Motto di spirito e azione innovativa [PDF]

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Zitiervorschau

Paolo Virno

Motto di spiri t o e azione innovativa Per una logica del cambiamento

Bollati Boringhieri

Prima edizione luglio

2005

© 2005 Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo) (compresi i rnicrofilm e le copie fotostatiche) sono riservati Stampato in Italia dalla Litografia di Torino ISBN 88-339-1602·2

Indice

Prologo

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Motto di spirito e azione innovativa PARTE PRIMA

Come fare cose nuove con le parole

17

1.

Dal terzo intruso alla sfera pubblica

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2.

Arguzia e filosofia della prassi Decisione, norma, normalità

PARTE SECONDA

37

3· Il paiuolo bucato, o della difficoltà di applicare una regola

43

4· «Il modo di comportarsi comune agli uomini» e lo stato d'eccezione PARTE TERZA

61

Il ragionamento in una situazione critica

5· Logica del motto

INDICE

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6. Combinare altrimenti e deviare la traiettoria: le risorse deil' azione innova ti va

Br

7. Sulla crisi di una forma di vita

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Epilogo

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Bibliografia

Prologo

L'animale umano è in grado di modificare le sue forme di vita, divergendo da regole e abitudini consolidate. Se la parola non fosse minata da troppi equivoci, si potrebbe anche dire che l'animale umano è «creativo>>. Questa constatazione, di per sé indubitabile, non assomiglia in nulla a un happy end: proprio essa, anzi, suscita ogni sorta di domande e di dubbi. Di quali requisiti si giovano la prassi e il discorso per imboccare una direzione imprevista? Come avviene la rottura dello stato di equilibrio che era prevalso fino a quel momento? In che cosa consiste, alla fin fine, una azione innovativa? Vi è un modo collaudato di liquidare il problema pur avendo tutta l'aria di occuparsene senza risparmio. Basta assumere il termine 'creatività' in una accezione talmente ampia, da farlo risultare coestensivo a quello di 'natura umana'. Si perviene in gran fretta, cosl, a qualche rassicurante tautol6gia. L'animale umano sarebbe capace di innovazione perché dotato di linguaggio verbale, o perché difetta di un ambiente delimitato e invariante, o perché storico: in breve, perché è ... un animale umano. Applausi, sipario. La tautologia elude il punto più spinoso e interessante: l'azione trasformativa è intermittente, o addiritturaJara. Il tentativo di spiegarne lo statuto chiamando in causa i caratteri distintivi della nostra specie

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PROLOGO

manca il bersaglio, giacché questi caratteri valgono, com'è ovvio, anche quando l'esperienza è uniforme e ripetitiva. Chomsky sostiene che il nostro linguaggio è «costantemente innovativo» grazie alla sua indipendenza da «stimoli esteriori o stati interni» (e per altri motivi che qui non mette conto ricordare: cfr. Chomsky I988, pp. 6-7 e I I 3-46). D'accordo, ma perché questa indipendenza, che non conosce eclissi, solo in certi casi dà luogo a esecuzioni verbali insolite e sorprendenti? Non c'è da stupirsi se Chomsky, avendo attribuito la creatività al linguaggio in generale (ossia alla «natura umana»), conclude che essa costituisce un mistero inindagabile. Altro esempio. Secondo l'antropologia filosofica di Arnold Gehlen, l'Homo sapiens, a causa della sua sprovvedutezza istintuale, è sempre alle prese con una sovrabbondanza di stimoli non finalizzati biologicamente, da cui non discendono comportamenti univoci: per questo la sua azione, «infondata» com'è, non può non essere creativa (cfr. Gehlen I940, pp. 6o-87). Resta inevasa, anche qui, la domanda cruciale: perché mai la sovrabbondanza di stimoli non finalizzati dà luogo per lo più a operazioni stereotipate, e solo di rado a una repentina innovazione? È del tutto legittimo desumere da certi tratti definitori della nostra specie le condizioni che rendono possibile la variazione delle condotte. Ma è un errore plateale identificare queste condizioni di possibilità con le particolari risorse logico-linguistiche cui si fa appello allorché si varia realmente una singola condotta. Tra le une e le altre vi è uno iato: lo stesso iato, per intendersi, che separa l'intuizione a priori dello spazio dalle inferenze mediante le quali si formula, o si comprende, un teorema geometrico. L'indipendenza degli enunciati da «stimoli esterni o stati interiori» (Chomsky) e la sprovvedutezza istintuale (Gehlen) non spiegano perché lo zoppo, interpellato da un cieco che gli chiede sbadatamente «Come va?», risponde con uno sferzante, e non poco creativo, «Come

PROLOGO

9

vede». Chomsky e Gehlen ci indicano soltanto i motivi per cui lo zoppo può reagire anche cosl (oltre che in molti altri modi meno sorprendenti: «bene, e lei?», «da dio», «potrebbe andar peggio») all'involontaria provocazione del cieco, ma nulla ci dicono sulle procedure effettive che danno luogo allo scarto imprevisto nel dialogo. Le risorse logico-linguistiche alle quali attinge l'azione innovativa sono più circoscritte, o meno generiche, delle sue condizioni di possibilità. Pur essendo appannaggio di qualsiasi animale umano, tali risorse vengono utilizzate, e conseguono il più grande risalto, soltanto in alcune occasioni critiche. Vale a dire: quando una forma di vita, che per l'innanzi pareva inoppugnabile, prende le sembianze di un abito troppo largo o troppo stretto; quando diventa incerta la distinzione tra «piano grammaticale» (le regole del gioco) e «piano empirico» (i fatti cui quelle regole dovrebbero applicarsi); quando la prassi umana si imbatte, foss'anche di sfuggita, in quel ginepraio logico che i giuristi chiamano stato d'eccezione. Per scansare il rischio della tautologia, propongo, dunque, una accezione di 'creatività' molto ristretta, anzi decisamente angusta: le forme di pensiero verbale che consentono di variare la propria condotta in una situazione di emergenza. Il richiamo tautologico alla «natura umana» non spiega nulla: né lo stato di equilibrio, né l'esodo da esso. Viceversa, una indagine sulle risorse logico-linguistiche che diventano preminenti soltanto in caso di crisi, oltre a mettere in rilievo le tecniche dell'innovazione, getta anche una diversa luce sui comportamenti ripetitivi. È l'inattesa battuta dello zoppo, non certo la costitutiva indipendenza del linguaggio verbale da condizionamenti ambientali e psicologici, a chiarire qualche aspetto saliente delle risposte stereotipate la cui occorrenza era tanto più probabile. La sospensione, o modificazione, di una regola mostra i paradossi e le aporie, di solito inavvertiti, che allignano nella sua applicazione più cieca e automatica.

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PROLOGO

Le pagine che seguono vertono sul motto di spirito. Nella convinzione che esso offra una base empirica adeguata per capire in che modo l'animale linguistico imprime talvolta una deviazione inattesa alla sua prassi. Inoltre, il motto sembra esemplificare bene l'accezione ristretta di 'creatività': quella, cioè, che non coincide tautologicamente con la natura umana nel suo complesso, ma ha come proprio esclusivo banco di prova una situazione critica. Il principale punto di riferimento testuale è il saggio di Freud sul Witz (1905): non esiste, a mia conoscenza, un tentativo altrettanto significativo di stilare una tassonomia dettagliata, botanica per cosl dire, delle diverse specie di arguzia. Ed è noto l'impegno profuso dall'autore nel precisare quali siano le figure retoriche e gli schemi di ragionamento che danno adito alla battuta fulminante. Devo avvertire, però, che la mia interpretazione dei materiali raccolti e censiti da Freud è rigorosamente non-freudiana. Anziché soffermarmi sulla sua eventuale affinità con il lavoro onirico e il funzionamento dell'inconscio, vorrei mettere in risalto il nesso stringente che lega il motto di spirito alla prassi nella sfera pubblica. Non deve meravigliare quindi se, a proposito di una arguzia riuscita, nulla dirò dei sogni e molto della phr6nesis, cioè dell'avvedutezza pratica e del senso della misura che guidano colui che agisce senza reti di protezione al cospetto dei suoi simili. Il motto di spirito è il diagra'mma dell'azione innovativa. Per «diagramma» intendo, con Peirce e con i matematici, il segno che riproduce in miniatura struttura e proporzioni interne di un certo fenomeno (si pensi a una equazione o a una carta geografica). Il motto di spirito è il diagramma logico-linguistico delle intraprese che, in occasione di una crisi storica o biografica, interrompono il flusso circolare dell'esperienza. Esso è il microcosmo nel quale si danno nitidamente a vedere quei mutamenti di direzione argomentativa e quegli spostamenti di signi-

PROLOGO

II

ficato che, nel macrocosmo della prassi umana, provocano la variazione di una forma di vita. In estrema sintesi: il motto di spirito è un gioco linguistico ben delimitato, provvisto di sue tecniche peculiari, la cui funzione eminente consiste, però, nell'esibire la trasformabilità di tutti i

giochi linguistici. Questa impostazione generale si articola in due ipotesi subordinate, che conviene enunciare subito. Ecco la prima. Il motto di spirito ha molto a che fare con uno dei problemi più insidiosi della prassi linguistica: come applicare una regola a un caso particolare. Ha molto a che fare, anzi, proprio con le insidie, ossia con le difficoltà e le incertezze che talvolta insorgono al momento dell'applicazione. Il motto di spirito non cessa di mostrare in quanti modi diversi, e perfino contrastanti, si possa ottemperare alla medesima norma. Ma sono proprio le divergenze che emergono nella applicazione della regola a provocare, spesso, il drastico mutamento di quest'ultima. Lungi dal collocarsi al di sopra o al di fuori delle norme, la creatività umana è addirittura subnormativa: si manifesta unicamente, cioè, nei sentieri laterali e impropri che ci capita di inaugurare mentre ci sforziamo di attenerci a una norma determinata. Per paradossale che possa sembrare, lo stato d'eccezione ha il suo luogo di residenza originario in quell'attività, solo in apparenza ovvia, che Wittgenstein chiama «seguire una regola». Ciò implica, all'inverso, che ogni umile applicazione di una norma contiene sempre in sé un frammento di «stato d'eccezione». Il motto di spirito mette in luce questo frammento. La seconda ipotesi subordinata suona cosl: la forma logica del motto di spirito consiste in una fallacia argomentativa, ossia in una inferenza indebita o nell'uso scorretto di una ambiguità semantica. Per esempio: attribuire al soggetto grammaticale tutte le proprietà che pertengono al suo predicato, scambiare la parte per il tutto o il tutto per la parte, istituire una relazione simmetrica tra

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PROLOGO

antecedente e conseguente, trattare una espressione metalinguistica come se fosse in linguaggio-oggetto. A dirla tutta d'un fiato, mi pare che vi sia una corrispondenza puntuale e minuziosa tra i diversi tipi di arguz:ia catalogati da Freud e i paralogismi studiati da Aristotele nell'opera Confutazioni sofistiche. Nel caso del motto di spirito, le fallacie argomentative rivelano però una indole produttiva: servono cioè a fare qualcosa, sono meccanismi indispensabili per compiere un'azione verbale che «stupisce e illumina» (MdS, p. 37). Si profila, qui, una questione delicata. Infatti, se è vero che il motto di spirito è il diagramma dell'azione innovativa, bisognerà supporre che la sua forma logica, ossia la fallacia, svolga un ruolo importante allorché si tratta di cambiare il proprio modo di vivere. Ma non è bizzarro incardinare la creatività dell'Homo sapiens al ragionamento vizioso, insomma all'errore? Certo che lo è: bizzarro e anche peggio. Sarebbe stolto, però, credere che qualcuno sia cosi sciocco da caldeggiare un'ipotesi siffatta. Il punto davvero interessante è comprendere in quali circostanze e a quali condizioni il paralogismo cessa di essere ... un paralogismo, ossia non può più essere ritenuto scorretto o falso (a rigar di logica, si badi). Va da sé che soltanto in queste circostanze e a queste condizioni la «fallacia» diventa una risorsa irrinunciabile dell'azione innovativa.

Motto di spirito e azione innovativa

A Luciano Ferrari Bravo, che di tutto questo forse avrebbe riso

Parte prima Come fare cose nuove con le parole

I.

Dal terzo intruso alla sfera pubblica

Non intendo discutere le tesi di Freud sul motto di spirito, né, tanto meno, criticarle. Mi basta mostrare che è legittima anche una spiegazione radicalmente diversa del medesimo fenomeno. E che questa spiegazione alternativa mette radici proprio in alcune osservazioni freudiane. A differenza della situazione comica, che richiede soltanto di essere reperita e riconosciuta, il motto, per Freud, è «creato» (MdS, p. 203). Chi lo conia, fa qualcosa di nuovo: imprevista (spesso anche dal suo autore) e non necessaria, l'arguzia modifica le relazioni tra gli astanti, provocando un deragliamento nella comunicazione: «Hai preso un bagno?», chiede con severità un tizio all'amico sporcaccione. «Perché, ne manca uno?», replica imperterrito costui (ibid., p. 72). Inoltre, mentre il comico può essere in tutto o in parte non linguistico, il motto è esclusivamente verbale. Chi dice una battuta di spirito, fa qualcosa di nuovo che, si badi, non avrebbe potuto fare se non con le parole. La battuta altera la situazione in cui si inscrive grazie a certe sue prerogative semantiche e retoriche, elencate da Freud proprio all'inizio del Witz: «accostamento di elementi dissimili, contrasto di rappresentazione, "senso dell'assurdo", il succedersi di stupore e illuminazione, rivelazione di ciò che è celato, peculiare concisione» (ibid., p. 38).

CAPITOLO PRIMO

Fare qualcosa di nuovo con le parole: questa caratteristica generale non consente, però, di afferrare appieno la natura del motto. Di per sé, essa non discrimina a sufficienza: anche chi elabora una metafora ingegnosa fa qualcosa di nuovo con le parole. Per altro verso, l'identikit freudiano della creatività verbale all'opera nella facezia suggerisce pregiudizialmente una affinità tra «lavoro arguto» e «lavoro onirico»: anche il sognatore, infatti, procede per «accostamento di elementi dissimili, contrasto di rappresentazione, senso dell'assurdo». La distanza che separa il motto di spirito da altre forme di invenzione linguistica, ma anche e soprattutto dal sogno, è attestata tuttavia dallo stesso Freud, quando sottolinea - a più riprese e nei più diversi contesti, come accade a ogni re/rain che si rispetti - il ruolo dirimente che svolge, soltanto nel motto, la cosiddetta «terza persona». Di che si tratta? La prima persona, dice Freud, è l'autore dell'arguzia; la seconda è l'oggetto o il bersaglio di essa; la terza, infine, è il suo «pubblico», cioè lo spettatore neutrale che valuta l'arguzia, cogliendone compiutamente il senso e traendone piacere. La terza persona, superflua o tutt'al più facoltativa nel comico, è invece una componente necessaria del motto di spirito. Per capirci: non si limita ad amplificarne gli effetti, ma lo rende possibile. Senza lo spettatore, il motto non esisterebbe affatto. «Nessuno può ritenersi soddisfatto d'aver coniato un motto per sé solo» (MdS, p. 166): non è concepibile, dunque, una battuta umoristica privata o interiore. Senonché, la presenza dell'interlocutore-vittima non basta in alcun modo a lenire questa insoddisfazione. Freud considera un colpo a vuoto ogni motto che resti confinato all'interno del vischioso rapporto tra mittente e destinatario. La terza persona è una condizione logica dell'arguzia: l' «io» e il «tu» dipendono in tutto e per tutto dall'«egli»; in mancanza di un pubblico, gli attori non saprebbero dire con esattezza qual è il copione che hanno recitato. Chi produce la bat-

DAL TERZO INTRUSO ALLA SFERA PUBBLICA

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tuta che modifica bruscamente la traiettoria del dialogo, non riesce a riderne, o ci riesce solo di riflesso, grazie cioè al divertimento di cui dà prova la terza persona. Questo impedimento a godere direttamente della propria facezia è dovuto, secondo Freud, a due motivi distinti e però convergenti (entrambi da tenere a mente in vista di una diversa interpretazione del Witz). Il primo: l'autore dell'arguzia non può giudicare se essa è andata a segno o somiglia a un misero vaniloquio. L'alternativa tra senso e non-senso non è di competenza del motteggiatore (né del deuteragonista passato a contropelo). Tocca dunque allo spettatore disinteressato «la scelta di decidere se il lavoro arguto ha adempiuto il suo compito, come se l'lo non si sentisse sicuro del proprio giudizio a tal proposito» (MdS, p. 167). Ed ecco il secondo motivo dell'impedimento a ridere: tanto il motto «tendenzioso», dal contenuto aggressivo o osceno, quanto quello «innocente», che riabilita l'attitudine infantile a giocare con le parole come fossero cose, impongono a colui che li conia un cospicuo dispendio di energie psichiche per debellare ogni sorta di inibizioni «esterne o interne» (ibid., pp. 171 sgg.). La fatica che costa al motteggiatore fare qualcosa di nuovo (e di non consentito) erode e neutralizza il suo eventuale «profitto di piacere». La terza persona, che condivide le stesse inibizioni con cui si misura l'autore dell'arguzia, può invece fruire del loro superamento senza sobbarcarsi alcun dispendio psichico: per questo ride di cuore. Il suo piacere, esente com'è da contrappesi, realizza il fine del motto. Pur tenendola in gran conto, Freud assegna alla «terza persona» una funzione solo liminare. Essa non fa che segnalare gli aspetti per cui il motto non è riconducibile del tutto al lavoro onirico: «Il sogno è un prodotto psichico assolutamente asociale; non ha niente da comunicare agli altri. [... ] Il motto invece è la più sociale di tutte le funzioni psichiche che mirano al profitto di piacere. Ha bisogno di tre persone e cerca la sua pienezza nella

CAPITOLO PRIMO

partecipazione di qualcun altro al processo psichico che ha avviato» (MdS, p. 201). A me sembra, però, che l'imprescindibile contributo dello spettatore alla realizzazione dell'arguzia, anziché limitarsi a turbare o eccepire l'equazione motto = sogno, offra il destro per formulare una equazione affatto diversa: motto= prassi. La figura Jel terzo intruso, oltre a esulare dal lavoro onirico, esige anche, in positivo, l'introduzione di concetti pertinenti, che ne definiscano adeguatamente lo statuto. Non è un residuo, ma un punto di partenza. La clausola della terza persona chiarisce che cosa significhi «fare qualcosa di nuovo con le parole» nel caso della battuta umoristica. Un fare la cui realtà dipende per intero dalla presenza di estranei è, in senso pieno e forte, una azionepu_bblica. Non lo è meno, per intendersi, di un discorso politico in assemblea che esorti all'insurrezione contro i poteri costituiti: se pronunciato in assenza di testimoni, anche quest'ultimo è come se non fosse mai avvenuto. L'intrinseca necessità di esporsi allo sguardo e al giudizio dei propri simili ritaglia con precisione l'ambito della prassi. In questo ambito non vi sono gesti né enunciati che abbiano un significato autonomo, separabile cioè dal modo in cui essi appaiono allo spettatore disinteressato (all'anonimo «egli», si badi, non già al «tu» cui si rivolge il gesto o l'enunciato). Per inventare una metafora, non servono occhi indiscreti: bastano le prime due persone, l' «io» parlante e un «tu» che comprenda l'innovazione espressiva. Viceversa, colui che butta lì all'improvviso un motto, di occhi indiscreti ha assoluto bisogno, perché sta compiendo una azione innovativa il cui senso effettivo sfugge, in larga misura, a tutti coloro che vi sono direttamente implicati. La prdxis non può fare a meno della «terza persona» per gli stessi motivi che, secondo Aristotele (EN, VI, 1140 a 24- b 6), la distingttono dali' epistéme (conoscenza pura) e dalla poiesis (produzione). Se la riflessione teoretica elude lo sguardo altrui

DAL TERZO INTRUSO ALLA SFERA PUBBLICA

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e mette la sordina al mondo delle apparenze, la prassi, invece, presuppone e ripristina sempre di nuovo uno spazio pubblico. Se la produzione dà luogo a un oggetto indipendente, ossia ha un fine esterno, la prassi, invece, è una attività senza opera il cui risultato coincide per intero con il suo svolgimento. Consegnata all'esteriorità e alla contingenza (a differenza dell'epistéme), ma priva di un prodotto durevole che ne certifichi la realtà (a differenza della poiesis), l'azione non può che rimettersi agli spettatori. Laj sua esistenza e il suo significato sono affidati ai testimonigiudici. Per intendere l'importanza strategica della «terza persona» nel motto di spirito, non c'è niente di meglio che rivolgersi alla filosofia politica di Kant. Un grande evento, per esempio la Rivoluzione francese del 1789, può essere compreso soltanto da chi «non è coinvolto personalmente nel gioco», ma si limita a seguirlo con «partecipazione benevola, talora quasi entusiastica», provando una «soddisfazione inattiva» (Kant 1798, pp. 218 sgg.). Il vantaggio dello spettatore consiste nel cogliere l'intreccio delle azioni come un tutto, mentre gli attori (prima e seconda persona) conoscono solo la loro parte. Nelle sue lezioni sulla Critica della facoltà di giudizio, Hannah Arendt osserva che, per Kant, lo spettatore rappresenta l'unico antidoto efficace contro la !abilità e l'opacità che contraddistinguono la prassi. Chi ha assistito alla Rivoluzione senza prendervi parte, «vedeva le cose più importanti, perché era in grado di scoprire un senso nel corso preso dagli eventi - un senso che restava ignoto agli attori. Il fondamento esistenziale della sua percezione era il suo disinteresse, la sua non partecipazione, il suo non coinvolgimento» (Arendt 1982, p. 84). Si ricordino i due motivi che impediscono a chi l'ha inventata di ridere della propria facezia: per un verso, l'autore non è in grado di valutare se essa è riuscita o fallita; per l'altro, il suo piacere è decurtato dalla fatica che ha dovuto addossarsi per

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CAPITOLO PRIMO

vincere l'attrito dello status quo (ossia le «inibizioni»). Ebbene, questi stessi motivi valgono anche, su tutt'altra scala, per i protagonisti delle rivoluzioni; anche costoro, privi di una visione d'insieme e prostrati dal dispendio di energie, possono godere delle proprie gesta solo di riflesso, grazie al concorso di un pubblico. «Per l'attore è quindi di decisiva importanza quale impressione faccia sugli altri; egli dipende dall'opinione dello spettatore, non è autonomo, non si lascia guidare dalla voce innata della ragione, ma si conforma alle aspettative dello spettatore. Il canone è lo spettatore» (Arendt 1982, pp. 85-86). Riguardo al motto di spirito, ma anche alla prassi politica di cui discutono Kant e Arendt, è sempre possibile un fraintendimento: esso consiste nell'attenuare, e semmai nell'abrogare del tutto, la distinzione tra seconda e terza persona. Cosl facendo, ci si contenterà di ripetere alcune importanti ovvietà: non esiste un linguaggio privato né una prassi privata, la mente umana è originariamente sociale ecc. Ma si smarrirà l'essenziale: la differenza tra un dialogo amoroso o una conversazione scientifica, per i quali basta la seconda persona, e un motto di spirito o una rivoluzione, che abbisognano invece, per esistere, di un pubblico indifferente. In certe arguzie (si pensi ai puri giochi di parole, non diretti a un interlocutore particolare) può mancare la seconda persona, il «tu»; in nessuna, la terza persona, l' «egli» inattivo e giudicante. Ridurre la terza persona alla seconda, o comunque amalgamarle, significa misconoscere lo specifico statuto della prdxis e, insieme, precludersi la comprensione del motto di spirito. Scrive Arendt: «Siamo inclini a pensare[ ... ] che lo spettatore sia secondario rispetto agli attori, e tendiamo a dimenticare che nessuno che sia sano di mente allestirebbe mai uno spettacolo se non fosse sicuro di avere degli spettatori ad assistervi» (ibid., p. 95). Questa deprecabile inclinazione affetta l'odierna filosofia della mente.

DAL TERZO INTRUSO ALLA SFERA PUBBLICA

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La «terza persona» autorizza a tenere il motto di spirito per una azione pubblica. Sappiamo, inoltre, che si tratta di una azione linguistica. Non manca qualche analogia tra l'arguzia e gli enunciati performativi studiati da Austin («Battezzo questo bimbo Luca», «Dichiaro aperta la seduta» ecc.). Sia nel caso dei performativi che in quello del motto: 1) si esegue con le parole una azione che non si sarebbe potuta eseguire altrimenti; 2) risulta vana la pretesa di ridurre ciò che si fa parlando al «contenuto di pensiero» delle frasi proferite; 3) queste frasi, costituendo di per sé una azione, non sono vere o false, ma riuscite o fallite (felici o infelici, nel gergo di Austin). Tuttavia, anche a voler trascurare la loro vistosa eterogeneità formale, resta il fatto che il performativo si distingue nettamente dall'arguzia per il suo carattere stereotipato e ripetitivo: trattandosi di una formula semigiuridica e consuetudinaria (ordine, perdono, promessa ecc.), lo stesso enunciato vale per tutte le occasioni consimili. Viceversa, il motto provoca sconcerto e stupore, e proprio per questo non ammette reiterazioni: «è nella natura della sorpresa o del cogliere all'improvviso di non riuscire che un'unica volta» (MdS, p. 177). Oltre che pubblica e linguistica, quella compiuta dal motto è soprattutto una__gzione innovativa. Anzi, come vedremo, è l'azione che esibisce in modo specializzato le procedure e le attitudini di cui si servono, in generale, le più diverse azioni innovative. L'arguzia riepiloga ludicamente le tecniche cui fa ricorso la prassi umana in una congiuntura critica, quando le vecchie bussole sono messe fuori uso da una tempesta magnetica: utilizzazione sagace del controsenso e del ragionamento per assurdo, connessione impropria di pensieri distanti, ricorso all'ambivalenza semantica per imboccare una strada laterale, spostamento dell'accento psichico su un tema diverso da quello iniziale, e via seguitando.

2.

Arguzia e filosofia della prassi

La «terza persona» getta un ponte tra il motto di spirito e la prassi. Se il ponte regge, bisognerà applicare al motto nel suo insieme - a cominciare dalla sua produzione da parte della «prima persona» - molti dei concetti che pertengono specificamente alla prassi. Agli atti linguistici studiati da Freud si addicono, forse, alcune celebri parole-chiave che campeggiano nell'Etica nicomachea di Aristotele: a) la phr6nesis, ossia l'avvedutezza pratica; b) l' orth6s l6gos, il discorso che enuncia la norma corretta cui deve rifarsi l'azione in un singolo caso; c) la percezione del kair6s, del momento giusto per agire; d) gli éndoxa, cioè le opinioni di volta in volta prevalenti in una comunità di parlanti. a) Un motto di spirito riuscito attesta la presenza, in chi l'ha creato, di una dote o abilità difficile da classificare. Come nota lo stesso Freud, l'umorismo non mette radici in facoltà strettamente cognitive, quali sono l'intelligenza speculativa, la memoria, l'immaginazione (cfr. MdS, p. 162). Una azione pubblica, il cui fine coincide in tutto e per lutto con la sua esecuzione, richiede piuttosto quel tipo di perspicacia che Aristotele chiama phr6nesis (vocabolo scivoloso, che i traduttori rendono per lo più con il magniloquente «saggezza»). La phr6nesis è la capacità di valutare che cosa sia opportuno fare in una circostanza

ARGUZIA E FILOSOFIA DELLA PRASSI

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contingente. Ciò che la distingue dalle altre virtù pratiche (coraggio, equità ecc.) è il fatto che essa non si limita a scegliere Uf1a condotta in base a una norma data, ma stabilisce quale norma sia adeguata alla situazione concreta. Il caso particolare, con cui si confrontano tanto il phr6nimos che il motteggiatore, ha sempre un alto grado di indeterminazione: tant'è che di esso, secondo Aristotele, «non vi è scienza, bensl sensazione» (EN, VI, 1142 a 26-27). Ma «di ciò che è indeterminato, è indeterminata anche la regola», tou gar aoristou a6ristos kai kan6n estin (ibid., V, 1137 h 29). Sicché, per ilphr6nimos e per il motteggiatore l'applicazione della regola fa_tu,tt'uno con l'individuazione di essa. Si pensi a una gue_rra: la virtù del coraggio spingerebbe il soldato a combattere con valore; ma la phr6nesis, che «concerne ciò che è bene o male per l'uomo», si manifesta anzitutto nel decidere se il criterio perspicuo cui attenersi nell'occasione data sia il coraggio o la moderazione o la ripugnanza a obbedire a ordini ingiusti o altro ancora. Si pensi anche, in parallelo, a una arguzia molto cara a Freud. Un signore decaduto ottiene in prestito da un conoscente una piccola somma. Il giorno dopo, il benefattore lo incontra al ristorante davanti a un piatto di salmone con maionese. Lo rimprovera con astio: «"A questo dunque serviva il mio denaro?" "Proprio non la capisco- risponde l'accusato.- Se non ho denari non posso mangiare salmone con maionese. Se ho denari, non devo mangiarne. Ma allora, quand'è che riuscirò a mangiare salmone con maionese?'» (MdS, pp. 73-74). La risposta del buongustaio squattrinato, dotata di «uno spiccato carattere di logicità», realizza «uno spostamento dell'accento psichico» (ibid., p. 74). Lo spostamento consiste nell'applicare/istituire, in riferimento al caso particolare, una norma (eudemonistica) che soppianta quella (ascetica) cui si rifà automaticamente l'interlocutore. Questo spostamento, sempre possibile allorché a6ristos kai kan6n estin, non è altro che esercizio della phr6nesis. L'umorismo con-

CAPITOLO s:E:CONDO

siste, qui, nel mettere in evidenza il contrasto tra una virtù determinata (la parsimonia) e la saggezza che valuta quale virtù si attagli effettivantente a una vicenda singolare e irripetibile. La phr6nesis ha il suo autentico banco di prova negli stati di cose «intorno ai quali è impossibile che una legge sia posta, cosicché c'è bisogno di un decreto» (EN, V, I I37 b 27-29). A differenza della legge (n6mos), il decreto (pséphisma) concerne un avvenimento circoscritto e ha durata limitata nel tempo. Aristotele paragona lo pséphisma al «regolo di piombo usato nelle costruzioni di Lesbo: il regolo si adatta infatti alla forma della pietra, non sta rigido; cosi il decreto si adatta agli avvenimenti» (ibid., I r 3 7 b 30-32). L'adattabilità del criterio alla situazione contingente, del regolo di piombo alla forma della pietra: ecco la risorsa in cui confidano l'uomo avveduto e l'autore di una arguzia. Soltanto nel decreto l'applicazione della norma coincide senza residui con la sua istituzione: la si applica per il solo fatto di istituirla, la si istituisce per il solo fatto di applic:1rla. Soltanto nel decreto il «giusto mezzo» (to méson, il comportamento che conviene a una specifica circostanz:l), !ungi dal presupporre i propri estremi (l'eccesso e il difetto), li crea, ossia ne rende possibile la definizione. Ogni facezia azzeccata ha qualcosa dello pséphisma. Un tipo, cui era capitato di incontrare Rothschild, risponde cosi agli amici che gli chiedono ragguagli sul caratte.re del magnate: «Mi ha trattato proprio come un suo pari, con modi del tutto familionari» (MdS, p. 41). Al pad del decreto, quel 'familionari' è, insieme, criterio e applicazione del criterio: un metro di platino che misura se stesso. b) La phr6nesis, scrive Aristotele, «è una disposizione pratica accompagnata da orth6s l6gos, da discorso corretto» (EN, VI, 1140 b 20). In che cosa consiste l'orth6tcs, la correttezza, dell6gos su cui poggia l'avvedutezza pratica? Già lo sappiamo: il discorso è perspicuo se, e solo

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se, enuncia la norma adeguata a un frangente particolare. Ma che cosa garantisce che il «discorso corretto», pietra angolare della phr6nesis, sia realmente corretto? Nient'altro che la phr6nesis, risponde Aristotele. A chiunque abbia sfogliato l'Etica nicomachea è noto che tra phr6nesis e orth6s J6gos vige un rapporto circolare, giacché le due nozioni si implicano e sorreggono a vicenda. Vi è saggezza a condizione che vi sia enunciazione della norma adeguata; ma vi è enunciazione della norma adeguata a condiziorte che vi sia saggezza. Questa circolarità, sperimentata sempre di nuovo da chi agisce parlando, è il corrispettivo mentale del decreto: in entrambi i casi, l'unità di misuri! è a sua volta misurata da ciò che proprio essa consente di misurare. Si potrebbe anche dire: la dipendenza reciproca tra phr6nesis e orth6s l6gos mostra che il decreto (nel quale è impossibile distinguere l'applicazione della norma dalla sua istituzione) non è un torbido casolimite, ma la forma basilare della prassi umana. Il mouo di spirito è una azione pubblica che può essere compiuti! unicamente con le parole. Ed è un peculiare esercizio di phr6nesis, di avvedutezza pratica. Chiediamoci ora che ruolo gioca in esso il «discorso corretto». Nel caso dell'arguzia, l' orth6s l6gos non si limita a ispirare o guidare l'azione innovativa, ma ne è parte integrante. Detto altrimenti: capita spesso che il motto realizzi una azione mediante l'enunciazione- indiretta e talvolta subdola, tale comunque da «stupire e illuminare» - della norma a essa adeguata. Esempio: dopo aver osservato i ritratti a olio di due mascalzoni arricchiti, un critico d'arte indica lo spazio vuoto tra le tele e chiede: «E il Redentore dov'è?» (MdS, p. 98). L'arguzia riuscita è orth6s l6gos. Ma, si b~Jdi, un orth6s l6gos il cui carattere metaoperativo (come bisogna agire) è completamente assorbito nel livello operativo (le concrete fattezze dell'azione linguistica che si sta eseguendo). Inoltre, la facezia è un orth6s l6gos il cui proferimento suscita piacere. Questo aspetto,

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peraltro mai trascurabile, solleva un problema interessante. Per Aristotele la coppia piacevole/doloroso determina anche il comportamento degli animali non-linguistici: sicché il perseguimento del piacere non dipende, di per sé, da un «discorso corretto». L' orth6s l6gos concerne, piuttosto, le coppie utile/nocivo e bene/male (cfr. Pol., I 253 a I 2-I5). Ebbene, che cosa accade nel motto? Il criterio linguistico, che di solito consente di discriminare il vivere bene dal vivere male, diventa, qui, materia prima e strumento di sperimentazioni ludiche. Si gioca con l'orth6s l6gos. È ben vero che nella prassi dell'animale umano il ragionamento verbale finisce col regolare anche la ricerca del piacere (cfr. Lo Piparo 2003, pp. 19-20). Ma l'arguzia presenta una curiosa anomalia: in essa l'orth6s l6gos, anziché governarlo, del piacere è piuttosto l'oggetto immediato. c) La phr6nesis in genere, e la disposizione a inventare battute sorprendenti in particolare, richiedono colpo d'occhio e prontezza di riflessi. Colpo d'occhio: l'avvedutezza pratica, a differenza della singola virtù che aderisce sempre a una situazione determinata, consiste proprio nel soppesare e valutare le più diverse situazioni. Prontezza di riflessi: colui che agisce nella sfera pubblica deve cogliere il momento giusto (kair6s) per fare la sua mossa. L'arguzia, se non è pronunciata a tempo debito, va a vuoto. «Sua Altezza Serenissima fa un viaggio attraverso i suoi Stati e nota tra la folla un uomo che, nell'aspetto imponente, gli assomiglia in modo straordinario. Gli fa cenno di accostarsi e gli domanda: "Vostra madre è stata a servizio a Palazzo, vero?" "No, Altezza - è la risposta, ma c'è stato mio padre"» (MdS, p. 92). Un attimo prima sarebbe stato troppo presto, un attimo dopo, troppo tardi. Il phr6nimos motteggiatore individua, all'interno Jella trama verbale in cui di volta in volta è inserito, quello spiraglio temporale che, solo, rende congrua la battuta. l~ non se lo lascia sfuggire. «Un fornaio dice a un oste che

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ha un dito ulcerato: "L'hai bagnato nella tua birra, eh?" E l'oste: "Macché, mi è finita sotto l'unghia una briciola del tuo pane"» (MdS, p. 92). Afferrare il kair6s, il momento opportuno, è la condizione che rende efficace, o anche l semplicemente sensato (cioè comprensibile), l'enunciato l umoristico. L'azione innovativa è una azione urgente, l realizzata sotto la pressione di circostanze irripetibili. i Chi la esegue, è sempre in uno stato di emergenza. i Scrive Freud: «Si dice[ ... ] che si "conia" un motto, ma si avverte che nel coniarlo ci si comporta in maniera diversa dai casi in cui si pronuncia un giudizio o si fa un'obiezione. Il motto ha in misura evidentissima il carattere di una "idea" involontaria» (ibid., p. 189). È ben vero che ci si comporta in maniera diversa: la spiegazione sta però nel fatto che solo l'inventore dell'arguzia, non chi pronuncia un giudizio o fa una obiezione, compie una azione pubblica (il cui esito è affidato alla «terza persona»). La differenza avvertita da Freud è, all'incirca, quella che separa laprdxis dall'epistéme. Resta da capire, tuttavia, per qual motivo il motto si presenta come «una "idea" involontaria». È obbligatorio, qui, un riferimento al lavoro onirico? Non direi. Riconoscere il kair6s e profittarne esige prontezza di riflessi. Senza la necessaria tempestività, l'azione innovativa fallisce, il motto decade a enigmatica voce dal sen fuggita. Tutto ciò fa si che «l'allusione spiritosa» compaia «senza ch'io possa seguire nel mio pensiero questi stadi preparatori» (ibid., p. 190). Di fronte a un caso critico, la phr6nesis prende le sembianze di una reazione semi-istintuale. E lo stesso fa il motto. Su questa reazione semi-istintuale bisognerà tornare in seguito (cfr. in/ra, cap. 4). Basti osservare, per ora, che essa rientra a pieno diritto nell'ambito della prassi, dato che coincide con l'apprezzamento del kair6s e l'elaborazione di una condotta consona a uno stato d'eccezione. Ancora Freud: «Non è che un minuto prima si sappia già che motto si pronuncerà e che si tratti poi solo di rivestirlo di parole»

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(MdS, p. 189). Giusto. Ma questa constatazione non vale soltanto per il motto: a rigore, non accade mai di avere un pensiero già costituito che, in seguito, sarà agghindato di parole. L'arguzia, proprio perché incalzata dalla necessità di cogliere il momento opportuno, esibisce con esemplare nitore ciò che è sempre vero: il carattere integralmente verbale del nostro pensiero. Il fatto che pensiamo con le parole diventa una evidenza empirica (saprò che cosa pensavo solo dopo averlo detto!) quando il pensare-parlare esegue una azione innovativa che, per andare a segno, deve avvenire proprio ora. d) Non diversamente dalla phr6nesis e dal discorso retorico il cui fine è persuadere, anche il motto di spirito ha come retroterra gli éndoxa, cioè le opinioni e le credenze condivise da una comunità. Gli éndoxa non sono dati di fatto, ma usi linguistici. Più precisamente: gli usi linguistici cosl radica ti da costituire il presupposto implicito di ogni tipo di argomentazione. Nel gergo di Wittgenstein, si potrebbe dire che gli éndoxa (o almeno il loro nucleo centrale, formato da convincimenti collettivi pressoché inquestionabili) sono la grammatica di una forma di vita. Le credenze condivise concernono «gli oggetti la cui conoscenza è in un certo qual modo patrimonio di tutti gli uomini e che non appartengono a una scienza specifica» (Reth., I, 1354 a 2-5). L'arguzia utilizza a piene mani gli éndoxa: allo scopo, però, di corroderli dall'interno. Il suo punto d'onore sta nel mostrare l'opinabilità delle opinioni sottese ai discorsi e alle azioni. Per centrare l'obiettivo, l'arguzia spinge una singola credenza al limite, fino a trame conseguenze assurde o ridicole. O pone maliziosamente in contrasto due principi fondamentali, ciascuno dei quali, se considerato isolatamente, sembrava inoppugnabile. Il motto è il sillogismo retorico che confuta gli éndoxa da cui pure ha preso avvio. Meglio ancora: è un esempio performativo di come si possa trasformare la grammatica di una forma di vita.

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Nell'arguzia gli éndoxa si fanno valere come «inibizioni» da superare. Ci si rammenti ancora una volta dell'ipotesi proposta da Freud: chi conia il motto, non può riderne (se non dopo che ne ha riso la «terza persona») a causa dell'ingente dispendio psichico che gli è costato infrangere divieti assai tenaci. Questi divieti non sono altro che il modo peculiare in cui si manifestano prindpi e credenze che fanno da sfondo alla comunicazione sociale. Non sono altro che éndoxa. Le inibizioni-éndoxa vertono per lo più, secondo Freud, sull'ossequio della gerarchia sociale e sul rispetto del decoro sessuale. Ma riguardano anche l'esercizio della facoltà di linguaggio: è messa al bando, infatti, l'inclinazione infantile a servirsi di omofonie e allitterazioni per ottenere concatenazioni semantiche improprie e sorprendenti. Il motto funziona solo se le inibizioni, che l'autore dell'arguzia si impegna a debellare, sono radicate anche nello spettatore inattivo. In caso contrario, la «terza persona» non potrebbe trarre alcun piacere dal loro superamento. «Ridere degli stessi motti è prova di una vasta concordanza psichica» (MdS, p. 174). Questa concordanza è assicurata ancora dagli éndoxa: sia pure negativamente, come bersaglio della critica e oggetto di confutazione, essi non cessano di unire i parlanti. Inibizioni a parte, vi sono molti altri usi linguistici che accomunano il motteggiatore al suo pubblico: stereotipi, proverbi, precetti, espressioni idiomatiche, aneddoti tradizionali. L'azione arguta profitta della loro notorietà, ma per storpiarli e rovesciarne il senso. Commentando le dimissioni di uno stolido ministro, un giornalista osserva: «Anche lui, come Cincinnato, è tornato al suo posto davanti all'aratro» (ibid., p. 51). E poi: un signore riservato, dopo essere stato assillato per un po' da un chiacchierone petulante, riferisce coslla situazione: «Ho viaggiato teteà-beteconlui» (ibid., p. 49). Il discorso persuasivo «trae le conclusioni a partire dagli éndoxa» (Top., xoo a 30). Il motto di spirito, come

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si è detto, dissesta e mette in mora gli éndoxa da cui muove; o, quanto meno, ricava da essi conseguenze talmente bizzarre, da retroagire come un maglio sulle premesse. Il discorso persuasivo e il motto sono confrontabili, inoltre, perché caratterizzati entrambi da una intrinseca concisione. È noto che il sillogismo retorico, cioè l'entimetna, è costitutivamente lacunoso, giacché omette una premessa o perfino la conclusione: !ungi dall'essere un difetto, la brevità permette di «fa[r] leva sul non detto in modo da condividere con l'interlocutore la responsabilità del ragionamento» (Piazza 2ooo, p. 146). Lo stesso vale in certa misura per l'arguzia, salvo aggiungere che essa punta a spartire con la «terza persona» (non con il diretto interlocutore) la grave responsabilità di confutare gli éndoxa. Ma sulla specifica concisione dell'arguzia bisogna aggiungere qualcosa. Freud cita con approvazione una frase di Theodor Lipps: «L'arguzia dice quel che ha da dire, non sempre in poche, ma sempre in troppo poche parole, cioè con parole insufficienti a rigar di logica o secondo i comuni modi di pensare e di parlare» (MdS, p. 38). Dopo aver suggerito l'idea secondo la quale l'autore del motto prediligerebbe l'espressione abbreviata per godere di un certo «risparmio» psichico, Freud stesso ammette che questa spiegazione non sta in piedi: scegliere la parola giusta (per esempio l'aggettivo 'familionari' a proposito dei modi di Rothschild), capace di unire in sé due pensieri contrastanti, implica almeno altrettanto sforzo che argomentare per esteso. I risparmi realizzati dalla tecnica arguta «ricordano quasi le economie di certe massaie, che sprecano tempo e denaro per recarsi in un mercato fuori mano dove la verdura costa pochi centesimi in meno» (ibid., p. 68). Scartata l'ipotesi del «risparmio», chiediamoci a che cosa è dovuta l'impressione che la facezia sia concisa in sé e per sé, dunque anche quando si dilunga in mille dettagli e non tralascia nulla. A me sembra che questa

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impressione sia connessa a doppio filo al carattere innova-! livo dell'azione arguta; ossia al fatto che essa si discosta bruscamente dagli éndoxa vigenti e altri ne lascia intravedere mediante un decreto (pséphisma) promulgato a tempo debito (kair6s). Le parole che la facezia utilizza sembrano ~empre insufficienti proprio perché divergono dai «comuni modi di pensare e di parlare». Il motto apre una via obliqua che collega contenuti semantici eterogenei, fin lì irrelati: questa via, cioè l'inferenza inventiva, sembra breve perché prima non esisteva (né era prevista), non perché ce ne fosse una più lunga a disposizione. Ogni azione linguistica che modifichi la grammatica di una forma di vita è certamente concisa: si tratta però di una concisione assoluta, non comparativa. La prassi umana pianta le tende nell'ambito del contingente. Essa si appunta, dunque, su «ciò che può essere diverso da come è», to endech6menon dllos échein (EN, VI, r 140 b 27). Il motto di spirito, in quanto diagramma dell'azione innovativa, non si limita tuttavia a operare di fatto in situazioni contingenti, ma mette esplicitamente a tema la contingenza di tutte le situazioni (e degli stessi éndoxa che prescrivono il modo di affrontarle). Detto altrimenti: il motto mostra a chiare lettere quale aspetto assumerebbe «ciò che può essere diverso da come è», se fosse realmente diverso da come è.

Parte seconda Decisione, norma, normalità



Il paiuolo bucato, o della difficoltà di applicare una regola

La trasformazione di una forma di vita ha il suo inappariscente laboratorio nei modi dissimili, e talvolta contraddittori, in cui si può applicare una regola al caso particolare. La «creatività» dell'animale umano non è altro che una risposta ai dilemmi suscitati da tale applicazione. Il motto di spirito esibisce le risorse logico-linguistiche di cui si nutre l'innovazione in generale proprio perché esso si colloca nella terra di nessuno che separa qualsiasi norma dalla sua realizzazione in una occasione contingente. Il motto è la loquace sentinella di questa terra di nessuno: indica sempre di nuovo quanto travagliato, e soggetto a brusche diversioni, sia il suo attraversamento. Come applicare la regola a un caso particolare: il problema si ripropone, in forme neanche tanto diverse, nell' Etica nicomachea di Aristotele, nella Critica della facoltà di giudizio di Kant, nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Si è appena visto che per Aristotele la phr6nesis, l'avvedutezza pratica, ha il compito di selezionare la virtùregola che meglio si attagli a una specifica circostanza. Applicare la norma non è cosa diversa dall'individuarla (o dall'istituirla, come accade nel decreto). Si potrebbe anche dire: la bravura necessaria per applicare la regola è la stessa bravura che, per altro verso, permette di percepire quale regola convenga adottare nella presente occasione.

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Questa bravura una e bina è, per l'appunto, laphr6nesis. Il carattere anfibio della phr6nesis avalla, mi pare, la tesi che cercherò di giustificare per esteso di qui a poco, dopo aver battuto nuove vie. Essa suona pressappoco così: applicare una norma a una situazione contingente implica sempre che si risalga per un momento al di qua della norma. E viceversa: il solo modo di risalire davvero al di qua della norma è applicarla a una situazione contingente. Per quel che riguarda Kant, basti ricordare una sua di chiarazione di principio: «Nessuna regola fornisce nello stesso tempo tutte le condizioni necessarie e sufficienti per la sussunzione di un caso particolare sotto di essa» (Kant 1790, p. 20; cfr. Garroni 1978, pp. 72-95). Vale a dire: nessuna norma può indicare le modalità del suo concreto adempimento. Quanto a Wittgenstein, è a lui che saranno dedicate le prossime pagine. I paragrafi delle Ricerche filosofiche in cui si discute di che cosa bisogna intendere per «seguire una regola», offrono lo spunto per chiarire la struttura del motto di spirito e, insieme, la struttura dell'azione innovativa. «Parlando dell'applicazione di una parola ho detto che essa non è limitata dovunque da regole». Questa affermazione di Wittgenstein (1953, § 84) significa, certo, che vi sono aspetti di un gioco linguistico del tutto sregolati (così come, nel tennis, non è prescritto quanto in alto si debba lanciare la palla al momento della battuta); ma significa anche, e più radicalmente, che una singola mossa del gioco non è mai desumibile dalla regola di cui pure è l'applicazione. L'indipendenza (o non limitazione) del momento applicativo emerge appieno in presenza della regola corrispondente, non già laddove essa difetta. Tra una norma e la sua effettiva realizzazione sussiste uno iato duraturo, anzi una vera e propria incommensurabilità. La medesima incommensurabilità, per intendersi, che contraddistingue il rapporto tra la lunghezza di una circonferenza e quella del suo diametro. È noto che il cal-

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colo di tale rapporto non ha esito alcuno, terminando con i puntini di sospensione che stanno per un «e cosi via» (ci si ricordi del pi greco: J,14159···). Lo stesso vale nel nostro caso. Infatti, appena poche righe dopo l'affermazione citata, Wittgenstein mostra quanto sia inconcludente la pretesa di escogitare «una regola che governi l'applicazione delle regole»: è del tutto evidente che questa seconda regola, dovendo a sua volta essere applicata, ne richiede una terza (che indichi come applicare ... la regola che governa l'applicazione delle regole); e cosi via, senza sosta, com'è tipico del regresso all'infinito. La frattura logica tra una norma e la sua realizzazione in un frangente particolare è illustrata dal paragrafo 85 delle Ricerche: «Una regola sta Il, come un indicatore stradale. - Non lascia adito ad alcun dubbio circa la strada che devo prendere? Mi dice in quale direzione devo procedere quando l'ho oltrepassato? Se devo proseguire per la strada, o prendere per il viottolo, o andare attraverso i campi? Ma dove sta scritto in quale senso devo seguire quel segnale? Se devo andare nella direzione indicata dal dito o non piuttosto (p. es.) nella direzione opposta? - E se invece di un indicatore stradale ci fosse una fitta successione d'indicatori o di segni di gesso sulla superficie stradale [se cioè si moltiplicassero all'impazzata le regole allo scopo di garantire una applicazione univoca], ci sarebbe per essi una sola interpretazione?» Ebbene, l'incertezza che si manifesta qui a proposito dell'indicatore stradale è il fulcro di tutti i motti di spirito. Ogni motto ha per sfondo la domanda con cui Wittgenstein ricapitola la questione: «Ma come può una regola insegnarmi che cosa devo fare a questo punto?» (1953, § 198). Ogni motto mette a fuoco a suo modo la pluralità di alternative che si presentano nell'applicare una norma: anziché «proseguire per la strada», è sempre possibile «prendere per il viottolo, o andare attraverso i campi». Ma imboccare un viottolo laterale o inoltrarsi nei campi significa com-

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piere una azione innovativa: la «creatività» umana consiste proprio e soltanto in queste digressioni applicative. Doppio senso, controsenso, uso molteplice dello stesso materiale, giochi di parole basati sull'omofonia, spostamento semantico mediante una inferenza eccentrica: è sufficiente elencare alla rinfusa le diverse tecniche dell'arguzia studiate da Freud per accorgersi che ciascuna di esse, senza eccezioni, pone in rilievo le aporie e i paradossi insiti nel rapporto tra regola e applicazione. Ecco un Witz che può degnamente figurare come il fratello gemello del paragrafo 85 delle Ricerche (basta sostituire all'indicatore stradale la regola "occorre giustificarsi per i propri errori"): «A ha preso a prestito da B un paiuolo di rame. Quando lo restituisce, B protesta perché il paiuolo ha un grosso buco che lo rende inutilizzabile. Ecco come si difende A: "In primo luogo, non ho affatto preso in prestito nessun paiuolo da B; in secondo luogo, quando B me l'ha dato il paiuolo aveva già un buco; in terzo luogo, ho restituito il paiuolo intatto"» (MdS, p. 86). Ma, ripeto ancora una volta, non c'è una sola facezia, tra quelle collezionate da Freud, che non batta lo stesso chiodo. Consideriamo un doppio senso scurrile: «Il tenore di vita dei coniugi X è piuttosto elevato; secondo alcuni il marito deve aver guadagnato molto ed essersi poi un po' adagiato, secondo altri è invece la moglie che si è un po' adagiata e cosl ha guadagnato molto» (ibid., p. 57). Che cos'altro è, questo motto, se non un esempio calzante del principio wittgensteiniano secondo cui «l'applicazione della parola non è limitata dovunque da regole»? Per evitare fraintendimenti, è bene precisare già ora, tuttavia, che l'arguzia non è soltanto una applicazione stravagante (anche se non illegittima) della regola. Essa è piuttosto una esposizione concentrata del rapporto, sempre problematico perché incommensurabile, tra ambito della norma e ambito delle azioni, quaestio iuris e quaestio facti. Si potrebbe dire: il motto è la specifica applicazione della regola che consiste

IL PAIUOLO BUCATO

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nel mettere in risalto il costitutivo divario tra regola e applicazione. Ma sarebbe ancora poco. Vedremo tra breve che il motto, come del resto l'azione innovativa di cui è il diagramma, applica una regola in modo inconsueto perché - nell'applicarla, per applicarla - ricorre per un momento a quella perspicacia, o capacità di orientamento, che precede le regole e ne consente la formulazione. Nell'esperienza effettiva del parlante, il cartello stradale è la lingua come sistema di segni, mentre i differenti modi in cui ci si può comportare al cospetto del cartello hanno a che fare con la lingua come universo del discorso (ossia con !'«attività dellocutore che mette in azione la lingua»: Benveniste 1967, p. 256). La distinzione tra piano semiotico (segno) e piano semantico (discorso), sviluppata da Émile Benveniste in saggi che costituiscono uno spartiacque nella linguistica del xx secolo, corrisponde per molti aspetti a quella tra piano normativa e piano applicativo. Il sistema semiotico «esiste in se stesso, fonda la realtà della lingua, ma non comporta applicazioni particolari; la frase invece, espressione del semantico, è solamente particolare» (ibid.). La frase non è un «avvenimento abituale», ma unico, «evanescente»: in essa «ogni parola conserva solo una piccola parte del valore che ha in quanto segno» (ibid., p. 26o). Sotto il profilo semiotico, le circostanze contingenti non hanno il minimo peso; sotto il profilo semantico, sono invece decisive per produrre il senso. Quel che più conta, in ultimo, è che «dal segno alla frase non vi è transizione[ ... ]. Uno iato li separa» (Benveniste 1969, p. 82). Il medesimo iato, si badi, che sempre sussiste tra il cartello stradale e le reazioni operative che esso suscita. L'impossibilità di dedurre il senso del discorso dal significato dei segni, dimostrata in dettaglio da Benveniste, equivale in tutto all'impossibilità di dedurre da una certa regola quale debba essere la sua applicazione in una specifica occasione. Il motto di spirito è un discorso- particolare, unico, evanescente-

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che dà conto della differenza tra sistema semiotico e universo del discorso. L'effetto umoristico deriva, spesso, proprio dall'andirivieni tra i due piani: all'interno di una sola frase si dà a vedere la diversità di statuto della medesima entità lessicale, a seconda che venga considerata come segno o come parte del discorso («Come va?» chiede il cieco allo zoppo, «Come vede» risponde l'interpellato). Scrive Benveniste: «Il privilegio della lingua è di comportare allo stesso tempo la significanza dei segni e la significanza dell'enunciazione. Da ciò discende il suo maggior potere, quello di creare un secondo livello di enunciazione dove diventa possibile tenere discorsi significanti sulla significanza» (1969, p. 81). Ecco, il motto di spirito è un caso peculiare di discorso significante sulla significanza. Peculiare per due motivi. Anzitutto, perché il suo contenuto metalinguistico concorre a eseguire una azione pubblica: il «secondo livello di enunciazione» ha, qui, un immediato valore performativo. Inoltre, perché il motto è un discorso significante sulla crisi della significanza, dato che sottolinea sfrontatamente l'indipendenza dell'applicazione dalla norma, ovvero la distanza incolmabile tra semantico e semiotico.

4· «Il modo di comportarsi comune agli uomini» e lo stato d'eccezione

Torniamo a Wittgenstein. «