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Italian Pages 603 Year 1981
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LUDOVICO GEYMONAT
Storia del pensiero ftlosoftco e scientifico VOLUME OTTAVO
Il Novecento (z) Con specifici contributi di U go Giacomini, Pina Madami, Corrado Mangione, Franca Meotti, Felice Mondella, Mario Quaranta, Renato Tisato
GARZANTI
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I edizione: aprile I 97 2. Nuova edizione: settembre I976 Ristampa 1981
© Garzanti
Editore s.p.a., 1972., I976, I98I
Ogni esemplare di quest'opera che non rechi il contrassegno della Società Italiana degli Autori ed Editori deve ritenersi contraffatto Printed in Italy
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SEZIONE DECIMA
Problemi e dibattiti filosofici e scientifici
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CAPI'I'OLO PRIMO
Nota introduttiva
Quanto detto all'inizio del volume settimo per ciò che riguarda l'impegno teoretico che ne ha guidato l'intera stesura, può venire letteralmente ripetuto a proposito del presente volume. Ciò che li distingue è che, mentre il settimo era interamente dedicato alla trattazione delle correnti filosofiche del xx secolo, questo concede invece largo spazio alle scienze come già avevano fatto il quinto e il sesto volume. Esso non prende in esame soltanto le cosiddette scienze esatte - logica, matematica, fisica, cosmologia, biologia - ma pure le nuove scienze concernenti l'uomo: psicologia e sociologia. I capitoli (ottavo e nono) dedicati a queste ultime costituiscono la diretta prosecuzione di quelli rivolti al medesimo argomento, contenuti nel volume sesto. Sia i due capitoli testé citati, sia soprattutto quelli dedicati alla matematica, alla fisica e alla cosmologia non pretendono di fornirci un quadro storico, sia pure schematico, dello sviluppo di tali discipline nel nostro secolo, ma solo di evidenziarne alcuni problemi o indirizzi particolarmente caratteristici. Per esempio nel capitolo sesto è dato uno speciale rilievo alla svolta impressa alla matematica dal largo impiego del metodo assiomatico, nonché al nuovo significato che essa viene ad assumere in seguito a tale impiego; per quanto poi riguarda la fisica, va precisato che i soli problemi presi in considerazione con una certa ampiezza sono quelli che hanno suscitato maggiore interesse presso i filosofi. Lo scopo che ci si è proposti nella loro analisi è stato quello di illustrarne con esattezza il significato e la portata, sia per porne in luce l'importanza filosofica generale, sia per togliere ogni fondamento a talune false interpretazioni che ancora oggi sogliano darne gli incompetenti. Un posto particolare occupa il capitolo quarto, il cui titolo stesso (Biologia e filosofia) dimostra che la trattazione è soprattutto rivolta a evidenziare l'aspetto filosofico dei complessi dibattiti intorno al problema della vita: dibattiti che hanno avuto il merito di porre in luce il significato profondo della contrapposizione tra meccanicisti e vitalisti, preparando il terreno a quella che sarà la grande svolta della biologia in anni più recenti. Le notevolissime dimensioni del capitolo quinto, sulla logica nel vente-
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Nota introduttiva
simo secolo, costituiscono una evidente conferma del peso costantemente attribuito a tale disciplina in tutta la presente opera. Qui la trattazione ha di necessità un andamento storico, in quanto sarebbe impossibile spiegare l'autentico significato di una teoria senza fare riferimento ai risultati ottenuti nelle ricerche che l'hanno preceduta. Il quadro complessivo che il capitolo ci fornisce, decennio per decennio, dei progressi conseguiti dagli studi logici è pressoché esauriente sia dal punto di vista filosofico sia da quello scientifico; né mancano le punte polemiche, in particolare contro la « logica crociana » che è stata una delle cause principali della decadenza delle ricerche logiche in Italia. Queste punte polemiche vengono in certo senso a completare l'esposizione della filosofia italiana contemporanea, contenuta nel capitolo terzo; capitolo che, insieme con il secondo dedicato ai problemi fondamentali della pedagogia odierna, risulta senza dubbio uno dei più impegnativi del volume .. Se è vero che il predetto capitolò terzo ha, esso pure, un'impostazione storica, vero è però che intende suggerire un'interpretazione in certo senso nuova dello sviluppo della filosofia presa in considerazione, sviluppo che viene direttamente collegato alle vicende generali della cultura italiana nel periodo in esame nonché alle lotte sociali e politiche che agitarono il nostro paese. Uno speciale rilievo merita quanto viene detto intorno ai caratteri e ai limiti del marxismo post-gramsciano. L'ultimo paragrafo, diretto a illustrare il significato della rinascita, in Italia, del materialismo dialettico, è particolarmente impegnativo per gli autori del capitolo; mira infatti a dare un'idea dell'impostazione filosofica che ha guidato la stesura generale dell'opera, nel suo complesso se non in ciascuna delle sue parti. Rappresenta perciò, in certo senso, il traguardo cui essa voleva giungere; spiega cioè il significato che intende avere entro la cultura italiana contemporanea: il contributo che si è proposto di dare al suo radicale rinnovamento.
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CAPITOLO SECONDO
Problemi fondamentali della pedagogia contemporanea DI RENATO TISATO
I
· SOCIETÀ DEMOCRATICA IN CAMMINO E «RIVOLUZIONE COPERNICANA»
Dovendo prendere in esame gli sviluppi della pedagogia verificatisi nel periodo compreso tra la fine della prima guerra mondiale e i giorni nostri, il primo punto su cui ci sembra opportuno concentrare l'attenzione riguarda la diffusione e il passaggio al piano operativo della crescente consapevolezza che il carattere dinamico della nostra civiltà, lo sviluppo della scienza e della tecnica e dell'industria e l'affermarsi della democrazia, non possono non provocare una decisiva rivoluzione anche sul piano dell'educazione. Abbiamo parlato di « diffusione» e di « passaggio al piano operativo » giacché è chiaro che nel pensiero degli studiosi più accorti ed aggiornati tale consapevolezza era presente già da parecchi decenni. Dewey, come sappiamo, osservava che il concepire l'educazione come una specie di corsa del bambino a raggiungere le attitudini e le risorse del gruppo adulto si può applicare, in linea di massima, nelle società statiche, le quali prendono come misura di valore il mantenimento dei costumi stabiliti, ma non nelle comunità progressive, le quali tentano di modellare le esperienze dei giovani in modo che invece di riprodurre le abitudini correnti promuovano abitudini migliori. Arnauld Clausse, contrapponendo il « mondo tradizionale » al « mondo moderno », vede quali aspetti essenziali del primo la « permanenza » e la « dicotomia» (separazione fra l'élite che pensa e dirige e i lavoratori che subiscono ed eseguono) ; come caratteristiche salienti del secondo il « dinamismo » e la « grande mobilità sociale» per cui ogni vecchia dicotomia è scomparsa e l'uomo vale non tanto per ciò che egli è alla partenza quanto per ciò che è capace di realizzare al traguardo. Per scuola vecchia intendiamo, dunque, la scuola di una società autoritaria e statica in quanto autoconsiderantesi depositaria di valori assoluti e quindi definitivi, affidati a ben determinate opere « canoniche », cristallizzati in certi costumi e tecniche e nei precetti di un certo stile, il cui possesso è prerogativa di una aristocrazia, sacerdotale o civile, e il cui esser posti al di sopra dell'accidentale e del transeunte, sul piano privilegiato della rivelazione o della metafisica,
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Problemi fondamentali della pedagogia contemporanea
è garanzia di conservazione di un particolare stadio di sviluppo della società e di una particolare situazione della civiltà. Se ciò che deve essere accolto dall'alunno è la scienza nella sua oggettività, col suo ordine e le sue strutture, il problema del metodo si risolve in quello di scomporre la scienza stessa nei suoi elementi costitutivi, così che il discente possa impadronirsi dell'intero sistema partendo dagli elementi e ripercorrendo ordinatamente la via segnata dalla logica. Da questo punto di vista la svalutazione del mondo del fanciullo, il disinteresse per la psicologia dell'età evolutiva e per le differenze individuali si rivelano altrettanti aspetti di quella concezione finalistica del mondo la quale, a sua volta, costituisce la trasposizione in chiave metafisica di una società aristocratica e statica. Al contrario, una delle note che caratterizzano la concezione moderna del mondo è, da un lato, il rifiuto dell'interpretazione teleologica del mondo stesso, dall'altro la consapevolezza che, se pure non tutti i cambiamenti sono buoni, il progresso può aver luogo soltanto attraverso variazioni, differenze. «Il polimorfismo psicologico,» scrive a questo proposito John Scott Haldane, «è stato una delle cause principali dell'affermazione della specie uomo e un pieno riconoscimento di questo polimorfismo e delle sue giustificazioni è condizione essenziale per una rinnovata affermazione non soltanto nel lontano futuro ma anche durante la nostra generazione... La libertà è il riconoscimento pratico del polimorfismo umano.» Sul piano pedagogico la crisi del modello definitivo porta all'affermazione della tesi secondo cui ogni età della vita ha una sua particolare forma di perfezione (Rousseau) e non è fondata la pretesa di attribuire un grado di perfezione a un momento piuttosto che a un altro (Vico). Un 'altra car:!tteristica della nostra epoca è la velocità crescente delle trasformazioni. Come osserva acutamente William Heard Kilpatrick, laddove i mezzi che Napoleone possedeva per mandare notizie da Roma a Parigi erano gli stessi che già aveva posseduto Giulio Cesare per comunicare da Parigi con Roma, da Napoleone ai nostri giorni sono stati invece costruiti per il trasporto delle cose e delle persone il treno, l'automobile, le navi a motore, l'aeroplano e, per la trasmissione di notizie, il telegrafo, la radio, la televisione, il telefono. La psicologia dell'età evolutiva avanza addirittura l'ipotesi che le stesse intuizioni di tempo e d1 spazio dei fanciulli nati nell'epoca del pieno sviluppo dei mezzi di comunicazione ultraveloci e capaci di metterei in contatto pressoché immediato con eventi verificantisi in luoghi remotissimi dello spazio terrestre ed extraterrestre, siano profondamente modificate rispetto a quelle delle generazioni precedenti. Sul piano pedagogico la consapevolezza della crescente velocità della trasformazione porta a concludere che, nell'impossibilità di prevedere con precisione come sarà la civiltà di qui a pochissimi decenni, la sola formazione che ragionevolmente si può dare al fanciullo è quella che deriva dal pieno possesso di tutte le sue
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Prohlemi fondamentali della pedagogia contemporanea
facoltà, dalla maturità di giudizio, dal sicuro possesso del metodo dell'indagine, così ch'egli possa, quali che siano le condizioni in cui gli capiterà di vivere, agire economicamente ed efficientemente. Possediamo, ora, gli elementi necessari per poter abbozzare un primo schema della problematica pedagogica quale si è venuta delineando nel corso dell'epoca contemporanea. 1) «Rivoluzione copernicana.» L'immagine si trova in Scuola e società di Dewey: «Nella nostra educazione si sta verificando lo spostamento del centro di gravità. È un cambiamento, una rivoluzione, non diversa da quella provocata da Copernico ..... Nel nostro caso il fanciullo diventa il sole intorno al quale girano gli strumenti dell'educazione. »Ma al di là del fanciullo in quanto tale c'è l'individuo, coi suoi caratteri irripetibili. Si prospetta, così, una rivoluzione più radicale, per la quale il valore si identifica colla espansione spontanea dei caratteri individuali. z) Educazione progressiva. Non si tratta solo di educare all'adattamento, al mutamento (al limite questo sarebbe il più integrale dei conformismi), ma di educare alla riflessione critica sul presente, inteso come punto d'arrivo del passato, ed allo spirito di intrapresa per la realizzazione di un futuro migliore. In una società in mutamento, afferma Margaret Mead, è regolare che i figli si ripromettano di comportarsi in modo diverso dai genitori e di trattare a loro volta i figli diversamente da come essi stessi sono stati trattati. 3) Superamento dell'intellettualismo e del teoreticismo e rivalutazione dell'uomo integrale, anima e corpo, intelletto e impulso, capace di contemplare la reald. ma anche di trasformarla. Per quanto riguarda il primo punto, il periodo preso in esame vede lo sviluppo rigoglioso di alcune discipline che, senza alcuna intenzione valutativa, riteniamo di poter indicare come « scienze ausiliarie»: la psicologia dell'età evolutiva e in particolare la psicoanalisi, le ricerche sullo sviluppo del bambino osservato nei nidi e nei giardini d'infanzia, l'antropologia culturale. Per quanto riguarda il secondo punto, il motivo che viene assumendo via via importanza dominante è quello che riguarda la centralità del metodo. È un motivo, per verità, già presente nella concezione pedagogica dei positivisti, che ora, però, acquista un rilievo assai maggiore. Fra l'altro il concetto di metodo, in pedagogia, è venuto assumendo in questi ultimi decenni, un significato più ampio e ricco che nel passato. Il metodo «in senso stretto » (ci rifacciamo alla terminologia proposta da Kilpatrick) si riferisce all'insegnamento-apprendimento di discipline particolari; il metodo «in senso più largo», invece, « concerne l'educazione come un tutto, l'educazione considerata in rapporto alla vita nel suo complesso », tien conto di tutti i pensieri e le idee che sorgono congiuntamente col lavoro specifico che in quel momento si sta compiendo e di tutti gli atteggiamenti concomitanti, verso il lavoro, i comII
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pagni, la scuola, se stessi, la vita, che sono evocati, quasi tonalità a volta a volta piacevole o spiacevole, dal modo, dalla situazione, dal clima in cui il lavoro stesso si svolge. Il pedagogista tedesco Eduard Spranger parlerà, a questo proposito, di «effetti collaterali involontari» nell'educazione. Per quanto si riferisce, infine, al terzo punto, la scuola nuova si atteggia come scuola del lavoro, non tanto in quanto aggiunga il lavoro alle discipline tradizionali, sibbene in quanto riconduce alla fondamentale matrice pratica le manifestazioni culturali anche apparentemente più astratte e attribuisce la dovuta importanza alle motivazioni, alla sfera emozionale, alla socializzazione. A questo punto è indispensabile richiamare l'attenzione del lettore sopra un fatto di fondamentale importanza anche nel nostro campo. In questi ultimi decenni si è avuta una vera e propria esplosione nel campo delle scienze umane, con una vertiginosa accumulazione di dati, di esperimenti, di ipotesi, di teorie e con un corrispondente frantumarsi di poche scienze fondamentali in un grande numero, sempre crescente, di ricerche specializzate. Processo di apprendimento, maturazione dell'affettività e della socialità, condizionamento sociale dell'intelligenza, della conoscenza, del rendimento scolastico, origine e dinamica dei gruppi, per non scegliere che alcuni temi, fra i più generali ed i più importanti, sono diventati ormai specifici settori riservati ad altrettante scienze particolari. Ne consegue che, all'inizio degli anni 1970, «parlare di pedagogia come un campo dai contorni univoci, come una struttura compatta di problemi, è altrettanto arbitrario quanto parlare... di un insegnamento genericamente denominato medicina » (Antonio Santoni Rugiu). Di qui la nostra rinuncia a fornire una rassegna il più possibile completa delle scuole, delle correnti, degli uomini che durante gli anni presi in esame hanno fornito contributi di qualche rilievo a questa o a quella delle numerosissime discipline alle quali, per la comune convergenza verso il fatto dell'educazione e per comodità stenografica, diamo ancora il nome di pedagogia. Il presente capitolo, pertanto, cercherà, invece, di mettere in luce alcuni gruppi di problemi che, a parer nostro, sono venuti assumendo importanza essenziale. Il rispetto dell'impostazione storica è garantito sia dal continuo riferimento della problematica pedagogica alle strutture portanti di carattere economico, sociale e politico, sia dal fatto che i problemi sono stati considerati in rapporto a quegli studiosi le proposte dei quali, sempre a parer nostro, si sono affermate come i più significativi paradigmi nei vari campi. Il criterio in base al quale i problemi sono stati scelti è implicito nelle pagine che precedono. Non sarà però inutile la sua esplicitazione. Se la rivoluzione copernicana pone al centro dell'interesse pedagogico l'educando, si tratta di vedere che cosa, in ordine a questo personaggio, ha detto di importante la scienza durante gli ultimi decenni. Dunque: prima di tutto il 12
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fanciullo, l'adolescente in quanto tale, considerato come soggetto di apprendimento e di attività etico-sociale. Ma, come sappiamo, il fanciullo, l'adolescente sono astrazioni, meno spinte dell'« uomo » ma pur sempre tali. Reale è l'individuo, colla sua irripetibilità, non monade in sé conchiusa ma momento di una tensione dialettica, di un rapporto interattivo con gli altri uomini, con la società, la natura, la cultura, il passato, il futuro. Ed ecco il problema della individualizzazione. D'altra parte, la scuola attiva o progressiva è fiorita nel campo capitalisticoborghese, in una ben precisa situazione storica. Costituisce, essa, ciononostante, una meta definitiva e universalmente valida oppure è travagliata da intime e insuperabili contraddizioni? E qual è l'atteggiamento che nei suoi riguardi è stato assunto e si assume nell'altra jàccia della luna, cioè nel campo socialista? Si tratta (mi riferisco specialmente all'ultimo punto) di argomenti che cercheremo di chiarire nel capitolo VI del volume nono e che in questo abbiamo soprattutto voluto mettere a fuoco in rapporto alla loro matrice storica. II · L 'EDUCAZIONE IN RAPPORTO ALL'ATTIVITÀ COGNITIVA E ALL'APPRENDIMENTO
La didattica tradizionale era fondata su di una psicologia atomistica e associazionistica, secondo la quale l'esperienza partirebbe dalle cosiddette idee semplici per costruire, attraverso la sintesi, idee via via più complesse. A livello della conoscenza sensibile questo vuol dire muovere dalle sensazioni fornite dai vari organi per giungere alle percezioni, ma si tratta di un processo che si ritrova puntualmente a tutti i livelli della conoscenza, non solo, ma in tutti i campi della realtà, concepita, appunto, come un insieme di aggregati di elementi minutissimi, atomi o cellule. Sul piano della didattica ne deriva che le formule « dal facile al difficile » e «dal semplice al complesso» vengono risolte nell'altra« dalla parte al tutto». Così nella lettura si parte dalle singole lettere per passare alle sillabe, alle parole, alle frasi; nella scrittura ci si spinge addirittura a quelle aste e a quelle curve che costituiscono gli elementi della singola lettera. Ma è facile rendersi conto che la stessa osservazione può essere fatta anche a proposito delle elaborazioni più complesse del pensiero umano. Alla concezione atomistico-associazionistica si viene però via via sostituendo, nel corso del secolo attuale, una molteplicità di teorie concordi nell'affermare che la conoscenza, nel suo stadio iniziale, coglie non già elementi separati da associare per formare un tutto, ma, appunto, un tutto, senza differenziazione e correlazione dei vari elementi strutturali. Si tratta di una affermazione a proposito della quale si realizza la convergenza di studiosi pur moventi da campi assai lontani e mossi da interessi differenti. Di questa corrente si parla a lungo nel capi-
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Problemi fondamentali della pedagogia contemporanea
tolo 11 del vol urne sesto. Quello che interessa, qui, è vedere come essa si inserisca nella problematica pedagogica. Ora, è indiscutibile che, perlomeno fin verso la fine degli anni cinquanta, un'incontestabile superiorità, nel campo che ci interessa, ha avuto il globalismo del belga Ovide Decroly (187I-1932). È una superiorità dovuta soprattutto al fatto che, mentre gli altri studiosi erano per lo più psicologi privi di una esperienza diretta della pratica educativa, Decroly fu un autentico psico-pedagogista. Secondo Decroly l'attività globalizzatrice fa da ponte fra l'attività istintiva e quella superiore dell'intelligenza: si collega con la prima per gli stimoli che la determinano, con la seconda in quanto, come questa, costituisce un mezzo di adattamento a circostanze nuove. Si tratta di una impostazione del problema della conoscenza di tipo evidentemente pragmatistico. « È facile capire, » osserva il nostro autore, « come sia importante che noi, per una economia di energia nervosa, possiamo orientarci nella infinita molteplicità delle forme e dei movimenti, cogliendone soltanto gli aspetti fondamentali, quegli aspetti, cioè, che ne rappresentano il segno caratteristico e differenziale. »1 Mentre nel gestaltismo classico prevale la tendenza a concepire la forma, a livello psichico, come qualcosa di solidale, pur nella peculiarità dei suoi caratteri, a certe configurazioni del mondo fisico ed alle strutture fisico-chimich~ del sistema nervoso, e pertanto come qualcosa che obbedisce a leggi obiettive e sperimentalmente verificabili, Decroly sembra annettere particolare importanza ai bisogni, agli interessi, allo stato emotivo del soggetto, nonché alle sue esperienze precedenti. Nulla in comune, dunque, con la schematizzazione concettualizzatrice. Non a caso, del resto, in una prolusione del 1922 Decroly dice che il potere in questione, «meglio ancora» che globalizzante dovrebbe essere detto > L'articolo in parola individuava poi «i due pericoli a cui la filosofia si trova oggi esposta. La tentazione dell'evasione accademica o retorica dell'idea e l'opposta del decadentismo o retorica del sentire >>. La cultura filosofica italiana si è caratterizzata subito per una pluralità di orientamenti, resi possibili dal mutato clima di apertura verso pensatori e correnti prima poco conosciuti o esclusi dalla circolazione culturale. Bisogna inoltre osservare che le nuove correnti che emergono e si affermano, non riprendono affatto, o riprendono in modo indiretto, filosofie precedenti la nascita del fascismo. La fenomenologia, l'esistenzialismo, il neoempirismo, la filosofia della scienza, non hanno infatti solidi motivi di continuità con la cultura italiana del primo decennio del secolo. Questi orientamenti erano sorti nell'ambito della cultura europea degli anni trenta e in un primo momento non avevano avuto che deboli risonanze in Italia; solo ora, in un più aperto e serrato dialogo con la cultura europea, precisano il loro orientamento. Nel breve volgere di un quinquennio (1945-50) si diffonde in tutti gli ambienti un'esigenza sempre più viva di aggiornamento della cultura filosofica e politica. Il primo congresso internazionale di filosofia si svolge a Roma nel 1946 ed è significativamente dedicato all'esistenzialismo e al marxismo. Sorgono riviste che dibattono i temi della cultura scientifica («Analisi», « Sigma », «Methodos »). Emergono nuove problematiche all'interno di ogni campo del sapere: dalla filosofia del diritto alla pedagogia, dalla storiografia alla scienza. Discipline che erano state completamente emarginate o escluse dalla circolazione culturale come la psicologia, la psicanalisi, la sociologia, la linguistica, vengono ora seriamente studiate. In particolare la filosofia della scienza e la storia della scienza, che avevano trovato in Enriques un instancabile difensore, cominciano ad essere attivamente discusse. È un campo in cui si fa subito più evidente lo stacco della cultura italiana rispetto a quella europea; pertanto si traducono libri, si organizzano convegni. A Torino sorge, nel 1946, un Centro di studi metodologici, a Milano un Centro di metodologia e analisi del linguaggio (1945) e a Roma un Centro di sintesi ( r 94 5). In tali organizzazioni, filosofi e scienziati (matematici, fisici,
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La filosofia italiana contemporanea
biologi ecc.) di diversi orientamenti, si incontrano per una avvertita necessità conoscitiva di approfondimento, di verifica delle proprie proposte di studio e di ricerca. Parallelamente a questo interesse per i problemi metodologici delle scienze, si « riscoprono » filosofi prima troppo rapidamente liquidati dall'idealismo, come Giovanni Vailati. Nel campo della storiografia filosofica si hanno i risultati più cospicui e persuasivi. Si dimostrano rapidamente logori e insufficienti i precedenti canoni interpretativi di stampo idealistico, che avevano portato alla più recisa esclusione di tutta la tradizione scientifica, per privilegiare un ipotetico « primato » italiano. C'è inoltre un diverso apprezzamento di opere recenti e lontane della cultura europea, ora esaminate in una prospettiva nuova. Avviene insomma la definitiva eclissi del filosofo di tipo tradizionale perché cambia il suo ruolo sociale e ideologico-politico, che prima è stato di tipo profetico, nella duplice variante populistica e aristocraticistica. Come sostiene Bobbio, scompare la « figura- così tipica in tutta la nostra storia risorgimentale e post-risorgimentale sino al fascismo incluso - dell'intellettuale mentore o pedagogo, il cui compito principale che lo eleva al di sopra della massa è quello nobilissimo, solenne, sublime, dell'educazione nazionale, quel compito che trae alimento dall'idea che l'Italia è fatta e bisogna fare gli italiani». Questa nuova situazione culturale fu definita con il termine « neoilluminismo », non per caratterizzare un preciso orientamento filosofico, ma piuttosto un modo diverso di fare filosofia, un nuovo atteggiamento verso i problemi dell'uomo e della storia, una maggiore attenzione agli strumenti logico-linguistici del mestiere del filosofo, una più vigile cautela nelle generalizzazioni e uno studio accurato e puntuale delle metodologie delle scienze. Lo sorresse la persuasione che non esiste una razionalità assoluta, attingibile con strumenti extra-razionali, ma che la razionalità è umana e l'uomo progredisce solo potenziandola nella concretezza della ricerca scientifica, nella lotta per liberarla dai risorgenti miti e « idola », insomma dalla permanente tentazione metafisica che esclude la problematicità e l 'inesauribile varietà della realtà e della ricerca. Il neoilluminismo designò non una filosofia nel senso tradizionale, di sistemazione compiuta degli «eterni» problemi, ma una «politica culturale» che ebbe l'obbiettivo di «tradurre i principi in istituzioni vive. Non rifare il mondo, ma partecipando dell'esistente correggerlo» (Bobbio). In questo orientamento si riconobbero il razionalismo critico di Banfi e l'esistenzialismo positivo di Abbagnano, il neopragmatismo di Preti e il nuovo razionalismo di Bobbio e di Geymonat, insieme alle sorgenti tendenze analitiche e fenomenologiche soste~ nute da Rossi-Landi e Paci. Questi filosofi, unificabili più per una certa omogeneità di interessi nella ricerca che per le soluzioni prospettate, sono seriamente impegnati in una profonda opera di aggiornamento della filosofia e di rinnovamento democratico dell'Italia. 73
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11 riferimento all'illuminismo è accolto per il significato polemico che esso ha non solo verso l'idealismo italiano -che ne aveva fatto il suo costante bersaglio polemico - ma anche per la funzione riconosciuta alla ragione e alla scienza come strumenti essenziali per progettare una nuova società. Orbene, questa confluenza di diversi orientamenti filosofici quali risultati ha raggiunto sul piano della politica culturale e della ricerca? Nel campo della storiografia filosofica laica vanno ricordati in particolare i contributi di Mario Dal Pra, Eugenio Garin, Paolo Rossi, Pietro Rossi, Carlo Augusto Viano. Rinascono gli studi sociologici e nel I950 appaiono i« Quaderni di sociologia » diretti da N. Abbagnano e F. Ferrarotti. Riprende ad uscire sia la « Rivista di psicanalisi » (I 94 5) (anche se i primi collaboratori sono prevalentemente stranieri) sia nuove riviste filosofiche di cui diamo informazioni nel paragrafo successivo. Questa rinascita neoilluministica è stata avviata dal già menzionato Centro di studi metodologici, di Torino, sorto per iniziativa di otto studiosi (N. Abbagnano, N. Bobbio, P. Buzano, C. Codegone, E. Frola, L. Geymonat, P. Nuvoli, E. Persico). Attraverso un rapporto di stretta collaborazione e uno scambio culturale frequente e impegnato, questi studiosi sono riusciti a dare un effettivo contributo al rinnovamento della cultura filosofica. I risultati dei dibattiti dei primi anni sono raccolti nei due volumi Fondamenti logici della scienza (I 94 7; con scritti, nell'ordine, di: Geymonat, Persico, Buzzati-Traverso, Buzano, Frola, Abbagnano) e Saggi di critica delle scienze (I95o; con scritti, nell'ordine, di: Abbagnano, Bobbio, Buzano, Codegone, Frola, Geymonat, Nuvoli, De Finetti). L'esame di questi lavori può testimoniare non solo una sicura conoscenza dei risultati più aggiornati raggiunti fuori d'Italia, ma anche un tentativo di rielaborazione e di accertamento di tali nuove tecniche nell'ambito delle singole competenze scientifiche. Inoltre il Centro ha promosso - pubblicandone gli atti - un congresso di studi metodologici (dicembre I952), con sessantasei fra relazioni e interventi, una raccolta organica di saggi su Il pensiero americano contemporaneo, sotto la direzione di F. Rossi-Landi. Negli anni sessanta l'attività si è « specializzata» attraverso approfondimenti critici di campi delimitati del sapere scientifico, riscontrabili in queste pubblicazioni: « Atti del convegno nazionale di logica» dell'aprile I96I; «Atti del convegno sui problemi metodologici di storia della scienza » del marzo I 967; « Atti del convegno sulla metodologia della termodinamica » del marzo I968. Il segno più evidente della presenza culturale del neoilluminismo è dato dal fatto che i contributi filosofici più rilevanti degli anni quaranta-cinquanta, rientrano nell'ambito di tale orientamento, e così pure i dibattiti di politica culturale, di cui riferiamo nel paragrafo xr. Più complesso è il giudizio sul neoilluminismo come « politica culturale », perché nel dopoguerra, dopo che il blocco della conservazione ottenne, nelle
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La filosofia italiana contemporanea
elezioni del I 8 aprile I 948, un amplissimo consenso elettorale, lo spazio politico del riformismo e del radicalismo si restrinse, o meglio, rientrò in larga misura nella stessa dinamica del blocco conservatore perché il riformismo cattolico si saldò con quello sostenuto da una parte minoritaria del movimento operaio (dopo la scissione del PSI del I947), ma sufficiente per garantire la conservazione del sistema sociale. Pertanto le istanze politiche « neoilluministiche » quando non sono state riassorbite dai partiti di governo non hanno trovato adeguata accoglienza negli altri partiti operai, per complesse ragioni che vedremo più oltre. Se sul piano politico i « neoilluministi » non hanno raggiunto risultati consistenti, sul piano culturale la loro azione è stata più ampia e incisiva, anche in ragione dei limiti del personale culturale dei partiti di massa. L'insufficienza più rimarchevole si è avuta sul terreno della lotta per un rinnovamento della scuola. La scuola è rimasta sostanzialmente gentiliana nelle strutture e nei c•mtcnuti. Su questo terreno i neoilluministi non hanno saputo offrire una reale alternativa; questa passività ha permesso al blocco della conservazione di estendere e rafforzare la sua presenza, facilitato dalla struttura gerarchico-autoritaria di tale i!>tituzione, permettendo così il controllo di uno degli strumenti fondamentali ddla formazione delle nuove generazioni, le quali solo nel '68 hanno inizia1o una ribellione di massa contro questa scuola. VII
• LE NUOVE RIVISTE FILOSOFICHE DELL'IMMEDIATO DOPOGUERRA
In seguito all'avanzata delle forze anglo-americane, in Italia veniva concessa l'autorizzazione all'uscita dei giornali, e nei primi mesi del I945 anche al nord non solo i partiti politici, ma anche i locali Comitati di liberazione promossero e diressero decine di giornali in difesa della nuova democrazia che gli italiani stavano conquistando contro l'occupazione nazista e il fasci~mo. Per neutralizzare questa stampa, gli alleati concessero l'uscita delle testate tradizionali- i cosiddetti giornali di informazione - che si erano compromesse con il passato regime. Tale situazione si ripropose anche per le riviste politiche e culturali. Nel breve volgere di alcuni anni, I944-46, molte riviste, espressioni dei partiti e di diverse tendenze culturali, intrecciarono un serrato dibattito politico e ideologico, affrontando tutti i più importanti problemi che la vittoria contro il fascismo apriva. Ne ricordiamo alcune: «Nord-Sud» (D'Ambrosia, Milano), «Lo stato moderno» (M. Paggi, Milano), «Città libera» (G. Granata, Roma), « La nuova Europa» (L. Salvatorelli), « Realtà politica» (B. Bauer), «Nuovo Risorgimento» (V. Fiore, Bari), «L'Acropoli» (A. Omodeo), « Risorgimento Liberale» (M. Pannunzio), «Nuova società» (M. Bonfantini), «Rinascita» (Togliatti), «Conoscere». (B. Widmar). Noi ora ci occuperemo sommariamente delle nuove riviste di filosofia più 75
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significative, che furono pubblicate nel corso del triennio 1945-48. Dopo quella data, che segue una svolta nettamente moderata, cambia la situazione politica e culturale italiana e le riviste assumono caratteri meno significativi di quel panorama culturale cui è dedicato il presente paragrafo. Durante gli anni trenta avevamo assistito al sorgere di numerose riviste letterarie, direttamente organizzate dalle istituzioni fasciste; ma anche quelle che sorgevano per germinazione spontanea, o come espressione di gruppi culturali ristretti e autonomi, si occuparono quasi esclusivamente di letteratura; pochi sono gli articoli di filosofia ivi presenti. Solo «Il Saggiatore » (1930-33) diretto da D. Carella difese il pragmatismo, assunto più come atteggiamento esistenziale che in rigorosi termini filosofici. Fu soprattutto un modo per opporsi al dominante idealismo, rivendicando la legittimità di un pluralismo di posizioni culturali e politiche. Le nuove riviste filosofiche che si pubblicano durante il ventennio in Italia, « non avevano, come si suo l dire, una buona stampa » (Bobbio). Se si escludono le riviste dirette da Croce, Gentile, Martinetti e Banfi, le altre «erano appannaggio di istituti ufficiali o di professori che possedevano insieme con una cattedra, un sistema compiuto, e la filosofia che ne esalava era quasi sempre l'espressione di una società chiusa che parlava di sé e dentro di sé, a guisa di una arcadia di pastori lontani dal mondo» (Bobbio). È indubbio che l'intellettuale tradizionale, di formazione letteraria, assolve un ruolo preciso nella società fascista; la « società delle lettere » degli anni trenta ha un suo spazio politico sia nel momento in cui offre strumenti di consenso per il regime, che in quello contestativo, perché essa accetta comunque una sua autosufficienza ideologica di gruppo, precludendosi un impatto immediatamente politico con la realtà. I dibattiti filosofici, quando si sviluppano, mettono in evidenza tensioni e linee culturali antagonistiche non facilmente mediabili: è il caso di quello sull'esistenzialismo sviluppato su «Primato» (1940-43), la rivista diretta da Giuseppe Bottai, il quale riuscì a convogliare, attorno al fascismo, in una operazione di articolata collaborazione culturale, una grande parte dei letterati italiani. I filosofi che sono intervenuti, da Ab bagnano a Paci, da della Volpe a Luporini, a Banfi e altri, hanno evidenziato posizioni riprese e approfondite nel dopoguerra. La discussione politica che fa da sfondo al dibattito culturale di quegli anni riguarda gli obbiettivi politici e sociali che debbono essere raggiunti attraverso la « democrazia progressiva ». Il movimento operaio e quello comunista in particolare, fin dal vn congresso dell'Internazionale (I 9 35) aveva discusso tale questione, nella convinzione che, fermo restando l'obbiettivo storico dei partiti comunisti, la dittatura del proletariato, la nuova situazione creata dalla guerra antifascista imponeva la creazione di una repubblica di tipo nuovo. Mao Tsetung ha espresso questa posizione nel saggio del 1940, La nuova democrazia, in cui ha affermato che la « repubblica di nuova democrazia » differisce sia dalla re-
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pubblica capitalista di vecchio tipo europeo sia dalla repubblica socialista di tipo sovietico. Analoghi dibattiti avvengono nei gruppi dirigenti dei partiti operai italiani e anche in quelli cosiddetti di « terza forza», e viene trovata una unità sulla base dell'obbiettivo di un regime di repubblica parlamentare, di tipo sostanzialmente prefascista, fondato sull'alleanza politica dei tre partiti di massa ne PSI PCI e l'adesione delle altre forze liberai-democratiche. L'altra interpretazione della «democrazia progressiva», che ha avuto in E. Curiel il suo più coerente teorico, parte dal riconoscimento - conseguente a un'analisi del fascismo come regime reazionario di massa - che solo l'abbattimento delle istituzioni statali fasciste può aprire la possibilità di una democrazia di tipo nuovo, forte dell'adesione degli organismi politici creati nel corso della lotta antifascista e perciò con un equilibrio fra i partiti nettamente favorevoli alle forze popolari. Con i decreti luogotenenziali del '44 e del '46 l'Assemblea costituente venne privata - come già si è detto - del potere legislativo ordinario, che fu invece delegato al governo, per cui non furono abrogate le istituzioni fasciste e su questa base poté essere realizzata una solidarietà fra i tre partiti di massa, interrotta poco dopo dall'inizio della guerra fredda. Le due linee di politica culturale che emersero in questo periodo furono emblematicamente rappresentate dal « Politecnico » di Elio Vittorini, teso alla ricerca di una nuova cultura, che rompesse radicalmente con la nostra inveterata tradizione retorico-umanistica e l'altra, rappresentata da « Società», diretta da Cesare Luporini insieme ad altri, che invece evidenziò i motivi e i momenti di continuità della tradizione storicistica della cultura italiana. Il « Politecnico » rappresenta il progetto politico-culturale più organico elaborato da una parte degli intellettuali antifascisti e democratici per dare consistenza ideologica e concretezza di contributi specifici alla democrazia progressiva. Il giornale diretto da E. Vittorini ed edito da Giulio Einaudi -l'editore della «nuova cultura» di quegli anni - uscì il 29 settembre 1945 e fino al n. 28 (6 aprile 1946) fu settimanale, in formato quotidiano a due colori, con impostazione grafica originale e irrepetibile di AJbe Steiner. Dal n. 29 al n. 39 (dicembre 1947) proseguì come mensile. I redattori furono F. Fortini, F. Calamandrei, V. Pandolfi e successivamente G. Ferrata. «Il Politecnico» nasce alla conclusione di un vasto, articolato lavoro pr-ttico-politico precedente, attuato attraverso il «Fronte della gioventù» e il «Fronte della cultura», due strumenti di organizzazione e intervento politico che nel nord, e a Milano in particolare, avevano assolto una funzione di netta rottura politica, e di una prima organizzazione di strumenti di base poi, di grande rilievo. « Il Politecnico » che si richiama fin dal titolo alla migliore tradizione illuministica italiana rappresentata da Cattaneo, è il punto di convergenza di questo
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lavoro politico, preparato e portato avanti da un vasto schieramento di forze, che però non si identificano in un solo partito, ma piuttosto in un fronte unito contro il fascismo in tutte le sue manifestazioni (sociali, politiche e culturali). Inoltre i diretti collaboratori hanno una precisa storia di lotta politica. Vittorini è uno degli intellettuali che ha partecipato da protagonista alle più importanti discussioni delle riviste dei Guf e letterarie degli anni trenta, sempre in atteggiamento di ricerca conoscitiva e di critica, al limite della legittimità e tolleranza accettate dal regime fascista. Egli ha dato alla cultura antifascista uno dei risultati letterariamente più alti, in cui si è riconosciuta una generazione di giovani, Conversazione in Sicilia del I94I. Anche gli altri collaboratori provengono dalla resistenza: Preti, che imposta e dirige un fondamentale dibattito teorico, proviene da una esperienza militante di opposizione, condotta su « Corrente » (I 9 38-40) e su« Studi filosofici», prima serie (I940-44). Il « gruppo » di Banfi partecipa direttamente al giornale, le cui linee programmatiche erano state discusse inizialmente da Vittorini e Banfi con Eugenio Curie l. La dichiarazione programmatica inizia in questi termini: «Il nostro settimanale si occupa: I) di cose di problemi culturali ma con criterio inteso a soddisfare veramente le esigenze culturali dei lettori; z) ha interessi specifici ma per tutti i campi e tutti gli aspetti della cultura, dalla poesia alla politica e dai problemi sociali alle: arti figurative; 3) ha un indirizzo non formato, ma in via di formazione, che cerca nel contatto con le masse un nuovo volto culturale e non altro presuppone in chi legge che il bisogno di conoscere, volontà di conoscere e capacità di compiere uno sforzo per conoscere. » «Il Politecnico» rimase fedele a questo compito e lo assolse con grande impegno e rigore intellettuale; tentò un'analisi della cultura borghese, in un aperto colloquio con le correnti filosofiche allora dominanti (esistenzialismo, pragmatismo), propose il recupero della tradizione letteraria più avanzata e rivoluzionaria, in un rapporto di tensione critica, per evidenziarne i limiti o gli esiti che dovevano essere superati e trasferiti in una cultura nuova, di rottura. Andò alla ricerca della sconosciuta, autentica realtà sociale e umana dell'Italia postfascista, per indicare le linee di un possibile intervento culturale e politico, per allargare la base di consensi e di lotta per la democrazia progressiva, con un richiamo polemico ai compiti politici dello schieramento democratico verso la spagna. Sviluppò insomma le linee tendenziali di una politica culturale che portava a nuove contraddizioni la politica di un reciproco compromesso intrapresa allora dai tre partiti di massa. Ed è significativo che « Il Politecnico » costituisca ancora un punto di riferimento nell'odierno dibattito, cioè nel momento in cui si ripresentano alcuni dei problemi affrontati e non risolti dal « Politecnico » e da chi ha interrotto quel lavoro. Su Vittorini di quel periodo il giudizio più persuasivo è stato espresso da Francesco Leonetti: «La posizione di Vittorini sul
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lavoro culturale non è quella del materialismo dialettico; tuttavia non contiene qui a nostro avviso, come insuperabili, indicazioni contrarie, mentre più oltre, bloccato il rapporto costruttivo col partito, Vittorini si attesta inevitabilmente nel radicalismo democratico, senz'altro spazio. È vero che Vittorini parla qui a lungo di "autonomia della cultura". E questo concetto è poi diventato di specialismo di destra. In Vittorini assume però un valore di difesa dello " specifico " non ridotto né subalterno o compromesso, in quanto Vittorini non mette in dubbio la priorità dello scopo rivoluzionario. » L 'altra rivista della sinistra, « Società », nei primi sei fascicoli del biennio 1945-46, dà ampio spazio alla letteratura italiana, inglese e russa; pubblica saggi di aggiornamento e di analisi di economia, storia, diritto e alcuni contributi filosofici di Cesare Luporini e Arturo Massolo oltre a documenti, recensioni e rassegne delle riviste politiche; è del tutto assente la problcmatica scientifica. La linea è espressa in editoriali che chiariscono le posizioni e l'C: linee di intervento culturale della rivista. Nel primo numero è affermato: «Come dice il titolo stesso della rivista, noi crediamo, innanzitutto, a una strettissima, a una intima connessione fra cultura e società che la esprime e in cui essa si esprime. » L'analisi de! fascismo «nato dalle viscere della nostra società» è tale da sottolineare ora più i motivi di permanente continuità che quelli di rottura, i pericoli di un ritorno delle vecchie forze che le ragioni di una possibile loro neutralizzazione ed emarginazione, la necessità di avviare da parte degli intellettuali, in stretto rapporto di collaborazione con le forze sociali del lavoro «un immenso lavoro, un'operosa costruzione in uno sforzo costante verso un mondo nuovo e migliore»,, in cui l'accento è posto più sulla necessità di integrazione nella cultura, con compiti non di progetto o proposta alternativa, ma di sollecitazione di dibattiti, di mediazione dei contrasti, in una visione solidaristica con le forze politiche che combattono per restituire all'Italia un regime parlamentare. Pertanto il centro culturale d'interesse è la storia poiché « nessuna conquista nel campo della civiltà umana è possibile, senza un vigoroso e pregnante senso della storia » (R. Bianchi Bandinelli). In questa prima fase C. Luporini porta la critica più radicale al « Politecnico », negando la legittimità stessa della ricerca o dell'ipotesi di una nuova cultura, come anticipazione di una realtà e di contenuti culturali nuovi e ribadisce che il connotato di storicità è intrinseco alla cultura. Con il 1947 « Società» conclude la fase «sperimentale», e può presentarsi, ora che la posizione tendenzialmente antagonistica del « Politecnico » tace, in una nuova serie come «rivista di tendenza», pubblicando nel primo numero dell'annata alcuni scritti filosofici dei Quaderni dal carcere di Gramsci. Veniva così iniziata quella utilizzazione di Gramsci in funzione di una linea culturale, le cui matrici erano diverse e diversamente motivate, perché quegli scritti erano separati dal preciso riferimento politico di lotta leninista condotta da Gramsci durante la sua direzione del partito («Tesi di Lione», 1926) prima, e contro 79 www.scribd.com/Baruhk
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la teorizzazione del socialfascismo poi, negli anni trenta, quando la teoria del socialfascismo fu rifiutata apertamente da Pietro Tresso, Paolo Ravazzoli, Alfonso Leonetti e anche, dal carcere, da Umberto Terracini e Antonio Gramsci. Al rinnovamento della cultura filosofica ha dato un contributo rilevantissimo « Studi filosofici», diretta da A. Banfi e con la collaborazione di un ristretto ma agguerrito gruppo di redattori, che hanno approfondito con tendenza unitaria, ma differenziata nei contributi, la ricerca nei diversi campi culturali: R. Cantoni, G.M. Bertin, E. Paci, G. Preti, L. Anceschi, D. Formaggio e altri. La linea antiidealistica della prima serie (1940-44) in difesa di un problematicismo volto alla delineazione di una sistematica del sapere aperta alla integrazione delle scienze umane, si radicalizza nella nuova serie (1946-49) nella discussione con l'esistenzialismo, il pragmatismo, il realismo e contro le risorgenti tentazioni spiritualistiche. Banfi precisa subito che « Studi filosofici» «non vuol essere l'esponente di un particolare indirizzo sistematico. Vuole essere piuttosto un organo di ricerca e di analisi critiche, rivolte a porre in piena luce una differenziazione delle sue forme e delle sue direzioni, la problematica filosofica, traendola fuori dall'irrigidimento di posizione o soluzioni dogmatiche o dalla contaminazione di generici valori spirituali ». Il punto d'approdo di questa ricerca è stato un marxismo antidogmatico, inteso come l'orizzonte teorico più adeguato per inquadrarvi la complessa articolazione delle scienze umane. Gli ampi saggi di Banfi (poi raccolti nel volume L'uo1110 copernicano, 1950), di Preti sul neopositivismo, sullo spiritualismo italiano nonché i suoi precisi « panorami scientifici »; gli scritti di Cantoni sul marxismo, quelli di Bertin sull'attualismo, e le integrazioni di Lukacs, Cornu, Geymonat, della Volpe, portano contributi originali e approfondimenti nuovi, a cui è necessario anche oggi riferirsi per comprendere adeguatamente le vicende della nostra recente storia culturale. Un tentativo di aprire un serio dibattito e incontro fra le due culture è condotto da « Analisi » (rassegna di critica della scienza, r 94 5-47) diretta dal fisiologo Giuseppe Fachini, l'astronomo Livio Gratton e Giulio Preti. I redattori - di diversi orientamenti filosofici - precisano subito il loro obbiettivo: « Proporre un luogo di discussione libera per quanti, cultori di discipline scientifiche e filosofiche, abbiano interesse ai problemi di metodologia generale e speciale delle scienze. » È un primo tentativo, che coinvolge scienziati, ricercatori e filosofi, i quali discutono collettivamente i risultati delle loro ricerche e dei loro saggi, in uno stile collaborativo nuovo e insolito per la cultura italiana, che però non avrà una continuità. Nel 1940-41 era uscita da Einaudi la rivista « Il Saggiatore », che aveva pubblicato articoli di alta divulgazione scientifica, informati e precisi. Nel gennaio 1947 esce il primo dei sei fascicoli di« Sigma »(conoscenza unitaria), a cura di Giuseppe Vaccarino e Vittorio Somenzi e collaborazione determinante di Silvio Ceccato. So
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Un indubbio merito della rivista è stato quello di avere pubblicato numerosi e importanti saggi inediti di Eugenio Colorni, la cui ricerca teorica è stata diretta ad una analisi dell'uomo, attraverso l 'utilizzazione dei risultati più persuasivi della psicanalisi e una considerazione della scienza che escluda influenze estranee e fuorvianti (secondo il modello avanzato da Bachelard). Egli ha così proposto una « metodologia non filosofica» di tipo operativistico. I redattori però non sono pervenuti all'operativismo attraverso lo studio degli scritti colorniani ma piuttosto quegli scritti hanno confermato che uno fra i più acuti filosofi dell'ultima generazione stava pervenendo ad analoghi risultati. Alla fine di una prima ricognizione teorica di carattere generale, i redattori annunciano che proseguiranno la ricerca, con allargamento di collaborazioni e con ulteriore approfondimento di « tecnica filosofica », dando origine a un'altra rivista, « Methodos », che infatti inizierà a uscire nel 1949. Nel 1946 esce anche la «Rivista di storia della filosofia», diretta da M. Dal Pra, con lo scopo di « promuovere le ricerche e gli studi di storia della filosofia sul fondamento di indagini filosofiche severamente condotte e in riferimento a problemi di interesse particolarmente vivo nella cultura del nostro tempo». Viene iniziata una revisione della storiografia filosofica idealistica, la quale aveva analizzato e valutato i pensa tori secondo schemi aprioristici; di qui la necessità di un lavoro che « muove dalla coscienza di una maggiore complessità della storia», attraverso un più serio uso delle fonti e un maggior rispetto delle procedure di accertamento dei dati, trascurati o distorti da chi predetermina la ricerca secondo ben definite categorie filosofiche. A partire dal 1949 diventa « Rivista critica di storia della filosofia » e in un aperto, vivace dibattito sull'orientamento filosofico che era sotteso al lavoro storiografico della rivista e solo accennato in modo un po' confuso nell'editoriale di presentazione - il « trascendentalismo della prassi » - ne emergono i limiti e gli esiti metafisici, tanto che questa posizione, che nasceva da una giusta esigenza critica verso un risorgente intellettualismo filosofico, fu abbandonata. Oltre a queste nuove riviste, riprendono a uscire alcune testate del periodo precedente; la« Rivista di filosofia» diretta da N. Bobbio, si afferma subito come uno dei centri più vivi del dibattito teorico e storiografico, con saggi sul pensiero contemporaneo italiano e una dichiarata volontà di aggiornamento critico verso le correnti filosofiche europee e americane. « Scientia » continua la linea di informazione sulla cultura scientifica europea. Altre riviste mantengono il vecchio orientamento, che più marcatamente ne evidenzia l'arcaicità o l'inutilità: riprende a uscire il « Giornale critico della filosofia italiana » che, dopo un fascicolo per il periodo 1944-46, inizia nel 1947 la terza serie come organo della «Fondazione G. Gentile per gli studi filosofici», « Sophia » (1946) di C. Ottaviano, la «Rivista di filosofia neoscolastica » (1945) diretta da A. Gemelli, «Ricerche filosofiche» dirette da D.A. Carbone, l'« Archivio di filosofia» (1945) diretto da 81
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E. Castelli, che diventa una raccolta di monografie su argomenti specifici. Nascono altre riviste di «scuola», nel senso tradizionale del termine: « Teoresi » (1946) di V. La Via e il «Giornale di metafisica» (1946) di M.F. Sciacca. VIII
• L 'ESISTENZIALISMO
Con l'opera di Nicola Ab bagnano Struttura dell'esistenza del 1939, l'esistenzialismo italiano acquista precisi connotati - culturali e teorici - rispetto alle altre forme di esistenzialismo, delineate nel capitolo vrr del volume settimo. Negli anni. precedenti ha costituito un motivo di dibattito, o all'interno della tematica attualistica (Ernesto Grass~: Il problema dellogo, 1935), o di quella fenomenologica (Giulio Grasselli: La fenomenologia di Husserl e l'ontologia di M. Heidegger, 192.8). Anche Banfi ha dibattuto tali problemi, ma con atteggiamento fortemente critico; ne ha indicato il limite nella forma dogmatica in cui pone il problema dell'esistenza, perché « non è visto nell'universalità della sua posizione logica e perciò non è svolto né da un punto di vista soggettivo - come problema dell'intuizione - né da un punto di vista oggettivo - come problema della persona, dell'umanità, della storia, della natura - in tutta la pienezza delle sue forme e dei suoi sensi d'esperienza». Una delle caratteristiche dell'esistenzialismo italiano è lo scarso rilievo che assume il problema religioso; tale problema è stato invece discusso e variamente risolto sia dagli spiritualisti cattolici, alcuni dei quali - come indichiamo nel paragrafo IX - hanno mediato istanze esistenzialistiche, sia da studiosi protestanti, che si richiamarono al pensiero di Barth: G. Miegge, Protestantesimo e spiritualismo (1941) e dalle riviste «Gioventù cristiana», « L'appello» e «Protestantesimo». L'esistenzialismo italiano si rifà alla tematica della finitezza, di ispirazione kantiana, ma senza pervenire a soluzioni nullistiche, rivelando così «un senso molto più vivo dell'operare umano, una concezione molto più positiva della storia, una sensibilità molto più spiccata per le realizzazioni assiologiche» (Pareyson). La polemica- esplicita in Luporini e Massolo - è contro l'idealismo italiano, per la riaffermazione della realtà dell'individuo - naturale e umana - e della società, non risolta spiritualisticamente, come nell'ultima opera gentiliana, ma considerata nella storicità delle sue strutture. Infine è affrontato - con soluzione anti-idealistica - il problema del valore conoscitivo della scienza, negato o irrisolto dalle altre forme di esistenzialismo; esso accoglie istanze ed esigenze della filosofia analitica come del neoempirismo, di cui l'esistenzialismo intende offrire non una fondazione metafisica - sia pure di tipo nuovo - ma un comune orizzonte problematico, incentrato sulla categoria della possibilità. Per tali caratteri l'esistenzialismo italiano si è aperto a un fecondo dibattito con il marxismo di cui ha evidenziato la polemica anti-idealistica e la progettazione di una nuova condizione umana e sociale. (Alcuni filosofi marxisti - Massolo, Luporini - sono passati S.z
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attraverso l'esistenzialismo.) L'unico che ha mantenuto una posizione esistenzialistica, variamente motivata e con successive integrazioni tematiche, è stato Nicola Abbagnano (n. I9oi), già allievo di Aliotta. Egli è pervenuto all'esistenzialismo dopo avere compiuto una serie di complesse ricerche filosofiche e storiografiche, in cui ha indagato la consistenza teorica dei fondamentali orientamenti filosofici antichi e moderni. Nel I923 pubblica Le sorgenti irrazionali del pensiero, o ve sostiene l 'impossibilità di risolvere la realtà, la vita, in termini di razionalità perché permane nell'uomo un complesso di itnpulsi e tendenze che « formano il nucleo centrale e profondo della sua vita ». Egli cerca conferma di questo assunto nei Problemi dell'arte (I 92 5) e nello studio dell'idealismo anglosassone, Nuovo idealismo inglese e americano (I 92 7). Pubblica altri lavori storico-critici: Guglielmo d'Occa/11 (I93I), La nozione del tempo in Aristotele (I933) e teorici: La fisica nuova (I934) e Il principio di metafisica (I936). Questi ultimi due costituiscono l'antecedente teorico del suo esistenzialismo, che è compiutamente espresso in: La stmttura dell'esistenza (I 9 39), Introduzione all' esistenzia!imto (I 942 ), Filosofia, religione, scienza (I947), Esistenzialismo positivo (I948). L'incontro con l'empirismo è testimoniato dalla sua collaborazione al« Centro di studi metodologici » di Torino; il suo avvicinamento a Dewey e la proposta di un neoilluminismo, aperto ai risultati della scienza, sono espliciti nei saggi: Verso un nuovo illuminismo: fohn Dewey (I948), Il nuovo illuminismo (I949), L'appello alla ragione e le tecniche della ragione (I952), saggi raccolti in: Possibilità e libertà (I956). L'ultima sistemazione del suo pensiero, con un privilegiamento dei problemi etico-sociologici, si trova in: Problemi di sociologia (I959), La mia prospettiva etica (I 96 5). Nello scritto su La fisica nuova sostiene che l'esperienza più autentica dell'uomo è quella che avviene nell'intimità del soggetto, prima dell'organizzazione razionale dei dati « oggettivi». Una conferma di questa tesi sarebbe ricavabile secondo l'autore - da un attento studio della relatività. «La fisica relativistica è consapevole che essa ha da fare unicamente con fenomeni; cioè con eventi suscettibili di definizioni e misure fisiche e ripudia e considera affatto priva di senso ogni entità oltre di quella che può essere osservata e misurata. In questo senso la teoria della relatività rappresenta la soggettivazione del mondo fisico. » Il costante riferimento alla posizione di Eddington chiarisce la matrice idealistica di tale interpretazione. Abbagnano ammette la decisiva importanza della scienza, ma come un momento o un livello dell'esperienza, la cui struttura categoriale deve essere fondata &u un principio trascendentale. Questa e altre ricerche lo convincono che dalla descrizione fenomenologica dell'esperienza non si perviene a nessuna forma di antologia, « a nessun ente o sostanza di nessun genere che sia presupposta all'atto del conoscere »; questo principio unitario e unificante deve radicarsi nella costituzione dell'uomo in quanto tale e nel volume La struttura dell'esistenza egli presenta la sua soluzione esistenzialistica: « La filosofia non
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è una sfera delimitata dell'esistenza; è il significato autentico strutturale, la natura dell'esistenza. » Siffatta ricerca dell'autenticità dell'essere non è comunque garantita- secondo il nostro autore- da certezze precostituite. Se l'uomo «cerca l'essere, non lo possiede, non è lui l'essere. Rendersi conto di questa finitudine, scrutarne a fondo la natura è il compito fondamentale dell'esistenzialismo». Accettato che l'esistenza è tensione verso l'essere, Abbagnano rifiuta sia la posizione di Heidegger che qu'ella di Jaspers, perché l'uno configura il punto da cui muove l'essere, cioè il nulla, e perciò l'esistenza è vivere per il nulla; l'altro presenta il punto d'arrivo della ricerca dell'essere come un inevitabile scacco. Il superamento di questa antinomia è offerta dal concetto di struttura: essa è posta al centro dell'analisi di Abbagnano, come «la sola alternativa atta a fondare una analisi esistenziale che non sia la semplice negazione del problema dell'essere». «L'analisi esistenziale è analisi di rapporti», cioè determinazione di condizioni e la condizione trascendentale di tale rapporto è data dalla possibilità: è essa che fonda l'essere come possibilità concreta, progettante. Egli ritiene che solo in questo modo sia salvaguardata la possibilità come condizione permanente di libertà, che non si trasforma mai né nel necessario, né nell'impossibile. La libertà è scelta, possibilità di rapporti, garantita da un'opzione che non è metafisica perché non esclude la ricerca dell'essere, ma è l'unica scelta che rende possibile qualsiasi altra scelta e qualsiasi ricerca che usi gli strumenti della ragione, limitati ma sempre revisionabili e perfezionabili. Questo principio della possibilità del possibile ci conferma insomma che il principio primo non è l'essere ma la possibilità dell'essere, e perciò esso è apertura verso una indagine che abbraccia tutti i campi della realtà. Questo atteggiamento problematico di fronte alla vita non significa né che si procede verso un esito sicuramente negativo, né che si è in grado di superare tutte le difficoltà. Si dovrà pertanto accettare una situazione di rischio: è questo il messaggio di Ab bagnano. « L'esistenzialismo tende a sottrarre l 'uomo all 'indifferentismo anonimo, alla dissipazione, all'infedeltà a se stesso e agli altri: tende a restituirlo al suo destino, e reintegrarlo nella sua libertà.» La libertà è l'ultimo e conclusivo suo tema fondamentale: «L'uomo libero è l'uomo che ha un destino. Il destino è la fedeltà al proprio compito storico, cioè a se stessi, alla comunità e all'ordine del mondo. » L'esistenzialismo di Abbagnano è stato da lui stesso definito «esistenzialismo positivo », proprio per mettere in evidenza che la categoria della possibilità, inerente alla struttura dell'essere e della persona, apre la via a una conclusione positiva: «Pensando, operando, lottando, l'uomo cerca di conquistare l'essere e di possederlo, ma non raggiunge mai la stabilità di una conquista definitiva e di un possesso totale. » Bisogna pertanto accettare questa situazione problematica nella persuasione che l 'uomo abbia gli strumenti conoscitivi per risolverla; una soluzione non conclusiva né che si approssima a un assoluto trascendente, ma pur sempre sufficiente, per affrontare i problemi umani che la vita pone dinanzi a noi.
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È in questo orientamento che si precisa il suo incontro con lo strumentalismo di Dewey, e lo sbocco sociologico ed etico del suo pensiero. La ricerca dell'uomo avviene in un contesto sociale, in cui può realizzare i suoi progetti. «L'uomo ha bisogno dell'aiuto dell'altro uomo, non tanto per conservare la sua vita corporea quanto per essere veramente se stesso. Ma se vuole realizzare la sua unità, se vuole assumere interamente la responsabilità della sua riuscita, l'aiuto degli altri è decisivo. » Nell'ultimo periodo di attività il nostro autore ha scritto ampi studi sulla sociologia, portandovi una sensibilità nuova, in un ambiente, come quello italiano, che ne aveva escluso lo studio. Si tratta però non di ricerche concrete, specifiche, ma di analisi metodologiche generali, utili perché hanno fatto conoscere il pensiero europeo e, in particolare, quello americano, stimolando indagini e discussioni. Fra gli allievi di Ab bagnano ci limitiamo a ricordare: Pietro Chiodi (I 9I 5-7o), Pietro Rossi (n. I93o), Carlo Augusto Viano (n. I929) e Mario Trinchero. Tutti e quattro hanno dato rilevanti contributi nella storiografia filosofica e sociologica. Un altro importante contributo all'esistenzialismo è dato da Enzo Paci (19I I-76). Egli ha partecipato negli anni trenta al dibattito politico-culturale prima su « Urpheus » (I 9 32-33 ), poi su « Cantiere » (I 9 34-3 5); ha discusso il contributo del neokantismo e della fenomwologia e ha approfondito il problema del non-essere e del rapporto uno-molteplice in: Il significato del Partnenide nella filosofia di Platone (I938), in cui sono presenti molti motivi del suo pensiero, fino all'ultima fase. Una prima sistemazione complessiva del suo orientamento è data in: Principii di una filosofia dell'essere (I 939) i cui temi saranno approfonditi e rimessi in discussione in altri scritti: Pensiero, esistenza e valore (I 940), Esistenza ed in1magine(1947), Esistenzialismo e storicisnto (1950), Il nulla e il problema dell'uomo (1950), Esistenzialismo (I 9 53). Nei Principii affronta - con utilizzazione del razionalismo banfiano- il problèma della personalità, della natura e dell'esistenza: «La vita nelle sue forme è tensione tra l'esistenza ed il valore. » L'esistenza è anteriore allo spirito, è «assai vicino all'immediatezza del sentimento e dell'inconscio che appare come natura e rende possibile, nello stesso tempo, lo spirito »: essa è possibilità che tende al valore come suo principio regolativo; la storicità costituisce la sua essenza come temporalità e siccome « esistere nel tempo significa avere dei bisogni: le verità di fatto sono la struttura economico-utilitaria dell'esistenza», onde la filosofia progetta la trasformazione delle situazioni negative in positive, secondo finalità storicamente determinate. L'esistenzialismo di Paci si inscrive così in quello positivo di Ab bagnano; egli cerca di delineare una metafisica del finito, fondata sulla negatività come principio; infatti se l'esistere è costitutivamente bisogno, consumo, «l'essenza metafisica necessaria dell'esistenza è la sua struttura, concepita, in senso lato, come economica, ma proprio questa necessità toglie all'esistenza ogni assolutezza e ogni autonomia». Su di lui ri-
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torniamo nel paragrafo x per delineare la sua conclusiva fase fenomenologica. Cesare Luporini (n. I9o9) è stato in Germania, alla scuola di Heidegger; egli ritiene che l'esistenzialismo non sia un sistema, ma il punto di confluenza di movimenti e di esigenze storicamente precise, « l 'idealismo italiano, la filosofia della vita e la filosofia esistenziale». L'avvio è dato da Kant, di cui Luporini propone una lettura in chiave nettamente anti-idealistica nel primo saggio, Critica e metafisica della filosofia kantiana (I 9 3 5), ed esplicita il suo esistenzialismo in: Situazione e libertà nell'esistenza utnana (I 942, n ed. modificata e aumentata, I 94 5). Il problema dell'esistente è stato posto da Aristotele e da Kant in antagonismo con la linea Platone-Hegel: l 'individuo non è traducibile in termini logico-scientifici: è oggetto dell'esperienza e non della scienza. Kant ha indicato una soluzione ancora valida del rapporto tra ragione ed esperienza, cioè tra « i modi del contemplare (le leggi del pensiero) e i modi del contemplato (le leggi del reale) »; è questo il senso stesso della sua rivoluzione copernicana: l 'attività della ragione « muove sempre da una deficienza, dalla molteplicità, alla ricerca di una sufficienza, dell'unità (incondizionata, assoluta). La deficienza è la finitezza dell'uomo, ossia la sua stessa realtà». L'uomo vive questa irrisolta antinomicità, fra l'atto e il fatto in cui la ragione si definisce nel rinvio a una « irriconoscibile », e perciò urgente, libertà. L'esistenza è appunto «l'immanente esperienza che abbiamo della nostra libertà»; nella duplice accezione trascendentale e come piano della « fattuosità »,cioè del concreto, storico operare che è anche un cooperare con gli altri uomini. La filosofia è antropologia, cioè esame di tale situazione, in cui l'apertura trascendentistica come quella idealistica è respinta perché è una fuga evasiva, edificante, verso una impersonale Ragione in cui le vicende umane non trovano alcuna giustificazione. Luporini rivendica - in diretta e persuasiva polemica con Bontadini -l'immanentismo, come terreno di soluzione del rapporto individualità-socialità, tematizzati da Kierkegaard e Marx: « L 'uno denuncia l 'equivoco dell'uomo cristiano, l'altro l'equivoco dell'uomo nello Stato, indicando la doppia inautenticità, prodottasi storicamente, del mondo cristiano e del mondo borghese. » L'esistenzialismo si configura pertanto come « umanismo reale», come riappropriazione, da parte dell'uomo, della sua dimensione finita, storica, in una tensione problematica verso la progettazione di un futuro. Quest'atto problematico, costitutivo del rapporto pensiero-libertà « è insieme sempre storicità e moralità: in quanto storicità risolve il passato, in quanto moralità determina il futuro ». Sullo sviluppo in senso marxista del pensiero di Luporini ritorniamo nel paragrafo xn. Arturo Massolo (1909-66) ha definito il suo esistenzialismo in: Storicità della metafisica ( r 944): è una critica all'attualismo, alla sua irrisolta tematica della soggettività. Egli riprende l'interpretazione heideggeriana di Kant (Heidey;ger e la fondazione kantiana, 1941) per condurre a radicale critica l'uso idealistico di Kant e proporre così non una filosofia sull'uomo, ma dell'uomo, colto nella fini86
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tezza della sua condizione esistenziale, ma teso alla ricerca del fondamento, a una metafisica, a una trascendenza pura e « in quanto pura, secondo il preciso senso kantiano, essa è originaria, tale, cioè, che da sé originandosi trascende se stessa ». Questa problematica è ripresa e approfondita, con una serrata discussione del problema della deduzione trascendentale soggettiva, nella Introduzione alla analitica kantiana (1946), in cui l'autore perviene a recuperare il significato di una ragione, non in termini illuministici, e perciò intellettualistici, ma consapevole dell'orizzonte metafisico, « che di volta in volta dà una propria configurazione e un suo proprio senso ai singoli problemi, in quanto ne è generatore e non generato». La filosofia assolve così una funzione indispensabile di ricostruzione antropologica perché mette « l'uomo innanzi a un compito che lo singolarizza e gli ritorna il senso della storia misconosciuta dalle filosofie intellettualistiche » (Santucci). Infine Armando Vedaldi (r9rz-6r) ha proposto una integrazione dell'esistenzialismo positivo di Abbagnano, con la tematica economico-sociale nei volumi: Essere gli altri (1948), Struttura della proprietà (1951) e Dire il tentpo (196o). Egli ritiene che «solo spostando la tematica esistenziale in senso politico potrà esser colto l'obbiettivo che l'esistenzialismo si propone», quello appunto di fondare in senso etico-politico la persona. «L'azione esige l'alterità, perché si fonda e si costituisce sugli altri»; di qui la necessità di analizzare la struttura della società; ma per offrire una soluzione personalistica è necessario chiarire il rapporto con il marxismo. Vedaldi ritiene che il diritto di proprietà (non della proprietà privata) deve essere riconosciuto a tutti e inoltre, se il punto di convergenza fra le due correnti può essere rintracciato nella comune polemica anti-hegeliana e nella riaffermazione della finitezza dell'uomo, i motivi di divergenza stanno nella progettazione della società futura. Ambedue tendono a riformare la società, il marxismo però, prospettando la dittatura del proletariato, verrebbe meno - secondo l'autore - alla sua stessa ispirazione dialettica, perché concluderebbe il processo storico. IX
• LO SPIRITUALISMO
CRISTIANO E LA NEOSCOLASTICA
In questo paragrafo indicheremo le linee generali dello spiritualismo cristiano (a cui sono pervenuti quei filosofi che hanno assunto una iniziale posizione idealistica) e della neoscolastica. Gli spiritualisti rivendicano, insieme al riconoscimento della irriducibilità della persona umana, l'assolutezza e trascendenza di dio. Essi accolgono - contrariamente ai neoscolastici - il criticismo moderno, nel senso che tentano di giustificare - sul piano razionale o quello della fede la trascendenza, ma senza negare validità al trascendentale (che aveva condotto, storicamente, all'immanentismo). Mentre i neoscolastici affermano che « vi è armonia logica fra la metafisica aristotelica e il pensiero cristiano» (U. Padovani),
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gli spiritualisti ritengono che partire da Aristotele significhi accettarne il naturalismo, incompatibile con la dottrina cristiana. Nel 1945, per iniziativa del gesuita Carlo Giacon e Umberto Padovani, fu organizzato il primo convegno di quello che poi fu chiamato il Centro di studi filosofici cristiani di Gallarate dove si tennero successivamente annuali convegni di studio, di confronto critico e di dibattito fra spiritualisti e neotomisti, con il duplice scopo di una riorganizzazione culturale del fronte cattolico e di operare quel rinnovamento e approfondimento di temi e di autori che il mutato clima culturale e il nuovo impegno assunto dal movimento cattolico italiano imponevano. Così le due correnti sono giunte a concordare - pur nella diversità di atteggiamenti ·- posizioni comuni contro quelle del pensiero laico, operando inoltre un impegnativo aggiornamento del personale culturale cattolico italiano. Armando Carlini (1878-1959) il cui idealismo, esplicito in La vita dello spirito (19z1), criticato in Il mito del realismo (1934), è abbandonato in Cattolicesimo e pensiero moderno ( 19 53); ha poi pubblicato Che cos'è la metafisica? Polemiche e ricostruzione (1957). Egli ha condotto nel modo più radicale l'autocritica dell'idealismo, tentando una mediazione tra il principio immanentistico dell'attualismo e la teologia cristiana. Il punto di innervazione fra il trascendentale e il trascendente è dato dal soprannaturale, il quale dovrebbe dimostrare l'unità del trascendentale (che è nell'uomo), con il trascendente. La ricerca di Cadini è rimasta nell'ambito di questa dicotomia perché accogliere il soprannaturale in senso teologico significa negare l'autonomia della filosofia, accoglierlo in senso diverso vuol dire non accettare il cristianesimo. Da ultimo egli ha proposto una fondazione non teoretica ma fideistica dell'accettazione della trascendenza. Una via diversa ha scelto il suo allievo Marino Gentile (n. 19o6), espressa negli scritti La problematicità pura (194z), Come si pone il problema metafisica (195 5), Breve trattato di filosofia (1974). Egli sostiene che la metafisica classica- intesa come difesa della perennità dei valori del pensiero antico - risponde più integralmente alla problematicità e criticità sostenute, ma non soddisfatte, dal pensiero moderno. Da tale problematicità pura sorge la necessità ideale di un atto puro che soddisfi in modo adeguato alla richiesta di una integrale aspirazione indigenziale e potenziale, onde il « domandare tutto » che è anche un« tutto domandare » rinvia a una fondazione metafisica. Alla necessità di fuoriuscire completamente dall'attualismo, attraverso il riconoscimento del primato della metafisica è pervenuto anche Michele Federico Sciacca (1908-74), lo spiritualista più fecondo di opere storiografiche (su Platone, Reid, Rosmini, Pasca! ecc.) e teoriche, fra cui Linee di uno spiritualismo critico (1936), Filosofia e metafisica (1973), L'i11teriorità oggettiva (1967), Ontologia triadica e trinitaria (1973). Egli sostiene che la verità fondativa della metafisica, superatrice delle persistenti aporie dello stesso spiritualismo, è l'essere come idea perché esso « è la verità per cui è vero ogni giudizio conoscitivo, morale ed estetico; è il principio primo ed indipendente nell'ordine della conoscenza 88 www.scribd.com/Baruhk
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umana, di tutta l'attività spirituale ed è perciò il principio metafisica del conoscere, del volere e del sentire, in quanto è il principio di intelligibilità della vita spirituale, dell'esistenza e del reale». Augusto Guzzo (n. 1894) è stato allievo di Sebastiano Maturi (1843-1917), estraneo perciò all'idealismo soggettivo italiano e più aperto al riconoscimento della dimensione religiosa dell'assoluto, inteso come termine ultimo del pensiero e dell'attività umana. Le sue opere filosofiche più importanti sono: Verità e realtà. Apologia dell'idealismo (1925), Giudizio e valore (1928), Idealismo e cristianesimo (1936). Egli riconosce, all'interno dell'atto, la trascendenza del mondo e di dio, onde l'attività spirituale dell'uomo non è limitata alla ricerca del fondamento metafisica; ma si esplica attraverso le opere, che sono « forme » di tale attività produttrice, risposte diverse, personali a quell'esigenza di valore, che in quanto tale richiede la presenza di un Valore fondativo dell'uomo. Di qui la necessità di presentare la complessa fenomenologia delle «forme», attraverso cui l'uomo si manifesta. Guzzo ha tentato di dare una sistemazione complessiva del suo pensiero con un'ampia ricerca in più volumi, di cui sono usciti: L'uomo (1944), L'io e la ragione (1947), La moralità (1950), La scienza (195 5), L'arte (1962). Felice Battaglia (n. 1902) è giunto allo spiritualismo attraverso la meditazione dei temi etico-giuridici dell'attualismo, e la giustificazione di un Valore, fondativo della razionalità della storia. Ha scritto: Diritto e filosofia della pratica (1932), Il valore nella storia (1948), Moralità e storia nella prospettiva spiritualistica (195 3). Altri contributi alla problematica spiritualistica hanno portato Vincenzo La Via (n. 1895), Giuseppe Capograssi (1889-1956), Nicola Petruzzellis (n. 1910) e Renato Lazzerini (1891-1974), con personale accentuazione agostiniano-blondeliana. Per vie personali sono pervenuti a un esito spiritualistico Santino Caramella (1902-72), i due allievi di Varisco: Enrico Castelli Gattinara di Zubiena (n. 19oo), Gallo Galli (1889-1974) e i due allievi di Francesco De Sarlo: Eustachio Paolo Lamanna (1885-1967) e Gaetano Capone Braga (1889-1956). Segnaliamo infine la proposta di un « personalismo » cristiano, incentrato su una «metafisica della persona» - di contro la «metafisica dell'essere» dei neotomisti-avanzata da Luigi Stefanini (I 891-195 6) e da Luigi Pareyson (n. 191 8). In ambedue, la critica dell'idealismo, che avrebbe risolto - o meglio dissolto la persona nell'atto, si accompagna a una iniziale apertura all'esistenzialismo, il quale, come ricerca dell'autenticità della persona, è considerato un'esperienza che avanza, con maggiore acutezza, l'esigenza trascendentistica; oppure è giudicato come l'ultimo, conclusivo approdo del pensiero laico moderno in cui emergono, con più evidente consequenzialità, le sue aporie di fondo. Lo stesso spiritualismo cristiano, che nasce da una critica interna all'attualismo, non lo supererebbe completamente, perché ne accetta i fondamentali termini di discussione. Di qui la necessità, per Stefanini, di partire da una affermazione - e fondazione teorica - della persona, che si definisce nella sua irrepetibile singolarità, come
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sfera autonoma, ma non autosufficiente, della coscienza soggettiva, con una propria vita interiore, onde dall'esperienza dell'uomo emerge l'apertura a un esito metafisica: «L'essere è personale e tutto ciò che non è personale nell'essere rientra nella produttività della persona, come mezzo di manifestazione della persona e di comunicazione tra le persone. » Stefanini ha sviluppato la sua ricerca, in campo storiografico, con i due volumi su Platone (I 9 32-3 5), su V. Gioberti ( r 94 7) e L'esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico (I 9 52); in quello estetico: Problemi attuali d'arte (I939), Trattato di estetica (I955) e in quello filosofico: Metafisica della forma (I949), Metafisica della persona (I95o), Personalismo filosofico (1962, postumo). Luigi Pareyson parte da un'analisi critica dell'esistenzialismo in: La filosofia dell'esistenza e Carlo ]aspers ( r 940), giungendo a questa conclusione: « La filosofia dell'esistenza dello Jaspers pur portando tanti motivi per una soluzione concreta del problema della persona, non giunge a soddisfare l'esigenza personalistica, che è l'assunto dello stesso esistenzialismo.» Egli sostiene che la persona è singolarità, non autosufficiente ma aperta alla ricerca e bisognosa di una fondazione metafisica. La vita è essenzialmente creazione di forme e « poiché ogni aspetto della forma è relativo, attraverso uno solo di essi l'interpretazione può cogliere la totalità della forma; ma poiché nessun aspetto è esauriente, la forma può sempre esigere ulteriori sforzi di penetrazione ». La ricerca conoscitiva privilegia l'interpretazione perché essa è appunto «conoscenza di forme da parte di persone ». Il compito del filosofo è quello di delineare la complessa fenomenologia della formatività nel campo della critica, della gnoseologia e dell'estetica. Le opere più importanti del nostro autore sono queste: Studi sull' esistenzialismo (I943), Esistenza e persona (195o), Estetica: teoria della formatività (1954), L'estetica e i suoi problemi (196o), Verità e interpretazione (1971). Anche i neotomisti italiani hanno operato un aggiornamento metodologico e culturale, incentrando la critica teorica verso l 'idealismo e realizzando un ampio lavoro di storiografia filosofica, in alternativa a quella idealistica, espresso anche in volumi miscellanei su Vico (1926), Hegel (I932), Spinoza (I934), Cartesio (I937), Malebranche(1938), Galileo(I942), Leibniz(I947)· C'è inoltre una attenzione nuova verso la scienza, ma si è trattato di un fenomeno di breve durata, che non ha apportato risultati significativi. I pensatori neotomisti hanno continuato la loro polemica anti-idealistica e anti-marxista, rinnovando poi le motivazioni contro l'esistenzialismo e il neopositivismo. Il programma dei neoscolastici ha avuto un notevole incremento dopo la fondazione dell'Università Cattolica di Milano (1922), sotto l'attivo impulso di Agostino Gemelli (1879-1959). Emilio Chiocchetti (188o-I95 I) e Francesco Olgiati (1886-1962) hanno dato discussi contributi storiografici rispettivamente su: La filosofia di B. Croce (19I5 2), La filosofia di G. Gentile (1922), Il pragmatismo (1926), La filosofia di G.B. Vico (193 5), e su: L'idealismo di Berkeley ed il suo significato storico (1926), Il significato storico di Leibniz
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(1930), Cartesio (1934), B. Croce e lo storicismo (195 3). Altti contributi storiografici sono venuti da Mariano Campo e Luigi Pelloux. Un impegno più direttamente teoretico ha dato Umberto Padovani (18941968), scolaro di Martinetti, il quale ha sottolineato la necessità di dare una fondazione teologica della storia e di indicare una pratica ascetica per spiegare - e accettare - il male presente nel mondo, male che ha la sua matrice nel mistero del peccato originale e della redenzione. Ha scritto: Il fondamento e il contenuto della morale (1947), Filosofia e teologia della storia (1953). Carlo Giacon (n. 19oo) ha presentato e difeso le tesi fondamentali del tomismo, privilegiando h dottrina dell'atto e della potenza: Le grandi tesi del tomismo (1945). Altri contributi teorici sono stati dati da Amato Masnovo (1880-195 5): Brevi appunti di metodo sul problema della conoscenza (1935); Giuseppe Zamboni (1875-1950): Sistema di gnoseologia e di morale (193o); Cornelio Fabro (n. 1911): Dall'essere all'esistente (1957); Carlo Mezzantini (I 895-1971): Filosofia perenne e personalità filosofiche ( 1942). Un rilievo particolare è riconosciuto a Gustavo Bontadini (n. 1903) il quale è partito da una critica dell'attualismo - a cui riconosce le peculiarità di avere condotto alle estreme conseguenze il dualismo gnoseologico della filosofia moderna, evidenziandone le aporie- per poi proporre una diversa fenomenologia dell'esperienza, colta nell'unità iniziale, in cui realismo e idealismo coincidono, e sviluppata secondo quella reinterpretazione della metafisica classica che ha nel principio di non-contraddizione la sua giustificazione più persuasiva. Le opere principali sono: Saggio di una metafisica dell'esperienza (1938), Studi sull'idealispJo (1942), Indagini sul gnoseologismo tJtoderno (1952), Conversazioni di metafisica, 2 voli. (1971). Lo spiritualismo cristiano e in parte la stessa neoscolastica derivano dalla problematica idealistica e questo determina la caratteristica fondamentale di tali correnti: dall'attualismo infatti ereditano e mantengono una radicale negazione del valore della scienza o quando sostengono una sua strutturale differenza rispetto alla filosofia non fanno alcun riferimento ai caratteri assunti dell'odierna metodologia. La tematica teoretica è incentrata sul problema della metafisica come problema dell'interiorità, sull'autocoscienza e la trascendenza; c'è l'abbandono di ogni serio interesse etico-politico: insomma assistiamo a un reale impoverimento teorico, forse reso possibile dal fatto che « già il pensiero gentiliano era un compromesso fra idealismo e cattolicesimo, ed esso stesso, col crescere di preoccupazioni teologiche, si era andato involvendo verso posizioni sempre più teologiche, scoprendo da ultimo l'elemento dogmatico che era implicito nella sua dottrina» (Preti). Se la polemica contro l'idealismo e in particolare contro la sua concezione della storia del pensiero filosofico li ha indotti a dichiarare una certa autonomia della storiografia filosofica, i risultati di tali ricerche hanno poi rivelato non solo il peso di interessi politico-culturali, connessi con la lotta contro l'idealismo e il marxismo, ma soprattutto un criterio interpretativo non meno arbitrario di quello idealistico e finalizzato alla tesi che « la filosofia scolastica è ... la filosofia »
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(Masnovo). Essi sostengono - in particolare Bontadini - che la storia della filosofia moderna non è che l'eredità di fondamentali distorsioni gnoseologicodualistiche derivate da una acritica accettazione di metodi scientifici estranei alla filosofia come tale; di qui il problema di ritornare alla tematica antologica e metafisica del pensiero classico o medievale. Negli studi storiografici gli spiritualisti hanno privilegiato Blondel e Rosmini, Gioberti e Fichte. Solo Guzzo ha dedicato alla scienza un ampio studio e dalla sua scuola è uscita - per opera di Francesco Barone- la più informata monografia sul neopositivismo, mentre i neoscolastici hanno dato contributi sul pensiero medievale e accentuato la critica alle correnti filosofiche contemporanee. Degna di particolare attenzione l'opera storiografica di Sofia Vanni-Rovighi. X
• LA PENO ME NOLOGIA
La presenza di Husserl nella cultura italiana, fino agli anni cinquanta, è stata assai scarsa e delimitabile con precisione. Husserl è partito - come Vailati affrontando il problema della logistica, del calcolo logico, con sottolineatura dell'importanza decisiva della fondazione psicologica. Vailati invece riconosce subito che l'obbiettivo della logica è quello di emanciparsi dalla psicologia; comunque i rapporti logica-psicologia sono al centro della prima elaborazione del suo pragmatismo, che avviene in continuo contatto collaborativo e di discussione con lo psicologo G.C. Ferrari (1868-1932). Nel 1900 Husserl (Ricerche logiche) indica nella psicologia la fonte dello scetticismo logico e pertanto tenta di prospettare una soluzione del rapporto logica-psicologia diversa da quella presente nell'opera 1:/losofia dell'aritmetica (1891). Nella cultura italiana del primo Novecento, la scuola di Peano- che poteva discutere tali questioni- è stata emarginata presto, e successivamente è prevalso, nelle ricerche di logica, un orientamento psicologistico, a cui non potevano interessare le elaborazioni di Husserl. Solo De Sarlo all'inizio degli anni venti recupera la fenomenologia per reimpostare il problema, ma in termini che riecheggiano la sua adesione a Brentano (Lineamenti di una fenomenologia dello spirito, 1924), mentre successivamente il pensiero di Husserl viene discusso o attraverso la mediazione dell'esistenzialismo o come termine di confronto di autonome posizioni filosofiche (Aliotta, Pastore, De Ruggiero, Stefanini) o infine per un interesse di ricerca (Bobbio, Vanni-Rovighi). Solo Banfi - e poi Preti e Paci- ne accolgono sostanzialmente l'orientamento; nel primo però prevale il « primo » Husserl, da cui trae i motivi più validi per la sua sistematica del sapere. L'ultimo Husserl, quello della Krisis è recensito con sostanziale adesione da M.M. Rossi - il quale procederà in autonome ricerche di storia della filosofia accogliendo la tesi fondamentale di quell'opera. Banfì nell'ultimo scritto (Husserl e la crisi della civiltà europea, 1957) ne aveva evidenziato i limiti metafisici e Preti parla esplicitamente di una «greve metafisica
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idealistica». Solo Paci - dopo una complessa ricerca, di cui abbiamo indicato nel paragrafo VIII la fase esistenzialistica - ritiene che la Krisis costituisca il punto d'approdo del pensiero husserliano, da cui il nostro autore parte per proporre una nuova enciclopedia fenomenologica del sapere, nei due volumi: Funzione delle scienze e significato dell'uomo (1963), Idee per una enciclopedia fenomenologica (1973). Egli perviene a questa posizione sia attraverso un ampio lavoro interpretativo del pensiero di Husserl (Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, I 96 I), dopo aver prospettato una concezione filosofica ( relazionismo ), ispirata al pensiero di Whitehead (Tempo e relazione, 1954, Dall'esistenzialismo al relazionismo, 1957). Paci ha discusso criticamente il pensiero di tutti i più rappresentativi filosofi contemporanei; quello di Whitehead ha in comune con l'ultimo Husserl sia la persuasione che con Galileo ha inizio la crisi del sapere scientifico, con la conseguente ricerca delle essenze costitutive della realtà; gli « eventi », che Paci avvicina al mondo della Lebenswelt. Ora indicheremo brevemente in che cosa consiste la rielaborazione della tematica della Krisis tentata da Paci e la specificità della sua posizione. Egli si richiama alla fondamentale tesi husserliana, secondo cui la crisi della cultura europea si presenta « come un apparente fallimento del razionalismo », perché la manifestazione di tale razionalismo è stato il naturalismo e l'oggettivismo. Orbene, per il nostro autore « l'oggettivismo è la degradazione del soggetto a oggetto, il rovesciamento del soggettivo nell'oggettivo. In queso senso è alienazione dell'uomo», in un senso cioè accoglibile in una prospettiva marxiana. Insomma, « è fallito il cattivo uso della scienza e cioè il naturalismo che rende l'uomo cosa ed oggetto. Questa è la vera crisi della scienza, che è poi una crisi dell'esistenza umana». Di qui la necessità di integrare. la Krisis con una proposta di rifondazione dell'unità delle scienze. È questo il fine della fenomenologia come scienza nuova, in grado di prospettare una risposta risolutiva alla crisi della cuhura europea. Paci procede a una serie di critkhe al neopositivismo e ali 'impostazione stessa che è alla base dell'enciclopedia delle scienze. Il neopositivismo - che sarebbe venuto meno al suo duplice obbiettivo di indicare un fondamento sicuro delle scienze ed eliminare ogni tipo di metafisica - si configura come « profonda crisi sofistica ». Esso indica i limiti di un sapere, ma non può offrirne una alternativa, in quanto nega alla radice la possibilità stessa della filosofia, perché « il discorso filosofico, non verificabile né logicamente né empiricamente, è privo di significato in quanto non è né vero né falso ». Il neopositivismo avrebbe isolato il linguaggio dal mondo della vita, assolutizzando alcune tecniche; esso si muoverebbe in una atmosfera antistoricistica, e in quanto sancisce una chiusura verso il mondo della vita, che costituisce la struttura stessa dell'esistenza, è anche antiumanismo. Il rapporto tra l'esperienza e la matematica, che è al centro dell'epistemologia contemporanea, si risolve - secondo Paci - non attraverso il perfezionamento
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dei nostri strumenti conoscitivi, ma con un ricorso all'epoché, che supera tale dualismo in quanto « le scienze e ogni forma di sapere possono tendere all'unificazione perché già all'origine sono implicitamente unite nella concretezza delle operazioni radicate nella percezione e nell' Erlebnis ». Già è stato sottolineato, nel capitolo n del volume settimo dedicato all'analisi della Krisis, che il ricorso al precategoriale come momento fondativo di tutta l'esperienza non risolve affatto il problema del valore conoscitivo della scienza. Limitarsi a sostenere che «la fenomenologia, se critica la scienza, la critica in quanto dimentica il precategoriale », significa scambiare il punto di partenza del processo conoscitivo (comune e scientifico) con il punto d'arrivo. Egli, pur riconoscendo che il processo conoscitivo si instaura nel rapporto fra i dati osservativi e le categorie, ritiene di potere offrire una conoscenza valida, esatta e sicura della realtà, togliendo (epochizzando) il momento categoriale. La filosofia come fenomenologia si presenta allora come « scienza delle operazioni soggettive fondanti » e l'unificazione del sapere « si chiarisce in funzione delle operazioni soggettive e storiche del precategoriale ». Paci precisa infine che « la realtà a cui ogni eidos e ogni scienza si riferiscono è il plenum precategoriale. La struttura delle scienze si presenta in tal modo come continua interrelazione tra regioni eidetiche e come continuo riferirsi delle regioni eidetiche stesse al punto di partenza concreto ». Al di fuori di tale rapporto ogni struttura diventa astratta e perde così il suo valore conoscitivo. L'unificazione delle scienze non è pertanto il risultato di una indagine sulle loro effettive strutture logiche, perché « la natura stessa, così come è concepita, e deve essere concepita, dalla fisica matematica, è una natura categoriale, mentre la natura reale è precategoriale e la prima è fondata sulla seconda ». Questa posizione porta ad escludere - in linea di principio - una seria indagine degli odierni dibattiti metodologici, dei più importanti risultati della epistemologia, nella persuasione che l'unico compito del filosofo sia quello di delineare una metafisica fondativa del sapere scientifico. La Lebenswelt permetterebbe appunto « un tipo nuovo di metafisica nel senso di filosofia prima ma di cui è possibile un'indagine eidetica, strutturale, morfologica ». Su questa base Paci propone un incontro e una integrazione con il marxismo, non solo al fine di consolidare la fenomenologia, con il riconoscimento che « le forme fenomenologiche sono rapporti di produzione, lavoro economico, valore d'uso e di scambio: in ogni caso valore», ma anche al fine di « fondare » la fenomenologia stessa, a cui è finora stata estranea una adeguata considerazione dell'economia. Tuttavia non è uno studio rigoroso dell'economia che viene promosso o condotto; è solo dichiarato il proposito di trattare «il problema della fondazione precategoriale dell'economia politica». Il fenomenologo cioè non deve dare dei contributi scientifici, né delle indicazioni di ricerca specifica, ma solo accertare che la ricerca non si emancipi dai connotati di esperienza da cui deve partire: è la negazione stessa della con-
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cezione del sapete scientifico elaborato dal pensiero moderno. Per quanto riguarda il marxismo viene espunta la dialettica e a maggior ragione la dialettica della natura, dal momento che se « la natura è separata dai soggetti che la studiano essa è natura morta, come astratta assunzione di categotie logiche ». Il marxismo è ridotto, al più, a materialismo storico, a esigenza di un cambiamento della società, secondo però un vago ideale etico-politico che si richiama al socialismo. Il privilegiamento del momento precategoriale dell'economia politica può essere considerato pertanto un ritorno a posizioni che si richiamano alla revisione soggettivistica dell'economia politica condotta dalla scuola austriaca dell'inizio del Novecento o anche al concetto di «vitalità» dell'ultimo Croce. Paci ha fondato e diretto la rivista «Aut Aut» (195 1-76) che in un certo senso è diventata l'organo della fenomenologia in Italia. L'orientamento fenomenologico, di ispirazione banfiana, ha trovato una estesa e approfondita applicazione nell'estetica, con una novità di fondo: mentre in Banfì l'estetica costituiva una «regione» di una più vasta realtà problematica, questi allievi tendono a configurare l'estetica come una forma conoscitiva privilegiata, tale da offrirei i lineamenti di una concezione complessiva della realtà, come già aveva tentato Baratono. Luciano Anceschi (n. 19I I), dopo un primo tentativo (AutonopJia ed eteronomia dell'arte. Sviluppo di un proble11ta estetico, I936, n ed. 1..95 9), ha presentato una compiuta proposta estetica, secondo i criteri fenomenologici in: Progetto di una sistematica dell'arte (I962), verificata poi in precisi saggi letterari. Egli sostiene che l'estetica fenomenologica non ha come criterio metodico la ricerca di principi definitivi di valutazione; non si chiede che cos'è l'arte, ma indica le diverse modalità in cui si presenta il prodotto artistico. L'estetica non richiede una fondazione filosofica o sociologica, perché essa ha in sé il principio della sua costituzione. Dirige dal 1952 la rivista« Il V erri», che ha sollecitato indagini nuove, con promozione e difesa dei movimenti dell'avanguardia letteraria. Dino Formaggio (n. I9I4) ha espresso il suo orientamento anticrociano e antigentiliano in: L'arte come comunicazione. Fenomenologia della tecnica artistica (195 3), e ha avanzato la sua proposta di una estetica fenomenologica in: L'idea di artisticità (1962), con approfondimento e teorizzazione dell'arte «come logica della possibilità progettuale »in: Arte (I973)· Luigi Rognoni (n. I9I3) si è interessato dell'applicazione dei criteri fenomenologici alla musica, con particolare interesse ai condizionamenti che anche l'arte d'avanguardia subisce da parte del potere. Ha pubblicato Espressionismo e dodecafonia (I954), Fenomenologia della musica radicale (I966). Al di fuori della « scuola » banfìana, hanno progettato estetiche di orientamento fenomenologico Guido Morpurgo Tagliabue, con Il concetto dello stile (1951) e L'esperienza artistica (I967), e Carlo Diano (1902-72) con Forma ed evento (I 9 52) e Linee per una fenomenologia dell'arte (I 9 52). 95 www.scribd.com/Baruhk
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Giovanni Maria Bertin (n. I9I2), ha approfondito lo studio dei problemi educativi, in una prospettiva fenomenologica: Introduzione al problematicispto pedagogico (I95 I), Etica e pedagogia dell'impegno (I95 3), Esistenzialismo, marxismo, problematicismo nella pedagogia (I 9 55), L'idea pedagogica e il prin>ipio di ragione in A. Banft (I96I), Educazione alla ragione (I968). Infine Remo Cantoni (n. I9I4) ha portato all'orientamento fenomenologico un contributo di indagini storico-critiche su autori e temi, in cui emerge in modo emblematico la crisi della cultura odierna: Crisi dell'uomo. Il pensiero di Dostojewski (I948); La coscienza inquieta. S. Kierkegaard (I949). Ha approfondito criticamente la concezione della storia, elaborata dalla cultura tedesca contemporanea, in Mito e storia ( r 9 58), che integra il suo primo lavoro pionieristico su Il pensiero dei pnmitivi (1941, n ed. I963). In Umano e disumano (195 8) presenta i lineamenti della sua filosofia, «una filosofia dell'uomo come ente finito e storico, portatore di valori che nessuna potenza metafisica o cosmica, a lui trascendente, può, in sua vece, garantire o fondare». Tale orientamento è ripreso in: Illusione e pregiudizio (I 967) e Antropologia quotidiana (I 97 5). Ha fondato e diretto la rivista «Il pensiero critico» (prima serie: I952-54; seconda serie I959-62), con un programma di aggiornamento della tematica delle scienze umane. Altri lavori ispirati alla fenomenologia husserliana sono dovuti a Giuseppe Semerari e Renzo Raggiunti, autore di un interessante volume su: Husserl, dalla logica alla jrmo1nenologia (I967). XI
• IL NEOEMPIRISMO E LA FILOSOFIA ANALITICA
Già nel paragrafo VI abbiamo dato una valutazione complessiva della politica culturale del neo illuminismo degli anni quaranta-cinquanta; ora tenteremo una valutazione del contributo teorico del neoempirismo italiano. Innanzi tutto va subito notato che in Italia non è possibile indicare un neoempirista « ortodosso », seguace cioè del Circolo di Vienna. Sulla rivista del movimento, « Erkenntnis », non si trova alcun apporto di studiosi italiani (solo Enriques partecipò ad alcune riunioni redazionali); pertanto tale termin~ - o altri equivalenti come neopositivismo --ha assunto in Italia un significato abbastanza esteso, comprendendo metodologi, analisti del linguaggio, filosofi della scienza.! Il neoempirismo si è configurato più come un atteggiamento culturale che come una precisa filosofia, e anche quando i motivi più significativi di tale orientamento sono stati accolti, si sono innestati su posizioni filosofiche affini. I Nel 195 3-54 è stato pubblicato il materiale più significativo - di dibattito e di studio ispirato al neoempirismo. Nel 1953-54, la sezione lombarda della SFI (Società filosofica italiana) organizza a Milano una serie di conferenze sul Circolo di Vienna; vengono promossi da studiosi di Torino e di Milano quottro convegni na-
zionali che hanno per oggetto la discussione del rapporto fra filosofia, scienza e analisi del linguaggio. Inoltre nel I 9 53 sono pubblicati questi libri: L. Geymonat: Saggi di filosofia neorazionalistica; G. Preti: Linguaxgio comune e linguaggi scientifici; P. Filiasi Carcano: Problematica della filosofia odierna; F. Barone: Il neopositivismo logico.
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Quei filosofi che non sono stati direttamente legati alla tradizione filosofica italiana- in cui più radicale è stato il divorzio fra ricerca scientifica e filosofia(Abbagnano, Preti, Geymonat), non hanno aderito integralmente al neoempirismo, ma piuttosto ne hanno proposto una utilizzazione in direzioni diverse. La prima informazione, in certo senso problematica, del Circolo di Vienna si trova nel volume di L. Geymonat: La nuova filosofia della natura in Ger111ania, del 1934, e del 193 5 è il saggio Nuovi indirizzi della filosofia austriaca, considerato dallo stesso Schlick l'esposizione «migliore da un punto di vista neutrale» del Circolo di Vienna. Il libro che più si avvicina al neoempirismo, con introduzione esplicita di elementi critici e indicazione di necessarie integrazioni dell'analisi formalistica, con quella semantica e pragmatica e successivamente con l'introduzione della dimensione storica, è Studi per un nuovo razionalismo, di L. Geymonat ( 194 5). Insomma il neoempirismo si è presentato sostanzialmente come una nuova mentalità filosofica, che aveva abbandonato la retorica idealistica connessa all'altra, di ordine politico, su un presunto primato italiano. Di qui l'urgenza di riprendere fruttuosi rapporti con la cultura dell'area anglosassone, in cui più evidente era il riconoscimento del primato della scienza. Viene proposta una filosofia militante con un'apertura agli orientamenti più diversi (pragmatismo, neopositivismo, filosofia analitica). Non è un'operazione accademica, di recupero nell'ordine culturale, di fermenti nuovi; nella maggioranza si tratta di studiosi in cui la ricerca di nuovi strumenti conoscitivi è unita alla tensione per la trasformazione sociale, oltre che culturale. Un punto di convergenza importante, riscontrabile fra gli studiosi neoempiristi, è costituito dalla concezione della ragione come tecnica di ricerca, esposta in questi termini nel saggio di Ab bagnano L'appello alla ragione e le tecniche della ragione (1952): «Il termine ragione, in quanto indica un'attività o un potere specifico dell'uomo, può essere assunto in due significati fondamentali diversi. Esso può significare: 1) Una qualsiasi ricerca, in quanto tende a liberarsi da presupposti, pregiudizi e inceppi di ogni genere che tendono a vincolarla; z) Una particolare tecnica di ricerca... Ragione in questo secondo senso è per esempio l'organizzazione dei termini e delle proposizioni secondo le regole della sillogistica o secondo altre regole. Ma qualsiasi tecnica di ricerca, comunicabile e dovuta alla iniziativa del ricercante, è in questo senso ragione. La dialettica platonica, la scienz;J aristotelica, l'intuizione evidenziale di Cartesio, la dialettica hegeliana, sono esempi di queste tecniche. » Questa concezione antidogmatica della ragione è stata largamente accolta, con integrazioni e approfondimenti, dagli studiosi neoempiristi, e variamente utilizzata in precise analisi storicocritiche. Vogliamo solo accennare all'efficacia anti-idealistica e, più in generale, anti-assolutistica, assolta da questo uso critico della ragione. L'interpretazione delle teorie scientifiche come tecniche e della stessa storia della scienza come progettazione di tecniche sempre più perfezionate, ha permesso di superare i li97 www.scribd.com/Baruhk
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miti della metodologia convenzionalista. È indubbio che alcuni studiosi hanno accentuato l'importanza del soggetto nell'attività scientifica; comunque, intendere ogni teoria scientifica come tecnica significa non solo riconoscere che la razionalità non è assoluta, ma appunto uno strumento e in quanto tale sempre più perfezionabile, ma soprattutto che tale strumento ci mette in contatto con la natura, di cui ci permette una conoscenza via via più profonda. In questa concezione la metodologia assume un rilievo del tutto particolare: essa non è più identificabile con la filosofia della scienza - che affronta i problemi più generali sul valore conoscitivo della scienza- ma assolve un compito specifico, nell'ambito della concreta opera dello scienziato. Il metodologo cioè deve contribuire a fare riflettere lo scienziato sulle sue procedure tecniche, conoscitive; sulle trasformazioni e i miglioramenti che si debbono operare; insomma la sua funzion~.: diventa insostituibile sia nel lavoro scientifico sia per la stessa delineazione di una filosofia della scienza che non discetta più in termini generali, ma che sorge sulla base di un serio studio dell'indagine scientifica. Un'altra importante funzione metodica innovativa si è riscontrata nella storiografia filosofica, con un ampliamento del campo di indagine, dal momento che viene meno la differenza strutturale fra ricerche filosofiche e non-filosofiche; è lo stesso oggetto della filosofia che si allarga, senza però perdere il suo spessore teorico. La tendenza antimetafisica del neoempirismo è affermata nel momento stesso in cui si riconosce che l'appello alla ragione è la condizione stessa che esclude la ricerca di una « vera razionalità », attingibile al di fuori di precise tecniche: sono le stesse categorie interpretative idealistiche - come quella « classica » di superamento - che sono riconosciute come- tecniche, e perciò parziali, provvisorie, migliorabili, per cui non hanno alcuno statuto teorico privilegiato perché « la razionalità non si esaurisce in nessuna di queste tecniche isolatamente prese, ma vive nell'umanità che le crea, le sviluppa, le modifica, le :rinnova... non esiste una tecnica di per sé razionale, come non esiste una razionalità assoluta fuori della storia: la razionalità vive unicamente nell'uomo che lavora e lotta per potenziare le proprie idee ed azioni» (Geymonat). Questo movimento neoempiristico è stato un momento significativo nella cultura italiana degli anni cinquanta, in cui si è riconosciuta una generazione di filosofi che poi sono giunti a esiti teorici anche assai differenti; ma il fatto che abbiano contribuito a una seria riforma del filosofare, permette ancora oggi di individuare fra questi un comune, importante progetto di rinnovamento della cultura italiana. Il filosofo più rappresentativo del neoempirismo italiano è Giulio Preti (19II-72), sia perché tale orientamento è rimasto in lui dominante- come egli stesso riconobbe nella sua breve autobiografia filosofica (Il mio punto di vista empiristico, I 9 58) - sia perché ha espresso - di tale filosofia - alcune delle migliori potenzialità critiche. La sua attività filosofica è inscindibile da quella politico-
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culturale, attestata dalla sua presenza determinante nelle riviste più combattive dagli anni trenta agli anni cinquanta. Al fondo è rimasta la lezione banfiana di una filosofia che affonda le ragioni della sua validità nell'individuazione delle tensioni teoriche in vista di un più complessivo progetto politico umanistico di liberazione dell'uomo. I primi scritti indicano una scelta fondamentale, insieme a un impegno mediativo di esigenze diverse, che sarà una caratteristica peculiare del suo « stile » di filosofo: I fondaptenti della logica formale pura nella « Wissenschaftslehre » di B. Bolzano e nelle « Logische Untersuchungen » di E. Husserl (1935), Dialettica e principio di non contraddizione (r937), Tipologia e sviluppo nella teoria hegeliana della storiografta ftlosoftca (1938). Una prim::~ sistemazione del suo pensiero è espressa in due volumi: La fenomenologia del valore ( r 942) e Idealismo e positivismo (1943). In quest'ultima opera Preti tenta una mediazione fra le due posizioni teoriche, nella persuasione che sia possibile espungere le metafisiche costruite sui principi metodici dell'idealismo e del positivismo; al fondo di ambedue, sia pure espressa in linguaggi diversi, c'è un'istanza razionalistica, di unificazione dell'esperienza con la ragione, istanza che è anche alla base del suo dichiarato razionalismo critico. Quelle due correnti ·avrebbero scambiato il principio metodico, che serve per comprendere l'esperienza, con un dato dell'esperienza stessa. Quest'operazione (teorica e culturale) è condotta secondo la prospettiva di un «nuovo» positivismo a cui l'autore riconosce «profonde parentele con la fenomenologia di Husserl, il Circolo di Vienna, e con forme di trascendentalismo critico, quali il pensiero di E. Cassirer e di A. Banfi ». Successivamente approfondisce sia lo studio di alcuni autori, mettendone in rilievo l'intrinseca connessione esistente tra il loro pensiero filosofico e un più complessivo progetto culturale: Pasca! e i giansenisti (1944), Newton (1950), Il cristianesimo universale di G. G. Leibniz (195 3), sia la tematica pragmatistica e neopositivistica, sia infine la problematica storiografica, in un complesso tentativo di ricostruzione filosofica. Egli sottopone a precise e spesso persuasive critiche teoriche le diverse correnti del pensiero contemporaneo, ne chiarisce una possibile utilizzazione quando afferma, a proposito del neopositivismo, che esso manca di « una dialettica trascendentale, come legge generale della deduzione e dello sviluppo fenomenologico delle categorie della scienza ». Secondo Preti la filosofia deve costruire un quadro antologico-formale e, attraverso l'analisi delle strutture dei vari linguaggi, realizzare una autentica cultura, che offra efficaci strumenti conoscitivi e sia soprattutto democratica. In ultima analisi egli rivendica la validità della fenomenologia come analisi del sapere, in cui il compito antidogmatico della filosofia è quello di « esplicitamente delle forme, strutture linguistiche, categoriali ecc., della tradizione »: è la proposta di un trascendentalismo profondamente diverso da quello kantiano o neokantiano poiché ora « non si tratta di forme pure di un coscienza in generale o io penso, bensì di. schemi, scheletri, costruiti dall'uomo, e il perché e il come siano stati costruiti è piuttosto oggetto
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di antropologia pos1t1va che non di speculazione filosofica». D'altra parte, la critica filosofica non deve limitarsi a un controllo logico-metodologico o logicolinguistico degli enunciati; anzi essa è anche critica dei presupposti e dei fondamenti, onde evitare il dogmatismo in cui ogni filosofia rischia di cadere. L'attività filosofica si caratterizza pertanto come analisi critica all'interno di ogni campo del sapere, per fare corrispondere il sapere filosofico ai « bisogni di sapere », sempre storicamente determinati e perciò variabili. Questa concezione del filosofare esprime tutta la sua carica innovativa e polemica nel libro Praxis ed et71piris?l10 (1957), pubblicato insieme a: Alle origini dell'etica contemporanea. Ada?JIO Smith ( 19 57). I due testi sono complementari, con una proposta filosofica complessiva, in cui quella teorica del primo si integra con il recupero della migliore tradizione etica dell'illuminismo, insieme alle più moderne analisi logico-linguistiche dell'empirismo contemporaneo inglese presente nel secondo. Anche in questo caso Preti opera una « riduzione » delle correnti discusse, per metterne in evidenza non una integrazione a livello di concezioni del mondo ma a quello metodico-interpretativo, onde il marxismo accolto è quello degli scritti giovanili di Marx, insieme al pragmatismo deweyano e alle istanze logiche del neoempirismo, nella persuasione che alla base sia rintracciabile un progetto sostanzialmente unitario: quello di una cultura aperta alle scienze umane, democratica e tesa a un cambiamento della società. In questo contesto le difficoltà teoriche si stemperano e sono superabili solo se si accerta che « la forma di cultura che esse tendono a produrre deve essere in _sostanza la medesima, altrimenti ogni loro convivenza, anche semplicemente come simbiosi, non sarebbe possibile». In queste opere Preti continua la proposta che aveva già abbozzata sul « Politecnico »: quella di una cultura democratica, accessibile a tutti, nel senso che « tutti possano, senza aver bisogno di rivelazioni privilegiatorie, arrivare a sapere tutto quello che altri sanno. L'essenziale è che non ci siano " autorità ", che la cultura si fondi su qualcosa che tutti possono verificare in comune, " vedere " insieme». Il marxismo dovrebbe appunto costituire la coscienza critica di tale progetto, in un rapporto di collaborazione con le altre forze intellettuali. Questo tentativo di mediazione tra il marxismo e altre forze culturali, in primo luogo il neoempirismo, corrispondeva al nuovo clima culturale sorto dopo il xx congresso del partito comunista dell'Unione Sovietica (1956). Non intendiamo entrare nel merito di tale proposta politicoculturale, né discutere la consistenza teorica di questo libro, che ha determinato una delle più vivaci e feconde discussioni sul finire degli anni cinquanta. Preti ha continuato con l'approfondire gli altri temi teorici di attualità, espressi in particolare in Retorica e logica. Le due culture (1968) e, postumo: Umanismo e strutturalismo (1973). Un interesse particolare assume nel pensiero di Preti il problema della scienza, discusso in molti saggi teorici e storici. Secondo la prospettiva trascendentalista, sopra delineata, Preti riconosce che ogni campo del sapere («universo del discorso») gode di una relativa autonomia, data appunto dalla 100
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sua dimensione trascendentale, cioè dal suo campo di significati, categorie, onde una unificazione di tali universi di discorsi è possibile solo sul piano formale; ne risulta una varietà di campi del sapere coesistenti ma non compiutamente comunicanti fra di loro. Una proposta risolutiva di unificazione del sapere può essere offerta, secondo il nostro autore, da una epistemologia storica o storia della scienza, che si configuri sia come storia del trasformarsi delle strutture del linguaggio scientifico (all'internG di ogni scienza istituzionalizzata), sia come traduzione, riduzione, trasposizione da un universo del discorso all'altro; operazioni sempre legittime e possibili, ma sempre entro limiti, superando i quali si perde la specificità delle singole ontologie regionali. La dimensione della « storicità » non è un connotato antologico della scienza ma una idea regolativa, un ideale del sapere, un'esigenza più che una verità, che costituisce la permanente tensione verso l'appropriazione conoscitiva e pratica della realtà da parte dell'uomo. Anche per la filosofia analitica valgono le considerazioni introduttive al neoempirismo; in Italia il pensiero del secondo Wittgenstein, R yle e Austin, ha subito l'impatto con una tradizione culturale storicistica e con problemi teorici difficilmente assimilabili a quelli della filosofia analitica inglese. Non considereremo i molti lavori di autori italiani sulla filosofia analitica, svolti non con adesione sostanziale a tale orientamento ma per fare opera di divulgazione o di aggiornamento, nell'ambito di posizioni poco convergenti o antitetiche. È il caso degli studiosi cattolici, che per lo più, andando oltre l 'intento informativo, operano lo stesso stravolgimento condotto prima verso l'idealismo, il marxismo ecc., come abbiamo precisato nel paragrafo IX. I filosofi che hanno prodotto saggi e studi di filosofia analitica sono stati: Ferruccio Rossi-Landi, Renzo Piovesan, Uberto Scarpelli, Norberto Bobbio, Amedeo G. Conte e Franco Restaino. Rossi-Landi (n. 1921) ha svolto negli anni cinquanta un ampio lavoro informativo sulla filosofia analitica, con tentativi di utilizzare le nuove tecniche logico-linguistiche in studi specifici, per saggiarne l'efficacia interpretativa e la novità dei risultati ri~petto alla storiografia storicistica. La proposta culturale che avanza alle altre correnti è, più che la definizione di un accordo su qualcosa (principi, concezioni del mondo ecc.), verso qualcosa (la liberazione dei nostri strumenti conoscitivi dai nuovi idola fori; l'uso della lingua e del linguaggio intesi come un insieme di tecniche; la ripresa di una tradizione italiana - che va da Cattaneo a Vailati ecc.). Fra gli scritti di questo periodo segnaliamo: Charles Morris (195 3); l'edizione italiana, con tagli e aggiunte e un saggio introduttivo di: Lo spirito come comportamento, di G. Ryle (1955); La filosofia analitica di Oxford (1955); L'eredità di Moore e la filosofia delle quattro parole (1956); Sul carattere linguistico del filosofare (1957); Universo del discorso e lingua ideale in filosofia (195 8). La sua posizione filosofica è posta all'incrocio di molteplici indirizzi (dalla semi o ti ca di Ch. Morris al pragmatismo americano e quello di Vailati, dall'operativismo di Dingler a Wittgenstein e Ryle- questi ultimi due IOI
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in posizione privilegiata). Nella sua opera più rilevante di filosofo analista, Significato, comunicazione e parlare cotnttne (I 96 I), ha prospettato questo preciso criterio metodico: « Intendo studiare l'apriori nel linguaggio in una direzione ispirata alla kantiana logica trascendentale come indagine non tanto di fatto quanto di diritto. » Il linguaggio, il parlare comune, non è quello quotidiano, ma appunto quello che è presente in ogni situazione linguisticamente significativa, e come tale è presupposta in ogni linguaggio, anche quelli speciali delle scienze. Il suo obbiettivo, di delineare « una metodologia generale del linguaggio e parlar comune in quanto significante », è raggiunto attraverso precise e circostanziate analisi dei fatti linguistici. In questa concezione del filosofare come attività chiarificante anziché come scienza di qualcosa, il linguaggio comune (o ordinario) esprime delle« costanti» insopprimibili dell'esperienza comune che come tali non possono essere considerate pre- o anti-scientifiche, superate o espunte dai linguaggi scientifici. I linguaggi formalizzati sono utilizzati nelle teorie scientifiche ma non sono applicabili al linguaggio comune, la cui struttura ubbidisce a una logica informale, altrettanto complessa e importante della logica simbolica. Successivamente Rossi-Landi ha esteso i suoi interessi e approfondito le ricerche in una direzione marxiana, espressa nelle due raccolte di saggi: Il linguaggio come lavoro e come mercato (I968) e Semiotica e ideoloFJa (I972). Renzo Piovesan (n. I 924) nel volume: Analisi filosofica e fenomenologia linguistica (I96I), e poi in: Filosofia e prassi linguistica (I974), considera come momento culminante della filosofia analitica la teoria degli atti linguistici di John L. Austin. Accentuando, rispetto allo stesso Austin, l'interesse al contesto e agli aspetti pragmatici o « performativi » dell'agire linguistico, vede nel linguaggio non un sistema di segni o un'attività o istituzione autonoma, bensì una complessa modalità del «fare umano» variamente socializzato, istituzionalizzato e tecnicizzato. Altri studiosi hanno applicato l'analisi linguistica in specifici campi del sapere: Norberto Bobbio (n. I9o9) e Uberto Scarpelli (n. I924) nella giurisprudenza. Bobbio è stato -ed è tuttora -l'ideologo più agguerrito del neoempirismo italiano. I suoi interventi politico-culturali hanno determinato alcuni dei più fecondi dibattiti nella cultura italiana; egli ha così svolto con efficacia una funzione di critica costruttiva, con orientamento laico e antifascista, insistendo per un recupero non meramente culturalistico della nostra tradizione illuministica. Allievo di Gioele Solari, negli anni trenta ha pubblicato studi sulla fenomenologia e la filosofia dei valori, e negli anni quaranta: La filosofia del decadentismo (I 944), Introduzione alla filosofia del diritto (I 94 7), con il riconoscimento del primato spettante al concetto di giustizia. Nel I950 ha scritto il «manifesto» analitico per la giurisprudenza: 5 cienza del diritto e analisi del linguaggio, in cui avanza e motiva la nuova proposta di una giurisprudenza come scienza. L'uso delle tecniche analitiche, con indipendenza da scuole e da posizioni acquisite, è esplicito in: Teoria della scienza giuridica (I 9 5o). Altri importanti libri: Politica e cultura (I 9 55), Italia
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civile (I 964), Gittsnaturalistllo e positivimto giuridico (I 96 5), Da Hobbes a Marx (I 96 5), Saggi sttlla scienza politica in l t alia (I 969) e infine il fondamentale bilancio dell'empirismo italiano: Empiristllo e scienze sociali in Italia (I 97 3). Scarpelli ha scritto: Filosofia analitica e giurisprudenza (I 9 53) e, con approfondimento e posizione autonoma: Il problmta della definizione e il concetto del diritto (I95 5). Infine ha esteso i suoi interessi nel campo dell'etica con orientamento più esplicitamente analitico e con ampia informazione: Etica e linguaggio (I954), Contributo alla semantica del linguapgio nomtativo (I 9 59), Filosofia analitica, norme e valori (I962), Etica. Linguaggio e ragione (I974).
Ha dedicato importanti lavori storico-critici al neopos1t1v1smo, con aggiornata discussione della tematica analitica e delle scienze umane e con tendenza sincretistica, Paolo Filiasi Carcano (n. I 9 I 2): Antimetafisica e sperimentalismo (I941), Problematica della filosofia odierna (195 3), La metodologia nel rinnovarsi del pensiero contemporaneo (I957), Epistemologia delle scienze umane (1975). XII
• IL MARXISMO
In questo paragrafo ci limiteremo a precisare il pensiero di alcuni filosofi marxisti, che hanno riconosciuto cioè l'autonomia teorica del marxismo, senza proporne integrazioni fondative (vuoi fenomenologiche, vuoi strutturalistiche ecc.), anche se con tali orientamenti questi autori hanno intrecciato un dialogo serrato. Inoltre non discuteremo l'uso del marxismo o di suoi aspetti o di alcuni criteri metodici- fatto da studiosi delle scienze umane. Infine rimarrà fuori dalla nostra messa a punto il pur importante dibattito politico-culturale che si è avuto in questi ultimi trent'anni sia all'interno del marxismo italiano sia nel dialogo che esso ha istituito con le altre correnti filosofiche. Per avere un quadro complessivo del marxismo bisognerebbe analizzare almeno la pubblicistica più significativa degli anni venti e degli anni trenta. Fino all'instaurazione della dittatura, molte riviste teoriche dei partiti operai e di movimento come «Non mollare» (1925), «Il caffè» (1924-25), «Quarto stato» (1925-26), «Ordine nuovo» (1919-25), hanno dato un rilevante contributo di analisi e di discussioni; poi, durante il periodo della dittatura, nell'emigrazione, il dibattito è continuato in un rapporto critico e a volte costruttivo fra le correnti del socialismo europeo e dell'internazionale comunista; basti accennare alla rivista «Stato operaio» (I929-37), a «Politica socialista » (1933-35), ai tredici quaderni di« Giustizia e libertà» (1932-35). Su queste riviste è presente non solo una seria analisi della situazione italiana, del fascismo, ma anche un tentativo di reinterpretazione del marxismo stesso. È evidente che una attendibile presentazione del marxismo italiano non può prescindere dai contributi sopraddetti a cui bisogna aggiungere i lavori di Rodolfo Mondolfo (I877-I976), che è stato in Italia fino al 1938 quando, a causa
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delle leggi razziali, è emigrato in Argentina. Il suo pensiero ha avuto larga diffusione specialmente nell'area socialista. Infine segnaliamo Luigi Dal Pane, l'allievo di Labriola, il quale ha continuato a produrre importanti lavori di storia economica fino a delineare un originale ripensamento teorico del pensiero labriolano. Ricordiamo, oltre all'ormai «classico» Antonio Labriola. La vita e il pensiero (1935, n ed. rivista e aumentata, 1975), Lo sviluppo uonomico d'Italia negli ttlti!lzi cento anni (1962), Orimta!lJenti per lo st11dio della storia economica (1965), La storia come storia de/lavoro (1968), Sulle origini del materialis11Jo storico (1974). Una delle correnti più vive della cultura italiana di questo secondo dopoguerra è stata senza dubbio il marxismo. Come premessa di carattere generale è da accogliere l'osservazione di Banfi, il quale annotava come la quasi totalità dei « filosofi che possono oggi in Italia dirsi marxisti siano giunti al marxismo sopra tutto attraverso l'esperienza della lotta politica e sociale [onde], proprio per l'origine essenzialmente pratica del loro orientamento, teoricamente provengono da vari indirizzi e correnti della filosofia contemporanea ». È indubbio che l'azione politica di unità nazionale, svolta dai partiti operai durante la lotta di liberazione nazionale e anche dopo, è stata uno dei motivi che hanno determinato l'adesione di una larga parte di intellettuali a questi partiti, anche se le loro posizioni teoriche non si caratterizzavano come marxiste. Valga per tutti l'esempio di molti intellettuali raccolti attorno alle numerose riviste politiche e filosofiche, di cui abbiamo parlato nel paragrafo vn. Non intendiamo affrontare la complessa storia dei rapporti fra gli intellettuali e i partiti operai, né esaminare l'itinerario filosofico di coloro che hanno raggiunto, nel corso stesso della loro milizia politica, posizioni definibili marxiste, in senso lato. Ci limiteremo a ribadire che il fatto culturalmente più rilevante, nell'ambito della cultura democratica, è stato senza dubbio la pubblicazione dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci. Le sue nuove proposte interpretati ve della storia d'Italia e della cultura italiana hanno contribuito a un profondo rinnovamento della storiografia politica e letteraria; in questo campo si sono avuti i risultati più importanti e innovatori. Gli scritti gramsciani sono stati anche al centro di fecondi dibattiti, che si sono estesi alle ricerche sulla scuola, sulla pedagogia e la letteratura. Fino a che punto l'incontro con Gramsci sia stato determinante nell'orientamento dei filosofi marxisti italiani, è ancora una questione aperta ali 'indagine e alla discussione. I più importanti filosofi marxisti, Antonio Banfi, Galvano della Volpe, Cesare Luporini e altri, hanno raggiunto posizioni marxiste, in senso lato, dopo una complessa e assai diversa esperienza culturale, e la loro sistemazione teorica era già sostanzialmente conclusa quando iniziò la conoscenza dei Quaderni dal carcere di Gramsci. Tenuto conto di ciò, va riconosciuto che l'influenza esercitata dal pensiero
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gramsciano entro la cultura italiana, in questo venticinquennio, è forse circoscrivibile più nei campi della politica, degli studi storici e letterari, che non in quelli più propriamente filosofici. In questi ultimi anni però assistiamo a una ripresa, con approfondimento storico-critico e riutilizzazione nuova del pensiero gramsciano, in Italia e in Francia, in diretta connessione con una nuova fase di elaborazione politica di intellettuali marxisti legati alla nuova pratica politica di massa. Tali questioni, insieme all'indagine sull'uso che del « gramscismo » è stato fatto negli anni cinquanta, fuoriescono da questo breve paragrafo. Il marxismo di Cesare Luporini è stato recentemente dallo stesso rimesso in discussione nei suoi presupposti teorico-politici, onde l'opportunità di presentare alcuni temi, più che una compiuu esposizione analitica del suo pensiero. La caratteristica di fondo della sua ricerca è costituita da una tesa e sofferta necessità di collegarsi con la pratica politica, di misurarsi cioè con i problemi di un impegno di progettazione politica, non solo come antidoto a esiti intimistici o mistici di certo esistenzialismo personalistico, ma soprattutto conseguente all'accettazione di una dimensione pratico-collaborativa dell'uomo come soggetto storico. Cosicché le sue ricerche segnano momenti di un itinerario filosofico complesso, in cui la ricerca storica, condotta in una zona nuova rispetto alla storiografia idealistica e comunque fortemente innovativa, rinvia a scelte e verifiche teoriche precise, così riassunte dallo stesso autore: « Per alcuni marxisti il fondamento antropologicofilosofico rimane, o almeno deve essere recuperato dal Marx giovanile, del I 844. Il marxismo, in ultima analisi, sarebbe cioè una filosofia dell'uomo, proprio nel senso che questa gli servirebbe da fondamento, penetrando e dilatandosi attraverso tutta la storia. Per altri marxisti, la rivoluzione teorica prodotta da Marx consiste, all'opposto, nella abolizione, attraverso il materialismo storico, di quella Philosophische Grundlage (antropologica). Chi vi parla appartiene a questo secondo gruppo. » I suoi scritti sono: Filosofi vecchi e nuovi (I 942), con il noto saggio su Leopardi - che ha segnato una svolta nella storiografia su quell'autore La mente di Leonardo (I 9 53), I l criticis?JJO di Kant (I 9 55), inserito poi in: Spazio e materia in Kant (I96I), Voltaire e le « Lettres philosophiques » (I95 5), Dialettica e tnaterialiSlno (I974), raccolta organica di saggi dal I95 5 al I972. Fra i contributi
teorici degli anni cinquanta sottolineiamo l'importante lavoro su Kant. Il nostro autore tenta di staccare il pensiero di Kant «dalla successiva ricostruzione metafisico-speculativa » condotta dall'idealismo, che rappresenta una distorsione teorica del suo stesso pensiero, dal momento che « in Kant non si trova mai il personaggio "Io trascendentale", tante volte attribuitogli dagli interpreti sulla scorta dell'idealismo fichtiano e posteriore. Chi conosce e opera, anche per Kant, sono gli uomini e soltanto gli uomini, individui umani viventi ». Egli rimette in discussione così le componenti essenziali del kantismo, nella persuasione che «tutta la filosofia di Kant è caratteristicamente avvolta in un'area di empiricità », ove centrale è la nozione d! possibilità reale, perché essa conduce a riconoscere
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l 'importanza gnoseologica del dato oggettivo, onde « al problema critico come ricerca della condizione della possibilità, è perciò sempre correlativa la domanda intorno alla realtà oggettiva o validità soggettiva: di contro alla validità soggettiva (invero intersoggettiva) fondata sul solo a priori». Il concetto di possibilità reale costituisce il centro teorico di Kant, inscindibilmente connesso con la ricerca di una fondazione del sapere scientifico; di qui l 'impossibilità di scindere il rapporto filosofia-scienza, tanto stretto, da indurre Kant a proporre una correzione anti-teologica rispetto allo stesso Newton, per offrire una interpretazione integralmente anti-metafisica del mondo naturale. L'autore può così polemizzare con le critiche di Hegel a Kant e rivendicare la necessità di una sua legittima inserzione nella tematica marxista. Tale istanza è giustificata dal fatto che molti marxisti hanno dato del kantismo più un giudizio ideologico, che una critica teorica; di qui la necessità- per criticare radicalmente l 'idealismo - di recuperare la tradizione filosofico-scientifica nel punto di massima tensione problematica, rappresentata da Kant, il cui pensiero è stato riconosciuto - con troppa facilità anche da alcuni marxisti parte integrante dell'idealismo contemporaneo. Questo atteggiamento critico verso l'idealismo si era successivamente attenuato, fino a giungere a una difesa dello storicismo perché, ora afferma, «lo storicismo appariva l'unica interpretazione del marxismo perfettamente adeguata e corrispondente alla politica del partito (comunista), alla sua linea strategica. Alla linea cioè dell'unità antifascista, della svolta di Saletno, della Costituente, e magari del voto dell'articolo 7 (della Costituzione)». Comunque in quest'ultima fase Luporini sottopone a serrata critica sia lo storicismo che lo strutturalismo, e propone un« ritorno» al Capitale, indagato nel nesso teoria-pratica che esso istituisce e con privilegiamento delle «forme» cioè delle costanti logiche che in Marx sono strettamente collegate fra loro in quanto forme «nella logica (cioè nella interna necessità) di quel determinato modo di produzione ». La critica allo storicismo è radicale, perché - secondo Luporini - esso si risolve completamente in ideologia politica - quasi sempre conservatrice e perché «in fondo ogni storicismo entifica la storia, dice che c'è la storia e finisce, lo confessi o meno, per identificarla con tutta la realtà. Cioè crea un ens rationis ». Non è possibile, all'interno dello storicismo, condurre un'operazione di discernimento fra aspetto metodico e momento ideologico, distinzione che vale per lo strutturalismo, onde di questo è possibile un recupero di alcune tecniche di indagine, ciò che è impossibile fare del primo. Sulla dicotomia storicismo-strutturalismo aveva iniziato un'indagine analoga Preti nell'ultimo scritto del 1971, Luporini la conduce fino in fondo, ritrovando un Marx, rivisto con strumenti di indagine empirico-formale di matrice kantiana. Il nostro autore critka l'antisoggettivismo dello strutturalismo, per riprenderè la tematica della soggettività, in termini nuovi rispetto sia all'impostazione 106
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di Sartre che a quella di Paci. Anzi, mentre Paci ritiene che occorra una nuova :filosofia prima che sia insieme « scienza che studia le operazioni fondanti » del soggetto, per collegarle con la Lebenswelt e superare l'aggettivazione, che « è proprio l'alienazione nei suoi vari significati »; invece Luporini ritiene che il superamento del precategoriale sia la condizione stessa per ripresentare il marxismo nella duplice funzione di conoscenza scientifica e progettazione rivoluzionaria, con al centro la !ematica della « soggettività operaia ». In questo senso egli può dichiarare: « Credo nella meta-fisica nel senso in cui questa parola veniva largamente usata nel Settecento, ossia in quanto considerazione di elementi comuni a campi diversi», ma non in una direzione di interdisciplinarietà, di cui denuncia i limiti ideologici, ma in quello di una « lettura» nuova di « Marx secondo Marx », che lo porta a un giudizio sul Capitale, sostanzialmente divergente da quello proposto da Della Volpe: « Il materialismo storico - concezione della storia- non è propriamente una " scienza ", ma una dottrina critico-scientifica (della società umana e della storia) fondata criticamente», onde il problema della fuoriuscita dal sistema capitalistico non si pone in termini necessaristici, scienti:fico-previsionali, ma in termini fortemente politici (con determinante funzione della « soggettività» operaia e della direzione pratico-rivoluzionaria). « Si tratta dunque di una necessità particolare, e non di una legge evolutiva generale che domini l'umanità e la indirizzi :finalisticamente, dal giorno in cui il primo uomo intraprese a produrre in senso economico. Il carattere ipotetico di tale necessità, che ai tempi di Marx poteva apparire quasi evanescente, è invece drammaticamente sottolineato ai giorni nostri dalla possibilità reale di una guerra sterminatrice e con conseguente suicidio o qua~>i-suicidio del genere umano. » Che è un modo per ribadire il ruolo determinante dell'uomo insieme alla necessità di una ininterrotta analisi di classe (logico-pratica), secondo un'indicazione anche di Labriola: « Solo nello studio co ti diano della lotta di classe, solo nella prova e riprova delle forze proletarie ci è dato conoscere !es chances del socialismo: se no si è e si rimane utopisti anche nel riverito nome di M arx » (Discorrendo di socialismo e di filosofia). Galvano della Volpe (1895-1968) è partito da una critica interna dell'attualismo, espressa nel saggio L'idealismo dell'atto e il proble?JJa delle categorie (I 924), in cui perviene alla conclusione che rimane ancora aperto il problema « di una conciliazione rigorosamente dialettica della relazione degli opposti con quella dei distinti onde render ragione più profondamente della vita dell'Atto, e colmare quelli che paiono i difetti della concezione gentiliana». L'approfondimento qui richiesto viene compiuto attraverso una ricognizione della tradizione idealistica ed empiristica, passata e presente; attraverso un'analisi del problema estetico, in una prospettiva antiromantica, e concluso con la proposta di una logica storica che risolva il rapporto razionale-reale senza privilegiare il primo termine né vani:ficare il secondo. Su questa base avviene l'incontro con il Marx storico e critico
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della società nonché delle procedure logico-idealistiche che tendono a legittimare questa società borghese-capitalistica. I suoi più importanti contributi nel campo della storia del pensiero filosofico sono: Hegel romantico e mistico (I929), La mistica speculativa di M. Eckhart (I93o), La .filosofia dell'esperienza di Davide Hume (2 voli., I933-35). Nel campo estetico ha scritto: Il verosimile .filmico (I954), Poetica del Cinquecento (I954), Critica del gusto (I963). Gli scritti logici e sociologici più importanti sono: C ritica dei principi logici (I 940; poi, Logica come scienza positiva, I 95 6), Discorso sulla ineguaglianza (I 942), La .libertà comunista (I 946), Per la teoria di -un um;nesimo positivo (I 949), Metodologia scientifica. La struttura logica della lqge economica del marxismo (I95 5), Rousseau e Marx (I96r). Nella vasta produzione del nostro autore, la Logica assume un posto centrale e pertanto ci soffermeremo brevemente per indi carne l'orientamento e le tesi principali. Della Volpe nell 'indagine sulla storia della filosofia individua due linee di pensiero, tra loro radicalmente antagoniste : una realistico-empiristica, l'altra idealistico-mistica; quest'ultima non sarebbe mai riuscita a superare (cioè inglobare e giustificare razionalmente) le istanze empiristiche. Pertanto si sono date due proposte di «logica», quella empiristica e quella idealistica, con soluzioni antitetiche al problema del rapporto uno-molteplice. Platone prima e Hegel dopo sono stati i più radicali negatori della positività del non-essere (che si ritrova poi in Leibniz, W olf e nello stesso Kant, sia pure in formulazioni diverse). Anzi« con Hegel il principio della dialettica si rivela del tutto insufficiente e non solo nei confronti dell'istanza anti-eleatica e anti-platonica di Aristotele, ma altresì, in certo senso, nei confronti dell'istanza anti-eleatica e anti-critica di Platone» rivelandosi pertanto « più dogmatico platonico di Platone stesso ». Il primo che abbia condotto una critica radicale della logica hegeliana è stato Marx, il quale ne ha messo in evidenza la funzione mistificatoria. Orbene, secondo della Volpe, Marx non « invera » Hegel, nel senso che ne accetti il metodo e respinga l'« involucro mistico», perché l'uno è parte integrante dell'altro: è la filosofia hegeliana in quanto tale che va respinta, e la dialettica va espunta dalla genesi stessa del marxismo. Un suo accoglimento, anche metodico o parziale (come avviene con Luckacs ), rimetterebbe in discussione il marxismo come concezione scientifica della realtà. Pertanto bisogna riprendere il problema dal versante empiristico - quello che va da Aristotele a Galileo e Hume. Infatti quest'ultimo è il primo che ha sottolineato l'istanza «dell'esistenza in quanto sinonimo del molteplice, o contingente, o irrazionalesingolare ». Della Volpe ritiene che la struttura della nuova logica - la quale deve fondare scientificamente anche l'economia politica - debba essere elaborata portando a nuova consapevolezza le procedure logiche eia bo rate da Aristotele nella critica a Platone e quelle messe in atto da Galileo nella critica ai fisici aristotelici. Il significato di tale filiazione è così espresso dal nostro autore: « Ora che la critica marxiana coincida altresì con la critica galileiana dei fondamenti aprioristici della fisica peripatetica, e però appartenga all'ordine di istanze 108
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critiche da cui nasce la scienza sperimentale moderna della natura; tutto questo significa che essa, col mostrarci implicitamente nell'Hegel moralista e logico apriorista (e non già solo nell'Hegel filosofo apriorista della natura) una sorta di novello Simplicio peripatetico, ci conferma a fortiori l'infecondità e illegittimità dell'apriorismo (non solo hegeliano) nella filosofia in genere, dunque anche nelle cosiddette "scienze morali", aprendoci la prospettiva, ch'è filosofica in quanto scienza sperimentale anche dell'uomo con tutti i suoi problemi. » Il principio strutturale della nuova logica materialistica, fondativa dell'unificazione di esperienza e ragione è quello di « identità tautoeterologica in cui si esprime la reciprocità o circolarità funzionale di ragione e materia (sensazione)». Il valore logico-filosofico di questo principio risiede nel fatto che la contraddizione non è solo una figura logica ma è il connotato della realtà oggettiva. La nuova dialettica, proposta dal nostro autore, è pertanto quella fondata sulle astrazioni determinate, storiche e razionali, presenti anche nelle ipotesi scientifiche delle scienze naturali. Il suo carattere scientifico è intrinseco allo stesso « criterio della presente logica, il criterio della etetogeneità e reciproca funzionalità di ragione (coscienza) e materia, ossia di predicato e soggetto, è infatti risultato tanto di induzione che di deduzione». La conclusione cui perviene è pertanto questa: «Non c'è che una scienza, perché non c'è che un metodo ossia una logica: la logica materialistica della scienza sperimentale galileiana. Onde, dalla legge fisica alla legge morale ed a quella economica e così via, variano le tecniche che le costituiscono quanto varia l'esperienza e la realtà, ma non varia il metodo, la logica, il cui simbolo resta il suddetto circolo concreto-astratto-concreto. » A questa logica sono state elevate diverse critiche nell'ambiente marxista. I problemi sollevati da quest'opera sono del tutto estranei alle più serie e moderne ricerche logiche ed epistemologiche. Un suo allievo, N. Merker ha ritenuto di riassumere in questi termini gli indubbi meriti culturali del nostro autore: « La riscoperta del metodo logico marxiano in economia e l'indicazione su come generalizzarlo a campi sovrastrutturali diversi da quello dell'economia politica, è un titolo di merito che a della Volpe spetta in pieno; e si accompagna legittimamente all'altro, di aver tratto alla luce, cioè di aver reso parlante in tutta la ricchezza delle sue articolazioni ed implicazioni, il testo della critica di Marx alle ipostasi hegeliane e la validità di esse come generale critica materialistico-storica dell'apriorismo. » Alla scuola di della Volpe appartengono: Lucio Colletti, Umberto Cerroni, Nicolao Merker, Mario Rossi, i quali hanno dato contributi alla storiografia filosofica, in particolare della filosofia tedesca, moderna e contemporanea. Un rilevante contributo al marxismo ha dato Aurelio Macchioro (n. 191 5). Dopo alcune ricerche sulla teoria degli scambi internazionali e sugli aspetti monetari del ciclo economico, ha avvertito la necessità, negli anni cinquanta, di un approfondimento della storia del pensiero economico, che dai marxisti italiani era stranamente trascurata. Ha collaborato per oltre un ventennio alle più 109
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importanti rtvlste economiche e di cultura della sinistra, fra cui « Società », « Rivista storica del socialismo », « Studi storici », raccogliendo gli articoli più importanti nell'ampio volume: Studi di storia del pensiero economico e altri saggi (I97o). Ha condotto una puntigliosa ricognizione storico-critica su V. Pareto, A. Marshall, J.M. Keynes; indagini sulle origini della scienza economica e sulla rivoluzione marginalistica, col recupero della migliore tradizione illuministica, da Melchiorre Gioia a Cattaneo. Inoltre ha approfondito le questioni teoriche nei saggi su L'economia politica del marxismo. Egli è pervenuto così a una «lettura» del Capitale di Marx con preoccupazioni ricostruttive, avvicinabili a quelle di Luporini (non dellavolpiane); ha condotto insieme a Bruno Maffi la più rigorosa traduzione del libro primo de Il Capitale, con ampia introduzione e ha compiuto un notevole tentativo di unificare la storia del pensiero economico con la scienza nel saggio: La storia del pensiero economico fra storia e scienza (I974)· Mentre Luporini incentra l'analisi sulla trama logica dell'indagine economica, Macchioro mette in evidenza la duplice e contemporanea demistificazione hegeliano-ricardiana di Marx, perché « si tratta di due arrovesciamenti conseguenti l 'uno dall'altro: la fondazione storica del materialismo storico (contro l'idealismo hegeliano) essendo la stessa operazione che si sviluppa come fondazione della critica dell'economia politica». Di qui la necessità di una chiave interna alla lettura del Capitale, per non trasformare in aspetti dicotomici ciò che in Marx è inscindibilmente unito: il critico dell'economia politica con il rivoluzionario dialettico. Tale «chiave» è indicata nell'utopia del possibile che è la società senza classi, alla cui progettazione hanno lavorato Marx ed Engels, e la cui validità euristica è data dal fatto che « senza l'utopia del possibile i due versanti - il versante teorico e il versante pratico operativo della struttura del Capitale - rimarrebbero disgiunti, in pro del teoricismo addottrinato da un lato e del praticismo dall 'altro ». Nicola Badaloni (n. I924) ha espresso il suo orientamento marxista-storicista sia in ricerche di storia del pensiero filosofico sia in saggi teorici, raccolti con il titolo programmatico: Marxismo come storicismo (I962). Tale contributo ha suscitato negli ultimi anni un dibattito chiarificatore all'interno del marxismo italiano. Inoltre ha pubblicato La .filosofia di G. Bruno (I95 5), Introduzione a G.B. Vico (I96I); Tommaso Campanella (I965); Antonio Conti. Un abate libero pensatore tra Newton e Voltai re (I 968); con questi tre studi ha privilegiato la tradizione che confluisce poi nell'orientamento storicistico, con accentuazione degli aspetti laicomondani rispetto a quelli religiosi e con esclusione della tradizione scientifica. Negli scritti di quest'ultimo periodo si è impegnato nell'analisi delle componenti diverse del marxismo italiano e ha condotto un tentativo nuovo di studio del pensiero di Gramsci: Scienza e .filosofia in Engels e Lenin (I 970), Il marxismo italiano degli anni sessanta (I971), Per il comunismo. Questioni di teoria (I972), Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica ( 197 5). Nel primo libro egli confronta IlO
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il marxismo con i contributi critici e /o alternativi di Dal Pra, Ab bagnano, Croce, Bobbio, per esaminare quali conseguenze positive possa trarre il marxismo da un impatto con le altre correnti del pensiero contemporaneo. Egli propone una differenziazione-scomposizione fra la metodologia e l'ideologia, presenti nel marxismo: l'una disciplina il momento logico-scientifico, l'altra ne è il prolungamento e insieme la soluzione, scientificamente fondata e controllata. Questo plesso gnoseologico-pratico è determinato dalla dialettica, il cui uso non è metaforico-didattico, ma costitutivo. La dialettica unifica il metodo storico con quello logico, nel senso che individua le contraddizioni reali, oggettive e ne prospetta soluzioni che per essere tali - e non solo ipotesi - abbisognano dell'intervento pratico-ideologico. Le stesse critiche alla posizione di della Volpe sono condotte in funzione di una possibile ricomposizione di motivi e istanze, anche tra loro diverse, perché l'autore ritiene che una tematizzazione della dialettica possa permettere al marxismo di dare una soluzione a quei problemi sorti in contesti storico-teorici fra loro diversi ma egualmente decisivi. Nei saggi su Gramsci, Badaloni tenta di individuare con esattezza le componenti culturali e teoriche del marxismo gramsciano (da Sorel a Croce, a Marx e Lenin) perché proprio « gli effetti di questa fusione fanno del pensiero di Gramsci una delle voci più autorevoli di una via rivoluzionaria in Occidente». Non si tratta pertanto solo di condurre una più rigorosa indagine storico-critica del pensiero di Gramsci, ma di attualizzare l'aspetto metodico del suo pensiero, tentando cioè una ricomposizione nuova degli strumenti teorici e delle tendenze pratico-politiche presenti nel marxismo odierno, in vista di una proposta di marxismo che sia all'altezza dei nuovi compiti teorico-pratici emergenti dall'attuale congiuntura storica. Prima di enunciare e motivare una conclusiva proposta teorica di materialismo dialettico, va sottolineato che anche in Italia, negli anni sessanta, è avvenuta una larga ripresa di studi sul pensiero di Marx, Engels e Lenin. Tale rinascita è indubbiamente legata a complesse motivazioni di ordine politico e altre di carattere teorico, cioè interne a una ridefìnizione della validità del marxismo e del leninismo di fronte alle nuove realtà del mondo contemporaneo. Senza affrontare quest'ultima discussione, sulla cui importanza - e quindi sulla necessità di approfondirla - non nutriamo alcun dubbio, intendiamo ora segnalare solo alcuni fra i contributi più significativi di rivalutazione complessiva del pensiero di Engels, considerato in sostanziale continuità politica e teorica con quello di Marx, e ulteriormente rielaborato da Lenin. L'annosa questione circa la differenza di fondo che esisterebbe fra il pensiero di Engels e quello di Marx (successivamente ripresentata nel rapporto fra il marxismo e illeninismo) è stata ripresentata in Italia in questi anni particolarmente da Lucio Colletti. I contributi più validi si pongono però sul versante opposto; basterà ricordare, oltre al contributo di Badaloni già segnalato, quelli di Eleonora Fiorani, F. Engels e il materialismo dialettico (1971), Compendio engelsiano-leniniano I I I
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(1972), Critica delle interpretazioni di Marx-Engels (1975), e ancora, in collaborazione con Ferdinando Vidoni, Il Giovane Engels: cultura, classe e materialismo dialettico (1974). In questi studi è presente una rigorosa ricostruzione complessiva dell'itinerario politico e teorico di Engels, con esatta indicazione dei «fondamenti gnoseologici della visione del mondo nella quale s'inquadra il materialismo storico » e, con accentuazione polemica, la conferma dell'unità di pensiero fra Engels e Marx e dell'attualità del materialismo dialettico. Sebastiano Timpanaro in Sul materialismo (1970, n ed. ampliata 1975) ha ribadito la validità del materialismo (più che della dialettica), come visione del mondo in cui centrale è il rapporto uomo-natura, nella duplice persuasione che « l'antiengelsismo è un sintomo di idealismo perdurante» e anche se En_gels «non offre soluzioni bell'c pronte per nessuno dei problemi ai quali abbiamo accennato », da lui « bisogna ripartire per affrontarli di nuovo ». Altri contributi, come quello di Ernesto Ragionieri, Il « vecchio » Engels e la storicità del marxismo (1970), hanno evidenziato la continuità di corrette posizioni politiche dell'ultimo Engels rispetto al patrimonio marxiano. Anche i capitoli su Engels e Lenin di quest'opera si pongono esplicitamente come una ripresa e riconferma dell'attualità della linea engelsiana-leniniana, cui si è giunti attraverso un autonomo lavoro all'interno della tematica dell'epistemologia contemporanea, onde indicare poi nel materialismo dialettico lo strumento teorico più idoneo per risolvere i problemi emergenti all'interno del sapere scientifico e per progettare non utopisticamente una nuova società. XIII
• SCIENZA E FILOSOFIA.
RINASCITA DEL MATERIALISMO DIALETTICO
Risulta ormai chiaro, da quanto abbiamo esposto nei paragrafi precedenti, che, tra le varie esigenze messe in moto dal generale desiderio di rinnovamento che pervase la cultura italiana alla fine della seconda guerra mondiale, merita una menzione particolare quella di riuscire finalmente ad aprire le ricerche filosofiche verso la problcmatica della scienza. Fu un'esigenza motivata sia dal desiderio di liberarsi dalla pesante eredità lasciata, in questo settore, dall'attualismo gentiliano (che per un certo tempo era stato considerato, come sappiamo, la filosofia ufficiale del fascismo), sia dal desiderio di aggiornarsi su quanto era stato operato, in proposito, da alcuni fra i più celebri indirizzi stranieri. L'impresa si rivelò tuttavia di notevole difficoltà, da un lato perché la frattura tra filosofia e scienza aveva radici assai più lontane (si ricordi quanto abbiamo accennato nel secondo paragrafo), dall'altro perché nella maggioranza dei casi non si fu capaci di collegarsi ai pochi, ma pur seri, tentativi che già erano stati compiuti in questa direzione nei primi decenni del secolo, ad opera, per esem112
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pio, di Vailati e di Enriques, onde il programma di riavvicinamento della filosofia alla scienza fu guardato con un certo sospetto da chi si preoccupava di difendere la tradizione italiana dall'invadenza delle « mode» d'oltreoceano. Intendiamo riferirei in particolare al sospetto di cui furono circondate, per alcuni anni, le ricerche di epistemologia e di logica, accusate tutte, molto sommariamente, di essere pure e semplici propaggini del neopositivismo. Questa diffidenza fu presente perfino tra le file dei marxisti, dove uno studioso del valore di Galvano della Volpe includeva sì nel proprio programma l'esaltazione del metodo galileiano, ma si guardava bene dal cimentarsi sui grandi problemi filosofici sollevati dalle nuove conquiste della logica, della matematica, della fisica e della biologia. È significativo come il ben giustificato sforzo della scuola dellavolpiana di affermare la propria indipendenza nei confronti del materialismo dialettico sovietico del periodo staliniano, l'abbia condotta non già a tentare di contrapporre alle tesi spesso rozze e dogmatiche di tale materialismo una visione altrettanto materialistica ma più critica e raffinata del mondo naturale, bensì a interessarsi unicamente di problemi «umani» (storici, economici, sociali ecc.) come se l'uomo potesse venire concepito al di fuori della natura, o come se i suoi rapporti con essa potessero venire interpretati esclusivamente quali rapporti di ordine pratico e non anche di ordine conoscitivo. Di qui il ben noto atteggiamento di non-intervento, che tale scuola mantenne (e mantiene) nei dibattiti generali intorno al valore - conoscitivo o no - della scienza, o a quelli specifici intorno al significato - realistico o idealistico della teoria della relatività, della meccanica quantistica, della genetica ecc.; dibattiti nei quali si erano invece cimentati (e continuano a cimentarsi) valenti marxisti di altri paesi, in primo luogo dell'Unione Sovietica. Per parte loro, gran parte degli scienziati italiani hanno preferito mantenersi al di fuori di qualunque dibattito che comportasse un diretto impegno filosofico; ciò non vale ovviamente per tutti, ma senza dubbio nessuno di essi ha assunto una posizione filosofica esplicita e combattiva, come a suo tempo aveva fatto Enriques. Forse la sconfitta da questi subita, nella polemica con Croce e Gentile, li ha dissuasi dal seguire apertamente la sua strada. I più hanno preferito sostenere che le stesse indagini sui fondamenti delle varie discipline scientifiche vanno svolte, almeno da parte degli scienziati, in termini puramente tecnici, filosoficamente pressoché neutrali. È un orientamento che, in non pochi casi, può venire riscontrato perfino nell'ambito dei logici matematici; cosa tanto più singolare se tenhmo conto che fuori d'Italia parecchi logici matP.matici si sono fatti, invece, assertori di ben precisi indirizzi filosofici (non importa se più o meno soddisfacenti); si pensi per esempio a Russell, a Carnap, a Quine ecc. Prescindendo dalle ragioni storiche che hanno condotto a questa separazione tra filosofia e scienza, possiamo dire che, per un lato, essa rivela la giusta preoc-
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cupazione di evitare comunque prese di posizione affrettate e generiche; per un altro lato, però, rivela purtroppo una scarsa comprensione dell'importanza dei problemi filosofico-scientifici. È chiaro infatti, che chi sia veramente consapevole del peso spettante a tali problemi nella cultura odierna non avrà timore di tentarne una soluzione, pur sapendo che essa può soltanto essere provvisoria e parziale. Tra la prudenza e la mancanza di effettivo interesse, il passo è abbastanza breve e non di rado la prima viene proprio invocata per mascherare la seconda. È vero che oggi si parla, da varie parti, di interdisciplinarità, ma è un fatto che essa rimane spesso più nel campo delle aspirazioni che non in quello dei programmi seri. Riguarda, comunque, assai più i rapporti fra materie affini (per esempio fra storia, letteratura, sociologia ecc. oppure tra fisica, chimica, biologia e materie analoghe) che non quelli tra filosofia e scienza. Essa può venire semmai interpretata come il tentativo di porre un freno allo specialismo più sfrenato, dilagante sia nell'ambito delle discipline umanistiche sia in quello delle discipline naturali; compito senza dubbio assai importante, ma diverso da quello ben preciso di cui stiamo discutendo. La realtà è che la via maestra da cui il filosofo viene condotto - e in certo senso costretto - a prendere posizione di fronte alla scienza, risulta costituita oggi come ieri dal complesso dei vastissimi problemi concernenti la conoscenza. È vero che recentemente taluno vorrebbe sostituirla con un'altra, caratterizzata invece dai problemi concernenti il rapporto fra scienza e società, e in particolare il rapporto fra lo sviluppo delle indagini scientifiche e le richieste di ordine pratico che le classi dominanti rivolgono di volta in volta agli scienziati. Ma è chiaro che l'impostazione stessa di quest'ultimo gruppo di problemi (intorno ai rapporti fra scienza e società) dipende a rigore dalla risoluzione che si fornisce ai problemi del gruppo precedente: se infatti si ritiene che la scienza non sia un'attività conoscitiva ma soltanto pratica, sarà facile concluderne che il suo rapporto con le classi dirigenti è di totale subordinazione, mentre la risposta diventa notevolmente più complessa se si attribuisce alla scienza un valore autenticamente conoscitivo; in tal caso in vero non si potrà fare a meno di ammettere che il suo sviluppo non dipende soltanto dalle richieste della società dell'epoca, ma anche dalle informazioni che lo scienziato riesce via via a ricavare intorno agli oggetti indagati. Lo si voglia o no, la scienza si presenta, oggi, come l'espressione più elevata della nostra attività conoscitiva (decisamente superiore alla conoscenza comune e a quella intuiti va); anche se fossimo convinti che questo giudizio è errato, dovremmo discuterlo per confutarlo, e dovremmo discuterlo proprio in sede di esame critico del problema della conoscenza. I filosofi che si rifiutano di affrontare questa discussione sono alla fin fine costretti, per coerenza, a negare l'importanza del problema della conoscenza. Ciò facendo dovrebbero però giustificare come mai esso abbia perso oggi la sua importanza tradizionale; dovrebbero 114
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cioè spiegare che cosa è sopravvenuto perché un problema, che fu per millenni considerato centrale per la filosofia, sia stato improvvisamente collocato ai margini della ricerca filosofica. Crediamo di poter rispondere che la motivazione di tale improvviso mutamento vada cercata nella profonda diversità esistente fra i caratteri delle più avanzate conoscenze scientifiche odierne e i caratteri che per molti secoli vennero attribuiti alla conoscenza in generale e furono ritenuti degni di attenta indagine filosofica. È una diversità dovuta al fatto che le più avanzate conoscenze scientifiche odierne hanno perso da tempo la assolutezza che si pensava propria di qualsiasi conoscenza vera: assolutezza che attualmente non si saprebbe più a quale tipo di conoscenza attribuire (salvo forse a c1ualche vaga intuizione che pensatori isolati credono di aver raggiunta nell'intcrio:ità del proprio animo senza, ovviamente, e:.sere in grado di comunicarla agli altri!). È per l'appunto questa nuova situazione che ha indotto molti filosofi a concludere frettolosamente che il problema della conoscenza ha perso la sua antica rispettabilità ... perché in realtà non si conosce nulla, nel vecchio senso del termine « conoscere». Riteniamo lecito dire che l'odierna rinascita, in Italia, del materialismo dialettico trae proprio origine dal rifiuto della conclusione testé accennata. In altre parole: i fautori di tale rinascita sostengono che dalla constatata impossibilità di continuare ad attribuire, oggi, alle nostre conoscenze più elevate (cioè appunto alle conoscenze scientifiche) i caratteri tradizionalmente attribuiti alla conoscenza in generale, non si possa affatto dedurre « dunque ... non si conosce nulla », ma si debba dedurre invece «occorre rinnovare radicalmente la vecchia nozione di conoscenza». Secondo essi, occorre cioè abbandonare la pretesa che le «conoscenze vere» siano assolute e colgano nella sua totalità il reale oggettivo; visto che la vecchia nozione di conoscenza assoluta è diventata insostenibile, dovremo sostituirle la nozione di « conoscenza dialetticamente vera » cioè di conoscenza perennemente trasformabile, capace sì di cogliere gradualmente la realtà, ma non di esaurirla una volta per sempre. Gli anzidetti fautori di una rinascita del materialismo dialettico aggiungono poi: è incontestabile che la nuova nozione di « conoscenza dialetticamente vera» si ritrova già negli scritti filosofici di Lenin, ma non è perché venne insegnata da Lenin che noi l'accettiamo, bensì perché ci viene suggerita da un'attenta e spregiudicata riflessione sull'effettivo procedere della scienza odierna. Quanto ora detto ci fa comprendere con chiarezza r) per quale motivo l'attuale rinascita in Italia del materialismo dialettico incentri il suo programma filosofico su di una piena e consapevole rivalutazione del problema della conoscenza, z) per quale motivo questo programma faccia perno sui problemi di filosofia della scienza, 3) per quale motivo l'anzidetta rinascita sia caparbiamente osteggiata da tutti gli indirizzi che, qualificandosi sotto un nome o sotto l'altro, sostengono una complèta separazione tra filosofia e scienza. Per quanto riguarda 115 www.scribd.com/Baruhk
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il secondo di questi punti, va osservato che parecchi difensori del materialismo dialettico prendono proprio le mosse- in Italia e non solo in Italia- da un accuratissimo esame delle moderne, più accreditate, correnti occidentali di filosofia della scienza vuoi per accoglierne e "precisarne alcuni risultati, vuoi per correggerne e integrarne altri che a un attento esame critico si rivelano in contrasto con ciò che ci insegna l'analisi obbiettiva del concreto procedere della ricerca scientifica. Un'impostazione siffatta è ad esempio presente nei membri del cosiddetto « gruppo di Milano » (Enrico Bellone, Ludovico Geymonat, Giulio Giorello, Silvano Tagliagambe e vari altri) la cui adesione al materialismo dialettico scaturisce proprio dallo studio dei problemi della conoscenza scientifica e dalla constatazione che tale materialismo è in grado di delinearne una soluzione più soddisfacente di quella solitamente offerta dalle correnti fenomenistiche, convenzionalistiche ecc. oggi maggiormente conosciute. Contro un tale approccio al materialismo dialettico vengono da alcune parti sollevate due obbiezioni, senza dubbio assai serie: I) che esso trascurerebbe l'impegno ontologico presente nei « classici » del materialismo dialettico, 2) che dimostrerebbe troppo scarso interesse per le conseguenze pratiche (rivoluzionarie) che tali «classici» hanno sempre ricavato dalla filosofia materialisticodialettica. Alla prima abbiezione i summenzionati fautori della rinascita, in Italia, del materialismo dialettico sono soliti rispondere che è impossibile giungere ad una valida difesa dell'antologia materialistico-dialettica se non partendo da una soddisfacente risoluzione (in senso materialistico) dei più difficili nodi della conoscenza scientifica moderna. In altre parole: a loro parere solo uno scrupoloso dibattito intorno alle famose tesi che Lenin denotava coi termini: «approfondimento delle conosc~nze », « flessibilità delle categorie », « inesauribilità della natura » (Lenin scriveva «dell'elettrone») può costituire la base di partenza per la formulazione di una concezione materialistica della realtà non attaccabile dalle solite, volgari, accuse di dogmatismo, accuse che si reggono proprio sull'ignoranza dei legami inscindibili fra antologia e gnoseologia. È del resto significativo che anche i più raffinati studiosi odierni dell'Unione Sovietica, nella loro difesa del materialismo dialettico, prendano le mosse proprio dalla trattazione materialistica del problema della conoscenza e in particolare della conoscenza scientifica. Alla seconda abbiezione rispondono in termini più modesti, ammettendo di non avere ancora sviluppato se non in forma molto schematica le conseguenze pratiche della concezione materialistico-dialettica difesa in sede teorica. Ritengono tuttavia che la scrupolosa chiarificazione teoretica di tale concezione sia indispensabile ad uno sviluppo coerente delle anzidette conseguenze, come hanno validamente sostenuto proprio i classici del marxismo, e lo sia tanto più oggi quando alcuni autori credono di poter difendere un nuovo tipo di rivoluzionarismo sulla base di concezioni non dialettiche e non materialistiche. Abbiamo già 116
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visto, parlando dell'esistenzialismo, che su tali basi sono stati elaborati orientamenti di stampo sostanzialmente spontaneistico e irrazionalistico. Sull'incidenza di questa ripresa del materialismo dialettico nella cultura italiana è, per il momento, pressoché impossibile pronunciare un giudizio seriamente fondato. Sembra lecito, tuttavia, affermare che essa ha aperto una nuova via all'intensificazione dei rapporti tra ricerche filosofiche e ricerche scientifiche. Risulta pertanto difficile negarne l'interesse, per lo meno da questo punto di vista. È auspicabile che i suoi avversari si sentano stimolati a contrapporre - alle sempre più numerose ricerche di epistemologia e di storia della scienza ispirate al risorgente materialismo dialettico - altre ricerche, altrettanto precise e altrettanto valide, anzi possibilmente più valide. Sarà proprio questa dialettica a far progredire la cultura scièntifico-filosofica italhna.
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CAPI'TOLO QUAR'TO
Biologia e ftlosofta DI
FELICE
MONDELLA
I· PREMESSA
La biologia dall'inizio del nostro secolo ad oggi ha subito un rivolgimento di grande importanza, quasi rivoluzionario. Non vi è stato in essa tuttavia un cambiamento del quadro concettuale paragonabile a quello che si è verificato nella fisica tra il 1890 e il 1930. Si potrebbe anzi dire che già all'inizio del secolo si trovavano presenti sia pure in forma approssimata alcune delle formulazioni teoriche fondamentali che dovevano poi svilupparsi ed essere confermate in questi ultimi decenni con la rifondazione della teoria dell'evoluzione sulla base della genetica e con il sorgere della biologia molecolare. Alla tesi qui accennata della continuità fra questi due periodi si può obiettare che i risultati teorici compiuti dopo il 1930 hanno costituito una svolta improvvisa e quasi inattesa rispetto alla situazione di grave crisi teorica in cui si trovava la biologia nei decenni precedenti e che era già maturata alla fine dell'Ottocento con il declino del darwinismo e il sorgere del vitalismo. Riten.iamo tuttavia di dover rispondere che solo un'analisi approfondita del primo periodo possa condurre ad una esatta comprensione del significato dei risultati del secondo periodo. Se è infatti vero che nella prima fase appaiono chiaramente i condiziona~ menti negativi di una concezione della conoscenza scientifica di tipo fenomenistico e irrazionalistico è però anche vero che attraverso i dibatti filosofici svoltisi in questo periodo emergono anche esigenze di chiarimento metodologico e di analisi critica che risulteranno fecondi per i successivi sviluppi. Questi dibattiti filosofici vertevano soprattutto sul significato e sui limiti del meccanicismo biologico nonché sulle proposte di una concezione organicistica capace di utilizzare tutta la fecondità dell'indagine fisico-chimica sugli organismi, ma nello stesso tempo in grado di caratterizzare le loro proprietà peculiari rispetto ai restanti fenomeni della natura. Il meccanicismo biologico assume nei primi decenni del nostro secolo due forme in parte almeno contrapposte. Da un lato si presenta come uno sviluppo del darwinismo, integrato da una concezione ipotetica su una organizzazione 118
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Biologia e filosofia
nascosta nel plasma germinale; dall'altro, secondo un'impostazione più vicina al fenomenismo scientific:::>, tale meccanicismo si presenta come la trattazione fisicochimica dei processi attualmente osservabili in laboratorio. La prima forma è legata ad una concezione storica e materialistica della natura, la seconda si pone su un piano apparentemente più neutrale, ma in realtà aperto alle interpretazioni filosofiche di tipo idealistico o spiritualistico. L'organicismo, nella sua forma più valida e convincente, rivendicava nello studio dei viventi il riconoscimento di un livello di organizzazione avente leggi proprie, senza però escludere che tali leggi potessero di principio essere riducibili alle leggi più generali delle scienze inorganiche della natura. Ma il dibattito che portò a riconoscere la validità di questa impostazione organicistica si sarebbe limitato alla semplice rivendicazione della legittimità di un metodo se le svolte decisive della genetica e quelle più recenti della biochimica non le avessero dato un diverso significato. Queste ricerche risultano sostanzialmente in una conferma dell'indirizzo evoluzionistico neo-darwiniano, dell'idea sostenuta da Weismann di un'organizzazione nascosta della materia vivente che può spiegame le proprietà e il comportamento passato e presente degli organismi. In questo capitolo ci soffermeremo in modo più esteso sulle discussioni teoriche e metodologiche sviluppatesi nel primo periodo anche per il loro stretto legame con la cultura filosofica dell'epoca. Nella parte finale accenneremo invece ai risultati scientifici più recenti !imitandoci a rilevare come essi assumano un particolare significato alla luce della problematica teorico-filosofica del periodo precedente. Per comprendere questo significato è importante chiarire che tali risultati, più che una conferma di un generico meccanicismo biologico, rappresentano la convalida di una più ampia concezione materialistica sostenuta alla fine dell'Ottocento da alcuni dei più validi rappresentanti del darwinismo. Che questo materialismo non debba più, come allora, considerarsi rigorosamente meccanicistico, può essere suggerito da una visione più ampia dell'evoluzione degli organismi nella storia della natura e dal fatto che le critiche dell'organicismo e del materialismo dialettico sembrano indicare nel meccanicismo una concezione incapace di interpretare, nel divenire della materia, la produzione delle forme e dei livelli più elevati della natura, quali la vita e le attività sociali e spirituali dell'uomo. II· IL
MECCANICISMO
BIOLOGICO:
DIFFICOLTÀ E
CONTRADDIZIONI
Durante i primi anni del Novecento l'influenza del vitalismo, sia nella formulazione di Driesch sia in quella di altri autori, fu indubbiamente rilevante. Ma ne fu più sensibilizzato il clima culturale filosofico-scientifico in generale che non la maggior parte dei settori più circoscritti delle ricerche biologicosperimentali.
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Biologia e filosofia
La concezione fenomenistica e convenzionalistica della conoscenza fisicomatematica della natura aveva già contestato alla scienza il diritto di presentarsi come una conoscenza valida ed oggettiva della natura. L'affermazione poi che la vita stessa sfuggiva completamente anche a questo tipo di conoscenza non poteva che accentuare il senso di precarietà e d'incertezza, per l'infrangersi di quel quadro coerente ed unitario che solo pochi decenni prima si pensava di aver fissato attraverso i risultati della fisica meccanicistica e della biologia darwiniana. Da tali precarietà ed incertezze trassero alimento i vari tipi di filosofia della vita di colorazione più o meno irrazionalista e, nel campo stesso della biologia, trassero giustificazione le formulazioni teoriche più disparate ed inconciliabili. Nei primi anni del Novecento questo disorientamento che coinvolgeva i principali problemi teorici della biologia quali l'evoluzione, l'eredità, la selezione, l'adattamento ecc., non impedì il concreto svolgersi di importanti ricerche sperimentali che nel giro di pochi decenni avrebbero chiarito su un piano teorico molte incertezze e fatto giustizia di molte formulazioni non sufficientemente fondate o arbitrarie. Le stesse ricerche di laboratorio più serie dovevano tuttavia trovare giustificazione in alcuni assunti teorici precisi e perciò il dibattito su problemi di carattere generale interessò direttamente non pochi degli autori più seri ed impegnati nella stessa ricerca sperimentale. Il vitalismo, pur non essendo stato accolto favorevolmente dalla grande maggioranza dei biologi, cionondimeno suscitò un ampio dibattito che si protrasse oltre gli anni venti. Tale iano in grado di spiegare la realtà data, di ricostruirla. Il resto, come dirà il più grande logicista dopo Russell, Frank Plumpton Ramsey (1903-1930) è questione di «dettaglio», di perfezionamenti successivi che non possono vanificare la tesi di fondo. In questa posizione c'è una forte dose di ambiguità, inevitabile d'altra parte dopo il crollo del programma logicista nella forma fregeana ad opera dei paradossi. La necessità di ridefinire l'idea stessa di logica portava come conseguenza oscillazioni dovute alle esigenze contrastanti di non assumere una logica troppo ricca da ingenerare paradossi e di averla però sufficientemente potente da permettere una descrizione della matematica classica. La soluzione russelliana era un esempio di questa ambiguità, come fu ben presto realizzato da più parti. Nel suo tentativo di ricostruire la matematica su base logica Russell come abbiamo visto era stato costretto a postulare fra i suoi assiomi il principio di riducibilità, l'assioma di scelta e quello dell'infinito. Tutti questi assiomi in un modo o nell'altro facevano assunzioni il cui carattere esistenziale trascendeva decisamente ogni norma di verità logica plausibile e si ponevano così come innegabili assiomi di carattere extralogico o sintetico, come non tardò ad obiettare lo stesso Poincaré. La fondazione russelliana, in altri termini, poteva salvare l'idea logicista di una grande logica, come edificio unitario in cui ricostruire tutta la matematica, solo a patto di estendere la nozione di logica sino a comprendere principi di carattere sintetico. In che senso si poteva parlare ancora di logica con simili assunzioni? Lo stato logico di questi assiomi risultava nettamente problematico, e lo sforzo del logicismo post-russelliano fu proprio quello di mostrare come, mediante un'analisi ulteriore della base logica e del meccanismo dei paradossi fosse possibile o chiarirne lo status logico o, più decisamente, eliminarli. Le tappe di questa ricerca di una precisazione del concetto di logica, segnarono tutte, in un modo o nell'altro, lo sfaldamento dell'edificio unitario dei Principia. Il punto centrale della controversia rimarrà pur sempre l'assioma di riducibilità, assioma che diversamente da quello dell'infinito o della scelta sembrava da una parte giustificato più che altro da considerazioni ad hoc, non motivate da un'analisi diretta dei concetti fondamentali, dall'altra introduceva nel sistema dei Principia un'assunzione esplicitamente esistenziale, un'ipotesi del tutto ingiustificata a priori, proprio sulla natura delle funzioni proposizionali. È significativo che proprio su questo assioma, che costituisce il trait d'union tra una concezione realista ed una predicativista, si siano concentrati gli interessi dei logicisti dopo i Principia. Le alternative a proposito dell'assioma riaprivano così una 207
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La logica nel ventesimo secolo (r)
dicotomia di fatto non risolta tra atteggiamento realistico e costruttlvlstlco. Il primo passo verso questa separazione venne compiuto dal polacco Leon Chwistek (1884-1944) in alcuni lavori del 1923-24. In essi, rigettando decisamente l'assioma di riducibilità, Chwistek faceva emergere dai Principia una teoria dei tipi costruttivi che si poneva come precisazione delle idee predicativiste di Poincaré. In questo modo l'atteggiamento predicativista prendeva il sopravvento e illogico polacco era così costretto a rinunciare a parte della matematica classica la cui ricostruzione, senza riducibilità, risultava impossibile. Chwistek andava più in là, sostenendo la possibilità di derivare dal principio di riducibilità il paradosso di Richard. La dimostrazione, come fu sottolineato tra gli altri da Ramsey, era erronea, però metteva in luce un'ambiguità sottile presente nel sistema: in che senso l'assioma di riducibilità, che annullava «a meno di equivalenze » la distinzione tra funzioni predicative o meno, non vanificava proprio quell'applicazione del principio del circolo vizioso che permetteva di risolvere le antinomie? Il fatto centrale, messo in luce da Ramsey nel I 926, stava in questo: le antinomie possono classificarsi in due categorie: quelle riguardanti nozioni matematiche (antinomia di Russell, di Burali-Forti ecc.) e quelle riguardanti nozioni logiche e linguistiche generali (antinomia di Richard, di Konig ecc.). Queste ultime hanno la proprietà di fare riferimento a contesti non estensionali come le prime. In altri termini, non è possibile date due funzioni proposizionali estensionalmente equivalent,i (tali cioè che per argomenti uguali abbiano valori uguali) e affermato che una delle due è definita in un dato modo, affermare che anche la seconda lo è. Nozioni come quella di definibilità (su cui si fonda il paradosso di Richard, come quello di Konig) non ammettono la sostituibilità di funzioni estensionalmente equivalenti; proprio perché esse fanno riferimento alle condizioni linguistiche con cui le funzioni sono specificate, la semplice equivalenza estensionale non è sufficiente per avere la sostituibilità in questi contesti. In questo senso il principio di riducibilità non implica paradossi come quello di Richard. Esso postula la possibilità di avere per ogni funzione non predicativa una predicativa estensionalmente equivalente; ma per derivarne un paradosso è necessario che l'equivalenza sia più stretta, e riguardi il modo di definizione, cosa questa che l 'assioma di riducibilità non fa. Se questo mostra come il principio non sia contraddittorio, pone però in luce una limitazione di altro tipo. La « grande logica » di Russell, per poter ricostruire l 'intero edificio della matematica classica, è costretta a espungere come irrilevanti distinzioni fondamentali, riguardanti nozioni come quella di definibilità, che fanno centro attorno alla intensione dei concetti. Come ammette lo stesso Ramsey, l'eliminazione della considerazione di queste distinzioni (con la conseguente possibilità di poter superare le antinomie del secondo tipo) trasforma la logica di Russell in un « sistema simbolico » che non può più aspirare a presentarsi, come avveniva per 208
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La logica nel ventesimo secolo (r)
quello di Frege, quale «analisi del pensiero» (non psicologicamente inteso). È accettando questa rinuncia che Ramsey nel 1925 giunge finalmente apresentare un sistema che, rigettando l'assioma di riducibilità, riesce d'altra parte a fondare l'intera matematica classica. Il sistema di Ramsey è in certo senso l'opposto di quello di Chwistek. Mentre quest'ultimo considerava come rilevanti le distinzioni intensionali e per questo rifiutava la riducibilità mantenendo però le distinzioni tra ordini delle funzioni proposizionali, Ramsey elimina anch'egli la riducibilità, rifiutando però d'altra parte anche la distinzione in ordini. La grande scoperta di Ramsey è infatti questa. Una volta considerate come non pertinenti a un sistema logico, e quindi non da ricostruirsi in esso, nozioni intensionali quali quelle coinvolte nei paradossi di secondo tipo, rimangono da superare solo i paradossi del primo tipo. Ma per far questo non occorre gerarchizzare le funzioni proposizionali in ordini e tipi, basta limitarsi a questi ultimi. L'universo viene quindi stratificato solo in base alla complessità antologica, « estensionale » delle funzioni, e non secondo la complessità intensionale delle loro definizioni. La teoria dei tipi semplici che così emerge riesce a raggiungere i due obiettivi che Russell si era posto: l'eliminazione dei paradossi e la fondazione della matematica classica. A prezzo però di una rinuncia: quella di considerare come non degne di studio da parte della logica le distinzioni intensionali. In Russell queste erano presenti attraverso la gerarchia degli ordini, ma venivano sostanzialmente lasciate da parte (via riducibilità) una volta che si trattava di fondare la matematica. Ramsey accentua così questo aspetto della « pratica » di Russell, eliminando tout court la distinzione. Ma è lecito espungere dalla logica simili considerazioni? L 'altra via, quella di Chwistek, che questa rinuncia non richiede, sembrava d'altra parte disperata o, come disse Russell, «eroica» in quanto imponeva la rinuncia alla matematica classica. Se il sistema di Ramsey non presentava questa difficoltà ne presentava quindi un'altra, che riguardava la nozione stessa di logica, che sempre più si andava discostando dal progetto fregeano di grande logica, come sistema generatore di tutti i concetti astratti. Con Ramsey il logicismo giungeva così a una impasse che ne segna in certo senso la fine. Con eccezionale lucidità Ramsey esamina una per una le possibilità che rimangono aperte. Abbiamo già parlato della riduzione estensionale e quindi realistica che la sua eliminazione degli ordini aveva portato. Ma un altro problema generale si prospetta. Per Russell, abbiamo visto, la logica era l'insieme di tutti gli enunciati universali veri riguardanti solo costanti logiche; ma in che senso formulazioni del genere erano legittimamente concepibili come leggi logiche? Questa soluzione rientrava nell'idea russelliana di logica come studio di tutti i possibili schemi astratti, ma un'idea del genere non risultava più accettabile una volta che si concepiva la logica non più come « grande logica » ma come sistema simbolico la cui natura logica doveva risultare da altre considerazioni. Sulla scia di Ludwig Wittgenstein (r889-1951)
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La logica nel ventesimo secolo (1)
Ramsey è quindi portato alla identificazione della logica come l'insieme delle leggi riguardanti le costanti logiche non semplicemente vere, ma tautologiche. Questo era l'esito naturale di una ricerca della natura della logica che gradatamente, a partire dallo stesso Russell, era stata costretta a restringere sempre più il suo orizzonte. A mano a mano, i principi esistenziali erano stati indeboliti e la logica, la « grande logica » tendeva sempre più a restringersi a pura teoria inferenziale complementata da uno schema di comprensione vincolato dalle restrizioni sui tipi. Entro questa prospettiva gli altri assiomi critici di carattere esistenziale vennero a perdere sempre più plausibilità. Così, era costretto ad ammettere Ramsey, accadeva per l'assioma dell'infinito, la cui natura era decisamente non tautologica, così per la scelta, che solo attraverso una drastica reinterpretazione poteva risultare accettabile. Nel suo saggio del 1926 Ramsey concludeva con una dichiarazione di sostanziale scacco: il logicismo nella sua forma forte vedeva così la sua fine. Con Ramsey ha termine la grande impresa, e se anche dopo di lui altre voci si alzarono per richiamare il programma fu solo, per così dire, in forma debole, come appello generale (e talora generico) alla eventuale possibilità di considerare la matematica come articolazione di un linguaggio logico generale, come un sistema organizzato sulla base di metodi dimostrativi puramente logici. Il tentativo di giustificare gli stessi assiomi come leggi logiche però scompare. Se anche più tardi si intrapresero, con Willard Van Orman Quine (n. 1908) ad esempio, tentativi di costruire sistemi logici generali, la tesi logicista della natura analitica o più in generale logica degli enti matematici sempre più andò perdendo sostenitori. Altre posizioni emersero, da una parte il costruttivismo e in particolare l'intuizionismo, ma soprattutto il formalismo che proprio negli anni in cui Ramsey scriveva andava prendendo forma definitiva. Da più punti di vista il formalismo, nella formulazione che Hilbert ne diede negli anni venti, si può considerare l'erede, in senso del tutto particolare, del progetto logicista di una giustificazione della matematica classica, teoria degli insiemi inclusa. Comune è la convinzione che alla base dell'articolazione teorica di ogni disciplina matematica debba essere la logica classica nella sua forma piena, senza restrizioni imposte da considerazioni di carattere costruttivo; comune è la rivendicazione della possibilità di fondare l'intera matematica storicamente data su basi indubitabili e certe; comune infine è la valutazione della teoria cantotiana come culmine della matematica classica, al contempo ramo specifico e sfondo concettuale unitario «paradiso (nelle ben note parole di Hilbert) da cui nessuno ci deve scacciare ». In questo senso, i lunghi dibattiti che nel corso del suo sviluppo il formalismo ebbe ad intrecciare con l'intuizionismo brouweriano costituiscono una nuova fase di quella lotta che già all'inizio del secolo aveva contrapposto il realismo (pro grammatico) di Russell al predicativismo di Poincaré e della scuola 210
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francese. Anche in questa nuova fase sono due diverse concezioni che si trovano contrapposte: da una parte l'approccio costruttivista che mira esplicitamente alla costruzione di una matematica che sia fondata non più su schemi logicolinguistici esterni, ma su contenuti dati da costruzioni mentali; dall'altra l'approccio «classico» che concepisce il problema dei fondamenti come giustificazione di una matematica già esistente (quella classica appunto) e attraverso l'analisi dei suoi procedimenti dimostrativi e definitori cerca di portarla al di là di ogni dubbio, di renderla «affidabile» ricostruendola entro un sistema con modalità «sicure». Il fatto nuovo che il formalismo porta è però nel modo in cui questa giustificazione viene concepita, un modo che rende il confronto con il costruttivismo brouweriano più diretto e stringente. Per illogicismo, l'abbiamo visto, la via per fondare la matematica era quella dimostrarne la natura logica e quindi garantita a priori: l'affidabilità della matematica classica diveniva quindi un corollario immediato della semplice circostanza che, essendo la logica il canone stesso della legittimità, ogni legge logica risulta di per sé legittima. La travagliata storia della « grande logica » di tradizione fregeana da Russell a Ramsey mostrava però chiaramente che i principi necessari per una ricostruzione della matematica classica trascendevano di gran lunga le pure assunzioni logiche: riducibilità, infinito, scelta, erano assiomi francamente sintetici, assunzioni la cui validità non poteva certo accettarsi come autoevidente. In questo senso la « gran de logica » non offriva più garanzie di affidabilità delle stesse singole teorie particolari che voleva fondare e diveniva essa stessa una teoria matematica qualsiasi, bisognosa di giustificazione. Del resto, già prima che con Chwistek e Ramsey il logicismo mostrasse le sue difficoltà, si erano levate voci contro il tentativo russelliano di affrontare i paradossi, via l'inglobamento di tutta intera la matematica classica e in particolare della teoria degli insiemi in un unico grande sistema logico; queste obiezioni non giungevano da parte predicativista, ma da matematici quali Zermelo, Felix Hausdorff, Konig, che proprio richiamandosi ai lavori di Hilbert sui fondamenti della geometria invocavano una fondazione assiomatica della teoria degli insiemi, fondazione che non si ponesse come « grande logica » ma come specifica teoria matematica determinata da assiomi riguardanti oggetti matematici e nozioni logiche generali. Nello spirito, queste obiezioni non erano motivate da precise ragioni filosofiche quanto dalla netta convinzione che, essendo la teoria degli insiemi una teoria matematica e non un sistema logico, come tale andava trattata. Per Zermelo, come per Konig, i problemi centrali offerti dalla teoria cantotiana non erano tanto quelli delle antinomie, quanto quelli più specificatamente matematici della giustificazione di assunzioni fondamentali come il principio di scelta. Come le obiezioni predicativiste mostravano chiaramente, il problema dei paradossi era un aspetto di un problema più generale: quello dell'esistenza degli enti matematici. L'« insieme» di tutti gli ordinali e l'insieme di scelta erano en-
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La logica nel ventesimo secolo (r)
trambe collezioni la cui esistenza non era accettabile dal punto di vista predicativista; solo che, se il primo era nettamente fonte di contraddizioni e matematicamente « irrilevante », non così si poteva dire per il secondo, la cui esistenza era necessaria per lo sviluppo della teoria cantoriana. È su queste basi che nel 1908 Zermelo dava una sistemazione assiomatica della teoria degli insiemi, nel tentativo di caratterizzare l'universo cantoriano imponendo assiomaticamente condizioni sulla esistenza degli insiemi: la definizione di un universo mediante specificazioni di proprietà di chiusura formulate assiomaticamente veniva così a contrapporsi alla russelliana definizione e costruzione all'interno della «grande logica ». Si trattava di una decisiva applicazione del metodo assiomatico hilbertiano che ben presto, almeno per i matematici, costituì, malgrado le lacune portate in luce da Abraham A. Fraenkel (1891-1965) e Thoralf Skolem (1887-1963) in particolare nel 1922, la «vera» risposta al problema delle antinomie a preferenza della soluzione russelliana. Al fondo delle due impostazioni, quella assiomatica di Zermelo e quella russelliana, stava una dicotomia che già conosciamo dai dibattiti di Frege e Hilbert sui fondamenti della geometria e che è una distinzione essenziale per capire come Hilbert nel suo programma finitista pensasse di risolvere definitivamente il problema della fondazione della matematica. Per quanto riguarda l'affidabilità della matematica classica come l'esistenza degli enti matematici (due aspetti di un medesimo problema) il punto di partenza per Hilbert non è la considerazione di un sistema unitario in cui tutti i principi di formazione di oggetti matematici siano riuniti, quanto le singole teorie matematiche poste in forma assiomatica. L'affidabilità come l'esistenza matematica, in altri termini, non riguardano concetti od enti presi uno per uno ma piuttosto teorie, sistemi di enunciati. Per Hilbert l'intera matematica non è che il repertorio dei teoremi matematici storicamente dati, repertorio logicamente articolato e diviso in rubriche opportunamente ordinate che sono le teorie assiomatiche. Non esiste contenuto specifico, intuizione fondamentale, ma una pura intelaiatura logica, una rete che collega enunciati a enunciati, teorie a teorie. Sono appunto queste ultime le unità in cui si articola il discorso matematico e non i concetti o i costrutti come per Russell e Brouwer. Fondare la matematica significa quindi fondare le singole teorie e questo a sua volta significa dimostrare la loro noncontraddittorietà. Le singole teorie, come sistemi di enunciati, non sono che codificazioni di condizioni che noi poniamo sull'esistenza di enti tra loro legati da date relazioni, appartenenti al « modello » che vogliamo descrivere. In questo senso una teoria ha come criterio unico per la propria giustificazione dal punto di vista dell'accettabilità la noncontraddittorietà delle condizioni che pone: solo a questo patto è lecito considerare come « esistente » il dominio degli oggetti che essa vuol descrivere. Esistenza degli enti matematici e affidabilità delle teorie vengono così a coincidere.
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La logica nel ventesimo secolo (r)
Per Hilbert, parlare dell'esistenza di un dato ente (che non sia concretamente dato) non è che usare un'espressione metaforica per dire semplicemente che le condizioni che lo specificano non sono contraddittorie: si tratta di un 'esistenza ipotetica, ideale, un « come se » vincolato da una condizione materialmente significante. In questo modo i problemi tipici del dibattito tra predicativisti e logicisti si traducono in un altro problema che non riguarda più le eventuali impredicatività in cui si può incorrere nella definizione degli enti, bensì la contraddittorietà delle condizioni che li determinano. Ma come stabilire questa noncontraddittorietà? È su questo punto fondamentale che Hilbert compie il passo decisivo per una risposta alle critiche intuizioniste. La soluzione hilbertiana si basa sulla constatazione che esiste una differenza di fondo fra i vari enunciati matematici: da una parte gli enunciati la cui correttezza è immediato riconoscere, basati come sono su contenuti materiali immediatamente apprendibili, dall'altra enunciati che non godono di questa immediatezza. Si tratta di una distinzione basata sull'evidenza e verrebbe quindi facile pensare ad una sostanziale convergenza con la distinzione intuizionista fra enunciati costruttivamente significanti e non. Ma non è così; per Hilbert non esiste, come abbiamo detto, contenuto specifico -offerto da intuizioni fondamentali- proprio ad ogni singola teoria, ma piuttosto un'unica distinzione: quella fra enunciati che si riferiscono ad oggetti concreti, configurazioni spazio-temporali, ed enunciati che fanno riferimento a totalità infinite o più in generale ad oggetti astratti. Non solo, ma esiste un 'ulteriore specificazione: gli enunciati immediatamente evidenti sono quelli che parlano di oggetti concreti solo per quel che riguarda loro proprietà effettivamente dominabili, concretamente verificabili mediante manipolazione. Questi enunciati fanno parte di una matematica originaria, di un nucleo primitivo del pensiero su cui non esistono dubbi, legato com'è alla semplice manipolazione concreta di oggetti: è questa la matematica ftnitista, dotata di contenuto materiale e per la quale non si pone il problema di noncontraddittorietà. Anche dal punto di vista intuizionista questa parte della matematica non presenta problemi. Quello che va notato è però che per gli intuizionisti la matematica « sicura », dotata di contenuto si estende al di là di questi confini, in quanto l'intuizione fondamentale della successione numerica e la nozione generale di costruzione permettono di garantire la sensatezza di teorie, quali quella dei numeri naturali (intuizionisticamente concepita) in cui il principio di induzione, alla Poincaré, risulta costruttivamente accettabile. Non così per Hilbert, che in modo più radicale pone il confine dell'evidenza immediata sul finito e non sul costruttivo. Ogni riferimento infinito non ha un immediato significato materiale e quindi richiede una giustificazione di qualche sorta: anche l'aritmetica intuizionista, al pari di quella classica di Peano, necessita di una fondazione. I suoi enunciati riferentisi ad una totalità infinita (anche se solo potenzialmente tale) sono ideali, non materiali.
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La logica nel ventesimo secolo (1)
Tutte le teorie matematiche quindi che non fanno riferimento nei loro assiomi ai soli oggetti spazio-temporali, sono teorie ideali, prive di contenuto materiale. Per fondarle occorre dimostrare che è lecito assumere che esse abbiano un contenuto, vale a dire, in conformità a quanto detto sopra, dimostrare la loro non contraddittorietà. Perché però questa dimostrazione abbia un significato e sia accettabile occorre che si svolga entro quella parte della matematica, la finitaria, che, avendo questo contenuto, è certa. Una dimostrazione del genere non ci porta, russellianamente, a costruire « significati » (contenuti) ma a garantire che è lecito operare «come se» questi ci fossero. Questo è un aspetto essenziale della posizione hilbertiana: il formalismo non mira a giustificare i singoli asserti o le singole teorie costruendo per essi da una base data e con metodi sicuri un contenuto, ma piuttosto vuole dimostrare che l'assunzione dell'esistenza di contenuti è materialmente giustificata su base finitista. Proprio perché l'obiettivo riguarda la teoria nel suo complesso, tutte le limitazioni motivate da considerazioni intuizioniste sulla logica che si può assumere entro le teorie perdono valore, in quanto tutto il peso della fondazione viene scaricato sui metodi che si usano nelle dimostrazioni di noncontraddittorietà, le quali ultime, proprio in quanto debbono essere giustificate in modo puramente finitista e in definitiva combinatorio, a fortiori soddisfano le restrizioni costruttiviste sulla logica. La differenza fondamentale è che queste restrizioni non vengono più poste sulla teoria matematica in oggetto, ma sulla « metateoria »che ha come oggetto di studio proprio la teoria. La distinzione è profonda, in quanto porta in primo piano un concetto nuovo, quello delle teorie come oggetti e quindi della fondazione come analisi che si svolge con un linguaggio e con metodi diversi da quelli codificati dalle singole teorie. La fondazione cessa così di essere la ricostruzione entro un sistema unico per tutte le teorie e formulato nello stesso linguaggio e sullo stesso livello, per trasformarsi nello studio di esse come oggetti entro un linguaggio che non è il loro e dentro una teoria che non deve riprodurre i loro « contenuti » quanto dimostrarne la non contraddittorietà. Il nucleo dell'approccio formalistg sta appunto in questa distinzione fra un linguaggio-oggetto (quello delle teorie) e un metalinguaggio (quello della matematica finitista che si configura come metateoria). Con questo perde senso l'idea di una «grande logica» come sistemazione unitaria di tutti i concetti astratti. La distinzione fra linguaggio e metalinguaggio, fra teoria e metateoria, comporta l'abbandono del progetto di una ricostruzione globale della matematica entro una teoria che raccolga in sé tutti i principi esistenziali necessari; la matematica finiti sta assomma sì in se stessa il carattere fondante come la logica russelliana, ma si connette alle singole teorie non via un inglobamento, quanto piuttosto attraverso la loro sussunzione come oggetto di studio. Con Hilbert si assiste quindi al frantumarsi della « grande logica »
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La logica nel ventesimo secolo (r)
in varie « sottologiche » concepite questa volta come pure teorie inferenziali, come apparato deduttivo delle varie teorie matematiche. In questo modo la nozione di logica assume quella determinatezza che Ramsey notava mancare nella sistemazione russelliana. I Grundziige der theoretischen Logik (Lineamenti di logica teoretica), pubblicati da Hilbert e Wilhelm Ackermann (1896-1962) nel 1928, costituiscono la «canonizzazione» di questa rottura e l'avvio verso quella concezione dei sistemi logici come semplici sistemi inferenziali che è oggi corrente. In questo volume, per la prima volta, non viene presentato un sistema logico unico, ma di versi sistemi, quello degli enunciati, dei predicati del primo ordine, del secondo ordine ecc. ciascuno singolarmente studiato nelle sue proprietà metateoriche. Lo stesso avviene per le teorie matematiche che vengono ora formulate entro linguaggi specifici, su diverse basi logiche, ma sempre singolarmente considerate. Pur nelle mutate condizioni cui poi accenneremo, questa sistemazione articolata troverà la sua più completa espressione nelle Grundlagen der Mathematik (Fondamwti della matematica) di Hilbert e Paul Bernays (n. 1888) che verranno pubblicate in due volumi nel 1934 e 1939 rispettivamente, e costituiranno un punto di riferimento obbligato per l'indagine posteriore (anche relativamente ai rapporti con l'intuizionismo che solo qualche anno prima aveva ricevuto una sistemazione assiomatico-formale ad opera di Arend Heyting). Sotto l'influenza hilbertiana, gradatamente l'interesse dei logici si sposta, ed emergono nuovi problemi tutti legati alla idea di fondo della logica come indagine delle teorie formulate entro linguaggi formali specifici: non si tratta solo del problema della consistenza, ma anche di quello della completezza, della decidibilità, tanto delle teorie in generale quanto in particolare dei sistemi di logica pura; tutti problemi che acquistano senso solo una volta che si accetti la distinzione hilbertiana fra teoria e metateoria. Alla base di questa nuova concezione sta l'idea delle teorie come puri sistemi formali, oggetti combinatoriamente organizzati, appartenenti alla matematica finitista. Un sistema formale per Hilbert è dato dalla specificazione di un linguaggio, concepito come un alfabeto finito corredato da regole per la formazione dei termini e delle formule (corrispettivi formali dei nomi individuali e degli « enunciati ») e da un apparato deduttivo costituito da un insieme finito, o per lo meno finitamente dominabile, di assiomi e di regole: i primi semplici formule, le seconde relazioni effettivamente specificate fra formule. In questo modo teorie e sistemi logici trovano la loro rappresentazione materiale nei sistemi formali. Come tali essi divengono oggetti concreti, adeguati alle considerazioni della matematica finitista. È entro quest'ultima che si può formulare il problema della consistenza dei sistemi formali (delle teorie) concepito come studio delle loro proprietà combinatorie; e dal momento che la noncontraddittorietà è, fra queste, una proprietà che riguarda l'insieme delle formule dimostrabili, ne viene che il momento centrale delle considerazioni metateoriche riguarderà proprio la struttura delle dimostrazioni, 215
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La logica nel ventesimo secolo (r)
Tutte le teorie matematiche quindi che non fanno riferimento nei loro assiomi ai soli oggetti spazio-temporali, sono teorie ideali, prive di contenuto materiale. Per fondarle occorre dimostrare che è lecito assumere che esse abbiano un contenuto, vale a dire, in conformità a quanto detto sopra, dimostrare la loro non contraddittorietà. Perché però questa dimostrazione abbia un significato e sia accettabile occorre che si svolga entro quella parte della matematica, la finitaria, che, avendo questo contenuto, è certa. Una dimostrazione del genere non ci porta, russellianamente, a costruire « significati » (contenuti) ma a garantire che è lecito operare «come se» questi ci fossero. Questo è un aspetto essenziale della posizione hilbertiana: il formalismo non mira a giustificare i singoli asserti o le singole teorie costruendo per essi da una base data e con metodi sicuri un contenuto, ma piuttosto vuole dimostrare che l'assunzione dell'esistenza di contenuti è materialmente giustificata su base finitista. Proprio perché l'obiettivo riguarda la teoria nel suo complesso, tutte le limitazioni motivate da considerazioni intuizioniste sulla logica che si può assumere entro le teorie perdono valore, in quanto tutto il peso della fondazione viene scaricato sui metodi che si usano nelle dimostrazioni di noncontraddittorietà, le quali ultime, proprio in quanto debbono essere giustificate in modo puramente finitista e in definitiva combinatorio, a fortiori soddisfano le restrizioni costruttiviste sulla logica. La differenza fondamentale è che queste restrizioni non vengono più poste sulla teoria matematica in oggetto, ma sulla « metateoria » che ha come oggetto di studio proprio la teoria. La distinzione è profonda, in quanto porta in primo piano un concetto nuovo, quello delle teorie come oggetti e quindi della fondazione come analisi che si svolge con un linguaggio e con metodi diversi da quelli codificati dalle singole teorie. La fondazione cessa così di essere la ricostruzione entro un sistema unico per tutte le teorie e formulato nello stesso linguaggio e sullo stesso livello, per trasformarsi nello studio di esse come oggetti entro un linguaggio che non è il loro e dentro una teoria che non deve riprodurre i loro « contenuti » quanto dimostrarne la non contraddittorietà. Il nucleo dell'approccio formalist~ sta appunto in questa distinzione fra un linguaggio-oggetto (quello delle teorie) e un metalinguaggio (quello della matematica finitista che si configura come metateoria). Con questo perde senso l'idea di una «grande logica» come sistemazione unitaria di tutti i concetti astratti. La distinzione fra linguaggio e metalinguaggio, fra teoria e metateoria, comporta l'abbandono del progetto di una ricostruzione globale della matematica entro una teoria che raccolga in sé tutti i principi esistenziali necessari; la matematica finitista assomma sì in se stessa il carattere fondante come la logica russelliana, ma si connette alle singole teorie non via un inglobamento, quanto piuttosto attraverso la loro sussunzione come oggetto di studio. Con Hilbert si assiste quindi al frantumarsi della « grande logica »
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in varie « sottologiche » concepite questa volta come pure teorie inferenziali, come apparato deduttivo delle varie teorie matematiche. In questo modo la nozione di logica assume quella determinatezza che Ramsey notava mancare nella sistemazione russelliana. I Grundzuge der theoretischen Logik (Lineamenti di logica teoretica), pubblicati da Hilbert e Wilhelm Ackermann (I 896-I962) nel I928, costituiscono la «canonizzazione» di questa rottura e l'avvio verso quella concezione dei sistemi logici come semplici sistemi inferenziali che è oggi corrente. In questo volume, per la prima volta, non viene presentato un sistema logico unico, ma di versi sistemi, quello degli enunciati, dei predicati del primo ordine, del secondo ordine ecc. ciascuno singolarmente studiato nelle sue proprietà metateoriche. Lo stesso avviene per le teorie matematiche che vengono ora formulate entro linguaggi specifici, su diverse basi logiche, ma sempre singolarmente considerate. Pur nelle mutate condizioni cui poi accenneremo, questa sistemazione articolata troverà la sua più completa espressione nelle Grundlagen der Mathematik (Fondammti della matematica) di Hilbert e Paul Bernays (n. I 888) che verranno pubblicate in due volumi nel I934 e I939 rispettivamente, e costituiranno un punto di riferimento obbligato per l'indagine posteriore (anche relativamente ai rapporti con l'intuizionismo che solo qualche anno prima aveva ricevuto una sistemazione assiomatico-formale ad opera di Arend Heyting). Sotto l'influenza hilbertiana, gradatamente l'interesse dei logici si sposta, ed emergono nuovi problemi tutti legati alla idea di fondo della logica come indagine delle teorie formulate entro linguaggi formali specifici: non si tratta solo del problema della consistenza, ma anche di quello della completezza, della decidibilità, tanto delle teorie in generale quanto in particolare dei sistemi di logica pura; tutti problemi che acquistano senso solo una volta che si accetti la distinzione hilbertiana fra teoria e metateoria. Alla base di questa nuova concezione sta l'idea delle teorie come puri sistemi formali, oggetti combinatoriamente organizzati, appartenenti alla matematica finitista. Un sistema formale per Hilbert è dato dalla specificazione di un linguaggio, concepito come un alfabeto finito corredato da regole per la formazione dei termini e delle formule (corrispettivi formali dei nomi individuali e degli « enunciati ») e da un apparato deduttivo costituito da un insieme finito, o per lo meno finitamente dominabile, di assiomi e di regole: i primi semplici formule, le seconde relazioni effettivamente specificate fra formule. In questo modo teorie e sistemi logici trovano la loro rappresentazione materiale nei sistemi formali. Come tali essi divengono oggetti concreti, adeguati alle considerazioni della matematica finitista. È entro quest'ultima che si può formulare il problema della consistenza dei sistemi formali (delle teorie) concepito come studio delle loro proprietà combinatorie; e dal momento che la noncontraddittorietà è, fra queste, una proprietà che riguarda l'insieme delle formule dimostrabili, ne viene che il momento centrale delle considerazioni metateoriche riguarderà proprio la struttura delle dimostrazioni, 215
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La logica nel ventesimo secolo (r)
e in definitiva il concetto stesso di dimostrazione proprio di ogni sistema formale. Da qui il nome di teoria della dù!lostrazione (Beweistheorie) che Hilbert stesso dà all'analisi, nel suo senso, dei sistemi formali. Come tale la Beweistheorie deve far parte della matematica finitista e ne costituisce un'applicazione: principi e metodi dimostrativi devono essere mutuati da quest'ultima che così diviene il nucleo a cui si deve ridurre, attraverso la mediazione della teoria della dimostrazione, ogni studio delle teorie matematiche. Anche se, paradossalmente, Hilbert postulandone a priori la determinatezza non si preoccupò mai di dare una definizione esplicita di « matematica finitista », il programma generale risultava sufficientemente determinato e articolato da permettere sviluppi logico-matematici precisi e fruttuosi, sicché la Beweistheorie hilbertiana divenne per tutti gli anni venti il fulcro della ricerca logica (assieme, non va dimenticato, alla matematica intuizionista che proprio in quel periodo veniva costituendosi). Questo ruolo di guida lo perderà solo all'inizio degli anni trenta, quando la scoperta dei teoremi limitativi da parte di Kurt Godei (n. 19o6) mostrerà come, nella sua formulazione originaria, il programma hilbertiano fosse destinato al fallimento: non è possibile giustificare teorie forti almeno quanto l'aritmetica senza ricorrere nella metateoria ad assunzioni più potenti, e quindi trascendenti la matematica finitista. Con questo anche il formalismo trova il suo scacco definitivo. Il risultato di Godei ha un significato centrale nella storia della logica di questo secolo, a parte il suo enorme interesse intrinseco, proprio per questo fatto: esso costituisce la linea di demarcazione fra due epoche diverse della ricerca logica, la prima che giunge fino agli anni trenta, legata a programmi e in sostanza (se si esclude l'intuizionismo) vincolata al progetto di una giustificazione della matematica classica su basi indubitabili, la seconda che prende appunto le mosse dalla constatazione dell'impossibilità di una tale giustificazione. Con il 1930 (salvo l'intuizionismo che ha una sua particolare concezione del problema dei fondamenti) l'epoca delle grandi scuole finisce e il discorso non si articola più su programmi ma su temi, proprio quei temi peraltro che erano emersi dallo sviluppo dei vari programmi. È un periodo che solo superficialmente può apparire meno unitario del precedente. Sottostante a tutta la ricerca logica postgodeliana è il tentativo, una volta accertata l'impossibilità delle varie riduzioni proposte dalle scuole, di appurare i limiti delle varie concezioni ossia i loro ambiti di applicabilità. Non si cerca più di dimostrare che «tutta la matematica » è fondabile sulla logica, sulla matematica finitista, su quella costruttivista ecc., ma si indaga più direttamente su come questi vari elementi compaiano nell'edificio globale o nelle singole teorie. I grandi filoni della ricerca- teoria della ricorsività, semantica e teoria dei modelli, teoria della dimostrazione, teoria degli insiemi- tematizzano ciascuno alla sua maniera queste varie componenti: dalla finitista (teoria della ricorsività) alla infinitaria (teoria dei modelli, teoria 216
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La logica nel ventesimo secolo (r)
degli insiemi) alla costruttivista o più in generale a quelle intermedie fra la infinitista e la finitista (intuizionismo, teoria della dimostrazione). Così è anche per lo studio della stessa logica inferenziale; la codificazione, nel 19 31, della logica intuizionista apre la strada al diffondersi di un interesse, del resto già presente precedentemente, per le logiche diverse da quella classica, le loro possibilità e i loro legami reciproci: anche questo è un tema importante della ricerca logica postgodeliana. Questa riconsiderazione delle alternative possibili d'altra parte non va vista come l'abbandono di programmi o l'adozione di una pratica senza principi; si tratta piuttosto di un approfondimento dei temi stessi alla base dei programmi e di una loro applicazione alla stessa pratica della matematica. Questo aspetto, presente soprattutto nella teoria dei modelli, mostra chiaramente un nuovo tipo di legame con la matematica, non più mediato dal problema dei fondamenti, ma direttamente innestato nel concreto lavoro di ricerca. In questo nuovo panorama quindi applicazione ed analisi concettuali autonome si intrecciano indissolubilmente sullo sfondo di un problema comune, quello della natura della matematica e del pensiero astratto, di cui costituiscono articolazioni in diversa maniera significative. F: forse proprio in questo intergioco tra attività critica e pratica teorica, tra studio dei fondamenti e ricerca sul campo che sta a nostro parere il genuino significato della ricerca logica degli anni posteriori al trenta. II · I
PRIMI VENTI ANNI DEL SECOLO VENTESIMO
Il periodo immediatamente successivo alla scoperta dell'antinomia di Russell come ab biamo detto è caratterizzato da un rinnovato interesse per lo studio della sistemazione logica in senso lato delle teorie matematiche, cui si aggiungeva ora di diritto la teoria degli insiemi, e in particolare, della stessa logica inferenziale. Il concetto di insieme (classe) non poteva più, infatti, essere considerato- come aveva fatto Frege -- un concetto di tipo logico dato immediatamente, né era sufficiente l'elaborazione « strumentale» come quella che di esso aveva fatto Dedekind. Le antinomie avevano appunto mostrato chiaramente che neppure la complessa trattazione cantoriana era sufficiente; e agendo da potente catalizzatore verso tutta una nuova area di ricerca, esse rendevano necessaria una maggior cautela nella trattazione sistematica di determinate teorie, e comunque dei fondamenti della matematica. Ovviamente - come è stato ampiamente esemplificato nel paragrafo I - i vari ricercatori interpretarono in modi diversi queste « raccomandazioni » derivanti dalla scoperta delle antinomie, vale a dire tentarono di armonizzare la ormai necessaria cautela con il vasto orizzonte che si apriva alla ricerca, sullo sfondo di differenti concezioni generali circa quello che era lo statltS della matematica e della logica e circa l'interpretazione da dare a quella che veniva detta la fondazione
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La logica nel ventesimo secolo (r)
della matematica. Ne viene allora che la chiave generale per la comprensione delle numerose e talora confuse proposte di soluzione dei grandi problemi sul tappeto vada ricercata in questo periodo (e in effetti, abbiamo visto, per i primi trent'anni del Novecento, fino cioè ai risultati di Godei) nella distinzione che fin dai primissimi anni del secolo si stabilisce in modo abbastanza netto fra le tre « scuole » o concezioni sulla natura e sui fondamenti della matematica trattate nel paragrafo r: la scuola logicista, la scuola formalista e la scuola intuizionista. Questo non significa naturalmente che ogni autore di questo periodo si possa inserire nell'una o nell'altra di queste scuole: alcuni critici ad esempio propongono di aggiungere alla tripartizione precedente un quarto indirizzo - detto genericamente « cantorismo » - nel quale comprendere quegli autori che pur non inquadrandosi compiutamente ed esplicitamente in nessuna delle tre scuole suddette, tuttavia partecipano attivamente alla ricerca logica di questo periodo soprattutto per quanto riguarda la problematica più direttamente connessa con la teoria degli insiemi cantoriana. Anche in questi casi tuttavia il riferimento obbligato per la discussione resta una o !]iù delle concezioni precedenti, e molto spesso gli appartenenti a questa eventuale quarta scuola riconoscono, almeno implicitamente, la loro adesione all'una o all'altra delle tre correnti principali. Si può quindi affermare che sostanzialmente la storia della logica nei primi trent'anni del Novecento si rifletta nelle vicende delle varie scuole, dei loro rapporti e delle connesse ambiguità. In generale le discussioni, tanto nella teoria quanto nella pratica, si sviluppano su temi quali le definizioni, le dimostrazioni, le costruzioni (matematiche) che in sostanza riflettono altrettanti tentativi di articolare il discorso sull'esistenza degli enti fllatematici, che resta sempre il tema centrale, direttamente e imperiosamente posto dalla scoperta delle antinomie. Come primo esito di queste discussioni si avrà in generale una separazione abbastanza netta fra quella che possiamo chiamare una concezione logica della fondazione, attenta alla ricerca e all'individuazione delle assunzioni e delle forme di argomentazione in base alle quali ricostruire la matematica; e la concezione matetJJatica della fondazione che concentra la propria attenzione sui contenuti della matematica, dando poi eventualmente risposte estremamente differenziate circa il modo di isolarli o di considerarli. Particolarmente interessante, in questa seconda prospettiva, la distinzione fra assunzioni e procedimenti dimostrativi. Va da sé che queste classificazioni sono in generale assai sfumate, salvo forse che nel caso degli intuizionisti. r) Il logicismo di Bertra11d Russe!! La figura di Bertrand Russell è culturalmente di una complessità sconcertante e ben difficile sarebbe condensare in poche pagine gli spunti e i temi che la sua varia e copiosa produzione scientifico-filosofica offre. Del resto si è già parlato a lungo di lui e nel capitolo v del volume settimo e nel paragrafo preceZI8
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La logica·nel ventesimo secolo (r)
dente; qui ci possiamo quindi limitare a entrare brevemente nel merito della sua attività di logico. Da questo punto di vista egli inizia come partigiano della logica idealista di Francis Herbert Bradley (1864-1924) e finisce come sappiamo per diventare - almeno nel primo scorcio del secolo - uno dei massimi animatori della rinata logica matematica . .Come noto Bradley rifiutava di annettere alcuna importanza alla logica formale intendendo egli con ciò tanto la sillogistica di marca aristotelica quanto la più recente «logica equazionale » di Jevons e quindi sostanzialmente la logica matematica di Boole. Compito della logica è per Bradley quello di render conto del ragionamento in generale: da questo punto di vista, pur riconoscendo che il sillogismo era un tipo importante di ragionamento, esso era pur sempre un tipo, il quale inoltre, basandosi sulla tradizionale analisi della proposizione in soggetto/predicato, era insufficiente proprio perché la natura fondamentale del rapporto inferenziale è relazionale. Analogamente, dal momento che la logica booleana è limitata dalla sua natura matematica a trattare con problemi «che si adattano a un ragionamento numerico », essa non era a suo parere in condizioni di dare alcun disegno, adeguato o no, del ragionamento in generale. La logica - per Bradley - non intende dare semplicemente dei principi del ragionamento ma efFettivi canoni o tests di inferenza; ma d'altra parte non è possibile pensare di dare un repertorio completo delle inferenze valide, a causa della infinitezza di queste ultime: così stando le cose non risulta possibile dare neppure i tanto decantati canoni. Infine - momento ancor più centrale- il ragionamento e l'inferenza non possono mai essere formali perché non si possono mai dare principi puramente formali, poiché ogni principio contiene qualcosa di materiale. Secondo Bradley insomma « la logica formale e la matematica trattano con problemi di generalità inferiore rispetto a quella della logica come disciplina filosofica ». E la causa della non accettazione della logica formale da parte di Bradley sta proprio in questa sorta di inadeguatezza filosofica che egli le riconosceva. Ora nel suo primo periodo, in particolare all'epoca della pubblicazione di An essay on the foundations of geometry (Saggio sui fondamenti della geometria, I 897) 1 Russell è fortemente imbevuto di questa concezione della logica. Dichiara infatti che « in logica ho appreso per lo più da Bradley e, quindi, da Sigwart e da Bosanquet »; avendo tuttavia alle spalle una solida e profonda formazione matematica, egli voleva dimostrare l'essenziale irrilevanza, per la metafisica e l'epistemologia, dei moderni sviluppi matematico-formali della logica, a differenza appunto di Bradley (e di quanti altri!) che, in totale mancanza di quella preparazione, assumevano tale irrilevanza per garantita. Nello stesso volume, inoltre, Russell è « kantiano », nel senso che - pur con le dovute distinzioni sulle quali sarebbe qui superfluo insistere - vuole difendere l'apriorità della geometria euclidea (ossia la sua necessità per l'esperienza I
Una versione rielaborata della dissertazione di fellowship tenuta a Cambridge nel 1895.
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La logica nel ventesimo secolo (I)
dello spazio) che la scoperta delle geometrie non euclidee da una parte e la costituzione autonoma della geometria proiettiva dall'altra avevano come sappiamo messo in discussione. Allo scopo Russell pone alla base dell'intera costruzione alcuni principi di geometria proiettiva che egli ritiene essere a priori e che permettono di ottenere tutti i teoremi della proiettiva stessa; da tali principi proiettivi egli ricava quelli metrici che « caratterizzano » tanto la geometria euclidea quanto le non euclidee.! Russell tuttavia è convinto che un altro « pericolo » alla teoria kantiana possa provenire dalla teoria del transfinito di Cantar, secondo le indicazioni di Couturat; ma ancora nel I 897, quando recensisce l'opera del francese, egli ribadisce di non accettare la teoria cantoriana che, indipendentemente dalla sua utilità matematica, mai avrebbe potuto avere «validità filosofica». Tuttavia, pur ammirando gli sforzi di Couturat nel difendere «una causa così impopolare» concorda con lui su una cosa: che se avesse avuto ragione Cantar allora avrebbe avuto torto Kant. Questo, brevemente, il quadro del Russell « precongressuale ». Avviene quindi la svolta del 19oo, col congresso internazionale di filosofia e l'incontro con Peano e la sua scuola di cui si riferisce nel capitolo v del volume settimo. Egli ritorna dal congresso con convinzioni metafisiche diverse e inizia l'anno stesso la stesura di The principles oj mathematics (I principi della matematica) nel contempo studiando le opere di Peano, di Cantar, e rileggendo Frege, prima frettolosamente accantonato data l'inusitata difficoltà della sistemazione simbolica. Nel 1901 pubblica un articolo, On the notion oj order (Sul concetto di ordine), dove sostiene che i matematici moderni, in particolare Cantar, hanno sviluppato in modo tale l'idea di ordine che i filosofi non possono più a lungo ignorare tale sistemazione, che peraltro è di centrale importanza dal momento che « i filosofi hanno in generale professato una teoria delle relazioni che, se corretta, renderebbe le successioni logicamente impossibili ». Russell vuoi qui rigettare il dogma filosofico fino ad allora accreditato (in particolare proprio dal suo maestro Bradley che di questo aveva fatto un cardine della sua metafisica) che le relazioni siano in realtà stati interni delle cose, e ciò proprio in virtù del fatto che ad esempio «essere una successione indipendente è avere un posto distinto fra le entità». Di qui viene anche un deciso e ormai definitivo attacco contro la logica soggetto f predicato. La versione logica di tale distinzione non fa in effetti che riprodurre quella metafisica fra sostanza e qualità, e basta allora, per superare questo punto di vista, considerare che esiste un terzo tipo di entità, le relazioni appunto. Con questo nuovo tipo di discorso Russell inizia dunque la stesura dei I Louis Couturat (I868-1914), un matematico e filosofo francese (che avremo occasione di ricordare più avanti) già a quel tempo acceso sostenitore della nuova logica alla Peano e della teoria degli insiemi cantoriana, vede quest'opera di Russell come «l 'Estetica trascendentale di Kant, rivista, corretta e completata, alla luce
della Metageometria » e quindi decisamente ammirevole; anche se del tutto sbagliata: Couturat infatti già nel 1896 in De l'inftni mathématique (Dell'infinito matematico) aveva intrapreso la refutazione della filosofia della matematica kantiana sulla base delle nuove teorie dell'infinito di Cantar.
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La logica nel ventesimo secolo (1)
Principi. 1 Ma nel 1902 scopre la famosa antinomia che comunica a Frege e che noi abbiamo visto nel volume quinto. La soluzione di questa antinomia lo affatica per vario tempo, fra continue oscillazioni. Comunque, quando nel r 90 3 il volume viene pubblicato, in un'appendice Russell propone per la sua soluzione un abbozzo di quella che sarà la teoria dei tipi. L'opera si chiude con la promessa di un secondo volume; questo non verrà mai scritto ma nel frattempo, rinsaldatasi l'amiCizia e la collaborazione di Russell con Whitehead 2 viene dai due progettata una seconda opera fondamentale, che rappresenterà il naturale punto di riferimento per almeno un ventennio di successivi studi logici. Alludiamo ai Principia lJJathematica, scritti appunto in collaborazione dai due autori, e concepiti in un primo momento come secondo volume dei Principi, quindi progettati in quattro volumi di cui solo tre videro la luce fra il 1910 e il 1913. La strutturazione e lo sviluppo puntuale dei volumi in questione sono oltremodo complessi e pesanti 3 e noi ce ne interesseremo solo per quanto riguarda più da vicino il nostro discorso relativo alla crisi dei fondamenti e al superamento delle antinomie. Non si può tuttavia non ribadire il fatto che i Principia rappresentano l'effettiva concretizzazione della tesi logicista anche nel senso «sperimentale » di offrire una precisa ricognizione di quanta matematica si potesse ricostruire in questo nuovo linguaggio logico generale, senza che in essa sorgessero delle contraddizioni. In altri termini, dopo che già al tempo dei Principi Russell era giunto alla determinazione di accettare la teoria degli insiemi cantoriana, prospetta ora con Whitehead una organizzazione logica della matematica I Essi furono pubblicati nel I903 come primo di due volumi, il secondo dei quali avrebbe dovuto essere « dedicato esclusivamente ai matematici » (a differenza del primo che « si rivolge in egual misura al filosofo e al matematico»). Questo secondo volume non fu mai scritto ed il suo contenuto si ritroverà nei Principia mathematica di cui parleremo più avanti. I Principi furono pubblicati in seconda edizione nel I937 e da allora hanno conosciuto sette ristampe, la ultima delle quali nel I957· L'opera è divisa in sette parti più due appendici: r. Gli indefinibili della matematica; II. Numeri; m. Quantità; IV. L'ordine; v. Infinità e continuità; vr. Spazio; VII. Materia e moto. Appendice A: Le teorie aritmetiche e logiche di G. Frege; Appendice B: La teoria dei tipi. Russell afferma che l'opera ha due scopi principali. Il primo è « quello di provare che tutta la matematica tratta esclusivamente di concetti definibili in termini di un numèro piccolissimo di concetti logici fondamentali e che tutte le proposizioni di tale scienza sono deducibili da un numero piccolissimo di principi fondamentali»; il secondo è « la spiegazione dei concetti fondamentali che la matematica accetta come indefinibili». 2 Si veda la nota a pag. 202.
3 Russell dirà nella sua autobiqgrafia che si trattò di un grossissimo sforzo intellettuale (protrattosi dal I9o2 al I9Io), che poté essere concluso a prezzo di molte crisi ed enorme fatica: « Così andai avanti finché il lavoro non fu terminato, ma la mia mente non si è mai riavuta del tutto dallo sforzo fatto. Da allora la mia capacità di addentrarmi in difficili astrazioni è decisamente diminuita e questo è uno, se non l'unico, motivo del nuovo orientamento delle mie attività» (si veda il capitolo v del volume settimo). Alla prima edizione del 19I0-13 fece seguito una seconda del I927 con numerose ristampe, l'ultima delle quali è del I968. I tre volumi editi (un quarto, che doveva essere dedicato alla geometria, non fu mai scritto) sono suddivisi, nella seconda edizione, come segue. Un'ottantina di pagine iniziali del I volume sono destinate alla prefazione e alle introduzioni (alla. prima, rispettivamente alla seconda edizione) nelle quali vengono esposte la teoria dei tipi e quella delle descrizioni. Quindi la materia è disposta in sei parti nei tre volumi, nell'ordine seguente: r. Logica matematica; II. Prolegomena all'aritmetica cardinale; m. Aritmetica cardinale; IV. Aritmetica delle relazioni; v. Serie; vr. Quantità.
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La logica nel ventesimo secolo (r)
per constatare- si può dire sperimentalmente- quanto nel nuovo linguaggio si può di essa impunemente trascrivere. È sostanzialmente questo il programma logicista di Russell e Whitehead che viene svolto avendo allo sfondo l'idea di una «grande logica», una logica unificante, e unificata, che stabilito opportunamente il suo linguaggio e le sue regole di inferenza deve consentire di trascrivere deduttivamente tutta la matematica. Abbiamo posto l'accento sul carattere « sperimentale» di quest'impresa non solo in riferimento al fatto che nella mutata situazione determinata dai metodi ora disponibili per superare ed evitare almeno le antinomie note, l'opera di Russell e Whitehead si presenta come la concreta esplicitazione e realizzazione di un programma, così come nella vecchia situazione si presentavano i Grundgesetze di Frege, ma tenendo anche presente il successivo sviluppo della logica che comporta in certo senso una connotazione negativa nei riguardi dell'opera di Russell e Whitehead. È in effetti una situazione che ricorda le obiezioni di Bradley contro i logici formali: questi avrebbero stabilito dei «canoni» interpretandoli in modo tale che «chi li segue è salvo e chi non li segue è dannato». Orbene lo sperimentalismo di Russell consiste proprio in questo che, giunti a certi oggetti ultimi, siano essi proposizioni o connettivi o concetti (in particolare di tipo semantico), la logica non ha più modo di indagarne la natura o lo status, ma deve accettarli così come sono e costruire su di essi. Questa situazione si presenta come bloccante in particolare riguardo a tutta una serie di tentativi che si riagganciavano al filone schroderiano e che avevano come fine quello di stabilire la decidibilità rispetto alla validità di certi stock di espressioni simboliche pensate e interpretate su domini astratti. E in effetti la semantica soggiacente ai Principia è appunto quella del senso comune e non vi è alcun accenno, il minimo spiraglio, che possa far pensare alla possibilità che tali concetti fondamentali possano essere ulteriormente indagati da un punto di vista logico. La granitica e complessa costruzione dei Principia deve comprendere tutto: al di là non si può andare. Tutto ciò che è possibile fare a questo riguardo è semplicemente porre distinzioni e rapporti, non assumere nuovi oggetti di indagine. La necessità di evitare le antinomie è responsabile dell'enorme macchinosità della cosiddetta teoria dei tipi ramificata, che costituisce il substrato linguisticodeduttivo dei Principia. Con Whitehead, Russell si era deciso ad adottare tale teoria, che aveva già compiutamente esposto nel 1908, dopo vari tentennamenti che nel 1905 l'avevano anzi portato a scartare decisamente questa soluzione prospettandone altre tre possibili che vengono da lui considerate in quell'anno nell'articolo On some dijjiculties in the theory of tratzsftnite numbers and order rypes (Su alcune d~lfìcoltà nella teoria dei numeri e dei tipi d'ordine transftniti). Si tratta: I) della cosiddetta teoria zig-zag; 2) della teoria della limitazione di grandezza e 3) della cosiddetta « no-classes theory »(teoria senza classi). A noi non interessa qui presentare nei dettagli queste teorie, né discuterle in partico222
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lare, visto che come si è già detto Russell finisce poi con lo scartarle,per tornare alla teoria dei tipi (che, si noti, non è neppure nominata nell'articolo del 1905). Ci limiteremo quindi a concise caratterizzazioni, per lo più dello stesso Russell, e annoteremo invece alcune osservazioni di Poincaré sulle stesse che ci sembra diano una sufficiente idea delle polemiche allora correnti. Secondo la teoria zig-zag, dunque, « le definizioni (funzioni proposizionali) determinano una classe quando esse sono molto semplici, e cessano di farlo quando sono complicate e oscure ». 1 La teoria della limitazione di grandezza richiede come è ovvio che una classe possa esistere solo se, per così dire, « non è troppo grande »; per esprimerci metaforicamente con Russell, « non esistono cose come la classe di tutte le entità ». 2 Secondo la « no-classes theory », ancora in accordo con la denominazione stessa, « classi e relazioni sono completamente bandite »; ciò va inteso nel senso che invece di parlare di una data classe come estensione di tutti gli oggetti che soddisfano una data funzione proposizionale, si può direttamente limitarsi a considerare la funzione proposizionale stessa e tutte le sostituzioni in essa. 3 Comunque, le difficoltà inerenti a tali soluzioni (in particolare a quest'ultima, che sembrò per un certo tempo raccogliere i favori di Russell) portano come già accennato Russell stesso a ritornare alla teoria dei tipi, che egli presenta succintamente già nell'articolo del 1908 Mathematicallogic as based on the theory of types (Logica matematica fondata sulla teoria dei tipi), e sul quale sostanzialmente ci fonderemo per schizzare una presentazione della teoria. Va premesso che all'epoca della pubblicazione di questo articolo l'elenco delle antinomie esplicitamente enunciate si era allungato di molto, dopo l'antinomia di Burali-Forti, quella di Cantar, e ovviamente l'antinomia per eccellenza, quella di Russell: si erano riesumate antiche antinomie come quella del mentitore, e altre erano state costruite. L'articolo di Russell inizia proprio con una elencazione delle antinomie fino ad allora note e crediamo convenga riprendere questo quadro per comodità r Ma chi può decidere se una definizione può essere riguardata come sufficientemente semplice per essere accettabile? Questa è la domanda che si pone Poincaré e alla quale, dice, non si trova in Russell alcuna risposta precisa o lontanamente accettabile, se non un vago appello all'assenza di contraddizione. Dunque, conclude Poincaré, la teoria è ben oscura; e, aggiunge ironicamente, « in questa notte, un solo chiarore; è la parola zig-zag». Per il concetto di funzione proposizionale si ricordi quanto detto nel capitolo xn del volume sesto. 2 Ancora Poincaré, esposta questa teoria, osserva che, secondo essa, « può darsi che una classe sia infinita, ma occorre che non lo sia troppo ». E qui ci ritroviamo nella stessa difficoltà precedente: quando far cominciare quel « troppo »? « Ben inteso, » conclude Poincaré,
« questa difficoltà non viene risolta e Monsieur Russell passa alla terza teoria. » 3 In proposito è interessante riportare l'intero passo di Poincaré: «Nella no-classes theory è proibito pronunciare la parola classe rimpiazzando la con varie perifrasi. Che mutamento per i logicisti che non parlano che di classi e di classi di classi! Devono rifare tutta la logistica. Ci si figura che aspetto avrà una pagina di logistica una volta soppresse tutte le proposizioni nelle quali si parla di classi? Non resteranno che pochi sopravvissuti sparsi in mezzo a pagine bianche. Apparent rari nantes in gurgite vasto. » Ricordiamo che il termine « logistica » venne proposto da Couturat e altri al congresso internazionale di filosofia del r904 per designare la nuova logici matematica.
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del lettore. La disposizione che daremo alla presentazione delle varie antinomie segue un criterio che verrà giustificato nel paragrafo ru. 3. I) Antinomia di Russell o della classe di tutte le classi che non sono elementi di se stesse. Abbiamo presentato e discusso tale antinomia nel capitolo xrr del volume sesto. 2) Antinomia di Burali-Forti o del massimo numero ordinale. Vale l'osservazione precedente. 3) Antinomia di Cantor o del massimo numero cardinale. Come sopra. 4) Antinomia delle relazioni. È una variante di quella di Russell e può essere espressa come segue. Sia T la relazione che sussiste fra le relazioni R e S ogniqualvolta R non è nella relazione R con S. Allora, qualunque siano le relazioni R e S, « R non sta nella relazione R con S » è equivalente a « R sta nella relazione T con S ». Se ora diamo tanto a R quanto a S il valore T, otteniamo l'equivalenza antinomica « T non sta nella relazione T con T» è equivalente a « T sta nella relazione T con T». 5) Antinomia di Epimenide il mentitore. Si può dare in numerose forme. La più semplice ci sembra la seguente. Un uomo dice «Io mento ». È chiaro che se dice la verità mente e se mente dice la verità. La proposizione in questione risulta cioè vera se e solo se è falsa. 6) Antinomia di Berry o del più piccolo numero intero non nominabile in un certo numero finito n di sillabe. Supponiamo ad esempio n= 30; allora l'antinomia risulta dal fatto che se si definisce «il più piccolo numero intero non nominabile in meno di trenta sillabe» si è nominato con meno di 30 sillabe un numero che non dovrebbe godere di questa proprietà. 7) Antinomia di Konig o del più piccolo ordinale non definibile. È stata presentata nel paragrafo r. 8) Antinomia di Richard. È analoga alla precedente, ma preferiamo presentarla come segue (Poincaré). Consideriamo tutti i numeri decimali che si possono definire con un numero finito di parole della lingua italiana; questi numeri formano un insieme E che si vede facilmente essere numera bile (cioè di numero cardinale ~ 0). Supponiamo quindi di aver enumerato gli elementi di E e definiamo un numero N come segue. Se l'n-esima cifra decimale dell'n-esimo numero di E è rispettivamente o, I, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9
prendiamo come n-esima cifra decimale di N I, 2,
3, 4, 5, 6, 7, 8,
I, I,
rispettivamente. È allora chiaro che N non coincide con alcun elemento n di E, ossia non appartiene ad E; d'altra parte in quanto numero definito con un numero finito di parole della lingua italiana dovrebbe appartenere ad E per la stessa definizione di E. 224
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9) Per completezza, perché verrà nominata nel seguito, illustriamo anche l'antinomia di Hermann Weyl (1885-195 5) del termine « eterologico »malgrado essa non fosse ancora nota al tempo in cui Russell scriveva il suo articolo. Supponiamo dunque di chiamare auto logico un aggettivo (predicato) che si applica a se stesso, eterologico un aggettivo che non si applica a se stesso. Così ad esempio «breve» è auto logico perché la parola (attenzione!) «breve» è effettivamente breve; « lungo » è allora evidentemente etero logico in quanto la parola « lungo » è breve, ossia non è lunga; « deutsch » è autologico (la parola è tedesca) mentre «tedesco» è eterologico; e così via. Orbene chiediamoci: l'aggettivo« eterologico » è autologico o etero logico? Se è auto logico si applica a se stesso e quindi (per la definizione stessa di eterologi co) è etero logico; se viceversa è eterologico non si applica a se stesso e quindi (per tale definizione) è autologico. Nell'elenco precedente sono comprese alcune delle antinomie correnti nei primi dieci anni del secolo e dovrebbe essere chiaro che esse non rappresentano che una semplice selezione da un'infinità di antinomie costruibili. Russell ritiene di poter individuare in esse una radice comune che egli descrive come « autoriferimento o riflessività », e che conviene chiarire rielaborando le stesse parole di Russell tanto sono esplicite ed esaurienti: se ltttle le classi, ammesso che non siano elementi di se stesse sono membri di una classe w, lo stesso deve valere per w, e analogamente per la contraddizione in termini di relazioni. Nel caso del paradosso di Burali-Forti (e di quello di Cantor con gli immediati e opportuni cambiamenti) la successione il cui numero ordinale causa la difficoltà è proprio la successione di ltttti gli ordinali. L'osservazione di Epimenide deve includere se stessa nel suo proprio ambito; nel caso di nomi e definizioni, i paradossi risultano dal considerare la non nominabilità e la non definibilità come elementi nei nomi e nelle definizioni. In definitiva, « in ogni contraddizione viene detto qualcosa intorno a ltttte le classi di un qualche tipo, e da ciò che viene detto sembra generarsi un nuovo caso che nello stesso tempo è e non è dello stesso tipo dei casi che erano ltttti implicati in quanto viene detto ». Questa osservazione porta Russell ad escludere l'esistenza di totalità che, se ammesse come legittime, potrebbero immediatamente essere « ampliate » mediante l'aggiunta di nuovi elementi definiti in termini delle totalità stesse; sono infatti proprio totalità di questo genere che risultano essere presupposte, implicate in ognuno dei casi sopra esposti di antinomie. È cioè chiaro che Russell, riprendendolo come sappiamo da Poincaré (che l'aveva espresso per la prima volta nel 1906 nel corso di una discussione circa l'antinomia di Richard) assume come fondamentale il principio del circolo vizioso: « Tutto ciò che implica ltttto di una collezione non deve essere un elemento della collezione » o, in modo più sofisticato: « Se, ammesso che una collezione abbia un totale, essa contenesse membri definibili solo in termini di quel totale, allora la detta collezione non ha totale». 225
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Più semplicemente, non si può accettare una definizione di un ente quando in questa definizione venga implicata la totalità (la classe) cui quell'ente appartiene, o, in modo più restrittivo, quando nella definizione stessa si faccia ricorso a termini la cui definizione è possibile soltanto facendo riferimento alla classe cui l'ente da definirsi appartiene. Sarebbe ad esempio un'operazione illegittima, possibile causa di antinomie, la definizione di un numero reale che facesse riferimento alla classe di tutti i numeri reali (cui ovviamente appartiene quel particolare numero che si vuoi definire). Se chiamiamo impredicative definizioni di questo tipo, ciò equivale in definitiva ad ammettere che l'origine di tutte le antinomie vada ricercata nell'ammissione di tali definizioni che quindi, conclude Russell, non possono essere accettate come legittime. Il nostro sistema logico dovrà essere congegnato in modo da non permettere la formazione di siffatte definizioni. A questo proposito è tuttavia opportuno fare due osservazioni. La prima è che le definizioni impredicative costituiscono una reale difficoltà solo per il matematico (o per il filosofo della matematica) che professi una concezione concettualista della sua scienza, una concezione cioè che, qualunque sia la sfumatura con la quale viene accettata, comporti la convinzione che le definizioni (o più in generale i sistemi matematici) costituiscano gli enti di cui parlano. In questo caso infatti è ovvio che non è possibile riferirsi correttamente e sensatamente a una totalità che, per così dire, vado costituendo passo per passo. Nessuna difficoltà rappresentano invece le definizioni impredicative per un matematico di ~once zione realista: in questo caso infatti con le mie definizioni non faccio che descrivere oggetti che preesistono al mio atto definitorio, che sono già autonomamente costituiti e indipendenti dal linguaggio che io uso per descriverli. La seconda osservazione è che in modo naturale, una-volta accettato il principio del circolo vizioso come regolatore della possibilità di considerare definitoriamente totalità, diviene essenziale fare una distinzione fra « tutti » (inglese: al!) e «uno qualunque» (inglese: at!)), o se si vuole fra « tutti» inteso in senso cumulativo e «tutti» inteso in senso distributivo (ogni). È chiaro infatti che solo la prima accezione ha per così dire potere totalizzante e può condurre ad antinomie violando il principio del circolo vizioso, il che invece non avviene parlando distributivamente di un qualunque elemento in senso generico. In termini tecnici questa distinzione viene rispecchiata con l 'uso del quantificatore universale per la prima accezione totalizzante (con il ricorso cioè, in termini peaniani, alle variabili apparenti) o con l'impiego delle variabili libere, non vincolate da ·quantificatori (variabili reali in terminologia peaniana) nel secondo caso. Quest'ultima osservazione ci introduce direttamente in quella che è la teoria dei tipi ramificata adottata da Russell e Whitehead nei Principia. L 'universo del discorso viene riguardato come stratificato in vari livelli o tipi: quando parliamo di tutti gli oggetti che soddisfano una data condizione, dobbiamo intendere 2.26 www.scribd.com/Baruhk
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solo oggetti di un dato tipo, sicché le classi di questi oggetti devono essere omogenee per quanto riguarda (il tipo de) i loro elementi. Allora quando ad esempio dico «tutte (al/) le cose rosse» mi riferisco alla totalità delle cose rosse di UiJ certo tipo, mentre quando dico «ogni (any) cosa rossa» mi riferisco indifferentemente a una qualunque cosa rossa, indipendentemente dal tipo; solo che nel primo caso individuo una classe, nel secondo no. Questa tipizzazione viene effettuata per proposizioni, funzioni proposizionali, classi; in generale nel seguito ci riferiremo tuttavia alla tipizzazione in classi, che ci sembra prestarsi meglio a esemplificare intuitivamente la situazione. L'universo viene dunque diviso in tipi nel modo seguente. Al tipo I apparterranno gli individui, al tipo 2 le classi di individui, ossia elementi del tipo 2 saranno classi i cui elementi sono individui; al tipo 3 apparterranno classi di classi di individui, ossia classi i cui elementi sono a loro volta classi di individui; al tipo 4 apparterranno classi di classi di classi di individui, ossia classi i cui elementi sono classi di classi, i cui elementi sono classi di individui; e così via per ogni tipo finito. Abbiamo sottolineato quel « finito » perché Russell e Whitehead affermano esplicitamente che non si possono con questa costruzione raggiungere tipi infiniti (transfiniti). È chiaro che questa tipizzazione basta già da sola ad escludere tutta una serie di antinomie, ad esempio quella di Russell, quando si convenga che la relazione di appartenenza possa sussistere solo fra enti di tipi opportunamente diversi e si traduca questa convenzione nel linguaggio. Così ad esempio si può convenire, come fanno Russell e Whitehead, che se xn rappresenta un oggetto di tipo n, sia sensato scrivere xn E xn+l, dove xn+l rappresenta un oggetto del tipo immediatamente successivo a n, mentre siano prive di significato espressioni quali xn E xn o xn E xn+p (con p intero positivo diverso da I). Ora, nella definizione di un individuo o di una classe di un dato tipo può succedere di far riferimento ad altre classi (totalità), il che viene indicato tecnicamente, come dicevamo, dal fatto che nell'espressione definitoria compaiono variabili apparenti, vincolate cioè da un quantificatore universale o esistenziale. D'altra parte proprio questa evenienza pone le premesse per possibili definizioni impredicative; avendo accettato il principio del circolo vizioso è necessario quindi evitare situazioni di questo genere, vale a dire il linguaggio deve essere costituito in modo da escludere intrinsecamente questa possibilità. È a questo scopo che alla suddivisione in tipi si sovrappone un'ulteriore suddivisione in ordini, nel senso che oggetti di uno stesso tipo possono essere di ordini diversi a seconda delle espressioni definitorie che li individuano. Esemplificando, per comodità, per oggetti di tipo 2 (ossia per classi di individui) avremo ad esempio: classi di tipo
2
di ordine
I
nella cui definizione non si fa riferimento alla totalità degli oggetti di tipo 1 (ossia nella cui
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La logica nel ventesimo secolo (r)
espressione definitoria non intervengono quantificatori che vincolano variabili per oggetti di tipo I) classi di tipo
2
classi di tipo
2
di ordine
2
nella cui definizione, oltre a eventuali variabili libere per oggetti di tipo I, compare anche almeno un quantificatore che vincola variabili per oggetti di ordine I
di ordine 3
nella cui definizione, oltre a eventuali quantificatori come sopra, compare almeno un quantificatore che vincola variabili per oggetti di ordine 2, e così via per tutti gli ordini finiti. 1 Naturalmente una tale distinzione in ordini si ha per ogni tipo, senza contare che la questione viene ulteriormente complicata dal fatto che ad esempio un oggetto di tipo 2 (ossia una classe di oggetti di tipo I) può essere definita da un'espressione contenente quantificatori che vincolano variabili per oggetti di tipo 3 o di tipi superiori. Naturalmente non ci interessa proseguire nei dettagli di questo argomento alquanto ostico: è importante però aver chiaro che mentre la distinzione dei tipi ci informa per così dire circa il livello dell'universo stratificato in cui si trova un dato oggetto, quella degli ordini ci dice invece « come » è stato possibile raggiungere quel dato oggetto. Per usare una felice espressione di Casari, mentre il tipo ci informa circa la complessità insiemistica di una classe, l'ordine ci informa invece circa la sua complessità concettuale. È questa sovrapposizione degli ordini ai tipi che dà la cosiddetta «ramificazione» della teoria; Russell e Whitehead fanno vedere come, tramite essa, si riesca effettivamente a evitare le antinomie, ma realizzano anche, nel contempo, come teoremi cruciali della matematica classica o della teoria degli insiemi non siano più suscettibili di dimostrazione nel loro nuovo contesto: per non fare che alcuni esempi, non è più possibile dare una soddisfacente definizione di identità, 2 non è più possibile dimostrare il teorema di Cantor (secondo il quale, come si ricorderà, la cardinalità dell'insieme potenza di un insieme dato è strettamente maggiore della cardinalità dell'insieme stesso), non è più possibile definire il concetto di numero r In termini di funzioni [proposizionali] la cosa viene così espressa nei Principia: «Non arriveremo a funzioni di ordine infinito in quanto il numero degli argomenti e delle variabili apparenti di una funzione deve essere finito e pertanto ogni funzione deve essere di ordine finito. Dato che gli ordini delle funzioni sono definibili solo passo per passo, non vi può essere alcun processo di " passaggio al limite " e non possono darsi funzioni di ordine infinito. » La stessa cosa vale ovviamente per i tipi.
2 Volendo infatti definire l'identità in senso leibniziano, si dovrebbe poter esprimere che due enti di uno stesso tipo sono identici quando godono · delle stesse proprietà, o, in termini di classi, quando simultaneamente appartengono (o non appartengono) alle stesse classi. Ma anche qui ci si trova a dover far riferimento a tutte le classi, mentre il linguaggio « ramificato » ci permette di parlare soltanto di tutte le classi di un dato ordine.
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La logica nel ventesimo secolo (1)
reale dell'Analisi classica (alla maniera di Cantar o di Dedekind), né lo stesso concetto di numero naturale. Il fatto è che, una volta « etichettato » un oggetto oltre che col tipo anche con l'ordine, non sarà più possibile parlare di tutti gli oggetti tout court, ma il quantificatore universale sarà sempre relativizzato (a un tipo e) a un ordine: in altri termini, noi potremo ad esempio avere espressioni del genere « tutte le classi di un dato ordine che contengono l'oggetto x» (e analogamente per il quantificatore esistenziale); mentre i teoremi o le definizioni sopra ricordate comportano un essenziale riferimento a tutte le classi. Nel caso particolare della ricostruzione dell'Analisi, come osserva Casari, la difficoltà si traduce ora « ... nell'esistenza di numeri reali di ordini diversi e ... nell'impossibilità in generale di trattare con sufficiente libertà gli insiemi di numeri reali. Più particolarmente, non si potrà mai parlare di tutti i reali che soddisfano una certa condizione ma sempre e soltanto di tutti i reali di un dato ordine che soddisfano quella condizione ». È proprio per superare queste difficoltà prospettate dalla ramificazione, che Russell e Whitehead introducono l'assiotna di riducibilità, il cui senso, in modo non tecnico, può essere chiarito all'incirca come segue. Per rendere sostanzialmente inoperante la distinzione in ordini nell'ambito di un tipo, è ragionevole pensare di individuare un ordine per così dire particolarmente rappresentativo, che permetta cioè, una volta stabilita una proprietà per un certo elemento (di quel tipo e) di quell'ordine, di poterla «impunemente» estendere a ogni ordine; Russell e Whitehead ritengono di poter individuare questi ordini particolari in quello che per ogni tipo essi chiamano l'ordine predicativo di quel tipo: quell'ordine che individua enti del tipo dato facendo riferimento a elementi dell'ordine immediatamente precedente. In un certo senso ciò significa che i differenti ordini di un tipo possono essere ridotti all'ordine più basso di quel tipo. Se chiamiamo ora predicativo un elemento di un certo tipo (nel nostro caso, una classe) quando è determinato, descritto, da una condizione predicativa, l'assioma di riducibilità viene a dire che per ogni classe di enti di un certo tipo esiste una classe predicativa che è equiestensiva con essa. In termini di funzioni proposizionali in una variabile, indicando una funzione predicativa con un punto esclamativo che segue la lettera funzionale, l'assioma di riducibilità assume nei Principia la seguente forma:
(ossia [qualunque sia la funzione rf>] esiste una funzione predicativa tf; che risulta ad essa equivalente per ogni valore della variabile x). È chiaro allora che una volta stabilite relazioni e proprietà per classi predicative sarà possibile estendere queste relazioni e proprietà a ogni ordine grazie appunto al dettato dell'assioma di riducibilità. Ma si rivela allora anche evidente che la ramificazione viene sostanzialmente
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La logica nel ventesimo secolo (I)
vanificata da questo assioma e a questo punto si può innestare tutto un discorso che noi, in termini generali, abbiamo già fatto nel paragrafo 1. Non riprenderemo quindi questo discorso e termineremo invece con un breve accenno alla sistemazione logico-linguistica dei Principia cui dovremo riferirei in seguito. Anche se sistematica e puntuale, la presentazione dell'apparato linguistico e deduttivo dei Principia è ben lontana dal soddisfare le attuali esigenze di rigore (alle quali è paradossalmente assai più vicino Frege). Pur essendo inteso - è stato già detto - come sistema globale, il sistema logico dei Principia viene presentato in modo graduale, operando di fatto una separazione fra logica enunciativa, logica predicativa e logica dei tipi, come potremmo dire noi oggi. Per il primo aspetto vengono introdotte variabili proposizionali p, q, r ... e i due connettivi primitivi di negazione (-,) e disgiunzione (V). Sulla base di questi viene definito il connettivo di implicazione (--+), che da Russell viene inteso come conseguenza logica: « Quando una proposizione q segue da una proposizione p, sicché se p è vera anche q deve essere vera, diciamo che p it11plica q. » Vengono date regole di formazione per le espressioni e regole di derivazione che a partire da 5 assiomi permettono di sviluppare la « teoria della deduzione » per quanto riguarda proposizioni « elementari » ossia proposizioni o funzioni proposizionali nelle quali non intervengono quantificatori. Successivamente si estende tale teoria al caso in cui si abbiano costrutti linguistici nei quali vengano vincolate tramite il quantificatore esistenziale o universale una o più variabili. Anche per questo caso vengono date regole specifiche di formazione e di derivazione. Naturalmente in questo caso occorrerà una complessa descrizione per la corretta assegnazione del tipo e dell'ordine alle varie espressioni: si avrà cioè in tutta la sua portata la controparte simbolica della teoria dei tipi ramificata, che termina appunto con l'enunciazione dell'assioma di riducibilità. Gli assiomi dell'infinito e l'assioma moltiplicativo vengono quindi introdotti successivamente, quando cioè il loro impiego sarà necessario per lo sviluppo della teoria degli insiemi. 1 2.) Il «primo» Hilbert e Zermelo Nel capitolo XII del volume sesto abbiamo già parlato dell'introduzione di una nuova, moderna concezione dell'assiomatica da parte di David Hilbert, concretamente applicata, nelle sue Grundlagen der Geometrie (Fondamenti della geometria) del 19oo, a una assiomatizzazione della geometria elementare. I Diversamente da quanto avveniva per Frege che riusciva a dimostrare l'esistenza dell'insieme dei numeri cardinali grazie all'ammissione di classi non omogenee rispetto al tipo (che cioè potevano avere contemporaneamente come elementi enti di tipo diverso), Russell e Whitehead debbono introdurre come assioma l'affermazione che dispongono di un tipo infinito,
ossia di infiniti elementi distinti di un qualche tipo. La cosa avviene in genere assumendo come assioma l'affermazione che esistono infiniti elementi di tipo I (individui). L'assioma della scelta viene assunto nella forma equivalente di assioma moltiplicativo: il prodotto di infiniti insiemi non vuoti e disgiunti è diverso da zero. Si veda anche in proposito il paragrafo u.z.
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Sempre nel I9oo, nell'articolo Uber die Zahlbegri.ff(Sul concetto di numero), Hilbert presenta un sistema di assiomi per i numeri reali; e ancora in quell'anno, nella sua celebre relazione Mathematische Probleme. Vortrag gehalten auf dem internationalen Mathem~tiker Kongress zu Paris Igoo (Problemi fllatematici. Conferenza tenuta al congresso internazionale dei matematici a Parigi, Igoo) egli pone fra i problemi che sfidano il mondo matematico quello della dimostrazione della noncontraddittorietà (o coerenza, o consistenza: useremo questi tre termini come sinonimi) di quel sistema di assiomi, dopo aver mostrato come anche il problema della consistenza della geometria fosse riconducibile al problema della consistenza del sistema dei numeri reali. Dopo la pubblicazione dell'antinomia di Russell è chiaro che la questione della noncontraddittorietà acquisti dal punto di vista di Hilbert ancor maggiore e fondamentale significato sinché anch'egli interviene nella discussione sui fondamenti con un articolo del 1904 dal titolo Uber die Grundlagen der Logik und der Arithmetik (Sui fondamenti della logica e dell'aritmetica) che forma oggetto di una comunicazione presentata al terzo congresso internazionale dei matematici, tenuto ad Heidelberg dall'8 al I3 agosto I904. È un articolo che ha un'importanza del tutto particolare, perché non solo rappresenta la prima enunciazione, dopo la scoperta delle antinomie, di un tentativo di soluzione delle stesse tramite il metodo assiomatico e una connessa dimostrazione di consistenza, ma anche perché è l'unica presa di posizione di Hilbert sul problema in questo periodo. Egli infatti tornerà sull'argomento relativo ai fondamenti della matematica solo oltre dieci anni più tardi, prima nel I 9 I 7 con Axiomatische Denken (il pensiero assiomatico) e quindi negli anni venti con numerosi lavori che vedremo in un prossimo paragrafo. Già in questo articolo del 1904 tuttavia vengono avanzati metodi, temi e problemi che saranno poi centrali nell'effettiva presentazione della matura Beweistheorie hilbertiana. Per prima cosa Hilbert chiarisct: la fondamentale differenza che esiste nel caso ci si impegni a dimostrare la consistenza della geometria e quella invece dell'aritmetica. È proprio nel secondo caso, ossia relativamente all'aritmetica, che si hanno le note diversificazioni nelle posizioni dei vari autori: « infatti, alcune delle difficoltà nei fondamenti dell'aritmetica sono di natura diversa da quelle che si sono dovute superare quando si sono stabiliti i fondamenti della geometria. Esaminando i fondamenti della geometria ci fu possibile lasciare da parte certe difficoltà di natura puramente aritmetica; ma non sembra lecito ricorrere ad alcun'altra disciplina fondamentale quando si tratta di affrontare la questione dei fondamenti dell'aritmetica». Le principali difficoltà in questo senso vengono messe in luce da Hilbert mediante una breve disamina critica dei punti di vista dei vari autori. Non si può affrontare il problema, secondo Hilbert, dal punto di vista dogmatico di Kronecker, che vede sì nel concetto di numero intero la reale fon-
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dazione dell'aritmetica, ma considera tuttavia i numeri naturali come dati immediatamente, eliminando così alla base la possibilità e la necessità di condurre ulteriori indagini sugli stessi; 1 né è possibile un tentativo di fondazione eJJJpirista come quello di Helmholtz, la cui pretesa che i numeri vengano astratti dall'esperienza viene secondo Hilbert superata dalla semplice constatazione dell'esistenza di numeri « arbitrariamente grandi », che non è possibile in alcun modo mutuare dall'esperienza. Particolarmente profonde sono per Hilbert le ricerche di Frege e Dedekind: ma il primo, accettando senza limitazioni il principio di comprensione, si espone come noto all'insorgenza di paradossi; analogamente il secondo, perseguendo un tipo di fondazione trascendentale (perché nella dimostrazione dell'esistenza di insiemi finiti fa ricorso alla nozione di totalità di tutti gli oggetti), si espone all'insorgere di una «inevitabile contraddizione». Anche il tentativo di Cantor di superare le antinomie a lui note mediante la distinzione fra molteplicità consistenti e inconsistenti trova il suo limite nella soggettil'ità dei criteri proposti per operare questa distinzione. Le difficoltà messe in luce nei tentativi dei vari autori sopra considerati possono essere superate a parere di Hilbert ricorrendo al metodo assiomatico. A noi non interessa qui seguire passo passo la costruzione del sistema che Hilbert presenta bensì accennare a quella che è l'essenza del metodo proposto in questo articolo per dimostrarne la consistenza. Brevemente, il problema si articola come segue: assunti certi assiomi relativi a oggetti extralogici definiti, ed esplicitate delle regole di deduzione, si prova che gli assiomi godono di una data proprietà; si fa quindi vedere che le regole di derivazione accettate « conservano » questa proprietà, danno cioè luogo a teoremi che sono proposizioni che godono di quella proprietà; si mostra allora che una eventuale proposizione contraddittoria non godrebbe di quella proprietà sicché,. dal momento appunto che le regole la conservano, dai detti assiomi non può dedursi alcuna contraddizione. In questo caso diciamo che le nozioni definite implicitamente dagli assiomi sono consistenti o « esistono consistentemente ». Il metodo presentato da Hilbert viene oggi estensivamente impiegato ed è ovvio che si tratta di una sorta di dimostrazione per induzione. Questo punto sarà centrale per le critiche che Poincaré muoverà a questo primo tentativo hilbertiano: come è possibile giustificare tramite un'induzione la coerenza di un sistema assiomatico come quello dell'aritmetica, di cui proprio l'assioma di induzione è una proposizione fondamentale? Altro elemento importante dell'articolo del 1904 è come dicevamo la presentazione, non organica e sistematica, ma non per questo meno esplicita, di quelle che saranno caratteristiche distintive della posizione formalista hilbertiana matura ; esse sono essenzialmente le seguenti: r Vedremo che nella misura in cui gli intuizionisti si rifaranno a Kronecker, articolandone tuttavia il discorso in modo sistematico,
non sarà così facile per Hilbert « eliminare » la loro posizione.
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1) Necessità di sviluppare parallelamente logica e matematica: « L'aritmetica è spesso considerata una parte della logica e le tradizionali nozioni logiche fondamentali sono usualmente presupposte quando si tratta di stabilire una fondazione dell'aritmetica. Se tuttavia osserviamo attentamente, ci rendiamo conto che nell'esposizione tradizionale delle leggi della logica sono già usate certe fondamentali nozioni aritmetiche, per esempio il concetto di insieme e, in certa misura, lo stesso concetto di numero. Così d troviamo involti in un circolo vizioso e ciò accade perché se si vogliono evitare i paradossi è necessario uno sviluppo parzialmente simultaneo delle leggi della logica e di quelle d eli 'aritmetica. » z) Riduzione dell'aritmetica a un sistema di formule sulle quali operare per derivazione. 3) Assunzione dell'esistenza extralogica di «oggetti fondamentali» che sono in generale « oggetti di pensiero » e delle loro combinazioni. Naturalmente Hilbert ritiene di poter così superare quelle che erano le deficienze messe prima in luce per gli altri autori: ad esempio, una volta dato il sistema d'assiomi, va osservato che «negli assiomi gli oggetti arbitrari che prendono il posto delle nozioni " ogni '' o " tutti '' della logica ordinaria rappresentano solo quegli oggetti di pensiero e le loro mutue combinazioni che a questo stadio sono presi come primitivi o che debbono essere ancora definiti», il che ovviamente comporta quella limitazione alla generalità fregeana fonte di antinomie. Non solo ma «nella derivazione di conseguenze dagli assiomi gli oggetti arbitrari che occorrono negli assiomi possono quindi essere sostituiti solo con tali oggetti di pensiero e con loro combinazioni. Va inoltre notato che quando si aggiunge un oggetto del pensiero e lo si prende come primitivo, gli assiomi previamente assunti si applicano a una più ampia classe di oggetti e devono essere opportunamente modificati». In altri termini il metodo assiomatico consente i più sottili controlli per quanto riguarda il rapporto di « conseguenza » e quindi relativamente alla possibilità di assegnare, tramite la dimostrazione di noncontraddittorictà, «un significato definito e un contenuto» a nozioni («oggetti del pensiero») che di per sé ne sono prive. Nozioni di questo tipo sono ad esempio per Hilbert «insieme», « rappresentazione », « trasformazione », « relazione », « funzione », « infinito » ecc.; per tutte queste si devono considerare opportuni assiomi e col metodo precedente si possono riconoscere essere « consistentemente esistenti ». Naturalmente possiamo così dimostrare anche l'inconsistenza di talune nozioni. In entrambi i casi- e questo è un ulteriore punto centrale dell'approccio hilbertianociò che dobbiamo fare è « ... considerare la dimostrazione stessa come un oggetto matematico, precisamente [come] un insieme finito i cui elementi sono connessi mediante proposizioni che affermano che la dimostrazione conduce da ... rcerti assiomi a un dato teorema] ». Si noti che nella presentazione hilbertiana qui schizzata, il concetto fonda-
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mentale è quello di insieme « ... sicché contrariamente alla concezione attuale, la nozione di elemento di un insieme appare solo come un prodotto susseguente della nozione stessa di insieme ». Ma fino a che punto il concetto di insieme è « chiaro » o, per dirla con Hilbert, « esiste consistentemente »? È proprio a questo problema che tenta di rispondere, facendo uso del metodo assiomatico, una delle più interessanti figure di questo periodo, il matematico tedesco Ernst Zermelo. 1 Zermelo esordisce con un articolo del 1904, Beweis, dass jede )l1enge wohlgeordnet werden kann (Dimostrazione che ogni insieme può essere bene ordinato), presentando in esso una dimostrazione della proposizione che Cantar aveva creduto a più riprese di aver provato dopo averla congetturata, ossia la proposizione circa la confrontabilità di cardinali, o se si vuole del fatto che ogni cardinale è un alef. Zermelo riesce nello scopo in modo assai semplice perché assume per la prima volta esplicitamente un nuovo principio, che abbiamo già ripetutamente ricordato nel volume precedente, noto come postulato (o principio) delle infinite scelte, postulato di Zermelo, assioma moltiplicativo o semplicemente come assioma di scelta; e in effetti Zermelo dimostra appunto che questo principio implica il teorema del buon ordinamento. A parte l'andamento tecnico della dimostrazione è per noi interessante la considerazione finale di Zermelo che, riconosciuto a Erhard Schmidt il merito di avergli suggerito l'impiego del principio di scelta, afferma: «La presente dimostrazione si basa ... sul principio che anche per una totalità infinita di insiemi esistono rappresentazioni che associano a ogni insieme uno dei suoi elementi o, espresso formalmente, che il prodotto di una totalità infinita di insiemi, ognuno dei quali contenga almeno un elemento, è esso stesso diverso da zero. Questo principio logico non può) a rigore) essere ridotto a uno pùì semplice) n1a esso è applicato ovunque senza esitazione mila deduziom matematica» (corsivo nostro). Il principio in questione sollevò immediatamente una vera selva di discussioni. Qui ci limiteremo intanto a osservare che la dimostrazione di Zermelo venne resa pubblica solo qualche mese dopo che Konig aveva presentato al congresso di matematica quella che lui considerava una dimostrazione del fatto che il continuo non poteva essere ben ordinato. Conosciuta la dimostrazione di Zermelo, Konig scopre un errore nella propria e la ritira o meglio, come abbiamo ampiamente visto nel paragrafo I, ne ricava un'ulteriore antinomia. In secondo luogo, r Non si può collocare Zermelo in una scuola determinata delle tre che conosciamo; anzi è proprio a suo riguardo che alcuni critici individuano un quarto indirizzo, « insiemistico » o « cantoriano ». In effetti però, anche se Zermelo agisce come matematico puro, che tenta di risolvere le difficoltà prospettate dalle antinomie con la presentazione di un sistema matematico operativo, egli condivide in certo senso con Russell l'atteggiamento circa il contenuto del sistema matematico (e la posizione realista, anche se molto
ingenua, di fondo), con lo stesso Poincaré una concezione potremmo dire kantiana della matematica come fatto globale e infine con Hilbert almeno la fiducia nel metodo assiomatico, se non addirittura la necessità dello stesso. D'altra parte poiché il grosso impatto di Zermelo nella ricerca successiva deriva essenzialmente dalla sua costruzione del primo sistema assiomatico per la teoria degli insiemi, abbiamo ritenuto lecito e opportuno associarlo a Hilbert.
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già nel189o Peano, in uno dei suoi fondamentali lavori Démonstration de l' intégrabilité des équations dif!érentielles ordinaires (Dimostrazione dell'integrabilità delle equazioni differenziali ordinarie), riassumendo la dimostrazione e riferendosi a un dato passaggio, afferma: «Siccome non si può applicare un'infinità di volte una legge arbitraria con la quale a una classe a si fa corrispondere un individuo di questa classe, si è formata qui una legge detertninata con la quale a ogni classe a, sotto opportune ipotesi si fa corrispondere un individuo di questa classe. » In altri termini Peano vede chiaramente il principio di scelta come autonomo, ma lo rigetta come principio di dimostrazione. Ancora nel 1908, nel Formulario, è di questo parere: «In questa dimostrazione occorre scegliere un numero infinito di volte un cubo fra più cubi, il che non è lecito se non si dà una legge generale di scelta. » Nel 1906 nell'appendice del lavoro Super theorema de Cantor-Bernstein et additione (St~l teorema di Cantor-Benzstein e appendice) egli esamina il paradosso di Richard e le osservazioni in proposito di Poincaré, e afferma sostanzialmente che il principio non è impiegabile perché solo l'assunzione di elementi arbitrari in numero finito è una forma di argomentazione riconducibile al sillogismo che è in effetti, per lui, l'unica forma di dimostrazione. Allora: in molti casi il principio di Zermelo è riconducibile al sillogismo e va bene, in altri casi non si sa eliminare il postulato di Zermelo ma allora « la dimostrazione non è ridotta a forme comuni di ragionamento; la dimostrazione non è valida, secondo il valore comune del vocabolo "dimostrazione''». Per ogni dimostrazione in cui intervengano infinite scelte arbitrarie egli, per così dire, sospende il giudizio: « La nostra opinione è indifferente. Il teorema precedente è simile al teorema di Gol d bach ... » ossia è una pura congettura. A queste e altre numerose obiezioni Zermelo replicò, e talora duramente, nel 1908 presentando una nuova dimostrazione del teorema del buon ordinamento (sempre basata ovviamente sul principio di scelta) in Nette Beweis fiir die Miiglichkeit einer Wohlordnung (Nuova dimostrazione per la possibilità di un buon ordinamento), dimostrazione che ricorreva questa volta a una generalizzazione del concetto di catena (introdotto, come abbiamo visto nel volume sesto, da Dedekind). Prima di presentare il sistema assiomatico di Zermelo vale la pena di soffermarci brevemente sulle risposte ad alcune obiezioni perché ci sembra mettano bene in luce l'aspetto di fondo, il senso stesso della polemica. Ze:çmelo distingue le varie obiezioni raggruppandole in quattro tipi fondamentali, due dei quali possono essere riguardati come « metateorici » ossia sono diretti contro l'assunzione del principio di scelta o l'impiego delle definizioni impredicative, gli altri due sono più direttamente « teorici » ossia matematici nel senso che tendono direttamente a mettere in luce eventuali errori nella stessa dimostrazione di Zermelo. Da che parte stia Zermelo ci sembra risulti chiaro quando egli osserva che « il numero relativamente alto di critiche contro la mia breve nota [quella del I 904] testimonia il fatto che, evidentemente, contro
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il teorema che ogni insieme può essere ben ordinato si hanno forti pregiudizi. Ma il fatto che a dispetto di un esame meticoloso ... nella mia dimostrazione non fu possibile mettere in luce alcun errore matematico e che le obiezioni sollevate contro i miei principi sono mutuamente contraddittorie ... mi lascia sperare che nèl tempo queste resistenze saranno superate». Ma vediamo le obiezioni al principio di scelta, per noi particolarmente interessanti in quanto Zermelo le confuta sostanzialmente con una polemica contro Peano; il quale in questo contesto - a parte la sua indiscussa preminenza come matematico - appare in definitiva come un conservatore, che tende a dare limitazioni conclusive e definitive a un sistema, e mostra di non avvertire che il suo era tempo di « sperimentazioni » disinvolte e spregiudicate all'occorrenza, tese a costruire per il futuro piuttosto che a rifinire per il passato. Abbiamo accennato alle obiezioni di Peano: sostanzialmente consistono nel non riconoscere al principio di scelta la « dignità » di principio di dimostrazione dal momento che «dimostrare» voleva per lui dire semplicemente ed esclusivamente «ricondurre a sillogismi » (affidandosi in ciò, è chiaro, a tutta una pesante e antica tradizione) e il principio in questione non sempre ammetteva tale riduzione. Zermelo reagisce duramente a questa obiezione: «Per rigettare tale principio fondamentale [il principio di scelta appunto] si dovrebbe accertare che non vale in qualche caso particolare, oppure derivare da esso una contraddizione », non fare appello all'autorità di schemi certamente privilegiati e sperimentati ad abundantiam ma non per questo dimostrati esaustivi. « Anche il Formulaire [Formulario] di Peano, » ribadisce Zermelo, « che è un tentativo di ridurre tutta la matematica a "sillogismi " ... si basa su un certo numero di principi indimostrabili. » Peano riconosce che il principio di scelta non è deducibile dai suoi, ma questo è tutto per lui: «L'idea che eventualmente il suo Formulaire potrebbe essere incompleto proprio in questo punto, dovrebbe, dopo tutto, suggerirsi da sola e poiché in matematica non esistono autorità infallibili, dobbiamo tener conto anche di questa necessità e non rigettarla senza un esame obiettivo.» Evidentemente Peano individua i principi su cui basa il Formulario analizzando i processi di inferenza riconosciuti come corretti nel corso della storia e accetta tali principi per la loro ez,idenza. Ora anche Zermelo riconosce che il suo principio è stato usato da molti matematici (Dedekind, Cantar, Bernstein, Schonflies, Konig ecc.), ma ritiene l'evidenza un criterio del tutto soggettivo; tale non è al contrario il fatto che il principio sia o no necessario per la scienza, il che Zermelo sostiene presentando una lista di problemi matematici non risolubili senza l'impiego del principio in questione. «Bandire dalla scienza fatti e problemi fondamentali per il solo motivo che essi non possono essere trattati per mezzo di certi principi prescritti, sarebbe analogo a proibire l'ulteriore estensione della teoria delle parallele in geometria perché si è riconosciuto indimostrabile l'assioma su cui si fonda questa teoria. In effetti i principi devono
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essere giudicati dal punto di vista della scienza, e non la scienza dal punto di vista di principi fissati una volta per tutti. » Altro tipo di obiezione riguarda la questione delle definizioni impredicative, e ha quindi come naturale controparte Poincaré, le cui posizioni come abbiamo già visto avevano fortemente influenzato anche Russell. Oltre che in sé, l'obiezione e la susseguente discussione di Zermelo assumono qui particolare interesse perché: I) portano Zermelo a esplicitare il suo realismo per quanto riguarda la questione dell'esistenza degli enti matematici; z) consentono di riconoscere con chiarezza una sua concezione in certo senso kantiana (in accordo in questo con Poincaré) della matematica nella sua globalità; 3) servono a mettere in luce la netta distinzione osservata da Zermelo tra principi (fatti extramatematici di contenuto generale) e dimostrazioni (fatti strettamente matematici e come tali sottoponibili ai controlli più accurati e spietati). Dicevamo dunque che Zermelo concorda con Poincaré nel ritenere la matematica una scienza « produttiva basata sull'intuizione»; egli non obietta quindi contro la polemica che in quegli anni Poincaré stava conducendo, come abbiamo già ampiamente accennato e come vedremo ancora nelle prossime pagine, contro i logicisti; ritiene tuttavia, e questo lo riguarda direttamente, che Poincaré identifichi la teoria degli insiemi con la logistica che egli combatte e alla quale « nega ogni diritto di esistenza ».. Ora finché Poincaré mantiene il discorso sul piano filosofico, poco male, afferma Zermelo: in questo caso, praticamente nessun matematico ha qualcosa da obiettare. Ma « egli intraprende a combattere le dimostrazioni matematiche con le armi della logica formale, avventurandosi così su un terreno nel quale i suoi avversari sono più forti di lui ». Ma veniamo ora al punto in questione. Sappiamo che per Poincaré una definizione è predicativa e logicamente ammissibile solo se essa esclude tutti gli oggetti che dipendono dalla nozione definita, ossia che in qualche modo possono essere determinati da essa. Orbene una definizione di quest'ultimo tipo (quella di intersezione di tutte le catene, che è a sua volta una catena) interviene in modo cruciale nella seconda dimostrazione di Zermelo, che quindi, secondo Poincaré, è errata. Qui Zermelo reagisce se possibile ancor più decisamente in quanto non è il principio di scelta che si mette in discussione, ma la correttezza stessa della sua dimostrazione, ossia l'unico e vero argomento sul quale ha ragione di non ammettere dubbi. A Poincaré Zermelo risponde sostanzialmente: a) con una professione di realismo che, come osservavamo parlando di Russell, vanifica l'obiezione stessa delle definizioni impredicative; b) sostenendo che dimostrazioni impredicative non sono caratteristiche della teoria degli insiemi ma si ritrovano in tutta la matematica e c) ritorcendo l'accusa di circolarità alla stessa definizione di Poincaré. Dopo tutto, dice Zermelo, « uri oggetto non è creato attraverso una tale "determinazione "; piuttosto ogni oggetto può essere determinato in un'ampia varietà di modi, e queste differenti determinazioni non danno luogo a nozioni
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identiche, ma soltanto equivalenti, ossia nozioni aventi la stessa estensione. In effetti è proprio l'esistenza di nozioni equivalenti ciò che Poincaré sembra aver trascurato nella sua critica ... Una definizione può ben basarsi su nozioni equivalenti a quella da definirsi; in effetti in ogni definizione deftniens e deftniendum sono nozioni equivalenti e la stretta osservanza della richiesta di Poincaré renderebbe impossibile ogni definizione e quindi tutta la scienza ». 1 Le altre obiezioni che gli vengono direttamente da parte matematica tendono a far vedere, ad esempio, come sulla base del risultato di Zermelo possa ricostituirsi l'antinomia di Burali-Forti. A noi non interessa qui seguirle; 2 ci limitiamo solo a mettere in evidenza che Zermelo sostiene e dimostra l'infondatezza di tali obiezioni accennando a quello che sarà il suo sistema assiomatico per la teoria degli insiemi che verrà pubblicato nello stesso anno; e conclude osservando che a causa delle antinomie è ormai chiaro « ... che non è permesso trattare l'estensione di un concetto arbitrario come un insieme e che di conseguenza l'usuale definizione di insieme è troppo ampia. Ma se nella teoria degli insiemi ci limitiamo a un certo numero di principi stabiliti come quelli che costituiscono la base della nostra dimostrazione - principi che ci permettono di formare insiemi iniziali e di derivare nuovi insiemi da quelli dati - allora tutte le contraddizioni possono essere evitate ». Questi dunque sono i criteri di fondo in base ai quali Zermelo presenta nel 1908 in Untersuchungen uber die Grttndlagen der lvfengenlehre, 1 (Ricerche sui fondamettti della teoria degli insiemi, 1), il primo sistema assiomatico di teoria degli insiemi. Da questo punto di vista Zermelo opta per una soluzione di tipo hilbertiano e non solo perché assume il metodo assiomatico ma anche perché, a differenza di Russell che concepiva un linguaggio logico generale per la descrizione di tutta la matematica, Zermelo si muove in un tipo di linguaggio che semplicemente gli serva alla trascrizione della teoria degli insiemi (sia poi o meno in questa possibile, a sua volta, una trascrizione dell'intera matematica). Altre differenze con Russell: questi vede il discorso nell'ambito di un contesto filosofico generale, Zermelo offre una soluzione di tipo matematico, operativo, alla questione delle antinomie che avevano messo in crisi una teoria matematica; Russell fa ovviamente un radicale discorso di tipo logicista, Zermelo di tutta la problematica relativa ha semr Si noti che in questa sua risposta a Poincaré, Zermelo concorda con le critiche che allo stesso Poincaré aveva in proposito sollevate Peano. 2 È interessante riportare le parole conclusive di Zermelo sull'argomento: «Ad eccezione di Poincaré, la cui critica, basata sulla logica formale - una critica che minaccerebbe l'esistenza di tutta la matematica - non ha finora avuto seguito, tutti gli oppositori possono essere divisi in due classi. Quelli che non hanno nulla da obiettare alle mie deduzioni protestano contro
l'impiego di un principio gene.rale indimostrabile, senza riflettere che tali assiomi costituiscono la base di ogni teoria matematica e che inoltre quello che io ho introdotto è anche peraltro indispensabile per l'estensione della scienza. Gli altri critici che si sono convinti di questa indispensabilità per una più profonda conoscenza della teoria degli insiemi, fondano le loro obiezioni sull'antinomia di Rurali-Forti, che in effetti è senza significato dal mio punto di vista, perché i principi che io impiego escludono l'esistenza di un insieme W [di tutti gli ordinali).»
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plicemente preso atto del fatto che occorre superare delle difficoltà precise e lascia addirittura del tutto indeterminata la logica soggiacente il suo sistema. Proprio questo punto, tuttavia, si rivelerà una lacuna non indifferente della sua costruzione. Il problema per Zermelo è essenzialmente quello di « chiarire » il concetto di insieme facendo sì che vengano evitati insiemi che appaiono « troppo grandi » per poter essere ammessi, pena appunto la comparsa delle antinomie (con l'accortezza di non dare a quel « troppo grande » una carica soggettiva o di « reale » confronto di grandezze; da questo punto di vista ne vedremo una precisazione «tecnica», da parte di von Neumann, nel paragrafo III.z. Per ora «troppo grande » vuol dire solo « che comporta contraddizione ». Del resto anche Russell come sappiamo aveva pensato a una soluzione del genere quando aveva accarezzato l'idea di evitare le antinomie con la teoria della « limitazione di grandezza»: si tratta sempre e comunque di evitare le «esistenze scomode»). È chiaro che la cosa si otterrà, tra l'altro, limitando la portata di quel principio di comprensione secondo il quale, come si ricorderà, a ogni proprietà corrisponde un insieme, che Russell aveva appunto dimostrato contraddittorio. Zermelo provvede a questa limitazione assumendo al suo posto un principio di separazione o di isolamentv secondo il quale è ammessa la comprensione delle proprietà solo nell'ambito di insiemi già precostituiti, nel senso che la loro esistenza o è stata postulata o può essere dimostrata nel sistema. Dovrebbe risultare ovvio che questa proposizione costituisce un reale indebolimento della primitiva portata del principio di comprensione (pur conservando forza sufficiente a realizzare una certa parte significativa della teoria di Cantar) solo a patto che nel sistema che si considera non si assuma o comunque non sia possibile dimostrare l'esistenza della classe totale: «isolare» nella classe totale equivale infatti ad assumere la comprensione generalizzata. Zermelo deve quindi escludere tale classe dal suo sistema e questo gli riesce molto felicemente dimostrando un teorema che vedremo subito dopo aver presentato il sistema assiomatico nel corso di alcune considerazioni che faremo su di esso. Poiché il sistema assiomatico di Zermelo, che indicheremo con 3, fornì lo spunto e la base di partenza per tutta una serie di potenziamenti e precisazioni che si avranno soprattutto negli anni venti, noi ci riserviamo di darlo nella sua forma simbolica in un prossimo paragrafo, !imitandoci qui a descrivere ed enunciare gli assiomi in linguaggio comune e in modo informale. Intuitivamente Zermelo vede la sua teoria riferita a un dominio B di individui o oggetti, fra i quali vi sono degli insiemi; quegli oggetti del dominio che non sono insiemi vengono detti elementi primitivi o Urelemente. Come relazioni fondamentali fra gli oggetti del dominio egli assume la relazione di appartenenza a E b che ovviamente può aver luogo tra insiemi (ossia nel caso che a e b siano entrambi insiemi) o fra Urelemente e insiemi (ossia nel caso che a sia un el e-
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mento primitivo e b un insieme); tale relazione cioè non può aver luogo fra Urelemente ossia nel caso che tanto a quanto b siano Urelemente. In termini di questa relazione fondamentale di appartenenza si definisce la relazione a s; b di inclusione fra insiemi ossia che può sussistere solo quando a e b siano etttrambi insiemi. Sulla base di queste relazioni fondamentali Zermelo enuncia otto assiomi e precisamente i seguenti (che noi riportiamo in terminologia moderna pur parafrasando direttamente l'enunciazione zermeliana). 1) Assioma di estensionalità Se ogni elemento di un insieme JJ è un elemento di un insieme N e viceversa, allora M = N. Si noti che questo assioma vale solo per insiemi e afferma sostanzialmente che un insieme è determinato dai suoi elementi.
z) Assioma degli insiemi elementari Esiste utt insieme (.fittizio), l'insieme vuoto o, èhe nott contiene elementi. Se a è un oggetto del dominio allora esiste l'insieme {a} il cui solo elemento è a; se a e b sono due oggetti qualunque del dominio allora esiste sempre un insieme {a, b} che contiene come elementi solo a e b. Questo assioma assicura l'esistenza di insiemi particolarmente semplici: l'insieme vuoto appunto, l'insieme unità di ogni elemento (sia o no questo elemento un insieme del dominio) e l'insieme coppia di due elementi qualunque (siano essi o no insiemi) del dominio. 3) Assioma di separazione Ogniqualvolta la funzione proposizionale P( x) è definita per tutti gli elementi di un insieme M, il1 possiede un sottoinsinm liJ p che coJttiene tutti e soli gli elementi x di M i quali soddisfatto la proprietà P(x).l Questo assioma è particolarmente delicato. Esso esprime infatti quella limitazione del principio di comprensione che abbiamo sopra chiamato principio di isolamento. Il perché della denominazione dovrebbe risultare chiaro proprio dall'enunciazione dell'assioma che infatti consente di isolare nell'ambito di un dato insieme M quegli elementi x E M che godano di una data proprietà P. Oltre alle osservazioni in generale già fatte sopra se ne impongono alcune particolari relative proprio alla formulazione di questo assioma. In esso interviene il concetto di «proprietà definita» che è assai problematico in quanto non è assolutamente specificato da Zermelo. Anzi, mette proprio in evidenza una lacuna fondamentale della sua presentazione, l'assenza cioè di una base logico-linguistica chiaramente ed esplicitamente precisata, quando nel tentativo di caratterizzare questa nozione Zermelo afferma che « una questione o asserzione P è detta essere definita se le relazioni fondamentali del dominio, per mezzo degli assiomi 1 Si osservi che propriamente non si tratta in questo caso di un assioma bensì di uno sche-
ma di assiomi. Si veda anche la nota 26r.
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e delle leggi universalmente valide della logica [corsivo nostro] determinano senza arbitrarietà se essa vale o non vale ». Qui non solo risulta la necessità di un riferimento a una base logica esplicitata (quali sono queste leggi universali, come entrano nella determinazione della «definitezza», ecc.) che manca nel sistema zermeliano, ma si prospetta il problema, una volta superata questa lacuna, di vedere come definire opportunamente questa nozione. Vedremo che questo sarà uno dei nei del sistema 3 che più affaticherà negli anni venti gli insiemisti. Già sulla base di questi assiomi, Zermelo è in grado di dimostrare il teorema che gli esclude la possibilità di antinomie, teorema secondo il quale « ogni insieme M possiede un sottoinsieme M 0 che non è un elemento di M», vale a dire che stabilisce che non ogni elemento del dominio può essere elemento di uno stesso insieme, e che pertanto il dominio B stesso (il quale per sua stessa definizione contiene tutti gli elementi) non è un insieme: non può quindi isolarsi nella classe totale, ossia il principio di separazione è effettivamente più debole del principio generalizzato di comprensione, e non permette la derivazione dell'antinomia di Russell. È soprattutto a questo terzo assioma dunque che è affidato il compito di evitare le antinomie; e il passo in cui Zermelo fa quest'affermazione è interessante perché allude chiaramente a una sorta di suddivisione delle stesse, che si rivelerà fondamentale, come avremo occasione di vedere nel paragrafo III+ Conviene quindi riportare tale passo, o almeno i suoi momenti più salienti: «Dando un'ampia libertà nel definire nuovi insiemi, l'assioma III in un certo senso fornisce un sostituto per la definizione generale di insieme... Esso differisce da tale definizione poiché contiene le seguenti restrizioni. In primo luogo un insieme non può mai essere definito indipendentemente... ma deve essere sempre separato come sottoinsieme da insiemi già dati; così nozioni contraddittorie come" l'insieme di tutti gli insiemi" o "l'insieme di tutti i numeri ordinali", e con essi i "paradossi ultrafiniti ", per usare un'espressione di Hessenberg, sono esclusi. In secondo luogo, ... il criterio definitorio deve sempre essere definito ... (ossia per ogni singolo elemento x di M le relazioni fondamentali del dominio devono determinare se esso vale o no) col risultato che, dal nostro punto di vista, tutti i criteri come "definibile con un numero finito di parole" e quindi "l'antinomia di Richard" e "il paradosso della denotazione finita" svaniscono. Ne segue anche però che, a volere essere rigorosi, prima di ogni applicazione dell'assioma III noi dobbiamo dimostrare che il criterio P(x) in questione è definito; nelle considerazioni che seguono questo verrà in effetti dimostrato tutte le volte che non sarà evidente. » 4) Assioma dell'insieme potenza A ogni insieme T corrisponde un altro insieme f!IJ(T) detto insieme potenza di T, i cui elementi sono tutti e soli i sottoinsiemi di T, compreso T stesso e l'insieme vuoto.
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Si può comprendere la portata di questo assioma, in particolare in riferimento alla teoria dei numeri cardinali, se si ricorda il teorema di Cantar dato nel capitolo xn del volume sesto. 5) Assioma della riunione A ogni insieme T corrisponde un insieme U T che contiene co1ne elementi tutti e soli gli elementi degli elementi di T. 6) Assioma della scelta Se T è un insieme i cui elementi sono tutti insiemi mutuamente di~giunti e non vuoti, allora la riunione U T include almeno un sottoinsieme S che ha tmo e un solo elemento in comune con o,gni elen~ento di T. 7) Assioma dell'infinito Esiste nel dominio almeno un insiente Z che co11tiene l'insieme vuoto o come elemento e che con ogni stto elemento a contiene anche fa}, insieme unità di a. Zermelo è quindi il primo ad avvertire la necessità della postulazione dell'esistenza di un insieme infinito. Si noti che la formulazione precedente comporta che nel dominio B sia compreso almeno l'insieme fo, fo}, {{o}}, f{ fo}}}, ff{fo}}}} ,... }. Per chiudere questo primo approccio a Zermelo riportiamo le sue stesse parole sulle questioni più generali relative al suo sistema: « ... intendo mostrare come l'intera teoria creata da Cantar e Dedekind può essere ridotta a poche definizioni e a sette principi, o assiomi, che sembrano essere mutuamente indipendenti [corsivo nostro] ... N o n sono ancora stato in grado di dimostrare rigorosamente che i miei assiomi sono consistenti, ntalgrado ciò sia certamente essenziale [corsivo nostro]; mi sono dovuto limitare a mettere ancora in evidenza che le antinomie finora scoperte svaniscono tutte se si assumono come base i principi qui proposti ... »
3) I « semiintuizionisti »francesi e il «primo » Brouwer Nel primo decennio del nostro secolo è molto vivace in Francia la discussione sui fondamenti della matematica che vede impegnati fra gli altri i componenti della scuola degli analisti di Parigi (i « semiintuizionisti » francesi) oltre che Poincaré, Pierre Boutroux (r88o-r922), Louis Couturat ecc. Gli scambi di idee estremamente vivaci, talora ironici, vertono sostanzialmente su due argomenti fondamentali: la nuova logica di Peano e Russell e la teoria degli insiemi cantodana, in particolare la questione della scelta sollevata da Zermelo. Ci limiteremo in proposito ad alcuni cenni anche perché la cosa è stata ampiamente toccata nel paragrafo r, con particolare riguardo a Poincaré da una parte e all'olandese Brouwer dall'altra, il quale pur se in qualche modo in continuità col semiintui-
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zionismo, propone un ben più radicale e articolato programma noto appunto, per distinguerlo dall'altro, come neointuizionismo o semplicemente intuizionismo. Lo spunto alle discussioni viene senz'altro dal matematico e filosofo Louis Couturat, che si presenta un po' come l'entusiasta assertore della nuova logica, soprattutto in funzione antikantiana. La polemica Couturat-Poincaré-Russell si svolge soprattutto sulla Revue de métaphisique et de morale. Couturat inizia con la Logique mathématique de M. Peano (Logica matematica di Peano, 1899), quindi pubblica nel 1904 un lungo articolo, La philosophie de la mathématique de Kant (La filosofia kantiana della matematica) e nel 1906 Pour la logistique. (Réponse à M. Poùzc·aré) (Per la logistica. Risposta a Poincare'). Poincaré da parte sua vi scrive tra il 1905 e il 1906 una serie di articoli che vengono poi ristampati con minime variazioni nei volumi La valeur de la science (Il valore della scienza, 1905), La science et l'hypothèse (La scienza e l'ipotesi, 19o6) e Science et tnéthode (Scienza e metodo, 1908). Nella polemica, Russell interviene nel 1906 pubblicando sempre sulla stessa rivista l'articolo Les paradoxes de la logique (l paradossi della logica). Ricordiamo infine, del 1905, le Cinq lettres sttr la théorie des ensembles (Cinque lettere sulla teoria degli insiemi), nelle quali Hadamard-Borel, Baire-Hadamard, Lebesgue-Borel, Hadamard-Borel e Borel-Hadamard si scambiano appunto i loro punti di vista sulla teoria degli insiemi, e in particolare sull'assioma di scelta. Abbiamo già parlato a lungo di Russell e del suo rapporto con Poincaré; di Couturat non resta 1 che dire che talora il suo entusiasmo per la nuova logica e teoria degli insiemi, professato in modo un po' trionfalistico, può aver messo in secondo piano quella che poteva essere l'elaborazione di un pensiero personale. Caratteristico comunque della sua attività intellettuale è il tentativo di ribaltare, con questi nuovi strumenti concettuali, l'impostazione della filosofia della matematica kantiana, col corollario che l'intuizione sarebbe stata definitivamente bandita dalla matematica. Ma certamente alcune enfatiche e categoriche affermazioni di Couturat, che si dichiara modestamente semplice « relatore di sì grandi maestri» (intendendo Peano e Russell) non solo avrebbero probabilmente messo « in difficoltà i maestri stessi » (Poincaré) ma oltre a offrire lo spunto all'intervento di Poincaré nella polemica non gli risparmiano frecciate velenose e sarcastiche (anche se certamente del tutto fuori luogo e «antipatiche») da parte di quest'ultimo. 2 Riprendiamo invece brevemente Poincaré, che rientra largamente nell'ambito della scuola degli analisti francesi, anche se con forti differenze (che comunI In questa sede. Altrimenti sarebbe forse non privo di interesse tentare di portare alla luce i tratti salienti del pensiero autonomo di Couturat, al di là delle sue stesse frequenti dichiarazioni di « dipendenza ». 2 A proposito dell'articolo su Kant: «Si vede bene che è il centenario della morte di Kant »; a proposito delle « ingenue illusioni » di Cou-
turat sulla logistica che avrebbe messo « i trampoli e le ali » dopo che Peano aveva pubblicato, dieci anni prima, il Formulario: «Come, sono dieci anni che avete le ali, e non avete ancora volato! »; senza contare apprezzamenti personali assai più pesanti che non mette veramente conto di riportare.
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que anche gli altri esponenti presentano fra loro), per poi vedere come Brouwer interviene già nel I 907 nella discussione sui fondamenti della matematica in modo del tutto autonomo e originale. Se, con Heyting, consideriamo « intuizionisti » in matematica quegli studiosi che accettano i due seguenti principi: I) la matematica non ha solo un significato formale, ma anche un contenuto; e z) gli oggetti matematici sono afferrati immediatamente dallo spirito pensante, sicché la conoscenza matematica è indipendente dall'esperienza; se accettiamo questa caratterizzazione. allora si può a buon diritto affermare che, almeno in senso lato, la scuola francese prelude a quello che oggi è noto appunto come intuizionismo. Vi sono tuttavia notevoli differenze che soprattutto riguardano la concezione dell'esistenza degli enti matematici. Da una parte infatti si può ritenere che gli oggetti matematici esistano indipendentemente dal nostro pensiero, ma noi concluderemo alla loro esistenza soltanto per mezzo di una costruzione, ossia assumeremo come esistenti quegli enti matematici per i quali disponiamo di una costruzione matematica; questo atteggiamento è grosso modo comune ai semiintuizionisti francesi 1 (come lo era stato di Kronecker, e lo sarà di Skolem); già Poincaré tuttavia, hilbertianamente, accetta l'eqmvalenza esistenza = dimostrazione di consistenza. Più radicale ancora, vedremo, sarà Brouwer, per il quale gli oggetti matematici non hanno alcuna esistenza indipendente dal pensiero umano, o comunque è ingiustificato assimilare tale esistenza con un procedimento di dimostrazione matematica. Il problema di fondo che Poincaré affronta sullo spunto, come dicevamo, dell'articolo di Couturat sulla matematica di Kant è sostanzialmente il seguente: è possibile ridurre la matematica alla logica senza fare appello a principi che sono propri della matematica? La scuola logicista, che si sforza di dimostrare questo con l'aiuto della matematica dell'infinito attuale di Cantor, è andata incontro secondo Poincaré solo a degli insuccessi, confermati dalle antinomie, e non miglior sorte ha avuto il tentativo del I904 di Hilbert. La ragione di questi insuccessi, anzi ]a ragione di principio per cui non sono possibili né la riduzione logicista né quella formalista della matematica, è sostanzialmente unica: la matematica ha alla sua base, kantianamente, giudizi sintetici a priori, che non ammettono quindi una eliminazione dell'intuizione o del «con· tenuto » della matematica stessa. In particolare, e questo spiega intanto l 'impossibilità logicista della riduzione, il principio veramente « creativo » della matematica, quello che ci fa ottenere « più » di quanto non sia contenuto nelle premesse dei nostri ragionamenti è proprio quel principio di induzione matematica che i logicisti hanno assunto come definitorio dei numeri naturali (vedi assiomi di 1 Con forti sfumature diverse. Secondo Lebesgue, ad esempio, per dimostrare che un insieme non è vuoto si deve nominare esplicitamente almeno un suo elemento. È chiaro comunque quale doveva essere, con questi presup-
posti, l'atteggiamento nei riguardi della stragrande maggioranza dei risultati della teoria cantoriana degli insiemi, e in particolare nei riguardi dell'assioma di scelta.
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Peano) immettendosi così in un in eliminabile circolo vizioso. Più sottile è la critica a Hilbert. Poincaré riconosce i successi di Hilbert nell'assiomatizzazione della geometria, perché anche lui ammette la definizione per postulati, ma solo nel caso in cui si sappia dimostrare la coerenza dei post11lati stesJi: ora ciò risulta possibile per i sistemi geometrici proprio perché la dimostrazione ha qui quel carattere relativo di cui abbiamo più volte parlato, che « scarica» appunto sull'algebra e in definitiva sull'aritmetica tutte le difficoltà. Ma di fronte a un sistema di assiomi per l'aritmetica, dal momento che non può procedersi ad una verifica diretta a causa dell'infinità dei numeri naturali, è ancora necessario servirsi del ragionamento per ricorrenza, ossia in ultima analisi all'induzione matematica, che è ancora una delle proposizioni che noi ci ripromettiafno di giustificare. Anche in questo caso siamo quindi di fronte a uno scacco di principio, a un evidente circolo vizioso .1 D'altra parte anche la stessa giustificazione logicista dell'induzione come si è visto - presenta nella sostanza, a livello di definizioni, quello stesso circolo vizioso che Poincaré ritrova a livello deduttivo nell'approccio formalista. I motivi, o meglio, il motivo essenziale che porta a queste impasses viene illustrato da Poincaré a partire dal paradosso di Richard che già conosciamo. Lo stesso Richard aveva proposto una soluzione al riguardo; Poincaré la elabora e la fa sua presentandola appunto come la « vera soluzione » (contro la quale, abbiamo visto, polemizzano anche Peano e Zermelo). Riferendoci all'esposizione già data nel paragrafo n. I, la risposta di Richard e Poincaré è semplice: E è l'insieme di tutti i numeri che si possono definire con un numero finito di parole e senza introdurre la nozione dell'ùtsieme E steHo. Se non si osserva questa precauzione la definizione di E contiene un circolo vizioso dal momento che non si può r È qui opportuna qualche considerazione che potrà essere compresa compiutamente quando parleremo del programma « maturo» di Hilbert, ma che tuttavia può essere intesa - crediamo almeno nelle sue linee generali, tenuto conto di quanto detto nel paragrafo 1. Anche se nel 1905, quando Poincaré avanzava queste osservazioni, Hilbert non aveva ancora espresso chiaramente la distinzione fra matematica e metamatematica, Poincaré riconosce per così dire la presenza di due applicazioni dell'induzione matematica, una nel sistema, l'altra nella metateoria del sistema stesso; e ritiene che una dimostrazione di consistenza possa giustificare la prima di queste induzioni, ma non certo la seconda. Hilbert risponde a questa osservazione solo nelr922 in Neubegriindung der Mathematik (Erste Mitteilung) (Nuova fondazione della matematica. Prima comunicazione) sostenendo che solo una delle due (la seconda) è una forma di induzione irriducibile. Successivamente distingue fra una induzione « contenutistica » (e quindi giustificata, che è alla base della dimostrazione di consistenza) e una «formale» (quella
dell'aritmetica), distinzione che tuttavia abbandona dopo qualche anno. La risposta di Hilbert, in quanto si limita a porre la distinzione senza determinarne le modalità, è chiaramente non soddisfacente come del resto venne fatto notare da molti autori a lui legati, come ad esempio Hermann Weyl e Thoralf Skolem (che propendono per Poincaré), Wilhelm Ackermann (che pone l'induzione fra i principi più delicati e questionabili dell'impostazione hilbertiana). Jacques Herbrand identifica l'induzione contenutisticamente giustificata e quindi applicabile nella metamatematica come quella che si applica alle sole formule aperte (senza quantificatori). Il problema della induzione rimarrà un punto basilare per il formalismo, in quanto legato com'è al passaggio dal finito all'infinito (dagli esempi alla conclusione universale) risulta decisivo per la determinazione stessa del significato del finitismo hilbertiano. In altri termini, è proprio dal tipo di induzione che viene ammesso a livello metamatematico che si può determinare la nozione di «finito » che si assume (si veda il paragrafo rv.4).
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definire l 'insieme E tramite se stesso. Orbene, per evitare circoli viziosi di questo tipo occorre servirsi solo di definizioni predicative, considerando impredicative quelle definizioni che appunto contengono un circolo vizioso. Abbiamo già visto come Russell assuma questo principio del circolo vizioso come elemento di salvaguardia dalle antinomie e come invece tanto Peano che Zermelo controbattano alla pretesa di Poincaré di limitarsi, per così dire, a una matematica predicativa. Comunque, una volta stabilito questo, Poincaré conclude che è proprio l'affermata esistenza dell'infinito attuale che dà origine alla possibilità stessa di definizioni impredicative; è dunque all'infinito attuale che in ultima analisi vanno riportate queste recenti difficoltà apparse nella logica e nella matematica: «non esiste infinito attuale; i cantoriani l'hanno dimenticato e sono caduti in contraddizione ». Brouwer interviene nella discussione fra Poincaré e Russell con la pubblicazione, avvenuta nel I 907, della sua tesi dal titolo Stti fondamenti della matematica, 1 buona parte della quale è appunto dedicata all'oggetto di quella disputa. Brouwer non concorda con nessuna delle parti in causa. Non è d'accordo col tipo di intuizionismo professato da Poincaré perché ritiene che la fonte reale delle difficoltà della logica (e della teoria degli insiemi, e in definitiva, come vedremo, della posizione di Hilbert) vada ricercata semplicemente, ma più radicalmente, nella « confusione fra atto di costruzione matematica e linguaggio della matematica ». In altri termini, il logicista non fa che creare solo una struttura linguistica, dà origine a un complesso di parole che in nessun caso possono essere effettivamente calate nella matematica reale che è rigidamente alinguistica. E lo stesso Poincaré mostra di cadere in questo errore quando accetta l'identificazione di esistenza matematica con assenza di contraddizione. In realtà, per Brouwer, esistere matematicamente significa essere costruito intuitiva111ente e « se un linguaggio ausiliario è esente da contraddizioni non solo non ha in sé alcuna importanza, ma neppure è certamente un criterio di esistenza matematica ». I rapporti tra matematica e logistica vengono ulteriormente chiariti da Brouwer presentando i primi stadi di una potenziale infinità di passi che si incontrano nel graduale sviluppo della matematica e della logica. Noi possiamo riassumer li come segue:
Primo stadio:
pura costruzione di sistemi matematici intuitivi « che se applicati sono espressi esternamente nella vita e visti nel mondo come matematici »;
Secondo stadio: aspetto linguistico della matematica, ossia il linguaggio, scritto o parlato, della matematica; I Come ormai consueto in quest'opera, daremo nella lingua originale (con traduzione relativa) i titoli di lavori in lingua tedesca, fran-
cese o inglese. Per tutte le altre (danese, russo, olandese ecc.) riporteremo il titolo direttamente in italiano.
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Terzo stadio:
in esso lo stesso linguaggio diviene oggetto di studio, ossia si ha una visione matematica del linguaggio, del quale si notano le costruzioni e strutture logiche, fermo restando tuttavia il fatto che le costruzioni di relazioni fra questi elementi sono ancora puramente matematiche;
Quarto stadio:
è lo stadio nel quale, non considerando il significato degli elementi linguistici dello stadio precedente, si può costituire una « matematica del secondo ordine » che è appunto un sistema logistico;
Quinto stadio:
è per così dire lo stadio meta teorico del precedente nel quale cioè viene enunciato esplicitamente un linguaggio in cui formulare i principi di un sistema logistico;
Sesto stadio:
è quello che impareremo a conoscere come « metamatematica » hilbertiana, nel quale cioè la matematica stessa viene riguardata come un linguaggio, sicché si potranno considerare gli elementi di questo stadio in un
Settimo stadio: nel quale si avrà per così dire una« matematica del terzo ordine», il che porterà naturalmente al momento linguistico di questa nuova matematica, in un Ottavo stadio: e così via all'infinito. L'unico vero e possibile fondamento di tutta questa costruzione resta comunque per Brouwer la matematica «reale» che a sua volta si fonda sull'intuizione, anzi, come Brouwer dice, su una « sovraintuizione » di uno scorrere continuo del tempo, che è il fondamento stesso del continuo misura bile del matematico. Questa intuizione fondamentale è l'intuizione «dell'unità nella differenza, della persistenza nel mutamento ». In quanto ai rapporti con « l'intuizionismo » kantiano, Brouwer ritiene che ad esempio i principi della geometria non siano « sintetici a priori », dal momento che a suo parere la mente umana potrebbe applicare all'esperienza qualunque tipo di geometria essa scegliesse. Gli unici veri principi a priori e sintetici sono collegati alla « sovraintuizione » di cui si diceva prima dell'unità nella pluralità nel tempo. Base della matematica diventa allora il solo scorrere del tempo che determina anche in certo senso quali sono i giudizi sintetici a priori che rendono possibile la matematica stessa, ad esempio: la possibilità di sintesi matematica, il pensiero dell'unità nella molteplicità e la costruzione successiva indefinita di nuove unità nella molteplicità; la possibilità di « interpolazione », ad esempio la concezione della connessione di due diversi elementi di uno stesso tutto; il principio di induzione matematica. 2.47
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È chiaro allora che sono le leggi della logica a dipendere dalla matematica e non viceversa; la matematica reale è un «costruire privo di parole», mentre la logica, per quanto aspetto matematico essa si dia, studia solo parole, non costruzioni matematiche. In questo processo di costruzione la contraddizione è impossibile; se i logicisti hanno incontrato antinomie, esse sono state originate dall'aver ritenuto valide in generale leggi logiche che in effetti possono valere per il finito, e in quanto leggi logiche appunto applicabili solo alle parole, non alle costruzioni matematiche. Vedremo più avanti quali leggi generali Brouwer mantiene; egli mette tuttavia subito in crisi la legge del terzo escluso, che non può essere applicata al processo di costruzione matematica, ma solo a un momento linguistico, alle parole. È chiaro che non accettare questo principio esclude le antinomie (o, per essere esatti, un certo tipo di antinomie, almeno in prima approssimazione). E infatti limitiamoci a esemplificare la cosa per l'antinomia di Russell e per comodità ricorriamo a una presentazione simbolica. Indichiamo con R (da Russell) la classe di tutte le classi che non si appartengono, ossia R = {x l x f/= x}. Abbiamo allora
xER+--+xf/=x donde, sostituendo R a x
RE R+--+ R f/= R Per la legge del terzo escluso però
RER V Rrf=R
(z)
Ora se R E R, allora R rf= R per la (I); se R rf= R allora, sempre per la (I) RE R. In entrambi i casi RE R e R f/= R e quindi per la (z) ossia la contraddizione. La «soluzione» di Brouwer consiste allora semplicemente nel non ammettere la cruciale legge (z). Terminiamo qui queste prime considerazioni sull'intuizionismo brouweriano che, come si può chiaramente vedere, sono fino a questo punto di carattere più specificamente « distruttivo »; la pars construens della logica e della matematica neointuizionista si avrà, come vedremo nel paragrafo III. 5, soprattutto negli anni venti. 4) Riepilogo. La scuola italiana Gettiamo ora uno sguardo riassuntivo su questo primo, cruciale periodo della costituzione della nuova logica. Sono ormai emersi gli indirizzi che caratterizzeranno le ricerche almeno fino agli anni trenta, in particolare fino alle scoperte di Godei. Le varie scuole hanno ormai avanzato più o meno efficacemente e compiutamente i punti centrali delle rispettive concezioni e sarà storia
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dei prossimi anni vedere come queste saranno approfondite o comunque elaborate. Vogliamo qui riassumere brevemente le varie posizioni per quanto riguarda il problema nodale dell'esistenza degli enti matematici conducendo il discorso da un punto di vista « astratto » relativamente ai presupposti delle varie scuole, senza cioè considerare le eventuali differenze fra esponenti di uno stesso indirizzo. Innanzitutto un'osservazione preliminare relativa al rapporto, già chiaramente delineatosi, tra matematica e logica nelle varie concezioni. Abbiamo visto che a questo riguardo si giunge, dai logicisti agli intuizionisti, a posizioni del tutto contrapposte. Per i logicisti questo rapporto è di tipo prioritario a vantaggio della logica: la matematica è riconducibile alla logica, la quale ha, nei riguardi della prima, un ruolo garante di fondazione: tutta la matematica è risolvibile, senza residui o principi propri, in principi e strutture logiche. Vi è quindi la mediazione, per così dire, dei « formalisti » hilbertiani, per i quali è necessario non parlare di dipendenza dell'una scienza dall'altra, ma piuttosto si tratta di sviluppare parallelamen'te le due scienze in questione. Se infatti non è possibile eliminare dai fondamenti della logica riferimenti di tipo aritmetico o insiemistico, non è neppure possibile sviluppare tali discipline al di fuori di una precisa ed esplicita sistemazione della logica nei suoi principi e nelle sue strutture inferenziali. Infine vi è il ribaltamento, rispetto alla primitiva posizione logicista, dell'intuizionismo brouweriano: né la filosofia né qualunque altra scienza, e quindi in particolare non la logica, possono fondare la matematica, che viceversa si costituisce a partire da un'intuizione generale e fondamentale di tipo immediatamente apprensibile da parte del soggetto. È semmai sulla controparte linguistica della matematica data come fatto intuitivo originario che può costruirsi una logica. Detto questo, veniamo all'altro punto per noi interessante che ci sembra, in collegamento con quanto già detto, di poter riassumere come segue. Per Russell, o comunque per i logicisti in generale, è il problema della forma che viene in primo piano. Un unico grande sistema formale, la grande logica, deve rendere conto di tutto il contenuto della matematica; qui la logica viene soprattutto intesa, in senso globale, come espressione della massima getteralità, o se si preferisce, come espressione della massima possibilità di generalizzazione. L'esistenza degli oggetti matematici diventa quindi automaticamente qualcosa di garantito dalla possibilità di definizione nell'ambito di un tal sistema la cui correttezza e completezza formale (intese in senso intuitivo) conferiscono e determinano il contenuto stesso della matematica. In opposizione a questo « contenutismo formale » sono accomunati - pur se con sfumature e concezioni di fondo peraltro notevolmente diverse - tanto i formalisti hilbertiani e Zermelo quanto gli intuizionisti. Secondo queste concezioni si tratta di esplicitare dei co11tenuti matematici che vengono tuttavia visti in modi completamente diversi nei due casi, e precisamente come corrispettivi di insiemi di enunciati, siano essi assiomi o regole (per la deduzione di altri enunciati da enunciati dati) nel caso di Hilbert 2.49
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e (in senso lato) di Zermelo, o come corrispettivi di atti mentali, di costruzioni nel caso di Brouwer (e, con le opportune precisazioni, anche di Bore! e Poincaré). Nel primo caso ne viene che l'esistenza si risolve in consistenza di insiemi di enunciati o sistemi assiomatici, mentre nel secondo caso, la risoluzione dell'esistenza degli oggetti matematici sta proprio, ovviamente, nella possibilità di costruzione. E in fin dei conti è proprio sul contenuto e il tipo di quella « possibilità >> che si differenziano tra loro le varie posizioni intuizioniste. Prima di chiudere questo paragrafo, vogliamo fare ancora un accenno alla scuola italiana, che, salvo che con Peano e Cesare Burali-Forti (1861-1931), è stata nominata solo di sfuggita. E in effetti, se un altro nome si deve aggiungere è soltanto quello di Alessandro Padoa (1868-1937) che fra il 1900 e il 1904 presenta una serie di risultati sulla definibilità dei concetti che opportunamente elaborati sopravvivono ancora oggi nei trattati di logica moderna. Un altro nome vorremmo poter aggiungere, quello di Giovanni Vailati (1863-1909), la cui prematura scomparsa ha privato indubbiamente l'ambiente culturale italiano del periodo di un possibile apporto certamente significativo; e diciamo « vorremmo » per due opposti motivi: da una parte perché egli era una fra le poche figure con una visione globale della cultura, con interessi assai vari (anche se alquanto dispersivi) e certamente non «provinciale»; dall'altra perché Vailati in effetti pur facendo parte della scuola di Peano non si interessò che marginalmente di logica. Va aggiunto che nel 1905 vedeva la luce quella Logica come scienza del concetto pt~ro di Benedetto Croce che parrebbe offrire- se non l'unica- almeno la ragione principale del totale decadimento di una scuola pur apparentemente tanto « vitale » come quella peaniana. Non è qui il caso di valutare e analizzare le influenze e i condizionamenti che l'opera complessiva di Croce ebbe sulla cultura, anche scientifica, italiana (si veda il capitolo XI del volume settimo). Non possiamo tuttavia esimerci dal notare come ben difficilmente si riesca a trovare in un'altra opera un repertorio così vasto e nutrito di inesattezze, superficialità, di vere e proprie insulsag- gini per quanto riguarda la logica « formalistica » - come Croce la chiama e i vari tentativi di riformarla « ... il più solenne dei quali è la già ricordata Logica matematica, denominata anche calcolatoria, algebrica, algoritmica, simbolica, nuova analitica, calcolo logico o Logistica ». 1 E mentre in tutte le ctJltttre europee I Ovvio che « formalistica » vuol essere un dispregiativo il cui impiego Croce ritiene di poter giustificare con dovizia c.li motivazioni. A parte il fatto che per lui « ora è il bel tempo dei Peano, dei Boole [sic!], dei Couturat » e che per lui « la stessa dottrina della quantiftcazione del predicato » è stata un po' il « lievito » della « riforma » della logica, è sconsolante vedere come uno scrittore così acuto, brillante e profondo possa cadere semplicemente nel ridicolo per una totale mancanza di informazione spicciola, banale (che ov-
viamente diventa grossa responsabilità culturale quando, ed è questo il caso, ha una chiara origine dogmatica). In particolare tutto il terzo capitolo della sezione seconda della prima parte di quest'opera di Croce è un coacervo di tali amenità ! È chiaro quindi che se ci occupiamo di Croce in questo contesto è soltanto per l'indubbia influenza e per il grosso condizionamento che egli ha esercitato (e parzialmente continua a esercitare) sulla cultura italiana.
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(basti pensare a quella francese, o inglese, o tedesca) tutta una serie di studiosi affrontava con serietà e rigore i profondi problemi che erano stati sollevati dalle antinomie, dagli sforzi per superarle, dalle diverse concezioni che si dividevano il campo intorno al problema dell'esistenza degli enti matematici, da noi invece il saggio di Pescasseroli, il genio universale della filosofia italiana decideva che « se come scienza del pensiero la Logistica è cosa risibile, degna veramente dei cervelli che l'hanno costruita [e abbiamo avuto occasione di nominare in queste pagine alcuni di quegli inetti e limitati cervelli che tale brutta azione avevano commesso] ... non è poi nostro assunto esaminarla in quanto formulario provvisto di pratica utilità; e su questo punto ci restringiamo a insistere sopra una sola e assai semplice osservazione ». Da Leibniz in poi, osserva sostanzialmente Croce, « questi nuovi congegni sono stati offerti sul mercato: e tutti, sempre li hanno stimati troppo costosi e complicati, cosicché non sono finora entrati né punto né poco nell'uso. Vi entreranno nell'avvenire? La cosa 1/0it sembra probabile, e, ad ogni modo, è fuori dalla competenza della filosofia e appartiene a quella della pratica riuscita: da raccomandarsi, se mai, a commessi viaggiatori che persuadano dell'utilità della nuova merce e le acquistino clienti e mercati. Se molti o alcuni adotteranno i nuovi congegni logici, questi avranno provato la loro grande o piccola utilità. Ma la loro nullità filosofica rimane, fin da ora, pienamente provata » (corsivo nostro). Scusi il lettore la lunga citazione che tuttavia ci sembrava troppo significativa e paradigmatica. E naturalmente solo su questo si potrebbe parlare a lungo; ma tempo e spazio possono essere impegnati, a nostro parere, in modo assai più proficuo sicché ci si può limitare a osservare - a parte l'impressionante, quasi profetico potere di previsione di cui Croce fa sfoggio in questo passo che probabilmente l'accenno « economicista » è stato stilato di getto, avendo presente il « mercato » di Pescasseroli, o, a essere compiacenti, quello italiano. Per quanto riguarda infine il rapporto della logica con la filosofia (e sempre, per essere brevi, su pure basi pragmatiche) va invece tutto bene: purché Croce a quella « filosofia » premetta un « mia »: perché allora è certo che la logica matematica non vuole avere nulla a che fare con la sua filosofia. Purtroppo, a nostro parere, la situazione sta in termini ben più gravi e complessi, perché non può imputarsi solo a Croce la decadenza della scuola logica italiana; Croce piuttosto interviene nel decretare per le scienze in generale - e quindi per la logica in particolare - l'esclusione dalla «area culturale», relegandole a mere manipolatrici di pseudoconcetti. Ma tutto ciò avviene con la decisiva e colpevole complicità degli scienziati italiani. Per quanto in particolare riguarda la logica, il suo declino inizierà paradossalmente proprio con Peano, con la sua « sordità », immediatamente ereditata dai suoi «scolari», verso una collocazione più generale dell'enorme problema2.51
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tica che lui stesso aveva contribuito a sollevare nel mondo. E ciò sembra dovuto alla sua tendenza a «chiudere» un sistema, una ricerca, un'impresa, se necessario forzatamente, invece di spingersi fino alle estreme conseguenze sperimentali di nuovi tentativi, principi, metodi: è forse un malinteso senso di « onestà intellettuale » che lo porta a escludere dai suoi discorsi ogni considerazione che non sia, come lui stesso dice, di « stretta pertinenza matematica ». Peano, che già dovette combattere in patria contro coloro che ritenevano frutto di « senilità » la sua produzione e i suoi interessi logici, ci appare inevitabilmente conservatore e provinciale non appena ci si affacci oltre i confini italiani; e ciò non solo perché come ebbe a scrivere nel 1915 «la logica matematica, utile nei ragionamenti matematici (ed in questo senso io ne feci uso) interessa pure la filosofia », portando poi Louis Couturat come esempio in proposito; ma anche soprattutto perché sempre nello stesso articolo (Importanza dei simboli in matematica) afferma testualmente: « ... se giuste sono dunque le critiche di Eugenio Rignano contro coloro che considerano la logica matematica quale scienza in sé, i cui lavori, è verissimo, sono spesso poco proficui; invece più non lo sarebbero all'indirizzo di coloro ... che considerano la logica matematica come uno strumento utile per risolvere questioni matematiche resistenti ai metodi com1111i » (corsivi nostri). Come unico commento basterà qui ricordare al lettore che solo due anni prima era comparsa la prima edizione dell'ultimo volume dei Principia. Del resto le stesse formule di « disimpegno » di Peano sono estremamente illuminanti in questo senso. Quando, ad esempio, a proposito del paradosso di Richard, egli dichiara emblematicamente che « exemplo de Richard non pertinet ad mathematica sed ad linguistica » ciò rappresenta per lui un modo di liquidare una questione che non solo non lo interessa. come matematico perché ha varcato i limiti della sua competenza (ché qui ancora potremmo parlare di «onestà intellettuale») ma che respinge come uomo di cultura perché è al di là della sua stessa apertura mentale. Si pensi soltanto che la sua affermazione sopra riportata agirà non come freno, bensì come potente catalizzatore, come lievito, per un autore ben diversamente disposto, quel F. P. Ramsey di cui avremo occasione di parlare in un prossimo paragrafo. Senza neppure ricordare le parole di Zermelo sopra viste - e che ci sembrano quanto mai appropriate- non può non colpire la singolare vicenda intellettuale di un uomo come Peano - indubbiamente grande matematico e grande logico- destinato a fornire spunti di apertura a Russell, a Ramsey, a Couturat, a tutto un mondo culturale insomma, e tuttavia decisamente bloccato a livello di una propria elaborazione culturale autonoma, di un inserimento dei suoi stessi metodi e problemi in un più ampio contesto. Fatalmente, questa visione ristretta venne ereditata - grazie anche a una robusta dose di puro « accademismo » che alla nostra cultura universitaria non ha certo mai fatto difetto - dai suoi « scolari ». A leggere articoli, conferenze, lavori di ogni tipo, degli allievi di Hilbert (che non è certo matematico di levatura inferiore a quella di Peano ), ad esempio
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La logica nel ventesimo secolo (1)
di un Paul Bernays,di unJohn vonNeumann(1903-1957) non si troveranno mai locuzioni come « il g:rande Hilbert» o « come ha definitivamente mostrato il nostro maestro Hilbert » o alt:re di questo teno:re che con tutta tranquillità e :regolarità abbondano invece negli scritti di un Burali-Fo:rti, o di un Padoa, o di un Vacca (ovviamente con la sostituzione Hilbert-Peano): si tratta, nel p:rimo caso di discutere, approfondire, :rielabo:ra:re, supe:ra:re un :risultato che o si sa essere di Hilbert o si :riconosce come tale pe:r dovuta co:r:rettezza; nel secondo invece si t:ratta di magnificare anzitutto il risultato del « maestro », quindi di aggiungere modestamente, con le dovute cautele, qualche briciola. È chia:ro che la causa di tale situazione non può farsi risalire a Peano, ma a tutto un ambiente che del :resto solo oggi (1972) tende in generale a scomparire. Comunque, pe:r terminare, riteniamo che le seguenti pa:role di Burali-Fo:rti, t:ratte dalla seconda edizione (1919) della sua Logica matematica, mostrino con sufficiente chiarezza come la cultura italiana- anche specifica- dell'epoca si fosse estraniata dai grandi temi allora dibattuti dalle va:rie scuole e si fosse già :rinchiusa in un provincialismo masochistico senza respiro né sbocchi. Burali-Fo:rti dunque si augu:ra che la sua fatica possa avere migliore fortuna di alt:re e nel contempo dichiara che volendo ((presentare al lettore la logica simbolica in azione, cioè come strumento di analisi e di scrittura abbreviata [e qui è difficile non da:r :ragione a Croce!] mi so n potuto :risparmiare l'enorme [!] fatica di stabilire un sistema completo di proposizioni primitive; tanto più che è dubbio se tale enorme fatica potrebbe essere coronata da successo, visto che i tentativi fatti finora sono ben lontani dall'aver dato risultati esaurimti » (corsivo nostro). Dove appunto è chiaro che gli italiani
non :ricercavano o sperimentavano ma o avevano « risultati esaurienti » oppu:re niente! E la nota finale mi sembra addirittura proponga quel triste e speriamo o:rmai lontano e superato anelito autarchico-nazionalista che ben alt:ro peso avrebbe dovuto pu:rt:roppo ave:re sulla nostra vita politica e sociale: « E a proposito di merce ntera,- afferma Burali-Fo:rti- conviene fa:r nota:re come, specialmente dagli italiani ( !), si citi e si usi il caotico e impreciso sistema geometrico dell'Hilbert, quasi non esistessero i sistemi semplici, chiari e precisi (ma sono italiani!) e ben superiori a quello dell'Hilbert, di M. Pie:ri. » Pe:r concludere tuttavia con una nota di ottimismo vogliamo di:re che da quando, attorno agli anni sessanta, è rinato in Italia un ce:rto interesse pe:r la logica, molti ambienti matematici e filosofici hanno via via mostrato nei suoi :riguardi un'ape:rtu:ra semp:re maggiore. Non che oggi la situazione sia :rosea: ma si può ce:rto affe:rma:re che ove anco:ra allignino posizioni alla Bu:rali-Fo:rti, esse sono destinate o a mo:ri:re pe:r consunzione di mo:rte naturale, o a essere violentemente estirpate dalle nuove generazioni che non accettano etichette o confini statici e p:recostituiti.
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III · GLI ANNI VENTI
Lasciamo quindi da parte l'ambiente italiano, ormai decisamente emarginato dalla ricerca logica, e osserviamo piuttosto che i problemi sul tappeto sono molti e complessi, dopo questa prima, rinnovata fase di indagine sulla logica e sui fondamenti della matematica; ai sostenitori delle varie scuole si prospetta dunque un intenso lavoro di chiarificazione, elaborazione e approfondimento di tale complessa problematica. Il punto di riferimento obbligato, ancora agli inizi degli anni venti, è sempre costituito dai Prittcipia mathematica (che vedranno la seconda edizione fra il 1925 e il I927) riguardati- oltre che, ovviamente, come manifesto della scuola logicista - come momento operativo di trascrizione logica di tutta la matematica, con la preoccupazione centrale di evitare i paradossi. Abbiamo visto quale sia il prezzo pagato da Russell e Whitehead per questo ambizioso programma: a parte locali e contingenti lacune di chiarezza o rigore, si tratta più intrinsecamente della notevole complessità e pesantezza della teoria dei tipi ramificata e delle necessarie, assai impegnative assunzioni che gli autori dei Prirtcipia sono costretti a fare: assioma di riducibilità, assioma moltiplicativo, assioma dell'infinito. La natura esplicitamente esistenziale di questi assiomi faceva sorgere in modo naturale la domanda circa l'estensione stessa del campo logico nel cui ambito doveva, secondo la tesi logicista dei Prittcipia, essere riportata tutta la matematica. Detto in modo diverso, quello che in certo senso possiamo assumere un po' come leitmotiv per la ricerca logica e fondamentalista di questo nuovo periodo è il problema (che riceverà una risposta decisamente diversa da quella implicitamente intesa da Frege e Russell) che può esprimersi con la domanda: cos'è la logica? e qual è il suo linguaggio? Orbene uno degli esiti generali più caratteristici e significativi della ricerca negli anni venti sarà proprio quello di giungere a riconoscere la possibilità di frantumare la « grande logica » di Frege e Russell per interessarsi di calcoli particolari, impieganti linguaggi ad hoc; o in diretta critica nei riguardi della logica dei Prittcipia, o sotto la spinta dell'atteggiamento matematico-assiomatico, si accoglierà cioè come fatto acquisito l'opportunità (se non addirittura la necessità) di istituire linguaggi e «logiche» diversi per descrivere e parlare di «mondi» diversi. Tanto i lavori dell'americano Emil Leon Post (1897-1954) relativi alla logica enunciativa intesa come sistema formale autonomo, quanto la proposta di logiche « non classiche » avanzata da Clarence Irving Lewis (I883-1964) e da alcuni esponenti della scuola polacca, come infine la canonizzazione dei vari calcoli data nel 1928 da Hilbert e Ackermann possono infatti essere riguardati come momenti diversi di questa esigenza. Per quanto più specificamente riguarda le tre scuole di filosofia della matematica, le loro vicende in questo periodo sono altamente differenziate. Per la scuola intuizionista, oltre ai numerosissimi interventi di Brouwer, o di chiari-
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mento e riedificazione di una matematica intuizionista o di polemica in particolare contro la scuola formalista, questo periodo farà assistere a un primo e interessantissimo tentativo di formalizzazione della « logica » (e della matematica) intuizioniste; questo tentativo oltre ad anticipare risultati che matureranno compiutamente, come vedremo, all'inizio degli anni trenta, renderà possibile l'instaurarsi di un primo concreto e fruttuoso confronto fra le idee intuizioniste e quelle delle altre scuole. Si assiste invece ad una sorta di « ridimensionamento » della scuola logicista che, pur difesa ancora con vigore da Rudolf Carnap (1891-1971) proprio verso il 1930, giunge sostanzialmente a un punto morto tanto a causa di critiche «esterne » quanto per i profondi ripensamenti che autori qualificantisi essi stessi come logicisti, primo fra tutti F. P. Ramsey, vengono pubblicando in questi anni. Questo decennio è invece particolarmente favorevole alla scuola formalista che vede Hilbert e tutta una schiera di collaboratori, fra i quali Ackermann, von Neumann, Bernays e altri impegnati nell'esposizione ed elaborazione della piattaforma teorica definitiva di tipo formalista e nella presentazione di numerosi, interessanti e assai promettenti risultati parziali che portano lo stesso mondo matematico alla sostanziale pur se implicita convinzione circa la completa e pressoché certa attuazione del programma hilbertiano. Ulteriore caratteristica di questo decennio l'intenso lavoro sulla teoria degli insiemi: in questo campo viene portata a una sistemazione pressoché definitiva (nel senso che ancor oggi la riteniamo valida) la base assiomatica che- come abbiamo visto- Zermelo aveva presentato nel 1908. I nomi che qui emergono sono quelli di Fraenkel, von Neumann e Skolem. A proposito di quest'ultimo autore, che avremo occasione di menzionare spesso nelle pagine che seguono tanto fondamentali e molteplici sono stati i suoi interessi e i suoi risultati, a stretto rigore cronologico avremmo anche dovuto far cenno a tutto un aspetto della sua produzione che si aggancia a un teorema di Lowenheim del 1915 e che non solo ha riflessi sulla stessa concezione assiomatica, ma rappresenta anche la continuità con un'altra possibile linea di approccio alla logica che si riallaccia direttamente a Schroder. Ci è sembrato però più opportuno rimandare l'esame di questo aspetto al paragrafo IV, dedicato agli anni trenta, al periodo cioè nel quale, grazie alle riflessioni di Godei e ai risultati da lui raggiunti, si potrà considerare una confluenza fra queste due alternative.
I) La rottura della «grande logica». Logiche «non classiche» Abbiamo visto come alla sistemazione dei Principia fossero state sollevate notevoli critiche. Quelle cui finora abbiamo accennato e che prenderemo in esame più dettagliato in paragrafi successivi, riguardavano tuttavia quasi esclusivamente la concreta realizzazione del sistema logico dei Principia in rapporto al programma logicista professato dai suoi autori (in particolare, ovviamente, 255
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da Russell). Oltre però a rappresentare un potente stimolo alla discussione fra scuole e alla ricerca in questa direzione, i Principia diedero lo spunto a tutta un'altra serie di riflessioni, solo apparentemente più locali, e che sfociarono in varie proposte alternative che avranno un enorme peso nello sviluppo successivo della logica. Le indagini in questa seconda direzione possono farsi cominciare con il Survry of rymbolic logic (Panorama di logica simbolica, 1918) dell'americano Lewis e proseguono in effetti per tutti gli anni venti, con notevoli contributi di autori americani e soprattutto degli studiosi della cosiddetta scuola polacca. In quest'ordine di idee- come dicevamo - può situarsi anche la « canonizzazione » della frattura della grande logica di Frege e Russell che si ebbe nel 1928 con i Grundziige der theoretischen Logik (Lineamenti di logica teorica) di Hilbert e Ackermann. Occupiamoci, per cominciare, di quell'aspetto della questione che può individuarsi nell'osservazione che già nel 1920 faceva l'americano Post del fatto che «nella teoria generale della logica costruita da Whitehead e Russell ... per fornire la base per tutta la matematica, esiste una certa sottoteoria che è unica nella sua semplicità e precisione e, malgrado tutte le altre parti dell'opera si fondino su questa sottoteoria, essa è completamente indipendente da quelle ». Post allude qui alla logica delle proposizioni ossia a quella parte del sistema logico dei Principia che riguarda semplicemente le connessioni inferenziali che possono stabilirsi considerando come « dati iniziali » proposizioni non analizzate (e non funzioni proposizionali) quando esse vengano variamente collegate fra loro tramite i normali connettivi logici. L'interesse che muove Post in questa sua osservazione, le motivazioni che lo spingono a proporre le generalizzazioni cui accenneremo sono per sua dichiazione esplicita puramente formali, sicché le estensioni generalizzanti cui egli giunge sono semplici e naturali estensioni suggerite dalla struttura stessa della teoria così isolata, senza alcuna preoccupazione per le eventuali interpretazioni logiche che tali risultati possono o meno avere. Quest'atteggiamento consente a Post, tra l'altro, di cogliere ed esplicitare la distinzione fra il linguaggio della teoria che è oggetto di studio e il linguaggio nel quale si conduce lo studio della teoria stessa; di tracciare cioè una consapevole linea di demarcazione fra teoria e metateoria - per usare una terminologia oggi corrente - o se si preferisce, nel caso particolare, fra logica e metalogica: «Vogliamo qui porre l'accento sul fatto che i teoremi di questo lavoro vertono sulla logica ma non sono inclusi in essa ». Questo atteggiamento « metamatematico » sarà caratteristico della posizione hilbertiana mentre il discorso metamatematico stesso diverrà oggetto di studio approfondito per la scuola polacca. Naturalmente la parte proposizionale della logica era nota almeno dal tempo di Frege come sistema autonomo, e in effetti già da Boole come interpretazione del proprio sistema formale; e anzi tipiche ricerche di « economicità » delle as-
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La logica nel ventesimo secolo (r)
sunzioni e dei termtm fondamentali avevano portato Henry Maurice Sheffer (1883-1964) nel 1913 a ridurre a uno solo i connettivi proposizionali e Jean Nicod (1893-1924) nel 1917 a ridurre a un solo assioma la base assiomatica proposizionale. Ma tutto ciò era sempre inteso come semplificazione operativa o di principio all'interno del sistema di Russell (o, nel caso di Frege, come primo passo verso la «grande logica»). Merito di Post è invece quello di aver isolato il sistema di logica proposizionale (o enunciativa, come anche diremo) come una teoria assiomatica e deduttiva autonoma, nell'aver cioè assunto come unico oggetto di indagine, senza altro contesto, una teoria costruita su una porzione estremamente limitata del linguaggio «universale» dei Principia, e nell'aver distinto i due livelli linguistici della teoria e della metateoria come piani su cui muoversi separatamente. Si noti che questo linguaggio proposizionale, evidentemente il «minimo» linguaggio logico disponibile, ha tuttavia indubbiamente un potere espressivo assai ampio; può parlare, per così dire, di « mondi » assai disparati e diversi tra loro o viceversa può essere interpretato in una grande varietà di « mondi », di universi del discorso. Solo che esso è assai superficiale e poco incisivo, nel senso che non riesce a convogliare informazioni sufficientemente dettagliate sui mondi di cui eventualmente parla. Di questa limitazione è evidentemente conscio lo stesso Post quando auspica un prosieguo del suo lavoro su teorie logiche espresse con linguaggi più « sottili e ricchi di informazione». Post dà una versione estremamente precisa della logica proposizionale dei Principia tanto dal punto di vista assiomatico, quanto dal punto di vista delle tavole di verità. Nel primo caso assume, come nei Principia, i due soli connettivi di negazione (-----,) e disgiunzione ( V ), sulla base dei quali, a partire dalle lettere proposizionali, si costituiscono tutte le rimanenti formule del linguaggio; nel secondo caso dà una versione rigorosa delle tavole di verità a due valori. Il sistema proposizionale è caratterizzato da un certo numero finito di assiomi che risultano essere tautologie, e da due regole di inferenza: il modus ponens o regola di separazione, che dai teoremi d e d--+ @ permette di derivare il 1-d, l-d-+@) teorema @ ( 1-@ e la regola di sostituzione, secondo la quale a ogni
lettera indicante una proposizione (lettera o variabile proposizionale) si può sostituire qualunque altra formula del linguaggio. Il calcolo è organizzato in modo tale che a partire dagli assiomi, ossia da tautologie, si possono ottenere, applicando le regole di deduzione, dei teoremi che si rivelano a loro volta essere tautologie. Ciò si esprime dicendo che il sistema è valido (ossia dà luogo solo a teoremi che sono logicamente validi). Si pone allora in modo naturale la domanda inversa: è il nostro calcolo in grado di farci ottenere come teoremi tutte le tautologie? È intuitivo il nome di completezza se mantica (o, in terminologia più recente, adeguatezza) che si dà a questa proprietà di una teoria, che, nel caso 257
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La logica nel ventesimo secolo (x)
ne goda, viene appunto detta (semanticamente) completa o adeguata. 1 Post dimostra che il sistema proposizionale è completo in questo senso. 2 Nella sua dimostrazione ottiene anche una procedura di decisione per la logica proposizionale e cioè un metodo meccanico grazie al quale, data una qualunque formula proposizionale, è possibile stabilire in un numero finito di passi se tale formula è un teorema oppure no. Post dimostra inoltre che il sistema da lui considerato è consistente, ossia che in esso non è possibile dimostrare contemporaneamente una formula d e la sua negazione ---, d. 3 Una prima generalizzazione considerata da Post riguarda da una parte sistemi con un numero finito qualunque di connettivi, dall'altra sistemi con un numero finito qualunque di assiomi e fo regole di inferenza. Una seconda generalizzazione riguarda invece la considerazione di « tavole di verità » (che vengono ora dette più appropriatamente« matrici») con un numero finito qualunque di valori, ossia consiste, dal punto di vista interpretativo, nel considerare la teoria di logiche proposizionali con un numero finito di « valori di verità » maggiore o uguale a 2. Da un punto di vista intuitivo ciò significa evidentemente prendere in esame, accanto ai due tradizionali valori di verità Vero e Falso, anche altri valori di verità come potrebbero essere ad esempio « incerto », « indifferente», « ìndeterminato » e simili; si tratta cioè di considerare, in linguaggio moderno, logiche polivalenti, invece della classica logica bivalente. Va ribadito tuttavia che per Post queste generalizzazioni si presentano come naturali dalla teoria dei Principia sistemata rigorosamente e non comportano minimamente la preoccupazione di una eventuale interpretazione logica. Converrà esaurire questo primo aspetto della questione, considerando subito quella suddivisione in linguaggi e calcoli logici che i Grundziige di Hilbert e Ackermann rendono generale e paradigmatica. Il criterio di suddivisione è già stato implicitamente accennato: possibilità espressive dei linguaggi anche in relazione al tipo di analisi che consentono di fare del contenuto che sono destinati a esprimere. La prima grande distinzione avviene quindi tra linguaggio enunciativo, i cui elementi base sono proposizioni non analizzate e i soliti connettivi, e /in_ I Ove non sorgano confusioni diremo anche semplicemente completezza invece di completezza semantica; la ragione della necessità, almeno in certi contesti, della qualificazione, consiste nel fatto che più avanti accenneremo a un altro tipo di completezza che verrà detta sintattica. 2 In effetti, oltre alla proprietà sopra definita, per la quale non introduce una denominazione particolare, Post introduce altre due nozioni di «completezza». Secondo la prima (detta oggi completezza nel senso di Post) un sistema è completo se ogni sua formula diventa dimostrabile ogniqualvolta noi aggiungiamo come assioma una qualunque formula non dimostrabile nel sistema; la seconda è quella che noi oggi
diciamo completezza funzionale (e a questa proprietà Post riserva il nome di completezza) e consiste nel fatto che ogni funzione di verità può essere scritta in termini dei due connettivi primitivi da lui assunti. 3 Post introduce anche un'altra nozione di consistenza, detta talora consistenza nel senso di Post: un calcolo che contiene variabili proposizionali è consistente in questo senso se in esso non può essere dimostrata una singola variabile proposizionale. Post dimostra che il sistema da lui considerato è consistente anche in questo senso. Si noti che i due concetti coincidono per sistemi che ammettano la negazione come connettivo.
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La logica nel ventesimo secolo (I)
guagg,io predicativo in cui le proposizioni sono pensate analizzate nelle loro componenti predicativa (o più in generale relazionale) e soggettiva; oltre ai connettivi proposizionali il linguaggio predicativo comprende gli operatori logici di quantificazione. Nell'ambito del linguaggio predicativo interviene una distinzione ulteriore a seconda che si convenga di applicare la quantificazione alle sole variabili individuali (potendo così esprimere nel linguaggio frasi come, ad esempio « per tutti gli individui...» o «esiste almeno un individuo tale che ... ») oppure si intenda estendere la quantificazione anche a variabili predicative (sicché diventano esprimibili frasi quali « per tutte le proprietà (di individui) ... » o « esiste almeno una proprietà (di individui) tale che ... »). Si ottiene così il linguaggio predicativo del primo ordine (quantificazione limitata) o del secondo ordine (quantificazione estesa). Dovrebbe essere chiaro com'è possibile continuare in questa gerarchia; va detto però che raramente si avverte la necessità di linguaggi di ordine superiore al secondo e che in generale il linguaggio del primo ordine, pur essendo una porzione molto limitata del linguaggio comune, è sostanzialmente sufficiente per esprimere almeno la maggior parte delle teorie matematiche interessanti. 1 Dal punto di vista simbolico, che ci permetterà di presentare poi i calcoli logici, potremmo porre le cose come segue. Il linguaggio proposizionale consta di un insieme infinito numerabile di lettere proposizionali (destinate a essere interpretate su proposizioni, o meglio su valori di verità) p, q, r, s ... dei connettivi --,, 1\, V , --+, ~. di simboli ausiliari quali le parentesi, la virgola ecc. Per costruire su questo « alfabeto » il sistema deduttivo del calcolo proposizionale, occorre definire le formule, gli assiomi e dare le regole di inferenza. Intuitivamente le formule sono quelle, fra tutte le espressioni che possono farsi componendo linearmente segni dell'alfabeto, che vogliamo considerare come sintatticamente significanti (è chiaro peraltro che esse saranno scelte in modo tale da risultare « significanti » anche da un punto di vista semantico, sotto opportune interpretazioni standard); gli assiomi sono quelle, fra le formule, che noi scegliamo come elementi iniziali del procedimento dimostrativo. Le formule sono così definite: I) ogni lettera proposizionale è una formula; 2) se d e !!J sono formule allora anche --, d, d 1\ !!J , d V !!J , d --+ !!J , d~ !!J sono formule; 3) nient'altro è una formula. Gli assiomi sono I 5 divisi in cinque gruppi, ognuno dei quali regola il comportamento di un connettivo. Assiomi dell'implicazione I) P--+(q~p) z) (P--+(P--+ q))--+(P--+ q) 3) (P-+ q)--+ ((q-H)--+ (p--+ r)) I Altri possibili criteri, che danno luogo ad altri tipi di linguaggi, ad esempio ai linguaggi
infinitari, sono venuti alla ribalta molto di recente e verranno accennati più avanti (paragrafo v).
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La logica nel ventesimo secolo (I)
Assiomi della congiunzione 4) PA q_, P 5)PAq_,q 6) (p_,q)_,((p_,r)_,(p_, q A r)) Assiomi della disgiunzione 7)P_,PVq
8) q_, p v q 9) (p_,r)_,((q_,r)_,(p V q--H)) Assiomi dell'equivalenza
IO) II) 12)
(p~q)_,(p->,q)
(P~ (P~
q)_, (q_, p) q)_, ((q_, p)_, (p_, q))
Assiomi della negazione I3) (p_, q)-->,(-, q->,-,p) I4) p_,-, -,p
I5)-,-,p->,p Come regole assumiamo la regola di separazione e la regola di sostituzione. 1 Per la logica del primo ordine avremo come possibile naturale estensione ad esempio la seguente. Il linguaggio comprende: à) un insieme infinito numerabile di variabili individuali x 1 , x 2 , x 3 , ... x. , ... ; b) le lettere proposizionali, che verranno ora indicate per comodità con ~' Pf, ~ , ... ; delle lettere predicative (almeno una) indicate con P; dove i (~ o, finito) è un indice di differenziazione e k (~ I, finito) indica il numero di posti della lettera predicativa (si potranno considerare le lettere proposizionali come lettere predicative « degeneri » assumendo per k - come noi faremo - valori finiti maggiori o uguali a zero); i connettivi proposizionali (-,, A , V , ---+, ~) e i quantificatori (3, V). Le formule saranno ora così definite: a) se P1 è una lettera predicativa a k posti e x 1 , x 2 , ... , X~: sono variabili, allora P~ (x1 , x 2 , ... , x~:) è una formula (formule atomiche); b) se d è una formula, -, d è una formula; se d e ~ sono formule anche d A ~ , d V ~ , d_, ~ , d~ ~ sono formule; se d è una formula e x una variabile, allora anche Vxd e 3xd sono formule; c) nient'altro è una formula. I Come sistemazione assiomatica abbiamo in realtà riportato quella di Hilbert e Bernays, Grundlagen der Mathematik (Fondamenti della matematica, z volumi; I934-1939)- Naturalmente questo sistema è equivalente ai numerosi sistemi proposizionali allora correnti e che si differenziavano fra loro e per le diverse assunzioni « linguistiche » (numero dei connettivi) e per le diverse assunzioni« deduttive» (assiomi e regole). Attualmente si preferisce in generale dare tali sistemi a livello meta/inguistico, usando cioè nella enunciazione
degli assiomi variabili metalinguistiche che possono essere immaginate sostituite in modo uniforme da formule linguistiche qualunque. Questo permette di eliminare la regola di sostituzione. Un esempio di tali sistemi, basato su due connettivi e tre assiomi, è il seguente: w--+(~M.:...,.w)
(w--+(~--+ 'W))--+ ((w--+ ~M)--+ (w--+ 'W)) (---, ~--+ ---, w)--+ ((---, 1M--+ w)--+ ~M))
con la sola regola del motlus ponens.
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La logica-nel ventesimo secolo (I)
Gli assiomi del calcolo predicativo sono ora: I) gli assiomi enunciativi (opportunamente formulati nel nuovo linguaggio); 2) \fxP(x)-" P(y) 3) P(y)-" 3xP(x) (o ve abbiamo adottato evidenti abbreviazioni); oltre alla regola di separazione si aggiungono altre due regole che possono indicarsi compendiosamente con i seguenti schemi d -"&B(x) &B(x)-"d e d___, \fx&B(x) purché in entrambi gli schemi x non figuri libera in d. Occorrerà, naturalmente, una regola di sostituzione per variabili individuali libere e una per variabili predicative. 1 Ovviamente in questo contesto, l'esplicitazione formalizzata di una teoria in un dato linguaggio comprenderà, oltre che gli assiomi logici, anche assiomi specifici per la teoria, ossia delle proposizioni formalizzate la cui interpretazione è destinata per così dtre a limitare le possibili realizzazioni della teoria stessa a quelle che appunto ne soddisfano gli assiomi. Assumiamo per ora questi termini in senso intuitivo (con perfetta aderenza storica del resto, ché infatti la precisazione rigorosa dell'aspetto semantico interpretativo non sarà un risultato acquisito che negli anni trenta). Ad esempio per il caso dell'aritmetica avremo un sistema elementare del tipo seguente (che indicheremo come sistema \.P, da Peano). I) Un qualunque sistema di assiomi per il calcolo dei predicati con identità 2) Assiomi specifici 2.I \lx (---,s(x) =o) 2.2 '\f x\fy(s(x) =s(y) -'t X= y) 2.3 d(o)/\ \fx(d(x)-"d(s(x)))--+ \fxd(x) 2.4 Vx'lly(x+o=x f\x-ts(y)=s(x-1-- y)) 2.5 \fx'\fy(x·o=of\x-s(y)=((x-y)+x)) 2 I Ricollegandoci alla nota precedente, si adotta ad esempio un sistema come il seguente: I) Gli assiomi enunciativi 2) Gli assiomi 'v'x.W(x)-> .W(y); 'v'x(.W-> al')->(.W-> 'v'x !?l); (con opportune limitazioni sulle variabiliy e x) e con, oltre alla regola di separazione, la sola regola
di generalizzazione ~ , e una di sostituvx.W
zione per variabili individuali libere. Nel seguito ci riferiremo sempre, all'occorrenza, a questi sistemi « più semplici » ribadendo tuttavia la loro equivalenza espressiva e deduttiva col sistema di Hilbert-Bernays qui presentato. A questo propo-
sito va ancora aggiunto che al primo ordine si conviene in generale di considerare l'identità come un predicato costante il cui comportamento è regolato da opportuni assiomi (di solito 2). È quindi ormai uso comune inserire tale predicato (e gli assiomi relativi) nella parte logica di una teoria: si parla allora, in questo caso, di teorie con identità o di teorie elementari. 2 Ovviamente facciamo l'ipotesi di aver stabilito il linguaggio in modo tale da poter esprimere, e in modo sensato, ossia come formule, gli assiomi precedenti. Intuitivamente, « s (x) » va letto come « successore di x », gli altri segni sono intesi nel loro significato usuale. 2. I afferma allora che o non è successore di alcun numero;
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La logica nel ventesimo secolo (r)
Tanto nei Grundziige quanto nella conferenza di Bologna del I927, Hilbert porrà (in linea con l'aspirazione di Post) in modo esplicito il problema della completezza semantica per la logica dei prediçati (è ogni formula predicativa logicamente valida derivabile sintatticamente nel corrispondente sistema formale?) e quello della completezza sintattica per l'aritmetica (presa una qualunque formula chiusa d della teoria dei numeri si ha ~d oppure ry---, d nel sistema formale?). La risposta a entrambe queste domande verrà data solo qualche anno dopo, agli inizi del trenta, da Kurt Godei e avrà come vedremo ripercussioni catastrofiche per il programma hilbertiano, che prenderemo in considerazione nel paragrafo III+ L'altro aspetto della «rottura» cui si accennava si ha con le cosiddette logiche «non classiche». In questo caso da una parte si ritiene (con Lewis) che il linguaggio dei Principia (anche al solo livello proposizionale, che è l'unico preso in considerazione da questo autore) sia ineliminabilmente troppo povero e grossolano per esprimere le reali connessioni inferenziali; in particolare, il connettivo di implicazione materiale non rende in modo compiuto e soddisfacente la relazione di deducibilità: occorrono connettivi «più potenti». D'altra parte si ritiene che il concetto di verità classico, tradizionalmente bivalente, sia troppo rigido, come accennavamo, per tradurre tutta una serie di situazioni reali: i connettivi abbisognano di interpretazioni diverse e più sfumate. Si vedrà peraltro che questi due aspetti sono fra loro intimamente connessi, come del resto è facile intuire. Cominciamo con la logica modale di Lewis, il cui primo sistema viene presentato come dicevamo nel ' I 8 (ma la sistemazione viene criticata da Post che vi scoprì un errore) e quindi in forma definitiva nel '3 2 in Symbolic Logic (Logica simbolica) scritto da Lewis in collaborazione con Cooper Harold Langford (I 89 5I 96 5). Va notato che lo sviluppo di questo aspetto della logica, che come vedremo è uno dei tratti caratteristici della ricerca degli ultimi decenni, lungi dall'essere un fenomeno tipico e originale del periodo che stiamo qui considerando, in effetti riprende dopo secoli di abbandono una tradizione profondamente radicata nella logica antica e medioevale. Prima dell'inizio dell'era moderna non era mai venuta meno la convinzione che lo studio delle nozioni modali -necessario, possibile, contingente, impossibile - rientrasse a pieno diritto nell'ambito della logica. Anzi la prima trattazione sistematica delle modalità si ritrova, accanto alla logica 2.2 che se due numeri hanno successori uguali sono uguali; 2.4 e 2.5 definiscono induttivamente le operazioni di somma e prodotto; 2.3, infine, esprime l'assioma di induzione ossia afferma che se o gode della proprietà espressa da una certa formula .9/ e se per un qualunque numero, se esso gode di quella proprietà anche il suo successore ne gode, allora tutti i numeri godono di quella proprietà. Si noti che 2.3 non è un assioma bensì uno schema (metalinguistico) di assiomi, dal
quale cioè si possono ricavare infiniti assiomi sostituendo ad .9/ (variabile metalinguistica) una qualunque formula con una variabile libera del linguaggio. 2.3 non esprime completamente il contenuto del principio di induzione; per farlo dovrebbe essere esteso a tutte le proprietà (e non solo a quelle esprimibili nel nostro linguaggio) ma sappiamo che per poter esprimere ciò occorrerebbe passare al secondo ordine. Riprenderemo più avanti la questione.
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degli enunc1at1 categorici, nell'Organon aristotelico. Va osservato tuttavia che nell'opera di Aristotele, in cui viene sviluppata una teoria notevolmente matura e articolata del sillogismo modale, manca una definizione rigorosa e univocamente determinata delle nozioni modali fondamentali. Negli Analitici infatti Aristotele sembra intendere il possibile come « ciò che non è né necessariamente falso né necessariamente vero », mentre nel De interpretatione propende per la definizione del possibile come « ciò che non è necessariamente falso ». Questa seconda accezione è quella ereditata da Teofrasto, suo successore alla direzione del Liceo, e con lui da tutta la logica successiva. A partire da Teofrasto i rapporti di interrelazione tra le modalità si possono esprimere mediante un quadrato di opposizioni così costruito : Necessario ( D p) Impossibile (-, O P)
C> ::Ju (wEu 1\ uEx)) 33'64 (Assioma dell'insieme-potenza) ::Jy 'l!z (zEyf--+ 'lfw (wEz---+ wEx)). 33'65 (Schema d'assiomi di isolamento) 274
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La logica:·nel ventesimo secolo (r)
Ogni espressione della forma: 3y Vz (ZEY~ ZEX 1\ 1X(z)) è un assioma purché IX non contenga libera la variabile y. 3666 (AssiotJla di scelta) Vy Vz ((yEx 1\ zEx 1\ ---,y = z)~(3wwEy ;, ---, ::Jw (wEy 1\ wEz)))~3u3y(yEx~3wVv(v = w~vEul\ vEy)).
3667
(Assioma dell'infinito)
3z(Vx(---,3yyEx->xEz)l\ VxVy((xEzl\ Vw(wEy~w= x))~_yEz)).
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(Schema d'assiomi di rimpiazzamento) Ogni espressione della forma
\:j_y Vz Vw (IX (.y, z) 1\ IX (y, w)~ z = w)~ ~ 3u Vz (zEu~ 3y (yEx 1\ IX (y, z))) è un assioma purché IX non contenga libere x e u. 3669 (Assioma di fondazione) ~)'v E x~ 3z (zEx 1\ V w (wEz~---, WEX) Vogliamo ora occuparci dell'altra tipica impostazione della teoria assiomatica degli insiemi che nasce in questo periodo ad opera del già tanto citato von Neumann, il quale negli anni venti dedica alla questione almeno sei fondamentali lavori. In uno di questi, del I 92 5, E in e Axiomatisierung der Mengenlehre (Una assiomatizzazione della teoria de,r;li insiemi) egli presenta un nuovo modo di assiomatizzare la teoria che ha notevoli caratteristiche di naturalezza perché evita l'introduzione di alcune condizioni necessarie per il sistema di Zermelo ma tuttavia altamente non intuitive, prima fra tutte il fatto che nella teoria di Zermelo, pena il ricadere nelle contraddizioni, non esiste la classe totale. Von Neumann ottiene questo risultato avendo come sfondo la convinzione che le antinomie non traggano origine dall'assumere l'esistenza di un insieme in corrispondenza ad ogni proprietà, come appunto richiesto dall'assioma di comprensione, bensì dal fatto che tale insieme venga sostanzializzato, che gli si attribuiscano cioè quelle caratteristiche che possono essere riassunte semplicemente dicendo che l'insieme in questione può essere oggetto di predicazione, ossia può figurare come elemento di altre classi, molteplicità, insiemi. Ne viene allora che si potrà ammettere senz'altro l'esistenza di una molteplicità in corrispondenza a ogni proprietà ma che occorrerà successivamente aver cura che non tutte queste molteplicità possano a loro volta essere elementi di altre molteplicità; in termini tecnici più precisi, occorrerà fare una netta e rigorosa distinzione fra quelli che oggi vengono chiamati insiemi e quelle che invece vengono chiamate classi: allora ogni insieme è una classe, ma non tutte le classi sono insiemi.! Nei terr Si noti che così facendo von Neumann riprende sostanzialmente la distinzione cantoriana
fra molteplicità consistenti (insiemi) e molteplicità inconsistenti (classi).
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mini che abbiamo sopra impiegato dovrebbe venir naturale esprimere la cosa dicendo che mentre tutti gli insiemi possono essere argomenti di predicazione, ciò non vale per le classi; in termini più generali, esistono delle «cose» che non sono « argomenti ». Si comprende quindi come von Neumann conduca la sua assiomatizzazione in termini di funzioni piuttosto che di insiemi: la prima nozione è infatti abbastanza ampia da includere la seconda; più precisamente si tratta di due concetti del tutto equivalenti, dal momento che una funzione può essere riguardata come un insieme di coppie ordinate, e gli insiemi come funzioni particolari (funzioni caratteristiche) ossia come quelle funzioni che possono assumere due e solo due valori distinti. Afferma von Neumann: «La ragione per cui ci discostiamo dal modo usuale di procedere è che ogni assiomatizzazione della teoria degli insiemi usa la nozione di funzione (assioma di isolamento, assioma di rimpiazzamento ... ) e così è formalmente più semplice basare la nozione di insieme su quella di funzione che non viceversa. » Precisata questa terminologia, von Neumann prende le mosse dalla considerazione di due domini distinti, quello delle funzioni e quello degli argomenti, e si chiede immediatamente: quali funzioni sono nello stesso tempo argomenti? Osservando che qui « funzione » e « argomento » vanno intesi in senso puramente formale, ossia senza che venga loro attribuito uno specifico significato, si può pensare di considerare astrattamente « cose di tipo I » e « cose di tipo II» e chiedersi allora: quali cose sono di tipo I-n? (è chiaro che se ad esempio per « cose di tipo I » intendiamo « argomenti » e per « cose di tipo n » intendiamo « funzioni » porsi la domanda precedente significherà appunto chiedersi: quali funzioni sono anche argomenti? e quindi, per quanto già detto, quali classi sono anche insiemi?) Per rispondere, con von Neumann, a questa fondamentale domanda, fissiamo arbitrariamente un argomento A e conveniamo che una funzione è anche un argomento quando, per così dire « non lo è troppo spesso » ossia quando non si comporta in modo tale da assumere «per troppi argotllenti » un valore diverso da quello prefissato A. Poiché, prosegue von Neumann «un insieme sarà definito come una funzione che può assumere solo due valori, uno dei quali è A, questo è un adattamento ragionevole del punto di vista di Zermelo ». È chiaro che il discorso di von Neumann non fa sostanzialmente che riprodurre, nella nuova terminologia, la constatazione che in un qualche senso (pena cioè il sorgere di antinomie) non possono esistere insietlli «troppo grandi» («funzioni troppo ampie» nella sua terminologia). L'essenziale novità di questa sistemazione è tuttavia duplice: I) esistono cotllunque « cose » troppo grandi (saranno appunto le classi); z) si riesce a « dare una misura » a questo vago concetto di «troppo grande». Un tipico oggetto di questo genere è infatti, ad esempio, la classe totale; orbene von Neumann postula l'esistenza della classe di tutti
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La logica nel ventesimo secolo (I)
gli insiemi 1 e stabilisce con un altro assioma che condizione necessaria e sufficiente affinché una classe non sia un insieme (una funzione non sia argomento, o una cosa di tipo II non sia anche di tipo r, non sia cioè di tipo I-II) è che essa sia rappresentabile sulla classe totale. In termini più usuali, per riassumere, la nostra teoria parla di due tipi di molteplicità: gli insiemi e le classi proprie (o semplicemente classi); ogni insieme è una classe ma non viceversa: una classe è un insieme se e solo se non è rappresentabile sulla classe totale; o ancora una molteplicità è una classe propria se e solo se è equipotente con la classe totale. Sarebbe assai interessante, ma ci sembra fuori luogo in questa sede, discutere e presentare nei particolari il sistema assiomatico di von Neumann; ci limiteremo quindi ad alcune considerazioni generali. Von Neumann costituisce la propria teoria fondandola su sei gruppi di assiomi: I. Assiomi introduttivi (4 assiomi); II. Assiomi aritmetici di costruzione (7 assiomi); III. Assiomi logici di costruzione (3 assiomi); IV. Assiomi delle cose di tipo I-II (z assiomi); V. Assiomi dell'infinito (3 assiomi); VI. Assiomi di «categoricità» (4 assiomi). Il gruppo di assiomi di gran lunga più « potente » e caratteristico del sistema vonneumanniano è il IV; l'assioma IV.r afferma appunto l'esistenza della classe di tutti gli insiemi, mentre il IV.z dà la «misura» di cui sopra si parlava ed è di potenza veramente eccezionale: da esso si possono derivare l'assioma di isolamento, l'assioma di rimpiazzamento e il teorema del buon ordinamento. È lecito dunque, a proposito di un assioma così potente, chiedersi come appunto fa von Neumann se esso non sia eventualmente causa di antinomie. Von Neumann fa vedere che così non è con una serie di considerazioni troppo complesse per essere qui riportate. Va detto tuttavia che centrale in questa dimostrazione è la costruzione di una funzione 1/J, detta appunto 1/J di von Neumann, la quale è così definita sugli ordinali, assumendo come valori insiemi
7/J(o)=0 1/J (a. + r) = 1/J (lim r~-y) = Y R (y)). Le trasformazioni cui si accenna nel testo permettono di associare a F la formula F*: 3 w 'v'z {(P(x,y)--> --> [Q (w)--> (Q (z)--> P(111))]} in forma prenessa. 3 Questo teorema, che viene oggi normalmente detto di Lowenheim-Skolem, è al centro di tutta una serie di indagini dedicate dagli anni venti in poi al problema della categoricità delle teorie formalizzate; cioè della possibilità di ottenere teorie con un modello solo, unico a meno di isomorfismi (e già abbiamo visto che lo stesso Skolem lo utilizza in questo senso). Come tale esso è uno dei teoremi fondamentali della logica matematica e ha ottenuto numerose generalizzazioni che si possono sostanzialmente dividere in due gruppi: i) teoremi di LowenheimSkolem « all'insù » (upward nella terminologia inglese) e ii) teoremi di Lowenheim-Skolem « all'ingiù » (d01vnward nella terminologia inglese). I primi stabiliscono l'esistenza, per ogni modello infinito Wl di una teoria ::r. (espressa entro un dato
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La logica nel ventesimo secolo (r)
Nel 1922 invece (nel già citato articolo Alcune considerazioni sulla fondazione assiomatica della teoria degli insiemi, si veda la nota 1 a pag. 271 e il paragrafo m.2) Skolem dà una nuova dimostrazione, senza impiegare questa volta l'assioma di scelta, della forma potremmo dire « originale » del teorema di Lowenheim (che tuttavia generalizza anche ora a insiemi qualunque, anche numerabili, di formule predicative); dimostra cioè che se M è un insieme qualunque di formule predicative del primo ordine e se M è so d disfacibile (ossia se sono simultaneamente soddisfacibili tutte le formule di M) allora M è soddisfacibile nel dominio dei numeri naturali (ovviamente sotto opportuna interpretazione delle costanti predicative occorrenti nelle formule di M). Questa seconda dimostrazione (nella quale tuttavia è riscontrabile una lacuna decisiva) è fondata su un metodo di « approssimazione » che grosso modo consiste nel far vedere che per ogni numero naturale k si possono costruire « soluzioni di livello k » per una data formula F, ossia si possono assegnare individui (numeri) che la soddisfano; e nel ricavare quindi un'estensione nel numerabile per almeno una di queste soluzioni (è proprio nella mancata giustificazione di questo passaggio che consiste la lacuna cui sopra si accennava). Nel 1928 infine, nell'articolo Vber die mathematische Logik (Sulla logica matematica) Skolem sembra affrontare esplicitamente il problema della completezza perché definisce una procedura di refutazione (intuitivamente: di non accettazione, di falsità) di una formula predicativa F qualunque e afferma che tale procedura è completa nel senso che F è refutabile se e solo se F è non soddisfacibile: si noti che o ve fosse precisato rigorosamente e senza ambiguità il contesto formale di riferimento e i concetti occorrenti in questo enunciato, ciò equivarrebbe a dimostrare la contrapposizione del teorema di completezza. Malgrado la dimostrazione sia in effetti lacunosa, tanto da questo quanto da successivi risultati di Skolem, ad esempio quelli contenuti nell'articolo Vber einige Grundlagenfragen der Mathematik (Su alcune questioni circa i fondamenti della matematica, 1929) si sarebbe potuto dimostrare molto facilmente il teorema di completezza; vedremo di chiarire tra breve perché questo non sia avvenuto. linguaggio) di sue estensioni Wl', ancora modelli di X e aventi cardinalità t per ogni t maggiore della cardinalità m di Wl. I secondi stabiliscono l'esistenza di sottostrutture del modello 9Jl che siano ancora modelli della teoria di partenza X e che abbiano cardinalità t infinita minore o uguale alla cardinalità m di 9Jl e maggiore o uguale alla cardinalità m' dell'insieme delle costanti extralogiche di :r. Come si può vedere, il teorema originale di Lowenheim-Skolem rientra nel secondo gruppo, mentre il primo risultato nella direzione i) si deve a Tarski e risale al r 934· Questo risultato dipende essenzialmente dal teorema di completezza (o di compattezza) dimostrato da Godei per il caso numerabile e da Malcev per il caso generale. I limiti descrittivi delle teorie elementari non riguardano quindi le sole sotto-
strutture ma anche le estensioni, che al pari delle prime possono essere indiscernibili dal punto di vista delle proprietà formulabili nel linguaggio. Come la ricerca successiva ha posto in luce, questi limiti non sono accidentali e non riguardano il solo linguaggio del primo ordine; teoremi analoghi si possono dimostrare anche per linguaggi più ricchi. Con alcune limitazioni, però: mentre i risultati di tipo ii) si estendono, poste le opportune modifiche, a linguaggi del tutto arbitrari vincolati alla sola condizione che la classe delle formule sia un insieme, i risultati di tipo i) si hanno solo per linguaggi che godano di una qualche forma del teorema di compattezza. Di questi temi avremo occasione di riparlare nel paragrafo v, accennando agli sviluppi della teoria dei modelli.
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La logica nel ventesimo secolo (I)
g interessante osservare che qualche anno più tardi il francese Jacques Herbrand (19o8-193 1) nella sua dissertazione di laurea Recherches sur la théorie de la démonstration (Ricerche sulla teoria della dimostrazione, 1930) dimostra quella che può considerarsi la versione ftnitista del teorema di Skolem, a partire, per sua esplicita dichiarazione, dallo stesso ordine di idee del logico norvegese (solo tuttavia, si badi bene, per quanto riguarda il processo dimostrativo). Anche Herbrand non giunge a compiere il passo finale che lo porterebbe al teorema di completezza, che anzi, addirittura, semplificherebbe di molto la dimostrazione del suo teorema; ma questa volta i motivi sono esattamente opposti a quelli di Skolem: è la professione di « fede » sintattico-finitista che non consente a Herbrand di porre il rapporto tra dimostrabilità e validità. Herbrand infatti dimostra, nel suo teorema, il seguente fatto: è possibile associare in modo effettivo, combinatorio, finitista, a ogni formula F del primo ordine una successione infinita di disgiunzioni della logica proposizionale, in modo tale che la formula F è dimostrabile nella logica dei predicati se e solo se una almeno delle disgiunzioni precedenti è dimostrabile nella logica degli enunciati. Se supponiamo cioè di avere una formula F del calcolo dei predicati le si può associare in modo effettivo una successione così fatta A1(F) .#1 A2(F) .· ,#1 V .#2
dove le .#i sono formule proposizionali (ottenute con metodo simile a quello skolemiano di approssimazione) e ogni Ai è detta appunto l'i-esima disgiunzione di Herbrand della formula F. Il teorema allora afferma che F è dimostrabile nella logica dei predicati del primo ordine se e solo se esiste un n tale che An(F) è un teorema della logica delle proposizioni. Siccome sappiamo, già dai lavori di Post, che tale logica è decidibile,! se la «riduzione» di Herbrand delle formule predicative a formule proposizionali fosse per così dire «totale» (basterebbe ovviamente che la successione di disgiunzioni per ogni formula fosse finita) avremmo automaticamente una procedura di decisione anche per la logica dei predicati. Vedremo più avanti (paragrafo rv.5) che così non è, ossia che la logica dei predicati non è decidibile in questo senso. Una conseguenza del teorema di Herbrand che avremo occasione di richiamare in seguito è che in base ad esso è possibile costruire per ogni formula F derivabile entro il calcolo dei predicati del primo ordine una derivazione che non faccia uso della regola del modus ponens. L'interesse della cosa sta nel fatto che, in questo modo, le dimostrazioni acquiI
Ossia che data una sua qualunque formula
esiste una procedura meccanica che permette di decidere se essa è o no un teorema.
3 IO
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La logica nel ventesimo secolo (1)
stano una forma particolarmente dominabile; nelle parole di Herbrand « noi consideriamo questo fatto molto importante per delle difficoltà che si possono incontrare a ca usa della regola di implicazione [modus ponens] in certe dimostrazioni per ricorrenza [induzione] ». Vedremo più avanti, considerando i lavori di Gentzen, come questo aspetto del teorema di Herbrand sia ricco di conseguenze per il programma hilbertiano e costituisca un passo importante verso l'analisi sintattica delle teorie. Ma riprendiamo il nostro discorso sulla completezza. Dopo quanto detto, la situazione agli inizi degli anni trenta si può puntualizzare come segue ricorrendo a uno schema di Jean van Heijenoort. Si possono distinguere tre atteggiamenti fondamentali nella valutazione di una teoria: I. Il metodo assiomatico, in base al quale a partire da un insieme di assiomi si dimostrano formule(« teoremi») sulla base di determinate regole di inferenza; II. Il metodo semantico che fonda la logica su nozioni contenutistiche di tipo insiemistico ed è interessato alla validità delle formule della teoria; III. Infine il metodo di Herbrand. Consideriamo ora una formula qualunque F, che per semplicità supporremo chiusa (di una teoria) del primo ordine; a seconda che un autore condividesse o meno l'uno o l'altro dei tre atteggiamenti suddetti le questioni che si ponevano circa F erano allora le seguenti. Un «assiomatico» si chiedeva: è questa formula dimostrabile oppure no? Un « insiemista »: è F valida oppure no? Herbrand infine: esiste un numero naturale n per cui l'n-esima disgiunzione di Herbrand della formula F risulti un teorema proposizionale oppure no? Il teorema di Herbrand afferma l'equivalenza delle «domande» assiomatiche con quelle da lui stesso poste; e Herbrand non si preoccupa di stabilire connessioni tra le sue esplicitazioni e le questioni poste da un « semantico » perché «la nozione di validità si fonda su quella di sottoinsieme qualunque di un insieme arbitrario » e quindi non è ammissibile dal punto di vista finiti sta che egli professa; piuttosto Herbrand ritiene appunto che tali nozioni debbano essere sostituite dai concetti rigorosi da lui stesso introdotti. Il problema che rimaneva aperto era dunque quello dei rapporti fra una formula dimostrabile (o « herbrandiana » vista l'equivalenza di cui sopra) e una formula valida: è proprio questo anello fondamentale della catena che il teorema di completezza semantica di Godei viene a porre. 1) L'opera di Kurt Giidel fra il I9}0 e il I940 Cominciamo quindi con l'esporre, dei vari risultati di Godei, forse il maggior logico del nostro secolo, quello relativo alla completezza semantica per i linguaggi (teorie) del primo ordine. È interessante notare come, libero da legami con una scuola particolare, ma attento con acutezza, profondità e spregiudicatezza alle diverse esigenze che si contendevano il campo, Godel trovi del tutto « immediato e naturale », una volta che ci si ponga dal punto di vista assiomatico, sapere se « il sistema inizialmente postulato di assiomi e di principi di infe-
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·La logica-nel ventesimo secolo (1)
renza è completo, ossia se esso effettivamente è sufficiente per la derivazione di ogni proposizione logico-matematica vera o se invece è concepibile che esistano proposizioni vere (addirittura eventualmente dimostrabili per mezzo di altri principi) che non possano essere derivate nel sistema considerato ». Godel risponde alla domanda dimostrando il teorema: ogni fomJUia valida del calcolo funzionale ristretto [ancor oggi viene talora così chiamato il calcolo dei predicati del primo ordine] è dimostrabile, dopo averlo posto nella forma equivalente: ogni formula del calcolo funzionale ristretto è o refutabile [ossia è dimostrabile la sua negazione] o soddisjacibile. Egli osserva subito che l'equivalenza da lui dimostrata tra validità e dimostrabilità (nella logica dei predicati del primo ordine) « contiene per il problema della decisione una riduzione del non numerabile al numerabile, perché "valido" si riferisce alla totalità non numerabile di funzioni, mentre "dimostrabile" presuppone soltanto la totalità numerabile delle dimostrazioni formali ». Godel generalizza quindi il teorema alla logica dei predicati con identità e infine a un insieme arbitrario di proposizioni del primo ordine: « Ogni insieme infinito numerabile di formule del calcolo funzionale ristretto è soddisfacibile (ossia tutte le formule del sistema sono simultaneamente soddisfacibili) o possiede un sottosistema finito il cui prodotto logico è refutabile. » In altri termini, se agli assiomi logici aggiungiamo come nuovi assiomi un insieme infinito arbitrario di proposizioni del primo ordine, la teoria che così ne risulta è ancora semanticamente completa. È allora chiaro che il concetto di completezza connette fra loro i concetti di verità e di dimostrabilità; con le nozioni che ormai conosciamo non dovrebbe risultare difficile quindi comprendere che la nostra nozione di completezza per una teoria ~ del primo ordine è relativa a un dato modello m: diciamo cioè che ~ è completa rispetto a m se ogni formula chiusa di ~ che è vera in m è derivabile in ~- Invece che un solo modello di una teoria ~ consideriamo ora una classe '(f di modelli per ~- Diremo valida in rf una formula chiusa F di ~ se F è vera in ogni modello m appartenente alla classe '(f; otterremo allora una nozione più generale di completezza per la teoria l:: ~ è completa rispetto a rf se ogni formula chiusa di ~ valida in '(f è derivabile in ~- Ovviamente, se rf contiene un solo modello di ~ le due nozioni coincidono; viceversa, se rf comprende tutti i modelli di ~ diciamo che ~ è logicamente completa. È quest'ultimo tipo di completezza cui Godel era interessato l (e si noti che a questo concetto si allude quando si parla tout court di completezza semantica di una teoria: se una formula è vera in tutti i modelli della teoria allora essa è derivabile). Naturalmente siamo interessati a porci il problema di completezza per una 1 E questo era anche l'interesse che muoveva Post quando dimostrava la completezza del calcolo proposizionale. È ovvio che si presenta in modo naturale tutta una gamma di ricerche sulla completezza, precisando la classe di modelli
cui ci si riferisce (in particolare, assumendone uno solo, il più «naturale»). D'altra parte si può tentare di trovare criteri per distinguere le teorie complete da quelle incomplete, ecc.
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La logica nel ventesimo secolo (r)
teoria solo nel caso che tutte le formule chiuse derivabili nella teoria stessa siano vere in tutti i modelli della teoria, vale a dire nel caso in cui - come oggi diciamo- la teoria sia valida; quest'ultima proprietà dipende ovviamente dal tipo di regole di inferenza che noi accettiamo nell'apparato deduttivo della teoria: ed è chiaramente una richiesta « minimale » che tutte le nostre teorie sono supposte soddisfare. Come dice Mostowski, « il problema della completezza è un esempio interessante di una questione che sorge da ricerche filosofiche concernenti le relazioni tra calcoli e semantica e che ha trovato molte applicazioni puramente matematiche a dispetto della sua origine filosofica. Si parla spesso della rilevanza della logica matematica per l'algebra: è soprattutto il teorema di completezza che riesce a connettere queste due discipline in modo tale che esse possano profondamente e reciprocamente influenzarsi ». La cosa risulterà forse più intuitivamente comprensibile se si pensa al teorema di completezza espresso nella sua forma equivalente seguente: ogni teoria noncontraddittoria del primo ordine ammette un modello, e si tiene conto che i m0delli che noi consideriamo in senso astratto non sono in definitiva che strutture di cui il matematico e in particolare appunto l'algebrista, fa uso costante e naturale; ossia insiemi non vuoti di elementi la cui natura non è specificata, e sui quali sono definite delle relazioni (struttura relazionale) o delle operazioni (struttura algebrica) o infine delle relazioni e delle operazioni (struttura). Va anche aggiunto che queste applicazioni impiegano in generale un corollario, ricavato da Godel stesso, del teorema di completezza, noto sotto il nome di teorema di compattezza: un qualunque insieme infinito di formule chiuse del primo ordine ha un modello se ogni suo sottoinsieme finito ha un modello. Le prime applicazioni all'algebra di questo teorema risalgono al sovietico Anatolij Ivanovic Malcev (1909-1967) che lo impiegò nel 1941 in un lavoro dal titolo Un metodo generale per ottenere teoremi locali nella teoria dei grujJpi, per risolvere e sistemare svariati problemi riguardanti i rapporti tra proprietà dei sottogruppi e proprietà dei gruppi « ambiente ». È naturale che la dimostrata completezza semantica delle teorie del primo ordine venisse immediatamente riguardata come un'ulteriore conferma della correttezza dell'impostazione hilbertiana nella ricerca sui fondamenti: l'apparato deduttivo formale era in grado di riprodurre fedelmente i rapporti semantici tra proposizioni e aveva dalla sua il vantaggio di farlo in termini finitisti, combinatori, senza ricorrere alle pesanti assunzioni insiemistiche che sembravano ineliminabilmente connesse con i concetti semantici. In altri termini, questo risultato sembrava offrire decisivi argomenti alla convinzione di poter sostituire ad ogni effetto il concetto di dimostrabilità formale a quello di verità. Tuttavia c'era già da tempo un «neo» in questa situazione così soddisfacente ed era rappresentato proprio da quel teorema di Lowenheim-Skolem che noi abbiamo visto nell'introduzione a questo paragrafo e che, senza addentrarci in particolari,
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mostrava come ogni teoria del primo ordine fosse non categorica, ammettesse cioè modelli tra loro non isomorfì. Questo naturalmente succedeva in particolare per la teoria degli insiemi e per la stessa aritmetica: per la prima lo stesso enunciato del teorema mostrava l'esistenza di modelli numerabi!i e quindi non certamente isomorfì al modello gerarchico che abbiamo descritto parlando di von Neumann o comunque con un qualunque altro modello « intuitivo » di questa teoria che intendiamo ovviamente come più che numerabile; per la seconda lo stesso Skolem costruirà un « modello non standard », il quale cioè accanto ai numeri naturali contiene «altri» elementi (e quindi non è certamente isomorfo al modello intuitivo) e nel quale tuttavia tutti gli ordinari assiomi dell'aritmetica (e quindi tutti i teoremi formalmente derivabili da essi) risultavano veri.l In altri termini, i linguaggi del primo ordine pur se consentivano descrizioni complete delle teorie non riuscivano per così dire a « distinguere » i moJelli delle teorie stesse, isolando solo quelli « desiderati ». La descrizione di tali modelli non era cioè univoca: da un lato allora adeguatezza deduttiva (Godel) dall'altro inadeguatezza espressivo-descrittiva (Skolem). A risolvere definitivamente la (1uestione interviene ancora una volta, a un solo anno di distanza, Godel, con la celebre memoria Uber forma! unentscheidbare Satze der Principia. Mathematica und verwandter Systeme, r (Sulle proposizioni formalmente indecidibi!i dei Principia Mathematica e di sistemi affini, r) del 1931, che contiene quello che viene detto « teorema di Godel » per antonomasia. Riferendosi in particolare a quelli che stima « i più comprensivi » sistemi assiomaticoformali, ossia quello dei Principia e la teoria degli insiemi (nell'assiomatizzazione di Zermelo-Frankel-Skolem o in quella di von Neumann) egli osserva: «si potrebbe quindi congetturare che questi assiomi e regole di inferenza siano sufficienti a decidere ogni questione matematica che possa essere formalmente espressa in questi sistemi. Verrà mostrato... che non è così, che al contrario esistono nei due sistemi menzionati problemi relativamente sempliCi della teoria dei numeri che non possono essere decisi sulla base degli assiomi ». In altri termini Godel dimostra un teorema di incompletezza sintattica per l'aritmetica, che estende poi a una classe molto ampia di teorie; ma oltre a ciò egli dimostra un risultato I Già nel 1922, nell'articolo citato, Skolem aveva suggerito che con una data definizione della successione dei numeri naturali (grosso modo: alla maniera di Dedekind o di Frege) si ottenevano per essa modelli diversi nella teoria degli insiemi. E nel 1929 (nell'articolo citato) collegava più intrinsecamente la cosa alla teoria degli insiemi nel senso che dalle sue considerazioni risultava che la determinazione della successione dci numeri naturali dipendeva strettamente dagli assiomi scelti per la teoria degli insiemi. Nel 19B infine in Ober die Unmog!ichkeit einer Charakterisierung der Zahlenreihe mittels eines endliches Axionmt-
.rystems (Sulla impossibilità di caratterizzare la mcceJ_;ione numerica per mezzo di un sistema finito di assiomi) dimostrò il seguente teorema: Esiste un sistema N* di cose, per le 4uali sono definite le operazioni j e X c due relazioni = e > f,: a questa «spiegazione» o a sue numerose varianti tutte comunque riunite sotto la lknominazione di teoria classica o corrispondentistica della verità, che Tarski si ispira. In quest'ordine di idee, data una specifica proposizione, ad esempio «la calcite è un minerale », possiamo pensare di esprimere tali condizioni dicendo semplicemente: l'enunciato «la calcite è un minerale» è vero se e solo se la calcite è un minerale. Si notino due cose: a) ha senso fare una distinzione fra proposizioni vere o false solo quando le proposizioni stesse convoglino una certa informazione su un certo ambito di realtà (qualunque esso sia) sicché il concetto di verità che noi stabiliamo è in effetti una relazione fra fatti linguistici (enunciati) c domini a cui essi si riferiscono; b) nella condizione relativa alla calcite può sembrare di aver espresso un puro e semplice .truismo, qualcosa come « Socrate è Socrate » o un qualunque altro esempio del principio di identità. Che le cose non stiano così, ed è essenziale comprenderlo, è dimostrato dal fatto che nell'equivalenza sopra scritta a sinistra del «se e solo se» compare un enunciato fra virgolette, a destra un enunciato. Per chiarire il significato della cosa, immaginiamo di dare un nome, ad esempio P, all'enunciato «la calcite è un minerale». Allora l'equivalenza di cui sopra verrebbe scritta: l'enunciato P è z;ero se e solo se la calcite è un minerale, che non dà più luogo ad alcuna ambiguità, perché a sinistra dell'equivalenza appare il nome di un enunciato, mentre a destra appare l'emmciato stesso.2 Orbene, se realizziamo chiaramente questa differenza e ci convinciamo dunque che una eventuale definizione come la precedente sarebbe « sensata», non vuota, potrebbe solo restarci il dubbio circa una sua sostanziale r Si noti a questo proposito che Tarski cerca appunto di specificare le condizioni sotto le quali una proposizione possa essere considerata vera e non dei criteri di verità che permettano in un qualunque modo di stabilire o di decidere se di fatto la proposizione in questione è vera. Dirà Tarski nel 1969: «Qualunque cosa possa attenersi dalla costruzione di una definizione adeguata del concetto di verità per un linguaggio scientifico, una cosa è certa: la definizione non porta con sé un criterio pratico per decidere se una particolare proposizione di tale linguaggio sia vera o falsa (e in vero questo non è affatto il suo scopo) ... Alcuni filosofi ed epistemologi sono propensi a rifiutare ogni definizione che non for-
nisca un criterio per decidere, per ciascun oggetto particolare assegnato, se esso cada o no sotto il concetto definito. Nella metodologia delle scienze empiriche tale tendenza è rappresentata dall'operazionismo ed è condivisa anche da quei filosofi della matematica che appartengono alla scuola costruttivista; in ambedue i casi, tuttavia, solo una piccola minoranza di pensatori è di questa opinione.» 2 Si noti che se riprovassimo ora a formulare la condizione, si avrebbe l'enunciato P è vero se e solo se P; si otterrebbe allora addirittura un non senso dal punto di vista grammaticale (infatti dopo il « se e solo se » deve figurare un enunciato, non il nome di un enunciato).
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« banalità». Ma da llucsto dubbio ci liberiamo subito con le seguenti considerazioni. Se potessimo scrivere un'equivalenza come la precedente (che diremo equivalenza di tipo T, da Tarski) per ogni enunciato del linguaggio naturale, avremmo evidentemente risolto il nostro problema; d 'altra parte non tutti gli enunciati del linguaggio naturale hanno la forma semplice, atomica, come quello sopra esemplificato. A partire da enunciati di questo tipo n:)i ne formiamo di assai più complessi servendoci ad esempio dei connettivi. Allora, c qui sta la non banalità della cosa: a) dovremmo poter scrivere un'equivalenza come la precedente per ogni enunciato naturale atomico; ma tutto lascia pensare che il numero di tali enunciati sia infinito, il che di fatto rende impossibile già questo primo passo; b) ma concediamo pure di avere in qualche modo superato questa difficoltà: dovremmo allora dare delle « regole » per inferire, dalla verità di enunciati atomici, la verità di enunciati composti mediante i connettivi, il che presuppone che si sappia analizzare compiutamente ogni enunciato composto in termini dei rispettivi enunciati atomici componenti, o che si sappiano esplicitare tutte le regole in base alle quali noi operiamo tali composizioni. In altri termini, vista l 'infinità dell'insieme degli enunciati e la possibilità di considerare enunciati sempre più complessi, noi penseremmo di stabilire delle condizioni di verità per gli enunciati atomici e quindi, sulla base della costruzione stessa degli enunciati composti, di inferire le condizioni di verità per questi ultimi a partire da quelle dei singoli componenti elementari. Orbene, se tentiamo di applicare in questo senso un procedimento rigoroso al linguaggio ordinario ci imbattiamo in difficoltà pressoché insormontabili per la stessa natura imprecisa delle regole grammaticali e sintattiche di formazione degli enunciati (imprecisa, si intende, almeno da un punto di vista logico-matematico). Ma un'altra ben più grave difficoltà si oppone a questo procedimento. Abbiamo già più volte ricordato, fra le antinomie che derivano da una confusione fra linguaggio e metalinguaggio, quella del menti t ore; anche nella costruzione di Tarski come già in quella di Godei, questa antinomia gioca un ruolo deisivo, pur se in certo senso di segno opposto. Nel linguaggio comune ovviamente si hanno proposizioni che parlano di altre proposizioni (ad esempio «la proposizione con cui comincia questo capoverso è breve ») e in particolare che parlano di se stesse (ad esempio: «Questa proposizione è composta di sette parole, » che è una proposizione vera). Fra molte altre tuttavia abbiamo in particolare anche una proposizione che afferma la falsità di se stessa: « Questa proposizione è falsa. » Già sappiamo che tale proposizione conduce ad un'antinomia e tale antinomia può essere evitata solo mediante una rigorosa distinzione tra linguaggio e metalinguaggio: distinzione evidentemente impossibile nel complesso del linguaggio naturale. Sono questi i motivi principali che spinsero Tarski a costituire la sua defi-
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nizione per linguaggi formalizzati i quali offrono appunto almeno due vantaggi: 1) sono totalmente dominabili da un punto di vista sintattico; 2) permettono la rigorosa separazione di livelli che abbiamo riconosciuto necessaria per superare le antinomie. È allora opportuno vedere come Tarski affronta e risolve il problema per i linguaggi formalizzati. Per comodità noi ci riferiremo a un linguaggio predicativo del primo ordine, tenendo presente che si tratterà, nella sostanza, di dare una definizione di verità che per così dire comprenda come casi particolari tutte le equivalenze di forma T riferite alle formule chiuse del nostro linguaggio; e che tale definizione dovrà far sì che a ognuna di tali formule spetti almeno uno e al massimo uno dei due valori di verità Vero o Falso.! Occorre ancora tuttavia fare una precisazione. Noi vogliamo definire la verità per enunciati, vale a dire per formule chiuse del nostro linguaggio formalizzato. Ora per le formule chiuse ci troviamo di fronte a una difficoltà analoga a quella constatata per il linguaggio naturale: le formule chiuse « composte » non sono formate a partire da formule chiuse « semplici » bensì, genericamente, da formule; allora noi non possiamo stabilire univocamente i passi di formazione per formule chiuse, mentre ovviamente ciò è possibile, per la loro stessa costruzione, per le formule in generale. Tarski allora pensa di sfruttare questa dominabilità strutturale dell'insieme delle formule definendo dapprima il concetto di soddisjacibilità per formule in generale, dal quale poi ricava il concetto di verità per formule chiuse. Dato allora un linguaggio L del primo ordine (che per comodità supponiamo abbia i soli connettivi di negazione é: disgiunzione e il solo quantificatore esistenziale), una interpretazione I di L sarà ora una coppia costituita da un dominio (non vuoto) D e da una funzione g che associa a ogni costante (individuale, predicativa o funzionale) di L una ben determinata entità del (o sul) dominio (rispettivamente: un individuo, una relazione fra individui, una operazione fra individui). Per quanto riguarda le variabili individuali esse saranno intese variare su D, cioè ad esse (a differenza che alle costanti individuali) g non assegna alcun individuo fissato del dominio. Data ora una interpretazione /, consideriamo tutte le successioni infinite di individui del dominio D 2 e indichiamo una generica di tali successioni con s; r In altri termini, la definizione deve essere tale da permettere di derivare da essa tutte le equivalenze di tipo T e principi quali quello di non contraddizione (non possono essere entrambe vere due proposizioni una delle quali sia la negazione dell'altra) e del terzo escluso (due proposizioni siffatte non possono essere entrambe false). 2 Questa, che può sembrare una grossa complicazione, si rivela in effetti una enorme semplificazione; si tenga sempre conto del fatto che in tutto questo discorso la difficoltà è proprio quella di adeguare rigorosamente concetti che abbiamo visto essere ampiamente usati si può
dire «da sempre» in senso intuitivo. Va da sé che la complicazione è solo apparente nel senso che si riesce a dimostrare facilmente che la soddisfacibilità di una data formula F dipende, in una data interpretazione, non da tutti gli infiniti individui di una successione, ma solo da quelli (e sono certamente in numero finito) che «corrispondono » alle variabili libere contenute in F. Si osservi infine che, dal momento che il dominio D è per ipotesi non vuoto, esiste sempre almeno una successione infinita di elementi di D. Nel caso banale che D contenga un solo individuo a, tale successione sarà proprio s= (a, a, a, ... ).
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per ognuna di queste successioni si fissa in un qualche modo (ad esempio, definendo una funzione in corrispondenza ad ogni successione) l'associazione delle variabili agli individui della successione: ad esempio si può fare in modo di associare all'i-esima variabile Xi l'i-esimo individuo della successione considerata. Ciò posto, si tratta di definire il senso della frase: « la successione s soddisfa la formula d nell'interpretazione data». La definizione avviene ovviamente per induzione sfruttando il modo di costruzione delle formule. Inizieremo quindi con le formule atomiche, che avranno in generale, come sappiamo, la forma Pik (x1, x2, ... , xk)· Diremo allora che la successione s soddisfa la formula Pik (x1, ... , xk) se, essendo P la relazione su D che, nella interpretazione l, .~ ha assegnato alla costante predicativa Pik, e b1, b2, ... , bk gli individui della successione s associati alle variabili X1, x 2, ... , xk, gli individui in questione stanno nella relazione P (ossia, in termini intuiti vi, se la proposizione P b1 b2 ... h è vera). Induttivamente, poi diremo che s soddisfa -----,d se e solo se s non soddisfa d; e che s soddisfa .sY' V f1l se e solo se o s soddisfa d o s soddisfa f!l. Per quanto riguarda i quantificatori (ci limitiamo, come detto, all'esistenziale) diremo che la successione s soddisfa la formula ::lxi d se e solo se esiste una successione s' che differisce da sal più per l'i-esimo posto (e si noti che s è in particolare una tale successione) e s' soddisfa d.l A questo punto giungiamo alla desiderata definizione perché diremo che una formula d è vera in una data interpretazione I= se tutte le successioni soddisfano d (falsa se nessuna la soddisfa). E diremo infine che una formula d è logicamente vera o valida se, comunque si scelga l'interpretazione, d risulta vera. Si osservi ancora che le nozioni qui definite sono proprio le intuitive e normali nozioni che ognuno di noi ha certamente « chiare »; la difficoltà sta 1 Ribadiamo che quello delle successioni è un mero espediente tecnico di sistematizzazione (e infatti la definizione si può dare anche in modo diverso; noi ci siamo attenuti a questo per restare aderenti quanto più possibile al discorso di Tarski). La sostanza della questione sta nel fatto che con questo metodo si possono in qualche modo «dominare» gli individui . del dominio D in modo tale da recuperare poi le intuitive accezioni semantiche. Supponiamo ad esempio di considerare la teoria \jl (si veda il paragrafo m. r) e, in essa, la semplice formula atomica .# = = P 2 r xr x2. Sia I = una interpretazione con D = N = {o, r, 2, 3, ... } e g(P 2 1) = la relazione~ definita su N. Consideriamo ad esempio la successione s = (7, 9, 21, r, 5, ... ). Per quanto stabilito, a xr corrisponderà 7, a x2 corrisponderà 9· Sicché avremo che .w diverrà sotto questa interpretazione 7 ~ 9, ossia s soddisfa la formula in questione sotto l'interpretazione data. Mantenendo la stessa interpretazione e la stessa .w, la successione s' = (rz, 3, 5, 14, ... ) non soddisfa la
formula data perché 4uesta ora risulta « tradotta » in 1 2 ~ 3. In altri termini, .w sarà soddisfatta in I da tutte e sole quelle successioni il cui primo elemento è minore o uguale al secondo elemento; in definitiva da tutte quelle coppie di numeri (a, b) con a ~ b. E la definizione è posta in modo tale che la soddisfacibilità di una formula da parte di una successione s in una data interpretazione I dipenda in effetti soltanto dalle variabili libere che essa contiene, ossia dai particolari valori che si danno a quelle variabili nell'interpretazione. Ne viene che in particolare la soddisfacibilità di una formula chiusa F non dipende dalla particolare successione scelta (in una data interpretazione) nel senso che o ogni successione soddisfa F o nessuna successione la soddisfa: per formule chiuse cioè soddisfacibilità e verità (in una data interpretazione) coincidono; il che, ancora, rende il fatto intuitivo che una proposizione (corrispettivo semantico intuitivo di una formula chiusa) è vera o falsa.
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nel darne una definizione rigorosa e matematicamente usufruibile e dominabile. Ad esempio, la nozione di modello di una teoria ::r (di un insieme di proposizioni /') acquista ora un preciso significato: diremo che un 'interpretazione I è modello di una teoria ::r (dell'insieme I') se e solo se tutti gli assiomi di ;:r (tutti gli elementi di /') sono veri in /. Non solo, ma diviene allora chiaro in che senso preciso si parli di strutture come possibili modelli di teorie. In particolare, si è ora in grado di precisare la vaga nozione di conseguenza logica di cui il concetto di derivabilità logica- che aveva già da tempo trovato (in particolare, abbiamo visto, con Hilbert) una sistemazione ineccepibile e soddisfacente- si poteva considerare come corrispettivo sintattico. Ora infatti diremo che una formula ~ è conseguenza logica di una formula d (o, in generale, di un insieme di formule T) se e solo se in ogni interpretazione, ogni successione che soddisfa d (o che soddisfa simultaneamente tutte le formule di F) soddisfa anche ~. Potrebbe ora sembrare che, dal momento che la definizione di verità (o di soddisfacibilità) per una teoria avviene nel metalinguaggio della teoria stessa, impiegando l'aritmetizzazione di Godel si possano mettere le cose in modo tale che - come le nozioni sintattiche possono essere riportate senza contraddizioni nella teoria - lo stesso avvenga per le nozioni semantiche; orbene, questo non succede e anzi, un famoso teorema di Tarski afferma che non è possibile definire in una teoria la nozione di verità per la teoria stessa senza cadere in contraddizione: ciò significa, altrimenti detto, che per poter definire le nozioni semantiche non solo dobbiamo porci nel metalinguaggio, ma quest'ultimo deve essere essenzialmente più ricco del linguaggio oggetto; in particolare deve far uso di un'ampia porzione di teoria degli insiemi. Se chiamiamo sintatticamente chiuse le teorie che possono esprimere la propria sintassi, e semanticamente chiuse le teorie che possono esprimere la propria semantica, i risultati di Godel e Tarski ci dicono da una parte che è possibile avere teorie noncontraddittorie sintatticamente chiuse (le quali però risultano, come abbiamo visto, (sintatticamente) incomplete e in particolare non riescono a dominare un'importantissima proprietà sintattica, quella della noncontraddittorietà); dall'altra che è impossibile, pena il presentarsi dell'antinomia del mentitore, avere teorie semanticamente chiuse. Detto in altro modo: noi sappiamo che, via aritmetizzazione, possiamo assegnare a ogni formula (in particolare a ogni formula chiusa) di una data teoria un numero, precisamente il numero di Godei di quella formula; possiamo allora considerare l'insieme C 1 dei numeri di Godel dei teoremi della teoria e l'insieme T1 dei numeri di Godel delle proposizioni vere della stessa teoria. Il discorso precedente può allora riassumersi dicendo che i due insiemi C1 e T1 non coincidono e questo proprio perché mentre C1 è« rappresentabile »nella teoria, tale non è T1. Si noti che, come nel caso del teorema di Godei, questa situazione si presenta per qualunque teoria « sufficientemente potente >>. È questa una ulteriore conferma (ora stabilita con discorso rigoroso da entrambi i punti di vista, sintattico e 32.8
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semantico) dell'impossibilità in generale di rispecchiare adeguatamente, a livello sintattico, il momento semantico; dell'impossibilità cioè- presupposta in modo fondamentale ed essenziale dal programma hilbertiano- che la nozione (semantica) di verità venga in foto sostituita da quella (sintattica) di dimostrabilità. Questa impossibilità di traduzione aritmetica è d'altra parte la conferma del carattere irrimediabilmente infinitario delle nozioni semantiche che quindi debbono essere « trattate » in teorie particolarmente potenti, quale appunto la teoria degli insiemi. In questa prospettiva la definizione di verità data da Tarski acquista un significato centrale nel progetto di edificazione di una « metamatematica » (o metodologia delle scienze deduttive, come Tarski la chiama) che si pone come alternativa a quella finitista hilbertiana. Questo non solo a livello programmatico, ma più concretamente a livello storico. Come vedremo in seguito, le ricerche di Tarski aprirono la via ad un'analisi delle teorie che se pure - date le assunzioni forti di cui necessita - non poteva immediatamente aspirare ad un ruolo fondante, ha tuttavia un grande interesse matematico diretto e, sia pure indirettamente, anche fondazionale. È nella definizione tarskiana infatti che si innestano quelle indagini sulla semantica e la teoria dei modelli che costituiscono oggi uno dei punti di contatto più rilevanti fra pratica matematica e ricerca logica. Un ultimo cenno ancora al problema della semantica del linguaggio naturale. In certo senso si può tranquillamente affermare che il linguaggio naturale, il più potente mezzo ~uistico di espressione di cui disponiamo, è semanticamente chiuso; da ciò deriva per il teorema di Tarski l 'impossibilità di una definizione non contraddittoria del concetto di verità per il linguaggio stesso. Abbiamo detto « in un certo senso » perché al linguaggio naturale non si possono applicare direttamente e senza problemi le conclusioni di Tarski proprio perché non si tratta di un linguaggio « formalizzato ». Tarski tuttavia affermava appunto l'impossibilità di stabilire una rigorosa semantica (teoria del significato) per il linguaggio naturale, sostenendo che quanto era possibile fare era al massimo questo: considerare linguaggi formalizzati che si discostassero « il meno possibile » dal linguaggio naturale e a questi linguaggi di approssimazione applicare la teoria sopra esposta. Si noti in particolare che un grosso ostacolo a tale applicazione nel caso del linguaggio naturale è costituito dalla componente intensionale propria a certi termini e contesti di questo linguaggio, non presente ovviamente nei linguaggi formalizzati da noi considerati, che sono costruiti e interpretati in modo rigorosamente estensionale. Come ricorderemo tuttavia più avanti (paragrafo v) in tempi recenti, la linguistica, avendo a disposizione semantiche più «articolate» di quella di Tarski, che sono state originate dalla necessità di fornire una controparte interpretativa soddisfacente per i linguaggi m o dali (o intuizionistici) ha affrontato globalmente anche questo problema, seguendo quella che appunto viene detta la « linea di Tarski ». Si noti ancora che anche nel caso
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di queste nuove semantiche (cui accenneremo nel paragrafo v) la sistemazione di Tarski resta come sfondo generale, come momento di motivazione, e si ritrova comunque come caso particolare.
3) La «formalizzazione» della logica e della matematica intuizioniste Dopo quanto già detto in proposito nel paragrafo III.4, presentiamo la sistemazione di Heyting e i principali concetti della matematica intuizionista. Sappiamo già che Brouwer non ammetteva la formalizzazione e l'assiomatizzazione proprio per ribadire l'indipendenza della matematica intuizionista dalla logica e dal linguaggio formale; sicché, come dice John M yhill, c'è da chiedersi se parlare di « formalizzazione » dell 'intuizionismo non sia una contradictio in adiecto. Il fatto che Heyting intraprendesse questo compito non deve però far credere che egli avesse in proposito idee diverse da quelle di Brouwer, e non deve creare il fraintendimento di una diversa e mutata concezione intuizionista a riguardo. Abbiamo messo in luce in paragrafi precedenti qual è il senso e il significato che ebbe in generale questa operazione di « formalizzazione ». Nel 1930, accingendosi a presentare il suo sistema, Heyting infatti ribadisce ancora che « la matematica intuizionista è un processo mentale e ogni linguaggio, incluso quello formalistico, è solo un ausilio per la comunicazione. È impossibile in linea di principio costruire un sistema di formule equivalente alla matematica intuizionista, poiché le possibilità di pensare non possono essere ridotte a un numero finito di regole costruite anticipatamente »; anche se questa separazione fra linguaggio e matematica non va intesa in senso assoluto come risulta dalle seguenti parole del 1946 : « L 'intuizionista... non cerca il rigore nel linguaggio ma nello stesso pensiero matematico. Nello stesso tempo mi sembra contraddire la realtà supporre che la matematica intuizionista nella sua forma pura consista solo di costruzioni nel pensiero del singolo matematico, costruzioni che esistono indipendentemente l'una dall'altra e fra le quali il linguaggio pone una connessione molto tenue ... L'intuizionista usa quindi il linguaggio ordinario come il linguaggio simbolico in quanto ausilio alla memoria. Dobbiamo guardarci dall'immagine fittizia del matematico con la memoria perfetta che potrebbe lavorare senza l'aiuto del linguaggio. Nella ricerca matematica concreta il linguaggio è coinvolto in modo essenziale fin dall'inizio; la matematica come ci si presenta, convertita in espressioni linguistiche, non è preceduta da una fase completamente staccata dal linguaggio, ma è preceduta da una fase nella quale il ruolo del linguaggio è molto meno importante che nella comunicazione.» Ancora un'osservazione per quanto riguarda in particolare la concezione di Heyting circa il metodo assiomatico, al quale egli ascrive due differenti funzioni: una funzione creativa, ad esempio nella teoria classica degli insiemi dove per così dire assicura l'esistenza di oggetti non garantita da alcuna costruzione; e una funzione descrittiva che si esplica nel suo impiego come sistemazione ed abbreviazione. In que-
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st'ultima accezione l'impiego del metodo assiomatico è legittimo anche nella matematica intuizionista. Anche se oggi sono correnti altri sistemi più «trasparenti» per la logica intuizionista (e del resto ne vedremo uno noi stessi nelle prossime pagine) preferiamo dare il sistema logico originale di Heyting come presentato in Die forma/et/ Regeln der intuitionistischen Logik (Le regole formali della logica intuizionista, 1930) (e successivamente dell'aritmetica in Die formalen Regeln der intuitionistiscben lv.fathematik, n, m, (Le regole formali della matematica intttizionista, r 9 30)). Per la logica proposizionale Heyting propone i seguenti schemi di assioma, con l'unica regola di separazione:
Hr:
Hz: H3: H4: H5:
H6: H7: HS: H9: Hro: HII:
d --'; (d 1\ .sd) (d 1\ PlJ) --'; ( fJ 1\ d)
(d--'; PJ) -+((d 1\ ~--'; (PJ 1\ "6')) ((d--'; PJ) 1\ ( fJ--'; "6')) -+(d--'; "6') fJ --'; (d --'; fJ?J) (d 1\ (d--'; PJ)) --'; fJ?J d -+(dV PJ) (dV PJ) -+(fJ?JV d) ((d-+ "6')/\ (fJ-+ "6'))-+((dV fJ?J)-+ -----,d ~(d --'; fJ?J) ((d--'; fJ?J) --';(d--';-----, fJ?J)) --';-----,d
~
Per la logica predicativa, oltre agli schemi Hr-Hu, Heyting aggiunge i due schemi di assioma Hrz: Hr3:
'v'xd-+d(x/y) d(x/y)-+3xd(x)
e le regole
d --'; fJ?J (x /y) f - d-+ 'v'x fJ (x) f-
e
ff-
d (x /y) -+ fJ?J 3x d (x)__, fJ?J
sottoposte alle solite restrizioni sulle variabili. Naturalmente occorre fare attenzione a non interpretare « classicamente » i connettivi e gli operatori logici che figurano nelle espressioni precedenti; sappiamo già ad esempio delle differenze nell'interpretazione della negazione, dei quantificatori e conviene anche osservare che un punto delicato è quello dell'interpretazione del connettivo di implicazione, dal momento che, intuizionisticamente, un'espressione quale p-+ q non ha alcun significato quando non si conoscano già i «valori» di p e q. Di interpretazioni dei connettivi intuizionisti ne sono state date parecchie, e vogliamo qui ricordare le due principali, in ter-
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mini di costruzioni e di problemi. A proposito comunque dell'interpretazione degli operatori logici, conviene premettere un'osservazione generale di John Myhill secondo il quale «per comprendere l'intuizionismo è necessario aver ben chiaro fin dall'inizio che il processo di spiegare una nozione logica intuizionistica è diverso dallo stesso processo relativo a una nozione classica. Quest'ultima viene spiegata fornendo delle condizioni di verità per le proposizioni nelle quali essa interviene... la prima dando delle condizioni di asseribilità ... » I Inizialmente Heyting in Sur la logique intuitionniste (Sulla logica intuizionista) del 1930 e nel già ricordato La fondazione intuizionista della matematica, propone di interpretare una proposizione p come «l'intenzione di una costruzione matematica che deve soddisfare a condizioni determinate. La dimostrazione di una proposizione consiste allora nella realizzazione della costruzione che essa richiede: p--+ q rappresenta allora l'intenzione di una costruzione che, da ogni dimostrazione per p, conduce a una dimostrazione per q». In generale comunque, «una funzione logica è un metodo che trasforma ogni data asserzione in un'altra asserzione. La negazione è una tale funzione, il cui significato è stato descritto molto accuratamente da Becker, in accordo con Husserl. Secondo lui, la negazione è qualcosa che ha carattere positivo, precisamente l'intenzione di una contraddizione connessa con l'intenzione originale». E ancora «p V q rappresenta l'intenzione che è soddisfatta se e solo se almeno una delle due intenzioni p e q è soddisfatta. La formula che esprime la legge del terzo escluso è p V -,p. Per una data asserzione p, questa legge può essere asserita se e solo se o è stato dimostrato p o p è stato ridotto a una contraddizione. Quindi una dimostrazione per la legge del terzo escluso dovrebbe consistere in un metodo che permette, data una qualunque asserzione, o di dimostrarla o di dimostrare la sua negazione». Questa prima interpretazione comporta una distinzione fra l'asserzione «p» e l'asserzione «p è stato dimostrato», cui Heyting dedica alcune considerazioni nei due articoli sopra citati. Successivamente però egli abbandona questa interpretazione sostituendola con la considerazione delle formule logiche come esprimenti semplicemente costruzioni, col che ovviamente scompare la distinzione precedente, in quanto ora una proposizione p può essere asserita se e solo se si è in grado di realizzare la costruzione che essa esprime. Un'altra interpretazione viene suggerita nel 1932 da Kolmogorov in Zur I Assai chiarificatrice ci sembra anche la seguente immagine, sempre riportata da Myhill, che la accredita a Hao Wang: «Nel linguaggio di Wang ... l'intuizionismo è una matematica del conoscere e la matematica classica è una matematica dell'essere. L'immagine è: in entrambe le concezioni il matematico ha di fronte un blocco di sassi (proposizioni) che è occupato a dividere in vere e false, sicché in ogni momento si hanno tre blocchi chiamati" note-come-vere"," note-come-
false", "(finora)-incognite ". La differenza è che nella concezione classica, ma non in quella intuizionista, i sassi del terzo blocco sono tutti contrassegnati con V [vero] o F [falso] prima ancora della scelta, nozione questa che l'intuizionismo riguarda come teologica. Questa differenza concerne non solo il contenuto dell'intuizionismo, ma [anche] il modo col quale noi chiarifichiamo i suoi concetti. »
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Deutung der intuitionistischen Logik (Per l'interpretazione della logica intuizionista) ave una proposizione viene intesa come esprimente un problema, sicché il calcolo ora diviene un calcolo di problemi.l Considerando le due interpretazioni sopra esposte, si possono così riassumere l'interpretazione dei connettivi e le condi?.ioni di asseribilità (f-) di una proposizione. Con d(x) si intenda una proprietà di cui gli enti di un certo tipo possono godere, rispettivamente un problema sensato per enti di un certo tipo. Avremo allora:
d
f-d
Heyting -------------.. esprime una proposiziOne d una costruzione (matematica) -è stata eseguita la costruzione espressa da d
Kolmogorov una proposizione d esprime un problema matematico è stato risolto il problema espresso da d
-------
f---,d
supposta eseguita la costruzione espressa da d si può effettivamente costruire una contraddizio ne
supposto risolto il problema espresso da d si può effettivamente ottenere una contraddizio ne
f-dl\f!l
è stata eseguita tanto la costruzio ne espressa da d quanto quella espressa da /}#
è stato risolto tanto il problema espresso da d quanto quello espresso da fJI
f-dV f!l
è stata eseguita la costruzione espressa da d oppure quella espressa da fJI
è stato risolto il problema espresso da d oppure quello espresso da fJI
f-d~f!l
si sa eseguire effettivamente la costruzione espressa da fJI ogniqualvolta si sa eseguire la costruzione espressa da d
si sa effettivamente riportare la soluzione del problema espresso da fJI a quella del problema d
3xd(x)
si sa effettivamente indicare un individuo che gode della proprietà d(x)
si sa effettivamente risolvere il problema d(x) per un dato individuo x
Vxd(x)
per ogni particolare elemento x si può far vedere che gode di d
si può risolvere il problema .91 per ogni particolare elemento dato
r Nel 1936 S. Jaskowski in Recherches sur le .rystème de la logique intuitionniste (Ricerche sul sistema
della logica intuizionista) dimostra un teorema che
riporta la dimostrabilità di nna formula intui-
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Si noti che contrariamente all'interpretazione classica dei connettivi (come funzioni di verità) e dei quantificatori (come funzioni da insiemi di valori di verità a valori di verità) con queste interpretazioni essi non sono intcrdefinibili ossia sono, come sappiamo, indipendenti. Combinando le interpretazioni per la negazione e la disgiunzione si vede subito che il terzo escluso non vale, in quanto esso verrebbe a significare o l'effettuabilità di ogni costruzione o equivalentemente la risolubilità effettiva di ogni problema matematico. Ora, dice Heyting, « affermare questo principio senza che esista un metodo generale di risoluzione per i problemi matematici non può essere giustificato se non riferendosi alla convinzione che la soluzione, se incognita, debba ciononostante essere definita in qualche modo; ma ciò significherebbe porre alla base delle considerazioni matematiche un principio filosofico, il che abbiamo riconosciuto ... come inaccettabile ». Analogamente le interpretazioni sopra date non consentono di accettare nella logica intuizionista l'implicazione-, ----,p---+ p (mentre evidentemente vale il viceversa p---+----, ----,p), sicché intuizionisticamente, a differenza di quanto avviene nella logica classica, non si ha l'equivalenza tra una proposizione e la sua doppia negazione. Interessante anche è notare che Brouwer ha dimostrato la validità intuizionista della negazione della negazione del terzo escluso, ossia la formula ----,-l (PV ---,p) che è equivalente a ---,(,p + - l ,p), il che esprime il principio brouweriano dell'assurdità dell'assurdità del principio del terzo escluso. In altri termini questo principio non ha intuizionisticamente (come invece avviene nel caso classico) validità universale, ma non viene universalmente refutato. Volendolo esprimere in altro modo, non si può dare un problema dimostrabilmente insolubile: « quando ci si limiti ai problemi costruttivi, » dice Heyting, « non se ne può dare uno che sia dimostrabilmente insolubile, ma l'ipotesi che tutti problemi siano risolubili si dimostra ingiustificata ». Dal punto di vista della sistemazione formale, l'aritmetica intu1z1onista è basata su tutti gli assiomi logici e sugli usuali assiomi di Peano (abbiamo già visto che intuizionisticamente questi ultimi erano tutti - salvo l'induzione che diveniva un facile teorema - proposizioni evidenti). Dopo la pubblicazione dei lavori di Heyting vengono dimostrati alcuni importanti teoremi sui rapporti fra logica e aritmetica classiche e intuizioniste. Per quanto riguarda la logica, è chiaro intanto che tutte le formule accettate dagli intuizionisti sono valide classicamente, quindi il calcolo logico intuizionista è certamente contenuto propriamente in quello classico. Un primo interessantissimo risultato viene ottenuto nel r 9 33 da Go del in Zur intuitionistischen Arithmetik und Zahlentheorie (Sull'aritmetica e la teoria dei numeri intuizioniste). Egli vi dimostra zionista proposizionale alla sua validità in opportune matrici; nel 1938 Tarski in Der Aussagenkalkii! und die T opo!ogie (Il calcolo proposizionale e la topologia) impiega questo teorema per dare un'interpretazione topologica del calcolo proposizio-
nale intuizionista che formalmente si può riportare a una enunciazione su matrici e che permette di ricavare per questa interpretazione un teorema di completezza per tale calcolo.
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intanto che il calcolo proposizionale classico (CPC) è un sottosistema del calcolo proposizionale intuizionista (CPI); risultato che, assieme al precedente, sembrerebbe poter far concludere per la coincidenza dei due sistemi. Le cose naturalmente non stanno così: nella (ovvia) dimostrazione CPI c CPC si lasciano inalterati i connettivi, sicché la traduzione delle formule intuizioniste in quelle classiche è identica: se d vale intuizionisticamente, allora d' vale anche classicamente. È chiaro tuttavia che questa traduzione non è per così dire «fedele» (dal punto di vista intuizionista) proprio per le diverse interpretazioni che nei due casi ricevono i connettivi. L'implicazione inversa, CPCc CPI dimostrata da Godei è invece fedele in questo senso, cioè rappresenta la logica classica su quella intuizionista traducendo opportunamente le formule valide della prima in formule valide della seconda mediante una « traduzione » delle stesse che non « tocca » i significati classici dei connettivi, pure interpretandoli correttamente dal punto di vista intuizionista. Sicché ora, data una formula d' in CPC, Godei le associa una formula d'* (in generale diversa da d') valida in CPI. Il passaggio avviene traducendo le nozioni classiche ---,p, p ~ q, p V q, p 1\ q nelle corrispondenti nozioni intuizioniste -,p, ---,(p 1\ ---, q), ---, (---,p 1\ ---, q), p 1\ q.l Si può estendere ii risultato al calcolo dei predicati traducendo il quantificatore esistenziale 3x in ---,V x---, (lasciando invariato l'universale). Ora Godei dimostra che la stessa relazione vale fra l'aritmetica di Peano basata sulla logica classica (Godei si riferisce a una variante di un sistema dato da Herbrand nel 193 1) e quella basata sulla logica intuizionista: anche in questo caso si possono interpretare le nozioni classiche in termini di nozioni intuizioniste in modo che « tutti gli assiomi classici diventino proposizioni dimostrabili anche per l'intuizionismo »; e anche ora si tratta di associare opportunamente ad ogni formula classica s# la sua traduzione d'*, in modo tale che se d'è dimostrabile nell'aritmetica classica, d'* sia dimostrabile nell'aritmetica di Heyting. 2 Non ci fermeremo qui sulla definizione di tale «traduzione» o interpretazione e ci limitiamo a riportare le parole conclusive dell'articolo, veramente illuminanti. « La dimostrazione qui effettuata, » afferma Go del, « mostra che l' aritmetica e la teoria dei numeri intuizioniste sono solo apparentemente più ristrette delle versioni classiche, e in effetti le contengono (impiegando un'interpretazione alquanto deviante). r Ad esempio, la tautologia classica sd =
=p---> (q-> p) diventerebbe .W*=--, (p 1\--,--, (q/\
1\--, p)) e .W* risulta ora valida intuizionisticamente; se si= pV--, p ossia il terzo escluso, si avrà .w* =--, (--,p/\--,--, p) c così via. Si comprende meglio il senso di tutto il discorso se si pensa che la traduzione identica (da CPI a CPC) non può essere intuizionisticamente adeguata dal momento che l'interpretazione intuizionista dei connettivi richiede ad esempio una distinzione fra le due formule p c ---, ---, p che invece risultano, come sappiamo, classicamente equivalenti. F.
chiaro allora come avendo viceversa a disposizione questa analisi più « sottile » si possa operare in modo fedele il passaggio inverso. 2 Questo risultato dà evidentemente una dimostrazione di consistenza intuizionistica per l 'aritmetica «classica >> di Peano. « È notevole,>> osserva Mostowski, « che questa dimostrazione risulti essere così semplice mentre non esistono dimostrazioni di consistenza strettamente finitiste. Quindi l'aritmetica di Peano basata sulla logica intuizionista contiene molti elementi non finitistici. >>
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La ragione di ciò sta nel fatto che la proibizione intuizionista di negare proposizioni universali per formare proposizioni puramente esistenziali viene resa inoperante ammettendo l'applicazione del predicato di assurdità alle proposizioni universali, il che formalmente conduce esattamente alle stesse proposizioni come sono asserite nella matematica classica. L 'intuizionismo sembrerebbe risultare una genuina restrizione solo per l'analisi o la teoria degli insiemi e queste restrizioni sono il risultato non della negazione del tertium non datur, ma piuttosto della proibizione di concetti impredicativi. Le considerazioni precedenti danno ovviamente una dimostrazione di consistenza per l'aritmetica e la teoria dei numeri classica. Tuttavia questa dimostrazione è certamente non " finitaria" nel senso dato da Herbrand seguendo Hilbert. » Per finire, vediamo quelli che sono i principali concetti dell'Analisi intuizionista; a questo proposito sarà purtroppo impossibile andare sostanzialmente al di là di brevi cenni, a causa della complessità delle esplicazioni tecniche che sarebbero necessarie per un discorso anche solo leggermente più articolato. Ribadiamo comunque che tutta l'attività di Brouwer, che dal 1918 in poi, in una serie iii?pressionante di lavori, viene costruendo una « teoria intuizionistica degli insiemi» e su di questa basa la ricostruzione della topologia e dell'analisi intuizioniste, tutta questa attività dicevamo non si pone lo scopo di ricostruire la matematica intuizicrnista come parte della matematica classica, bensì come la matematica, l'unica possibile per chi accetti l'atteggiamento intuizionista, il solod 'altra parte - che offra garanzie di costruttività ed effettività. Noi daremo appunto i concetti « insiemistici » fondamentali e la « spiegazione » che su questa base Brouwer dà del continuo; allo scopo ci riferiremo a tre lavori di Brouwer: Intuitionistische Mengenlehre (Teoria degli insiemi intuizionista, 1919), Zur Begriindung der intuitionistischen Mathematik (Sulla fondazione della matematica intuizionista, 1, n, m, 1925-26) e Uber Definitionbereich der Funktionen (Sul dominio di definizione delle funzioni, 1927), ma soprattutto alla limpida esposizione di Heyting; in Intuitionism; an introduction (Intuizionismo. Un'introduzione, na ed., 1966). La teoria intuizionista del continuo è basata sulla nozione di « insieme » di Brouwer; l la quale a sua volta si spezza per così dire in due: da una parte si può pensare di definire un insieme dando un metodo di generazione per i suoi elementi, dall'altra si può dare invece una proprietà caratteristica degli elementi stessi. Il primo caso viene realizzato nella matematica intuizionista definendo il concetto di spiegamento; il secondo definendo il concetto di specie. Il primo di questi concetti, in particolare, precisa a livello di matematica intuizionista il concetto classico di successione, euristicamente sostituito da Brouwer con quello di successione infinitamente proseguibile (sip) o successione di libera scelta, «i cui termini r In un primo momento Brouwer considera il continuo come dato direttamente e immediatamente dall'intuizione del tempo. In seguito intro-
duce la nozione di successione di scelta di cui si riferisce nel testo.
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La:.l?gica nel ventesimo secolo (I)
vengono scelti più o meno liberamente da entità matematiche precedentemente ottenute ».1
Uno spiegamento M è ora definito da due leggi:
I) la legge di spiegamento
S.~~-~,
che regola la scelta di numeri naturali, e
2) la legge complementare CM che assegna una successione di entità matematiche a ogni sip di numeri naturali generata secondo SM. Più in particolare, una legge di spiegamento SM è una regola S che divide le sequenze (successioni finite) di numeri naturali in ammissibili e non ammissibili come segue:
a) S specifica per ogni dato numero naturale k se esso è ammissibile o no; b) Se a0 , a1, ... , an è una sequenza ammissibile, allora S specifica se a0 , a1, ... , an, k (k numero naturale) è ammissibile o no, e in modo tale che per ogni data sequenza a0 , a1, ... , an si può trovare almeno un k tale che a0 , a1, ... , an, k
è ammissibile. A questo punto la legge complementare C M assegna una data entità matematica a ogni successione finita ottenuta tramite SM. 2 Del concetto di specie Brouwer dà a più riprese diverse definizioni: in particolare nel I 92 5 in Zur Begriindung der intuitionistischen .iWathematik, I (Per la fondazione della matematica intuizionista, 1) ove distingue specie di vari ordini; e ancora, ad esempio nel I95 3, in Points and spaces (Punti e spazi) dove più in generale definisce le specie come « proprietà che si possono supporre godute da entità matematiche precedentemente acquisite e soddisfano la condizione che se esse valgono per una certa entità matematica, esse valgono anche per tutte le entità matematiche che sono state definite come uguali ad essa ». Più semplicemente per questa seconda nozione intuizionista di « insieme » si può assumere con Heyting « una proprietà che si può supporre goduta da enti matematici ». Prima di giungere al corrispettivo intuizionista del concetto classico di continuo, dobbiamo introdurre ancora il concetto di « generatore di numero reale ». Questo viene definito a partire dal concetto di successione fondamentale (si ricordi il paragrafo I La nozione di successione di libera scelta non è tuttavia mai stata chiarita in modo esauriePte da Brouwer. Anzi vedremo che le più moderne ricerche sulla matematica intuizionista sono in parte dirette proprio al chiarimento della non univoca determinazione di tale concetto. z Consideriamo ad esempio il seguente spiegamento (che prendiamo da Casari): I) SM: a) come termine ao è ammesso il solo numero I
b) se la sequenza ao, a1, ... , an è ammissibile, allora è anche ammissibile la sequenza ao, a1, ... , an, an+l, purché si prenda come an+ 1o Zan o zan +I. Si avrebbe allora, come esempio di sequenza ammissibile: 1, z, 5, IO ecc.
z) CM: alla sequenza ao, ... , an ammissibile in conformità con 1) si associa il numero razionale
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2 n+l
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n del capitolo xn del volume sesto) di numeri razionali; come si ricorderà, una successione (an) di numeri razionali viene detta fondamentale (o di Cauchy, o convergente) se per ogni numero naturale k è possibile trovare un numero naturale n = n(k) tale che per ogni numero naturale p valga lan+p- ani < I jk. Orbene un generatore di numero reale è null'altro che una successione fondamentale (an) di numeri razionali: naturalmente con l'ovvia ed essenziale condizione che sia effettivamente possibile mostrare che (an) è una tale successione, vale a dire che quel « è possibile trovare ... » che abbiamo sopra scritto in corsivo vada inteso non solo come esistenza di n ma come possibilità effettiva di trovare tale numero. Tralasciamo qui di introdurre le relazioni e le operazioni fra generatori di numero reale, peraltro interessantissime perché assai più «raffinate» di quelle classiche; ci limitiamo a ricordare che è ovviamente possibile considerare successioni di generatori di numeri reali e se (an) è una di tali successioni, si dice che essa converge al limite {J se e solo se per ogni naturale k è possibile trovare un numero naturale n tale che per ogni naturale p
lfl- an+pl
r)-> ((PV q)-> (PV r)). Con i concisi chiarimenti che faremo seguire il lettore dovrebbe essere in grado di « ricostruire » le regole applicate. L
2.
3· 4· 5. 6. 7· 8.
9·
[q-> r] q-->r [q] q [q-> r, q] r [q-> r, q] PV r [p] p (p] pv r [PV q] PV q [q->r,pV q] PV r [q-> r] (PV q) -+(pV r)
Ass. Ass. E---+-, I, 2 IV, 3 Ass. IV, 5 Ass. EV, 4, 6, 7 I->, 8
IO.
(-j
(q->r)-> I->,9 ->((pV q) ->(PV r))
Nelle righe 1, 2, 5 sono state introdotte delle assunzioni, il che è indicato con un Ass. a destra delle righe corrispondenti. Nella riga 3, ad esempio, è stata applicata la regola di eliminazione di --> alle (formule delle) righe 1, 2. La «meno ricostruibile » delle regole sopra applicate è forse la EV. Essa avviene con questo elementare ragionamento: se entrambi i corni p, q di un dilemma (p V q, riga 7) permettono di derivare (eventualmente con altre assunzioni) una stessa formula (nel nostro caso, p V r, righe 6, rispettivamente, 4) allora possiamo eliminare il dilemma stesso affermando la formula così ottenuta (riga 8).
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(m= o) che si riducono alla formula---, (d1 /\ d
2 /\ ••• /\ dk), vale a dire l'antecedente vuoto significa una assunzione vera, il conseguente vuoto una conclusione falsa. Può anche aversi una sequenza vuota che scriveremo ad esempio « r- » e che è equivalente a una contraddizione (da una premessa vera si è ottenuta una conclusione falsa). Gli unici «assiomi» ammessi da Gentzen sono sequenze del tipo dr- d. La differenza fra i calcoli LJ e LK sta ora in questo che, restando comuni a entrambi gli schemi inferenziali cui ora accenneremo, nelle derivazioni in L J sono ammesse solo sequenze il cui conseguente sia costituito da una sola formula. Aggiungendo tale limitazione, e salvo esplicito avviso in contrario, quanto ora diremo genericamente sui calcoli L varrà tanto per LJ quanto per LK. Per stabilire ora un calcolo L delle sequenze, si dovranno dare, come per i calcoli N, delle regole per l'introduzione e l'eliminazione dei connettivi logici (il che si può ridurre, come ci si convince facilmente, alla sola introduzione dell'operatore in questione nell'antecedente o nel conseguente di una sequenza); ma saranno anche necessarie regole che riguardano soltanto la « struttura » di una sequenza, nel senso che permettono ad esempio di scambiare Pordine delle formule nell'antecedente o nel conseguente, o che permettono di evitare la ripetizione di formule ecc. Gentzen distingue infatti per i calcoli L gli schemi di inferenza operativa che regolano appunto la manipolazione degli operatori, dagli schemi di inferenza strutturale che invece consentono interventi del secondo tipo sulle sequenze. Diamo qualche esempio per i primi (le lettere maiuscole greche indicano successioni finite di formule, separate da virgole, eventualmente vuote);
I) Introduzione di V nell'antecedente
nel conseguente
f!J, /'r- g d, /'r- g J'r--8 dV f!J,
/'r- @,d l'r-dVf!J
2) Introduziflne di -----, nell'antecedente
l'r- @,d rr- e, f!JV d
nel conseguente
d, /'r- g
/'r- @,d ---,d, /'r- g
rr- e, ---,d
Per quanto riguarda gli schemi strutturali, oltre a quelli sopra ricordati informalmente, vogliamo esplicitarne uno che è decisamente centrale in tutto lo sviluppo del discorso di Gentzen. Si tratta dello schema di cesura (tedesco, Schnitt; inglese, cut), che si può porre sotto la forma:
!'r-d, 8
r,
d, LIr-A LIr-e, A
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e che si può leggere come segue: se in una derivazione figura una sequenza come quella in alto a sinistra (I) e quindi una come quella in alto a destra (z) che hanno in comune la formula d, ma una nel conseguente e l'altra nell'antecedente, allora si può passare a una sequenza che ha come antecedente tutte le formule comprese nell'antecedente di (I) e di (z) meno la formula d e analogamente per il conseguente: in altri termini si può eliminare, tagliare (lo Schnitt originale) la formula d in questione. Si noti che fra tutti gli schemi strutturali questo è l'unico che permette di eliminare completamente da una derivazione una formula (nel nostro caso d; la formula così eliminata viene detta formula di cesura). Ora i risultati cui prima si accennava relativi ai calcoli L sono appunto riferiti a questo schema. Il primo di essi, noto come Hauptsatz (teorema principale) di Gentzen, afferma che ogni derivazione nei calcoli L di una sequenza I' 1--- e può essere trasformata in una derivazione della stessa sequenza nella quale non figurino cesure; in altri termini l' Hauptsatz afferma che tale schema è superfluo .l Allora dalla proprietà prima ricordata della cesura discende subito che dal momento che da una derivazione senza cesure non si può più eliminare alcuna formula, le formule di tutte le sequenze che intervengono nella derivazione di una sequenza. data dovranno in qualche modo figurare in quest'ultima. È questo infatti un immediato corollario dell' Hauptsatz, noto come proprietà o teorema della sottojòrmula (Tei[formelsatz): ogni derivazione nei calcoli L di una sequenza I' 1--- e può essere trasformata in una analoga derivazione della stessa sequenza, tale che ogni formula occorrente in qualche sequenza della derivazione è sottoformula di almeno una formula di I' 1--- e. Esprimendoci intuitivamente, è sempre possibile derivare una sequenza senza ricorrere a formule « estranee » alla sequenza stessa: in un certo senso quindi la derivazione ha « memoria». Conviene ricordare qualche altra conseguenza immediata dello Hauptsatz: banalmente ne deriva la consistenza della logica predicativa classica e intuizionista. Allo scopo infatti basta far vedere che non è derivabile la sequenza vuota « 1--- »; ma ciò è immediato dal momento che l'unico modo di «far sparire» formule da una derivazione è quello di applicare la cesura, il che è appunto evitabile grazie al teorema principale di Gentzen. lllteriori conseguenze: una procedura di decisione per la logica proposizionale intuizionista e una nuova dimostrazione della non derivabilità della legge del terzo escluso nella logica intuizionista. 2 1 Data l'evidente analogia della regola di cesura con il modus ponens, questo risultato ne richiama uno del tutto analogo ottenuto, come si ricorderà, da Herbrand. Gentzen in effetti vede il collegamento in questione, ma per una errata valutazione del risultato di Herbrand ritiene di aver dimostrato un teorema assai più generale. In effetti, per quanto riguarda la logica classica i due teoremi sono sostanzialmente equivalenti .. Il vantaggio tuttavia di quello ottenuto nella forma di Gentzen è che esso è applicabile (oltre che, ovvia-
mente, come abbiamo visto, alla logica intuizionista) anche a molti altri sistemi non classici, ai quali invece non può essere esteso il teorema di Herbrand. Si veda comunque anche la successiva nota. 2 Per la sola logica classica, ossia per il solo LK, l' Hauptsatz può essere rafforzato nel cosiddetto verschiirfter Haupt,-atz, secondo il quale la derivazione di una sequenza r, - A le cui formule siano tutte in forma normale prenessa può venir trasformata in una derivazione della stessa
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L 'introduzione dei calcoli L e in particolare la dimostrazione dell' Hauptsatz permettono a Gentzen di affrontare e risolvere il problema centrale di tutta la Beweistheorie: la dimostrazione della consistenza dell'aritmetica, che egli propone solo un anno dopo le Ricerche, in Die Widerspruchfreiheit der reinen Zahlentheorie (La noncontraddittorietà della teoria dei numeri pura, I936), e ripropone modificata dopo qualche anno in Neue Fassung des Widerspruchfreiheitsbeweises fur die reine Zahlentheorie (Nuova versione della dimostrazione di noncontraddittorietà per la teoria dei numeri pura, I938); importante anche, in questa connessione, l'articolo Beweisbarkeit und Unberweisbarkeit von Anfangsfallen der transftniten Induktion in der reinen Zahlentheorie (Dimostrabilità e non dimostrabilità di forme ristrette dell'induzione iransfinita nella teoria dei numeri pura, I943)· Non è qui possibile entrare nei particolari della dimostrazione di Gentzen. Ci limiteremo ad accennare molto in generale all'idea centrale di tale dimostrazione: Gentzen associa ad ogni dimostrazione formale un numero ordinale transfinito a < so , dove so = w w ro w ww Quindi fa vedere che, o ve esistesse una dimostrazione di una formula contraddittoria, ad esempio della formula I =? I, di numero, poniamo, {3 si avrebbe anche una dimostrazione di I =? I cui sarebbe associato un numero ordinale y < {3 (intuitivamente: si avrebbe una dimostrazione «meno complessa» di I =? I); ne segue che l'esistenza di una contraddizione contravverrebbe al principio di induzione transfinita (fino a so) o, in termini meno esatti, si potrebbe già svolgere nel « finito ». È ovvio che il metodo al quale si appella Gentzen per dare la sua dimostrazione di consistenza trascende in qualche senso (come minimo appunto per il teorema di Godei) quanto è « formalizzabile » nell'aritmetica, ossia va al di là dell'ambito « finitista » in senso hilbertiano.l Ma, afferma Gentzen, «se si deve
+
sequenza, che gode delle seguenti proprietà: 1) non contiene cesure; 2) contiene una sequenza «mediana» tale che 2.1) né tale sequenza né la sua derivazione contengono quantificatori e 2.2) nel resto della derivazione vengono impiegati soltanto schemi di inferenza strutturale e schemi relativi ai quantificatori. In altri termini, la sequenza mediana divide per così dire la derivazione in due parti, una puramente logico-proposizionale, l'altra puramente logico-predicativa (si noti, in collegamento al teorema di Herbrand, che la sequenza mediana corrisponde appunto alla formula di Herbrand). Questa forma rafforzata dell' Hauptsatz viene sfruttata da Gentzen, sempre nelle Ricerche, per dare una nuova dimostrazione della consistenza dell'aritmetica senza induzione (come si ricorderà per l'aritmetica senza induzione o con l'induzione limitata a formule di tipo particolare altre dimostrazioni erano state date da Ackermann e von Neumann nel 1927, da Herbrand nel 1 9 32 ; e un teorema generale al riguardo viene dato da Bernays nel 1936). Tuttavia, come lo stesso Gentzen conclude, «l'aritmetica senza
+
+ ...
induzione completa è ... di scarso significato pratico, perché l'induzione completa è costantemente richiesta nella teoria dei numeri. Finora peraltro non è stata dimostrata la consistenza dell'aritmetica con induzione completa». È appunto quest'ultimo l'importante ulteriore risultato raggiunto da Gentzen nell'anno successivo. 1 Si consideri il principio di induzione matematica posto nella forma (cui in particolare si dà il nome di induzione completa) (1)
Vy {Vx(x O} la classe degli insiemi descritti da predicati il cui prefisso inizia con un quantificatore universale e contiene n- I alternanze di quantificatori; ad esempio II~ sarà la classe degli insiemi esprimibili da predicati della forma V3V R (si noti che più quantificatori dello stesso tipo immediatamente susseguentisi l'un l'altro si possono contrarre in' un unico quantificatore di quel tipo: così ad esempio VVV3 si può contrarre in V3). Il prefisso IIg (come l'analogo Eg che ora introdurremo) indica assenza di quantificatori. Viceversa si indica con E~ l'analoga classe degli insiemi esprimibili da predicati il cui prefisso inizia con un esistenziale. In questa notazione compatta la gerarchia assume quindi la seguente forma
dove le frecce indicano l'inclusione propria. Tale gerarchia gode di notevoli proprietà. Intanto, come già sopra accennato, essa non è banale, vale a dire, in conformità al teorema di gerarchia di Kleene (1943), per ogni n esiste un insieme A tale che A EII~+l (E E~ +l) ma A i II~ né A E E~ +l (A i E~ né a II~+l)· Ancora, in generale la riunione Il~ U 2,'~ è contenuta in modo proprio nella intersezione 17~+1 n E~+1; l'unica eccezione è data da LJg = 178 = rg = 17~ n L~ il. che è un altro modo di esprimeré il fatto che un insieme A è ricorsiv o quando tanto A quanto il suo complemento A sono ricorsivamente enumerabili. Come ultimo risultato significativo in questo contesto vogliamo ricordare il teorema di enumerazione di Kleene (1943) che dà una sorta di rappresentazione unitaria per tutti gli insiemi della gerarchia aritmetica ricorrendo al predicato T di Kleene sopra definito. Risultati analoghi, come hanno dimostrato Kleene e Post, valgono anche per la nozione di ricorsività relativa.
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Conviene, per compattezza di discorso, accennare già ora agli ulteriori sviluppi della teoria della ricorsività anche se cronologicamente posteriori al periodo qui considerato (si riferiscono infatti, sostanzialmente, agli anni quaranta e cinquanta). Gli sviluppi di cui parliamo si concentrano su un problema comune: quello di saggiare la possibilità di ulteriori classificazioni per gli attributi (predicati, funzioni, insiemi) lungo le linee indicate rispettivamente da Kleene (con la costruzione della gerarchia aritmetica) e da Post (con i gradi di irresolubilità). Per quanto riguarda il primo aspetto si è pensato in modo naturale di estendere la gerarchia aritmetica considerando la classe degli attributi numerici definibili tramite predicati che ammettessero la quantificazione illimitata non solo (come nel caso della gerarchia aritmetica) sulle variabili individuali, ma anche sulle variabili funzionali (o per insiemi; passando cioè a un linguaggio del secondo ordine). Anche in questo caso la classificazione in base alla forma della definizione linguistica riflette una « misura » del grado di effettività: la classe degli attributi così ottenuti viene detta degli attributi analitici e Kleene nel 19 5 5 ha mostrato che anche in questo caso può attenersi una gerarchia (detta appunto analitica) nel senso che tutti questi attributi si possono porre in una delle forme
Axh ... , o,
In
3f'l!x R
'llg 3f'l!x R ...
'llf3x R
3g 'llf3x R ...
Xn
forma abbreviata LJIo
L'l l
L'~ ...
IJi
II~
...
dove A è un predicato (attributo) aritmetico e R è ricorsivo. Questa gerarchia i cui element~ vengono indicati con L'~, rispettivamente II! gode delle stesse proprietà viste per la gerarchia aritmetica ma con una importante eccezione: LI~ -=f. L'~ n il~, vale a dire gli attributi numerici non sono la parte comune agli analitici del primo gradino della gerarchia. Agli elementi di tale intersezione si dà il nome di attributi iperaritmetici: es~i possono intuitivamente essere considerati come una sorta di « limite » cui tendono gli aritmetici nel passaggio agli analitici. La teoria della ricorsività veniva quindi a ricollegarsi direttamente con quelle indagini che a partire dalla scuola degli analisti francesi, erano state compiute nel tentativo di colmare l'abisso tra il «dato immediatamente», il «manipolabile », l'« effettivo », e il transfinito cantoriano. Le gerarchie aritmetica e analitica presentano infatti notevoli analogi.: (e differenze significative) con quelle studiate in particolare da Borel, Lebesgue e quindi potentemente sviluppate da Michel Souslin e Nicolai Lusin degli insiemi proiettivi e analitici.
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Una volta che abbiamo introdotto la nozione di ricorsività relativa si può pensare ad un altro tipo di gerarchizzazione sulla base dei già nominati gradi (di irresolubilità): si dice che il grado di una funzione parziale f ricorsi va in g è minore o uguale al grado di g, gr (f) ~ gr (g). Il grado di una funzione f è quindi definito estensionalmente come l'insieme di tutte le funzioni g che soddisfano tanto gr (f) ~ gr (g) quanto gr (g) ~ gr (f). Ne viene che i gradi possono essere ordinati formando una struttura che si riconosce essere un semireticolo superiore nel senso che dati due qualunque gradi a e f3 esiste sempre un grado y tale che a ~ y e f3 ~ y. Come hanno dimostrato Kleene e Post nel 1954 non vale la stessa proprietà « verso il basso » ossia non esiste in generale, dati due gradi a e {3, un massimo grado y per il quale a ~ y e f3 ~ y. I gradi formano un insieme di cardinalità uguale a quella del continuo (~ 1 , accettando l'ipotesi del continuo) e nel r 960 Schoenfield ha dimostrato che esiste un insieme di gradi che ha cardinalità ~ 1 e i cui elementi sono fra loro inconfrontabili . .Il grado più basso, indicato con o, è evidentemente quello delle funzioni ricorsive. Gradi superiori si possono trovare tramite le funzioni definibili aritmeticamente (Kleene, 1943); il grado immediatamente successivo a o, indicato con o', è costituito dalle funzioni caratteristiche di insiemi ricorsivamente enumerabili, e si dimostra che o i= o'; per quanto detto sopra si possono naturalmente definire (sempre con l'operazione' detta di jump) gradi di ordine transfini~o. Quello che a suo tempo abbiamo chiamato problema di Post viene tradotto ora nella domanda: esistono insiemi r.e. di grado diverso? ossia hanno tutti questi insiemi grado o'? Il problema venne risolto indipendentemente solo nel 1956 da Richard M. Friedberg in Two recursive!J enumerable sets of incomparable degrees of unsolvability (solution of Post's problem 1944) (Due insiemi ricorsivamente enumerabi!i con ,gradi di irresolubilità non confrontabili (soluzione del problema di Post 1944) e da A. A. Mucnik in Risposta negativa al problema di riducibilità degli algoritmi; entrambi questi autori costruiscono due insiemi nessuno dei quali è ricorsivo nell'altro; è in questo contesto che essi introducono il cosiddetto metodo di priorità che si è rivelato estremamente utile in successive ricerche. Gerarchie e gradi non costituiscono l'unico tipo di articolazione del problema generale della classificazione di funzioni e di insiemi in base alla loro effettività. Altre nozioni - sulle quali non ci soffermeremo - quelle di insieme creativo, immune, coesivo, ecc. sono state introdotte; quello che ci preme sottolineare è che nei due esempi da noi citati (gradi e gerarchie) la teoria della ricorsività ha trovato i suoi approfondimenti più sostanziali portando alla creazione di metodi, quale appunto ad esempio quello di priorità, di notevole profondità e interesse anche in contesti più ampi. Le gerarchie e i gradi sono d'altra parte un esempio tipico di una tendenza generale degli sviluppi della teoria della ricorsività, quella cioè di raffinare il concetto apparentemente monolitico di effettivo analizzandone diversi aspetti e
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sfumature. Questo tipo di atteggiamento ha portato attorno agli anni fra il '5 5 e il '58 al tentativo di definire il concetto di effettività non più per funzioni su numeri naturali, ma per « oggetti » di tipo superiore quali i funzionali, vale a dire funzioni definite su funzioni e con valori numerici o funzionali (rispettivamente Kleene, Godei; si veda anche la nota 1 a pag. 349· Lungo questa strada di progressiva generalizzazione si è giunti in tempi recenti al tentativo di definire la nozione di effettività su segmenti più ampi della struttura ordinale (recursione sui cosiddetti ordinali ammissibili di Saul Kripke) e su strutture arbitrarie (superando cioè la vincolante relativa a N). L'obiettivo finale è una teoria astratta della computazione o dell'effettività di cui teoria delle funzioni ricorsive, teoria dei funzionali, ed eventuali altre estensioni, costituiscano diverse realizzazioni. Linee conduttrici di queste generalizzazioni sono due concetti di cui costantemente si fa uso in ogni tentativo di chiarire il concetto di effettivo: quello generale di definibilità e quello più specifico, ma non per questo più dominabile, di finito. In questo modo nei lavori recenti di Georg Kreisel e G. E. Sacks, Yannis Moschovakis, Wagner e Strong, ed infine Richard Merritt Montague si assiste a tutta una serie di tentativi di collegare la teoria dell'effettivo a questi concetti più generali, tentativi che portano a stabilire rapporti sempre più stretti con altri rami della ricerca logica, dalla teoria dei modelli alla teoria degli insiemi. Partita quindi come tentativo locale di precisare il concetto di effettivo, la teoria della ricorsività dagli anni quaranta in poi si rivelava così un potente strumento per l'analisi e la classificazione in generale dei concetti astratti fondamentali. V· DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE. SGUARDO SU ALCUNI SVILUPPI DELLA RICERCA ODIERNA
Nel nostro schema generale avevamo riconosciuto che la ricerca logica, dopo che nei primi trent'anni del secolo si era mossa sostanzialmente articolandosi in programmi (scuole), aveva subito proprio negli anni trenta- e in virtù di tutta una serie di risultati che abbiamo sopra descritto - una radicale trasformazione, indirizzandosi verso l'approfondimento di specifici temi, pur se di portata generale, che erano appunto scaturiti dalle stesse indagini programmatiche. Avevamo anche avvertito però che questo non significava impegnarsi in una «pratica senza principi », ma rappresentava piuttosto il tentativo di saggiare sul terreno concreto delle applicazioni e delle analisi particolari la potenza degli strumenti e degli approcci precedentemente elaborati. Proprio per questo ci era sembrato opportuno, e anzi necessario, soffermarci ad analizzare abbastanza dettagliatamente il passaggio dalle concezioni « preformali » a quelle « formali », tentando di metterne in luce le motivazioni generali da una parte e gli specifici strumenti di concettualizzazione dall'altra; convinti come siamo- e lo abbiamo più volte affermato - che la comprensione di tali concetti cardine sia essenziale per poter
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penetrare quella che è l'attuale situazione della ricerca, anche nella sua espressione più propriamente «tecnica». Volendo ora parlare degli sviluppi più recenti delle indagini logiche, non sarà più possibile attenersi ad un'analoga procedura: nel contesto infatti di principi direttivi generali, informatori di tutta la ricerca, sono state escogitate tecniche di indagine estremamente raffinate e complesse e il rapporto con la concreta pratica matematica è divenuto ormai così stretto, che per seguire puntualmente tali sviluppi sarebbe necessario chiarire preliminarmente un bagaglio di nozioni che richiederebbe, da solo, un trattato, e assai voluminoso. In questo paragrafo quindi illustreremo alcuni temi fondamentali della ricerca logica odierna in modo per così dire più « globale». Abbiamo parlato sopra di strumenti e di approcci; svilupperemo allora il nostro discorso tentando soprattutto di mettere in luce la « continuità » di questi approcci, accennando agli strumenti solo nella loro portata generale e nei loro mutui rapporti. Si potrà così apprezzare - lo speriamo - la profondità dei legami che anche nella accentuata specializzazione della ricerca posteriore agli anni trenta sussistono fra campi di indagine apparentemente del tutto eterogenei. Le grandi scuole fino agli anni trenta avevano tematizzato una contrapposizione di fondo fra costruttivo e non costruttivo, fra intensionale ed estensionale, che si manifestava a due distinti livelli: individuazione di teorie fondanti (matematica costruttiva e intuizionista da una parte, teoria degli insiemi dall'altra) e metodi di analisi della struttura delle teorie; questo secondo aspetto si era polarizzato a sua volta lungo due diverse direttrici, emerse e giustificate proprio dai risultati degli anni trenta (Godel, Tarski): quella sintattica (teoria della dimostrazione) e quella semantica (sulla base della nozione di modello). Sullo sfondo, almeno in modo implicito, ma sempre presente, un problema generale relativo al linguaggio e alla natura della formalizzazione in quanto tale (più che alla natura stessa dei contenuti). In che termini i risultati « limitativi», in particolare quelli di tipo « negativo » (Skolem, Godel, Tarski) riguardano la concezione stessa degli oggetti descritti e definiti e non piuttosto gli stessi strumenti linguistici di espressione? Su che basi si confrontano le diverse concezioni: la loro « canonizzazione » a livello formalizzato (linguistico) è sufficiente a discriminarle? In effetti due tipi ç:li deficienze si possono individuare a questo riguardo. Da un lato il linguaggio, la formalizzazione, è carente a livello per così dire « grammaticale »: i linguaggi usati non consentono di esprimere compiutamente le strutture desiderate, eliminando realizzazioni spurie; al di là della stessa intenzione del ricercatore, il linguaggio, proprio in quanto non sufficientemente espressivo, « descrive più cose » di quanto non vorremmo o, detto altrimenti, descrive in modo «confuso» quello che vorremmo. D'altro lato - e qui potremmo parlare di limitazioni « positive » (Lewis, logiche non classiche in generale)- il linguaggio è invece carente proprio a livello «logico», ossia non rende
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legami contenutistici fra proposizioni; gli sfugge tutta una serie di rapporti intensionali che possono viceversa essere considerati - e di fatto abbiamo visto lo sono in molti modi - come il « genuino » contenuto da esprimere e « formalizzare». Ne deriva un duplice e in certo senso contrapposto intervento sul linguaggio: da una parte un suo potenziamento nella linea classica tradizionale (nuovi operatori di quantificazione, linguaggi infinitari, ecc.); dall'altra un suo « affinamento » in particolare per quanto riguarda il tipo di significato che si vuole attribuire alle costanti logiche (nuove e più articolate proposte di semantiche). Pur nella diversa collocazione di queste deficienze linguistiche, si ritrova tuttavia un esplicito rimando comune (anche se inteso e concepito in modo di principio radicalmente diverso) a un momento interpretativo, semantico, di tipo dunque extralinguistico. Per iniziare questo panorama finale conviene allora prendere le mosse proprio dal tentativo portato avanti negli anni quaranta-cinquanta di rendere sistematico l'approccio all'analisi delle teorie basato sul concetto di verità: alludiamo alla costituzione della cosiddetta teoria dei modelli, sulla quale dovremo trattenerci più a lungo che su altri temi, data appunto la sua centralità. Come già si è detto nel paragrafo m. 3, la definizione tarskiana di verità, ponendo le basi della semantica dei linguaggi formalizzati ed introducendo l'esigenza di modelli infinitari nella metamatematica, apriva la strada ad un nuovo modo di vedere lo studio delle teorie, un modo che instaurava legami più diretti tra la concreta pratica matematica e l'analisi logica. Era in questo spirito che la metodologia delle scienze deduttive propugnata da Tarski attorno agli anni trenta si proponeva lo studio delle teorie formalizzate come oggetti astratti, considerate alla stregua di strutture algebriche o topologiche e dava inizio all'esame delle loro proprietà, sia sintattiche che semantiche, senza porsi preclusioni programmatiche sui metodi dimostrativi. Con questo si realizzava una rottura esplicita con l'idea hilbertiana di metamatematica concepita come studio, in base a metodi rigidamente finitisti, delle pure proprietà sintattiche, per dare l'avvio ad un'analisi «matematica» delle teorie, analisi che trovava la sua localizzazione più naturale non più entro una matematica ristretta quale quella finitista, ma all'interno della più generale teoria degli insiemi. In tal modo lo studio delle teorie formalizzate veniva a costituire, assieme all'algebra e alla topologia generale, una delle articolazioni di quella matematica astratta e « infinitaria » che proprio negli anni trenta, attraverso l'impiego sistematico dei più potenti strumenti insiemistici (assioma di scelta, ipotesi di misurabilità, del continuo ecc.), andava dando ad algebra e topologia una nuova forma, conferendo loro una generalità sino ad allora mai vista. Se sulle prime, come testimoniano i lavori di Lindenbaum, Mostowski e Tarski stesso sull'algebrizzazione della logica, il rapporto fu sostanzialmente unidirezionale, risolvendosi nel tentativo (largamente riuscito) di applicare metodi
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algebrici e topologici allo studio delle teorie formalizzate, ben presto esso si capovolse, aprendo prospettive inaspettate.l La semantica tarskiana offriva la possibilità di compiere il passaggio inverso, l'applicazione, cioè, di concetti e metodi metamatematici alla risoluzione di problemi algebrici e topologici. È dal tentativo di sviluppare appieno questa possibilità e di analizzarne le modalità che ha avuto origine la moderna teoria dei modelli nel suo duplice aspetto di studio delle teorie formalizzate in rapporto ai relativi modelli e di applicazione di concetti metamatematici a specifici problemi algebrici o topologici. Alla base di questo rapporto sta un fatto che abbiamo già avuto occasione di sottolineare. Le realizzazioni, i possibili modelli delle teorie formalizzate che sono al centro dell'indagine logica sono riconducibili a strutture, algebre o sistemi relazionali, dello stesso genere dei gruppi, anelli, campi, spazi topologici ecc., oggetti di studio di algebra e topologia. In entrambi i casi si tratta di insiemi su cui sono definite relazioni e funzioni le cui proprietà definitorie sono fissate per via assiomatica. La differenza fra approccio algebrico e logico sta nell'enfa,si che viene posta sui due aspetti che concorrono alla definizione delle strutture; l'algebrista ne sottolinea l'aspetto insiemistico e si concentra quindi sull'indagine delle possibili operazioni che su di esse si possono definire (prodotti diretti, immagini omomorfe, passaggio alle sottostrutture, ecc.); il logico invece privilegia l'altro aspetto, il carattere assiomatico della caratterizzazione delle relazioni e funzioni che definiscono le strutture e si concentra quindi sullo studio delle teorie formalizzate. L'obiettivo di fondo della teoria dei modelli è quello di mediare questi due momenti, più precisamente quello di analizzare i rapporti tra la forma linguistica dei sistemi d'assiomi e le proprietà insiemistiche dei modelli (ed è in questo senso che ci si riallaccia e si estende la semantica come intesa precedentemente). In queI In senso lato ciò può essere inteso come connessioni fra algebra e logica che sono venute sempre più instaurandosi dopo il teorema di completezza, come abbiamo già accennato, e oggi in particolare n eli' ambito della teoria dei modelli. In senso stretto viene inteso come « trattamento algebrico » della logica e in questo senso si riallaccia direttamente, è ovvio, ai lavori stessi di Boole. Questi aveva mostrato sostanzialmente che la logica proposizionale poteva essere adeguatamente rispecchiata da quella struttura algebrica oggi nota appunto come algebra di Boole: tramite opportune « traduzioni » dei concetti logici fondamentali in concetti algebrici è cioè possibile ritrovare come risultati relativi a proprietà della struttura algebrica in questione le « traduzioni » di analoghi risultati e proprietà logiche. Noi eviteremo di accennare qui a tali traduzioni, anche per il semplicissimo caso della logica proposizionale, perché allo scopo dovremmo illustrare alcuni ulteriori (anche se elementari) concetti algebrici
che appesantirebbero inutilmente la trattazione. Risultato centrale di questo contesto il teorema di rappresentazione dimostrato nel I936 da Marshall Stone in base al quale ogni algebra astratta di Boole si rappresenta concretamente su un'algebra di insiemi. Una ricerca di strutture algebriche adeguate a logiche più potenti, classiche e non classiche, in particolare la logica dei predicati del primo ordine classica, ha portato ali 'individuazione di certe classi particolari di algebre, precisamente le algebre po!iadiche introdotte da Pau! R. Halmos fra il I 95 4 e il 19 59 e le algebre cilindriche introdotte da Henkin e Tarski attorno al 1950. Tali strutture algebriche, in particolare le seconde, hanno rivelato un interesse matematico intrinseco tanto da meritare un approfondimento autonomo da questo punto di vista: nel I 971 è stato pubblicato un primo volume Cylindric algebras (Algebre cilindriche) di Leon Henkin, James Donald Monk e Alfred Tarski.
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sto modo si raggiungono due scopi: da una parte si può sfruttare tutto quanto si sa sulle strutture e le operazioni su di esse definite nello studio delle teorie formalizzate, dall'altra risulta possibile affrontare problemi algebrici ricorrendo allo studio d~lle .teorie formalizzate che determinano le varie classi di strutture: in generale, alle proprietà dei linguaggi. I due aspetti si completano a vicenda, scambiandosi mutuamente strumenti e problemi. L'algebra offre al logico metodi di costruzione di strutture per affrontare lo studio delle teorie e simultaneamente stimola alla elaborazione di strumenti linguistici sempre più adeguati ai problemi algebrici; la logica offre all'algebrista informazioni sulle proprietà dei sistemi assiomatici e stimola alla definizione di metodi per la costruzione di strutture che meglio riflettano i fatti riguardanti la loro caratterizzazione linguistica. La stessa ragion d'essere della teoria dei modelli porta a un intrecciarsi continuo delle due impostazioni, così che è difficile porre una netta linea di demarcazione anche solo a livello di metodi; procedimenti costruttivi e non si innestano gli uni negli altri senza soluzione di continuità e le restrizioni finitiste (retaggio della concezione hilbertiana della metamatematica) lasciano sempre più il posto all'impiego sistematico di principi insiemistici altamente non costruttivi quali l'assioma di scelta, l'ipotesi del continuo, ecc. Si realizza così in pieno quell'ideale della metamatematica come studio globale delle proprietà delle teorie formalizzate di cui la semantica e la metodologia delle scienze deduttive tarskiane erano state le avvisaglie. Non è un caso, quindi, che il primo affermarsi della teoria dei modelli coincida con l'estensione del concetto stesso di linguaggio formalizzato e con la parallela generalizzazione dei teoremi semantici fondamentali, di compattezza e di Lowenheim-Skolem, nel tentativo di farne strumenti adeguati alle applicazioni algebriche e allo studio dei modelli. Nella loro naturalezza queste estensioni avevano un carattere decisamente rivoluzionario in quanto segnavano un abbandono senza possibilità di recupero delle restrizioni finitiste di tradizione hilbertiana ed aprivano la strada all'applicazione di concetti e metodi esplicitamente infinitari.l È in due articoli del logico sovietico Anatolij Malcev, rispettivamente del 1936 e del 1941, che questo passaggio viene effettuato nella sua forma più netta; con questi lavori Malcev forniva simultaneamente gli strumenti centrali ed i primi esempi significativi di un'applicazione della metamatematica all'algebra, strumenti ed esempi che per lungo tempo sarebbero rimasti paradigmatici ed ispiratori. La prima innovazione introdotta, come già si è detto, riguarda la nozione stessa di linguaggio formalizzato. Sino ad allora, in conformità al punto di vista hilbertiano, un linguaggio L del primo ordine era considerato determinato oltre I Naturalmente, c'è da tener presente l'altro tipo di superamento di tali limiti che abbiamo visto muoversi sulla linea di Gentzen in un contesto che si può dire di mediazione fra sintassi e seman-
tica, anche se è stato tuttavia sviluppato in termini della teoria della dimostrazione. Va osservato comunque che questo tentativo rimaneva pur sempre nell'ambito del costruttivo.
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che dalle ordinarie costanti logiche, connettivi e quantificatori, da una famiglia
numerabile di costanti extralogiche, classificate in costanti individuali, predicative e funzionali. Questo affinché la collezione delle formule e degli enunciati risultasse decidibile e quindi suscettibile di studio entro la matematica finitaria. Questa condizione vincolante risulta però non solo arbitraria da un punto di vista astratto, ma addirittura inaccettabile una volta che si voglia, data una qualsiasi struttura Wl, descriverla « il più adeguatamente possibile » a livello linguistico. Per far questo occorre possedere nomi per ogni individuo di Wl così da poter dire per ognuno di essi quali proprietà (espresse nel linguaggio) siano vere o no. Le costanti individuali di un linguaggio, però, possono essere al più numerabili e quindi una simile « descrizione » risulta impossibile per strutture arbitrarie, la cui definizione non implica affatto restrizioni di cardinalità. È sulla base di queste considerazioni che Malcev introduce linguaggi del primo ordine con un numero arbitrario di costanti extralogiche e ne analizza le proprietà semantiche fondamentali, giungendo così a stabilire quel principio di localizzazione che costituisce ancor oggi uno degli strumenti fondamentali della teoria dei modelli. Il principio, per la cui dimostrazione è essenziale l'uso dell'assioma di scelta, è una generalizzazione del teorema di compattezza di Godei e afferma che, dato un insieme K di enunciati del primo ordine, avente cardinalità arbitraria, esso ha un modello se e solo se ogni suo sottoinsieme finito ha un modello. In questo modo è possibile ricondurre l'esistenza di modelli per insiemi infiniti arbitrari all'esistenza di modelli per insiemi finiti. Poggiandosi su questo principio, Malcev riusciva a dimostrare in modo estremamente elegante ed uniforme un numero notevole di teoremi sui gruppi infiniti e mettendone in luce l'aspetto comune e la dipendenza dal principio di localizzazione mostrava, per usare le sue stesse parole, come « essi non fossero specificatamente algebrici ma potessero essere ottenuti come conseguenze immediate di enunciati generali della logica matematica ». In termini netti e precisi, veniva così formulato e realizzato uno degli obiettivi centrali della moderna teoria dei modelli. Il metodo seguito da Malcev è estremamente diretto e costituisce un paradigma che ha trovato un numero incredibile di applicazioni; l'idea di fondo è quella di ricondurre l'esistenza di strutture aventi date proprietà algebriche alla esistenza di modelli per dati insiemi di enunciati. Il problema diviene quindi quello di trovare per ogni proprietà algebrica un insieme di enunciati del primo ordine che la « rifletta », in altri termini tale che una struttura sia modello dell'insieme se e solo se gode della proprietà in questione; in tal caso diremo che la proprietà è elementare. Una volta fatto questo, il principio di localizzazione da criterio per l'esistenza di modelli si trasforma in criterio per l'esistenza di strutture con le proprietà volute. Visti in quest'ottica, numerosi teoremi algebrici si rivelano immediate conseguenze del principio di localizzazione. È questo che Malcev mostra nel caso dei teoremi locali sui gruppi (che noi abbiamo ricor-
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dato nel paragrafo III.z), teoremi che affermano che un gruppo ha una data proprietà P se e solo se ogni suo sottogruppo finitamente generato la ha. Se la proprietà P è elementare, la cosa diviene infatti immediata seguendo il metodo di Malcev. Dato un gruppo ffi, indichiamo con D(ffi) quello che oggi, seguendo una terminologia introdotta nel 1950 da Abraham Robinson, viene detto diagramma di (f) ossia l'insieme di tutte le formule atomiche o negazioni di atomiche vere in ffi e contenenti, oltre a un simbolo che denota l'operazione del gruppo e al simbolo d'identità, nomi per ogni elemento di ffi. Consideriamo allora l'insieme di enunciati K che, per ipotesi, «riflette» la proprietà P. Sia quindi K' = = K U D(ffi) U Kry,, dove con Kry, indichiamo l'insieme di assiomi per la teoria dei gruppi, che sappiamo essere formulabile al primo ordine. È chiaro che ogni modello di K', in quanto modello di D(~- Tutte queste difficoltà non sono casuali; esse dipendono proprio pall'impostazione comune che rimanda ad una nozione di costruzione che o è troppo restrittiva (Kleene: identificazione del costruttivo col ricorsi v o) oppure risulta troppo indeterminata (Kreisel) proprio perché non può fondarsi su una precisa teoria del costruttivo che è appunto l'obiettivo finale della matematica intuizionista nel suo complesso; questo è un altro dei problemi riguardanti la precisazione dei concetti base dell'intuizionismo cui in questi anni sono stati dedicati numerosi lavori (in particolare da Nicholas Goodman e Hans Lauchli). È ponendosi più decisamente in una prospettiva classica che è stato possibile invece dare una sistemazione soddisfacente alla semantica per la logica intuizionista; questo si deve in particolare a Saul Kripke che nel I965, nell'ambito di un'analisi generale di un'ampia famiglia di linguaggi non classici, quelli intensionali, risolse il problema prendendo lo spunto dalle logiche modali già precedentemente analizzate nel I 9 59· La cosa non deve stupire se si pensa alla traducibilità della logica intuizionista in quella modale (S4 di Lewis) posta in luce da Go del nel I 9 33. Dato il ruolo centrale che questa semantica ha nelle ricerche odierne dei sistemi di logiche intensionali, è opportuno soffermarci brevemente sull'idea di fondo della sistemazione di Kripke. Partendo da una nozione di intensione introdotta da Carnap nel I947, Kripke vede negli operatori modali delle funzioni che si applicano non già all'estensione di un enunciato (il suo valore di verità) bensì alla sua intensione; quest'ultima viene riguardata come una funzione che associa, in corrispondenza a diverse circostanze, a diversi « mondi possibili », diverse estensioni, diversi valori di verità. Discostandosi da Carnap, però, Kripke non vede l'insieme dei mondi possibili come determinato una volta per tutte dall'insieme di tutte le descrizioni consistenti di stati possibili; ma considera più astrattamente i mondi possibili come indici scelti in un insieme prefissato. Consideriamo quindi un insieme I di mondi possibili; una in tensione di un enunciato sarà una funzione (f) da I all'insieme dei valori di verità {o, I}. Assegnata all'enunciato d l'intensione j, è quindi determinato l'insieme dei mondi in cui esso è vera e quello dei mondi in cui esso è falsa. Che cosa significherà affermare che l'enunciato d è necessario? In prima istanza si può dire che la necessità di d coincide con la sua verità in ogni mondo possibile. Questa nozione però risulta troppo grossolana e ammette una importante precisazione: i mondi possibili non sono tutti compossibili, nel senso che dato un mondo i E I, solo alcuni degli altri elementi di I sono «accessibili» da i, cioè sono possibili dal punto di vista di i. Ciò posto, per assegnare ad ogni enunciato una intensione occorrerà non solo specificare l'insieme I dei mondi possibili, ma anche una relazione binaria R fra di essi che intenderemo come relazione di accessibilità; iRj andrà cioè letto: il mondo j è accessibile dal mondo i, o in altre parole j è un mondo possibile per i; chiameremo quindi struttura modello ogni coppia deJ tipo . Un enunciato allora sarà necessario nel mondo i
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quando risulterà vero in ogni mondo j accessibile da i. Il grande interesse di questa analisi sta nel fatto che permette di dare una sistemazione unitaria ad un'enorme varietà di nozioni di intensione e di necessità. Imponendo infatti proprietà particolari (riflessività e jo simmetria e jo transitività, ecc.) alla relazione R è possibile stringere più da vicino le diverse idee di necessità che abbiamo intuitivamente. Così se intendiamo la necessità come verità in ogni istante, interpreteremo I come l'insieme degli istanti ed R come la relazione di (pre)ordine (ossia riflessiva e transitiva) che sussiste fra istanti di tempo. Non deve stupire quindi che partendo da questa idea sia possibile ottenere delle semantiche intuitive ed estremamente duttili per i sistemi modali presentati da Lewis e altri, nel senso che alle diverse nozioni di necessità canonizzate nei vari sistemi SI-S5 corrispondono diverse proprietà della relazione R: ad esempio, al sistema S4 corrisponde la relazione R di preordine, al sistema S 5 una relazione R di equivalenza (ossia riflessiva simmetrica e transitiva). Leggermente più complicata risulta la situazione per i sistemi SI -S 3 ; in questi casi infatti occorre introdurre un 'ulteriore distinzione tra mondi normali, tali cioè che posseggano almeno un mondo a loro accessibile (in particolare se stessi), e sistemi non normali per cui questa evenienza non si verifica (in termini di relazione R: un mondo è certamente normale se R è riflessiva). L'analisi di Kripke ha portato ad una svolta decisiva nello sviluppo delle logiche intensionali nel senso che ha permesso di offrire uno strumento unificante in grado di mettere in luce relazioni per l'innanzi insospettate, fra tutti i diversi sistemi noti e portando addirittura alla creazione di nuovi sistemi. È difficile sopravvalutare il significato di questo risultato se si pensa che uno degli ostacoli centrali alla pacifica accettazione delle logiche modali (e in generale intensionali) è sempre stato la mancanza di una semantica chiara e sufficientemente articolata da permettere di ottenere risultati di completezza che il vecchio metodo delle matrici non era in grado di offrire. In questi anni si è assistito così ad un poderoso sviluppo delle ricerche in questo campo; alla individuazione di strutture modello (le coppie sopra introdotte) in grado di fornire interpretazioni rispetto alle quali i vari sistemi conosciuti fossero completi, ha fatto seguito l'applicazione del concetto di si~temi di indici con relazione di accessibilità all'analisi di altre nozioni di carattere intensionale le cui connessioni con la nozione di modalità logica erano sino ad allora rimaste nel vago. Alludiamo ai vari sistemi di logica deontica (nei quali compaiono operatori modali del tipo «è permesso», «è obbligatorio», ecc.), di logica epistemica (operatori «è noto che», «si crede che», ecc.) di logica esistenziale (nella quale i normali operatori di quantificazione vengono trattati come «modalità») la cui connessione, presentata in una ripartizione unitaria da Georg von Wright già nel I95 I, viene così giustificata a posteriori. Dal punto di vista filosofico il contributo più notevole dell'analisi di Kripke
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sta forse nell'aver permesso di « riscattare » la logica modale dalle accuse di « essenzialismo » aristotelico che già dalla fine degli anni quaranta Quine le aveva ripetutamente lanciato. Le critiche di Quine colpivano quei tentativi che, a partire dai lavori di Ruth Barcan Marcus del I 946, erano stati condotti per estendere , .la logica modale enunciativa ad una predicativa del primo ordine. In tali sistemi infatti comparivano tesi del tipo di assiomi che garantiscano l'esistenza di cardinali (che possono essere definiti come particolari ordinali) « abbastanza grandi » da assicurare e «fissare più da vicino» l'esistenza dell'interpretazione intesa degli assiomi. Questi assiomi aggiuntivi vengono detti assiomi forti dell'in.ftnito. Ciò spiega l'interesse di queste ricerche, anche se i risultati sinora raggiunti sembrano non dare speranze di decidere per questa via l'ipotesi del continuo.1 Se tutti questi risultati concorrono in un modo significativo a « mettere in crisi » il metodo assiomatico, o meglio a ridimensionarlo da toccasana universale, come da taluni viene ancor oggi presentato, a strumento centrale della ricerca che abbisogna tuttavia di perfezionamento e forse superamenti decisivi, vogliamo per finire fare un'osservazione più generale che dovrebbe chiarire come mai oggi si assiste a una ripresa del discorso più strettamente « filosofico » a proposito della ricerca sui fondamenti. Il fatto è che dimostrare una contraddizione di una teoria - come era successo agli inizi del secolo - è in qualche modo (pur tenendo presenti le parole di Gentzen) indice di « qualcosa di sbagliato » che va ricercato su linee tutto sommato abbastanza determinate. Giungere invece, come Cohen e molti altri dopo di lui hanno fatto, a un risultato di indipendenza, vuol dire che sono proprio i nostri assiomi che si rivelano insufficienti a dominare « fatti » anche molto elementari delle nostre teorie; e che quindi è necessaria una ricerca più approfondita, più sottile, di nuovi principi, nella quale non ci si può limitare a considerazioni «tecniche» strettamente interne ai sistemi assiomatici stessi, ma si deve necessariamente allargare la visuale a un ripensamento più generale della portata e dei suggerimenti dei risultati acquisiti; ·in altri termini occorre proprio rivedere la concettualizzazione stessa immediatamente legata al momento in.tuitivo, concreto, dal quale attingiamo concetti fondamentali. E qui ritorna il tema centrale di tutto il nostro discorso: è ben vero che uno può aggiungere teorema a teorema senza curarsi d'altro; o che al contrario si può disquisire sui risultati senza approfondire le loro motivazioni e le metodocome « per tutti gli insiemi fino al rango r », dove r è appunto un ordinale .limite opportuno. Vale a dire, è bene ribadirlo, si ottengono modelli della teoria degÌi insiemi già considerando opportuni segmenti della struttura cumulativa dei tipi. Espresso intuitivamente è proprio questo il contenuto di un teorema dimostrato da Scott (1963) e Bruno Scarpellini (1966) noto anche come teorema di riflessione per la teoria degli insiemi. Nello stesso ordine di idee nel 1960 Azriel Levy aveva elaborato dei principi cosiddetti di riflessione mediante i quali è possibile formulare vari assiomi forti dell'infinito di cui si riferisce nel testo. x In questo contesto risulta naturale stabilire una classificazione dei grandi cardinali costituendo una « scala » di grandezza. Dei cardinali fino ad oggi noti e classificati come detto, l'esistenza di alcuni risulta compatibile con l'ipotesi
di costruibilità V= L mentre quella di altri risulta non compatibile con tale ipotesi. Fra i primi vogliamo ricordare i cardinali fortemente inaccessibili (che stanno anche alla base della classificazione), i cardinali di Mahlo ecc. Fra i secondi i cardinali di Ramsey, i cardinali misurabili, i cardinali estensibili (che sono «i più grandi» cardinali oggi noti) ecc. Si osservi che si conoscono grandi cardinali dei quali tuttavia non si è ancora riusciti a determinare con esattezza la posizione nella classificazione; ricordiamo ad esempio i cosiddetti cardinali fortemente compatti che sono senz'altro « maggiori » dei misurabili e « minori » dei supercompatti, senza che però si sappiano localizzare con esattezza fra questi due estremi. Ricordiamo infine che alcuni di questi cardinali hanno importanti applicazioni anche nella teoria dei modelli.
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La logica·nel ventesimo secolo (x)
logie che li hanno generati. Ma è solo mediante una compenetrazione operativa di questi due atteggiamenti che la scienza effettivamente progredisce; non che qui si voglia sostenere che ogni ricercatore deve essere una sorta di «genio» che abbracci in un sol sguardo e con familiarità assoluta ricerche specialistiche assai spinte e riflessioni su di esse talora altrettanto difficoltose e profonde. Si vuole tuttavia sostenere qualcosa che forse è ancor più difficile da ottenere: che il lavorare in un campo specifico non può né deve assolutamente costituire un alibi per chiusure mentali artificiose, accademiche e controproducenti. 1
1 Abbiamo più volte avvettito che il nostro panorama oltre ad aver richiesto, data la particolare natura dell'argomento trattato, semplificazioni e approssimazioni talora anche notevoli, non pretende certamente di aver esaurito ogni aspetto della ricerca logica moderna. Desidero tuttavia far notare che mancanze e lacune sarebbero indubbiamente state ben più gravi se non fossi stato confortato nel mio lavoro da contatti e discussioni frequenti con diversi colleghi e amici. Voglio qui ringraziare in primo luogo e in modo del tutto particolare il prof. Silvio Bozzi per la sua
concreta, fratetna e competente collaborazione; ma anche ricordare con gratitudine la dottoressa Donatella Cagnoni, il dott. Claudio Pizzi, il dott. Ugo Volli, il dott. Edoardo Ballo, il prof. Gabriele Lolli, l'ing. Giulio Rodinò, nonché i professori Ettore Casari e Maria Luisa Dalla Chiara Scabia che con discussioni e suggetimenti hanno in occasioni divetse contribuito alla chiarificazione di alcuni argomenti. Un ringraziamento particolare infine alla signora Giulia Maldifassi che con enorme pazienza e competenza si è sobbarcata l'onere di approntare il dattiloscritto.
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CAPITOLO SESTO
Problemi ftlosoftci della matematica e della fisica odierne
I ·CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
È oggi universalmente riconosciuto che lo sviluppo della matematica e della fisica ha assunto nell'ultimo mezzo secolo un ritmo sempre più rapido, per cui si è enormemente accresciuto il loro peso specifico in quasi tutti i settori della vita moderna: la fisica ha pressoché assorbito in sé i capitoli più avanzati della chimica e ha assunto un'importanza fondamentale anche per la biologia, continuando ad essere nel contempo la colonna portante di gran parte dell'ingegneria; la matematica ha trovato applicazioni sempre più estese, non solo nell'ambito delle ricerche fisiche, chimiche e di ingegneria, ma anche in campi che per l'innanzi parevano assai lontani da essa, come la biologia, l'economia e la linguistica. Non esiste invece altrettanta unanimità nella valutazione dell'incidenza culturale oggi spettante alle due discipline in esame. Ed infatti, mentre un gruppo di studiosi ritiene che nelle ultime fasi del loro sviluppo siano emerse parecchie questioni di notevolissimo significato filosofico, altri sono invece del parere che, proprio per effetto dei loro ultimi progressi, la matematica e la fisica abbiano finito per estraniarsi in misura crescente dal vero e proprio campo della cultura, assumendo un aspetto sempre più tecnico e specialistico. È inutile dire che noi condividiamo la prima tesi interpretativa, non la seconda. Non ci nascondiamo però che questa è così profondamente radicata nell'animo di molti studiosi, da imporci la massima cura per tentare di provarne l'inconsistenza. Il primo indispensabile accorgimento che dovremo usare a questo scopo sarà quello di mantenere tutte le nostre considerazioni su di un piano puramente discorsivo, evitando di introdurvi quei tecnicismi che sogliano suscitare le maggiori ostilità. La cosa, del resto, ci sembra possibile, proprio perché riteniamo che le recenti « rivoluzioni » prodottesi nella matematica e nella fisica vi abbiano fatto affiorare parecchie questioni di fondo, il cui significato va molto al di là del loro mero aspetto tecnico. Si tratta di saperlo enucleare senza perdere, insieme con i particolari tecnici, anche il rigore filosofico dei concetti. A questo punto occorre far presente, in via preliminare, che entro la prospettiva in cui ci siamo posti, esiste oggi una profonda differenza tra le due scienze in
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esame, pur tanto collegate tra loro fin dai tempi di Galileo. Ed infatti, per quanto riguarda la matematica, i problemi « filosofici » sono soprattutto emersi in connessione ai dibattiti - sorti fin da tempi remoti ma fortemente accentuatisi nel XIX secolo intorno ai suoi fondamenti (cioè intorno alla natura delle entità numeriche e geometriche, intorno al concetto di infinito, alla giustificazione degli assiomi ecc.). Invece, per quanto riguarda la fisica, tali problemi sono stati prevalentemente suggeriti dalle radicali innovazioni prodottesi all'inizio del nostro secolo: innovazioni che fanno sostanzialmente capo alla teoria della relatività e alle ricerche intorno alla struttura dell'atomo. Pertanto, mentre esiste una sorta di continuità fra i dibattiti odierni di filosofia della matematica e quelli del secolo scorso, esiste invece un'autentica frattura tra i problemi « filosofici» sollevati dalla fisica odierna e quelli che emergevano dalla fisica classica (ottocentesca). Stando così le cose, è chiaro che la filosofia della matematica va trattata ancora oggi, come in passato, in strettissima connessione con le indagini di logica; se invero essa ha subito negli ultimi decenni una notevolissima svolta, è soprattutto per effetto delle nuove raffinatissime tecniche ideate dai logici. Ne segue, per quanto ci riguarda più da vicino, che anche l'esposizione dei più recenti sviluppi della filosofia della matematica doveva venire collocata, come di fatto è accaduto, nei due capitoli, il v del presente volume e il 111 del prossimo, espressamente dedicati a un'esposizione approfondita delle ricerche logiche dall'inizio del secolo a oggi. Qui è parso tuttavia opportuno aggiungere, a quanto ivi esposto, alcune considerazioni che riguardano la matematica nel suo complesso, e che, più precisamente, mirano a porre in luce talune nuove prospettive in essa affermatesi come diretta conseguenza del fecondo lavoro eseguito dai logici-matematici della fine dell'Ottocento, soprattutto per quanto riguarda l'assiomatizzazione delle teorie. È chiaro che questo compito avrebbe potuto venire eseguito prendendo in esame, una dopo l'altra, le singole discipline in cui la nostra scienza si è venuta attualmente articolando. Abbiamo tuttavia scelto un'altra strada, sia perché tale esame avrebbe necessariamente richiesto di scendere in particolari tecnici che - come già accennammo - ci siamo proposti di evitare, sia perché avrebbe di necessità occupato uno spazio troppo ampio non essendovi oggi nel complesso delle discipline matematiche, come invece vi è nella fisica, un gruppo di argomenti incontestabilmente superiori agli altri dal punto di vista del significato filosofico. Ci limiteremo pertanto a porre in rilievo quelle che ci sembrano le caratteristiche strutturali più idonee a differenziare, nella sua globalità, la matematica del Novecento, pura e applicata, da quella «classica» senza soffermarci a delineare, nemmeno per sommi capi, i recenti progressi conseguiti dalle singole teorie. Siamo convinti che una trattazione così impostata possa servire, meglio di una più analitica, a dare una prima sommaria idea circa il tipo di riflessioni che la nuova matematica suggerisce a ogni persona culturalmente impegnata.
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Poiché la questione si pone in termini nettamente diversi per la fisica, occorrerà articolare in modo del tutto differente i paragrafi ad essa dedicati. Neppure a proposito della fisica potremo proporci, come è ovvio, di fornire un quadro completo del suo sviluppo nell'ultimo mezzo secolo. Crediamo tuttavia utile, tenuto conto che alle interpretazioni della teoria della relatività venne già dedicato il capitolo xv del volume sesto, premettere qualche breve cenno storico alle principali tappe che hanno contrassegnato il progresso della fisica quantistica dopo il I92o, perché è proprio intorno a questa, e in particolare ad alcune sue tappe, che si sono accese parecchie fra le più vivaci e interessanti discussioni filosofiche (il suo sviluppo fino a tale data era già stato rapidamente delineato nel capitolo xm del volume sesto). Dopo il paragrafo VI, dedicato a questo sguardo storico (evidentemente superfluo per i lettori forniti di qualche competenza sull'argomento), potremo così affrontare - in maniera più specifica - i gravi problemi metodologici e gnoseologici sollevati dalla nascita della vera e propria meccanica quantistica verso il I 92 5. Ancora una volta la preoccupazione di essere capiti anche dai non specialisti ci vieterà di scendere in particolari tecnici che pur sarebbero senza dubbio utili alla chiarificazione di tali problemi. Riteniamo tuttavia che questo non ci impedirà di puntualizzarne certi significativi aspetti, che possono servire a dissolvere qualcuno dei maggiori equivoci sorti in proposito. Per ora basti far presente che i vivacissimi dibattiti accesisi intorno ai principi della meccanica quantistica, se ebbero senza dubbio il merito di diffondere in larghi strati un nuovo interesse per la fisica, ebbero anche, però, l'effetto di suscitare nei confronti di tale disciplina non poche (e non sempre infondate) diffidenze per le troppo affrettate conclusioni filosofiche che alcuni dei suoi massimi cultori si ritennero in diritto di ricavare dalle proprie scoperte. Per le interessantissime applicazioni della matematica, come pure della fisica quantistica, alle più recenti indagini biologiche, rinviamo al capitolo n del volume nono. Agli sviluppi dei dibattiti sulla meccanica quantistica in URSS, entro il quadro del materialismo dialettico, verrà dedicato ampio spazio nel capitolo v del sopracitato volume. II ·IL METODO ASSIOMATICO IN MATEMATICA
Come già sappiamo, una delle maggiori innovazioni introdotte in matematica alla fine dell'Ottocento (con l'esplicito intento di adeguarla alle più raffinate esigenze di rigore avanzate in quegli anni dai logici) è stata la riformulazione delle sue varie teorie in forma rigorosamente assiomatica. Una breve ricapitolazione dei caratteri di tale innovazione potrà aprirci la via a comprendere il significato profondo della svolta cui essa ha dato luogo. I) Assiomatizzare una teoria significa anzitutto precisare col massimo scru-
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polo - dando l'elenco completo delle sue proposizioni primitive- le relazioni fra gli enti della teoria enunciate da tali proposizioni: nessun teorema potrà introdurre altre relazioni non riducibili a queste. z) Gli enti di cui la teoria parla dovranno considerarsi «implicitamente definiti » dai suoi assiomi, il che significa che essa non potrà tenere conto di altre eventuali proprietà di tali enti, non incluse negli assiomi. 3) Una teoria assiomatizzata prescinde nel modo più completo dal contenuto, empirico o non, usualmente connesso ai suoi termini e prescinde quindi da qualsiasi giustificazione « intuitiva » che potrebbe venire addotta - sulla base di tale contenuto - a sostegno di questo o quell'assioma. Viene quindi meno ogni possibilità di attribuirle un qualche grado di evidenza: essa non è altro che un sistema ipotetico-deduttivo avente il compito di esplicitare le conseguenze ricavabili dagli assiomi. Questi possono venire respinti solo nel caso che, fra le conseguenze da essi derivate, ve ne siano alcune fra loro contraddittorie. Senza scendere qui in ulteriori particolari, 1 ci limiteremo a ricordare che il metodo in esame venne anzitutto applicato (negli ultimi anni dell'Ottocento, come già si è detto) all'aritmetica e alla geometria elementare, soprattutto ad opera di Peano e di Hilbert. Il successo da essi ottenuto fu così grande, che dopo poco tempo si cominciò ad applicare un analogo trattamento anche ai capitoli della matematica di più recente creazione. A conferma di ciò basti far presente che già nel 1908 Ernst Zermelo esponeva la sua famosa assiomatizzazione della teoria degli insiemi e due anni più tardi, nel 1910, Ernst Steinitz delineava una prima soddisfacente assiomatizzazione della cosiddetta « algebra astratta». Fra le altre discipline rielaborate poco più tardi col nuovo metodo meritano particolare menzione: la topologia, al cui prodigioso sviluppo - su rigorosa base assiomatica contribuirono eminenti studiosi di pressoché tutti i paesi (il tedesco Felix Hausdorff, il francese Maurice Fréchet, il polacco Stefan Banach, lo svizzero Heinz Hopf, il sovietico Pavel Sergeevic Aleksandrov ecc.); l'analisi funzionale per la quale ricordiamo, oltre al testé menzionato Banach, il sovietico Izrail Moiseevic Gel'fand, l'americano Marshall H. Stone, l'americano di origine ungherese Johann von Neumann; Ia geometria algebrica, legata ai nomi dell'americano di origine polacca Oscar Zariski (che fu allievo di Enriques a Roma), dei francesi Henri Cartan e André Weil, dell'apolide Aiexandre Grothendieck; la teoria della misura nella cui trattazione assiomatica si distinse in modo speciale Ia scuola matematica polacca; il calcolo delle probabilità che subì un'autentica svolta per l'assiomatizzazione fattane nel 1933 dal sovietico Andrej Kolmogorov. r Uno sviluppo assai importante dell'assiomatizzazione delle teorie è costituito dalla loro « formalizzazione ». Rinviando il lettore a quanto detto in proposito nel capitolo v, basti ricapitolare le differenze tra l'una e l'altra: mentre per assiomatizzare una teoria è necessario e sufficiente precisarne con scrupolo le proposizioni primitive
(da considerarsi come« definizioni implicite» degli enti della teoria), per formalizzarla occorre qualcosa di più, cioè determinare la potenza espressiva del linguaggio in cui essa è formulata e le regole logiche in base a cui verranno· condotte le dimostrazioni.
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Questo rapido e mirabile sviluppo ha fatto sorgere la convinzione che fosse possibile tentare una presentazione assiomatica di tutte le branche fondamentali della matematica, gerarchicamente disposte le une rispetto alle altre. Tale tentativo è stato compiuto da un gruppo di valenti studiosi francesi, riuniti sotto l'unico nome di Nicolas Bourbaki, che iniziò nel 1939 la pubblicazione, protrattasi fino ai nostri tempi, di una fitta serie di fascicoli e volumi dedicata appunto alla realizzazione dell'anzidetto programma (il primo fascicolo esponeva la teoria degli insiemi). Negli ultimi anni però, mentre si sono avute numerose dedizioni di fascicoli già precedentemente pubblicati, è invece diminuito, almeno in percentuale, il numero dei fascicoli integralmente nuovi e - cosa particolarmente significativa- questi non sono più usciti nell'ordine gerarchico che aveva caratterizzato l'inizio della serie, onde qualcuno comincia a parlare di «crisi del bourbakismo ». Giustificato o no che sia l'accenno a questa crisi, è incontestabile che quasi tutti i matematici del nostro secolo hanno finito per abbracciare il nuovo metodo nell'esposizione del proprio settore di studio. Sorge quindi spontanea la domanda: quali sono i motivi di fondo che li hanno indotti a un tipo di trattazione così poco naturale (perché niente affatto intuitiv-a)? Riteniamo opportuno menzionarne quattro che ci sembrano particolarmente significativi: a) la separazione che il metodo assiomatico suggerisce fra le ricerche «a monte » e quelle « a valle » dei sistemi di assiomi, tutte parimenti interessanti ma che richiedono competenze specifiche tra loro ben distinte, anche se talvolta riunite nella medesima persona; b) la grande generalità che esso è in grado di fornire alle teorie, proprio perché le libera da ogni preoccupazione circa l'evidenza dei loro assiomi e circa la natura degli enti trattati; c) la capacità che ne ricaviamo di percepire con perfetta chiarezza tutti i legami che connettono una proposizione con l'altra entro la teoria assiomatizzata (in particolare di individuare la radice nascosta di certi teoremi a prima vista sconcertanti); d) i mezzi che tale metodo pone a nostra disposizione per determinare con estrema precisione i rapporti fra le varie teorie, scoprendo per esempio che due di esse, nate per « parlare » di enti del tutto diversi, sono in realtà coincidenti, o che l'una è soltanto una particolarizzazione dell'altra. Sono state proprio le scoperte di questo tipo a far comprendere ai matematici del nostro secolo che il vero oggetto della loro scienza non è costituito dai particolari enti (punti, numeri, funzioni ecc.) di cui si occupano i singoli rami della matematica, ma è invece costituito dai sistemi di relazioni da cui tali enti risultano fra loro collegati. Trattasi di una svolta ricca di implicanze filosofiche, come mostreremo nel prossimo paragrafo. Prima, però, sarà opportuno sgombrare il campo da due accuse frequente-
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mente sollevate contro l'assiomatizzazione delle teorie: l'accusa che essa non favorisca l'inventività del matematico, riuscendo soltanto a presentare in forma più soddisfacente concetti e risultati dei quali era già effettivamente in possesso; e l'accusa che finisca per privare la matematica di ogni contatto con la realtà empirica. Alla prima si può agevolmente rispondere, che l'esatta precisazione degli assiomi è stata proprio ciò che ha permesso un consapevole intervento su di essi onde modificare questo o quel punto di una teoria, «inventando» con ciò nuove teorie non raggiungibili per via meramente intuitiva. Né va dimenticato, che il fatto stesso di trovarsi di fronte a una molteplicità di assiomatizzazioni ha educato il matematico a distinguere fra quelle significative e stimolanti e quelle meramente artificiose. Per quanto riguarda la seconda accusa, basterà osservare che, assiomatizzando una teoria, si amplia, e non si restringe, il suo contatto con l'esperienza: dopo tale operazione infatti, essa risulterà applicabile non più ai soli enti che ne avevano suggerito la primitiva elaborazione, ma ad ogni sistema di enti fra i quali valgono le relazioni fissate dagli assiomi, nulla importando che, oltre a ciò, essi godano o non godano di altre proprietà originariamente ritenute intuitive ma di fatto estranee alla teoria. Riservandoci di prendere in esame nel paragrafo v gli effettivi vantaggi che proprio l'assiomatizzazione ha fornito alla matematica applicata, consentendole di introdurre metodi per l'innanzi ignoti, vogliamo ancora aggiungere qualche considerazione - di ordine per così dire filosofico - sul problema se la generalità di una teoria risulti o no compatibile con la sua efficacia conoscitiva. A proposito di ciò, va ricordato che la tesi della incompatibilità venne già discussa e confutata, fin dal secolo scorso, dal grande matematico e fisico Bernhard Riemann, di cui si parlò a lungo nel volume quarto. Alla fine della sua celebre memoria (più volte menzionata in tale volume) sulle prime e più astratte ipotesi che stanno alla base della geometria, egli si chiedeva: « Quale utilità potranno avere le ricerche che partono da concetti tanto generali? » Ed ecco la risposta che immediatamente dava: le ricerche in questione hanno l'indiscutibile vantaggio di evitare che il « progresso della conoscenza » venga impedito dalle « vedute troppo ristrette » trasmesseci dagli stadi precedenti della ricerca, cioè dai « pregiudizi tradizionali». Aggiungeva poi- in un frammento direttamente rivolto alla teoria della conoscenza (Erkenntnistheoretisches) e costituente, in certo senso, una integrazione della memoria anzidetta - che tali « pregiudizi » non derivano « da una speciale disposizione dell'animo antecedente a tutta l'esperienza», ma «ci vengono trasmessi inavvertitamente mediante il linguaggio ». Solo una critica radicale di questo - ne concludeva -potrà consentirci di eliminare il diaframma che si frappone tra le nostre teorie e l'esperienza: il distacco della scienza dal patrimonio linguistico del sapere comune (immediatamente intuitivo) non costituirà dunque una diminuzione delle sue capacità conoscitive ma un notevolissimo incremento di esse. Ecco le chiare parole da lui scritte sull'argomento: è solo
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procedendo per la via della « generalità crescente » dei concetti e dei principi, che « la nostra concezione della natura diviene a poco a poco più completa e più esatta », e può divenirlo perché « contemporaneamente si allontana sempre di più dalla superficie delle apparenze». Ci sembra assai significativo che anche Lenin, pur senza conoscere Riemann, abbia sostenuto una tesi pressoché identica, così formulandola nei Quaderni: «Per il fatto di salire dal concreto all'astratto, il pensiero non si allontana dalla verità ma le si approssima... Tutte le astrazioni scientifiche (che siano corrette, da prendersi sul serio e non insensate) riflettono la natura più profondamente più fedelmente, più compiutamente. » III· CONSEGUENZE FILOSOFICHE DELL'ASSIOMATIZZAZIONE DELLA MATEMATICA MODERNA
Per dare un'idea delle notevoli implicanze filosofiche connesse alla svolta cui abbiamo poco sopra accennato, verificatasi in seguito all'introduzione del metodo assiomatico, converrà prendere le mosse da un gravissimo problema prospettato con vera passione da Hilbert nella famosa relazione da lui letta al secondo congresso internazionale di matematica tenuto a Parigi nel I 900 (il titolo della relazione era Mathematische Probleme [Problemi matematici]): accadrà prima o poi - egli si chiedeva - anche alla matematica ciò che è accaduto a parecchie altre scienze, e cioè di frantumarsi in tanti rami indipendenti, i cui studiosi non saranno più in grado di intendersi l'un l'altro? La risposta che Hilbert diede a questo interrogativo era nettissima: la matematica non potrà mai correre questo pericolo, perché «a mio giudizio» essa costituisce « un tutto indivisibile, un organismo la cui capacità di vita è condizionata dalla connessione delle sue parti». Il lettore, che ha seguito i dibattiti da noi esposti nei volumi precedenti, ricorderà certamente l'importanza filosofica che abbiamo riconosciuto agli sforzi (di Comte, di Helmholtz, di Engels ecc.) diretti alla riconquista dell'unità del sapere posta in crisi dal moltiplicarsi delle ricerche specialistiche. Ma che senso potrebbero avere questi sforzi, se già la stessa prima scienza della classificazione comtiana dovesse perdere il carattere di organismo unitario? È chiaro che, visto in questa prospettiva, il quesito drammaticamente sollevato da Hilbert non può non rivelare un significato che va assai oltre i confini della pura matematica. E altrettanto dovrà ripetersi, corn:'è ovvio, per la ferma risposta da lui data a tale quesito. Il fatto grave è, però, che questa risposta non risultava fondata, in Hilbert, su null'altro che la sua fede personale (non senza motivo egli la faceva precedere dalle esplicite parole «a mio giudizio»). Orbene, il metodo assiomatico ha avuto l'incomparabile merito di dare alla tesi unitaria hilbertiana una base ben più solida che non quella costituita dal giudizio personale di un singolo· studioso, fosse
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pure uno studioso unanimamente riconosciuto come il più grande matematico della sua epoca. L'assiomatizzazione delle branche fondamentali della matematica, operata dai bourbakisti, ha infatti permesso di constatare senza difficoltà: 1) che ciascuna di esse consiste essenzialmente nello studio di talune strutture, ove per struttura si intende un insieme di elementi (di natura non specificata) tra i quali sono fissate certe relazioni che soddisfano a taluni ben determinati assiomi (i cosiddetti assiomi della struttura) 1 ; z) che le relazioni a cui si fa riferimento nella definizione di tali strutture, pur potendo essere assai varie, rientrano tutte in tre classi fondamentali (cosicché si hanno tre soli« grandi tipi» di strutture: algebriche, di ordine, e topologiche). Naturalmente «è possibilissimo che lo sviluppo ulteriore delle matematiche aumenti il numero delle strutture fondamentali, rivelando la fecondità di nuovi assiomi o di nuove combinazioni di assiomi, e si può dare anticipatamente per scontato che da queste invenzioni di strutture si ricaveranno progressi decisivi, a giudicare dai progressi che ci hanno apportato le strutture attualmente note; d'altra parte queste ultime non sono in alcun modo degli edifici compiuti, e sarebbe assai sorprendente che tutto il succo dei loro principi fosse fin d'ora esaurito » (Bourbaki). Una cosa appare comunque certa: che le teorie, le quali studiano strutture di un medesimo tipo, risultano fra loro strettamente connesse, onde lo sviluppo dell'una finisce per gettare immediatamente luce sui problemi dell'altra. Si può pertanto concludere che la matematica del xx secolo, disponendo delle « potenti leve » ad essa fornite dallo studio dei grandi tipi di strutture, è ormai in grado di dominare« con un solo colpo d'occhio immensi domini unificati dall'assiomatica, ove in passato sembrava regnare il più informe caos » (Bourbaki). Con ciò la matematica non ha ovviamente cessato di presentarsi come un albero fornito di più rami; ma di ciascuno di essi noi scorgiamo con chiarezza i lineamenti, prima nascosti da un impenetrabile viluppo di foglie. E scorgiamo con altrettanta chiarezza il tronco dal quale traggono origine, nonché le precise connessioni che questo tronco stabilisce tra un ramo e l'altro. L'alone di mistero da cui tali connessioni sembravano avvolte scompare completamente, lasciando emergere un ordine profondo, che ci spiega perché la matematica costituisca davvero - come aveva intuito Hilbert - un « tutto inscindibile ». Il suo carattere unitario viene in tal modo ricuperato su di un nuovo piano, che era sempre sfuggito a chi si rinserrava nella particolarità delle singole teorie, incapace di guardare al di là della « natura » dei loro elementi . Un ulteriore passo lungo la via poco sopra delineata è stato recentemente 1 Studiare una struttura significherà, in accordo con quanto si è detto nel paragrafo precedente, ricavare tutte le conseguenze logiche dei
suoi assiomi, prescindendo da ogni altra ipotesi sugli elementi considerati.
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compiuto dalla cosiddetta« teoria delle categorie »,1 che introduce- come verrà dettagliatamente spiegato nella terza parte del capitolo III del volume nono la nozione generàlissima di « categoria », tendente ad abbracciare in sé tutte le strutture di una medesima specie (per le quali era già emersa l'importanza fondamentale dei « morfismi » che intercorrono tra insiemi muniti, appunto, di strutture della stessa specie). Come esempi di categorie ricordiamo quella degli insiemi, quella dei gruppi algebrici, quella degli spazi topologici ecc. Studiando in modo sistematico le proprietà delle singole categorie e i rapporti fra determinate categorie (per esempio fra una categoria e la sua « duale ») la nuova teoria è riuscita ad enucleare dei generi di connessione per l'innanzi inafferrabili e, sulla base di essi, a porre in luce sempre più profondi motivi per affermare con piena consapevolezza il carattere organico del grande e complesso albero della matematica. Una semplice riflessione su quanto testé accennato, può ora aiutarci a dissolvere un grave equivoco sorto da tempo intorno all'assiomatizzazione delle teorie matematiche: l'equivoco secondo cui tale assiomatizzazione dimostrerebbe il loro carattere meramente convenzionale. È certo che in un primo momento la scoperta che le teorie matematiche sono sistemi ipotetico-deduttivi, le cui ipotesi basilari (cioè gli assiomi) risultano prive del carattere intuitivo ad esse tradizionalmente attribuito, poté suscitare a buon diritto l'impressione che tali sistemi non fossero altro se non pure convenzioni. Ciò dipese dall'aver trascurato che essi non erano affatto sistemi arbitrari, ma sistemi elaborati col preciso intento di enunciare in forma più rigorosa teorie già note da secoli, e che in particolare lo sganciamento dei loro assiomi da ogni contenuto intuitivo costituiva proprio la condizione indispensabile per raggiungere il livello di altissimo rigore necessario per il loro ulteriore sviluppo. In un momento successivo cominciarono a sorgere seri dubbi sulla presunta « mera convenzionalità » delle teorie matematiche assiomatizzate, quando ci si accorse che esse non servivano soltanto a presentare in forma logicamente più limpida le vecchie teorie « intuitive », ma conducevano pure a comprendere con maggiore chiarezza il senso di concetti sui quali la semplice intuizione non aveva mai saputo dire nulla di preciso; tipico il caso dei concetti di « continuità » di una curva, di « dimensione » di uno spazio, di « grado di infinità » ecc. Orbene il recupero poco sopra accennato dell'unità (o per lo meno delf'organicità) della matematica- recupero ottenuto per l'appunto attraverso il metodo assiomatico - ci fornisce a nostro parere un ulteriore, validissimo argomento I La teoria delle categorie si è sviluppata solo a partire dal 195 5-56, e qualcuno si è chiesto perché abbia tardato tanto ad attirare l'interesse dei matematici. Ecco la risposta, peraltro un po' vaga, fornita a tale quesito da Saunders Mac Lane: « Personalmente ritengo che il clima delle opinioni matematiche nel decennio 1946-5 5 non fosse favorevole ad un ulteriore sviluppo con-
cettuale. L'indagine su concetti tanto generali quanto quelli della teoria delle categorie era fortemente scoraggiata, forse perché si aveva la sensazione che lo schema fornito dalle strutture di Bourbaki producesse una generalità sufficiente. » Da tale data, come osserva ancora Mac Lane, essa venne usata con particolare profitto in topologia, nell'algebra omologica e nella geometria algebrica.
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contro l'interpretazione convenzionalistica di tale scienza, cioè proprio contro l'interpretazione che in un primo tempo era parsa derivare dalla sua rielaborazione in forma assiomatica. Trattasi del seguente argomento: se le teorie matematiche fossero delle mere convenzioni, dei puri giochi, sarebbe impossibile riscontrarvi quelle « connessioni profonde » che fanno, della loro riunione, un tutto organico e non un caotico aggregato. È stata - come abbiamo detto - l'impostazione astratta, moderna, di tali teorie a farci scoprire queste connessioni, esistenti al di là delle « differenze di contenuto», per l'innanzi ritenute fondamentali e insormontabili. Dobbiamo dunque riconoscere proprio all'anzidetta impostazione il merito di averci fatto comprendere con chiarezza che il grande edificio della matematica (edificio che cresce - lo si voglia o no - lungo linee di sviluppo saldamente coordinate fra loro) non è, nel suo complesso, qualcosa di meramente convenzionale, ma di « oggettivo », ossia di indipendente dalla pura attività soggettiva del matematico. Una volta raggiunta questa conclusione, ci ritroviamo come è ovvio di fronte all'antico problema, schiettamente filosofico, di stabilire quale sia effettivamente il tipo di obiettività spettante alla matematica. Esso presenta due aspetti ben distinti l'uno dall'altro: il primo concerne l'obiettività da riconoscersi alle entità primitive (numeri, insiemi, punti ecc.) delle singole teorie matematiche; il secondo invece l'obiettività da riconoscersi al complesso organico di tali teorie. Quello rientra nel problema « classico » dei fondamenti e perciò riguarda essenzialmente la logica, per cui è specificamente trattato nel capitolo v; questo rientra in una questione più generale di carattere prettamente gnoseologico: possiede o non possiede la matematica un qualche valore conoscitivo? I realisti ingenui ritenevano di poterle dare una risposta positiva, in quanto ammettevano che ogni singolo assioma riflettesse in sé una ben determinata proprietà del reale. Ma la piena consapevolezza, fornitaci dai moderni sviluppi dell'assiomatica, della non assolutezza degli assiomi di una qualunque teoria matematica, esclude la possibilità di accogliere - allo stato attuale della scienza l'anzidetta ammissione. Il problema dovrà dunque venire impostato in modo del tutto diverso, non facendo più riferimento alle singole proposizioni di questa o quella teoria, ma all'edificio matematico nella sua interezza. Ebbene, se noi poniamo in g_uesti nuovi termini la questione, ci sembra innegabile che il realismo possa venire sostenuto con argomenti ben più validi. Questi si riassumono nella seguente domanda: su quali basi riterremo lecito negare all'edificio matematico ogni valore conoscitivo (cioè ogni «presa» sulla realtà) quando siamo costretti a constatare giorno per giorno che esso costituisce il più potente strumento di cui dispongono le « scienze reali », cioè le scienze rivolte - per loro stessa natura - a cogliere tale realtà? Nei secoli scorsi si era creduto che fosse soltanto la fisica a doversi valere, per attuare i propri compiti, dei concetti e delle proposizioni matematiche; e anzi 4II
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si era creduto che essa dovesse rivolgersi, a questo scopo, ad una teoria matematica in certo senso « privilegiata » (come tale era stata considerata in un primo tempo la geometria, poi - dal Settecento in avanti - l'analisi infinitesimale). Oggi noi sappiamo invece che le cose non stanno così: non è infatti la sola fisica a dover fare ricorso alla matematica, e non esiste una teoria matematica privilegiata da utilizzarsi - essa sola - nelle scienze cosiddette empiriche. Resta però il fatto che senza la matematica, cioè senza la straordinaria ricchezza e varietà di teorie che essa pone a nostra disposizione, pressocché nessuna di queste scienze avrebbe raggiunto il suo livello attuale. Qualcuno osserverà forse, a questo punto, che il qualificare la matematica come « strumento » significa in ultima istanza sostenere che essa è soltanto una costruzione soggettiva, e nulla più. Noi rispondiamo, però, che il parlare di strumento non significa affatto parlare di un mero prodotto della nostra mente. Se infatti lo strumento si rivela efficace, è la prassi stessa a dimostrare che esso deve possedere una base reale. Non neghiamo che si tratti di un problema assai arduo e sottile. Ma, a ben riflettere su di esso, ci si accorge subito che non è altro se non la riformulazione moderna di un problema già affrontato (e a nostro parere avviato a seria conclusione) da Engels e da Lenin: quello di riuscire a concepire un contatto con la realtà che dia un valore obiettivo al complesso delle nostre teorie (in via di perenne trasformazione) e non pretenda, nel contempo, di fornire ad alcuna di esse un carattere di assolutezza. IV · SOLLECITAZIONI CHE PROVENGONO ALLA MATEMATICA DALLE ALTRE SCIENZE
Il rapporto fra la matematica e le altre scienze non si riduce - come taluno potrebbe supporre - a un puro « dare » da parte della prima e un puro « ricevere » da parte delle seconde. È invece un rapporto di vivissimo interscambio, che potrebbe assai opportunamente venire gualificato come dialettico. Il fatto a prima vista sorprendente è, poi, che questo interscambio non solo non ha subito alcuna diminuzione per effetto della nuova impostazione (generale, astratta, assiomatica) della matematica del xx secolo, ma semmai è stato da essa incrementato. Fin quando la matematica era stata interpretata come un sistema di « verità assolute », ricavate da assiomi indiscutibili perché evidenti, essa aveva per così dire intrattenuto dei rapporti particolarmente stretti con l'esperienza quotidiana, perché questa sola pareva in grado di fornire un carattere intuitivo ai suoi contenuti e un carattere apodittico alle sue proposizioni primitive. Anche durante tale fase, però, alcuni concetti fondamentali delle sue teorie, e proprio delle più avanzate, erano stati tratti non direttamente dall'esperienza quotidiana, ma dalle nozioni (semi-intuitive) via via elaborate dalle altre scienze (e dalle tecnologie ad
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esse collegate). Si pensi per esempio al concetto di derivata inizialmente suggerito, sia pure in forma tutt'altro che chiara, dalla nozione semi-intuitiva di velocità istantanea, elaborata dai meccanici del Seicento; oppure al concetto di campo, ricavato da una nozione semi-empirica che Faraday aveva introdotto per fornire una comoda descrizione dei risultati raggiunti nelle sue accurate e geniali sperimentazioni. Orbene, per la matematica del nostro secolo è accaduto che il primo tipo di legami, quelli con l'esperienza quotidiana, si è ovviamente rivelato impossibile a causa del carattere astratto assunto dalle sue teorie. Invece il secondo tipo di legami, quelli con l'esperienza mediata dalle altre scienze e dalla tecnologia, non solo non si è interrotto ma - come testé accennammo - si è in certo senso approfondito e ampliato. Basti ricordare, a titolo di esempio, che uno dei rami più avanzati dell'analisi infinitesimale moderna, la cosiddetta teoria delle «distribuzioni», ha tratto per l'appunto origine dalla riflessione su di un tipo di algoritmi - non ortodossi da un punto di vista classico - che gli elettrotecnici avevano introdotto con successo all'inizio del secolo e con altrettanto successo era stato usato verso il 1930 dal grande fisico Dirac (sul quale ritorneremo nel paragrafo vr). Anche in questo caso però, è fuori dubbio che il metodo assiomatico ha compiuto una funzione di fondamentale importanza. Esso servì infatti di validissimo sprone alla costruzione di teorie rigorose molto generali, capaci di dare un assetto soddisfacente alle nuove nozioni (suggerite dai non-matematici) sulla base di sistemi di assiomi non artificiosi eppure nettamente diversi da quelli fin allora accettati. È ovvio che una tale costruzione non sarebbe stata possibile se si fosse continuato ad attribuire ai vecchi assiomi un valore di verità assolute ed evidenti. L'interscambio fra matematica e « scienze empiriche» (nel senso moderno del termine, cioè fisica, biologia, economia ecc.), emerge con particolare chiarezza dall'esame dei tentativi compiuti per estendere il metodo assiomatico dall'ambito delle teorie matematiche pure a quello delle teorie elaborate da tali scienze, in particolare dalla fisica. Lo scopo di questi tentativi era manifestamente quello di portare ordine entro alcune complesse costruzioni che, per essere state elaborate in varie fasi parallelamente al progressivo arricchirsi dei dati empirici, possedevano una struttura logica molto incerta e talvolta perfino equivoca. Tipico è il caso della termodinamica che- come si vide nel volume quinto- aveva indubbiamente realizzato lungo il corso dell'Ottocento straordinari progressi (da cui era emersa l'eccezionale importanza della nuova disciplina), ma che era ben lungi, all'inizio del Novecento, dall'avere raggiunto un assetto rigoroso ove almeno risultassero chiaramente distinti i concetti primitivi da quelli derivati. Fu proprio questo il motivo che indusse il matematico e fisico tedesco (di origine greca) Constantin Carathéodory a proporne, nel I 909, una assiomatizzazione capace di ovviare a
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questi difetti. Oggi sono state riscontrate in tale assiomatizzazione varie imprecisioni, onde si è cercato di sostituirla con altre notevolmente più perfette; essa aveva comunque aperto una strada nuova alla fisica- e in generale alle teorie empiriche - che doveva accrescere di molto la « padronanza » di esse (come l'assiomatizzazione delle teorie mat~matiche aveva accresciuto di molto la capacità dei matematici di afferrare e dominare le loro più riposte articolazioni). Va notato che un altro scopo dell'estensione del metodo assiomatico alle teorie elaborate dalle scienze empiriche era anche quello di separare tali teorie dai modelli meccanici ideati per la loro interpretazione « intuitiva » e che talvolta sembravano costituire con esse un tutto inscindibile; basti pensare, per il caso della termodinamica, al modello cinetico, che certamente si era rivelato molto utile al suo sviluppo ma aveva nel contempo dato luogo a innumerevoli discussioni. Da questo punto di vista l'assiomatizzazione delle teorie empiriche può venire considerata come un'ulteriore tappa sulla via aperta da Fourier nella prima metà dell'Ottocento (via cui si è fatto cenno nel capitolo xvr del volume quarto). Dall'inizio del secolo a oggi i tentativi di assiomatizzare l'una o l'altra teoria empirica sono stati parecchi, particolarmente rivolti a quelle teorie ove la complessità degli argomenti trattati aveva creato situazioni di vero e proprio caos (rendendo difficile distinguere le proposizioni effettivamente verificabili nell'esperienza da quelle non direttamente verificabili). Ci limiteremo a ricordare: le assiomatizzazioni della meccanica quantistica elaborate da Paul Adrian Dirac e da Johann von Neumann a partire dal I927; l'assiomatizzazione della biologia tentata da J oseph Henry W oodger nel decennio I 9 5o-6o; l'assiomatizzazione dell'economia compiuta da G. Debreu, David Gale e altri fra il I954 e il I96o; quella della teoria della misurazione - a cui hanno lavorato, dal I 96o in avanti, J. Pfanzagl e B. Ellis - essenzialmente rivolta a precisare la struttura dei concetti tassonomici, comparativi e metrici. Ebbene, sono state proprio tutte queste ricerche a fornire alcuni preziosi suggerimenti alla matematica pura, in quanto le hanno fatto comprendere il vivissimo interesse di certi problemi, particolarmente delicati, che emergevano per l'appunto dagli anzidetti tentativi di assiomatizzazione. I n altre parole: si scoprì nell'espletamento stesso di tali tentativi, che essi non avrebbero potuto venire condotti a termine senza un forte arricchimento degli strumenti concettuali fin allora usati per assiomatizzare le teorie matematiche (assai meno complesse di parecchie teorie empiriche). Si apersero così, ai «matematici puri», nuovi campi di indagine a proposito dei quali non è facile dire se, e quando, sarebbero stati affrontati senza tali suggerimenti. Abbiamo voluto sottolineare questo ininterrotto scambio di suggerimenti e di aiuti fra indagini matematiche e indagini non matematiche, perché esso pone in evidenza la profonda unità oggi riscontrabile nell'ambito delle ricerche scientifiche. È un'unità che ci dimostra quanto sia infondata la pretesa di separare net-
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tamente il problema del valore conoscitivo della matematica da quello del valore conoscitivo della scienza in generale. V
· IL POTENZIAMENTO DELLA MATEMATICA APPLICATA
Pur essendoci proposti di fornire nulla più che una caratterizzazione molto schematica della matematica del nostro secolo nei suoi aspetti di maggior rilievo filosofico, il quadro che ne abbiamo tracciato risulterebbe troppo incompleto se non aggiungessimo qualche considerazione, sia pure estremamente sommaria, sull'importante capitolo di essa che suo] venire denominato « matematica applicata». Ritroveremo anche qui una nuova conferma dell'enorme peso avuto - nello sviluppo della nostra scienza - dall'introduzione, e sistematica adozione, del metodo assiomatico. Cerchiamo innanzitutto di spiegare in che cosa consista, in ultima istanza, la profonda svolta recentemente subita dalla matematica applicata. Mentre fino a qualche tempo addietro essa pareva non avere altro compito che quello di far rientrare i fenomeni via via presi in esame nel quadro concettuale delle teorie « classiche », cioè delle teorie già facenti parte del patrimonio più sicuro della matematica (intesa in senso lato, come includente in sé la meccanica, la teoria dell'elasticità, e in generale tutta la fisica-matematica ottocentesca), oggi tale preoccupazione può dirsi sostanzialmente caduta. Il fatto nuovo è, in altri termini, questo: se i fenomeni presi in esame suggeriscono nozioni e principi diversi da quelli classici, la matematica applicata non ha più alcuna difficoltà ad accogliere questi suggerimenti. È ovvio che il nuovo atteggiamento, di incalcolabile fecondità, è stato reso possibile dalla consapevolezza di poter manovrare gli strumenti matematici con una libertà per l'innanzi del tutto sconosciuta. Ed è ovvio che proprio qui si giustifica quanto abbiamo poco sopra accennato circa il peso avuto, anche nello sviluppo della matematica applicata, dall'introduzione (nella matematica pura) del metodo assiomatico. È stata essa infatti, ed essa sola, a procurare la piena consapevolezza che le teorie matematiche non costituiscono alcunché di assoluto, ma sono essenzialmente « manovrabili » in conformità alle sempre nuove esigenze della ricerca. Siamo ora in grado di illustrare il radicale mutamento di orizzonte in tal modo prodottosi, facendo riferimento a un gruppo di problemi che hanno oggi assunto una specialissima importanza. Intendiamo riferirei ai problemi concernenti l'ideazione di « modelli » atti a rappresentare ben determinati « sistemi reali » (nel senso attribuito dai tecnici a questa espressione) nonché a prevedere il loro decorso. Che cosa hanno di nuovo questi modelli rispetto a quelli meccanici comunemente usati dalla fisica-matematica dell'Ottocento? Un semplice sguardo ai me-
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todi matematici cui essi fanno ricorso ci permette di dare al quesito una risposta chiara e inequivocabile: i metodi usati dalla matematica applicata odierna vengono attinti da un « serbatoio » molto più vasto di quello costituito dalla « matematica classica » (vastità procurata proprio, come abbiamo precedentemente chiarito, dall'adozione del metodo assiomatico). Il metodo più nuovo, che ha dimostrato una maggior fecondità, è stato il ricorso al discontinuo. È sulla base di esso che la matematica applicata odierna non solleva più alcuna difficoltà di principio contro l'impiego sistematico di funzioni discontinue, mentre fino a poco tempo addietro sembrava inconcepibile l'idea di impiegare altre funzioni fuorché quelle continue e derivabili (oggetto specifico dell'analisi classica). Ciò ha permesso di sostituire alle equazioni differenziali alle derivate parziali, usualmente adoperate dai grandi meccanici del Sette e Ottocento per tradurre i problemi fisici in termini matematici, le equazioni alle differenze finite che si prestano molto meglio al calcolo effettivo dei risultati. 1 Ed è ancora il ricorso al discontinuo che ha condotto gli odierni studiosi di matematica applicata a introdurre una nuova operazione, ben presto rivelatasi di grande utilità: la cosiddetta « discretizzazione » della regione interessata dal « sistema reale » in esame, consistente nel decomporre tale regione in un insieme discreto di « elementi », connessi tra loro da opportune relazioni topologiche. A ben guardare le cose, l'idea-guida che sta a fondamento di tutta questa nuova impostazione è la seguente: il matematico non può « imporre » ai fenomeni studiati il modello più confacente al suo gusto estetico, ma deve adeguare il modello ai fenomeni, seguendo l'esempio dell'ingegnere che ha il preciso compito di operare su oggetti concreti, non su meri concetti. Se questi oggetti richiedono di venire trattati in un certo modo, perché mai dovremmo invece trattarli in un altro? In una situazione siffatta, ciò che la matematica è in grado - essa sola di fornire, è una straordinaria ricchezza di strumenti concettuali per la trattazione dei più diversi problemi. Come scrive molto bene Johann von Neumann « uno dei più importanti contributi della matematica al nostro pensiero è che essa ha dimostrato un'enorme flessibilità nella formazione dei concetti, un grado di flessibilità a cui è difficilissimo pervenire in modo non-matematico ». I vantaggi che si ricavano dalla svolta testé accennata sono essenzialmente di due ordini: 1) i nuovi metodi (che fanno ricorso sistematico al discontinuo) permettono di costruire modelli che risultano idonei a rappresentare anche dei « sistemi reali » appartenenti a settori fenomenici molto lontani da quelli studiati fino a poco tempo addietro dalla matematica applicata. Si è giunti così a « simulare » non solo dei processi fisici e chimici, ma pure dei processi tecnologici (le cui operaI Le equazioni alle differenze finite erano già state fatte oggetto di seri studi fin dal secolo scorso, e, nei primi anni del nostro, erano apparse alcune soddisfacenti trattazioni di esse; ma l'interesse
per tale argomento risulta enormemente cresciuto dopo la seconda guerra mondiale, come è anche dimostrato dal moltiplicarsi delle pubblicazioni in proposito.
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zioni non costituiscono ovviamente un tutto continuo), dei processi economici, organizzativi ecc.l z) le procedure matematiche adoperate dai nuovi metodi si prestano, per la loro natura prettamente numerica, a che i calcoli da esse indicati vengano eseguiti per via meccanica. Si tratterà di compiere, per condurli a termine, un insieme anche assai ampio - ma comunque finito - di operazioni, e occorrerà all'uopo disporre di macchine calcolatrici di grande capacità; ma si otterranno alla fine risultati numerici precisi che potranno venire controllati sperimentalmente. Risulterà così possibile verificare, senza ambiguità, se il modello ideato era o non era atto a rappresentare il sistema in esame. Merita di venire notato che l'esigenza di questa verifica sperimentale non costituisce di per sé qualcosa di completamente nuovo; essa infatti era già sostanzialmente presente nei grandi fisici-matematici dell'inizio de1l'Ottocento (Lapiace, Fourier, Polsson ecc.) i quali erano convinti di poter ricavare, dai loro modelli dei « sistemi reali », ben precisi valori da mettere al confronto con i dati empirici. Fu solo più tardi che ci si accorse che ciò era impossibile, per le difficoltà insite nel tipo di equazioni usate per rappresentare matematicamente i fenomePi. Allora e solo allora si pensò che i modelli non potevano avere tale compito, e ci si accontentò di pretendere che essi rendessero « più evidente », « più intuitiva » l'immagine dei processi naturali. Considerata da questo punto di vista, la matematica applicata odierna costituisce dunque, in un certo senso, un ritorno al passato. Il fatto, comunque, che il matematico applicato odierno cerchi di impostare i propri problemi in modo del tutto simile a quello dell'ingegnere, avendo cura, più di ogni altra cosa, di ideare modelli veramente idonei a un effettivo controllo pratico, presenta a nostro parere anche un intrinseco interesse di ordine metodologico generale. Ci offre invero un'ulteriore conferma della tesi, cui abbiamo già più volte fatto cenno, che la tendenza affermatasi nella matematica moderna a costruire teorie sempre meno condizionate da preoccupazioni di evidenza, non l'ha affatto condotta ad estraniarsi dalla realtà empirica. Al contrario, è stata proprio la rinuncia a conseguire verità evidenti (presunte assolute) ciò che le ha permesso di stabilire un nuovo tipo di contatto con tale realtà. Naturalmente non sarebbe stato possibile giungere a modelli forniti della verificabilità testé accennata, se nel contempo il progresso tecnico non avesse di I Ricordiamo che i modelli matematici oggi utilizzati nell'economia si possono suddividere in due categorie: modelli matematici aggregati che danno luogo alla cosiddetta macroteoria e modelli matematici disaggregati che danno luogo alla cosiddetta microteoria (o ve si cerca di tenere conto del comportamento dei singoli individui per capire il funzionamento interno di un sistema economico sia dal punto di vista statico sia da quello dinamico). Merita una particolare menzione il frequente ricorso - nell'elaborazione di taluni mo-
delli, per esempio di quelli aggregati cui si è testé fatto cenno - a metodi statistici, che hanno rivelato negli ultimi tempi una funzionalità sorprendente. Il fatto degno di nota è che vi si prescinde in modo completo dalle discussioni « filosofiche >> intorno ai fondamenti del calcolo delle probabilità, cioè dalle discussioni (per le quali rinviamo a quanto detto negli ultimi paragrafi del capitolo IX del volume settimo) che si svolgono «a monte » del sistema di assiomi su cui tale calcolo si regge.
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fatto realizzato la costruzione di calcolatori capaci di compiere in tempi brevissimi un enorme numero di operazioni aritmetiche. Sarebbe però inesatto far consistere la svolta dell'odierna matematica applicata nel solo fatto che oggi si fabbricano tali calcolatori (di potenza via via crescente). Questo è senza dubbio un fattore di estrema importanza, anzi in certo senso decisivo: non è tuttavia l'unico, in quanto - come è ben noto - neanche la macchina calcolatrice più perfetta risulta in grado di funzionare se non le viene assegnato un ben determinato programma (programma che potrà essere tanto più complesso, quanto maggiore è la cosiddetta« memoria» della macchina). Accanto ad esso deve dunque esservi un altro fattore, di natura completamente diversa; tale secondo fattore è costituito dall'« équipe di analisti» che formula il programma da assegnare al calcolatore e che costruisce il modello del sistema cui questo viene applicato (applicazione la quale richiederà, inoltre, che siano raccolti con la massima precisione i dati da sottoporre all'elaborazione del calcolatore). Oggi si parla molto di calcolatori elettronici e si cerca di far credere che sia possibile attribuir loro delle capacità pressoché miracolistiche. L'intento mistificatorio di questa propaganda è evidente: si vuole che la gente attenda pazientemente dall'impiego di tali macchine la risoluzione dei propri problemi, anziché sforzarsi di conseguirla attraverso la lotta. Si pretende in particolare che i calcolatori - una volta raggiunto un adeguato sviluppo tecnico - possano compiere da soli l'intero processo della ricerca scientifica: la tesi, ovviamente assurda, mira allo scopo di presentare tale ricerca come « neutrale », sottraendola così ad ogni impegno civile e culturale. Si crea volutamente un mito con cui far tacere le esigenze della ragione: mito tanto più insidioso in quanto apparentemente sorretto da una delle maggiori conquiste dell'umanità, il progresso scientifico-tecnico. Opporsi decisamente a questa mitizzazione non significa affatto, come è chiaro, disconoscere il peso rilevante che l'uso dei calcolatori ha già assunto fin da oggi, e quello ancora maggiore che potrà assumere in futuro quale strumento prezioso per lo sviluppo delle nostre conoscenze e per la progettazione razionale delle nostre azioni. Ciò non deve farci dimenticare tuttavia che è l'uomo ad avere costruito i calcolatori per operare in una certa situazione storica, e che pertanto è il modo con cui egli li adopera in tale situazione a determinare il contributo che essi daranno al progresso della civiltà. Per quanto riguarda le nuove possibilità che essi forniscono ai nostri processi conoscitivi ci resta da aggiungere una sola osservazione di un certo rilievo filosofico : l'osservazione che l 'uso sistematico dei calcolatori ha reso' sempre più manifesto, in tali processi, il carattere di interrogazioni estremamente complesse (interrogazioni che vengono sì avviate dal ricercatore, ma la cui ulteriore precisazione - cioè la precisazione dei risultati da sottoporre al controllo dei fattinon è più opera sua, bensì del calcolatore). È una complessità di cui il filosofo della nostra epoca deve tenere seriamente conto, perché ci porta ad escludere che 418
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proprio chi si è limitato ad avviare l'interrogazione, possa avere determinato, egli stesso, la risposta che riceverà. E se non è lui ad averla determinata, tanto ci basta a concludere, in accordo con la gnoseologia di Lenin, che tale risposta deve provenire da una realtà irriducibile al soggetto conoscente. VI
· UNO SGUARDO ALLO SVILUPPO DELLA FISICA QUANTISTICA
Si è sottolineato nel capitolo xm del volume sesto la gravità della situazione in cui venne a trovarsi la fisica all'inizio del Novecento, quando ci si rese conto che alcuni fenomeni luminosi recentemente scoperti risultavano spiegabili in modo limpido e coerente sulla base di una concezione « corpuscolare » della luce (ammettendo cioè che questa fosse costituita da fasci di fotoni), mentre rimanevano del tutto inspiegabili entro il quadro della teoria ondulatoria, che pur era da tempo considerata una delle più sicure conquiste della fisica (tante erano le prove in suo favore, ricavate dall'accuratissimo studio dei fenomeni di interferenza, rifrazione, diffrazione ecc.). Questa dualità onda-corpuscolo concernente la « natura » della luce non poteva non apparire quale un vero e proprio scandalo. Ma lo scandalo doveva diventare ancora maggiore quando Louis de Broglie (n. 1892)- in tre famose memorie presentate all'Académie des sciences nel 1923, e rielaborate nella tesi di dottorato dell'anno successivo- avanzò l'audace ipotesi che il dualismo anzidetto dovesse applicarsi anche al comportamento di particelle, quali l'elettrone e il protone, universalmente riconosciute come «materiali» in quanto fornite di una ben determinata massa. Era la nascita della cosiddetta « meccanica ondulatoria », cioè di una concezione completamente nuova che, per descrivere i fenomeni verificantisi nel mondo subatomico, associava tra loro due tipi di nozioni sempre ritenute, fino allora, del tutto eterogenee l'una all'altra: la nozione di particella materiale e quella di campo di onde. Il legame fra esse stabilito dalla nuova meccanica consiste in ciò, che la frequenza delle onde dipende dalla massa della particella nonché dalla velocità della luce nel vuoto e dalla famosa costante di Planck. Come scrive lo stesso de Broglie: « Tutte le particelle materiali hanno le loro onde associate, e l'insieme delle proprietà non può venire esattamente descritto che con i procedimenti della meccanica ondulatoria. » Per questa geniale innovazione, che suggerirà in breve tempo significativi esperimenti da cui verrà ampiamente confermata, a Louis de Broglie verrà conferito, nel I 929, il premio No bel per la fisica. Partendo dall'ipotesi ora accennata e seguendo i procedimenti della nuova meccanica, l'eminente fisico francese riusciva in particolare a dimostrare che le sole orbite possibili degli elettroni rotanti intorno al nucleo dovevano essere quelle « stazionarie » del modello atomico di Bohr; la dimostrazione era condotta sulla base dell'analogia fra le vibrazioni associate all'elettrone e le vibrazioni elastiche che si producono in una corda di violino nel momento in cui la si fa vibra-
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re: come nel caso del violino la lunghezza della corda deve risultare un multiplo intero della lunghezza dell'onda elastica, così, nel caso delle vibrazioni associate all'elettrone in moto, la lunghezza dell'orbita deve essere un multiplo intero della lunghezza dell'onda associata all'elettrone che percorre tale orbita. Due anni più tardi, e cioè nel 1926, l'austriaco Erwin Schrodinger ( 1887-1961) riusciva a dare una nuova formulazione, più soddisfacente dal punto di vista matematico, delle idee di de Broglie, pervenendo a scrivere una celebre equazione (oggi nota appunto come« equazione di Schrodinger »)cui deve soddisfare la cosiddetta «funzione d'onda» se vogliamo che i valori da essa via via assunti rappresentino il moto di un elettrone nello spazio libero (tale funzione d'onda, solitamente indicata con il simbolo ~,serve a caratterizzare lo stato fisico dell'elettrone che si trova nel punto individuato dalle coordinate spaziali di cui ~ è funzione). Va subito detto però che l'interpretazione fisica di questa ~ ha dato luogo a parecchie difficoltà, generate dalla sua stessa forma matematica (cioè derivanti, in ultima istanza, dal fatto che i valori assunti da ~ non sono numeri reali ma complessi); si è dimostrato infatti che, diversamente dalle solite funzioni d'onda essa non denota la vibrazione di alcun mezzo fisico. È stato Max Born (1882-1970), seguito da Bohr, a proporne una interpretazione probabilistica, nel senso che la probabilità di trovare un elettrone in un intorno, di misura unitaria, del punto ove viene calcolata la ~ sarebbe proporzionale al quadrato del modulo di ~ (quadrato che, come è ben noto, risulta un numero reale). Gli argomenti addotti da Schrodinger per giustificare la propria equazione erano, per verità, in parte intuitivi e in parte addirittura inesatti; il fatto è però che essa si rivelava in grado di fornire una descrizione mirabilmente corretta dei fenomeni. Portava invero a risultati identici a quelli delle teorie di Bohr in tutti i casi in cui questi erano in accordo con le osservazioni, e nei casi invece in cui ciò non accadeva riusciva a correggerli ristabilendo un pieno accordo con l'esperienza. Si può pertanto dire che la meccanica ondulatoria, nell'assetto datole da Schrodinger, si rivelava pienamente degna di entrare nel patrimonio più sicuro della scienza. A Schrodinger verrà assegnato il premio Nobel per la fisica, nel 1933. Pochi mesi prima che egli pubblicasse i risultati cui abbiamo testé accennato, era però accaduto un fatto molto singolare: Werner Heisenberg (1901-76), un giovane fisico tedesco che era stato allievo di Arnold Sommerfeld (1868-195 1) a Monaco e poi si era educato alle idee della scuola di Copenaghen, aveva sviluppato- ancora nel 1925 -le linee di un altro tipo di meccanica, basata su considerazioni radicalmente diverse da quelle di Schrodinger, ma capace di spiegare altrettanto bene tutti i fenomeni spiegati dalla meccanica ondulatoria. Per costruire il nuovo efficacissimo strumento (cioè la cosiddetta «meccanica quantistica »), Heisenberg aveva preso le mosse dal « principio di corrispondenza» di Bohr (secondo cui la teoria dei quanti contiene come caso limite la meccanica classica), 420
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cercando di svilupparlo in un sistema di precisi enunciati, atti a formare - come egli stesso scrive - « uno schema matematico coerente e completo >>. Per raggiungere questo scopo ebbe poi la geniale idea di far ricorso al calcolo delle matrici, che gli permetteva di descrivere le radiazioni emesse dagli atomi prescindendo in modo completo dal concetto di traiettoria dell'elettrone. La fecondità della meccanica quantistica si rivelò subito eccezionale, ond' essa non tardò a suscitare il più vivo interesse di tutti i ricercatori impegnati negli studi di microfisica. A Heisenberg verrà assegnato il premio Nobel nel 1932. Sorse però, immediatamente, un nuovo problema: quali erano in realtà i rapporti fra le due nuove meccaniche, visto che esse - pur muovendo da punti di vista tanto diversi - portavano costantemente ai medesimi risultati? Fu proprio Schrodinger a risolverlo nel medesimo 1926, dimostrando la loro sostanziale identità. L'importanza di questo sorprendente risultato non tardò a venire percepita da tutti, confermando la convinzione generale che la nascita della meccanica ondulatoria e della meccanica quantistica segnava veramente una tappa fondamentale nella storia della fisica. Come scrive Heisenberg « la feconda riunione di questi due differenti ordini di idee fisiche permise di arrivare a uno straordinario ampliamento e arricchimento del formalismo quantistico. >> In effetti il nuovo formalismo, così ampliato e arricchito, si rivelò in grado di portare - nel giro di pochi anni - a risultati del massimo interesse sia in campo teorico sia in campo sperimentale. Il successo della « meccanica quantistica » (nome ormai usato per indicare il complesso edificio costituito dalla meccanica di Schrodinger e da quella di Heisenberg) era pienamente assicurato. Nell'ambito teorico- e, se vogliamo, in certo senso filosofico- il risultato più notevole fu costituito dal famoso principio di indeterminazione inizialmente enunciato da Heisenberg in stretta connessione alle proprietà formali del calcolo delle matrici (in quanto derivabile dal fatto che, entro tale calcolo, la moltiplicazione non gode in generale della proprietà commutativa). A questo punto occorre aggiungere, però, che Heisenberg non si accontentò di questa giustificazione formale, ma tentò subito di trovarne anche una fondazione intuitiva (di carattere non più matematico ma fisico), basata sull'analisi della nozione stessa di misurazione. Il suo tentativo venne ripreso e approfondito da Bohr che, in occasione del congresso internazionale di fisica tenuto a Como nel 1927, lesse una relazione volta a dimostrare che il principio di Heisenberg doveva venire inquadrato in un altro ancora più generale da lui chiamato « principio di complementarità». L'interesse suscitato dalla relazione di Bohr fu enorme, tanto che parecchi studiosi, fisici e non solo fisici, giunsero a scorgervi l'inizio di una nuova era del pensiero scientifico-filosofico. Citeremo a conferma di ciò due significativi brani, il primo di Wolfgang Pauli (1900-58), il secondo dello stesso Heisenberg: «Fu proprio Bohr a dare una semplice e corretta deduzione del principio di indeterminazione ... Con una profonda discussione di numerosi esperimenti ideali, Bohr mostrò che 421
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il contenuto fisico essenziale delle nuove teorie è caratterizzato dal principio di complementarità» (Pauli). « Dobbiamo a Bohr l'analisi più chiara dei fondamenti teorici della meccanica quantistica; egli si è servito in particolare del concetto di complementarità per svolgere l'analisi della meccanica quantistica. Già le relazioni di indeterminazione danno un esempio del fatto che nella meccanica quantistica la conoscenza precisa di una variabile può escludere la conoscenza precisa di un'altra variabile. Questa relazione di complementarità fra aspetti diversi dello stesso processo fisico risulta ora effettivamente caratteristica di tutto il tipo di struttura della meccanica quantistica » (Heisenberg). Data l'eccezionale importanza dei principi di indeterminazione e di complementarità, e dati i numerosi equivoci cui a nostro parere hanno dato luogo, non intendiamo insistere ulteriormente su di essi in questo paragrafo, che vuoi fornire soltanto un primo sguardo orientativo sullo sviluppo della meccanica quantistica. Dedicheremo invece espressamente ad essi i prossimi quattro paragrafi per. enuclearne l'effettiva portata concettuale e per discutere con una certa ampiezza le considerazioni metodologiche su cui vengono solitamente basati. Pochi anni dopo la grande svolta del 192.5-2.7 venne compiuto, sulla via da essa aperta, un ulteriore passo di grande rilievo scientifico ad opera dell'inglese Paul Adrien Dirac (n. 1902.) che era giunto a questo genere di studi partendo dall'ingegneria elettrotecnica (anche a lui verrà assegnato il premio Nobel per la fisica nel 1933). In una memoria del 1930 egli introdusse una nuova equazione che, a differenza di quella di Schrodinger, era applicabile anche a elettroni di velocità prossima a quella della luce (soddisfacendo a tutte le condizioni relativistiche) e riusciva inoltre a giustificare l'ipotesi - avanzata nel 192.5 dai fisici americani George Eugene Uhlenbeck e Samuel Abraham Goudsmit- che l'elettrone fosse dotato di « spin », cioè assimilabile a una sferetta elettrizzata ruotante intorno a un suo diametro. Proprio per il fatto di unificare la teoria della relatività con la meccanica dei quanti, l'equazione di Dirac conduceva a una singolarissima conclusione: che devono esistere anche elettroni forniti di carica positiva (o « positoni »). Il risultato fu accolto, sul momento, con grande scetticismo, ma già nel I 9 32. l'americano Carl David Anderson riusciva a confermare sperimentalmente tale esistenza, dimostrando inoltre che le nuove particelle possedevano effettivamente il comportamento previsto da Dirac. La scoperta del positone, cioè della prima « antiparticella » venuta a conoscenza dei fisici, aprirà la via a un nuovo e fecondo settore di ricerche: lo studio sistematico delle antiparticelle comincerà a venire perseguito, verso la metà del secolo, in via prevalentemente teorica con l'estensione dell'equazione di Dirac (onde renderla applicabile a tutte le particelle elementari), e si sposterà poi sul piano sperimentale, appena si sarà appreso a costruire strumenti di potenza sufficiente a verificare la loro effettiva esistenza. Il nome di « antiparticella », generalizzato in quello di « antimateria », provocò per un certo tempo qualche con42.2. www.scribd.com/Baruhk
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fusione, in ispecie fra i non fisici; ogni equivoco poté tuttavia venire facilmente dissolto, appena si comprese che il prefisso « anti » era stato soltanto introdotto per evidenziare il seguente fatto (di natura p rettamente sperimentale): quando una particella entra in contatto con la propria antiparticella, esse si annichilano liberando energia (secondo ben note leggi della fisica quantistica). Per completare il breve quadro storico, che ci eravamo proposti di fornire ai non specialisti prima di addentrarci nell'argomento specifico del capitolo (cioè nell'analisi del significato filosofico delle nuove scoperte), dovremo ancora aggiungere qualche rapidissima notizia su tre temi che assunsero un rilievo scientifico di primo piano entro lo sviluppo della fisica dei quanti. Il primo tema è costituito dalla cosiddetta «meccanica statistica quantistica », che trae origine dalle ricerche eseguite già dalla fisica classica sul comportamento « globale » dei sistemi composti da un grandissimo numero di particelle. Fin dall'Ottocento si era compreso che tale comportamento, pur non potendo venire esattamente determinato seguendo il moto di ogni singola particella, può tuttavia venire studiato in media con opportuni metodi statistici; nulla, quindi, di più naturale che tentare ora di applicare questi metodi anche alle particelle scopeye dalla fisica dei quanti. La vera novità della meccanica statistica quantistica rispetto a quella classica emerse, però, quando ci si accorse che le formule di distribuzione applicate con successo dai fisici ottocenteschi non conservavano la loro validità se applicate alle particelle che obbediscono alle leggi della meccanica quantistica. Fu allora necessario apportarvi alcune profonde modificazioni sostanzialmente dovute al fatto che nella teoria quantistica le particelle tra loro identiche vanno considerate come indistinguibili, il che comporta una limitazione al numero degli stati « distinti » del sistema. Tali modificazioni vennero operate in due sensi tra loro notevolmente diversi, a seconda che le particelle componenti il sistema risultavano dotate di spin intero o semi-intero (misurato in unità --
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ave h è la costante di Planck). La
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statistica idonea al primo caso è associata ai nomi del fisico indiano Satyendra Nath Bo se (n. I 894) che fu il primo a idearla nel I 924, e di Einstein; quella idonea al secondo è invece associata ai nomi di Enrico Fermi (I90I-54), che la ideò nel I 926 e di Dirac. Le particelle componenti i sistemi che sono regolati dalla statistica di Base-Einstein vengono solitamente chiamati «bosoni», mentre quelle componenti i sistemi regolati dalla statistica di Fermi-Dirac vengono chiamati «fermioni ». Merita di venire ricordato che i fermioni obbediscono al « principio di esclusione » scoperto da Pauli nel I 924, il quale afferma che due particelle elementari non possono mai trovarsi nel medesimo stato quantico, ave per definire tale stato si tenga anche conto dello spin delle particelle. L'affiancamento della meccanica statistica testé accennata alla meccanica quantistica ha aperto la strada a studi approfonditi intorno alla struttura intrin-
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seca delle sostanze composte da più atomi. Sono sorte così, in tempi recenti, alcune nuove discipline di grande importanza sia teorica sia pratica: la cosiddetta fisica delle molecole, quella dei fluidi e quella dello stato solido. Il secondo déi tre temi anzidetti è costituito dall'estensione della meccanica quantistica allo studio della costituzione del nucleo. Il primo notevole successo in questa direzione risale al 1928, quando l'americano George Gamow riuscì a spiegare il passaggio delle particelle ot attraverso la barriera di potenziale dei nuclei pesanti. Le ricerche intorno al nucleo e alle reazioni nucleari si moltiplicarono in modo sorprendente a partire dal 1930; esse condussero alla scoperta, in via sperimentale, di un singolare tipo di radiazione elettricamente neutra e molto penetrante. Nel 1932 il fisico inglese James Chadwick riuscì a provare che tale radiazione è costituita da particelle neutre di una massa all'incirca eguale a quella del protone (esse vennero chiamate « neutroni ») : particelle che assumeranno un ruolo primario nelle teorie concernenti la costituzione del nucleo. Nel 1934 Fermi scoprì che, bombardando con neutroni i nuclei di taluni elementi, si producono fenomeni di radioattività artificiale, e inoltre - cosa questa assai singolare - che tale effetto risulta particolarmente notevole quando il bombardamento viene eseguito con neutroni «lenti». Per le scoperte testé accennate venne assegnato il premio Nobel per la fisica a Chadwick nel 193 5 e a Fermi nel 1938. Si apriva così alla fisica dei quanti una nuova direttrice di ricerche, essenzialmente rivolte a problemi applicativi. Come è ben noto, la loro importanza pratica fu enorme; esse non sollevarono però nuove questioni filosofiche, per lo meno di carattere teoretico (ne sollevarono invece molte di carattere etico, per le applicazioni ricevute nella costruzione di esplosivi fomiti di una potenza fino allora pressoché impensabile). Il terzo dei temi sopra accennati riguarda lo studio dei cosiddetti « raggi cosmici». Le prime ricerche (1909-12) intorno a queste singolari radiazioni- inizialmente chiamate « raggi di altitudine » - valsero a provame la stretta somiglianza con i raggi emessi dalle sostanze radioattive e suggerirono l'ipotesi che provenissero da regioni extraterrestri. Tali ricerche, interrotte dallo scoppio della prima guerra mondiale, vennero riprese in forma sistematica nel 1922; nel 1927 fu coniato il nome di « raggi cosmici » dal fisico americano Robert Andrews Millikan. Nel 1928 il sovietico Dmitrij Vladimirovic Skobel'tsyn riuscì per primo a fotografare alcune traiettorie dei nuovi raggi; poco dopo l'italiano Bruno Rossi caratterizzava i principali gruppi di corpuscoli che li costituiscono. Altre importanti osservazioni vennero compi~te verso il 1930 dall'italiano Giuseppe Occhialini e dall'inglese Patrick Blackett. Tutti questi risultati portarono alla conclusione che i raggi cosmici sono costituiti da particelle ad alta energia, proprio perciò particolarmente utili nella sperimentazione. Fu per l'appunto servendosi di essi, cioè studiando le esplosioni di atomi provocate da raggi cosmici, che - come già ricordammo- risultò possibile provare sperimentalmente nel 1932 l'ef-
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fettiva esistenza del positone, prevista per via teorica da Dirac, e che qualche anno più tardi, nel 1936-37, si riuscì a provare l'effettiva esistenza dei mesoni, prevista per via teorica nel r 9 35 dal giapponese Hideki Yukawa, cui verrà assegnato il premio Nobcl nel 1949 (i mesoni sono particelle elementari con una massa, a riposo, intermedia fra quelle dell'elettrone e del protone e con carica elettrica, positiva o negativa, eguale in valore assoluto a quella dell'elettrone). Ulteriori studi permettevano intanto di stabilire l'esistenza di due tipi nettamente distinti di raggi cosmici: quelli « primari » di origine extraterrestre, e quelli « secondari » provocati dalla collisione tra le particelle dei raggi primari e gli atomi dell'atmosfera terrestre. Menzioniamo questa distinzione, per poter fare presente che lo studio dei raggi cosmici primari (reso possibile dalla fisica dei quanti) ha aperto una via del tutto nuova all'indagine dei fenomeni che hanno luogo nelle parti più remote del cielo. La meccanica quantistica ha così rivelato una inattesa fecondità anche per l'indagine di un tipo di problemi apparentemente pressoché agli antipodi di quelli che avevano dato origine alla sua nascita. Non è il caso di sottolineare quanto le numerosissime scoperte cui abbiamo rapidamente fatto cenno abbiano contribuito a rendere enormemente più ricco e complesso il quadro dei « componenti ultimi » della materia delineato dai fisici del principio del Novecento, quadro che in quegli anni era già parso costituire qualcosa di profondamente rivoluzionario rispetto alle concezioni della fisica classica. Basti, a riprova di dò, tenere presente il notevolissimo passo compiuto dall'iniziale riconoscimento di due soli tipi di tali « componenti ultimi» (cioè il protone e l'elettrone) alla successiva individuazione del positone, del neutrone, del mesone ecc. Ebbene le ricerche più avanzate - per lo meno entro questo campo di indagini - sembrano proprio dirette, oggi, alla scoperta di sempre nuovi tipi di «particelle elementari» (scoperta resa possibile dalla costruzione di acceleratori via via più potenti), nonché alla loro classificazione e alla determinazione delle loro proprietà fondamentali (è il settore in cui si inserisce la recente invalidazione del «principio di parità»). Lungo questa via si stanno attualmente compiendo numerosi progressi di natura sperimentale, di incontestabile interesse scientifico. Essi non sembrano però accompagnati da progressi altrettanto consistenti sul versante dell'elaborazione concettuale, come risulta confermato dal fatto che non esiste, al presente, una teoria generale davvero compiuta ed organica delle particelle elementari. È quindi ben comprensibile come un serio studioso quale Gamow abbia potuto affermare che « la teoria è giunta a una fase praticamente stazionaria ». Cercheremo di mostrare nei prossimi paragrafi che anche gli interessantissimi dibattiti metodologici, cui la nascita della meccanica quantistica aveva dato luogo, sembrano attraversare un analogo periodo di stasi. Non è escluso che questa stasi possa favorire un fecondo approfondimento del loro effettivo significato filosofico.
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VII
· IL SIGNIFICATO FILOSOFICO ATTRIBUITO AL PRINCIPIO DI INDETERMIN AZIONE
Si è accennato nel paragrafo precedente alla eccezionale importanza dei due principi di indeterminazione e di complementarità e all'esistenza di numerosi equivoci circa la loro interpretazione. Data la complessità dell'argomento, crediamo opportuno iniziarne la discussione con una breve esposizione delle principali conseguenze « filosofiche » che si ritennero implicate dal principio di indeterminazione. Il lettore potrebbe trovare la formulazione di questo principio su qualunque manuale moderno di fisica. Può essere tuttavia utile, per sua comodità, trascriverne qui l'enunciato. Esso afferma che: se eseguiamo la misura dell'impulso p di una « particella materiale » o di un fotone, e nel contempo intendiamo fissarne la posizione, se cioè vogliamo simultaneamente determinare sia le componenti del suo impulso p secondo i tre assi coordinati (px, py, Pz) sia le coordinate (x, y, z) del punto ove la particella (o il fotone) si trova, allora accadrà che l'imprecisione con cui è determinata una qualsiasi di tali componenti (per esempio t:J.px) e l'imprecisione con cui è determinata la corrispondente coordinata (f:J.x) non potranno venire fatte tendere entrambe a zero, poiché il loro prodotto deve mantenersi maggiore o eguale a una certa quantità finita, dipendente dalla costante di Planck h. In altri tetmini: h f:J. Px · f:J.x :::,.. - 47t
fj.
py . !:J.y :::,.. -h47t
!:J.Pz · t:J.z:::,.. -
h 47t
Ciò comporta che, se facciamo per esempio diminuire t:J.px (ossia aumentiamo la precisione della misura di P x), allora crescerà !:J.x (ossia diminuirà la precisione della misura di x). Il principio in esame afferma, inoltre, che un'analoga situazione si produce quando vogliamo determinare l'istante t in cui una « particella materiale » o un fotone passa in un determinato punto e insieme vogliamo determinare l'energia w che essa (o esso) possiede in tale punto; anche in questo caso infatti si avrà una diseguaglianza analoga alle precedenti, cioè fj.
h w . !:J.t :::,.. - -47t
il che comporta ovviamente che, se facciamo per esempio diminuire !:J.w (ossia aumentiamo la precisione della misura dell'energia w), allora crescerà !:J.t (ossia diminuirà la precisione della misura di t).
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Le conseguenze filosofiche da esso solitamente ricavate sono principalmente due: esse concernono la nozione di « oggetto fisico » e quella di causalità. La meccanica classica postulava che un oggetto fisico debba in ogni istante possedere una ben determinata posizione e una ben determinata velocità (e quindi un ben determinato impulso). Orbene è evidente che una qualsiasi entità, per esempio un elettrone, a cui risulti applicabile il principio di indeterminazione, non può possedere in ogni istante una ben determinata posizione e una ben determinata velocità (o per lo meno sembra ovvio dire che non le possiede in quanto per principio esse non sono misurabili). Stando così le cose, sarà lecito o non sarà lecito qualificare tale entità (nel caso specifico, tale elettrone) come un oggetto fisico? Ciò che osta a questa qualificazione è, ancora una volta, la presunzione di poter automaticamente trasferire al mondo studiato dalla microfisica le proprietà che sono senza dubbio valide per il mondo studiato dalla macrofisica. « Sebbene, » scrive Born, « nell'esperienza quotidiana noi possiamo attribuire ai corpi delle posizioni e delle velocità determinate, non vi è ragione di ammettere la medesima cosa per dimensioni al disotto dei limiti di tale esperienza. » Non vi è dubbio che l'abbandono di questa presunzione abbia un peso che va molto al di là dell'ambito meramente scientifico. Esige infatti una modificazione radicale della nozione tradizionale di « oggetto fisico », cioè la rinuncia a considerare come caratteristiche della « sostanza », che starebbe alla base di esso, quelle proprietà geometrico-cinematiche che la scienza seicentesca aveva considerato come « primarie », ossia come proprietà autentiche del reale. Born, che non fu soltanto uno dei maggiori fisici della prima metà del nostro secolo ma anche uno dei più acuti indagatori del significato filosofico della nuova meccanica, sostiene che in fisica si può parlare di « realtà » solo in quanto ci si riferisca a degli « invarianti osservazionali ». «Da questo punto di vista, » egli scrive, « io sostengo che le particelle sono reali, in quanto rappresentano delle invarianti di osservazione. Noi crediamo nell'esistenza dell'elettrone perché esso possiede una determinata carica e, una determinata massa m e un determinato spin s; ciò significa che, qualunque siano le circostanze e le condizioni sperimentali in cui si osservi un effetto che la teoria attribuisce alla presenza di elettroni, si troveranno per queste grandezze e, m, s gli stessi valori numerici. » Invece « la posizione e la velocità non sono invarianti dell'osservazione»; il che non significa tuttavia che risulti illecito usare la posizione e la velocità come attributi degli oggetti fisici, purché sia ben chiaro che il loro valore dipende per principio dalle condizioni di volta in volta imposte agli esperimenti con cui intendiamo misurarle. La seconda importante conseguenza di ordine filosofico solitamente ricavata dal principio di indeterminazione è strettamente collegata alla trasformazione, cui ora si è fatto cenno, della nozione di oggetto fisico. Un famoso brano di Laplace, che riportammo nel volume quarto, afferma
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che, se in un dato istante si conoscessero tutte le forze da cui è animata la natura e le rispettive posizioni degli esseri che la compongono, risulterebbe possibile, con opportune elaborazioni matematiche, abbracciare « nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell'universo e dell'atomo più leggero». L'ipotesi, che vi si assume come ovvia, è che sia effettivamente possibile, almeno in linea di principio, conoscere con esattezza le posizioni di tutte le particelle dell'universo nonché le forze da cui esse sono animate (e quindi le velocità con cui si muovono le une rispetto alle altre). Orbene è ovvio che, se dobbiamo rinunciare, per il principio di indeterminazione, a considerare la posizione e la velocità come attributi oggettivi della particella, non avrà più senso supporre che esse siano conoscibili con l'esattezza di cui parla Laplace. E perciò non avrà più senso cercare una formula generalissima in cui possano venire abbracciati tutti i movimenti «dei più grandi corpi dell'universo e dell'atomo più leggero». Occorrerà quindi rinunciare al tipo di determinismo teorizzato da Laplace, il che comporterebbe, secondo taluni fisici e filosofi della fisica, una vera e propria rinuncia al concetto di causalità. « La causalità si applica soltanto, » scrive Dirac, « a un sistema che è lasciato indisturbato. Se un sistema è piccolo, non possiamo osservado senza seriamente perturbarlo e quindi non possiamo aspettarci di trovare alcuna connessione fra i risultati della nostra osservazione. » Il noto filosofo della scienza Friedrich Waismann dichiara, ancora più esplicitamente, che «la caduta della causalità è un'immediata conseguenza del principio di indeterminazione ». Questo principio rende infatti impossibile descrivere con esattezza istante per istante il decorso dei fenomeni; ma «se l'idea di una ininterrotta descrizione deve essere abbandonata, anche il principio di causalità non può più essere conservato: perché tale principio è nella scienza vincolato alla possibilità di simile descrizione. Se non è più possibile una descrizione continua, lo stesso fondamento del principio causale svanisce; in effetti, tale principio richiede la possibilità di una descrizione continua come condizione necessaria: il crollo dell'una comporta il crollo dell'altro». Discuteremo nelle prossime pagine fino a che punto le « conseguenze filosofiche » testé accennate del principio di indeterminazione risultino oggi accettabili. Qui importava soltanto porre in chiaro il « legame logico » fra questo e quelle, che è stato visto (ed esplicitamente dichiarato) dagli autori presi in considerazione. VIII
· LA BASE METODOLOGICA DEI PRINCIPI DI INDETERMINAZIONE E DI COMPLEMENTARITA
Come abbiamo accennato nel paragrafo VI, Heisenberg, pur avendo inizialmente formulato il principio di indeterminazione con esplicito riferimento ad una caratteristica proprietà del calcolo delle matrici (la non commutatività del
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prodotto), comprese subito la necessità di dargli una base fisicamente più significativa. Questa venne da lui ricavata a partire da alcune sottilissime considerazioni metodologiche sui procedimenti di misura. La via più agevole per dare un'idea di tali considerazioni consiste, a nostro parere, nel prendere ancora una volta le mosse dal brano di Laplace già citato nel paragrafo precedente. Il postulato in esso implicito era, come osservammo, che risulti possibile per principio conoscere istante per istante la posizione e la velocità di un qualsiasi atomo, comunque leggero. « Ma, » si domanda Boro nel tentativo appunto di spiegare le considerazioni metodologiche di Heisenberg sui procedimenti di misura, « è davvero possibile ritenere valido un tale assioma? » La risposta che egli dà a questo quesito è decisamente negativa: « L'ipotesi dell'osservabilità assoluta, che costituisce la radice dei concetti classici, mi sembra esistere soltanto nella fantasia, come un postulato che nella realtà non può essere soddisfatto. » E la ragione che gli impedisce di essere soddisfatto va cercata in ultima istanza nella natura discontinua (a granuli) dell'energia; nell'impossibilità, cioè, di usare, nella misurazione delle grandezze relative all'« atomo più leggero » di cui parlava Laplace, un tipo di strumenti che richiedano una quantità di energia da ritenersi legittimamente trascurabile nei confronti di quella dell'oggetto cui si rivolge la misura (ciò che accade invece, con opportune precauzioni, quando misuriamo le grandezze relative a un oggetto macroscopico). È «la finitezza del quanto d'azione», spiega Pauli, ciò che «esclude la possibilità di conoscere con precisione i singoli processi quantici »,ponendo così i fisici « di fronte alla situazione seguente: è impossibile tenere conto tramite correzioni determinate di tutto l'effetto del dispositivo di misura sull'oggetto studiato». Senza fermarci a descrivere i numerosi « esperimenti mentali » che Heisenberg e i suoi seguaci hanno addotto a prova di quanto ora detto, preferiamo invece sottolineare le conseguenze che ne hanno tratto circa la possibilità di operare una autentica distinzione fra strumento di osservazione e sistema osservato. Tali autori non negano, ovviamente, che questa distinzione continui a valere anche nella fisica quantistica; ciò che, secondo essi, si dissolve è la presunzione - tacitamente accolta dalla fisica classica - che la distinzione in esame costituisca qualcosa di ben determinato. In altre parole: l'affermazione che il risultato del processo misurativo dipenda fino a un ben preciso punto dal sistema osservato e solo da quel punto in poi dipenda dallo strumento di misura, sarebbe del tutto insostenibile; non potrebbe cioè venire giustificata se non in base a considerazioni di opportunità. Scrive ancora Pauli: « La posizione di questa separazione [fra sistema osservato e strumento di osservazione] è, a differenza della sua esistenza, entro certi limiti arbitraria. » « Non è possibile,» ribadisce lo stesso Heisenberg, «decidere, se non arbitrariamente, quali oggetti vadano considerati come parte del sistema osservato e quali invece come parte dell'apparato di osservazione ».1 r Il corsivo è nostro.
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Quando cerchiamo di precisare la velocità di una particella subatomica, gli strumenti di misura interverrebbero dunque in modo così determinante sul fenomeno, da rendere impossibile attribuire (se non con un atto arbitrario) alla perticella in esame una posizione precisa; e viceversa. È proprio l'inseparabilità fra sistema osservato e strumento di osservazione a produrre - secondo i nostri autori - questo stato di cose. Ed è ancora essa a far sì che il medesimo fenomeno ci appaia ora come particella e ora invece come onda; questo presentarsi sotto due forme tanto diverse dipende infatti, sempre a giudizio dei nostri autori, dal tipo di apparecchiature con cui cerchiamo di osservarlo. Tanto è vero che non ci appare mai nel contempo come particella e come onda; si dimostra infatti, analizzando le apparecchiature usate nei due casi, che esse si escludono l'una con l'altra. La nozione di complementarità introdotta da Bohr non ha fatto altro che generalizzare quanto detto da Heisenberg a proposito della velocità e della posizione. Due attributi vengono da lui chiamati « fra loro complementari » quando la nostra intuizione, derivata dall'esperienza ordinaria, esigerebbe che li usassimo entrambi per una descrizione completa dell'oggetto studiato, mentre un'analisi rigorosa dei processi adoperati per l'effettiva assegnazione di tali attributi ci insegna che la determinazione precisa dell'uno esclude quella dell'altro. Bohr ritenne di avere trovato vari esempi di attributi complementari anche al di fuori della fisica, per esempio in biologia (ma su tale argomento si tornerà nel capitolo n del volume nono. Ciò renderebbe più plausibile la situazione apparentemente paradossale enunciata dal principio di indeterminazione, in quanto riuscirebbe ad inserirla, come caso particolare, in una classe molto più generale. A confermare il vero e proprio entusiasmo che il principio di complementarità suscitò - verso il I93o - fra i fisici, basti ricordare che uno studioso del valore di Enrico Persico ritenne di poter!o qualificare (nel I 9 33) come « una vera scoperta logica, non meno importante di quella del sillogismo, e suscettibile di applicazioni nei campi più diversi». La sua importanza consisterebbe essenzialmente nel fatto che- mentre « due proposizioni sono contraddittorie quando, se l'una è vera, è falsa l'altra» - due proposizioni sono invece complementari quando« se l'una è vera (o falsa), l'altra è priva di senso». Abbiamo voluto riportare quest'ultima citazione, non solo perché in se stessa molto chiarificatrice, ma anche perché idonea a porre in luce il rapporto esistente tra l'impostazione metodo logica sostenuta dai fisici richiamantisi a Bohr e a Heisenberg, e una delle tesi più caratteristiche dei filosofi neo-positivisti. Come sappiamo, questa tesi consiste nell'affermazione che i cosiddetti «problemi insolubili» della filosofia e della scienza non sono altro che domande «vuote di senso», cioè domande a cui non si può rispondere se non con frasi né vere né false. È proprio il rapporto testé accennato il principale motivo cui si fece appello, da parte di molti filosofi e scienziati, per affermare (come ricordammo nel capitolo I
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del volume settimo) che il neo-positivismo costituirebbe una conseguenza diretta delle nuove concezioni emerse in fisica dopo la grande svolta da essa subita con la nascita della meccanica quantistica. Ma il nesso tra il neo-positivismo e le considerazioni metodologiche addotte da Heisenberg e da Bohr a sostegno dei loro principi non si esaurisce tutto qui; esso può anche venire cercato nell'impostazione sostanzialmente fenomenistica che sta alla base di tali considerazioni. Ne è una prova il fatto che i due fisici anzidetti e i loro seguaci identificano in ultima istanza l'attribuibilità alle cosiddette particelle di questa o quella proprietà (per esempio della proprietà di possedere un impulso) con la possibilità di misurare la proprietà in questione (nell'esempio citato, di misurare l 'impulso); o ve il carattere fenomenistico di questa posizione consiste nel fatto che i procedimenti di misura appartengono interamente, come è ovvio, al mondo dei fenomeni ossia non rinviano a nulla che stia al di là dei dati osservativi. V a però osservato che negli ultimi anni della sua vita, e particolarmente dopo il celebre dibattito iniziato nel 1957 con il fisico sovietico Vladimir A. Fok (dibattito di cui si parlerà ampiamente nel capitolo v del volume nono), Bohr apportò talune precisazioni alla formulazione del suo principio sl da togliere pressoché ogni fondamento all'interpretazione neo-positivistica di esso. Un esame approfondito del problema, recentemente intrapreso da alcuni giovani storici della fisica, sembra del resto confermare che le implicazioni fenomenistico-soggettivistiche di cui sopra sono, a rigore, estranee al più autentico e generale significato del principio di complementarità.
IX · CONSIDERAZIONI CRITICHE SULLA PRESUNTA «DIMOSTRAZIONE» DEI PRINCIPI DELLA MECCANICA QUANTISTICA
Nessuno può mettere in dubbio che le analisi metodologiche, schematicamente riferite nel paragrafo precedente, abbiano avuto una notevolissima importanza nella recente storia della fisica, anche se oggi sembrano aver perso una parte del loro originario interesse. In primo luogo tali analisi hanno dato un contributo di grande rilievo al rinnovamento generale della metodologia della fisica, richiamando ai cultori di questa scienza una verità che i matematici avevano già compreso da tempo: cioè che una scrupolosa riflessione critica sui contenuti concettuali e sulle procedure dimostrative delle teorie scientifiche non rappresenta soltanto una « curiosità filosofica », ma un momento essenziale della stessa ricerca scientifica. Molto significative sono da questo punto di vista, seppure forse troppo ottimistiche, le seguenti parole pronunciate dal fisico Enrico Persico in una limpida conferenza da lui tenuta, nel 1947, presso il centro studi metodologici di Torino: «L'analisi critica dei fondamenti della scienza è entrata definitivamente nel metodo 431
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scientifico, così come vi è entrat~ definitivamente l'esperienza all'epoca di Galileo ».1 In secondo luogo esse hanno avuto un'importanza specifica nei riguardi dello sviluppo della fisica dei quanti, perché hanno posto in luce gli errori di fondo che vengono compiuti quando si pretende trasferire al mondo della microfisica le medesime categorie che usiamo con successo per descrivere il mondo macroscopico. La denuncia di tali errori può attualmente apparire un merito di scarso rilievo, tanto ci siamo abituati a considerare impossibile il trasferimento anzidetto; ma ciò dimostra soltanto che i risultati ottenuti dalle sottili analisi di Bohr, di Heisenberg e dei loro collaboratori sono ormai entrati a far parte del patrimonio scientifico della nostra epoca, il che è la migliore dimostrazione del loro incontestabile peso. In realtà la battaglia combattuta per giungere a questo traguardo fu tutt'altro che facile; essa segnò la definitiva sconfitta del meccanicismo ottocentesco. Una volta compiuto questo doveroso riconoscimento, occorre aggiungere, però, che le interpretazioni delle analisi metodologiche testé accennate, parzialmente fornite dai loro stessi autori, furono spesso non poco fuorvianti; e non solo da un punto di vista filosofico, come cercheremo di spiegare nel prossimo· paragrafo, ma proprio da un punto di vista rigorosamente metodologico. Il fatto è che tali autori vollero presentarle come vere e proprie « dimostrazioni » (di carattere operativo) dei principi di indeterminazione e di complementarità, cosicché, se la loro pretesa fosse fondata, questi principi risulterebbero forniti di una propria specifica validità, indipendentemente dal posto - senza dubbio di primaria importanza- che occupano entro la meccanica quantistica. Di qui la tendenza, riscontrabile in vari fisici, a considerarle come « verità assolute », in netto contrasto con quella visione critica della scientificità che sembra costituire una delle maggiori conquiste del pensiero moderno. Per verità già Heisenberg sembra essersi reso conto del fatto che la vera prova della validità del principio di indeterminazione non risiede tanto nella giustificazione operativa di esso, da lui medesimo ideata nel 1926-27, quanto nel gran numero di conferme che la meccanica quantistica (basata appunto su tale principio) ha ottenuto nel corso delle successive ricerche. Ecco infatti ciò che egli scrisse in proposito: « La teoria dei quanti trae la sua forza persuasiva non già dal fatto che siano stati provati tutti i metodi per misurare la posizione e la velocità di un elettrone senza mai riuscire ad evitare le relazioni di indeterminazione, ma dal fatto che i risultati sperimentati da Compton, Geiger e Bothe [oggi noi potremmo aggiungerne tanti altri!] costituiscono delle prove così evidenti della necessità di servirsi delle nuove possibilità di pensiero create dalla teoria dei quanti, che la rinuncia alle questioni della fisica classica non ci appare più come una rinuncia. » r Il corsivo è nostro.
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In lui, però, l'idea qui abbozzata- che la forza persuasiva della nuova fisica debba venire ricavata più· dalla teoria q_uantistica nella sua globalità che non dal principio di indeterminazione singolarmente considerato - occupa una posizione soltanto marginale. Essa diventa invece l'idea centr~le in alcune delle opere più moderne di metodologia della scienza. Tale è il caso per esempio dell'opera The structure of science (La struttura della scienza, 1961) di Ernst Nagel, ove si sostiene - in riferimento a una qualsiasi teoria scientifica - che non ha senso tentar di dimostrarne ad uno ad uno i singoli assiomi, i quali tra l'altro sono per lo più formulati in modo da sottrarsi ad ogni controllo diretto dei fatti; la verifica della teoria dovrà invece consistere in un confronto- il più largo possibile- dell'insieme di tutte le proposizioni derivabili dai suoi assiomi con i dati fornitici dall' esperienza. Ecco ora le interessanti conseguenze che Nagel ricava da questa impostazione metodologica generale, per quanto riguarda il caso specifico dei principi della meccanica quantistica e in particolare del principio di Heisenberg: è certamente lecito affermare entro il quadro di tale meccanica, che gli elettroni (o le altre particelle) debbano subire «quando interagiscono con strumenti di misura» delle alterazioni « incontro Ilabili e imprevedibili »; ciò deriva infatti dalle relazioni di indeterminazione che figurano tra gli assiomi della teoria. È invece del tutto ingiustificato sostenere che tali alterazioni « costituiscano la prova » delle relazioni anzidette. Possiamo aggiungere che la presunzione di fornire una prova preliminare di questo o quell'assioma, significa privilegiarlo rispetto agli altri, cioè ammettere che esso possegga un ben preciso significato anche se considerato indipendentemente dai restanti assiomi; ipotesi questa, che contrasta in modo palese con la concezione assiomatica moderna, illustrata nei primi paragrafi del presente capitolo a proposito delle teorie matematiche. Né va dimenticato il fatto che, mentre la « dimostrazione » di un principio isolatamente considerato sembra assumere necessariamente un carattere di assolutezza (come già abbiamo poco sopra rilevato), la «dimostrazione»- o meglio la « verifica » - di una teoria è qualcosa di molto più articolato, che presenta sempre un manifesto carattere di relatività se non altro per la struttura complessa della teoria e per I 'impossibilità pratica di estendere la verifica a tutte le sue conseguenze. È del resto ben noto che, se qualcuna di queste conseguenze non trova piena conferma nei fatti, risulta non di rado possibile conservare in piedi - per Io meno nelle sue grandi linee - la teoria in questione, limitandosi ad apportarvi qualche integrazione o correzione parziale. È interessante notare che molti di quegli stessi epistemologi, che ancora oggi incentrano sul principio di indeterminazione la loro analisi dei fondamenti filosofici della fisica, evitano di fare ricorso, per giustificarlo, alle « dimostrazioni » operative di esso che erano d'uso alcuni decenni fa. Si limitano invece a sottoli433
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neare che l'abbandono di tale principio richiederebbe una modifica radicale dell'intera fisica. Scrive per esempio Carnap: «La limitazione fissata dal principio di indeterminazione ... è una legge fondamentale che rimarrà valida finché le leggi della teoria dei quanti manterranno la loro forma attuale. Con questo non si deve intendere che le leggi accettate dalla fisica non possano venire cambiate o che il principio di indeterminazione di Heisenberg non possa mai essere abbandonato. Ritengo, tuttavia, giusto affermare che per rinnovare queste caratteristiche sarebbe necessario un cambiamento rivoluzionario nelle strutture fondamentali dell'attuale fisica. » 1 In sintesi, l'unica prova, che anche Carnap ammette, del principio in esame è costituita per un lato dalla posizione di grande rilievo che esso occupa entro il complesso edificio della fisica moderna, e per l'altro dalla ampiezza dei dati che finora hanno verificato e continuano a verificare la solidità di questo edificio. Giunti a questo punto delle nostre considerazioni critiche, ci resta ora da far presente l'esistenza di una netta differenza fra lo status del principio di indeterminazione e quello del principio di complementarità. Quanto al primo, sappiamo infatti - dalle stesse parole testé citate di Nagel - che esso occupa una posizione ben determinata entro l'edificio della meccanica quantistica, cosicché siamo in pieno diritto di farlo partecipe della validità globale (sia pure relativa) che questa dottrina ha acquisito dalle numerosissime conferme riscontrate nei fatti. Assai diversa è invece la questione per il secondo, che suoi venire inteso in due accezioni per nulla coincidenti fra loro: una, strettamente fisica, lo colloca esso pure in una posizione ben determinata entro l'edificio della meccanica quantistica (come assioma da cui possiamo derivare il principio di indeterminazione); ed una invece, più generale, lo presenta come regola applicabile alla totalità delle ricerche scientifiche (fisiche e non solo fisiche). Orbene è chiaro che, se lo intendiamo nell'accezione strettamente fisica, potremo ripetere anche per il principio di complementarità tutto quanto abbiamo testé asserito per il principio di indeterminazionc; ma se lo intendiamo nell'accezione più generale, ciò diventerà del tutto impossibile perché in tal caso esso non figurerà più come semplice assioma della meccanica quantistica, bensì come principio che, analogamente ai principi logici, dovrebbe stare a monte di tutte le ricerche scientifiche. Non senza motivo Enrico Persico- favorevole a interr Il brano testé citato di Carnap così prosegue: « Alcuni fisici contemporanei sono convinti (come lo era Einstein) che questa caratteristica della meccanica quantistica moderna sia discutibile e possa in futuro essere eliminata. È possibile, ma il cambiamento sarebbe radicale. Per il momento nessuno riesce a vedere in che modo sia possibile eliminare il principio di indeterminazione. » Queste parole, che ne richiamano altre analoghe scritte da Born in un'amichevole discussione con Einstein (cui si fa cenno nel paragrafo m del
capitolo xv del volume sesto), esprimono senz'altro uno stato d'animo ben comprensibile; non vogliono però, ovviamente, costituire alcuna profezia per il futuro. Anche nel primo Ottocento nessuno riusciva a vedere in che modo sarebbe stato possibile eliminare il determinismo laplaciano, eppure i fisici furono costretti, nel giro di alcuni decenni, ad abbandonarlo su imposizione -per così dire- dell'esperienza. E anche tale abbandono richiese, come sappiamo, un mutamento radicale di gran parte della scienza della natura.
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pretare il principio di complementarità nella seconda delle accezioni testé riferite - giunge a vedere in esso « una vera scoperta logica », come già abbiamo ricordato nel paragrafo precedente. Né vi è da stupire che gli studiosi sovietici - favorevoli essi pure a questa interpretazione - abbiano potuto collegare (nel modo che verrà chiarito nel capitolo v del volume nono) la complementarità alla dialettica. Certo è, comunque, che - nella sua accezione più ampia - il principio di Bohr si presenta non tanto come una proposizione scientiflca quanto come una tesi fllosoflca generale: tesi fllosoflca sulle implicazioni della quale il suo stesso autore non ebbe sempre delle idee molto precise, come dimostrano i sostanziali mutamenti di prospettiva da lui accolti in seguito al dibattito con Fok cui si accennò alla fine del paragrafo precedente. È proprio in questa situazione alquanto confusa, creatasi intorno al principio di complementarità, che va cercato il motivo per cui numerosi scienziati mostrarono nei suoi confronti una perplessità che oggi sembra forse ingiustiflcata. Tipico è il caso di Schrodinger, che si riflutò sostanzialmente di prenderlo in seria considerazione. « Devo confessare, » egli scrive, « che non lo comprendo. Per me si tratta di una mera evasione. Non di una evasione volontaria. Infatti si flnisce per ammettere il fatto che abbiamo due teorie, due immagini della materia le quali non si accordano, sicché dobbiamo fare uso talvolta dell'una talvolta dell'altra. Un tempo, settanta o più anni fa, quando si veriflcava un fatto consimile, si concludeva che la ricerca non era ancora flnita, perché si riteneva assolutamente impossibile far uso di due concetti differenti a proposito di un fenomeno o della costituzione di un corpo. Ora si è inventata la parola "complementarità", e ciò mi sembra voler giustiflcare l'uso di due concetti differenti, come se non fosse necessario trovare un concetto unico, un'immagine completa comprensibile. La parola "complementarità '' mi fa pensare alla frase di Goethe: " Perché, proprio dove mancano i concetti, si presenta al momento giusto una parola."» X · CONSIDERAZIONI CRITICHE SULLA FILOSOFIA USUALMENTE CONNESSA ALLA MECCANICA QUANTISTICA
Abbiamo detto nel paragrafo vn che una delle più notevoli «conseguenze fllosoflche » solitamente ricavate dai principi della meccanica quantistica (sia dal principio di indeterminazione, sia, come è ovvio, da quello di complementarità che sta« a monte» di esso) è costituita dall'abbandono del principio di causalità. Prima di iniziare l'analisi di tale «conseguenza», occorrerà aggiungere che essa suol venire direttamente collegata alla famosa funzione ~ di Schrodinger. Già ricordammo infatti, nel paragrafo VI, che, se non ci si accontenta di assumere questa ~ come un puro simbolo matematico ma le si vuole anche attribuire un signiflcato flsico, occorre darne una interpretazione probabilistica, ammettendo 435
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che il quadrato del modulo di y; risulti proporzionale alla probabilità di trovare la particella considerata, ad esempio l'elettrone, in una certa zona spaziale (un intorno, di misura unitaria, del punto ove si calcola il valore della funzione stessa). Ciò deriva, in ultima istanza, dall'ipotesi di de Broglie che ad ogni particella risulti associata una certa onda la cui frequenza dipende dalla massa della particella, dalla velocità della luce nel vuoto e dalla costante di Planck. Orbene, quanto ora detto ci pone di fronte al seguente quesito: quale senso possiamo attribuire alla probabilità in esame? Se ci troviamo di fronte a un grande numero di elettroni (ci riferiamo per semplicità a questo tipo di particelle, ma potremmo ripetere le stesse considerazioni per un altro tipo qualsiasi), la probabilità può venire intesa in senso statistico - cioè come frequenza limite - e allora essa avrà senz'altro un ben preciso significato fisico, rappresentando la percentuale di elettroni che si trovano nella zona spaziale considerata. Ma che potrà invece significare se vogliamo riferir la a un solo elettrone (come siamo costretti a fare in tal uni casi, ad esempio quando studiamo la disintegrazione di un atomo)? È difficile negare che, in casi siffatti, il parlare di probabilità di un singolo evento significa ammettere che il decorso di tale evento risulta essenzialmente indeterminato; e si potrebbe dimostrare che ciò è per l'appunto connesso al principio di indeterminazione di Heisenberg. Che simile ammissione sia incompatibile con il determinismo di Laplace, è cosa ovvia. Ma siamo veramente in diritto di concluderne che essa risulta incompatibile con il principio di causalità, anche inteso in una accezione più generale? Proprio qui si annidano i problemi che hanno dato luogo ai piu vivaci dibattiti filosofici. Taluni autori giunsero, come è ben noto, a sostenere che - se il moto dell' elettrone non è determinato - ciò significa che questa particella gode di una vera e propria « libertà », analoga alla libertà riscontrabile nelle azioni umane. Ma si tratta, ovviamente, di un grossolano equivoco, dovuto alla confusione tra i due concetti di « fenomeno non inquadrabile nel determinismo laplaciano » e « azione libera». Essendo ben decisi a non perdere tempo in questioni così manifestamente equivoche, intendiamo subito passare ai due nodi fondamentali su cui si sono accentrati i dibattiti: I) è ancora possibile sostenere che i microfenomeni sono causalmente connessi fra loro, quando si è dovuto rinunciare ad inquadrarli nel determinismo laplaciano? z) è lecito ricavare, dalla constatata impossibilità di cogliere un legame deterministico fra tali fenomeni, che la nostra conoscenza di essi resta incompleta? cioè che ci si trova qui di fronte ad una barriera per principio insormontabile? La prima domanda non fa che mettere in luce la difficoltà di liberarci dal patrimonio concettuale trasmessoci dalla fisica meccanicistica classica. Se il lettore si prende la cura di rileggere i brani di Dirac e di Waismann citati alla fine del
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paragrafo vrr, non avrà certo difficoltà a convincersi che l'argomento principe, in base a cui tali due autori negavano la possibilità di parlare - nella nuova situazione scoperta dalla meccanica quantistica - di nesso causale tra microfenomeni, era la constatazione del venir meno in tale situazione dell'ipotesi, essenziale per il meccanicismo classico, che i fenomeni risultino ininterrottamente descrivibili (è l'ipotesi su cui si fonda la postulazione che, muovendosi, una particella debba percorrere una ben determinata traiettoria). Ma se noi ci liberiamo dall'idea che la microparticella sia analoga alle particelle di cui parla la macrofisica, se cioè la consideriamo come qualcosa di radicalmente diverso (non più come una particella bensì come una «particella-onda»), la presunzione che essa debba risultare ininterrottamente descrivibile (e quindi debba percorrere una vera e propria traiettoria nel senso classico del termine) si rivela vuota di senso. Stando così le cose, negare che ai microfenomeni sia applicabile la « causalità laplaciana » (essenzialmente basata sul postulato che le particelle si muovono lungo ben precise traiettorie) diventa palesemente una ovvietà. Ma ciò non significa affatto negare che nell'ambito dei microfenomeni continui ad esistere un nesso, che collega uno stato qualsiasi di tali microfenomeni agli stati che l'hanno preceduto. Si tratterà di una dipendenza di tipo diverso da quella considerata dalla meccanica classica, ma pur sempre di una dipendenza; tant'è vero che, se prendiamo in esame un insieme di moltissime particelle, la funzione \fi (soddisfacente all'equazione di Schrodinger) ci permette di prevedere perfettamente- come è ben noto - il succedersi degli stati di tale insieme a partire da uno stato di esso. Taluno potrà forse obiettarci che il parlare, come d'uso in una situazione sul tipo di quella testé accennata, di « causalità probabilistica » non può renderei del tutto soddisfatti, perché non possediamo alcuna idea intuiti va ( « chiara e distinta » direbbe un cartesiano!) di tale nuovo tipo di causalità. Ma su che cosa si fonda, se non su una base psicologica del tutto soggettiva, questa esigenza di intuibilità? L'essenziale non è, a nostro parere, attribuire a questo nuovo tipo di causalità l'una o l'altra qualificazione bensì riconoscere che si tratta di un nesso molto più ricco e articolato di quello meccanicistico. Se si è soliti qualificarlo come « nesso probabilistico », ciò risulta senza dubbio giustificato dal largo uso che si fa, in riferimento ad esso, del calcolo delle probabilità e dai successi sperimentali che questo uso permette di conseguire; sarebbe però inesatto ritenere che l'attributo anzidetto possegga il medesimo significato nella fisica classica e in quella quantistica. Nella prima infatti si ricorre al calcolo delle probabilità, in relazione a fenomeni che coinvolgono un gran numero di particelle, soprattutto per ragioni di comodo, restando però inteso che almeno in via di principio risulterebbe possibile farne a meno, qualora ci si procurasse una conoscenza completa intorno ai moti delle singole particelle; nella seconda invece proprio questo è impossibile (per il principio di indeterminazione), e quindi l'attributo « probabilistico »non denota più uno stato soggettivo di incompletezza di informazione, ma un nuovo più 437
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complesso tipo di connessione fisica che non rientra nel quadro concèttuale cui ci ha abituati la scienza classica. Risulta ovvio a questo punto, che il materialista dialettico - il quale si rifiuta, per principio, di ridurre tutto il divenire della natura a mere trasformazioni di carattere meccanico (si ricordi in proposito quanto abbiamo detto nel capitolo xv del volume quinto, parlando della dialettica engelsiana) - avrà assai meno difficoltà dei seguaci di altri indirizzi di pensiero a concepire il nuovo tipo di nesso causale. Neanch'egli, comunque, potrà accontentarsi di qualificarlo con un aggettivo o con l'altro, ma dovrà sforzarsi di precisare via via maggiormente il significato reale di tale nesso (precisazione che gli potrà venire fornita proprio dallo sviluppo della fisica quantistica, in tutti i suoi aspetti teorici e sperimentali, non da una semplice «analisi operativa» dei singoli principi su cui essa si fonda). Possiamo passare ora a prendere in rapido esame la seconda delle due domande poco sopra formulate. È ovvio che, se noi identifichiamo la conoscenza di un fenomeno con la sua spiegazione in termini meccanici, dovremo concluderne che, là ove non risulti inquadrabile nella « causalità laplaciana », esso dovrà dirsi non completamente conosciuto. È un argomento già invocato da Du Bois-Reymond nella seconda metà dell'Ottocento, per sostenere che la scienza trova innanzi a sé degli enigmi insolubili; ma già si è chiarito nel volume sesto (capitolo VI) che si tratta di un argomento del tutto inaccettabile. Nulla ci garantisce infatti che l'unica spiegazione scientifica dei fenomeni sia proprio la spiegazione meccanicistica. Si tratta ancora una volta di un tranello che ci viene teso dalla tradizione ottocentesca della fisica, di cui continuiamo ad essere vittime malgrado le profonde critiche sollevate contro di essa da Mach e da Engels. E le prime vittime ne furono proprio quei materialisti (che amavano chiamarsi « dialettici » senza esserlo in realtà), i quali sostennero pervicacemente che solo la fisica classica sarebbe compatibile con la filosofia materialistica. Considerazioni analoghe possono venir ripetute a proposito delle limitazioni di cui parlano i principi di Heisenberg e di Bohr. È infatti evidente che si tratta soltanto di limitazioni concernenti la « descrizione classica » dei fenomeni, limitazioni però non trasformabili se non con il ricorso alla metafisica in barriere assolute per qualsiasi tipo di descrizione. In realtà essi hanno inferto un colpo decisivo alla fisica classica, ma non al principio- fondamentale per la scienzadella illimitata conoscibilità della natura. Non ci dicono altro, infatti, se non che le categorie usate dalla fisica meccanicistica per descrivere (e quindi conoscere) i processi naturali hanno una applicazione limitata; costituiscono pertanto un invito (anzi un ordine perentorio) a modificare tali categorie, non a interrompere i nostri sforzi diretti ad approfondire la conoscenza di questi processi. E così li hanno, in realtà, interpretati gli stessi scienziati più moderni, che si sono valsi proprio della meccanica quantistica per proseguire e perfezionare ininterrottamente le
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proprie indagini. Se i due principi anzidetti vengono considerati isolatamente dal grande edificio su di essi costruito, possono effettivamente trarre in inganno il filosofo della scienza; ma l'inganno cessa non appena li si consideri nel quadro complessivo della teoria quantistica, che ha dato mille prove di saper aprire le nostre indagini, non di sbarrarle entro confini prestabiliti. Siamo finalmente in grado di chiarire il problema, che ha fatto versare fiumi di inchiostro, concernente il carattere idealistico o realistico della nuova fisica. Quanto abbiamo riferito all'inizio del paragrafo vn circa le trasformazioni che la meccanica quantistica impone alla nozione tradizionale di « oggetto fisico » è, ovviamente, ineccepibile. Essa ha dimostrato infatti, in modo che non può venire contestato, l'infondatezza della pretesa di trasferire automaticamente ai microoggetti le caratteristiche che siamo soliti attribuire agli oggetti dell'esperienza quotidiana (che sono, d'altra parte, i soli oggetti studiati dalla fisica classica). Ma un conto è accogliere queste trasformazioni, e un altro, ben diverso, è sostenere che esse ci costringerebbero ad abbandonare la concezione realistica, rinunciando a vedere nella fisica una scienza capace di farci conoscere (sia pure in modo relativo) un essere indipendente dal soggetto che conosce. È stato più volte sostenuto che l'impossibilità di operare una netta distinzione fra strumento di osservazione e sistema osservato (impossibilità che sta alla base della meccanica quantistica) imprimerebbe alla nuova fisica un carattere prettamente idealistico. Ma le cose non stanno affatto cosi. Tale impossibilità non ci dice invero che lo strumento di osservazione crei il sistema osservato; ci dice soltanto che questo sistema rivela proprietà diverse (ora corpuscolari e ora invece ondulatorie) a seconda che venga osservato con un tipo o con un altro tipo di strumenti. Ci dice, in altri termini, che la realtà indagata dalla fisica è in grado di fornirci risposte diverse a seconda dei diversi mezzi di osservazione che usiamo per registrare le sue proprietà; ma non che queste risposte provengano da noi. Il realismo metafisica aveva in effetti sostenuto che noi riusciremmo a cogliere le proprietà dell'oggetto nella loro assolutezza, onde potremmo raggiungere una conoscenza completa e totale di esso. Ma il realismo moderno (si ricordi in proposito quanto abbiamo spiegato, esponendo nel capitolo rv del volume settimo il pensiero di Lenin) non sostiene affatto questa tesi; afferma, al contrario, che le nostre conoscenze sono sempre relative, e proprio perciò integrabili. Dal suo punto di vista non vi è quindi alcuna difficoltà né ad ammettere che le proprietà da noi riscontrate nella realtà siano relative al metodo con cui la osserviamo, né ad ammettere che un qualsiasi mezzo da noi usato per osservarla non sia in grado di farci cogliere simultaneamente tutte le proprietà da essa possedute. La tesi centrale del realismo moderno è un'altra: è che la conoscenza scientifica ci pone innanzi a risultati che non dipendono per intero dal soggetto conoscente, ossia che rivelano l'esistenza di una realtà irriducibile a quella di tale soggetto.
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Orbene la fisica quantistica non risulta affatto diversa, da questo punto di vista, dalla fisica classica. Al contrario, proprio perché ci fa scoprire nel sistema osservato un comportamento assai lontano da quello che ci saremmo attesi in base agli schemi tradizionali della scienza, proprio perché - in altri termini ci costringe a mutare le categorie precedentemente usate per rappresentare gli oggetti fisici (pena il disaccordo più completo fra previsioni teoriche e verifiche sperimentali), essa dimostra che la conoscenza scientifica non è esclusivamente un prodotto umano. Il fatto, poi, che tale fisica ci abbia permesso di conseguire un dominio effettivo sui processi naturali enormemente superiore a quello fornitoci dalla fisica classica, dimostra in modo incontestabile che le conoscenze raggiunte per suo mezzo costituiscono una nuova, notevolissima, approssimazione della realtà. Negare questa maggiore approssimazione sarebbe ridicolo; ammetterla significa dare atto, con Lenin, che la scienza è veramente in grado - nel suo laborioso sviluppo - di farci passare da conoscenze « relative, transitorie, approssimate » ad altre « più complete, più precise ». In conclusione, è il progresso stesso constatabile nel trapasso dalla fisica classica a quella quantistica, a dimostrarci che la natura non costituisce affatto un enigma inconoscibile, ma una realtà che può venire da noi sempre meglio conosciuta, purché non si pretenda di rinserrarla entro schemi « intuitivi » precostituiti (ossia entro quadri concettuali che una pigra tradizione è solita presentarci come « evidenti »), ma si sia francamente disposti a modificare le nostre categorie scientifiche in base ai dettami stessi dell'esperienza.
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CAPITOLO SETTIMO
Nuovi aspetti della cosmologia DI UGO GIACOMINI
I ·LA RINASCITA ODIERNA DELLA COSMOLOGIA
A partire dal I9I7 la cosmologia è tornata ad essere oggetto di numerosi studi, che si concludono con la formulazione di nuovi modelli di universo. Si definisce «cosmologia» la scienza che studia la forma dell'universo e le leggi di questo, ed è distinta dalla « cosmogonia », scienza delle origini dell'universo, anche se molti modelli cosmologici comportano delle tesi sull'origine dell'universo. Il fiorire moderno degli studi cosmologici ha inizio nel I 9 I 7 con la memoria, Kosmologische Betrachtungen zur allgemeine Relativitiitstheorie (Ricerche cosmologiche sulla teoria della relatività generale), presentata da Einstein all'accademia delle scienze di Berlino. In questa memoria, servendosi della teoria della relatività generale, Einstein descriveva l'universo come un insieme di materia diffusa in maniera omogenea, raggruppata in galassie, e sottoposta a certe leggi particolari. Da allora molti astronomi e matematici hanno proposto altri « modelli », anche assai diversi da quello di Einstein. Bisogna qui sottolineare che, dalla fine del Settecento, la cosmologia era trascurata e che, in genere, la si considerava come una scienza «metafisica», con tutte le connotazioni negative che venivano date a questa parola nell'età posi tivista. La rinascita della cosmologia si può spiegare con l'estendersi del metodo scientifico a questioni che sembravano prive di senso entro una mentalità scientista di tipo ottocentesco; infatti la cosmologia veniva confusa con la filosofia della natura intesa in senso romantico, e questa confusione si è protratta fino alla metà dell'Ottocento. Dobbiamo oggi constatare l'esistenza di molti studi concernenti questa disciplina: si potrà concludere, dopo un esame particolareggiato di questi studi, o che essi non hanno senso o che lo hanno ed avanzano problemi filosofici nuovi. Pur lasciando aperto, per il momento, il problema del significato di questi 441
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studi, notiamo subito che la loro valutazione è del massimo interesse per chiunque voglia farsi un'idea del ragionamento scientifico moderno. II · BREVE RICHIAMO AI PRINCIPALI MODELLI COSMOLOGICI DEL PASSATO
Com'è noto, l'esistenza di una speculazione cosmologica non è propria dell'età moderna: vi furono già nel passato vari periodi in cui si posero i problemi dell'origine e delle leggi dell'universo. Per comodità del lettore, che può farsi un'idea più approfondita sui modelli d'universo leggendo le parti ad essi dedicate nelle sezioni precedenti, riassumiamo brevemente i principali modelli cosmologici del passato. Nei miti babilonesi ed assiri troviamo espressa un'idea assai simile a quella che compare poi nella Bibbia: l'universo ha avuto origine da una creazione divina, in un certo periodo di tempo. La sua forma era paragonata a quella di una vasta camera, il cui soffitto era il cielo e il pavimento la terra. In questo modello, come- Jn quelli egiziani, l'universo ha una direzione verso l'alto e una verso il basso, ed ha senso in esso parlare di destra e di sinistra perché queste direzioni vengono considerate privilegiate e valide ovunque. Il centro di questo universo è la regione babilonese o egiziana, a seconda del creatore del modello. Vi è dunque non solo una forte accentuazione dell'antropocentrismo, ma ha addirittura senso concepire questo universo come una replica della terra, con direzioni preferenziali come « alto » e « basso ». Dal v al m secolo a.C. i greci elaborarono un modello di universo a sfere concentriche, al cui centro era posta la terra. Il modello geocentrico rappresentò, nell'età antica, il tipo normale di universo, benché alcuni scienziati eterodossi, come Aristarco, abbiano opposto un modello eliocentrico a quello prevalentemente accettato. Ricordiamo, oltre al geocentrismo, anche un altro carattere del modello cosmologico greco, dovuto ad Aristotele: questo modello che inizialmente era stato proposto da astronomi come Eudosso quale modello prevalentemente matematico, per la previsione del moto dei pianeti, fu da Aristotele sostanzializzato ed inserito in una concezione generale del mondo fisico. Così le sfere eudossiane, che erano modelli matematici, furono pensate da Aristotele come sfere di materia purissima sulle quali stavano « incastonati » i pianeti. Notiamo che, nei confronti del sistema babilonese, quello greco non prevede più un centro dell'universo identificabile sulla superficie della terra: ora è tutta la terra il centro del sistema, con un'evidente diminuzione di importanza del motivo antropocentrico. Vi sono dunque due posizioni importanti nella cosmologia antica: una derivata dall'astronomia e connessa ai metodi di misurazione, l'altra invece, 442
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quella aristotelica, che fa della cosmologia una parte della filosofia della natura e che, a volte, usa dei risultati astronomici solo come conferma di idee raggiunte per via aprioristica. Il passaggio dalla concezione classica a quella rinascimentale nella cosmologia è stato giustamente definito come passaggio dal mondo chiuso all'universo infinito. Ricordiamo che uno dei .maggiori contributi di Copernico, oltre alla creazione di un modello eliocentrico, che ancora una volta ci indica l'abbandono dell'antropocentrismo quale linea fondamentale della storia della cosmologia, è la teoria del moto dei pianeti che anticipa in parte quella di Keplero. Anche l'opera di Leonard Digges (I p o-58) vuole essere inclusa nella storia della moderna cosmologia perché rappresenta per la prima volta le stelle come entità primarie dell'universo, allontanando l'attenzione dell'astronomo dal sole e dai pianeti. Egli prendendo come base il modello eliocentrico di Copernico, afferma che le nuove idee astronomiche consentono di considerare l'universo come composto da infinite stelle. Questa affermazione è importante perché mostra la possibilità, in termini di astronomia copernicana, di rovesciare un aspetto tipico della cosmologia classica qual era la credenza che l'universo fosse spazialmente limitato dalla sfera delle stelle fisse. Newton non elaborò un modello cosmologico, ma fornì un grande strumento di spiegazione con le sue ricerche matematiche e con la teoria della gravitazione universale. Toccò a Laplace compiere l'analisi dei problemi meccanici necessari- come egli stesso scrive- ad « offrire una soluzione completa del grande problema matematico presentato dal sistema solare e portare la teoria a coincidere così esattamente con l'osservazione, che le equazioni empiriche non avrebbero più trovato posto nelle tavole astronomiche». Anche William Herschel (1738-18zz), astronomo reale inglese, che fu il più grande osservatore del secolo, arrivando a supporre l'esistenza di galassie, ossia di vastissimi raggruppamenti di stelle (che egli però riteneva interni alla via lattea), portò senza dubbio un grande contributo concettuale alla cosmologia. Pur non elaborando nessuna spiegazione sistematica del mondo galattico, cercò di applicare la meccanica newtoniana alle galassie, preparando le basi per altri sviluppi cosmologici. La tendenza dell'astronomia moderna è stata quella di abbandonare l'idea di un centro nel mondo, di perfezionare l'apparato matematico e i mezzi di osservazione, senza per altro sostituire al modello aristotelico un altro modello di universo. Ciò si vede soprattutto nel secolo scorso, in cui non vi furono teorie cosmologiche generalmente accettate, ma un accumularsi di risultati che forniranno utile materia di discussione, quando, dopo il 1917, le teorie cosmologiche cercheranno la loro conferma nelle osservazioni.
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III · LA CONNESSIONE FRA TECNICHE OSSERVATIVE E MODELLI COSMOLOGICI
Gli sviluppi della cosmologia sono sempre connessi con le osservazioni astronomiche. Questa verità è particolarmente chiara per chi studia la storia dell'astronomia del XIX secolo e nota la grande differenza fra questo tipo di studi e quello dei secoli precedenti. Possiamo ben dire che nel secolo scorso ha avuto luogo una seconda rivoluzione copernicana che ha soppiantato il sole come centro del mondo, prima a favore della nostra via lattea (considerata come la maggiore fra tutte le galassie) e poi a favore di un'eliminazione del concetto di centro dell'universo. Ma vi è di più: soltanto nel secolo scorso l'invasione delle tecniche fisicochimiche in campo astronomico trasforma le conoscenze astronomiche da pura osservazione in sperimentazione da laboratorio. Accanto all'astronomia matematica si stabilisce una nuova concezione della disciplina astronomica, quella fisico-sperimentale. Uno dei punti principali di questa rivoluzione consiste nell'introduzione della fotografia per opera di Fizeau nel I 84I, che voleva studiare con questo mezzo le macchie solari. Dal I 8 84 i fratelli Paul e Prosper Henry iniziano la fotografia stellare combinando un apparecchio fotografico con un telescopio che segue meccanicamente il corso delle stelle. Il numero delle stelle a noi note cresce così enormemente, perché l'apparecchio fotografico si rivela assai più sensibile, in una lunga esposizione, dell'occhio umano. Nascono le carte fotografiche del cielo, nelle quali vengono registrate fino a trenta milioni di stelle. Perciò l'astronomia divenne una scienza nuova rispetto a prima: fu possibile fotografare oggetti stellari posti a grande distanza dalla terra, e le stelle a luminosità variabile, di cui divenne possibile determinare la natura di stelle doppie. La seconda applicazione della fisica all'astronomia si ebbe nella spettroscopia, basata sull'analisi spettrale introdotta in forma sistematica da Kirchhoff nel I859· Gli spettri di un metallo portato a incandescenza si rivelano dotati di particolari caratteri che si ritrovano negli spettri di tutti i corpi che posseggono quel metallo. L'applicazione di questo principio al sole e alle stelle consentì un notevole successo all'astronomia stellare: furono infatti determinate tre categorie di stelle, quelle bianche, quelle gialle e quelle rosse. Rivelatosi il sole come una stella di seconda categoria, l'importanza che aveva detenuta per secoli nell'economia dei modelli cosmologici diminuì di molto, finendo per apparire una stella di grandezza mediocre e non più qualcosa di eccezionale nell'universo. La possibilità data dalla spettroscopia all'astronomia di classificare le stelle
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in pochi gruppi fondamentali, aprì poi la via all'applicazione dell'idea evoluzionistica alle stelle. I vari gruppi di stelle apparvero come gruppi di stelle in diversi momenti della loro esistenza. In linea di massima sembra che la temperatura delle stelle diminuisca regolarmente nei gruppi successivi della scala evolutiva. Questo tipo di risultati, in cui si vede applicare agli astri un'ipotesi scientifica nata sulla terra per spiegare il legame fra le specie animali, è importante anche perché ha in sé il germe di future considerazioni cosmologiche; in questi studi anche la singola stella è considerata un caso particolare di una legge generale, valida per tutte le stelle. Vedremo che lo stesso accadrà, nel xx secolo, anche per le galassie. La più importante applicazione della spettroscopia fu senza dubbio quella che consentì di misurare le distanze delle stelle con metodi ben più efficaci di quelli ottici e trigonometrici, in uso fino a quel momento. Nel 1916 Walter Sydney Adams (1876-1956) in America ammise che, sapendo con i vecchi metodi le distanze dalla terra di due stelle dello stesso tipo spettrale, si può calcolare la magnitudine assoluta (ossia la misura della lucentezza di una stella vista da un punto fisso distante convenzionalmente 32,6 anni luce da ogni corpo celeste) di tali stelle. Supponendo che le distanze delle due stelle e le loro magnitudini siano di ordine assai diverso, si dovrebbe ritrovare l'effetto di queste diversità anche nei loro spettri. Poiché tale supposizione si rivelò esatta, Adams riuscì a calcolare da allora in poi le distanze di qualunque oggetto partendo dall'esame del suo spettro, senza bisogno di usare altri metodi. Altrettanta importanza ebbe la spettroscopia nel ricercare i diametri delle stelle, le masse, i volumi. Nella prima metà del nostro secolo, sempre attraverso questi metodi fisici, è stato possibile determinare che il nostro universo va ben più in là del sistema solare, essendo formato da tutte le stelle osservabili sia ad occhio nudo. sia fotograficamente o con i radio-telescopi. Fin dal tempo di William Herschel si è supposto che le stelle siano raggruppate nella via lattea come si è accennato nel paragrafo n. Si riteneva che il sole fosse in posizione privilegiata entro questo sistema di stelle. La dimensione della galassia e la posizione del sole hanno dato luogo a numerosi studi, tra cui quelli di Carl Charlier (186z-1934) nel 1914 e di Harlow Shapley (n. 1885) nel 1919, i quali hanno concluso che il sole si trova in una posizione laterale entro la nostra via lattea, e non già al centro, come veniva supposto da un'ultima difesa antropocentrica. Vi è di più: nel nostro secolo la scoperta di nuove tecniche per produrre degli specchi sferici ha aperto la corsa ai grandi telescopi, conclusasi nel I 949 con la creazione del telescopio di Monte Palomar; l'impiego di orologi a quarzo, iniziato nell'osservatorio di Greenwich, ha permesso delle misurazioni del tempo sempre più accurate. 445
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Infine, tra i più reèenti mezzi al servizio dell'astronomia ricordiamo i ricevitori di onde-radio, o radiotelescopi, che captano i segnali emessi dai corpi celesti. Tutto questo insieme di nuovi apparecchi ha consentito il superamento della stessa ipotesi galattica, poiché i nuovi strumenti sono in grado di captare segnali di oggetti posti oltre i limiti calcolati per la galassia. Le nebulose extragalattiche, studiate da Lord William Parsons (I 8oo-67) e poi da Edwin Powell Hubble (1889-195 3), sono state dapprima ritenute come oggetti facenti parte della nostra galassia; solo più tardi si è capito che esse erano al di là dei confini della via lattea, e che questa deve esser considerata una galassia uguale alle altre sotto tutti gli aspetti. Lo spettro di queste galassie rivela delle righe spostate verso il rosso, e questo per una legge, dovuta a Christian Doppler (1803-53), è indice di un loro allontanamento dall'osservatore. I risultati dell'astronomia moderna consentono allo studioso di rilevare il rapporto assai importante che passa tra i mezzi tecnici e le considerazioni teoriche. È bensì vero che il legame tra modelli cosmologici e dati dell'osservazione si può scorgere anche per le epoche passate, perché ogni modello corrisponde all'interpretazione di certi dati osservativi, ma è altrettanto vero che nell'età moderna questo legame si è fatto anche più stretto, al punto che non ha più senso parlare di universo al di fuori di quelle osservazioni e quei risultati che vengono ottenuci con gli strumenti moderni. Tutti questi nuovi sviluppi avevano reso l'astronomia del XIX secolo una realtà profondamente diversa da quella del secolo precedente: assai più ricca e piena di ipotesi nuove. Eppure l'astronomia dell'Ottocento non diventa mai cosmologica, ossia tutte queste novità astronomiche, anche se esorbitano dai limiti dell'astronomia rinascimentale e settecentesca, non vengono spiegate come caratteri di un tutto unitario: il cosmo. Possiamo individuare due cause di questo mancato sviluppo della cosmologia: in primo luogo il fatto che, nell'Ottocento, era ancora molto importante quel tipo di studi prevalentemente filosofici, che vanno sotto il nome di filosofia della natura, e i sospetti degli scienziati verso questa disciplina li rendevano molto cauti verso una concezione generale del cosmo non garantita da prove sperimentali; in secondo luogo il fatto che il secolo scorso è stato un periodo di raccolta di dati e di evidenze scientifiche che non rientravano nell'ambito di una mentalità come quella che, nel Settecento, aveva fornito l'ultima grande struttura matematica in cui far rientrare i fatti sperimentali. È interessante osservare che solo nella seconda metà dell'Ottocento, con l'opera di Parsons, fu possibile stabilire l'esistenza di galassie esterne alla via lattea e attribuire ad esse il nome di nebulose extragalattiche. Pochi anni dopo, nel 1914 Henry Norris Russell (1877-1957) mostrò che una stella passava attraverso processi evolutivi di nascita e sparizione, collegati con
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AMMASSO DI
DISTANZA IN ANNI-LUCE
SPOSTAMENTO VERSO IL ROSSO
43.000.000
1200 KM/SEC
VIRGO
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14.900 KM / SEC
URSA MAJOR .
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CORONA BOREALIS
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39.000 KM/SEC
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61.000 KM/SEC
Rapporto tra lo spostamento verso il rosso (espresso come velocità) e la distanza nelle nebulose extragalattiche. La coppia di righe scure H e K si sposta sempre più verso destra (rosso) per le galassie più deboli, più piccole e più lontane: fotografie dell'Osservatorio di Hale.
cadute della temperatura. Nel I924 Arthur Stanley Eddington (I882-I944) calcolò che se una stella è gassosa la sua radiazione totale dipende dalla massa più che dal diametro, perché, se si contrae, la sua area esposta decresce in modo tale da bilanciare la temperatura accresciuta. Tutte queste nuove teorie furono rese possibili dai nuovi metodi con cui, verso il I 9 I 4, si poterono stimare le distanze di stelle troppo distanti per il metodo della parallasse. Molte delle stelle di luminosità regolarmente variabile appartengono al tipo di stelle doppie, che periodicamente si eclissano l'una con l'altra; ma ciò non è vero per un certo tipo di stelle, le cefeidi, perché il conside447
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rade in tal modo darebbe una errata funzione del rapporto fra tempo e luminosità. Esse invece, quando le loro distanze sono conosciute, mostrano una precisa relazione tra la lucentezza assoluta e il loro periodo di variazione. Questo consentì di usarle come elementi per la misurazione di distanze molto grandi, e il metodo della luminosità variabile sostituì quello delle parallasse. Con tali metodi fu possibile, verso il I 9 I 8, stimare la grandezza della forma della nostra galassia, che è in lento moto rotatorio probabilmente sotto l'azione dei corpi circostanti, alcuni dei quali danno segno di essere lontani 108 anni-luce. IV · LA COSMOLOGIA RELATIVISTICA E I SUOI PRINCIPALI MODELLI DI UNIVERSO
Come già si disse, il I 9 I 7 segna la data di inizio della moderna cosmologia perché in quell'anno Einstein, presentando la sua memoria all'accademia delle scienze di Berlino, riaprì il problema della forma del mondo fisico e propose per esso una soluzione. La memoria era un insieme di ipotesi sulla natura della gravitazione e sulla distribuzione della materia nello spazio. Come il lettore può vedere nel capitolo XIV del volume sesto, uno dei principali risultati della teoria della relatività generale è l'ident~tà fra massa inerziale e massa gravitazionale di un corpo. Questa identità elimina l'idea di una forza gravitazionale e riduce la gravitazione a un particolare movimento del corpo entro uno spazio delimitato da masse di materia. L'idea risaliva a Mach, ma Einstein l'aveva sviluppata servendosi di un'accurata indagine dei concetti di spazio e di tempo. La memoria parte dal presupposto che la materia nello spazio sia uniformemente distribuita, e questa assunzione è molto distante da quella tipica del XIX secolo secondo cui i corpi sono necessariamente gruppi di materia. Inoltre si suppone che non esistano « forze » in senso newtoniano, ma che le particelle di cui è composta la materia si muovano liberamente lungo certe direzioni spaziali. Nella concezione di Hugo von Seeliger (I 849- I 924), celebre astronomo di tendenza newtoniana, l'universo era un'isola di materia in uno spazio infinito. Questa concezione urta contro certe difficoltà insormontabili nell'ambito della fisica newtoniana perché tutta la materia tenderebbe a concentrarsi in un 'unica massa. Nel modello di Einstein questa difficoltà invece è superata. Infatti quando lo spazio viene supposto curvo la distribuzione uniforme della materia non implica la presenza infinita di materia né la sua tendenza a riunirsi in un'unica massa. Il modello di Einstein aveva ino.ltre come caratteristiche l'isotropia e l'omogeneità; con la prima si intende che lo spazio entro cui è posta la materia è uni-
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forme in tutte le direzioni e con la seconda che in volumi uguali di questo spazio le quantità di materia sono costanti. Bisogna ora vedere quali sono i punti salienti di questo modello, oltre ai due già citati. La semplificazione estrema del modello nei confronti del mondo reale consiste in questo: le galassie, che vengono considerate nell'astronomia i più ampi raggruppamenti di stelle, nell'ambito del modello einsteiniano sono considerate come i minimi costituenti dell'universo. Questa arditissima semplificazione discende dall'ipotesi fondamentale di Einstein che la distribuzione della materia sia costante e con densità tendente verso lo zero. In pratica creando un modello di universo, come Einstein stesso ebbe a dire, si compie una operazione simile a quella del cartografo che disegna un mappamondo e trascura nel modello molte delle fattezze dell'originale. Non compaiono sul mappamondo le altezze delle montagne, i mari non sono fatti d'acqua, e così via. Anche il :risultato dell'operazione del cosmologo è un modello altamente astratto, in cui è però possibile, servendosi di opportune interpretazioni, ritrovare tutti gli elementi che compaiono nell'originale e le principali relazioni che intercorrono tra essi. Altro punto importante è l'uso di un insieme di coordinate non euclidee per descrivere il moto e la posizione delle particelle. Come mai Einstein ha scelto questo tipo di descrizione matematica? Chi legge il capitolo dedicato allo scienziato, vedrà che egli aveva frequentato a Zurigo nel 189 5 i corsi di Hermann Minkowsky, che per primo aveva elaborato un modello matematico dello spazio a quattro dimensioni, cercando di darne un'interpretazione fisica. È importante in modo particolare l'uso dei tensori, che permettono, con un simbolismo matematico assai conciso, di esprimere il moto di un punto entro un sistema di coordinate qualsiasi. La geometrizzazione della fisica compiva così un importante passo avanti; questo simbolismo verrà poi mantenuto da tutti i cosmologi successivi, tranne alcuni che tenteranno di costruire dei modelli newtoniani. L'origine di queste geometrie non euclidee è stata spiegata nei volumi terzo e quarto; il fatto che bisogna qui sottolineare è che esse vengono usate con un significato fisico. Il modello di Einstein ha perciò consentito di eliminare alcune delle domande tradizionali che venivano poste ad ogni tipo di modello di universo newtoniano. Così, per esempio, non ha più senso chiedersi cosa c'è« fuori» dell'universo, perché con il particolare tipo di geometria non euclidea usata, quella riemanniana, esso deve essere considerato finito ma illimitato. La distinzione così introdotta tra finitezza della massa materiale dell'universo e sua infinità di distribuzione vanifica il problema del «dentro» e del «fuori» dell'universo in
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quanto in qualunque direzione si muova un corpo nell'universo, esso tornerà, qualunque sia il suo percorso, al punto di partenza. Tuttavia Einstein non affermò che la geometria dello spazio dell'universo fosse ovunque ellittica; piuttosto sottolineò che il nostro universo si comporta analogamente a una superficie liquida mossa, che si presenta come piana in un luogo e in un altro irregolarmente curva. Ciò vuol dire che la geometria euclidea può valere per ristrette porzioni di spazio. Un carattere particolare di questo modello è la staticità. Si intende con questo che nel modello di Einstein non avvengono variazioni nel corso del tempo, se non a livello locale. La staticità è l'indifferenza dei moti della materia a livello locale nell'insieme del modello cosmologico. Con l'ipotesi che i movimenti delle galassie o delle stelle siano trascurabili nell'economia del modello cosmologico si semplificano notevolmente le equazioni richieste per formulare lo stato di equilibrio del cosmo. Tuttavia è innegabile che vi sia movimento non solo delle stelle, ma anche delle galassie e questo fatto rende il modello einsteiniano nulla piu che una prima approssimazione nella rappresentazione dei fenomeni astronomico-galattici. La negazione della staticità, introdotta nel modello di Willem de Sitter (I87z-1934), segnerà un grande passo avanti nella cosmologia moderna. La peculiare caratteristica del modello di Einstein, ossia la staticità, fu messa in discussione quando, nel 19z5, l'astronomo Hubble scoprì lo spostamento verso il rosso delle righe negli spettri delle galassie. Questo fenomeno, interpretato con la teoria di Doppler, sembra dipendere dalla distanza delle galassie, perché quanto più esse sono lontane, tanto più grande è lo spostamento degli spettri e tanto più la loro « velocità di fuga » da un osservatore posto sulla terra sembra maggiore. Se consideriamo l'universo di Einstein, vediamo che l'idea di isotropia e di omogeneità di quest'universo stabile non lascia posto per l'interpretazione dello spostamento verso il rosso; quindi il modello di Einstein non serve e deve esser sostituito da un modello non più statico ma dinamico. Due mesi dopo la pubblicazione della memoria di Einstein, de Sitter ne metteva in discussione il valore mostrando che la costante cosmologica introdotta da Einstein non valeva nel caso in cui si fosse supposto che la struttura spaziale dell'universo fosse vuota. Per ovviare a questo inconveniente (d'altronde spiegabile in base al fatto che la teoria di Einstein era solo una prima approssimazione alla descrizione dell'universo) de Sitter criticava l'idea einsteiniana di sfericità dello spazio (sfericità a quattro dimensioni). De Sitter sottolineava il fatto che la quantità di materia supposta presente da Einstein era enormemente superiore ai dati sperimentali. Egli presentava le le sue critiche come una possibile soluzione alternativa a quella di Einstein; ma da esse risultava una maggiore coerenza fra assiomi matematici e assiomi fisici che non dalle Kosmologische Betrachtungen (Considerazioni sulla cosmologia). 450
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Soprattutto, Einstein aveva costruito un modello di universo sul presupposto che la materia fosse staticamente in riposo. Nel modello di de Sitter, per quanto ciò non risultasse subito chiaro, era contenuta l'idea di movimento dello spaziotempo. Successivamente i due scienziati collaborarono per creare un nuovo modello che tenesse conto delle obiezioni di de Sitter, ma salvasse il principale esposto di Einstein, ossia il legame fra materia presente in certe regioni di spazio e curvatura spazio-temporale di quelle regioni. L'idea principale contenuta nel modello di de Sitter era quella di espansione continua, secondo la quale l'universo non è affatto statico, ma si «muove» nello spazio-tempo, comprendendo regioni sempre più vaste di questo. L'idea è importante perché segna l'apertura del discorso cosmologico verso il pt_oblema della conservazione dell'energia, che tante discussioni aveva suscitato nel xrx secolo. In che modo l'universo passa da uno spazio-tempo più ristretto ad uno più vasto? Donde viene l'energia per questo movimento? V ed remo poi, discutendo la cosmologia « nuova », che questi problemi possono trovare risposta solo a prezzo di grandi modificazioni metodologiche nel discorso cosmologico. Va a de Sitter il merito di aver proposto un modello in cui il problema del movimento dell'universo è messo al centro dell'interesse scientifico. Un tentativo assai diverso da quello Einstein-de Sitter fu quello compiuto dall'astronomo e matematico inglese Eddington. Possiamo chiamare