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Italian Pages 173 Year 2012
Ricerche e contributi in Psicologia
Alessandro Grecucci
IL CONFLITTO
EPISTEMOLOGICO Psicoanalisi e Neuroscienze dei Processi Anticonoscitivi
Prima Edizione: 2012 ISBN 9788889845752 © 2012 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: [email protected] Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: [email protected] I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Ottobre 2012 in Italia da Atena.net srl - Grisignano (VI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)
Indice
Prefazione: Psicoanalisi e Neuroscienze (di Gilda Bertan) Introduzione Capitolo I Psicoanalisi dei processi cognitivi 1.1 La cognizione dell’emozione 1.2 Differenti stati metabolici della mente...e del cervello 1.3 Emozioni, mente e cervello Capitolo II Elementi per una teoria formale del pensiero 2.1 Il contributo di Freud e della psicoanalisi 2.2 Assunti 2.3 Principio di piacere, principio di dispiacere e principio di verità 2.4 La funzione alfa: genesi e caratteristiche 2.5 Apparato per pensare i pensieri 2.6 Nascita e sviluppo del pensiero Capitolo III Psicopatologia come epistemopatologia 3.1 Fattori ostacolanti o facilitanti la patologia dell’epistemologia personale 3.2 Dolore mentale e trauma 3.3 Tipo di trauma e tempo del trauma 3.4 Regolazione emozionale, revêrie e mentalizzazione 5
3.5 Capacità di tollerare la frustrazione e temperamento Capitolo IV Livelli di epistemopatologia: il crocevia delle funzioni simboliche e asimboliche del pensiero 4.1 Livelli di epistemopatologia 4.2 Verso un modello formale del conflitto epistemologico 4.3 Ipotesi sui meccanismi neurocognitivi coinvolti nel conflitto epistemologico Capitolo V Dalla teoria alla tecnica 5.1 Teoria della tecnica 5.2 Tecniche della teoria. Dalla dramma-tizzazione alla dream-atizzazione 5.3 Interventi conoscitivi e anticonoscitivi 5.4 Interventi mentalizzanti Capitolo V Contenimento, trasformazione e meccanismi neurocognitivi della regolazione emozionale 6.1 Trasformazione e regolazione emozionale 6.2 Processi coinvolti nella regolazione emozionale 6.3 Basi neurali ed evidenze sperimentali della regolazione emozionale 6.4 Psicopatologia e disregolazione emozionale 6.5 Conclusioni Postfazione: Psicoanalisi e ricerca scientifica (di Antonio Prunas) Bibliografia
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Si potrebbe fissare un prezzo per i pensieri. Alcuni costano molto, altri meno. E con che cosa si pagano i pensieri? Credo con il coraggio. Ludwig Wittgenstein
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Ringraziamenti
Il presente lavoro non sarebbe stato possibile senza il prezioso apporto di un grande numero di persone che hanno contribuito alla mia formazione e all’elaborazione dei contenuti qui presentati. Deisidero ringraziare pertanto in ordine un po’ sparso la dott. ssa Anna Maria Maruccia, il dott. Ettore Jogan, il dott. Rodolfo Picciulin, la dott.ssa Mirella Cristel, la dott.ssa Clara Monari, i colleghi di Bassano del Grappa, di Trieste e di Rovereto. Ringrazio inoltre i colleghi dell’Unità Operativa di Psicologia di Rovereto, il dott. Francesco Reitano, il dott. Giuseppe Vivaldelli, la dott.ssa Loretta Canalia, la dott.ssa Eleonora Salvati, la dott.ssa Barbara Lamedica, la dott.ssa Patrizia Barzaghi, la dott.ssa Maria Rosa Dimonte e tutti i colleghi tirocinanti e specializzandi. Desidero inoltre ringraziare la prof. ssa Anna Pelamatti direttrice della Scuola universitaria in Ciclo di Vita dell’Università di Trieste, dove ho iniziato la mia formazione clinica, nonchè la dott. ssa Simona Taccani direttrice della scuola di Specializzazione in Psicoterapia CeRP di Trento, dove ho completato la mia formazione. Un grazie particolare va alla prof. ssa Raffaella Ida Rumiati che ha contribuito in modo decisivo alla mia formazione di ricercatore e neuroscienziato, e alla Scuola Internazionale di Studi Superiori Avanzati (SISSA) dove ho potuto svolgere il dottorato in Neuroscienze. Ringrazio pertanto i professori del settore di Neuroscienze 9
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Cognitive, tra cui il prof Timothy Shallice, Il prof. Mathew Diamond, il prof. Evan Balaban, il prof. Alessandro Treves, i colleghi Cristiano Crescentini, Fabio Campanella, Gioia Negri, Corrado Corradi Dell’Acqua, Linda Sebastianutto, Antonio Vallesi, Claudia Civai, Liuba Papeo, Alessio Isaja, e tutti quelli con cui ho collaborato. Ringrazio inoltre il prof. Alan Gerald Sanfey e il prof. Nicolao Bonini del Dipartimento di Scienze Cognitive DiSCoF, di Rovereto, il direttore Prof. Roberto Cubelli e il preside Prof. Franco Fraccaroli. Ringrazio inoltre i colleghi del Centro Interdipartimentale Mente e Cervello CIMeC di Mattarello dove ho svolto alcuni degli studi di cui parlo in questo libro. Non per ultimi i colleghi della clinica Psichiatrica dell’azienda Ospedaliera Santa Maria di Udine e in special modo il dott. Paolo Brambilla. Ringrazio la dott.ssa Gilda Bertan e il dott. Antonio Prunas della facoltà di Psicologia dell’Università Bicocca-Milano per aver gentilmente scritto la prefazione e la postfazione al presente libro. Un grazie particolare va alla dott.ssa Gilda Bertan per la prefazione del libro, al dott. Antonio Prunas della Università degli studi Milano-Bicocca per la postfazione, alla dott.ssa Anna Maria Maruccia per le supervisioni e per le revisioni del presente libro e alla dott.ssa Marianna Grecucci per i ragguagli linguisitici. Infine vorrei ringraziare i redattori della casa editrice per aver reso le idee dietro il presente libro una concreta possibiltà. Vorrei inoltre dedicare questo lavoro ai miei familiari, senza il cui amore questo non sarebbe stato possibile.
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Prefazione Psicoanalisi e Neuroscienze
In questi ultimi tempi si assiste ad un crescente interesse reciproco tra Neuroscienze e Psicoanalisi. Le Neuroscienze, infatti, hanno messo a punto conoscenze e strumenti più precisi che hanno consentito una ricerca sempre più puntuale sulla complessità delle funzioni della mente, interesse questo, precipuo dell’indagine psicoanalitica. Ciò permette alle neuroscienze di evitare la presunzione della metonimia mente-cervello e alla psicoanalisi di validare molte delle sue intuizioni che non erano mai state fatte oggetto di ricerca (neuro) scientifica (per definizione stessa della psicoanalisi come strumento di cura). Che le idee non nascano e maturino solo attraverso meccanismi razionali, pittori, poeti, scrittori, pare l’abbiano sempre saputo, al punto da far dire a Musil (I turbamenti del giovane Törless, 1996): “Una grande idea matura solo a metà nel grande cerchio di luce del cervello, l’altra metà cresce sul fondo oscuro dell’anima“. Ora però ci avviciniamo sempre più a considerare i luoghi del razionale e quelli dell’irrazionale non più così divisi e distanti tra loro, ma piuttosto come fattori di processi che si sviluppano all’interno di una complessa unità dove l’interscambio è continuo e l’irrazionale in-forma il razionale e viceversa. Il lavoro molto serio e corposo di Alessandro Grecucci ce lo dimostra, aprendo nuovi orizzonti per la cura dei disordini mentali e nuovi campi di ricerca su cui validare ipotesi tanto affascinanti, quanto familiari. Familiari per chi da molti anni eserciti una clinica
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“di frontiera” (Ferro, 2002)1 e si interroghi su ciò che profondamente accada nella cura, in particolare nella capacità trasformativa di quest’ultima. Familiari, beninteso, soltanto a livello intuitivo a cui ora si vuole dare un senso preciso e scientifico. In quest’ottica Grecucci, ci propone non soltanto un Bion “rivoluzionario”, ma anche anticipatore di ipotesi sulla nascita e costruzione di pensieri e concetti, in parte validati e validabili ulteriormente dalla ricerca. Questo, infatti, è un libro che conduce un’analisi di portata straordinariamente innovativa che sono convinta possa costituire l’inizio di ulteriori proficue ricerche nella stessa direzione. Sì, perché qui non parliamo ancora una volta di memorie, di inconscio rimosso e non rimosso (Mancia)2 , di inconscio dinamico o emotivo (De Masi)3 , ma dei meccanismi, nell’interscambio cervello – mente, che ci fanno ricordare, ricordare bene, ricordare distorcendo, che ci fanno - in una parola – costruire o no, nel presente, le nostre storie, permettendo od ostacolando la possibilità di “pensare i pensieri” (Bion) e di sviluppare concetti. Andiamo cioè alla radice della pensabilità e quindi alla radice di ogni rappresentazione. Mancia ci ha insegnato che il confronto tra psicoanalisi e neuroscienze è possibile e proficuo se rispettoso dei limiti metodologici ed epistemologici di ciascuna delle due discipline. Ecco che qui vengono proprio analizzati tali confini, nel pieno rispetto di entrambe le discipline, ma anche senza paura di varcare le “colonne d’Ercole” delle stesse, con mente libera e aperta a considerare come le ipotesi sul funzionamento della mente scaturite dalla pratica clinica psicoanalitica, possano sostanziare le nuove osservazioni neuroscientifiche. Scrive l’autore: “l’esperienza emotiva e il pensiero consapevole dipendono da una complessa elaborazione inconscia. A tal proposito, recentemente, si è dimostrato che 1 Antonino Ferro (2002). Introduzione. In:Gilda Bertan: Il labirinto, Arianna e il filo. Borla 2 Mancia Mauro, (2004). Sentire le parole. Archivi sonori della memoria implicita e musicalità del transfert , Bollati Boringhieri 3 Franco De Masi, (2006). Vulnerabilità alla psicosi, Cortina
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persino quelle aree cerebrali che si pensavano deputate all’elaborazione esplicita e consapevole delle informazioni come la corteccia prefrontale operino largamente in modo inconscio (implicito) (van Gaal e Lamme, 2011), e solo grazie ad un processo ricorsivo di elaborazione (trasformazione si direbbe in psicoanalisi), e interazione tra diverse aree,i loro contenuti possano diventare espliciti ovvero pensabili con il linguaggio del pensiero”. Ed ecco qui introdotta una delle parole chiave del libro: esperienza emotiva. Come già intuito da Bion, A. G. si addentra non tanto nell’esperienza tout court, ma nelle connotazioni emotive che assume l’esperire, verificando le ipotesi per cui stati della mente caratterizzati da eccessi emotivi ingovernabili, vengano evacuati, creando veri e propri “buchi” del pensare. Un altro dei concetti chiave che guidano il nostro ricercatore è il porre che le esperienze emotive nascano e si connotino in un tessuto relazionale. Come è risaputo e in questo lavoro sottolineato, sia la psicoanalisi (Bion, Stern…) che i più recenti studi della psicologia della ricerca sul bambino (Emde, Trevarthen…), convergono nell’ attribuire all’aspetto relazionale una funzione fondamentale nella nascita del pensiero. La prima forma di “attività mentale” è costituita da, sensazioni, proto emozioni (Bion), contenuti mentali che esprimono un’ aspettativa, uno stato psichico di attesa. Affinché uno stato psichico di attesa diventi un pensiero occorre che esso incontri un dato di realtà ricavato dall’ esperienza (realizzazione). Quindi: dalla soddisfazione del bisogno e dell’ attesa, nasce la possibilità di “rappresentarsi” il bisogno stesso e l’atto del soddisfacimento. Tale rappresentazione in successive elaborazioni potrà diventare un pensiero e, incontrando la relativa “nominazione” un concetto. Il bisogno, sappiamo, è dunque strettamente collegato all’emozione. L’interesse verso lo studio delle emozioni a livello neuro scienti13
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fico è in continua crescita. Kandell (2003) valorizza enormemente il significato della parola nella cura in quanto argomenta sulla possibilità che la parola e l’apprendimento conseguente possano modificare l’espressione genica che controlla l’attività sinaptica, cioè le funzioni dei circuiti neuronali. Recentissimi studi, citati in questo libro, mettono in risalto come la psicoterapia porti a delle modificazioni dimostrabili a livello cerebrale. Se ne ricava che ad uno stato psicopatologico corrisponde un preciso stato neuronale e che tale stato è passibile di modificazioni attraverso la terapia della parola. I risultati espressi dalla ricerca neuro scientifica sperimentale possono, dunque, fornire alla Psicoanalisi delle basi anatomo-funzionali in grado di consolidare le ipotesi e i concetti psicoanalitici, ampliandone le prospettive. All’autore piace inoltre precisare che: “molte delle concezioni psicoanalitiche del funzionamento mentale sono coerenti con le attuali scienze e neuroscienze cognitive che hanno riconsiderato la centralità degli aspetti impliciti e motivazionali dietro l’attività mentale consapevole, dando la possibilità di fondare una nuova disciplina come la Neuropsicoanalisi (Solms e Kaplan Solms, 2002). Le neuroscienze ci confortano sulla possibilità di aiutare il soggetto con problemi attraverso la psicoterapia, ma qual è la strada per produrre tali modificazioni? Esiste la possibilità di riscontrare attraverso l’impiego delle neuroscienze lo svolgersi di tale processo? A questo cerca di rispondere Alessandro Grecucci, domandandosi quali siano i meccanismi che portano il soggetto a distorcere la “realtà” o la “verità” (emotiva). Sembra infatti che la distorsione non si collochi a livello di un “ricordo giusto” che viene rimosso perché insopportabile e o traumatico, ma piuttosto di una distorsione che ha a che fare con la non pensabilità. Per questo il nostro giovane ma acuto ricercatore si trova allineato con psicoanalisti che, sulla scia di Bion, considerano come l’inconscio sia in continua formazione. Si tratta dunque di ripensare i pensieri, a ripartire dalle emozioni, prima ancora di ricordare eventi passati. Non c’è un ricordo giusto da ripescare, ma 14
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un ricordo reso pensabile da pensare e costruire nel presente. Già le ricerche e gli esperimenti condotti ormai da decenni su soggetti che hanno subito l’interruzione della comunicazione tra gli emisferi cerebrali, (Gazzaniga e coll., 1998), hanno mostrato un’attitudine specifica da parte dell’emisfero sinistro alla narrazione illusoria, che cerca di dare una coerenza auto ingannevole, in assenza di informazioni. Gazzaniga e Le Doux hanno denominato questa particolare narrazione “creativa” meccanismo di interpretazione. L’emisfero sinistro, che presiede ai meccanismi logico-razionali, gioca dunque un ruolo centrale nella elaborazione di difese verso la salvaguardia degli affetti. Riguardo alle emozioni, A. Grecucci si sofferma ad analizzare le esperienze precoci e preverbali legate alle figure più significative dello sviluppo del bambino e che possono essere connotate da delusione, frustrazione nell’ impatto con la realtà. Tra i meccanismi attivati per difendersi da tali emozioni, la psicoanalisi ci porta a considerare soprattutto la scissione, la identificazione proiettiva, la negazione, la idealizzazione, meccanismi tutti che hanno a che fare con l’evacuazione di quel sentire. Sono queste le esperienze relazionali precoci che spesso hanno impedito al pensiero di formarsi e costituiscono storie emozionali ed affettive non narrabili che possono venire a galla nell’hic et nunc (inconscio presente) di una relazione pur avendo le loro radici nell’infanzia preverbale o perfino in epoca prenatale. In questa accezione l’autore passa a considerare anche le situazioni traumatiche che in quest’ottica potrei riassumere come emozioni devastanti che non hanno conosciuto il calore della rêverie e la presa in carico della “funzione alfa” in grado di contenerle e trasformarle. L’inconscio in continua trasformazione e la capacità trasformativa promossa dal terapeuta sono i referenti peculiari della psicoanalisi. Qui si colloca la domanda per eccellenza di questo lavoro: è possibile trovare una corrispondenza neuropsicologica che in-formi il processo di cura psicoanalitica, in modo da formulare una teoria della tecnica psicoanalitica? Sviscerando con minuziosa precisione 15
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la teoria Bioniana, Alessandro Grecucci, formula importanti ipotesi e suggerisce vie per la verifica delle stesse, addentrandosi nelle rispettive epistemologie delle due discipline considerate per valutarne conflitti e raccordi. Interessante è il termine coniato in uscita da questo conflitto: “funzionamento emocognitivo” Considerando io stessa, in lavori del passato, sicuramente con un taglio più clinico, la mancanza nel nostro vocabolario di un termine che indichi l’atto del capire e sentire insieme, avevo usato il termine “capisentire”. Mi fa piacere che un giovane che conduce un’indagine molto più scientifica della mia sia arrivato ad una conclusione abbastanza vicina. Spero, a questo punto, di aver suscitato la necessaria curiosità per procedere nella lettura di questo libro ricco e complesso – illuminante - , che ci indica una giusta direzione perché la psicoanalisi continui ad esistere. Questo è un importantissimo lavoro destinato, a parer mio, a rimanere nel tempo. Gilda Bertan Psicologa, Psicoterapeuta
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Introduzione
Scopo del presente libro è quello di illustrare un modello psicoanalitico e neuroscientifico del funzionamento emocognitivo, ovvero riguardante i meccanismi di generazione del significato a partire dall’esperienza emotiva, tanto nella normalità quanto nella patologia. Nel primo capitolo verrà introdotto lo sfondo teorico su cui si basano le ipotesi presenti in questo lavoro. Psicoanalisi (di matrice post-kleiniana e bioniana), teoria dell’attaccamento (con particolare riferimento alle teorizzazioni sulla mentalizzazione), e neuroscienze affettive (dei processi di regolazione e disregolazione emozionale), costituiscono gli assi portanti della teoria dell’epistemopatologia personale e dei processi anticonoscitivi sviluppati lungo i capitoli. Per iniziare verrà sottolineata l’importanza di una teoria psicoanalitica dei processi cognitivi in grado di spiegare quello che potrebbe essere chiamato funzionamento emocognitivo e introdotti alcuni concetti fondamentali che motivano un’indagine più approfondita di tali meccanismi. Verrà inoltre sottolineata l’importanza delle attuali scoperte neuroscientifiche per una teoria comprensiva del funzionamento emocognitivo. Nel secondo capitolo, partendo da Freud, verranno esposte alcune fondamentali osservazioni psicoanalitiche sui processi di pensiero e sul loro stretto legame con la vita emozionale. Verranno passate in rassegna alcune ipotesi di Bion (l’autore che maggiormente si è occupato di sviluppare una teoria del pensiero), non prima di aver elencato alcuni assunti fondamentali per una teoria del funzionamento emocognitivo. In questo capitolo avanzeremo inoltre alcune ipotesi sul perchè si sia evoluto un sistema di significazione dell’e17
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sperienza emozionale e a quali vincoli esso obbedisca. Nel terzo capitolo verrà introdotto il concetto di epistemopatologia (patologia dei processi di significazione dell’esperienza emozionale). Avvalendoci della letteratura sulla ricerca psicoanalitica, sull’attaccamento e su quella neuroscientifica, isoleremo quattro possibili fattori che concorrono alla creazione della patologia dell’epistemologia personale. Nel quarto capitolo verrà presentato un modello formale del conflitto epistemologico, conflitto che segna il bivio tra un funzionamento emocognitivo normale e patologico (epistemopatologico). Alcune evidenze neuroscientifiche verranno esposte col fine di giungere ad alcune ipotesi sui meccanismi neurali alla base di tale conflitto. Nel quinto capitolo verranno esposti alcuni principi di tecnica coerenti con il modello del conflitto epistemologico esposto nei primi capitoli. Le osservazioni e le ipotesi avanzate precedentemente saranno tradotte in una teoria della tecnica e in specifiche prescrizioni. Queste prescrizioni derivano dalle revisioni della tecnica psicoanalitica ad opera dagli autori delle scuole post-kleiniana, bioniana e dai teorici della mentalizzazione. Queste modificazioni della tecnica sono necessarie per lo sviluppo della capacità di pensare le proprie emozioni e per permettere di superare un funzionamento di tipo anticonoscitivo. Nell’ultimo capitolo verranno infine esposti i dati sperimentali e neuroscientifici a sostegno delle ipotesi presentate lungo il libro. In particolare ci si soffermerà sull’analisi puntuale dei meccanismi neurocognitivi alla base dei processi coinvolti nel funzionamento emocognitivo (riconoscimento, contenimento, trasformazione e simbolizzazione delle emozioni), e sulla loro patologia (epistemopatologia). Verranno tracciate le base neurali di specifici concetti ipotizzati da Bion e dai teorici della mentalizzazione. Si esporranno inoltre alcune ipotesi sul modo in cui questi processi agiscono in psicoterapia permettendo il passaggio da un funzionamento anticonoscitivo ad uno conoscitivo effettivo. A sostegno dell’ipotesi di 18
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uno stretto legame tra psicopatologia e regolazione-trasformazione delle emozioni, verranno poi passate in rassegna le evidenze neuroscientifiche attualmente disponibili su questo tema. Ogni forma di psicopatologia sembra avere radici in specifiche forme di disregolazione emozionale e conseguente fallimento nella significazione dell’esperienza affettiva. Per finire, verranno presentate alcune osservazioni sul processo interpretativo-trasformativo in psicoterapia in accordo con le ipotesi sulla regolazione emozionale. Le teorie psicoanalitiche e le recenti scoperte neuroscientifiche possono portare insieme ad una migliore comprensione di come la nostra mente utilizza o meno le esperienze emotive per accrescere le proprie capacità di pensiero. Spero questo libro possa essere considerato come un primo seppur rudimentale sforzo in tal senso.
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Capitolo I Psicoanalisi dei processi cognitivi
“Ogni nostra cognizione, principia dai sentimenti” Leonardo da Vinci
1.1 La cognizione dell’emozione La psicoanalisi ha anticipato molte caratteristiche delle moderne scienze e neuroscienze cognitive, caratteristiche presenti fin dall’inizio della sua fondazione, ben prima della cosiddetta rivoluzione cognitiva. L’idea di un attività mentale inconscia, l’inferenza di questa attività da eventi osservabili (pensieri, comportamenti…) e la costruzione di modelli per spiegarli, sono idee centrali nella attuale scienza cognitiva e nelle neuroscienze cognitive, così come negli scritti freudiani e post-freudiani, ma nonostante i suoi apporti ineludibili la psicoanalisi è stata lungamente ignorata dalla psicologia sperimentale (Bucci, 1997). Erdelyi (1985) a tal proposito afferma: “La simmetria tra i due approcci, psicoanalitico e cognitivistico, è basata anzitutto sulla condivisione di un assioma fondamentale: quanto affiora nel comportamento e nella coscienza è il prodotto terminale di una complicata sequela di cambiamenti, riformulazioni e trasformazioni”. L’esperienza emotiva e il pensiero consapevole dipendono da una complessa elaborazione inconscia1. A tal propo1 Precisiamo che queste ed altre concezioni psicoanalitiche del funzionamento mentale sono coerenti con le attuali scienze e neuroscienze cognitive che hanno riconsiderato la centralità degli aspetti impliciti e motivazionali dietro l’attività mentale consapevole, dando la possibilità di fondare una nuova disciplina come la Neuropsicoanalisi (Solms e Kaplan Solms, 2002). Paradossalmente il cognitivismo clinico e la scuola cognitivo-comportamentale, originariamente fondate sulla psicologia sperimentale, sono rimaste ancorate a con-
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sito, recentemente, si è dimostrato che persino quelle aree cerebrali che si pensavano deputate all’elaborazione esplicita e consapevole delle informazioni come la corteccia prefrontale operino largamente in modo inconscio (implicito) (van Gaal e Lamme, 2011), e solo grazie ad un processo ricorsivo di elaborazione (trasformazione si direbbe in psicoanalisi), e interazione tra diverse aree (si veda il capitolo successivo per un’ipotesi bioniana sulla tipologia di queste interazioni), i loro contenuti possano diventare espliciti2 ovvero pensabili con il linguaggio del pensiero. La rilevanza delle scoperte psicoanalitiche per una teoria integrata del processamento cognitivo, nasce dalla necessità di comprendere e spiegare taluni fenomeni patologici che sfuggono la portata esplicativa delle attuali teorie dell’elaborazione dell’informazione presenti nella psicologia cognitiva. Allo stesso modo delle scienze cognitive, la psicoanalisi ha sempre tenuto presente il fatto che la realtà viene conosciuta solo tramite attive operazioni mentali, e che viene assimilata (depositata in forma mnestica, intesa come iscrizione di una acquisizione funzionale) solo in virtù di esse (Imbasciati, 1998). Una volta che è avvenuto ciò, le successive codifiche saranno funzione di quelle passate. L’informazione “in-forma” la mente (Imbasciati, 1998), le esperienze, cioè, se “digerite” (“l’apprendere dall’esperienza” di cui parla Bion, 1962), formano strutture basate su ciò che estraiamo da esse e che plasmano le successive elaborazioni. Il problema centrale diventa come avvenga questa cezioni razionaliste della psicologia cognitivista degli anni 60 di Neisser. 2 Secondo recenti scoperte neuroscientifiche non esiste “un’area della consapevolezza”, bensì una “firma della consepovelezza”. Questa firma sarebbe apposta da una particolare ricorsività che avviene tra diverse aree cerebrali nel momento in cui avviene il processamento di una data informazione. Si ponga il caso di uno stimolo visivo, che attraversa la retina e prosegue il suo percorso atraverso una serie di aree corticali. Questo flusso viene definito Fast Feedforward Sweep (FFS) traducibile come “andatura veloce in avanti”. Questo flusso non è portatore di consapevolezza, che invece si ha nel momento in cui le varie aree attraversate da questa informazione mandano alle aree precedenti un segnale “all’indietro” (recurrent processing, RP, ovvero processo ricorrente). Il grado di ricorsività tra un’area e le sue precedenti determina il livello di consapevolezza di un’informazione. Metodi sperimentali come il “mascheramento”, hanno confermato questa ipotesi dimostrando che l’informazione non percepita consapevolmente elimina il RP, ma non il FFS.
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costruzione delle prime funzioni mentali che diverse in ogni singolo individuo, condizioneranno le modalità con cui le medesime circostanze di vita e di relazione saranno elaborate ed apprese (Imbasciati, 1998). Nel campo cognitivo infatti, manca una teoria dell’emozione strettamente collegata con la patologia, capace di descrivere e di spiegare sia il funzionamento normale che patologico del sistema mente (Bucci, 1997). Per lo più i teorici del cognitivismo clinico si sono occupati di descrivere gli “schemi cognitivi” o “distorsioni cognitive” delle varie sindromi psicopatologiche (vedi Beck e collaboratori, 1987; 1993), senza spiegare il come e il perché della loro formazione. Descrizioni, non spiegazioni. Di qui il bisogno di una “psicologia psicoanalitica nel campo cognitivo” (Bucci, 2000). La psicoanalisi potrebbe colmare il vuoto lasciato dalle scienze cognitive riguardo gli aspetti emotivi della mente. Nella psicoanalisi, infatti, la questione centrale è sempre stata la vita emotiva dell’uomo e gli aspetti conoscitivi legati ad essa. Sin dalla modello freudiano della rimozione di contenuti ineccettabili, emerge questa tendenza all’occultamento selettivo (oggi diremmo pensabilità) di alcune informazioni. Il sistema conscio seleziona, modifica, sposta, condensa le esperienze mentali oggetti mentali con cui ha a che fare. L’idea è quella di un censore che seleziona e compartimentalizza la mente. Tuttavia, ipersemplificando, i contenuti mentali non vengono di per sè alterati, ma solo la loro accessibilità consapevole. Questo lavoro di “taglia e cuci” cambia il pensiero cosciente. La concezione di un’elaborazione dell’esperienza emotiva prima che venga conosciuta viene ulteriormente elaborata nell’opera di Melanie Klein secondo cui il mondo esterno viene conosciuto (percepito e investito) solo e unicamente attraverso la fantasia inconscia, ovvero una primitiva forma di pensiero che organizza le relazioni oggettuali esterne e interne (Grotstein, 2011). Nel concetto di fantasia inconscia è insita una silenziosa e sottovalutata rivoluzione che vorrei sottolineare. Nel modello kleiniano, la capacità di pensare i contenuti mentali non è inibita, impoverita o occultata (come vorrebbe il modello della rimozione), ma è in primis deformata e distorta. 23
RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA
Sviluppando queste intuizioni Bion fonderà una terza rivoluzione copernicana, arrivando ad ipotizzare che il pensiero è una trasformazione lenta e difficoltosa dei contenuti mentali (affettivi, sensoriali...). Secondo questa prospettiva, non ci sono elementi mancanti (rimossi) o elementi occultati (spostati, condensati) in un pensiero altrimenti normale, ma un pensiero di per sé mancante (scissione) o deformato (effetto delle identificazioni proiettive massicce e trasformazioni patologiche). L’accento posto dalla psicoanalisi, sulle relazioni precoci per la costituzione delle strutture mentali di base (gli affetti), quindi chiama in causa direttamente l’elaborazione (trasformazione) dell’esperienza (Imbasciati, 2001). L’oggetto d’indagine di una tale “psicologia psicoanalitica” (Bucci, 1997), potrebbe essere differenziato da quello preso in esame dalla psicologia cognitiva, in virtù del fatto che la psicoanalisi ha a che fare non con i processi cognitivi di per sé, ma con “la cognizione dell’emozione” (Bucci, 1997), ovvero la modalità tramite cui l’individuo riesce ad apprendere dall’esperienza emotiva e a crescere mentalmente a partire da essa (Bion, 1962). Secondo una terminologia più recente questa problematica può essere riassunta con i termini di “mentalizzazione” o di “affettività mentalizzata” (Allen, Fonagy e Bateman, 2010), con cui si intende la comprensione della propria e altrui esperienza emotiva nei termini di stati mentali intenzionali. Questo processo riguarda proprio la capacità di riflettere e pensare le proprie emozioni. Allen e collaboratori (Allen, Fonagy e Bateman, 2010), infatti, si riferiscono ad essa come funzione riflessiva, una operazionalizzazione del concetto di mentalizzazione. Questa funzione non è data alla nascita, sebbene il bambino abbia una rudimentale capacità di generare e comprendere le comunicazioni emozionali, prelessicali e prosodiche (Schore, 2003). Essa deve essere sviluppata. Le analogie tra il modello bioniano e quello della mentalizzazione verranno discusse più avanti. In entrambi i modelli il cuore del pensiero è la vita emotiva che deve essere elaborata per generare il significato. D’altra parte come afferma Sartre “l’emozione è un certo modo di sentire il mondo”. Le 24
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emozioni guidano il nostro comportamento e sono essi stessi forme arcaiche di pensieri, se con essi intendiamo informazioni sul senso di quello che ci accade. In una moderna accezione, le emozioni ci forniscono informazioni preziose su quello che ci accade tramite la coloritura che esse forniscono agli eventi (la “valenza” positiva o negativa); attraverso la rilevanza dell’evento (ovvero la forza o “arousal” dell’emozione); attraverso l’orientamento (ci avvicinano o ci allontanano da certe situazioni); tramite la relazione che noi abbiamo rispetto all’evento (si pensi alla nostalgia per qualcosa che non c’è più, o alla colpa per qualcosa di spiacevole che abbiamo fatto agli altri, o ancora all’invidia che indica qualcosa che gli altri hanno e che noi vorremo avere). Le emozioni in definitiva ci orientano come una bussola nel mondo interpersonale e intrapsichico. Guidano la ricerca del senso e sono esse stesse protosistemi di senso e significato che possono essere comprese, sviluppate e progressivamente elaborate.
Figura 1.1 Esempio di frattale
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Il modello psicoanalitico dei “processi-cognitivi-legati-all’emozione” (Bucci, 1997), deve comprendere una spiegazione non solo della normalità, ma anche e soprattutto della patologia, essendo i fini della psicoanalisi non solo conoscitivi, ma terapeutici. Si potrebbe dire che la scienza cognitiva abbia come oggetto di studio “l’elaborazione dell’informazione”, la psicoanalisi “le disfunzioni che si verificano nell’elaborazione dell’informazione” (Erdelyi,1985), ovvero le modalità con cui l’informazione viene analizzata in modo distorto da ognuno di noi. La qualità e la quantità di queste distorsioni determineranno il livello di patologia. L’esperienza clinica insegna che le varie forme di psicopatologia possano essere viste come “micro/ macro-deliri” che distorcono le informazioni e i processi stessi di pensiero. Possiamo pensare a tale fenomeno, utilizzando l’immagine evocativa di un frattale, ovvero di un oggetto geometrico che si ripete mantenendo la sua struttura su scale diverse, caratteristica indicata come auto-similarità. Questa struttura agisce come uno “stampo” che si ripete a diversi livelli creando lo stile cognitivo di ognuno, cioè filtrando e leggendo le informazioni in modo idiosincratico. Mentre i processi di pensiero normali hanno una grande flessibilità e ampi “gradi di libertà”, i processi di pensiero patologici, similmente al frattale, operano in modo rigido e ripetitivo dando una particolare forma ai pensieri stessi, fino a forzarne il significato in modi prestabiliti. In tal senso Bion assume che i pensieri precedano il pensatore: ogni pensatore ridà forma ai propri contenuti mentali in modo più o meno distorto e in modo coerente col significato personale (le preconcezioni di cui parla Bion). Clinicamente questa deformazione del pensiero appare chiara nei gravi casi di paranoia, in cui ogni elemento del mondo viene interpretato secondo una propria logica interna senza la possibilità di apprendere dall’esperienza (Bion, 1962), o nei casi di mentalizzazione distorta (ipermentalizzazione nelle parole di Bateman e Fonagy, 2010), in cui il paziente crede che il modus pensandi dell’altro sia isomorfo al proprio (ovvero misinterpreta la mente dell’altro sovraimponendo i propri nessi logici). Meltzer (1992), ha dedicato ampio spazio al 26
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tema del fraintendimento, come modalità patologica di pensiero indicandolo come una delle caratteristiche della vita nel claustrum. Queste modalità di pensiero distorte e “anticonoscitive” creano un sistema autarchico e autoreferenziale che vincola la generazione di ogni significato personale e interpersonale. Nel presente libro adottiamo la prospettiva delle attuali neuroscienze cognitive secondo cui la mente può essere descritta come una classe di funzioni derivate da una riorganizzazione funzionale del sistema nervoso. Questa riorganizzazione dovuta ad un continuo modificarsi delle connessioni sinaptiche (LeDoux, 2002), può essere descritta in modo formale come una progressiva acquisizione di funzioni cognitive via via più complesse che permettono una sempre più adeguata lettura della realtà esterna e interna (Imbasciati, 2006). Secondo questa prospettiva la mente è un insieme di funzioni3 acquisite (seppur aventi un parziale sostrato genetico), dalla percezione, all’attenzione, dalla memoria al controllo motorio, che permettono ad un organismo di leggere e capire le informazioni (propriocettive ed esterocettive), e di interagire in modo efficace con l’ambiente (Churchland e Sejnowski, 1995). Di questa classe di funzioni, abbiamo deciso di occuparci di una in particolare, quella che si occupa della generazione del significato a partire dall’esperienza emotiva (che potrebbe essere definita “funzione emocognitiva”4), che riguarda cioè la generazione del significato a partire dall’esperienza emotiva. È questa la funzione mentale su cui il clinico interviene durante il processo terapeutico per cercare di produrre il cambiamento. Con questo termine intendiamo qualcosa di molto vicino alla mentalizzazione e funzione 3 È stato Bion (1962, 1963, 1965; ripreso anche da Meltzer, 1989), ad introdurre questa prospettiva in psicoanalisi più di mezzo secolo fa ancor prima della così detta rivoluzione cognitiva. 4 Precisiamo che il termine “emocognitivo” non ha nulla a che vedere con la “psicologia o teoria emotocognitiva” di Baranello (2010), così definite nelle parole dell’autore: “La psicologia emotocognitiva rappresenta l’integrazione ovvero l’applicazione nelle scienze psicologiche del paradigma emotocognitivo, una teoria generale sistemico-relativista circa il funzionamento organizzativo di sistemi a qualsiasi livello di complessità”.
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riflessiva di Fonagy e Target (1997), sebbene noi preferiamo il primo in quanto indica qualcosa che comprende gli stati preriflessivi del pensiero nel momento in cui esso ha a che fare con protosensazioni e protoemozioni e non con pensieri che hanno già raggiunto ampia simbolizzazzione.
1.2 Differenti stati metabolici della mente... e del cervello Il tema della cognizione dell’emozione, verrà affrontato lungo il presente lavoro seguendo il fil rouge dei processi di formazione e deformazione delle funzioni mentali, ovvero dei livelli di trasformazione dei processi di pensiero che la psiche utilizza per proteggersi dal dolore mentale (emozioni troppo forti e ingestibili) (Meltzer, 1986). Per illustrare questo aspetto ci avverremo di un’analogia. In fisica si indica con il termine spettro elettromagnetico, l’insieme di tutte le possibili radiazioni elettromagnetiche, ovvero delle onde caratterizzate da una data lunghezza e da certa una frequenza (parametri indicanti l’energia dell’onda). Dello spettro elettromagnetico, solo una parte definita come spettro visibile, è quella percepibile dall’occhio umano (indicativamente tra i 400 e i 790 terahertz, si veda Figura 1). Le radiazioni con lunghezza d’onda maggiore a questo intervallo non solo non sono percepibili dall’occhio umano, ma sono anche dannose all’uomo stesso. Similmente a quello che avviene per lo spettro elettromagnetico, si può presupporre che esista uno spettro delle possibili emozioni di cui la mente umana può assorbire (“contenere”) solo una parte, quelle meno forti. Le emozioni troppo forti, calde e ingestibili, eccedono la capacità di sopportabilità del sistema e scatenano una serie di meccanismi che definiamo come “anticonoscitivi”, il cui compito è quello di ridurre il livello emozionale (abbassare la temperatura) e rendere i contenuti mentali pensabili. Queste operazioni non sono senza costi. Per essere pensate le emozioni troppo forti 28
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
devono essere raffreddate nel senso di mitigate, il che comporta una più o meno grossa distorsione del significato incipiente che quelle emozioni convogliano. Questo meccanismo, assolutamente adattivo, può trasformarsi in patologico a certe condizioni (illustrate nel capitolo 3). L’eccessivo uso di questi meccanismi può portare ad un progressivo isolamento e distanziamento da tutto quello che è connesso all’esperienza affettiva e alla consapevolezza di tale esperienza, incluse le persone del proprio ambiente. È come se la mente si ritirasse e si ripiegasse su sé stessa non avendo più la possibilità di appoggiarsi ad un’altra mente. L’impalcatura su cui si regge diventa allora fragile e progressivamente indebolita dalle varie scissioni e distorsioni (“autotomie”, Imbasciati, 1998) e ha bisogno di ricorrere a meccanismi di automantenimento (autocontenimento) sempre più ingenti. Questo processo se portato alle sue estreme conseguenze può condurre alla psicosi.
Figura 1.2 Spettro elettromagnetico e spettro visibile (in giallo)
L’alternativa a questi processi di “auto-raffreddamento”, è la possibilità di incontrare un’altra mente capace di condividere il peso emozionale e aiutarne l’elaborazione. Questo è l’aspetto relazionale e interpersonale sottolineato dalla psicoanalisi bioniana. La mente 29
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dell’altro può ospitare e aiutarci ad elaborare le emozioni troppo forti, che vengono mitigate e raffreddate all’interno di una solida relazione, e che possono pertanto essere elaborate e sviluppate in pensieri. Questo è quello che avviene in una psicoterapia. Il problema della difficoltà che la mente incontra nel gestire emozioni troppo forti e di come ciò impedisca una mentalizzazione dei contenuti affettivi “bollenti” è stato affrontato anche da un punto di vista neuroscientifico. Recenti esperimenti di neuroscienze hanno dimostrato infatti, come un’alta attivazione dei sistemi deputati all’elaborazione delle emozioni sia associata ad una disattivazione delle area preposte all’elaborazione dei processi di pensiero (le cosiddette funzioni esecutive). Più le emozioni sono forti, più le capacità di pensiero vengono meno. In particolare un esperimento di risonanza magnetica funzionale di Dolcos e McCarthy (2006), ha illustrato questo fenomeno. In un compito di memoria di lavoro con risposta differita (entrambe considerate subprocessi delle funzioni esecutive), i partecipanti venivano distratti con stimoli a valenza neutra o emozionale. Nella condizione emozionale, i distrattori emozionali inducevano una soppressione delle aree cognitive (corteccia dorsolaterale prefrontale e parietale laterale), a vantaggio di quelle emotive (amigdala e corteccia ventrale). Studi successivi hanno confermato e ampliato l’idea di un’attivazione inversamente proporzionale tra “aree cognitive” ed “aree emotive” (Drevets e Raichle, 1998). Questi autori hanno ipotizzato un doppio sistema di ragionamento: quello freddo (“cold reasoning”) e quello caldo (“hot reasoning”). Tali differenti rami del sistema avrebbero differente localizzazione neurale: il primo costituito da una via dorsale che comprende la corteccia prefrontale dorsolaterale e la corteccia parietale laterale, e il secondo invece costituito da una via ventrale che include l’amigdala, la corteccia frontale ventrale e laterale. Questi due circuiti, come dimostrato sperimentalmente, si attivano in modo inversamente proporzionale (si veda Grecucci et al., 2007, per una simulazione computazionale basata su reti neurali artificiali di questi effetti). Se si attiva troppo quello “caldo” sarà 30
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
meno disponibile quello “freddo”. Un giusto equilibrio dovrebbe prevedere un mutuo concorso di questi due modus operandi, quella che potremmo chiamare “emocognizione” e a cui probabilmente Fonagy e collaboratori si riferiscono col termine di “affettività mentalizzata”. E’ da notare un’importante differenza tra questi due sistemi. Il primo (quello “freddo”) è flessibile, simbolico, consapevole, e si basa sul ragionamento, il secondo (quello “caldo”), automatico, asimbolico, per lo più incosapevole e prono all’azione. Tradotto in termini psicoanalitici, perchè il pensiero “emotivo” possa essere generato e sviluppato, le emozioni devono essere contenibili (non eccedere quello “spettro visibile”) e trasformabili nella relazione (quella che Bion definisce interazione “♀♂”). In caso contrario, l’emergenza dell’oggetto-pensiero-intero (come funzione dell’oscillazione integrativa “Ps↔D”, in “D”), sarà impossibilitata a causa del potere disintegrativo di emozioni esplosive e ingestibili. Come sottolineato da diversi autori, al fallimento del pensiero, segue un’evacuazione dei contenuti emotivi secondo varie forme di “scarica” (dal punto di vista cerebrale questo potrebbe essere dovuto all’attivazione selettiva di quel sistema “caldo” di cui sopra). Le dinamiche di questi meccanismi conoscitivi in un caso e anticonoscitivi dall’altro, generano vari “stati metabolici” della mente. In biologia si definisce metabolismo il complesso di reazioni chimiche e fisiche che avvengono in un sistema biologico. Queste reazioni si riferiscono alle trasformazioni della materia che portano ad un cambiamento della condizione energetica e della materia stessa. Per analogia, potremmo definire metaboliche tutte quelle “reazioni mentali” di trasformazione che elaborano i contenuti mentali e le energie mentali (le emozioni!) per produrre un cambiamento di stato. E’ da notare che la parola metabolismo deriva dal greco “μεταβολή”, che significa “cambiamento”, il che presuppone che la materia oggetto di attività metabolica debba essere modificata prima di raggiungere lo stato finale (un prodotto). Anche le emozioni, per essere pensate devono subire un processo analogo di trasformazione. Tutta la psi31
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coanalisi bioniana (e post bioniana) si è occupata delle “emozioni e loro destini” per seguire un’analogia col fondamentale scritto freudiano “Pulsioni e loro destini” (Freud, 1915). Spingendoci oltre con questa metafora biologica cercheremo ora di illustrare un altro punto fondamentale. Le trasformazioni possono essere di vario tipo e possono essere descritte in base al grado di deformazione apportato (come è stato fatto brillantemente da Bion nel libro Trasformazioni, 1965), ma anche dal punto di vista della finalità: non di “quanto” trasformano, ma del fine per cui trasformano. In biologia si distinguono due forme di metabolismo. La prima detta anabolismo, indica quel processo tramite cui vengono prodotte molecole via via più complesse a partire da molecole più semplici. Questo processo richiede energia. La seconda forma di metabolismo, detta catabolismo, comporta invece la degradazione di molecole complesse in molecole più semplici con la liberazione di energia. Similmente, la mente può utilizzare modalità di trasformazione anabolica dell’esperienza e arricchirsi di contenuti mentali portando ad una crescita della mente stessa e ad una progressiva sofisticazione del pensiero, oppure può utilizzare modalità cataboliche (schizoidi nella terminologia kleiniana), in cui i contenuti mentali vengono spogliati di significato e impoveriti (secondo forme di identificazione proiettiva patologica fino allo “smontaggio” sensoriale di cui parla Meltzer, in Meltzer et al., 1977), fino alla progressiva distruzione delle funzioni mentali in statu nascendi (come si osserva negli stati psicotici). Seguendo l’analogia, la prima modalità utilizza l’esperienza emotiva (l’energia della mente) per far crescere e sviluppare il pensiero. Le emozioni sono parte necessaria e integrante del processo stesso conoscitivo, ovvero i mattoncini di cui è fatta la cognizione stessa. Nella seconda modalità, l’esperienza emotiva degradata (che Bion chiamerà elementi beta) non viene utilizzata per lo sviluppo del pensiero e rimane come prodotto di scarto che danneggia la mente stessa. Stark (1999) afferma che queste operazioni mentali primi32
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tive abbiano un costo strutturale per la personalità che ne fa uso. Molti pazienti, infatti, quando iniziano una psicoterapia si trovano in questo stato catabolico di impoverimento del pensiero e conseguente disregolazione emozionale. L’inversione di questo processo, permette la metabolizzazione delle emozioni non digerite, l’acquisizione di nuove funzioni (anabolismo) e la progressiva remissione sintomatologica. Si pensi al disturbo da attacchi di panico in cui l’incapacità di mentalizzare i propri vissuti genera alla lunga un ingorgo di emozioni che si presenteranno prima o poi sotto forma di panico (all’horror vacui del pensiero si è sostituito l’horror pleni degli attacchi). Questo modello metabolico di derivazione bioniana (che segue la metafora della mente come apparato per digerire le emozioni), illustra bene un secondo meccanismo eziopatogenetico da affiancare a quello classico freudiano. Il modello classico psicodinamico, quello della rimozione, prevede che l’emergere di contenuti rimossi sia alla base della psicopatologia (tramite l’angoscia che ne deriva e la conseguente infiorescenza sintomatologica per incapsularne le emozioni). Un secondo modello, quello che potremmo definire modello metabolico, di matrice bioniana, prevede che i fallimenti nella generazione del significato e dello sviluppo del pensiero producano danni alla mente stessa (deformazione). L’angoscia non è solo generata di fronte ad un contenuto rimosso che cerca di diventare consapevole, ma anche come “segnale grezzo” che la mente non ha saputo utilizzare per la sua crescita e che ostacola il funzionamento sano (Ferro e Vender parlano di betalomi, Ferro e Vender, 2010). I due modelli sono complementari e si riferiscono a modalità più nevrotiche la prima e più psicotiche la seconda di affrontare i contenuti mentali “pericolosi” (killer nella terminologia di Ferro). Ad essi seguono principi tecnici differenti: nel primo caso si tratta di rendere conscio l’inconscio, nel secondo di ristrutturare l’inconscio stesso (una questione di “pensabilità”), concezione questa in linea con quella di Schore (2009). Questo argomento verrà trattato più approfonditamente nel capi33
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tolo dedicato alla tecnica (cap. 5) Concludendo, l’idea fondamentale di questo libro è che la mente nel trattare una qualsivoglia esperienza emozionale si trovi costantemente ad un bivio: da una parte essa può utilizzare l’emozione per crescere e sviluppare nuove funzioni mentali, dall’altra può sbarazzarsi dell’esperienza emotiva e con essa della funzione mentale atta a riconoscerla/elaborarla. A questo bivio seguono stati metabolici differenti che determineranno da una parte una crescita e dall’altra una patologizzazione del sistema cognitivo. Questo bivio corrisponde al conflitto epistemologico di cui verrà tracciato un modello formale nel capitolo quarto.
1.3 Mente, emozioni e cervello I meccanismi anticonoscitivi verranno esplorati utilizzando il sistema di riferimento concettuale della psicoanalisi (con particolar riferimento a quella bioniana) da una parte, e utilizzando il contributo delle moderne neuroscienze cognitive dall’altra. Non è nostra intenzione esplorare le basi neurali della psicopatologia o dell’effetto della psicoterapia su queste alterazioni, ma piuttosto di illustrare alcuni meccanismi di base che potrebbero essere il mezzo tramite cui la psicoterapia determina il cambiamento. Le basi neurali della psicopatologia e dell’effetto della psicoterapia (nei termini di comparazione pre e post trattamento) sono già state ampiamente trattate da altri autori (si vedano Grawe, 2007, e Folensbee, 2007). Piuttosto è nostra intenzione esplorare gli specifici meccanismi legati alla trasformazione simbolica delle emozioni e di specifici processi di base che avvengono in psicoterapia, processi “molecolari” che permettono una riparazione delle “difettualità” del pensiero. Per capire meglio cosa intendiamo, si prenda in considerazione il seguente esempio. Studi sperimentali hanno dimostrato un’alterazione di alcune aree cerebrali nei disturbi d’ansia. In particolare, l’amigdala, una struttura del sistema limbico responsabile degli stati di allerta e paura, risulta essere iperattivata in questi disturbi 34
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
(Etkin e Wager, 2007). Gli studi che hanno permesso questa scoperta potrebbero essere definiti studi sulle basi neurali della psicopatologia. Essi rispondono al quesito: “è possibile rintracciare dei marcatori cerebrali associati alla patologia?”. Studi successivi hanno dimostrato che la psicoterapia riesce a “normalizzare” l’iperattivazione dell’amigdala nei disturbi d’ansia. Ovvero, comparando l’attivazione di quest’area prima e dopo una psicoterapia, i ricercatori hanno scoperto che l’amigdala ritorna ad avere una funzionalità normale dopo il trattamento (comparabile a individui senza disturbo d’ansia) (Holzschneider e Mulert, 2011). Questo tipo di studi potrebbero essere definiti studi sulle basi neurali degli effetti della psicoterapia. Essi rispondono al quesito: “è possibile rintracciare delle modifiche funzionali dopo una psicoterapia?” o ancora “la psicoterapia riesce a normalizzare l’attività di strutture cerebrali coinvolte nella patologia?”. C’è una terza classe di studi che basandosi sulle due precedenti (la psicopatologia è associata a modifiche funzionali del cervello, e la psicoterapia normalizza tali modifiche), dovrebbe occuparsi di capire gli specifici processi neurocognitivi coinvolti nel processo psicoterapico. Questo tipo di ricerche potrebbero essere definite come lo studio dei meccanismi neurocognitivi del processo terapeutico. Sfortunatamente questa terza area di indagine, è all’inizio della sua storia, ed è ancora lontana dal chiarire i meccanismi coinvolti nel processo terapeutico. Tuttavia, iniziano ad esserci le prime prove di alcuni processi di base che potrebbero essere strettamente coinvolti in cosa accade durante una psicoterapia. Questi processi di base, lo vedremo nei prossimi capitoli, sono le capacità di identificare, trasformare (regolare) e esprimere le esperienze emotive, ovvero di renderle pensabili (mentalizzate). Esplorare i fondamenti neurali di tali processi è di estrema importanza perchè quando comprenderemo come la terapia riesce a riparare le difettualità della capacità di trasformazione delle emozioni, potremo avanzare prescrizioni più precise per orientare l’intervento clinico. D’altra parte “il successo di una psicoterapia è associato a precise modificazioni a livello cerebrale (Etkin et al., 2005; Roffman 35
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et al., 2005), dato che essa in ultima istanza è proprio alle strutture neuroanatomiche e alla regolazione del loro funzionamento che si rivolge (Viamontes e Beitman, 2006a, b) (citati in Gabbard, 2010)”. L’interesse nei confronti di questi processi è stato crescente negli anni, e gli studi sulle basi neurali delle emozioni si sono moltiplicati, dimostrando che il connubio tra emozioni e neuroscienze è quanto mai fecondo (Schore, 2008). Dopo decenni di prevalenza del paradigma comportamentale prima e cognitivo dopo, nell’ambito della psicologia sperimentale e delle neuroscienze, le emozioni sono entrate a far parte a pieno titolo dell’oggetto di studio di centinaia di ricercatori in tutto il mondo. Ciò è stato permesso dalla scoperta delle tecniche di neuroimmagine (come la risonanza magnetica funzionale e la tomografia ad emissione di positroni), e dal crescente interesse degli sperimentalisti ad argomenti clinici. Questo fermento ha portato lentamente ad un cambiamento di paradigma: dallo studio dei processi puramente cognitivi, razionali, espliciti e consapevoli, ai processi emotivi, motivazionali, corporei e impliciti. Questo cambio di paradigma si è riverberato in diversi ambiti e ha prodotto modifiche notevoli nel modo di concepire la mente. Studi sperimentali sull’efficacia della psicoterapia hanno dimostrato interessanti cambiamenti cerebrali tra il pre- e il post- trattamento. E’ ormai assodato che la psicoterapia sia in grado di produrre modifiche significative nel funzionamento delle strutture cerebrali coinvolte nelle varie patologie (Grawe, 2007). Questi studi mostrano chiaramente che 1) la psicopatologia ha specifiche basi neurali, 2) che la psicoterapia riesce a “normalizzare” l’attività cerebrale insieme a quella cognitiva e affettiva. Tuttavia, gli studi sull’outcome che rispondono alla domanda “la psicoterapia funziona?”, lo ripetiamo, non dicono nulla sul processo, ovvero riguardo a: 1) i meccanismi patologici intrinseci alle varie patologie, e soprattutto, 2) ai meccanismi terapeutici che producono il cambiamento in tali processi. Le attuali scoperte neuroscientifiche ci permettono di tracciare alcune interessanti ipotesi sui meccanismi alla base della patologia della capacità di pensare i contenuti emotivi e di come la psicoterapia 36
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riesca ad intervenire per sbloccare gli arresti di simbolizzazione della mente. Di questi meccanismi ci occuperemo lungo il presente libro seguendo un doppio vertice: quello psicoanalitico e quello neuroscientifico.
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Capitolo II Elementi per una teoria formale del pensiero
“La logica è l’anatomia del pensiero.” John Locke
2.1 Il contributo di Freud e della psicoanalisi Prima di addentrarci nella discussione dei meccanismi anticonoscitivi, oggetto di questo libro, ci sembra necessaria una sistematica seppur parziale esposizione di alcune moderne teorie della psicoanalisi dei processi di pensiero. Inizieremo seguendo un’ottica storica, dal fondatore della psicoanalisi Freud. Sebbene le sue considerazioni sui processi di pensiero siano disseminate lungo tutta la sua opera, ci soffermeremo solo su alcune osservazioni utili per le nostre argomentazioni. Le prime considerazioni di Freud risalgono al saggio “Trattamento psichico (trattamento dell’anima)” (1890), in cui afferma che “quelli che siamo abituati a considerare processi di pensiero sono in una certa misura affettivi”, stabilendo un nesso indissolubile tra cognizione e emozione (Conrotto, 2010). Nel Progetto (1895), specifica meglio tale legame, affermando che “lo scopo originario del pensiero era quello di stabilire una situazione di soddisfacimento”. Il pensiero viene considerato finalizzato all’evitamento del dispiacere (secondo il principio di piacere) e al dilazionamento dell’azione (il pensiero non sarebbe null’altro che “un’azione di prova”, affermerà più avanti). Sempre nel Progetto, anticipa una considerazione molto attuale (si vedano i capitoli 1 e 5), secondo cui “l’affetto inibisce in vari modi il normale decorso del pensiero” (1895), indicando un potere causativo degli affetti sulla cognizione, e non il 39
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semplice essere “oggetto” del pensiero. Nell’Interpretazione dei sogni (1900), secondo un’altra intuizione fondamentale, introduce il termine “lavoro del pensiero” (Leistung des Denkens) per indicare il funzionamento elaborativo del pensiero. Parecchi anni dopo, nel saggio La negazione (1925), egli aggiunge alcuni elementi molto interessanti. In primis egli attribuisce al “lavoro del pensiero” una certa capacità elaborativa quando parla della negazione, ovvero di quell’operazione tramite cui la psiche si libera dei vincoli della rimozione (e del principio di piacere) e permette l’accesso alla consapevolezza di un dato contenuto attraverso la negazione. Questa ed altre operazioni, note come meccanismi di difesa, processano il contenuto rimosso, lo vagliano, giudicano e lo rendono fruibile per la coscienza. Inoltre, sempre nella stessa opera, egli collega il pensiero razionale a forze istintive e pulsionali attraverso i meccanismi della introiezione e proiezione. Da queste e da altre osservazioni discendono alcuni interessanti punti: 1. Il pensiero è strettamente connesso con la vita istintuale-pulsionale; 2. la funzione di pensiero è strettamente collegata alla funzione conoscitiva a quello che la mente attivamente mette in sé o rigetta fuori di sé (Conrotto, 2010); 3. il pensiero manipola rappresentazioni riferite a contenuti pulsionali; 4. certi contenuti per essere pensati, devono essere “negati” o modificati per minimizzare l’aspetto pulsionale associato pena l’intervento della rimozione e degli altri meccanismi di difesa; 5. il pensiero svolge (e probabilmente si è evoluto per assolvere a ciò) una funzione “economica” all’interno della mente, ovvero gestire i derivati pulsionali in modo che la controparte rappresentativa ne sia depurata o “ammorbidita” e resa accettabile per la coscienza; 40
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6. il pensiero regolamenta le relazioni con gli oggetti e con i propri bisogni interni. Sebbene questi siano solo alcune delle osservazioni che Freud ha fatto sul tema del pensiero (si pensi a tutto il discorso sulla rappresentazione di cui non abbiamo fatto cenno), e sebbene alcuni autori successivi si siano occupati del problema del pensiero (si veda ad esempio Rapaport, 1950), dobbiamo attendere il contributo di Bion per avere un decisivo avanzamento concettuale sul problema dei processi di pensiero. Vediamo adesso alcune considerazioni di Bion su queste tematiche. Sebbene tutta l’opera di Bion sia incentrata sui temi del pensiero, e suoi contributi verranno analizzati in più parti di questo libro, ci limitiamo adesso ad enucleare alcuni punti fondamentali del suo pensiero. Un’esperienza emotiva perché possa portare allo sviluppo della persona deve essere riconosciuta, accettata e assimilata. Ciò che sta dietro questa serie di passaggi è un processamento complesso e difficoltoso, che non sempre riesce. Le modalità individuo specifiche di processare questi vissuti, determinano “la nostra immagine del mondo” (MoneyKyrle, 1961), cioè come noi ci rappresentiamo la realtà (interna ed esterna). Questo è l’assunto fondamentale che Bion sostiene. Il problema di cui ci stiamo occupando, era stato già intuito già da Freud e da altri autori (Rapaport, 1950), ma è stato formulato in modo chiaro ed esplicito solo nel 1965, ad opera di Bion nel modo seguente: “C’é una realtà che deve essere conosciuta, che egli designa con “O” (che sta per una qualsivoglia “origine”), un “processo” (inconscio) atto a elaborare e rendere conoscibile al soggetto quell’esperienza, che Bion indica con “Tpα “ (dove la T sta per trasformazione, “p” per paziente e “alfa” per processo) e il “prodotto” di tale trasformazione che viene chiamato “Tpβ “” (Bion,1965). Per esplicitare quanto stiamo dicendo vediamo un famoso caso 41
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clinico di Freud, quello relativo al presidente Schreber5 (1911). In questo caso la “O” di cui stiamo parlando (dedotta da Freud), è rappresentata da “io lo amo” e il Tpβ (l’unico prodotto finale accessibile a livello conscio) è “paranoia” (“tutti mi odiano”). Freud illustra esaustivamente le varie trasformazioni cui quel contenuto inconscio (“O”) è andato incontro, secondo la sequenza : “Io lo amo”, “io lo odio”, “Lui mi odia”. Schematizzando : “O” (io lo amo) → “Tpα “ (trasformazioni varie) → “Tpβ “ (paranoia) (1)
Queste trasformazioni disfunzionali sono state chiamate in psicoanalisi “meccanismi di difesa”. Essi sono processi che modulano le dinamiche affettive, ovvero operazioni che il sistema mente esegue per processare alcuni contenuti mentali (Imbasciati, 1998), in modo che emozioni troppo violente vengano evitate, minimizzate o trasformate. Qui abbiamo la “formazione reattiva” (in cui il predicato viene convertito nel suo opposto, da “amore” in “odio”), e la “proiezione” (una trasformazione proposizionale in cui si ha inver-sione dei due termini soggetto e complemento oggetto, da “Io…di lui” in “Lui…di me” ). Queste trasformazioni hanno fallito nel loro compito di informare il soggetto di una sua peculiare realtà emotiva (l’amore per la figura paterna) ed ha anzi portato ad una realtà delirante e quindi ad una sua rappresentazione fallace. La scoperta e l’analisi approfondita di questo tipo di disfunzioni dell’elaborazione é uno dei contributi fondamentali che la psicoanalisi ha dato alla scienza della mente (Erdelyi, 1985). Il modello che andremo ad esporre, permette di capire meglio il concetto stesso di “meccanismo di difesa”. Questo processo cui ci stiamo riferendo é inconscio e di per sé inconoscibile, ed é quel processo che Bion indica con Tpα e che ha studiato secondo una duplice prospettiva nella “Teoria delle Tra5 Non è nostra intenzione esporre ed analizzare un caso clinico così complesso e ricco di sfaccettature. Ci limiteremo ad utilizzare solo alcune considerazioni ai fini delle nostre argomentazioni.
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sformazioni” e nella “Teoria delle Funzioni” lungo i suoi libri. Egli cioè ipotizza che una realtà (interna e esterna) per essere conosciuta debba essere elaborata da un processo complesso, una manipolazione atta a raggiungere un determinato risultato. Il problema allora diventa ricavare dal prodotto finale (ciò che arriva alla coscienza e/o viene comunicato dal paziente) di questa operazione, i fattori di questa funzione mentale (Tpα ) in virtù dei quali dato un input (“O”) la mente restituisce un determinato risultato (Tpβ ) e non un altro. Questo problema è duplice: da una parte concerne la costruzione di una teoria generale di come la mente funziona, dall’altra riguarda direttamente l’ambito clinico, allorché il clinico, debba determinare la precipua modalità di trattare l’esperienza (l’informazione) di quel determinato paziente, in modo da agire su di essa terapeuticamente. Questo problema è analogo a quello del matematico che deve determinare il valore dell’incognita x che (esso solo) soddisfa una determinata equazione (Bion,1963). Come fa la mente a “calcolare” il valore “esatto” che rappresenta la realtà (interna o esterna) che cerca di prefigurarsi? Perché a volte fallisce portando a varie fallacie e in ultima istanza alla patologia? Queste domande ci portano direttamente ad altre più fondamentali e essenziali, cui cercheremo di rispondere e che sono: “Come e perché si è evoluta una simile capacità negli esseri viventi? Che funzione adattiva ha permesso di guadagnare?” Queste sono domande che devono essere affrontate in una teoria psicoanalitica dei processi cognitivi. Seguendo un’altra analogia matematica il problema in questione può essere compreso analizzando la definizione di funzione in matematica. Ricordiamo che in matematica una funzione f è quella particolare corrispondenza tra due insiemi A e B che ad ogni elemento x di A associa uno (e un solo) elemento y di B. Il valore della funzione si dice ottenuto applicando la funzione agli argomenti. Il dominio di tutti i possibili valori della funzione si dice il 43
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campo della variabile dipendente. Se f denota una funzione e x1, x2, …, xn gli argomenti, allora f(x1, x2, …, xn) denota il valore corrispondente della funzione. Il dominio della funzione mentale che ci interessa indagare in questa sede è quello del esperienza emotiva. La questione è comprendere quali sono i fattori in gioco che permettono ad una funzione di svolgere una determinata funzione. Possiamo facilmente conoscere l’argomento della funzione (l’input, nel nostro caso l’evento emotigeno intrapsichico o interelazionale) e il valore della funzione (l’output nella forma di comportamento, emozione o pensiero), ma la funzione stessa, ovvero la trasformazione simbolica delle emozioni che porta ad un certo risultato dato un determinato input, ci è per lo più ignota. È questo il nocciolo della questione. È questo ciò che la psicoanalisi da più di un secolo cerca di studiare e decifrare: i processi inconsci per mezzo dei quali conosciamo la realtà così come la conosciamo (in modo idiosincratico). Il concetto di elaborazione e trasformazione dell’esperienza prima che possa essere pensato in modo esplicito, ha trovato nel campo delle neuroscienze numerose dimostrazioni. Basti pensare al caso della “semplice” percezione visiva che in realtà nasconde un complesso processo di successive trasformazioni fatte in svariati momenti da almeno 5-6 aree diverse della corteccia visiva. Ad esempio solo per il riconoscimento delle forme e loro annesse rappresentazioni (il “cosa” stiamo osservando), l’informazione inviata dalla retina deve percorrere la cosiddetta via ventrale che inizia nella corteccia visiva V1 (peri scissura calcarina), prosegue verso l’area visiva V2, poi verso l’area visiva V4, e infine raggiunge la corteccia temporale inferiore, dove scatena una serie di processi a cascata che includono la memoria, la rappresentazione linguistica, il tono affettivo etc etc. Ovviamente di tutti questi passaggi noi siamo consapevoli solo del prodotto finale. Si può di conseguenza supporre che l’assunto psicoanalitico di una complessa trasformazione inconscia che parte dal vissuto emotivo fino alla generazione del pensiero simbolico, sia biologicamente 44
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
plausibile. Vedremo più nel dettaglio alcuni di questi punti nel paragrafo successivo.
2.2 Assunti
Elaborazione Inconscia Partiamo da alcune considerazioni. La ricerca psicoanalitica prima, la psicologia cognitiva e le neuroscienze poi, hanno mostrato come i processi mentali sono in gran parte inconsci, anzi per dirla con Freud (1915) “i processi mentali sono di per sé inconsci”; la coscienza sarebbe solo un attributo di alcuni processi, un epifenomeno secondo alcuni. Qualunque evento mentale consapevole presuppone processi inconsci, per cui i fenomeni coscienti vengono considerati come l’evento terminale di una catena di processi inconsci (Imbasciati,1998). Ci riferiamo qui a quell’aspetto dell’inconscio che Freud (1917) aveva chiamato strutturale. Una concezione dello stesso quindi non come contenuto, né come “topos”, ma come processo, la stessa adottata da Bion e dalle scienze cognitive. Numerose prove sperimentali sono ormai disponibili. Esse non solo dimostrano che la gran parte dell’attività mentale si svolge in modo inconscio, ma anche che ciò avviene per processi complessi che avvengono tutti a livello incosapevole. Ad esempio, i pazienti affetti da una sindrome neuropsicologica nota come prosopoagnosia che comporta l’incapacità di riconoscere i volti, dimostrano risposte emozionali (aumento della risposta psicogalvanica) per volti conosciuti (prima della lesione cerebrale), sebbene fossero convinti di non averli mai visti (Tranel e Damasio, 1985). Questi stessi pazienti se forzati a scegliere tra diverse opzioni, sono ingrado di “indovinare” i nomi di queste stesse persone affermando di aver scelto a caso. Un’altra classe di pazienti affetti da eminegligenza spaziale, una sindrome neuropsicologica per cui il paziente non è più consapevole di quello che accade nell’area controlaterale alla lesione, è in grado di elaborare implicitamente le informazioni ivi presenti, fenomeno noto come 45
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visione cieca o blindsight (Ladavas, Paladini, Cubelli, 1993). Altri esempi interessanti sono rappresentati dall’anosognosia per l’emiplagia, ovvero inconsapevolezza legata alla plegia (arto paralizzato o assente). Un altro classico esempio di percezione incosapevole è quello fornito da LeDoux (1996), con il modello delle due vie di elaborazione corticale degli stimoli, secondo cui nel cervello vi è una “via breve della paura”, in cui la percezione di stimoli pericolosi (un serpente nell’erba mentre stiamo camminando ad esempio) è in grado di bypassare la percezione consapevole ed è in grado di scatenare una risposta fisiologica e comportamentale ancor prima che ce ne accorgiamo esplicitamente. Questa percezione “veloce, ma grezza” avviene grazie a vie sensoriali filogeneticamente antiche che connettono direttamente la corteccia sensoriale con l’amigdala, la nostra centralina di allarme in caso di pericolo. Non ultima per importanza, citiamo la scoperta di Damasio sul “marcatore somatico” che si collega direttamente con il nostro discorso sul rapporto tra emozioni e pensiero. Secondo l’autore la nostra scelta tra due o più alternative, sarebbe silenziosamente condizionata dalle risposte somatiche e emotive implicite, utilizzate dal cervello come indicatori della bontà o meno di una data opzione. Questo segnale (il marcatore somatico), sarebbe localizzato nella corteccia ventromediale, che se danneggiata provocherebbe effetti nefasti sulle decisioni di questi pazienti. Ulteriori prove vengono dagli studi sulla percezione subliminale, che vanta ormai centinaia di pubblicazioni scientifiche.
Diversi livelli di funzionamento Un altro assunto è che lo sviluppo diacronico dei processi conoscitivi, si ripeta in modo sincronico. La successione secondo cui si sono evolute una dopo l’altra le capacità di processare un informazione (seguendo un asse temporale genetico-evolutivo), si ripete ogni volta in ogni pensiero. Il pensiero contiene in sé sia processi più primitivi (nel senso di acquisiti per primi), che quelli più evoluti (acquisiti successivamente). E’ anche questa una caratteristica 46
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
di un’organizzazione di tipo “frattale”. Il processamento inconscio è costituito da tutto il funzionamento di tutte le operazioni mentali da quelle più primitive a quelle più evolute (Imbasciati, 1998). Ciò vuol dire che ci sono diversi livelli secondo cui il sistema cognitivo può funzionare. In condizioni normali il livello predominante sarà quello acquisito per ultimo. In altre situazioni potrà regredire a modalità più primitive di processamento. Anche secondo i teorici della mentalizzazione esistono modalità meno evolute di pensare l’esperienza emotiva, note come prementalizzazione (Allen et al., 2010). gli autori distinguono almeno tre forme di fallimenti: l’“equivalenza psichica”, in cui le rappresentazioni non sono distinte dalle cose che rappresentano; la modalità “far finta”, ovvero stati mentali scarsamente ancorati alla realtà fattuale, la modalià “teleologica”, in cui gli stati mentali ed emotivi sono vissuti in forma di azione. Questo è vero tanto nel senso dello sviluppo ontogenetico (dell’individuo che passa da forme infantili ad adulte), quanto di quello filogenetico. MacLean (1990) ha elaborato un modello dell’evoluzione del cervello, descrivendolo come “uno e trino” e derivato dalla stratificazione di tre formazioni anatomiche e insieme funzionali, che si sono sovrapposte ed integrate nel corso dell’evoluzione. Queste tre formazioni sarebbero: 1) il cervello rettiliano (protorettiliano, rappresentato principalmente dalle strutture sottocorticali a partire dalla parte superiore del midollo spinale, da parti del mesencefalo, dal diencefalo e dai gangli della base), 2) il cervello mammaliano antico (paleomammaliano, che include il giro del cingolo, i corpi mammillari, i bulbi olfattivi, il setto, il fornice, l’ippocampo, l’amigdala ovvero gran parte del sistema limbico), 3) il cervello mammaliano recente (neomammaliano, rappresentato dal manto corticale). Queste tre strutture sono state acquisite nel tempo ed hanno ognuna funzioni, selettività per gli stimoli e modalità di risposta differenti. Ad esempio il cervello rettiliano sarebbe fondamentale per le 47
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forme di comportamento stabilite geneticamente, quali le risposte attacco-fugo, cacciare, accoppiarsi, formare gerarchie sociali e seguire i capi. Questi comportamenti sono altamente stereotipati e mostrano una netta preferenza per la routine o per le azioni rituali. Queste modalità primitive di emocognizione (emo-azione?), possono ripresentarsi bypassando forme più evolute di pensiero. Ad esempio, alcune dinamiche di gruppo, ma anche alcune dinamiche intrapsichiche di quelle descritte da Melanie Klein nel bambino (o in gravi regressioni psicotiche) possono essere assimilate a queste modalità di primitive di pensiero-azione. Queste modalità, sono ben lontane dai processi di pensiero evoluti e rappresentano esse stesse modalità anticonoscitive con cui la mente si libera di uno stato emotivo-sensoriale tramite l’azione. Segue che una delle prime forme di elaborazione mentale, sarebbe in realtà una modalità di scaricare la tensione in linea con quanto Freud stesso ha più volte affermato. Il cervello paleomammaliano che coincide a grandi linee con il sistema limbico, rappresenta un passo in avanti nell’evoluzione del sistema nervoso, poiché procurò agli animali mezzi migliori per gestire gli stimoli e ad adattarsi all’ambiente. In esso infatti sono codificati i sentimenti di accudimento, legami interpersonali e emozioni “sociali”. Un dato interessante riguardo questo sistema ci preme sottolineare. Epilessie aventi luogo in aree temporali mesiali (che dunque coinvolgono direttamente il sistema limbico), possono scatenare un insieme di esperienze e sensazioni tra l’allucinatorio e il mistico, alcune delle quali molto interessanti essendo associate con la convinzione della scoperta di “verità fondamentali”. MacLean (1973) scrive a tal proposito: “Sembra che l’antico sistema limbico fornisca gli ingredienti per la forte sensazione affettiva o convinzione che noi attacchiamo alle nostre credenze, senza badare se siano vere o false!”. Queste verità ci ricordano alcune osservazioni di Bion sulle trasformazioni in allucinosi, o di Meltzer sul concetto di chiarezza dell’insight e sul fraintendimento su cui torneremo nei prossimi capitoli. Sembra dunque che una seconda modalità di emo48
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cognizione (dopo la scarica in azioni tese all’eliminazione dello stato emotivo-sensoriale del sistema rettiliano), sia una forma di pensiero leggermente più evoluta che però presenta caratteristiche di espulsione sensoriale (allucinatorie), pseudoverità (ideologiche), nonchè mistificatorie (deliroidi), mancando di un test di realtà che invece è stato filogeneticamente acquisito con il cervello neomammaliano ovvero con il neocortex. Si noti il parallelo con le forme di prementalizzazione di Allen, Fonagy e Bateman (2010), di cui sopra.
Dipendenza dall’emozione Terzo assunto è che i processi cognitivi promanano dagli affetti (Imbasciati, 1998). Essi stessi sono modalità filogeneticamente più antiche di pensiero e sono schemi cognitivi legati ad una valutazione cognitiva dello stimolo e a programmi comportamentali innati (Bucci, 1997; Plutchik, 1980). Essi sono la base del pensiero: l’emozione è la prima forma di pensiero e questa forma di (proto)pensiero condiziona le forme più evolute di esso. Gli affetti costituiscono le strutture primarie di cui la mente è dotata per interagire con la realtà (Money-Kyrle, 1968). Le moderne Neuroscienze Affettive hanno dimostrato più volte questo assunto. C’è chi ha parlato di una vera e propria “rivoluzione emozionale” (Schore, 2003), che ha caratterizzato l’ultimo decennio della ricerca neuroscientifica. Rimandiamo a testi specialistici per una trattazione completa su questo argomento. Abbiamo quindi appurato che il processamento cui ci stiamo riferendo è assolutamente inconscio, che ha diverse modalità di funzionamento e che gli affetti sono strettamente legati al problema della cognizione. Ora entriamo nel vivo della questione per cercare di capire cosa intendiamo con termini quali processi cognitivi o processi di pensiero. Definiamo, in accordo con le scienze cognitive, il pensiero come un sistema di elaborazione e manipolazione di simboli. Un sistema di elaborazione di simboli deve essere costituito da una particolare 49
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funzione di riferimento e da degli operatori (Cherubini, 2002). La funzione di riferimento si occuperebbe di significare un dato in entrata e di trasformarlo in simbolo, cioè in un formato “mentale” e privato utilizzabile dalla mente per i processi di pensiero e per essere infine memorizzato; gli operatori manipolerebbero i simboli secondo procedure effettive, ottenendo nuovi simboli più complessi e sofisticati, dotati di crescente capacità di significazione, organizzandoli in quello che potremmo definire il linguaggio del pensiero. Questa concezione è conforme a una linea di pensiero filosofica che va da Hobbes, a Boole fino a Turing, che vede il pensiero come un algoritmo, un calcolo che tramite alcune operazioni procede da una premessa ad una determinata conclusione, da un input ad un certo output nella prospettiva che vogliamo adottare. Le operazioni coinvolte in questo calcolo devono essere in linea di principio determinabili. La visione dei processi di pensiero come “calculus” e la distinzione tra questi due processi (funzioni di riferimento e operatori) sarebbe anche conforme a quella adottata da Bion nella sua Teoria delle Funzioni (Bion, 1962; 1963; 1965), il primo modello cognitivo della mente che paradossalmente ha preceduto la rivoluzione cognitiva (probabilmente le incredibili somiglianze tra il modello bioniano e quello proposto negli anni successivi da Neisser nel 1967 sono da imputarsi allo stesso background filosofico e alla Weltanschauung di quei tempi). Bion ha arguito che sotto il termine generico di “pensiero” andrebbero differenziate due classi ben distinte di processi: 1. Creazioni di protopensieri ; 2. Manipolazione dei protopensieri in un linguaggio del pensiero. Ha chiamato il primo processo (ovvero la funzione di riferimento creatrice di “elementi-per-pensare”) “Funzione α” che farebbe corrispondere ipoteticamente ad ogni elemento β (il prius dell’attività mentale, ovvero le afferenze sensoriali ed emotive grezze), un ele50
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
mento α (le lettere di un ipotetico “alfabeto mentale”), ed ha chiamato i secondi (gli operatori atti a combinare le lettere di “quell’alfabeto”), “oscillazione tra la posizione schizoparanoide e posizione depressiva” (abbreviato “Ps ↔ D”) e “interazione contenitore-contenuto” (“♀♂”), facenti parte “dell’apparato devoluto all’impiego ed elaborazione dei pensieri stessi”, deputato quindi al “pensare” (Neri, Correale e Fadda, 1994).
2.3 Principio di piacere, principio di dispiacere e principio di verità Prima di esaminare dettagliatamente questi due fattori cercherò di rispondere alla domanda sul perché si sia evoluto il pensiero. Il problema sembra dischiudersi se considerato nell’ottica evoluzionista come un problema di adattamento e di sopravvivenza: la mente si sviluppa per poter soddisfare i bisogni dell’individuo. La mente è uno strumento che si autocostruisce per permettere la sopravvivenza (Imbasciati, 1998). Ciò probabilmente è avvenuto per permettere di rappresentare il mondo e agire in modo realistico su di esso, utilizzando un sistema di simboli (mentali) in luogo dei referenti concreti, cosicché esso potesse permettere un migliore adattamento, qualora le condizioni ambientali richiedessero più di un semplice programma comportamentale stereotipato a base innata (o istinto), qualora insomma ci fosse un problema la cui risoluzione non fosse esplicitamente già data negli elementi percettivi. Una prima questione da affrontare è che il sistema per potersi rappresentare la realtà in modo adeguato, deve poter cogliere il significato di un evento. Il problema di come un sistema nervoso possa cogliere il “significato di qualcosa” è una grande questione filosofica che pervade tutta la scienza cognitiva, allorché si ponga il problema di capire come ciò avvenga spontaneamente nell’uomo e come mettere un automa nelle condizioni di riprodurre tale capacità (Cherubini, Giaretta, Mazzocco, 1999). Ciò trascende le intenzioni di questa trattazione. Possiamo però affermare che nelle attuali 51
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prospettive a riguardo è accettata l’ipotesi che il sistema mente per comprendere il significato di un qualcosa debba riferirlo ad una semantica che ne possa fornire le coordinate entro cui interpretare quel determinato dato. Questa semantica ci è ignota, ma sembra essere associata ad alcuni fenomeni di cui parleremo in seguito. Intanto è necessario postulare una innata predisposizione a rappresentare la realtà in modo realistico e veritiero. In linea col pensiero bioniano, chiameremo ciò col termine “principio di verità” (Grotstein, 2010), parente stretto del “principio di realtà”. Possiamo assumere questo “principio di verità” come il fine (il raggiungimento di una soluzione adeguata nel senso di realistica) del nostro sistema cognitivo. Il mezzo tramite cui questo fine si realizza, verrà discusso tra breve. L’ipotesi di una rudimentale predisposizione al principio di verità geneticamente determinata sembra essere necessaria, ma è pur vero che all’inizio della vita (proto)mentale, esso debba essere ancora sviluppato completamente e i processi conoscitivi stessi sarebbero soggetti ad un altro principio irriducibile del sistema mente: il “principio di dispiacere” cosi come è stato formulato da Freud (1911) nello scritto “Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico”. Il principio di verità infatti se da una parte ci dice qualcosa sul funzionamento generale dei processi di pensiero (il fatto che essi sono finalizzati alla rappresentazione adeguata della realtà), non riesce a spiegare il perché esso a volte non venga rispettato (ma è bene precisarlo non in modo casuale: “gli uomini sono spesso motivati, da qualche desiderio o da qualche paura ad un livello inconscio, a non intraprendere una determinata elaborazione, oppure a non effettuarlo in modo corretto”, afferma Erdelyi nel 1985). È interessante qui notare come Platone avesse intuito tale problema differenziando la percezione (aisthesis) dal pensiero (nous). Mentre la percezione è sempre vera, le conoscenze noetiche non ci danno nessuna garanzia di verità. Ciò è dovuto al fatto che il sistema cognitivo ha dei limiti notevoli e riconosciuti in modo unanime da tutta la psicologia. La “Psicologia del pensiero” in particolare, ha studiato 52
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questi limiti nei termini di “bias” e “euristiche fallaci” nei compiti di ragionamento (Cherubini, 2002). Il limite cognitivo che in questa sede ci interessa riguarda più da vicino la psicoanalisi come terapia e teoria del funzionamento mentale. Questo limite è la capacità di sopportare il “dolore mentale” (Bion, 1963; Meltzer, 1978) inteso come stato primordiale della mente che funge da segnale a scopo essenzialmente adattivo. A tal proposito Mattioli (2000) afferma: “Tutti i dispositivi di natura biologica hanno limiti alla loro efficienza, oltre i quali falliscono…Esiste un fenomeno che si possa far coincidere con il fallire di questi dispositivi? Io credo sia il “dolore”. Il dolore inteso come segnale. Freud descrive la “coscienza” come …tendenza della vita psichica ad evitare il dispiacere…Il modello dell’apparato fisico-psichico che Freud tiene presente è quello per cui le stimolazioni sensoriali passano e scaricano attraverso l’apparato motorio; nel processo primario la scarica è fine a se stessa… nel processo secondario invece esiste la capacità di reggere le tensioni, di rimandare la soddisfazione, pertanto la scarica motoria divenuta rinviabile, può essere finalizzata e coor-dinata: diviene cosi azione, pensiero, legame con la realtà. Il progetto anticipa di più di mezzo secolo quanto si è appreso da ricerche neurofisiologiche recenti...” Il processo primario basato sul “principio di dispiacere”6 designa proprio la prima modalità che gli uomini filogeneticamente e ontogeneticamente possiedono per gestire le affezioni emotive spiacevoli con cui entrano in contatto. La plausibilità biologica di quei fenomeni che Freud ha indicato 6 Freud preferiva il termine principio di piacere, noi preferiamo quello di principio di dispiacere. Evidenze sperimentali e riflessioni analitiche successive hanno spostato l’asse di interesse verso il ruolo del dolore piuttosto che del piacere. La mente si sviluppa per evitare il dolore, non perchè è alla ricerca del piacere. Questa concezione era già silenziosamente presente in Freud allorchè considerò gli stati narcisistici di autoerotismo come un ripiegamento su se stessi e un ritorno a fasi regresse dello sviluppo.
53
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con i termini di “principio del piacere” e “principio del dispiacere”, è stata corroborata dagli studi di fisiologia animale di Olds e Milner (1954) e Delgrado, Roberts e Miller, (1954). Le loro strutture nervose sono diffusamente programmate per determinare la piacevolezza e la spiacevolezza degli stimoli e per guidare il comportamento. È bene precisare però, che sia filogeneticamente che ontogeneticamente, il sistema nervoso acquisisce per primi i sistemi anatomo - funzionali responsabili del comportamento di dispiacere - paura e, con loro si sviluppano parallelamente i sistemi evitatori corrispondenti del tronco cerebrale (Mattioli, 2000). L’analogia tra questi risultati neurofisiologici e le teorie psicoanalitiche sul sistema nervoso come un arco riflesso (Freud,1985), per scaricare ed evacuare l’eccesso di stimoli non gestibili da una mente non ancora sviluppata (tramite quei processi di rimozione primaria, scis-sione, ed evacuazione), è veramente degna di nota. Come acutamente osserva Meltzer (1986): «A livello di gratificazione animale dei bisogni fisiologici siamo capaci, quasi come i protozoi, di gravitare verso idonee fonti di soddisfazione e di allontanarci da fonti inidonee o minacciose». I processi mentali necessari alla formazione del pensiero sono quindi inizialmente più condizionati dai livelli di soglia delle emozioni (in particolare il dolore) secondo il principio del dispiacere, che dal principio di verità o di realtà (Mattioli, 2000). L’esperienza dolorosa, il primo evento che può conoscere il neonato (data la precocità dei meccanismi del dolore rispetto a quelli del piacere), risulta essere non gestibile e «non digeribile» (secondo la famosa metafora bioniana della mente come «apparato digerente le emozioni»), ma solo atta all’evacuazione e quindi al suo disconoscimento. Questa modalità di funzionamento che ha come risultato diversi gradi di compromissione della rappresentabilità della realtà interna e esterna è fisiologica per l’infante, ma la clinica insegna che essa possa permanere o ripresentarsi in varie forme anche negli adulti dando luogo in alcuni casi a forme psicopatologiche anche gravi, in cui vi è un processamento così falsato da risultare inade54
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guato a rappresentare una qualsiasi realtà e ad agire realisticamente su di essa. Questo modello ha trovato larga conferma negli studi di Perry e colleghi (1995) in cui è stato dimostrato che le risposte psicobiologiche che il bambino attiva nei confronti di eventi traumatici siano di due tipi: “iperattivazione” e “dissociazione”, ciascuna associata a profili neurobiologici differenti. In caso di evento traumatico, l’iperattivazione del sistema nervoso simpatico del bambino produce uno stato di dolore intollerabile paragonabile ad una reazione d’allarme che può esprimersi tramite pianto, urla, contorsioni e agitazione. Se questa richiesta d’aiuto viene accolta dalla mente della madre, la diade bambino-madre avvierà una serie di processi di autoregolazione emozionale e conseguente significazione dell’esperienza. In caso di fallimento di accoglimento della richiesta di aiuto, la successiva risposta che il bambino emetterà sara quella della “dissociazione” (mediata dal sistema nervoso parasimpatico), ovvero di un totale disinvestimento degli stimoli esterni (manifesto nello sguardo perso nel vuoto indice di una massiccia “evacuazione” del sè nella terminologia kleiniana). Questa seconda reazione produce un progressivo intorpidimento e impoverimento della mente del bambino, ovvero la perdita di potenziali strutture rappresentative e alterazioni permanenti delle strutture cerebrali in via di sviluppo (Schore, 2009). In definitiva abbiamo visto come la mente ai suoi albori si raffigura non necessariamente ciò che è vero, ma ciò che è meno generatore di dispiacere. Il sistema cognitivo ha un’innata predisposizione a comprendere la realtà esterna in modo veritiero ma essa si presenta alla nascita come germinale e da sviluppare e che può non essere rispettata per i motivi che abbiamo appena visto. Il passaggio da questa modalità «edonica» di conoscere la realtà ad una «realistica», è la questione fondamentale dello sviluppo di una mente. Il problema in cui ci eravamo imbattuti, ovvero la conoscenza di un evento emotigeno, può essere ora enunciato in questo modo: 55
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nel momento in cui sta emergendo un significato interno (la «O» di cui parlavamo prima, Bion, 1970), se esso è associato a sentimenti violenti e incontenibili quali angoscia - colpa - depressione, la sua formulazione finale conscia (Tpβ) potrebbe essere seriamente inficiata secondo distorsioni (effetto del Tpα) più o meno forti tali da alleviare il dolore mentale che conseguirebbe la sua pensabilità. Producendo cioè quelle disfunzioni dell’elaborazione di cui stiamo parlando. Abbiamo quindi capito perché il sistema cognitivo compie «degli errori» chiamando in causa il problema del «dolore mentale» e la modalità di padroneggiarlo tipica del processo primario basato sul principio di dispiacere. Resta ora da focalizzare l’attenzione sul come avvengano questi errori, ovvero queste disfunzioni dell’elaborazioni. Solo in un secondo momento si potrà rispondere alla domanda sul come avvenga il passaggio da una disfunzionale capacità di elaborare la realtà ad una più consona ai fini adattivi dell’uomo. Come fa il sistema cognitivo ad evitare il dispiacere? O meglio come fa ad evitare la consapevolezza di qualcosa di spiacevole? Come compie queste distorsioni che permettono di evitare ciò? E cosa intendiamo con la parola «distorsioni»? Procediamo ora alla «diagnosis» (nel senso etimologico di conoscenza di una realtà che si nasconde dietro le apparenze di cui è causa) del pensiero o meglio di quel «processamento emocognitivo» oggetto di questo libro. Dopo aver definito il pensiero come un sistema di manipolazione di simboli, vediamo ora di analizzare i fattori secondo cui avviene questa elaborazione. Richiamando la suddivisione che abbiamo fatto tra i processi di pensiero, distinguiamo una funzione creatrice di pensieri o «Funzione a» e una funzione per pensare i pensieri (o «Apparato per pensarli»), i cui fattori sono «♀♂» e «Ps↔D» . Il rapporto tra queste due funzioni è di essere a loro volta fattori di un’unica funzione mentale che abbiamo chiamato appunto «processamento emocognitivo». L’ordine che essi seguono è il seguente: «Funzione α» (creazione dei protopensieri alfa) e «Apparato per 56
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pensare i pensieri» (linguaggio del pensiero, ovvero, «processo del pensare»).
2.4 La funzione alfa: genesi e caratteristiche Freud nel fondamentale scritto “Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico” (1911), ipotizza che originariamente il “pensare” dovesse essere un procedimento destinato a liberare lo psichismo dall’eccesso di stimoli che lo soverchiano. Questa convinzione la ritroviamo anche in Bion secondo cui il cervello era inizialmente devoluto a compiti diversi dal “pensare” e solo successivamente si sarebbe adattato a tale scopo grazie alla trasformazione di un cervello in una mente contenitrice ed elaborativa dei pensieri. Egli considera il “pensare” come una funzione della personalità e per tentare di descriverlo propose una Teoria delle Funzioni: “Darò come per scontato la presenza, nella personalità, di fattori combinatisi tra loro in modo da determinare entità stabili che definirò col termine di funzioni della personalità” (Bion,1972). Tale teoria postula l’esistenza di una funzione emergente del sistema nervoso, denominata “funzione alfa”. Bion utilizza una metafora per introdurla: “A volte la situazione mi si visualizzava secondo lo schema del feto a cui giungono i segnali delle emozioni provate dalla madre ma che non sa nulla dello stimolo che le ha provocate nè dalla fonte da cui provengono....” (Bion, 1972). È come se quello che noi chiamiamo “mente” (nel senso corrente del termine come “sistema in-formativo e tras-formativo che organizza ed elabora l’informazione in entrata”), dovesse svilupparsi in ogni individuo per far fronte agli stimoli propriocettivi ed esterocettivi che incessantemente (si suppone sin dai primi mesi di vita fetale) bombardano il cervello, per poi comprenderli e quindi utilizzarli. La mente per svolgere tale compito deve costruirsi un sistema di coordinate per orientarsi e interagire con la realtà, ovvero una “semantica” che il sistema mente può di volta in volta usare per “leggere” la realtà esterna ma soprattutto la realtà interna (Imba57
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sciati, 1998), pena la sua morte (fisica o mentale). Questo sistema atto a significare gli stimoli è stato denominato da Bion Funzione alfa. Ecco la formulazione più generale che Bion dà della sua teoria: “Perché si possa apprendere dall’esperienza, la Funzione alfa deve operare sulla consapevolezza di un’esperienza emotiva; dalle impressioni di tale esperienza scaturiscono elementi alfa; tali elementi vengono resi immagazzinabili affinché i pensieri del sogno e il pensiero inconscio della veglia li possano utilizzare” (Bion, 1972). La mente cioè, è concepibile come un sistema di funzioni acquisite che opera su di un input (le afferenze sensoriali grezze), per elaborare un output (Imbasciati, 1998), ovvero una alfa-betizzazione del significato incipiente che ha come referente il duplice versante della realtà esterna ed interna. Tale sistema conseguirebbe ad una ristrutturazione funzionale del sistema nervoso dovuta ad un processo di costante “apprendere dall’esperienza” bi-personale con un’altra mente già sviluppata (la madre con la sua capacità di “Revêrie”). Il corollario di tale affermazione è che la mente non sia data già pronta all’infante ma debba auto-costruirsi “bit by bit”, pezzo dopo pezzo. Il modello di sviluppo di tale processo propostoci dall’autore prevede una relazione à deux tra la proto-mente del bambino incapace di pensare da sè i suoi vissuti e la mente della madre. La transizione da aree di non-pensabilità, di affetti-sensazioni (Racalbuto, 1994) inutilizzabili per il pensiero, ad aree di pensabilità avverrebbe attraverso la capacità ricettiva e trasformativa della madre. Secondo tale modello l’infante evacuerebbe la sua “pauradi-stare-per-morire” ed altri vissuti angoscianti (elementi beta), proiettandoli nella madre secondo quel meccanismo conosciuto sotto il nome di “identificazione proiettiva” (Klein, 1946). La madre trasformerebbe tali vissuti in elementi alfa pensabili (unità significative elementari) tramite la propria Funzione alfa messa al servizio del bambino. Bion descrive questo processo così: «Nella situazione nella 58
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quale l’elemento beta (diciamo la paura di morire) viene proiettato dal bambino e ricevuto dal contenitore (la madre) in modo tale da essere “disintossicato”, l’elemento beta è modificato dal contenitore in modo tale che il bambino può riassumerlo nella propria personalità in una forma tollerabile” e prosegue: “L’operazione è analoga a quella svolta dalla Funzione alfa. Il bambino dipende dalla madre nel suo svolgere la funzione alfa” (Bion, 1973). L’atteggiamento mentale che la madre usa nel far questo è chiamato Revêrie fattore importante della sua Funzione alfa. Nella definizione datane da Bion, la Revêrie è quello “stato mentale aperto alla ricezione di tutti gli stimoli proveniente dall’oggetto amato, quello stato cioè capace di recepire le identificazioni proiettive del bambino...” (Bion, 1972). È grazie al linguaggio della Revêrie nel rapporto asimmetrico madre-bambino, che la mente può svilupparsi acquisendo elementi alfa idonei per il pensiero, dapprima in modo passivo, poi in modo attivo producendoli egli stesso, previo lo sviluppo nel corso di queste interazioni, della sua Funzione alfa7. Gli elementi beta che non vengono trasformati, costituiscono un vero problema per la mente, che, non può far altro che espellerli con modalità primitive di non-pensiero come “acting” e “identificazione proiettiva”. Sono queste le aree-della-mente-senza-mente, vere “zolle psicotiche” (Ferro, 2000) dove non si è sviluppato il pensiero, neanche nelle sue qualità primigenie di proto-rappresentazione (Imbasciati, 1998) o alfa (Bion, 1996) dell’input affettivo-sensoriale.
2.5 Apparato per pensare i pensieri Abbiamo visto che il compito della funzione alfa è quello della creazione di “elementi-per-pensare”. La realtà esterna deve essere tradotta in un linguaggio interno che la mente può utilizzare per i propri fini. Bion aveva intuito questo problema e aveva chiamato i 7 Gli studi di infant observation hanno dimostrato questa intuizione bioniana. Le interazioni madre bambino permettono infatti al bambino di acquisire le capacità comunicative e di gestione dei propri stati di distress.
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componenti di questo alfabeto mentale elementi alfa, sorti dall’applicazione della funzione a agli elementi sensoriali beta. Essi però devono essere lavorati dal sistema mente perché acquisiscano caratteristiche rappresentazionali e dovranno essere “cuciti” per dar vita al “pensare”. Passiamo quindi ad analizzare “l’Apparato per pensare i pensieri”. Esso è dato dal reciproco intervento dei due fattori sopra elencati: “♀♂” e “Ps↔D”. Il primo è “l’interazione Contenitore - contenuto” (“♀♂”). Questo modello deriva direttamente dal meccanismo dell’identificazione proiettiva elaborato da Melanie Klein nel 1946 e rivisto da Bion nel 1962 e ci informa riguardo la possibilità o l’impossibilità di trattare (ovvero di contenere) un determinato contenuto o pensiero. L’identificazione proiettiva è quel processo per cui un contenuto impensabile (un elemento beta) non può essere elaborato dalla mente (si ponga la mente di un infante), per dar luogo ad un pensiero e viene invece espulso dalla mente. Esso indica proprio il conflitto tra evacuare il dolore e l’evento ad esso associato da una parte (meccanismo anticonoscitivo), e contenere ed elaborare quel segnale dall’altra, al fine di trasformare il dolore in un pensiero. Nel primo caso al posto del luogo dove poter far “nascere un pensiero”, si viene a costruire uno “spazio zero”, un “non-luogo”, in cui invece di svilupparsi una mente avremo un arco riflesso atto unicamente ad evacuare i protopensieri in statu nascendi, un muscolo per l’espulsione. L’uso dell’identificazione proiettiva si presenta all’inizio della vita come l’unica modalità che ha la mente dell’infante di gestire il “dolore mentale” in virtù del fatto che funziona secondo la modalità del principio del dispiacere. In condizioni ottimali questa prima modalità dovrebbe essere col tempo sostituita dal contenimento dell’esperienza (“♀”). Sappiamo che questo passaggio passa per le capacità di “Revêrie” della mente della madre. Secondo un analogia matematica il modello Contenitore-contenuto e l’identificazione proiettiva stanno tra loro in 60
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un rapporto inversamente proporzionale. Una mente che non può contenere nessun pensiero utilizzerà al massimo l’identificazione proiettiva ed avrà sviluppato al minimo un apparato per contenere i pensieri (“♀♂”), viceversa una mente “piena-mente” sviluppata userà al minimo l’identificazione proiettiva e potrà contenere pensieri anche molto dolorosi e pensarli. Anche il loro sviluppo genetico-evolutivo segue questo percorso; alla nascita “♀” sarà quasi nullo e l’identificazione proiettiva massima, in età adulta il loro valore dovrebbe essersi nel frattempo gradualmente invertito. Ricapitolando il fattore “♀♂” ci dice se un pensiero potrà o meno essere pensato. Ma non si tratta di un processo del tipo “tutto o nulla”. La questione può essere meglio formulata cosi: anche se il pensiero potrà essere contenuto e poi pensato, a quale costo avverrà ciò? Abbiamo infatti gradi diversi di mancato sviluppo di “♀♂”; da una parte possono esserci lievi deficit, dall’altra si potrebbe arrivare a condizioni in cui lo stesso apparato per pensare i pensieri è stato paradossalmente espulso dal soggetto (non è difficile notare questi fenomeni in pazienti psicotici che espellono la loro stessa capacità di pensare in oggetti o luoghi, come nel caso di un paziente schizofrenico che non permetteva a nessuno di entrare in una stanza perché “li” c’erano i suoi pensieri). Il secondo fattore, l’oscillazione “Ps↔D” ci dice come verrà pensato quel contenuto, ovvero ci aiuta a capire come verrà trattata quell’informazione perché risulti informativa per quella mente. Anche questo elemento deriva dalle teorie kleiniane, quella delle “posizioni schizoparanoide e depressiva”, pertanto rimandiamo il lettore alla letteratura specialistica su questo tema per ulteriori approfondimenti. La teoria della “posizione schizoparanoide” applicata ai processi di pensiero designa una specifica modalità di trattare la realtà basata sui processi di evitamento del dispiacere, ottenuta tramite forti amputazioni o processi autotomici (dal greco temmo = tagliare, Imbasciati, 1998), alla percezione della realtà. Per contro la posizione depressiva comporta un pieno riconoscimento della realtà e di conseguenza il riconoscimento e la sopportazione delle 61
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emozioni violente che ciò può comportare. Sia diacronicamente che sincronicamente in condizioni normali dovrebbe verificarsi il passaggio dal “polo Ps” (schizoparanoide), in cui gli elementi costituenti un pensiero (gli elementi alfa) sono slegati, scissi e mantenuti senza senso per evitare “il dispiacere”, a quello “D” (depressivo), in cui essi vengono riuniti e organizzati in modo da far emergere “Il senso”. Facendo un parallelo con quanto detto finora, il polo depressivo sarebbe associato con il “principio di verità” (ovvero se la mente passa da una modalità “schizoparanoide” ad una “depressiva” raggiunge una cognizione veritiera della realtà) e quello “schizoparanoide” con il “principio di dispiacere” (cioè con il rifiuto o la distorsione della conoscenza di una realtà o di parti di essa, che abbia implicazioni spiacevoli per il soggetto). Nel momento in cui gli elementi a stanno per integrarsi (passaggio da “Ps” a “D”) e sta per emergere il significato dell’evento, la mente può trovarsi sopraffatta dal dolore che conseguirebbe la presa di coscienza di quell’evento. È qui che possono intervenire quei processi misconoscitivi di tipo autotomico che evitano il riconoscimento emotivo di quella realtà. Essa stessa pertanto apparirà mutilata e il suo senso distorto, cosicché la mente non può correggere i suoi sbagli, perché non può rappresentarsi in modo realistico l’errore compiuto. L’integrazione del “polo D” consiste quindi in una piena presa di coscienza tanto emotiva quanto cognitiva di tutti gli aspetti connessi con un dato evento. Per contro il “polo Ps” e l’elaborazione dell’informazione secondo questa modalità, provoca disconoscimenti selettivi (e quindi distorsioni) di alcune sue parti secondo quei processi autotomici di cui abbiamo parlato, e che hanno come risultato finale tutta la fenomenologia clinica che conosciamo col temine di meccanismi di difesa. Riformuliamo ancora una volta il nostro problema sulla “pensabilità di un pensiero”: se i valori associati alla comprensione di un evento sono associati a “dolore mentale incontenibile”, essi saranno “e-scissi” o trasformati secondo quei procedimenti che abbiamo prima visto parlando dei meccanismi di difesa, in modo che il signi62
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ficato finale di quell’evento, sarà più o meno inficiato, e non utilizzabile dalla mente per rettificare il proprio “modus conoscendi” e tanto meno per agire realisticamente sul mondo. Concludendo, il costo della pensabilità di un pensiero troppo doloroso è il fatto che esso sarà soggetto a pesanti distorsioni. In questa concezione la psicopatologia conseguirebbe questi “micro-deliri” (Lis, Stella, Zavattini,1999), nel senso di selettive distorsioni della realtà (Ferro, 2002). Ciò che è andato “cortocircuitandosi” è quel segnale di angoscia non tollerabile che la mente avrebbe potuto utilizzare per autocorreggersi e svilupparsi (Imbasciati, 1998).
2.6 Nascita e sviluppo del pensiero Si proverà adesso a rispondere alla domanda fondamentale di questo elaborato: come fa la mente a passare da una modalità non realistica di conoscere la realtà ad una più veritiera? Partiamo da alcune considerazioni. Il fatto che nel sistema nervoso si abbia prima la maturazione dei centri responsabili del dolore (sostanza grigia periacqueduttale detta “CGM” nel prosencefalo basale) e solo successivamente quelli del piacere, non è casuale. Se questo fatto non avesse rappresentato un vantaggio evolutivo, probabilmente esso non sarebbe stato selezionato o forse si sarebbe presto estinto. La sua funzione utile alla sopravvivenza diventa chiara se consideriamo due fatti: • Il “cucciolo d’uomo” nasce in uno stato di non completa maturazione tanto sensoriale quanto motoria ed ha bisogno dell’ambiente (la madre) per poter sopravvivere. Perché ciò avvenga il bambino deve potersi accorgere di un suo stato di malessere (appunto attraverso i centri del dolore) e poterlo comunicare ai caregivers (attraverso i vari comportamenti di “distress”). Se non potesse far questo sarebbe la sua fine. È in questo senso che abbiamo definito il “segnale di dolore” come “essenzialmente adattivo”. • 2) È risaputo che gli organismi biologici hanno sistemi di 63
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autoregolazione detti di “feedback” indispensabili per mantenere le funzioni omeostatiche. Il segnale di feedback si presenta come un segnale di “ritorno” che serve per diminuire o aumentare alcuni processi in modo da mantenere un funzionamento globale ottimale e stabile (ovvero omeostatico). Vogliamo qui sostenere in accordo con gli studi psicoanalitici (Klein, 1946; Bion, 1962, 1963; Meltzer, 1986; Imbasciati, 1998), che il feedback in grado di portare il sistema mente ad un processamento sempre più corretto dei propri vissuti (secondo il “principio di verità”), è il “segnale del dolore” (dolore mentale, Meltzer). In questo modo abbiamo ulteriormente chiarito il rapporto emozione - cognizione stabilendo un nesso tra il principio di dispiacere e il principio di verità, che altro non è che il dolore mentale. Il “dolore mentale” è il segnale di feedback che l’organismo ha per indicare alla mente che è in errore e che bisogna “far qualcosa” per eliminare tale errore (è forse questo segnale del dolore l’unica semantica che possiede alla nascita il sistema nervoso per significare la realtà?). Il dolore è quindi il mezzo che la mente utilizza per poter arrivare a compiere operazioni esatte nel senso di realistiche (Imbasciati,1998). Ma se la mente non è in grado di utilizzare questo segnale perché sotto l’egemonia del principio del dispiacere o perchè ha incontrato un dolore troppo forte, essa compierà delle operazioni anticonoscitive e non avrà la possibilità di svilupparsi. Ricapitolando, il fine del sistema cognitivo è la verità di quanto va rappresentandosi. Il mezzo tramite cui ciò si realizza, è il “segnale di dolore”, o meglio la sua capacità di utilizzarlo per “autocorreggersi”. Sul come verrà trattato questo prezioso (ma allo stesso tempo assai penoso) segnale, dipenderà la capacità di quella mente di svilupparsi. A questo punto tutto dipenderà da un misto di condizioni ambientali (“reverié” materna), e predisposizioni temperamentali (tra cui l’incapacità di sopportare la frustrazione) a determinare se la mente si svilupperà come un apparato di elaborazione di tale segnale tramite il pensiero prima e l’azione dopo, o se paradossalmente si svilupperà come un apparato difensivo contro quel segnale 64
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
dando vita a fenomeni antimentali, anticonoscitivi o misconoscitivi (Imbasciati, 1998). Il passaggio da una “protomente” (basata sul processo primario, principio di dispiacere, dominata da meccanismi schizoidi del “polo Ps”) ad una mente (basata sul processo secondario, principio di verità, secondo il “viraggio” depressivo precipuo del polo D), risulta ora più chiara: se la mente è in grado di contenere ed elaborare il dolore senza trattarlo in modo evacuativo, potrà pienamente svilupparsi, altrimenti ciò non accadrà.
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Capitolo III Psicopatologia come epistemopatologia
“Ogni conoscenza è antropomorfica e va riferita più al conoscente che al conosciuto”. Paolo Bordonali
3.1 Fattori ostacolanti o facilitanti la patologia dell’epistemologia personale Lungo questa trattazione ho considerato la mente come una funzione trasformatrice (di cui Bion ha isolato alcune categorie come la funzione α, l’interazione ♀♂, e l’oscillazione P↔D), che elabora le protosensazioni e le protoemozioni in significati che possono tanto nutrire la mente in caso di corretto funzionamento, quanto avvelenarla nel caso contrario. Nella presente trattazione ho deciso volutamente di restringere il focus della mia attenzione su questa funzione perché credo sia questo l’oggetto della psicoterapia. Nei precedenti paragrafi è stato descritto come questa funzione possa andare incontro a gravi malfunzionamenti come ad esempio nella psicosi in cui la percezione della realtà viene stravolta e con-fusa con elementi mentali indigeribili non pensabili. Cercheremo ora di focalizzare l’attenzione sulle assunzioni implicite di una tale impostazione. Vorremmo sostenere il passaggio ormai necessario, da una concezione contenutistica della patologia mentale ad una processuale. Dove la prima indicherebbe un malfunzionamento dovuto ad un contenuto scatenante la patologia (si pensi alla concezione del contenuto rimosso inconscio che si esprime attraverso il sintomo), ad 67
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una dove è lo stesso processo, ad essere disfunzionale producendo significati patologici. Le due concezioni non si propongono come antitetiche. Credo che dalla seconda si possa derivare la prima: è da una patologia degli “organi conoscitivi” (mi si passi l’espressione in analogia con “l’organo della coscienza” di cui parla Freud), che seguono dei contenuti mentali patologici. D’altra parte credo che l’approccio contenutistico abbia ormai esaurito il suo potere esplicativo in quanto ha fallito nel delineare una qualche associazione plausibile tra contenuto e tipo di patologia. Money-Kyrle (1984) nel fondamentale articolo “Sviluppo cognitivo” del 1968, aveva già proposto questo passaggio delineando uno spostamento da una concezione freudiana di malattia mentale come risultato di inibizioni sessuali, a una kleiniana di malattia come risultato di un conflitto morale inconscio (pulsione epistemofilica inibita dai meccanismi schizoparanoidi, o “paranoia intrapsichica” per dirla nei termini dello stesso Money-Kyrle), ad una bioniana in cui il paziente soffre di “fraintendimenti o deliri inconsci”. L’inconscio profondo (non rimosso, ma strutturale-processuale), anche di pazienti normali, potrebbe essere contaminato da un “intrico di concezioni distorte” (Money-Kyrle, 1984). Questo cambio di prospettiva, ci permette di passare da una concezione di psicopatologia come patologia dei “contenuti psichici problematici” ad una concezione più in linea con le attuali conoscenze di patologia dei processi conoscitivi ovvero di epistemopatologia8. La psicopatologia come forma di epistemologia personale più o meno patologica in ognuno di noi. È stato merito della psicoanalisi l’aver dimostrato come la visione della realtà sia mediata da noi stessi, ovvero dai nostri processi-elaborazioni inconsce. Questo filtro tramite cui noi conosciamo il mondo caratterizza e costituisce 8 Il termine “epistemopatologia” è stato precedentemente utilizzato in filosofia non dissimilmente a come lo intendiamo noi, per indicare una ipotetica sottodisciplina che dovrebbe intersecare psicologia generale, epistemologia e psicologia clinica, e che ha come oggetto di studio “le condizioni psicologiche che interferiscono con il processo di ottenimento delle conoscenze” (Koch, 1985). Purtroppo questo concetto non è stato sviluppato ulteriormente. Un uso totalmente differente è stato fatto da Thomas (2003) nel campo del marketing.
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il modus percependi precipuo di ognuno di noi. Il conflitto ancor prima che pulsionale (Freud), o relazionale (Klein), è conoscitivo, epistemologico, tra la “nostra percezione della verità e la volontà di distorcerla” (Money-Kyrle, 1984). Bion (1962) direbbe tra K e –K. Sappiamo che il piccolo di uomo, nasce con delle strutture mentali (e neurologiche aggiungiamo noi) preformate (Bion, 1962; MoneyKyrle, 1984), vere e proprie idee o tendenze innate, trasmesse geneticamente. Ma esse per divenire conoscenza necessitano dell’incontro con gli oggetti della realtà per essere trasformati in una classe di oggetti (si noti l’etimologia del termine con-o-scienza, “scienzacon qualcosa”). Nello sviluppo questi concetti subiranno da parte del bambino, una collocazione spazio/temporale per poter costruire un abbozzo di mondo interno e fondare le prime esperienze mentali. Ci sono evidenze di ordine neurofisiologico che permettono di avanzare l’ipotesi che il neonato arrivi al mondo con un equipaggiamento adeguato ad affrontare e “usare” la madre, e per estensione la realtà. Ciò significa che negli ultimi periodi gestazionali, il feto è in grado di organizzare una funzione protomentale strettamente collegata alla sensorialità e di integrarla nell’ambito di quell’attività neurofisiologica caratterizzata da lunghi periodi di sonno di tipo REM (Mancia 1981). È in questa fase che può organizzarsi un nucleo di attività, la cui prima funzione sarà quella di trasformare le informazioni sensoriali che raggiungono il feto da oggetti a lui esterni in esperienze capaci di farne delle rappresentazioni. La psicoanalisi ha sempre posto l’accento sulle relazioni precoci per la costituzione delle strutture mentali di base (gli affetti), in stretta relazione con l’elaborazione dell’ esperienza (Imbasciati, 2001). L’organizzazione della struttura mentale avviene nel momento in cui le singole esperienze percettive e motorie con gli oggetti si integrano (Stern 1985). L’esperienza clinica con bambini che presentano una qualche psicopatologia sembra dimostrare la fallibilità di queste capacità di integrazione che porterebbe alla disorganizzazione e alla frammentazione dell’esperienza sia cognitiva che affettiva. Stern 69
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(1985) ci suggerisce come il bambino sia già precocemente in grado di elaborare una “protorappresentazione” amodale dell’oggetto, la quale è caratterizzata da un forte senso affettivo oltre che naturalmente cognitivo, e si costituisce come la matrice del successivo sviluppo dell’esperienza. Questi processi integrativi favoriscono il formarsi di “isole di coerenza”, ovvero di convergenza di diverse modalità percettivo – motorie sullo stesso oggetto. Un esempio di esperienza integrativa specifica per la sua globalità può essere quella del rapporto con il volto umano, che viene visto e udito, con l’ampia gamma di espressioni mimiche, prosodiche ecc. che ad esso si associano. Recenti studi hanno dimostrato che il bambino è in grado di percepire e di decodificare il volto umano, in termini emotivi-cognitivi (Field et al. 1982), e nel rapporto con la figura preferenziale lo stato affettivo concomitante può diventare il principio classificatorio prevalente. L’esposizione del volto della madre, la forte caratterizzazione delle espressioni mimiche, il ricco uso della prosodia, rappresentano elementi in grado di fungere da potente collante dell’esperienza. Queste acquisizioni precoci convergono a costruire una proto-struttura mentale che rappresenta un primo scheletro organizzativo dell’esperienza. L’esperienza analitica con bambini e adulti, conferma che affetti e cognizioni, tra loro interdipendenti sono responsabili della formazione di rappresentazioni e della capacità del bambino di passare da una rappresentazione affettiva all’altra fino tradurla in uno specifico sistema semantico di significazione. Di fatto il pensiero si identifica proprio in questo delicato processo di trasformazione delle rappresentazioni affettive e della loro simbolizzazione, presupposto di ogni ulteriore processo di significazione (linguistico, somatico, iconico, plastico). Naturalmente, affetto e apprendimento sono in un rapporto dinamico in continua trasformazione e possono minacciare lo sviluppo del pensiero in quanto possono essere causa, nell’infanzia, di fraintendimenti e travisamenti (Meltzer, 1986). Questi “fraintendimenti” che possono minare lo sviluppo del pensiero in quanto possono interferire con la forma70
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zione dell’area simbolica della mente. Risulta più chiaro perché abbiamo parlato di epistemologia personale (concetto peraltro non distante dalla psicologia dei costrutti personali di Kelly 1955). Nelle parole di Imbasciati (2005), “la conoscenza pertanto ha le caratteristiche del conoscente e non della realtà conosciuta”. È giunto il momento di analizzare i fattori che deformano o addirittura impediscono questa funzione di generazione del significato a partire dall’esperienza emotiva (come avviene nelle patologie borderline o nevrotiche), o che la rendono fragile e soggetta a cedimenti (patologia psicotica). Tale considerazione si ricollega al concetto più ampio e generale di epistemologia personale. La forma che prenderà la nostra discussione sarà quella di arrivare a determinare una soglia della mente (nell’aspetto di una funzione epistemopatologica opposta a quella epistemologica) oltre la quale il sistema smette di funzionare correttamente e fallisce nell’elaborazione adeguata della realtà. Si arriverà pertanto a delineare una formula che racchiude (seppur in maniera qualitativa e illustrativa) questi fattori isolati lungo anni di ricerche cliniche. Su questa soglia che varia da individuo ad individuo pesano alcuni fattori che sono quelli che andremo ora discutere.
3.2 Dolore mentale e trauma Il primo fattore di cui ci vorremmo occupare è il dolore mentale, essendo uno dei fattori che possono innescare processi anticonoscitivi. Partiremo da alcune considerazioni sul concetto di trauma come causa del dolore mentale. Nel 1909, Freud postulava la sua nozione di trauma come quell’evento caratterizzato da una certa intensità, cui segue l’incapacità del soggetto di rispondervi in modo sufficientemente adeguato, tanto da provocare effetti deficitari sull’organizzazione psichica. Si tratterebbe dunque di un afflusso di eccitazioni negative che il soggetto non è in grado di tollerare per poterle elaborare psichicamente. Recuperando la teoria del trauma postulata da Freud (1921), 71
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Ferenczi (1932), parte dall’assunto per cui la vita psichica del bambino si sviluppa in modo intersoggettivo e di conseguenza ogni evento relazionale affettivamente importante lascia sulla psiche una traccia. Quindi l’autore nell’affrontare il trauma sposta l’attenzione dal contenuto del trauma alla mente che lo subisce e lo accoglie e ritiene che è solo guardandone l’intensità della sua forza che si comprende la patogenesi del trauma. Tanto più solido sarà il contenitore “mente”, tanto più potrà far fronte alla sofferenza adattandosi (Ferenczi, 1932). Secondo Ammaniti, poi, (1999) il trauma è “la rottura dell’esperienza quotidiana e della memoria, un evento non rappresentabile della nostra mente. Questa ferita psicologica si presenta come stordimento e amputazione delle emozioni e la sua concretezza perdura nel tempo, provocando sofferenze mentali destabilizzanti”. In psicoanalisi però il trauma non viene considerato di per sè, quanto piuttosto come “dolore mentale”, come sofferenza psichica inconscia che si irradia alla coscienza ed investe tutto l’essere (Mancia, 2005). Questa sofferenza accompagna l’uomo fin dalle sue prime relazioni, sviluppandosi parallelamente allo strutturarsi del mondo interno e delle sue rappresentazioni, fino alla nascita del pensiero. Può anche nascere da una sofferenza fisica, che riattiva nella mente conscia ed inconscia antiche esperienze di privazione e di dolore. Il dolore mentale quindi deve essere inteso come quello stato primordiale della mente che funge da segnale a scopo puramente adattivo (Bion, 1963; Meltzer, 1978). La prima modalità che possiedono per gestire tali affezioni emotive spiacevoli, l’abbiamo visto, è che il principio di dispiacere. L’esistenza dei principi di dispiacere e di piacere è stata corroborata dagli studi di fisiologia animale di Olds e Milner (1984), e Delgrado, Roberts e Miller, (1984). Le loro strutture nervose sono diffusamente programmate per determinare la piacevolezza e la spiacevolezza degli stimoli e per guidare il comportamento. È importante sottolineare che sia filogeneticamente che ontogeneticamente, il sistema nervoso acquisisce per primi i sistemi anatomo- funzionali responsabili del comportamento di dispiacere 72
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
– paura, e con essi, si sviluppano parallelamente i sistemi evitatori corrispondenti, del tronco cerebrale (Mattioli, 2000). L’analogia tra questi risultati neurofisiologici e le teorie psicoanalitiche sul sistema nervoso come arco riflesso (Freud, 1985), per scaricare ed evacuare l’eccesso di stimoli non gestibili da una mente non ancora sviluppata (tramite quei processi di rimozione primaria, scissione, ed evacuazione), è veramente degna di nota. Meltzer (1986), acutamente osserva che: “A livello di gratificazione animale dei bisogni fisiologici siamo capaci, quasi come i protozoi, di gravitare verso idonee fonti di soddisfazione e di allontanarci da fonti idonee o minacciose”. I processi mentali necessari alla formazione del pensiero sono quindi inizialmente più condizionati dai livelli di soglia delle emozioni (in particolare il dolore) secondo il principio di dispiacere che dal principio di verità o di realtà. Alcune esperienze penose con cui viene a contatto il la mente dell’infante, sono troppo forti per poter essere utilizzate dalla mente per rappresentarsi le realtà dolorose esperite. L’esperienza dolorosa, il primo evento che può conoscere il neonato (data la precocità dei meccanismi di dolore rispetto a quelli di piacere), risulta essere non gestibile e non “digeribile” (secondo la famosa metafora della mente come “apparato digerente delle emozioni”). In conclusione possiamo affermare che la mente, ai suoi albori, si raffigura non necessariamente ciò che è vero, ma ciò che le genera meno dispiacere possibile. Per cui, la mente del bambino, di fronte a esperienze penose, tenderà a sbarazzarsi del dolore e dell’evento ad esso relato.
3.3 Tipo di trauma e tempo del trauma Nel corso degli anni l’attenzione degli psicoanalisti si è spostata sulla possibile incidenza di traumi precoci sull’organizzazione della vita psichica, concentrandosi maggiormente sul disagio psichico che può emergere in contesti relazionali caratterizzati da un precoce cronico fallimento interattivo (Tronick, 1981, 1982, 1989), ovvero da una sequenza di microtraumi più che da un trauma unico più o meno 73
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tardivo. Si è evidenziato che l’effetto di traumi precoci continuativi, costituiti da esperienze di gravi carenze o inadeguatezza delle cure materne, possa ripercuotersi sulla formazione dell’apparato mentale del bambino e sul suo sistema nervoso (Shore, 2001; Siegel, 2001). A tal proposito cito il concetto di “trauma cumulativo” proposto da Khan (1974), il quale, sulla base dei lavori di Winnicott, sulla funzione paraeccitatoria della madre, considera le incapacità saltuarie della madre di adattarsi ai bisogni anaclitici del bambino come brecce nelle barriera protettiva materna, che assumono un significato traumatico cumulativamente. Le brecce nella barriera protettiva materna lasciano le loro tracce ben visibili e concrete sullo sviluppo dell’Io corporeo del bambino. Numerose ricerche hanno dimostrato che, un’assenza di sintonizzazioni e reiterati disconoscimenti da parte del genitore o del caregiver, rispetto ai messaggi emozionali provenienti dal bambino, conduce ad una dissintonia relazionale nel sistema diadico. Ci spostiamo quindi verso un altro aspetto del trauma una visione più recente e relazionale dello stesso. È noto che questi microtraumi possono derivare da precocissimi fallimenti nelle interazioni con le figure di accadimento. Trevarthen e collaboratori (1993, 1997, 2003), con le loro osservazioni microanalitiche, hanno dimostrato che, il bambino già a 3-4 mesi possa dimostrarsi estremamente sensibile ai cambiamenti dell’espressività materna, modificando a sua volta le proprie modalità espressive e comunicative. Le stesse ricerche hanno, inoltre, dimostrato che una mancata responsività della madre, spinga inizialmente il bambino a moltiplicare i suoi sforzi comunicativi, per poi ricorrere successivamente a sistemi di autoregolazione per poter far fronte agli stati di disagio generati dal mancato stimolo comunicativo della madre. Anche Daniel Stern introduce il concetto di “empathic attunement” (sintonizzazione empatica) e con questo un nuovo modello di comprensione dei traumi e delle carenze basato sui concetti di sintonia e dissintonia. Se la sintonia conduce allo sviluppo normale di un bambino, esperienze ripetute di dissintonia aprono la strada alla psicopatologia (Stern,1985). 74
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Vorremmo sottolineare che un assunto implicito di queste ultime considerazioni è il fattore tempo in cui la mente incontra il trauma. Anche se nella concezione freudiana del trauma è stata sottolineata una temporalità dell’evento traumatico e il suo diverso effetto a seconda della precocità dell’evento (Abraham, 1924; Bergeret, 1996; Fliess, 1950), è bene notare che solo con la concezione dei microtraumi relazionali si è capito come un vissuto traumatico possa avvenire cosi precocemente.
3.4 Regolazione emozionale, revêrie e attunement Il terzo fattore riguarda quella capacità fondamentale della mente umana di prestare soccorso ad un’altra mente in difficoltà, aiutandola ad elaborare l’esperienza del dolore. Quella che in psicoanalisi viene chiamata “revêrie” di cui abbiamo già parlato nei paragrafi precedenti. Gli uomini possiedono un importante mezzo di “soccorso mentale” per trasformare le dolorose esperienze di un’altra mente. Alla nascita il bambino non è in grado di tollerare la frustrazione derivante da questi sentimenti e li scinde da sé proiettandoli nella madre (o del caregiver). È la revêrie della madre che favorisce la formazione del pensiero e la differenziazione del sé attraverso i processi di scissione, identificazione proiettiva ed introiettiva (Mancia, 1990). Cruciale è per lo sviluppo psichico del bambino, il ruolo attribuito alla disponibilità emotiva della madre, una madre sufficientemente buona (Winnicott, 1985), capace di contenere le angosce del bambino, di metabolizzarle, di rendeglierle “digeribili” (Bion, 1962), garantendo al bambino l’esperienza di condivisione degli affetti, nonché la continuità di tale esperienza. Nel processo di sviluppo della mente quindi, fattore facilitante o al contrario inibente, sarà la modalità con cui “unità informative” verranno offerte all’apparato che deve apprendere. Se queste giungono modulate in un contesto che facilita il contenimento emotivo e la significazione, più facile sarà elaborare la ricezione in una rappresentazione significativa e significante 75
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(atta cioè a rappresentare qualcosa). L’infante dunque impara più o meno facilmente a seconda che la madre sia più o meno in grado di comunicare con lui, ossia di porgere all’infante unità significative idonee alle sue capacità di acquisirle (Imbasciati, 1998). L’incontro tra la proiezione di angosce primitive (elementi beta) e una mente capace di accoglierle e trasformarle (Revêrie) e che “trasmette”, oltre al “prodotto lavorato” (elementi beta trasformati in elementi alfa), il metodo per compiere tali trasformazioni (la Funzione alfa), é il vero incipit dell’attività mentale dell’infante. Lo sviluppo bi(o multi)-personale della mente sembrerebbe trovare conferma dagli studi delle cosiddette neuroscienze dello sviluppo, secondo cui il cervello nascerebbe paradossalmente prematuro e necessiterebbe di anni prima che raggiunga il suo funzionamento ottimale. Esse offrono una visione del sistema neurale non più come apparato compiuto (per-fectum), determinato dalla genetica, che attende soltanto di recepire e conservare l’esperienza, bensì come predisposizione sviluppare certe funzioni piuttosto che altre, a seconda delle interazioni coi primi input con cui entrerà in contatto (Imbasciati, 2001). È risaputo in tale ambito che i processi di mielinizzazione e maturazione dei lobi frontali e pre-frontali (deputati alle funzioni cognitive superiori), avverrebbero solo molto dopo la nascita. Infatti nonostante metà del genoma umano sia dedicato all’assemblaggio neurale, perché il cervello arrivi a funzionare, esso deve interagire con l’ambiente e in modo particolare con il caregiver (Pally, 1997). Allen Schore (1994), ha sviluppato il tema della regolazione interpersonale madre e bambino, regolazione basata sull’allineamento dello stato mentale materno con quello del bambino. Egli ipotizza una comunicazione emisfero destro9 maternoemisfero destro del bambino capace di sintonizzare i partners della coppia. Questo processo di coordinazione e modulazione reciproca, ipotizza l’autore, è alla base della regolazione emozionale, ovvero 9 L’emisfero destro sembra avere molte qualità interessanti che lo rendono uno dei candidati dei processi di empatia, comprensione implicita delle emozioni e degli stati mentali altrui, nonchè dei processi di identificazione proiettiva comunicativa. Si veda Schore, 2003.
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del contenimento degli stati affettivi del bambino che vengono “omogenizzati” e preparati dal caregiver, perchè egli possa gestire e pensare le proprie emozioni. Schore (1994), ha anche ipotizzato che esista un “periodo sensibile” per lo sviluppo emotivo e che vada dai sei mesi all’anno di vita. È infatti in questo periodo che avviene lo sviluppo dei circuiti nella corteccia pre-frontale deputata all’autoregolazione di stati di forte eccitamento affettivo (si veda il capitolo 5). Il neonato cioè, alla nascita non avrebbe alcun modo di gestire questi stati affettivi dirompenti che Bion chiama “elementi beta”. Ciò vuol dire che è l’ambiente esterno a dover fare da “mente“ all’infante che ne sarebbe inizialmente sprovvisto, o in termini bioniani, “che lo aiuterebbe a pensare per lui i suoi (proto)pensieri” (beta). La natura ha allora fornito al cucciolo d’uomo la possibilità di comunicare e richiamare (attraverso il pianto e altri comportamenti pre-verbali, definiti in psicoanalisi come “identificazioni proiettive comunicative”) l’attenzione dei caregivers, affinché facciano per lui ciò che ancora egli non può fare da solo, ovvero contenere i suoi vissuti emotivi affinché possano essere trasformati in elementi alfa, idonei allo sviluppo del pensiero-soluzione al problema in questione (fame, freddo, dolore, paura di morire...ovvero l’assenza dell’ “oggetto materno”). È la “responsiveness” o Revêrie o schermo paraeccitatorio (Freud, 1985) della madre o di chi per lei, a modulare quegli stati affettivi troppo forti cui l’infante andrebbe inevitabilmente incontro nei primi mesi di vita (Stern, 1985). In tale ottica le esperienze interattive, centrate sulla condivisione degli affetti positivi e negativi fatte dal bambino grazie alla disponibilità emotiva prestata in modo continuativo dalla madre o dal caregiver nel prime fasi dell’accudimento, appaiono fondamentali per lo sviluppo di quello che Emde (1983) chiama “nucleo affettivo del Sé”, considerandolo come il frutto dell’internalizzazione di tali esperienze interattive e al contempo come origine della personalità infantile. Emde (1983), integrando studi psicoanalitici e relazioni precoci, sostiene il ruolo fondamentale della qualità delle emozioni 77
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sullo sviluppo della vita psichica del bambino. Di particolare interesse le ricerche svolte dall’autore circa il riferimento sociale (Sorce e Emde, 1981) secondo cui il bambino fin dalla seconda metà del primo anno di vita, a fronte di situazioni incerte o ambigue sul piano della loro interpretazione, quali la comparsa di un gioco insolito, il sopraggiungere di un evento imprevisto ecc., farebbe costantemente riferimento alla madre o al caregiver e alle sue espressioni mimiche ed espressive per decodificare e sciogliere tale ambiguità. Reversibilmente il fenomeno del riferimento sociale sarebbe riscontrabile nella stessa madre durante i primi mesi di vita del bambino, soprattutto nelle situazioni in cui essa, incerta circa i bisogni del proprio bambino, si riferisce all’espressione di quest’ultimo per deciderne le modalità di accudimento. L’attività regolatoria della madre (Hofer, 1994), svolta nelle prime settimane di vita del bambino, consiste nel facilitare, attraverso i canali sensomotori, nutritivi e termici, la modulazione di processi fondamentali dell’attività fisiologica del bambino tra i quali il ciclo sonno-veglia, la frequenza cardiaca aiutandolo a raggiungere una condizione ottimale di omeostasi. Le esperienze centrate sull’inacessibilità emotiva del caregiver e sul prevalere delle emozioni negative all’interno della coppia bambinocaregiver, possono produrre a causa dei processi neuroendocrini attivati dallo stress, danni a specifiche aree cerebrali provocando nel bambino alterazioni durature nelle modalità di processare le emozioni e di codificare a livello di memoria esplicita gli eventi traumatici (Schore, 2001; Siegel, 1999). A partire da queste altre considerazioni, alcuni autori ipotizzano che lo sviluppo cerebrale infantile sia strettamente dipendente per alcuni aspetti delle prime esperienze sociali che il bambino vive. In tale ambito il caregiver si delinea come un “regolatore psicobiologico” della crescita del sistema nervoso del bambino, oltre che delle sue esperienze socioemozionali. Siegel (1999), teorizza che queste capacità dipendono dall’interazione tra le caratteristiche neuroendrochine e temperamentali del bambino e ancora quelle legate al ruolo del caregiver nel fargli tollerare le proprie emozioni. L’autore inoltre evidenzia come 78
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le esperienze emotive vissute nei primi due anni di vita vengano codificate dal bambino attraverso una memoria di tipo procedurale e implicito, che coinvolge strutture cerebrali specifiche come l’amigdala e altre regioni libiche. La memoria procedurale che è di tipo inconsapevole, non è ancora integrata nel senso di continuità del sé che il bambino inizia a formarsi a partire dai 18 mesi. Solo dopo quel periodo in concomitanza con la maturazione di particolari aree cerebrali come il lobo temporale mediale e la corteccia orbitofrontale, le emozioni iniziano a essere codificate da una memoria di tipo esplicito, semantica e autobiografica e al contempo integrate nella continuità dell’esperienza di Sé. Secondo il modello proposto da Siegel poi, la capacità di regolazione emotiva si configura come il frutto di processi di integrazione sia di tipo interpersonale, tra competenze regolatorie infantili e parentali, che intracerebrale, tra emisferi e tra differenti modalità di funzionamento del sistema nervoso, che infine tra i processi mentali. In quest’ambito agli stati emotivi è attribuita una funzione cruciale di integrazione, venendo a costituire nel corso dello sviluppo il nucleo profondo e la continuità della mente e del Sé individuale e fondandone il senso interno di sicurezza e di fiducia.
3.5 Capacità di tollerare la frustrazione e temperamento Ultimo fattore ma non certo per grado di importanza, è la capacità del bambino di tollerare la frustrazione (Bion, 1962). Sappiamo che la scarsa tolleranza alla frustrazione può portare ad una ipertofia dei meccanismi scissionali e proiettivi. Questo ed altri fattori innati possono influire negativamente sullo sviluppo delle capacità mentali del bambino. La psicoanalisi infantile ha dimostrato infatti che questa ed altre caratteristiche di personalità possono causare gravi inibizioni dello sviluppo cognitivo e affettivo. Sotto questo termine possiamo infatti far cader anche altre componenti innate definite di solito con il termine “temperamento”. Secondo Rothbart (1989; 79
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1991), infatti, il temperamento consiste nelle differenze individuali costituzionali nella reattività, intesa come attivazione motoria e affettiva, e nell’autoregolazione delle risposte ai parametri endogeni ed esogeni, correlate alla natura biologica relativamente stabile e influenzata nel corso del tempo dalla maturazione e dall’esperienza. Di tutte le caratteristiche temperamentali del bambino, sembrano essere importanti in modo particolare questa capacità di tollerare frustrazione e stress e l’autoregolazione di fronte agli stimoli endogeni ed esogeni. Questi fattori se assenti o poco sviluppati possono concorrere nel creare una certa vulnerabilità nel gestire le inevitabili frustrazioni e limitazioni cui l’infante si scontra normalmente durante il suo sviluppo. Come sottolineato da Imbasciati (1998), una mente poco tollerante la frustrazione, di fronte al dolore preferirà automutilarsi pur di non esperire il dispiacere che ne deriva, sbarazzandosi automaticamente sia del dolore che di quella parte di mente coinvolta nella percezione del dolore. Continue automutilazioni non faranno altro che impoverire e danneggiare la funzione alla base della generazione del significato a partire dall’esperienza emotiva che stiamo descrivendo. È possibile pensare a queste capacità automutilatorie (nella terminologia di Imbasciati, 1998, “funzione autotomica”), come ad una forma più fondamentale del meccanismo di difesa di “evitamento”. Nelle fasi precoci dello sviluppo questo evitamento non consiste nello stare lontano da specifici oggetti o luoghi (come nelle fobie), ma nell’evitare determinate funzioni mentali associate alla percezione dell’evento doloroso qualunque esso sia.
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Capitolo IV Livelli di epistemopatologia: il crocevia delle funzioni simboliche e asimboliche del pensiero
“Tutti desiderano possedere la conoscenza, ma relativamente pochi sono disposti a pagarne il prezzo”. Giovenale
4.1 Livelli di epistemopatologia Come espresso all’inizio di questo libro, lo scopo delle mie ricerche è quello di arrivare a delineare un modello che illustri in modo integrato i fattori concorrenti a formare la vulnerabilità alla patologia del pensiero e come possa avvenire il passaggio da un funzionamento mentale normale ad uno patologico. Dopo aver elencato nel capitolo precedente alcuni possibili fattori che determinano il livello di patologia dei processi di pensiero, tenteremo adesso di sistemarli in una struttura di rapporti che espliciti come essi possano concorrere a creare una più grave epistemopatologia. Nel capitolo precedente abbiamo visto che la patologizzazione dell’epistemologia personale è funzione dei seguenti elementi: 1. Dolore mentale (che indicheremo con “D”) 2. Effetto del tempo (“T”) 3. Revêrie (“R”) 4. Capacità di tollerare la frustrazione (“CTF”) Formalmente LdP = f(CTF, D, T, R), ovvero il livello di patologia (LdP) è una funzione di tutti questi elementi. Quale è il rapporto che intercorre tra questi elementi e l’epistemopatologia? Il livello di patologia che caratterizza i nostri processi di pensiero è da una 81
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parte direttamente proporzionale alla quantità di dolore mentale o evento traumatico (D) e alla precocità (T) con cui la mente viene in contatto con quel dolore o subisce il trauma. Quanto più forte e più insostenibile sarà questo dolore e tanto più precocemente esso si verificherà, tanto più vi sarà patologia e la mente si disorganizzerà dando vita a processi patologici di varia natura secondo lo spettro nevrosi-borderline-psicosi. E dall’altra inversamente proporzionale alla capacità di tollerare la frustrazione (CTF) e alla funzione di metabolizzazione genitoriale nota come Revêrie (R). Più presenti sono questi fattori, più basso sarà il livello di patologia (si veda la Figura 1). Ovvero: EP = (D)(T) / (CTF)(R) Dove EP sta per epistemopatologia. Il bilancio tra fattori patologizzanti (D e T) e resilienti (CTF e R) è espresso come segue: se (CTF)(R) < (D)(T) → avremo un alto livello di epistemopatologia se (CTF)(R) > (D)(T) → avremo un basso livello di epistemopatologia
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Figura 4.1 Alto e bassso livello di epistemopatologia come funzione dei quattro fattori isolati.
Questi fattori agiscono in modo non lineare e complesso, per questo motivo sono legati tra loro secondo rapporti moltiplicativi e non semplicemente additivi. Questi differenti livelli di patologia possono essere associati a differenti livelli di patologia cosi come sono stati inquadrati da Kernberg (1999) e da Bergeret (1999), secondo il concetto di organizzazione della personalità. Secondo tali autori possiamo distinguere tre grosse organizzazioni profonde della personalità: nevrotica, borderline, psicotica. Ogden (1992) e Meltzer (1975) ne aggiungono una quarta, quella autistica (o contiguo-autistica). Nella presente trattazione queste quattro organizzazioni vengono considerate non solo dal punto di vista nosografico - caratterologico, ma dal punto di vista del funzionamento epistemopatologico. Ogni 83
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modalità è caratterizzata da progressivi livelli di epistemopatologia. Il vantaggio di un simile modello è quello di permettere una visione della mente non statica ma come una funzione che si genera e si sorregge istante per istante e che può andare in pezzi qualora questa soglia (assolutamente individuale e esperienza dipendente nonchè geneticamente basata) venga superata. In tal caso sappiamo bene come la mente possa funzionare secondo un arco diastaltico teso unicamente a liberare tramite la scarica motoria la mente dall’eccesso di stimolazione similmente ai protozoi (Freud,1910). È bene ricordare che i mattoni con cui Bion ha costruito il suo modello della mente erano già compresi implicitamente in alcune teorie freudiane (dualità dei processi inconsci) e Kleiniane (identicazione proiettiva e teoria delle posizioni). Il merito di Bion è stato però duplice, sia quello di aver dato una formulazione più elegante e inclusiva delle teorie della mente precedenti (essa è quindi nell’epistemologia popperiana da preferirsi alle precedenti); sia di aver spostato il vertice di osservazione dalla teoria eneregetico-pulsionale di Freud da quella istintuale-affettiva della Klein ad una cognitivo-epistemologica (ben prima della stessa rivoluzione cognitiva). Per cui la patologia (e la questione eziopatogenetica) non è (almeno primariamente) da imputarsi a fattori di tipo traumatico-sessuali e neanche affettivorelazionali (già di per sè a monte di quelli sessuali), ma chiama in causa una eziologia più profonda e che riguarda la struttura e le varie destrutturazioni cui la mente va necessariamente incontro di fronte a traumi o microtraumi ripetuti che deve affrontare. Spostandoci sul versante clinico, da un punto di vista diagnostico, l’attenzione focalizzata sui processi di pensiero coglie il nucleo primo della psicopatologia, differenziando i 4 livelli strutturali principali : un’organizzazione di personalità nevrotica (NPO), una borderline (BPO), una psicotica (PPO) e una autistica (APO). Vedremo che ad essi corrispondono tre differenti loci di patologia (Ferro, 2002): • severa patologia da carenza di funzione alfa In questa tipologia collegabile agli stati psicotici (PPO e APO), vi è un originaria difettualita della formazione degli elementi alfa e 84
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della mente che può non essersi persino sviluppata. • patologia da non adeguato sviluppo di ♀♂, P↔D Qui gli elementi alfa sono disponibili non essendoci gravi danni alla funzione alfa, ma manca un adeguato apparato per elaborarli (BPO e NPO) • situazioni traumatiche, povvero costiruite da iù elementi beta di quanto la mente possa elaborare Identificabili nelle condizioni post traumatiche. Le implicazioni tecniche sono ancora egregiamente segnalate da Ferro (2002) e non sono altro che la riparazione di quella particolare difettualità (si veda il capitolo quinto). Una visione riassuntiva di quelloche abbiamo detto fin’ora potrebbe essere quello riportato in Figura 2.
Figura 4.2 Funzionamento emocognitivo, epistemopatologia e organizzazioni patologiche. Ad un alto livello di funzionamento emocognitivo corrisponde un basso livello di epistemopatologia (patologie nevrotico-borderline). Per contro, ad un basso livello di funzionamento emocognitivo corrisponde un alto livello di epistemopatologia (patologie psicotico-autistiche).
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4.2. Verso un modello formale del conflitto epistemologico Come conclusione di questa trattazione vorrei proporre adesso un modello, che chiamerò del conflitto epistemologico, che ci porta al cuore di questo. Dal punto di vista psicoanalitico il concetto di conflitto è pressochè pervasivo. A partire da Freud, tale concetto10 ha assunto un ruolo fondamentale nella spiegazione del funzionamento normale e patologico. Nei termini di Freud (1915): “Noi non vogliamo semplicemente descrivere e classificare i fenomeni, ma concepirli come indizi di un giuoco di forze che si svolge nella psiche, come l’espressione di tendenze orientate verso un fine, che operano insieme o l’una contro l’altra. Ciò che ci sforziamo di raggiungere è una concezione dinamica dei fenomeni psichici. Nella nostra concezione i fenomeni percepiti vanno posti in secondo piano rispetto alle tendenze, che pure sono soltanto ipotetiche”. La nostra idea è di preservare questo fondamentale aspetto della teoresi psicoanalitica, ma di traslarlo secondo un asse più conoscitivo (in linea con gli sviluppi bioniani), che pulsionali o motivazionali. Riassumendo, fino ad ora abbiamo considerato seppur in modo astratto, una funzione atta a dare significato all’esperienza emotiva. Per trattarla ho avuto bisogno di prendere in prestito una buona parte dell’apparato di teorie e modelli sviluppato da Freud, Klein e Bion. Ho anche evidenziato i fattori (dolore mentale, tempo del trauma, mancata Revêrie e incapacità di tollerare la frustrazione), 10 Anche Meltzer ha parlato di conflitto, un conflitto estetico “suscitato dalla bellezza del mondo (materno)” (1997) e “il suo interno enigmatico che deve essere costruito attraverso l’immaginazione creativa” (1988).
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che portano alla patologia di questa funzione tale da generare una situazione di epistemopatologia (EP) in cui i significati personali vengono distorti e scissi in funzione dell’evitamento del dolore. Questa condizione varia da individuo ad individuo e si cristallizza in quattro organizzazioni patologiche (nevrotica, borderline, psicotica, autistica). Abbiamo chiamato ciò livello di patologia (LdP). Possiamo adesso riassumere queste riflessioni in un’unica affermazione: Una mente per funzionare correttamente deve in ogni istante risolvere un conflitto, il conflitto epistemologico tra l’accettare la verità nella sua interezza (apprezzandone anche i suoi aspetti dolorosi) o negare o parcellizzare o distorcere tale verità. Lo sposatamento da una modalità all’altra dipende da tutti i fattori analizzati fin’ora e che concorrono a formare una soglia S del sistema-mente. Entro questa soglia, la mente può tollerare, contenere e far crescere la verità; oltre questa soglia ciò non potrà avvenire. In linea con quanto proposto da Imbasciati (2005), indicheremo il primo processo col termine di “simbolopoiesi”, cioè una crescita del significato personale. Riguardo il secondo processo è Meltzer a darne una chiara esemplificazione: “la formazione di simboli inizia, ma la mente incontra una tale sofferenza che cannibalizza ciò che ha cominciato a formare e il residuo di tale operazione possiede brandelli di significato che restano attaccati ai suoi frammenti.” (Meltzer, 1987).
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Possiamo rappresentare il conflitto epistemologico come segue: se ∑βe < S Fα, Simbolopoiesi, corretta epistemologia personale vs se ∑βe > S ΘFα→Fβ, processo desimbolizzante, epistemopatologia Per cui avremo che ad un eccesso di elementi-β non pensabili (∑βe), varcata la soglia S di sopportazione-contenimento del sistema sarà innescata l’inversione della funzione emocogntiva (alfa), che cannibalizzerà i prodotti incipienti α. Nel nostro sistema descrittivo il superamento della soglia S della sommatoria degli elementi beta (∑βe) fa si che si debba applicare l’operatore Θ (ovvero una prescrizione matematica che trasforma una funzione in un’altra Prigogine, 1997) alla funzione alfa, trasormandola nella funzione beta (ΘFα→Fβ) atta a produrre “betes” (nella terminologia meltzeriana l’agglomerazione di elementi beta piu tracce di Ego e di Super-io [“bet-e-s”], ovvero gli “oggetti bizzarri” di Bion) idonei unicamente alla evacuazione in varie forme. Seguendo la metafora omerica, la mente compie un’odissea lungo l’arco della sua esistenza. Il pensiero come la tela di penelope deve cucirsi, scucirsi e ricucirsi,cioè è soggetto a movimenti oscillatori di disgregazione-integrazione che non hanno mai fine (un dinamismo proprio di Ps↔D), ovvero deve sottostare a continui “conflitti epistemologici” tra conoscenza (“k” nella terminologia bioniana, da Knowledge) e anti-conoscenza (“-k”).
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4.3 Ipotesi sui meccanismi neurocognitivi coinvolti nel conflitto epistemologico La psicoanalisi ha sempre sostenuto una concezione del conflitto psichico come ubiquitario nelle dinamiche mentali (Eagle, 1984). L’importanza di questo concetto è stato recentemente riconosciuto dalle scienze e neuroscienze cognitive e oggetto di svariate indagini sperimentali nell’arco dell’ultimo decennio. In questa sezione vorremmo occuparci di tracciare alcune ipotesi sui meccanismi neurocognitivi del conflitto epistemologico, ovvero delle basi neurali dei processi conoscitivi e anticonoscitivi. Le teorie evoluzioniste delle emozioni (Lang et al., 2000) ipotizzano che la funzione delle emozioni sia di elicitare prontamente una serie di risposte efficaci (esperienziali, fisiologiche e comportamentali) in presenza di un possibile pericolo. Queste reazioni nel passato hanno aumentato l’adattamento della specie al proprio ambiente e sono codificate nelle parti più antiche e profonde del nostro cervello come il sistema limbico. Tuttavia, man mano che i mammiferi si sono evoluti, il cervello dei primati ha iniziato ad equipaggiarsi di un sofisticato sistema di controllo cognitivo in grado di guidare il comportamento in modo più flessibile e meno stereotipato, e di modulare gli aspetti più automatici. Queste nuovi “attrezzi” sono nati con l’avvento dell’espansione della neocorteccia e dei lobi prefrontali. Tuttavia, le modalità con cui interagiscono questi due sistemi, quello emotivo e quello cognitivo, non sono ancora chiare (Grecucci et al., 2007). Dal punto di vista sperimentale molti sostengono una visione “competitiva” (Drevets e Raichle, 1998; Northoff et al., 2004), secondo cui le emozioni “danneggiano” o peggiorano le funzioni cognitive. Le prove sperimentali a sostegno di questa ipotesi sono molte. Dal punto di vista comportamentale, diversi studi hanno dimostrato un peggioramento della performance cognitiva (mnestica, attentiva, percettiva, motoria etc..) in situazioni emozionali (si veda ad esempio, Drevets & Raichle, 1998; Northoff et al., 2004). Studi di neuroscienze hanno dimostrato che l’attivazione 89
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delle aree cerebrali responsabili delle funzioni cognitive è inversamente proporzionale alle quella delle aree responsabili delle emozioni (nei termini di quantità di flusso sanguigno ivi presente). In altri termini, l’eccesso di emozioni disattiva le aree cerebrali delle funzioni cognitive superiori. La sede possibile di questo “scontro” tra emozione e cognizione sembra essere la corteccia prefrontale ventro-mediale (VMPFC), un’area cerebrale all’incrocio tra il sistema emotivo limbico (amigdala in primis) e il sistema esecutivo (corteccia prefrontale dorso-laterale11) (Drevets & Raichle, 1998; Northoff et al., 2004; Yamasaki et al., 2002). Un altro esperimento (Goel e Dolan, 2003) più strettamente collegato al pensiero (ragionamento) ha mostrato un differente pattern di attivazione tra pensieri “freddi” (senza emozioni, detti “cold reasoning”) e pensieri “caldi” (sulle emozioni, “hot reasoning”). I pensieri freddi ancora una volta attivavano la corteccia prefrontale dorso-laterale e inibivano le porzioni ventro-mediali, quelli caldi mostravano un pattern opposto. Aldilà di queste prove sperimentali, se da un lato è vero che i sistemi emozionali precedono quelli più sofisticati di tipo razionale, la questione non è tanto capire come si avvicendano o come competono tra di loro, quanto di capire come i meccanismi più tardivi (razionali) si siano “integrati” con quelli precedenti (emotivi) (Grecucci et al., 2007). Alcuni autori infatti, sostengono una visione “sinergica” dell’emozione con la cognizione (Ito et al., 1998; Sato et al., 2001; Simon-Thomas et al., 2005), prospettiva secondo cui le emozioni facilitano e guidano la cognizione12. Inoltre noi crediamo che il problema non sia tanto quello del conflitto tra cognizione ed emozione (così come è stato affrontato dalle scienze e neuroscienze cognitive). La questione che si cela dietro ai processi anticonoscitivi potrebbe essere meglio compresa se pen11 Nel capitolo 6 ritorneremo su queste aree in modo più dettagliato 12 Se da una parte ciò è senz’altro vero, dall’altra crediamo che questa integrazione sia possibile solo a certe condizioni, ovvero quelle tracciate nei primi due paragrafi di questo capitolo riguardo il problema della soglia di sopportazione del dolore mentale (emozioni esplosive), e del conflitto epistemologico.
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sata come un conflitto tra: pensieri aventi un maggiore contenuto emotivo e pensieri aventi un minore contenuto emotivo. Ricordiamo che nella prospettiva psicoanalitica, cognizione e affetti sono legati in modo inscindibile e ogni emozioni ha in sé in nuce la possibilita di generare conoscenza. Crediamo sia possibile ipotizzare che nel momento in cui i processi integrativi Ps↔D, si muovono verso il polo D e l’“oggetto-pensiero-totale” viene generato, il destino di questo pensiero e la riuscita del processo di simbolizzazione (mentalizzazione) dipenda dall’impatto generato dal significato emotivo incipiente. Se l’emozione è troppo forte (ipercontenuto, o contenuto Killer nella terminologia di Ferro), la mente potrebbe preferire una versione modificata di quel pensiero avente una “carica” emotiva minore. Questo avviene utilizzando una modalità tipica del polo PS ovvero attuando una serie di scissioni e deformazioni progressive. Questo pensiero “deformato” sarà di conseguenza falsato in certe sue caratteristiche in modo da essere accompagnato da un risvolto emotivo meno forte. Minori sono le capacità contenitive della mente, minore sarà il contenuto emotivo tollerato (-♀♂). Il conflitto allora non è tanto tra cognizione o emozione, pensare o sentire, ma tra pensare e sentire un contenuto mentale “pieno” (nel senso di veritiero in tutte le sue sfaccettature simboliche e coloriture emotive), o utilizzare una sua versione impoverita (dal punto di vista del significato) e spogliata di significato emotivo13. È l’avvio del conflitto epistemologico tra processi conoscitivi e anticonoscitivi. Dal punto di vista neurocognitivo crediamo si possa ipotizzare un meccanismo per cui all’emergere del significato emotivo (ad opera dei sistemi di valutazione emotiva come l’amigdala, la corteccia orbitofrontale, l’insula etc..), i sistemi cognitivi superiori (funzioni esecutive della corteccia prefrontale dorso-laterale), iniziano a produrre significato e tradurre in un linguaggio del pensiero simbolico i contenuti emotivi incipienti. Qualora il significato emotivo 13 Probabilmente è a questo che si refiresce Bion con i contenuti mentali appartenenti alla colonna 2 della sua griglia, o a quanto Freud afferma nello scritto La Negazione.
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emergente sia troppo forte per poter essere tollerato, ci possono essere due soluzioni: o una totale inibizione dei processi di pensiero (che tradotto in termini neurali potrebbe essere associato ad una inibizione delle aree prefrontali dorsolaterali, come dimostrato sperimentalmente in certi compiti cognitivi), con conseguente disregolazione emozionale e forme di evacuazione delle emozioni; oppure la selezione di un pensiero parziale con minore contenuto emotivo. Questa selezione potrebbe essere operata dalla corteccia cingolata anteriore (ACC), un’area coinvolta sia nella percezione degli errori (latu sensu anche nella percezione di qualcosa “che non va”), sia nella selezione di risposte più appropriate per risolvere con successo un compito cognitivo in base ai vincoli presenti. Queste considerazioni hanno per il momento lo statuto di mere ipotesi. Studi futuri di neuroscienze potranno confermare o meno queste riflessioni. Recentemente è stato dimostrato sperimentalmente per la prima volta un meccanismo cerebrale che a livello del tutto inconsapevole inibirebbe la pensabilità di un contenuto linguistico spiacevole. Tramite un ingegnoso esperimento con partecipanti bilingui, si è visto che la traduzione di parole emotive negative dalla seconda lingua alla lingua madre veniva ostacolata (Wu e Thierry, 2012). Fenomeno che non accadeva per parole neutre. Gli esperimenti precedenti avevano mostrtato un tale filtro per stimoli percettivi di basso livello, ma mai per contenuti cognitivi di così alto livello. Gli autori ipotizzano che tale inibizione possa avvenire tramite l’interazione dell’amigdala e del nucleo caudato (struttura cerebrale profonda responsabile anche della selezione di parole appropriate). Per quanto riguarda il come un pensiero più appropriato venga generato e selezionato, tema affascinante e complesso, non ci sono attualmente dati sperimentali sicuri che possano guidare le nostre ipotesi14. 14 Alcune interessanti osservazioni sul tema del controllo cognitivo e della selezione delle risposte, sono state avanzate da Norman e Shallice (1986), nel modello del sistema di supervisione attentivo e di selezione della risposta. Tuttavia, questo modello è stato applicato solo a funzioni “fredde” in cui non era previsto l’intervento dell’emozione.
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Capitolo V Dalla teoria alla tecnica
“Tutto è ignoto: un enigma un inesplicabile mistero. Dubbio, incertezza, sospensione di giudizio appaiono l’unico risultato della nostra più accurata indagine.” David Hume
5.1 Teoria della tecnica Un breve excursus sulle teorie della mente e del trattamento diventa necessario prima di illustrare il modello di riferimento del presente elaborato. A tale scopo mi avvarrò in modo esteso dei contributi di Antonino Ferro (1992; 2010; Ferro e Vender, 2010), che ha brillantemente sintetizzato le varie fasi del pensiero psicoanalitico sulla tecnica terapeutica. Come è lecito aspettarsi partirò dal fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud. Il modello freudiano della mente presuppone una verità storica depositata nell’inconscio che deve essere recuperata (Ferro e Vender, 2010). Gli strumenti a disposizione del terapeuta sono le libere associazioni del paziente da una parte e le sue capacità interpretative dall’altra che insieme seguono e decodificano l’angoscia segnale. La terapia ha lo scopo di superare la resistenza e i meccanismi di difesa in modo che quello che una volta era inconscio (per mezzo della rimozione), divenga conscio. Il funzionamento 93
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mentale ruota attorna alla rimozione che separa i contenuti inconsci pulsionali dell’ES dalla coscienza. Scopo del trattamento è raggiungere un livello maturazionale definito come fase genitale dato dal superamento dei conflitti edipici. Il modello successivo da prendere in considerazione è quello di Melanie Klein15. In questo modello l’attenzione si sposta dalla verità storica alle verità del mondo interno (il plurale è d’obbligo), dominato dalle fantasie inconsce sui rapporti con gli oggetti interni e tra gli oggetti interni. Il compito del terapeuta è quello di dispiegare le intricate dinamiche proiettive e introiettive di queste relazioni e illustrarle prontamente al paziente perchè non le agisca nella vita reale. Il concetto cardine di angoscia segnale viene ulteriormente sviluppato in angoscia persecutoria e angoscia depressiva. La prima indica un angoscia derivante dalle proiezioni degli istinti sadici sugli oggetti esterni e dalla paura di una loro rappresaglia, la seconda dalla colpa e dalle pene nei confronti dei propri oggetti danneggiati. Il funzionamento mentale è incentrato sul meccanismo di difesa dell’identificazione proiettiva e sull’estroflessione della pulsione di morte. Scopo del trattamento è raggiungere un livello maturazionale definito come riparazione dato dal superamento della fase depressiva che a sua volta segue quella schizoparanoide. Sebbene questo modello parli di relazioni con oggetti, esso rimane ancorato ad una visione unipersonale e pulsionale della mente (Ferro e Vender, 2010). Un ulteriore sviluppo delle originarie formulazioni freudiane si ha con Wilfred Bion. Nelle sue formulazioni diventa centrale l’aspetto relazionale e interpersonale della mente e del lavoro analitico. Nel suo modello della mente (ampliamente esposto nella parte teorica del presente lavoro), il prius dell’attività mentale diventa “il pensiero senza pensatore” che deve essere mentalizzato dalla coppia analitica alla ricerca di significato. Una nuova “pulsione” si affaccia, la pulsione epistemofilica K (da knowledge). Non esite più una verità storica da recuperare (il rimosso di Freud), nè una verita relazionale da depurare (o da defantasmizzare, Klein), ma una verità in 15 In esso sono inclusi anche alcuni sviluppi apportati da Donald Meltzer
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statu nascendi che deve essere sviluppata ed elaborata ex novo, a causa dei fallimenti precedenti (Ferro, 2002). L’inconscio non è più l’incoscio dinamico e neanche fantasmatico, ma una struttura (la funzione alfa?) atta a generare la verità emozionale dell’individuo. Questa verità è soggetta a legami (L e H), allo sviluppo di peculiari funzioni e a necessità evacuative imprenscindibili. La coppia analitica contiene, trasforma e sviluppa questi protopensieri (Ferro e Vender, 2010). Il meccanismo centrale diventa la transidentificazione proiettiva16 tra due menti e lo scopo dell’analisi è quella di sviluppare il “dreaming ensamble” (Grotstein, 2010) ovvero l’apparato per pensare-sognare i pensieri. Riassumendo, l’interpretazione del terapeuta è funzione del funzionamento mentale del paziente e della sua verità emotiva. Il modelo cui faccio riferimento è una versione un po’ personale di quello bioniano già ampiamente rivisitato e sviluppato nell’opera di Antonino Ferro (2002, 2007, 2010; Ferro e Vender, 2010). Nelle figure 5.1 e 5.2 è riassunto tale modello. Esso distingue tre aree mentali (Figura 5.1): non-pensato, pensato e impensabile.
16 Grotstein separa i processi di identificazione proiettiva da quelli di transidentificazione proiettiva, definendo il secondo come una modalità comunicativa della prima.
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Figura 5.1. Spettro del mentale
Il primo dominio (non-pensato) comprende le categorie dei protopensieri ovvero la mente in potenza, in nuce, che potrà o meno svilupparsi in pensieri veri e propri. Ciò dipenderà largamente dalla capacità individuale di poter accogliere, trasformare e sviluppare i propri contenuti emotivi, ma anche dalla possibilità di un incontro fruttifero con la mente dell’altro. Una mente in grando di co-creare un sistema di significati interpersonali in cui i contenuti emotivi più “bollenti” possono trovare modulazione e adeguata rappresentabilità. Il secondo dominio (pensato), indica la riuscita dei meccanismi di pensiero che producono pensieri che possono essere pensati. Imbasciati (1998), indica questo processo come simbolopoiesi specificando che “La costruzione della mente avviene secondo una pro96
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gressiva simbolopoiesi” (Imbasciati, 2001). Il terzo dominio, di maggiore interesse per la clinica è l’impensabile, ovvero l’aborto dei processi di pensiero che ha generato brandelli desimbolizzati di pseudopensieri atti solo all’evacuazione (Figura 5.2). Qualcosa nella generazione del significato è andato storto, e il risultato non è solo un fallimento della generazione del significato, ma una degenerazione del significato stesso. Rosenfeld (1989), chiarisce molto bene questo punto affermando che: “in molti stati bordeline e psicotici i pazienti sembrano dibattersi disperatamente con sentimenti e pensieri contradditori, confusi e sconcertanti. Per loro è molto difficile riflettere sui propri sentimenti o conoscerli, ma ciò nonostante li comunicano o anti-comunicano efficacemente in una varietà di modi...L’individuo cerca a tuti i costi di liberarsi di pensieri e sentimenti insopportabili..” (Rosenfeld, 1989). Questa modalità di gestire i propri contenuti mentali è strettamente connessa con quello che Bion (1959) indica come attacco ai legami con gli oggetti (interni ed esterni) e di conseguenza con i propri processi di pensiero. Rilevazioni cliniche hanno dimostrato la presenza nelle psicosi e nei disturbi gravemente borderline di un difetto fondamentale del processo di simbolizzazione per cui nella mente vengono a permanere degli elementi asimbolici che interferiscono con una normale formazione del sé e con la possibilità dell’effettivo contenimento mentale della sofferenza (Hautmann, 2002). Il sè rimane di conseguenza insufficientemente organizzato con parti asimboliche scisse che non partecipano alla formazione di un’adeguata “pellicola del pensiero” (ibidem). Questi microdifetti del pensiero rendono ragione degli aspetti microdeliranti ben nascosti dietro finte ideologie pseudopensieri, psicologismi e distorsioni relazionali a più livelli (a partire da quelle precocissime con i caregivers). Quest’ultimo punto è fondamentale per capire come le relazioni siano vissute in modo onnipotente e narcistico tanto da impedire ogni forma di crescita personale e interpersonale, aggravando gli stati a-mentali con fantasie distruttive e autoconsolatorie che imprigionano sempre 97
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di più la mente di questi pazienti. Come afferma Ferro più volte nelle sue opere, nel corso della terapia questi difetti richiedono la trasformazione di ampie zone asimboliche-desimbolizzate e lo sblocco dei processi interpersonali di crescita e sviluppo emotivo. Questi “pensieri non pensati” danno vita ad una vasta fenomenologia di patologie e sfoghi evacuativi. Meltzer (1986), ne indica alcuni: 1. 2. 3. 4.
azione nel mondo esterno o acting out; all’interno dell’organismo (stati psicosomatici); rovesciando la funzione degli organi di senso (allucinazione); formazioni deliranti come sistema di pseudopensiero o trasformazioni in allucinosi17; 5. regressioni alle “mentalità di gruppo” ovvero ad un funzionamento in assunto di base; 6. meccanismi di difesa18.
Si può assumere che generalmente ci sia una grossa fetta di pensabilità che è ancora da pensare (non-pensato) e una parte minore di pensato insieme ad una cospicua parte in cui la pensabilità ha fallito (impensabile), come illustrato graficamente in Figura 5.1. Si può ipotizzare che queste tre aree abbiano percentuali diverse in ognuno di noi. Questi tre dominii utilizzano meccanismi diversi e probabilmente anche logiche di funzionamento diverse19. Mi interessa qui esplorare l’impensabile, il cui maneggiamento è parte integrante di qualunque psicoterapia. Mentre il pensato usa i mecca17 Per quanto riguarda questo punto ci sembra che esso sia molto vicino alle idee esposte da Fonagy e collaboratori con il concetto di hypermentalizing, ovvero di un eccesso di mentalizzazione che ha qualità proiettive e confusive con l’oggetto della mentalizzazione. 18 Riguardo ai meccanismi di difesa, Ferro (2010), aggiunge alla lista dei “classici” meccanismi, alcune operazioni strettamente connesse con la addomesticazione dei contenuti emotivi scottanti e al seguente impoverimento delle capacità di pensiero. 19 Forse può essere supposta una tri-logica invece che una bi-logica come proposto da Matte Blanco.
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nismi contenitore-contenuto per sviluppare e sofisticare il pensiero, l’impensabile per contro utilizza precoci meccanismi di transidentificazione proiettiva (Grotstein, 2010). Questi brandelli di pensieri devono essere accolti trasformati e restituiti (Ferro e Vender 2010). L’oggetto del prossimo paragrafo sarà dedicato al trattamento di questi meccanismi.
Figura 5.2. Dominii mentali e loro destini
5.2 Tecniche della teoria. Dalla dramma-tizzazione alla dream-atizzazione Nei primi capitoli abbiamo affrontato la questione di come i fallimenti ambientali e interpersonali portino ad un accumulo di zone desimbolizzate (impensabile). Questi accumuli possono portare a meccanismi patologici di vario tipo e assolutamente personalizzati (più o meno inclusi dai macroraggruppamenti noti come “mecca99
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nismi di difesa” nella teoria classica). Da un punto di vista tecnico questi meccanismi primitivi basati su scissione e identificazione proiettiva mal si prestano a interpretazioni classiche e contenutistiche. Il loro raggio di azione si estende aldilà dei contenuti rimossi (Freud) e aldilà dei fantasmi relazionali (Klein). Essi affondano le radici in aree asimboliche difficili da nominare e pensare (Racalbuto, 1994). Bion ha cercato di esplorare queste aree, ma è grazie a i suoi successori che una tecnica adeguata è stata sviluppata. Mi riferisco particolarmente alle elaborazioni di Ferro, Grotstein e Ogden, e in modo simile seppur con delle divergenze alle elaborazioni dei teorici della mentalizzazione (Allen et al., 2010; Bateman e Fonagy, 2006; 2010). Da un certo punto di vista ogni intervento terapeutico è un’interpretazione di quello che accade in seduta, quello che cambia è lo sviluppo narrativo (Ferro, 1999). Ipersemplificando possiamo tracciare un percorso parallelo a quello del paragrafo 5.1 partendo da Freud fino ad arrivare a Bion e oltre, sul cosa interpretiamo quando facciamo un’interpretazione. •
Secondo uno stile freudiano la comunicazione del paziente dovrebbe essere tradotta così come accade nel sogno dal contenuto manifesto a quello latente. L’interpretazione disvela desideri e impulsi perlopiù di natura libidica riferite a esprienze relazionali del paziente. L’interpretazione si colloca nel “lì e allora” e riguarda un contenuto, il desiderio inaccettabile. Riassumendo, l’interpretazione del terapeuta è funzione della verità storica e istintuale del paziente.
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Secondo uno stile più kleiniano la comunicazione del paziente potrebbe riguardare fantasmi di aggressione agli oggetti interni o tra oggetti interni. Parliamo di fantasie inconsce ancora una volta da disvelare e smontare perchè il soggetto superi una visione/vita “claustrale” del mondo (Meltzer, 1992). Riassumendo, l’interpretazione del terapeuta è funzione del mondo interno del paziente. Notare che questi due
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primi punti riguardano interpretazioni aventi come oggetto il “contenuto” delle comunicazioni del paziente. •
Secondo uno stile bioniano l’oggetto dell’interpretazione potrebbe essere la trasformazione dei vissuti emotivi da una parte, e il funzionamento mentale del paziente con un particolare interesse alle difettualità dei suoi processi conoscitivi (K e –K) dall’altra. Il cambiamento è epocale. Non ci sono più pulsioni da disvelare, fantasie inconsce da interpretare, ma accedere alla verità emozionale attraverso processi microtrasformativi nel “qui e ora”. La verità emotiva (generazione e sua pensabilità) è sempre l’obiettivo di un’interpretazione. Riassumendo, l’interpretazione del terapeuta è funzione dei processi conoscitivi (verità incipiente emotiva) del paziente.
Questi tre vertici possono essere privilegiati di volta in volta dal terapeuta, ma dobbiamo pensare che siano tutti presenti in ogni comunicazione del paziente come collassati in un fascio di luce entro un prisma prima di essere rifratto dall’interpretazione del terapeuta. C’è però un altro vertice o forse un asse che è tangente alle comunicazioni del paziente aldilà del contenuto (desiderio istintuale, fantasma oggettuale, K/-K). Questo vertice è quello sviluppato da Ferro nei suoi scritti (1996; 1999; 2002; 2006; 2010) e sviluppa certe intuizioni bioniane. Questo tipo di interpretazione (se possiamo ancora chiamarla così) ha come oggetto la promozione e lo sviluppo del funzionamento mentale della coppia analitica che viene monitorata attraverso ogni comunicazione del paziente e aiutata a svilupparsi costantemente. Questo stile tecnico è squisitamente bipersonale e richiede la costante collaborazione delle menti del paziente↔terapeuta. Si parla di interpretazioni non-sature proprio per la loro qualità aperta atte a favorire la capacità di sviluppo del pensiero, ovvero di mentalizzazione. I contenuti non vengono dati dal terapeuta, ma costruiti insieme al paziente nel campo (terzo analitico, Ogden, 1999). Il focus della terapia diventa lo sviluppo degli 101
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strumenti per pensare, del “dreaming ensamble” (Grotstein, 2010) che è un processo di per sé bi-personale (mente del terapeuta↔mente del paziente). L’indice da monitorare per seguire l’andamento della coppia analitica si manifesta nel casting dei personaggi portati dal paziente. Personaggi che costituiscono una prima mentalizzazione del funzionamento della coppia stessa (Ferro e Vender , 2010). Ferro nei suoi ultimi libri “La terra di nessuno fra psichiatria e psicoterapia” (con Vender, 2010) e “Tormenti di anime” (2010) espone alcune interessanti considerazioni sulle tecniche atte a sviluppare le capacità di pensiero del paziente. Tra queste: la sospensione dell’esame di realtà, l’accoglimento dell’evacuazione e sviluppo di funzione alfa, e lo sviluppo del contenitore (si rimanda alla trattazione di Ferro e Vender, 2010; e a Ferro, 2010, per una esposizione più dettagliata). Vediamone alcune. 1. Sospensione dell’esame di realtà Sospensione dell’esame di realtà e considerazione di ciò che accade nella seduta come “virtuale”, ovvero ogni fatto narrato dal paziente viene deconcretizzato e visto come un derivato narrativo del campo emotivo tra paziente e terapeuta. Le libere associazioni sono prese come narremi del pensiero onirico della veglia, con gradienti diversi di distorsione e camuffamento (Ferro e Vender, 2010). Il casting dei personaggi portato in seduta diventano rifrazioni del funzionamento mentale della coppia analitica e non meri fatti concreti che farebbero collassare il campo su se stesso, schiacciando ogni spazio di pensabilità. 2. Decostruzione dei betalomi Dopo la sospensione dell’esame di realtà, l’accoglimento degli aggregati beta (=betaloma quello che qui viene chiamato “impensabile” raffigurato in figura 5.2) può essere accolto e trattato. Nello specifico l’intervento terapeutico comporta una decostruzione (da parte del “litotritore” terapeutico) della sintomatologia e liberazione delle emozioni-vissuti pietrificati e congelati. La liberazione 102
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di questi vissuti-beta evacuati nella mente del terapeuta dovranno essere accolti e metabolizzati (Reverie, si veda paragrafo successivo). 3. Accoglimento dell’evacuazione / Sviluppo di funzione α Comprende tutti gli interventi atti a metabolizzare sensazioni, vissuti, protopensieri, elementi beta (rapporto Transidentificazione proiettiva e Reverie, IP↔R) al posto del paziente, insieme al paziente e per il paziente. Essi compredono in ordine di complessità: • attività di reverie di base: ovvero la costante significazione di microunità di significato in statu nascendi; • attività di reverie a flash: microallucinazioni benevole in grado di raffigurare pittoricamente un protopensiero in immagine sensoriale; • attività di reverie /costruzione: attività di costruzione di catene di micropensieri e iposignificati perchè possano svilupparsi narrazioni di vissuti desimbolizzati e mutilati; • trasformazioni in sogno: cuore della psicoanalisi post bioniana, per cui le comunicazioni del paziente vanno intese e trattate come elementi sognati dalla coppia analitica e da sviluppare in personaggi e precipitati narrativi. Ogni comunicazione del paziente dovrebbe essere preceduta dal suffisso “ho fatto un sogno”. Questa enorme variazione tecnica è quella che ci permetterebbe di monitorare costantemente il funzionamento della coppia analitica e gli inceppi dei processi di pensiero condiviso. La progressiva metabolizzazione dei questi elementi grezzi emozionali accompagna la remissione sintomatologica e lo sviluppo della funzione alfa del paziente. 4. Sviluppo di ♀ Sono quegli interventi sul piano perlopiù non verbale che permettono alla coppia analitica di essere all’unisono e di condividere espe103
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rienze primordiali al limite del sensorio. Essa ha a che fare con l’ampliamento della capacità di pensare per mezzo della condivisione del “peso” dei contenuti mentali. Possono essere tracciate delle similitudini con gli stati di empatizzazione e condivisione emozionale. Questo vertice tecnico sposta l’attenzione dai contenuti del paziente allo svilupoo dei contenitori che possono contenere e sviluppare i contenuti stessi. Per questo motivo l’interpretazione diviene meno contenutistica e più contenitiva. I fili emozionali fatti di fiducia, intimità e condivisione empatica (risonanza emotiva) che si tessono tra terapeuta e paziente potranno fare da rete su cui i contenuti più pesanti e pericolosi possono atterrare senza rischiare di cadere nel vuoto (non simbolizzazione-non pensato) o disintegrandosi in particelle atte all’espulsione (desembolizzato-impensabile). L’interpretazione contenutistica per contro rischia sempre di aggiungere stimolazione beta e di accrescere il ♂ a ♂...♂...♂ (Ferro, 2002) fino a portare ad un ingravescenza sintomatologica o ad agiti “liberatori”. Lo sviluppo di contenitore passa attraverso un graduale ampliamento dello spettro di oscillazioni narrative (ΔN) possibili: • unisono lineare: condivisione totale del linguaggio del paziente (massima aderenza al testo, ovvero, massima insaturità) (Ferro, 2010), in cui ogni allontanamento dal livello comunicativo del paziente è vissuto come persecutorio; • piccola banda di oscillazione: maggiori margini di alterità in cui è possibile rimpolpare la comunicazione con interpretazioni nel campo/transfert e esplicitazione dei contenuti emotivi; • grande banda di oscillazione: interpretazioni di transfert e campo sono possibili. Riassumendo, l’attività decostruttiva della sintomatologia-betaloma portata dal paziente, scatena una liberazione di elementi β evacuati nella mente dell’analista (canale IP↔R) che dovranno essere metabolizzati dalla sua funzione α. Questi elementi metabolizzati, ora α, se contenuti e elaborati porteranno allo sviluppo del ♀ e alla 104
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crezione di ♂ via via piu sofisticati (interazione ♀♂ e oscillazione P↔D, nella terminologia bioniana) ed è ciò di cui è fatto il pensiero onirico della veglia. Questi contenuti si traducono in una serie di derivati narrativi (ΔN) che produrranno narrazioni e costruzioni, la cui metabolizzazione porterà alla trasformazione del testo patogeno del paziente (Di Chiara, 2003). Ogni terapia comprende un percorso più o meno lungo per arrivare a quest’ultimo stadio.
5.3 Interventi conoscitivi e anticonoscitivi In questo paragrafo verranno esaminati ulteriori concetti per un atteggiamento terapeutico volto all’incremento di processi conoscitivi contrapposti a quelli anticonoscitivi. Questi interventi hanno come scopo la trasformazione non solo dei contenuti mentali, ma anche del contenitore. 1. Insaturazione Nel pensiero di Bion, l’interpretazione si trasforma da strumento che satura e ottura il discorso del paziente a strumento che amplia la pensabilità secondo vie nuove e originali. Lo scopo non è rivelare un contenuto già esistente, ma svilupparne uno nuovo, secondo l’assunto bioniono per cui l’analisi è la sonda che espande il terreno che esplora (1970). La capacità negativa del terapeuta deve intervenire nello stimolare la capacità interpretativa di mentalizzazione piuttosto che annebbiarla con saturazioni contenutistiche. Ciò implica il rispetto del testo manifesto del paziente (Ferro e Vender, 2010), ovvero un minore lavoro di decodifica e uno maggiore di estensione (nel campo del senso, del mito e della passione come direbbe Bion, 1963). L’insaturità inoltre, stimola le funzioni riflessive e la capacità di mentalizzazione del paziente come suggerito dai teorici del trattamento basato sulla mentalizzazione (Allen e Fonagy, 2010), esercizio fondamentale per il paziente gravemente disturbato.
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2.Temperatura e trattamento di stati mentali caldi Meltzer in “temperatura e distanza” (1976) pone l’attenzione su un aspetto molto importante dell’interpretazione: la temperatura, ovvero il grado “eccitazione-dolore” provocata nel paziente cui si da l’interpretazione. Secondo questo autore è importante modulare la temperatura dei nostri interventi affinche essi vengano recepiti bene dal paziente e si eviti uno stato di sovraeccitazione-sofferenza anti-terapeutica. La modulazione della temperatura (dolore) mentale che può causare un’interpretazione deve essere di conseguenza attentamente modulata. Un’analogia con la meccanica statistica20 illustra questo meccanismo comune a tutti i sistemi complessi (il sistema mentecervello è forse il sistema complesso per eccellenza). Come suggerito dalla distribuzione di Boltzmann (Ackley, Hinton e Sejnowski, 1985), la probabilità (P^1) che un sistema converga verso uno stato “energetico” desiderato (E^1) è inversamente proporzionale alla
temperatura T del sistema: Ovvero un sistema tenderà ad “assestarsi” in uno stato dove la temperatura è minore. Tradotto nei termini della pratica terapeutica: se vogliamo aumentare la probabilità P1 che il paziente raggiunga una pensabilità maggiore dei suoi vissuti emotivi (stato E^1 nella formula) non dobbiamo alzare troppo la temperatura del sistema (tramite interpretazioni “bollenti”), altrimenti come illustra meglio la successiva formula, il sistema (mente del paziente) tenderà a spostarsi dallo stato desiderato E^1 (sviluppo auspicato del pensiero emotivo) verso stati (E^2) di minore temperatura (dolore, T): 20 La meccanica statistica è l’applicazione della teoria della probabilità al comportamento termodinamico di sistemi composti da un grande numero di particelle. Questa branca della fisica fornisce un modello per collegare le proprietà microscopiche dei singoli elementi alle proprietà macroscopiche del sistema da essi composto.
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Se infatti ipotizziamo un sistema (mente del paziente) avente due stati (E^1 e E^2 con capacità di pensiero più o meno ampie) a diversa temperatura (T ovvero di dolore mentale), un tale sistema a contatto con del calore aggiuntivo (impatto emozionale generato dall’intervento del terapeuta) si sposterà verso lo stato a minore temperatura. In pratica se l’energia E^1P^2. Questa fuga verso lo stato con minore energia-temperatura comporta almeno cinque gravi conseguenze invalidanti i processi di pensiero del paziente: 1. un fallimento dei processi trasformativi e di assimilazione del contenuto interpretativo; 2. attacco al legame sia nel versante intrapsichico (indebolimento dei processi di pensiero), che interpersoanle (indebolimento dell’alleanza terapeutica); 3. ascessi evacuativi degli elementi β portati dall’intervento interpretativo che si aggiungono a quelli del contenuto oggetto dell’interpretazione smosso troppo precocemente e incautamente; 4. creazione di agglomerati a-mentali abortiti desimbolizzati, (ovvero “-♀♂”) 5. associazione di quel contenuto ad una temperatura troppo alta per poter essere maneggiata e ulteriore evitamento di quel contenuto (-K). 3. Evitamento dell’autotomia La mente per avitare il dolore funziona in modo autodistruttivo anestetizzando se stessa (Imbasciati, 1998). Meltzer (1992) ha rilevato clinicamente come la mente di fronte al dolore incontenibile, proceda verso operazioni di tipo anticonoscitivo. La mente non sop107
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portando il dolore e la funzione che lo segnala, si libererà di essa, ovvero di una sua parte. Imbasciati chiama questo processo “autotomia” dal greco temno, tagliare (Imbasciati, 1998). L’autotomia non è solo un’evacuazione o identificazione proiettiva, ma indica anche la distruzione della funzione evacuata con conseguente e progressiva atrofizzazione e impoverimento delle funzioni mentali (Imbasciati, 1998). Come segnalato da Ferro (2010), lo sviluppo del contenitore deve rispettare le capacità contenitive della mente del paziente. Quello che eccede tale capacità, viene automaticamente “tagliato” fuori. Se lo spettro delle funzioni mentali di un paziente è molto ristretto (figura 5.3), il terapeuta deve rimanere nello spazio ristretto di tale spettro modulando il livello di dolore mentale provocato dagli interventi interpretativi affinchè producano oscillazioni emotive adeguate. Quello che eccede verrà automaticamente escisso provocando il fallimento dello sviluppo del pensiero (figura 5.3, oscillazione emotiva 3).
Figura 5.3 Oscillazioni emotive di varia intensità e funzionamento autotomico. L’oscillazione emotiva n.3 supera le capacità di pensabilità (contenitive) innescando un funzionamento di tipo autotomico.
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4. Interpretazioni uni-personali e bi-personali Negli anni sessanta i coniugi Baranger (1961-1962) hanno introdotto in psicoanalisi il concetto di campo. La loro ipotesi di base è che la coppia paziente-terapeuta generi il campo all’interno del quale andranno a configurarsi i movimenti emozionali. Inoltre gli autori individuano tre livelli di strutturazione del campo: il setting, la relazione manifesta e le fantasie inconscie bipersonali paziente-analista, costituite da un gioco incrociato di identificazioni proiettive, rappresentano la struttura latente del campo e la loro analisi costituisce lo specifico dell’esperienza analitica (Rugi, 1998). Il coinvolgimento emozionale reciproco e il reciproco scambio di emozioni primitive, implica la formazione di uno spazio «terzo» tra soggetto e oggettoovvero di una fantasia inconscia bipersonale. Ferro (1996) considera il campo come il luogo abitato da intense turbolenze emotive che permette la trasformazione dei vissuti della coppia che si esprimono nel racconto del paziente, nella reverie dell’analista, nel suo controtransfert o in qualunque altro punto del campo stesso (Rugi, 1998). Il campo si attiva e si trasforma essendo una funzione del lavoro mentale della coppia (Ferro parla di ologrammi affettivi del funzionamento mentale della coppia). Come si può notare il modello di campo nasce dalla necessità di ampliare il punto di vista relazionale fornendo la possibilità di uno sguardo più allargato rispetto a quello di relazione (Ferro, 1992). Un’altra corrente parallela a quella della relazione come campo bi-personale è quella proposta da Stern nota come “intersoggettività”. Definiamo intersoggettività la capacità do condividere con un’altra persona le esperienze vissute (Stern, 2010) o ancor meglio come “l’interazione dinamica tra l’esperienza soggettiva dell’analista e quella del paziente in terapia (Dunn, 1995). Tale approccio parte dal principio che non si possa partira dalla prospettiva della “terza persona” esterna al materiale analitico perchè ogni prodotto della coppia terapeutica è co-creato. La realtà di cui è fatta la terapia è determinata dall’imprescidnibile fenomeno interattivo e relazionale che prevale in un determinato momento. L’esperienza è qui intesa come frutto di una creazione continua intersoggettiva, 109
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alla cui costruzione contribuiscono varie componenti interagenti fra loro, provenienti sia dal mondo interno che esterno al soggetto. La creazione e ricreazione dell’esperienza è continua. Presente e passato si co-creano uno nell’altro. Nel presente vive il nostro passato e, nel racconto, il passato è ricreato nel presente (Stern, 2005). L’inconscio anch’esso è in continua formazione e riformazione e rimanda costantemente alla relazione. A livello tecnico le concezioni bipersonali di campo e di intersoggettività portano ad una vera rivoluzione nella tipologia di interventi relazionali e interpretativi svolti dalla coppia analitica. In sintesi gli interventi secondo queste prospettive sono da orientarsi 1) secondo la consepovelezza che sono cocreati e portano in loro i contributi di entrambi i partecipanti; 2) nel presente (hic et nunc), invece che nel passato, quindi interpretazioni di transfert e sulle relazione sono da preferirsi a interpretazioni genetiche; 3) in modo bidirezionale (analista e paziente insieme osservano i fenomeni mentali prodotti dall’interazione) piuttosto che unidirezionale (il terapeuta è a conoscenza di qualcosa che il paziente non conosce e cerca di esplicitare questo nei suoi interventi asimmettrici).
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Interventi mentalizzanti
La concezione delle difettualità del pensiero e delle modalità per trattarle è coerente con la prospettiva avanzata da Fonagy e colleghi (Bateman e Fonagy, 2004; 2010) nel loro trattamento basato sulla mentalizzazione (MBT d’ora in avanti). Precisiamo che gli stessi autori accennano più volte nei loro scritti una certa discendenza di questo concetto dalle riflessioni di Bion. Le idee alla base della patologia, e le prescrizioni tecniche, infatti, sono molto vicine a quelle previste dalla psicoanalisi di matrice bioniana. È possibile affermare che il modello della MBT sia una delle possibili declinazioni tecniche della psicoanalisi bioniana, al pari di quello elaborato da Ferro (Ferro, 2010; Vender e Ferro, 2010), o da altri autori (ad esempio Grotstein, 2011). 110
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Come accennato nei capitoli precedenti quella che abbiamo chiamato funzione emocognitiva ha molti paralleli con il concetto di mentalizzazione. Il termine funzione emocognitiva è stato preferito in quanto mantiene una connessione col linguaggio bioniano e con la sua teoria delle funzioni da una parte e con la psicologia del pensiero dall’altra. Tale termine porta con sé una penombra di significati tutti concernenti l’ipotesi di una necessaria elaborazione delle (proto)emozioni affinchè diventino contenibili, gestibili e pensabili. Tuttavia molte similitudine possono essere rintracciate tra questo concetto, quello di Bion dell’apparato per pensare i pensieri da cui deriva, e il concetto di mentalizzazione. Pertanto in questo paragrafo inizieremo col tracciare un parallelo tra il modello di derivazione bioniano esposto fino ad ora e quello della MBT, per poi arrivare alle implicazioni tecniche. Intanto vediamo cosa si intende per mentalizzazione. Allen, Fonagy e Bateman (2010), definiscono “mentalizzazione” come “la capacità di tenere a mente la mente”, o di “percepire immaginativamente o interpretare il comportamento come congiunto con gli stati mentali intenzionali”. Altrove gli autori la definiscono come “il processo mentale grazie al quale un individuo interpreta implicitamente e esplicitamente le azioni di sé stesso e degli altri come aventi significato sulla base degli stati mentali intenzionali come propri desideri, bisogni, sentimenti, credenze e ragioni” (Bateman e Fonagy, 2006). La mentalizzazione indica la capacità di focalizzarsi sui propri e altrui stati mentali. Questa capacità determina una conoscenza vera, viva e affettiva di quello che sentiamo in rapporto ai nostri vissuti e a quelli delle figure di attaccamento. Essa denota una modalità di funzionamento preconscia che fornisce una rappresentazione più o meno veritiera (in condizioni normali) di quello che noi sentiamo in relazione agli altri. Si distingue da una attività solamente cognitiva e razionalizzante in quanto essa è sempre basata sulle emozioni ed ha come oggetto la vita affettiva dell’individuo. La migliore definizione di mentalizzazione crediamo sia quella di Lecours e Bouchard che anticipando Fonagy e collaboratori, la defi111
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nirono come: “una classe generale di operazioni mentali, comprese la rappresentazione e la simbolizzazione, che specificamente conducono a una trasformazione e all’elaborazione delle esperienze istintivo-affetto in fenomeni mentali e strutture sempre più organizzati” (Lecours e Bouchard, 1997). Concezione questa che avvicina il concetto di mentalizzazione alla psicoanalisi bioniana. Questa definizione mette in luce un aspetto importante della mentalizzazzione, la sua connessione con l’emozione. Le emozioni integrate con la cognizione, devono essere mentalizzate mentre “si rimane all’interno dello stato emozionale” (Fonagy et al., 2002). Nussbaum (2001), infatti, parla di mentalizzazione come una “forma di conoscenza emotiva”. Tutto ciò che esula da questo focus, rimane pura razionalizzazione. La mentalizzazione quindi, è un pensare e sentire mentre si pensa e si è nell’emozione. Si noti l’isomorfismo tra questa definizione e quelle fornite nel presente libro a proposito del modello bioniano. Vediamo nel dettaglio le analogie (sinteticamente riportate nelle figure 5.4 e 5.5). Nel modello di Bion (anche se quello presentato in questo volume si riferisce alla versione ampiamente rivista da Ferro), l’attività mentale parte da uno stato emotivo grezzo che Bion indica con “elementi beta” che seguendo un processo di significazione vengono trasformati in elementi alfa dalla funzione alfa. Dall’operazione dei meccanismi contenitore contenuto e dall’oscillazione tra la posizione schizoparanoide e quella depressiva, questi elementi alfa vengono intessuti in un linguaggio del pensiero (quelli che Ferro chiama derivati narrativi, Δn). Ipersemplificando, il modello di Fonagy e collaboratori parte anch’esso da uno stato mentale sconosciuto fatto dall’intreccio di emozioni “aporetiche” ovvero di emozioni in cerca di significazione (Allen et al., 2010), che grazie alla funzione riflessiva può essere compreso e conosciuto. Questo processo genera una coerenza narrativa che è la pellicola di cui è fatto il sé. Le analogie pertanto sono molteplici. Entrambe presuppongono le emozioni come base per la generazione di significato legando in modo inscindibile la cognizione all’affetto. Entrambe presuppongo 112
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
l’intervento di una funzione atta a processare questi elementi. Un’altra analogia nasce dalla “relazionalità” o “inter-psichicità” dei processi di pensiero per entrambe i modelli. Una mente ha bisogno di un’altra per potersi svilupparsi. Nel modello di Bion, la madre, alfa-betizza gli elementi grezzi sensoriali ed emotivi al posto del bambino e glieli restituisce modificati e digeribili (“reverie”). Allo stesso modo nel modello della mentalizzazione, una madre abbastanza sana, significa e mentalizza le emozioni e i bisogni fisiologici del bambino al suo posto e tramite il “mirroring” gli rimanda questi aspetti offrendogli una possibile comprensione.
Figura 5.4 Il modello bioniano e della mentalizzazione nella normalità a confronto.
Ma cosa avviene in caso di condizioni patologiche? Entrambi i modelli presuppongono che ad un fallimento di questi processi seguano produzioni patologiche di vario tipo. Il modello di Bion, 113
RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA
l’abbiamo visto nei capitoli precedenti, presuppone due livelli di fallimento che causano rispettivamente il fallimento del pensiero (ad opera del collasso della funzione alfa) o la degenerazione delle capacità di pensiero (si veda la figura 5.6). Questi fallimenti generano diversi prodotti patologici (oggetti bizzarri, elementi Balfa, e betalomi dal fallimento del primo processo, e trasformazioni in allucinosi et similia dal fallimento del secondo). In modo simile, ma più semplificato, il modello della mentalizzazione presuppone che al fallimento della funzione riflessiva seguano progressivi livelli di dementalizzazione. Gli autori distinguono tre “modus pensandi” dovuti al fallimento della mentalizzazione: 1. Equivalenza psichica. Similmente a quello che i kleiniani chiamano equazione simbolica, essa indica una modalità di pensiero concreto in cui tutto diventa “come vero” anzichè un “come se” (Bateman e Fonagy, 2010). Questa modalità di funzionamento porta ad una comprensione concreta. 2. Modalità del far finta. Gli stati mentali sono separati dalla realtà (a differenza della precedente modalità), anche se mantengono un senso di irrealtà (Allen et al., 2010), ovvero sono irrealistiche. Questa modalità di funzionamento porta ad una pseudomentalizzazione. 3. Pensiero teleologico. Gli stati mentali come i bisogni e le emozioni sono espressi in azioni (Allen et al., 2010), e sono le uniche ad avere uno statuto di guida del comportamento . Questa modalità di funzionamento porta ad un uso erroneo della mentalizzazione. Questi stati vengono contrapposti alla mentalizzazione vera e propria in cui le azioni sono comprese come derivate da stati mentali, e gli stati mentali sono realistici, ma dallo statuto ipotetico (Bateman e Fonagy, 2010).
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IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
Figura 5.5 Il modello bioniano e della mentalizzazione nella patologia a confronto.
Dal punto di vista tecnico, gli interventi basati sulla mentalizzazione si propongono primariamente di aiutare il paziente a sviluppare la capacità di: • riflettere su quali stati mentali, suoi e delle persone che gli stanno accanto, possano spiegare comportamenti e reazioni emotive altrimenti incomprensibili; • comprendere e dare un nome ai propri stati emotivi; • instaurare un senso di sé più solido. Per raggiungere questi obiettivi il terapeuta cerca di mantenere una vicinanza mentale al paziente (si pensi all’“unisono” di cui parla Bion), tenendo presente i limiti di entrambi e concentrandosi più sulla situazione attuale che sul passato (“senza memoria e desiderio”, direbbe Bion); il suo lavoro è paragonabile a quello che una 115
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madre sensibile fa con il proprio bambino, quando riproduce, accentuandoli giocosamente, gli stati affettivi del piccolo (Reveriè nel linguaggio bioniano). Questo atteggiamento aiuta il bambino-paziente ad identificare i propri stati interni, e a capire che appartengono a lui. Un fallimento di questa funzione di rispecchiamento può portare ad una carente capacità di mentalizzazione, per cui i pazienti possono avere difficoltà a distinguere gli stati mentali dalle azioni, ed essere angosciati da fantasie, che percepiscono come troppo reali, o viceversa a parlare dei propri stati interni in modo preconfezionato e superficiale, senza un’autentica comprensione. Secondo Bateman e Fonagy il valore curativo della loro tecnica non risiede nel contenuto esplicito degli interventi terapeutici, ma nel processo stesso della terapia, che rende i pazienti capaci di attribuire correttamente a sé e agli altri stati mentali e intenzioni. Per dirla con Bion, si lavora non sui contenuti, ma sul contenitore. Questi assunti come abbiamo cercato di sottolineare, sono assolutamente coerenti con la prospettiva bioniana della psicoterapia come esercizio di espansione dei processi di pensiero. E’ importante sottolineare che questo modello di terapia sebbene sia nato per il trattamento del disturbo borderline di personalità, sia applicabile ad un ampio spettro di patologie e gli autori ipotizzano che sia alla base di tutti i trattamenti psicoanalitici. Gli autori della mentalizzazione definiscono infatti “la psicoanalisi, potenzialmente l’esplorazione più profonda della mente che è stata sviluppata fino a oggi, potrebbe essere considerata un trattamento di mentalizzazione par excellence” (Allen, Fonagy, Bateman, 2010). Dal punto di vista tecnico, le modalità di favorire e sviluppare le capacità di mentalizzazione sono diverse. Ad esempio, secondo gli autori, il terapeuta dovrebbe mantenere un atteggiamento di aperta curiosità e di non conoscenza (quella che Bion chiama capacità negativa); creare un contesto in cui il paziente possa esplorare i propri processi di pensiero; utilizzare le emozioni come motore del pensiero garantendo che le emozioni non raggiungano mai livelli eccessivi (si veda il paragrafo sull’autotomia a tal proposito). 116
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
E ancora, proporre punti di vista alternativi e suggerire l’esplorazione di alternative, aiutare il paziente a riflettere sui suoi stessi processi di pensiero; validare l’esperienza emotiva del paziente prima di proporre altre modalità di pensiero. Inoltre il terapeuta dovrebbe mostrare come è arrivato a dedurre i significati di certi vissuti dietro ai comportamenti del paziente, offrendo modus pensandi strutturati, ma facilmente seguibili. Per contro, un atteggiamento antimentalizzante, sarebbe caratterizzato da: interventi troppo brillanti, acuti, complicati e basati su concetti teorici (psicogergo); attribuire stati mentali poco aderenti con l’esperienza del paziente; eccessiva attenzione sul contenuto e non sulla modalità di generare quel contenuto; favorire le libere associazioni che potrebbero portare ad un aumento delle emozioni e usare interpretazioni di transfert basate sul passato. In poche parole, il trattamento basato sulla mentalizzazione aiuta il terapeuta a costruire nella sua mente una immagine della mente del paziente attraverso un processo di mirroring. Il paziente deve sentirsi compreso, deve sentire che “stiamo costruendo la sua mente” (Allen, Fonagy, Bateman, 2010). Per raggiungere questo obiettivo il terapeuta deve focalizzare la propria attenzione sulla scarsa capacità di mentalizzare del paziente, identificando i limiti e i fallimenti di tale processo col fine di restituirgli compresi i suoi stessi stati mentali. Questa modalità di lavorare ha sempre come oggetto le emozioni e la vita affettiva del paziente.
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Capitolo VI Contenimento, trasformazione e meccanismi neurocognitivi della regolazione emozionale
“La scienza non fa veri progressi se non quando una verità nuova trova un ambiente pronto ad accoglierla”. Pëtr Kropotkin
1. Trasformazione e regolazione emozionale Nel capitolo precedente è stato mostrato il ruolo fondamentale del contenimento e della trasformazione delle emozioni nella direzione di una loro progressiva simbolizzazione durante la terapia. Nelle parole di Ferro e Vender, “trascurare ripetutamente nella terapia la capacità di contenere l’intensità delle emozioni, essenziale per il benessere psichico, può portare a una progressiva deriva... del trattamento. Se la terapia prende di mira solo i contenuti, possono manifestarsi sintomi psichiatrici sempre più ingravescenti...” (Ferro e Vender, 2010). Questa trasformazione passa attraverso una lunga e complessa elaborazione delle protoemozioni per accedere alla formazione dei pensieri. Nei capitoli precedenti abbiamo descritto alcune intuizioni della psicoanalisi sul funzionamento del pensiero emotivo (emocognitivo), sulla sua (epistemo)patologia e sul trattamento dei processi anticonoscitivi. In questo capitolo, verrano presentate le prove neuroscientifiche dei processi di base coinvolti nella trasformazione (normale e patologica) dell’esperienza emotiva. Data la complessità di alcune ipotesi di Bion, e dati i limiti delle conoscenze neuroscientifiche attuali, 119
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dovremo basare la ricostruzione di questi meccanismi su un terreno più semplice e formalizzato come quello offerto dai teorici della mentalizzazione. Abbiamo già illustrato l’isomorfismo tra il modello bioniano e quello della mentalizzazione (Capitolo 5). Gli autori della mentalizzazione (Allen et al., 2010) suggeriscono l’esistenza di tre forme di processamento emozionale alla base della possibilità di generare il significato (Bouchard et al., 2008). Essi sono: 1) l’identificazione e l’etichettamento dell’emozione, 2) la regolazione dell’arousal (ovvero della forza delle emozioni), e 3) il controllo effettivo (espressione delle emozioni), oltre che a specifici processi di simbolizzazione-mentalizzazione (Allen et al., 2010; Fonagy e Target, 2002). Questi processi non sono separati, ma, agiscono insieme per dare quello che potrebbe essere chiamato funzionamento emocognitivo o che gli autori del trattamento basato sulla mentalizzazione chiamano mentalizzazione o affettività mentalizzata (Allen et al., 2010). Anche per Bion la trasformazione delle emozioni avviene tramite processi di alfabettizzazione, contenimento e progressiva simbolizzazione (come si può dedurre dalla Griglia, Bion, 1962). Recentemente sono emerse le prime prove empiriche a sostegno dell’ipotesi che la psicoterapia (di matrice psicoanalitica) aumenti proprio le capacità di mentalizzazione (ovvero la possibilità di pensare le proprie emozioni). Levy e collaboratori (2006), hanno condotto uno studio per testare il livello di mentalizzazione nel pre e post trattamento in un gruppo di novanta pazienti con diagnosi di disturbo di personalità borderline. Questi pazienti sono stati assegnatti in modo casuale a tre trattamenti psicoterapici: la terapia focalizzata sul transfert, TFP, di matrice psicoanalitica ideata da Clarkin Yeomans e Kernberg (2000, 2011); la terapia dialettico-comportamentale, DBT, di Linehan (2011); e una terapia supportiva, ST, basata sul modello di Rockland (1994). Per misurare il livello di mentalizzazione gli autori hanno utilizzato l’intervista per l’attaccamento (AAI, George, Kaplan, & Main, 1985), e la scala della funzione riflessiva (una operazionalizzazione del concetto di mentalizzazione, Fonagy et al., 1995). I risultati hanno mostrato un 120
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
aumento significativo della mentalizzazione solo nel gruppo trattato con la TFP, ovvero con la terapia psicoanalitica. Risultati simili sono stati ottenuti in un altro studio indipendente (Busch et al., 2009; Milrod et al., 2007), in cui pazienti con disturbo da attacchi di panico sono stati assegnati a due trattamenti: una psicoterapia psicodinamica focalizzata sul panico, PFPP, un trattamento psicodinamico empiricamente validato (Busch et al., 2011); e una psicoterapia di rilassamento applicato, ART, di matrice comportamentista (Öst e Westling 1995). I risultati hanno mostrato un netto miglioramento della funzione riflessiva solo dopo la PFPP (dopo l’ART, la funzione riflessiva era addirittura peggiorata). Per illustrare i processi alla base della trasformazione delle emozioni, nei paragrafi successivi illustreremo le prove sperimentali a favore dei meccanismi cognitivi e neurali tramite cui la comprensione, la regolazione e il contenimento delle emozioni ha luogo. Verrano anche illustrati alcuni dati sull’effetto della mancata trasformazione/espressione delle emozioni.
2. Processi coinvolti nella regolazione emozionale Secondo un’ottica sperimentale, le emozioni sono modalità di risposta a stimoli interni od esterni aventi una certa valenza che: 1) riguardano cambiamenti a differenti livelli (esperienziale, comportamentale e fisiologico); 2) sono diverse dall’umore o dai sentimenti poichè hanno un origine più definita (evento scatenante) e durata limitata; 3) possono essere innate o apprese attraverso associazioni; 4) hanno bisogno di una significazione da parte di sistemi di valutazione; e 5) dipendono da diverse strutture neurali (Ochsner & Gross, 2005). Le emozioni sono modalità tramite cui il nostro cervello risponde a particolari stimoli in modo rapido e limitato nel tempo. Le emozioni hanno una qualità imperativa (Frijda, 1986) e richiamano le risorse del nostro sistema cognitivo. Esse sono quindi eventi complessi con cui la natura ci ha equipaggiati per migliorare l’adatta121
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mento delle specie al loro ambiente. Uno dei modelli più accreditati per comprendere le emozioni, è il modello “modale” di Gross (2007). Questo modello descrive il sistema delle emozioni come un sistema dinamico flessibile e multicomponenziale che si adatta alla specifica transazione tra l’individuo e il sistema con cui sta interagendo. Esso comprende una serie di fasi come la percezione dello stimolo emotigeno, l’attenzione rivolta a tale stimolo, una fase di valutazione o interpretazione dello stimolo, e infine una risposta che il sistema emette. A differenza della descrizione lineare qui fornita, questo sistema prevede una certa ricorsività e riaggiustamento in base alla valutazione della risposta emessa e dell’effetto che ottiene su tutti gli altri processi (Gross, 2007). Questo modello ci sembra essenziale alla comprensione della regolazione emozionale poichè prevede diverse fasi (i “modi”) in cui può avvenire tale regolazione. Precisiamo che la ricerca contemporanea sulla regolazione emozionale ha le sue radici nello studio dei meccanismi di difesa iniziata da Freud21 (Ochsner e Gross, 2005; Gross, 2007), che per primo ha intuito che il sistema mente cerca di gestire le emozioni troppo forti (l’angoscia nel suo modello), tramite degli “aggiustamenti” (i meccanismi di difesa appunto). Gross (1998; 2002; 2007) definisce col termine regolazione emozionale quella serie di processi eterogenei tramite cui gli uomini riescono a regolare le proprie emozioni. Poichè le emozioni sono risposte complesse e multicomponenziali, tali processi riguardano il cambiamento nelle “dinamiche delle emozioni” (Thompson, 1990), ovvero nell’inizio, nella durata, nella forza e nel declino di tali risposte, e agiscono su una o più componenti (esperienza soggettiva, risposta comportamentale e fisiologica) (Gross, 2001; 2002). Una distinzione fondamentale è che i meccanismi di regolazione possono essere intrinseci (intrapsichici) o estrinseci (quando noi aiutiamo gli altri a regolare le proprie emozioni, ovvero interpersonali). I primi sono meccanismi che noi utilizziamo ogni giorno e che 21 Si veda ad esempio Inibizione sintomo e angoscia di Freud (1926), o L’io e i meccanismi di difesa di Anna Freud (1997).
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IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
possono fallire gettando le basi per una eventuale psicopatologia. I secondi, i meccanismi estrinseci, pertengono al campo interpersonale e rappresentano una classe di processi che potrebbero essere alla base del processo terapeutico. Questi processi possono essere consci o inconsci, volontari o involontari, centrali o periferici e cadere in una delle fasi previste dal modello “modale” (Gross, 2002). Riguardo a quest’ultimo punto abbiamo diverse possibilità di regolazione focalizzate sugli antecedenti o focalizzate sulle risposte. Le strategie focalizzate sugli antecedenti sono ad esempio la selezione della situazione e la modifica della situazione (Gross, 1998). Con il primo si intendono quei processi tramite cui evitiamo accuratamente le situazioni cui ci esponiamo con il fine di ridurre la possibilità di esperire una data (spiacevole) emozione. Questo meccanismo è quello a cui la psicoanalisi ha dato il nome di meccanismo di difesa di evitamento, che caratterizza uno stile di personalità evitante che è alla base delle fobie fino alle forme più estreme come nella claustrofobia e nell’agorafobia. Il secondo meccanismo, la modifica della situazione, è strettamente imparentato con il problem-solving e ci permette di modificare quegli aspetti dell’ambiente che inducono un certo malessere. Un altro meccanismo molto usato è quello della dislocazione dell’attenzione. Le persone normalmente redirigono la propria attenzione su stimoli che possono indurre uno stato di benessere e la distolgono da quelli che possono indurre emozioni spiacevoli. Questo meccanismo sembra essere presente fin dalla nascita quando il bambino ad esempio allontana lo sguardo dalla fonte di dolore (Rothbart et al., 1992), ed è forse la forma più primitiva di “evitamento”. Si distinguono per comodità due meccanismi di dislocazione attentiva: la distrazione (spostamento attivo e continuativo dell’attenzione da uno stimolo) e la concentrazione (focalizzazione selettiva e difensiva su uno stimolo). La concentrazione può essere diretta anche verso l’interno, ed è tipicamente usato da individui affetti da ipocondria e attacchi di panico quando focalizzano la loro attenzione su sensazioni somatiche (respiro, dolori fisici, battito cardiaco), invece 123
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che sull’evento (mentale) che ha generato quella sensazione. Un’altra serie di meccanismi riguardano quelli che cadono sotto la classificazione di regolazione per cambiamento cognitivo. Nel caso in cui lo stimolo non possa essere evitato concretamente o tramite spostamento dell’attenzione, un’altra possibilità è quella di cambiarne il significato nel senso di reinterpretarne il significato. In inglese viene detto reappraisal e la sua definizione formale è “la modifica del significato di un evento in modo da ridurre il suo impatto emozionale” (Gross, 2002). Questa forma di regolazione usa abilità cognitive superiori come la memoria di lavoro, l’immaginazione o imagery e altre funzioni esecutive. Su questo meccanismo ritorneremo più volte perchè potrebbe essere visto come alla base del processo terapeutico (nel senso di una trasformazione simbolica delle emozioni). Un’altra possibilità di regolazione emozionale è data dalla modulazione della risposta, intendendo con essa la modifica (automatica o volontaria) delle risposte esperienziali, fisiologiche e comportamentali scatenate dall’emozione stessa. Di questi ricordiamo la soppressione (suppression), una forma di inibizione dell’espressione delle emozioni (Gross, Levenson, 1993, 1997). In psicoanalisi alcuni noti meccanismi di soppressione sono la repressione22, ovvero il volontario allontamento di contenuti emotigeni dalla mente (a differenza della rimozione che ne è la controparte inconscia), e tutti quei meccanismi di controllo e “impacchettamento” dei vissuti emotivi (Ferro, 2010), come la compartimentalizzazione, l’isolamento, l’inibizione etc... Un’altra strategia non classicamente definita di regolazione emozionale, ma il cui effetto è anch’esso di ridurre l’impatto emotivo, è l’etichettamento emotivo o identificazione dell’emozione (affective labelling), ovvero l’effetto modulatorio dato dalla possibilità di identificare e nominare le emozioni che vengono esperite. Concetto agli antipodi del “terrore senza nome” di cui parla Bion che indica uno stato emotivo senza qualità mentali e senza possibilità di essere 22 La repressione è la controparte consapevole della rimozione (Blackman, 2003).
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conosciuto e pensato. L’importanza dell’alfabetizzazione o identificazione delle emozioni è sottolineato tanto dalla psicoanalisi bioniana quando dai teorici della mentalizzazione (Fonagy et al., 2002). Qualcuno potrebbe domandarsi se queste strategie di regolazione emozionale siano tutte efficaci nel loro scopo e se non abbiano “effetti collaterali”. Queste domande aprono un ampio spazio di riflessione sull’utilità dei meccanismi di difesa. In base alle teorie psicoanalitiche l’uso dei meccanismi di difesa (ovvero di strategie di autoregolazione emozionale), può essere sia adattivo che disadattivo. In particolare, la riuscita di un assetto difensivo è data sia dalla quantità di meccanismi utilizzati, che dalla qualità. Da una parte un uso eccessivo di meccanismi di difesa è fonte di patologia, dall’altra anche la tipologia di meccanismi di difesa (più o meno maturi) utilizzati può essere causa di patologia (Lingiardi e Madeddu, 2002). Ad esempio, si assume che l’utilizzo saltuario e selettivo dei meccanismi di difesa sia fonte di buon funzionamento psichico. Lo stesso dicasi per l’utilizzo dei meccanismi definiti “maturi” (razionalizzazione, spostamento etc...). Invece nel caso di un utilizzo massivo e inflessibile dei meccanismi di difesa, o nel caso di utilizzo di meccanismi primitivi (scissione, diniego, identificazione proiettiva etc...), si assume che ciò sia prognostico di scarso adattamento e quindi di patologia. Dal punto di vista sperimentale, abbiamo alcune conferme di questi assunti. Ad esempio, è stato dimostrato che il tipo di strategia di regolazione emozionale determina il benessere dell’individuo. In particolare, si è visto che le strategie di evitamento fisico o soppressione della risposta, se è vero che da una parte limitano l’espressione comportamentale manifesta dell’emozione in oggetto, dall’altra non solo falliscono nel diminuire l’esperienza soggettiva dell’emozione, ma, alla lunga provocano un effetto paradossale di aumento dell’attivazione fisiologica (iperattività del sistema nervoso parasimpatico23, 23 Il sistema nervoso autonomo (SNA), è quella parte del sistema nervoso responsabile del controllo delle funzioni vegetative. Esso è composto dal sistema simpatico e dal para-
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RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA
ovvero della forza degli effetti fisiologici dell’emozione) (Ochsner e Gross, 2005). Questo aumento è associato a stress psicofisico e possibili forme di psicosomatosi. Sembra anche che queste strategie abbiano un effetto deleterio nei confronti della memoria24 e dei rapporti sociali. Questo ci rimanda alle differenti modalità di trattamento dell’esperienza emotiva che se di tipo “repressivo” (in senso lato) più che espressivo (trasformazione simbolica), può portare alla patologia. Studi sperimentali hanno dimostrato che questo assunto è vero: gli individui che utilizzano uno stile “repressivo” di regolazione rispetto a quelli che utilizzano modalità trasformative (reappraisal) hanno una peggiore qualità della vita, un diffuso malessere psicologico e interpersonale, e la tendenza a sviluppare sintomi depressivi (John e Gross, 2004). Altri studi hanno anche dimostrato che l’uso eccessivo (quantità) di strategie repressive correla negativamente con la salute psicofisica e sociale dell’individuo (Gross e John, 2002; Gross e Munoz, 1995).
3. Basi neurali ed evidenze sperimentali della regolazione emozionale In questa sezione verranno passate in rassegna le basi neurali dei meccanismi di regolazione emozionale. Le ricerche attualmente disponibili su questo tema potrebbero portare in un giorno non troppo lontano ad una migliore concettualizzazione di cosa avviene durante una psicoterapia. Delle prove neuroscientifiche iniziamo con l’esaminare le prove simpatico. Secondo alcuni autori il sistema parasimaptico è strettamente connesso con la regolazione e la disregolazione della componente fisiologica delle emozioni (Thayer e Lane, 2000). 24 Essendo la soppressione una strategia impegnativa e attiva di soffocamento delle emozioni, essa toglie energia altrimenti disponibile al sistema cognitivo per compiere altre operazioni come la memorizzazione di informazioni ambientali (John e Gross, 2004).
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IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
neuropsicologiche della regolazione emozionale. La neuropsicologia è quel ramo della psicologia che studia la patologia dei processi cognitivi conseguenti un danno cerebrale di natura traumatica, vascolare o degenerativa. Essa cerca di capire quali aspetti delle funzioni cognitive rimangono intatte o danneggiate col fine di trarre conclusioni sui processi cognitivi normali. Tipicamente i pazienti con un qualche tipo di insulto cerebrale vengono accuratamente esaminati con una serie di tests e questionari in modo da isolare il deficit prodotto da uno specifico danno. I dati di questa disciplina ci permettono di capire quali sono le aree cerebrali che se danneggiate causano un fallimento della regolazione emozionale. Di conseguenza da questi dati è possibile dedurre quali siano le aree responsabili della regolazione emozionale. Nella tabella 1 vengono riassunte alcune delle aree spiegate di seguito che se danneggiate provocano specifiche disregolazioni emozionali.
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Tabella 6.1 Aree importanti per la generazione e la regolazione delle emozioni. (Modificata da Beer e Lombardo, 2007, e ampliata dall’autore) AREA CEREBRALE DANNEGGIATA
TIPO DI DEFICIT PRODOTTO
EVENTUALI IMPLICAZIONI PSICOPATOLOGICHE
Lobi temporali mesiali
Esplosioni di rabbia
Disturbo borderline di personalità, disturbo istrionico di personalità, disturbo del controllo degli impulsi
Amigdala, corteccia cingolata anteriore (ACC)
Comportamenti violenti e aggressivi
Disturbo antisociale di personalità, narcisismo maligno
Corteccia orbitofrontale (OFC)
Scelte e comportamenti rischiosi
Dipendenze dal gioco, disturbo antisociale di personalità
OFC
Labilità emozionale
Disturbi borderline, istrionico e isterico di personalità
OFC
Fallimento nella ricerca di stimoli positivi/ piacevoli
Depressione
OFC
Orgoglio e eccessiva idealizzazione
Disturbo narcisistico di personalità
Corteccia prefrontale (PFC) e OFC
Ansia ingiustificata
Disturbi d’ansia
PFC
Affetti incongrui e inappropriati
Psicosi schizo-affettiva
Corteccia prefrontale ventromediale (VMPFC)
Impulsività
Disturbo del controllo degli impulsi
Corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) e OFC
Tristezza
Depressione
OFC, DLPFC, lobi temporali
Scoppi di pianto
Depressione
Lobi temporali, OFC, corteccia prefrontale laterale
Apatia, passività
Depressione, disturbo schizoide di personalità, fobie sociali, schizofrenia
Talamo, ACC
Incapacità di arrabbiarsi e mancanza di assertività
Disturbo d’ansia sociale, disturbo dipendente di personalità
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IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
La prima osservazione neuropsicologica in tema di deficit della regolazione emozionale, è senz’altro la sindrome di Klüver-Bucy (Klüver e Bucy, 1939). Scoperta negli anni trenta, essa descrive una sindrome caratterizzata da apatia, disregolazione dell’ansia e delle reazioni di paura, e da ipersessualità conseguente un danno esteso e profondo dei lobi temporali, inclusa l’amigdala e che si estende fino alla corteccia orbitofrontale (OFC). Si veda la figura 6.1.
Figura 6.1. Raffigurazione delle aree cerebrali coinvolte nella generazione e regolazione delle emozioni (Immagine generata dall’autore tramite SPM8, Statistical Parametric Mapping software, Wellcome Department of Cognitive Neurology, London, si veda Frackowiak et al., 2003).
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Un’altra regione sicuramente implicata nella generazione e regolazione delle emozioni è l’amigdala la cui funzione è quella di determinare la pericolosità degli stimoli spaventosi o segnalare un evento inatteso (Whalen, 1998). Danni a quest’area provocano diversi deficit nel riconoscimento e nell’espressione dell’emozione di paura. Inoltre, pazienti con danno a questa regione non riescono a capire quando sarebbe opportuno modulare le proprie reazioni emotive per non offendere le persone con cui si relazionano (Beer e Lombardo, 2007). Anche la corteccia prefrontale (incluse le parti dorsali, laterali e ventrali), sembra avere un ruolo importante nella regolazione e inibizione delle emozioni negative e nella massimizzazione di quelle positive (Beer et al., 2006). Questa area (nella porzione ventromediale e orbitofrontale) sembra anche risponsabile dell’apprendimento di ricompense, nell’esperienza del rammarico e nell’evitamento di situazioni passate pericolose. Comunque l’effetto più tipico conseguente la lesione della corteccia prefrontale è la mancata regolazione della forza con cui le emozioni vengono esperite (Hornack et al., 2003). Infatti, pazienti con danni frontali mostrano un aumento di irritabilità, labilità emozionale, e inappropriatezza dell’affetto esperito. Inoltre, danni a quest’area producono non solo una aumento di certe esperienze affettive, ma, anche una loro diminuizione (apatia) (Paradiso et al., 1999). È probabile che quest’area sia responsabile del controllo cognitivo delle emozioni sia nel senso di una loro diminuizione sia nel senso di un’aumento qualora la situazione lo richieda. Sulle molteplici funzioni regolatorie di quest’area e le sue implicazioni in psicopatologia e nel processo terapeutico, ritorneremo nelle sezioni successive. Un’altra regione molto importante è la corteccia cingolata. Essa sembra svolgere una funzione di evitamento di situazioni o stimoli pericolosi e nelle reazioni di rabbia e aggressività. Inoltre essa è coinvolta nella reinterpretazione degli stimoli emotigeni (reappraisal) e 130
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un danno a suo carico sembra essere coinvolto nella disregolazione della forza di emozioni come la tristezza, la rabbia e la paura (Cohen et al., 2001). Questi dati indicano che ci sono alcune regioni cerebrali (porzioni dorsali, laterali e ventrali della corteccia prefrontale, corteccia cingolata) fondamentali perchè le emozioni possano essere percepite ed elaborate correttamente in modo che non risultino soverchianti. Tuttavia i deficit derivati dal danno di queste aree potrebbero essere dovuti tanto ad un’aberrazione dei sistemi di valutazione e risposta emotiva, quanto ad un’aberrazione dei sistemi di controllo, inibizione di tali risposte. Sfortunatamente i dati neuropsicologici che abbiamo a disposizione non permettono di distinguere queste due ipotesi. Per delineare questa distinzione dobbiamo rivolgerci alla letteratura neuroscientifica su individui normali (senza lesioni). Tipicamente in questi studi vengono manipolate sperimentalmente le varie componenti dei processi coinvolti nella regolazione emozionale. Questo permette di comprendere in modo univoco l’architettura dei processi di regolazione emozionale. Nella parte che segue cercheremo di esplicitare le ipotesi su questa architettura e i dati sperimentali di supporto. Dal punto di vista sperimentale uno dei modelli più accreditati del controllo cognitivo delle emozioni è quello di Ochsner e Gross (2007). Questo modello prevede l’interazione tra sistemi di valutazione degli stimoli e generazioni delle emozioni (appraisal systems), e sistemi di controllo (control systems) che modulano le risposte affettive. I sistemi valutativi includono tutte quelle strutture neurali che rispondono selettivamente agli stimoli emotigeni come l’amigdala (per l’emozione della paura), l’insula (disgusto morale, rabbia), la corteccia orbitofrontale (punizioni e rammarico) e lo striato (ricompense). La lista potrebbe allungarsi includendo anche le regioni responsabili delle emozioni positive, ma, ai fini di questo libro esse non verrano prese in considerazione. 131
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Questi sistemi valutativi sono strettamente connessi con quelli responsabili della risposta autonomica come i nuclei ipotalamici e i nuclei del tronco cerebrale che scatenano la cascata di reazioni fisiologiche associata ad ogni emozione. I sistemi di controllo includono alcune strutture della corteccia prefrontale come la corteccia prefrontale dorso-laterale, la corteccia cingolata anteriore e dorsale e la corteccia prefrontale ventromediale. L’idea alla base di questo modello è che quando la generazione dell’emozione inizia (da parte dei sistemi di valutazione come l’amigdala, l’insula e la corteccia orbitofrontale), gli stimoli e le associate emozioni, debbano essere rappresentate, valutate e rivalutate dalle funzioni cognitive superiori. Questi sistemi di valutazione tramite processi di mantenimento attivo dell’informazione emotiva, la sua rivalutazione, l’etichettamento e la contestualizzazione, ne modificano (contengono e trasformano nella terminologia bioniana) il significato. Similmente, Phillips e collaboratori (Phillips et al., 2003) parlano di due sistemi localizzati: il primo nelle aree ventrali del sistema nervoso, e il secondo nelle aree dorsali. Il primo sarebbe preposto alla generazione del significato emotivo e includerebbe l’amigdala, l’insula, la corteccia orbitofrontale-ventromediale. Il secondo sarebbe coinvolto nei processi cognitivi di controllo (attenzione selettiva, pianificazione, monitoraggio e inibizione volontaria), localizzato nelle aree dorsali della corteccia prefrontale come la corteccia cingolata anteriore e la corteccia dorso-laterale. Questo modello aggiunge una considerazione interessante al quadro che stiamo dipingendo. Secondo gli autori sia filogeneticamente, che ontogeneticamente le aree ventrali precedono le aree dorsali. Ovvero, gli uomini hanno a disposizione all’inizio solo il sistema per generare le emozioni (in forma grezza non simbolizzata), e solo successivamente (con lo sviluppo della specie e del singolo individuo) anche un sistema per contenerle, simbolizzarle e mentalizzarle. Si potrebbe ipotizzare che solo in condizioni ottimali (ovvero in accordo alle condizioni delineate nel capitolo 3), l’individuo acqui132
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
sisca un sistema per modulare e mentalizzare le proprie emozioni. Il fallimento di questa acquisizione dei processi trasformativi delle emozioni, e la conseguente disregolazione delle stesse, potrebbe generare varie forme di psicopatologia o come è stata definita nel presente libro, di epistemopatologia. Nella prospettiva che abbiamo delineato nei capitoli precedenti, questi fallimenti nei processi trasformativi emotivi sono quelli di cui dovrebbe occuparsi il terapeuta lungo il trattamento. Le prove della disfunzione di questi meccanismi in psicopatologia verrano tracciate nell’ultimo paragrafo. Qualunque sia l’esatta architettura di questi due sistemi (generazione e regolazione delle emozioni), solo un’analisi appronfondita di ogni strategia di regolazione emozionale ci permetterà di capire meglio come sono strutturati gli elementi alla base di questo processo. Lo ripetiamo, gli autori della mentalizzazione suggeriscono l’esistenza di tre meccanismi alla base della mentalizzazione dell’esperienza affettiva. Essi sono: 1) l’identificazione e l’etichettamento dell’emozione, 2) la regolazione dell’arousal (ovvero della forza delle emozioni), e 3) il controllo effettivo (espressione delle emozioni) (Allen et al., 2010; Fonagy e Target, 2002). Il primo meccanismo che prenderemo in analisi è quello dell’identificazione delle emozioni. Partiremo quindi con l’illustrare le prove sperimentali dell’etichettamento affettivo (affective labelling). Un interessante esperimento di Lieberman e colleghi (2007), ha dimostrato che la possibilità di nominare le emozioni riduce la risposta fisiologica nelle aree deputate alla percezione di quelle emozioni, ed aumenta la risposta nelle aree responsabili del “pensare quelle emozioni”. Detto in altri termini, si può ipotizzare che il nominare le emozioni, regoli le emozioni stesse e permetta in qualche modo di simbolizzarle. L’esperimento prevedeva la registrazione dell’attività cerebrale (il livello di flusso sanguigno, in gergo BOLD) tramite risonanza magnetica funzionale, mentre i soggetti osservavano delle espressioni facciali emotive. L’esperimento inoltre 133
RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA
prevedeva che durante l’osservazione i soggetti eseguissero alcuni compiti come: 1) l’etichettamento dell’emozione, 2) l’individuazione del sesso del volto, 3) l’accoppiamento del volto target con un altro volto avente la stessa espressione, 4) l’accoppiamento del sesso del volto target con un altro volto dello stesso sesso; 5) l’accoppiamento di forme; oltre alla 6) condizione di “baseline” di semplice osservazione delle espressioni senza fare nient’altro. Di tutti questi compiti, l’osservazione dell’espressione era la condizione in cui la risposta dei centri emotivi del cervello era massima. Tutte le altre condizioni rispondevano in modo simile all’osservazione. Tutte, tranne l’etichettamento emotivo che era l’unico compito che determinava una riduzione sostanziale dell’attivazione emozionale nell’amigdala e in altre regioni limbiche responsabili della percezione delle espressioni facciali emotive. Un altro risultato interessante è che le regioni ventrali e laterali della corteccia prefrontale (regioni che più avanti vedremo essere coinvolte nei processi superiori di pensiero), erano maggiormente attive, probabimente coinvolte nella generazione dell’etichetta emotiva, ovvero del “pensiero sulle emozioni”. Questo risultato ha confermato ed esteso uno studio precedente di Hariri (Hariri et al., 2003), che per primo ha dimostrato un coinvolgimento prefrontale nella modulazione dell’amigdala in un compito di nominazione delle emozioni rispetto alla semplice osservazione. Identificare (alfabetizzare) le emozioni ha un effetto trasformativo (contenitivo) sulle emozioni stesse. Per quanto riguarda il secondo meccanismo, quello della regolazione della forza delle emozioni (arousal), le due strategie più studiate sono quelle della reinterpretazione (reappraisal) e della soppressione volontaria (suppression). La strategia del reappraisal, è definita come la reinterpretazione25 cognitiva dello stimolo emotigeno in modo da considerarlo 25 Si noterà l’analogia con due processi di grande interesse per la teoria e la clinica psicoanalitica. Il primo è il processo di generazione del pensiero a partire dall’esperienza
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IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
meno (o più) negativo. Essa implica la generazione di un pensiero sullo stimolo emotigeno ovvero una produzione di significato emotivo ( funzionamento emocognitivo). Una serie di studi capitanati da Ochsner e Gross, hanno scoperto il circuito neurale alla base di questa strategia. I partecipanti di questi esperimenti venivano istruiti in una condizione ad osservare, e in un’altra a dare delle re-interpretazioni personali degli stimoli emotigeni presentati. Ad esempio, davanti all’immagine di una donna che piange, una reinterpretazione meno negativa (down-reappraisal) potrebbe essere quella di pensare che la donna “piange perchè ha un forte mal di testa e che le passerà con una semplice aspirina”, piuttosto che pensare “piange perchè le è morta una persona cara” (definita up-reappraisal). L’effetto della prima reinterpretazione è di abbassare la forza dell’emozione. L’effetto della seconda è quello invece di aumentarla. Questi studi hanno dimostrato che ancora una volta la corteccia dorso-laterale prefrontale e la corteccia cingolata anteriore si attivano maggiormente rispetto alla condizione “baseline” (in cui veniva detto loro di guardare e rispondere spontaneamente), ovvero nel momento in cui devono elaborare un pensiero sullo stimolo emotivo. Di maggiore interesse è il dato secondo cui l’attivazione dei sistemi di valutazione (amigdala, corteccia orbitofrontale etc...) veniva largamente modulata nel senso di una loro riduzione. Concludiamo ricordando che due recenti esperimenti di risonanza magnetica e comportamentali hanno cercato di fondere reappraisal e mentalizzazione per indurre la regolazione di emozioni nate in contesti interpersonali (Grecucci et al., 2012 Grecucci et al. in stampa). L’aspetto interpersonale dei processi di regolazione e trasformaemotiva di cui si è occupata la psicoanalisi a partire da Bion. Il secondo è il processo interpretativo (nell’accezzione bioniana, si veda il capitolo quinto) ipotizzato dalla psicoanalisi come uno dei fondamentali meccanismi alla base del cambiamento terapeutico. Entrambi questi processi hanno molte analogie con il processo di reappraisal studiato dalla letteratura neuroscientifica. Pertanto i dati che andremo ad esporre potrebbero essere traslati e applicati a questi concetti psicoanalitici.
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RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA
zione emozionale, è di grande rilievo se consideriamo che molte forme di psicopatologia riguardano proprio il contesto sociale e interpersonale. In pratica, veniva chiesto ai partecipanti all’esperimento di reinterpretare le intenzioni dei partner con cui avrebbero interagito in modo più (up regulation) o meno (down regulation) negativo rispetto alla condizione di controllo “neutra”. Per ricreare nel laboratorio una situazione interpersonale i partecipanti hanno giocato al gioco dell’Ultimatum. Questo gioco usato ampiamente nella letteratura neuroeconomica, implica la divisione di una quantità monetaria tra un partecipante (il soggetto sperimentale), e il suo partner avversario (simulato al computer). Le divisioni possono essere più o meno eque e il partecipante può decidere se accettarle o rifiutarle. È stato precedentemente dimostrato che quando riceviamo offerte inique e comportamento scorretti, la reazione spontanea è quella di una sensazione spiacevole e sgradevole di “disgusto morale” e di rabbia. Questa reazione sembra essere codificata nell’insula. In questo esperimento i soggetti avrebbero dovuto applicare il reappraisal interpersonale per leggere la mente dell’avversario. Gli autori hanno dimostrato che l’insula subiva un aumento (up-regulation) o diminuizione (down-regulation) della sua attivazione con conseguente diminuizione dell’esperienza emotiva negativa quando i soggetti applicavano la strategia di regolazione interpersonale. Anche in questo compito la corteccia dorso-laterale prefrontale risultava essere più attiva quando i soggetti applicavano tale strategia. L’attivazione di questa area correlava inoltre con l’uso del reappraisal, ma non con l’uso della suppression, dimostrando ulteriormente il ruolo della corteccia prefrontale nelle strategie di regolazione emozionale su base reinterpretativa. Questo studio ha quindi dimostrato che questa strategia di regolazione interpersonale (reappraisal della mente dell’altro, molto simile alla mentalizzazione interpersonale), sia efficace nel modulare le risposte emotive elicitate dalla situazione sociale. Questo esperimento inoltre, ha permesso di dimostrare per la prima volta che la regolazione emozio136
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
nale avviene non solo all’interno dell’individuo quando affronta uno stimolo emotigeno, ma (facendo un salto concettuale), che essa è possibile anche tra le persone, proprio come avviene nel rapporto prototipico madre-bambino o tra il paziente e il terapeuta. Per quanto riguarda il terzo meccanismo ipotizzato dagli autori della mentalizzazione, l’espressione delle emozioni, la letteratura sperimentale si è maggiormente concentrata nello studiare cosa accade nel caso di mancata espressione delle emozioni, ovvero nel caso della repressione o soppressione (suppression) delle emozioni. Gli studi che andremo ad esporre ora, aprono un’interessante prospettiva sullo studio delle strategie di regolazione emozionale disfunzionali. Come anticipato nel precedente paragrafo, non tutte le strategie di regolazione sono efficaci nel contenere, trasformare, e simbolizzare le esperienze affettive. In un esperimento di Goldin e collaboratori (2008), i partecipanti erano stati istruiti ad applicare sia il reappraisal, che la suppression, ovvero quella strategia secondo cui bisogna reprimere ogni risposta emotiva in modo che un osservatore non possa capire che stiamo percependo alcuna emozione. Nel frattempo questi soggetti erano esposti a stimoli emotigeni di vario tipo. Rispetto alla condizione di controllo (“rispondi naturalmente”), gli autori hanno trovato una maggiore attivazione delle aree dorsali e laterali della corteccia prefrontale. Queste aree sono responsabili dell’attuazione delle strategia di regolazione emozionale “reinterpreta” e “sopprimi”. Tuttavia, il dato più interessante è che le aree responsabili della valutazione emotiva (come l’amigdala, o l’insula) risultavano inibite nella condizione reappraisal, ma iperattivate nella condizione suppression. In modo simile in un compito di soppressione di sentimenti di tristezza (Levenson et al., 2002), la corteccia orbitofrontale si iperattiva invece che diminuire. Altri studi hanno dimostrato che persino la conduttanza cutanea (una misura dell’attivazione fisiologica) aumenta invece di dimuire, in compiti di soppressione emozionale 137
RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA
(Ohira et al., 2006). Detto in altri termini le strategie di tipo “repressivo” (come molti dei meccanismi di difesa), se è vero che da una parte diminuiscono, inibiscono e controllano l’espressione delle emozioni o la loro consapevolezza, sono assolutamente inefficaci nel regolarle, e anzi ne aumentano la forza26! Si può ipotizzare che in terapia avvenga un cambiamento nelle strategie di regolazione emozionale, da forme “soppressive” (basate sulla rimozione nevrotica, o sulla scissioneproiezione come negli stati borderline o psicotici), ad una più elaborativa-trasformativa come suggerito dai dati sul reappraisal. In un altro interessante esperimento (Grecucci et al. in stampa), gli autori hanno dimostrato che la strategia di evitamento fallisce nel regolare le emozioni spiacevoli. Questa è stata la conferma che i meccanismi di evitamento (oltre a quelli di soppressione), non producono alcuna trasformazione e simbolizzazione delle emozioni. Chiudiamo questa disamina sui processi emocognitivi di regolazione e trasformazione emozionale, illustrando le basi neurali della mentalizzazione. La mentalizzazione nella fattispecie dell’affettività mentalizzata, produce una regolazione emozionale e la possibilità di una più appropriata generazione del significato emotivo incipiente. Nelle parole degli autori: “questa forma di mentalizzazione è essenziale per la regolazione delle emozioni, essendo coinvolta nell’identificazione, nella modulazione e espressione degli affetti” (Fonagy et al., 2002). Oltre ad includere i meccanismi sopra illustrati, gli autori della mentalizzazione aggiungono altri meccanismi più specifici. Secondo Fonagy (2006), infatti, la mentalizzazione comprende processi come il rispecchiamento emotivo (empatia), la comprensione dell’affetto, la regolazione dell’affetto, l’inibizione di processi attributivi prepotenti (proiettivi), e la comprensione dell’altro (lettura della mente). In Tabella 6.2, sono illustrate sinteticamente le basi neurali di questi ed altri processi.
26 Sul destino di queste emozioni non trasformate e che rimangono in uno stato grezzo non elaborato rimandiamo ai capitoli terzo e quarto.
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IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
Tabella 6.2 Processi coinvolti nella mentalizzazione (Modificata da Allen et al., 2010) PROCESSO
BASI NEURALI
POSSIBILE RISVOLTO PSICOPATOLOGICO IN CASO DI MANCATO FUNZIONAMENTO
Comprensione delle emozione
Regolazione delle emozioni
Rispecchiamento emotivo (empatia)
Comprensione dell’altro (lettura della mente) e basi della mentalizzazione Inibizione di processi attributivi prepotenti (proiezione)
Sistemi di valutazione (appraisal) come l’amigdala, la corteccia orbitofrontale, lo striato e l’insula... Corteccia dorsale, ventrale e laterale prefrontale, corteccia cingolata anteriore
Cecità emozionale, emozioni inappropriate
Neuroni mirror (porzione rostrale anteriore del lobo parietale inferiore, settore inferiore del giro pre-centrale, giro frontale inferiore, solco temporale superiore, corteccia premotoria dorsale), insula Corteccia prefrontale ventro-mediale, giunzione temporo-parietale
Non chiari, autismo?
Giro frontale inferiore, corteccia cingolata anteriore
Disturbi dello spettro paranoide
Disregolazione delle emozioni
Cecità mentale (autismo)
Tutti questi processi contribuiscono al contenimento e alla regolazione degli stati emotivi e alla generazione del significato a partire dall’esperienza affettiva dell’individuo. Per quanto riguarda il rispecchiamento emotivo, dobbiamo alla scoperta dei neuroni mirror (neuroni specchio) (Rizzolatti e Craighero, 2004), la comprensione di come una mente riesce a raffigu139
RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA
rarsi la mente dell’altro. Essendo un argomento già molto presente nella lettura clinica non ci soffermeremo ulteriormente. Per quanto riguarda l’inibizione di processi attributivi erronei e proiettivi, esperimenti che hanno studiato le risposte in presenza di stimoli conflittuali, hanno dimostrato il coinvolgimento della corteccia cingolata anteriore e della corteccia dorso-laterale prefrontale nella selezione della risposta più appropriata a sfavore di quella non pertinente (si veda ad esempio, Sylvester et al., 2003). Queste aree si attivano per controllare e inibire le rappresentazioni inadeguate. Un’ipotesi che avanziamo è che in caso di emozioni troppo forti, queste aree di controllo vengano indebolite o inattivate selettivamente (come dimostrato per altre funzioni esecutive superiori). Questa disattivazione crea un fallimento nella selezione della risposta più adeguata, generando rappresentazioni degli altri inappropriate (ovvero proiettive). Riguardo alla generazione e alla regolazione delle emozioni abbiamo già disquisito abbondantemente. Le capacità più propriamente di mentalizzazione, strettamente connesse con quelle della lettura degli stati mentali e affettivi dell’altro, sembrano localizzate nella corteccia ventromediale e nella giunzione temporo-parietale (Frith e Frith, 2003). Queste aree infatti si attivano in compiti in cui ci viene chiesto di spiegare il comportamento dell’altro e di carpirne le intenzioni (compiti di mind-reading). Nelle figure 6.2 e 6.3 riprendiamo due grafici del capitolo precedente e li completiamo aggiungendo un possibile modello neurobiologico della trasformazione cognitiva delle emozioni, nella normalità e nella patologia.
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IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
Figura 6.2 Modello bioniano, modello della mentalizzazione e modello neurobiologico (tentativo) nella normalità a confronto.
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RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA
Figura 6.3 Modello bioniano, modello della mentalizzazione e modello neurobiologico (tentativo) nella patologia a confronto
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IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
6.4 Psicopatologia e disregolazione emozionale Fallimenti nella regolazione emozionale e conseguente attacco delle capacità di pensare sono implicate in diverse forme di psicopatologia. Si stima che più del 50% dei disturbi dell’asse I e il 100% dei disturbi dell’asse II implicano difetti nella capacità della regolazione delle emozioni (Gross e Munoz, 1995; Gross e Levenson, 1997). Inoltre alcuni dei criteri utilizzati per diagnosticare un dato disturbo farebbero esplicito riferimento ad un impedimento della regolazione emozionale27 (Kring e Werner, 2004; Amstadter, 2008). In questa sezione ci occuperemo di esporre le emergenti prove sperimentali, separatamente per ogni disturbo. Disturbi d’ansia I disturbi d’ansia, data la loro prevalenza nella popolazione, sono stati i disturbi più studiati dal punto di vista delle strategie di regolazione emozionale. Ad esempio uno studio di Lynch (Lynch et al., 2001), ha mostrato tramite elaborate analisi statistiche, una stretta corrispondenza tra l’utilizzo della soppressione e le problematiche di ansia. Ad esempio, il disturbo d’ansia generalizzato (DAG), è stato concettualizzato da alcuni autori come un disturbo della regolazione delle emozioni negative (Mennin et al., 2002). Questi pazienti controllano (sopprimono) costantemente le loro reazioni fisiologiche cercando di evitare i pericoli nell’ambiente. Purtroppo questa strategia si rivela controproducente nella misura in cui tali pazienti rimangono focalizzati sulle loro emozioni. Queste manovre non fanno altro che disregolare le loro reazioni fisiologiche (ad esempio abbassando il tono vagale, una misura della quantità di regolazione emozionale) (Thayer et al., 2000). In un altro studio, Roemer e collaboratori (Roemer et al., 2001), hanno mostrato che i pazienti affetti da disturbo post traumatico da stress (DPTS) utilizzano spesso questa strategia e che l’uso abituale 27 Si pensi ad esempio al disturbo d’ansia generalizzato che fa riferimento ad una diffi coltà di controllare le preoccupazioni.
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della soppressione correlava con la severità del disturbo. Per quanto riguarda invece le strategie di regolazione emozionale efficaci, uno studio di risonanza magnetica (New et al., 2009) in cui il campione sperimentale era costituito da 14 donne traumatizzate che avevano sviluppato un DPTS dopo un abuso sessuale, da 14 donne traumatizzate che non avevano sviluppato un DPTS dopo un abuso sessuale, e da 14 donne di controllo senza trauma, ha mostrato che in un compito di regolazione emozionale, solo le donne non traumatizzate erano in grado di applicare le strategie di regolazione con successo. Infatti, le 14 donne senza trauma erano in grado di regolare le loro emozioni e le aree cerebrali coinvolte nella regolazione (aree prefrontali) erano maggiormente attive rispetto ai due gruppi traumatizzati. Inoltre tra i due gruppi traumatizzati, quello con DPTS aveva risultati peggiori rispetto al gruppo non DPTS. Questo esperimento ha confermato la presenza di deficit nella capacità di regolazione emozionale nei pazienti con un trauma alle spalle. Disturbo di personalità borderline Disfunzioni nei processi di regolazione emozionale e conseguente deficit di mentalizzazione, sono stati riscontrati anche nei pazienti con disturbo di personalità borderline (BPD). Sharp e collaboratori (2011), studiando un gruppo di adolescenti con diagnosi BPD, hanno dimostrato una forte associazione tra gravità del disturbo (misurata tramite scala BPFSC, Borderline Personality Features Scale for Children), disregolazione emozionale (valutata tramite il questionario DERS, Difficulties in Emotion Regulation Strategies Scale), e ipermentalizzazione28 (test MASC, Movie for the Assessment of Social Cognition). Un altro studio di risonanza magnetica (Schulze et al., 2011), ha dimostrato che i pazienti con DPB rispetto ai controlli senza questa diagnosi, falliscono nell’applicare le strategie di regolazione emozionale. Infatti, mentre nei soggetti di controllo si verificava una diminuizione dell’attività dell’insula e dell’amigdala 28 Con ipermentalizzazione si intende una forma di mentalizzazione gravemente distorta e proiettiva (Bateman e Fonagy, 2010)
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come risultato dell’avvenuta regolazione emozionale, nei pazienti con DPB per contro queste aree si iperattivavano. Schizofrenia Un recente studio (van der Mer et al., 2009), ha testato la tipologia di strategie di regolazione emozionale adottate da un gruppo di schizofrenici e da un gruppo di soggetti sani. Il risultato è stato che mentre i soggetti sani utilizzano molto strategie di reappraisal e poco quelle di soppressione, i pazienti schizofrenici per contro utilizzano più quelle di soppressione che quelle di reappraisal. Questo ci rimanda al discorso fatto poc’anzi sugli effetti di alcune strategie meno funzionali rispetto alle altre. Disturbo bipolare Foland e collaboratori (2008), hanno dimostrato che in un compito di etichettamento emotivo, pazienti con disturbo bipolare mostravano una minore attenuazione dell’amigdala da parte della corteccia prefrontale (VLPFC) rispetto ai soggetti di controllo, dimostrando che tali pazienti hanno un minore controllo sulle proprie emozioni. Questi dati potrebbero essere interpretabili alla luce della teoria del filtro dinamico di Shimamura (2000), secondo cui il ruolo della corteccia prefrontale sarebbe quello di selezionare, regolare fino ad eventualmente inibire, le regioni limbiche e corticali temporaliparietali. Si può ipotizzare una disfunzione di quest’area cerebrale alla base di molte psicopatologie, e una conseguente disregolazione dei centri emozionali che non agiscono più in modo armonico e interattivo con i centri più razionali come nella normalità. Questo produrrebbe tutti quei fenomeni di distorsione delle capacità di trasformazione e simbolizzazione delle emozioni (attacchi alla capacità di pensare) di cui parla Bion e che nel presente volume è stato chiamato col termine funzionamento emocognitivo. Gli accorgimenti tecnici esposti nel capitolo precedente sono rivolti al trattamento di queste difettualità nella capacità di trasformazione delle emozioni. 145
RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA
6.5 Conclusioni Gli studi mostrati nel paragrafo precedente dimostrano che più o meno tutte le forme di psicopatologia sono dovute a fallimenti del riconoscimento, della regolazione e della simbolizzazione delle emozioni, confermando alcune intuizioni di Bion (1962, 1963, 1965), e degli autori della mentalizzazione (Allen et al., 2010). Questi deficit si manifestano contemporaneamente sia con una iperattivazione dei sistemi di valutazione emotiva (come l’amigdala, l’insula, la corteccia orbitofrontale e via dicendo), che con una ipoattivazione dei centri di controllo cognitivo (porzioni dorsali e laterali della corteccia prefrontale). Inoltre, gli studi sulla regolazione emozionale hanno confermato la capacità della trasformazione delle emozioni da parte del pensiero (ad esempio tramite processi di labelling e reappraisal). Detto in altri termini pensare le nostre emozioni ci permette non solo di sviluppare un sistema di significazione e rappresentazione degli stati emotivi (Bouchard et al., 2008), ma anche di contenerne l’impatto. Nel caso in cui queste capacità falliscono un circolo vizioso potrebbe instaursi: emozioni troppo forti e dirompenti impediscono le attività di simbolizzazione e trasformazione cognitiva delle emozioni (funzionamento emocognitivo). Scarse capacità di trasformazione lasciano a loro volta le emozioni in stato disregolato e troppo forte, generando ulteriori e progressivi fallimenti di simbolizzazione. Questo circolo vizioso si autoamplifica fino ad un escalation di patologia (Ferro e Vender, 2010), e all’instaurarsi di meccanismi anticonoscitivi di “autoraffreddamento” per non soccombere all’impatto dell’esperienza emotiva. Questi meccanismi lo ripetiamo, non portano ad uno sviluppo simbolico delle emozioni e conseguente aumento della capacità di rappresentazione, ma ad un’atrofia dei processi di pensiero e all’incistamento di forme di pseudoconoscenza (pseudomentalizzazione) e distorsioni progressive del significato personale (ipermentallizzazione). Il contatto con le proprie verità emotive viene degradato ed evitato, oppure evacuato. L’alternativa a 146
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questi meccanismi di “autoraffreddamento” è la mitigazione che l’esperienza emotiva può avere all’interno di una psicoterapia improntata allo sviluppo della capacità di pensiero. Concludiamo con una breve riflessione sul concetto di (re)interpretazione (reappraisal) e il suo ruolo in psicoterapia. Aldilà della rigorosa definizione di interpretazione psicoanalitica si può pensare che in un’accezione più allargata, l’interpretazione o meglio la reinterpretazione (reappraisal), del significato delle comunicazioni del paziente, sia un processo alla base di molti modelli di terapia anche di matrice non psicoanalitica. Questo è stato dimostrato empiricamente in tre studi indipendenti (Ablon e Jones, 1998; Castonguay et al., 1996; Hayes et al., 1996), che hanno analizzato le trascrizioni o le videoregistrazioni di sedute di terapie cognitivo-comportamentali. Dopo aver classificato (con differenti metodologie di codifica) gli interventi utilizzati dai terapeuti, si è potuto apprezzare che gli ingredienti “attivi” di queste terapie non psicoanalitiche (quegli interventi che correlavano con il successo terapeutico per intenderci), fossero in realtà di tipo psicodinamico. Primo fra tutti il numero di interventi interpretativi che permettevano un disvelamento di motivazione inconsce, una maggiore comprensione di se stessi e del proprio modo di funzionare29. Seguendo questi dati adottiamo qui una versione più “elastica” del concetto di interpretazione, in modo che possa coprire una serie di fenomeni cui siamo interessati. In base alle formulazioni date dai diversi autori possiamo sommariamente distinguere tre tipi di interpretazioni in base ad alcuni elementi come il loro focus e il loro effetto sull’attività mentale (si veda la tabella 6.1): •
Interpretazione contenutistica: ha come oggetto il significato e le motivazioni latenti. Il suo scopo è aggiungere conoscenza “preformata” (dalle teorie del terapeuta o dai contenuti
29 Per una revisione dettagliata di questi studi, rimandiamo all’articolo di Shedler del 2010.
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inconsci dedotti dal materiale della seduta). Questa modalità potrebbe coincidere con la modalità freudiana e kleiniana di interpretazione. •
Interpretazione contenitiva: ha come scopo il ridurre la distruttività delle emozioni, tramite processi di riconoscimento, etichettamento, e modulazione degli stati emotivi. Questa modalità potrebbe coincidere con la modalità bioniana di contenere i vissuti del paziente per poterli metabolizzare.
•
Interpretazione del contenitore: ha come oggetto le modalità di funzionamento del pensiero stesso. Permette di trasformare le capacità di pensiero ed espanderne i livelli di simbolizzazione. Questa modalità potrebbe essere quella prescritta da Bion e dal trattamento basato sulla mentalizzazione.
I tre livelli di intervento configurano in un crescendo di complessità il processo terapeutico. Alla luce dei discorsi e delle ipotesi avanzate nel presente libro, i tre livelli di interpretazione30 sembrano configurare modalità tramite cui la regolazione emozionale ha luogo attraverso l’elaborazione cognitiva delle emozioni e l’elaborazione del significato affettivo incipiente (reappraisal). Inoltre la terza modalità interpretativa potrebbe essere quella che meglio trasforma il contenuto emozionale di un evento (e non semplicemente di regolarlo coma la seconda modalità sembra suggerire). È possibile pensare, seguendo alcune intuizioni di Bion, che il processo terapeutico non sia dato solo da un aumento di conoscenza, ma, primariamente da un aumento di capacità trasformative dei propri contenuti mentali.
30 Una osservazione simile è stata fatta da Kernberg e collaboratori (Clarkin et al., 2010) riguardo al processo interpretativo nella psicoterapia focalizzata sul transfert (TFP). Secondo gli autori il processo interpretativo procede per gradi e coinvolge processi e cicli di chiarificazione degli stati affettivi e mentali del paziente, confrontazione degli aspetti scissi e contradditori e interpretazione vera e propria.
148
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
Tabella 6.3 Modalità interpretative TIPO DI INTER-
FOCUS
EFFETTI SUL
PRETAZIONE
DELL’INTERPRETAZIONE
MENTALE
DI RIFERIMENTO
Contenutistica
Contenuti mentali consci e inconsci
Additivo.
Freud, Klein
Contenitiva
Emozioni
Del contenitore
Modalità di generazione del significato
Aggiunta di conoscenza Empatico. Contenimento delle emozioni Trasformativo.
MODELLO
Bion, Fonagy
Bion, Fonay
emotivo (mentalizzaEspansione zione delle emozioni) delle capacità di pensiero
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Postfazione Psicoanalisi e ricerca scientifica
Il rapporto tra la psicoanalisi e la ricerca empirica non è purtroppo mai stato dei più stretti, né dei più felici. Per molti anni, infatti, gli autori psicoanalitici si sono arroccati, (va detto) non senza una certa arroganza, in una posizione di presunta superiorità rispetto agli altri paradigmi teorici, trincerandosi dietro una difesa a oltranza del principio di autorità - dell’ipse dixit - e portando avanti una trasmissione quasi sacerdotale del sapere psicoanalitico, apparentemente refrattaria alla ricerca sperimentale e impermeabile alla feconda contaminazione con altri ambiti delle scienze psicologiche. Questo atteggiamento ha finito inesorabilmente per scontrarsi con istanze esterne che imponevano che le terapie psicoanalitiche, al pari di tutti gli altri approcci teorici disponibili, fossero tenute a dimostrare scientificamente di essere efficaci. La scoraggiante conclusione raggiunta dalla storica ricerca di Eysenck (1952) secondo cui la psicoterapia (che, vale la pena di ricordarlo, all’epoca si identificava tout court con la terapia dinamicamente orientata) non garantiva maggiori possibilità di guarigione da un disturbo psichico che il semplice attendere che la natura facesse il suo corso, minò alla radice le certezze apodittiche dei sostenitori della psicoterapia e rappresentò l’innesco a un’intensa attività di ricerca, ancora in corso, tesa a provarne l’efficacia oltre ogni ragionevole dubbio. Questo sforzo ingente, che in epoca più recente ha trovato negli studi controllati randomizzati (RCT) il proprio principale strumento di indagine, ha avuto, nell’ambito delle terapie psicodinamiche, il 151
RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA
merito di promuovere la sistematizzazione e la manualizzazione di specifici interventi terapeutici destinati a disturbi psichici diversi e di scardinare il pregiudizio secondo cui la psicoterapia psicodinamica fosse inferiore ad altri approcci che da sempre erano stati molto meno scettici rispetto alla verifica empirica dell’efficacia. Solo per citare un esempio autorevole, il lavoro compiuto negli ultimi venticinque anni dal gruppo di ricerca coordinato da Otto Kernberg ha portato a dimostrare l’efficacia della Psicoterapia Focalizzata sul Transfert (TFP) nel trattamento dei disturbi gravi di personalità, in primis quello borderline. A supporto di ciò gli autori possono oggi vantare due studi RCT (Clarkin et al., 2007; Doering et al., 2010), di cui uno interamente condotto in Europa, che dimostrano la superiorità della TFP rispetto al treatment as usual e un’efficacia almeno pari a quella della terapia dialettico-comportamentale. L’impatto di queste ricerche non deve essere sottovalutato; esse ci dimostrano, fra l’altro, che una terapia dinamicamente orientata possa essere appresa e somministrata con aderenza e competenza anche in siti diversi rispetto a quello in cui è stata originariamente proposta, e che la sua efficacia possa essere ormai considerata, secondo i rigidi parametri dell’American Psychological Association, “well-established”. C’è però un rovescio della medaglia: la ricerca spasmodica della prova di efficacia è presto degenerata in una sorta di sterile horse race tra i diversi orientamenti teorici di psicoterapia che, sfidandosi a colpi di RCT sempre più sofisticati e costosi, hanno finito per dimostrare che, in un certo senso, tutti (o quasi) possono “arrivare primi”. A ciò si aggiungono gli interrogativi, sollevati da più parti, sulla generalizzabilità dei risultati dei RCT e sulla loro effettiva applicabilità alla “psicoterapia del mondo reale”. Fino a che punto le conclusioni che possono essere tratte da questi studi sono estendibili ipso facto a situazioni cliniche in cui, per evidenti ragioni, i pazienti non possono essere così accuratamente selezionati e sussistono palesi differenze nel setting? 152
IL CONFLITTO EPISTEMOLOGICO
C’è da chiedersi - e non è una domanda di poco conto - se i benefici per il paziente dimostrati nel contesto di un trial clinico possano davvero realizzarsi anche nei nostri studi privati. Ecco quindi delinearsi all’orizzonte una nuova prospettiva - all’interno della quale questo volume trova la sua collocazione ideale – che, superata l’esigenza di dimostrare se le psicoterapie siano efficaci o meno, si interroga piuttosto sul come e perché funzionino. Il terreno di scontro sembra cioè spostarsi sempre più dalla dimostrazione dell’efficacia alla dimostrazione della specificità (Chambless e Hollon, 1998): la psicoterapia, nelle sue diverse declinazioni, fa cioè davvero ciò che dice di fare? Il cambio di prospettiva è piuttosto radicale poiché, superate le ambizioni di superiorità delle singole scuole di pensiero, si rimette saldamente al centro dell’interesse la coppia paziente-terapeuta e il processo del cambiamento che la relazione terapeutica intende promuove. E’ facilmente intuibile il nuovo impulso che potrà animare la ricerca nel sottoporre a verifica empirica specifiche ipotesi formulate sulla base del modello teorico di riferimento e l’effetto degli interventi tecnici che si suppone permettano di raggiungere gli obiettivi terapeutici previsti. Nell’ambito delle terapie dinamiche, in particolare, i concetti di trasformazione e regolazione emozionale e gli effetti della psicoterapia sulla capacità di mentalizzazione hanno e continueranno certamente ad avere un posto centrale nell’agenda dei ricercatori. Un ulteriore aspetto mi sembra degno di nota. In questa nuova fase, è principalmente alle neuroscienze che anche la psicoanalisi ha volto lo sguardo alla ricerca di spunti per la comprensione del cambiamento in psicoterapia e, in prospettiva, su come “ritagliare” un intervento terapeutico adatto alle esigenze del singolo paziente: l’interfaccia tra il biologico e lo psichico pare quindi aver smesso (finalmente) di evocare, come avveniva in passato, lo spettro del riduzionismo biologista. Come ammonisce Fonagy in un recente lavoro: “Siamo chiamati 153
RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA
[…] a decidere finalmente se vogliamo che il corpus del sapere psicoanalitico e delle sue applicazioni rimanga una reliquia di interesse storico o piuttosto si ponga all’avanguardia nell’area dell’intervento nella salute mentale”. Il contributo di Alessandro Grecucci, un neuroscienziato-psicoterapeuta, accoglie a pieno titolo questa sfida, fornendo spunti e riflessioni di notevole valore. Dr Antonio Prunas Ricercatore di Psicologia Clinica Dipartimento di Psicologia Università degli Studi di Milano-Bicocca
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