazik raddrizzò la schiena, fregandosi le mani come se si stesse accingendo a spaccare legna o a qualche altro vigoroso esercizio. "Abbiamo più di tre settimane a disposizione. Per la prima settimana, metterai da parte i tuoi abiti sacerdotali, vestirai in borghese e ti pre-
senterai al dottor James McMurtry, all'ospedale pediatrico St. Joseph. Lui provvederà a farti entrare nel personale dell'ospedale." "Come cappellano?" "Come inserviente: svuoterai padelle, cambierai i letti, tutto quel che ti viene richiesto. Solo il dottor McMurtry saprà che sei un prete." Brendan sbattè le palpebre. "Ma a che scopo?" "Lo capirai prima che la settimana sia finita," rispose allegramente Stefan. "E quando avrai capito perché ti ho mandato all'ospedale, avrai un'importante chiave per schiudere la tua psiche, una chiave che ti aprirà delle porte e ti permetterà di guardarti dentro; e forse allora vedrai la causa della perdita della tua fede e potrai combatterla." Brendan sembrò dubbioso. "Mi hai promesso tre settimane," gli ricordò padre Wycazik. "Sta bene." Brendan tastò inconsciamente il suo collare romano e sembrò turbato dal pensiero di toglierlo, il che era un buon segno. "Lascerai la casa parrocchiale fino a Natale. Ti darò del denaro per pagarti i pasti e una stanza d'albergo. Lavorerai e vivrai nel mondo reale, oltre il riparo della vita ecclesiastica. Ora, va' a cambiarti, prepara le valigie, poi torna da me. Io nel frattempo chiamerò il dottor McMurtry e prenderò gli accordi necessari." Con un sospiro, Brendan si alzò, andò alla porta. "C'è una cosa che forse avalla la teoria che il mio problema sia psicologico, e non intellettuale. Faccio degli strani sogni... anzi, sempre lo stesso sogno." v "Un sogno ricorrente. È molto freudiano." , "Da agosto in poi si è ripetuto molte volte al mese, ma questa settimana la frequenza è aumentata: tre volte negli ultimi quattro giorni. E un sogno breve che faccio più volte nella stessa notte. Breve, ma intenso. E brutto, anche. Vedo dei guanti neri." "Guanti neri?" Brendan fece una smorfia. "Mi trovo in uno strano posto. Non so dove. Sono disteso a letto, credo. Sembra che io sia... rinchiuso. Ho le braccia e le gambe immobilizzate. Vorrei muovermi, scappare da lì, ma non posso. La luce è fioca. Non vedo molto. Poi quelle mani..." "Mani coperte da guanti neri?" lo incalzò padre Wycazik. "Sì." Brendan rabbrividì. "Lucidi guanti neri. Di vinile o gomma. Aderenti e lucidi, non guanti normali." Lasciò andare la maniglia, fece due passi verso il centro della stanza e restò lì con le mani alzate davanti alla faccia, come se guardarle lo aiutasse a ricordare i particolari delle minac-
ciose mani nel sogno. "Non riesco a vedere a chi appartengono quelle mani. La mia vista ha qualcosa che non va. Posso vedere le mani... i guanti... ma solo fino ai polsi. Il resto è tutto sfocato." Dal modo casuale in cui aveva tirato in ballo il sogno, come fosse qualcosa di scarso rilievo, era chiaro che Brendan stava cercando di minimizzarne l'importanza. Tuttavia, la sua faccia era più pallida di prima, e c'era un vago ma inequivocabile fremito di paura nella sua voce. Una violenta raffica di vento fece tremare un vetro malfermo. "L'uomo con i guanti neri," indagò Stefan, "ti dice qualcosa?" "Non parla mai." Brendan rabbrividì di nuovo, abbassò le mani, le infilò in tasca. "Mi tocca. I guanti sono freddi, scivolosi." Sembrava che sentisse ancora quei guanti su di sé. Acutamente interessato, padre Wycazik si sporse in avanti sulla sedia. "E dove ti toccano, questi guanti?" Lo sguardo del giovane curato si fece vitreo. "Mi toccano... la faccia. La fronte. Le guance... il collo, il petto. Sono freddi. Mi toccano quasi dappertutto." "Non ti fanno male?" "No." "Ma tu hai paura di quei guanti, dell'uomo che li porta?" "Ne sono terrorizzato. Ma non so perché." "Indubbiamente un sogno freudiano." "Può darsi." "I sogni sono un modo in cui il subconscio invia messaggi alla sfera cosciente, e in questo caso è facile vedere significati simbolici in quei guanti neri. Le mani del diavolo che cercano di strapparti alla grazia divina. O le mani del tuo stesso dubbio. O potrebbero essere simboli di tentazioni, di peccati che ti lusingano." Brendan sembrò cupamente divertito da quelle ipotesi. "Specialmente peccati della carne, no? Dopo tutto, i guanti mi toccano." Tornò alla porta e mise la mano sulla maniglia, ma indugiò ancora. "Senta, le dirò una cosa strana. Questo sogno... sono abbastanza sicuro che non sia simbolico." Brendan lasciò scivolare lo sguardo da Stefan al logoro tappeto. "Penso che quelle mani guantate non rappresentino altro che mani guantate. Penso che... un tempo siano state reali." "Vuoi dire che una volta ti sei trovato in una situazione come quella del sogno?" "Non so," rispose Brendan, lo sguardo ancora fisso sul tappeto. "Forse
nella mia infanzia. Vede, questo potrebbe non avere niente a che fare con la mia crisi spirituale. Le due cose potrebbero essere - e probabilmente sono - irrelate." Stefan scosse la testa. " Due seri e insoliti disturbi che ti assillano contemporaneamente, e vorresti farmi credere che si tratta solo di una coincidenza? No, Brendan, dev'esserci una relazione. Ma dimmi, a quale punto della tua infanzia saresti stato minacciato da questa misteriosa figura con i guanti neri?" "Be', da bambino sono stato seriamente malato un paio di volte. Forse durante un attacco di febbre sono stato visitato da un dottore un po' rude, o che in qualche modo mi ha spaventato. E forse l'esperienza è stata così traumatica che l'ho rimossa, e adesso sta tornando a galla in questo sogno." "I dottori indossano guanti usa e getta di lattice bianco, non neri, di gomma o vinile." Il curato inspirò a fondo, sbuffò fuori l'aria. "Sì, ha ragione. Ma non riesco a togliermi la sensazione che il sogno non sia simbolico. È assurdo, suppongo, ma sono certo che quei guanti neri siano reali, reali come quella poltrona, come quei libri sullo scaffale." L'orologio sul camino battè le ore. Fuori, il sospiro del vento era diventato un ululato. "Inquietante." Stefan attraversò la stanza e battè una mano sulla spalla del curato. "Ma ti assicuro che ti sbagli. Il sogno è simbolico, ed è connesso alla tua perdita di fede. Le nere mani del dubbio. È il tuo subconscio che ti avverte di prepararti a una dura battaglia. Ma è una battaglia in cui non sei solo. Ci sono io al tuo fianco." "Grazie, padre." "E Dio. C'è anche lui con te." Padre Cronin annuì, ma non c'era convinzione sul suo volto o nell'atteggiamento abbattuto delle sue spalle. "Ora va' a fare le valigie," lo esortò padre Wycazik. "Non si troverà in difficoltà, senza di me?" "Ci saranno padre Gerrano e le sorelle della scuola ad aiutarmi. Su, vai." Quando Brendan fu uscito dallo studio, Stefan tornò alla scrivania. Guanti neri. Era solo un sogno, neppure troppo spaventoso nella sua essenza, eppure la voce di padre Cronin era stata così angosciata mentre ne parlava che aveva messo in ansia anche lui. Guanti neri. Dita insinuanti che uscivano dalla foschia, rivestite di lucida gomma nera.
Padre Wycazik aveva il presentimento che questa sarebbe stata una delle più difficili opere di salvataggio in cui si fosse mai imbarcato. Era giovedì, 5 dicembre. 3 Boston, Massachusetts Venerdì, quattro giorni dopo la catastrofica fuga seguita al trapianto d'aorta su Viola Fletcher, Ginger Weiss era ancora al Memorial Hospital in veste di paziente: George Hannaby, dopo averla portata via dal vicolo nevoso in cui aveva ripreso conoscenza, l'aveva fatta ricoverare per un'analisi approfondita. Per tre giorni era stata sottoposta a tutti gli esami del caso: elettroencefalogramma, raggi x del cranio, pneumoventricolografia, una puntura lombare, un angiogramma, e altro, ripetendo i vari test (ma fortunatamente non la puntura lombare) per maggiore sicurezza. Con le sofisticate apparecchiature e tecniche della moderna medicina, ricercarono nel suo tessuto cerebrale neoplasmi, masse cistiche, ascessi, grumi, aneurismi e formazioni benigne. Per un po' si concentrarono sulla possibilità di una patologia maligna dei nervi perineurali. Controllarono che non ci fosse una pressione intracraniale cronica. Analizzarono il fluido del prelievo spinale in cerca di proteine anormali, sangue cerebrale, una bassa percentuale di zucchero che indicasse un'infezione batterica, o segni di un'infezione micotica. Erano medici che si impegnavano a fondo per ogni paziente, ma dal momento che Ginger era una loro collega, i dottori furono diligenti, coscienziosi, scrupolosi e fermamente determinati a individuare la causa del suo problema. Alle due di venerdì pomeriggio, George Hannaby andò nella sua stanza con gli esiti dell'ultimo ciclo di esami e i referti dei medici consultati per la diagnosi finale. Il fatto che fosse venuto lui di persona, invece di lasciare che fossero l'oncologo o lo specialista di malattie cerebrali che si stavano occupando del caso a portarle le novità, molto probabilmente significava che queste erano cattive, e per una volta Ginger non fu affatto contenta di vederlo. Era seduta a letto, con indosso il pigiama azzurro che Rita, la moglie di George, era stata tanto gentile da andarle a prendere (insieme ad altre cose necessarie per il suo periodo di degenza) nell'appartamento di Beacon Hill. Stava leggendo un mystery in edizione economica, fingendosi sicura che le
sue crisi fossero causate da qualche malattia facilmente curabile, anche se in realtà era spaventatissima. Ma quel che George aveva da dirle le fece rapidamente perdere la sua compostezza: in un certo senso, era peggio di qualunque cosa alla quale si fosse preparata. Non avevano trovato niente. Nessuna malattia. Nessuna lesione. Nessun difetto congenito. Niente. Mentre George le annunciava solennemente il verdetto, chiarendole che le sue fughe non avevano una discernibile causa patologica, Ginger perse il controllo delle proprie emozioni per la prima volta da quando era scoppiata in lacrime nel vicolo. Pianse, non rumorosamente, non copiosamente, ma sommessamente e con enorme angoscia. Un disturbo fisico avrebbe potuto essere corretto. E una volta curato, non le avrebbe impedito di tornare alla sua carriera di chirurgo. Ma i risultati degli esami e le opinioni degli specialisti confluivano in un messaggio intollerabile: il problema era tutto nella sua mente, una malattia psicologica al di là della portata di interventi chirurgici o farmaci. Quando un paziente soffriva di fughe ripetute di cui non si riusciva a trovare alcuna causa fisiologica, la sola speranza di porre fine alla crisi era la psicoterapia, ma anche i migliori psichiatri non potevano assicurare la guarigione. Di fatto, una fuga era spesso un'indicazione di schizofrenia incipiente. Le probabilità di un eventuale ricovero erano paurosamente superiori a quelle di riuscire a condurre una esistenza normale. A un passo dal coronamento del suo sogno di sempre, la sua vita era andata in frantumi, come un bicchiere di cristallo colpito da un proiettile. Anche se la sua condizione non fosse stata così estrema, anche se la psicoterapia le avesse dato la possibilità di controllare i suoi strani attacchi, non avrebbe mai ottenuto la licenza di esercitare la professione medica. George prese dei kleenex dalla scatola sul comodino e glieli porse. Le offrì un bicchier d'acqua e, ignorando le sue proteste, le fece prendere un Valium. Tenendole la mano, le parlò a bassa voce, in tono rassicurante. Gradualmente, riuscì a calmarla. "Ma George," disse Ginger, quando riuscì a parlare, "io non sono cresciuta in un'atmosfera psicologicamente distruttiva. La nostra famiglia era felice, unita. E certamente ho avuto più della mia parte di amore e attenzioni. Non ho subito abusi fisici, mentali o emotivi." Con un gesto rabbioso, prese la scatola di kleenex dal comodino, ne strappò una manciata di fazzolettini. "Perché io? Come ho potuto io, col mio retroterra, sviluppare
una psicosi? Come? Con la mia madre fantastica, il mio meraviglioso papà, da dove è saltato fuori un disturbo mentale del genere? Non è giusto. Non è nemmeno credibile." Lui si sedette sul bordo del letto. "Per prima cosa, dottore, a detta degli specialisti c'è una scuola di pensiero secondo la quale molte malattie mentali sono il risultato di sottili cambiamenti chimici nel corpo, nel tessuto cerebrale, cambiamenti che non siamo ancora abbastanza in grado di individuare o capire. Quindi, non è affatto detto che tu sia stata rovinata dalla tua infanzia, e non è il caso che tu metta in discussione la tua intera vita per colpa di questo problema. Secondo, non sono per niente convinto che il tuo disturbo sia della gravita di una psicosi debilitante." "Oh, George, non minimizzare, ti prego." "Minimizzare con un paziente? Io?" ribattè George, come se non avesse mai sentito niente di più ridicolo. "Non sto semplicemente cercando di sollevarti il morale. Se lo dico, è perché lo penso. Certo, non abbiamo trovato una causa fisica, ma questo non significa che non esista. Potresti avere qualcosa in una fase non sufficientemente avanzata per essere individuabile. Tra un paio di settimane, o un mese, o appena dovesse esserci un peggioramento, svolgeremo altre indagini, e sono pronto a scommettere tutto quello che ho che alla fine riusciremo a centrare il problema." Ginger si concesse un po' di speranza. "Pensi davvero che potrebbe essere così? Un tumore o un ascesso così piccolo che ancora non si vede?" "Certo. Trovo che sia molto più verosimile dell'idea che tu sia psicologicamente disturbata. Figuriamoci. Tu sei una delle persone più equilibrate che io conosca. E non posso accettare che tu sia psicotica o anche psiconevrotica, se non dai alcun segno di comportamento anomalo tra una fuga e l'altra. Voglio dire, una seria malattia mentale non si esterna in piccoli episodi circoscritti: investe l'intera vita del paziente." Questo Ginger non lo aveva considerato. Mentre rifletteva sulle parole di George, si sentì un po' meglio, anche se non esageratamente ottimista e di sicuro non felice. Certo, sembrava assurdo sperare di avere un tumore al cervello; ma un tumore poteva essere asportato, forse senza danneggiare troppo i tessuti cerebrali. La pazzia, invece, non rispondeva ad alcun bisturi. "Il prossimo periodo sarà probabilmente il più difficile della tua vita," la avvertì George. "L'attesa." "Suppongo che sarò sospesa dal lavoro." "Sì. Ma se stai abbastanza bene, non vedo perché non potresti darmi una
mano nel lavoro in studio." "E se mi prendesse uno di quegli attacchi?" "Ci sarei io con te, a impedirti di farti male finché è passato." "Ma cosa penserebbero i tuoi pazienti? Per te non sarebbe esattamente una buona pubblicità avere un'assistente che a un tratto si trasforma in una meshuggene e si mette a correre urlando per l'ufficio." Lui sorrise. "Lascia che sia io a preoccuparmi di quel che pensano i miei pazienti. A ogni modo, non è una cosa di subito. Adesso, almeno per una settimana o due, devi prendertela con calma. Niente lavoro. Relax. Riposo. Questi ultimi giorni per te sono stati estenuanti, fisicamente ed emotivamente." "Estenuanti? Ma se non ho fatto che starmene a letto." "Sarai anche stata a letto tutta la settimana, ma questo non toglie che sia stata un'esperienza debilitante. Hai bisogno di riprenderti. Voglio che tu venga a stare da me per le prossime settimane." "Cosa? Non posso dare un simile disturbo a te e a Rita." "Ma quale disturbo. Abbiamo una cameriera fissa, così non dovrai neanche rifarti il letto al mattino. Dalla finestra della camera degli ospiti avrai una bella vista sulla baia. Vivere vicino all'acqua esercita un effetto calmante. Mi sembra l'ideale per te in questo momento." "No. Davvero. Ti ringrazio, ma non posso accettare." George si accigliò. "Tu non capisci. Io non sono solo il tuo capo, ma anche il tuo medico, e ti sto dicendo cosa devi fare." "Ma io starò benissimo nel mio appartamento." "No," replicò lui con fermezza. "Pensaci un momento. Supponi che ti prenda una crisi mentre stai facendo da mangiare. Potresti rovesciare una pentola sui fornelli e causare una fuga di gas, o un incendio; non te ne accorgeresti nemmeno, finché la crisi è passata, e allora potrebbe essere troppo tardi. E questo è solo uno dei tanti incidenti che potrebbero verificarsi. Quindi, insisto che tu non viva da sola, almeno per un po'. Se non vuoi stare con me e Rita, hai dei parenti da cui andare?" "Non a Boston. Ci sarebbero i miei zii di New York..." Ma Ginger non poteva andare dai suoi parenti. Naturalmente, sarebbero stati felici di averla con loro, specialmente zia Francine e zia Rachel. Però non voleva che la vedessero nelle sue attuali condizioni, e il pensiero di essere colta da una crisi davanti a loro era intollerabile. Poteva quasi vedere Francine e Rachel, sedute al tavolo di cucina, parlare a bassa voce e scrollare la testa: "Dove hanno sbagliato Jacob e Anna? Che abbiano preteso
troppo da lei? Anna l'ha sempre spronata troppo. E quando Anna è morta, Jacob ha fatto troppo assegnamento sulla ragazza. Aveva appena dodici anni e si è trovata sulle spalle un carico di responsabilità più grande di lei." Ginger avrebbe ricevuto tanta compassione, comprensione e amore da loro, ma col rischio di infangare la memoria dei suoi genitori, una memoria che lei era ben decisa a onorare, sempre. Guardò George, che era ancora seduto sul bordo del letto, in attesa della sua risposta, e la sua palese preoccupazione per lei la toccò profondamente. "Prenderò la stanza degli ospiti con vista sulla baia." "Splendido!" "Aspetta a dirlo. Approfitterò sfacciatamente della vostra ospitalità, e ti avverto: se mi piace davvero, potresti non riuscire più a liberarti di me. Ti accorgerai di esserti inguaiato se un giorno torni a casa e scopri che ho chiamato gli operai a ridipingere le pareti." "Al primo accenno a pittori o affini ti butteremo fuori a pedate." George la baciò lievemente sulla guancia, si alzò e andò alla porta. "Telefono subito a Rita per farti venire a prendere. Sono sicuro che ne uscirai, ma devi mantenere un atteggiamento mentale positivo." Appena lui ebbe lasciato la stanza e i suoi passi si furono persi lungo il corridoio, Ginger smise di sforzarsi di sorridere e, lasciandosi ricadere contro i cuscini, rimase a fissare il soffitto, imbronciata. Dopo un po' si alzò e andò nell'adiacente stanza da bagno. Si avvicinò al lavandino con trepidazione, esitò un istante, poi aprì l'acqua e la guardò scendere a mulinello nello scarico. Lunedì, dopo aver eseguito con successo il trapianto d'aorta su Viola Fletcher, era stata presa dal panico alla vista di un gorgo d'acqua in uno scarico, ma non riusciva a immaginare perché. Dannazione, perché? Voleva capirlo, disperatamente. Si sentiva un'invalida. Si sentiva persa. Era venerdì, 6 dicembre. 4 Laguna Beach, California Quando Dom andò dal suo medico, la mattina di lunedì 2 dicembre, accompagnato da Parker Faine, il dottor Cobletz non prescrisse esami immediati, perché solo di recente aveva visitato accuratamente Dom senza riscontrare alcun segno di disturbi fisici. Aveva assicurato che c'erano altre
cure da tentare, prima di saltare alla conclusione che la causa delle imprese notturne dello scrittore fosse un disturbo cerebrale. Dopo la precedente visita a Dom, il 23 novembre, era stato incuriosito dal fenomeno del sonnambulismo e aveva fatto qualche lettura sull'argomento. Generalmente, negli adulti il disturbo era di breve durata; tuttavia, in alcuni casi, c'era il rischio che diventasse abituale, e nelle sue forme più serie aveva molto in comune con gli inflessibili, ossessivi schemi di comportamento dei peggiori nevrotici. Una volta divenuto abituale, il sonnambulismo era molto più difficile da curare, e poteva trasformarsi nel fattore dominante della vita del paziente, generando paura del sonno e della notte, provocando un profondo senso di impotenza culminante in più seri disturbi emotivi. Dom si sentiva già in quella zona pericolosa. Bastava pensare alla barricata che aveva innalzato davanti alla porta della sua stanza, all'arsenale sul suo letto. Il dottor Cobletz, interessato ma non allarmato, aveva rassicurato Dom e Parker che, nella maggioranza dei casi di persistente sonnambulismo, la catena poteva essere spezzata con la somministrazione di un sedativo prima di dormire. Una volta trascorsa qualche notte tranquilla, il paziente di solito era guarito. In casi cronici, il sedativo serale si poteva aggiungere a un farmaco a base di diazepam durante il giorno, quando il paziente era afflitto dall'ansia. Poiché le imprese che Dominick intraprendeva nel sonno erano singolarmente impegnative per un sonnambulo, il dottor Cobletz gli prescrisse sia del Valium durante il giorno, sia una compressa da quindici milligrammi di Dalmane ogni sera appena prima di andare a letto. Durante il viaggio di ritorno da Newport, dove il dottor Cobletz aveva il suo studio, col mare sulla destra e le colline sulla sinistra, Parker osservò che, fino a quando il sonnambulismo non fosse cessato, non era saggio che Dom continuasse a vivere da solo. Chino sul volante della sua Volvo, il barbuto artista guidava veloce, aggressivamente ma non spericolatamente. Di rado distoglieva lo sguardo dalla Pacific Coast Highway, eppure dava l'impressione, con la mera forza della sua personalità, che i suoi occhi e la sua attenzione fossero costantemente puntati su Dom. "Da me c'è un sacco di posto. Potrei tenerti d'occhio. Bada, non intendo assillarti. Non ti farò da balia. Ma almeno ci sarò. E avremo tutto il tempo di parlare di questa storia a quattrocchi, sviscerarla e cercare di capire in che modo il tuo sonnambulismo è collegato alla tua trasformazione di due estati fa. Io sono indiscutibilmente il tipo giusto per aiutarti. Se non fossi
diventato un dannato pittore, sarei diventato un dannato psichiatra, puoi scommetterci. So convincere la gente a parlare di sé. Allora, ci stai a venire da me per un po' e a lasciarmi giocare all'analista?" Dom rifiutò. Voleva stare a casa sua, da solo, perché gli sembrava che fare diversamente avrebbe significato ritirarsi nella stessa tana di coniglio in cui si era nascosto dalla vita per così tanti anni. Il mutamento che era avvenuto in lui durante il suo viaggio a Mountainview, Utah, due estati prima, era stato clamoroso, inesplicabile, ma positivo. A trentatré anni, aveva finalmente preso in mano le redini della sua vita, avventurandosi in un nuovo territorio. Gli piaceva l'uomo che era diventato, e non c'era niente che temesse di più che scivolare di nuovo nella grigia esistenza di prima. Forse il suo sonnambulismo aveva a che fare con quel cambiamento, come sosteneva Parker, ma Dom aveva i suoi dubbi che il legame fosse misterioso o complesso. Con ogni probabilità, il nesso tra le due crisi di personalità era semplice: il sonnambulismo era una scusa per ritirarsi dalle sfide, le emozioni e lo stress della sua nuova vita, e questo era inammissibile. Dom doveva vincere questa cosa da solo: avrebbe preso il Valium e il Dalmane, come aveva prescritto il dottor Cobletz, ma sarebbe rimasto a casa sua. Questo era quanto aveva deciso lunedì mattina, sulla Volvo, e sabato, il 7 dicembre, sembrava che avesse fatto la scelta giusta. Certi giorni aveva bisogno di un Valium, certi giorni no. Ogni sera prendeva una compressa di Dalmane con latte o cioccolata calda. Il sonnambulismo cominciò a disturbare le sue notti con minore frequenza. Prima di iniziare la terapia, aveva crisi tutte le notti, ma nelle ultime cinque notti gli era capitato appena due volte, mercoledì e venerdì, quando aveva lasciato il letto soltanto verso l'alba. Inoltre, le sue attività nel sonno erano molto meno bizzarre e inquietanti di prima. Non raccoglieva più armi, né erigeva barricate o tentava di inchiodare le finestre. In entrambe le occasioni, si limitò a disertare il suo comodo materasso per trasferirsi in fondo all'armadio, svegliandosi indolenzito e impaurito da qualche ignota minaccia. Grazie a Dio, sembrava che il peggio fosse passato. Giovedì era tornato a lavorare al nuovo romanzo, riprendendolo da dove lo aveva lasciato settimane prima. Poi, sabato, ci fu un nuovo sviluppo, qualcosa che avrebbe potuto essere considerato sia in positivo sia in negativo. Tutte le volte che aveva avuto una crisi di sonnambulismo, Dom era stato incapace di ricordare anche il
più piccolo dettaglio degli incubi che lo spingevano ad alzarsi dal letto. Sabato fece un sogno terrificante, incredibilmente vivido, che lo spinse a fuggire per casa in preda al panico; ma questa volta al risveglio ne ricordò una parte, non molto, ma almeno la fine. Nell'ultimo paio di minuti del sogno, si trovava in una stanza da bagno. Era tutto sfocato. Un uomo che non vedeva lo spingeva contro un lavandino, costringendolo a piegarsi fino ad arrivare con la faccia nel bacino di porcellana. Qualcuno lo cingeva con un braccio per sorreggerlo, perché era troppo debole per stare in piedi da solo. Si sentiva uno straccio, gli tremavano le ginocchia, lo stomaco gli si torceva. Un'altra persona gli teneva giù la testa con entrambe le mani. Non poteva parlare. Non poteva tirare il fiato. Sapeva che stava morendo. Doveva andarsene da quella gente, da quella stanza, ma non aveva le risorse fisiche per fuggire. Nonostante la vista offuscata, poteva vedere in ogni dettaglio la levigata porcellana e il bordo cromato dello scarico, perché la sua faccia era vicinissima al fondo del lavandino. Era uno scarico antiquato, senza un meccanismo di otturazione. Il tappo di gomma era stato tolto, e l'acqua correva, mulinando sul fondo del lavandino, intorno, intorno e giù nello scarico, intorno e giù. Le due persone che lo tenevano stavano gridando, ma lui non riusciva a capirle. Intorno e giù... intorno... Fissando come ipnotizzato il gorgo in miniatura, cominciò a sentirsi terrorizzato dallo scarico che si apriva davanti ai suoi occhi e che sembrava volerlo risucchiare. Improvvisamente ebbe la certezza che i due sconosciuti volevano sbarazzarsi di lui ficcandolo nello scarico. Doveva esserci un congegno per l'eliminazione dei rifiuti là dentro, qualcosa che lo avrebbe fatto a pezzi e trascinato via... Si svegliò gridando. Era nella sua stanza da bagno. Aveva avuto un altro attacco. Era chinato sul lavandino, e stava urlando nello scarico. Fece un balzo indietro, vacillò, quasi cadde nella vasca, ma riuscì ad aggrapparsi a un portasciugamani. Affannato, tremante, finalmente riuscì a trovare il coraggio di tornare al lavandino e guardarvi dentro. Lucida porcellana bianca. Uno scarico col bordo di ottone e un otturatore a cupola, anch'esso di ottone. Nient'altro, niente di peggio. La stanza del suo incubo non era questa. Dominick si lavò la faccia e tornò in camera da letto. La sveglia sul comodino faceva le due e venticinque. Benché non sembrasse avere senso, né un nesso simbolico o reale con la
sua vita, l'incubo lo aveva profondamente turbato. Comunque, non aveva inchiodato finestre o raccolto armi; era stata solo una ricaduta di scarsa gravita. Anzi, poteva anche essere un segno di miglioramento. Se fosse riuscito a ricordare i suoi sogni, non solo brandelli, ma dall'inizio alla fine, avrebbe potuto scoprire la fonte dell'ansia che aveva fatto di lui un sonnambulo. Conoscendo la causa del problema, gli sarebbe stato più facile affrontarlo. A ogni modo, non se la sentiva di tornare a letto e rischiare di trovarsi di nuovo nello strano posto che aveva sognato. La boccetta di Dalmane era nel primo cassetto del comodino. Non avrebbe dovuto prenderne più di una compressa per sera, ma certamente un occasionale strappo alla regola non poteva nuocere. Andò al mobile bar del salotto e si versò del Chivas Regal. Con mano tremante, si mise la pillola in bocca, la mandò giù col Chivas e tornò a letto. Stava migliorando. Presto il sonnambulismo sarebbe cessato. Nel giro di una settimana, tutto sarebbe tornato alla normalità. Di lì a un mese tutto questo gli sarebbe sembrato una curiosa aberrazione e si sarebbe domandato come avesse potuto lasciarsi condizionare da una cosa simile. Precariamente in bilico sul malfermo filo di coscienza sospeso sull'abisso del sonno, cominciò a perdere l'equilibrio. Era una sensazione piacevole, un dolce scivolar via. Ma mentre sprofondava nel sonno, sentì la propria voce mormorare qualcosa nell'oscurità della stanza, e quel che disse era così strano da farlo trasalire e suscitare il suo interesse nonostante il Dalmane e il whisky continuassero inesorabilmente a fare effetto. "La luna," sussurrò con voce impastata. "La luna, la luna." Si domandò cosa mai questo potesse voler dire, e cercò di respingere il sonno almeno abbastanza a lungo per riflettere sulle sue parole. La luna? "La luna," bisbigliò ancora, poi precipitò nell'incoscienza. Erano le tre e undici di domenica, 8 dicembre. 5 New York, New York All'una di domenica pomeriggio, in un rispettabile quartiere dell'East Side, Jack Twist parcheggiò la sua Camaro nel garage sotto la clinica privata e prese l'ascensore per salire in portineria. Al bancone, firmò e rice-
vette un lasciapassare per andare a far visita a una donna morta che ancora respirava. Il posto non si sarebbe detto un ospedale. La zona pubblica era arredata con gusto in stile art déco, in tema con l'epoca dell'edificio. C'erano due piccoli Erté originali, divani, una poltrona, tavolini su cui erano ordinatamente disposte varie riviste, e tutto il mobilio era anni venti. Era troppo lussuoso. Gli Erté non erano necessari. Era evidente che poi risparmiavano da altre parti. Ma la direzione riteneva che l'immagine fosse importante per continuare ad attrarre clientela d'alto bordo e mantenere il profitto annuale intorno al cento per cento. I pazienti erano di tutti i tipi schizofrenici catatonici di mezza età, bambini autistici, comatosi a lungo termine, giovani e vecchi - ma tutti avevano due cose in comune: le loro condizioni erano croniche piuttosto che acute, e provenivano da famiglie benestanti che potevano permettersi di pagare le migliori cure. Quando ci pensava, Jack finiva inevitabilmente per infuriarsi all'idea che in tutta la città non esistesse una struttura che prendesse in custodia cerebrolesi gravi o malati mentali a un prezzo ragionevole. Nonostante tutto il denaro che entrava con le tasse, le istituzioni di New York, come le pubbliche istituzioni di qualunque altro posto, erano uno scherzo macabro che i cittadini erano costretti ad accettare per mancanza di alternative. Se non fosse stato un ladro abile e ingegnoso, Jack non avrebbe mai potuto pagare l'esorbitante quota mensile richiesta dalla clinica. Fortunatamente, lui aveva un vero talento per il furto. Col suo lasciapassare, prese un altro ascensore e salì al quarto dei sei piani. I corridoi dei piani superiori davano più l'idea dell'ospedale che non l'ingresso. Luci fluorescenti. Pareti bianche. L'odore fresco e deciso del disinfettante. In fondo al corridoio del quarto piano, nell'ultima camera sulla destra, viveva la donna morta che ancora respirava. Jack esitò con la mano sulla piastra della pesante porta a vento, deglutì, fece un profondo respiro, e finalmente entrò. La stanza non era sontuosa come la portineria, né in stile art déco, ma molto carina. Sembrava una camera di medio costo al Plaza: soffitto alto e modanatura bianca; un camino con la cappa bianca; un folto tappeto verde muschio; tende verde chiaro; un divano e una coppia di poltroncine foderati da una stoffa a motivi di foglie. La teoria era che un paziente sarebbe stato più felice in una camera così che non in una stanza d'ospedale. Veramente, molti dei pazienti erano del tutto inconsapevoli di quel che avevano
intorno, ma almeno l'atmosfera accogliente faceva sentire un po' meno tristi i parenti e gli amici in visita. Il letto da ospedale era la sola concessione alla praticità, in stridente contrasto col resto. Ma anche quello era abbellito da lenzuola a motiyi verdi firmate. Solo la paziente guastava la piacevolezza della camera. Jack abbassò la sponda di sicurezza del letto e si chinò a baciare la guancia di sua moglie. Lei non si mosse. Le prese una mano e la tenne tra le sue. La mano di lei non strinse la sua in risposta, rimase molle, inerte, insensibile; ma almeno era calda. "Jenny? Sono io, Jenny. Come ti senti oggi? Hmmmm? Hai un bell'aspetto. Sei deliziosa, come sempre." In effetti, per qualcuno che aveva passato otto anni in coma, che per tutto quel tempo non aveva mosso un passo, né sentito il sole o l'aria fresca sulla faccia, aveva davvero un aspetto piuttosto buono. Forse solo Jack avrebbe potuto definirla deliziosa, e in tutta sincerità. Non era la bellezza che era stata un tempo, ma certamente non si sarebbe detto che da quasi un decennio flirtava con la morte. I suoi capelli non erano più lucidi, ma ancora folti, e della stessa intensa sfumatura di castano di quando l'aveva vista la prima volta al suo posto di lavoro, da Bloomingdale's, quattordici anni prima, dietro il bancone della colonia per uomo. Le infermiere glieli lavavano due volte la settimana, e li spazzolavano ogni giorno. Jack avrebbe potuto passarle una mano sotto i capelli, lungo il lato sinistro del cranio, fino all'innaturale depressione, l'orribile concavità. Avrebbe potuto toccarla senza disturbare Jenny, perché niente la disturbava più, ma non lo fece. Perché toccarla avrebbe disturbato lui. La fronte della donna era liscia, la faccia senza rughe, neanche agli angoli degli occhi, che erano chiusi. Era magra, ma non in modo impressionante. Immobile sulle lenzuola verdi, appariva senza età, come fosse una principessa vittima di un incantesimo, in attesa del bacio che l'avrebbe risvegliata da cento anni di sonno. I soli segni di vita erano il lieve, ritmico alzarsi e abbassarsi del seno mentre respirava, e il vago movimento della sua gola quando occasionalmente inghiottiva saliva. La deglutizione era un atto automatico, involontario, non un segno di coscienza, a qualsiasi livello. Il danno al cervello era esteso e irreparabile. Quei movimenti erano i soli che avrebbe fatto finché, in ultimo, si sarebbe irrigidita nella morte. Non
c'era speranza: lui lo sapeva, e accettava la permanenza della condizione di sua moglie. Jenny avrebbe avuto un aspetto molto peggiore se non avesse ricevuto cure così coscienziose. Ogni giorno, un'equipe di fisioterapisti andava da lei e la sottoponeva a esercizi di ginnastica passiva. Il suo tono muscolare non era dei migliori, ma almeno aveva un tono muscolare. Jack le tenne la mano e la guardò a lungo. Per sette anni, era andato a trovarla due sere la settimana e per cinque o sei ore ogni domenica pomeriggio, a volte anche in altri pomeriggi. Ma nonostante la frequenza delle sue visite e a dispetto delle immutate condizioni della moglie, non si era mai stancato di guardarla. Tirò una sedia vicino al letto e, continuando a tenerle la mano, guardandola in faccia, le parlò per più di un'ora. Le disse di un film che aveva visto dopo la sua precedente visita, di due libri che aveva letto. Parlò del tempo, descrisse il vento invernale, forte e pungente. Dipinse con parole colorite immagini delle più belle vetrine natalizie che aveva visto. Lei non lo ricompensò nemmeno con un sospiro o un fremito. Rimase immobile e impassibile, come sempre. Ma lui continuava ugualmente a parlarle, perché sperava che un frammento di coscienza potesse sopravvivere in lei, un barlume di comprensione in fondo al nero baratro del coma. Forse poteva sentire e comprendere, nel qual caso la cosa peggiore per lei era essere intrappolata in un corpo inerte, disperatamente bisognosa di comunicazione, anche a senso unico, ma senza riceverne alcuna perché gli altri pensavano che non potesse sentire. I dottori gli avevano assicurato che le sue preoccupazioni erano infondate: lei non sentiva niente; non vedeva niente, non si accorgeva di niente, dicevano, fatta eccezione per quelle immagini e fantasie che potevano balenare attraverso sinapsi in corto circuito nel suo cervello devastato. Ma se si sbagliavano - se c'era una sola probabilità su un milione che si sbagliassero - lui non poteva lasciarla in quel perfetto e terribile isolamento. Così le parlava, mentre la giornata invernale oltre la finestra cambiava da una sfumatura di grigio a un'altra. Alle cinque e un quarto andò nella stanza da bagno adiacente e si lavò la faccia. Asciugandosi, vide il proprio riflesso nello specchio e sbattè le palpebre. Come in innumerevoli altre occasioni, si domandò cosa Jenny avesse mai visto in lui. Il suo volto non aveva un solo aspetto o una caratteristica che si potesse dire attraente. Aveva la fronte troppo ampia, le orecchie troppo grandi. Benché avesse una vista assolutamente perfetta, il suo occhio sinistro aveva un marcato strabismo divergente, e molti non riusciva-
no a parlare con lui senza spostare nervosamente l'attenzione da un occhio all'altro, domandandosi quale dei due li stesse guardando. Quando sorrideva aveva un aspetto grottesco, e quando si accigliava appariva sufficientemente minaccioso da far correre a nascondersi Jack lo Squartatore. Ma Jenny aveva visto qualcosa in lui. Lo aveva voluto e amato. Nonostante la propria bellezza, non le interessava l'apparenza. Questa era una delle ragioni per cui lui l'aveva amata tanto. Una delle ragioni per cui gli mancava tanto. Una delle mille ragioni. Distolse gli occhi dallo specchio. Se ci si poteva sentire più soli di lui in quel momento, pregava Dio di non arrivarci mai. Tornò nell'altra stanza, salutò con un bacio la moglie, respirò ancora una volta il profumo dei suoi capelli e lasciò la clinica alle cinque e mezzo. In strada, al volante della sua Camaro, Jack guardò i passanti e gli altri automobilisti con disprezzo. I suoi simili. La brava, gentile, onesta gente del mondo di fuori sarebbe stata sdegnata, forse anche disgustata se avesse saputo che era un ladro professionista, ma era stato quello che loro avevano fatto a lui e a Jenny che lo aveva portato al crimine. Jack sapeva che la rabbia e l'amarezza non risolvevano niente, e non nuocevano che a lui stesso. L'amarezza era corrosiva. Non voleva essere triste, ma c'erano momenti in cui non poteva farne a meno. Più tardi, dopo aver cenato da solo in un ristorante cinese, tornò al suo appartamento. Aveva uno spazioso bilocale in un elegante condominio sulla Quinta Strada, sopra Central Park. Ufficialmente, era di proprietà di una società con sede in Liechtenstein, che lo aveva acquistato con un assegno intestato a un conto in una banca svizzera, e ogni mese la Banca d'America pagava le spese condominiali prelevando l'ammontare da un deposito fiduciario. Jack Twist lo abitava col nome di Philippe Delon. Ai portinai e ai pochi vicini con cui parlava era noto come il rampollo eccentrico e vagamente disdicevole di una ricca famiglia francese, che lo aveva spedito in America con la scusa di cercare investimenti, ma in realtà al solo scopo di levarselo dai piedi. Jack parlava fluentemente il francese, e poteva parlare inglese con un convincente accento francese per ore, senza tradirsi. Naturalmente, non esisteva alcuna famiglia francese, e sia la società in Liechtenstein, sia il conto nella banca svizzera erano suoi, e i soli capitali che avesse da investire erano quelli che rubava agli altri. Non era un ladro qualsiasi, lui. Nel suo appartamento, andò direttamente al guardaroba e rimosse il falso
pannello sul fondo. Tirò fuori due borse dal vano segreto, le portò in salotto, senza preoccuparsi di accendere la luce, e le posò accanto alla sua poltrona preferita, vicino a una grande finestra. Prese una bottiglia di Beck's dal frigorifero, la aprì e ritornò in salotto. Rimase seduto al buio per un po', guardando il parco dalla finestra. Le luci si riflettevano sulla neve e formavano strane ombre tra i rami spogli degli alberi. Stava tergiversando, e lo sapeva. Finalmente accese la lampada accanto alla poltrona, tirò la più piccola delle due borse davanti a sé, la aprì e cominciò a svuotarla. Gioielli. Orecchini di diamanti, collane di diamanti, scintillanti spille di diamanti. Un bracciale di diamanti e smeraldi. Un bracciale di diamanti e zaffiri. Anelli, spille da cravatta, gemelli, spilloni da cappello. Erano il ricavato di un colpo che aveva messo a segno sei settimane prima. Sarebbe stato un lavoro per due uomini, ma con una accurata e fantasiosa pianificazione aveva trovato il modo di arrangiarsi da solo, e tutto era andato liscio. Il solo problema era che non aveva tratto alcun piacere da quell'impresa. Quando un lavoro era stato concluso con successo, di solito si sentiva su di giri per giorni. Dal suo punto di vista, quelli non erano semplicemente reati, ma una rivalsa sul mondo perbene, un risarcimento per quello che questo mondo aveva fatto a lui e a Jenny. Fino a ventinove anni, Jack aveva dato molto alla società, alla sua terra, ma per tutta ricompensa era finito in un posto d'inferno in America Centrale, nella prigione di un dittatore, dove era stato lasciato a marcire. E Jenny... Gli era insopportabile pensare in che condizioni l'aveva trovata quando, alla fine, era riuscito a fuggire e tornare a casa. Ora, non dava più alla società, ma prendeva da essa, e con intenso piacere. La sua più grande soddisfazione era infrangere le regole, prendere quel che voleva e farla franca, fino al colpo di sei settimane prima alla gioielleria. Alla fine di quell'operazione, non aveva provato alcun senso di trionfo o rivalsa. Quella mancanza di eccitazione lo spaventava. Dopo tutto, era per quello che viveva. Seduto in poltrona, si ammucchiò in grembo i gioielli, osservò alla luce alcuni pezzi scelti e cercò ancora una volta di ottenere una sensazione di appagamento. Avrebbe dovuto liberarsi dei gioielli nei giorni immediatamente successivi al furto, ma era riluttante a separarsene prima di averne tratto almeno un po' di soddisfazione.
Contrariato dalla persistente assenza di emozioni, ripose i gioielli nella sacca da cui li aveva presi. L'altra borsa conteneva la sua parte dei proventi del furto che aveva compiuto cinque giorni prima, insieme a due compiici, in un magazzino della mafia. Erano riusciti ad aprire solo una delle due casseforti, ma in quella avevano trovato più di tre milioni di dollari: oltre un milione a testa, in biglietti non rintracciabili da venti, cinquanta e cento. Avrebbe già dovuto cominciare a convertire i contanti in titoli, ma, come con i gioielli, esitava, perché il possesso del denaro non gli aveva ancora dato alcuna sensazione di vittoria. Prese dalla borsa grossi fasci di banconote e se li rigirò tra le mani. Se li portò al volto e li annusò. Il singolare odore del denaro di solito era di per sé esaltante, ma non questa volta. Non si sentiva trionfante, in gamba, al disopra della legge, o in qualunque modo migliore degli obbedienti topolini che sgambettavano freneticamente nel labirinto della società, esattamente come era stato loro insegnato. Si sentiva soltanto vuoto. Poteva darsi che il consueto brivido lo eludesse perché il denaro non era più importante per lui. Ne aveva messo da parte abbastanza per mantenersi agiatamente per il resto dei suoi giorni e occuparsi di Jenny anche se il suo coma si fosse protratto quanto una vita normale, il che era improbabile. Forse, per tutto quel tempo, la cosa più importante nel suo lavoro non era stata la ribellione o la sfida, come aveva sempre pensato; forse, invece, aveva fatto tutto questo solo per denaro, e il resto non era stato che razionalizzazione di bassa lega e autoillusione. Ma lui non poteva credere che fosse così. Ricordava quel che aveva provato, e sapeva quanto gli mancassero ora quelle sensazioni. Qualcosa stava succedendo dentro di lui. Si sentiva svuotato, alla deriva, senza uno scopo, Non poteva permettersi di perdere la sua passione per il furto. Era la sola ragione che avesse per vivere. Rimise il denaro nella borsa, spense la luce e rimase seduto al buio, sorseggiando la Beck's e guardando dalla finestra Central Park. In aggiunta alla recente incapacità di trarre piacere dal suo lavoro, ultimamente era afflitto da un incubo, più intenso di qualunque sogno avesse mai fatto. Era cominciato sei settimane prima del lavoro alla gioielleria, e da allora si era ripetuto una decina di volte. Nel sogno, fuggiva da un uomo con un casco da motociclista col visore scuro. Almeno, lui pensava fosse un casco da motociclista, ma non riusciva a vederlo nei dettagli, né vedeva altro dell'uomo. Lo sconosciuto senza volto lo inseguiva a piedi attraverso stanze ignote, lungo corridoi amorfi e, più vividamente, lungo u-
n'autostrada deserta che tagliava un brullo paesaggio rischiarato dalla luna. Ogni volta, il panico di Jack montava come vapore in una pentola a pressione, finché esplodeva, svegliandolo di soprassalto. L'ovvia interpretazione era che fosse un sogno premonitore, che l'uomo col casco fosse un poliziotto, che Jack sarebbe stato preso. Ma lui non credeva che il senso dell'incubo fosse questo. Nel sogno, non aveva mai avuto l'impressione che l'uomo col casco fosse un poliziotto. Sperava solo di non rifare il sogno quella notte. La giornata era stata già abbastanza brutta, anche senza quel terrore notturno. Andò a prendersi un'altra birra, tornò alla poltrona vicino alla finestra e si rimise a sedere al buio. Era l'8 dicembre, e Jack Twist, ex ufficiale di un reparto specializzato di truppe d'assalto dell'esercito degli Stati Uniti, ex prigioniero di guerra in una guerra non dichiarata, un uomo che aveva aiutato a salvare la vita di oltre un migliaio di indiani dell'America Centrale, un uomo che funzionava sotto un carico di dolore che avrebbe potuto spezzare altri, un audace ladro le cui riserve di coraggio erano sempre state senza fondo, si domandò se non avesse esaurito il semplice coraggio di vivere. Se il furto non riusciva più a essere una valida motivazione per lui, aveva bisogno di trovare un nuovo scopo. Disperatamente. 6 Elko County, Nevada Tornando da Elko al Tranquility Motel, Ernie Block infranse tutti i limiti di velocità. L'ultima volta che aveva guidato così veloce e spericolatamente era stato un cupo lunedì mattina, durante il suo servizio nei marines in Vietnam. Stava passando attraverso quello che avrebbe dovuto essere territorio amico al volante di una jeep, quando si era inaspettatamente trovato sotto il fuoco nemico. Le granate avevano sollevato geyser di terra e blocchi di macadam a pochi passi dai paraurti. Nel tempo in cui era riuscito a uscire dalla zona del fuoco, aveva rischiato almeno venti volte di saltare per aria, era stato colpito da tre piccole schegge di pietra, era stato temporaneamente assordato dai boati delle esplosioni, e si era trovato a dover lottare per mantenere il controllo di una jeep che correva sui cerehioni, con tutte e quattro le gomme a terra. Essendo sopravvissuto, immaginava di aver co-
nosciuto la paura nella sua forma più acuta. Ma ora, tornando da Elko, con la sua paura stava stabilendo un nuovo primato. La notte si avvicinava. Era andato a Elko col suo furgone Dodge a ritirare del materiale di illuminazione per il motel. Era partito poco dopo mezzogiorno, prendendosi tutto il tempo per fare il viaggio di andata e ritorno prima del tramonto. Ma aveva bucato una gomma e perso tempo a cambiarla; poi, una volta a Elko, aveva fatto riparare il pneumatico, perché non voleva tornare indietro senza la ruota di scorta, e quasi un'ora se n'era andata. Tra una cosa e l'altra, aveva lasciato Elko circa due ore più tardi del previsto, e il sole stava già cominciando a tramontare. Per quasi tutto il tempo tenne l'acceleratore a tavoletta, saettando in mezzo al traffico dell'autostrada. Non pensava che sarebbe riuscito a rientrare a casa, se avesse dovuto farlo nella totale oscurità. Il mattino dopo lo avrebbero trovato vaneggiante al posto di guida del furgone parcheggiato lungo la strada, impazzito a causa delle lunghe ore trascorse in inorridita contemplazione del perfetto buio del paesaggio. Nelle due settimane successive al Giorno del Ringraziamento, aveva continuato a nascondere a Faye la sua irrazionale paura del buio. Da quando lei era tornata dal Wisconsin aveva rinunciato a tenere una lampadina accesa durante la notte, ma gli era costato parecchio. Faceva fatica a dormire, e ogni mattina doveva sciacquarsi gli occhi iniettati di sangue con acqua borica. Fortunatamente, lei non aveva proposto di andare a Elko di sera per vedere un film, così Ernie non era stato costretto a inventarsi scuse. Qualche volta, dopo il tramonto, gli era capitato di dover andare alla tavola calda accanto al motel, e anche se il percorso era breve e ben illuminato dalle luci e dalle insegne esterne, era stato quasi sopraffatto da un senso di fragilità, di vulnerabilità. Ma aveva mantenuto il suo segreto. Per tutta la vita, nel corpo dei marines e fuori, Ernie Block aveva fatto quello che gli veniva richiesto al massimo delle sue capacità. E adesso, per Dio, non avrebbe deluso Faye. Al volante del furgone, correndo verso ovest diretto al Tranquility Motel sotto un cielo chiazzato di arancio e porpora, Ernie si domandò se il suo problema non fosse senilità precoce, il morbo di Alzheimer. Anche se aveva solo cinquantadue anni, doveva essere qualcosa del genere. Per quanto lo spaventasse, almeno poteva capirlo. Capirlo, sì, ma non accettarlo. Faye contava su di lui. Non poteva diventare un invalido mentale, un peso per lei. Gli uomini della famiglia Block non venivano mai meno al compito di provvedere alle loro donne. Mai.
Impensabile. L'autostrada svoltava intorno a un piccolo poggio, e un paio di chilometri più avanti, a nord dell'interstatale, c'era il motel, la sola costruzione in quel vasto paesaggio. La sua insegna al neon verde e blu era già accesa, in risalto contro il cielo crepuscolare. Mancavano ancora una decina di minuti alla completa oscurità, ed Ernie, decise che era stupido rischiare di farsi fermare dalla stradale, quando era così vicino alla salvezza. Diminuì la pressione sull'acceleratore e l'ago del tachimetro scese rapidamente: novanta... ottantacinque... settantacinque... sessanta... Era quasi a casa, quando successe qualcosa di strano. Distolse gli occhi dalla strada, guardando verso sud, e il respiro gli si fermò in gola. Non sapeva cosa lo avesse fatto trasalire. Qualcosa nel paesaggio. Qualcosa nel gioco di luci e ombre attraverso quei prati digradanti. Improvvisamente fu preso dalla strana sensazione che un particolare pezzo di terreno, cinquecento metri più avanti, dalla parte opposta dell'autostrada, fosse di suprema importanza per la comprensione dei bizzarri cambiamenti che erano avvenuti in lui durante gli ultimi mesi. Cinquanta... quarantacinque... quaranta... Non riusciva a vedere niente che rendesse quel pezzo di terra particolarmente interessante. Del resto, lo aveva visto innumerevoli volte prima, senza esserne in alcun modo colpito. Nonostante questo, nella pendenza del terreno, nei suoi contorni, nelle sue fenditure, nella configurazione dei cespugli di salvia e dell'erba, e negli sparsi, irregolari rilievi rocciosi, qualcosa sembrava chiamarlo. Era come se la terra stessa gli dicesse: "Qui, qui c'è in parte la risposta al tuo problema, parte della spiegazione alla tua paura del buio. Qui. Qui..." Ma questo era ridicolo. Con sua sorpresa, Ernie si ritrovò ad accostare lungo la strada, fermandosi ad appena un centinaio di metri da casa, non lontano dalla rampa di uscita che immetteva sulla strada della contea. Aguzzando gli occhi, guardò a sud, dall'altra parte dell'autostrada, verso il punto che aveva misteriosamente catturato la sua attenzione, e si sentì pervadere dall'elettrizzante sensazione di essere in prossimità di un qualche portento. Scese dal furgone e, in uno stato di trepidante aspettativa che non riusciva a capire, attraversò la strada, scese nell'ampio fossato che divideva l'interstatale e risalì dall'altra parte. Lasciò passare due giganteschi camion, poi attraversò nella loro scia le due corsie che andavano verso est. Un'inesplicabile eccitazione gli faceva battere forte il cuore, e per il momento a-
veva dimenticato il sopraggiungere della notte. Si fermò sull'argine rialzato dell'autostrada, guardando a sud e leggermente a ovest. Il pesante giubbotto di montone lo difendeva dal freddo, ma i suoi grigi capelli a spazzola fornivano una ben scarsa protezione contro il vento gelido che gli staffilava il cranio. La sensazione che stesse per accadere qualcosa di immensa importanza cominciò a svanire, sostituita da un'ancora più inquietante certezza che qualcosa gli era già accaduto in quel pezzo di terra coperto di neve, laggiù, qualcosa che aveva a che fare con la sua recente paura del buio. Qualcosa che aveva accuratamente bandito dalla sua memoria. Ma questo non aveva senso. Se in quel posto si fossero verificati fatti importanti, non gli sarebbero certo sfuggiti di mente. Non era uno smemorato. E non era neanche il tipo che rimuove i ricordi sgradevoli. Eppure, gli si era accapponata la pelle dietro la nuca. Non lontano da lì, nelle impervie pianure del Nevada, gli era successo qualcosa che aveva dimenticato, ma che ora lo ossessionava. Con le gambe divaricate e i piedi saldamente piantati a terra, la testa massiccia incassata nelle spalle, Ernie sembrava sfidare il paesaggio a parlargli più chiaramente. Si sforzò di resuscitare il ricordo sepolto in quel posto, ammesso che davvero esistesse, ma più cercava di afferrare quella rivelazione, più rapidamente essa gli sfuggiva, finché se ne andò del tutto. Il déjà vu svanì completamente, come il senso di trepidante attesa che lo aveva preceduto. La nuca smise di formicolargli. Il cuore cessò di battere freneticamente, tornando a un ritmo più normale. Sconcertato e un po' stordito, osservò lo scenario davanti a sé: la pendenza, le sporgenze di roccia, i cespugli e l'erba, le convessità e concavità del terreno plasmato dal tempo. Ora non riusciva a immaginare cosa avesse potuto trovarvi di speciale. Non era che una zona degli altipiani praticamente indistinguibile da un migliaio di altri punti, da Elko a Battle Mountain. Disorientato dalla repentinità con cui aveva perso quella consapevolezza trascendente, si girò a guardare verso il furgone, fermo sul lato a nord dell'interstatale, e si sentì imbarazzato al pensiero di come si fosse precipitato lì in preda a una strana eccitazione. Sperava solo che Faye non lo avesse visto. Se per caso stava guardando da una finestra in quella direzione, non poteva essersi persa la scena, perché il motel era molto vicino e le luci lampeggianti del furgone erano indubbiamente la cosa che più attirava l'attenzione nell'oscurità che stava rapidamente scendendo.
Oscurità. Improvvisamente, la vicinanza della notte colpì Ernie con violenza. Per un po', il misterioso magnetismo che lo aveva attirato in quel posto era stato più forte della sua paura del buio, ma la situazione si capovolse in un istante, quando realizzò che la metà orientale del cielo era di un nero violaceo, e a ovest rimanevano solo pochi minuti di vago chiarore. Con un soffocato grido di panico, si lanciò attraverso le corsie diretto a est, rischiando senza nemmeno accorgersene di farsi investire da un caravan. Non badò al suono iroso del clacson, non si fermò; pensava solo a correre, perché sentiva l'oscurità incalzare. Raggiunse il basso, largo fossato che divideva i nastri d'asfalto, cadde mentre vi scendeva dentro, si rialzò, terrorizzato dalle ombre nere che uscivano da ogni depressione del terreno e da sotto ogni pietra. Risalì in fretta e furia dall'altra parte dello spartitraffico, si precipitò attraverso le corsie dirette a ovest, senza guardare se la via era libera. Una volta raggiunto il furgone, armeggiò freneticamente con la maniglia della portiera, dolorosamente consapevole della perfetta oscurità che c'era sotto il veicolo. Gli stava abbrancando i piedi. Voleva trascinarlo sotto il Dodge e divorarlo. Aprì lo sportello con uno strattone. Si divincolò dalle mani del buio aggrappate alle sue caviglie. Si arrampicò nell'abitacolo, sbattè la portiera, mise la sicura. Ora si sentiva meglio, ma non certo in salvo, e se non fosse stato così vicino a casa non si sarebbe mosso di lì. Ma gli mancavano ancora solo poche centinaia di metri, e quando accese i fanali il buio indietreggiò e riprese un po' di coraggio. Tremava così violentemente che non si fidava a immettersi nel traffico, così guidò sulla corsia d'emergenza fino al raccordo di uscita. La rampa era illuminata ai lati e alla base da lampioni a vapore di sodio, e fu tentato di fermarsi lì nel bagliore giallo, ma strinse i denti e imboccò la buia strada della contea. Finalmente raggiunse il Tranquility Motel. Entrò nel piazzale di sosta, posteggiò in uno spazio davanti all'ufficio, spense i fari e il motore. Attraverso le grandi vetrate dell'ufficio poteva vedere Faye al bancone. Si affrettò a entrare, chiudendosi la porta alle spalle con troppa forza. Faye alzò gli occhi, e lui le rivolse un sorriso che sperava fosse più convincente di quanto sembrava a lui. "Stavo cominciando a preoccuparmi, caro," disse lei, ricambiando il sorriso. "Ho bucato," spiegò Ernie, slacciandosi il giubbotto. Si sentiva un po' sollevato. La notte era più facile da sopportare quando non era solo; Faye
gli dava forza, ma lui si sentiva ancora a disagio. "Mi sei mancato." "Sono stato via solo qualche ora." "A me è sembrata una vita. Si vede che sono assuefatta. Devo avere la mia dose di Ernie ogni due ore, o entro in crisi d'astinenza." Lui si sporse attraverso il bancone, lei si sporse dalla sua parte, e si baciarono. Non era solo una formalità. Lei gli mise una mano sulla spalla per tenerlo vicino. Spesso le coppie sposate da così tanto tempo erano tiepide, distratte nelle loro manifestazioni d'affetto, ma questo non era certo il caso di Ernie e Faye Block. Dopo trentun anni di matrimonio, lei riusciva ancora a farlo sentire giovane. "Dove sono le luci nuove?" chiese Faye. "Sono arrivate, vero?" La domanda gli restituì bruscamente un'acuta consapevolezza della notte che regnava fuori. Lanciò un'occhiata alle finestre, poi distolse rapidamente lo sguardo. "Uh, no. Sono stanco. Non mi va proprio di scaricarle adesso." "Solo quattro casse..." "Davvero, preferirei farlo domani," replicò, facendo uno sforzo per impedire alla propria voce di tremare. "La roba starà benissimo nel furgone. Non la toccherà nessuno. Ehi, hai messo su gli addobbi!" "Intendi dire che te ne sei accorto solo adesso?" Un'enorme ghirlanda di pigne e noci era appesa alla parete sopra il divano. Nell'angolo accanto all'espositore delle cartoline c'era un Babbo Natale di cartone a grandezza naturale, e a un'estremità del lungo bancone una slitta con renne in ceramica. Palline rosse e dorate pendevano dal soffitto. "Hai dovuto salire su una scala per montarle," osservò Ernie. "Solo quella pieghevole." "Ma se fossi caduta? Avresti dovuto aspettarmi e lasciarlo fare a me." Faye scrollò la testa. "Tesoro, ti assicuro che non sono fatta di vetro. Ora, piantala di fare storie. Voi ex marines a volte vi calate un po' troppo nella parte del macho." "Davvero?" In quel momento si aprì la porta e un camionista entrò nell'ufficio, chiedendo una stanza. Ernie trattenne il fiato finché la porta si richiuse. Il camionista era un uomo allampanato con un cappello da cow-boy, giubbotto e pantaloni di jeans, camicia a scacchi. Faye gli fece i complimenti per il cappello, che aveva una fascia di cuoio elaboratamente opera-
to, decorata con turchesi. Con quel suo spigliato modo di fare, mise a suo agio lo straniero come fosse un vecchio amico, mentre sbrigava le necessarie formalità. Ernie la lasciò fare, cercando di dimenticare la sua curiosa esperienza sull'interstatale e di non fissarsi sulla notte che ormai era calata. Passò dietro il bancone, appese il suo giubbotto all'appendiabiti di ottone nell'angolo accanto allo schedario, e andò allo scrittoio di quercia, dove era posata la posta. Fatture da pagare, naturalmente. Pubblicità. Un invito a devolvere denaro in beneficenza. I primi biglietti di auguri natalizi dell'anno. L'assegno della sua pensione militare. Infine, c'era una busta bianca senza l'indirizzo del mittente, che conteneva solo una polaroid a colori scattata di fronte al motel, accanto alla porta della numero 9. Era di tre persone: un uomo, una donna e una bambina. L'uomo era sotto i trent'anni, molto abbronzato e attraente. La donna era più giovane di un paio d'anni, una graziosa brunetta. La bambina doveva avere cinque o sei anni, ed era molto carina. Tutti e tre sorridevano all'obiettivo. A giudicare dal loro abbigliamento - calzoncini e maglietta - e dalla qualità della luce nella fotografia, Ernie dedusse che era stata fatta in piena estate. Perplesso, girò la foto per vedere se ci fosse scritto qualcosa. Niente. Controllò di nuovo la busta, ma era vuota: nessuna lettera, nessun cartoncino, nemmeno un biglietto da visita. Il timbro postale diceva Elko, 7 dicembre: il sabato prima. Guardò di nuovo i tre della fotografia, e benché non si ricordasse di loro, avvertì un formicolio alla nuca, come quando era stato attirato verso quel posto lungo l'autostrada, e il suo battito cardiaco accelerò. Si affrettò a mettere da parte la polaroid e distolse lo sguardo. Faye, continuando a chiacchierare, prese la chiave di una stanza e la passò attraverso il bancone al camionista-cow-boy. Ernie tenne gli occhi fissi su di lei. Aveva un effetto calmante. Era stata una graziosa ragazza di campagna quando l'aveva conosciuta, e con gli anni era diventata una donna ancora più attraente. Forse i suoi capelli biondi stavano cominciando a imbiancare, ma era difficile da dire. I suoi occhi azzurri erano limpidi e vivaci. La sua era un'aperta, amichevole faccia dello Iowa, un po' impertinente ma sempre sana, sempre felice. Quando il camionista-cow-boy se ne andò, Ernie aveva smesso di tremare. Prese la polaroid e la mostrò a Faye. "Ti dice qualcosa questa?" "È la nostra stanza numero 9. Devono essere stati da noi." Faye corrugò
la fronte osservando la giovane coppia con la bambina. "Ma sinceramente non me ne ricordo. Mi sono del tutto estranei." "E allora perché ci hanno mandato una fotografia senza neanche una parola?" "Be', evidentemente pensavano che ci saremmo ricordati di loro." "Avrebbero ragione a pensarlo se fossero rimasti qui a lungo e avessimo avuto modo di conoscerei. E io non li conosco affatto. Credo che mi ricorderei della piccola," commentò Ernie. Gli piacevano i bambini, e di solito loro ricambiavano la sua simpatia. "È abbastanza carina per andare in televisione." "Io credo piuttosto che ti ricorderesti la madre. E veramente bella." "Il timbro è di Elko," le fece notare Ernie. "Chi verrebbe mai a stare qui, se abita a Elko?" "Forse non vivono a Elko. Magari sono stati qui l'estate scorsa e intendevano mandarci una foto, ma sai come vanno queste cose... Poi forse sono stati di recente da queste parti e hanno pensato di fare un salto qui e lasciarcela, ma non avevano abbastanza tempo, così ce l'hanno spedita da Elko." "Senza una riga." "È strano," concordò Faye. Ernie riprese la fotografia. "Inoltre, questa è una polaroid, a sviluppo istantaneo. Se volevano regalarcela, perché non ce l'hanno lasciata subito?" La porta si aprì, e un tipo baffuto con i capelli ricci entrò nell'ufficio, rabbrividendo per il freddo. "Avete stanze libere?" domandò. Mentre Faye si occupava del nuovo cliente, Ernie riportò la polaroid allo scrittoio di quercia. Intendeva raccogliere la posta e andare di sopra, ma invece rimase lì a studiare le facce delle persone nella foto. Era martedì sera, 10 dicembre. 7 Chicago, Illinois Quando Brendan Cronin si presentò al lavoro all'ospedale pediatrico St. Joseph, solo il dottor McMurtry sapeva che in realtà era un prete. Padre Wycazik aveva ottenuto dal medico una garanzia di segretezza, oltre alla solenne assicurazione che a Brendan sarebbe stato assegnato molto lavoro, e molto lavoro sgradevole, quanto a qualsiasi altro inserviente. Così, du-
rante il suo primo giorno di servizio, vuotò padelle, cambiò lenzuola bagnate di urina, assistette un terapista che sottoponeva pazienti immobilizzati a esercizi di ginnastica passiva, imboccò un bambino di otto anni parzialmente paralizzato, spinse sedie a rotelle, incoraggiò pazienti abbattuti, pulì il vomito di due giovani malati di cancro, provocato dalla chemioterapia. Nessuno gli usava particolari riguardi, e nessuno lo chiamava "padre". Infermiere, dottori, inservienti e pazienti lo chiamavano semplicemente Brendan, e lui si sentiva a disagio, come un impostore. Il primo giorno, sopraffatto dalla pietà e dal dolore per i bambini del St. Joseph, si chiuse due volte in bagno a piangere. Le gambe deformi e le giunture dilatate dei giovani pazienti storpiati dall'artrite reumatoide erano una visione terribile, intollerabile. Le membra deteriorate delle vittime della distrofia muscolare, le ferite purulente degli ustionati, i corpi pesti di quelli che avevano subito maltrattamenti da parte dei genitori. Brendan pianse per tutti loro. Non poteva immaginare perché padre Wycazik pensasse che quell'esperienza lo avrebbe aiutato a ritrovare la fede. Semmai, la visione di tanti bambini sofferenti rafforzava ulteriormente il suo dubbio. Se il Dio caritatevole del cattolicesimo esisteva davvero, se c'era un Cristo, come poteva perméttere che degli innocenti patissero tali atrocità? Naturalmente, Brendan conosceva tutte le convenzionali tesi teologiche su questo punto. La razza umana si era tirata addosso il male, in ogni sua forma, per scelta, allontanandosi dalla grazia di Dio, diceva la chiesa. Ma gli argomenti teologici gli parvero inadeguati quando si trovò faccia a faccia con quelle giovani vittime del fato. Il secondo giorno, il personale lo chiamava ancora Brendan, ma i bambini avevano cominciato a chiamarlo Ciccio, un nomignolo da tanto tempo in disuso, che aveva divulgato raccontando loro una buffa storiella. I piccoli degenti stavano bene con lui, e quasi sempre, con le sue storie, barzellette, filastrocche e scioglilingua, riusciva a strappare loro una risata o quanto meno un sorriso. Quel giorno, andò in bagno a piangere una sola volta. Il terzo giorno, era diventato Ciccio anche per il personale. Se aveva un'altra vocazione oltre al sacerdozio, l'aveva scoperta al St. Joseph. In aggiunta alle sue normali incombenze di inserviente, intratteneva i bambini con scenette comiche, scherzava con loro, li distraeva. Ovunque andasse, era accolto da voci infantili che chiamavano "Ciccio!", e questa era per lui una ricompensa migliore del denaro. E non pianse finché non fu
rientrato nella stanza d'albergo che aveva preso per la durata della singolare terapia di padre Wycazik. Mercoledì, il settimo giorno, capì finalmente perché padre Wycazik lo aveva mandato al St. Joseph. La comprensione giunse mentre stava spazzolando i capelli di una bambina di dieci anni, menomata da una rara malattia delle ossa. Si chiamava Emmeline, ed era giustamente orgogliosa dei suoi capelli. Erano corvini, folti e lucenti, e il loro sano splendore sembrava una reazione, quasi una sfida, alla malattia che aveva rovinato il suo corpo. Le piaceva darsi cento colpi di spazzola ogni giorno, ma spesso le sue nocche e le giunture dei polsi erano così infiammate che non riusciva a tenerla in mano. Mercoledì pomeriggio, Brendan la mise su una sedia a rotelle e la portò in sala raggi, dove dovevano controllare gli effetti di un nuovo farmaco sul suo midollo osseo, e quando la riportò nella sua stanza, un'ora più tardi, le spazzolò lui i capelli. Mentre Brendan passava le morbide setole attraverso le seriche ciocche, Emmeline, seduta sulla sedia a rotelle rivolta verso la finestra, si incantò a guardare il paesaggio oltre il vetro. Con una mano nodosa che sarebbe stata più adatta a un'ottantenne, indicò il tetto di un'altra ala dell'ospedale, più bassa delle altre. "Guarda quella chiazza di neve, Ciccio." Il calore che saliva dall'interno dell'edificio aveva fatto scivolare la neve lungo le falde del tetto a punta, eccetto una grande chiazza che risaliva contro le scure lastre di ardesia. "Sembra una nave," disse Emmy. "Una bella nave antica con tre vele bianche su un mare color ardesia." Brendan guardò, e non vide altro che una chiazza di neve. Ma Emmy continuò a descrivere l'immaginario veliero, e la quarta volta che alzò gli occhi riuscì a vederlo anche lui. Per Brendan, i lunghi ghiaccioli che pendevano davanti alla finestra di Emmy erano sbarre trasparenti di una prigione dalla quale la bambina forse non sarebbe mai stata rilasciata, ma per lei le luccicanti stalattiti erano meravigliose decorazioni che, disse, la facevano entrare nello spirito natalizio. "Dio ama tanto l'inverno quanto la primavera," disse Emmy. "Il dono delle stagioni è uno dei suoi modi per non farci venire a noia il mondo. Ce l'ha detto suor Katherine, e io credo che sia vero. Quando il sole batte dritto su quei ghiaccioli, riflettono arcobaleni sopra il mio letto. Il ghiaccio e la neve sono come gioielli e manti di ermellino con cui Dio veste il mondo in inverno per lasciarci a bocca aperta. È per questo che non fa mai due
fiocchi di neve uguali: è un modo per ricordarci che il mondo che ha creato per noi è meraviglioso." Proprio in quel momento, soffici fiocchi di neve presero a scendere volteggiando dal grigio cielo di dicembre, quasi avessero atteso la battuta d'entrata. A dispetto delle sue mani deformate e delle sue gambe inutilizzabili, a dispetto di tutto il dolore che aveva sopportato, Emmy credeva nella bontà di Dio, nella perfezione del mondo che aveva creato. Quasi tutti i bambini del St. Joseph avevano in comune una grande fede. Erano convinti che un buon padre li guardasse dal regno dei cieli, e questo dava loro coraggio. Nella sua mente, Brendan poteva sentire padre Wycazik: "Se questi innocenti possono soffrire così tanto senza perdere la fede, quale misera scusa puoi avanzare tu, Brendan? Forse, nella loro innocenza e ingenuità, sanno qualcosa che tu hai dimenticato inseguendo la tua sofisticata istruzione a Roma. Forse avresti qualcosa da imparare da loro, non lo credi anche tu?" Ma la lezione non era abbastanza efficace per ristabilire la sua fede. Brendan continuava a essere profondamente toccato, non dalla possibilità che davvero esistesse un buon padre compassionevole, ma dallo stupefacente coraggio dei bambini di fronte a simili avversità. Diede cento colpi di spazzola ai capelli di Emmy, poi altri dieci, cosa di cui lei fu molto compiaciuta. Infine la sollevò dalla sedia a rotelle e la rimise a letto. Mentre tirava le coltri sulle sue gambe patetiche, sentì un impeto di quella stessa rabbia che lo aveva preso durante la messa a St. Bernadette due domeniche prima, e se avesse avuto un calice a portata di mano non avrebbe esitato a scagliarlo un'altra volta contro il muro. Emmy sussultò, e Brendan ebbe la spiacevole sensazione che avesse letto i pensieri blasfemi nella sua mente. Ma lei disse: "Oh, Ciccio, ti sei fatto male?" Lui battè le palpebre. "Io?" "Le tue mani. Ti sei scottato?" Senza capire di cosa stesse parlando, Brendan abbassò gli occhi a guardarsi il dorso delle mani, le girò, e fu sorpreso di vedere al centro di ogni palmo un rosso anello di carne infiammata e tumefatta. Ciascun anello aveva il diametro di due pollici e contorni nettamente definiti. La striscia circolare di tessuto irritato che formava l'anello era larga non più di mezzo pollice, e descriveva un cerchio perfetto; la pelle intorno e dentro il cerchio
appariva normale. Sembrava quasi che gli anelli fossero disegnati sulla sua pelle, ma quando ne toccò uno con un polpastrello ne sentì il rilievo. "È strano," disse. Il dottor Stan Heeton era il medico di turno al pronto soccorso del St. Joseph. "Fanno male?" domandò, osservando con interesse gli strani anelli sulle mani di Brendan. "No. Per niente." "Danno prurito? Senso di bruciore?" "No." "Formicolio? Neanche? Li hai avuti altre volte?" "Mai." "Soffri di qualche allergia, che tu sappia? No? Hmmmm. A prima vista, sembrerebbero leggere bruciature, ma se ti fossi appoggiato contro qualcosa di abbastanza caldo da lasciare questi segni te ne ricorderesti di sicuro. Quindi, questo lo possiamo escludere. E neppure è possibile che tu sia entrato in contatto con qualche acido. Hai portato una bambina in radiologia, dicevi?" "Sì, ma non sono rimasto lì mentre le facevano i raggi." "In effetti non sembra una scottatura da radiazioni. Forse dermatomicosi, un'infezione da fungo, ma i sintomi non sono sufficientemente indicativi. Dovrebbero esserci desquamazione e prurito. E l'anello è troppo preciso." "In sostanza?" Heeton esitò. "Non credo sia niente di serio. L'ipotesi più verosimile è che si tratti di un'eruzione causata da un'allergia imprecisata. Se il problema persiste, dovrai sottoporti al test per individuare l'allergene." Il dottore lasciò andare le mani di Brendan e cominciò a compilare una ricetta. Perplesso, Brendan restò a fissarsi le mani ancora per un momento, poi se le intrecciò in grembo. "Comincerei col trattamento più semplice, una lozione al cortisone," disse Heeton, finendo di scrivere. "Se l'eruzione non scompare in un paio di giorni, torna da me." Brendan prese la ricetta. " Non c'è il rischio che io possa trasmettere un'infezione ai bambini, o qualcosa del genere?" "Oh, no. Se ce ne fosse anche una minima possibilità, te lo avrei detto," lo rassicurò Heeton. "Ora, lasciami dare ancora un'occhiata." Brendan gli mostrò il palmo delle mani. "Che diamine..." esclamò il dottor Heeton, sorpreso.
Gli anelli erano scomparsi. Quella notte, nella sua stanza all'Holiday Inn, Brendan rifece l'incubo ormai familiare di cui aveva parlato con padre Wycazik. Aveva disturbato il suo sonno già due volte nell'ultima settimana. Era sdraiato in uno strano posto, con le braccia e le gambe immobilizzate da cinghie o manette. Dalla foschia uscivano due mani infilate in lucidi guanti neri e si protendevano verso di lui. Si svegliò in un groviglio di lenzuola sudate, si mise a sedere, appoggiato contro la testata del letto, e lasciò che il sogno sfumasse mentre il sudore gli si asciugava sulla fronte. Al buio, si portò le mani al volto, e a un tratto si irrigidì. Accese la luce. Gli anelli rossi erano riapparsi. Poi, sotto i suoi occhi, svanirono di nuovo. Era giovedì, 12 dicembre. 8 Laguna Beach, California Giovedì mattina Dom Corvaisis si svegliò nel suo letto, esattamente nella stessa posizione in cui si era addormentato la sera prima. Pensava di aver dormito tranquillamente tutta la notte, ma quando andò nel suo studio e accese il word processor per mettersi al lavoro trovò la dimostrazione che le cose non erano andate così. Come già gli era successo, evidentemente era andato alla macchina nel sonno e aveva ripetutamente battuto due parole. In precedenza, aveva scritto "Ho paura", ma questa volta le parole erano diverse: La luna. La luna. La luna. La luna La luna. La luna. La luna. La luna. C'erano centinaia di ripetizioni di queste sei lettere. Immediatamente ricordò di essersi udito mormorare le stesse parole in uno stato di sopito disorientamento, mentre si stava addormentando, la domenica prima. Dominick fissò a lungo lo schermo, raggelato, ma non riusciva a immaginare quale speciale significato la luna potesse avere per lui, se lo aveva. La terapia col Valium e il Dalmane stava dando buoni risultati. Fino a ora, non c'erano stati nuovi episodi di sonnambulismo o strani sogni dal-
l'ultimo fine settimana, quando si era svegliato curvo sul lavandino. Aveva visto ancora il dottor Cobletz, e il medico era stato contento del suo rapido miglioramento. "Continua pure la terapia," gli aveva detto Cobletz, "ma ricordati di non prendere il Valium più di una volta al giorno, o al massimo due." "Non lo faccio mai," gli aveva assicurato Dom, mentendo. "E un solo Dalmane per sera. Non voglio che tu diventi un farmacodipendente. Sono sicuro che per la fine dell'anno sarai a posto." Anche Dom ne era certo, ed era per questo che non voleva preoccupare il dottore confessando che c'erano giorni in cui riusciva a farcela solo con l'aiuto del Valium e notti in cui prendeva due o anche tre compresse di Dalmane, buttandone giù alcune con birra o whisky. Entro un paio di settimane avrebbe potuto fare a meno di entrambi, senza paura di tornare al punto di prima. La cura, grazie a Dio, stava funzionando. Fino a ora. La luna. Frustrato e indispettito, cancellò le parole dal dischetto, un centinaio di righe, quattro ripetizioni ciascuna. Fissò a lungo lo schermo, sempre più nervoso. Infine prese un Valium. Quel mattino Dom non lavorò, e alle undici e mezzo lui e Parker Faine andarono a prendere Denny Ulmes e Nyugen Kao Tran, i due ragazzi assegnati loro dai Big Brothers of America. Avevano programmato un pigro pomeriggio in spiaggia, cena all'Hamburger Hamlet e un film, e Dom aveva atteso con impazienza l'uscita. Aveva aderito al programma dei Big Brothers anni prima, quando era ancora a Portland. Era stato il suo unico impegno sociale, l'unica cosa che fosse riuscita a tirarlo fuori dalla sua tana di coniglio. Aveva passato la propria infanzia sballottato da una parte all'altra, solitario e sempre più introverso. Un giorno, quando finalmente si fosse sposato, contava di adottare dei bambini. Nel frattempo, quando passava del tempo con quei ragazzi, non solo aiutava loro, ma confortava il bambino solo che era dentro di lui. Nyugen Kao Tran si faceva chiamare Duke, a imitazione di John Wayne, l'attore dei suoi film preferiti. Duke aveva tredici anni, ed era il figlio più giovane di una famiglia di boat people fuggita dagli orrori del "tempo di pace" in Vietnam. Era intelligente, vivace, e tanto agile quanto mingherlino. Suo padre, dopo essere sopravvissuto a una guerra brutale, un campo
di concentramento e due settimane in mare aperto a bordo di una barchetta, era rimasto ucciso tre anni prima nel corso di una rapina a un emporio aperto tutta la notte, dove faceva il cassiere come secondo lavoro. Denny Ulmes, il "fratellino" di Parker, aveva dodici anni, e suo padre era morto di cancro. Era più riservato di Duke, ma i due andavano perfettamente d'accordo, così Dom e Parker combinavano frequentemente le loro uscite. Parker era diventato un Big Brother per insistenza di Dom, e con stizzosa riluttanza. "Io? Io? Io non ho la stoffa del padre, né del surrogato di padre," aveva dichiarato. "Non fa per me. Bevo troppo, vado troppo a donne. Sai che esempio edificante sarei per un ragazzino. Sono un procrastinatore, un sognatore, un egocentrico maniacale. E mi piace essere così! Cosa avrei da offrire a un ragazzo? Non mi piacciono nemmeno i cani. Ai ragazzi piacciono i cani, e io li detesto, quei sacchi di pulci. Io, un Big Brother? Amico, tu devi avere qualche rotella fuori posto." Ma giovedì pomeriggio, sulla spiaggia, quando l'acqua si dimostrò troppo fredda per poter fare il bagno, Parker organizzò una partita di pallavolo, corse sul bagnasciuga, e impegnò Dom e i ragazzi in un complicato gioco di sua invenzione con due frisbee, un pallone da spiaggia e una lattina vuota. Sotto la sua direzione, costruirono anche un castello di sabbia, con tanto di drago minaccioso. Più tardi, durante la cena all'Hamburger Hamlet, mentre Duke e Denny erano in bagno, Parker disse: "Dom, mio buon amico, questa cosa dei Big Brothers è stata senz'altro una delle migliori idee che io abbia mai avuto." "Che tu abbia mai avuto?" replicò Dominick, scuotendo la testa. "Ma se ho dovuto tirartici dentro per i capelli." "Sciocchezze. Io ci ho sempre saputo fare con i ragazzi. Ogni artista è un po' bambino nel cuore. Dobbiamo restare giovani per creare. Io trovo che i ragazzi mi stimolino, mi tengano la mente fresca." "Tra un po' mi dirai che hai deciso di prendere un cane." Parker rise. Finì la sua birra, si chinò in avanti. "Tutto OK, Dom? Oggi, a momenti, sembravi... distratto, via con la testa." "Ho un po' di pensieri," rispose Dominick. "Ma sto bene. Il sonnambulismo mi sta lasciando abbastanza in pace. E anche i sogni. Cobletz sa cosa sta facendo." "Il nuovo libro procede bene? Non raccontarmi balle." "Sì, va avanti bene," mentì Dom. "A volte hai quell'espressione assente... sembri fatto." Parker lo guardò
attentamente. "Ti stai attenendo al dosaggio prescritto, vero?" La perspicacia del pittore sconcertò Dom. "Naturale che mi attengo al dosaggio prescritto. Dovrei essere un idiota per ingoiare Valium come fossero caramelle." Parker lo fissò duramente, ma decise di non insistere. Il film era buono, ma durante i primi trenta minuti Dom diventò nervoso senza ragione. Quando sentì che il nervosismo stava minacciando di culminare in una crisi d'ansia, andò ai servizi. Si era portato un altro Valium, nell'eventualità di un'emergenza del genere. La cosa importante era che ce la stava facendo. Andava già molto meglio. Il sonnambulismo non aveva più potere su di lui. Veramente. Il forte odore di pino del disinfettante non riusciva a coprire del tutto l'acre puzzo degli orinatoi. Dom sentì una leggera nausea. Mandò giù il Valium senz'acqua. Quella notte, nonostante le pillole, fece di nuovo il sogno, e ne ricordò qualcosa di più che la parte in cui gli spingevano la testa nel lavandino. Era in un letto in una stanza sconosciuta, dove l'aria sembrava satura di un'oleosa foschia color zafferano. O forse la nebbia ambrata era solo nei suoi occhi, perché non riusciva a vedere niente con chiarezza. C'erano almeno due persone presenti, ma le loro forme, come quelle dei mobili oltre il letto, tremolavano e si distorcevano, come se quello fosse un mondo fatto solo di fumo e fluido, dove niente aveva un aspetto fisso. Gli pareva quasi di trovarsi sott'acqua, immerso in un freddo, misterioso mare. L'atmosfera nel luogo del sogno aveva più peso che se fosse stata semplice aria. Riusciva a malapena a respirare. Ogni inspirazione ed espirazione erano una sofferenza. Sentiva che stava morendo. Le due figure sfocate si avvicinarono. Sembravano preoccupate delle sue condizioni. Parlarono concitatamente tra loro. Benché parlassero inglese, non riusciva a capire quel che dicevano. Una mano fredda lo toccò. Sentì un tintinnio di vetro. Da qualche parte una porta si chiuse. Con la subitaneità del passaggio da una scena all'altra in un film, il sogno si trasferì in un bagno o una cucina. Qualcuno gli stava spingendo la faccia nel lavandino. Respirare era diventato ancora più difficile. L'aria era come fango: a ogni inspirazione gli intasava le narici. Tossì e boccheggiò e cercò di soffiare fuori la densa aria melmosa, e le due persone con lui gli gridavano qualcosa, ma come prima non riusciva a capirle, e gli spingevano la faccia nel lavandino... Dom si svegliò ed era ancora a letto. La domenica era stato sbalzato fuo-
ri dall'incubo solo per scoprire di aver camminato nel sonno e mimato il sogno al lavandino del proprio bagno. Questa volta, fu sollevato di ritrovarsi sotto le lenzuola. Sto migliorando, pensò. Tremando, si alzò a sedere e accese la luce. Niente barricate. Nessun segno di attività dettate dal panico nel sonno. Guardò la sveglia digitale: erano le due del mattino. Sul comodino c'era una lattina semipiena di birra calda. Ne bevve un sorso per mandare giù un altro Dalmane. Sto migliorando. Era venerdì, 13 dicembre. 9 Elko County, Nevada Venerdì notte, tre giorni dopo la sua strana esperienza sulla interstatale 80, Ernie Block non riuscì a chiudere occhio. Rimase a letto, avviluppato nell'oscurità, con i nervi sempre più tesi, finché pensò che si sarebbe messo a urlare senza riuscire più a smettere. Scivolando fuori del letto più silenziosamente che poteva, fermandosi per assicurarsi che il lento e regolare respiro di Faye non fosse cambiato, andò in bagno, chiuse la porta, accese la luce. Meravigliosa luce. Si sentiva rinascere, alla luce. Abbassò il coperchio del water, ci si sedette sopra, con indosso solo la biancheria intima, e rimase per un quarto d'ora a crogiolarsi nella confortante luminosità, come una lucertola al sole. Alla fine si convinse che doveva tornare in camera. Se fosse rimasto lì troppo a lungo e Faye si fosse svegliata, avrebbe cominciato a pensare che qualcosa non andava, e lui era determinato a non fare niente che potesse insospettirla. Anche se non aveva usato il water, tirò l'acqua come copertura, e andò al lavandino a lavarsi le mani. Quando fece per prendere l'asciugamano i suoi occhi furono attratti dall'unica finestra della stanza. Era sopra la vasca da bagno, un rettangolo largo circa un metro e alto mezzo, e si apriva verso l'esterno, girando su cardini sul lato superiore. Benché il vetro smerigliato non lasciasse vedere niente della notte di fuori, Ernie rabbrividì mentre fissava il pannello opaco. Ma più inquietante dei brividi, fu la ridda di pensieri che improvvisamente lo assalirono. La finestra è abbastanza grande
per passarci, e sotto c'è il tetto della rimessa, potrei saltarci sopra, e da lì a terra, scappare per le colline da dietro il motel, andare a est, raggiungere la prima fattoria e chiedere aiuto... Sbattendo furiosamente le palpebre mentre la rapida sequenza di pensieri che aveva attraversato la sua mente si dileguava, Ernie si accorse di essere andato dal lavandino alla vasca da bagno. Non ricordava di essersi mosso. Era sconcertato da quell'istinto di fuga. Da chi? Da cosa? Perché? Quella era casa sua. Non aveva niente da temere tra quelle pareti. Eppure non riusciva a distogliere lo sguardo dal vetro translucido della finestra. Uno strano senso di irrealtà era sceso su di lui. Ne era cosciente, ma era incapace di riscuotersi. Devo andarmene, scappare, è la sola possibilità, non ci sarà un'altra occasione come questa, devo andare, adesso, subito... Senza rendersene conto, aveva scavalcato il bordo della vasca, mettendosi direttamente davanti alla finestra, che era incassata nella parete a livello della sua faccia. La porcellana era fredda sotto i suoi piedi nudi. Gira la maniglia, spingi in fuori la finestra, sali sul bordo della vasca, issati sul davanzale, salta fuori e corri via, tre o quattro minuti di vantaggio prima che si accorgano della tua assenza, non molto ma abbastanza... Il panico crebbe in lui senza motivo. Si sentiva tremolare le viscere, respirava affannosamente. Senza sapere perché lo stesse facendo, ma incapace di fermarsi, aprì la maniglia sul lato inferiore della finestra. Spinse in fuori il pannello. Non era solo. C'era qualcosa dall'altra parte della finestra, là fuori sul tetto, qualcosa con una faccia scura, informe, lucida. Ernie si ritrasse di scatto, e nello stesso momento realizzò che era un uomo con un casco bianco, la cui visiera, tanto scura da essere praticamente nera, gli nascondeva l'intero volto. Una mano guantata di nero si protese attraverso la finestra, come per afferrarlo. Con un grido, Ernie arretrò di un passo, senza pensare che aveva dietro il bordo della vasca. Vacillò all'indietro, si aggrappò alla tenda della doccia, strappandola da diversi dei suoi anelli, ma non poté evitare di cadere pesantemente all'indietro sul pavimento del bagno. Un acuto dolore gli attraversò il fianco destro. "Ernie!" gridò Faye, e un attimo dopo spalancò la porta. "Ernie, mio Dio, cos'è successo?" "Sta' indietro." Lui si rialzò faticosamente. "C'è qualcuno là fuori." La fredda aria notturna entrò dalla finestra aperta, facendo frusciare la
tenda mezzo strappata della doccia. Faye rabbrividì, perché dormiva con indosso solo gli slip e una giacca da pigiama. Anche Ernie rabbrividì, ma in parte per ragioni differenti. Il pulsante dolore al fianco aveva bruscamente scacciato il senso di irrealtà, e nel subitaneo recupero della lucidità mentale si domandò se l'individuo col casco fosse stato solo un'allucinazione. "Sul tetto?" domandò Faye. "Alla finestra? Chi?" "Non lo so." Massaggiandosi il fianco destro, Ernie rientrò nella vasca e sbirciò di nuovo dalla finestra. Questa volta non vide nessuno. "Che aspetto aveva?" "Non saprei dirlo. Era vestito da motociclista. Casco, guanti," rispose Ernie, rendendosi conto di come la cosa suonasse assurda. Si issò sul davanzale, abbastanza per sporgersi a guardare il tetto sottostante. L'ombra era compatta, ma non abbastanza da nascondere un uomo. L'intruso era andato via, se mai c'era stato. Tutto a un tratto, Ernie si accorse della vasta oscurità dietro il motel. Si estendeva per le colline, verso le distanti montagne: era un'immensa massa nera alleviata solo dalle stelle. Istantaneamente, fu sopraffatto da un paralizzante senso di debolezza e vulnerabilità, e il fiato gli si mozzò in gola. Si lasciò ricadere nella vasca e fece per allontanarsi dalla finestra. "Chiudila," disse Faye. Serrando gli occhi per evitare la vista della notte, Ernie cercò a tentoni la maniglia e chiuse la finestra con tanta forza che quasi ruppe il vetro. Quando uscì dalla vasca, vide la preoccupazione negli occhi di Faye, come si aspettava. Scorse la sorpresa, che pure si aspettava. Ma scorse anche una penetrante consapevolezza alla quale era impreparato. Per un lungo momento si guardarono l'un l'altro, senza parlare. Poi Faye ruppe il silenzio. "Sei pronto per parlarmene?" "Te l'ho già detto... mi sembrava di aver visto qualcuno." "Non mi riferivo a questo, Ernie. Voglio dire, sei pronto per spiegarmi cosa c'è che non va, cos'è che ti rode?" Lo guardò dritto negli occhi, con fermezza. "Da un paio di mesi a questa parte. Forse di più." Lui era stupefatto. Credeva di averlo nascosto così bene. "Caro, tu sei preoccupato," continuò Faye. "Preoccupato come non ti ho mai visto prima. E spaventato." "No. Non esattamente spaventato." "Sì. Spaventato," insistette lei. Ma non c'era disprezzo nel suo tono o nei
suoi occhi: solo desiderio di aiutare. "Ti ho visto spaventato una sola volta prima d'ora, Ernie, quando Lucy aveva cinque anni e le venne quella febbre muscolare, e pensavano che potesse essere distrofia." "Dio, sì, ho avuto una paura da morire, quella volta." "Ma mai più da allora." "Oh, ho avuto paura in Vietnam, qualche volta," disse lui, e la sua ammissione echeggiò tra le pareti del bagno. "Ma io non c'ero." Faye si strinse tra le braccia. "È raro che io ti veda spaventato, Ernie, così quando lo sei tu, lo sono anch'io. Non posso farne a meno. E ho ancora più paura se non so cosa succede. Capisci? Lasciarmi così, a brancolare nel buio... questo è peggio di qualunque segreto tu mi stia nascondendo." Ernie vide le lacrime salirle agli occhi. "Ehi... dai, non piangere. Andrà tutto bene, Faye. Davvero." "Dimmelo!" "Okay." "Adesso. Tutto." Ernie si sentì un idiota per averla così clamorosamente sottovalutata. Dopo tutto, lei era la moglie di un marine, e in gamba, anche. Lo aveva seguito da Quantico a Singapore a Pendleton in California, perfino in Alaska, dappertutto eccetto in Vietnam e, più tardi, a Beirut. Aveva creato una casa per loro ovunque il corpo dei marines le avesse consentito di andare con lui; aveva sopportato i momenti più difficili con ammirevole padronanza di sé, senza mai lamentarsi, sempre all'altezza della situazione. Era una donna forte. Non sapeva proprio come avesse fatto a dimenticarselo. "Tutto," acconsentì. Era un sollievo poter spartire con lei il suo fardello. Faye preparò del caffè, poi si sedettero insieme al tavolo di cucina, in vestaglia e pantofole, mentre lui le raccontava tutto. Ernie era chiaramente imbarazzato. Stentava a rivelare i particolari, ma lei sorseggiò il suo caffè, fu paziente, e lasciò che le spiegasse la situazione a modo suo. Per Faye, Ernie era il miglior marito che una donna potesse desiderare, ma di tanto in tanto si trovava a scontrarsi con la testardaggine tipica dei Block. Tutti nella sua famiglia ne erano afflitti, in special modo gli uomini. I Block facevano le cose in questo modo, mai in quello, e guai a metterlo in discussione. Gli uomini volevano la biancheria stirata, ma non le mutande. Le donne portavano sempre il reggiseno, anche in casa, nella più afosa giornata d'estate. I Block, uomini e donne, pranzavano sempre alle
dodici e trenta precise, e cenavano alle sei e trenta in punto, e se il cibo veniva messo in tavola due minuti più tardi sembrava che cascasse il mondo. I Block guidavano solo macchine General Motors; e non perché le ritenessero molto migliori delle altre, ma perché i Block avevano sempre guidato macchine General Motors. Ernie era molto meno monolitico del padre e dei fratelli. Era stato abbastanza saggio da andarsene da Pittsburgh, dove i Block avevano vissuto per generazioni nello stesso quartiere, e nel mondo reale, fuori del Regno dei Block, era diventato più elastico. Nel corpo dei marines non poteva certo pretendere di mangiare esattamente all'ora dettata dalla tradizione dei Block. E subito dopo sposati, Faye gli aveva messo ben in chiaro che sarebbe stata un'ottima moglie, ma non intendeva lasciarsi vincolare da usanze insensate. Ernie si era adattato, anche se non sempre con facilità, e adesso era la pecora nera della sua famiglia, colpevole di guidare veicoli marcati diversamente da GM, e altri gravi peccati del genere. Veramente, il solo campo in cui la caparbietà di famiglia restava ancora radicata in lui era quello del rapporto uomo-donna. Ernie credeva che un marito dovesse proteggere la moglie da una varietà di spiacevolezze che lei era semplicemente troppo fragile per affrontare. Credeva che un marito non dovesse mai lasciarsi vedere dalla moglie in un momento di debolezza. Benché il loro matrimonio non fosse mai stato portato avanti secondo queste regole, Ernie non sempre sembrava comprendere di aver abbandonato le tradizioni dei Block oltre un quarto di secolo prima. Faye si era accorta da mesi che il marito era tormentato da qualche serio problema, ma lui aveva continuato a fare ostruzionismo, sforzandosi di sostenere la parte del sereno marine in pensione, felicemente lanciato in una seconda carriera nel settore alberghiero. Era convinto che la moglie non si fosse accorta del fuoco che lo consumava dall'interno, e tutti i suoi sottili e pazienti tentativi di indurlo a confidarsi gli erano scivolati addosso. Durante le ultime settimane, dopo il suo ritorno dal Wisconsin, Faye aveva notato sempre più chiaramente la sua riluttanza, perfino incapacità, a uscire di notte. Sembrava che lui non riuscisse a trovar pace in una stanza dove anche una sola lampada era lasciata spenta. Ora, mentre stavano seduti in cucina davanti a una fumante tazza di caffè, le finestre ben chiuse e tutte le luci accese, Faye ascoltò attentamente Ernie, intervenendo solo quando lui sembrava aver bisogno di una parola di incoraggiamento per andare avanti, e niente di quel che le disse fu più di quanto lei potesse sopportare. Anzi, ne fu sollevata, perché adesso era pra-
ticamente certa di aver capito quale fosse il problema del marito, e come lo si potesse aiutare. Lui finì di raccontare, la voce bassa e debole. "E così... è questa la ricompensa per tutti gli anni di duro lavoro e accurata pianificazione finanziaria? Senilità precoce? Adesso che possiamo davvero cominciare a goderci quello che abbiamo guadagnato, sono condannato a finire rimbecillito, inutile a me stesso e un peso per te? Vent'anni prima del tempo? Cristo, Faye, ho sempre saputo che la vita non è giusta, ma non ho mai pensato che mi sarebbe toccata una simile disgrazia." "Non sarà così." Lei tese la mano attraverso il tavolo a prendere quella di lui. "Certo, il morbo di Alzheimer può colpire persone anche più giovani di te, ma non è di questo che si tratta. Da quello che ho letto, e da come è stato con mio padre, non mi risulta che siano questi i sintomi della senilità incipiente, prematura o no. Per me la tua ha l'aria di essere una semplice fobia. Certe persone hanno un'irrazionale paura del buio o dell'altezza. Tu, per qualche ragione, hai sviluppato una paura del buio, ma è superabile." "Ma le fobie non si sviluppano da un giorno all'altro." Faye strinse la mano destra di Ernie, ancora allacciata alla sua. "Ti ricordi Dorfman? Quasi vent'anni fa. La nostra padrona di casa quando tu fosti assegnato a Camp Pendleton." "Ah, sì! La palazzina in Vine Street. Noi stavamo al numero sei, e lei al numero uno, primo piano sul davanti." Ernie sembrava rincuorato dalla sua capacità di ricordare quei dettagli. " Aveva un gatto... Sable. Ci aveva presi in simpatia, quel dannato animale. Ti ricordi i regalini che ci lasciava davanti alla porta?" "Topi morti." "Già. Al mattino li trovavamo lì insieme al latte e al giornale." Ernie rise, poi sbattè gli occhi. "Ehi, ho capito perché hai tirato fuori Helen Dorfman! Aveva paura a mettere il naso fuori del suo appartamento. Non usciva nemmeno in cortile." "La poveretta soffriva di agorafobia, un'irrazionale paura degli spazi aperti. Era prigioniera nella sua stessa casa. Fuori, veniva colta da crisi di panico: così dicevano i dottori, mi pare." "Sì, esatto," confermò a bassa voce Ernie. "Crisi di panico." "Ed Helen ha cominciato a soffrire di agorafobia solo dopo i trentacinque anni, quando è morto suo marito. Le fobie possono saltare fuori all'improvviso, anche in età matura." "Be', qualunque accidente di cosa sia una fobia, da qualunque parte salti
fuori, credo che sia sempre meglio della senilità. Ma buon Dio, non voglio passare il resto della mia vita con la paura del buio." "Non è un destino ineluttabile," lo rassicurò Faye. "Ventiquattro anni fa, nessuno capiva le fobie. Non le avevano ancora studiate abbastanza, e non c'erano trattamenti efficaci. Ma oggi non è più così. Ne sono certa." Lui restò in silenzio per un momento. "Non sono pazzo, Faye." "Lo so, stupido." Lui rimuginò sulla parola "fobia", cercando di convincersi che Faye avesse ragione. Lei vide un barlume di speranza rinascere nei suoi occhi azzurri. "Ma la strana esperienza che ho avuto sull'interstatale martedì..." disse Ernie, come pensando ad alta voce. "E l'allucinazione del motociclista sul tetto, perché sicuramente doveva essere un'allucinazione... Come si spiegano fatti del genere? Come si possono inserire nel quadro di una fobia?" "Non lo so. Questo può dirlo solo un esperto. Ma sono sicura che non sia niente di tanto inconsueto, Ernie." Lui riflette per un momento, poi annuì. "Okay. Ma da dove cominciamo? Da chi andiamo a chiedere aiuto? Cosa devo fare per sconfiggere questa dannata cosa?" "Ci ho già pensato," rispose Faye. "Nessun dottore di Elko è in grado di trattare un caso come questo. Abbiamo bisogno di uno specialista, qualcuno che veda pazienti fobici tutti i giorni. Probabilmente neanche a Reno c'è qualcuno che faccia al caso nostro. Dovremo andare in una città più grande. Ora, suppongo che Milwaukee sia abbastanza grande per avere un dottore con esperienza in questo campo; potremmo stare da Lucy e Frank..." "E approfittarne per passare un bel po' di tempo con Frank Jr. e Dorie," disse Ernie, sorridendo al pensiero dei suoi nipoti. "Certo. Andremo lì per Natale una settimana prima del previsto, questa domenica invece che la prossima. Che poi sarebbe domani, visto che è già sabato. Una volta a Milwaukee cercheremo un dottore, poi vedremo come si mette. Se viene fuori che dobbiamo restare lì un pezzo, io tornerò qui, troverò una coppia a tempo pieno che mandi avanti il motel per noi e poi ti raggiungerò. Avevamo comunque in programma di prendere qualcuno la prossima primavera." "Se chiudiamo il motel con una settimana di anticipo, Sandy e Ned ci rimetteranno un po'." "Ned avrà lo stesso i camionisti. E se fa incassi meno buoni del solito, lo risarciremo noi."
Ernie scosse la testa e sorrise. "Hai organizzato tutto. Sei in gamba, Faye. Davvero. Non finisci mai di sorprendermi." "Sì, devo riconoscere che a volte posso essere abbastanza stupefacente." "Dico sul serio. Tutti i giorni ringrazio Dio per averti trovata." "Anch'io non ho alcun rimpianto, Ernie, e so che non ne avrò mai." "Sai, mi sento già mille volte meglio di quando ci siamo messi a sedere qui. Mi chiedo perché mi ci sia voluto così tanto per chiedere il tuo aiuto." "Perché? Perché sei un Block," replicò Faye. Ernie sorrise e terminò il vecchio scherzo: "Che è come dire una testa dura come un blocco di granito." Risero entrambi. Lui le prese di nuovo la mano e gliela baciò. "Questa è la prima vera risata che faccio da settimane. Noi due siamo un'accoppiata vincente, Faye. Insieme possiamo affrontare qualunque cosa, non è vero?" "Qualunque cosa," ribadì lei. Era quasi l'alba di sabato, 14 dicembre, e Faye era sicura che avrebbero superato anche quel problema, come sempre quando lottavano insieme. Sia lei sia Ernie avevano già dimenticato la misteriosa polaroid che avevano ricevuto il martedì in una busta in bianco. 10 Boston, Massachusetts Sopra il lucido cassettone d'acero, su un elaborato centrino all'uncinetto, c'erano un paio di guanti neri e un oftalmoscopio d'acciaio inossidabile. Ginger Weiss, in piedi davanti alla finestra a sinistra del cassettone, guardava la baia, dove l'acqua grigia sembrava un'immagine allo specchio del cielo cinereo di metà dicembre. Le rive più distanti erano celate da una foschia mattutina dalla luminosità perlacea. Sul limitare della proprietà degli Hannaby, in fondo a un pendio roccioso, una darsena privata sporgeva tra le onde dell'oceano. Il molo era coperto di neve, come la vasta distesa di prato che riportava alla casa. Era una casa grande, costruita intorno alla metà del diciannovesimo secolo, con nuove stanze aggiunte nel 1892, e ancora nel 1950. Il vialetto d'accesso in mattoni svoltava sotto un enorme portico frontale, e ampi, solidi scalini salivano al massiccio portone. Colonne, pilastri, architravi di granito intagliato sopra porte e finestre, una moltitudine di frontoni e lucernari circolari, i balconi posteriori del primo piano rivolti verso la baia,
tutto contribuiva a dare un'impressione di maestosità. Anche per un chirurgo di successo come George, la casa avrebbe potuto essere troppo costosa, ma lui non aveva dovuto comprarla. L'aveva ereditata da suo padre, e suo padre l'aveva ereditata dal nonno di George, il cui padre l'aveva comprata nel 1884. La casa aveva perfino un nome, Baywatch, come le dimore gentilizie nei romanzi inglesi, e questo, più di ogni altra cosa, metteva soggezione a Ginger. Le case di Brooklyn, da dove lei veniva, non avevano nomi propri. Al Memorial, Ginger non si era mai sentita a disagio di fronte a George. Lì, lui era una figura autoritaria, e certamente incuteva rispetto, ma a parte questo sembrava fatto di pasta comune, come chiunque altro. Ma a Baywatch, ogni cosa parlava del suo nobile retaggio, e questo rendeva George differente da lei. Non aveva mai rivendicato alcun privilegio, non sarebbe stato da lui. Ma il fantasma del patriziato del New England aleggiava nelle stanze e nei corridoi di Baywatch, facendola sentire fuori posto. La suite d'angolo destinata agli ospiti - camera da letto, salottino di lettura e bagno - in cui Ginger si era sistemata da dieci giorni era abbastanza semplice rispetto al resto della casa, e lì si sentiva a suo agio quasi quanto nel suo appartamento. Buona parte del pavimento in quercia era coperto da un tappeto Serapi in sfumature di azzurro e pesca. Le pareti erano color pesca, il soffitto bianco. I mobili d'acero, che consistevano in bauli di varie fogge e dimensioni usati come tavoli, comodini e cassettoni, venivano tutti dai velieri appartenuti nel diciannovesimo secolo al bisnonno di George. Le due poltrone erano rivestite in seta color pesca. Le basi delle lampade sui comodini erano in realtà bugie Baccarat. Ogni particolare ricordava che l'apparente semplicità della stanza poggiava su un fondamento di eleganza. Ginger andò al cassettone e posò lo sguardo sui guanti neri sopra il centrino. Come aveva fatto innumerevoli volte durante gli ultimi dieci giorni, infilò i guanti e flesse le mani, aspettandosi un accesso di paura. Ma erano solo normali guanti che aveva acquistato il giorno in cui era stata dimessa dall'ospedale, e non avevano il potere di portarla sull'orlo di una fuga. Li tolse. Sentì bussare alla porta, poi la voce di Rita Hannaby: "Ginger, cara, sei pronta?" "Arrivo." Prendendo la borsa dal letto, Ginger lanciò un'ultima, rapida occhiata allo specchio. Indossava un completo in maglia verde limone con una blusa color panna chiusa al collo da un semplice fiocco che riprendeva il verde della giac-
ca e della gonna. L'insieme includeva un paio di scarpe scollate di vernice intonate al completo, la borsetta coordinata, e un bracciale d'oro e malachite, e si adattava perfettamente alla sua carnagione e ai capelli dorati. Aveva un aspetto chic, pensò. Be', forse non proprio chic, ma almeno distinto. Però, quando uscì in corridoio e diede uno sguardo a Rita Hannaby, Ginger si sentì in netto svantaggio, una semplice aspirante allo stile. Rita, a cinquantotto anni, era snella quanto Ginger, ma più alta di una spanna, e tutto in lei era regale. I capelli castani le lasciavano libero il volto grazie a un taglio sfumato ad arte. Se le sue ossa facciali fossero state più squisitamente cesellate, sarebbe apparsa severa. Comunque, bellezza e calore le erano assicurati dai luminosi occhi grigi, dall'incarnato perfetto e dalla bocca generosa. Rita indossava un tailleur St. John grigio, collana e orecchini di perle e un cappello nero a tesa larga. La cosa straordinaria era che la raffinatezza di Rita non risultava studiata. Non dava mai l'impressione di una che avesse passato ore a prepararsi. Piuttosto, si sarebbe detto che fosse nata con un aspetto impeccabilmente curato e un guardaroba di gran classe: l'eleganza era la sua condizione naturale. "Ginger, sei splendida!" esclamò Rita, vedendola. "Vicino a te, mi sento una sciattona." "Sciocchezze. Non potrei competere con te neanche se avessi vent'anni di meno, mia cara. Aspetta di vedere chi vezzeggeranno di più i camerieri, oggi a pranzo." Ginger non aveva alcuna falsa modestia. Sapeva di essere attraente. Ma la sua bellezza era più quella di una fatina, mentre Rita aveva l'aria aristocratica di una che avrebbe potuto sedersi su un trono e convincere il mondo che quello era il suo posto. Rita non aveva fatto assolutamente nulla per provocare il recente complesso di inferiorità di Ginger. La donna la trattava non come una figlia, ma come una sorella, da pari a pari. Il senso di inadeguatezza di Ginger, lei lo sapeva, era una diretta conseguenza della sua patetica condizione. Fino a due settimane prima, non si era trovata a dipendere da nessuno. Ora era di nuovo dipendente, non del tutto in grado di badare a se stessa, e il suo amor proprio ne risentiva ogni giorno un po' di più. Il buonumore di Rita Hannaby, il suo costante incoraggiamento e le uscite che organizzava con cura non erano sufficienti a distrarre Ginger dal crudele fatto che la sorte l'aveva nuovamente calata, a trent'anni, nel frustrante ruolo di una bambina.
Insieme, scesero nell'atrio di marmo, dove presero i loro soprabiti dall'armadio, poi uscirono di casa e raggiunsero la Mercedes nera che le attendeva sul vialetto. Herbert, il prezioso maggiordomo tuttofare degli Hannaby, aveva portato la macchina davanti ai gradini del portico cinque minuti prima, lasciando il motore acceso, così che l'interno offrisse un caldo rifugio dal rigore della giornata invernale. Rita guidò con la sua consueta sicurezza fuori della vecchia proprietà, per quiete strade fiancheggiate da spogli aceri e olmi e poi attraverso vie sempre più ampie e trafficate, diretta allo studio del dottor Immanuel Gudhausen, nella centralissima State Street. Ginger aveva appuntamento con Gudhausen per le undici e trenta. C'era già stata due volte la settimana precedente, e avrebbe dovuto tornarci ogni lunedì, mercoledì e venerdì, finché non fossero arrivati a vedere chiaro nelle sue fughe. Nei momenti di peggiore sconforto, Ginger era sicura che a sessantenni sarebbe stata ancora distesa sul lettino di Gudhausen. Rita intendeva fare un po' di shopping mentre Ginger era dal dottore. Poi sarebbero andate a pranzo in qualche raffinato ristorante dove, senza dubbio, l'ambiente sarebbe parso creato apposta per far risaltare Rita Hannaby, e nel quale Ginger si sarebbe sentita come una scolaretta che stesse scioccamente tentando di farsi passare per un'adulta. "Hai pensato a quello che ti ho suggerito venerdì scorso?" domandò Rita mentre guidava. "Entrare nel gruppo femminile ausiliare dell'ospedale." "Non credo proprio di sentirmela. Mi troverei così a disagio." "È un'iniziativa importante," le fece notare Rita, sgusciando con destrezza in un varco del traffico. "Lo so. Ho visto quanto denaro avete raccolto per l'ospedale, le nuove attrezzature che avete comprato, ma penso che per il momento farei meglio a stare lontana dal Memorial. Sarebbe troppo frustrante stare lì intorno, mi ricorderebbe costantemente che non posso fare il lavoro per cui ho studiato." "Ti capisco, cara. Non pensarci più. Ma ci sono altre associazioni in cui il tuo aiuto ci farebbe comodo. La Lega femminile per gli anziani, per esempio. O il Comitato per la difesa dell'infanzia." Rita era impegnatissima nelle opere di carità, e non si limitava a presiedere comitati e organizzare serate di beneficenza, ma si sporcava le mani nel lavoro pratico. "Che ne dici?" insistette. "Sono sicura che troveresti specialmente gratificante lavorare con i bambini." "Ma Rita, se mi venisse uno dei miei attacchi mentre sono con i bambi-
ni? Li spaventerei, e..." "Oh, quante sciocchezze," tagliò corto Rita. "Tutte le volte che ti ho tirata fuori di casa nelle ultime due settimane, hai usato questa stessa scusa per cercare di restartene nella tua stanza. 'Oh, Rita,' dici, 'avrò una delle mie crisi e ti metterò in imbarazzo.' Ma non ne hai avute, e non ne avrai. E se anche dovesse succedere, io non sono una che si imbarazza facilmente, cara." "Non ho mai pensato per un solo momento che tu sia una timida mammoletta. Ma non mi hai mai vista durante una crisi. Non sai come sono o..." "Oh, per l'amor del cielo! A sentire te, saresti una specie di Dr Jekyll e Mr Hyde, o Mrs Hyde. Ma se non sbaglio, non hai ancora bastonato a morte nessuno, non è vero, Mrs Hyde?" Ginger rise e scosse la testa. "Sei in gamba, Rita." "Eccellente. Sarai di grande aiuto all'organizzazione." Benché Rita probabilmente non pensasse a Ginger come a uno dei bisognosi di cui si occupava, si era accostata a quell'opera di recupero e riabilitazione come a una nuova causa. Si era rimboccata le maniche, impegnandosi a condurla fuori dell'attuale crisi, e niente al mondo l'avrebbe fermata. Ginger era commossa dalla preoccupazione di Rita, e depressa dal fatto di esserne la causa. Si fermarono a un semaforo, terza macchina in coda, con automobili, camion, taxi e furgoni tutt'intorno. Nella Mercedes, la cacofonia della città giungeva attutita, ma pur sempre frastornante, e quando Ginger guardò dal finestrino cercando la fonte di un rombo particolarmente fastidioso, vide una grossa motocicletta. Nello stesso momento il pilota girò la testa verso di lei, ma non poté vederlo in faccia: portava un casco integrale con la visiera scura. Per la prima volta da dieci giorni, la nebbia dell'amnesia scese su di lei. Questa volta successe molto più in fretta che con i guanti neri, l'oftalmoscopio o lo scarico del lavandino. Come vide la lucida visiera ebbe un tuffo al cuore, il fiato le si mozzò in gola, e venne istantaneamente trascinata via da una possente ondata di terrore. Era andata. Per prima cosa, Ginger si rese conto dei clacson. Clacson di automobili, clacson di autobus, clacson ad aria dei camion. Alcuni acuti come strida di animali, altri cupi e minacciosi. Schiamazzi, strepiti, lamenti, latrati. Aprì gli occhi. La vista le si schiarì. Era ancora in macchina. L'incrocio
era ancora di fronte a loro, ma evidentemente erano passati un paio di minuti e il traffico davanti si era mosso. Col motore acceso ma la marcia disinserita, la Mercedes era più vicina al marciapiede e leggermente di traverso, intralciando il traffico, ed era questa la causa del concerto di clacson. Ginger si sentì piagnucolare. Rita Hannaby era piegata sulla mensola che separava il posto di guida da quello del passeggero, vicinissima a Ginger, e le teneva ferme entrambe le mani, stringendole con forza. "Ginger? Ci sei? Stai bene? Ginger?" Sangue. Dopo il baccano assordante dei clacson, dopo la voce di Rita, Ginger si rese conto del sangue. Macchie rosse sul verde della sua gonna. Uno sbaffo scuro sulla manica della giacca. Le sue mani erano imbrattate di sangue, e lo stesso quelle di Rita. "Oh, mio Dio," mormorò. "Ginger, mi senti? Sei tornata indietro? Ginger?" Una delle curatissime unghie di Rita era spezzata. Graffi sanguinanti le sfregiavano le mani. I polsini del suo tailleur grigio erano bagnati di sangue. E per quel che Ginger poteva vedere, tutto il sangue era di Rita. "Ginger, parlami." Ginger alzò lo sguardo e vide che i capelli di Rita erano scompigliati. Un lungo graffio le segnava la guancia sinistra, e sangue misto a make-up le colava dalla mascella al mento. "Sei tornata." Rita tirò un sospiro di sollievo, lasciando andare le mani di Ginger. "Cos'ho fatto?" "Solo graffi. Niente di grave. Hai avuto una crisi. Sei stata presa dal panico e hai cercato di scendere dalla macchina. Non potevo certo lasciarti andare, in mezzo a questo traffico." Un automobilista, manovrando per superare la Mercedes, gridò rabbiosamente qualcosa di incomprensibile. "Ti ho fatto del male." Ginger inorridì al pensiero della propria violenza. Altri automobilisti suonarono il clacson con crescente impazienza, ma Rita li ignorò. Prese di nuovo le mani di Ginger, questa volta non per tenerla ferma, ma per darle conforto e rassicurazione. "Non è niente, cara. Adesso è passata, e un po' di tintura di iodio mi rimetterà a posto." Il motociclista. La visiera scura. Ginger guardò dal finestrino; il motociclista non c'era più. Era solo uno sconosciuto di passaggio, non certo una minaccia per lei. Un paio di guanti neri, un oftalmoscopio, uno scarico di lavandino, e ora la visiera scura di un casco da motociclista. Perché proprio questi oggetti
avevano fatto scattare in lei la molla del panico? Cosa potevano avere in comune? "Sono così dispiaciuta, Rita," disse tra le lacrime. "Non ce n'è bisogno. Ora, sarà meglio che ci leviamo di qui." Rita prese dei kleenex dalla scatola nel vano portaoggetti e li usò per tenere il volante e il cambio, in modo da non sporcarli di sangue. Con le mani bagnate dal sangue di Rita, Ginger si lasciò andare sul sedile e chiuse gli occhi, cercando inutilmente di frenare le lacrime. Quattro episodi psicotici in cinque settimane. Non poteva più scivolare placidamente attraverso le grigie giornate invernali, aspettando docile e inerme il prossimo attacco, o che, nel migliore dei casi, il problema si risolvesse da solo. Era lunedì, 16 dicembre, e Ginger era fermamente determinata a fare qualcosa prima che si verificasse una quinta crisi. Cosa, ancora non lo sapeva, ma era sicura che qualcosa le sarebbe venuto in mente, se solo avesse smesso di auto-commiserarsi e si fosse invece concentrata su quell'obiettivo: Ormai aveva toccato il fondo. L'umiliazione, la paura e lo sconforto non avrebbero potuto trascinarla più giù di così. Adesso poteva solo risalire e, per Dio, ce l'avrebbe fatta. Si sarebbe arrampicata con le unghie e con i denti fino alla superficie, su verso la luce, fuori del buio abisso in cui era precipitata. Vigilia di Natale – Natale 1 Laguna Beach, California Martedì, 24 dicembre, alle otto di mattina, Dom Corvaisis si alzò dal letto e andò a fare le sue abluzioni in uno stato di stordimento che era lo strascico dell'eccessiva dose di Valium e Dalmane presa il giorno prima. Per l'undicesima notte di fila non era stato disturbato né dal sonnambulismo, né dal brutto sogno del lavandino. La terapia stava funzionando, e lui era disposto a tollerare un periodo di lontananza dagli psicofarmaci pur di metter fine ai suoi snervanti vagabondaggi notturni. Del resto, non credeva di correre davvero il rischio di ritrovarsi dipendente - a livello fisico o perfino psicologico - dal Valium o dal Dalmane. Certo, aveva superato il dosaggio prescritto, ma non era preoccupato. A-
veva quasi finito le pillole, e per farsene prescrivere ancora dal dottor Cobletz si era inventato un furto, raccontando che gli psicofarmaci erano stati portati via insieme al suo stereo e al televisore. Dom aveva mentito al suo medico per procurarsi droghe farmaceutiche, e a volte vedeva il suo gesto esattamente in questa sgradevole luce; ma per lo più, nel dolce torpore che accompagnava la continua assunzione di tranquillanti, riusciva a rivestire d'illusione l'amara verità. Non osava pensare a cosa sarebbe stato di lui se a gennaio, dopo la sospensione delle pillole, si fossero ripresentati gli episodi di sonnambulismo. Alle dieci, incapace di concentrarsi abbastanza per lavorare, infilò un leggero giubbotto di velluto a coste e uscì di casa. La mattinata di tardo dicembre era fredda. Eccetto che per qualche sporadica giornata calda fuori stagione, le spiagge sarebbero state deserte fino ad aprile. Scendendo, Dom notò che Laguna appariva smorta sotto un cupo cielo grigio, e si domandò quanto di quella plumbea tetraggine fosse reale e quanto dipendesse dall'ottundimento causato dai farmaci. Abbandonò rapidamente quel preoccupante pensiero, ma prese atto di avere le percezioni un po' annebbiate e i riflessi meno pronti del solito, e guidò con particolare prudenza. Dom riceveva quasi tutta la corrispondenza all'ufficio postale. Essendo abbonato a numerose pubblicazioni, aveva affittato una grande cassetta piuttosto che una semplice casella, e quel giorno prima di Natale essa era piena più che a metà. Prese tutta la posta senza esaminarla, perché intendeva farlo con calma a colazione, e tornò alla macchina. Il Cottage, un ristorante popolare da decenni, era sul lato est della Pacific Coast Highway, sul pendio sopra la strada. A quell'ora, la ressa della colazione era già passata, e quella del pranzo non era ancora arrivata. Dom si sedette vicino alla finestra con la vista più bella e ordinò due uova, pancetta, patatine fritte, pane tostato e succo di pompelmo. Mentre mangiava, passò in rassegna la posta. Oltre a giornali e bollette, c'erano una lettera di Lennart Sane, l'agente svedese che si occupava dei diritti di traduzione in Scandinavia e Olanda, e un pacchetto della Random House. Non appena vide l'etichetta con l'indirizzo dell'editore, seppe cosa aveva in mano. Finalmente la sua mente cominciò a schiarirsi, il torpore parzialmente dissipato dall'eccitazione. Posò il toast che stava mangiando, lacerò l'involucro e ne tirò fuori una copia del suo primo romanzo. Nessun uomo può sapere cosa prova una donna quando prende per la prima volta
tra le braccia il suo bambino appena nato, ma l'emozione di un romanziere che prende in mano la prima copia del suo primo libro doveva essere qualcosa di simile. Dom si mise il libro accanto al piatto, riuscendo a malapena a staccarne gli occhi. Solo al momento del caffè fu in grado di distogliere la sua attenzione da Crepuscolo ed esaminare la posta restante. Tra le altre cose, c'era una busta bianca senza mittente, che conteneva un singolo foglio su cui erano scritte a macchina due frasi che lo fecero sussultare: Il sonnambulo farà bene a cercare nel passato le radici del suo problema. È lì che è sepolto il segreto. Lesse di nuovo, sbalordito. Un tremito si trasmise al foglio, facendolo frusciare. Un brivido freddo gli corse lungo il collo. 2 Boston, Massachusetts Scendendo dal taxi, Ginger si trovò davanti a un edificio di mattoni a sei piani, in stile gotico vittoriano. Un vento sferzante la investì, e i rami spogli degli alberi lungo Newbury Street si agitarono, scricchiolarono, schioccarono: un rumore sinistro, come di ossa. Proteggendosi alla meglio dalle raffiche gelide, oltrepassò lestamente una bassa ringhiera di ferro ed entrò al numero 127, l'ex Hotel Agassiz, uno dei più begli edifici d'epoca della città, ora convrrtito in condominio. Era andata lì per vedere Pablo Jackson, del quale sapeva solo ciò che aveva letto sul Boston Globe del giorno prima. Aveva lasciato Baywatch dopo che George e Rita erano usciti, lui per andare all'ospedale e lei per fare alcune compere natalizie dell'ultimo momento, perché temeva che avrebbero cercato di fermarla. E difatti Lavinia, la cameriera, l'aveva supplicata di non uscire da sola. Ginger aveva lasciato un biglietto, spiegando dove si trovava, e sperava che non sarebbero stati troppo in pensiero per lei. Quando Pablo Jackson aprì la porta, Ginger fu alquanto sorpresa. Era un uomo di colore sugli ottant'anni, e questo lo sapeva, perché lo aveva letto nell'articolo del Globe. Ma non si aspettava un ottuagenario così vitale e vigoroso. Era di media statura e smilzo, ma l'età non gli aveva deformato
le gambe, né incurvato le spalle o la schiena. Stava militarmente eretto, in camicia bianca e calzoni neri spiegazzati, e c'era una giovanile vivacità nel suo sorriso e nel modo in cui la invitò a entrare. I suoi capelli fittamente ricciuti non si erano diradati, ma erano diventati così bianchi che sembravano emanare una luce spettrale, dandogli una curiosa aura mistica. Accompagnò Ginger in salotto, muovendosi col passo deciso ed elastico di un uomo con quaranta o cinquant'anni meno dei suoi. Il salotto fu pure una sorpresa: era ben diverso da quello che si sarebbe aspettata da un vecchio monumento come l'Hotel Agassiz, o da Pablo Jackson, uno scapolo ultraottantenne. Le pareti erano color crema, e i divani e le poltrone, di foggia contemporanea, erano rivestiti di tessuto in tinta. Un tappeto Edward Fields nella stessa sfumatura dava movimento al tema dominante grazie a un motivo di onde in rilievo. Il colore era dato dai cuscini in toni pastello - giallo, pesca, verde e azzurro - sparsi sui divani, e da due grandi dipinti a olio, di cui uno di Picasso. Il risultato era un ambiente luminoso, accogliente e moderno. Ginger si accomodò in una delle due poltrone sistemate una di fronte all'altra, con un tavolino in mezzo, vicino a una lunga finestra a bovindo. Rifiutò un caffè e disse: "Mr Jackson, temo di essere qui sotto mentite spoglie." "Che esordio interessante," commentò lui, con un sorriso, accavallando le gambe e posando le nere mani dalle lunghe dita sui braccioli della poltrona. "No, davvero, non sono una reporter." "Non è un'inviata di People? Be', poco male. Lo avevo immaginato. Al giorno d'oggi, i giornalisti hanno un che di untuoso, e sono arroganti. Appena l'ho vista, mi sono detto: 'Pablo, questa ragazza non è una giornalista. È una persona vera.'" "Ho bisogno di un aiuto che solo lei può darmi." "Una damigella in difficoltà?" Pablo Jackson non sembrò irritato o diffidente, come lei si aspettava: solo divertito. "Temevo che non mi avrebbe ricevuta se le avessi detto il vero motivo per cui volevo incontrarla," spiegò Ginger. "Vede, io sono un dottore, sto facendo l'internato chirurgico al Memorial Hospital, e quando ho letto l'articolo del Globe su di lei, ho pensato che avrebbe potuto aiutarmi." "Sarei stato lieto di vederla anche se avesse venduto enciclopedie. Un ottantunenne non può permettersi di respingere nessuno... a meno che preferisca passare il resto dei suoi giorni parlando con i muri."
Ginger apprezzò i suoi sforzi per metterla a proprio agio, ma sospettava che la vita sociale di Pablo Jackson fosse più intensa della sua. "Del resto," continuò lui, "nemmeno un vecchio fossile rinsecchito come me si sognerebbe mai di mandare via una ragazza così graziosa. Ma ora, mi dica in cosa consiste questo aiuto che solo io posso darle." Ginger si chinò in avanti. "Prima, devo sapere se quel che riportava l'articolo era esatto." ^ Lui si strinse nelle spalle. "Abbastanza. Nei limiti di quanto lo sono sempre gli articoli di giornale. I miei genitori erano americani espatriati in Francia, proprio come diceva il giornale. Lei era una nota chanteuse, si esibiva nei caffè-concerto di Parigi, prima e dopo la prima guerra mondiale. Mio padre era un musicista, come diceva il Globe. Ed è vero che i miei conobbero Picasso e ne intuirono la genialità prima che diventasse famoso. È da lui che ho preso il nome. Comprarono una quarantina delle sue opere quando erano ancora a buon mercato, e lui diede loro diversi dipinti in dono. Avevano bon goût. In tutto, possedevano cinquanta Picasso, non cento come diceva il giornale. Ma lo stesso, quella collezione era un pozzo di ricchezza. Venduta un po' per volta nel corso degli anni, arrotondò la loro pensione, e diede anche a me qualcosa a cui appoggiarmi." "È vero che lei è stato un abile illusionista?" "Per oltre cinquant'anni," confermò lui, alzando entrambe le mani in un'aggraziata ed elegante espressione di stupore per la propria longevità. Il gesto denotava il ritmo e la fluidità della prestidigitazione, e Ginger quasi si aspettò di vedere candide colombe materializzarsi davanti ai suoi occhi e volare via. "Ed ero famoso, anche. Sans pareil, se mi è lecito dirlo io stesso. Qui non ero molto conosciuto, ma ero famoso in tutta Europa e in Inghilterra." "E durante i suoi spettacoli ipnotizzava alcuni membri del pubblico?" Lui annuì. "Quello era il pezzo forte del mio repertorio. Lasciava sempre tutti a bocca aperta." "E adesso collabora con la polizia ipnotizzando testimoni di delitti, in modo che possano ricordare dettagli che hanno dimenticato." "Be', non è un lavoro a tempo pieno," precisò, accompagnando le parole con un cenno della mano affusolata che sembrava dovesse terminare con la magica apparizione di un mazzo di fiori o di carte da gioco. "Di fatto, si sono rivolti a me solo quattro volte negli ultimi due anni. In genere rappresento la loro ultima risorsa." "Ma i suoi interventi hanno dato risultati?"
"Oh, sì. Proprio come diceva il giornale. Per esempio, un passante potrebbe assistere a un omicidio e vedere la macchina con cui scappa l'assassino, ma non riuscire a ricordare il numero di targa. Ora, se ha guardato la targa anche solo per una frazione di secondo, quel numero è sepolto nel suo subcosciente, perché in realtà non dimentichiamo mai niente di quello che vediamo. Mai. Così, se un ipnotista mette il testimone in trance, lo fa regredire nel tempo - vale a dire, lo riporta indietro con la memoria fino al momento dell'omicidio - e gli dice di guardare la macchina, è possibile risalire al numero di targa." "Sempre?" "Non sempre. Ma in genere funziona." "Perché si rivolgono a lei? Gli psichiatri del dipartimento di polizia non sono capaci di usare l'ipnosi?" "Certamente. Ma loro sono psichiatri, non ipnotisti. L'ipnosi non è la loro specialità, lo invece l'ho studiata per una vita, e ho sviluppato tecniche personali che spesso riescono dove i metodi standard falliscono." "Dunque, nel campo dell'ipnosi lei è un'autorità." "Sì, senz'altro. Ma perché le interessa, dottore?" Fino ad allora, Ginger era stata seduta con la borsetta in grembo e le mani posate su di essa. Ma mentre raccontava a Pablo Jackson dei suoi attacchi, strinse la borsetta sempre più forte, finché le sue nocche si fecero bianche. L'atteggiamento rilassato di Jackson divenne di stupito interesse e preoccupazione. "Povera bambina. Povera, povera piccola. De mal en pis - en pis! Di male in peggio! Che cosa terribile. Aspetti qui. Non si muova." Si alzò agilmente dalla poltrona e uscì a rapidi passi dal salotto. Quando ritornò, aveva due bicchieri di brandy. Ginger cercò di rifiutare. "No, grazie, Mr Jackson. Non bevo molto, e certamente non a quest'ora di mattina." "Mi chiami Pablo. Quanto ha dormito ieri notte? Non molto, eh? E stata sveglia quasi tutta la notte, si è alzata ore fa, quindi per lei adesso non è mattina, ma metà pomeriggio. E non c'è ragione per cui non si possa bere qualcosa nel pomeriggio, no?" Lui si sedette di nuovo in poltrona, e per un po' rimasero in silenzio, sorseggiando i loro brandy. Poi lei disse: "Pablo, voglio che lei mi ipnotizzi, mi riporti alla mattina del dodici novembre, da Barnstein's Delicatessen. Voglio che mi tenga ferma nel tempo a quel punto e mi interroghi finché non riuscirò a spiegare
perché la vista di quei guanti neri mi ha terrorizzata." "Impossibile!" Pablo scosse la testa. "No, no." "Posso pagare qualunque..." "Non è questo il punto. Non ho bisogno di soldi." L'uomo aggrottò le sopracciglia. "Io sono un mago, non un dottore." "Sto già andando da uno psichiatra, e ho toccato l'argomento con lui, ma non vuole farlo." "Deve avere le sue ragioni." "Dice che è troppo presto per ricorrere alla regressione ipnotica. Ammette che la tecnica potrebbe aiutarmi a scoprire la causa dei miei attacchi, ma dice che potrebbe essere un errore, perché potrei non essere ancora pronta ad affrontare la verità. Dice che un confronto prematuro con la fonte delle mie angosce potrebbe portarmi... a un crollo." "Vede? Lui sa cosa è meglio per lei. Io non farei che nuocere, se interferissi." "Lui non sa cosa è meglio per me," insistette Ginger, irritata dal vivido ricordo del suo ultimo colloquio con lo psichiatra, durante il quale lui era stato odiosamente condiscendente. "Forse sa cosa è meglio per la maggior parte dei pazienti, ma non cosa è meglio per me. Non posso andare avanti così. Quando Gudhausen si deciderà a ricorrere all'ipnosi, magari tra un anno, io non sarò più abbastanza in me per beneficiarne. Devo prendere in pugno questo problema, dominarlo, fare qualcosa." "Ma certamente lei capisce che non posso prendermi la responsabilità di..." "Aspetti," lo interruppe Ginger, mettendo da parte il suo brandy. "Avevo già previsto la sua riluttanza." Aprì la borsetta, ne estrasse un foglio piegato e glielo porse. "Ecco. Prenda questo, per favore." "Cos'è?" Sebbene Pablo avesse mezzo secolo più di lei, le sue mani erano molto più ferme di quelle di Ginger. "Una mia dichiarazione firmata che la esonera da ogni responsabilità nel caso qualcosa andasse storto." Pablo non la lesse nemmeno. "Lei non ha capito, mia cara. Non è la possibilità di essere chiamato in giudizio che mi preoccupa. Considerando la mia età e la lentezza dei tribunali, non vivrei abbastanza per vedermi condannare. Ma la mente è un meccanismo delicato, e se qualcosa andasse male, se la portassi a un crollo, andrei sicuramente ad arrostire all'inferno." "Se lei non mi aiuta, se dovrò passare lunghi mesi in terapia, incerta del futuro, avrò comunque un crollo." Disperata, Ginger alzò la voce, sfogan-
do la sua rabbia e la sua frustrazione. "Se lei mi lascia alla pia compassione degli amici mi abbandona nelle mani di Gudhausen, sono finita. Non posso andare avanti così! Se mi rifiuta il suo aiuto, allora sì che sarà responsabile del mio crollo." "Mi dispiace," disse lui. "La prego." "Non posso." "Sporco bastardo negro," ringhiò Ginger, e lei stessa trasalì all'epiteto che era uscito dalla sua bocca. L'espressione addolorata sulla benevola faccia da gnomo di Pablo Jackson la colpì, facendola vergognare profondamente. Ora fu il suo turno di dire: "Mi dispiace. Mi dispiace tanto." Si nascose il volto fra le mani, si piegò in avanti sulla poltrona, e pianse. Lui le andò vicino, chinandosi davanti a lei. "Non pianga, la prego. Non si disperi. Andrà tutto bene, vedrà." "Non è vero," singhiozzò Ginger. "Non sarà mai più come prima." Pablo le scostò gentilmente le mani dalla faccia. Le mise una mano sotto il mento, sollevandole la testa fino a incontrare i suoi occhi. Sorrise, le strizzò l'occhio, e le tenne una mano davanti al volto per mostrarle che era vuota. Poi, con grande sorpresa di Ginger, le estrasse una moneta da venticinque cents dall'orecchio destro. "Ora si calmi," le disse, battendo leggermente la mano sulla spalla. "Le lacrime di una donna possono smuovere il mondo. E io non ho certamente un'âme de boue, un'anima di fango, uno spirito ingeneroso. L'ha spuntata. Benché il buon senso mi dica che non dovrei, farò quello che posso." Invece di smettere, Ginger pianse ancora più forte dopo quell'offerta d'aiuto, ma queste erano lacrime di gratitudine. "...e adesso dormi profondamente, molto profondamente, completamente rilassata, e risponderai a tutte le mie domande. Hai capito?" "Sì." "Non puoi rifiutarti di rispondere. Non puoi rifiutarti. Non puoi." Pablo aveva tirato le tende sulle finestre e spento tutte le luci, eccetto la lampada accanto alla poltrona di Ginger Weiss. Il bagliore ambrato ricadeva su di lei, dando ai suoi capelli l'aspetto di filamenti d'oro ed evidenziando l'innaturale pallore della sua pelle. Lui stava in piedi davanti a Ginger, lo sguardo abbassato sulla sua faccia. Lei aveva una bellezza fragile, una squisita femminilità, eppure nel suo volto c'era anche una grande forza di tipo quasi mascolino. Le juste
milieu: il perfetto equilibrio, il giusto mezzo, non poteva essere meglio esemplificato che nel suo viso, in cui il carattere e la bellezza avevano uguale peso. I suoi occhi erano chiusi e si muovevano appena sotto le palpebre, segno che era in una trance profonda. Pablo tornò alla sua poltrona, che rimaneva in ombra, oltre la luce ambrata della lampada. Si sedette e accavallò le gambe. "Ginger, perché avevi paura dei guanti neri?" "Non lo so." "Perché avevi paura dell'oftalmoscopio?" "Non lo so." "Perché avevi paura dello scarico del lavandino?" "Non lo so." "Conoscevi il motociclista in State Street?" "No." "Allora perché hai avuto paura di lui?" "Non lo so." Pablo sospirò. "Molto bene. Ginger, ora faremo qualcosa di sorprendente, qualcosa che potrebbe sembrare impossibile ma, te lo assicuro, non lo è. Di fatto, è semplice. Faremo tornare indietro il tempo, Ginger. Proprio così. Ti manderemo lentamente ma inesorabilmente indietro nel tempo. Diventerai più giovane. Sta già accadendo. Non puoi resistere... il tempo è come un fiume... scorre all'indietro... sempre più all'indietro... e adesso non è più il ventiquattro dicembre. E il ventitré dicembre, lunedì, e l'orologio continua ad andare indietro... un po' più veloce... adesso è il ventidue... il venti... il diciotto..." Continuò in quel modo finché ebbe fatto regredire Ginger al dodici di novembre. "Sei da Bernstein's Delicatessen, e stai aspettando che finiscano di servirti. Senti l'odore del pane e dei dolci appena sfornati, delle spezie?" Lei annuì. "Dimmi cosa senti." Ginger inspirò a fondo e assunse un'espressione di piacere. La sua voce si fece più animata. "Biscotti al miele... chiodi di garofano e cannella..." Rimase in poltrona, con gli occhi chiusi, ma sollevò la testa e la girò a sinistra e a destra, come guardando i prodotti sul bancone. "Cioccolato. Che profumo quella torta al cacao!" "Meraviglioso," disse Pablo. "Ora, paghi il conto, ti allontani dalla cassa... vai vèrso la porta, armeggi con la borsa." "Non riesco a mettere dentro il portafoglio," borbottò lei, un po' indispettita.
"Hai un braccio occupato dal sacchetto degli acquisti." "Devo fare ordine in questa borsa." "Barn! Vai a sbattere addosso all'uomo col colbacco." Ginger sussultò e fece una smorfia di sorpresa. "Lui ti prende il sacchetto prima che cada." "Oh!" esclamò lei. "Ti chiede scusa." "Colpa mia," rispose Ginger. Pablo sapeva che non stava parlando con lui, ma con lo sconosciuto col colbacco, che per lei adesso era reale come lo era stato quel martedì nel negozio di gastronomia. "Non stavo guardando dove andavo." "Ti porge il sacchetto. Tu lo prendi." Il vecchio mago la guardò attentamente. "E noti... i suoi guanti." La trasformazione di Ginger fu istantanea ed elettrizzante. Raddrizzò di scatto la schiena, spalancò gli occhi. "I guanti! Oh, Dio, i guanti!" "Parlami dei guanti, Ginger." "Neri," disse lei, con voce esile e tremante. "Lucidi." "E cos'altro?" "No!" gridò Ginger, facendo per alzarsi dalla poltrona. "Siediti, per favore," la invitò Pablo. Lei si bloccò com'era, a metà del gesto di alzarsi. "Ginger, ti ordino di sederti e rilassarti." Ginger si sedette rigidamente, le piccole mani strette a pugno. I suoi luminosi occhi azzurri erano sbarrati, fissi non su Pablo ma sui guanti nella sua memoria. Sembrava pronta a scattare di nuovo alla minima provocazione. "Ora ti rilasserai, Ginger. Starai calma... calma... molto calma. Hai capito?" "Sì, va bene," rispose lei. Il respiro si fece meno rapido, e le spalle si lasciarono andare un po', ma era ancora tesa. Normalmente, quando metteva qualcuno in trance, Pablo non aveva difficoltà a mantenere il totale controllo sul soggetto. La persistente agitazione della donna, nonostante le sue esortazioni a rilassarsi, lo sorprese e preoccupò, ma più di così non poteva calmarla. "Parlami dei guanti, Ginger." "Oh, mio Dio." La sua faccia fu distorta dalla paura. "Rilassati e dimmi dei guanti. Perché ne hai paura?" Lei prese a tremare. "N-non voglio c-che mi tocchino." "Perché ne hai paura?" insistette Pablo.
Ginger si strinse tra le braccia e si rannicchiò contro la poltrona. "Ascoltami, Ginger. Quel momento è fermo nel tempo. L'orologio non va né avanti né indietro. I guanti non possono toccarti. Io non permetterò mai che ti tocchino. Il tempo è sospeso. Io ho il potere di sospendere il tempo, e l'ho fermato. Sei al sicuro. Mi senti?" "Sì," assentì lei, ma nella sua voce c'erano il dubbio e un terrore a malapena trattenuto, e rimase acquattata contro il fondo della poltrona. "Sei perfettamente al sicuro." Pablo era inquietato dalla vista di quella dolce ragazza così oppressa dalla paura. "Il tempo è bloccato: puoi studiare quei guanti neri senza timore che ti tocchino. Li studierai e mi dirai perché ti spaventano." Lei rimase in silenzio, tremante. "Devi rispondermi, Ginger. Perché hai paura dei guanti?" Non ottenne altro che un piagnucolio, così riflette un momento prima di porle un'altra domanda. "E proprio quel paio di guanti che ti spaventa?" "N-no. Non esattamente." "I guanti di quell'uomo... ti ricordano un paio di altri guanti, che forse sono collegati a un incidente di tanto tempo fa? È così?" "Oh, sì. Sì." "Quando accadde questo altro incidente? Ginger, quali altri guanti ti ricordano quelli dell'uomo col colbacco?" "Non lo so." "Sì che lo sai." Pablo si alzò dalla poltrona, andò a mettersi accanto alla finestra nascosta dalle tende e la osservò da quell'ombra più fitta. "Va bene... le lancette dell'orologio si muovono di nuovo. Il tempo continua ad andare indietro... indietro... indietro... fino alla prima volta che sei stata spaventata da un paio di guanti neri. Sei nello stesso tempo e luogo, nel preciso momento e punto in cui sei stata spaventata per la prima volta dai guanti neri." Gli occhi di Ginger si colmarono di orrore, fissi in un altro tempo, non in quella stanza o da Bernstein's, ma in qualche altro posto. Pablo la guardò ansiosamente. "Dove sei, Ginger?" Lei rimase in silenzio. "Devi dirmi dove sei." "La faccia." La voce di Ginger suonò tanto angosciata da far rabbrividire Pablo. "La faccia. La faccia vuota." "Spiegati, Ginger. Che faccia? Dimmi cosa vedi." "I guanti neri... la faccia di vetro scuro." "Vuoi dire... come il motociclista?"
"I guanti... la visiera." Ginger si contrasse in uno spasmo di paura. "Sta' calma, rilassati. Sei al sicuro. Al sicuro. Ora, ovunque tu sia, vedi un uomo che porta un casco con la visiera abbassata? E guanti neri?" Lei cominciò una monotona cantilena di puro terrore. "Ginger, devi stare calma. Sta' calma, rilassata, tranquilla. Niente può farti del male." Temendo di perdere il controllo su Ginger e di essere costretto a farla uscire dalla trance troppo presto, Pablo si avvicinò in fretta alla sua poltrona, si inginocchiò al suo fianco, le mise una mano sul braccio e la accarezzò dolcemente. "Dove ti trovi, Ginger? Quanto sei andata indietro nel tempo, Ginger? Dove sei? Quando?" Un penoso grido le sfuggì dalle labbra, un'eco di un altro tempo, la straziata reazione a un terrore e una disperazione troppo a lungo repressi. Lui si fece molto severo, passando da un tono di voce dolce a uno duro e perentorio. "Tu sei in mio potere, Ginger. Sei profondamente addormentata e completamente in mio potere. Esigo che tu mi risponda, Ginger." Lei fu scossa da un tremore più violento di qualunque precedente spasmo. "Ti ordino di rispondermi. Dove ti trovi, Ginger?" "Da nessuna parte." "Dove sei?" "In nessun posto." Improvvisamente, smise di tremare. Si accasciò sulla poltrona. La paura si dileguò dalla sua faccia, e i suoi lineamenti diventarono molli, rilasciati. Con una voce flebile e priva di emozione, disse "Morta." "Cosa stai dicendo? Tu non sei morta." "Morta," insistette lei. "Ginger, devi dirmi dove ti trovi e quanto sei andata indietro nel tempo, e devi dirmi dei guanti neri, il primo paio di guanti neri, quelli di cui ti sei ricordata quando hai visto i guanti dell'uomo nel negozio. Devi assolutamente parlarmene." "Morta." A un tratto, essendo in ginocchio vicino a lei, Pablo si accorse che il suo respiro era estremamente leggero. Le prese la mano e si spaventò per quanto era fredda. Le strinse il polso con due dita per sentire il battito cardiaco. Debole. Molto debole. Sgomento, le mise i polpastrelli sulla gola e localizzò una lenta, fiacca pulsazione. Sembrava che, per evitare di rispondere alle sue domande, lei si fosse rifugiata in un sonno molto più profondo della trance ipnotica, in un oblio
dove la sua voce autoritaria non poteva raggiungerla. Non si era mai trovato davanti a una reazione simile prima d'ora, non aveva neanche mai letto di una cosa del genere. Possibile che Ginger si imponesse di morire pur di sfuggire alle sue domande? Non era infrequente che intorno a esperienze traumatiche si formassero blocchi di memoria; sulle riviste specializzate aveva trovato diverse relazioni riguardanti queste barricate psicologiche erette contro i ricordi, ma erano barriere che potevano essere smantellate senza uccidere il soggetto. Certamente nessuna esperienza poteva essere tanto orrenda da costringere una persona a preferire la morte, piuttosto che ricordarla. Eppure, sotto le dita di Pablo, il battito cardiaco di Ginger si faceva sempre più tenue e irregolare. "Ginger, ascolta," la sollecitò con urgenza. "Non devi rispondermi. Basta domande. Puoi tornare indietro. Non insisterò per avere risposte." Lei sembrava barcollare sull'orlo di un terribile baratro. "Ginger, ascoltami! Non ti farò più domande, te lo giuro." Dopo una lunga e spaventosa esitazione, rilevò un lieve miglioramento nel ritmo del suo cuore. "Non mi interessano più i guanti neri, né nient'altro, Ginger. Voglio solo riportarti al presente e fuori della trance. Mi senti? Ti prego, ascoltami. Ho finito di interrogarti." Il suo cuore esitò paurosamente, ma poi cominciò a pulsare più regolarmente. Anche la sua respirazione migliorò. Mentre Pablo le parlava in quel modo rassicurante, lei si riprese rapidamente, e il suo bel viso ritrovò un po' di colore. In meno di un minuto, la riportò al 24 dicembre e la svegliò. Lei sbattè le palpebre. "Non ha funzionato, eh? Non sei riuscito a sottomettermi." "Eri lontana," replicò lui, visibilmente scosso. "Fin troppo." "Pablo, tu stai tremando. Perché tremi? Cosa c'è che non va? Cos'è successo?" Questa volta, fu lei ad andare in cucina a prendere il brandy. Più tardi, sulla soglia dell'appartamento di Pablo, prima di andare a prendere il taxi che lui le aveva chiamato, Ginger disse: "Ancora non riesco a farmi un'idea di cosa possa essere. Non mi è mai successo niente di così terribile, certamente niente di tanto brutto che preferirei morire piuttosto di rivelarlo." "C'è qualcosa di molto traumatizzante nel tuo passato," asserì Pablo. "Un incidente in cui è coinvolto un uomo con i guanti neri, e con una 'faccia di
vetro scuro', come l'hai definita tu. Forse un motociclista come quello che ti ha gettata nel panico in State Street. È un incidente che hai sepolto molto in profondità... e che sembri determinata a tenere sepolto a ogni costo. Penso proprio che dovresti raccontare al dottor Gudhausen quello che è successo qui oggi e lasciare che lui vada avanti." "Gudhausen è troppo tradizionale, troppo lento. Io voglio il tuo aiuto." "Non mi arrischierò a metterti di nuovo in trance e a interrogarti." "A meno che dalle tue ricerche emerga un caso analogo." "Alquanto improbabile. In cinquant'anni ho fatto molte letture di psicologia e ipnosi, e non ho mai trovato accenni a niente di simile." "Ma farai lo stesso delle ricerche, vero? Me lo hai promesso." "Vedrò quel che riesco a trovare." "E se scoprirai che qualcuno ha sviluppato una tecnica per superare un blocco di memoria come questo, lo userai su di me." Ginger era disorientata, ma anche molto meno disperata di quando era arrivata all'appartamento di Pablo Jackson. Almeno erano giunti da qualche parte, anche se non sapevano ancora dove. Avevano trovato il problema: c'era stata una misteriosa esperienza traumatica nel suo passato, e benché non ne conoscessero i particolari, sapevano che era lì, una forma scura che attendeva di essere esplorata. Col tempo avrebbero trovato il modo di farvi luce, e allora avrebbe saputo la causa delle sue fughe. "Parlane a Gudhausen," le raccomandò ancora Pablo. "Tutte le mie speranze sono puntate su di te." "Sei dannatamente testarda," disse il vecchio mago, scuotendo la testa. "No. Solo perseverante." "Ostinata." "Solo determinata." "Acharnée!" "Appena tornata a Baywatch andrò a cercare questa parola, e se scopro che è un insulto, te ne pentirai quando tornerò da te giovedì," scherzò Ginger. "Non giovedì. La ricerca richiederà un po' di tempo. Non intendo assolutamente ipnotizzarti ancora, a meno che non riesca a trovare il referto di un caso simile e possa seguire procedure già sperimentate con successo." "E va bene, ma se non ti fai sentire entro venerdì, o al massimo sabato, credo che tornerò e ti entrerò in casa a forza. Ricorda, sei la mia migliore speranza." "Solo per mancanza di meglio."
"Tu ti sottovaluti, Pablo Jackson." Ginger lo baciò sulla guancia. Aspetterò la tua telefonata." "Au revoir." "Shalom." Fuori, salendo sul taxi, Ginger ricordò uno degli aforismi preferiti di suo padre, e, come una zavorra, quelle parole neutralizzarono il nuovo ottimismo che le aveva sollevato lo spirito. È sempre più chiaro appena prima del buio. 3 Chicago, Illinois Winton Tolk, l'alto, gioviale agente di colore col fucile a tracolla, scese dall'auto della polizia per comprare tre hamburger e lattine di Coca al negozio all'angolo, lasciando il suo compagno, Paul Armes, al posto di guida, e padre Brendan Cronin sul sedile posteriore. Brendan diede uno sguardo al negozio, ma non poté vederne l'interno, perché la grande vetrina frontale era decorata con immagini natalizie: Babbo Natale, la slitta con le renne, ghirlande, angeli. Una neve leggera aveva appena cominciato a cadere, e il bollettino meteorologico ne aveva annunciata parecchia per quella notte: il giorno dopo sarebbe stato un bianco Natale. Brendan e Paul ripresero la conversazione interrotta: stavano parlando dei grandi film di Natale. "Certo, Miracolo sulla 34a Strada era eccezionale," disse Brendan, chinandosi in avanti, "ma resto comunque del parere che quello di Capra sia..." Gli spari, l'impressionante cascata di vetro infranto sembrarono simultanei, senza nemmeno una frazione di secondo tra gli uni e l'altra. Anche con le portiere chiuse, il rumore della ventola dell'aria calda, e la radio accesa sulla frequenza crepitante e cinguettante della polizia, fu abbastanza per interrompere Brendan a metà della frase. Mentre la pace natalizia dei quartieri alti andava in pezzi, la vetrina decorata della paninoteca si dissolse, polverizzata in un'eruzione scintillante. Nuovi spari sovrastarono l'eco dei primi, e gli scoppi furono accompagnati da una secca e atonale musica di vetro che grandmava sul tetto, sul cofano e sul bagagliaio della macchina. "Oh, merda!" Paul Armes impugnò la pistola, spalancando la portiera mentre ancora cadeva la pioggia di vetro. "Sta' giù," gridò a Brendan, poi
saltò fuori, tenendosi basso, muovendosi intorno alla macchina e usandola come riparo. Sconcertato, Brendan guardò dal finestrino verso l'ingresso della paninoteca. A un tratto la porta si aprì con violenza e apparvero due giovani, uno nero, uno bianco. Il negro portava un berretto di lana, un lungo giaccone da marinaio blu e un fucile semiautomatico a canna mozza. Il bianco, in giaccone scozzese, aveva un revolver. Uscirono di corsa, semiaccucciati, e il negro ruotò il fucile verso l'auto della polizia. Brendan si trovò a guardare direttamente nella bocca dell'arma. Ci fu un lampo, e credette di essere lui il bersaglio, ma il finestrino davanti alla sua faccia rimase intatto. Invece, il finestrino laterale anteriore esplose all'interno, e frammenti di vetro e pallottole di piombo schizzarono nell'abitacolo, conficcandosi nei sedili e rimbalzando sul cruscotto. La fucilata che lo aveva mancato di poco riscosse Brendan dal suo stordimento; rotolò giù dal sedile, il cuore che batteva furiosamente, rumoroso quasi quanto gli spari. Winton Tolk aveva avuto la sfortuna di capitare ignaro nel mezzo di una rapina a mano armata. Probabilmente era morto. Mentre Brendan si appiattiva sul fondo dell'auto, sentì Paul Armes gridare: "Gettala a terra!" Risuonarono due spari. Non di fucile. Colpi di pistola. Ma chi aveva premuto il grilletto? Paul Armes o l'uomo col giaccone scozzese? Un altro sparo. Qualcuno gridò. Ma chi era stato colpito? Armes o uno dei rapinatori? Brendan avrebbe voluto guardare, ma non osava esporsi. Grazie a un accordo di padre Wycazik col capitano del locale distretto di polizia, Brendan seguiva da cinque giorni Winton e Paul come osservatore. In giacca e pantaloni normali, cravatta e soprabito, passava per un consulente laico incaricato dalla chiesa di studiare la necessità dei programmi di espansione della carità cattolica, una copertura che tutti sembravano accettare. Winton e Paul pattugliavano un'area delimitata da Foster Avenue a nord, le alture di Lake Shore Drive a est, Irving Park Road a sud, e North Ashland Avenue a ovest. Era una delle zone più povere di Chicago, e col più alto tasso di criminalità, abitata da negri e indiani, ma soprattutto appalachiani e spagnoli. Dopo cinque giorni con Winton e Paul, Brendan aveva sviluppato una forte simpatia per i due uomini e una profonda compassione per tutta la gente onesta che viveva e lavorava in quei fatiscenti edifici e in quelle sudicie strade, preda dei branchi di sciacalli umani che tra essa si aggiravano. Aveva imparato ad aspettarsi di tutto seguendo i due agenti nei
loro giri di sorveglianza, ma la sparatoria alla paninoteca era il peggiore incidente capitatogli fino a quel momento. Un'altra scarica di fucile si abbattè sulla macchina, facendola traballare. Brendan si rannicchiò in posizione fetale e cercò di pregare, ma non gli vennero le parole. Dio era ancora lontano da lui, e si sentì terribilmente solo, abbandonato. "Fuori," Paul Armes gridò: "Arrendetevi!" "Crepa!" rispose l'uomo col fucile. Quando si era presentato a rapporto da padre Wycazik dopo una settimana al St. Joseph, Brendan era stato mandato in un altro ospedale, nel reparto dei malati terminali, un posto tremendo dove non c'erano bambini. Lì, come al St. Joseph, Brendan scoprì rapidamente quale fosse la lezione che padre Wycazik si aspettava che imparasse. Per la maggior parte di quelli che si trovavano in fin di vita, la morte non era qualcosa da temere, ma un sollievo, una benedizione per la quale ringraziavano Dio, piuttosto che maledirlo. E in punto di morte, molti che non erano mai stati credenti lo diventavano, e quelli che si erano allontanati dalla fede vi ritornavano. C'era spesso qualcosa di nobile e profondamente toccante nella sofferenza che accompagnava l'uscita di una persona da questo mondo, come se ciascuno condividesse, per un po', il mistico fardello della croce. Eppure, pur avendo appreso questa lezione, Brendan era ancora incapace di credere. Ora il rabbioso martellare del suo cuore frantumava le parole della preghiera prima che potesse pronunciarle, e la sua bocca era arida come polvere. Fuori stavano gridando, ma non riusciva più a distinguere le parole, forse perché erano incoerenti, e forse perché lui era parzialmente assordato dalle detonazioni. Ancora non aveva del tutto afferrato quale lezione padre Wycazik avesse contato di impartirgli con questa parte della sua singolare terapia. E adesso, mentre sentiva il caos di fuori, seppe che qualunque insegnamento potesse trarre da quell'esperienza non sarebbe valso a convincerlo che Dio era reale quanto i proiettili. La morte era una sanguinosa, crudele, fetida realtà, e di fronte a essa la promessa di una ricompensa nell'aldilà non era minimamente persuasiva. Un'altra scarica di fucile, seguita dal rabbioso abbaiare della pistola, poi uno scalpiccio di piedi in corsa. Pareva una guerra là fuori. Un altro colpo di pistola. Altro vetro infranto. Un altro grido, più terribile di quello che aveva lacerato l'aria prima. Ancora un altro sparo. Silenzio. Silenzio per-
fetto e profondo. La portiera del posto di guida si aprì di scatto. Brendan gridò per la sorpresa e il terrore. "Sta' giù!" disse Paul Armes dal sedile anteriore, tenendosi basso lui stesso. "Due morti, ma potrebbero essercene altri dentro." "Dov'è Winton?" domandò Brendan. Paul non rispose. Invece, prese il microfono della radio e chiamò la Centrale. "Agente in difficoltà. Agente in difficoltà!" Armes diede la sua posizione, l'indirizzo della paninoteca e chiese rinforzi. Steso sul fianco sul fondo della macchina, Brendan chiuse gli occhi e vide con sconvolgente chiarezza le fotografie che Winton Tolk teneva sempre nel portafogli e mostrava orgogliosamente quando gli si chiedeva della sua famiglia - le foto di sua moglie Raynella e dei loro tre bambini. "Quei fottuti bastardi," ringhiò Paul Armes, la voce tremante. Brendan sentì dei leggeri scatti metallici che lo lasciarono perplesso, finché realizzò che Armes stava ricaricando. "Winton è stato colpito?" "Poco ma sicuro." "Potrebbe avere bisogno di aiuto." "L'aiuto sta arrivando." "Ma potrebbe avere bisogno di aiuto adesso," replicò Brendan. "Non si può andare dentro. Non sappiamo se erano solo in due. Potrebbero essercene altri. Dobbiamo aspettare rinforzi." "Winton potrebbe avere bisogno di un tourniquet... altre pratiche di prima assistenza. Potrebbe essere già morto per quando arrivano i soccorsi." "Credi che non lo sappia anch'io?" ribattè aspramente Paul Armes. Finì di ricaricare e sgusciò fuori della macchina, andando a mettersi in una posizione dalla quale poter controllare il negozio. Più Brendan pensava a Winton Tolk riverso a terra lì dentro, più sentiva montare la collera. Se avesse ancora creduto in Dio, avrebbe potuto soffocarla nella preghiera. Ma ora si autoalimentava, diventando una rabbia accecante. Il cuore gli batteva ancora più forte di quando le fucilate si erano abbattute sulla macchina a un soffio da lui. L'ingiustizia della sorte di Winton era come un acido che lo corrodeva. Scese dall'auto e andò deciso verso l'entrata della paninoteca, tra la neve che cadeva. "Brendan!" gridò Paul Armes da dietro la macchina. "Fermati! Per amor di Dio, non farlo!" Brendan non gli badò, spinto dalla rabbia e dal pensiero che Winton
Tolk potesse avere immediato bisogno di soccorso per sopravvivere. Un uomo morto in giaccone scozzese giaceva supino sul marciapiede. Un proiettile della pistola di Armes lo aveva colpito al petto, un altro alla gola. C'era puzzo di intestino liberato. Nella neve accanto al cadavere c'era una pistola, forse la stessa che aveva sparato a Winton. "Cronin!" gridò Paul Armes. "Torna subito qui, idiota!" Passando davanti alla vetrata rotta, Brendan poté vedere l'interno del locale, che era sorprendentemente buio. Le luci erano saltate, e il chiarore grigiastro del giorno non riusciva a penetrare. Non si vedeva nessuno, ma questo non significava che fosse sicuro entrare. "Cronin!" urlò Paul Armes. Brendan raggiunse l'ingresso, dove trovò il negro in giaccone blu, prono in una miriade di schegge scintillanti; una scarica di fucile aveva abbattuto, con lui, anche la porta a vetri. Scavalcando il corpo, Brendan entrò nella paninoteca. Non aveva il suo collare romano, che avrebbe potuto fungergli in qualche modo da protezione. Ma d'altra parte, degenerati come quelli probabilmente non avrebbero esitato a sparare a un prete più che a uccidere un poliziotto. Vestito in borghese, era un uomo qualunque, vulnerabile come qualsiasi altro, ma non gli importava. Era troppo furioso. Furioso che Dio non esistesse, o che, se esisteva, permettesse cose simili. Sul fondo del piccolo locale c'era un bancone. Dietro il bancone c'erano un grill e altre attrezzature. Sul davanti, cinque piccoli tavoli e dieci sedie, quasi tutti rovesciati. Sul pavimento, un paio di contenitori di tovaglioli di carta, bottigliette di ketchup e senape, dollari sparpagliati, molto sangue, e Winton Tolk. Senza preoccuparsi di guardare se un uomo armato si riparasse dietro i tavoli rovesciati, Brendan raggiunse l'agente, gli si inginocchiò accanto. Winton era stato colpito due volte al petto. Non con il fucile. Probabilmente la pistola dell'altro delinquente. Le ferite erano paurose, di sicuro troppo traumatiche per trarre giovamento da un semplice laccio emostatico o da altre procedure di pronto soccorso. Aveva il petto rosso di sangue, e un rivolo di sangue gli colava dalla bocca. La pozza di sangue in cui giaceva era così profonda che sembrava galleggiarvi in mezzo. Era immobile, gli occhi chiusi, privo di sensi o morto. "Winton?" lo chiamò Brendan. L'agente non reagì. Le sue palpebre non ebbero nemmeno un tremito. Colmo di una rabbia simile a quella che gli aveva fatto scagliare il sacro
calice contro il muro durante la messa, Brendan Cronin mise delicatamente le mani sul collo di Winton Tolk, una per lato, cercando le pulsanti carotidi. Non rilevò alcun segno di vita, e nella sua mente vide di nuovo le fotografie di Raynella e dei tre bambini, e ora ribolliva di risentimento per l'indifferenza dell'universo. "Non può morire," disse rabbiosamente. "Non può." Improvvisamente gli sembrò di sentire una esilissima pulsazione, appena percettibile. Spostò le mani, cercando la conferma che Tolk era ancora vivo. La trovò: un battito irregolare, ma meno flebile di quella prima pulsazione fantasma. "È morto?" Brendan alzò gli occhi e vide un uomo uscire da dietro il banco di servizio, uno spagnolo in grembiule bianco, il proprietario o un commesso. Una donna, pure in grembiule bianco, si era alzata da dietro il bancone. Fuori risuonò un lontano ululato di sirene. Sotto le mani di Brendan, il battito nel collo di Winton Tolk sembrò farsi più forte e più regolare, ma sicuramente era solo una sua impressione. Winton aveva perso troppo sangue perché un recupero spontaneo, seppure limitato, potesse essere verosimile. Finché i soccorritori non fossero arrivati, i suoi segni vitali si sarebbero inevitabilmente affievoliti, e forse nemmeno il loro intervento e le loro apparecchiature avrebbero potuto stabilizzare le sue condizioni. Le sirene erano lontane non più di due isolati. Sbuffi di neve entravano dalla vetrata infranta. L'uomo e la donna in grembiule bianco si fecero avanti con esitazione. Stordito, annebbiato dalla rabbia per la capricciosa brutalità del fato, Brendan fece scorrere le mani dal collo di Winton alle ferite sul suo petto. Quando vide il sangue fluire tra le sue dita, la rabbia cedette a uno schiacciante senso di inutilità e impotenza, e cominciò a piangere. Winton Tolk sussultò. Tossì. Aprì gli occhi. Un esile respiro rantolante gli uscì dalla gola, un sommesso gemito sfuggì dalle sue labbra. Stupefatto, Brendan cercò di nuovo un'arteria nella gola dell'uomo. Le pulsazioni erano deboli, ma decisamente non quanto prima, e quasi regolari. Alzando la voce al disopra del lacerante urlo delle sirene, che ora erano così vicine da far vibrare l'aria, Brendan invocò: "Winton? Winton, mi senti?" Il poliziotto non sembrò riconoscere Brendan, né capire dove si trovasse. Tossì ancora, ed emise un suono strozzato.
Brendan si affrettò a sollevargli un poco la testa, girandola di lato, per consentire al sangue e al muco di defluire più liberamente dalla sua bocca. Immediatamente la sua respirazione migliorò, ma rimase rumorosa. Ogni inalazione veniva conquistata a fatica. Era ancora in condizioni critiche, disperatamente bisognoso di cure mediche, ma era vivo. Vivo. Incredibile. Tutto quel sangue, ed era ancora vivo. Fuori, tre sirene si smorzarono una dopo l'altra. Brendan chiamò a gran voce Paul Armes. Eccitato dalla speranza che Winton potesse essere salvato, ma anche terrorizzato dalla possibilità che i soccorsi medici arrivassero qualche secondo troppo tardi, guardò le due persone col grembiule e gridò: "Presto, chiamateli dentro. Ditegli che non c'è pericolo. Accidenti ai soccorritori!" L'uomo esitò, poi si avviò verso la porta. Winton Tolk espulse muco misto a sangue e finalmente trasse un respiro senza complicazioni. Brendan gli riappoggiò delicatamente la testa sul pavimento. L'agente continuò a respirare superficialmente, con difficoltà, ma regolarmente. Fuori si sentivano grida, rumori di portiere sbattute e scalpiccio di piedi che correvano verso il locale. Brendan aveva le mani bagnate del sangue di Winton Tolk. Senza pensarci, se le asciugò sulla giacca, e fu allora che realizzò che gli anelli erano riapparsi sulle sue mani per la prima volta dopo quasi due settimane. Uno su ogni palmo. Cerchi gemelli di tessuto ispessito e infiammato. Poliziotti e soccorritori irruppero nel locale, scavalcando il morto in giaccone blu, e Brendan si allontanò in fretta per non essere d'intralcio. Indietreggiò fino a trovarsi a ridosso del bancone, e lì si appoggiò, improvvisamente esausto, fissandosi le mani. Per alcuni giorni dopo la prima comparsa degli anelli, aveva usato il cortisone che il dottor Heeton gli aveva prescritto, ma poi, visto che non riapparivano, aveva smesso di applicare la lozione. Si era quasi dimenticato degli strani cerchi. Erano stati un fatto curioso, ma poco preoccupante. Ora, mentre li guardava, le voci attorno a lui gli giunsero confuse, irreali. "Dio, quanto sangue!" "Non può essere vivo... due volte nel petto." "Toglietemi di mezzo quel bastardo!" "Plasma!" "Tipizzate il suo sangue. No! Aspettate, fatelo in ambulanza."
Brendan finalmente guardò l'assembramento intorno a Winton Tolk. Vide gli infermieri darsi da fare per mantenere in vita il ferito, stenderlo su una barella, portarlo via. Vide un poliziotto imprecante trascinare il cadavere via dalla porta per facilitare l'uscita degli uomini che trasportavano Tolk. Vide Paul Armes camminare di fianco alla barella. Vide che il sangue in cui Tolk era stato disteso non era soltanto una pozza ma un lago. Si guardò di nuovo le mani. Gli anelli erano scomparsi. 4 Las Vegas, Nevada Il texano in pantaloni gialli di poliestere non avrebbe cercato di portarsi a letto Jorja Monatella se avesse immaginato che era dell'umore di castrare qualcuno. Benché fosse il pomeriggio del 24 dicembre, Jorja non era ancora nello spirito natalizio. Di solito calma e tollerante, era assolutamente invelenita mentre andava avanti e indietro per il casinò, dal bar ai tavoli da blackjack e di nuovo al bar, servendo da bere ai giocatori. Per cominciare, detestava il suo lavoro. Fare la cameriera era già abbastanza brutto in un bar normale, ma in un casinò più grande di un campo da football c'era da morire. Alla fine del turno le facevano male i piedi, e spesso aveva le caviglie gonfie. In più, gli orari erano irregolari. E lei aveva una figlia di sette anni; come poteva seguirla bene, se non aveva un lavoro con orari normali? Detestava anche il costume: un affanno da nulla rosso, sgambatissimo e vertiginosamente scollato, più succinto di un costume da bagno, con un corsetto elastico per minimizzare la vita ed enfatizzare il seno. Se già si aveva la vita stretta e un seno generoso, come Jorja, l'effetto era quasi esageratamente erotico. E detestava le confidenze che tutti si prendevano con lei, superiori e clienti: evidentemente pensavano che qualunque ragazza che ostentasse il proprio corpo in una tenuta come quella fosse un tipo facile. Era certa che anche il suo nome avesse a che fare con quell'irritante atteggiamento nei suoi confronti: Jorja. Era lezioso. Troppo. Sua madre doveva essere stata ubriaca quando aveva concepito quella variante artistica del nome Georgia. Andava bene finché la gente lo sentiva soltanto, perché
non c'era niente di stravagante in come suonava, ma lei doveva portare sul costume una targhetta col suo nome - JORJA - e almeno una dozzina di persone al giorno faceva commenti in proposito. Era un nome frivolo, scritto a quel modo, e dava l'idea che lei fosse una persona frivola. Aveva considerato la possibilità di chiedere che fosse legalmente cambiato in Geòrgia, ma sua madre ci sarebbe rimasta male. Comunque, se non l'avessero piantata di importunarla sul lavoro, avrebbe anche potuto cambiarlo in madre Teresa; allora i bollenti spiriti di quei bastardi si sarebbero raffreddati un bel po'. E dover eludere le attenzioni dei superiori non era neppure la cosa peggiore. Ogni settimana, qualche cliente di riguardo - un pezzo grosso di Detroit o Los Angeles o Dallas che non badava a quello che lasciava sui tavoli da gioco - si incapricciava di Jorja e chiedeva a un direttore di combinargli un incontro in privato con lei. Certe cameriere erano disponibili per questo genere di cose; non molte, ma qualcuna. Ma quando i direttori interpellavano Jorja, la sua risposta era sempre la stessa: " Che vada al diavolo. Io sono una cameriera, non una squillo." Ma il suo consueto, freddo rifiuto non impediva loro di insistere perché lei cedesse, come era successo non più di un'ora prima. Un verrucoso petroliere di Houston dagli occhi porcini, in pantaloni gialli fosforescenti, camicia azzurra e cravattino rosso, si era fatto venire i bollori per lei e aveva sondato il terreno. Il suo fiato puzzava dei burritos che aveva mangiato a pranzo. Ora i direttori erano seccati con lei perché aveva respinto uno dei clienti di maggior riguardo dell'hotel e del casinò annesso, perché era troppo "antiquata". Rainy Tarnell, il direttore del blackjack del turno di giorno, aveva avuto la faccia tosta di metterla proprio in questi termini - "Tesoro, non essere così antiquata!" - come se aprire le gambe per uno sconosciuto di Houston fosse l'ultimo dettame della moda. Per quanto detestasse essere una cameriera di casinò, non poteva permettersi di lasciare il posto. Con nessun altro lavoro avrebbe guadagnato altrettanto bene. Lei era una madre divorziata con una figlia a carico, e oltre a non percepire gli alimenti dall'ex marito, stava ancora pagando i debiti che Alan aveva fatto a suo nome prima di lasciarla, dunque era acutamente conscia del valore di ogni dollaro. La sua paga era bassa, me le mance erano eccellenti, specialmente quando qualche cliente cominciava a vincere forte alle carte o ai dadi. Quella vigilia di Natale, il casinò era vuoto per due terzi e le mance era-
no scarse. Las Vegas era sempre un po' spenta il giorno del Ringraziamento e a Natale, e il movimento non sarebbe ricominciato prima del 26 dicembre. Le slot-machine tacevano, e molti dei croupier sostavano oziosi e annoiati davanti ai tavoli vuoti. Niente di strano che io sia di cattivo umore, pensò Jorja. Mal di piedi, mal di schiena, un porco convinto che io debba essere disponibile come i drink che servo, una discussione con Rainy Tarnell, e nemmeno le mance a compensare il tutto. Alle quattro, finito il suo turno, scese in fretta nello spogliatoio di sotto, timbrò il cartellino, si cambiò e uscì nel parcheggio del personale con una velocità che sarebbe stata lodata da un corridore olimpionico. L'imprevedibile clima da deserto non contribuiva per nulla a instillare in lei lo spirito natalizio. Un giorno d'inverno a Las Vegas poteva essere freddo, con un vento che ti gelava fino alle ossa, o abbastanza caldo da dover girare in calzoncini e maglietta. Quell'anno, il periodo sotto Natale era caldo. La sua polverosa, malconcia Chevette si avviò appena al terzo tentativo. Avrebbe dovuto rallegrarsene, ma sentendo il motore gemere e tossire le tornò in mente la nuova, lucente Buick che Alan si era portato via quindici mesi prima, quando aveva abbandonato lei e Marcie. Alan Rykoff. Più che il suo lavoro, più di ogni altra cosa che la irritava, Alan era la causa del pessimo umore di Jorja. Si era sbarazzata del suo nome quando il matrimonio era stato sciolto, tornando al proprio cognome da ragazza, Monatella, ma non poteva sbarazzarsi altrettanto facilmente del ricordo del dolore che aveva inflitto a lei e a Marcie. Imboccando la strada dietro l'hotel, Jorja cercò di bandire Alan dai suoi pensieri, ma lui rimase in primo piano. Il bastardo. Con la sua attuale compagna di letto, una svampita bionda che rispondeva all'improbabile nome di Pepper, se ne era andato ad Acapulco per una settimana, senza nemmeno preoccuparsi di lasciare un regalo per Marcie. Cosa si dice a una bambina di sette anni quando ti chiede perché il suo papà non le ha comprato niente per Natale e non si è degnato di andarla a trovare? Sebbene Alan l'avesse lasciata oberata di debiti, Jorja aveva volentieri rinunciato agli alimenti per sé, perché ormai lo odiava talmente che non voleva dipendere in alcun modo da lui. Gli aveva chiesto, però, il contributo al mantenimento della bambina, ed era rimasta sconvolta quando lui aveva ribattuto sostenendo che Marcie non era figlia sua, e quindi non aveva alcun dovere verso di lei. Maledetto. Jorja lo aveva sposato quando a-
veva diciannove anni, e lui ventiquattro, e non gli era mai stata infedele. Alan questo lo sapeva, ma proteggere il suo sfrenato stile di vita - aveva bisogno di ogni dollaro per vestiti, automobili veloci e donne - per lui era più importante della reputazione di sua moglie o della felicità di sua figlia. Per risparmiare umiliazione e dolore alla piccola Marcie, Jorja aveva sollevato Alan da ogni responsabilità prima che potesse dar voce alle sue infondate accuse in tribunale. Così, con lui aveva chiuso. Poteva toglierselo dalla testa. Ma guidando oltre l'incrocio di Maryland Parkway con Desert Inn Road, Jorja pensò a quanto fosse stata giovane quando si era legata ad Alan, troppo giovane per sposarsi e troppo ingenua per vedere al di là della facciata. A diciannove anni, lo aveva trovato molto sofisticato, affascinante. Per più di un anno la loro unione era sembrata felice, ma gradualmente aveva cominciato a vederlo per quello che era: meschino, vanesio, indolente, e un donnaiolo spaventoso. Due estati prima, Jorja aveva tentato di salvare il loro traballante matrimonio coartando Alan a una ben programmata vacanza di tre settimane. Credeva che la loro crisi fosse in parte causata dal fatto che passavano troppo poco tempo insieme. Lui faceva il croupier al tavolo del baccarat in un hotel, lei lavorava in un altro, e molto spesso facevano turni diversi, dormivano in orari diversi. Solo loro due, e Marcie, imbarcati in un avventuroso viaggio in macchina per tre settimane: le sembrava un buon modo per riaggiustare la loro relazione. Sfortunatamente, ma prevedibilmente, il suo piano non aveva funzionato. Appena rientrati a Las Vegas, Alan aveva preso a comportarsi peggio di prima. Pareva che non potesse fare a meno di correre dietro a qualunque gonnella. Di fatto, dopo il viaggio in macchina, sembrava aver perso completamente il controllo di sé, e la sua tendenza a collezionare avventurette di una notte era diventata maniacalmente frenetica, ossessiva, paurosamente disperata. Tre mesi dopo, in ottobre, aveva abbandonato la moglie e la figlia. La sola cosa buona in quel viaggio era stato il breve incontro con la giovane dottoressa che stava andando da sola in macchina da Stanford a Boston: era la prima vacanza che avesse mai fatto, aveva detto. Jorja ricordava ancora il suo nome: Ginger Weiss. Benché si fossero incontrate una sola volta, e per poco più di un'ora, Ginger Weiss, senza volerlo, aveva cambiato la sua vita. Era così giovane, così esile, graziosa, femminile, che si stentava a credere fosse davvero un medico, eppure aveva una sicurezza di
sé e una competenza non comuni. Jorja era stata profondamente colpita da Ginger Weiss durante quell'incontro, e più tardi motivata dal suo esempio. Aveva sempre pensato a se stessa come a una cameriera nata, incapace di qualcosa di più impegnativo, ma quando Alan se n'era andato, lei aveva ripensato a Ginger, e aveva deciso di fare della sua vita qualcosa di più di quanto fino ad allora avesse ritenuto possibile. Da undici mesi, Jorja frequentava corsi di management commerciale, infilandoli a forza in un ritmo di vita già febbrile. Appena finito di pagare i debiti di Alan, avrebbe cominciato a mettere insieme i fondi per aprire un negozio di abbigliamento. Aveva elaborato un programma molto dettagliato, rivedendolo e limandolo fino a renderlo realistico, ed era certa che lo avrebbe concretizzato. A ventisette anni, le sue prospettive erano più eccitanti di quanto lo fossero mai state prima. Le sarebbe piaciuto poter ringraziare Ginger Weiss per lo stimolo che le aveva dato, senza fare nulla di particolare, ma semplicemente essendo quella che era. Jorja svoltò da Desert Inn Road in Pawnee Street, una via residenziale dietro il Boulevard Mall. Si fermò davanti alla casa di Kara Persighian e scese dall'auto. Il portone si aprì prima che lo raggiungesse, e Marcie le corse incontro, chiamandola festosamente "Mammina! Mammina!" E finalmente Jorja riuscì a dimenticarsi il suo lavoro, il texano, la discussione col direttore, e il pietoso stato della Chevette. Si accucciò e strinse la figlia tra le braccia. Quando nient'altro riusciva a tirarla su, poteva sempre contare su Marcie. "Hai passato una bella giornata, mamma?" domandò la bambina. "Sì, tesoro. Sai di burro di arachidi." "Biscotti! Zia Kara ha fatto i biscotti di burro di arachidi! Anch'io ho passato una bella giornata. Mamma, lo sai perché gli elefanti vengono fin qui dall'Africa?" Marcie ridacchiò. "Perché qui abbiamo le orchestre, e gli elefanti adorano ballare!" La bambina rise ancora. "Che scemenza, eh?" Orgoglio materno a parte, Jorja sapeva che Marcie era una bambina adorabile. Aveva i capelli bruni di sua madre, così scuri da essere praticamente neri, e la stessa carnagione ambrata, mentre i suoi occhi, in sorprendente contrasto col resto, non erano marrone come quelli di Jorja, ma azzurri, come quelli di suo padre. E aveva un'aria da monella immensamente accattivante. Marcie spalancò gli occhioni. "Ehi, lo sai che giorno è?" "Come no. La vigilia di Natale." "Babbo Natale è già partito dal Polo Nord. Zia Kara dice che sono stata
così cattiva tutto l'anno che mi porterà solo una collana fatta di carbone, ma sta scherzando. Vero che scherza, mamma?" "Certo, scherza soltanto," confermò Jorja. "Oh, nient'affatto!" Kara Persighian, un'anziana signora in veste da casa e grembiule, le raggiunse sul vialetto d'accesso. "Una collana di carbone... e forse un paio di orecchini." Marcie rise divertita. Kara non era la zia di Marcie, ma solo la baby-sitter che si occupava di lei dopo la scuola. Marcie la chiamava "zia Kara" dalla seconda settimana che la conosceva, e la donna era chiaramente contenta di quell'affettuoso titolo onorario. Kara aveva in mano il giubbetto di Marcie, il grande album con le figure natalizie da colorare che teneva occupata la bambina da diversi giorni, e un piatto di biscotti. Jorja diede l'album e il giubbetto a Marcie, accettò i biscotti con espressione di gratitudine e qualche chiacchiera sulle diete, e poi Kara disse: "Jorja, potrei parlarle un momento... da sola?" "Certo." Jorja mandò la bambina in macchina con i biscotti e guardò interrogativamente Kara. "Si tratta... di Marcie? Cos'ha fatto?" "Oh, niente di male. È un angelo, quella piccola. Non potrebbe comportarsi male neanche volendo. Ma oggi... be', mi stava dicendo di quanto le piacerebbe ricevere il Piccolo Medico per Natale..." "È la prima volta che mi tormenta per avere un gioco. Chissà perché, ci si è fissata." "Ne parla tutti i giorni. Glielo prenderà?" Jorja lanciò uno sguardo alla Chevette per accertarsi che Marcie non sentisse, poi sorrise. "Babbo Natale l'ha già nel sacco." "Bene. Ci sarebbe rimasta malissimo. Ma la cosa più strana è successa oggi, e mi chiedevo se non è mai stata seriamente malata." "Marcie? No, è sempre stata una bambina eccezionalmente sana." "Non è mai stata in ospedale?" "No. Perché?" Kara aggrottò la fronte. "Be', oggi ha cominciato a parlare di quel Piccolo Medico, e mi ha detto che da grande vuole fare il dottore, così potrà curarsi da sola quando si ammala. Ha detto che non vuole mai più essere toccata da un dottore perché una volta le hanno fatto molto male. Le ho chiesto cosa intendesse, e lei è rimasta zitta per un po'. Credevo che non mi avrebbe risposto, ma poi alla fine, con un tono molto serio, ha detto che una volta dei dottori l'hanno legata a un letto, poi l'hanno riempita di aghi, le
hanno acceso luci negli occhi, e atrocità varie. Dice che le hanno fatto molto male, ed è per questo che vuole diventare dottore e curarsi da sé." "Sul serio?" si stupì Jorja. "Be', non è vero niente. Non so perché si sia inventata una storia del genere. È davvero strano." "Oh, aspetti di sentire il resto. Quando ho sentito tutta quella storia, io mi sono preoccupata. Ero sorpresa che lei non me ne avesse mai parlato. Voglio dire, se la bambina avesse avuto una malattia seria, avrei dovuto esserne informata, nell'eventualità di una ricaduta. Allora le ho fatto delle domande - così, senza parere, come si tirano fuori le cose ai bambini - e di colpo la povera piccola è scoppiata in lacrime. Eravamo in cucina a fare i biscotti, e lei si è messa a piangere... e a tremare. Tremava come una foglia. Ho cercato di calmarla, ma lei piangeva ancora più forte. Poi è scappata via, e l'ho trovata in salotto, nell'angolo dietro la poltrona verde, rannicchiata come se si stesse nascondendo da qualcuno." "Santo cielo," mormorò Jorja. "Mi ci sono voluti almeno cinque minuti per farla smettere di piangere e altri dieci per convincerla a venir fuori di lì. Mi ha fatto promettere che se quei dottori fossero tornati avrei permesso che si nascondesse dietro la poltrona e non avrei detto dov'era. Avesse visto in che stato era, Jorja." "Hai raccontato proprio una bella storia a Kara," disse Jorja, tornando a casa. "Che storia?" domandò Marcie, guardando dritto davanti a sé; arrivava a malapena a vedere oltre il cruscotto. "La storia dei dottori." "Oh." "Le hai detto addirittura che ti hanno legata al letto. Perché ti sei inventata una cosa del genere?" "È vero," disse Marcie. "No, che non lo è." "Sì, invece." La voce della bambina era poco più di un sussurro. "L'unico ospedale in cui sei mai stata è quello dove sei nata, e sono sicura che non puoi ricordartene." Jorja sospirò. "Qualche mese fa abbiamo fatto un discorsetto sui bugiardi. Ricordi cosa è successo al paperotto che diceva le bugie?" "La fata della verità non lo ha lasciato andare alla festa della marmotta." "Esatto." "Non bisogna dire le bugie," disse piano Marcie. "I bugiardi non piac-
ciono a nessuno, specialmente alle marmotte e agli scoiattoli." Disarmata, Jorja dovette soffocare una risata e sforzarsi di mantenere un tono severo. "A nessuno piacciono i bugiardi." Si fermarono a un semaforo, ma Marcie continuò a guardare avanti, rifiutando di incontrare gli occhi di Jorja. "Dire bugie è una brutta cosa, specialmente alla mamma e al papà." "Inventare storie per spaventare Kara è altrettanto brutto." "Non cercavo di spaventarla," replicò Marcie. "Di farti compatire, allora. Tu non sei mai stata in ospedale." "Ci sono stata." "Ah, sì?" Marcie annuì vigorosamente, e Jorja chiese. "E quando?" "Non ricordo quando." "Non ricordi, eh?" "Quasi." "Quasi non è abbastanza. Dov'era questo ospedale?" "Non so bene. Certe volte... me ne ricordo meglio di altre volte. Certe volte non me ne ricordo del tutto, e certe volte me ne ricordo benissimo, e allora... ho paura." "E adesso non te ne ricordi molto bene, no?" "No. Ma oggi me ne sono ricordata... e ho avuto paura." Scattò il verde, e Jorja ripartì in silenzio, domandandosi quale fosse il modo migliore di affrontare la situazione. Non sapeva che pesci pigliare. Mai illudersi di capire i propri figli. Marcie era sempre riuscita a sorprenderla con azioni, affermazioni, grandi idee, riflessioni e domande che non sembravano nemmeno concepite da lei, ma piuttosto tratte, dopo un'accurata selezione, da un qualche segreto manuale di comportamento noto a tutti i bambini ma non agli adulti, qualche cosmico volume intitolato forse Come sbilanciare mamma e papà. Come se avesse appena consultato ancora una volta quel libro, Marcie disse: "Perché tutti i bambini di Babbo Natale sono deformi?" "Cosa?" "Be', vedi, Babbo Natale e la moglie hanno avuto tanti figli, ma erano tutti elfi." "Gli elfi non sono figli di Babbo Natale. Lavorano per lui." "Davvero? E quanto li paga?" "Non li paga, tesoro." "Come fanno a comprarsi da mangiare, allora?" "Non devono comprarsi niente. Babbo Natale gli dà tutto quello di cui
hanno bisogno." Questo era certamente l'ultimo anno in cui Marcie avrebbe creduto a Babbo Natale; quasi tutti i suoi compagni di classe già dubitavano che esistesse, e ultimamente lei faceva tutte quelle domande. A Jorja sarebbe dispiaciuto veder smentire la fantasia, perdere la magia. "Gli elfi fanno parte della sua famiglia, tesoro, e lavorano con lui solo per il gusto di farlo." "Vuoi dire che gli elfi sono adottati? Allora Babbo Natale non ha figli veri? È triste." "No, perché deve voler bene a tutti gli elfi." Dio, come amo questa bambina, pensò Jorja. Grazie, Signore. Grazie per questa bambina, anche se ho dovuto legarmi con Alan Rykoff per averla. Ogni rosa ha le sue spine. Svoltò nel viale carrozzabile a due corsie che girava intorno a Las Huevos e parcheggiò la Chevette nella quarta autorimessa. Las Huevos. Le Uova. Dopo cinque anni che abitava lì, ancora non aveva capito come si potesse chiamare un complesso di appartamenti Le Uova. Come la macchina si fermò, Marcie saltò fuori col suo album e i biscotti, correndo verso l'ingresso. La bambina aveva spostato il tema della conversazione giusto abbastanza a lungo per finire il tragitto e scappare dai confini della macchina. Jorja si domandò se fosse il caso di insistere sulla questione. Era la vigilia di Natale, e non aveva alcuna intenzione di rovinare la festa. Marcie era una brava bambina, migliore della norma, e questa frottola dei dottori che le avevano fatto del male era un caso estremamente raro. Jorja aveva messo ben in chiaro che dire bugie non era accettabile, e Marcie aveva capito (anche se aveva insistito un po' con le sue strambe fantasie): il suo repentino cambiamento di discorso probabilmente era un'ammissione di colpevolezza. Quindi era tutta un'invenzione. Non c'era niente da guadagnare a insistere ancora su quel tasto, e in più avrebbe rischiato di guastare il Natale. Jorja era sicura che l'incidente fosse chiuso. 5 Laguna Beach, California Durante il pomeriggio, Dom Corvaisis doveva aver letto lo strano messaggio anonimo un centinaio di volte:
Il sonnambulo farà bene a cercare nel passato le radici del suo problema. E lì che è sepolto il segreto. Non solo la lettera era senza firma né indirizzo del mittente, ma il timbro era illeggibile, così era impossibile stabilire se fosse stata spedita da Laguna Beach o da un'altra città. Dopo aver pagato il conto e lasciato il Cottage, si era seduto in macchina, dimenticando la copia di Crepuscolo a Babilonia sul sedile accanto a lui, e aveva riletto il messaggio una dozzina di volte. Si innervosì talmente che tirò fuori un paio di Valium dalla tasca della giacca e quasi ne prese uno senz'acqua. Ma mentre si portava la pillola alle labbra, esitò. Per esplorare tutte le ramificazioni del messaggio, doveva restare lucido. Per la prima volta da settimane, si negò la fuga chimica dall'ansia e rimise in tasca il Valium. Guidò fino a South Coast Plaza, un grande viale pieno di negozi in Costa Mesa, per comprare gli ultimi regali di Natale. In ogni negozio che visitò, mentre aspettava che i commessi incartassero i suoi acquisti, tirò fuori di tasca il curioso messaggio e lo lesse e rilesse. Per un po' Dom si era chiesto se non glielo avesse mandato Parker, per scuoterlo e stimolarlo e spingerlo fuori del torpore indotto dai tranquillanti. Parker sarebbe stato capace di un intervento così teatrale a scopo psicoterapeutico. Ma alla fine Dom scartò quell'idea. Le manovre machiavelliche semplicemente non erano nel carattere del pittore. Lui, di fatto, era quasi esageratamente diretto. Parker non era l'autore del messaggio, ma di sicuro avrebbe potuto suggerire qualche originale congettura su chi poteva esserci dietro. Insieme, sarebbe stato più facile stabilire in che modo l'arrivo di questa lettera avesse cambiato le cose e come bisognasse procedere. Più tardi, tornato a Laguna, quand'era a un isolato dalla casa di Parker, Dom fu improvvisamente colpito da una possibilità profondamente inquietante che prima non aveva considerato. Questa nuova idea era così sconcertante che accostò la Firebird al marciapiede e si fermò. Tirò fuori il biglietto, lo lesse di nuovo, tastò la carta. Sentiva freddo dentro. Guardò il riflesso dei propri occhi nello specchietto retrovisore, e non gli piacque quello che vide. E se avesse scritto lui stesso il messaggio? Poteva averlo composto sul word processor nel sonno. Ma avrebbe dovuto anche vestirsi, andare a imbucarlo, tornare a casa e rimettersi il pi-
giama senza svegliarsi. Impossibile. O no? Se aveva fatto una cosa simile, il suo squilibrio mentale era più grave di quanto pensasse. Aveva le mani appiccicaticce. Se le asciugò sui pantaloni. Tre sole persone al mondo sapevano del suo sonnambulismo: lui stesso, Parker Faine e il dottor Cobletz. Aveva già eliminato Parker, ed era senz'altro da escludere che Cobletz avesse mandato il messaggio. Così, se non era stato Dom, chi poteva averlo fatto? Quando infine ripartì, invece di proseguire verso la casa di Parker si diresse alla sua. Dieci minuti dopo, nel suo studio, tirò fuori l'ormai spiegazzato biglietto, si mise al word processor e compose le due frasi, che apparvero sullo schermo scuro in luminose lettere verdi. Poi accese la stampante, diede istruzioni al computer per produrre una copia esatta del documento, e rimase a guardare mentre la macchina batteva quelle venti parole. Il word processor gli era stato consegnato con due margherite intercambiabili a caratteri diversi, e lui ne aveva comprate altre due. Ora usò le tre margherite supplementari per produrre un totale di quattro copie della lettera, e con una matita contrassegnò ciascuna copia secondo il tipo di caratteri usato: Prestige elite, Artisan 10, Courier 10, Letter gothic. Lisciò l'originale e lo accostò a ognuna delle copie per confrontarli. Sperava di eliminare tutti i quattro tipi di caratteri di cui disponeva, e di smentire così la teoria di essersi mandato da solo la lettera. Ma il Courier 10 sembrava corrispondere perfettamente. Questo, comunque, non dimostrava inconfutabilmente che avesse scritto lui il messaggio. In tutto il paese, tra case e uffici, dovevano esserci milioni di margherite a caratteri Courier. Confrontò la carta dell'originale con quella della copia. Erano dello stesso formato e peso, fogli standard venduti sotto una dozzina di etichette diverse in migliaia di negozi in tutti i cinquanta stati. Nessuno dei due fogli era abbastanza pregiato da contenere fibre. Dom li guardò in controluce e vide che né l'uno né l'altro presentavano una filigrana col marchio di fabbrica, il che avrebbe provato che il messaggio non era stato battuto su un foglio proveniente dalla sua risma. Parker, il dottor Cobletz, e io, pensò. Chi altri poteva sapere? E cosa stava cercando di dirgli il messaggio, esattamente? Quale segreto era sepolto nel suo passato? Quale trauma rimosso o avvenimento dimenticato era alla radice del suo sonnambulismo? Seduto alla scrivania, mentre fissava la notte oltre la grande finestra
sforzandosi di capire, Dom si sentiva sempre più teso. Di nuovo, avvertì il bisogno di un Valium, quasi una brama, ma resistette. Il messaggio teneva impegnata la sua curiosità e la sua ragione. Riusciva a focalizzare il suo intelletto sulla ricerca di una soluzione e a concentrarsi con un'intensità di cui non era stato capace recentemente, e questo gli diede la forza di volontà sufficiente a rinunciare al conforto dei tranquillanti. Stava cominciando a sentirsi bene con se stesso per la prima volta da settimane. Per quanto gli fosse sembrato di essere alla deriva, ora realizzò che, dopo tutto, aveva ancora il potere di dirigere il corso della propria vita. Gli ci era voluto solo qualcosa di tangibile su cui concentrarsi, qualcosa come il messaggio. Camminò avanti e indietro per la casa, tenendo in mano il foglio, pensando. Infine si fermò davanti a una finestra: poteva vedere la cassetta postale all'inizio del vialetto d'accesso, un ricettacolo di metallo fissato su una colonnina di mattoni, nel chiarore azzurrognolo di un lampione a vapori di mercurio. Ora che aveva la casella postale in città, tutto quello che gli veniva recapitato lì erano comunicati pubblicitari e cartoline occasionali, o lettere di amici che avevano sia l'indirizzo del suo fermo posta sia quello di casa, ma talvolta dimenticavano che tutta la corripondenza doveva essere inviata al primo. Dom comprese di non aver ancora ritirato la posta di quel giorno. Uscì, andò alla cassetta e la aprì con la chiave. Eccetto per la brezza che frusciava tra gli alberi, la notte era silenziosa. Il vento portava il profumo del mare, e l'aria era gelida. La luce del lampione era sufficiente perché Dom potesse identificare la posta mentre la tirava fuori della cassetta: sei volantini e cataloghi pubblicitari, due biglietti di auguri natalizi... e una busta bianca senza l'indirizzo del mittente. Eccitato, in apprensione, rientrò in fretta in casa, nel suo studio, strappando la busta bianca ed estraendone un singolo foglio mentre camminava. Alla scrivania, spiegò la lettera. La luna Nulla avrebbe potuto sconvolgerlo quanto queste due parole. Si sentiva come se fosse caduto nel buco del Bianconiglio e stesse precipitando in un mondo fantastico dove la logica e la ragione non contavano più. La luna. Questo era impossibile. Nessuno sapeva che si era svegliato da brutti sogni con quelle parole sulle labbra, ripetendole angosciato. E nes-
suno sapeva che, nel sonno, le aveva scritte al word processor. Non ne aveva parlato né a Parker né a Cobletz, perché quegli incidenti erano accaduti dopo l'inizio della cura di tranquillanti; la terapia sembrava dare buoni risultati, e lui non voleva che si pensasse il contrario. Inoltre, benché quelle parole gli suonassero paurosamente minacciose, non ne capiva il significato. Non sapeva perché avessero il potere di fargli venire la pelle d'oca, e istintivamente sentiva che era meglio non far parola di quelle novità con chiunque, finché non fosse riuscito a prenderlo in pugno. Temeva che Cobletz avrebbe concluso che la cura non gli stava giovando e avrebbe quindi deciso di sospendere gli psicofarmaci per passare alla psicoterapia; e Dom aveva bisogno delle sue pillole. La luna. Nessuno lo sapeva, dannazione. Nessuno... eccetto lui. Alla fioca luce del lampione, Dom non aveva controllato il timbro postale. Questa volta si accorse che il punto di partenza della lettera non era un mistero, come per quella arrivata quel mattino. Il timbro era chiaramente leggibile: NEW YORK, N.Y. La data era il 18 dicembre, mercoledì. Gli venne da ridere. Non era matto, dopo tutto. Non si era mandato da solo quei messaggi criptici; non era possibile, perché lui la settimana prima era a Laguna. Quattromila chilometri lo separavano dalla buca in cui era stato impostato questo strano messaggio, e indubbiamente anche l'altro. Ma chi glieli aveva mandati e perché? Chi, a New York, poteva sapere che soffriva di sonnambulismo; o che aveva ripetutamente scritto a macchina "La luna"? Mille domande si accalcarono nella mente di Dom Corvaisis, e per nessuna aveva una risposta. Peggio ancora, al momento non sapeva nemmeno come cercare risposte. La situazione era così bizzarra che non c'era alcuna direzione logica verso cui orientare le indagini. Per due mesi, aveva pensato che il suo sonnambulismo fosse la cosa più strana e paurosa che gli fosse mai capitata, o potesse mai capitargli. Ma qualunque cosa ci fosse dietro di esso, doveva essere ancora più strana e paurosa del sonnambulismo in sé. Ripensò al primo messaggio che aveva lasciato a se stesso sul word processor: Ho paura. Da cosa si nascondeva, infilandosi negli armadi? Quando aveva cominciato a inchiodare le finestre mentre era immerso nel sonno, cosa aveva sperato di tenere fuori da casa sua? Adesso gli era chiaro che il suo sonnambulismo non era stato causato dallo stress. Non soffriva di attacchi d'ansia perché era preoccupato per il successo del suo nuovo libro. Non era niente di così banale.
Qualcos'altro. Qualcosa di molto strano e terribile. Cosa sapeva nel sonno, che ignorava quando era sveglio? 6 New Haven County, Connecticut Il cielo si era schiarito prima del calare della notte, ma la luna non si era ancora levata. Le stelle riversavano una debole luce sulla terra fredda. Con la schiena contro un masso, Jack Twist era seduto nella neve sulla sommità di un poggio, al limitare di una pineta, aspettando che apparisse il furgone portavalori della Vigilanza Security. Solo tre settimane dopo aver ricavato un utile netto di tre milioni dal lavoro al magazzino della mafia, stava già organizzando un altro colpo. Indossava stivali, guanti, e un completo da sci bianco, col cappuccio alzato sulla testa e legato stretto sotto il mento. Trecento metri dietro di lui, verso sudovest, oltre il boschetto, la notte era rischiarata dalle luci di una zona abitata; ma, Jack aspettava nella totale oscurità, il respiro fumante. Davanti a lui, quattro chilometri di campi avvolti nel buio si stendevano verso nordovest, spogli eccetto per alcuni alberi sparsi e qualche cespuglio reso scheletrico dall'inverno. In lontananza, oltre quella distesa brulla, c'erano stabilimenti, centri commerciali, zone residenziali, poi agglomerati residenziali, ma niente di tutto questo era visibile dalla posizione di Jack, anche se la loro esistenza era indicata da un bagliore di luci elettriche all'orizzonte. Una luce di fari apparve in lontananza sopra un rilievo. Alzando un binocolo a infrarossi, Jack mise a fuoco il veicolo in avvicinamento, che stava seguendo la strada a due corsie attraverso i campi. Nonostante il suo strabismo, Jack aveva una vista superba, e con l'aiuto del binocolo appurò che non si trattava del furgone blindato della Security, e quindi non aveva alcun interesse per lui. Abbassò il binocolo. Nella sua solitudine sopra la collinetta innevata, ripensò a un altro momento in un luogo più caldo, a un'umida notte nella giungla dell'America Centrale, quando aveva studiato un paesaggio notturno con un binocolo proprio come quello. Allora, stava cercando ansiosamente le truppe nemiche che stavano accerchiando lui e i suoi compagni... Il suo plotone - venti ranger superaddestrati agli ordini del tenente Rafe
Eikhorn, con Jack come vicecomandante - aveva oltrepassato illegalmente la frontiera, inoltrandosi per ventiquattro chilometri nello stato nemico senza essere individuato. La loro presenza sarebbe stata interpretata come un atto di guerra; per questo erano in abiti civili, senza gradi né mostrine, e non avevano alcun documento di identificazione. Il loro obiettivo era un piccolo, tremendo campo di rieducazione, cinicamente chiamato Istituto di fratellanza, dove un migliaio di indiani miskito erano imprigionati dall'esercito del popolo. Due settimane prima, coraggiosi preti cattolici avevano guidato altri millecinquecento indiani attraverso la giungla e fuori del paese prima che potessero essere imprigionati anche loro, e avevano fatto sapere che i detenuti all'istituto sarebbero stati uccisi in massa e sepolti in fosse comuni se non venivano salvati entro il mese. I miskito erano una razza molto fiera, con una ricca cultura che rifiutavano di rinnegare: non avrebbero abbracciato la nuova filosofia collettivistica dei nuovi leader del paese. L'attaccamento degli indiani alle proprie tradizioni avrebbe decretato il loro sterminio, perché l'attuale governo non avrebbe esitato a ricorrere ai plotoni di esecuzione per solidificare il suo potere. Tuttavia, venti ranger in borghese non sarebbero stati impegnati in una missione così pericolosa solo per salvare i miskito. Regimi dittatoriali sia di destra sia di sinistra massacravano regolarmente civili in ogni angolo del mondo, e gli Stati Uniti non intervenivano, né avrebbero potuto, per prevenire quegli assassinii di stato. Ma all'istituto, oltre agli indiani, c'erano altri undici uomini, per liberare i quali, insieme ai miskito, valeva la pena di tentare la rischiosa operazione. Quegli undici erano ex rivoluzionari che avevano combattuto la guerra contro il vecchio dittatore di destra, ma che si erano rifiutati di restare in silenzio quando la loro rivoluzione era stata tradita dal totalitarismo di sinistra. Indubbiamente, quegli undici erano in possesso di preziose informazioni. L'opportunità di interrogarli era più importante che salvare le vite di un migliaio di indiani, almeno dal punto di vista di Washington. Senza essere scoperto, il plotone di Jack raggiunse l'Istituto di fratellanza in una zona agricola ai margini della giungla. Era un campo di concentramento in tutto e per tutto eccetto che per il nome, con torri di guardia e filo spinato. Fuori del perimetro recintato del campo c'erano due costruzioni: una struttura di cemento a due piani, da dove il governo amministrava la regione, e un cadente casermone di legno che ospitava le truppe.
Poco dopo mezzanotte, il plotone di ranger si appostò e attaccò di sorpresa la caserma e la costruzione di cemento. L'iniziale fuoco di sbarramento fu seguito da un combattimento corpo a corpo. Mezz'ora dopo l'ultimo sparo, gli indiani e gli altri prigionieri - il gruppo più giubilante che Jack avesse mai visto - vennero incolonnati e messi in marcia verso la frontiera, lontana venticinque chilometri. Due ranger erano stati uccisi, tre feriti. In qualità di comandante del plotone, Rafe Eikhorn guidò l'esodo e controllò che lungo i fianchi della colonna tutto procedesse bene, mentre Jack rimase indietro con tre uomini per accertarsi che gli ultimi prigionieri lasciassero il campo in ordine. Era pure suo compito raccogliere documentazione su interrogatori, torture e omicidi di indiani e contadini locali. Quando lui e i suoi tre uomini lasciarono l'Istituto di fratellanza, erano tre chilometri dietro l'ultimo dei miskito. Nonostante il loro buon passo, non riuscirono a riprendere il plotone, ed erano ancora a distanza di chilometri dalla frontiera honduregna quando, all'alba, elicotteri dell'esercito nemico, come gigantesche vespe nere, calarono sulla giungla e cominciarono a scaricare truppe ovunque ci fosse uno spazio libero. Gli altri ranger e tutti gli indiani raggiunsero la libertà, ma Jack e i suoi tre uomini furono catturati e portati in una struttura simile all'Istituto di fratellanza. Questo, però, era talmente peggiore del campo di concentramento che, ufficialmente, non se ne conosceva l'esistenza. Il regime non ammetteva che nel nuovo paradiso dei lavoratori esistesse un inferno del genere, o che inquisizioni mostruose venissero condotte entro i suoi muri. In perfetto stile orwelliano, il complesso a quattro piani di celle e camere di tortura non aveva un nome, quindi non esisteva. Tra quelle mura senza nome, in celle senza numeri, Jack Twist e gli altri tre ranger furono sottoposti a torture psicologiche e fisiche, incessanti umiliazioni e degradazioni, privazione controllata del cibo, e costanti minacce di morte. Uno dei quattro morì. Un altro uscì di senno. Solo Jack e il suo migliore amico, Oscar Weston, si tennero aggrappati alla vita e alla sanità mentale durante gli undici mesi e mezzo della loro incarcerazione. Ora, otto anni più tardi, appoggiato contro un masso su una collinetta del Connecticut, Jack sentì suoni e odori che non appartenevano a quella ventosa notte invernale. Sentì pesanti passi di stivaloni su corridoi di ceménto. Il puzzo dei secchi straripanti che erano i soli servizi igienici della cella. Le grida patetiche di qualche povero bastardo portato via dalla sua cella
per essere sottoposto a un altro interrogatorio. Jack inspirò a fondo la tersa, fredda aria del Connecticut. Raramente i ricordi di quel tempo orribile e di quel posto senza nome tornavano ad angosciarlo. Più spesso, era tormentato dal ricordo di quello che gli era successo dopo la sua fuga, e da quello che era successo a Jenny in sua assenza. Non era stato quello, che aveva sofferto in America Centrale a spingerlo a rivoltarsi contro la società; piuttosto, lo avevano esacerbato gli eventi successivi. Altri fari perforarono l'oscurità dei campi. Jack puntò il binocolo. Era il furgone blindato del trasporto valori. Guardò l'orologio. Le nove e trentotto. Era in perfetto orario, come ogni notte da una settimana. Nonostante la festività del giorno dopo, rispettava la tabella di marcia. Bisognava dire che la Vigilanza Security forniva un servizio affidabile. Aprì la custodia posata a terra accanto a lui. I numeri blu di un multimetro digitale mostravano la frequenza del collegamento radio aperto tra lo spedizioniere e il vettore della Security. Anche con la sua sofisticata apparecchiatura, gli ci erano volute tre notti per scoprire la frequenza del furgone. Alzò il volume della sua ricevente. Scariche, sibili. Infine, fu ricompensato da uno scambio di routine tra l'autista e lo spedizioniere. "Tre-zero-uno," disse lo spedizioniere. "Renna," disse l'autista. "Rudolph," disse lo spedizioniere. "Tetto," disse l'autista. Di nuovo scariche e fischi. Lo spedizioniere aveva aperto lo scambio col numero del blindato, e il resto era il codice del giorno che serviva a confermare che 301 era in orario e non c'erano problemi di alcun genere. Jack spense la ricevente. Il quadrante illuminato si oscurò. Il furgone blindato passò a poco più di cinquanta metri dalla sua posizione sul poggio, e Jack si girò a guardare i suoi fanalini di coda scomparire in lontananza. Adesso era sicuro dell'orario di Security 301, e non sarebbe tornato su quei campi fino alla notte del colpo, che era provvisoriamente fissato per sabato 11 gennaio. Nel frattempo, aveva ancora molti preparativi da fare. Normalmente, organizzare un colpo era quasi eccitante e soddisfacente quanto la materiale commissione del crimine. Ma mentre lasciava il poggio e si dirigeva verso le case a sud-ovest, dove aveva parcheggiato la macchina in una strada tranquilla, non sentì alcuna ebbrezza, alcun brivido.
Stava perdendo la capacità di trarre piacere anche dalla contemplazione di un crimine. Stava cambiando. E non sapeva perché. Avvicinandosi alle prime case a sudovest della collinetta, si accorse che la notte si era fatta più chiara. Alzò gli occhi. La luna piena era sospesa sopra l'orizzonte, così grande che sembrava dovesse schiantarsi sulla terra, un'illusione di immensità creata dalla strana prospettiva della prima fase ascendente del satellite. Jack si fermò di colpo e rimase lì, con la testa inclinata all'indietro, fissando la luminosa superficie lunare. Un tremore si impadronì di lui, un gelo interiore che non aveva niente a che fare col freddo invernale. "La luna," disse piano. Sentendosi pronunciare quelle parole, Jack rabbrividì violentemente. Una paura inesplicabile si dilatò in lui, e fu preso dall'irrazionale impulso di correre a nascondersi dalla luna, come se la sua luminescenza fosse qualcosa di corrosivo che, simile a un acido, lo avrebbe dissolto se vi fosse rimasto immerso. L'istinto di fuga passò in un minuto. Non riusciva a capire perché la luna lo avesse improvvisamente spaventato. Era solo l'antica, familiare luna di tante canzoni d'amore e poesie romantiche. Strano. Riprese ad andare verso la macchina. La luna piena incombente su di lui lo faceva ancora sentire a disagio, e alzò gli occhi diverse volte a guardarla, perplesso. Comunque, una volta salito in macchina, entrato in New Haven e imboccata l'interstatale 95, quel curioso incidente svanì dalla sua mente, e i suoi pensieri tornarono ancora una volta a Jenny in coma. Il suo stato lo tormentava più del solito nel periodo natalizio. Più tardi, nel suo appartamento, mentre stava in piedi davanti a una grande finestra a guardare la città di fuori, una bottiglia di Beck's in mano, fu sicuro che dalla 26la Strada a Park Row, da Bensonhurst a Little Neck, nella metropoli non poteva esserci vigilia di Natale più solitària della sua. 7 Natale Elko County, Nevada Quando Sandy Sarver si svegliò, l'alba era sorta da poco sugli altipiani.
Il primo sole brillava incerto alla finestra della camera da letto della roulotte. Il mondo era così immobile che pareva il tempo si fosse fermato. Avrebbe potuto girarsi dall'altra parte e rimettersi a dormire se lo avesse voluto, perché aveva ancora otto giorni di vacanza davanti a sé. Ernie e Faye Bloch avevano chiuso il Tranquility Motel ed erano andati a far visita ai nipoti a Milwaukee, e anche la tavola calda adiacente che Sandy gestiva con suo marito, Ned, era chiusa per le feste. Ma Sandy sapeva che non si sarebbe riaddormentata, perché era completamente sveglia ed eccitata. Si stirò come un gatto sotto le coperte. Aveva voglia di svegliare Ned, coprirlo di baci e tirarlo sopra di sé. Ned non era che una forma indistinta nell'ombra della stanza, profondamente addormentato. Per quanta voglia avesse di lui, non lo svegliò. Avrebbero avuto tutto il tempo per fare l'amore più tardi. Scivolò silenziosamente fuori del letto, andò in bagno e fece una doccia: una doccia fredda. Per anni non aveva provato alcun interesse per il sesso. Fino a poco tempo prima, la vista del proprio corpo nudo la colmava di imbarazzo e vergogna. Benché non conoscesse la ragione delle nuove sensazioni che ultimamente si erano risvegliate in lei, era decisamente cambiata. Era cominciato due estati prima, quando all'improvviso il sesso le era sembrato... be', invitante. Adesso questo sembrava sciocco. Naturale che il sesso era invitante. Ma prima di quell'estate, fare l'amore era stato un fastidio da sopportare. La sua tardiva fioritura erotica era una piacevole sorpresa e un inesplicabile mistero. Nuda, ritornò in camera da letto, prese un maglione e un paio di jeans dall'armadio e si vestì. Nella piccola cucina, fece per versarsi del succo d'arancia, ma poi cambiò idea. A un tratto, le era venuto l'impulso di prendere il pickup e andare a fare un giro. Lasciò un biglietto a Ned e uscì. Il sesso e la guida erano le sue nuove passioni, e la seconda era per lei quasi altrettanto importante della prima. Questa era un'altra cosa buffa: fino a due estati prima, detestava guidare, e lo faceva raramente, se non per andare al lavoro e tornare. Ma adesso, oltre al sesso, non c'era niente che le piacesse di più che mettersi al volante e partire, guidando senza meta, a velocità sostenuta. Aveva sempre saputo il perché della sua repulsione per il sesso, questo non era un mistero. Poteva ringraziare suo padre, Horton Purney, per la sua frigidità. Sandy non aveva conosciuto sua madre, che era morta met-
tendola al mondo, ma suo padre lo aveva conosciuto anche troppo bene. Vivevano in una casa cadente nella periferia di Barstow, al margine del solitario deserto californiano, loro due soltanto, e i primi ricordi di Sandy erano ricordi di abusi sessuali. Horton Purney era stato un uomo lunatico, cattivo e pericoloso. Finché Sandy era scappata di casa a quattordici anni, l'aveva usata come fosse stata un giocattolo erotico. Solo di recente Sandy si era resa conto che anche la sua avversione per i viaggi in macchina, e in particolare in autostrada, erano collegati a qualcosa che aveva subito da suo padre. Horton Purney riparava motociclette, aveva ricavato un'officina da una stalla cadente sulla stessa proprietà della sua casa, ma non ci aveva mai guadagnato molto. Così, due volte all'anno, caricava Sandy in macchina e la portava a Las Vegas - due ore e mezzo di viaggio attraverso il deserto - da un intraprendente ruffiano, Samson Cherrick. Cherrick aveva una lista di pervertiti con un particolare interesse per i bambini, ed era sempre felice di vedere Sandy. Dopo qualche settimana a Las Vegas, Horton Purney ricaricava la figlia in macchina e ripartiva per Barstow con le tasche piene di soldi. Per Sandy, il lungo viaggio fino a Las Vegas era un incubo, perché sapeva cosa l'aspettava, e quello per tornare a Barstow era peggio, perché non era una fuga da Las Vegas ma un ritorno alla sua vita odiosa nella casa fatiscente e all'abietta, pressante, insaziabile lussuria di suo padre. In ogni direzione, la strada la portava all'inferno, e aveva imparato a detestare il rombo del motore, il rumore dei pneumatici sull'asfalto, e l'autostrada che si srotolava davanti alla macchina. Così, il piacere che ora traeva dalla guida e dal sesso sembrava miracoloso. Non riusciva a capire dove avesse trovato la forza e la volontà di superare il suo terribile passato. Ma due estati prima era semplicemente cambiata, e stava ancora cambiando. E com'era bello sentire le catene del disprezzo di sé e i vincoli della paura spezzarsi, sentire rispetto per se stessa per la prima volta in vita sua, sentirsi libera. Adesso, salì sul pickup Ford e avviò il motore. La loro roulotte era sistemata su un mezzo acro di terreno al margine meridionale della minuscola, quasi inesistente, cittadina di Beowawe, lungo la Route 21, una strada asfaltata a due corsie: tutt'intorno sembrava non ci fossero altro che pianure, colline ondulate, sporgenze rocciose, erba e cespugli per migliaia di chilometri. Il cielo azzurro intenso del mattino era sconfinato, e mentre il pickup acquistava velocità, Sandy si sentiva come se dovesse prendere il volo. Se si fosse diretta a nord sulla 21, avrebbe attraversato Beowawe e rag-
giunto l'interstatale 80, che portava a est verso Elko o a ovest verso Battle Mountain. Invece, andò a sud, e con abilità e disinvoltura guidò il Ford a quattro ruote motrici sulla malridotta strada della contea a più di cento chilometri all'ora. Dopo un quarto d'ora, la Route 21 finiva in una strada ghiaiosa, che proseguiva a sud attraverso altri centotrentaquattro chilometri di territorio disabitato e desolato. Sandy non la seguì; preferì svoltare a est, su una stradina sterrata costeggiata da erba e cespugli selvatici, e continuò a guidare veloce, sollevando nuvole di polvere. Dopo un po' abbandonò la strada, andando a nord, poi a ovest, e infine arrivò in un posto a lei familiare, anche se non era partita con quella destinazione in mente. Per ragioni che non capiva, il suo subconscio spesso la guidava fin lì durante le sue uscite solitarie, e raramente in linea diretta, così, dopo tanti giri, ritrovarsi lì solitamente la sorprendeva. Si fermò e tirò il freno a mano. Col motore acceso al minimo, rimase per un po' a guardare attraverso il polveroso parabrezza. Quel posto le dava conforto, anche se non sapeva perché. I pendii, le formazioni rocciose, l'erba e i cespugli formavano uno scenario piacevole, ma non era diverso da tanti altri posti lì intorno. Eppure, qui sentiva un sublime senso di pace che non riusciva a trovare altrove. Spense il motore, scese dal pickup e prese a camminare avanti e indietro, le mani infilate nelle tasche della giacca di montone, senza badare al freddo pungente. Era tornata verso la civiltà, e l'interstatale 80 era solo duecento metri a nord. L'occasionale rombo di un camion di passaggio echeggiò come il distante ringhio di un drago, ma il traffico era scarso. Oltre l'autostrada, sulle alture a nordovest, c'era il Tranquility Motel, ma Sandy diede solo uno sguardo in quella direzione. Era più interessata al paesaggio nelle immediate vicinanze, che esercitava una misteriosa e potente attrazione su di lei; sembrava irradiare pace, come una roccia, la sera, irradia il calore del sole che ha assorbito durante il giorno. Sandy non cercava di analizzare le sensazioni che le dava quel tratto di terreno. Evidentemente, c'era qualche sottile armonia nei contorni della terra, un indefinibile gioco di linee, forme e ombre. Ogni tentativo di decifrare il suo fascino sarebbe stato assurdo, come cercare di analizzare la bellezza di un tramonto. Quella mattina di Natale, Sandy non sapeva ancora che Ernie Block era stato attirato, come stregato, da quello stesso pezzo di terra il 10 dicembre, mentre tornava da Elko. Non sapeva che aveva suscitato in lui un elettrizzante senso di aspettativa e più che un po' di timore, emozioni ben diverse
da quelle che provocava in lei. Solo settimane dopo avrebbe scoperto che quel luogo era speciale per altri, oltre che per lei, sia amici sia stranieri. Chicago, Illinois Per padre Stefan Wycazik, il massiccio, dinamico parroco di St. Bernadette e soccorritore di preti in crisi, quel giorno di Natale si rivelò sin dall'inizio come uno dei più attivi della sua vita, e col passare delle ore anche come il più importante. Celebrò la seconda messa a St. Bernadette, passò un'ora a salutare parrocchiani che si fermavano da lui con cesti di frutta, scatole di biscotti fatti in casa e altri doni, poi andò all'ospedale dell'università a far visita a Winton Tolk, il poliziotto colpito in una sparatoria il pomeriggio del giorno prima. Tolk era stato operato d'urgenza e portato in terapia intensiva, dove aveva trascorso la notte. Quel mattino lo avevano spostato in una camera semiprivata adiacente all'unità di terapia intensiva, perché pur non essendo più in condizioni critiche aveva ancora bisogno di essere costantemente sotto controllo. Quando padre Wycazik arrivò, Raynella Tolk, la moglie di Winton, era accanto al letto del marito. Era una donna attraente, con la pelle color cioccolato e un taglio di capelli cortissimo e alla moda. "Mrs Tolk? Sono Stefan Wycazik." "Ma..." Lui sorrise. "Non si preoccupi. Non sono venuto a dare l'estrema unzione a nessuno." "Bene," disse Winton, "perché io non ho davvero intenzione di morire." L'agente ferito era non solo del tutto cosciente ma lucido, e non sembrava affatto sofferente. Era seduto sul letto. Anche se il suo ampio torace era pesantemente fasciato, e anche se aveva appeso al collo un apparecchio cardiotelemetrico, e nonostante la fleboclisi che gli instillava glucosio e antibiotici nella vena del braccio sinistro, aveva un aspetto decisamente buono, considerando la sua recente disavventura. Padre Wycazik si fermò ai piedi del letto, la tensione tradita solo dal modo in cui continuava a rigirare tra le mani il suo morbido cappello di feltro nero. Quando comprese quel che stava facendo, si affrettò a posare il cappello su una sedia. "Mr Tolk," disse, "se se la sente, vorrei farle qualche domanda su quello che è accaduto ieri." Vedendo che Tolk e la moglie sembravano perplessi, il prete diede una
parziale spiegazione della sua curiosità, ma solo parziale. "Quel tale che è stato con lei e il suo compagno la settimana scorsa, Brendan Cronin, era alle mie dipendenze," disse, mantenendo la copertura di Brendan. Raynella si illuminò in volto. "Oh, mi piacerebbe tanto conoscerlo." "Mi ha salvato la vita," disse Tolk. "Ha fatto una pazzia, qualcosa che non avrebbe mai dovuto fare, ma personalmente sono felice che l'abbia fatta." "Mr Cronin è entrato in quella paninoteca senza sapere se c'erano altri rapinatori dentro," spiegò Raynella. "Ha corso un grosso rischio." "È assolutamente contro il regolamento fare una cosa del genere," aggiunse Tolk. "Io stesso avrei seguito alla lettera le norme di procedura se mi fossi trovato tra quelli fuori. Non posso esattamente approvare quello che Brendan ha fatto, padre, ma gli devo la vita." "Stupefacente," commentò padre Wycazik, come fosse la prima volta che sentiva della prodezza di Brendan. In realtà, il giorno prima aveva parlato a lungo col capitano di Winton Tolk, un suo vecchio amico, e aveva sentito lodare Brendan per il suo coraggio e condannarlo per la sua imprudenza. "Ho sempre considerato Brendan come uno con la testa sulle spalle. Ha anche prestato i primi soccorsi?" "Può essere," rispose Winton. "Non so dirlo per certo. Ricordo di aver ripreso conoscenza... e lui era lì, sopra di me... mi chiamava per nome... ma ero ancora stordito, capisce." "È un miracolo che Win sia sopravvissuto," mormorò Raynella, la voce tremante. "Su, su, tesoro," la confortò dolcemente Winton. "Ce l'ho fatta, ed è questo che conta." Quando si fu assicurato che sua moglie era tranquilla, si rivolse di nuovo a Stefan: "Sono tutti sorpresi che io abbia perso così tanto sangue e sia ancora vivo. A quanto ho sentito, ne ho perso a secchi." "Brendan le ha applicato un tourniquet?" Tolk aggrottò le sopracciglia. "Non so. Come le ho detto, ero stordito, annebbiato." Padre Wycazik esitò, domandandosi come scoprire quello che voleva sapere senza rivelare la ragione che era alla base della visita. "Mi rendo conto che lei non può essere molto chiaro su quel che è successo, ma... ha notato qualcosa di insolito nelle mani di Brendan?" "Insolito? Cosa intende dire?" "L'ha toccata, non è vero?" "Certo. Deve avermi sentito il cuore, e poi mi ha toccato per vedere da
dove usciva il sangue." "Ebbene, ha sentito niente... niente di particolare mentre la toccava... niente di strano?" indagò cautamente Stefan, costretto dalla necessità a essere vago. "Non credo di riuscire a seguirla, padre." Stefan Wycazik scosse la testa. "Non si preoccupi. L'importante è che lei stia bene." Guardò l'orologio e, fingendosi sorpreso, disse: "Povero me, sono in ritardo per un appuntamento." Prima che Winton e la moglie potessero rispondere, prese il cappello dalla sedia, augurò loro buona fortuna e uscì, lasciandoli senza dubbio stupiti del suo comportamento. Di solito, vedendo arrivare padre Wycazik si pensava a un sergente istruttore; ma quando aveva fretta il sacerdote ricordava piuttosto un carro armato. Dalla stanza di Winton, attraversò a grandi passi il corridoio, spalancò con uno spintone una pesante porta a vento, poi un'altra, e irruppe nell'unità di terapia intensiva, dove il poliziotto ferito era stato ricoverato fino a poche ore prima. Chiese di parlare col medico di turno, il dottor Royce Albright. Con la speranza che Dio gli perdonasse qualche bugia a fin di bene, Stefan si presentò come il prete della famiglia Tolk, dando a intendere che Mrs Tolk lo aveva incaricato di farsi spiegare tutto sulle condizioni del marito, che ancora non le erano ben chiare. Il dottor Albright somigliava a Jerry Lewis e aveva una voce profonda e tonante come Henry Kissinger, il che era sconcertante. Comunque, era dispostissimo a rispondere a qualunque domanda padre Wycazik volesse fargli. Non seguiva personalmente Tolk, ma era interessato al suo caso. "Può assicurare a Mrs Tolk che non c'è quasi alcun pericolo di un peggioramento. Si sta riprendendo meravigliosamente. Colpito due volte nel petto, a distanza ravvicinata. Fino a ieri, nessuno qui avrebbe creduto che qualcuno potesse prendersi due spari di un fucile di grosso calibro in pieno petto ed essere fuori della terapia intensiva in ventiquattr'ore! Mr Tolk è incredibilmente fortunato." "Allora i proiettili non hanno colpito il cuore, né altri organi vitali?" "Non solo," rispose Albright. "Non hanno nemmeno leso gravemente alcuna vena o arteria. Una pallottola calibro 38 non è uno scherzo, padre. Di solito è devastante. Nel caso di Tolk, un'arteria e una vena importanti sono state scalfite, ma non recise. Molto fortunato, davvero." "Quindi suppongo che i proiettili siano stati fermati da qualche osso." "Deviati, sì, ma non fermati. Sono stati trovati tutti e due in tessuti molli. E questa è un'altra cosa sorprendente: nessun osso rotto, neanche una pic-
cola frattura. Un uomo molto fortunato." Padre Wycazik annuì. "Quando i due proiettili sono stati estratti dal suo corpo, c'era qualche indicazione che fossero sotto peso per delle munizioni calibro 38? Voglio dire, forse le cartucce erano difettose, con troppo poco piombo nei proiettili. Questo spiegherebbe come mai, anche se l'arma era una 38, i colpi hanno fatto meno danno di due calibro 22." Albright aggrottò la fronte. "Non so. Potrebbe essere. Bisognerebbe chiederlo alla polizia, o al dottor Sonneford, il chirurgo che li ha estratti." "Mi è parso di capire che l'agente Tolk abbia perso molto sangue." Albright fece una smorfia. "Su questo dev'esserci un errore nella sua cartella. Non ho avuto occasione di parlare col dottor Sonneford oggi, essendo Natale, ma secondo la cartella, Tolk avrebbe ricevuto più di quattro litri di sangue in sala operatoria. Naturalmente, questo non può essere esatto." "Perché no?" "Padre, se Tolk avesse davvero perso quattro litri di sangue prima di arrivare all'ospedale, non gliene sarebbe rimasto abbastanza per mantenere viva una sia pur minima circolazione. Sarebbe morto. Morto stecchito." Las Vegas, Nevada Mary e Pete Monatella, i genitori di Jorja, si presentarono a casa della figlia alle sei di mattina, con gli occhi gonfi e di malumore per aver dormito troppo poco, ma determinati a prendere il posto che toccava loro accanto allo scintillante albero di Natale, prima che Marcie si svegliasse. Mary, alta come Jorja, una volta era stata anche altrettanto ben fatta, ma ora era molto appesantita. Pete era più basso della moglie: aveva il torace ampio, e l'aria di un tronfio galletto del pollaio, ma era uno degli uomini più modesti che Jorja avesse mai conosciuto. Arrivarono carichi di doni per la loro unica nipote. Avevano anche un dono per Jorja, più i soliti omaggi che le portavano a ogni loro visita: critiche benintenzionate ma seccanti, consigli non richiesti, e vari sistemi per farla sentire in colpa. Mary aveva appena varcato la porta, quando annunciò che Jorja avrebbe dovuto pulire la cappa di aspirazione sopra la cucina, si mise a frugare sotto il lavandino in cerca di uno straccio e un detersivo adatto, e iniziò lei stessa. Osservò anche che l'albero di Natale era troppo poco decorato: "Ci vogliono più luci, Jorja!" e quando vide com'erano confezionati i regali per Marcie si mostrò disperata. "Mio Dio, Jorja, le carte non sono abbastanza vivaci. I nastri non sono
abbastanza. Alle bambine piacciono i pacchetti colorati, con disegni di Babbo Natale e tanti nastri." Il padre, dal canto suo, si limitò a concentrare il suo scontento sull'enorme vassoio di dolci sul bancone della cucina. "Questi sono tutti comprati, Jorja. Tu non ne hai preparati, quest'anno?" "Be', papà, ho fatto un po' di straordinari ultimamente, e poi ci sono i miei corsi, e..." "Lo so che è dura essere una madre sola, bambina mia, ma qui stiamo parlando di cose fondamentali. I dolci fatti in casa sono una delle cose migliori del Natale. Sono assolutamente essenziali." "Essenziali," concordò la madre di Jorja. Quell'anno Jorja aveva stentato parecchio a entrare nello spirito natalizio, e anche adesso doveva sforzarsi per non uscirne. Assoggettata agli incessanti commenti dei genitori sulle sue mancanze, in buona fede ma irritanti, ne sarebbe uscita del tutto, se non fosse stato per la tempestiva apparizione di Marcie alle sei e mezzo, un attimo dopo che Jorja aveva infilato un grosso tacchino nel forno ad arrostire per il pranzo. La bambina fece il suo ingresso nel salotto in pigiama, assonnata e graziosa. "Babbo Natale mi ha portato la valigetta del Piccolo Medico?" "Ti ha portato ben di più, testolina di rapa," disse Pete. "Guarda qui. Guarda pure cosa ti ha portato Babbo Natale." Marcie si girò, e restò a bocca aperta alla vista della montagna di doni sotto l'albero di Natale. "Ohhh!" L'eccitazione della bambina contagiò i genitori di Jorja, e per un momento si dimenticarono delle cappe impolverate e dei dolci fatti in casa. Per un po' l'appartamento si colmò di suoni gioiosi. Ma quando Marcie ebbe aperto metà dei suoi regali, l'atmosfera festosa che si era creata cominciò a cambiare, e vi si insinuò qualcosa di oscuro che sarebbe riapparso in forma ben più drammatica più tardi. Con una voce piagnucolosa che non era da lei, la bambina si lamentò che Babbo Natale non si era ricordato di portarle la valigetta del Piccolo Medico. Gettò da parte una bambola senza nemmeno tirarla fuori dalla scatola, passando a un altro pacchetto nella speranza che contenesse il Piccolo Medico, strappando la carta. Qualcosa nel comportamento della bambina, qualcosa di strano nei suoi occhi, inquietò Jorja. Presto anche Mary e Pete lo notarono. Cominciarono a invitare Marcie a soffermarsi di più su ogni regalo, a gustarselo di più, prima di passare al successivo, ma senza successo. Jorja non aveva messo la valigetta del Piccolo Medico; era nascosta in
un armadio come sorpresa finale. Ma quando non restarono che tre pacchetti, Marcie si fece pallida e tremante. In nome di Dio, cos'aveva di tanto importante quel giocattolo? Molti di quelli già scartati erano più costosi e interessanti. Perché la sua attenzione era così intensamente e innaturalmente concentrata su quella cosa? Perché ne era così ossessionata? Quando l'ultimo dei doni sotto l'albero e l'ultimo di quelli di Mary e Pete furono aperti, Marcie emise un gemito di pura infelicità. "Babbo Natale non me l'ha portato! Se n'è scordato!" Considerando gli splendidi regali sparpagliati per la stanza, l'abbattimento della bambina era ingiustificabile. Jorja era sconcertata e dispiaciuta della sgarbatezza di Marcie, e vide che i suoi genitori erano sorpresi, costernati e spazientiti per quella scenata. Temendo che il Natale le stesse crollando rovinosamente attorno, Jorja corse all'armadio della camera da letto, tirò fuori il pacchetto da dietro le scatole delle scarpe e si affrettò a portarlo nel soggiorno. Con forsennata disperazione, Marcie glielo strappò dalle mani. "Ma che le prende a quella bambina?" domandò Mary. "Già," rincarò Pete. "Cosa c'è di così importante in quel Piccolo Medico?" Marcie lacerò freneticamente la carta finché vide che il pacchetto conteneva la cosa che più desiderava. Allora si calmò immediatamente, smise di tremare. "Il Piccolo Medico! Babbo Natale non se n'è dimenticato!" "Tesoro, forse non è stato Babbo Natale a portartelo," disse Jorja. "Non tutti i tuoi regali vengono da lui. Prova a guardare il cartellino." Marcie cercò obbedientemente il cartellino, lesse le poche parole che vi erano scritte, e alzò lo sguardo con un sorriso incerto. "È di... papà." Jorja sentì gli occhi dei genitori fissi su di lei, ma evitò di incrociarli. Loro sapevano che Alan se n'era andato ad Acapulco con la sua ultima amante, senza preoccuparsi di lasciare nemmeno un cartoncino di auguri per Marcie, e senza dubbio disapprovarono che Jorja lo avesse salvato in corner. Più tardi, mentre Jorja era in cucina, accovacciata davanti al forno a controllare il tacchino, sua madre si chinò accanto a lei e disse piano: "Perché lo hai fatto, Jorja? Perché hai messo il nome di quel mascalzone sul regalo che voleva più di ogni altra cosa?" Jorja tirò un po' in fuori la grata, portando il tacchino alla luce. Con un mestolo, raccolse il sugo e lo versò sull'arrosto. Infine rispose: "Non vole-
vo che il Natale di Marcie fosse rovinato solo perché suo padre è un somaro." "Non dovresti proteggerla dalla verità," commentò quietamente Mary. "La verità è troppo brutta per una bambina di sette anni." "Prima si renderà conto di che verme è suo padre, meglio sarà. Lo sai cosa ha sentito tuo padre su quella donna con cui Alan vive?" "Spero proprio che questo uccello abbia intenzione di cuocere per l'ora di pranzo." Mary non lasciò cadere il discorso. "È sulla lista delle ragazze squillo di due casinò. Ti rendi conto di cosa significa, Jorja? Alan vive con una squillo. Ma cosa gli passa per la testa?" Jorja chiuse gli occhi e respirò a fondo. "Be'," continuò Mary, "se non vuole avere niente a che fare con la bambina, tanto meglio. Chissà quali malattie si è preso vivendo con quella." Jorja spinse di nuovo il tacchino nel forno, chiuse lo sportello e si alzò. "Non potremmo fare a meno di parlarne?" "Pensavo che ti sarebbe interessato sapere chi è quella donna." "Bene, adesso lo so." Le loro voci si fecero più basse, più intense. "E se un giorno si presenta e dice 'Pepper e io vogliamo portare Marcie ad Acapulco con noi,' o a Disneyland, o magari a stare da loro per un po'?" "Mamma, lui non vuole avere niente a che fare con Marcie perché gli ricorda le sue responsabilità." "Ma se..." "Mamma, dannazione!" Jorja non aveva alzato la voce, ma c'era tanta rabbia in quelle due parole che l'effetto su sua madre fu immediato. Un'espressione addolorata attraversò la faccia di Mary. Contrita, si allontanò da Jorja, andò in fretta al frigorifero, lo aprì e guardò i ripiani sovraccarichi. "Oh, hai fatto gli gnocchi." "Non sono comprati," disse Jorja, la voce tremante. "Fatti in casa." Intendeva essere conciliante, ma comprese che il suo commento avrebbe potuto essere interpretato come un'allusione al disappunto di suo padre per i dolci presi in negozio. Si morse il labbro, cacciando indietro lacrime brucianti. Ancora guardando nel frigorifero, ancora con un tremito nella voce, Mary disse: "Oh, hai già preparato anche le verdure per i contorni. Credevo che avresti avuto bisogno di aiuto, ma pare che tu abbia pensato a tut-
to." Chiuse il frigorifero e cercò qualcosa da fare per tenersi occupata e superare quel momento di imbarazzo. I suoi occhi erano lucidi di lacrime. D'impeto, Jorja si avvicinò alla madre e la strinse tra le braccia. Mary ricambiò l'abbraccio, e per un po' rimasero così, senza parlare: non era necessario, e del resto sarebbe stato impossibile. Fu Mary a rompere il silenzio. "Non so perché mi comporto in questo modo. Mia madre lo faceva con me, e io mi ero ripromessa che non sarei mai stata così con te." "Ti voglio bene come sei." "Forse è perché sei la mia unica figlia. Se avessi potuto averne ancora un paio, non ti darei tanto addosso." "È anche colpa mia, mamma. Ultimamente sono così irascibile." "E perché non dovresti esserlo?" replicò sua madre, tenendola stretta. "Quel farabutto ti pianta piena di debiti, devi mantenere te stessa e Marcie, vai a scuola... Hai tutti i diritti di essere irascibile. Io e tuo padre siamo così fieri di te, Jorja. Ci vuole tanto coraggio per fare quello che stai facendo." In salotto, Marcie si mise a strillare. E adesso? si domandò Jorja. Affacciandosi al salotto, vide suo padre cercare di persuadere Marcie a giocare con una bambola. "Guarda qui," stava dicendo Pete. "La bambola piange se la pieghi da questa parte, e ride se la pieghi dall'altra!" "Non voglio giocare con quella stupida bambola," rispose Marcie, imbronciata. Aveva in mano la siringa ipodermica in gomma e plastica del Piccolo Medico, e quella allarmante, violenta ossessione si era di nuovo impossessata di lei. "Voglio farti un'altra puntura." "Ma tesoro," protestò Pete, "me ne hai già fatte venti." "Devo esercitarmi," ribattè Marcie. "Non diventerò mai il mio dottore se non comincio a esercitarmi adesso." Pete lanciò un'occhiata a Jorja, esasperato. "Ma cos'è questa fissazione del Piccolo Medico?" domandò Mary. "Vorrei saperlo," mormorò Jorja. Marcie fece una smorfia mentre spingeva lo stantuffo della finta siringa. Aveva la fronte lucida di sudore. "Vorrei saperlo," ripetè Jorja, a disagio. Boston, Massachusetts
Ginger Weiss non aveva mai passato un Natale così deprimente in vita sua. I tre figli di George e Rita avevano portato le loro famiglie a Baywatch per le feste, e l'enorme casa risuonava delle risa argentine dei bambini. Tutti si sforzavano di farla sentire a proprio agio e coinvolgerla nelle tradizioni degli Hannaby, ma lei era acutamente conscia di essere un'estranea. La mattina di Natale era con tutti gli altri a guardare i bambini prendere d'assalto la montagna di doni, e seguendo l'esempio degli altri adulti, si inginocchiò sul pavimento insieme ai ragazzi, aiutandoli a montare i loro nuovi giocattoli e mostrando loro come usarli. Per un paio d'ore la sua infelicità si placò e, suo malgrado, venne assimilata dalla famiglia Hannaby. Comunque, al pranzo, che fu prelibato ma essenzialmente leggero in previsione del banchetto che ci sarebbe stato quella sera, Ginger si sentì di nuovo fuori posto. La conversazione, per lo più, era intessuta di ricordi di feste precedenti, alle quali lei non aveva preso parte. Dopo pranzo si inventò un mal di testa e si ritirò in camera sua. La splendida vista della baia la calmò, ma non poté arrestare la sua caduta a spirale nella depressione. Sperava solo che Pablo Jackson la chiamasse il giorno dopo dicendole che aveva studiato il problema dei blocchi di memoria ed era pronto per ipnotizzarla di nuovo. La sua visita a Pablo aveva turbato George e Rita meno di quanto si fosse aspettata. Li aveva preoccupati il fatto che fosse uscita da sola, rischiando di avere una crisi di amnesia senza che ci fosse una persona amica ad assisterla, e le avevano fatto promettere che in futuro si sarebbe lasciata accompagnare da Pablo e riportare indietro da Rita o da uno dei domestici, ma non avevano obiettato alla cura che aveva richiesto all'illusionista. Il potere rilassante della vista sulla baia era limitato. Ginger si scostò dalla finestra e andò verso il letto, dove fu sorpresa di trovare due libri sul comodino. Uno era un fantasy di Tim Powers, un autore che già conosceva, l'altro una copia di qualcosa intitolato Crepuscolo a Babilonia. Doveva averli messi lì Rita. Aveva un amico che si occupava di recensioni letterarie per il Globe, e a volte le passava libri interessanti prima che fossero disponibili sul mercato; questi, come indicava la fascetta sulla copertina, venivano da lui. Mise da parte il libro di Powers, ripromettendosi di leggerlo, e prese in esame Crepuscolo a Babilonia. Non aveva mai sentito nominare l'autore, Dominick Corvaisis, ma il breve riassunto della storia la incuriosì, e le bastò leggere la prima pagina per esserne avvinta. Tuttavia, prima di conti-
nuare, si spostò dal letto a una delle comode poltrone, e solo allora vide la fotografia dell'autore sul retro della copertina. Il respiro le si mozzò in gola, e per un momento pensò che la fotografia sarebbe stata la molla che avrebbe fatto scattare un'altra fuga. Cercò di gettare via il libro ma non ci riuscì. Cercò di alzarsi, ma non ci riuscì. Respirò a fondo, chiuse gli occhi, e aspettò che il suo cuore rallentasse, tornando a un ritmo abbastanza normale. Quando riaprì gli occhi e guardò di nuovo la fotografia, l'immagine dell'autore la turbò ancora, ma non quanto prima. Era certa di aver già visto quell'uomo, di averlo incontrato da qualche parte, e non nella migliore delle circostanze, anche se non ricordava dove o quando. La sua breve biografia sul risvolto di copertina la informò che aveva vissuto a Portland, Oregon, e ora risiedeva a Laguna Beach, California. Poiché non era mai stata in nessuno di quei due posti, non riusciva a immaginare quando le loro strade potessero essersi incrociate. Le sembrava strano non ricordare dove lo aveva incontrato, considerando che Dominick Corvaisis era un uomo intorno ai trentacinque anni, molto attraente, di sicuro abbastanza da colpirla. Ancora più strana era la sua prima reazione alla fotografia. Qualcuno avrebbe potuto liquidarla come lo scherzo insignificante di una mente sovreccitata, ma negli ultimi due mesi Ginger aveva imparato a tenere in considerazione i fatti insoliti e a cercare in essi un significato, per quanto insensati potessero sembrare. Fissò la fotografia di Corvaisis, sperando di stimolare la propria memoria. Infine, con una sensazione quasi premonitrice che Crepuscolo a Babilonia avrebbe in qualche modo cambiato la sua vita, lo aprì e cominciò a leggere. Chicago, Illinois Dall'ospedale dell'università, padre Stefan Wycazik andò diritto al laboratorio della Divisione scientifica investigativa del dipartimento di polizia di Chicago. Benché fosse Natale, gli operai municipali stavano ancora sgombrando le strade della neve caduta la notte prima. Solo un paio di uomini erano in servizio al laboratorio, che era situato in un vecchio edificio statale, e le stanze davano il senso di abbandono di una tornita tomba egizia sepolta sotto la sabbia del deserto. L'eco dei passi risuonava tra i pavimenti di mattonelle e gli alti soffitti. Normalmente, il laboratorio non dava informazioni a nessuno che fosse
estraneo alla polizia e al sistema giudiziario. Ma metà degli agenti di polizia di Chicago erano cattolici, il che significava che padre Wycazik aveva più di qualche amico tra loro. Stefan aveva importunato alcuni di questi amici per farsi spianare la strada alla DSI. Fu accolto dal dottor Murphy Aimes, un uomo panciuto con la testa perfettamente calva e baffoni spioventi. Si erano parlati per telefono prima che Stefan lasciasse la casa parrocchiale per andare all'ospedale dell'università, e Murphy Aimes era preparato alla sua visita. Si sedettero su due sgabelli a un banco del laboratorio. Un'alta finestra opaca incombeva di fronte a loro: era decorata da scure strisce di stereo di piccione. Sul piano di marmo del banco, Aimes aveva disposto una cartelletta e diverse altre cose. "Devo dire, padre, che non avrei mai acconsentito a dare informazioni come queste se ci fosse la possibilità di un processo per quella sparatoria alla paninoteca. Ma visto che entrambi i criminali sono morti, suppongo non ci sia nessuno da processare." "Lo apprezzo molto, dottor Aimes, davvero. E le sono grato per il tempo che mi sta dedicando." La curiosità era dipinta sulla faccia di Murphy Aimes. "Non riesco a capire il motivo del suo interesse per questo caso." "Non ne sono del tutto sicuro io stesso," fu la sibillina risposta di Stefan. Non aveva rivelato le sue ragioni alle più alte autorità che lo avevano presentato al laboratorio, e non intendeva illuminare nemmeno Aimes. Per prima cosa, se avesse detto loro cosa aveva in mente, avrebbero pensato che fosse un po' tocco e sarebbero stati meno inclini a collaborare con lui. "Bene," disse Aimes, un po' offeso, "mi chiedeva dei proiettili che il chirurgo ha estratto da Winton." Aprì un sacchetto di manila, del tipo che si chiude con un cordino, e se ne fece cadere il contenuto sul palmo della mano: due grigi blocchetti di piombo. "Eccoli." Stefan li prese in mano quando Aimes glieli offrì. "Li avete pesati, suppongo. Credo che sia la procedura standard. Erano del peso giusto per dei proiettili calibro 38?" "Se vuole sapere se si sono scheggiati nell'impatto, no. Sono così deformati che devono aver cozzato contro un osso. È sorprendente che non si siano scheggiati; ma di fatto sono entrambi intatti." "Veramente," rettificò padre Wycazik, fissando i proiettili, "intendevo dire se erano troppo leggeri, munizioni difettose. O erano di dimensioni normali?"
"Oh, normali, non c'è dubbio." "Abbastanza grandi per fare molto danno, un terribile danno," osservò pensoso padre Wycazik. "L'arma?" Da un involucro più grande, Aimes prese la pistola con cui avevano sparato a Winton Tolk. "Una Smith & Wesson calibro 38 Chief s Special." "L'avete esaminata, provata?" "Sì. Procedura standard." "Nessuna indicazione di guasti? In particolare, l'anima presenta errori di lavorazione, o c'è qualche altra anomalia a causa della quale il proiettile possa uscire a velocità inferiore al dovuto?" "È una strana domanda, padre. La risposta è no. È una buona pistola come ogni Smith & Wesson." Stefan ripose i due proiettili usati nella piccola custodia da cui aveva visto Aimes prenderli. "E le cartucce dalle quali vengono questi proiettili? È possibile che contenessero troppo poca polvere, che avessero una carica inadeguata?" Aimes battè le palpebre. "In pratica, lei sta cercando di scoprire perché due proiettili calibro 38 nel petto non hanno fatto i danni che avrebbero dovuto fare." Padre Wycazik annuì, ma non andò oltre. "C'erano cartucce non utilizzate nella pistola?" "Un paio. Più munizioni di scorta trovate in tasca a uno dei rapinatori, un'altra dozzina." "Ne avete aperta qualcuna per vedere se non avevano una carica inadeguata?" "Non c'era motivo di farlo." "Le sarebbe possibile controllarne una adesso?" "Possibile. Ma perché? Padre, di che si tratta?" Stefan sospirò. "So di essere prepotente, dottor Aimes, e sarebbe giusto che io ripagassi la sua gentilezza con una spiegazione. Ma non posso. Non ancora. I preti, come i medici e gli avvocati, a volte devono rispettare confidenze, mantenere segréti. Ma se mai sarò libero di rivelare cosa c'è dietro la mia curiosità, lei sarà il primo a sapere." Aimes e Stefan si guardarono dritto negli occhi per un momento. Poi l'uomo della scientifica aprì un altro involucro. Questo conteneva le cartucce inesplose trovate nella 38 Chief s Special. "Aspetti qui." Venti minuti dopo Aimes tornò con un vassoio di smalto bianco in cui erano posate due cartucce 38 Special smontate. Indicandole con una mati-
ta, commentò i vari elementi. "Questo è il bossolo in cui è inserito l'innesco. Il percussore batte qui. Quest'apertura sull'altro lato del bossolo è il foro di vampa che porta dalla carica di innesco al bicchiere di deposito della polvere. Non c'è alcun difetto, alcun errore di lavorazione. All'altra estremità della cartuccia, abbiamo un proiettile di piombo semivadcutter, a punta tronca, con una coppetta di rame applicata alla base per ritardare la fusione. Le minuscole scanalature intorno al proiettile sono rivestite di grasso per facilitare il passaggio attraverso la canna. Nulla di fuori posto neanche qui. E tra il bossolo e il proiettile c'è il comparto della polvere - o camera di combustione, che dir si voglia - dal quale ho estratto questo mucchietto di materiale fioccoso. È nitrocellulosà, una sostanza altamente combustibile; quando viene accesa dalla scintilla che arriva dall'innesco attraverso il foro di vampa esplode, eiettando il proiettile dalla cartuccia. Come può vedere, c'è abbastanza nitrocellulosà da riempire il bicchiere della polvere. Per maggior sicurezza, ne ho aperta un'altra." Aimes puntò la matita sulla seconda cartuccia smontata. "Anche questa è del tutto a posto. Il malvivente usava solide, affidabili munizioni Remington. L'agente Tolk è stato semplicemente fortunato, padre, molto fortunato." New York, New York Jack Twist trascorse il Natale in clinica con Jenny, sua moglie da tredici anni. Stare con lei nei giorni di festa era particolarmente triste. Ma stare da qualunque altra parte, lasciandola sola, sarebbe stato peggio. Benché Jenny avesse passato quasi due terzi del loro matrimonio in stato comatoso, gli anni di perduta comunione non avevano diminuito il suo amore per lei. Da più di otto anni non gli sorrideva, non lo chiamava per nome, non poteva ricambiare i suoi baci, ma nel cuore di Jack, almeno, il tempo si era fermato, e lei era ancora la bella Jenny Mae Alexander, una giovane sposa dal viso fresco. Incarcerato in quella prigione dell'America Centrale, era stato sostenuto dalla certezza che Jenny lo aspettava a casa, aveva nostalgia di lui, si preoccupava per lui e pregava ogni notte che lui tornasse sano e salvo. Per tutto quell'orribile periodo di torture e privazioni, si era aggrappato alla speranza che un giorno avrebbe di nuovo sentito la meravigliosa risata di Jenny, le sue braccia che lo stringevano. Era stata quella speranza a tenerlo in vita, a impedirgli di impazzire. Dei quattro ranger catturati, solo Jack e il suo amico Oscar Weston erano
sopravvissuti e tornati a casa, dopo una fuga che aveva del miracoloso. Per quasi un anno avevano atteso di essere tratti in salvo, certi che il loro paese non li avrebbe lasciati lì a marcire. Il loro solo dubbio era se sarebbero stati liberati con un'azione di commando o per vie diplomatiche. Dopo undici mesi, credevano ancora che i loro compatrioti li avrebbero tirati fuori, ma non osavano più aspettare. Avevano perso peso ed erano pericolosamente magri, denutriti. Le febbri tropicali di cui avevano sofferto senza che venisse prestata loro alcuna cura li avevano ulteriormente debilitati. La loro sola opportunità di fuggire era durante una delle loro regolari visite al Centro della giustizia popolare. Ogni quattro settimane, Jack e Oscar venivano prelevati dalle loro celle e portati al Centro della giustizia: un istituto pulito e luminoso, senza recinzioni né sbarre nel cuore della capitale, una prigione modello destinata a convincere i giornalisti stranieri dello spirito umanitario del nuovo regime. Lì venivano lavati, spidocchiati, infilati in abiti puliti, ammanettati e messi a sedere davanti a videocamere per essere cortesemente interrogati. Di solito, rispondevano alle domande con oscenità o spiritosaggini. Non aveva alcuna importanza, perché le loro voci venivano doppiate da linguisti in grado di parlare un inglese senza accenti che facevano uscire dalle loro bocche cose che non avevano mai detto. Una volta girato il film di propaganda, venivano intervistati per televisione a circuito chiuso da giornalisti stranieri riuniti in un'altra stanza. La telecamera non li riprendeva mai in primo piano, e le loro risposte non arrivavano a chi faceva le domande; da un altro microfono posto al di fuori della portata della telecamera, uomini del servizio segreto rispondevano ancora una volta per loro. All'inizio dell'undicesimo mese di prigionia, Jack e Oscar cominciarono a far piani per fuggire la prima volta che li avessero portati in quella struttura propagandistica, meno sorvegliata. La forza dei loro giovani corpi, un tempo formidabile, si era deteriorata, e le loro uniche armi erano schegge di ossi di ratti che avevano pazientemente modellato e affilato sfregandole contro le pareti di pietra delle celle. Per quanto crudelmente appuntiti, quegli strumenti erano armi patetiche; eppure Jack e Oscar speravano di avere la meglio su guardie armate fino ai denti. Sorprendentemente, ebbero la meglio. Una volta all'interno del Centro di giustizia, furono affidati alla custodia di una sola guardia che li scortò alle docce al secondo piano. L'uomo teneva la pistola nella fondina, probabil-
mente perché l'istituto era un centro di detenzione all'interno di quel più ampio centro di detenzione che era la capitale stessa. Era certo che Jack e Oscar fossero demoralizzati, deboli e disarmati, così fu sorpreso quando improvvisamente gli saltarono addosso e, con impressionante ferocia, lo pugnalarono con le schegge d'osso che avevano nascosto nei vestiti. Colpito due volte alla gola, l'occhio destro trafitto, morì senza emettere un grido che potesse dare l'allarme. Dopo aver preso la pistola e le munizioni della guardia, Jack e Oscar scapparono per i corridoi, rischiando di essere scoperti e ripresi. Ma quello, dopo tutto, era un centro "rieducativo" di minima sicurezza, e riuscirono ad arrivare senza incidenti al seminterrato, umido e fiocamente illuminato. Passando per una serie di magazzini, raggiunsero il retro dell'edificio, dove trovarono lo scalo merci e una via di uscita. Sette o otto grosse casse erano appena state scaricate da un camion, fermo contro il più prossimo dei due grandi binari di scarico, e l'autista era impegnato in un'animata discussione con un altro uomo. I due erano le sole persone in vista, e quando si voltarono, dirigendosi verso l'ufficio, Jack e Oscar corsero silenziosamente fino alle casse e di lì nel cassone del camion, dove si accovacciarono dietro le merci ancora da consegnare. Pochi minuti dopo l'autista tornò imprecando, sbattè il portellone del camion e partì prima che l'allarme suonasse. A dieci minuti e molti isolati dal Centro di giustizia, il camion si fermò. L'autista aprì il portello posteriore, prese una scatola, senza accorgersi dei due uomini nascosti dietro le casse, ed entrò nell'edificio davanti al quale aveva parcheggiato. Jack e Oscar uscirono dal loro riparo e fuggirono. Presto si trovarono in un quartiere di strade fangose e baracche cadenti, i cui abitanti piagati dalla miseria non avevano più simpatia per i nuovi tiranni di quanta ne avessero avuta per il vecchio, ed erano disposti a nascondere due yankee in fuga. A notte fatta, riforniti dei pochi viveri di cui la povera gente poteva privarsi, Jack e Oscar lasciarono la periferia della città. Quando arrivarono in aperta campagna, penetrarono in una stalla e rubarono un falcetto, un po' di mele avvizzite, e un cavallo. Prima dell'alba avevano raggiunto il margine della giungla, dove avevano abbandonato il cavallo. Deboli, con poche provviste, armati solo del falcetto e della pistola che avevano preso alla guardia, senza bussola e quindi costretti a orientarsi col sole e le stelle, si diressero a nord nella foresta tropicale, verso la frontiera, lontana centotrenta chilometri. Sette giorni dopo, quando raggiunsero il
territorio amico, Jack sapeva di avercela fatta grazie tanto al pensiero di Jenny quanto al suo addestramento militare. A quel punto credeva che il peggio fosse passato. Si sbagliava. Ora, seduto accanto al letto della moglie, col registratore che diffondeva musiche di Natale, Jack Twist fu improvvisamente sopraffatto dal dolore. Non poteva fare a meno di ricordare come il pensiero di Jenny gli fosse stato di conforto durante il suo Natale in prigione, quando di fatto lei era già in coma, perduta per lui. Buone feste. Chicago, Illinois L'ospedale pediatrico St. Joseph era affollato di visitatori; gli altoparlanti diffondevano musiche natalizie, rallegrando l'atmosfera di solito opprimente, e nelle stanze echeggiavano più risate di quante normalmente se ne sentissero in un mese. Ma da nessuna parte si avvertiva tanta speranza e letizia come intorno al letto di Emmeline Halbourg. Quando padre Stefan Wycazik entrò nella stanza, fu salutato calorosamente dai genitori di Emmy, due sorelle, nonni e zii: probabilmente lo avevano scambiato per uno dei cappellani dell'ospedale. Da quanto gli aveva detto Brendan Cronin la vigilia, Stefan sapeva che la ragazzina era in via di miglioramento; ma non si aspettava certo di trovarla addirittura raggiante. Solo due settimane prima, secondo Brendan, Emmy era stata menomata e morente. Ma ora i suoi occhi erano limpidi, e il pallore aveva lasciato il posto a un sano colorito roseo. Le sue nocche e i polsi non erano gonfi, e non pareva affatto sofferente. Non aveva l'aria di una bambina malata che combattesse coraggiosamente per riconquistare la salute; piuttosto, sembrava già guarita. Ma la cosa più sorprendente era un'altra: Emmy non giaceva a letto, ma era in piedi e camminava con l'aiuto di un paio di stampelle, tra l'ammirazione deliziata dei parenti. La sedia a rotelle era stata portata via. "Bene," disse Stefan, dopo la sua breve visita, "ora devo andare, Emmy. Ero venuto solo ad augurarti buon Natale da parte di un tuo amico, Brendan Cronin." "Ciccio!" esclamò Emmy. "È fantastico, vero? È dispiaciuto tanto a tutti quando ha smesso di lavorare qui." "Non ho mai conosciuto questo Ciccio," disse la madre, "ma da come ne parlavano i bambini, deve essere stato una buona medicina per loro."
Se Stefan fosse stato da solo con la bambina, le avrebbe chiesto del pomeriggio dell'11 dicembre, quando Brendan le aveva spazzolato i capelli mentre lei era sulla sedia a rotelle davanti a quella stessa finestra. Avrebbe voluto chiederle degli anelli sulle mani di Brendan, che erano apparsi per la prima volta quel giorno, e che Emmeline aveva notato prima ancora di lui. Avrebbe voluto sapere se aveva sentito qualcosa di insolito quando Brendan l'aveva toccata. Ma c'erano troppi adulti intorno, e sicuramente gli avrebbero fatto domande imbarazzanti. Stefan non era ancora prónto a rivelare le ragioni della sua curiosità. Las Vegas, Nevada Dopo un inizio burrascoso, il Natale in casa Monatella migliorò nettamente. Mary e Pete smisero di martellare Jorja con critiche e consigli indesiderati. Si rilassarono e giocarono con Marcie, come è giusto facciano dei nonni, e Jorja si ricordò perché li amava così tanto. Il pranzo fu in tavola alle dodici e cinquanta, con soli venti minuti di ritardo, ed era delizioso. Quando Marcie si mise a tavola, aveva smaltito il suo morboso interesse per il Piccolo Medico, e mangiò senza fretta. Fu un lungo pranzo con molte chiacchiere e risate, l'albero di Natale scintillava sullo sfondo. Furono ore liete finché, durante il dessert, all'improvviso iniziò la crisi e, con spaventosa rapidità, produsse il disastro totale. Pete stava prendendo in giro Marcie: "Ma dove la mette tanta roba un affarino come te? Hai mangiato più di tutti noi messi insieme!" "Oh, nonno." "E vero! Ci hai proprio dato dentro. Ancora un boccone di quella torta di zucca, e scoppierai." Marcie prese un'altra forchettata, la tenne sollevata perché tutti la vedessero e, con molta teatralità, se la portò lentamente alla bocca. "No, non farlo!" Pete si mise le mani davanti alla faccia come per proteggersi dall'esplosione. Marcie si infilò il boccone tra le labbra, lo masticò e inghiottì. "Visto? Non sono scoppiata." "Col prossimo, allora," disse Pete. "Ero solo in anticipo di un boccone. Scoppierai... oppure dovremo portarti di corsa all'ospedale." Marcie si fece seria. "L'ospedale no." "Oh, sì," ribattè Pete. "Sarai tutta gonfia, sul punto di esplodere, e dovremo portarti all'ospedale per farti sgonfiare."
"L'ospedale no," ripetè Marcie, inflessibile. Jorja si accorse che la voce di sua figlia era cambiata, che la bambina non stava più partecipando al gioco, ma era spaventata. Non aveva paura di esplodere, naturalmente, ma, a quanto pareva, il solo pensiero di un ospedale l'aveva fatta impallidire. "L'ospedale no," ripetè Marcie, un'espressione angosciata negli occhi. "Oh, sì," insistette Pete. Jorja tentò di fermarlo: "Papà, credo che..." Ma Pete continuò: "Naturalmente, non ti ci porteranno in ambulanza perché sarai troppo grossa. Dovremo noleggiare un camion." La bambina scosse violentemente la testa. "Non ci vado all'ospedale! Non mi farò toccare da quei dottori!" '"Tesoro," intervenne Jorja, "il nonno stava scherzando." "Q-quella gente all'ospedale m-mi farà male c-come l'altra volta! Non voglio!" Mary guardò Jorja, sconcertata. "Quando è stata in ospedale?" "Non c'è mai stata," rispose Jorja. "Non so perché..." "Sì che ci sono stata! Mi hanno l-legata al letto, riempita d-di aghi, e avevo paura, e non voglio che mi tocchino, mai più!" Ricordando la strana crisi che Kara Persighian le aveva raccontato il giorno prima, Jorja si affrettò a cercare di prevenire una scena simile. Mise una mano sulla spalla della figlia e le disse con dolcezza: "Tesoro, tu non sei mai..." "Sì, invece!" L'ira e la paura della bambina divennero rabbia e terrore. Scagliò la forchetta, e Pete dovette abbassarsi per schivarla. "Marcie!" gridò Jorja. La bambina saltò giù dalla sedia e indietreggiò dal tavolo, bianca in faccia. "Da grande farò il dottore e mi curerò da sola, così nessun altro mi infilerà aghi addosso!" Le parole si spensero in un penoso lamento. Jorja le andò dietro, tendendo le braccia verso di lei. "Tesoro, no." Marcie alzò le mani davanti a sé, come per proteggersi da un attacco, ma non era di sua madre che aveva paura. Stava guardando attraverso Jorja, forse scorgeva qualche minaccia immaginaria; il suo terrore, però, era reale. Non era semplicemente pallida ma verdognola, stravolta. "Marcie, cosa c'è?" La bambina si rincantucciò in un angolo, tremante. Jorja afferrò le mani di sua figlia, alzate in un gesto di difesa. "Marcie, parlami." Ma in quel momento, un improvviso puzzo di urina riempì l'aria,
e una chiazza scura si allargò dal cavallo dei jeans di Marcie lungo le gambe. "Marcie!" La bambina stava cercando di gridare, ma non ci riusciva. "Cosa sta succedendo?" chiese Mary. "Che le prende?" "Non lo so," disse Jorja. "Dio mi aiuti, non lo so." Con gli occhi ancora fissi su qualche essere o oggetto visibile a lei sola, Marcie iniziò una lamentosa cantilena senza parole. New York, New York Il registratore suonava ancora musica natalizia, e Jenny giaceva immobile e incosciente, ma Jack Twist non era più impegnato nella frustrante comunicazione a senso unico con cui aveva riempito le prime ore della sua visita. Adesso stava seduto in silenzio, e inevitabilmente i suoi pensieri scivolarono indietro attraverso gli anni, fino al suo ritorno dall'America Centrale. Al suo ritorno a casa, aveva scoperto che il salvataggio dei prigionieri all'Istituto di fratellanza era stato condannato, in certi ambienti, come un atto terroristico, un rapimento di massa, una provocazione allo scopo di far scoppiare una guerra. Lui e e gli altri ranger coinvolti erano stati dipinti come criminali in uniforme, e per qualche motivo lo sdegno dell'opposizione si era concentrato in particolare su quelli che erano stati fatti prigionieri. Preso dal panico, il Congresso aveva bandito tutte le attività segrete in America Centrale, inclusa un'imminente azione per liberare i quattro ranger. Il loro rilascio avrebbe dovuto essere organizzato solo e unicamente attraverso canali diplomatici. Era per questo che avevano aspettato invano i soccorsi. Il loro paese li aveva abbandonati. All'inizio Jack fece fatica a crederci. Quando finalmente se ne convinse, fu il secondo peggiore choc della sua vita. Di nuovo a casa, riconquistata la libertà, Jack si trovò a essere perseguitato dalla stampa ostile e citato davanti a una commissione del congresso per testimoniare sulla sua partecipazione al raid. Si aspettava di avere una possibilità di rettificare le cose, ma scoprì rapidamente che i suoi interlocutori non erano interessati al suo punto di vista, e che l'udienza, ripresa dalla televisione, non era che un'opportunità di mettersi in mostra per i politici, nell'infame tradizione di Joe McCarthy. Nel giro di qualche mese l'opinione pubblica si era quasi completamente
dimenticata di lui, e quando Jack ebbe riguadagnato il peso perso in prigione, la gente cessò di riconoscerlo per il presunto criminale di guerra visto in televisione; ma il dolore e il senso di tradimento continuarono a bruciare in lui. Se vedersi abbandonato dalla sua patria era stato il secondo peggiore choc della sua vita, il primo era stato ciò che era successo a Jenny durante la sua assenza. Un delinquente l'aveva accostata sul pianerottolo di casa mentre stava rientrando dal lavoro. Puntandole una pistola alla testa, l'aveva spinta nel suo appartamento, sodomizzata e violentata, picchiata brutalmente con la pistola, e lasciata lì a morire. Quando Jack era tornato a casa, aveva trovato Jenny in un istituto statale. Il livello delle cure che le venivano prestate era abominevole. Norman Hazzurt, lo stupratore che aveva aggredito Jenny, era stato identificato tramite impronte digitali e testimoni, ma un abile difensore era riuscito a rinviare il processo. Svolgendo indagini per proprio conto, Jack si accertò che Hazzurt, con una storia di violenze sessuali alle spalle, era effettivamente il colpevole. Ma si convinse anche che il suo avvocato sarebbe riuscito a farlo assolvere con qualche cavillo. Durante tutte le sue traversie con la stampa e i politici, Jack aveva fatto programmi per il futuro. Aveva due principali obiettivi davanti a sé: primo, avrebbe ucciso Norman Hazzurt in modo tale che i sospetti non ricadessero su di lui; secondo, avrebbe messo insieme abbastanza denaro per trasferire Jenny in una clinica privata, anche se il solo modo per ottenere tanti soldi in poco tempo era rubarli. Grazie al suo addestramento di ranger, conosceva praticamente ogni arma, esplosivo, arte marziale e tecnica di sopravvivenza. La società lo aveva tradito, ma gli aveva anche fornito le nozioni e i mezzi per vendicarsi, e gli aveva insegnato come infrangere qualunque legge lo ostacolasse, senza incorrere in alcuna punizione. Norman Hazzurt morì per un'"accidentale" esplosione di gas due mesi dopo il ritorno di Jack. E due settimane più tardi, il trasferimento di Jenny in una clinica privata fu finanziato dai proventi di un'ingegnosa rapina in banca eseguita con precisione militare. L'omicidio di Hazzurt non diede soddisfazione a Jack. Di fatto, lo depresse. Uccidere in guerra era diverso. Lui non aveva il distacco necessario per uccidere una persona, se non per autodifesa. Rubare, comunque, era appassionante. Dopo il successo del lavoro alla banca, Jack si era sentito eccitato, esaltato. Un colpo audace aveva potere terapeutico. Il crimine gli dava una ragione per vivere. Fino a poco tempo
prima. Ora, seduto accanto al letto di Jenny, Jack Twist si domandò cosa lo avrebbe aiutato ad andare avanti, giorno dopo giorno, se non il furto in grande stile. La sola altra cosa che avesse era Jenny, ma non aveva più bisogno di provvedere a lei: aveva messo da parte più che abbastanza denaro a questo scopo. Così, la sua unica ragione per vivere era andare in clinica diverse volte la settimana, guardare il volto sereno della moglie, tenerle la mano, e pregare perché accadesse un miracolo. Era un'ironia della sorte che un uomo come lui, un incallito individualista che contava solo su se stesso, non avesse altra speranza che il misticismo. Mentre rimuginava su questo, sentì Jenny emettere un tenue suono gorgogliante. La donna prese due rapidi, profondi respiri, poi esalò un lunto rantolo. Per un folle momento, alzandosi dalla sedia, Jack quasi credette che il miracolo si fosse compiuto, quasi si aspettò di trovarla con gli occhi aperti, cosciente per la prima volta dopo otto anni. Ma i suoi occhi erano chiusi, la sua faccia spenta. Le mise una mano sul volto, poi la spostò sulla gola. Quel che era accaduto non era affatto miracoloso, ma antimiracoloso, terreno, e inevitabile: Jenny Twist era morta. Chicago, Illinois Pochi medici erano in servizio al St. Joseph quel Natale, ma un interno di nome Jarvil e un assistente di nome Klinet acconsentirono di buon grado a parlare con padre Wycazik della sorprendente ripresa di Emmeline Halbourg. Klinet, un giovane riccioluto, condusse Stefan in una saletta di consultazione per mostrargli la cartella clinica di Emmy. "Cinque settimane fa è entrata in terapia con namiloxipirina, un nuovo farmaco appena approvato dalla FDA." Il dottor Jarvil, l'interno, era un uomo quieto, con occhi dalle palpebre pesanti, ma quando raggiunse i due nella saletta si animò molto mentre parlava del miglioramento di Emmy. "La namiloxipirina ha diversi effetti su malattie ossee come quella di Emmy," spiegò Jarvil. "In molti casi blocca la distruzione del periostio, promuove la crescita di osteociti sani, e induce una certa accumulazione di calcio intercellulare. E in un caso come quello di Emmy, dove il midollo osseo è il bersaglio primario della malattia, crea nella cavità midollare e
nei canali di Havers un ambiente estremamente ostile ai microorganismi, ma che incoraggia la crescita di cellule del midollo, la produzione di cellule ematiche, e la formazione di emoglobina." "Ma di solito non agisce così rapidamente," fece notare Klinet. "Ed è fondamentalmente un farmaco conservativo," aggiunse Jarvil. "Può fermare il progresso di una malattia, arrestare il deterioramento delle ossa, ma non rende possibile la rigenerazione. Certo, dovrebbe promuovere una qualche ricostruzione, entro un certo limite, ma non del tipo di quella che stiamo osservando in Emmy." "Rapida ricostruzione," sottolineò Klinet, dandosi una manata sulla fronte, come per cacciare a forza quello stupefacente fatto nel suo cervello riluttante. Mostrarono a Stefan una serie di lastre fatte nelle ultime sei settimane: i cambiamenti nelle ossa e nelle giunture di Emmy erano lampanti. "È stata in trattamento con namiloxipirina per tre settimane senza effetti significativi," disse Klinet. "Poi all'improvviso, due settimane fa, il suo corpo non solo è entrato in uno stato di remissione ma ha cominciato a ricostruire i tessuti danneggiati." Il radicale mutamento delle condizioni di Emmy corrispondeva esattamente alle prima apparizione degli strani anelli sulle mani di Brendan Cronin. Comunque, Stefan non fece alcun accenno a quella coincidenza. Jarvil mostrò altri raggi x ed esami che indicavano un considerevole miglioramento dei canali di Havers, l'intricata rete che portava piccoli vasi sanguigni e linfatici attraverso l'osso a scopo di nutrimento e riparazione. Molti di questi canali erano stati intasati da una sostanza che formava come delle placche, strozzando i vasi. Nelle ultime due settimane, però, la placca era quasi scomparsa, consentendo la ripresa della circolazione necessaria alla rigenerazione dei tessuti. "Nessuno aveva idea che la namiloxipirina potesse ripulire così i canali," disse Jarvil. "Nessun dato in proposito. Una minima disostruzione, sì, ma solo come conseguenza del controllo sulla malattia. Ma niente del genere. È stupefacente." "Se la rigenerazione continua di questo passo," commentò Klinet, "Emmy sarà del tutto guarita nel giro di tre mesi. Assolutamente fenomenale." "Sarà di nuovo una bambina sana, normale," disse Jarvil. I due medici sorrisero a padre Wycazik, e lui non ebbe il cuore di suggerire che né il loro lavoro né il farmaco miracoloso fossero responsabili del-
la guarigione di Emmy. Erano euforici, così Stefan tenne per sé la possibilità che Emmy fosse stata curata da qualcosa di molto più potente e misterioso della medicina moderna. Milwaukee, Wisconsin Il Natale con Lucy, Frank e i nipoti fu divertente e terapeutico per Ernie e Faye Block. Quando, verso la fine del pomeriggio, uscirono a fare quattro passi loro due da soli, si sentivano bene come non succedeva da mesi. Il tempo era perfetto per camminare: freddo, frizzante, ma senza vento. L'ultima nevicata era stata quattro giorni prima, così i marciapiedi erano sgombri. Con l'avvicinarsi del tramonto, l'aria brillava di una luminosità purpurea. Infagottati in giacconi pesanti e sciarpe, Faye ed Ernie passeggiavano sottobraccio, parlando animatamente degli eventi della giornata, ammirando le decorazioni natalizie nei giardini del vicinato di Lucy e Frank. Gli anni sembrarono scivolare via, e a Faye sembrò che lei ed Ernie fossero ancora due sposini, giovani e pieni di sogni. Dal momento in cui erano arrivati a Milwaukee, dieci giorni prima, Faye aveva motivo di sperare che tutto si sarebbe sistemato. Ernie sembrava stare meglio, c'erano un nuovo vigore nel suo passo, un più genuino buon umore nel suo sorriso. Evidentemente, bearsi dell'affetto della figlia, del genero e dei nipoti era di per sé sufficiente per alleviare la paralizzante paura che era diventata il punto centrale della sua vita. Le sedute col dottor Fontelaine, sei fino a quel momento, gli stavano inoltre giovando notevolmente. Ernie aveva ancora paura del buio, ma ne era molto meno terrorizzato di quando erano partiti dal Nevada. Le fobie, secondo il dottore, erano facili da trattare in confronto a molti altri disturbi psichiatrici. In anni recenti i terapisti avevano scoperto che, nella maggioranza dei casi, i sintomi erano la malattia stessa, piuttosto che ombre di conflitti irrisolti nel subconscio del paziente. Non si riteneva più necessario, né possibile o desiderabile, cercare le cause psicologiche del problema per poterlo curare. Alle lunghe terapie di prima, ora si preferiva insegnare al paziente tecniche di desensibilizzazione, che potevano sradicare i sintomi nel giro di mesi, o anche di settimane. Approssimativamente un terzo di tutti i fobici non poteva essere aiutato da questi metodi e richiedeva invece trattamenti a lungo termine, e perfino farmaci capaci di bloccare il panico, come l'alprazolam. Ma Ernie stava
migliorando con una rapidità che anche il dottor Fontelaine, un ottimista per natura, trovava stupefacente. Faye aveva letto molte cose sulle fobie e aveva scoperto che poteva aiutare Ernie riferendogli fatti curiosi che gli facevano vedere la sua condizione in una prospettiva diversa, meno paurosa. A lui piaceva specialmente sentire di bizzarre fobie al cui confronto il suo terrore del buio sembrava ragionevole. Per esempio, sapere che in giro c'erano pteronofobici, persone che vivevano nella costante e irragionevole paura delle piume, faceva apparire la sua avversione per il buio non solo tollerabile, ma anche comune e, logica. Gli ittiofobi inorridivano alla prospettiva di trovarsi davanti un pesce; pediofobi scappavano urlando alla vista di una bambola. E la nictiofobia di Ernie era senz'altro preferibile alla coitofobia (la paura del rapporto sessuale), e mille volte meno debilitante dell'autofobia (la paura di se stessi). Ora, mentre camminavano nella luce crepuscolare, Faye parlava al marito, cercando di distrarlo dalle ombre che si allungavano sempre più sulla neve, ma la mano di Ernie continuava a stringersi sul suo braccio, finché le avrebbe fatto male se non avesse avuto addosso un maglione spesso e un pesante giaccone. Quando furono a sette isolati da casa, era troppo tardi per sperare di fare in tempo a tornare indietro prima che la completa oscurità calasse sulla terra. Due terzi del cielo erano già neri, e l'altro terzo era di un viola intenso. Il buio si espandeva come inchiostro versato. I lampioni si erano accesi. Faye fece fermare Ernie in un cono di luce, dandogli una breve tregua. Aveva lo sguardo stravolto, e le nuvolette di vapore che uscivano dalla sua bocca in rapida successione indicavano il panico incipiente. "Ricordati di controllare la respirazione," lo ammonì Faye. Lui annuì e cominciò subito a respirare più a fondo, più lentamente. Quando in cielo ogni residuo di luce fu svanito, lei gli chiese: "Pronto per tornare indietro?" "Pronto," rispose lui, la voce atona. Uscirono dalla luce del lampione, avviandosi al buio verso casa. Ernie fischiava a denti stretti. Faye ed Ernie stavano applicando, per la terza volta, una tecnica terapeutica d'urto chiamata "immersione", in cui il fobico veniva incoraggiato ad affrontare la cosa di cui aveva paura e a sopportarla abbastanza a lungo da spezzare la sua presa su di lui. L'immersione si basa sul fatto che gli attac-
chi di panico hanno una durata limitata. Il corpo umano non può sostenere a tempo indeterminato un livello molto alto di panico, non può produrre adrenalina all'infinito, e quindi la mente deve adattarsi a quello che teme, e concludere la pace, o almeno un armistizio, con esso. L'immersione può essere un metodo crudele e barbaro per spezzare una fobia, perché sottopone il paziente al rischio di un crollo. Il dottor Fontelaine, però, preferiva una versione modificata della tecnica, che prevedeva tre fasi di confronto con la fonte del panico. La prima fase, nel caso di Ernie, consisteva nell'uscire al buio per quindici minuti, ma con Faye al fianco e con aree illuminate facilmente accessibili. Ora, ogni volta che arrivavano sotto un lampione, si fermavano per consentire a Ernie di riprendere coraggio prima di proseguire per il successivo tratto nell'oscurità. Di lì a una o due settimane, dopo altre sedute col dottore, sarebbero passati alla seconda fase, che richiedeva di raggiungere in macchina un posto dove non ci fossero lampioni, né zone illuminate nei paraggi. Lì avrebbero camminato insieme sottobraccio finché Ernie non avesse più potuto tollerare l'oscurità, e a quel punto Faye avrebbe acceso una pila per dargli un momento di respiro. Nella terza fase del trattamento, Ernie sarebbe andato a fare una passeggiata da solo in una zona completamente buia. Dopo qualche uscita come quella, sarebbe quasi certamente guarito. Ma per il momento non lo era ancora, e quando furono a un isolato dall'arrivo Ernie ansimava come un cavallo da corsa sfiancato. Appena in vista della casa illuminata, partì come un razzo verso la salvezza. Non male, però: sei isolati. Stava facendo progressi. Seguendolo in casa, dove Lucy lo stava già aiutando a togliersi il giaccone, Faye si sforzò di sentirsi contenta. Di questo passo, Ernie avrebbe completato la terza e ultima fase con settimane, forse perfino un paio di mesi, di anticipo sul previsto. Ma era appunto questo a preoccuparla. Il suo rapido miglioramento era sbalorditivo; troppo rapido e sbalorditivo per essere reale, le sembrava. Avrebbe voluto credere che presto si sarebbero lasciati quell'incubo alle spalle, ma non poteva fare a meno di chiedersi se il rapido recupero di Ernie fosse durevole. Per quanto ce la mettesse tutta per essere ottimista, Faye Block era tormentata dall'istintiva e snervante sensazione che i guai non sarebbero finiti lì. Boston, Massachusetts
Inevitabilmente, dato il suo esotico background di figlioccio di Picasso e illusionista un tempo famoso in tutta Europa, Pablo Jackson era un personaggio di spicco nei salotti di Boston. Per di più, durante la seconda guerra mondiale, aveva agito da tramite tra i servizi segreti britannici e le forze della resistenza francese, e la sua recente collaborazione con la polizia come ipnotista non aveva fatto che accrescere il suo fascino. Gli inviti non gli mancavano mai. La sera di Natale, Pablo era a una cena in abito scuro per ventidue persone dagli Hergensheimer, a Brookline. La casa era splendida, in stile coloniale georgiano, elegante e accogliente quanto gli Hergensheimer stessi, che avevano costruito la loro fortuna sugli immobili negli anni cinquanta. Un barista era in servizio nella biblioteca, camerieri in giacca bianca circolavano per l'enorme salone con champagne e canapè, e nell'atrio un quartetto d'archi suonava al giusto volume, abbastanza alto per fornire una piacevole musica di sottofondo. Tra quell'attraente compagnia, l'uomo di maggiore interesse per Pablo era Alexander Christophson, ex senatore del Massachusetts, poi direttore della CIA, ora in pensione da quasi dieci anni, che Pablo conosceva da mezzo secolo. Con i suoi settantasei anni, Christophson era il secondo per anzianità tra gli invitati, ma la vecchiaia era stata gentile con lui quasi quanto con Pablo. Era alto, distinto, con poche rughe sulla classica faccia bostoniana. La sua mente non aveva perso l'acutezza di sempre. La lunghezza del suo viaggio sulla terra era tradita solo da una leggera traccia di morbo di Parkinson che, nonostante le cure, gli aveva lasciato un tremito alla mano destra. Mezz'ora prima di cena, Pablo prese in disparte Alex e lo guidò nello studio rivestito di quercia di Ira Hergensheimer, adiacente alla biblioteca, per parlargli in privato. Il vecchio illusionista chiuse la porta dietro di loro, e portarono le loro coppe di champagne a un paio di poltrone in pelle vicino alla finestra. "Alex, ho bisogno di un tuo consiglio." "Be', come tu sai," disse Alex, "alla nostra età si è sempre pronti a dare buoni consigli, non potendo più dare il cattivo esempio. Ma non riesco a immaginare cosa potrei mai consigliarti che già non abbia pensato tu stesso." "Ieri è venuta da me una giovane donna. È una donna eccezionalmente graziosa, affascinante e intelligente, che è abituata a risolvere da sola i propri problemi. Ma ora è andata a sbattere contro qualcosa di molto strano. Ha disperatamente bisogno di aiuto."
Alex inarcò le sopracciglia. "Vengono ancora belle donne a chiederti aiuto, a ottantun anni? Sono impressionato, umiliato e invidioso, Pablo." "Questa non è un coup-de-foudre, vecchio sudicione che non sei altro. La passione non c'entra." Senza accennare al nome o all'occupazione di Ginger Weiss, Pablo espose il suo problema - le bizzarre e inesplicabili fughe - e raccontò della seduta di regressione ipnotica che si era conclusa con la sua paurosa reazione. "Sembrava realmente che si stesse ritirando in un profondo coma autoindotto, forse perfino nella morte, per sottrarsi alle mie domande. Com'è ovvio, mi sono rifiutato di metterla di nuovo in trance e rischiare un'altra reazione di quella gravita. Ma le ho promesso che avrei fatto delle ricerche per vedere se qualche caso simile fosse documentato. Tra ieri sera e stamattina ho scartabellato libri su libri, in cerca di qualche riferimento a blocchi di memoria che comportassero meccanismi di autodistruzione. Alla fine ne ho trovato uno in uno dei tuoi libri. Naturalmente, tu parlavi di una condizione psicologica indotta, conseguente a un lavaggio del cervello, e il blocco di questa donna si è formato spontaneamente; ma l'analogia esiste." Attingendo alle sue esperienze nei servizi segreti durante la seconda guerra mondiale e la successiva guerra fredda, Alex Christophson aveva scritto diversi libri, inclusi due che trattavano di lavaggio del cervello. In uno di questi, Alex aveva descritto una tecnica da lui chiamata "blocco di Azrael" (dal nome di uno degli angeli della morte), che ricordava in modo impressionante la barriera che circondava il ricordo di qualche evento traumatico nel passato di Ginger Weiss. Mentre la musica d'archi arrivava fino a loro attutita dalla porta chiusa dello studio, Alex posò il bicchiere di champagne, perché le mani gli tremavano troppo violentemente. "Non avresti intenzione di lasciar perdere la signora e i suoi problemi e dimenticartene? Perché ti assicuro che è la cosa migliore da fare." "Be'," disse Pablo, un po' sorpreso dal cupo tono di voce dell'amico, "le ho promesso che cercherò di aiutarla." "Sono in pensione da otto anni, e il mio istinto non è più quello di una volta. Ma questa storia non mi piace per niente. Lasciala perdere, Pablo. Non vederla più, non cercare più di aiutarla." "Ma, Alex, gliel'ho promesso." "Temevo che avresti scelto di fare così." Alex intrecciò le sue tremule mani. "Okay. Il blocco di Azrael. Non è qualcosa che i servizi occidentali usano spesso, ma i sovietici lo trovano impareggiabile. Per esempio, im-
maginiamo un agente russo di nome Ivan, con trent'anni di servizio nel KGB. Nella memoria di Ivan ci sarà un'incredibile quantità di informazioni altamente delicate che, se dovessero cadere in mani occidentali, devasterebbero le reti spionistiche russe. I superiori di Ivan temono costantemente che, nel corso di qualche missione all'estero, venga identificato e interrogato." "Per quanto ne so, con le droghe e le tecniche ipnotiche di oggi, nessuno può nascondere informazioni a un inquisitore determinato." "Esattamente. Per quanto possa essere duro, Ivan spiattellerà tutto quel che sa senza essere torturato. Per questo, i suoi superiori preferirebbero inviare agenti più giovani che, se presi, avrebbero informazioni meno preziose da rivelare. Ma molte situazioni richiedono un uomo maturo come Ivan, così la possibilità che tutto il suo bagaglio di informazioni cada in mani nemiche è un incubo con cui i suoi superiori devono convivere, che gli piaccia o no." "Rischi del mestiere." "Infatti. Comunque, poniamo che, tra tutte le delicate informazioni nella sua testa, Ivan sappia due o tre cose particolarmente delicate, così esplosive che la loro rivelazione potrebbe distruggere il suo paese. Questi particolari ricordi, meno dell'uno per cento di quel che sa sulle operazioni del KGB, potrebbero essere soppressi senza incidere sul suo rendimento nel campo: si parla della soppressione di una porzione minuscola della sua memoria. Allora, se cadesse in mani nemiche, gli caverebbero lo stesso un bel po' di notizie preziose, ma almeno non sarebbe in grado di rivelare quelle poche, più scottanti informazioni." "E a questo punto entra in ballo il blocco di Azrael," disse Pablo. "Gli amici di Ivan usano droghe e ipnosi per sigillare certe parti del suo passato prima di inviarlo all'estero per la prossima missione." Alex annuì. "Per esempio, diciamo che anni fa Ivan sia stato uno degli agenti implicati nell'attentato a papa Giovanni Paolo II. Con un blocco di memoria impiantato, la sua consapevolezza di quel coinvolgimento potrebbe essere relegata nel suo subconscio, oltre la portata di potenziali interrogatori, senza incidere sul suo operato. Ma non basterà un blocco qualsiasi. Se chi interroga Ivan scopre un normale blocco di memoria, lavorerà diligentemente per schiuderlo, perché saprà che quello che c'è dietro è di enorme importanza. Così la barriera dev'essere tale da non poter essere forzata. Il blocco di Azrael è perfetto, in questo senso. Il soggetto è programmato per ritirarsi in un coma profondo, e perfino nella morte, quando viene
interrogato sull'argomento proibito. Di fatto, sarebbe più esatto chiamarlo il "grilletto di Azrael", perché se l'inquisitore sonda la memoria sigillata, preme quel grilletto, mandando Ivan in coma, e se insiste potrebbe anche ucciderlo." Pablo era affascinato. "Ma l'istinto di sopravvivenza non è abbastanza forte per vincere il blocco? Quando si arriva al punto in cui Ivan deve ricordare e rivelare quel che ha dimenticato o morire... be', certamente la memoria repressa tornerà in superficie." "No." Anche nella calda luce ambrata della lampada a stelo accanto alla sua poltrona, Alex sembrava essersi fatto grigio in volto. "Non con le droghe e le tecniche ipnotiche di cui si dispone oggi. Il controllo della mente è una scienza spaventosamente avanzata. L'istinto di sopravvivenza è il più forte che abbiamo, ma anche quello può essere vinto. Ivan può essere programmato per autodistruggersi." Pablo trovò il suo bicchiere di champagne vuoto. "La mia giovane amica sembra essersi inventata una sorta di blocco di Azrael per nascondere a se stessa qualche evento straordinariamente inquietante del suo passato." "No," disse Alex. "Non si è creata il blocco da sé." "In qualche modo deve averlo fatto, Alex. Lei scivola via quando cerco di interrogarla. Così, visto che tu conosci questo campo, ho pensato che potresti avere qualche suggerimento da darmi su come agire." "Tu ancora non capisci perché ti ho avvertito di lasciar perdere tutta la faccenda." Alex si alzò dalla poltrona, andò alla finestra, si infilò le mani tremanti in tasca e fissò il prato coperto di neve. "Un blocco di Azrael autoimposto, generato spontaneamente? Una cosa del genere è impossibile. La mente umana non si metterebbe mai deliberatamente in pericolo di morte solo per nascondere qualcosa a se stessa. Un blocco di Azrael è sempre un controllo applicato dall'esterno. Se tu hai incontrato una simile barriera, significa che qualcuno l'ha impiantata nella sua mente." "Stai dicendo che ha subito un lavaggio del cervello? Ma è semplicemente ridicolo. Quella ragazza non è una spia." "Ci credo." "E non è russa. Allora perché avrebbero dovuto farle un lavaggio del cervello? I comuni cittadini non diventano bersaglio di cose del genere." Alex si voltò e guardò Pablo in faccia. "Questa non è che una supposizione, ma forse ha visto accidentalmente qualcosa che non avrebbe dovuto. Qualcosa di estremamente importante, segreto. Di conseguenza, è stata sottoposta a un sofisticato processo di blocco della memoria perché non
potesse raccontarlo a nessuno." Pablo lo fissò allibito. "Ma cosa potrebbe mai aver visto da rendere necessarie misure così estreme?" Alex si strinse nelle spalle. "E chi può aver manomesso la sua mente?" "I russi, la CIA, gli israeliani, gli MI6 inglesi: qualunque organizzazione sia in grado di fare una cosa del genere." "Non penso sia mai stata fuori degli Stati Uniti, quindi resta la CIA." "Non necessariamente. Tutti gli altri operano in questo paese per i loro scopi. Inoltre, i servizi segreti non sono le sole organizzazioni ad avere familiarità con le tecniche di controllo mentale. Ci sono anche sette di fanatici religiosi, frange esaltate di gruppi politici, altri. Se gente come quella vuole che lei dimentichi qualcosa, tu sicuramente non devi aiutarla a ricordare. Non sarebbe salutare per nessuno di voi due, Pablo." "Non posso credere..." "Credilo," disse cupamente Alex. "Ma queste fughe, queste improvvise paure di guanti neri e caschi sembrerebbero indicare che il suo blocco di memoria si sta crepando. Eppure la gente a cui hai accennato non avrebbe fatto un lavoro a metà, no? Se avessero impiantato un blocco, sarebbe perfetto." Alex tornò alla sua poltrona, si sedette, chinandosi in avanti. Fissava Pablo con intensità, sforzandosi di fargli capire la gravita della situazione. "È questo che mi preoccupa di più, amico mio. Di norma, una barriera mentale così solidamente impiantata non si indebolirebbe mai da sé. Quelli che sono stati capaci di fare una cosa del genere alla tua amica sono assolutamente degli esperti. Non hanno di certo costruito un blocco difettoso. Quindi i suoi recenti problemi, il deterioramento della sua condizione psicologica, possono significare una sola cosa." "Sì?" "I ricordi proibiti, i segreti sepolti sotto il blocco di Azrael sono evidentemente così esplosivi, così spaventosi, così traumatici, che nemmeno una barriera abilmente costruita può contenerli. Imprigionato nel subconscio di quella donna c'è un ricordo sconvolgente, di immensa potenza, che si sta sforzando di liberarsi e raggiungere il livello cosciente. Gli oggetti che fanno scattare i suoi black-out - i guanti, lo scarico del lavandino - sono con ogni probabilità elementi di quei ricordi repressi. Quando lei si fissa su una di quelle cose, è vicina ad aprire una breccia nel blocco, sul punto di ricordare. Allora si attiva il suo programma, e cade in stato di inco-
scienza." Il cuore di Pablo accelerò per l'eccitazione. "Allora, nonostante tutto, potrebbe essere possibile usare la regressione ipnotica per esplorare questo blocco di Azrael, allargando le crepe già esistenti, senza farla andare in coma. Bisognerebbe essere estremamente cauti, è ovvio, ma con..." "Tu non mi stai ascoltando!" Alex scattò in piedi, puntando su Pablo un indice tremante. "È incredibilmente pericoloso. Ti sei imbattuto in qualcosa di troppo grosso per te. Se la aiuti a ricordare, ti farai dei nemici potenti da qualche parte." "È una cara ragazza, e la sua vita sta andando a rotoli." "Non puoi aiutarla. Sei troppo vecchio, e sei solo." "Senti, forse non hai abbastanza chiara la situazione. Non ti ho detto il suo nome né la sua professione, ma ora..." "Non voglio sapere chi è!" esclamò Alex, sbarrando gli occhi. "È un medico," insistette Pablo. "O quasi. Sono quattordici anni che si prepara per esercitare come chirurgo, e adesso sta perdendo tutto. È tragico." "Pensa a questo, dannazione: lei è quasi certamente destinata a scoprire che sapere la verità è peggio ancora di non saperla. Se i ricordi repressi stanno forzando il blocco, devono essere così traumatici che potrebbero distruggerla psicologicamente." "Forse," riconobbe Pablo. "Ma non dovrebbe essere lei a decidere se continuare o no a scavare?" Alex era irremovibile. "Se non la distrugge il ricordo stesso, allora probabilmente verrà uccisa da chiunque abbia impiantato il blocco. Mi sorprende che non l'abbiano uccisa direttamente. Se dietro tutto questo ci sono i servizi segreti, nostri o loro, devi tenere ben presente che per loro i civili sono tranquillamente sacrificabili. Le è stata fatta una grazia rara e stupefacente quando hanno usato il lavaggio del cervello invece di un proiettile. Un proiettile è più rapido ed economico. Ma non la risparmieranno una seconda volta. Se scroprono che il blocco di Azrael è crollato, che ha ricordato il segreto che le avevano nascosto, le faranno saltare il cervello." "Non puoi esserne certo," obiettò Alex. "Del resto, lei è una vera arrivista, Alex, un'intraprendente, una che fa e disfa. Così, dal suo punto di vista, restare nella sua attuale situazione è quasi peggio che se le facessero saltare il cervello." Alex non fece alcuno sforzo per nascondere la propria frustrazione al vecchio mago. "Aiutala, e faranno saltare il cervello anche a te! Non ti
preoccupa questo?" "A ottantun anni," rispose Pablo, "non succede spesso qualcosa di interessante. Non ci si può permettere di voltare la schiena, quelle rare volte che ti si offre un po' di eccitazione. Vogue la galère, devo rischiare." "Stai facendo uno sbaglio." "Forse sì, amico mio. Ma... allora, perché mi sento così bene?" Chicago, Illinois Bennet Sonneford, il chirurgo che il giorno prima aveva operato Winton Tolk, introdusse padre Wycazik in uno spazioso studio pieno di trofei di pesca. Pesci spada, un'immensa alalonga, persici, trote: più di trenta occhi vitrei fissavano ciecamente i due uomini. In una teca erano esposte medaglie e coppe d'oro e d'argento. Il dottore si mise a una scrivania di pino sotto un pesce spada di sorprendenti dimensioni, e Stefan si sedette su una comoda poltrona di fianco alla scrivania. Benché l'ospedale gli avesse fornito solo il numero dell'ufficio di Sonneford, padre Wycazik era riuscito a rintracciare il suo indirizzo di casa con l'aiuto di amici alla compagnia telefonica e al dipartimento di polizia. Si era presentato alla sua porta alle sette e trenta della sera di Natale, profondendosi in scuse per aver interrotto i festeggiamenti. "Brendan lavora con me a St. Bernadette," cominciò Stefan, "e lo stimo molto. Non vorrei vederlo nei guai." Sonneford, che ricordava un pesce lui stesso - pallido, gli occhi un po' sporgenti, la bocca naturalmente imbronciata - disse: "Guai?" Aprì un astuccio di piccoli attrezzi, scegliendo un cacciavite in miniatura, e volse la sua attenzione a un mulinello di canna da pesca posato sulla scrivania. "Che genere di guai?" "Per aver interferito con agenti di polizia nello svolgimento del loro dovere." "Ridicolo." Sonneford rimosse con cura minuscole viti dalla cassa del mulinello. "Se non fosse accorso in suo aiuto, Tolk adesso sarebbe morto. Gli abbiamo dato quattro litri e mezzo di sangue." "Davvero? È proprio com'è scritto in cartella? Non è un errore?" "Nessun errore." Sonneford smontò la copertura metallica del mulinello automatico e sbirciò attentamente nel suo interno meccanico. "Un adulto ha settanta millilitri di sangue per chilogrammo di peso corporeo. Tolk è un uomo grande e grosso - un centinaio di chili. Normalmente ne contiene
sette litri. Quindi quando è arrivato da me ne aveva meno del quaranta per cento." Depose il cacciavite e prese una pinza ugualmente piccola. "E gliene avevano già dato un litro in ambulanza." "Intende dire che quando lo hanno tirato fuori da quel locale aveva perso più del settantacinque per cento del suo sangue? Ma... un uomo può sopravvivere, dopo aver perso così tanto sangue?" "No," rispose quietamente Sonneford. Stefan fu percorso da un piacevole brivido. "Ed entrambi i proiettili erano alloggiati in tessuti molli ma non hanno danneggiato alcun organo. Deviati da costole, altre ossa?" Sonneford guardava ancora intensamente il mulinello, ma aveva smesso di armeggiarvi. "Se quei proiettili avessero colpito qualche osso, lo avrebbero quanto meno scheggiato. Io non ho trovato niente del genere. D'altra parte, se non sono stati deviati da ossa, avrebbero dovuto trapassare il corpo, lasciando imponenti ferite d'uscita. Ma io li ho trovati nel tessuto muscolare." Stefan fissò la testa china del chirurgo. "Come mai ho la sensazione che ci sia dell'altro che vorrebbe dirmi, ma di cui ha paura di parlare?" Finalmente Sonneford alzò lo sguardo. "E come mai io ho la sensazione che lei non mi abbia detto la verità sul motivo della sua visita, padre?" "Touché," disse Stefan. Sonneford respirò e mise via gli strumenti. "E va bene. In base alle ferite di entrata, è chiaro che uno dei proiettili ha colpito Tolk in mezzo al petto e ha urtato contro la porzione inferiore dello sterno, che avrebbe dovuto rompersi; frammenti d'osso sarebbero schizzati intorno come schegge di granata, perforando organi e vasi sanguigni vitali. Apparentemente, niente di tutto questo è accaduto." "Perché dice apparentemente? O è accaduto, oppure no." "Dal foro di entrata, so che il proiettile ha colpito lo sterno, e l'ho trovato nel tessuto dall'altra parte; per cui, in qualche modo, è passato attraverso quell'osso senza danneggiarlo. Impossibile, naturalmente. Eppure io ho trovato solo una ferita d'entrata sopra lo sterno, l'osso intatto direttamente sotto la ferita, e poi il proiettile oltre lo sterno, senza alcuna indicazione di come ci fosse arrivato. Inoltre, la ferita d'entrata del secondo proiettile era sopra la base della quarta costola destra: avrebbe dovuto essere rotta, invece anche quella era intatta." "Forse si è sbagliato," disse Stefan, facendo l'avvocato del diavolo. "Forse il proiettile è solo passato proprio accanto alla costola, senza colpirla."
"No." Sonneford alzò la testa ma non guardò Stefan. Il disagio del medico sembrava ancora molto strano, e quello che aveva detto fino a quel momento non bastava a spiegarlo. "Non faccio mai errori diagnostici. Del resto, i proiettili nel corpo del paziente erano dove ci si sarebbe aspettati di trovarli se avessero colpito l'osso, se lo avessero trapassato e si fossero fermati nel tessuto muscolare. Ma non c'erano tessuti danneggiati tra il punto di entrata e i proiettili. Il che è impossibile. Dei proiettili non passano attraverso il torace di un uomo senza lasciare alcuna traccia!" "Sembrerebbe quasi che siamo davanti a un miracolo minore." "Più che minore. A me sembra un miracolo maggiore in piena regola!" "Se solo un'arteria e una vena sono state lese, ed entrambe solo superficialmente, come mai Tolk ha perso tanto sangue? Quelle scalfitture erano sufficienti per provocare una simile emorragia?" "No." Il chirurgo non aggiunse altro. Sembrava stretto fra le grinfie di una tenebrosa paura che Stefan non riusciva a comprendere. Cosa aveva da temere? Se credeva di avere assistito a un miracolo, non avrebbe dovuto gioirne? "Dottore, so che è diffìcile per un uomo di scienza ammettere di aver visto qualcosa che la sua istruzione non può spiegare, qualcosa che è di fatto in contrasto con tutte le proprie convinzioni. Ma la prego di dirmi tutto quello che ha visto. Cosa mi sta nascondendo? Perché Winton Tolk ha perso tanto sangue se le lesioni erano così lievi?" Sonneford si lasciò andare contro lo schienale della sua sedia. "In sala operatoria, dopo aver cominciato le trasfusioni, ho localizzato i proiettili con i raggi x e praticato le necessarie incisioni per rimuoverli. Mentre procedevo, ho trovato un minuscolo foro nell'arteria mesenterica superiore e un'altra piccola lacerazione in una delle vene intercostali superiori. Ero certo che ci fossero altri vasi lesi, ma non potevo individuarli immediatamente, così ho chiuso con le pinze emostatiche sia la mesenterica sia l'intercostale superiore per suturarle, proponendomi di cercare meglio una volta sistemato quelle. Era una cosa semplice, un lavoro di pochi minuti. Naturalmente ho cucito prima l'arteria, perché era quella che sanguinava di più. Poi..." "Poi?" lo incoraggiò gentilmente padre Wycazik. "Poi, quando ho finito con l'arteria, sono passato alla vena intercostale, e la lacerazione era scomparsa." "Scomparsa." Un brivido di sgomento attraversò Stefan; era quello che si era aspettato, e tuttavia era anche una rivelazione di così sbalorditiva
importanza che gli sembrava troppo per sperarci. "Scomparsa," ripetè Sonneford, e finalmente incontrò lo sguardo di Stefan. Negli acquosi occhi grigi del chirurgo passò un'ombra appena percettibile, come un leviatano attraverso gli abissi di un mare tenebroso, l'ombra della paura, e Stefan ebbe la conferma che per qualche inesplicabile ragione il miracolo suscitava spavento nel dottore. "La vena si è risanata da sola, padre. Io so che la lacerazione c'era. L'ho chiusa io stesso. Il mio assistente l'ha vista. La mia infermiera l'ha vista. Ma quando ero pronto per cucirla, non c'era più. Guarita. Ho tolto la pinza, e il sangue scorreva di nuovo attraverso la vena, senza che ci fosse alcuna perdita. E dopo, quando ho estratto i proiettili, il tessuto muscolare sembrava ripararsi davanti ai miei occhi." "Sembrava?" "No, non sembrava," ammise Sonneford. "Si è riparato davanti ai miei occhi. Incredibile, ma l'ho visto. Non posso provarlo, padre, ma so che quei due proiettili hanno trapassato lo sterno di Tolk e rotto la costola. Hanno fatto schizzare intorno frammenti d'osso come schegge di granata. Le lesioni erano mortali, dovevano esserlo per forza. Ma quando Tolk è arrivato sul tavolo della sala operatoria, il suo corpo era quasi completamente guarito da solo. Le ossa infrante si erano riformate. L'arteria mesenterica superiore e la vena intercostale erano state recise, ed è per questo che ha perso tanto sangue così rapidamente, ma quando l'ho aperto, entrambi i vasi si erano richiusi, eccetto per una piccola fessura in ciascuno. Sembrava pazzesco, ma se non avessi suturato l'arteria, sono sicuro che avrebbe finito per chiudersi da sola, esattamente come ha fatto la vena." "Cosa ne pensano di questo la sua infermiera e gli altri assistenti?" "È strano, non ne abbiamo parlato molto. Non so dirle il motivo. Forse non ne abbiamo parlato perché viviamo in un'epoca razionale, in cui il miracolo è inaccettabile." "Davvero triste, se è così," commentò Stefan. L'ombra della paura albergava ancora negli occhi di Sonneford. "Padre, se c'è un Dio - e non dico che ci sia - perché avrebbe salvato questo poliziotto?" "È un brav'uomo." "E con questo? Ho visto centinaia di brave persone morire. Perché questo sarebbe stato salvato, e non uno degli altri?" Padre Wycazik spinse una sedia dietro la scrivania per andare a mettersi vicino al chirurgo. "Dottore, lei è stato franco con me, così io lo sarò con
lei. Avverto una forza sovrumana dietro questi eventi. Una presenza. E questa presenza non ha a che fare direttamente con Winton Tolk, ma con Brendan, l'uomo... il prete che ha prestato i primi soccorsi all'agente Tolk." Bennet Sonneford battè le palpebre, sorpreso. "Oh. Ma lei non sarebbe arrivato a questa conclusione, a meno che..." "A meno che Brendan non fosse legato ad almeno un altro evento miracoloso," terminò Stefan per lui, e senza fare il nome di Emmy Halbourg, disse a Sonneford della ragazzina menomata ora prodigiosamente in via di guarigione. Ma invece di infondergli speranza, quello che Stefan gli aveva raccontato servì solo a farlo scivolare ancora più profondamente in quel suo strano sconforto. "Dottore," disse Stefan, frustrato dall'implacabile cupezza del chirurgo, "forse mi sfugge qualcosa, ma a me sembra che lei abbia ogni ragione di gioire. Ha avuto il privilegio di assistere a quella che, ne sono convinto, era la mano di Dio all'opera." Tese una mano a Sonneford, e non fu sorpreso quando il dottore la strinse forte. "Bennet, perché è così disperato?" Sonneford si schiarì la gola. "Io sono nato e cresciuto luterano, ma sono ateo da venticinque anni. E adesso..." "Ah," disse Stefan, "capisco..." Con entusiasmo, cominciò a darsi da fare per prendere all'amo l'anima di Bennet Sonneford in quello studio rivestito di pesci. Non sospettava minimamente che, prima che il giorno fosse finito, la sua euforia avrebbe lasciato il posto a un'amara delusione. Reno, Nevada Zeb Lomack non aveva mai immaginato che la sua vita si sarebbe conclusa con un sanguinoso suicidio a Natale, ma per quella notte era sprofondato così in basso che voleva sul serio porre fine alla propria esistenza. Caricò il fucile, lo posò sul sudicio tavolo di cucina, e promise a se stesso che lo avrebbe usato se non fosse stato capace di sbarazzarsi entro la mezzanotte di tutta quella dannata roba sulla luna. La sua bizzarra attrazione per la luna era cominciata due estati prima, anche se all'inizio era sembrata del tutto innocente. Quell'anno, verso la fine di agosto, aveva preso l'abitudine di uscire sulla veranda posteriore della sua accogliente casetta a guardare la luna e le stelle, bevendo una birra. A metà settembre si comprò un telescopio rifrattore Tasco 10 VR e un paio
di libri di astronomia per dilettanti. Zebediah era sorpreso del proprio improvviso interesse per l'astronomia. Per buona parte dei suoi cinquant'anni, Zeb Lomack, giocatore d'azzardo professionista, aveva mostrato scarso interesse per qualunque cosa che non fossero le carte. Lavorava a Reno, Lake Tahoe, Las Vegas, occasionalmente una delle più piccole città del gioco come Elko o Bullhead City, giocando con i presunti campioni di poker locali e di fuori. Non era semplicemente bravo a giocare a carte: lui amava le carte più di quanto amasse le donne, il bere, il cibo. Anche il denaro non era importante per Zeb; era solo un utile sottoprodotto del gioco. Quello che contava era il gioco in sé. Finché non aveva preso il telescopio ed era impazzito. Per un paio di mesi aveva usato il telescopio ogni tanto, aveva comprato qualche altro libro di astronomia, ed era solo un hobby. Ma prima del Natale dell'anno prima aveva cominciato a concentrare la sua attenzione meno sulle stelle e più sulla luna, e di lì in poi gli era successo qualcosa di strano. Il nuovo hobby divenne presto interessante quanto le carte, e si ritrovò a rimandare i suoi viaggi al casinò per studiare la superficie lunare. A febbraio, stava incollato all'oculare del telescopio ogni notte in cui la luna era visibile. Ad aprile aveva messo insieme una collezione di oltre cento libri sulla luna, e usciva a giocare a carte solo due o tre sere la settimana. Alla fine di giugno, la sua collezione era arrivata a cinquecento titoli, e cominciò a tappezzare le pareti e il soffitto della camera da letto con figure della luna ritagliate da vecchi giornali. Non giocava più a carte, ma cominciò a vivere dei propri risparmi, e da allora il suo interesse per la luna cessò di avere qualsiasi somiglianzà con un hobby e divenne una folle ossessione. A settembre, la sua collezione di libri contava più di millecinquecento volumi ammucchiati per tutta la casa. Durante il giorno leggeva della luna o, più spesso, sedeva per ore fissando intensamente fotografie della luna, incapace sia di capire sia di resistere alla sua malia, finché i suoi crateri, 4 suoi monti e le sue pianure gli furono familiari quanto le cinque stanze di casa sua. Nelle notti in cui la luna era visibile, la osservava col telescopio finché non riusciva più a stare sveglio, finché i suoi occhi erano iniettati di sangue e dolenti. Prima che questa ossessione si impadronisse di lui, Zeb Lomack era stato un uomo di struttura robusta e relativamente in forma. Ma quando la sua fissazione per la luna prese piede smise di fare esercizio e cominciò a mangiare pasticci - dolci, gelati, panini, roba in scatola - perché non aveva
più il tempo di prepararsi dei veri pasti. Per di più, la luna non solo lo affascinava, ma lo metteva anche a disagio, lo colmava non solo di meraviglia ma anche di inquietudine, così era sempre nervoso; e si tranquillizzava col cibo. Diventava più fiacco, più flaccido, ma si rendeva conto solo minimamente dei suoi mutamenti fisici. All'inizio di ottobre, pensava alla luna ogni ora di ogni giorno, la sognava, e non poteva andare da nessuna parte in casa sua senza vedere centinaia di immagini della superficie lunare. Quando aveva finito di tappezzare la camera da letto, in giugno, era passato alle altre stanze. Le figure, in bianco e nero e a colori, venivano da riviste di astronomia, libri e giornali. Poi, durante una delle sue rare uscite, aveva visto un poster della luna di un metro per uno e mezzo, una fotografia a colori scattata da astronauti, e ne aveva comprati cinquanta, abbastanza per rivestire il soffitto e le pareti del salotto; aveva attaccato il poster perfino sulle finestre, così ogni centimetro quadrato della stanza era decorato con quell'immagine ripetuta all'infinito, eccetto i vani delle porte. Eliminò anche i mobili, trasformando la camera vuota in un planetario dove lo spettacolo non cambiava mai. A volte si sdraiava per terra sulla schiena e fissava quelle cinquanta lune attorno a lui, trasportato da un esaltante senso di meraviglia e un inesplicabile terrore, egualmente incomprensibili per lui. La notte di Natale, mentre Zeb era disteso sul pavimento con cinquanta enormi lune che incombevano su di lui, improvvisamente notò qualcosa scritto su una di esse, una singola parola scribacchiata con un pennarello sull'immagine della luna che non c'era mai stata prima. Era un nome: Dominick. Riconobbe la propria calligrafia, ma non ricordava di aver scritto quel nome sulla luna. Poi il suo sguardo cadde su un altro nome scritto su un altro poster: Ginger. E poi un terzo nome su un terzo poster: Faye. E un quarto: Ernie. Improvvisamente ansioso, Zeb balzò in piedi e controllò tutti i poster, ma non trovò altri nomi. Oltre a non ricordare di aver scritto quei nomi, non riusciva a pensare ad alcun conoscente che si chiamasse Dominick, Ginger o Faye. Conosceva un paio di Ernie, ma non erano suoi amici, e la comparsa di quel nome su una delle lune non era meno misteriosa di quella degli altri tre. Fissando i nomi, il suo disagio si fece sempre più intenso, perché aveva la strana sensazione che non solo conosceva quelle persone, ma che esse avevano giocato un ruolo terribilmente importante nella sua vita, e che ricordare chi fossero sarebbe stato fondamentale per la sua sanità mentale. Qualche ricordo da tempo dimenticato si dilatò in lui come un pallone
che si stesse gonfiando, e intuitivamente sentì che quando il pallone fosse scoppiato avrebbe ricordato tutto, non solo l'identità di quelle quattro persone, ma anche l'origine della sua inquietante passione per la luna. Ma mentre quel pallone cresceva di volume dentro di lui, cresceva anche la sua paura, e cominciò a sudare, poi a tremare incontrollabilmente. Si girò di scatto, improvvisamente terrorizzato all'idea di ricordare, e si precipitò in cucina, spinto da quella innaturale fame che lo rodeva ogni volta che un pensiero lo rendeva nervoso. Aprì bruscamente il frigorifero e fu sorpreso dallo spettacolo desolante che gli si presentò. Sui ripiani c'erano solo ciotole sporche, due cartoni di latte vuoti, e un cartone di uova con un uovo rotto e rinsecchito. Guardò nel freezer, trovò solo ghiaccio. Zeb cercò di ricordare quando fosse stata l'ultima volta che era andato al supermercato. Poteva essere giorni o settimane prima. Non riusciva a stabilirlo perché, nel suo mondo totalmente occupato dalla luna, il tempo non aveva più alcun significato. E quanto tempo era passato dal suo ultimo pasto? Ricordava vagamente di aver mangiato della carne in scatola, ma non sapeva bene se fosse stato quel giorno, il precedente o quello prima ancora. Zebediah Lomack era così sconvolto che la sua mente si schiarì per la prima volta da settimane, e quando girò lo sguardo per la cucina emise un grido strozzato di disgusto e spavento. Per la prima volta vide - vide realmente - il caos in cui viveva, una situazione finora mascherata dalla mania per la luna, che lo aveva completamente assorbito. Il pavimento era coperto di spazzatura: lattine appiccicose di succo di frutta, unte di rimasugli di sugo rancido; scatole di cereali e una ventina di cartoni di latte vuoti; dozzine di sacchetti di patatine accartocciati, carte di caramelle. E scarafaggi. Brulicanti tra la spazzatura, sulle pareti, i ripiani, nel lavandino. "Mio Dio," gemette Zeb, la voce gracchiante, "cosa mi è successo? Cos'ho che non va?" Si portò una mano alla faccia e trasalì per la sorpresa sentendo la barba ispida. Lui era stato sempre ben rasato, e credeva di essersi sbarbato proprio quella mattina. Corse in bagno per guardarsi allo specchio, e vide uno sconosciuto: una sudicia massa di capelli arruffati gli ricadeva in grovigli sulla faccia pallida, flaccida, dall'aspetto malaticcio, incorniciata da una barba di due settimane incrostata di sporcizia e avanzi di cibo; i suoi occhi erano spiritati. Si rese conto dell'odore del proprio corpo: il suo puzzo era così acre che gli diede il voltastomaco. Apparentemente, non faceva un bagno da giorni, settimane. Aveva bisogno di aiuto. Stava male. Era confuso. Non riusciva a capire
cosa gli fosse successo, ma sapeva che doveva andare al telefono e chiedere aiuto. Non lo fece immediatamente, però, perché temeva che lo avrebbero dichiarato irrimediabilmente pazzo e rinchiuso per sempre. Come avevano rinchiuso suo padre. Quando Zebediah aveva otto anni, suo padre ebbe un terribile attacco di delirium tremens, si mise a farneticare di cose simili a lucertole che uscivano dalle pareti, e i dottori lo fecero ricoverare in ospedale. Ma a differenza delle altre volte, la crisi non era passata, ed era stato internato in un istituto per il resto della sua vita. Da allora, Zeb aveva sempre avuto paura che anche la sua mente potesse essere difettosa. Fissando la propria pallida faccia allo specchio, capì che prima di chiedere aiuto doveva rendersi presentabile e rimettere a posto la casa; altrimenti, lo avrebbero rinchiuso da qualche parte e avrebbero buttato via la chiave. Non poteva sopportare il proprio riflesso abbastanza a lungo per sbarbarsi, così decise di pensare prima alla casa. Tenendo la testa bassa per evitare di vedere le lune, che esercitavano su di lui un'attrazione concreta quanto quella della luna vera sulle acque del mare, andò in fretta in camera da letto, aprì l'armadio, spinse da parte i vestiti, trovò il suo Remington calibro 12 e una scatola di cartucce. A capo chino, lottando contro l'impulso di alzare lo sguardo, tornò in cucina, dove caricò il fucile da caccia e lo mise sul tavolo ingombro di sporcizia. Parlando ad alta voce, fece un patto con se stesso: "Sbarazzati dei libri sulla luna, strappa le lune dai muri in modo che questo posto non sia così allucinante, pulisci la cucina, fatti la barba e il bagno. Allora forse avrai la testa abbastanza lucida per capire che diavolo ti è preso. Poi potrai chiedere aiuto; ma non finché le cose stanno così." Il ruolo del fucile nel patto era sottinteso. Era stato fortunato a riemergere dal sogno in cui stava vivendo, svegliato bruscamente dalla mancanza di cibo nel frigorifero, ma se fosse scivolato di nuovo nell'incubo, non era affatto detto che si sarebbe riscosso un'altra volta. Quindi, se non fosse riuscito a resistere al canto di sirena delle lune sui muri, sarebbe tornato in cucina, avrebbe preso il fucile, se lo sarebbe messo in bocca, e avrebbe premuto il grilletto. Era meglio morire che vivere così. Ed era anche meglio che essere rinchiuso a vita come suo padre. Ora, di nuovo in salotto, gli occhi fissi a terra, cominciò a raccogliere i libri. Qualcuno un tempo aveva esibito fotografie della luna in copertina, ma lui le aveva ritagliate. Con le braccia cariche di libri, uscì nel cortile
innevato sul retro della casa, dove c'era un barbecue in muratura. Rabbrividendo nella gelida aria invernale, gettò i libri nel pozzetto e tornò in casa a prenderne altri, senza osare alzare gli occhi al cielo notturno per paura del grande corpo luminoso che vi era sospeso. Mentre lavorava, l'impulso di tornare all'osservazione della luna era intenso e impellente come il terribile bisogno che spinge un eroinomane a tornare continuamente alla siringa, ma Zeb lottò per resistere. E viaggio dopo viaggio, sentiva quel ricordo di qualche dimenticato evento continuare a dilatarsi dentro di lui... Dominick, Ginger, Faye, Ernie... Istintivamente, sapeva che avrebbe capito la sua ossessione per la luna, se solo fosse riuscito a ricordare chi erano quelle quattro persone. Si concentrò sui nomi, cercando di usarli per contrastare gli allettanti richiami della luna, e l'espediente sembrò funzionare, perché presto aveva sistemato due o trecento libri nel pozzo del barbecue ed era pronto a bruciarli. Ma quando accese un fiammifero e si chinò per dare fuoco alle pagine di un libro, scoprì che il pozzo era vuoto. Restò di sasso, sconvolto e inorridito. Poi lasciò cadere i fiammiferi, corse in casa, splancò la porta della cucina, e vide quello che temeva. I libri erano ammucchiati lì, bagnati di neve, sporchi di cenere umida. Aveva sì portato i libri nel pozzo, ma poi la luna lo aveva stregato di nuovo; sotto il suo influsso e senza sapere cosa stesse facendo, aveva riportato tutti i volumi in casa. Cominciò a piangere, ma era ancora determinato a non finire in una stanza imbottita. Raccolse una ventina di libri e tornò verso il pozzo. Gli sembrava di essere finito all'inferno, condannato per l'eternità all'esecuzione di quel frenetico rituale. Quando pensava di avere ormai riempito nuovamente il pozzo, realizzò improvvisamente che non stava portando libri verso il posto in cui doveva bruciarli, ma lontano da esso. Ancora una volta il fascino della luna lo aveva portato alla deriva, e invece di distruggere gli oggetti della sua ossessione, li stava rimettendo in salvo. Tornando verso la casa, notò come lo strato di neve gelata brillasse di una scintillante luce riflessa. Contro la sua volontà, la sua testa si alzò. Guardò il cielo, immenso e quasi senza nuvole. Disse: "La luna." In quel momento seppe di essere un uomo morto. Laguna Beach, California
Per Dominick Corvaisis, il giorno di Natale solitamente non era molto diverso da qualunque altro. Non aveva una moglie o dei bambini a renderlo speciale, o parenti con cui dividere un tacchino. Un paio di amici, compreso Parker Faine, lo invitavano sempre a unirsi a loro, ma lui declinava l'offerta, perché sapeva che si sarebbe sentito come la proverbiale ultima ruota del carro. Comunque, non si sentiva triste o solo. Non si annoiava mai in compagnia di se stesso, e la sua casa straripava di buoni libri con cui colmare piacevolmente il tempo. Ma quel Natale Dom non riuscì a concentrarsi sulla lettura, perché era preoccupato per la lettera misteriosa che aveva ricevuto il giorno prima e per la necessità di resistere alla voglia di un Valium. Nonostante la paura di avere l'incubo e di cadere in una crisi, il giorno prima non aveva preso né Valium né Dalmane. Era determinato a non ricorrere più agli psicofarmaci, anche se ne sentiva un forte bisogno. Di fatto, il bisogno era diventato tanto forte che aveva buttato le pillole nel gabinetto, perché non si fidava di se stesso. Col passare delle ore, la sua ansia aumentò fino a raggiungere i livelli che aveva toccato prima di cominciare la terapia farmacologica. Alle sette di sera, Dom arrivò alla moderna, stravagante casa in collina di Parker Faine, e accettò un bicchiere di zabaione fatto in casa con dentro un bastoncino di cannella. In onore della festività, il pittore si era fatto regolare la barba e tagliare i capelli, ed era vestito in modo meno estroso del solito. Ma nonostante il suo aspetto più convenzionale e moderato, Parker era esuberante come sempre. "Che Natale! Oggi in questa casa regnavano pace e amore, te lo assicuro! Il mio adorato fratello ha fatto solo quaranta o cinquanta battute perfide sul mio successo, neanche la metà di quante ne tira fuori normalmente. Quella santa della mia sorellastra, Carla, ha chiamato una sola volta puttana sua cognata Doreen, e in fondo aveva ragione, perché aveva cominciato Doreen, definendo Carla una 'pazza esaltata piena di psicoballe'. Ah, veramente una giornata di serenità e armonia! Non ci crederai, ma quest'anno non è stato lanciato neanche un punch. E il marito di Carla, anche se ha fatto il pieno come al solito, non ha rimesso né è caduto dalle scale, come gli anni passati: si è limitato a fare la sua imitazione di Bette Midler una dozzina di volte." Mentre si spostavano verso un gruppo di poltrone vicino all'enorme vetrata che dava sul mare, Dom annunciò: "Ho deciso di partire. Andrò in aereo fino a Portland, e lì noleggerò una macchina. Poi rifarò il viaggio di
due estati fa da Portland a Reno, attraverso il Nevada e mezzo Utah sull'interstatale 80, e da Reno a Mountainview." Dom si mise a sedere mentre parlava, ma Parker rimase in piedi. "Cos'è successo? Non è una vacanza. Non è un viaggio che faresti per puro piacere. Hai ripreso ad avere le tue crisi, vero? Ed è successo qualcosa che ti ha convinto che tutto questo è collegato al tuo cambiamento di due estati fa." "Non ho ripreso ad avere le mie crisi, ma sono sicuro che succederà, forse già stanotte, perché ho buttato via tutte le dannate pillole. Non mi stavano curando, Parker. Ho mentito. Mi stavo assuefacendo. Non mi importava, perché essere dipendente dagli psicofarmaci mi sembrava meglio che sopportare le cose che facevo durante gli attacchi di sonnambulismo. Ma adesso tutto è cambiato a causa di questi." Dom tirò fuori i due messaggi del suo ignoto corrispondente. "Il problema non è solo dentro di me, non è solo psicologico." Porse il primo biglietto a Parker. La sua agitazione fu tradita dal foglio di carta, che tremò nella sua mano. Il pittore lesse, poi alzò gli occhi, perplesso. "È arrivato ieri al fermo posta," spiegò Dom. "Niente firma né indirizzo del mittente. E un altro mi è stato recapitato a casa." Raccontò a Parker di aver battuto le parole "La luna" centinaia di volte sul word processor nel sonno e di essersi svegliato da un sogno con quelle stesse parole sulle labbra, poi gli diede il secondo messaggio. "Ma se io sono il primo a cui racconti di questa cosa della luna, come poteva qualcuno saperne abbastanza da mandarti un biglietto simile?" "Chiunque sia," disse Dom, "sa del mio sonnambulismo, forse perché mi sono rivolto a un medico." "Stai dicendo che sei sorvegliato?" "Sembrerebbe, almeno fino a un certo punto. Periodicamente controllato, se non costantemente sorvegliato. Chiunque mi controlli, però, può sapere del mio sonnambulismo, ma non può sapere che ho scritto a macchina 'La luna', o che mi sono svegliato in piena notte ripetendolo, a meno che fosse accanto al mio letto, e ti assicuro che non c'era nessuno. Comunque, indubbiamente sapeva che quelle parole mi avrebbero scosso. Per cui deve sapere anche cosa c'è dietro tutta questa storia pazzesca." Parker si sedette sull'orlo di una poltrona. "Trovalo, e saprai cosa sta succedendo." "New York è grande, non saprei da dove cominciare a cercarlo. Ma quando ho ricevuto il primo messaggio - quello in cui si diceva che la causa del sonnambulismo era da cercare nel passato - mi sono reso conto che
hai ragione tu dicendo che la mia attuale crisi di personalità è legata a quella di due anni fa. E ho pensato che se rifaccio quel viaggio, fermandomi negli stessi motel, mangiando negli stessi ristoranti lungo la strada, cercando di ricrearlo con la maggiore precisione possibile, forse la mia memoria si smuoverà, e qualcosa verrà a galla." "Ma come hai potuto dimenticare qualcosa di abbastanza grosso da provocare tutto questo?" "Forse non l'ho dimenticato. Forse il ricordo mi è stato sottratto." Rimandando l'esplorazione di quella possibilità, Parker disse: "Chiunque diavolo sia questo tizio, che ragioni avrebbe per mandarti questi messaggi? Voglio dire, tu hai immaginato una situazione in cui sei tu contro loro, quindi lui deve stare dalla parte di questi ignoti 'loro', non dalla tua." "Forse non è d'accordo con tutto quello che mi è stato fatto, di qualunque cosa si tratti." "Che ti è stato fatto? Ma di cosa stai parlando?" Dom si rigirò nervosamente il bicchiere di zabaione tra le mani. "Non so. Ma costui chiaramente vuole farmi sapere che il mio problema non è psicologico, che dietro c'è dell'altro. Penso che forse vuole aiutarmi a trovare la verità." "Allora perché non ti telefona e te la dice, molto più semplicemente?" "L'unica cosa che mi riesce di immaginare è che non osi dirmelo. Deve far parte di qualche cospirazione, di qualche gruppo, di sa Dio cosa, che non vuole che la verità salti fuori. Se mi contatta direttamente, gli altri lo verranno a sapere, e lui sarà nella merda fino al collo." Come se lo aiutasse a pensare, Parker si passò parecchie volte una mano tra i capelli, spettinandoli. "A sentirti, si direbbe che tu abbia attaccata al culo qualche onnisciente società segreta, qualcosa come l'Illuminata Società, i Rosacroce, la CIA e la massoneria messe assieme! Sul serio pensi che ti abbiano fatto il lavaggio del cervello?" "Qualunque episodio traumatico io abbia dimenticato, non l'ho dimenticato senza aiuto. Qualunque cosa io abbia visto o mi sia successa, evidentemente era così sconvolgente che ancora si agita nel mio subconscio, cercando di raggiungermi attraverso il sonnambulismo e i messaggi che lascio sul word processor. Era così dannatamente grossa che nemmeno il lavaggio del cervello è riuscita a cancellarla, così grossa che uno dei cospiratori sta rischiando il collo per mandarmi suggerimenti." Dopo averli letti un'ultima volta, Parker restituì i due biglietti a Dom, poi buttò giù d'un fiato il suo zabaione. "Mèrda. Penso che tu debba avere ra-
gione, e questo mi sconvolge. Non voglio crederci. Mi sembra che tu stia dando via libera alla tua fantasia di scrittore, come se volessi provare su di me la trama di un nuovo libro, qualcosa di un po' più pittoresco di quanto non sia nel tuo stile. Ma per quanto sembri tutto pazzesco, non riesco a pensare a nessun'altra risposta." Dom realizzò che stava stringendo il suo bicchiere tanto forte da rischiare di spezzarlo. Lo posò su un tavolino e si asciugò le mani sui pantaloni. "Nemmeno io. Non c'è altro che possa spiegare il sonnambulismo, il mio cambiamento di personalità fra Portland e Mountainview e questi due messaggi." Parker aveva la preoccupazione dipinta in faccia. "Cosa può essere stato, Dom? In cosa hai inciampato mentre eri là fuori per la strada?" "Non ne ho la più pallida idea." "Hai pensato che potrebbe essere qualcosa di così brutto... di così maledettamente pericoloso che sarebbe più sicuro continuare a ignorarlo?" Dom annuì. "Ma se non scopro la verità, non potrò mai farla finita col sonnambulismo. Nel sonno scappo dal ricordo di qualcosa che mi è successo due estati fa, e per smettere di scappare devo scoprire cos'era, affrontarlo. Perché se continuo così, alla fine impazzirò. Può suonare un po' melodrammatico, ma è vero. Se non scopro la verità, la cosa che temo nei miei sogni comincerà a perseguitarmi anche da sveglio; non avrò più un momento di pace e alla fine l'unica soluzione sarà mettermi una pistola in bocca e premere il grilletto." "Gesù." "Dico sul serio." "Lo so. Dio t'aiuti, amico mio, lo so." Reno, Nevada Una nuvola salvò Zeb Lomack. Passò davanti alla luna prima che l'ossessione lo riassorbisse completamente. Con l'empirea lanterna momentaneamente oscurata, Zebediah si accorse di colpo che stava senza giacca nella gelida notte di dicembre a fissare il cielo a bocca aperta, ipnotizzato dai raggi della luna. Se la nuvola non avesse spezzato la trance, avrebbe potuto restare lì finché l'oggetto della sua deleteria passione fosse disceso dietro l'orizzonte. Allora, sprofondando di nuovo nella sua follia, sarebbe tornato in una delle stanze tappezzate con la faccia della divinità che i greci chiamavano Cinzia, che i romani chiamavano Diana, restando lì istupi-
dito finché, un giorno, sarebbe morto di inedia. Ora, sospesa la sua condanna, Zeb gemette inorridito e corse verso casa. Scivolò e cadde sulla neve, cadde di nuovo sui gradini della veranda, ma immediatamente si rialzò, cercando disperatamente la salvezza di un luogo chiuso, dove la luna non potesse esercitare il suo fascino su di lui. Ma naturalmente non c'era scampo neanche in casa. Chiuse gli occhi e iniziò a strappare alla cieca le immagini della luna dalle pareti della cucina, gettandole sul pavimento disseminato di immondizia, ma lo stesso cominciò a soccombere ancora una volta alla sua ossessione. Anche se non vedeva le lune, poteva sentirle. Sentiva la pallida luce di centinaia di lune sulla faccia, poteva sentirne la rotondità nelle sue mani, ma era assurdo, perché quelle erano solo figure che non potevano produrre luce o calore né trasmettere al tatto la rotondità del globo lunare; eppure lui sentiva intensamente queste cose. Aprì gli occhi e fu istantaneamente catturato dal familiare corpo celeste. Proprio come mio padre. Destinato al manicomio. Quel pensiero balenò come un fulmine nella sua mente che andava rapidamente ottenebrandosi, lo scosse e gli permise di riprendersi giusto abbastanza a lungo per fuggire dal salotto e proiettarsi verso il tavolo di cucina, dove lo attendeva il fucile carico. Chicago, Illinois Padre Stefan Wycazik, discendente di volitivi polacchi, soccorritore di preti in crisi, non era abituato a fallire, e non la prendeva bene. "Ma dopo tutto quello che ti ho detto, come puoi ancora non credere?" sbottò. "Mi dispiace, padre Stefan," disse Brendan Cronin. "Ma semplicemente non sono più convinto dell'esistenza di Dio di quanto lo fossi ieri." Erano in una camera da letto al secondo piano della casa dei genitori di Brendan, nel quartiere irlandese chiamato Bridgeport, dove il giovane prete stava trascorrendo le festività, come padre Wycazik gli aveva detto di fare dopo la sparatoria. Brendan, in calzoni grigi e camicia bianca, era seduto sul bordo di un letto matrimoniale con una logora sovracoperta di ciniglia gialla. Stefan, urtato dalla testardaggine del suo curato, si muoveva incessantemente per la stanza, come cercando di evitare il pungente dolore della sconfitta. "Questa sera," disse padre Wycazik, "ho incontrato un ateo che è stato convertito dall'incredibile recupero di Tolk. Ma su di te non fa alcun effet-
to." "Sono felice per il dottor Sonneford," replicò pacatamente Brendan, "ma la sua rinnovata fede non riaccende la mia." Il rifiuto del curato di farsi colpire dai recenti fatti miracolosi non era la sola cosa che irritava padre Wycazik. Anche il pacifico atteggiamento del giovane prete era seccante. Se non poteva trovare la volontà di credere ancora in Dio, avrebbe almeno potuto essere demoralizzato. Invece, Brendan non appariva turbato dalla sua miserabile condizione spirituale, ben diversamente dall'ultima volta che padre Wycazik lo aveva visto. Era cambiato vistosamente; per ragioni niente affatto chiare, una gran pace sembrava essere scesa su di lui. Ma Stefan non si lasciò scoraggiare. "Sei stato tu, Brendan, a curare Emmy Halbourg e a guarire Winton Tolk. Sei stato tu, col potere di quelle stimmate sulle tue mani. Stimmate che Dio ti ha mandato come suo segno." Brendan si guardò le mani, ora senza traccia degli anelli. "Credo che, in qualche modo, io abbia davvero guarito quei due. Ma non era Dio che agiva attraverso di me." "Chi se non Dio avrebbe potuto darti un simile potere?" "Non so," disse Brendan. "Vorrei saperlo. Ma non era Dio. Non avvertivo alcuna presenza divina, padre." "Santa pazienza, Brendan, ma cos'altro dovrebbe fare perché tu senta la sua presenza? Ti aspetti che ti batta sulla spalla e si presenti? Devi incontrarlo a metà strada." Brendan sorrise e si strinse nelle spalle. "Padre, so che questi eventi sembrano spiegabili solo in chiave religiosa. Ma sento molto intensamente che dietro di essi c'è qualcosa di diverso da Dio." "E sarebbe?" "Non lo so. Qualcosa di tremendamente importante, qualcosa di veramente portentoso e magnifico, ma non Dio. Senta, lei ha detto che gli anelli erano stimmate. Ma in questo caso, perché non sono apparsi in una forma che avesse qualche significato cristiano? Perché anelli, che non sembrano avere alcuna attinenza col messaggio di Cristo?" Quando Brendan aveva iniziato la singolare psicoterapia di Stefan all'ospedale pediatrico St. Joseph tre settimane prima, il giovane prete era stato così turbato dalla propria perdita di fede che era rapidamente dimagrito. Ora aveva cessato di perdere peso. Era ancora meno florido del solito, ma non più pallido e smunto come in seguito alla sua esplosione durante la
messa del primo dicembre. A dispetto della crisi spirituale, aveva un aspetto, un colorito sulle guance, una luce negli occhi, che si sarebbe detto quasi "beato". "Ti senti splendidamente, vero?" domandò Stefan. "Sì, anche se non so bene perché." "La tua anima non è più travagliata." "No." "Nonostante tu non abbia ancora trovato la strada per tornare a Dio." "Nonostante questo," confermò Brendan. "Forse ha qualcosa a che vedere col sogno che ho fatto la notte scorsa." "Ancora i guanti neri?" "No. Quello non lo faccio da settimane. La scorsa notte ho sognato che stavo camminando in un luogo di pura luce dorata. Era una luce magnifica, così vivida che non potevo vedere niente attorno a me; eppure non mi feriva gli occhi." Una strana nota, forse di reverenza, entrò nella voce del curato. "Nel sogno continuo a camminare, senza sapere dove sono o dove sto andando, ma con la certezza che mi sto avvicinando a una cosa o un luogo di monumentale importanza e intollerabile bellezza. Mi sento chiamato. Non un richiamo udibile, ma che echeggia dentro di me. Il cuore mi batte forte, e ho un po' di paura. Ma non è una paura spiacevole, padre, quella che provo in quel luogo luminoso, niente affatto. Così continuo a camminare nella luce, verso qualcosa di magnifico che non posso vedere, ma so che c'è." Attratto dalla voce sommessa di Brendan come da una calamità, padre Wycazik andò al letto e si sedette su un angolo. "Ma questo è certamente un sogno spirituale, il richiamo di Dio che ti giunge nel sonno. Ti sta richiamando alla tua fede, ai doveri del tuo ufficio." Brendan scosse la testa. "No. Non c'era niente di religioso nel sogno, nessuna sensazione di una presenza divina. Era un altro genere di soggezione quella che mi colmava, una gioia diversa da quella che ho conosciuto in Cristo. Mi sono svegliato quattro volte durante la notte, e ogni volta sulle mie mani comparivano gli anelli. E ogni volta che mi riaddormentavo, tornavo a fare lo stesso sogno. Qualcosa di molto strano e importante sta accadendo, padre, e io ci sono dentro; ma di qualunque cosa si tratti, non è niente a cui i miei studi, le mie precedenti esperienze e convinzioni mi abbiano preparato." Padre Wycazik si domandò se il richiamo giunto a Brendan nel sogno non venisse da Satana invece che da Dio. Forse il demonio, sapendo che
l'anima di un prete era in pericolo, aveva rivestito la sua odiosa forma di quell'ingannevole luce dorata per meglio condurre il curato lontano dalla retta via. Ancora fermamente determinato a riportare il sacerdote nel gregge, ma momentaneamente a corto di strategie vincenti, padre Wycazik optò per una tregua. "E adesso, che si fa? Non sei pronto per riprendere il tuo collare romano, come pensavo. Vuoi che mi metta in contatto con Lee Kellog e gli chieda di autorizzare la consulenza psichiatrica?" Brendan sorrise. "No. Non credo più che sarebbe di qualche utilità. Quello che mi piacerebbe fare, se lei è d'accordo, padre, sarebbe tornare nella mia stanza nella casa parrocchiale e aspettare di vedere cosa succede. Naturalmente, non potrò ricevere confessioni e dire messa, ma potrei far da mangiare, darle una mano in archivio." Padre Wycazik fu sollevato. Aveva temuto che Brendan esprimesse l'intenzione di tornare al laicato. "Naturalmente. Ci sono molte cose che puoi fare. Ti terrò occupato, di questo non devi preoccuparti. Ma dimmi, Brendan, pensi ci sia una possibilità che tu ritrovi la strada che hai smarrito?" Il curato annuì. "Non mi sento più alienato da Dio. Solo vuoto di lui. Può darsi che questa situazione, evolvendosi, mi riporti alla chiesa, come lei sembra pensare. Io per il momento non posso assicurarlo." Ancora frustrato e deluso dal rifiuto di Brendan di vedere la miracolosa presenza di Dio nella guarigione di Emmy e Winton, padre Wycazik fu comunque lieto della prospettiva di avere di nuovo il curato vicino a sé, e quindi l'opportunità di continuare a guidarlo verso la salvezza. Brendan scese al pianterreno con padre Wycazik, e al portone i due uomini si abbracciarono con tale calore che qualcuno, vedendoli senza sapere chi fossero, li avrebbe creduti padre e figlio. Accompagnando padre Wycazik sulla veranda davanti alla casa, dove l'ululato del vento sembrava più consono a una notte di Halloween che al Natale, Brendan disse: "Non so perché o come, padre Stefan, ma sento che stiamo per imbarcarci in una stupefacente avventura." "La scoperta - o riscoperta - della fede è sempre un'avventura stupefacente," replicò padre Wycazik, cogliendo al volo l'occasione per un'ultima stoccata, poi se ne andò. Reno, Nevada Gemendo, ansando, lottando strenuamente contro l'effetto narcotizzante
della sua ossessione lunare, Zeb Lomack calpestò il tappeto di immondizia e scarafaggi che copriva il pavimento della cucina, afferrò il fucile posato sul tavolo, si infilò la canna tra i denti e, improvvisamente, comprese che le sue braccia non erano abbastanza lunghe per arrivare al grilletto. L'impulso di alzare gli occhi alla malia delle lune sulle pareti era così violento che gli sembrava che qualcuno lo avesse afferrato per i capelli e gli stesse tirando indietro la testa per costringerlo a sollevare lo sguardo da terra. E quando chiuse gli occhi, fu come se un avversario invisibile cercasse insistentemente di aprirgli a forza le palpebre. Ma nel suo terrore di essere destinato al manicomio come il padre trovò la forza di resistere al richiamo mesmerico della luna. Gli occhi ancora chiusi, si lasciò cadere su una sedia, scalciò via una scarpa, sfilò la calza, afferrò il fucile con entrambe le mani, si mise la canna in bocca e alzò il piede nudo fino a toccare con la punta il freddo grilletto. Raggi di luna sulla sua pelle e maree provocate dalla luna nel suo sangue, non meno potenti solo perché immaginarie, attiravano la sua attenzione con tale intensità che aprì gli occhi, vide le molteplici lune alle pareti, e gridò: "No!" nella canna del fucile. Mentre l'irresistibile richiamo della luna lo stava spingendo di nuovo nell'incoscienza, mentre il suo piede stava premendo sul grilletto, il pallone della memoria finalmente scoppiò nella sua mente, e Zeb ricordò tutto. Due estati prima, Dominick, Ginger, Faye, Ernie, il giovane prete, gli altri, l'interstatale 80, il Tranquility Motel, oh, Dio, il motel, e, Dio, la luna! Forse Zebediah Lomack non riuscì a controllare il movimento verso il basso del suo piede scalzo, o forse, invece, l'improvvisa rivelazione era stata così terribile da incitarlo al suicidio. In ogni caso, il calibro 38 tuonò, e il suo cervello esplose. Per lui - ma solo per lui - il terrore finì. Boston, Massachusetts Ginger Weiss trascorse tutto il pomeriggio di Natale leggendo Crepuscolo a Babilonia e alle sette di sera, quando fu ora di scendere per l'aperitivo e la cena con gli Hannaby, le dispiacque dover mettere da parte il libro. Era una prigioniera volontaria dell'avvincente storia, ma a catturarla era stata più che altro la fotografia dell'autore. Gli occhi magnetici e le belle fattezze di Dominick Corvaisis continuarono a suscitare in lei un disagio che rasentava la paura: non riusciva a superare la strana sensazione di conoscerlo.
La cena con i suoi ospiti e la loro famiglia avrebbe potuto essere piacevole se Dominick Corvaisis non avesse monopolizzato la sua attenzione. Alle dieci, quando le, fu finalmente possibile ritirarsi senza offendere nessuno, tornò in camera e riprese la lettura. Con un minimo di interruzioni per osservare la fotografia dell'autore, finì il libro alle tre e quarantacinque di notte. Nel profondo silenzio che era calato su Baywatch, Ginger restò seduta con il libro in grembo, la fotografia sul retro della copertina rivolta verso l'alto, gli occhi fissi sul volto misteriosamente familiare di Dominick Corvaisis. Durante quella sua strana, silente, comunione unilaterale con l'immagine dello scrittore, si sentì di minuto in minuto più sicura di aver incontrato quell'uomo da qualche parte; in qualche maniera inimmaginabile, lui era legato ai suoi recenti problemi. Benché la sua crescente convinzione fosse temperata dalla consapevolezza che quell'intuizione poteva essere originata dallo stesso disturbo mentale che generava le sue fughe, e quindi inattendibile, la sua agitazione aumentò finché, scossa e stravolta, fu costretta ad agire. Lasciando furtivamente la sua camera, scese al pianterreno e attraversò le stanze buie e deserte della grande casa addormentata fino alla cucina. Lì accese la luce e usò il telefono per chiamare il servizio informazioni. Era l'una di notte in California, e non sarebbe stato educato svegliare Corvaisis. Ma se fosse riuscita ad avere il suo numero avrebbe dormito meglio, sapendo che al mattino avrebbe potuto mettersi in contatto con lui. Purtroppo, come del resto era prevedibile, Dominick Corvaisis non figurava sull'elenco degli abbonati di Laguna Beach. Tornando silenziosamente in camera sua, Ginger decise che l'indomani avrebbe scritto a Corvaisis, spedendo la lettera per raccomandata presso il suo editore, con la preghiera di inoltrarla a lui d'urgenza. Forse tentare di contattarlo era precipitoso e irrazionale. Forse non lo aveva mai incontrato, e forse lui non aveva niente a che vedere con la sua bizzarra afflizione. Forse l'avrebbe creduta una mitomane. Ma se quella scommessa da un milione contro uno si fosse dimostrata vincente, la posta poteva essere la sua stessa salvezza: un compenso sufficiente per rischiare una brutta figura. Laguna Beach, California Ancora ignaro del fatto che una copia del suo libro aveva stabilito un
collegamento vitale tra lui e una donna profondamente turbata a Boston, Dom rimase a casa di Parker Faine fino a mezzanotte, discutendo la possibile natura della cospirazione che aveva teorizzato. Né lui né Parker avevano abbastanza dati per mettere insieme un quadro dettagliato o anche solo minimamente utile dei cospiratori, ma già il condividere ed esplorare il mistero con un amico serviva a renderlo meno spaventoso. Concordarono che Dom non doveva volare a Portland e cominciare la sua odissea prima di aver visto cosa sarebbe successo ora che aveva buttato via Valium e Dalmane. Forse il sonnambulismo non si sarebbe ripresentato, nel qual caso avrebbe potuto partire senza temere di perdere il controllo di sé mentre era chissà dove. Ma se invece, come lui si aspettava, avesse ricominciato con le sue imprese notturne, gli ci sarebbero volute un paio di settimane per trovare il modo migliore di contenersi prima di partire per Portland. Inoltre, aspettando un po', era possibile che ricevesse altre lettere dal suo ignoto corrispondente, e queste avrebbero potuto fornirgli indicazioni tali da far sì che il viaggio non fosse più necessario, o da permettere di individuare una zona precisa lungo il percorso dove avrebbe trovato qualcosa capace di liberare i suoi ricordi imprigionati. Per mezzanotte, quando Dom si alzò per andare a casa, Parker era così eccitato dalla situazione che sembrava sarebbe stato in piedi ancora per ore a pensarci su. "Sei sicuro sia saggio restare solo stanotte?" domandò sul portone. Dom uscì su un vialetto decorato con spigolose forme geometriche di buio e cunei di luce gialla, formati da una lanterna decorativa in ferro parzialmente oscurata dalle fronde di una palma. Girandosi a guardare l'amico, disse: "Ne abbiamo già parlato una volta. Forse non è saggio, ma non posso fare diversamente." "Chiamerai, se hai bisogno di aiuto?" "Chiamerò," promise Dom. "E prendi le precauzioni di cui abbiamo parlato." Poco più tardi, a casa sua, Dom si occupò di quelle precauzioni. Tolse la pistola dal comodino, la chiuse in un cassetto della scrivania nel suo studio e nascose la chiave sotto un contenitore di gelato nel freezer. Meglio essere impreparato ad accogliere un ladro che rischiare di sparare mentre dormiva. Poi prese un rotolo di corda in garage e ne tagliò tre metri. Dopo essersi lavato i denti e svestito, si legò un'estremità della corda al polso destro, in modo che avrebbe potuto liberarsi solo sciogliendo quattro complicati
nodi, e assicurò l'altro capo a un paletto della testata del letto, avendo cura di stringere bene. Con trenta centimetri della corda usati per i nodi, gliene restavano oltre due metri e mezzo, abbastanza per lasciargli libertà di movimento e, al tempo stesso, impedirgli di allontanarsi troppo dal letto. In precedenti episodi di sonnambulismo, aveva compiuto azioni complesse che richiedevano una certa concentrazione, ma niente di tanto tedioso come disfare nodi ben fatti, cosa che spesso gli riusciva difficile anche da sveglio. Nel sonno, gli sarebbe certamente mancata la coordinazione per liberarsi, e lo sforzo sarebbe stato abbastanza frustrante per svegliarlo. Essere così impedito implicava qualche pericolo. Se fosse scoppiato un incendio durante la notte, o la casa fosse stata danneggiata da un terremoto, avrebbe potuto impiegarci troppo a slegarsi per fare in tempo a mettersi in salvo. Ma doveva correre il rischio. Quando spense la luce e scivolò sotto le coperte, le cifre rosse luminose della sveglia digitale indicavano le dodici e cinquantotto. Al buio, con gli occhi fissi al soffitto, domandandosi cosa in nome di Dio gli fosse successo lungo il viaggio due estati prima, attese che il sonno pian piano lo prendesse. Sul comodino, il telefono era silenzioso. Se il suo numero fosse stato sull'elenco, avrebbe potuto ricevere, in quel momento, la telefonata di una donna sola e sgomenta a Boston: una telefonata che avrebbe radicalmente cambiato il corso delle settimane seguenti, e che, forse, avrebbe salvato delle vite umane. Milwaukee, Wisconsin Nella stanza degli ospiti della casa di sua figlia, con una lampadina da notte accesa in considerazione della fobia di Ernie, Faye Block ascoltava il marito che, nel sonno, borbottava contro il cuscino. Qualche minuto prima lui si era lamentato, agitandosi tra le lenzuola, e l'aveva svegliata. Ora, Faye si alzò su un gomito, inclinò la testa e ascoltò attentamente, cercando di decifrare quel òhe diceva. Era sempre la stessa cosa, e l'ansiosa insistenza della sua voce era inquietante. Gli si fece più vicina, sforzandosi di capire. Improvvisamente lui girò la testa giusto abbastanza per scostare la bocca dal cuscino, e le sue parole furono chiare, ma non meno misteriose di quando erano soffocate: "La luna, la luna, la luna, la luna..." Las Vegas, Nevada
Quella notte Jorja tenne Marcie nel proprio letto, perché non le era sembrato il caso di lasciarla sola dopo quel che era successo di giorno. Non riuscì a riposare granché: per tutta la notte la bambina sembrò passare da un incubo all'altro, scalciando, dibattendosi vigorosamente come per liberarsi da mani che la trattenevano, parlando nel sonno di dottori e aghi, con una voce da far venire la pelle d'oca. Jorja si domandò da quanto tempo andasse avanti così. Le loro camere da letto erano separate da armadi messi uno contro l'altro e isolate dai vestiti, e la bambina parlava molto piano: forse aveva passato numerose notti di inconscio terrore senza che la madre se ne accorgesse. Il mattino dopo avrebbe portato Marcie dal dottore. Data la sua incomprensibile avversione per tutti i medici, con ogni probabilità la bambina avrebbe scatenato un pandemonio. Ma quanto a Marcie faceva paura andare dal dottore, tanto a Jorja faceva paura non andarci. Se non fosse stato così difficile reperire il medico giusto il giorno di Natale, ce l'avrebbe già portata. Era spaventata. Dopo l'accesso isterico di Marcie, la giornata era andata in discesa. La bambina era stata talmente sopraffatta dalla paura che se l'era fatta addosso, e per dieci imbarazzanti, spaventosi minuti aveva resistito a ogni sforzo di Jorja di portarla di là e pulirla. Strillava, graffiava, scalciava. Poi finalmente la crisi era passata, e Marcie aveva acconsentito a un bagno. Ma era come un piccolo zombie, la faccia floscia e gli occhi vuoti, come se il terrore, uscendo da lei, avesse portato con sé tutte le sue forze e il suo intelletto. Quello stato semicatatonico durò quasi un'ora, durante la quale Jorja fece una dozzina di telefonate nel tentativo di rintracciare il dottor Besancourt, il pediatra che curava Marcie quelle rare volte che si ammalava. Mentre Mary e Pete cercavano senza successo di strappare un sorriso o almeno una parola alla bambina, e mentre Marcie continuava a comportarsi come fosse sordomuta, nella mente di Jorja si affollarono confuse reminiscenze di articoli di giornale sui bambini autistici. Non riusciva a ricordare se l'autismo fosse una condizione che comincia nella prima infanzia, o se era possibile che una bambina di sette anni perfettamente normale improvvisamente si ritraesse in un luogo privato e chiudesse fuori il resto del mondo per sempre. Il dubbio la faceva impazzire. Un po' per volta, comunque, Marcie uscì dal suo stordimento. Cominciò a rispondere a Mary e Pete, anche se a monosillabi, e con una voce piatta e
inespressiva, sconvolgente quasi quanto i suoi strilli di prima. Succhiandosi il pollice come non faceva da almeno due anni, andò in salotto a svagarsi con i suoi giocattoli nuovi. Per buona parte del pomeriggio giocò senza alcun piacere apparente, con un'espressione corrucciata che sembrava essersi insediata in pianta stabile sul suo piccolo viso. Jorja non era meno preoccupata a causa di questo cambiamento, ma era già un sollievo vedere che Marcie non mostrava più interesse per la valigetta del Piccolo Medico. Alle quattro e mezzo la bambina aveva perso la sua aria tetra ed era tornata socievole come sempre. Ritrovato il buon umore, era talmente incantevole da far venire la tentazione di credere che quello che le era successo a tavola non fosse stato niente di peggio di uno scatto di stizza, come ne capitano a tutti i bambini. Sulle scale esterne del condominio, fuori della portata delle orecchie di Marcie, la madre di Jorja si fermò un momento prima di andare alla macchina. "Sta solo cercando di comunicarci che è ferita e confusa," disse. "Non capisce perché suo padre se n'è andato, e in questo momento ha bisogno di molta attenzione, Jorja, molto amore. È tutto qui." Jorja sapeva che il problema non si limitava a questo. Non dubitava che Marcie fosse turbata dal comportamento di suo padre, profondamente ferita dal suo abbandono, e piena di conflitti irrisolti. Ma qualcos'altro rodeva la bambina, qualcosa che sembrava non aver nulla di razionale, e Jorja ne aveva paura. Poco dopo che Pete e Maìy se ne furono andati, la bambina riprese a giocare col Piccolo Medico con lo stesso allarmante fervore di prima, e quando arrivò l'ora di andare a letto volle portare la valigetta con sé. Ora, alcuni degli strumenti del Piccolo Medico erano per terra dalla parte del letto dove dormiva Marcie, altri sul comodino. E nel buio della stanza la bambina, sognando, parlava piagnucolando di dottori, infermiere, aghi. Jorja non sarebbe riuscita a dormire nemmeno se Marcie fosse stata perfettamente immobile e quieta. La preoccupazione provocava l'insonnia più efficacemente di una dozzina di caffè. Visto che era comunque sveglia, ascoltò attentamente ogni parola mormorata nel sonno da sua figlia, sperando di udire qualcosa che l'aiutasse a capire, o che potesse essere utile al dottore per fare una diagnosi. Erano le due di mattina quando Marcie borbottò qualcosa di nuovo, qualcosa che non aveva niente a che fare con dottori e infermiere e grosse siringhe. Con una raffica di violenti calci, la bambina si rovesciò sul dorso, sussultò, poi si irrigidì, assolutamente immobile. "La luna, la luna, la luna," disse con voce colma di stupore e paura
insieme, "la luna," un sussurro di così raggelante intensità che Jorja capì che non erano parole senza significato. "La luna, luna, luuunaa..." Chicago, Illinois Brendan Cronin, prete sub judice, dormiva al caldo sotto una coperta e una trapunta, sorridendo a qualcosa che gli appariva in sogno. Fuori, il vento invernale sospirava tra i rami del gigantesco pino, fischiava e gemeva nelle grondaie, e mugghiava alla finestra, sfogandosi in raffiche a intervalli regolari, come se la natura stesse ventilando la notte con un enorme mantice meccanico, che produceva infallibilmente otto soffi al minuto. Pur perso nelsuo sogno, Brendan doveva accorgersi del lento pulsare del vento, perché quando cominciò a parlare nel sonno, le parole gli uscirono di bocca a un ritmo sincrono: "La luna... la luna... la luna... la luna..." Laguna Beach, California "La luna! La luna!" Dominick Corvaisis fu svegliato dalle proprie grida spaventate e da un bruciante dolore al polso destro. Era carponi di fianco al letto, al buio, e strattonava freneticamente qualcosa che lo stringeva a un braccio. Continuò a dibattersi per alcuni secondi, finché la nebbia del sonno si dissipò ed egli comprese di essere trattenuto da niente di più della corda con cui lui stesso si era legato. Respirando affannosamente, col cuore che gli batteva forte, cercò a tastoni l'interruttore della lampada sul comodino e fece una smorfia quando la luce improvvisa gli ferì gli occhi. Un rapido sguardo alla corda gli mostrò che nel sonno (e al buio) aveva completamente sciolto uno dei quattro stretti nodi e parzialmente disfatto un altro, prima di perdere la pazienza. Poi, nel panico che sempre accompagnava i suoi attacchi di sonnambulismo, aveva evidentemente cominciato a tirare e dibattersi contro la corda come un ottuso animale che cercasse di liberarsi da un guinzaglio, abradendosi dolorosamente il polso destro. Dom si alzò da terra e, spingendo da parte le coperte aggrovigliate, si sedette sul bordo del letto. Sapeva che aveva sognato, ma non riusciva minimamente a ricordare cosa. Comunque, era abbastanza sicuro che non si trattava del solito incubo, perché quello non aveva niente a che fare con la luna. Questo era un altro
sogno, ugualmente terrificante, ma in un modo differente. Le sue grida, che erano state in parte responsabili del suo risveglio, erano così enfatiche, così ossessive, così piene di spavento che risuonavano nella sua memoria nitide come quando le aveva realmente udite: "La luna! La luna!" Rabbrividì e si portò le mani alla testa pulsante. La luna. Cosa significava? Boston, Massachusetts Ginger balzò a sedere sul letto con un acuto strillo. "Oh, mi dispiace, dottoressa Weiss," disse Lavinia, la governante degli Hannaby. "Non volevo spaventarla. Stava avento un incubo." "Incubo?" Ginger non si ricordava di alcun sogno. "Oh, sì," le assicurò Lavinia. "E doveva essere proprio brutto, da come gridava. Stavo passando in corridoio quando l'ho sentita urlare e quasi correvo dentro, ma poi mi sono resa conto che stava sognando. Allora ho esitato, ma lei continuava a gridare, così ho pensato che fosse meglio svegliarla." Ginger sbattè le palpebre. "Gridavo? Che cosa?" "'La luna'," rispose la governante. "E sembrava terrorizzata." "Non ricordo." "'La luna'," confermò Lavinia. "'La luna', in continuazione, con una voce che quasi credevo che qualcuno la stesse uccidendo." PARTE SECONDA Giorni di rivelazione Coraggio è resistenza alla paura, padronanza della paura, non assenza di paura. Mark Twain Ha qualche significato questa vita? Che scopo ha questa lotta? Da dove veniamo, dove siamo diretti? Queste fredde domande echeggiano e risuonano attraverso ogni giorno, ogni notte solitària. Andiamo a trovare la splendida luce che getterà un raggio rivelatore
sul senso del sogno umano. The book of counted sorrows Un amico può ben essere considerato il capolavoro della Natura. Ralph Waldo Emerson 26 dicembre - 11 gennaio 1 Boston, Massachusetts Tra il 27 dicembre e il 5 gennaio, Ginger Weiss andò sei volte all'appartamento di Pablo Jackson, e durante ognuna di quelle visite lui usò la terapia ipnotica per sondare cautamente e pazientemente il blocco di Azrael che sigillava una parte della sua memoria. Per il vecchio mago, lei diventava più bella ogni volta che si presentava alla sua porta, e anche più intelligente, affascinante, e ostinata in un modo che la rendeva ancora più attraente. Pablo vedeva in lei il tipo di donna che avrebbe voluto per figlia. Ginger aveva suscitato in lui sentimenti protettivi, paterni, che fino ad allora gli erano stati sconosciuti. Le riferì quasi tutto quel che aveva saputo da Alex Cristophson al party di Natale degli Hergensheimer, e lei si mostrò riluttante a credere che il suo blocco di memoria non si fosse sviluppato naturalmente, ma fosse stato impiantato da persone ignote. "Troppo assurdo. Cose del genere non succedono a persone comuni come me. Io sono solo una farmishteh di Brooklyn; non posso essere stata coinvolta in un intrigo internazionale." La sola cosa che non le disse della sua conversazione con Alex fu che l'ex funzionario dello spionaggio, ormai in pensione, lo aveva ammonito di stare alla larga da lei. Ginger non avrebbe accettato che Pablo corresse dei rischi a causa sua; così, sia per generosità sia per un egoistico desiderio di far parte della sua vita, le aveva taciuto quell'informazione. Al loro primo incontro, il 27 dicembre, antecedente la seduta di ipnosi, lui preparò un pranzo a base di quiche e insalata. Mentre mangiavano, Ginger osservò: "Ma io non sono mai stata nei paraggi di una base militare, non ho mai preso parte a ricerche nel campo della difesa, né ho mai avuto a che fare con qualcuno che potesse far parte di un giro di spie. È ri-
dicolo!" "Se hai inciampato in qualche notizia pericolosa, non è stato in una zona di massima sicurezza, ma in qualche posto dove avevi ogni diritto di essere, solo che ti ci sei trovata nel momento sbagliato." "Ma ascolta, Pablo, se mi hanno fatto il lavaggio del cervello, ci sarebbe voluto del tempo. Avrebbero dovuto tenermi in custodia da qualche parte. Giusto?" "Immagino che ci voglia qualche giorno." "Quindi non può essere come dici tu. Naturalmente, mi rendo conto che mentre mi costringevano a dimenticare quello che ho accidentalmente visto avrebbero potuto cancellare anche la memoria del luogo dove mi hanno tenuta per il lavaggio del cervello, ma ci sarebbe una lacuna da qualche parte nel mio passato, un lasso di tempo in cui non ricordo dov'ero o cosa ho fatto." "Niente affatto. Possono aver impiantato dei falsi ricordi per colmare il vuoto di quei giorni, e tu non noteresti mai la differenza." "Buon Dio! Davvero è possibile fare questo?" "La prima cosa che mi propongo di fare è individuare quelle false memorie," spiegò Pablo, finendo la sua quiche. "Ci vorrà molto tempo. Dovremo ripercorrere all'indietro la tua vita, settimana per settimana. Ma quando arriveremo ai ricordi fittizi, li riconoscerò tout de suite, perché non avranno i dettagli, la consistenza di genuini ricordi. Non sono che fondali di teatro, capisci. Se troviamo due o tre giorni di memorie sottili come carta velina, avremo localizzato l'origine dei tuoi problemi, perché quelle saranno le date in cui ti trovavi nelle mani di quella gente, di chiunque si trattasse." "Sì, sì, capisco," disse Ginger, improvvisamente eccitata. "Il primo giorno di cui ho un ricordo fiacco sarà quello in cui ho visto qualcosa che non avrei dovuto, e l'ultimo quello in cui hanno terminato il lavaggio del cervello. È terribilmente difficile da credere... Ma se qualcuno ha realmente impiantato questo blocco di memoria, e se tutti i miei sintomi - le fughe derivano da quei ricordi repressi che si dibattono per tornare in superficie, allora il mio problema non è davvero psicologico. C'è una speranza che io possa ancora esercitare la professione medica. Tutto quel che devo fare è disseppellire quei ricordi, riportarli alla luce, e allora la pressione sarà sollevata." Pablo le prese una mano e gliela strinse. "Sì, sono convinto che ci sia una speranza concreta. Ma non sarà facile. Ogni volta che sondo il blocco,
rischio di farti sprofondare in un coma, o peggio ancora. Intendo usare la massima cautela, ma il rischio rimane." Le prime due sedute di ipnosi si svolsero in poltrone accanto alla grande finestra a bovindo, una il 27 dicembre, l'altra domenica 29, e ciascuna durò quattro ore. Pablo fece regredire Ginger giorno per giorno attraverso gli ultimi nove mesi, ma non trovò ricordi palesemente artificiali. Domenica, Ginger gli suggerì di interrogarla su Dominick Corvaisis, lo scrittore la cui fotografia l'aveva colpita in maniera così singolare. Quando Pablo la ipnotizzò e stabilì che era in contatto con la Ginger più interiore, con i più profondi recessi del suo subconscio, le domandò se avesse mai incontrato Corvaisis, e lei, dopo una breve esitazione, rispose di sì. Pablo insistette con cautela e diligenza su quel punto, ma non riuscì a ottenere quasi nient'altro da lei. Alla fine, però, un lieve spiraglio si aprì nella sua memoria: "Mi ha gettato del sale in faccia." "Corvaisis?" chiese Pablo, perplesso. "Perché?" "Non... non ricordo bene." "Dov'è successo questo?" Lei si oscurò in volto e, quando Pablo insistette, si ritrasse in quel pauroso stato comatoso. Lui fece rapidamente marcia indietro, prima che potesse precipitare giù come la volta prima. Le assicurò che, se solo fosse tornata indietro, non le avrebbe posto altre domande su Corvaisis, e gradualmente lei si riprese. Chiaramente, Ginger aveva conosciuto Corvaisis, e il suo incontro con lui era associato ai ricordi che le erano stati sottratti. Nelle due sedute successive - lunedì 30 e mercoledì, primo giorno del nuovo anno - Pablo fece regredire Ginger di altri otto mesi, arrivando alla fine di luglio di due anni prima, senza scoprire alcun ricordo di scarso spessore che indicasse l'intervento di specialisti del controllo della mente. Poi, giovedì 2 gennaio, Ginger gli chiese di interrogarla sul sogno che aveva fatto la notte prima. Per la quarta volta da Natale, aveva gridato nel sonno "La luna!" con tale insistenza da svegliare gli altri a Baywatch. "Penso che il sogno riguardi il luogo e il tempo che mi è stato impedito di ricordare. Mettimi in trance, e forse apprenderemo qualcosa." Ma quando Pablo la ipnotizzò e le chiese del sogno della notte prima, lei rifiutò di rispondere alle sue domande e scivolò in un sonno più profondo della semplice trance ipnotica. Aveva premuto ancora una volta il "grilletto
di Azrael", e questa era la dimostrazione che i suoi sogni si riferivano ai ricordi proibiti. Venerdì non si incontrarono. Pablo aveva bisogno della giornata per svolgere altre letture su blocchi di memoria di ogni genere e pensare al modo migliore di procedere. Inoltre, aveva registrato le cinque sedute svolte dopo Natale, così si sedette alla scrivania nel suo studio foderato di libri e ascoltò per ore parti di quei nastri, cercando una singola parola o un mutamento nella voce di Ginger, che rappresentassero una risposta più significativa di quanto gli fosse parso sul momento. Non trovò niente di sensazionale; tuttavia notò che, durante la regressione ipnotica, una sottile nota di ansietà si era insinuata nella voce di Ginger quando il loro viaggio a ritroso nel tempo aveva raggiunto il 31 agosto di due anni prima. Non era qualcosa di drammatico, e infatti non aveva attirato la sua attenzione quando aveva effettuato le registrazioni: ma riascoltando tutte le sedute in un pomeriggio, usando l'avanzamento veloce per saltare di giorno in giorno, vide come in un grafico l'ansia aumentare costantemente, e sospettò che si stessero avvicinando all'evento nascosto dietro il blocco di Azrael. Così, durante la sesta seduta, sabato 4 gennaio, Pablo non fu sorpreso quando la breccia si aprì. Come al solito, Ginger era seduta in una delle poltrone accanto alla finestra, oltre la quale stava cadendo una neve sottile. I suoi capelli biondo platino brillavano di una luce spettrale. Mentre la faceva regredire attraverso il luglio di due anni prima, le sue sopracciglia si aggrottarono, la voce divenne flebile e tesa, e Pablo seppe che stavano per arrivare al momento cruciale. Già avevano ripercorso gli intensi mesi del suo periodo di internato chirurgico presso il Memorial Hospital, fino a quando si era presentata per la prima volta a George Hannaby, lunedì trenta luglio, più di diciassette mesi prima. I suoi ricordi si mantennero nitidi e particolareggiati mentre Pablo la riportava a domenica 29 luglio, quando si stava ancora sistemando nel suo nuovo appartamento; 28 luglio, 27, 26, 25, 24: in quei giorni aveva disfatto i bagagli e comprato i mobili; indietro al 21 luglio, 20, 19... Il 18 luglio era arrivato il camion dei traslochi con la roba che aveva spedito da Palo Alto, in California, dove aveva vissuto per i due anni precedenti, mentre seguiva un corso superiore di chinirgia vascolare. Più indietro ancora...
Il 17 luglio era arrivata a Boston in macchina e, non potendo pernottare nel suo nuovo appartamento, dove mancava ancora il letto, aveva preso una stanza il più vicino possibile a Beacon Hill, all'Holiday Inn Government Center. "In macchina?" si stupì Pablo. "Da Stanford a Boston?" "Era la mia prima vera vacanza. Mi piace guidare, e quel viaggio era una buona occasione per vedere posti nuovi," rispose Ginger, ma in tono così cupo che sembrava stesse parlando di un viaggio attraverso l'inferno. Pablo cominciò a farla regredire attraverso i giorni del viaggio, portandola all'indietro lungo il percorso, attraverso lo Utah, nel Nevada, finché arrivarono alla mattina del 10 luglio. Ginger aveva trascorso la notte precedente in un motel, e quando Pablo gliene chiese il nome fu scossa da un brivido. "T-Tranquility." "Tranquility Motel? Dove si trova?" Sui braccioli della poltrona, le mani di Ginger si serrarono a pugno. "Quarantotto chilometri a ovest di Elko, sull'interstatale 80." Pablo le chiese di descriverlo, e lei obbedì ma con riluttanza. Qualcosa a proposito di quel luogo la terrorizzava. Ogni muscolo del suo corpo si irrigidì. "E così," disse Pablo, "hai passato la notte del 9 luglio al motel. Era un lunedì. Ebbene, adesso è lunedì 9 luglio. Stai per fermarti al motel. Ancora non ci sei stata; stai giusto per arrivarci. Che ore sono?" Lei non rispose; il suo tremore si fece più accentuato, e quando lui ripetè la domanda, disse: "Non sono arrivata lunedì. V-venerdì." Pablo trasalì. "Il venerdì prima? Sei stata al Tranquility Motel da venerdì 6 luglio a lunedì 9 luglio? Quattro notti in quel piccolo motel in mezzo a niente?" Si protese in avanti, avvertendo che erano arrivati al punto in cui la mente di Ginger era stata manomessa. "Perché mai ci saresti rimasta così a lungo?" "Perché c'era molta pace," rispose lei con voce leggermente legnosa. "Ero in vacanza, dopo tutto." Il suo tono stranamente stentato si faceva a ogni parola più piatto e vuoto di sfumature. "Avevo bisogno di relax, capisci, e quello era un posto perfetto per rilassarsi." Il vecchio mago distolse gli occhi da lei, guardò la neve luminescente che cadeva attraverso il cupo grigiore del pomeriggio e considerò accuratamente la prossima domanda. "Hai detto che questo motel non ha la piscina. E le stanze che hai descritto non sono lussuose, provviste dei comfort per una lunga permanenza. Cosa diamine hai fatto lì per quattro giorni,
Ginger?" "Te l'ho detto: mi sono semplicemente rilassata. Ho riposato. Letto un paio di libri. Guardato un po' di televisione. La si prende bene anche lì in mezzo alle pianure, perché hanno sul tetto la loro piccola parabolica per ricevere dal satellite." Il suo modo di parlare adesso era interamente alterato, come se stesse leggendo da un copione. "Dopo due anni intensi a Stanford, avevo bisogno di qualche giorno di dolce far niente." "Che libri hai letto mentre stavi al motel?" "Io... non ricordo." Le mani di Ginger erano ancora serrate a pugno, i suoi muscoli ancora contratti. Piccole gocce di sudore le imperlarono la fronte lungo l'attaccatura dei capelli. "Ginger, adesso sei lì, al motel, nella tua stanza a leggere. Capisci? Stai leggendo qualunque cosa tu stessi leggendo allora. Ora guarda la copertina del libro e dimmi qual è il titolo." "Io... no... nessun titolo." "Ogni libro ha un titolo." "Nessun titolo." "Perché non c'è nessun libro, è così?" "Mi sono solo rilassata. Ho riposato. Letto un paio di libri. Guardato un po' di televisione," ripetè lei con voce bassa, spenta, priva di emozione. "La si prende bene anche lì in mezzo alle pianure, perché hanno sul tetto la loro piccola parabolica per la ricezione via satellite." "Cos'hai visto alla TV?" "Notiziari. Film." "Quali film?" Lei sbattè le palpebre. "Io... non ricordo." Pablo era sicuro che Ginger non ricordasse quelle cose per il semplice motivo che non le aveva mai fatte. Era stata in quel motel, questo era certo, perché poteva descriverlo in ogni piccolo dettaglio, ma non a leggere e guardare la TV. Per mezzo di abili suggestioni postipnotiche, era stata istruita a dire di aver fatto queste cose, ed era stata perfino portata a ricordare vagamente di averle fatte, ma erano memorie puramente artificiali destinate a coprire ciò che era realmente accaduto al motel. Uno specialista in lavaggio del cervello poteva inserire false memorie nella mente di un individuo, ma per quanto operasse minuziosamente, costruendo un'intricata ragnatela di dettagli combacianti, non poteva rendere i ricordi fittizi convincenti come se fossero reali. "Dove andavi a mangiare la sera?" domandò Pablo.
"Alla tavola calda accanto al motel. È un posto piccolo, e non ha un gran menu, ma si mangia ragionevolmente bene." La voce di Ginger suonò ancora una volta piatta e vuota. "Cos'hai mangiato alla tavola calda del Tranquility?" Lei esitò. "Non... non ricordo." "Ma mi hai appena detto che si mangia abbastanza bene. Come puoi dare questo giudizio se non ricordi cosa hai mangiato?" "Uh... è un posto piccolo, e non ha un gran menu." Più lui insisteva a chiedere particolari, più lei diventava tesa. La sua voce rimase senza emozione mentre scodellava le sue risposte programmate, ma il volto si contrasse e si indurì per l'ansietà. Pablo avrebbe potuto dirle che i suoi apparenti ricordi di quei quattro giorni al Tranquility Motel erano falsi. Avrebbe potuto ordinarle di scacciarli dalla sua mente, così come si soffia via della polvere da un vecchio libro, e lei lo avrebbe fatto. Poi avrebbe potuto dirle che i suoi veri ricordi erano imprigionati dietro un blocco di Azrael, e che doveva frantumarlo, ridurlo in altra polvere. Ma se lo avesse fatto, lei sarebbe sprofondata, come da programma, in un coma, o peggio ancora. Doveva avere pazienza; per giorni, forse per settimane, avrebbe cercato piccole crepe da allargare cautamente. Per quel giorno, si accontentò di definire il preciso numero di ore della sua vita che le era stato sottratto. La riportò al venerdì 6 luglio di due anni prima, e le chiese quando esattamente avesse firmato il registro al Tranquility Motel. "Poco dopo le otto." Ginger non parlava più con voce legnosa, perché quelli erano ricordi autentici. "Mancava ancora un'ora al tramonto, ma ero esausta. Volevo solo fare una doccia, mangiare qualcosa e andare a letto." Descrisse dettagliatamente l'uomo e la donna dietro il bancone. Ricordò perfino i loro nomi: Faye ed Ernie. Pablo disse: "Dopo aver preso una stanza al motel, hai mangiato alla tavola calda lì di fianco. Descrivimi il posto." Lei lo fece, e in modo convincente. Ma quando lui la fece saltare al momento in cui aveva lasciato il ristorante, i suoi ricordi suonavano di nuovo artificiosi, sbiaditi e senza spessore. Evidentemente, le sue memorie erano state alterate a partire da un certo punto dopo che era entrata alla tavola calda del Tranquility quel venerdì sera, fino a quando aveva lasciato il motel ed era ripartita per lo Utah, il martedì mattina successivo. Pablo tornò indietro, riportando ancora una volta Ginger al piccolo risto-
rante, cercando il momento esatto in cui i ricordi genuini finivano e cominciavano quelli falsi. "Raccontami della tua cena di quel venerdì sera, da quando sei entrata nella tavola calda. Minuto per minuto." Ginger si mise a sedere eretta nella poltrona. I suoi occhi erano ancora chiusi, ma sotto le palpebre si muovevano visibilmente, come se si stesse guardando in giro entrando nel locale. Aprì i pugni e, con grande sorpresa di Pablo, si alzò e si allontanò dalla poltrona, andando verso il centro della stanza. Lui le si mise al fianco per evitare che andasse a sbattere contro, i mobili. Ginger non era cosciente di essere nel suo appartamento: nella sua mente, stava avanzando fra i tavoli del ristorante. Mentre camminava, la tensione e la paura la abbandonarono, perché ora era immersa in quel tempo precedente a tutti i suoi guai, quando non aveva ancora nulla da temere. Con voce tranquilla, disse: "Mi ci è voluto un po' di tempo per rinfrescarmi prima di venire qui, così è quasi il tramonto. Fuori, le pianure sono arancioni nell'ultima luce del sole, e il bagliore si diffonde all'interno del locale. Penso che mi metterò a quel tavolo d'angolo vicino alla finestra." Pablo l'accompagnò, guidandola oltre il quadro di Picasso verso uno dei divani con i cuscini pastello. "Mmmm, che odorino invitante. Cipolle... spezie... patatine fritte..." "Quante persone ci sono, Ginger?" Lei si fermò e girò la testa, esaminando la stanza con gli occhi chiusi. "Il cuoco dietro il bancone e una cameriera. Tre uomini... camionisti, credo... sugli sgabelli al bancone. E... tre a quel tavolo... il prete grassottello... quell'altro tipo laggiù..." Ginger continuò a contare, indicando col dito. "Oh, undici in tutto, più io." "Bene," disse Pablo, "andiamo a quel tavolo vicino alla finestra." Lei riprese a camminare, sorrise a qualcuno, aggirò un ostacolo che solo lei vedeva, poi improvvisamente trasalì, si portò una mano alla faccia. "Oh!" esclamò, fermandosi. "Che c'è?" chiese Pablo. "Cos'è successo?" Lei battè furiosamente le palpebre per un momento, poi sorrise e parlò a qualcuno nella tavola calda del Tranquility, il 6 luglio di due anni prima. "Oh, non si preoccupi, non è nulla." Si pulì il viso con una mano. "Tutto a posto." Alzò gli occhi, che prima erano rivolti in basso, come se l'altra persona fosse stata seduta e ora si fosse alzata. Pablo attese che lei continuasse la conversazione. "Be', quando si rovescia del sale bisogna gettarsene un po' dietro le spalle, o sa Dio cosa potrebbe succedere. Mio padre per maggiore sicurezza lo
gettava tre volte, così se fosse stato al suo posto mi ci avrebbe seppellita." Fece per riprendere a camminare, ma Pablo la fermò. "Aspetta, Ginger. L'uomo che si è gettato il sale alle spalle: dimmi che aspetto ha." "Giovane," disse lei. "Trentadue o trentatré anni. Piuttosto alto, snello. Capelli scuri. Occhi scuri. Attraente. Sembra timido, dolce." Dominick Corvaisis, senza dubbio. Cominciò di nuovo a camminare. Pablo le rimase al fianco finché, comprendendo che stava per sedersi al tavolo del ristorante, la guidò gentilmente al divano. Lei si accomodò e guardò da una finestra, sorridendo al suo privato panorama: le pianure del Nevada immerse nella luce del sole morente. Pablo ascoltò in silenzio mentre Ginger scambiava con la cameriera qualche garbata battuta sul piccolo incidente e ordinava una bottiglia di Coors. La birra fu servita, e Ginger, mimando la scena, la sorseggiò con calma guardando il sole calare. Pablo osservò senza affrettarla, perché sapeva che si stavano avvicinando al fatidico momento in cui le sue reali memorie cedevano il posto a quelle contraffatte. Il fatto - la cosa che aveva visto e non avrebbe dovuto vedere - era accaduto intorno a quello spazio di tempo, e Pablo voleva conoscere tutto quel che poteva dei minuti che lo avevano preceduto. Nel passato, giunse il crepuscolo. La cameriera tornò da Ginger, che ordinò zuppa di verdura e un cheeseburger con tutti i contorni. Sul Nevada scese la notte. Improvvisamente, prima che le venisse servito da mangiare, Ginger corrugò le sopracciglia e disse: "E questo cos'è?" Guardò attraverso la finestra immaginaria, seria in volto. "Cosa vedi?" domandò Pablo, incatenato al suo svantaggioso punto di osservazione nel presente, a Boston. Lei assunse un'espressione preoccupata, si alzò in piedi. "Che diavolo è questo rumore?" Si rivolse alle altre persone nel locale, perplessa. "Non lo so. Non ne ho idea." A un tratto barcollò, quasi cadde di lato. "Gevalt!" Fece il gesto di appoggiarsi a qualcosa. "Perché trema tutto?" Sussultò, sorpresa. "La mia birra si è rovesciata. È un terremoto? Cosa sta succedendo? Cos'è questo rumore?" Vacillò di nuovo. Ora era spaventata. "La porta!" Si mise a correre attraverso il salotto, ma nella sua mente stava correndo verso l'uscita del ristorante. "La porta," gridò di nuovo, ma poi si fermò bruscamente, vacillando, respirando affannosamente, tremando.
Quando Pablo la raggiunse, lei si lasciò cadere in ginocchio, la testa ciondoloni. "Cosa sta succedendo, Ginger?" "Niente." Era cambiata in un istante. "Che rumore era?" "Quale rumore?" Di nuovo la voce da automa. "Ginger, dannazione, cosa sta succedendo nel ristorante del Tranquility?" Lei aveva l'orrore dipinto in faccia, ma disse solo: "Sto cenando." "È un falso ricordo." "Sto cenando." Pablo cercò di farla continuare con i ricordi di quello che era accaduto poi, ma alla fine dovette accettare il fatto che il blocco di Azrael, che custodiva quella cruciale parte della sua memoria, scattava al momento della corsa di Ginger verso la porta del ristorante, e non finiva che il martedì mattina seguente, quando si era rimessa in viaggio verso est, diretta a Salt Lake City. Doveva scalpellarlo un po' per volta, riducendolo a dimensioni sempre minori, ma per quel giorno poteva bastare. Avevano già fatto apprezzabili progressi. Sapevano che due anni prima, la notte di venerdì 6 luglio, Ginger aveva visto qualcosa che non avrebbe dovuto. Per questo era stata trattenuta - con ogni probabilità in una stanza del Tranquility Motel - e sottoposta a un sofisticato procedimento di lavaggio del cervello per cancellare il ricordo dell'evento dalla sua mente e impedirle così di divulgarlo. Avevano lavorato su di lei tre giorni - sabato, domenica e lunedì - rilasciandola, con ricordi emendati, il martedì mattina. Ma, in nome di Dio, chi erano quegli onnipotenti sconosciuti? E cosa aveva visto Ginger? 2 Portland, Oregon Domenica 5 gennaio Dominick Corvaisis arrivò in aereo a Portland e prese una stanza in un albergo vicino all'appartamento dove aveva abitato un tempo. Pioveva forte, e l'aria era fredda. Eccetto che per la cena nel ristorante dell'albergo, passò le restanti ore del pomeriggio e la serata a un tavolo accanto alla finestra della sua camera, un po' guardando la città sferzata dalla pioggia, un po' studiando le cartine stradali, rivedendo mentalmente il viaggio che aveva fatto due estati
prima (e che avrebbe ripetuto, con partenza il giorno successivo). Come aveva detto a Parker Faine il giorno di Natale, era convinto di essere incappato in una situazione pericolosa durante quel viaggio, e che, per quanto potesse suonare paranoico, gliene avessero cancellato dalla mente il ricordo. Le lettere del suo ignoto corrispondente non davano adito ad altre conclusioni. Due giorni prima, aveva ricevuto una terza busta senza mittente, col timbro di New York. Ora, quando si stancò di guardare le cartine e fissare pensierosamente la pioggia dell'Oregon, Dom prese quella busta, ne estrasse il contenuto e lo studiò. Questa volta non si trattava di un messaggio, ma di due fotografie polaroid. Una non aveva un grande effetto su di lui, anche se lo metteva in tensione. Inspiegabilmente, considerando che era la fotografia di qualcuno che, per quanto ne sapeva, era per lui un perfetto sconosciuto: un giovane prete paffuto con scompigliati capelli color rame, lentiggini e occhi verdi. Era rivolto verso l'obiettivo, seduto su una sedia accanto a una piccola scrivania, una valigia al fianco. Stava molto eretto, la testa alta e le spalle dritte, le mani rilassate in grembo, le ginocchia unite. Quello che turbava Dom era la sua espressione, poco distante dall'inanimata fissità di un cadavere. L'uomo era vivo, questo era evidente dalla sua rigida posizione, tuttavia i suoi occhi erano paurosamente vacui. La seconda fotografia aveva colpito Dom molto più della prima, e il potente effetto che aveva su di lui non diminuiva con la familiarità. Il soggetto era una giovane donna, e questa non gli era estranea. Benché Dom non riuscisse a ricordare dove l'aveva incontrata, sapeva che si erano conosciuti. La sua vista gli dava un batticuore simile a quello di quando si svegliava da uno dei suoi episodi di sonnambulismo. Aveva al massimo trent'armi. Occhi azzurri. Capelli biondo argenteo. Viso squisitamente proporzionato. Sarebbe stata eccezionalmente bella se la sua espressione non fosse stata precisamente come quella del prete: inerte, vuota, senza vita. Era stata fotografata dalla vita in su, distesa in un letto, le coperte castamente tirate fino al mento. Era trattenuta da cinghie. Aveva un braccio parzialmente scoperto, e nelle vene del polso era infilato un ago per fleboclisi. Appariva piccola, impotente, oppressa. La fotografia gli richiamava alla mente il suo incubo in cui uomini che non vedeva gridavano cose che non capiva, spingendogli la faccia in un lavandino. Un paio di volte, quel brutto sogno non era iniziato con la scena del lavandino, ma in un letto in cui giaceva con la vista offuscata da una
nebbia color zafferano. Guardando la giovane donna, Dom ebbe la certezza che da qualche parte c'era un'istantanea che lo ritraeva in simili circostanze: legato a un letto, un ago di endovenosa in un braccio, la faccia senza espressione. Il venerdì, quando gli erano arrivate per posta, aveva mostrato le fotografie a Parker Faine, e lui era saltato alle sue stesse conclusioni. "Che io possa arrostire all'inferno se mi sbaglio, ma sono pronto a giurare che questa è la fotografia di una donna che sta subendo un lavaggio del cervello, come evidentemente lo hai subito tu. Cristo, questa storia si fa ogni giorno più strana e affascinante! Dovresti rivolgerti alla polizia; ma chi può dire da che parte starebbe? Quelli a cui in qualche modo hai dato fastidio potevano benissimo dipendere dal nostro stesso governo. Comunque, non sei stato l'unico a finire nei guai, amico mio. Ci sono capitati in mezzo anche questo prete e questa donna. Chiunque si sia dato tanta pena sta nascondendo qualcosa di maledettamente grosso, molto più grosso di quanto io abbia pensato finora." Adesso, seduto al tavolo vicino alla finestra della sua stanza d'albergo, tenendo le fotografie in mano, una accanto all'altra, Dom spostava lo sguardo dal prete alla donna. "Chi siete?" disse a voce alta. "Come vi chiamate? Che cosa ci è successo?" Fuori, i fulmini crepitavano come frustate nella notte che ammantava Portland, come se un cocchiere cosmico stesse incitando la pioggia a cadere più forte. Grosse, pesanti gocce martellavano il muro dell'albergo e la finestra, con un rumore che ricordava quello degli zoccoli di mille cavalli al galoppo. Più tardi, Dom si assicurò al letto in un modo decisamente migliore di quello che aveva escogitato a Natale. Prima si fasciò il polso destro con della garza per evitare abrasioni, poi si legò con una corda di nylon sottile ma resistentissima, fatta espressamente per l'alpinismo. L'aveva adottata perché, la notte del 28 dicembre, era riuscito, nel sonno, a recidere la corda normale con i denti; ma con questa gli sarebbe stato quasi altrettanto arduo che con un cavo di rame. Quella notte a Portland si svegliò tre volte mentre si dibatteva furiosamente contro la corda, sudato, ansante, l'acceleratore del suo cuore premuto a tavoletta sotto il peso della paura. "La luna! La luna!" 3
Las Vegas, Nevada Il giorno dopo Natale, Jorja Monatella portò Marcie dal dottor Besancourt, e la visita si rivelò un'impresa che frustrò il medico, spaventò Jorja, e imbarazzò entrambi. Dal momento in cui era entrata nella sala d'attesa, la bambina non fece che piangere e strillare. "Non voglio alcun dottore! Ho paura!" Nelle rare occasioni in cui Marcie si comportava male (ed erano veramente rare) una sculacciata era di solito sufficiente a renderla docile e contrita. Ma stavolta, quando Jorja tentò con questo sistema, ottenne l'effetto opposto: Marcie si ribellò più violentemente, strillò più forte e pianse più copiosamente di prima. Fu necessaria l'assistenza di una comprensiva infermiera per condurre Marcie nello studio. L'affabilità e il tatto del dottor Besancourt non bastarono ad acquietare la bambina, che, come lo vide, prese a strepitare e a dibattersi, e quando lui fece per toccarla prese a tirare pugni e calci, tanto che Jorja e l'infermiera furono costrette a tenerla ferma. Quando il dottore usò un oftalmoscopio per esaminarle gli occhi, il suo terrore salì in un crescendo che culminò con l'improvviso svuotamento della vescica, come era accaduto il giorno di Natale. L'incontrollata emissione di urina segnò un repentino cambiamento nel suo comportamento. Adesso era imbronciata, silenziosa, spaventosamente pallida, e tremava incessantemente. Di nuovo aveva quello strano distacco che temeva fosse autismo. Louis Besancourt non fu in grado di fornire una diagnosi immediata. Parlò di disordini neurologici e cerebrali e di disturbi psicologici. Propose che Marcie fosse ricoverata per qualche giorno al Sunrise Hospital, dove le avrebbero fatto gli esami del caso. La scenata nello studio di Besancourt era stata solo un preludio alla serie di crisi di nervi che Marcie ebbe all'ospedale. La semplice vista di medici e infermiere la catapultava nel panico, e invariabilmente il panico diventava vera e propria isteria, che si acuiva finché la bambina, esausta, cadeva in quello stato semicatatonico da cui le ci volevano ore per riprendersi. Jorja prese una settimana di permesso dal casinò e praticamente visse al Sunrise per quattro giorni, dormendo su una brandina nella stanza di Marcie. Non riuscì a riposare molto. Anche nel sonno profondo indotto dai tranquillanti, Marcie si agitava, si lamentava e gridava: "La luna, la luna..."
Domenica 29 dicembre, Jorja era tanto stravolta che aveva quasi bisogno di assistenza medica lei stessa. Poi, lunedì mattina, l'irrazionale terrore di Marcie svanì. Certo non era contenta di stare in ospedale, e chiedeva con veemenza di andare a casa. Ma non sembrava più sentire che le pareti le si stessero chiudendo addosso, schiacciandola. Era ancora a disagio in presenza di dottori e infermiere, ma non dava più in escandescenze quando le si avvicinavano. Era sempre pallida, nervosa e guardinga. Ma, per la prima volta da giorni, il suo appetito era normale e mangiò tutto quel che c'era sul vassoio della colazione. Più tardi, mentre Marcie stava pranzando a letto, il dottor Besancourt parlò con Jorja nel corridoio. Era un uomo con la faccia da segugio, il naso bulboso e occhi umidi, gentili. "Non abbiamo trovato niente, Jorja. Tutti gli esami sono negativi. Niente tumori al cervello, né lesioni cerebrali, né disfunzioni neurologiche." Jorja quasi scoppiò in lacrime. "Grazie a Dio." "Intendo affidare Marcie a un altro medico," disse Besancourt. "Ted Coverly. È un ottimo psicologo infantile. Sono sicuro che lui riuscirà a risalire alla causa di tutto. La cosa strana è che ho la sensazione che, senza rendercene conto, forse abbiamo già curato Marcie." Jorja sbattè le palpebre. "Curato? Cosa intende dire?" "In retrospettiva, mi sembra che il comportamento di Marcie avesse tutte le caratteristiche di una fobia. Paura irrazionale, crisi di panico: sospetto che avesse cominciato a sviluppare una seria avversione fobica verso tutto quel che concerne la medicina. Ed esiste un trattamento chiamato immersione in cui il paziente fobico viene di proposito, perfino spietatamente, esposto alla cosa di cui ha paura per tanto tempo - ore e ore finché la forza della fobia si infrange. Può essere che sia proprio quello che abbiamo inavvertitamente fatto con Marcie costringendola in ospedale." "Perché avrebbe sviluppato una simile fobia?" domandò Jorja. "Da dove sarebbe venuta fuori? Marcie non ha mai avuto brutte esperienze con dottori e ospedali. Non è mai stata seriamente malata." Besancourt si strinse nelle spalle, si spostò per lasciar passare delle infermiere che spingevano un paziente su una lettiga. "Non sappiamo quale sia la causa scatenante delle fobie. Non occorre avere avuto un incidente aereo per aver paura di volare. Le fobie, semplicemente, saltano fuori. Anche se abbiamo accidentalmente curato Marcie, ci sarà un'apprensione residua che Ted Coverly potrà identificare. Lui sradicherà ogni restante traccia di ansia fobica. Non deve preoccuparsi, Jorja."
Nel pomeriggio Marcie fu dimessa dall'ospedale. In macchina, tornando a casa, la bambina indicava gioiosamente forme di animali tra le nuvole, e sembrava quasi quella di una volta. Appena entrata in casa corse nel soggiorno e andò immediatamente a sedersi in mezzo al mucchio di giocattoli che era rimasto lì da Natale. Giocava ancora con la valigetta del Piccolo Medico, ma non solo con quella, né con quell'inquietante fervore che aveva esibito il giorno di Natale. I genitori di Jorja si precipitarono a casa sua. Jorja li aveva tenuti lontani dall'ospedale, sostenendo che avrebbero potuto disturbare la delicata condizione della bambina. Durante la cena Marcie fu di splendido umore, dolce e divertente, lasciando disorientati i nonni. Per le tre notti seguenti Marcie dormì nel letto di Jorja, nel caso le venisse un attacco d'ansia; eventualità che, comunque, non si presentò. Gli incubi erano meno frequenti e intensi di prima, e Jorja fu svegliata dalla bambina che parlava nel sonno due sole volte in tre notti: "La luna, la luna, la luna!" Adesso era una sommessa, quasi sconsolata invocazione, piuttosto che un grido. Il mattino dopo, a colazione, Jorja chiese alla figlia del sogno, ma la bambina non lo ricordava. "La luna?" disse, guardando pensierosamente nella sua tazza di latte. "Non ho sognato la luna. Ho sognato cavalli. Posso avere un cavallo, un giorno?" "Forse, quando non abiteremo più in un appartamento." Marcie ridacchiò. "Questo lo so anch'io! Non si può tenere un cavallo in un appartamento. I vicini si lamenterebbero." Giovedì, Marcie vide per la prima volta il dottor Coverly. Lui sembrò piacerle. Se aveva ancora un'anormale paura dei dottori, la nascose bene. Quella notte Marcie dormì nel proprio letto, con la sola compagnia di un orsacchiotto chiamato Murphy. Jorja si alzò tre volte tra la mezzanotte e l'alba per dare un'occhiata alla figlia, e una volta la sentì sussurrare l'ormai familiare cantilena - "Luna, luna, luna" - in un tono di paura mista a piacere che le fece accapponare la pelle dietro la nuca. Venerdì, Jorja affidò Marcie, che era in vacanza da scuola ancora per tre giorni, alle cure di Kara Persighian e tornò al fumo e al rumore del casinò. Le sigarette, la birra stantia e le occasionali zaffate di alito pesante le sembrarono infinitamente più gradevoli dell'odore di antisettico dell'ospedale. Quando, finito il turno, andò a riprendere Marcie a casa di Kara, la bambina le mostrò con viva eccitazione il risultato di una giornata trascorsa a
disegnare: decine di immagini della luna in ogni immaginabile colore. La mattina di domenica 5 gennaio, quando Jorja si alzò e andò a farsi il caffè, trovò Marcie al tavolo della sala da pranzo, occupata in una curiosa attività. La bambina, ancora in pigiama, stava tirando fuori tutte le fotografie dal loro album, raccogliendole in ordinate pile. "Sto mettendo le foto in una scatola da scarpe perché ho bisogno dell'ablum," spiegò, inciampando nella diffìcile parola. "Mi serve per la mia collezione di lune," aggiunse, mostrando alla madre una figura della luna ritagliata da una rivista. "Sarà una collezione enorme." "Perché? Tesoro, perché ti interessa tanto la luna?" "È bella," disse Marcie. Sistemò la figura in una pagina vuota dell'album e la guardò. Nella fissità del suo sguardo, nell'intensità della sua fascinazione, c'era un'eco dell'ossessiva frenesia con cui aveva giocato al Piccolo Medico. Con un tremito di apprensione, Jorja pensò: È così che è iniziata la dannata fobia dei dottori. In sordina. Innocentemente. Che abbia semplicemente scambiato una fobia con un'altra? Provò l'impulso di correre al telefono e rintracciare in qualche maniera il dottor Coverly, anche se era domenica. Ma mentre stava accanto al tavolo, studiando la figlia, decise che la sua reazione era eccessiva. Marcie certamente non aveva scambiato una fobia con un'altra. Dopo tutto, la bambina non aveva paura della luna; ne era solo... be', stranamente affascinata. Un entusiasmo passeggero. Ogni genitore di un bambino di sette anni, abbastanza sveglio, era abituato a queste brevi ma accese infatuazioni. In ogni modo, Jorja decise di parlarne al dottor Coverly il martedì, quando avrebbe portato Marcie da lui per la seconda seduta. Alle dodici e venti di lunedì, prima di coricarsi, Jorja si affacciò alla camera di Marcie per vedere se stava dormendo tranquilla. La bambina non era a letto. Aveva tirato una sedia vicino alla finestra e stava seduta lì al buio, guardando fuori. "Tesoro? Cosa c'è che non va?" "Niente. Vieni a vedere," disse piano Marcie, sognante. "Cosa c'è da vedere, piccola?" domandò Jorja, andando verso di lei. "La luna." La bambina aveva lo sguardo fisso sull'argentea falce alta nella nera volta del cielo. "La luna."
4 Boston, Massachusetts Lunedì 6 gennaio un vento gelido proveniente dall'Atlantico imperversava senza tregua su tutta Boston. Per le strade spazzate dalle raffiche, persone imbacuccate camminavano in fretta, con la testa incassata fra le spalle. Nella grigia, dura luce invernale, i moderni palazzi di vetro degli uffici sembravano fatti di ghiaccio, mentre i più vecchi edifici della Boston storica, addossati l'uno contro l'altro come a proteggersi dal freddo, presentavano una triste e misera facciata, ben lontana dal fascino e dall'eleganza che esibivano con il bel tempo. Durante la notte era caduto un fitto nevischio. Gli alberi scheletriti erano rivestiti di ghiaccio scintillante, e i rami neri e spogli spuntavano dalla crosta bianca. Herbert, l'efficiente maggiordomo degli Hannaby, accompagnò Ginger Weiss al suo settimo incontro con Pablo Jackson. Il vento e la tempesta della notte prima avevano fatto cadere cavi elettrici e messo fuori servizio i semafori a più di metà degli incroci. Comunque, arrivarono in Newbury Street con soli cinque minuti di ritardo per l'appuntamento di Ginger, che era fissato per le undici. Dopo la breccia che si era aperta durante la seduta di sabato, Ginger avrebbe voluto contattare i proprietari del Tranquility Motel e affrontare con loro il discorso di quanto era avvenuto la notte del 6 luglio di due anni prima. O erano complici di chi aveva manomesso la memoria di Ginger, o erano vittime loro stessi. Se, come lei, avevano subito un lavaggio del cervello, forse anche loro soffrivano di attacchi d'ansia di un qualche genere. Pablo, però, si era fermamente opposto a un immediato confronto. Riteneva che i rischi fossero troppo alti. Se i proprietari del motel non erano vittime ma compiici, Ginger avrebbe potuto trovarsi in grave pericolo. "Devi essere paziente. Prima di avvicinarli, devi avere tutte le informazioni che ti è possibile ottenere." Allora Ginger aveva suggerito di andare alla polizia, ma Pablo l'aveva dissuasa anche da questo. Non avevano alcuna prova che lei fosse stata vittima di una violenza mentale. Inoltre, la polizia locale non avrebbe potuto occuparsi di un crimine perpetrato oltre i confini dello stato. Ginger si sarebbe dovuta rivolgere alle autorità federali o alla polizia del Nevada, e in entrambi i casi avrebbe potuto ritrovarsi a chiedere aiuto proprio ai responsabili di quel che le era stato fatto.
Frustrata, ma incapace di trovare una falla negli argomenti di Pablo, Ginger aveva acconsentito ad attenersi al suo programma di trattamento. Lui si era tenuto la domenica libera per riascoltare con calma la registrazione della cruciale seduta di sabato, e aveva detto che lunedì mattina non sarebbe stato disponibile perché intendeva far visita a un amico in ospedale. "Ma puoi venire dopo pranzo, diciamo verso l'una, così cominceremo a scheggiare i bordi di quel blocco di memoria en pantoufles, con comodo." Quella mattina le aveva telefonato dall'ospedale per dirle che il suo amico era stato dimesso prima del previsto, così sarebbe stato a casa per le undici. "Potresti darmi una mano a preparare il pranzo." Ora, uscendo dall'ascensore e percorrendo il breve corridoio che portava all'appartamento di Pablo, Ginger decise che si sarebbe sforzata di controllare la propria innata impazienza, rassegnandosi a fare progressi en pantoufles, come aveva stabilito il mago. La porta d'ingresso era solo accostata. Presumendo che avesse lasciato aperto per lei, Ginger entrò nell'atrio. "Pablo?" disse, chiudendo la porta. In un'altra stanza, qualcuno borbottò. Si sentirono dei rumori attutiti, un tonfo sul pavimento. "Pablo?" Lui non rispose. Entrando nel soggiorno, Ginger chiamò più forte. "Pablo?" Silenzio. Una delle doppie porte della biblioteca era aperta, e si vedeva una luce accesa. Ginger entrò, e vide Pablo riverso a faccia in giù sul pavimento vicino alla scrivania. Doveva essere appena rincasato, perché indossava ancora soprabito e galosce. Mentre correva a inginocchiarsi al suo fianco, le vennero in mente varie macabre possibilità - emorragia cerebrale, trombosi, un'embolia o un attacco cardiaco - ma non si sarebbe mai aspettata quello che vide girandolo sulla schiena. Gli avevano sparato in pieno petto, e sangue arterioso scarlatto sgorgava dalla ferita. Gli occhi di Pablo si aprirono, e benché apparissero velati, lui sembrò riconoscerla. Sangue gorgogliante traboccò oltre il suo labbro inferiore. Una singola parola gli uscì in un pressante mormorio: "Scappa." L'istintiva reazione di Ginger vedendolo prono a terra era stata quella di un'amica e di un medico: angosciata, era corsa immediatamente in suo aiuto. Ma finché Pablo disse: "Scappa," non si era resa conto che forse lei stessa stava rischiando la vita. Di colpo pensò che non aveva sentito alcuno sparo, il che significava una pistola munita di silenziatore. L'aggressore
non era un comune ladro. Qualcuno infinitamente più pericoloso. Tutte queste considerazioni balenarono nella sua mente in un istante. Col cuore che le batteva forte, si alzò e si girò verso la porta. L'uomo alto, spalle larghe, soprabito di pelle stretto in vita dalla cintura - sbucò da dietro la porta, la pistola col silenziatore in mano. Era grosso, e di aspetto sorprendentemente meno minaccioso di quanto lei si sarebbe aspettata. Aveva più o meno la sua età, gli occhi azzurri e innocenti, la faccia ben rasata, inadatta a incutere paura. Quando parlò, 1'incongruenza fra il suo aspetto pacifico e le sue azioni omicide fu ancora più spiccata, perché le sue prime parole furono di trepido rincrescimento. "Non doveva succedere. Bontà divina, non sarebbe dovuto succedere. Io stavo solo duplicando quei nastri con un registratore ad alta velocità. Era tutto quello che volevo: copie dei nastri." Stava indicando la scrivania, e solo allora Ginger notò una ventiquattrore aperta con dentro un'apparecchiatura elettronica. Alcune cassette erano sparse sul piano della scrivania, e lei capì immediatamente di cosa si trattava. "Chiamiamo un'ambulanza," disse. Fece per andare al telefono, ma lui la fermò facendo un secco, iroso cenno con la pistola. "Duplicazione rapida." L'uomo sembrava in bilico tra la collera e le lacrime. "Avrei potuto fare una copia di tutte e sei le vostre sedute e andarmene da qui. Lui non doveva essere a casa per un'altra fottuta ora almeno!" Ginger afferrò un cuscino e lo mise sotto la testa di Pablo perché il sangue e il muco non lo soffocassero. "E entrato così silenziosamente, come un dannato fantasma," aggiunse l'assassino, visibilmente turbato da quel che era successo. Ginger ricordò con quanta grazia ed eleganza si muovesse il vecchio mago, come se ogni gesto fosse preludio a un gioco di prestigio. Pablo tossì, chiuse gli occhi. Ginger avrebbe voluto fare di più per lui, ma l'unico rimedio possibile era operarlo immediatamente, alla disperata. Al momento, poteva solo tenergli una mano sulla spalla in un debole tentativo di rassicurarlo. Rivolse uno sguardo supplichevole all'uomo armato, ma lui lo ignorò. "E che diavolo ci faceva con una pistola? Un fottuto ottantenne con una pistola in pugno, come se fosse capace di usarla!" Fino a quel momento, Ginger non aveva notato la pistola sul tappeto, poco distante dalla mano di Pablo. Quando la vide, una lancinante fitta di orrore la attraversò, e quasi perse i sensi, perché in quell'istante capì che
Pablo sapeva che aiutarla era pericoloso. Lei non aveva immaginato che il semplice tentativo di sondare il blocco di memoria avrebbe ben presto attirato le indesiderate attenzioni di uomini come questo col soprabito di pelle. Perché questo significava che la controllavano. Forse non continuamente, ma la tenevano d'occhio. Nel momento in cui era andata per la prima volta da Pablo, aveva inconsapevolmente messo in pericolo la sua vita. E in qualche modo lui lo aveva capito, altrimenti non sarebbe andato in giro armato. Ora, Ginger sentì su di sé il peso della colpa. "Se non avesse tirato fuori quella stupida calibro 22," continuò mestamente l'assassino, "e se non avesse insistito a voler chiamare la polizia, me ne sarei andato senza torcergli un capello. Non volevo fargli del male. Merda." "Per amor di Dio," disse Ginger, implorante, "lasciami chiamare un'ambulanza. Se non volevi fargli del male, soccorriamolo!" L'uomo scosse la testa, e il suo sguardo andò al corpo inerte del mago. "Troppo tardi, comunque. È morto." Quelle ultime due parole, come un violento pugno al petto, le tolsero il fiato e tirarono il velo dell'incoscienza ai margini della sua visione. Uno sguardo agli occhi vitrei del vecchio confermò che era vero, tuttavia Ginger non si rassegnò all'evidenza. Sollevò la mano sinistra di Pablo e tastò il polso sottile, cercando inutilmente il battito cardiaco. Passò i polpastrelli sul collo, lungo la carotide, ma nonostante il calore della carne, dove una volta aveva pulsato la vita c'era solo una terribile immobilità. "No," gemette. "Oh, no." Toccò la fronte scura di Pablo, non con l'intento diagnostico di un medico, ma teneramente, amorevolmente. Il suo cuore era così dolorosamente stretto dalla pena che era difficile credere che conoscesse il mago da appena due settimane. Come suo padre, lei faceva in fretta ad affezionarsi, e con Pablo le era stato ancora più facile del solito. "Mi dispiace," disse l'assassino, scosso. "Mi dispiace davvero. Se non avesse cercato di fermarmi, me ne sarei andato senza fargli niente. Adesso, ho ucciso qualcuno. E tu... mi hai visto in faccia." Ricacciando indietro le lacrime, di colpo conscia che non poteva permettersi di abbandonarsi al dolore in quel momento, Ginger si alzò lentamente in piedi, mettendoglisi di fronte. "Bisogna che sistemi anche te, adesso," borbottò lui, come pensando ad alta voce. "Dovrò mettere sottosopra l'appartamento, svuotare i cassetti, prendere alcuni oggetti di valore, così tutti penseranno che siete incappati in un ladro." Si mordicchiò il labbro inferiore, preoccupato. "Sì, funzione-
rà. Invece di duplicare i nastri, li prenderò addirittura, così non saranno qui a destare sospetti." Guardò Ginger e fece una smorfia. "Mi dispiace. Gesù, mi dispiace sul serio. La colpa è un po' anche mia. Non avrei dovuto lasciarmi cogliere di sorpresa dal vecchio bastardo. Adesso devo per forza eliminarti. Vorrei non doverlo fare, ma è così." Si mosse verso di lei. "Forse dovrei violentarti, prima? Voglio dire, un ladro si limiterebbe a sparare a una bella ragazza come te? Sì, credo proprio che dovrò farlo. Renderebbe tutto più realistico." Le si avvicinò ancora, e lei cominciò a indietreggiare. "Dio, non so se ci riuscirò. Voglio dire, come posso avere un'erezione, quando so che dopo dovrò ucciderti?" Continuò ad andare verso di lei, e lei arretrò fino a trovarsi con le spalle contro la libreria. "Credimi, mi ripugna doverlo fare. Non doveva andare così." Il suo apparentemente genuino rammarico faceva venire i brividi a Ginger. Sarebbe stato meno spaventoso se si fosse mostrato spietato e sanguinario. Il fatto che avesse degli scrupoli, ma potesse accantonarli abbastanza a lungo per commettere uno stupro e due omicidi, lo rendeva peggio di un mostro. L'uomo si fermò a pochi passi da lei. "Per favore, togliti il cappotto." Era inutile supplicare, e Ginger lo sapeva, ma sperava di renderlo eccessivamente sicuro. "Non darò la tua descrizione, te lo giuro. Ti prego, lasciami andare." "Vorrei poterlo fare." La faccia dell'uomo espresse il più vivo rincrescimento. "Togliti il cappotto." Prendendo tempo mentre decideva come fosse meglio agire, Ginger si sbottonò lentamente il cappotto, accentuando il genuino tremore delle sue mani, poi se lo sfilò e lo lasciò cadere a terra. Lui si fece più vicino. Era più rilassato, e teneva la pistola meno rigidamente di prima, puntandola contro in modo meno aggressivo, ma non dava alcun segno di distrazione. "Non farmi del male," piagnucolò Ginger. Se lui avesse creduto che era praticamente paralizzata dalla paura più nera, forse avrebbe commesso un errore, dandole un'opportunità di scappare. "Io non voglio farti del male," disse lui, come profondamente offeso dal sottinteso che lui avesse scelta in proposito. "Non volevo fare del male neanche al vecchio. Quell'imbecille. È stata sua la colpa di tutto questo, non mia. Ascolta, ti farò meno male che posso. Te lo prometto." Tenendo ancora la pistola con la mano destra, usò la sinistra per toccarle il seno attraverso il maglione. Lei sopportò il palpeggiamento, perché ecci-
tandosi lui avrebbe potuto farsi più disattento. Nonostante la sua asserzione che la circostanza lo avrebbe reso impotente, Ginger era sicura che non avrebbe avuto alcuna difficoltà a violentarla. Sotto il rammarico e la compassione, sotto la sensibilità che voleva dare a vedere più per se stesso che per lei, stava traendo un inconscio piacere selvaggio da quello che aveva fatto e stava per fare. A dispetto della voce gentile, ogni sua parola parlava di violenza; tutto il suo essere trasudava violenza. "Molto carina," commentò l'uomo. "Piccola ma ben fatta." Le infilò una mano sotto il maglione, afferrò il reggiseno e diede uno strattone. Mentre l'elastico si spezzava, le spalline affondarono dolorosamente nelle spalle; il fermaglio metallico dietro la schiena le graffiò la pelle. Lui fece una smorfia, come sentendo per empatia il dolore di Ginger. "Ti ho fatto male? Mi spiace. Non volevo. Farò più attenzione." Scostò il reggiseno rotto e mise la mano fredda e sudaticcia sul seno nudo. Colma in uguale misura di terrore e repulsione, Ginger si addossò ancora di più alla libreria, premendo la schiena contro gli scaffali. Adesso l'uomo era a meno di un braccio da lei, ma teneva la pistola tra loro, con la canna contro l'addome nudo di Ginger. Se avesse tentato di sfuggirgli, l'unica ricompensa per la sua temerarietà sarebbe stata una pallottola nelle viscere. Mentre la palpeggiava, continuò a parlare piano, esprimendo grande tristezza per la necessità di violentarla e ucciderla, come se lei dovesse capire, come se da parte sua fosse stato impensabilmente crudele non assolverlo dal peccato di toglierle la vita. Senza una possibilità di scappare, con le sue monotone giustificazioni che la investivano in raggelanti ondate di parole, con la sua mano che la tastava, Ginger fu presa da una claustrofobia così intensa che sentì l'impulso di affondargli le unghie nelle dita e costringerlo a premere il grilletto, giusto per farla finita. Pianse senza lacrime, implorò senza parole, girò la testa da una parte all'altra come per negare la realtà di quello che stava accadendo. L'immagine di terrore che offriva non avrebbe potuto essere più convincente se avesse passato giorni a provare la scena, ma sfortunatamente in essa c'era ben poco calcolo. Ulteriormente infiammato dallo sconforto di lei, lui la palpò più rudemente. "Penso di potercela fare, piccola. Sentimi, bella. Senti qui." Le si fece addosso, premendo il bacino contro il suo. Incredibilmente sembrava pensare che, malgrado la tragica circostanza, la sua esuberante tumescenza fosse un tributo al sex appeal della donna e che in qualche modo lei avrebbe dovuto sentirsi lusingata.
La reazione di Ginger l'avrebbe deluso. Mentre si strofinava contro di lei, fu obbligato a smettere di spingerle la pistola nel ventre. Trascinato dalla propria eccitazione, convinto che lei fosse debole e impotente, non tenne nemmeno l'arma puntata su di lei, ma di lato, con la canna rivolta al pavimento. Il terrore di Ginger, per quanto grande, non era superiore alla ripugnanza e alla rabbia, e come lui scostò la pistola lei tradusse queste emozioni represse in azioni. Girando la testa di lato, si lasciò andare contro di lui, come fosse sul punto di svenire per la paura, o in un impeto di riluttante passione, così che la sua bocca venne a trovarsi contro la gola dell'uomo. In rapida successione, lo morse forte al pomo d'Adamo, gli sferrò una ginocchiata all'inguine, e gli affondò le unghie nella mano armata per impedirgli di puntarle contro l'arma. Lui bloccò parzialmente la ginocchiata, limitando il danno ai genitali, ma era impreparato per il morso. Sgomento, inorridito, e malfermo per il devastante dolore alla gola, si staccò da lei e barcollò all'indietro di un paio di passi. Lei aveva morso profondamente, e ora il sapore del sangue le diede il voltastomaco, ma non permise che questo ritardasse il suo contrattacco. Afferrò la mano armata, se la portò alla bocca e gli morse il polso. Lui gridò per il dolore e la sorpresa. Non si sarebbe mai aspettato niente di simile da quella giovane donna dall'aria così delicata. Quando lei lo morse di nuovo, lasciò andare la pistola, ma simultaneamente serrò l'altra mano e la colpì nella schiena con un pugno tremendo. Lei crollò in ginocchio, e per un momento pensò che le avesse rotto la spina dorsale. Un dolore vivo e scintillante come corrente elettrica le guizzò attraverso la schiena e il collo, esplodendole nel cranio. Stordita, gli occhi momentaneamente annebbiati, Ginger non lo vide chinarsi per raccogliere la pistola e proprio mentre lui stava toccando il calcio, si gettò disperatamente contro le sue gambe. Vedendola arrivare, l'uomo scattò in piedi come una molla, sperando di fare in tempo a schivarla. Quando lei lo colpì una frazione di secondo dopo, mulinò le braccia in un breve tentativo di tenersi in equilibrio, poi cadde all'indietro, sbattè su una poltrona, rovesciò un tavolino e una lampada, e rotolò sul cadavere di Pablo Jackson. Ugualmente senza fiato, Ginger e l'uomo rimasero per un momento pietrificati, fissandosi guardinghi. Erano tutt'e due a terra, sul fianco, rannicchiati in posizione fetale in reazione ai rispettivi dolori, ansimanti. Ginger vide che gli occhi dell'uomo erano dilatati, e intuì che aveva pau-
ra di morire. Il morso non lo avrebbe ucciso. I denti non avevano toccato la carotide o la vena giugulare, ma solo trapassato la cartilagine della tiroide, tagliando qualche piccolo vaso. Comunque, era comprensibile che lui la credesse una ferita mortale: il dolore doveva essere atroce. L'assassino pensava di stare per morire, e questo poteva renderlo o meno, o più pericoloso. Simultaneamente, videro che durante la loro zuffa la pistola era andata a finire in mezzo alla stanza. Era più vicina a lui che a Ginger. Sanguinando dalla gola e dal polso, emettendo uno strano sibilo gorgogliante, l'uomo andò carponi verso l'arma, e Ginger non ebbe altra scelta che alzarsi e scappare. Fuggì dalla biblioteca nel soggiorno, arrancando più che correndo: era impacciata dal dolore alla schiena, che le pulsava dentro a ondate meno violente, ma ancora debilitanti. Intendeva lasciare l'appartamento dalla porta d'ingresso, ma poi realizzò che non c'era possibilità di fuga in quella direzione, perché le sole vie d'uscita dal corridoio comune erano l'ascensore e le scale. Non poteva aspettare l'ascensore, e per le scale avrebbe potuto essere facilmente intrappolata. Invece, curva per il male alla schiena, trotterellò come un animaletto attraverso il salotto, per un lungo corridoio, fino in cucina, dove la porta a vento si chiuse silenziosamente dietro di lei. Andò direttamente alla rastrelliera degli utensili e prese un coltello da macellaio. L'uomo non irruppe immediatamente nella cucina, come lei si era aspettata. Dopo qualche secondo realizzò che era stata una fortuna per lei, perché il coltello non era di alcuna utilità contro una pistola a una distanza di cinque metri. Imprecando tra sé per aver quasi commesso un errore fatale, tornò rapida e silenziosa alla porta e vi si appostò di fianco. La schiena le faceva ancora male, ma il peggio era passato. Ora riusciva a stare dritta, e si appiattì contro il muro. Il cuore le batteva forte, tanto che la parete sembrava risuonare sotto i suoi colpi come un tamburo, amplificandoli finché il cupo rimbombo di atrio e ventricolo parve echeggiare nell'intero appartamento. Teneva il coltello basso, pronta a sollevarlo e calarlo sull'uomo in un arco mortale. Tuttavia, la riuscita del suo piano dipendeva dall'eventualità che l'assassino si avventasse in cucina senza alcuna precauzione, reso folle dalla convinzione di morire per la ferita alla gola, accecato dal desiderio di vendetta. Se invece fosse entrato lentamente, con cautela, schiudendo poco per volta la porta con la canna della pistola, Ginger sarebbe stata nei guai,
e a ogni secondo che passava era meno probabile che le cose si svolgessero come lei sperava. A meno che la ferita alla gola fosse più grave di quanto le fosse sembrato. In tal caso, lui avrebbe potuto essere ancora nella biblioteca, a morire dissanguato sul tappeto orientale. Ginger pregò che fosse quello che gli era accaduto. Ma sapeva che non era così. Lui era vivo. E stava arrivando. Si schiacciò di più contro la parete, come cercando di scomparirvi dentro. La porta, vicinissima alla sua faccia, teneva inchiodata la sua attenzione, come un cobra che ipnotizzasse un topolino. Era tesa, pronta a reagire al primo accenno di un movimento, ma la porta rimase immobile, esasperatamente immobile. Dove diavolo era finito? Passarono cinque secondi. Dieci. Venti. Cosa stava facendo? Il sapore di sangue in bocca divenne ancora più acre invece di affievolirsi, e la nausea frugava dentro di lei con le sue viscide dita. Adesso che aveva il tempo di pensarci, si rese acutamente conto della bestialità di quel che aveva fatto, e fu scossa dal proprio potenziale di ferocia. Ebbe anche il tempo di pensare a quello che intendeva fare. Le si formò nella mente l'immagine della larga lama del coltello che penetrava nel corpo dell'uomo, e ne fu inorridita. Lei non era un'assassina. Era un medico, non solo per educazione, ma per vocazione. Si sforzò di allontanare la consapevolezza di essere in procinto di accoltellare un uomo. Era pericoloso stare a pensarci troppo. Ma lui dov'era? Non poteva più aspettare, gemendo che l'inazione stesse smorzando l'istinto animale e la selvaggia ferocia di cui aveva bisogno se voleva sopravvivere, con la spiacevole certezza che ogni secondo che passava le desse un maggiore vantaggio, si accostò alla porta e vi posò sopra una mano. Ma mentre stava per schiuderla e sbirciare nel corridoio, fu raggelata dall'improvvisa sensazione che lui fosse lì, dall'altra parte, aspettando che lei facesse la prima mossa. Ginger esitò, trattenne il fiato, ascoltò. Silenzio. Appoggiò l'orecchio alla porta. Ancora niente. Il manico del coltello era diventato scivoloso nella sua mano sudata. Alla fine si fece coraggio e aprì la porta di un filo verso l'interno. Non ri-
suonò alcuno sparo, così accostò un occhio alla fessura. L'assassino non era proprio di fronte a lei, come aveva temuto, ma in fondo al corridoio, nell'anticamera. Stava giusto rientrando nell'appartamento, la pistola in pugno. Evidentemente l'aveva cercata all'ascensore e sulle scale. Non trovandola, era tornato indietro. Ora, da come chiuse la porta, facendo scattare la serratura e agganciando la catenella, fu chiaro che aveva concluso che lei era ancora dentro. Si teneva la gola ferita con la mano libera. Anche a distanza, Ginger poteva sentire il suo respiro affannoso. Comunque, si era visibilmente calmato. Essendo sopravvissuto per tutto questo tempo, stava riprendendo rapidamente sicurezza. Aveva cominciato a realizzare che non sarebbe morto. Guardò a sinistra verso il soggiorno e a destra verso la camera da letto, poi dritto in fondo al lungo corridoio in penombra, e il cuore di Ginger sussultò quando, per un momento, sembrò che la stesse fissando. Ma lui era troppo lontano per vedere che la porta della cucina era socchiusa. Invece di andare direttamente verso di lei, si diresse alla camera da letto. Si muoveva con una quieta determinazione che non prometteva niente di buono per Ginger. Lei lasciò andare la porta della cucina, scoraggiata. Il suo piano non reggeva più. Quello era un professionista, abituato alla violenza, e benché inizialmente fosse stato preso in contropiede dall'inaspettata ferocia del suo attacco, si stava riprendendo in fretta. Il tempo di controllare la camera da letto e gli armadi, e avrebbe recuperato la sua freddezza. Non si sarebbe certo precipitato in cucina, facendo di sé un facile bersaglio. Doveva uscire dall'appartamento. E in fretta. Non aveva alcuna speranza di arrivare alla porta d'ingresso. Lui probabilmente aveva già finito con le camere da letto e stava tornando indietro. Posò il coltello, andò in punta di piedi alla finestra, scostò le tende e guardò il pianerottolo della scala antincendio davanti a lei. Aprì silenziosamente il chiavistello e spinse in su il pannello inferiore, che sfortunatamente era tutt'altro che silenzioso. La cornice di legno, gonfiata dall'umidità invernale, si mosse con uno stridulo cigolio. Quando di colpo cedette allo sforzo e si alzò fino in cima con un sonoro tonfo e un tintinnio di vetro, Ginger seppe di aver dato l'allarme all'assassino. Lo sentiva già correre lungo il corridoio. Scavalcò la finestra e si affrettò giù per la scala antincendio. I gradini metallici erano incrostati di ghiaccio, e rischiò ripetutamente di scivolare. Non poteva avere una salda presa sul corrimano gelato senza guanti, ma fu
ancora peggio quando cercò di tenersi alle sbarre, perché la mano le rimase attaccata al ferro ghiacciato, e riuscì a staccarla solo sacrificando lo strato superiore di pelle. Era ancora a quattro gradini dal pianerottolo successivo quando sentì imprecare e, voltandosi, vide l'assassino di Pablo Jackson scavalcare la finestra. Presa dal panico, dimenticò la cautela, e il ghiaccio fece il resto. I suoi piedi slittarono sullo scalino, e cadde pesantemente sul pianerottolo. Nel maniacale ululato del vento, lo sparo attutito dal silenziatore si perse del tutto, ma Ginger vide le scintille che schizzarono dal ferro vicino al suo volto, e seppe che un proiettile l'aveva mancata di un soffio. Guardò in su in tempo per vedere l'uomo prendere di nuovo la mira, e poi scivolare e ruzzolare per le scale. Pensò che le sarebbe finito addosso, ma dopo alcuni tentativi lui riuscì ad arrestare la sua rovinosa discesa. Era riverso sulla schiena, aggrappato con una mano a un gradino, una gamba sporgente dalla ringhiera, l'altro braccio agganciato a una sbarra. Per il momento non poteva spararle. Approfittandone per riprendere la fuga, Ginger si rialzò in fretta, nonostante il dolore alla schiena che la caduta aveva riacceso, e si avviò giù per l'altra rampa più rapidamente possibile. Ma quando lanciò un'ultima occhiata all'uomo, fu bloccata dalla vista dei bottoni del suo soprabito, le sole cose colorate nel grigiore invernale. Erano lucidi bottoni di ottone, decorati con un leone passante in rilievo, il familiare simbolo araldico inglese. Non ci aveva trovato niente di strano prima; erano simili a quelli di molti giubbotti, golf, giacche. Ma ora i suoi occhi vi si inchiodarono, e ogni altra cosa svanì, come se solo i bottoni fossero reali. Nemmeno il vento gelido che imperversava mugghiando in ogni angolo riuscì a tenere la presa sulla sua coscienza. I bottoni. Solo i bottoni catturavano la sua attenzione, e la terrorizzavano molto di più dell'assassino che la inseguiva. "No," disse, negando inutilmente quel che le stava accadendo. I bottoni. "Oh, no." I bottoni. Era il momento e il posto peggiore per perdere il controllo di sé. I bottoni. Non poteva reprimere l'attacco. Per la prima volta da settimane, Ginger fu sopraffatta da uno schiacciante, irrazionale terrore. La fece sentire piccola, condannata. La precipitò in uno strano e buio paesaggio interiore attraverso il quale era costretta a correre alla cieca. Girandosi di scatto, si slanciò giù per la scala, e mentre la totale oscurità la inghiottiva fu sicura che la sua folle fuga sarebbe terminata con una gamba rotta, o una frattura alla spina dorsale; allora l'assassino avrebbe po-
tuto raggiungerla con comodo, puntarle la pistola alla testa e farle saltare le cervella. Buio. Freddo. Quando il mondo ritornò a Ginger - o lei al mondo - era rannicchiata tra foglie morte, neve e ombre in fondo a degli scalini che scendevano in una cantina sul retro di una casa, da qualche parte in Newbury Street, non avrebbe saputo dire a quale distanza dall'appartamento di Pablo. Un dolore sordo le pulsava lungo la schiena. Tutto il lato sinistro le faceva male. La mano scorticata bruciava. Ma il freddo era il peggior disagio. Il gelo passava in lei per osmosi dalla neve e dal ghiaccio su cui era seduta e dal muro di cemento contro il quale era appoggiata. Il vento rabbioso l'assaliva, sbuffando e ringhiando come una creatura viva. Non sapeva da quanto fosse lì, ma stava rischiando una polmonite. D'altra parte, poteva essere che l'assassino fosse ancora nei paraggi e la stesse cercando, così decise di aspettare qualche minuto. Era stupefatta di essere riuscita a correre giù per le scale ghiacciate e a fuggire fino a raggiungere quel nascondiglio senza rompersi il collo. Evidentemente, nella sua fuga, ridotta alla misera condizione di un animale spaventato guidato solo dall'istinto, la perdita della ragione era almeno compensata dall'agilità e dallo spirito di sopravvivenza di un ' animale. Il freddo e il vento continuarono alacremente a risucchiarle il calore dal corpo. L'angusto, grigio vano di cemento della scala le ricordava sempre più un sarcofago scoperchiato. Ginger decise che era ora di andare. Si alzò lentamente. Il piccolo cortile posteriore era deserto. Neve incrostata di ghiaccio. Qualche albero spoglio. Niente di minaccioso. Tremando, tirando su col naso, battendo le palpebre per scacciare le lacrime, salì i dieci ripidi gradini e seguì un vialetto di mattoni che collegava il retro della casa al cancello in fondo alla piccola proprietà. Intendeva tornare in Newbury Street, trovare un telefono e chiamare la polizia, ma come raggiunse il cancello se ne dimenticò di colpo. Su ciascuno dei due pilastri c'era una lanterna in ferro battuto e vetro ambrato. Erano state dimenticate accese, o attivate da un solenoide che aveva scambiato la tetra luce della mattinata invernale per il tramonto. Erano elettriche, ma avevano quelle lampadine che imitano la fiammella delle lanterne a gas: il vetro era animato da una guizzante, tremula luce ambrata. Quel pulsante bagliore giallastro le mozzò il respiro, e ancora una volta fu sca-
raventata nel panico. No! Non ancora. Ma sì, invece. Sì. La nebbia. Il niente. Andata. Un freddo terribile. Aveva le mani e i piedi intirizziti. Apparentemente era ancora in Newbury Street. Sbirciando dall'ombra del camion parcheggiato sotto il quale si era rifugiata, scorse le ruote dei veicoli allineati lungo l'altro lato della strada. Nascosta. Ogni volta che si lanciava in fuga, si nascondeva da qualcosa di indicibilmente terrificante. Certo, quel giorno aveva avuto un motivo logico per nascondersi: era inseguita da un assassino. Ma gli altri giorni? E anche adesso, non si stava nascondendo solo dall'uomo che aveva ucciso Pablo. C'era dell'altro. Qualcosa che indugiava tormentosamente sull'orlo del ricordo. Qualcosa che aveva visto in Nevada. Qualcosa. Comunque, non era il momento di pensare a questo. Non poteva restare lì sotto. Facendosi forza, Ginger strisciò fuori dal suo nascondiglio, si alzò faticosamente in piedi e si guardò attorno. Mezzo isolato più in là un poliziotto, fermo al centro di un incrocio, stava dirigendo il traffico, rimediando al guasto del semaforo. Ginger corse verso di lui. Fu sorpresa di riuscirci. Si sentiva come una creatura fatta di null'altro che dolori e brividi. Eppure, corse senza sforzo nel vento mugghiante, come in un sogno. Schivando un paio di automobili, trovò perfino la forza di chiamare il poliziotto mentre gli si avvicinava. "Venga, presto! E stato ucciso un uomo! Un assassinio!" Ma quando lui le andò incontro con un'espressione allarmata sulla larga faccia irlandese, vide i lucenti bottoni di ottone della sua pesante uniforme invernale, e tutto andò di nuovo perduto. Non erano esattamente uguali a quelli del soprabito di pelle che portava l'assassino; non erano decorati con un leone passante, ma con qualche altra figura in rilievo. Tuttavia, una sola occhiata bastò a risvegliare nella sua mente il ricordo proibito di bottoni che aveva visto allora, durante i misteriosi eventi al Tranquility Motel. Qualcosa cominciò a riaffiorarle alla memoria, e questo premette il grilletto di Azrael. L'ultima cosa che sentì, mentre perdeva il controllo di sé e fuggiva nella sua privata oscurità, fu il proprio patetico grido di disperazione. Freddo da morire.
Quel giorno, almeno per Ginger Weiss, Boston era il posto più freddo sulla faccia della terra. Penetrante, polare, tagliente, la giornata di gennaio induceva a uria glaciazione dello spirito, oltre che della carne. Quando tornò in sé, era seduta in terra, tra neve e ghiaccio. Le mani e i piedi avevano completamente perso la sensibilità. Le sue labbra erano screpolate e spaccate. Questa volta si era rifugiata nello stretto spazio tra una fila di cespugli ben curati e un edificio in mattoni, in un angolo ombroso tra la parete di una torre con finestre a bovindo e la facciata principale. L'ex Hotel Agassiz. Dove Pablo aveva l'appartamento. Dove era stato ucciso. Era quasi tornata al punto di partenza. Sentì qualcuno avvicinarsi. Tra i rami dei cespugli ammantati di neve e ornati con trine di ghiaccio, scorse qualcuno scavalcare la bassa recinzione in ferro battuto che separava il prato dal marciapiede e andare verso di lei. Non vide la sua figura intera, solo i piedi calzati negli stivali, le gambe nei calzoni blu e l'orlo di una lunga, pesante giacca blu marina, ma sapeva chi era: l'agente dal quale era fuggita. Temendo un'altra crisi alla vista dei bottoni, Ginger chiuse gli occhi. Forse un irreversibile danno psicologico era un effetto collaterale del lavaggio del cervello a cui era stata sottoposta, un inevitabile risultato del tremendo e costante stress generato dalle memorie artificialmente represse che lottavano strenuamente per tornare in superficie. Anche se avesse trovato un altro ipnotista che continuasse il lavoro di Pablo, forse non era possibile rompere il blocco o alleviare la pressione, nel qual caso le sue condizioni erano destinate a deteriorarsi ulteriormente. Se era fuggita tre volte in una mattinata, cosa le avrebbe impedito di fuggire altre tre volte nella prossima ora? Gli stivali del poliziotto scricchiolavano rumorosamente sulla neve gelata. Le si fermò di fronte, oltre i bassi cespugli. Lo sentì scostare i rami per guardarla. "Signorina? Cosa succede? Cosa stava gridando? Signorina?" Forse sarebbe caduta in una fuga senza tornare più indietro. "Perché piange?" disse comprensivo il poliziotto. "Cara, non posso aiutarla, se non mi dice cosa c'è che non va." Non sarebbe stata la figlia di Jacob Weiss se avesse mancato di rispondere al minimo segno di gentilezza da parte di un'altra persona, e finalmente l'interesse del poliziotto riuscì a riscuoterla. Aprì gli occhi e guardò direttamente il primo bottone della sua uniforme. Stavolta le tenebre non scesero su di lei. Questo, però, non significava niente: nemmeno l'of-
talmoscopio e gli altri oggetti che avevano fatto scattare le sue fughe le avevano fatto alcun effetto, quando in seguito si era costretta ad affrontarli di nuovo. In un crepitio di ghiaccio, il poliziotto oltrepassò i cespugli. "Hanno ucciso Pablo," gli disse. "Hanno assassinato Pablo." E mentre pronunciava quelle parole, l'angoscia per le proprie condizioni fu peggiorata da un violento senso di colpa. Pablo era morto perché aveva cercato di aiutarla. Il 6 di gennaio sarebbe stato per sempre una giornata nera nella sua vita. Una giornata così fredda. 5 Sulla strada La mattina di lunedì 6 gennaio Dominick Corvaisis andò in giro per Portland a bordo di una Chevrolet presa a nolo, cercando di ricatturare lo stato d'animo di quando era partito dall'Oregon per Mountainview, nello Utah, oltre diciotto mesi prima. La pioggia scrosciante era cessata verso l'alba. Ora il cielo, benché ancora nuvoloso, era di una polverosa, asciutta sfumatura di grigio, come un campo bruciato, come se dietro le nuvole ci fosse stato un fuoco che aveva spinto fuori tutta quella precipitazione. Dom guidò attraverso il campus dell'università fermandosi ripetutamente per lasciare che le immagini familiari evocassero sensazioni di tempi passati. Sostò di fronte all'appartamento dove aveva abitato, e mentre guardava le finestre cercò di ricordare l'uomo che era stato allora. Era sorpreso di come gli fosse difficile immedesimarsi nell'altro Dom Corvaisis, schivo e timoroso nei confronti della vita. Sebbene potesse rammentare come era stato, quei ricordi non avevano per lui intimità né spessore. Riusciva a rivedere quei giorni, ma non a sentirli, e questo sembrava indicare che non sarebbe mai tornato a essere quel vecchio Dom, per quanto lui temesse una tale eventualità. Era convinto di aver visto qualcosa di terribile lungo la strada due estati prima, e di aver subito qualcosa di mostruoso. Ma questa convinzione generava sia un mistero che una contraddizione. Il mistero era che l'evento aveva operato in lui un mutamento innegabilmente positivo. Come poteva un'esperienza dolorosa e terrorizzante avere un effetto benefico? La contraddizione era che, nonostante l'effetto benefico sulla sua personalità, l'e-
vento colmava di orrore i suoi sogni. Come era possibile che quanto gli era successo fosse stato terrificante e benefico, sconvolgente e costruttivo allo stesso tempo? La risposta, se esisteva, non era lì a Portland, ma sulla strada. Avviò il motore, mise in marcia la Chevrolet, e partì in cerca di guai. La strada più diretta da Portland a Mountainview cominciava con l'interstatale 80 nord, ma, come diciotto mesi prima, Dom prese una via più tortuosa, dirigendosi verso sud per l'interstatale 5. Quell'estate aveva programmato di fermarsi qualche giorno a Reno per raccogliere del materiale per una serie di brevi racconti sul gioco d'azzardo, e questo aveva reso necessaria una deviazione. Ora, sulla sua Chevrolet a noleggio, seguì l'autostrada, mantenendo una velocità moderata, entro gli ottanta chilometri all'ora, anche sessanta in salita, perché quell'ultimo giorno di giugno la sua andatura era stata rallentata dal carrello che aveva a rimorchio. E, come allora, si fermò per pranzo a Eugene. Sperando di scorgere qualcosa che stimolasse la sua memoria e gli fornisse un aggancio ai misteriosi fatti avvenuti durante l'altro viaggio, Dom osservò con attenzione le cittadine che incontrava, ma non vide niente che lo turbasse, e nulla di strano accadde per tutta la strada fino a Grants Pass, dove arrivò poco prima delle sei di sera, in perfetto orario sulla tabella di marcia. Andò allo stesso motel dove era stato diciotto mesi prima. Ricordava il numero della stanza - dieci - perché era vicina ai distributori di bibite, che erano stati fonte di rumori irritanti per metà della notte. Era libera, e lui la prese, spiegando vagamente che ai suoi occhi aveva un significato affettivo. Mangiò allo stesso ristorante, di fronte al motel. Stava cercando satori, una parola Zen che significava "improvvisa illuminazione", una profonda rivelazione. Ma l'illuminazione non veniva. Per tutto il giorno aveva guardato nello specchietto retrovisore, sperando di scoprirsi seguito. Durante la cena, scrutò di sottecchi gli altri avventori. Ma se qualcuno lo seguiva doveva essere incredibilmente abile, o invisibile. Alle nove andò a piedi alla vicina stazione di servizio per fare una telefonata, evitando di servirsi dell'apparecchio nella sua stanza. Usando la carta di credito, chiamò un altro telefono pubblico a Laguna Beach. Come d'accordo, Parker Faine stava aspettando lì per riferirgli se tra la sua posta
di quel giorno, che era passato a ritirare per lui, ci fosse qualcosa di interessante. Era piuttosto improbabile che i loro telefoni fossero sotto controllo, ma dopo aver ricevuto le due inquietanti polaroid, Dom aveva deciso (e Parker approvato) che in quel caso prudenza e paranoia erano sinonimi. "Bollette," disse Parker. "Pubblicità. Nessuno strano messaggio, né altre polaroid. A te come sta andando?" "Niente, per ora," rispose Dom, appoggiandosi stancamente contro la parete di plexiglas e alluminio della cabina. "Ieri notte non ho dormito bene." "Ma non te ne sei andato in giro?" "Non ho nemmeno slegato un nodo. Ho avuto un incubo, però. Ancora la luna. Ti ha seguito qualcuno a quel telefono?" "No, a meno che fosse sottile come un filo o un maestro di mimetismo," lo rassicurò Parker. "Domani sera puoi chiamarmi ancora qui, senza temere che abbiano messo l'apparecchio sotto controllo." "Sembriamo due matti," commentò Dom. "Io mi sto abbastanza divertendo," replicò Parker. "Guardie e ladri, nascondino, spie: sono sempre stato bravo in giochi del genere quando ero ragazzo. Va' avanti, amico mio. E se hai bisogno di aiuto, arriverò in volata." "Lo so," disse Dom. Quella notte, come nell'albergo a Portland, si svegliò tre volte prima dell'alba, sempre emergendo da un incubo che non riusciva a ricordare, sempre gridando: "La luna!" Martedì, 7 gennaio, Dom si alzò presto e guidò fino a Sacramento, poi prese l'interstatale 80 e proseguì verso est, diretto a Reno. Una pioggia fredda e argentea lo accompagnò per buona parte del viaggio, e quando raggiunse i piedi delle Sierras stava nevicando. Si fermò a una stazione di servizio, comprò catene da neve e le montò prima di inoltrarsi tra le montagne. Due estati prima, aveva impiegato più di dieci ore ad andare da Grants Pass a Reno, e questa volta gli ci volle ancora di più. Quando finalmente ebbe preso una stanza all'Harrah Hotel, dove era stato l'altra volta, chiamato Parker Faine da un telefono pubblico e mangiato un boccone nella sala da pranzo dell'albergo, era troppo stanco per fare altro: prese una copia del giornale di Reno e tornò nella sua camera. Così alle otto e mezzo di quella sera, seduto a letto, venne a sapere di Zebediah Lomack.
AMMONTA A MEZZO MILIONE DI DOLLARI IL PATRIMONIO DELL'UOMO DELLA LUNA RENO - Zebediah Harold Lomack, 50 anni, il cui suicidio la notte di Natale ha portato alla scoperta della sua bizzarra ossessione per la luna, lascia un patrimonio valutato in oltre 500.000 dollari. Secondo i documenti presentati per l'omologazione alla corte di giustizia competente da Eleanor Wolsey, sorella del defunto e sua esecutrice testamentaria, la maggior parte dei fondi è depositata presso diversi conti bancari e investita in titoli di credito e buoni del tesoro. La modesta casa in cui Lomack viveva al 1420 di Wass Valley Road ha un valore stimato in appena 35.000 dollari. Pare che Lomack, giocatore d'azzardo professionista, abbia accumulato la sua fortuna principalmente con il poker, e a quanto affermano i suoi amici sarebbe stata ancora più ingente se non avesse avuto un debole per i dadi. La notte di Natale, rispondendo alla segnalazione di un vicino che aveva sentito lo sparo, gli agenti di polizia di Reno hanno trovato il corpo di Lomack riverso tra l'immondizia nella cucina della sua abitazioni L'ispezione della casa ha rivelato migliaia di fotografie della luna che decoravano pareti, soffitti e mobili... Sembrava che la storia avesse suscitato parecchio scalpore nella zona nelle ultime due settimane. Dom proseguì la lettura dell'articolo con crescente interesse e disagio. Con ogni probabilità, la folle ossessione di Zebediah Lomack per la luna non aveva niente a che fare con i suoi problemi. Semplice coincidenza. Eppure, sentiva agitarsi in lui quella stessa peculiare paura - in parte terrore, in parte orrore, e in parte soggezione - che lo colmava quando si risvegliava dai suoi incubi o da un episodio di sonnambulismo. Rilesse l'articolo diverse volte, e alle nove e un quarto, nonostante la stanchezza, decise che doveva dare un'occhiata in casa Lomack. Si vestì, ritirò la macchina dal parcheggio dell'albergo e si fece spiegare dal custode come arrivare a Wass Valley Road. Reno era sotto il limite delle nevi perenni, così la notte era asciutta e le strade pulite. Dom si fermò a un emporio aperto tutta la notte e comprò una torcia elettrica. Arrivò al 1420 di Wass Valley Street poco dopo le dieci e posteggiò dall'altra parte della strada. La casa, modesta come diceva il giornale, era in effetti un bungalow con
grandi verande su un terreno di mezzo acro. La neve lasciata da precedenti tempeste chiazzava il tetto, copriva il prato, appesantiva i rami di grandi pini. Le finestre erano buie. Secondo l'articolo del quotidiano locale, Eleanor Wolsey, la sorella di Zebediah Lomack, era arrivata dalla Florida tre giorni dopo la sua morte, il 28 dicembre. Aveva organizzato il servizio funebre, che si era tenuto il 30, e si sarebbe fermata finché le disposizioni testamentarie del fratello fossero state eseguite. Comunque, stava in un albergo, perché il bungalow era troppo deprimente. Dom era un cittadino rispettoso della legge; la prospettiva di entrare abusivamente nella casa non lo allettava affatto, ma doveva farlo, perché era l'unico modo per vederla. Sapeva che sarebbe stato inutile cercare di convincere Eleanor Wolsey a consentirgli un sopralluogo l'indomani, perché, come aveva riportato il giornale, lei si era dichiarata stanca e nauseata della morbosa curiosità di estranei. Cinque minuti dopo, sulla veranda posteriore del bungalow, Dom scoprì che la porta era chiusa con un catenaccio in aggiunta alla normale serratura. Fece passare le finestre che davano sulla veranda. Quella sopra il lavandino della cucina non era bloccata. Sollevò il pannello e sgattaiolò dentro. Schermando la torcia con una mano per evitare di attirare l'attenzione di qualcuno all'esterno, girò il fascio di luce assottigliato per la cucina, che non era più nelle disgustose condizioni in cui la polizia l'aveva trovata la notte di Natale. Secondo il giornale, proprio due giorni prima la sorella di Lomack aveva cominciato a pulire la casa, preparandola per la vendita. Evidentemente aveva cominciato da lì. Tutto era lindo, e l'aria aveva l'odore penetrante di pittura fresca e disinfettante. Un solitario scarafaggio spaventato corse a nascondersi dietro il frigorifero, ma non c'era più una massiccia infestazione. E non c'era alcuna immagine della luna. Dom si augurò che Eleanor Wolsey e i suoi aiutanti non avessero fatto troppi progressi. Forse ogni traccia dell'ossessione di Zebediah Lomack era già stata spazzata via. Ma quel timore si rivelò infondato non appena Dom, seguendo il pallido raggio della torcia, entrò nel salotto, dove le pareti, il soffitto e le finestre erano ancora tappezzati con grandi poster della luna. Pareva fossero sospesi nello spazio, in qualche galassia sovraffollata, dove decine di mondi orbitavano impossibilmente l'uno accanto all'altro. L'effetto era disorientante. Si sentì stordito e la bocca gli si inaridì. Passò dal soggiorno in un corridoio, dove centinaia di immagini della
luna, alcune a colori e altre in bianco e nero, grandi e piccole, combacianti o sovrapposte, erano state attaccate a ogni spanna di muro con colla, scotch, nastro adesivo, puntine da disegno. Le stesse decorazioni erano state applicate anche nelle camere da letto: le lune onnipresenti sembravano quasi come un fungo che si fosse riprodotto per spore, invadendo la casa, insinuandosi in ogni angolo. L'articolo diceva che nessuno, eccetto Lomack, era stato nella casa per oltre un anno prima del suo suicidio. Dom non stentava a crederlo, perché se qualche visitatore avesse visto l'opera di quel pazzoide Michelangelo del collage avrebbe immediatamente chiamato il pronto soccorso psichiatrico. I vicini avevano parlato della rapida metamorfosi del giocatore d'azzardo da persona cordiale a recluso. Apparentemente il suo interesse per la luna era cominciato due estati prima. Due estati prima: il periodo corrispondeva stranamente ai mutamenti nella vita di Dom. Si sentiva sempre più a disagio. Non poteva capire l'insano processo mentale che aveva creato quel sinistro scenario, non poteva calarsi nella mente alterata di Lomack; poteva, però, avvertire una sorta di comunione col suo terrore. Solo girando per quella casa rivestita di lune, facendo balenare la torcia sulle immagini dell'astro che lo circondavano, Dom sentiva un formicolio lungo la schiena. Le lune non avevano su di lui l'effetto magnetico che evidentemente avevano avuto su Lomack, ma guardandole avvertì istintivamente che l'impulso che aveva portato Lomack a tappezzare la casa di figure della luna era lo stesso che portava lui a sognarla. Lui e Lomack avevano condiviso una qualche esperienza in cui figurava la luna, o della quale essa era un potente simbolo. Due estati prima si erano trovati nello stesso posto allo stesso momento. Il posto sbagliato al momento sbagliato. Lomack era stato portato alla pazzia dallo stress causato dalle memorie represse. In piedi al centro della camera da letto di Lomack, girando lentamente su se stesso, Dom non poté fare a meno di chiedersi se non sarebbe finito così anche lui. Poi gli venne in mente un altro sinistro pensiero. Forse Lomack non si era ucciso per la disperazione di non riuscire a liberarsi della sua ossessione, ma perché aveva finalmente ricordato cosa gli era successo due estati prima. Forse il ricordo era molto peggiore del mistero. Forse, se Dom avesse scoperto la verità, gli incubi e il sonnambulismo gli sarebbero parsi
molto meno terrificanti di quel che era accaduto durante quel viaggio da Portland a Mountainview. Lune... L'oppressività di quelle forme incombenti aumentò drasticamente. Le lune gli sembrarono indecifrabili quanto innegabili presagi di un destino terribile che lo attendeva, e improvvisamente sentì il bisogno di fuggire da esse. Tra un branco di ombre saltellanti incitate dal raggio sobbalzante della torcia, corse fuori della stanza, nel corridoio, nel soggiorno. Inciampò in una pila di libri e cadde pesantemente a terra. Per un momento rimase lì stordito, ma si riprese rapidamente, e strabuzzò gli occhi ritrovandosi a fissare la parola Dominick scribacchiata a pennarello sulla luminosa superficie lunare di uno delle dozzine di grandi poster tutti uguali. Non l'aveva notata quando poco prima era entrato dalla cucina, ma ora era caduto in modo tale che la torcia nella sua mano destra la illuminava in pieno. Dom si sentì raggelare. Non aveva letto niente in proposito sul giornale, ma sicuramente era stato Lomack a scrivere il suo nome. Per quanto ne sapeva, lui e il giocatore d'azzardo non si erano mai conosciuti. Eppure, era impensabile che fosse solo una strana coincidenza e si trattasse di un altro Dominick. Si alzò e fece un paio di passi verso il poster su cui era scritto il suo nome. Nella penombra, scorse una scritta sul poster adiacente. Spostando il fascio di luce, si rese conto che il suo era solo uno di quattro nomi che Lomack aveva scritto su quattro lune: Dominick, Ginger, Faye, Ernie. Se il suo nome compariva perché aveva vissuto qualche dimenticata esperienza da incubo insieme a Lomack, allora anche gli altri tre dovevano essere stati suoi compagni di sventura, ma Dom non si ricordava assolutamente di loro. Pensò al prete della polaroid. Era quell'Ernie? E la bionda legata al letto. Era Ginger? O Faye? Mentre spostava la luce da un nome all'altro, una oscura e inquietante memoria si agitò dentro di lui, ma rimase confinata nel suo subconscio: una sagoma amorfa, come una gigantesca creatura marina che nuotasse appena sotto la superficie di un torbido oceano, e la cui esistenza era rivelata solo dalle increspature della sua scia e dal baluginare di luce e ombra nell'acqua. Cercò di afferrarla, ma la memoria gli sfuggì tra le mani e svanì negli abissi della sua mente. La frustrazione ebbe il sopravvento sulla paura che lo attanagliava dal momento in cui era entrato in casa di Lomack. Gridò nella casa vuota, e la
sua voce echeggiò freddamente tra le pareti foderate di lune. "Perché non riesco a ricordare?" Naturalmente, sapeva bene il perché: qualcuno aveva armeggiato con la sua mente, cancellandone alcune memorie. Ma lo stesso gridò, impaurito, furioso. "Perché non riesco a ricordare? Devo ricordare!" Tese la mano sinistra verso il poster con il suo nome, come per ghermirne il ricordo che era stato nella mente di Lomack quando aveva scritto Dominick. "Dannazione!" tuonò, furibondo. "Maledetti, chiunque voi siate! Mi ricorderò di voi, bastardi, figli di puttana. Ricorderò tutto!" _ Improvvisamente, benché non lo stesse toccando, il poster con il suo nome si staccò dalla parete. Era fissato da quattro pezzi di nastro adesivo di traverso sugli angoli, e tutti e quattro si staccarono con un suono di cerniere lampo: il poster si staccò dal muro, come spinto da una raffica di vento che soffiasse attraverso la parete. Con un fruscio di ali di carta, si slanciò verso Dom, e lui barcollò all'indietro sorpreso, quasi cadendo di nuovo sui libri. La torcia nella sua mano malferma rivelò che il poster si era fermato a due passi da lui, sospeso nell'aria all'altezza dei suoi occhi, ondeggiando leggermente da cima a fondo, prima sporgendosi verso di lui e poi piegandosi dall'altra parte quando il senso dell'ondulazione si invertiva. Quando la superficie butterata della luna si increspava, il suo nome si distorceva come fosse stato un'iscrizione su una bandiera sventolante. Un'allucinazione, pensò disperatamente. Ma stava accadendo davvero, e lo sapeva. Non riusciva a respirare, come se la fredda aria fosse stata così densa di miracolosa energia da non poter essere inalata. Il poster fluttuò più vicino. Gli tremavano le mani. La torcia oscillava. La carta lucida rimandava guizzanti bagliori. Dopo un infinito momento in cui il solo suono udibile era il crepitio del poster animato, improvvisamente altro rumore si levò da ogni parte della stanza: rumore di nastro adesivo strappato. Gli altri poster si liberarono simultaneamente dal soffitto, dalle pareti, dalle finestre, e decine di immagini della luna piombarono verso di lui da ogni direzione. Dom gridò per la sorpresa e lo spavento, e fu come se con quel grido avesse espulso qualcosa che gli ostruiva la trachea, perché a un tratto poteva di nuovo respirare. I cinquanta poster rimasero sospesi immobili a mezz'aria, senza nemmeno incresparsi, come saldamente incollati al nulla. Il silenzio nella casa del giocatore d'azzardo morto era profondo come in un tempio abbandonato
dagli adoratori, un silenzio freddo e penetrante che sembrava insinuarsi dentro Dom, cercando di prendere il posto perfino del liquido sussurro del sangue che scorreva nelle sue vene. Poi, come cinquanta parti di un unico meccanismo attivato da un interruttore, le lune di carta fremettero, frusciarono, dondolarono. Sebbene non ci fosse la più lieve brezza a spingerle, cominciarono a volteggiare per la stanza in un ordinato carosello. Dom stava al centro di quell'assurdo girotondo, e le lune gli ruotavano attorno, piroettando, arrotolandosi e svolgendosi, viste ora come mezzelune, ora come falci, ora come lune piene, e crescevano e calavano, si alzavano e scendevano, più veloci, sempre più veloci. Nella luce della torcia, sembrava una processione messa in moto dall'apprendista stregone che, nella vecchia fiaba, aveva animato delle scope. La paura di Dom recedette, lasciando spazio alla meraviglia. Di fatto, uno sfrenato piacere germogliò in lui. Non poteva immaginare alcuna spiegazione per ciò a cui stava assistendo; poteva solo star lì a guardare, ammutolito per lo stupore. Di solito niente è terrificante come l'ignoto, ma forse lui avvertiva una forza benigna all'opera. Sbigottito, girò lentamente su se stesso, guardando la parata di lune attorno a sé, e finalmente una tremula risata gli sfuggì dalla gola. In un istante, l'atmosfera mutò drammaticamente. In una cacofonia di imitazioni d'ali, i poster volarono verso Dom come cinquanta enormi e infuriati pipistrelli. Sfrecciarono sopra la sua testa, scesero in picchiata, gli sbatterono in faccia, contro la schiena. Sebbene non fossero vivi, lui attribuì un intento malevolo al loro assalto. Si riparò la faccia con un braccio e agitò la mano che reggeva la torcia, cercando inutilmente di ricacciarli indietro. Il rumore si fece più intenso e più frenetico, mentre le ali di carta battevano l'aria gelida e una contro l'altra. Dimenticato il piacere di prima, Dom cercò l'uscita della stanza, preso dal panico, ma non vedeva altro che lune che si libravano, volteggiavano, planavano. Niente porte. Niente finestre. Barcollò da una parte, poi dall'altra, disorientato. Il rumore peggiorò ancora quando, nei corridoi e nelle altre stanze del bungalow, un migliaio di lune cominciarono a strapparsi dalle loro orbite pietrificate sui muri. Il nastro adesivo si staccò, le puntine da disegno saltarono fuori dall'intonaco, la colla perse improvvisamente la sua adesività. Mille craterose forme lunari, e poi mille ancora, si liberarono e si sollevarono in sospensione con diecimila fruscii, rotearono e sfrecciarono verso il soggiorno con centomila schiocchi e sibili, entrando in orbita in-
torno a Dom con un boato in costante aumento, che suonava come se fosse circondato da fiamme ruggenti. Le patinate figure a colori strappate da riviste e libri ora sfavillavano e rilucevano e mandavano bagliori guizzando attraverso il raggio della torcia, contribuendo alla scintillante illusione di fuoco, e le figure in bianco e nero precipitavano e risalivano a spirale come particelle di cenere. Cercando di prendere fiato, Dom risucchiò lune di carta levigata e porosa e dovette sputarle fuori. Migliaia di piccoli mondi di carta si agitavano attorno a lui, e quando istericamente aprì uno squarcio in una tenda formata da falsi planetoidi, fu solo per trovarsene davanti un'altra. Intuitivamente, percepiva che questo impossibile spettacolo voleva aiutarlo a ricordare. Non aveva idea di chi o cosa ci fosse dietro il fenomeno, ma ne avvertiva l'intento. Se si fosse immerso nella tempesta di lune, lasciandosene travolgere, avrebbe compreso i suoi sogni, la loro spaventosa causa, e avrebbe saputo cosa gli era successo lungo la strada diciotto mesi prima. Ma aveva troppa paura per lasciarsi andare e farsi mettere in trance dall'ipnotica oscillazione delle pallide sfere. Desiderava spasmodicamente quella rivelazione, ma ne era terrorizzato. "No. No." Si premette le mani sulle orecchie e chiuse strettamente gli occhi. "Basta! Basta!" Il suo cuore batteva due colpi a ogni esclamazione. "Basta!" Le sue grida gli raschiarono la gola. "Basta!" Fu stupefatto quando il tumulto si fermò all'improvviso, come un'orchestra sinfonica che terminasse un fragoroso crescendo su un'ultima assordante nota. Non si aspettava che i suoi comandi ottenessero obbedienza, e ancora non pensava che fossero state le sue parole a interrompere quella sarabanda di lune. Si tolse le mani dalle orecchie. Aprì gli occhi. Una galassia piena di lune era sospesa attorno a lui. Con una mano tremante, prese una delle figure, la rigirò, ne saggiò la consistenza tra due dita. Non aveva niente di speciale, eppure era stata magicamente sospesa davanti a lui, proprio come migliaia di altre erano ancora sospese, immobili. "Come?" disse con voce stentata, come se le lune, potendo levitare, dovessero anche essere in grado di parlare. "Come? Perché?" Come se si fosse spezzato un incantesimo, le migliaia di lune di carta caddero simultaneamente dritte al suolo, ammucchiandosi una sull'altra, senza più alcuna traccia residua della misteriosa forza vitale che le aveva possedute. Sconvolto, Dom andò verso la porta che dava sul corridoio. Le lune
scricchiolarono e frusciarono sotto i suoi piedi come foglie secche. Giunto alla porta si fermò e frugò lentamente il breve corridoio col fascio di luce della torcia. Le pareti erano completamente spoglie. Voltandosi, fece di nuovo un paio di passi verso il centro del soggiorno, poi si inginocchiò sul tappeto di carta. Posò la torcia accesa e si passò manciate di ritagli della luna tra le dita, cercando di capire quel che aveva visto. Dentro di lui, la paura lottava con la meraviglia, il terrore con la soggezione. Ma in verità non riusciva a decidere come avrebbe dovuto sentirsi, perché quell'esperienza non aveva precedenti. Per un attimo si sentiva prendere dall'ilarità, ma poi la risata felice in cui stava per prorompere veniva gelata da un feddo alito di orrore. A tratti sentiva di essere stato in presenza di qualcosa di indicibilmente malvagio, ma poi era altrettanto convinto che fosse stato qualcosa di buono e di puro. Male. Bene. Forse entrambi, o nessuno dei due. Solo qualcosa. Qualche misteriosa cosa oltre la capacità di descrizione e definizione delle parole. Aveva una sola certezza: qualunque cosa gli fosse successa due estati prima, era molto più strana di quanto avesse realizzato fino ad allora. Ancora passandosi lune di carta fra le dita, notò qualcosa di insolito sulle proprie mani. Le girò in su nella luce diretta della torcia. Su ciascun palmo spiccava un anello di pelle gonfia e rossa, perfetto come se il tessuto infiammato avesse ricalcato un cerchio tracciato col compasso da un progettista. Poi, sotto i suoi occhi, le stimmate gradatamente svanirono. Era martedì, 7 gennaio. 6 Chicago, Illinois Nella camera da letto al secondo piano della casa parrocchiale di St. Bernadette, padre Stefan Wycazik si svegliò al suono di un tamburo. I colpi avevano il cupo rimbombo di una grancassa e la cavernosa risonanza di timpani. Suonava come il pulsare di un enorme cuore, ma il semplice ritmo di due colpi era arricchito da un battito supplementare: LUB-DUB-dub... LUB-DUB-dub... LUB-DUB-dub... Sconcertato e non ancora del tutto sveglio, Stefan accese la lampadina, strizzò gli occhi infastiditi dalla luce e guardò la syeglia. Erano le due e
sette minuti, giovedì mattina, certamente non un'ora ragionevole per una parata. LUB-DUB-dub... LUB-DUB-dub... A ogni trio di colpi seguiva una pausa di tre secondi, poi un'altra identica serie di colpi, e un'altra pausa di tre secondi. La precisa cadenza e la puntale ripetizione del rumore cominciò a fargli pensare meno a un tamburo e più al regolare movimento del pistone di un'enorme macchina. Padre Wycazik spinse indietro le coperte e andò scalzo alla finestra che dava sul cortile tra la canonica e la chiesa, rischiarato dalla lanterna sopra la porta della sagrestia, ma non vide che neve e alberi spogli. I colpi si fecero più forti, e le pause si abbreviarono a circa due secondi. Stefan prese la vestaglia dallo schienale di una sedia e la infilò sopra il pigiama. Il sonoro pulsare ora era così forte che non ne era più semplicemente disturbato e sconcertato: cominciava a esserne spaventato. Ogni scoppio di colpi faceva tremare i vetri delle finestre e scuoteva la porta nel suo telaio. Stefan uscì in fretta in corridoio, cercò a tastoni l'interruttore sulla parete e finalmente accese la luce. Più avanti lungo il breve corridoio, sulla destra, un'altra porta si spalancò e padre Michael Gerrano, l'altro curato di Stefan, uscì di corsa dalla sua stanza, infilandosi la vestaglia. "Che cos'è?" "Non lo so," disse Stefan. Il seguente triplo battito fu due volte più forte del precedente, e l'intera casa rimbombò come fosse stata colpita da tre giganteschi martelli. Nonostante l'intensità, il suono risultava attutito, come se i martelli fossero rivestiti da un'imbottitura, ma i colpi venissero vibrati con forza tremenda. Le luci guizzarono. Ora i tonfi erano separati da silenzi di non più di un secondo, e risuonavano prima che l'eco dei precedenti avesse avuto il tempo di spegnersi. E a ogni possente serie di martellate, le luci guizzavano e il pavimento tremava sotto i piedi di Stefan. Nello stesso istante, padre Wycazik e padre Gerrano individuarono la fonte del frastuono: la camera di Brendan Cronin. Andarono in fretta alla porta della stanza, che era di fronte a quella di padre Gerrano. Incredibilmente, Brendan stava dormendo come se niente fosse. Malgrado le fragorose esplosioni che avevano riportato alla mente di padre Wycazik il fuoco dell'artiglieria in Vietnam, Brendan continuava a sognare indisturbato. Di fatto, nella luce pulsante, un vago sorriso aleggiava sulle labbra del giovane prete.
Le finestre vibrarono rumorosamente. Gli anelli delle tende schioccarono contro i bastoni a cui erano attaccati. Sul cassettone, una spazzola saltava su e giù, e parecchie monete tintinnarono, e il breviario di Brendan scivolò prima a sinistra e poi a destra. Sulla parete sopra il letto, un crocifisso ondeggiò violentemente. Padre Gerrano gridò, ma Stefan non riuscì a sentire cosa dicesse, perché ora non c'erano più pause tra le sorde detonazioni tripartite che sembravano uscire dai muri stessi della casa. Il breviario finalmente cadde dal cassettone, e le monete rotolarono a terra. Padre Gerrano arretrò fino alla porta e rimase lì con gli occhi sgranati, come se volesse fuggire. Stefan andò al letto, si chinò sul prete addormentato e gridò il suo nome. Non riuscendo a svegliarlo, lo prese per le spalle e lo scrollò con forza. Le palpebre di Brendan ebbero un fremito, poi si sollevarono, e nello stesso istante il rumore cessò. L'improvviso silenzio fece sobbalzare padre Wycazik quanto il primo tonfo che aveva infranto il suo sonno. Lasciò andare Brendan e si guardò attorno, incredulo. "Ero così vicino," disse Brendan, sognante. "Vorrei che non mi avesse svegliato. Ero così vicino." Stefan scostò le coperte, prese le mani del curato e le girò verso l'alto. Su ogni palmo c'era un anello rosso acceso. Stefan li fissò affascinato, perché era la prima volta che vedeva le stimmate. "Di che si tratta, in nome di Dio?" si domandò. Respirando a fatica, padre Gerrano si avvicinò al letto. "Cosa sono quelli?" disse, guardando gli anelli. Ignorando la domanda, Stefan si rivolse a Brendan. "Cos'era quel suono? Da dove veniva?" "Mi chiamava," disse Brendan, la voce ancora impastata dal sonno, e con un trasognato, eccitato piacere. "Mi chiamava indietro." "Cosa ti chiamava?" lo incalzò Stefan. Brendan battè le palpebre, si alzò a sedere e si appoggiò contro la testata del letto. Fino a quel momento aveva avuto gli occhi velati da brandelli di sogni. Ora la sua vista si mise a fuoco, e guardò veramente padre Wycazik per la prima volta. "Cosa è successo? L'ha sentito anche lei?" "Direi di sì," rispose Stefan. "Ha fatto tremare l'intera casa. Che cos'era, Brendan?"
"Un richiamo. Mi stava chiamando, e io lo stavo seguendo." "Ma cosa ti stava chiamando?" "Io non lo so. Qualcosa. Mi chiamava indietro..." "Indietro dove?" Brendan aggrottò la fronte. "Nella luce. La luce dorata del sogno di cui le ho parlato." "Cos'è questa storia?" insistette padre Gerrano, visibilmente scosso: a differenza del suo parroco e dell'altro curato, lui non aveva alcuna familiarità col miracoloso. "Qualcuno avrebbe la bontà di spiegarmi?" Gli altri due preti continuarono a ignorarlo. "Questa luce dorata, che cos'è?" domandò Stefan a Brendan. "Non potrebbe essere Dio che ti richiama nel suo gregge?" "No." Brendan scrollò la testa. "Solo qualcosa. Un richiamo. Forse la prossima volta riuscirò a capire qualcosa di più." Padre Wycazik si sedette sull'orlo del letto. "Pensi che succederà ancora? Che continuerà a chiamarti?" "Sì," disse Brendan. "Oh, sì." Era giovedì, 9 gennaio. 7 Las Vegas, Nevada Venerdì pomeriggio, Jorja Monatella era al casinò a lavorare quando seppe che il suo ex marito, Alan Rykoff, si era suicidato. La notizia le arrivò con una telefonata urgente da parte di Pepper Carrafield, la squillo con cui Alan era andato a vivere, e ne fu sconvolta, ma non addolorata. Col suo comportamento egoista e crudele, Alan aveva fatto sì che lei non avesse alcuna ragione di soffrire per la sua sorte. La sola emozione che riuscì a provare fu pietà. "Sì è sparato questa mattina, due ore fa," la informò Pepper. "Adesso c'è qui la polizia. Deve venire subito." "La polizia vuole vedermi?" si stupì Jorja. "Ma perché?" "No, no. La polizia non vuole vederla. Deve venire a prendere la sua roba. Voglio che me la tolga di torno il più presto possibile." "Ma io non voglio le sue cose," obiettò Jorja. "Deve occuparsene lei, che lei voglia o no." "Miss Carrafield, io non voglio né devo..."
"Alan ha fatto un testamento la scorsa settimana, e l'ha nominata sua esecutrice, quindi deve venire. Voglio che porti immediatamente via di qui la sua roba. È suo dovere." Alan aveva vissuto con Pepper Carrafield in uno svettante condominio chiamato Il Pinnacolo, in Flamingo Road, dove la squillo aveva un appartamento. Era un monolite di quindici piani in cemento, con finestre color bronzo. Circondato da un'area non edificata, sembrava ancora più alto di quanto fosse. Ed essendo così isolato, appariva stranamente come un monumento, la più grande e pretenziosa pietra sepolcrale del mondo, tra prati lussureggianti e aiuole ben curate. Due auto della polizia e una giardinetta dell'obitorio erano parcheggiate davanti all'edificio, ma non c'erano poliziotti nell'atrio; solo una giovane donna su un sofà color malva vicino agli ascensori e, a una scrivania di fianco all'entrata, un uomo in giacca blu e calzoni grigi che fungeva da portinaio e vigilante. Il pavimento di marmo, i lampadari di cristallo, un tappeto orientale, sofà e poltrone Henredon, e le porte degli ascensori in ottone davano il loro contributo a un arredo che si sforzava troppo di dare un'impressione di classe; ma in ogni caso la dava. Quando Jorja chiese al portinaio di annunciarla, la giovane donna sul sofà si alzò e disse: "Mrs Rykoff, sono Pepper Carrafield. Ehm... Suppongo lei usi il suo nome da ragazza adesso." "Monatella," disse Jorja. Come l'edificio in cui viveva, Pepper faceva di tutto per raggiungere la classe della Quinta Strada, ma i suoi sforzi avevano meno successo di quelli degli architetti che avevano progettato gli interni del Pinnacolo. I suoi capelli biondi avevano un taglio eccessivamente arruffato, piuttosto comune tra le squillo, forse perché quando si passa la giornata lavorativa in una serie di letti una pettinatura arruffata è più funzionale. Indossava una blusa di seta viola senz'altro firmata, ma aveva lasciato troppi bottoni aperti; e i pantaloni grigi erano di buon taglio, ma eccessivamente stretti. Aveva al polso un Carrier coperto di diamanti, ma l'effetto elegante dell'orologio era rovinato dal suo eccessivo amore per i vistosi anelli di diamanti: ne portava quattro. "Non ce la facevo a restare nell'appartamento," disse, facendo segno a Jorja di raggiungerla sul divano. "Non tornerò di sopra finché non avranno portato via il corpo." Rabbrividì. "Possiamo parlare qui, basta che teniamo la voce bassa." Accennò con la testa verso l'uomo alla scrivania. "Ma se dev'esserci una scenata, io prendo e me ne vado. Inteso? Qui non sanno
cosa faccio per vivere, e voglio che rimanga così. Io non faccio mai affari a casa. Lavoro esclusivamente su chiamata esterna." I suoi occhi grigioverdi erano duri. Jorja la guardò con freddezza. "Se pensa che io sia una moglie rancorosa e sofferente, può rilassarsi, Miss Carrafield. Qualunque cosa io abbia mai provato per Alan, ormai non c'è più. Anche sapendo che è morto, non sento niente. Niente di particolare. Non ne sono fiera. Un tempo ero innamorata di lui, e abbiamo fatto una bambina deliziosa insieme. Dovrei provare qualcosa, e mi vergogno di non riuscirci. Ma di sicuro non intendo fare scene." "Splendido," disse Pepper, genuinamente compiaciuta, tanto presa da se stessa e dalle proprie preoccupazioni da non rendersi conto della tragedia domestica che Jorja aveva appena descritto. "Sa, qui abita molta gente altolocata, e a quelli come loro non piacciono gli scandali. Quando sapranno che il mio boy-friend si è ucciso mi terranno a distanza per un bel po' di tempo. E se dovessero scoprire come mi mantengo, be', non avrei più modo di reinserirmi qui. Dovrei andarmene, e non ne ho alcuna voglia. No davvero, carina. Sto bene dove sono." Jorja guardò le mani ostentatamente ingioiellate di Pepper, guardò la sua audace scollatura, guardò i suoi occhi avari e chiese: "Cosa immagina la credano, un'ereditiera?" Sorprendentemente, senza rilevare il sarcasmo, Pepper confermò. "Precisamente. Come ha fatto a indovinare? Ho pagato per il condominio con biglietti da cento dollari, e ho fatto credere a tutti che la mia famiglia è ricca." Jorja non si preoccupò di spiegare che le ereditiere non pagano con mazzette di banconote da cento dollari. "Potremmo parlare di Alan? Cosa gli è successo? Non lo avrei mai creduto il tipo da togliersi la vita." Pepper lanciò un'occhiata al portinaio per assicurarsi che non avesse lasciato il suo posto e si fosse avvicinato. "Neanch'io, tesoro. Era così macho. Non per niente ho voluto che venisse a stare a casa mia e si occupasse di me. Era forte, tosto. Però, qualche mese fa ha cominciato a comportarsi in modo un po'strano, e ultimamente era proprio fuori. Tant'è vero che stavo pensando di trovarmi qualcun altro che si occupasse di me. Ma non mi aspettavo davvero che mi mettesse nei casini suicidandosi. Cristo, proprio non si può mai sapere, eh?" "Certa gente non ha alcuna considerazione," commentò Jorja. Vide gli occhi di Pepper assottigliarsi, ma prima che la squillo potesse dire qualco-
sa, aggiunse: "Se ho ben capito, Alan era il suo protettore." Pepper si fece scura in volto. "Per sua informazione, a me non serve un protettore. Le puttane hanno bisogno di protettori. Io non sono una puttana. Le puttane si fanno una decina di tizi al giorno per una manciata di dollari, passano metà della loro vita con lo scolo e finiscono disfatte e spiantate. Non è il caso mio. Io sono un'accompagnatrice per gentiluomini facoltosi. Sono sulla lista delle accompagnatrici approvate dai migliori alberghi, e l'anno scorso ho guadagnato la bellezza di duecentomila dollari. Niente male, non le pare? E ho capitali investiti. Le puttane non fanno investimenti. Alan non era il mio protettore. Era il mio manager. Si occupava anche di due mie amiche. Lo avevo raccomandato io stessa a loro, perché all'inizio, prima che cominciasse a diventare strano, era il migliore." "E Alan prendeva un onorario per le sue funzioni di amministratore della vostra carriera?" Il viso più disteso, abbastanza placata dalla disponibilità di Jorja a usare degli eufemismi, Pepper rispose: "No. Questo era uno dei migliori aspetti del nostro accordo con lui. Vede, lui lavorava anche come croupier, e guadagnava abbastanza. Aveva tutti i contatti necessari per amministrarci, ma preferiva che lo pagassimo in natura. Non avevo mai conosciuto un uomo che avesse bisogno di tanto sesso. Non ne aveva mai abbastanza. Negli ultimi due mesi, poi, ne era veramente ossessionato. Era così anche con te, dolcezza?" Urtata da quell'improvvisa intimità, Jorja cercò di interrompere la donna, ma Pepper andò avanti sullo stesso tono. "In effetti, nelle ultime settimane era talmente un'idea fissa che ho cominciato a pensare che forse avrei dovuto scaricarlo. Voglio dire, era qualcosa di pazzesco. Ci dava dentro finché proprio non gli si rizzava più, e allora guardava film a luci rosse." Jorja fu improvvisamente irritata che Alan l'avesse nominata sua esecutrice, costringendola a contemplare lo squallore morale in cui aveva passato il suo ultimo anno di vita. Ed era irritata perché avrebbe dovuto trovare il modo di spiegare la sua morte a Marcie, che già stava attraversando un periodo psicologicamente difficile. Ma non era realmente irritata con Pepper Carrafield; non irritata, ma sgomenta, sì, perché anche Alan meritava un po' di cordoglio e rispetto da parte della sua convivente, più di quanto quello squalo avrebbe mai potuto dargli. Ma era inutile biasimare lo squalo per essere uno squalo. Uno degli ascensori si aprì, rigurgitando poliziotti, incaricati dell'obitorio, e una barella con un cadavere in un sacco di plastica opaca.
Jorja e Pepper si alzarono dal divano. Mentre la barella veniva spinta fuori del primo ascensore, le porte del secondo si aprirono, e ne uscirono altri quattro poliziotti: due agenti in uniforme e due investigatori in borghese. Un investigatore andò da Pepper Carrafield per qualche ultima domanda. Nessuno fece domande a Jorja. In piedi, rigida e improvvisamente stordita, fissò il sacco di plastica che conteneva il suo ex marito. Le ruote della barella cigolarono sul marmo mentre veniva spinta verso l'uscita. Jorja la guardò allontanarsi. Ancora non sentiva dolore, ma fu travolta da una potente ondata di malinconia, una profonda tristezza per quello che avrebbe potuto essere. Pepper la chiamò dall'ascensore più vicino. "Saliamo in casa." In ascensore, e in un discreto bisbiglio lungo il corridoio del quattordicesimo piano, poi continuando in un tono di voce normale mentre entravano nel suo soggiorno, Pepper insistette a descrivere l'insaziabilità sessuale di Alan. Aveva sempre avuto l'appetito carnale di un buongustaio, ma apparentemente il sesso era degenerato in una patologica ossessione, che lo aveva perseguitato durante gli ultimi due mesi della sua esistenza. Jorja non aveva alcuna voglia di sentirne parlare, ma far chiudere la bocca alla squillo sembrava più difficile che sopportare le sue chiacchiere. Nelle ultime settimane, i giorni di Alan erano stati dedicati pressoché esclusivamente ad attività erotiche, ma tanta frenesia faceva pensare a disperazione più che a ingordigia di piacere. Aveva preso giorni di malattia e ferie per passare lunghe, febbrili ore a letto con Pepper, o con le altre di cui "amministrava la carriera", e non c'era variante o perversione che avesse mancato di esplorare all'eccesso. La squillo continuò: Alan aveva sviluppato una passione per sostanze, accessori e abbigliamenti lascivi: anelli penici, tacchi a spillo, vibratori, unguenti alla cocaina, manette... Jorja, già con le ginocchia molli e la testa che le girava da quando aveva visto il sacco di plastica, cominciò ad avere il voltastomaco. "Basta, la prego. A che serve? È morto, per l'amor di Dio." Pepper si strinse nelle spalle. "Pensavo che avrebbe voluto saperlo. Ha buttato via un sacco di soldi in questa... questa sbornia di sesso. Visto che lei dovrà occuparsi dell'eredità, pensavo che le interessasse." Il testamento di Alan Arthur Rykoff, affidato alla custodia di Pepper, era un semplice modulo prestampato di una pagina. Jorja si sedette su una poltrona Ultrasuede blu cobalto vicina a un moderno tavolino smaltato di nero e scorse le ultime volontà dell'ex marito al-
la luce di una lampada high-tech a cono in acciaio brunito. La cosa più sorprendente non era che Alan avesse nominato Jorja sua esecutrice, ma che avesse lasciato i suoi averi a Marcie, la cui paternità era stato pronto a negare. Pepper si sistemò su una sedia laccata di nero con imbottiture bianche, vicino a una parete di finestre. "Non credo sia un gran patrimonio. Alan spendeva il suo denaro piuttosto liberamente. Ma c'è la sua macchina, un po' di gioielli." Jorja notò che il testamento era stato convalidato dal notaio solo quattro giorni prima, e rabbrividì. "Doveva già pensare al suicidio quando è andato dal notaio; altrimenti non ne avrebbe sentito la necessità." Pepper alzò le spalle. "Già." "Ma lei non ha visto che era turbato? Non si è accorta del pericolo?" "Come le ho detto, tesoro, era strano da un paio di mesi." "Sì, ma dev'esserci stato un cambiamento notevole in lui durante gli ultimi giorni; qualcosa di diverso da quelle altre stranezze. Quando le ha detto che aveva fatto testamento, non si è sorpresa? Non c'era niente in lui - il suo comportamento, il suo aspetto, il suo stato mentale - che la preoccupasse?" Pepper si alzò, spazientita. "Io non faccio la psicoioga, tesoro. La sua roba è in camera da letto. Se vuole dare i suoi vestiti alla parrocchia, farò venire qualcuno a prenderli. Ma il resto - gioielli, oggetti personali - può portarseli via subito. Le mostrerò tutto." Jorja era nauseata dallo squallore morale in cui Alan era sprofondato, ma si sentiva anche un po' in colpa per la sua morte. Avrebbe potuto fare qualcosa per salvarlo? Lasciando i suoi pochi averi a Marcie e nominando Jorja sua esecutrice testamentaria, sembrava aver cercato di riavvicinarsi a loro negli ultimi giorni, e per quanto quel gesto fosse patetico e inadeguato, Jorja ne fu toccata. Cercò di ricordare come era stato al telefono prima di Natale, l'ultima volta che aveva parlato con lui. Ricordò la sua freddezza, l'arroganza e l'egoismo, ma forse c'erano altre cose più sottili che avrebbe dovuto avvertire sotto la superficie di crudeltà e spavalderia: angoscia, confusione, solitudine, paura. Rimuginando su questo, seguì Pepper verso la camera da letto. Detestava l'idea di frugare tra le cose di Alan, ma andava fatto. A metà di un lungo corridoio, Pepper si fermò davanti a una porta, la spinse in dentro. "Oh, merda. Non posso credere che abbiano lasciato tutto così."
Jorja guardò oltre la porta prima di realizzare che quello era il bagno in cui Alan si era ucciso. C'era sangue su tutto il pavimento di mattonelle beige. Altro sangue era schizzato sulla porta a vetri della doccia, il lavandino, gli asciugamani, il cestino dei rifiuti, il water. La parete dietro il water era chiazzata di sangue in un macabro disegno che somigliava a un test di Rorschach, come se le condizioni psicologiche di Alan e il significato della sua morte fossero lì da leggere, per chiunque avesse la capacità di interpretarle. "Si è sparato due volte," disse Pepper, fornendo dettagli che Jorja non voleva sentire. "Prima tra le gambe. Non è curioso? Poi si è messo la pistola in bocca e ha premuto il grilletto." Jorja poteva sentire il vago odore dolciastro del sangue. "Quei dannati piedipiatti avrebbero dovuto pulire almeno il grosso," disse Pepper, come se pensasse che i poliziotti dovessero girare armati non solo di pistole ma anche di spazzoloni e detersivo. "La mia domestica non viene fino a lunedì. E comunque non vorrà mettere le mani in questo schifo." Jorja ruppe la presa ipnotica che il bagno insanguinato aveva su di lei e fece qualche barcollante passo avanti. "Ehi," disse Pepper Carrafield, "si sente bene?" Jorja ebbe un conato, strinse i denti, proseguì in fretta lungo il corridoio e si appoggiò allo stipite di un'altra porta. "Dica un po', non è che era ancora innamorata di lui, per caso?" "No," rispose piano Jorja. Pepper le andò vicino, troppo vicino, mettendole un'indesiderata mano consolatrice sulla spalla. "Certo, come no. Gesù, mi dispiace." Pepper trasudava untuosa compassione, e Jorja si domandò se la donna fosse capace di una qualsiasi emozione genuina, disinteressata. "Ha detto che non provava più niente per lui, ma avrei dovuto capire che non era vero." Jorja avrebbe voluto gridare: "Stupida puttana, non ero ancora innamorata di lui, ma era pur sempre un essere umano. Cristo! Come puoi essere così indifferente? Ma ce l'hai un cuore?" Invece, si limitò a dire: "Sto bene. Sto bene. Dove sono le sue cose? Voglio sceglierle e andarmene da qui." Pepper fece entrare Jorja nella camera da letto. "Lui aveva la parte in basso della cassettiera, più il lato sinistro del guardaroba, e quella metà dell'armadio. L'aiuto." Andò a tirare fuori l'ultimo cassetto. Per Jorja, la stanza divenne improvvisamente misteriosa e irreale come
un luogo in un sogno. Col cuore che le batteva forte, girò intorno al letto, avvicinandosi alla prima di tre cose che l'avevano colmata di paura. Libri. Cinque o sei libri erano impilati sul comodino, e aveva notato la parola "luna" sul dorso di due di essi. Li prese con mani tremanti, e vide che trattavano tutti lo stesso soggetto. "Qualcosa non va?" domandò Pepper. Senza rispondere, Jorja andò alla cassettiera, su cui era posato un globo grande come un pallone. Tirò una cordicella pendente da esso, e vide che era opaco, con una luce all'interno. Non era un globo terrestre, ma lunare, con i nomi delle aree geologiche - crateri monti, pianure - chiaramente indicati. Jorja diede una spintarella al globo illuminato, facendolo ruotare. La terza cosa che l'aveva spaventata era un telescopio su un treppiede davanti a una finestra. Lo strumento non aveva niente di diverso da altri telescopi per dilettanti, ma a Jorja sembrò minaccioso, addirittura pericoloso, con oscure e imperscrutabili associazioni. "Sono cose di Alan," disse Pepper. "Si interessava di astronomia? Da quando?" "Un paio di mesi." Jorja fu turbata dalle analogie fra le condizioni di Alan e quelle di Marcie. L'irrazionale paura dei dottori di Marcie. La compulsiva smania di sesso di Alan. Erano problemi psicologici differenti - paura ossessiva in un caso, attrazione ossessiva nell'altro - ma condividevano l'elemento dell'ossessione. Apparentemente, Marcie era guarita dalla sua fobia. Alan non era stato altrettanto fortunato. Non aveva nessuno ad aiutarlo, ed era crollato, facendosi saltare i genitali che erano arrivati a dominarlo, piantandosi una pallottola nel cervello. Jorja rabbrividì. Era già una strana coincidenza che padre e figlia avessero cominciato simultaneamente a soffrire di disturbi psicologici, ma quello che la rendeva inverosimile era l'altra stranezza che condividevano: l'interesse per la luna. Alan e Marcie si erano visti l'ultima volta sei mesi prima, e la loro più recente conversazione telefonica era stata in settembre, settimane prima che l'uno o l'altra iniziassero a essere affascinati dalla luna, quindi non potevano essersi trasmessi quella passione; sembrava essersi sviluppata spontaneamente in entrambi. "Sa se Alan faceva strani sogni?" s'informò Jorja. "Sogni sulla luna?" "Sì. Come fa a saperlo? Ne faceva, ma quando si svegliava non riusciva mai a ricordarne alcun particolare. Ha cominciato... verso la fine di ottobre, mi pare. Ma perché questa domanda?" "Questi sogni, erano incubi?"
Pepper scosse la testa. "Non esattamente. Lo sentivo parlare nel sonno. A volte sembrava spaventato, ma spesso invece sorrideva." Jorja si sentì ghiacciare il midollo. Si voltò a guardare il globo illuminato della luna. Che diavolo sta succedendo? si domandò. Un sogno in comune? Come? Perché? Dietro di lei, Pepper disse: "Si sente bene?" Qualcosa aveva portato Alan al suicidio. Cosa sarebbe successo a Marcie? 8 Sabato 11 gennaio Boston, Massachusetts Il servizio funebre per Pablo Jackson si tenne alle undici di sabato mattina, 11 gennaio, in una cappella aconfessionale sul terreno del cimitero dove sarebbe stato sepolto. Il coroner e i patologi della polizia avevano finito con il corpo solo il giovedì: tra la morte e il suo funerale erano così passati cinque giorni. Dopo l'ultimo elogio funebre, i convenuti si trasferirono dove la bara attendeva di essere sotterrata. La neve era stata spalata intorno alla fossa, ma lo spazio era insufficiente. Dozzine di persone restarono fuori dell'area preparata, qualcuno nella neve alta. Altri rimasero sui vialetti che intersecavano il cimitero, guardando da lontano. Erano arrivati in trecento a portare l'estremo saluto al vecchio mago. Il respiro di ricchi e poveri, sconosciuti e personalità, maghi ed esponenti dell'alta società di Boston si condensava in una grande nuvola di vapore nell'aria gelida. Ginger Weiss e Rita Hannaby erano nel primo cerchio intorno alla fossa. Dal lunedì, Ginger aveva avuto ben poco appetito e non era riuscita a dormire granché. Era pallida, nervosa, e molto stanca. Sia Rita sia George le avevano sconsigliato di assistere al funerale di Pablo. Temevano che un'esperienza così emotivamente pesante avrebbe fatto scattare una delle sue crisi. Ma la polizia l'aveva incoraggiata, sperando che potesse notare tra i presenti l'assassino di Pablo. Per proteggersi aveva nascosto la verità agli investigatori, dando a intendere che l'assassino fosse un comune ladro, e a volte i ladri sono spinti da simili impulsi. Ma lei sapeva che non si trattava di un semplice ladro e che non avrebbe
rischiato l'arresto andando al cimitero. Ginger pianse durante gli elogi, e quando passò dalla cappella alla fossa si sentiva il cuore stretto come in una morsa. Ma non perse il controllo. Era determinata a non fare di quella solenne occasione un circo, determinata a rendere i suoi omaggi a Pablo con dignità. Inoltre, era andata lì con un secondo scopo che non avrebbe potuto raggiungere se fosse precipitata in una crisi o avesse avuto un tracollo emotivo. Era sicura che Alexander Christophson - ex ambasciatore in Gran Bretagna, ex senatore degli Stati Uniti, ed ex direttore della CIA - sarebbe stato al funerale del suo vecchio amico, e ci teneva molto a parlare con lui. Era a Christophson che, il giorno di Natale, Pablo si era rivolto per avere un parere sui problemi di Ginger. Ed era stato Alex Christophson a dirgli del blocco di Azrael. Ora, aveva un'importante domanda da fare a Christophson, anche se temeva la risposta. Lo aveva visto nella cappella, riconoscendolo dai tempi della sua vita pubblica, quando era frequentemente apparso in televisione e sui giornali. Era un uomo distinto, alto, magro, coi capelli bianchi, inconfondibile. Adesso le stava di fronte, dall'altra parte della bara. L'aveva guardata un paio di volte, ma senza riconoscerla. Il pastore recitò un'ultima preghiera. Dopo un momento, alcuni dei presenti si salutarono l'un l'altro o si riunirono a parlare in piccoli gruppi. Altri, tra i quali Christophson, si allontanarono attraverso una foresta di lapidi, oltre pini carichi di neve e aceri spogliati dall'inverno, diretti al parcheggio. "Devo parlare con quell'uomo," Ginger disse a Rita. "Torno subito." Allarmata, Rita la chiamò indietro, ma Ginger non si fermò. Raggiunse Christophson nelle ombre frastagliate dei rami scheletrici di un'immensa quercia che era tutta nera corteccia e neve gelata. Lo chiamò per nome, e lui si voltò. Aveva grigi occhi penetranti, che si dilatarono quando gli disse chi era. "Non posso aiutarla," tagliò corto, e fece per girarle le spalle. Ginger gli mise una mano sul braccio. "La prego. Se lei mi ritiene colpevole di quello che è successo a Pablo..." "Perché dovrebbe importarle quel che penso io, dottoressa?" Lei continuò a trattenerlo per il braccio. "Aspetti. La prego." Christophson guardò con circospezione la folla che si disperdeva nel cimitero, e Ginger capì che temeva che le persone sbagliate - persone pericolose - potessero vederlo con lei e dedurre che la stava aiutando come aveva
fatto Pablo. Notò anche un lieve tremito della sua testa, e pensò fosse un segno del suo nervosismo, ma poi comprese che si trattava di morbo di Parkinson. "Dottoressa Weiss, se lei sta cercando una qualche forma di assoluzione, posso senz'altro rassicurarla. Pablo conosceva i rischi, e li ha accettati. È stato il capitano del proprio destino." "Si era davvero reso conto del pericolo? È questo che voglio sapere." Christophson sembrò sorpreso. "L'ho messo in guardia io stesso." "Messo in guardia da chi? Da cosa?" "Non so chi o che cosa. Ma considerando l'enorme sforzo fatto per alterare la sua memoria, lei deve aver visto qualcosa di tremenda importanza. Ho avvertito Pablo che chiunque le avesse fatto il lavaggio del cervello, non si trattava di dilettanti, e che se si fossero accorti che voi due stavate cercando di abbattere il blocco di Azrael avrebbero preso i provvedimenti del caso, e ci sarebbe andato di mezzo anche lui." Gli occhi grigi di Christophson frugarono per un momento in quelli di lei. Poi sospirò. "Le ha detto della sua conversazione con me?" "Mi ha detto tutto, eccetto del suo avvertimento." Gli occhi di Ginger si colmarono nuovamente di lacrime. "A quello non ha fatto il minimo accenno." Lui tirò fuori di tasca una mano elegante ma incerta e la prese per un braccio con fare rassicurante. "Dottoressa, ora che mi ha detto questo, non posso certamente addossarle alcuna responsabilità." "Ma io mi sento responsabile," disse Ginger, la voce esile per lo sconforto. "No. Lei non deve sentirsi colpevole di niente." Guardandosi di nuovo attorno per assicurarsi che non fossero sorvegliati, Christophson aprì i primi due bottoni del suo soprabito, vi infilò dentro una mano, estrasse il fazzoletto dal taschino della giacca e lo porse a Ginger. "La prego, smetta di torturarsi. Il nostro amico ha vissuto una vita piena e fortunata, dottoressa. La sua morte sarà anche stata violenta, ma è stata relativamente rapida, il che può essere una benedizione." Tamponandosi gli occhi col fazzoletto di seta celeste, Ginger mormorò: "Era una così cara persona." "Sì, è vero," concordò Christophson. "E sto cominciando a capire perché abbia corso un tale rischio per lei. Diceva che lei era una persona molto cara, e vedo che il suo giudizio era accurato e attendibile come sempre." Lei finì di asciugarsi gli occhi. Si sentiva ancora il cuore serrato in una morsa, ma cominciava a credere ci fosse una possibilità che il senso di
colpa potesse cedere il passo al solo dolore. "Grazie," disse con un filo di voce. Poi, quasi tra sé, aggiunse: "E adesso? Cosa faccio?" "Non sono in posizione tale da poterla aiutare," si affrettò a mettere in chiaro lui. "Sono fuori dei servizi segreti da quasi dieci anni, e non ho più contatti. Non ho idea di chi possa esserci dietro il suo blocco di memoria, o perché." "Non le chiederei comunque di aiutarmi. Non intendo mettere in pericolo altre vite innocenti. Pensavo soltanto che lei potesse avere qualche suggerimento da darmi." "Si rivolga alla polizia. È loro compito aiutarla." Ginger scosse la testa. "No. La polizia è lenta, troppo lenta. La maggior parte dei poliziotti sono sovraccarichi di lavoro, e gli altri sono solo dei burocrati in uniforme. Il mio problema è troppo urgente per aspettare che lo risolvano loro. Inoltre, non mi fido. Improvvisamente non mi fido di autorità di alcun genere. Le cassette su cui Pablo ha registrato le nostre sedute erano sparite quando ho portato la polizia al suo appartamento, così ho evitato di parlarne. Ho scantonato. Non ho raccontato ai poliziotti delle mie fughe o che Pablo stava cercando di aiutarmi. Ho detto solo che eravamo amici, che ero andata da lui per pranzare insieme e mi sono imbattuta nell'assassino. Ho lasciato che credessero fosse un comune ladro. Paranoia, forse, ma non mi fidavo di loro. E continuo a non fidarmi. Quindi, la polizia è esclusa." "Allora cerchi un altro ipnotista che..." "No. Non metterò in pericolo altre vite innocenti," ripetè Ginger. "Capisco. Ma questi sono gli unici suggerimenti che ho da offrirle." Christophson affondò le mani nelle tasche del soprabito. "Mi dispiace." Fece per girarsi, esitò, sospirò. "Dottoressa, vorrei che lei mi capisse. Ho servito in guerra, la grande guerra, guadagnandomi qualche decorazione. Più avanti, sono stato un buon ambasciatore. Come capo della CIA e come senatore, ho preso molte decisioni difficili, anche esponendomi personalmente a dei rischi. Non sono mai scappato davanti al pericolo. Ma ora sono vecchio. Ho settantasei anni, e me ne sento addosso ancora di più. Morbo di Parkinson. Cuore debole. Pressione alta. Ho una moglie che amo molto, e se mi succedesse qualcosa resterebbe sola. Non so come se la caverebbe, dottoressa Weiss." "La prego, non ha alcun bisogno di giustificarsi." Ginger si rese conto di come i loro ruoli si fossero rapidamente e completamente invertiti. All'inizio era stato lui a dispensare rassicurazioni e assoluzioni; ora lei gli stava
restituendo il favore. Jacob, suo padre, aveva spesso detto che la capacità di provare misericordia era la più grande virtù del genere umano, e che il dare e ricevere misericordia formava un legame indissolubile. Ginger ricordò adesso le parole di Jacob perché, mentre faceva sì che Alex Christophson alleviasse il suo senso di colpa e cercava di alleviare quello di lui, sentì formarsi quel legame. Sembrò accorgersene anche lui, perché, sebbene non smettesse di giustificarsi, le sue spiegazioni si fecero più intime, e ora parlava in un tono meno difensivo e più confidenziale. "Francamente, dottoressa, se sono riluttante a immischiarmi in questo affare non è tanto perché trovo la vita infinitamente preziosa, ma perché ho sempre paura della morte." Mentre parlava, infilò una mano in una tasca interna e ne tirò fuori un blocchetto e una penna. "Nella mia vita ho fatto alcune cose di cui non sono fiero." Tenendo la penna nella mano destra tremolante, cominciò a scrivere qualcosa. "È ben vero che quei peccati li ho commessi per lo più nell'ambito delle mie mansioni. Il governo e lo spionaggio sono entrambi necessari, ma nessuno dei due è un affare pulito. A quei tempi non credevo in Dio o nell'aldilà. Adesso comincio ad avere dei dubbi... e a volte ho paura." Strappò la prima pagina del blocchetto. "Paura di cosa potrebbe aspettarmi dopo la morte, capisce? È per questo che voglio tenermi stretta la vita più a lungo che posso, dottoressa. È per questo che, Dio mi aiuti, invecchiando sono diventato un codardo." Mentre Cristophson piegava e le passava il foglietto, Ginger realizzò che aveva fatto in modo di dare le spalle alle persone rimaste prima di prendere penna e blocchetto. Nessuno poteva aver visto quel che aveva fatto. "È il numero di telefono di un negozio di antiquariato a Greenwich, in Connecticut," le spiegò lui. "Il proprietario è il mio fratello minore, Philip. Non mi chiami direttamente perché la gente sbagliata può averci visti parlare; il mio telefono potrebbe essere sotto controllo. Non voglio rischiare di essere collegato a lei, dottoressa Weiss, e non svolgerò alcuna indagine sul suo problema. Tuttavia, ho molti anni di ampia esperienza in queste cose, e possono esserci occasioni in cui questa esperienza le sarebbe di aiuto. Se le capitasse qualcosa che non capisce, una situazione che non sa come affrontare, potrei essere in grado di darle un consiglio. Basta che chiami Philip e gli lasci il suo recapito telefonico. Lui mi chiamerà immediatamente a casa e userà una parola d'ordine convenuta. Allora io andrò a un telefono pubblico, lo richiamerò, mi farò dare il numero che gli ha lasciato, e mi metterò in contatto con lei il più rapidamente possibile. Esperienza, il
mio particolare tipo di malevola esperienza, è tutto ciò che sono disposto a offrirle, dottoressa Weiss. " "E più che abbastanza. Lei non è tenuto ad aiutarmi in alcun modo." "Buona fortuna." Christophson si girò di scatto e si allontanò nella neve gelata. Ginger tornò alla tomba, dove Rita, l'impresario delle pompe funebri e due becchini erano le uniche persone rimaste. La tenda di velluto intorno alla bara era stata rimossa. Avevano disteso un telo impermeabile. "Ti dico dopo," disse Ginger, rispondendo all'occhiata interrogativa di Rita. Si chinò a raccogliere una rosa dal mucchio di fiori accanto all'ultimo luogo di riposo di Pablo e la gettò nella fossa, sopra la bara. "Alav hasholem. Che il tuo sonno possa essere solo un breve sogno tra questo mondo e qualcosa di migliore. Baruch ha-Shem." Mentre si allontanava con Rita, Ginger sentì i becchini gettare le prime palate di terra sulla bara. Elko County, Nevada Giovedì, il dottor Fontelaine si dichiarò sicuro che Ernie Block fosse guarito dalla sua nictofobia. "La guarigione più rapida che abbia mai visto," disse. "Pare proprio che voi marines siate più duri dei comuni mortali." Sabato 11 gennaio, dopo sole quattro settimane a Milwaukee, Ernie e Faye tornarono a casa. Sandy Sarver era andata a prenderli all'aeroporto di Elko, ma Ernie non la riconobbe immediatamente. Non era la solita Sandy, pallida, trasandata, con le spalle curve, quella che stava davanti al piccolo terminal, nella luce cristallina del sole invernale. Per la prima volta da quando Ernie la conosceva, Sandy era un po' truccata. Le sue unghie non erano più rosicchiate. I capelli, in passato sempre flosci, opachi, trascurati, ora erano lucidi e vaporosi. La figura si era fatta più piena, morbida. Aveva sempre dimostrato più della sua età; adesso, invece, appariva più giovane di anni. Arrossì ai commenti di Ernie e Faye sul suo aspetto, e si schermì dicendo che i suoi cambiamenti erano di scarso rilievo, ma era chiaramente compiaciuta del loro apprezzamento. Era cambiata anche per altri versi. Era sempre stata timida e riservata, ma mentre andavano al parcheggio e caricavano i bagagli sul pickup rosso fece parecchie domande su Lucy, Frank e i nipoti. Non chiese della fobia
di Ernie perché non ne sapeva niente; avevano tenuto segreto il problema, spiegando la loro prolungata permanenza nel Wisconsin dicendo che volevano passare più tempo con i ragazzi. Guidando attraverso Elko per prendere l'interstatale 80, Sandy fu addirittura garrula mentre parlava del Natale appena trascorso e degli affari alla tavola calda del Tranquility. La disinvoltura al volante di Sandy fu un'altra cosa che stupì Ernie. Sapeva che lei aveva un'avversione per i viaggi su qualsiasi veicolo a quattro ruote, eppure adesso guidava con un'abilità di cui non l'avrebbe mai creduta capace. Anche Faye, seduta tra Sandy ed Ernie, dovette notarlo, perché lanciava al marito occhiate significative ogni volta che Sandy manovrava il pickup con particolare fluidità e audacia. Poi successe una cosa strana. A meno di due chilometri dal motel, l'interesse di Ernie per la metamorfosi di Sandy fu improvvisamente soppiantato dalla curiosa sensazione che lo aveva afferrato la prima volta, il 10 dicembre, tornando da Elko col furgone; la sensazione che un particolare appezzamento di terra, un chilometro più avanti, a sud dell'autostrada, lo stesse chiamando, che qualcosa di strano gli fosse successo laggiù. Come la volta prima, era una sensazione assurda e insieme avvincente, caratterizzata dalla misteriosa attrazione di un luogo magico in un sogno. Ernie ne fu sconcertato. Aveva supposto che il peculiare magnetismo di quel posto fosse stato, in qualche modo, parte dello stesso disturbo mentale che aveva causato la sua paura del buio. Guarito dalla nictofobia, aveva dato per scontato che ogni altro sintomo del suo temporaneo squilibrio psicologico sarebbe scomparso, così questo gli parve un cattivo segno. Non voleva nemmeno pensare a cosa ciò potesse significare. Faye stava raccontando a Sandy della mattina di Natale con i nipoti, e Sandy rideva, ma Ernie non le ascoltava più. Mentre si avvicinavano alla zona che esercitava un'attrazione mesmerica su di lui, strizzò gli occhi nel riverbero del sole sul parabrezza, preso da un senso di trepida attesa. Sembrava stesse per accadere qualcosa di monumentale importanza, e lui era colmo di timore. Poi, mentre passavano davanti a quel luogo ammaliatore, Ernie si accorse che Sandy aveva considerevolmente rallentato. Non poté essere certo che anche lei fosse stata temporaneamente incantata da quella stessa porzione di terreno, perché quando la guardò stava già accelerando di nuovo; ascoltava Faye e guardava la strada davanti a sé. Ma gli sembrò che ci fosse una strana espressione sul suo viso e la fissò sbigottito, domandandosi
come potesse condividere la sua misteriosa e irrazionale attrazione per quel punto del paesaggio che oggettivamente, non aveva niente di particolare. "E bello essere di nuovo a casa," disse Faye quando Sandy mise la freccia a destra per immettersi sulla rampa di uscita. Ernie continuò a osservare Sandy, cercando la conferma che aveva rallentato in risposta al medesimo inquietante richiamo che lui aveva sentito, ma non vide traccia della paura che il richiamo generava in lui. Sorrideva. Doveva essersi sbagliato. Aveva rallentato per qualche altra ragione. Un senso di gelo si era insediato nelle ossa di Ernie e ora, mentre svoltavano dalla strada provinciale nel parcheggio del motel, sentì un freddo sudore inumidirgli il palmo delle mani, la nuca. Guardò l'orologio, non perché gli servisse conoscere l'ora, ma perché voleva sapere quanto mancava al tramonto. Più o meno cinque ore. E se non fosse stata l'oscurità in generale che temeva, ma una specifica oscurità? Forse aveva vinto così in fretta la sua fobia a Milwaukee perché la notte del Wisconsin lo spaventava solo lievemente. Forse la sua vera paura, la sua profonda paura, era causata dall'oscurità delle pianure del Nevada. Era possibile che una fobia fosse così mirata, circoscritta a un determinato luogo? Certamente no. Eppure cominciava a sentirsi nervoso. Sandy parcheggiò davanti all'ufficio del motel, e quando smontarono dal pickup abbracciò Faye ed Ernie. "Sono felice che siate tornati. Mi siete mancati tutti e due. Adesso è meglio che vada ad aiutare Ned: a quest'ora sarà già arrivata gente a mangiare." "Cosa le è successo, secondo te?" disse Faye, guardandola allontanarsi in fretta. "E chi lo sa," rispose laconico Ernie. "All'inizio ho pensato che avesse saputo di essere incinta," continuò Faye, l'alito fumante nell'aria fredda, "ma se fosse così ce l'avrebbe detto. No, è qualcos'altro." Ernie scaricò dal pickup due delle quattro valigie e, posandole a terra, sbirciò l'orologio. Il tramonto era più vicino. Faye sospirò. "In ogni caso, sono davvero felice per lei." "Già," borbottò Ernie, tirando giù le altre due valigie. "Già," lo scimmiottò affettuosamente la moglie. "Dai, non fare il duro con me, tanto lo so che ti preoccupavi per lei quasi quanto un tempo eri preoccupato per la nostra Lucy. All'aeroporto, quando hai visto Sandy così
cambiata, sembrava che ti si stesse sciogliendo il cuore." Lui la seguì con i due borsoni più pesanti. "Mi ci manca solo questo. Esiste un termine scientifico per una simile calamità?" "Come no. Cardioliquefazione." Lui rise, a dispetto della tensione che gli annodava lo stomaco. Faye riusciva sempre a farlo ridere, in genere quando ne aveva davvero bisogno. Appena entrati, l'avrebbe presa tra le braccia, baciata, e portata dritto di sopra, in camera da letto. Niente sarebbe stato altrettanto efficace per scacciare la paura che era improvvisamente rispuntata in lui, come un pupazzo a molla saltato fuori da una scatola. Passare del tempo con Faye era sempre la migliore medicina. Davanti alla porta dell'ufficio, Faye mise giù le valigie e cercò le chiavi nella borsa. Visto che il recupero di Ernie si era annunciato fin dall'inizio eccezionalmente rapido, e quindi non sarebbero dovuti rimanere a Milwaukee per mesi come pensavano, aveva deciso che non era il caso di cercare qualcuno che li sostituisse durante la loro assenza; avevano semplicemente tenuto chiuso il motel. Ora dovevano riaprire, accendere il termostato, pulire la polvere accumulata. Un bel po' di lavoro da fare, ma ancora abbastanza tempo per un po' di danza orizzontale, pensò Ernie con un sorrisetto. Stava alle spalle di Faye mentre lei apriva la porta, così fortunatamente non lo vide sobbalzare quando all'improvviso la giornata luminosa si rabbuiò. Non erano proprio sprofondati nell'oscurità; semplicemente, una grande nuvola era passata davanti al sole; il livello di luce era sceso non più del venti per cento. Eppure, fu sufficiente per sgomentarlo. Guardò l'orologio. Guardò verso est, da dove sarebbe giunta la notte. Andrà tutto bene, pensò. Sono guarito. Sulla strada: da Reno a Elko County Dopo l'esperienza paranormale di martedì, in casa di Lomack, quando innumerevoli lune di carta erano entrate in orbita intorno a lui, Dominick Corvaisis passò qualche giorno a Reno, come aveva fatto due estati prima, andando da un casinò all'altro, guardando i giocatori. Come la volta prima, giocò solo il minimo indispensabile per non dar nell'occhio, perché il suo scopo principale era osservare. Dopo la tempesta di lune di carta, aveva motivo di supporre che Reno fosse il posto dove la
sua vita era cambiata per sempre e dove avrebbe trovato la chiave per liberare i suoi ricordi imprigionati. Le persone attorno a lui ridevano, chiacchieravano, brontolavano contro la sfortuna e gridavano per incoraggiare i dadi, ma Dom rimaneva freddo, distaccato, attento a cogliere qualunque traccia degli eventi del passato. Non scoprì nulla. Ogni sera contattò Parker Faine a Laguna Beach, sperando che lo sconosciuto corrispondente avesse inviato un altro messaggio. Non ne erano arrivati altri. Ogni notte, prima di addormentarsi, si sforzò di capire l'impossibile danza delle lune di carta. E cercò una spiegazione ai rossi anelli in rilievo che aveva visto sulle proprie mani mentre stava in ginocchio nel soggiorno di Lomack. Non arrivò a comprendere alcuno dei due fenomeni. Giorno dopo giorno, il desiderio di Valium e Dalmane diminuiva, ma i suoi incubi sulla luna peggioravano. Ogni notte lottava strenuamente contro la fune con cui si ancorava al letto. Sabato, Dom sospettava ancora che la risposta alla sua paura notturna e al sonnambulismo fosse a Reno, ma decise che era meglio non cambiare i suoi programmi. Doveva proseguire per Mountainview. Se fosse arrivato alla fine del viaggio senza trovare satori, allora avrebbe potuto tornare a Reno. Due estati prima, aveva lasciato l'Hotel Harrah alle dieci e trenta di venerdì mattina, 6 luglio, dopo un'abbondante colazione. Sabato 11 gennaio, si attenne a quella stessa tabella di marcia, prendendo l'interstatale 80 alle dieci e quaranta, dirigendosi a nordest, verso Winnemucca, dove Butch Cassidy e Sundance Kid avevano rapinato una banca in un altro secolo. L'immensa distesa desertica era poco diversa da com'era stata un migliaio di anni prima. L'autostrada e l'elettrodotto, spesso i soli segni di civilizzazione, correvano lungo la pista che un tempo era stata battuta dalle carovane. Dom guidò per pianure spoglie e colline impennacchiate di stentata boscaglia, attraverso un mondo primordiale, inospitale ma non privo di una sua bellezza selvaggia, fatto di arbusti di salvia, sabbia, pianure alcaline, laghi in secca, letti di lava solidificata con cristallizzazioni a colonna, distanti montagne. Dirupi a picco e monoliti venati mostravano tracce di borace, zolfo, allume e sale. Isolate formazioni rocciose erano splendidamente dipinte di ocra, ambra e grigio. A nord della dolina dove il fiume Humboldt veniva inghiottito dalla terra assetata, c'erano diversi corsi d'acqua, oltre allo stesso Humboldt, e lì il desolato paesaggio lasciava spa-
zio ad alcune fertili vallate con prati rigogliosi e alberi: pioppi, salici, ma non in profusione. Abbastanza acqua significava abitabilità e agricoltura, ma anche nelle valli ospitali gli insediamenti erano scarsi, la presa della civiltà tenue. Come sempre, Dom fu sopraffatto dalla vastità del West. Questa volta, però, il paesaggio suscitò nuove sensazioni in lui: un senso di mistero, e un'inquietante consapevolezza di illimitate, e sinistre, possibilità. Era facile credere che qualcosa di spaventoso gli fosse successo in quella sconfinata solitudine. Alle due e quarantacinque si fermò per fare il pieno e mangiare un panino a Winnemucca, una cittadina di appena cinquemila abitanti, ma di gran lunga la più grande in una regione di ventiseimila chilometri quadrati. Poi l'interstatale 80 svoltava verso est. Il terreno cominciò gradualmente a salire verso l'orlo del Grande Bacino. A ogni orizzonte svettavano montagne innevate e ciuffi d'erba più consistenti spuntavano tra gli arbusti; in alcuni punti c'erano anche dei veri prati, ma il deserto non era ancora finito. Al tramonto, Dom uscì dall'interstatale e si fermò al Tranquility Motel. Parcheggiò vicino all'ufficio e, scendendo dalla macchina, fu sorpreso da un vento freddo. Avendo guidato tanto a lungo attraverso il deserto, era psicologicamente preparato al caldo, benché sapesse che sugli altipiani era inverno. Si infilò di nuovo in macchina, prese un giubbotto di pelle imbottito e lo indossò. Si avviò verso il motel, poi si fermò, preso da un'improvvisa apprensione. Era quello il posto. Non sapeva come facesse a esserne sicuro, ma era così. Era lì che gli era accaduto qualcosa di strano. Quando si era fermato lì, due estati prima, era la sera di venerdì 6 luglio. Aveva trovato affascinante e ispirante il curioso isolamento del posto e la maestosità del paesaggio: un'ottima ambientazione per un romanzo. Così, aveva deciso di fermarsi un paio di giorni per prendere familiarità col luogo e pensare a qualche trama adatta allo sfondo. Non era ripartito per Mountainview fino al martedì mattina, il 10 di luglio. Ora si girò lentamente, guardandosi attorno nella luce che andava rapidamente svanendo, sperando di pungolare la propria memoria, e sentì crescere in sé la convinzione che quello che gli era successo lì era la cosa più importante della sua vita. Il ristorante, con le sue grandi finestre e l'insegna blu al neon, era all'estremità ovest del complesso, separato dal motel, circondato da un ampio
spiazzo in cui al momento erano parcheggiati tre camion a rimorchio. Una tettoia di alluminio smaltato di verde scuro correva per tutta la lunghezza del motel, che era bianco, con due ali di un solo piano separate da una sezione a due piani, di cui il primo ospitava l'ufficio e il secondo, senza dubbio, l'appartamento dei proprietari. L'ala occidentale aveva dieci camere con lucide porte verdi, mentre quella orientale era fatta a L, con sei stanze nella prima sezione e quattro nel braccio più corto. Dom continuò a girare su se stesso e vide il cielo scuro a est, l'interstatale sfocata nel buio che avanzava, poi l'immenso panorama disabitato immerso nell'ombra a sud, e a ovest le pianure e le montagne sotto il cielo striato di cremisi. L'apprensione di Dom crebbe di momento in momento, finché ebbe completato il giro e si ritrovò nuovamente a guardare il ristorante. Come in un sogno, andò verso il locale. Il cuore prese a battergli forte, e quando raggiunse la porta provò l'impulso di fuggire. Facendosi forza, aprì la porta ed entrò. Era una saletta pulita e ben illuminata, calda e accogliente. L'aria era colma di odori invitanti: patatine fritte, cipolle, hamburger sfrigolanti sulla piastra, prosciutto fritto. Con un senso di irreale paura, andò a un tavolo vuoto. Al centro c'erano una bottiglietta di ketchup, una di senape, una zuccheriera, una saliera, un portacenere. Prese in mano la saliera. Sul momento non sapeva perché lo avesse fatto, ma poi ricordò di essere stato seduto a quello stesso tavolo due estati prima, la sua prima sera al Tranquility Motel. Aveva rovesciato un po' di sale e meccanicamente se ne era buttato un pizzico oltre una spalla, gettandolo inavvertitamente in faccia a una giovane donna che stava passando dietro di lui. Aveva la sensazione che quell'incidente fosse importante, ma non sapeva perché. Per la donna? Chi era? Una sconosciuta. Che aspetto aveva? Cercò di ricordare il suo volto, ma non ci riuscì. Il cuore gli martellava nel petto senza apparente motivo. Si sentiva sull'orlo di una qualche sconvolgente rivelazione. Si sforzò di rammentare altri particolari, ma senza risultato. Posò la saliera. Ancora trasognato, tremante per un'ansia imprecisata, proseguì fino al tavolo d'angolo vicino alla finestra. Era libero, ma Don era sicuro che la giovane donna, dopo l'incidente del sale, fosse andata a sedersi lì, in quella lontana sera. "Posso servirla?" Dom si accorse che una cameriera in maglione giallo gli stava accanto e
gli aveva parlato, ma questo non lo distrasse dal terribile ricordo che stava per affiorare in lui. Ancora non si era mostrato, ma lo sentiva sempre più vicino. La donna uscita dal passato, il cui viso rimaneva privo di fattezze nella sua memoria, si era seduta a quel tavolo, radiosamente bella nella luce arancione del tramonto. "Signore? Qualcosa non va?" La giovane donna aveva ordinato la cena, e Dom aveva continuato a mangiare, e la notte era calata, e... No! La memoria emerse dagli abissi, quasi eruppe dalla tenebrosa superficie alla luce, nella sua coscienza, ma all'ultimo momento, preso dal panico, Dom rifuggì da essa, come se avesse visto l'orribile faccia di un qualche leviatano mostruosamente malvagio che stesse per avventarsi su di lui. Improvvisamente rifiutandosi di ricordare, Dom lanciò un grido, girò la schiena alla sbigottita cameriera e scappò via. Si rese conto che la gente lo guardava, che stava dando spettacolo, ma non gliene importava un accidente. Voleva solo uscire di lì. Raggiunse la porta, la spalancò e corse fuori sotto un cielo nero screziato di porpora e rosso scarlatto. Aveva paura. Paura del passato. Paura del futuro. Ma ciò che più lo spaventava era non sapere perché aveva paura. Chicago, Illinois Padre Brendan Cronin tenne in serbo il suo annuncio per il dopo cena, quando padre Wycazik, con la pancia piena e un bicchiere di brandy in mano, sarebbe stato nella migliore disposizione d'animo. Nel frattempo, mangiò di gusto patate, piselli e prosciutto, doppia porzione di tutto, più un terzo di pagnotta casereccia. Aveva ritrovato l'appetito, ma non la fede. Quando la sua convinzione dell'esistenza di Dio era crollata, aveva lasciato in lui un profondo sconforto e un terribile vuoto, ma ora si era ripreso dall'abbattimento, e il vuoto andava ridimensionandosi. Stava cominciando a rendersi conto che un giorno avrebbe potuto condurre una vita che avesse un senso e uno scopo anche al difuori della chiesa. Per Brendan - al quale nessun piacere terreno era mai parso invitante quanto la gioia spirituale della messa - anche solo prendere in considerazione una vita laica era uno sviluppo rivoluzionario. Forse il suo morale si era risollevato perché, dopo Natale, era almeno passato dall'ateismo a un agnosticismo con riserva. I fatti recenti lo avevano portato a considerare l'esistenza di una forza che, pur non essendo ne-
cessariamente Dio, era comunque soprannaturale. Dopo cena, padre Gerrano andò di sopra per trascorrere qualche ora leggendo l'ultimo libro di James Blaylock, un autore che piaceva anche a Brendan, ma le cui storie di bizzarre creature fantastiche e ancor più bizzarri esseri umani erano troppo fantasiose per un ostinato realista come padre Wycazik. Trasferendosi nel suo studio con Brendan commentò questo: "Scrive bene, ma quando ho finito una delle sue storie, ho la strana sensazione che niente sia quel che sembra, e questo non mi piace affatto." "Forse niente è quel che sembra," replicò Brendan. Padre Wycazik scosse la testa e la luce si riflesse sui suoi capelli grigi in un modo che li fece sembrare fil di ferro. "No, quando leggo per svago, preferisco si tratti di un bel mattone solido e pesante, che ti tenga ben attaccato alla realtà della vita." Brendan sorrise. "Se c'è un paradiso, padre, e se in qualche modo mi riesce di arrivarci, spero mi capiterà l'occasione di organizzare un incontro fra lei e Walt Disney. Mi piacerebbe vederla cercare di convincerlo che avrebbe dovuto impiegare il suo tempo animando le opere di Dostoevskij invece delle avventure di Topolino." Ridendo di se stesso, padre Wycazik versò da bere, ed entrambi si accomodarono in poltrona, il giovane con un bicchiere di schnaps, il suo superiore con un piccolo brandy. Per Brendan era giunto il momento di tirare fuori quel che aveva da dire. "Se lei è d'accordo, padre, io andrei via per un po'. Vorrei partire lunedì, se posso. Devo andare in Nevada." "Nevada?" Padre Wycazik guardò esterrefatto il suo curato, come se gli avesse appena detto di voler partire per Bangkok o Timbuktu. "Perché in Nevada?" Col forte sapere di gin aromatizzato alla menta sulla lingua e il penetrante profumo che gli pizzicava le narici, Brendan disse: "E lì che devo andare. Ieri notte, nel sogno, anche se non ho visto altro che una luce intensa, a un tratto ho saputo qual era il posto. Elko County, Nevada. E ho saputo che devo tornare lì se voglio trovare una spiegazione alla guarigione di Emmy e alla resurrezione di Winton." "Tornare lì? Vuoi dire che ci sei già stato?" "Due estati fa, appena prima di arrivare qui." Lasciato il suo posto con monsignor Orbella a Roma, Brendan era volato direttamente a San Francisco per svolgere un ultimo incarico assegnatogli dal suo mentore del Vaticano. Era rimasto due settimane col vescovo John
Santefiore, un vecchio amico di Orbella. Il vescovo stava scrivendo un libro sulla storia della scelta papale, e Brendan era arrivato carico di materiale procurato dal monsignore a Roma e il compito di rispondere a qualunque domanda su quei documenti. John Santefiore era un uomo interessante, con un umorismo sottile e pungente, e i giorni erano volati. Concluso il suo incarico, a Brendan erano rimaste due settimane libere prima di doversi presentare ai suoi superiori a Chicago, la sua città, dove sarebbe stato assegnato come curato a qualche parrocchia di quell'arcidiocesi. Aveva trascorso pochi giorni a Carmel, nella penisola di Monterey, poi aveva deciso di visitare una parte del paese che non aveva mai visto prima ed era partito per un lungo viaggio verso est, con una macchina presa a nolo. Ora, padre Wycazik si protese in avanti, il bicchierino di brandy tra le mani. "Mi ricordavo del vescovo Santefiore, ma avevo dimenticato che sei venuto in macchina da lì a qui. E sei passato da Elko County, Nevada?" "Sono stato lì, in un motel sperduto. Tranquility Motel. Mi ero fermato per la notte, ma il posto era così pacifico, e il paesaggio così bello, che ci sono restato per qualche giorno. Adesso devo tornarci." "Perché? Cosa ti è successo là?" Brendan si strinse nelle spalle. "Niente. Mi sono semplicemente rilassato. Ho riposato. Letto un paio di libri. Guardato un po' di televisione. La TV si prende bene anche lì in mezzo alle pianure perché hanno sul tetto la loro piccola parabolica per ricevere dal satellite." Padre Wycazik piegò la testa da un lato. "Che ti succede? Avevi una voce... strana. Legnosa... come se stessi ripetendo qualcosa che hai imparato a memoria." "Le stavo solo dicendo com'era." "Così, non ti è successo niente mentri eri là. Ma allora perché quel posto è tanto speciale? Cosa succederà quando ci tornerai?" "Non so bene. Ma sarà qualcosa... di incredibile." Finalmente rivelando la sua irritazione per l'ottusità del curato, padre Wycazik pose la domanda in tono brusco: "È Dio che ti sta chiamando?" "Non lo credo. Ma forse. Non lo escludo. Padre, io vorrei il suo permesso di andare. Ma se non posso avere la sua benedizione, andrò comunque." Padre Wycazik buttò giù un sorso di brandy più lungo di quanto fosse sua abitudine. "Penso che dovresti andare, ma non penso che dovresti andare da solo." Brendan fu sorpreso. "Vuole venire con me?"
"Non io. Ho la parrocchia a cui badare. Ma tu dovresti essere in compagnia di un testimone qualificato. Un prete che abbia familiarità con queste cose, che possa verificare qualsiasi evento miracoloso." "Intende dire qualche ecclesiastico con l'imprimatur del cardinale per indagare su notizie di visioni isteriche come statue della Madonna che piangono, crocefissi sanguinanti e manifestazioni divine di ogni genere." Padre Wycazik annuì. "Esatto. Qualcuno che conosca la prassi di autenticazione. Avevo in mente monsignor Janney; lui ha un'ampia esperienza di..." Riluttante a contrariare il suo superiore, ma determinato a procedere a modo proprio, Brendan lo interruppe: "Qui non si tratta di una visita del Signore, quindi non c'è alcun bisogno di monsignor Janney. Niente di quanto mi sta accadendo ha una palese attinenza alla religione." "E chi ha mai detto che a Dio non sia permesso essere sottile?" obiettò padre Wycazik. Il suo sorrisetto rese chiaro che si aspettava di vincere quella discussione. "Queste cose potrebbero essere tutte soltanto fenomeni psichici." "Bah! Sciocchezze. I fenomeni psichici sono soltanto le patetiche spiegazioni che i non credenti danno alle manifestazioni divine. Esamina attentamente questi eventi, Brendan; apri il tuo cuore al loro significato, e vedrai la verità. Dio ti sta richiamando a sé. E io credo che una visita del Signore possa essere ciò a cui tutto questo porterà." "Ma in tal caso, perché non potrebbe succedere qui? Perché dovrebbe essere necessario andare fino in Nevada?" "Forse è una prova della tua obbedienza alla volontà di Dio, una prova del tuo nascosto desiderio di credere ancora. Se il tuo desiderio è abbastanza forte, andrai all'appuntamento, e per ricompensa ti si mostrerà qualcosa che ti farà credere di nuovo." "Ma perché il Nevada? Perché non la Florida, il Texas o Istanbul?" "Solo Dio lo sa." "E perché Dio si darebbe tanto disturbo per recuperare l'anima di un singolo prete smarrito?" "Per Lui che ha creato la terra e le stelle, questo non è un disturbo. E una singola anima per lui è importante quanto un milione di anime." "E allora perché ha lasciato che io perdessi la fede?" "Forse la perdita e la riconquista della fede è un processo di rafforzamento. Forse Dio ti ha fatto attraversare questa crisi perché voleva temprarti."
Brendan sorrise e scosse la testa, ammirato. "Lei non resta mai a corto di risposte, eh, padre?" Stefan si rimise comodo in poltrona, l'aria compiaciuta. "Dio mi ha dato il dono di una lingua pronta." Brendan conosceva bene la reputazione di redentore di preti in crisi che aveva padre Wycazik, e sapeva che non si sarebbe arreso facilmente, o non si sarebbe arreso affatto. Ma lui era deciso a non andare in Nevada con monsignor Janney alle calcagna. Dalla propria poltrona, oltre l'orlo del bicchiere di brandy, padre Wycazik guardò Brendan con evidente affetto e ferrea determinazione, aspettando con impazienza un'altra obiezione da confutare abilmente, un'altra stoccata da parare col suo immancabile aplomb gesuitico. Brendan sospirò. Sarebbe stata una lunga serata. Elko County, Nevada Dopo essere scappato fuori del ristorante del Tranquility ritrovandosi spaventato e confuso nell'ultima luce violacea del crepuscolo, Dom Corvaisis andò direttamente all'ufficio del motel, e lì capitò in mezzo a una scena che inizialmente gli sembrò un bisticcio domestico: subito dopo si rese conto che era qualcosa di più strano. Un uomo robusto in calzoni e maglione marrone stava al centro della stanza, sul lato esterno del bancone. Era poco più alto di Dom, ma molto più grosso. Sembrava scolpito in un blocco di legno di quercia. Il grigio dei suoi capelli a spazzola e le rughe sul volto indicavano che era sulla cinquantina, ma a giudicare dal fisico forte e muscoloso lo si sarebbe detto più giovane. L'uomo stava tremando, come fosse infuriato. Al suo fianco, una donna lo fissava con una strana intensità. Era una bionda dai vividi occhi azzurri, più giovane di lui, ma la sua età era difficile da stabilire. L'uomo aveva la faccia pallida e lucida di sudore. Mentre Dom varcava la soglia, realizzò che la sua prima impressione era sbagliata: quel tipo non era infuriato ma terrorizzato. "Rilassati," disse la donna. "Cerca di controllare il respiro." L'uomo stava ansimando. Stava in piedi col massiccio collo chinato, la testa bassa, le spalle curve, fissando il pavimento, inspirando ed espirando con un'aritmia che tradiva un crescente panico. La donna continuò a parlargli: "Respira piano e profondamente. Ricorda
quel che ti ha insegnato il dottor Fontelaine. Quando ti sarai calmato usciremo a fare due passi." L'uomo scosse violentemente la testa. "No!" "Sì, invece," insistette lei, posandogli una mano sul braccio con fare rassicurante. "Andremo fuori insieme, Ernie, e vedrai che il buio qui non è diverso che a Milwaukee." Ernie. Quel nome raggelò Dom. Immediatamente ricordò i quattro poster della luna con i nomi scritti sopra nel salotto di Zebediah Lomack, a Reno. La donna gli lanciò un'occhiata. "Mi serve una stanza," le disse lui. "Siamo al completo." "Ma il segnale fuori dice che ci sono camere disponibili." "Okay," ammise lei. "Okay, ma non adesso. Per favore. Non adesso. Vada al ristorante e torni tra una mezz'ora. Per favore." Fino a quel momento, Ernie non sembrava essersi accorto dell'intrusione di Dom. Ora alzò gli occhi dal pavimento, e gli sfuggì un gemito di paura e sconforto. "La porta. La chiuda, prima che entri il buio!" "No, no, no," cercò di tranquillizzarlo la donna, la voce ferma eppure colma di compassione. "Non sta entrando. Il buio non può farti niente, Ernie." "Sta entrando," insistette lui, sconsolato. Dom notò che la stanza era eccesivamente illuminata. Non c'era una lampada che non fosse accesa. La donna si rivolse di nuovo a Dom. "Per l'amor di Dio, chiuda la porta." Lui fece un passo avanti e si chiuse la porta alle spalle. "Intendevo dire di chiuderla e di andarsene," precisò lei. L'espressione sulla faccia di Ernie era in parte terrore, in parte vergogna. I suoi occhi si spostarono da Dom alla finestra. "È lì che preme contro il vetro. Tutto quel buio... sta cercando di venire dentro!" Guardò imbarazzato Dom, poi abbassò di nuovo la testa, chiuse gli occhi serrandoli. Dom restò a fissarlo impietrito. L'irrazionale paura di Ernie era orribilmente simile al terrore che lo portava a camminare nel sonno e a nascondersi negli armadi. Usando la rabbia per reprimere le lacrime, la donna si girò verso Dom. "Perché non se ne va? È nictofobo. A volte ha paura del buio, e quando ha uno di questi attacchi dobbiamo affrontarlo insieme." Dom ricordò gli altri nomi scritti sui poster - Ginger, Faye - e ne scelse
uno d'istinto. "Stia tranquilla, Faye. Credo di poter capire quello che state passando." Sentendosi chiamare per nome, lei sbattè le palpebre, sorpresa. "La conosco?" "Forse. Sono Dominick Corvaisis." "Non mi dice niente," replicò Faye, restando al fianco di Ernie mentre lui si girava e, con gli occhi ancora chiusi, si dirigeva a passo incerto verso il fondo dell'ufficio. "Devo andare di sopra," disse Ernie, cercando a tastoni il cancelletto del bancone. "Lì almeno posso tirare le tende e tenere fuori il buio." "No, Ernie, aspetta," lo trattenne Faye. "Non devi scappare." Dom si fece avanti, si portò davanti a Ernie, gli mise una mano sul petto per fermarlo. "Lei ha degli incubi," affermò con sicurezza. "E quando si sveglia, non riesce a ricordarne niente, se non che avevano qualcosa a che fare con la luna." Faye trasalì. Ernie spalancò di colpo gli occhi per la sorpresa. "Come fa a saperlo?" "Ho anch'io incubi da oltre un mese," spiegò Dom. "Ogni notte. E so di un uomo che ne ha sofferto tanto da arrivare a uccidersi." Ernie e Faye lo fissarono sbigottiti. "In ottobre," continuò Dom, "ho cominciato ad avere crisi di sonnambulismo. Scendevo dal letto e andavo a nascondermi da qualche parte, o mettevo insieme armi per proteggermi. Una volta ho cercato di sbarrare le finestre per tenere fuori qualcosa. Capisci, Ernie, ho paura di qualcosa nel buio. Scommetterei che è quello di cui hai paura anche tu. Non dell'oscurità in sé ma di qualcos'altro, qualcosa di specifico che ti è successo", fece un gesto verso le finestre, "là fuori nel buio, due estati fa." Ancora disorientato dall'inaspettata piega che avevano preso gli eventi, Ernie lanciò un'occhiata alla notte oltre i vetri, poi immediatamente distolse lo sguardo. "Non riesco a capire." "Andiamo di sopra, dove può tirare le tende," disse Dom. "Ti racconterò tutto quel che so. La cosa importante è che tu non sei più da solo in questa storia. E grazie al cielo, nemmeno io." New Haven County, Connecticut Come un orologio. I colpi di Jack Twist funzionavano sempre con precisione millimetrica, e il lavoro del furgone portavalori non fece eccezione.
La notte era coperta da un solido strato di nuvole. Non c'era una stella, né la luna. Non nevicava, ma in compenso un vento freddo e umido soffiava da sudovest. Il furgone della Guardmaster passò rombando attraverso i campi, avvicinandosi da nordest al poggio da dove Jack lo aveva guardato la vigilia di Natale. I suoi fanali frugavano fra impalpabili, sbrindellati veli di nebbia. In mezzo ai campi innevati, la strada sembrava un nastro di raso nero. Jack, in tenuta da sci bianca col cappuccio, era disteso nella neve, a sud della strada, di fronte al poggio. Dall'altra parte, ai piedi della collinetta, il secondo membro della squadra, Chad Zepp, anche lui in bianco, si mimetizzava con un altro mucchio di neve. Il terzo uomo, Branch Pollard, era pronto a metà della collinetta con un fucile mitragliatore pesante da assalto, un Heckler & Koch HK91. Il blindato era a duecento metri. Fluttuanti formazioni di nebbia attraversavano la strada, rifrangendo la luce dei fari, poi tornavano a scomparire nel buio dei campi. All'improvviso, sul fianco della collina, la bocca dell'HK91 fece fuoco, e uno sparo risuonò nella notte. L'HK91, forse il miglior mitragliatore da combattimento esistente, poteva sparare centinaia di colpi senza incepparsi. Estremamente preciso, efficace a una distanza di mille metri, era in grado di piantare un proiettile 7.62 NATO attraverso un albero o un muro di cemento, con ancora abbastanza forza per uccidere qualcuno dall'altra parte. Quella notte, comunque, loro non intendevano uccidere nessuno. Aiutato da un mirino telescopico a infrarossi, Pollard centrò il bersaglio al primo colpo, facendo scoppiare il pneumatico anteriore destro del blindato. Il furgone sbandò violentemente, incontrò del ghiaccio, cominciò a slittare. Intanto, Jack era uscito allo scoperto. Corse verso la strada, superò d'un balzo una cunetta e si parò davanti al veicolo, che in lontananza appariva come un carro armato. All'ultimo momento, quando sembrava inevitabile che finisse nella cunetta, l'autista riuscì a riprendere il controllo e il furgone si fermò sussultando a un centinaio di metri da Jack. Uno degli uomini della Guardmaster parlò concitatamente al microfono della radio, ma la richiesta di aiuto era vana. Nel momento in cui Pollard aveva sparato dalla collinetta, Chad Zepp, ancora nascosto nella neve a nord della strada, aveva acceso una trasmittente a batteria, disturbando la frequenza della radio con rumorose scariche.
Illuminato in pieno dai fari, simili a un'apparizione spettrale tra la nebbia sospinta dal vento, Jack, in mezzo alla strada, puntò con cura il fucile lancialacrimogeni contro la griglia del furgone. Era un fucile di fabbricazione inglese, creato per squadre antiterrorismo. Altri lancialacrimogeni sparavano granate che liberavano il gas al momento dell'impatto, richiedendo al tiratore di mirare alle finestre. Ma quando prendevano un'ambasciata, i terroristi solitamente inchiodavano assi alle finestre. La nuova arma inglese, che Jack aveva acquistato da un trafficante a Miami, aveva un'anima di due pollici e lanciava proiettili rivestiti di acciaio ad alta velocità, capaci di perforare assi di legno anche di notevole spessore. Quando Jack sparò, il proiettile sfondò la griglia del furgone ed esplose nel motore. Un vapore giallo cominciò a invadere la cabina attraverso il sistema di ventilazione. In circostanze simili, le guardie erano istruite a restare al sicuro nell'abitacolo, che aveva portiere di acciaio e vetri antiproiettile. Ma quando spensero il riscaldamento e chiusero i diffusori d'aria, la cabina era già piena di gas. Non poterono far altro che aprire le portiere e buttarsi fuori nella fredda notte invernale, ansimando e tossendo. Nonostante l'effetto soffocante e accecante del gas, l'autista estrasse la sua pistola e, cadendo sulle ginocchia, strizzò gli occhi lacrimanti in cerca di un bersaglio. Jack gli fece saltare di mano l'arma con un calcio, lo afferrò per la giacca e lo trascinò davanti al furgone, dove lo ammanettò al paraurti, mentre Branch Pollard, che dopo aver sparato il colpo che aveva messo fuori uso il furgone era corso giù dalla collinetta, faceva lo stesso con l'altra guardia. I due uomini della Guardmaster battevano furiosamente gli occhi, cercando di schiarirsi la vista offuscata dal gas per poter vedere in faccia i loro assalitori, ma era fatica sprecata, perché Jack, Pollard e Zepp avevano il volto coperto da passamontagna e occhiali da sci. Sistemate le guardie, Jack e Pollard corsero dall'altra parte del furgone. Volevano sbrigarsela in fretta, ma non perché temessero di essere visti da qualcuno. Nessuno sarebbe passato di lì finché loro non se ne fossero andati. Hart e Dodd, gli ultimi due membri della squadra, avevano chiuso entrambe le estremità della strada fra i campi subito dopo che il blindato l'aveva imboccata. Travestiti da uomini del soccorso stradale, con furgoni rubati riverniciati ed equipaggiati allo scopo con tanto di lampeggianti, avevano sbarrato la strada con dei cavalietti e stavano mandando indietro chiunque volesse passare, spiegando che si era rovesciata un'autobotte. Come un orologio.
Chad Zepp era già dietro il furgone. Quando Jack e Pollard lo raggiunsero, stava svitando il pannello che copriva la serratura del portello posteriore alla luce di una pila che aveva fissato alla carrozzeria con una calamità. Avevano portato degli esplosivi, ma con un furgone ben costruito come quello della Guardmaster c'era il rischio che servissero solo a fondere il meccanismo di chiusura, sigillando ancora più saldamente lo sportello. Dovevano tentare di far scattare la serratura, lasciando l'uso degli esplosivi come ultima risorsa. Non che fosse cosa da poco. La serratura era di modello avanzato, azionata da un numero di codice battuto su una tastiera di dieci cifre. Per attivare il funzionamento, la guardia doveva solo chiudere lo sportello e premere il tasto corrispondente al numero centrale del codice di tre cifre. Per disattivarlo, bisognava premere le tre cifre nella giusta sequenza. Il numero di codice cambiava ogni mattina, e solo l'autista lo conosceva. Dieci tasti equivalevano a mille possibili sequenze di tre cifre. Calcolando quattro o cinque secondi per comporre ogni sequenza e aspettare che venisse accettata o respinta, avrebbero impiegato almeno un'ora e un quarto per tentare tutte le combinazioni. Sarebbe stato decisamente troppo rischioso. Chad Zepp rimosse il pannello della serratura. I dieci tasti numerati rimasero al loro posto, ma almeno ora era possibile vedere qualcosa del meccanismo. Zepp portava a tracolla un computer grande come una borsa per documenti capace di riconoscere e controllare i circuiti di serrature e sistemi di allarme elettronici. Era uno SLICKS, un acronimo che stava per Security Lock Intervention and Circumvention Knowledge System. Destinato esclusivamente a militari o dipendenti dei servizi segreti autorizzati, non era disponibile al pubblico, e possederne uno illegalmente era una violazione delle norme di sicurezza della Difesa. Per procurarselo, Jack era andato a Città del Messico e aveva pagato venticinquemila dollari a un trafficante di armi che aveva un contatto all'interno della fabbrica che produceva l'apparecchio. Zepp prese lo SLICKS e lo tenne in modo che sia lui che Jack e Pollard potessero vederne il display. Tre piccole sonde erano inserite nel computer, e Jack ne estrasse la prima: appariva come un termometro d'acciaio con la punta di rame attaccato a un cavetto di mezzo metro. Jack guardò attentamente l'interno parzialmente esposto della serratura elettronica e inserì con cura la sottile asticella metallica tra i primi due bottoni, toccando il
punto di contatto alla base del tasto 1. Il display rimase buio. Spostò la sonda al tasto 2, poi al 3. Niente. Ma quando arrivò al 4, una parola verde pallido - CURRENT - apparve sul piccolo video, insieme a dei numeri che indicavano l'elettricità rilevata. Questo significava che la cifra centrale del codice era 4. Dopo aver effettuato il carico, l'autista aveva premuto quel tasto per attivare la serratura, e il contatto si sarebbe disinserito solo quando fosse stato composto l'intero codice, aprendo così lo sportello. Con tre numeri sconosciuti, le possibili combinazioni erano mille. Ma ora che dovevano trovare la prima e l'ultima cifra, la ricerca era ridotta a sole cento combinazioni. Senza badare al vento mugghiante, Jack estrasse un altro strumento dallo SLICKS. Anche questo era collegato a un cavetto, e somigliava a un pennello, ma con un'unica setola luminosa, rigida e tuttavia flessibile. Jack lo inserì in una fessura alla base del tasto 1 e guardò il display del computer, ma non accadde niente. Spostò il sondino di tasto in tasto. Il display lampeggiò, poi mostrò il diagramma parziale di un circuito. La setola che aveva inserito nel meccanismo era il filamento finale di un laser ottico, un cugino più sofisticato del congegno che, nei registratori di cassa dei supermercati, legge il codice a barre dei prodotti. Lo SLICKS non era programmato per leggere codici a barre ma per riconoscere schemi di circuiti e riprodurli fedelmente sul display. Jack dovette spostare tre volte il sondino, inserendolo in tre punti diversi del meccanismo, prima che il computer riuscisse a mettere insieme un'immagine dell'intero circuito da vedute parziali. Il diagramma apparve in linee e simboli verdi sullo schermo in miniatura. Dopo tre secondi di studio, il computer tracciò riquadri attorno a due piccole porzioni dello schema per indicare i punti in cui si poteva facilmente intervenire sul circuito, poi vi sovrappose un'immagine della tastiera per mostrare dove si trovassero quei due punti deboli in relazione alla parte del meccanismo visibile a Jack. "C'è un buon punto per inserirsi sotto il tasto numero quattro," disse Jack. "Devo trapanare?" chiese Pollard. "Non credo sia necessario." Jack ripose la sonda ottica nella sua sede ed estrasse un terzo sottile strumento con la punta spugnosa. Lo inserì nel meccanismo attraverso la fessura alla base del tasto 4 e lo mosse su e giù, a sinistra e a destra, finché
si sentì un segnale acustico, e sullo schermo si accese la scritta INTERVENTION, indicando l'avvenuto collegamento col circuito. Mentre Jack teneva fermo lo strumento, Pollard usò la piccola consolle per dare istruzioni al computer. INTERVENTION scomparve, e sullo schermo apparvero altre parole: SYSTEM CONTROL ESTABLISHED. Adesso il computer poteva trasmettere ordini direttamente al microprocessore che controllava l'apertura e la chiusura dello sportello in base al numero di codice memorizzato. Pollard premette altri due tasti e lo SLICKS cominciò a inviare sequenze di tre cifre al microchip, una combinazione ogni sei centesimi di secondo, ognuna col 4 come numero centrale. In pochi secondi, il computer individuò il codice esatto: 545. Con quattro tonfi simultanei, le spranghe di acciaio che bloccavano lo sportello si ritrassero. Jack reinserì il terzo strumento nella sua nicchia, spense il computer. Erano passati solo quattro minuti dallo sparo che aveva fatto scoppiare il pneumatico del furgone. Come un orologio. Mentre Zepp si rimetteva lo SLICKS a tracolla, Pollard aprì lo sportello posteriore del blindato. Adesso il denaro era a loro disposizione: dovevano solo prenderselo. Zepp rise. Con un grido gioioso, Pollard saltò nel furgone e cominciò a spingere fuori rigonfi sacchi di tela. Ma Jack si sentiva ancora freddo e vuoto dentro. Improvvisamente, qualche fiocco di neve apparve nel vento. L'inspiegabile cambiamento di Jack, iniziato settimane prima, si era completato. Non gli importava più di regolare il suo conto con la società. Si sentiva senza uno scopo, alla deriva come i fiocchi di neve portati dal vento. Elko County, Nevada Faye Block aveva acceso la scritta TUTTO ESAURITO perché nessuno li disturbasse. Seduti intorno al tavolo nell'accogliente cucina del loro appartamento sopra l'ufficio del motel, i Block sorseggiavano del caffè ascoltando avvinti il racconto di Dom. Il solo punto in cui si mostrarono scettici fu quando Dom parlò dell'im-
possibile danza di lune di carta nella casa di Zebediah Lomack a Reno. Ma lui riuscì a descrivere quello stupefacente evento in modo così vivido e particolareggiato che si sentì accapponare la pelle delle braccia, e vide che la sua paura e il suo sgomento si erano trasmessi a Faye ed Ernie. Sembrarono molto impressionati dalle due polaroid che Dom aveva ricevuto per posta dal suo sconosciuto corrispondente due giorni prima di partire per Portland. Studiarono la fotografia del prete con la faccia da zombie seduto a una scrivania e si dissero certi che fosse stata scattata in una stanza del motel. La foto della bionda a letto con una flebo nel braccio era un primo piano che non mostrava niente della camera, ma riconobbero il copriletto a fiori visibile in un angolo dell'inquadratura; era uguale a quelli che avevano usato in alcune stanze fino a dieci mesi prima. Dom fu sorpreso di sapere che anche loro avevano ricevuto una fotografia simile. Ernie disse che era arrivata in una busta bianca il 10 dicembre, cinque giorni prima che partissero per Milwaukee. Faye andò a prenderla dal cassetto della scrivania giù in ufficio, e Dom la osservò attentamente. Ritraeva un uomo, una donna e una bambina, tutti e tre in calzoncini, maglietta e sandali, davanti alla porta della camera numero 9. "Li riconoscete?" domandò. "No," rispose Faye. Ernie guardò pensierosamente la foto. "Eppure... ho la sensazione che dovrei ricordarmi di loro." "Sole, abiti estivi..." commentò Dom. "Possiamo concludere quasi con sicurezza che è stata scattata due estati fa, tra venerdì 6 luglio e il martedì seguente. Queste persone devono aver preso parte a quel che ci è successo in quei giorni. Probabilmente vittime come noi. E il nostro misterioso corrispondente vuole che pensiamo a loro, ci ricordiamo di loro." "Chiunque abbia mandato le fotografie, deve essere uno di quelli che hanno cancellato i nostri ricordi," rilevò Ernie. "Allora perché vuole punzecchiare la nostra memoria, dopo tutto quello che hanno fatto per impedirci di ricordare?" Dom si strinse nelle spalle. "Forse non ha mai ritenuto giusto quello che ci è stato fatto. Forse ha fatto la sua parte solo perché doveva, e forse da allora gli rimorde la coscienza. Ma evidentemente non può esporsi dicendo apertamente quel che sa. Ha paura. Deve farlo indirettamente." A un tratto Faye scostò la sua sedia dal tavolo. "La posta arrivata mentre eravamo via. Non l'abbiamo ancora guardata." Mentre i passi affrettati di Faye echeggiavano per le scale, Ernie spiegò:
"Sandy, la cameriera del ristorante, ha ritirato la posta per noi e ha preso bollette, fatture e simili, ma il resto l'ha messo da parte. Noi siamo tornati solo stamattina e abbiamo avuto tanto da fare che non ci siamo preoccupati di vedere cosa ha portato il postino." Faye ritornò con due buste bianche. In uno stato di grande eccitazione, aprì la prima. Conteneva una polaroid di un uomo disteso a letto, un ago endovenoso nel braccio. Era sulla cinquantina. Capelli scuri, stempiato. In circostanze normali, probabilmente aveva un aspetto gioviale, ma nella foto era spento, inespressivo... uno zombie. "Mio Dio, è Calvin!" esclamò Faye. "Sì," confermò Ernie. "Carl Sharkle. È un camionista che viaggia fra Chicago e San Francisco." "Si ferma spesso qui a mangiare," aggiunse Faye. "Qualche volta, quando è proprio stanco, resta anche a dormire. È un gran brav'uomo." "Per quale compagnia lavora?" chiese Dom. "È indipendente," rispose Ernie. "Il camion è suo." "Sapreste come rintracciarlo?" "Be'... firma il registro ogni volta che prende una stanza, per cui dobbiamo avere il suo indirizzo. Sta dalle parti di Chicago, mi pare." "Controlleremo dopo. Prima vediamo cosa c'è nell'altra busta." Faye l'aprì e ne tirò fuori un'altra polaroid. Anche questa ritraeva un uomo disteso in un letto del Tranquility Motel, una flebo in un braccio. Come tutti gli altri, aveva la faccia senza espressione e quello sguardo inanimato che faceva venire in mente i film dell'orrore sui morti viventi. Ma questa volta riconobbero tutti e tre l'uomo nel letto. Era Dom. Las Vegas, Nevada Quando arrivò l'ora di andare a letto, Marcie era seduta al tavolino in un angolo della sua camera, alle prese con la sua collezione di lune. Jorja la guardava dalla porta, ma la bambina era così assorta in quello che stava facendo che non si accorse di essere osservata. Aveva una scatola di matite vicino all'album, e stava colorando con molta cura una delle lune. Questo era un nuovo sviluppo e Jorja si domandò cosa significasse. Marcie collezionava immagini della luna da una sola settimana, e già aveva riempito l'album. Era partita con ritagli di giornale, ma non disponeva di molte fonti a cui attingere, così aveva disegnato centinaia di lune, usando come guida qualunque oggetto rotondo si trovasse a portata di mano
-bicchieri, coperchi di vasetti, ditali, lattine. Non era esageratamente assorbita dall'album, ma ogni giorno gli dedicava un po' più tempo del precedente. Il dottor Coverly, lo psicologo che aveva preso in cura Marcie, riteneva che l'ansia che aveva generato l'irrazionale paura dei dottori non si fosse risolta; semplicemente, ora la bambina la esternava in un altro modo. Quando Jorja osservò che Marcie non sembrava particolarmente spaventata dalla luna, Coverly rispose: "Be', la sua ansia non deve esprimersi per forza attraverso un'altra fobia. Può farsi sentire in altri modi... come un'ossessione." Jorja non riusciva a capire da dove venisse la straordinaria ansietà della figlia. "È appunto a questo che serve la terapia," disse Coverly, "cercare di risalire all'origine del problema. Non si preoccupi." Ma Jorja era preoccupata. Era preoccupata perché Alan si era ucciso solo il giorno prima. Jorja non aveva ancora detto a Marcie della morte di suo padre. Dopo aver lasciato l'appartamento di Pepper Carrafield, aveva telefonato a Coverly per chiedere il suo parere. Lui era rimasto sconcertato apprendendo che anche Alan, indipendentemente da Marcie, aveva sviluppato un'intensa attrazione per la luna e la sognava spesso. Strano davvero. Aveva bisogno di tempo per pensarci su. Intanto, le consigliò di aspettare fino al lunedì per dare la brutta notizia a Marcie. "Venga con lei all'appuntamento. Glielo diremo insieme." Jorja temeva che, nonostante la negligenza di Alan, Marcie sarebbe stata sconvolta dalla sua morte. Stando sulla soglia della camera da letto, guardando Marcie colorare diligentemente una delle sue lune, Jorja fu colpita da un'acuta consapevolezza della fragilità della bambina. La sedia era troppo grande per lei, e la piccola arrivava a toccare terra solo con la punta dei piedi. Anche per un uomo grande e grosso, la vita era effimera, e ogni giorno di esistenza in più era una scommessa col destino. Ma per una bambina piccola come Marcie, la continuità della vita sembrava qualcosa di addirittura miracoloso. Jorja si rese conto della facilità con cui la sua preziosa figlia avrebbe potuto esserle strappata, e il cuore le si gonfiò di amore fino a farle male. Quando finalmente disse: "Tesoro, è meglio che tu ti metta il pigiama e vada a lavarti i denti," non riuscì a impedire alla propria voce di tremare. La bambina sembrò smarrita, come se non fosse ben sicura di dove si trovasse o chi fosse Jorja. Poi i suoi occhi si schiarirono, e rivolse alla madre un sorriso che avrebbe sciolto un iceberg. "Ciao, mamma. Stavo colorando lune."
"Be', adesso è ora di prepararti per andare a letto." "Un momentino solo, okay?" La bambina appariva rilassata, eppure stringeva il pastello così forte che aveva le nocche bianche. "Voglio colorare ancora qualche luna." Jorja avrebbe voluto distruggere quell'odioso album. Ma il dottor Coverly l'aveva avvertita che proibire alla bambina di collezionare lune avrebbe solo rafforzato la sua ossessione. Jorja non ne era convinta, ma lo stesso represse il suo impulso. "Avrai tutto il tempo di farlo domani, piccola." Riluttante, Marcie chiuse l'album, mise via le matite e andò in bagno a lavarsi i denti. Rimasta sola accanto al tavolino di Marcie, Jorja si sentì improvvisamente esausta. Era stata una giornata pesante al lavoro, e in più aveva contattato un'impresa di onoranze funebri, ordinato fiori e preso accordi per il funerale, che si sarebbe tenuto lunedì. Aveva anche telefonato al padre di Alan a Miami per informarlo di quel che era successo. Ora si sentiva esaurita. Stancamente, aprì l'album di Marcie. Rosso. La bambina stava colorando tutte le lune di rosso, sia quelle ritagliate dai giornali che quelle che aveva disegnato. Ne aveva già colorate più di cinquanta. L'ossessività del suo lavoro era rivelata dalla grande attenzione che aveva posto nel non andare oltre il contorno di ogni luna. La pressione del pastello aumentava a ogni disegno, e le ultime erano coperte da tanta cera che apparivano lucidissime, come bagnate. L'uso del rosso - e del rosso soltanto - turbò profondamente Jorja. Sembrava quasi che Marcie avesse intravisto la premonizione di un incombente terrore, un presagio di sangue. Elko County, Nevada Faye Block era scesa in ufficio a prendere dall'archivio il registro di due estati prima. Quando tornò di sopra, mise il libro sul tavolo da cucina, davanti a Dom, aperto sull'elenco degli ospiti di venerdì 6 e sabato 7 luglio. "Ecco, proprio come ricordavamo io ed Ernie. Quel venerdì era la sera che avevano chiuso l'interstatale per una fuga di sostanze tossiche. Si era rovesciata un'autobotte che trasportava composti chimici. Era diretta a Shenkfield, una base militare trenta chilometri a sudovest da qui. Abbiamo dovuto chiudere il motel fino al martedì, finché la situazione è tornata sotto controllo."
"Shenkfield è un terreno dove provano armi chimiche e biologiche,'' intervenne Ernie. "La roba che c'era in quell'autobotte era dannatamente pericolosa." Faye continuò, e la sua voce si fece legnosa, come se stesse recitando frasi imparate a memoria. "Hanno bloccato la strada e fatto sgombrare tutta la zona. I nostri clienti se ne sono andati coi loro mezzi." La sua faccia era inespressiva. "Ned e Sandy Sarver hanno potuto tornare alla loro roulotte vicino a Beowawe perché era fuori dell'area a rischio." "Impossibile," replicò Dom, stupito e confuso. "Io non ricordo alcuna evacuazione. Ero qui. Ricordo di aver letto, studiato l'ambientazione per una serie di racconti... ma queste memorie sono così nebulose che sospetto non siano reali. Comunque, ero qui, e mi è stato fatto qualcosa." Indicò la polaroid che lo ritraeva nel letto. "Questa ne è la prova." Quando Faye parlò, la sua voce era ancora più rigida di prima, e Dom notò che i suoi occhi avevano qualcosa di strano, uno sguardo vagamente vitreo. "Finché non ci hanno lasciati tornare, Ernie e io siamo stati ospiti di amici che hanno una piccola fattoria a quindici chilometri da qui - Elroy e Nancy Jamison. Quelli dell'esercito hanno dovuto lavorare più di tre giorni per rendere di nuovo agibile la zona. Non era una cosa da poco." "Cosa c'è che non va, Faye?" le chiese Dom. Lei battè le palpebre. "Niente, perché?" "Sembravi come... programmata per quel discorsetto." Lei lo guardò con genuina perplessità. "Di cosa stai parlando?" Ernie aggrottò le sopracciglia. "Faye, la tua voce era diventata... piatta." "Stavo solo spiegando quel che è successo." Faye si chinò verso il registro e puntò un dito sulla pagina del venerdì. "Ecco. Quella sera avevamo dato undici stanze all'ora in cui hanno chiuso l'interstatale, ma nessuna è stata pagata perché nessuno è rimasto. Hanno mandato via tutti." "Ecco il tuo nome, Dom." Ernie gli indicò la settima riga della lista. Dom fissò la propria firma e l'indirizzo di Mountainview a cui allora si stava trasferendo. Poteva ricordare di aver preso una stanza, ma non di essere risalito in macchina e ripartito la sera stessa. Proprio no. "Avete visto l'autobotte rovesciata?" Ernie scosse la testa. "No, l'incidente è successo a circa tre chilometri da qui." Parlava nello stesso tono meccanico che Faye aveva assunto poco prima. "Gli esperti di Shenkfield avevano paura che le sostanze tossiche venissero disperse dal vento: per questo la zona isolata era molto estesa." Raggelato dall'artificialità della voce di Ernie, Dom guardò Faye e vide
che anche lei aveva notato il tono innaturale di suo marito. "E così che parlavi un attimo fa," le disse, poi spostò gli occhi su Ernie. "Voi due siete stati programmati con lo stesso testo." Faye corrugò la fronte. "Stai dicendo che non c'è stata alcuna fuga di sostanze tossiche?" "Certo che c'è stata," smentì Ernie. "Il giornale di Elko ne ha parlato per un pezzo. Per un po' abbiamo conservato i ritagli, ma alla fine dobbiamo averli buttati. Comunque, da queste parti la gente si chiede ancora come sarebbe finita se ci fosse stato vento forte e quella robaccia ci avesse contaminati prima che fosse dato l'ordine di evacuare la zona. No, non è solo una nostra idea." "Puoi chiedere a Elroy e Nancy Jamison," aggiunse Faye. "Quella sera erano venuti a trovarci. Quando c'è stata l'evacuazione si sono offerti di portarci a casa loro e ospitarci per tutto il tempo necessario." Dom sorrise amaramente. "Non darei molto credito alla loro ricostruzione dei fatti. Se erano qui, allora hanno visto quello che abbiamo visto noi, ed è stato cancellato dalla loro memoria. Ricorderanno di avervi portati da loro perché è quanto gli è stato detto di ricordare. In realtà, probabilmente erano qui a subire un lavaggio del cervello insieme a tutti noi." Faye si passò una mano sulla fronte. "Mi gira la testa. Tutto questo è veramente strano." "Ma, dannazione, la fuga di sostanze tossiche e l'evacuazione ci sono state davvero," disse Ernie. "Era sui giornali." Dom riflette un momento, e gli venne in mente un'inquietante spiegazione che gli causò i brividi. "E se tutti quelli che erano qui al motel quella sera fossero stati contaminati con qualche arma chimica o biologica destinata a Shenkfield, e l'esercito e il governo avessero insabbiato tutto per evitare cattiva pubblicità, milioni di dollari in cause, e la divulgazione di informazioni top-secret? Forse hanno chiuso l'autostrada e annunciato che la zona era stata evacuata in tempo, quando di fatto non era vero. Poi hanno usato il motel come una clinica, ci hanno decontaminati per quanto potevano, e hanno cancellato il ricordo dell'incidente della nostra memoria, riprogrammandoci con falsi ricordi, così non saremmo mai stati a conoscenza di quel che ci era successo." Per un momento si fissarono in silenzio, sbigottiti. Non che la teoria quadrasse del tutto, anzi, ma era la prima ipotesi abbastanza verosimile che veniva fuori, ed effettivamente avrebbe spiegato i loro problemi psicologici e le persone drogate delle polaroid.
Poi Ernie e Faye cominciarono a trovare obiezioni. Ernie diede voce alla prima: "In questo caso, sarebbe stato logico che facessero combaciare i nostri falsi ricordi con la loro storia di copertura. È esattamente quello che hanno fatto con me e Faye, con i Jamison, Ned e Sandy Sarver. E allora perché con te no? Perché ti avrebbero programmato con ricordi che non hanno niente a che fare con l'evacuazione? Mi sembra irrazionale e rischioso. Voglio dire, le differenze radicali fra i nostri ricordi e i tuoi sono praticamente la prova che hanno fatto il lavaggio del cervello o a te o a noi - o a noi tutti." "Non so," disse Dom. "Questo è solo un mistero in più da chiarire." "E c'è un'altra falla nella teoria," riprese Ernie. "Se fossimo stati contaminati da un'arma biologica, non ci avrebbero lasciati andare dopo soli tre giorni, col rischio che diffondessimo il contagio. Avrebbero avuto paura di un'epidemia." "Allora sarà stato un agente chimico, non un virus o un batterio," controbattè Dom. "Qualcosa che poteva essere lavato via, o eliminato dall'organismo." Faye scosse la testa. "Non sta in piedi. Le cose che sperimentano a Shenkfield sono destinate a uccidere. Gas velenosi, nervini. Tutta roba letale. Se fossimo stati presi in una nube tossica del genere, saremmo morti immediatamente, o rimasti cerebrolesi o menomati." "Forse era un agente ad azione lenta," disse Dom. "Qualcosa che genera tumori, leucemia o altre malattie che vengono fuori due o tre o cinque anni dopo la contaminazione." Questa congettura li fece ammutolire di nuovo. Rimasero ad ascoltare il ticchettio dell'orologio appeso alla parete e il lugubre suono del vento dietro le finestre, domandandosi se qualche malattia maligna si stesse sviluppando dentro di loro. Alla fine, Ernie ruppe il silenzio. "Forse siamo stati contaminati, e forse stiamo tutti lentamente marcendo dentro, ma io non lo credo. Dopo tutto, a Shenkfield provano delle armi. E a che servirebbe un'arma che non uccide il nemico per anni e anni?" "Praticamente a niente," ammise Dom. "E inoltre," rincarò Ernie, "una contaminazione chimica come potrebbe spiegare quello che ti è capitato in casa di quel Lomack?" "Non ne ho idea," rispose Dom. "Ma adesso che sappiamo che hanno isolato tutta la zona, indipendentemente dal fatto che l'incidente fosse reale o solo una scusa, la mia teoria che abbiamo subito un lavaggio del cervello è molto più credibile. Vedete, prima non sapevo spiegarmi come qualcuno
avesse potuto sequestrarci e trattenerci abbastanza a lungo da farci dimenticare quel che abbiamo visto. Ma l'isolamento della zona ha dato loro il tempo di cui avevano bisogno, e ha anche tenuto alla larga occhi indiscreti. Così... adesso almeno abbiamo idea di contro chi ci siamo messi. L'esercito degli Stati Uniti, forse agendo in collusione col governo, forse per conto proprio, ha cercato di nascondere qualcosa che è successo qui, qualcosa che ha fatto ma non avrebbe dovuto. Non so voi, ma il pensiero di avere di fronte un nemico così potente e inesorabile mi spaventa a morte." "Be', io, come ex marine, non ho una gran considerazione per l'esercito," disse Ernie. "Ma non è giusto neanche drammatizzare. Non possiamo saltare alla conclusione di essere vittime di una bieca cospirazione di destra. Queste fesserie vanno bene per scrittori paranoici e per Hollywood, ma nel mondo reale il male è più sottile, meno identificabile. Se dietro quello che ci è successo ci sono l'esercito e il governo, non è detto che avessero motivi immorali. Probabilmente ritengono di aver fatto l'unica cosa saggia che potessero fare nelle circostanze in cui si trovano." "In ogni caso, dobbiamo andare in fondo a questa storia," affermò Faye. "Se non lo facciamo, la nictofobia di Ernie peggiorerà sicuramente, e anche il tuo sonnambulismo, Dom. E allora, come andrebbe a finire?" Lo sapevano tutti e tre, come sarebbe andata a finire allora. Una canna di fucile infilata in bocca, la via per la pace presa da Zebediah Lomack. Dom abbassò lo sguardo sul registro aperto sopra il tavolo davanti a lui. Quattro righe sopra il suo nome, ne vide un altro che gli diede come una scossa elettrica. Dottor Ginger Weiss. "Ginger," mormorò. "Il quarto nome su quei poster della luna." Calvin Sharkle, il camionista di Chicago amico dei Block, figurava alla seconda riga della lista. I primi che avevano firmato il registro quel giorno erano Mr Alan Rykoff e signora con la figlia, e Dom sarebbe stato pronto a scommettere che si trattava della famigliola fotografata davanti alla camera numero 9. Il nome di Zebediah Lomack non compariva, quindi probabilmente quella sera aveva solo avuto la malaugurata idea di fermarsi lì a mangiare qualcosa durante il tragitto tra Reno ed Elko. Uno degli altri nomi avrebbe potuto essere quello del giovane prete dell'altra polaroid, ma in tal caso aveva firmato senza apporre il suo titolo. "Dovremo parlare a tutte queste persone," disse Dom, eccitato. "Possiamo cominciare a chiamarli domani mattina. Sono curioso di sapere cosa ricordano di quei giorni di luglio."
Chicago, Illinois Brendan non si lasciò smuovere dalle sue posizioni; fu determinato e inequivocabile, e alla fine riuscì a ottenere da padre Wycazik il permesso di andare in Nevada da solo il lunedì, senza doversi tirar dietro alcun monsignore a caccia di miracoli. Poco dopo le dieci era nel suo letto, sdraiato sul fianco al buio, e fissava la finestra, dove una tenue luminosità faceva brillare il gelo che velava il vetro. La finestra dava sul cortile, dove nessuna luce era accesa a quell'ora, quindi il soffuso chiarore rifratto dal sottile, uniforme strato di ghiaccio era la luce indiretta della luna. Doveva essere per forza indiretta, perché la luna stava attraversando il cielo in una traiettoria che l'aveva resa visibile dalle finestre dello studio nelle prime ore della sera, e lo studio si trovava dall'altra parte della canonica; quindi adesso non poteva essere sopra il cortile a meno che avesse improvvisamente deviato di novanta gradi dalla sua orbita, il che non era possibile. Mentre aspettava pazientemente il sonno, Brendan fu sempre più affascinato dagli intricati disegni creati dai raggi di luna imprigionati nel gelo; la luce si rifrangeva a ogni punto di contatto tra un cristallo di ghiaccio e un altro, scomponendosi in cento raggi e cento ancora. "La luna," mormorò, sorpreso dalla propria voce. "La luna." Gradualmente, Brendan realizzò che qualcosa di misterioso stava accadendo. Non era più semplicemente affascinato dall'armoniosa interazione di luce lunare e gelo; ne era intensamente attratto. Non poteva distogliere gli occhi dalla finestra. Sembrava offrirgli un'indefinibile promessa, e ne era attirato come un marinaio da un canto di sirena. Prima di rendersene conto, aveva tirato fuori un braccio da sotto le coperte e lo stava tendendo verso la finestra, benché fosse troppo lontana per poterla toccare. La nera sagoma della sua mano aperta si stagliava netta contro il niveo pannello di vetro che luccicava oltre la sua portata, e il suo futile sforzo di raggiungerlo era l'essenza del desiderio - uno struggente desiderio di entrare nella luce, non la luce che viveva nel gelo, ma quell'altra, la luce dorata dei suoi sogni. "La luna," sussurrò, di nuovo sorpreso di aver parlato. I battiti del suo cuore accelerarono. Cominciò a tremare. All'improvviso, la brina che ricopriva il vetro come una glassa di zucchero cominciò inspiegabilmente a sciogliersi, dai bordi della finestra ver-
so il centro. Quando, pochi secondi dopo, il fenomeno cessò, rimaneva solo un perfetto cerchio di gelo, scintillante in mezzo a un terso, asciutto, scuro rettangolo di vetro. La luna. Brendan sapeva che era un segno, ma non da chi, cosa o dove venisse, né cosa significasse. La notte di Natale, a casa dei suoi a Bridgeport, aveva svegliato i genitori gridando "La luna": doveva averla sognata, anche se al risveglio non se ne ricordava. Da allora, per quanto ne sapeva, in nessuno dei suoi sogni era comparsa la luna, ma esclusivamente quel misterioso luogo colmo di abbagliante luce dorata, dove si sentiva chiamato verso qualche incredibile rivelazione. Ora, sempre con la mano protesa verso la finestra, vide la vaga fosforescenza della brina diventare più intensa, come se qualche reazione chimica fosse in corso nei cristalli di ghiaccio. L'immagine della luna passò da una tonalità lattescente a un candore di neve sotto il sole, poi si fece ancora più brillante, finché fu un cerchio d'argento scintillante sul vetro. Col cuore che gli batteva furiosamente, certo di essere in bilico sull'orlo di qualche evento sbalorditivo, Brendan continuò a tenere la mano tesa verso la finestra e sussultò quando un fascio di luce scoccò dalla luna di brina e si riversò sul letto. Era come il raggio di un riflettore, e altrettanto abbacinante. Mentre strizzava gli occhi nell'intenso bagliore, cercando di vedere come una simile incandescenza potesse scaturire dal vetro imperlato di brina, la luce prese un colore rosso tenue, poi più scuro, cremisi, scarlatto. Attorno a lui, le coltri sgualcite rilucevano come acciaio fuso, e la sua mano tesa appariva come bagnata di sangue. Fu preso da un déjà vu, assolutamente convinto di essersi già trovato sotto una luna scarlatta, immerso nel suo sanguigno bagliore. Benché volesse capire come questa strana luce rossa fosse collegata alla stupenda luce dorata dei suoi sogni, benché si sentisse ancora chiamato da qualcosa di sconosciuto che lo aspettava nel cuore di quella radiosità, a un tratto ebbe paura. Mentre i raggi scarlatti si intensificavano, mentre la sua stanza si incendiava di fiamme senza calore e ombre rosse, la sua paura si acuì, sfociando in un terrore che lo fece tremare violentemente e sudare. Ritrasse la mano e la luce scarlatta rapidamente sfumò in argento, poi anche l'argento sbiadì, finché il cerchio di gelo sulla finestra tornò a brillare solo del naturale riflesso della luna di gennaio. Mentre il buio riprendeva possesso della sua stanza, Brendan si alzò a
sedere e si affrettò ad accendere la luce. Madido di sudore, tremante come un bambino spaventato da fantasie notturne di orchi e streghe, andò alla finestra. Il cerchio di brina era ancora lì, una luna di gelo al centro del vetro pulito. Si era domandato se la luce non fosse stata soltanto un sogno o un'allucinazione. Ma la luna di brina era ancora lì a dimostrare che quanto aveva visto era reale. Esitante, toccò il vetro. Sulle prime non sentì niente di insolito. Solo il pungente freddo invernale che premeva contro l'esterno della finestra. Poi trasalì. C'era qualcosa di strano. Non nel vetro, ma sulle sue mani. Gli anelli. Girò i palmi in su e guardò le stimmate scomparire. Tornato a letto, rimase a lungo seduto con la schiena appoggiata alla testata, aspettando di trovare il coraggio di coricarsi al buio. Elko County, Nevada Ernie, in bagno vicino alla vasca, stava cercando di ricordare cosa precisamente avesse pensato e provato nelle prime ore di sabato 14 dicembre, quando aveva aperto la finestra spinto da uno strano impulso ed era stato vittima di una spaventosa allucinazione. Lo scrittore Dominick Corvaisis era accanto al lavandino, e Faye guardava dalla soglia. La luce della plafoniera e delle lampadine sopra lo specchio conferiva una calda brillantezza al pavimento di ceramica, luccicava sui rubinetti cromati, dava un lustro omogeneo alla tenda di plastica della doccia, e gradualmente rischiarò la memoria di Ernie. "Luce. Ero venuto qui per la luce. La mia paura del buio era al culmine allora, e stavo cercando di nasconderla a Faye. Non riuscivo a dormire, così mi sono alzato, sono venuto in bagno, ho chiuso la porta, e sono rimasto qui a... bearmi della luce." Raccontò come poi la finestra sopra la vasca avesse attratto la sua attenzione, e lui fosse stato preso da un irrazionale e impellente bisogno di fuggire. "È difficile da spiegare, ma all'improvviso la testa mi si è riempita di pensieri assurdi. Non so per quale motivo, sono stato preso dal panico. Pensavo: questa è la mia unica possibilità di fuga, devo approfittarne, uscire da quella finestra, scappare per le colline... arrivare a una fattoria, cercare aiuto." "Aiuto?" domandò Corvaisis. "Perché avevi bisogno di aiuto? Perché sentivi di dover scappare da casa tua?" Ernie aggrottò la fronte. "Non ne ho la più pallida idea." Ricordò quel
che aveva provato quella notte - il senso di urgenza, la paura stranamente permeata di irrealtà. "Ho aperto la finestra. Credo che l'avrei anche scavalcata, ma ho visto qualcuno di fuori. Sul tetto della rimessa." "Chi?" chiese Corvaisis. "Un tipo vestito da motociclista. Casco bianco, con la visiera scura abbassata. Guanti neri. Ha allungato una mano attraverso la finestra, come se volesse afferrarmi, e io ho fatto un salto indietro, ho inciampato nel bordo della vasca e sono caduto." "E a questo punto sono arrivata io di corsa," disse Faye. "Mi sono alzato da terra," continuò Ernie, "sono tornato alla finestra, ho guardato fuori. Non c'era nessuno. Era stata solo un'allucinazione." "In casi estremi di fobia, quando lo stato d'ansia è quasi costante, a volte si verificano delle allucinazioni," spiegò Faye. Lo scrittore fissò la finestra opaca sopra la vasca, come se sperasse di trovare la rivelazione di qualche segreto vitale nella lastra di vetro smerigliato. "Non era esattamente un'allucinazione, Ernie. Ho la sensazione che quello che hai visto fosse, come dire... uno sguardo retrospettivo ai giorni perduti di due estati fa. Per un momento, il 14 dicembre, i tuoi ricordi repressi sono saliti alla superficie. Hai avuto un flashback: c'è stato un momento in cui sei realmente stato prigioniero in casa tua, e hai realmente tentato di fuggire." "E sono stato fermato da quel tizio sul tetto della rimessa? Ma che ci faceva lì con un casco da motociclista? Strano, non ti pare?" "Qualcuno mandato a occuparsi di un'area contaminata da tossine chimiche o biologiche indosserebbe una tuta speciale e un casco ermetico," suppose Dom. "Ma allora, c'è stata davvero una contaminazione," osservò Ernie. "Forse," disse Dom. "Non ne sappiamo ancora abbastanza per stabilirlo." Faye era perplessa. "Ma ascolta, se noi tutti siamo passati per quell'esperienza, come tu pensi, come mai solo tu, Ernie, e quel Lomack ne avete riportato conseguenze? Com'è che io non ho incubi né disturbi psicologici?" Lo sguardo dello scrittore tornò alla finestra. "Non lo so. Ma queste sono alcune delle domande a cui dobbiamo trovare risposta, se vogliamo avere una speranza di liberarci dell'ansia che quest'esperienza ci ha lasciato nel subconscio e tornare a una vita normale." Dal Connecticut a New York City
Dopo aver prelevato il denaro dal blindato, Jack e i suoi uomini raggiunsero una squallida area fabbricata a quindici chilometri dal luogo dell'assalto. Lì, in una sudicia stradina, parcheggiarono i due furgoni in un garage a quattro posti preso in affitto con documenti falsi, dove avevano lasciato le loro macchine. Svuotarono il contenuto dei sacchi di tela e contarono rapidamente il denaro, dividendolo in cinque parti di approssimativamente trecentocinquantamila dollari ciascuna, tutti in biglietti usati impossibili da rintracciare. Jack non sentiva alcun senso di trionfo, alcuna eccitazione. Niente. Nel giro di cinque minuti, la banda si disperse come lanugine di dente di leone al vento. Come un orologio. Quando Jack, in uno strano stato d'animo, prese l'autostrada che dal Connecticut lo avrebbe riportato a New York, stava nevicando, ma non tanto da disturbare la guida. Durante il viaggio avvenne in lui un imprevisto cambiamento. Minuto dopo minuto, chilometro dopo chilometro, il grigiore cominciò finalmente a tingersi di emozione, e la noia cedette il posto a sentimenti che lo sorpresero. Non avrebbe trovato strano un rigurgito di dolore o solitudine, perché Jenny era morta da soli diciassette giorni. Ma l'emozione che si stava facendo largo in lui era il senso di colpa. La refurtiva nel bagagliaio della macchina cominciò a pesargli sulla coscienza come se fosse per la prima volta che del denaro guadagnato illegalmente gli capitava per le mani. In otto intensi anni di furti meticolosamente congegnati e trionfalmente eseguiti, molti ancora più in grande stile del colpo al portavalori, non era mai stato neppure sfiorato da un senso di colpa. Fino ad allora, si era visto come un giusto vendicatore. Fino ad allora. Guidando verso Manhattan nella ventosa notte invernale, adesso cominciava a vedersi come un ladro. La colpa lo avviluppava come carta moschicida. Per quanto cercasse di scrollarsela di dosso, gli restava appiccicata. Benché sembrasse insorto all'improvviso, il senso di colpa era in incubazione da tempo, e la sua crescente insoddisfazione degli ultimi mesi ne era stata il sintomo. La disillusione si era manifestata la prima volta con il furto di gioielli dell'ottobre precedente, e lui aveva creduto che il cambiamento fosse iniziato allora. Ma adesso, costretto all'autoanalisi, realizzò di aver smesso già da tempo di trarre soddisfazione dalle sue imprese. Tornando indietro con la memoria in cerca del più recente lavoro che lo avesse la-
sciato del tutto soddisfatto, fu sorpreso di scoprire che era stato il furto con scasso in casa McAllister a Marin County, a nord di San Francisco, due estati prima. Normalmente lavorava solo nell'est, vicino a Jenny, ma Branch Pollard che aveva collaborato con lui al colpo appena messo a segno - era andato a stare in California per un po', e durante il suo soggiorno sul Pacifico aveva adocchiato Avril McAllister, un pollo che aspettava solo di essere spennato. McAllister, un industriale con un capitale di duecento milioni di dollari, viveva in una proprietà di otto acri a Marin County, protetta da un muro di pietra, un complesso sistema di sicurezza elettronico e cani da guardia. Raccogliendo informazioni da varie fonti, Branch aveva appurato che McAllister era un collezionista di francobolli e monete rare - merce tenuta in gran pregio dai ricettatori. Inoltre, l'industriale era un giocatore d'azzardo, e andava a Las Vegas tre volte all'anno, solitamente rimettendoci un quarto di milione di dollari a visita, ma talvolta vinceva forte; riscuoteva sempre le sue vincite in contanti per eludere le tasse, e parte di quel denaro era sicuramente nella villa. Branch aveva bisogno dell'abilità strategica ed elettronica di Jack, e Jack aveva bisogno di un cambiamento d'aria, così fecero il colpo insieme, con l'aiuto di un terzo uomo. Dopo un'accurata pianificazione, non ebbero difficoltà a penetrare nella proprietà. Erano muniti di un dispositivo d'ascolto elettronico in grado di avvertire e amplificare i lievi scatti della serratura di una cassaforte. Arrivare alla combinazione era un gioco da ragazzi, ma per sicurezza portarono anche una serie completa di arnesi da scasso e dell'esplosivo al plastico. Il problema era che Avril McAllister non aveva una semplice cassaforte. Aveva una dannata camera blindata. L'industriale era così certo dell'inviolabilità della porta corazzata che non si era nemmeno preoccupato di nasconderla dietro un pannello scorrevole mimetizzato dalla tappezzeria; era in bella mostra su una parete dell'immenso soggiorno, un massiccio pannello di acciaio inossidabile degno di una banca di prima categoria. Il dispositivo d'ascolto che Jack aveva portato, per quanto sensibile, non poteva penetrare attraverso cinquanta centimetri di acciaio inossidabile. L'esplosivo al plastico avrebbe fatto saltare qualsiasi cassaforte, ma la porta corazzata era a prova di esplosione. Gli arnesi da scasso facevano ridere. Lasciarono la villa senza francobolli né monete, ma con argento puro, una collezione completa di prime edizioni di Raymond Chandler e Dashiell Hammett, alcuni gioielli che la signora McAllister aveva sbadatamente lasciato fuori della camera blindata e qualche altra cosa di valore.
Vendendo la refurtiva a un ricettatore ricavarono solo sessantamila dollari, da dividere in tre. Pur non essendo una miseria, era molto meno di quanto avessero preventivato, non abbastanza per coprire le spese e ripagarli di tutto il tempo e l'impegno richiesto dal lavoro e dei rischi che avevano corso. Ma nonostante l'insuccesso, per Jack quel lavoro era stato eccitante. Una volta lasciata senza inconvenienti la proprietà di McAllister, lui e Branch erano riusciti a vedere il lato umoristico della catastrofe e riderci sopra. Avevano trascorso due giorni rilassandosi al sole della California; poi, per capriccio, Jack aveva preso i suoi ventimila dollari ed era andato a Reno per vedere se la sorte gli sarebbe stata più propizia coi dadi e il blackjack che col furto. Ventiquattr'ore dopo aver preso alloggio all'Hotel Harrah's, aveva lasciato l'albergo con i suoi soldi quintuplicati e di ottimo umore. C'era una squisita simmetria nel fatto che i proventi di un colpo sfortunato gli avessero portato fortuna. Decidendo di prolungare la sua vacanza, aveva noleggiato una macchina per tornare a New York ed era partito per il lungo viaggio dalla costa occidentale a quella orientale, allegro e impaziente di rivedere Jenny. Ora, più di diciotto mesi dopo, mentre entrava a Manhattan alla fine del suo viaggio di ritorno dal Connecticut, pensò che, curiosamente, il fiasco alla villa di McAllister era stato l'ultima impresa che gli avesse dato autentica soddisfazione. A quel punto aveva iniziato un lungo viaggio, dalla totale amoralità aveva risalito la scala etica finché era diventato ancora una volta capace di sentirsi in colpa. Ma perché? Cosa aveva avviato il cambiamento in lui? Cosa continuava ad alimentarlo? Non aveva risposte. Sapeva solo che non era più capace di pensare a se stesso come a un malinconico e romantico bandito che riparava i torti fatti a lui e alla sua amata moglie. Non era altro che un ladro. Per otto anni si era illuso. Ora si vedeva per quello che realmente era, e la rivelazione fu devastante. Non era semplicemente diventato un uomo senza uno scopo. Peggio, senza rendersene conto, era privo di un valido scopo da otto anni. Guidò senza meta per le strade di Manhattan, senza andare da nessuna parte in particolare. Non aveva voglia di tornare subito a casa. Presto si ritrovò sulla Quinta Strada e passando davanti a St. Patrick sentì l'impulso di fermarsi. Accostò al marciapiede, parcheggiando in divieto di sosta davanti all'entrata dell'immensa cattedrale, scese dalla macchina, aprì il bagagliaio e tirò fuori una mezza dozzina di fasci di banconote da
venti dollari dal sacco di plastica. Era sconsiderato lasciare la macchina in sosta vietata in un posto così in vista quando il suo bagagliaio conteneva oltre un terzo di milione di dollari rubati, armi e uno SLICKS ottenuto illegalmente. Se un poliziotto si fosse fermato a dargli una multa, si fosse insospettito e avesse preteso di controllare la macchina, sarebbe stata la fine. Ma non gliene importava più. Per certi versi, era un uomo morto che ancora camminava, proprio come Jenny era stata una donna morta che ancora respirava. Anche se non era cattolico, aprì una delle porte di bronzo scolpito della cattedrale, entrò e si fermò un momento nella navata a guardare l'elegante baldacchino sopra l'altare centrale. Poi individuò le cassette delle offerte, tirò fuori i mazzetti di banconote dall'interno del suo giaccone, strappò le fascette di carta che li trattenevano e riempì di denaro i contenitori, come se stesse stipando spazzatura in un cestino dei rifiuti. Tornato fuori, fece per ridiscendere le scale di granito, ma si fermò di colpo, battendo le palpebre. C'era qualcosa di diverso nella Quinta Strada. Mentre rari, enormi fiocchi di neve volteggiavano pigramente nel bagliore dei lampioni e attraverso le luci delle automobili di passaggio, Jack gradualmente realizzò che la città aveva riacquistato un po' dello scintillante, misterioso fascino che aveva sempre avuto per lui prima che andasse in America Centrale, ma che non possedeva più da secoli. Ora sembrava più pulita di quanto fosse stata da tanto tempo, l'aria più cristallina, meno inquinata. Guardandosi attorno stupito, lentamente comprese che la città non aveva subito una metamorfosi negli ultimi cinque minuti. Era la stéssa di un'ora prima, la stessa del giorno avanti. Ma al ritorno dall'America Centrale, lui non era più lo stesso uomo che era partito da New York, ed era divenuto incapace di vedere qualcosa di buono nella metropoli o in qualunque altra opera della società che odiava. Buona parte della tetraggine e degenerazione della Grande Mela non era stata che il riflesso dell'inaridirsi e del corrompersi del paesaggio inferiore. Jack ritornò alla Camaro, andò a ovest fino alla Sesta Strada, a nord fino a Central Park, svoltò a destra, poi ancora a destra, tornando sulla Quinta Strada, guidando verso sud, senza sapere neanche lui dove stesse andando finché raggiunse la chiesa presbiteriana. Ancora una volta, si fermò in sosta vietata, prese denaro dal bagagliaio ed entrò nella chiesa. In due fermate aveva dato via trentamila dollari, ma non era nemmeno un decimo della somma con cui era tornato dal Connecticut, e quelle dona-
zioni non bastavano a tranquillizzare la sua coscienza. Anzi, il senso di colpa si faceva più forte a ogni minuto. Il sacco di denaro nel bagagliaio era per lui come il cuore sepolto sotto le assi del pavimento nel racconto di Poe, un nunzio della sua colpevolezza, e lui era ansioso di sbarazzarsene come il personaggio di Poe era stato ansioso di mettere a tacere il battito del cuore della sua vittima smembrata. Gli restavano ancora trecentotrentamila dollari. Per qualche newyorchese il Natale sarebbe arrivato con due settimane e mezzo di ritardo. Elko County, Nevada La stanza che Dom aveva occupato due estati prima era la numero 20. Se ne ricordava perché era l'ultima dell'ala a L del motel. La curiosità di Ernie Block era più forte della sua nictofobia, così decise di accompagnare Faye e Dom alla numero 20, dove speravano che la vista delle pareti e dei mobili a lui familiari avrebbero stimolato la memoria di Dom; ma per tutto il tragitto tenne gli occhi chiusi, camminando tra Dom e Faye, che lo tenevano per le braccia, troppo preoccupato dell'oscurità per far caso al gelido vento notturno che soffiava sotto la tettoia del corridoio esterno. Faye entrò per prima, accendendo le luci e tirando le tende. Dom la seguì con Ernie, che aprì gli occhi solo quando Faye ebbe chiuso la porta. Entrando nella stanza, Dom si sentì pieno di apprensione. Andò al letto, vi abbassò lo sguardo, cercando di ricordare di esservi stato steso sopra, drogato e impotente. "Il copriletto non è lo stesso, naturalmente," disse Faye. Nella polaroid si vedeva un angolo di un copriletto a fiori, mentre il modello attuale era a strisce azzurre e marrone. "Il letto però è lo stesso, e anche gli altri mobili," aggiunse Ernie. La testata del letto era imbottita e rivestita di un grezzo tessuto marrone leggermente liso. I comodini erano semplici, con due cassetti, impiallacciati in noce. Le basi delle lampade somigliavano a quelle di lanterne di metallo nero con due pannelli di vetro affumicato per lato; il tessuto del paralume era della stessa tinta ambrata del vetro della base. Ogni lampada aveva due lampadine: la principale - sotto il paralume e un'altra all'interno della base, con funzione puramente decorativa - la forma allungata e il fioco bagliore guizzante che emetteva imitavano la fiamma di una candela, per dare l'illusione di una vera lanterna accesa.
Adesso che era lì, Dom ricordava ogni dettaglio del posto, ed ebbe l'impressione che una moltitudine di fantasmi stesse svolazzando per la stanza, mantenendosi sempre alla periferia del suo campo visivo, come beffandosi di lui. I fantasmi erano in realtà brutti ricordi, e infestavano non la stanza ma gli oscuri recessi della sua mente. "Ricordi qualcosa?" gli domandò Ernie. "Ti sta tornando in mente?" "Voglio dare un'occhiata in bagno," disse Dom. Il bagno era strettamente funzionale, con una cabina per la doccia ma niente vasca, pavimento di mattonelle macchiettate e superfici resistenti in formica. Dom era interessato al lavandino, perché sicuramente si trattava di quello del suo incubo ricorrente. Ma quando guardò nella vaschetta, fu sorpreso di vedere un otturatore meccanico. E appena sotto l'orlo del lavabo c'erano tre fori rotondi, un disegno più moderno delle sei fessure oblique a losanga del lavandino dei suoi sogni. "Questo non è lo stesso," disse. "Il lavandino era vecchio, con un tappo di gomma attaccato a una catenella." "Lo abbiamo sostituito otto o nove mesi fa," spiegò Faye. "Abbiamo cambiato anche la formica, ma il colore è lo stesso di prima." Dom fu deluso, perché aveva pensato che almeno qualche ricordo di quei giorni perduti avrebbe cominciato a tornargli alla memoria quando avesse toccato il lavandino. Dopo tutto, a giudicare dal puro terrore dell'incubo, in quel punto preciso doveva essergli accaduto qualcosa di particolarmente spaventoso; quindi, sembrava probabile che il lavandino avrebbe agito come un'asta di parafulmine sulle sovraccariche reminiscenze che si agitavano nel buio del suo subconscio, facendole convergere, scatenando un'improvvisa, sfolgorante rivelazione. Posò le mani sul nuovo lavandino, ma sentì solo fredda porcellana. "Niente?" chiese di nuovo Ernie. "No," disse Dom. "Niente ricordi... ma cattive vibrazioni. Se gliene lascio il tempo, penso che l'effetto della stanza possa riuscire a buttare giù la barriera. Stanotte dormirò qui... se a voi sta bene." "Nessun problema," assicurò Faye. "La stanza è tua." "Ho la sensazione che qui l'incubo sarà peggiore che mai," mormorò Dom, pensieroso. Laguna Beach, California
Benché Parker Faine fosse uno dei più stimati artisti americani viventi, non era troppo vecchio e certamente non troppo contegnoso per non essere eccitato dall'intrigo in cui si trovava coinvolto. Per essere un artista di successo occorreva la maturità, la percezione, la sensibilità e l'applicazione di un adulto, ma bisognava anche conservare la curiosità, lo stupore, l'innocenza e il gusto del gioco di un bambino. Parker queste cose se le teneva strette più di molti altri artisti, e svolse il proprio ruolo nei piani di Dom Corvaisis con spirito d'avventura. Ogni giorno, quando ritirava la posta di Dom, fingeva di non sospettare che poteva essere sorvegliato, ma in realtà teneva gli occhi bene aperti. Non notò mai nessuno che lo osservasse o seguisse. E ogni notte, quando lasciava la sua casa per andare a un telefono pubblico sempre diverso ad aspettare la chiamata di Dom, faceva lunghi giri, svoltando spesso all'improvviso per seminare chiunque potesse seguirlo, finché era certo di non avere nessuno dietro. Pochi minuti prima delle nove, sabato sera, arrivò per le sue solite vie traverse a una cabina telefonica. Una forte pioggia colava lungo le pareti di plexiglas, distorcendo il mondo esterno e proteggendo Parker da occhi indiscreti. Indossava un trench e un cappello impermeabile kaki con la tesa girata in giù per lasciar scolare la pioggia. Si sentiva come un personaggio di un romanzo di John Le Carré. Gli piaceva. Alle nove in punto il telefono squillò. Era Dom. "Sono al Tranquility Motel, come da programma. E questo il posto, Parker." Dom aveva molto da raccontare: un'inquietante esperienza al ristorante del Tranquility, la nictofobia di Ernie Block... E indirettamente, riuscì a far capire che anche i Block avevano ricevuto strane polaroid. La discrezione era essenziale; se il Tranquility Motel era davvero al centro dei misteriosi fatti di due estati prima, i telefoni dei Block potevano essere controllati. Se gli ascoltatori avessero saputo delle fotografie, avrebbero scoperto che fra loro c'era un traditore, lo avrebbero sicuramente scovato, e non sarebbero più arrivati messaggi né foto. "Anch'io ho buone notizie," disse Parker. "Mrs Wycombe, il tuo editore, ti ha lasciato un messaggio sulla segreteria. Crepuscolo a Babilonia è già stato ristampato, e adesso ce ne sono centomila copie in libreria." "Buon Dio, mi ero completamente dimenticato del libro! Da quando sono stato in casa di Lomack quattro giorni fa, non sono più riuscito a pensare ad altro che a questa pazzesca situazione."
"Mrs Wycombe ha altre buone nuove da comunicarti, e vuole che la chiami al più presto." "Lo farò. Ma dimmi di te... ti è capitato qualche altro ritratto interessante?" chiese Dom, alludendo a eventuali nuove polaroid. "No, niente." I fari di una macchina di passaggio illuminarono la cabina, facendo scintillare per un momento il velo di pioggia sulle pareti trasparenti. "Ma nella posta c'era qualcosa che ti lascerà senza fiato, amico. Hai già identificato tre dei nomi su quei poster della luna. Che ne diresti di sapere chi è il quarto?" "Ginger? Mi ero dimenticato di dirtelo. Ho trovato il suo nome sul registro del motel. Dottor Ginger Weiss di Boston. Intendo chiamarla domani." "Mi hai guastato lo scoop. Comunque, sarai sorpreso di sapere che oggi ti è arrivata una sua lettera. L'aveva mandata alla Random House il ventisei dicembre, ma è rimasta bloccata nei loro uffici." "Ce l'hai lì?" chiese Dom, eccitato. Parker l'aveva già pronta in mano. La lesse, lanciando di tanto in tanto un'occhiata alla notte oltre la cabina. "Devo telefonarle immediatamente," disse Dom, quando Parker ebbe finito. "Noi ci risentiamo domani sera, stessa ora." "Se chiami dal motel, dove è facile che i telefoni siano sotto controllo, è inutile che io vada a un telefono pubblico," osservò Parker. "Hai ragione. Ti chiamo a casa. Fa' attenzione." "Anche tu." Parker riagganciò la cornetta, sollevato di non dover più fare quegli scomodi viaggi notturni per raggiungere un telefono pubblico, ma allo stesso tempo certo che gli sarebbe mancato il gusto dell'intrigo. Uscendo dalla cabina, sotto la pioggia scrosciante, fu quasi deluso quando nessuno gli sparò. Boston, Massachusetts Pablo Jackson era stato seppellito quella mattina, ma fu con Ginger Weiss per tutto il pomeriggio e la serata. Come un fantasma, il suo ricordo la ossessionava. Era un sorridente spettro nelle stanze della sua mente. Restando per conto suo nella camera degli ospiti a Baywatch, Ginger cercò di leggere, ma non riusciva a concentrarsi. Quando non era assillata dai ricordi del vecchio mago, si angosciava domandandosi cosa ne sarebbe stato di lei. Andò a letto a mezzanotte e un quarto, e stava per spegnere la luce
quando Rita Hannaby arrivò ad avvertirla che Dominick Corvaisis era al telefono: poteva prendere la chiamata nello studio di George, in fondo al corridoio. Eccitata e trepidante, Ginger infilò una vestaglia sopra il pigiama. Lo studio era caldo e in penombra, con le pareti rivestite di scuro legno di quercia. Il tappeto cinese era beige e verde scuro, e la lampada di vetro colorato sulla scrivania era una Tiffany autentica o una superba riproduzione. Dagli occhi gonfi di George era chiaro che la telefonata lo aveva svegliato. Cominciava a operare presto quasi tutte le mattine, e solitamente andava a letto alle nove e mezzo. "Mi dispiace," gli disse Ginger. "E di che?" rispose George. "È quello in cui speravamo, no?" "Forse," mormorò lei, preferendo aspettare prima di essere ottimista. Rita fece per accomiatarsi. "Ti lasciamo sola." "No," la trattenne Ginger. "Restate, vi prego." Andò alla scrivania, si sedette, prese la cornetta. "Pronto?" "La dottoressa Weiss?" La voce che le rispose era forte ma armoniosa. "Scrivermi è stata la cosa migliore che potesse fare. Non penso affatto che lei sia pazza, dottoressa. Lei non è la sola ad avere strani problemi. Siamo in diversi." Ginger cercò di parlare, ma la voce le si ruppe. Si schiarì la gola. "Io... mi dispiace... non sono... una che piange facilmente." "Non dica niente finché non se la sente. Comincerò io a raccontarle del mio problema: sonnambulismo. E i miei sogni... della luna." Un brivido la percorse, per metà di paura e per metà di esultanza. "La luna," assentì. "Non ricordo mai i sogni che faccio, ma mi sveglio gridando 'la luna'." Lui le disse di un uomo di Reno, Zebediah Lomack, che si era tolto la vita, portato al suicidio dalla propria ossessione per la luna. Ginger avvertì una vasta voragine sotto di sé, il pauroso abisso dell'ignoto. "Ci hanno fatto il lavaggio del cervello," sbottò. "Tutti questi problemi che abbiamo sono causati da ricordi repressi che cercano di venire a galla." Per un momento ci fu uno stupefatto silenzio all'altro capo del filo. Poi lo scrittore disse: "E quello che avevo ipotizzato, ma lei ne sembra sicura." "Lo sono. Mi sono sottoposta a una terapia di regressione ipnotica dopo averle scritto, e abbiamo trovato evidenti segni di sistematica repressione della memoria.''
"Ci è successo qualcosa, due estati fa," affermò Dom. "Sì! Du estati fa. Al Tranquility Motel in Nevada." "È da lì che le sto parlando." Ginger non se l'aspettava. "Si trova lì adesso?" "Sì. E se è possibile, dovrebbe venire anche lei. Sono accadute molte cose che non posso dirle per telefono." "Chi sono loro?" domandò lei, frustrata. "Cosa stanno nascondendo?" "Avremo maggiori possibilità di scoprirlo se lavoriamo tutti insieme." "Verrò domani stesso, se riesco a trovare un volo." Rita cominciò a protestare, dicendo che Ginger non era in condizione di viaggiare. Nella luce multicolore della lampada Tiffany, il cipiglio di George si fece più marcato. "Le farò sapere come e quando arriverò," aggiunse Ginger. Quando ebbe riagganciato, George le disse: "Non puoi assolutamente affrontare il viaggio nello stato in cui ti trovi." "Cosa accadrebbe se ti venisse una crisi sull'aereo e diventassi violenta?" rincarò Rita. "Andrà tutto bene." "Cara, lunedì hai avuto tre attacchi, uno dopo l'altro." Ginger sospirò e si lasciò andare contro lo schienale della poltrona di pelle verde. "Rita, George, voi siete stati meravigliosi con me, e non potrò mai ripagarvi adeguatamente. Vi voglio bene, davvero. Ma vivo con voi da cinque settimane, e per tutto questo tempo sono stata più come una bambina dipendente che una persona adulta. Non ce la faccio a continuare così. Devo andare in Nevada. Non ho altra scelta. Devo farlo." New York, New York A un paio di isolati dalla chiesa presbiteriana, Jack si fermò di nuovo davanti alla chiesa episcopale di St. Thomas, sempre sulla Quinta Strada, e lasciò ventimila dollari nella cassetta delle offerte, poi ripartì con la sua Camaro, deciso a dar via tutto il ricavato dall'assalto al portavalori. Non che la ridistribuzione della refurtiva bastasse a mettergli in pace la coscienza. Le sue trasgressioni erano troppe perché si aspettasse di espiarle tutte in una sola notte. Ma il denaro non gli serviva, né lo voleva più, e non poteva semplicemente buttarlo nella spazzatura, così non gli restava che darlo via. Si fermò ad altre chiese. Alcune erano aperte, altre chiuse. Lasciò denaro
in tutte quelle in cui poté entrare. Fece una tappa anche alla sede dell'Esercito della Salvezza, consegnando quarantamila dollari a uno stupefatto ometto che faceva il turno di notte. In Bayard Street, nella vicina Chinatown, vide un'insegna al secondo piano di un edificio, con la scritta sia in caratteri cinesi che in inglese: LEGA CONTRO L'OPPRESSIONE DELLE MINORANZE CINESI. Il posto si trovava sopra una vecchia e caratteristica farmacia che vendeva le erbe e le radici polverizzate della medicina tradizionale cinese. La farmacia era chiusa, ma una finestra degli uffici della Lega era illuminata. Jack suonò il campanello del portone sulla strada, e insistette finché un vecchio e grinzoso cinese venne già dalle scale e parlò con lui attraverso una piccola grata. Appurato che attualmente il principale proposito della Lega era portare via dal Vietnam famiglie cinesi brutalizzate e trapiantarle negli Stati Uniti, Jack passò dalla grata ventimila dollari in contanti. Per la sorpresa, il gentiluomo orientale si confuse e disse qualcosa nella sua lingua madre, poi volle assolutamente uscire nel vento freddo per stringere la mano a Jack. "Amico," gli disse, "tu non puoi sapere quanta sofferenza allevierà questo dono." "Amico," gli fece eco Jack. In quella singola parola, e nella calorosa stretta della mano callosa del venerando cinese, aveva trovato qualcosa che credeva di aver perso per sempre: il sentirsi parte di una collettività, un senso di socialità, solidarietà. Tornato in macchina, guidò da Bayard a Mott Street, svoltò a destra, poi dovette accostare. Aveva gli occhi inondati di lacrime. Non ricordava di essersi mai sentito più confuso. Piangeva in parte perché la macchia della colpa, almeno per il momento, sembrava un segno indelebile sulla sua anima. Eppure in parte erano lacrime di gioia, perché improvvisamente straripava di fratellanza. Per buona parte di un decennio era stato al difuori della società, distaccato nella mente e nello spirito, se non fisicamente. Ma adesso, per la prima volta da quando era tornato dall'America Centrale, Jack Twist sentiva il bisogno, il desiderio e anche la capacità di avvicinarsi alla società attorno a lui, di farsi degli amici. L'amarezza era una via senza uscita. L'astio non nuoceva a nessuno più che a chi lo nutriva. Il succo fermentato dell'ostilità era la solitudine. Durante gli ultimi otto anni aveva spesso pianto per Jenny, e talvolta aveva pianto per un attacco di autocommiserazione. Ma queste lacrime erano differenti da tutte le altre che aveva versato in precedenza, perché erano lacrime purificanti, purgative, che lavavano via tutta la sua rabbia e il suo
risentimento. Ancora non capiva la causa dei radicali e rapidi cambiamenti che stavano avvenendo in lui. Comunque, intuiva che la sua evoluzione da reietto criminale a onesto cittadino non era ancora conclusa, e gli avrebbe riservato molte altre sorprese prima di giungere a compimento. Jack si domandava dove fosse diretto, e per quale strada sarebbe arrivato a destinazione. Quella notte a Chinatown la speranza tornò ad animare il suo mondo, come una brezza estiva che scuotesse delle campane, facendole suonare. Elko County, Nevada Ned e Sandy Sarver riuscivano a condurre il ristorante da soli perché erano dei grandi lavoratori per natura, ma anche perché il loro menu era semplice e perché Ned aveva imparato a lavorare con la massima efficienza quando faceva il cuoco nell'esercito degli Stati Uniti. Cento piccoli trucchi venivano utilizzati per mandare avanti il locale col minore sforzo possibile; tuttavia, alla fine della giornata, Ned era contento che Ernie e Faye offrissero ai loro ospiti una colazione all'europea in camera, così non era necessario aprire il ristorante prima dell'ora di pranzo. Sabato sera, mentre grigliava hamburger, friggeva patatine e serviva hotdogs, Ned lanciava frequenti occhiate a Sandy. Non si era ancora abituato al suo cambiamento, la sua improvvisa fioritura. Era un po' ingrassata, e la sua figura aveva acquisito un'attraente rotondità femminile che non aveva mai posseduto prima. E non girava più per il locale con le spalle curve e strascicando i piedi, ma si muoveva con una fluida grazia e un'allegra disinvoltura che Ned trovava enormemente accattivante. Non era l'unico uomo ad avere occhi per la nuova Sandy. Alcuni dei camionisti seguivano interessati l'armonioso dondolio dei suoi fianchi mentre andava avanti e indietro per i tavoli. Fino a poco tempo prima, Sandy era stata immancabilmente gentile con i clienti, ma certamente non alla mano. Invece adesso, pur essendo sempre un po' timida, stava agli scherzi dei camionisti, perfino li ricambiava, e se ne veniva fuori con battute davvero buone. Per la prima volta in otto anni di matrimonio, Ned aveva paura di perdere Sandy. Sapeva che lei lo amava, e si ripeteva che i cambiamenti nel suo aspetto e personalità non avrebbero inciso negativamente sulla natura del loro rapporto, ma era precisamente quel che temeva. Quel mattino, quando Sandy era andata a Elko a prendere Ernie e Faye
all'aeroporto, Ned non era sicuro che sarebbe tornata indietro. Forse avrebbe continuato ad andare finché avesse trovato un posto che le piacesse più del Nevada, finché avesse incontrato un uomo più attraente, ricco e brillante di lui. Si rendeva conto che era ingiusto nei confronti di Sandy nutrire simili dubbi, che lei era incapace di crudeltà o infedeltà. Forse la sua paura stava nel fatto che aveva sempre pensato che Sandy meritasse di meglio. Alle nove e mezzo, quando i clienti del locale si erano ridotti a sette, Faye ed Ernie entrarono con quel tipo bruno e di bell'aspetto che quella sera aveva attraversato la sala con un'aria imbambolata e poi era scappato via come se avesse visto il diavolo in persona. Ned si domandò chi fosse, come facesse a conoscere Ernie e Faye, e se loro sapevano che l'amico era un po' tocco. Ernie appariva pallido e scosso, e Ned ebbe l'impressione che il suo capo facesse parecchia attenzione a tenere le spalle girate alle finestre. Quando alzò una mano per salutare Ned, tremava visibilmente. Faye e lo straniero si misero a sedere uno di fronte all'altro a un tavolo, e dagli sguardi che lanciavano a Ernie si capiva che erano preoccupati per lui. Loro stessi non avevano esattamente una buona cera. Stava succedendo qualcosa di strano. Incuriosito dallo stato di Ernie, Ned fu brevemente distratto dall'idea che Sandy potesse lasciarlo, ma quando lei andò al loro tavolo a prendere l'ordinazione, si trattenne tanto a lungo che la gelosia cominciò a roderlo. Dal suo posto dietro il bancone, con un hamburger e due uova che sfrigolavano rumorosamente sulla piastra, non poteva sentire quel che dicevano laggiù, ma gli pareva che lo straniero si stesse interessando troppo a Sandy, e che lei non fosse insensibile alle sue attenzioni. Assurdità, naturalmente. Eppure, lo sconosciuto era attraente, e più giovane di Ned, più vicino a Sandy per età, e pareva un tipo di successo, proprio il tipo d'uomo con cui gli sarebbe quasi sembrato giusto che Sandy se ne andasse. Ai propri occhi, Ned non aveva granché da vantarsi. Non era brutto, ma certamente nemmeno bello. I capelli scuri gli stavano progressivamente recedendo dalla fronte, e se non sei Jack Nicholson, una attaccatura così alta non è sexy. Aveva chiari occhi grigi che forse erano stati magnetici quando era giovane, ma col passare degli anni lo facevano solo apparire stanco e slavato. Non era nemmeno ricco o destinato a diventarlo. A quarantadue anni, dieci più di Sandy, difficilmente Ned Sarver sarebbe stato all'improvviso preso dall'ambizione.
Finalmente Sandy lasciò il tavolo dello straniero e andò a portare l'ordinazione a Ned. "A che ora chiudiamo stasera?" gli domandò. Aveva un'espressione strana, turbata. "Dieci o dieci e mezzo?" "Dieci." Indicando i pochi clienti, Ned aggiunse: "Inutile tirar tardi, stasera." Lei annuì e tornò da Faye, Ernie e lo straniero. La sua rudezza e il suo rapido ritorno dallo sconosciuto aggravarono l'insicurezza di Ned. Lui riteneva di avere tre sole qualità che potessero indurre Sandy a restargli accanto. Primo, era in gamba nel suo lavoro, e quindi poteva assicurarle un decoroso tenore di vita. Secondo, aveva un vero talento per aggiustare le cose, sia oggetti inanimati che creature viventi. Che si trattasse di un elettrodomestico fuori uso o di un uccellino con un'ala spezzata, lui riusciva sempre a sistemare tutto. Avere questa capacità sembrava importante, e Ned ne era orgoglioso. Terzo, amava Sandy con tutto se stesso - corpo, mente e cuore. Preparando l'ordine per Faye, Ernie e lo straniero, Ned guardò ripetutamente la moglie, e fu sorpreso quando lei e Faye andarono ad abbassare le veneziane sulle finestre. Stava succedendo qualcosa di insolito. Poi Sandy tornò al tavolo di Ernie e si chinò in avanti, parlando fitto con lo straniero attraente. Era ironico che Ned fosse preoccupato di perdere Sandy, perché lui stesso, col suo talento per sistemare le cose, aveva contribuito alla sua trasformazione da anatroccolo in cigno. Quando lui l'aveva conosciuta a Tucson, in un locale dove entrambi lavoravano, Sandy non era solo timida e impacciata, ma tanto timorosa e ritratta in se stessa da far stringere il cuore. Era una gran lavoratrice, sempre pronta a dare una mano alle altre cameriere quando restavano indietro con le loro ordinazioni, ma era incapace di entrare in relazione con chiunque sul piano personale. Pallida ed esile, ventitré anni ma ancora più ragazza che donna, era riluttante ad aprirsi all'amicizia per paura di riporre la propria fiducia in qualcuno che potesse ferirla. Era scialba, taciturna, umile, con un atteggiamento da perdente nei confronti della vita; e appena Ned l'aveva vista, si era sentito in dovere di occuparsi di lei. Con infinita pazienza, aveva cominciato a lavorare su di lei, così sottilmente che, all'inizio, Sandy non si era nemmeno accorta del suo interesse per lei. Si erano sposati nove mesi dopo, benché il suo lavoro su di lei fosse tutt'altro che finito. Lei era in condizioni peggiori di qualunque creatura aves-
se incontrato prima, e a volte, frustrato, aveva la sensazione che, pur con tutto il suo talento, sarebbe stato incapace di metterla a posto e avrebbe passato il resto della sua vita armeggiando senza risultati apprezzabili. Durante i loro primi sei anni di matrimonio, comunque, Ned aveva assistito a un graduale miglioramento in lei, anche se il processo era di una lentezza esasperante. Sandy aveva un cervello indubbiamente sveglio, ma era ritardata emotivamente; imparava a ricevere e dare affetto solo con tremendo sforzo, un po' come a un bambino ottuso costa fatica imparare a contare fino a dieci. Il primo segnale di un cambiamento di rilievo in lei Ned lo aveva ricevuto due estati prima, verso la fine di agosto, ed era stato l'improvviso, marcato aumento del suo appetito sessuale. Sandy non era mai stata un'amante ritrosa. Mostrava di possedere esperienza, ma faceva l'amore più come una macchina che come una donna, con una perizia priva di gioia. Lui non aveva mai conosciuto una donna altrettanto silenziosa a letto. Sospettava che qualcosa nella sua infanzia l'avesse bloccata, la stessa cosa che aveva spezzato il suo spirito. Aveva cercato di indurla a parlarne, ma lei era stata inflessibile, e l'insistenza di Ned era la sola cosa che avrebbe potuto portarla a lasciarlo; così non le chiese più niente al riguardo, anche se era difficile sistemare qualcosa senza aver chiaro quale fosse il danno. Poi, due estati prima, lei aveva cominciato ad accostarsi al letto coniugale con un'atteggiamento notevolmente diverso. Niente di clamoroso all'inizio. Nessuna improvvisa esplosione di passioni da tempo imprigionate; solo una maggiore naturalezza durante l'atto d'amore. E a volte sorrideva, o mormorava il nome del marito. Piano piano, era sbocciata. A pochi mesi dall'inizio del cambiamento non stava più distesa sul letto come se fosse fatta di metallo. Facendo l'amore con Ned, si sforzava di trovare e assecondare il ritmo di lui, cercando l'appagamento che ancora le sfuggiva. Piano piano, liberò il potenziale erotico incatenato in lei. Finalmente l'anno prima, il 7 aprile, una notte che Ned non avrebbe mai dimenticato, Sandy aveva avuto un orgasmo per la prima volta, e di tale intensità che lui per un momento ne fu spaventato. Dopo pianse per la gioia e si aggrappò a Ned con tanta gratitudine, amore e fiducia che anche lui si mise a piangere. Ned aveva sperato che quell'orgasmo avesse aperto una breccia nel blocco emotivo di Sandy sufficiente a consentirle di parlare della causa della sua ferita nascosta, ma quando indagò cautamente, lei lo ammonì: "Il pas-
sato è passato, Ned. Non è di alcun aiuto rivangarlo. Parlarne servirebbe solo a riaprire vecchie ferite." Tra la primavera e l'autunno dell'anno prima Sandy cominciò a raggiungere sempre più spesso la soddisfazione, e a settembre ormai fare l'amore la lasciava quasi sempre appagata. A Natale, appariva chiaro che la sua maturazione sessuale non era il solo cambiamento avvenuto in lei, ma era accompagnata da un nuovo amor proprio e rispetto di sé. In più, in contemporanea, Sandy aveva sviluppato un'imprevedibile passione per la guida, un'attività che prima trovava ancor meno allettante del sesso. Da principio espresse solò la modesta intenzione di guidare lei quando andavano al lavoro, ma in breve iniziò a prendere il pickup per fare dei giri da sola. A volte Ned stava alla finestra e guardava il suo uccellino spiccare il volo, compiaciuto e tuttavia con un disagio che non sapeva spiegare. Adesso, il disagio era diventato costante timore, e capiva anche troppo bene di cosa si trattasse: aveva paura che Sandy lo avrebbe lasciato. Magari per lo straniero arrivato con Ernie e Faye. Mi sto agitando per niente, pensò Ned, mettendo tre hamburger sulla piastra. Ma per quanto si ripetesse che i suoi timori erano infondati, continuava a essere preoccupato. Quando gli hamburger al formaggio con contorno per i Block e il loro amico furono pronti, gli altri clienti erano andati via. Mentre Sandy portava al tavolo i piatti stracolmi, Faye chiuse la porta e, sebbene non fossero neanche le dieci, accese il segnale CHIUSO visibile dall'interstatale 80. Ned fu contento della chiusura anticipata, perché gli permetteva di lasciare il suo posto e tener d'occhio più da vicino la situazione. Andò a unirsi agli altri al tavolo, e fu sorpreso di vedere che Sandy aveva davanti a sé una bottiglia di birra, e ne aveva aperta una anche per lui. Ned non beveva molto, e Sandy ancor meno. "Ne avrai bisogno, quando sentirai cosa hanno da dirci," gli assicurò Sandy. "Anzi, credo che ce ne vorranno ancora un paio." Lo straniero si chiamava Dominick Corvaisis, e aveva da raccontare una storia che cancellò ogni timore di infedeltà dalla mente di Ned. Quando Corvaisis ebbe finito, Ernie e Faye tirarono fuori a loro volta una storia incredibile, e Ned sentì parlare per la prima volta della paura del buio dell'ex marine. "Ma io ricordo che siamo stati evacuati," obiettò Ned. "Non potevamo essere qui al motel in quei tre giorni, perché ricordo che abbiamo fatto una specie di minivacanza a casa, leggendo e guardando la TV."
"Credo che sia quello che vi è stato detto di ricordare," replicò Corvaisis. "Avete ricevuto qualche visita? C'è qualcuno che possa confermare che eravate davvero là?" Ned scosse la testa. "Non mi pare." "Ned," gli disse Sandy, "si domandava se a nessuno di noi fosse successo qualcosa di strano." Ned incontrò gli occhi di sua moglie. Senza parole, le fece sapere che stava a lei decidere se raccontare o meno della sua trasformazione. "Voi due eravate qui la notte in cui è successo," affermò Corvaisis. "Qualunque cosa fosse, è iniziata mentre io stavo cenando, quindi ne siete stati testimoni anche voi. Ma il ricordo è stato sottratto anche a voi." Il pensiero che chissà chi avesse trafficato con la sua mente fece rabbrividire Ned. Inquieto, studiò le cinque polaroid che Faye aveva messo sul tavolo, in particolare quella di Corvaisis con lo sguardo fisso, vuoto. Faye si rivolse a Sandy. "Cara, Ernie e io dovremmo essere ciechi per non accorgerci dei tuoi recenti cambiamenti. Non voglio metterti in imbarazzo, né ficcare il naso nei fatti tuoi, ma se questi cambiamenti possono avere un nesso con quello che ci è accaduto, allora dovremmo saperlo." Nancy cercò la mano di Ned, la strinse. Il suo amore per lui era così evidente che Ned si vergognò di se stesso per i ridicoli sospetti di tradimento che lo avevano turbato fino a poco prima. "Per buona parte della mia vita, io ho avuto un'opinione molto bassa di me stessa," cominciò Sandy, fissando assorta la sua birra. "Voglio spiegarvene il motivo, perché altrimenti non potreste capire come sia miracoloso il fatto che io ora ne stia uscendo. Ned è stato la prima persona che abbia creduto in me, che mi abbia dato una possibilità di essere qualcuno." La sua mano strinse più forte quella del marito. "Quasi nove anni fa cominciò a corteggiarmi. Nessuno prima di lui mi aveva mai trattata come una signora. Mi ha sposata sapendo che dentro ero tutta un groviglio, e ha passato otto anni facendo del suo meglio per districarlo. Lui pensa che non mi renda conto di quanto si sia sforzato di aiutarmi, ma io lo so benissimo." La voce le si ruppe per l'emozione. Fece una pausa per mandar giù un sorso di birra. "Il fatto è... voglio che tutti sappiate che forse quel che è successo due estati fa, la cosa che nessuno di noi ricorda, ha davvero avuto una potente influenza su di me. Ma se Ned non mi avesse presa sotto la sua ala tanti anni fa, non avrei mai avuto una sola chance." L'amore avvolse Ned come una morsa, serrandogli la gola, comprimendogli il petto, stringendogli piacevolmente il cuore.
Lei lo guardò, poi riabbassò gli occhi sulla bottiglia di birra, e raccontò di un'infanzia d'inferno. Non descrisse le violenze del padre con dettagli espliciti, e parlò pudicamente del suo sfruttamento come prostituta bambina. Il suo racconto dei mostruosi abusi subiti risultò ancora più agghiacciante e commovente per l'assenza di toni drammatici. Tutti al tavolo ascoltarono in un silenzio che non derivava solo dallo sbigottimento, ma dal rispetto per la sua sofferenza e da una certa ammirazione per il suo trionfo finale. Quando Sandy ebbe finito, Ned la abbracciò, stringendola a sé. Era colpito dalla sua forza. Aveva sempre saputo che lei era speciale, e le cose che aveva detto quella sera non potevano che rafforzare il suo amore. Pur essendo profondamente rattristato da ciò che era stato fatto a Sandy, era lieto che fosse finalmente riuscita a parlarne. Questo sicuramente significava che il passato aveva perso la sua presa su di lei. Faye ed Ernie si comportarono con lei con l'impaccio di amici che vogliono essere d'aiuto ma sanno di poter offrire solo parole. Tutti avevano bisogno di un'altra birra. Ned prese cinque bottiglie di Dos Equis dal frigo e le portò al tavolo. Corvaisis, che ormai non era più il nemico di Ned, scosse la testa e battè le palpebre come se la storia di Sandy lo avesse lasciato in uno stato di stordimento. "Questo rovescia la situazione. Voglio dire, se l'esperienza che non ricordiamo ci ha lasciato qualcosa, in linea di massima si direbbe che sia terrore. Certo, io ne ho beneficiato perché sono uscito dal mio guscio, questo vale per me come per Sandy. Ma Ernie, la dottoressa Weiss, Lomack, e io... in tutti noi è rimasto un residuo di paura. Ora Sandy ci dice che l'effetto su di lei è stato prettamente positivo. Come può aver inciso su di noi in modo così differente? Davvero non hai alcuna paura, Sandy?" "No." Fino a quel momento, Ernie era rimasto seduto con le spalle curve e la testa abbassata, come proteggendosi il collo da un attacco. Ora, con una bottiglia di Dos Equis in mano, si appoggiò contro lo schienale. Sembrava più rilassato, ma non di molto. "Sì, quello che proviamo è paura. Ma ricordi quel posto lungo l'interstatale di cui ti ho parlato, Dom? Sono sicuro che lì sia successo qualcosa di strano, qualcosa che ha a che fare con il nostro lavaggio del cervello. Be', quando sono lì, non provo semplicemente paura. Il cuore comincia a battermi forte... e mi sento eccitato... ma non è solo un'eccitazione negativa. La paura è parte di quello che sento, forse la parte principale, ma è accompagnata da altre emozioni."
"Credo che il posto di cui parla Ernie sia lo stesso dove vado spesso a finire quando esco col pickup. Mi sento calamitata lì," intervenne Sandy. Ernie si chinò in avanti, eccitato. "Lo sapevo! Tornando dall'aeroporto stamattina, mentre passavamo da quel posto, hai rallentato. E io mi sono detto: anche Sandy sente qualcosa." "Sandy," domandò Faye, "tu cosa senti esattamente quando sei attirata verso quel pezzo di terra?" Sandy sorrise. "Pace. Mi sento serena lì. È difficile da spiegare... ma è come se le rocce, la terra e gli alberi irradiassero armonia, tranquillità." "Io sento di tutto fuorché pace," disse Ernie. "Paura, sì. Una strana eccitazione. Un'inquietante sensazione che qualcosa di sconvolgente stia per accadere. Qualcosa di cui sono impaziente, anche se mi spaventa a morte." "Io non sento niente di tutto questo," assicurò Sandy. "Dovremmo andare lì e vedere che effetto fa su noialtri," suggerì Ned. Corvaisis assentì. "Domani mattina, alla luce del giorno." "Capisco che l'effetto di quel che è successo possa essere stato diverso su ciascuno di noi," commentò Faye. "Ma perché io e Ned non ne abbiamo risentito affatto?" "Forse con voi hanno fatto un lavoro migliore," ipotizzò Dom. Per un po' discussero la loro situazione, poi Ned suggerì che Corvaisis cercasse di ricostruire le sue azioni di quel venerdì sera, 6 luglio, fino al punto in cui la sua memoria era stata cancellata. "Tu ricordi meglio di noi la prima parte della serata. E stasera, quando sei entrato la prima volta, eri vicino a ricordare qualcosa di importante." "Molto vicino," confermò Corvaisis, "ma all'ultimo momento, quando ho sentito il ricordo a portata di mano, ho avuto una paura dannata... e mi sono ritrovato a correre verso la porta. Ho dato un bello spettacolo. Ero totalmente in preda al panico. È stata una cosa così viscerale, istintiva, così incontrollabile, che probabilmente succederebbe di nuovo se facessi un secondo tentativo di forzare la mia memoria." "Eppure, vale la pena di provare," replicò Ned. "E questa volta ci siamo noi a darti appoggio morale," aggiunse Faye. Ci volle un po' a persuadere Corvaisis, e Ned pensò fra sé che evidentemente la sua esperienza di quella sera era stata più snervante di quanto si potesse dire a parole. Ma alla fine lo scrittore si arrese e, nella mano il suo bicchiere di birra, andò all'uscita. Si fermò con le spalle rivolte alla porta, mandò giù una lunga sorsata di Dos Equis, poi si guardò attorno, sforzandosi di rievocare la scena che gli si era presentata entrando nel locale due
estati prima. "C'erano tre o quattro uomini seduti al bancone. I clienti saranno stati una dozzina in tutto. Non riesco a ricordarne le facce." Allontanandosi dalla porta, oltrepassò Ned e gli altri, raggiunse il tavolo accanto al loro e si mise a sedere. "Mi ero seduto proprio qui. Sandy venne a prendere l'ordinazione. Chiesi uova al prosciutto, patatine fritte e verdura, e una bottiglia di Coors. Mentre stavo salando le patatine, la saliera mi scappò di mano. Presi un pizzico del sale che si era rovesciato sul tavolo e me lo gettai dietro le spalle. Un gesto sciocco. Lo lanciai troppo forte. La dottoressa Weiss! Adesso me ne ricordo. Ginger Weiss era la donna contro la quale ho gettato il sale. La bionda della foto." Faye battè un dito sull'istantanea di Ginger Weiss posata sul tavolo davanti a Ned. "Una donna molto bella," commentò Corvaisis, ancora seduto da solo all'altro tavolo. "Graziosa come una fatina, ma anche sofisticata: un mix davvero interessante. Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso." Ned guardò più attentamente le foto di Ginger Weiss. Doveva essere davvero attraente quando là sua faccia non era così pallida e inerte, quando i suoi occhi non erano così freddi, vuoti, senza vita. La voce di Corvaisis si fece, strana, come se stesse veramente parlando dal passato. "Lei si siede al tavolo d'angolo vicino alla finestra, girata da questa parte. Manca poco al tramonto. Il sole è sospeso sopra l'orizzonte come una grande palla rossa, e il locale è pervaso di luce arancione che entra obliquamente dalle finestre. Sembra quasi il riverbero di un fuoco. Ginger Weiss appare particolarmente bella in quella luce. Riesco a stento a trattenermi dal guardarla apertamente... Ora è il crepuscolo. Ho preso un'altra birra." Bevve un sorso di Dos Equis. Quando riprese, la sua voce era più morbida. "Le pianure sono tutte viola... poi nere... notte." Come Ernie, Faye e Sandy, Ned ascoltava avvinto, e alla fine qualcosa si smosse nella sua memoria. Cominciò a ricordare quella particolare sera tra le tante che aveva trascorso nel locale. C'era il giovane prete, quello della fotografia che aveva davanti. E la giovane coppia con la bambina. "È scesa da poco la notte... io sto centellinando la mia seconda birra, più che altro per poter guardare un po' più a lungo Ginger Weiss." Corvaisis guardò a sinistra, a destra, si portò la mano destra all'orecchio. "Uno strano suono. Un rombo distante... sempre più forte." Tacque per un momento. "Non ricordo cos'è successo poi. Qualcosa... qualcosa... ma proprio non me lo ricordo."
Mentre lo scrittore parlava del rombo, Ned Sarver ricordò remotamente quel suono allarmante, ma non riuscì a richiamarlo chiaramente alla memoria. Gli sembrava che Corvaisis lo avesse portato sull'orlo di Un baratro oscuro nel quale aveva una disperata paura di guardare, ma in cui doveva guardare, e adesso se ne stavano allontanando senza aver gettato luce nelle sue buie profondità. "Concentrati sul suono," esortò Dom. "Se riesci a ricordare il suono esatto, forse il resto seguirà." Corvaisis allontanò la sedia dal tavolo, si alzò. "Un brontolio, come un tuono che si stia avvicinando." In piedi accanto al tavolo, guardò a sinistra, a destra, in alto, in giù, cercando di individuare la direzione da cui era venuto il suono. Improvvisamente Ned sentì il rumore, non nella memoria ma nella realtà, non nel passato ma adesso. Il cupo tuonare di un temporale in avvicinamento. Ma risuonava in un rollio continuato, non in una serie di schianti, e diventava più forte, sempre più forte... Ned guardò gli altri. Anche loro lo sentivano. Più forte. Ancora più forte. Ora poteva sentirne le vibrazioni nelle ossa. Non riusciva a ricordare cosa fosse successo quella notte, ma sapeva che i fatti stupefacenti in cui erano finiti coinvolti avevano avuto inizio con quel suono. Spinse indietro la sua sedia e si alzò. Sentiva la paura crescere come una marea, e dovette lottare contro l'impulso di fuggire. Anche Sandy si alzò, e c'era paura sul suo viso. Sebbene sembrasse che gli ignoti avvenimenti avessero prodotto un effetto interamente positivo su di lei, adesso era spaventata. Cercando rassicurazione, mise una mano sul braccio di Ned. Ernie e Faye, accigliati, si guardavano attorno cercando la fonte di quel rumore, ma per il momento non apparivano spaventati. Il loro ricordo del suono doveva essere stato cancellato più accuratamente, così che non potevano collegarlo facilmente come gli altri ai fatti di quella notte di luglio. Un altro suono si sovrappose al rombo, uno strano fischio lamentoso, e anche questo riuscì spiacevolmente familiare a Ned. Stava succedendo di nuovo. Qualunque cosa fosse accaduta oltre diciotto mesi prima, in qualche modo si stava ripetendo. Gesù, stava cominciando tutto daccapo, e Ned sentì la propria voce dire: "No, no. No!" Corvaisis indietreggiò di un paio di passi dal suo tavolo, lanciò un'occhiata a Ned e agli altri. Era bianco in faccia. Il crescente boato cominciò a far vibrare le finestre dietro le veneziane
abbassate. Un vetro malfermo prese a tremare rumorosamente nella cornice. Adesso anche i listelli delle veneziane fremevano, unendosi alla cacofonia. La mano di Sandy si strinse convulsamente sul braccio di Ned. Ernie e Faye balzarono in piedi, e non erano più solo sconcertati, ma spaventati come tutti gli altri. Il fischio modulato era aumentato di volume insieme col tuono. Ora era acuto e lacerante, uno stridulo ululato elettronico. "Che cos'è?" gridò Sandy, mentre la prolungata detonazione raggiungeva una tale intensità da scuotere i muri del locale. Sul tavolo al quale Corvaisis era stato seduto, il bicchiere di birra cadde, rompendosi. Ned guardò il tavolo accanto a lui e vide gli oggetti che vi stavano sopra - boccette di senape e ketchup, saliera, portacenere, bicchieri, piatti e posate - saltare, sbattere l'uno contro l'altro, scivolare avanti e indietro per il piano. Un bicchiere di birra si rovesciò, poi un altro, e con loro la boccetta di ketchup. Con gli occhi sbarrati, tutti si giravano di qua e di là, come aspettandosi che da un momento all'altro si materializzasse un'entità demoniaca. In tutto il locale gli oggetti cadevano dai tavoli. L'orologio con il logotipo della Coors si staccò dal gancio a cui era appeso schiantandosi sul pavimento. La stessa cosa era accaduta quella notte di luglio - questo Ned lo ricordava. Non riusciva però a ricordare cosa fosse avvenuto dopo. "Basta!" gridò Ernie, con la convinzione e l'autorità di un ufficiale dei marine abituato all'obbedienza - ma senza effetto. Un terremoto? si domandò meravigliato Ned. Ma questo non avrebbe spiegato il fischio elettronico che accompagnava il boato. Le sedie danzavano per il pavimento, scontrandosi una con l'altra. Una andò a sbattere contro Corvaisis, facendolo sobbalzare. Ned poteva sentire il pavimento tremare. Il rombo e lo stridulo suono oscillatorio che lo accompagnava divennero assordanti, e le grandi finestre frontali implosero con lo scoppio secco di una bomba. Faye strillò e si riparò il volto con le braccia. Ernie barcollò all'indietro e quasi cadde su una sedia. Sandy nascose la faccia contro il petto di Ned. Avrebbero potuto restare seriamente feriti dalle schegge se le veneziane non avessero posto una barriera fra loro e i vetri. Tuttavia, la forza dell'im-
plosione le sollevò come un forte vento farebbe svolazzare le tende di una finestra aperta, e qualche scintillante frammento di vetro fu proiettato all'interno del locale, si riversò sopra i tavoli, grandmò sul pavimento. Silenzio. L'implosione delle finestre fu seguita da un profondo silenzio disturbato solo dagli ultimi pezzetti di vetro che si staccavano dalle cornici, cadendo uno alla volta. Quel venerdì notte di due estati prima, era successo più di questo, ma Ned non riusciva a ricordare cosa. Questa volta, comunque, non sembrava che i fatti misteriosi si sarebbero spinti avanti come allora. Per adesso, era tutto finito. Dom Corvaisis aveva un taglietto sanguinante su una guancia. La fronte e il dorso della mano destra di Ernie erano stati leggermente graffiati da frantumi di vetro. Dopo essersi assicurato che Sandy non fosse ferita, Ned la lasciò con riluttanza e corse alla porta. Uscì nella notte cercando di capire cosa avesse provocato tutto quello sconquasso, ma trovò solo il profondo, buio, solenne silenzio delle pianure. Niente fumo o pietra annerita che indicasse un'esplosione. In fondo alla collina su cui si trovava il Tranquility Motel, il traffico scorreva scarso ma regolare sull'interstatale. Alcuni ospiti del motel, allarmati dal trambusto, erano corsi fuori in pigiama. Il cielo era punteggiato di stelle. L'aria era gelida, ma non c'era vento, solo una lieve brezza, come il freddo alito della morte. Non si vedeva niente che potesse aver causato il boato, le vibrazioni o l'implosione delle finestre. Dom Corvaisis uscì dal ristorante, confuso. "Che diavolo era?" "Speravo lo sapessi tu," rispose Ned. "È quello che è successo due estati fa." "Lo so." "Ma era solo l'inizio. Dannazione, non riesco a ricordare cosa è accaduto quella notte dopo che sono scoppiate le finestre." "Neanch'io." Corvaisis si guardò le mani, girandole col palmo in su. Alla luce blu dell'insegna al neon sul tetto del ristorante, Ned vide anelli di carne infiammata sulle mani dello scrittore. Il colore era alterato dalla luce, ma da quello che Corvaisis aveva detto quella sera, sapeva che erano di un rosso acceso. "Che diavolo...?" disse ancora Corvaisis. Sandy era sulla soglia del ristorante, stagliata contro il bagliore fluorescente dell'interno. Ned la raggiunse, l'abbracciò. Sentì i brividi che la percorrevano uno dopo l'altro, ma non realizzò quanto lui stesso fosse scosso
finché lei gli disse: "Stai tremando come una foglia." Per la prima volta da quando l'aveva incontrata a Tucson, Ned Sarver di sentì incapace di proteggere sua moglie. All'orizzonte, la luna stava sorgendo. 12 gennaio - 14 gennaio 1 Domenica 12 gennaio Aria densa come piombo fuso. Nell'incubo, Dom non riusciva a respirare. Una tremenda pressione lo schiacciava. Si sentiva soffocare. Stava morendo. Non poteva vedere molto; aveva la vista annebbiata. Poi due uomini si avvicinarono, entrambi con indosso una tuta da decontaminazione di vinile bianco e un casco con la visiera scura, simile a quelli degli astronauti. Uno si mise alla destra di Dom, gli staccò in fretta la flebo dal braccio. L'altro, sulla destra, controllò l'elettrocardiogramma. Slacciarono le cinghie, gli tolsero gli elettrodi che lo collegavano all'elettrocardiografo e lo sollevarono in posizione seduta. Gli premettero un bicchiere alle labbra, ma lui non riusciva a bere, allora gli rovesciarono la testa all'indietro, gli aprirono la bocca e gli versarono in gola un liquido rivoltante. Gli uomini comunicavano fra loro per mezzo di radio incorporate nei caschi, ma erano così vicini a Dom che lui poteva sentire chiaramente le loro voci anche attraverso il plexiglas delle visiere. "Quanti sono i soggetti avvelenati?" "Non si sa ancora di preciso. Sembrerebbe almeno una dozzina." "Ma chi può volerli morti?" "Prova a indovinare." "Falkirk. Quel bastardo del colonnello Falkirk." "Ma non potremo mai provarlo. Non riusciremo mai a inchiodare il bastardo." Cambio di scena. Il bagno del motel. I due uomini stavano tenendo Dom in piedi, spingendogli la faccia nel lavandino. Stavolta, Dom capiva quel che gli stavano dicendo. Con crescente urgenza, insistevano perché vomitasse. Quel bastardo del colonnello Falkirk lo aveva fatto avvelenare, e questi uomini gli avevano fatto ingurgitare un amarissimo emetico, e ora lui avrebbe dovuto liberarsi del veleno che lo stava uccidendo. Ma non riu-
sciva. Aveva conati, lo stomaco gli si rivoltava, grondava sudore, ma non riusciva a espellere il veleno. "Bisogna fargli una lavanda gastrica," disse uno dei due uomini. "Non abbiamo la sonda," replicò l'altro. Gli spinsero più forte la faccia nel lavandino. Adesso Dom quasi non respirava più, e calde, untuose ondate di nausea si succedevano in lui, e il sudore gli sgorgava dai pori a fiotti, ma non riusciva a rimettere, non riusciva, non riusciva. E poi ci riuscì. Cambio di scena. Di nuovo a letto. Ma respirava, grazie a Dio. I due uomini in tuta da decontaminazione lo avevano pulito e legato nuovamente al letto. Quello sulla destra preparò una siringa ipodermica e gli fece un'iniezione di qualcosa che doveva servire a neutralizzare gli effetti del veleno residuo. Quello a sinistra lo riattaccò alla fleboclisi dalla quale stava ricevendo droghe, non nutrimento. Dom era stordito, a stento cosciente. I due lo ricollegarono all'elettrocardiografo, e intanto parlavano fra loro. "Falkirk è un imbecille. Possiamo insabbiare tutta la faccenda, se ce ne lasciano l'opportunità." "Ha paura che col tempo il blocco di memoria si sgretoli e qualcuno di loro finisca per ricordare quel che ha visto." "Be', potrebbe anche avere ragione. Ma se quella testa di cazzo li fa fuori tutti, come spiegherà i cadaveri? Questo sì che farebbe accorrere i giornalisti come sciacalli intorno a una carogna, e allora non ci sarebbe più verso di mantenere il segreto. No, l'unica soluzione sensata è un bel ritocco alla loro memoria." "Non è me che devi convincere. Vallo a dire a Falkirk." Le figure svanirono, e così le loro voci, e Dom passò a un altro sogno. Non si sentiva più debole, non stava più male, ma la sua paura esplose in puro terrore, e cominciò a correre con l'esasperante lentezza tipica degli incubi. Non sapeva da cosa stesse scappando, ma era certo che qualcosa lo stava inseguendo, qualcosa di minaccioso e inumano; lo sentiva dietro di sé, più vicino, sempre più vicino, e alla fine seppe che non poteva sfuggirgli, che doveva affrontarlo, così si fermò, si girò, alzò lo sguardo e gridò, sconvolto: "La luna!" Dom fu svegliato dal suo stesso grido. Era nella numero 20, in terra di fianco al letto, scalciando e agitando le braccia. Si alzò e si sedette sul letto. Guardò la sua sveglia da viaggio. 3:07 A.M. Rabbrividendo, si asciugò le mani umide sulle lenzuola. La camera stava agendo su di lui precisamente come aveva sperato. Le cattive vibrazioni del posto stimolavano la sua memoria, rendendo gli incubi più vividi e dettagliati che mai. Quei sogni erano radicalmente diffe-
renti da ogni altro che avesse mai fatto, perché non erano fantasie, ma scorci di una realtà passata vista attraverso lenti deformanti. Non erano tanto sogni quanto ricordi, ricordi proibiti che erano stati zavorrati e gettati nell'oscuro mare del suo subconscio, come cadaveri con i piedi incassati in un blocco di cemento buttati giù da un ponte negli abissi. Adesso erano scivolati fuori del cemento e stavano risalendo in superficie. Era stato davvero imprigionato in quella stanza, drogato, sottoposto a un lavaggio del cervello. E mentre subiva tutto questo, un tale colonnello Falkirk lo aveva avvelenato per impedirgli di rivelare qualsiasi cosa avesse visto. Falkirk aveva ragione, pensò Dom. Avrebbe fatto bene a ucciderci tutti, perché alla fine ricorderemo la verità. Domenica mattina, Ernie andò a Elko a comprare delle tavole di compensato e, tornato al motel, le segò per adattarle alle finestre del ristorante. Ned e Dom lo aiutarono a installarle, e per mezzogiorno il lavoro era finito. Non aveva voluto chiamare un vetraio perché il fenomeno della notte prima avrebbe potuto ripetersi. Finché non avesse scoperto cos'era stato, sembrava insensato far sostituire i vetri. Nel frattempo, il ristorante non avrebbe aperto. Anche il Tranquility Motel sarebbe rimasto chiuso. Ernie non voleva che gli affari lo distogliessero dall'indagare con Dom e gli altri sul mistero della "fuga tossica". Non appena l'ultimo dei clienti arrivati il giorno prima se ne fosse andato, il motel avrebbe ospitato solo lui, Faye, Dom e ogni altra vittima che, una volta contattata, avesse deciso di raggiungerli per partecipare all'esperimento. Non sapendo quante stanze potessero servire per i suoi compagni di sventura, aveva deciso di riservarle tutte e venti. Al momento, il Tranquility più che un motel era un accampamento dove le truppe sarebbero state alloggiate finché la loro guerra contro un ignoto nemico fosse finalmente giunta alla conclusione. Sistemate le finestre del ristorante, salirono tutti sul furgone del motel e Faye guidò fino all'interstatale e per mezzo chilometro a est, parcheggiando al margine dell'autostrada vicino al posto che attraeva Ernie e Sandy. In piedi lungo il guardrail, lo sguardo rivolto verso sud, i cinque cercarono di entrare in sintonia con il paesaggio alla ricerca di qualcosa che potesse illuminare il passato. Tre settimane dopo il solstizio d'inverno, la luce del
sole era dura e fredda, come fluorescente. Le distese coperte d'erba e stentata boscaglia, le colline scabre e le frastagliate formazioni rocciose erano in tre serie di colori: bruni, grigi e rossi cupi, con solo l'occasionale diversivo di una chiazza di sabbia bianca, neve, o una vena di borace. La scena era tetra e desolata sotto un cielo che si faceva via via più grigio e nuvoloso, ma possedeva un'innegabile austera maestosità. Faye avrebbe tanto voluto avvertire qualcosa di speciale in quel posto, perché se non sentiva niente significava che chi le aveva fatto il lavaggio del cervello l'aveva totalmente dominata, violata. Lei era una donna forte e orgogliosa, e nella sua rappresentazione di sé non c'era spazio per il concetto di assoluta sottomissione. Ma non sentiva altro che il vento. Ned e Dom non sembravano più turbati di lei, ma era evidente che Ernie e Sandy stavano ricevendo un qualche criptico messaggio dal panorama di fronte a loro. Sandy sorrideva beata; Ernie, invece, aveva lo stesso aspetto che prendeva quando calava la notte: pallido, tirato, lo sguardo stravolto. "Avviciniamoci," disse Sandy. "Andiamo laggiù." Tutti e cinque scavalcarono il guardrail e scesero giù per la ripida scarpata sotto la sopraelevata. Camminarono attraverso la distesa pianeggiante, evitando con cura gli arbusti spinosi che crescevano in profusione vicino ai piedi dell'interstatale ma presto cedevano il posto a cespugli di salvia ed erba marrone. Parti della pianura erano tutte roccia e sabbia, ma c'erano anche piccoli prati rigogliosi, perché quella era una zona di transizione tra il semideserto del sud e i ricchi pascoli di montagna del nord. A duecento metri dall'interstatale, si fermarono su un pezzo di terra che non sembrava particolarmente diverso dal territorio circostante. "Qui." Ernie rabbrividì, alzò il colletto della giacca di montone e infilò le mani in tasca. Sandy sorrise. "Sì. È qui." Presero a camminare avanti e indietro, ognuno per conto proprio. Qua e là, in anfratti riparati dal vento secco e dal freddo sole di gennaio, resistevano sparute chiazze di neve. Queste tracce d'inverno, più la mancanza di erba verde e fiori selvatici, erano le sole cose che rendevano il paesaggio diverso da com'era apparso due estati prima. Dopo un paio di minuti, Ned annunciò che effettivamente sentiva un legame con il posto, anche se a lui non comunicava serenità come a sua moglie, ma paura. Di fatto, la sua paura divenne tanto acuta che, sorpreso e imbarazzato dalla propria reazione, dovette allontanarsi. Mentre Sandy si affrettava a seguire il marito, Dom Corvaisis ammise che il luogo aveva uno strano effetto anche su di
lui. Però non era semplicemente spaventato come Ned; la sua paura, come quella di Ernie, era venata di soggezione e di un senso di attesa. Solo Faye rimase indifferente, imperturbata. Stando al centro dell'area in questione, Dom girò lentamente su se stesso. "Che cos'era? Cosa diavolo è successo qui?" Il cielo era diventato grigio ardesia. Il vento si fece tagliente. Faye rabbrividì. L'incapacità di sentire quello che Ernie e gli altri avvertivano accresceva la sua rabbia. Sperava proprio di trovarsi faccia a faccia, un giorno, con quelli che avevano armeggiato con la sua mente. Voleva guardarli negli occhi e chiedere loro come potessero avere così poco rispetto per l'integrità personale di un altro essere umano. Ora che sapeva di essere stata manipolata, non si sarebbe mai più sentita del tutto sicura. I cespugli rinsecchiti si agitarono al vento con un crepitante fruscio. Ramoscelli incrostati di ghiaccio scricchiolarono urtandosi, e il suono che producevano suggerì a Faye l'immaginosa idea di scheletri di piccoli animali morti da tempo ma in qualche modo ritornati in vita. Tornati al motel, nell'appartamento dei Block, Ernie, Sandy e Ned si sedettero al tavolo della cucina mentre Faye preparava cioccolata calda e caffè. Dom si appollaiò su uno sgabello vicino al telefono a muro. Sul banco di fronte a lui era posato il registro che era stato in uso due anni prima. Dopo aver letto la pagina di venerdì 6 luglio, cominciò a chiamare le persone che dovevano aver condiviso le loro misteriose, importanti esperienze di quella lontana notte d'estate. Oltre al suo nome e a quello di Ginger Weiss, ce n'erano otto in lista. Uno di questi, Gerald Salcoe di Monterey, aveva preso due stanze per sé, la moglie e due figlie. Aveva lasciato l'indirizzo ma non il numero telefonico. Quando Dom cercò di ottenerlo dal servizio informazioni abbonati, si sentì dire che non era sull'elenco. Deluso, passò a Carl Sharkle, il camionista. Sharkle viveva a Evanstone, Illinois, un sobborgo di Chicago. Aveva lasciato il suo numero, ma quando Dom lo compose scoprì che il telefono era stato staccato e nessun nuovo numero figurava nell'elenco. "Forse si è trasferito in un'altra città. Possiamo controllare se ha lasciato un nuovo indirizzo sul registro di quest'anno," suggerì Ernie. Faye portò una tazza di caffè a Dom, poi raggiunse gli altri al tavolo. Dom ebbe più fortuna al terzo tentativo, quando fece il numero di Alan
Rykoff a Las Vegas. Rispose una donna, e lui chiese, "Mrs Rykoff?" La donna esitò. "Lo ero. Il mio nome è Monatella, da dopo il divorzio." "Oh. Capisco. Io sono Dominick Corvaisis. Chiamo dal Tranquility Motel, a Elko County. Lei, il suo ex marito e sua figlia siete stati qui per qualche giorno, due estati fa?" "Be'... sì, ci siamo stati." "Miss Monatella, per caso lei o sua figlia o il suo ex marito avete... diciamo, difficoltà, strani e inquietanti problemi?" Questa volta l'esitazione della donna fu densa di significato. "Suppongo si tratti di uno scherzo di pessimo gusto. Evidentemente, lei sa quel che è successo ad Alan." "La prego, Miss Monatella, mi creda: non so cosa sia successo a suo marito. Ma penso ci siano buone probabilità che lei, o lui o vostra figlia - o tutti e tre - stiate soffrendo di inesplicabili problemi psicologici, che abbiate spaventosi incubi ricorrenti, e che qualcuno di questi incubi riguardi la luna." Dom la sentì due volte tirare in dentro il fiato per la sorpresa mentre le parlava, e quando lei fece per rispondere le si incrinò la voce. Rendendosi conto che era sul punto di scoppiare in lacrime, la interruppe. "Miss Monatella, non so cosa sia accaduto a lei e alla sua famiglia, ma il peggio è passato. Perché qualunque cosa possa ancora capitare... almeno non sarete più soli." Oltre trecentocinquanta chilometri a est di Elko County, a Manhattan, Jack Twist trascorse la domenica pomeriggio dando via altro denaro. La notte prima, tornato dal Connecticut, aveva girato per la città cercando chi fosse bisognoso e meritevole di una donazione, e non si era sbarazzato di tutto il contante che alle cinque di mattina. Sull'orlo del crollo fisico ed emotivo, era tornato al suo appartamento sulla Quinta Strada, era andato immediatamente a letto e si era addormentato all'istante. Sognò di nuovo l'autostrada deserta in un vuoto paesaggio illuminato dalla luna, e lo sconosciuto col casco dalla visiera scura che lo inseguiva a piedi. Mentre la luce della luna improvvisamente diventava rosso sangue, si svegliò in preda al panico all'una di domenica pomeriggio, dibattendosi contro il cuscino. Una luna rosso sangue. Si domandò quale fosse il significato del sogno. Fece la doccia, la barba, si vestì e si concesse solo il tempo per una rapida colazione consistente in un'arancia e un croissant un po' stantio prima di
mettersi all'opera. Nel grande armadio guardaroba della sua camera da letto, rimosse il falso fondo e fece l'inventario di quel che il ripostiglio segreto custodiva. I gioielli del lavoro di ottobre erano stati finalmente venduti con buon profitto, e gran parte del denaro fruttato dal colpo al magazzino della mafia in dicembre era stata convertita in decine di assegni sbarrati e inviata per posta a tre banche svizzere dove Jack aveva un conto. Rimanevano solo centoventicinquemila dollari, la sua riserva di emergenza. Trasferì quasi tutto il contante in una ventiquattrore: nove mazzette di banconote da cento dollari e cinque di banconote da venti dollari, cento banconote ciascuna. Rimanevano ancora venticinquemila dollari nel nascondiglio: più che sufficienti, adesso che aveva abbandonato l'attività criminale e non si sarebbe più messo in situazioni che potessero portarlo a dover lasciare rapidamente lo stato o il paese. Benché intendesse sbarazzarsi di una considerevole parte della sua ricchezza illecitamente acquisita, non aveva certo in programma di rimanere sul lastrico. Dare via tutto sarebbe forse stato bene per la sua anima, ma senz'altro male per il suo futuro. Comunque, aveva undici cassette di sicurezza in undici banche della città - ulteriori riserve d'emergenza nel caso avesse dovuto scappare e non gli fosse stato possibile raggiungere il nascondiglio nella sua camera da letto - e tra tutte contenevano più di un altro quarto di milione. Inoltre, i suoi depositi in Svizzera ammontavano a oltre quattro milioni. Molto più di quanto gli servisse. Aveva stabilito di distribuire metà di quella fortuna nel prossimo paio di settimane, e a quel punto si sarebbe fermato per decidere cosa voleva fare del suo futuro. Eventualmente, avrebbe potuto darne via ancora un po'. Alle tre e mezzo di domenica pomeriggio uscì di casa con la sua valigetta piena di denaro. Per otto anni, tutte le facce sconosciute che vedeva per la città gli erano sembrate accanitamente ostili; adesso, ognuna di esse gli appariva come un ritratto vivente di promesse e luminose possibilità. Nella cucina dei Block, Faye tirò fuori dal freezer delle brioche e le infilò nel forno. Presto il profumo di pasta dolce si unì a quello del caffè e della cioccolata calda. Mentre gli altri stavano seduti a tavola, ascoltando, Dom continuò a chiamare le persone che avevano firmato il registro del motel quel fatidico venerdì. Riuscì a parlare con Jim Gestron, e venne fuori che era un fotografo di
Los Angeles e che quell'estate aveva viaggiato per tutto l'Ovest per realizzare servizi commissionati dal Sunset e altri giornali. Inizialmente fu amichevole, ma quando sentì quel che Dom aveva da dirgli si raffreddò. Se aveva subito un lavaggio del cervello, il lavoro era riuscito bene come con Faye. Il fotografo non aveva incubi o problemi di sorta. Tutta quella storia di lavaggi del cervello, sonnambulismo, nictofobia, ossessioni per la luna, suicidi ed esperienze paranormali per lui erano solo i vaneggiamenti di uno squilibrato. Chiarito il suo punto di vista, interruppe bruscamente la conversazione attaccando il telefono. Dom chiamò poi Harriet Bellot a Sacramento. La donna disse di essere una maestra cinquantenne, nubile, che aveva concepito un interesse per il vecchio West da giovane, quando faceva parte del corpo delle ausiliarie dell'esercito ed era stata di stanza in Arizona. Ogni estate viaggiava lungo le strade un tempo percorse dalle carovane, visitando i posti dei forti e i villaggi indiani di un altro secolo, dormendo solitamente nel suo piccolo camper, ma talvolta concedendosi la comodità di una stanza in un motel. Sembrava una di quelle maestre di vecchio stampo che prendevano l'insegnamento come una missione, brave ma severe: evidentemente non ammetteva stupidaggini da parte dei loro allievi, e non ne ammise alcuna da parte di Dom. Come lui cominciò a parlare di poltergeist e cose del genere anche lei gli attaccò il telefono in faccia. "Questo ti consola, Faye?" domandò Ernie. "Non sei la sola i cui ricordi sono stati così accuratamente cancellati." "Non mi consola affatto," dichiarò Faye. "Preferirei avere problemi come te e Dom che non sentire niente. Così, è come se un pezzo di me fosse stato asportato e gettato via." Forse ha ragione lei, pensò Dom. Forse soffrire di incubi, fobie e terrori di vario genere è meglio che avere dentro una piccola cavità, un vuoto freddo e scuro, come un frammento di morte. Padre Wycazik era nel suo studio quando, alle quattro e mezzo, arrivò una telefonata da Elko County, Nevada. Era un certo Dom Corvaisis, e chiedeva di padre Cronin, ma Brendan aveva preso un aereo per Reno poche ore prima, approfittando di un posto che si era liberato. Stefan fu incuriosito dal fatto che Corvaisis chiamasse proprio dal luogo dove era diretto Brendan, e volle sapere di cosa si trattasse. Dominick Corvaisis, con la propensione per il fantastico di uno scrittore, e padre Wycazik, con la propensione per il mistero e il misticismo di un
prete, si inoltrarono in una conversazione che risultò molto avvincente per entrambi. Stefan barattò quel che sapeva dei problemi e delle avventure di Brendan - perdita della fede, guarigioni miracolose, strani sogni - con le storie di Corvaisis di fenomeni paranormali, sonnambulismo, nictofobia, ossessione per la luna e suicidi. Alla fine, non poté fare a meno di chiedere: "Mr Corvaisis, lei ritiene che ci sia motivo per un irriducibile vecchio religioso come me di sperare che quanto sta succedendo a Brendan sia in qualche modo di natura divina?" "Francamente, padre, nonostante le miracolose guarigioni di cui mi ha raccontato, io non vedo la mano di Dio in tutto questo. Ci sono troppe indicazioni di presenze umane perché l'interpretazione che lei vorrebbe dare a questi strani fatti sia sostenibile." Stefan sospirò. "Immagino sia vero. Ma in ogni caso, non rinuncerò alla speranza che ciò a cui Brendan è stato chiamato ad assistere là in Nevada sia qualcosa destinato a riportarlo nelle mani di Cristo. Non intendo darmi per vinto." Lo scrittore rise piano. "Di questo non dubito, padre. Da quanto ho potuto capire di lei durante questa conversazione, sospetto che il verbo arrendersi non rientri nel suo vocabolario. Aspetto con impazienza l'arrivo di padre Cronin: se le somiglia, saremo felici di averlo al nostro fianco." "Sono anch'io al vostro fianco," disse padre Wycazik, "e se c'è qualcosa che posso fare per aiutarvi nelle indagini, vi prego di farmelo sapere. Se esiste una minima possibilità che questi strani eventi implichino la manifesta presenza di Dio, non intendo starmene in disparte e perdermi tutta l'azione." Dopo padre Cronin, Dom chiamò Bruce e Janet Cable, di Philadelphia. Nessuno dei due aveva problemi simili a quelli di Dom, Ernie e gli altri. A differenza di Jim Gestron e Harriet Bellot, ascoltarono cortesemente Dom fino in fondo. L'ultimo nome sulla lista era Thornton Wainwright, che aveva dato un indirizzo e numero telefonico di New York City. Quando Dom telefonò, rispose una certa Mrs Karpoly, la quale disse che il numero era suo da quattordici anni e non conosceva alcun Wainwright. Dom lesse l'indirizzo di Lexington Avenue per sapere se corrispondesse, e Mrs Karpoly se lo fece ripetere, poi rise. "No, signore, non è lì che abito. E il suo Mr Wainwright non è una persona affidabile se le ha detto che quello è il suo indi-
rizzo. Lì non abita nessuno, anche se sono certa che a molti piacerebbe. Io so che mi è piaciuto lavorarci. Quello è l'indirizzo di Bloomingdale's.'' Sandy fu stupefatta quando Dom riferì la novità. "Nome e indirizzo falsi? Cosa significa? Era davvero ospite del motel quella notte? O qualcuno ha aggiunto il nome al registro per confonderci? O... cosa?" Jack Twist possedeva serie complete di documenti falsi - patenti di guida, certificati di nascita, carte di credito, passaporti, perfino tessere di biblioteche - in otto nomi, incluso "Thornton Bains Wainwright", di cui si serviva quando progettava ed eseguiva un colpo. Ma quella domenica pomeriggio agiva anonimamente elargendo denaro in giro per Manhattan. In meno di un'ora, diede via tutti i centomila dollari che aveva preso dal compartimento segreto del guardaroba. Poi, comprò un mazzo di rose rosso corallo e andò al cimitero di Westchester County, a un'ora di macchina dalla città. Jack non aveva voluto che la moglie venisse seppellita in uno dei tetri cimiteri della metropoli. Per quanto potesse sembrare sciocco sentimentalismo, aveva preferito che la sua Jenny riposasse in aperta campagna, dove ci sarebbero stati prati verdi e alberi ombrosi in estate e candide distese di neve in inverno. Arrivò al cimitero poco prima del tramonto. Si sedette nella neve vicino alla tomba di Jenny, in un mondo privo di colore eccetto per le rose sfolgoranti, e le parlò come aveva fatto durante i suoi anni di coma. Le raccontò del colpo al portavalori e di come avesse dato via tutto il denaro. Si alzò solo quando il custode avvertì gli ultimi visitatori che di lì a poco i cancelli sarebbero stati chiusi. "Sto cambiando, Jenny, e non so bene perché. Mi sembra buono, giusto... ma anche strano." Quello che disse dopo lo sorprese: "Sta per succedere qualcosa di grosso, Jenny. Non so cosa, ma sta per succedermi qualcosa di grosso." All'improvviso intuì che il suo nuovo rimorso e la susseguente pace con la società erano solo i primi passi di un lungo viaggio che lo avrebbe condotto in posti che ancora non poteva neppure immaginare. "Sta per succedere qualcosa di grosso," ripetè, "e vorrei tanto che tu fossi qui con me, Jenny." Il cielo azzurro del Nevada aveva cominciato a coprirsi di scure nuvole temporalesche già mentre Ernie, Dom e Ned chiudevano con le assi le finestre rotte del ristorante. Ore dopo, quando Dom andò all'aeroporto di Elko con la sua auto a prendere Ginger Weiss, il mondo girava sotto una luce
plumbea, paludato in grigio, come in uniforme. Dom era troppo irrequieto per stare dentro il piccolo terminal. Aspettò sulla pista battuta dal vento, e così sentì arrivare il piccolo aereo ancor prima di vederlo scendere attraverso il basso strato di nuvole. Il rombo dei motori contribuiva all'atmosfera di imminente stato di guerra, e Dom si rese conto che, in un certo senso, stavano radunando il loro esercito; lo scontro col loro sconosciuto nemico si faceva ogni giorno più vicino. La dottoressa Weiss fu la quarta passeggera a sbarcare. Anche infagottata in un pesante giaccone per nulla femminile, appariva delicata e attraente, con i serici capelli biondo argenteo al vento. Dom le si affrettò incontro; lei si fermò e mise giù le sue borse. Esitarono per un momento, guardandosi l'un l'altro in silenzio con uno strano misto di stupore, eccitazione, piacere e apprensione. Poi, con un'impulsività che sorprese entrambi, praticamente si gettarono una tra le braccia dell'altro, come fossero vecchi e cari amici da troppo tempo lontani. Dom la strinse a sé, e lei lo tenne stretto, e a tutt'e due batteva forte il cuore. Cosa sta succedendo qui? si chiese Dom, ma era troppo scombussolato per analizzare la situazione. Per il momento, poteva sentire ma non pensare. Nessuno dei due voleva sciogliersi dall'abbraccio, e quando finalmente si separarono, nessuno dei due riusciva a parlare. Lei cercò di dire qualcosa, ma la voce le si ruppe per l'emozione, e Dom era incoerente. Così lui prese uno dei borsoni, e lei prese l'altro, e si incamminarono verso il parcheggio. In macchina, col motore acceso e il riscaldamento in funzione, Ginger chiese: "Tu come te lo spieghi?" Ancora scosso, ma curiosamente non imbarazzato per la calda accoglienza che le aveva riservato, Dom si schiarì la voce. "Non so bene neanch'io. Ma penso che noi due abbiamo passato insieme qualcosa di così sconvolgente che l'esperienza ha creato uno speciale legame fra noi, un forte legame di cui non eravamo consapevoli finché non ci siamo trovati uno di fronte all'altro." "Quando ho visto la tua foto sulla copertina del libro, mi ha fatto un effetto molto strano, ma niente di questo genere. Vedendoti lì mentre scendevo dall'aereo, mi è sembrato di conoscerti da sempre. Anzi, no. Più precisamente... era come se ci fossimo conosciuti molto meglio, più completamente di quanto abbiamo mai conosciuto chiunque altro, come se avessimo spartito qualche tremendo segreto che potrebbe interessare l'umanità
intera, ma che solo noi sapevamo. Ti sembra assurdo?" Lui scosse la testa. "No, affatto. Hai messo in parole quel che sentivo io... o almeno, ti ci sei avvicinata quanto lo consentono le parole." "Tu hai già incontrato qualcuno degli altri," disse Ginger. "È stato lo stesso quando li hai visti la prima volta?" "No. Sulle prime ho sentito... un certo calore verso di loro, ma niente di paragonabile a quel che ho provato quando sei scesa da quell'aereo. Tutti noi siamo passati per qualcosa che ha legato le nostre vite, il nostro futuro, ma evidentemente tu e io abbiamo in comune un'esperienza ancora più strana e intensa di qualunque cosa abbiamo spartito con loro. Dannazione, questa storia è a strati come una cipolla, una stranezza sopra l'altra." Per una mezz'ora rimasero seduti in macchina a parlare. Lei gli disse delle sue fughe, delle sedute ipnotiche con Pablo Jackson e della tecnica di controllo della mente conosciuta come blocco di Azrael, e raccontò dell'assassinio di Pablo e di come lei si fosse salvata per un soffio. Benché chiaramente Ginger non cercasse compassione per quel che aveva sofferto né lodi per il modo in cui se l'era cavata in così difficili circostanze, il rispetto e l'ammirazione di Dom aumentavano di attimo in attimo. Era così minuta, eppure in qualche modo aveva una presenza fisica più imponente di tanti uomini grandi due volte lei. Dom le riferì quel che era successo nelle ultime ventiquattr'ore, e quando Ginger sentì del suo sogno della notte prima e dei nuovi ricordi che erano emersi, sembrò immensamente sollevata. Nel sogno di Dom c'era la conferma della teoria di Pablo Jackson; le sue fughe, infatti, erano sempre state causate da oggetti legati alla sua prigionia al motel due estati prima. I guanti neri e il casco l'avevano terrorizzata perché le ricordavano le persone in tuta da decontaminazione che si erano occupate di lei mentre subiva il lavaggio del cervello. Lo scarico del lavabo all'ospedale l'aveva gettata nel panico perché probabilmente lei era stata una di quelli avvelenati dal colonnello Falkirk (chiunque potesse essere) e, come Dom, l'avevano costretta a vomitare la letale sostanza. Mentre la tenevano a letto, dovevano averle esaminato spesso gli occhi per determinare la profondità del suo stato di narcosi, ed era per questo che un oftalmoscopio l'aveva scaraventata in un oscuro terrore quella notte nell'ufficio di George Hannaby. Dom notò un allentamento di tensione a questa irrefutabile prova che i suoi black-out non erano segno di pazzia ma un sistema disperato, eppure totalmente razionale, per rimuovere ciò che le avevano proibito di ricordare. Ma Ginger non era ancora del tutto rassicurata. "E i bottoni di ottone sulla giacca del-
l'uomo che ha ucciso Pablo? E quelli dell'uniforme del poliziotto? Perché hanno fatto scattare una fuga?" "Be', sappiamo che i militari sono coinvolti in questa storia," rispose Dom. "Probabilmente quei bottoni erano simili a quelli delle uniformi di chi ci ha tenuti sequestrati al motel." "Okay, ma tu hai detto che indossavano tute da decontaminazione, non uniformi." "Forse a un certo punto hanno deciso che potevano farne a meno." Lei annuì. "Dev'essere così. Resta solo una cosa da spiegare. Le lanterne dietro la casa in Newbury Street di cui ti dicevo, il giorno che Pablo è stato ucciso. Perché hanno provocato una crisi?" "Le basi delle lampade nelle camere del Tranquility Motel sono fatte come lanterne, con finestrelle di vetro ambrato." "Che mi venga un accidente. Allora ogni fuga è stata messa in moto da un oggetto che mi ricordava qualcosa di quei giorni." Dom esitò, poi si infilò una mano sotto il maglione, tirò fuori la polaroid dal taschino della camicia e la porse a Ginger. Lei impallidì vedendo la propria immagine fissarla con occhi vacui. "Gevalt!" Distolse lo sguardo dalla fotografia, e Dom le lasciò il tempo di riprendersi dallo choc. Fuori, nella morente luce grigia, il vento spazzava il parcheggio, alzando polvere, foglie e cartacce. "È meshugge," disse Ginger, abbassando di nuovo lo sguardo turbato sulla foto. "È folle. Cosa può mai esserci successo per giustificare questa elaborata, rischiosa cospirazione? Cosa possiamo aver visto di così maledettamente importante?" "Lo scopriremo," promise Dom. "Pensi davvero che ce lo permetteranno? Hanno ucciso Pablo. Non credi che farebbero qualsiasi cosa per impedirci di arrivare alla verità?" Dom alzò il riscaldamento per neutralizzare il freddo del vento che batteva contro i finestrini. "Be', si direbbe che i cospiratori siano divisi in due fazioni. Ci sono i duri rappresentati dal colonnello Falkirk e i suoi, e i moderati, rappresentati da chi ci ha mandato queste foto e dai due uomini del mio sogno di ieri notte. I duri volevano ucciderci tutti fin dall'inizio, così la copertura sarebbe stata di sicuro permanente. Ma i moderati volevano epurare la nostra memoria con tecniche di controllo della mente invece di ricorrere alla violenza, e dovevano essere i più forti, perché hanno avuto la meglio." "L'uomo che ha ucciso Pablo doveva essere uno dei duri."
"Sì. Un uomo di Falkirk. Evidentemente il colonnello vuole ancora eliminare chiunque possa far saltare la copertura, il che significa che tutti noi siamo in pericolo. Ma c'è l'altra fazione che non crede nella drastica soluzione di Falkirk, e credo stia ancora cercando di proteggerci. Quindi, abbiamo una possibilità. A ogni modo, non possiamo mollare. Non possiamo ritirarci in buon ordine e tenerci i nostri problemi solo perché il nemico sembra formidabile." "No," concordò Ginger, "non possiamo. Che vita sarebbe la nostra, se ce ne tornassimo a casa senza aver risolto niente?" Il vento soffiava foglie accartocciate contro il parabrezza, sopra il tetto. Ginger volse lo sguardo per il parcheggio. "Di sicuro sanno che ci stiamo riunendo al motel, che le cose stanno precipitando. Pensi che ci stiano guardando in questo momento?" "Immagino che tengano il motel sotto sorveglianza," rispose Dom. "Ma nessuno mi ha seguito qui. Ho tenuto gli occhi aperti." "Probabilmente non avevano bisogno di seguirti," commentò cupamente Ginger. "È facile che sapessero già dove eri diretto e chi stavi andando a prendere." Meno di mezz'ora dopo il tramonto, le ombre sugli altipiani erano lunghe, e la fangosa luce grigia del crepuscolo conferiva un che di misterioso al paesaggio brullo. Prima di tornare al motel, Dom aveva portato Ginger in quello che lui chiamava "il posto speciale", a sud dell'interstatale 80. Non voleva influenzare in alcun modo la sua reazione, e non le aveva descritto le sensazioni che suscitava in lui: ora se ne stava da parte, le mani in tasca, silenzioso, mentre lei camminava lentamente avanti e indietro. Ginger si sentiva vagamente stupida, come se stesse prendendo parte a un ridicolo esperimento di percezione psichica, cercando di captare vibrazioni soprannaturali. Ben presto, però, smise di sentirsi sciocca, perché le vibrazioni cominciarono veramente a scuoterla. Inizialmente avvertì uno strano disagio, e si ritrovò a girare al largo dalle zone d'ombra più profonde, come se celassero qualcosa di ostile. Il cuore prese a batterle forte. Poi il disagio divenne paura e il ritmo del suo respiro cambiò. "È dentro di me. È dentro di me." Si girò di scatto verso la voce. Era la voce di Dom, ma non era venuta da lui. Le parole erano risuonate alle sue spalle, eppure non c'era nessuno dietro di lei: solo cespugli rinsecchiti e la vaga luminescenza di un sottile strato di neve tra le ombre.
"Cosa c'è?" chiese Dom, avvicinandosi. Si era sbagliata. L'altra voce di Dom, la voce fantasma, non era venuta da dietro di lei, ma da dentro di lei. La udì nuovamente, e realizzò che quello era un frammento di memoria, un'eco del passato, qualcosa che lui le aveva detto quel venerdì notte, il 6 luglio, forse in quello stesso posto. Il brandello di memoria era privo di elementi visivi o olfattivi perché faceva parte degli eventi rinchiusi dal blocco di Azrael. C'erano solo quelle quattro ansiose parole ripetute due volte: "È dentro di me. E dentro di me." All'improvviso, la paura che ribolliva in lei traboccò. Il paesaggio attorno sembrò incarnare un'ignota ma mostruosa minaccia. Ginger si avviò a rapidi passi verso l'autostrada. Dom le chiese cosa ci fosse che non andava e lei camminò ancora più in fretta, incapace di rispondere perché la paura era come colla nella sua bocca. Lui la chiamò per nome, e lei si mise a correre. Da oriente, le ombre dilagavano simili a sangue nero, come se ogni oggetto in vista fosse stato ferito sul fianco rivolto a est. Ginger non fu in grado di parlare se non quando furono di nuovo sulla Chevrolet, con le portiere chiuse, il motore acceso e l'aria calda che soffiava dai diffusori sulle loro facce gelate. Tremante, raccontò a Dom quel che era successo. "È dentro di me," mormorò lui pensierosamente. "Sicura che sia davvero qualcosa che ti ho detto quella notte?" Lei rabbrividì. "Sicura." "È dentro di me. Cosa avrò mai voluto dire con questo?" "Non lo so," rispose Ginger. "Ma mi fa accapponare la pelle." Dom rimase in silenzio per un momento. "Sì. Anche a me." Quella sera, al motel, Ginger Weiss si sentiva come in famiglia: erano tutti e sei nella cucina dei Block a preparare la cena. Delle cinque persone tra cui era venuta a trovarsi, solo Dominick Corvaisis suscitava in lei emozioni che non riusciva a capire. Per lui provava la stessa amicizia che aveva subito sentito per gli altri, ed era consapevole dello speciale legame che correva tra loro e che doveva essere collegato a una qualche esperienza che solo loro due avevano spartito. Ma ne era anche sessualmente attratta. Questo la sorprendeva, perché non le capitava mai di provare desiderio per un uomo prima di conoscerlo bene, e almeno per parecchie settimane. Diffidente della propria pulsione romantica, tenne a bada i suoi sentimenti e si sforzò di convincersi che Dom non sentiva una simile attrazione verso di lei, sebbene fosse palese il contrario.
Per tutta la cena i sei continuarono a discutere la loro difficile situazione e cercare tracce che potessero essere sfuggite. Come Dom, Ginger non ricordava niente di una fuga di sostanze tossiche. Eppure l'interstatale 80 era stata davvero chiusa, e lo stato di emergenza era stato dichiarato in tutta la zona; su questo non c'erano dubbi. "Forse hanno inserito la fuga tossica e la chiusura dell'autostrada nei falsi ricordi di voi del posto perché più avanti qualcuno avrebbe potuto chiedervi dove eravate durante l'emergenza, e voi avreste dovuto sapere di cosa si stava parlando. Ma io e Dom venivamo da lontano, ed era improbabile che tornassimo qui o ci capitasse di imbatterci in qualcuno che sapesse che eravamo stati nell'area isolata, così non si sono preoccupati di includere quel po' di realtà nei falsi ricordi che ci hanno dato." Sandy si bloccò con la forchetta a mezz'aria. "Ma non sarebbe stato più sicuro e semplice adattare anche i vostri ricordi alla storia della contaminazione?" "Da quando Pablo Jackson mi ha aiutata a scoprire che la mia mente era stata manomessa," disse Ginger, "ho letto parecchio sul lavaggio del cervello, e penso che sia meno difficoltoso impiantare ricordi interamente falsi che intesservi fili di realtà come l'emergenza ambientale e la chiusura dell'autostrada. Probabilmente ci vuole molto di più per costruire ricordi fittizi che contengano una parte di realtà, e forse loro semplicemente non avevano il tempo di farlo con tutti noi. Così hanno riservato il trattamento extralusso solo a voi del posto." "Sembra verosimile," commentò Ernie, e tutti concordarono. "Ma la fuga tossica c'è stata davvero," disse Faye, "o era solo una scusa per chiudere l'interstatale e imbottigliarci, in modo che non potessimo riferire quel che avevamo visto?" "Sospetto che ci sia effettivamente stata una contaminazione di qualche genere," fu il parere di Ginger. "Nell'incubo di Dom, che è più memoria che sogno, quegli uomini indossavano tute da decontaminazione. Ora, quando sono arrivati sul luogo, può essere che fossero vestiti così a beneficio dei giornalisti e la gente che li avrebbe visti. Ma una volta qui, non avrebbero continuato a portare le tute se non fosse stato necessario." Ernie guardò inquieto la finestra più vicina, come se gli fosse sembrato di aver visto un rivolo di oscurità stillare da dietro la tenda tirata. "Be'... tu che sei un dottore... di cosa pensi si trattasse? Contaminazione chimica o biologica? La storia che hanno raccontato alla stampa parlava di sostanze chimiche destinate all'area sperimentale di Shenkfield."
Ginger si era già posta questa domanda ed era arrivata a una risposta che la preoccupava alquanto. "Parlando in generale, le tute necessarie in caso di fuga di sostanze chimiche non devono essere ermetiche. Basta che coprano l'operatore dalla testa ai piedi in modo che la sostanza non venga a contatto con la pelle, e l'equipaggiamento comprenderebbe un respiratore, qualcosa come bombole e maschera da sub, per non inalare vapori tossici. Solitamente queste tute sono fatte di tessuto leggero e non poroso, e completate da un semplice cappuccio sempre di tela con la visiera in plastica. Ma Dom ha descritto tute pesanti con uno spesso strato esterno di vinile, con guanti attaccati alle maniche e un casco ermetico. Questo è indubbiamente un equipaggiamento destinato a prevenire l'esposizione a un pericoloso agente biologico." Per un po' nessuno disse una parola, meditando sulla poco rassicurante novità. Poi, Ned bevve un lungo sorso di Heineken per farsi forza e concluse: "Quindi dobbiamo essere stati infettati da qualcosa." Faye annuì. "Qualche virus che hanno trovato per combattere la guerra biologica." "Se era roba destinata a Shenkfield, senz'altro era qualcosa di molto nocivo, per non dire mortale," rincarò Ernie. "Eppure siamo sopravvissuti," osservò Sandy. "Perché sono stati in grado di isolarci e curarci immediatamente," disse Ginger. "Di sicuro non si sarebbero arrischiati a sperimentare un nuovo virus letale ottenuto in laboratorio se non avessero al tempo stesso avuto a disposizione un efficace rimedio. Disponevano certamente di un nuovo antibiotico o siero per correre ai ripari in caso di un incidente simile. Se ci hanno contaminati, ci hanno anche curati." "Il ragionamento fila," commentò Ernie. "Sembra che le cose comincino a quadrare." Dom non era d'accordo. "Questo non spiega cosa sia successo quel venerdì notte, cosa abbiamo visto che non avremmo dovuto. Non spiega cosa ha fatto tremare l'intero ristorante ed esplodere le finestre - sia la prima volta sia la scorsa notte." "E non spiega gli altri strani fenomeni, come il carosello delle lune di carta in casa di Lomack, o le miracolose guarigioni di cui ha parlato padre Wycazik," aggiunse Faye. Si guardarono l'un l'altro, aspettando in silenzio che qualcuno trovasse una spiegazione che collegasse la contaminazione biologica con quei fatti paranormali, ma nessuno aveva una risposta.
Meno di cinquecento chilometri a ovest del Tranquility Motel, in un altro motel a Reno, Brendan Cronin era andato a letto e aveva spento la luce. L'orologio faceva le nove e pochi minuti, ma Brendan era interiormente sincronizzato con l'ora di Chicago: per lui erano le undici passate. Comunque, il sonno si faceva aspettare. Dopo aver preso la stanza e cenato in un fast-food lì vicino, aveva telefonato a St. Bernadette e padre Wycazik gli aveva detto della chiamata di Dominick Corvaisis. Elettrizzato dalla notizia di non essere il solo coinvolto in quel mistero, Brendan era stato tentato di mettersi subito in contatto con il Tranquility, ma loro sapevano già che stava arrivando, e qualunque cosa potessero dire per telefono sarebbe stato meglio dirla di persona, l'indomani. Il pensiero del giorno dopo e di cosa poteva aspettarlo era appunto ciò che teneva a bada il sonno. Era lì sveglio da quasi un'ora e i suoi pensieri erano andati all'impiegabile luminescenza che aveva pervaso la sua stanza nella casa parrocchiale due notti prima, quando improvvisamente il fenomeno si ripetè. Questa volta non c'era alcuna visibile fonte di luce, nemmeno inverosimile come la luna di gelo sulla finestra dalla quale la radiosità era sgorgata il venerdì prima. Ora, il bagliore apparve sopra di lui e da ogni lato, come se le stesse molecole dell'aria avessero acquisito la capacità di produrre luce. Sulle prime fu un pallido chiarore opalino, ma poi si fece sempre più intenso, finché gli parve di trovarsi all'aperto sotto la luna piena. Era diverso dalla rasserenante luce dorata del suo sogno ricorrente e, come due notti prima, lo colmò di emozioni conflittuali - orrore e rapimento, paura ed eccitazione. Come l'altra volta, la luce lattescente cambiò colore, scurendosi fino a diventare scarlatta. Gli sembrava di essere sospeso in una splendente bolla di sangue. E dentro di me, pensò, domandandosi cosa significasse. Dentro di me. Il pensiero echeggiò nella sua mente. A un tratto si sentì gelare per la paura. Il cuore sembrava sul punto di esplodere. Si irrigidì. Sulle sue mani apparvero gli anelli. 2 Lunedì, 13 gennaio
Il mattino dopo, quando si riunirono nella cucina di Ernie e Faye per la colazione, Dom fu eccitato quando venne a sapere che quasi tutti avevano passato una notte agitata. "Sta andando come speravo," disse. "Radunandoci qui, ricreando il gruppo di quella notte e lavorando insieme per arrivare alla verità, stiamo mettendo sotto costante pressione il blocco di memoria che è stato impiantato in noi. E ora, la barriera si sta sgretolando un po' più in fretta." Dom, Ginger, Ernie e Faye avevano avuto incubi eccezionalmente vividi, e tanto simili che potevano solo essere frammenti di ricordi proibiti. In tutti i sogni erano legati a un letto del motel e accuditi da uomini in tuta da decontaminazione. Sandy, invece, aveva fatto un sogno piacevole, ma privo del nitore e del realismo degli incubi degli altri. Faye era stata l'unica a non sognare niente. Ned, arrivando con Sandy da Beowawe per la colazione, aveva annunciato che si sarebbero stabiliti anche loro al motel. "Stanotte, quando il sogno mi ha svegliato, non sono più riuscito a riaddormentarmi. E mentre ero lì sveglio ho cominciato a pensare a come è isolato il posto in cui stiamo, e a quel colonnello Falkirk che probabilmente vuol farci la festa... Insomma, non mi sembra prudente che io e Sandy restiamo lì da soli." Dom poteva capire l'ansia di Ned, perché quei sogni erano nuovi per il cuoco. Nelle ultime settimane lui, Ginger ed Ernie avevano imparato a far fronte agli spaventosi incubi, ma Ned non aveva sviluppato alcuna corazza, ed era comprensibile che fosse sconvolto. E, naturalmente, Ned aveva ragione a temere Falkirk. Più si avvicinavano a scoprire la verità, più era facile che diventassero il bersaglio di un'azione preventiva. Dom non pensava che Falkirk si sarebbe mosso prima che Brendan Cronin, Jorja Monatella e forse altre vittime fossero arrivati al Tranquility. Ma una volta riuniti tutti nello stesso posto, avrebbero dovuto tenersi pronti ai guai. Ora, nella cucina dei Block, Ned Sarver mangiucchiò svogliatamente la sua colazione mentre parlava delle immagini che avevano turbato il suo sonno. All'inizio del sogno era tenuto prigioniero da uomini in tuta ermetica, ma poi indossavano camici o uniformi militari, segno che il pericolo biologico era passato. Uno degli uomini in uniforme era il colonnello Falkirk, e Ned lo descrisse dettagliatamente: intorno ai cinquant'anni, capelli neri ingrigiti alle tempie, occhi grigi come acciaio, naso aquilino, labbra sottili. Ernie poté confermare la descrizione, perché Falkirk era apparso anche
nel suo sogno. "E nel mio incubo," aggiunse, "un altro ufficiale lo chiamava col nome di battesimo. Leland. Colonnello Leland Falkirk." "Probabilmente è a Shenkfield," suppose Ginger. "Cercheremo di scoprirlo più tardi," disse Dom. Come gli incubi di Ernie e Ned, anche quelli di Ginger e Dom avevano in comune un nuovo elemento. Ognuno dei due, nel sogno, non era solo nella stanza del motel. Nella camera c'era una branda, e su essa giaceva una persona, con la flebo da una parte e l'elettrocardiografo dall'altra. Nel sogno di Ginger, era una donna rossa di capelli, intorno alla quarantina, e in quello di Dom era un uomo di neanche trent'anni con folti baffi, ed entrambi erano pallidi, con gli occhi vuoti, da zombie. "Cosa significa questo?" domandò Faye. "Avevano tanti soggetti a cui fare il lavaggio del cervello che venti stanze non bastavano?" "Ma dal registro risulta che solo undici camere erano occupate," obiettò Sandy. "Dovevano esserci persone in transito sull'interstatale che hanno visto quel che abbiamo visto noi," dedusse Ginger, "e i militari sono riusciti a fermare tutti e portarli qui. Ovviamente, i loro nomi non compaiono sul registro." "Quanti saranno stati?" chiese Faye, quasi tra sé. "Probabilmente non lo sapremo mai con esattezza," disse Dom. "Non li abbiamo mai veramente incontrati; abbiamo solo condiviso le camere mentre eravamo drogati. Possiamo al massimo ricordare la faccia di quelli che abbiamo visto, ma è impossibile che ricordiamo nomi e indirizzi che non abbiamo mai conosciuto." Ma, almeno, quelle memorie riprogrammate, quei veli di bugie, si stavano dissolvendo, lasciando trasparire la verità. Era già qualcosa. Col tempo, avrebbero scoperto l'intera storia - ammesso che il colonnello Falkirk non li avesse fermati prima. Lunedì mattina, mentre il gruppo al Tranquility Motel faceva colazione, Jack Twist, a New York, veniva accompagnato a una cassetta di sicurezza nel caveau di una filiale Citybank della Quinta Strada. La dipendente della banca che lo assisteva, una donna giovane e attraente, continuava a chiamarlo "Mr Farnham", perché era quella la falsa identità sotto cui aveva preso la cassetta. Dopo che ebbero usato le rispettive chiavi per rimuovere il forziere dalla parete del caveau e l'impiegata lo ebbe lasciato da solo con la cassetta in
uno stanzino, Jack aprì il coperchio e rimase a fissarne incredulo il contenuto. Nel rettangolare contenitore metallico c'era qualcosa che lui non vi aveva messo, il che era inconcepibile visto che lui solo sapeva della cassetta e ne possedeva l'unica chiave personale. Avrebbe dovuto contenere cinque buste bianche, con cinquemila dollari in biglietti da cento e venti in ciascuna, e in effetti le buste erano lì, apparentemente intatte. Era una delle undici riserve di emergenza che teneva in cassette di sicurezza in diverse banche della città. Quel mattino era uscito per prelevare quindicimila dollari da ognuna, per un totale di centossessantacinquemila dollari, che aveva intenzione di dare via. Ora, aprì una per una le cinque buste e contò il denaro con mani tremanti. C'era tutto, fino all'ultima banconota. Jack non fu minimamente sollevato. Benché il denaro fosse ancora lì, la presenza di un oggetto estraneo dimostrava che la sua falsa identità era stata smascherata, la sua privacy violata e la sua libertà era in pericolo. Qualcuno sapeva chi era realmente "Gregory Farnham", e l'oggetto che era stato lasciato nella cassetta di sicurezza ne era una chiara testimonianza. Era una cartolina illustrata. Dietro non c'era scritto nulla; la presenza della cartolina era di per sé abbastanza eloquente. Davanti, recava una fotografia del Tranquility Motel. Due estati prima, dopo il colpo fallito alla villa di Avril McAllister e la molto più proficua sosta a Reno, Jack aveva noleggiato una macchina ed era partito verso est, fermandosi la prima notte al Tranquility Motel lungo l'interstatale 80. Da allora non aveva più pensato a quel posto, ma lo riconobbe appena vide la fotografia. Chi poteva sapere che era stato in quel motel? Non Branch Pollard. Non gli aveva mai accennato a Reno o alla sua decisione di tornare in macchina a New York. E nemmeno il terzo uomo del furto McAllister, un tipo di nome Sal Finrow che veniva da Los Angeles; Jack non lo aveva mai più rivisto dopo la spartizione della refurtiva. Poi Jack realizzò che almeno tre delle sue false identità erano state scoperte. Aveva preso la cassetta di sicurezza come "Farnham", ma al Tranquility Motel aveva firmato come "Thornton Wainwright". Adesso quei due nomi di battaglia erano bruciati, e il solo modo in cui qualcuno poteva averli messi in relazione era collegando Jack con "Philippe Delon", l'identità sotto la quale risiedeva nel suo appartamento della Quinta Strada, quindi anche quel nome era saltato. Gesù. Seduto nello stanzino della banca, Jack pensava in fretta nonostante lo
stordimento, cercando di stabilire chi potesse essere il suo nemico. Non la polizia o l'FBI o qualche altra legittima autorità, perché loro non si sarebbero messi a fare giochetti, dopo aver raccolto simili prove: lo avrebbero semplicemente arrestato. Né poteva essere qualcuno degli uomini con cui aveva lavorato durante la sua carriera criminale, perché aveva sempre fatto molta attenzione a tenere le sue conoscenze nella malavita ben lontane dalla sua vita sulla Quinta Strada. Nessuno di loro sapeva dove abitasse realmente; quando avevano bisogno di contattarlo per un lavoro che richiedeva la sua abilità strategica e tecnica, potevano farlo solo scrivendogli a una delle sue caselle postali o lasciando un messaggio sulla segreteria telefonica che rispondeva a diversi numeri, tutti presi con pseudonimi. Jack era sicuro dell'efficacia di queste precauzioni. Inoltre, se qualche malavitoso fosse arrivato a quella cassetta di sicurezza, non avrebbe certo lasciato lì i venticinquemila dollari. Allora chi mi ha preso di mira? si domandò Jack. Gli venne in mente il furto al magazzino della mafia, il 3 dicembre. Che fossero risaliti fino a lui? Quando volevano trovare qualcuno, quelli avevano più contatti, fonti, determinazione e perseveranza dell'FBI. E sarebbe stato da loro non prendere i venticinquemila dollari, lasciandoli come un minaccioso avvertimento che volevano ben altro che il denaro che aveva rubato loro. Era pure nello stile della mafia giocare uno scherzetto come quello della cartolina, perché a loro piaceva far sudare parecchio un bersaglio prima di premere il grilletto. D'altro canto, se anche la mafia lo avesse rintracciato, e poi in qualche modo avesse frugato nella sua carriera criminale per vedere chi altri aveva colpito, non si sarebbero presi la briga di procurarsi cartoline del Tranquility Motel solo per mettergli paura. Se avessero voluto stuzzicarlo lasciando qualcosa di inquietante nella sua cassetta di sicurezza, avrebbero lasciato una foto del magazzino che aveva svuotato nel New Jersey. Quindi non era nemmeno la mafia. Chi, allora? Dannazione, chi? Lo stanzino cominciò a sembrargli ancora più piccolo di quanto fosse. Jack si sentiva claustrofobico e vulnerabile. Finché era nella banca, non aveva alcuna possibilità di fuggire, alcun posto dove nasconderei. Si infilò in fretta i venticinquemila dollari nelle tasche del soprabito; non aveva più intenzione di darli via: adesso gli servivano per scappare. Mise la cartolina nel portafogli, chiuse la cassetta vuota e suonò il cicalino per chiamare l'assistente. Due minuti dopo era fuori, respirando profondamente l'aria gelida di
gennaio, studiando la gente sulla Quinta Strada per individuare qualcuno che potesse sorvegliarlo. Non vide nessuno di sospetto. Per un momento rimase fermo come un sasso nel fiume di persone che scorreva attorno a lui. Voleva lasciare la città e lo stato il più rapidamente possibile, fuggire verso un'improbabile destinazione, dove loro non lo avrebbero cercato. Eppure non era del tutto sicuro che la fuga fosse la cosa migliore. Il suo addestramento di ranger gli aveva insegnato a non agire prima di avere chiaro perché agiva e cosa sperava di ottenere con le sue azioni. Inoltre, la paura del suo sconosciuto nemico era superata dalla curiosità; aveva bisogno di sapere chi aveva contro, com'erano penetrati nelle sue varie coperture, e cosa volevano da lui. Prese un taxi e si fece portare all'angolo di Wall Street e William Street, nel cuore del distretto finanziario, dove era titolare di sei cassette di sicurezza in sei banche. Andò ad aprirle tutte, e da ciascuna prese venticinquemila dollari e una cartolina del Tranquility Motel. Dopo la quinta decise di fermarsi, perché i centoventicinquemila dollari che aveva già in tasca erano una somma sufficientemente pericolosa da portarsi addosso, e perché a quel punto non c'era più alcun dubbio che anche le sue altre sei false identità e cassette clandestine erano state scoperte. Aveva abbastanza denaro per viaggiare e non lo preoccupava particolarmente lasciare i restanti centocinquantamila dollari nelle altre sei cassette. Per prima cosa, Jack aveva quattro milioni sui suoi conti in Svizzera; e poi, chi aveva lasciato le cartoline avrebbe già preso i soldi, se ne avesse avuto l'intenzione. Ormai aveva avuto il tempo di pensare a quel motel nel Nevada e aveva cominciato a ricordare che c'era qualcosa di strano nel tempo che aveva trascorso lì. Ricordava di esservi rimasto per tre giorni, rilassandosi, godendosi la quiete e il paesaggio. Ma adesso, per la prima volta, gli sembrava che una cosa del genere fosse strana. Non con tutto quel denaro nel bagagliaio della macchina. Non quando era già lontano da New York (e da Jenny) da due settimane. Sarebbe andato dritto a casa da Reno. Ora che era costretto a pensarci, la sua permanenza di tre giorni al Tranquility Motel non gli quadrava molto. Un altro taxi lo portò al suo appartamento sulla Quinta Strada, dove arrivò poco prima delle undici. Telefonò immediatamente alla Elite Flights, una compagnia che noleggiava piccoli jet di cui si era già servito in precedenza, e fu sollevato sapendo che, fortuitamente, avevano un Lear disponibile pronto al decollo.
Prese i venticinquemila dollari dal compartimento segreto sul fondo del guardaroba. Con il denaro ritirato dalle cassette di sicurezza, aveva una liquidità di centocinquantamila dollari, abbastanza per far fronte praticamente a qualunque contingenza si potesse presentare. Preparò in fretta tre valigie, distribuendo alcuni indumenti in ognuna, ma lasciando la maggior parte dello spazio per bagagli di altro genere. Prese con sé due pistole: una Smith & Wesson 19 Combat Magnum predisposta per cartucce Magnum 357 ma anche capace di sparare proiettili 38 Special con un rinculo notevolmente ridotto, e una Beretta 70 calibro 32 con la bocca filettata per accogliere un silenziatore avvitabile. Un fucile mitragliatore uzi illegalmente modificato per il fuoco totalmente automatico e un'abbondante scorta di munizioni completò l'arsenale di Jack. Nelle ultime quarantott'ore era sostanzialmente cambiato, ma non al punto di essere incapace di rispondere alla violenza con la violenza. La sua determinazione a essere un onesto cittadino non interferiva col suo istinto di conservazione. E considerando il suo passato, nessuno era meglio preparato a proteggere se stesso di Jack Twist. Inoltre, dopo otto anni di alienazione e solitudine, aveva appena cominciato a riaccostarsi alla società, a sperare in una vita normale. Non avrebbe permesso ad alcuno di distruggere quella che poteva essere la sua ultima occasione di felicità. Ripose in valigia anche lo SLICKS, il computer portatile di cui si era servito per aprire la sofisticata serratura del furgone blindato due notti prima nel Connecticut. In più, decise che avrebbe potuto fargli comodo un Police Lock Release Gun, uno strumento capace di aprire all'istante qualsiasi tipo di serratura a leva (a cilindro, a fungo o normale) senza danneggiare il meccanismo. E uno Star Tron MK 202A, uno strumento ottico portatile per la visione notturna che poteva anche essere montato su un fucile, e alcune altre utili cosette. Benché avesse distribuito equamente le armi e le attrezzature più pesanti, nessuna delle tre capaci valigie era leggera quando finalmente la chiuse. Chiunque lo avesse aiutato a portare i bagagli si sarebbe domandato cosa contenessero, ma nessuno avrebbe fatto domande imbarazzanti o dato l'allarme. Questo era il vantaggio di noleggiare un Lear jet per il viaggio: non sarebbe stato obbligato a passare per i normali controlli aeroportuali e nessuno avrebbe ispezionato il suo bagaglio. Appena pronto, chiamò un taxi e si fece portare al La Guardia, dove lo attendeva il Lear con cui sarebbe arrivato a Salt Lake City, nello Utah, l'a-
eroporto più vicino a Elko. La Elite Flights lo aveva avvertito che per quel giorno si prevedeva una forte tempesta di neve che avrebbe potuto rendere inagibile il Reno International, e lo stesso valeva per i due campi di atterraggio minori nell'Idaho meridionale in grado di accogliere aerei a reazione. Ma le previsioni meteorologiche per Salt Lake City erano buone per tutta la giornata. Su richiesta di Jack, la Elite stava già prendendo accordi con una compagnia dello Utah per il noleggio di un aereo da turismo che lo portasse da Salt Lake City al piccolo aeroporto di Elko. Anche calcolando che l'ora locale gli avrebbe fatto guadagnare tre ore, Jack prevedeva che non sarebbe arrivato a Elko molto prima del tramonto. Andava benissimo. Aveva bisogno del buio per quello che aveva in programma. Le cartoline che aveva trovato nelle sue cassette di sicurezza significavano che nel Nevada c'era gente che aveva scoperto quanto valeva la pena di sapere sulla sua vita criminale, e sembravano suggerire che avrebbe potuto raggiungerla tramite il Tranquility Motel, o forse addirittura trovarla lì. Quelle cartoline erano un invito. O un'intimazione. In ogni caso, poteva ignorarle solo a proprio rischio. Non sapeva se era stato seguito all'aeroporto; non si era nemmeno dato la pena di guardarsi in giro. Se il telefono del suo appartamento era controllato, sapevano che stava arrivando dal momento in cui aveva chiamato la Elite Flights. Voleva che lo vedessero avvicinarsi apertamente, così avrebbe potuto spiazzarli quando, una volta a Elko, se li sarebbe improvvisamente scrollati di dosso. Lunedì mattina, dopo colazione, Dom e Ginger andarono a Elko, agli uffici del Sentinel, l'unico quotidiano locale. Come molti giornali, il Sentinel consentiva l'accesso al suo archivio a chiunque avesse legittime necessità di ricerca, ma i permessi venivano accordati con oculatezza. Nonostante il successo economico del suo primo romanzo, Dom aveva ancora difficoltà a presentarsi come uno scrittore. Gli suonava pretenzioso, e si sentiva quasi un impostore. Quando si presentò alla segretaria, lei non riconobbe il suo nome, ma appena apprese che era l'autore di Crepuscolo a Babilonia si illuminò in volto. Era il romanzo consigliato quel mese dal club del libro a cui era abbonata, e lo aveva già ordinato per corrispondenza. Era un'avida lettrice, disse, e per lei era una grande emozione incontrare di persona un vero scrittore. Il suo entusiasmo non fece che peggiorare
l'imbarazzo di Dom. Lui era d'accordo con Robert Louis Stevenson, che aveva detto: "L'importante è la storia, la storia ben raccontata, non chi la racconta." I numeri arretrati del Sentinel erano conservati in una stanzetta senza finestre. C'erano due scrivanie con macchine per scrivere, un microlettore, uno schedario di microfilm, e sei alti schedari con grandi cassetti contenenti le edizioni del giornale che ancora non erano state trasferite su microfilm. Le pareti di blocchi di cemento a vista erano dipinte di grigio pallido, il soffitto a mattonelle era pure grigio e le lampade tubolari al neon diffondevano una luce fredda. Dom ebbe la strana sensazione di trovarsi in un sottomarino. Quando la segretaria, dopo aver spiegato il sistema di archiviazione, li lasciò al loro lavoro, Ginger disse: "Sono così presa dai nostri problemi che continuo a dimenticare che sei un famoso scrittore." "Anch'io," replicò Dom, leggendo le etichette sugli schedari dei numeri arretrati dal Sentinel. "Ma naturalmente, non sono famoso." "Lo sarai presto. E una vergogna: con tutto quello che ci sta succedendo, non hai nemmeno l'opportunità di assaporare il successo del tuo primo romanzo." Lui si strinse nelle spalle. "Non è una passeggiata per nessuno di noi. Tu hai dovuto lasciare in sospeso un'intera carriera medica." "Sì, ma adesso so che potrò tornare alla medicina, una volta che saremo arrivati in fondo a questa storia," ribattè Ginger, come se non ci fosse alcun dubbio che avrebbero trionfato sui loro nemici. Quella convinzione e determinazione, Dom lo aveva già imparato, facevano parte di lei come l'azzurro dei suoi occhi. "Ma questo è il tuo primo libro." Dom non si era ancora ripreso dall'imbarazzo per essere stato trattato come una celebrità dalla segretaria. Ma il leggero rossore che ora gli colorì le guance non era causato da ulteriore imbarazzo per le gentili osservazioni di Ginger; indicava piuttosto l'intenso piacere che gli dava essere l'oggetto del suo interesse. Nessun'altra donna, per quanto bella, gli aveva mai fatto un simile effetto. Passando insieme in rassegna gli schedali, trovarono i numeri del Sentinel che volevano consultare. Non avrebbero avuto bisogno di usare il microlettore, perché il giornale era indietro di due anni nel trasferimento degli arretrati su film. Presero le edizioni di un'intera settimana, a partire da sabato 7 luglio, le deposero su una delle scrivanie e si misero a sedere. Il modesto quotidiano di provincia, trovandosi al centro di un fatto che
aveva richiamato giornalisti da tutto il paese, aveva avuto il suo momento di gloria. Ampio spazio era stato dedicato alla questione della crisi tossica e frugando tra quell'abbondanza di materiale Dom e Ginger trovarono molte informazioni interessanti che li avrebbero aiutati a pianificare la loro prossima mossa. Per prima cosa, il grado di sicurezza imposto dall'esercito degli Stati Uniti era abbastanza indicativo della estrema gravita dell'accaduto. Benché non fosse esattamente di loro competenza, avevano disposto blocchi stradali, chiudendo l'interstatale per un tratto di quindici chilometri immediatamente dopo l'incidente; non avevano nemmeno informato lo sceriffo di Elko County o la polizia di stato finché l'intera zona era stata isolata. Questa era un'insolita infrazione alla procedura standard. Per tutta la durata dell'emergenza, lo sceriffo e la polizia di stato si erano lamentati con sempre maggiore veemenza del fatto che l'esercito li avesse totalmente scavalcati, escludendoli da ogni aspetto della gestione della crisi; non erano nemmeno stati coinvolti nel mantenimento della linea di sicurezza, né consultati su questioni essenziali, come la possibilità che venti più forti o altri fattori espandessero il gas nervino - perché di questo pareva si trattasse - oltre l'iniziale area di rischio. Chiaramente, i militari si fidavano solo dei propri uomini e non volevano far trapelare la verità su quello che era accaduto nella zona isolata. Dopo due giorni di umiliazioni, Foster Hanks, lo sceriffo di Elko County, aveva rilasciato al Sentinel una polemica dichiarazione: "Questa è la mia giurisdizione, la gente di qui ha eletto me per mantenere l'ordine. Questa non è una dittatura militare. Se l'esercito continua a rifiutarsi di cooperare, domani mattina mi rivolgerò a un giudice e solleciterò un ordine del tribunale affinchè rispettino le legali competenze." Il Sentinel di martedì riportava che Hanks era effettivamente andato da un giudice, ma prima che potessero essere presi provvedimenti, l'emergenza era ormai volta al termine, e a quel punto la controversia sulle competenze era superata. "Quindi non dobbiamo preoccuparci che tutte le autorità siano schierate contro di noi," commentò Ginger. "La polizia locale e di stato non c'entravano. Il nostro solo avversario è..." "L'esercito degli Stati Uniti," terminò Dom al suo posto, ridendo dell'involontario umorismo di quell'affermazione. Anche lei rise amaramente. "Noi contro l'esercito. Anche con la polizia di stato e locale fuori causa, non è esattamente uno scontro ad armi pari." Secondo il Sentinel, l'esercito aveva mantenuto l'assoluto e ferreo con-
trollo dei blocchi stradali sull'interstatale 80, la sola arteria estovest attraverso il territorio vietato, e chiuso quindici chilometri della strada provinciale nordsud. Aveva perfino proibito il passaggio del traffico aereo civile sopra la zona contaminata, imponendo che le rotte dei voli venissero deviate, mentre elicotteri militari pattugliavano continuamente i confini dell'area isolata. Chiaramente, era stato necessario un notevole dispiego di forze per sorvegliare un'area di quasi duecento chilometri quadrati, ma nonostante la spesa e le difficoltà, i militari erano determinati a fermare chiunque tentasse di entrare nella zona circoscritta a piedi, a cavallo o con veicoli di qualsiasi genere. Gli elicotteri volavano tutto il giorno e anche la notte, frugando il buio con i riflettori. Correva voce che squadre di soldati, equipaggiati con strumenti a infrarossi, pattugliassero il perimetro durante la notte, cercando eventuali intrusi che non fossero stati intercettati dai fari degli elicotteri. "I gas nervini sono tra le sostanze più micidiali che si conoscano," commentò Ginger, mentre Dom voltava una pagina del giornale che stavano consultando, "ma tutte queste misure di sicurezza sembrano eccessive. Inoltre, anche se non sono un'esperta di guerra chimica, non posso credere che un qualsiasi gas nervino costituisca ancora una minaccia a tanta distanza dal punto in cui è stato liberato. Voglio dire, secondo l'esercito era solo una bombola di gas, non un'enorme quantità, né un'intera autobotte come ricordavano Ernie e Faye. Ed è nella natura del gas di disperdersi ed espandersi dopo il rilascio. Una volta che si fosse sparso per circa tre chilometri, sarebbe stato diluito a tal punto che l'aria ne avrebbe contenuto una percentuale troppo esigua per nuocere a qualcuno." "Questo rende credibile la tua idea che si trattasse di contaminazione biologica.'' "Può essere," replicò Ginger. "È troppo presto per dirlo. Ma certamente era qualcosa di più serio della storia del gas nervino che hanno propinato alla stampa." Sabato 7 luglio, meno di un giorno dopo la chiusura dell'interstatale, un reporter aveva notato che sulle uniformi di molti dei soldati impegnati nell'operazione c'era - oltre ai gradi e alle normali mostrine - un insolito scudetto, diverso dal distintivo degli uomini di Shenkfield: una stella verde smeraldo circoscritta da cerchio nero. Tra quelli con la stella verde, gli ufficiali erano parecchi rispetto ai soldati semplici. Interrogato in proposito, l'esercito li aveva identificati come appartenenti a un reparto speciale poco conosciuto. "Noi li chiamiamo DERO, che sta per Domestic Emergency
Response Organization," aveva spiegato un portavoce dell'esercito citato dal Sentinel. "Gli uomini della DERO sono magnificamente addestrati, hanno tutti ampia esperienza in situazioni di combattimento, e tutti danno garanzia di massima sicurezza, il che è essenziale in quanto possono trovarsi a operare in aree altamente riservate, vedere cose molto delicate." Tradotto in parole povere, secondo Dom, questo significava che gli uomini della DERO erano stati scelti in parte per la loro capacità e disponibilità a tenere la bocca chiusa. "Sono la crema dei nostri giovani soldati di carriera," aveva continuato il portavoce dell'esercito, "quindi è naturale che molti di loro abbiano raggiunto il grado almeno di sergente prima di entrare nella DERO. Si tratta di un corpo estremamente specializzato, creato per intervenire in casi di crisi straordinarie, come attacchi terroristici a installazioni militari, emergenze nucleari in basi che ospitano armi atomiche e altri problemi inusuali. Qui, naturalmente, non si tratta di niente di così grave, ma poiché una compagnia DERO si trovava nelle vicinanze quando si è verificato l'incidente del gas nervino, è sembrato prudente ricorrere al meglio che avevamo a disposizione per garantire l'ordine pubblico." Quando i giornalisti gli avevano chiesto dove fosse stata di stanza questa compagnia DERO e di quanti uomini si trattasse, si era rifiutato di rispondere. "Queste sono informazioni riservate." Nessuno dei DERO aveva accettato di parlare con la stampa. Ginger fece una smorfia. "Shmontses!" Dom la guardò perplesso. "Cosa?" "Tutta la loro storia," disse lei, appoggiandosi contro lo schienale della sedia e ruotando la testa per sciogliere i muscoli indolenziti del collo. "Nient'altro che shmontses." "Ma cos'è shmontses?" "Oh. Scusami. Una parola yiddish, adattata dal tedesco, credo. Una delle parole preferite di mio padre. Significa qualcosa senza valore, qualcosa di sciocco, assurdo, senza senso, che merita disprezzo o derisione. Come le frottole raccontate dall'esercito." Smise di ruotare la testa, si chinò in avanti e puntò un dito sul giornale. "Così quest'unità DERO si trovava per caso nei dintorni proprio quando si è verificata la crisi. Che combinazione, eh?" Dom aggrottò le sopracciglia. "Ma, Ginger, a quanto pare, sebbene i blocchi stradali sull'interstatale 80 siano stati posti da uomini di Shenkfield, la compagnia DERO ne ha assunto il controllo dopo poco più di un'ora. Quindi se non si trovavano casualmente da queste parti, non è possi-
bile che siano arrivati così presto, a meno che fossero aviotrasportati e stessero venendo qui ancora prima che accadesse l'incidente." "Appunto." "Stai dicendo che sapevano in anticipo che ci sarebbe stata una fuga tossica?" Ginger sospirò. "Al massimo, sono disposta ad accettare che un'unità DERO si trovasse presso una delle più vicine basi militari... nello Utah occidentale o magari nelPIdaho meridionale. Ma lo stesso è troppo lontano perché la versione dell'esercito stia in piedi. Anche se avessero mollato tutto e fossero partiti appena saputo dell'incidente, non avrebbero potuto essere qui a occuparsi dei blocchi stradali nel giro di un'ora. La mia impressione è che sapessero che sarebbe successo qualcosa all'estremità occidentale di Elko County. Bada, non con molto anticipo. Non parlo di giorni. Un preavviso di un'ora o due." "Il che significa che la fuga tossica non poteva essere un incidente. Di fatto, probabilmente non c'è stata alcuna fuga tossica, né chimica né biologica. Ma allora perché indossavano tute da decontaminazione?" Dom era frustrato dal labirintico sviluppo di quel mistero. Più vi si addentravano, più si faceva intricato. Invece dì condurre a una soluzione, ogni pista che seguivano si divideva in altre piste ancora più tortuose e complesse, disorientandoli ulteriormente. Provava un irrazionale impulso di ridurre a brandelli i giornali, come se stracciarli equivalesse a fare a pezzi le bugie dell'esercito, e allora, in qualche modo, tra i coriandoli avrebbe finalmente trovato la verità. La sua stessa frustrazione risuonò nella voce di Ginger. "La sola ragione per cui l'esercito ha chiesto il rinforzo della DERO è che gli uomini di pattuglia nella zona avrebbero visto qualcosa di altamente riservato, assolutamente top-secret, e non si fidavano della discrezione dei soldati normali. Non c'era altro motivo." "Già. I DERO sanno tenere la bocca chiusa." "Infatti. E se non ci fosse stato niente più che una fuga tossica lì sull'interstatale, non si sarebbe reso necessario il loro intervento. Voglio dire, cosa avrebbe potuto esserci da vedere, eccetto forse un'autobotte rovesciata e un contenitore di gas o liquido che perdeva?" Tornando a rivolgere la loro attenzione ai giornali, trovarono ulteriori elementi a sostegno della tesi che l'esercito era stato avvertito in anticipo, anche se di poco, che qualcosa d'insolito e spettacolare sarebbe accaduto nella parte più a ovest di Elko County in quella calda notte di luglio. Sia
Dom che Ginger ricordavano distintamente che il ristorante del Tranquility era stato pervaso da uno strano suono e scosso da vibrazioni come di terremoto circa mezz'ora dopo che si era fatta notte; e poiché il sole tramontava più tardi in estate (anche a 41° di latitudine nord), il fatto doveva aver avuto inizio approssimativamente alle otto e dieci. I loro rispettivi blocchi di memoria cominciavano alla stessa ora, il che confermava il calcolo. Eppure un articolo del Sentinel affermava che i blocchi stradali sull'interstatale 80 erano stati posti quasi alle otto in punto. "Allora l'esercito ha chiuso l'autostrada cinque o dieci minuti prima che accadesse l'incidente!" esclamò Ginger. "Sì, a meno che ci sbagliamo sull'ora del tramonto." Controllarono la colonna del tempo sul Sentinel del 6 luglio. Dava un quadro più che adeguato di quel fatidico giorno. Temperature molto elevate, umidità tra il venti e il venticinque per cento. Cielo terso. Venti da leggeri a variabili. E tramonto alle sette e trentuno. "Il crepuscolo dura poco da queste parti," disse Dom. "Quindici minuti, ed è finito. Il buio sarà sceso alle sette e quarantacinque. Ora, anche supponendo che ci ricordiamo male e che tutto sia cominciato non mezz'ora, ma solo quindici minuti dopo che si è fatta notte, i blocchi stradali sono stati comunque messi prima." "Per cui sapevano cosa stava per succedere," concluse Ginger. "Ma non potevano impedire che accadesse." "Questo significa che doveva essere qualche processo, qualche catena di eventi, a cui avevano dato inizio ma che erano incapaci di controllare." "Forse," disse Dom. "Ma forse no. Forse loro non ne erano responsabili. Finché non ne sappiamo di più, è inutile fare illazioni." Ginger voltò la pagina del giornale che stavano esaminando al momento, quello di mercoledì 11 luglio, e il suo sussulto di sorpresa attirò l'attenzione di Dom su una fotografia a mezzo busto di un ufficiale dell'esercito. Benché il colonnello Leland Falkirk non fosse apparso nei sogni di nessuno dei due, entrambi lo riconobbero immediatamente dalla descrizione data da Ernie e Ned: capelli scuri grigi sulle tempie, occhi stranamente traslucidi, naso a becco, labbra sottili, una faccia di duri piani e spigoli marcati. Dom lesse la didascalia sotto la foto: "Il colonnello Leland Falkirk, comandante della compagnia DERO che si è occupata della sorveglianza della zona isolata, è stato quasi inavvicinabile per la stampa. Questa prima fotografia è stata ottenuta da Greg Lunde, fotografo del Sentinel. Colto di
sorpresa, Falkirk si è mostrato alquanto irritato. Le sue risposte alle poche domande rivoltegli sono state ancora più brevi del classico no comment." Dom avrebbe potuto sorridere al pacato umorismo dell'ultima frase, se il volto di Falkirk non lo avesse raggelato. Aveva subito riconosciuto quella faccia non solo per la descrizione di Ernie e Ned, ma perché l'aveva già vista, due estati prima. Inoltre, c'era una ferocia sconcertante in quei lineamenti da falco e in quegli occhi rapaci. Quell'uomo era abituato a ottenere quel che voleva. Essere alla sua mercé era una spaventosa prospettiva. Fissando la fotografia di Falkirk, Ginger disse piano, "Kayn aynhoreh." Poi, notando lo sguardo interrogativo di Dom, spiegò: "Yiddish anche questo. Kayn aynhoreh. E un'espressione usata per... tener lontano il malocchio. In qualche modo, sembrava appropriata." Dom tornò a osservare la fotografia: ne era come calamitato. "Sì. Piuttosto appropriata." I lineamenti duri e spigolosi e i freddi occhi chiari del colonnello Falkirk erano talmente realistici da dare l'impressione che lui fosse vivo in quella fotografia, che stesse ricambiando il loro scrutinio. Mentre Dom e Ginger consultavano l'archivio del Sentinel, Ernie e Faye Block, nell'ufficio del Tranquility Motel, cercavano di mettersi in contatto con le persone i cui nomi figuravano sulla pagina del 6 luglio nel registro di due anni prima, e che Dom non era riuscito a rintracciare. Erano dietro il bancone, seduti uno di fronte all'altro alla scrivania di quercia, con un bricco di caffè a portata di mano su uno scaldavivande. Ernie stava componendo un telegramma per Gerald Salcoe, l'uomo che aveva preso due stanze per la sua famiglia e che non era rintracciabile per telefono perché il suo numero non risultava sull'elenco abbonati di Monterey, California. Intanto, Faye scorreva giorno per giorno il registro dell'anno prima per vedere se Carl Sharkle, il camionista, recentemente avesse lasciato un nuovo indirizzo. Mentre svolgevano i rispettivi compiti, Ernie pensò a come fossero sempre stati affiatati nei loro trentun anni di matrimonio. Che fortuna era stata per lui conoscere e sposare Faye. Le loro vite erano così indissolubilmente legate che avrebbero potuto essere una sola creatura. Se il colonnello Falkirk o qualcun altro fosse ricorso all'omicidio per porre fine alle loro indagini, se qualcosa fosse successo a Faye, allora Ernie sperava di morire anche lui, simultaneamente.
Finito di comporre il telegramma, lo dettò per telefono e ne richiese l'immediato recapito. Mentre faceva tutto questo si sentiva scaldato da un amore abbastanza forte da far sembrare la loro situazione meno pericolosa di quanto realmente fosse. Faye trovò cinque occasioni nel corso dell'anno passato in cui Carl Sharkle aveva pernottato al motel, e tutte le volte aveva dato lo stesso indirizzo di Evanston, nell'Illinois, e lo stesso numero telefonico che risultavano sul registro di due anni prima. A quanto pareva, non aveva cambiato residenza. Eppure, quando Dom aveva chiamato quel numero, gli aveva risposto solo un messaggio registrato che informava che il telefono era stato staccato e nessun Calvin Sharkle risultava più sull'elenco abbonati di Evanston. Nel caso che Cal si fosse trasferito da Evanston alla vicina città, Faye chiamò il servizio informazioni e chiese se Calvin Sharkle figurasse tra gli abbonati di Chicago. Non c'era. Usando una cartina dell'Illinois, lei ed Ernie controllarono se il suo numero fosse reperibile nei sobborghi di Chicago: Whiting, Hammond, Calumet City, Markham, Downer's Grove, Oak Park, Oakbrook, Elmhurst, Des Plaines, Rolling Meadows, Arlington Heights, Skokie, Wilmette, Glencoe. Nessun risultato. O Carl Sharkle era andato a vivere fuori dell'area di Chicago, o era scomparso dalla faccia della terra. Mentre Faye ed Ernie lavoravano in ufficio, Ned e Sandy, nella cucina al piano di sopra, stavano già preparando la cena. Quella sera, dopo l'arrivo di Brendan Cronin da Chicago e di Jorja Monatella con la sua bambina da Las Vegas, sarebbero stati in nove a tavola, e Ned non voleva ritrovarsi all'ultimo momento senza cibo da servire. Il giorno prima Ginger Weiss aveva osservato che trovarsi lì tutti insieme era un po' come una riunione di famiglia; e in effetti c'era una straordinaria intimità fra loro, anche se si conoscevano a malapena. Così, Ned e Sandy avevano deciso che la cena di quella sera doveva essere come un banchetto in famiglia in occasione di una ricorrenza, con tanto di tacchino ripieno. A momenti, Ned si domandava se quello che stavano preparando non fosse piuttosto l'ultimo lauto pasto del condannato, ma ogni volta che quel funesto pensiero lo sfiorava, lui lo scacciava fermandosi a guardare Sandy mentre lavorava. Lei sorrideva quasi costantemente e ogni tanto canticchiava a mezza voce. Sicuramente, un evento che aveva indotto questo radicale e meraviglioso cambiamento in Sandy non poteva alla fine culmina-
re nella loro morte. Sicuramente, non avevano niente da temere. Sicuramente. Dopo tre ore al Sentinel, Ginger e Dom mangiarono qualcosa in un ristorante in Idaho Street, poi tornarono al Tranquility Motel alle due e mezzo. Faye ed Ernie erano ancora nell'ufficio, e dall'appartamento di sopra arrivarono allettanti odori: zucca, cannella, noce moscata, soffritto di cipolle, la fragranza di pane appena sfornato. "E ancora non potete sentire il profumo del tacchino," disse Faye. "Ned l'ha appena messo in forno." "Dice che si cena alle otto," aggiunse Ernie, "ma sospetto che questi odorini ci faranno diventare matti e saremo costretti a dare l'assalto alla cucina molto prima." "Trovato qualcosa al Sentinel?" s'informò Faye. Prima che Ginger potesse riferire quanto lei e Dom avevano scoperto, la porta dell'ufficio si aprì e un uomo leggermente paffuto entrò in una folata d'aria gelida. Era sceso dalla macchina senza preoccuparsi di mettere un soprabito; benché indossasse calzoni grigi, una giacca sportiva blu scuro, un maglione azzurro e una normale camicia bianca piuttosto che un clergyman, nessuno ebbe un attimo di dubbio sulla sua identità. Era il giovane prete coi capelli ramati, gli occhi verdi e la faccia rotonda della polaroid inviata a Dom dallo sconosciuto corrispondente. "Padre Cronin," mormorò Ginger. Come con Dominick Corvaisis, provò un'immediata e intensa attrazione verso il prete e la sensazione di essere accomunati da un'esperienza ancora più sconvolgente di quella che aveva condiviso con i Block e i Sarver. All'interno dell'evento di cui tutti loro erano stati testimoni quel venerdì di luglio, c'era stato un secondo evento di cui solo alcuni erano stati partecipi. Sebbene fosse un modo spaventosamente improprio di salutare un uomo che era di fatto un estraneo e per di più un prete, Ginger gli corse incontro e gli gettò le braccia al collo. Ma non ci fu alcun motivo di imbarazzo, perché padre Cronin evidentemente provava le stesse emozioni. Senza esitazione, ricambiò l'abbraccio, e per un momento rimasero stretti l'uno all'altra, come se non fossero due estranei, ma fratelli che si ritrovavano dopo una lunga separazione. Poi Dom disse: "Padre Cronin," e Ginger si scostò dal prete mentre lui si faceva avanti per abbracciarlo a sua volta. "Non c'è bisogno che mi chiamiate 'padre'. Al momento non desidero né mi spetta essere considerato un prete. Chiamatemi semplicemente Bren-
dan." Ernie diede una voce a Ned e Sandy di sopra, poi uscì con Faye da dietro il bancone. Brendan strinse la mano di Ernie e abbracciò Faye con calore, ed era evidente che sentiva affetto per loro, ma non un trasporto intenso e inesplicabile come il tremendo magnetismo che lo aveva spinto verso Dom e Ginger. Quando Ned e Sandy scesero, li salutò allo stesso modo di Ernie e Faye. Come Ginger la sera prima, Brendan disse: "Ho la meravigliosa sensazione di... trovarmi in famiglia. Lo sentite anche voi, vero? Come se avessimo condiviso i momenti più importanti della nostra vita... fossimo passati per un'esperienza che ci renderà sempre diversi da chiunque altro." Nonostante la sua asserzione di non meritare la deferenza che spettava a un prete, Brendan emanava un'aura profondamente spirituale. La sua faccia un po' paffuta, gli occhi luminosi e il suo largo, caldo sorriso comunicavano gioia; e si muoveva tra loro, li toccava e parlava con un'esuberanza contagiosa che in qualche modo sollevò il morale di Ginger. "Quello che avverto qui dentro può solo rassicurarmi di aver fatto la cosa giusta venendo. Il mio posto è qui con voi. Qui accadrà qualcosa che ci trasformerà, che ha già cominciato a trasformarci. Lo sentite? Lo sentite?" La morbida voce del prete fece correre un piacevole brivido lungo la schiena di Ginger, colmandola di un indescrivibile senso di meraviglia paragonabile a quello che aveva provato quando, studentessa in medicina, assistendo a un'operazione, aveva visto per la prima volta il torace di un paziente aperto a rivelare la pulsante, misteriosa complessità del cuore umano in tutta la sua purpurea maestosità. "Chiamati," disse piano Brendan. La parola echeggiò stranamente nella stanza. "Tutti noi. Chiamati a tornare in questo posto." "Guardate!" Caricando quell'unica parola di tutto lo stupore di cui era capace, Dom alzò le braccia e mostrò agli altri il palmo delle mani, su cui erano apparsi gli anelli di carne infiammata. Sorpreso, anche Brendan alzò le mani, pure marchiate dalle strane stimmate. Mentre i due uomini stavano uno di fronte all'altro, l'aria s'impregnò di una potenza sconosciuta. Il giorno prima, al telefono, padre Wycazik aveva detto a Dom di come Brendan fosse relativamente sicuro che nessun elemento religioso giocasse un ruolo nelle miracolose guarigioni e negli altri fatti che avevano recentemente trasformato la vita del giovane prete. Eppure l'ufficio del motel sembrò a Ginger colmo di una forza che, se non soprannaturale, era di certo al di là della comprensione umana.
"Chiamati," ripetè Brendan. Col fiato sospeso, Ginger guardò Ernie, che stava dietro Faye con le mani sulle sue spalle, e vide l'ansiosa attesa sul volto di entrambi. Ned e Sandy, vicino all'espositore delle cartoline, si tenevano per mano, gli occhi sgranati. Ginger si sentì accapponare la pelle dietro la nuca. Pensò: sta per succedere qualcosa, e qualcosa successe. Ogni lampada nell'ufficio era accesa per riguardo verso Ernie, ma all'improvviso la stanza si fece ancora più luminosa. Un bagliore perlaceo scaturì dalle molecole d'aria. Brillava da ogni lato, ma scendeva principalmente dall'alto, un argenteo piovischio di luminescenza. Ginger comprese che quella era la stessa luce che appariva nei suoi sogni. Girò in circolo, guardando attorno a sé e in su attraverso scintillanti veli di intensa radiosità, non per cercarne la provenienza, ma con la speranza di ricordare i suoi sogni e, infine, gli eventi di quella fatidica notte d'estate che li avevano ispirati. Vide Sandy tendere una mano nell'aria risplendente, come per afferrare la luce miracolosa. Un sorriso incerto tremolò sulle labbra di Ned. Anche Faye sorrise, e l'espressione di infantile meraviglia di Ernie era quasi comica tanto pareva fuori posto sul suo volto squadrato. "La luna," mormorò Ernie. "La luna," gli fece eco Dom, le stimmate infuocate ancora sulle mani. Per un momento elettrizzante, Ginger fu in bilico sull'orlo della completa comprensione. La nera membrana del suo blocco di memoria tremò sotto la strenua pressione dei ricordi che cercavano di sfondarla, e sembrava certo che avrebbe ceduto, lasciando che tutto ciò che era stato relegato dietro di essa si riversasse nella coscienza. Poi la luce cambiò dal bianco lunare al rosso sangue, e con essa lo stato d'animo passò dalla meraviglia e il crescente piacere alla paura. Ginger non cercava più la rivelazione ma la temeva, non tendeva più verso la rivelazione ma ne rifuggiva terrorizzata. Barcollò all'indietro nel bagliore insanguinato, sbattè contro la porta d'ingresso. Dall'altra parte della stanza, oltre Dom e Brendan, Sandy Sarver non cercava più di catturare una manciata di luce; ora si teneva stretta a Ned, il cui sorriso si era trasformato in una smorfia di repulsione. Faye ed Ernie erano indietreggiati fino a trovarsi a ridosso del bancone. Mentre l'incandescenza scarlatta inondava la stanza colmandola da un angolo all'altro, lo stupefacente fenomeno visivo fu accompagnato da un analogo fenomeno sonoro. Ginger sobbalzò per la sorpresa quando un ton-
fo suddiviso in tre tempi scosse l'aria sanguigna, sobbalzò ancora quando si ripetè, poi trasalì soltanto quando risuonò di nuovo. Sembrava il tonante battito di un enorme cuore, ma con un colpo supplementare: LUD-DUBdub, LUB-DUB-dub, LUB-DUB-dub... Ginger capì immediatamente che era lo stesso suono di cui padre Wycazik aveva parlato a Dom, il fenomeno acustico che si era verificato nella stanza di Brendan Cronin, facendo tremare la casa parrocchiale. Ma sapeva anche di aver già sentito quello stesso suono prima d'allora. L'intera scena - la luce lunare, la radiosità rosso sangue, il rumore - faceva parte di qualcosa che era successo due estati prima. LUD-DUB-dub... LUB-DUB-dub... Le finestre vibrarono. Le pareti tremarono. La luce sanguigna e quella delle lampade cominciarono a pulsare a tempo col battito. LUB-DUB-dub... LUB-DUB-dub... Di nuovo, Ginger si stava avvicinando a una sconvolgente rivelazione. A ogni palpito di luce e suono, ricordi sepolti premevano contro la superficie. Ma, contemporaneamente, la paura aumentava; una nera, torreggiante ondata di terrore stava per travolgerla. Il blocco di Azrael stava svolgendo il proprio compito; piuttosto di permettere ai ricordi di emergere, Ginger sarebbe sprofondata in una crisi e sarebbe fuggita, come non aveva più fatto dal giorno in cui Pablo Jackson era stato ucciso, una settimana prima. I segni del black-out incombente c'erano tutti: aveva difficoltà a respirare; la sensazione di pericolo mortale che la faceva tremare era tanto forte da essere palpabile; il mondo attorno cominciò a svanire; una vischiosa oscurità si infiltrò ai margini del suo campo visivo. Scappare o morire. Ginger voltò la schiena ai portentosi eventi che stavano accadendo nell'ufficio e si aggrappò con entrambe le mani alla cornice della porta, come per ancorarsi alla coscienza e resistere alla nera ondata che cercava di trascinarla via. Disperata, guardò oltre il vetro il vasto paesaggio del Nevada, il cupo cielo invernale, sforzandosi di distogliere la propria attenzione dagli stimoli - le impossibili pulsazioni di suono e luce - che la spingevano verso la fuga. Il terrore e il panico si fecero così intollerabili che rifugiarsi nel buio odioso di una fuga sembrava quasi preferibile, ma in qualche modo si tenne forte alla porta, tenne duro, tremante e ansimante, tenne duro, terrificata non tanto dagli strani fatti che avvenivano dietro di lei quanto dagli eventi rimossi di quella cruciale estate di cui quei fenomeni erano solo echi lontani, e ancora tenne duro, tenne duro... finché i tonfi in tre tempi
sfumarono, finché la luce rossa impallidì, finché la stanza tornò silenziosa e la sola luce fu quella proveniente dalle finestre e dalle lampade. Adesso stava bene. Non sarebbe precipitata nell'incoscienza. Per la prima volta, era riuscita a resistere a una crisi. Forse le vicissitudini degli ultimi mesi l'avevano temprata. Forse il solo fatto di trovarsi lì, con tutte le risposte al mistero a portata di mano, le aveva dato la forza di resistere. O forse aveva attinto forza dalla sua nuova "famiglia". In ogni caso, era sicura che, essendoci riuscita una volta, in futuro le sarebbe stato più facile far fronte a un attacco. Il suo blocco di memoria si stava sgretolando. E la paura di affrontare quello che era successo quel 6 luglio adesso era di gran lunga superata dalla paura di non saperlo mai. Scossa, si girò di nuovo verso gli altri. Brendan Cronin barcollò fino al divano e si sedette, tremando visibilmente. Gli anelli erano scomparsi sia dalle sue mani sia da quelle di Dom. Ernie si rivolse al prete. "Ho capito bene? Quella stessa luce appare nella tua camera di notte?" "Sì," confermò Brendan. "E successo due volte." "Ma tu ci hai parlato di una luce piacevole," osservò Faye. "Già," annuì Ned. "A sentire te, sembrava una cosa stupenda." "Lo è," rispose Brendan. "Almeno in parte. Quando diventa rossa... be', mi spaventa a morte. Ma quando inizia, mi dà un'emozione... una gioia stranissima." La terribile luce scarlatta e il pauroso tonfo tripartito avevano provocato in Ginger un tale sgomento da farle temporaneamente dimenticare l'esaltante luminosità lunare che li aveva preceduti, colmandola di meraviglia. Dom si passò le mani sulla camicia, come se gli anelli svaniti avessero lasciato un residuo indesiderato. "Gli eventi di quella notte avevano un aspetto buono e uno cattivo. Noi desideriamo intensamente rivivere parte di quello che ci è successo, ma allo stesso tempo ci... .ci..." "Ci caghiamo sotto," concluse prosaicamente ma con realismo. Ginger notò che perfino Sandy Sarver, che fino a quel momento aveva percepito il mistero solo nella sua forma benigna, adesso era scura in volto. Quando Jorja Monatella seppellì il suo ex marito, Alan Rykoff, alle undici di lunedì mattina, il sole di Las Vegas occhieggiava fra nuvole grigio ferro spinte dal vento. Come riflettori cosmici, coni di luce dorata mettevano in risalto zone del cimitero, lasciando il resto in ombra. Mentre la bara veniva calata nella fossa, un raggio particolarmente brillante illuminò la
scena e accese il colore dei fiori. Oltre a Jorja e Paul Rykoff, il padre di Alan, solo cinque persone si erano fatte vedere al funerale. Col proprio egoismo, Alan si era assicurato un'uscita dalla vita accompagnata da un minimo di cordoglio. Paul Rykoff, sotto certi aspetti troppo simile a suo figlio, incolpava Jorja di tutto. Da quando era arrivato il giorno prima dalla Florida, era stato appena urbano. Ora che il suo unico figlio era sottoterra, girò le spalle a Jorja e lei seppe che lo avrebbe incontrato ancora solo se il desiderio di vedere la nipote avesse finito per superare la sua testardaggine e il suo risentimento. Lasciato il cimitero, Jorja guidò solo per un paio di chilometri, poi accostò al lato della strada, si fermò, e finalmente pianse, non per la sofferenza di Alan né per la sua perdita, ma per la distruzione di tutte le speranze con cui la loro relazione era cominciata. Non si era mai augurata la morte di Alan. Ma adesso che era morto, sapeva che il nuovo inizio al quale erano rivolti i suoi sforzi sarebbe stato più facile. Questo pensiero non la faceva sentire in colpa né crudele: era solo triste. La sera prima, Jorja aveva detto a Marcie che suo padre era morto, ma non che si era suicidato. Avrebbe preferito dirglielo nel pomeriggio, insieme al dottor Coverly, ma aveva dovuto annullare l'appuntamento con lo psicologo perché subito dopo il funerale lei e la bambina sarebbero partite per raggiungere Dominick Corvaisis, Ginger Weiss e gli altri a Elko. Comunque, Marcie aveva preso la notizia sorprendentemente bene. Aveva pianto, ma non eccessivamente. A sette anni, era abbastanza grande per capire la morte, ma ancora troppo piccola per afferrarne la crudele definitività. Inoltre, trascurando la figlia, Alan le aveva inconsapevolmente fatto un favore; in un certo senso, per lei era morto più di un anno prima. Anche un'altra cosa aveva aiutato Marcie a superare il dolore: la sua ossessione per la collezione di figure della luna. Solo un'ora dopo aver saputo che suo padre era morto, la bambina era seduta al tavolo della sala da pranzo, gli occhi asciutti, la punta della lingua che spuntava tra i denti in un atteggiamento di totale concentrazione, un pastello rosso stretto in mano. Aveva iniziato a colorare le lune il venerdì sera ed era andata avanti per tutto il fine settimana. Quel mattino, all'ora di colazione, tutte le fotografie e quasi tutte le lune che aveva disegnato si erano trasformate in globi fiammeggianti. L'ossessione di Marcie avrebbe inquietato Jorja anche se non avesse saputo che altre persone ne soffrivano e che due erano arrivate a uccidersi. La luna non era ancora il centro delle giornate della bambina, ma non ci
voleva troppa immaginazione per capire che, se fosse andata avanti così, Marcie sarebbe potuta partire irrecuperabilmente per le regioni della follia. L'acuta preoccupazione per la figlia le fece superare rapidamente la crisi di pianto che l'aveva costretta a fermarsi. Mise la Chevette in marcia e guidò verso la casa dei suoi genitori, dove aveva lasciato Marcie ad aspettarla. La bambina, tanto per cambiare, era al tavolo di cucina a colorare l'album delle lune con un pastello scarlatto. Quando Jorja arrivò, alzò lo sguardo, sorrise debolmente e tornò subito alla sua occupazione. Pete, il padre di Jorja, era pure al tavolo, e guardava accigliato la nipote. Di tanto in tanto escogitava uno stratagemma per interessarla a una qualche attività meno bizzarra e più sana, ma tutti i suoi tentativi di distoglierla dall'album immancabilmente fallivano. Nella camera da letto dei genitori, Jorja si cambiò per il viaggio verso nord, mentre Mary Monatella la tormentava: "Quando ti deciderai a portare via quell'album a Marcie? O a lasciare che glielo porti via io?" "Mamma, te l'ho già detto: il dottor Coverly ritiene che toglierle l'album adesso servirebbe solo a rafforzare la sua ossessione." "Questo proprio non riesco a capirlo," borbottò Mary. "Il dottor Coverly dice che se ci opponiamo in questa fase iniziale, sottolineeremo l'importanza della collezione, e..." "Sciocchezze. Questo Coverly ha figli suoi?" . "Non lo so, mamma." "Scommetto di no. Se ne avesse, non darebbe consigli così idioti." Jorja si era tolta il vestito, e stando lì in slip e reggiseno si sentiva nuda e vulnerabile, perché la situazione le ricordava quando sua madre la guardava vestirsi per qualche appuntamento con un ragazzo che non approvava. Nessun ragazzo aveva mai incontrato la sua approvazione. In effetti, Jorja aveva sposato Alan in parte perché Mary lo disapprovava. Matrimonio come ribellione. Stupido, ma lo aveva fatto e pagato caro. Mary, col suo amore soffocante e autoritario, l'aveva portata a questo. Adesso, Jorja afferrò i jeans e il maglione che erano posati sul letto e se li infilò in fretta. "Non vuole nemmeno dire perché colleziona quella roba," continuò Mary. "Non lo sa neanche lei. È una compulsione, un'ossessione irrazionale, e se ha un motivo, è nascosto in fondo al suo subconscio." "Dovremmo toglierle quell'album," ribadì la madre. "Sì, ma non adesso," replicò Jorja. "Un passo per volta, mamma." "Fosse per me, lo farei immediatamente."
Quando fu ora di andare, Pete le accompagnò in macchina all'aeroporto, e Mary li seguì per non perdere l'opportunità di continuare con i suoi rimbrotti. Prima di andare al funerale, Jorja aveva portato dai suoi le due grosse valigie che aveva preparato per il viaggio, così non dovette ripassare da casa. Marcie, seduta dietro con la madre, sfogliò in silenzio il suo album per tutto il tragitto. Tra Jorja e Mary, l'argomento di conversazione era adesso l'imminente viaggio a Elko. Mary nutriva forti dubbi su quella spedizione, e non esitò a esprimerli. L'aereo era solo un dodici posti? Ma non era pericoloso volare con un catenaccio di proprietà di una piccola compagnia che con ogni probabilità era a corto di quattrini e risparmiava sulla manutenzione? E poi, che senso aveva andare fino in Nevada? Anche se qualcuno a Elko aveva problemi simili a quelli di Marcie, cosa c'entrava il fatto che erano stati nello stesso motel? "Quel Corvaisis mi preoccupa," dichiarò Pete, fermandosi a un semaforo rosso. "Non mi piace che tu ti immischi con gente del suo stampo." "Cosa vuoi dire? Nemmeno lo conosci." "Ne so quanto basta. È uno scrittore, e tu non sai come sono gli scrittori. Balordi. Prendi Hemingway: lo sanno tutti che è sempre coinvolto in un sacco di risse." Jorja sospirò. "Papà, Hemingway è morto." "Vedi? Per forza vanno a finire male. Sempre a fare a botte, a bere, a usare droghe. Non mi va che tu abbia a che fare con uno di quelli." "Questo viaggio è un grosso sbaglio," asserì recisamente Mary. E avanti su questo tono. All'aeroporto, quando Jorja li salutò con un bacio, le dissero che le volevano bene, e lei disse lo stesso a loro, e il bello era che stavano dicendo tutti la verità. Loro la beccavano in continuazione, e lei ne era profondamente ferita, ma si volevano bene. Se non si fossero voluti bene, avrebbero smesso di rivolgersi la parola da molto tempo. Il rapporto genitore-figlio a volte causava più perplessità del mistero di quello che era accaduto al Tranquility Motel due estati prima. Il catenaccio della piccola compagnia era più confortevole di quanto Mary sarebbe stata disposta a credere, con sei sedili ben imbottiti su ogni lato dello stretto corridoio, cuffie attraverso le quali si poteva sentire musica classica, e un pilota che manovrava l'apparecchio a lui affidato con la gentilezza di una mamma col suo bambino appena nato. A trenta minuti da Las Vegas, Marcie chiuse il suo album e, nonostante la luce del giorno che
entrava dagli oblò, scivolò nel sonno, cullata dall'ipnotico rumore dei motori. Durante il volo, Jorja pensò al proprio futuro: il duro lavoro che l'aspettava per arrivare ad aprire un negozio di abbigliamento e poi per mandarlo avanti; e la solitudine, che era già un problema per lei. Voleva un uomo. Non per il sesso. Anche se neanche quello avrebbe guastato! Era uscita con qualcuno dopo il divorzio, ma non era stata a letto con nessuno. Non era un eunuco femmina. Il sesso era importante per lei, e ne sentiva la mancanza, ma non era la principale ragione per cui voleva un uomo, un uomo speciale, un compagno. Aveva bisogno di qualcuno con cui dividere i suoi sogni, i trionfi e i fallimenti. Aveva Marcie, ma non era la stessa cosa. Il genere umano sembrava geneticamente portato a viaggiare attraverso la vita a coppie, e questa predisposizione era particolarmente spiccata in Jorja. Mentre l'aereo solcava il cielo verso nord-nordest, Jorja ascoltò Mantovani in cuffia e si lasciò andare a qualche fantasticheria romantica, cosa alquanto insolita per lei. Forse al Tranquility Motel avrebbe incontrato un uomo speciale con cui dividere il suo nuovo inizio. Ricordò la voce gentile ma sicura di Dominick Corvaisis, e lo incluse nel suo sogno a occhi aperti. Se Corvaisis fosse stato quello giusto per lei, chissà cosa avrebbe detto suo padre, sapendo che si sarebbe sposata con uno di quei balordi scrittori, ubriaconi e attaccabrighe! Quella particolare fantasia, comunque, durò solo il tempo del viaggio, perché una volta a terra Jorja ci mise ben poco a capire che il cuore di Corvaisis era già occupato. Alle quattro e trenta, mezz'ora prima del tramonto, il cielo sopra Elko era placcato di nuvole scure e le Ruby Mountains si stagliavano violacee all'orizzonte. Il vento freddo e penetrante che soffiava da ovest dimostrava che si era seicento chilometri a nord di Las Vegas. Corvaisis e la dottoressa Weiss stavano aspettando davanti al piccolo terminal, e Jorja, vedendoli, ebbe la strana ma rassicurante sensazione di essere in famiglia. Perfino Marcie -infagottata in sciarpa e cappotto, gli occhi ancora assonnati, l'album stretto al petto - alla loro vista si riscosse dalla sua apatia imbronciata. Sorrise e rispose alle loro domande con una vivacità che non manifestava da giorni, si offrì di mostrare loro il suo album, e rise quando Corvaisis la prese in braccio per portarla al parcheggio. Abbiamo fatto bene a venire, pensò Jorja. Grazie a Dio siamo venuti. Con Marcie in braccio, Corvaisis fece strada verso la macchina, e Jorja e Ginger lo seguirono con le valigie. Camminando, Jorja disse: "Forse non te
ne ricordi, ma tu hai prestato soccorso a Marcie quel venerdì sera di luglio, ancora prima che arrivassimo al Tranquility." La dottoressa battè le palpebre. "Infatti, non me ne ricordavo. Eravate tu e il tuo ex marito? Era Marcie la bambina? Ma sì, certo, eravate voi!" "Ci eravamo fermati lungo l'interstatale 80, circa otto chilometri a ovest del motel," rammentò Jorja. "Il panorama a sud era così spettacolare che volevamo usarlo da sfondo per qualche fotografia." Ginger annuì. "Io arrivavo dopo di voi e vi ho visti. Tu stavi mettendo a fuoco la macchina fotografica. Tuo marito e Marcie avevano scavalcato il guardrail e si erano messi in posa sul ciglio della scarpata." "Non volevo che si mettessero proprio lì, ma Alan insisteva che era la posizione migliore, e quando Alan si metteva in testa una cosa non c'era niente da fare." Comunque, prima che Jorja potesse scattare, Marcie era scivolata e caduta all'indietro, rotolando giù per la scarpata. Jorja aveva gridato "Marcie!" e, lasciata cadere la macchina fotografica, aveva saltato il guardrail ed era corsa giù verso la figlia. Ma per quanto fosse stata veloce, l'aveva appena raggiunta quando sentì una voce di donna: "Non la muova! Sono un medico!" Era Ginger Weiss. Marcie era immobile e silenziosa, ma non priva di sensi, solo stordita, e Ginger stabilì rapidamente che non aveva riportato un trauma cranico. Poi la bambina cominciò a piangere, e poiché aveva una gamba piegata innaturalmente sotto il corpo, Jorja pensò che fosse rotta, ma Ginger poté rassicurarla anche su questo; la caduta era stata attutita dall'erba e Marcie se l'era cavata con solo qualche graffio e livido. "Sono rimasta così colpita da te," disse Jorja. "Da me?" Ginger sembrò sorpresa. "Ma non ho fatto niente di speciale. Ho semplicemente esaminato Marcie. Non aveva bisogno di cure particolari, solo qualche cerotto." "Be', io ero ammirata," replicò Jorja mentre mettevano le valigie nel bagagliaio della macchina. "Eri giovane, bella, femminile, eppure eri un dottore - efficiente, tempestiva. Io avevo sempre pensato a me stessa come a una cameriera nata, niente di più, ma l'incontro con te ha fatto scoccare una scintilla. Più avanti, quando Alan ci ha lasciate, non sono crollata in pezzi. Mi sono ricordata di te, e ho deciso di fare qualcosa di me stessa. In qualche modo, mi hai cambiato la vita." Ginger chiuse il cofano e diede le chiavi a Dom, che aveva già messo Marcie in macchina. "Jorja, sono lusingata. Ma tu mi stai dando troppo credito. Sei stata tu a cambiare la tua vita."
"Non si trattava di quello che hai fatto, ma di quello che eri," cercò di spiegare Jorja. "Tu eri esattamente l'esempio da imitare di cui avevo bisogno." La dottoressa fece un sorrisetto imbarazzato. "Buon Dio! Nessuno mi aveva mai definita un modello esemplare prima d'ora! Oh, cara, tu devi essere un po' suonata." "Ignorala," disse Dom a Jorja. "Lei è il miglior modello che io abbia mai visto. Le sue umili proteste sono solo shmontses." Ginger si girò di scatto verso di lui, ridendo. "Shmontses?" Dom sorrise. "Io sono uno scrittore, e ascoltare e assorbire fa parte del mio lavoro. Se sento una buona espressione, la uso. Non puoi biasimarmi perché faccio il mio lavoro." "Shmontses, eh?" disse Ginger Weiss, fingendosi in collera. Ancora sorridente, lo scrittore replicò, "Se lo yiddish calza a pennello, perché non adoperarlo?" Fu quello il momento in cui Jorja capì che il cuore di Dominick Corvaisis era già impegnato e che avrebbe fatto meglio a escluderlo da qualunque sogno romantico. I suoi occhi scintillavano di desiderio e profondo affetto quando guardava Ginger Weiss, e lo stesso luccichio animava gli occhi di lei. La cosa buffa era che né Dom né Ginger sembravano rendersi conto della reale intensità dei loro reciproci sentimenti. Non ancora, ma presto. Uscirono da Elko diretti al Tranquility, cinquanta chilometri più a ovest. Mentre il crepuscolo sfumava nella notte a oriente, Dom e Ginger riferirono a Jorja quanto era accaduto prima del suo arrivo. Jorja trovò sempre più difficile conservare l'ottimismo che l'aveva presa scendendo dall'aereo. Attraversando le spoglie pianure ammantate di ombra, con le aspre e minacciose montagne nere che spuntavano all'orizzonte sotto un cielo rosso cupo, Jorja si domandò se quel posto fosse, come aveva pensato, la soglia di una nuova vita... o l'anticamera della morte. Dopo che il jet Lear fu atterrato a Salt Lake City, nello Utah, Jack Twist si trasferì rapidamente su un Chessna Turbo Skylane RG pilotato da un uomo cortese ma taciturno con due enormi baffoni a manubrio. Arrivarono a Elko, in Nevada, alle quattro e quarantatré, nell'ultima luce del giorno. Jack prese un taxi e si fece portare con le sue tre grandi valigie a un concessionario di jeep, dove comprò una Cherokee a quattro ruote motrici pagando in contanti. Fino a quel punto, non aveva tentato alcuna azione evasiva, né si era
preoccupato di controllare se qualcuno lo seguisse. I suoi avversari chiaramente avevano molte possibilità e risorse, e per quanto potesse sforzarsi di eluderli, senz'altro disponevano di abbastanza gente per non perdere le tracce di un singolo individuo che cercasse di seminarli a piedi o in taxi in una piccola cittadina come Elko. Solo quando lasciò l'autosalone al volante della sua nuova Cherokee cominciò a guardare ripetutamente nel retrovisore e negli specchietti laterali, senza mai scorgere veicoli sospetti. Andò direttamente a un piccolo supermercato che aveva notato lungo il percorso in taxi dall'aeroporto. Posteggiò in fondo al parcheggio, oltre la portata delle lampade ad arco, scese e si guardò attorno, attento a cogliere qualsiasi indizio che qualcuno lo stesse seguendo. Non vide nessuno, ma questo non escludeva che in quel momento loro lo stessero guardando. Nel supermercato, l'eccessiva illuminazione fluorescente, gli espositori cromati, l'odore asettico - una vaga traccia di disinfettante e il leggero sentore di ozono che usciva dai motori delle vetrine frigorifero - gli fecero pensare con rimpianto alle botteghe a conduzione familiare di una volta, gestite da coppie di immigrati che parlavano con accenti coloriti, dove l'aria sapeva di cibi freschi e dolci casalinghi. Strizzando gli occhi nella luce abbagliante, Jack comprò una cartina della regione, una pila, un litro di latte, due pacchetti di carne secca, una piccola scatola di biscottini al cioccolato, e infine, spinto da un impulso morboso, una cosa chiamata "Hamwich'': una sorta di sandwich tutto in un pezzo ottenuto amalgamando pasta di prosciutto, pane e spezie in polvere, come spiegava l'etichetta, che lo definiva "uno spuntino delizioso, particolarmente indicato per escursionisti, campeggiatori e sportivi". Pasta di prosciutto? In fondo al pacchetto di plastica a tenuta d'aria si leggeva: VERA CARNE. Jack rise. C'era davvero bisogno di specificare che era "vera carne", perché anche se la confezione era di plastica trasparente, a guardarla proprio non si capiva cosa diavolo contenesse. Sissignori, come no - pasta di prosciutto e vera carne: per questo era andato in America Centrale a combattere per il suo paese. Vera carne. Come dire che poteva anche essere carne finta, magari di poliestere. Ne avrebbe riso anche Jenny, se fosse stata lì con lui. Uscito dal supermercato, si fermò ancora a osservare la strada, e di nuovo non vide nessuno di sospetto. Tornò alla Cherokee, aprì lo sportello posteriore e prese da una delle valigie uno zaino di nylon vuoto, la Beretta, un caricatore pieno, una scatola
di cartucce e un silenziatore. Mentre il suo respiro fumava nell'aria fredda, trasferì le cose da mangiare appena comprate dal sacchetto di carta allo zaino. Avvitò il silenziatore sulla bocca della pistola, infilò il caricatore nel calcio. Quando ebbe distribuito tutte le munizioni sciolte tra le molte tasche del suo pesante giubbotto di pelle, richiuse lo sportello e andò a sedersi al posto di guida. Posò la Beretta sul sedile accanto, nascondendola sotto lo zaino, poi, alla luce della pila nuova, passò alcuni minuti studiando la cartina di Elko County. Quando spense la pila e mise via la cartina, era pronto ad affrontare il nemico. Per i seguenti cinque minuti guidò attraverso Elko, servendosi di ogni trucco che conosceva per scoprire se era seguito, tenendosi su tranquille strade poco transitate dove chiunque gli stesse appresso, per quanto abile, non avrebbe potuto passare inosservato. Niente. Si fermò in fondo a un vicolo cieco e prese da una valigia un apparecchio antisorveglianza grande come due pacchetti di sigarette, con una piccola antenna telescopica, capace di captare onde radio su ogni possibile frequenza da 30 a 120, inclusa la FM da 88 a 108. Se mentre Jack era nel supermercato qualcuno aveva fissato una trasmittente alla jeep per poterla seguire a distanza, quella ricevente ad ampia gamma ne avrebbe intercettato i segnali, producendo un suono acuto. Jack puntò l'antenna verso la jeep e le girò lentamente attorno. Sulla Cherokee non c'era alcuna cimice. Mise via l'apparecchio, tornò a sedersi dietro il volante e rimase lì per un minuto a pensare. Non era sotto sorveglianza, né visiva né elettronica. Che senso aveva tutto ciò? Quando i suoi avversari avevano messo quelle cartoline del Tranquility Motel nelle sue cassette di sicurezza, dovevano sapere che sarebbe andato subito in Nevada. Di certo sapevano anche che era un uomo potenzialmente pericoloso ed era inverosimile che lo lasciassero muovere contro di loro sul loro stesso terreno senza tenerlo d'occhio. Eppure, sembrava che fosse precisamente quel che stavano facendo. Scuro in volto, Jack girò la chiavetta di accensione. Il motore rombò. Durante il volo da New York, aveva riflettuto a lungo sulla situazione e aveva elaborato parecchie teorie (molte delle quali poco credibili) sull'identità e le intenzioni dei suoi avversari. Ora decise che niente di quel che aveva immaginato era strano anche solo la metà di quanto stava realmente accadendo. Nessuno lo controllava. Era inquietante. L'inesplicabile lo inquietava sempre.
Quando non riesci a capire una situazione, di solito significa che ti è sfuggito qualcosa d'importante. Se ti è sfuggito qualcosa d'importante, vuol dire che hai un lato scoperto. Se hai un lato scoperto, puoi essere colpito quando meno te lo aspetti. Attento, cauto, Jack Twist guidò verso nord sulla statale 51. Dopo un po' svoltò a ovest, seguendo una serie di stradine sterrate, avvicinandosi da dietro al Tranquility Motel invece di arrivarvi direttamente dall'interstatale 80. Alla fine dovette uscire di strada per scendere dalle colline, guidando su terreni accidentati e talvolta pericolosi. Quando le nuvole si diradarono, rivelando tre quarti di luna, spense i fari e proseguì guidato solo dal chiarore del satellite. Oltre un'altura, Jack scorse il Tranquility Motel, un solitario gruppo di luci in un vasto vuoto buio, un paio di chilometri più in basso e a sudovest di lui, dalla stessa parte della strada. Non c'erano molte luci accese; o il posto aveva poco lavoro, o non era aperto. Non voleva preannunciare il suo arrivo, così decise di continuare a piedi. Lasciò la Beretta nella jeep e prese il fucile mitragliatore uzi. In realtà, non si aspettava di doverlo usare. Non ancora, almeno. I suoi avversari, chiunque fossero, non lo avevano attirato fin lì solo per ucciderlo. Avrebbero potuto farlo a New York, se era tutto quello che volevano. Preferiva comunque essere pronto per ogni evenienza. Oltre all'uzi, prese lo zaino, un microfono direzionale a batteria e lo Star Tron, poi infilò i guanti e si calcò in testa il berretto. Per non perdere tempo a cambiarsi una volta arrivato in Nevada, era partito da New York già vestito in modo adeguato - scarponi con tomaia alta e suola di gomma rigida, calzamaglia, jeans, un maglione pesante e un giubbotto di pelle imbottito. L'equipaggio del Lear era stato sorpreso dalla sua tenuta, ma lo avevano trattato come se fosse stato in smoking e cilindro; anche uno strabico di cattivo aspetto, vestito come un qualsiasi manovale, suscitava reverenza quando poteva permettersi di noleggiare un jet privato invece di viaggiare su un normale aereo di linea. Jack si mise in cammino. L'aria era fredda e pungente, ma non sgradevole: tonificante, piuttosto. La luna spuntava a tratti fra gli squarci frastagliati delle nuvole, tingendo d'argento la terra brulla, le formazioni di roccia, i cespugli di salvia e le distese di erba secca, ma quando tornava a nascondersi ogni cosa sprofondava in un'intensa oscurità. Dopo un po' Jack raggiunse un buon punto di osservazione sul fianco sud di una collina, solo cinquecento metri dietro il Tranquility Motel. Si sedette, posando lo zaino
e l'uzi, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e, tenendo lo Star Tron con entrambe le mani, lo puntò verso il Tranquility. Lo strumento sfruttava la luce disponibile - il chiarore delle stelle e della luna, la naturale fosforescenza della neve e di certe piante, la più fioca luce artificiale - amplificandola ottantacinquemila volte per trasformare il buio notturno, a meno che fosse proprio assoluto, in grigia luce diurna. Jack mise a fuoco e il retro del motel gli apparve con sufficiente nitore da consentirgli di determinare che non c'erano sentinelle appostate nell'ombra. Nessuna delle stanze aveva finestre lungo la parete posteriore, quindi era impossibile che qualcuno guardasse da quelle camere. Il corpo centrale della struttura aveva un primo piano, probabilmente l'appartamento dei proprietari, e lì quasi tutte le finestre erano illuminate, ma lo sguardo non si spingeva all'interno perché le tende e le persiane erano chiuse. Ripose lo Star Tron nello zaino e prese il microfono direzionale, che sembrava un futuristico fucile. Solo pochi anni prima, microfoni di quel genere erano efficaci entro un raggio di appena duecento metri, ma oggi, con un buon modello, si poteva ascoltare una conversazione a una distanza di quattrocento metri, e anche molto di più in condizioni ottimali. Jack indossò la cuffia annessa all'apparecchio, puntò il microfono verso una finestra, e immediatamente sentì delle voci che parlavano animatamente. Tuttavia, riuscì a cogliere solo stralci della conversazione, perché si svolgeva in una stanza chiusa a mezzo chilometro da lui, e le raffiche di vento certo non facilitavano le cose. Con grande cautela, Jack prese l'uzi e il resto e si avvicinò di più, scegliendo un secondo punto di osservazione a meno di cento metri dall'edificio. Quando puntò di nuovo il microfono verso la finestra, sentì distintamente ogni parola detta oltre il vetro, benché le tende attutissero le voci. Nella stanza c'erano sei persone, forse di più. Erano a tavola, e si complimentavano con il cuoco (un tale di nome Ned) e la sua aiutante (Sandy) per il tacchino ripieno e le altre portate. Là dentro non stanno soltanto cenando, pensò Jack con invidia, stanno facendo un dannato banchetto. Lui aveva consumato un pranzo leggero sul jet, ma da allora non aveva più mangiato niente, e considerando l'ora di New York, per lui erano quasi le undici. Probabilmente avrebbe dovuto restare in ascolto per ore per mettere insieme l'identità di quelle persone e stabilire se fossero suoi avversari, e aveva troppa fame per rimandare a dopo la propria cena. Appoggiò il mi-
crofono ad alcune pietre per tenerlo angolato verso la finestra, poi scartò l'Hamwich e vi affondò i denti. Sapeva di segatura impregnata di grasso rancido. Sputò il gommoso boccone e ripiegò su un magro pasto a base di carne essiccata e biscottini al cioccolato, che sarebbe stato più soddisfacente se non avesse dovuto sentire quella gente che si godeva la moderna versione di un banchetto di ringraziamento per il raccolto. Presto, Jack aveva sentito abbastanza per sapere che quelli nell'appartamento non erano suoi nemici. Stranamente, in un modo o nell'altro, erano stati attirati o chiamati lì, come lui. Sentendoli parlare, iniziò a trovare le loro voci curiosamente familiari, ed ebbe la sensazione di essere uno di loro, parte della stessa famiglia. Una donna di nome Ginger e un uomo - Don o Dom -cominciarono a riferire agli altri di ricerche che avevano svolto negli uffici del Sentinel di Elko. Sentendo parlare di fughe tossiche, blocchi stradali e squadre DERO, a Jack passò l'appetito. DERO! Merda. Aveva sentito parlare delle compagnie DERO, anche se erano state formate dopo che lui aveva lasciato il servizio. Erano tipi col pelo sullo stomaco, che avrebbero accettato a cuor leggero di scendere in un'arena contro un grizzly armati solo di un tritacarne, e abbastanza duri per fare l'orso a polpette. Costretto a scegliere tra un rapido, indolore suicidio e un combattimento corpo a corpo con un DERO, un uomo comune avrebbe fatto bene a bruciarsi le cervella. Jack comprese di essere implicato in qualcosa di ben più grosso che una vendetta mafiosa o qualunque altra cosa avesse ipotizzato durante il volo da New York. Benché il quadro che aveva potuto formarsi spiando la conversazione fosse pieno di lacune, cominciò ad afferrare che quelle persone si erano riunite per scoprire cosa fosse loro accaduto due estati prima, durante lo stesso fine settimana in cui Jack era stato al motel. Avevano fatto considerevoli passi avanti nelle loro indagini, e Jack si sentì male ascoltandoli discutere dei loro progressi. Erano tanto ingenui da pensare che porte e finestre chiuse bastassero ad assicurare la privacy. Avrebbe voluto gridare: "Cristo, volete chiudere la bocca? Se vi sento io, possono sentirvi anche loro!" DERO. Solo a pensarci gli veniva mal di stomaco, peggio che con l'Hamwich. Nel motel continuarono a ciarlare, rivelando la loro strategia al nemico man mano che la elaboravano, e alla fine Jack si levò la cuffia, raccolse in fretta le sue cose e corse giù nell'oscurità verso il Tranquility Motel.
L'appartamento non aveva una sala da pranzo, e la cucina, sebbene abitabile, era troppo piccola per nove persone, perciò avevano portato il tavolo in salotto, spostando i mobili contro le pareti, e lo avevano allungato in modo che ci stessero tutti. Per non doversi ripetere, Dom e Ginger avevano aspettato di essere tutti riuniti a tavola per riferire delle loro ricerche al giornale. Ora, tra il rumore di piatti e posate, rivelarono che quel venerdì sera l'esercito aveva bloccato Pinterstatale qualche minuto prima della fuga tossica. Questo significava che elicotteri pieni di soldati erano stati mandati da Shenkfield con almeno mezz'ora di anticipo. "Se Falkirk e una compagnia DERO sono arrivati a isolare la zona così presto dopo l'incidente," disse Dom, spezzando un panino, "vuol dire che l'esercito sapeva quel che sarebbe avvenuto." "Ma allora perché non hanno impedito che accadesse?" domandò Jorja Monatella, tagliando in piccoli pezzi la porzione di tacchino di sua figlia. "A quanto pare, non potevano impedirlo," rispose Dom. "Forse il camion è stato attaccato da terroristi, e gli informatori dell'esercito hanno avuto una soffiata appena prima." "Forse," commentò dubbiosamente Dom. "Ma in tal caso avrebbero reso pubblica la notizia. Quindi doveva trattarsi di qualcos'altro. Qualcosa di top-secret, qualcosa di tale importanza da rendere indispensabile il riserbo che solo i DERO potevano assicurare." Brendan Cronin mangiava con più appetito di tutti gli altri, ma questo non diminuiva l'alone di spiritualità che lo circondava. "Questo spiega perché non c'erano centinaia di persone su quei quindici chilometri di interstatale quando è successo il fatto, come sarebbe stato normale a quell'ora," osservò, dopo aver mandato giù un boccone di granturco al forno. "L'esercito aveva avuto il tempo di allontanare il traffico dall'area interessata." "E quei pochi che erano ancora nella zona e hanno visto troppo sono stati portati qui al motel, insieme a noi che già c'eravamo, e sottoposti al lavaggio del cervello," aggiunse Dom. Ognuno diede il proprio contributo alla discussione, e dopo un po' formularono le stesse teorie e le stesse domande senza risposta a cui erano giunti Dom e Ginger negli uffici del giornale. Infine, Dom disse dell'importante scoperta che lui e Ginger avevano fatto quando, per un'ispirazione improvvisa, avevano dato un'occhiata ai numeri del Sentinel pubblicati nelle settimane seguenti la fuga tossica. Finito di controllare i numeri della settimana della crisi, Ginger aveva suggerito
che indizi del segreto di quello che era realmente accaduto sull'autostrada chiusa potevano essere nascosti in altre notizie, in fatti insoliti che in apparenza non avevano niente a che vedere con la crisi, ma erano invece da collegare a essa. Avevano preso altre edizioni dall'archivio, e studiandole con attenzione, presto avevano trovato quello che speravano. Un posto in particolare era salito alla ribalta della cronaca in quei giorni. "Thunder Hill," disse Dom. "Noi crediamo sia da lì che è partito tutto. Shenkfield era solo un diversivo, un abile stratagemma per distogliere l'attenzione dalla vera fonte della crisi. Thunder Hill." Faye ed Ernie alzarono gli occhi dai loro piatti, sorpresi. "Thunder Hill è a quindici-venti chilometri a nordest da qui, tra le montagne," spiegò Faye. "L'esercito ha una base anche lassù, il deposito di Thunder Hill. In quelle colline ci sono grotte naturali di roccia calcarea, dove conservano copie di documenti importanti perché non vadano perduti se basi militari in altre parti del paese dovessero essere distrutte in un disastro, una guerra nucleare, o altro." "Il deposito c'era già quando io e Faye siamo arrivati qui," disse Ernie. "Vent'anni o più. Comunque, corre voce che non ci siano solo archivi lì dentro. Qualcuno crede che vi siano anche enormi scorte di viveri, medicinali, armi e munizioni, il che sembra piuttosto verosimile. Nel caso scoppiasse una grande guerra, all'esercito non farebbe gioco tenere tutte le armi e i rifornimenti nelle basi militari, perché quelle sarebbero le prime a saltare. Di sicuro hanno dei magazzini di riserva, e immagino che Thunder Hill sia uno di quelli." "Quindi, lì dentro potrebbe esserci qualunque cosa," osservò con disagio Jorja Monatella. "Qualunque cosa," confermò Ned. "E se Thunder Hill non fosse soltanto un magazzino?" ipotizzò Sandy. "Non potrebbe essere che vi facciano anche degli esperimenti?" "Che genere di esperimenti?" chiese Brendan, chinandosi per guardarla oltre Ned, che era seduto fra loro. Sandy alzò le spalle. "Qualsiasi." "È possibile," disse Dom. La stessa idea era venuta anche a lui. "Ma se non c'è stata una fuga tossica sull'interstatale 80, e il problema era invece qualcosa che è andato storto a Thunder Hill," obiettò Ginger, "come ha potuto toccare noi, che ci troviamo oltre quindici chilometri più a sud?" Nessuno riuscì a trovare una risposta.
Poi Ernie si rivolse a Dom. "Non ci hai detto perché pensi che il posto sia Thunder Hill e non Shenkfield. Cosa avete trovato sui giornali?" Sul Sentinel di venerdì 13 luglio, una settimana giusta dopo la chiusura della interstatale e tre giorni dopo la sua riapertura, c'era un articolo su due allevatori della zona - Norvil Brust e Jake Dirkson - che avevano avuto problemi con l'ufficio del demanio federale. Una controversia fra l'ufficio demaniale da una parte e degli allevatori dall'altra non era un fatto inconsueto. Il governo possedeva metà del Nevada, non solo deserti ma buona parte dei migliori terreni da pascolo, alcuni dei quali venivano dati in concessione ad allevatori di bestiame. Questi si lamentavano che l'ufficio demaniale lasciava troppi terreni inutilizzati, che il governo avrebbe dovuto vendere a privati parte dei suoi possedimenti e che gli affitti dei terreni erano alti. Ma Brust e Dirkson avevano una nuova lagnanza. Per anni avevano preso in affitto terreni demaniali confinanti con una zona militare di trecento acri, il deposito di Thunder Hill. Brust aveva ottocento acri a ovest e sud, e Dirkson oltre settecento acri a est. Improvvisamente, la mattina di sabato 7 luglio, il demanio si era ripreso cinquecento acri da Brust e trecento da Dirkson, nonostante i loro contratti fossero validi per altri quattro anni, e su richiesta dell'esercito gli appezzamenti erano stati annessi ai terreni di Thunder Hill. "E questo, guarda caso, succede proprio il giorno successivo alla fuga tossica e la chiusura dell'interstatale," commentò Faye. "Sabato mattina," raccontò Dom, "Brust e Dirkson sono andati a fare la consueta ispezione al bestiame e hanno avuto una bella sorpresa: le loro mandrie erano state allontanate da buona parte dei loro terreni da pascolo e i soldati stavano erigendo una recinzione provvisoria in filo spinato lungo il nuovo perimetro del deposito di Thunder Hill." "L'ufficio del demanio li ha semplicemente informati che aveva deciso unilateralmente di annullare i loro contratti, senza alcun risarcimento. Ma Brust e Dirkson non hanno ricevuto alcun avviso ufficiale scritto fino al mercoledì seguente, il che è estremamente inusuale. Normalmente, un avviso di rescissione si dà con sessanta giorni di anticipo." "È legale fare una cosa del genere?" chiese Brendan. "È ben questo il problema quando si fanno affari con il governo," rispose Ernie. "Si tratta con la stessa gente che decide cosa è legale e cosa no. E come giocare a poker con Dio." "L'ufficio del demanio è visto malissimo da queste parti," disse Faye. "Sono una manica di burocrati arroganti come pochi."
"Ora, si potrebbe anche pensare che sia solo una combinazione che il demanio si sia ripreso i terreni intorno a Thunder Hill in coincidenza con l'incidente sull'interstatale, ma il modo in cui il governo si è comportato con Brust e Dirkson dopo il sequestro dei terreni è troppo strano per non destare sospetti. Quando gli allevatori hanno ingaggiato degli avvocati, e il Sentinel ha cominciato a pubblicare articoli sulla disdetta della concessione, l'ufficio demaniale ha fatto un improvviso voltafaccia e ha offerto loro un risarcimento." "Questo non è proprio da loro!" commentò Ernie. "Quelli si lasciano sempre trascinare in tribunale, sperando che la discussione della causa logori la controparte al punto da indurla a ritirarsi." "Quanto erano disposti a pagare?" domandò Faye. "L'ammontare della somma non è stato rivelato," rispose Ginger. "Ma evidentemente era piuttosto cospicuo, perché Brust e Dirkson hanno accettato immediatamente." "Così, l'ufficio del demanio ha comprato il loro silenzio," disse Jorja. "Penso fosse l'esercito che agiva segretamente tramite l'ufficio del demanio," replicò Dom. "Avevano realizzato che più la storia faceva notizia, più probabilità c'erano che qualcuno si domandasse se c'era un legame tra l'incidente sull'interstatale quel venerdì notte e il sequestro dei terreni proprio il mattino successivo, anche se le due cose erano avvenute a quindici o venti chilometri di distanza." "Mi sorprende che qualcuno non le abbia collegate," osservò Jorja. "Se tu e Ginger dopo tutto questo tempo siete riusciti a vedere un nesso, come mai nessuno ci ha pensato allora?" "Per prima cosa," disse Ginger, "Dom ed io avevamo il vantaggio del senno di poi. Sapevamo che durante i giorni della crisi era accaduto ben più di quanto chiunque allora sospettasse, ed eravamo alla ricerca di collegamenti. Allora invece, tutto il chiasso su una fuga tossica ha distolto l'attenzione da Thunder Hill. Inoltre, non era niente di straordinario che sorgesse una controversia tra allevatori e demanio, quindi a nessuno è venuto in mente di collegare quella storia con l'isolamento dell'interstatale 80. Addirittura, quando il demanio ha fatto quell'offerta assolutamente atipica a Brust e Dirkson, un editoriale del Sentinel ha elogiato l'atteggiamento conciliante del governo e profetizzato una nuova epoca di ragionevolezza." "Ma da quello che ci avete detto," Dom si rivolse a Faye ed Ernie, "e dal resto che abbiamo letto, quella è stata la prima e ultima volta che il demanio ha trattato ragionevolmente con gli allevatori. Quindi non era l'inizio di
una nuova politica, ma solo una soluzione estemporanea. E la coincidenza è troppo strana per credere che la crisi a Thunder Hill non fosse collegata a quella in corso lungo l'interstatale." "Inoltre," continuò Ginger, "una volta insospettiti, siamo arrivati a concludere che se il problema di quella notte fosse realmente dipeso da Shenkfield, l'esercito non avrebbe avuto bisogno di ricorrere ai DERO, perché i soldati di stanza a Shenkfield avevano già tutte le credenziali in regola per accedere a qualunque questione riguardante quella base. La sola ragione per cui possono aver tirato in ballo i DERO è che la crisi non avesse niente a che vedere con Shenkfield e implicasse qualcosa a cui i soldati di quella base non avevano accesso." "Quindi, se ci sono risposte per i nostri problemi," disse Brendan, "molto probabilmente potremo trovarle al deposito di Thunder Hill." Dom annuì. "Sospettavamo già che la storia della fuga tossica non fosse del tutto vera. Forse non era vera per niente. Forse la crisi non aveva niente a che fare con Shenkfield. Se il centro della faccenda era Thunder Hill, il resto era solo fumo negli occhi." "Niente di più facile," affermò Ernie. Anche lui aveva finito di mangiare e le sue posate erano ordinatamente deposte sul piatto perfettamente ripulito, dimostrazione che non aveva dimenticato la disciplina militare. "Sapete, per parte della mia carriera nei marine sono stato nel servizio informazioni, e parlo con una certa cognizione di causa quando dico che tutta la storia di Shenkfield sa tanto di copertura." Ned inarcò le sopracciglia. "Ci sono un paio di cose che non capisco. L'area isolata non si estendeva da Thunder Hill fin quaggiù. C'erano chilometri di territorio lasciati liberi in mezzo. Allora, come è possibile che gli effetti di un incidente a Thunder Hill abbiano fatto un balzo da lì a qui, venendo a cadere proprio sulle nostre teste?" "Non so spiegarmelo nemmeno io," ammise Dom. "E un'altra cosa: il deposito non occupa molto terreno, no? Per quanto mi risulta, è sotterraneo. Ci sono due grosse porte blindate sul fianco della collima, la strada che conduce alle porte, forse un posto di guardia, e questo è tutto. I trecento acri di cui hai parlato - l'area intorno all'ingresso - sono più che sufficienti come zona di sicurezza. Allora, perché se ne sono presi altri?" "Dom si strinse nelle spalle. "Non ne ho idea. Ma qualunque cosa sia successa lassù il 6 di luglio, ha provocato due interventi d'emergenza da parte dell'esercito: l'isolamento della zona quaggiù, a diciotto o venti chi-
lometri di distanza, per il tempo di sistemare i testimoni, e subito dopo l'ampliamento della zona di sicurezza attorno al deposito, un isolamento che dura tuttora. Ho la netta sensazione che, se vogliamo scoprire cosa ci è successo - cosa ancora ci sta succedendo - dovremo andare a fondo delle attività che si svolgono a Thunder Hill." Rimasero tutti in silenzio. Benché avessero finito di cenare, nessuno era pronto per passare al dessert. Marcie disegnava cerchi col cucchiaio nel grasso residuo di sugo di tacchino nel suo piatto, creando fluide ed effimere lune. Nessuno si mosse per portare via i piatti sporchi, perché a quel punto della discussione nessuno voleva perdersi una parola. Erano al punto cruciale del loro dilemma: come potevano affrontare nemici potenti come il governo e l'esercito degli Stati Uniti? Come potevano penetrare nel ferreo muro di segretezza eretto in nome della sicurezza nazionale, sostenuto da tutto il potere dello stato e della legge? "Abbiamo messo insieme abbastanza per rendere pubblica la faccenda," disse Jorja. "La morte di Zebediah Lomack e di Alan, l'assassinio di Pablo Jackson. Gli incubi simili di molti di voi. Le polaroid. E il genere di storie sensazionali in cui la stampa sguazza. Se facciamo sapere a tutti cosa pensiamo ci sia successo, avremo la stampa e l'opinione pubblica dalla nostra parte. Non saremo più soli." Ernie scosse la testa. "No. Servirebbe solo a mettere i militari ancora più sulla difensiva. Costruirebbero una copertura ancora più impenetrabile. Loro non crollano sotto pressione come i politici. D'altra parte, finché ci vedono brancolare nel buio da soli, cercando spiegazioni alla cieca, si sentiranno sicuri - e questo ci darà il tempo di individuare i loro punti deboli." "E non dimentichiamo," ammonì Ginger, "che il colonnello Falkirk era del parere di ucciderci invece di limitarsi ad alterare la nostra memoria, e non abbiamo ragione di credere che da allora si sia addolcito. Evidentemente è stato scavalcato, ma se scatenassimo uno scandalo potrebbe riuscire a persuadere i suoi superiori che effettivamente è necessaria una soluzione drastica." "Ma anche se è pericoloso, forse dovremo farlo," intervenne Sandy. "Voglio dire, noi non abbiamo modo di entrare nel deposito di Thunder Hill per vedere che succede." "Be', è come diceva Ernie," replicò Dom. "Dovremo starcene quatti e cercare di scoprire i loro punti deboli finché non avremo trovato un modo." Sandy lo guardò scettica. "Ammesso che ne abbiano, di punti deboli." "La loro copertura sta andando a pezzi fin da quando ci hanno fatto il la-
vaggio del cervello e lasciati andare," fece notare Ginger. "Ogni volta che uno di noi ricorda un altro dettaglio, è un nuovo squarcio che si apre." "Già," commentò Ned, "ma mi pare che loro siano in una posizione migliore per rappezzarli di quanto lo siamo noi per aprirne di nuovi." "Finiamola di fare i pessimisti," borbottò Ernie, burbero. Brendan sorrise seraficamente. "Ha ragione lui. Non dobbiamo essere pessimisti. Non ce n'è bisogno, perché siamo destinati a vincere." La sua voce era di nuovo pervasa della strana serenità che derivava dalla sua convinzione che la rivelazione del loro speciale destino fosse inevitabile. In momenti come quello, però, l'atteggiamento e il tono del prete non confortavano Dom, ma, per qualche ragione, rimescolavano un sedimento di paura e colmavano di ansia le sue emozioni. "Quanti uomini sono di stanza a Thunder Hill?" domandò Jorja. Prima che Ginger o Dom potessero rispondere con informazioni ricavate dal Sentinel, uno sconosciuto apparve sulla soglia, in cima alle scale che salivano dall'ufficio. Era vicino ai quarant'anni, asciutto e robusto, scuro di capelli e carnagione, con l'occhio sinistro sfuggente. Sebbene la porta di sotto fosse chiusa, e il linoleum delle scale non facesse niente per attutire i passi, l'intruso era apparso in magico silenzio, come non fosse davvero un uomo ma un ectoplasma. "Per amor del cielo, chiudete la bocca," disse, affermando con autorità la propria presenza nella stanza. "Se credete di poter fare tranquillamente i vostri piani qui dentro, vi sbagliate di grosso." Nella base militare di Shenkfield, venticinque chilometri a sudovest del Tranquility Motel, tutte le strutture - laboratori, uffici amministrativi, il comando di sicurezza, la mensa, la sala di ricreazione e gli alloggi - erano sotterranee. Nelle infuocate estati ai margini del deserto e negli inverni, che a volte erano aspri, era più facile ed economico mantenere una temperatura e un grado di umidità confortevoli in locali sotterranei che in edifici eretti sulle poco ospitali lande del Nevada. Ma la considerazione più importante era la frequente sperimentazione all'aria aperta di armi chimiche, e talvolta anche biologiche. Le prove venivano condotte per studiare gli effetti del sole, del vento e delle altre forze naturali sulla diffusione e la potenza di gas letali, polveri e vapori superdiffusibili. Se gli edifici fossero stati all'aperto, ogni mutamento imprevisto della direzione del vento avrebbe contaminato gli uomini del personale facendone degli involontari porcellini d'India.
Per quanto potesse essere indaffarato, lo staff di Shenkfield non dimenticava mai di essere sottoterra, perché l'assenza di finestre e il ronzio dell'impianto di aerazione glielo ricordavano in continuazione. Seduto da solo a una scrivania metallica nell'ufficio che gli era stato temporaneamente assegnato, aspettando impaziente e preoccupato che il telefono suonasse, il colonnello Leland Falkirk pensò: Dio, come odio questo posto! L'incessante sibilo dell'aria che entrava dalle ventole e il brusio dei motori che la pompavano nei condotti gli facevano venire il mal di testa. Da sabato, quando era arrivato, Falkirk mangiava aspirine come fossero caramelle. Ora ne prese altre due da una boccetta. Si versò un bicchiere d'acqua dalla caraffa di metallo posata sulla scrivania, ma non la usò per mandare giù le pillole. Preferì mettersi le compresse in bocca e masticarle così. Il sapore era amaro, disgustoso, e quasi vomitò. Ma non allungò la mano a prendere l'acqua, né sputò le aspirine. Perseverò. Una infanzia solitària e penosa colma di incertezza e dolore, seguita da un'adolescenza ancora peggiore, gli avevano insegnato che la vita era dura, crudele, e totalmente ingiusta, e che solo i duri sopravvivevano. Fin da giovane, si era costretto a fare cose emotivamente, mentalmente e fisicamente dolorose, perché aveva deciso che infliggersi la sofferenza lo avrebbe rafforzato e reso meno vulnerabile. Temprava l'acciaio della propria volontà con sfide che andavano dalla scelta di sgranocchiare aspirina alle uscite che lui chiamava "marce di sopravvivenza in condizioni disperate". Queste spedizioni duravano due settimane o più, e lo mettevano faccia a faccia con la morte. Si paracadutava in una foresta o giungla senza viveri, solo con i vestiti che aveva indosso. Non si portava bussola né fiammiferi, e le sole armi erano le sue mani nude e quanto poteva fabbricare con esse. L'obiettivo: tornare vivo alla civiltà. Trascorreva così molte vacanze, e secondo lui ne valeva la pena, perché ogni volta che tornava da una di queste avventure era un uomo più duro e sicuro di sé di quando era partito. Ora, masticava aspirina. Le compresse ormai ridotte in polvere trasformavano la sua saliva in una pasta acida. "Suona, maledetto," disse al telefono sulla scrivania. Sperava in qualche notizia che lo tirasse fuori da quel buco sottoterra. Nella DERO, un colonnello era meno un funzionario e più un ufficiale che in ogni altro ramo dell'esercito. La base di Falkirk era Grand Junction, Colorado, non Shenkfield, ma anche lì passava ben poco tempo nel suo ufficio. Lui non era fatto per stare alla scrivania: aveva bisogno di azione, e
le stanze senza finestre e dai bassi soffitti di Shenkfield gli davano l'impressione di una bara suddivisa in tanti compartimenti. Se la missione fosse stata un'altra, si sarebbe temporaneamente sistemato al deposito di Thunder Hill. Anche quella base era sotterranea, ma almeno le sue caverne erano spaziose. Ma c'erano due ragioni per cui doveva tenere i suoi uomini lontani da Thunder Hill. Per prima cosa, non osava attirare l'attenzione sul posto a causa del segreto che nascondeva. Molti allevatori vivevano sugli altipiani lungo la strada che portava a Thunder Hill e se avessero visto una compagnia DERO diretta al deposito avrebbero cominciato a fare congetture. Non potevano permettere che la gente del posto si ponesse domande su Thunder Hill. Due estati prima, Falkirk aveva usato Shenkfield come specchietto per le allodole per distogliere l'attenzione dal deposito. Ora che si profilava un'altra crisi, se fosse rimasto a Shenkfield si sarebbe trovato nella posizione adatta per propinare alla gente e alla stampa lo stesso genere di informazioni fuorvianti dell'altra volta. La seconda ragione per cui aveva stabilito il suo quartier generale a Shenkfield era che nutriva sospetti su tutti quelli che stavano al deposito: non si fidava di loro, non si sarebbe sentito sicuro fra loro. Potevano essere... cambiati. Aveva in bocca il residuo di aspirina da tanto tempo che si era abituato al sapore amaro. Non ne era più nauseato, non doveva più lottare contro i conati di vomito, quindi adesso poteva anche permettersi di bere. Vuotò il bicchiere d'acqua in quattro sorsi. Improvvisamente Leland Falkirk si chiese se non avesse oltrepassato la soglia che separava l'uso costruttivo del dolore dal masochismo puro. Ma mentre si poneva la domanda, già sapeva la risposta; sì, entro un certo limite, era diventato un masochista, ormai da anni. Un masochista molto disciplinato, che traeva beneficio dal dolore che si infliggeva, che controllava il dolore invece di lasciarsene dominare, ma pur sempre un masochista. All'inizio si sottoponeva al dolore esclusivamente per indurirsi, ma col tempo aveva cominciato anche a piacergli. Quell'intuizione lo sbigottì. Una grottesca immagine di se stesso dopo una decina di anni si formò nella sua mente: un pervertito sessantenne che si infilava bastoncini di bambù sotto le unghie tutte le mattine per darsi la carica. Gli venne da ridere. Solo un anno prima, Leland non sarebbe stato capace di autocritiche di questa natura. Né era mai stato portato a ridere, tanto meno di se stesso. Ma ultimamente, non solo notava aspetti di sé che non aveva mai rilevato,
cogliendone perfino il lato umoristico, ma stava cominciando a pensare che avrebbe potuto e dovuto cambiare alcuni suoi atteggiamenti e abitudini, a rendersi conto che poteva diventare una persona migliore e più soddisfatta senza perdere l'inflessibilità a cui teneva tanto. Per lui era uno strano stato mentale, ma ne conosceva la causa. Dopo quello che gli era successo due estati prima, dopo tutte le cose che aveva visto, e considerando quel che stava accadendo adesso a Thunder Hill, non avrebbe potuto continuare a vivere esattamente come prima. Il telefono squillò. Leland afferrò la cornetta, sperando di ricevere notizie sulla situazione a Chicago. Invece era Henderson che lo chiamava da Monterey, California, per riferire che a casa dei Salcoe tutto stava filando liscio. Due estati prima, Gerald Salcoe, con la moglie e due fìglie, aveva preso un paio di stanze al Tranquility Motel la sera sbagliata. Recentemente, tutti e quattro avevano dato segni di un forte deteriorarsi dei loro blocchi di memoria. Gli esperti di lavaggio dei cervello della CIA presi in prestito per il lavoro al Tranquility quel luglio avevano assicurato di poter reprimere i ricordi dei testimoni; adesso erano imbarazzati dal numero dei soggetti il cui condizionamento stava cominciando a fare acqua. L'esperienza che quella gente aveva vissuto era troppo profonda e sconvolgente per essere facilmente repressa; i ricordi proibiti possedevano una forza mitopoietica ed esercitavano una costante pressione sui blocchi di memoria. Ora gli esperti sostenevano che un'altra sessione di tre giorni avrebbe garantito l'eterno silenzio dei soggetti. Di fatto, l'FBI e la CIA, lavorando insieme, in quello stesso momento stavano illegalmente tenendo segregata la famiglia Salcoe nella sua casa a Monterey, sottoponendola a un altro intricato programma di repressione e alterazione della memoria. Benché Cory Henderson, l'agente dell'FBI al telefono, affermasse che tutto andava bene, Leland decise che non c'era niente da fare. Questo era un segreto che non poteva essere mantenuto. Del resto, troppe agenzie erano coinvolte: FBI, CIA, un'intera compagnia DERO e altri ancora. Come dire, troppi capi-tribù e pochi indiani. Ma Leland era un buon soldato. Gli era stato affidato il comando militare dell'operazione e avrebbe portato avanti il suo compito anche se era senza speranze. A Monterey, Henderson disse: "Quando muoverete sugli altri testimoni al motel?"
"Siamo pronti a intervenire, ma non darò l'ordine di procedere finché qualcuno non avrà sistemato la questione di Calvin Sharkle a Chicago." "Bel casino, quello! Perché si è lasciato che la situazione arrivasse a questo punto? Bisognava prendere Sharkle e sottoporlo a un nuovo programma di repressione della memoria, come abbiamo fatto con i Salcoe." "Non lo dica a me," replicò Leland. "E il suo ufficio che ha l'incarico di tenere sotto controllo i testimoni.'' Henderson sospirò. "Non stavo cercando di scaricare la responsabilità sui suoi uomini, colonnello. Ma la colpa non è nemmeno nostra. Il problema è che, anche se sorvegliassimo ogni testimone solo quattro giorni al mese e ascoltassimo solo metà delle registrazioni delle loro telefonate, avremmo bisogno di venticinque agenti e ne abbiamo soltanto venti. Inoltre, questa dannata faccenda è così altamente riservata che appena tre di quei venti sanno perché i testimoni devono essere sorvegliati. A un buon agente non piace essere tenuto all'oscuro; sente che non ci si fida di lui e diventa negligente. Prendiamo il caso di questo Sharkle: il blocco di memoria del testimone comincia a cedere e nessuno se ne accorge finché si è ormai a un punto critico. Come abbiamo potuto illuderci che una macchinazione così elaborata reggesse a tempo illimitato? Non avremmo dovuto credere che quei coglioni della CIA potessero fare quello che avevano promesso; è lì che abbiamo sbagliato, colonnello." "Io l'ho sempre detto che c'era una soluzione più semplice," gli ricordò Leland. "Ucciderli tutti? Uccidere trentuno dei nostri concittadini solo perché si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato?" "Non lo avevo proposto sul serio. Il mio punto di vista era che, a meno di essere disposti a uccidere, non potevamo contenere il segreto e non avremmo dovuto nemmeno provarci." Il silenzio di Henderson rese chiaro che non credeva alle parole di Falkirk. Infine chiese: "L'intervento al motel è per stanotte?" "Se la situazione a Chicago si aggiusta, se riesco a sapere esattamente cosa sta succedendo là, agiremo stanotte. Ma ci sono domande a cui bisogna trovare risposta. Quegli strani... fenomeni psichici. Cosa significano? Ci ha pensato anche lei, non è vero? A me si torcono le budella, quando ci penso. Nossignore: io non intendo mandare allo sbaraglio i miei uomini ordinando di muovere contro il motel senza avere chiara la situazione." Detto questo, Leland riappese. Thunder Hill. Gli sarebbe piaciuto credere che quanto stava accadendo
lassù avrebbe portato un futuro migliore per il genere umano. Ma in cuor suo temeva che sarebbe stata la fine del mondo. Quando Jack entrò nel salotto trasformato in sala da pranzo e rivolse la parola ai presenti, qualcuno sobbalzò per la sorpresa e fece per alzarsi, sbattendo contro il tavolo nella fretta di girarsi, altri si fecero piccoli sulle loro sedie, come pensassero che fosse stato mandato a ucciderli. Aveva lasciato l'uzi di sotto appunto per evitare di suscitare il panico, ma il suo arrivo inatteso li aveva comunque spaventati. Bene. Quegli sprovveduti avevano bisogno di un sano choc per imparare a essere più cauti. Solo la bambina non reagì al suo arrivo e continuò imperterrita a giocherellare col cucchiaio nel piatto spòrco di grasso. "Okay, okay, calma adesso. Forza, sedetevi," disse Jack, accompagnando le parole con un gesto spazientito. "Sono uno di voi. Probabilmente mi avete cercato come Thornton Wainwright, ma quello non è il mio vero nome. Comunque, di questo parleremo più avanti. Per ora..." A un tratto, tutti lo presero d'assalto con domande concitate. "Ma da dove..." "... uno spavento che..." "Ma come diavolo..." "Dicci se..." Jack dovette alzare la voce per farli tacere. "Questo non è il posto adatto per discutere. Possono sentirci. Io vi ho ascoltati per quasi un'ora, e con ogni probabilità non ero il solo." Tutti lo fissarono sconcertati. Poi un uomo massiccio con i capelli grigi a spazzola disse: "Stai dicendo che ci sono microspie in queste stanze? Stento a crederlo, perché ho controllato io stesso, e ho una certa esperienza di queste cose." "Tu devi essere Ernie." Jack parlò in tono tagliente. Voleva che si mettessero ben in testa, e subito, che dovevano essere molto più prudenti, e più la lezione era dura, più sarebbe rimasta loro impressa. "Ti ho sentito accennare ai tuoi anni nel servizio segreto dei marine, Ernie, Cristo, quanto tempo fa è stato? Circa un decennio, scommetto. Le cose sono cambiate da allora, amico. Non hai sentito parlare della rivoluzione tecnologica? Per tua informazione, non hanno bisogno di venire qui a piazzare fisicamente dispositivi d'ascolto. I microfoni direzionali sono molto migliori di un tempo. Oppure possono semplicemente collegare un infinity transmitter al loro telefono e comporre il vostro numero." Jack oltrepassò Ernie, scostan-
dolo rudemente, e andò al tavolino dove c'era la derivazione del salotto. "Lo sai cos'è un'infinity transmitter, Ernie? Quando fanno il tuo numero, un oscillatore elettrico esclude lo squillo e simultaneamente apre il microfono nella cornetta del tuo telefono. Non hai modo di accorgerti che sei stato chiamato, che la tua linea è aperta; ma loro possono sentire quello che si dice in ogni stanza in cui c'è una derivazione." Sollevò la cornetta e la tese verso di loro con una calcolata espressione di scherno. "Ecco la vostra microspia. L'avete fatta installare voi stessi. Probabilmente vi hanno ascoltati durante tutta la cena," continuò, sbattendo la cornetta sulla forcella. "Se andate avanti così, fate meglio a tagliarvi la gola da soli, così almeno risparmierete un sacco di rogne a tutti." La caustica esibizione di Jack era stata efficace, a giudicare da come erano ammutoliti. Ora poteva anche usare un tono più pacato. "C'è una stanza senza finestre, grande abbastanza per tenere un consiglio di guerra? Non importa se c'è un telefono: basterà staccarlo." Un'attraente donna di mezza età, che doveva essere la moglie di Ernie, riflette per un momento, poi disse: "Ci sarebbe il ristorante qui accanto." "Il vostro ristorante non ha finestre?" si stupì Jack. "Si sono... rotte," spiegò Ernie. "Adesso sono chiuse con assi." "Andiamo, allora. Studieremo la nostra strategia là, poi torneremo qui a mangiare un po' di quella torta di zucca di cui vi ho sentiti parlare. Io ho fatto una pessima cena, mentre voialtri qui vi ingozzavate fino a tramortirvi." Jack si avviò giù per le scale, sicuro che gli altri lo avrebbero seguito. Ernie detestò il bastardo con l'occhio storto per cinque minuti, ma un po' alla volta l'ostilità si trasformò in riluttante rispetto. Per cominciare, non poteva che ammirare la cautela e furtività con cui quel tipo aveva risposto alla sua chiamata al Tranquility Motel. Non si era semplicemente presentato lì come tutti gli altri. Aveva perfino portato un fucile mitragliatore. Ma mentre guardava "Thornton Wainwright" mettersi l'uzi a tracolla e uscire deciso dalla porta principale dell'ufficio, Ernie era ancora risentito per le critiche che aveva dovuto sopportare. Di fatto, la sua collera era tanta che non si fermò nemmeno con gli altri a mettersi qualcosa addosso, ma uscì sparato dietro allo straniero, determinato a fargli abbassare la cresta. "Senti un po', tu," lo apostrofò affiancandoglisi. "A che ti serve fare il primo della classe? Avresti anche potuto dire le stesse cose senza essere offensivo."
"Sì," ribattè l'altro, "ma il risultato non sarebbe stato altrettanto rapido." Ernie stava per replicare quando di colpo realizzò di essere fuori, vulnerabile, nell'oscurità, a metà strada fra l'ufficio e il ristorante. I suoi polmoni sembravano sul punto di scoppiare. Non riusciva a tirare il più esile filo di fiato. Emise una sorta di penoso miagolio. Con sua grande sorpresa, il nuovo arrivato immediatamente lo prese per un braccio, senza traccia dello scherno che aveva dato a vedere prima. "Andiamo, Ernie. Sei già a metà strada. Appoggiati a me e ce la farai." Furioso con se stesso per aver lasciato che quel bastardo lo vedesse debole e impaurito come un bambino, furioso anche con lui per quel ruolo da buon samaritano che si era messo a interpretare, umiliato, Ernie si sottrasse con uno strattone alla mano che lo sosteneva. "Senti," disse lo sconosciuto, "mentre vi ascoltavo ho sentito del tuo problema, Ernie. Non mi fai pena, né trovo ridicola la tua condizione. Se la tua paura del buio ha a che fare con la situazione in cui noi tutti ci troviamo, tu non ne hai alcuna colpa. Abbiamo bisogno l'uno dell'altro se vogliamo venire fuori da questa storia. Appoggiati a me. Lascia che ti aiuti a raggiungere il ristorante. Appoggiati a me." Inizialmente, Ernie era stato incapace di respirare, ma quando il tipo con l'occhio storto finì di parlare, aveva il problema opposto: iperventilazione. Come attratto da una forza magnetica, si girò a guardare verso sudest, nella terrificante, immensa oscurità delle pianure, e improvvisamente seppe che non era l'oscurità in sé che temeva, ma qualcosa che si era manifestato laggiù la notte del 6 luglio, quella nefasta estate. Stava scrutando in quel posto lungo l'autostrada dove il giorno prima erano andati in cerca di indizi, quello strano posto che sembrava tentasse di comunicare loro qualcosa. Intanto Faye li aveva raggiunti ed Ernie non rifiutò il suo appoggio. Ma quando l'uomo con l'occhio storto fece di nuovo per prendergli il braccio, era ancora abbastanza indispettito per respingere qualunque tentativo di assistenza da parte sua. "Okay, okay, vecchio bastardo testa di cuoio. Ce ne mette a guarire il tuo orgoglio ferito, eh?" gli disse il tipo. "Ma sì, se vuoi andare avanti a fare l'incazzato, fa' pure. E stata solo la tua rabbia cieca a farti arrivare fin qui al buio, vero? Di sicuro non era la spina dorsale di un marine. Nient'altro che rabbia ottusa. Così se resti incazzato con me, magari ce la farai anche ad arrivare al ristorante." Ernie sapeva che lo stava provocando di proposito. In pratica gli stava dicendo: "Odiami abbastanza, Ernie, e avrai meno paura del buio. Concen-
trati su di me e fa' un passo alla volta." Pur rendendosi conto che era come aggrapparsi al suo braccio, si aggrappò alla propria rabbia e ne alimentò le fiamme, usandole per rischiarare il percorso fino al ristorante. Varcò la soglia dietro l'altro uomo, e tirò un sospiro di sollievo quando le luci si accesero. "Si gela qui dentro," disse Faye, e andò subito ad accendere il riscaldamento. Ernie si lasciò cadere su una sedia al centro del locale, e mentre aspettava di riprendersi guardò l'uomo con l'occhio storto fare il giro delle finestre, controllando le assi di compensato che erano state inchiodate al posto dei vetri infranti. Fu allora che si sorprese a scoprire che non detestava più il tipo, ma ostentava soltanto un'estrema avversione nei suoi confronti. Intanto erano arrivati anche gli altri. Il tipo esaminò il telefono pubblico vicino alla porta. Essendo un apparecchio a gettoni, non si poteva semplicemente staccare la spina, così prese il ricevitore, strappò il cordone dalla cassa montata sulla parete e gettò da parte la cornetta ormai inutile. "C'è un telefono privato dietro il bancone," lo informò Ned. L'uomo gli disse di staccarlo, e Ned obbedì. Poi disse a Brendan e Ginger di unire tre tavoli e prendere sedie per tutti, e anche loro eseguirono. Ernie continuò a osservarlo con vivo interesse. L'uomo era preoccupato della porta d'ingresso del ristorante, che era fatta di vetro molto più spesso delle finestre e aveva resistito allo strano fenomeno del sabato notte. Non essendo protetta dal legno, offriva un punto debole a chiunque cercasse di spiarli con un microfono direzionale. Chiese se era avanzato del compensato, e quando Dom rispose di sì lo mandò insieme a Ned a prenderlo nella rimessa sul retro del motel. I due tornarono poco dopo con un pannello di legno appena più grande della porta. Il tipo lo appoggiò al vetro e vi spinse contro un tavolo per tenerlo fermo. "Non è perfetto," commentò, "ma può andare." Poi si diresse verso il retro del locale per dare un'occhiata alla dispensa e strada facendo disse a Sandy di attaccare il juke-box e mettere qualche disco. "Con della musica di sottofondo sarà ancora più difficile che riescano a sentirci," spiegò, ma in ogni caso Sandy era già scattata per eseguire l'ordine. A un tratto, Ernie realizzò perché quell'uomo lo affascinava. La prontezza d'ingegno, la precisione dei movimenti e la capacità di comando indicavano che era - o era stato - un soldato di carriera, un ufficiale, e un ufficiale dannatamente in gamba. Sapeva regolare la propria voce su un tono duro
o suadente, secondo le esigenze del momento. Diavolo, ecco perché mi incuriosisce, pensò Ernie. Mi ricorda me stesso! Per questo era riuscito così bene a pungerlo nel vivo su nell'appartamento. Sapeva esattamente dove colpirlo, perché lui ed Ernie erano, per certi versi, della stessa razza. Certe volte posso essere un vero somaro, si disse Ernie, sorridendo tra sé. L'uomo con l'occhio storto tornò dalla dispensa e sorrise soddisfatto vedendo che erano già tutti seduti ai tre tavoli uniti. Si avvicinò a Ernie e disse: "Nessun rancore?" "Diamine, no," rispose Ernie. "E grazie... grazie davvero." L'uomo andò a capotavola, dove avevano lasciato un posto libero per lui, e mentre Kenny Rogers cantava dal juke-box una canzone d'amore, si presentò: "Il mio nome è Jack Twist, e di quel che sta succedendo ne so quanto voi, anzi, probabilmente meno. Tutta questa faccenda mi fa accapponare la pelle, ma devo anche dirvi che questa è la prima volta in otto anni che sento davvero di essere dalla parte giusta, di essere uno dei buoni - e buon Dio del cielo, non potete immaginare come ne avevo bisogno!" Il tenente Tom Horner, l'aiutante di campo del colonnello Falkirk, aveva mani enormi. Il piccolo registratore a cassette era completamente nascosto nella sua mano destra quando entrò nell'ufficio senza finestre. Lo posò sulla scrivania e, articolando le grosse dita con sorprendente agilità, premette i minuscoli tasti per metterlo in funzione. La cassetta era un duplicato della registrazione effettuata dall'apparecchio a bobina usato per tutte le intercettazioni telefoniche. Si trattava dello stralcio di una conversazione che aveva avuto luogo al Tranquility Motel pochi minuti prima. Dapprima udirono i testimoni convenire che la fonte dei loro problemi non era Shenkfield ma Thunder Hill. Leland ascoltò sbigottito. Non si era aspettato che trovassero così presto la pista giusta. Sul nastro, una voce d'uomo mai udita prima disse: "Per amor del cielo, chiudere la bocca. Se credete di poter fare tranquillamente i vostri piani qui dentro, vi sbagliate di grosso." "Questo è Twist," Horner informò il suo superiore. Anche la sua voce era grossa, e ben controllata come le enormi mani: un tuono in sordina. Fermò il nastro: "Sapevamo che stava arrivando, e anche che è pericoloso. Immaginavamo che sarebbe stato più cauto degli altri, certo, ma non ci a-
spettavamo che si comportasse fin dall'inizio come se fosse in guerra." Per quanto ne sapevano, il blocco di memoria di Jack Twist non si era seriamente deteriorato. Non soffriva di fughe, sonnambulismo, fobie o ossessioni. Quindi, solo una cosa poteva averlo improvvisamente indotto a noleggiare un aereo e partire per Elko County: un'imbeccata da parte dello stesso traditore che aveva mandato le fotografie a Corvaisis e ai Block. Leland Falkirk era furioso all'idea che qualcuno, probabilmente qualcuno a Thunder Hill, stesse sabotando l'intera operazione. Lo aveva scoperto solo il sabato sera, quando Dominick Corvaisis e i Block, nella cucina dell'appartamento, avevano discusso delle strane istantanee ricevute per posta. Leland aveva ordinato immediate indagini e un accurato vaglio di tutto il personale del deposito, ma le cose procedevano molto più lentamente del previsto. "C'è di peggio," annunciò Horner, riaccendendo il registratore. Leland sentì Twist parlare agli altri di microfoni e infinity transmitter, dopodiché si trasferirono tutti al ristorante, dove potevano discutere la loro strategia senza essere spiati. Horner spense il registratore. "Adesso sono nel ristorante. Hanno staccato i telefoni. Ho parlato via radio con gli osservatori che abbiamo piazzato a sud dell'interstatale 80. Hanno visto il loro spostamento e hanno cercato di mettersi in ascolto con un microfono direzionale, ma non ci sono riusciti." "E non ci riusciranno," commentò Leland. "Twist sa quello che sta facendo." "Adesso che sospettano di Thunder Hill, dovremo intervenire prima possibile." "Sto aspettando novità da Chicago." "Sharkle è ancora barricato in casa?" "Stando alle ultime notizie che ho avuto, sì," rispose Leland. "Devo sapere se il suo blocco di memoria è crollato del tutto. Se è così, e se riesce a dire a qualcuno quello che ha visto quell'estate, l'operazione è comunque saltata, e sarebbe un errore intervenire sui testimoni al motel. Dovremo ripiegare su un altro piano." Nel ristorante, Marcie si era addormentata in braccio a sua madre. Nonostante il sonnellino in aereo, la bambina aveva ancora gli occhi cerchiati di scuro e le vene disegnavano un arabesco azzurrino sul suo incarnato di porcellana.
Anche Jorja era stanca, ma il drammatico arrivo di Twist era stato un efficace antidoto contro l'effetto soporifero della cena. Adesso era del tutto sveglia, e impaziente di sentirlo raccontare delle proprie tribolazioni. Lui iniziò con un breve accenno alla prigionia in America Centrale che aveva posto fine alla sua carriera militare. A sentir lui l'esperienza era stata più noiosa e frustrante che spaventosa, ma Jorja intuì che doveva averne passate di tutti i colori. Dal suo tono pratico, aveva l'impressione che lui fosse un uomo così sicuro di sé, delle proprie capacità emotive, fisiche e intellettive, da non avere bisogno di vantarsi o sentirsi lodare da altri. Quando parlò di Jenny, la moglie morta da poco, non riuscì a mantenere un'aria altrettanto distaccata. Jorja sentì le cadenze del dolore in quella parte della sua storia; un fiume di amore e nostalgia scorreva sotto la sua simulata pacatezza. La sintonia tra Jack Twist e la moglie, prima che lei entrasse in coma, era sicuramente stata straordinaria, perché solo un rapporto davvero speciale avrebbe potuto assicurare la sua incrollabile devozione per tutta la durata del lungo sonno di Jenny. Jorja provò a immaginare come potesse essere un matrimonio di quel genere, poi realizzò che, in ogni caso, Jack non si sarebbe dedicato così totalmente alla sfortunata moglie se fosse stato meno dell'uomo che era. Il loro rapporto era certo stato speciale, ma ancora più speciale era l'uomo di per sé. Questo aumentò il già spiccato interesse di Jorja per Jack Twist e la sua storia. Lui fu vago nel descrivere le imprese con cui aveva finanziato la lunga permanenza in clinica di Jenny. Mise in chiaro soltanto che quel che aveva fatto era illegale, che non ne era fiero, e che i suoi giorni contro la legge erano finiti. "Almeno non ho mai ucciso alcun innocente, grazie a Dio. Per il resto, credo sia meglio non sappiate niente che possa in qualche modo rendervi colpevoli di favoreggiamento." L'esperienza che tutti loro avevano condiviso aveva senz'altro influito su Jack Twist, ma, come per Sandy, solo in senso positivo. "Mi pare che tu ci abbia fatto capire che eri un ladro professionista," osservò Ernie, e il silenzio di Jack valse da conferma. "Ora, c'è una cosa che mi lascia perplesso. Quasi certamente sei stato costretto a rivelare i tuoi precedenti alla gente che ci ha fatto il lavaggio del cervello. Quindi, da quel luglio l'esercito e il governo sanno delle tue attività illegali, eppure, una volta manipolata la tua memoria, ti hanno lasciato tornare indisturbato ai tuoi affari. Perché diavolo lo avrebbero fatto? Posso capire che abbiano aggirato, perfino infranto la legge per nascondere qualunque cosa sia successa a Thunder Hill, se si tratta della sicurezza nazionale. Ma a parte que-
sto, dovrebbero appoggiare la legge, no? Allora come mai non hanno informato almeno anonimamente la polizia di New York, o fatto in modo che venissi colto in flagrante?" "Perché fin dall'inizio non avevano la certezza che i nostri blocchi di memoria avrebbero retto," disse Jorja. "Ci hanno tenuti d'occhio per essere sicuri che non avessimo bisogno di una ripassata. Quello che è successo a Ginger e Pablo Jackson dimostra che eravamo controllati, anche solo sporadicamente. E nel caso fosse stato necessario prendere Jack - o chiunque di noi - e sottoporlo a un'altra sessione con gli esperti di controllo della mente, preferivano averlo a portata di mano. Sarebbe stato molto più facile acciuffarlo mentre era in casa o in macchina che farlo sparire di prigione." Jack le sorrise. "Accidenti, mi sa che hai fatto centro. In pieno." Jorja si era sentita gelare dal suo sorriso la prima volta che lo aveva visto, ma ora lo percepì diversamente; era molto più caldo di quanto le fosse sembrato all'inizio. Lui cominciò a porre domande agli altri fino a formarsi un quadro completo della situazione, poi il gruppo passò a discutere la strategia da seguire a partire dal giorno successivo. Alla fine, concordarono di fare precisamente i passi che Jack riteneva opportuni, senza che nessuno avesse avuto per un istante la sensazione di essere stato comandato o manipolato da lui. Quando era apparso nella cucina dei Block, Jack aveva dimostrato di poter assumere il controllo di una situazione e, con la sola forza della sua personalità, farsi obbedire dagli altri. Ma ora aveva scelto le vie traverse. Aveva indirettamente pilotato il dibattito, e la rapidità con cui tutti erano arrivati dove voleva lui dimostrava che era la tattica giusta. Restava ancora un problema da affrontare: il pericolo di un attacco da parte degli uomini di Falkirk. Ora che c'era una reale possibilità che i loro blocchi di memoria si attenuassero considerevolmente - o crollassero del tutto - nel prossimo futuro, costituivano una minaccia molto maggiore per i loro nemici. Il giorno dopo, sarebbero stati separati per buona parte della giornata mentre svolgevano le rispettive ricerche e incombenze varie. Ma quella notte erano in pericolo: se restavano tutti al motel, sarebbero stati un facile bersaglio. Così, decisero che, mentre gli altri andavano a dormire, due o tre di loro sarebbero andati a Elko e avrebbero trascorso parte della notte girando per la città, sempre in movimento, all'erta. I nemici avrebbero subito compreso che non potevano prenderli tutti in un sol colpo. Alle quattro di mattina, un altro gruppo si sarebbe fatto trovare a Elko per dare il cambio al primo.
"Io mi offro per la prima uscita," disse Jack. "Devo giusto recuperare la mia Cherokee. Chi viene con me?" "Io," rispose subito Jorja, poi si rese conto del peso della figlia sul suo grembo. "Voglio dire, se qualcuno può tenere Marcie a dormire nella sua camera stanotte." "Nessun problema," assicurò Faye. "Può stare con me ed Ernie." Jack disse che avrebbero dovuto dividere ulteriormente il loro numero, e Brendan Cronin si offrì di unirsi a lui e Jorja. La risposta del prete provocò in Jorja una strana sensazione, una fitta che solo molto più avanti avrebbe riconosciuto per disappunto. Poiché tutti gli altri avevano da fare all'alba del giorno seguente, il secondo gruppo sarebbe stato composto solo da Ned e Sandy. L'appuntamento tra i due gruppi fu fissato per le quattro al piccolo supermercato di Elko dove Jack si era fermato a fare acquisti. "Se arrivate prima voi," raccomandò Jack, "per carità non comprate un Hamwich. Adesso, direi di muoverci." "Non ancora." Ginger unì le mani e si guardò le dita intrecciate, raccogliendo le idee. "Da questo pomeriggio, quando è arrivato Brendan, e gli anelli sono apparsi sulle sue mani e quelle di Dom, e l'ufficio si è colmato di quella luce e quello strano rumore... ho rimuginato su tutti i dati che abbiamo a disposizione, cercando di capire come quei bizzarri fenomeni si potessero inserire nel quadro, e sono arrivata a una spiegazione almeno parziale." Tutti si mostrarono impazienti di sentirsi esporre la teoria, per quanto incompleta potesse essere, così Ginger cominciò a spiegare: "Abbiamo già stabilito che i nostri sogni di tute da decontaminazione, aghi endovenosi e letti di contenzione si basavano su esperienze reali. In effetti, non erano sogni, ma ricordi che emergevano sotto forma di sogni. Ora, consideriamo gli altri sogni, quelli in cui appare la luna. Sembra ragionevole supporre che anche la luna fosse un elemento di rilievo in quello che ci è accaduto, e che anche questo non sia che un ricordo che cerca di venire a galla. D'accordo fin qui?" "D'accordo," disse Dom, e tutti gli altri annuirono. "Abbiamo visto come Marcie non faccia che disegnare lune scarlatte," continuò Ginger. "E Jack ci ha detto che, un paio di notti fa, la normale luce lunare nel suo sogno è diventata rosso sangue. Nessun altro di noi ha sognato una luna rossa finora, ma presumo che l'apparizione di questa immagine scarlatta nei sogni di Marcie e Jack dimostri che pure quello è un
ricordo. In altre parole, la notte del 6 luglio abbiamo visto qualcosa che ha fatto diventare rossa la luna. E la luce che a volte colma la stanza di Brendan e che oggi abbiamo visto nell'ufficio in qualche modo riproduce la scena di quella notte. È un messaggio destinato a pungolare la nostra memoria." "Già," commentò Dom. "Ma chi diavolo ce lo manda, un simile messaggio? Da dove viene la luce? Da cosa è generata?" "Ho un'idea in proposito," disse Ginger. "Ma lasciatemi fare un passo alla volta. Prima pensiamo a cosa può essere successo quella notte per far diventare rossa la luna." Jorja ascoltò, come gli altri, all'inizio con interesse e poi con crescente disagio, mentre Ginger si alzava dalla sua sedia e, camminando avanti e indietro, tracciava a grandi linee un'inquietante spiegazione. Ginger Weiss abbracciava completamente il punto di vista scientifico. Per lei, l'universo funzionava immancabilmente secondo le regole della logica e della ragione, e nessun mistero poteva resistere a lungo una volta attaccato in modo logico. Ma a differenza di molti appartenenti al mondo della scienza - e in particolare a quello della medicina - non credeva che una vivida immaginazione fosse necessariamente un intralcio alla logica e alla ragione. Altrimenti, non avrebbe potuto elaborare la teoria che ora stava sottoponendo al giudizio degli altri nel ristorante del Tranquility. Si trattava di una teoria alquanto strana, e la preoccupava il modo in cui gli altri l'avrebbero accolta, così, mentre parlava, andava nervosamente dal tavolo al juke-box al bancone, senza mai fermarsi. "Gli uomini che hanno avuto a che fare con noi inizialmente indossavano tute da decontaminazione del tipo usato in caso di rischio biologico, quindi dovevano temere che fossimo infetti. Forse, parte di quello che abbiamo visto era una nuvola scarlatta di una sostanza biologica contaminante. Quando è passata sopra di noi, ha fatto diventare rossa la luna." "E ci ha contaminati tutti," disse Jorja. "Può essere per questo che ieri, in quel posto lungo l'autostrada, ho avuto il flash di Dom che gridava: 'È dentro di me,'" continuò Ginger. "È proprio quello che avrebbe potuto gridare se si fosse trovato in mezzo a una nube tossica e si fosse reso conto che la stava respirando. E Brendan ci ha detto che le stesse parole gli sono salite spontaneamente alle labbra quando la luce apparsa nella sua stanza è diventata rossa." "Ma allora perché non ci siamo ammalati?" obiettò Brendan.
"Perché ci hanno curati immediatamente,'' gli rispose Dom. "Di questo abbiamo già parlato ieri, prima che tu arrivassi. Però, Ginger, la luce che questo pomeriggio ha riempito l'ufficio era troppo brillante per rappresentare il chiaro di luna filtrato da una nuvola rossa." "Lo so," riconobbe Ginger. "La mia teoria è ancora in embrione, e così com'è presenta delle lacune, che però forse potrebbero essere colmate se la sviluppassimo. E a mio parere vale la pena di farlo, perché anche se attualmente non spiega alcuni fatti, come gli anelli sulle vostre mani, può dar conto di altri molto importanti." "Vale a dire?" la esortò Ned. "Le due miracolose guarigioni cui Brendan ha assistito a Chicago. Il carosello di lune di carta in casa di Zebediah Lomack. Quello che è successo qui nel ristorante sabato notte, quando Dom ha cercato di ricordare i fatti di due estati fa. E la provenienza della strana luce." Il juke-box era silenzioso. La selezione di canzoni era finita mentre Ginger aveva cominciato a parlare, ma nessuno si alzò per sceglierne altre: erano tutti inchiodati dalla sua promessa di spiegare l'inesplicabile. "Fino a questo punto," disse Ginger, "la teoria è del tutto terrena. Una nube tossica rossa. Niente di difficile da accettare in questo. Ma ora... dovrete fare un gran salto di immaginazione con me. Finora abbiamo presunto che le guarigioni miracolose e i fenomeni paranormali siano stati causati da una misteriosa forza esterna, qualcosa là fuori da qualche parte che ci sta provocando, cercando di trasmetterci un messaggio, o minacciarci. Ma se invece questi portenti avessero una causa diversa? Supponiamo che Brendan e Dom posseggano realmente strani poteri, e li posseggano per via di quello che è successo durante la notte della luna rossa. Supponiamo che abbiano poteri telecinetici, ossia la capacità di muovere oggetti senza toccarli: questo spiegherebbe il carosello di lune di carta e il caos qui al ristorante." Tutti guardarono sconcertati Dom e Brendan, ma nessuno era più scioccato dei due uomini, che erano rimasti a fissare Ginger a bocca aperta. "Ma è ridicolo!" protestò Dom. "Io non ho doti medianiche!" "Nemmeno io," disse Brendan. Ginger scosse la testa. "No, non a livello conscio. Sto dicendo che forse la forza è dentro di voi, ma non ne siete consapevoli. Seguitemi ancora per un po'. La prima volta che gli anelli sono comparsi sulle mani di Brendan, la prima volta che ha esercitato la sua potenza taumaturgica, è stato mentre spazzolava i capelli a quella bambina in ospedale. Ha detto che era sopraf-
fatto dalla compassione per lei e pieno di rabbia e frustrazione per la propria impotenza. Forse è stata proprio la rabbia di non poterla aiutare che ha liberato la forza dentro di lui, anche se non ne era cosciente. Non poteva esserne cosciente, perché il modo in cui ha acquisito quella potenza fa parte di quello che ci hanno fatto dimenticare. E la seconda volta, col poliziotto ferito, la forza può essere stata scatenata dalla situazione estremamente critica in cui Brendan si era trovato." Ginger prese a camminare e parlare più in fretta perché non la interrompessero. "Ora prendiamo in esame le esperienze di Dom. La prima, a Reno, in casa di Lomack. Da quello che ci hai raccontato, Dom... mentre giravi per la casa, hai cominciato a sentirti così frustrato dal costante infittirsi del mistero che ti è venuta voglia di metterti a correre per quelle stanze e strappare quelle lune di carta dalle pareti. Sono parole tue. E, naturalmente, è quello che è successo: hai tirato giù quelle lune dalle pareti, non con le mani ma con il tuo potere metapsichico. E ricorda, le figure sono cadute a terra solo quando tu hai gridato 'Basta!'" Brendan, Dom e un paio degli altri sembrarono scettici, ma Ginger aveva conquistato l'immaginazione di Sandy. "Ma sì, è verosimile! E lo è ancora di più se pensi a quello che è successo sabato notte in questa stessa sala. Dom stava cercando di tornare con la memoria a quel venerdì di luglio, di ricostruire i fatti fin dove il blocco di memoria lo permetteva. E mentre si sforzava di ricordare... tutt'a un tratto quello strano rumore, quel tuono, ha cominciato a rimbombare nel locale, e tutto si è messo a tremare. Forse inconsciamente stava usando questo suo potere per ricreare gli effetti di quello che è accaduto allora." "Giusto!" esclamò Ginger, incoraggiante. "Visto? Più ci si pensa, più sta in piedi." "E la strana luce?" intervenne Dom. "State dicendo che l'abbiamo in qualche modo prodotta Brendan e io?" "Sì, può essere." Ginger tornò al tavolo e si appoggiò alla spalliera della sua sedia vuota. "Pirocinesi. La capacità di generare spontaneamente calore o fuoco con la sola forza della mente." "Non era fuoco," puntualizzò Dom. "Era luce." "Fotocinesi, allora," si corresse lei. "Ma in ogni caso, penso che quando tu e Brendan vi siete incontrati, ciascuno di voi ha riconosciuto a livello subcosciente la forza dell'altro. Questo ha smosso nel vostro intimo il ricordo represso di ciò che è accaduto quella notte di luglio, ed entrambi volevate riportarlo a galla. Così avete generato quella strana luce, riprodu-
cendo il modo in cui la luna è passata dal bianco al rosso la notte del 6 luglio. Era il vostro subconscio che cercava di forzare il blocco." Gli altri erano palesemente disorientati da tutte quelle strane idee, e Ginger voleva che lo fossero ancora per un po': finché non riflettevano lucidamente era più facile che assimilassero quel che stava dicendo, ma se la razionalità avesse preso il sopravvento, la sua teoria sarebbe andata a sbattere contro un muro di scetticismo. Ernie Block scosse la testa. "Aspetta un momento. Sto perdendo il filo. Hai cominciato suggerendo che è stata la nube scarlatta di qualche sostanza tossica a far diventare rossa la luna. Poi salti di palo in frasca dicendo che quello che ci è successo avrebbe trasmesso poteri paranormali a Brendan e Dom. Dov'è il nesso? Cosa può avere a che fare una contaminazione biologica con dei fenomeni metapsichici?" Ginger respirò profondamente; erano arrivati al nocciolo del discorso, la parte più difficile da mandar giù. "E se... se fossimo stati contaminati da qualche virus o batterio che causa mutazioni collaterali chimiche o genetiche o ormonali nel soggetto contagiato, nel suo cervello? E se quelle mutazioni lasciassero al soggetto poteri metapsichici, che perdurano anche dopo il superamento dell'infezione?" Gli altri la fissarono con una varietà di espressioni, non come se pensassero che fosse matta, né che avesse troppa immaginazione. Piuttosto, sembravano impressionati dalla complessa catena di deduzioni logiche che aveva forgiato, e dalla consequenzialità di quell'ultimo anello. "Buon Dio," commentò Dom, "dubito che sia la spiegazione giusta, ma è certamente la teoria più affascinante e ben congegnata che mi sarei mai aspettato di sentire. Che spunto per un romanzo! Un virus prodotto dall'ingegneria genetica che, come effetto collaterale, causa una sorta di evoluzione forzata del cervello umano, conferendogli poteri metapsichici. Per la prima volta da settimane, ho una tremenda voglia di correre a una macchina da scrivere. Ginger, se usciamo da questa storia vivi, dovrò cederti parte dei diritti d'autore del libro che sicuramente svilupperò dalla tua idea." "Ma perché non potrebbe essere la risposta giusta?" obiettò Jorja, cullando la figlia addormentata. "Perché dev'essere considerata solo lo spunto per un romanzo?" "Per dirne una," rilevò Jack Twist, "se fosse così, se fossimo stati contaminati con un virus del genere, avremmo sviluppato tutti poteri metapsichici. Giusto?" "Be', forse non siamo stati tutti contaminati," replicò Ginger. "Oppure sì,
ma il virus non ha fatto presa su tutti." "O forse," ipotizzò Faye, "questo particolare effetto collaterale non si è manifestato in tutti quelli che hanno contratto l'infezione." "Buona idea." Ginger riprese a camminare avanti e indietro; questa volta, però, non perché fosse nervosa, ma perché era eccitata. Ned Sarver si passò una mano fra i radi capelli. "Stai dicendo che l'esercito sapeva che il virus poteva provocare mutazioni in alcuni di noi?" "Non lo so," rispose Ginger. "Forse lo sapevano, forse no." "Io sono sicuro di no," disse Ernie. "Da quello che avete trovato sul Sentinel, sappiamo che hanno chiuso l'interstatale poco prima che l'incidente accadesse, il che significa che non era un incidente. Così... prima di tutto, trovo difficile credere che il nostro esercito ci avrebbe intenzionalmente sottoposti a una contaminazione con qualche microrganismo creato per la guerra biologica col folle proposito di testarne l'efficacia sul campo. Ma anche ammettendo che una simile atrocità sia possibile, non ci avrebbero esposti a un virus capace di trasformarci come Ginger ha suggerito. Perché, amici miei, gente con forti poteri metapsichici sarebbe una nuova specie umana, una razza superiore. Formidabili poteri metapsichici si tradurrebbero direttamente in potere militare, economico e politico. Quindi se il governo avesse saputo di avere un virus che conferisce tali poteri, non lo avrebbe mai usato su un gruppo di gente normale come noi. Lo avrebbe riservato a un'elite di persone che già occupavano posizioni di grande autorità. Io sono d'accordo con Dom: trovo che la teoria della nube di virus sia affascinante... ma improbabile. A ogni modo, se fossimo davvero stati contaminati da una cosa del genere, direi che il governo ne ignorava l'effetto collaterale." Alla luce di quello che Ernie aveva detto, tutti stavano guardando Brendan e Dom con una nuova considerazione composta in parti uguali da soggezione, disagio, meraviglia, rispetto, e paura. Ginger vide che il prete e lo scrittore erano sulle spine all'idea che in loro ci fosse un embrione di poteri sovrumani, un potenziale che, se messo a frutto, li avrebbe separati per sempre dal resto dell'umanità. "No," si oppose Dom. Fece per alzarsi, ma poi rinunciò, temendo che le gambe non lo avrebbero sorretto. "No, no. Tu ti sbagli, Ginger. Io non sono un superuomo, un mutante, un... un mostro. Se così fosse, lo sentirei. Lo saprei, Ginger." Brendan Cronin era altrettanto scosso. "Io ho pensato di essere stato in qualche modo il veicolo della guarigione di Emmy e Winton. Ho pensato
che qualcosa - non Dio, forse, ma qualcosa - avesse operato tramite me. Non ho mai pensato di essere io stesso il guaritore. Sentite, mi pareva che avessimo già stabilito che la storia della fuga tossica era tutta una frottola, che quanto ci è successo non era un incidente, né chimico né biologico, ma qualcosa di completamente diverso." Jack, Jorja, Faye e Ned cominciarono a parlare nello stesso momento. "Calma, calma un attimo," intervenne Ginger. "E inutile discuterne, perché per il momento non abbiamo modo di dimostrare né che c'era un simile virus, né che non c'era. Ma forse possiamo dimostrare l'altra parte dell'ipotesi." "Cosa vuoi dire?" domandò Sandy Sarver. "Forse possiamo dimostrare che Dom e Brendan hanno i poteri," spiegò Ginger. "Non come li hanno ottenuti, ma solo che li hanno." Dom era incredulo. "E come?" "Faremo una prova." Dom era assolutamente certo che non avrebbe funzionato, che stavano perdendo tempo, che l'intera idea era assurda. E allo stesso tempo, aveva paura che invece funzionasse e che la prova della sua forza lo avrebbe condannato alla condizione di mostro, o almeno a una vita per sempre chiusa a rapporti normali. Se davvero possedeva poteri sovrumani, nessuno avrebbe più guardato a lui senza stupore o paura. Anche nei momenti più rilassati o intimi con amici o amanti, la loro consapevolezza del suo straordinario dono si sarebbe intromessa, apertamente o meno. Altri, forse i più, lo avrebbe invidiato o odiato. Era una beffa. Per buona parte dei suoi trentacinque anni aveva vissuto chiuso nel guscio della propria timidezza; poi era cambiato, e adesso rischiava di ritrovarsi nuovamente isolato, non più dal suo senso di inferiorità, ma dal disagio di tutti gli altri davanti alla sua superiorità. La prova. Pregava Dio che fallisse. Lui e Brendan Cronin erano seduti da soli al lungo tavolo, uno per parte. Jorja aveva adagiato la bambina addormentata su una panca, senza che si svegliasse. Gli adulti - tutti e sette, inclusa Jorja - stavano in semicerchio attorno al tavolo, un paio di passi indietro, lasciando a Dom e Brendan spazio per concentrarsi indisturbati. Una saliera era posata sul tavolo davanti a Dom. La prova richiedeva che lui si concentrasse su di essa, cercando di muoverla senza toccarla. "Se riesci a farla muovere anche appena percettibilmente," aveva detto Ginger,
"sapremo che hai i poteri." All'altra estremità dei tre tavoli uniti, uno spargipepe stava di fronte a Brendan Cronin. Il prete fissava intento il piccolo contenitore di vetro, come Dom il proprio, e il suo volto lentigginoso era oscurato da un presagio solo poco meno cupo di quello di Dom. Sebbene Brendan avesse negato che dietro le miracolose guarigioni e le apparizioni di luce ci fosse la mano di Dio, era chiaro che in cuor suo sperava invece di scoprire che proprio di quello si trattava. Voleva essere riportato alla sua fede, alla chiesa. Se i miracoli si fossero dimostrati opera sua, compiuta esercitando poteri metapsichici fino ad allora ignorati, e se quei poteri si fossero rivelati nient'altro che l'effetto di un germe, come sosteneva la pazzesca ma astuta teoria di Ginger, il suo desiderio di elevazione spirituale e guida divina sarebbe stato deluso. La saliera. Dom vi fissò lo sguardo e cercò di escludere ogni pensiero dalla sua mente eccetto la ferma intenzione di muovere la saliera. Benché non volesse scoprire di avere quelle strane capacità, doveva fare un onesto tentativo di impiegarle. Doveva sapere se era vero. Né Ginger né gli altri erano in grado di suggerire tecniche per mettere in azione la forza, sempre che esistesse. "Però," aveva detto Ginger, "se può esplodere spontaneamente e spettacolarmente in momenti di stress, certamente puoi imparare a farne uso come e quando vuoi... proprio come fai uso del tuo talento di scrittore quando ti metti alla macchina davanti a un foglio bianco." La saliera rimase immobile. Dom si sforzò di concentrare la sua attenzione finché il piccolo cilindro di vetro, col suo coperchietto di acciaio bucherellato e il suo granuloso contenuto bianco fu la sola cosa nell'universo. Vi fece convergere tutta la sua volontà e cercò di spingerlo lungo il tavolo, tendendosi allo spasimo, stringendo i denti, serrando i pugni. Niente. Cambiò tattica. Invece di assalire mentalmente la saliera come se stesse sparando con un cannone contro le mura di una fortezza, si rilassò e studiò l'oggetto per accogliere dentro di sé la struttura, la forma, la grandezza. Forse il trucco era sviluppare un'empatia con la saliera. Empatia gli sembrava la parola giusta, anche se si riferiva a un oggetto inanimato e inorganico; invece di combatterlo, forse poteva in qualche modo... persuaderlo ad accondiscendere a un breve viaggio telecinetico. Si chinò leggermente in
avanti per esaminare meglio la funzionale semplicità del suo disegno: cinque sfaccettature smussate per facilitarne la presa; un fondo di vetro spesso per renderlo più stabile; un lucente coperchietto metallico... Niente. Impassibile sul tavolo davanti a lui, la saliera sembrava il mitico oggetto inamovibile, pesante oltre ogni capacità di misura, saldato per sempre a quel punto nel tempo e nello spazio. Ma naturalmente, come ogni forma di materia nell'universo, non era inamovibile, e per certi versi era sempre in movimento, mai immobile. Dopo tutto, era formata da miliardi di atomi incessantemente in moto, la parte esterna dei quali orbitavano intorno ai nuclei, come pianeti intorno al sole. A livello subatomico, la struttura della saliera era perennemente, freneticamente in moto, così non avrebbe dovuto essere difficile indurla a fare un movimento in più, una breve escursione nel macrocosmo dell'umana percezione, solo un saltello, una piccola evoluzione... Dom sentì una strana spinta ascensionale, come se lui stesso fosse in procinto di essere mosso da qualche forza arcana, ma, finalmente, fu la saliera a muoversi. Era tanto assorbito da quel familiare oggetto che aveva completamente dimenticato Ginger e gli altri; ora la loro presenza gli fu ricordata dal brusio di esclamazioni soffocate. Lo spargisale non si era limitato a scorrere un poco, o di molto, lungo il tavolo. Si era sollevato a mezz'aria, sfuggendo alla legge di gravita. Come un piccolo palloncino di vetro, si innalzò verso il soffitto, poi si fermò, restando sospeso al disopra della superficie su cui solo pochi secondi prima era sembrato inamovibile, tra gli sguardi strabiliati degli spettatori. All'altra estremità del tavolo, anche lo spargipepe si alzò. Brendan, a bocca aperta e occhi sgranati, ne seguì l'ascesa, e solo quando si fu fermato precisamente alla stessa altezza della saliera osò distogliere lo sguardo. Guardò Dom, lanciò una nervosa occhiata al cilindro di vetro, quasi certo che sarebbe caduto non appena avesse smesso di fissarlo, poi, appurato che non era necessario il contatto visivo per mantenere la levitazione, volse di nuovo lo sguardo a Dom. Diversi sentimenti si agitavano negli occhi del prete: meraviglia, stupore, sconcerto, paura e un'istintiva ammissione della profonda fratellanza che esisteva fra lui e Dom in virtù della strana forza che li accomunava. Dom era affascinato dal fatto di non doversi impegnare per tenere la saliera sospesa in aria. In effetti, stentava a credere di essere davvero responsabile di quel prodigio. Non era nemmeno cosciente di possedere o esercitare un controllo sull'oggetto. Non sentiva alcuna forza in azione dentro di
sé. Evidentemente, il suo potere telecinetico funzionava automaticamente, in modo simile alla respirazione o al pulsare del cuore. Brendan alzò le mani. Gli anelli rossi erano riapparsi. Dom guardò le proprie mani e vide le stesse imperscrutabili stimmate. Cosa significavano? "Incredibile," mormorò Ginger, senza fiato. "Avete fatto levitare i vasetti. Potete muoverli anche in orizzontale?" "Potete sollevare qualcosa di più pesante?" chiese Sandy. "La luce," disse Ernie. "Potete generare la luce rossa?" Cercando di compiere prima qualcosa di più modesto di quello che avevano proposto, Dom pensò di imprimere al vasetto un movimento rotatorio, e subito la saliera cominciò a piroettare a mezz'aria, suscitando di nuovo la meraviglia degli astanti. Un momento dopo, anche lo spargipepe di Brendan prese a ruotare. La luce di sopra si rifletteva liquidamente sui coperchietti di metallo, lampeggiava sulle sfaccettature del vetro, sfavillava sugli angoli smussati tra una sfaccettatura e l'altra, così che i due piccoli contenitori roteanti parevano scintillanti decorazioni natalizie. Simultaneamente, i due oggetti cominciarono ad andare l'uno verso l'altro, compiendo il movimento orizzontale richiesto da Ginger, benché Dom non avesse consapevolmente cercato di accontentarla. Lui suppose che il suggerimento di Ginger fosse stato accettato dal suo subconscio, che ora impiegava l'energia metapsichica per metterlo in pratica, senza aspettare che lui si impegnasse coscientemente. Era strano: controllava l'oggetto e tuttavia era ignaro di come quel controllo fosse esercitato. Sopra il punto centrale dei tre tavoli uniti, le due boccette cessarono di muoversi orizzontalmente quando furono a pochi centimetri di distanza. Rimasero sospese vicine, ruotando un po' più velocemente di prima, lanciando bagliori di luce riflessa. Poi presero a girare una intorno all'altra in orbite sincronizzate, perfettamente circolari. Questa fase durò solo pochi secondi. Subito dopo, presero a ruotare su se stesse e una intorno all'altra molto più in fretta, e in ben più complesse orbite paraboliche. Incantati, gli spettatori risero, applaudirono. Dom guardò Ginger. Il suo volto radioso risplendeva di una gioia pura, spirituale, che la rendeva più bella che mai. Lei abbassò lo sguardo a cercare gli occhi di Dom e gli rivolse un sorriso esultante. Ernie Block e Jack Twist ammiravano le acrobazie aeree come due ragazzini che vedessero i fuochi d'artificio per la prima volta in vita loro. Faye, ridendo, tese le mani verso le due boccette, come cercando di sentire il miracoloso campo di forza in cui erano sospe-
se. Anche Ned Sarver rideva, ma Sandy stava piangendo, e Dom fu sorpreso vedendola, finché realizzò che allo stesso tempo sorrideva e quelle che le rigavano le guance erano lacrime di gioia. Come avvertendo che la stava osservando, Sandy si girò verso Dom. "Oh, non è meraviglioso? Qualunque cosa significhi, non è semplicemente meraviglioso? La libertà... rompere i vincoli... staccarsi da tutto..." Dom sapeva esattamente quel che lei stava provando, perché lo sentiva anche lui. Per il momento, aveva dimenticato che il possesso di quei poteri lo avrebbe per sempre estraniato dalla gente che non li aveva ed era colmo di un estatico senso di trascendenza, di entusiasmo per quel momento che poteva significare un grande salto su per la scala evolutiva, rappresentare il superamento dei limiti umani. Quella notte al ristorante del Tranquility tutti sentivano che si stava aprendo una nuova era, che niente al mondo sarebbe più stato lo stesso. "Fate qualcos'altro," disse Ginger. "Sì!" li incitò Sandy. "Fateci vedere ancora qualcosa!" In altre parti della sala, altre saliere si sollevarono dai tavoli su cui erano posate; sei, otto, dieci in tutto. Rimasero sospese immobili per un istante, poi cominciarono a ruotare come la prima. Immediatamente, un uguale numero di spargipepe fece lo stesso. Dom ancora non sapeva come gli riuscisse di fare quelle cose; non gli costava alcuno sforzo; il pensiero semplicemente diventava fatto concreto, come se i desideri potessero avverarsi. Sospettava che Brendan fosse ugualmente sconcertato. Il juke-box cominciò a suonare una canzone di Dolly Parton, senza che nessuno avesse toccato i tasti. L'ho fatto io, si chiese Dom, o è stato Brendan? "Mio Dio," esclamò Ginger, "sono così eccitata che sto per piotz!" Dom rise. "Plotz? E questa cosa significa?" "Scoppiare, esplodere," tradusse lei. "Sono così eccitata che sto per esplodere!" Tutte le boccette di sale e di pepe erano unite a coppie, sempre ruotando su se stesse, poi ognuna aveva cominciato a orbitare intorno alla propria compagna. Adesso, tutte le undici coppie si misero in fila e presero a girare in tondo come un trenino, più in fretta, sempre più in fretta, tagliando l'aria con un lieve fruscio, gettando scintille di luce riflessa. Improvvisamente, una dozzina di sedie si alzò da terra, non nella maniera controllata e giocosa delle boccette di sale e pepe, ma con tale violenza
e impeto che andarono a sbattere contro il soffitto con un frastuono assordante. Uno dei lampadari fu colpito da due sedie e crollò, schiantandosi a terra appena dietro Dom. Le sedie rimasero vibranti contro il soffitto, come una frotta di enormi pipistrelli. Alcune delle boccette di sale e pepe erano state abbattute dal brusco decollo delle sedie, ma la maggior parte stava ancora girando con folle regolarità intorno alla stanza. Ora, qualcuna smise di ruotare, abbandonò la sua orbita, si staccò dal treno, tentennò per un istante, poi si scagliò a terra. Una di queste colpì Ernie alla spalla, strappandogli un grido di dolore. Dom e Brendan avevano perso il controllo, e poiché non sapevano esattamente come lo avessero stabilito, tanto meno sapevano come riguadagnarlo. Di colpo, l'atmosfera festosa mutò in panico. Gli spettatori si rifugiarono sotto i tavoli, acutamente consci che le sedie che ora sbatacchiavano rumorosamente contro il soffitto erano potenziali missili, ben più pericolosi dei contenitori di sale e pepe. Il rumore svegliò Marcie, che si alzò a sedere sulla panca, piangendo e chiamando la madre. Jorja la prese in braccio e la portò con sé sotto un tavolo, tenendola stretta. Ora tutti erano al riparo, tranne Dom e Brendan. Dom non sapeva se nascondersi anche lui o cercare di riprendere il controllo. Guardò Brendan, che era ugualmente paralizzato. Sopra, i tre lampadari rimasti ondeggiavano furiosamente, proiettando ombre che saltavano di qua e di là per il locale come folletti. Altri tre o quattro vasetti si abbatterono a terra come proiettili. La dozzina di sedie prese a sbattere più aggressivamente contro il soffitto, scheggiandosi e staccando pezzetti d'intonaco. Una saliera cadde come un minuscolo meteorite sul tavolo di fronte a Dom. Il vetro era troppo spesso per infrangersi, ma il vasetto si ruppe in tre o quattro pezzi, schizzando attorno quel po' di sale che ancora conteneva. Ricordando il carosello di lune di carta in casa di Lomack sei giorni prima, Dom alzò entrambe le mani verso il soffitto e, serrando i pugni, nascondendo le rosse stimmate a forma di anello, gridò: "Basta. Basta adesso. Basta!" Sopra, le sedie cessarono di vibrare. I vasetti di sale e pepe si bloccarono e rimasero sospesi immobili a mezz'aria. Per un secondo o due, la sala fu avvolta in un silenzio misterioso. Poi le dodici sedie e le rimanenti boccette caddero in perpendicolare, precipitando su tavoli e altre sedie che non si erano mai sollevate. Quando tutto fu
finito, Dom e Brendan erano illesi come quelli che si erano rifugiati sotto i tavoli. Per un lungo momento nessuno si mosse e il silenzio fu assoluto. Pareva che il tempo si fosse fermato. Poi, il flebile piagnucolio di Marcie e le sommesse rassicurazioni di sua madre riavviarono i motori della realtà, e tutti uscirono dai loro rifugi. Ernie si stava ancora massaggiando la spalla dove la saliera lo aveva colpito, ma non era niente di serio. Nessun altro si era fatto male; erano tutti molto scossi. Dom notò il modo in cui guardavano lui e Brendan. Proprio come immaginava lo avrebbero guardato se avesse dimostrato di possedere i poteri. Proprio come aveva temuto di essere guardato. Dannazione. Ginger sembrò l'unica a non essere intimorita. Abbracciò Dom con entusiasmo e disse: "L'importante è che tu abbia la forza. Ce l'hai; col tempo puoi imparare a usarla, e questo è meraviglioso." "Non ne sono così sicuro." Dom contemplò il disastro attorno a sé. Jack Twist si stava ripulendo gli abiti del sale e dei calcinacci. Jorja stava ancora consolando la sua bambina spaventata. Faye e Sandy si stavano togliendo schegge di legno dai capelli, e Ned stava considerando il pericolo dei fili elettrici rotti che pendevano dal soffitto dove il lampadario si era staccato. "Ginger, anche mentre usavo i poteri, non sapevo come lo stessi facendo. E quando è successo quel finimondo... non sapevo come fermarlo." "Ma lo hai fermato," replicò lei, tenendogli un braccio attorno alla vita come se sapesse quanto lui avesse bisogno della rassicurazione del contatto umano. "Lo hai fermato, Dom." "La prossima volta potrei non riuscirci." Dom si rese conto che stava tremando. "Guarda qui cos'è successo. Mio Dio, Ginger, qualcuno avrebbe potuto restare ferito." "Ma non si è ferito nessuno." "Qualcuno avrebbe potuto anche restare ucciso. La prossima volta..." "Andrà meglio," affermò lei. Brendan Cronin si avvicinò dall'altra parte del lungo tavolo. "Cambierà idea, Ginger. Dagli tempo. Per quel che mi riguarda, proverò ancora. Da solo, la prossima volta. Tra un paio di giorni, quando avrò avuto il tempo di rifletterci su, andrò da qualche parte all'aperto, dove nessuno può essere ferito eccetto me, e ci proverò di nuovo. Ci vorrà molto tempo, molto lavoro, forse anni. Ma studierò questi poteri, mi eserciterò. E Dom farà lo stesso. Se ne renderà conto appena avrà avuto un paio di minuti per pensarci." Dom scosse la testa. "Io non voglio questo. Non voglio essere così di-
verso dagli altri." "Ma ora lo sei," disse Brendan. "Lo siamo entrambi." "Questo è dannato fatalismo." Brendan sorrise. "Anche se sto attraversando una crisi religiosa, sono pur sempre un prete, quindi credo nella predestinazione, nel fato. E un articolo di fede. Ciò non toglie che noi preti crediamo anche nel libero arbitrio. Sono entrambi articoli di fede." Per lui, gli effetti psicologici degli ultimi eventi erano molto diversi dalla paura suscitata in Dom. Parlando, si sollevò ripetutamente in punta di piedi, come se si sentisse abbastanza leggero per prendere il volo. Incapace di capire il buonumore del prete, Dom cambiò argomento. "Bene, Ginger, se abbiamo dimostrato metà della tua pazzesca teoria, abbiamo smentito l'altra metà." Lei aggrottò la fronte. "Cosa intendi dire?" "In mezzo a tutto quel trambusto, quando ho visto gli anelli apparire di nuovo sulle mie mani, ho deciso che la forza metapsichica non è un effetto collaterale di una strana infezione virale. So che viene da qualcos'altro, qualcosa di ancora più strano, anche se non so di cosa possa trattarsi." "Ah, sì? Be', ma lo hai semplicemente deciso," chiese Ginger, "o lo sai proprio?" "Lo so. Dentro di me, lo so." "Oh, sì, anch'io," disse lieto Brendan, mentre Ernie, Faye e gli altri si raccoglievano intorno a loro. "Avevi ragione, Ginger, quando hai suggerito che la forza era dentro Dom e me. Ed è in noi da quella notte di luglio, come tu hai detto. Però sbagliavi quando hai ricostruito il modo in cui abbiamo ricevuto il dono. Come diceva Dom... in mezzo a tutto quel trambusto, ho sentito che la contaminazione biologica non era la risposta giusta. Non ho la più pallida idea di quale sia la spiegazione, ma possiamo eliminare questa parte della tua teoria." Ora Dom comprese il motivo del buonumore di Brendan: poter escludere che si trattasse di un virus gli permetteva di nutrire ancora la speranza che la spiegazione fosse di carattere religioso. Sarebbe piaciuto anche a lui riuscire a trovare coraggio e forza nell'idea che i loro problemi erano parte di un disegno divino, ma al momento credeva solo al pericolo e alla morte che sentiva incombere su di sé. I cambiamenti avvenuti in lui durante il trasferimento da Portland a Mountainview erano risibili in confronto a quelli che erano iniziati quella notte con la scoperta delle sue facoltà. Aveva quasi la sensazione che la forza fosse viva in lui: era un parassita che
col tempo avrebbe divorato tutto quello che era stato Dominick Corvaisis e, assunta la sua identità, se ne sarebbe andato in giro per il mondo dentro il suo corpo, facendosi passare per umano. Assurdo. Eppure, era preoccupato e spaventato. Guardò uno per uno quelli radunati attorno a lui. Alcuni incrociarono il suo sguardo per un momento, poi distolsero rapidamente gli occhi. Altri in particolare Jack, Ernie e Jorja - incontrarono direttamente i suoi occhi, ma furono incapaci di dissimulare il disagio e perfino l'apprensione che ora provavano nei suoi confronti. Solo Ginger e Brendan sembravano non aver cambiato atteggiamento verso di lui. "Bene," disse Jack, rompendo l'incanto, "credo faremmo meglio a chiudere la serata. Domani avremo parecchio da fare." "Domani avremo chiarito ancora un po' di questi misteri," asserì Ginger. "Stiamo facendo ogni giorno progressi." "Domani," mormorò Brendan, beato, "sarà un giorno di grandi rivelazioni. Lo sento." Domani, pensò Dom, potremmo essere tutti morti. O desiderare di esserlo. Il colonnello Leland Falkirk aveva ancora un lacerante mal di testa. Con la sua nuova capacità introspettiva - acquisita gradualmente dopo la sua partecipazione ai fatti sconvolgenti di due estati prima - riusciva a vedere che, in un certo senso, era addirittura contento che l'aspirina non avesse fatto effetto. Come da altri tipi di dolore, traeva una perversa forza ed energia dall'incessante pulsare nelle tempie e nella fronte. Il tenente Horner se n'era andato. Leland era di nuovo solo nel suo temporaneo ufficio senza finestre sotto i terreni di Shenkfield, ma non aspettava più la telefonata da Chicago. Era arrivata poco dopo il suo colloquio con Horner, e le notizie erano state pessime. L'assedio alla casa di Calvin Sharkle a Evanston, iniziato quel mattino, era ancora in corso, e quella precaria situazione probabilmente non si sarebbe risolta neanche entro le prossime dodici ore. Se possibile, il colonnello voleva evitare di ordinare ai propri uomini di chiudere l'interstatale 80 e di isolare il Tranquility Motel finché non avesse avuto la certezza che l'operazione non sarebbe stata compromessa da rivelazioni di Sharkle alle autorità dell'Illinois o alla stampa. Aspettare lo rendeva nervoso, specialmente adesso che i testimoni al motel avevano capito l'importanza di
Thunder Hill e stavano studiando le loro mosse senza che fosse possibile ascoltarli. Immaginava di poter aspettare, al massimo, un giorno ancora. Comunque, se la pericolosa situazione in Illinois non si fosse sbloccata per l'indomani al tramonto, avrebbe dato l'ordine di procedere nonostante i rischi. L'altra novità da Chicago era che, in seguito a discrete indagini, si era appurato che la sorprendente guarigione di Winton Tolk ed Emmeline Halbourg non poteva essere adeguatamente spiegata per mezzo delle attuali conoscenze mediche. E una ricostruzione delle attività di padre Stefan Wycazik il giorno di Natale - che includevano una visita a Halbourg e Tolk e una sosta al laboratorio della polizia per consultare un esperto di balistica - confermava che il prete era convinto che il suo curato, Brendan Cronin, fosse responsabile di quelle miracolose guarigioni. Leland era venuto a sapere dei poteri taumaturgici di Cronin solo il giorno prima, ascoltando una telefonata tra Dominick Corvaisis al Tranquility e padre Wycazik a Chicago. Quella conversazione sarebbe stata un vero choc se gli eventi di sabato notte non lo avessero preparato all'imprevisto. Sabato sera, quando Corvaisis era arrivato al motel, Leland Falkirk e i suoi esperti di sorveglianza avevano sentito i primi discorsi tra i Block e lo scrittore con crescente incredulità. Il bizzarro racconto circa le fotografie della luna animate da un poltergeist in casa di Lomack a Reno era suonato come il prodotto di una mente malata non più in grado di discernere fra fantasia e realtà. Più tardi, però, mentre Corvaisis e i Block cenavano al ristorante, lo scrittore aveva tentato di rivivere i minuti appena precedenti all'inizio dei fatti avvenuti la notte del 6 luglio. Quel che era successo allora era stato stupefacente, e lo avevano confermato sia la squadra di osservatori che spiava il Tranquility da un punto a sud dell'interstatale sia l'infinity transmitter collegato al telefono pubblico del ristorante. Tutto aveva cominciato a tremare e uno strano rombo aveva riempito il locale, poi un sinistro ululato elettronico, culminante nell'implosione delle finestre. Questi fenomeni erano stati una completa - e pessima - sorpresa per Leland e per chiunque fosse venuto a trovarsi implicato nella operazione di copertura, specialmente gli scienziati, che erano galvanizzati. E la scoperta dei poteri taumaturgici di Cronin, il giorno successivo, aveva aggiunto voltaggio all'eccitazione. All'inizio, questi sviluppi erano sembrati inesplicabili. Ma dopo averci riflettuto, e nemmeno troppo a lungo, Leland era giunto a una spiegazione che gli aveva fatto gelare il sangue. Gli scienziati erano arrivati a conclusioni simili, e alcuni erano spaventati quanto lui.
Improvvisamente, nessuno sapeva cosa aspettarsi. Ora poteva accadere di tutto. Credevamo di avere la situazione sotto controllo quella notte di luglio, pensò cupamente Leland, ma forse era diventata ingovernabile ancor prima che entrassimo in scena. L'unica consolazione era che, fino ad allora, solo Corvaisis e il prete sembravano essere... infetti. Forse "infetti" non era proprio la parola giusta. Forse era più esatto dire "posseduti". O forse non esisteva una parola per definire quel che era loro accaduto, perché non era mai accaduto a nessun altro nel corso della storia, quindi non era mai sorta l'esigenza di coniare una parola appropriata. Anche se l'assedio alla casa di Sharkle fosse finito l'indomani, eliminando la possibilità di una fuga di notizie, Leland non sarebbe riuscito a colpire il gruppo al motel con piena sicurezza. Corvaisis e Cronin - e forse gli altri - potevano essere più difficili da catturare di due estati prima. Se Corvaisis e Cronin non erano più del tutto se stessi, se adesso erano qualcun altro - o qualcosa d'altro - trattare con loro avrebbe potuto rivelarsi impossibile. Il mal di testa di Leland era peggiorato. "Goditelo," disse a se stesso, alzandosi dalla scrivania. Lo hai fatto per anni, stupido figlio di puttana, così puoi farlo ancora per un giorno o due, finché avrai sistemato questo casino o finché sarai morto, a seconda di cosa arriva prima. Lasciò l'ufficio senza finestre, attraversò un'anticamera senza finestre, percorse un corridoio senza finestre ed entrò nella stanza senza finestre dove si effettuavano le intercettazioni. Il tenente Horner e il sergente Fixx erano seduti a un tavolo in un angolo. "Dica agli uomini che possono andare in branda," disse Leland. "Per stanotte non si fa niente. Mi arrischierò ad aspettare un altro giorno per vedere se la situazione a casa di Sharkle si risolve." "Stavo giusto venendo da lei," disse Horner. "C'è un nuovo sviluppo al motel. Finalmente hanno lasciato il ristorante. Dopo che sono usciti, Twist è andato a prendere una jeep Cherokee tra le colline dietro il motel. Lui, Jorja Monatella e il prete ci sono saliti su e sono partiti verso Elko." "Dove diavolo stanno andando a quest'ora di notte?" domandò Leland, sgradevolmente conscio che quei tre avrebbero potuto sgusciargli fra le dita se avesse ordinato ai suoi uomini di agire quella notte. Horner indicò Fixx, che stava ascoltando in cuffia le trasmissioni dal
Tranquility. "Da quanto abbiamo sentito, gli altri stanno andando a dormire. Twist, Monatella e Cronin sono usciti come... una sorta di garanzia, per non permetterci di mettere le mani su tutti i testimoni in un solo colpo. Dev'essere stata un'idea di Twist." "Dannazione." Massaggiandosi le tempie pulsanti con i polpastrelli, Leland sospirò. "E va bene. Tanto non saremmo comunque andati a prenderli stanotte." "Ma domani? Se restassero divisi tutto il giorno?" "Domani," disse Leland, "li terremo tutti sotto sorveglianza." Fino a quel momento, non aveva visto la necessità di seguire i testimoni ovunque andassero, perché sapeva che, alla fine, si sarebbero ritrovati tutti nello stesso posto - il motel - rendendogli le cose più facili. Ma adesso che minacciavano di non essere tutti insieme quando fosse stata ora di arrestarli, aveva bisogno di sapere dov'era ciascuno di loro in ogni momento. "Se domani andranno in giro," osservò Horner, "è improbabile che non si accorgano di essere seguiti. Non è facile essere discreti, in una zona come questa." "Lo so," rispose Leland. "Così, lascia che ci vedano. Forse questo li spiazzerà finché sarà troppo tardi. Se si spaventano, magari torneranno anche insieme per sentirsi più protetti e tutto sarà più semplice." Horner era preoccupato. "Se dovremo prendere qualcuno di loro in un posto che non è il motel, diciamo a Elko, sarà un problema." "Se non si può prenderli, bisognerà ucciderli." Leland si mise a sedere. "Adesso, vediamo i dettagli delle procedure di sorveglianza. Gli incaricati dovranno essere in posizione prima dell'alba." 3 Martedì 14 gennaio Alle sette e trenta di martedì mattina, in risposta a una telefonata di Brendan Cronin ricevuta molto tardi la notte prima, padre Stefan Wycazik si preparò a uscire per andare a Evanston, all'ultimo indirizzo conosciuto di Calvin Sharkle, il camionista che era stato al Tranquility Motel quell'estate ma il cui telefono non era più collegato. Alla luce dell'enormità degli sviluppi della sera prima in Nevada, tutti avevano concordato che occorreva fare ogni possibile sforzo per contattare le altre vittime, fino ad allora irreperibili. In piedi nella calda cucina della canonica, Stefan si abbottonò il soprabito e mise in testa il cappello di feltro.
Padre Gerrano, che si era appena seduto a far colazione dopo aver celebrato la prima messa, disse: "Forse dovrei saperne di più su tutta questa storia con Brendan, nel caso... be', nel caso dovesse capitarle qualcosa." "Non mi succederà niente," replicò con fermezza padre Wycazik. "Dio non mi ha lasciato passare cinquant'anni a imparare come funziona il mondo solo per farmi uccidere adesso che sono in grado di lavorare al meglio per la chiesa." Michael scosse la testa. "Lei è sempre così..." "Saldo nella mia fede? naturale che lo sono. Abbi fede in Dio, Michael, e lui non ti deluderà mai." "Veramente," precisò Michael, sorridendo, "quel che volevo dire era: Lei è sempre così testardo." "Quale impudenza da un curato!" disse Stefan, avvolgendosi una calda sciarpa bianca intorno al collo. "Bada bene: quel che si richiede a un curato è umiltà, il dorso robusto di un mulo, la resistenza di un cavallo da tiro, e soprattutto un atteggiamento adorante verso il suo superiore." Michael fece un sorrisetto. "Oh, sì, suppongo di sì, se il superiore è un pio vecchio bislacco reso vanesio dalle lodi dei suoi parrocchiani..." Suonò il telefono. "Se è per me, non ci sono." Stefan infilò un paio di guanti, ma prima che riuscisse ad arrivare alla porta Michael gli allungò la cornetta. " E Winton Tolk," annunciò il curato. "Il poliziotto a cui Brendan ha salvato la vita. Sembra quasi isterico, e vuole parlare con Brendan." Stefan prese il telefono e si identificò. Il tono del poliziotto era a dir poco ansioso. "Padre, devo parlare subito con Brendan Cronin, non posso aspettare." "Temo che sia impossibile," disse Stefan. "È via, dall'altra parte della nazione. Qual è il problema? Posso esserle d'aiuto?" "Cronin," rispose Tolk, la voce tremante. "Qualcosa... è successo qualcosa, e io non capisco, è pazzesco, Gesù, è una cosa incredibile, ma io sono sicuro che ha qualcosa a che fare con Brendan." "Sono certo di poterla aiutare. Dove si trova, Winton?" "Sono in servizio, in centro. C'è stato un accoltellamento, hanno sparato. Orribile. E poi... Senta, voglio che Brendan venga qui. Deve spiegare questo, deve, subito." Padre Wycazik riuscì a ottenere un indirizzo da Tolk, lasciò la canonica di corsa e in macchina superò il limite di velocità. Meno di mezz'ora dopo era in un isolato di squallidi casamenti tutti uguali di sei piani in mattoni.
Parcheggiò vicino all'angolo, perché lo spazio davanti all'indirizzo che Tolk gli aveva dato era occupato da mezzi della polizia, le cui radio riempivano l'aria fredda di un coro metallico di comunicazioni in codice. Due agenti erano di guardia ai veicoli. Stefan chiese loro dove si stesse svolgendo l'azione, e loro gli dissero che era al terzo piano, al 3-B, l'appartamento dei Mendoza. Il vetro del portone d'ingresso era crepato, e il rattoppo provvisorio con il nastro adesivo sembrava essere diventata una riparazione permanente. Nell'atrio, mancavano alcune mattonelle del pavimento, altre erano nascoste dallo sporco e la pittura delle pareti era scrostata. Salendo le scale, Stefan incontrò due belle bambine che giocavano con una bambola male in arnese fingendo che fosse morta e usando una vecchia scatola da scarpe come bara. Quando entrò dalla porta aperta nell'appartamento dei Mendoza, padre Wycazik vide un divano beige abbondantemente macchiato di sangue ancora fresco, così tanto che in certi punti i cuscini erano quasi neri. Centinaia di gocce erano schizzate sulla parete giallo pallido dietro il divano, e nell'intonaco c'erano quattro fori. Evidentemente, qualcuno di fronte a quella parete era stato trapassato da proiettili di grosso calibro. Altro sangue imbrattava un paralume, un tavolino, uno scaffale di libri e parte del tappeto. L'appartamento era estremamente ben tenuto, e questo, per contrasto, rendeva ancora più scioccante la vista di tutto quel sangue. I Mendoza potevano permettersi di vivere solo in un casermone popolare, ma come molta altra povera gente, rifiutavano di arrendersi allo squallore del quartiere, o diventarne parte. Il sudiciume delle strade, la sporcizia dei corridoi e le scale esterne si fermava alla loro porta, come se il loro appartamento fosse una fortezza contro lo sporco, un tempio alla pulizia e all'ordine. Tutto brillava. Togliendosi il cappello, Stefan fece un paio di passi nel soggiorno, che sfociava in una piccola zona pranzo separata dalla cucina da un banco di servizio. Il luogo era affollato di investigatori, agenti in uniforme, tecnici del laboratorio - forse una dozzina di uomini in tutto. Molti di loro non si comportavano come poliziotti. Stefan era perplesso. Apparentemente, gli uomini della scientifica avevano finito il loro lavoro e gli altri non avevano niente da fare, eppure nessuno accennava ad andarsene. Stavano in gruppetti di due o tre, parlando sottovoce come fossero a un funerale - o in chiesa.
Solo un detective stava lavorando. Era seduto al tavolo da pranzo con una donna latina col viso da madonna di circa quarant'anni, facendole domande (padre Wycazik lo sentì chiamarla Mrs Mendoza) e annotando le sue risposte. Lei cercava di cooperare, ma si distraeva continuamente per guardare un uomo della sua stessa età, probabilmente il marito, che camminava avanti e indietro con in braccio un bel bambino di circa sei anni. Mr Mendoza teneva il bambino con un grosso braccio, parlandogli costantemente, accarezzandolo, scompigliandogli i folti capelli neri. Chiaramente, quell'uomo era andato molto vicino a perdere il figlio, e aveva bisogno di toccarlo e stringerlo per convincersi che il peggio era davvero passato. Uno degli agenti notò Stefan e disse: "Padre Wycazik?" Aveva parlato piano, ma sentendo fare il nome di Stefan tutti si zittirono. Stefan non riusciva a ricordare di aver già visto espressioni come quelle che apparvero sulle facce delle persone nel piccolo appartamento dei Mendoza: pareva si aspettassero che con una singola frase gettasse luce su tutti i misteri dell'esistenza e succintamente spiegasse il significato della vita. Cosa sta mai succedendo qui? si domandò Stefan, a disagio. "Da questa parte, padre," lo invitò un agente in uniforme. Sfilandosi i guanti, Stefan lo seguì attraverso la stanza, e tutti si scostarono per lasciarli passare. Entrarono in una linda camera da letto, dove Winton Tolk e un altro agente erano seduti sul bordo del letto. "C'è padre Wycazik," annunciò la guida di Stefan, poi tornò nell'altra stanza. Tolk era seduto curvo in avanti, i gomiti sulle ginocchia, la faccia nascosta fra le mani. Non sollevò lo sguardo. L'altro agente si alzò e si presentò come Paul Armes, il compagno di Winton. "Io... credo sia meglio che senta tutto direttamente da Win," disse. "Vi lascio soli." Uscì dalla camera, chiudendosi la porta alle spalle. La stanza era piccola, con spazio sufficiente giusto per il letto, un comodino, un cassettone di media grandezza, una sedia. Padre Wycazik girò la sedia verso i piedi del letto per sedersi di fronte a Winton Tolk. Le loro ginocchia quasi si toccavano. "Winton, cos'è successo?" domandò, togliendosi la sciarpa. Tolk alzò gli occhi, e Stefan fu sorpreso dalla sua espressione. Aveva pensato che fosse sconvolto da quanto era accaduto in soggiorno, ma la sua faccia rivelò che era felice, colmo di un'eccitazione che riusciva a stento a contenere. Allo stesso tempo, sembrava impaurito, non terrificato, non tremante di paura, ma turbato da qualcosa che gli impediva di lasciarsi andare completamente, con gioia, alla sua eccitazione.
"Padre, chi è Brendan Cronin?" Il tremore nella voce del robusto poliziotto avrebbe potuto tradire sia gioia che terrore incipiente. "Cosa è Brendan Cronin?" Stefan esitò, poi optò per la pura verità. "E un prete." Winton scosse la testa. "Ma non è quello che ci era stato detto." Stefan sospirò, annuì. Spiegò della perdita di fede di Brendan e dell'insolita terapia che lo aveva portato a trascorrere una settimana con un'autopattuglia della polizia. "Lei e l'agente Armes non siete stati informati che era un prete perché avreste potuto trattarlo in modo diverso... e perché volevo risparmiargli l'imbarazzo." "Un prete caduto." Winton era confuso. "Non caduto," rettificò padre Wycazik con sicurezza. "Solo zoppicante. Col tempo ritroverà la sua fede." La scarsa luce della stanza veniva da una fioca lampadina sul comodino e una singola, stretta finestra, e l'ombra vellutata che avvolgeva il poliziotto lo rendeva più scuro di quanto già fosse per patrimonio genetico. Per contrasto, le cornee dei suoi occhi apparivano bianchissime e molto luminose. "Come ha fatto Brendan a guarirmi quando sono stato colpito? Come ha fatto quel... miracolo? Come?" "Perché ha deciso che è stato un miracolo?" "Sono stato colpito due volte in pieno petto. Tre giorni dopo ho lasciato l'ospedale. In dieci giorni, ero pronto per tornare in servizio, ma mi hanno fatto stare a casa due settimane. I dottori continuavano a parlare della mia robusta tempra, della straordinaria ripresa che è possibile se un corpo è in forma ottimale. Io ho cominciato a pensare che stessero cercando di spiegare la mia guarigione non a me ma a loro stessi. Ma ero ancora convinto di essere stato solo veramente fortunato. Poi, una settimana fa sono tornato al lavoro, e allora... è successo qualcos'altro." Winton si sbottonò la camicia, la aprì, e sollevò la canottiera per scoprirsi il petto. "Le cicatrici." Padre Wycazik rabbrividì. Benché fosse già vicino a Winton, si avvicinò di più, guardando esterrefatto. I fori dei proiettili non erano più che macchioline scolorite. Le incisioni del chirurgo erano quasi svanite: si erano trasformate in linee sottili visibili solo con un'attenta ispezione. Dopo così poco tempo, era logico attendersi un gonfiore e un'infiammazione evidenti: non ce n'era traccia. Il tessuto cicatrizzato era minimo, marrone rosato sul marrone scuro della pelle, né ispessito, né raggrinzito. "Ne ho visti tanti con vecchie ferite d'arma da fuoco," disse Winton, l'eccitazione ancora tenuta a freno dalla paura. "Nodose, grosse. Brutte.
Uno non si prende due 38 nel petto, subisce un serio intervento, ed è così tre settimane dopo - e difficilmente lo sarà mai." "Il suo dottore l'ha vista?" Winton si riabbottonò la camicia con mani tremanti. "Ho visto il dottor Sonneford una settimana fa. Le suture erano state rimosse da poco, e il mio torace era ancora malconcio. Solo negli ultimi quattro giorni le cicatrici hanno cominciato a sparire. Giurerei che, se stessi a uno specchio abbastanza a lungo, potrei vederle svanire, padre." L'agente sospirò. "Ultimamente, ho ripensato a quando lei è venuto a trovarmi in ospedale. E più ci penso, più mi sembra che il suo comportamento fosse strano. Ricordo alcune frasi che ha detto, alcune domande che ha fatto su Brendan... C'è una cosa che devo sapere: Brendan ha mai guarito qualcun altro?" "Sì. Niente di spettacolare come con lei, ma c'è stato un altro caso. Comunque, non è per mostrare a Brendan com'è guarito bene che lei ha telefonato in parrocchia. Di che si tratta, Winton?" Un vivace sorriso apparve - e rapidamente svanì - sulla larga faccia dell'uomo, seguitò da un fugace lampo di paura. Il subbuglio emotivo era evidente anche nella sua voce. "Io e Paul eravamo di pattuglia. Abbiamo preso una chiamata a quest'indirizzo. Siamo arrivati qui, e abbiamo trovato un ragazzo di sedici anni imbottito di droga. Lei sa come possono essere? Pazzi. Animali. Quella dannata robaccia mangia le cellule cerebrali. Più tardi, quando è finito tutto, abbiamo scoperto che era il figlio della sorella di Mrs Mendoza, Ernesto. È venuto a vivere qui una settimana fa perché sua madre non riusciva più a tenerlo. I Mendoza... sono brava gente. Ha visto come tengono questo posto?" Padre Wycazik annuì. "Il tipo di gente che si prende in casa un nipote drogato e cerca di raddrizzarlo. Ma non si può raddrizzare un ragazzo come quello, padre. Sempre in mezzo ai guai. La polizia già lo conosceva. Sei arresti, due per reati piuttosto gravi. Un bel record, per un minorenne. Quando siamo arrivati era nudo come un verme, con gli occhi fuori delle orbite, e urlava come un ossesso." Lo sguardo di Winton si fece lontano, come se stesse vedendo indietro nel tempo e avesse quella scena davanti agli occhi. "Ernesto ha preso Hector, il bambino che probabilmente lei ha visto di là, lo ha buttato sul divano, e gli ha puntato alla gola un coltello a serramanico. Mr Mendoza era disperato. Voleva saltare addosso a Ernesto e strappargli il coltello, ma aveva paura che lui avrebbe colpito Hector. Imbottito di polvere degli ange-
li com'era, non c'era verso di farlo ragionare. Noi abbiamo estratto le pistole, ma non volevamo cercare di sparargli, perché alla prima mossa sbagliata avrebbe potuto uccidere il bambino. Così abbiamo provato a parlargli, a convincerlo a lasciare Hector, e sembrava che ci stessimo riuscendo, perché ha allontanato un po' il coltello. Ma poi all'improvviso, Gesù," Winton rabbrividì, "ha colpito il bambino, gli ha tagliato la gola quasi da un orecchio all'altro. Dopo ha alzato il coltello sopra la testa, così gli abbiamo sparato, non so quanti colpi, e lui è caduto morto sopra Hector. Lo abbiamo levato di mezzo, e il piccolo Hector era lì che cercava di chiudersi il buco nella gola con una mano, il sangue che gli usciva a fiotti tra le dita, gli occhi già quasi vitrei..." Il poliziotto prese fiato e rabbrividì di nuovo. Il suo sguardo tornò al presente, come sfuggendo a quell'orrore. Si girò verso la finestra, oltre la quale la grigia luce invernale si spargeva come fuliggine sulle grigie strade del quartiere. Il cuore di Stefan aveva cominciato a battere forte, non per la terribile scena descritta da Tolk, ma perché aveva intuito che il poliziotto stava per raccontargli di un miracolo. Gli occhi sempre rivolti alla finestra, la voce ancora più tremante, Winton riprese: "Con ferite del genere non c'è niente da fare. Due minuti al massimo, e sei andato. Mi sono inginocchiato per terra accanto al divano, e ho visto che Hector stava morendo. Sembrava così piccolo, padre, così piccolo. Sapevo che era inutile, ma gli ho messo le mani sul collo, come se potessi trattenere in lui il sangue, la vita. Ero nauseato, furioso, spaventato, e non era giusto che un bambino dovesse morire a quel modo, non era giusto che dovesse morire, e poi... e poi..." "E poi è guarito," disse piano padre Wycazik. Winton Tolk finalmente distolse gli occhi dalla grigia luce alla finestra e incontrò gli occhi di Stefan. "Sì, padre. È guarito. Era immerso nel proprio sangue, a pochi secondi dalla morte, eppure è guarito. Io non sapevo nemmeno cosa stesse accadendo, non l'ho sentito accadere, niente di speciale nelle mie mani. Non pensa che avrei dovuto sentire qualcosa di speciale nelle mie mani? Ma ho capito che stava succedendo qualcosa di incredibile solo quando il sangue ha smesso di sgorgare sotto le mie dita, e allo stesso tempo il bambino ha chiuso gli occhi, e per un momento ho pensato che fosse morto, e... ho gridato: 'No! Dio, no!' Ho tolto le mani dalla gola di Hector, l'ho guardata, e allora ho visto che la ferita... la ferita si era chiusa. Il segno della coltellata era ancora spaventoso, ma la carne si
era ricucita in una cicatrice." L'uomo smise di parlare perché lucide lenti di lacrime si erano formate sopra i suoi occhi. Se fosse stato straziato dal dolore, avrebbe potuto reprimerlo, ma era qualcosa di ancora più potente: gioia. Pura, incontrollabile, incredula gioia. Non poté trattenersi dallo scoppiare in singhiozzi. Anche lui con gli occhi lucidi, padre Wycazik gli tese le mani. Winton le prese, le strinse forte, e continuò a tenerle mentre riprendeva: "Paul, il mio compagno, ha visto tutto. E anche i Mendoza. E altri due agenti arrivati proprio mentre sparavamo a Ernesto: anche loro hanno visto. E quando ho guardato quella linea rossa attraverso la gola del bambino, in qualche modo ho saputo cosa dovevo fare. Ho messo di nuovo le mani sulla ferita e ho pensato che il bambino doveva vivere, ho voluto che il bambino vivesse. La mia mente andava a tutta velocità. Ho pensato a quello che aveva fatto Brendan, quando mi avevano sparato. Ho pensato a come le mie cicatrici stessero scomparendo, e in qualche modo ho capito che c'era un nesso. Così ho cominciato a tenergli le mani sulla gola, e un minuto dopo lui ha aperto gli occhi, mi ha sorriso, avrebbe dovuto vedere quel sorriso, padre. Ho tolto di nuovo le mani, e la ferita c'era ancora, ma più lieve. Il bambino si è alzato a sedere e ha chiesto della madre, e allora... allora sono crollato." Winton fece una pausa per riprendere fiato. "Ha cercato di riportare indietro Ernesto?" domandò Stefan. "Sì. Nonostante quel che aveva fatto, ho messo le mani sulle sue ferite. Ma con lui non ha funzionato, padre. Forse perché era già morto. Hector stava solo morendo, ma Ernesto era già andato." "Winton, ha notato se le sono apparsi strani segni sul palmo delle mani? Anelli rossi di carne infiammata?" "Niente di simile. Cosa avrebbe significato, se ci fossero stati quegli anelli?" "Non lo so," rispose padre Wycazik. "Ma appaiono sulle mani di Brendan quando... quando succedono queste cose." Restarono in silenzio per un momento, poi Winton disse: "Brendan... padre Cronin... è una specie di santo?" Padre Wycazik sorrise. "È un buon uomo, ma non un santo." "Allora come ha fatto a salvarmi?" "Non lo so di preciso. Ma certamente è una manifestazione del potere di Dio. In qualche modo, per qualche ragione." "Ma come mi ha trasmesso questo potere di guarire?" "Non lo so, Winton. Sempre che lo abbia trasmesso. Forse il potere non
è in voi. Forse è Dio che ha agito tramite voi." Winton si guardò il palmo delle mani. "No, la forza è ancora qui, ancora in me. Lo so, in qualche modo. Lo sento. E non solo... non solo il potere di guarire. C'è dell'altro." Padre Wycazik inarcò le sopracciglia. "Dell'altro? E cosa?" Winton aggrottò la fronte. "Non lo so ancora. È tutto così nuovo... così strano. Ma sento qualcosa di più. Credo che si svilupperà col tempo." Alzò gli occhi dalle sue scure mani callose: erano colmi di timore. "Cos'è padre Cronin, e cosa ha fatto di me?" "Winton, si liberi dell'idea che ci sia qualcosa di malvagio o pericoloso in questo. È una cosa assolutamente splendida. Pensi a Hector, il bambino che ha appena salvato. Ripensi a com'è stato sentire la vita riconquistare il suo piccolo corpo. Noi siamo pedine in un gioco divino, Winton. Non possiamo comprenderne il significato finché Dio non vorrà illuminarci." Padre Wycazik disse che voleva dare un'occhiata al piccolo Hector, e Winton replicò: "Io non sono pronto per andare là fuori tra tutta quella gente, anche se per lo più sono miei amici. Starò qui ancora un po'. Tornerà?" "Ho un altro affare piuttosto urgente di cui occuparmi stamattina, Winton. Devo sbrigarmi. Ma mi terrò in contatto con lei, può starne certo! E se ha bisogno di me, basta che chiami in parrocchia." Quando Stefan uscì dalla camera da letto, i poliziotti e gli uòmini della scientifica si zittirono, come prima, e fecero ala al suo passaggio mentre andava al tavolo, dove Hector era accoccolato in grembo a sua madre, mangiando soddisfatto una tavoletta di cioccolato alle mandorle. Il bambino era piccolo, anche per i suoi sei anni, con delicate ossa facciali. I suoi occhi erano vivaci e pieni di intelligenza, prova che non aveva subito alcun danno cerebrale nonostante avesse perso buona parte del sangue. Ma ancora più stupefacente era il fatto che il suo sangue era evidentemente stato rimpiazzato, senza bisogno di trasfusioni, il che rendeva il recupero del bambino ancor più miracoloso di quello di Tolk. La forza nelle mani di Winton sembrava maggiore che in quelle di Brendan. Quando padre Wycazik si accovacciò per mettersi al livello di Hector, il bambino gli sorrise. "Come ti senti, Hector?" "Bene," rispose timidamente lui. "Ricordi cosa ti è successo, Hector?" Il bambino si leccò le labbra sporche di cioccolato e scosse la testa: no. "È buono quel cioccolato?"
Il bambino annuì e gliene offrì un morso. Il prete sorrise. "Grazie, Hector, ma è tutto tuo." "Mamma può dartene uno," disse Hector. "Ma attento a non farlo cadere sul tappeto, sennò sono guai." Stefan alzò gli occhi verso Mrs Mendoza. "Davvero non ricorda...?" "No," confermò lei. "Il Signore gli ha fatto la grazia." "Lei è cattolica, Mrs Mendoza?" "Sì, padre," rispose la donna, facendosi il segno della croce con la mano libera. "Allora è una parrocchiana di padre Nilo. Lo avete già chiamato?" "No, padre. Non sapevo se..." Padre Wycazik guardò Mr Mendoza, che stava accanto alla sedia della moglie. "Chiami padre Nilo. Gli dica cosa è successo e gli chieda di venire. Lo avverta che io non ci sarò quando arriverà qui, ma mi metterò in contatto con lui più tardi. Gli spieghi che ho molto da dirgli, che quello che vede qui non è tutta la storia." L'uomo andò immediatamente al telefono. Stefan si rivolse a un investigatore che si era avvicinato. "Avete fatto fotografie della ferita?" Il detective annuì. "Certo. Procedura standard." Poi rise nervosamente. "Cosa sto dicendo? Qui non c'è proprio niente di standard." "Basta che ci siano fotografie per provare che tutto questo è successo davvero," disse padre Wycazik, "perché credo proprio che molto presto della cicatrice rimarrà ben poco da vedere." Si girò di nuovo verso il bambino. "Ora, Hector, se non ti dà fastidio, vorrei toccarti la gola. Mi piacerebbe sentire quel segno." Il bambino abbassò la tavoletta di cioccolato. Le dita di padre Wycazik tremavano quando si posarono sulla rossa cicatrice e la seguirono lentamente da una estremità all'altra lungo il collo del bambino. Le carotidi ai lati della sottile, giovane gola pulsavano regolarmente, e il cuore di Stefan diede un salto quando avvertì il miracolo della vita. La morte era stata sconfitta, e Stefan era convinto di aver avuto il privilegio di assistere a un adempimento della promessa di vita eterna che era una delle ragion d'essere della chiesa. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Quando finalmente Stefan tolse con riluttanza la mano dalla gola del bambino e si alzò, uno dei poliziotti disse: "Cosa significa, padre? L'ho sentita dire a Mr Mendoza che questa non è l'intera storia. Cosa sta succe-
dendo?" Stefan si girò a guardare le persone assembrate nella stanza che ora erano una ventina. Sulle loro facce vide un grande desiderio di credere, non necessariamente nelle verità del cattolicesimo o cristianesimo, perché non tutti erano cattolici o cristiani, ma in qualcosa di più elevato, pulito, migliore della razza umana, un intenso desiderio di trascendenza spirituale. "Cosa significa, padre?" gli chiese di nuovo uno di loro. "Sta succedendo qualcosa," disse lui. "Qui e altrove. Qualcosa di grande e meraviglioso. Questo bambino ne è parte. Non posso dirvi con sicurezza cosa significhi o che abbiamo visto la mano di Dio, benché sia quel che io credo. Guardate Hector in braccio a sua madre, e ricordate che Dio ha promesso che il tempo della morte e del dolore sarebbe passato. In fondo al mio cuore, io sento che quel tempo sta passando. Orai devo andare. Ho affari urgenti." Con sua sorpresa, loro si accontentarono di quella vaga spiegazione e lo lasciarono passare senza trattenerlo oltre, forse perché il miracolo di Hector Mendoza non era stato affatto vago - anzi, fin troppo specifico - e aveva già dato loro fin troppe risposte. Ma mentre Stefan usciva, alcuni gli si avvicinarono per toccarlo, stringergli la mano o una spalla, non con fervore religioso ma con un eccitato cameratismo. Stefan fu sopraffatto dal bisogno di toccarli anche lui, di spartire il profondo senso di fratellanza che aveva colmato tutti nella stanza, di comunicare la convinzione che l'umanità stava andando incontro a un grande destino. A Boston, alle dieci, Alexander Christophson, ex senatore e ambasciatore degli Stati Uniti, ex direttore della CIA, ora in pensione da dieci anni, stava leggendo il giornale del mattino quando ricevette una telefonata dal fratello Philip, commerciante di antiquariato a Greenwich, in Connecticut. Parlarono per cinque minuti di cose senza importanza, come due normali fratelli che si tengono in contatto, ma la conversazione aveva uno scopo segreto. Alla fine Philip disse, "Oh, a proposito ho parlato con Diana proprio stamattina. Ti ricordi di lei?" "Certamente," rispose Alex. "Come se la passa?" "Oh, ha i suoi problemi," disse Philip. "Troppo noioso per discuterne. Comunque, ti saluta." Poi chiuse la parentesi su Diana, come fosse un argomento di scarso interesse, e raccomandò ad Alex due nuovi libri che gli sarebbero di sicuro piaciuti. Diana era la parola in codice per dire che Ginger Weiss aveva telefonato
a Philip e aveva bisogno di parlare con Alex. Appena l'aveva vista al funerale di Pablo, i capelli biondo argenteo che brillavano come di luce propria, Ginger gli aveva fatto pensare a Diana, dea della luna. Dopo aver salutato il fratello uscì di casa, dicendo a Elena, sua moglie, che andava in libreria a comprare un paio di romanzi che gli aveva consigliato Philip. E andò veramente in libreria, ma prima si fermò a una cabina telefonica e, usando la sua carta di credito, chiamò Philip per farsi dare il numero che Ginger gli aveva lasciato. "Ha detto che è di un telefono pubblico a Elko, in Nevada," lo informò Philip. Quando Alex telefonò in Nevada, Ginger Weiss rispose solo al quinto squillo. "Mi scusi, ma ero in macchina vicino alla cabina. Faceva proprio troppo freddo per stare qui ad aspettare," si giustificò lei. "Cosa ci fa in Nevada?" chiese Alex. "Se ho interpretato correttamente quel che mi ha detto al funerale di Pablo, lei non vuole che io risponda a domande come questa." "Giusto. Meno ne so, meglio è. Cosa voleva chiedermi?" Lei spiegò, senza scendere nei particolari, di aver trovato altre persone con blocchi di memoria simili al suo, alcuni con falsi ricordi diversi che coprivano lo stesso lasso di tempo. Poiché Alex era l'esperto di lavaggio del cervello, voleva sapere da lui se impiantare falsi ricordi che contenessero qualcosa di vero era più difficile che impiantare ricordi interamente falsi, e lui poté assicurarle che, infatti, era così. "Lo avevamo immaginato," disse Ginger, "ma mi fa piacere che lei lo confermi. Dimostra che siamo sulla strada giusta. Ora, un'altra cosa: voglio che lei ci procuri delle informazioni. Abbiamo bisogno di sapere qualunque cosa lei possa scovare su un certo colonnello Leland Falkirk, un ufficiale di una compagnia DERO - lei saprà di cosa si tratta. E mi servono anche..." "Un momento," la interruppe Alex, guardando nervosamente la gente che passava di là dal vetro della cabina, come temesse che già lo sorvegliassero, o perfino fossero già pronti a toglierlo di mezzo. "Al cimitero, ho detto che ero disposto a darle il mio parere, o delucidazioni su tecniche di controllo della mente. Ma l'ho avvertita che non sarei andato a caccia di informazioni. Ho spiegato la mia posizione." "Be', anche se è in pensione da anni, deve conoscere ancora gente in molti dei posti giusti..." "Mi sta ascoltando o no, dottoressa? Non mi immischierò attivamente
nei suoi problemi. Semplicemente non posso permettermelo. Ho troppo da perdere." "Non si preoccupi di cercare cose strane o altamente riservate. Non ci aspettiamo questo," disse lei, come se non lo avesse sentito. "Basteranno i punti salienti del curriculum di Falkirk, tanto per aiutarci a capirlo e farci un'idea di cosa aspettarci da lui." "No, guardi..." Ma lei era infaticabile. "Mi servono anche informazioni sul deposito di Thunder Hill, un'installazione militare qui a Elko County." "No." "Dovrebbe essere un magazzino sotterraneo, e forse lo è stato per molto tempo, o forse è sempre stato qualcos'altro, ma so che adesso non è solo questo." "Dottoressa, non farò niente di tutto questo." "Il colonnello Leland Falkirk e il deposito di Thunder Hill. Non le chiedo molto. Parli con i suoi vecchi amici che sono ancora in gioco e riferisca quel che riesce a sapere al dottor George Hannaby lì a Boston oppure a padre Wycazik, un prete di Chicago." Gli diede il numero di telefono di entrambi. "Io posso mettermi in contatto con loro, e mi riporteranno tutto senza fare il suo nome. Così non dovrà chiamarmi direttamente e non si comprometterà." Lui cercò inutilmente di controllare il tremore delle sue mani. "Dottoressa, mi pento di averle offerto la mia assistenza. Sono un vecchio che ha paura di morire." "Lei è anche preoccupato per i peccati che può aver commesso in nome del dovere," replicò Ginger, ripetendo quel che lui le aveva confessato al cimitero. "E probabilmente le piacerebbe fare qualcosa per rimediare a qualcuno di quei peccati, reali o immaginali. Questo potrebbe essere il modo, Mr Christophson." Ripetè il numero telefonico di Hannaby e Wycazik. "No. Se la interrogano, ricordi che ho detto no, decisamente no." Con esasperante buonumore, lei aggiunse: "Ah, sarebbe perfetto se avesse qualcosa per me entro le prossime sei-otto ore. So che è una richiesta un po' pressante, ma in fondo sto chiedendo solo notizie terra terra, qualunque cosa sia negli schedali non riservati." "Addio, dottoressa," la salutò lui, secco. "Aspetterò con impazienza sue notizie." "Non avrà mie notizie."
"Ci conto," disse lei, e riagganciò per prima. "Cristo!" imprecò Christophson, sbattendo giù la cornetta. Lei era una donna attraente, piacevole, intelligente, affascinante sotto molti aspetti. Ma la sua assoluta convinzione di riuscire sempre a ottenere quel che voleva... questa era una caratteristica che lui talvolta ammirava in un uomo, raramente o mai in una donna. Be', questa volta sarebbe rimasta delusa. Questa volta non avrebbe ottenuto quel che voleva. No, dannazione. Eppure... con la sua stilografica aveva preso nota dei numeri di telefono che lei gli aveva dato. Dom ed Ernie uscirono il martedì mattina presto per una ricognizione almeno parziale lungo il perimetro del deposito di Thunder Hill. Andarono con la jeep di Jack Twist, il quale stava dormendo in camera sua, essendo andato a letto solo poche ore prima dopo aver passato metà della notte guidando per Elko insieme a Brendan Cronin e Jorja Monatella. Sia la Cherokee che il Dodge del motel avevano quattro ruote motrici, ma la jeep era più resistente e maneggevole. La strada pedemontana che portava al deposito in certi punti poteva essere gelata, e poiché la giornata prometteva altra neve, avevano preferito usare il mezzo di trasporto più affidabile. Un basso strato di nuvoloni scuri gravava sugli altipiani, più basso ancora sulle colline, e avviluppava le cime delle montagne. Il bollettino meteorologico aveva annunciato la prima forte bufera della stagione (più tardi del solito quell'anno) e trentacinque centimetri di neve sui rilievi più alti. Per il momento, comunque, non era ancora caduto un solo fiocco. La plumbea atmosfera non condizionò Dom ed Ernie; erano di ottimo umore quando lasciarono il motel. Stavano finalmente facendo qualcosa, agendo, non solo reagendo. Inoltre, c'era il piacevole senso di cameratismo che esiste quando uomini che si piacciono si imbarcano insieme in un'avventura. L'inaspettata tranquillità della notte appena passata contribuiva non poco al loro eccellente stato d'animo. Per la prima volta da settimane, il sonno di Dom non era stato disturbato da incubi o sonnambulismo. Aveva sognato solo una camera indefinita colma di luce dorata, evidentemente lo stesso posto che appariva nei sogni di Brendan. Ed Ernie, invece di essere tenuto sveglio dalla paura dell'oscurità, era immediatamente scivolato in un pacifico sonno. Anche gli altri avevano detto che era stata la notte più riposante degli ultimi tempi. La teoria di Ginger, espressa mentre prendevano il caffè quel mattino, era che i loro peggiori sogni non derivavano dai miste-
riosi eventi di cui erano stati testimoni la notte del 6 luglio, ma dal lavaggio del cervello che era seguito. Quindi, ora che si erano fatti un'idea di cosa avevano passato nelle mani degli esperti di controllo della mente, la subconscia pressione dovuta a quelle esperienze si era alleviata, eliminando la causa di quegli incubi. Dom, poi, aveva una ragione personale per rallegrarsi. Quel mattino nessuno lo aveva guardato con sospetto o trattato con deferenza a causa del suo potere telecinetico. Sulle prime fu stupito dalla rapidità con cui si erano abituati all'idea, ma poi aveva capito cosa doveva passare per le loro menti: poiché avevano condiviso le sue esperienze di due estati prima, era logico che prima o poi avrebbero condiviso anche gli strani poteri che ne erano conseguiti. Evidentemente pensavano che in loro le facoltà paranormali si stessero soltanto sviluppando più lentamente che in lui. Se poi queste non si fossero manifestate, avrebbero potuto finire per erigere le barriere psicologiche, intellettuali e psicologiche che lo avrebbero isolato, come lui temeva. Ma in ogni caso, per il momento si comportavano come se nessun abisso li separasse, e Dom ne era sollevato. Ora, canticchiando a mezza voce, Ernie guidò verso nord sulla strada provinciale a due corsie, lasciandosi alle spalle il motel e l'interstatale. Si inoltrarono tra le colline, e Dom osservò con interesse i cambiamenti del terreno, che con l'aumentare dell'altitudine sembrava farsi più scarno, rivelando l'ossatura rocciosa che spuntava ovunque formando clavicole, scapole e sterni di calcare, fibule e femori di friabile pietra scistosa, e a volte costole e spine dorsali di possente granito. Come se si rendesse conto che salendo la temperatura si faceva più rigida, la terra si copriva di sottovesti d'erba più pesanti, più ricche sottane di salvia e altri cespugli; poi alberi, alberi, ancora alberi - mogani montani, svettanti pini, cedri, pioppi tremuli, qualche abete rosso. Avevano percorso solo cinque chilometri quando raggiunsero la linea della neve. Benché le precipitazioni fossero state scarse da settembre a dicembre, e ancora adesso la zona non fosse stata investita da forti tempeste, le poche, leggere nevicate avevano gettato sulla terra un manto di tutto rispetto e ricoperto di gelo i rami dei sempreverdi. Ma eccetto per qualche piccola, sporadica lastra di ghiaccio, la strada era pulita - almeno fino al deposito: più oltre, disse Ernie, la manutenzione non era così accurata. Avevano già percorso quindici chilometri, sempre seguendo la cresta della vallata a est, e sempre con le montagne che si alzavano a ovest. Ol-
trepassarono diversi sentieri sterrati che portavano a case isolate e fattorie sulle terre digradanti verso est alla loro destra e arrivarono alla strada che dava accesso al deposito di Thunder Hill, anch'essa sulla destra. Ernie rallentò fin quasi a fermarsi. "Non passo di qui da parecchio. Il posto è cambiato dall'ultima volta che l'ho visto: non sembrava così formidabile, prima." Un cartello annunciava il deposito. Di fianco al segnale, un'altra strada asfaltata si diramava dalla via principale, srotolandosi fra pini torreggiami di un verde così scuro da sembrare quasi nero nella luce cupa. A quattro metri dal bivio, la strada del deposito era bloccata da lunghe punte metalliche che spuntavano dalla pavimentazione, sufficientemente taglienti per bucare i pneumatici di qualsiasi veicolo tentasse di avanzare oltre, e grosse abbastanza per incastrare l'assiale di un camion o una macchina in corsa, arrestandone istantaneamente l'avanzata. Sei metri oltre questo sbarramento c'era un massiccio cancello d'acciaio, irto di punte, dipinto di rosso. Al di là del cancello c'era una guardiola di cemento e la sua nera porta di metallo sembrava capace di resistere a un assalto a colpi di bazooka. Avanzando a passo d'uomo davanti all'entrata di Thunder Hill, Ernie indicò una colonnina sul bordo della via d'accesso, appena al di qua delle punte sporgenti da terra. "Si direbbe un videocitofono. L'uomo nella guardiola controlla sul monitor chi c'è fuori, e se il visitatore è approvato abbassa le punte e apre il cancello. Scommetto che ci sono anche mitragliatrici piazzate permanentemente, nel caso la guardia pensasse di essere stata abbindolata quando ha già aperto." Ai due lati del cancello, un reticolato alto quattro metri con un aggetto di filo spinato scompariva tra gli alberi, e Dom notò un cartello bianco con una scritta rossa: PERICOLO ALTA TENSIONE. Benché il reticolato si addentrasse nella foresta, nessun albero lo sovrastava; da quel poco che si poteva vedere dall'imboccatura della strada, sembrava che lungo il perimetro ci fosse una fascia disboscata. L'ottimismo di Dom svanì di colpo. Aveva pensato che la protezione dei confini della proprietà sarebbe stata minima; dopo tutto, la vera e propria entrata di Thunder Hill erano le porte a prova di bomba spesse tre metri incassate nel fianco della collina. Quella barriera era così impenetrabile che sembrava uno spreco installare misure di massima sicurezza lungo tutto il margine esterno della zona. Eppure era quel che avevano fatto. Evidentemente il segreto che nascondevano era tanto importante che non si fidavano nemmeno di porte a prova di esplosione nucleare per tenerlo al sicuro.
"Le punte sulla strada sono nuove," disse Ernie. "E il cancello che c'era fino a un paio di anni fa era trasparente al confronto di questo. Il reticolato c'è sempre stato, ma prima non ci passava la corrente." "Non abbiamo alcuna speranza di poter dare un'occhiata dentro." Sebbene nessuno lo avesse detto (per paura di sembrare stupido), tutti loro avevano sperato di arrivare fino alle porte del deposito, dare un'occhiata ai terreni da poco sottratti ai due allevatori ed essere abbastanza fortunati da inciampare in un altro pezzo del puzzle che erano impegnati a risolvere. Dom non si era mai sognato di riuscire addirittura a entrare nelle camere sotterranee di Thunder Hill. Ma quando ancora se ne stava comodo al Tranquility Motel, intrufolarsi nella proprietà e guardare un po' in giro non era sembrata un'impresa irrealizzabile. Fino a quel momento. Dom si domandò se i suoi nuovi poteri telecinetici potessero essere usati per superare le fortificazioni del deposito, ma scartò immediatamente l'idea. Finché non avesse imparato a controllarlo, quel dono era di scarsa utilità. Lo spaventava. Avvertiva che la forza era sufficiente per causare distruzione e morte se ne avesse perso il controllo, e non avrebbe corso un'altra volta il rischio, se non in condizioni idonee, e usando tutte le cautele. "Be', non pensavamo certo di provare a entrare a passo di valzer dal cancello principale," commentò Ernie. "Facciamo un giro di perlustrazione lungo il perimetro." Premette leggermente l'acceleratore, poi, guardando nello specchietto retrovisore, aggiunse: "Oh, a proposito, siamo seguiti." Sorpreso, Dom si voltò a guardare attraverso il lunotto della Cherokee. A meno di cento metri da loro c'era un pic-kup, adatto a ogni terreno, appollaiato su ruote larghe e alte più del doppio del normale. Sul tetto erano montati potenti fari, ora spenti, e sul davanti uno spartineve, attualmente sollevato dalla strada. Dom era certo che molti privati cittadini che vivevano da quelle parti possedessero mezzi del genere, ma quello aveva l'aria di un veicolo militare. Il parabrezza era scuro, e non si poteva vedere chi c'era a bordo. "Sei sicuro che ci stiano seguendo? È da tanto che li hai visti?" Pilotando la Cherokee su per la strada della contea, Ernie rispose: "Li ho notati circa un chilometro dopo il motel. Se noi rallentiamo, rallentano anche loro. Se acceleriamo, lo stesso." "Pensi che ci saranno guai?" "Se ne cercano, li troveranno," dichiarò Ernie con un sorrisetto. "Probabilmente sono solo fighette dell'esercito." Dom rise. "Non cacciarmi in una guerra solo per dimostrarmi che i ma-
rine sono più duri dei soldati normali. Ti credo sulla parola." La salita divenne più ripida. Il cupo cielo cinereo si fece più basso. Gli scuri alberi si strinsero di più ai lati della strada. Il pickup rimase dietro di loro. Mrs Halbourg, la madre di Emmy, andò ad aprire, lasciando uscire uno sbuffo d'aria tiepida nella gelida mattina di Chicago. "Mi scusi se vengo così, senza avvertire," disse padre Wycazik, "ma sta succedendo qualcosa di straordinario, e devo sapere se Emmy..." Si interruppe di colpo accorgendosi che Mrs Halbourg era sconvolta. Prima che potesse chiederle cosa ci fosse che non andava, lei disse: "Mio Dio, è lei, padre. Ma come ha fatto a sapere che avevamo bisogno di lei? Non abbiamo ancora chiamato nessuno!" "Cos'è successo?" Invece di rispondere, lei lo prese per un braccio, lo fece entrare, sbattè la porta e lo guidò in fretta al piano superiore. "Da questa parte. Presto." Venendo direttamente dall'appartamento dei Mendoza, si era aspettato di trovare qualcosa di strano a casa Halbourg, ma non uno stato di crisi. Quando arrivarono di sopra, Mr Halbourg era lì con una delle sorelle maggiori di Emmy. Stavano davanti a una porta aperta a metà del corridoio, fissando qualcosa che sembrava attrarli e al tempo stesso respingerli. Dalla stanza provenirono dei tonfi, poi un'argentina risata infantile. Mr Halbourg si voltò, terreo in volto, e battè gli occhi sorpreso vedendo Stefan. "Padre, grazie a Dio è venuto. Non sapevamo cosa fare. Non volevamo passare per matti chiamando aiuto, e poi magari quando arriva non sta succedendo niente. Ma ora c'è lei, e mi sento già più sollevato." Stefan si affacciò cautamente alla porta e vide le solite cose che si trovano nella camera da letto di una ragazzina di quasi undici anni, l'età di transizione tra l'infanzia e l'adolescenza: una mezza dozzina di orsacchiotti; grandi poster degli idoli dei teen-agers, personaggi totalmente sconosciuti a Stefan; una rastrelliera per cappelli con appesa una collezione di copricapi esotici, probabilmente comprati in qualche negozio di paccottiglia; un registratore a cassette; pattini a rotelle; un flauto in una custodia aperta. L'altra sorella di Emmy - in maglione bianco, gonna scozzese e calzettoni era in piedi nella stanza, pallida e semiparalizzata. Emmy era in piedi sul letto, in pigiama, e aveva un aspetto ancora più sano che a Natale. Teneva stretto un cuscino, e sorrideva dello stesso stupefacente spettacolo che ipnotizzava sua sorella e terrorizzava il resto della famiglia.
Quando padre Wycazik entrò nella stanza, Emmy rise divertita delle buffonate di due piccoli orsacchiotti che ballavano il valzer a mezz'aria. Ma quelli non erano i soli oggetti inanimati cui era stata magicamente infusa vita. I pattini a rotelle non stavano in un angolo, ma se ne andavano in giro per la stanza ognuno per conto proprio. I cappelli dondolavano sulla rastrelliera. Un fermalibri su uno scaffale saltava su e giù. Stefan andò ai piedi del letto, attento a evitare i pattini, e alzò gli occhi a guardare Emmy, ancora in piedi sul materasso. "Emmy?" La ragazzina abbassò lo sguardo. "L'amico di Ciccio! Ciao, padre. Hai visto? Non è fantastico?" "Emmy, sei tu?" le domandò lui, indicando le prodezze degli oggetti. "Io?" Emmy era genuinamente sorpresa. "No. Io no." Ma Stefan notò che i due orsetti danzanti esitarono quando lei distolse l'attenzione da essi. Non caddero a terra, ma barcollarono e girarono e sbatterono uno contro l'altro, goffi e privi di coordinazione nei movimenti. Vide anche segni che i precedenti fenomeni non erano stati tutti così innocui. Una lampada di ceramica era caduta per terra, andando in pezzi. Uno dei poster era strappato. La specchiera del cassettone era crepata. Notando la direzione del suo sguardo, Emmy disse: "All'inizio c'era da aver paura, ma poi si è calmato, e adesso è proprio divertente... non trovi?" Mentre lei parlava, il flauto si alzò dalla custodia aperta e salì fino a trovarsi all'altezza dei due orsacchiotti fluttuanti. La ragazzina colse il movimento con la coda dell'occhio, e quando si girò a guardare direttamente il flauto, una dolce musica cominciò a uscire dallo strumento, non note a casaccio, ma una melodia ben eseguita. Emmy si mise a saltare sul letto, eccitata. "È Annie's Song! La suonavo, una volta." "La stai suonando anche ora," disse Stefan. "Oh, no," replicò lei, continuando a fissare il flauto. "Ho dovuto rinunciare al flauto un anno fa, per via delle mie mani. Adesso vanno meglio, ma non ancora abbastanza per suonare." "Ma non stai usando le mani per suonarlo, Emmy." Lei finalmente comprese. Abbassò gli occhi a guardare Stefan. "Io?" Privato della sua attenzione, il flauto produsse solo qualche altra nota un po' stonata, poi tacque. Restò ancora per aria, ma vacillando incerto. Appena Emmy tornò a guardare lo strumento, quello si raddrizzò e riprese a suonare. "Io," mormorò meravigliata. Si girò verso la sorella, che era ancora pietrificata dalla paura e lo stupore. "Io," disse, poi guardò i genitori, fermi
sulla soglia. "Io!" Stefan capì cosa doveva provare, e l'emozione gli strinse la gola con tale forza che riusciva a fatica a deglutire. Solo un mese prima, Emmy era stata un'inferma, nemmeno in grado di vestirsi, senza niente davanti a sé eccetto un lento peggioramento, il dolore, e la morte. Ora, non solo era guarita, ma possedeva quel dono spettacolare. Padre Wycazik avrebbe voluto dirle che quel dono le era stato inconsapevolmente dato da Brendan Cronin, il suo Ciccio, ma poi avrebbe dovuto spiegare come l'aveva avuto lui, e questo non poteva farlo. Inoltre, non aveva neanche il tempo per dire loro quel che sapeva. Erano le nove e un quarto. A quell'ora avrebbe dovuto essere a Evanston. Non aveva tempo da perdere, perché cominciava a sospettare che in giornata avrebbe preso un aereo per il Nevada. Qualunque cosa stesse succedendo a Elko County doveva per forza essere ancora più incredibile di quello che stava succedendo lì, e lui era determinato ad assistervi. "Se ne occuperà lei stesso, padre?" chiese Mr Halbourg, la voce resa acuta dall'ansia. "La prego," disse la moglie. "Vogliamo che si faccia al più presto. Immediatamente. Non può cominciare subito?" Stefan li guardò perplesso. "Scusate, ma... cos'è che dovrei fare?" "Un esorcismo, naturalmente!" Lui li fissò incredulo. Ora capiva perché erano così agitati al suo arrivo e perché lo avevano accolto con tanto sollievo. Rise. "Non c'è bisogno di alcun esorcismo. Questa non è opera di Satana. No davvero. Santo cielo, no!" Scorse di sfuggita qualcosa muoversi sul pavimento, e abbassando lo sguardo vide un orsacchiotto alto due piedi passargli accanto camminando malfermo sulle rigide gambette imbottite. Poco prima, nell'appartamento dei Mendoza, Winton Tolk aveva detto che gli ci sarebbe voluto parecchio tempo per conoscere i suoi poteri e imparare a controllarli. O si sbagliava, o per Emmy la cosa era molto più semplice che per lui. Probabilmente era così. I bambini si adattano sempre più facilmente degli adulti. I genitori e l'altra sorella di Emmy si fecero lentamente avanti, affascinati ma cauti. Stefan comprendeva la loro diffidenza. Tutto sembrava andar bene, la forza era benigna. Ma la situazione era così inquietante che anche padre Wycazik, nonostante il suo innato ottimismo, sentì un brivido di paura.
Dopo aver telefonato ad Alexander Christophson da una cabina in una stazione di servizio di Elko, Ginger accompagnò Faye alla fattoria dei Jamison nella Lemoille Valley, a trenta chilometri da Elko. La sera del 6 luglio, Elroy e Nancy Jamison erano andati a trovare i Block, e sicuramente erano rimasti coinvolti nei misteriosi fatti di quella notte, come tutti gli altri al motel. Secondo i loro falsi ricordi, avevano potuto evacuare la zona pericolosa insieme ai Block ed erano tornati alla loro piccola fattoria, dove tutti e quattro avevano passato i giorni della crisi - proprio come Ernie e Faye avevano creduto fino a non molto tempo prima. Ginger e Faye stavano andando a far visita ai Jamison non per informarli di quello che era realmente accaduto ma per determinare, il più indirettamente possibile, se avessero problemi simili a quelli che affliggevano Ginger, Ernie, Dom e alcuni degli altri. In questo caso, sarebbero stati accolti nella società di mutuo soccorso al motel e avrebbero dato il loro apporto alla ricerca della verità. Ma se il lavaggio del cervello era stato efficace, li avrebbero lasciati all'oscuro di tutto. Se non avevano già problemi, informarli significava metterli inutilmente in pericolo. Inoltre, non avrebbe avuto senso sprecare un sacco di tempo per convincerli di aver subito un lavaggio del cervello. Il tempo era prezioso, e ogni ora che passava la famiglia del Tranquility rischiava di più. Jack riteneva - e ne aveva convinto Ginger - che i loro nemici si sarebbero mossi presto. Il viaggio da Elko sul furgone del motel fu veloce e spettacolare. La pittoresca Lemoille Valley - lunga venti chilometri, ampia sei - cominciava ai piedi delle Ruby Mountains. I bassipiani erano occupati da poderi dove si coltivavano grano, orzo e patate, ma i campi ora stavano riposando sotto la neve. Tra il fondo della valle e le montagne, le colline e gli altipiani offrivano ricchi pascoli, ed era lì che i Jamison avevano la loro fattoria. Una volta possedevano centinaia di acri su cui allevavano bestiame, ma alla fine avevano venduto buona parte della loro proprietà, che era considerevolmente aumentata di valore, e avevano rinunciato all'allevamento. Adesso avevano ormai sessant'anni, erano in pensione, possedevano circa cinquanta acri sui bassipiani, non impiegavano più braccianti, e tenevano solo tre cavalli e qualche gallina. Svoltando dalla strada della valle in una stradicciola che si inoltrava negli altipiani, Faye annunciò: "Pare che qualcuno ci stia seguendo." Lo sportello posteriore del furgone era senza finestrino, così Ginger
guardò nello specchietto laterale e vide un'anonima berlina a una certa distanza. "Come fai a saperlo?" "Quella macchina ci sta dietro da Elko." "Forse è solo una coincidenza," disse Ginger. Quando furono a metà del fianco della valle, imboccarono un lungo viottolo che tornava indietro per ottocento metri tra la fitta ombra degli alberi, verso la fattoria dei Jamison. Faye rallentò per vedere cosa avrebbe fatto l'altra macchina. Invece di proseguire su per la collina, la berlina si fermò proprio davanti all'entrata della proprietà dei Jamison. Nello specchietto laterale, Ginger vide che era una Plymouth ultimo modello di un brutto verde-marrone. "Chiaramente gente del governo," disse Faye. "Piuttosto sfacciati, no?" "Be', se come dice Jack ci hanno spiati intercettando le nostre telefonate, sanno già che li abbiamo individuati come i nostri nemici, così probabilmente hanno deciso che tanto vale giocare a carte scoperte." Faye tolse il piede dal freno e proseguì lungo il viottolo. Ginger guardò la Plymouth rimpicciolire nello specchietto. "O forse si stanno apprestando ad arrestarci. Forse hanno messo qualcuno alle costole a tutti noi, e appena ne riceveranno l'ordine ci cattureranno tutti simultaneamente." Sullo stretto viottolo ghiaioso, l'intreccio degli alberi tesseva una trama di oscurità profonda quasi quanto la notte. Mentre la Wagoneer risaliva la strada a due corsie tra i prati coperti di neve verso le massicce porte a prova di bomba, il colonnello Falkirk, seduto al posto del passeggero, rifletteva sulla catastrofe che sarebbe seguita alla rivelazione del segreto di Thunder Hill. Da un punto di vista politico, il caso Watergate sarebbe parso un'inezia al confronto. Un numero senza precedenti di istituzioni governative era coinvolto nell'insabbiamento, organizzazioni rivali che spesso operavano contrastandosi una con l'altra: l'FBI, la CIA, la National Security Agency, l'esercito degli Stati Uniti, l'aviazione e altre. Che questi gruppi potessero lavorare insieme da oltre diciotto mesi quasi senza intoppi attestava il grado di potenziale pericolo della situazione. Ma se la copertura fosse saltata, lo scandalo sarebbe stato tanto esteso da scuotere gravemente la fiducia degli americani nei loro leader. Naturalmente, ben pochi in ciascuna di queste organizzazioni erano a conoscenza del segreto, ma erano pur sem-
pre più di sei nell'FBI, qualcuno meno nella CIA; la maggior parte dei loro uomini coinvolti nella copertura non sapevano cosa stessero coprendo, ed era per questo che non c'erano state fughe di notizie. Ma il numero uno di ogni organizzazione - il direttore dell'FBI, quello della CIA, il capo di stato maggiore dell'esercito - era al corrente di tutto. Per non parlare del segretario di stato. E il presidente, i suoi più vicini collaboratori e il vicepresidente. Molti uomini eminenti avrebbero potuto perdere la poltrona se questo affare non fosse rimasto sotto chiave. E lo sfacelo politico sarebbe stato solo una piccola parte del disegno. Il CISG - un organismo che riuniva fisici, biologi, antropologi, economisti, teologi, sociologi e altri esperti in diversi campi - aveva previsto questa crisi, anni prima che si verificasse qui in Nevada, e aveva steso un rapporto top-secret di oltre milleduecento pagine sulle conclusioni a cui era arrivato, un documento che offriva un'inquietante lettura. Leland conosceva a memoria quel rapporto, perché lui era il consulente militare del CISG, e aveva aiutato a redigere molte parti del testo finale. All'interno del CISG, l'opinione unanime era che il mondo non sarebbe mai più stato lo stesso se un simile evento fosse accaduto. Ogni forma di società, ogni cultura sarebbe cambiata radicalmente, per sempre. Le morti previste nei primi due anni si calcolavano nell'ordine dei milioni. Il tenente Horner, al volante della Wagoneer, frenò a pochi metri dalla gigantesca porta incassata nel ripido tratto superiore del prato, ma invece di aspettare che si aprisse, svoltò a destra, in un piccolo spiazzo dove erano parcheggiati tre minibus, quattro jeep, una Land Rover e vari altri veicoli. I due enormi battenti dell'entrata principale, ognuno alto tre metri e largo due, erano così pesanti che si potevano aprire solo molto lentamente, producendo un rombo che si sentiva a un chilometro di distanza. Quando un camion - carico di munizioni, armi, o provviste - doveva entrare nel deposito, ci volevano cinque minuti perché si schiudessero. Aprire quella mastodontica barriera ogni volta che un uomo da solo aveva bisogno di entrare o uscire sarebbe stato impensabile, così una seconda porta a prova di bomba - una versione ridotta di quella principale adibita al passaggio pedonale - era inserita nel fianco della collina a destra dell'ingresso carrabile. Non c'era migliore caveau in cui custodire il segreto del 6 luglio. Thunder Hill era una fortezza impenetrabile. Leland e Horner andarono in fretta all'entrata pedonale. La porta blindata a misura d'uomo aveva una serratura elettronica che scattava solo battendo quattro numeri convenuti su una tastiera. Il còdice cambiava ogni
settimana, e chi era autorizzato a conoscerlo doveva impararlo a memoria. Leland compose il codice, e la pesante porta si aprì con un improvviso sbuffo pneumatico. Entrarono in un tunnel di cemento intensamente illuminato. Curvava a sinistra. In fondo c'era un'altra porta identica alla prima, che poteva esser aperta solo una volta chiusa quella esterna. Leland toccò un interruttore sensibile al calore, e la porta esterna si chiuse con un sibilo d'aria compressa dietro lui e Horner. Immediatamente, due telecamere montate sul soffitto in fondo alla galleria si attivarono e ripresero l'avanzata dei due uomini verso la porta interna. Nessun occhio umano stava guardando il colonnello e il tenente su un video, perché il sistema era controllato interamente da VIGILANT, il computer preposto alla sicurezza, per precauzione contro la possibilità che un traditore tra le guardie di Thunder Hill desse accesso a forze ostili. VIGILANT non era collegato al computer centrale della base, né al mondo esterno, e pertanto era invulnerabile a sabotatori che cercassero di prenderne il controllo per mezzo di un modem o altri congegni elettronici. L'uomo di guardia al cancello aveva segnalato a VIGILANT l'arrivo del colonnello Leland Falkirk e il tenente Thomas Horner. Ora, mentre si avvicinavano alla porta interna sotto l'obiettivo delle telecamere, il computer confrontò il loro aspetto con le loro immagini olografiche che aveva in memoria, verificando rapidamente quarantadue punti della loro fisionomia. Era impossibile ingannare VIGILANT, anche per qualcuno che somigliasse molto a un visitatore autorizzato. Se Leland oppure Horner fosse stato un impostore o un visitatore non autorizzato, VIGILANT avrebbe suonato un allarme e simultaneamente riempito il tunnel d'ingresso con un gas sedativo. La serratura della porta interna non aveva alcuna tastiera; nessun codice l'avrebbe aperta. Un riquadro di vetro era inserito nella parete accanto alla porta. Leland fece per premervi contro il palmo della mano destra, esitò, poi usò la sinistra. Il vetro si illuminò e si sentì un lieve ronzio. VIGILANT stava esaminando le impronte digitali e del palmo, confrontandole con quelle immagazzinate nella sua memoria. "Quasi difficile quanto entrare in paradiso," commentò Horner. "Di più," disse Leland. La luce dietro il vetro opalescente si spense e Leland tolse la mano. La porta interna si aprì.
I due entrarono in un enorme tunnel naturale che era stato migliorato da mani umane. L'alta volta rocciosa si perdeva nell'oscurità, perché le luci pendevano da un'impalcatura di metallo nero, creando l'illusione di un soffitto forse due o tre metri al disotto di quello vero. Le pareti in certi punti conservavano i loro contorni naturali, ma le parti più strette del passaggio erano state allargate con la dinamite perché i camion in arrivo potessero percorrere il tunnel fino alle banchine di scarico, di fianco agli immensi ascensori per il carico che scendevano nelle viscere del deposito. Un uomo di guardia era seduto a un tavolo oltre la porta da cui Leland e Horner erano entrati. Considerando la portata dei sofisticati sistemi di difesa di Thunder Hill e la meticolosità con cui VIGILANT esaminava tutti i visitatori, anche una sola sentinella sembrava superflua a Leland. Evidentemente, la sentinella la pensava allo stesso modo, perché era in perfetto relax: aveva la pistola nella fondina, e leggeva un vecchio romanzo di Jack Finney mangiando una barretta di cioccolato. "Colonnello Falkirk, tenente Horner," li salutò, alzando con riluttanza gli occhi dal libro, "siete autorizzati a vedere il dottor Bennell. Sapete dove trovarlo, naturalmente." "Naturalmente," disse Falkirk. Due metri sulla sinistra, l'acciaio brunito della gigantesca porta blindata brillava nella luce fluorescente, ricordando la levigata superficie di un grande ghiacciaio. Leland e Horner girarono a destra e si addentrarono nella montagna, andando agli ascensori. Il deposito di Thunder Hill era equipaggiato con ascensori idraulici di tre dimensioni, i più grandi dei quali potevano competere con gli enormi elevatori usati sulle portaerei per trasferire gli aeroplani dalla stiva al ponte di volo. E in effetti, tra le altre cose, il deposito conteneva anche velivoli principalmente elicotteri: più di sessanta, tra quelli da guerra e quelli da trasporto. E dodici caccia a decollo e atterraggio verticale, del tipo costruito in Inghilterra da Hawker Siddeley e conosciuto come Harrier, ma ribattezzato AV-8A nell'aeronautica militare degli Stati Uniti. In caso di emergenza, sia gli elicotteri sia gli Harrier potevano essere portati al piano superiore e di lì all'aperto, e fatti partire immediatamente. Comunque, l'attuale crisi non richiedeva lo spiegamento delle forze aeree di Thunder Hill, per cui Leland e Horner passarono oltre i due immensi elevatori. Superarono anche i due ascensori da carico più piccoli ma sempre enormi, i passi echeggianti tra le pareti di pietra, e presero uno dei tre di dimensioni minori - grandi press'a poco come ascensori d'albergo - per
scendere nel cuore del deposito. Forniture mediche, vivande, armi e munizioni erano immagazzinate al terzo piano, l'ultimo del complesso, in una rete di camere a tenuta stagna e munite di valvole di sfiato e porte per contenere eventuali esplosioni. Al secondo piano, tutti i veicoli e i velivoli erano tenuti in altre enormi caverne: lì viveva e lavorava il personale. Leland e Horner si fermarono al secondo piano e uscirono dall'ascensore in una camera circolare del diametro di settecento metri, con le pareti di roccia e ben illuminata. Era come una piazza al centro del deposito - e infatti il personale la chiamava La Piazza - su cui si aprivano altre quattro caverne, dalle quali si passava in altre ancora. Le più grandi di quelle grotte contenevano - tra le altre cose - i velivoli, le jeep e i mezzi blindati per il trasporto del personale. Tre delle quattro caverne a cui si accedeva dalla Piazza non avevano porte, perché al secondo piano non c'era serio pericolo di incendi o esplosioni. Ma la quarta era chiusa; infatti, conteneva la cosa più esplosiva custodita nel deposito - il segreto del 6 luglio. Ora, Leland si fermò appena fuori dell'ascensore a osservare quella porta di legno. L'avevano costruita per far fronte a una situazione d'emergenza; non c'era davvero tempo per farne fabbricare una d'acciaio. Guardandola, al colonnello venne in mente King Kong, e l'enorme porta di legno nel muro che proteggeva gli spaventati nativi dalla bestia nell'altra metà della loro isola. Considerando quello che c'era nella grotta, quell'immagine da film dell'orrore non ispirava sicurezza. Leland rabbrividì. "Le fa ancora accapponare la pelle, eh?" commentò Horner. "Perché, lei invece ci ha fatto l'abitudine?" "Diavolo, no. No davvero." Nella gigantesca porta di legno se ne apriva un'altra molto più piccola, a grandezza d'uomo, attraverso la quale i ricercatori entravano e uscivano dalla grotta, e una guardia armata consentiva l'accesso solo a chi era munito dell'apposito lasciapassare. Le attività in quella camera proibita non avevano niente a che fare con le altre, pur importanti, funzioni del deposito, e il novanta per cento del personale non aveva il permesso di entrarvi. In effetti, il novanta per cento non aveva idea di cosa ci fosse in quella caverna. Lungo la circonferenza della Piazza, tra le aperture delle altre caverne, erano state erette strutture ancorate alle pareti di roccia. Risalivano ai primi anni sessanta, quando il deposito era stato costruito, e inizialmente, erano servite come uffici per ingegneri, sovrintendenti, progettisti dell'esercito.
Nel corso degli anni, un'intera città sotterranea si era sviluppata nelle grotte di Thunder Hill - dormitori, mensa, sale di ricreazione, laboratori, stanze dei computer, negozi, autofficine e altro - dove ora risiedeva personale militare e governativo che prestava servizio di uno o due anni al deposito. Le costruzioni erano ben riscaldate e illuminate, con linee telefoniche interne ed esterne, cucine, bagni, e tutta la miriade di comodità di vere abitazioni. Erano fatte di pannelli metallici smaltati di blu, bianco o grigio, con piccole finestre e porte strette. Benché non avessero ruote, ricordavano un po' dei caravan o roulotte disposti in circolo, come un accampamento di moderni zingari che fossero sfuggiti alle nevi invernali rifugiandosi laggiù, cento metri sotto il suolo. Voltando le spalle alla grotta proibita, Leland attraversò La Piazza, dirigendosi, seguito da Horner, a una struttura di metallo bianco - gli uffici del dottor Miles Bennell. Due estati prima, Miles Bennell (per il quale Leland Falkirk nutriva una spiccata avversione) si era trasferito a Thunder Hill per dirigere tutte le ricerche scientifiche sugli eventi di quella fatidica notte di luglio. Da allora aveva lasciato il deposito solo in tre occasioni, e mai per più di due settimane. Era ossessionato dal suo incarico. O qualcosa di peggio che ossessionato. Una dozzina di ufficiali, soldati semplici e civili era in vista nella Piazza, alcuni solo in transito, altri fermi a conversare. Leland li guardò passando, incapace di capire che tipo di persona potesse offrirsi volontariamente di lavorare sottoterra per settimane e mesi di fila. Era vero che ricevevano una gratifica pari al trenta per cento della paga, ma dal punto di vista di Leland quello era un compenso inadeguato. Il deposito era meno opprimente di quella specie di conigliera della base di Shenkfield, ma non molto. Leland supponeva di essere vagamente claustrofobico. Stare sottoterra lo faceva sentire come sepolto vivo. Essendo per sua stessa ammissione un masochista, il disagio avrebbe dovuto riuscirgli gradito, ma questo era un genere di sofferenza che lui non apprezzava. Il dottor Miles Bennell aveva una brutta cera. Come quasi tutti a Thunder Hill, era grigiastro in faccia per la prolungata mancanza di esposizione alla luce del sole e i ricci capelli neri e la barba accentuavano il suo pallore. Nella luce fluorescente del suo ufficio, sembrava quasi un fantasma. Rivolse un saluto a Leland e Horner, e non tese la mano a nessuno dei due. Al colonnello andava benissimo così. Non era amico di Bennell, e una
stretta di mano sarebbe stata pura ipocrisia. Inoltre, Leland aveva un po' paura che lo scienziato fosse stato compromesso, che non fosse più quel che sembrava... che non fosse più del tutto umano. E nel caso questa pazzesca, paranoide possibilità fosse stata vera, preferiva evitare qualsiasi contatto fisico con lui, per quanto fugace. "Dottor Bennell," disse freddamente il colonnello, usando il duro tono di voce e il gelido atteggiamento che sempre incuteva soggezione, "o lei è stato criminalmente inetto nell'occuparsi di questa faccenda, o è lei stesso il traditore che stiamo cercando. Ora mi stia bene a sentire: questa volta troveremo il bastardo che ha spedito quelle polaroid - basta lie detectors guasti e interrogatori raffazzonati - e scopriremo se è stato lui ad attirare Jack Twist al motel, e lo puniremo così duramente che desidererà di essere nato mosca e passare la vita in una stalla a mangiare stereo di cavallo." Miles Bennell sorrise, assolutamente imperturbato. "Ottima performance, colonnello, ma non ce n'era alcun bisogno. Io sono ansioso quanto lei di trovare la falla e tamponarla." Leland aveva voglia di prenderlo a pugni. Questo era uno dei motivi per cui detestava Miles Bennell: quel figlio di puttana non si lasciava intimidire. Calvin Sharkle abitava in O'Bannon Lane, in un grazioso quartiere residenziale piccoloborghese di Evanston. Padre Wycazik dovette fermarsi due volte a chiedere spiegazioni per trovare la via, e quando finalmente arrivò all'angolo tra O'Bannon Lane e Scott Avenue, a soli due isolati dall'indirizzo di Sharkle, si trovò la strada bloccata da due auto della polizia e un'ambulanza. C'era una gran confusione, e operatori della TV correvano di qua e di là con le loro macchine da presa. Capì immediatamente che non era una coincidenza: stava succedendo qualcosa a casa di Sharkle. Nonostante la rigida temperatura e il vento che soffiava a quasi cinquanta chilometri all'ora, una folla di un centinaio di persone si era raccolta davanti allo sbarramento della polizia - sui marciapiedi e sui prati delle case d'angolo. Il traffico in Scott Avenue era intralciato dai curiosi, e Stefan dovette guidare per due isolati a un'andatura esasperatamente lenta prima di trovare un posteggio. T