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Italian Pages 94 Year 1970
Sette giorni e mezzo di fuoco a Palermo
\URO DE MAURO
EDIZIONI ANDÒ
MAURO DE MAURO
Sette giorni e mezzo di fuoco a Palermo Prefazione di LEONARDO SC IA SC IA ♦ Nota introduttiva di SALVATORE COSTANZA
EDIZIONI ANDÒ - PALERMO
PREFAZIONE
La rivolta palerm itana del settem bre 1866 è stata, da un testim one dei fatti, definita acefala — e la definizione ha avuto fortuna, è stata da tutti accettata, è entrata nel giudizio storico. Acefala: senza veri capi, senza un preciso disegno, confusa tra istanze rivoluzionarie e conati di reazione borbo nica, bandiere rosse e bandiere biancogigliate, benedettini e mazziniani, un capopopolo soprannom inato il pianista ( ine quivoco soprannom e a indicare la destrezza di mano più nelle tasche altrui che sullo strum ento di musica) e veterani delle rivolte del '48 e del ’60 che non si erano lasciati andare alla corruzione già abbastanza rigogliosa in quei prim i sei anni di unità. Curiosamente, è da questo reportage retrospettivo di Mau ro de Mauro (*) che viene — alm eno p er m e — il du bbio sulla giustezza della definizione. E sarà magari p erch é il reportage, oltre che alla buona regola di stringere i fatti, obb ed isce a quell’altra della scoperta parzialità — m entre i contem pora nei che hanno lasciato relazioni sullo svolgimento dei fatti e giudizi sulle cause e sugli esiti, tendevano invece a nascondere il loro inevitabile parteggiare sotto la form a della serenità, del distacco e insom m a della obbiettività, che è illusione (quando non è m alafede) tanto più presente quanto più si parteggia.
( * ) A p p arso su l q u o tid ia n o L ’O ra di P a le rm o (n .d .r.).
Perché acefala la rivolta palerm itana del « sette e mezzo »? Intanto, com e scrisse il Ciotti (governativo e rudiniano per la pelle) fu una rivolta riuscita: « La rivoluzione palerm itana del 1866 — nelle proporzioni che lo stato d ’Italia e di questo paese consentivano — è riuscita. E ssa è riuscita al di là di qualunque previsione ». Si ritiene generalm ente che le forze governative fossero, in città e in provincia, scarse: un reggimento di granatieri, tre battaglioni di fanteria, una batteria di artiglieri, più i carabinieri (circa 200 in città), le guardie di questura, di fi nanza e municipali, i pom pieri e quelle guardie nazionali che fu possibile racim olare. Senza dubbio una forza insufficiente a fronteggiare la rivolta di una grossa città com e Palermo, se la rivolta fosse scoppiata im prevista e im provvisa — m a la rivolta scoppiò, si può dire, p er appuntamento, p er preavviso: com e sem pre, del resto, le rivolte cittadine palerm itane. Dalla parte dei ribelli ci sarà stato dunque, oltre che il calcolo delle forze avversarie, quello delle loro intrinseche debolezze: lo inefficiente com ando, l’incapacità di coordinazione, la sicurez za in cui si adagiavano ( e che era tutta basata sull’azione repressiva svolta fino a quel m om ento dalla polizia). Inóltre, i capisaldi cui i ribelli si diressero senza dispersioni, non at tardandosi in quelle azioni di saccheggio e di sfoghi vendi cativi che son proprie alle tumultuazioni improvvise, dicono di un disegno e di una disciplina. In effetti m ancò il capo, la figura che sì im ponesse alla fantasia p opolare ed all’atten zione dei cronisti; m a ci furono dei capi che mantennero coe sione tra le squadre, che non discordarono nelle azioni, ch e im pedirono i disordinati furori della p leb e (la cui m iseria era più grave che nel passato e avrebbe giustificato l’esplo sione della collera più sanguinosa). S'indovina anche, nella costituzione delle squadre, una specie di fureria, di ammini strazione. Se è dal soldo che è venuto il soldato, nelle squadre ribelli c'era il soldo: e segnato in quei ruoli nominativi che p oi furono utili alla repressione. E che il sold o com provi la mancanza dì idee, non pare: i capi avevano l'idea, e il soldo era elem ento di disciplina; serviva a legittim are il com ando, a farlo riconoscere. L ’idea dei capi, o alm eno di qualcuno di loro, era quella 2
della repubblica e delta rivoluzione sociale. Né la partecipa zione di prelati, preti, m onache e m onaci può essere consi derata prova di una com ponente borbon ica del movimento. Il clero sicitiano non era m olto legato alla causa borbonica, anche se indubbiam ente teneva al mantenimento d ei propri beni e privilegi. Certo, non mancavano legittimisti tra i rivol tosi; e m olto probabilm en te da quella parte vennero alla ri volta sollecitazioni ed aiuti, m a occultam ente, a livello di contatti tra i capi. La m assa pare non sentisse più alcun rim pianto p er la dinastia caduta: e il fatto che a un evviva Francesco I I la folla abb ia reagito col linciaggio, pare si possa ritenere indicativo. Dal punto di vista militare i ribelli com m isero un solo errore: non tagliarono i fili del telegrafo prim a di com inciare a sparare. Naturalmente, la rivolta sarebbe fallita ugualmente: m a p er ragioni che andavano al di là della tattica e della strategia. Alle quali ragioni mi sento, nel considerare la ri volta del sette e mezzo, nonostante tutto, legato: p oich é in effetti, m ossa da giusta causa, da una condizione che andava oltre ogni lim ite di sopportabilità, se fo sse andata al di là dei sette giorni e mezzo, altro non si sarebbe avuto dalla rivolta che un groviglio milazzista avant la lettre, l’eterno milazzismo che la Sicilia oggi esporta. L eo nardo S
c ia s c ia
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NOTA ILLUSTRATIVA
Dal 15 al 22 settembre del 1866, per sette giorni e mezzo, una riuscita insurrezione popolare sconvolse il capoluogo e le campagne del palermitano: lu setti e menzu valse così a in dicare nella tradizione il periodo di tempo in cui il popolo vinse la sua carta, mettendo in iscacco le classi dominanti dello Stato e dell’isola. Erano appena trascorsi sei anni dalla « conquista » ga ribaldina del ’60 (che pure tante speranze aveva acceso nel l’animo dei siciliani) ed ora l'amaro bilancio dei mali soprav venuti a causa del malgoverno « piemontese » in Sicilia esa sperava persino coloro che si erano battuti sulle barricate di Palermo e sul campo di Milazzo a fianco di Garibaldi. L’entu siasmo dei « picciotti » si era presto sgretolato nel malcon tento e nella diffidenza per il nuovo ordine di cose; più d’uno ripeteva che, quella del ’60, era stata uno schifo di rivoluzione. Alle promesse non erano seguiti i fatti: né terra per i conta dini, né benessere per i ceti produttivi delle città; né libertà e autonomia per la Sicilia, come aveva reclamato l’intellettua lità isolana, schierata quasi tutta sul terreno autonomistico. Anzi erano arrivati i funzionari piemontesi a « uniformare » le leggi, a imporre più tasse, a reclutare la leva. Per la leva si erano sollevati interi comuni (come Castellammare del Gol fo, nel 1862); ed altri erano stati tormentati con veri assedi militari, nell’affannosa ricerca dei renitenti. Le concioni dei generali mandati dal Governo in Sicilia riempivano altezzosi 5
proclami al popolo, nei quali s’insinuavario già i primi concetti antropologici: il generale Govone disse pubblicamente alla Camera che l'isola si trovava ancora in uno stadio di civiltà inferiore alle altre regioni d’Italia, e che bisognava provve dervi con la forza. Cose simili nessun funzionario e generale borbonico si era mai sognato di dire. Fu offeso il sentimento regionale. L’istituzione della Luogotenenza in Sicilia, che po teva anche rappresentare una concessione alle aspirazioni di autonomia del popolo dell'isola, si risolse in una farsa, e fu subito revocata. Le opere pubbliche erano in uno stato di deplorevole abbandono; solo 37 km. di ferrovie erano stati costruiti in sei anni. Dappertutto nell'attività produttiva si avvertiva il peso concorrenziale degli ambienti economici del Nord. A ciò si aggiunga che era stata decisa, il 7 luglio del 1866, la soppressione delle corporazioni religiose con l’incame ramento da parte dello Stato dei loro beni urbani; e ciò avreb be lasciato senza assistenza i diecimila mendicanti di Paler mo. Le terre dei vari enti religiosi erano state censite prima, con la legge Corleo del 10 agosto 1862, ed erano finite quasi tutte nelle mani dei grandi proprietari latifondisti, i quali, in verità, erano frattanto divenuti nell’isola i massimi depositari del sentimento nazionale. L'estate che precede la rivolta del settembre del '66 è punteggiata di episodi di notevole gravità, forieri di sbocchi drammatici. Le campagne in quel periodo sono piene d’in sorti, per lo più renitenti alla leva e ammoniti. Alla fine di giugno i carabinieri prevengono un colpo di mano a Bagheria. Il 5 agosto viene fatta esplodere la polveriera posta nelle vi cinanze del monte Pellegrino; il 30 agosto forza pubblica e bande armate si scontrano a Portella della Paglia. Il vessillo dei rivoltosi è la bandiera rossa, e il grido Viva la R epubblica! Sempre nell'agosto del '66, le bande occupano i villaggi di Grazia e di Sampolo. Circolano intanto infuocate invettive contro i governanti: Lu populu si java rivutannu, ma si rivutirà tuttu lu regnu; aspittam u stu jornu, e (cui sa quannu?) vinnitta si farrà sangu ppi sangui
Siamo alla vigilia dell'insurrezione, e già funziona un co mitato segreto rivoluzionario, capeggiato dal repubblicano Lorenzo Minneci: un comitato composito, formato in maggio ranza da repubblicani, da autonomisti-regionisti, e perfino da clericali, ma pur sempre operante ai margini dei partiti e in collegamento diretto con le masse. Voci su un’insurrezione popolare nel capoluogo e nelle campagne circostanti erano state diffuse da un po' di tempo, e finanche se ne erano sentite che avevano annunziato espres samente per l’8 settembre di quell’anno l'inizio del moto. Ri portano le cronache che le autorità di polizia mostrarono di ìjon prendere sul serio quelle voci: saranno poi accusate per questo di avere operato con leggerezza e di non aver creduto alle possibilità di una sollevazione popolare. E forse, per stare ai soli rapporti sull'attività dell'opposizione, le autorità di po lizia pensavano di essere in grado di controllare i suoi movi menti; si capiva subito, del resto, che le fila della cospira zione, almeno sul piano politico e organizzativo, restavano pur sempre al livello settario: repubblicani, autonomisti e cle ricali si muovevano tra incertezze e contraddizioni, non ostan te fosse già in atto il tentativo di accordarsi tra di loro per sferrare l'attacco al Governo. Ma le autorità operanti nell'isola (dal Prefetto Torelli al questore Pinna) mostrarono soprat tutto di non intendere il sottofondo sociale che avrebbe mosso vasti strati della popolazione sulla via deH’insurrezione. Era, infatti, il nodo dei gravi problemi accumulatisi durante la pur breve vita dello Stato unitario nell’isola che le masse ora avrebbero tentato di sciogliere con la violenza; e questi pro blemi erano stati ostinatamente ignorati o sottovalutati. Se si fosse trattato di un semplice conato politico delle opposizioni, potevano forse bastare le forze dislocate a Pa lermo e nelle vicine campagne del monrealese, di Partinico, ecc. Ma non fu così. D’altronde, gli stessi esponenti dell’op posizione, compresi gli « azionisti » moderati, a un certo pun to si affrettarono a scindere le proprie responsabilità da quelle delle masse insorte. Solo ne accettarono le istanze più au tentiche quanti erano fin da allora su posizioni di netta in transigenza sociale, oltre che politica, e già pienamente con sapevoli di un contatto permanente con le masse.
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I nomi di questi ultimi non appaiono che di sfuggita nel le cronache e nelle storie scritte in quell’epoca; e si fa oggi fatica a ricordarli. Dei capi-squadra dei comitati di S. Spirito e di S. Agostino che diressero al principio quel moto restano i nomi di Francesco Bonafede e Salvatore Nobile, dei fratelli Pagano, di Vincenzo Grimaldi, Giuseppe Scordato, Pasquale Miloro, Vincenzo il Parchitano, Salvatore Miceli e qualche al tro. Erano capi-squadra conosciuti nei vari quartieri di Paler mo, molti dei quali reduci dalle giornate del '48 e del '60; e, pur avendo dato un primo embrionale impulso organizzativo al movimento, restavano anzitutto uomini d'azione, senza al cuna esperienza di « governo ». Questo fatto fu sottolineato, con un certo compiacimento, dai numerosi cronisti di parte governativa, e da qualche « azionista » moderato, come il Pa gano. Sicché si è parlato di una rivoluzione « acefala », senza capi né guida politica. Comunque, rimase sempre un « enigma oscuro » per le classi dirigenti dell’epoca il rapido estendersi della rivolta, la quale permise al popolo di Palermo di scon figgere in poche ore le truppe raccolte in gran numero nel capoluogo siciliano, e assumere direttamente il controllo della situazione: ciò che persuase anche le autorità centrali e peri feriche della precarietà del loro potere nell'isola. Gl’insorti furono calcolati dai contemporanei a trenta o quaranta mila, ivi compresi gli armati convenuti dalle vicine campagne a Palermo per dare man forte ai compagni. E parecchi tentativi, fatti dalle truppe e dalle forze di polizia per scompaginare gli assembramenti delle squadre nei vari quartieri, prendere di assalto le barricate, rompere il legame tra città e campagna, furono resi vani dalla compattezza e dall’ardimento dei ri voltosi. Le cronache del tempo e la storiografia ufficiale si ado pereranno, in seguito, a tessere su quei fatti la trama di fal sità e di preconcetti che ancora oggi si fanno largamente cir colare. Solo di recente il giudizio sulla rivoluzione del « sette e mezzo » è stato sostanzialmente rivisto; e da parte della più moderna corrente di studi si è messo in rilievo il nesso che unisce la stessa insurrezione con tutti gli episodi della lotta popolare siciliana, fino ai Fasci dei Lavoratori e ai movimenti per l’autonomia. Né è sfuggito il fatto che molti dei parteci
panti alla rivolta palermitana del settembre del '66 si ritroverranno poi nelle sezioni dell’internazionale socialista; come Giuseppe Bonfade, che sarà anche il segretario dei comitato palese capeggiato dal principe di Linguaglossa nsgli ultimi giorni della rivolta; come Domenico Corteggiani e Vincenzo Trapani Porpora, e il popolare luogotenente del Corrao, Giu seppe Badia, il quale pur non avendo partecipato direttamen te al moto palermitano, perché arrestato mesi prima per i disordini verificatisi a un m eeting anticlericale, ne era stato tuttavia tra i più attivi promotori. Non ostante il ruolo che vi esercitarono gli elementi politici più avanzati, tendenzial mente repubblicani, non si può però dire che sia stato ben definito in quel moto il proposito dei rivoltosi; parecchie te stimonianze si raccolsero dalla viva voce popolare su una confusa aspirazione a veder cambiate le cose; ma pochi, in verità, ne sapevamo intuire anche i precisi sbocchi politici. La confluenza che si stabilì in quella occasione tra le varie cor renti dell'opposizione (dai repubblicani ai clericali, agli stessi legittimisti borbonici) era resa possibile dalla gravità di una situazione, in cui molteplici erano gli elementi del malconten to, e molteplici, quindi, le sollecitazioni politiche volte a com batterlo, ciascuna dal suo punto di vista. Per quanto riguarda più direttamente le attese popolari, la volontà dei cronisti dell'epoca di farle apparire come dettate soltanto dal risen timento e dal rancore contro i ricchi venne alla fine smentita dalle stesse fonti ufficiali, le quasi ammisero la sostanziale cor rettezza civica e militare degl'insorti, dimostrata in primo luo go nei confronti dei quasi duemila prigionieri, e anche dei proprietari. In realtà, la rivolta palermitana del settembre del '66 fu considerata dalle squadre d'insorti come la « controprova » delle insurrezioni del '48 e del '60, per fini non dissimili da quelli vagheggiati durante il periodo borbonico, ma che ora finalmente sembravano potersi sciogliere dagli intrighi e dai calcoli di un certo opportunismo politico: e fu ancora una rivolta della speranza, l'intatta speranza di cui si erano sem pre imbevuti i più umili siciliani: Iu di tutti canùsciu la mancanza: cu ha vinti tari vurissi ’n’unza,
ogni omu si nutrisci di spiranza e assuppa, assuppa, megghiu di ’na sponza. O quarantottu fu la cuntradanza, lu 'ncugna e scugna, lu conza e lu sconza; Sigilia dissi: Arrìsicu la panza; quannu si sburdi ’na cosa si conza. A lu sissanta Sigilia chi acconta? Li cani grossi mancinu la sponza. Il poeta popolare che aveva dettato a Lionardo Vigo que ste strofe si rendeva così interprete di un sentimento larga mente presente in quegli strati sociali dell'isola che si senti vano colpiti da un processo unitario dominato essenzialmente dagli interessi della classe dominante: i cani grossi, alla fine, erano stati i soli a beneficiare dei cambiamenti politici, pren dendo per sé tutti i frutti della partecipazione popolare alle lotte per l’indipendenza e l'unità. Ma intanto nel ’66 gl’insorti dei quartieri popolari ave vano finito egualmente per far ricorso ai cani grossi della no biltà palermitana, includendoli nel comitato provvisorio che doveva guidare la rivolta. Il comitato, capeggiato dal principe di Linguaglossa, si guardò bene, naturalmente, dal portare a compimento l'incarico che gli era stato assegnato, limitando la sua azione al mantenimento dell’ordine in città. Questo fat to, se dimostra il legame di tipo feudale che ancora univa il popolo all’aristocrazia, testimonia altresì della scarsa inciden za politica che l’organizzazione repubblicano-popolare potè realmente esercitare, in quel periodo, sulle masse. A rivolu zione conclusa, i componenti aristocratici del « comitato p r o v v i s o r i o » dichiareranno di essere stati costretti con la forza a parteciparvi; ma ciò appare poco probabile, se si con sidera, per esempio, l’atteggiamento di uno di essi, il marche se Vincenzo Fardella di Torrearsa, che non si sa ancora bene se facesse o meno parte del comitato, ma che si trovò in piena attività diplomatica nel momento in cui ci fu da trattare la resa degl’insorti. La reazione se g u ii alla rivolta palermitana si accompa gnò al pregiudizio chv; le responsabilità dei fatti dovessero essere addossate a preti e a « reazionari », alle mene dei re-
pubblicani e alle violenze dei briganti. Quanto più false giun sero, allora, al Governo centrale le ricostruzioni « critiche » di parte moderata, tanto più fu per esso facile assumere su perficiali motivi di ripensamento. Si varò un piano di opere pubbliche, cui più tardi il generale Medici darà in qualche modo attuazione; ma non si andò più in là di tali propositi. I problemi di fondo della società siciliana sarebbero rimasti an cora per molti anni gli stessi, e a riproporli saranno sempre le sollevazioni, spesso violente e sanguinose, delle masse po polari. Né il giro di vite praticato dalle leggi di pubblica sicu rezza, gli stati d’assedio, i tribunali militari (quelli creati per i fatti del settembre del ’66 comminarono pene severissime agli imputati, perfino di morte, per otto, e di lavori forzati a vita per 48 di essi) serviranno a stroncare il diffuso malcon tento provocato dal lento e ineguale sviluppo dell'isola nel l'ambito della comunità nazionale. S
alva to re
C o sta n za
il
15 S E T T E M B R E , SABATO
Il 15 settembre del 1866 cadde di sabato. Sembrava un sabato come tanti che lo avevano preceduto, a Palermo: non uscirono i giornali settimanali, che il questore Felice Pinna, un duro, aveva arbitrariamente soppresso fin dai primi di lu glio. Uscirono invece regolarmente i sei quotidiani che Pa lermo vantava: l’Amico d el Popolo, Il Corriere Siciliano, La Forbice, Il m artello dei preti, Il Precursore — sul quale scri veva saltuariamente Francesco Crispi — ed II Giornale Offi ciale di Sicilia. Il « Giornale di Sicilia - Officiale » pubblicava in prima pagina che la nave Oregon, superato il periodo di contumacia imposto daH’epidemia di colera che mieteva vit time nel napoletano, era giunta a Messina ed aveva intrapreso la riattivazione del cavo telegrafico sottomarino (circostanza che doveva rivelarsi determinante per i palermitani in un im mediato futuro); e infine che i servizi delle guardie daziarie — i bavaresi — e della Guardia Nazionale erano stati alquanto raf forzati alle quattordici antiche porte della città ed alle tre porte di recente apertura. La misura aveva soltanto uno sco po precauzionale: nelle borgate immediatamente fuori della cinta daziaria da qualche giorno si avvertiva la presenza di bande di armati, alle quali però il questore Pinna ed il Pre fetto Conte Luigi Torelli, un eroe delle cinque giornate di Mi 15
lano, non attribuivano soverchia importanza; nella sola pro vincia di Palermo i disertori ed i renitenti alla leva erano più di ottomila, e scorrazzassero perciò pure le campagne riuniti in bande! avrebbero fatto i conti con le truppe regie, con i rinforzi che il prefetto aveva più volte sollecitati al Ministro degli interni Ricasoli e che il Ministro avrebbe prima o poi mandati, appena fosse cessata a Napoli l’epidemia di colera. La situazione era invece ben diversa da quella di appa rente calma. La rivoluzione era nell’aria. Qualche pavido ave va preavvertito le autorità attraverso lettere anonime, qualcu no aveva perfino indicato le località dove i fomentatori della rivolta si nascondevano, ma quando la truppa accorreva suHa scorta di tali indicazioni non trovava anima viva: la tecnica della guerriglia funzionava appieno, anche se poi la rappre saglia colpiva inesorabile i familiari dei ricercati, secondo le precise disposizioni dell’ex Luogotenente generale Govone, ri chiamate in vita dal Prefetto Gualtiero e successivamente dal Questore Pinna. Circolava in quei giorni sulla bocca di tutti, fra Monreale e Palermo, un canto pieno d'amarezza che si concludeva con una significativa quartina: Sentu friscura d ’àriu, lu celu è picurinu: ’nca cc'è spiranza, popuìi, la burrasca è vicinu! In questa atmosfera spuntò l'alba del 15 settembre.
Il mattino Quella mattina tutto era apparentemente tranquillo, cia scuno andava per i suoi affari lungo le strade che tagliavano a croce l'abitato e nel dedalo di viuzze e di vicoli dei quattro mandamenti delimitati dal Corso e dalla via Maqueda. Però un osservatore smaliziato avrebbe potuto notare due fatti si 16
gnificativi: la ressa di massaie e di servi davanti ai negozi dei mercieri e dei fornai, da dove uscivano carichi di provviste, soprattutto pane e pasta, come gente che si accinge a soste nere un lungo assedio; e l'insolito circolare di preti e di frati, principalmente nella via Toledo, a gruppi di tre o di quattro, con un fare deciso che da circa sei anni avevano smesso di ostentare. Ci fu, fra gli sbirri, chi annotò questi due fatti insoliti e si affrettò a riferirne ai Delegati ed agli Ispettori dei Manda menti, ma le autorità di polizia si limitarono a rafforzare ul teriormente le pattuglie verso la periferia. All’interno della città le forze governative presenti quel sabato di mezzo settembre erano costituite da 2568 uomini. In dettaglio, i granatieri delle due compagnie del 10° reggimento, del quinto battaglione del 70° reggimento e del deposito del 69° reggimento assommavano a 940 uomini; altri 168 uomini appartenevano alla batteria del 10° artiglieria, armata di sei pezzi rigati da 8; 410 erano i carabinieri e le guardie di pub blica sicurezza, 250 le guardie doganali a terra, ed 800 gli al lievi già atti alle armi dell'Istituto Militare Garibaldi. A que ste truppe si aggiungevano le guardie daziarie, i pompieri mu nicipali e la Guardia Nazionale che, agli ordini del Maggior Generale Gabriele Camozzi, bergamasco, contava — sulla car ta — 12.000 effettivi in tutta la provincia. Le forze governative erano dislocate nella caserma di Por ta Nuova, nella caserma dell’ex carcere della Vicaria, nel Ca stello a mare, nella caserma Quattroventi e nelle Carceri Gran di dell'Ucciardone. Altri presidi minori erano dislocati al Pa lazzo delle Finanze, all’Ospedale Militare, ai Quattro Canti, al Palazzo Reale, in Questura ed in altri punti strategici. Le ore del mattino trascorsero tiepide e sonnacchiose, ma verso mezzogiorno cominciò a trasparire nelle strade del cen tro una certa agitazione. Intorno al tocco un lacchè vestito della livrea di una casa patrizia si diede a cercare affannosa mente il Generale Camozzi per consegnargli la laconica mis siva di cui era latore. Lo rintracciò nell’androne del Municipio. Il messaggio inviato al Comandante della Guardia Nazionale di Palermo da un suo recente amico, constava di sole quattro parole: « Il momento è venuto ». 17
Camozzi non perse tempo. Si recò difilato in prefettura, e nel corso di un agitato colloquio chiese al prefetto Torelli l'autorizzazione « di far battere la generale », cioè di procla mare una sorta di stato d’assedio, chiamando contemporanea mente a raccolta la Guardia Nazionale attraverso il rullo dei tamburi. Ma Torelli oppose un rifiuto: solo pochi giorni avanti aveva telegrafato al Ministro Ricasoli assicuradogli che « pub blica sicurezza Palermo sempre perfetta dovuta all’instanca bile Pinna », e non poteva smentirsi di punto in bianco così clamorosamente. D’altro canto il questore Pinna, giunto un anno addietro da Bologna con la fama di uomo abilissimo ed energico, gli aveva confermato quella stessa mattina che non c’era in aria alcunché di preoccupante: « È un bis del 13 mag gio » aveva detto testualmente, riferendosi ad una sommossa che forse gli aderenti al partito d’azione avevano in realtà pro gettato, ma che le autorità governative avevano montato e gonfiato per poter arrestare Giuseppe Badia Schirò e per dare così il via ad un'altra vastissima repressione.
il pomeriggio Tuttavia la pulce messagli nell’orecchio dal Comandante della Guardia Nazionale finì col preoccupare il Prefetto, e in torno alle tre pomeridiane costui convocò in Prefettura tutti gli Ispettori dei Mandamenti per sentirli di persona. A cia scuno pose la stessa domanda: « È vero che i cittadini faceva no provviste di generi alim entari in misura abnorm e, com e in previsione di una carestia o di un assedio? ». Qualcuno degli Ispettori negò che il caso si fosse verifi cato nel suo mandamento; qualche altro lo ammise attribuen done però la causa alla vigliaccheria di pochi singoli che li aveva indotti a comprare più pasta e più pane del solito. Proprio mentre in prefettura si svolgeva questo rassicu rante rapporto sulla situazione dell’ordine pubblico il « Comi 18
tato Rivoluzionario (*) impartiva ai capi delle squadre ri voluzionarie — uomini di fegato e d'esperienza, con allo attivo i moti del '48 e del '49 e la rivoluzione del '60 — il segnale convenuto. Tre ore più tardi, alle sei, ogni capo squadra era al posto precedentemente assegnatogli. « Non v'è più a quest’ora alcun ritegno — annotò sul suo taccuino di impressioni il romano Vincenzo Maggiorani — all’interno dei quartieri si opera orm ai a viso aperto. La polizia non vede e non sa, nè i confidenti osano dare l’allarm e », il che era quan to meno ovvio vista la piega chiarissima che andavano pren dendo gli avvenimenti di quel sabato palermitano. I borghesi mangiarono la foglia: ci fu chi si rimise alla volontà di Dio, ci fu chi preferì aiutare per quanto possibile i benevoli disegni della Provvidenza divina e si mise al sicuro trasferendosi con la famiglia in campagna. Si svolse così, attraverso le porte di Palermo, un sorpren dente fenomeno di interscambio fra la campagna e la cinta urbana, fenomeno che andò via via accentuandosi col sopra vanzare delle ombre della sera. Palermitani abbienti — con carrozze, famiglia e servitù — uscirono diretti verso i colli o la Conca, mentre altri, uomini per lo più isolati, dall'espres sione dura e decisa, venivano dalla campagna ed entravano in città. Quanti ne entrarono? Un centinaio, secondo i beni infor mati; non più di quaranta, secondo quanto scrisse quel sabato sera il Barone Michele Pasciuta di Ribera, schierato dalla parte degli insorti, ai suoi fratelli rimasti in paese. Quaranta o cento che fossero, i nuovi arrivati si unirono ai cento e più clandestini che già da alcuni giorni erano na scosti in città, agli ordini di una ventina di capisquadra, ospiti di case amiche o acquartierati in compiacenti monasteri e conventi. II compito di questa esigua force de frap p e era di aprire il fuoco al segnale prestabilito, dando così a sua volta il se gnale della sommossa al popolo dei quartieri e ai rivoluzio *) Il Com itato segreto che preparò l'insurrezione era com posto da: Lorenzo M inneci, M ichele Oliveri, S tefan o Caraccino, Andrea Di Marzo, Salvatore M iceli, Giovanni Ciaccia, Giovanni Ruffino, Salvatore N obile, Francesco Parrinello, Francesco Bonafede, B artolom eo Di Giovanni, Salvatore Mondini, Fran cesco Buscem i, Salvatore Palazzolo e Padre Spadaro, del Com itato di M onreale.
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nari — renitenti, disertori, legittimisti, ex ufficiali — che at tendevano nelle borgate fuori delle mura. Alcuni di essi in neggiavano alla repubblica, altri intonavano il canto dei legit timisti Ci chiam an briganti, briganti non siam o se Viva Francesco! m orendo gridiamo... Così scese la sera.
La sera In una Palermo tranquilla ma insolitamente deserta com parvero qua e là, alle mura, negli anelli agli spigoli delle case, le prime bandiere rosse. Le guardie di pubblica sicurezza si affrettavano a rimuoverle, ma una passò inosservata e rimase tutta la notte in via Toledo, a sventolare da un balcone della casa del Generale Alessandro Righini, il comandante in se conda la piazzaforte di Palermo. Quando l’ultimo lanugginio del giorno scomparve dal cie lo, le creste dei colli e dei monti che circondano Palermo bril larono di improvvisi simultanei falò: gli uomini delle squadre di Misilmeri, di Villabate, di Monreale — dove la rivolta era già divampata nelle ore del mattino — dicevano così ai com pagni aH'interno della città che erano pronti alla lotta. Quelle luci foriere di minaccia turbavano i pensieri del giovane Sindaco marchese Starrabba di Rudinì e del Generale Gabriele Camozzi, mentre un calesse di campagna li traspor tava veloce verso il Palazzo Reale per un colloquio col Pre fetto nel suo alloggio privato. I due non dubitavano che la rivolta fosse ormai in pieno sviluppo, ma trovarono il Conte Torelli completamente sordo alle loro argomentazioni. Perchè turbare l'ordine pubblico ordinando la mobilitazione generale? — chiedeva il rappresentante del Governo di Firenze. Torelli diffidava, ed a ragion veduta, della fedeltà della Guardia Na zionale e delle Guardie Civiche in genere, cosa che disse sènza 20
alcuna perifrasi al suo corregionale Camozzi — Torelli era nato in Valtellina — e che pure della Guardia era, sulla carta, il Comandante. Il questore Pinna, sopraggiunto di lì a poco, confermò l’ottimismo del prefetto: fuochi di paglia, i fuochi sulle col line, e niente di più.
La notte Uscirono insieme dall’alloggio del prefetto, il questore, il sindaco e il generale. Nell'androne della reggia si separarono. Di Rudinì tornò dalla sua bella giovane moglie piemontese. Camozzi, per nulla rassicurato dall'ottimismo dei politici, tor nò al suo quartier generale, dove trovò ad attenderlo una ri chiesta di rinforzi da parte del presidio al carcere di San Francesco di Paola. Pinna tornò in Questura, dove lo attendeva l'Ispettore di P.S. del Mandamento Tribunale Biundi. — Fra due ore scoppia la som m ossa — esordì senza preamboli il funzionario, ma il questore lo interruppe sorri dendo: — Si accom odi su quel divano, prego; attenderem o insieme la som m ossa. Trascorse due ore esatte, Pinna mostrò a Biundi l'orolo gio dicendogli: « Adesso che i suoi sogni sono svaniti, può an darsene a dorm ire ». In quello stesso momento, dalla parte dei Porrazzi, echeggiavano le prime fucilate: una pattuglia di cinque carabinieri veniva assalita dai rivoltosi. Due carabinie ri rimasero uccisi, uno cadde ferito, due si finsero morti poi guadagnarono rapidamente la loro stazione e dettero l'allarme. La rivolta era scoppiata. Si sparava anche dalla parte di Monreale. Il Generale Carrozzi — imprecando in gergo da caserma contro la dabbennaggine dei civili — spedì a gran galoppo un corriere al Questore Pinna con un messaggio traboccante di rimproveri e di ordini. Nel riceverlo Pinna scrollò il capo e spedì a sua volta un corriere all'avvocato Fassio, Ispettore del Manda 21
mento Molo, ordinandogli di raddoppiare la sorveglianza in torno alle Carceri Grandi dove nessuno dei 1904 reclusi quella notte dormiva. Il Luogotenente dei Carabinieri Raffaele Lamponi, che co mandava la stazione carabinieri della Marina, preoccupato per l’avvicinarsi degli spari lungo lo stradale di Boccadifalco, si diresse verso l'altura alla testa di quaranta carabinieri, ma giunto nella zona del fuoco non trovò che alberi di fichi e piante di fichidindia. Tornò in città mentre i primi spari rim bombavano intorno al Convento di Sant’Agostino. Rullavano i tamburi della Guardia Nazionale, a vuoto, perchè quasi nes suno si presentò ai distaccamenti. Dalle Carceri Grandi si le vavano i canti nostalgici e a tratti infocati d’ira dei carcerati, vestiti di tutto punto, e pronti a riconquistare quella libertà promessa loro dal monrealese Salvatore Miceli.
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16 S E T T E M B R E , DOM ENICA
All’alba del 16 settembre 1866 quei palermitani che fos sero riusciti a dormire a dispetto delle fucilate che sempre più frequenti rompevano il silenzio della notte e dei rintocchi di campana che da una chiesa all'altra, da un monastero a un convento trasmettevano segnali convenzionali tutt'altro che pacifici o pii, furono destati dal rullo dei tamburi della Guardia Nazionale. Alle 5 del mattino il Generale Gabriele Camozzi, superando l’ennesimo rifiuto opposto dal prefetto Conte Torelli appena quattro ore innanzi, aveva ordinato di sua ini ziativa che si battesse la generale: dal palazzo pretorio i tam burini della Guardia presero perciò a picchiare sui loro stru menti ed i trombettieri dettero fiato alle trombe per annun ciare ai cittadini di buona volontà la mobilitazione generale, perchè la situazione era precipitata e si era fatta gravissima. Nel corso della notte infatti i duecento armati che attende vano alla macchia negli agrumeti e nelle campagne circostanti Palermo il segnale della sommossa, si erano avvicinati alla cinta urbana marciando silenziosamente fra le ficaie e i giar dini, celati dagli alti muri che delimitano gli agrumeti, aiutati e protetti dai contadini e dai borghigiani. Un tentativo di di sperderli operato dal Capitano Alasia, che alla testa di un re parto di carabinieri a cavallo si era diretto verso la località 25
dove erano caduti, intorno alle due, due carabinieri per mano degli insorti era fallito ed anzi aveva favorito il piano1dei rivol tosi che, tallonati e inseguiti dai governativi del capitano Alasia, erano penetrati in città attraverso le porte di Castro, di Sant’Agata, di Montalto e di Sant’Agostino sotto gli occhi delle pattuglie di guardie daziarie che non avevano capito di che si trattasse. All’interno della città il primo pugno di rivoltosi — un centinaio, si è detto, che agivano agli ordini di una ven tina di capisquadra memori della tattica della guerriglia da essi appresa durante i moti del '48 e del '60 — si erano spar pagliati a macchia d’olio nei quartieri chiamando a raccolta i cittadini. Ogni convento e monastero era diventato un centro di raccolta e al tempo stesso una base di operazioni. Armi e munizioni comparivano dai posti più impensati: in via Maqueda quaranta guardie daziarie cedettero il loro armamento agli insorti e si avviarono poi, disarmate, verso il Municipio. Anche i posti della Guardia Nazionale vennero occupati e di sarmati, e le nuove armi si aggiunsero al già copioso arsenale da tempo precostituito nel convento di San Nicolò Tolentino. Mentre intorno alle 4 l’avvocato Fassio, Ispettore del Manda mento Molo, rafforzava la guardia intorno alle prigioni ed oc cupava, con settanta uomini agli ordini del luogotenente Lenzi, la importante posizione strategica di Piazza Ruggero Settimo, il Generale Camozzi inviava il suo aiutante signor Gamba dal Prefetto per metterlo al corrente della situazione. L’aiutante giunse al Palazzo mentre il Prefetto Torelli mon tava in carrozza, in compagnia di un ufficiale dei Carabinieri, per ispezionare i Porrazzi. Ma pochi minuti più tardi un re parto di insorti sbucò in via Maqueda dalle vie Ponticello e Cinturinai e preceduto dalla bandiera rossa si diresse verso il Municipio. Li capeggiava Salvatore Nobile, latitante da ol tre un anno, implicato nel processo Badia. Dal palazzo comu nale fu sparato, l’alfiere del vessillo rosso rimase ferito, i suoi compagni risposero al fuoco. Altrove, volontari di ogni età si univano agli insorti, inneggiando chi alla repubblica, chi al Borbone, chi a Santa Rosalia. Dal Municipio la sparatoria si estese al Capo: gente armata sbucò dai cortili e dai vicoli: caddero morti un caporale e un soldato al Municipio, un fu 26
riere e due granatieri al palazzo delle Finanze, un soldato al quartiere San Giacomo. Le campane dei conventi suonavano ora a stormo e le file dei rivoltosi si ingrossavano perchè — commentò poi malinconicamente lo storico romano Vincen zo Maggiorani (*) non senza una punta di razzismo — « per un buon siciliano la rivoluzione è un dovere, qualunque ne sia lo scopo e il movente ». E infatti altri uomini in armi sbu carono sparando a Piazza Vigliena. Fu allora che il Generale Camozzi ordinò che si battesse la generale.
Il mattino 1 Fu un errore, diranno in seguito i commentatori di quei turbinosi giorni ricchi di lutti e di speranza, in quanto ciò dette ai rivoluzionari la misura della loro preponderanza sul piano morale: e infatti, benché fossero molti i palermitani che si spostavano da un capo all'altro della città, per nulla impediti dalle sparatorie in corso, solo una quindicina di guar die nazionali risposero all’appello e si presentarono al centro di mobilitazione, nel Municipio. Lì la situazione si era fatta pesante: gli insorti della squadra di Salvatore Nobile si an davano facendo sempre più dappresso, i feriti aumentavano. Il Principe di Santa Flavia, capitano di stato maggiore della Guardia Nazionale, riuscì ad allontanarsi dal palazzo comu nale per chiedere aiuti: ai Quattro Canti si imbattè nel Gene rale Righini — uscito pochi minuti prima dalla sua abitazio ne di via Toledo tuttora sormontata dalla bandiera rossa ap postavi dagli insorti — ed ottenne che metà della compagnia di granatieri di stanza al crocevia cittadino accorresse) per li berare il Municipio dagli assalitori. Di fronte alle forze pre (*) Vincenzo Maggiorani, nato a Campagnano in provincia di Rom a, aveva seguito a Palerm o suo padre Carlo, professore di m edicina legale, esiliato nel 1863 dal governo pontificio di Rom a. Fervente sostenitore deH'unità nazionale sotto la corona dei Savoia, Vincenzo Maggiorani considerò con parzialità e con nessuna serenità i m oti popolari palerm itani dei quali fu testim one e — a modo suo — cronista.
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ponderanti il « capobanda repubblicano » Nobile ordinò ai suoi uomini la ritirata: da ambo le parti qualche uomo rimase sul terreno. Dai Quattro Canti il generale Righini risalì il Corso e si recò al Palazzo Reale, dove incontrò il Prefetto, tornato a piedi dalla ispezione ai Porrazzi, ed il Generale di Divisione Carderina: dopo una brevissima consultazione i tre telegra farono al Prefetto di Messina, al Prefetto di Napoli ed al Mi nistero degli Interni a Firenze, chiedendo rinforzi. Soltanto alcune ore più tardi, verso mezzogiorno, gli insorti bloccarono le comunicazioni fra Palermo e il resto del mondo recidendo i cavi telegrafici, ma era troppo tardi: già Messina Napoli e Firenze avevano risposto assicurando l’immediato invio di un battaglione di granatieri da Messina, di due divisioni da Napoli e della flotta navale di stanza a Taranto. Fra le sette e le otto, tutte le stazioni dei carabinieri erano state assalite e devastate: contro la stazione di Porta Garibaldi l’azione era stata condotta in misura prevalente da popolane d’ogni età, che avevano poi bruciato scartoffie e sup pellettili. Anche la caserma dei carabinieri all’Olivuzza vide le sorprendenti gesta dello stuolo di donne che la espugnarono e della giovane Maria Mazzia Beata, moglie del brigadiere co mandante la stazione, che difese col suo sangue il ritratto di Vittorio Emanuele II. Verso le 10 il maggior volume di fuoco si era accentrato fra i Porrazzi e San Francesco di Paola: il questore Pinna aveva fatto affluire nella zona tutte le pattuglie di guardie di sponibili, ed anche un forte reparto di carabinieri, granatieri e guardie agli ordini del sottotenente dei carabinieri Gori si diresse verso quella zona periferica. Con Gori c'erano il de legato di P.S. Barillà, palermitano, ed il Maresciallo Ansaldi. Il reparto non incontrò i rivoltosi tuttavia il tenente Gori or dinò un primo rastrellamento indiscriminato: persuaso che in una casa avessero trascorso la notte alcuni rivoluzionari, fece arrestare tutti gli abitanti; stretto però da presso dagli insorti battè in ritirata e fece ritorno in caserma con gli ostaggi. I rivoluzionari concentravano invece i loro prigionieri nel con vento dello Spirito Santo. Anche la colonna del Tenente Lamponi, reduce dalla in 28
fruttuosa battuta notturna, cercò invano di agganciare i ri voltosi ovunque si udissero fucilate e canti rivoluzionari. Gli insorti riuscivano a dileguarsi appena fanciulli donne e popo lani li avvertivano dell’approssimarsi di una uniforme. Nono stante fosse domenica, i bottegai tenevano gli usci dei negozi aperti per potere offrire scampo e rifugio a chi del popolo si trovasse in difficoltà. « L'imbarazzo dei Generali si fa sempre più penoso — annotò quel giorno il romano Maggiorani — poiché non sanno come usare della forza di cui dispongono non essendovi un posto da combattere. Si trovano peggio che in un bosco occupato da guerriglieri che sparano in mille di rezioni senza essere veduti, e la truppa si aggira all’azzardo senza mai trovare il nemico e cadendo in ogni momento in agguati. Le case erano come alberi inerti e passivi, buone solo a servir di riparo ai briganti. Guerra peggiore di questa non vi può essere! ».
Il pomeriggio La rivoluzione dei palermitani fu un fatto militarmente compiuto soltanto dopo mezzogiorno, quando nei punti chia ve della città furono erette le prime barricate. Nella tarda mattinata, si è già visto, il potere assoluto di parte governati va era passato dai civili ai militari, tuttavia il Comune, col Sindaco di ventisette anni Starrabba di Rudinì, esercitava sui governativi un'attrazione maggiore di quella costituita dai due militari di carriera Carderina e Righini insediati al pa lazzo reale. Al Comune appunto si recò verso mezzogiorno il Prefetto Torelli, futuro Senatore del Regno, accompagnato dal suo consigliere delegato cavalier Achille Basile e da un lacchè che portava un paniere colmo di cartucce. Battevano gli ultimi rintocchi delle dodici quando i capi delle due op poste fazioni tennero i rispettivi consigli di guerra: al conven to di Sant’Agostino erano riuniti i comandanti delle squadre rivoluzionarie, fra i quali primeggiavano Salvatore Nobile, Salvatore Miceli di Monreale e il leggendario Gianni di Parti29
nico; al palazzo Pretorio intorno al Sindaco di Rudinì ed al Prefetto Conte Torelli siedevano nobili e borghesi. In unifor me della Guardia Nazionale il principe di Santa Flavia, il ba rone di Cerda, i signori Stagno, Vassallo, Saraceno, Corona, Perricone e i fratelli Sangiorgio; in abito civile il Prefetto, il Sindaco, il generale Camozzi, il Duca della Verdura, gli Asses sori Notarbartolo Traina Scalia e Trigona, l’ispettore delle prigioni cavaliere Beltrami, l'ispettore dei dazi cavaliere De Maria, il consigliere d’appello Murena, il direttore delle ga belle cavaliere Carega, il direttore del settimanale L ’am ico del p opolo signor Serra Caracciolo, i fratelli Perrone, il barone Anca, il celebre professor Stanislao Cannizzaro fondatore del la moderna scuola chimica italiana. Il drammatico consiglio di guerra dei governativi fu sovente interrotto da messi tra felati — agenti di pubblica sicurezza, granatieri, carabinieri — latori di dispacci che segnalavano il progresso costante deJl^ forze rivoluzionarie. Disarmato il quartiere della Guardia all’Olivella comandato dal principino Niscemi, saccheggiata la stazione carabinieri dell’Albergaria i cui militi si salvarono a stento, occupate le caserme dei carabinieri dei Quattro Canti, del Noviziato, del Carmine, fallito dopo due ore di fuoco cruento il tentativo di assalto al convento di San Francesco di Paola dove i rivoluzionari avevano stabilito un caposaldo. « Le donne e i ragazzi — dice un rapporto dell’epoca — fanno da portavoce, e nel passar nelle strade degli uomini armati si prorompe in plausi per incoraggiarli e mostrarsi favorevo'* alla sommossa ». Di fronte all’incalzare degli eventi qualcuno in Municipio suggerì al Sindaco di tentare una sortita per raccogliere intorno ai maggiorenti della città i palermitani ti morosi della « plebaglia ». Tutti applaudirono. Il Prefetto To relli chiese ed ottenne un fucile. La pattuglia dei nobili e dèi borghesi — un centinaio di persone oltre ad una cinquantina di militi — uscì e si diresse verso la Fieravecchia, teatro di tutte le precedenti insurrezioni. Alla Fieravecchia non c'era anima viva — tranne i rivoltosi ben nascosti che aprirono il fuoco — e attraverso via Cintorinai e via Tomieri la colonna giunse in piazza Caracciolo, dove fu accolta da un nutrito fuoco di fucileria che le causò perdite rilevanti. Da piazza Ca 30
racciolo, attraverso piazza San Domenico e via Monteleone, la pattuglia governativa giunse al largo dell’Olivella, control lato a distanza dagli insorti che presidiavano il convento del le Stimmate all'altezza di porta Maqueda, dove avevano eretto una solida barricata (*). La pattuglia dei nobili si divise in due plotoni, comandati dal Sindaco e dal Prefetto, che attra verso via Bara e via dell’Orologio tentarono di attaccare la barricata di porta Maqueda. Furono respinti con gravi perdite, mentre altre barricate sorgevano in altri punti strategici.
La sera Erano le sei o le sette della sera, e quella barricata a porta Maqueda era una spina nel fianco per i generali regi. Carderina e Righini, dal loro quartiere al Palazzo Reale, ordi narono al Maggiore dei granatieri Fiastri di attaccare alla baionetta le due barricate, l’una di rincalzo all'altra, delle Stimmate e di Porta Maqueda. Alla testa di due compagnie di granatieri, rinforzate dai carabinieri sloggiati dalle loro stazioni, dalle guardie di questura, dai pompieri del Munici pio, l’ufficiale ordinò a due ali di cinquanta uomini ciascuna di avanzare lungo i bordi di via Maqueda partendo dai Quattro Canti. La pronta reazione degli avamposti delle barricate ob bligò le ali a sparpagliarsi ed a cercare riparo nei portoni e sotto i portici dei palazzi della via Maqueda. Al che il Maggio re Fiastri suddivise la truppa in sei plotoni ed ordinò la ca rica alla baionetta. Egli stesso si pose alla testa del primo plotone che, accolto da un nutrito fuoco, si dette alla fuga lasciando sul terreno parecchi morti. Lo stesso maggiore Fiastri rimase ferito leggermente a una gamba. Fallito l'attacco alle barricate, la folla dei parlemitani esultò. Al grido di « addum am u » le finestre e i balconi risplen
(* ) Costruito nel 1603, con una m assiccia chiesa annessa e col contiguo convento San Giuliano che ospitava le Teatine (alle Stim m ate c'erano invece le Clarisse) quel caposaldo degli insorti costituiva un bastione form idabile.
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dettero da un minuto all’altro di mille lumi, che facilitavano l'azione delle squadre rivoluzionarie. Dai negozi, dalle abita zioni ai piani terreni ciascuno portava in strada suppellettili, materassi, mobili per la erezione di barricate. Mentre le cam pane delle chiese e dei conventi suonavano a stormo, gli in sorti occupavano tutti i posti atti a fronteggiare i presidii dei governativi. Tuniche e sai svolazzavano nella notte fra i rozzi abiti di velluto degli armati. Accanto ad ogni falò acceso, ovunque fosse una squadra di cittadini armati si radunavano donne e ragazzi. Asserragliati nel Palazzo Reale, i generali e il prefetto confidavano ormai soltanto nell'arrivo dei rinforzi. Il Colonnello Lipari ed il professor Cacciatore, dalla specola del palazzo reale, esploravano il mare con i cannocchiali spe rando di scorgervi i vascelli di truppa promessi da Napoli e da Taranto.
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