Lineamenti di storia della Cisalpina romana: antropologia di una conquista [1. ed.] [PDF]


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Table of contents :
Introduzione / 9
1. L'ambiente e gli insediamenti / 13
2. Per un'antropologia dei Celti / 29
3. Cenni antropologici sui Liguri / 53
4. Migrazioni e infiltrazioni celtiche / 63
5. La conquista romana / 75
6. Barbarologia romana / 103
7. Tre forme dell'economia / 107
8. Sociologia storica della Cisalpina / 125
9. Municipalizzazione e urbanizzazione / 143 Indicazioni bibliografiche / 151

Lineamenti di storia della Cisalpina romana: antropologia di una conquista [1. ed.] [PDF]

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Daniele Foraboschi

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

La Nuova Italia Scientifica

STUDI SUPERIORI NIS /

133

Serie diretta da Emilio Gabba

A Luciana.

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: La Nuova Italia Scientifica, via Sardegna 50, 00187 Roma (telefono 06/4870745; fax 06/4747931)

Daniele Foraboschi

Lineamenti di storia della Cisalpina romana Antropologia di una conquista

La Nuova Italia Scientifica

Ricerca finanziata con un contributo del MURST.

i edizione - maggio 1992 © copyright 1992 by La Nuova Italia Scientifica, Roma a

Finito di stampare nel maggio 1992 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume, anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, neppure per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione / 9 1.

L'ambiente e gli insediamenti / 13

2.

Per un'antropologia dei Celti / 29

3.

Cenni antropologici sui Liguri / 53

4.

Migrazioni e infiltrazioni celtiche / 63

5.

La conquista romana / 75

6.

Barbarologia romana / 103

7.

Tre forme dell'economia / 107

8.

Sociologia storica della Cisalpina / 125

9.

Municipalizzazione e urbanizzazione / 143 Indicazioni bibliografiche / 151

Elenco abbreviazioni

AE CIL FGH

= L'Année Épigraphique, Paris 1988 - . = Corpus ìnscriptionum Latinarum, Berlino 1863 - . = F. Jakoby, Die Yragmente der Griechìschen Historiker

Leiden,

HRR = H . Peter, Historicorum Romanorum Reliquiae, Stuttgart, 1967. 11 = ìnscriptiones Italiae, Roma 1931 - . 11, Brixia = A. Garzetti, ìnscriptiones Italiae, Brixia, Roma 1984-85. ILLRP = A. Degrassi, ìnscriptiones Latinae Liberete Rei Publicae, 1-11, Firenze 1957-63. ILS = H . Dessau, ìnscriptiones Latinae Selectae, Berlino 1892. ZPE = Zeitschrift fùr Papyrologie und Epigraphik.

Introduzione

È una vicenda storica tra le più drammatiche quella che si svolge in Cisalpina tra m e i secolo avanti Cristo: l'impatto tra le società celtiche che stavano emergendo da forme di organizzazione tribale e una società romana tecnologicamente più evoluta, giuridicamente regolamentata e organizzata in forma di Stato. L'esito è una rivoluzione antropologica. Rivoluzione che essenzialmente consiste nell'omologazione dei vinti all'universo culturale e politico dei Romani. La violenza bellica unita alla seduzione della superiorità tecnica e politica sono gli strumenti attraverso cui viene messa in moto questa fenomenologia storica che troverà più tardi un parallelo nell'espansione romana in Nord Europa, mentre al contrario la conquista romana in Oriente dovrà misurarsi con civiltà sofisticate e non solo con culture diverse. In Italia settentrionale i l trauma culturale del passaggio a insediamenti stabili dentro città - ben diverse per dimensione, organizzazione e forma dagli oppida celtici - e su territori razionalizzati dalla centuriazione dovette costituire un momento primario dello choc derivante da una acculturazione rapidissima. Anche se forse questo passaggio venne attutito da quella forma psico-politica grazie alla quale la popolazione dei vinti si poneva sotto i l patronato della famiglia del condottiero che l'aveva vinta. Così successe agli Iberici con gli Scipioni e ai Liguri Langates con i Minuci. La conquista romana della Cisalpina corrisponde a una colonizzazione massiccia che significa un processo di meridionalizzazione del Nord Italia ad opera di coloni provenienti dal centrosud, con migrazioni che assunsero vere dimensioni bibliche. Intere tribù vennero sterminate e deportate (i Boi), altre, come gli Insubri, stipularono presto trattati con la potenza espansionista di Ro9

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ma e subirono una romanizzazione senz'altro meno drammatica, ma comunque non meno penetrante. Attraverso questi sconvolgimenti la Cisalpina muta radicalmente i l proprio assetto demografico, sociale, politico e culturale. L'urbanizzazione e la civiltà urbana (che insiste su un ampio territorio agricolo dipendente) sarà i l segno più evidente di questo mutamento rivoluzionario. Se i Celti furono la causa della crisi della prima urbanizzazione etrusca (Spina e Marzabotto), i Romani seppero riproporre su scala universale la città come luogo primario del potere e della civiltà. E la Cisalpina fu un pullulare di urbanizzazioni secondo modelli di città diversi in rapporto alle situazioni e alle tradizioni, anche se a volte concepiti in modo che appare programmato (Cremona-Piacenza; Pavia-Verona). La gamma delle varietà risulta multiforme. Milano (toponomastico diffusissimo nel mondo celtico, cfr. FIG. I ) è la metropoli regionale che dall'impero è immessa in un circolo virtuoso di sviluppo economico immediatamente leggibile nella sontuosità monumentale (Ausonio), così da diventare nel tardo-antico una delle sedi capitali di un impero che per far fronte ai barbari invasori sposta a nord i l proprio baricentro. Como, già inurbata in epoca pre-celtica e contornata da un'imponente corona di castella (Rittatore Vonwiller, 1974) è la figura di città dipendente i l cui territorio è quasi circondato da quello di Milano dalla quale dipende per una serie di legami, oltre che per le istituzioni scolastiche (Baldacci, 1977). Pavia, Cremona, Piacenza sono i centri di un ricco territorio agricolo che per la loro collocazione sulle vie dei fiumi (Po-Ticino) trovano possibilità di commerci con mercati lontani. Brescia esibisce già nel Campidoglio la ricchezza del suo territorio, che arriva fino al lago di Garda, percorso da commercianti e naviganti. Una ricchezza sostenuta da un'economia autarchica e da aristocrazie locali fortemente consolidate che tendono e perpetuarsi bloccando la dinamica sociale (Mollo, in corso di stampa). Aosta è la città di frontiera e di montagna da dove si muovono le legioni che sottomettono le ultime resistenze dei Salassi nel 25 a.C. e presso la quale viene quindi collocata una stazione doganale per la riscossione dell'imposta della quadragesima Galliarum. Aquileia offre un'immagine contraria rispetto all'Idealtypus weberiano della città antica parassitaria. Strabone, Erodiano e Giuliaio

FIGURA I

II toponimo Milano in Europa

Legenda (tra parentesi quadre è il nome delle tribù insediate in quel territorio): i . Mediolanum, Milano, Meyland [Insubres]; 2. Mediolanium, Santes [Santones]; 3. Mediolanum, Chateaumeillant [Bituriges]; 4. Mediolanium, Saint-Aubin-du-Vieil-Évreux [Eburouices]; 5. Mediolanum, L e Miolan; 6. Mediolanum, Rue Mélaine; 7. Mediolanum, Montmeillan; 8. Montmeillant [Remi]; 9. Montmeillant [Senones]; 10. Montmeillen [Mandubii]; 11. Meilhan [Volcae Tectosages]; 12. Meilhan [Tarbelli]; 13. Meilhan [Sotiates e Nitiobroges]; 14. Méolans [Vocomii]; 15. Meillan; 16. Meillan [Biturices]; 17. Les Maillands [Petrocorii]; 18. Meylan; 19. Meylan [Segalauni]; 20. Màlain; 21. Mediolanum, Meiolanum, Miolanum, Miolan [Allobroges]; 22. Miolanum; 23. Miaullens; 24. Melianum, Mediolanense Castrum, Moélan [Leuci]; 25. Meulanum, Moislains; 26. Mioland; 27. Molain; 28. Molien; 29. Moliens [Bellouaci]; 30. Moliens; 31. Molliens-au-Bois [Atrebates]; 32. Molliens-Vidarne, Moliens; 33. Mollans; 34. Mollans [Tricastini]; 35. Mollans [Sequani]; 36. Mosliens, Molins; 57. Molins; 38. Mediolanum Castellum [Treveri]; 39. Mediolanion, Metelen [Bructeri e Chamaui]; 40. Mediolanion, Wolkersdorf [Racatures]; 41. Mediolana [Dimenses, Usdicenses, Apiarenses, Obulenses]; 42. Malpas [Ordouices]; 43. Mediolanum, Marchegg; 44. Mediolanu, Meilen [Tougeni e Heluetii]; 45. Meylan; 46. Meylan [Salassi]; 47. Metzlaun [Raetii]; 48. Milano [Vettones]; 49. M . Milano [Carpetani]; 50. Mediolanum, Witchurch; 51. Mediolanum Menapiorum, Meteln [Cugerni]; 52. Karródounon, Kamenec Podol'sk (limite nordorientale degli insediamenti celtici noti dall'onomastica) [Neuroi e Bastarnae]. Fonte: elaborazione da una carta più complessa di Guido Borghi.

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no l'avevano già definita come emporio commerciale. E infatti la sua funzione appare quella di nodo di smistamento dei prodotti che arrivano via mare e di quelli del proprio territorio, un relais che, come mostra VEdictum de maximis pretiis di Diocleziano, si connet-. teva anche con l'Egitto e l'Oriente (Panciera, 1957). Città elegante fin dall'epoca repubblicana, Ausonio, nel iv secolo d.C, la considera la nona città del mondo, meta anche di curiosità turistiche, come indica l'epitaffio di un viaggiatore che vi morì (CIL V, 1703). L'elenco delle diversità non può finire qui. L'elemento unificante è invece l'inserimento parziale, ma significativo, nell'orizzonte cosmopolita di un impero ecumenico che offre chances di apertura anche ai più ostinati isolazionismi. I n questo modo i montanari Trumplini della vai Trompia entreranno in contatto con una lontana città dell'Africa punica che invierà in vai Trompia un'ambasceria di suffeti di cui tre iscrizioni serbano memoria (11, Brixia, 1144-1146). E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ma insieme alla percezione e fruizione soggettive dello spazio, che si dilata su scala ecumenica, muta anche lo spazio geografico circostante, l'ambiente più propriamente cisalpino. Le bonifiche messe in atto dai Romani modificano i l territorio, le centuriazioni lo ridisegnano. Un'intricata rete di strade muta i l paesaggio e l'interdipendenza fra i vari insediamenti. E questo particolare intervento di civilizzazione attraverso le strade uno dei contributi tecnici più alti dei Romani rispetto ad altre civiltà. Gli stessi fiumi resi più navigabili - e sempre più navigati - incentiveranno uno sviluppo enorme di scambi, informazioni e traffici "internazionali". Si rompe così i l relativo isolamento della Cisalpina (Brunt, 1971) in modo tale che, con gli sviluppi tardo-antichi, sembra r i baltarsi una secolare dialettica centro-periferia: i l Nord Italia si muterà da periferia della capitale in un centro dell'impero; diventerà un'Italia annonaria con sintomi di sviluppo anche nei secoli di declino. Dentro queste coordinate si definisce la vicenda della Cisalpina romana. Ma attraverso le rotture medievali permarranno strutture di continuità, con una durata che giunge ai nostri giorni, come le tracce di centuriazione ancora oggi leggibili sul terreno o come la fioritura di città medievali che risorgeranno sulle antiche urbanizzazioni romane conservandone, con rare eccezioni (Ticinum-Pavia), anche l'originaria toponomastica.

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I

L'ambiente e gli insediamenti

Se in generale Puomo interagisce in modo duplice con l'ambiente, nel senso che l'uomo subisce i l condizionamento dell'ambiente e contemporaneamente l'uomo e le società umane costituiscono i l fattore più potente di modificazione delle superfici geografiche su cui insistono, l'ambiente è importante in quanto è luogo di insediamento e autoidentificazione: un gruppo sociale si insedia su un territorio che costituisce l'ambito spaziale della sua aggregazione. Anche se la regola dell'insediamento come luogo dell'identificazione territoriale non è assoluta. Tipico è i l caso degli indiani del Nord America, i Kwakiutl, i quali hanno delle forme di organizzazione strutturalmente significative: infatti, mentre l'estate si organizzano secondo clan e tribù (clan si intende come aggregazione parentale e tribù come insieme di aggregazioni parentali), l'inverno si ricompongono secondo le diverse divinità protettrici. Quindi tra loro i l territorio svolge una funzione minore. Non è i l possesso di un territorio, e successivamente l'eventuale proprietà, che costituisce i l criterio per la formazione di una gerarchia sociale. Normalmente, però, nelle società pre-capitalistiche i più grandi proprietari terrieri costituiscono l'aristocrazia, e tra le aristocrazie viene scelto un monarca. I n questo modo si forma la gerarchia sociale e politica che spesso è equivalente anche a quella militare. Ricordiamo che nel mondo antico e anche a Roma, fino alla riforma di Mario, quindi fino alla fine del n secolo a.C, andare in guerra era più un onore che un onere, e quindi l'accesso alla milizia era consentito inizialmente solo alla classe sociale più alta ed era gerarchizzato in modo che i combattenti più qualificati fossero quelli delle classi più alte. Presso la popolazione dei Kwakiutl, invece, la gerarchia sociale 13

L I N E A M E N T I D I S T O R I A D E L L A C I S A L P I N A ROMANA

non si definisce tanto in funzione della proprietà, quanto in un momento di festa dissipatoria collettiva, chiamata "potlacht", dove la tribù si ritrovava portando i propri beni e dove all'insegna di queste feste "orgiastiche" si qualificava come primo capo, tra i capi tribù, colui che riusciva a donare in forma dissipatoria, cioè fino a ridursi in miseria, più di qualsiasi altro capo. Era quindi una festa agonistico-dissipatoria. Questo fenomeno è forse una t i pica struttura di organizzazione dei capi di queste tribù, oppure è manifestazione della fase finale della storia dei Kwakiutl, così che queste feste, invece che orgiastiche, possono sembrare celebrazioni funerarie (Wolff, 1982). Ancora: in certe società primitive australiane non era i l distretto territoriale a unificare e identificare una popolazione, ma i diversi clan e quindi le tribù si identificavano intorno a un totem, o feticcio religioso, che era un simbolo e che esprimeva un nucleo comune di idee religiose da parte di clan diversi. Alcune forme primitive di aggregazione dei Celti erano di questo tipo e dovevano rifarsi a questi moduli antropologici. Ma con gli insediamenti lo spazio naturale è mutato, e i l popolo, all'interno di esso, è cambiato, modificando a sua volta i l territorio: comincia la storia della dialettica uomo-ambiente. L'ambiente geografico, però, si trasforma anche autonomamente. Si modifica i l clima, e in questo modo si introducono delle abitudini e delle tecniche di sopravvivenza diverse, secondo le diverse situazioni. I n termini generali: l'ecosistema interagisce con l'uomo. Intorno al 2000 a.C. finisce l'ultima grande glaciazione, quando i ghiacciai coprivano i l territorio delle Alpi e quello sottostante, e dall'altra parte una fitta vegetazione copriva le aree che attualmente sono desertiche (Sahara) sia in Asia che in Africa (Brunt, 1971). Finito questo periodo di glaciazioni, si impone un clima dai connotati assimilabili a quello attuale, cioè un clima più mite e piovoso che determina da una parte maggiori possibilità di vita, di attività, di aggregazioni sociali, ma dall'altra, con le alluvioni, modifica i l paesaggio stesso e crea dei rischi per l'uomo. Anche in un quadro di sufficiente stabilità climatica si possono tuttavia rilevare numerose mutazioni del clima, di entità ridotta. Intorno al 1000 a.C. è stato ipotizzato, studiando le tracce dei livelli dei laghi, che dopo un periodo catastrofico di "alta marea" (ghiacci che si sciol14

i.

L'AMBIENTE E G L I INSEDIAMENTI

gono, acque che crescono) preceduto da una lunga fase di siccità, seguì un periodo di grandi piogge che modificarono radicalmente la Cisalpina. La documentazione storica di questo periodo è difficile da studiare, mentre per i secoli successivi lo studio delle variazioni climatiche è molto più documentabile. Dalle ricerche dello studioso francese Le Roy Ladurie (1982) che ricostruisce l'andamento del clima notando l'evolversi e i l mutare delle piccole glaciazioni, risulterebbe che non ci furono più grandi glaciazioni, come quelle appena descritte, che finiscono intorno al 2000 a.C, ma solo piccole glaciazioni e una tendenza per qualche secolo a un aumento di temperatura dal 1 secolo d.C. (Tichy, 1990; cfr. FIG. 2).

Studiando alcuni elementi che vanno dal contratto di affitto a bassa rendita (sintomo di un'annata cattiva di'siccità) alle piene del

FIGURA 2

Andamento dei ghiacciai Glaciazioni 3000 2000

1000 a.C.

Globo W = caldo; C = freddo. Fonte: Randsborg (1991).

15

o

1000 d.C.

2000

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Nilo, già studiate in epoca faraonica, che riflettevano particolari condizioni climatiche, emerge un quadro generale del mondo che a noi qui interessa. Anche nell'area mediterranea, non specificamente in Cisalpina, si possono determinare delle condizioni geoclimatiche, ambientali ed economiche diverse. Sappiamo da un testo storico di Giuseppe Flavio ( A / . 20, 51) che nel 45 d.C. la Palestina subisce una grande carestia in seguito alla siccità e che la sua regina Elena, per sopperire alle necessità del proprio popolo, compera ad alto prezzo i l grano in Egitto (sappiamo dai papiri che i l prezzo del grano era aumentato del 50%), dove pure c'era una situazione di insufficienza produttiva, determinata, al contrario, dalle eccessive alluvioni del Nilo. Come spiegare allora che due zone confinanti avessero un clima così diverso? L'alluvione del Nilo è determinata delle piogge equatoriali là dove ci sono, a sud dell'Etiopia, le sorgenti del Nilo: possiamo quindi immaginare che nel 45 d.C. ci sia stato da una parte un periodo di piogge torrenziali all'equatore che hanno gonfiato i l Nilo fino a farlo straripare rovinosamente, determinando grandi difficoltà di produzione, e dall'altra, al contrario, un fenomeno di siccità in Palestina che ha determinato lo stesso tipo di crisi. Anche in Cisalpina si può parzialmente ricostruire una storia del clima e del paesaggio attraverso una documentazione che non è scritta, e cioè lo studio dei pollini fossili: la presenza o meno di certe piante è indice di un certo tipo di clima... Altre notizie ci arrivano attraverso la fotografia aerea e la fotografia da satellite. Questo tipo d'indagine ci consente a volte di individuare la variazione storica dei corsi di fiumi quando, per un eccesso alluvionale, l'acqua deborda e trova un altro alveo, abbandonando i l precedente, che permane come paleoalveo. I l fenomeno è importante per la Cisalpina che è strutturata, per lungo tratto, dal Po, navigabile anche in epoca antica, e dal sistema dei suoi affluenti. Possiamo dunque notare i l modificarsi del Po, dei suoi diversi rami, r i costruendo anche i l mutamento degli insediamenti umani, situati sempre in vicinanza dei corsi dei fiumi (Veggiani, 1974). Si sono scoperti dei paleoalvei dovuti anche all'intervento umano (dighe argini ecc.), a cominciare dagli Etruschi (Veggiani, 1972). Riguardo al Po abbiamo l'attestazione di Polibio, nel 11 secolo a.C, che ci documenta almeno due foci (11, 16, 7). Nel 1 secolo d.C. Plinio 16

i.

L'AMBIENTE E G L I INSEDIAMENTI

il Vecchio segnala già la complessità di questa foce ed elenca, in successione da sud a nord, sette gruppi di foci fondamentali (N.H. n i , 119-121).

Alcuni di questi corsi antichi possono essere identificati grazie allo studio di fotografie zenitali che permettono di ricostruire i l cambiamento degli insediamenti umani in funzione del mutare del paesaggio geografico che, soprattutto sulla foce del Po, con le sue modificazioni, determina gli spostamenti degli insediamenti umani. Secondo la valutazione di Beloch, la superficie della Cisalpina è valutabile in 116.000 k m . La Cisalpina è, però, percorsa da tratti di dorsale appenninica, per cui la superficie più facilmente abitabile e coltivabile è soltanto un terzo della superficie totale della Cisalpina stessa. La Cisalpina antica appariva come una regione particolarmente ricca, tanto che suscitò l'ammirazione di Polibio, di Strabone e di Catone. Cicerone (FU. 111, 13) la descrive come «flos Italiae, firmamentum imperii romani, ornamentum dignitatis», e più tardi sarà definita «florentissimum latus Italiae» da Tacito {Hist. 11, 17). Strabone (v, 1, 5) per la sua ricchezza d'acqua, la paragona alla foce del Nilo. Così anche Plinio (111, 121). Inoltre la Cisalpina è caratterizzata da fontanili (sorgenti create dall'emergere di corsi d'acqua sotterranei). L'estrema abbondanza d'acqua ha però anche un risvolto negativo, esaltato dalla mancanza di un drenaggio adeguato, che porta ad alluvioni distruttive. I l Po fu spesso causa di questi fenomeni, e viene definito da Plinio «pericoloso per la terra, quantunque drenato da fiumi e canali» («gravis terrae, quamvis deductus in flumina et fossas»). Nel 108 a.C. una grave alluvione distrusse i territori della zona e un'altra alluvione si verificò nel 41 a.C, probabilmente quella di cui parlò Virgilio nelle Georgiche: «travolge le foreste i l re dei fiumi Eridano contorcendosi col suo pazzo capo, e porta via attraverso tutti i campi le stalle e gli armenti». Anche Lucano nella Pharsalia (vi, 272-273), dice: «sic pieno Padus ore tumens super aggere tutas excurrit ripas et totos concutit agros». Nel 589-90 la piena travolse le mura di Verona e come già mezzo millennio prima Caio Cassio Longino, i l giurista, lamentò che le sue terre fossero state sommerse dal fiume (Brunt, 1971). I l paesaggio antico era insomma molto più caratterizzato da paludi e lagune. Padova appariva circondata da lagune e collegata 2

17

L I N E A M E N T I D I S T O R I A D E L L A C I S A L P I N A ROMANA

direttamente col mare; anche Ravenna e Altinum erano circondate dall'acqua. Strabone ci descrive Ravenna (v, i , 7) e Padova che, sebbene situata in mezzo alle paludi, risulta comunque la migliore delle città circostanti, è molto ricca e avrebbe fornito nell'ultimo censimento augusteo 500 cavalieri (dato discutibile). D i Ravenna dice che è la città più grande nelle paludi tutta costruita su palafitte di legno, è percorsa da fiumi, le strade sono costituite da ponti e da passaggi sul fiume attraverso i quali si arriva fino al mare che la lambisce. Situazioni simili si trovano anche in altre città. Ma le operazioni di drenaggio cominciano già con gli Etruschi che giunsero a dominare fin su queste regioni, e altre opere del genere sono databili a pochi anni prima di Cristo. I l console Mario Emilio Scauro drenò le paludi attorno a Parma e costruì un canale navigabile (109 o 115 a.C). Secondo Cicerone la via Emilia, fra Bologna e Modena, era ridotta a uno stretto nastro che ancora nel 43 a.C. passava in mezzo a paludi (Traina, 1988). La flora della Cisalpina era ovviamente diversa da quella di oggi. Nel 218 a.C i l pretore Manlio che si dirigeva a Modena trovò foreste intorno alla via e per lo più terreni incolti (ce lo riferisce Livio). La vegetazione comprendeva soprattutto grosse querce che formavano vere foreste (come ci attesta Polibio e anche Catone). L'abbondanza di ghiande favoriva l'allevamento di suini (Catone e Strabone). Quando Tacito [Hist. 11, 24-25) descrive questa zona parlando della battaglia di Bedriaco nel 69 tra Otone e Vitellio, racconta di «boschi che incombono sulla via». Ma sempre Tacito per una zona vicina parla di "modica silva" e di terreni ricoperti da vigne, i l che significa che era cominciato i l disboscamento (Brunt, 1971). E l'intervento romano nel Nord Italia che porta al disboscamento delle foreste di querce e al dissodamento dei terreni: conseguentemente si verifica i l passaggio da una civiltà della selva alla civiltà agricola, anche se in certe zone le foreste sopravvivevano accanto alle coltivazioni; Tacito [Hist. i l i , 30), sempre riferendosi all'epoca dello scontro tra Otone e Vitellio, riferisce che i l territorio è prospero «oportunitate fluminum ubertate agri»: per l'irrigazione data dai fiumi e la fertilità dei campi. Contemporaneamente si infittiscono le strade e le comunicazioni che collegano piccole e grandi città, grazie anche alla ricchezza di comunicazioni fluviali (vale la pena ripetere che i costi 18

i.

L'AMBIENTE E G L I INSEDIAMENTI

di trasporto via terra erano altissimi e, oltre alla comodità, i l trasporto fluviale costa un quarto di quello terrestre). I l Po costituiva Parteria portante del sistema idrico, essendo navigabile per 2.000 stadi, fino al Tanaro secondo Polibio (11, 16, 10); ma Plinio (111, 123) dice addirittura fino a Torino. Strabone (v, 1, 11) ci informa che i l tempo del viaggio era piuttosto lungo, anche per l'insufficienza tecnica: nel tratto Piacenza-Ravenna due giorni e due notti. Navigabili erano anche molti affluenti e canali: c'era un canale di 250 stadi da Padova al Brenta. Insomma i l sistema di comunicazione fluviale era capillare e organizzato. D'altra parte, però, i l mare Adriatico era un mare frequentemente agitato dai venti sfavorevoli, quindi la situazione dei porti e degli sbocchi al mare sulla costa orientale dell'Italia non era propizia; senza contare le coste della Jugoslavia, 'abitualmente infestate da pirati. La Cisalpina risulta quindi in una certa misura isolata dal Mediterraneo. Ma ad Aquileia, centro mercantile e commerciale della massima importanza, dove confluiscono merci dall'Asia e dall'Africa, giungono dal retroterra mercanzie che si irradiano in tutta Europa. Forse un qualche tentativo di conoscenza maggiore si può ottenere cercando di valutare anche una serie di documenti medievali, altomedievali, soprattutto di prima del Mille, in modo particolare sull'estensione delle foreste nell'Italia settentrionale, per verificare l'ipotesi se l'ambiente, tra altomedioevo e mondo antico, non sia, almeno in questa parte d'Italia, sostanzialmente cambiato. I l punto di partenza per cercare di trovare similitudini tra ambiente classico, romano, e ambiente medievale è la valutazione della situazione climatica. Naturalmente anche su questo ci sono giudizi divergenti. Le Roy Ladurie (in Tempo di festa, tempo di carestia) ha sostanzialmente rilevato come negli ultimi 2.500 anni non ci siano state variazioni climatiche significative in Europa e nel bacino del Mediterraneo, per cui, dal punto di vista climatico, la flora, ovvero l'ambiente forestale, non deve aver subito modificazioni. Leggeri mutamenti vengono riscontrati soprattutto dagli studiosi di storia botanica e di pollini, che avrebbero notato un variare di certe specie arboree rispetto a un'epoca precedente: ci sarebbe stata tra i l 500 dopo Cristo e i l 1200 una fase climatica di deglaciazione, di maggior caldo, che avrebbe determinato la crescita di specie arboree precedentemente meno note, come ad esempio i l diffondersi, dalla Groenlandia e dall'Islanda fino al19

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l'Europa continentale, della betulla che prima era quasi assente da questo paesaggio. Possiamo partire dalla valutazione di Le Roy Ladurie su questa lieve variazione climatica negli ultimi millenni. Muovendo da questa ipotesi la questione che dobbiamo affrontare è quella di stabilire i l rapporto esistente tra la superficie forestale e i l resto della superficie coltivabile. Anche a questo riguardo c'è una serie di dati contrastanti: stando ad esempio ai documenti francesi di S. Germain des Près del ix secolo d.C, in certe zone della Francia, la superficie forestale avrebbe costituito i l 4 0 % di quella totale. Per la zona che più ci interessa abbiamo qualche dato relativamente preciso: ad esempio i documenti del monastero di S. Giulia di Brescia, databili intorno al ix secolo d.C, attestano l'esistenza di 10.000 ettari di bosco di proprietà di questo monastero contro 3.000 ettari di terra coltivabile, più una massa (termine medievale che indica una struttura agraria di cui non è precisata l'estensione): risulterebbe quindi che le terre coltivabili sono in rapporto di 1:3 circa, rispetto al bosco. I n altri luoghi l'estensione dei boschi era superiore: ad esempio nell'xi secolo nel Cuneese sembra che i l bosco ricoprisse i due terzi delle terre. Cambiando zona troviamo che verso la fine del x secolo, nel Vercellese, le foreste e le paludi occupavano i l 50% del territorio. E ancor più alta era la percentuale di foreste e paludi in certe aree del Vercellese, come quelle attorno a Trino e Palazzolo. Nel Ferrarese le paludi, gli acquitrini e le terre si alternano naturalmente in un paesaggio che venne bonificato solo nel Settecento. Sono numerose le documentazioni medievali di paludes-piscariae (laghetti dove si poteva pescare) verso Bologna e Ravenna e varie valli (valli intese come paludi e acquitrini) sono documentate in tutte le zone limitrofe, fino a Comacchio, dove notoriamente sopravvivono ancora adesso. L'ambiente era così caratterizzato da questo paesaggio naturale paludoso, forestale e per certi aspetti malsano. Nella vita di San Romualdo si riporta un episodio abbastanza significativo e curioso: i l santo che aveva passato un certo periodo della vita nelle valli di Comacchio, ambiente ammorbato dal fetore e dall'aria malsana, ne era uscito "tumefactus et depilatus"; la sua pelle, si dice, era diventata in tutto i l corpo di un verde così intenso che sembrava un ramarro, anzi, al suo confronto un ramarro sarebbe sembrato scolorito (Andreolli, Montanari, 1988). 20

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L'AMBIENTE E G L I INSEDIAMENTI

Immaginando che un vasto ambiente forestale da queste zone si estendesse fino a Ravenna e Pomposa (e i documenti lo attestano), bisogna dunque ipotizzare che certe forme di agricoltura e di attività connesse all'economia della selva e all'economia della palude si potevano integrare, nel senso che piccoli agricoltori si potevano trasformare in piccoli pescatori: pescare nelle paludi e arrotondare così i l proprio reddito. Vaste estensioni di boschi si trovano anche nel Piacentino: così attestano i documenti del monastero di Bobbio che riguardano soprattutto località comprese tra Varzi, Zavattarello, Santa Maria della Versa (Oltrepò pavese). Si possono valutare estensioni boschive comprendenti almeno un migliaio di ettari di bosco. Le stime possono essere superiori, ma risultano incerte perché sono state ricavate da diversi studiosi calcolando la superficie boschiva a querce glandifere indispensabili all'allevamento dei maiali (Darby afferma che un maiale aveva bisogno, per i l suo nutrimento, di circa mezzo ettaro, 5.000 m di bosco glandifero; invece, secondo un pioniere di questi studi, Higounet, al maiale occorreva un ettaro; d'altra parte, secondo Riché, al maiale era necessario un ettaro e mezzo). I l problema consiste, però, nel valutare se nel passaggio mondo classico-mondo tardo antico-alto medioevo, si debba parlare, anche dal punto di vista del paesaggio, di una continuità o di una rottura. Chris Wickham propende per una ipotesi di continuità di insediamenti e quindi di popolamenti, anche se in forme differenziate, tra tardo antico e alto medioevo ed è incline a credere in una continuità anche in questo tipo di integrazione e di interfaccia tra economia della selva ed economia agricola. Nel mondo classico, soprattutto in certe aree collinari, l'economia sarebbe caratterizzata da questa integrazione tra l'agricoltura vera e propria ed economia della selva, per ricavare legname, selvaggina, pascolo; per compiere cioè quelle operazioni ben descritte in una serie di documenti medievali, e rintracciabili anche nella documentazione antica, che sono i l lignaticum, i l glandaticum e i l pascualium (far legna, far pascolare i maiali che mangiano ghiande, far pascolare altre greggi e altri armenti che si nutrono di erbe e arbusti). Complessivamente i l Wickham, aderendo alle posizioni di altri studiosi (Andreolli, Montanari, 1988), ritiene che, a parte la zona 2

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pedemontana delle Alpi, dove ovviamente i l bosco si infittiva ulteriormente, si può avanzare un'ipotesi, largamente attendibile, della presenza di un 40% di pascoli e boschi sul complesso delle superfici, indispensabile all'allevamento dei maiali. Anche in questo modo si viene a confermare quell'immagine classica del paesaggio, che abbiamo ipotizzato in base alle poche fonti antiche, dove l'insediamento umano e i l paesaggio agrario, modificato dall'intervento dell'uomo, è circondato e coronato da un'ampia presenza di naturalità boschiva. Per quanto riguarda le popolazioni, Polibio (11, 17) - che aveva viaggiato in parte anche in quelle zone in una fase avanzata, ma non ancora conclusa, di romanizzazione dell'Italia Settentrionale nota che la forma di insediamento degli autoctoni era (alla greca) komedón, cioè, era un insediamento per villaggi: non esistevano grossi centri urbani e queste diverse tribù erano sparse sul territorio, cosa che ha una sua portata nella successiva valutazione del numero degli abitanti (anche se poi, utilizzando altre fonti - come Livio quando racconta le battaglie dei Romani contro queste popolazioni - veniamo a sapere che queste tribù possedevano già delle fortificazioni, delle roccaforti e dei magazzini di stoccaggio del grano, quindi forme di organizzazione urbana erano presenti anche presso di loro). Per giungere a una valutazione del numero degli abitanti non resta che fare una registrazione delle cifre dei combattenti quando si scontrano nelle varie battaglie con i Romani e giungere così a una cifra attendibile di maschi adulti combattenti, per arrivare poi a calcolare la popolazione totale. Secondo Polibio, nel 225, in una delle invasioni celtiche in Italia, l'esercito dei Celti era costituito da 50.000 fanti e 20.000 cavalieri e altri combattenti che si muovevano sui carri, costituiti soprattutto da tribù di Galli Boi e Galli Insubri, cui si aggiungevano tribù minori di Taurisci (di cui non si conosce lo stanziamento, mentre gli Insubri si sa bene che erano stanziati intorno a Milano e i Boi intorno a Bologna). Secondo Polibio, nella battaglia di Talamone furono uccisi 40.000 invasori e ne furono fatti prigionieri 10.000 (il dato va però tarato perché nel racconto appare una certa enfasi). I n un successivo scontro, nel 222, i Galli furono nuovamente sconfitti, malgrado l'aiuto portato loro da tribù celtiche extra italiche, in parte poi parzialmente insediatesi in Italia, che vengono chiamate dagli au22

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tori latini Gaesatae, i Gesati. Ci sono altre tribù galliche meno numerose e storicamente meno note perché furono in minor misura ostili ai Romani: i Galli Cenomani che si stanziarono presso Brescia e furono sostanzialmente nemici degli altri Celti e quindi alleati dei Romani. Sommando queste ad altre cifre possiamo (se aggiungiamo anche una quota arbitrariamente inventata di 50.000 Celti appartenenti a tribù minori di cui non sappiamo niente o quasi niente) giungere a un totale di circa 200.000 Celti di questo tipo, cui si possono aggiungere, con una valutazione approssimativa, altri 100.000 Celti insediati in quelle situazione urbane o preurbane come Genova e Ravenna (Brunt, 1971). L'insediamento dei Boi intorno a Ravenna e Bologna risultava numericamente meno consistente di quello degli Insubri, stanziati intorno a Mediolanum, ma di una certa solidità. Nel 191 quando i Boi furono sconfitti dai Romani, secondo Livio (xxxvi, 38) vennero uccisi, in questa battaglia tremenda, 1.484 Romani insieme ai loro alleati, mentre, e anche qui la cifra sembra esagerata per lo stesso Livio, furono uccisi o presi prigionieri, e poi evacuati verso l'attuale Boemia, 31.400 Boi. Cominciamo quindi ad avere delle cifre su cui bisogna essere estremamente prudenti, ma che ci possono dare delle indicazioni. Vanno aggiunti i Liguri, su cui si devono notare due cose fondamentali: prima di tutto che erano stanziati in una zona ben più ampia dell'attuale Liguria, e che comprendeva anche una parte del Piemonte, fino alle Alpi Apuane; secondo, che la loro regione d'insediamento era costituita da zone montane difficilmente abitabili che non permettevano quindi un grosso popolamento. Tale popolamento diffuso - dal confine francese attuale, dove erano stanziate le tribù liguri degli Intemeli (Ventimiglia era la città degli Intemeli), fino ad Albenga (Alba = monte o fiume?), che era la zona di insediamento e di popolamento delle tribù liguri degli Ingauni (Albenga deriva da Albingaunum) - si estendeva alla zona di Acqui Terme, in Piemonte, che si chiamava Aquae Statiellae (acque degli Stazielli, un'altra tribù di Liguri) i l cui territorio romano arrivava a Cuneo (AE 1985, 425). Sommando insieme tutti i Liguri si può arrivare a una cifra di un centinaio di migliaia di maschi adulti (Brunt, 1971). Su costoro cadde la mannaia della crudeltà e della violenza bellica conquistatrice dei Romani: si può valutare intorno a 84.000 i l totale dei Liguri uccisi negli scontri con i Romani. 23

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Procedendo nei calcoli e considerando anche le popolazioni dei Liguri stanziati sulle Apuane, che intorno al 180 vengono sbaragliati e dei quali 47.000 vengono deportati al sud - nel Sannio intorno a Benevento - possiamo valutare a 100.000 i l numero di combattenti e sopravvissuti. Quindi, per concludere questa prima fase dell'analisi, abbiamo circa 100.000 Liguri, 200.000-300.000 Celti, che i l Brunt afferma, forse con qualche arbitrio, che si potrebbero portare a una cifra superiore, e quindi potremmo arrivare a un totale, tra Liguri e Celti, di 400-500.000 che abitano un ambiente che, in un'ininterrotta successione di guerre, risulta complessivamente spopolato (solo lentamente verrà ripopolato dai Romani, nel corso dei secoli, attraverso i l grandioso fenomeno dell'immigrazione dal Meridione verso i l Nord). All'inizio le uniche zone che sembrano meno spopolate sono quelle del Monferrato e delle Langhe in Piemonte dove, già intorno al 125 a.C, Fulvio Fiacco, un console del "partito" graccano, fonda, presso un insediamento etrusco, una colonia che si chiama ancora adesso Villa del Foro (Forum Fulvii) o Madonna della Villa. Sulle Langhe forse vissero quegli agronomi romani, i Sasernae, autori di un trattato agronomico che ci è restato solo in frammenti, trattato che poneva al centro dell'analisi agronomica la villa rustica: si può ipotizzare che, se costoro vedono l'agricoltura imperniata intorno a ville e fattorie rustiche, ci sia già verso la fine del 11 secolo a.C. un insediamento agrario diffuso da parte dei Romani immigrati. Dopo i l tempo delle guerre, che si conclude intorno al 11 secolo a.C, un periodo di pace e di colonizzazione portò presumibilmente a un'estensione delle terre coltivate e quindi a una nuova espansione demografica per cui si può valutare, e così fa i l Brunt, che intorno alla fine del 1 secolo a.C. la popolazione dell'Italia settentrionale si aggirava sul milione. A questa cifra va aggiunta una piccola entità di montanari, esigua di numero ma debellata dai Romani solo sotto Augusto (per via della natura impervia dei loro luoghi d'insediamento, che creavano difficoltà di penetrazione ai Romani). Queste popolazioni erano caratterizzate da una forte interdipendenza rispetto alla pianura, non permettendo i l territorio montano una produzione autosufficiente. I l loro modello sociale era imperniato sullo scambio con la pianura e, in momenti di bisogno, sul fare razzie nelle zone 24

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pianeggianti. Tale modello di vita viene definito da Wickham "modello del conte Dracula" (Count Dracula Model) paragonando Pabitudine di queste popolazioni a razziare con quella leggendaria di Dracula che scendeva dalla sua rocca in Transilvania per succhiare i l sangue alle vittime. Tra queste variegate popolazioni si segnalano: - i Briganti: che abitavano sulle Alpi orientali verso YAustria e la Baviera attuale; - i Salassi: che abitavano ad occidente in un territorio che presentava una certa disponibilità di miniere d'oro. Erano popolazioni bellicosissime. Nel 143 a.C. riescono addirittura a sconfiggere i Romani da cui poi saranno a loro volta sconfitte con la fondazione della colonia romana di Eporedia (Ivrea) che fu un avamposto militare nel cuore della loro zona di insediamento; - i Reti: che erano insediati tra Como, Coirà, Verona e Feltre; - i Leponzi: che erano stanziati tra i l lago di Lugano e i l lago di Como; - i Camuni: che occupavano l'attuale Valcamonica (De Marinis, 1988).

Tutte queste tribù riuscirono a spopolare, a depredare e a uccidere le popolazioni più pacifiche della pianura, riducendole di numero. I l fenomeno si verificava anche agli attuali estremi confini orientali dell'Italia: ancora nel 52 a.C. Tergeste (Trieste) fu sconvolta da un'invasione di tribù di Carni provenienti dalla Carnia. La tradizione antica sottolinea la barbarie di queste popolazioni che non solo massacrarono i maschi combattenti ma anche le donne, i bambini e addirittura le donne incinte. Comunque la loro incidenza demografica è scarsa. Rispetto alle valutazioni del Brunt, nel suo vecchio studio del 1886 i l Beloch valutava la popolazione della Cisalpina in termini superiori: cioè calcolava, sempre in epoca augustea, una presenza di un milione di abitanti per la Cisalpina a cui aggiungeva 500.000 schiavi. Forse, però, la popolazione in quest'epoca può essere ritenuta superiore, arrivando a cifre più consistenti di quelle fornite sia dal Brunt che dal Beloch. Difatti gli autori antichi, da Polibio a Strabone, sottolineano Yeuandrìa della Cisalpina stessa, cioè "l'abbondanza di popolazione". Per gli antichi l'elemento popolosita è uno dei sintomi più evidenti della prosperità di una regione. Questa popolosità è confermata dalle alte cifre che abbiamo sul numero di legionari cisalpini prima federati, poi legionari veri e 25

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propri, che si schierarono nell'esercito romano dall'inizio della storia dei contatti romano-cisalpini fino al m secolo, cioè fino a Diocleziano, che schierò in campo un esercito valutabile sui 300.000 uomini (Brunt, 1971). Fino al 41 d.C. la Cisalpina documenta 135 legionari giungendo complessivamente a una documentazione di 300 legionari cui si aggiungono quelli delle coorti pretoriane (Brunt, 1971). Se questo è un sintomo attendibile, Yeuandria della Cisalpina ne è ulteriormente confermata, soprattutto se facciamo un confronto con i l resto dell'Italia che documenta complessivamente 55 legionari più i pretoriani. Per dare un referente più generale a queste valutazioni demografiche relative alla Cisalpina serve richiamare alcune cifre risultanti dai censimenti romani che furono fino ad Augusto solo censimenti di cittadini romani e non di tutti gli abitanti. I l censimento più antico, conosciuto da Dionigi di Alicarnasso (v, 20) riporta per i l 508 a.C, con la nascita della repubblica, 130.000 cittadini romani. Poi abbiamo un salto significativo e qualitativo nel 174173 a.C dove gli abitanti risultano 269.000. Un ulteriore salto demografico si ha nell'86-85 a.C. quando la popolazione romana censita risulta di 463.000 unità (qui si innesta una discussione filologica secondo cui i l numero "463.000" dovrebbe essere corretto in 963.000 ma i l dato, fornitoci da S. Girolamo, è tardo e quindi può essere più discutibile dei precedenti). Abbiamo dati più sicuri attestati dai Fasti Ostienses e dal Monumentum

Ancyranum:

nel 14

d.C. la popolazione di Romani (non è certo se solo quelli con diritto di voto) si aggira sui cinque milioni. A questi vanno aggiunti i sottoposti, cioè le popolazioni conquistate a cui i Romani non avevano ancora concesso la cittadinanza romana, misura politica che verrà adottata solo nel 212 d.C con Caracalla e con la cosiddetta Constitutio

Antoniniana.

Arriviamo quindi (sommando ai cittadini romani i sottoposti e una quantità consistente di schiavi) a una valutazione attendibile, con tutta la prudenza possibile, per tutto l'impero che va tra i cinquanta e i sessanta milioni di abitanti. Una popolazione significativa, ma complessivamente caratterizzata dalla dispersione su di un territorio vastissimo che andava dall'Asia all'Africa, alla Germania, alla Britannia e alla Spagna. Tale dispersione risulta ulteriormente evidente dalla constatazione che una serie di città raccoglieva e condensava la maggior parte della popolazione: quella 26

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L'AMBIENTE E G L I INSEDIAMENTI

FIGURA 3

Carta linguistica dell'Italia antica

di Roma è calcolata intorno a un milione di abitanti; quella di Alessandria d'Egitto viene valutata intorno a cifre simili. Ci sono poi cittadine di una certa consistenza che potevano raggiungere cifre di ventimila abitanti, come ad esempio Milano, Pompei, Ercolano e Pozzuoli. Detratta la popolazione urbana, la restante era dispersa in cifre ridotte su di un territorio immenso, come immensa doveva apparire la Cisalpina ai suoi abitanti che 27

L I N E A M E N T I D I S T O R I A D E L L A C I S A L P I N A ROMANA

dovevano rappresentare circa un sesto di tutta la popolazione italica. Anche questo fatto può spiegare le permanenze genetiche riscontrate dalle ricerche di Piazza et ai (1988). Operando su campioni di individui selezionati rispetto ai grandi fenomeni di immigrazione degli ultimi anni Cinquanta e considerando che la relativa stabilità climatica degli ultimi millenni esclude fattori ecologici che possano avere inciso sui risultati, Piazza giunge a ricostruire una mappa genetica dell'Italia largamente corrispondente agli insediamenti umani di circa 2.500 anni fa o comunque alla carta linguistica di quel tempo (cfr. FIG. 3). Nello studio di Piazza, le indagini genetiche mostrano un'omogeneità celtica nell'area padana (con penetrazioni etrusche) e una spiccata individualità ligure attorno al golfo di Genova. C'è una serie di fatti storici che entrano in contraddizione con questa mappa genetica. Soprattutto le permanenze celtiche nell'area attorno a Bologna dove invece risulta che i Boi furono sterminati e deportati; la ristrettezza dell'area segnata da caratteri liguri rispetto all'ampiezza dell'insediamento antico di questi popoli; la non incidenza delle migrazioni storiche e in particolare delle migliaia di centro-meridionali che i Romani fecero emigrare al nord... In ogni caso la mappa genetica fotografa l'ampiezza e la lunga durata dell'"invasione" celto-ligure in Italia.

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2

Per un'antropologia dei Celti

Cominciando attorno al iooo a.C. (Kruta, 1988), l'area della Cisalpina è infiltrata e occupata dalle popolazioni celtiche (Keltiké, appunto). I Celti sono di origine indoeuropea e si stanziano nell'Europa nord-occidentale giungendo fino in Inghilterra e in Irlanda. La situazione irlandese è importante perché, nel v i l i secolo d.C, vi nasce la prima letteratura celtica autonoma, anche se ormai cristianizzata, che riecheggia antichi miti e antiche leggende utili per costruire un'ipotesi verosimile dell'organizzazione sociale delle tribù (Rankin, 1987; O'Kelly, 1989). Dai propri territori d'origine, i Celti (FIG. 4) dilagano in Spagna e quindi in Italia. Tra i l iv e i l m secolo a.C. si spingono a oriente, verso la Macedonia, dove si scontrano con Alessandro Magno, che riesce a rispondere ai loro attacchi. I Celti, però, continuano a calare in questa zona e, dopo la morte di Alessandro Magno, si scontrano con Tolemeo Cerauno. All'inizio del m secolo a.C. riescono a sconfiggerlo. Quindi attraversano l'Asia minore, si stanziano nella Galazia e continuano a combattere con i re ellenistici che governano i l regno di Pergamo. La storia dei Celti è accennata da Avieno (tra i l iv-v secolo d.C.) che scrive un poema ben informato intitolato Ora maritima dove racconta che queste popolazioni, per prime, cacciano i Liguri dalle loro terre originarie, forse intorno al golfo di Biscaglia, costringendoli a emigrare verso la Spagna, la Sardegna e le coste del Mediterraneo. Tra i l iv e i l m secolo i Celti dominano tutta l'Europa centrale, dal Mar Nero alla Spagna e presto entrano in contatto con i Greci. Già dalle testimonianze di Ecateo di Mileto (FGH 1, 55) si sa che i Celti confinano con la colonia greco-focese di Massalia (Marsiglia) situata in territorio ligure. Tre documenti, trovati e 29

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FIGURA 4

Espansione celtica nel v secolo a.C.

Fonte: T. C . Champion, J . V . S. Megaev, Settlement and Societies, Leicester 1885.

pubblicati recentemente, due provenienti dalla Francia, l'altro dalla città greca di Emporion (oggi Ampurias, in Spagna), rivelano precoci contatti commerciali tra i Greci e i Celti e mostrano che i contratti vengono stipulati in lingua greca (cfr. infra cap. 4). Forme di penetrazione e di acculturazione di queste popolazioni più primitive avvengono anche da parte degli Etruschi, tant'è che uno di questi documenti presenta una parte scritta in etrusco. L'influsso greco s'irradia da Massalia (Lepore, 1989) e dai Greci: i Celti imitano la monetazione e apprendono forme diverse di cultura, sia materiale sia spirituale. Un significativo esempio è la coltivazione vitivinicola (ancora oggi, in Piemonte e in un'area settentrionale che giunge fino alla Svizzera meridionale, si chiama "carassa" i l palo di sostegno della vite: carassa è un termine dialettale e deriva dal greco kharax). 30

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PER UN'ANTROPOLOGIA D E I C E L T I

Altri vocaboli della terminologia agraria sono rivelatori. Per indicare l'operazione di "innestare" in greco si usa i l verbo emphytéuo che permane nel francese con la forma enter e nel tedesco con quella di impfen (Momigliano, 1980). Ma c'è di più. Dal De bello gallico di Cesare (1, 9) veniamo informati che alcune tribù celtiche hanno appreso l'alfabeto dai Greci. Si dice che: «Negli accampamenti degli elvezi sono state trovate delle tavole, scritte in greco, dove è stato compilato un censimento della popolazione e dove è stato riportato i l numero di coloro che possono portare le armi, i l numero dei fanciulli, delle donne e degli anziani». Benché i Celti siano dilagati fino nell'Asia Minore e abbiano fornito truppe mercenarie ai Greci e ai Greci-Egizi, è più facile rintracciare influssi greci sui Celti che non viceversa. La fama dei Celti nel mondo classico fu solo quella di guerrieri indomabili, paragonabili agli Spartani. Ma mentre gli Spartani erano sottomessi alle proprie donne, i Celti invece proibivano loro anche il vino (Eliano, varia hist. 11 38) e benché avessero belle donne {eueideis) preferivano l'omosessualità (FGH 87, 116). Lo storico Pompeo Trogo, della tribù gallica dei Voconzi, racconta i l primo contatto tra i Celti e i Greci e la nascita, mitica, della colonia di Marsiglia (Hist. Phil. 43, 3): i Greci, che provengono da Focea e si allontanano dalPAsia minore, per sfuggire ai Persiani, si recano dal re dei Segobrigi, di nome Nano, cercando amicizia perché vogliono costruire delle città proprio nei suoi territori. Quello stesso giorno, il re sta preparando le nozze della figlia Gyptis e, secondo il costume della popolazione, durante il banchetto, deve scegliere il futuro marito della figlia. Al banchetto per i l matrimonio di Gyptis, figlia del re dei Segobrigi, ci furono anche ospiti Greci. Gyptis scelse appunto un greco, Proti, che ricevette in dono dal re i l territorio per fondare Marsiglia (secondo i l racconto di Trogo, i Liguri, provando invidia per la città fiorente, la assalivano continuamente, finché non furono sconfitti dai Greci). Nel racconto leggendario, ma antropologicamente rivelatore, i l banchetto è i l luogo di incontro in cui si stringono particolari rapporti sociali e politici. E questa è una caratteristica non solo celtica. In base ai racconti di Strabone, Posidonio e Cesare, la società dei 3i

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Celti ci appare stratificata: è una piramide al cui vertice c'è i l re, poi gli aristocratici e i loro clienti. Ma con i l passar del tempo i l sistema sociale celtico si fa più complesso (Daubigney, 1983). Si inseriscono i gruppi produttivi dediti alla pratica dell'agricoltura e a particolari attività artigianali. In questo modo la società celtica si evolve e comincia a insediarsi su colli fortificati sui quali vengono accumulate le ricchezze. Si assiste quindi a un passaggio da un sistema monarchico a un sistema aristocratico. I l nome di re viene assunto, ma solo come appellativo di prestigio, dagli aristocratici guerrieri per indicare i capi militari (ad esempio Vercingetorix, dove rix significa "re") che potevano essere controllati da un'assemblea del popolo (Polibio 11, 21, 4-5). Si è ipotizzato che questa società fosse organizzata secondo tre strutture fondamentali: la funzione sacerdotale, quella regale e la produttiva. Nell'opera Felicità e disgrazia del guerriero

Dumézil (1974) ha

analizzato i «Manibogi di Math figlio di Mathonwis». Questi Manibogi sono racconti gallesi che testimoniano alcune abitudini più arcaiche. I principali eroi sono i figli di Don: Gwidion, Eveidol, Gilvathwi, Govannon, Amaethon che hanno come sorella Ararrhod, madre del famoso guerriero Lleu. Gwidion è un grande stregone (funzione sacerdotale), mentre Govannon e Amaethon sono, rispettivamente, fabbro e aratore, come indicano le radici dei loro nomi. La loro storia è una complessa fiaba. Eveidol e Gilvathwi sostituiscono i l re quando è in visita in varie regioni. I l re Math doveva sempre avere i piedi posati sul grembo di una ragazza vergine (tranne in tempi di guerra). Quando Gilvathwi si innamora di una di queste fanciulle, gli viene in aiuto i l fratello stregone che suscita un'immagine irreale di una guerra affinché i l re parta. I l re, scoperto l'inganno, infligge ai complici un castigo particolare: con due colpi di bacchetta magica (valaat) trasforma Gwidion in cervo e la ragazza in cerva, per un anno. Da questi nasce un cerbiatto che viene poi trasformato in umano (Hyddun). I n seguito sono trasformati in cinghiali e nasce un cucciolo anch'esso trasformato in umano (Hychtum). Saranno quindi trasformati in lupo e lupa, dai quali nascerà un lupetto che sarà anch'esso trasformato in umano (Bleidun). Infine Gwidion e la ragazza torneranno esseri umani con grande disonore. Si è anche ipotizzato che dietro queste leggende si nasconda i l 32

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PER UN'ANTROPOLOGIA D E I CELTI

ricordo di legami omosessuali, molto frequenti tra i guerrieri. Anche Ammiano Marcellino (xxxi, 9, 5) parla dell'usanza omosessuale tra la popolazione germanica dei Taifali. Secondo questa testimonianza, gli adolescenti maschi soddisfacevano le esigenze sessuali dei guerrieri adulti. Sarebbero tutte attestazioni che confermano la notizia di Eliano. Uno degli aspetti antropologici più interessanti dei Celti è però un'usanza che ha sempre colpito negativamente l'opinione classica e che è risultata come incomprensibile, anche se esperienze comparabili si possono trovare pure nel mondo classico. Si tratta dell'usanza di lottare e frustare i l mare. Bisogna tenere a mente, per capirla, che queste popolazioni, specialmente le più settentrionali, vivevano in territori spesso invasi dal mare e quindi questa usanza era una sfida a un nemico, che poteva anche torrispondere all'immagine di un nemico che uccideva travolgendo. Ma poteva anche essere una forma di suicidio: in casi drammatici gli eroi celti, secondo racconti del folclore celtico più tardo che rispondono alle tradizioni precedenti, lottavano per giorni frustando i l mare finché ne erano travolti e morivano. Questo aspetto rientra in un'altra caratteristica antropologica primitiva dei Celti: l'aspetto demoniaco ed esaltato di ricerca dell'estasi, anche attraverso droghe come il vino, che l i portava ad atteggiamenti di tipo maniacale. Difatti, per queste loro fenomenologie, sono chiamati fanatici dagli antichi: Aristotele nell'Etica nicomachea (1115 b 25) vede questo loro atteggiamento come mainòmenos> cioè "pazzo, impazzito", e anàlghetos, "che non sente i l dolore". Questa esperienza di furore ed esaltazione estatica può trovare un riscontro in alcuni personaggi della cultura indoeuropea e del mondo greco omerico: nell'Iliade Achille sfida i l fiume Scamandro in un combattimento e si salva a malapena (Rankin, 1987). In fasi più storiche, se crediamo all'esistenza di un'ambasceria anche di Celti, oltre che di Romani, inviata ad Alessandro Magno, secondo i l racconto di Arriano {Anabasi 1, 4, 6), troviamo che i Celti, presentandosi ad Alessandro Magno, affermano di non aver paura di nulla, se non forse nel caso in cui i l cielo fosse crollato. Questo atteggiamento viene letto nel mondo greco come una "bravata" e invece corrisponde alla fenomenologia antropologica dei Celti "pazzi di coraggio". Contraddittoria e difficile da spiegare è la situazione della donna presso i Celti. I racconti tramandatici dal mondo classico 33

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sono un po' agiografici, quasi educativi e contrapposti all'infedeltà e libertà tipiche delle donne classiche. Tali racconti contrastano però con altre fonti, come Cesare {De bello gallico) e Strabone {Geografia).

Ci sono due storie edificanti, la prima raccontata da Tacito {Historiae 4, 67) e da Plutarco {De amore), la seconda dal solo Plutarco {Moralia). La prima è la storia di un'eroina celtica che si chiama Eponina, nome che riecheggia un'importante divinità celtica, la dea cavalla Epona (l'esistenza di una dea cavalla testimonia una civiltà di guerrieri e, in una fase più arcaica, di nomadi), e che può segnalare i l collegamento dell'eroina o della sua famiglia con i l culto della dea. Eponina era sposata con un nobile celta, Sabino, che era stato implicato nel 69 nella rivolta antiromana condotta da Civilis. Quando la rivolta fallì, Sabino (nome romanizzato) è costretto alla fuga. Per sfuggire agli inseguitori Sabino finge di prendere un veleno e mette a fuoco la propria casa. (Il suicidio di uno sconfitto nel mondo romano è raro, mentre ricorre nella tradizione folclorica irlandese l'elemento del bruciarsi in un atto di suicidio.) I n realtà Sabino aveva scavato una fossa sotto la casa e vi si era nascosto: da lì riesce ad avvisare Eponina di essere ancora vivo. Per alcuni anni Eponina continua a procurargli abbigliamento e cibo. A d un certo punto, non potendo più sopportare questa situazione, entrambi vanno a Roma per cercare di chiedere perdono a Vespasiano, allora imperatore. Nel frattempo Eponina, che era incinta e viveva dalle parti di Roma, partorisce nei boschi, ma sia lei che Sabino vengono arrestati, e non sono perdonati. Ma prima di essere condannati a morte preconizzano a Vespasiano momenti difficili da quell'uccisione in poi, con una profezia che in certi termini si sarebbe anche avverata. Una storia di fedeltà coniugale estrema ci viene raccontata anche da Plutarco nei Moralia

(nel libretto Sulla virtù delle

donne,

cap. 22) dove ci parla di una donna galata (i Galati qui sono i Celti emigrati nella Galazia, cioè in Anatolia): accadde che Chiomara moglie di Ortiagon diventasse prigioniera insieme con altre donne quando i Romani e Gneo (Gnaeus Manlius Vulso che sconfisse i Galati nel 189 a.C.) vinsero in battaglia i Galati di Asia. Un centurione prese Chiomara e la svergognò. Costui era ignorante e sfrenato sia nell'amore del piacere che in quello del denaro. Alla fine, tuttavia, venne vinto dall'amore del denaro: essendo 34

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giunto a un accordo con la donna la portò, perché si lavasse, nel mezzo di un fiume che scorreva lì vicino. Come i Galati sopraggiunti gli consegnarono l'oro pattuito in cambio della donna e presero in consegna Chiomara, costei, con un cenno, comandò a uno dei Galati di colpire i l Romano che la abbracciava e che le voleva bene (Chiomara evidentemente aveva un ruolo principesco e quindi gli altri Galati le ubbidivano). I l Galata decapita i l Romano e Chiomara, sollevata la testa e postasela in grembo, la portò via. Quando giunse dal suo uomo e gli porse la testa, quello si meravigliò e disse: « O donna, bella è la tua fedeltà», e lei rispose: «Sì, ma è più bello che soltanto uno viva che si sia giaciuto con me». Questo segno di fedeltà richiama una cultura primitiva per cui una donna celtica non poteva essere di un altro uomo finché i l suo primo uomo in un qualche modo, per vincolo matrimoniale o dotale, viveva ancora in lei. In un passo di un poema folclorico dal titolo Tarn bò cùalgne c'è un colloquio, che ha una rispondenza con l'ultima affermazione di Chiomara nel racconto di Plutarco, tra una donna di nome Medb e i l suo uomo, Ailill. Quando Medb andò a una fonte per lavarsi i capelli e attingere acqua «con uno splendente recipiente di rame», un magico animale multiforme balzò fuori e profetizzò che i l suo uomo sarebbe stato Ailill, figlio di Ros Rùad, l'uomo più bello e affascinante (De Chopur in Da Muccida). E dopo che si conobbero così si svolse i l loro colloquio: «E vero, ragazza, è bello che una donna sia sposa di un nobile», e Medb: «E bello, ma perché pensi questo?», ed Ailill: «Penso questo perché oggi tu sei più ricca di quando io t i ho avuta». I l rapporto uomo-donna dà una ricchezza alla donna che ella porta come patrimonio per tutta la vita, anche in senso spirituale. I n altri testi, più tardi e cristiani, che riprendono la tradizione più antica, come quello dal titolo Paenitentia Vinniani, c'è un passaggio in cui si dice che una donna che è stata respinta dal marito non può avere rapporti sessuali con un altro uomo (Rankin, 1987) finché i l suo primo uomo «è nel suo corpo». Questo, afferma Rankin, è una norma cristianizzata che chiaramente riflette un antico uso, i l tabù di non essere di altri finché nel proprio corpo femminile vive ancora la ricchezza o i l segno del primo uomo. Questo tipo di racconti e di fenomenologie antropologiche entra in contraddizione con altre narrazioni che ci vengono da fonti 35

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classiche (come Cesare, De bello gallico 5, 14; Cassio Dione 62, 6 e Strabone 4, 5, 4) dove invece si parla della promiscuità sessuale tipica del mondo celtico e dell'usanza di matrimoni collettivi. Strabone, addirittura, pur con qualche scetticismo e incredulità, ci dice che i Celti della Britannia non soltanto coabitano more uxorio con le loro mogli e altre donne ma anche con le loro sorelle e madri, forse in una fase di rapporti familiari non adeguatamente consolidati perché precludano l'incesto e lo configurino come taboo (Erickson, 1989). Come spiegare questa contraddizione? Forse è una contraddizione delle fonti, che da una parte hanno voluto esaltare un certo tipo di fedeltà e farne un racconto edificante, dall'altra hanno voluto, con una certa forma di scandalismo, presentare usanze di rozzezza primitiva dove la poligamia è un'istituzione accettata e giunge fino all'incesto. Si può però trovare una spiegazione pensando (non manca qualche documentazione nella tradizione irlandese e gallese) a vari statuti maritali, varie categorie di matrimonio con diverse forme di legame più o meno stretto tra i soggetti del matrimonio, tra i l marito e una serie di donne che restavano variamente legate a lui secondo diversi gradi di vincolo matrimoniale. Secondo quanto attesta Cesare (De bello gallico, 6, 19), nel matrimonio non solo la donna doveva essere provveduta di una dote in beni naturali e non in moneta, ma anche gli stessi mariti dovevano accumulare un patrimonio dotale equiparabile a quello della donna e questo creava un vincolo (all'interno di una cultura di scambi di doni, perché la dote veniva probabilmente concepita come scambio) molto forte che forse poteva essere sciolto, ma con una restituzione del dono, che da una parte poteva essere disonorevole, in una società dove l'onore e i l prestigio sono elementi fondamentali del codice etico, e dall'altra parte poteva essere onerosa dal punto di vista materiale. Qualcosa si può trovare in quel colloquio tra Medb e Ailill nel Tàin bò cùalgne e compare anche nel mondo greco arcaico: nell'Odissea, i Proci corteggiano Penelope e pretendono che scelga un marito. Telemaco si pone i l problema dell'inevitabilità del nuovo matrimonio della madre e della logica conseguenza che poi avrebbe dovuto rimandarla a casa ricca di quei doni che aveva portato nella reggia di Odisseo quando giunse sposa. Ci sono anche qui quei connotati comuni indoeuropei tra i Celti e i Greci arcaici che pure stupivano i classici. 36

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Il Senchus mor (grande libro dell'antica legge) e i l Libro di Aicill sono testi dell'vm secolo circa che conservano alcune tracce della più antica organizzazione sociale e giuridica delle tribù celtiche (in Irlanda la giustizia era amministrata dai Brehons, dei giuristi che man mano costituiranno una sorta di corporazione ereditaria). Maine (1875), partendo da questi antichi testi, ha condotto una ricerca ancora esemplare, ampiamente studiata da Marx. La società celtica irlandese gli appare organizzata in due nuclei fondamentali: fine (famiglia nelle sue svariate diramazioni parentali) e sept (tribù, comunità). I l sept prende nome da un antenato eponimo. La terra arabile, che era in possesso di molti, mentre i pascoli erano in comune, alla morte di un membro del sept non tornava al suo fine, ma veniva ridistribuita dal capo tribù. Storicamente tuttavia l'aumento delle pretese dei singoli introduce i l possesso di tipo feudale, e porta a forme parziali di proprietà privata. I l capo tribù diviene i l più ricco, e quindi capo militare. Accanto a lui si forma una nobiltà agraria detta Bo-aire (nobili proprietari di mandrie). I l bestiame funge da mezzo di scambio, in quanto si tratta di una società pre-monetale, che si differenzia dalla società celtica della Cisalpina. I l valore è espresso in Cunhal ("schiavi") o in sed ("quantità di animali"). E una società arcaica come quella omerica. G l i status sociali si definiscono secondo una gerarchia in cui i l massimo potere corrisponde al massimo vincolo rispetto al capo, e il minimo potere corrisponde al massimo di libertà. E interessante una forma cerimoniale: i l festeggiamento del capo tribù che si reca a casa di un suddito. Nel banchetto, pagato dal suddito, era compreso i l tributo celebrativo per i l capo. E una forma economico-sociale di mezzadria in cui i l colono subordinato detiene la terra, ma è costretto a gratificare i l capo per via del suo stato sociale inferiore. I vincoli di queste tribù storicamente tendono a rompersi. Sono numerose le attestazioni di fuidhirs ("fuggitivi"), persone che, avendo rotto i rapporti con la propria tribù, trovano rifugio presso altre tribù accettando una condizione quasi servile. C'è una certa affinità tra questa organizzazione e quella delle civiltà indoeuropee. Anche in Grecia si trovano i gene che formano le fratrie che a loro volta formano le phylài. A Roma troviamo le famiglie che formano le gentes, che a loro volta formano le tribù (Morgan, 1877; Trautmann, 1987). Tra i Germani le forme elementari della parentela si imperniano su una famiglia non nume37

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rosa, ma anche non conclusa in un dualismo matrimoniale: si conoscono forme di poligamia o di uso collettivo delle donne in un ambito di parenti che Cesare chiama fratres e che intessono una trama parentale {gentes e cognationes) che lavora in comunità le terre (Cesare, B.G. v i , 22, 2). Qualche cosa di simile poteva sopravvivere presso i Galli, anche se i loro costumi sono molto diversi (B.G. v i , 21) e l'economia conosce pastorizia, allevamento e agricoltura, cioè una forma economica che permette di superare in parte i l nomadismo (Lewuillon, 1990), mentre i Germani «agriculturae non student» {B.G. v i , 22; Giua, 1988). Però anche tra i Galli perdura l'ordinamento tribale, come traspare ancora dal lessico di Cesare dove la famiglia (familia, domus) si aggrega in tribù (pagus) che si organizzano in federazioni, civitates, di tribù (Lewuillon, 1990). Ovviamente la parentela aveva un significato diverso da quello odierno. Era una parentela più ampia e più vincolante, in cui le adozioni avevano un ruolo importante. I l fosterage, appunto, è per Benveniste un ampio legame parentale che strutturalmente unifica un vasto ambito di tribù e popoli indoeuropei. Benveniste parte da uno specifico verbo greco, atitàllo, che indica l'azione di allevare come un figlio chi tuttavia non è figlio naturale. Questo verbo ha la stessa radice del sostantivo greco atta, latino atta, gotico atte, ittita attas, irlandese aite, sanscrito atti.

A parte atti, tutti gli altri sono termini che indicano i l padre in una forma infantile (come "papà") e appunto trovano un riscontro fonetico in atti che indica nello stesso modo infantile, la sorella maggiore. In irlandese i l termine aite indica esplicitamente il padre adottivo e c'è un sospetto da parte di Benveniste che anche i l greco atta possa avere una valenza uguale: infatti Telemaco si rivolge ad Eumeo chiamandolo atta, forse per indicare in lui i l padre adottivo. In germanico (antico tedesco), i l termine si può connettere alla parola edel (nel tedesco attuale adet): è possibile quindi, sulla base di queste corrispondenze, soprattutto analizzando la situazione irlandese e quella tedesca, ipotizzare che in quelle tribù fosse tradizione e usanza inveterata fra le aristocrazie fare allevare i propri figli da parte di padri adottivi, in modo che i l termine edel viene 38

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di fatto a indicare un nobile allevato in una famiglia adottiva (si delineerebbe qui una figura di aristocrazia particolarmente connessa alle più antiche tradizioni celto-germaniche). L'istituto dell'adozione mostra dunque un valore e una pregnanza particolare in un sistema parentale molto solido e vincolante, ma non circoscritto ai legami di sangue. Se, con Morgan, suddividiamo i metodi di indicare le parentele nelle due grosse categorie di metodo descrittivo e metodo classificatorio, noi dobbiamo probabilmente collocare i Celti all'interno del metodo descrittivo. Definiti infatti gli otto termini fondamentali della parentela (padre, madre, moglie, marito, fratello, sorella, figlio, figlia) non si trovano altri vocaboli per indicare i successivi gradi di parentela. Questa notazione lessicale può essere una spia della natura e dei limiti della struttura parentale celtica, che risulta ben diversa da quella latina, dove abbiamo un ampio ventaglio lessicale anche per indicare gli zii paterni e quelli materni (paterculus, amita, avunculus, matertera) e alla cui differenziazione lessicale equivale una varietà di ruoli: agli zii paterni corrispondeva un ruolo di severità, a quelli materni un atteggiamento più affabile (Bettini, 1986; Andreau, Bruhns, 1990). La diversità dei Celti diviene quindi una categoria fondamentale attraverso cui essi vengono osservati e descritti da autori antichi come Posidonio, Filarco e Timagene (Tierney, i960). Racconta Posidonio che i Celti prendono i cibi sedendosi sopra del fieno e su delle tavole di legno, di poco sollevate sopra i l livello del suolo. I l cibo è costituito da pani (pochi, però) e molta carne, cotta in acqua (cioè bollita) o sopra i l carbone allo spiedo (e qui emerge la barbarie comune anche ai Romani): con entrambe le mani prendono dei pezzi di carne e l i mangiano; utilizzano anche pesci di fiume e di mare e l i cuociono con sale, aceto e semi di cumino. Quando pranzano in un numero maggiore, sono seduti in cerchio e nel mezzo sta i l più potente (ó kràtistos), come i l corifeo del coro, quello che è superiore agli altri o per abilità tecnica o per ricchezza o per nobiltà. Gli inservienti portano in giro le bevande in otri da cui attingono con delle caraffe. La bevanda, presso i ricchi, è i l vino importato dall'Italia e dal territorio di Marsiglia: in genere lo prendono puro, alle volte lo mischiano con un poco d'acqua. 39

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Invece i più poveri bevono una birra ricavata dal grano (forse dalPorzo), mischiata con del miele. Da un altro frammento possiamo sapere che proprio durante questo banchetto fanno dei combattimenti a due, quando, essendo stato deposto, tra le varie ossa, Posso della coscia, i l più potente 10 prende: se un altro gli si contrappone, si alzano insieme e combattono anche fino alla morte. I n un frammento, sempre Posidonio dice che i Celti vanno in giro a combattere, accompagnati dai compagni sodali, che chiamano "parassiti"; costoro cantano; dicono gli encomi degli uomini che stanno riuniti insieme, mentre gli altri tutti ascoltano (FGH 87, 15; 18; 116). I loro canti sono chiamati bardi (bàrdoi) e l i seguono in guerra. La cosa però più interessante su questi banchetti ci viene riferita da Filarco (FGH 81, 2): 11 galata Ariamne, che era il più ricco, mandava Pannuncio che tutti i Galati potevano banchettare per un anno; e per fare questo si comportava così: mandava avvisi in tutti i luoghi o in tutte le strade più importanti e predisponeva delle tende capaci di ospitare fino a quattrocento uomini e anche più, in modo che queste potessero offrire ospitalità anche a quelli che venivano dai villaggi. Qui faceva collocare dei grossi recipienti, con carni di ogni tipo; in questi recipienti, che nell'anno precedente degli artigiani avevano preparato in bronzo (grandi artigiani che lavorano nelle città), buttavano ogni giorno carni bovine, suine, ovine e di altri animali. I Galati, quelli che venivano dai villaggi e anche dalle altre città, ne potevano liberamente gustare, ma potevano fare altrettanto anche quelli che erano presenti, compresi gli stranieri, finché ne avessero sazietà. È questa una descrizione di quei riti primitivi, chiamati potlacht dallo studioso americano Boas, che l i descrisse come usanze degli indiani Kwakiutl del Nord America, che trovavano corrispondenze in molte culture. II banchetto e la festa sono un momento di ebbrezza (con vino a fiumi), di esibizione marziale (combattimento fino alla morte), dove i l più aristocratico ostenta prestigiosamente la sua munificenza in una forma di dissipazione che non ha limite. E in questo spazio della festa e del banchetto bellico-orgiastico che si celebrano e si riconoscono le gerarchie sociali dentro le tribù e la ricchezza accumulata dai capi (che, essendo gerarchicamente superiori, sono i migliori combattenti e anche i più ricchi) viene redi40

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stribuita con una finalità di maggior giustizia, attraverso la donazione. I l linguaggio del dono ha un rilievo così predominante che la distribuzione non si conclude dentro l'ambito della tribù, ma si allarga a comprendere anche gli xénoi, gli ospiti di passaggio. L'aspetto dei Celti è descritto minuziosamente da Posidonio (FGH 87, 116, 28):

I Galati sono grandi di corpo e hanno pelle bianca, hanno i capelli biondi, non soltanto per natura, ma anche per artificio. Infatti, si industriano ad accrescere il dato naturale: con soluzioni di gesso o calce sfregano continuamente i capelli per renderli più biondi e si tirano su i capelli dal viso sulla testa così che il loro aspetto è simile a quello dei satiri e di Pan. • Si infittiscono poi i capelli, lavandoli in modo che non differiscano per niente dalla criniera di un cavallo. Alcuni si rasano le gote, alcuni lasciano crescere la barba in piccola misura. I nobili si lisciano le guance, ma lasciano crescere i baffi, così che nascondono le loro bocche; perciò, quando mangiano, i baffi si intrecciano di cibi e, quando bevono, la bevanda passa attraverso questi baffi come da un filtro. Pranzano stando seduti per terra, non su troni, ma su pelli o di lupi o di cani e vengono serviti dai più giovani in età, sia maschi che femmine [anche le donne erano dunque ammesse in questi banchetti sebbene con funzione ancillare e servile]. Sempre Posidonio sostiene che presso i Celti vigeva una specie di fede pitagorica, secondo la quale le anime degli uomini sono immortali e dopo un certo numero di anni dal momento della loro morte tornano a vivere in un altro corpo. Per questo motivo alcuni gettavano delle lettere sulle tombe dei loro cari defunti, pensando che sarebbero state lette, e tale credenza offriva un particolare coraggio ai Celti durante le battaglie. Essi arrivavano a un tale punto di bellicosità che combattevano nudi o succinti. Una delle loro caratteristiche di combattimento era i l taglio della testa nemica che veniva attaccata al cavallo oppure, dopo essere stata consegnata agli inservienti, veniva considerata bottino di guerra e appesa nella casa. Si vantavano di non ricevere oro in cambio della testa perché non vendere i l segno della loro virtù era una manifestazione di nobiltà. I combattenti si coprivano con vestiti intrecciati o con mantelli variopinti o con calzoni, detti "brache"; portavano elmi 4i

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di bronzo a cui aggiungevano grandi prolunghe per formare delle immagini impressionanti. Alcuni, addirittura, inserivano delle corna di vitello o di quadrupedi negli elmi. Circa un secolo dopo, una descrizione interessante sulle tradizioni dei Celti proviene dal greco Timagene di Alessandria in un frammento conservato da Ammiano Marcellino (15, 10, 12). Nell'introduzione Ammiano racconta che molti scrittori antichi parlarono dell'origine dei Galli in termini discordanti, ma alla fine T i magene mise insieme una ricostruzione storicamente più attendibile. Nella prima parte della sua ricostruzione racconta che i Celti avevano inciso i l racconto dei loro costumi sui monumenti usando l'alfabeto greco. E Ammiano, citando Timagene, descrive le «classi alte degli intellettuali» dicendo: a poco a poco, gli uomini di queste regioni progredirono e così fiorirono gli studi delle dottrine liberali coltivate dai Bardi, dagli Evagi e dai Druidi. I Bardi cantarono spesso, in versi epici e sulle dolci modulazioni della lira, le nobili imprese degli uomini illustri. Gli Evagi, scrutando il sublime, si sforzarono di chiarire i fenomeni interni della natura. I Druidi, superiori per intelligenza, riuniti in associazioni e sodalizi, seguendo le dottrine di Pitagora, si dedicarono alla ricerca dei problemi più occulti e profondi della natura e, disprezzando le cose umane, affermarono Pimmortalità dell'anima. Esiste, dunque, una tripartizione intellettuale: i Bardi sono poeti, gli Evagi filosofi e i Druidi sacerdoti. I Druidi celebravano sacrifici umani di due tipi: sacrifici di prigionieri catturati; sacrifici di membri appartenenti alle tribù celtiche stesse. Quando queste popolazioni furono assoggettate dai Romani, subito vennero represse queste loro usanze. I Druidi, contrariamente a quanto si pensa (e come sostiene Momigliano) non furono la guida dell'opposizione antiromana benché la religiosità, a quel tempo, fosse un elemento importante dei movimenti politici. Infatti uno dei ribelli gallici che si chiamava "Mariccus", si faceva passare come liberatore e dio delle Gallie, ma apparteneva agli strati più bassi della società celtica. In alcuni passi successivi Ammiano offre una descrizione etnografica interessante. Riprende alcune notazioni di Posidonio, e scrive: i Galli sono quasi tutti molto alti, bianchi di carnagione e rossi di capelli, terribili e truci nello sguardo, avidi di contese e di battaglie e partico42

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larmente insolenti. Tant'è vero che un gruppo di forestieri non potrebbe tener testa, in una rissa, a nessuno di loro qualora i Celti fossero aiutati dalle mogli che sono molto più robuste dei nemici. Le mogli, digrignando i denti, gonfiando il collo, agitando le braccia candide e lunghe, cominciano a dare pugni e calci, come pietre scagliate dalle corde delle catapulte. Le voci di alcuni Celti sono temibili e minacciose sia quando sono tranquilli sia quando sono irritati. Alle guerre partecipano persone di tutte le età; sia l'anziano sia l'uomo di una certa maturità si comportano con uguale coraggio e forza, con le membra irrobustite dal freddo e dalle continue fatiche, pronti a sfidare molti pericoli. Inoltre: i Celti sono avidi di vino e cercano bevande inebrianti [birra che deriva dall'orzo o quella che deriva dal grano]. Fra loro, alcuni individui poveri, instupiditi dalla continua ubriachezza, vagano senza meta (c'è quindi una ricerca maniacale dell'estasi, condizione che Catone ha definito come una sorta di volontaria follia che esalta certe sensibilità umane). C'è un ultimo cenno storico fatto da Ammiano: queste regioni, e in particolare quelle confinanti con gli Italici, dapprima furono assalite da Marco Fulvio Fiacco, console nel 125 a.C. e membro attivo del "partito" graccano, che fondò un insediamento romano in Piemonte intorno alla zona di Acqui Terme, dopo aver sconfitto i Liguri qui stanziati. Quindi, i Celti ivi stanziati furono sconfitti, con piccole battaglie, da Sestio Calvino e, infine, vennero completamente assoggettati da Fabio Massimo, soprannominato "Allobrogico" perché era riuscito a sconfiggere i Celti allobrogi. Presso i Celti i l sacrificio era un rito particolare e consisteva in una serie di operazioni religiose; era un atto simbolico con lo scopo di realizzare la figurazione di un ordine che congiungesse natura-società-cultura-religione. L'aspetto simbolico del rito creava forme di equilibrio psichico (ad esempio riti funebri) e forme di solidarietà (riti per la nascita, riti per la coltivazione). Sembra che la potenza psicosociale del rito sia enorme. Ancora in tempi contemporanei vive i l rito del tarantismo in Puglia, celebrato per giorni da donne invasate nelle danze e nell'isterismo, che permetteva di vedere nella tarantola la trasfigurazione simbolica di un animale dannoso attorno al cui terrore si incrina e ricompone l'integrità dell'individuo che, attraverso questo rito di pas43

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saggio, supera le crisi puberali e le preclusioni contadine all'eros adolescenziale (De Martino, 1961). Questa esemplificazione moderna può forse permettere di percepire con qualche approssimazione la portata sociale dei sacrifici umani presso i Celti e presso varie popolazioni primitive. Nel libro di Marvin Harris, Buono da mangiare, c'è un capitolo sul cannibalismo, Mangiare la gente in cui si distinguono due tipi di cannibalismo, uno pacifico, che si pratica attraverso l'appropriazione di un cadavere di un parente morto, che poi viene mangiato, e uno bellicoso, praticato con l'appropriazione del cadavere di un nemico, ucciso e mangiato, da popolazioni antiche soprattutto dell'America. Viene anche citato l'esempio tratto dal diario di Diego Rivera (My Art, My Life: an Autobiography, New York i960), i l famoso pittore messicano, i l quale afferma che quando studiava a Città del Messico tirava a campare comprando cadaveri all'obitorio e cibandosene. I l sacrificio dei Celti non è un sacrificio con cannibalismo; e si colloca in un altro ambito culturale. I l sacrificio con cannibalismo viene spiegato come pratica di società povere che devono ricorrere al mangiare i propri simili perché non hanno un sufficiente sviluppo delle forze produttive che permetta loro di produrre cibo di altro tipo (ma esistono anche "proteine simboliche"). I l sacrificio, inizialmente, è di animali e uomini, poi diventa solo di animali. Qui si istituisce un rapporto che viene considerato religioso e contrattuale con la divinità, fondato su una sorta di mistico patto, una specie di do ut des: noi sacrifichiamo parte di noi stessi, della nostra tribù, alla divinità che contraccambierà proteggendo i sopravvissuti. A l fondo è stata ipotizzata anche una motivazione materialistico-demografica, cioè ridurre la popolazione eccedente rispetto alla capacità produttiva di certe società: pare che i Celti avessero un alto grado di sviluppo demografico e un'alta prolificità. I l sacrificio umano era considerato orripilante presso i Romani che costrinsero i Druidi a reprimere questa forma rituale, anche se veniva praticata perfino a Roma in tempi non troppo arcaici: durante una delle fasi più drammatiche della seconda guerra punica (fine i n secolo a.C.) dei Galli e dei Greci vennero sepolti vivi dai Romani e sacrificati. I l sacrificio dei nemici rappresenta un'altra simbologia: potrebbe significare l'uccisione dell'anima di un rappresentante di un 44

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PER UN'ANTROPOLOGIA D E I C E L T I

popolo nemico, ostile e pericoloso: attraverso questo rito viene esorcizzato i l pericolo e viene preannunciata una fase successiva in cui i l popolo nemico viene sconfitto. I l sacrificio di un membro della stessa comunità è di più difficile spiegazione e comprensione. Angelo Brelich interpreta i l sacrificio umano come i l simbolo di un simbolo: la vittima rappresenta un popolo e i l rito sacrificale simboleggia i l rapporto contrattuale tra i l popolo e la divinità; quindi, se una persona uccide ritualmente un amico che è immagine di se stesso, attraverso i l simbolo doppio di un rito, instaura un rapporto contrattuale di preghiera con la divinità che proteggerà i l sacrificatore che ha vissuto una "morte iniziatica". I l rito simboleggia i l rapporto con la divinità, l'uomo sacrificato la morte di chi lo sacrifica, un allontanamento apotropaico del destino. Secondo lo studioso' svizzero Burkert (in Homo necans) la genesi del rito del sacrificio, sia umano che animale, può ritrovarsi nell'analogia della caccia e può risalire alle prime forme di organizzazione socio-economica dentro le quali la caccia aveva un ruolo centrale (economia della caccia e raccolta). La caccia, psicanaliticamente, può determinare un senso di colpa nello stesso cacciatore primitivo che ha forme di identificazione con tutto i l vivente e quindi, essendo inevitabile la caccia per poter vivere, si istituisce i l sacrificio per risolvere nel rito questo senso di colpa. Nel profondo c'è l'angoscia per i l futuro della vita di fronte all'evento della morte. Nell'esperienza dell'uccidere viene vissuta la sacralità della vita che attraverso la morte trova i l proprio nutrimento e con ciò la propria perpetuazione: i l sacrificio è dunque un dono e contemporaneamente un "medium", uno strumento di mediazione con la divinità che contraccambia con la sua protezione. È interessante che un filosofo classico del iv secolo d.C, Sallustio neoplatonico, che scrisse un saggio intitolato Peri Theón kai kosmou (Intorno

agli dei e al mondo), già si ponga i l problema del

sacrificio e si chieda: perché fare sacrifici agli dei che non ne hanno bisogno? Si dà questa risposta: i l sacrificio non è per profitto degli dei ma degli uomini che attraverso i l sacrificio entrano in contatto con gli dei, perché i l sacrificio è una mesótes. L'animale sacrificato (ai tempi di Sallustio non si sacrificavano più gli uomini) crea i l contatto con la divinità in termini antropologici: l'animale sacrifi45

L I N E A M E N T I D I STORIA D E L L A C I S A L P I N A ROMANA

cato costituisce i l mana, spirito magnetico della comunicazione con qualcosa di superiore. In questo senso si può cercare di capire i l sacrificio umano compiuto dai Druidi pressi i Celti. Resta un problema: finisce completamente con la romanizzazione questa ritualità o no? La tradizione è a favore di una fine di queste pratiche che del resto erano state abolite a Roma da un senatus consultum solo nel 97 a.C. (Plinio, N . H . , 30, 12). Ma Arnaldo Momigliano ha scoperto un passo in un autore tardo, Nennius (latino-britannico, scrittore di una Historia Brittonum) in cui si parla ancora dell'esistenza in Britannia di "magi" e si accenna ad almeno un sacrificio umano. Quindi, se questi magi possono essere considerati delle sopravvivenze dei Druidi, malgrado la repressione romana contro i l sacrificio umano, forse qualcosa di queste usanze dei Celti è sopravvissuto. Sui Druidi ci sono molti studi ma abbiamo poche fonti; alcuni personaggi dei Druidi emergono tuttavia con una certa nitidezza storica: ad esempio delle druidesse, alcune mitiche, come quelle citate in Historia Augusta

{Vita di Aureliano,

cap. 44) dove si par-

la di druidesse galliche che profetizzano le glorie del futuro imperatore Costanzo, vissuto almeno cinquanta anni dopo e sembra, questa, un'invenzione di quest'opera a volte inaffidabile, di cui non si conosce neanche l'autore. Però, fonti più attendibili (Tacito, Hist. 4, 6, 12), Stazio e altri autori ci parlano di un personaggio storico interessante: una profetessa dei celtici Bruchettii, Veleda, che partecipò nel 70 a una rivolta gallica contro Roma. Qualche decennio fa si trovò (ad Ardea) un'iscrizione frammentaria, studiata più recentemente da Margherita Guarducci, in cui appare il nome di questa Beleda-Veleda: «Oracolo dato all'imperatore Vespasiano Cesare Augusto riguardo a Beleda: o Augusto, prendi consiglio, se tu devi fare qualcosa riguardo a questa grande vergine che venerano i bevitori dell'acqua del Reno [Celti e Germani] agitando le corna del loro empito [?] dorato [passo oscuro] [...]». La durata del fenomeno delle profetesse è lunga: è stato ipotizzato da J. N . L . Myres (seguito da Momigliano) che Votigern, un ribelle britanno contro Roma, possa essere considerato un "pelagian tyrannus" intriso di cultura druidica. Pelagio era un monaco del v secolo d.C. che, a causa della sua teoria sulla bontà intrinseca dell'uomo, si era scontrato con Sant'Agostino ed era stato 46

2.

PER UN'ANTROPOLOGIA D E I CELTI

condannato per eresia da un sinodo convocato a Cartagine. Pelagio era di origine britannica. Secondo Momigliano è interessante i l saldarsi, intorno a questo ribelle del tardo impero, di una cultura che è retaggio druidico da una parte e cristianizzazione dall'altra. E questa confluenza costituisce i l background culturale della rivolta. Del resto, in uno studio recentissimo di Raymond Van Dam (intitolato Leadership

and Community

in Late Antique

Gaul) si so-

stiene che col declinare e venir meno delle strutture sociali, politiche ed economiche dell'impero romano riemergono realtà, istituzioni e termini nativi celtici per descrivere relazioni gerarchiche di dipendenza che prefigurano una società di tipo medioevale (rapporti tra vassalli e loro superiori). I sacrifici umani vengono meno con la conquista romana. Tuttavia il pastoralismo e la caccia saranno sempre elementi distintivi dell'organizzazione sociale dei Celti. Anche nella fase più avanzata della riorganizzazione vi sono due esempi significativi: 1. i l cosiddetto Testamento

del gallo

lingone;

2. un'iscrizione padovana. I Lingoni sono una tribù gallica transalpina che in alcune fasi calò anche in Italia centrale: un suo capo tribù fece incidere la propria epigrafe funeraria con un'elencazione degli oggetti più cari che meglio contraddistinguevano la sua cultura, la sua vita e quella del suo popolo. L'iscrizione (CIL x m 5708 corrispondente a ILS 8379) originale è andata perduta, ce ne resta un'antica trascrizione, per cui non siamo sicuri da dove provenisse precisamente. Siccome sono nominati i Lingoni, fa parte della loro area tribale e culturale e potrebbe essere datata tra i l 1 e i l 11 secolo d.C. (il Dessau propone più precisamente una data «non anteriore alla seconda metà del 1 secolo d.C.»). La trascrizione non presenta la distinzione in linee, ricostruita ipoteticamente dal Dessau. Ci interessano le linee 50-55, che sono un'attestazione di come ancora la caccia, retaggio di secoli e millenni passati, fosse un'attività privilegiata presso queste tribù. Questo principe lingone elenca sulla propria epigrafe funeraria gli oggetti da caccia che vuole siano depositati nella tomba insieme al proprio corpo. Dice infatti: «volo autem omne instrumentum meum quod ad venandum [...] et aucupandum paravi mecum cremari (voglio che ogni mio strumento che ho predisposto per cacciare [...] e per fare la caccia di uccelli venga cremato con me). 47

L I N E A M E N T I D I S T O R I A D E L L A C I S A L P I N A ROMANA

Poi elenca alcuni di questi oggetti: lance, spade, culter venatorius (una specie di coltello con cui si squartava l'animale morto o non ancora tale), le reti, le canne, le formidines (strumenti per intimorire la preda) e via dicendo. L'amore e la pratica tradizionale dei Celti per la caccia sopravvive, quindi, anche dopo secoli dal momento in cui erano entrati nell'orbita politica romana, in una formazione sociale diversa. Quanto all'altra iscrizione (studiata da Plinio Fraccaro) che si trova nel museo di Padova, essa dice: «pago Disaenio locus privatus est lex paganis capturae HS X». I l nome del luogo, Disaenius, è simile ai toponomastici di Treviso (Disinius) e a Disaemus, nella narbonese (Francia meridionale). I l Fraccaro pensa a un'origine celto-ligure di questo toponomastico. Schulze trova che formazioni toponomastiche di questo tipo sono presenti anche in centroItalia e quindi propenderebbe per un'origine etrusca. Possiamo mediare tra le due ipotesi pensando a un toponomastico etrusco-celtico. I n questo pagus (località non urbanizzata) c'è un "luogo privato" per cui una "lex" prevede che gli abitanti (pagani) per la "captura" (caccia) paghino dieci sesterzi: si può pensare che, partendo da una più antica esperienza storica in cui terreni collettivi venivano lasciati per la libera caccia ai membri delle tribù che avevano i l diritto di caccia su questi terreni, col passare del tempo e con l'inserirsi di questi costumi nel quadro del diritto romano, i l luogo di caccia diventa privato e riservato ai pagani di Disenio i quali, riservandosi i l diritto di caccia, devono comunque pagare una quota per poterlo esercitare. Vediamo che in questa località veneta la caccia è un'attività che contraddistingue la popolazione. L'ipotesi antropologica del nesso tra caccia e sacrificio di animali (o anche umano) può essere corroborata anche da queste argomentazioni parziali. Altri tratti caratteristici della religione celtica nel contatto con quella romana subiscono una sorte diversa: sostanzialmente viene indotto un processo di assimilazione delle divinità celtiche nell'ambito del pantheon romano, stabilendo bivalenze tra divinità celtiche e romane secondo quello stile religioso tipico dei Romani per cui, a parte alcune divinità o pratiche religiose inaccettabili per la mentalità romana, tutte le altre sono da loro assimilate. Vengono eliminate le divinità mostruose della più lontana tradizione celtica come i l dio Cernumnos, rappresentato con tre corna,

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8

2.

PER UN'ANTROPOLOGIA D E I CELTI

dio della fecondità e dell'abbondanza; scompare i l culto del toro tipico dei Celti (De Vries, 1982). Altre divinità vengono assimilate a quelle romane e inserite nell'amplissimo pantheon. I l fenomeno prevalente è quindi un sincretismo gallo-romano. Una delle divinità celtiche più importanti che viene assimilata è i l dio Lug, equiparato a Mercurio (l'Hermes dei Greci), tant'è vero che nel 10 a.C. Augusto, per l'anniversario del suo primo consolato, introduce i l culto di Lug a Lione (Lugudunum), trasferendolo dalle foreste dove si era primigeniamente insediato. Le divinità più interessanti, di cui abbiamo testimonianza epigrafica in Cisalpina, sono le tre matres che hanno un'ampia storia fino ai nostri giorni. I l culto delle madri è diffusissimo in tutto i l mondo indoeuropeo e mediterraneo-semitico: sono le matres, le matrae, le matrones, le proxumae,

le suleviae, le lunones

ecc. Tro-

viamo la Grande madre anche nel mondo semitico; per esempio: la Iside dei diecimila nomi degli egiziani con i l suo successo nel mondo occidentale; i l culto asiatico di Cibele che già intorno al 205-204 a.C. viene introdotto e venerato a Roma. I l culto delle divinità femminili si fonda su immagini ambivalenti della femminilità: la madre maga, la vergine seduttrice. La prima è padrona dei cieli, della vita e della morte, e verrà assimilata, con notevoli spazi di creatività, a Maria Vergine. La dea madre e grande maga, perché con lei c'è la generazione e dentro di lei ci si acquieta dopo la morte, è quindi dea della vita e della morte. Spesso queste divinità femminili sono connesse con acque, fiumi, sorgenti, dove sorgono dei templi naturali, al massimo costruiti in legno, costituiti da spazi boschivi, più che da edifici, dove vengono portati degli ex-voto. L'acqua è un elemento importante sia per i l suo valore funzionale sia perché annulla i l maleficio: purifica, rigenera e combatte la sterilità. I n questo loro connotato le divinità femminili dell'acqua avranno una durata fino ai nostri giorni: presso Arezzo c'è una fonte dedicata alla Madonna chiamata "fonte tetta" dove i l termine tetta (seno) richiama la generazione e la fertilità. Anche la Madonna di Lourdes notoriamente si trova presso una fonte di acque purificatrici e miracolose. D i fronte a questo permanere di elementi pagani all'interno della religiosità cristiana ci sarà, da parte dei Padri della Chiesa, un'opposizione netta, per valorizzare l'originalità indubbia degli aspetti cristiani rispetto a quelli pagani. I l Concilio di Arles nel 492 interdice i l culto delle fontane, degli alberi, delle rocce, a cui frequen49

L I N E A M E N T I D I S T O R I A D E L L A C I S A L P I N A ROMANA

temente si associava i l culto delle madri; ma tuttavia le fontane pagane verranno consacrate alla Madonna, che si presenta in qualche misura come prosecutrice di questo tipo di culto. Nel x m secolo, in Britannia, si esprimono invece forme di ostilità verso la Madonna perché soppianterebbe i l culto delle fate connesso alle matres di origine celtica. I n altre situazioni i l sincretismo procede: in Svizzera, per esempio, le tre Fate diventano poi le "tre Marie" che trovano corrispondenza nella teologia cattolica. La dea madre, che spesso si configurava come dea della notte, veniva venerata presso gli autoctoni (popolazione celto-germanica) in Britannia, e una festa (dove appaiono evidenti gli aspetti di continuità con la ricorrenza del Natale) detta "la notte della madre" veniva celebrata tra i l 24 e i l 25 dicembre (Gallino, 1989). I l Rankin mette a confronto varie religiosità, quelle celtiche insulari (dell'Irlanda, dove conservano maggiormente i caratteri originali) e quelle di altri popoli di matrice simile ai Celti o entrati in contatto con loro (Traci, Frigi, alcune tribù scitiche) e trova sette elementi in comune, in un ambito culturale in cui i l pastoralismo è la dimensione di vita esaltata come valore, mentre l'agricoltura viene contrapposta come eticamente meno degna di apprezzamento. I n comune tra queste tribù troviamo: 1. I l dio cavallo. 2. Hermes, che si trova presso Traci e Sciti: i l Lug dei Galli e i l Lugh della tradizione irlandese. 3. L'uso cerimoniale di grandi territori resi sedi religiose. 4. I l rito religioso di corse animali (mondo omerico). 5. Veglie notturne, gare funebri, festeggiamento della morte come inizio di una nuova vita dopo la morte. 6. Venerazione di fiumi e sorgenti. 7. Divinità animali tricefale, che si trovano in aree traciche e celtiche, in forma di statue. Una grande quantità di ex-voto (Bech, Chew, 1989) è stata scoperta recentemente (1968) e ha rivelato alcuni aspetti perduranti della religiosità celtica: ex-voto in legno che rappresentano figure in piedi e a cavallo, parti del corpo e semplificazioni che riproducono gli organi interni (probabilmente la medicina presso i Celti ebbe un certo avanzamento rispetto ad altri popoli proprio per via delle pratiche dei sacrifici umani; i Romani, invece, sacralizzavano i l corpo e non potevano quindi praticare l'anatomia; co50

2.

PER UN'ANTROPOLOGIA D E I C E L T I

sì la medicina alessandrina superò quella greca e romana perché ad Alessandria si praticava la vivisezione che permetteva una scienza dell'interno del corpo). Una delle caratteristiche peculiari della forma religiosa dei Celti è quella di frequentare e definire spazi sacri nei boschi presso fonti d'acqua che sono elementi tipici della loro religiosità (del resto, i l bosco sacralizzato, chiamato nemus, è elemento importante anche nell'ambito delle religioni greca e romana). Sembra che questi luoghi sacri siano sorti senza alcuna edificazione: uno spazio della natura è costituito come tempio. I n questi siti sono deposti quegli ex-voto: statuette lignee raffiguranti figure umane complete, a cavallo, riproduzioni di parti anatomiche, oppure lamine iscritte. Sono oggetti aventi la funzione di rendere grazie al dio per una concessione ricevuta, oppure, intenzionalmente, possono avere la funzione di propiziare un evento positivo. La scoperta archeologica più sensazionale, a questo riguardo, è appunto avvenuta in Francia nel 1968, in una località vicina a Clermont-Ferrand, anticamente chiamata "Augusto-nemetum". V i sono state trovate statuette di epoca gallo-romana. I l tempio si trova nei pressi di una sorgente che sgorga dal sottosuolo in un bacino naturale, e lo strato di ex-voto rinvenuto ricopre un secondo bacino utile per la raccolta dell'acqua. Tale deposito non è una favissa (una fossa dove sono stati depositati i doni sacrali non più utilizzati e non più utilizzabili) ma è una fossa in cui sono stati depositati gli oggetti meglio preservati; si nota dal fatto che presentano una punta, mediante la quale sono stati infissi verticalmente nell'acqua subito dopo la fabbricazione. G l i ex-voto più interessanti sono parti anatomiche tra cui trachea, stomaco, reni, polmoni, gambe, cuore, intestini, occhi. Tutto indica, sebbene molto rozzamente, una buona conoscenza del corpo umano. Tali organi non presentano alcuna deformazione, forse perché indicano già la guarigione e non la propiziazione per la successiva guarigione da una malattia. E stata rinvenuta anche una lamina iscritta in piombo, dove si legge i l nome di una divinità celta (Maponos, divinità celeste dei Celti Averni) che nel pantheon romano è equiparata ad Apollo. Ma anche queste forme originarie di religiosità dei Celti tendono ad essere sostituite in epoca romana da forme templari edificate, secondo i l modo più coerente al mondo romano. 51

L I N E A M E N T I D I S T O R I A D E L L A C I S A L P I N A ROMANA

Per concludere sembra ora interessante notare che la storiografia sui Galli e sui Druidi ha avuto una sua vicenda particolare. Valga per tutti Pesempio di Vercingetorige. Lo storico francese Harmant ha messo in rilievo come l'azione del capo gallico si sia svolta in un breve periodo (circa nove mesi), senza peraltro costituire nessun reale rischio per i Romani. Cesare (nel De bello gallico) descrive la sua azione come una progressione di insuccessi dovuti al fatto che non porta avanti la sua volontà ma quella delle aristocrazie galliche. A partire dall'Ottocento, però, Vercingetorige viene rivisitato e ricreato come eroe archetipo, da quando, cioè, Napoleone m scrive un trattato di storia romana. Da quel momento si inventa la figura di Vercingetorige come colui che terrorizzò i Romani e quasi l i sconfisse: la sua immagine diviene da allora tradizione mistificata e strumentalizzata dai più diversi partiti politici francesi in una chiave di anacronistica ideologia nazionale.

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3

Cenni antropologici sui Liguri

Le fonti sui Liguri sono abbastanza ampie e nel 1976 sono state raccolte in un unico volume Fontes ligurum et Liguriae

antiquae.

Le pagine più interessanti sui Liguri preromani o all'inizio della romanizzazione sono i passi di Diodoro Siculo e di Strabone che, ancora una volta, riprendono letteralmente (o rielaborano) l'analisi e i l racconto di Posidonio di Apamea. In 5, 39 Diodoro Siculo scrive: Costoro, infatti, abitano una zona sassosa e del tutto sterile e conducono un'esistenza faticosa e infelice per gli sforzi e le vessazioni sostenuti nel lavoro. E dal momento che la terra è coperta d'alberi, alcuni di loro, per l'intera giornata, li abbattono con scuri di ferro affilate e pesanti, altri, avendo l'incarico di lavorare la terra, non fanno altro che estrarre pietre per l'eccessiva disuguaglianza del terreno. Infatti con gli arnesi da lavoro non sollevano nessuna zolla che non contenga almeno una pietra. Essendo tanto grande la fatica dei loro lavori, hanno la meglio sulla natura anche se, tuttavia, ricavano pochi frutti. A causa del continuo lavoro fisico e della scarsezza di cibo, si mantengono forti e vigorosi. Le donne sono abituate a lavorare allo stesso modo degli uomini. Vanno a caccia, con la cui pratica controbilanciano la scarsezza di prodotti [quindi un'economia sostanzialmente povera, ma integrata dalla caccia e dalla pesca oltre che dai commerci marittimi che lasciano sospettare attività di pirateria]. Vivendo sulle montagne coperte di neve, ed essendo soliti affrontare dislivelli incredibili, mangiano sia la carne di bestie domestiche che selvatiche e si nutrono di erbe che nascono nella regione [agricoltura spontanea e di raccolta], essendo scarse le coltivazioni cerealicole e vitivinicole. Trascorrono la notte nei campi, raramente in capanne o in cavità delle rocce atte ad offrire un sufficiente riparo. Fanno molte altre cose mantenendo un tenore di vita semplice e primitivo. Generalmente in questi luoghi, le donne sono forti e vigorose come gli uomini che, sebbene più minuti dei Celti, si rivelano più pericolosi nei combattimenti. 53

L I N E A M E N T I D I S T O R I A D E L L A C I S A L P I N A ROMANA

L'armamento dei Liguri è molto leggero ed è costituito da uno scudo ovale, da una tunica, che raccolgono in vita, da pelli di fiera e una spada. Alcuni di essi, per le relazioni con i cittadini romani, cambiarono il loro tipo di armamento imitando quello dei loro nuovi comandanti romani. Essi sono coraggiosi e nobili non solo in occasioni di guerra ma anche in circostanze prive di pericolo. Come mercanti, solcano il mare di Sardegna e quello di Libia, lanciandosi coraggiosamente nel pericolo senza prudenza e usano barche più piccole di quelle che usano per i combattimenti ravvicinati. Con una quantità scarsissima di equipaggiamento utile per la navigazione, sopportano le più paurose condizioni atmosferiche che l'inverno comporta. Lo stesso passo viene ripreso, sempre da Diodoro, nel 4 libro al cap. 19, in una chiave più aneddotica: 0

I Liguri abitano in questa regione e coltivano una terra sassosa e del tutto sterile che, in cambio delle cure e degli sforzi sofferti dai nativi, offre pochi frutti utili alla sopravvivenza [ricopia pari pari il passo di Posidonio: buon sintomo] perciò gli abitanti sono resistenti alle fatiche e, per il continuo esercizio fisico, vigorosi. Sono sciolti nei movimenti ed eccellenti negli scontri bellici. Gli abitanti della regione usano fare compartecipi delle fatiche anche le donne. A questo punto Diodoro-Posidonio aggiunge un episodio aneddotico e racconta: Una donna, mentre lavora fianco a fianco ad altre donne e altri uomini, presa dalle doglie, poiché incinta, raggiunge un cespuglio e, senza turbarsi, dà alla luce il figlio e, avvoltolo con alcune fronde, lo nasconde lì. Tornata al lavoro, sopporta la fatica senza parlare dell'accaduto. I l sovrintendente dei lavori si accorge del bambino e cerca, invano, di distogliere la madre dalla fatica lavorativa ma ella non desiste, finché il suo datore di lavoro non la esonera totalmente. II passo si rivela interessante non solo per i l fatto che all'inizio è uguale a quello attribuito a Posidonio, ma anche perché Strabone (3, 4, 17) racconta, in modo più succinto, le stesse cose. Strabone dice di aver appreso tale episodio da un suo ospite di Marsilia, di nome Charmoleonte, probabile sovrintendente. Ciò permette di datare fatti simili verso i l 11-1 secolo a.C. e di dedurre che, con la romanizzazione, si introduce, anche in queste regioni, un'agricoltura su larga scala, la cui gestione è affidata a un sovrintendente che fa lavorare braccianti assunti a giornata. La forma 54

3.

C E N N I ANTROPOLOGICI SUI LIGURI

economica romana diviene dunque presto dominante e i Liguri, debellati dai Romani nel 197 a.C, conservano ancora loro forme di autonomia economica e monetaria ma, col rapido passare del tempo, vengono romanizzati e passano a praticare un'agricoltura "aziendale", secondo la forma della tenuta agricola romana. Originariamente i Liguri vivevano come i Celti primitivi, insediati in villaggi non urbanizzati. Avevano usanze particolari, simili a quelle dei Celti, documentate da un passo di Livio (36, 38, 1) in cui si afferma che andando a combattere contro i Romani, cementano l'unità della loro milizia richiamandosi a giuramenti e, in particolare, alla "lex sacrata", secondo la quale chi trasgredisce viene espulso dalla comunità cui appartiene e affidato agli inferi. Intrattenevano, però, anche contatti internazionali; da una parte in ambito mediterraneo, e dall'altra su scala continentale: l'ambra ritrovata in queste zone, testimonia l'esistenza di contatti, almeno mediati, tra i Liguri e le popolazioni del mar Baltico. Un altro modo di internazionalizzarsi era rappresentato dall'offrirsi come milizia mercenaria presso altri popoli (Cartaginesi, Greci e Romani). La Tavola di Polcevera o Sententia Minuciorum

è una testimonian-

za di importanza enorme per la storia dei Liguri. Si tratta di un documento epigrafico (ILLRP, 11 517) relativamente recente, ma che è interessante perché, malgrado sia della fine del. 11 secolo a.C, ci conserva delle spie, degli indizi di fasi storiche di organizzazione sociale precedenti a quel periodo e che contraddittoriamente e parzialmente sopravvivono anche in questo testo. Si chiama Tavola di Polcevera perché proviene da un territorio che complessivamente corrisponde alla vallata del fiume Polcevera (come si chiama adesso) e che nel testo si chiama Procobera (termine celto-ligure che secondo alcuni dovrebbe significare "fiume che porta trote"). I l Procobera è un piccolo fiume che scende dal passo dei Giovi [mons joventio) verso i l mare genovese e prima di gettarsi nel mare stesso, riceve le acque di un fiumiciattolo, attestato nella Tavola, che si chiama flumen Edus. Tutta la vallata è ricca di reperti: ricerche archeologiche condotte da studiosi dell'università di Pisa e di Londra sono ancora in corso. I n passato, questo testo è stato studiato da vari specialisti, in particolare da Giulia Petracco Sicar53

L I N E A M E N T I D I S T O R I A D E L L A C I S A L P I N A ROMANA

di che ne ha fatto un'analisi specificamente linguistico-topomastica: ha infatti cercato, per mezzo dell'analisi linguistica, di ricostruire la carta dei luoghi qui definiti. Ma i l grande studioso di tale testo è Emilio Sereni che, partendo da questo documento, ha scritto nel 1955 un voluminoso libro intitolato Comunità rurali nell'Italia antica: uno studio ancora valido, anche se spesso ignorato. I l primo aspetto interessante di questa Tavola riguarda la definizione del confine tra due.tribù liguri, quella dei Genuates (attuali genovesi) e quella dei Langates (non è chiaro se si chiamassero anche Langenses Vituri o se fossero due tribù associate insieme). Nel testo si trascrive appunto un arbitrato tra le due tribù in conflitto: quella dei Genuates, più potente perché associata ai Romani e quella dei Langates che sembra perdente perché ostile a questi ultimi. L'arbitrato viene affidato a due fratelli Minucii scelti dai Liguri come giudici delle loro controversie. E questo, naturalmente, un aspetto interessante delle forme di organizzazione politica rispetto ai Romani da parte di queste altre tribù, perché è stato proprio i l padre di questi Minucii, cioè Quinto Minucio Rufo, a sconfiggere i Liguri nel 197. Secondo forme tipiche del mondo antico i l vincitore, ottenuto l'omaggio da parte dei vinti, ne diventa patrono, cioè ottiene grande prestigio e onori presso le tribù vinte che diventano clienti del vincitore i l quale, in quanto patrono, ne sostiene e ne rappresenta gli interessi, le domande e i bisogni rispetto alla sede centrale, cioè a Roma. Tale aspetto è caratteristico di questa fase della storia romana. G l i stessi Scipioni,, padre e zio di Scipione l'Africano, dopo aver debellato alcune tribù iberiche, divennero patroni delle stesse e la cosa si tramandò, ccpme in questo caso, di generazione in generazione, tanto che una delle basi della potenza politica degli Scipioni continuò ad essere proprio tra queste tribù che erano state sconfitte (Badian, 1984). La Tavola di Polcevera è stata trovata nel 1506-7 presso Serra Ricco, paese semimontano in provincia di Genova, interessante per una serie di reperti liguri che vi sono stati trovati, tra cui un tesoretto di monete celtiche di imitazione di Marsilia, costituito da dracme e oboli (circa 150 monete) databili al 1 secolo a.C. I l testo è redatto a Roma, come si nota chiaramente alle righe 1-15 della tavoletta bronzea di 46 righe: vi si legge che vennero convocati i rappresentanti delle parti in causa: i Genuati, alleati di Roma e parzialmente vincenti in questo conflitto, e i Langati stes56

3.

C E N N I ANTROPOLOGICI SUI LIGURI

si. Seguendo Sereni si possono ipotizzare le forme sociali esistenti presso i Langati: non appaiono né magistrati né cariche politiche di nessun tipo per cui sembra esserci una comunità compatta, con forme di democrazia o di quasi comunismo primitivo. Tuttavia r i sulta che certe forme di rappresentanza fossero riconosciute: dovevano infatti essere stati votati dei delegati, perché non è possibile che entrambe le tribù, anche se piccole, si fossero recate a Roma per trascrivere e definire nel dettaglio i termini della controversia. I l dissenso relativo ai confini riguarda tre tipi di terreno: Yager privatus, variamente denominato ager privatus Casteli Vituriorum

ager privatus

Langatium,

ager publicus

quod Langenses

o

i l terreno pubblico che viene chiamato possident

e Yager conpascuos.

Dun-

que abbiamo un terreno privato (che è già tale), un terreno pubblico e un terreno da pascolo. Dalla delimitazione dei confini vediamo che largamente predominante è Yager publicus, i l terreno pubblico. L'agro privato è una porzione minore del territorio e si colloca all'interno dell'agro pubblico. Tutto i l territorio è attraversato dalla via Postumia (che i Romani avevano costruito anche in funzione di Dertona-Tortona, colonia fondata da poco che si trova al di là dei Giovi, verso la pianura Padana) e dal fiume Procobera che scende dal mons

Joventio.

Osservando nel dettaglio questo territorio, noi possiamo notare che l'agro pubblico dei Langati è una parte ben definita del territorio dei Genuati che viene concessa in possesso e non in proprietà. Per questo territorio ottenuto in possesso, i Langati devono versare un vectigal, un affitto in denaro, pagamento che avviene annualmente e che è espresso in moneta romana. Con precisione devono pagare un tributo ai Genuati di 400 vittoriati. I l vittoriato era una moneta romana creata apposta per circolare in questa zona (tale moneta inizialmente vale due terzi del denario, poi circa la metà). I l pagamento (come si legge alle righe 2-25) deve avvenire in anos singulos, in pubblico, a Genova. La regolamentazione per la messa a coltura di parti di questo terreno è variamente articolata, nel senso che, nel caso di terreni che erano già coltivati prima del 117, i l diritto di utilizzo da parte dei Langati viene considerato come acquisito. Se i Langati vogliono ottenere l'assegnazione di nuovi terreni rispetto a quelli concessi prima del 117, è necessaria l'approvazio57

L I N E A M E N T I D I S T O R I A D E L L A C I S A L P I N A ROMANA

ne dell'assemblea dei Langati, secondo un parere espresso a maggioranza dall'assemblea comunitaria. Altre tribù possono ottenere il possesso dell'agro pubblico dei Langati, ma dovranno a loro volta pagare un tributo in morieta ai Langati stessi. Comunque la fruizione del territorio pubblico, a parte alcune eccezioni, è complessivamente riservata a persone della tribù o dei Genuati o dei Vituri Langenses; altre piccole tribù possono utilizzare territori marginali, ma i l complesso di quest'area così definita è riservato ad appartenenti delle due tribù. Schematizzando si ha che: 1. I l territorio dei Genuati è utilizzato dai Langenses che pagano un tributo. 2. Per i territori posseduti prima del 117 valgono i diritti precedenti. 3. Per i territori posseduti successivamente al 117 è possibile ottenere ulteriori assegnazioni dietro i l pagamento di un vectigal monetario, dopo l'approvazione dell'assemblea comunitaria e riservando questo agro pubblico a membri delle due tribù ed esclusivamente a loro (Genuati e Vituri). I l territorio è definito nelle sue funzioni: è un terreno non messo a coltivazione agricola intensiva che può essere utilizzato per i l libero pascolo del bestiame, per far legna, per la raccolta del fieno. Ovviamente deve essere immaginata un'ulteriore organizzazione perché i tre sistemi di sfruttamento non sono compatibili. E possibile far legna e raccogliere fieno, perché i due modi di sfruttamento non si contraddicono. Non è possibile raccogliere fieno se si lascia anche i l libero pascolo degli animali e quindi i territori definiti a pascolo sono territori esclusivamente orientati a questo tipo di produzione. Gli elementi che definiscono essenzialmente la mappa topografica sono: i fiumi Procobera ed Edus la cui confluenza avviene quasi a valle; i l mons che costituisce i l sistema montagnoso delle Alpi liguri sopra Genova; i l mons denominato in celto-ligure Perigiama o Perigiema,

la comunalis coeptiema, un insieme di valli at-

traversate dalla via Postumia che, dallo svincolo di Genova della via Aemilia Scauri, attraverso la montagna, scende sull'altro versante a Libarna e Dertona per piegare ad est verso Aquileia. Dentro questo territorio era stato costruito i l castello dei Viturii e i l Castellus

Alianus. 58

3.

C E N N I A N T R O P O L O G I C I SUI LIGURI

L'elemento che può sembrare insignificante, ma che invece è forse una spia attendibile, docèmentaria quindi, di una situazione sociale, è i l tipo di denominazione. I l castello Alianus si rifa a una denominazione romana e al gentilizio Allius della gens Alita (è una denominazione che si può ritenere recente, successiva probabilmente alla vittoria romana del 197, come è confermato anche dal verbo vocitatus: "è stato chiamato"). I Langenses sono invece chiamati Langenses o castelanos Langenses soltanto, cioè i Langenses del castello: è un nome etnico, di tribù. Quello che risulta interessante è che non è i l territorio che denomina gli abitanti, ma è la tribù che definisce i l territorio del castello. Poi l'insediamento diventerà anche territoriale, nel senso che a un certo punto nascerà anche l'agglomerato, che c'è ancora adesso, di Langasco. Ma nella fase più antica, datata verso i l 117 a.C, è 1'"etnico" che definisce i l territorio e non viceversa: i l nome del territorio prende nome dalla tribù che lo occupa e non è i l territorio che dà nome agli abitanti (oggi un abitante di Milano si dice milanese: dal toponomastico deriva poi l'appartenenza di un individuo o di un gruppo di individui). Questo fenomeno è significativo, tenuto conto che non ci sono altri toponomastici, a parte Genua-Genuates, che però indica l'altra tribù, quella più evoluta. Possiamo ritenerlo fotografia di un momento di transizione dall'organizzazione tribale di tÌ£o gentilizio, a un'organizzazione che già si insedia sul territorio. E i l passaggio da un'organizzazione tribale, di tipo instabile, a un tipo di organizzazione dove i l territorio fissa la tribù. Stanziandosi i l clan sul territorio, la tribù introduce al proprio interno delle dinamiche evolutive contraddittorie e alle volte anche drammatiche, nel senso che tende sempre più a dissolversi i l vincolo comunitario e vien meno quell'immobilità rassicurante delle comunità primitive non gerarchizzate al proprio interno. Si inseriscono elementi di disgregazione di questo modello primitivo e di organizzazione di un nuovo modello. L'elemento motore di questo processo è la vicinanza di insediamenti urbani già definiti. E i l caso di Genova, Genua, che diventa i l polo di riferimento delle tribù liguri. Genua è un centro urbano, già di fondazione etrusca, con funzioni commerciali: è un emporio dove si svolgono traffici sia col retroterra che, attraverso i l mare, con altre località. G l i scavi archeologici non sono abbastanza progrediti, comunque rivelano per questo periodo un'organizzazione di tipo ur59

L I N E A M E N T I D I S T O R I A D E L L A C I S A L P I N A ROMANA

bano dove già ha luogo una più articolata divisione del lavoro. Mentre nella tribù la divisione del lavoro, quando c'è, avviene tra maschio e femmina, in un emporio come Genova possiamo verosimilmente presumere che, in funzione dei commerci, si definisca anche uno strato di artigiani che si differenzia da quello dei commercianti, dall'insieme della forza lavoro e dalla maggioranza della popolazione costituita dagli agricoltori e dai contadini che lavorano la terra. Per le tribù circostanti, e nel nostro caso per i Langati, Genova è un polo che attrae verosimilmente elementi o piccoli gruppi della tribù staccandoli da questa, incrinando i l vincolo, i l legame, la pace della comunità primitiva e disarticolando le forme di organizzazione produttiva. Se in una tribù primitiva l'attività principale è sostanzialmente quella pastorizia e quella agricola, condotte contemporaneamente con una divisione del lavoro presumibile soltanto tra i sessi, con l'inserimento in questa nuova realtà storica, imperniata attorno a un emporio, diventa più netta la divisione delle varie prestazioni lavorative. Ci saranno i pastori, diversi dagli agricoltori, e la gestione dei pascoli sarà incompatibile con quella del legnatico e del compascuo. C'è già una differenziazione che sarà più articolata e più profonda per quanti, inurbandosi a Genova, si dedicano ai traffici, diventano mercanti primitivi, e cominciano ad apprendere attività artigianali. È un fenomeno che si coglie "leggendo in filigrana" questo documento. Possiamo già notare che l'insediamento territoriale, in queste forme originarie, comincia ad essere predominante rispetto all'identità definita dal vincolo tribale. I l processo, infatti, sarà rapidissimo: i Romani hanno già costruito la via Postumia, hanno fondato la colonia di Dertona (Tortona) e poi quella di Libarna (le due colonie dall'altra parte della montagna), hanno appunto già insediato questo castellus Alianus: tutto l'orizzonte sociale ed esistenziale dei Langati viene sconvolto. E i l processo sarà rapidissimo (si pensi al passo di Posidonio: l'aneddoto della donna ligure che partorisce mentre lavora nei campi come bracciante). Nel giro di pochi decenni questa organizzazione tribale viene completamente dissolta e si introduce invece l'organizzazione agricola dei Romani fondata sulla villa romana la cui produzione è volta al mercato. Essa in genere produce in modo specialistico olio e vino, quindi deve necessariamente proiettarsi sul mercato. Una produzione agraria di questo tipo non può essere veramente o

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3.

C E N N I A N T R O P O L O G I C I SUI LIGURI

autosufficiente, in quanto produce per i l mercato ed è opera di squadre di lavoratori che sono destinati a diventare sempre più degli schiavi o, in casi particolari, dei braccianti che lavorano (magari integrando i l lavoro degli schiavi a giornata) sotto i l controllo di un fattore che l i guida e subendo un'ulteriore sorveglianza da parte del padrone che interviene nella gestione della propria tenuta. L'altro aspetto che interessa è i l fatto che, se è vero come abbiamo notato che la comunità dei Langati manda dei delegati a Roma (da cui si desume che esiste una forma di articolazione politica entro la tribù), tuttavia si tratta solo di delegati. Per i l resto la forma politica permane completamente inarticolata in aspetti di primitiva democrazia comunitaria e non vengono mai menzionati né magistrati né gerarchie, né cariche politiche di nessun tipo ed è l'assemblea di tutti i Langati che decide, votando a maggioranza, quali misure prendere. Da quello che traspare dal testo l'essere delegato non si configura come una carica politica, ma solo come una delega dell'assemblea comunitaria, la quale non sembra conoscere neanche quelle elementari forme dell'organizzazione arcaica quali i l consiglio degli anziani, che troviamo presso altri popoli "primitivi", o l'anziano del villaggio, della tribù, che è presente in certa documentazione greca orientale. Compaiono altri elementi di disgregazione della vecchia organizzazione, come i l pagare in denaro straniero Yager: la moneta, l'affitto e i l subaffitto sono elementi introdotti da poco (il vittoriato nasce col denario - m - i i secolo a.C. - e, fatto circolare, introduce effetti nuovi anche in campo sociale). I Celto-Liguri usavano, però, già altre monete: un tesoretto databile al i secolo a.C. è stato ritrovato a S. Ricco, proprio dove è stata rinvenuta la Tavola di Polcevera. Quindi, elementi di disgregazione dell'ordine primitivo già si erano espressi autonomamente. Un ultimo aspetto interessante della Tavola è che non vengono previste forme di sanzione contro eventuali trasgressori della volontà dell'assemblea tribale. Si potrebbe quindi dedurre che i l fenomeno della trasgressione non è nemmeno minimamente concepibile; cioè, e questo porterebbe a riconfermare la fase recente dell'inserzione di elementi di disgregazione, perdura ancora quella compattezza, quella solidità e solidarietà morale mai scalfita, tipica dei clan che, reggendosi su rapporti sociali saldati da relazioni pa61

L I N E A M E N T I D I S T O R I A D E L L A C I S A L P I N A ROMANA

rentali, non conoscono quelle forme di possibile violazione e trasgressione, tipiche di altri modi di organizzazione sociale. Anche perché Pindividuo, i l possibile trasgressore, ha un ruolo probabilmente molto più schiacciato e represso in questi clan tribali che si basano su una solidarietà vincolante, rassicurante e soffocante nello stesso tempo. L'emergere dell'individualità e dell'individualismo, nel suo aspetto positivo e negativo, è proprio di società più evolute, che si articolano, disgregando la sicurezza della solidarietà comunitaria, e cominciano a formare individui che vogliono essere signori, eroi singolari, che vogliono avere un dominio, ponendosi in contrapposizione a individui che sono servi, subordinati, non dominanti, non eroi. E una dialettica storica reale e, forse, necessaria, perché soltanto attraverso questo processo, si crea uno spazio per Pindividuo. La conquista romana sollecita queste tendenze, che sono già in atto nel polarizzarsi di due tribù liguri, Genuates e Langenses, a gradi diversi di sviluppo; dissolve quindi la forma sociale primitiva. Introduce forme economiche come quella della villa che rappresenta un mondo sociale ed economico del tutto diverso rispetto all'esperienza da cui provengono queste tribù. Con qualche oscillazione si può calcolare che i l processo sia avvenuto in un periodo relativamente breve, circa un secolo, se lo calcoliamo dall'introduzione del vittoriato e dalla conquista dei Romani (197 a.C.) al 117 a.C. data della Sententia Minuciorum. Se invece, con altra valutazione, constatiamo come nel testo della Tavola di Polcevera vi siano solide sopravvivenze di comunità tribali ancora nel 117, e se calcoliamo che forme di villa agricola romana potevano essere state introdotte poco dopo (Posidonio visse tra i l 135 e il 50 a.C.) vuol dire che dal 117 a pochi decenni dopo, tutto questo mondo tribale cedette i l posto a un'altra realtà più produttiva ma anche più drammatica, se è vera la storia del parto della contadina raccontata da Posidonio. A livello tribale vi sarebbe stata l'assistenza della tribù durante il parto; i l marito avrebbe magari praticato la cuvée (immedesimazione nelle doglie della moglie al punto da mimare e subire i dolori del parto): la drammaticità del passaggio, sempre se è vero l'aneddoto, è dunque evidente.

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4 Migrazioni e infiltrazioni celtiche

Già Erodoto (4, 49, 3; 2, 33, 3), parlando del fiume Istros (Danubio), dice: «il fiume Istro comincia dai Celti e dalla città di Pirene [vicino ai Pirenei] e scorre per tutta l'Europa. I Celti confinano con i Cuneti, gli ultimi che abitano in Europa verso l'occidente» (Nenci, 1990). Secondo Appiano (Keltikà, 11, 1) l'invasione celtica è databile al 392-89, mentre Diodoro Siculo (14, 113) la pone al 387 a.C. («superano le Alpi con grandi forze e si impossessano del territorio in mezzo scacciando via i Tirreni e le tribù celtiche dei Senoni. Presero le città più lontane, prossime al mare» [intorno al Piceno]). La narrazione più attendibile sembrerebbe quella di Livio (v, 33-34):

O Arrunte o un altro Clusino li ha condotti a Clusio [centro-Italia] ma non furono loro i primi a superare le Alpi: regnando Tarquinio Prisco i Galli, guidati da Anbigato, si trovavano in difficoltà [si pensa a un problema di eccedenza demografica]. Pensarono di liberarsi di una quota della popolazione attraverso il rito del Ver sacrum [che consisteva nella migrazione nella stagione di primavera dei più giovani verso altre regioni]. Passando attraverso le valli taurine e sbaragliando i Tusci si impossessarono di questo territorio e lo chiamarono Agrum Insubrum e fondarono Mediolanum. La tribù dei Cenomani guidata da Ectonio si insediò dove ora ci sono Brixia e Verona. Livio scandisce quindi in varie ondate la discesa dei Celti: 1. A l tempo di Tarquinio Prisco, fine del v i secolo. 2. All'inizio del v secolo, con Belloveso e Segoveso {ver sacrum). 3. Nel 390 a.C, quando Arrunte invade Clusio. 63

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

Pompeo Trogo, nell'epitome di Giustino, racconta: I Galli, abundante multitudine, con circa 300.000 uomini, vennero inviati verso nuove sedi, come un ver sacrum, alcuni verso la Pannonia, altri in Italia, e fondarono Mediolanum, Comum, Vicetia, Tridentum [ecc]. I Tusci invece con Reto rioccuparono le sedi alpine e vennero chiamati Reti [...]. Secondo Plutarco (Vita di Camillo, 15-16): I Galati di stirpe celtica lasciando le loro sedi perché non potevano alimentarsi a sufficienza, in tribù complete, superati i monti Ripei [Nord Europa] si spingono verso Poceano settentrionale e si impossessano delle estreme parti dell'Europa; più tardi anche quelli tra i Pirenei e le Alpi, avendo già gustato il vino, guidati da Arrunte, si mossero verso PItalia, cacciarono gli Etruschi e presero 18 città. Plutarco individua quindi due ondate: la prima verso i territori a viticoltura, e una successiva. Dionigi di Alicarnasso (VII, 3) colloca Pinvasione dei Celti nel 524-3 a.C. (data vicina alla prima invasione come datata da Livio) quando prendono Cuma. Ma le attestazioni epigrafico-archeologiche sembrano disegnare un diverso processo storico: un'iscrizione ligure della prima metà del v secolo (del territorio di Genova) riporta i l nome celtico Nemetios declinato in etrusco. I n Lunigiana sono state trovate delle steli funerarie in alfabeto etrusco e in una lingua che è un antico dialetto etrusco, databili una alla fine del VII secolo a.C, l'altra alla metà del v i secolo, che mostrano i l ritratto di un combattente il cui armamento è caratteristico della civiltà di Hallstatt (Prosdocimi, 1987). Ad Orvieto è stata trovata un'iscrizione databile al v i secolo a.C. con i l nome Katacina, forse nome celtico in territorio etrusco (De Simone, 1979; Prosdocimi, 1987). Iscrizioni del territorio di Padova, del v secolo a.C, indicherebbero insediamenti di Celti. I l materiale archeologico mostra contatti tra Celti ed Etruschi in area di Polbene, successivo insediamento etrusco. Tombe di carattere celtico sono state trovate in Emilia. Verso la seconda metà del v secolo, intorno ai laghi lombardi, si diffondono necropoli del tipo della civiltà di Golasecca e notiamo che nelle necropoli etrusche di Adria dalla metà del v secolo a.C. diventano rari i vasi attici e intorno al 400 anche a Spina e Felsina (Emilia) finiscono i reperti di vasi attici. Si può pensare 64

4.

MIGRAZIONI E INFILTRAZIONI CELTICHE

che i Celti pongano fine alla diffusione padana della potenza etnisca e si insedino in queste zone senza prolungare i contatti con i l mondo attico (Dobesch, 1989). Comparando le fonti e le attestazioni possiamo dare più credito a Livio, utilizzare le altre fonti come integrazione di Livio e immaginare Parrivo dei Celti in Italia come un processo di lunga durata che parte come contatto culturale (o infiltrazione) e successiva ondata migratoria in forma di ver sacrum, per culminare poi, attorno al 390, con Brenno e la parziale conquista di Roma stessa. Del resto i l problema dei Celti continuò fino ad Augusto quando vennero debellati, finalmente, i Celti stanziati sui territori montani (avvenimento testimoniato da Plinio, N.H., 111, 136-137 e dalPiscrizione CIL v, 7817, iscrizione del Trophaeum Alpium fatto erigere per esaltare le vittorie di Augusto). Secondo moduli narrativi consolidati la storiografia antica ha cercato di spiegare la celtizzazione delPItalia settentrionale attraverso la categoria semplicistica delPemigrazione e delPinvasione. La documentazione diretta offre invece indizi scarsi e sparsi, ma comunque significativi, di un lungo processo storico entro cui si minimalizzano le migrazioni e assumono invece un ruolo rilevante fenomeni di infiltrazione e acculturazione in un quadro di diffusione celtica su scala europea. Ma al di là della questione se le celtizzazione di gran parte dell'Europa sia attribuibile a fenomeni di migrazione violenta o invece a una espansione progressiva sostanzialmente pacifica, che, sulla base dell'invenzione dell'economia agricola, produce una "celticità cumulativa" (Renfrew, 1989), sembra comunque ormai scontato che i Celti, già prima di infiltrarsi e invadere l'Italia, si insedino su territori agricoli centrati attorno a strutture stabili contrassegnate da una considerevole complessità socio-politica. Tuttavia anche dopo i l superamento del nomadismo (Whittaker, 1988) le loro strutture sociali sono contrassegnate da una considerevole mobilità territoriale, sia in funzione della caccia su lunga distanza, sia a causa di ulteriori spostamenti sul territorio (Kent, 1989) .

Questo assetto socio-economico - se si possono generalizzare le analisi delYoppidum del m - i i secolo a.C. a Manching in Baviera (Kùster, 1991) - , abbinato a una probabile vivacità demografica, è la molla del loro espansionismo, volto alla ricerca di territori nuo65

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

vi e più fertili dove praticare una agricoltura e un allevamento tecnicamente poco evoluti. Per quanto riguarda gli scambi e le forme di acculturazione nei rapporti tra Celti ed Etruschi, vediamo che in pianura Padana la convivenza è pacifica e i l matrimonio interetnico pratica riscontrata. Riflesso di tale coesistenza sono alcuni fatti: per esempio, un guerriero celtico ritratto su un vaso etrusco, oppure i reperti della tomba Benacci 573 di Bologna, da cui appare evidente la cultura simile delle aristocrazie galliche ed etrusche (troviamo un servizio di bronzo per un simposio, attrezzi da palestra, una tavola da gioco, un diadema). Già nel iv secolo gli elmi da guerra di tipo celtico sono imitati dagli Etruschi e dalle popolazioni italiche che entrano in contatto con questi ultimi. Infine, però, i Celti sconfiggono e cacciano gli Etruschi prendendo le loro città in Italia e poi abbandonandole: la forma di urbanizzazione etrusca, quindi non corrisponde alla organizzazione celtica di questo periodo. Per Plinio (11, 17) i Celti vivevano in una condizione primitiva, in villaggi non fortificati, dediti alla guerra più che all'agricoltura, la loro ricchezza consisteva nell'oro e nel bestiame in quanto erano nomadi. Grande importanza veniva riconosciuta alle clientele, perché temibile e potente era chi aveva una corte terribile e numerosi seguaci; la tribù risultava già stratificata, con capi e clienti. Pur nella primitività economica e sociale sussistevano forme di scambio intenso e su lunghe distanze. Già nei secoli attorno al 1000 a.C. in vai Padana, soprattutto nella parte centrale e sudoccidentale, si sviluppa un'attività metallurgica in un'area allora priva di giacimenti metalliferi, dal che si evince l'esistenza di molti scambi su larga scala. Inoltre, prodotti di area greco-egea penetrano in tutta la Padana, specialmente in Occidente. I fenomeni di scambio o contatto tra popoli all'interno di una vasta area geografica sono attestati dal ritrovamento di elmi celtico-etruschi del iv secolo a.C. in una tomba della Russia meridionale del 1 secolo a.C. (Raev, 1986): tre secoli dopo la produzione, questa mercanzia arriva in Russia ed è utilizzata come corredo funebre. I n Britannia, a Engisburg H i l l (l'antica Camulodunum), sono ubicate vie di passaggio {gateways) di beni di prestigio per mercanti galli e poi romani: generalmente si scambiavano vino e manufatti metallurgici con minerali e forse schiavi. Si tratta di commerci primitivi in 66

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MIGRAZIONI E INFILTRAZIONI CELTICHE

forma di transazione e di scambi reciproci fra tribù che permettevano alla merce di compiere lunghe distanze. In un'economia embedded nel reticolo etico-sociale, lo scambio assume i connotati personalizzati tipici del Kula-Trade. Tra i Celti, sono le élites tribali che, scambiando, danno un'immagine intellegibile del ruolo gerarchico che hanno conquistato, i l quale permette loro di avere beni strumentali che consolidano i l proprio potere, come, per esempio, armi di maggior durata o efficacia. Nelle società primitive si osserva che le forze sono concentrate soprattutto nella produzione agricola finalizzata alla sussistenza: c'è poco surplus e scarsa autosufficienza. Qualche eccedenza, però, è usata per comprare non solo oggetti funzionali ma anche simbolici, per esempio l'ambra. Possedere merci esotiche internazionali connota le élites tribali, è un linguaggio pubblico usato per rappresentare la gerarchia sociale e i l posto occupato in essa. Nella società tribale i l mercato è i l luogo dove transitano valori anche spirituali non solo commerciali (Hodges, 1988); come del resto nel mondo moderno i l tipo del consumo esprime anche uno status symbol. La merce è sempre stata, del resto, in forme diverse, un feticcio di cui è difficile decifrare l'arcano. E per i l predominio su merci e mercati del Mediterraneo occidentale si svolsero ben presto battaglie memorabili: la battaglia di Alalia, in Corsica, nel 535 a.C, quando i Focesi sconfiggono gli Etrusco-Cartaginesi che però, in forme pacifiche, continuano la loro infiltrazione, trasformando Alalia in un centro commerciale plurietnico; la battaglia di Imera, in Sicilia, nel 480 a.C, quando Gerone di Siracusa e Ierone di Akragas sconfiggono i Cartaginesi; la battaglia di Cuma nel 474 a.C, quando Gerone I di Siracusa vince definitivamente sugli Etruschi, spezzandone i l predominio nel Mediterraneo. Ma nella misura in cui è attendibile l'ipotesi che nel v secolo, attorno a Velia, si sia esercitata un'egemonia etrusca, la composizione del tesoro monetario di Auriol (presso Marsiglia), contenente monete di Velia, Egina, Focea può essere una spia di una perdurante, sebbene mediata, penetrazione etrusca nel Mediterraneo nord-occidentale. Da qui, nel v secolo, non solo manufatti etruschi penetrano fino al bacino della Mosella, ma elementi stilistici orientalizzanti (di matrice greco-etrusca) influenzano l'artigianato celtico (Megaev, 1990) aprendo la strada alle esportazioni romane che prece67

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dono la conquista di queste regioni (Fulford, 1985; Clemente, 1974)-

In ogni caso l'importazione di oggetti di prestigio dal Mediterraneo, di buccheri neri etruschi e di recipienti di bronzo sembra limitata nel volume, concentrata soprattutto nel bacino meridionale del fiume Rodano (difficile da risalire controcorrente), e quasi circoscritta ai più alti livelli dell'assetto sociale dei Celti di Hallstatt (Dietler, 1989). Tuttavia l'elenco delle importazioni in Gallia continua a crescere di volume: tre fascicoli della rivista "Caesarodunum" (59, 1990) forniscono un ricco repertorio di oggetti etruschi. L'archeologia sottomarina ha inoltre individuato due navi naufragate sulla costa della Provenza con carichi etruschi. Così le tarde fonti letterarie che, quasi leggendariamente, tramandano notizie di insediamenti etruschi in Spagna (Torelli, 1981) cominciano a trovare qualche conferma. Soprattutto, recentemente, sono state pubblicate due lettere in greco su piombo {ZPE 68, 1987; 77, 1989) provenienti da Emporion (Ampurias) molto lacunose e oscure, ma in cui si parla di traffici di battelli e altre merci ove sono coinvolte persone dal nome iberico (Basped) e dal nome etrusco (Tielar). Più chiara è un'altra lettera databile attorno al v secolo a.C. proveniente da Pech-Maho nella Gallia narbonese (il testo è riproposto in ZPE 82, 1990) scritta in greco al recto e in etrusco al verso. I l difficile testo greco si può così tradurre: [...] comperò un battello dagli emporitani [...] comperò anche [...] e mi consegnò la metà, cioè due hektai e mezzo. Pagai due hektai e mezzo in contanti e io stesso [pagai] la caparra di una trite [= 2 hektai]; e prese [il venditore] i denari in mezzo al fiume. La caparra invece la diedi dove le barche sono ormeggiate. I testimoni sono: Basigherros e Bleruas e Golo. biur e Sedegon. Costoro furono testimoni quando consegnai la caparra, quando invece consegnai la somma di due hektai e mezzo [i testimoni] erano [...]. Quindi in un documento contrattuale di tipo greco con testimoni celtici intervengono un venditore, un mediatore che versa un'alta caparra e un acquirente, i quali nel saldare i l negozio impiegano monete, di Focea che notoriamente avevano corso nella regione, dove, come mostra i l testo incomprensibile del verso, si intrecciavano traffici anche con gli Etruschi. 68

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MIGRAZIONI E INFILTRAZIONI CELTICHE

Similmente, in Cisalpina, si attestano scambi di beni funzionali tra popolazioni greche, celtiche ed etrusche dal ix al iv secolo a.C. (De Marinis, 1986). Ecco una rassegna sommaria di queste attestazioni: 1. Frammenti di ceramica micenea, databili tra l ' x i e i l x secolo, nella località di Frattesina (Veneto). 2. Lavorazione di avorio di elefante (per pettini) e di uova di struzzo (provenienti da Africa o Asia). 3. Lavorazione dell'ambra del Baltico e di metalli che, in assenza di giacimenti metalliferi locali, forse provenivano dalTEtruria. 4. Bacile decorato con sfingi (oggetto etrusco-orientale) trovato in una tomba a Castelletto Ticino. 5. Diffusione di ciotole e situle di stile etrusco, dalTEtruria vera e propria al bacino padano, fino a nord lungo i l corso del Reno. 6. Un kylix con iscrizione etrusca trovato a Sesto Calende. 7. Pendagli, spille, bracciali diffusi in tutto i l bacino padano, dalla Liguria al lago Maggiore prodotti a Remedello (prov. di Mantova). 8. Un'anfora attica a figure nere trovata a Golasecca. 9. Una lékythos a figure nere rinvenuta nel Mantovano. 10. Ritrovamenti intorno al Mincio e all'Oglio, a Bagnolo San Vito (Mantova) di ceramiche attiche ed etrusche e in particolare di anfore greche da trasporto che contenevano probabilmente vino e olio e che attestano, quindi, contatti a largo raggio; anfore di forma corinzia, vasetti di vetro per profumi di fabbricazione rodia, vasellame bronzeo di fabbricazione etrusca, contenitori a becco, "Schnabelkanne", etruschi, frammenti di corallo, conchiglie marine provenienti dall'Adriatico e una ciprea monetaria (conchiglia) dal mar Rosso, incenso arabico, una bambolina di terracotta da Corinto e una testina fittile da Rodi. I n quanto all'esportazione, probabilmente la bilancia dei pagamenti non era paritaria, ma sicuramente si esportavano metalli già importati dall'Etruria, e carne di maiale in salamoia. (De Marinis ha notato che sono stati trovati in Cisalpina scheletri di caprini e bovini completi, mentre quelli di suini risultano mancanti del quarto posteriore, cioè le parti da cui si ricava i l prosciutto.) Non si hanno però attestazioni di esportazioni italiche in Attica, malgrado l'entità importata. I n una commedia di Hermippos, del v secolo a.C, I portatori di panieri, rappresentata ad Atene 69

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prima del 424, si dice: «Quante buone cose ha qui portato agli uomini con le nere navi», e poi si elencano luoghi e merci: «dall'Italia chóndros e quarti di bue». Etruscologi e celtisti tendono a interpretare chóndros come "grano"; ma di solito significa "spelta", che è un cereale minore. Si pone inoltre un problema testuale: i codici riportano Italias, ma vari editori, siccome i l chóndros è un prodotto della Tessaglia, correggono i l testo in Thettalias. La congettura sembra ragionevole. Appare infatti difficile che nel v secolo a.C. i l termine Italia si riferisse all'Italia settentrionale: in Erodoto (1, 24) indica infatti l'Italia meridionale, come anche nei frammenti di Antioco di Siracusa. Del resto, nel prosieguo della commedia di Hermippos si parla di formaggi e maiali provenienti da Siracusa. E quindi difficile che la bilancia commerciale tra Cisalpina etrusco-celtica e Grecia fosse in pareggio, come è dubbio che l'esportazione di vasi di bronzo etruschi in Nord Europa fosse bilanciata dalle importazioni. Si tratta di scambi a lunga distanza di prestigiose merci di lusso che rispondevano alla domanda delle aristocrazie norditaliche e alle loro disponibilità al consumo voluttuario, senza necessità di compensazione della bilancia dei pagamenti attraverso altri manufatti, se non (probabilmente) metalli. Del resto, ancora nel 1600, l'interscambio tra Venezia e l'Inghilterra di sete e uva passa, contro pesce, difficilmente poteva portare a un pareggio. Anche se gli intermediari del commercio ne traevano comunque vantaggio cospicuo, l'incidenza sull'economia agricola dominante doveva essere relativamente scarsa. Un fenomeno particolare della civiltà celtica, a contatto con quella greca, è l'emissione di monete celtiche che avviene anche nella Cisalpina (Pautasso, 1966). I Celti copiano le monete focesi di Marsiglia. Queste imitazioni vengono chiamate barbare, perché, se sulla moneta di Marsiglia troviamo al diritto una elegante immagine di Artemide, raffinata stilisticamente e sul rovescio un'immagine di leone con la scritta Massa (iniziale di Massalia), in quelle barbarico-celtiche troviamo dal punto di vista figurativo le stesse immagini, però con una forte deformazione barbarica che porta a un'accentuazione di elementi espressionistici e a deformare continuamente e in modo pesante la figura del leone. I Celti non conoscevano questo animale che si trasforma dunque in uno strano 70

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MIGRAZIONI E INFILTRAZIONI CELTICHE

ibrido (talvolta sembrando addirittura un gambero). La stessa scritta "Massa" a volte sparisce dal riquadro del conio. I l raggio di diffusione di queste monete è amplissimo non solo nel Nord-Italia ma anche fuori di essa. I tesoretti di queste monete ritrovati sono circa 85, più altre presenze di queste monete in tesoretti romani. I ritrovamenti più importanti che ci suggeriscono le coordinate geografiche del raggio di diffusione e degli scambi tra popolazioni celtiche e altre popolazioni sono: Genova e, vicino a Genova, i l tesoretto di Serra Ricco (dove venne ritrovata la Tavola di Polcevera); Alessandria; Asti; Gran San Bernardo; Vercelli (dove sono state trovate anche monete auree di origine danubiana); i l Pavese; i l Novarese; Lodi Vecchio; Milano; Legnano; Golasecca (Varese); Cuneo; Lecco; Canton Ticino; Bergamo; Cremona; Brescia; i l Trentino; Fumane (a Monteloffa, prov. di Verona, tre tesoretti); i l Vicentino fino a Quarto D'Aitino; Oderzo (Treviso); Adria (Rovigo); i l Modenese; Marzabotto (Bologna, insediamento etrusco poi abbandonato); Civita Castellana (Viterbo); Roma e i l Lazio; Cantone dei Grigioni, Zurigo, Berna, Vallese (Svizzera); Pizance (Cornovaglia, Gran Bretagna: probabilmente queste monete venivano scambiate con lo stagno, allora metallo tipico della Cornovaglia); Austria. Nasce subito un'impressione netta: essendo state ritrovate monete in aree che non conoscevano la moneta, molto probabilmente lo scambio avveniva con i l valore metallico della moneta, quindi questa non era una moneta, ma un pezzo di argento lavorato con qualche pretesa artistica (infatti i l concetto di fondo, l'essenza della moneta è che ci sia una divaricazione tra i l valore metallico e i l valore nominale, attribuito alla moneta da un'autorità statale). Anche per questo troviamo presso Pola e Forum Gallorum monete greche arcaiche o ellenistiche (Gorini, 1973). Le coniazioni iniziano separatamente nelle diverse aree cisalpine: innanzi tutto in Piemonte, poi in Lombardia, quindi nelle zone prealpine della Lombardia fino all'area intorno a Lugano, dove vengono coniate monete con scritte di difficile interpretazione in lepontico (lingua celtica che utilizza l'alfabeto etrusco), mentre nella Cisalpina orientale non pare ci fosse stata una monetazione autonoma (Crawford, 1987). È importante notare che queste emissioni discendono dalle più antiche monete di Marsiglia (inizi del iv secolo a.C.) mentre non prendono in considerazione le monetazioni successive di Marsi7i

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glia, pure essendo coniate dal m a.C. (Arslan, 1973). Nella tipologia della moneta i l riferimento a Marsiglia è netto e preciso: Pautasso ha pensato che Marsiglia fosse i l luogo privilegiato degli scambi celtico-greci. I n parte è vero, ma come emerge da questo quadro geografico, se sembra preponderante l'influsso della civiltà monetaria greca di Marsiglia sui Celti, questi, una volta acculturati, utilizzano poi l'elemento monetario su una scala geografica molto più ampia insieme a monete romane. Tecnicamente queste monete, come tutte le monete, sono soggette a svalutazione: partono come dracme pesanti, di tre grammi circa e calano gradualmente a due grammi. Anche i l titolo (contenuto di metallo fino della moneta stessa) muta sensibilmente: le ultime monete, che secondo i l Pautasso vengono coniate intorno all'8o a.C. nella zona lepontica, vicino a Lugano, che portano la scritta rikoi (non si sa bene cosa significhi), hanno più l'aspetto di monete di bronzo, che non d'argento, tanto la lega si è deteriorata. Dentro questo sistema monetario si formano sottosistemi omogenei, nel senso che le popolazioni vicine tendono a mantenere uno standard ponderale equiparabile: questo è dimostrato chiaramente dal tesoretto trovato a Manerbio (Brescia) dove troviamo monete di tribù insubri, lepontiche, cenomani, che hanno un peso molto vicino: 2,23 g le prime e le seconde, 2,20 g le terze. La produzione monetaria è di una certa consistenza: non è ancora stata studiata la massa complessiva, ma i rappresentanti sopravvissuti fino a noi sono migliaia (si deve ancora studiare quanti coni sono stati utilizzati e calcolare quante monete p u ò coniare un conio per ricostruire con buona approssimazione la massa monetaria.) Più recentemente è stato scoperto e studiato da Pautasso un tesoretto significativo, quello di Serra R i c c o , composto da vari tipi di monete e contenente un bel gruzzolo di sottomultipli di dracme, cosa non conosciuta precedentemente nella monetazione celtica. Questi oboli possono in una certa misura essere datati: pare che fossero accompagnati da alcuni denari con indicazione dei magistrati romani che l i coniarono (82 a.C). I n tal modo avremo l'attestazione della coniazione e diffusione di questi oboli fino al 1 secolo a.C, cioè fino a quando ormai la Keltikè era da circa un secolo.sotto la dominazione romana. Mentre Marsiglia produsse ampiamente coniazioni di oboli, questa è l'unica attestazione consistente tra le imitazioni barbaro-celtiche: è chiaro che con un 72

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MIGRAZIONI E INFILTRAZIONI CELTICHE

pezzo di argento come una dracma, del peso dai tre ai due grammi, si possono fare solo acquisti di una certa consistenza, mentre gli oboli divisionali indicano una monetizzazione anche degli scambi minuti, fatto significativo nella storia economica di queste popolazioni. Complessivamente, però, nel mondo celtico, la moneta è un fatto culturale utilizzato per le transazioni esterne e non per quelle interne, che probabilmente avvenivano ancora in forma di baratto. Anche se è vero che la dracma padana mostrò un sempre più calante contenuto di argento (fino al 65-50%), mentre quella di Marsiglia mostrò un contenuto molto più alto (fino al 96%) e che la dracma padana più leggera poteva anche prestarsi a scambi più piccoli e quotidiani, è solo l'introduzione di moneta divisionale, l'obolo, che costituisce i l segno sicuro di un livello abbastanza penetrante e diffuso nella società dell'economia monetaria. E l'unica documentazione consistente in questo senso è quella del tesoretto di Serra R i c c o . Quando i Romani arrivano in queste zone introducono appositamente una nuova moneta, il vittoriato. Inizialmente pesa 3,41 g e viene scambiato con tre quarti di denario. Parallelamente alla r i duzione ponderale del denario anche i l vittoriato passa, per mantenere i l rapporto 1:3/4, a 2,92 g di peso. Ci sarà ancora un'evoluzione successiva, finché verso la fine del 11 secolo a.C, intorno al 104, con la lex Clodia, viene fissato i l peso del vittoriato a 1,95 g (che corrisponde alla metà circa del denario) e inizia la fase finale del vittoriato. I l vittoriato di 2,92 g ha un peso non lontano dalla dracma padana dato che questa moneta viene coniata per circolare nelle stesse aree di circolazione della moneta celtica, sullo standard ponderale della monetazione greca che partiva dallo scrupulum (gramma, in greco = poco più di un grammo). Sia il vittoriato che la dracma padana vengono coniati su questa base ponderale, quindi sono intesi come monete per scambi in aree dominate dalla cultura monetaria greca. Le fonti più attendibili attestano la presenza di vittoriati appunto in aree greche o celtico-liguri: la Tavola di Polcevera (la Sententia Minuciorum del 117 a.C.) concepisce l'affitto in vittoriati; i l De agri cultura di Catone (15; 145, 3), riferendosi a una zona meridionale della Campania, intorno a Venafro, attesta l'esistenza di vittoriati. Vittoriati sono stati trovati a Morgantina (Sicilia), Ta73

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

ranto, Udine (può essere un sintomo dell'attendibilità di quanto afferma Plinio, N.H. 33, 46), Foggia, Gravina (Puglia), Luni, Mogente (Spagna, che prima dei Romani è sotto l'influsso dei Focesi e, nella parte più meridionale, dei Cartaginesi), Pisa (Alpi Apuane, dove erano stanziati i Liguri Bebiani), Paestum. Tutti questi tesoretti sono degli ultimi quindici anni del m secolo a.C. Per i l periodo successivo troviamo vittoriati a Entremont (Francia), S. Angelo a Curolo (407 vittoriati), Gambolo (170), Boiano (37), Capestrano (187), in Campania, a Fano (88), Numanzia (Spagna, 115 vittoriati). Questa moneta (i ritrovamenti finiscono con i l 11 secolo a.C.) continuerà però a circolare anche successivamente alla definitiva affermazione del denario romano perché mantiene una buona tenuta di peso e di fino.

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La conquista romana

L'intervento romano nel Nord Italia (che distinguiamo in due aree: la Cispadana, al di qua del Po, e la Transpadana, al di là del Po, secondo la prospettiva di Roma) presenta delle caratteristiche diverse. Nell'area cispadana, a sud del Po, l'intervento romano è più antico, ma anche più violento: qui intere popolazioni vengono quasi del tutto sterminate o deportate per far posto a nuovi coloni che sono di origine prevalentemente centro-meridionale. Questa sorta di sterminio o di deportazione tocca prevalentemente i Boi, ma anche i Senoni Friniati, i Liguri Apuani e i Liguri Stazielli. Ci troviamo davanti a un radicale rivolgimento dell'assetto demografico di queste regioni, cui corrisponde l'impianto di un'economia agraria, la più avanzata per i l tempo, diffusa e articolata tra piccole, medie, ma anche grandi proprietà caratterizzate come aziende a monocultura e quindi proiettate sul mercato. Praticamente è quell'azienda di cui Catone nel n secolo a.C. disegnerà i l modello nel suo trattato De agricultura. Tuttavia la colonizzazione, soprattutto la più antica - frutto di spartizione di terre assegnate in modi gerarchici - fino al n secolo a.C. è caratterizzata da una figura dominante, quella del contadino-soldato che ancora, retoricamente, nel De agricultura di Catone viene presentato come figura ideale, i l contadino che coltiva le proprie terre e nello stesso tempo è anche un soldato addestrato che sa difenderle. Gli avamposti più antichi che Roma costituì in Italia settentrionale furono due colonie: quella di Sena Gallica, fondata tra i l 290 e i l 283 a.C, e la colonia di Ariminum (Rimini) fondata nel 268, entrambe insediate nel territorio che apparteneva ai Galli Senoni e che era stato sottratto agli stessi dopo due lunghe campa75

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gne militari, tra i l 295 e i l 284 a.C, culminate nelle battaglie di Sentino e di Arezzo. Polibio (111, 19), ma anche altre fonti letterarie, affermano che i Senoni vennero massacrati dai Romani a tal punto che più tardi lo stesso Plinio (N.H. 111, 15, 116) l i includerà, come i Galli Boi, tra i popoli della Cisalpina ormai scomparsi. A una verifica Polibio e altre fonti dicono che i Senoni vengono massacrati. Plinio stesso attesta che, insieme ai Boi, i Senoni sono tra le popolazioni celtiche della Cisalpina ormai ai suoi tempi scomparse. Bisogna, rispetto alle notizie di Polibio, introdurre qualche correttivo, nel senso che troviamo rinvenimenti archeologici pertinenti i Senoni (necropoli, reperti isolati) soprattutto nelle Marche e in particolare nelle località di Monte Fortino di Acerra e di Santa Paolina di Filottrano (dove si sono rinvenute importanti necropoli galliche, quindi senoniche). La cronologia di queste necropoli le colloca tra i l iv e i l i n secolo a.C. Ci sono anche altri reperti archeologici, ma provengono da aree marginali rispetto al territorio controllato originariamente dai Senoni, quindi la documentazione archeologica si interrompe e geograficamente si sposta ai margini, per cui possiamo pensare a sopravvivenze solo parziali di Senoni: sostanzialmente si avvalora e conferma la notizia di Polibio di un intervento pesante da parte dei Romani, terminato con uno sterminio che non sembra totale, in quanto sono state trovate iscrizioni con dediche alle matrone (tre matrone Junones), e una dedica a Belenus, una divinità celtica largamente attestata. Ma questo reperto arriva da Rimini ed è poco probante, in quanto, essendo Rimini sul mare, la dedica poteva essere stata fatta da un navigante. Sostanzialmente, quindi, può essere mantenuta la veridicità delle affermazioni di Polibio prima, e di Plinio in seguito, circa Pannientamento degli indigeni Senoni. Dopo la fondazione di Sena Gallica, con la stessa violenza di intervento, i Romani continuano a penetrare in queste regioni a insediamento celtico. E sempre di questi anni (tra i l 290 e i l 268, quando viene fondata Ariminum) l'intervento di Roma contro una rivolta dei Piceni, i quali erano accusati di aver infranto un foedus, cioè i l trattato stipulato con Roma nel 299, perché loro stessi, i Piceni, federati di Roma, si erano preoccupati della politica aggressiva di Roma, rispetto alle popolazioni circonvicine (Livio, Per. xv). 76

5.

LA CONQUISTA ROMANA

Un gruppo di questi Piceni fu deportato e una parte del loro territorio divenne ager publicus populi romani. Su questo territorio verranno fondate successivamente le colonie di Firmum Picenum nel 264 a.C, poi le colonie di Potentia nel 184 a.C. e più tardi la colonia di Auximum nel 157 a.C. L'impresa colonizzatrice più importante dei Romani dopo quella di Sena Gallica è la fondazione della colonia di Rimini nel 268 a.C. I confini del territorio di questa colonia non sono ben precisi: in epoca pliniana, cioè nel 1 secolo d.C, i confini del territorio vengono definiti tra i l fiume Rubicone che sta a nord e i l Prustumius, l'attuale torrente che si chiama Conca, a sud. La descrizione pliniana si riferisce alla riorganizzazione del territorio di tutta l'Italia operata da Augusto, ma si può presumere con qualche attendibilità che sostanzialmente i l territorio vi corrispondesse anche in epoca di fondazione. In un primo tempo Roma non occupò che una piccola parte del territorio sottratto ai Senoni attraverso la fondazione di Ariminum, ma, a distanza di non molti anni, vennero fatte nuove assegnazioni agrarie a coloni romani in territorio romagnolo. Sulle rive del fiume Sario, che si trova a nord di Rimini e che passa attraverso Cesena, sono infatti stati trovati dei resti di reticolo di centuriazione che presenta una perfetta continuazione di orientamento r i spetto alla centuriazione di Ariminum. La più antica centuriazione riminese, rintracciabile ancora oggi sul territorio (attraverso diverse tecniche), arriva fino a Cesena e al fiume Sario e questo è un indizio che i l più antico territorio riminese doveva estendersi fino a questa località perché, quando si danno casi di successive centuriazioni, in genere la centuriazione susseguente ha un orientamento diverso rispetto a quella precedente. Se si centuria due volte uno stesso territorio si prendono orientamenti differenti rispetto ai punti cardinali e quindi se la centuriazione di questo territorio è omogenea si può avere anche la prova di una primitiva centuriazione che abbraccia tutto i l territorio riminese fino a Cesena. I l tracciato di questo reticolo è probabilmente anteriore a quello della via Emilia, che sarà la grande arteria di comunicazione di questa area (Tozzi, 1989^ e che verrà costruita nel 187 a.C, secondo una linea retta praticamente perfetta che rivela una tecnica eccezionale da parte dei topografi romani, che seppero congiungere due punti: Rimini fondata nel 268 e 77

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

Piacenza fondata nel 218 secondo un allineamento perfettamente rettilineo, anche se (qualora sia vera l'ipotesi del Tibiletti) la via Emilia probabilmente si snodava sul percorso di antichi sentieri di comunicazione celtici che attraversavano una serie di loro piccoli insediamenti e che quindi potevano aver avuto funzione di supporto nel tracciare i l rettifilo della via Emilia. L'elemento storico significativo è che l'orientamento della via Emilia non segue quello precedente della centuriazione. Secondo gli studi di Gianfranco Susini l'intervento romano su tutto l'orizzonte dell'area gallica sottratta ai Senoni va posto prima del 232 a.C, e probabilmente intorno al 250 a.C I I termine politico e cronologico più importante è costituito dalla approvazione d i una lex Flaminia nel 232 che lanciava una campagna di ampia colonizzazione in tutta l'area (Polibio 11, 21, 8). Questo è attestato anche da alcuni reperti epigrafici: abbastanza di recente, nel 1971, è stata trovata a Spina (un insediamento dell'area) un'anforetta con un bollo su cui si legge Gallicos colonos: quindi, probabilmente, una ceramica fabbricata in una fornace forse gestita da coloni beneficiari di assegnazioni agrarie n e l l ' o r gallicus (AE 1979, 292). Quello che è interessante è i l contrasto politico che si svolse intorno a questa lex Flaminia del 232 che mette in rilievo come la politica di colonizzazione fosse al centro della lotta politica a Roma e come questa lotta politica coinvolgesse, attraverso la colonizzazione, anche i l problema della politica estera romana che già in questo periodo appare una forma di imperialismo (con assoggettamento, e a volte sterminio delle popolazioni preesistenti per assegnare ai coloni romani in piccoli lotti le terre estorte ai precedenti abitanti). N e l l ' o r gallicus vennero fatte delle assegnazioni agrarie in epoca successiva a quella appena citata, e quindi Yager confiscato e spopolato era molto ampio. A Fano, nelle Marche settentrionali e a nord di Senigallia, è stato trovato un cippo graccano, cioè un cippo di delimitazione territoriale di epoca graccana (133-122 a.C). Questo può significare che: 1. Un ampio territorio restava ancora da colonizzare. 2. Su questo territorio si erano impiantate e sviluppate grandi proprietà terriere. Infatti la logica politica della riforma agraria sempronia vuole 78

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LA CONQUISTA ROMANA

ricomporre la contraddizione di una serie di ricchi proprietari che si è impossessata di quote di terreno pubblico superiori a quelle permesse dalla legge, estromettendo dalla possibilità di uso di questo terreno piccoli proprietari che entrano in crisi in quanto privi della possibilità di integrazione economica attraverso Fuso per i l pascolo, i l legnatico, la caccia ecc. del terreno pubblico. La proposta dei Gracchi è di regolamentare questa illegalità, trasformando i l loro possesso in diritto di proprietà vera e propria, ma riportando la quantità di terreno occupato entro limiti precisi fissati dalla legge: una quantità massima di 1.000 iugeri (250 ha), cioè una quantità di 500 iugeri fissa per famiglia, aumentabile di. 250 iugeri per volta, fino a un massimo complessivo di 1.000 iugeri in ragione del numero dei figli (considerati quindi nel numero massimo di due). Quello che risulta interessante è la presenza del cippo graccano in questa zona, perché mostra, appunto, che qui si erano installate e poi estese, precedentemente al 133-122 a.C, aziende e proprietà agricole di notevoli dimensioni. L'intervento, che si fece in queste prime regioni d e l l ' i r gallicus era stimolato dalla potenziale ricchezza produttiva dei territori stessi. Infatti, la colonizzazione viritim del 232 prevedeva assegnazioni di terra anche piccole che consentivano un'agricoltura di sussistenza. Abbiamo quindi un quadro differenziato: da una parte piccole assegnazioni di terra a contadini-soldati che vivono di agricoltura di sussistenza e che devono muoversi entro un'economia di coltivazioni varie (le assegnazioni viritim del 173 a.C n e l l ' o r gallicus e ligustinus, cioè in Emilia e nel Piemonte meridionale, furono piccolissime: di tre iugeri ai Latini e di dieci ai Romani); questi contadini potevano dunque sopravvivere solo con l'uso d e l l ' i r publicus. Dall'altra parte sorgono, soprattutto nel 11 secolo a.C, grandi proprietà impostate su una monocultura (vino e olio) che veniva smerciata nei mercati urbani, i quali nel frattempo erano andati crescendo in parallelo con i l dilatarsi dell'impero romano e l'aumentare dell'urbanizzazione e delle città. Ma per entrambe le situazioni i nuovi territori si presentano felici. Infatti l'Italia settentrionale appare ai primi Romani come leggendariamente ricca di risorse produttive. A questo proposito si può citare un passo delle Origines (11, 14) di Catone in cui afferma che quella parte deWager y

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gallicus che era stata assegnata viritim, cioè non più a un gruppo di coloni, ma a singoli coloni, per un numero indeterminato, nel 232 in base alla lex Flaminia, era in grado di produrre vino per una quantità di dieci cullei di vino per iugero, cioè una produzione pari a 208 ettolitri per ettaro. Una produttività non credibile, ma sintomatica, se si ritiene che dentro l'aspetto leggendario del discorso di Catone ci sia un elemento di verità. L'entità di questa ricchezza produttiva si può misurare, se si ricorda che Columella (1 secolo d.C.) considera ottimale e rara una produzione di otto cullei per iugero (1 culleo = 526 1) e afferma che vale la pena di investire in terreni agricoli destinati a viticoltura, qualora i terreni producano almeno più di tre cullei per iugero. Nel 218 a.C. scende in Italia Annibale. Roma si affretta a fondare le colonie di Cremona e di Piacenza con un nucleo di coloni maschi di 6.000 unità, vere e proprie cittadine con un minimo di 18.000 abitanti (maschi più donne e figli) ciascuna intorno a cui si aggregano gli indigeni, formando così realtà urbane notevolissime: una grande mobilità di uomini e di donne che si insediano trasformando così i l territorio (Tozzi, 1972; 1974). Ma già dopo i l 225 a.C. i Romani erano intervenuti per affrontare gli Insubri, i Boi, i Liguri, i Taurini e i Gesati. Conquistano Milano e si spingono fino a Como. Questo sfondamento in Transpadana porta appunto alla fondazione delle due colonie di Cremona e di Piacenza, l'una sulla riva a nord del Po, l'altra sulla riva a sud. I n Transpadana, l'intervento dei Romani si basa su alleanze, foedera, secondo uno schema classico già sperimentato nel centro-sud dell'Italia dove i federati assicurano truppe ausiliarie in cambio di ripartizioni di bottini e di terreni conquistati. E una forma di alleanza diversa dalla symmachia di tipo greco stipulata da Roma con le poleis, alleanza che non comporta rigidi rapporti di reciproco interesse tra le città, mentre la rottura di un foedus implica dure penalizzazioni contro chi lo infrange. Nel 190, finita la guerra annibalica, a Cremona e a Piacenza vengono inviati rincalzi di 3.000 uomini per città, per una ricostituzione del numero di uomini perso durante gli scontri. A i coloni cremonesi vengono distribuiti lotti di terra di venticinque iugeri; lo stesso accade per Piacenza che è considerata "colonia gemella". Rapidamente queste colonie divengono centri economici dove si 80

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LA CONQUISTA ROMANA

importano anfore vinarie dall'Italia meridionale (come attestano le Dressel i rinvenute a Cremona) e da dove si intrecciano rapporti economici fino all'Istria. Gli antichi spazi di traffico vengono riattivati cosicché Cremona e i Campi Macri, vicino a Modena, diventano mercati di rilievo interregionale (Gabba, 1989) sollecitando migrazioni spontanee interne che costituiscono un aspetto non trascurabile della romanizzazione e che a volte preludono alla fondazione di colonie. E questo i l caso di Bononia fondata nel 189 a.C. con 3.000 coloni in un'area dove, come mostrano le ceramiche a vernice nera rinvenute, già si era notata la presenza di mercatores meridionali. A i cavalieri insediati a Bologna vengono distribuiti lotti di terra di settanta iugeri, agli altri coloni lotti di cinquanta: i terreni a disposizione nella piana erano dunque vasti. Narra infatti Strabone (v, 1, 6) che i Boi, insediati nel territorio emiliano intorno a Bononia, vengono sterminati e cacciati dall'Italia, mentre i sopravvissuti si stabiliscono nelle regioni danubiane vicino ai Taurisci. Le perdite dei Boi, nel decennio di guerra 200-191 a.C, furono pesanti, ma non riusciamo a valutarle appieno perché le cifre fornite dalle fonti, Livio in particolare, sembrano enfatizzate: nello scontro del 194 morirono 11.000 Boi; nel 193 ne morirono 14.000 e 1.800 vennero fatti prigionieri e probabilmente in seguito schiavizzati. Sono guerre che hanno grande importanza per la società romana perché costituiscono i l sistema di approvvigionamento a buon mercato della forza lavoro costituita da schiavi che rappresenterà anche in Italia, soprattutto in quella centro-meridionale, ma anche in Cisalpina (pur se in forma minore) i l nucleo della forza lavoro. Nella guerra del 191 cadono 28.000 Boi, ma anche qui lo stesso Livio (36, 38) dichiara che le fonti annalistiche tramandano una cifra esagerata. Metà delle terre sono conquistate e le deportazioni sono affidate a Caio Scipione Nasica. Nell'ultima campagna si verificano episodi di violenza fine a se stessa ai quali però i l mondo romano reagirà. Nel 184 a.C. i censori Marco Porcio Catone i l Vecchio e Valerio Fiaccò hanno i l compito di stabilire quali membri siano degni del senato. Catone espelle dal senato il fratello di Tito Quinto Flaminino, Lucio Quinto Flaminino, che nel 192 comandava le truppe in Cisalpina come console e che lì aveva commesso un atroce delitto: l'uccisione di un capo dei Boi (che si era fidato della fides di L . Q. Flaminino) per divertire i l 81

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suo amante, un giovane cartaginese che si lamentava di non aver potuto vedere i giochi del circo. Catone, con una nota violentissima in senato, lo espelle. Sappiamo invece da altre fonti (Plutarco e Valerio Massimo) che i l popolo romano rimase insensibile a questa condanna della crudeltà gratuita che portò alla rottura della fides sacra per i Romani, tanto che durante uno spettacolo teatrale a cui era presente venne chiesto a gran voce a L . Q. Flaminino di non sedersi in disparte, ma di prendere i posti in prima fila riservati ai consoli. Fenomeni simili, anche se meno drammatici, avvennero nel territorio modenese dove lo sterminio non fu totale, riuscendo le popolazioni locali a sopravvivere almeno in parte. Nel 183 a.C. viene fondata la colonia di Mutina (Modena) nel territorio che già apparteneva ai Boi. Nelle aree montuose del Modenese, alto e medio Frignano, le fonti storiografiche attestano la presenza, all'inizio del 11 secolo a.C, di alcune genti liguri che confinano con i Celti, chiamate Liguri Freniates e che si pensa abbiano dato i l nome alla regione appenninica che ancora oggi si chiama Frignano. Questo popolo controllava gli Appennini nella zona di Modena e, verso i l Tirreno, i l territorio lucchese e (più a sud, nell'entroterra) pistoiese. Avevano un'organizzazione che sembra primitiva, fondata sull'aggregazione di diversi clan tribali: risultavano quindi assenti fenomeni di urbanizzazione che erano invece sostituiti da insediamenti diffusi per vici e castella. Nel 187 a.C i Liguri Freniates erano stati sconfitti e un gruppo di loro era stato deportato in pianura. I l console Caio Flaminio costruì apposta la via Flaminia che fiancheggiava i l territorio dei Freniates assicurando i l collegamento tra Bologna e Arezzo. E un'operazione sintomatica del fatto che la civilizzazione romana, attraverso la costruzione di strade, procedeva quasi inesorabilmente, scavalcando i moduli insediativi dei locali (i Freniates) e proiettando sul terreno la forma tipica del dominio del vincitore. Questo scompaginava le possibilità di sopravvivenza delle tribù di montagna: un certo tipo di rapporto con l'ecosistema è fondamentale per la sopravvivenza, basta modificare l'ecosistema perché le tribù primitive subiscano epidemie varie e sostanzialmente si dissolvano. Nel 177 a.C. alcune popolazioni liguri che prima erano state sconfitte presso i l fiume orientale di Modena (che si chiama Scultenna) riuscirono a rilanciare la loro sfida e occuparono la colonia stessa. Livio (41, 12) non indica i l nome delle genti responsabili y

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dell'attacco, tuttavia è probabile, visto l'ambito geografico, che si trattasse di popolazioni superstiti dell'alto Modenese montano, più direttamente interessato a questa area dopo la disfatta totale e la deportazione dei Boi. Modena fu riconquistata subito dopo dai Romani, nel 176, e circa 8.000 Liguri furono uccisi. Nello stesso anno i Freniates furono vittime di una nuova azione di deportazione di cui ci parla Livio in termini oscuri, anche perché i l passo delle sue Historiae (41, 19) è malridotto. Accenna a popolazioni di Briniates: si può pensare che si trattasse di tribù affini anche onomasticamente ai Freniates (39, 2) che insieme a questi ultimi avevano condotto i l conclusivo e drammatico tentativo di resistenza contro la penetrazione. Tuttavia tra costoro, tra le popolazioni celto-liguri, sulla base di qualche indizio si può pensare che fossero rimaste delle sopravvivenze di insediamenti e culture senza quella distruzione totale verificatasi sul territorio dei Boi. Le sopravvivenze sono di tipo toponomastico, ma possono essere significative se correttamente valutate; abbiamo infatti i l toponimo Forum Gallorum, che fornisce qualche elemento indiziario della presenza di gruppi indigeni successivamente alla conquista romana. Altri elementi toponomastici concorrono nella stessa direzione. I n documenti medievali troviamo Flumen o Limes Gallicus (va comunque precisato che non è sicuro che la toponomastica rappresenti sicuramente una linea di continuità ab antiquo, può essere invece un recupero più recente di tradizioni che sono note: è possibile che qualcuno, ricordando la presenza dei Galli, chiamasse così questo luogo). La prima ipotesi è corroborata però da qualche altro dato archeologico: a Forum Gallorum (Baldacci, 1986) sembra che sorgesse addirittura un santuario in onore di Atena di cui ci parla Cassio Dione (46, 33) quando racconta la battaglia di Modena del 43 a.C. (guerra civile) e fa riferimento a una statua di Atena situata nelle vicinanze di Modena, in una località presso la quale si combatté molto, che sarebbe identificabile con Forum Gallorum, dove si svolse la battaglia tra Antonio e Pansa. Atena-Minerva a volte appare in queste località come interpretazione indigena di divinità romana o come simbiosi di divinità celtiche e di divinità classiche. I n questo senso potrebbe essere intesa come un'attestazione di sopravvivenze celtiche nella località. Altro materiale riferibile alla facies culturale celtica non è stato trovato. E invece interessante che siano state rinvenute alcune mo1

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nete siceliote databili tra gli anni 345-210 a.C. e spiegabili con rapporti commerciali o di mercenariato dei Celti presso i tiranni siracusani. E di qualche rilievo notare che questa documentazione numismatica si interrompe proprio negli anni della penetrazione romana in Cisalpina e questo va a corroborare l'impressione complessiva che anche in quest'area, l'area di Castelfranco (dove sono stati trovati i reperti) l'intervento di spopolamento da parte dei Romani sia stato pesante, anche se in questo caso specifico non si può parlare di sterminio totale; infatti i Freniates, emarginati probabilmente sulle pendici montane, continuarono a sopravvivere, come indicherebbe una dedica alle matronae (AA.VV., 1989). Modena (come abbiamo già detto) venne fondata nel 183 a.C, nello stesso anno della sua colonia gemella, Parma, con 2.000 uomini ciascuna, cifra non particolarmente alta di coloni. Entrambe furono colonie romane e ricevettero lotti di terra molto piccoli: cinque iugeri a Mutina (poco più di un ettaro) e otto iugeri a Parma. L'esiguità di queste assegnazioni può avere una spiegazione politica, in quanto i coloni delle colonie romane, al contrario di quelli delle colonie di diritto latino, hanno tutti i diritti politici, e assegnare lotti di terra più consistenti a dei cives romani poteva significare squilibrare la composizione censitaria della popolazione di diritto romano: le classi si dividono per censo, quindi l'assegnazione di lotti troppo grandi di terra provoca un rigonfiamento delle classi più alte tramite una trasfusione dalle classi più basse, con squilibrio del gioco politico a Roma. La colonia di Mutina sorse in un'area non ignota ai Romani ma già frequentata da elementi romano-italici prima della fondazione del 183. Infatti a Mutina si era già insediato nel 111 secolo a.C un presidio militare romano, come è facilmente deducibile da Polibio (3, 40) e da Livio (21, 25) quando narrano che nel 218 a.C i triumviri che avevano l'incarico di fondare Piacenza e che erano stati immediatamente attaccati dai Galli trovarono rifugio vicino a Piacenza, e cioè a Modena, che si può immaginare fosse un rifugio già parzialmente fortificato e insediato. Queste assegnazioni di piccoli lotti di terra attestati da Livio (39, 55) hanno riscontro nella ricerca archeologica che è riuscita a individuare una fitta trama di insediamenti rustici di piccole e medie dimensioni (da 200 a 600 metri quadrati). Quindi i l disegno politico-sociale che stava dietro la deduzione di queste colonie, e in genere di quasi tutte le colonie di questo periodo, è teso alla 84

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ricreazione di uno strato di piccoli contadini, socialmente solidi e pronti a trasformarsi in soldati. Ovviamente i l quadro economico di questa situazione non è comprensibile, non lo è soprattutto la possibilità di sopravvivenza con assegnazioni così piccole, se non pensiamo che queste micro-tenute agricole non fossero integrate dagli usi civici s u l l ' o r publicus, cioè sul terreno demaniale. E interessante la documentazione archeologica in una località del Modenese, a Magreta, a sud-ovest di Modena, che viene ritenuta i l possibile spazio dei Campi Macri, di cui parlano Strabone e Varrone, che erano la sede del mercato modenese di cui si è detto. Qui a Magreta sono state rinvenute un'anfora greco-italica e della ceramica con figure a vernice nera databile a un periodo anteriore al 183 a.C, probabilmente da connettere con la già precedente esistenza di questo mercato dei Campi Macri. L'esistenza del mercato incise sulla struttura economica del territorio, infatti, sempre presso Magreta è stata trovata una fornace per ceramiche e terrecotte che fu importante perché produsse ceramiche di imitazione asiatica, e precisamente sullo stile di quelle di Pergamo: quel tipo detto herzblattlampen, cioè lampade a orecchie a forma di cuore, caratterizzate da alette laterali e cuoriformi. E significativo che la produzione si awii attraverso l'imitazione di modelli asiatici, perché ciò costituisce un sicuro indizio di rapporti commerciali con la lontana area egeo-asiatica e forse sarebbe attestazione del passaggio, in periodo antico, attraverso quest'area, di mercanti italici che commerciavano con le aree grecoasiatiche e poi portavano prodotti e modelli di produzione di quell'arte anche qui, fino ai Campi Macri e a Modena (AA.VV., 1989).

La colonia di Parma, come abbiamo già detto, fu fondata nel 183 a.C, con 2.000 uomini cui vengono assegnati otto iugeri di terra. Nella seconda metà del 11 secolo a.C. Emilio Scauro aveva bonificato i l territorio perché, come attesta Strabone nel libro v, i l Trebbia e altri affluenti del Po godevano di un eccesso di acque che nel tratto Parma-Piacenza straripavano e rendevano molto difficoltoso l'attraversamento dei campi circostanti. Da un paesaggio di paludi si passa dunque a un paesaggio di campi centuriati, attraversati da un lungo canale, in cui sono insediati 2.000 uomini. Tra le gentes di Parma prevalgono nomi romano-italici rispetto a quelli indigeni. E possibile anche che, successivamente, gli indigeni abbiano assunto nome romano (nascondendosi dietro Tono85

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mastica latina). Questo è però sintomo di un profondo processo di assimilazione alla cultura romana evidenziato dal fatto che esistono solo due dediche (Susini, 1965-66), Puna alle Iunones, Paltra a Orgenus (divinità oscura), che attestano reminiscenze celtiche: la dissoluzione della cultura preesistente appare sostanziale. Nel 180 e 187 sono dedotte altre due colonie: Lucca e Luna, che coinvolgono circa 5.000 uomini. Luna è una città portuale ed è una base di spedizioni militari romane verso la Spagna; è anche polo d'attrazione per Pimmigrazione privata connessa al commercio portuale. Inoltre i l Portus Lunae è un porto commerciale per marmi lunensi (apuani) lavorati anche a Pisa. Le testimonianze archeologiche indicano importazioni di anfore rodiensi, dalla Campania, dal Lazio, dalPEtruria, dall'Africa. Anfore vinarie Dressel 1, provenienti da un'area tosco-laziale-campana, e anfore di provenienza africana continuano a circolare in questa zona fino alla tarda repubblica quando attorno a questi territori romanizzati si sviluppa una viticoltura rilevante. Su due anfore del primo secolo è impresso i l bollo: uno con i l nome di una gens, la gens Sextia, l'altro con i l nome di un personaggio noto, L . Quirinalis, che in età augustea è un grande proprietario terriero deìl'ager Cosanus, in Etruria, sito di un'antica colonia romana, grande porto sul cui territorio sorge la villa di Settefinestre. Per fondare Lucca furono offerti territori da Pisa che già nel 193 è costituita come Municipium sine suffragio e funziona come rifugio contro gli attacchi provenienti dai montanari liguri abitanti sulle Alpi Apuane. La deduzione è condotta sottraendo i l territorio ai Liguri Apuani e fondando Lucca dopo che 47.000 Liguri sono stati sconfitti e deportati nel Sannio (Livio, 40, 36-37). Solo alcuni Apuani sopravvivono marginalmente sulle montagne della Magra e della Lunigiana. Della più recente colonia cispadana di Dertona (Tortona) non è precisabile la data di fondazione. Si pensa sia avvenuta verso i l 123-118 a.C. e non si sa né se fu di tipo romano, né quanti coloni siano stati mandati. Velleio Patercolo, in un passo oscuro della sua opera (1, 15, 4-5) mette in dubbio l'origine romana del nome di Dertona. Lo studio topografico rivela che, se verso la fine del 11 secolo viene costruita la via Postumia che taglia diagonalmente in m o d o perfetto la centuriazione del territorio di Tortona, bisogna ritenere che la fondazione sia avvenuta prima della costruzione 86

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della strada. È probabile, quindi, che la data della fondazione di Tortona sia precedente, e che i l termine ante quem risalga al 120117, dal momento che i territori della vai Polcevera, attraversati dalla Postumia, vengono sistemati intorno al 117 a.C, come si r i cava dalla Sententia Minuciorum. L'area su cui insiste Tortona era tormentata da incursioni barbariche: i Liguri Statielli, che erano insediati intorno a Tortona, vengono dunque trasferiti al fine di liberare e pacificare le popolazioni e di fondare altre colonie. G l i Statielli, trasferiti ad Aquae Statiellaè (Acqui Terme), nel 173 sono attaccati da M . Popilio Lenate, benché non abbiano dichiarato guerra a Roma. I l senato disapprova ciò e dispone che i Liguri, dopo i l 173, riacquistino la libertà e i territori in Transpadana. Roma, così, intreccia con i L i guri anche accordi federali, senza confiscarne i terreni, e interviene con una politica amministrativa di ricomposizione, sia che si tratti di comunità sparse sul territorio e aggregate a un centro più importante e più funzionale (adtributió), sia che si tratti di popolazioni assemblate in una comunità amministrativa che non fa riferimento a un centro prevalente [contributió] (Laffi, 1966). I n Transpadana la romanizzazione procede in modo essenzialmente diverso rispetto ai territori a sud del Po. Nell'Italia più settentrionale non ci sono vistosi fenomeni di confische agrarie e di redistribuzione di terre. La grande proprietà agraria romana sembra quasi sovrapporsi pacificamente ai moduli tribali del possesso celtico. Accanto all'immigrazione organizzata (colonie), si manifesta anche una consistente migrazione volontaria di élites centro-meridionali che acquistano terreni al nord (Gabba, 1986): infiltrazioni, migrazioni interne, colonizzazioni e conquiste sono qui fenomeni che si intrecciano e insieme costruiscono la romanizzazione. È nell'area nord-orientale - già infiltrata dalle tribù celtiche dei Carni, prima della più massiccia celtizzazione storica e dove forse, se i l toponomastico Udine è di origine etrusca (Mazzarino, 1980), erano già penetrati gli Etruschi - che iniziò la colonizzazione romana. Tuttavia la deduzione della colonia di Aquileia nel complesso del settore geografico friulano non comportò un totale ricambio demografico nella regione. Nel 171 i Carni furono assaliti per una rappresaglia, in seguito a loro precedenti attacchi, dalle truppe di Caio Cassio Longino (Livio, 43, 5) e, ancora una cinquantina di 87

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anni dopo, i generali romani segnarono un trionfo su queste genti celtiche. Ma una conferma del fatto che i l processo di romanizzazione dell'area friulana sia avvenuto in un modo conflittuale, ma non tale da sradicare la permanenza di precedenti popolazioni celtiche, soprattutto nell'area settentrionale del Friuli, ci è documentata ancora dalla toponomastica, cioè dalla sopravvivenza, fino ai giorni nostri, di località con denominazioni che terminano in "-acco" o "-co", che sono formazioni toponomastiche tipiche di queste popolazioni. Accanto a questo anche spezzoni di documentazione archeologica attestano la presenza di materiale celtico ancora nel II-I secolo a.C. ed è significativo notare la persistenza di culti preromani, come quello di Belleno, divinità assimilata ad Apollo, in questo territorio. Ci fu una diffusione di questo culto nel territorio delle Alpi orientali, culto che dura con una sua vivacità fino almeno al i n secolo d.C, quando nel 238 questa divinità apollinea è miracolosamente vista combattere contro Massimino i l Trace che stava invadendo i l territorio. Tra le divinità encorie, cioè locali, delle acque, si segnala anche i l culto di Timavo, altro indizio della sopravvivenza di componenti culturali e religiose celtiche a Udine e nel territorio. Epigraficamente (11 x, 4, 31) c'è una documentazione databile all'età di Antonino Pio che ci ricorda come gruppi di Carni e di Catali siano stati adtributi per opera di Augusto alla città di Tergeste, cioè alla città di Trieste. E quindi attendibile che Roma abbia lasciato in Transpadana, dove non voleva impegnarsi massicciamente e drasticamente come invece fece in Emilia, ampi spazi alla sopravvivenza dell'insediamento della componente più originaria e questo fu appunto uno degli elementi che consentì un processo di romanizzazione non violento. La colonia di Aquileia, fondata appunto nel 181 a.C. con più di 3.000 uomini, ricevette poi nel 169 a.C un rincalzo di 1.500 famiglie. Ma ciò che è interessante e caratterizzante per questa colonia rispetto ad altre è l'assegnazione di lotti di terreno ampi e nettamente differenziati. Agli equites vengono infatti assegnati lotti di cento iugeri, i centuriones ottengono lotti di settanta iugeri, mentre i pedites (i fanti) ottengono lotti di cinquanta iugeri. Complessivamente si tratta di assegnazioni particolarmente ampie, forse anche per cercare di incoraggiare la partecipazione dei coloni alla fondazione della nuova città, perché, per una serie di motivi, 88

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si cominciavano a delineare segnali di difficoltà nel reclutamento di uomini disposti a trasferirsi dal centro-sud verso queste lontane regioni del nord-est. L'ampiezza di queste assegnazioni risponde, oltre che a questa preoccupazione, probabilmente a un altro disegno di maggior respiro; può infatti far pensare alla volontà di costituire aziende agricole di una certa dimensione e almeno parzialmente fondate sulla monocoltura. Se la tenuta privilegia la monocoltura (e non la pluricoltura che tende all'autarchia) si qualifica economicamente in un modo "moderno" e completamente diverso, nel senso che è una tenuta strutturalmente proiettata sul mercato: vende i l proprio prodotto in modo da poter comprare altri beni. Si può pensare che Aquileia sia nata originariamente come un centro commerciale al quale rispondevano razionalmente queste tenute presumibilmente gestite a monocoltura. Secondo le ricostruzioni fatte da G. Bandelli si capisce che dovette essere interessata complessivamente un'ampia area geografica, valutabile intorno ai cento chilometri quadrati. Tradizionalmente, però, la deduzione della colonia doveva prefiggersi anche i soliti fini di tipo militare. Infatti la città fu usata come base per spedizioni militari contro le popolazioni che non erano ancora domate e cioè gli Istri, i Giapeti e gli stessi Carni. Ma oltre a questo, la costituzione di lotti agrari così ampi poteva offrire ottime possibilità per l'avvio di attività agricole e silvopastorali e per integrare questo complesso di attività nello sviluppo commerciale-portuale che era la destinazione naturale di una città situata sul mare. Alla deduzione di questa colonia parteciparono soprattutto coloni provenienti da aree centro-meridionali, tuttavia lo studio dell'onomastica di Aquileia mostra, nelle epigrafi di età repubblicana, anche la presenza di elementi di origine indigena, forse più veneta che non celtica, in quanto i Veneti collaborarono maggiormente e in modo più accondiscendente che non i Celti a questo processo di conquista messo in atto dall'imperialismo romano in Italia. Un'ultima ipotesi: probabilmente la componente indigena partecipò agli stessi primordi della colonizzazione nel 181 a.C. Infatti alcune iscrizioni di età repubblicana contemplano nomi di gentes che già nel i secolo a.C. occupano delle cariche pubbliche all'interno della colonia, e inoltre i Veneti raggiungono delle magistrature persino a Roma (Bandelli, 1988). La fondazione di Aquileia fu, in un tempo successivo, i l punto di partenza per l'intreccio di rapporti sempre più intensi con le 89

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regioni limitrofe che disponevano di risorse di primaria importanza, in particolare risorse minerarie. Del resto la zona di Aquileia, già in epoca preistorica, era un gateway di scambi commerciali perché attraverso essa passavano traffici provenienti dall'Egeo e arrivavano materiali di ambra provenienti dalle zone del Baltico (Negroni-Catacchio, 1989). Forse le risorse minerarie furono l'elemento economico che per primo suscitò l'interesse dei Romani. Strabone, che cita a sua volta Polibio, ci informa che ai tempi di Polibio stesso nella regione di Aquileia e in particolare nell'area occupata dai Norici Taurisci, nella zona che sta tra la Rezia (nord-est di Aquileia) e la Pannonia, alcuni Italici erano già penetrati, collaborando all'estrazione dell'oro da una miniera recentemente scoperta. Tuttavia, secondo la narrazione di Strabone, la massa di oro immessa sul mercato ne determinò i l crollo del prezzo, tanto che i Taurisci furono costretti a cacciare i mercanti italici e ad assumersi i l monopolio dell'oro. D'altra parte, la collocazione geografica di Aquileia fu la molla per una incentivazione dei rapporti con altre popolazioni transalpine, fino a quelle insediate intorno al Danubio, diventando Aquileia stessa un emporio da cui queste popolazioni danubiane acquistavano prevalentemente vino e olio e dove vendevano i loro scarsi prodotti. Ma i traffici erano di una certa intensità, in quanto in queste regioni erano disponibili risorse di ferro: quindi ci troviamo di fronte al quadro di una colonia che rappresentava una base importante per l'approvvigionamento anche di questo prodotto. Uno studio recente di Strazzulla Rusconi ha sottolineato la documentata presenza ad Aquileia, tra i l 11 e i l 1 secolo a.C, di gentes interessanti perché appaiono sicuramente di origine prenestina. Sono gentes che si può supporre abbiano partecipato originariamente alla fondazione nel 181 della colonia. Lo stanziamento ad Aquileia di queste gentes è probabile sia ricollegabile a uno sviluppo di attività silvo-pastorali tipiche della zona di provenienza delle gentes stesse e alle quali i l territorio aquileiense offriva l'habitat naturale. E infatti fuori discussione che anche l'allevamento doveva rappresentare una ricchezza economica di rilievo per Aquileia (e soprattutto nella parte più antica della colonia), prima che su ampia scala si organizzassero le produzioni agrarie e si sviluppassero traffici marittimi. Anche per questa ipotesi c'è una conferma documentaria che è fornita da una iscrizione, databile 90

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alla seconda metà del n secolo a.C, che ricorda un raccordo stradale che collegava la via Postumia con i l mercato di Aquileia; un raccordo viario, quindi, che assicurava collegamenti tra i l mercato di ovini di Aquileia e i centri di smistamento vicini. Ma Poccupazione di queste gentes centro-italiche non si dovette circoscrivere a questa attività silvo-pastorale: un'altra iscrizione ci documenta che ad Aquileia esisteva una non piccola famiglia di liberti e siccome i liberti vengono spesso utilizzati in attività manifatturiere, artigianali e commerciali, si può forse ipotizzare che anche in questo settore Aquileia abbia avuto uno sviluppo antico. In un'iscrizione del i secolo a.C. si ricorda un Sextus Samiarius Sexti libertus Andronicus (nome greco, anche se non è detto che costui lo fosse perché in quel periodo era moda assumere nomi greci). Molto probabilmente si riferisce a uno schiavo liberato di nome Andronico che si definisce pistor, cioè mugnaio o fornaio. Forse possiamo ipotizzare che questo ramo della famiglia, della gens Samiaria, stabilitasi ad Aquileia fosse impegnato in attività collegate con la cerealicoltura e la lavorazione dei cereali (farina, panificazione e via dicendo). Un'altra gens, la Tampia, è invece conosciuta attraverso una dedica a Giove di una donna e l'iscrizione è incisa sulla sommità di una colonna che presumibilmente apparteneva a un tempietto o a un sacello. Non è chiaro quale fosse l'attività della gens Tampia, se fosse collegata ad attività agrarie o ad altre, tuttavia le gentes Samiaria e Tampia sono attestate, sempre nel i secolo a.C, anche in aree ellenico-orientali, cioè a Delo, a Mileto, forse anche a Jasos e successivamente sono ancora documentate a Mileto e Jasos (Bandelli, 1988) mostrando un ampio raggio di interessi. Si può quindi congetturare, sulla base di questa diffusione delle due gentes, Tampia e Samiaria, che lo stanziamento ad Aquileia costituisse all'origine la fonte di risorse economiche complementari ai proventi derivanti dall'esercizio di attività commerciali espletate in queste aree orientali. La vita economica di Aquileia ha delle scansioni temporali diversificate: in età repubblicana intreccia prevalentemente relazioni economiche con le regioni transalpine, mentre è in età augustea che modifica la propria iniziativa intensificando i traffici con l'Oriente ellenistico. I l fatto però più interessante è che probabilmente intorno alla metà del 1 secolo a.C, si può pensare che si trasferissero ad Aquileia dei nuclei di Greci di Siria, esperti artigiani 9i

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del vetro, quelli che avevano inventato la soffiatura del vetro; mentre prima la produzione vetraria era una produzione condotta attraverso la tecnica della fusione, con un sistema molto più difficile. Con la soffiatura del vetro e la conseguente semplificazione della tecnica Aquileia, insieme ad altre città, anche le più lontane (ad esempio Colonia), diventa uno dei centri principali di produzione e di vendita del vetro. Intorno al 50 a.C. Aquileia appare quindi una città ampia, ricca, abitata da gentes di un certo livello, diretta da élites dinamiche che a volte svolgono anche ruoli politici a Roma (forse si trovano anche magistrati romani tra le gentes di Aquileia). Era stata quindi edificata una città non solo residenziale, ma un centro ricco, caratterizzato all'epoca della tarda repubblica (come hanno messo in rilievo gli studi della Verzar) da costruzioni di case di gusto alessandrino dal decoro ricercato e cosmopolita. Diverso è i l caso di Eporedia, città fondata nel 100 a.C. La spinta alla fondazione della colonia è motivata, da parte dei Romani, con obiettivi politici, strategico-militari e anche economici, in considerazione dell'opportunità che i l territorio di Eporedia (Ivrea) offriva di sfruttare risorse minerarie. I Romani colsero l'occasione di intervenire nell'area qualche anno prima della fondazione della colonia e i l pretesto fu costituito da una controversia tra i Salassi e altre tribù celtiche stanziate in Piemonte che si erano insediate sui territori circostanti la Dora Baltea. Questi Salassi utilizzavano per il lavaggio dell'oro lì estratto (le miniere si esaurirono rapidamente tanto che Strabone ci attesta che al suo tempo, in età augustea, non erano già più sfruttate) l'acqua della Dora Baltea, diminuendone notevolmente la portata, deviando, probabilmente con una canalizzazione, i l corso del fiume e riducendone la possibilità di utilizzo per l'agricoltura da parte di altre tribù. In conseguenza di questo i Romani, presentandosi sotto la solita parvenza di pacieri, ma mirando a qualcos'altro, inviarono nel 143 i l console Appio Claudio Pulcro, che saccheggiò i l territorio dei Salassi, fece confiscare le miniere aurifere e le fece appaltare ai pubblicani, alle societates publicanorum, corporazioni di affaristi che intervenivano negli appalti di svariate operazioni (dalle opere pubbliche all'appalto delle imposte, allo sfruttamento di alcune ricchezze come quelle minerarie). 92

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I Salassi sconfitti e debellati (Livio 53, 1; Cassio Dione 22, fr. 74), si ritirarono sulle montagne di cui mantennero i l controllo esigendo i l pagamento di un pedaggio da tutti coloro che transitavano per quei passi montani e continuando a sorvegliare, con le loro incursioni dalla montagna, le acque della Dora Baltea. Queste vennero quindi appaltate ai pubblicani di Roma perché potessero far lavorare gli operai all'estrazione e al lavaggio del metallo aurifero che si poteva trovare nello stesso fiume (i fiumi, soprattutto allora, erano ricchi di sabbia aurifera: ancora in epoca medioevale Pavia, e anche Milano, traevano la quasi totalità dell'oro necessario per la propria monetazione dalle sabbie aurifere del Ticino). In un tempo successivo, nel territorio conquistato ai Salassi fu appunto fondata Eporedia, circa cinquanta anni dopo l'intervento del 143. Secondo l'attestazione di Velleio Patercolo (1, 15, 5) la deduzione della colonia è databile e attribuibile al v i consolato di Mario e al consolato di Valerio Fiacco. Non sappiamo, tuttavia, le circostanze precise alle quali risale la decisione di fondare la colonia. Alcuni studiosi hanno messo in relazione la fondazione di Eporedia con una legge agraria proposta da Lucio Apuleio Saturnino, tribuno della plebe del movimento democratico, in occasione del suo secondo tribunato della plebe, proposta che prevedeva l'assegnazione delle terre sottratte da Mario ai Cimbri nel territorio che i Romani chiamavano Gallia (Appiano, Bellorum Civilium, 1, 29). L'interpretazione del passo di Appiano crea dei problemi: non è infatti chiaro se si riferisce alla Gallia Cisalpina, come pensava Fraccaro, o più generalmente alla Gallia Transalpina, cioè a insediamenti al di là delle Alpi. D i questa opinione sono una serie di studiosi (come Badian, Scullard e Brunt); ma nessuna delle fonti antiche stabilisce una correlazione precisa tra la deduzione della colonia e la legge di Saturnino per l'assegnazione Adii Ager Cimbricus. Strabone (vi, 6, 7), da parte sua, ci dice che la colonia era stata dedotta perché fosse un baluardo contro queste indomite tribù dei Salassi; affermazione che suscita qualche dubbio, perché se questo fosse stato lo scopo principale della fondazione, verosimilmente questa sarebbe dovuta avvenire subito dopo la vittoria di Appio Claudio Pulcro. Plinio (N.H. m , 17, 21) afferma che Eporedia fu fondata per ordine degli oracoli sibillini. Fraccaro ha osservato però che la consultazione dei libri sibillini poteva essere decisa solo per ordine del senato e quindi ha avanzato, con una 93

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certa cautela, l'ipotesi che Eporedia fosse una fondazione promossa dal senato (dopo che i Salassi erano stati debellati) con l'intenzione di compiere un gesto che fosse in contrasto con la politica agraria "sovversiva" di Saturnino; i l senato, cioè, avrebbe ripreso uno dei caratteri distintivi della sua politica agraria, quello di fondare una serie di colonie, politica che però era entrata in crisi ed era quindi stata quasi abbandonata in epoca graccana, quando i l problema della ridistribuzione delle terre e quello della fondazione di nuove colonie, anche transmarine, diventa prerogativa politica e segno distintivo dei movimenti cosiddetti popolari. Comunque i l numero dei coloni inviati a Eporedia non è noto, poiché non viene fornito da nessuna fonte: secondo i calcoli di Fraccaro, fondati sullo studio della topografia del territorio della colonia stessa, si può ipotizzare un invio di circa 2.000 coloni che avrebbero ricevuto lotti di terra non insignificanti di circa cinquanta iugeri, probabilmente anche qui distribuiti in un ordine gerarchico che non è possibile identificare solo sulla base dello studio del terreno. Dopo la spedizione di Appio Claudio e la successiva deduzione della colonia di Eporedia, i Salassi non andarono incontro a una disfatta totale: continuarono a conservare parte del territorio e a mantenere una loro capacità di riproduzione demografica almeno fino al 25 a.C. quando Varrone condusse una definitiva spedizione bellica punitiva contro questi Salassi irrequieti; nel 25 a.C. li sconfisse, l i fece schiavi e ne vendette 44.000, liberando i l territorio, sul quale venne fondata la colonia di Augusta Praetoria (Aosta). Tuttavia, anche questo duro intervento di Varrone Murena non comportò un completo annientamento della popolazione dei Salassi, perché un'iscrizione di Aosta conserva una dedica ad Augusto di incolae che se in coloniam contulerunt. Incolae sono gli abitanti che fin dall'inizio si trasferirono nella colonia e questo fa pensare a gruppi di indigeni, incolae appunto, sfuggiti ai massacri e alla vendita come schiavi, che ottennero quindi i l cosiddetto ius incolatus cioè i l diritto di abitare nel territorio della colonia (11 x i , 1, 6). Questo è interessante per almeno due ordini di motivi: 1. Perché attesta una sopravvivenza dei Salassi, quindi una sopravvivenza celtica, malgrado fossero stati così duramente colpiti. 2. Perché è uno degli indizi più chiari di come gli insediamenti sul territorio delle colonie non fossero sempre esclusivo appannaggio e strumento di ricchezza o di autosufficienza per i cittadini y

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romani o latini, ma si strutturassero come insediamenti aperti a gruppi di indigeni in modo da formare una popolazione mista che col tempo sarebbe andata sempre più amalgamandosi, soprattutto quando la cittadinanza romana sarebbe stata concessa a tutti gli abitanti della Cisalpina e dell'Italia (49 a.C). Nella fenomenologia della romanizzazione notevole rilievo hanno anche le assegnazioni di terre nei territori cisalpini, che avvengono non attraverso la fondazione organizzata di una colonia e quindi la costituzione immediata di una città (anche di ampie dimensioni), ma attraverso l'assegnazione di terre a persone che con le loro famiglie si impiantano in una data zona (assegnazioni fatte singolarmente). Tra queste sono particolarmente importanti quelle viritim del 173 a.C, che avvengono negli "agri ligustini e gallici". Infatti, nel 173 a.C. i l senato ordinò che gli agri ligustini et gallici conquistati appunto dai Romani nelle guerre contro i Galli e Liguri (Ligustini/Ligures), fossero assegnati mediante questo tipo di assegnazioni "vintane" a coloni romani e latini, secondo lotti di terra poco ampi, rispettivamente di dieci e tre iugeri. Non è possibile sapere quante persone abbiano fruito di queste assegnazioni, tuttavia l'esiguità dei lotti distribuiti ai coloni, che ebbero tre iugeri soltanto (7.500 metri quadrati), può far ipotizzare che gli aspiranti all'assegnazione fossero numerosi rispetto alla disponibilità di terra, tanto che non fu necessario, come in altri casi (Aquileia), incoraggiarli con assegnazioni di dimensioni rilevanti. Probabilmente l'eccedenza demografica del centro-sud in questo momento, le difficoltà agrarie che esploderanno poi con i Gracchi nel 133, oltre a un certo fascino che poteva emanare la Cisalpina per una sua mitica ricchezza e capacità produttiva, anche di prosciutti (Catone, Origines, 11, 9), spinsero molte persone a spostarsi verso nord. Per quanto riguarda la collocazione si può pensare che gli agri gallici fossero situati lungo la via Emilia. Proprio qui notiamo che anche le aree non occupate dalle colonie romane risultano fittamente centuriate. La localizzazione degli agri ligustini è invece più problematica. Abbiamo infatti visto che le genti liguri dell'Emilia furono definitivamente sconfitte solo verso la metà del 11 secolo a.C. e qui invece siamo nel 173 a.C: quindi, in quest'area (intorno a Modena), non erano disponibili grandi estensioni di terra per un'assegnazione viritana. Si può ipotizzare che la colonizzazione 95

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viritim deW'ager ligustinus fosse avvenuta in Piemonte meridionale e particolarmente nel territorio del Monferrato e delle Langhe, dove sorsero diversi centri, caratterizzati dall'iscrizione alla tribù Pollia (i Romani dovevano iscriversi a una tribù per fruire completamente dei loro diritti di cives). A questa tribù Pollia sono normalmente iscritti anche alcuni centri ubicati sulla via Emilia e sorti presumibilmente nel 173 a.C, oltre alle colonie romane di Parma e di Modena, fondate poco prima. E questo l'unico indizio per collocare Yager ligustinus in queste regioni delle Langhe e del Monferrato, dove comunque sappiamo che si sviluppò presto un'agricoltura vivace e specializzata (come oggi) nella produzione del vino, tant'è vero che due agronomi, padre e figlio, i Sasernae, sarebbero originari di queste regioni e non senza motivo, quindi, il loro trattato agronomico, cui abbiamo accennato in precedenza (cfr. p. 24), è un trattato di tipo catoniano (essi vivono verso la fino del 11 secolo a.C) che si impernia su una idea di villa rustica a coltura specializzata, in genere olivo e vite. Forse in questa stessa area vi fu anche una successiva fase di intervento romano nella seconda metà del 11 secolo a.C, quando vennero costruite alcune vie come la Postumia realizzata nel 148 a.C, che collegava Genova, attraversando Tortona, a Piacenza e la via Aemilia Scauri databile al 115-109 a.C, che collegava Savona con Tortona. E infatti di questo periodo la costruzione di quell'agglomerato urbano, cui abbiamo già accennato, che si chiama Forum Fulvii edificato (probabilmente intorno al 125 a.C.) dal console graccano Marcus Fulvius Flaccus che, dopo una serie di battaglie contro i Celti Transalpini e i Sallutii, ritornando a Roma, insediò questo Forum Fulvii che da lui prese nome e che resta ancora nella toponomastica attuale: fino a pochi anni fa i l paese si chiamava Villa del Foro e adesso si chiama Madonna della Villa (in provincia di Alessandria). Per capire questa forma di colonizzazione viritim bisogna sottolineare come essa avvenisse in stretta correlazione con dei centri chiamati fora, di cui si conosce poco la figura giuridica, cioè come venissero costituiti. Alcuni di questi centri, come Forum Livii (Forlì), Forum Popilii (Forlimpopoli), Forum Fulvii (Villa del Foro) sono più noti. I l problema è quello della loro natura: tradizionalmente i giuristi l i avevano pensati come centri fondati da un 96

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console o da un pretore in relazione alla costruzione di una strada, però alcuni studi più recenti hanno sottolineato che i fora sono piuttosto da intendersi come centri giuridico-amministrativi nei quali le funzioni non erano svolte da un senato locale, organismo di direzione della colonia, ma da un praefectus inviato da Roma. Quindi i fora non godevano di autonomia politica e, in alcuni casi, erano insediamenti di indigeni (Celto-Liguri) aventi figura giuridica riconosciuta e costituiti da parte di Roma stessa all'interno di un quadro di riorganizzazione amministrativa. I fora non richiedevano la fondazione di una colonia: il forum era qualcosa che già esisteva e che veniva ristrutturato amministrativamente prendendo il nome, in alcuni casi, da un personaggio romano patronus della comunità che si assumeva questo compito. La costituzione dei fora è un'operazione importante di riorganizzazione amministrativa di pre-esistenti insediamenti indigeni all'interno di uno spazio che prevede la convivenza con coloni romano-italici che avevano ottenuto assegnazioni viritim e quindi sotto i l controllo di un praefectus inviato di Roma. In quest'area si incentivano scambi di diversa natura tra popoli di culture differenti, forse con forme di osmosi tra di esse. Va tuttavia sottolineato che la romanizzazione costituirà i l fenomeno prevalente: con la colonizzazione assistiamo a una specie di rivoluzione antropologica, corrispondente all'omologazione dei Celto-Liguri alla civiltà romana. L'antropologia dei Celto-Liguri e la loro cultura si adeguano a quella di Roma. Permangono alcuni elementi autoctoni, ma non tali, qualitativamente e quantitativamente, da inficiare i l quadro di omologazione a cui si conformano anche le popolazioni precedenti ai Celto-Liguri, quelle italiche autoctone che subirono prima la dominazione degli Etruschi e dei Celto-Liguri, di cui conosciamo pochissimo. Gli studi più recenti sulle migrazioni in Cisalpina sottolineano che alcuni centri padani risultano storicamente insediamenti preromani e minimizzano i l ruolo di Roma e i l suo intervento. Questa interpretazione è applicata ad alcuni centri cispadani che mantengono nomi pre-romani, liguri e celtici. La maggior frequenza di questi centri è nell'area ligure-piemontese più che in Emilia-Romagna, dove l'intervento romano è stato più pesante. Si può ricordare qualche esempio di permanenza toponomastica legata a sopravvivenze etniche: Aquae Statiellae (attuale Acqui Terme), vicus Statiellus (presso Velleia), Augusta Bagennorum (le 97

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località battezzate "Augusta" sono così chiamate in onore degli imperatori; questa è Fattuale Vagenna, paesino in provincia di Cuneo), Albintimiglium (poi cambiato foneticamente in Vintimiglium, poi Ventimiglia), Albingaunum (Albenga). Questo prefisso toponomastico " A l b " dovrebbe avere provenienza linguistica celto-ligure: può indicare montagne (come i l nome Alpi); oppure fiumi: Albis (PElba) in Germania, in Cecoslovacchia ecc. Le persistenze pre-romane sono i l segno di una penetrazione romana meno massiccia in quelle zone dove la colonizzazione è infatti meno fitta (c'è soltanto Luna, Dertona e Lucca, che farà parte delTEtruria e non della Cisalpina). I n Emilia-Romagna, invece, abbiamo colonie sin dall'epoca più antica: Ariminum, Placentia, Bononia, Mutina, Parma. Tuttavia anche in questa regione si può riscontrare qualche centro marginale la cui toponomastica è riconducibile a una pre-esistenza celtica: Forum Gallorum (Castelfranco, in provincia di Modena), Forum Druentinorum (i Druentini sono una tribù celtica), poi Bertinorum (Bertinoro, in provincia di Forlì). Nei testi latini troviamo delle persistenze di demotici (nomi dei popoli) che sono la traccia di componenti etniche non totalmente romanizzate: Veleiates (da Velleia, sopra Piacenza), Urbanates, Soronates (zona di Rimini), Otesini, Padinates (insediati forse lungo i l Po). Queste persistenze si collocano sempre periodicamente rispetto ai territori di colonizzazione, lontano dalla via Emilia o in ambienti geografici sfavorevoli. Forum Gallorum, per esempio, non è lontano dalla via Emilia, ma risulta situato in un ambiente che allora suscitava timore nei Romani e lasciato al permanente insediamento di questa tribù gallica. In ogni caso in Cispadana sono ancora oggi ricostruibili le tracce di un vastissimo piano di centuriazione, portato avanti con un'azione coordinata da parte dei Romani, che coinvolge tutto i l territorio della Cisalpina e dell'Emilia-Romagna (anche se l'esecuzione pratica avvenne in fasi successive) in cui trovassero spazio anche centri celto-liguri. I l piano doveva essere stato pensato per inserirvi i nuclei di coloni romano-italici che si insediavano viritim dentro i fora e ha comportato un radicale mutamento e riassetto della precedente realtà geografica e della configurazione abitativa. In alcune zone dell'Emilia-Romagna la colonizzazione viritim doveva essere molto intensa se, come dice Appiano (Bell. Civ. i , 89), questo territorio si chiamava, in greco, ouiritané chora (cioè "terri98

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torio viritano"), terminologia che corrisponde all'espressione latina ager qui viritim distribuitur. E Appiano era esperto di questioni amministrative. Le sopravvivenze celto-liguri, se sono un aspetto fondamentale in quanto implicano una riorganizzazione del territorio da parte dei Romani, ma non una deduzione ex novo di colonie, vanno comunque inserite nel quadro delle iniziative volute dai Romani: i fora (Brunt, 1971; Vaananen) riconoscimento di centri indigeni, sono da connettere con l'intervento dei Romani che l i inseriscono nelle proprie strutture amministrative e l i collegano con la politica di assegnazioni viritane particolarmente forte dal 173 a.C. Anche la documentazione archeologica conferma la possibilità che la nascita di alcuni centri lungo la via Emilia sia in relazione con nuclei di insediamento italici e con fenomeni migratori legati a esigenze militari e agrarie. Scavi condotti a Reggio Emilia tra i l 1980 e i l 1983, sotto la direzione dell'archeologo Malnati, hanno dimostrato che la nascita di un centro romano in quest'area risale agli inizi del 11 secolo a.C, e quindi già in questo periodo si devono collocare le prime infiltrazioni di coloni. Anche a Imola (che prenderà i l nome di Forum Cornelii, in onore di Cornelius Siila) sono stati trovati resti romani databili al 11 secolo a.C. che attestano uno stanziamento romano-italico, anche se lo sviluppo urbanistico di questo centro si avrà solo nel 1 secolo a.C, quando con l'intervento di Siila cambierà i l nome e verrà costituito come forum. Nell'area romagnola troviamo Forum Popilii (Forlimpopoli) probabilmente da connettere con Publius Popilius Laenas, console nel 132 a.C, che promosse la costruzione della via Popilia che collegava Adria con Rimini. A d Adria è stato infatti rinvenuto un miliario (cippo stradale che segnava in miglia la distanza da un centro) che ricorda questo PopUio Lenate. Lungo i l tracciato della via Popilia, nel settore a nord-est di Cesena, sono state individuate tracce di centuriazione riconducibili a un unico piano agrario, sintomatiche di assegnazioni di terre avvenute al tempo della costruzione della via Popilia in un momento in cui la questione agraria era drammatica, cioè poco dopo i l tribunato di Tiberio Gracco. L'iscrizione di Polla (Sud-Italia) enfatizza i l fatto che Popilio Lenate ha sottratto pezzi di territorio alla pastorizia e viene interpretata come attestazione di una politica agraria del senato condotta contro la politica dei Gracchi, che volevano invece otte99

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nere la restituzione dé&ager publicus occupato abusivamente dai romani più ricchi e distribuirlo a nuovi coloni: è possibile che l'intervento agrario in quest'area attorno a Cesena rientri nello stesso progetto politico. Già prima del 187 c'era un insediamento nella zona di questo forum: la via Emilia, infatti, che è quasi sempre retta, nell'attraversarlo compie una deviazione (Tozzi, 1989). Insomma, i fora diventano i l luogo attraverso cui la romanizzazione, intesa come adeguamento all'orizzonte culturale romano di popolazioni di un'altra civiltà, avviene nel modo più facile e meno violento. In conclusione pochi dati quantitativi possono fare percepire l'immensità dell'intero fenomeno. Stando ai calcoli di Beloch, confermati dal Brunt, l'Italia in età augustea aveva cinque milioni di abitanti e Roma circa uno (la cifra per città come Pompei si aggira intorno ai 20.000 abitanti). Se moltiplichiamo i l numero dei coloni cisalpini maschi (45.000) per 3 0 4 abbiamo la cifra complessiva dei coloni, 135.000 in un caso, quasi 200.000 nell'altro, provenienti dal centro-sud, a fronte dei quali centinaia di migliaia di Celti vengono eliminati o emarginati, in funzione dell'imperialismo romano in Italia. Si riscontrano, infatti, poche permanenze celtiche: il bilinguismo non è più documentato alla fine del 1 secolo a.C. Rimangono solo eredità genetiche e tracce a livello toponomastico: i toponimi in "-ate", sono spesso di origine celto-ligure (cfr. F I G . 5).

Ma i l processo di colonizzazione procede nel 1 secolo e globalmente si intensificherà: Keppie ha calcolato che in questo periodo circa i l 30% dei maschi adulti migra, non solo su scala transmarina: i l caso più famoso in Cisalpina è quello di Mantova, come attestato in Virgilio (Ecloga 1): «Nos [...] linquimus arva [...]». Questo processo di rivoluzione demografica corrisponde in epoca imperiale a una rinascita economica-culturale della Cisalpina, che si contrappone alla crisi del meridione, causata anche dallo spopolamento, pur con alcune eccezioni: Pozzuoli, per esempio, che rimarrà vitalissima, Pompei e qualche città in Sicilia. La politica augustea di promozione di municipi e colonie, cioè strutture urbane con governi autonomi, in seguito a leggi {lex Pompeia, ìulia, Rubria) che portarono alla concessione del diritto latino prima, e poi romano, si concretizza in uno sviluppo econo100

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FIGURA 5

Toponimi in -ate (percentuali per provincia)

i~r~r

I

I I

AL CN VC NO MI BG BS PN FE RM CZ PA AT TO PV VA CO CR SO BO PS SA RG Fonie: Piana Agostinetti (1988).

IOI

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mico che durerà fino al iv secolo, quando tutta la regione sarà chiamata Italia annonaria e Milano diverrà sede capitale dell'Impero. La colonizzazione, però, ebbe anche una funzione di equilibrio nelle aree centro-meridionali: se i coloni furono soprattutto i cadetti dei cittadini, la colonizzazione appare come un processo che permette di mantenere Punita dei terreni ereditati (Cassola, 1988). Per questo i fenomeni di rifiuto della colonizzazione, che pure esistettero dopo la seconda guerra punica per paura dei Galli, furono scarsi e, al contrario, si assistette a forme di assenso popolare a favore della colonizzazione: tutto rispondeva al problema centrale di Roma, quello di trovare uno spazio produttivo allo sviluppo demografico, assecondato per motivi militari, per cui anche i sodi vennero coinvolti nell'assegnazione di terre e, per Bandelli, è possibile trovare a Rimini tracce antiche di questa partecipazione di alleati (come un Manlius, originario di Cere). Gabba (1988) ha sottolineato inoltre l'aspetto militare delle colonie: esse non pagano un tributo a Roma (come i membri della lega Delio-Attica lo pagavano ad Atene); le colonie, invece, collaboravano con quote di soldati in una situazione in cui la guerra era anche redditizia (in termini di bottino e assegnazione di terre) e la vita militare accettata. Nello stesso tempo lo scarico sulle colonie delle tensioni demografico-sociali permise l'instaurarsi in Roma di una società dinamica e aperta (Gabba, 1988) che fu un elemento centrale della vitalità dell'impero. Questo programma di ampio respiro si svolse sotto l'iniziativa di politica internazionale gestita finanziariamente dall'elite del senato, in sostanziale accordo con i l corpo politico del senato stesso (anche se si introdurranno incrinature al tempo dei Gracchi e successivamente quando i l senato si spaccherà sui temi della politica agraria e di quella riguardante le colonie). Ed è proprio in funzione della politica agraria e coloniaria (tra il iv, i l n i e i l 11 secolo a.C.) che viene costruita la grande rete viaria che doveva permettere i collegamenti in primis militari tra le colonie; le guerre liguri, con le conseguenti colonie, non sono solo obiettivi italici ma anche premessa dell'espansione transmarina in occidente (Sardegna, Spagna, Cartagine): Portus Lunae costituì i l punto di aggregazione delle truppe in partenza per le spedizioni (Coarelli, 1988).

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Barbarologia romana

A Roma non è mai esistita una forma di razzismo comparabile a quella del x i x secolo nel sud degli USA (una visione dei ceti sociali inferiori come folle pericolose e portatrici di infezioni). La società romana è una società aperta, caratterizzata da una struttura piramidale con ampi movimenti verticali che permettevano ai bassi ceti ascensioni verso le vette più alte del potere. Nel 1857 l'americano George Fitzugh, studiando i principi e le pratiche umane che rendono le razze e gli individui inferiori agli schiavi, affermava essere una fortuna per i l sud (americano) possedere questa razza inferiore di negri (credendo, cioè, che resistenza di razze inferiori costituisse un fortunato servizio prestato da queste per le razze superiori). Questa è in qualche modo una posizione simile a quella di Aristotele che, affrontando i l discorso nella Politica, sostiene l'inferiorità psicofisica degli schiavi, condizione che garantisce (e obbliga) la schiavizzazione di masse di persone. G l i schiavi non sono un prodotto delle vittorie belliche, bensì i l frutto di un confronto reale: gli schiavi sono persone inferiori dal punto di vista psicofisico. E sulle tracce di questo razzismo che nel mondo contemporaneo sorge un disprezzo e una paura anche delle masse appartenenti ai ceti sociali diseredati, a volte comparate ai barbari, percepite come barbari interni le cui invasioni non provengono dall'esterno dei confini degli Stati, ma dilagano verticalmente dalla base della stessa società (Dauge, 1981). E come nell'Occidente contemporaneo Nietzsche può sognare la barbarie quale contraddizione vitale di una quotidianità marcescente, così nel iv secolo d.C. Salviano, nel De gubernatione Dei, immagina la barbarie come occasione di rinascita per un impero romano corrotto e declinante. 103

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Generalmente le preclusioni dei Romani verso i barbari non si fondavano su una teoria razzista, ma sulla constatazione di un livello inferiore di civiltà che, per la sua purezza ingenua e originaria, poteva anche colpire scrittori come Tacito (Giua, 1988), quasi una virtus incontaminata che cela preziose energie vitali. Barbarie è comunque incultura, temerarietà, violenza e incostanza dei moti dell'animo (Clavel-Lévèque, 1985). Ma questa feritas o inhumanitas non è imputata a ragioni di tipo razziale, semmai si cerca una spiegazione di tipo ippocratico collegando i l carattere alle condizioni climatiche (Dauge, 1981). E sulla base di queste premesse culturali che si rende possibile l'atteggiamento etnografico distaccato di Cesare, atteggiamento che sembra inserirsi in uno schema di tipo evoluzionistico per cui per alcuni è possibile i l passaggio dalla condizione di barbarie a quella di civiltà. Sallustio sarà in qualche modo ammirato dalla capacità vitale di Spartaco, dalla sua eccezionale volontà di liberazione {Hist.y n i , 91) e nel Bellum lugurtinum (1, 92-94) parlerà di un Ligus fornito di ingenium, quindi di naturali capacità intellettuali che eccedono la furbizia degli ignoranti e la metis greca. Da questo retroterra culturale sorgerà i l discorso di Lione dell'imperatore Claudio con la sua proposta di società aperta dove anche ai Galli più acculturati sia possibile accedere alle massime magistrature dello Stato. Nel caso specifico della Cisalpina è interessante analizzare un passo di Cicerone, dall'orazione In C. Visonem. Pisone è accusato di un governo corrotto nella provincia di Macedonia e di essere reditus, ritornato dalla provincia, non degno della sua carica. Lucius Calpurnius Piso Caesoninus è un caso emblematico perché era di famiglia mista; suo padre Calpurnius infatti sposò la figlia di un celta romanizzato, un Calventius della gens dei Calventii, ed ebbe una splendida carriera: fu console nel 51 a.C, censore nel 50 a.C. e genero di Cesare. Cicerone avanza delle accuse pesanti, anche a sfondo razzista, sebbene attenuate. Ed è interessante che i l genero di Cicerone, che sposò sua figlia Tullia, era Lucius Calpurnius Piso Frugi, di un altro ramo della stessa gens. Dice difatti subito, all'inizio dell'orazione: Nessuno si lamenta se non so qual siriano provenendo da un gregge di nuovi schiavi è diventato console [e mostra Papertura ideologica della società romana]; infatti non ci ingannarono questo colore da schiavo 104

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BARBAROLOGIA ROMANA

[servilis], non queste guance pelose [pilosae genaé], non i suoi denti putridi, gli occhi, i sopraccigli, la fronte, il volto tutto infine, che è in qualche modo espressione tacita della mente, questo portò gli uomini all'inganno, questo ingannò coloro cui era ignoto. In pochi abbiamo conosciuto questi tuoi vizi [tua lutulenta vitid], in pochi la tardezza d'ingegno, la debolezza del linguaggio [...]. In una forma retorica di preterizione in realtà c'è già una condanna, un mettere in ridicolo le caratteristiche fisiologiche, fisiognomiche, del personaggio (color servilis, pilosae genae, dentes putridi ecc.); si vuol suscitare disprezzo per i l personaggio («non guardo a questo, ma lo dico»): Il tuo arrivo insozzò [foedavit] in verità la stessa Roma, o tu che sei il disonore, per il modo in cui sei ritornato, non dirò della famiglia Calpurnia, ma della Calvenzia, e né di questa città [Roma] ma del municipium di Piacenza, né del tuo genere paterno ma della tua discendenza bracata. Cicerone inserisce un elemento distintivo tra un civis romano (di Roma) e i ranghi inferiori. Infatti dice: non dirò che tu sei i l disonore della gens Calpurnia, grande gens romana, ma addirittura della gens Calventia, gens italica, Galli, quindi in qualche modo inferiori; non di questa città, ma del municipio di Piacenza; non della tua discendenza romana, paterna, Calpurnia, ma addirittura delle tue discendenze bracatae (i Galli portavano le bracae e per questo erano stigmatizzati dai Romani), quindi offendi non solo la toga romana ma addirittura qualcosa di inferiore, le brache dei Celti. Qui è sottinteso elegantemente che all'interno dell'ideologia della integrazione nel mos romanus anche Cicerone, che pur è imparentato con un ramo di questa famiglia, disprezza i l diverso, l'altro. Cicerone è politicamente aperto, ma quelli che da poco si sono inseriti nella società romana sono ancora ritenuti diversi. Le parole di Cicerone offrono in qualche modo uno spaccato su come le élites galliche siano state integrate e omologate entro la società romana pur persistendo una percezione, quasi a livello di senso comune, della loro diversità. Percezione che durerà a lungo se ancora nel iv secolo d.C. gli imperatori Arcadio e Onorio emaneranno un editto per interdire a chiunque di girare per Roma e Costantinopoli vestiti con calzoni (bracati), secondo quella che era la più antica usanza dei cisalpini (Cod. Theod. xiv, x, 2-3).

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Tre forme deireconomia

La Cisalpina si inserisce nel quadro di un'economia che potremmo chiamare "sottosviluppata", complessivamente, a livello imperiale. Si rivela sottosviluppata sia rispetto alle potenzialità produttive, cioè riguardo alle risorse disponibili, sia rispetto alle tecnologie produttive esistenti che non venivano applicate alle produzioni (il mulino ad acqua era conosciuto ma non aveva un impiego molto diffuso). Inoltre, si può considerare un'economia "sottosviluppata" anche rispetto al capitalismo. E questa una comparazione astratta che risulta utile però per definire le differenze specifiche tra formazioni economiche diverse, quella dell'impero romano, cioè, e quella propria dei secoli x v m e xix e serve a porre tali tipi di economie, in scala, su una linea storica che corrisponde a quella dell'evoluzione economica e il cui valore è la produttività. I limiti di questo sviluppo sono definiti, in termini schematici ma utili, da Goldsmith, che elabora alcuni dati macroeconomici fondandoli su cifre del mondo antico che, seppur approssimative, sono utili per elaborare un'immagine dell'economia romana. I dati fondamentali sono sette: 1. I l prodotto nazionale prò capite (quanto ogni persona produce in un anno) è valutato intorno ai 350-400 sesterzi (sesterzio = moneta che corrisponde a un quarto di denario d'argento) pari a uno stesso numero di dollari (siccome si ha un valore di 0,08 g d'oro per sesterzio e un prezzo dell'oro di 400 dollari l'oncia, ne discende che i l sesterzio e i l dollaro possono essere equiparati). 2. Se la popolazione dell'impero è calcolata sui 55 milioni di abitanti, basandosi su un prodotto medio di 375 sesterzi a testa si ha un prodotto nazionale complessivo uguale a 20 miliardi di sesterzi (uguale, cioè, a 20 miliardi di dollari). 107

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

3. La quota della produzione agricola, rispetto al prodotto nazionale complessivo, può essere valutata dei tre quinti e questo dato, che indica i l predominio agricolo, induce a pensare che non più della metà del prodotto nazionale entrasse a far parte dell'economia monetaria, nel senso che in questa predominante struttura contadina c'erano ampi settori, corrispondenti a circa la metà della popolazione, che vivevano in un regime di autosufficienza o di scambi in forma di baratto. Non più della metà erano, invece, i prodotti che entravano in un giro di scambio monetario. 4. L'equivalente in grano dei 375 sesterzi di prodotto nazionale prò capite, nel primo periodo dell'impero romano, corrisponde a circa 850 kg, quota che è poco meno della metà di quella dell'Inghilterra e del Galles nel 1688, degli USA nel 1820 ed è qualcosa di più della metà di quello dei Paesi sottosviluppati nel i960. 5. Nel mondo romano-imperiale c'è un tasso assai basso di accumulazione lorda del capitale (non superiore al 2 % ) . Ciò implica una mancanza quasi totale di accumulazione netta del capitale, che tendeva quasi allo zero. Dato che esisteva comunque un elemento positivo ed espansivo, perché ci risulta una grande diffusione, perlomeno dello stock di edifici pubblici, di infrastrutture pubbliche, di monumenti e di acquedotti, questo calcolo, al ribasso, della profittabilità del sistema economico romano viene contraddetto dalla grande espansione monumentale che è segno di una disponibilità di ricchezze per investimento quantitativamente non valutabile. 6. A questo punto Goldsmith affronta i l problema riguardante la velocità di circolazione della moneta complessiva e cioè della quota monetaria di 20 miliardi di sesterzi di PIL (la velocità di circolazione di una moneta corrisponde a quanto una moneta gira in un lasso di tempo definito. Se una moneta unica gira una volta al giorno, cioè 365 volte in un anno, si ha una massa monetaria di 365 monete e 365 scambi monetari. Se la stessa moneta gira dieci volte al giorno, la massa monetaria risulta costituita da 3.650 monete e si ha, quindi, un numero di scambi, sottesi, di 3.650). La velocità di circolazione della moneta fornisce i l dato reale della massa monetaria e quello nascosto della velocità degli scambi. E quindi un indice di grande rilievo. Secondo i calcoli del prodotto nazionale complessivo e della massa monetaria ricostruibile, la velocità di circolazione è calcola108

7-

TRE FORME DELL'ECONOMIA

bile tra 2,5-3 volte ed è paragonabile a quella che si ritrova in alcuni Paesi europei tra i l x v i e il x v n secolo. 7. I l campo della politica monetaria era ristretto per due motivi: a) la carenza della massa monetaria dovuta ai limiti dell'offerta derivanti dallo scarso out-put delle miniere d'argento, oro e rame dello Stato. Le miniere avevano scarsa produzione e quindi lo stock monetario restava circoscritto; anche in seguito ad altri fenomeni monetari come la tendenza a ritirare la moneta precedente dalla circolazione, per cui non venivano immesse nuove quantità di moneta ma si reimmettevano quantità sottratte alla massa monetaria: quando Nerone attivò la riforma monetaria, ritirò la moneta in circolazione abbassandone i l peso e mise in circolazione nuove monete a peso inferiore. Così anche se coniò ad alti ritmi, non incentivò la massa monetaria; b) non esistevano surrogati della moneta come, ad esempio, depositi bancari nella forma di conto corrente e assegni con girata. Esistono pochissime documentazioni di depositi bancari fruttuosi (alcune in ambito palestinese), del fatto, cioè, che i l banchiere potesse utilizzare le monete depositate per sue attività personali che gli permettessero di pagare gli interessi al depositante. Esisteva certamente l'ordine di pagamento su un deposito bancario, ma era una forma di pagamento di dimensioni notevolmente inferiori all'assegno perché non aumentava la massa monetaria e la sua velocità di circolazione, ma agevolava soltanto i l pagamento. In estrema sintesi la tabella in cui Goldsmith mette a confronto elementi del bilancio di Roma, espressi in multipli del PIL, fornisce una comparazione storica illuminante da cui si possono trarre almeno tre constatazioni (cfr. TAB. I ) : 1. I l valore dei terreni è tante volte superiore al valore del prodotto nazionale lordo: la ricchezza rimane cioè immobilizzata nei terreni, non è dinamica, non si trasfonde in un ciclo produttivo che la moltiplichi. 2. L'altro dato riguarda le attività tangibili riproducibili di Roma: esse sono inferiori a quelle degli altri Paesi ma non così drammaticamente. 3. Goldsmith elabora anche i rapporti di interrelazione finanziaria che sono le attività finanziarie divise per la ricchezza del Paese e che danno l'idea della dinamica di un'economia produttiva. Questo rapporto appare poco sviluppato a Roma, anzi è bassissimo se comparato a quello degli altri Paesi moderni citati nella tabella. 109

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

TABELLA I

Elementi del bilancio nazionale di Roma e di altri sei paesi espressi in multipli del prodotto nazionale lordo Roma

Inghilterra

USA

Francia

Germania

India

Giappone

1688

1805

1815

1850

1860

1885

3,5

1.2

3,5

4,3

0,8

2,9

1,0

i>9

2,9 0,2

1,4

0,2

1,1 0,0

5,i

0,2

0,2

0,9

3,4 0,0

3,i

6,3

14

Terreni Attività tangibili riproducibili Metallo per moneta Attività: tangibili finanziarie nazionali Rapporti di interrelazione finanziaria

d.C.

6,5

7,7 8,2

0,07

5,6

2,3

o,7

o,7

6,3

3,o

6,6 1,0 7,6

0,13

0,30

0,16

9,6 i,7

",3

0,18

0,5 3,6

0,23

i,9

8,2

0,30

Attraverso queste astrazioni macroeconomiche, Goldsmith giunge a fotografare un'economia relativamente "primitiva" o comunque relativamente "sottosviluppata", come stile economico generale dell'impero romano. Nel quadro più specifico dell'economia italica, si ha la netta impressione che i l nord e i l sud assumano un andamento a forbice in quanto esiste un "trend positivo" per i l nord e un "trend negativo" per i l sud. Del resto, le potenzialità di ricchezza dell'Italia settentrionale sono attestate da Strabone, da Polibio, da Catone e da altri autori in passi famosi. La Cisalpina è un territorio unificato dal Po, dai suoi affluenti navigabili e da una rete di strade che si articola per tutta la sua superficie mettendo in contatto i punti cardinali di questa regione con l'Europa. Ma a livello economico, emerge con una certa chiarezza che non ci troviamo di fronte a un sistema economico; piuttosto a un insieme di almeno tre sotto-sistemi: 1. Un'economia imperiale. 2. Un'economia regionale. 3. Delle economie locali. Sono tre sistemi economici che interagiscono l'uno con l'altro, anche se sostanzialmente definiscono dei propri ambiti di autono110

7.

TRE FORME DELL'ECONOMIA

mia. Sono più paralleli gli uni agli altri che non intersecabili gli uni con gli altri, anche se hanno aspetti e momenti di trasversalità negli scambi. Per quanto riguarda Peconomia imperiale, essa ha numerose aperture in tutte le direzioni geografiche. Verso Oriente, attraverso PAdriatico, ci sono scambi e contatti già in epoca più antica, tanto è vero che si è potuto parlare di grecità adriatica (Braccesi, 1971) cioè di uria serie di tradizioni, di contatti con i Micenei e i Greci che unificavano questa parte di Cisalpina rivolta all'Adriatico con POriente. Abbiamo visto che anche via terra dal iv secolo ci furono scambi molto complessi e prolungati tra Celto-Etruschi della Cisalpina fin con le regioni della Russia meridionale. E in epoca più recente, dopo la fondazione della colonia di Aquileia, la città diventa quel polo commerciale, artigianale e di grande produzione agricola che irradierà una serie di scambi sia a oriente sia verso nord. I collegamenti con i l nord sono soprattutto legati alla esportazione di anfore vinarie e olearie anche verso i l territorio della Germania e (più anticamente) a quei commerci (già in atto nella preistoria) di prodotti di grande prestigio per cui Pambra del Baltico arrivava alla Cisalpina, e particolarmente ad Aquileia, che poi la commercializzava, secondo quanto dice Strabone, fino alla Gran Bretagna, mentre lo stagno della Gran Bretagna giungeva in Cisalpina. I contatti occidentali erano sviluppati già in epoca greca (Marsiglia). G l i scambi iniziati dagli Etruschi proseguiranno in mòdo sempre più intenso in epoca romana quando a un certo punto si sentirà la necessità politica ed economica di istituire presso Aosta una mansio doganale (Cavargna-Fazio, 1989) per riscuotere i pedaggi delle merci che transitavano dall'ovest all'est e viceversa, cioè dell'interscambio tra Francia e Italia settentrionale. Questa dogana è significativa perché, insieme a tutta una serie di altri dazi che costellano i l mondo imperiale romano, rappresenta uno degli ingredienti essenziali, accanto a quello del peso dei costi dei trasporti, che determina la frantumazione del mercato imperiale in una serie di mercati conglomerati. Ci sono i collegamenti con i l sud e soprattutto con i l grande mercato di Roma capitale, verso cui la Cisalpina esporta prodotti tipici come prosciutti, o prodotti rari nelle aree laziali come i l legno, o prodotti di artigianato locale come i famosi tappeti di Pani

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

dova che secondo Strabone venivano esportati ovunque oltre che a Roma (Giardina, 1986). Qualcosa di più preciso sui percorsi di queste esportazioni può essere costituito dalle testimonianze ceramologiche, cioè dalle anfore sopravvissute, seppur in modo frammentario, fino ai giorni nostri e che sono tra le più importanti e rilevanti documentazioni di relazioni d'interscambio fra le popolazioni antiche. Già in epoca repubblicana, nel m secolo a.C, possiamo constatare importazioni di vino dall'Egeo (Baldacci, 1975), prevalentemente da Rodi, che doveva avere una funzione d'intermediazione commerciale, ma che probabilmente vendeva anche i l proprio vino che era di scarsa qualità (ma come tutti i vini di scarsa qualità era prodotto e commercializzato maggiormente). Nel corso del tempo assistiamo a un'evoluzione di queste interrelazioni commerciali e nel 11 secolo a.C. si osservano alcune interessanti testimonianze di importazione di ceramiche dal Lazio meridionale. Nel 1 secolo a.C. a Milano arrivano anche le olearie di Albenga e continua ad essere attestata l'importazione di vino dalla Campania. Tra i l 1 secolo a.C. e i l 1 secolo d.C. appare sui mercati cisalpini i l garum spagnolo (una salamoia di pesce contenuta in anfore e considerata un buon cibo) e continua ad essere sempre attestata l'importazione di vino greco che, sulla base di alcune documentazioni, si può anche ritenere fosse prodotto da Italici, probabilmente centro-meridionali, che avevano comprato delle tenute sulle rive dell'Egeo dove producevano vino che esportavano verso la Cisalpina (Baldacci, 1975). Successivamente, già dal 1 secolo a.C, ma soprattutto dalla fine del 1 secolo in poi, si diffondono in tutto i l mondo orientale le esportazioni di vino dell'Istria e in particolare di quello prodotto nel Veneto orientale; in epoca imperiale si assiste inoltre a una grandissima produzione, in Emilia, di vino e di anfore ove contenerlo, classificate come Lamboglia 4 e Dressel A6. Le località di produzione erano soprattutto Parma, Brisighella, Faenza e Cesena: da qui queste anfore compivano i l tragitto fino all'Adriatico del sud, doppiavano poi la penisola e risalivano con altre merci varie fino al nord. Queste anfore, prodotte in Emilia, sono massicciamente presenti a Roma (come dimostrano gli studi di Clementina Pannella sui rinvenimenti di cocci ceramici alle terme ostiensi del nuotatore). Sono documentate esportazioni di una 112

7.

TRE FORME DELL'ECONOMIA

certa consistenza di ceramiche di Forlimpopoli (Forum Popilii), città che utilizza Rimini come proprio porto. È un commercio che si serve di varie direttrici: una direttrice regionale, una direttrice interregionale con attestazioni ad Aquileia, Pompei, Ostia, Luni e un raggio di esportazioni internazionali (le coste della Jugoslavia, Fattuale Bengasi, Porto Torres, la Corsica, Leptis). Anche ad Ostia sono rimaste iscrizioni che attestano l'esistenza di un collegium di commercianti emiliani di navicularii maris Hadriatici. Un'altra iscrizione che proviene da Ostia è dedicata a un tal Lucius Scribonius Januarius definito negotianti vinario item naviculario curatoris corporis maris Hadriatici (CIL v i , 9682). È una figura interessante in quanto risulta essere un commerciante vinario, ma anche un navicularius e un curator, cioè i l presidente della corporazione dei naviculari del mare Adriatico. Le testimonianze attestate a Ostia di importazioni di anfore emiliane risultano tuttavia nel 111 secolo molto scarse se comparate alle contemporanee importazioni ostiensi provenienti dall'Egeo, dalla Francia e dalla Mauritania (il m secolo è i l momento in cui a Roma si assiste al boom delle importazioni africane). Anfore emiliane sono attestate anche nella villa di Settefinestre, a Cosa, nell'Etruria meridionale, ma appaiono in età più tarda; sono assenti, dice la Pannella, nelle stratigrafie di età traianea e appaiono in piccole percentuali rispetto alla totalità, circa P i % , a partire dal 11 secolo d.C. (Marco Aurelio e Commodo). Attestazioni di anfore emiliane e di Forlimpopoli sono presenti in particolare ad Aquileia. D i quelle di Forlimpopoli ci sono testimonianze a Bengasi e nella villa di Dionisio a Cnosso, dove cocci sono presenti negli strati del periodo della distruzione della villa (170180 d.C.) in percentuale ridotta rispetto al totale delle anfore (1%), ma in percentuale più consistente se consideriamo le anfore importate ( 8 % ) . I n questa stessa area geografica gli scavi americani dell'agorà di Atene, hanno portato alla luce un certo numero di esemplari di Forlimpopoli. Sorgono in realtà dei problemi. Uno in modo particolare: mentre infatti sono comprensibili le esportazioni marittime nelle zone limitrofe (Aquileia, Dalmazia), è molto più difficile spiegare questa diffusione di vino su vasta scala anche in aree geografiche così lontane (può trattarsi di una questione di gusto, può essere che questo vino di scarsa qualità e di basso costo avesse una capacità di penetrazione anche in quei mercati). Vi sono attestazioni letterarie (studiate da Tchernia) di un vino 113

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

di qualità chiamato Hadrianum, menzionato da Plinio, Galeno, Ateneo ecc., che però non fornisce attestazioni di ampia diffusione: sarà stato un vino di qualità e quindi prodotto in piccola quantità per strati sociali elevati, come i l Falernum. Un vino adriatico, anche se extracisalpino, chiamato Picenum è ancora attestato nel 301 d.C. nelYEdictum de maximis pretiis di Diocleziano. Gli scambi regionali, per quanto l i conosciamo, sono molto circoscritti. Esistono grandi fiere: Mantova, Modena (Campi Macri) e Cremona; alcune di esse, come quella dei Campi Macri, avevano una portata interregionale (Gabba, 1989). Ma in realtà vi erano pochi scambi regionali, costituiti, in genere, da merci rare presenti esclusivamente in un territorio. Per esempio: 1. I l botticino di Brescia non è utilizzato solo in zona; infatti gran parte delle costruzioni della città di Cremona sono in questa pietra. 2. I l marmo rosso o rosa di Verona ha diffusione anche extracisalpina (Mansuelli, 1973). 3. Alcune pietre attestate nel Pavese, i l marmo di Carrara, perfino i marmi greci, la trachite dei colli Euganei, la pietra del Carso, le pietre appenniniche e alpine potevano compiere lunghi tragitti, anche via terra, attraverso tutte le regioni settentrionali (Tozzi, Oxilia, 1981), mentre la pietra dTstria è largamente dominante (95%) tra le stele del basso bacino del Po (Mansuelli, 1973). 4. I marmi di Luni trasportati via terra fino a Velleia e Parma. 5. L'oro di Vercelli (dei Salassi) esaurito però già in epoca augustea. Elementi di relazioni interregionali possono essere trovati nelle tenute agricole. Già nel 1 secolo a.C. i Sasernae che ebbero probabilmente delle tenute nel Monferrato (zona di Dertona) hanno trattato (come già accennato alle pp. 24 e 96) nel De Re Rustica (Kolendo, 1973) di una tenuta agricola di tipo catoniano, prevalentemente incentrata sulla produzione di vino, che prevedeva uno smercio regionale del prodotto stesso (è storicamente rilevante che già tra II-I a.C. i l territorio sia stato riorganizzato secondo moduli agronomici romani). Abbiamo degli esponenti della gens degli Albucii (Scuderi, 1987), ricchi proprietari di Novara, che dovevano possedere una tenuta anche nel Pavese che si chiamava Albucianum, nome rimasto nella toponomastica pavese (il paese di Albizzano). Non si sa se anche i l toponomino Albizzate, nel Varesotto, sia legato a que114

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TRE FORME DELL'ECONOMIA

sta gens (sembra però difficile). Tra questi grandi proprietari si inseriva lo stesso imperatore con vaste tenute come quelle documentate dalla Tavola di Cles (Chisté, 1971). Un altro esempio prezioso di proprietà terriere insediate in Cisalpina facenti capo a proprietari terrieri che hanno tenute in altre parti d'Italia e che possono costituire un elemento di scambio o comunque di unificazione della proprietà fondiaria a livello interregionale sono le proprietà di Verginio Rufo, un insubre (è discusso se fosse nativo di Milano o di Como) che nel 69 d.C. per una mezza giornata fu proclamato imperatore dalle truppe in rivolta. Questi possedeva una tenuta a Besana Brianza dove esiste una famosa iscrizione in cui un certo Pilades, probabilmente un suo ex schiavo liberto, esprime dei voti per la salvezza di Verginio Rufo (incaricato di domare la sollevazione di Vindice contro Nerone). Nell'iscrizione, i l gestore della tenuta è definito saltuarius. I l termine saltus non è ben precisato, in genere indica una tenuta boschiva dedicata all'allevamento: questa invece era probabilmente un'articolata tenuta agricola, come risulta da alcuni contesti archeologici, poteva cioè configurarsi come una grande villa romana sulle colline della Brianza, addetta in parte all'allevamento e in parte alla coltivazione. Verginio Rufo aveva anche altre tenute: una villa nel Lazio, dove amava rifugiarsi, che costituisce esempio sicuramente non di scambi interregionali, ma di unificazione della proprietà fondiaria su scala italica al di là della Cisalpina. I l caso meglio documentato in questo senso è quello di Plinio i l Giovane. Plinio possedeva almeno sei case in quattro diverse parti d'Italia, con un patrimonio di almeno 16 milioni di sesterzi e principalmente due grandi tenute: una a Como, forse intorno a Cantù, senz'altro confinante (come risulta da una lettera) con quella di Vergino Rufo in Brianza e che poteva probabilmente arrivare fino al Lambro; l'altra, situata a Tifernum Tiberinum, in Umbria (con una rendita valutabile in 400.000 sesterzi all'anno) era composta da un complesso di fattorie che costellavano la tenuta (De Neeve, 1990).

Ancora più interessante è la documentazione costituita dalla Tavola di Veleia, un centro amministrativo con una sua basilica ancora parzialmente conservata (appena sopra Piacenza) dove l'imperatore Traiano aveva messo in atto la sua politica delle istituzioni alimentari che consisteva nel concedere crediti al 5% ai proprietari terrieri che avessero ipotecato un terzo delle loro pro115

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

prietà. Ciò ci permette di ricostruire l'entità approssimativa di queste tenute, che sono di estensione medio-grande e costituite senza unità territoriale (il territorio di Velleia era ampio, esteso tra Emilia, Liguria e Lombardia fino a Tortona). Ma l'aspetto più r i levante è i l tasso di interesse del 5%, solo leggermente inferiore a quello comunemente applicato in Italia (Duncan-Jones, 1982 ). Con i proventi di questi crediti i l governo avrebbe provveduto a istituire gli alimenta, strumenti per l'educazione prima dei fanciulli (poi anche delle fanciulle) romani della località. Questo tasso d'interesse contenuto, ma non molto, al di sotto di quanto attestato altrimenti, è interessante perché noi difficilmente possiamo immaginare un profitto agricolo superiore al 6-7%, con qualche isolata punta più alta. Quindi costoro prendevano a credito, essendo grandi proprietari, al 5%, e dovevano sperare di guadagnare mediamente, in un certo arco d'anni, sul 6 % . Correvano quindi grossi rischi (visto che i l profitto agricolo non è molto sicuro e non ha forti variazioni), per avere guadagni minimi senza contare che i l valore di terreni ipotecati calava sul mercato (Criniti, 1990, 1991; Lo Cascio, 1978). Davanti a questi dati non si può pensare a una politica imperiale, di Traiano, a favore dell'agricoltura, che incentivasse l'investimento agricolo, se i l profitto è aleatorio e prossimo al tasso di credito. Forse è una forma, tipica del mondo romano e pre-industriale in genere, di munificenza: costoro, i proprietari medio-ricchi, accettavano i l meccanismo di queste istituzioni alimentari, più per fini di munificenza, di dono liberale fatto alla società per l'educazione dei fanciulli, e non per trarne vantaggio. Se addirittura non si trattava di crediti forzosi e quindi fiscali. 2

In genere, in Cisalpina, notiamo che complessivamente nella gestione delle tenute sembra scarsa l'utilizzazione degli schiavi e questo, dal punto di vista economico, costituisce una relativa eccezione rispetto al quadro italico (dove è stata calcolata dal Beloch la presenza di due milioni di schiavi), ma anche un vantaggio: lo schiavo rappresenta un investimento che va incontro a grossi r i schi (nel mondo antico, non solo per gli schiavi, le morti precoci e le malattie erano molto frequenti), ad alti costi di mantenimento, cui si aggiungevano i costi della costrizione extra-economica (guardie che sorvegliassero questi schiavi), e al costo supplementare dovuto al fatto che con la vecchiaia lo schiavo non era più vendibile sul mercato e neppure si poteva più fruire del suo lavoro. Le tenute (come testimonia anche Plinio i l Giovane nella sua 116

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TRE FORME DELL'ECONOMIA

corrispondenza) erano gestite soprattutto da una serie di affittuari, il che comportava meno rischi, perché anche quando si procedeva a una ripartizione del prodotto (sul tipo della mezzadria: metà al padrone, metà all'affittuario), i l padrone si aggiudicava una rendita sicura e non correva alcun rischio, e in più, in una situazione di eccedenza demografica, se moriva un affittuario se ne trovava, senza costi addizionali, subito un altro. I n uno studio recente (Foxhall, 1990), condotto comparativamente anche su Paesi del Terzo Mondo che possono configurare situazioni simili a quelle dell'Italia romana, si è notato che la conduzione agricola per mezzo di affittuari poteva essere più produttiva di altre forme di lavoro, non solo di quella rappresentata dagli schiavi, che si scontrava con i l loro disinteresse ad aumentare la produttività, ma anche r i spetto alla gestione realizzata attraverso lavoratori salariati, assunti a giornata, che pure costituiscono un fenomeno di una certa consistenza nell'economia agraria romana e di tutto i l mondo (si pensi alla famosa parabola dei vignaiuoli nel Nuovo Testamento). A Velleia, che è un centro amministrativo, in un periodo che va dal 102 al 113 d.C. (sotto Traiano dunque), i proprietari terrieri che ricevono prestiti dal governo sono quarantasei. I l valore complessivo di queste tenute è valutabile in tredici milioni di sesterzi (un sesterzio = un quarto di denario). La tenuta più ampia ha i l valore di un milione e 600.000 sesterzi, la più piccola di 50.000. A fronte, c'è i l prezzo storico del terreno, variabilissimo, ma, con un'astrazione significativa, valutabile intorno ai mille sesterzi per iugero: quindi si può ipotizzare una tenuta amplissima di 1.600 iugeri (400 ht), accanto a una di cinquanta iugeri. La media dei crediti per tenuta è di circa 22.695 sesterzi (Duncan-Jones, 1982 ). Terzo elemento dell'economia cisalpina è l'economia locale, delle città (Bandelli, 1991). Città numerose (in epoca imperiale sorgeranno più di cento municipi, la maggior parte dei quali nel Nord Italia) di dimensioni e livelli demografici difficilmente valutabili poiché non basta misurarne i l perimetro: terreni coltivabili entravano fin dentro la città. Sulla base di calcoli attendibili Duncan-Jones calcola per una sola città della Cisalpina (Como) una popolazione valutabile tra i 18.900 e i 22.500 abitanti. Molto probabilmente una serie di altre città, da Milano ad Aquileia, potevano configurarsi poco oltre questa dimensione, che comunque è molto consistente. A prescindere dalle città imperiali, 2

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LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

capitali o centri provinciali, come Roma (un milione di abitanti), Alessandria (forse un milione di abitanti o poco meno) e Antiochia, Spoletium, in Umbria, per esempio, può essere valutata intorno a una popolazione di 23.000 abitanti e circa gli stessi doveva averne Pesaro. Abbiamo poi una serie di altre città di molto inferiori: Rudiae (Lecce) difficilmente superava i 2.000 abitanti, Corfinium difficilmente raggiungeva i 3.000. Le città di seconda categoria superavano quindi di poco la dimensione di Como. Ma in queste città notiamo un insieme di attività economiche di grande rilievo, tra cui innanzitutto un territorio fittamente coltivato, essendo l'agricoltura l'attività primaria della città e del suo territorio, attività che permette a queste città di mantenere una propria autonomia annonaria. Cosa che però non si verifica sempre: nel 11 secolo per esempio i l governatore delle Alpi Graie interviene in aiuto della città di Nizza che non era stata in grado di provvedere autonomamente al proprio approvvigionamento alimentare (CIL V, 7881).

Queste città sono articolate al proprio interno in una serie vastissima di settori che producono merci lavorate da artigiani spesso riuniti in collegia, corpora (forme corporative) che intrecciano scambi prevalentemente nel loro ambito locale (l'esempio più lampante è Milano-Como) o a livello regionale più ampio. Solo per merci preziose, di prestigio e rare, gli scambi hanno una dimensione interprovinciale o internazionale, comprendendo tra queste "merci" alcune figure professionali rare e particolarmente apprezzate: medici oculisti egiziani, che si trovavano in Cisalpina dove potevano essere ben pagati e apprezzati. Questi collegia hanno appunto una dimensione locale, al massimo regionale, tuttavia con qualche eccezione: sono epigraficamente ben attestati (nel Tardo Impero) i negotiatores (mercanti) di Milano, riuniti in un collegio, che intreccia relazioni e scambi in un'amplissima area che va da Lione, dove hanno anche un'altra loro sede, fino a tutta l'area danubiana. In genere, nel mondo antico, i l lavoro artigianale è un lavoro raro, qualificato, e occupa inevitabilmente uno spazio circoscritto nello spettro delle professioni e attività economiche. L'agricoltura poteva occupare dall'80% e oltre della forza lavoro. Non abbiamo dati precisi per la Cisalpina, ma R. Rémondon, ripreso in uno studio specifico delle borghesie municipali da J. P. Morel, effettua dei 118

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TRE FORME DELL'ECONOMIA

calcoli, condotti sulla base dell'abbondante documentazione papiracea egiziana, che possono essere estrapolagli, ma con molta cautela, anche per la Cisalpina. In un villaggio egiziano (ove i l lavoro artigianale richiedeva una notevole qualificazione) la popolazione artigianale rappresentava circa i l 9,5% della popolazione complessiva. Per questo, e per la sua rarità, si poteva dare i l caso, come per Crasso, di grandi "manager" che assoldavano gruppi notevoli di questi artigiani per poi subappaltarli e rivenderli, ottenendone un profitto. La qualificazione del lavoro emerge dal lavoro stesso ed è documentata da alcuni testi interessanti, come la ormai famosa Tegola di Pietrabbondante, i l cui testo è stato pubblicato nel 1976, databile negli anni della guerra sociale (primi decenni del 1 secolo a.C). Sulla tegola sono state trascritte (da due schiave, prima della cottura della tegola stessa) delle parodie di testi ufficiali, sia in latino che in osco, quasi a dimostrare la raffinatezza della cultura delle schiave. I n Egitto, per diventare tessitore, un ragazzo doveva seguire lunghi anni di apprendistato, e solo dopo questo poteva ottenere la qualifica di tessitore ed esercitare i l proprio mestiere. Anche per ciò, ovviamente, un certo tipo di manodopera era rara e quindi costosa (Morel, 1983). C'è un aneddoto, raccontato da Tito Livio (42, 3), secondo cui a Crotone, nel santuario di Hera Lacinia, erano state tolte delle coperture in marmo e non si riusciva più a rimetterle a posto perché non si trovava nei dintorni un operaio qualificato che fosse in grado di far ciò. A causa di questi fenomeni, anche se non possediamo dati, possiamo aprioristicamente affermare che esistevano forme di scambio ineguale tra città e campagna; tra la sede dell'artigianato (in genere gli artigiani lavorano in città, anche se esisteva un artigianato diffuso in campagna) e la sede del lavoro agricolo. Come in modo diseguale erano remunerate la forza-lavoro artigianale e quella agricola, allo stesso modo si dovevano scambiare i rispettivi prodotti (a prezzi maggiori quelli artigianali e a un prezzo inferiore quelli agricoli) e questo si traduceva inevitabilmente in una forma di sfruttamento della città sulla campagna. In Cisalpina conosciamo una miriade di mestieri artigianali che rappresentano una divisione del lavoro esasperata e per noi quasi incomprensibile. E una situazione comune in tutto i l mondo antico, anche nella 119

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città di Roma. Secondo una tabella elaborata dallo Chevallier, in tutta la Cisalpina abbiamo una documentazione di circa 150 mestieri diversi con una suddivisione estremamente dettagliata delle mansioni anche all'interno della stessa specializzazione. Un esempio: tra i lavoratori della lana non c'è solo i l lanarius generico, ma, articolati nello stesso ambito lavorativo, anche i l carminator, i l coactor, i l pectinator (forse uguale al pectinarius). Molti di questi mestieri sono aggregati in associazioni corporative: l'artigianato della lana istituisce proprie corporazioni in varie località; anche i l lavoro del causidicus (simile al nostro avvocato) è attestato a Milano in varie corporazioni; i l lavoro del centonarius, fabbricatore di vestiti di seconda categoria, è attestato in due corporazioni, sia a Rimini sia a Brixellum. Numerose sono le corporazioni di fabri, lavoro con funzione artigianale non ben definita, prevalentemente lavoratori del legno, ma anche lavoratori più diversificati. Infatti abbiamo indicazioni di specializzazioni sulla funzione del faber: faber lapidarius, faber navalis ecc. A Brescia conosciamo una corporazione di farmacopola (farmacisti), una corporazione di fullones, varie corporazioni di diverse specializzazioni di lavoratori lanari. Una corporazione anche di paedagogi. A Como una di scalari: fabbricanti di scale. I n un'iscrizione ritrovata ad Arsicate, vicino a Como, di materassai. I mestieri sono molto articolati: archiater (capo dei medici), architectus\ argentarius, (non tanto lavoratore dell'argento quanto piuttosto un cambia-valute); caligarius (che fabbrica scarpe); cocus. A Milano: un discipulus medici (un apprendista medico). Svariatissimi fabri. Praticamente ovunque figuli (lavoratori delle fornaci per le ceramiche). Un gramaticus latinus, (professore di latino), un iurisperitus\ un librarius a Ivrea e Piacenza; un machinarius (addetto forse a macchine idrauliche), un marmorarius\ una medica a Verona, medici dappertutto e talvolta specializzati (ocularius, veterinarius ecc.); una mima ad Aquileia; naucleri (trasportatori di merci via nave); nautae, entrambi sia in località marittime (Aquileia) che sui laghi (Brescia) o sui fiumi (Verona); negotiatores\ nummulari (cambia-valute); nutrix (nutrice); paedagogus; pantomimus\ piscator ad Este; pistor (panettiere); tonsor (forse barbiere); turarius (fabbricante di cuscini); venator (che può essere o un cacciatore o i l membro di una famiglia venatoria di un circo); vilici, vilicae... Troviamo attestazioni di tipo anche letterario per un artigianato tipico della Cisalpina che permetteva un'esportazione diversifi120

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TRE FORME DELL'ECONOMIA

cata dei prodotti: quello della lana. Orazio (Odi, m , 16, 35) parla di «pinguia veliera» della Gallia. Più diffusamente Strabone (Foraboschi, 1989) nel v libro si sofferma sulle lane cisalpine dicendo che quelle di Modena e della valle dello Scultenna forniscono una lana morbida di una qualità di gran lunga superiore a tutte le altre; più ..rustiche sono le lane liguri e della zona insubre intorno a Milano, mentre particolarmente pregiate sono quelle per produrre i lussuosi tappeti di Patavium (Padova). Plinio i l Vecchio (N.H., v i l i , 190) afferma che nessuna lana bianca è preferita a quella della Gallia circumpadana. Anche Marziale (vi, n , 7) accenna a queste lane dicendo «me pinguis Gallia vestit». Anche Giovenale (ix, 30) e Tertulliano (De Pallio, 111, 6) ci danno qualche notizia in merito. Letterariamente ed epigraficamente questo ampio e diffuso artigiananto della lana è attestato un po' dovunque. Le più importanti sedi sono a Bologna, nell'vm regio della suddivisione amministrativa di Augusto, e a Modena. È interessante per Modena un'attestazione epigrafica del 301 d.C: YEdictum de maximis pretiis di Diocleziano menziona una serie di tessuti lavorati a Modena (una «chlamys mutinensis duplex»; porpore e tessuti definiti «mutinense subsericum»: stoffe lavorate a Modena e create intrecciando seta e altri filati). Nella ix regio, attestazioni letterarie e lo stesso Marziale fanno conoscere la lavorazione della lana intorno a Dertona. Marziale ci parla di «Pollentinae lanae»: le lane di Poilenza. Silio Italico dice «fusci ferax Pollentia velli» (Pollenzia ricca di velli foschi, scuri). Nella x regio ampie sono le testimonianze: ad Aquileia esisteva anche un collegium vestariorum (fabbricanti di abiti); c'erano i purpurarii, lavoratori di tessuti lavorati di porpora. A Brescia varie documentazioni di lanari e lavoratori di questo t i po; a Padova sono attestate anche le tunicae patavinae e sia Varrone che Strabone che Plinio parlano della lavorazione della lana in tutta la regione degli Insubri e in particolare a Milano. Per quanto riguarda l'artigianato, alcuni prodotti sono conosciuti fuori dalla regione e quindi costituiscono un'economia di scambio interregionale, mentre YEdictum de maximis pretiis testimonia l'orizzonte internazionale dell'artigianato modenese. Però l'ampia diffusione in quasi ogni città di questo grande numero di artigiani ancora una volta ci porta a confermare l'ipotesi che queste economie fossero essenzialmente locali. A parte alcuni prodotti, vivevano in una sorta di autosufficienza agricola e artigianale locale. 121

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

Complessivamente non sembra possibile individuare un'area economica unificata. Si presenta piuttosto una specie di mosaico di economie locali dove la città rende i l suo territorio ampiamente autosufficiente. Assistiamo a forme di micro economie racchiuse in se stesse e quindi senza aspetti di dipendenza strutturale dallo scambio esterno. Osserviamo così un conglomerato di mercati contigui che si relazionano parzialmente tra di loro, non dando vita, però, a un mercato unificato. Forme di interdipendenza a livello regionale si realizzano attorno allo scambio di alcuni prodotti rari (marmi, schiavi, sale ecc.), attorno ad alcuni mercati che storicamente si sono consolidati e specializzati come centri di scambio interregionale (Modena, Mantova, Cremona) in località collocate su comode vie di comunicazione, preferibilmente di acqua (Po e affluenti); anche se in ultima istanza va considerato che una quota relativamente esigua ma significativa di eccedenze produttive viene destinata all'acquisto di merci lontane, provenienti da tutta l'area del Mediterraneo, con cui la Cisalpina scambia i suoi prodotti più specializzati o le merci in grado di penetrare nei mercati più lontani (vino, maiali, tappeti, legname ecc.). Comunque la più alta domanda di questi prodotti è i l mercato mondiale di Roma che si pone come ombelico di un'economia mondiale (Foraboschi, 1989). Un elemento importante dell'economia di queste città sono le varie munificenze pubbliche e private che i cittadini più ricchi donano in forme diverse e per ragioni svariate alle città: costruzioni di opere pubbliche, donazioni di statue, fondazioni sepolcrali, fondazioni per mantenere biblioteche, sportulae (distribuzioni benefiche), finanziamenti di gare sportive, feste e riti religiosi, finanziamenti di bagni pubblici, summae honorariae (donazioni che coloro che occupavano le più alte cariche nelle magistrature locali erano tenuti a pagare per onorare i l proprio prestigio e segnalare la propria preminenza), pubbliche sovvenzioni e stanziamenti che venivano anche dalle varie corporazioni per fini diversi. Nei primi due secoli dell'impero, in Cisalpina per queste voci sono stanziati circa 14 milioni di sesterzi, vengono donate otto libre di oro (una libra romana = 327 grammi) e più di 500 libre d'argento in statue: cifre quindi di una certa consistenza se teniamo conto che sono r i cavate dai dati prevalentemente epigrafici, giunti fino a noi e che ci è restata solo una quantità ridotta di epigrafi. Per avere la cifra 122

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TRE FORME DELL'ECONOMIA

totale degli stanziamenti dovremmo moltiplicare i dati che abbiamo per un valore x che difficilmente cercheremmo di calcolare. Per avere un termine di paragone dell'entità di queste cifre bastano alcuni raffronti: 1. Sappiamo ad esempio che i l più ricco dei Romani era Narcisso, liberto dell'imperatore Claudio, di cui era diventato una sorta di ministro delle finanze, i l cui patrimonio può essere valutato a 400 milioni di sesterzi. 2. Per quanto riguarda i prezzi degli schiavi si oscilla da un massimo, per uno schiavo acculturato e professionalmente esperto (come uno schiavo medico), di 50.000 sesterzi, al valore di una schiava puella, giovane e non qualificata, che costava soltanto 600 sesterzi; da qui si può ipotizzare un prezzo medio degli schiavi intorno ai 1.000 sesterzi (per uno schiavo comune, un lavoratore agricolo). 3. Se valutiamo le quote censitane, cioè qual era la ricchezza che doveva possedere una persona per essere eleggibile alle massime cariche del senato locale, noi troviamo che sia a Milano che a Como questa cifra era fissata a 100.000 sesterzi. 4. Un modius di grano (circa 7 kg di grano) veniva valutato tra i quattro e i dodici sesterzi e permetteva di vivere a livelli superiori alla sopravvivenza per una quindicina di giorni (Duncan-Jones, 1982 ). 2

Secondo la ricostruzione fatta da Andreau in base all'analisi di 150 iscrizioni, nella Cisalpina, cioè nelle quattro regiones della suddivisione augustea dell'Italia (sono l'vin, la ix, la x e l'xi), le città interessate a distribuzioni pubbliche e private sono complessivamente ottanta, delle quali solo cinque con distribuzioni alimentari di tipo statale. Complessivamente la Cisalpina, rispetto al totale italico delle distribuzioni alimentari, si aggiudica una percentuale del 17%. Quote monetarie consistenti vengono quindi rimesse in circolo da ricchi cittadini privati, o dallo Stato stesso, a scopo munifico, di assistenza, di beneficenza e costituiscono di per se stesse un'economia di un certo spessore e sono un elemento importante di consolidamento sociale: anche attraverso queste forme la gerarchia sociale giustifica e ostenta i l proprio ruolo, attutendo le contraddizioni con chi invece non è all'altezza di sopperire a funzioni materiali essenziali come quella dell'alimentazione. 123

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

Insomma, se, sulla base di una «vergognosa assenza di cifre», si vuole tentare di definire un'immagine complessiva dell'economia cisalpina, sembra di potere individuare una dinamica sempre più positiva in seguito alla conquista romana (simmetricamente opposta è la situazione del Meridione), in un'economia solidamente ancorata alla propria autonomia, comunque aperta agli scambi interregionali e "internazionali", dove la ricchezza delle élites si ridistribuisce attraverso multiformi munificenze pubbliche e private, per edificare una società sostanzialmente solida, non povera di istituzioni civili, e vivacemente dinamica nell'affrontare novità e contraddizioni della storia.

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Sociologia storica della Cisalpina

La conquista romana scuote e omologa i l precedente ordinamento tribale con una radicalità che corrisponde a una rivoluzione antropologica. Lo stesso orizzonte spaziale della pianura Padana viene pesantemente mutato. La naturalità del paesaggio è ricreata entro la geometria della centuriazione che ridisegna le superfici secondo la razionalità squadrata di rette che si incrociano ortogonalmente (cardines e decumani) delimitando confini, strade, canali, servitù di passaggio con una tale funzionalità che le tracce sono leggibili ancora oggi sul territorio. La centuriazione è lo strumento fondamentale per organizzare la vita associata della nuova comunità quando questa viene a insediarsi su un territorio di nuova conquista. È cioè lo strumento di organizzazione, di " umanizzazione" dell'ambiente; predispone l'occupazione stabile di uno spazio nuovo che viene costituito sia creando centri urbani sia strutturando i l territorio e la campagna. Alla base di tutto questo processo vi è un'esigenza tecnico-politica: esigenza tecnica di predisporre le strutture per la possibile vita della comunità; esigenza politica di costituire le nervature del centro urbano dove la comunità possa abitare, gestirsi, organizzarsi (Gabba, 1972). I l problema centrale della centuriazione (Gabba, 1983) è quello di sistemare un assetto che sia complessivo ed organico tra città e territorio. Infatti quella che i gromatici considerano la ratio pulcherrima (cioè i l migliore sistema di organizzazione del territorio) è quel tipo di centuriazione in cui i l cardo e i l decumanus maximi nascono al centro della città stessa. I n funzione della geometrizzazione dell'ambiente si organizza socialmente anche i l territorio, nel senso che su di esso si insediano coloni già strutturati gerarchica125

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

mente al proprio interno secondo distribuzioni di terreno diversificate: ad Aquileia, si è visto, ci sono assegnazioni di terreni da 140-100-50 iugeri, per definire precisi ceti sociali. L'insediamento sul territorio (soprattutto per Aquileia) si caratterizza emblematicamente: i l centro è occupato dai detentori dei più grossi lotti di terra e lo spazio circostante da coloro che hanno i lotti di terra minori. Nel territorio permangono gli insediamenti degli indigeni, chiamati incolae o accolae dai Romani, che diventano funzionali alla nuova organizzazione agraria romana (Baldacci, 1986), nel senso che, presumibilmente, costituiscono la manodopera necessaria alla conduzione delle aziende agricole di maggiori dimensioni, che i proprietari non possono lavorare da soli: gli indigeni si possono chiaramente individuare come coloro che si sono stabiliti in zone marginali rispetto al nucleo originario dell'insediamento. C'è una differenza sostanziale tra la colonizzazione settentrionale e quella meridionale ove l'insediamento dei nuovi coloni e l'organizzazione dello spazio avviene su preesistenti stanziamenti magno-greci e su precedenti divisioni e limitazioni del territorio. A l nord, in Cisalpina, la situazione è completamente diversa. La colonizzazione è più libera perché vi è una larghissima disponibilità di terre (una situazione tipo Far-West), i l terreno è per lo più pianeggiante, ricco di acqua e molto fertile. Quindi, i fenomeni di insediamento e di centuriazione si sovrappongono a una natura quasi vergine, assecondandone i caratteri geo-fisici (pendii, fiumi ecc.). Lo scopo, da un punto di vista anche economico, è quello di ricreare al nord la tipica azienda agricola romana che originariamente si basava sull'autosufficienza, ma che già dal 11 secolo a.C. è un'unità agraria proiettata verso i mercati. Questa centuriaziorfe crea, però, dei problemi di tipo giuridico. I l problema di fondo: dentro le centurie devono coesistere lotti di terra assegnati a diversi coloni; i limites (confini) costituiscono i l sistema stradale e può succedere che alcuni di essi si trovino in proprietà private. Bisogna articolare quindi le cosiddette viae communes con le viae privatae, introducendo i l concetto di "servitù di passaggio": i limites che si trovano in proprietà private non sono totalmente proprietà privata e i possessori del terreno devono concedere i l passaggio ad altri quando ne hanno bisogno. Si tratta di «viae privatae quibus imposita est servitus ut ad agrum alterius ducant», oppure vie vicinales, «viae per quas omni126

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SOCIOLOGIA STORICA DELLA CISALPINA

bus commeare liceat». Giungendo a una nuova elaborazione giuridica, si può attuare un nuovo sistema viario che abbia una funzione pubblica. Proprio per questo viene emanata una legge (la lex Scribonia, collocabile nel l i secolo a.C.) che introduce l'usucapione (la norma per cui chi usa un terreno per un certo periodo di tempo ne diventa possessore). La legge definisce inoltre lo ius in re aliena, cioè forme di diritto su proprietà altrui e, quindi, definisce le servitù di passaggio per quanto riguarda gli iura itinerum e le servitù di uso per quanto riguarda gli iura aquarum (Capogrossi Colognesi, 1983).

L'esperienza della colonizzazione impone dunque ai Romani di ricreare le proprie categorie giuridico-politiche per organizzare in senso nuovo le proprie comunità lontane e inglobare in esse i popoli conquistati. Così, attorno alle comunità, si dispongono le tribù vinte che, nel processo storico, vengono assorbite e integrate. Poco rimane del vecchio ordine e forse nemmeno i l rimpianto: l'imperialismo romano in Italia appariva infatti come irresistibile forza di rinnovamento. Dopo la romanizzazione osserviamo una società gerarchica ma aperta, cioè non costituita da caste e ordini chiusi ma da divisioni sociali (Gara, 1991) piramidalmente collocate, attraverso cui si realizza una intensa mobilità. La struttura sociale è sì piramidale, ma con correnti ascensionali e discensionali che danno vita alla società stessa. Anche gli indigeni vengono integrati e promossi ai più alti livelli sociali, e quindi politico-culturali, in un quadro positivo che sostanzialmente possiamo ritenere di espansione economica (anche se i dati precisi ci mancano) che continuerà fino al tardo antico, quando Milano si qualificherà come una delle capitali dell'impero e, insieme ad altre città cisalpine come Pavia (Ticinum), Trieste e Aquileia, sarà significativamente sede di una zecca. Dopo le sconfitte e le deportazioni, l'integrazione dei Celti avviene senza tracce vistose di conflitti radicali rispetto ai Romani. Non che mancassero le occasioni di contraddizione e di contrasto, ma lo scontro non si configura mai come forma, ipotesi alternativa a un ordine dato, perché non si produce un orizzonte culturale diverso rispetto a quello nuovo portato dai Romani: non si costituisce i l conflitto come ipotesi reale e vivente nella società di negazione del sistema sociale (Luhman, 1990). 127

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

La società romana appare sufficientemente complessa e duttile per riuscire a integrare elementi diversi e ricomporli alPinterno della sua dinamica che non è unilaterale ma multiforme e variegata. Così la comunità celtica, compresi i Liguri, antichi Veneti e altri (cioè le comunità autoctone), si disintegra sotto l'impatto della romanizzazione che, dopo l'uso della violenza, sa dispiegare una rete articolata di possibilità di integrazione e anche di successo sociale, di ascesa verticale nella scala sociale. Anche per questi motivi essenziali un'identità celtica, che pure si era costituita attraverso millenni, non riemergerà più in Cisalpina. Si osservano permanenze e continuità in Gallia, in Irlanda, nella Britannia, nel Galles; ma fenomeni simili, viventi anche a livello folklorico, scompaiono quasi completamente dalla Cisalpina. Tuttavia, soprattutto nella fase di formazione del nuovo assetto politico, sociale e culturale romano, contraddizioni non mancarono: soprattutto quelle indotte dagli eventi politici e dalle fasi diverse della romanizzazione. E non furono insignificanti. Alcuni esempi: una lettera non del tutto chiara di Decimo Bruto a Cicerone (Ad familiares x i , 19, 3) in cui parla della situazione di Vicetia (Vicenza). Nella lettera, datata 43 a.C, Decimo Bruto afferma che i vicentini «me et Marcum Brutum praecipue observant»; e chiede a Cicerone che si dia da fare perché in senato i vicentini non debbano subire (pattare) ingiurie «vernarum causa». Aggiunge poi che i vicentini sono ottime persone, fedeli alla repubblica, mentre gli avversari sono un «genus hominum» rissoso «et inertissimum», inerte, pigro (oppure - altra lettura «incertissimum», volubilissimo). Come spiegare questa contraddizione tra i vernae, termine usato anche per gli schiavi nati in casa, ma qui indicante gli indigeni, e i vicentini, membri romani della colonia di Vicetia? Probabilmente (Gabba, 1983) gli indigeni, che erano sempre stati, per i secoli della romanizzazione, in condizione subordinata rispetto ai cittadini di Vicenza (diventata colonia latina con la legge di Pompeo Strabone dell'89), hanno ottenuto loro stessi, con la lex lulia (di Cesare) del 49, la cittadinanza romana, e sono quindi venuti a trovarsi in condizioni di equipollenza con quelli che erano più in alto nella scala sociale. Questa tendenza alla parità ha scombussolato i l precedente assetto di rapporti sociali, probabilmente anche riguardo alla proprietà della terra, creando delle difficoltà che si saranno presumibilmente polarizzate tra vicentini abitanti della 128

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SOCIOLOGIA STORICA DELLA CISALPINA

città, e gli indigeni, abitanti della campagna. I l verificarsi di questo conflitto che poi non lascia più tracce, che si ricompone, ma che è uno dei pochi conflitti che conosciamo, è sintomatico del disagio e della difficoltà obiettiva legata al passaggio delle tribù celtiche da un assetto socio-politico etrusco-celtico, quale doveva essere quello della zona, a un assetto configurato in termini di diritto romano. Difficoltà che si ripercuotono sugli stessi privilegiati che, perdendo una prerogativa, si vedono deprezzati nella scala sociale. E anche interessante questo tipo di attestazione perché può connettersi a una interpretazione, proposta da Heurgon, della i egloga di Virgilio, databile tra i l 47 e i l 40. Ci si domanda perché Titiro vada a Roma a ottenere la libertà. Heurgon ha supposto, con estrema prudenza, la sopravvivenza in area mantovana (la terra di Virgilio), di strutture sociali agrarie di tipo etrusco; quindi, i l problema della 1 egloga può essere interpretato come una contraddizione introdotta nel territorio quando, con la concessione della cittadinanza romana, nel 49 a.C, pochi anni prima della stesura dell'egloga, si passa da un ordine etrusco-celtico a un nuovo assetto delle proprietà, governato ormai pienamente dall'introduzione del diritto romano, che formò proprietà non più rispondenti a una tradizione di tipo tribale. Già nel 175 (Livio 41, 27, 3-4) a Padova erano scoppiati degli scontri tali da rendere necessaria la richiesta dell'intervento dell'esercito romano da parte del ceto dirigente della città per reprimere le ribellioni. In un passo di Cicerone (Pro Balbo, 32) si ricordano vari trattati (foedera) tra Romani e diverse tribù celtiche, trattati nei quali è espressamente proibito concedere cittadinanza romana ad appartenenti alle città alleate. I l significato del divieto fatto a queste popolazioni esprime probabilmente la volontà di evitare che un membro delle classi inferiori, conseguendo la cittadinanza romana, potesse acquisire una posizione e dei diritti non più subordinati e scalzare così i l ruolo delle élites che s'erano costituite. Ma un decreto di Emilio Paolo, datato 190-189 a.C, per punire gli Hastenses (abitanti di Asti), che avevano espresso divergenze nei confronti dei Romani, concede agli indigeni un insediamento paraurbano in un oppidum: in questo caso Roma punisce le élites entrate in contrasto liberando o gratificando i sottomessi (ILLRP, 514).

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Le popolazioni indigene possono aver attraversato un processo di romanizzazione ancora prima della lex Pomperà dell'89 e della lex lulia del 49 (quando acquisiscono la cittadinanza prima latina e poi romana) in quanto, militando dentro Pesercito romano, sulla base di precisi trattati stipulati, potevano ottenere, alla fine della milizia o della battaglia, una concessione di cittadinanza. Anche se le truppe indigene combattono dentro Pesercito romano mantenendo l'organizzazione tribale: sono guidate da principes di gruppi etnici. Ciò emerge particolarmente per le tribù della vai Trompia e della vai Sabbia ancora in età imperiale. Comunque la scelta politica di fondo, di Roma, fu sempre quella di privilegiare le élites superiori, di puntare a un rapporto d'amicizia e di accordo con esse perché queste, sconfitte militarmente ma ben trattate politicamente (quindi romanizzate), diventassero lo strumento fondamentale del dominio romano su tutta quanta la popolazione. L'ideologia della società romana divenne quindi l'autorappresentazione dei nuovi Celti e dei nuovi popoli conquistati. Infatti si dissolse, quasi completamente, i l legame di parentela che caratterizzava le antiche tribù, e s'impose una forma sociale di carattere romano dove i rapporti di tipo contrattuale assumevano un ruolo egemonico. Poche sopravvivenze religioso-culturali furono permanenti nel sostrato della storia oppure riemersero contaminate dall'osmosi con la religione e con la cultura classica. Nel 1 secolo a.C, l'epigrafe bilingue (latino-celtica) di Vercelli conserva un documento che è l'attestazione di istituzioni celtiche, viventi, dopo tanti anni di romanizzazione (Roda, 1985). Ecco i l testo in latino in traduzione: «Confine al campo che diede Akisio Argantocomatereco comune agli dei e agli uomini così come sono state le quattro pietre di confine» (si mettono quattro pietre di confine a delimitare un terreno comune agli dei e agli uomini). Sembra qui trattarsi di uno spazio pubblico riservato a culti celtici che sopravvivono all'interno del mondo romano. Altre attestazioni di sopravvivenze sono state rintracciate da S. Mazzarino, che prende in considerazione alcune iscrizioni del territorio veronese (ILS 6708-6705) relative al Pagus Arusnatium dove sopravvivono residui culturali etruschi malgrado la sovrapposizione e la penetrazione prima celtica e poi romana. Queste iscrizioni sono caratterizzate da una terminologia sacrale che attesta arcai130

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SOCIOLOGIA STORICA DELLA CISALPINA

che sopravvivenze. Si tratta della dedica di una Udisna Augusta, che per Mazzarino (1980) significa «tempio di Augusto» (il termine udisna viene collegato con la città di nome Udine). Tale dedica è fatta da Caius Octavius Capito che era patruus del pontifex sacrorum Raeticorum del pagus Arusnatium. Vudisna era in suolo privato. E quindi un'iniziativa non autorizzata dal senato locale; ma, sebbene costruita su territorio privato, diventa un tempio aperto a tutti: culti pre-gallici, pre-romani, etrusco-retici, nella loro autonomia, si romanizzano (come mostra l'associazione udisna e Augusta) e diventano segno di una romanizzazione che passa attraverso sopravvivenze antiche. Ancora più interessante è come Mazzarino interpreta i l carme 67 di Catullo. Catullo presenta le confessioni di una porta di casa (Ianua) nella città di Verona, confessioni riguardanti le vicende sentimentali di una donna. La poesia è come un dialogo fra un personaggio e una porta. A Verona tutti accusano la Ianua perché, dopo la morte del vecchio padrone, essa, diventata Ianua marita (porta maritale), ha consentito i l passaggio di adulteri venendo meno ai suoi doveri di buon servizio. La porta risponde che la città di Brescia poteva ben attestare la non verginità della signora quando fu tradita a lei perché era stata violata dal suocero mentre era ancora virgo. Mazzarino interpreta così: la signora si era sposata a Brescia e la Ianua di Verona era diventata maritale solo dopo che i l padre del marito era morto. Evidentemente i l matrimonio, agli occhi dei veronesi, ebbe inizio solo dopo la morte del padre del marito avvenuta in casa propria. Da questo momento il filius familias poteva entrare in casa col rango di pater familias. Per i bresciani, cenomani adoratori del dio Berginus, rimasti legati alle tradizioni celtiche, l'estrema autorità del pater familias faceva sì che anche in famiglie di diritto latino i l figlio accasato non fosse ancora considerato unito in matrimonio legittimo fino a quando i l pater era in vita. La moglie poteva restare in casa del pater ma doveva rimanere virgo fino alla morte di questi. Quando il figlio acquistò la capacità di esser pater familias, solo allora potè dunque contrarre un solenne matrimonio e la sua signora, divenuta uxor, fu creduta una virgo in quanto era passata a queste nozze senza un precedente legame. A Verona, dove era stata dedotta una colonia romana, una 131

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mentalità non più celtica non poteva ormai comprendere le primitive istituzioni di Brescia. L'interpretazione di Mazzarino se per alcuni non è la più convincente, è perlomeno la più suggestiva. Essa pone però un problema d'interpretazione: se i l figlio si può legalmente sposare solo dopo la morte del pater familias, come avviene la procreazione? Un' ipotesi è che i l rapporto procreativo-matrimoniale poteva, in casa del pater familias, avvenire anche prima della sua morte, e i figli erano legittimi; sotto la giurisdizione del pater familias (che nel loro caso era i l nonno). Lo stesso Catullo fornisce qualche elemento di delucidazione: alle linee 25-28, dopo aver raccontato l'oltraggio alla misera casa, cerca di dare una spiegazione che è una spia di una possibilità di procreazione prematrimoniale: «sive quod empia mens caeco flagrabat amore seu quod iners sterili semine natus erat et quaerendus homo unde foret nervosius illud quod posset zonam solvere virgineam» (si tenga presente che nei Carmina priapea l'organo sessuale è chiamato libidinosus nervus e si comprenderà i l senso di «nervosius illud». I n un lasso di tempo relativamente breve tutto un mondo muta radicalmenente sotto la spinta di processi di rinnovamento totalizzanti, anche se nel sostrato le persistenze celtiche si protraggono attraverso i secoli: ancora nel iv secolo d.C. sembra che nelle campagne attorno a Treviri si parlasse una lingua celtica (Mazzarino, 1957).

Se un segno di questo dinamismo è l'ampio spettro di professioni, fortemente differenziate al proprio interno, indicativo di un ruolo diffuso dell'artigiano nei numerosi centri urbani anche minori, nient'affatto pre-industriale ma quasi familiare, un segno di vivacità sociale a più alto livello è la quantità e la qualità di intellettuali provenienti dalla Cisalpina. Ne sono stati contati, tra i più famosi (tenendo presente che la produzione letteraria era molto più ampia rispetto a quello che è arrivato fino a noi), una trentina solo fino alla metà circa del 11 secolo d.C, cominciando dalla fine del 111 secolo a.C. (Chevallier, 1983). Essi portano nell'orizzonte letterario della Roma capitale toni e sfumature locali e specifiche conoscenze (la patavinatas che Augusto rinfacciava a Livio, elementi rintracciabili in Catullo), ma 132

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SOCIOLOGIA STORICA DELLA CISALPINA

trascendendoli in una dimensione cosmopolita. Un elenco selettivo può ricordare: - Cecilio Stazio, autore di commedie, forse di origine insubre, che nacque sul finire del m secolo a.C. e che morì nel 166 a.C; - Maccio Plauto, autore di commedie, nativo di Sarsina; - Cornelio Nepote, storico e biografo, forse nativo di Ticinum; - Tito Livio, storico, nativo di Padova; - Virgilio, nativo di Mantova; - Catullo, nato a Verona; - Ticida, un poeta minore del i secolo a.C. (rappresentante d'avanguardia del circolo dei poeti neoterici), d'origine cisalpina; - lo storico Tacito, nativo della Cisalpina (non se ne conosce però la precisa origo); - Fiacco, poeta del i secolo a.C. nativo di Padova; - Plinio i l Vecchio e suo nipote Plinio i l Giovane, i due grandi immigrati di Como, autori, i l primo, della più grande enciclopedia che ci sia giunta dal mondo romano, i l secondo, del Panegirico a Traiano e uomo politico che ci ha lasciato un epistolario di grande garbo letterario e di ancor maggiore interesse storico-documentario. Si tratta quindi di una società ricca, dinamica, ovviamente gerarchizzata, ma, come tutta la società romana, non in forme bloccate; dove gli ordines non erano caste, ma degli status mobili: una piramide con una sua vetta, ma non sclerotica, anzi aperta, nella quale dal vertice si poteva anche discendere (dinamica negativa) o in cui era possibile risalire dal basso. Alla sua sommità stanno i curatores civitatis, coloro che, rappresentando nei singoli municipia gli esponenti di maggior prestigio, capacità politica, ricchezza, hanno una delega, da parte dello stesso governo imperiale, alla cura soprattutto finanziaria dei problemi dei municipia e che rappresentano un trait d'union, una connessione tra la realtà locale e quella nazionale-imperiale. A volte si identificheranno con i patroni, protettori o "principi" delle città della Cisalpina che in epoca quasi tardo-antica (III-IV secolo) mantengono la funzione di salvaguardare e dirigere gli interessi delle società locali e di rappresentare questi interessi, di cui si fanno garanti, presso i l governo centrale. Anche ai livelli più alti della società le posizioni non sono statiche: se guardiamo alla realtà meglio conosciuta per ricchezza di documentazioni, quella di Aquileia (Bandelli, 1988), osserviamo 133

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che già in epoca repubblicana alcune famiglie altolocate spariscono dal quadro sociale. Dall'altra parte, invece, delle famiglie indigene si romanizzano e assurgono ai massimi onori, mentre la riuscita sociale e politica di alcune famiglie può essere tale da rendere possibile e anche inevitabile un loro trasferimento a Roma. Forse furono costoro ad abitare le case con mosaici, databili intorno al i secolo a.C, costruite con raffinato gusto ellenistico per "borghesi" locali che amavano i l lusso quotidiano. A livello locale l'organismo di massimo prestigio, espressione della vetta della piramide sociale, è i l senato municipale (curia) composto da un numero variabile di rappresentanti (decurioni) che va dai cento ai trenta membri, che continua a essere formato da ex magistrati. Come a Roma, coloro che erano stati magistrati per un anno avevano maturato i l titolo per l'ingresso nel senato, ma la lectio (cooptazione in senato) avveniva soltanto ogni cinque anni, per cui nel frattempo erano ammessi alle riunioni del senato con lo ius sententiae dicendae (diritto di parola). Erano stabiliti dei criteri fissi per l'ammissione in senato e l'età minima, praticamente in tutte le comunità, era di trenta anni (Laffi, 1983). Soprattutto fu stabilito che i senatori dovessero avere i l loro domicilio e una casa di proprietà all'interno della città o nei suoi immediati sobborghi, cosa che sottintende che i senatori dovevano esprimere un certo livello di ricchezza, per entrare in quel numero dei decurioni, così esclusivo che non tutti i figli delle più nobili famiglie potevano entrarvi (Laffi, 1983). I compiti del senato e dei magistrati erano ampi, fissati da una articolata legge (lex Rubria) o da una legge quadro (si veda, ad esempio, la Tabula Irnitana, lunga legge di una città nei pressi di Siviglia). Essi variavano, ma sostanzialmente affrontavano tutte le più grosse tematiche quali la gestione del suolo pubblico e delle acque, l'edilizia pubblica e privata, la concessione di privilegi e di onorificenze e via dicendo. Qui si esprimevano i più alti valori gerarchici delle società locali e da qui alcuni individui e famiglie vennero proiettati dall'arengo locale a quello romano, quello della politica su scala intercontinentale. I I più importante e famoso degli uomini della Cisalpina, che raggiunse la massima vetta e una grande rinomanza, è i l già precedentemente nominato (cfr. p. 115) Verginio Rufo, nel 1 secolo d.C. (abbiamo anche più tardi - m secolo - i l caso di Elvio Pertinace 134

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SOCIOLOGIA STORICA DELLA CISALPINA

nativo forse di Alba che divenne imperatore, per pochissimo tempo). Afferma Mazzarino (1983): Il cisalpino Verginius Rufus raggiunse il top del potere in epoca alto imperiale, non solo quello del potere economico, che del resto aveva già per via familiare in quanto sortiva da una famiglia di rango equestre e in quanto la Cisalpina costituiva l'area geografica economicamente più propulsiva all'interno dell'Italia, ma anche quello del potere politico. Infatti Verginio raggiunse il rango senatorio, fu eletto console per ben tre volte: nel 63 nel 69 e nel 97. L'iscrizione di valle Guidino, frazione di Besana Brianza, è posta dal sovraintendente della tenuta e dei pascoli boschivi di proprietà di Verginio Rufo, di nome Pylades, per la salvezza e la vittoria del proprietario. Poiché i l voto è stato concepito prima della guerra civile di Vindice contro Nerone, secondo Mazzarino (1983) Verginio non intraprende i l combattimento a nome dell'imperatore, nemmeno per se stesso, ma per la patria e la libertà. In un dialogo con lo storico M . Cluvio Rufo (HRR n , p. 114), onorato da Nerone, che rispettò anche nel più acceso clima antineroniano, Verginio sostiene di avere operato perché lui fosse libero di scrivere quello che gli piaceva (Plinio, Ep. ix, 19, 5-6) secondo un programma liberale che ispirò tutta la sua fortunata e un poco opportunista carriera. Questi atteggiamenti di realismo, idealismo e ambizione, che permisero a Verginio Rufo di mietere successi attraverso tre regimi politici, sono alla base della riuscita politica degli strati superiori della società cisalpina. Relativamente alle regioni dell'Italia settentrionale corrispondenti alla regio decima (Venezia-Istria), alla regio undicesima (transpadana) e alla regio nona (Liguria), si nota che per i primi secoli dell'impero si realizza uno dei più ampli reclutamenti senatori. I l periodo d'oro (Geza Alfòldi, 1982) del reclutamento senatorio di personaggi cisalpini comincia con Claudio Nerone e s'intensifica agli inizi del 11 secolo, mentre verso i l 193 l'aristocrazia cisalpina perde la sua influenza poiché subentra un numero sempre maggiore di famiglie provenienti dall'Africa e dall'Asia. Dalle regiones cisalpine arrivano in senato ben 300 senatori. Le località che maggiormente inviano senatori sono Verona (43), Brescia (39), 135

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Milano (23) e l'Emilia (15): dati che confermano un'influenza continuata nei due secoli dell'aristocrazia cisalpina. Nella gerarchia sociale si trovano magistrature di basso rango: i seviri e gli augustales. Sono spesso magistrature ricoperte da liberti oltre che da ingenui (coloro che da alcune generazioni sono ormai liberi cives). I l fatto che anche i liberti possano ricoprire magistrature è segno di una riuscita economica tradotta subito in un primo riconoscimento socio-politico: pur ricoprendo basse cariche, i liberti s'inseriscono in quel processo di scalata sociale che si dischiude anche davanti a loro. A l sud i liberti che ricoprono cariche di seviri e augustales sono molto pochi. Ciò può significare che, essendoci una crisi economica, minori sono i fenomeni di liberazione degli schiavi e minori sono le possibilità, per i liberti, di raggiungere queste cariche. Invece per alcune città dell'Italia settentrionale, tali cariche svolgono una funzione di seminarium della classe di governo (a Brescia questo non succede perché esiste una ricca economia e una solidità sociale per cui le cariche sono tutte occupate e non c'è spazio per altri personaggi in ascesa - Mollo, in corso di stampa). A l di sotto dei liberti che occupano le cariche minori, esiste i l grosso della popolazione poco conosciuta (identificata quasi con gli schiavi) costituita da quei residui di popolazioni locali (Celti, Veneti ecc.) che non si sono integrati dentro le forme e i processi della romanizzazione. Probabilmente questi incolae si erano marginalmente stanziati su appezzamenti di terreno, topograficamente rilevabili ancor oggi, secondo conduzioni agrarie di tipo autosufficiente. Oppure potevano lavorare sui terreni della Cisalpina di proprietà demaniale: tali dovevano essere i possessi di città centro-italiche come Arpino e Atella in Cisalpina (Cic. Ad familiares 13, n , 17) e i «saltus galliani qui cognominantur aquinates» di cui parla Plinio (N.H. m , 116). Ma con l'ottenimento della cittadinanza italica ad opera di Cesare anche questi strati infimi poterono organizzare propri conciliabula, eleggendo propri magistrati sotto la giurisdizione di un procurator ad praedia galliana (Baldacci, 1986). Per concludere in qualche modo i l discorso sociologico è essenziale affrontare ancora almeno due argomenti: i l ruolo sociale e politico dei militari e la diffusione di culti orientali in Cisalpina, che avviene prevalentemente attraverso le esperienze dei militari in Oriente e tramite le forme di scambio commerciali che diffon136

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SOCIOLOGIA STORICA DELLA CISALPINA

dono anche influssi culturali: i culti orientali saranno infatti maggiormente presenti in città più commerciali, specie ad Aquileia che è appunto un nodo di traffici. Ciò che appare notevole per quanto riguarda i l primo aspetto - i militari e i l loro ruolo socio-politico - è lo strano intreccio esistente tra la funzione militare e quella politica: l'adempimento della prima può avvenire in contemporanea o anche in successione con l'adempimento della seconda. Quello che risulta più diffuso e maggiormente rilevante è che i militari, soprattutto al più alto livello (dal centurione in su), finita la carriera, quando rientrano nel loro municipium, possono assumere le magistrature più alte. Ad Aquileia troviamo un centurione che è anche aedilis designatus (la magistratura edile era una delle più alte magistrature). Sempre ad Aquileia vi è un caso interessantissimo: uri centurione figlio di un liberto di Augusto che è quattuorvir iure dicundo e che continua in contemporanea la sua carriera militare. E questo uno dei casi di ascesa sociale rapidissima: costui pur essendo figlio di un liberto fa una brillante carriera militare, diventa centurione e giunge a una massima magistratura in una città del rango di Aquileia. Altri casi ancora offrono ulteriori profili sociali: nelle vicinanze di Forum Livii, nei paesi di Salto e Fiumana, troviamo attestazioni di ufficiali militari che occupano anche magistrature di rilievo (Chevallier, 1983). I l fatto che queste testimonianze epigrafiche vengano da paesi vicino a Forlì potrebbe essere indizio di un interessamento da parte di questi soldati-magistrati nei confronti della campagna, quindi una spia dell'esistenza di ville o proprietà sulle colline vicine a Forlì. A Mevania troviamo un Lucius Atatius Memor Aponius Firmus che è tribuno militare, prefetto degli operai, quattuorvir iure dicundo (siamo alla fine del 1 secolo) pontefice e patrono del municipio: cariche religiose e militari si riuniscono quindi in una stessa figura. Casi simili si trovano a Padova, Parma, Verona. A Verona abbiamo un prefetto di coorte che diventa tribuno dei soldati e quattuorvir iure dicundo; un altro, che è tribuno dei soldati, quattuorvir iure dicundo e augure. Alle volte i l fenomeno è inverso: non è i l soldato che, tornato a casa, riveste cariche sacerdotali o politiche. I n un'iscrizione troviamo un veterano originario di Faventia (Faenza) che diventa duovir a Thuburnica, che è una colo137

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

nia in Tunisia: cioè i l soldato resta in loco e vi assume cariche prestigiose. Quando poi la fine del servizio militare si accompagna o alla distribuzione di terre o all'assegnazione di una congrua somma, con Yhonesta missio, si conoscono casi vari di militari che acquistano terre in paesi lontani e assumono ruoli di prestigio nelle province orientali (Chevallier, 1983). Attraverso i militari, ed è un fenomeno socio-culturale interessante, o tramite l'influsso di commercianti, o influenze minori di altro tipo, abbiamo un'ampia diffusione in Cisalpina, soprattutto in età imperiale, di culti orientali. Le divinità maggiormente diffuse sono egiziane o propriamente medio-orientali: Anubis, dio-cane egiziano; Arpocrate, dio-fanciullo, equiparabile all'Esculapio latino, dio della medicina; Iside, la grande divinità femminile egiziana, la Iside dai diecimila nomi; Osiris, i l suo sposo defunto, dio dei morti e anche della rinascita, quindi della produzione agricola; Serapis, dio ellenistico che fonde tradizioni greche ed egiziane; i l toro Apis; Dolichenus, epiteto di Iupiter (ed è interessante l'equiparazione tra Iupiter e Dolichenus, suprema divinità ittita che sopravvive in un paesotto sperduto dell'attuale Turchia, Doliche, oggi Teli - collina - Dùlùk); Mitra, dio solare; Attis; Cautes (figura difficilmente spiegabile del culto mitriaco); i l culto della luna; altri culti curiosi delle più varie provenienze, attestati soprattutto ad Aquileia. Citiamo solo alcune delle località in cui sono diffusi i culti principali: ad Albenga (Albingaunum), culti di Isis, la divinità più diffusa in Cisalpina, addirittura ad Aquamedra, paesino tra Mantova e Verona; ad Altinum culto di Isis, Mitra, Magna Mater Cibele (importato ufficialmente a Roma sulla fine del 111 secolo a.C); ad Angera culto di Isis, Mitra, Magna Mater, Sole, Cautes; ad Aquileia tutti i culti tranne Arpocrate e Osiris: Anubis, Isis, Serapis, Aeternus, Mitra, Magna Mater, Attis, Sole, Cautes, Luna, dio di Eliopolis (Egitto), Ammone, cavalli danubiani, Horus (Aquileia era i l terreno più atto ad attrarre questi culti). A Brescia: Isis, Dolichenus, Mitra, Magna Mater, Attis; anche in paesini sparsi come Pulciago (nel milanese): Mitra, Attis; in vai Camonica: Mitra, Magna Mater, Sole, Cautes; a Concordia (Portogruaro): Isis, Dolichenus, Mitra, Magna Mater, Attis. A Casale Monferrato, un Isalum, un tempietto dedicato a Isis e i l culto di Mitra. A M i lano: Mitra, Magna Mater, Attis, oracolo di Apis. 138

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Arpocrate è attestato di rado, nonostante la diffusione della medicina egiziana anche in Cisalpina; è testimoniato però a Padova dove ci sono anche Mitra e Magna Mater; a Pola: Isis, Mitra, Magna Mater, Attis, Sole, Luna, Ammone (equiparato a Zeus e quindi di facile diffusione). A Rimini un mosaico ci attesta la figura di Anubis, oltre a Isis, Dolichenus, Magna Mater; in Emilia, a Sarsina (Sassina), una statua di Anubis, Isis, una statua di Osiris, Sarapis, Mitra, Magna Mater. A Verona sono diffusissimi tutti questi culti, forse per la sua facile raggiungibilità per via terrestre e fluviale e per la sua disponibilità alle innovazioni, all'apertura culturale, e per l'assenza di forme di chiusura localistica; abbiamo attestati Anubis, Isis, Osiris, Sarapis, Dolichenus, Aeternus, Mitra, Magna Mater, Attis, Sole, Luna, Ammone (Chevallier, 1983). Anche dal punto di vista religioso in Cisalpina ci troviamo dunque di fronte una civiltà che muta moltissimo nel passaggio dal predominio etrusco a quello celtico e poi romano: tende a obliterare nel processo di romanizzazione le tradizioni culturali celtiche, sebbene a volte abbiamo permanenze addirittura etnische. Si romanizza radicalmente su scala imperiale e si apre ai misterici influssi orientali. Ma complessivamente tutto l'universo sociale si rinnova dalle radici. Se in un lasso di tempo relativamente breve mutano le usanze, l'etica, i l paesaggio e le modalità di accesso al possesso e all'uso del territorio, contemporaneamente si crea un nuovo sistema di collegamenti al suo interno attraverso un complesso viario che, come un reticolo funzionale, collega anche le località più lontane, così da ridurre gli spazi geografici e allargare gli orizzonti mentali. Si accresce la possibilità di comunicazioni, di scambi, di interrelazioni e interdipendenze. La stessa percezione dello spazio e delPambiente muta perché si dilata e arrichisce la mobilità geografica, la possibilità di uscire da ambiti chiusi di vita. Significativamente nel Medioevo, quando questo sistema viario che «andava in capo al mondo» si incrinerà, la gente comune percepirà queste strade come «opera magica del diavolo» (De Bon, 1941). I l sistema viario, che si irradiava da Roma, raggiungeva i l settentrione e collegava tutta la Cisalpina al proprio interno e, raccordando vie di lungo tragitto con vie secondarie, tutta l'Europa. 139

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Poco dopo la deduzione della colonia di Rimini venne costruita la via Flaminia che collegava Roma a Rimini, a tutto Pagro piceno e gallico in cui si erano insediati viritim molti coloni romani. La via principale all'interno del territorio cisalpino era la via Aemilia Lepidi che, costruita nel 187 sotto i l comando di Aemilius Lepidus, rappresentava un passaggio militare fondamentale con un valore strategico enorme in quanto tagliava a metà i l territorio dei Boi e arrivava a ridosso di quello dei Liguri (Tozzi, 1989). La via Flaminia Minor, fatta costruire da Flaminius Nepos intorno al 186, collegava i l Reno (emiliano) con Pistoia, Firenze e Arezzo. Esisteva un'altra via Aemilia che, fatta realizzare sempre da Aemilius Lepidus, era chiamata "seconda" o "altinate" in quanto passava per Altinum, e andava da Bologna a Ostiglia, Este, Padova, Quarto di Aitino, Concordia e Aquileia. Spina dorsale del sistema era la via costruita attorno al 148-147 a.C. sotto la guida di Postumius Albinus, detta Postumia, che tagliava tutta la Cisalpina: si snodava dall'Aurelia a Genova e raggiungeva le colonie al di là delle montagne, come Libarna e Dertona (attuali Serravalle e Tortona), Stradella, Piacenza, Cremona e, più oltre, le colonie di Verona, Vicenza, Oderzo, Concordia e Aquileia. Per una necessità funzionale di collegamento diretto tra Rimini e gli insediamenti nord-orientali, nel 132 venne fatta costruire, sotto l'impulso politico di Popillius Laenas, la via Popillia Annia che partiva da Rimini e raggiungeva Adria. Poi questa via venne prolungata e si ebbe così i l tratto chiamato Annia che arrivava fino ad Aquileia. Successivamente, in età imperiale, venne ulteriormente proseguita fino a raggiungere le zone dell'attuale Jugoslavia. All'interno di tale sistema viario romano c'erano vie minori, ma importanti per i l collegamento commerciale e militare; una di esse era la via Fulvia che venne costruita nel 125 sotto l'impulso del console graccano Fulvius Flaccus e che univa Dertona con Villa del Foro, Hasta (Asti), Pollenza e Torino. Nel 109 i l censore Marcus Aemilius Scaurus decise di prolungare la via Aurelia e di completarla così com'è oggi: la strada ebbe i l nome di via Aemilia Scauri e, riprendendo la via Aurelia in Toscana, si congiunse a Pisa, Genova, Vada Sabatia (Savona), Acqui Terme e Tortona. Verso la tarda repubblica si può cronologicamente collocare la costruzione di un tronco stradale che collegava Pavia a Milano, proseguendo poi per i laghi alpini; inoltre si attuò la costruzione di una via Pedemontana che metteva in colle140

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

gamento Verona, Brescia, Bergamo, Leucerae (forse Lecco), Forum Licinii e Como. Un'altra via Aurelia, costruita intorno al 75 d.C, collegava Padova ad Asolo. Tra i l 13-12 a.C. venne realizzata la via lulia Augusta occidentalis che partiva da Piacenza, coincideva con la via Postumia fino a Dertona, con la via Aemilia Scarni fino a Vada-Sabatia e poi procedeva per Albenga, Ventimiglia, La Turbie (presso Fréjus), Arles dove si collegava con la via Domizia, verso la Spagna. Nel 25 a.C. venne fondata la via Fulvia che partiva da Torino, procedeva lungo la riva sinistra del Po e raggiungeva Pavia, Duriae (Domo), Laumellum (Lomello) e procedeva per Cozzo, Susa, Monginevro e Brianqon. Un'altra strada importante partiva da Cutiae (attuale Cozzo) e raggiungeva Vercelli, Ivrea, Aosta e procedeva per i l Piccolo e i l Gran San Bernardo (FIG. 6). Verso i l Nord si rivelò importante una via che, partendo da Milano, arrivava a Como, Chiavenna, i l colle dello Spluga, Bregenz (nell'alta valle del Reno). La via Claudia Augusta Altinate, fatta costruire da Druso, partiva da Aitino e, seguendo i l percorso della vallata dell'Adige, giungeva a Trento, a Bolzano e penetrava nel territorio dei vandali Vindelici attraverso la Raetia. Esisteva un'altra via Claudia che da Modena andava a Ostiglia, Verona e, forse, raggiungeva Trento. Nel 3, Augusto traccia la via lulia orientalis che da Aquileia raggiungeva Tricesimo e penetrava nel Norico. Quindi, altre vie, da Trieste e dalle fonti del Timavo, penetravano nell'attuale Jugoslavia fino alla colonia "Lubiana". Nel 78 Vespasiano e Tito fecero prolungare questa via con un troncone di strada detto via Flavia che penetrava nell'Istria conquistata, allargando a Oriente le comunicazioni. Da questi assi portanti si snodavano, verso molteplici direzioni, strade minori, piste o semplici sentieri che mettevano in collegamento fra loro anche i più sperduti insediamenti.

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Municipalizzazione e urbanizzazione

La fondazione di colonie che fin dall'origine potevano contare, tra città e territorio, più di 20.000 abitanti come Piacenza e Cremona o insistevano su un'area geografica amplissima come Aquileia, è una scelta di urbanizzazione, appunto, che viene particolarmente e dinamicamente accentuata nel corso del 1 secolo a.C. I n due tappe diverse (prima nell'89 e poi nel 49) la Cisalpina ottiene lo ius Latti, i l diritto latino, e successivamente i l diritto di cittadinanza romana. Questo processo di ampio sconvolgimento giuridico sottende un dinamismo sociale e si accompagna a quel tratto caratteristico delle romanizzazione che è appunto l'urbanizzazione degli insediamenti: la tendenza cioè a superare uno stanziamento di t i po diffuso nella campagna, per raccordare le forme di insediamento intorno a strutture urbane, colonie e municipia, che offriranno alle élites i l privilegio di risiedere dentro città monumentali, spesso protette da mura, e qualificate dal vivere una cultura urbana che si differenzia qualitativamente da quella della campagna. Politicamente queste città godono di una relativa, ma non ristretta, autonomia (Tibiletti, 1978) di gestione politica: hanno i l proprio senato, i propri magistrati, possono emettere delle proprie leggi su determinati e ampi argomenti. Si è calcolato che nel 1 secolo a.C. e agli inizi dell'impero in Italia vengano costituiti più di 100 municipia, forse anche 150, che però vengono istituiti soprattutto al Nord, in Cisalpina, e al Nord hanno una caratteristica che l i differenzia rispetto alla realtà più diffusa al Sud. Nel Meridione si trattava spesso di organizzare in forma municipale complessi urbani preesistenti e magari arricchiti da nuove strutture monumentali, e inoltre la municipalizzazione fu quantitativamente inferiore. A l Nord invece fu quasi un processo ex nihilo: le città fino al 1 secolo a.C. erano delle colonie o alcuni 143

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

villaggi di fondazione celtica. Occorrevano quindi grandi investimenti pubblici e privati per dare un tono diverso alla vita sociale e politica. E prezioso un passo del De Architectura (libro i) di Vitruvio (che scrive in un periodo leggermente successivo) dove c'è un'ampia teorizzazione di come si costruisca una città. E una trattazione tecnico-scientifica, ma non astratta, e sottende reali problematiche politiche del tempo, cioè i l problema della fondazione di colonie e municipio, soprattutto nella Italia del nord e anche la ricostruzione delle opere pubbliche monumentali andate distrutte nelle sanguinose e devastanti guerre civili dell'ultimo periodo della repubblica. Secondo Vitruvio (i, 9-10) è centrale i l ruolo di un eminente personaggio locale per promuovere la nascita di un municipium, ottenendo dal senato imperiale i l necessario permesso. Tecnicamente inoltre è essenziale attuare opere di bonifica che rendano abitabili e salubri località paludose, come è successo ad Aitino, Ravenna ed Aquileia (Gabba, 1972; 1991). La riflessione di Vitruvio sembra i l sintomo del fervore di urbanizzazione del suo tempo e la citazione dei tre esempi cisalpini pare indicare i l luogo dove questo fenomeno era più appariscente, dopo un periodo che aveva visto opporsi distruttivamente Romani e alleati. A quel periodo corrisponde un disegno globale di riorganizzazione di tutta l'Italia che concretamente significa un processo di urbanizzazione di dimensioni inedite che sembra concludere positivamente i l precedente insediamento diffuso e tribale dentro forme dominanti di civiltà urbana, dove diverso è lo stile di vita individuale e collettivo, diverse le comodità e l'eleganza, più ampi gli spazi di scambio, comunicazione e socializzazione, superiore i l grado di civilizzazione (se non di cultura) rispetto al vivere rurale. Infatti vivere in un ambiente urbano significa in prima istanza, sul piano esistenziale-culturale, uno stile di vita dinamico, maggiore socializzazione e possibilità di divertimento rispetto alla vita in campagna e vita in spazi progettualmente organizzati. Sul piano sociale è la delimitazione di uno spazio per le élites: anche nel mondo antico gli abitanti della città si qualificavano come élites rispetto a quelli della campagna. Fruivano di condizioni di vita migliori e di opportunità di ascesa sociale maggiori, collegate a possibilità di accesso ai centri decisionali del potere locale, men144

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MUNICIPALIZZAZIONE E URBANIZZAZIONE

tre, di conseguenza, dentro la città si definiscono urbanisticamente i quartieri e le case più ricche e più sontuose. Urbanizzazione significa anche definizione architettonica di spazi di autonomia politica, relativa, ma non ristretta: i l ruolo dei senati locali è circoscritto rispetto a quello del senato della capitale, però nell'ambito del municipio o della colonia le disponibilità finanziarie vengono largamente utilizzate. Urbanizzazione vuol dire anche definire in modo nuovo i l rapporto città-campagna: l'insediamento non è più sparso nella campagna, l'orizzonte collettivo che tutto assorbe e comprende; si crea un polo preminente, la città, con attorno un proprio territorio cui la campagna fa riferimento. La dialettica città-campagna è quindi costruita su una serie di elementi di cui i principali sono produzione e mercati. Per quanto riguarda le produzioni alimentari è la campagna che si qualifica come luogo addirittura esclusivo, le cui eccedenze trovano un mercato soprattutto nella vicina città. I l rapporto è inverso per quanto riguarda l'artigianato che si insedia nella città e produce strumenti tecnici e oggetti, venduti anche agli abitanti della campagna, o attraverso venditori ambulanti, o tramite mercati e fiere nella città dove i contadini vengono a comperare quello di cui abbisognano. Dentro questo panorama si costruisce un rapporto di scambio tra produzione urbana e agricola, che avviene in genere sotto i l segno dello scambio ineguale, nel senso che i l prodotto artigianale gode di prezzi superiori, anche in rapporto alla quantità e alla qualità del lavoro, rispetto a quello agricolo: si intuiscono quindi forme di sfruttamento (non precisamente misurabili perché ci mancano le cifre per quanto riguarda i l mondo antico) da parte della città sulla campagna. La campagna appare come territorio della città, subordinato ad essa e alle sue esigenze, funzionale alla città. La città svolge un ruolo di predominio, evidente poi per la propria monumentalità e per i propri assetti urbani, che hanno almeno inizialmente una funzione di prestigio: vediamo le mura (anche in periodi in cui non c'era più nessun pericolo di guerra per l'Italia) che una serie di città costruiscono come segno di potenza, delimitazione tra spazio urbano e spazio agricolo, come aspetto del decoro che è un elemento qualificante e quotidianamente vissuto dello stile di vita cittadino. Successivamente, però, già nel i secolo in occasione di 1

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rivolte e guerre civili, ma soprattutto verso la fine del n secolo con Pinizio delle prime invasioni barbariche (Quadi e Marcomanni) diventano un elemento non solo di estetica urbanistica ma anche funzionale e di difesa. I n Cisalpina, in particolare, Purbanizzazione presenta aspetti imponenti che determinano la ristrutturazione di tutto i l territorio con la costituzione di decine di nuovi assetti urbani e la ridisegnazione del paesaggio agrario, che non è più Poriginaria naturalità, ma è costruito dall'uomo, disegnato dentro le forme della centuriazione che avvolge nelle sue maglie quadrate quasi tutte le zone pianeggianti della regione. Pare quasi di cogliere una forma di pianificazione nell'urbanizzazione del i secolo a.C: osserviamo una forte somiglianza tra l'impianto urbanistico di due città relativamente lontane come T i cinum (Pavia) e Verona (FIG. 7). Questo ci porta a ipotizzare in maniera fondata che esistesse un progetto su scala interregionale di pianificazione che coinvolgeva la Cisalpina e che significò anche la sistemazione idraulica del territorio (canalizzazioni, bonifiche ecc.) secondo linee così efficaci nell'intervento di sistemazione del territorio che lasciano tracce fino ai nostri giorni, che cioè mostrano di essere un intervento funzionale di "lunga durata". Un esempio, studiato da Tomaselli, è quello del territorio pavese e della Lomellina: i l primo fu ampiamente soggetto a centuriazione, i l secondo venne lasciato, almeno in buona parte, a libere aree boschive di pianura. E questo tipo di conformazione dura fino ai nostri giorni: si osservano ancora oggi boschi di pianura in Lomellina (Gabba, 1972). Si ipotizza l'esistenza di un gigantesco piano regolatore dell'intera regione, che richiese grossi interventi finanziari che vedono impegnati quasi in una gara sia i ricchi residenti che ostentano la propria munificenza sia l'intervento pubblico (cioè finanziariamente diretto da Roma), che determina lo sviluppo di attività artigianali con una produzione di tipo seriale, quasi manifatturiero, preindustriale. I n molte città mancano pietre adatte all'edificazione, si sviluppa allora ampiamente la manifattura dei laterizi, con tutte le conseguenze economiche e sociali immaginabili. Un punto di svolta che cronologicamente p u ò essere fissato è la lex Pompeia dell'89 a.C. che concedeva i l diritto latino alle comunità alleate della Transpadana (in alcuni casi anche a quelle della Cispadana) 146

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MUNICIPALIZZAZIONE E URBANIZZAZIONE

FIGURA 7

Verona: Porta Leoni

Assonometria restitutiva, dalla fronte settentrionale. Età cesariana.

Fonte: Denti (1991).

il cui aspetto giuridico-politico fondamentale è la creazione di colonie latine fittizie (nel senso che non comportavano l'insediamento di nuovi coloni) i cui magistrati potevano ottenere la cittadinanaza romana. Dopo questa legge notiamo incentivarsi i l fenomeno dell'urba147

LINEAMENTI DI STORIA DELLA CISALPINA ROMANA

nizzazione in forme diverse; nuova fondazione di colonie e rafforzamenti di fondazioni già esistenti. Possiamo citare Laus Pompeia (Lodi Vecchio) e Alba Pompeia (in Piemonte), fondazioni ex novo di Pompeo Strabone. Diverso è i l caso di Como, che come attesta Strabone (v, i , 6 ) era già stata luogo di un precedente insediamento aggredito da un'invasione dei Reti che fu riconsolidato con nuovi coloni successivamente, ad opera di uno Scipione e per iniziativa politica di Giulio Cesare. Interessante è i l caso di Laus Pompeia (Tozzi, Harari, 1987) perché su una porta antica di Laus era inserita un'epigrafe (CIL V, 6 3 5 8 ) che indicava come la costruzione fosse opera dell'imperatore Tiberio; esempio di come la finanza imperiale intervenisse a favore di queste città. Così Augusto costruì i bagni di Bologna (CIL XI, 7 2 0 ) e, con Tiberio, l'acquedotto di Brescia {CIL V, 4 3 0 7 ) . Ma i casi più significativi sono quelli di Ticinum e Verona. Gianfranco Tibiletti ha mostrato le strettissime analogie dell'impianto di queste due città, spia di una comune origine risalente a un unitario progetto urbanistico, concepito secondo un piano regionale dalla lex Pompeia che comprendeva assetti urbani e centuriazione della campagna. Diverso è i l caso di Brixia (Brescia), che sorge sul luogo di un precedente insediamento celtico, con una struttura urbanistica che risente chiaramente di influssi ellenistici databili forse non molto dopo P 8 9 . Rinnovamenti edilizi significativi e visibili vengono introdotti per opera di costruttori pubblici e privati in due città importanti, Patavium (Padova) e Vicetia (Vicenza). In Cispadana invece è interessante la situazione di Sàssina (attuale Sàrsina) in Emilia Romagna, che in età augustea apparteneva alla v i regio. Secondo gli studi di Susini, emerge un aspetto caratteristico di questo municipio: da qui abbiamo cinque iscrizioni di differenti collegi di magistrati che testimoniano la costruzione delle mura, databile tra i l 7 0 e i l 5 0 (che quindi impegnò per due decenni, con grande sforzo finanziario, la città) e collegabile all'impianto urbanistico di tipo ellenistico della città, spiegabile con probabili commerci orientali, di cui conosciamo poco i l contenuto, ma di cui abbiamo spie sostanzialmente sicure nell'abbondanza di nomi greci già in epoca repubblicana. L'ostentazione della sontuosità e magnificenza urbana, dell'agonismo nell'esibizione, in cui gareggiano poteri pubblici e muni148

9.

MUNICIPALIZZAZIONE E URBANIZZAZIONE

ficenze private, è un fenomeno che qualifica tutte queste città (Denti, 1991). Gli edifici e le costruzioni più significativi in Italia settentrionale sono i teatri di Bologna e di Verona, tra i l 11 e i l 1 secolo a.C, le ricche case ellenistiche di Aquileia; i tempietti, di età repubblicana sotto i l capitolium (di età Flavia) a Brescia, che sono caratterizzati da una decorazione di stile meridionale e modellati sulle forme dei tempietti centro-italici della fine del 11 secolo a.C I l foro qualifica quasi tutte queste città e anche i vari elementi architettonici (la curia, la basilica, i l teatro, i l macellum - mercato - , le terme, l'anfiteatro) appaiono segni tangibili della vita urbana, ciascuno con la propria funzionalità e la propria carica ideologica, proporzionale al decorum, alla commoditas, d&utilitas di ciascuno dei donatori e delle città, che hanno diverse possibilità di organizzazione e ostentazione urbanistica (Gros, Torelli, 1988). I l capitolium caratterizza solo poche città della Cisalpina, quelle che, grazie alla natura del terreno, hanno disponibilità di pietre, e che sono più ricche. È un'arx - originariamente - una rocca di difesa; lo spazio e i l simbolo della protezione della città, evolutosi poi in senso monumentale, diventando l'emblema della potenza della città stessa. Ve ne sono solo tre in Nord Italia: a Brixia, a Verona e a Tergeste (Trieste). Comunque, e in modo variegato, la civiltà urbana, edificata sulla sicurezza delle istituzioni e attraverso l'avventura di traffici e commerci dove è sempre più centrale i l ruolo della moneta, costituisce i l segno più vistoso di una romanizzazione che si proietta in forma di dominio funzionale sui più ampi spazi della campagna, dove i l paesaggio e i l lavoro agrario sono organizzati in modo subordinato e dipendente rispetto alla città.

149

Indicazioni bibliografiche

Vengono qui indicati, generalmente, solo gli studi citati nel testo. Per la Transpadana un'ampia bibliografia è stata raccolta da V. Vedaldi Iasbez, La problematica sulla romanizzazione della Transpadana negli studi timo quarantennio, in "Quaderni Giuliani di Storia", vi, i , 1985, pp. 747-

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