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Italian Pages 520 Year 1996
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MARCELLO CRAVERI
L'ERESIA Dagli gnostici a Lefebvre, il lato oscuro del cristianesimo
ARNOLDO MONDADORI EDITORE ISBN 88-04-39789-6 2996 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione marzo 1996
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Marcello Craveri L'ERESIA Dagli gnostici a Lefebvre, il lato oscuro del cristianesimo Introduzione CHE COSA È L'ERESIA. 1. IL TRAVAGLIO DEI PRIMI SECOLI TRA GIUDAISMO E PAGANESIMO. (SEC.III) Le eresie giudaizzanti. Lo gnosticismo. Il modalismo. Eresie disciplinari. Il manicheismo. DOCUMENTI. 1. Kérygma Pétrou. 2. L'eresia di Marcione. 3. Il Vangelo di Tommaso (dei basilidiani). 4. Il Vangelo di Filippo (dei valentiniani). 5. Il Gesù "diverso" dei carpocraziani. 6. Montano e le sue profetesse. 7. Accuse di Ippolito di Roma a papa Callisto. 8. Fantastiche invenzioni di Epifanio sul manicheismo. II. LE ERESIE TRINITARIE E IL PROBLEMA DELLA SALVEZZA DURANTE IL PERIODO BIZANTINO (SEC. IV-VIII). Ario e l'arianesimo. Il problema della salvezza. Nestorio, Eutiche, Acacio. La separazione delle due Chiese. DOCUMENTI. 1. La morte di Ario secondo il racconto di sant'Atanasio. 2. Gli editti dell'imperatore Teodosio I. 3. La dottrina di Pelagio. 4. L'incarnazione secondo Nestorio. 5. Oriente e Occidente: oggi, come ieri. III. LA CONTESTAZIONE ALLA CHIESA FEUDALE (SEC. VIII-XII). La Chiesa dei barbari. Prime reazioni contro la corruzione della Chiesa. I patarini. Rifiuto della Chiesa e dei suoi dogmi. DOCUMENTI.
3 1. Lettera di Claudio sul culto delle immagini. 2. La leggenda di Gerberto d'Aurillac. 3.I chierici di Orléans. 4. San Bernardo contro Pietro Abelardo. 5. Historia calamitatum mearum. 6. Morte di Arnaldo da Brescia. IV. L'IDEALE DI UNA CHIESA DI PERFETTI NELL'ETÀ DEI COMUNI (SEC. XII-XIII). I catari egli albigesi. Pauperisti e apocalittici. La repressione violenta. DOCUMENTI. 1. I catari di Périgueux (1147). 2. Il Vangelo dei bogo, III (Libro di Giovanni evangelista). 3. Durand de Huesca. 4. Gioacchino da Fiore. 5. Distruzione di Béziers (1209). 6. Appello dei consoli di Carcassonne a Onorio IV. V. L'ATTESA DELL'ANTICRISTO E DEL REGNO DELLO SPIRITO SANTO (SEC. XIII-XIV). IL fanatismo dell'anno 1260. Spirituali e beghini. Un secolo di pianto e di vergogna. DOCUMENTI. 1. Flagellanti, boscaioli e saccati. 2. Gerardo Segarelli. 3.I begardi e la setta del Libero Spirito. 4. La fine degli apostolici. 5. Processo ai templari. 6. I beghini di Lodève. 7. Il manuale dell'inquisitore. 8. I lollardi della diocesi di Lincoln. 9. Storia di fra Michele minorità. VI. IL MITO DI UNA RELIGIONE A MISURA D'UOMO (SEC. XV). La fratellanza hussita. Nuovi moti penitenziali, pauperistici e apocalittici. La scoperta della natura come "regnum hominis". DOCUMENTI.
4 1. Girolamo da Praga. 2. Gli articoli chiliastki di Tábor (1420). 3. Il processo a Giovanna d'Arco. 4. La falsa donazione di Costantino. VII. FRANAMENTO DELL'UNITÀ CATTOLICA CON LA RIFORMA PROTESTANTE (SEC. XV) Erasmus posuit ova, Lutherus eduxit pullos. Gli anabattisti. Calvinisti, ugonotti, anglicani. Evangelici, sociniani, antitrinitari e unitariani. DOCUMENTI. 1. Erasmo: la pazzia dei teologi. 2. La corruzione della Chiesa di Roma. 3. Gli articoli degli anabattisti dì Munster (1533). 4. La conversione di Menno Simonsz. 5. La notte di san Bartolomeo. 6. Gli articoli della Chiesa di Rakow. VIII. LA DIFFICILE LOTTA CONTRO L'OSCURANTISMO NELL'ETÀ DELLA CONTRORIFORMA (SEC. XVI-XVII) La Controriforma e i protestanti. Dalla magia alla scienza. Il non-conformismo nelle Chiese protestanti. La lotta contro il gesuitismo. DOCUMENTI. 1. Gli scopi e i risultati del Concilio di Trento. 2. Occorre celar le parti vergognose de le sacre figure. 3. Orrendo macello dei valdesi in Calabria. 4. Giordano Bruno: i mondi sono infiniti. 5. Dire che la terra gira è cosa pericolosa. 6. Abiuro la falsa opinione che il Sole sia centro del mondo. 7. Il processo di Anne Hutchinson dinanzi alla Corte generale di Boston. 8. La morale dei gesuiti. 9. Difesa della contemplazione quietista. IX. IL MITO ILLUMINISTA DI UNA RELIGIONE RAZIONALE (SEC. XVIIXVIII). ...e l'uomo creò Dio a sua immagine. Umanitarismo e religione. L'illuminismo in Europa.
5 La massoneria. 2. Gli inganni dei sacerdoti X. BORGHESIA E POPOLO DI FRONTE ALLA RELIGIONE NEL SECOLO DEL PROGRESSO TECNOLOGICO (SEC.XIX). Il dolore del secolo crudele. Sinistra e destra hegeliana. La questione sociale. Positivismo, evoluzionismo, socialismo. DOCUMENTI 1. l'illuminismo, morte della religione 2. Il nuovo cristianesimo sansimoniano 3. Le società segrete alleate di Satana 4. L'alienazione della religione 5. La perversa dottrina del comunismo 6. Le rivelazioni del libro di Mormon 7. Utilità della religione XI. L'EROSIONE DEL CRISTIANESIMO CONVENZIONALE (SEC XX). Americanismo e modernismo. Demitizzazione ed esistenzialismo. Contestazioni sociali ed etniche. Teologia della rivoluzione. La morte di Dio. Verso la fine del secolo XX. DOCUMENTI. 1. I Penitenti di Sangre de Cristos. 2. La crisi del cristianesimo. 3. Il dovere di ogni cristiano è di essere rivoluzionario. 4. La Jesus Revolution. 5. Lettera di monsignor Marcel Lefebvre. BIBLIOGRAFIA. INDICI. INDICE DEI NOMI. INDICE DEI DOCUMENTI. indici INDICE DEI CONCILI.
6 Introduzione CHE COSA E’ L’ERESIA Il vocabolo greco háiresis nel linguaggio corrente significava semplicemente "scelta": scelta di un oggetto piuttosto che di un altro, scelta di una strada da seguire, scelta di un'opinione o di una dottrina diversa da un'altra. Con questa ultima accezione, san Paolo è stato il primo a usare la parola "eresia" con riferimento alle verità di fede del cristianesimo, nella Prima Lettera ai Corinzi: "È necessario che vi siano anche delle eresie, affinché tra di voi si possano riconoscere quelli che sono di virtù provata". È già evidente un giudizio negativo: eresie, cioè interpretazioni del messaggio cristiano differenti da quelle insegnate da Paolo - che ritiene la propria dottrina l'unica esatta - e quindi da evitare. Dopo san Paolo tutti gli scrittori ecclesiastici useranno questo termine con lo stesso senso restrittivo: opinione, di un singolo o di una minoranza, discordante dall'ortodossia. In effetti, specialmente nei primi secoli, durante i quali la nuova religione si veniva elaborando, la dottrina che si rivela ortodossa non è altro, essa stessa, che il risultato di una scelta. A rigore, quindi, non si dovrebbe ancora parlare di eresia ma di "eterodossia", cioè di una dottrina diversa - comunque all'interno dell'idea cristiana - in concorrenza con quella di un altro gruppo di persone che aveva modo di imporre la propria scelta. Già alla fine del secolo II, Clemente Alessandrino riconosce ancora: "Di fronte alle confuse dispute per la definizione dei dogmi, non si riesce a capire quale di questi rappresenti esattamente la verità". Costituitasi però la Chiesa come istituzione gerarchica, depositaria riconosciuta del patrimonium fidei, l'eresia si configura come elemento disgregatore dell'unità religiosa, in rottura con la disciplina L'eresia ecclesiale. Prevale perciò il concetto che gli eretici non debbano soltanto essere evitati, ma puniti quali traditori. "Fuori della Chiesa non c'è salvezza" scrive Origene non molti anni dopo Clemente, e così definisce gli eretici: "Sono come Giuda: chiamano Gesù "Rabbi" e lo baciano, ma per tradirlo". All'inarca nello stesso tempo, l'apologista Tertulliano è del parere che, in analogia alle vigenti leggi civili dell'impero romano - le quali riconoscono legittimo proprietario di un terreno chi l'abbia coltivato per almeno due anni consecutivi, negando a chiunque altro il diritto di reclamarlo -, non si debba consentire agli eretici di esporre i propri argomenti,
7 essendo ormai la Chiesa legittima proprietaria delle Sacre Scritture, mentre l'eresia "è opera del demonio, uno dei tanti modi coi quali egli attacca la verità; è una bestemmia, prossima all'idolatria, e conduce all'eterna dannazione". Eppure, proprio in grazia dei poteri discrezionali della Chiesa, alcune dottrine, sostenute con la certezza di essere nel vero proprio da Origene e da Tertulliano, saranno a loro volta condannate come eretiche. Ciò dimostra che l'eresia non dipende dall'intenzione di chi la professa (o del demonio che la suggerisce), ma che la sua definizione come tale è soggetta all'incidenza negativa che essa può avere in un determinato momento sull'orientamento della Chiesa ufficiale. In genere, infatti, la letteratura ecclesiastica parlerà più spesso degli eretici che delle eresie, riunendoli anche sotto denominazioni arbitrarie perché, più che la natura dell'errore, preoccupa il danno che arrecano coloro che lo sostengono. Nel secolo XIII, la Summa theologiae di Tommaso d'Aquino definirà l'eresia "una forma 'infedeltà" che corrompe la dottrina e porta turbamento alle anime dei fedeli. Tommaso sostiene pertanto che gli eretici devono non solo essere scomunicati, ma uccisi. Si può concludere, dunque, che l'eresia si presenta, a giudizio degli eresiologi, negativa sotto tre aspetti: dottrinale: in quanto misconosce e corrompe alcune verità di fede; morale: in quanto travia i fedeli e li induce al peccato; disciplinare: in quanto disubbidisce all'autorità della Chiesa. Ma, in realtà, dal punto di vista dottrinale, la demarcazione tra ortodossia ed eresia non è mai netta e precisa. Il canone neotestamentario offre una molteplicità di confessioni. Esso è opera di uomini (san Paolo, i quattro evangelisti, gli autori degli Atti degli Apostoli, dell'Apocalisse, delle Lettere attribuite a Pietro, a Giacomo e a Giovanni) e ciascuno vi ha portato il contributo della propria esperienza religiosa. Ciò che costituisce la ricchezza del cristianesimo è la possibilità per ogni credente di trovare la soluzione che più appaghi i suoi bisogni spirituali: il valore preminente dell'incarnazione ("Cristo era un uomo come noi") o quello della risurrezione ("Cristo era un dio"); il problema della salvezza, che può essere gratuita, per il riscatto operato da Cristo, o conseguenza meritoria delle buone opere, quindi la scelta tra la fiducia nel perdono per tutti o l'impegno della responsabilità personale; l'invito dei Vangeli a non preoccuparsi per il domani e a vivere in povertà, o il perentorio comando di san Paolo: "Chi non lavora non mangi"; infine l'affermazione che la Chiesa è "ovunque siano due o tre uniti nel nome del Cristo" o l'investitura di Pietro e la costituzione di una gerarchia sacerdotale al di sopra della massa dei fedeli.
8 L'eresia è normalmente l'accentuazione di uno o più di tali argomenti, con prevalenza sul resto del messaggio. E la storia dimostra come ciò avvenga sempre in un momento in cui la Chiesa, attraverso la scelta di una particolare linea di condotta, mostra di trascurare quei contenuti stessi e di non adeguarsi ai bisogni spirituali dei credenti. Perciò, anche dal punto di vista morale, l'eresia non deve essere sempre condannata: vuol essere di monito alla Chiesa per ricondurla ai suoi retti doveri. Vi è quindi una sorta di equilibrio di compensazione tra l'ortodossia e l'eresia. È successo che talune dottrine, accolte in certi tempi come perfettamente ortodosse, siano state, in altri, rifiutate come eretiche. Questo è il caso, per esempio, della dottrina della grazia di sant'Agostino, la quale verrà scomunicata quando la sosterranno i giansenisti, perché si presenterà con intenzioni critiche alla pretesa della Chiesa di farsi arbitra esclusiva del giudizio di salvezza o di condanna dei fedeli. Altre volte vennero contemporaneamente considerate eretiche alcune dottrine e ortodosse altre che avevano identico contenuto. Per esempio, nel Trecento, l'usus pauper, praticato dagli eretici spirituali e dai fraticelli, che le masse popolari adoravano come santi, diversamente dalla povertà degli ordini mendicanti. Il motivo è che i primi, con la loro condotta, rinfacciavano alla Chiesa la corruzione mondana e l'eccessivo arricchimento, scandaloso in un periodo di grande miseria generale, mentre i secondi predicavano la rassegnazione alla povertà, ma restavano sottomessi all'autorità ecclesiale e da essa ottenevano la concessione di possedere beni patrimoniali. Bisogna seguire la storia dell'ortodossia, con i compromessi, i condizionamenti e le mediazioni a cui la Chiesa è dovuta addivenire L'eresia nel corso dei secoli per assicurare l'autonomia del proprio magistero, se si vuole avere in controluce anche la storia dell'eresia. Si può obiettare che gli eretici hanno dimostrato di non capire le esigenze di un'evoluzione dell'ortodossia e di una graduale secolarizzazione della Chiesa, in quanto anche organismo economico e politico, conservando essi un'anacronistica concezione di un cristianesimo puro come alle origini. Ma, in ogni caso, è stata sempre un'istanza religiosa che ha generato l'urto con la struttura e ha portato a metterla sotto processo. In questa battaglia gli eretici si sono presentati spesso come i paladini di minoranze di fedeli, talvolta anche assai numerose, le quali avevano l'impressione che la Chiesa avesse smarrito il senso della fratellanza, della difesa degli umili, della povertà e della purezza di costumi indicato dai Vangeli. La grande diffusione dei catari, nei secoli XII e XIII, non fu dovuta alla loro dottrina teologica, ma all'esempio che essi davano
9 di vera fratellanza e di rigorosa moralità. Da un punto di vista giuridico, l'abuso imperdonabile della Chiesa è stato quello di confondere ciò che poteva essere ritenuto un "errore" di interpretazione religiosa con un "reato", e di punire l'eresia come tale. Le scomuniche, le persecuzioni, le torture, i roghi, le stragi di intere popolazioni (come gli albigesi e i valdesi), con cui l'inquisizione ha infierito per secoli, senza contare gli ancora più numerosi "dissidenti" giustiziati in base a una generica accusa di magia e di stregoneria - accomunate nel concetto di eresia - non si spiegano soltanto come conseguenza di un drammatico conflitto tra autoritarismo e libertà di pensiero: sono anche il risultato di un'incomprensione da parte della Chiesa di quelle nuove esigenze spirituali, maturate col progresso della società, che gli eretici difendevano. Gli inquisitori hanno sempre accusato gli eresiarchi, cioè i promotori di eresie, di essere motivo di turbamento del gregge dei fedeli e di incitamento alla disubbidienza. In realtà essi erano i portavoce di un disagio diffuso tra gli stessi fedeli per il diverso concetto che questi avevano della funzione della religione, rispetto a quello della Chiesa, e per la delusione di non vedere esaudite le loro aspettative. L'eresia è quindi, quasi sempre, un fatto sociologico collettivo: il rispecchiamento di un'evoluzione a cui la Chiesa rifiuta di adeguarsi, persistendo nel riferirsi a un'assurda antropologia che considera la natura umana identica e immutabile - così come è stata creata da Dio - diversamente dalla scienza che dimostra un continuo variare Che cosa è 'eresia del comportamento umano a seconda dei nuovi rapporti che l'assetto della società impone. Sono questi, in definitiva, gli elementi costanti e comuni a ogni eresia. Elementi che permettono di tracciarne una storia seguendo un filo conduttore, e non di farne un semplice catalogo di errori, o di presunti errori, uno differente dall'altro.
10 1. IL TRAVAGLIO DEI PRIMI SECOLI TRA GIUDAISMO E PAGANESIMO. (SEC.III)
Le eresie giudaizzanti.
La storia del cristianesimo presenta fin dagli inizi una serie di gravi conflitti tra quella che si veniva faticosamente definendo come "ortodossia" e le varie interpretazioni devianti che ne costituivano l' "eresia". Il motivo sta nel fatto che la nuova religione, nata dal ceppo dell'ebraismo, con una dottrina morale basata sostanzialmente sulla Legge mosaica e un annuncio di salvezza che intendeva adattarsi alle attese tradizionali del messianismo davidico, passando dalla sua terra d'origine, la Palestina, alla cultura greco-romana, doveva soddisfare esigenze religiose di tipo diverso. Le testimonianze più antiche delle lacerazioni interne del cristianesimo si trovano già nelle Lettere di Paolo di Tarso e negli Atti degli Apostoli, durante i primi decenni dopo la morte di Gesù. Gli Atti degli Apostoli ci presentano il quadro della piccola comunità di Gerusalemme, raccolta attorno a Pietro e a Giacomo, uno dei fratelli di Gesù, in semplicità di vita, praticando la comunione dei beni e "spezzando il pane di casa in casa" in ricordo del maestro scomparso, nella trepidante attesa della parusia, la venuta definitiva del Messia, e l'attuazione del regno, mentre continuano a essere rispettate le consuetudini giudaiche, la frequenza al Tempio, l'osservanza delle prescrizioni della Legge di Mosè, la circoncisione eccetera. Il primo caso di comportamento eretico, stando agli Atti degli Apostoli, è l'infrazione di due neoconvertiti, un certo Anania e sua moglie Saffira, i quali, venduto un loro podere, anziché versarne il ricavato totalmente nella cassa comune ne trattengono una parte. Essi vengono espulsi dalla comunità, o forse giustiziati se si può in- L'eresia tendere fuori del linguaggio figurato ciò che dicono gli Atti: che furono "fulminati da Dio con la morte". Poco tempo dopo, verso l'anno 36 o 37, un gruppo di ellenisti - ossia di ebrei emigrati o loro parenti, i quali hanno fatto ritorno a Gerusalemme da città ellenistiche, e hanno aderito alla comunità cristiana, capeggiati da Stefano lamentano che "le loro vedove sono trascurate nella distribuzione dell'assistenza quotidiana". Stefano, poi, pronuncia un discorso decisamente eretico per la mentalità giudaica. È vero - egli dice - che Gesù aveva dichiarato di voler distruggere il Tempio, e aveva ben ragione. Il culto del Tempio, infatti, è idolatria; l'Eterno non ha mai
11 preteso di abitare in edifici fatti da mano d'uomo, e l'ha detto ben chiaro: "Il cielo è il mio trono e la terra è lo sgabello dei miei piedi". Quanto a Gesù, Stefano lo considera soltanto un profeta, simile a Mosè che lo aveva appunto preannunciato (At 7,37) e che per i suoi meriti è salito al cielo, "alla destra di Dio". Conseguenza immediata: scandalo dei sacerdoti del Tempio e lapidazione di Stefano. Ma gli ellenisti, espulsi da Gerusalemme dopo la sua morte, continuano a esporne il punto di vista, predicando in Fenicia, a Cipro, ad Antiochia. La Chiesa ha poi santificato Stefano, considerandolo il protomartire del cristianesimo, ma è evidente che il suo pensiero presenta un primo influsso delle concezioni religiose pagane, assorbite dagli ebrei nella diaspora: un dio universale, non come Jahve, divinità esclusiva del "popolo eletto", e Gesù un semidio, alla maniera degli esseri umani assunti da Giove in Olimpo per i loro meriti. La semplice fede della primitiva comunità cristiana verrà però ben presto scossa e modificata assai più profondamente dall'intervento di Paolo di Tarso, convertito verso l'anno 35 da un'improvvisa illuminazione lungo la strada per Damasco, e istruito al cristianesimo da un certo Anania. Paolo, senza aver mai conosciuto Gesù né gli apostoli, comincia a predicare per proprio conto anche ai gentili, cioè ai pagani, dando del cristianesimo una sua personale interpretazione. Introdotto da giovane nella nativa Tarso ai culti misterici, molto diffusi in tutto l'ambiente greco-orientale, Paolo considera Gesù, alla stregua degli dei-eroi venerati in questi culti, un semidio calato in terra per redimere l'umanità col proprio sacrificio. Questa interpretazione di Gesù non ha bisogno di fondarsi sul suo insegnamento e la sua attività terrena, ma si basa unicamente sul significato allegorico di "liberazione" dalle catene del peccato e della materia tramite la morte in croce e la risurrezione. La comunità di Gerusalemme, a quanto attestano gli Atti, tenta di opporsi all'eresia paolina. Ad Antiochia, dove Pietro e altri predicatori "venuti dalla Giudea" (At 15,1-2) sostengono ancora la necessità che i neoconvertiti dal paganesimo si facciano circoncidere e accettino di sottoporsi alle tradizioni religiose giudaiche, avviene un violento scontro con Paolo, che tratta da ipocriti Pietro e i suoi compagni. Nel 51 un Concilio tenutosi a Gerusalemme, tra Giacomo, Pietro, Giovanni e lo stesso Paolo (ma gli storici non sono tutti d'accordo nel riconoscerne l'autenticità) segna un compromesso tra le due diverse opinioni: gli apostoli di
12 Gesù concedono ai gentili di non circoncidersi ma chiedono che si prescriva loro di astenersi "dalle contaminazioni degli idoli [le carni delle vittime sacrificate agli dei pagani], dalla fornicazione e dal sangue degli animali". Tuttavia, le Lettere di Paolo, anche dopo il 51, continuano a documentare la sua irritazione verso i discepoli di Gesù. Nel 55, scrivendo a una comunità della Galazia, egli lamenta che i fedeli si siano lasciati persuadere da predicatori giudaizzanti a ritenere necessaria la circoncisione, e afferma che solo il suo è il "vero" Vangelo: "Ve l'ho già detto e ve lo ripeto ancora: se qualcuno vi predica un vangelo diverso dal mio, sia scomunicato!" (Ca 1,9). Le stesse cose egli dice in una Lettera ai Tessalonicesi, imponendo loro di allontanare dalla comunità gli eretici che non ubbidiscono a lui. Nel 56 Paolo accorre a Efeso per sconfessare l'operato di un certo Apollo (o Apollonio) che battezza con il "battesimo di penitenza" come Giovanni Battista, mostrando quindi di interpretare la salvezza quale conseguenza di un "mutamento di costumi" (metonimia) e perciò quale premio per i meriti ottenuti nella vita. Questo dissidio tra la prevalenza delle "opere" e la prevalenza della "fede" per il conseguimento della salvezza sarà sempre vivo anche in futuro e motivo frequente di contrasto tra la Chiesa, che ha accolto il punto di vista di Paolo, e gli eretici. Una lettera attribuita a Giacomo, fratello di Gesù e suo successore come capo della comunità di Gerusalemme, che si suppone scritta nell'anno 60, polemizza apertamente con la concezione della "salvezza" introdotta nel cristianesimo da Paolo: "Fratelli, che serve a uno dire di aver la fede, se non ne ha le opere? Lo potrà forse salvare la sola fede? Se un fratello o una sorella sono nudi e privi del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: "Andate in pace, riscaldatevi, nutritevi", senza dar loro il necessario per il corpo, a che giova? Così è della fede: se non ha le opere è morta in se stessa". (Gc 2,14-17) Altrettanto esplicito è il contrasto tra i giudeo-cristiani e Paolo nel L'eresia Kérygma Pétrou, un testo che Clemente Alessandrino alla fine del secolo II riteneva veramente scritto da san Pietro, nel quale si introduce una discussione tra questo apostolo e Paolo stesso, dove Pietro sostiene che l'essenza spirituale di Cristo non può essere vista da occhi umani e che quindi la pretesa apparizione di Gesù, dopo morto, a Paolo sulla via di Damasco è una menzogna, ed egli non ha diritto di chiamarsi apostolo. [Vedi Documenti n. 1.] Il Kérygma Pétrou appartiene alla letteratura cosiddetta giudeo-cristiana, perché espressione della fede dei nuclei giudaizzanti rimasti in Palestina e in Siria e ancora legati alla tradizione religiosa ebraica. Questi scritti verranno ben presto messi al bando come apocrifi dall'ala del cristianesimo ormai divenuto ellenistico. L'aggettivo "apocrifo" vuol dire "segreto", e nell'antica terminologia religiosa indicava i libri riservati agli adepti di una setta.
13 Di qui acquistò il valore di "non autentico", non conforme all'ortodossia, perciò eretico. La conoscenza che abbiamo degli scritti apocrifi giudeo-cristiani si riduce a poche e malsicure testimonianze contenute nelle opere di alcuni Padri della Chiesa, tuttavia sufficienti a darci l'impressione che i fedeli che se ne servivano conservassero il ricordo del Gesù originario, non ancora trasformato dalla teologia di Paolo, che essi, infatti, consideravano un apostata. Gli ebioniti, che Epifanio, ignorando le lingue semitiche, nel suo Panarion haeresium fa derivare da un inesistente eresiarca di nome Ebion, erano invece gli ebioriim, cioè "gli umili", "i poveri", con evidente riferimento non solo alla semplicità di vita monastica che essi conducevano (pare che fossero anche vegetariani), ma soprattutto allo spirito che animava la loro predicazione: una protesta contro le ingiustizie sociali e l'attesa di un radicale mutamento delle condizioni di vita, quale Gesù aveva promesso nel famoso discorso delle beatitudini. Per gli ebioniti Gesù era soltanto un uomo che aveva preso a cuore la causa dei miseri ed era stato investito da Jahve, all'atto del battesimo, di questa missione rivoluzionaria. I nazarei o nazareni (da nazir, "il separato") seguivano un'usanza che si fa risalire a Mosè: un voto perenne o temporaneo di astinenza e castità, portando, per tutto il periodo del voto, i capelli intonsi. Il loro nome corrispondeva all'epiteto dato a Gesù stesso, il Nazareno, che non deriva, come comunemente si crede, da Nazareth, inesistente a quei tempi, ma denuncia, anche da parte sua, l'osservanza di un uguale voto. I nazareni si servivano di un Vangelo di Matteo, scritto in aramaico, che la tradizione cattolica ritiene il prototipo dell'attuale Vangelo secondo Matteo. Ma è un equivoco, dovuto a una falsa testimonianza di san Gerolamo che si è vantato di aver tradotto il testo in greco e in latino, mentre dalle citazioni che ne fa (tutte di seconda mano) appare che il contenuto di tale Vangelo è ben lontano da quello del Matteo canonico. Anche gli elcasaiti, ai quali venne assegnato come fondatore un mitico Elcasai o Elxai di origine persiana, praticavano una stretta osservanza della Legge, ma già ammettevano la filiazione divina di Gesù. Altra comunità ascetica giudeo-cristiana, di cui l'Apocalisse denuncia la presenza in Efeso alla metà del secolo I, era quella dei nicolaiti, che gli eresiologi fanno risalire a un presunto diacono dei primi apostoli, di nome Nicola. Secondo la leggenda, costui, per controbattere il biasimo che gli veniva mosso di essere troppo geloso della moglie, avrebbe condotto la donna in mezzo agli amici, invitandola a scegliersi un amante. Ma è una strana distorsione della verità, con un'accusa infamante: metodo che purtroppo sarà poi spesso adottato
14 dagli eresiologi per mettere in cattiva luce gli eretici anche sotto il profilo morale. Eusebio di Cesarea chiarirà infatti, nel secolo IV, che Nicola ripudiò la moglie per una scelta di vita continente e pia, "non volendo servire a due padroni, cioè a Dio e alla voluttà", e aggiunge che "anche l'apostolo Mattia insegnava a contrariare la propria carne negandole il soddisfacimento delle sue brame". Oltre che con queste forme di giudaismo, le quali sminuivano la portata eccezionale dell'attività di Gesù, facendone semplicemente un modello di castità e di penitenza, il cristianesimo primitivo si trovò a dover lottare anche con altre espressioni religiose, competitive sullo stesso terreno delle credenze semitiche. La più importante fu, sempre nel secolo I, forse ancora viventi gli apostoli, la dottrina dualistica del mazdeismo della Media - che già in parte aveva influenzato l'ebraismo - con la credenza nella lotta tra un dio del bene, signore della luce (Ormuzd) e un dio del male (Ahriman), responsabile delle miserie e delle sofferenze dell'umanità: una lotta che sarebbe tuttavia terminata con la vittoria definitiva del dio del bene. Per poter combattere questa dottrina alla stregua di un'eresia, la tradizione cristiana - già fin dagli Atti degli Apostoli - ne attribuì la predicazione a un leggendario Simone mago, famoso in Samaria per le sue arti magiche, che si sarebbe però fatto battezzare dall'apostolo Filippo, divenendo quindi cristiano, e poi avrebbe cercato di acquistare dai discepoli di Gesù, per denaro, il potere di far miracoli: da cui il nome di "simonia" a ogni commercio di cose sacre e di cariche L'eresia religiose. Ma l'epiteto di "mago" che accompagna il suo nome dice chiaramente che in origine si voleva indicarlo come rappresentante della casta sacerdotale dei Medi, la stessa cui erano appartenuti i leggendari re magi, venuti a rendere omaggio a Gesù appena nato, o meglio a cercare il loro Sanshyat (Salvatore). Gli scrittori ecclesiastici si sono sbizzarriti a inventare su questo personaggio avvenimenti straordinari. Giustino, apologista del secolo II, dice che Simone, recatosi a Roma, "fu stimato un dio, e come tale onorato con l'erezione di una statua su cui era l'iscrizione latina Simoni Deo Sancto". In realtà si trattava della statua del dio sabino della Fedeltà, Semo Sanco Fidius, e l'epigrafe diceva appunto: Semoni Sanco Deo Fidio. Abbinando erroneamente la dottrina dualistica del mazdeismo, attribuita a Simone mago, a quella gnostica, che parlava di "emanazioni" maschili e femminili, a coppie, come strumenti della creazione da parte del dio del bene, digradanti fino all'oscurità e peccaminosità della materia, l'eresiologo Ireneo, pochi anni dopo Giustino, racconterà su Simone
15 mago questa incredibile storia: "Egli conduceva con sé una femmina, chiamata Elena o Selene, vale a dire Luna, che aveva comperato a Tiro, dove era una schiava prostituta. La chiamava "la prima concezione della sua mente", "la madre di tutte le cose", per mezzo della quale egli aveva fatto gli angeli e gli arcangeli, e diceva che essa poi era discesa quaggiù, generando le potestà che avevano fatto il mondo, e che queste avevano imprigionato per invidia la loro madre. Costei, poi, si era incarnata nella bella Elena, causa della guerra di Troia, e quindi, passando di corpo in corpo, era stata infine ridotta all'infamia di trovarsi esposta in un bordello. Essa era la pecora smarrita, per liberare la quale egli era principalmente venuto...". Un apocrifo di difficile datazione, intitolato Atti di Pietro, immagina uno scontro tra l'apostolo stesso e Simone mago, che a Roma meravigliava il pubblico e riscuoteva grande successo con le sue arti magiche: ma, esaudendo una preghiera di san Pietro, mentre Simone volava per i cieli di Roma, Cristo lo fece precipitare a terra e rompersi una gamba. Con Simone mago sono nominati anche due discepoli, continuatori della sua eresia: Menandro e Dositeo, il primo dei quali insegnò ad Antiochia, il secondo in Egitto, dove ancora nel secolo vi si trovavano suoi seguaci: i dositeani. Secondo Clemente Alessandrino, sia Simone che Dositeo avevano fatto parte della setta di Giovanni Battista, il che conferma l'opinione che ciò che insegnavano era un'interpretazione dell'escatologia, non entro il cristianesimo ma in concorrenza con esso. Anche dopo l'allontanamento del cristianesimo dal suo paese di origine, data la grande diffusione che nei primi tempi esso ebbe tra gli ebrei della diaspora, raggruppati nelle maggiori città dell'impero romano, non cessò il contrasto tra l'interpretazione giudaica del messaggio e quella paolina. Ma già agli inizi del secolo II, l'assimilazione delle credenze misteriche grecoorientali modificò persino la teologia di Paolo, il quale pure si era ispirato a esse. Soprattutto in alcuni centri, Smirne, Efeso, Antiochia, la passione e la risurrezione di Cristo venivano intese come un mistero di partecipazione al divino: un modello da imitare per chi volesse attingere la vita eterna. All'idea, fino allora ortodossa, di immortalità come continuazione dell'esistenza fisica, o comunque assunzione di un nuovo corpo, ora, per effetto della distinzione tra "anima" e "corpo", mediata dalla filosofia greca, si sostituiva il concetto che la carne fosse la prigione dell'anima e che soltanto questa sarebbe risorta. Ciò spiega la fanatica sete di martirio di molti cristiani, che è esemplarmente
16 espressa in una lettera attribuita a sant'Ignazio, mentre da Antiochia veniva condotto a Roma per essere esposto alle belve: "Io sono frumento di Dio, e sotto la macina dei denti delle belve voglio diventare pane immacolato di Cristo. Sarò vero discepolo del Cristo Gesù quando il mondo non vedrà più il mio corpo". In un'altra lettera, Ignazio condanna l'opinione secondo cui se Gesù Cristo era il Dio incarnato non può aver sofferto sulla croce come un qualunque essere umano: "Se Cristo, come dicono certi atei, vale a dire certi infedeli, non ha sofferto se non in apparenza, perché desidero io combattere contro le fiere? Se il Signore ha sofferto solo in apparenza, io pure sono incatenato solo in apparenza: e allora perché mi sono votato alle fiere?". Il distacco dal giudeo-cristianesimo era ormai quasi definitivo, e nei Vangeli, anche apocrifi, si faceva sempre più accentuata la tendenza ad addossare al popolo ebraico tutta la responsabilità della condanna di Gesù, per scagionare i romani, coi quali era necessario convivere. Anzi, si andavano assimilando molti elementi del paganesimo, per un naturale fenomeno di simbiosi: si trasformavano in campioni della fede eroi e semidei della mitologia greco-latina, si attribuivano a Gesù, a Maria e ai santi caratteristiche di divinità pagane. Quest'assimilazione durerà molto tempo, perché ancora fino al secolo IV i cristiani rappresenteranno nell'impero una minoranza, non solo per il numero ma anche per la debolezza della loro composizione sociale. Gli abitanti delle campagne erano restii ad abbandonare i loro antichi culti (la parola "pagano" deriva appunto da pagus, villaggio di campagna) e le classi aristocratiche e intellettuali erano ostili al cristianesimo per intima convinzione filosofica e per motivi nazionalistici. Tuttavia, i legami con l'Antico Testamento non erano rinnegati dall'ortodossia: era convinzione che il Dio vivente si fosse già rivelato nella storia d'Israele, attraverso i profeti, e appunto l'unicità di Dio, esistente ab aeterno, era il sostegno del cristianesimo come religione monoteistica e cattolica (universale). Per questo motivo, verso la metà del secolo II fu rifiutata da parte della comunità romana, in quanto pericolosamente eretica, la dottrina di Marcione che, venuto a Roma dalla nativa Sinope, sul mar Nero, dove suo padre era vescovo, e ben accolto anche per il generoso dono di 200 mila sesterzi, si propose di portare alle estreme conseguenze la teologia paolina, liberando il cristianesimo da ogni elemento giudaico. Convinto dell'immensa superiorità della legge di Cristo rispetto a quella di Mosè, egli prese a sostenere che la prima era rivelazione di un dio buono e misericordioso, la seconda era l'espressione della volontà tirannica di un dio dispotico e vendicativo:
17 lo Jahve degli ebrei. Questi era quindi il demiurgo, creatore di un mondo imperfetto, l'altro era il dio della salvezza, rivelatosi agli uomini in Gesù Cristo. [Vedi Documenti n. 2.] L'eresiologo Ireneo attribuirà questa stessa distinzione agli eretici Cerdone e Cernito, che sarebbero stati precursori di Marcione. Scomunicato ed espulso dalla comunità di Roma nel 144, Marcione creò la Chiesa separata dei marcioniti, che ebbe lunga vita anche nei secoli successivi, e tra i suoi numerosi discepoli si distinse soprattutto un certo Apelle, spesso aspramente criticato dagli eresiologi. Non molti anni dopo, l'assiro Taziano, convertito al cristianesimo da Giustino martire, professò un'analoga dottrina: la materia è stata creata da Jahve, e la caduta dell'uomo è conseguenza della presunzione di Adamo di essere simile al creatore. Ma, con la venuta di Cristo, la verità rivelata dal dio del bene permette a tutti il riscatto dal peccato originale: "Noi medesimi abbiamo creato l'iniquità, ma in quel modo che l'abbiamo creata possiamo respingerla". In un veemente Discorso ai Greci, Taziano si proclama orgoglioso di seguire il cristianesimo, la religione dei "barbari", in opposizione alla corrotta morale dei pagani. Ritornato in Mesopotamia, Taziano fondò una setta, chiamata dell'encratiti (i continenti) per la regola di assoluta castità e semplicità di vita seguita dai suoi membri, con abolizione anche della carne e del vino. Poiché gli encratiti celebravano la comunione con il pane e con l'acqua, furono detti, per disprezzo, acquariani. Verso la metà del secolo II ebbe anche un grandissimo successo popolare l'operetta intitolata il Pastore, scritta da Erma, un ebreo egiziano, venduto come schiavo a Roma e poi affrancato dalla padrona. // Pastore di Erma è una "visione" allegorica, non certo ortodossa, in cui Gesù viene presentato come un uomo dotato di particolari qualità e perciò scelto da Dio come latore di una nuova legge di carità e di misericordia, indipendentemente dall'osservanza dei dogmi e dei precetti della Chiesa. Anzi, non manca una esplicita denuncia dei ministri delle comunità cristiane che "depredano i beni delle vedove e degli orfani, e si procurano illeciti guadagni appropriandosi delle donazioni che dovrebbero distribuire in elemosina". Discutibile difensore della Chiesa è, in quegli stessi anni, colui che era stato maestro di Taziano, ossia Giustino, istruttore dei catecumeni a Roma. In un'Apologia, indirizzata all'imperatore Antonino Pio e al cesare Marco Aurelio, egli lamenta che il cristianesimo sia stato già più volte perseguitato da
18 imperatori "guidati dal demonio", mentre si tollerano eretici, quali "gli adoratori di Simone mago, che sono ancora moltissimi, e di Menandro suo discepolo, che sedusse molta altra turba ad Antiochia, e Marcione, che ancora attualmente insegna doversi riconoscere un altro dio più grande del creatore", e aggiunge: "Noi non sappiamo se essi facciano veramente quanto si narra, rovesciare le lampade, mangiare carne umana, e commettere altre infamie, ma ben sappiamo che voi non li perseguitate e non li mandate a morte". Con molta ingenuità egli difende il cristianesimo adducendo certe analogie che esso presenta con il paganesimo: "Se noi diciamo che Gesù Cristo è figlio di Dio ed è risorto e salito al cielo, non diciamo una cosa tanto straordinaria, pensando a quanti figli siano da voi pagani attribuiti a Giove e come anche di essi si dica che furono assunti in cielo. E che Gesù sia nato da vergine, anche voi affermate la stessa cosa a proposito di Perseo. E che egli abbia risanato i ciechi e i paralitici e risuscitato morti, lo raccontate anche voi di Esculapio; e quel culto che da noi è chiamato eucarestia, si dice che non diversamente avvenga nei misteri di Mitra...". Il dubbio degli studiosi moderni è se tali analogie siano dovute al fatto che tutte le religioni presentano innegabili somiglianze nei miti e nelle credenze o se, in effetti, sia stato il culto di Mitra e la mitologia dei semidei assunti all'Olimpo a influire sulla formazione del L'eresia cristianesimo. Ma che uno scrittore ecclesiastico ammetta tali somiglianze e non sostenga invece l'assoluta esclusività della propria religione, non è certo un comportamento ortodosso! Lo gnosticismo.
Il Vangelo di Marcione, con la sua dottrina della creazione di una materia imperfetta e di una possibile salvezza solo per l'intervento del dio del bene, conteneva uno spunto paragonabile ai concetti dello gnosticismo, ma non era gnostico, come viene erroneamente definito dai Padri della Chiesa. Lo gnosticismo fu invece il frutto di un fecondo incontro tra l'ancora incompiuta sistemazione teologica cristiana e i maturi traguardi raggiunti dalla filosofia greca. Nel colto mondo intellettuale di Alessandria d'Egitto, proprio uno studioso ebraico, di nome Filone, morto alla metà del secolo I, pur senza aver conosciuto il cristianesimo, aveva inconsapevolmente aperto ai cristiani la strada a
19 un'interpretazione gnostica. Attraverso un erudito commento dell'Antico Testamento fatto alla luce del neoplatonismo, identificava il Dio creatore della Bibbia con il demiurgo di Platone, ordinatore dell'universo quale riflesso (mimesis) di un mondo iperuranio, costituito dai modelli eterni e perfetti (il mondo delle "idee") della nostra realtà fenomenica. Ma alla concezione platonica della possibilità per l'uomo di una conoscenza (gnósis) intuitiva degli enti e dei valori morali assoluti, Filone sostituiva il concetto di una ispirazione operata da Dio tramite il proprio lògos (la "parola", la "manifestazione del pensiero divino"). Questo sincretismo della filosofia neoplatonica col cristianesimo portò a personalizzare il lògos di Filone in Gesù Cristo, e come già il Dio biblico (Jahve) era antropomorficamente immaginato come Padre e creatore, così il lògos venne detto suo Figlio, e quindi il termine ebraico r ah (soffio, alito) fu usato per indicare l'influsso di Dio, il segno invisibile della sua presenza, per esempio nell'ispirare i profeti, nell'approvare il battesimo di Gesù sotto forma materiale di colomba, nel dare agli apostoli, il giorno di Pentecoste, la conoscenza di tutte le lingue. Il vocabolo mah era già stato tradotto da san Paolo e dagli evangelisti con il vocabolo pneûma, che in greco significa appunto "fiato, respiro, alito" e gli era stato aggiunto l'attributo agios (santo), da cui la traduzione letterale in latino: Spiritus Sanctus. Ma dagli gnostici cristiani, anche lo Spirito Santo, come il lògos, viene materializzato e concepito come "terza persona", insieme al Padre e al Figlio. questa era sostanzialmente la dottrina gnostica del Vangelo di Giovanni, che anche i teologi cattolici non possono negare sia stato scritto appunto nel secolo II, immaginando che l'autore, l'apostolo Giovanni, fosse vissuto ultracentenario dopo la morte di Gesù. Però, ai ceti colti, convertiti dal paganesimo, e specialmente a coloro che provenivano da sette praticanti i culti misterici, avvezzi a considerare l'appropriazione del divino in forma di estasi mistica, ripugnava l'idea di assegnare al lògos e al pneùma, espressioni astratte dell'intervento divino, un'esistenza corporea, magari partecipe dei nostri difetti, e quindi attribuire la creazione di un mondo dominato dal male a un Dio che dovrebbe essere perfezione assoluta. Il maggiore tra gli gnostici eretici del secolo II fu senz'altro il filosofo neoplatonico egiziano Piotino, che nella sua opera Enneadi accentua la trascendenza e infallibilità di Dio, con questo ragionamento: "Lo si può chiamare soltanto l'Uno, da cui emana una "luce" che crea e governa tutto l'universo. L'anima umana può conoscere questo Dio solamente attraverso l'estasi". In fondo, questa identificazione di Dio con una sorgente di luce si accordava per una certa analogia al culto pagano del dio Sole,
20 che proprio nel secolo il l'imperatore Elio- gabalo aveva incentivato in tutto l'impero. Lo gnosticismo eretico rappresentò pertanto lo sforzo di liberare il cristianesimo da ogni inquinamento antropomorfico della divinità e di spiegare in altro modo l'esistenza del male sulla terra. Ciò comportò quindi una particolare dottrina cosmologica: dal Dio assoluto e trascendente - dice Piotino - a un certo momento, quando Egli decise di uscire dal proprio silenzio, è emanata una gerarchia di entità incorporee (gli eoni), che hanno formato il cosmo astrale; da questi sono derivati altri eoni, sempre meno perfetti a mano a mano che si sono allontanati dalla loro sorgente (Dio come una luce che progressivamente si attenua distanziandosi dalla sua fonte). L'ultimo eone, che è l'anima umana, è giunto ormai alla zona delle tenebre, ed è rimasto inghiottito da essa, schiavo della debolezza della materia, del peccato e della morte. Tale situazione è conseguenza dell'oblio e dell'ignoranza della propria origine divina: ma la gnosi, insegnata dal lògos, cioè dalla manifestazione della parola di Dio, è appunto il mezzo per riprenderne coscienza e quindi aspirare a liberarsi della materia per ritornare nel Luogo di origine, l'eterna Luce di Dio. In termini di moderna psicanalisi si potrebbe definire una tensione dell'ego a rimuovere il proprio sentimento inconscio di incompiutezza. Gli gnostici parlano infatti di una "barriera" (phragmós), L'eresia che separa il mondo dell'esperienza dal mondo ideale della perfezione. Il processo di purificazione avverrebbe quindi con questo itinerario: conoscenza del bene (la luce) e sua accettazione; contemplazione mistica; immedesimazione estatica con Dio. In sede morale, quindi, lo gnosticismo imponeva un severo distacco dalle occasioni di peccato, la concentrazione spirituale in solitudine, ma anche una carità fraterna rivolta ad aiutare gli altri comunicando loro la gnosi appresa. Dello gnosticismo si ebbe una scarsissima conoscenza, attraverso le poche citazioni e i commenti totalmente deformanti da parte della patristica, fino alla fortunata scoperta, nel 1945, di un'intera biblioteca gnostica, in lingua copta, presso il villaggio di Nag Hammâdi, nell'Alto Egitto, che ha restituito le reali dimensioni del fenomeno, e qualunque sia la disposizione di chi legge questi Vangeli non può rimanere insensibile di fronte al fascino di un misticismo così ardente. Certamente eretica, per il cristianesimo ufficiale, è la concezione gnostica di un mondo non creato ma autoformatosi per degradazione della Luce fino alle tenebre; è in disaccordo con i tre Vangeli sinottici l'idea di Gesù come emanazione di Dio, invece della sua incarnazione nel corpo di Maria; inoltre, la caduta dell'uomo non è connessa col peccato originale, ma è un
21 processo cosmico dovuto a deterioramento, e l'escatologia non è un intervento salvifico che avverrà in un momento voluto da Dio, ma un atto di purificazione individuale, in seguito alla conoscenza (gnosi) del bene. Tale dottrina si differenzia poco nei singoli rappresentanti. Il più antico pare sia stato Basilide, siriano di origine, ma vivente ad Alessandria, il quale già nei primi decenni del secolo li scrisse un vangelo in cui s'insegnava che dal Nulla il Pensiero divino aveva suscitato un germe del cosmo (sperma toû kósmou) e da questo erano usciti gli eoni, sempre più imperfetti, fino all'oscurità della materia, pur conservando in sé una parvenza di luce che stimolava in loro il desiderio di cercare il Luogo da cui essa si sprigionava. [Vedi Documenti n. 3.] Secondo Valentino, educato ad Alessandria e vissuto a Roma alla metà del secolo II, l'emanazione degli eoni è avvenuta a coppie (sigizie), finché uno degli ultimi, di nome sophia (la sapienza), ebbe la presunzione di creare da solo, senza il consorte, e generò un mostro, il quale foggiò il mondo della materia e l'uomo. [Vedi Documenti n. 4.] Il mito simboleggia - diremmo oggi - l'ambizione umana di trascendere i limiti delle proprie possibilità di conoscenza, la presunzione della propria sapienza, ma anche la perplessità, il dubbio, l'angoscia del fallimento. Infatti - continua il mito valentiniano - vi fu poi il pentimento di sophia, e Dio allora la congiunse in una nuova sigizia: sotér/sophía o in una versione più cristianizzata logos/pneûma (il quale ultimo corrisponde all'ebraico mah, che è femminile). Diversamente dal Vangelo di Giovanni, per i valentiniani Gesù non è il logos, ma il figlio della coppia logos /pneûma, ossia - conservando con fedeltà il significato originario dei due nomi - la manifestazione della Parola di Dio e del suo intervento, o influsso, nelle vicende umane. Il linguaggio simbolico dei valentiniani, che parlano di "coppie", di "matrimonio mistico", definiscono il pleroma "camera nuziale" e - in base al loro concetto di superamento delle apparenze fenomeniche fino al ritorno alla "immagine" perfetta o idea pura - asseriscono che "maschio e femmina saranno una cosa sola" e che l'innocenza di coloro che sono ormai giunti alla perfezione è come uno stato di nudità, uno spogliarsi della materia, ha scatenato la fantasia degli eresiologi ad attribuire loro perversioni sessuali. Il più fervido di tutti è Ireneo, il quale racconta di Marco, uno dei continuatori di Valentino: "Marco prendeva un calice, misto di vino con acqua, e, dopo una lunga invocazione, questo miscuglio diventava purpureo. La grazia divina, egli diceva, aveva stillato il suo sangue, e tutti gli astanti desideravano di gustarne. Egli si indirizzava principalmente alle donne ricche e nobili, e a colei che intendeva ingannare diceva queste parole: "Voglio farti partecipe della mia grazia: bisogna che noi
22 diventiamo una medesima cosa". A giungere più sicuramente ai suoi fini, costui si serviva anche di certi filtri, come attestarono varie donne da lui sedotte, che sono tornate in seno alla Chiesa". Oltre a Marco un altro discepolo di Valentino fu Eracleone, autore di un vangelo che pare fosse molto simile a quello di Giovanni. Ma lo gnosticismo ebbe una proliferazione straordinaria soprattutto in Egitto e nell'Asia Minore. Bardesane (in siriaco Bar Daysàn) astrologo alla corte di Abgar IX di Edessa, convertito al cristianesimo, introdusse lo gnosticismo in Mesopotamia. Sempre intorno alla metà del secolo II, ad Antiochia predicava Satornilo, il quale chiamava gli eoni col nome di "angeli" e poneva ultimo di loro lo Jahve degli ebrei, ribelle a Dio e creatore della materia. Anche Carpocrate di Alessandria considerava gli eoni angeli decaduti, chiamandoli pertanto "demoni". Ma la sua gnosi era impregnata di un vivo sentimento umanitario: egli affermava, con Matteo (Mi V,45), che Dio è come il sole, che risplende con la stessa forza per L'eresia i ricchi e i poveri, i sapienti e gli ignoranti, i liberi e gli schiavi. Il concetto gnostico che i perfetti potranno godere la visione del lògos nella sua vera immagine di eone spirituale solo quando si saranno spogliati della loro materialità, era esemplificato da Carpocrate con un'aggiunta al mito evangelico della risurrezione di Lazzaro: simbolo dell'anima, denudata della materia, che può congiungersi alla perfezione dell'eone Cristo. Mito che Clemente Alessandrino fraintese, attribuendo ai carpocraziani l'intenzione di celebrare la più completa libertà, anche sessuale. E di recente lo studioso americano Morton Smith ha pubblicato la lettera in cui Clemente parla di questo, suggerendo l'ipotesi scandalistica che Gesù venisse presentato dai carpocraziani come omosessuale! [Vedi Documenti n. 5.] Di alcune sette gnostiche non conosciamo i nomi dei fondatori, ma esse vengono indicate dagli scrittori ecclesiastici secondo particolari caratteristiche delle dottrine professate dai loro membri. Dei sethiani si dice che, prendendo spunto dal Genesi, riconoscevano in Seth, il figlio di Adamo ed Eva nato dopo l'uccisione di Abele, l'archetipo del Salvatore. Il loro vangelo raccontava che Seth era stato mandato da Adamo, caduto nel peccato e immerso nella materia (in lingua semitica adâm significa "uomo"), a implorare l'aiuto di Dio e che Dio aveva affidato a Seth un messaggio di salvezza, scritto su di un libro segreto. Quella era la gnosi che veniva insegnata soltanto agli iniziati. La setta degli ofiti o naasseni (dal greco óphis e dal semitico nâhâsh, che significano entrambi "serpente") riconosceva addirittura nel serpente biblico, che aveva offerto a Adamo ed Eva il frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, il primo strumento di gnosi. Infatti esso aveva detto loro: "Diventerete
23 simili a Dio", e il suo simbolo era quindi l'eucarestia, la consumazione del frutto (l'ostia) che permette all'uomo di elevarsi a Dio. Per gli ofiti il serpente era riapparso sotto forma umana, in Gesù Cristo. La dottrina degli ofiti non è tanto strana come può sembrare, perché si richiama all'immagine biblica del serpente issato da Mosè su un palo per guidare il popolo d'Israele nel deserto salvandolo dai morsi dei serpenti velenosi. (Numeri 21,9). Dell'idea gnostica si è appropriato anche il Vangelo di Giovanni (Gv 111,14) prendendo il serpente di Mosè come prefigurazione del Cristo salvatore innalzato sulla croce. Come gli ofiti consideravano un simbolo di salvezza il serpente, normalmente giudicato causa della perdizione di Adamo e identificato con Satana, i cainiti vedevano in Caino, iniziatore della stirpe umana, l'eone decaduto per la colpevolezza di sophía (Eva), quindi capostipite di tutti coloro che aspirano alla gnosi. Per analogia essi giustificavano anche il tradimento di Giuda, in quanto strumento di redenzione: infatti, se la morte di Gesù era indispensabile per il riscatto dell'umanità, Giuda, che l'aveva resa possibile, aveva mostrato di essersi saggiamente elevato alla gnosi, comprendendo, meglio degli altri apostoli, che Gesù doveva morire. I cainiti celebravano pertanto il mysterium proditionis, il mistero del tradimento. Nel 190 iniziava i suoi corsi di lezioni al Didaskaléion di Alessandria, la scuola per catecumeni fondata dieci anni prima da Panteno, il fondatore dello gnosticismo cristiano, Clemente. Il suo era però uno gnosticismo molto attenuato, che soprattutto considerava la gnosi non sinonimo di conoscenza razionale ma di illuminazione data dalla fede. Esplicitamente, egli sosteneva che, mentre per i greci la guida dell'umanità era stata la filosofia e per gli ebrei la legge, ora, col cristianesimo, essa era la fede, l'accettazione incondizionata della verità rivelata. Il suo pensiero contribuiva, così, a rafforzare l'intolleranza caratteristica della Chiesa per ogni libertà di pensiero: secondo la definizione di Clemente, la filosofia, cioè la ricerca del vero attraverso la discussione, poteva essere al massimo "ancella" della fede. Anche il concetto evangelico della preminenza dei poveri e degli umili nell'affetto divino è travisato da Clemente nella sua opera Quis dives salvetur?: "Qualunque ricco si può salvare. Essere ricchi non rappresenta un ostacolo alla salvezza. Le parole di Gesù al giovane ricco: "Va', vendi ogni cosa..." se fossero prese alla lettera porterebbero a una pericolosa anarchia. Esse vogliono dire: Spoglia la tua anima dalla ricchezza dei vizi, rendila povera di colpe, divieni povero di spirito". La dottrina gnostica alessandrina ebbe un'erudita sistemazione da parte di Origene, discepolo e continuatore di Clemente nel Didaskaléion. La sua vita era improntata a un così rigido ascetismo che, dando una interpretazione estremista all'esortazione evangelica alla castità (Mi 19,12), egli
24 decise di evirarsi. Per questa sua mutilazione, il vescovo di Alessandria, Demetrio, gli vietò di accedere al sacerdozio, e anzi lo scomunicò, espellendolo dalla chiesa di Alessandria, e allora Origene, disubbidendo al suo divieto, si fece ugualmente ordinare sacerdote a Cesarea. Aperta qui una nuova scuola di catechismo, si segnalò ben presto come uno dei più grandi geni speculativi del cristianesimo. La sua dottrina, impostata essenzialmente sul neoplatonismo, fu per lungo tempo predominante nella patristica, e solo molti anni dopo la morte di Origene verrà riconosciuta eretica. "Accecato dalla paidéia greca," dirà di lui Epifanio nel secolo IV, L'eresia "Origene insegnava questa dottrina: che Dio, pura essenza spirituale, ha generato per mezzo del logos, sua "rivelazione" nel modo stesso in cui la luminosità si genera dalla luce le "intelligenze" (eoni) dotate di libero arbitrio; queste, essendo libere, si sono allontanate dal Creatore e sono cadute gradualmente, trasformandosi da angeli in demoni e poi in uomini; allora il lògos, per illuminare le anime umane, si è personificato in Gesù Cristo; attraverso la gnosi le anime, ritornate a essere intelligenze pure, salgono alle dimore del cielo e si rifondono nel Tutto divino." È interessante notare come, negli stessi anni in cui Epifanio scriveva queste parole, san Gerolamo attribuiva a ben altri motivi l'ostilità sofferta da Origene: "Egli è condannato dal consentimento di tutta la terra. Roma stessa raduna il suo senato contro di lui, non perché egli insegnasse nuovi dogmi, non perché avesse opinioni eretiche, ma perché non si poteva sopportare il lume della sua eloquenza e della sua sapienza, e perché quando egli parlava, tutti gli altri parevano muti". In verità, la dottrina di Origene fu condannata nel secolo IV, perché non corrispondeva più ai dogmi, soprattutto a quello trinitario, che furono appunto elaborati in quel secolo, con discussioni, dibattiti e controversie anche accanite. Senza cadere negli eccessi degli altri gnostici, Origene aveva cercato di salvare il monoteismo cristiano dando della triade (Padre, Figlio, Spirito Santo) una spiegazione che superasse la tendenza a vedere l'unità di Dio - per suggestione del paganesimo - suddivisa in tre divinità distinte, sul tipo della terna GiovePoseidone-Ade, della triforme Ecate, delle tre Parche, della Triade capitolina. Le persone della Trinità erano considerate da Origene in una successione verticale, come tre aspetti discendenti di Dio: un Dio unico che emanava e rendeva visibile il proprio logos, cioè il proprio pensiero, e tramite questo esercitava il proprio influsso, il suo spirito santificante. Per il momento, la soluzione origenista era parsa soddisfacente, ma quando la lunga elaborazione trinitaria da parte della teologia sarà riuscita a definire Dio e i suoi due attributi come tre persone di un'unica natura ma distinte, l'origenismo, ancora professato dagli epigoni del grande pensatore alessandrino, verrà aspramente combattuto come
25 "idra di tutte le eresie". Il modalismo.
Origene aveva sostenuto che solo il Padre è "non generato" ed eterno: il Figlio, in quanto emanazione del pensiero di Dio, gli è inferiore, è un secondo dio. Chi accettava questa dottrina cadeva nel subordinazionismo, facendo di Cristo un essere divino in secondo ordine rispetto al Padre, e minacciava di trasformare il monoteismo in diteismo. Ma anche al di fuori dell'origenismo, il problema dei precisi rapporti tra Dio e Cristo, tra il Padre e il Figlio, continuò a rimanere aperto per tutto il secolo III, e i Padri della Chiesa e i vari vescovi si dibattevano alla ricerca di soluzioni, che tosto venivano discusse da altri, riconosciute insufficienti, rifiutate come eretiche. Era proprio la buona intenzione degli eretici ad avviare lentamente l'ortodossia. Già fin dagli ultimi decenni del secolo II, due erano soprattutto le tendenze, opposte l'una all'altra. C'era chi considerava il Figlio come "trasformazione" della divinità in corpo umano, chi invece sosteneva che era avvenuto un "assorbimento" della natura umana in quella divina. Tra questi, Noeto, vescovo di Smìrne e contemporaneamente a lui un certo Prassea, che predicò a Roma e poi a Cartagine, proponevano che, non potendosi ammettere una pluralità di persone in Dio, che è unico e assoluto, senza tradire la fede monoteistica, si dovesse considerare Gesù Cristo come l'assunzione da parte di Dio di un corpo fisico (il Verbo che si è fatto carne), quindi come un "modo" da Lui scelto onde manifestarsi esteriormente. "Non c'è che un Dio" affermava Noeto, a quanto risulta dalla confutazione che ne fece poi Ippolito, "un Dio che si è mostrato agli uomini come Cristo, e non vi sono due dei. Gesù stesso lo diceva: mio Padre e io siamo una stessa cosa." Si trattava dunque di una trasformazione della divinità in corpo umano, il che contraddiceva alla tradizione di Gesù come "vero uomo" e annullava il mito dell'incarnazione nel ventre di Maria. Per questo motivo, nel 200, l'assemblea dei presbiteri di Smirne definì eretico il modalismo di Noeto, e poiché egli non volle abiurare dalla sua dottrina, lo dichiarò decaduto dalla carica di vescovo e lo scomunicò insieme con i suoi seguaci. L'analoga dottrina di Prassea venne invece confutata, pochi anni dopo, da Tertulliano, ardente polemista cartaginese, appena convertitosi al cristianesimo, dopo essere stato per qualche tempo iniziato ai misteri di Mitra. Tertulliano, che esercitò anche l'avvocatura a Roma, fu cronologicamente il primo e il più noto
26 apologista del cristianesimo in lingua latina. La sua maggior produzione letteraria, in difesa dell'ortodossia e contro le eresie, comprende: V Apologeticum, veemente affermazione, secondo i modi dell'oratoria forense, del di- L'eresia ritto dei cristiani alla libertà di culto, contro coloro che li calunniavano come nemici dello Stato romano e li accusavano di praticare culti illeciti, con orge e addirittura sacrifici cruenti di vittime umane; Adversus Marcionem, in cui confuta la concezione marcioniana di una duplice divinità, del bene e del male, sostenendo l'assoluta perfezione dell'unico Dio, sempiterno; Adversus Valentinianos che polemizza con le dottrine gnostiche; De carne Christi, contro i modalisti che fanno di Gesù Cristo soltanto una parvenza umana; e soprattutto la più generale opera antieretica De praescriptione haereticorum, a riguardo dei quali Tertulliano propone di applicare una legge romana, rimessa in vigore nel 199 da un editto di Severo e Caracalla, sul diritto di proprietà (non si poteva reclamare alcun diritto su di un fondo agrario che fosse stato occupato da qualcun altro da almeno due anni). Dice Tertulliano: "Se Gesù Cristo, nostro Signore, ha mandato i suoi apostoli a predicare, io stabilisco questa prescrizione: che non si debbano accettare altri predicatori; e quanto a ciò che hanno predicato gli apostoli, un'altra prescrizione io credo dover addurre: ed è che tale predicazione non si può conoscere se non tramite le chiese fondate dagli apostoli, e da essi ammaestrati a viva voce o con lettere. Se è così, solo la Chiesa possiede il patrimonio delle Sacre Scritture, e ogni tentativo degli eretici di trarne un loro frutto non può essere che falso e da condannare. Se alcune sette di eretici ardiscono dirsi contemporanee agli apostoli, ci mostrino l'origine delle loro chiese, l'ordine e la successione dei loro vescovi, sì da risalire fino agli apostoli, perché è appunto in questo modo che le chiese apostoliche giustificano di essere tali. Ma l'autore primo delle eresie non è altri che Satana: egli contraffà i misteri di Dio, e come nella idolatria egli ha i suoi ministri, le sue insegne, i suoi vasi per i sacrifici, così contraffà le Scritture Sacre a servizio dell'eresia. Si rammentino, pertanto, gli eretici del futuro giudizio, nel quale compariremo davanti al tribunale di Cristo per rendere conto del nostro operato. Che risponderete allora, voi che avete macchiato col commercio adultero dell'eresia questa vergine fede che Dio vi aveva affidato?". Ma in altri scritti, moralistici e disciplinari, come De poenitentia, De exhortatione castitatis, De virginibus velandis, De pudicitia, De cultufoeminarum, Tertulliano dà prova di un profondo pessimismo sulla natura umana e di un eccessivo rigorismo morale, specialmente riguardo le donne, alle quali nega persino l'esistenza di un'anima, e che vorrebbe vestite di sacco, col viso coperto, per annullare le loro diaboliche arti di seduzione, tanto che certe
27 sue opinioni (giunge persino a dubitare della possibilità della Chiesa di assolvere i peccai) finiranno col farlo ascrivere tra gli eretici che egli aveva polemicamente combattuto. Intanto, il modalismo faceva la sua ricomparsa nella predicazione di Sabellio, presbitero a Tolamide, in Cirenaica. Secondo lui, Dio è uno e indivisibile, anche se può essere designato dagli uomini in "modi" diversi; quindi le cosiddette "persone" della Trinità non sono altro che "attributi" che vengono dati a Dio, a seconda delle sue attività: Padre in quanto creatore, Figlio in quanto redentore, Spirito Santo in quanto santificatore. Siccome egli insisteva sull'assoluta unicità di Dio, la sua dottrina fu indicata col nome di monarchianismo (da móne arche, "un unico principio"). Ma, si obiettava a Sabellio e ai suoi seguaci, se il Figlio è solo un attributo del Padre, e non una realtà fisica, è stato Dio stesso a subire gli oltraggi del processo e le sofferenze della morte in croce, il che è assurdo. I sabelliani si difendevano, affermando che proprio in questa umiliazione di se stesso, voluta da Dio, consisteva il significato della salvezza: era Dio Padre in persona che aveva accettato di patire per gli uomini. Per tale motivo, essi venivano anche chiamati patripassiani. Altri eretici erano dell'opinione che Dio si fosse effettivamente mostrato in un corpo umano, ma che questo fosse soltanto un corpo fittizio e provvisorio. Tale dottrina, detta docetismo (dal verbo greco dokéin, "apparire", "sembrare") era professata da Cassiano Giulio e dai suoi discepoli, con l'argomentazione che un vero corpo umano non sarebbe stato degno di albergare un dio. Il docetismo non poteva essere accettato nell'ortodossia, in quanto assegnava al Dio dei cristiani un modo di manifestarsi troppo simile a quello usato da Giove e dalle altre divinità pagane quando volevano scendere dall'Olimpo per mescolarsi ai mortali. Esso inoltre vanificava il sacrificio di Gesù come uomo, facendo sopportare la passione a un corpo privo di sostanza. Per ovviare a questo inconveniente, senza dover ricorrere a uno sdoppiamento di Dio in due persone, altri credenti, primo tra i quali Teodato di Bisanzio, riconoscevano Gesù Cristo unicamente come uomo, riprendendo l'idea che del Messia avevano avuto probabilmente i primi discepoli, e che infatti trovava sostegno nel Vangelo di Marco e anche nella Lettera ai Romani di san Paolo: che Gesù era positivamente un uomo, "dichiarato figlio di Dio per il suo spirito di santità" e adottato come tale all'atto del battesimo, quando Dio aveva fatto scendere su di lui la propria approvazione e gliene aveva dato conferma, sotto forma di Spirito Santo. Questa dottrina, che venne subito classificata col nome di adozionismo, incontrò da principio un notevole favore, specialmente da parte delle masse popolari, che amavano immaginare Gesù come un uomo tra gli uomini, e anche
28 per la sua analogia con la prassi dell'adozione introdotta nell'impero dagli Antonini allo scopo di assicurare al trono un successore conseguente alla stessa linea politica. Ma l'adozionismo, se poteva trovare appoggio nei Vangeli sinottici e in Paolo, contrastava però con il Vangelo di Giovanni, perché non solo negava una natura divina a Gesù, ma escludeva che egli fosse il logos di Dio incarnato. Soprattutto per questo motivo, sul finire del secolo II, il vescovo di Roma, Vittore I, condannò l'eresia, definendola alogismo (negazione del logos). Tra i continuatori della dottrina adozionista viene ricordato un altro Teodoto, detto il Banchiere o il Cambiavalute, forse dalla sua originaria professione, il quale - facendosi anch'egli forte di certi passi dei Vangeli - predicava che Gesù, vero uomo, si era solo distinto per la sua totale obbedienza a Dio fino all'olocausto, ma che non aveva mai pensato di considerare se stesso un dio, né di offrire il suo sangue e la sua carne in pasto ai fedeli: l'eucarestia, in effetti, era un rito di ringraziamento a Dio, con l'offerta del pane e del vino, già istituito dal biblico Melchisedech. L'adozionismo venne di nuovo ripreso pochi anni dopo, nel 260, da Paolo di Samosata, che era vescovo ad Antiochia. "Un fanciullo" diceva Paolo "che appena nato deve essere messo in salvo, fuggendo in Egitto, che a dodici anni si smarrisce nel Tempio ed è affannosamente cercato dai genitori, non può essere un dio!" Nel 268 il Sinodo dei presbiteri di Antiochia scomunicò Paolo per la sua eresia e lo dichiarò decaduto dalla carica. Ma egli godeva della protezione di Zenobia, regina di Palmira, e continuò a considerarsi vescovo effettivo. Ciò gli attirò l'odio dei nemici, i quali lo accusarono anche di condotta immorale e insinuarono che si era arricchito per mezzo di estorsioni ai danni dei fratelli di fede facendosi pagare ogni promessa di aiuto, e che amava passeggiare per le vie della città circondato da donne, che nelle adunanze ecclesiastiche usava artifici teatrali per meravigliare i semplici, solo preoccupato di riscuotere applausi. Più che da simili accuse, la fine di Paolo di Samosata fu segnata, nel 272, dall'esito sfortunato della guerra che la sua protettrice, Zenobia di Palmira, osò sostenere contro l'imperatore Aureliano, e anche Antiochia venne sottomessa dai romani. Tra i seguaci di Paolo incorse nella scomunica come adozionista anche Luciano di Antiochia, ma più tardi fu riabilitato avendo subito il martirio a Nicomedia, dove si era ritirato in esilio. Invece Berilo, vescovo di Bostra, in Arabia, adozionista in una forma più attenuata, essendo del parere che lo "spirito" di Dio fosse disceso ad "abitare" nel corpo di Gesù uomo, come nell'Antico Testamento si diceva che avesse fatto con i profeti, venne convinto da Origene a rinunciare al proprio errore.
29 Alla fine del secolo m, dunque, nessuno era in grado di spiegare in modo soddisfacente come l'essenza divina si fosse congiunta con la natura umana di Gesù Cristo. Quando il dogma trinitario verrà definitivamente stabilito, le soluzioni proposte dagli gnostici e dai modalisti appariranno chiaramente eretiche, ma fino a quel momento erano proposte che potevano anche essere prese in considerazione, e la cui insufficienza, per lo meno, serviva a stimolare la ricerca. Il cristianesimo si dibatteva ancora tra l'esigenza di fedeltà al rigido monoteismo ereditato dall'ebraismo, che non ammetteva sdoppiamenti della divinità né concepiva che Jahve potesse generare figli umani, e l'esigenza di un adattamento alla religiosità pagana che accettava una pluralità di dei e semidei e a cui non ripugnava immaginare che Giove scendesse in terra per congiungersi carnalmente con donne mortali, come Danae, Alcmena, Europa e mettere al mondo dei figli. Gnosticismo, docetismo e modalismo non erano pertanto deviazioni teologiche aberranti dall'ortodossia, ma tentativi di accordare il mito evangelico di Gesù figlio di Dio con la concezione monoteistica. Senza dubbio gli adozionisti, con la loro dottrina di una paternità puramente adottiva, non erano lontani dall'insegnamento attribuito dai Vangeli allo stesso Gesù di un Dio padre di tutte le creature, da invocare nella preghiera come "padre nostro"; ma in questo modo si annullava l'incarnazione e a Gesù non era riconosciuta una natura divina. I doceti, a loro volta, ritenendo Gesù una pura apparenza corporea, già lo identificavano con Dio, ma non lo distinguevano da lui come figlio né come vero uomo. Gli gnostici, infine, conciliavano ma non superavano le deficienze degli unì e degli altri: come gli adozionisti facevano di Gesù una creatura distinta da Dio, in quanto sua emanazione, ma come i doceti consideravano la sua consistenza fisica soltanto provvisoria, fino a che, con la risurrezione, sarebbe tornato a confondersi nella Luce divina. Questa era in sostanza anche la dottrina del Vangelo di Giovanni, che però si limitava ad affermare: "Il Verbo si è fatto carne e abitò tra noi", senza indicare in che modo fosse avvenuta l'incarnazione. I più cauti si accontentavano di questa testimonianza e non cerca- L'eresia vano di indagare più a fondo. Quelli che volevano saperne di più avanzavano ipotesi piuttosto ingenue e persino grottesche. Basandosi sul cenno fatto nel Vangelo di Luca: "Lo spirito (pneûma) di Dio calerà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra" si tendeva a immaginare l'incarnazione alla maniera di tanti altri miti orientali, in cui la figliazione degli dei era vista appunto sotto forma di radiazioni luminose e nubi adombranti, come nella leggenda della nascita di Krishna, di Mitra, di Buddha. Di questa opinione era per esempio Tertulliano: egli pensava che fosse
30 stato un raggio della luce divina"a scendere [nel corpo di] una giovane donna" (in quandam virginem delapsus), in evidente analogia con la leggenda egiziana (Tertulliano era africano) della madre del dio Api fecondata da un raggio luminoso. Secondo un vangelo arabo apocrifo, era stato lo stesso angelo dell'annunciazione a rendere incinta Maria, soffiando sul suo mezàr, il fazzoletto colorato che le donne orientali si mettevano sul capo. Due considerazioni sono tuttavia necessarie: che l'ortodossia non aveva ancora definito il dogma dell'unione ipostatica delle due nature e pertanto l'umanizzarsi del lògos era visto come un processo unilaterale, una creazione nel tempo, da parte di Dio; inoltre che lo Spirito Santo, in quanto manifestazione dell'influsso divino, era ancora considerato lo strumento di tale processo, tanto che, essendo in ebraico di genere femminile, era da qualcuno assunto simbolicamente a rappresentare la "madre" del Cristo. Solo più tardi - come vedremo - la speculazione dei teologi occidentali porterà a subordinare lo Spirito Santo allo stesso Figlio, il che sarà motivo di gravi dissensi e determinerà il doloroso scisma della Chiesa orientale dalla Chiesa occidentale. Eresie disciplinari.
È da credere che le grandi masse dei fedeli rimanessero piuttosto indifferenti alle dispute dei teologi. Il sentimento popolare cercava nel cristianesimo ciò che aveva sempre cercato in ogni altra religione: la devozione verso una o più potenze ultraterrene ritenute capaci di intervenire nelle cose del mondo, beneficamente o maleficamente. Ma un contenuto caratteristico del messaggio cristiano era anche la promessa di un "regno" di giustizia e di benessere, per effetto del rinnovamento morale degli uomini, con un giudizio di punizione per i trasgressori della legge di Dio. Sulla base di alcuni passi dei Vangeli e delle Lettere di Paolo, durante il secolo I tutta la cristianità aveva ritenuto imminente questo avvenimento escatologico, ma poi, andate deluse le attese, la Chiesa si era decisamente orientata a immaginarlo per un futuro lontano, ancora ignoto, e non su questa terra ma in un luogo ultramondano e invisibile, geograficamente collocato in un punto imprecisato dello spazio celeste. Quindi, coloro che, citando le parole degli evangelisti e di Paolo, continuavano ad aspettare la venuta di un mondo migliore e ne facevano oggetto di predicazione, non potevano essere accusati di eresia dottrinale, ma venivano condannati per disubbidienza disciplinare al magistero della Chiesa. Il movimento profetico-apocalittico che ebbe più vasta estensione nel secolo II fu
31 quello che cominciò a dilagare nel 172 dalla Frigia, detto pertanto dei catafrigi ("provenienti dalla Frigia"). Il fondatore, Montano, ex sacerdote della dea Cibele che in Frigia aveva il centro del suo culto, predicava alle folle, accompagnato da due profetesse, Priscilla e Massimilla, le quali, colte da estasi mistiche, annunciavano esse pure che nella pianura tra Pepuza e Tymion sarebbe presto scesa la "Gerusalemme celeste", una nuova era di pace e di giustizia: occorreva prepararsi all'avvenimento con astinenze, penitenze e preghiere. [Vedi Documenti n. 6.] Alla morte di Montano e delle sue compagne, l'entusiasmo profetico continuò con altri discepoli: dalla Frigia giunse in Galazia, nell'Asia Minore, nell'Africa settentrionale fino a Cartagine, e di lì passò in Italia e nelle Gallie. La popolarità del montaismo era dovuta al fatto che esso si rivolgeva alle masse, per placarne l'ansietà e il malcontento, promettendo la prossima fine delle ingiustizie sociali con la condanna dei prepotenti e dei malvagi. I montanisti predicavano pertanto la necessità di un rigido ascetismo; nelle persecuzioni essi erano intrepidi confessori della fede, e non pensavano di essere fuori della cristianità. Ma la loro predicazione non poteva essere tollerata dalla Chiesa perché si presentava come un'iniziativa privata, al di sopra dell'autorità carismatica che ormai era riconosciuta esclusivamente ai vescovi, i quali avevano il dovere di garantire in tutta la loro circoscrizione un'unica e identica disciplina. Si vedeva invece nel montaismo il tentativo di restituire all'interno della comunità cristiana il ruolo principale agli ispirati, secondo la concezione che era stata propria degli apostoli il giorno di Pentecoste, e perciò una ribellione contro il diritto - ora riservato ai soli sacerdoti - di interpretare la parola del Signore. Ma i pareri erano discordi. Ireneo, così feroce polemista contro L'eresia tutte le altre eresie, era invece indulgente verso i montanisti, e Tertulliano, a Cartagine, si lasciò a tal punto entusiasmare da divenire egli stesso rigido assertore di un ascetismo intransigente, prescrivendo pudicizia assoluta alle donne della sua comunità, divieto delle seconde nozze, obbligo di frequenti digiuni e penitenze, condanna senza remissione dei peccati carnali a tutti i fedeli. Fu perciò ritenuto montaista. L'energia spesa da sant'Ireneo e da Tertulliano per opporsi alla scomunica dei montanisti da parte del vescovo di Roma aveva anche un significato di protesta contro gli abusi di potere decisionale che, più degli altri vescovi, stava esercitando quello di Roma, il quale mirava ad arrogarsi una supremazia assoluta su tutte le comunità cristiane, fondandosi sul famoso "primato" di Pietro, di cui si parlava nel Vangelo di Matteo (ma non negli altri) e sulla
32 posteriore tradizione che Pietro stesso fosse stato il primo vescovo, proprio a Roma. Tertulliano, nella sua opera De pudicitia, difendeva invece l'idea montaista che la Chiesa è nel ministero carismatico di tutti coloro che si sentono ispirati dallo Spirito Santo, e non nel sacerdozio gerarchico. In quegli stessi anni si erano già verificati aspri contrasti tra il vescovo di Roma, Vittore I, e alcuni vescovi di chiese asiatiche a proposito della celebrazione pasquale. Nell'Asia proconsolare era consuetudine celebrare la Pasqua esattamente il quattordicesimo giorno del mese nisan (tra marzo e aprile) secondo la tradizione ebraica, mentre a Roma, nella Siria e in Africa si era spostata la festività alla domenica successiva, onde assimilarla a quello che per i pagani era il giorno sacro al dio Sole. Vittore, convocato a Roma un Sinodo dei vescovi d'Italia, fece loro sottoscrivere una condanna della consuetudine asiatica e la inviò alle diocesi interessate. Queste, però, non si sottomisero. Policrate, vescovo di Efeso, interpellò a sua volta i colleghi dell'Asia proconsolare e, udito il loro parere, rispose a Vittore che essi, continuando a celebrare la Pasqua nel quattordicesimo giorno di nisan, erano ben convinti di seguire l'antica usanza apostolica, e non avevano intenzione di accettare il richiamo di Roma. Allora Vittore scomunicò i ribelli, con l'accusa di eresia, quali quartodecimani. Ma poi, di fronte alle proteste generali degli stessi vescovi d'Occidente, lasciò cadere il decreto. A distanza di un ventennio circa, il sempre battagliero Tertulliano fu nuovamente costretto a protestare per un'altra deliberazione della Chiesa di Roma. Il vescovo Callisto, violando la regola ormai impostasi in tutte le chiese cristiane di interdire in perpetuo i colpevoli di omicidio o di fornicazione, emise un decreto in cui dichiarava remissibile il secondo di tali peccati, in seguito a pubblica penitenza, dalla quale, tuttavia, per salvaguardare la dignità del clero, erano esonerati i sacerdoti caduti nella medesima colpa. Ancora più energicamente di Tertulliano e di molti altri membri del clero, si sollevò contro il lassismo del vescovo Callista il rigido presbitero Ippolito che denunciò anche certe disonestà piuttosto gravi commesse da Callisto prima ancora dell'elezione all'episcopato, che lo rendevano pertanto indegno della carica, e fece eleggere se stesso vescovo di Roma. Ciò avvenne nell'anno 217; Ippolito fu il primo antipapa che la storia della Chiesa ricordi. Naturalmente l'attacco di Ippolito contro Callisto comprendeva specifiche accuse di eresia. [Vedi Documenti n. 7.] Callisto a sua volta accusò Ippolito di diteismo, basandosi su certi passi delle sue opere, in verità alquanto ambigui, e la Chiesa romana fu divisa tra i due contendenti. Callisto morì di morte violenta durante un tumulto tra i fedeli. Lo scisma continuò anche sotto i loro successori, Urbano I e Ponziano.
33 Finalmente, per far cessare le scandalose risse tra i sostenitori di Ippolito e i sostenitori di Ponziano, le autorità civili li arrestarono ambedue e li deportarono in Sardegna, condannandoli ad metallo (al lavoro nelle miniere). Riconciliati, morirono entrambi nello stesso anno (235), forse in seguito ai maltrattamenti, e la Chiesa li santificò, inserendoli nell'elenco dei martiri. Pochi anni dopo un altro grave conflitto turbò le Chiese di Roma e di Cartagine. Bandita nell'autunno del 249 dall'imperatore Decio, la prima grande persecuzione del cristianesimo, ritenuto responsabile della crisi dell'impero per il suo disfattismo militare, l'assenteismo dalla vita pubblica, il mancato culto dell'imperatore e dello Stato, aveva scompigliato le file dei cristiani. Su tutto il territorio dell'impero i capifamiglia avevano dovuto presentarsi ad apposite commissioni per rendere ossequio alle effigi degli dei e dell'imperatore, pena l'arresto e la morte. Due anni dopo la persecuzione era ripresa, questa volta allo scopo di rinsanguare le casse dello Stato con la confisca dei beni dei cittadini abbienti, anche non cristiani, e l'enorme ammontare dei patrimoni requisiti alle chiese e a singoli fedeli ci lascia capire il loro disappunto. Le due iniziative dell'imperatore Decio furono il banco di prova della saldezza della fede. Molti furono i martiri che subirono l'estremo supplizio, molti i "confessori" che furono incarcerati per aver ammesso (dal latino confiten) la propria appartenenza alla Chiesa, ma molti anche i "lapsi", cioè coloro che cedettero (dal latino labi) alla violenza e rinnegarono la loro fede per aver salva la vita ed evitare la confisca dei beni. Cessate le persecuzioni, molti di costoro ricorsero ai sacerdoti per farsi rilasciare un attestato di indulgenza, con la preghiera di essere riammessi nella Chiesa. A Roma il vescovo Cornelio decise di essere misericordioso nei loro riguardi, anche per evitare un eccessivo dissanguamento della Chiesa con la perdita di tanti fedeli colpevoli soltanto di un atto di debolezza. Invece Cipriano, vescovo di Cartagine, era molto più severo e non permise la riammissione dei lapsi, lamentando in alcune sue lettere che si facesse persino commercio degli attestati di indulgenza e che molti presbiteri accettassero gli apostati nelle loro chiese senza nemmeno imporre loro qualche penitenza. Egli riconosceva, con mestizia, come in parecchi casi l'apostasia fosse stata conseguenza della corruzione ecclesiastica: "Ognuno mirava solo ad accrescere le proprie sostanze" egli scrive nel trattato De lapsis "e con insaziabile cupidigia si dava da fare per accumulare ricchezze. Non c'era più nei sacerdoti né la pietà religiosa né la salda fede nell'esercizio del proprio ministero. Molti vescovi, invece di essere di esempio e di incitamento per gli altri, si facevano amministratori di interessi mondani e, mentre nelle loro chiese i fedeli pativano la fame, essi mettevano le mani sulle proprietà altrui e riempivano i forzieri col
34 tasso del denaro prestato a usura". Egli, pertanto, scomunicò nove sacerdoti che avevano riconfermato i lapsi troppo alla leggera. Questi, a loro volta, rinfacciarono a Cipriano - ed era vero di essere fuggito da Cartagine durante la persecuzione. Ma l'urto tra le due tendenze divenne drammatico quando, a Roma, il presbitero Novaziano, sostenuto da buona parte del clero, si oppose al vescovo Cornelio affermando che la sua indulgenza verso i lapsi era dovuta al fatto che egli stesso era stato tra gli apostati della fede, poiché si era fatto rilasciare da un magistrato romano un documento che gli aveva permesso di evitare la persecuzione. Novaziano si mise a capo di una Chiesa separata, e da Cartagine lo raggiunse anche un altro rigorista, di nome Novato, che divenne vescovo della nuova Chiesa dissidente. Pare che, impartendo la comunione ai fedeli, essi richiedessero un giuramento di fedeltà: "Giurami che non mi abbandonerai e che non passerai a Cornelio". Dallo scisma, Novaziano e Novato scivolarono logicamente nell'eresia, sostenendo che la Chiesa non aveva potere di assolvere i peccatori di apostasia, e introducendo tra i propri seguaci rigide norme morali, in contrasto con quelle canoniche, fino a proibire le seconde nozze a coloro che rimanevano vedovi. Naturalmente Cornelio scomunicò Novaziano e Novato (anno 251). Ma intanto, a Cartagine, fu un gruppo di lapsi a scomunicare Cipriano per il suo eccessivo rigorismo e a sostituirlo con un vescovo più indulgente, di nome Fortunato. Quando la notizia fu recata a Roma, Cornelio scrisse a Cipriano, dolendosi di non essere stato informato direttamente da lui del cambiamento. Cipriano lo rassicurò che la nomina di Fortunato era illegale, in quanto era stato eletto da un piccolo gruppo di eretici, e che egli pertanto si considerava sempre in carica. Comunque, questa situazione, con due Chiese scismatiche e tanti sacerdoti scomunicati da una parte e dall'altra, era insostenibile, e anzi provocò un altro grave dissidio. Poiché la scomunica dei sacerdoti invalidava i sacramenti da loro amministrati, le persone che in buona fede li avevano ricevuti si trovavano in un comprensibile disagio. Per ovviare a questo inconveniente, nel 254 il vescovo di Roma, Stefano, eletto dalla Chiesa cattolica ufficiale dopo un breve pontificato di Lucio I, diede disposizione che fossero ritenuti validi anche i sacramenti conferiti da preti scomunicati e persino eretici. Egli avvertì pure la Chiesa di Cartagine di attenersi a tale regola. Ma i vescovi africani, adunati in Concilio da Cipriano, dichiararono di non essere disposti a tollerare ingerenze da parte del vescovo di Roma, che era un loro pari. Nella risposta a Stefano, stilata da Cipriano a nome di tutti i colleghi, si diceva: "Nostro Signore nell'istituire la Chiesa disse a Pietro: "Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò
35 la mia Chiesa". Di qui, per la serie dei tempi, deriva l'ordinazione dei vescovi, in quanto la Chiesa è edificata sui vescovi e ogni questione ecclesiastica è regolata da loro. Mi fa quindi stupore che qualcuno abbia avuto la temerità di scrivermi a nome della Chiesa, mentre la Chiesa consiste nel vescovo e nel clero e in tutti i fedeli. E per fedeli intendo solo coloro che sono rimasti fermi nella fede. Non sia mai che si permetta alla turba degli apostati di considerarsi membri della Chiesa! Dio non può permetterlo, poiché Egli è il Dio dei vivi e non dei morti". Ricevuta tale risposta, Stefano minacciò di scomunicare Cipriano e gli altri vescovi cartaginesi. In un secondo Concilio, i vescovi dell'Africa ribadirono la loro autonomia da Roma, e Cipriano indirizzò a Stefano un'altra fierissima protesta: "È bene che ognuno di noi dica il suo parere sullo stesso argomento, ma senza giudicare nessuno e senza separarlo dalla comunione se è di parere diverso dal nostro, poiché nessuno di noi si può L'eresia fare vescovo dei vescovi, né costringere gli altri con tiranniche paure a obbedirgli. Ogni vescovo ha pienamente libera la sua volontà e potestà. Solo Gesù Cristo ha il potere di giudicare la nostra condotta". Stefano, allora, decretò la scomunica. L'avvenimento è significativo come conferma di un giudizio che abbiamo già espresso nella prefazione: quanto sia labile la distinzione tra il concetto di ortodossia e il concetto di eresia, che dipende il più delle volte dal parere di singole persone interessate all'una o all'altra soluzione e da momentanee circostanze. Ma il contrasto tra la Chiesa di Cartagine e la Chiesa di Roma è anche indicativo di un'altra crisi disciplinare sofferta dal cristianesimo in quel periodo: la riluttanza dei vescovi, soprattutto in Oriente e in Africa, ad accettare la pretesa del vescovo di Roma, data la centralità della sua posizione nella capitale dell'impero, a ritenersi primate di tutte le Chiese. Pretesa che finirà col trionfare, almeno in Occidente, col riconoscimento del vescovo di Roma quale "papa". La persecuzione dell'imperatore Valeriano, nel 258, fece tacere per un certo tempo le discordie, e in essa alcuni dei contendenti, tra i quali Cipriano, trovarono la morte come martiri e, dimenticata la scomunica, vennero santificati. Ma, tornata la Chiesa alla precedente libertà, i rancori e i dissidi scoppiarono nuovamente. Da principio parve che il fermento dovesse rimanere circoscritto alla Chiesa di Cartagine, ma non tardò a coinvolgere anche le altre. Adesso i rigoristi criticavano un'altra grave rilassatezza morale delle gerarchie ecclesiastiche: la riammissione dei traditores, ossia di coloro che avevano consegnato (dal latino tradere) gli oggetti del culto e i registri delle chiese alle autorità civili.
36 Melezio, vescovo di Licopoli (Egitto meridionale) rifiutò di riconoscere come suo superiore il vescovo di Cartagine Pietro, appunto perché era stato un traditor e, reclutando fedeli soprattutto tra le masse indigene, organizzò una Chiesa scismatica, la Chiesa dei martiri, che accoglieva solo i cristiani che non avevano indietreggiato di fronte alle minacce dei persecutori. Nel 305 il Concilio di Elvira, il primo e più importante dei vescovi spagnoli, prese in esame la questione delle apostasie e dei traditori e decretò una linea di compromesso a proposito della loro riammissione: "Se qualcuno, passato all'eresia, faccia ritorno alla Chiesa e si dimostri pentito non gli si deve negare il perdono ma non può comunque essere ordinato sacerdote e se lo era non può esservi riammesso". Il Concilio ricordava inoltre al clero l'obbligo della castità e imponeva ai vescovi e ai preti sposati di separarsi dalle mogli. pochi anni dopo, nel 310, contro il nuovo vescovo di Cartagine, Mensurio, e il suo diacono Ceciliano, che durante la persecuzione avevano ceduto per aver salva la vita, si ribellò Donato, vescovo della Numidia, e quando, morto Mensurio, lo stesso Ceciliano venne consacrato vescovo, Donato, con l'appoggio di altri membri del clero africano, non lo riconobbe, opponendogli Maggiorino, degno sacerdote, parente della nobile Lucilia, che aveva abbracciato la causa dei donatisti aiutandoli anche finanziariamente. Proprio nell'anno della deposizione di Ceciliano (313), l'imperatore Costantino, duramente impegnato nella lotta contro gli altri pretendenti al potere, allo scopo di ottenere l'appoggio consistente delle masse cristiane, aveva emanato (con il collega Licinio) un editto di Tolleranza: libertà per tutti i cittadini di seguire la religione che preferivano (compreso il cristianesimo). In realtà come per tradizione gli imperatori romani erano arbitri della vita religiosa dello Stato sotto il paganesimo, anche Costantino avocava a sé il diritto di decisione suprema sulle questioni disciplinari e teologiche della Chiesa. Questa, venendo meno alla spesso conclamata impossibilità di accordo tra cristianesimo e impero pagano, accettava il "cesaropapismo" (destinato a protrarsi per secoli) per evidenti motivi di interesse politico ed economico. Si faceva così garante e collaboratrice del predominio delle classi al potere. Venivano mortificate le speranze di riscatto sociale e le attese di una uguaglianza e giustizia evangelica, a lungo vagheggiate dalle masse, in quanto fondamento del "regno" predicato da Gesù Cristo. Il primo intervento di Costantino nelle vicende interne della Chiesa fu appunto il suo aperto appoggio a Ceciliano. Fiduciosi nella sua equanimità, i numidi lo pregarono di convocare un Concilio per discutere la questione. Costantino delegò il vescovo di Roma. Il Concilio lateranense, naturalmente, assolse
37 Ceciliano da ogni accusa e dichiarò eretici i donatisti. Allora questi si appellarono nuovamente a Costantino: non Ceciliano doveva essere giudicato, ma colui che lo aveva consacrato vescovo, pur non avendone diritto, ossia Felice di Aptonga, che era stato un traditor; invece nel Concilio lateranense la questione era stata trattata frettolosamente, da un ristretto numero di vescovi, riuniti in segreto, senza nemmeno prendere in esame ciò che riguardava il vescovo incriminato, Felice di Aptonga appunto. Costantino incaricò il proconsole d'Africa d'indagare sul passato di Felice e poi riunì un nuovo Concilio ad Arles (314), "non già perché questo fosse necessario" dirà più tardi sant'Agostino "ma solo per desiderio di stroncare una buona volta l'improntitudine dei donatisti". Il Concilio di Arles riconfermò le decisioni del Concilio lateranense, riconoscendo la legittimità della nomina vescovile di Ceciliano e scomunicando Donato e i suoi sostenitori. Lo stesso Concilio diede la prima prova di sottomissione della Chiesa all'autorità imperiale, scomunicando anche i soldati cristiani che avevano disertato dalle armate di Costantino come obiettori di coscienza. I donatisti, insoddisfatti dell'esito della contesa, si associarono al movimento contestatore dei meleziani di Egitto, tenendo viva la propria Chiesa separata. Allora Costantino, nel 316, convocò ambo le parti - cristiani ortodossi e cristiani dissidenti - nel palazzo imperiale e, ascoltate le ragioni degli unì e degli altri, pronunciò la sentenza che dichiarava i donatisti calunniatori e sediziosi, li obbligava a restituire ai cattolici le chiese di cui si erano impadroniti e condannava Donato all'esilio. Da quel momento l'autorità civile diventava il "braccio secolare" della Chiesa, quello che nel volgere dei secoli avrebbe eseguito materialmente le condanne all'esilio, al carcere, al rogo, decretate dai sacerdoti dell'inquisizione. Il manicheismo.
Mentre la Chiesa di Roma e quella di Cartagine erano lacerate da rivalità interne, apostasie, contrasti disciplinari, in Oriente l'unità dei cristiani veniva minacciata dal diffondersi di una nuova religione dualistica, cioè facente distinzione tra un dio del bene e un dio del male: il manicheismo, così chiamato dal nome del suo fondatore, Mani. Il motivo del grande favore incontrato dal manicheismo presso le masse cristiane consiste nel fatto che esso, come i precedenti movimenti profetici e messianici, tornava ad assecondare il malessere generale con la promessa di
38 una fine delle ingiustizie per il trionfo del bene, e si presentava come una fusione di elementi esoterici, tradizionali nelle più diffuse religioni orientali: il mazdeismo o zoroastrismo persiano, il buddismo, il messianismo giudaico, trasmessi attraverso un'affascinante esposizione di miti immaginosi. Fu tale la sua fortuna (più tardi lo stesso sant'Agostino vi aderirà per nove anni, prima di convertirsi al cristianesimo) che gli eresiologi, scambiandolo per un'interpretazione eretica, da allora in poi useranno sempre battezzare impropriamente col suo nome qualunque dottrina dualistica. Mani, il creatore della nuova religione, nato in Mesopotamia nel 216 da nobile famiglia persiana, probabilmente dopo aver avuto contatti con qualche setta giudeo-cristiana, forse con quella degli encratiti, ispirato da un angelo aveva trascorso alcuni anni in meditazione, quindi aveva dato inizio alla sua predicazione dapprima in India, poi in Persia, protetto dal re Shapur I, mentre alcuni discepoli andavano missionari nelle altre regioni dell'Asia e si spingevano anche in Egitto. Ma proprio in quegli anni lo zoroastrismo aveva ottenuto un riconoscimento definitivo in Persia, anche con la redazione del libro sacro, YAvesta, e nel 274 il nuovo re Bahràm I, sobillato dai sacerdoti di Zoroastro, fece arrestare e imprigionare Mani. Morto in carcere tre anni dopo, il suo cadavere venne orrendamente fatto a pezzi e la testa esposta sulle mura della città. Una tradizione apocrifa fissa proprio nell'anno 274 il primo incontro fra cristianesimo e manicheismo. Secondo detto apocrifo, il vescovo di Carre, Archelao, ebbe una discussione con lo stesso Mani, alla presenza di molte altre persone. Mani avrebbe così esposto la propria dottrina: "Io dico che vi sono due principi: uno del bene e l'altro del male; e siccome in questo mondo non vediamo altro che male, immaginiamo un luogo, fuori di esso, dove esiste il bene. Ora, l'anima umana viene da questo principio, il bene, mentre il corpo è opera del principio del male". Naturalmente l'apocrifo riporta la confutazione fatta da Archelao, secondo l'ortodossia cristiana. Notizie sicure della diffusione del manicheismo in Africa, dove è tradizione che fosse stato introdotto nel 277 da Addai, apostolo di Mani, si hanno a partire dal 296, per una lettera inviata dall'imperatore Diocleziano al proconsole dell'Africa Giuliano, con l'ordine di condannare a morte i capi della setta e confiscare i loro beni. Le autorità romane accolsero il manicheismo con la stessa diffidenza con cui avevano accolto il cristianesimo, considerandolo un elemento sovversivo della società, tanto più pericoloso in quanto proveniente da una nazione nemica, e quindi sospetto di essere una specie d'infiltrazione appositamente predisposta ai danni dell'impero.
39 Le più antiche informazioni da parte dell'eresiologia cristiana su Mani e sulla sua dottrina sono le assurde e calunniose invenzioni contenute nel Panarion di Epifanio (secolo IV ) in cui il manicheismo è la sessantesima eresia delle ottanta da lui contestate. [Vedi Documenti, n. 8.] Nemmeno l'esposizione e confutazione del manicheismo fatta da sant'Agostino, dopo la sua conversione al cristianesimo, è del tutto L'eresia immune da distorsioni e calunnie. Ma la scoperta di alcuni testi manichei in siriaco, la lingua usata da Mani, in arabo e persino in cinese e in copto, i cosiddetti Papiri di Faiy tn, ritrovati solo nel 1931, permette di ricostruire con maggior esattezza il contenuto di quella religione e di capire la pericolosa concorrenza che essa faceva al cristianesimo. Alla base del manicheismo era presupposta la credenza mazdeica in due principi opposti, il bene e il male, coesistenti ed eterni, signori di due regni distinti: il regno della Luce e il regno della Materia. Gli abitanti di quest'ultimo (non solo gli uomini ma tutta la natura vivente, animale e vegetale), perpetuamente agitati da un moto vorticoso (le passioni perturbatrici, le sofferenze dell'imperfezione), allorché attingono, ai confini con l'altro regno, uno spiraglio di luce, si riconoscono vittime di una mescolanza di bene e di male, e sono presi dal desiderio di uscire dalle tenebre. Comincia a questo punto la lotta tra le potenze del male (gli arconti, per usare il linguaggio di san Paolo) che vogliono impedire l'uscita agli abitanti del loro regno, e il principio del bene che vuole aiutarli. È simbolicamente la lotta tra lo spirito e la materia, tra la purezza e le passioni: l'anima è una scintilla di luce, il corpo di ogni creatura materiale è un frammento di tenebre. Il principio del bene emette dalla sua sostanza una potenza, la Madre di Vita, la quale emana a sua volta il Primo uomo, l'Adamo celeste, e questi scende nel regno delle Tenebre come liberatore. Ma gli arconti lo imprigionano nella materia (analogia col mito gnostico dell'anima decaduta e della perdizione di Adamo). Stretto in catene, e come in letargo, il Primo uomo invoca il Dio del bene. Questi invia allora lo Spirito Vivente che, accompagnato dalla Madre di Vita, scende nel regno delle Tenebre e solleva il Primo uomo fino alla dimora celeste. La liberazione del Primo uomo non conclude il ciclo salvifico, anche se gli elementi di luce che costituivano la sua essenza sono rimasti mescolati nella materia e l'hanno già in parte affinata. Un terzo inviato che, secondo il mito manicheo (con grande scandalo dei Padri della Chiesa) seduce gli arconti, presentandosi in forma di Vergine della Luce nella sua nudità eccitante, aiuta le particelle luminose a liberarsi. Ma poiché tutta la natura continua a procreare, perpetuando l'imprigionamento
40 delle anime nei corpi degli uomini, degli animali, degli alberi, della frutta, la liberazione prevede ancora l'invio di altri salvatori, e sarà infine raggiunta con un grande evento apocalittico. i inviati del Dio del bene, che agiscono sulle "intelligenze" delle creature risvegliandole dal loro letargo, sono identificati nell'Adamo celeste, in Abramo, Noè, Zoroastro, Buddha, Gesù, e per ultimo Mani stesso. Il processo di liberazione individuale consiste nello strappare quanti più elementi di luce sia possibile al regno delle Tenebre attraverso una pratica di vita ascetica e pura: preghiera, digiuno, astensione dalla violenza, amore e rispetto per tutte le cose della natura. Soprattutto gli eletti, cioè i giusti (Zaddôq II in siriaco) che compongono il sacerdozio manicheo, sono tenuti a osservare tre regole essenziali, che Agostino chiama "sigilli" (signacula): il sigillo della bocca: purezza di parola e di pensiero; dieta vegetariana; il sigillo delle mani: divieto di uccidere, anche gli animali, e di sradicare le piante; il sigillo del sesso: castità assoluta. Dice sant'Agostino nel De haeresibus, 46: "La purgazione e la liberazione del bene dal male sono attuate, secondo loro, per l'intero cosmo, in tutti i suoi elementi, non solo dalla virtù di Dio, ma anche dai suoi Eletti, in forza degli alimenti che essi consumano. Dichiarano che anche le erbe e le piante hanno il senso della vita e provano dolore se sono maltrattate, e che non è possibile cogliere o recidere da esse qualche parte senza provocarne sofferenza. Tuttavia tali azioni sono perdonate agli altri fedeli, perché possano procurare il cibo agli Eletti. Questi perciò si astengono dal lavorare nei campi e dal cogliere frutta, incaricando di ciò i propri fedeli". Non è difficile rendersi conto di come sia avvenuto l'adattamento del manicheismo al cristianesimo, tanto da presentarsi come una preoccupante forma di eresia. L'Adamo celeste, anche in seguito a uno specifico accenno già fatto a suo tempo da san Paolo, è identificato con Gesù: in siriaco Yisù Zôwa ("Gesù Splendente"), e il mito della sua discesa in terra e della sua prigionia da parte degli arconti è un atto volontaristico come il sacrificio accettato da Gesù con la crocifissione. La Madre di Vita è naturalmente identificata dai cristiani con Maria Vergine, e i principi del bene e del male corrispondono a Dio e a Satana. La nuova religione viene accolta da larghe masse di cristiani perché con la concezione dei due principi offre una spiegazione dell'esistenza delle sofferenze, delle disuguaglianze sociali, della corruzione dei potenti, e, accogliendo elementi buddisti, insegna il rispetto per tutte le creature, anche per gli animali e le piante; inoltre propone una speranza di salvezza, attraverso l'esercizio della purezza, della nonviolenza, della preghiera e dell'ascetismo.
41 L'eresia Sant'Agostino nelle sue confutazioni ci ha lasciato il ricordo di alcuni tra i più attivi missionari del cristianesimo, passati poi a predicatori del manicheismo. Tra questi, Fortunato, che definiva Gesù (lo Spirito Vivente) "immagine dell'agnello sgozzato per annientare il male" e Fausto, il quale affermava: "Esiste un Dio solo, ma due sono i principi: quello del bene e quello del male; il primo è ciò che noi chiamiamo Dio, l'altro è la Materia" e aggiungeva: "Anche noi veneriamo la divinità del Padre e di Cristo suo figlio e dello Spirito Santo come una sola cosa sotto triplice denominazione; ma crediamo che il Padre abiti nella Luce più alta, che è inaccessibile, mentre il Figlio risiede in una seconda Luce, che è visibile, e lo Spirito Santo, che è la terza Potenza dei Cieli, crediamo che abbia sede tutto all'intorno, e che da esso sia stato generato Gesù, il quale è la vita e la salvezza di tutti noi". Altrettanto negativa come soluzione del problema esistenziale, perché insegna soltanto la rassegnazione passiva, e ugualmente indice di un periodo di crisi spirituale, quale riflesso di tristi condizioni economiche e sociali, è in quegli stessi anni della fine del secolo m la tendenza cristiana alla "fuga dal mondo", praticata dagli anacoreti. Il primo, o almeno il più illustre, è sant'Antonio, che nel 280 si ritira nel deserto della Tebaide, tosto imitato da parecchi altri. Le tentazioni di ogni genere, anche lascive, che gli attribuisce Attanasio, suo primo biografo, rappresentano appunto gli assalti del male e i tormenti della vita quotidiana da cui egli cerca di fuggire. DOCUMENTI.
1. Kérygma Pétrou.
Tu, Paolo, dici che hai appreso direttamente gli insegnamenti del nostro Signore, perché lo hai visto e lo hai udito faccia a faccia. Ma io ti dimostro che questo è falso. È noto che anche molti idolatri, adulteri, e consimili peccatori affermano di aver avuto visioni e sogni veritieri: ma io sostengo che con occhi mortali non è possibile vedere l'incorporea essenza del Padre o del Figlio, perché essa è avvolta in una luce insostenibile. Ed è un segno di misericordia divina, non di gelosia, che egli sia sempre invisibile agli uomini, che vivono nella carne. Così pure, nessuno può sostenere la vista dell'incorporea potenza del Figlio, e nemmeno di un angelo. Chi, dunque, ha avuto una visione di questo genere, deve ammettere che è stato
42 l'inganno di un demone... Ma, anche ammesso che il nostro Gesù sia apparso proprio a te, che eri ostile a lui, come un nemico, è possibile che tu sia divenuto competente nella sua dottrina attraverso un sogno? Se tu dici: è possibile, perché allora il nostro maestro ha dovuto trascorrere un anno intero con noi, che eravamo svegli? Come possiamo credere che sia apparso a te, se tu insegni proprio l'opposto di quello che egli ha insegnato a noi? Se è vero che tu sei stato visitato da lui, anche solo per lo spazio di un'ora, e sei stato da lui istruito, e sei perciò divenuto apostolo, allora proclama la sua parola, esponi quello che egli ti ha insegnato, sii amico con noi, che siamo i suoi discepoli, e non contendere con me, che fui il suo confidente, che sono una ferma roccia, la pietra di fondazione della sua chiesa. Un E. Hennecke, Neutestamentliche Apokryphe, vol. U, pp. 122-23.] 2. L'eresia di Marcione.
Marcione bestemmia spudoratamente il Dio che la Legge ed i Profeti hanno annunciato. Egli sostiene che è un essere malvagio, amante della guerra, che è ingiusto nei suoi giudizi ed in contraddizione con se stesso. Secondo Marcione, Gesù è nato da un Padre che è superiore al Dio che ha creato il mondo, ed è venuto in Giudea ai tempi del governatore Ponzio Pilato, procuratore di Tiberio Cesare, e si è mostrato sotto aspetto umano agli abitanti della Giudea, allo scopo di abolire i Profeti e la Legge e tutte le opere di quel dio che creò il mondo, e che egli chiama anche Cosmocratore (padrone del mondo). Egli inoltre mutila il Vangelo secondo san Luca, togliendo da esso tutto ciò che sta scritto circa la nascita del nostro Signore e anche una gran parte della dottrina contenuta nei discorsi del nostro Signore, in cui sta scritto chiaramente che il nostro Signore riconosceva come suo Padre il creatore di questo mondo. Egli quindi fa credere ai suoi discepoli di essere più degno di fede degli apostoli che hanno scritto i Vangeli, mentre mette nelle loro mani, non i Vangeli, ma solo una piccola parte di essi. Allo stesso modo, egli mutila anche le Lettere di san Paolo. Non ci sarà salvezza - egli dice ancora - se non per le anime che saranno state istruite nella dottrina del Signore, ma i corpi, per il fatto stesso che vengono dalla terra, non potranno aver parte alcuna alla salvezza. [Ireneo, Adversus haereses, 127,2-3, in E. Hennecke, op. cit, 154-55.]
43 3. Il Vangelo di Tommaso (dei basilidiani).
Gesù disse: "Se coloro che vi guidano vi dicono: "Ecco, il Regno è nel cielo!", allora gli uccelli del cielo vi saranno prima di voi. Se essi vi dicono: "Il Regno è nel mare," allora i pesci vi saranno prima di voi. Ma il Regno è dentro di voi ed è fuori di voi. Quando conoscerete voi stessi, saprete che siete i figli del Padre Vivente. Ma se non conoscerete voi stessi, allora sarete nella privazione e sarete voi stessi privazione". Gesù vide dei bambini che stavano poppando, e allora disse ai suoi discepoli: "Questi bambini che stanno poppando sono simili a coloro che entrano nel Regno". Essi allora gli domandarono: "Se saremo piccoli, entreremo nel Regno?". Gesù rispose loro: "Quando farete in modo che due siano uno, e farete sì che l'interno sia come l'esterno e l'esterno come l'interno, e L'eresia l'alto come il basso, e quando farete del maschio e della femmina una cosa sola, cosicché il maschio non sia più maschio e la femmina non sia più femmina, e quando metterete un occhio al posto di un occhio e una mano al posto di una mano e un piede al posto di un piede, e un'immagine al posto di un'immagine, allora entrerete". I discepoli dissero: "Quando ti manifesterai a noi, e quando ti vedremo?". Gesù rispose: "Quando vi spoglierete senza provare vergogna, e vi toglierete gli abiti e li deporrete ai vostri piedi come i bambini, e li calpesterete. Allora vedrete il Figlio dell'Essere Vivente e non avrete paura". Gesù disse: "Beati voi, solitari ed eletti, perché troverete il Regno! Infatti da esso voi siete usciti e in esso tornerete di nuovo". Gesù disse: "Se vi domandano: "Di dove siete venuti?" rispondete: "Siamo venuti dalla Luce, dove la luce si è originata da se stessa. Essa è sorta e si è manifestata nella nostra immagine"". Disse Salomé: "Chi sei tu, uomo, e di chi sei figlio, tu che hai preso posto nel mio giaciglio e mangi alla mia tavola?". Gesù le disse: "Io sono Colui che viene da Colui che mi è uguale: e quello che mi è dato è delle cose di mio Padre". "Io sono tua discepola!" "Per questo vi dico: chi si troverà Uno sarà inondato di luce, chi sarà diviso verrà avvolto di tenebre". Gesù disse: "Io sono la Luce: quella che sta sopra ogni cosa, io sono il Tutto: il Tutto è uscito da me e il Tutto è ritornato in me. Fendi il legno, e io sono là; solleva la pietra, e là mi troverai". Gesù disse: "Infelice il corpo che è soggetto ad un corpo, e infelice l'anima che è soggetta a tutti e due!". Gesù disse: "Chi ha conosciuto il mondo ed è diventato ricco, rinunci al
44 mondo!". [In M. Graven, i Vangeli apocrifi, pp. 485 sgg.] 4. Il Vangelo di Filippo (dei valentiniani).
Quando noi eravamo ebrei eravamo orfani e avevamo soltanto nostra madre. Ma da quando siamo divenuti Cristiani abbiamo acquistato un padre e una madre. La luce e le tenebre, la vita e la morte, ciò che è a destra e ciò che è a sinistra sono fratelli tra di loro: non è possibile separarli. Per questo motivo, né i buoni sono buoni, né i cattivi sono cattivi, né la vita è vita, né la morte è morte. Ma quelli che sono innalzati sopra il mondo sono indissolubili ed eterni. Taluni hanno detto che Maria ha concepito dallo Spirito Santo. Essi sono in errore. Essi non sanno quello che dicono. Quando mai una donna ha concepito da una donna? Dio è un tintore. Come le buone tinture, che si dicono genuine, muoiono con le cose che sono state tinte con esse, così è con le cose tinte da Dio: poiché le sue tinture sono immortali, esse diventano immortali grazie ai suoi colori. Ora Dio, ciò che immerge, lo immerge nell'acqua. Vi sono certuni che hanno paura di risuscitare nudi. Perciò essi vogliono risuscitare nella carne, e non sanno che quelli che sono nella carne, proprio essi sono nudi. Quelli che spogliano se stessi, fino ad essere nudi, non sono nudi. Né la carne né il sangue possono ereditare il Regno di Dio. // travaglio dei primi secoli 'amore costruisce: colui che è diventato libero grazie alla gnosi, diventa schiavo di coloro che non si sono ancora potuti elevare fino alla libertà della gnosi. L'amore non prende nulla. Infatti, come potrebbe prendere qualche cosa, dal momento che ogni cosa gli appartiene? Esso non dice: "Questo è mio", "Quello è mio", ma dice: "Questo è tuo". Nessuno può sapere qual è il giorno in cui l'uomo e la donna si congiungono, salvo essi stessi. Perché il matrimonio nel mondo è un mistero, per coloro che hanno preso moglie. Ma se il matrimonio d'impurità è un segreto, quanto maggiormente il matrimonio immacolato, nella camera nuziale, è un autentico mistero! Esso non è qualcosa di carnale, ma è puro; non appartiene al desiderio, ma alla volontà; non appartiene alle tenebre della notte, ma appartiene al giorno e alla luce. Quando Eva era in Adamo, non esisteva la morte. Ma dopo che essa si fu separata, la morte è sopravvenuta. Se essa entra di nuovo in lui, e se egli la riprende in se stesso, non esisterà più la morte. Allora la donna si unirà a suo
45 marito nella camera nuziale, e non si separeranno più. [In M. Craven, op. cit, pp. 510-55.] 5. Il Gesù "diverso" dei carpocraziani.
Hai fatto bene a ridurre al silenzio gli inqualificabili insegnamenti dei carpocraziani, che deviano dalla strada retta dei comandamenti verso l'abisso senza fondo dei peccati carnali. [Uomini] di tal fatta devono essere combattuti in tutti i modi e in tutto e per tutto. Orbene, delle [cose] che continuano a dire a proposito del Vangelo di Marco di divina ispirazione, alcune sono assolute falsificazioni, mentre, anche se contengono degli [elementi] veri, nondimeno non sono raccontate secondo verità... Non esiterò quindi a rispondere alle [domande] che mi hai posto, confutando le falsificazioni mediante le esatte parole del Vangelo. Per esempio, dopo: "Ed essi erano in cammino alla volta di Gerusalemme" e quanto segue, fino a: "Dopo tre giorni egli risorgerà", il Vangelo segreto riporta parola per parola il [testo] che segue: "Ed essi entrarono in Betania, e c'era una donna alla quale era morto il fratello. E venendogli incontro essa si prostrò davanti a Gesù dicendogli: "Figlio di Davide, abbi pietà di me". Ma i discepoli la rimproverarono. E Gesù, adiratosi, andò con lei nel giardino dove era la tomba e subito un alto grido fu udito uscire dalla tomba. E Gesù, avvicinatosi, fece rotolar via la pietra. E subito, entrando dove era il giovane, stese la mano e lo alzò, prendendolo per la mano. E il giovane, guardando verso di lui, lo amò e cominciò a implorarlo di poter stare con lui. E usciti dalla tomba, essi andarono alla casa del giovane, che era ricco. E dopo sei giorni Gesù gli disse che cosa fare, e alla sera il giovane andò da lui indossando un panno di lino sul [suo corpo] nudo. Ed egli rimase con lui quella notte...". [Clemente, "Quis vives", in M. Smith, The Secret Cospel.] 6.
Montano e le sue profetesse.
Montano dice: "L'uomo è come una lira, ed io lo faccio vibrare con il mio plettro. L'uomo dorme, e io lo sveglio. Ma è il Signore che muta il cuore degli uomini e dà loro un cuore nuovo". Epifanio, Haereses, XLVIII 4,1.] Montano dice: "Non auguratevi di morire nel letto o mettendo al mondo dei figli, o consumati dalle febbri: ma nel martirio,
46 affinché possa essere glorificato Colui che ha sofferto per noi". [Tertulliano, De fuga, IX,4.) Priscilla dice: "Vestito di abiti splendenti, sotto aspetto di donna, mi è apparso Cristo e mi ha rivelato che scenderà dal cielo la Gerusalemme celeste". [Epifanio, Haereses, XLIX 1,2.] Massimilla dice: "Non ascoltate me, ma ascoltate Cristo". [Epifanio, Haereses, XLVIII 2,4.] Oh! Lo sappiamo bene che queste profetesse, quando si sono sentite invase dallo spirito non hanno esitato, per seguire Montano, ad abbandonare i loro mariti. Che bugia è dunque chiamare vergine Priscilla! Ci parli un po' essa stessa di quel tale Alessandro, che è suo compagno di gozzoviglie. Non occorre poi specificare i furti e i misfatti che essi compiono e i loro illeciti guadagni: spillano denaro a ricchi e a poveri. [Apollonio, Contra Cataphrigios, in Eusebio, Historia Ecclesiastica, V18.] 7.
Accuse di Ippolito di Roma a papa Callisto.
Callisto era lo schiavo di un banchiere. Approfittando della sua condizione, fece delle speculazioni sbagliate e dovette dichiarare fallimento, mandando in rovina molti fratelli di fede, tra cui delle povere vedove, che gli avevano affidato i loro modesti risparmi. Condannato ai lavori forzati in Sardegna, per la benevolenza dell'imperatore Commodo ottenne però l'amnistia e tornò a Roma, per riprendere a trafficare ai danni dei fratelli: si fece consegnare denaro e organizzò le catacombe che portano il suo nome, divenendone amministratore. Dopo essere stato eletto vescovo di Roma, pur avendo sostenuto opinioni eretiche a proposito del Logos, l'impostore Callisto pensò bene di autorizzare le persone ad abbandonarsi ai piaceri carnali. Affermava infatti che tutti coloro che avessero commesso di tali peccati avrebbero ricevuto da lui il perdono. Ed anzi, decise anche che non si sarebbe dovuto deporre un vescovo o un sacerdote, fossero pure colpevoli di peccato mortale. Perciò, al suo tempo, si sono conservati nel loro incarico vescovi, preti e diaconi che si erano sposati due o tre volte. Ma egli affermava che l'arca di Noè era stata costruita in maniera da simboleggiare la Chiesa: c'erano cani e lupi, passeri e corvi, ed ogni specie di animali puri e impuri, ed egli pretendeva che il caso della Chiesa fosse analogo. gli autorizzò le donne non maritate e ardenti di passione, che non erano disposte a perdere il loro rango contraendo un matrimonio legale con uomini di condizione inferiore, a tenersi come compagno di letto anche uno schiavo. E molte donne che pure erano considerate buone cristiane, non volendo accettare un figlio da uno schiavo o da qualche compagno di cui vergognarsi a causa
47 della condizione sociale delle loro famiglie, hanno cominciato a ricorrere alle droghe sterilizzanti ed a stringersi il ventre con delle fasce, in modo da uccidere il frutto del concepimento. Vedete con quale empietà ha agito questo traviato: ha introdotto insieme l'adulterio e l'assassinio. E i suoi seguaci, tuttavia, abbandonato ogni pudore, pretendono di chiamarsi una chiesa cattolica! [Ippolito, Philosophumena, IX11-12.] 8. Fantastiche invenzioni di Epifanio sul manicheismo.
Mani proveniva dalla Persia; prima si chiamava Cubrico, ma volle prendersi quest'altro nome, e credo che ci si possa vedere una disposizione della divina Provvidenza, perché tale nome, a cui si legò, significa "pazzia". Ora, questo Cubrico era schiavo di una vedova, la quale essendo morta senza figli gli aveva lasciata un'immensa fortuna, oro, argento, aromi, ecc. Essa a sua volta l'aveva avuta in eredità da un certo Terbinto, che era stato anche lui schiavo. Suo padrone era stato un tale Saziano, oriundo della regione dei Saraceni, il quale si era dedicato al gran commercio ricavandone ingenti guadagni. Questo Sciziano, inorgoglitosi per le sue immense ricchezze, trovò nella regione della Tebaide una donnina più che perduta. Le sue belle forme davano subito nell'occhio, e colpirono quello stolido, che la tolse dal lupanare, e prima se la prese come amante, poi, datole la libertà, se la sposò. Passò così molto tempo, e lo sciagurato non ne poté più, tanti erano i piaceri a sua disposizione: ma siccome non si occupava più di affari ed era ormai abituato al vizio, spinto dallo stimolo sempre più prepotente del piacere, in cuor suo escogitava ancora come portare all'umanità un'esperienza di nuovo genere. Fu così che si mise a meditare ed a costruire un tale sproloquio: "Perché tanta diversità in tutto l'orbe creato che ci circonda, tra il nero e il bianco, tra l'umido e il secco, tra il cielo e la terra, tra il bene e il male, se non perché provengono da due diversi principi?". Ma era stato il diavolo, quando scatenò più terribile la lotta contro il genere umano, ad unirsi alla sua mente ed a farle concepire la mostruosa idea. Il suddetto Sciziano, quindi, accecato nello spirito per tutto questo e per gli argomenti che prendeva da Pitagora, se ne era così esaltato: ed eccolo a comporre per la sua libidine quattro libri, nei quali, qualunque fosse l'argomento trattato, aveva messo insieme sulla scena i personaggi dei due principi, l'uno accanto e in corrispondenza con l'altro. Il suo discepolo Terbinto, di cui ho parlato, morto Sciziano, gli rese con molta devozione gli onori funebri; ma, datagli sepoltura, si guardò bene dal tornare da
48 quella donnina che Sciziano da prostituta e da schiava aveva fatto sua moglie. Se ne fuggì invece in Persia con tutto l'oro, l'argento, ecc, e, funesta eredità, anche con i quattro libri di Sciziano e l'occorrente per le pratiche di magia. Ma quando anche lui in Persia, dove aveva preso alloggio in casa di una vecchia vedova, si mise a disputare, venendo anche a dibattito con i custodi del tempio di Mitra e i sacerdoti di quella divinità, e non riuscì a sostenere i suoi argomenti, neanche con i capi dell'idolatria, allora prese una determinazione simile a quella di Sciziano: salì sul tetto di una casetta, e per chiudere la bocca a tutti ricorse alla magia, ma fu abbattuto da un angelo e precipitò giù, morendo. La vecchia ne seppellì il cadavere e venne quindi in possesso delle sue ricchezze; non aveva alcun figlio o parente, e rimase in tale condizione per molto tempo. Fu in seguito che comprò Cubrico e quando morì lasciò a lui quella trista eredità. Cubrico adunque, che frattanto aveva preso il nome di Mani, viveva anche lui di quella eredità e da essa assumeva le sue discussioni. Mani introduce due principi, che sono sempre stati e non avranno mai fine, opposti l'uno all'altro: al primo dà il nome di Luce e di Bene, all'altro quello di Tenebre e di Male, così che possono identificarsi con Dio e il Diavolo. Dai due principi hanno l'esistenza e la sostanza tutte le cose: l'uno crea tutte quelle buone, l'altro tutte quelle cattive, da questo ha origine il corpo, dall'altro l'anima, e cioè l'anima degli uomini e di tutti gli animali, anzi non soltanto di questi, poiché egli afferma che l'umore delle piante è il movimento dell'anima, che dice identico a quello che esiste negli uomini. Ma tante altre favole egli inventa ed insegna; dice che chi mangia la carne mangia anche l'anima, e deve diventare come ciò che mangia: se ha mangiato del maiale, diventa anche lui un maiale, e così pure se si tratta di bue o di volatile. Perciò si astengono dai viventi. Se poi qualcuno - dice - pianta un fico o un ulivo o una vite o un sicomoro o un pesco, anche lui quando muore sarà legato con la sua anima ai rami di quegli alberi, senza potersene staccare. Così aggiunge - chi prende moglie, quando muore cambia corpo diventando anche lui una donna. Il re di Persia, venuto a conoscere la predicazione dì Mani, mandò a prenderlo, lo fece tradurre ignominiosamente in Persia, poi lo fece scorticare a fil di canna, e così gli diede la pena meritata. Perciò in Persia ancora conservano quell'otre ripieno di paglia, fatto della sua pelle scorticata con la canna. E per questo i manichei anch'essi stendono i loro corpi sulle canne quando dormono. [Epifanio, Panarion, cap. I-XII passim, in C Riggi/ Epifanio contro Mani.]
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II. LE ERESIE TRINITARIE E IL PROBLEMA DELLA SALVEZZA DURANTE IL PERIODO BIZANTINO (SEC. IV-VIII).
Ario e l'arianesimo.
L'editto di Tolleranza, promulgato da Galerio il 30 aprile del 311 a Nicomedia e poi riconfermato nel 313 dall'editto di Costantino e di Licinio, segnò una svolta assai importante nella storia della cristianità. Il cristianesimo diventava una delle religioni permesse dallo Stato, ma in cambio il potere decisionale, anche in materia teologica, passava dai vescovi all'imperatore. Il cesaropapismo inaugurato da Costantino era un'abile mossa politica per assicurarsi un'autorità assoluta, non certo la conseguenza di una conversione religiosa. Costantino in vita sua non fu mai cristiano, e non è nemmeno sicura la tradizione che si sia fatto battezzare in punto di morte. Ma per giustificare l'asservimento a un imperatore pagano, i cristiani dovettero inventare una leggenda. Nell'ottobre del 312, quando Costantino chiese il loro appoggio militare nella battaglia del Ponte Milvio contro Massenzio, lo stemma del dio Sole, che campeggiava sugli scudi, fu interpretato come il simbolo di Cristo apparso in sogno a Costantino, e la battaglia che stavano combattendo come una santa crociata per la libertà della propria religione. La dirigenza del cristianesimo passò a Bisanzio, scelta da Costantino quale capitale dell'impero e, nelle controversie tra la Chiesa e gli eretici, egli non si preoccupò di difendere l'ortodossia ma di evitare dissidi. Già a proposito della disputa fra Donato e Ceciliano, nella Chiesa di Cartagine, si era regolato in questo senso scomunicando Donato, non perché fosse un eretico, ma perché era causa di turbamento; e qualche anno più tardi, per lo stesso motivo, manderà invece in esilio il vescovo di Alessandria. Fu questa ingerenza indiscriminata a favorire, durante il secolo IV, l'affermarsi e il consolidarsi dell'arianesimo, una delle eresie che ebbero più vasta diffusione e più lunga durata nella storia del cristianesimo. Anche questa volta l'eccezione dottrinale mosse da Alessandria, per iniziativa di un presbitero, Ario, che era stato educato alla scuola teologica di Antiochia, di indirizzo aristotelico, e quindi era nettamente monoteista e contrario allo sdoppiamento dell'unità divina in Padre e Figlio, sostenuto dalla scuola di Alessandria. Ario affermava infatti: "Se Gesù Cristo è figlio di Dio, non può essere coeterno a lui, ma deve aver avuto inizio nel tempo, quindi è stato generato, e prima non esisteva".
50 Con questa dottrina Ario intendeva salvare l'unità indivisibile di Dio e anche l'umanità concreta di Gesù dal pericolo di un allontanamento ieratico: Cristo, vero uomo, primogenito di tutte le creature, come l'aveva definito san Paolo, Messia rivelatore della verità. Si anticipava quello che, con successive elaborazioni, a differenza della cristologia occidentale, diverrà il concetto della funzione di Cristo per la Chiesa bizantina: mettere l'uomo in comunione con Dio, permettendogli di partecipare alla condizione dell'esistenza divina, di riconoscere se stesso imago Dei, attraverso l'ascesi e la contemplazione. Accusato di eresia e messo al bando dal suo vescovo Alessandro, nel 321, Ario si trasferì in Palestina e di qui a Nicomedia, ospite del vescovo Eusebio, che divenne subito uno dei suoi più entusiasti sostenitori, costituendo nella propria diocesi un forte partito ariano. Dopo vani tentativi di conciliazione, Costantino, per evitare spaccature e risolvere la controversia tra ortodossi e ariani, decise di convocare a Nicea un Concilio generale di tutti i vescovi cristiani. Fu il primo Concilio ecumenico nella storia della Chiesa. Si riunirono circa duecentoventi vescovi (ma la cifra avvalorata dalla Chiesa, in base alle supposizioni fatte diversi anni dopo da Ilario di Poitiers, è di tre- centodiciotto): per la massima parte erano vescovi orientali, eccetto cinque vescovi dell'Occidente, tra cui Osio di Cordova e due preti romani, Vincenzo e Vito, in rappresentanza del vescovo di Roma. Dapprima venne dato ascolto ad Ario, che espose la propria dottrina tra le grida e gli schiamazzi della maggior parte dei padri conciliari. Poi si lesse una dichiarazione di Eusebio di Nicomedia, il quale, a rincalzo di Ario, osservava che sostenere che Cristo è coeterno al Padre significa ammettere l'esistenza di due dèi contemporaneamente o ritenere che fosse stato Dio stesso a scendere in terra Le eresie trinitarie otto spoglie umane. Lo scritto di Eusebio venne lacerato con indignazione. In seguito, le discussioni dei padri conciliari, a Nicea, furono lunghe e confuse, soprattutto per la difficoltà di trovare un comune terreno di intesa sulla terminologia: la differenza fra "generare" e "creare", fra "sostanza" ed "essenza", fra "natura" e "persona". Finalmente, dopo accaniti dibattiti, fu compilata una formula, il Credo niceno, che con qualche lieve ritocco costituirà un dogma fondamentale del successivo cristianesimo: "Gesù è consustanziale [homoúsios] al Padre, generato e non creato". Ario e i suoi discepoli protestarono che tale definizione di Cristo non trova luogo in nessun passo delle Sacre Scritture, e che una sostanza può generarne un'altra soltanto suddividendosi, quindi perdendo una parte della sua quantità. Il contrasto di idee era anche dovuto al fatto che per Ario "sostanza" e "persona" erano termini equivalenti, mentre gli ortodossi intendevano dire che possono esistere (ed esistono infatti anche in natura) due
51 "persone" o individui costituiti della medesima sostanza. Costantino appose il sigillo imperiale alla deliberazione del Concilio e decretò l'esilio di Ario e dei suoi compagni, tra cui Eusebio di Nicomedia e Teognide di Nicea. Ma la definizione nicena non ristabilì la pace. Nonostante la scomunica degli eresiarchi, gli ariani continuarono ad aumentare di numero e divennero talmente prevalenti nelle chiese orientali da mettere in minoranza gli avversari nei concili. Costantino, a questo punto, decise di appoggiare i più forti e nel 328 richiamò dall'esilio Eusebio di Nicomedia e lo reintegrò nella carica di vescovo a Costantinopoli. Pochi anni dopo anche Ario fu richiamato, ma Attanasio, nuovo vescovo di Alessandria, rifiutò di accettarlo nella propria chiesa. Alle proteste degli ariani si aggiunsero anche quelle dei meleziani, i quali accusavano Atanasio di abusi commessi nel proprio ufficio, di atti sacrileghi e di immoralità. Eusebio di Nicomedia si fece portavoce di queste lagnanze presso l'imperatore, insinuando anche che Atanasio, per ritorsione, aveva minacciato di impedire il trasporto di frumento da Alessandria a Costantinopoli. Udendo ciò, Costantino decise di mettere Atanasio sotto processo, e a tale scopo convocò un Concilio a Tiro. Atanasio, riconosciuto colpevole anche di delitti comuni e accusato da una giovane di essere stata da lui defiorata, sebbene avesse fatto voto di verginità perpetua, venne esiliato a Treviri. Il trionfo degli ariani fu coronato lo stesso anno con la condanna e la deposizione di Marcello, vescovo di Ancyra, che aveva scritto un libro contro Ario, controbattendolo però con una dottrina anch'essa eretica rispetto al Credo niceno: Gesù Cristo, essendo stato generato da Dio mediante l'incarnazione dello Spirito Santo, si poteva dire che "procedeva" dallo Spirito Santo. Quanto ad Ario, ormai ottantenne, pochi mesi dopo essersi trasferito a Costantinopoli, accolto con tutti gli onori, morì. Subito, dall'esilio, il suo implacabile avversario Atanasio diede una versione infamante della sua morte. [Vedi Documenti n. 1.] Le dispute non cessarono con la morte di Ario. Costantino II, succeduto nel 337 al padre Costantino I, credette di dover appoggiare la Chiesa ufficiale e richiamò dall'esilio Atanasio, rimettendolo sul seggio vescovile di Alessandria. Gli ariani, indignati, si ribellarono nuovamente e informarono per lettera Costantino II, Costante e Costanzo, in lotta tra loro per il potere, che Atanasio aveva venduto a proprio profitto il grano destinato da Costantino I ai poveri dell'Egitto e della Libia. Di nuovo mandato in esilio, Atanasio fuggì a Roma, legando alla sua persona e alla sua dottrina il consenso di Giulio I, vescovo della città, che infatti rifiutò di riconoscere valida la sua
52 deposizione, considerandolo calunniato ingiustamente. Egli, anzi, convocò appositamente un Concilio a Roma, invitando anche alcuni vescovi ariani, i quali però rifiutarono di intervenire sostenendo che non vedevano l'opportunità di riaprire un processo ad Atanasio, già da essi giudicato e condannato. Nel Concilio, che si tenne nel 340, oltre ad Atanasio fu riabilitato anche Marcello di Ancyra, riconoscendo "soddisfacente" la sua dottrina che subordinava Cristo allo Spirito Santo. Nel medesimo Concilio si decise anche un'importante questione liturgica: venne fissata al 25 dicembre la data di nascita di Gesù, per farla coincidere con la festa pagana del Natalis Solis Inuicti, ancora molto popolare in tutto il territorio dell'impero. Di conseguenza, il 6 gennaio, giorno dell'Epifania, cioè della "apparizione" del Signore, che era stata fino ad allora riconosciuta come data di nascita e che continuerà ancora a esserlo in Oriente, si trasformò nel mito della comparsa della stella cometa e della visita dei re magi alla stalla di Betlemme. In risposta alle conclusioni del Concilio di Roma, immediatamente Eusebio di Nicomedia riunisce ad Antiochia un Concilio filoariano, innanzi tutto per protestare contro l'inopportuna ingerenza del vescovo di Roma nelle decisioni prese a carico di Atanasio: rifacendosi a quanto già si era deliberato nel Concilio di Nicea, si decreta che un vescovo, unanimemente condannato da tutti i vescovi della sua provincia, non può più essere giudicato da altri; che un vescovo deposto non deve più partecipare ad alcun Concilio, e che sono da "evitare" anche coloro che lo proteggono. Ma il risultato più notevole fu l'approvazione di una formula di compromesso sulla natura di Cristo, proposta dallo stesso Eusebio, in cui si riconosceva Cristo "coeterno" al Padre, senza fare cenno all'identità di sostanza: "Crediamo in un solo Dio, sovrano, creatore e conservatore del mondo, e nel suo unico Figlio, che esiste da tutta l'eternità". Il tentativo di un compromesso tra ariani e non ariani fatto da Eusebio andò fallito. Morto Eusebio, proprio l'anno dopo si riaccesero le zuffe tra ariani e cattolici per la nomina di un suo successore al vescovato di Costantinopoli. I cattolici tentarono di imporre Paolo, ribellandosi persino alle truppe imperiali che cercavano di sedare i tumulti, e uccidendo il loro comandante Ermogene. Saputo questo, l'imperatore Costanzo, che si trovava ad Antiochia, si affrettò a tornare nella capitale, cacciò Paolo e riconobbe come vescovo il candidato degli ariani Macedonio. Ora i vescovi ariani erano in maggioranza in tutto il mondo cristiano. Tanto che, quando nel 352 morì Giulio I, essi osarono rivolgersi al nuovo vescovo di Roma, di nome Liberio, perché annullasse la riabilitazione di Atanasio, loro implacabile avversario, fatta appunto da Giulio I. Liberio pregò allora
53 l'imperatore Costanzo di convocare un Concilio. Questo venne adunato ad Arles: i rappresentanti cattolici risultarono in minoranza rispetto a quelli ariani e il Concilio si chiuse con la condanna di Atanasio, nonché di Marcello di Ancyra e del suo discepolo Fotino, vescovo di Sirmio: il primo "per aver mescolato l'errore di Sabellio, la malizia di Paolo di Samosata e le bestemmie di Montano in un confuso sistema", Fotino perché insegnava che "Dio Padre è una monade che si è dilatata dando così origine al Figlio e allo Spirito Santo". Nel Concilio di Arles, anche alcuni vescovi cattolici, come Vincenzo di Capua, votarono la proposta degli ariani, perché la condanna di Atanasio, che essi avrebbero voluto evitare, era legata a quella di Marcello e di Fotino, che essi consideravano certamente eretici. Soltanto Paolino, vescovo di Treviri, non accettò di sottoscrivere il decreto, proponendo di scindere le due condanne. Per questa sua resistenza Paolino venne dichiarato deposto dalla carica episcopale e mandato in esilio in Frigia. L'imperatore Costanzo, che aveva fino allora cercato di mantenere la politica di equilibrio inaugurata dal padre Costantino intervenendo solo come moderatore adesso, desideroso di porre termine una volta per sempre alle contese tra cattolici e ariani, decise di imporsi con la propria autorità. Egli convocò, per l'anno 355, un nuovo Concilio a Milano, e qui propose l'approvazione di un editto che ordinava ad ambo le parti di addivenire a una soluzione di compromesso. Molti vescovi cattolici protestarono, dichiarando che essi erano tenuti a riconoscere unicamente il Credo di Nicea, ma l'imperatore troncò ogni loro discorso traendo la spada e minacciando di morte coloro che avessero osato discutere le sue decisioni. Due anni dopo, Costanzo prese addirittura l'iniziativa di definire, egli stesso, la questione dottrinale della "natura" di Cristo, motivo fondamentale delle acerbe dispute teologiche. Chiamò pertanto i rappresentanti delle varie correnti nella sua residenza di Sirmio (oggi Sremska Mitrovica, in Jugoslavia). In quel Concilio le sottigliezze teologiche giunsero al culmine. Vennero addirittura presentate quattro formule diverse. Atanasio di Alessandria sosteneva sempre che si doveva definire Cristo homoúsios (identico nella sostanza) a Dio, secondo il Credo di Nicea. Basilio di Ancyra suggeriva di limitarsi a definirlo homoioúsios (simile nella sostanza): e quante discussioni si fecero per la differenza di una sola z! Acacio di Cesarea faceva ancora una riduzione, battendosi per il termine hómoios (simile, uguale), senza accennare alla sostanza. Aezio, vescovo di Celesiria, Eunomio di Cizico e Ursacio di Singiduno (odierna Belgrado) ribadivano le posizioni ariane, affermando che Gesù era anámoios, cioè dissimile da Dio.
54 Tra le varie formule, l'imperatore optò per quella di Acacio e la fece approvare dal Concilio: "Noi affermiamo che Cristo è simile [hómoios] in tutto al Padre, come dicono e insegnano le Sacre Scritture". Appena terminato il Concilio di Sirmio, Costanzo convocò separatamente i vescovi orientali a Seleucia e i vescovi occidentali a Rimini, per imporre sia in Oriente sia in Occidente la formula acaciana, e ricorse anche alla forza contro i renitenti. La Chiesa occidentale si vide perseguitata. Liberio, vescovo di Roma, fu deposto, confinato a Berea, in Tracia, e sostituito dal filoariano Felice II; i vescovi Ilario di Poitiers, Lucifero di Cagliari, Eusebio di Vercelli e Osio di Cordova vennero pure esiliati; ad Alessandria Atanasio poté a stento evitare le truppe imperiali venute per allontanarlo dalla sede episcopale, fuggendo nel deserto. "Allora" scriverà più tardi san Girolamo "fu decretata la condanna della fede nicena. Gemette tutto il mondo accorgendosi con meraviglia di essere ariano." Le eresie trinitarie o stesso tiberio, dopo pochi mesi di esilio, si decise a mandare all'imperatore la propria adesione alla formula di Acacio: fu pertanto perdonato e poté rientrare in sede. Ma qui, il vescovo filoariano, Felice, non accondiscese a cedergli il posto, e così Roma ebbe due pontefici contemporaneamente. Alla morte di Costanzo (362), con il successore Giuliano cambiò l'atteggiamento dell'impero verso il cristianesimo. Giuliano fu detto l'Apostata perché, sebbene educato alla fede da maestri cristiani, nel brevissimo periodo del suo regno sognò l'instaurazione di una religione perfetta, basata su profondi principi filosofici e su precetti di una vera austerità morale. Egli non fu un persecutore del cristianesimo, come lo dipingono gli storici della Chiesa, anzi si disinteressò delle loro diatribe, che lo disgustavano profondamente, intervenendo soltanto per impedire violenze e risse. Tuttavia, nell'intento di promuovere gli studi classici e filosofici, esonerò dall'insegnamento i maestri cattolici ignoranti in materia, sostituendoli con maestri pagani, ai quali lasciò ampia libertà di praticare e propagandare la loro fede. Per tutto questo Giuliano fu esecrato dall'alto clero cristiano, alla pari di un eretico e di un profanatore della Chiesa. Appena morto Giuliano, dopo pochi mesi di regno, ricominciarono le lotte interne tra i cristiani. Il sempre battagliero Atanasio, tornato nella sua sede di Alessandria, riunì nuovamente a Concilio i vescovi occidentali antiariani per riconfermare il Credo di Nicea, proponendo anche che fosse concesso il perdono, con opportune penitenze, agli ariani che intendessero rientrare in seno alla Chiesa cattolica. Solo il vescovo di Cagliari, Lucifero, non approvò simile indulgenza e fu dagli altri colleghi scomunicato quale fomentatore di
55 scismi. Scoppiarono pure scontri sanguinosi tra ariani e non ariani a Roma e a Milano. Nella prima città, morti i vescovi Liberto e Felice a breve distanza di tempo l'uno dall'altro, vi furono tumulti tra i fedeli per la scelta del successore. Durante gli scontri trovarono la morte cento- trentasette persone. Dei due candidati, il cattolico Dámaso e l'ariano Ursino, alla fine prevalse il primo, che scomunicò il proprio avversario e ottenne che venisse esiliato dall'imperatore Valentiniano. Fu proprio Dámaso, che fin dagli inizi resse l'episcopato con una fermezza anche brutale (fu persino accusato di omicidio), il più accanito sostenitore della supremazia di Roma su tutte le altre chiese, introducendo l'appellativo di "sede apostolica" alla sede vescovile romana. Ma il titolo di papa continuerà ancora fino al secolo V a essere conferito a qualsiasi vescovo. In genere, in Occidente, si accettò L'eresia di riconoscere il primato del vescovo dì Roma, mentre in Oriente le adesioni furono assai scarse. Intanto a Milano, che dopo Roma era la città più importante dell'Occidente, nel 373, morto il vescovo ariano Aussenzio, che reggeva la diocesi dal 355, i fedeli si azzuffarono, divisi in due partiti, per la nomina del successore. A sedare quei disordini si intromise il governatore imperiale Ambrogio e il suo discorso conciliativo fu applaudito da ambo le parti. Sebbene egli fosse laico, gli venne offerta la nomina a vescovo. Nel giro di una sola settimana Ambrogio fu battezzato, promosso ai vari gradi della gerarchia ecclesiastica, e insediato nella sede episcopale. Ambrogio si mostrerà ampiamente degno dell'incarico ricevuto, per la rettitudine e la carità verso i poveri, ma anche implacabile persecutore dei pagani, degli ariani, e di ogni altro tipo di eretici, fino a meritarsi il soprannome di Scomunicatore. La sua fervente azione pastorale e i numerosi scritti di esegesi e di morale gli faranno ottenere la santificazione. L'esempio di sant'Ambrogio ispirò alla Chiesa cattolica una più intensa persecuzione dei devianti. Epifanio, vescovo di Salamina, nell'isola di Cipro, s'incaricò di comporre un ampio trattato di eresiologia, intitolato Panarion ("cassetta per le medicine, contravveleni"), in cui descrive e confuta ben ottanta eresìe, alcune delle quali, però, ripetute più volte sotto nomi diversi, e di cui una ventina non sono nemmeno eresie del cristianesimo, ma antiche credenze pagane. Nel 377 un Sinodo romano condannò Apollinare, vescovo di Laodicea, e con lui Diodoro, vescovo di Tarso, perché insegnavano che Gesù Cristo non aveva un'anima come gli altri uomini ma la sua anima non era altro che lo Spirito Santo. Influenzato dallo stesso Ambrogio, nel 380, con l'editto di Tessalonica, l'imperatore Teodosio riconosceva il cristianesimo unica religione ammessa
56 nell'impero, annunciando severe misure repressive contro eretici e pagani. L'anno seguente, nel secondo Concilio ecumenico, riunito a Costantinopoli e presieduto da Teodosio, si riepilogavano tutte le condanne fino allora comminate a ogni sorta di eretici, e si ribadiva il Credo niceno, ritoccandone però la formulazione, che era piuttosto vaga a proposito della terza persona della Trinità ("E crediamo nello Spirito Santo"): ora se ne dichiarava la parità col Padre e col Figlio. Così, contravvenendo ancora una volta all'autentico messaggio evangelico, la Chiesa costituiva il dogma trinitario, e Teodosio lo inseriva nel proprio Codice di leggi. [Vedi Documenti n. 2.] Per celebrare quest'ultima vittoria, il secondo Concilio ecumenico terminava con la scomunica dei macedoniani, che negavano la divinità dello Spirito Santo, e lanciava un solenne anatema contro gli ariani. Tuttavia, messo al bando dalla Chiesa, l'arianesimo continuò a diffondersi tra i germani, soprattutto per merito di Ulfila che, dal 341, quando era stato consacrato vescovo dei goti da Eusebio di Nicomedia, non aveva cessato di prodigarsi per la conversione di quei popoli. E l'arianesimo fu infatti l'unica forma in cui venne accettata la religione cristiana da goti, burgundi, vandali, e poi longobardi. Il problema della salvezza.
Con l'impegno di perseguitare gli eretici, l'imperatore Teodosio aveva fatto dello Stato uno strumento di repressione al servizio della Chiesa. Il primo risultato di questa nuova politica fu, nel 385, la decapitazione per ordine di Massimo Magno, usurpatore dell'impero in Gallia e Spagna, dell'eretico Priscilliano, vescovo di Avila, in Spagna, e di sei suoi seguaci, tra i quali una donna, sotto accusa di magia. In realtà Priscilliano non era un mago, ma si era fatto promotore di un movimento ascetico, formato da uomini e donne, che si proponevano di ottenere la salvezza eterna seguendo rigide regole di astinenza, di digiuno e di preghiera. Priscilliano giustificava questo impegno con l'idea, vagamente gnostica e manichea, che lo spirito è prigioniero della materia, creazione del diavolo, e che l'uomo può, con una condotta rigorosamente virtuosa, esorcizzare le forze demoniache del male, conoscibili anche dagli influssi degli astri. Di qui l'accusa di magia. L'intento di Priscilliano era di reagire al generale rilassamento del costume religioso, per cui la fede nelle opere di bene era sostituita dalla cieca fiducia nell'efficacia dei sacramenti impartiti dalla Chiesa, dal fascino dei riti e delle cerimonie pubbliche: esteriorità che il clero assecondava volentieri. In effetti, quindi, il rigorismo dei priscilliani fu avversato perché suonava aperto rimprovero alla presunzione
57 della Chiesa ufficiale. La loro è la prima condanna a morte inflitta a eretici cristiani. Anche un impegno di moralizzazione dei costumi continuava a essere perseguito, in Africa, dai seguaci di Donato, detti ora gli agonisti (i "lottatori"), i quali, dopo la battaglia condotta dal loro capo contro le indulgenze ecclesiastiche verso i traditores, adesso respingevano qualsiasi ingerenza della Chiesa, perché la consideravano eccessivamente corrotta e indebitamente arricchita, e trovavano appoggio nel movimento popolare dei braccianti agricoli, chiamati per L'eresia disprezzo circoncellioni ("quelli che si aggirano attorno ai magazzini"), in quanto si ribellavano, anche con ruberie e atti di violenza, allo sfruttamento dei latifondisti. Del resto, secoli di deludente attesa della giustizia sociale promessa dai Vangeli avevano generato un diffuso sconforto, e quindi l'usanza, che cominciò a diventare sempre più frequente agli inizi del secolo IV, da parte di molti spiriti inquieti, sinceramente religiosi, di trovare pace ritirandosi in eremitaggio, isolati oppure in piccoli gruppi monastici. Era essenzialmente una fuga dal mondo, onde avere la possibilità di praticare, nella solitudine, una vita di meditazione e di preghiera. Ma mentre in Oriente l'esicasmo (dal greco hesychfa, "silenzio, pace") era considerato la via migliore d'incontro con Dio e di ricerca della salvezza, in Occidente era visto con sospetto, soprattutto quando gli asceti agivano individualmente o in piccoli gruppi, sottraendosi al controllo delle autorità ecclesiastiche. Per questo, Roma, come aveva condannato la comunità dei priscillianiti, condannò anche i messaliani (dall'aramaico meshallàim, "gli oranti"), detti anche grecamente euchiti, che formavano una setta, comparsa in Armenia nel 390- Essi ritenevano la preghiera l'unico mezzo valido per mettersi in rapporto con Dio e invocarne la salvezza, rinunciando a ogni altra pratica culturale e alla mediazione della Chiesa. Rifiutati agli uomini, perché costituendosi in comunità autonome venivano a esercitare un loro proprio sacerdozio, i voti di castità perpetua e di segregazione dal mondo ricevevano invece viva approvazione da parte delle autorità ecclesiastiche se venivano pronunciati dalle donne, che sarebbero vissute sotto il controllo di pii sacerdoti, e anche perché la letteratura religiosa, da san Paolo in poi, aveva sempre considerato la donna facile alla lascivia e strumento diabolico di perdizione. Cominciarono così a fiorire conventi femminili, governati da severe regole di clausura, di penitenze, di macerazione dei corpi: alle poverette veniva assicurato che la loro salvezza sarebbe stata certa se avessero preso a modello la verginità immacolata e le sofferenze di Maria, la
58 madre del Cristo. San Gerolamo fu tra i primi a dedicarsi a quest'opera di persuasione delle fanciulle. Nativo di Stridone, in Dalmazia, Gerolamo, dopo un periodo di ritiro nel deserto della Calcide, si era stabilito a Roma, alla corte pontificia di Dámaso I. Frattanto frequentava famiglie aristocratiche, svolgendo un'appassionata propaganda monastica tra le giovani patrizie, a cui raccomandava un tenore di vita talmente rigido e Le eresie trinitarie bigotto da meravigliare anche i più accaniti antifemministi. A ogni modo, la sua familiarità con belle e giovani signore dell'aristocrazia destò sospetti e calunnie maligne. Fu anche accusato di sostenere tesi eretiche, e se ne lagnò con amarezza in alcune delle numerose lettere che scriveva alle sue discepole: "Mi chiamano eretico, perché sostengo che la Trinità è consustanziale, e mi accusano dell'empietà di Sabellio, perché insisto a dire che esistono tre persone effettive, autentiche e perfette. Se queste accuse venissero dagli ariani, lo capirei; ma se provengono da ortodossi, vuol dire che proprio essi sono oramai usciti dall'ortodossia. Perché dilaniano uno che non merita tanta antipatia? Ogni giorno qualcuno mi chiede una dichiarazione di fede: la enuncio, ma non ne sono paghi, la sottoscrivo, e non mi credono sincero. Di una sola cosa sarebbero contenti, che io me ne andassi via di qui". Ma ciò che più amareggia Gerolamo sono le insinuazioni malevole sui suoi rapporti con le giovani nobildonne, e alla fine decide veramente di abbandonare Roma, scrivendo una lettera di commiato a una delle sue discepole predilette: "Sebbene certuni mi stimino un criminale dedito a tutte le turpitudini, ti sono grato che tu, seguendo un impulso interno, mi consideri buono. Verrà quel giorno conclusivo che vedremo molta gente precipitata nel fuoco eterno! Io canaglia, io impostore, che imbroglia con una destrezza degna di Satana! Mi baciano le mani, poi con la bocca di vipera mi denigrano. Spesso mi stava attorno una folta schiera di vergini, e io commentavo loro, come ero capace, i libri ispirati da Dio. Lo dicano apertamente: che cosa hanno mai notato in me che fosse in contrasto con la condotta che si addice a un cristiano? Ho mai tenuto discorsi ambigui? Il mio sguardo è mai stato sfacciato? Se fossero dei pagani a criticare il mio tenore di vita, se fossero degli Ebrei, avrei il conforto di non riuscire simpatico a coloro ai quali è antipatico Cristo; invece sono donne, le quali si fanno chiamare cristiane, che, invece di pensare alle proprie faccende, trascurando la trave che è nel loro occhio, cercano il fuscello in quello altrui". Da Roma, Gerolamo si trasferisce in Palestina e, raggiunto da alcune pie donne romane, fonda a Betlemme un convento femminile. Contro l'aberrante usanza di
59 recludere le fanciulle, per una vita di rinunce, sacrifici e penitenze che in moltissimi casi (la storia dei monasteri femminili sarà piena di terribili esempi) provocheranno alterazioni psichiche, isterismi, sofferenze spaventose, insorsero persone di buon senso. Elvidio, che era stato discepolo di Aussenzio, il vescovo ariano della chiesa milanese, disapprovò i voti monastici L'eresia femminili, affermando la superiorità del matrimonio, con l'asserzione che anche Maria era vissuta coniugalmente con Giuseppe. Bonoso, vescovo di Capua, e Gioviniano, presbitero a Roma, dimostrarono, con citazioni di passi evangelici, che Maria, oltre a Gesù, aveva messo al mondo altri figli. Violentemente confutati da san Gerolamo, il quale sosteneva che i fratelli e le sorelle di Gesù, esplicitamente nominati in Matteo (Mi 13,55-56) in realtà erano suoi "cugini", Elvidio, Bonoso e Gioviniano vennero scomunicati, fra il 390 e il 392, con l'imputazione di aver intaccato il dogma della verginità perpetua di Maria e di aver negato che Gesù fosse "unigenito". Ma l'avversario più pericoloso per il cristianesimo era tuttora la religione pagana, che gli eresiologi mettevano alla stregua di un'eresia, definendola "l'impero di Satana", una forma di superstizione che corrompeva il culto dovuto a Dio. Proprio nel 392, un editto di Teodosio ribadì la proibizione di qualsiasi culto pagano: offrire sacrifici agli dei veniva considerato delitto di lesa maestà. Si invertiva il punto di vista dei tre primi secoli, durante i quali i cristiani erano stati perseguitati come nemici dello Stato, perché rifiutavano di sacrificare agli dei dell'Olimpo! Lo zelo dei vescovi nel perseguitare il culto pagano come eresia superò le stesse intenzioni dell'imperatore. Teofilo, vescovo di Alessandria, guidò un esercito di monaci a distruggere il tempio di Serapide, facendo trucidare numerosi pagani che erano intenti alle loro funzioni sacre. Giovanni Crisostomo mandò da Antiochia spedizioni di asceti fanatici a demolire i templi del Libano e a uccidere gli idolatri. Porfirio di Gaza fece radere al suolo il famoso tempio di Marnas. L'inquietudine dei tempi ebbe la sua più alta espressione nella vita e nelle opere di sant'Agostino. Nato a Tagaste (odierna Souk Ahras in Algeria) nel 354, da padre pagano, Agostino, dopo un'adolescenza inquieta, sui vent'anni aderì al manicheismo. Ma a Milano, dove si trasferì nel 384 come maestro di retorica, avvenne la sua conversione al cristianesimo, attraverso una tormentosa ricerca della verità, che egli stesso descrisse nelle Confessioni, capolavoro non soltanto di mistica e di apologetica, ma soprattutto di acuta analisi psicologica. Poi si stabilì a ippona, presso l'attuale Bona, e, ordinato sacerdote, divenne vescovo nel 396. Le opere di sant'Agostino, nonostante la confutazione del manicheismo,
60 conservano innegabili tracce della sua precedente esperienza manichea, soprattutto per il profondo pessimismo riguardo alla natura umana, che egli considera eternamente dannata. In conseguenza del peccato di Adamo - sostiene Agostino - l'uomo è per se stesso incapace di fare, anzi persino di volere, il bene. La sua salvezza dipende perciò interamente e solamente dalla grazia che Dio gli vuole concedere, indipendentemente dai suoi meriti personali (predestinazionismo). Contro il pessimismo antropologico di Agostino, e soprattutto contro il conseguente pericolo di una fede operibus nuda e di un'abdicazione da ogni senso di responsabilità, per affidarsi ciecamente all'azione sacramentale della Chiesa, nella speranza di ottenere, in tale modo, la grazia divina, protestarono Pelagio, monaco britannico o irlandese, ma vivente a Roma, e il suo discepolo Celestio. Pelagio, ben accolto nelle case dei ricchi aristocratici romani, nel 393 aveva cominciato a criticare apertamente la confutazione fatta da san Gerolamo alle dottrine di Elvidio, Bonoso e Gioviniano, sostenendo che la salvezza si ottiene mettendo in pratica i precetti del Vangelo, e non ritirandosi dal mondo. Quando apparvero gli scritti di sant'Agostino, Pelagio polemizzò anche con lui. In opposizione alla dottrina agostiniana del peccato originale e della grazia, Pelagio era del parere che il peccato di Adamo non si è trasmesso a tutta l'umanità: esso ha riguardato solo lui e non può pesare sul destino degli uomini venuti dopo. Ogni anima è creata direttamente da Dio, per ciascun uomo, all'atto della sua nascita, ed è pura e libera, quindi ogni uomo deve salvarsi con le proprie forze; Dio concede la grazia di conoscere ciò che è il bene, ma lascia liberi di seguirlo o di rifiutarlo, e la salvezza si ottiene pertanto in ricompensa di una vita virtuosa. [Vedi Documenti n. 3.] Molti monaci, infatti, già abbandonavano i conventi, sfiduciati che le loro penitenze e le loro opere di carità non sarebbero servite a nulla se, come diceva Agostino, Dio non ne teneva conto nel concedere la salvezza. Celestio, discepolo di Pelagio, deduceva dalle argomentazioni del suo maestro che, se ognuno nasce con un'anima pura e innocente, senza alcuna macchia, non ha senso per i neonati ricevere il battesimo "in remissione dei peccati". La dottrina agostiniana trovò invece immenso favore tra le gerarchie ecclesiastiche, perché, se i vescovi sono i vicari di Cristo in terra, solo i sacramenti da essi impartiti danno la certezza di appartenere alla comunità cristiana e quindi la speranza di ottenere la grazia di Dio. Una prima conseguenza fu la condanna delle opere di Origene, morto un secolo e mezzo prima, e degli origenisti che ancora le leggevano, soprattutto per quanto riguardava le sue teorie sull'anima umana che contrastavano con le idee
61 di Agostino: le anime - aveva detto Origene - preesistono ai corpi e, alla morte di ciascun uomo, esse tornano a essere disponibili per altre incarnazioni; ma mentre alcune sono diventate migliori in seguito al comportamento tenuto in vita, altre possono anche essere cadute di grado; la fine del mondo e il giudizio universale avverranno quando tutte saranno giunte allo stato di perfezione. Si colse il pretesto di una traduzione latina delle opere di Origene, fatta dal monaco Rufino di Aquileia, per scomunicare gli origenisti, in un Sinodo convocato ad Alessandria dal vescovo di quella città, Teofilo, nel 401. Tutti i sacerdoti che ancora ritenevano giuste le tesi di Origene vennero condannati all'esilio. Celestio, pelagiano, fu invece scomunicato come eretico nel Concilio di Cartagine del 412, che vide riuniti duecentottantasei vescovi cattolici (tra i quali sant'Agostino) e duecentosettantanove vescovi donatisti, per prendere in esame, alla luce della nuova dottrina agostiniana, la questione della validità dei sacramenti impartiti da sacerdoti eretici o scismatici. Si approvò a grande maggioranza questa conclusione: che il sacramento è valido in se stesso quale signum sacrum e che la sua efficacia non dipende dalla persona che lo impartisce. Esso invece sospende i suoi effetti su chi lo ha ricevuto, se costui si mette fuori della Chiesa, ma torna a essere operante quando egli rientra in seno alla Chiesa. In pratica, pertanto, anche i donatisti, che si erano a lungo battuti per la non riammissione dei lapsi e dei tradìtores, accettarono addirittura che non occorresse nemmeno ribattezzare gli eretici pentiti né riconfermare i ministri del culto che avessero deviato. Ci si allontanava sempre più dalla concezione originaria della Chiesa quale "assemblea" (dal greco ekklest'a) di tutti i credenti, per considerarla una istituzione al di sopra dei fedeli, infallibile nonostante la fallibilità dei suoi ministri, unica depositaria della grazia che dà efficacia ai sacramenti. Comunque Celestio fu condannato in quel Concilio non perché avesse contestato tale privilegio dell'istituzione ecclesiale, ma perché aveva messo in dubbio che il peccato originale gravi già sui neonati innocenti. È da osservare come il mito biblico del peccato di Adamo (un ingenuo tentativo di spiegare come mai l'uomo tenda per natura al male, nonostante la "perfetta" creazione di Dio) è stato accolto nel cristianesimo con l'ingegnoso parallelo costituito da san Paolo: "Come per colpa di uno solo [Adamo] il peccato è entrato nel mondo, così per la giustizia di uno solo Cristo] è entrata la salvezza". Quindi, fra tutta l'umanità, soltanto chi è cristiano gode di questo favore, e il battesimo non è un lavacro di purificazione, ma un vero e proprio certificato di appartenenza al cristianesimo: chiunque non sia battezzato, per quanto giusto e
62 innocente, è escluso dal beneficio. Agostino aggravò ancora questa specie di razzismo ideologico: nemmeno tutti i cristiani - è la sua supposizione - sono certi della salvezza, poiché Dio, con decisione imperscrutabile, predestina fra loro quelli che vuole eleggere alla salvezza e quelli che vuole condannare alla dannazione eterna. Tuttavia la massa dei fedeli continuava a rifiutare, come Pelagio, tale concezione di un Dio tirannicamente capriccioso che premia o condanna i suoi sudditi senza tenere alcun conto dei loro meriti o delle loro colpe. Un avvenimento straordinario valse a rafforzare la convinzione della considerazione di Dio nei riguardi della condotta umana. La calata dei visigoti guidati da Alarico e il saccheggio di Roma, nel 410, parvero ai cittadini un segno dell'ira divina per la loro scarsa pietà, e misero in fuga da Roma molte persone facoltose, che ripararono in Sicilia o in Africa, per dedicarsi a una vita ascetica e a opere di carità. Gli insegnamenti di Pelagio (trasferitosi egli pure in un primo tempo a Cartagine) contribuirono molto a questa conversione. Fu un cattolico di Siracusa a denunciare a sant'Agostino, allora vescovo di Ippona, l'esistenza in quella città di una comunità pelagiana, fondata da una clarissima femmina la quale aveva rinunciato ai suoi beni e si era votata all'assistenza dei poveri e dei malati. Trovandosi Pelagio a Gerusalemme, nel 414, Agostino incaricò il presbitero Orosio, che era stato suo discepolo, di farlo sottoporre a processo. Il vescovo di Gerusalemme, Paolo, accondiscese e convocò anche san Gerolamo, che dirigeva i suoi conventi femminili nella vicina Betlemme. Ma dall'interrogatorio non emersero elementi sufficienti per condannare Pelagio. Anche l'anno dopo, un Sinodo radunato a Lidda, dichiarò che Pelagio era "perfettamente" catholicus, con grande disappunto di sant'Agostino, che nel 418, promovendo la convocazione di un Concilio a Cartagine, a cui intervennero i vescovi di tutte le province africane, riuscì finalmente a far condannare il pelagianesimo con queste poche parole: "Chiunque dice che Adamo fu creato mortale, così che sia che avesse peccato sia che non avesse peccato sarebbe morto ugualmente, e che la maledizione del suo peccato non si è trasmessa a tutti i suoi discendenti, sia anatema. Chi dice che i bambini L'eresia non derivano da Adamo il peccato originale dice cosa non vera ed è anatema". L'imperatore Onorio invitò tutti i vescovi dell'Occidente a sottoscrivere essi pure la condanna di Pelagio, altrimenti sarebbero stati deposti e mandati in esilio. Anche il pontefice romano, di nome Zosimo, che fino ad allora era stato favorevole al pelagianesimo, per timore di perdere la carica, riconobbe il proprio errore in una Epistola Tractatoria. Ma le convinzioni di Pelagio sulla necessità delle opere, che erano state, in
63 fondo, anche le idee dei primi apostoli, confermate tra l'altro da una celebre Lettera di Giacomo, rimasero radicate, fortunatamente, nella mentalità delle masse cristiane, e non tarderanno a riapparire, sotto altre manifestazioni eretiche, in momenti in cui le popolazioni più umili si sentiranno dimenticate dalla Chiesa. Già nel 422 venne aspramente criticato uno scritto ascetico di Cassiano Giovanni - che non si osò colpire per la grande fama che godeva come fondatore del convento di San Vittore a Marsiglia - per il suo contenuto semipelagiano, in quanto affermava che per ottenere la grazia occorreva l'impegno nelle opere di bene. Nel 434, la dottrina della grazia e della predestinazione di sant'Agostino fu di nuovo oggetto di discussione in uno scritto del monaco Vincenzo di Lérins, dal titolo Commonitoria. Controbattendo Agostino, l'autore avvertiva la necessità che venisse preservata la tradizione cattolica e si impedissero innovazioni pericolose per la fede: "Dobbiamo aver cura" egli scriveva "di conservare quanto è sempre stato creduto da tutti e ovunque, poiché solo questo è veramente e chiaramente cattolico". L'opposizione più forte a sant'Agostino veniva però dai monasteri della Gallia, che erano stati istituiti secondo le regole dei monaci orientali i quali, come tutti i teologi bizantini, ritenevano il libero arbitrio un assioma indiscutibile. Prospero di Aquitania, amico di Agostino, gli riferì l'opinione di questi monaci: essi, diversamente da Pelagio, riconoscevano con Agostino che da Adamo l'uomo è peccatore, ma ritenevano che il riscatto di Cristo fosse stato operato a beneficio di tutti coloro che hanno volontà di essere salvi e che con le opere si meritano la grazia divina, perduta da Adamo. Frattanto Agostino aveva continuato nella sua feconda produzione di scritti apologetici, antieretici, esegetici e teologici, tra i quali, uno dei più importanti, il De civitate Dei, terminato nel 427, che sarà testo fondamentale nei secoli successivi per legittimare la concezione teocratica della Chiesa. Nella società umana - dice sant'Agostino - esistono, intrecciate e miste insieme, due civiltà: quella del bene (la città di Dio) e quella del male (la città di Satana). La prima, che è l'unione di tutti i credenti e sarà alla fine dei secoli realizzata nella mistica dimora delle anime predestinate, è contrastata dalla seconda, la sfera delle passioni terrene, che alla fine dei secoli sarà nettamente separata dall'altra, con eterna dannazione. Sant'Agostino non lo dice, ma la successiva speculazione teologicopolitica identificherà la "città di Dio" con la Chiesa di Roma, derivando come conseguenza il diritto e il dovere di controllo del potere politico da parte della Chiesa stessa, e quindi la giustificazione del proprio dominio temporale, dell'autoritarismo del papato, della lotta per il possesso di beni materiali, del
64 compromesso con il sistema feudale, che saranno altrettanti motivi di altre contestazioni e movimenti ereticali. Nestorio, Eutiche, Acacio.
Non erano ancora spenti gli echi della polemica pelagiana, e già in Oriente ricominciavano le discussioni cristologiche sulle due nature, la divina e l'umana, nella persona di Cristo. Non saranno soltanto - come potrebbe sembrare a un lettore moderno - futili dissertazioni accademiche. Le varie formule successivamente presentate da teologi orientali e la sistematica opposizione a esse da parte della Chiesa occidentale, con reciproche accuse di eresia, saranno il riflesso di una diversa situazione storica e di conseguenza di una diversa concezione della Chiesa. In Oriente, sul modello dell'istituzione imperiale, in cui il sovrano godeva di un'autorità assoluta, anche il monoteismo era concepito radicalmente, e la subordinazione di Cristo a Dio faceva di lui, in certo modo, l'intermediario tra l'uomo e Dio e l'esecutore della volontà del Padre, come un ministro era l'intermediario fra i sudditi e l'imperatore, e l'esecutore della volontà di quest'ultimo. In Occidente, invece, dove mancava un'autorità politica centrale, identificando Cristo con Dio si conferivano al Figlio gli stessi poteri del Padre, e poiché i papi si consideravano vicari di Cristo, in definitiva attribuivano a se stessi poteri assoluti e infallibilità. Le conseguenze estreme saranno: per l'Oriente una concezione orizzontale della Chiesa, come l'insieme di tutti i fedeli, ugualmente partecipi dei doni carismatici, e l'idea di Dio come di un Essere Supremo, inaccessibile (allo stesso modo dell'imperatore) da adorare con la contemplazione mistica; in Occidente, una concezione verticale della Chiesa, con una gerarchia, composta di parecchi gradi (papa, cardinali, vescovi, ecc.) alla quale si ritenevano conferiti da Gesù stesso prerogative sacramentali e il compito di amministrare il culto dei fedeli e persino la loro vita privata. In Oriente, alla vecchia scuola teologica di Alessandria si contrapponeva ora la scuola di Antiochia, fondata nella seconda metà del secolo IV da Diodoro di Tarso, vescovo di quella città. Gli alessandrini si erano preoccupati di spiegare come Dio si fosse fatto uomo in Gesù Cristo, e dalle loro dispute erano derivati lo gnosticismo neoplatonico (Cristo come emanazione) e i vari modalismi (Cristo come corpo provvisorio o fittizio o solo apparente). Il Credo di Nicea aveva concluso ogni ricerca, definendo l'identità di sostanza tra le due persone. Gli antiocheni, partendo invece dai Vangeli sinottici che presentano Gesù vero
65 uomo, non solo in quanto al corpo, ma anche con un'anima psicologicamente umana, passibile persino di sconforti e di turbamenti, non potevano accettare l'identità stabilita dal Concilio di Nicea e si preoccupavano di dimostrare in quale modo Dio avesse infuso la divinità di Gesù, Diodoro insegnava che Gesù era nato vero uomo e che per la sua eccezionale santità era stato degno che lo spirito di Dio fosse venuto ad abitare in lui. Il primo contrasto fra questa dottrina e il dogma di Nicea si ebbe nel 428 con una controversia tra il patriarca di Costantinopoli, Nestorio, il quale proveniva appunto dalla scuola antiochena, e uno dei suoi sacerdoti, di nome Proclo. Costui, in un'omelia, parlando della Madonna, la chiamò "Madre di Dio" (Theotókos). Tale celebrazione era una conseguenza ovvia del Credo niceno: se Gesù Cristo è identico al Padre e coeterno a lui, Maria, sua madre, è anche madre di Dio! Nestorio, e con lui Teodoro, vescovo di Mopsuestia, che era stato suo maestro ad Antiochia, videro subito, con orrore, l'assurdità di tale sillogismo, logico soltanto verbalmente. "Una donna, vissuta nel tempo" essi asserivano "non può aver generato Dio, che è eterno. In che modo avrebbe potuto Maria partorire un Essere più antico di lei?" Inoltre li preoccupava il fatto che la definizione di Maria come Theotókos faceva di Gesù Cristo un essere puramente divino, annullandone la personalità umana: Cristo era Dio prima dell'incarnazione, ma incarnandosi è diventato uomo, e ciò è avvenuto nel tempo, in una donna reale e umana. Essi quindi insistevano che Maria poteva unicamente essere chiamata Christotókos, madre di Cristo. [Vedi Documenti n. 4.] Le argomentazioni di Nestorio vengono considerate blasfeme dalle masse di fedeli ormai abituate a venerare Cristo come Dio, e molti monaci sollevano tumulti, che Nestorio reprime con la violenza. Le eresie trinitarie vescovo dì Alessandria, Grillo, informato da Proclo di quella situazione, in un sermone pasquale proclama ortodossa la definizione di Maria come Theotókos e invia una lettera circolare a tutti i monaci di Egitto, invitandoli a predicare tale dottrina: "Se nostro Signore Gesù Cristo è Dio" egli scrive "per quale motivo la santa Vergine non può essere chiamata Madre di Dio?". Egli poi insorge violentemente contro Nestorio e Teodoro: "Essi vomitano dai loro cuori un solo e medesimo veleno di eresia"; compone contro di loro dodici anatemi, accusandoli di duofisismo, cioè di sostenere l'esistenza di una duplice natura in Gesù Cristo, prima e dopo l'incarnazione; prepara intanto una voluminosa confutazione di Nestorio per il vescovo di Roma e ne distribuisce anche copie all'imperatrice Eudocia e alle sorelle dell'imperatore, Pulcheria, Arcadia e Marina, chiedendo il loro appoggio. Subito Celestino I da Roma conferma a Cirillo la propria solidarietà e,
66 convocato il Sinodo, sconfessa Nestorio ordinandogli di mandare immediatamente una ritrattazione per iscritto. Ma Nestorio ribatte alle accuse di Cirillo con pari veemenza, anche con l'approvazione di molti alessandrini, i quali odiavano Cirillo per il suo carattere violento e crudele, ottenendo uno scritto in sua difesa dal vescovo di Ciro, Teodoreto. I sostenitori alessandrini di Nestorio informano l'imperatore Teodosio II che Cirillo aveva personalmente guidato schiere di fanatici a incendiare sinagoghe e a massacrare ebrei e che, dietro sua istigazione, qualche anno prima, una giovane filosofa pagana, di nome Ipazia, celebre sia per la sua eloquenza sia per la sua bellezza, era stata da alcuni cristiani fanatici trascinata giù dal cocchio, spogliata, seviziata, poi fatta a pezzi e data alle fiamme. Teodosio incarica Nestorio stesso di svolgere indagini su tali accuse, e Nestorio non può che confermarle. "Da quel momento" dichiarerà in seguito "Cirillo divenne mio nemico, senza possibilità di riconciliazione, pronto a tutto, pur di rovinarmi." Perciò, egli per primo, prega l'imperatore di bandire la convocazione di un Concilio per dirimere la controversia. Il Concilio di Efeso, terzo Concilio ecumenico nella storia della Chiesa, viene illegalmente dichiarato aperto da Cirillo, giunto con una cinquantina di vescovi egiziani, suoi sostenitori, il 22 giugno del 431, sebbene non siano ancora presenti né Nestorio né gli altri convocati, con la scusa che il caldo opprimente ha già fatto ammalare molti vescovi e che non si può attendere più a lungo. Così egli ha buon gioco a far approvare la scomunica di Nestorio e la sua deposizione da patriarca di Costantinopoli, dandogliene comunicazione con un breve scritto, estremamente duro, nel quale lo definisce "novello Giuda". Il 26 giugno arrivano i vescovi dell'Oriente, con a capo Giovanni di Antiochia, e dichiarano nulle le decisioni prese dai soli vescovi egiziani, scomunicando Cirillo per tale sopruso. In risposta, Grillo il 10 luglio riapre le sedute del Concilio con i suoi soli sostenitori e con i vescovi che intanto sono giunti dall'Italia: riconferma la scomunica di Nestorio e vi aggiunge quella di Giovanni di Antiochia e di Teodoreto di Ciro, autore dello scritto in difesa di Nestorio. L'imperatore Teodosio II esita a convalidare le deliberazioni del Concilio, ma Cirillo riesce a corrompere i consiglieri di corte e a piegare lo stesso Teodosio con l'offerta di preziosissimi doni, dei quali ci è stata conservata la lista: tappeti, cortine e tende, tovaglie da tavola, copriletti, sedili e scanni di avorio, parecchie libbre d'oro. Nestorio, costretto a rimanere rinchiuso in un convento, presso Antiochia, dopo qualche tempo si dà alla fuga e si ritira nell'oasi di El-Kharga, in Arabia. Nonostante la condanna di Nestorio, il duofisismo continua a diffondersi, specie per opera di Teodoreto di Ciro che, anch'egli colpito da
67 scomunica, scrive una relazione assai polemica sulle irregolarità del Concilio di Efeso, e di Iba (o Hiba), vescovo di Edessa, il quale traduce in siriano e diffonde gli scritti di Diodoro di Tarso e quelli di Teodoro di Mopsuestia, che erano stati i maestri di Nestorio. Ancora oggi si calcolano oltre centomila nestoriani nell'Iraq, nella Persia e in India. Preoccupato per l'estendersi del nestorianesimo duofisita, nel 448, Eutiche, archimandrita di un monastero di Bisanzio, scrive una confutazione, precisando che l'unità delle due nature in Cristo si deve intendere nel senso che la sua natura umana era stata "assorbita" da quella divina e quindi egli era divenuto veramente e unicamente un essere divino. Era il rovesciamento esatto del duofisismo nestoriano, e cadeva nell'eresia opposta: il monofisismo, ossia l'attribuzione a Cristo di una sola natura, la divina. Flaviano, patriarca di Costantinopoli, su denuncia di Eusebio, vescovo di Dorileo, riunito il Sinodo, scomunica Eutiche, e questi cerca l'appoggio di Dioscoro, successo in quegli anni a Cirillo nella sede episcopale di Alessandria, e si appella anche al pontefice romano Leone I. Sebbene Dioscoro non condivida affatto le opinioni di Eutiche, vede subito che gli viene presentata una buona occasione per riapri- Le eresie trinitarie e le rivalità che da tempo mettono in contrasto la Chiesa alessandrina con la Chiesa di Bisanzio, e perciò promette a Eutiche che si darà da fare per organizzare un Concilio. Invece Leone I, da Roma, non invita Eutiche a un Concilio, ma scrive a Flaviano, approvando la scomunica del monofisismo e accettando la dottrina delle due nature di Cristo, che, più tardi, diverrà il dogma ufficiale della Chiesa cattolica. Nel 449, presieduto da Dioscoro, si riunisce un nuovo Concilio a Efeso. La maggioranza dei padri conciliari propende per la condanna di Eutiche, ma le lunghe discussioni subiscono una tragica interruzione, perché, all'improvviso, una banda di monaci del convento di Eutiche, con le armi in pugno, irrompe nella sala del Concilio e costringe i centotrentacinque vescovi presenti ad approvare Eutiche e a condannare invece Flaviano, che, in quanto avversario del monofisismo, dimostra di seguire l'eresia duofisita. I legati del pontefice romano riescono a fuggire, ma alcuni rimangono uccisi nella zuffa. Un Sinodo romano, convocato da Leone I, dichiara nullo il Concilio di Efeso, definendolo latrocinium ("brigantaggio"). Nel 451, l'imperatrice Pulcheria, succeduta da pochi mesi al fratello Teodosio II, sinceramente devota alla Chiesa cattolica (sarà poi santificata col titolo di Custode della fede) indice un Concilio ecumenico, sperando di risolvere definitivamente il contrasto tra monofisiti e duofisiti. Al Concilio di Calcedonia
68 (quarto ecumenico) intervengono ben cinquecentoventi vescovi delle province orientali, due dell'Africa e due legati del pontefice di Roma. Dioscoro di Alessandria è chiamato a discolparsi per aver ceduto alla violenza nel latrocinium ephesinum, e viene deposto dalla carica. Quindi il Concilio, dopo aver riconfermato la formula di fede di Nicea, con l'aggiunta esplanatoria (dal latino explanare: spiegare, interpretare) votata nel secondo Concilio ecumenico, che si era tenuto a Costantinopoli nel 381, adotta la definizione ortodossa che Leone I aveva suggerito a Flaviano: "In Gesù Cristo, dopo l'incarnazione, le due nature, la divina e l'umana, hanno conservato ciascuna le proprie caratteristiche: Gesù Cristo è quindi vero Dio e vero uomo". Tale definizione esclude sia la dottrina di Nestorio, che considerava le due nature quasi come entità inconfondibili, sia quella di Eutiche, che sosteneva invece la tesi di un'unica natura, nata dalla fusione delle due. Una deliberazione assai importante del medesimo Concilio di Calcedonia, che sarà foriera di gravissimi contrasti tra la sede di Roma e la sede di Bisanzio, è contenuta nel canone 28: "Tenendo serapelosamente presenti le decisioni dei santi padri, ecco che cosa deliberiamo e votiamo a proposito dei privilegi della Chiesa di Costantinopoli, "la nuova Roma": giustamente i padri avevano conferito privilegi alla cattedra della vecchia Roma, a motivo della preminenza politica di cui godeva la città, e per lo stesso motivo i piissimi padri conciliari hanno ora conferito i medesimi privilegi alla santa cattedra della nuova Roma, ritenendo, giustamente, che questa città, sede dell'impero e del senato, debba fruire delle identiche prerogative che erano già dell'antica Roma". Il Concilio di Calcedonia è naturalmente avversato dal vescovo Dioscoro, oltre che per la definizione delle "due nature" di Cristo, in contrasto con la dottrina dell'unica natura proposta da Cirillo, anche per l'umiliazione personale da lui subita e per quella della sua sede vescovile di Alessandria, destituita dal ruolo di preminenza fino ad allora goduto, subito dopo Roma. I nestoriani duofisiti e gli eutichiani monofisiti, nonostante la scomunica, continuarono a diffondersi. I primi, banditi dal territorio dell'impero, si rifugiarono in Persia, costituendo un forte patriarcato a Seleucia; gli eutichiani si consolidarono in Siria, Armenia ed Egitto, dove fondarono la Chiesa copta, che conta ancora oggi oltre un milione e mezzo di fedeli. Proprio ad Alessandria d'Egitto, alla morte di Dioscoro, nel 454, l'insediamento di un nuovo vescovo cattolico è violentemente contrastato dalla folla: le truppe imperiali, incaricate di mantenere l'ordine, vengono sopraffatte e costrette ad asserragliarsi nel Serapéion, che viene incendiato. Il nuovo vescovo finisce ucciso. Altri tumulti avvengono in tutti i paesi dell'Oriente; migliaia di monaci si
69 sollevano contro le decisioni del Concilio di Calcedonia, e le rivolte sono soffocate nel sangue. Questa situazione dura fino al 482, quando l'imperatore Zenone, preoccupato per tali disordini interni, in un momento in cui l'impero è a oriente sotto la minaccia dei persiani e a occidente sotto quella delle migrazioni germaniche, su consiglio di Acacio, patriarca di Costantinopoli, promulga un editto, detto Henóticon ("di conciliazione"), per tentare un compromesso tra monofisiti e duofisiti. Ma l'Henóticon è rifiutato non solo dai monofisiti e dai duofisiti, ma anche dai cattolici. Da Roma, Felice III manda la scomunica ad Acacio, che praticamente è stato il compilatore dell'editto, e dichiara eretico anche l'imperatore. Acacio e Zenone, a loro volta, accusano di eresia lo stesso Felice. Nella persecuzione di quanti non accettano l'Henóticon cade che la famosa scuola teologica di Edessa, alla quale si erano formati insigni ecclesiastici delle province orientali, perché in essa continuava a mantenersi vivo l'insegnamento duofisita, impartito da Hiba, fedele alle dottrine dei suoi predecessori, Diodoro di Tarso, Teodoro di Mopsuestia e Nestorio. Hiba trasferisce la scuola a Nisibi. Nel 492 il nuovo imperatore Anastasio I mostra apertamente di favorire i monofisiti. Papa Gelasio I gli scrive una lettera per illuminarlo sugli errori dell'eresia monofisita e di quella acaciana e richiamarlo all'ubbidienza della Chiesa cattolica. Tale lettera è importante perché per la prima volta viene affermata la teoria dei due poteri, spirituale e temporale, con la priorità del primo sul secondo, quindi il diritto del pontefice di giudicare i sovrani, non solo nella loro condotta morale ma anche nella loro attività politica. L'imperatore rifiuta sdegnosamente qualsiasi ingerenza della Chiesa di Roma non solo nelle vicende politiche ma anche nelle questioni religiose dell'impero. Quattro anni dopo, papa Anastasio II, succeduto a Gelasio, per evitare una rottura definitiva con l'Oriente, libera Acacio dalla scomunica e assicura l'imperatore che riconoscerà tutte le ordinazioni di vescovi che egli intenderà fare. Il clero cattolico d'Occidente disapprova questa condiscendenza e accusa papa Anastasio di acacianesimo. L'ingiusta fama gli durerà a lungo, tanto che nel Trecento Dante Alighieri riterrà opportuno collocarlo nell'Inferno, nel girone degli eretici. Finalmente, nel 518 Giustino I, appena eletto imperatore, riprende la campagna di persecuzioni sia contro i duofisiti sia contro i monofisiti. Pochi anni dopo dà inizio anche alla lotta contro gli ariani. Questa prende di mira soprattutto i goti, che dai tempi di Ulfila si erano convertiti all'arianesimo, perché ora, dal 493, sotto la guida di Teodorico, si sono saldamente stanziati in Italia, creando un
70 regno autonomo, che rompe l'unità dell'impero. Teodorico, che finora aveva mantenuto buoni rapporti con la Chiesa e ampia tolleranza religiosa verso i cattolici, ritiene responsabili dell'ostilità di Giustino I il papa e l'aristocrazia romana, manda a morte i senatori Albino, Simmaco e Severino Boezio, di cui si era servito quali consiglieri, obbliga papa Giovanni I a recarsi dall'imperatore onde convincerlo a desistere dalla persecuzione degli ariani. Ma quando Giovanni ritorna da Costantinopoli, senza aver ottenuto alcun risultato, Teodorico lo fa imprigionare. La separazione delle due Chiese.
Quando salì al trono, nel 527, l'imperatore Giustiniano subito vagheggiò l'ambizioso disegno di ricostruire e unificare sotto la sua guida politico-religiosa l'impero romano ormai sgretolato da occupazioni di tenitori da parte delle popolazioni germaniche, soprattutto i vandali nell'Africa e i goti in Italia, e siccome questi due popoli erano di fede ariana, colorì la propria impresa col carattere di una crociata contro gli eretici. Lo storico Procopio, che seguì nelle due spedizioni il generale Belisario, comandante dell'esercito bizantino, riferisce che fu un vescovo a vincere le ultime esitazioni di Giustiniano, raccontandogli di essere stato visitato in sogno da Dio che lo incaricava di andare a rimproverare l'imperatore, dimentico dei cristiani dell'Africa, schiavi dei nemici della fede, e aveva aggiunto: "Io stesso mi unirò a lui nella guerra". Sebbene il Medioevo, esaltatore dell'idea imperiale, abbia celebrato Giustiniano per questa sua impresa politica e religiosa, e Dante gli abbia dedicato un intero canto del Paradiso, in realtà l'unificazione dell'impero risultò anacronistica ed ebbe un'effimera durata, e la crociata contro gli ariani fu, in definitiva, un orrendo genocidio di due popoli che avevano già raggiunto un buon grado di civiltà e cominciavano a fondersi pacificamente con le genti delle terre occupate. Intanto il cesaropapismo portò Giustiniano a interferire più volte nelle questioni religiose, aggravando gli attriti che già si erano creati fra la Chiesa di Roma e la Chiesa greco-bizantina. Giustiniano, dapprima, accondiscendendo alla moglie Teodora, che proteggeva i monofisiti, lasciò che venisse eletto patriarca di Costantinopoli il vescovo di Trebisonda, Antimo, e che ad Antiochia fosse rimesso in carica Severo, già deposto dai cattolici, ambedue monofisiti, e tollerò che Giacomo Baradeo (in siriaco Al Baradai) consolidasse in Siria la Chiesa monofisita, detta ancora oggi Chiesa dei giacobiti, dal suo nome.
71 Poi iniziò a perseguitarli, e con loro anche i nestoriani, ma a questo proposito urtò contro certe decisioni, già prese dalla Chiesa di Roma, e provocò uno scisma nel mondo cattolico. Fu la disputa dei Tre Capitoli, dal titolo di una confutazione, preparata da Teodoro Askida, vescovo di Cesarea, delle dottrine duofisite contenute negli scritti di Teodoro di Mopsuestia, di Teodoreto di Ciro e di Hiba di Edessa, tutti e tre già defunti. Impegnato nella lotta contro i nestoriani, e soprattutto per assicurarsi la gratitudine e la fedeltà dell'Egitto monofisita, l'imperatore approvò la confutazione e condannò le opere dei tre autori con un pubblico editto. Ma siccome il Concilio ecumenico di Calcedonia del 451 li aveva riabilitati e assolti dal sospetto di eresia, papa Vigilio protestò energicamente contro l'editto imperiale, come un affronto all'autorità del Concilio. Giustiniano convocò Vigilio a Costantinopoli e lo costrinse a emettere un Iudicatum di denuncia dei Tre Capitoli. Tale arrendevolezza da parte del papa sollevò vive reazioni negli ambienti cattolici e tra i suoi stessi familiari e, anzi, i vescovi dell'Illirico, della Dalmazia e della Gallia, riuniti a Concilio, lo scomunicarono, rifiutandogli obbedienza. Giustiniano interpretò a proprio favore la ribellione dei vescovi e, per rendere esecutivo il suo editto, nel 553 convocò a Costantinopoli il quinto Concilio ecumenico. Papa Vigilio evitò di prendervi parte, rifugiandosi a Calcedonia, ma i centosessantacinque padri conciliari, tra cui anche i vescovi che avevano deplorato la debolezza del papa, si sottomisero al volere di Giustiniano decretando la condanna dei Tre Capitoli e la scomunica per tutti coloro che non l'avessero accettata. Soltanto i vescovi di Milano, di Grado e di Aquileia osarono tener testa all'imperatore e non cedettero nemmeno di fronte alla scomunica. Dopo la morte di Giustiniano, l'impero bizantino precipitò in una grave crisi politica e militare, e intanto la protezione che era stata concessa ai monofisiti ne aveva favorito la diffusione, compromettendo anche l'unità religiosa dell'impero. Per questo motivo i successori di Giustiniano ripresero a perseguitarli, senza cessare dalla loro avversione per i duofisiti nestoriani. Ma gli unì e gli altri ebbero un insperato vantaggio, a partire dal 630, quando, con la conquista della Mecca, ebbe inizio l'espansione della religione maomettana, destinata a divenire ben presto una pericolosa
72 rivale del cristianesimo: sia i nestoriani in Persia sia i monofisiti nella Siria si trovarono avvantaggiati dall'occupazione musulmana, che li liberava dalle persecuzioni bizantine. Proprio l'anno dopo, cioè nel 631, il patriarca di Costantinopoli Sergio, sperando di conciliare il monofisismo con l'ortodossia, propose una sua nuova definizione cristologica: "In Gesù Cristo vi erano due nature, la divina e l'umana, ma in lui la volontà e la finalità dell'operare erano unicamente quelle divine". Era un compromesso piuttosto ambiguo tra il dogma cattolico, che considerava coesistenti e alla pari le "due nature" in Cristo, e la credenza monofisita in una loro "unificazione" nella natura divina. Censurato dal vescovo di Gerusalemme, per questa eresia, che venne tosto battezzata col nome di monotelismo ("una sola finalità"), Sergio sottopose la propria dottrina al giudizio del papa Onorio I, che invece l'approvò. Anche l'imperatore Eraclio l'accolse con favore, vedendo in essa una possibilità di pacificare le tensioni religiose dei propri sudditi, e nel 638 con un editto detto Ectési ("esposizione") l'impose a tutto l'impero. Forse fu solo per reazione a questo intervento autoritario dell'imperatore bizantino che, nel 640, il nuovo papa Severino e poi Giovanni IV, succedutogli pochi mesi dopo, sconfessarono l'Ectési e minacciarono di scomunica Eraclio. In punto di morte questi si piegò, ritrattando il suo editto. Ma la dottrina cristologica delle due nature era ancora così lontana dall'essere chiaramente definita, che di nuovo, pochi anni dopo, ripresero le contese tra la Chiesa bizantina e quella romana a proposito del monotelismo. Siccome l'Ectési era stata accettata dalla maggioranza dei vescovi d'Oriente, il successore di Eraclio, l'imperatore Costante II, dietro sollecitazione del patriarca di Costantinopoli Paolo, la rimise in vigore sollevando le proteste del nuovo pontefice romano Teodoro I, il quale, per reazione, dichiarò deposto il patriarca. Ma la sentenza rimase puramente formale, perché l'imperatore conservò Paolo nella sua carica. Anzi, nel 648, con il decreto Tipo ribadì la dottrina monotelica come "tipo di fede" unicamente valido nell'impero, proibendo che si facessero ancora discussioni sull'unità o meno delle persone in Gesù Cristo e minacciando pene per i trasgressori. Un Sinodo lateranense, convocato da papa Martino I, scomunicò come eretico
73 l'imperatore Costante IL Questi fece arrestare il pontefice e lo esiliò in Crimea. Tra le vittime più illustri della persecuzione di Costante II contro coloro che non approvarono il monotelismo, oltre a papa Martino I, vi fu Massimo di Crisopoli, detto il Confessore, il quale, arrestato ed esiliato in Tracia, dieci anni dopo, nel 662, per la sua ostinatezza venne nuovamente chiamato in giudizio, punito con l'amputazione della lingua e della mano destra, e confinato nel Caucaso, dove morì quasi subito. Troppo tardi, nel 681, il sesto Concilio ecumenico di Costantinopoli, presieduto dall'imperatore Costantino IV e dal papa cattolico Agatone, tentò un estremo sforzo per comporre il dissidio tra le due parti. Il monotelismo venne definitivamente condannato. Ma questa decisione ebbe una dolorosa conseguenza per la Chiesa di Roma: 'anatema per eresia cadde anche sul defunto papa Onorio I, per aver a suo tempo approvato "gli empi dogmi" del patriarca Sergio. Il fatto che le dottrine teologiche di un papa venissero sconfessate da altri papi, fornirà, assai più tardi, argomento ai gallicani, ai protestanti e ai giansenisti per negare il dogma dell'infallibilità pontificia. Intanto la rottura tra la Chiesa d'Oriente e la Chiesa d'Occidente si faceva sempre più grave, a partire dal 692, anche per una profonda divergenza di opinioni a proposito delle funzioni dei sacerdoti, della disciplina del clero e dei suoi rapporti con la massa dei fedeli. In quell'anno l'imperatore Giustiniano II, constatando come i due ultimi concili ecumenici non avessero nemmeno sfiorato il problema, ne convocò un altro, che doveva esserne quasi un'appendice, e che, perciò fu chiamato Concilio quinisesto (quinto e sesto) o anche Concilio trullano, poiché le sedute si tennero in una sala col soffitto a cupola (trullo) del palazzo imperiale di Costantinopoli. Oltre ai centodue canoni disciplinari, per i quali i vescovi d'Occidente dovettero subire i voti della maggioranza orientale, pur convinti che non si sarebbero mai adattati ad accettarli (per esempio il permesso di matrimonio per i presbiteri e i diaconi), la decisione più importante del Concilio - e più penosa per i cattolici - fu l'affermazione che l'autorità del patriarca di Costantinopoli doveva essere considerata alla pari con quella del vescovo di Roma. Un altro motivo di dissidio tra le due Chiese fu, qualche anno dopo, la questione relativa al culto delle immagini. Gli eccessi a cui, nel
74 corso degli ultimi secoli, era giunta la venerazione popolare per le immagini di Cristo, della Madonna, dei santi, preoccuparono l'imperatore Leone III Isaurico, salito al trono nel 717, e in ciò egli trovava l'assenso di molti fedeli. Era una tradizione cultuale che tendeva a modificarsi, in Oriente, in conseguenza del contatto coi musulmani, i quali, tra il 630 e il 641, avevano già conquistato la Persia, la Siria, la Cilicia e si erano spinti fino in Egitto. In quanto semiti, gli arabi rifuggivano dal rappresentare la divinità in aspetto umano, e questa loro fedeltà a un divieto che era imposto anche dall'Antico Testamento era motivo di meditazione per molti cristiani, specie per l'abuso che veniva fatto, da parte dei monaci, di immagini a cui si attribuiva addirittura un potere miracoloso, di raffigurazioni fantasiose di angeli, santi e martiri, talune - si diceva - "cadute dal cielo", altre "acheropinte", ossia dipinte senza l'opera della mano di un uomo, per intervento soprannaturale. Nel 726 l'imperatore Leone Isaurico pubblicò un primo editto, con cui poneva un freno a questo culto superstizioso, e fece rimuovere il ritratto di Cristo che ornava la Porta Bronzea del palazzo imperiale, sostituendolo con una semplice croce. Immediatamente papa Gregorio II scomunicò l'imperatore, e in tutto l'impero si levarono proteste di monaci contro la violazione della libertà di culto. Nell'esarcato bizantino di Ravenna il clero sobillò la folla dei fedeli contro il governo. Per tutta risposta, Leone Isaurico emanò un secondo, più severo editto, detto dell'Iconoclastia (distruzione delle immagini),, per proibire categoricamente la rappresentazione di Cristo e dei santi in figura umana e per ordinare che venissero distrutte tutte quelle esistenti. Il nuovo papa, Gregorio III, riunì allora un Sinodo a Roma, che condannava l'iconoclastia e decretava la scomunica per tutti coloro che l'avessero approvata. Giovanni Damasceno, dottore della Chiesa, scrisse un Discorso sulle sante icone, in cui argomenta che non l'immagine in se stessa dev'essere venerata, ma il Cristo o il santo in essa rappresentati, che essa ha solo il compito di richiamare alla memoria. Giovanni Damasceno è pure autore di un Trattato delle eresie, in cui ne annovera un centinaio, venti delle quali già sorte prima ancora della venuta di Cristo, come la filosofia greca, e la stessa religione maomettana che secondo Giovanni Damasceno ebbe le sue origini
75 da Ismaele, il figlio di Abramo e della schiava egiziana Agar, che la gelosa Sara, moglie di Abramo, aveva fatto cacciare nel deserto. La lotta per l'iconoclastia durò anche sotto i successori di Leone III per oltre un secolo, con sommosse e gravi fatti di sangue. Le reazioni contro gli editti imperiali furono assai violente, sia da parte dei monaci bizantini, i quali vedevano con dolore andar perduto lo splendido patrimonio di icone sacre che adornavano le basiliche, sia da parte del clero occidentale, che aveva sempre favorito la superstizione del popolo, come un mezzo per tenerlo legato alla Chiesa. Per questo motivo, gli iconoclasti accusavano i loro avversari di idolatria pagana, e quelli chiamavano gli iconoclasti "eretici blasfemi, parenti dei giudei e dei saraceni". Soltanto nel 787, l'imperatrice Irene, che governava a nome del figlio Costantino VI, ancora minorenne, sollecitata dal patriarca di Costantinopoli, Tarasio, e dal papa Adriano I, farà un tentativo per pacificare gli animi, indicendo il settimo Concilio ecumenico a Nicea (dove si era svolto il primo, quello contro l'arianesimo). L'apertura del Concilio fu disturbata da dimostrazioni di piazza, che Irene non esitò a soffocare nel sangue. Infine i lavori procedettero, a Costantinopoli, dapprima con una confessione di pentimento recitata da una decina di vescovi che fino ad allora avevano approvato l'iconoclastia, poi con lunghe discussioni sul significato e sui limiti da porre al culto delle immagini, concludendo che a esse spetta venerazione e onore, ma non la vera adorazione (latría) la quale è dovuta soltanto a Dio. Quindi fu sottoscritto il decreto di condanna dei trasgressori: "Coloro che osano pensare e insegnare altrimenti, coloro che a somiglianza degli eretici aboliscono le tradizioni della Chiesa, che levano qualcuna delle cose che si conservano nelle chiese, la croce, le immagini o le reliquie dei santi, e che profanano i sacri vasi, ordiniamo che siano deposti, se sono vescovi o chierici, e scomunicati se sono monaci o laici". Ma non bastò questo compromesso per rinsaldare l'unione tra le due Chiese. Le rivalità tra il vescovo di Roma e il patriarca di Costantinopoli, le diverse concezioni del ministero sacerdotale e, soprattutto, il rigido monoteismo orientale e la tendenza cattolica a un politeismo di divinità, di santi e di martiri, scavarono sempre più profondo il solco. L'attrito più grave si avrà nell'867, quando un Concilio cattolico,
76 ad Aquisgrana, perfezionerà ancora una volta il Credo niceno con un'aggiunta che susciterà scandalo in Oriente. Il Simbolo di Nicea terminava con le parole: "E crediamo nello Spirito Santo", e si era ritenuto ortodosso affermare che lo Spirito Santo fosse una emanazione di Dio, una manifestazione invisibile della sua presenza, e vi era stato anche chi - come Marcello d'Ancyra - ne deduceva che Gesù Cristo, generato da Dio mediante l'incarnazione dello Spirito Santo, si poteva dire che "procedeva" dallo Spirito Santo. Ma poi, quando si fu definita la consustanzialità del Padre e del Figlio, parve logico concludere che, pertanto, lo Spirito Santo emanava da ambedue: dal Padre e dal Figlio. La formula filioque ("e dal figlio") era stata usata la prima volta in un Sinodo di Toledo, nel 589, come argomento per combattere gli ariani che contestavano la divinità ab aeterno di Cristo, e quindi per sottolinearne l'identità con Dio. Dal Concilio di Aquisgrana, il filioque verrà elevato a dogma. La Chiesa greco-bizantina non accettò mai questa aggiunta, ritenuta dai teologi orientali un'eresia trinitaria, in quanto rompeva l'equilibrio di uguaglianza delle tre persone, subordinando lo Spirito Santo alle altre due. Le prime proteste partiranno da Fozio, illustre personaggio imparentato con la famiglia imperiale e uomo di profonda cultura, che era già in rapporti molto tesi con la corte pontificia romana per essere stato nominato patriarca di Costantinopoli L'eresia facendo dimettere Ignazio, amico dei cattolici. Scomunicato dal papa Niccolo I per aver contestato il dogma definito dal consiglio di Aquisgrana, Fozio, a sua volta, farà scomunicare e dichiarare deposto il pontefice in un Sinodo di Costantinopoli. Papa Adriano II confermerà la condanna di Fozio nell'ottavo Concilio ecumenico, a Costantinopoli. Questo conflitto sarà uno dei principali episodi che preluderanno allo scisma d'Oriente, e gli scritti di Fozio saranno la base fondamentale delle argomentazioni a favore della Chiesa bizantina. La separazione delle due Chiese diverrà da allora inevitabile e, anche nel recente Concilio ecumenico vaticano secondo (1962-65) si è dovuto ammettere che, ormai, il dialogo è molto difficile. [Vedi Documenti n. 5.]
77 DOCUMENTI.
1. La morte di Ario secondo il racconto di sant'Atanasio.
Gli eusebiani, preso Ario all'uscir del palazzo, lo accompagnavano e conducevano in trionfo per la città onde mostrarlo a tutti, e volevano ivi tosto farlo entrare in chiesa; ma opponendosi Alessandro, rinnovarono le loro minacce e gli dissero che a quel modo che avean fatto venire Ario a Costantinopoli, a dispetto suo, così a dispetto suo ben saprebbero farlo ammettere il giorno vegnente alla comunione. Eusebio di Nicomedia gli disse queste parole: "Se tu nol vuoi ricevere di buona voglia, io il farò entrar meco dimani al primo sorger del giorno; e come farai tu ad impedirlo?". Alessandro, sopraffatto dal dolore, entrò tosto in chiesa, e ivi il vecchio, colle lacrime agli occhi e colla faccia al suolo, prostrato appiè dell'altare fece la seguente preghiera: "Signore, se Ario dee domani essere ammesso nella chiesa, ti prego di sciogliere me tuo servo dai legami di questa vita. Ma se ti degni di aver ancora misericordia della tua chiesa, mira alle superbe parole di Eusebio, e non voler permettere la rovina e l'obbrobrio della tua eredità: leva Ario dal mondo, affinché, entrando esso nella tua chiesa, non paia che con lui si avi entrata l'eresia". Così Alessandro pregava il giorno del sabato sulle tre ore dopo mezzodì, e intanto gli eusebiani continuavano a condur Ario quasi trionfalmente per la città, ed egli, tenendosi già per ricomunicato, si sfogava in vane parole, quando, giunto vicino al Foro di Costantino, scolorassi tutt'ad un tratto, e sentendosi subitamente stretto da qualche necessità naturale, dimandò se non vi fosse ivi intorno qualche pubblico agiamento. Gliene fu additato uno, ed entratovi a corsa, lasciando alla porta un domestico che lo seguiva, non fu sì tosto entrato che venne meno ed evacuò insieme le intestina, la milza, il fegato, il sangue, e morì, crepando pel mezzo, come un altro Giuda. essendosi questa nuova sparsa per tutta la città, i fedeli accorsero alla chiesa per render grazie a Dio di una sì visibile protezione da lui compartita alla verità, perocché essi non tenevano la morte di Ario per un accidente naturale,
78 ma sì per un effetto delle orazioni di Alessandro, e paragonavano questa sì sozza morte a quella di Giuda, del quale Ario aveva imitato l'empietà. [In A. Rohrbacher, Sforai universale della Chiesa Cattolica (1874), vol. HI, pp. 669-70.] 2. Gli editti dell'imperatore Teodosio I.
Vogliamo che tutti i popoli sottomessi al nostro governo professino la religione che l'apostolo Pietro ha trasmesso ai romani e che, come tutti sanno, è tuttora seguita dal pontefice Dámaso e dal vescovo di Alessandria, Pietro, uomini di santità apostolica. Secondo l'insegnamento degli apostoli e del Vangelo, noi crediamo nell'unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, uniti in una sola santa Trinità e in una uguale maestà. Noi ordiniamo pertanto che il nome di cristiani cattolici sia dato soltanto a coloro che consentono in questa fede, e che tutti quelli che insensatamente se ne allontanano siano chiamati eretici. Le loro conventicole non potranno usurpare il nome di chiese, ed essi saranno puniti non solo dall'ira divina, ma anche dai provvedimenti che noi prenderemo, ispirati dal Cielo. Codex Theodosiani, XVI, 1,2] Agli eretici non deve essere concesso alcun luogo ove celebrare i loro misteri. Non deve essere loro concessa alcuna opportunità di abbandonarsi alla demenza ostinata delle loro menti. Ogni riunione illecita deve cessare. Dev'essere celebrato solo il nome di Dio, unico e supremo. Sia mantenuto il Credo di Nicea, che ci è stato tramandato dai nostri padri e che è confermato da tutte le testimonianze della nostra divina religione. L'errore di Fotino, il veleno del sacrilego Ario, gli inganni del perfido Eunomio, e con essi tutte le mostruosità delle odiose sette eretiche e i nomi dei loro autori siano cancellati dal ricordo di ognuno di noi. Sarà considerato confessore della fede di Nicea e vero osservante della religione cattolica soltanto chi riconoscerà il Dio onnipotente come Padre e il Cristo come suo Figlio, unico Dio con Lui, Dio da Dio, Luce da Luce, e che non neghi lo Spirito Santo, per mezzo del quale noi riceviamo ciò che ci viene concesso in dono dal Padre: in una parola, chi riconoscerà, con fede pura, senza alcuna alterazione, la sostanza indivisibile della Trinità, che i veri credenti designano con la parola ousia. Coloro che non si sottometteranno, cessino di nascondersi falsamente sotto il nome della vera religione e siano indicati col vero nome del loro errore; siano essi allontanati da tutte le chiese, e nessuna riunione di eretici sia tollerata
79 entro le mura di alcuna città. E se essi faranno qualche tentativo fazioso per impossessarsi di una chiesa, vengano espulsi dalla città, di modo che tutte le chiese cattoliche appartengano soltanto a coloro che osservano la fede di Nicea. [Codex Theodosiani, XVI, V,l-6 .] 3.
La dottrina di Pelagio.
Pur avendolo creato debole e inerme nella sua esteriorità. Dio creò l'uomo forte interiormente, facendogli dono della ragione e della saggezza, e non volle che fosse un cieco esecutore della sua volontà, ma che fosse libero nel compiere il bene o il male. Se ci pensi bene, ti apparirà evidente come, proprio per questo, la condizione dell'uomo sia più alta e dignitosa, dove sembra e si crede invece la più misera. Nell'essere capace di distinguere la duplice via, del bene e del male, nella libertà di scegliere l'una o l'altra, sta il suo vanto di animale ragionevole. Non vi sarebbe alcun merito nel perseverare nel bene, se egli non avesse anche la possibilità di compiere il male. Per cui è un bene che possiamo commettere anche il male: perché ciò rende più bella la scelta di fare il bene. Molti sembra che vogliano rimproverare al Signore la sua opera, dicendo che avrebbe dovuto creare l'uomo incapace di commettere il male. Non sapendo emendare la loro vita, essi vogliono, in compenso, emendare la natura! E invece la fondamentale bontà di questa natura è stata impressa in tutti, senza eccezioni, tanto che anche fra i pagani, che non conoscono il culto di Dio, essa affiora e non di rado si mostra palesemente. Di quanti filosofi, infatti, abbiamo sentito dire, o anche visto coi nostri stessi occhi, che sono vissuti casti ed astinenti, modesti, benevoli, sprezzanti degli onori del mondo e dei piaceri, amanti della giustizia? Di dove vennero loro queste virtù, se non dalla natura stessa? Fa' dunque che nessuno ti superi nella vita buona e virtuosa: tutto questo è in tuo potere e spetta a te sola, poiché non ti può venire dal di fuori, ma germina e sorge dal tuo cuore. [Pelagio, Lettera a Demetriade, in G. Prete, Pelagio e il pelagianesimo.] 4.
L'incarnazione secondo Nestorio.
80 Non c'è da stupirsi che il popolo, amante di Cristo, tributi applausi a coloro che parlano in onore della beata Maria. Il fatto stesso che ella sia divenuta tempio della carne del Signore è al di sopra di quanto è più degno di lode. Tuttavia si deve porre attenzione a che, avendo dell'onore che le toccò una considerazione più alta del dovuto, non si dia l'impressione di confondere la dignità del Verbo di Dio, facendolo generare due volte. Colui che dice così, semplicemente: che Dio è nato da Maria, prima di ogni altra cosa, svilisce la nobiltà del dogma agli occhi dei Gentili, e ponendolo alla berlina lo propone al vituperio ed al ridicolo. Infatti, subito il pagano, intendendo che Dio è nato da una donna, ne trae argomento contro il cristianesimo. Per forza di cose, chi si limita semplicemente a dire che Dio è nato da Maria, senza considerare che egli è, per congiunzione, di due nature, cioè la divina e l'umana, si sentirà rispondere: "Io non posso adorare un dio nato, morto e sepolto". Al contrario è questa l'esatta precisazione del dogma. Colui che è nato ed ebbe bisogno di tempo per la crescita, e fu portato nell'utero per i mesi necessari, ebbene, questi ha la natura umana, tuttavia essa è congiunta a Dio. Altro infatti è dire che a Colui che nacque da Maria era congiunto quello che Le eresie trinitarie il Verbo del Padre, altro è invece dire che la divinità ebbe bisogno di una nascita decorrente secondo mesi. Voglio dunque che voi siate perspicaci nell'esaminare i dogmi e non confondiate con Dio l'umanità assunta, né abbiate a dire un puro uomo Colui che è nato, e nemmeno che Dio Verbo abbia perduto per commistione o mescolanza la propria essenza [...Colui che è nato dalla beata Maria, quanto all'umanità era consostanziale a noi, ma per il fatto di essere congiunto a Dio era ben lungi dalla nostra sostanza, e superiore ad essa...] Il Signore nostro Gesù Cristo, diciamolo dunque duplice secondo la natura, ed uno solo, in quanto Figlio di Dio [Nestorio, Omelia, in L.I. Scipioni, Nestorio e il Concilio di Efeso] 5. Oriente e Occidente: oggi, come ieri.
Mi sembra che la concezione occidentale e quella orientale della Chiesa partano da due opposti punti di vista. Se comprendo bene, la tendenza occidentale
81 considera le cose in questo modo: Cristo ha insediato Pietro. Poi gli ha dato dei collaboratori, che sono soprattutto dei sottoposti: gli apostoli. Infine a Pietro e agli apostoli, ma soprattutto a Pietro, egli ha dato dei sottoposti (giacché è inutile essere capi se non si hanno dei sottoposti). Questi sono i semplici fedeli, la cui ragion d'essere è di fornire una materia ai comandamenti, alla santificazione e al magistero dei capi. Questa concezione estremista occidentale parte dalla cima: Cristo ha insediato Pietro, gli ha dato collaboratori, poi a Pietro ed ai suoi collaboratori egli ha dato dei fedeli. In Oriente noi partiamo da un punto di vista diametralmente opposto. Per noi, innanzi tutto, Cristo si congiunge ai credenti, ai fedeli, come ai suoi fratelli e membri del suo corpo. Ecco l'essenziale: far parte di Cristo. Ecco tutta la Chiesa. Mi sembra che nell'opinione cattolica vi sia come un'ossessione del primato di Roma, un'ossessione malsana, a un punto tale che non si può parlare di nulla all'interno della Chiesa senza sentirsi obbligati in coscienza a fare intervenire il primato. Si direbbe che qualsiasi riforma in seno alla Chiesa e la minima evoluzione istituzionale possano rappresentare un pericolo per il primato di Roma. Per la verità, noi non ne ritroveremmo il senso se non ritornando al Vangelo: Pietro che tratta con gli apostoli e con gli altri fedeli. In quanto orientale, io non comprendo davvero come taluni non possano trovare la collegialità episcopale nella Scrittura e nella tradizione. A me sembra talmente chiaro nella Sacra Scrittura e nella tradizione della Chiesa, che tutti i vescovi formano un collegio, un ordine, un corpo, un tagma, come si dice in greco. Dapprima è esistito il collegio degli apostoli, prima ancora del primato romano. Vi sono stati anzitutto dei fedeli, poi un gruppo di apostoli, il cui numero era fissato e formava dunque un corpo ben solidale; soltanto in seguito, per meglio unire questo corpo e assicurarne la permanenza e il buon funzionamento, si è avuta una "presidenza della carità". Ma ritorniamo un poco alle questioni teologiche. Ho preso la parola durante la prima sessione, allorché si è trattato della comunione sotto le due specie, o della concelebrazione. Ho preso la parola per dire all'indica que- 82 L'eresia sto: "Monsignori, comunicare sotto le due specie costituisce la cosa normale: è in questo modo che Cristo ha fatto. Non si può dire che ciò che ha fatto Cristo sia un'eccezione!" Ciò che Cristo ha fatto è la cosa normale. Ora, se avete dei motivi per non comunicare sotto le due specie, siamo pronti a comprenderli, però non dite che noi seguiamo l'eccezione, e che voi siete la
82 regola. Quando viene enunciata una verità che non è nuova, ma antica come Cristo, la prima preoccupazione di coloro che ascoltano non è di chiedere: "È essa provata nella Scrittura?", "Ha essa delle fondamenta nei Padri?". Ma si chiede piuttosto: "Come formuleremo canonicamente questa verità?". A mio parere, è il nostro modo di ragionare a essere manchevole. Bisognerebbe anzitutto assicurarci della verità teologica, in seguito troveremmo le formule concrete come conclusioni, come applicazioni di questa verità teologica. ["I disagi di un cattolico orientale di fronte alla ecclesiologia latina", in N. Edelby, La fine della Chiesa come società perfetta.]
83 III. LA CONTESTAZIONE ALLA CHIESA FEUDALE (SEC. VIII-XII).
La Chiesa dei barbari.
Il conflitto tra la Chiesa orientale e la Chiesa di Roma non era stato soltanto una conseguenza delle divergenze religiose, ma anche delle iniziative politiche del papato romano, che mirava a sostituire il cesaropapismo bizantino, ormai in decadenza, con una propria teocrazia. L'appoggio dato ai franchi (convertiti dall'arianesimo al cattolicesimo fino dal 498, ai tempi di Clodoveo), i quali avevano sotto il loro dominio quasi tutta l'Europa occidentale, prima col riconoscimento del titolo di re a Pipino il Breve, poi con l'incoronazione imperiale di Carlo Magno, permise alla Chiesa di procurarsi un altro protettore, che si sperava più fedele degli imperatori bizantini e più disposto a riconoscere la superiorità del potere spirituale su quello temporale. Sarebbe stata l'attuazione di quella civitas Dei, sognata da sant'Agostino, che, a differenza degli altri imperi della storia dove l'autorità politica e quella religiosa erano riunite in una sola persona, si sarebbe dovuta basare sulla divisione e collaborazione dei due poteri, in conformità alla dottrina delle due nature in Cristo. In realtà, poi, i due poteri cercheranno continuamente di prevaricare l'uno sull'altro, e la lotta spingerà la Chiesa a usurpare anche quello temporale, a compromettersi con l'istituzione feudale, in aperto dispregio dell'esortazione evangelica alla povertà e alla difesa degli umili: cosa che giustificherà ben presto altre contestazioni ereticali. Inoltre, la penetrazione nel mondo germanico influì sul cristianesimo con un'acculturazione barbarica che abbassò notevolmente, e durevolmente, il livello della fede e inquinò la stessa istituzione della Chiesa. Essa adottò molte forme rituali sopravvissute dall'antico paganesimo dei germani, e si conformò ai loro barbarici sistemi giudiziari, con un pari ricorso alla violenza e alla crudeltà. I neoconvertiti introdussero le loro superstizioni: soprattutto la credenza nelle forze demoniache della natura e quindi nella magia e nella stregoneria, con la fiducia in un potere esorcistico attribuito anche al crocifisso,
84 alle immagini sacre, alle reliquie, agli elementi sacramentali in se stessi, cioè all'acqua benedetta, all'olio del crisma, alla particola dell'eucarestia, che proprio in questo periodo divenne la simbolica ostia. Ma la conseguenza più grave dell'infiltrazione della cultura germanica fu l'accettazione di un ordinamento sociale nettamente classista, secondo i principi del feudalesimo, che separava i nobili dai servi della gleba, e che, trasferito nella Chiesa, perpetuò fino ai nostri giorni il distacco completo delle gerarchie ecclesiastiche dalla massa dei fedeli. I privilegi che spettavano all'aristocrazia laica vennero pure rivendicati dall'aristocrazia clericale, e ciò creò un'avida ricerca di cariche sacerdotali, anche senza vocazione religiosa, con conseguente scandaloso arricchimento e corruzione dei costumi. Quanto alle masse urbane e rurali, erano appiattite in una vita costantemente uniforme, regolata dall'imposizione di schemi universali, non solo per l'esercizio di lavori ripetitivi, tramandati di padre in figlio, ma soprattutto per il controllo quotidiano del loro comportamento religioso: obbligo di devozioni e preghiere in determinate ore del giorno, della messa domenicale (pena il sospetto di eresia), della comunione frequente, della partecipazione a cerimonie pubbliche, a processioni e a pellegrinaggi. Praticamente la vita dei popolani era scandita dal rintocco delle campane della chiesa più vicina. Nel gran mare dell'analfabetismo, comune sia al popolo sia alla nobiltà, i monasteri erano le uniche isole di una sia pur modesta cultura, e quindi i centri da cui muovevano le dispute teologiche che confermavano o smentivano la credulità popolare, oscillando tra l'ortodossia e l'eresia, ma anche i luoghi da cui prendevano le mosse le critiche alla corruzione che dalle più alte gerarchie dilagava fino al basso clero. Già nel 742 Bonifacio, da venticinque anni fervente organizzatore della Chiesa nel regno franco, scriveva a papa Zacearía lamentando le gravi condizioni del clero germanico: vescovati in mano a sacerdoti impudichi e corrotti, che agognavano soltanto al denaro mentre altri, che si vantavano di non essere adulteri e dissoluti ma erano ubriaconi, trascendevano spesso a risse, e non rifuggivano dal versare anche sangue di cristiani. Il papa non si degnò nemmeno di rispondere, ma il re Pipino il Breve, arrogandosi lo stesso diritto che avevano in Oriente gli imperatori bizantini, convocò il primo Concilio di vescovi cattolici nel regno dei franchi, e minacciò la
85 degradazione dei chierici indegni per la loro vita dissoluta, proibì loro di portare armi e di andare a caccia, stabilì la pena della "flagellazione fino al sangue" e di uno o due anni di prigione "a pane e acqua" per coloro che fossero caduti nel peccato di fornicazione. Due anni dopo, in un secondo Concilio, tenutosi a Soissons, Pipino dovette occuparsi anche di questioni ereticali. Su denuncia di Bonifacio (nome imposto da papa Gregorio II al monaco germanico Wynfrith, che sarà poi santificato) egli condannò al carcere, come eretici, per "falsa devozione", due strani monaci: Aldeberto della Gallia, e Clemente d'Irlanda. Il primo mostrava ai fedeli una lettera di Gesù Cristo caduta dal cielo a Gerusalemme e altre reliquie che diceva di aver ricevuto da un angelo, esortandoli ad adorarle, con l'assicurazione che in tale modo avrebbero ottenuto la salvezza; Clemente piantava croci e rizzava piccole cappelle in aperta campagna, e - così si espressero gli inquisitori - "voleva introdurre nella Chiesa il giudaismo in quanto affermava che era permesso a un cristiano prendere in moglie la vedova del proprio fratello" e diceva che Gesù Cristo, disceso all'inferno, aveva liberato tutti coloro che vi stavano, buoni e cattivi. Il Concilio laterano del 745 approvò la sentenza del re Pipino, scomunicando Aldeberto e Clemente. Ma si ha notizia che ancora in seguito, nel 747, una dieta generale dei franchi tra le altre cose dovette anche occuparsi di giudicare e di condannare alla prigione alcuni fedeli di Aldeberto, venuti a lamentarsi per il suo arresto, poiché essi lo consideravano un santo. Nel 755 il Concilio di Verneuil ribadì le norme disciplinari per il clero del regno franco, dando ampio potere di controllo ai vescovi. Ma proprio questi, e gli stessi membri della famiglia reale, erano i primi a commettere scandalose infrazioni. Riferisce un cronista contemporaneo che Pipino assegnò al proprio fratellastro Remigio le rendite e le terre del vescovato di Rouen, e che Remigio conferì un'abbazia di monaci a una donna maritata, che era stata sua amante. Un altro cronista racconta di un certo conte Ruggero che nominò vescovo di Le Mans il proprio figlio Gozelino, sebbene fosse laico, e che, quando Pipino volle sostituirlo con un vescovo regolare, Gozelino fece barbaramente cavare gli occhi al neoeletto. Il vescovo Sidonio, di Costanza, corrotto per denaro da due nobili alemanni che volevano impadronirsi delle terre del monastero di San Gallo, finse di credere all'accusa di adulterio, presentata da un monaco al
86 servizio dei due usurpatori, contro Otmaro, legittimo abate di San Gallo, e lo esiliò nell'isola renana di Werd, dove morì tre anni dopo. Negli ultimi decenni del secolo vili, venne sollevato da due eretici, anche in Occidente, il problema teologico dell'identità di Cristo con Dio, che era stato ormai risolto dalle tormentose dispute bizantine. Elipando, vescovo di Toledo, scrisse nel 785 al collega Felice, vescovo di Urgel, per domandargli in che modo, secondo lui, si doveva intendere che Cristo era figlio di Dio. Felice rispose che, a suo parere, Gesù Cristo era un vero uomo, ma avendo Dio assunto in lui la natura umana, si poteva dire che era diventato un deus nuncupates ("dio per modo di dire"). Informato di questa corrispondenza tra i due vescovi spagnoli, Paolino, patriarca di Aquileia, che era stato missus dominicus di Carlo Magno e maestro di grammatica, scrisse tre libri di confutazione e terminò lanciando l'anatema contro i due eretici e tutti coloro che ne seguissero la dottrina. In base alla confutazione di Paolino e a un'altra preparatagli dal monaco Alcuino, suo collaboratore e consigliere in materia religiosa, Carlo Magno nel 794 convocò un Concilio a Francoforte e condannò all'esilio Elipando e Felice, informandoli egli stesso con una lettera in cui tra l'altro diceva: "Noi siamo dolentissimi per le calamità che soffrirete nella vostra schiavitù, ma più ancora ci affligge il vedervi traviati dal retto sentiero della verità, onde la vostra conversione sarebbe di infinita gioia al nostro spirito. Dai libelli che vi trasmettiamo annessi a questa lettera potrete rilevare i nostri sentimenti, uniformi a quella che è la dottrina della Chiesa, e vedere convenuti in una medesima sentenza il pontefice e i vescovi d'Italia, di Germania, di Bretagna e di Aquitania. In quale orrendo precipizio vi siete adunque gettati da voi medesimi, privandovi della partecipazione delle nostre preghiere e dei nostri soccorsi! Perché, se dopo questa ammonizione, non rinuncerete sinceramente al vostro errore, vi considereremo eretici, né più oseremo comunicare con voi". Nello stesso Concilio venne adottata la distinzione approvata dalla imperatrice Irene nel settimo Concilio ecumenico (del 787) tra venerazione delle immagini e latria dovuta a Dio. In quegli anni, le rivalità, per ambizione di potere, non tardarono a scoppiare anche tra le famiglie romane che aspiravano per qualche loro membro al seggio pontificio. Nel 799 i partiti avversi al papa
87 Leone III ordirono contro di lui una congiura, accusandolo di adulterio e di essersi impossessato del tesoro degli unni donato da Carlo Magno alla cattedra di San Pietro. Il 23 aprile, durante una processione, Leone III venne aggredito, gettato giù da cavallo, e ferito gravemente a bastonate; i sicari tentarono anche di strappargli la lingua. Appena ristabilito, il papa accorse a Paderbon per incontrare Carlo Magno e invocare la sua protezione. Qui maturò l'accordo per l'incoronazione di Carlo Magno a imperatore. La notte di Natale dell'800, in San Pietro, il re dei franchi ricevette dalle mani del pontefice la corona imperiale e fu acclamato dalla popolazione di Roma. Si costituì così una diarchia tra potere spirituale e potere temporale. Ma il papa non volle rinunciare del tutto ai propri interessi mondani e per proteggere l'ormai enorme patrimonio della Chiesa e legittimare il proprio diritto di prender parte alla cosa pubblica, anche come sovrano temporale, produsse un falso documento (che però ebbe credito per tutto il Medioevo e fu dimostrato falso solamente nel Quattrocento), il Constitutum Constantini, secondo il quale l'imperatore Costantino, per essere stato miracolosamente guarito dalla lebbra, avrebbe donato a papa Silvestro, nel 313 (un anno prima che salisse al soglio pontificio!) la piena giurisdizione sopra "omnes occidentalium regionum provincias et ci vi ta tes". Né Carlo Magno rinunciò, a sua volta, a intervenire nelle questioni interne della Chiesa. Sotto di lui si tennero cinque concili, ad Arles, Reims, Tours, Chalón sulla Saona e Magonza, per la riforma dei costumi del clero e la repressione degli abusi nella Chiesa. Si decretò, pena la decadenza dall'ufficio, il divieto per qualsiasi membro del clero di assistere a spettacoli, di bere e mangiare fuori della canonica o del monastero, di andare a caccia, di intervenire a conviti, far visita a donne, intrattenersi troppo a lungo nei conventi femminili di cui si fosse confessori, di fare l'affittuario, prestare denaro a usura, far incetta di grano, accettare donativi, eccetera. Si dispose inoltre che l'olio santo venisse custodito sotto chiave e non venisse dato a nessuno che intendesse usarlo come rimedio o per esorcismi; che i canonici si impegnassero di insegnare a tutti i loro fedeli le parole del simbolo trinitario e l'orazione domenicale; inoltre, che fossero messi in prigione e scomunicati i "chierici vaganti", cioè gli studenti di teologia, che si spostavano da una scuola all'altra per seguire le lezioni dei maestri di maggior fama.
88 Anche Ludovico il Pie, successore di Carlo Magno, dovette intervenire per una questione che riguardava "l'empia eresia degli iconoclasti". Lo spagnolo Claudio, nominato vescovo di Torino dallo stesso imperatore Lodovico il Pio, nell'822, indignato per l'eccessiva superstizione che aveva trovato nella sua diocesi, legata soprattutto al culto delle immagini, fece levare dalle chiese persino il crocifisso. L'eresia Invitato a presentarsi a un Concilio a Parigi, nell'825, Claudio spiegò per lettera quali erano state le buone intenzioni di questo suo provvedimento [vedi Documenti n. 1] ma rifiutò di sottoporsi al giudizio inquisitorio e venne scomunicato in contumacia. Eppure, proprio quell'anno, Lodo vico il Pio ricevette una eloquente documentazione da parte dell'imperatore d'Oriente, Michele II, dei motivi che avevano indotto i suoi predecessori a usare severità nei riguardi degli adoratori di immagini: "Furono trovati taluni che levavano le croci dalle chiese e le sostituivano con icone davanti alle quali bruciavano incenso, prestando loro uguale culto che alla croce. Molti avvolgevano immagini di sante in pannolini e se ne servivano come di madrine nel battesimo ai propri figli. Certe donne, che avevano fatto voto di vestire l'abito monastico, nel tagliarsi i capelli li lasciavano cadere sopra le immagini e così li conservavano. Vi erano dei sacerdoti che raschiavano la vernice delle icone per mescolarla col pane e col vino dell'eucarestia. Altri mettevano il pane consacrato sopra le mani di un'immagine di santo e di lì lo facevano prendere ai fedeli". Ma ormai il clero occidentale superava di gran lunga queste forme deprecabili di superstizione, e pochi erano coloro che, come Claudio, ne provassero orrore. Uno di questi fu Amolone, vescovo di Lione, che seppe saggiamente consigliare in proposito un proprio collega. Costui, Teoboldo, vescovo di Langres, gli scrisse nell'828 per esporgli un caso singolare successo nella sua diocesi: alcuni monaci, tornati da Roma, avevano portato con sé le reliquie di un santo e le avevano esposte alla venerazione pubblica. Molti, di fronte a quei resti, venivano colti da convulsioni, si dibattevano e cadevano all'indietro; alcune fanciulle, colte da tali convulsioni, non volevano lasciare la chiesa di San Benigno, dove si trovavano le reliquie, e il contagio si era esteso ormai a centinaia di persone. Amolone rispose a Teoboldo che ordinasse subito di togliere dalla chiesa quelle presunte reliquie e che le facesse seppellire segretamente: le convulsioni non potevano essere
89 che inganni, sfruttati dai monaci per lucrare le elemosine offerte dai fedeli. "Quando mai" egli aggiungeva "si sono veduti nelle chiese di Dio codesti prodigi, per cui non i malati guariscono, ma i sani diventano infermi? Non sono che tristi illusioni. Stermina, dunque, codeste diaboliche finzioni, che fanno vergognosamente schiavi i sensi e la ragione di tanti, specialmente del minor sesso." Un'altra superstizione, destinata però a essere accolta con favore dalla Chiesa, e addirittura elevata poi a dogma, nacque pochissimi anni dopo, in seguito a una disputa cristologica tra due monaci di orbie, a cui intervennero anche altri. La disputa fu preceduta da un contrasto di opinioni, tra i due monaci stessi, a proposito della verginità di Maria, un argomento che ormai era stato risolto - dopo lunghi dibattiti durati dal secolo II al vidal Concilio laterano del 649, elevando a dogma la formula che, sul finire del secolo IV, aveva proposto Giovanni Crisostomo: Maria è sempre stata vergine, "ante parrum, in partu, post partum". Ora, per ribadire questo dogma, il monaco di Corbie Pascasio Radberto scrisse, nell'830, un opuscolo intitolato De partu virginis in cui, a dimostrare che Maria aveva partorito Gesù senza perdere la propria integrità e senza provare dolore, si ricorreva a questo parallelo: "Come Cristo uscì dal sepolcro senza levare la pietra e romperne il suggello, allo stesso modo uscì dall'utero di sua madre". Ratramno, confratello di Pascasio nel medesimo convento, rispose immediatamente, dichiarando che tale opinione era eretica: Maria, pur senza perdere la propria verginità, aveva dovuto mettere al mondo Gesù Cristo nella maniera ordinaria, soffrendo i dolori del parto, altrimenti Gesù non sarebbe stato vero uomo. Codesta disputa, che nel Seicento parrà quanto mai sconveniente all'abate Fleury per l'abuso di crudi termini ginecologici da parte dei due monaci, diede l'avvio a un'altra discussione importante sull'eucarestia. Fino ad allora la dottrina ufficiale della Chiesa era che nel pane e nel vino della comunione il corpo e il sangue di Cristo fossero rappresentati solo simbolicamente. Pascasio Radberto, suggestionato dalle credenze germaniche nei poteri magici di oggetti sacri, reliquie eccetera, in un suo scritto, De corpore et sanguine Domini, enunciò una teoria che preludeva al concetto di "transustanziazione", cioè che il pane e il vino dell'eucarestia, per qualche intervento miracoloso, si mutino nella carne e nel sangue di Cristo.
90 "Anche se" dice Pascasio "rimane ancora l'aspetto del pane e del vino, noi dobbiamo credere che, dopo la consacrazione, non vi sia altro in essi che il corpo e il sangue di Cristo. E, ciò che è straordinario, si tratta proprio di quella carne che nacque da Maria, che patì sulla croce, che uscì dal sepolcro." Anche questa volta gli rispose Ratramno, invocando l'autorità dei Padri e soprattutto di sant'Agostino, secondo il quale nel pane e nel vino vi è solo quaedam virtus carnis et sanguinis, cioè una presenza unicamente simbolica. Intervenne nella disputa anche il monaco irlandese Scoto Eriugena. Ma il problema continuerà a rimanere aperto. Lo riprenderà, a metà dell'anno Mille, Berengario di Tours, arcidiacono di Angers, argomentando che è impossibile che una sostanza si trasformi in un'altra preesistente, o che gli "accidenti" del pane e del vino si separino dalla loro materia per lasciar posto a quelli della carne e del sangue. Infatti, anche dopo la consacrazione, il pane e il vino continuano a conservare le loro proprietà organolettiche. Ma sarà solo nel 1125 che un altro monaco di Tours, di nome Ildeberto, escogiterà un'ingegnosa soluzione, che finirà coli'essere adottata come dogma: nel pane e nel vino avviene veramente una "transustanziazione", cioè la trasformazione in carne e in sangue di Cristo, ma nello stesso tempo il pane e il vino non perdono le loro caratteristiche naturali, e vi è quindi una "consustanziazione", cioè la coesistenza della sostanza del pane e del vino con la sostanza del corpo e del sangue di Cristo. Allora, naturalmente, accettata e definita come dogma l'opinione del monaco Ildeberto, gli scritti di Pascasio, Ratramno, Scoto e Berengario verranno proibiti come eretici. Ratramno e Scoto Eriugena furono pure coinvolti, verso la metà dell'800, in un'altra grave eresia sul problema della salvezza e della predestinazione, promossa dal monaco sassone Gotescalco (ossia Gottschalk) dell'abbazia di Orbais. Costui, vivamente impressionato dalla lettura degli scritti di sant'Agostino sulla dottrina della grazia, di ritorno da un pellegrinaggio a Roma, mentre era ospite per qualche tempo del duca del Friuli Eberardo, discorrendo di questo problema sostenne che esiste una predestinazione assoluta degli uomini, sia al bene sia al male. Era un'eresia molto pericolosa: se così fosse stato, diventavano inutili la mediazione della Chiesa e il conferimento dei sacramenti, proprio in un momento in cui la Chiesa aveva
91 particolarmente interesse a consolidare il proprio magistero, come supporto della sua potenza temporale. Il discorso di Gotescalco non sembrò affatto corretto al vescovo di Verona, Notingo, il quale ne informò, preoccupato, l'arcivescovo di Magonza, Rábano Mauro, che nell'abbazia di Fulda aveva avuto Gotescalco come allievo. Rabano non perse tempo. Scrisse subito a Eberardo del Friuli: "Si è sparsa la voce che tu alloggi non so qual semidotto che insegna la predestinazione imporre all'uomo tale necessità che, per quanto egli voglia e si sforzi di operare per la sua salvezza, con l'aiuto della Chiesa, non lo può, a meno che sia già predestinato da Dio. Si dice che questo tuo dottrinante abbia fatto non pochi estratti delle opere di Agostino, a sostegno della sua brava predicazione; ma Agostino, nel combattere i pelagiani, è stato il difensore della grazia, non il distruttore dell'ortodossia". Per il momento, però, Rábano Mauro non poteva occuparsi direttamente di una condanna di Gotescalco, perché impegnato nel Concilio che si stava tenendo nella sua città (anno 847), ancora una volta per definire gravi casi di deviazione da parte del clero minore: si deliberò che fosse scomunicato chiunque facesse scongiuri contro i vescovi, che venisse imprigionato chi esercitasse il magistero ecclesiastico senza autorizzazione del suo vescovo, e chi, scomunicato, andasse vagabondando. Nello stesso Concilio venne condannata alla fustigazione una certa Tiota, una profetessa, che aveva messo sottosopra la diocesi di Costanza, perché andava predicando che quell'anno stesso sarebbe venuta la fine del mondo, e molti, anche sacerdoti, spauriti da tali predizioni, andavano a lei con regali, raccomandandosi alle sue preghiere. Interrogata dai padri conciliari, Tiota confessò che quell'inganno le era stato suggerito da un prete e che essa vi si era prestata per amore di lucro. Concluso il Concilio, Rábano Mauro riunì subito a Magonza il Sinodo locale, per condannare la dottrina eretica di Gotescalco, che, però, era latitante. Poi Rábano segnalò a Incmaro, arcivescovo di Reims, che Gotescalco aveva preso la fuga e doveva essersi rifugiato nella sua diocesi, invitandolo a perseguitarlo. Rábano sapeva a chi si rivolgeva. Incmaro era un uomo spietato e senza scrupoli (fu più volte accusato di atrocità varie e, tra le altre, di aver fatto accecare un proprio nipote che non voleva concedergli la
92 giurisdizione sui suoi beni). Infatti Incmaro riuscito a catturare Gotescalco, nascosto nei pressi di Reims, radunò un Concilio nell'849 a Kiercy sur l'Oise per processarlo. Gotescalco non solo venne giudicato eretico dai tredici vescovi riuniti, ma anche incorreggibile e ostinato nella sua perversità, e perciò condannato a una pubblica fustigazione e poi rinchiuso in carcere. Qui egli compose una nuova confessione di fede, ribadendo le proprie tesi con citazioni di altri passi di sant'Agostino, e chiese di essere ammesso a dimostrare la propria innocenza con la prova dell'acqua bollente e del fuoco. Ma non gli fu concesso. Molti scrissero a confutazione di Gotescalco, anche Ratramno e Scoto Eriugena, i quali però caddero essi pure nell'eresia. Ratramno, per confutare Gotescalco, enunciò una propria dottrina, non meno eretica, detta della "duplice predestinazione": solo la predestinazione dei buoni alla salvezza è gratuita; quella dei cattivi alle pene eterne si può dire che è prestabilita soltanto per il fatto che Dio, nella sua onniscienza, ne prevede i peccati: "Sarebbe empio" egli dice "attribuire a Dio la volontà di condizionare una parte degli uomini a essere forzatamente peccatori". L'eresia Scoto Eriugena, divenuto frattanto maestro nella scuola palatina di Carlo il Calvo, respingeva anche questo concetto di una doppia predestinazione, argomentando che, se si dice che Dio predestina alla dannazione i cattivi perché ne prevede i peccati, altrettanto si può dire per i buoni, che egli predestina alla salvezza perché ne prevede i meriti. Quindi, concludeva Scoto, predestinazione e previsione sono un'attività unica da parte di Dio: predestina al premio o al castigo, proprio perché prevede chi sarà buono e chi sarà cattivo. Conosciuta quest'opera di Scoto, Venilone, arcivescovo di Sens, ne mandò un estratto a Prudenzio, vescovo di Troyes, pregandolo di confutarne gli errori. Prudenzio tacciò Scoto Eriugena di pelagianesimo, in quanto negava alla grazia il suo carattere di dono gratuito e faceva della predestinazione soltanto un premio o un castigo delle opere umane. Anche il diacono Fioro, della chiesa di Lione, si cimentò nella confutazione dello scritto di Scoto Eriugena: prescienza e predestinazione - egli dice - non sono due attività necessariamente legate. Dio "prevede" molte cose che non vengono affatto "predestinate" da Lui, e tra queste anche i peccati degli uomini. Gotescalco non ha torto
93 quando dice che la predestinazione ha doppio effetto, perché porta alcuni alla salvezza, altri alla dannazione, ma ha torto quando sostiene che Dio stesso induce i cattivi al male: "Chiunque asserisce che Dio ha imposto o impone all'uomo la necessità di peccare, costui pronuncia apertamente contro Dio un'orribile bestemmia, perché, così dicendo, fa Dio autore del male". Basandosi su queste confutazioni, che egli stesso ha sollecitato, nell'853 Incmaro convoca a Kiercy un secondo Concilio, per definire la controversia sulla predestinazione, ed espone una sua dottrina che, praticamente, ripete gli errori di Ratramno: essendo tutto il genere umano, per colpa di Adamo, una massa di perdizione, Iddio di questa massa ne ha predestinati alcuni alla salvezza e ha preveduto per gli altri la morte. Tuttavia - egli aggiunge - per opera di Cristo l'uomo ha riacquistato il suo libero arbitrio e quindi, chiunque lo voglia, può salvarsi. Questa contraddizione viene fatta rimarcare da Remigio, vescovo di Lione, perciò la dottrina di Incmaro viene criticata da molti dei presenti al Concilio e non approvata. Solo nell'855, finalmente, in un Concilio radunato a Valence dall'imperatore Lotario per giudicare il vescovo di quella città, che si era macchiato di delitti comuni, posto termine a questa faccenda, i convenuti tornarono a trattare il problema della predestinazione, e lo definirono. Vennero condannate come eretiche sia le tesi di Gote- La contestazione alla Chiesa feudale calco sia quelle di Ratramno, di Scoto e di Incmaro, ma la formula finale, accettata da tutti, era di nuovo piuttosto ambigua: la predestinazione degli eletti è gratuita e precede i loro meriti; per i cattivi, Dio predestina solo le pene a cui dovranno essere sottoposti, ma la loro malizia è conseguenza della propria libera scelta. L'argomento verrà di nuovo ripreso, con una diversa soluzione, ai tempi della Riforma protestante. Prime reazioni contro la corruzione della Chiesa.
Chi scorre gli atti conciliari dei secoli VIII, IX e X rimane stupito nel. leggere quante volte si siano dovuti prendere provvedimenti per disciplinare la condotta privata dei membri del clero. Alcuni di questi atti li abbiamo già ricordati nelle pagine precedenti. Dapprima furono
94 generici ammonimenti a condurre una vita più austera, lontana dalle attrattive del mondo: non andare a caccia, non partecipare a festini, non ubriacarsi. Poi, via via, si fissarono punizioni sempre più gravi per altri casi di malcostume. Infine si proibì la compravendita di beni ecclesiastici (la cosiddetta simonia) e contemporaneamente si lanciarono fulmini contro i preti che convivevano con donne in concubinato (detto nicolaismo dall'antica setta giudeo-cristiana dei nicolaiti, cui si erano attribuite immoralità sessuali), si diede ordine che le conviventi venissero tosate e frustate pubblicamente, e che i loro figli fossero ridotti in schiavitù. Ma ciò che più stupisce è il fatto che simili decreti portino spesso la firma di vescovi e di papi assai più gravemente peccatori. È logico, quindi, che si venisse a creare contro le alte gerarchie della Chiesa un diffuso sentimento di malumore, non solo tra le masse dei fedeli ma anche tra il basso clero, specie tra i sacerdoti "concubini" che vedevano oltraggiate le loro donne, rovinate le loro famiglie. L'elezione dei papi era ancora virtualmente un diritto della popolazione di Roma, che poteva approvare o disapprovare i candidati proposti. Ma, specialmente a partire dall'anno 888, sfasciatosi l'impero carolingio con la deposizione di Carlo il Grosso, i pontefici vennero imposti, anche con la violenza, dalle grandi famiglie feudali, secondo i loro interessi politici ed economici. Fu un susseguirsi di scandali e di esempi di corruzione, ai quali il popolino reagiva con proteste e tumulti. Nell'897, papa Stefano VII, imposto dai duchi di Spoleto, uccidendo Bonifacio VI che era stato regolarmente eletto con l'acclamazione L'eresia popolare, come primo atto del suo pontificato inscenò un macabro "Concilio cadaverico" per processare il suo predecessore, Formoso, già morto da otto mesi, accusandolo di essere salito illegalmente al soglio pontificio e - questa era la vera causa del processo - di aver incoronato Arnolfo di Carinzia, ledendo gli interessi dei duchi di Spoleto. Il cadavere di papa Formoso, tolto dalla tomba e vestito dei paludamenti pontifici, venne posto sopra un seggio nella sala del Concilio. Alle sue spalle un prelato tremante di paura doveva rispondere per lui. Stefano VII interrogò il morto: "Perché, uomo ambizioso, hai usurpato la cattedra di Roma?". La risposta dell'avvocato non fu ritenuta soddisfacente. Il Concilio sottoscrisse il decreto di
95 deposizione e la sentenza di condanna per eresia. Strapparono di dosso al cadavere gli abiti pontifici, gli recisero le tre dita della mano destra con le quali soleva benedire, e trascinatolo per le vie di Roma lo buttarono nel Tevere. Ma Stefano VII non sfuggì all'indignazione popolare: fu arrestato e strangolato in carcere. Nello stesso anno gli succedettero altri due papi: Romano e quindi Teodoro II, che fecero ugualmente una fine violenta. Dal 904, per un trentennio, l'elezione pontificia fu monopolio di due patrizie dissolute: Teodora, moglie del senatore romano Teofilatto, e la figlia Marozia. Fu quello il periodo della storia della Chiesa che, nel Settecento, il teologo protestante Valentin Ernst Lòscher definirà la "pornocrazia romana". Nel 904 esse imposero come papa Sergio III, amante di Marozia. Poi Teodora fece eleggere un proprio amante, Giovanni X, che finirà soffocato tra due guanciali, nel letto di una donna, per mano dei sicari di Marozia. Pochi anni dopo, costei diede la cattedra di san Pietro a un proprio figlio, Giovanni XI, appena venticinquenne, che essa aveva avuto da Sergio III. Fu allora che, sull'esempio di quella donna corrotta e intrigante, arbitra delle sorti della Chiesa, nacque la leggenda (ma dati i tempi è anche possibile che sia un fatto vero) della papessa Giovanna, cioè di una giovane donna che avendo sempre celato il proprio sesso sotto abiti monacali, sarebbe stata eletta papa, e poi smascherata perché, durante una processione, era stata colta dalle doglie del parto. A ogni modo, quell'eccesso di impudenza segnò la fine di Marozia. Un altro suo figlio, Alberico di Spoleto, la fece uccidere nel 935, e da allora spadroneggiò sul papa, suo fratellastro, e sui successori, finché nel 955 impose come pontefice il proprio figlio diciottenne col nome di Giovanni XII, che morirà dieci anni dopo, ucciso da un marito geloso. Né gli scandali alla corte pontificia cessarono con questo fatto. La contestazione alla Chiesa feudale el 973, appena morto l'imperatore Ottone I, la famiglia romana dei Crescenzio fece strangolare Benedetto VI, che era stato da lui confermato, e lo sostituì con Bonifacio VII. Anche questa volta il popolo di Roma insorse, e Bonifacio fuggì, portandosi via i tesori della cattedra di Pietro. Ebbe però l'infelice idea di tornare, pochi anni dopo, e rioccupare la sede pontificia, imprigionando e uccidendo colui che aveva sostituito. Nuovamente la folla insorse, ed egli venne trucidato
96 e fatto a pezzi. Finalmente, proprio alla fine del secolo, nel 999, il nuovo imperatore Ottone III vagheggiò una rencmtio imperii, con la fondazione di una Sacra romana republica che praticamente voleva essere un ritorno al cesaropapismo dei tempi di Costantino, per assumere anche il controllo della Chiesa. Egli pertanto chiamò a collaborare, nominandolo papa, il suo precettore Gerberto di Aurillac, un benedettino che era stato magister alla schola di Reims, poi alla corte di Ottone II a Ravenna, e che nel 991, in un Sinodo di vescovi francesi a Reims, avendo osato bollare aspramente la corruzione e l'assolutismo della corte pontificia di Roma, era stato acclamato con entusiasmo e, seduta stante, eletto arcivescovo della città. Insediato come papa, Gerberto di Aurillac assunse il significativo nome di Silvestro II, volendo indicare la sua intenzione di avere con Ottone III lo stesso tipo di rapporti che Costantino aveva avuto con papa Silvestro I, che da lui aveva ricevuto la famosa donazione: "Un nuovo Silvestro per un nuovo Costantino". Il loro programma - il pontefice cominciò con la proibizione di alienare i feudi ecclesiastici - allarmò non solo le grandi famiglie nobiliari, ma la stessa curia romana, e Silvestro II, già sospetto per la sua non comune cultura anche in materie profane come l'astronomia e le scienze naturali, venne accusato di magia e di stregoneria, e si disse che era stato eletto papa con l'aiuto del diavolo. [Vedi Documenti n. 2.] Ottone III e Silvestro II vissero troppo poco per poter attuare il loro disegno. La renovatio che non era venuta dall'alto, mosse invece dal basso, dai modesti monaci e da umile gente di campagna, con una contestazione che conteneva anche rivendicazioni sociali. Vi era inoltre il concorso di una permanente superstizione che faceva scorgere nelle epidemie, nei terremoti, nelle eclissi, avvertimenti celesti dell'ira divina per i peccati della Chiesa, o segni che il diavolo era lasciato libero di trionfare. Il monaco borgognone Raul Glaber, vissuto in quegli anni, ci ha lasciato nelle sue Storie una descrizione di questi fanatismi: nel 997 "un flagello tremendo, un fuoco nascosto, il fuoco L'eresia di sant'Antonio, che quando colpiva una parte del corpo la consumava staccandola dal resto", poi una carestia che "infierì su tutta la terra, tanto da far temere che il genere umano stesse per scomparire". E il diavolo era sempre presente: si mostrava, sghignazzando,
97 sui campanili, "come un orribile nano, con un collo lunghissimo, il viso emaciato, la bocca prominente e le labbra gonfie, la barba appuntita, le orecchie villose...". Il primo caso sicuro di una contestazione ereticale popolare è proprio agli inizi del secolo XI, nel 1004. Un contadino di Vertus, nella diocesi di Châlon-sur-Marne, di nome Leutard, colto da una improvvisa ispirazione, corre in chiesa, strappa il crocifisso dal muro, e si mette a predicare contro la corruzione del clero, esortando i compaesani a rifiutarsi di pagare le decime. Il vescovo di Chalón, Gebuino, lo fa venire al suo cospetto e lo convince che è stato invasato dal demonio. Per la disperazione, Leutard si getta in un pozzo. Nel 1022 una quindicina di chierici, canonici nella chiesa di Santa Croce, a Orléans, abbandonano ogni forma di culto e si chiudono in una specie di misticismo ascetico, ripudiando persino i dogmi e i sacramenti, per affermare unicamente la loro fiducia in Dio. Essi hanno dei seguaci, uomini e donne, tra la gente più umile di Orléans, e il loro isolamento viene interpretato dai superiori come un pretesto per abbandonarsi a riti diabolici e a orge: sono le stesse accuse che nei primi secoli venivano rivolte dai pagani ai cristiani, per la loro riservatezza. Cambiano i tempi, ma non cambia mai il comportamento delle classi al potere verso le minoranze dissidenti. [Vedi Documenti n. 3.] Il re di Francia, Roberto II il Pio, e la moglie Costanza fanno arrestare questi chierici di Orléans, e con loro è anche una monaca. La regina riconosce nel gruppo il proprio confessore e, indignata, lo aggredisce e gli cava un occhio col bastone. Interrogati dal re, essi affermano che i sacramenti e le cerimonie non hanno alcun valore, che esiste una più alta legge, scritta dallo Spirito Santo nel cuore degli uomini, e che la vera fede consiste solo nell'adorare Dio, il Deus omnium contutor. Solo la monaca e un chierico vengono risparmiati: gli altri quindici eretici vengono condotti al rogo. È la prima volta che si ricorre al fuoco per la condanna di eretici cristiani. Essendo risultato dal processo che alla stessa setta era appartenuto anche un altro canonico, ormai morto da tre anni, si dà ordine di disseppellirne le ossa e di disperderle per la campagna. Due o tre anni dopo il vescovo di Arras scopre la presenza nella sua diocesi di alcuni ex monaci, i quali vanno predicando questa La contestazione alla Chiesa feudale resia: che si deve smettere la soggezione alla Chiesa e ai signori feudatari
98 e vivere in piccole comunità autonome, sostentandosi con il proprio lavoro; basta osservare una vita rigorosamente austera: il battesimo non serve, perché, tanto, dopo si pecca di nuovo, e l'eucarestia è solo un rito commemorativo; comunque i sacramenti dati da preti peccatori non possono garantire la salvezza. Ammoniti dal vescovo, gli eretici di Arras abiurano tutti. Un'atroce fine fecero invece i numerosi membri della setta eretica fondata da Gerardo di Monforte (Asti), tra i quali alcuni nobili e la stessa contessa di Monforte. Venuto a sapere della loro presenza, il vescovo di Asti si rivolse per aiuto al proprio fratello, conte di Torino, e ad Ariberto d'Intimiano, vescovo di Milano. Truppe armate, al comando dei due feudatari, snidarono gli eretici che si erano rifugiati sulle colline dell'Astigiano. Interrogato da Ariberto, il capo della setta, Gerardo di Monforte, riassunse il loro programma: vivere una vita semplice e austera, nella povertà evangelica, mettendo in comune ogni loro avere, e per mezzo della preghiera, della lettura di testi sacri, della carità e della castità cercare di meritarsi la salvezza, perché il giudizio universale è ormai prossimo, e dopo si sarebbe ricreata per partenogenesi, alla maniera delle api (apum more), una nuova umanità. Richiesto da Ariberto se egli non credesse alla salvezza per mezzo di Cristo, Gerardo rispose: "Ciò che io chiamo Padre è il Dio eterno e unico; il Figlio è l'anima di ogni uomo che Dio adotta come figlio; lo Spirito Santo è l'ispirazione a capire e a volere la divina verità". Messi di fronte all'alternativa di abiurare o di morire sul rogo già acceso, la maggior parte degli eretici, coprendosi il volto con le mani, si gettò spontaneamente nelle fiamme. Frattanto, alla metà del secolo, si ebbero le ultime battute del contrasto tra la Chiesa di Roma e la Chiesa greco-bizantina. Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli, disconobbe ufficialmente ogni ingerenza del vescovo di Roma, denunciando la corruzione della sede pontificia. Si determinò così lo scisma, che non fu mai più composto. Il cardinale francese Umberto di Silvacandida, legato del papa per le trattative, si prese la meschina rivincita di scomunicare il patriarca Cerulario con strane motivazioni: perché asseriva che il pane eucaristico non aveva un'anima, perché vietava agli uomini senza barba e alle donne incinte di ricevere i sacramenti, perché ammetteva il matrimonio del clero.
99 I patarini.
Nei centri urbani la contestazione nei confronti della Chiesa feudale coincise con i primi albori del risveglio comunale: la presa di coscienza di una nuova situazione sociale, fondata sull'uguaglianza e sulla collaborazione di tutti i cittadini, la giusta ripartizione e rimunerazione del lavoro; l'onestà e la moralità dei costumi. Questo risveglio, che in Italia precedette di molto quello delle altre nazioni europee, non cominciò, però, come vuol far credere una mistificante interpretazione storica, con la difesa della città di Milano contro l'imperatore Corrado il Salico, sotto la guida del vescovoconte Ariberto d'Intimiano. Perché allora i milanesi non combatterono per se stessi, ma per Ariberto, grande feudatario della Brianza, il quale, come i suoi colleghi di Vercelli, di Cremona e di Piacenza, protestava per la Constitutio de jeudis, cioè il riconoscimento dell'autonomia dei piccoli feudatari, che li sottraeva ai suoi soprusi e alle spoliazioni, e impediva di vendere i feudi, alla morte del titolare, o di cederli a familiari e a protetti. Il "carroccio" non fu allora un simbolo di libertà comunale, ma uno strumento di intimidazione religiosa e di controllo dei combattenti, allo stesso modo in cui era già usato dai vescovi e dagli abati dei conventi, mandandolo per le campagne nella stagione del raccolto per incitare i contadini pigri e dissuaderli dal trafugare qualche sacco di frumento. Fu invece proprio alla morte di Ariberto nel 1045 che, per prevenire la nomina di un altro vescovo tracotante, una delegazione di milanesi propose all'imperatore Enrico III la scelta fra quattro candidati di modesta estrazione: Anselmo, prete di Baggio, Landolfo Cotta e Attone, preti a Milano, Arialdo di Carimate, diacono a Varese, "viri sapientes optimae vitae bonaeque famae", i quali già si erano messi a capo di un movimento riformatore, predicando contro il conferimento di cariche sacerdotali dietro compenso in denaro e contro il concubinato del clero: la simonia e il nicolaismo, le due piaghe della Chiesa feudale che scomuniche e sospensioni a divinis non erano riuscite a sanare. L'imperatore nominò invece Guido da Velate, segretario del vescovo defunto, legato all'aristocrazia lombarda, e per allontanare da Milano Anselmo da Baggio, il più attivo tra i sacerdoti riformisti, lo fece eleggere vescovo di Lucca. Allora scoppiò la reazione popolare.
100 Arialdo e Landolfo incitavano a rifiutare i sacramenti dai preti corrotti, e trovavano largo consenso. "Signor Arialdo" fa dire a un cittadino il cronista Andrea di Strumi "non solo i sapienti ma anche gli ignoranti possono ben capire che le cose che dici sono vere: chi infatti è così sciocco da non pensare che la vita di coloro che chiamo in casa mia a benedirla, che ristoro secondo le mie possibilità, e ai quali bacio le mani e do un'offerta, per ricevere da loro tutti gli uffici da cui mi aspetto la vita eterna, dovrebbe essere infinitamente migliore della mia? Invece, in realtà, come tutti possiamo vedere, non solo non appare più pura, ma anzi più sudicia." Tornava a presentarsi il problema che aveva scosso la Chiesa ai tempi dei lapsi e dei traditores: era lecito ai fedeli rifiutare i sacramenti da sacerdoti giudicati indegni, ma che la Chiesa non aveva sconfessato? La propaganda di Arialdo e di Landolfo mise in fermento i cittadini di Milano, che cominciarono a manifestare apertamente il loro disprezzo per il clero corrotto e per la nobiltà feudale che lo proteggeva. Per ritorsione i manifestanti vennero chiamati patarini. Questo nome, che si estese poi anche ai contestatori di altre città, aveva una evidente intenzione spregiativa: esso deriva da un vocabolo dialettale, vivo ancora oggi in Lombardia e in Piemonte, che significa "stracci"; quindi patarini era sinonimo di "straccivendoli" o addirittura, secondo il cronista Boninzone di Sutri, di "straccioni". Altre etimologie che sono state proposte (da patera, da Pater, da patì) sono fantasiose e prive di senso. Nel 1057, il vescovo Guido da Velate scomunicò Arialdo e Landolfo. Quest'ultimo si recò a Roma, a protestare contro la scomunica e a chiedere un'ispezione a Milano. Al suo ritorno, egli cadde in una imboscata a Piacenza e venne ucciso dagli uomini di Guido da Velate. Tuttavia, due anni dopo, papa Niccolo II si decise finalmente a inviare a Milano un suo delegato, per riportare la calma fra i contendenti. Fu scelto Pier Damiani, monaco camaldolese, noto per la sua grande umiltà e austerità di costumi, che già nel 1049, dall'eremo di Fonte Avellana, presso Gubbio, aveva dedicato a papa Leone IX il suo Gomorrhianus, un quadro impressionante dei vizi del clero, della corruzione dei conventi maschili e femminili, dell'abissale ignoranza in materia religiosa di molti abati e prelati. Esaminata la situazione milanese, Pier Damiani dovette riconoscere che erano corrispondenti al vero gli scandali denunciati dai
101 patarini, e nella sua relazione al pontefice portò qualche esempio della simonia praticata in quella diocesi: per ogni ordinazione sacerdotale, il vescovo Guido di Velate pretendeva un compenso di 12 denari per un suddiaconato, 18 per un diaconato, 24 per un presbiterato. Pur deplorando le violenze dei cittadini, Pier Damiani fece prestare a tutto il clero milanese un giuramento: "Anatemizzo unitamente tutti gli eretici che si mettono contro la santa cattolica e apostolica Chiesa, e specialmente e nominalmente l'eresia simoniaca, che tenta di introdurre la maledetta venalità negli ordini e negli uffici sacri, e l'abominevole eresia dei nicolaiti, i quali impudentemente latrano che i ministri del sacro altare debbono o possono liberamente essere coniugati come i laici". Senza dubbio Pier Damiani aveva ricevuto precise istruzioni da Roma. In quel momento la corte pontificia aveva tutto l'interesse di appoggiarsi al malumore delle masse per la campagna contro la simonia e il nicolaismo, sebbene i fini fossero diversi. I patarini erano mossi da motivi di ordine morale e sociale, la Chiesa da ragioni politiche ed economiche: stroncare la simonia significava sottrarre le investiture dei vescovi-conti agli imperatori e ai grandi feudatari e ricondurle alla giurisdizione della Chiesa; stroncare il nicolaismo significava evitare che i feudi ecclesiastici divenissero ereditari e riportarli nel "patrimonio di san Pietro". Quello stesso anno (1059), allo scopo di rafforzare il potere pontificio, liberandolo da ogni ingerenza laica, il papa Niccolo II emanò un nuovo decreto che infrangeva una consuetudine millenaria: l'elezione dei papi non doveva più essere subordinata all'approvazione della cittadinanza romana, influenzabile dagli interessi politici dell'aristocrazia, ma compiuta esclusivamente e segretamente dal collegio cardinalizio. In base a questa nuova disposizione - vigente ancora oggi - quando nel 1061 papa Niccolo II venne a morte, il collegio dei cardinali elesse proprio colui che era stato l'animatore dei patarini milanesi, Anselmo da Baggio, il quale prese il nome di Alessandro II. La nomina, naturalmente, fu disapprovata dai conservatori, i quali indussero Agnese di Aquitania, vedova dell'imperatore Enrico III e reggente per il figlio (Enrico IV) ad annullare l'elezione e a offrire la tiara al vescovo di Parma, Cadalo, che era stato cancelliere dell'impero ai tempi di Enrico III.
102 Cadalo, assunto il nome di Onorio II, si presentò a Roma con l'appoggio di truppe imperiali, e nello scontro con i seguaci di Alessandro II riuscì vittorioso. Ma, inaspettatamente, in aiuto ad Anselmo da Baggio e a evitare che vi fosse in Roma un papa e un antipapa, interferirono le rivalità feudali della Germania tra gli aspiranti al trono imperiale. Annone, arcivescovo di Colonia, fece rapire il dodicenne Enrico IV, e lo restituì soltanto quando la madre accondiscese a ratificare le decisioni del Sinodo, convocato da Annone ad Augusta, che scomunicò Onorio II e riconobbe Alessandro II. Ma la lotta contro la simonia e il nicolaismo era lunga e difficile, nonostante che il papa Alessandro II fosse sostenuto da un abilissimo consigliere, Ildebrando di Soana, che era già stato il segretario dei due pontefici precedenti e che succederà poi ad Alessandro col nome di Gregorio VII. A Milano, i tumulti tra patarini e feudatari ecclesiastici e laici continuarono, anche con gravi episodi luttuosi. Nel 1066, il vescovo Guido da Velate espulse dalla città Arialdo ed Erlembaldo, che era fratello di Landolfo Cotta, già fatto uccidere in un agguato. Anche Arialdo fece una tragica fine: ferito in uno scontro con i sicari di Guido da Velate, fuggì su di un'isoletta del lago Maggiore, ma fu inseguito e assassinato. Il prete Liprando fu orrendamente mutilato, gli furono mozzati il naso e le orecchie. Alessandro II scomunicò Guido da Velate e per appoggiare il movimento patarino concesse a Erlembaldo il vexillum Sancti Vetri. Forte dell'appoggio papale, Erlembaldo proseguì la lotta patarina contro i sacerdoti indegni. Una volta impedì che venisse impartita la benedizione del fonte battesimale con acqua che era stata consacrata da un prete simoniaco, e la buttò via, sostituendola con altra, consacrata da un sacerdote del suo partito. Il gesto sollevò scandalo tra i conservatori, i quali accusarono Erlembaldo di sacrilegio. Lo sdegno popolare contro la corruzione della Chiesa e l'arroganza feudale scoppiò anche in altre città: a Cremona, a Brescia, ad Alba, a Piacenza. A Firenze, i monaci del convento di Vallombrosa, con a capo Giovanni Gualberto (che sarà poi fatto santo) incitarono il popolino contro il vescovo simoniaco Pietro Mezzabarba, il quale aveva acquistato la nomina per tremila libbre d'oro. Il vescovo fece assediare il convento e arrestare un gruppo di monaci. Uno di questi si offrì di dimostrare la verità delle accuse con il giudizio del fuoco. Nella piazza di Firenze, affollata di gente, egli camminò su legna accesa e ne uscì illeso.
103 Da quel momento la popolazione fiorentina lo venerò con il nome di Pietro Igneo, e rifiutò i sacramenti dal vescovo. Analoghe manifestazioni si verificarono anche in Francia. A Scherie, nella diocesi di Cambrai, un contadino di nome Ramirdo invitò tutti i fedeli a rifiutare la comunione dal vescovo e dall'abate del monastero, perché simoniaci. Arrestato, Ramirdo venne rinchiuso in una capanna, a cui si appiccò il fuoco. Alcuni compaesani ne raccolsero i resti per conservarli come reliquie. Appena salito al soglio pontificio, nel 1073, col nome di Gregorio VII, Ildebrando di Soana si rese conto che s'imponeva una intransigente applicazione della riforma ecclesiastica contro il concubinato e la simonia, le quali, pur considerate alla stregua di eresie, da quasi tre secoli continuavano a infamare l'istituzione della Chiesa. La lotta contro il concubinato ebbe una dura attuazione, perché le disposizioni di Gregorio VII vennero applicate con una spietatezza tipicamente medievale: preti fatti morire sotto le torture per il rifiuto di lasciare le donne con cui vivevano, oppure donne che, invece, furono abbandonate, per ubbidienza alla Chiesa o per paura, ridotte alla disperazione e costrette a vivere di stenti. Quanto alla simonia, per sanarne la piaga, Gregorio VII in un Concilio romano del febbraio 1075 rinnovò la condanna alla scomunica per tutti i laici che osassero eleggere vescovi e abati, includendovi esplicitamente anche re o imperatori. Fu questo il prologo della "lotta delle investiture", uno scontro tra i diritti imperiali, riconosciuti fin dall'istituzione del sistema feudale con la incoronazione di Carlo Magno, e la concezione gregoriana di un assolutismo teocratico, che doveva fare del pontefice di Roma il sovrano unico della cristianità. L'imperatore Enrico IV reagì convocando una dieta a Worms, in cui sostenne che Gregorio VII non aveva alcuna autorità di legiferare in materia, poiché la sua carica di pontefice doveva dichiararsi nulla, essendo egli stato eletto per acclamazione (il che era vero) e non dal collegio cardinalizio, come era obbligatorio in base al decreto di papa Niccolo II del 1059. Le pretese teocratiche di Gregorio VII trovarono opposizione anche da parte dei grandi feudatari. A Roma si ordì una congiura, e la notte di Natale del 1075, mentre Gregorio VII celebrava la messa in Santa Maria Maggiore, il patrizio Cencio, prefetto della città, seguito
104 da altri nobili, entrò nella chiesa con la spada in pugno, afferrò il papa per le chiome e lo trascinò via. Gregorio non risparmiò le scomuniche ai suoi avversari, compreso l'imperatore, sciogliendo i sudditi dall'obbligo di prestargli ubbidienza, il che diede mano libera ai grandi feudatari della Germania di governarsi autonomamente e anzi di contrapporre a Enrico IV un loro sovrano, nella persona di Rodolfo di Svevia. Umiliatosi a chiedere perdono nel castello di Canossa, pochi anni dopo, però, l'imperatore si mosse con le armi contro il papa, nel febbraio 1084, espugnò Roma, si fece incoronare dall'antipapa Clemente III, che egli stesso aveva eletto, e costrinse Gregorio a fuggire al sud, protetto dai normanni. Quanto ai patarini, terminata ormai la loro funzione di appoggio alla Chiesa nel suo gioco politico, ricominciarono a essere visti con fastidio e la loro lotta moralizzatrice venne sconfessata. Appena quattro anni dopo la morte di Gregorio VII, nel 1089, in un Concilio lateranense il nuovo papa Urbano II capovolse la riforma del suo predecessore, decretando che i sacramenti, anche se impartiti da sacerdoti simoniaci o concubini erano perfettamente validi, in quanto i sacerdoti sono solo un veicolo di santificazione, e che pertanto sarebbero stati scomunicati i laici che li rifiutavano. Tuttavia Urbano II consigliava al clero di vivere "secondo le regole canoniche, almeno per far tacere la insolentiam murmurantis populi". Da allora il nome dei patarini comincerà a comparire, in decretali e bolle, accanto a quello di altre sette eretiche, e anzi spesso per indicare eresie che avevano in comune col movimento patarino l'intento di contestare la corruzione della Chiesa. La condanna della simonia e del concubinato verrà rinnovata senza effetti pratici - nel Concilio ecumenico lateranense del 1123. Rifiuto della Chiesa e dei suoi dogmi.
Le illusioni di coloro che, come i patarini, avevano sperato in un rinnovamento della Chiesa, epurata innanzitutto dei due gravi mali della simonia e del concubinato, non tardarono a crollare. Il rientro e lo svuotamento della riforma fecero capire che non si poteva salvare la Chiesa dall'interno ma che si dovevano salvare, anche senza di essa,
105 i valori autentici del cristianesimo. Ora che Cristo veniva ridotto a una presenza invisibile e misteriosa nell'insipido dischetto dell'ostia - un po' più grande per l'officiante, una partícula per i fedeli, come si stabilì appunto in un Concilio a metà del secolo XI - bisognava riscoprire il significato della sua venuta visibile e concreta sulla terra, per vivere con gli uomini, soprattutto i pescatori, i pastori, i mendicanti, i pubblicani e le prostitute. Anche questa volta l'iniziativa mosse dal basso: da modesti contadini e da semplici frati, che lasciavano le loro occupazioni abituali e percorrevano i villaggi di campagna e i borghi, vestiti miseramente, con rozzi calzari ai piedi o anche scalzi, vivendo di elemosina, per rinnovare con una predicazione "itinerante", secondo il precetto dato dagli apostoli: "Ite et praedicate evangelium omnibus gentibus", e con l'esempio pratico del loro stesso comportamento, il messaggio di speranza dato da Gesù ai poveri, ai derelitti e agli emarginati. È ben comprensibile l'entusiasmo con cui venivano accolti i predicatori itineranti nelle campagne, nelle quali così miserabile era il 'eresia tenore di vita che le gravi epidemie - come il fuoco di sant'Antonio, che di tempo in tempo mietevano migliaia di vittime - erano essenzialmente dovute alla denutrizione, e nei centri urbani, dove i modesti artigiani avevano quotidianamente davanti agli occhi il confronto con i nobili e gli ecclesiastici che mangiavano e bevevano allegramente, andavano a caccia, si divertivano in feste e tornei. Lo riconoscerà, in quegli stessi anni, il dotto Onorio di Autun, sebbene con un malcelato disprezzo per questi rozzi predicatori, ma con un aperto rimprovero all'incuria del clero: "Se il profeta tace, raglia l'asino". Fu nel 1095 che, dopo essere stato qualche tempo eremita nella foresta di Craon, cominciò ad apparire in pubblico, a Rennes, ad Angers, neirAnjou e nel Poitou, Roberto di Arbrissel, lanciando fulmini contro l'immoralità del clero e invitando i fedeli all'amore del prossimo, soprattutto dei peccatori pentiti. Fu accusato di essere motivo di scandalo, perché era seguito da ex criminali e da donne di malaffare che si erano ravvedute. Allora egli rinunciò all'apostolato vagante e con i suoi seguaci fondò a Fontenvrault, presso Poitiers, due romitori distinti, per gli uomini e per le donne, dividendo queste in quattro gruppi: le donne sposate e di condizione sociale regolare, le ex prostitute, le malate e le lebbrose.
106 La predicazione di Roberto di Arbrissel venne criticata anche per il fatto che essa interferiva, sottraendole probabili adesioni, con quella che nello stesso anno 1095 andava svolgendo, per incarico di papa Urbano II, il monaco di Amiens Pier l'Eremita, allo scopo di reclutare tra i poveri e i disoccupati gente disposta a partire per l'Oriente, nella prima crociata contro gli arabi. Pier l'Eremita percorse le campagne della Francia e della Germania, raccogliendo non meno di ventimila persone, tra uomini, donne e bambini, anche perché faceva rientrare quella spedizione di guerra nella tradizione penitenziale dei comuni pellegrinaggi. In seguito all'abile propaganda di Pier l'Eremita e di altri fanatici che subito gli si aggiunsero, nel novembre del 1095 al Concilio di Clermont papa Urbano II poté ufficialmente bandire la crociata, come se la richiesta fosse venuta dalla vox populi, assicurando ai partecipanti indulgenze e remissioni di peccati superiori a quelle derivanti dai pellegrinaggi a santuari e a tombe di martiri. Con questa speranza, nell'aprile del 1096, partirono i "pezzenti", come vennero allora chiamati, mentre i signori che li guidavano portavano con sé i falconi e i levrieri, pregustando divertenti battute di caccia contro una fauna esotica. anche da un'esperienza eremitica mosse Norberto di Xanten, che, interpretando come un avvertimento divino il fatto di aver corso il pericolo di morire folgorato, dopo aver attraversato a piedi nudi la Francia nordorientale, predicando la necessità di una vita conforme ai precetti del Vangelo, in assoluta povertà, si fermò, come già Roberto di Arbissel, per fondare a Prémontré, presso Laon, una comunità, nella quale gli uomini si occupavano della coltivazione dei campi, esclusivamente per il proprio consumo, mentre le donne si dedicavano alla cucina, al bucato e ai lavori di tessitura. Ma poi Norberto si piegò all'ubbidienza alla Chiesa e trasformò la sua comunità di lavoratori poveri in un ordine religioso, maschile e femminile, secondo la regola agostiniana: in pochi anni sorsero in tutta la Francia opulente abbazie di premontresi, nel 1126 Norberto diverrà arcivescovo di Magdeburgo, e più tardi sarà santificato. Ben diverso fu invece il destino dei predicatori itineranti che mantennero fede al loro impegno di contestazione alla Chiesa feudale. Agli inizi del secolo, nel 1105, vasta risonanza cominciò ad avere nella Provenza la predicazione del monaco Pietro di Bruys, che
107 l'abate di Cluny, Pietro il Venerabile (l'unico che ne abbia parlato), definì insulsa sane et bestialis. Pietro di Bruys, che nel Cinquecento apparirà quasi un precursore del protestantesimo, andava predicando che la Chiesa è la congregazione di tutti i fedeli e che in essa deve essere unicamente valido il Vangelo, in quanto parola di Dio, ma che nel Vangelo non si fa alcun cenno ai sacramenti, i quali sono stati inventati in seguito dai papi; la stessa eucarestia aveva avuto soltanto un significato simbolico nell'Ultima cena; quindi non sono i sacramenti che salvano, ma i meriti personali dei credenti. La Chiesa, concludeva Pietro di Bruys, è solo un'istituzione spirituale, e non occorrono nemmeno edifici per il culto: "Chi vuol pregare Iddio può farlo in qualunque posto, anche in una stalla o all'osteria, ed Egli sente lo stesso". Pietro il Venerabile racconta che Pietro di Bruys e i suoi numerosi seguaci, per dimostrare il loro disprezzo dell'istituto della Chiesa e dei suoi precetti, ostentavano di mangiare in pubblico carne arrostita il venerdì santo, bruciavano croci tolte dalle chiese, e convincevano i monaci a prendere moglie. Ancor più grave, e immediatamente perseguibile come eresia, era la contestazione che moveva da laici. Quando a Trani, un giovane di nome Nicola, che la gente venerava come un santo e taumaturgo, si mise a predicare e a distribuire 'eresia rudimentali croci di legno, che egli stesso fabbricava, riducendo tutta la liturgia unicamente al culto del crocifisso, quale simbolo della morte di Cristo per la salvezza dell'umanità, anzi attribuendo alle sue stesse rozze croci poteri salvifici immediati da malattie e altri guai, il clero locale protestò e lo denunciò al vescovo. Questi diede ordine che si facesse smettere l'assurda predicazione, e Nicola morì massacrato dalle percosse. A Bucy-le-Long, nella diocesi di Soissons, furono due fratelli, Clemenzio ed Eberardo, ambedue contadini, a incorrere nella punizione per eresia nel 1114. Essi predicavano che né la messa né i sacramenti servono alla salvezza, ma solo la rettitudine di vita e le opere di bene. Il vescovo fece imprigionare quattro abitanti del paese che si erano mostrati consenzienti con i due eresiarchi, e sottopose questi alla prova dell'acqua. Furono gettati in un fiume, con le mani e i piedi legati: Eberardo affogò, mentre il fratello tornò alla superficie, e secondo le regole canoniche ciò significava che era riconosciuto innocente
108 da Dio, perciò venne rilasciato. Però, più tardi, avendo aiutato i quattro compaesani che erano stati arrestati a evadere dalla prigione, fu con loro mandato al rogo. L'anno seguente, 1115, venne anche messo in carcere, con l'accusa di eresia, Tanchelmo di Brabante, un uomo di cultura, che era stato notaio di Roberto II conte delle Fiandre. Già da quattro o cinque anni, Tanchelmo usava arringare i cittadini di Utrecht e di Anversa che, in pieno sviluppo commerciale, ospitavano un numeroso proletariato povero, attaccando la corruzione della Chiesa ed esortando a non pagare più le decime a chi già possedeva immensi tesori. Liberato dal carcere da alcuni suoi ammiratori, Tanchelmo riprese la sua predicazione. Egli formò anche una gilda di artigiani e, diranno poi i verbali del processo quando sarà nuovamente arrestato e condannato, appariva in pubblico, venerato come un "angelo del Signore", in compagnia di dodici apostoli e di una "vergine". Contemporaneamente, a Le Mans, nella Linguadoca, cominciava pure a predicare il monaco cluniacense Enrico di Losanna, battezzato poi Enrico l'Eretico. Egli era stato regolarmente autorizzato dal proprio vescovo, ma con le sue infiammate invettive contro l'avidità dell'alto clero suscitò tumulti popolari e insurrezioni, inoltre diede scandalo essendosi proposto di redimere le prostitute, trovando loro marito, tanto che il vescovo fu costretto a ordinargli di deporre l'abito monacale e di andare via da Le Mans. Cacciato da Le Mans, Enrico si diede alla predicazione itinerante, visitando Bordeaux, Tolosa e i vicini centri abitati. La contestazione alla Chiesa feudale a sua eresia era simile a quella di Pietro di Bruys; in più, egli negava l'esistenza del peccato originale, quindi la necessità di battezzare i bambini, e affermava che sono inutili le preghiere ai defunti, non avendo essi alcun potere di intervenire in aiuto dei viventi. Tanchelmo venne arrestato e ucciso nel 1124; Pietro di Bruys fu arso sul rogo nel 1132; Enrico di Losanna, protetto dal conte Ildefonso di Saint-Gilles, ebbe la possibilità di continuare la sua predicazione fino al 1135, quando intervenne contro di lui Bernardo di Chiara valle, il quale, minacciando di scomunica anche il conte Ildefonso se non avesse cessato di proteggerlo, riuscì a farlo arrestare e condannare al rogo. Ma la contestazione alla Chiesa feudale non si arrestò. Altri predicatori
109 sfidarono coraggiosamente le sue ire con le loro dure parole. Tra i più battaglieri fu il bretone Eudo della Stella, che incitava addirittura le popolazioni rurali della Bretagna ad assalire i ben colmi granai dei monasteri, proprietari di vastissimi latifondi. La carestia, la miseria, l'abbrutimento di quei servi della gleba, gravati di tasse, imposizioni di tributi, regalie, prestazioni personali, da feudatari laici e da vescovi e abati, ci fanno giustificare questi eccessi, conseguenza di un forte rancore verso la Chiesa, dimentica di uno dei principali precetti evangelici: la carità verso i poveri. Tanto che parrebbero provocatorie, se fossimo sicuri che furono intenzionali, le parole con le quali nel 1116, papa Pasquale II chiudeva a Roma un Concilio lateranense: "Da quando gli imperatori romani e i principi, a partire da Costantino, cominciarono a convertirsi alla fede, essi, come buoni figli, vollero onorare la madre Chiesa con doni di terre, proprietà, onori e privilegi secolari, e così la Chiesa poté fiorire presso gli uomini. Possieda dunque essa, nostra madre e signora, le cose che le sono state date da re e principi". Ma intanto, a sostegno degli sfoghi sentimentali e demagogia dei predicatori itineranti, sorgeva nella scuole un indirizzo razionalistico, destinato a colpire alla radice il monopolio ecclesiastico della fede e il controllo inappellabile della vita spirituale dei fedeli, dando a costoro la possibilità di verificare con la ragione le verità imposte dogmaticamente e di fare della stessa fede un atto di adesione consapevole. Già a metà del secolo XI, Berengario di Tours, arcidiacono ad Angers, era tornato a mettere in discussione il problema della presenza della carne e del sangue di Cristo nel pane e nel vino dell'eucarestia, che aveva appassionato due secoli prima Pascasio Radberto, Ratramno e altri teologi. Berengario era dell'opinione che vi sia soltanto una 'eresia presenza simbolica, sembrandogli assurdo e inconcepibile con la ragione il dogma della consustanziazione o transustanziazione. La sua eresia fu denunciata a Roma dal giovane monaco cluniacense Ildebrando di Soana, il futuro papa Gregorio VII. Ripetutamente ammonito e minacciato di scomunica, Berengario ritrattò ogni volta le sue tesi eretiche, tornando però subito dopo a sostenerle. Nel 1059, convocato di fronte a un Concilio romano, sottoscrisse questa confessione: "Io, Berengario, conoscendo la vera e apostolica fede, anatemizzo ogni eresia, e particolarmente quella di cui io stesso sono stato finora accusato, la quale tenta di sostenere che il pane e
110 il vino, posti sull'altare, dopo la consacrazione sono solummodo sacramentum e non vero corpo e vero sangue del nostro Signore Gesù Cristo, e che il corpo di Cristo non può essere materialmente toccato dalle mani dei sacerdoti o infranto e masticato dai denti dei fedeli". Venti anni dopo, in un Sinodo romano, Berengario rinnegò nuovamente la propria dottrina: "Credo nel mio cuore e confesso con la bocca, che il pane e il vino dell'eucarestia si convertono sostanzialmente nella vera e propria carne e nel sangue di Cristo". Intanto, nel 1070, Gaunilone, prevosto della chiesa di Saint Martin, a Tours, aveva dato l'avvio alla critica razionale dei fondamenti stessi della teologia, dimostrando, con uno scritto intitolato Liber pro insipiente, la debolezza delle argomentazioni fatte in quegli anni stessi da Anselmo di Aosta circa la prova ontologica dell'esistenza di Dio: "Dall'idea di un essere perfetto" obiettava Gaunilone "non può derivare la certezza della sua esistenza". Più tardi, nel 1092, veniva condannata come eretica dal Concilio di Soissons la dottrina del teologo e filosofo francese Ruscellino, il quale, deducendo dalla propria teoria "nominalista" (ogni individuo è una realtà inconfondibile e non si può parlare di un'"unità" al di sopra dei singoli) sosteneva che anche le persone della Trinità hanno ciascuna una propria realtà individuale. I nominalisti, affermando la peculiarità fisica e spirituale di ogni individuo, ne riconoscevano anche la responsabilità personale del comportamento e la libertà di arbitrio. Nasceva così la filosofia medievale, che, riallacciandosi alle tradizioni dell'antica filosofia greca, si proponeva l'indagine razionale sulla natura e sull'uomo e la verifica, alla luce della ragione, delle opinioni e delle credenze umane. Ciò era pericoloso per la teologia, perché i filosofi potevano anche dimostrare l'irrazionalità e quindi la non credibilità dei miti e dei dogmi imposti dalla Chiesa. Difatti, a Ruscellino risposero subito, indignati, Anselmo di Aosta La contestazione alia Chiesa feudale Pier Damiani (il camaldolese che nel 1059 era stato inviato dal papa Niccolo II a Milano, sconvolta dalle lotte patarine), affermando che la filosofia non può pretendere di risolvere i problemi della fede, ma dev'essere ancilla dominae, cioè subordinata alla teologia, altrimenti essa è diabolica. Anche Guglielmo di Conches, insegnante di teologia nella scuola
111 di Chartres, ma platonico in filosofia, era convinto della necessità di distinguere il campo riservato alla teologia da quello riservato alla scienza, ma non di subordinare l'una all'altra: "Le anime sono fatte da Dio, ma i corpi sono fatti dalla natura". Confutato da Bernardo di Chiaravalle e da Guglielmo di SaintThierry, Guglielmo di Conches evitò il processo per eresia, rifugiandosi alla corte normanna di Goffredo il Bello, dove divenne precettore di Enrico II, che sarà il capostipite della dinastia plantageneta. Fu però il genio incomparabile di Pietro Abelardo a offrire gli strumenti per dare alla fede l'appoggio sicuro della convinzione razionale: "Nihil credendum, nisi prius intellectum" ("Non si può credere in nulla se prima non lo si è capito"), tesi fortemente avversata, per le conseguenze antidogmatiche che ne derivavano, soprattutto da san Bernardo di Chiaravalle, che perseguitò implacabilmente Abelardo, lo fece condannare, gli fece perdere l'incarico di insegnante, riducendolo alla miseria. [Vedi Documenti n. 4.] Convocato nel 1121 davanti al Concilio di Soissons, riunitosi per iniziativa dell'arcivescovo di Reims, Abelardo fu condannato per la sua recente opera De unitale et trinitate divina, in cui vennero trovate tredici proposizioni erronee, poiché, all'opposto del nominalismo di Ruscellino, si affermava che i concetti "universali" (come umanità, giustizia, fossile, animale, ecc.) contengono caratteristiche proprie, generali, che sono comuni a gruppi di singoli individui. Questa dottrina fu ritenuta eretica, soprattutto perché comportava una valutazione non ortodossa delle persone della Trinità. Nel 1140, sempre braccato da Bernardo di Chiaravalle, Abelardo sollecitò un pubblico dibattito con lui. Fu pertanto convocato un Concilio a Sens, al quale presenziò lo stesso re Luigi VII. San Bernardo, temendo un confronto diretto, non si presentò, limitandosi a mandare un proprio verdetto di condanna, del quale venne data lettura, senza permettere ad Abelardo di difendersi. Contro questa ingiustizia Abelardo si appellò a Roma, ma Bernardo lo prevenne, e Innocenzo II confermò la sentenza del Concilio di Sens, rifiutando di ricevere l'interessato e dando ordine che i suoi libri fossero dati alle fiamme. Abelardo stesso ci ha lasciato, in un breve scritto autobiografico, la Historia calamitatum mearum, la narrazione delle sue sventure, dalle drammatiche vicende del suo amore per Eloisa e della crudeltà
112 del canonico Fulberto, di cui Eloisa era nipote, che, disapprovando la loro relazione, fece evirare Abelardo, fino alle persecuzioni subite come eretico. [Vedi Documenti n. 5.] Ma egli non intendeva intaccare il patrimonio della fede, bensì spiegarne i fondamenti "con analogie tratte dall'umana ragione", perciò metteva in discussione l'autoritarismo della Chiesa nell'imporre obbedienza ai dogmi senza che i fedeli ne conoscessero il significato. Se l'uomo è razionalmente consapevole di ciò che è il bene e ciò che è il male - pensava Abelardo - ne deriva anche una diversa valutazione del peccato, che diventa atto volontario e intenzionale, mentre non può essere giudicato una colpa finché lo si commette per ignoranza. Quest'ultima considerazione conduceva Abelardo a negare l'ereditarietà del peccato originale e a interpretare la redenzione di Cristo non come "riscatto" di un fallo commesso soltanto da Adamo, ma come dimostrazione dell'amore di Dio per l'uomo. Di questa valutazione del sacrificio di Cristo, Abelardo faceva un punto di riferimento essenziale per l'attuazione di una società cristiana fondata sull'amore, ricollegandosi così alle aspirazioni dei contemporanei predicatori itineranti. Chi raccolse i frutti di questa duplice esperienza fu Arnaldo da Brescia, cresciuto da giovane nella tradizione patarina della Lombardia, poi allievo di Abelardo a Parigi, e di nuovo accanto a lui, nel 1140, al Concilio di Sens, dal quale fu condannato come eretico per aver preso le difese del suo maestro. Anch'egli non ebbe tregua da san Bernardo, che lo perseguitò infamandolo con lettere violentissime e piene di astio presso tutti i protettori che lo accoglievano fuggiasco. Tornato finalmente in Italia nel 1144, Arnaldo accorse a Roma, dove si era formato un comune laico, retto da un patricius, e dove era appena stato ucciso a sassate, dalla folla indignata, il papa Lucio II che aveva cercato di abbattere il governo democratico, assaltando il Campidoglio, dov'era riunito il senato. Qui Arnaldo da Brescia sostenne con entusiasmo il reggimento comunale, vedendo felicemente realizzata la separazione del potere spirituale da quello temporale, e difese gli ideali di libertà dei cittadini romani contro i tentativi di soffocamento fatti anche dai papi succeduti a Lucio II. Ma nel 1155, col pretesto del ferimento di un cardinale, il papa Adriano IV colpì con l'interdetto (cioè sospensione dei sacramenti, la comunione, matrimoni religiosi, funerali) la città di Roma, e ordinò
113 il bando di Arnaldo da Brescia. Poi, incontratosi con Federico Barbarossa, tra le altre condizioni per la sua incoronazione, Adriano IV chiese che il principe svevo s'impegnasse ad arrestare Arnaldo da Brescia e a consegnarlo alla curia romana. Così avvenne. Arrestato dal Barbarossa e consegnato al prefetto pontificio, Arnaldo da Brescia fu strangolato e poi bruciato sul rogo. Le ceneri furono sparse nel Tevere "perché le reliquie non fossero oggetto di venerazione da parte della stolida plebe". [Vedi Documenti n. 6.] DOCUMENTI.
1. Lettera di Claudio sul culto delle immagini.
Mi scrivi che ti sei turbato alla voce sparsasi per l'Italia, per tutta la Gallia, e persino in Spagna, che io abbia formata una nuova setta contro la fede cattolica. Ma è una calunnia, e non fa meraviglia che i membri di Satana l'abbiano strombazzata per infamarmi. La cagione di tale fracasso è che, costretto io dall'imperatore Ludovico ad accettare il vescovado di Torino, ho trovato in esso tutte le chiese piene di false reliquie e di immagini, e tosto ho cominciato a distruggere ciò che i miei diocesani veneravano con fanatica superstizione, e tutti spalancarono tanto di bocca, per bestemmiarmi contro con tale furore, che se non era Dio a scamparmi mi avrebbero divorato così com'ero vivo. Coloro contro i quali ho preso a difendere la Chiesa, per giustificarsi dicono così: "Noi non crediamo che vi sia nell'immagine alcun che di divino, ma le rendiamo onore di adorazione per riferirci a colui che è da essa rappresentato". Noi rispondiamo che se coloro che hanno rinunciato al culto degli dei pagani, seguitano tuttavia a onorare le immagini, non fanno altro se non cambiare i nomi, senza lasciare l'idolatria. Sia l'immagine di Pietro o di Paolo ovvero di Giove o di Saturno quella dipinta sulla parete, si erra del pari venerando l'effigie tanto degli unì che degli altri. Quanto alla croce, dicono questi superstiziosi che essi l'adorano in ricordo del nostro Salvatore. Io rispondo: "Se vogliono che si adori il legno formato
114 a guisa di croce, per essere stato Gesù Cristo confitto a una croce, bisognerebbe adorare tante altre cose. Soltanto sei ore, egli è rimasto sulla croce, nel seno della Vergine è stato nove mesi lunari e undici giorni: converrà perciò adorare tutte le vergini, perché una vergine ha partorito Cristo? Adorare le mangiatoie, perché egli giacque in una mangiatoia? E le barche, perché egli pescò in una barca? E persino gli asini, dato che egli cavalcò un asino? No! Iddio non comanda già di adorare la croce, ma di portarla. E invece i miei avversari la vogliono adorare, ma di portarla non vogliono saperne". Rispetto ai pellegrinaggi a Roma, a cui dite che io mi oppongo, anche 'eresia questa è una calunnia. Non approvo né disapprovo sì fatto viaggio: so che esso non a tutti fa male, né a tutti fa bene. Ma dimmelo tu stesso, se andare a Roma significa far penitenza, perché mai sei tu la causa della rovina di tanti frati che tieni imprigionati nel tuo monastero? Hai tu dato ad alcuno di essi licenza di andare a Roma a far penitenza? Tu poi mi apponi a colpa l'essermi tirato addosso l'ira del signore apostolico. Tu parli di papa Pasquale, ora andato tra i più: ma papa e apostolico deve dirsi non colui che siede sulla cattedra dell'apostolo, si bene colui che ne adempie i doveri. [In L. Todesco, Storia della Chiesa, vol. IH.] 2. La leggenda di Gerberto d'Aurillac.
La tradizione della magia di Gerberto d'Aurillac ci mostra un carattere peculiare del popolino, che occorre in ogni epoca e in ogni luogo: l'inclinazione a considerare tutto ciò che gli sembra oltre la sfera delle proprie cognizioni come soprannaturale e magico. La prima insinuazione dell'eresia di Gerberto risale a un suo contemporaneo, il vescovo di Alba, Benzone, il quale accenna, con parole misteriose, che Gerberto aveva acquistato la sua scienza dai Saraceni di Spagna. Cronache posteriori sono più esplicite. Vi si narra che Gerberto, abbandonato il chiostro, per desiderio di gloria, riparò in Spagna, ad apprendervi i segreti della magia: oltre le scienze permesse, l'aritmetica, le scienze, l'astrologia, egli imparò ciò che significa il canto e il volo degli uccelli, il modo di evocare gli spiriti dell'inferno. In breve tempo egli superò tutti i suoi maestri, eccetto un vecchio sapiente, il quale possedeva un libro di numeri. Invano Gerberto offrì denaro, invano pregò che gli fosse dato quel libro; il vecchio fu inflessibile. Allora Gerberto meditò di impossessarsene
115 con la forza. Con l'aiuto della figlia del vecchio, della quale aveva saputo conquistare il cuore, tolse di notte il libro di sotto al guanciale del vecchio, e prese la fuga. Il vecchio, appena desto, si accorse del furto, e letto nelle stelle il luogo ove trovavasi il reo, lo raggiunse. Ma questi, valendosi delle sue arti, si tenne sospeso coi piedi e con le mani sotto un ponte, di modo che non era né sulla terra né sull'acqua, e a nulla valse la scienza dell'arabo. Giunto alla riva del mare, per passarlo, egli dovette legarsi con giuramento col diavolo, e interrogatolo sul proprio destino, quello gli rispose col noto verso: "Transit ab R. Gerbertus ad R. post papa vigens R.", che ebbe infatti meraviglioso adempimento: fu arcivescovo a Reims, di lì passò a Ravenna, poi divenne papa a Roma. Sotto l'influenza di una certa costellazione, Gerberto fuse poi una testa di bronzo, che rispondeva sì e no ad ogni sua domanda e così predicevagli il futuro. Una volta, avendole chiesto se sarebbe vissuto fino al giorno in cui avrebbe celebrato la messa a Gerusalemme, la testa gli rispose sì, ed egli pertanto viveva tranquillo, fermo nell'animo di non fare giammai pellegrinaggio a Gerusalemme. Ma c'è a Roma una chiesa che si chiama "In Gerusalemme", in cui il papa celebra la messa nelle tre domeniche, nelle quali occorre l'orazione Statio in Jerusalem. Allorquando venne la volta a Gerberto, fu preso di subito da un improvviso malore e, conoscendo prossima la sua ora estrema, convocò i cardinali e confessò tutti i suoi peccati, comandando che il suo cadavere fosse tagliato a pezzi, affinché andassero disperse le membra con le quali aveva prestato giuramento al diavolo di ubbidire ai suoi comandi, e che fosse quindi posto sopra un carro tirato da due buoi e sepolto là, dove questi si sarebbero arrestati nei loro cammino. I buoi si fermarono nell'atrio della chiesa di Laterano, e qui fu data sepoltura alle membra di Gerberto. Qualora stava per morire un papa, dalla tomba di Gerberto trapelava tant'acqua da formare intorno alla stessa un piccolo stagno; e qualora veniva a morte un cardinale, la tomba diventava solamente umida. [Liber pontificate (1468).] 3.I chierici di Orléans.
Si radunavano di notte in una casa abbandonata, ciascuno con una lampada
116 in mano, e recitando una specie di litania invocavano il demonio, continuando finché non lo vedevano scendere in mezzo a loro sotto l'aspetto di qualche bestia. Allora subito spegnevano tutte le lampade e si abbandonavano ad un'orgia innominabile. Ciascuno afferrava la donna che gli capitava sotto mano, senza affatto preoccuparsi se per caso si trattava della propria madre o sorella. Il figlio nato da quell'incesto, otto giorni dopo la nascita veniva portato a quel luogo di convegno. Qui, essi accendevano un grande fuoco e vi mettevano sopra il piccino, alla maniera degli antichi pagani. Poi le ceneri venivano raccolte e conservate, con la stessa devozione che noi cristiani abbiamo per le sante reliquie. Dicono infatti che esse conservano una virtù diabolica così potente, che chiunque ne abbia assaggiato anche solo un poco non può più uscire dall'eresia e tornare nella via della virtù. [R. Glaber, Historiarum libri quinqué (1046), in J.P. Migne, Patrologia latina, vol. CXVIII, pp. 326 ss.] È interessante il confronto tra il brano sopra riportato e alcuni passi di Minucio Felice e di Tertulliano che, alla fine del secolo li, riferivano le calunnie dei pagani sul conto dei cristiani: Si chiamano tra di loro fratelli e sorelle, e così gli stupri, che non sono infrequenti, col pretesto di una mistica unione, diventano incesti... Ciò che si racconta poi sul rito d'iniziazione dei loro novizi è addirittura raccapricciante: viene presentato al neofita un bambino appena nato, coperto da un mucchio di farina, per ingannare gli incauti, e così, sotto lo strato di farina, il bambino viene trucidato dalle pugnalate inferte alla cieca dal neofita, che è stato invitato a colpire come si trattasse di cosa senza conseguenze. Poi - orribile a dirsi - ne leccano avidamente il sangue. Con questa vittima si vincolano alla setta e la complicità nel delitto è garanzia che tutti manterranno il silenzio. Essi inoltre si riuniscono in giorni stabiliti, con i propri figli, le sorelle, le madri, persone di ogni sesso e di ogni età: lì, dopo abbondanti banchetti, quando l'ambiente si riscalda e con l'ubriachezza ribolle la libidine, si getta qualche boccone ai cani, che sono legati ai candelabri, e questi, lanciandosi in avanti, rovesciano i lumi: così, spenta la luce, testimone della loro nefandezza, si accoppiano come capita. [Minucio Felice, Octavius, IX 2,5-7.] Vieni! Immergi il pugnale nel bambino innocente o - se questo è compito
117 di altri - assisti soltanto alla morte di un essere che non ha ancora nemmeno cominciato a vivere, aspetta che se ne fugga la sua piccola anima, raccogli il suo tenero sangue, intingi in esso il tuo pane. Intanto osserva bene il posto dove sta tua madre o tua sorella: prendine nota, perché appena i cani avranno spento i lumi, tu non debba sbagliare. Commetteresti un grave sacrilegio, se non facessi un incesto. [Tertulliano, Apologeticum Vili, 2.] 4. San Bernardo contro Pietro Abelardo.
Lettera di Bernardo di Clairvaux a papa Innocenzo II: "Ritengo opportuno che la vostra attività apostolica sia al corrente di pericoli e scandali che si profilano nella Chiesa di Dio. È tempo, Padre, che prendiate coscienza del vostro Primato e diate prova di zelo. Sarete veramente successore di quel Pietro di cui occupate la sede, se con la vostra parola ammonitrice renderete sicuri i cuori che sono ondeggianti nella fede; se, con la vostra autorità, stroncherete coloro che la corrompono. "Abbiamo in Francia un nuovo teologo, che sembra folleggiare sulle Sacre Scritture. Uno, che non dovrebbe dire se non "sono ignorante", pretende di dare ragione di tutto e osa affermare cose che sono contro la ragione e contro la fede. Infatti, che cos'è mai tanto contro la fede come il non voler credere se non ciò che si può con la ragione spiegare? Ma il nostro teologo esclama: "Quale utilità arreca alla dottrina, se quello che vogliamo insegnare non si sa spiegarlo in modo intelligibile?". E così, promettendo ai suoi uditori una conoscenza piena anche di quelle verità che stanno nel seno profondo della santa fede, stabilisce che Dio Padre è potenza perfetta, il Figlio potenza solo in certo modo, lo Spirito Santo in nessun modo. Costui non è peggio di Ario? Chi può sopportare ciò? Chi non si tura le orecchie a tali voci sacrileghe? Afferma ancora che lo Spirito Santo procede certamente dal Padre e dal Figlio, ma non è della stessa sostanza, perché se fosse della stessa sostanza del Padre, il Padre avrebbe due Figli!... "E non c'è poi da meravigliarsi se un individuo, che non pensa a quello che dice, volgendosi ai misteri della fede, colpisca e dilaceri con tanta irriverenza i tesori intimi della pietà. Proprio all'inizio della Theologia - o meglio Stultilogia - definisce la fede come "opinione". Come se in essa sia permesso a ciascuno di pensare e di parlare come piace, oppure che i misteri della nostra
118 fede pendano incerti tra opinioni vaghe e molteplici e non siano invece fondati su verità sicure. Ma se fluttua la nostra fede, non è vana anche la nostra speranza? Stolti allora anche i nostri Martiri, che hanno sostenuto tormenti così aspri per cose incerte! "Attento ora al resto. Lascio da parte quando dice che, dopo la consacrazione del pane e del vino, gli accidenti restano sospesi nell'aria; che lo Spirito Santo è l'anima del mondo; che il mondo, secondo Piatone, è il vivente più perfetto, perché possiede l'anima più perfetta, cioè lo Spirito Santo. E così, mentre suda per rendere cristiano Piatone, dimostra se stesso pagano. Dunque, tralascio tutte queste e molte altre antifone del genere, e voglio arrivare alle più gravi. "Quel temerario, affrontando il mistero della nostra redenzione, afferma che su questa cosa troviamo un'opinione unica e concorde in tutti i Dottori della Chiesa; egli la espone e la respinge come ridicola, e si vanta di averne una migliore. "Bisogna sapere, afferma, che tutti i nostri dottori, venuti dopo gli apostoli, sono concordi in ciò: che il diavolo aveva pieno dominio sugli uomini, e lo aveva per legittimo titolo, per il fatto che l'uomo con il suo libero arbitrio, spontaneamente aveva aderito al diavolo, diventando schiavo del vincitore. Perciò, continua, secondo i nostri Dottori, il Figlio di Dio si incarnò proprio per questa necessità, perché l'uomo, che altrimenti non poteva essere liberato, fosse liberato dal giogo di Satana. Ma secondo noi, egli afferma, né il diavolo ebbe mai alcun diritto sull'uomo, a meno che Dio non glielo abbia permesso, né il Figlio di Dio assunse carne umana per liberare l'uomo." "Che cosa ritenere più urtante in queste espressioni? La bestemmia o l'arroganza? O non sarebbe più giusto colpire e fustigare una bocca che parla così, piuttosto che ribattere con argomenti? "Il fatto che il Signore della gloria si sia annichilito, che sia nato da donna, sia vissuto in questa terra, che abbia ingiustamente patito, e sofferto la morte sulla croce, tutto questo egli ritiene e sostiene si debba considerare come volontà di offrire agli uomini, con la vita e con l'insegnamento, un semplice modello di vita e, con la sua passione e morte, un vertice della carità. "Eccovi, o Padre, questa piccola fatica delle mani del vostro figlio, composta per combattere alcune proposizioni della nuova eresia. Forse voi non vedrete altro che un atto di zelo da parte mia: così però ho soddisfatto la mia coscienza. Infatti senza sapere che fare contro un'ingiuria alla fede, che mi addolorava, penso di aver fatto bene a farla presente a Colui che ha da Dio armi potenti per distruggere ogni affermazione contraria." [A. Barolin (a cura di), Bernardo di Chiaravalle. Le lettere contro Pietro Abelardo.]
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5. Historia calamitatum mearum.
Eloisa era la nipote di un canonico della mia Scuola, di nome Fulberto. Era una fanciulla, fisicamente tutt'altro che da disprezzare, e intellettualmente superiore a ogni altra. Attratto da queste sue qualità, cominciai a desiderarla, e pensavo che non mi sarebbe stato difficile conquistarla: io mi ero già fatto un nome, e data la mia giovane età e il mio bell'aspetto, qualunque donna avessi voluto, non mi si era mai rifiutata. Tutto infiammato, dunque, di amore per questa giovinetta, studiavo il modo di poterla avvicinare e di avere con lei un contatto frequente. Siccome sapevo che lo zio, che l'amava moltissimo, si preoccupava di darle una buona istruzione, gli proposi di assumere me, come istruttore. Eloisa si affidò completamente a me. Tutto il tempo che la scuola mi lasciava libero, lo dedicavo ad insegnare a lei, ed ero ammirato della sua intelligenza e della sua docilità. Ma a che farla lunga? Come ci unì lo studio, tosto ci unì l'amore: si apriva'eresia no i libri, ma erano più le parole d'amore che di studio, più i baci che le frasi fatte, più spesso i nostri occhi s'incontravano tra di loro, che posarsi sui libri. Infine la nostra passione non conobbe più freni, e tutto ciò che di nuovo e d'insolito essa poteva suggerire, noi lo provammo. Più erano i piaceri nuovi che scoprivamo, tanto più insistevamo in essi, né mai ci venivano a noia. Non passò molto tempo, che Eloisa si accorse di essere incinta, e mi scrisse subito, con grande eccitazione, chiedendomi cosa dovesse fare. Allora una notte, mentre lo zio era assente, come eravamo d'accordo fra noi due, la portai via di casa di nascosto e la condussi al mio paese, presso mia sorella, e qui essa mise al mondo un maschietto, al quale diede il nome Astrolabio. Quanto abbia sofferto di dolore e di rabbia lo zio, quasi da diventarne pazzo, nessuno lo può credere. Come egli intendesse vendicarsi su di me, quali insidie tendermi, non lo sapeva neanche lui. Se mi avesse ucciso o fatto del male, temeva che il biasimo sarebbe ricaduto sulla nipote, al mio paese. Finalmente, impietosito del suo turbamento, lo andai a cercare e gli chiesi perdono, promettendo che avrei accettato qualsiasi soddisfazione egli ritenesse opportuna, anzi offrii di riparare col matrimonio, purché rimanesse segreto, per non danneggiare la mia carriera ecclesiastica. Egli finse di acconsentire,
120 per potermi poi tradire più facilmente. Allora tornai immediatamente al mio paese, per prendere in moglie Eloisa. Venutine a conoscenza, lo zio e i parenti pensarono che io li avessi ingannati, liberandomi di lei, col farla monaca, e indignati congiurarono contro di me. Una notte, mentre dormivo nella mia cameretta, corrotto col denaro il mio servo, mi punirono con una crudelissima e infame vendetta, che lasciò interdetto il mondo intero: mi amputarono quelle parti del corpo con le quali io avevo commesso il crimine da cui si sentivano offesi. In questo mio misero stato, fu più l'umiliazione, lo confesso, che una sincera vocazione, a farmi nascondere entro le mura di un chiostro, mentre anche Eloisa prendeva spontaneamente il velo ed entrava in convento. Accadde, inoltre, che io mi dedicassi allora a discutere i problemi della nostra fede servendomi di analogie tratte dalla umana ragione, e composi un trattato De imitate et trinitate divina per i miei scolari, che mi chiedevano ragionamenti umani e filosofici, che li aiutassero a capire, dicendo che è inutile l'abilità nell'esporre, quando non si è capito, e che non si può credere nulla, se prima non si è capito. Quel trattato piacque moltissimo, ed ecco i miei avversari, pieni di livore, provocarono la convocazione di un Concilio contro di me: e fui chiamato a presentarmi a Soissons, portando quella famosa opera. Prima ancora che io arrivassi, mi diffamarono talmente presso il clero e la cittadinanza, che per poco il popolo non lapidò me e alcuni miei scolari che erano intervenuti, dicendo che io insegnavo e scrivevo che esistono tre dei. Mi fu ordinato di consegnare il libro all'arcivescovo e a coloro che mi avevano accusato, poiché proprio essi dovevano giudicarmi. Questi, dopo aver letto e riletto il mio libro, non avendovi trovato nulla da portare in udienza contro di me, differirono fino al termine del Concilio la condanna del libro stesso. Qui, proprio l'ultimo giorno, il vescovo decretò che io me ne tornassi alla mia abbazia, cioè al monastero di San Dionigi, e che, dopo aver fatto esaminare più attentamente il mio scritto da parecchi dottori, si sarebbero di nuovo riuniti per stabilire sul da farsi. Ma i miei nemici, comprendendo che se il processo fosse avvenuto fuori della loro diocesi non avrebbero ottenuto alcun risultato, convinsero l'arcivescovo che sarebbe stata una vergogna se io fossi uscito senza condanna. Allora, senza permettermi alcuna difesa, ordinarono che io stesso gettassi il mio libro alle fiamme, e che poi mi chiudessi in clausura nel monastero di San Medardo. Di quanto dolore io bruciavo, di quanta vergogna ero confuso, non so nemmeno esprimerlo. Paragonavo quelle sofferenze con le altre, che avevo
121 subito prima nel corpo, e mi stimavo il più infelice di tutti gli uomini. Mi sembrava di poco conto la vergogna passata, in confronto all'oltraggio fatto al mio buon nome. Mentre ero in tale stato d'animo, credetti mi venisse offerta l'occasione di sfuggire a quelle insidie, e invece m'imbattei in monaci peggiori dei pagani C'era in Bretagna un'abbazia, dedicata a san Gildas di Ruys, ed essendo morto l'abate, quei monaci offrirono a me il posto. La terra era barbara, la lingua del posto a me sconosciuta, la vita dei monaci turpe e infame. Essi mi costringevano ad occuparmi di tutte le necessità quotidiane mentre loro vivevano per proprio conto con le loro concubine, con i figli e le fighe. Godevano di vedermi in difficoltà, e se sbagliavo mi invitavano ad andarmene; ma in quella terra di barbari non c'era nessuno presso cui potessi rifugiarmi. Più tardi fui convocato a Sens, per un nuovo concilio e Bernardo fu appagato nel suo odio per me, facendomi di nuovo condannare. Infine mi accolse il monastero di Cluny. [Pietro Abelardo, Historia calamitatum mearum, in M. Dal Pra, Abelardo.] 6. Morte di Arnaldo da Brescia.
Mentre si preparava il supplizio a cui era stato condannato e si appressava il momento di porgere il collo al laccio, gli fu domandato se volesse abiurare le sue prave credenze e, a mo' dei sapienti, confessare le sue colpe; ma egli, mirabile a dire, intrepido e coerente a se stesso, rispose che gli sembravano salutari le sue credenze, che non esitava ad affrontare la morte per la sua fede, poiché nulla vi scorgeva di assurdo e di dannoso, e che domandava soltanto qualche istante per confessare a Gesù Cristo le sue colpe. Genuflesso, con gli occhi e le mani levati al cielo, sospirando fortemente, ma senza dir parola, volse il pensiero supplice a Dio, raccomandando a lui l'anima sua; poi risolutamente si abbandonò al carnefice, pronto a subire con fierezza la morte. Piangevano i presenti e il cuore dei littori era mosso a pietà. Finalmente penzolò dal laccio tenace ... A che ti giovò, Arnaldo, tanta sapienza? Ecco che la fede, per cui subisti la morte, perisce, né ti è superstite la tua dottrina! [Anonimo, Gesto Friderici I, in L Todesco, Storia della Chiesa, vol. IV.]
122
IV. L'IDEALE DI UNA CHIESA DI PERFETTI NELL'ETÀ DEI COMUNI (SEC. XII-XIII).
I catari egli albigesi.
I moti di contestazione alla Chiesa, nella prima metà del secolo XII, erano divampati qua e là per l'Europa, simili a piccoli incendi destinati a spegnersi rapidamente. Anche quelli che avevano avuto una più vasta partecipazione popolare, come i moti dei patarini e quello degli arnaldisti, erano stati troppo tumultuosi e troppo circoscritti nello spazio. Tuttavia avevano dato l'indicazione di una volontà di riforma religiosa che aveva solo bisogno di maturare. Prima ancora che quei moti terminassero, soffocati dalla repressione della Chiesa, la contestazione riprendeva infatti a serpeggiare per tutta l'Europa, ma questa volta simile a un fuoco sotterraneo e silenzioso, alimentato da un intento unitario e tenuto vivo da una più consapevole coerenza di comportamento. Non era più il generoso tentativo individuale dei predicatori itineranti nel denunciare la vita corrotta del clero per ricondurre la Chiesa ai perduti valori evangelici, ma un rifiuto globale dell'istituzione ecclesiastica e una diversa interpretazione del cristianesimo, frutto di un radicato pessimismo sulle condizioni della vita umana e di una totale sfiducia nei mezzi di salvezza proposti dalla Chiesa stessa. Non era nemmeno una setta, ma un movimento spontaneo, che affiorò contemporaneamente in punti diversi dell'Europa, come sovrastruttura di un'identica situazione storica. Si fondava infatti su una constatazione molto elementare: questo mondo è il regno del male, delle sofferenze, della corruzione, delle ingiustizie. Bisogna quindi non lasciarsi coinvolgere, ma vivere isolati, secondo retti principi morali, nell'attesa della morte che sarà la liberazione. Non L'ideale di una Chiesa di perfetti 'è però il concetto di una catarsi finale: questo mondo sarà eternamente dominato dalle stesse leggi malvage, e il mondo celeste sarà sempre là, aperto a tutte le anime dei buoni, a mano a mano che essi moriranno.
123 Da principio i nuovi eretici furono scambiati per manichei a causa di un certo fondamento dualistico della loro dottrina (il contrasto fra il bene e il male), quasi fosse esistita una linea di continuità - di cui invece non è rimasta alcuna traccia - fra l'antica eresia del secolo IV e questi dissidenti del XII. La differenza essenziale è che, per i manichei, la presenza del male nel mondo aveva una spiegazione cosmologica e metafisica, quindi indipendente dall'uomo, mentre ora era suggerita da motivazioni antropologiche ed etiche, e l'idea del mondo del bene era il riflesso delle aspirazioni (che cominciavano ad affiorare alla coscienza degli uomini) a una società democratica, senza differenze di classe e senza abusi di potere. La nuova eresia fu scoperta la prima volta a Colonia e a Bonn, nell'anno 1144. Ne diede notizia a Bernardo di Chiaravalle l'abate di Steinfeld, Eberwin, descrivendo questi eretici come individui sospetti che conducevano vita errabonda, accompagnati da donne votate alla verginità, che celebravano la comunione per conto proprio, solamente con il pane, recitando il Pater noster, ma rifiutavano di frequentare le chiese e di accostarsi ai sacramenti. Pochi mesi dopo, il cardinale Alberico di Beauvais, in missione in Francia, denunciò anch'egli a Bernardo di Chiaravalle la presenza di identici eretici nella Francia meridionale. Bernardo si recò immediatamente sul posto, e a Tolosa, ad Albi e a Verfeil cercò di discutere con loro, ma fu respinto e persino beffato. Allora cominciarono le persecuzioni e i processi, col sussidio di un testo: il Tractatus de haereticis del domenicano Anselmo d'Alessandria. Nel 1147, molti di essi, tra cui alcuni membri del clero, preti monaci e suore, e anche qualche nobile, vennero condannati al rogo a Périgueux, nella Francia centrale. I verbali del processo li indicano questa volta con un nome specifico: "petragorici" (pitagorici), forse per il fatto che essi confessarono di non bere vino e di essere vegetariani. [Vedi Documenti n. 1.] Nel 1163, nelle campagne intorno a Colonia, se ne fermarono cinque provenienti dalle Fiandre, che vivevano nascosti in un granaio, segnalati dai contadini al loro parroco, perché la domenica rifiutavano di recarsi in chiesa ad assistere alla messa. Tradotti in giudizio essi dichiararono di considerarsi veri cristiani, poiché usavano vivere in povertà e castità, prendendo il pane dell'eucarestia (senza vino) 'eresia dalle mani dei propri sacerdoti, e mortificando il corpo con digiuni e
124 astinenze, per liberare l'anima dalla possessione del male. Condannati al rogo, una fanciulla che era con loro e alla quale un giudice, impietosito, avrebbe voluto salvare la vita, si svincolò dalle mani di coloro che la trattenevano e si gettò spontaneamente nelle fiamme con i compagni. Questi eretici erano così sicuri della propria fede che osavano talora sfidare ad aperti dibattiti il clero cattolico. Nel 1165, mentre a Lombers, nella Linguadoca, era riunito un Sinodo di vescovi di Tolosa, di Lodève, di Nîmes e di Albi, con i vari abati e prevosti della diocesi, alla presenza del conte Raimondo di Tolosa con la moglie, del visconte Raimondo Trencavel di Béziers e di altri nobili, si presentò un gruppo di loro boni homines, cioè di loro sacerdoti, e a nome di tutti parlò un certo Oliviero, chiedendo di poter esporre quale fosse la loro dottrina: conformare la vita strettamente e unicamente ai precetti evangelici; così facendo, essi si ritenevano veri cristiani. Al termine della sua esposizione, il vescovo di Lodève lesse la seguente sentenza: "Io, Gaucelin, vescovo di Lodève, d'accordo col vescovo d'Albi e con gli altri qui presenti, giudico eretici costoro che si fanno chiamare boni homines, e con loro condanno la setta degli eretici di Lombers". E poiché quelli protestarono che egli era un ipocrita e non un vero cristiano, il vescovo Gaucelin li avvertì che si sarebbe appellato al papa e al re di Francia e che li avrebbe segnalati come nemici della fede a ogni corte cattolica. In quegli anni, nei verbali dei processi celebrati in Germania, codesti eretici cominciano a essere chiamati col nome che resterà poi loro definitivamente: catari. E fu tale la loro diffusione, e così decisa la loro opposizione alla Chiesa, che il vocabolo Ketzer è rimasto da allora nella lingua tedesca a indicare genericamente "eretico", e Ketzerei significa "eresia". Evidentemente il nome è la trascrizione del greco Kátharoi, ossia i "puri", ma per una facile assonanza, spesso il clero, ignorante della lingua greca, li confondeva coi patari o patarini, e se accettava il vero nome ne dava etimologie strane e fantasiose, come quella del monaco Alain de Lille: "Dicuntur catari a cato [dal gatto], perché usano baciare le parti posteriori del gatto, sotto il cui aspetto, come essi affermano, appare loro Lucifero". La Chiesa continuò a lungo a non capire quali fossero i motivi della straordinaria diffusione del catarismo tra uomini e donne, e non soltanto delle classi più umili, ostinandosi a considerarlo una
125 setta di adoratori di Satana, dediti a sabba osceni con demoni e streghe, e a interpretare il loro rifiuto dei sacramenti da parte del clero L'ideale di una Chiesa di perfetti come una forma di perverso sacrilegio. O forse la rabbia dei persecutori si spiega come lo sfogo di un complesso di colpa di fronte all'integrità morale dei catari, i migliori dei quali giungevano fino a praticare la castità assoluta, perché il mondo della materia finisse più presto. E, in qualche caso, fu proprio la constatazione di un simile impegno morale da parte di qualche persona a farne sospettare l'appartenenza al catarismo. Così avvenne, per esempio, a Reims nel 1162, quando una fanciulla, insidiata da un chierico, essendosi rifiutata di accettare le sue proposte, venne tratta in arresto e processata; e con lei una vecchia che l'aveva introdotta al catarismo. Ma la vecchia - a quanto riferisce un cronista dell'epoca - riuscì a fuggire, calandosi dalla finestra per mezzo delle sue arti magiche. Proprio in quest'occasione, i catari risultano designati con un altro nome ancora: pobliciani, che ricorre anche altrove nella forma populiciani. E questa è la spia che permette di riconoscere i legami, anzi probabilmente la derivazione del catarismo, da un movimento religioso più antico, ma ancora vivo in quegli anni nella penisola balcanica e in Bulgaria. La parola "pobliciani" o "populiciani" è la corruzione di pauliciani, nome di una setta ascetica sorta in Armenia nel secolo VII, dal patronimico Paul-ik, ossia "figlio di Paolo", "seguace di Paolo", perché i suoi membri erano convinti di continuare nel modo più esatto la dottrina dell'apostolo Paolo di Tarso, accentuandone il concetto dell'umanità peccatrice in Adamo e dominata da Satana, e la necessità di una vita ascetica perché il male venisse vinto e il bene trionfasse. Espulsi dall'Armenia verso la fine del secolo IX, i pauliciani si erano trasferiti in Tracia, e di lì, sconfinando nei paesi vicini, avevano dato vita, in Bulgaria, a un'altra setta affine, i bogomili, così chiamati dal nome di un pop Bogomil, equivalente in lingua bulgara a "Teofilo" (bog Dio, mile amico). Anche i bogomili seguivano la concezione dualistica, attribuendo a Satana la creazione di Adamo e di Eva, e prendevano dal Vangelo di Giovanni la dottrina gnostica dell'emanazione del Verbo, a cui, tuttavia, essi negavano ogni partecipazione alla natura umana, considerando
126 Maria un angelo, preventivamente inviato in terra da Dio, per accogliere il Verbo. I bogomili praticavano una vita ascetica e rifiutavano la mediazione della Chiesa, anche per un'opposizione politico-sociale al cesaropapismo bizantino. Per questo motivo erano stati più volte perseguitati: nell'842 dall'imperatrice Teodora, che ne aveva fatti sterminare più di centomila; nell'870 dall'imperatore Basilio, e nel 1118 da Alessio Comneno, il quale ne aveva arrestati e imprigionati molti, bruciando sul rogo il loro pop Basilio. Tuttavia essi erano ancora sempre fiorenti, specie nella Bosnia, protetti dal ban Kulin, e contro di loro papa Innocenzo III nel 1200 incaricherà il re d'Ungheria Imre di condurre una crociata di sterminio. La stretta parentela tra i bogomili e i catari è dimostrata innanzi tutto da un confronto fra le due dottrine, possibile ora per la fortunata scoperta di un vangelo bogomila (l'unico finora conosciuto), che pare sia stato portato in Italia dalla Bulgaria nel 1190 dal cataro Nazario, e di qui finito a Carcassonne, nella Linguadoca: vangelo da me tradotto per la prima volta in italiano. [Vedi Documenti n. 2.] La variante catara di questo vangelo ci è stata tramandata da un anonimo del Duecento. Ma la prova definitiva è il fatto che il primo grande Concilio generale dei catari, tenutosi nel 1167 a Saint-Félix de Caraman, presso Tolosa, fu presieduto dal pop Niceta, venuto da Dragovia, il quale informò i compagni di fede sulla consistenza delle chiese dei bogomili di Serbia, Romania, Macedonia, Bulgaria e Dalmazia, e sul loro modello si organizzarono le chiese catare della Linguadoca e della Provenza, tra cui la più importante divenne tosto quella di Albi, tanto da dare poi il nome di albigesi a tutti i catari occitanici. La forte carica di apostolato, da parte di ciascun fedele, permise in queste due regioni la rapida diffusione del catarismo e la sua costituzione in una struttura stabile, dottrinalmente e disciplinarmente. Le chiese albigesi erano presiedute dai boni homines, che gli eresiologi chiamano spesso "i perfetti", per la solita confusione coi manichei. I neoconvertiti si disponevano ali''apparelhament cioè ad apparecchiarsi alle severe regole di vita, sottostando per qualche tempo, anche più di un anno, ad astinenze, digiuni e penitenze. Talvolta chiedevano ai boni homines la grazia di ottenere un melhorament della loro condotta: "Bon crestia, balhatz nos [dacci] la benediccion de Dieu e de vos!".
127 Dopo il periodo di prova, i nuovi fedeli pronunciavano la promessa di fedeltà e di convenena con le regole della chiesa catara, e ottenevano il bacio della pace. Ai più zelanti (anche donne), come segno di ordinazione sacerdotale, e a tutti quanti prima della morte, si conferiva il consolament, una specie di battesimo di assoluzione, con la semplice imposizione delle mani. Il consolament era particolarmente richiesto quando i catari, arrestati e imprigionati, decidevano di sottoporsi alla endura, cioè al suicidio, lasciandosi morire d'inedia, o quando, per disprezzo verso i persecutori, invece di farsi trascinare al supplizio, si gettavano spontaneamente sul rogo. I catari non erano una setta di misantropi, né vivevano di elemosina o di vagabondaggio, ma del proprio lavoro. Vi appartenevano persone di tutti i ceti sociali, soprattutto artigiani, tessitori, commercianti, e frequentavano gli stessi mercati dei cattolici, prestavano loro denaro e ne ricevevano in prestito, convinti gli unì e gli altri che era una cosa necessaria, anche se la Chiesa la proibiva. Tra i catari vi erano anche degli ex sacerdoti e persino dei nobili. Anzi, quasi tutti i feudatari della Linguadoca e della Provenza, quando scoppierà la repressione, difenderanno con le armi i loro sudditi catari. Già nel 1178, per esempio, nel castello di Ruggero II Trencavel, visconte di Béziers, e di sua moglie Adelaide vi fu un incontro fra due alti personaggi catari e due eminenti cattolici: l'abate cistercense Enrico di Marcy e il cardinale Pietro di Pavia, dopo il quale i due prelati cattolici avrebbero voluto far arrestare i due catari, ma furono impediti dal visconte Ruggero IL Due anni dopo, però, Enrico di Marcy, divenuto cardinale, li farà arrestare a tradimento, nonostante l'impegno preso. Per questo suo legame con la nobiltà, taluni eresiologi, ancora oggi, tendono a considerare il catarismo albigese, della Provenza e della Linguadoca, una conseguenza del cattivo esempio dato al popolo dalla nobiltà stessa col rilassamento dei propri costumi. Certo vi sono alcune analogie nella concezione della vita da parte dei catari e dell'aristocrazia feudale occitanica, ma spesso per una coincidenza occasionale. La poesia dei trovatori, espressione di quella società nobiliare, presenta ugualmente frequenti spunti anticlericali e aperti rimproveri alla corruzione della Chiesa, come in Peire Cardinal, in
128 Marcabrun, e nei versi di Guillem Figuera: "Roma, tant es grans/ la vostra forfaitura [furfanteria]/ que Dieu e sos sans/ en gitatz [mettete] a non cura". Il matrimonio, come per i catari, è una formalità senza importanza: il rapporto tra uomo e donna dev'essere fondato unicamente sul sentimento d'amore. Ma lo scandalo degli ecclesiastici per questo rifiuto del matrimonio come sacramento ha fatto esagerare il giudizio sul concetto trobadorico deil'"amor cordial" quale esaltazione della sensualità e del libertinaggio, mentre - non dimentichiamolo - proprio esso ha decisamente influito sulle dottrine dell'amore sentimentale che saranno nel dolce stil novo e nel petrarchismo. "D'amor mou [muove] castitatz" canta Guillem de Montanghagout "quar qui 'n amor ben s'enten/ no pot far pueis mal renh [mal rendimento]." Comunque, la scelta della joie d'amor, anche al di fuori del matrimonio, da parte delle belle castellane provenzali, e la scelta della castità (frequente ma non obbligatoria) da parte delle fanciulle catare, sono entrambe una prova di emancipazione femminile: la volontà di disporre liberamente dei propri sentimenti e del proprio corpo, sottraendosi alla potestas del maschio e cercando una parità di diritti con esso. Il libero amore e la castità erano, sebbene in senso inverso, una protesta contro l'ordine sociale difeso dalla Chiesa. Inoltre, per le donne sole, vedove o zitelle, poiché il patrimonio familiare passava in massima parte ai maschi, all'alternativa di chiudersi in un convento era preferibile la compagnia dei catari, tra i quali esse trovavano conforto e fratellanza, senza sentirsi oppresse e recluse, poiché l'autorità dei boni homines era solo morale. E che il più delle volte Yentendensa d'amor e l'entendensa del ben si potessero perfettamente conciliare è dimostrato dal fatto che, quando la Chiesa scatenerà una persecuzione generale, una vera crociata di sterminio, sia tra le nobildonne sia tra le popolane molte di quelle amasiae-uxores, amanti-mogli, come le definiscono con spregio i verbali dei processi e le cronache, sapranno combattere e morire eroicamente al fianco degli uomini che amavano. Pauperisti e apocalittici.
Proprio nel 1179, mentre a Roma papa Alessandro III, convocato il
129 Concilio laterano terzo, per prendere in esame il preoccupante dilagare dell'eresia catara, lanciava minacciosi avvertimenti ai catari e ai loro protettori, scendeva da Lione Pietro Valdo (Valdès o De Vaux), con un piccolo gruppo di discepoli, per presentare al pontefice una protesta contro il vescovo della sua città, Guichard, che gli aveva proibito di continuare la predicazione del Vangelo in lingua occitanica, da lui iniziata poco tempo prima, dopo una crisi religiosa. Racconta la Cronaca di Laon che Pietro Valdo, ricco mercante lionese, nel 1175 era rimasto vivamente colpito dalle parole di un menestrello, il quale, sulla piazza di Lione, stava cantando le gesta di sant'Alessio (secolo IV), giovane romano che, abbandonata la moglie e la famiglia, era andato in pellegrinaggio in Siria, mendicando, e al ritorno era morto dopo aver chiesto l'elemosina, senza essere riconosciuto, alla porta di casa di suo padre. Il giorno dopo - dice la Cronaca - Valdo aveva affidato le proprie figlie al convento di Fonevrault, fondato da Roberto di Arbrissel, aveva dato in elemosina tutti i suoi averi e aveva cominciato a predicare secondo i precetti evangelici che indicano nella povertà la via della perfezione. Si era fatto tradurre i testi sacri da due sacerdoti, convinti alla sua causa, li aveva esposti pubblicamente, commentando soprattutto il sermone della montagna e la parabola del giovane ricco. Egli stesso seguiva il precetto di Cristo: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi ciò che hai" (Mi XIX,21) per girare nei quartieri di Lione abitati dai più umili artigiani, egli pure scalzo, vestito di un misero saio. Quando si presentò ad Alessandro III, questi lo abbracciò, commosso per le sue buone intenzioni e per il voto di povertà fatto da lui e dai suoi compagni, ma non poté annullare il divieto di predicazione del vescovo di Lione. L'exhortatio ad poenitentiam era a quell'epoca un'attività facilmente concessa anche ai laici, ma in quel momento l'esempio dei catari faceva temere il pericolo di deviazioni ereticali. Eppure Valdo era sorretto dalla fede sincera di poter risvegliare nel popolo il senso autentico, e perfettamente ortodosso, del cristianesimo evangelico, di ispirare agli umili e ai poveri il conforto di essere i prediletti di Dio, coloro per i quali era stato annunciato da Gesù Cristo il regno dei cieli, e conferire loro la dignità di sentirsi riscattati dalla condizione di classe sociale subalterna, mediante l'accettazione della povertà come privilegio.
130 Un secondo tentativo, nel 1181, con papa Lucio III, successore di Alessandro III, sortì lo stesso effetto. Anzi, il nuovo papa costrinse Valdo a giurare una professione di fede (il testo è stato scoperto solo nel 1946) con cui s'impegnava a sottomettersi all'autorità ecclesiale. Anche questa volta egli non ubbidì, e riprese la predicazione, mandando, anzi, i discepoli, a coppie, a diffonderla per la Francia meridionale. A questo punto il nuovo vescovo di Lione, Jean de Bellesmains, lo scomunicò e lo fece espellere dalla città con tutti i suoi seguaci, che avevano assunto il nome di Poveri di Lione. Da quel momento il valdismo entrò nell'eresia. Ma Pietro Valdo non intendeva che i suoi seguaci si mettessero fuori della Chiesa e, nonostante le persecuzioni, i Poveri di Lione continuarono a mescolarsi con i fedeli per ricevere i sacramenti, che consideravano essenziali per la propria salvezza. Essi, quindi, non mettevano in dubbio le verità di fede e la mediazione dei sacerdoti, ma protestavano per il contrasto fra le norme evangeliche, prescriventi povertà e umiltà, e la loro applicazione da parte del clero. "Dicono che il papa, i nostri vescovi e i chierici" scriverà pochi anni dopo Davide di Augsburg nel suo Tractatus de haeresi Pauperum de Lugduno "non possono rappresentare la Chiesa, perché posseggono le ricchezze mondane e non imitano la santità degli apostoli: non è possibile, dicono, che Cristo abbia voluto affidare la sua diletta Sposa a gente tale, che la prostituisce con i cattivi esempi e le cattive opere... Dicono anche che con la loro astuzia e la loro potenza i chierici tengono sottomessi i laici perché diano loro le decime e le offerte con cui essi possono pascersi, soddisfare la loro lussuria e mantenere le proprie concubine." L'incontro dei valdesi con i catari e gli albigesi contribuì ben presto ad accentuare il loro carattere di contestazione. Non era solo il problema economico della povertà a fare da sottofondo alla loro protesta, ma anche, e soprattutto, il problema sociale e politico: la disparità di classe e la percezione da parte della nascente borghesia artigianale di potersi rendere autonoma dal feudalesimo mediante il lavoro delle proprie mani. I loro maestri, detti "barba" (da barbatus), calzando sandali di legno o di cuoio, e perciò chiamati anche "insabbatati" (ensabatatz) o "sandaliati", come attesta il monaco Bernardo di Fontecaude nella sua opera del 1192 Adversus Waldensium sectam, percorrevano le città e i villaggi, insegnando ai poveri ad avere fiducia in Dio e a recitare
131 spesso il Padre nostro, ad aborrire dalle menzogne e dalla violenza, ma predicando anche - e questo era il punto più grave del loro comportamento eretico - che erano inutili le indulgenze, le elemosine, le preghiere ai defunti. La loro esaltazione della non violenza, della giustizia sociale, dell'onestà nei rapporti reciproci, della necessità del perdono anche per i nemici non poteva fare a meno di trovare largo consenso in una società che stava nascendo basata su questi stessi principi. Quando anche contro i valdesi la persecuzione della Chiesa si farà feroce, un anonimo poeta dirà: Qui non volìa maudire, ni jurar, ni mentire, niahountar, niancire, ni preme del'autrui, ni venjar se de li sio ennemie, itti disent que ès Vaudès e digne de meurir. Ispirati dalla predicazione valdese, e in alcuni casi loro diretta filiazione, sorsero in altri luoghi movimenti laici, dediti per elezione a una vita severa di pietà e di fratellanza, e quindi anch'essi col desiderio di ricondurre il cristianesimo al suo primitivo significato. In Lombardia, gruppi di artigiani, soprattutto tessitori di lana, praticamente già uniti insieme dalle esigenze del loro mestiere, proposero di organizzarsi in una vita in comune, instar ecclesiae primitivae (cioè povertà, continenza, penitenza), e presero il nome di umiliati. Seguirono anch'essi la stessa sorte dei valdesi: il papa li riconobbe, ma negò loro il permesso di predicare; alcuni si sottomisero, ma la maggior parte disubbidì e formò una setta dissidente, che nel 1218 finirà coll'assimilarsi ai Poveri di Lione, prendendo per analogia il nome di Poveri lombardi. Più tardi si differenziarono leggermente, costituendo un gruppo a sé, con un nuovo capo, Giovanni di Ronco che, per sfuggire alla persecuzione, riparò poi in Germania dando origine ai runcharii, dal suo nome. Dirà di loro un contemporaneo: "O Pauperes Lombardi! Poiché non vi piacque la Chiesa romana, vi siete uniti con i Poveri di Lione, e siete stati con loro sotto il governo di Valdo; ma poi vi siete scelto un altro capo, separandovi da Valdo e dai Lionesi, il cui nome era J. de Roncho, e io l'ho conosciuto". Una comunità francese è invece chiamata dei tortolani negli Atti dell'inquisizione di Carcassonne, perché celebrava la comunione, volendo tornare all'usanza dei primi apostoli, con "unum tortellum panis et unum ciphum plenum de bono vino". Addirittura un ritorno alle credenze filogiudaiche dei diretti discepoli
132 di Gesù pare fosse praticato dai passagini, il cui nome deriva forse da "predicatori di passaggio" o "pellegrini": essi ammettevano l'opera di Gesù ma non la sua divinità, ritenendolo figlio adottivo, e osservavano il riposo del sabato e il divieto di cibarsi di carne non dissanguata. Più specificatamente anticlericale fu la protesta, quasi contemporanea agli inizi della predicazione di Pietro Valdo, mossa dal giurista piacentino Ugo Speroni, inizialmente in difesa degl'interessi del comune di Piacenza, di cui era notaio, su certi territori rivendicati dalle autorità ecclesiastiche, poi con un'aperta contestazione delle istituzioni della Chiesa. Nella sua opera Adversus Antichristum, che è del 1177, Speroni bolla la corruzione del clero, nega validità ai sacramenti, ai riti, alle indulgenze. Egli sottopose il proprio scritto al giudizio di un suo ex condiscepolo, Vaccario, che lo confutò aspramente e lo segnalò alla corte pontificia per la debita condanna. Agli inizi del Duecento, il messaggio dei Poveri di Lione, anche con qualche modifica, si era ormai diffuso in Germania, nell'alto Reno, in Baviera, in Austria, in Svizzera, nell'Italia settentrionale e meridionale, e soprattutto nelle vallate alpine tra la Savoia e il Piemonte, dove i valdesi esistono tuttora, chiamati genericamente barbet dall'antico nome dei loro maestri. Ma già erano cominciate le persecuzioni e vi furono anche casi di pentimento, il più notevole dei quali fu il ritorno nel grembo della Chiesa dell'aragonese Durand de Huesca e di tutti i suoi seguaci, nel 1207, riconvertiti in seguito a discussioni col vescovo Diego d'Osma. Essi allora presero il nome di Poveri cattolici, proponendosi di collaborare alla confutazione degli eretici. Ma già l'anno dopo, papa Innocenzo III avrà di nuovo motivo di lamentarsi di loro perché non si mostravano abbastanza rigidi nei confronti dei vecchi compagni di eresia. [Vedi Documenti n. 3.] Intanto, nella prima metà del Duecento, alle varie esperienze pauperistiche si aggiungeva anche un altro vasto movimento di contestazione alla Chiesa: il movimento degli apocalittici. Nel 1202 era morto nel convento di San Giovanni in Fiore, sulla Sila, da lui fondato, il monaco calabrese Gioacchino da Fiore, "di spirito profetico dotato" come dirà poi di lui Dante Alighieri. La sua predicazione, rimasta quasi inosservata finché egli era vivo, doveva ben presto divenire il testo fondamentale di attese apocalittiche che
133 avrebbero a lungo sconvolto di entusiasmo e di fanatismo le masse cristiane. Già negli anni immediatamente precedenti, tre mistici germanici, Rupert von Deutz, Anselmo di Havelberg e Ildegonda di Bingen, addolorati per la corruzione della Chiesa, avevano previsto l'approssimarsi del giudizio universale, immediatamente preceduto dalla lotta finale tra Cristo e l'Anticristo, secondo l'allegoria dell'Apocalisse di Giovanni. Ma Gioacchino da Fiore, operando una più profonda interpretazione escatologica, aveva calcolato che, come vi erano state, secondo il Vangelo di Matteo, quarantadue generazioni bibliche, di trent'anni ciascuna, da Davide a Gesù (l'età del Padre, cioè del Dio dell'Antico Testamento), così ve ne dovevano essere altrettante per l'età del Figlio, e quarantadue generazioni di trent'anni ciascuna portavano all'anno 1260; dopo quella data sarebbe iniziata la terza età, quella dello Spirito Santo, contrassegnata dal trionfo finale del bene, della giustizia, della fratellanza universale. [Vedi Documenti n. 4.] Gioacchino da Fiore attendeva, quindi, che si presentasse un antipapa, come manifestazione dell'Anticristo, per lo scontro definitivo; ma era facile, a chi lo ascoltava, immaginare che, data la corruzione dei tempi, l'Anticristo fosse già il papa sedente sulla cattedra di Pietro. A tale deduzione sembra appunto che sia giunto, tra gli altri, il re 'Inghilterra Riccardo Cuor di Leone, quando a Messina nel 1190, in procinto di salpare per la crociata, a Gioacchino che gli faceva profezie di buon augurio e gli parlava dell'Anticristo, rispose: "Se l'Anticristo deve manifestarsi a Roma e possedere la sede apostolica, penso che sia proprio quel Clemente che è papa adesso". La predicazione apocalittica di Gioacchino da Fiore e quella pauperistica di Pietro Valdo contribuirono entrambe alla formazione di san Francesco d'Assisi, e i seguaci di Gioacchino da Fiore, difatti, identificheranno in lui l'angelo dell'Apocalisse. Figlio di un ricco mercante, come Valdo rinunciò egli pure alle ricchezze, nel 1206, per sposare "madonna Povertà" e farsi "giullare" di Cristo. Nei primi tempi, esaltato dalla lettura dei romanzi cavallereschi, egli girava per i villaggi e le campagne, proclamando: "Sono l'araldo del gran Re", e presentava gli amici che lo seguivano: "Questi sono i miei cavalieri della Tavola rotonda", annunciando il prossimo avvento del Regno di Dio. Poi, nel 1209, sentì la vocazione di far conoscere il vero
134 messaggio di Gesù anche con l'esempio di una comunità che vivesse secondo il modello dei primi apostoli. Anch'egli, come Valdo, essendo laico, si vide negare, nel 1210, il permesso di predicare da papa Innocenzo III, e anch'egli non ubbidì, e cominciò a diffondere parole di speranza tra le povere genti della sua Umbria. Le prime biografie del santo, poi proibite dalla Chiesa e sostituite da agiografie edulcorate a scopo di edificazione, lo mostrano assai più polemico e vigoroso che non la leggenda. Per esempio, la famosa predica agli uccelli, passata nei Fioretti come una generica manifestazione d'amore per le creature umili e indifese, fu invece un gesto simbolico di condanna della corruzione della società e un'irritata risposta a Innocenzo III che l'aveva cacciato via con questa frase di disprezzo: "Vattene, frate, dai tuoi maiali, ai quali assomigli, e rivoltati con essi nel fango"; egli, in quell'occasione, raccontano Ruggero di Wendover e Matteo Paris, uscito fuori Roma, chiamò a raccolta i corvi e gli altri uccelli da preda che razzolavano tra i cadaveri nei cimiteri e predicò loro le parole dell'Apocalisse: "Venite, radunatevi al gran banchetto di Dio, mangiate la carne dei re, dei tribuni e dei superbi...". Un secondo tentativo per ottenere il riconoscimento papale, fatto nel 1217 con il nuovo pontefice Onorio III, fu ancora respinto. Per lo sconforto, Francesco si propose di andare a predicare in Francia e in Germania, ma fu sconsigliato dal cardinale Ugolino dei Conti: "Ci sono nella Curia di Roma troppi prelati che vorrebbero molto nuocere a te e al tuo ordine". Allora, nel 1221, per evitare persecuzioni ai suoi compagni, Francesco si piegò a costituire un ordine monastico regolare, ma, rattristato, lasciò la carica di ministro generale e si ritirò a vita eremitica. Fu il capitolo francescano a redigere la Regola prima, che contemplava l'obbligo di ubbidienza alle autorità ecclesiastiche e della predicazione "al servizio della Chiesa". Questa regola, ancora "mitigata" per cura del cardinale Ugolino dei Conti, venne finalmente approvata da Onorio III con una bolla del 1223. Alla prescrizione di povertà assoluta, voluta da san Francesco e ancora contenuta nella Regola prima, fu fatta un'eccezione: l'ordine poteva possedere beni "per le necessità degli infermi e per vestire altri frati". L'ordine francescano cessava di essere una comunità pauperistica. Nel 1226, sceso dal suo eremo alla Verna, dove aveva anche ricevuto le stigmate, Francesco d'Assisi, in gravissime condizioni di salute
135 e affetto da quasi totale cecità, dettò il Testamento: "Ordino fermamente per obbedienza a tutti i frati che, dovunque siano, non osino mai chiedere qualche privilegio alla curia romana, né direttamente né per interposta persona, né in favore di una chiesa o di qualche altro luogo, né con la scusa di dover predicare, né per difendersi da una persecuzione; ma dovunque non vengano ricevuti, fuggano ad un'altra terra". Francesco morì poco dopo, nella notte fra il 3 e il 4 ottobre. L'amarezza di Francesco - che le agiografie chiamano "tentazione del Maligno" - nel vedere il proprio ordine sottomesso alla curia di Roma, non fu dimenticata dai seguaci più fedeli, i quali continueranno a rispettare la regola "non bollata" dal pontefice e il Testamento del loro maestro, ponendosi pertanto, automaticamente, tra gli eretici. La repressione violenta.
La reazione della Chiesa contro tutte le forme di contestazione e d'indisciplina non si fece aspettare a lungo. Già al Concilio di Verona del 1184, che ratificò anche un accordo politico tra la Chiesa e l'imperatore Federico Barbarossa, papa Lucio III, assicuratasi la sua collaborazione nella lotta contro gli eretici, aveva emanato la famosa bolla Ad abolendam diversarum haeresium pravitatem: "Allo scopo di abolire la pravità di molteplici eresie, che nei tempi recenti ha cominciato a pullulare in parecchie parti del mondo, sotto nomi diversi, Noi insorgiamo, condannando ogni loro dottrina. Decretiamo che primi fra tutti i Catari e i Patarini e quelli che con falso nome si spacciano per Umiliati o Poveri di lione, e i Passagini, i Giuseppini [da Giuseppe, vescovo dei catari di Concorezzo] e gli Arnaldisti siano in perpetuo colpiti da scomunica. E poiché taluni altri, sotto l'apparenza di pietà religiosa, ma offendendone il valore sacro, si arrogano l'autorità di predicatori, sebbene l'apostolo dica: "Come predicheranno se non sono autorizzati?", tutti, dunque, coloro che, o essendone stati proibiti o non autorizzati, senza aver ricevuto il permesso dalla sede apostolica o dal vescovo della loro sede, presumono di predicare pubblicamente o privatamente, sono scomunicati; così pure tutti coloro che circa il sacramento del corpo e del sangue del Nostro
136 Signore Gesù Cristo, o circa il battesimo, la remissione dei peccati, il matrimonio, o gli altri sacramenti, non hanno ritegno a pensare e insegnare diversamente da quanto predica e insegna la sacrosanta Chiesa di Roma. Sono rutti, dunque, scomunicati, sia che si chiamino consolati o credenti o perfetti o con qualsiasi altro nome superstizioso". Questo documento fornì le basi, nel 1198, a Innocenzo III, appena salito al soglio pontificio, per attuare la grande offensiva: non bastava la scomunica, Innocenzo III voleva lo sterminio degli eretici. Innanzi tutto egli capì che il momento politico era particolarmente opportuno per bandire una crociata contro gli albigesi, appoggiando le mire espansionistiche dei feudatari francesi con la promessa che sarebbero divenuti proprietari delle terre liberate dai catari in Provenza e nella Linguadoca, togliendole ai loro signori, che erano in parte sudditi dei principi d'Aragona, in parte dei Piantageneti d'Inghilterra, coi quali appunto già era in guerra Filippo Augusto di Francia. Innocenzo III assicurò all'impresa la collaborazione del clero locale, cominciando subito col sostituire numerosi vescovi, considerati troppo miti, e col mandare uomini più decisi, investiti del potere assoluto di giudici (inquisitores). Sorgevano così, regolati da una precisa procedura redatta dallo stesso Innocenzo III, i tribunali dell'inquisizione, terribile strumento per la lotta antiereticale. I primi inquisitori inviati nei paesi catari furono Ranieri dei conti di Segni, fratello del papa, Pierre di Castelnau con frate Rodrigo come segretario, e il vescovo di Osma, Diego di Acevedo, col canonico Domenico di Guzman (il futuro santo). Domenico di Guzman fu tra i più zelanti, cercando frequentemente di discutere coi catari e condannandoli senza pietà se non si convertivano, e inoltre, racconta un suo biografo, "conoscendo la destrezza con cui gli eretici s'impossessavano dell'educazione delle giovinette nobili quando le famiglie erano troppo povere per poterlo fare, onde sottrarle alla seduzione dell'errore, fondò un monastero femminile a Prouille, presso Montréal, sotto la giurisdizione del vescovo di Tolosa". Domenico poi, nel 1215, fonderà il suo ordine di predicatori, adottando l'astuta politica di mandarli in giro poveramente vestiti, alla maniera dei valdesi e dei fraticelli di san Francesco, per ingannare le masse con una predicazione pauperistica, che però non aveva lo scopo
137 di riformare i costumi della Chiesa. Mentre si preparava il terreno per la crociata contro gli albigesi, i catari italiani furono i primi a subire la persecuzione, soprattutto a Orvieto, dove così spietata fu l'azione del senatore Pietro Parenzo da provocare una sollevazione popolare, in cui egli stesso trovò la morte, e a Viterbo, dove il papa in persona, recatosi in visita, fece abbattere tutte le case dei catari. Nel 1202 papa Innocenzo III annunciò le indulgenze che era disposto ad accordare a tutti coloro che avrebbero partecipato a una crociata, sia contro i musulmani sia contro gli albigesi: "Coloro che lo faranno di persona e a loro spese avranno piena remissione di tutti i peccati, quelli che contribuiranno alle spese con i propri beni acquisteranno indulgenza in proporzione al soccorso dato. I crociati saranno sotto la protezione della Chiesa fino al loro ritorno, saranno scaricati dei debiti, segnatamente quelli contratti con Ebrei; gli ecclesiastici che prenderanno parte alle crociate potranno impegnare per tre anni i redditi dei loro benefici. Tali indulgenze saranno valide sia per coloro che andranno in Oriente contro i musulmani, sia per coloro che andranno in Spagna contro i mori, sia per coloro che andranno in Provenza contro gli albigesi". La bolla fu fatta diffondere in tutte le diocesi d'Italia, Germania, Svezia, Danimarca, Boemia, Ungheria, Inghilterra, Scozia e Irlanda. Mentre già nel 1202 iniziava la IV crociata in Oriente, che si mutava però in una guerra di conquista dell'impero bizantino, a tutto vantaggio della repubblica di Venezia, Innocenzo III aspettava ansiosamente che si presentasse l'occasione di aprire le ostilità contro gli albigesi. L'occasione fu offerta, nel 1208, dall'uccisione del legato pontificio Pierre di Castelnau. Innocenzo III, dando la colpa al conte Raimondo VI di Tolosa di aver ordinato o ispirato l'assassinio, lo scomunicò, e rivolse immediatamente un appello ai nobili di Francia per sollecitarli a vendicare l'ingiuria fatta alla Chiesa e a estirpare la peste della eresia. Nel 1209 i crociati (ventimila cavalieri e duecentomila fanti) furono finalmente tutti riuniti nel quartiere generale di Lione. Avendo Filippo Augusto, re di Francia, rinunciato a guidare la crociata, perché impegnato in guerra con Giovanni Senzaterra, il papa affidò l'incarico al conte Simone di Montfort, appena reduce dalla IV crociata
138 in Oriente. Al comando di Simone di Montfort, il quale, a mano a mano che conquistava un territorio ne riceveva l'investitura da Innocenzo III, i capi dei crociati: il duca di Borgogna, i conti di Nevers, di Saint Paul e di Bar, gli arcivescovi e i vescovi di Autun, Bayeux, Bourges, Chartres, Clermont, Reims, Roanne e Sens, con i propri vassalli, spinsero le soldatesche ad atrocità incredibili. I catari, naturalmente, difendevano i castelli non solo per fedeltà ai loro signori, ma soprattutto nel tentativo disperato di salvare la propria vita perché, appena i crociati espugnavano una piazza, avveniva un massacro generale della popolazione, al quale non sempre i cattolici che erano con loro potevano sfuggire. Già all'occupazione di Béziers, che fu il primo atto della crociata, il 22 luglio del 1209, allorché venne dato ordine ai soldati di passare a fil di spada i ventimila abitanti, uomini, donne e bambini, per vincere la loro esitazione a una carneficina indiscriminata, Arnaldo Amalrico, abate generale di Citeaux - a quanto racconta lo storico Cesano di Eisterbach - gridò a gran voce: "Uccideteli tutti: Dio riconoscerà poi i suoi!". [Vedi Documenti n. 5.] Lo stesso anno, dopo l'assedio di Carcassonne, a uno dei perfetti che lo implorava di risparmiarlo, dicendosi pronto ad abiurare, Simone di Montfort rispose: "Se sei veramente pentito, il rogo sarà l'espiazione dei tuoi peccati; se menti riceverai con esso la giusta ricompensa della tua perfidia". Anche i nobili non sempre sfuggivano alla morte. Nel 1210, avendo il conte di Tolosa fatto espellere il vescovo, Simone di Montfort accorse ad assediare la città e, dopo la conquista, anche Aimery di Montréal, che era con gli assediati, venne impiccato sulla forca, gli ottanta cavalieri del suo seguito passati a fil di spada, la sorella del conte di Tolosa gettata in un pozzo e ricoperta di pietre, e "infine" dice il cronista Pierre de Vaux "i nostri crociati arsero sul rogo non meno di quattrocento eretici, con estrema gioia". Alla resa di Minerve, tutti i cittadini, eccetto tre donne, si buttarono spontaneamente su di un rogo di così vaste proporzioni, che il fuoco si appiccò ai boschi circostanti. Non era soltanto una prova di disprezzo della morte, secondo i canoni della religione catara, ma anche il desiderio di evitare il dileggio dei persecutori, e per le donne la vergogna, perché spesso, soprattutto le giovani, spogliate prima di essere
139 condotte al supplizio, eccitavano gli istinti erotici delle soldatesche, che gridavano oscenità o cantavano una canzone che iniziava con queste parole: "La bela eretja ins lo foe jitada...". Tra la fine del 1210 e la primavera del 1211, i crociati conquistarono ancora Cassés, Cahusac, Montferrand, Gaillac, Montégut, St. Marcel e St. Antonin. L'esercito eretico, organizzato e guidato dal conte di Tolosa, riuscì a rioccupare alcune di queste terre, ma fu una vittoria effimera. Altri vari signori della Francia del Nord si unirono con le loro truppe alla crociata, e caddero sotto i loro assalti: Angen, Penne, Birou e Moissac. Nel novembre del 1212, Simone di Montfort tenne un'assemblea generale dei crociati a Pamiers e dettò le sue disposizioni: obbligo di giuramento di fedeltà alla sua persona, quale feudatario delle terre fin allora conquistate; rispetto delle immunità del clero locale; espulsione di tutti gli eretici sopravvissuti, comprese le loro mogli, anche se fossero cattoliche; quanto alle vedove e nubili, divieto assoluto di sposare abitanti del luogo, ma solo soldati della Francia; espulsione da città e villaggi di tutte le prostitute. Inoltre, i signori che egli avrebbe nominato vassalli nelle terre conquistate non avrebbero potuto imporre tasse su pascoli, pozzi, taglio dei boschi, eccetera senza il suo permesso. Intervenne allora Pietro d'Aragona, legittimo signore di gran parte di quelle terre. Venuto a Tolosa e presi contatti con i suoi vassalli e con i capi catari, chiese a Simone di Montfort che fossero restituiti i feudi ai conti di Tolosa, Foix e Comminges. Avutone un rifiuto, Pietro d'Aragona si appellò direttamente al papa, che accolse le sue richieste, ma gli inviati del conte di Montfort convinsero il papa a revocare la propria decisione. Indignato, Pietro d'Aragona radunò truppe e assediò la città di Muret, occupata dai crociati; ma nella terribile battaglia (migliaia di morti) rimase egli pure ucciso. Per tutto il 1213 e il 1214, Simone di Montfort e suo fratello Guy infierirono devastando le campagne, radendo al suolo castelli, saccheggiando città e villaggi. La spaventosa strage ebbe termine soltanto nel 1215, quando Luigi, figlio del re di Francia, trovandosi libero per la tregua fatta dal padre col re d'Inghilterra, si unì ai crociati, assumendone il comando al posto di Simone di Montfort. Nel novembre dello stesso anno, Innocenzo III adunò il quarto Concilio ecumenico lateranense, per celebrare la vittoria. Prima di tutto fu '
140 definita la questione dei beni feudali sottratti ai signori di Provenza e Linguadoca, con l'ordine a Simone di Montfort di restituire la contea di Tolosa al figlio di Raimondo VI. Ordine a cui Simone non accettò di ubbidire, continuando ad assediare Tolosa, finché nel 1218 verrà mortalmente colpito al capo da una pietra lanciata da una catapulta, manovrata da una donna. Dice una cronaca valdese dell'epoca: "Vene tot dret la peira lai on era mestiere". Al compiacimento per l'estirpazione del catara, il quarto Concilio laterano aggiunse anche la condanna di altre eresie, aprendo così la strada a nuove persecuzioni. Si condannò "il dogma perverso" di Amaury di Bene, lettore all'Università di Parigi, che, accostandosi al pensiero già espresso nel secolo VIII da Giovanni Scoto Eriugena, sosteneva l'unità di tutte le cose in Dio, il che fu considerato una pericolosa forma di panteismo. Si condannarono le dottrine di Gioacchino da Fiore con l'accusa di triteismo, per aver distinto le età del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e per aver definito "blasfemo" il De Unitate et Essentia Trinitatis di Pietro Lombardo, uno dei più noti teologi della scolastica, detto "magister sententiarum", vescovo di Parigi morto nel 1160. Inoltre il Concilio prese importanti decisioni dogmatiche e disciplinari miranti a un più severo controllo dei credenti e dei non credenti. Si definì il dogma della consustanziazione, secondo la dottrina già formulata nel 1125 dal monaco Ildeberto, minacciando la scomunica a chi mettesse in dubbio che, al momento della consacrazione, il pane e il vino dell'eucarestia, pur mantenendo il loro aspetto e le loro qualità intrinseche, si mutano nella sostanza del corpo e sangue di Cristo. Si rese obbligatoria, almeno una volta all'anno, la confessione auricolare e la comunione, con severe condanne per coloro che se ne sottraessero. Si stabilì che le penitenze imposte dal sacerdote dopo la confessione potessero essere sostituite da un'oblazione in denaro alla Chiesa. Si chiese l'impegno delle autorità civili nel perseguitare gli eretici nei propri paesi, stabilendo che i loro beni confiscati sarebbero andati per un terzo a chi li aveva denunciati, un terzo agli inquisitori, e un terzo alle autorità del luogo. Si emanò l'ordine che gli ebrei apponessero nella parte anteriore dei loro vestiti una pezza rotonda, di riconoscimento, e portassero un copricapo a punta. Si affermò verità di fede l'esistenza reale degli angeli e dei demoni e la possibilità di un loro intervento diretto nella vita degli
141 uomini. L'ultima definizione permetteva di chiarire finalmente anche l'esistenza delle streghe, quali strumenti mondani dei demoni, per le loro opere malvagie. La credenza nelle streghe, capaci di operare sulle forze occulte della natura con incantesimi, era già diffusa nel cristianesimo, per eredità sia dell'ebraismo sia della religione pagana, ma ora la stregoneria è definita "la più orribile di tutte le eresie", in quanto patto col diavolo per abbattere il regno di Dio. La leggenda dei sabba notturni delle streghe coi diavoli fu forse suggerita da una distorta interpretazione del consolamentum cataro: l'accettazione dei nuovi fedeli, tra cui anche donne, che s'inginocchiavano a baciare le mani dei perfetti e poi abbracciavano i confratelli, cerimonia che si svolgeva solitamente di notte, per eludere i sospetti. Fatto sta che da questo momento ebbe inizio una feroce repressione di tante poverette, per lo più modeste guaritrici con erbe, con le accuse più infami. Ora, a infierire contro gli eretici si aggiungeva anche Federico II, bisognoso dell'appoggio papale per la sua politica di espansione in Italia. I suoi statuti del 1220 contengono drastiche disposizioni contro: "Catharos, Patarenos, Speronistas, Leonistas [i Poveri di Lione] Arnaldistas, Circoncisos [forse i passagini] et omnes heréticos utriusque sexus" e quattro anni dopo Federico emanò la costituzione che inizia con le parole: "Cum ad conservandam", rivolta espressamente contro i guelfi della Lombardia, in maggioranza patarini, come contromisura alla loro opposizione che stava per concretarsi nella seconda Lega lombarda. In ottemperanza alla suddetta costituzione, nel 1225 a Verona furono arrestati e arsi sul rogo sessanta catari, uomini e donne, tra cui anche membri di famiglie nobili. Tuttavia Federico, venuto a contrasto con la Santa Sede per le sue conquiste nell'Italia meridionale, sarà egli stesso ripetutamente scomunicato, con l'accusa di empietà, di persecuzione della Chiesa, e di eresia, anche per la sua tolleranza, alla propria corte siciliana, di studiosi arabi e persino dell'astrologo e mago Michele Scoto. Come conseguenza, anche la lotta tra i comuni e i grandi feudatari, i primi (guelfi) appoggiati dalla Chiesa, gli altri (ghibellini) appoggiati dall'Impero, fu vista in chiave religiosa, e pertanto cambiarono i rapporti tra ortodossia ed eresia: ora i guelfi, rappresentanti la pars Ecclesiae, erano i buoni, mentre i ghibellini, rappresentanti la
142 pars Imperii, nemica della Chiesa, diventavano i cattivi eretici. Non essendo nemmeno più sicura la fedeltà dei vescovi, appartenenti ai grandi feudatari, papa Gregorio IX nel 1233 sottrasse loro il compito di inquisire gli eretici e lo affidò all'ordine domenicano. Lo stesso anno, i domenicani cominciarono a impegnarsi con zelo nella persecuzione: vennero arsi sul rogo centinaia di catari, e alcuni di essi, soprattutto in Germania, poiché affermavano che il mondo della materia è creazione diabolica, furono condannati come luciferiani, ossia adoratori di Lucifero. strepitoso fu il successo dell'inquisizione anche in Lombardia. Già nel 1233, secondo la relazione di Pietro da Verona, padre provinciale dei domenicani, "una grandissima moltitudine di eretici fu bruciata, e più di centomila si sono convertiti alla fede cattolica: costoro ora esecrano e perseguitano gli eretici che prima difendevano". I domenicani, infatti, sollecitavano l'appoggio delle masse cattoliche, istigandole alla delazione (c'era anche per i delatori una percentuale dei beni degli eretici segnalati, in base alle disposizioni del Concilio laterano del 1215), e alimentando il loro fanatismo con manifestazioni spettacolari. Il 1233 fu chiamato "l'anno dell'alleluja": per iniziativa del domenicano Bartolomeo da Vicenza nacque a Parma l'ordine della Milizia di Gesù Cristo; a Milano, il padre provinciale Pietro da Verona fondò la Confraternita della Vergine, e tosto altre associazioni laiche dello stesso genere pullularono un po' dappertutto. Lunghe colonne di uomini, donne, giovani e fanciulli, scalzi con addosso abiti di penitenza, seguivano in processione ecclesiasti e anche laici, invasati da mistico entusiasmo, con urla di gioia, cantando "Alleluja! Alleluja!". Ce ne ha lasciata una vivace descrizione il cronista francescano Salimbene da Adam da Parma. La Chiesa vide con favore l'esplosione di fanatismo, interpretandola come un proprio trionfo; ma in realtà era anche quella, da parte delle masse, una reazione psicologica all'indifferenza della Chiesa per i loro problemi, e le salvava dall soltanto il fatto che esse seguivano predicatori autorizzati dalle autorità ecclesiastiche. Intanto, pur sotto l'infierire della persecuzione, continuava la contestazione ereticale. Nel 1234, papa Gregorio IX scrisse agli inquisitori della Linguadoca una lettera d'incitamento: Ad capiendas vulpéculas: "Vi esortiamo a catturare le piccole volpi, ossia gli eretici, che si danno da fare per devastare la vigna del Signore, e a eliminarli
143 completamente". Imperversa allora più feroce la lotta degli inquisitori contro catari e valdesi. Si registrano casi pietosi, come quello di un gruppo di donne catare che, con la loro "perfetta", sorella del conte Arnaud de la Mothe, si rifugiano in una grotta e si lasciano morire di fame e di freddo; e anche casi di inumana efferatezza, come a Cambrai, dove il vescovo fa dissotterrare e ardere il cadavere di un certo Guillaume Cornelis che negli anni immediatamente precedenti aveva predicato la virtù della povertà, giungendo a dire: "Una prostituta, se è povera, è più meritevole di un ricco che sia casto e continente". Com'era da attendersi, talvolta gli eretici reagivano, per esasperazione, a simili atrocità, e allora si alternavano le violenze da una parte e dall'altra. Nel 1235, a Tolosa, essendo l'inquisitore Guglielmo Arnaud venuto a conoscenza, in seguito a confessioni estorte con la tortura, dei nomi di eretici ormai defunti, ne fece esumare e gettare sul fuoco i resti. I parenti protestarono e l'inquisitore ordinò il loro arresto. Allora, tutta la popolazione insorse, indignata, e col benestare dei consoli del comune furono cacciati dalla città l'Arnaud e gli altri frati domenicani, trascinandoli per i piedi e per le braccia fuori del convento. Ne fu fatto rapporto a papa Gregorio IX, e questi minacciò di scomunica il conte di Tolosa, Raimondo VII, se non fosse intervenuto a ristabilire l'ordine. Il conte dovette cedere per evitare il peggio. Nel 1239, a Orvieto, fu assalito e percosso in convento l'inquisitore domenicano Ruggero Calcagni, resosi odioso per l'eccessiva severità. Altri due inquisitori furono sorpresi e linciati dalla folla nel 1242, ad Avignonet, presso Tolosa, nel castello che li ospitava. L'anno seguente circa duecento catari, furono cinti di assedio mentre erano riuniti nel cortile del castello di Montségur, che la munificenza del conte Pierre Rogier di Mirepoix aveva loro donato. Presi di mira dal lancio di proiettili, prima di morire essi fecero testamento dei loro averi e una grossa somma fu assegnata al conte Rogier, che riuscì a mettersi in salvo con pochi altri, attraverso un sotterraneo segreto. Ma la vecchia contessa Corba, la marchesa di Lantar, e la figlia di questa con la propria bambina rimasero, per morire coi catari. I superstiti, costretti a uscire, furono arsi con altri compagni di fede catturati nei dintorni (in totale circa trecento persone) su di un immenso rogo, in una località che conserva ancora
144 oggi il nome di Pratz dels crematz. Altri centocinquantasei catari furono giustiziati nel 1245 a Limoux, nonostante avessero rivolto domanda di clemenza al pontefice, dicendosi disposti ad abiurare. A volte, contro la crudeltà della persecuzione, si levava unanime la protesta delle masse popolari, anche cattoliche, inorridite e spaventate. Nelle Fiandre e in Piccardia, nel 1251, si creò addirittura una crociata di contadini e di pastori, detta appunto dei pastorelli (pastoureaux), che, guidati da un ex monaco cistercense di nome Jacob, ma chiamato Maestro d'Ungheria, percorrevano paesi e campagne, accolti con favore dalla popolazione, assaltando conventi, trascinando per le strade i monaci seminudi, tra gli applausi della gente. Dopo qualche mese, la banda, che contava ormai alcune migliaia di membri, fu affrontata e dispersa nei pressi di Bourges. Nello scontro, lo stesso Jacob rimase ucciso. Il 6 aprile del 1252 fu trovato ucciso in un bosco col proprio segretario, il provinciale domenicano della Lombardia Pietro da Verona, proprio la vigilia del giorno da lui fissato come termine perentorio entro cui gli eretici lombardi avrebbero dovuto presentarsi per far atto di abiura e di sottomissione alla Chiesa. Perciò la sua morte fu attribuita a un'imboscata di eretici, ed egli sarà più tardi beatificato col nome di Pietro martire. Preoccupato per questo insorgere di ribellioni, nel maggio dello stesso anno, Innocenzo IV prese una gravissima decisione: con la bolla Ad extirpandam autorizzò il ricorso alla tortura (già tuttavia largamente applicata dagli inquisitori), ma prescrisse che fosse eseguita materialmente soltanto da pubblici ufficiali (il braccio secolare), essendo proibito ai sacerdoti, dai canoni ecclesiastici, il ricorso alla violenza e lo spargimento di sangue. Ma, data la necessità degli inquisitori di presenziare alle torture, per estorcere le confessioni degli eretici, quattro anni più tardi Alessandro IV li libererà dal divieto imposto dalla bolla di Innocenzo, a patto che poi si assolvessero l'un l'altro per l'infrazione fatta ai canoni. Purtroppo, l'attività inquisitoriale era divenuta anche fonte di lucro per molte persone: gli inquisitori, i pubblici ufficiali, i cancellieri, le guardie, i torturatori, i taglialegna che fornivano il materiale per i roghi, i delatori, cui spettava un premio speciale e una parte dei beni sequestrati agli eretici. Bastava un sospetto, un'accusa anche falsa,
145 per mettere alla tortura persone magari innocenti. È eloquente, a questo riguardo, l'appello che sarà rivolto a papa Onorio IV, nel 1285 dai consoli di Carcassonne. [Vedi Documenti n. 6.] DOCUMENTI.
1. I catari di Périgueux (1147).
Io, monaco Eriberto, desidero che sia noto a tutti i cristiani quanto debbono agire accortamente con gli pseudoprofeti che cercano di sovvertire in questi tempi la cristianità. Sono infatti apparsi nella regione di Périgueux numerosi eretici, i quali affermano di seguire la vita apostolica. Essi non mangiano carne, non bevono vino, se non in piccola misura ogni tre giorni. Fanno quotidianamente centinaia di genuflessioni, ma non accettano denaro in elemosina. Invece di dire soltanto "Gloria al Padre", essi aggiungono 140 L "perché tuo è il regno, e tuo il potere su tutta la creazione, in eterno, amen" parole che non sono nella Scrittura. Essi sostengono che le opere di carità sono inutili, perché nessuno dovrebbe possedere ricchezze con cui fare elemosina. Considerano di nessun valore la messa e asseriscono che il sacramento dell'eucarestia è unicamente la consumazione di un pezzo di pane. Se qualcuno di loro celebra la messa, per ingannare i fedeli, non recita il canone e non partecipa al sacramento, ma getta l'ostia dietro l'altare o la cela dentro il messale. Essi non adorano la croce né l'immagine del Signore, anzi trattengono coloro che vogliono adorarle, per esempio, pronunciando davanti all'immagine del Signore queste parole: "Come sono meschini coloro che ti adorano!", e recitando il Salmo "Gli idoli dei Gentili, ecc". Già moltissime persone si sono lasciate sedurre da queste falsità, anche tra i nobili, che hanno abbandonato i loro averi e il loro stato, e persino tra i membri del clero, preti, monaci e suore. Non c'è tra costoro nessuno così incolto che, se si mette al loro seguito, non possa divenire nello spazio di otto giorni tanto abile da non lasciarsi confondere né in discussioni né in citazioni. Non c'è alcun mezzo per isolarli dagli altri, perché, anche se vengono messi in prigione, non possono esservi tenuti da nessun vincolo: il diavolo stesso scioglie le loro catene. Essi compiono pure grandi prodigi: anche se, legati da manette di ferro, vengono
146 ficcati entro una botte capovolta, e tenuti sotto stretta sorveglianza, l'indomani non sono più visti, essendosi liberati da soli. [Eriberto, Epistola de haereticis Petragoricis, in J.P. Migne, Patrologia latina, vol. CLXXXI.] 2. Il Vangelo dei bogo, III (Libro di Giovanni evangelista).
Io, Giovanni, vostro fratello, e partecipe della vostra tribolazione, ma che sarò anche partecipe della gloria dei cieli, quando ero reclinato sul petto del nostro Signore Gesù Cristo, gli domandai: "Signore, prima che Satana cadesse, in che considerazione era presso tuo Padre?". Egli mi rispose: "In tanta considerazione che comandava le potenze del cielo.... Ma egli vide la gloria di Colui che muove i cieli e pensò di collocare la propria sede sopra le nubi, desiderando essere simile all'Altissimo... "Cacciato dalla sede di Dio e dall'ordinamento dei cieli, Satana venne giù sotto questo firmamento, e comandò alla terra di produrre ogni genere di animali che si nutrono, e tutti gli esseri che strisciano, e gli alberi e le erbe, e comandò al mare di produrre pesci, e volatili al cielo. Inoltre egli prese ancora una altra decisione, e creò l'uomo a sua somiglianza, comandando a un angelo del terzo cielo, di quelli che gli erano stati favorevoli, di entrare in quel corpo di fango. Poi ne prese un poco, e fece un altro corpo, in forma di donna, e comandò a un angelo del secondo cielo di entrare nel corpo della donna. "Ma gli angeli si lamentarono, quando videro attorno a sé un corpo mortale, mentre essi erano differenti per natura. Allora l'artefice del male meditò nella sua mente la creazione di un paradiso terrestre e vi portò dentro l'uomo e la donna. Poi, fatto portare un albero, lo piantò nel mezzo del giardino, e così l'astuto demonio nascose il suo stratagemma, perché essi non ne conoscevano l'inganno. Ed egli entrò e disse loro: "Di ogni frutto che è nel paradiso, mangiatene pure; ma del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, non ne mangiate!". "Però il diavolo entrò in un astuto serpente e sedusse l'angelo che era dentro la forma della donna, e sfogò la sua lussuria con Eva, sotto l'aspetto di serpente. Perciò saranno chiamati figli del diavolo, o figli del serpente, quelli che ha creato la lussuria del diavolo, loro padre, fino alla fine del mondo. E per di più il diavolo versò sopra l'angelo che era in Adamo il veleno della sua lussuria, e questa ha generato i figli del serpente, o i figli del
147 diavolo, fino alla fine del mondo." Udito ciò, io, Giovanni, domandai al Signore: "Come mai gli uomini dicono che Adamo ed Eva erano stati creati da Dio, e posti nel paradiso per osservare i comandamenti del Padre, e che erano esenti dalla morte?". E il Signore mi rispose: "Nella loro fallacia, gli uomini stoltamente affermano che mio padre ha creato i corpi con il fango; perché egli, per mezzo dello Spirito santo, ha creato soltanto le potenze dei cieli"... E ancora io, Giovanni, domandai al Signore: "Quando comincia un uomo ad avere un'anima nel suo corpo di carne?". E il Signore mi rispose: "Gli angeli che sono caduti entrano nei corpi delle donne e ricevono la carne per mezzo del piacere carnale: così c'è uno spirito nato dallo spirito e c'è una carne nata dalla carne, e in tal modo il regno di Satana è assicurato in questo mondo, fra tutte le genti"... "Dal momento in cui diavolo è decaduto dalla considerazione del Padre, egli si è collocato sopra le nubi e ha mandato i suoi ministri in mezzo agli uomini, da Adamo ad Enoch, suo seguace. Egli ha sollevato Enoch fino al firmamento e gli ha mostrato la sua divinità, poi gli ha fatto avere penna e inchiostro, e quello si è messo a sedere e ha scritto sessantasette libri, e li ha portati giù sulla terra, e ha insegnato l'usanza dei sacrifici, e ha diffuso menzognere rivelazioni di misteri, celando così agli uomini il Regno dei cieli. "Allora mio Padre mandò me nel mondo, perché insegnassi questa verità agli uomini ed essi potessero conoscere i malvagi disegni del diavolo... Ma quando mio Padre deliberò di mandarmi, inviò prima di me un angelo di nome Maria, per ricevermi. E quando io scesi entrai in lui attraverso un orecchio e venni fuori attraverso un orecchio. "Ma Satana, il principe di questo mondo, conobbe che io ero venuto, per cercare e salvare quelli che erano perduti, e mandò un suo messaggiero, cioè il profeta Elia, che battezzava con l'acqua ed era chiamato Giovanni Battista." Io domandai al Signore: "Perché gli uomini ricevono tutti il battesimo di Giovanni e per nulla il tuo?". Il Signore rispose: "Perché le loro intenzioni sono cattive, e così non pervengono alla luce. I discepoli di Giovanni, infatti, si sposano e sono sposati, mentre i miei discepoli né si sposano né sono sposati, ma sono come gli angeli di Dio in cielo"... Poi io domandai al Signore, riguardo al giorno del giudizio: "Quale sarà il segno della tua venuta?". Ed egli rispose, dicendomi: "Quando sarà completato il numero dei giusti,
148 cioè il numero dei giusti che sono morti e che vengono ricompensati, allora Satana, con grande rabbia, sarà cacciato fuori e farà guerra contro i giusti, e questi invocheranno ad alta voce il Signore. E immediatamente il Signore comanderà a un angelo di soffiare nella tromba. E allora il sole si oscurerà, la luna non manderà più luce, e le stelle cadranno". [Tribunale dell'inquisizione di Carcassonne, "Interrogatio Johannis Apostolis", in M. Craveri, / Vangeli apocrifi, pp. 572 sgg.j 3. Durand de Huesca.
A Durand de Huesca e ai suoi fratelli, che sono rientrati nell'unità ecclesiastica. Abbiamo ricevuto una grave lagnanza dai nostri fratelli, l'arcivescovo di Narbonne e i vescovi di Béziers, di Uzès, di Nîmes e di Carcassonne, che voi, vantandovi più di quanto è lecito del nostro favore, vi mostrate troppo insolenti verso di loro, tanto che sotto i loro stessi occhi avete portato in chiesa alcuni valdesi, eretici che non si erano ancora conciliati con l'unità ecclesiastica, facendoli essere con voi presenti alla consacrazione del corpo del Signore, e che avete partecipato con loro alla funzione. Vi accusano anche di aver accolto nella vostra compagnia certi monaci che hanno abbandonato il monastero e altri che hanno ripudiato la loro vocazione. Aggiungono, che voi non avete assolutamente cambiato i costumi della superstizione con cui avevate in precedenza causato scandalo tra i cattolici. Dicono, inoltre, che a motivo degli insegnamenti dottrinali che impartite nelle vostre scuole ai vostri confratelli e simpatizzanti, molti si sono allontanati dalla Chiesa e non vogliono più assistere agli uffici divini e alla predicazione dei sacerdoti. E mi riferiscono pure che i chierici che si sono a voi associati, anche se sono muniti dei sacri ordini, non si curano di officiare secondo le norme canoniche. E, di più, che alcuni di voi asseriscono che nessuna autorità secolare può decretare un giudizio di condanna a morte, senza commettere peccato. Ora, quando abbiamo udito tutto ciò, siamo stati toccati al cuore da grande tristezza, temendo non poco che ciò che vi abbiamo concesso a fin di bene non si converta in male. Perciò, prima che il vostro errore non ne provochi altri peggiori, abbiamo deciso di sollecitare e ammonire il vostro zelo, invitandovi,
149 con questa lettera apostolica, a ricordare la legge divina, la quale prescrive che chi sia stato espulso dalla città perché contaminato dalla lebbra non può essere riammesso se non per decisione di un sacerdote, e perciò ad evitare coloro che, per la contaminazione dell'eretica pravità, sono stati espulsi dalla Chiesa, finché non siano riammessi per decisione dell'autorità pontificia, e a non disprezzare, agendo diversamente, il giudizio evangelico ed apostolico, che chi tocca un lebbroso diventa egli pure lebbroso. Sebbene la fede in Dio non consista nell'abito esteriore, pare che dal modo di vestire che ancora conservate, nasca scandalo. Vi avvisiamo perciò, e vi ammoniamo e vi esortiamo, a non seguire più la loro usanza di mettere ai piedi sandali aperti, ma che dimostriate anche esteriormente di esservi allontanati dagli eretici. Ammonite saggiamente i vostri amici e fratelli ad andare spesso in chiesa a udire la voce di Dio, specialmente nei giorni comandati, e a non mostrare disprezzo del sacro tempio e degli uffici sacerdotali. I vostri chierici non rifiutino di celebrare nelle chiese, secondo le norme canoniche, affinché non debbano violare gli ordini clericali. Quanto a ciò che segue - che è un grave errore - nessuno di voi si attenti sostenerlo, che do è il potere temporale non può emettere giudizi di morte, perché così facendo cadreste in peccato mortale: non è infatti il giudice, ma la legge, che condanna a morte chi agisce in modo da meritare punizione. Viterbo, 5 luglio 1209 [Innocenzo) III, Lettere, in J. P. Migne, Patrologia latina, vol. CCXVI, pp. 75-77.] 4. Gioacchino da Fiore.
Tutti i sacri simboli, contenuti nel libro della Rivelazione di Dio, ci convincono dell'esistenza di tre età: la prima età è stata quella durante la quale noi fummo sotto il dominio della Legge; la seconda età è questa, durante la quale noi siamo sotto il dominio della grazia, la terza età sarà quella che noi attendiamo da un giorno all'altro, nella quale ridonderà su di noi una più ampia e più generosa grazia. Nella prima età, si è vissuti di "conoscenza", la seconda si svolge sotto la guida della "sapienza", nella terza si effonderà la plenitudine dell'"amore". Nella prima età ha regnato la servitù di schiavi, nella seconda
150 la servitù di figli, la terza darà inizio alla libertà. La prima età è trascorsa nella tribolazione, la seconda nell'azione, la terza trascorrerà nella contemplazione. La prima è stata avvolta nell'atmosfera del timore, la seconda è avvolta in quella della fede, la terza lo sarà dalla carità. La prima è stata l'età dei servi, la seconda è la età dei figli, la terza sarà l'età dei fratelli. La prima è stata la condizione dei vecchi, la seconda è quella dei giovani, la terza lo sarà dei fanciulli. La prima ha tremato sotto l'incerto chiarore delle stelle, la seconda contempla la luce dell'aurora, nella terza sfolgorerà il pieno giorno. La prima è trascorsa nell'inverno, la seconda ha conosciuto il palpitare della primavera, la terza vedrà il rigoglio dell'estate. La prima non ha prodotto che ortiche, la seconda ha dato le rose, ma solo alla terza appartengono i gigli- La prima ha visto gli steli, la seconda lo spuntare delle spighe, la terza raccoglierà il frumento maturo. La prima ha avuto l'acqua, la seconda ha prodotto il vino, la terza spremerà l'olio. La prima è stata tempo si settuagesima, la seconda di quaresima, la terza scioglierà le campane di Pasqua. In conclusione: la prima età è stata il regno del Padre, che è il creatore dell'universo, la seconda è il regno del Figlio, che si è umiliato fino ad assumere il nostro corpo di fango, la terza sarà il regno dello Spirito Santo, del quale dice l'Apostolo: "Dove è lo Spirito del Signore, ivi è la libertà". La prima età è simboleggiata dalle tre settimane che precedono il digiuno quaresimale, la seconda dalla stessa quaresima, la terza dal tempo solenne della Pasqua. Per cui, se interpretiamo convenientemente il mistero del velo interposto tra i fedeli e l'altare, comprendiamo come non sia senza motivo che nell'ultimo giorno di quaresima, quando si consacra il crisma, quel velo sia tolto di mezzo, di modo che i fedeli non vedano più l'altare quasi attraverso uno specchio, ma direttamente. Il che vuol dire che, in questo nostro tempo, occorre togliere il velo dell'allegoria dal cuore del popolo: e questo accadrà allorché sarà infranto il sesto sigillo, e il sesto angelo discenderà dal cielo con in mano il libro spalancato. Allora sarà tempo di gioia, fino al giorno solenne della consumazione finale. [Gioacchino da Fiore, Liber concordiae Novi et Veteris Testamenti, lib. V, cap. 84.] 5. Distruzione di Béziers (1209).
151 Béziers era una città molto importante, ma interamente contaminata dal veleno dell'eresia: non solo tutti gli abitanti erano eretici, ma erano anche ladri, disonesti e adulteri. Quando i nostri arrivarono sotto le mura di Béziers, venne loro incontro il vescovo della città, Renaud di Montpellier. I nostri dichiararono: "Siamo venuti per snidare gli eretici: chiediamo agli abitanti cattolici, se ce ne sono, di consegnarci gli eretici, di cui il venerabile vescovo darà i nomi, avendone egli fatta una lista. In caso di impossibilità, i cattolici escano dalla città e lascino gli eretici, in modo che non debbano condividere la loro sorte e perire insieme ad essi". Quando il vescovo, portavoce dei crociati, trasmise questo messaggio agli abitanti di Béziers, essi rifiutarono tali condizioni: ribellandosi a Dio e alla Chiesa, dichiararono che preferivano morire eretici che vivere cristiani. Alcuni di loro tentarono una sortita, lanciando frecce contro i nostri, e ne uccisero uno. Indignati, a quello spettacolo, i serventi dei crociati, senza attendere gli ordini, si gettarono all'assalto della città. Appena entrati massacrarono quasi tutta la popolazione, circa ventimila persone, uomini, donne e bambini, e incendiarono le case. Béziers fu presa il giorno di santa Maria Maddalena. O suprema giustizia della Provvidenza! Gli eretici pretendono che Maria Maddalena fosse stata la concubina di Gesù Cristo: è dunque a giusto titolo che questi cani furono presi e massacrati proprio in quel giorno. [Pierre de Vaux, Historia Albigensis, ff. 88-91, in J.P. Migne, Patrologia latina, vol. CCXXVI, 91-92.1 6. Appello dei consoli di Carcassonne a Onorio IV.
Dei cittadini di nobile origine e cattolici, sui quali non pesa alcun sospetto di eresia, vengono inaspettatamente incarcerati e solo sugli strumenti di tortura dell'Inquisizione, terribili e insopportabili, essi apprendono, appena in tempo per farne la confessione, ciò che il giudice vuole che essi dicano. Quando si risparmia loro la tortura è solo perché sono stati indotti a confessare qualunque cosa, promettendo un addolcimento di "penitenza" il giorno della loro condanna. L'essenziale è che parlino, che si accusino da soli! Che accusino altri, che essi sospettano, non importa di che cosa! La falsa
152 testimonianza è un male minore, e molti preferiscono perdere il prossimo, magari dannando se stessi, piuttosto che rimanere nelle mani di gente perversa che li tortura... C'è una specie di gradazione nelle torture che vengono inflitte. Gli uni languiscono in piccole celle nelle quali non penetra la luce del giorno e non entra l'aria dall'esterno. Altri vengono caricati di catene, fissate a travi, entro tuguri così stretti che non riescono a tenersi ritti né risparmiarsi l'umiliazione di indicibili sozzure. Il poco cibo, parsimoniosamente distribuito, il "pane del dolore e della tribolazione" concesso loro a lunghi intervalli, impedisce esattamente a questi sventurati di morire di fame. I più ostinati vengono stesi sul cavalletto, e quelli che non rendono l'anima sotto questo supplizio, spesso non possono però evitare le mutilazioni. Nella prigione non si odono che gemiti continui, grida di dolore, pianti disperati e stridore di denti. Ci vuole un coraggio sovrumano per resistere a lungo a questo barbaro trattamento, e si preferisce esserne sollevati parlando, costi quel che costi. I genitori di un infelice, che era in sospetto di essere morto come eretico, si videro frustrati dal diritto e dalla consolazione di riabilitare la sua memoria, si presentarono all'inquisitore per produrre la difesa del defunto. Jean Galand li accolse con un terribile sguardo da bestia feroce (.cummala et leonina facie), li spaventò con minacce, e li congedò prendendo buona nota dei loro nomi. Nessuno osò più far parola del defunto e della sua causa ... Legittimamente atterriti dal pericolo che correrebbero a contrattaccare una simile persona, i giureconsulti e gli uomini di legge rifiutano il loro patrocinio anche per le cause più giuste. L'iniquità ha buon gioco, la legge e l'ortodossia sono perseguitate. La città di Carcassonne si è fatta una trista reputazione. I consoli stessi sono vittime di vere diffamazioni, e il deplorevole risultato di questo regime di oppressione è lo scoraggiamento che coglie i migliori cittadini, e il dubbio che nasce in loro anche a riguardo della religione. Avviene una continua emigrazione in massa fuori dei confini del regno di Francia, ed a breve scadenza, se il Signore non ci mette mano, sarà lo spopolamento e la rovina totale. ["Appello dei Consoli di Carcassonne al papa", redatto dal notaio Barthlémy Vézian (1285), in R. Nelli, La vie quotidienne des Cathares du Languedoc au XIII e siècle, pp.
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V. L'ATTESA DELL'ANTICRISTO E DEL REGNO DELLO SPIRITO SANTO (SEC. XIIIXIV).
IL fanatismo dell'anno 1260.
Secondo i calcoli di Gioacchino da Fiore le quarantadue generazioni di trent'anni ciascuna, corrispondenti all'età del Figlio, dopo le quali sarebbe avvenuta la lotta finale con l'Anticristo e sarebbe cominciato il regno dello Spirito Santo, dovevano scadere nel 1260: "Cum fuerint completi anni mille ducenti et decies seni post partum Virginis almae, tune Antichristus nascetur demone plenus". All'approssimarsi di tale data, coloro che conoscevano la predizione di Gioacchino andavano scrutando i segni dell'inizio di un nuovo evo. Già cinque anni prima il francescano Gerardo da Borgo San Donnino aveva rilanciato la profezia, pubblicando una Concordia Novi et Veteris Testamenti, con un proprio commento, il Liber introduetorius ad Evangelium aeternum, che inseriva il gioachimismo nel francescanesimo. Sosteneva infatti che san Francesco era stato l'angelo annunciatore della fine, di cui parla l'Apocalisse, 1'"angelus qui habet signum Dei vivi [le stigmate]". Gerardo fu sospeso dall'ufficio di lettore, predicatore e confessore, e imprigionato a vita gli fu negata persino la sepoltura religiosa. Per analoghe simpatie verso il gioachimismo, nel 1257, papa Alessandro IV aveva costretto il generale dei francescani, Giovanni da Parma, a dare le dimissioni. Ma soffocando le voci di questi profeti non si era fatta cessare l'attesa di un prossimo giudizio universale da parte delle masse. Proprio alla vigilia dell'anno fatale, nel 1259, parvero indicazioni sicure un'epidemia di pestilenza e la contemporanea avanzata dei tartari fino al centro dell'Europa, che lo stesso filosofo inglese Ruggero Bacone (Roger Bacone era convinto venissero a sostegno dell'Anticristo, e contro i quali, pochi mesi dopo, papa Alessandro IV invitò i principi cristiani a condurre una crociata. Il fanatismo religioso scoppiò clamorosamente nel 1260 con un movimento di devozione penitenziale, di cui non si era mai visto nulla di simile. Dapprima a Perugia, per iniziativa dell'eremita Ranieri
154 Fasani, poi in tutte le altre città d'Italia, e contemporaneamente in Germania, in Ungheria, in Polonia, le vie cittadine cominciarono a essere percorse da processioni di uomini di ogni età, nudi fino alla cintola, che, invocando a gran voce il perdono di Dio, tra gemiti e lacrime si flagellavano con uno staffile, così violentemente da farne scorrere il sangue. Flagellanti o disciplinati (da disciplina, nome dello staffile) avanzavano a centinaia, talvolta a migliaia, anche di notte, con ceri accesi, ed erano preceduti da sacerdoti che portavano le croci e gli stendardi, fino a prostrarsi davanti agli altari. Altri si ritiravano, per far penitenza in attesa dell'ultimo giorno, nel folto dei boschi indossando ruvidi sacchi, e perciò erano detti boscaioli o saccati. [Vedi Documenti n. 1.] Ma ben presto, soprattutto in Germania e nell'Europa centrale, i flagellanti assunsero un carattere anticlericale e antisociale, richiamandosi a una lettera piovuta dal cielo che legittimava la loro autonomia dalla Chiesa e dalle autorità statali. La Chiesa e i principi si coalizzeranno per neutralizzare con la forza quegli elementi perturbatori. Innocue, invece, perché sottomesse al magistero della Chiesa, furono diverse altre comunità penitenziali, tra cui la confraternita dello Spirito Santo, fondata dall'eremita Pietro di Morrone (che trent'anni più tardi diverrà papa, col nome di Celestino V). Sempre nel 1260, l'attesa apocalittica produsse a Milano una curiosa manifestazione femminista. Una certa Guglielma o Guglielmina, che diceva di essere la vedova di Ottokar I re di Boemia, venerata per la sua devozione e per le guarigioni che compiva da un buon numero di fedeli, i quali la consideravano "incarnazione dello Spirito Santo", si mise a profetare che sarebbe presto incominciata un'era nuova, in cui non più gli uomini ma le donne sarebbero state le vicarie di Cristo. Quando morirà, nel 1281, i frati cistercensi di Chiaravalle le daranno sepoltura nella loro abbazia, come a una santa. Ma i suoi seguaci cadranno nell'eresia e come tali saranno perseguitati. Pure ispirati dalle idee gioachimiste, ma più che per l'attesa di un prossimo avvento dello Spirito Santo, per la persuasione di poterne già vivere gli effetti, erano i Fratelli del libero spirito, fondati forse nel 1260 stesso, o poco prima, dal teologo e mistico Ortlieb, di Strasburgo. Essi pensavano che l'età dello Spirito Santo, fosse già cominciata per quelli che, come loro, riuscivano a liberare l'anima da ogni legame con la materia, vivendo in mistica sottomissione allo spirito
155 di Dio, senza preoccuparsi delle lusinghe del mondo, convinti che la grazia illuminante bastasse a preservarli dal peccato. E perciò - essi affermavano - non erano necessari né i sacramenti né gli atti esteriori del culto. Un vago accostamento al panteismo di Amalrico di Bena, teologo francese, che era stato condannato per eresia nel 1207 (Dio è in tutte le cose, anche nell'uomo, e bisogna abbandonarsi totalmente a Lui, affinché Egli agisca in noi) meritò ai Fratelli del libero spirito anche il nome di amalriciani. Ma i motivi della persecuzione cui saranno ben presto sottoposti sono da ricercare piuttosto nel loro rifiuto della Chiesa come mediatrice e nella solita distorta interpretazione sessuale data alla loro setta, come a quasi tutte le altre sette eretiche: se essi dichiarano di non poter essere contaminati da alcun peccato argomentavano gli inquisitori - questo significa che sono convinti di potersi permettere qualunque sozzura. "Gli stupri, gli adulteri e gli altri piaceri del corpo" scrive il loro contemporaneo Vincenzo di Beauvais "essi li commettono con il pretesto della virtù della carità, e promettono alle donne con le quali peccano l'impunità dal peccato." E il francescano spagnolo Alvarez Pelayo li chiamerà "fornicatores ad libitum". Il panteismo di Amalrico era, lontanamente, una derivazione dal platonismo, fino allora imperante nella Scolastica. Ma già all'Università di Parigi si stava introducendo l'aristotelismo e in quella di Oxford nasceva la scienza, come attività autonoma dalla filosofia e dalla teologia. A Parigi insegnava Sigieri di Brabante, esponendo il pensiero di Aristotele (che cominciava allora a essere conosciuto grazie al commento delle sue opere fatto dall'arabo Averroè) anche nei punti discordanti dalla teologia cristiana, mentre poco prima il famoso Tommaso d'Aquino aveva composto la prima parte della Summa theologiae servendosi liberamente del filosofo greco per le proprie dimostrazioni teologiche, ma alterandone e falsificandone la dottrina. Dalle lezioni di Sigieri di Brabante e degli altri averroisti si deduceva, in accordo con Aristotele, una dottrina pericolosamente eretica: l'eternità del mondo, non creato da Dio, la negazione di un intervento di Dio nella vita quotidiana degli uomini, il riconoscimento di un determinismo nella natura. A Oxford, intanto, godeva grande fama il francescano Ruggero Bacone,
156 soprannominato Doctor mirabilis, studioso tra i più acuti del tempo, anch'egli commentatore di Aristotele, soprattutto per le opere a carattere scientifico, e quindi iniziatore della scienza sperimentale, che metteva in discussione - e assai spesso dimostrava falsi - i miti religiosi e le ipotesi della teologia sulla natura e sull'uomo. Ma più che questi casi isolati di eresie erudite, che potevano avere al massimo qualche influenza su di un ristretto numero di intellettuali, ciò che preoccupava la Chiesa era il dilagare ininterrotto, tra le masse, di esperienze apocalittiche e pauperistiche, ispirate al gioachimismo. L'eredità più autentica e più fedele della predicazione del monaco calabrese fu raccolta, nel corso dell'anno 1260, da un giovane laico, di nome Gerardo Segarelli. Vistosi rifiutare dal convento francescano di Parma, nel quale voleva entrare come frate, Segarelli si improvvisò egli stesso monaco e, vestito da penitente, con una tunica ruvida, un mantello bianco tessuto di filo grosso, il bordone alla cinta, i sandali ai piedi nudi, con la barba incolta e i capelli spioventi, egli si diede a predicare, riprendendo gli argomenti di Gioacchino da Fiore, privilegiando la povertà quale stato di perfezione, e negando il potere pontificio, con l'asserzione che, da quando papa Silvestro I (315-325) aveva accettato la donazione di Costantino, la Chiesa era caduta nelle mani di Satana. I discepoli, di ambo i sessi, che lo seguirono in gran numero, presero il nome di apostolici, o più esattamente di fratres et sórores apostolicae vitae. All'atto dell'affiliazione essi si spogliavano nudi, alla presenza di tutti, come aveva fatto san Francesco d'Assisi, per sottolineare il loro matrimonio con la povertà. Questo rito simbolico, e soprattutto il fatto che esso fosse eseguito anche dalle donne, furono motivi più che sufficienti a creare sul conto degli apostolici accuse infamanti di immoralità. Sarà il francescano Salimbene da Parma, che era stato in precedenza gioachimita e animatore dei flagellanti, ma distaccatosi in seguito da questi movimenti, il primo a raccogliere nella sua Chronica le calunnie rivolte agli apostolici e particolarmente al loro capo. [Vedi Documenti n. 2.] Al Segarelli, più volte arrestato e imprigionato, dopo che già nel 1294 erano stati arsi sul rogo quattro suoi seguaci (due uomini e due donne), successe poi, alla guida degli apostolici, l'ex francescano Dolcino di Ossola (Novara), il quale seppe dare alla setta una migliore costituzione comunitaria, con l'impegno della fratellanza, della
157 comunione dei beni, dell'assistenza ai poveri. Per influenza della predicazione gioachimita, anche Dolcino divideva la storia dell'umanità nei seguenti periodi: fino a Cristo aveva fatto da guida la virtù dei profeti e dei patriarchi; da Cristo a papa Silvestro, la virtù degli apostoli e dei Padri della Chiesa; poi era cominciata la corruzione (la donazione del potere da parte di Costantino a papa Silvestro): ora doveva scomparire la Chiesa come istituzione e sarebbe avvenuta la rinascita del cristianesimo, perché la vita di tutta l'umanità sarebbe stata appunto come quella degli attuali apostolici. Naturalmente la condanna della Chiesa per la sua corruzione comportava il rifiuto di ubbidienza alla sua gerarchia, l'abolizione dei suoi riti e dei suoi sacramenti. Gli apostolici non approvavano nemmeno i frati minori di più stretta osservanza, dicendo che i primi apostoli di Gesù non erano certamente vissuti in convento e che non con l'istituzione degli ordini mendicanti era cominciata la nuova età dello Spirito Santo, ma che, piuttosto, con loro, terminava l'età precedente, essendo essi compromessi col mondo e corrotti non meno del clero secolare. Gli apostolici invece andavano di paese in paese, chiedendo l'elemosina e predicando, come gli apostoli che Gesù aveva incaricato di diffondere il Vangelo. Non vestivano di scuro, come i frati minori, ma di bianco, non si tagliavano la barba e i capelli, ma li portavano lunghi e incolti. A differenza degli altri eretici contemporanei, non attribuivano alcuna importanza al celibato e alla castità, e nei loro pellegrinaggi non impedivano che le donne li accompagnassero come - a quando risulta dalle Lettere di san Paolo - era stata usanza degli apostoli di Gesù, anzi parecchi di loro portavano con sé la moglie e i figli. Lo stesso loro capo, fra Dolcino, convertita a Trento un'educanda del convento delle umiliate, di nome Margherita (figlia della contessa Oderica di Arco), e fattala sua sposa, l'ebbe sempre al proprio fianco, intrepida e amorevole compagna. Spirituali e beghini.
La diffidenza degli apostolici nei riguardi degli ordini mendicanti non era ingiustificata. I domenicani, fin dalla fondazione, non avevano
158 mai rifiutato benefici e donazioni, e tra i francescani, quelli che volevano stare fedeli alla regola di povertà dettata da Francesco ebbero sempre a patire amari disinganni e finirono coll'essere travolti dall'opposizione degli stessi confratelli, i "conventuali", che si erano lasciati indurre ad allentare la severità della regola. Già alla morte del santo, il primo generale dell'ordine, frate Elia L'attesa dell'Anticristo e del regno dello Spirito Santo a Cortona, ne aveva tradito lo spirito, erigendo in suo onore, nella città di Assisi, una basilica che per mole e splendore vinceva tutte le altre del suo tempo. Ivi Cimabue dipinse gli affreschi che segnarono l'inizio di un'arte nuova, e Giotto superò il maestro, raffigurando però il santo poverello secondo l'immagine cara alla Chiesa. Ma quella meraviglia d'arte non sedusse i fraticelli, che rimproverarono a frate Elia di aver violato il divieto di accettare lasciti e doni e di profondere il denaro delle elemosine nelle spese superflue. Per il momento, tuttavia, i dissidi interni non erano usciti dalle mura dei conventi. Nel 1256 un eminente professore dell'Università di Parigi, Guglielmo di Saint-Amour, criticò francescani e domenicani nel suo Tractatus de periculis novissimorum temporum, affermando che non esiste alcuna prova che Gesù e gli apostoli fossero vissuti di elemosina, che comunque l'ostentazione di povertà da parte degli ordini mendicanti era una pura ipocrisia, ed era un flagello sociale il fatto che tanti giovani, validi e gagliardi, vivessero da parassiti, mantenendosi con le offerte dei fedeli anziché lavorare. A rispondergli con irritazione furono proprio due di quelli che più si erano distaccati dall'umiltà e semplicità di vita, per divenire acclamati insegnanti universitari, circondati di ogni agio: il francescano Bonaventura da Bagnoregio e il domenicano Tommaso d'Aquino. Dietro loro denuncia, papa Alessandro IV impose silenzio a Guglielmo di Saint-Amour e ordinò che il suo libro fosse dato alle fiamme. L'irritazione degli ordini mendicanti è ben comprensibile se si tiene conto che il loro finto pauperismo era maggiormente rimarcato dall'esistenza di tante altre comunità che osservavano davvero la regola della povertà assoluta. A queste comunità, sempre viste con sospetto, diede un grave colpo, definitivamente, papa Gregorio X nel quattordicesimo concilio ecumenico, tenutosi a Lione dal maggio al luglio del 1274. L'articolo 23 delle deliberazioni conciliari diceva testualmente: "Il Concilio
159 generale del 1235 aveva vietato con saggezza la troppo grande varietà di ordini religiosi, per timore di confusione. Ma le istanze inopportune li hanno ancora moltiplicati. E, inoltre, la temerità presuntuosa di molti ordini, non approvati, particolarmente di mendicanti, ha trapassato ogni limite. È dunque fatto divieto di inventare nuovi ordini e di portarne l'abito. Tutti gli ordini mendicanti immaginati dopo il Concilio generale e non confermati dalla Santa Sede sono pertanto soppressi; quelli confermati non potranno ricevere nuovi professi e le loro proprietà sono riservate alla Santa Sede per il soccorso di Terrasanta". Lo stesso articolo, però, concludeva facendo un'eccezione a favore, appunto, dei domenicani e dei frane "Ai frati predicatori e ai minori è data autorizzazione di ricevere donazioni e lasciti". Questo privilegio, che si aggiungeva alla concessione già fatta dalla bolla di papa Innocenzo III ai primi francescani di possedere beni "per le elemosine" snaturava del tutto la regola dettata da san Francesco. Il contrasto tra gli intransigenti, rimasti fedeli alla volontà del fondatore dell'ordine, e i conventuali divenne inconciliabile. ' In molti monasteri vi furono frati che rifiutarono di accettare le nuove disposizioni del pontefice, e la loro disubbidienza fu piegata solo dopo severe penitenze. Alcuni però, e tra i primi fra Liberato delle Marche e quattro suoi confratelli, resistettero alle minacce e i superiori li incarcerarono a vita. Ma il loro esempio di fermezza fu ben presto imitato qua e là da altri francescani, che preferirono abbandonare i monasteri, piuttosto di venir meno al voto di povertà. Così la Chiesa doveva ora combattere l su diversi fronti: oltre agli averroisti e ai seguaci di Ruggero Bacone nelle università, ancora e sempre i catari e gli albigesi, i gioachimiti, gli apostolici, la setta del libero spirito, a cui si aggiungevano i francescani dissidenti. E dopo il Concilio di Lione del 1274 che definiva il dogma dellioque (lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio), un gruppo di dissidenti, che si chiamarono esicasti (i silenziosi), rifiutò quel dogma, pur continuando per ubbidienza a rimanere nella Chiesa. La persecuzione fu severa soprattutto con gli averroisti, i quali con il loro insegnamento universitario potevano influire negativamente sulle persone colte. All'Università di Parigi essi vennero costretti al silenzio nel 1277 dal vescovo Etienne Tempier, che già qualche anno prima aveva ammonito Sigieri di Brabante, segnalandogli tredici proposizioni eretiche tratte dai suoi scritti e confutate da Alberto
160 Magno, che era stato maestro di Tommaso d'Aquino. Ora, nel 1277, Tempier segnalò Sigieri e gli altri averroisti alla curia romana per la debita condanna e l'esonero dall'insegnamento, con questa motivazione: "Trascinati dai filosofi pagani insegnano detestabili errori e oppongono la verità della fede cristiana alla verità della filosofia, come se potessero esistere due verità tra loro contraddittorie". Altrettanto fece, lo stesso anno, il vescovo di Oxford Robert Kilwardby, nei confronti di Ruggero Bacone, che fu scomunicato e messo in carcere, "perché la sua filosofia sperimentale sovverte la fede cattolica". Ma ormai la cultura laica cominciava a rivendicare il proprio diritto alla libertà, sebbene per il momento ancora limitata a una critica della teologia. Nell'aprile del 1286, infatti, l'arcivescovo di Canterbury, John Pecham, in un Concilio a Londra denunciava come anche nell'Università di Oxford si fosse infiltrato l'averroismo e condannava, perché eretiche, le seguenti proposizioni (la prima delle quali - ma egli lo ignorava - si trova pure nelle opere di san Tommaso): "Che in tutti gli esseri viventi c'è un'unica forma sostanziale, cioè l'anima razionale; che dopo la morte il corpo di Cristo non aveva più la forma sostanziale di quando era vivo; che nell'ostia consacrata non si muta la materia del pane nel corpo di Cristo, ma il pane assume la forma spirituale di Cristo". Intanto continuavano le persecuzioni contro i catari e gli albigesi. A Bagnolo, presso Verona, in un solo giorno furono processati e arsi sul rogo circa duecento catari, sorpresi durante una loro riunione. Il 23 dicembre del 1288 papa Niccolo IV emanò nuove disposizioni per gli inquisitori della Provenza: "Imporrete una forte pena pecuniaria a quanti daranno ricetto e soccorso ad eretici; se i magistrati laici facessero difficoltà ad eseguire le sentenze da voi pronunciate contro eretici e loro complici, voi procederete con la censura contro le loro persone e l'interdetto sui luoghi del loro domicilio; dovranno essere integralmente rispettate le ordinanze di papa Innocenzo IV circa la distruzione delle case in cui siano trovati eretici; per l'esecuzione delle vostre sentenze potrete giovarvi anche di magistrati scomunicati, senza temere la censura per voi medesimi". A Carcassonne nel 1291 la popolazione, che già sei anni prima aveva protestato perché gli inquisitori locali continuavano a condannare come eretici taluni che non lo erano affatto, insorse di nuovo per l'arbitrario imprigionamento
161 di altri cittadini ingiustamente accusati. La rivolta era capeggiata dal francescano, di tendenze gioachimite, Bernard Délicieux, il quale tentò di liberare i prigionieri dal muro del carcere. Il tentativo terminò con l'arresto e la condanna del Délicieux e di numerosi altri dimostranti. Improvvisamente le persecuzioni cessarono, nella seconda metà del 1294, per un avvenimento straordinario. Dopo due anni dalla morte di Niccolo IV, i cardinali che avrebbero dovuto eleggere il successore non erano riusciti a mettersi d'accordo, con grande scandalo della cristianità e anche turbolenze a Roma dove i cittadini erano privi delle autorità civili, scadute esse pure di carica nel frattempo. Finalmente i cardinali avevano deciso di superare le proprie rivalità con la scelta di un papa innocuo, facilmente manovrabile. Quasi si trattasse di uno scherzo, il 5 luglio la tiara fu offerta all'ottantenne Pietro di Morrone, che fin dalla giovinezza viveva da eremita e che nel 1260 aveva fondato la confraternita dello Spirito Santo, con una regola pauperistica. Il Morrone, uomo ingenuo, del tutto ignaro delle cose del mondo, salì al soglio pontificio col nome di Celestino V, e nella sua modestia e semplicità ai fedeli parve scorgere i segni del "papa angelico" da tanto atteso. Egli, infatti, non solo sospese le persecuzioni, ma riconobbe la propria confraternita come ordine monastico regolare, fece liberare dal carcere gioachimiti, apostolici e francescani dissidenti, fra i quali Liberato delle Marche, che per riconoscenza creò l'ordine dei celestini, concesse ad Angelo Clareno, ottimo predicatore e letterato, di uscire dalla segregazione a cui l'aveva costretto il suo predecessore per le critiche mosse alla finta povertà degli ordini mendicanti, e di fondare la Comunità dei poveri eremiti. D comportamento di Celestino V colse di sorpresa e scandalizzò coloro che lo avevano eletto, convinti di poterlo usare come loro strumento, e tra i primi il cardinale di Anagni, Benedetto Caetani, il quale riuscì a convincere Celestino V ad abdicare, il 13 dicembre, e in suo luogo impose e patteggiò la propria nomina, assumendo il nome di Bonifacio Vili. Immediatamente il nuovo papa revocò tutte le concessioni fatte dal suo predecessore e rimise in carcere i dissidenti che erano stati da lui liberati. Lo stesso Celestino non sfuggì alle sue persecuzioni, perché, se non è certa la diceria che Bonifacio, quand'era ancora cardinale, l'abbia spinto al "gran rifiuto" spaventandolo, col fargli pervenire
162 nel cuore della notte voci misteriose di minacce divine, è però storicamente documentato che egli "il quale vegliava su di lui, temendo, non senza ragione, che si abusasse della sua semplicità per indurlo a ripigliare la dignità papale che aveva abbandonato, alla fine lo fece arrestare e rinchiudere nella Torre di Sulmona, e ve lo tenne fino alla morte, custodito giorno e notte da sei cavalieri e trenta soldati". Fu logico pertanto, per tutti coloro che avevano motivo di contestare la Chiesa, identificare in Bonifacio Vili l'Anticristo dell'Apocalisse: fra questi il noto poeta mistico Jacopone da Todi, che fu imprigionato. Più viva che altrove l'attesa apocalittica si ridestò in Provenza, per merito della forte personalità di Pietro di Giovanni Olivi. Non vi era in lui soltanto la preoccupazione per la decadenza dell'ordine francescano al quale apparteneva, ma per i destini di tutta l'umanità: san Francesco era stato il segno centrale del rinnovamento, e Yordo futurus, il regno dello Spirito, che secondo Gioacchino da Fiore avrebbe dovuto succedere alla caduta della Chiesa, per l'Olivi era già realizzato nei francescani rimasti fedeli alla prima regola, e che perciò ebbero il nome di spirituali. La Lectura (o Postilla) super Apocalypsim di Pietro Olivi non separava le età del cristianesimo, come aveva fatto Gioacchino, ma ne vedeva anzi un armonico sviluppo, verso una sempre maggior perfezione. Cardine della sua esegesi dell'Apocalisse erano le famose visioni delle sette Chiese: la prima significava l'età della Chiesa apostolica, con l'attuazione della legge del Vangelo; la seconda, da Nerone a Costantino, era stata l'età dei martiri, di coloro cioè che avevano rifiutato la vita carnale per la vita eterna; la terza, dopo il Concilio di Nicea, l'età dei dottori, nella quale era fiorita la cultura ecclesiastica; la quarta l'età del monachesimo, in cui gli eremiti avevano rinunciato ai beni terreni; la quinta l'età carolingia, durante la quale i monaci avevano cominciato a lavorare con le proprie mani; la sesta l'età di Francesco, con cui la povertà era entrata con onore nel mondo; la settima sarebbe stata il trionfo della giustizia e della fratellanza universale. In ciascuna età - riconosceva però l'Olivi - si erano insinuate nella Chiesa insidie pericolose: gli pseudoprofeti e i finti cristiani, denunciati da san Paolo, nella prima; le persecuzioni che avevano prodotto la debolezza dei lapsi nella seconda; le eresie di Origene, di
163 Ario, dei nestoriani, degli eutichiani, dei pelagiani nella terza; i vizi e la superbia di molti monaci nella quarta; la condiscendenza della Chiesa alla corruzione temporale nella quinta; infine, nella sesta, l'apparizione di Francesco, l'angelo del sesto sigillo, era stata turbata da un terremoto che aveva colpito anche il territorio tolosano, contemporaneamente insanguinato dalla crociata contro gli albigesi, e nel resto d'Europa dalle devastazioni dei tartari. Venuto come predicatore a Firenze, Pietro Olivi guadagnò alle sue idee molti francescani di quella città, e soprattutto Libertino da Casale, in precedenza gioachimita, che divenne capo degli spirituali d'Italia. Alle dottrine dell'Olivi si ispirò pure il mistico catalano Arnaldo di Villanova, scrivendo nel 1296 una Expositio Apocalypsis, le cui profezie egli riteneva di imminente attuazione, e più tardi un De adventu Antichristi. Egli era medico personale di Pietro III d'Aragona, e poi lo fu anche di Bonifacio VIII, che non lo condannò mai, nonostante le denunce dei teologi parigini, perché era l'unico che sapesse lenirgli le sofferenze del "mal della pietra" (la gotta). Anche Pietro Olivi, finché visse, sebbene più volte ammonito dai superiori per i rimproveri che moveva ai confratelli conventuali, non fu mai condannato perché non si trovò nei suoi scritti materia per una precisa accusa di eresia. Anzi, appena morto, nel suo convento di Narbona, si verificarono casi di fanatismo, anche tra i laici, i quali presero a venerare la sua tomba come quella di un santo, attribuendogli miracoli. L'ideale della povertà volontaria, diffuso prima dai catari e dai valdesi, poi dagli apocalittici e dagli spirituali, aveva da tempo favorito in tutta Europa casi isolati o comunitari di persone pie, che conducevano vita ascetica, detti nel Nord della Francia, nelle Fiandre e in Germania begardi (forse dal sassone beg, "chiedere l'elemosina") mentre, se erano donne, erano chiamate beghine (forse dal francese beige, "grigio", dal colore dei loro abiti). Queste, data la difficoltà di entrare nei conventi, che offrivano per lo più asilo solo a donne nobili o borghesi in grado di portare una buona dote, si riunivano in comunità, senza pronunciare i voti, vivendo del proprio lavoro. In Italia essi furono piuttosto una derivazione del terz'ordine francescano, e chiamati bizocchi o pinzocheri o beghini. Non trovando nella loro vita umile ed esemplarmente religiosa
164 motivi sufficienti per condannarli, ma volendo a ogni costo perseguitarli perché non autorizzati dalla Chiesa, si attribuì a tutti costoro la stessa dottrina professata dai Fratelli del libero spirito. [Vedi Documenti n. 3.] L'unico tenue legame, ma del tutto casuale, è che talvolta, specie da parte delle beghine, l'esaltazione religiosa, esasperata anche da crisi di isterismo dovute alla continenza sessuale, si esprimeva in esperienze mistiche. Nel 1290 vi erano nella sola Strasburgo ottantacinque case di beghine, molte delle quali riuscivano a raggiungere uno stato di estasi, con digiuni, singhiozzi e particolari tecniche respiratorie, non dissimili da quelle che per le suore regolari costituivano un'indicazione di santità. La discriminazione era dovuta solo al fatto di appartenere o meno a un ordine monastico riconosciuto dalla Chiesa, quindi dipendeva dalla estrazione sociale. Elisabetta, principessa d'Ungheria, fattasi terziaria francescana nel 1227, ed Elisabetta di Francia, sorella del re Luigi IX, pochi anni dopo, vennero santificate grazie alle loro crisi mistiche; così Margherita da Cortona, terziaria francescana nel 1277, pur essendo vissuta per parecchi anni come concubina di un nobile di Montepulciano, e Agnese di Orlamiinde, fondatrice nel 1280 del monastero di Himmerlskron, dopo essersi pentita di aver assassinato i suoi due figli, per seguire l'amante Alberto di Norimberga; e così le due sorelle Gertrude e Matilde di Sassonia, ancora vive alla fine del secolo XVI e considerate le più grandi mistiche visionarie dei loro tempi. Ma le donne del popolo che avessero vissuto le stesse esperienze finivano sul rogo come eretiche o possedute dal demonio. Nella Provenza e nella Linguadoca, dove ancora esistevano numerosi nuclei di albigesi e di valdesi, le dottrine eretiche di costoro si mescolavano con quelle dell'Olivi, in una forma di dissidenza dalla Chiesa che non tardò a destare preoccupazioni. Nel 1299, il capitolo generale dei francescani di Lione decretò che fosse distrutto ogni scritto dell'Olivi, e nello stesso anno Bonifacio emise bolle di condanna degli spirituali e di coloro "qui Bizochi seu alio nomine se appellant". In ottemperanza ai decreti antiereticali di Bonifacio Vili, Egidio Aucelin, arcivescovo di Narbona, convocò un Concilio a Béziers, e in esso vescovi e inquisitori dichiararono assolutamente vietata qualsiasi riunione non presenziata da membri del clero; lamentarono i troppi voti di castità e di povertà non autorizzati dalla Chiesa; imposero
165 ai fedeli utriusque sexus di indossare da allora innanzi un unico tipo di vestito: una tunica di tela grossa con cappuccio. Poi, senza perder tempo, ricominciarono arresti, torture e condanne. Nella contea di Foix commosse l'opinione pubblica il caso di due donne, Alesta e Serena, della famiglia dei conti di Châteauverdun: convocate dall'inquisitore, decisero di fuggire, travestite da arabe; ma Serena non riusciva a staccarsi dal proprio bambino che dal balcone, in braccio alla nutrice, la guardava piangendo. Il ritardo le fece arrestare ambedue. Molte donne, se non vi erano altri motivi evidenti, furono arse sul rogo con l'accusa generica di essere fattucchiere o streghe che avevano stretto un patto di sottomissione a Satana. Per evitare l'arresto, Matteo de Bosicis (Bouziguez) maestro dei beghini, scese in Italia, accompagnato da altri cinque compagni e da tredici donne, e si unì a un gruppo di spirituali che, con a capo Angelo Clareno, per lo stesso timore dell'inquisizione, stava fuggendo in Grecia. Anche frate Dolcino di Ossola, riconosciuto capo degli apostolici dopo l'arresto e la condanna al rogo di Gerardo Segarelli, riparò per qualche tempo in Dalmazia. Non sfuggirono invece alle reti dell'inquisizione i membri della setta dei guglielmiti, a Milano. Maufreda da Pirovano, l'ex suora delle umiliate, che nel 1281 era succeduta quale capo della setta alla fondatrice Guglielma di Boemia, osò celebrare messa e fu eletta pontefice dai suoi discepoli. Nel 1300 interverrà l'inquisizione: Maufreda e i capi dei guglielmiti finiranno sul rogo. Il sepolcro di Guglielma, morta ormai da diciotto anni, sarà profanato, i suoi resti dati alle fiamme, le ceneri disperse al vento. Proprio quell'anno, per celebrare grandiosamente il secolo che si concludeva, Bonifacio Vili introdusse nel cristianesimo un'antica festività ebraica, proclamando il primo giubileo. Dal vocabolo semitico y bél ("suono di tromba") era così chiamato dagli ebrei l'anno santo dedicato a Jahve, che secondo l'Antico Testamento doveva cadere ogni cinquant'anni. Bonifacio Vili, per l'occasione, decretò generose indulgenze ai fedeli: "Per la fiducia che abbiamo nella misericordia di Dio onnipotente e nei meriti dei beati apostoli Pietro e Paolo, concediamo a tutti coloro che, veramente pentiti e confessati, visiteranno le basiliche dei detti apostoli e le altre di Roma, in tutto
166 quest'anno milletrecento, e ogni centesimo anno in appresso, una piena e intera remissione di tutti i peccati". I cronisti affermano che durante quell'anno non meno di due milioni di pellegrini si recarono nella città santa, e Dante Alighieri, che per suggestione del giubileo immaginò di compiere quell'anno il suo viaggio nei regni ultramondani, ricorderà che sui ponti del Tevere era stata costruita una staccionata onde regolare nei due sensi il flusso dei pellegrini. Quasi amara ironia verso tutti coloro che si stavano battendo per ricondurre la Chiesa alla povertà, catari, valdesi, francescani, apocalittici, spirituali e beghini, il primo giubileo - come tutti gli altri che seguiranno nei secoli successivi - fu un'ottima occasione per accumulare denaro. Dice un cronista che, nella basilica di San Paolo, "die ac nocte duo clerici stabant ad altare, tenentes in eorum manibus rastrellos, et rastrellantes pecuniam infinitam". Un secolo di pianto e di vergogna.
Quando, durante il processo a Gerardo Segarelli, frate Dolcino dalla Dalmazia dove si era rifugiato aveva scritto ai compagni di fede per esortarli a non perdersi d'animo, che la loro "congregazione spirituale e apostolica" sarebbe sopravvissuta alle persecuzioni, aveva fatto anche una profezia, che ebbe subito conferma negli anni immediatamente seguenti: "Dio ha predisposto un leone che annienterà l'Anticristo". Fu il conflitto tra Filippo il Bello, re di Francia (il leone) e il papa Bonifacio Vili (l'Anticristo). L'ambizioso programma di supremazia anche temporale condotto da Bonifacio (che coinvolse anche i comuni italiani) si scontrò con la L'attesa dell'Anticristo e del regno dello Spirito Santo esistenza del re di Francia, il quale, innanzi tutto, non tenne in alcun conto la bolla di Bonifacio, Clericis laicos, che pretendeva l'esenzione dalle imposte per i beni ecclesiastici, e impose invece tributi sulle proprietà fondiarie delle abbazie francesi; poi, alle rimostranze del papa rispose dando lettura nell'assemblea degli stati generali di Francia, nel 1302, di una lunga requisitoria contro Bonifacio Vili, composta dal suo consigliere Guglielmo di Nogaret, in cui il papa era dichiarato eretico, simoniaco e colpevole di orribili misfatti.
167 Bonifacio VIII controbattè con la bolla Unam Sanctam che affermava la necessità per "omni humanae creaturae" di sottomettersi all'autorità del pontefice romano e deplorava l'insubordinazione di Filippo il Bello. L'anno dopo, il 7 settembre, Guglielmo di Nogaret, accompagnato dal nobile romano Sciarra Colonna e dai suoi partigiani, aggredì e catturò Bonifacio VIII nella sua residenza di Anagni. Liberato, grazie a tumulti popolari in suo favore, dopo qualche giorno, Bonifacio con la bolla Super Vetri solio scomunicò Filippo il Bello. Ma era tale la sua irritazione per l'oltraggio subito, che morì improvvisamente d'infarto, l'11 ottobre. Nel suo breve pontificato, il successore di Bonifacio, Benedetto XI, cercò di riparare alle sue malefatte, assolvendo Filippo il Bello e concedendogli tutti i privilegi e le facoltà che rivendicava. Ma non sospese le persecuzioni degli altri eretici. È interessante la deposizione del capo beghino Matteo da Bosicis, che nel 1299 era fuggito con alcuni compagni, insieme ad Angelo Clareno, e che nel 1304, tornato in Provenza, fu arrestato e processato: "Confessi que cresi in Ihesu Christ, que vole esser près e liât e batut e d'espìnas coronai e tot nut en la crotz clavelat. Confessi encora que a la sola sancta Escriptura de la Vibla cresi e son tegnut de creyre per ferma fé. Confessi encora que la paupertat evangelical et apostolical, la qual verayment se promet e se voda en la sancta regla ha tres partz principals: la primera es renunciament de tot dreys et de tota proprietat; la segonda es asemprament de paubre us. Ma cresi que a la dita regia non se puesca obedir se costreyen home ad imperfectio, a quant que sia petit ni venial". Benedetto XI morì nel luglio 1304 e il nuovo papa, Gemente V, di nazionalità francese, scelto dall'episcopato ligio a Filippo il Bello, si fece consacrare a Lione, senza nemmeno scendere a Roma; nel 1309 trasferì la sede del papato ad Avignone. Ebbero così inizio i settant'anni di "cattività avignonese" che furono una triste vergogna per la Chiesa, non tanto - come fu giudicata dai contemporanei - per l'abbandono di Roma, la sede sacra dì Pietro, quanto per la corruzione ancora più profonda in cui la Chiesa precipitò con la sua centralizzazione burocratica, la pesantezza del sistema fiscale adottato, la cieca violenza delle persecuzioni contro ogni libertà di parola.
168 Appena eletto, Clemente V rinnovò le scomuniche contro i fraticelli dissidenti, contro gli spirituali di Pietro Olivi, contro gli apostolici di fra Dolcino. Arnaldo di Villanova, già medico personale di Bonifacio Vili, sperò di indurre Clemente V, che era stato suo amico da cardinale, ad attenuare i rigori dell'inquisizione, presentandogli una sua opera nella quale sosteneva che la Chiesa si dovrebbe basare su questi quattro pilastri: la povertà, la carità, l'umiltà e la purezza. Ma il papa proibì che il libro fosse divulgato e fece imprigionare l'autore. Un amico e confratello di Arnaldo, Bernard Délicieux, già sospetto per aver nel 1291 capeggiato una rivolta a Carcassonne per liberare dei presunti eretici dalle carceri dell'inquisizione domenicana, siccome tempo prima aveva scritto in una lettera ad Arnaldo che dalle profezie di Gioacchino da Fiore aveva ricavato la certezza che il papa Benedetto XI sarebbe morto nel 1304, fu accusato di averlo avvelenato, sebbene il verdetto dei medici fosse stato semplicemente che il papa era deceduto per un'indigestione di fichi. Lo stesso anno, 1307, per ordine di Clemente V, il vescovo di Vercelli organizzò un poderoso esercito per scovare gli apostolici di fra Dolcino che vivevano nelle vallate della Valsesia, col favore della popolazione locale. Braccati sui monti circostanti, costretti di tempo in tempo a cambiare residenza per sfuggire agli inseguitori, alla fine, poiché molti di loro erano già morti di fame e di stenti, i superstiti, dopo un'eroica resistenza, dovettero arrendersi. Dolcino, la sua compagna Margherita, e sei altri capi della setta furono trascinati seminudi per le strade fino al rogo. [Vedi Documenti n. 4.] Pressato dalle proteste che gli giungevano da ogni parte, anche da Carlo II d'Angiò re di Sicilia, e da Filippo il Bello, al quale si erano rivolti i cittadini di Narbona, finalmente, nel 1310, Clemente V decise di convocare ad Avignone alcuni tra i capi degli spirituali per discutere la loro posizione. Interrogati da due cardinali dell'inquisizione, i convenuti, Raymond de Gignac, ex provinciale francescano di Aragona, Libertino da Casale, che nel 1305 era stato scomunicato, quale autore di un'opera intitolata Arbor vitae crucifixae Jesu, in difesa degli ideali pauperistici, Raymond Gaufridi, Guy de Mirepoix e Bartolomeo Sicardi, difesero validamente la purezza dei loro intenti e l'ortodossia degli scritti di Pietro Olivi. Ma il procedimento dell'inchiesta fu piuttosto sospetto: i tre ultimi spirituali sopra nominati morirono
169 improvvisamente negli stessi giorni, e si disse che erano stati avvelenati. Quell'anno, a Parigi, venne anche arsa sul rogo Marguerite la Porète, di Hainault, detta "la béguine clergesse", il cui libro di ispirazione mistica Le miroir des simples âmes et qui seulement demeurent en vouloir et désir d'amour, era per parecchi anni circolato impunemente, perché attribuito alla beata domenicana Margherita d'Ungheria morta nel 1271. Ora si trovarono nel libro proposizioni eretiche, come: "Nell'unione con Dio, l'anima non ha più cura di alcuna cosa, né di onore, né di ricchezza, né vergogna; non prova più né allegrezza né tristezza né amore né odio". Nel 1311 grande turbamento produsse a Tolosa l'arresto e la condanna al rogo, insieme al fratello e a un suo figliolo ancora in tenera età, del catalano Pierre Authier, venerato dal popolino quale "salvatore di anime". Intanto si istruiva un lungo processo per empietà, idolatria, eresia e corruzione morale ai templari. Era questo un antico ordine religioso-cavalleresco, fondato nel 1119, dopo la i crociata, allo scopo di tutelare e proteggere i pellegrini in Terrasanta, dapprima con il nome di Poveri cavalieri di Cristo, poi di cavalieri del tempio. Col tempo, grazie a fortunate speculazioni finanziarie, l'ordine aveva accumulato immense ricchezze e godeva pertanto di una grande potenza economica e politica. Questo, senza dubbio, aveva prodotto tra i templari anche rilassatezza di costumi; ma quando, nel 1307, Filippo il Bello ne aveva fatti arrestare centotrentotto, dando inizio a un processo a loro carico, la sua preoccupazione non era stata certo di carattere morale: egli intendeva distruggere la loro potenza politica e incamerarne l'ingente patrimonio. Fra il 1309 e il 1311, papa Clemente V, fedele al re di Francia, in quanto egli pure francese, li aveva a sua volta fatti sottoporre all'inquisizione. Dei novanta, ritenuti colpevoli di idolatria, eresia e sodomia, trentasei morirono sotto le torture, continuando a professarsi innocenti. Gli altri cinquantaquattro furono mandati al rogo. Nel 1311 il Concilio di Vienna (quindicesimo ecumenico) poté annunciare la soppressione dell'ordine e leggerne le motivazioni. [Vedi Documenti n. 5.] Proprio in quell'anno scendeva in Italia Enrico o Arrigo VII di Lussemburgo, atteso dagl'italiani come paciere delle sanguinose lotte intestine tra guelfi e ghibellini, e che Dante Alighieri aveva invocato, componendo per l'occasione il De Monarchici, un'opera che verrà più tardi
170 condannata per la sua confutazione del potere temporale della Chiesa. Ma l'imperatore, mentre stava preparando una spedizione contro Roberto d'Angiò re di Napoli, e per questo motivo aveva ricevuto la scomunica da papa Clemente V, nell'agosto del 1313 improvvisamente morì. Si parlò di avvelenamento da parte di emissari del Vaticano, ma il suo biografo Albertino Mussato lo esclude, e dice invece che fu una punizione divina. Nemmeno otto mesi dopo venne a mancare anche Clemente V e la sede pontificia rimase vacante per ben due anni e tre mesi, con grande scandalo dei fedeli che sapevano delle vergognose dispute tra i cardinali che si contendevano la tiara senza venire a un accordo. Ciò non impedì ai tribunali dell'inquisizione di continuare la lotta contro gli eretici, forniti ora di un'ottima guida: la Practica inquisitionis di Bernardo Gui. A Narbona, per iniziativa di Angelo Clareno, contro la volontà dei francescani relaxati, gli spirituali celebrarono una commemorazione di Pietro Olivi, e da tutta la Provenza accorse gran folla al suo sepolcro. Il provinciale dei francescani di Aquitania, Bertrand de la Tour, scomunicò i frati che erano fuggiti dal convento per unirsi agli spirituali di Narbona, e lì, la popolazione stessa, indignata, si sollevò, cacciando i superiori dei francescani che non erano rimasti fedeli all'osservanza stretta della povertà predicata dal fondatore san Francesco d'Assisi. A Padova, nel 1315, fu messo sotto processo, per eresia, il filosofo e medico Pietro d'Abano, insegnante di medicina all'università, il quale aveva negato la possibilità fisica della risurrezione dei morti, sostenendo che quindi, anche nel caso di Lazzaro, risuscitato da Gesù, si era probabilmente trattato di una morte apparente. Pietro d'Abano morì durante il processo per le torture subite. Finalmente, il 5 settembre del 1316, dopo due anni e tre mesi di vacanza, il soglio di san Pietro fu di nuovo occupato. In seguito a patteggiamento simoniaco, il cardinale Giacomo d'Euze (o Deusa o de Osa) riuscì a farsi eleggere e prese il nome di Giovanni XXII. Il nuovo papa non tardò a rivelarsi il più ambizioso e il più avido di ricchezze di tutti i pontefici del suo secolo. Con un'astuta legge, che avocava alla Santa Sede i benefici ecclesiastici rimasti vacanti per la morte o la deposizione dei titolari, egli seppe ammassare tali ricchezze, che alla sua morte saranno trovati incalcolabili tesori di
171 monete d'oro e casse piene di preziosi. L'avido culto di Giovanni XXII per il denaro e il potere era esattamente l'opposto dell'ideale di povertà e umiltà professato dai fraticelli e dagli spirituali, e ciò spie- t'attesa dell'Anticristo e del regno dello Spirito Santo a la lotta accanita da una parte e dall'altra. Ma appena egli era stato eletto, i capi degli spirituali, non sapendo ancora quanto fosse mal disposto nei loro riguardi, sollecitarono una sua udienza. Egli li ricevette ad Avignone nel 1317, e il colloquio ebbe un'amara conclusione per la maggior parte di loro. Libertino da Casale fu immediatamente relegato in un convento di benedettini a Gembloux, nel Belgio; Bernard Délicieux, Guglielmo di Sanf Amanzio, Goffredo di Cornone, et alii plures - dicono le cronache - furono imprigionati. Merita di essere citato, come esempio dei metodi usati in quel processo, il dialogo che si svolse tra il pontefice e Goffredo di Cornone: "Ci meravigliamo non poco" disse il papa "che tu chieda una stretta osservanza della regola di Francesco, mentre porti cinque tuniche!". "Vi ingannate, santo Padre" rispose Goffredo "non è vero che io porti cinque tuniche." "Allora siamo noi a mentire?" "Santo Padre, non ho detto né oserei dire che voi mentite, ma ho detto e dico che non è vero che io porti cinque tuniche." "Allora ti mandiamo in carcere, così sapremo se porti cinque tuniche oppure no." Subito dopo, con una serie di bolle, Giovanni XXII sancì la condanna generale degli spirituali, e tra i primi furono colpiti il capo degli spirituali del Regno di Sicilia, Enrico di Ceva, e il generale dei francescani Michele da Cesena, che fino allora aveva sostenuto i conventuali ma adesso, indignato, aveva rifiutato di sottomettersi alle troppo rigorose disposizioni del papa. A Marsiglia, la morte sul rogo di quattro spirituali suscitò vivo orrore anche tra i beghini del terz'ordine, capeggiati da un certo Pierre Trancavel, che già in passato si era prodigato nell'aiutare i perseguitati, ospitandoli segretamente e procurando loro denaro affinchè potessero fuggire. Questa volta fu arrestato e rinchiuso nel muro di Carcassonne con la propria figlia Andreina, A Narbona, l'arcivescovo e l'inquisitore mandarono al rogo lo spirituale frate Maggio e tre beghini. Il dispotismo e l'intolleranza rendevano il papa e le alte gerarchie della Chiesa incapaci di rendersi conto che da parte di coloro che venivano perseguitati non si trattava solo di disubbidienza, ma di
172 un'onesta volontà di vivere autenticamente il messaggio evangelico, e che anche le masse laiche, vedendosi sempre più dimenticate, insorgevano talora in manifestazioni incontrollate di protesta. All'inizio dell'anno 1320 si ripetè un fenomeno che si era già verificato verso la metà del secolo precedente: nelle campagne presso Châtelet, schiere di pastori e contadini, che s'ingrossavano sempre più per l'unirsi di mendicanti e di vagabondi, decisi a formare una crociata per la salvezza della Chiesa, presero a percorrere città e villaggi, preceduti da una grande croce e guidati da un ex monaco benedettino. Costretti a provvedersi del necessario per vivere, si abbandonarono a grassazioni e violenze. Essi giunsero fino a Parigi e si accamparono nelle vicinanze, chiedendo l'elemosina. Proseguirono poi per Carcassonne, ma qui il governatore del luogo radunò contro di loro un esercito e riuscì ad arrestarne parecchi e a mettere in fuga gli altri. I superstiti, allora, si diressero verso Avignone, per catturare il papa. Giovanni XXII diede ordine che fossero sterminati. L'anno seguente, la Francia si vide minacciata da una catastrofe ancor più terribile: masse di lebbrosi, umiliati della loro segregazione forzata dalla società e dell'indifferenza della Chiesa per la loro condizione, concepirono il disegno di contagiare il prossimo, di modo che, quando tutta l'umanità fosse composta di lebbrosi, essi non si sarebbero più sentiti degli esclusi. La voce popolare diceva che avvelenavano i pozzi e le fontane con un miscuglio fatto di erbe, sangue umano e ostie consacrate. Il supplizio del rogo fu la punizione per questi sciagurati. Intanto continuano ad ardere i roghi di beghini e beghine, a Béziers, a Carcassonne, a Tolosa, a Lodève; qui desta molta commozione il caso della beghina Esclarmonda Durban, molto stimata per la sua santità, che protesta fino all'ultimo di essere condannata ingiustamente. Il giorno dopo, suo fratello Bernard, con altri beghini, e i due sacerdoti Pierre di Salase e Bernard Peirotas, si recano sul luogo dell'esecuzione e raccolgono i resti, semibruciati, del cadavere di Esclarmonda. Sono subito arrestati e giustiziati anch'essi. [Vedi Documenti n. 6.] A Beaupuy è arrestato e arso sul rogo il beghino Bernard, figlio di 'na Jacma, il quale ha composto un'ennesima rielaborazione degli scritti di Gioacchino da Fiore e di Pietro Olivi e va predicando che Giovanni XXII è l'atteso Anticristo e che alla sua morte, nel 1330, esattamente tredici secoli dopo la morte di Gesù, comincerà il regno
173 dello Spirito Santo. A Carcassonne nel 1325 si celebra un unico processo ad altri ottantadue beghini e beghine. Molte di queste, come Astruga di Cussac, cucitrice di panni a Narbona, Amata di Limoux, Ermessenda Grossa, confessano di aver pianto sulla tomba di Pietro di Giovanni Olivi e di avergli promesso voto eterno di castità e penitenza. Prous Boneta riferisce di aver avuto spesso visioni in cui le si diceva che, come Giovanni Battista era stato araldo della venuta di Cristo, così lei sarebbe stata l'aralda della venuta dello Spirito Santo, e che le era stato rivelato che Pietro Olivi era il nuovo Abele, ucciso dal nuovo Caino, cioè Tommaso d'Aquino, mentre Giovanni XXII era stato come Caifa, il sommo sacerdote che aveva fatto condannare Gesù. Oltre ai processi di beghini, Giovanni XXII incrementò anche la persecuzione alle streghe. Così superstizioso egli stesso che - per esempio - teneva sempre infisso nel pane della sua mensa un coltellino d'argento, regalatogli dalla contessa di Foix, come scongiuro contro i malefici, non poteva non credere alle arti delle streghe. La sua bolla Super illius specula, del 1325, ne è la dimostrazione eloquente. Spesso, specie nei processi per stregoneria, gli stessi inquisitori erano perplessi, di fronte a casi di evidente ignoranza popolare o nei quali le accusate, per il terrore delle torture, confessavano tutto ciò che i giudici pretendevano da loro. Cominciarono allora a uscire manuali di istruzione, di cui il più celebre è quello scritto da Bernardo Gui uno degli inquisitori maggiormente attivi e competenti che abbia avuto quel secolo. [Vedi Documenti n. 7.] A Mirepoix le carceri erano tanto affollate di beghini, spirituali e catari in attesa di giudizio, che il vescovo dovette costruire un nuovo edificio: zelo elogiato da Giovanni XXII per lettera. Tra i primi ospiti delle nuove prigioni Biase Alarassi, nipote di Pietro Olivi, Paola e Fiore Baronis, due fanciulle, figlie di Pietro Baronis, il più eminente beghino di Montreal, e Pierre Egleysa, un ragazzo di quattordici anni, che aveva già visto salire sul rogo suo fratello Giovanni. Papa Giovanni XXII concluse la sua carriera perseguitando anche scienziati e pensatori che il secolo seguente celebrerà quali precursori dell'Umanesimo. Tra i primi, nel 1327, finì sul rogo il professore dell'Università di Bologna Ceceo Stabili d'Ascoli, con l'accusa di magia, dato il grande interesse che provava anche per gli studi di astrologia, ritenendo che il destino degli uomini dipendesse dall'influsso
174 degli astri, tanto che aveva persino tentato di determinare la data precisa della nascita e della morte di Gesù in base all'esame delle congiunzioni astrali. Una ricerca che sarà ripresa, tre secoli dopo, da Keplero il quale, risalendo a ritroso le date di apparizione di una cometa, riuscirà a giungere alla conclusione che essa era stata visibile anche nell'anno 7 a.C. e la riterrà quindi la famosa cometa che - secondo i Vangeli - aveva accompagnato i re magi fino alla capanna di Betlemme. Pure nel 1327, a Oxford, William Ockham, professore di filosofia in quell'Università francescana, ricevette la citazione a presentarsi ad Avignone per essere giudicato riguardo alcune sue affermazioni eretiche: soprattutto per aver sostenuto che non si può dimostrare con prove razionali l'esistenza di Dio, il quale è solo oggetto di fede (credo quia absurdum). Egli fuggì a Pisa, mettendosi sotto la protezione di Lodovico il Bavaro, ma ad Avignone le sue opere furono esaminate da una speciale commissione di teologi e 51 articoli di esse vennero censurati. La stessa sorte toccò a Giovanni (Jean) di Jandun, canonico a Senlis, anch'egli fuggiasco presso Lodovico il Bavaro, che lo nominò vescovo di Ferrara, per i suoi studi sulla filosofia aristotelica e - ragione più importante - per aver collaborate alla stesura del Defensor pads, un'opera in difesa della supremazia dell'Impero sulla Chiesa, con il giurista italiano Marsilio da Padova, il quale sarà scomunicato l'anno seguente. Per analoghi motivi, nel 1329, il domenicano Guido Vernani compose una Confutazione del "De Monarchici" di Dante, vedendo nell'opera una pericolosa eresia. Il cardinale Bertrando del Poggetto, nipote di Giovanni XXII, condannò al rogo il De Monarchia, progettando anche di cercare la tomba del poeta per bruciarne il cadavere, ma per fortuna ne fu distolto. Sempre nel 1329, con la bolla In agro Domini, Giovanni XXII condannò le proposizioni eretiche contenute negli scritti del mistico tedesco Johannes Eckhart, morto durante il processo. Nella bolla si diceva che Eckhart aveva sostenuto che in ogni opera, buona o cattiva, risplende ugualmente la gloria di Dio; che se l'uomo cade nel peccato, ciò significa che Dio l'ha voluto, e anche chi lo bestemmia vuol dire che ne riconosce l'esistenza, in realtà si tratta di una malevola distorsione del pensiero di Eckhart che diceva invece che, se un uomo
175 che ha commesso un peccato si pente sinceramente, Iddio non pensa a fargli espiare le sue colpe, ma lo perdona, e questo permette di capire l'infinita bontà divina. L'ultimo atto di papa Giovanni XXII in difesa dell'ortodossia fu, nel 1331, la scomunica di Andrea da Gagliano, sospeso già l'anno prima dalla carica di padre provinciale dei francescani di Abruzzo per le sue convinzioni pauperistiche. Ora, dodici frati conventuali testimoniarono a suo carico: che disubbidiva alla regola, ricevendo nella sua cella persone estranee e uscendo di giorno e di notte; che non riconosceva Giovanni XXII come papa; che, essendo stato a Napoli cappellano della chiesa del Corpus Domini, aveva distolto dalle pratiche religiose la regina Sancia, moglie di Roberto d'Angiò. Convocato ad Avignone, egli non si presentò, e il papa mandò la scomunica ai suoi confratelli, con l'ordine di cacciarlo dal convento. Alla morte di Giovanni XXII nel 1334 furono rinvenuti nei suoi appartamenti immensi tesori in monete d'oro e oggetti preziosi. D suo immediato successore, Benedetto XII, se ne servì, in gran parte, per costruire una fastosa reggia ad Avignone, e per riconoscenza provvide intanto a scagionarlo dell'accusa di eresia che gli era stata mossa per aver detto che le anime dei giusti, separate dai corpi dopo la morte, non vedranno Dio se non quando sarà avvenuto il giudizio universale. Tale accusa era stata un pretesto offerto a Lodovico il Bavaro quando nel 1328 era sceso a Roma e, forte delle dottrine imperialistiche di Marsilio da Padova, aveva dichiarato Giovanni XXII indegno del suo alto ufficio, contrapponendogli come nuovo papa un fraticello francescano, che aveva preso il nome di Niccolo V. Naturalmente, in quell'occasione, Giovanni aveva a sua volta scomunicato sia l'imperatore sia l'antipapa. Quelle erano state le ultime battute della lotta secolare tra papato e impero. Ora né il papa né l'imperatore godevano del prestigio di sostenitori di una politica universale, ma competevano alla pari con gli stati nazionali e le signorie d'Italia, in lotta per la propria autonomia. Era l'autunno del Medioevo e delle sue istituzioni. Ma i principi politici ed economici e di conseguenza gli ideali morali e religiosi su cui avrebbe dovuto basarsi la nuova società stentavano a chiarirsi, e il lento disgregarsi del vecchio mondo portava con sé un disorientamento profondo. Il sentimento religioso era ormai vivo soltanto
176 nelle masse popolari che, nella loro ingenuità, continuavano a colorire le loro speranze e le loro delusioni di attese messianiche, fiduciose che la società potesse rinnovarsi per un intervento soprannaturale. Così accadde a Roma nel 1347, allorché Cola di Rienzo, appena tornato da un'ambasceria ad Avignone per implorare la proclamazione di un altro giubileo per il 1350 e insignito da Clemente VI della carica di notaio della camera apostolica (ossia dell'amministrazione dei beni ecclesiastici romani), si proclamò tribuno e liberatore della Sacra Repubblica Romana, capeggiando una rivolta antinobiliare, e con evidente influsso del gioachimismo - si fece chiamare col nome di Candidatus Spiritus Sancii Miles, aggravando la ribellione politica con l'eresia. Così accadde l'anno seguente, durante la terribile epidemia di peste (quella che sarà poi descritta dal Boccaccio nel Decameron), che ridusse di un terzo la popolazione europea, e che fu accompagnata da terremoti in Italia, in Francia e nell'Europa orientale. Furono viste turbe di flagellanti (ottocentomila solo in Francia) attendere l'ultimo giorno in un risveglio di furore penitenziale. La Chiesa, invece, attribuì tutte le sventure alla collera di Dio per l'empietà degli eretici e in particolare, per la pestilenza, agli unguenti e ai malefici delle streghe e anche degli ebrei. Perciò si intensificarono le persecuzioni contro gli unì e gli altri. A Tolosa, nel 1354 si fece un unico processo di stregoneria a sessantacinque donne. Una di esse, Anna Maria de Georgel, fu tra le prime a dare una descrizione del diavolo, che rimarrà il modello invariato nei secoli successivi: un uomo nero, con le corna, i piedi caprini. Un'altra, Caterina Delort, confessò che ogni sabato cadeva addormentata e si sentiva trasportare al sabba, nel cimitero: si accendeva un gran fuoco, alimentato con ossa di morti, ed ecco apparire il diavolo, con il quale si mangiavano cadaveri di bambini. Anche questa fantastica invenzione è registrata dagli inquisitori come la confessione di un fatto reale, e d'allora innanzi, con poche varianti, le streghe saranno sempre costrette a ripeterla, sotto tortura. Nel solo anno 1360 si calcola che in Europa siano state giustiziate col rogo poco meno di trecento streghe. Ma le persecuzioni della Chiesa non servirono a placare le varie forme di dissidenza, anzi le acuirono. A Siena, l'ex mercante Giovanni Colombini predicava la scelta
177 pauperistica, ispirandosi a san Francesco, con fiere invettive contro la corruzione del clero, costringendo il governo a cacciarlo dalla città e a impiccare alcuni tra i suoi seguaci. Solo quando egli sarà morto, nel 1367, papa Urbano V riconoscerà il suo ordine con il nome di gesuiti, e lo beatificherà. In Germania si processarono nuovi Fratelli del libero spirito, tra cui il mistico Johannes Hartmann-Spinner, il quale rilasciò un'interessante confessione: la libertà dello spirito consiste in questo, che "cessa totalmente il rimorso di coscienza in chi si abbandona a Dio, ed egli diventa incapace di peccare; i sensi sono talmente soggetti allo spirito che l'uomo non ha bisogno di preoccuparsi di essi". Importunato dalle gravi accuse di Caterina da Siena (che sarà poi santificata) alla corruzione del clero, e dalle sue deplorazioni della cattività avignonese del papato, Gregorio XI diede ordine al capitolo generale dei domenicani di Firenze di sottoporla a inquisizione, come sospetta eretica. Caterina venne assolta, ma le fu imposto un confessore fisso, per sorvegliarla. Un profondo pessimismo permeava le parole del monaco vallombrosano Giovanni delle Celle, abate a Santa Trinità di Firenze, ammiratore di Caterina da Siena, arrestato e imprigionato nel 1375: "Dicono che '1 mondo si dee rinovellare; e io dico che dee rovinare. Egli no allegano indovini e profeti, e io allego Cristo nel vangelio, il quale dicie che si deono levare falsi profeti e che saranno tante tribulazioni. Costoro ingannano co' loro aspettazioni e promettono cose che non saranno; ed io prometto quello che '1 Signore dicie nel vangelio, cioè che non troverebbe fede sopra la terra quando verrà a giudicare". Nuovi tumulti popolari si registrarono a Roma nel 1378, alla morte di Gregorio XI, per reclamare un pontefice italiano. Venne eletto il napoletano Urbano VI, ma i cardinali francesi non lo riconobbero e gli opposero il papa Clemente VII. Anche la rivolta dei contadini, scoppiata in Inghilterra nell'anno 1381 e capeggiata da Wat Tyler, non fu propriamente il segno di una presa di coscienza sociale, ma uno sfogo d'intolleranza contro l'oppressione feudale, confuso con motivazioni di ordine religioso, per l'appoggio dato dai poor preachers (Poveri predicatori), fondati dal famoso filosofo francescano John Wycliffe, i quali andavano diffondendo le massime di uguaglianza sociale contenute nelle Sacre Scritture, a somiglianza dei beghini. Ma essi saranno tosto ribattezzati
178 col nome di lollardi, per analogia a un movimento evangelico nato alcuni anni prima in Olanda (da lollaerd, "salmodiante", "recitatore di cantilene"). Wat Tyler e i due preti John Bali e James Straw pagarono con la morte le loro illusioni di un rinnovamento, e negli anni seguenti altri lollardi saranno condannati a Lincoln, dal vescovo Buckingham. [Vedi Documenti n. 8.] Gli ultimi anni del secolo videro una rinascita del profetismo. Nel 1388 venne processato a Parigi Tommaso d'Apulia, il quale era tornato ad annunciare l'approssimarsi dell'età dello Spirito Santo, e a invitare alla penitenza e alla povertà. Gli inquisitori ne decretarono la condanna al rogo, ma i medici attestarono che il poveretto era un alienato mentale e la pena gli fu commutata in segregazione a vita. L'anno seguente, a Firenze, il minorità Michele da Calci, dopo un processo sommario fu condotto al supplizio passando in mezzo a una gran folla di persone, alcune delle quali lo scongiuravano di abiurare le sue idee di un ritorno generale alla povertà dei primi apostoli di Cristo nell'attesa della fine del mondo, mentre altri lo commiseravano come martire. [Vedi Documenti n. 9.] Nel 1395 fu istruita un'inchiesta su un certo frate Angelo delle Marche, il quale si era spinto a predicare fino in Piemonte e, rifacendosi a una profezia di Dolcino - "Enoch ed Elia scenderanno in terra ad annunciare la venuta dell'Anticristo" - asseriva di essere egli appunto il profeta Elia. Uno dei testimoni, il fabbro di Carmagnola (presso Torino) Giacomo Ristolassio, sottoposto a interrogatorio a Chieri, venne impiccato perché ingenuamente confessò di essere ben convinto della verità di ciò che diceva frate Angelo. Il secolo XIV, che aveva visto confondersi insieme tanti sussulti di attese apocalittiche con aneliti di una concreta giustizia sociale su questa terra, terminò con un'ultima clamorosa manifestazione di fanatismo collettivo: verso la fine del 1399 fu istituita la confraternita religiosa degli albati o bianchi, così chiamati perché indossavano mantelli e cappucci bianchi, e questi promossero una processione di oltre centomila fedeli, che da tutte le parti d'Italia scesero a Roma, salmodiando e pregando, ad attendere che venisse proclamato il nuovo giubileo.
179 DOCUMENTI.
1. Flagellanti, boscaioli e saccati.
Nell'anno del Signore 1260 apparvero in ogni parte del mondo i flagellanti. Tutti gli uomini, grandi e piccoli, nobili, cavalieri e popolani, si spogliavano e attraversavano in processione le città, frustandosi violentemente; davanti a loro procedevano i vescovi e il clero. Ovunque si faceva pace, ognuno restituiva il maltolto e confessava i suoi peccati, tanto che i sacerdoti a malapena avevano il tempo per mangiare, e dalle loro bocche risuonavano continuamente parole divine e non umane, e la loro voce era come il grido della moltitudine. Le persone camminavano in pieno tripudio, improvvisando e cantando laude in onore di Dio e della beata Vergine, e mentre camminavano in processione, si flagellavano. Lunedì, che era la festa di Ognissanti, tutti gli abitanti di Modena accorsero a Reggio, tutti quanti, grandi e piccoli, cittadini e contadini, compresi il podestà e il vescovo, con gli stendardi delle confraternite, e si flagellavano per tutta la città. La maggior parte di essi si recò poi a Parma, il martedì seguente la festa di Ognissanti. Il giorno dopo tutti i Reggiani tirarono fuori gli stendardi di ogni parrocchia e li portarono in processione per la città. Lo stesso podestà di Reggio, messer libertino di Rubaconte da Mandello, cittadino milanese, si flagellò in mezzo alla piazza. All'inizio di questa devozione, gli uomini che erano venuti da Sassuolo mi portarono via, col permesso del guardiano del convento dei frati minori di Modena, dove dimoravo io, e mi condussero a Sassuolo, perché mi volevano tutti molto bene, uomini e donne. Poi mi accompagnarono anche a Reggio e a Parma. Quando arrivammo a Parma, la devozione era già cominciata, e tutti si stavano flagellando. Se qualcuno non voleva flagellarsi, era considerato più malvagio del Diavolo e tutti lo additavano come uomo infame e diabolico, e ciò che era peggio, dopo qualche tempo gli accadeva qualche disgrazia, o si ammalava gravemente e moriva... Frate Ugo aveva nel proprio Ordine molti confratelli invidiosi e malevoli, sia perché seguiva la dottrina dell'abate Gioacchino, sia perché gli muovevano l'accusa di aver creato l'ordine dei boscaioli. In verità, egli non aveva fatto altro che dire, occasionalmente: "Se volete far penitenza, andate nei boschi e accontentatevi di nutrirvi di radici". Più tardi, col trascorrere del
180 tempo, costoro si fecero indumenti di sacco, per cui vennero detti i fratelli saccati. [Salimbene da Parma, Chronka, XXXII, 200-54.] 2. Gerardo Segarelli.
Mentre ero a Parma, nel convento dei frati minori, come sacerdote e predicatore, un giorno si presentò un giovane, nativo di Parma, di umile origine, illetterato, e sciocco ed ignorante, che si chiamava Gerardino Segarelli, e chiese di essere accolto nell'ordine dei frati minori. Non essendo stato esaudito, finché gli fu possibile, s'intratteneva tutto il giorno in meditazione nella chiesa; e qui gli maturò l'idea di effettuare di propria iniziativa ciò che inutilmente chiedeva ai frati. Siccome sopra il coperchio della lampada della fratellanza, del beato Francesco, erano dipinti, tutt'intorno, gli apostoli con i sandali ai piedi, avvolti in mantelli sulle spalle, egli rimaneva a lungo a contemplarli, e di qui prese la propria decisione. Si lasciò crescere barba e capelli, prese i sandali e il bordone dei frati minori, perché tutti coloro che si propongono di creare una nuova congregazione rubano sempre qualcosa all'ordine francescano. Poi si fece fare una tunica di tela ruvida e un mantello di filo molto grosso, che portava avvolto al collo e alle spalle, convinto di avere così imitato l'abito degli apostoli... Gerardino distribuì il poco denaro che possedeva, e molti scaltri marioli approfittarono della sua ingenuità, dopo di che cominciò a vivere di elemosina e a predicare, chiamando il popolo alla penitenza. Talvolta, ospitato da qualche donna che avesse una bella figliola nubile, diceva che gli era stato rivelato dal Signore che quella notte doveva dormire nudo con la fanciulla nuda, nello stesso letto, per provare se era in grado o no di conservarsi casto. [Salimbene da Parma, Chronka, XXXII, 256-57.] 3.I begardi e la setta del Libero Spirito.
Vi sono delle persone che portano il nome di un ordine fantasma. Il popolo li chiama beggardi e sorelle del pane per Dio [dalle parole con le quali chiedevano l'elemosina: "Brod durch Gott"] mentre essi si dicono della setta del Libero Spirito e "umili fratelli e sorelle della povertà volontaria". Alcuni,
181 ci è penoso dirlo, sono dei religiosi che hanno ricevuto i sacri ordini, altri, più numerosi, sono sposati. Noi abbiamo constatato, per mezzo delle loro! confessioni e di prove incontestabili, che essi sono immersi nei detestabili e condannabili errori che seguono: In primo luogo, contro la divinità, essi dicono, credono e professano che Dio è formalmente tutto ciò che esiste, e che l'uomo può unirsi a Dio al punto di potere, volere e fare come Dio... e che uniti a Dio essi non possono peccare e che quindi possono compiere senza peccare qualsiasi atto peccaminoso. In secondo luogo contro Cristo. La loro fede, dicono, è che ogni uomo 1 perfetto è Cristo per natura. Che Cristo non ha sofferto per noi ma per lui. Non hanno alcun rispetto per l'eucarestia, volgono le spalle all'ostia consacrata, " e pretendono che in bocca l'ostia ha il gusto di concime, il che è una vera bestemmia. ; In terzo luogo essi professano molti errori contro la Chiesa. La loro fede, 5 a quanto dicono, è che la Chiesa cattolica o cristianità non serve a nulla, e che l'uomo perfetto è totalmente libero. Egli deve obbedire ai comandamenti dati da Dio, come quello di onorare i genitori nella necessità, ma, in ragione di quella libertà, egli non deve obbedire ai comandamenti dei prelati né alle decisioni della Chiesa... In quarto luogo, contro i sacramenti della Chiesa, la loro credenza, a quanto dicono, è che ogni buon laico può rendere presente il corpo di Cristo altrettanto bene che un prete peccatore. Che il prete che ha tolto le sue vesti sacre è come un sacco vuoto senza frumento. Che il corpo di Cristo è in un pane qualunque allo stesso modo che nel pane sacramentale. Che non è necessario confessarsi ad un prete per essere salvati. Che la comunione di un laico al corpo di Cristo o sacramento di eucarestia è altrettanto valida per ottenere la liberazione di un defunto quanto una messa celebrata da un prete. Che dedicarsi all'atto coniugale è un peccato, a meno che non si abbia in vista la nascita di bambini. In quinto luogo, contro l'inferno e il regno dei deii. Loro convinzione, a quanto dicono, è che non vi sarà giudizio finale e che l'uomo viene giudicato soltanto alla sua morte. Che non c'è l'inferno, né il purgatorio. Che quando il corpo dell'uomo è morto solo il suo spirito o la sua anima ritornano a Colui dal quale egli è nato, e si uniscono a Lui così bene che nulla resterà,
182 tranne ciò che era Dio da tempo immemorabile. E che nessuno sarà dannato, né gli ebrei né i saraceni, perché, dopo la morte del corpo, il loro spirito tornerà al Signore. E che l'uomo deve seguire la sua ispirazione interiore piuttosto che la verità del Vangelo predicata ogni giorno. Coloro che professano gli errori suddetti e perseverano in quegli errori, e tutti quelli che vi consentono, vi credono, vi sono favorevoli, li ammettono e li difendono, noi li scomunichiamo... ["Lettera di Giovanni di Durbheim, vescovo di Strasburgo", in M. Meslin e J. Loew, Autobiografia della Chiesa, pp. 228 sgg.] 4. La fine degli apostolici.
Mentre frate Dolcino, pessimo eresiarca, si trovava con parecchi seguaci della sua perniciosa setta nella località di Serravalle, essendo venuto a sapere che gli inquisitori dell'eretica pravità lo stavano ricercando, con l'aiuto di alcuni abitanti di Serravalle stessa, riuscì a tenersi nascosto per qualche tempo, e poi a fuggire con la sua malvagia compagnia. Per cui furono fatti severi processi, sia da parte degli inquisitori, sia del podestà di Vercelli, contro il rettore della chiesa di Serravalle e gli abitanti del paese, e furono tutti condannati perché avevano aiutato il predetto fra Dolcino. Intanto Dolcino si era rifugiato in casa di un ricco contadino di Varallo, di nome Milano Sola, e ivi rimase molti mesi con la sua pestifera compagnia. Da tutte le parti accorrevano uomini e donne per ascoltare le sue dottrine eretiche. Dopo un po' di tempo, temendo la persecuzione che era in atto contro lui e i suoi seguaci, se ne andò via di là, conducendo con sé il sopraddetto Milano Sola e molte altre persone dei paesi circostanti, che era riuscito ad attirare nella sua setta, e si rifugiarono su di un monte della diocesi di Novara, detto Balma, dove costruirono case e capanne e si trattennero alcuni mesi. Ma nel frattempo, il vescovo di Vercelli e gli inquisitori degli eretici, muniti di bolle apostoliche, avevano riunito contro costoro un grande esercito, nel quale c'erano molti fedeli della diocesi di Vercelli, che lo stesso vescovo aveva raccolto per lo sterminio di quella setta e la difesa della fede cattolica. Vedendo allora Dolcino e i suoi seguaci che non avrebbero potuto difendersi da un simile esercito di cristiani, nottetempo si diedero alla fuga. Gli inseguitori erano convinti che essi, rimasti spaventati, si fossero dispersi qua e
183 là, e che non sarebbero più ritornati; invece questi malvagi eretici erano saliti sopra un monte lì vicino, molto ripido, che da nessuna parte si poteva espugnare, detto monte Calvo, ed ivi erano convenuti da ogni luogo uomini e donne della setta di Dolcino, tanto da raggiungere il numero di mille quattrocento e forse più, e di tutti Dolcino era il signore e la guida, e tutti gli obbedivano e avrebbero sopportato qualunque pena piuttosto di trasgredire i suoi ordini. Di lassù essi si diedero a fare incursioni nelle campagne sottostanti. Una volta, essendo scesi per saccheggiare la zona di Varallo, il podestà e gli abitanti di Varallo si fecero loro incontro per cacciarli, ma quei cani, collocati alcuni dei loro compagni in agguati nascosti, fecero irruzione contro detto podestà e i suoi uomini, con armi e pietre, e alcuni ne uccisero, altri condussero con sé prigionieri sul monte Calvo. Alla fine, però, furono ridotti a tale penuria e fame da essere costretti a cibarsi di topi, di cani, di animali selvatici, e di erbe. Dopo essere rimasti su quel monte più di un anno, non potendo più resistere, poiché già molti di loro erano morti di fame e di stenti, Dolcino e i suoi pestiferi seguaci, lasciate sul posto le persone più deboli, nell'anno 1306, giovedì del mese di marzo, si ritirarono, attraversando alti monti, per luoghi impervi, coperti di neve, e a notte fonda ascesero su di un altro monte scosceso, che allora si chiamava monte Revello, adesso, essendo stato abitato da codesti eretici, si chiama monte dei Gazzari o monte di frate Dolcino. Di là essi scesero nel paese di Trivero, e depredarono le case, portando via quanta più preda potevano. Gli abitanti di Trivero, colti dal panico, non opposero resistenza, ma poi, rinfrancatisi, si unirono tutti insieme e rincorsero gli eretici: ne scovarono trentaquattro, dei migliori, che Dolcino aveva posto in agguato, e li uccisero tutti. Giunta la voce di quanto era successo, alle orecchie del reverendo vescovo di Vercelli, raccolto subito un altro grande esercito fra i fedeli che erano disposti ad andare personalmente a snidare gli eretici o garantire un mese di stipendio alle persone che volevano unirsi alla crociata, confidando nell'aiuto di Dio e del beato martire Eusebio, occupò e fece fortificare un monte posto di fronte al monte Revello. Dopo alquanti giorni di assedio, quei perniciosi gazzarri si decisero a scendere, e dopo una furiosa battaglia, nella quale morirono molti, da una parte e dall'altra, gli eretici si dovettero arrendere. [Anonimo, Historia fratris Dukini heresiarche, testo latino in L.A. Muratori,
184 Rerum Itaìicarum Scriptores.] 5. Processo ai templari.
Ecco alcune delle più importanti deposizioni. Gervasio di Beauvais dichiarò che aveva spesso sentito dire che nell'ordine esisteva un segreto che nessuno avrebbe mai rivelato, e nel Capitolo generale ve n'era un altro di tanta importanza, che se per sciagura il re stesso lo avesse conosciuto, nessun motivo avrebbe potuto trattenere i frati Templari dall'ucciderlo. Guglielmo di Cardaillac depose che, al suo ingresso nell'ordine, gli fu comandato di rinnegare Dio e di sputare sulla croce, e siccome egli non voleva, un cavaliere del Tempio, Domenico di Linac, lo afferrò con una mano nel petto e brandendo con l'altra un pugnale, gli gridò: "Obbedisci o sei morto!". Egli sputò sulla croce, ma fu dispensato dal rinnegare Cristo, per intromissione di colui che l'aveva presentato nell'ordine. A Gerardo di Passage fu mostrata una croce di legno, chiedendogli se credeva che quello fosse il Signore Dio. Egli rispose che era l'immagine del crocifisso. "Non lo crediate" gli dissero "esso non è che un pezzo di legno." Ad Alberto di Canelles fu detto, mostrandogli la croce: "Quest'uomo crocifisso era un falso profeta; non credere in lui, non sperare e non confidare in lui. A suo disprezzo, sputa su questa croce!". Siccome Alberto non voleva, vi fu costretto con la spada alla mano; ed egli vi si prestò per timore della morte e fuori di sé. Quando il templario Bosco di Masvalier domandò ad un vecchio priore perché si facesse rinnegare ai frati Gesù, il figliolo della Santa Vergine, che un cantico, spesso cantato da loro, celebrava come il salvatore del mondo, gli fu risposto di guardarsi dal fare alcuna domanda curiosa, che gli attirerebbe il malcontento dei superiori, e che andasse tranquillamente a tavola, che non era il primo che avesse rinnegato e non sarebbe neanche l'ultimo. Quanto a certe sconcezze, al momento di essere ricevuti come novizi, alcuni n'erano dispensati, e si esigevano invece da altri. La testa o l'idolo che si adorava, non era stato veduto che da un piccolo numero di testimoni. Sull'omissione delle parole della consacrazione nel sacrificio della messa, il prete Guido de la RocheTalhat affermò che egli era rimasto fedele alle regole
185 della Chiesa, avendogli detto un superiore che tale omissione era un uso abituale dell'ordine, ma non obbligatorio. [In A. Rohrbacher, Storia universale della Chiesa cattolica (1874), vol. X, p. 61314.] 6. I beghini di Lodève.
Bernardo Durban, fabbro di Clairmont, avendo udito dire che sua sorella Esclarmonda e parecchi altri, circa diciassette, tra uomini e donne, dovevano essere arsi sul rogo a Lunelle, vi si recò di persona, e vide quando sua sorella e gli altri eretici venivano arsi. Allora, il giorno dopo, tornò con alcuni altri compaesani, che erano pure stati presenti e si recarono sul posto dove era stato acceso il rogo, e c'erano ancora molti cadaveri non completamente bruciati. Intanto sopraggiunse un tale, insieme ad altre persone, e si diedero ad asportare delle ossa e dei pezzi di carne degli eretici che erano stati bruciati, e quel tale, a richiesta dello stesso Bernardo, gli consegnò delle ossa e della carne che erano state di sua sorella Esclarmonda. Egli le prese e le portò a casa sua, a Lodève, conservandole appese ad una parete. Martino di Saint-Antoine, avendo udito dire che presso Lunelle si dovevano giustiziare dei beghini e delle beghine, il giorno dopo vi andò, con parecchie altre persone, e videro che molti di quelli erano ancora quasi intatti. Allora si avvicinarono al luogo dove si trovava Esclarmonda Durban, o meglio il suo cadavere, e ne ruppero qualche pezzo, in modo da poterlo mettere in un sacchetto. Mentre facevano questo, Martino prese il cuore di quella donna e lo portò a casa sua, dove lo conservò. Egli dice anche che, avendo mostrato quel cuore a diverse persone, uno che lo vide, lo segnò col segno della croce, e lo baciò, chiedendo a Martino di darglielo, o almeno di dividerlo a metà e dargli la metà di esso. Martino però si rifiutò di farlo. Bernardo Malaura, macellaio di Lodève, confessa che, quando gli fu detto che a Lunelle dovevano essere giustiziati sul rogo dei beghini e delle beghine, l'indomani mattina, passando da quelle parti con altre persone, vide che detti beghini non erano del tutto bruciati. Allora, con grande circospezione, e con paura, senza essere visto dagli altri, prese qualche pezzo di carne dai cadaveri. Domandatogli perché avesse preso quei pezzi di carne, rispose che era per questo motivo: che sapeva che erano state arse sul rogo due buone donne di Lodève, ed era convinto che tanto esse quanto gli altri beghini giustiziati erano stati condannati ingiustamente, ma certo Dio li
186 aveva salvati e santificati. Disse anche che, un giorno, mentre si trovava vicino alla chiesa del beato Antonio, aveva sentito dire che il papa non poteva cambiare la regola dei frati minori, perché questa loro regola si fondava sopra il Vangelo, e se il papa l'avesse cambiata, avrebbe cambiato il Vangelo. [In R. Manselli, Spirituali e beghini in Provenza, pp. 309-13.] 7. Il manuale dell'inquisitore.
Questa è la procedura quando si deve interrogare ed esaminare qualcuno che si sia presentato di sua propria volontà o sia stato citato, convocato come sospetto, o denunciato e accusato da altri di eresia o di aver favorito e ospitato eretici, o per qualunque altro motivo che sia venuto a conoscenza dell'Inquisizione dell'eretica pravità. In primo luogo, bisogna fargli giurare sui sacri Vangeli di Dio, che dirà tutta la verità e niente altro che la verità su ciò che riguarda l'eresia, tanto sul conto di se stesso o, come testimone, su di altre persone, vive o morte. Appena il giuramento è stato fatto e registrato, si deve urgentemente esortare l'imputato a dire tutto ciò che sa e ha sentito dire su l'eresia. È doveroso notare che se l'imputato parla subito apertamente e chiaramente contro la fede, adducendo gli argomenti a cui sono soliti riferirsi gli eretici, egli può senza difficoltà essere dichiarato colpevole di eresia, poiché si presume che uno sia eretico dal fatto che insiste a difendere l'errore. Ma siccome i moderni eretici cercano accortamente di nascondere le proprie opinioni piuttosto che di confessarle apertamente, anche persone ben versate nelle Sacre Scritture non possono provare la loro colpa, perché gli eretici si ingegnano di sfuggire con inganni di parole e sottigliezze di ragionamenti. Il risultato è che gli inquisitori sono talora messi in imbarazzo, e quegli eretici si sentono incoraggiati, vedendo come riescono a eludere uomini colti, a cercar di sfuggire loro dalle mani, con le tortuose ambiguità delle risposte. Per tali circostanze, seri problemi si presentano all'inquisitore. La sua coscienza è tormentata dal dubbio di punire uno che non ha confessato né dato prova di essere colpevole; d'altra parte ciò crea maggior preoccupazione nell'animo dell'inquisitore, che ben conosce per lunga esperienza la falsità e la malizia di tali persone, e che se, per mezzo della loro astuzia, riescono ad evitare la punizione, è un grave detrimento per la fede, perché in quel modo essi vengono rinforzati e resi più abili.
187 Un'altra considerazione da fare è che la fiducia dei fedeli riceve occasione di scandalo dal fatto che il processo di inquisizione, una volta cominciato contro qualcuno, venga abbandonato, e può indebolire la fede osservare come uomini di cultura si siano lasciati ingannare da persone rozze e grossolane. Per questo motivo, non è consigliabile discutere in materia di fede contro tali astuti eretici, alla presenza di laici. Infine, attenzione particolare va posta a questo riguardo; che, come non esiste una sola medicina per tutte le malattie, così non si può usare un unico metodo nell'investigare, interrogare, esaminare gli eretici e le varie sette, ma per ciascuno occorre usare un metodo particolare. Perciò l'inquisitore, come un prudente medico di anime, deve procedere cautamente, a seconda delle persone che inquisisce. Deve tener conto della loro qualità, condizione, posizione sociale, stato di salute. Con le briglie della discrezione deve guidare le astuzie degli eretici, in modo da estrarre, con l'aiuto di Dio e l'abilità di una levatrice, il serpente che striscia, fuori dalla tana e dall'abisso degli errori. A questo riguardo non si può stabilire un unico e infallibile modello, perché - se così si facesse - i figli delle tenebre potrebbero conoscere in anticipo il procedimento e riuscirebbero troppo facilmente ad eluderlo e ad evitarlo come una trappola. Perciò un saggio inquisitore deve regolare attentamente il suo modo di procedere, con la ripetizione delle testimonianze, le deposizioni, sotto giuramento, degli accusatori, i consigli di persone esperte, i suggerimenti della sua naturale intelligenza, con l'aiuto di Dio. Noi ci limiteremo a dare nelle pagine che seguono qualche suggerimento sul modo di condurre un processo contro queste sette: manichei, valdesi o Poveri di Lione, pseudoapostoli, quelli che volgarmente sono chiamati beghini, gli ebrei che dopo essersi convertiti alla fede di Cristo sono tornati al vomito del giudaismo, ed anche contro streghe, indovini, evocatori di demoni, la cui perniciosa influenza è di grave nocumento alla purezza della fede. lBeTnaTdoCni, Procticainquisitìortishaereticaepravitatis(ì324), prefazione.] 8. I lollardi della diocesi di Lincoln.
Articoli ai quali confessano di credere Anna Palmer, Thomas Patteshull, John Chory, Simon Colyn, John Wolf, John Wheelwright, cappellano, lollardi di Northampton, 1394. Prima di tutto, la predetta Anna e gli altri sopra nominati dicono apertamente
188 ed espressamente che gli innocenti quando salgono al Signore non vanno subito dopo la morte in paradiso, ma sono collocati in un luogo periferico, in attesa del giudizio finale; che per qualunque cristiano è sufficiente osservare le leggi di Dio e pregarlo anche nel segreto della sua camera o in aperta campagna, e non prosternarsi pubblicamente in orazioni in una chiesa, per non essere giudicato un ipocrita che si conforma ai farisei; che l'Antipapa è l'alleato del nostro signor papa Urbano VI; che chi è vicino a Dio, in questa vita, è già assicurato della salvezza, e il papa, che noi chiamiamo sommo pontefice, non ha alcun potere di concedere il perdono per le colpe dei peccatori; che dai tempi di papa Silvestro la Chiesa universale è divenuta simoniaca, e perciò fino ad oggi è avvelenata ed essi non hanno più alcuna fiducia nel potere del papa e degli altri prelati; che quanto si ingiunge a qualcuno, come penitenza per i peccati che ha commesso, sarebbe molto più meritorio - affermano codesti lollardi - se la quantità di denaro che dovrebbe spendere per il viaggio di quel pellegrinaggio fosse erogata ai poveri, invece di assolvere alla penitenza loro imposta secondo le prescrizioni del canone; che nel millesimo anno dopo la natività del Signore, Satana è stato sciolto dalle catene, e tutti coloro che, nati dopo di allora, noi consideriamo santi, sono invece diabolicamente infetti, ed è più giusto ritenerli dannati che santi; che se un sacerdote si trova in peccato mortale non ha più autorità di celebrare il sacramento dell'eucarestia e quello del battesimo; che è altrettanto meritorio, come a loro sembra, baciare delle pietre sparse per un campo, quanto baciare in chiesa i piedi di un crocifisso o adorare delle immagini con lumini accesi ed offrire loro delle offerte; che le oblazioni fatte nei matrimoni e nelle sepolture dei morti devono essere abolite, perché costituiscono simonia; che non è lecito ai sacerdoti farsi pagare per la celebrazione degli uffici divini; che è doveroso per ogni cristiano informare i fratelli sui dieci comandamenti e sui santi vangeli, affinchè li conosca e li faccia conoscere, e che ciascun padre di famiglia risponde di questo per i membri della sua famiglia; che non è lecito dare l'elemosina a qualsiasi mendicante, ma solo agli zoppi, ai curvi, ai ciechi, e a coloro che sono deboli o giacciono paralitici; che tutte le indulgenze concesse dal signor papa in remissione dei peccati
189 o per la costruzione di qualche ospizio sono false e inutili, perché le elemosine raccolte a questo scopo, servono solo all'avidità dei questuanti, che con esse vivono nel lusso, senza che ne derivi nulla di buono. [In G. Leff, Heresy in the Later Middle Age, vol. I, pp. 143 sgg.] 9. Storia di fra Michele minorità.
Tornato che fu il capitano, la famiglia con grande impeto lo trassono fuori della porta, e rimase tutto solo, tra mascalzoni, scalzo, con una gonnelluccia indosso, parte de' bottoni isfibbiati; e andava col passo larghetto e col capo chinato, dicendo ufficio, che veramente pareva uno de' martiri: e tanto popolo V'era che appena si potea vedere. Et a tutti increscendone, diceano: deh! non voler morire! Et esso rispondea: io voglio morir per Cristo. E dicendogli: o! tu non muori per Cristo! Et esso dicea: per la verità. E alcun gli dicea: o! tu non credi in Dio. Et esso rispondea: io credo in Dio, e nella Vergine Maria, e nella santa Chiesa. E alcuno gli dicea: sciagurato, tu ài il diavolo a dosso che ti tira. Et e' rispondea: Iddio me ne guardi. E così andando, rispondea di rado, e non rispondea se non alle cose che gli pareano di necessità, e rade volte alzando gli occhi altrui. E quando giunse dal canto del Proconsolo, essendovi grande romore del popolo che traeva a vedere, e alcuno fedele, veggendolo, si mischiò tra gli altri, dicendo: Frate Michele, priega Iddio per noi. A' quali egli, alzando gli occhi, disse: "andate, che siate benedetti, cattolici cristiani". E da' Fondamenti di santa Liperata, dicendogli alcuno: sciocco che tu se credi nel papa. E que' disse, alzando il capo: voi ve n'avete fatto Iddio di questo vostro papa; come vi conceranno ancora! E da Mercato Vecchio a Calimala, essendogli detto: campa, campa; et esso rispuose: campate voi lo 'nferno, campate lo 'nferno, campate lo 'nferno. E giugnendo in Mercato Nuovo, essendogli detto: pentiti, pentiti, ed e' rispuose: pentitevi voi de' peccati, pentitevi de l'usure, delle false mercatanzie. E alla Piazza del Grano, essendovi molte donne alle finestre, e tavolieri, et gente che giucava, gli diceano: pentiti, pentiti; e que' diceva: pentitevi voi de' peccati de l'usure, del giucare, delle fornicazioni. Quando giunse a Santa Croce, presso alla porta de' frati, gli fu mostrato santo Francesco; quegli alzò gli occhi a cielo, dicendo: santo Francesco, padre mio, priega Cristo per me. Poi si rivuolse a' frati che erano in su le scalee,
190 dicendo con voce alta: la regola di santo Francesco, la quale voi avete giurata, è stata condannata! e così trattate voi coloro che la vogliono osservare? E queste parole replicò tanto quanto bastarono a gli frati, de quali alquanti si restrignevano nelle spalle, e alquanti si ponevano la cappa al viso. volto il canto, e andando verso la porta alla Giustizia, gli fu data molta briga da molti i quali dicevano: niega, niega, non volere morire. Ed egli rispondeva: Cristo morì per noi. E alcuni dicevano: o! tu non se' Cristo, e non ài a morire per noi, tu. Ed e' rispondeva: e io voglio morire per lui. Appressandosi al capannuccio, il grido V'era grande, e diceagli: qui niega, non volere morire. Ed esso rispondea costantemente più che mai. E giunto al capannuccio, la famiglia fece scostare la gente. E feciono uno cerchio de' cavagli, onde poca gente poté entrare nel cerchio. Giunto che fu al capannuccio, frate Michele, secondo mi parve vedere e ch'io udii dalla gente; arditamente V'entrò dentro; et essendo legato alla colonna, molti mettevano il capo dentro, pregandolo che si volgesse; ed egli stava sempre più forte. Poi, per ispaurillo, alquante volte fecero fumo intorno al capannuccio; e la gente d'intorno il pregava che si svolgesse; eccetto alcuno fedele, che 'l confortava. In fine delle molte battaglie che gli diedono, missono fuoco di sopra nel capannuccio. Fatto questo, frate Michele, dappoi ch'ebbe detto il Credo (che il cominciò all'entrata del capannuccio) e dopo le risposte che fece, come sentì appiccicato il fuoco, cominciò a cantare il Jadeo, e secondo che dice alcuno, ne cantò forse otto versi, e poi tenne uno atto come se starnutisse, dicendo la sezzaia parola: In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum. Arsi che furono i legami, cadde in terra ginocchione, colla faccia verso il cielo e la bocca tonda, morto. E morto, molti diceano: e' pare un santo; eziandio delli avversari. Poi alcuni chiesero di grazia al cavaliere di seppellire il corpo. E '1 cavaliere, tratta carta della morte sua, diede loro la licenza, e andossene colla famiglia. E questi giovani tolsero il corpo, mettendolo in un telo di lenzuolo, e portarono e seppellirolo in una fossa, di lungi alquanto dal capannuccio; e la gente si tornò a casa, e alla maggior parte ne parea male, e non si poteano saziare di dire male de' chierici. [Anonimo, Storia di fra Michele minorità, in F. Hora (a cura di), Storia di fra Michele minorità (1942).]
191
VI. IL MITO DI UNA RELIGIONE A MISURA D'UOMO (SEC. XV).
La fratellanza hussita.
I moti pauperistici e apostolici dei secoli XIII e XIV, 1 valdesi e i francescani, avevano rappresentato il generoso tentativo di riproporre alle masse l'autentico messaggio evangelico, obliato dalla Chiesa, senza accorgersi quanto fosse anacronistica la loro concezione di una società che si sarebbe dovuta di nuovo strutturare secondo i principi rinunciatari delle origini del cristianesimo: la povertà, la castità, l'umiltà. Era perciò mancato il loro appoggio alle sollevazioni popolari che chiedevano maggiori beni economici e maggiori diritti sociali: la jacquerie dell'Ile-de-France e l'insurrezione di Marcel Etienne a Parigi, nel 1356-58, quella dei tuchins della Linguadoca nel 1360, e quella dei ciompi a Firenze nel 1378. Ma sul finire del secolo XIV, la partecipazione dei lollardi di John Wycliffe alla rivolta dei contadini nel Kent e nell'Essex aveva già dato almeno alla protesta economica motivazioni etiche diverse dalla rassegnazione pauperistica. "Quando Adamo arava la terra ed Eva filava" si dice avesse predicato il lollardo John Bali "chi era allora il nobile e chi il plebeo? Dio ha creato gli uomini tutti uguali e le distinzioni di servitù e di libertà sono un'invenzione degli oppressori." Lo stesso Wycliffe aveva sostenuto che, se gli uomini sapessero vivere secondo le leggi di Dio, non vi sarebbero differenze sociali e i beni potrebbero essere in comune. La rivolta dei contadini inglesi fallì in breve tempo, ma l'insegnamento di Wycliffe fu ripreso e diede notevoli frutti in Boemia, per opera soprattutto di Jan Huss. Suoi precursori erano stati Jan Milic, polemista violento contro la corruzione del clero, Matteo di Janov, autore nel 1392 di un ampio trattato in cinque volumi, la Regulae VeTI mito di una religione a misura d'uomo eris et Novi Testamenti, in cui propugnava la necessità di un ritorno alla purezza del cristianesimo primitivo, Stanislao di Znojmo, maestro di Huss, e infine Tomas Stitny, che, già noto per le sue ottime traduzioni delle Sacre Scritture in lingua nazionale, nel 1394 aveva
192 composto un'importante opera critica, O obecnych vecech Kfest' stanskych (Sulle questioni generali del cristianesimo), nella quale confutava ironicamente le superstizioni delle masse cattoliche. Ma la loro predicazione non si era differenziata molto da quella degli apostolici e degli spirituali dell'Europa occidentale. Jan Huss, invece, uomo di umili natali ma giunto all'insegnamento universitario per la sua grande intelligenza, che già fin dal 1402, mentre era rettore della cappella di Bethléem, a Praga, aveva cominciato a predicare in lingua ceca, improntando le sue parole a sentimenti democratici e patriottici, seppe approfittare della conoscenza di Wycliffe, dopo il ritorno dall'estero, nel 1410, dell'amico Girolamo da Praga, che era stato uditore del grande teologo inglese. Predicando in lingua boema, Jan Huss rivolse la sua denuncia non genericamente contro la Chiesa, ma contro gli abusi del clero di Boemia che con le decime, i privilegi ecclesiastici, l'imposizione di penitenze pecuniarie impoveriva il paese e contemporaneamente lo umiliava con la sua soggezione all'imperatore tedesco. Huss ammaestrò i modesti artigiani di Praga e le loro donne alla lettura e alla interpretazione dei Vangeli, tradotti in lingua nazionale, sostenendo che la Chiesa non dev'essere una struttura gerarchica al di sopra dei laici, ma la comunità di tutti i giusti che osservano le leggi di Dio. Proprio in quegli anni la crisi del papato era giunta a uno dei suoi momenti più acuti. Morto nel 1406 papa Innocenzo VII, i cardinali romani, riuniti in conclave, avevano giurato che chi tra loro sarebbe stato eletto successore avrebbe immediatamente rinunciato alla nomina, a patto che vi rinunciasse anche il papa avignonese Benedetto XIII, già in carica dal 1394, che fino ad allora non si era piegato né di fronte al rifiuto del clero italiano di prestargli obbedienza, né di fronte alle minacce delle soldatesche che lo avevano assediato ad Avignone. Fu eletto Gregorio XII. Ma, nonostante i giuramenti, né lui né il suo antagonista accettarono di ritirarsi. Il Concilio di Pisa, radunatosi nel 1408 per risolvere questa situazione che fu detta "lo scisma d'Occidente", dichiarò sia Benedetto XIII sia Gregorio XII "notorii scismatici e non meno eretici, devianti dalla fede ortodossa", e al loro posto elesse papa Alessandro V, al quale, morto entro pochi mesi, successe Giovanni XXII. Siccome i due pontefici scomunicati rifiutarono di sottostare alle decisioni del Concilio, il risultato fu che la Chiesa si trovò ad avere tre papi contemporaneamente: uno
193 con sede ad Avignone, l'altro a Roma, e l'ultimo eletto a Pisa! A risolvere un simile scandalo intervenne finalmente l'imperatore Sigismondo, sollecitando la convocazione di un nuovo Concilio a Costanza, nel 1414, con i seguenti argomenti all'ordine del giorno: scomunica e deposizione dei tre papi, con la nomina di un quarto, che li sostituisse (Martino V); discussione sull'autorità di qualsiasi Concilio in rapporto a quella del pontefice (e si concluse che il Concilio dei cardinali aveva il diritto di deporre e scomunicare i papi che si fossero dimostrati indegni della carica), e condanna delle opere di Wycliffe, processo a Jan Huss e a Girolamo da Praga. La persecuzione dei due predicatori boemi era già cominciata nel 1410, quando il vescovo di Praga aveva fatto requisire e dare alle fiamme pubblicamente duecento volumi delle opere di Wycliffe e ammonito Huss e Girolamo, diffidandoli dal continuare a diffondere le idee del filosofo inglese nel loro insegnamento. Ciò aveva provocato vivaci proteste da parte degli studenti, i quali erano sfilati in corteo per le strade di Praga, inneggiando ai due maestri. L'anno seguente, Dietrich von Niem, teologo della curia di Praga, aveva scritto un libello Contra damnatos Wiclifistas, e Jan Huss, costretto a lasciare l'insegnamento, si era dato a predicare in pubblico, organizzando conferenze tra artigiani e gente del popolo. Denunciato dal clero e invitato a presentarsi a Roma per l'inquisizione delle sue tesi, egli allora aveva mandato come propri avvocati due discepoli, che erano stati processati e incarcerati, mentre contro di lui, il papa Giovanni XXII aveva emesso una bolla di scomunica. A Praga la scomunica di Huss era stata accolta con una sollevazione popolare, e la bolla papale era stata bruciata in piazza. Il vescovo aveva lanciato l'interdetto contro la città, e molti dimostranti erano stati immediatamente giustiziati con la decapitazione. I compagni ne avevano rapito i cadaveri per seppellirli nella cappella di Bethléem, e Huss ne aveva recitato l'elogio funebre, chiamandoli "i martiri che hanno dato la vita per la legge di Dio". Ora, nel 1414, citato a presentarsi al Concilio di Costanza, Huss, sebbene fornito di salvacondotto dell'imperatore Sigismondo, fu arrestato a tradimento e alla conclusione di un lungo processo, nel quale egli rifiutò di abiurare dalle proprie tesi, venne arso sul rogo e le sue ceneri gettate nel Reno. La stessa sorte toccò, dopo un anno intero di orribile carcere, costretto
194 a giacere in mezzo ai propri escrementi, a Girolamo da Praga, che si era presentato spontaneamente a Costanza per sostenere l'ami- U mito di una religione a misura d'uomo o e per porre in chiaro la propria innocenza. La sua fine è stata descritta dall'umanista Poggio Bracciolini, che si trovò presente, quale membro del Concilio, al seguito del pontefice. [Vedi Documenti n. 1.] La motivazione della condanna al rogo era stata, per l'uno e per l'altro, l'aver predicato "cose contrarie alla fede e ai buoni costumi". E sì che proprio quel Concilio di Costanza era stato radunato sotto l'urgenza del vergognoso esempio di malcostume dato dalla Chiesa, con la spartizione dell'Europa cattolica fra tre pontefici, avversi l'uno all'altro! Quanto a Wycliffe, il Concilio di Costanza, nella sua ottava sezione, il 4 maggio del 1415, lo condannò come eretico, decretando che i suoi resti umani (poiché egli era morto nel 1384) venissero esumati e arsi sul rogo. Tale macabra impresa sarà eseguita nel 1418 dal vescovo di Lincoln. Le fiamme dei roghi di Jan Huss e di Girolamo da Praga provocarono in Boemia l'incendio della rivoluzione. Dapprima l'eredità dell'hussitismo fu raccolta da predicatori coraggiosi come Martin Huska e Vaclav Koranda, poi, nel 1418, da Jakoubek di Stribo, già discepolo di Huss, che trovò come simbolo unitario della fratellanza hussita il calice, che, nell'eucarestia, veniva offerto insieme col pane per celebrare la comunione "sotto le due specie", secondo quella che era stata l'istituzione tramandata dai Vangeli. Questa usanza voleva anche indicare una delle principali rivendicazioni religiose e sociali degli hussiti: l'uguaglianza dei laici e del clero nella partecipazione al sacramento, con l'identica consumazione del corpo di Cristo sotto le sue specie, il pane e il vino. Il calice veniva dato anche ai bambini, e nella ricca fioritura di inni hussiti ve n'era appunto uno che diceva: Gesù ci ha dato il suo corpo da mangiare e il suo sacro sangue da bere. Non neghiamolo ai bambini, perché di loro è il regno dei cieli, come Cristo ci ha detto. I fedeli che accettarono questa innovazione furono detti calinisti (da calice) o anche utraquisti (da utraque specie, "sotto le due specie"),
195 e il Concilio di Costanza giunse ancora in tempo, nelle sue ultime sessioni, per condannarli come eretici. Ma nel 1419, alla morte del re di Boemia Venceslao, che non aveva eredi diretti, il trono passò al fratello Sigismondo, già re di Ungheria e imperatore - e che come tale aveva presieduto il Concilio di Costanza e approvato la condanna di Huss e di Girolamo da Praga provocò una scissione tra gli hussiti. Gli utraquisti, dopo aver difeso per qualche tempo, con le armi, il loro diritto di libertà religiosa, capeggiati da Jan Zizka, già cavaliere alla corte di Venceslao, che guidò anche una rivolta a Praga in cui vennero defenestrati dal palazzo comunale quattro consiglieri cattolici dell'imperatore tedesco, alla fine si piegarono a un accordo con la nobiltà ceca. Invece, un gruppo di hussiti estremisti, in maggioranza servi della gleba e piccoli artigiani, si ritirarono nel sud della Boemia, nella cittadina di Tábor, sul fiume Luznice, facendone il baluardo della loro resistenza. I taboriti si impegnarono a continuare la lotta fino alla distruzione di tutti i nemici di Dio, delle chiese e dei castelli feudali. Numerose spedizioni militari ordinate dall'imperatore Sigismondo e organizzate dal clero cattolico furono da loro respinte. Il chiliasmo (millenarismo) dei taboriti non era solo un'attesa religiosa, ma un'ideologia rivoluzionaria: non si doveva attendere passivamente la venuta di Cristo, ma preparargli la strada. A Tábor furono stilati rigorosi articoli che impegnavano i fratelli e le sorelle a lottare per l'instaurazione dell'uguaglianza sociale, già vivendone le premesse. [Vedi Documenti n. 2.] La Comunità dei fratelli e delle sorelle di Tábor conservò questo suo carattere fino al 1421, quando ne prese la direzione lo stesso Jan Zizka, che pur continuando a difendere Tábor dagli attacchi degli eserciti cattolici, non tollerò l'eccessivo radicalismo verso cui si era indirizzata la setta e si sbarazzò con la violenza di coloro che contrastavano la sua politica moderata: alcune centinaia di taboriti furono decapitati o arsi sul rogo. Anche un piccolo gruppo di estremisti che all'arrivo di Zizka si era allontanato da Tábor, al seguito del predicatore Martin Huèka, fu sterminato e Zizka, per giustificare la strage che ne fece, accusò questi hussiti di immoralità, chiamandoli adamiti, perché le loro aspirazioni a un mondo di uguaglianza assoluta e di comunità dei beni, quasi un ritorno allo stato naturale primitivo, o meglio a un nuovo paradiso terrestre, li avrebbero indotti a praticare il nudismo
196 e l'uso libero di tutte le cose, comprese le donne. La morte di Zizka per pestilenza nel 1424, portò comunque il movimento hussita a una rapida dissoluzione. Gli utraquisti abbandonarono totalmente ogni velleità rivoluzionaria, e i taboriti, col nuovo capo, Procopio il Grande, si videro perseguitati anche da loro. La battaglia di Lipany, nel 434, vide le due fratellanze in lotta fra di lo- Il mito di una religione a misura d'uomo o e la resistenza fino ad allora indomita dei radicali di Tábor venne fiaccata con la strage. Questo segnò la fine dell'hussitismo come movimento sociale e politico. Il nuovo capo utraquista, Petr Chelcicky nei suoi scritti si limita ad auspicare il ritorno dei cristiani alla purezza evangelica e attacca la Chiesa e le classi sociali corrotte, ma condanna il chiliasmo rivoluzionario e proclama la necessità dei cristiani di vivere in comunità religiose appartate dal mondo. Anche in Russia, probabilmente non per influsso diretto degli hussiti, ma per la pressione di analoghe esigenze sociali ed economiche, vi furono in quegli anni fermenti di rivolta, che si nutrivano di motivazioni religiose. Gli strigólniki promovevano tra il popolo un'interpretazione razionale dei testi sacri, affermando che la parola di Dio non dev'essere una limitazione della libertà personale ma la guida consapevole a un giusto comportamento; il predicatore Aleksei di Novgorod esaltava la sovranità dell'uomo per la sua capacità di conoscere e scegliere il bene come fine del proprio agire. Questa sua asserzione aveva pure un evidente riferimento alla vita sociale, tanto è vero che i teologi suoi avversari gli obiettavano che se Dio avesse voluto creare l'uomo capace di autogovernarsi non avrebbe permesso l'istituzione di monarchi, principi e autorità civili. Analogamente Fedor Kouritsyne, segretario dello zar Ivan III, commentando la Lettera ai Laodicesi dell'apostolo Paolo, spiegava che il versetto "l'anima è sovrana, la fede è la sua barriera", non significa che la fede debba impedire la libertà dello spirito, ma farle da guida verso la ricerca della verità. Nuovi moti penitenziali, pauperistici e apocalittici.
L'unico frutto del Concilio di Costanza (che si era proposto la
197 riforma della Chiesa) fu l'affermazione della superiorità del Concilio dei vescovi sul pontefice, considerato unus inter pares, e del suo diritto di deporre e scomunicare i papi ritenuti indegni per condotta o per eresia. Poteva essere un passo avanti verso il riconoscimento di uguaglianza di fronte a Dio di tutti i membri della Chiesa, sebbene ancora limitata, per il momento, alle più alte gerarchie ecclesiastiche; ma questa rivendicazione fu poi sempre violata dal comportamento assolutistico dei pontefici, e in qualche momento apertamente rinnegata. Il problema tornerà a essere dibattuto, ma invano, nel Concilio ecumenico del 1962. Altre innovazioni non vi furono a Costanza. I papi e l'alto clero continuarono per la via che avevano ormai intrapreso del dispotismo, degli scandali, degli intrighi politici, dell'intolleranza per qualsiasi libertà di pensiero o disubbidienza alla loro autorità. Nel 1423 il papa Martino V indisse il nuovo giubileo per il prossimo venticinquennio, distribuendo per l'occasione, a principi e a nobildonne, rose d'oro, spade e copricapi d'onore, e facendosi acclamare per le vie di Roma, dall'alto di un baldacchino di porpora portato a spalle da quattro gentiluomini, mentre la città, come la descrisse il Platina, celebre umanista insofferente alla corruzione della corte papale, aveva "le case che crollavano, le strade sordide e melanconiche, la gente abbandonata a se stessa in una spaventosa miseria". Per mostrare alla massa una parvenza di moralità, la Chiesa autorizzò quell'anno il predicatore Bernardino da Siena a evangelizzare per ottanta giorni la popolazione romana, e alla fine far erigere in Campidoglio un immenso rogo, nel quale si bruciarono biglietti del lotto, carte da gioco e strumenti musicali. Naturalmente, a questa discutibile interpretazione della crisi spirituale dei tempi, attribuita alla ricerca di innocenti svaghi mondani da parte del popolino, si contrapponeva, sempre vivacemente polemica, la denuncia di una ben più biasimevole mondanità del vertice della Chiesa, condotta da predicatori pauperistici e apocalittici, che pertanto venivano perseguitati. Proprio mentre era insediato il Concilio a Costanza, si era avuto un risveglio di manifestazioni di flagellanti, soprattutto in Germania, per suggestione di nuove profezie su di un imminente giudizio universale, e nella sola città di Sangerhausen ne erano stati mandati al rogo circa quattrocento. Tanto che, siccome contemporaneamente altri penitenti percorrevano la Spagna, la Francia meridionale e l'Italia,
198 guidati dal domenicano Vicente Ferrer (che sarà poi santificato), per timore di confonderli con gli eretici, il teologo Jean Charlier de Gerson ottenne dal Concilio che si rivolgesse un appello a Vicente Ferrer affinchè desistesse dalla sua impresa. Nello stesso anno 1423, in Inghilterra si celebrò il processo contro il wicliffiano William Taylor, insegnante di teologia a Oxford, che sosteneva l'inutilità dei riti religiosi, della venerazione dei santi, delle preghiere, e affermava che nell'ostia dell'eucarestia non esiste alcuna trasformazione del pane e del vino. Un testimone presente al processo riferì che quando Taylor proferì quelle empie parole scese dal soffitto un grosso e schifoso ragno e si posò sulle sue labbra, facendo gridare al miracolo il venerabile arcivescovo di Canterbury, che stava interrogando l'eretico. La pena fu il rogo. Il mito di una religione a misura d'uomo II Italia l'inquisizione infierì sugli ultimi nuclei di fraticelli, specie nelle Marche, che erano diventate il loro nidus et receptaculum. Invece nel Magdeburgo, a Lubecca e a Cambrai si scovarono ancora membri del movimento del Libero Spirito. Furono molti i giustiziati, perché - dice il benedettino Johann Tritheim che li conobbe essi consideravano il clero ingannatore di anime e strumento del demonio, deridevano i sacramenti, i riti e la disciplina della Chiesa; e, aggiunge il Tritheim, siccome ritenevano di essere pervasi dallo Spirito Santo e quindi immuni dalla possibilità di peccare, si abbandonavano liberamente a rapporti sessuali anche con le proprie figlie e sorelle. Tuttavia, a parte queste sopravvivenze di vecchi fanatismi, ora, come già era successo per la rivoluzione hussita, per lo più la lotta religiosa non era fine a se stessa ma serviva a dare una giustificazione morale a motivi di ordine sociale ed economico, e anche patriottico. Un caso singolare, di questo genere, è rappresentato, tra il 1428 e il 1431, dall'impresa di Giovanna d'Arco, la giovanissima pastorella di Domrémy, che nell'atmosfera di perturbamento, di desolazione e di miseria in cui si trovava la Francia, travagliata dalla lunga guerra dei Cent'anni con gli inglesi e anche da conflitti interni tra armagnacchi e borgognoni, si sentì ispirata a incutere nuovo coraggio alle truppe e riuscì infatti a portarle alla vittoria definitiva di Orléans e a convincere il re Carlo VII a farsi incoronare nella cattedrale di Reims. Il rinnovamento del mondo in un'età di pace e di benessere
199 universale, predicato dagli apocalittici, aveva per Giovanna d'Arco dimensioni più modeste: la pace per il suo paese e un regno francese legittimo. Ma, fatta prigioniera a Compiègne durante uno scontro con cavalieri borgognoni, alleati agli inglesi, e rinchiusa prima nel castello di Beaurevoir, poi trasferita in carcere ad Arras, e infine richiesta dall'inquisitore di Parigi, Martín Billón, fu anch'essa, come gli apocalittici, processata per eresia e stregoneria. Dopo un estenuante interrogatorio, durante il quale la giovane dichiarò di essere stata spinta all'azione da voci di sante e dell'arcangelo Michele, gli inquisitori la condannarono al rogo con l'imputazione di "aver in maniera empia e in contrasto alla legge divina vestito abiti maschili e commesso uccisioni con le armi alla mano; di essersi presentata alla semplicità del popolo come inviata da Dio, mentre era guidata da forze diaboliche; sospetta di opinioni eretiche e atti colpevoli contro la maestà divina". [Vedi Documenti n. 3.] Altri casi di fanatismo apocalittico, messo al servizio di rivendicazioni popolari, si ebbero negli anni immediatamente successivi, di nuovo in Boemia e anche in Germania. In Boemia, e precisamente! nella città di Wirsberg, due giovani fratelli, Janko e Livin, si diedero a predicare l'abolizione della proprietà privata e dei titoli nobiliari e ' a invitare la gente a vivere in pace e in fratellanza, perché sarebbe stata imminente, nel 1467, la venuta di un nuovo Messia, il "Salvatore unto", che avrebbe sconfitto il papa Anticristo; ma dal giudizio universale sarebbero sopravvissuti solo quattordicimila eletti, quelli che fin d'ora fossero vissuti in perfetti rapporti di fratellanza, rinunciando ai propri beni e alle differenze sociali. Alla vigilia dell'atteso avvento apocalittico, in molti luoghi della Boemia scoppiarono tumulti , popolari contro il clero cattolico, con assalti di chiese e monasteri. Il re Giorgio Podiebrad difese il suo popolo dalle crociate cattoliche e fu perciò scomunicato quale "pagano"; tre anni dopo sarà però sconfitto e deposto da un'ultima crociata condotta dal re ungherese Mattia Corvino per incarico del pontefice Paolo II. Nel 1476, nella città germanica di Niklashausen, il giovane tamburino Hans Bòhm si mise a predicare che gli era apparsa la Madonna per incaricarlo di esortare i fedeli alla povertà e alla penitenza, perché era prossima la fine del mondo. Ascoltato da una folla di compaesani, egli bruciò il proprio tamburo sulla piazza, davanti alla chiesa parrocchiale, e diresse una processione a venerare la statua
200 della Vergine. Per alcuni mesi la gente accorreva anche dai paesi circostanti a udire le prediche del "santo giovane", ma infine, nel mese di luglio, il vescovo di Wiirzburg diede ordine che fosse arrestato. I devoti che lo stavano ascoltando cercarono di difenderlo e vennero caricati dalla cavalleria, lasciando sulla piazza quaranta uccisi. La stessa chiesa della Vergine, a Niklashausen, dovette essere demolita perché continuava a essere meta di pellegrinaggi anche dopo l'esecuzione sul rogo di Hans Bohm e di due suoi discepoli. Di proporzioni assai più vaste e importanti fu intanto, alla metà del secolo, una ripresa in Boemia delle aspirazioni religioso-sociali dell'hussitismo, sebbene moderate dalla delusione per la sconfitta taborita, fino ad acquietarsi in una rassegnata attesa apocalittica e in una predicazione pauperistica, non dissimile da quella dei valdesi e dei francescani del secolo precedente. Questo, almeno, in Petr Chelcicky, da noi già nominato, e in alcuni suoi discepoli che, ancora lui vivente, nel 1457 fondarono nel villaggio di Kunvald la Comunità dei fratelli boemi o fratelli moravi, separata dalla chiesa utraquistaEssi, pur respingendo la violenza dei taboriti, ne accettavano le dottrine radicali sui sacramenti, soprattutto sull'eucarestia, e negavano il mito di una religione a misura d'uomo ubbidienza alle autorità civili e religiose, eleggendo sacerdoti e giudici civili tra i propri affiliati. Verso la fine del Quattrocento sarà la città di Firenze a essere scossa da un'ultima irruente predicazione profetica e apocalittica. Sul soglio pontificio si era succeduta, lungo tutto il secolo, una serie di papi simoniaci, di costumi depravati, i quali avevano esercitato uno sfacciato nepotismo, elevando al cappello cardinalizio i propri figli o altri congiunti, anche di dodici o tredici anni di età, e arricchendo scandalosamente le loro famiglie. Il meno corrotto di tali papi, Pio II, il noto poeta e scrittore Enea Silvio Piccolomini, autore di elegie e di commedie licenziose, eletto pontefice dopo una vita galante e avventurosa, ha raccontato egli stesso, piacevolmente, i retroscena della propria nomina. Ora, al tramonto del secolo, era pontefice Alessandro VI Borgia, rimasto famoso per la sua corruzione e soprattutto per quella dei primi due, tra i dieci figli che ebbe da donne diverse: Cesare e Lucrezia. Contro simili scandali, ma anche contro la condotta non meno riprovevole della ricca borghesia fiorentina, tuonarono allora le predicazioni
201 del domenicano Girolamo Savonarola, eccitando la plebe contro i potenti della terra. Savonarola toccò l'estremo del fanatismo nel 1494, allorché la calata di Carlo Vili parve dare conferma alle sue profezie circa la venuta di un "nuovo Ciro", giustiziere della società putrefatta. Questo gli accrebbe credito da parte degli ascoltatori. Circa seimila giovinetti, tutti inferiori ai diciotto anni, si misero al servizio del Savonarola e dietro suo ordine andarono per la città, racconta il cronista Jacopo Nardi, "a spegnere i giochi e gli altri vizi, togliendo carte e dadi, e libri d'innamoramenti e di novellacce, e quadri e oggetti preziosi, e tutto mandavano al fuoco; e ancora andavano per le strade, e se avessero trovato qualcuna di quelle giovani pompose, con istrascichi e con fogge disoneste, la salutavano dicendo: Gentile donna, ricordatevi che voi avete a morire, e lasciate codeste vanità". Scomunicato nel 1497 da papa Alessandro VI, Girolamo Savonarola contestò la scomunica e fu sfidato alla prova del fuoco dal francescano Francesco Rondinelli. Un suo discepolo, Domenico da Pescia, tanto coraggioso quanto imprudente, accettò di sottomettersi alla prova, al suo posto, per dimostrarne l'innocenza. Un temporale improvviso impedì la dimostrazione. Alcuni mesi dopo questo episodio, nel 1498, gli "arrabbiati" e i "compagnacci", com'erano chiamati i seguaci del Savonarola, organizzarono un assalto al convento di San Marco. Il papa, che aveva tremato prima della prova del fuoco, perché se fosse andata bene egli avrebbe forse rischiato di perdere la tiara, ora ebbe un buon motivo per far arrestare il predicatore. Dopo un penoso processo, con ripetute torture, sotto le quali più di una volta il frate fu sul punto di cedere per le sofferenze, egli fu condannato al rogo, in ubbidienza a un preciso ordine di Alessandro VI: "Che si metta a morte, anche se fosse un secondo Giovanni Battista". Il 23 maggio, Girolamo Savonarola venne impiccato e poi arso sul fuoco, insieme con i fedeli seguaci Domenico da Pescia e frate Silvestre Scriverà di lui lo storico Francesco Guicciardini: "Furono le opere sue tanto buone, che moltissimi hanno poi lungo tempo creduto lui essere stato vero messo di Dio e profeta, nonostante la scomunica". La scoperta della natura come "regnum hominis".
202 Le rivendicazioni dei diritti sociali ed economici delle classi più umili, fatte da Wycliffe e dai suoi lollardi e pochi anni dopo dagli hussiti, e le violente requisitorie di Girolamo Savonarola contro la corruzione e il lusso di sacerdoti e di laici erano ancora condizionate dall'idea di una degradazione della società da uno stato ideale e perfetto (che il mito indicava come "paradiso terrestre") a cui si aspirava tornare, magari con una rivoluzione cruenta, come tentarono di compiere i taboriti, o per mezzo di un evento apocalittico. Ma nel frattempo andava maturando, per una più pacata riflessione filosofica, attraverso il pensiero degli umanisti, la rivalutazione di questo mondo, che può essere perfetto così com'è, senza bisogno di attività rivoluzionarie o di interventi catastrofici. Esso è stato creato da Dio come sede appropriata alle creature umane, con la possibilità per l'uomo di agire in esso e di regolarlo a proprio beneficio, armonizzando se stesso alle leggi universali che lo governano. "Dio, posto l'uomo nel cuore del mondo" scriverà Pico della Mirandola intorno al 1486 "così gli parlò: la natura che per gli altri esseri è contenuta entro leggi da me prescritte, tu la determinerai secondo il tuo arbitrio; ti ho posto nel mezzo del mondo, perché da te stesso, libero e sovrano, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avrai prescelto." Già non molti anni prima, Marsilio Ficino aveva addirittura riconosciuto che "l'essenza dell'uomo è fondamentalmente simile alla natura divina, dato che l'uomo, con la propria intelligenza e abilità, governa se stesso, e non soltanto si serve degli elementi naturali, ma anche di tutti gli esseri che negli elementi vivono. Quindi, chi domina sulla natura in tante e tali cose, e fa le veci dell'immortale Iddio, è senza dubbio immortale". Questa valorizzazione della dignità dell'uomo e della sua capacità di agire sul mondo nasceva principalmente da un approccio diretto degli umanisti alla filosofia greca antica. Già fin dagli ultimi decenni del secolo XIII si erano rivolti con interesse ad Aristotele, sia pure attraverso il commento dell'arabo Averroè, ma comunque il vero Aristotele, non quello arbitrariamente piegato da Tommaso d'Aquino a conferma della propria teologia, e, sebbene proibite e condannate come eretiche, erano rimaste nel patrimonio dei dotti le sue teorie sull'eternità del mondo, sull'influsso delle sfere celesti gravitanti intorno alla terra, sull'idea di Dio come puro modello di riferimento, in quanto concetto astratto di perfezione, sull'esistenza di un'anima intellettiva,
203 comune a tutti gli uomini, e di un'anima sensitiva, lo spirito vitale legato ai sensi e perciò destinato a perire col corpo. Ora, nel Quattrocento, l'aristotelismo si contemperava più volentieri con la filosofia di Piatone, quella dei suoi dialoghi, con l'emblematica figura di Socrate, sempre teso alla ricerca della verità attraverso il ragionamento, maestro di saggezza e di equilibrio morale. L'entusiasmo degli umanisti per la scoperta del mondo quale regno dell'uomo sviluppò due indagini complementari: quella scientifica sulla natura dell'universo e sulle leggi che lo governano e quella filosofica e morale sull'uomo. L'una e l'altra portarono facilmente all'eresia. Per spiegare la natura si dovette supporre in essa l'esistenza di determinate forze che agissero secondo norme fisse, senza il continuo intervento di Dio. Lo studio di queste forze e la ricerca dei mezzi con cui potersene servire erano l'astrologia, che permetteva di riconoscere gli influssi favorevoli o sfavorevoli degli astri (un'anticipazione della astronomia) e l'alchimia (anticipazione della chimica), che riconosceva negli esseri viventi la presenza, sotto varie forme, dei quattro elementi naturali: il sangue corrispondente al fuoco, il calore, l'energia primordiale che per suo mezzo circola in tutto il corpo, quindi l'anima della carne, essenza cosmica immessa nell'individuo; le ossa, impalcatura del corpo, la luce divina che si è spenta e solidificata; l'acqua, la sorgente da cui è nata la vita, e la cui sede è il rene in cui il sangue si purifica. Come il cuore è la sede del sangue, così il rene è il centro dell'acqua, ed essendo collocato presso gli organi genitali è la sede degli istinti. Non solo gli animali, ma anche i vegetali e i minerali posseggono le stesse funzioni: le piante respirano, hanno una linfa, corrispondente al sangue, organi di riproduzione (il polline), e uno scheletro, che è il tronco o il fusto. I minerali sono la pietrificazione di queste qualità, che per mezzo del calore escono liquefatte e si possono separare. Compito degli alchimisti era quindi separarle, estrarre quelle essenziali, fabbricare con esse medicamenti, e infine scoprire l'elisir di lunga vita, il segreto dell'eterna giovinezza. L'alchimia, considerata dalla Chiesa attività magica con l'aiuto del demonio, era già stata condannata nel 1317 da papa Giovanni XXII con la bolla Spondet pariter, e una delle prime vittime era stato Nikolas Flamel. Ma ora nel Cinquecento prendeva nuovo impulso in coerenza con la rivalutazione della natura fatta dagli umanisti.
204 Quanto alla condizione morale dell'uomo e dei suoi compiti, gli umanisti giunsero alla scoperta che quei valori, predicati dalla Chiesa come verità rivelate, erano già stati esaltati dai filosofi dell'antica Grecia, e Cicerone e Lucrezio soprattutto ne erano stati i divulgatori latini. Ciò portava a concludere che il cristianesimo si poteva conglobare con tutte le altre forme di fede in una religione universale. Pertanto l'ideale degli umanisti - e ciò costituiva il fondamento della loro eresia - era non più la sottomissione passiva a una legge morale imposta dall'autorità della Chiesa, ma la libera e consapevole accettazione di una moralità dettata dal buon senso razionale degli individui per un comportamento onesto e virtuoso. Già nei primi decenni del secolo, Poggio Bracciolini, segretario della curia pontificia, in un suo dialogo De avaritia, riecheggiando i pensieri dei Padri della Chiesa, ma soprattutto di Cicerone e di filosofi stoici dell'antica Grecia, trovava un giusto equilibrio tra l'elogio della ricchezza, se fattore di benessere collettivo, e la condanna dell'avidità egoistica di denaro, radice di tutti i mali. Egli tuttavia ritardò la pubblicazione dell'opera per non offendere papa Martino V, notoriamente macchiato del vizio dell'avarizia. Naturalmente, elogiando la ricchezza spesa per il miglioramento delle condizioni economiche generali, Bracciolini polemizzava con la tradizione pauperistica che insegna la rinuncia dei beni e la scelta della povertà come virtù evangelica: "Non obiettarmi quei rozzi, ipocriti parassiti, che vanno in giro dando la caccia al vitto, senza lavorare e faticare, col pretesto della religione, predicando agli altri la povertà e il disprezzo dei beni. Noi non costruiremmo le nostre città con codeste larve di uomini, che nell'ozio più completo si mantengono col nostro lavoro". Parimenti, egli celebrava la virtus umana come equilibrio fisico e spirituale, desiderio di felicità e di gloria, amore per il lavoro e lo studio. Ma la più entusiasmante esaltazione della gioia di vivere, di godere appieno del dono divino dell'esistenza contro cui peccano i rinunciatari e gli asceti, è nel De voluptate di Lorenzo Valla, di pochi anni posteriore al dialogo di Bracciolini. Il De voluptate sconfina apertamente in un felice epicureismo lucreziano, col rischio di deificare il piacere e, attraverso esso, la natura. L'opera infatti dovette essere sfrondata in un rifacimento successivo, in seguito alle critiche e alle minacce di scomunica subite dall'autore per alcune proposizioni
205 eretiche, come i dubbi espressi sulla verginità della Madonna. Con uguale calore, Valla conduce la polemica contro la teologia tomista, adottata dalla Chiesa, nel De libero arbitrio, in cui afferma la necessità di un abbandono totale dell'anima a Dio attraverso l'amore per la natura: solo armonizzandoci con l'innocenza della natura, che è opera divina, noi ci faremo degni di Dio. Il Valla, sempre onorato da papi e sovrani, non ebbe fastidi con l'inquisizione, salvo qualche critica alla prima stesura del De voluptate, neppure quando attaccò con violenza la corruzione del clero nel trattato De professione religiosorum. Ma non poté sfuggire alle ire della curia romana allorché, nel 1444, pubblicò la celebre opera De falso eredita et bene ementita Constantini donatione, con la quale egli fu il primo a demolire scientificamente la giustificazione del potere temporale della Chiesa. Fondandosi su dati storici e giuridici e soprattutto attraverso un erudito esame linguistico del documento contenente la supposta donazione di Costantino a papa Silvestro, Lorenzo Valla dimostra come esso non possa risalire ai tempi di Costantino e di Silvestro, ma sia un falso, creato ai tempi di Carlo Magno. [Vedi Documenti n. 4.] Sebbene protetto da Alfonso d'Aragona, il Valla venne perseguitato dalla curia papale che gli intentò un processo per eresia, deducendo dall'intera sua opera di umanista diverse bestemmie teologiche. Un'attenta lettura dei Vangeli, direttamente sui manoscritti greci, e il confronto tra un codex pervetustus delle Sacre Scritture e testi più recenti, portarono un altro umanista, Pedro de Osma, professore di teologia a Salamanca, a scoprire ben seicento passi in cui l'originale è stato alterato con aggiunte e correzioni che modificano arbitrariamente la parola degli evangelisti. L'arcivescovo di Toledo condannò Pedro de Osma come eretico, lo sospese dall'insegnamento e ordinò la distruzione dei suoi scritti. Per analoghi motivi nel 1479 fu condannato come eretico Johann Ruckerath, conosciuto anche col nome di Giovanni di Wessel, insegnante di teologia a Erfurt e predicatore nella cattedrale di Worms. Dallo studio della letteratura patristica egli aveva infatti dedotto che i i Padri della Chiesa avevano dato spesso interpretazioni inesatte delle Sacre Scritture, e quindi sosteneva, per esempio, che non esiste il peccato originale, che la confessione, la benedizione, l'estrema unzione e altri riti della Chiesa non sono stati istituiti dagli apostoli e perciò sono inutili.
206 La critica al comportamento della Chiesa e ai suoi fondamenti teologici, aggiunta al grande culto per la civiltà romana, poté persino suscitare un risveglio d'interesse anche per la religione pagana in taluni umanisti, come i membri dell'Accademia fondata a Roma da Giulio Pomponio Leto. Di costoro si disse che celebravano riti pagani, e Pomponio Leto e altri due accademici, Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, e Filippo Buonaccorsi furono incarcerati, sottoposti a tortura, e più tardi anche accusati di aver ordito una congiura contro papa Paolo IL Ma il pericolo reale, che minacciava di scuotere alle basi la dottrina cristiana sulla natura del mondo e dell'uomo, ossia la credenza nella creazione, nelle potenze demoniache responsabili del male, nel condizionamento dell'uomo all'arbitrio della divinità, era rappresentato dagli studi degli umanisti sulle leggi universali che regolano il mondo stesso. Per il momento, una meditazione sugli influssi esercitati nella vita terrena dal sole, dalla luna e dagli altri astri celesti, faceva intensificare gli studi di astrologia che, sebbene ancora impacciati dalla superstizione, preludevano alle scoperte astronomiche dei secoli successivi. Quando, nel 1482, Marsilio Ficino scriveva: "Se l'uomo riesce a intendere l'ordinamento dei cieli, di dove essi traggano il loro moto e la loro direzione, chi negherà che egli abbia quasi lo stesso ingegno (per così dire) che ha il creatore dei cieli?", anticipava Copernico e Galileo, e anticipava Cartesio intuendo che "l'anima è parte nell'eternità, parte nel tempo, perché la sustanzia sua è sempre quella medesima senza alcuna mutazione di crescere e di scemare". Il problema di fondo della Theologia platonica di Ficino era infatti l'immortalità dell'anima, con il tentativo di conciliare il dogma cristiano con il concetto umanistico-platonico dell'anima razionale. Secondo Marsilio Ficino, l'immortalità si consegue "conoscendo" appieno quale sia la struttura dell'universo e quella dell'uomo ed elevandosi misticamente al di sopra, per riconoscerne l'impronta creatrice di Dio. In questa mescolanza teologico-scientifica, entrava anche l'idea del Ficino che la natura fosse governata dagli astri e che "qualunque oggetto materiale, se è colpito da un influsso celeste, diviene potentissimo agente di meravigliosa forza vitale". Questo fervore di studi, particolarmente attivi nell'Accademia
207 platonica, fondata a Firenze dal Ficino, sotto la protezione di Lorenzo de' Medici, era visto con grande sospetto dalla Chiesa: indagare sulle forze misteriose della natura è magia, perché significa evocare le potenze demoniache. Ma già quattro anni dopo la pubblicazione della Theologia, un altro umanista, Giovanni Pico della Mirandola, celebre tra l'altro per la sua prodigiosa memoria, nelle 900 Conclusiones filosofico-scientifiche esposte a Roma, con l'invito alla discussione a tutti i dotti d'Italia, faceva distinzione tra magia "nera", evocatrice di demoni, e magia "naturale", che è "lo studio delle virtù degli elementi della natura". Tra la fine del Quattrocento e la metà del Cinquecento, soprattutto a partire dal 1492, l'anno in cui il decreto di espulsione dalla Spagna degli ebrei ne determinò un grande flusso migratorio verso altri paesi, cominciò a fiorire la tendenza alla meditazione mistica e magica sull'universo e sulle sue leggi, in base appunto alla cabbala ebraica. La cabbala (dall'ebraico qabbalah, "tradizione") era costituita da testi ebraici diversi, di origine medievale, e specialmente dal Sefer ha Zohar (Libro dello Splendore), tradotto già nel Trecento da Mosè di Leon, il quale accoglieva dal neoplatonismo il concetto che la natura e l'uomo siano un grandioso processo di emanazione divina. In esso gli astri, le creature angeliche, gli elementi naturali, erano indicati con segni simbolici, e a ciascuna lettera dell'alfabeto corrispondeva un numero, così che era anche possibile trarre oroscopi. Fu ora un altro ebreo, Elia del Medigo, a dare nuovo impulso alla ricerca cabbalistica, esercitando un'influenza duratura anche nel secolo successivo, con la sua opera, Dialoghi d'amore, scritta in italiano sotto lo pseudonimo Abrabanel, imbevuta di neoplatonismo. Nel 1505, Ludovico Lazzarelli nel Crater Hermetis spiegava che la felicità suprema consiste della conoscenza della Verità divina, che i testi sacri di ogni tempo hanno nascosto sotto simboli: è compito egli diceva - degli iniziati squarciare questo velo e ritrovare la presenza di Dio in tutte le armonie matematiche. È evidente come queste tesi sfociassero nel concetto di una religione universale, che conglobava le credenze magiche dell'antico Oriente (caldei, persiani, egizi) nel cristianesimo, anzi superava lo stesso cristianesimo con la svalutazione dei suoi miti e dogmi. Anche la morale cristiana perdeva la sua prerogativa di validità assoluta ed esclusiva,
208 basata sull'interpretazione autoritativa della Chiesa,! Era un passo notevole verso la razionalizzazione della morale cornei ricerca personale del singolo credente. L'umanista Pico della Mirandola era a conoscenza della cabbala già dal 1488, quando compose una Oratio de hominis dignitate, in cui affermava che "nessuna scienza ci fornisce un maggior numero di] prove della divinità di Cristo della magia e della cabbala", e poi dimostrava : questa sua credenza in un commento biblico dal titolo: Heptaplus. Dopo gli scritti di Pico della Mirandola, ne fiorirono numerosi altri durante il Cinquecento: nel 1516 l'opera cabbalistica che avrà enorme successo, il De arcanis catholicae veritatis del francescano Pietro Galatino, e poi il suo trattato, disseminato di esoterismo e profezie, Chiesa costituita, destituita, restituita e un Commentario dell'Apocalisse. Di carattere cabbalistico furono pure il De harmonía mundi (1525) e i Problemata (1536) di Francesco Giorgio da Venezia, imprudentemente dedicati a papa Clemente VIII, che li fece censurare. E già nel 1516, il domenicano Agostino Giustiniani, professore di ebraico all'Università di Parigi, aveva commentato agli studenti "i settantadue nomi di Dio in latino e in ebraico" e aveva scritto un Salterio poliglotta, in cinque lingue, con note in latino che riportavano passi dello Zohar da lui tradotto. In Germania il più entusiasta cabbalista fu Johannes Reuchlin, che nei primi decenni del Cinquecento difese la mistica ebraica e il Talmud, intervenendo nelle polemiche tra umanisti e teologi in modo da suscitare le reazioni degli inquisitori di Magonza e di Roma. Il suo allievo Johann Tritheim (Trithemius), abate benedettino a Sponheim, si servì della cabbala per dimostrare che "Dio non è al di sopra di noi, ma al centro dell'universo". Ma forse il cabbalista e mago più celebre in Germania a quei tempi fu Cornelius Agrippa di Nettesheim che riuscì a sfuggire all'inquisizione grazie alla protezione di Luisa di Savoia (la madre di Francesco I di Francia) di cui era medico. Nel De occulta philosophia, edito nel 1510, egli indaga i segreti della natura, svela i misteri celati simbolicamente nelle lettere dell'alfabeto ebraico, secondo i principi della teosofia pitagorica, e interpreta il significato dei nomi degli angeli. Noti cabbalisti furono anche il francese Joseph-Juste Scaliger, e il danese Ticho Brahe, che nella sua Enciclica dei segreti dell'eternità interpretò
209 esotericamente la comparsa di una cometa nel 1572. Ma un vero passo avanti nella conoscenza della natura e dell'uomo era già stato fatto nel primo ventennio del secolo XVI dal filosofo bolognese Pietro Pomponazzi, morto suicida nel 1525, deluso dalle critiche dei teologi, per evitare una sicura condanna al rogo. Nel De naturalium effectuum admirandorum causis, egli confutava la credenza superstiziosa nei miracoli, spiegandoli come eventi naturali secondo un determinismo astrologico, e nel De immortaliate animae negava l'esistenza di un'anima separata dal corpo, affermando che essa è solo una "qualità" materiale, il "soffio vitale" che gli ebrei chiamavano nefesh, che permette al corpo di muoversi, di agire, di pensare, e quindi cessa con la morte del corpo stesso. La Chiesa perseguitò di volta in volta questi studiosi comprendendoli in un'unica condanna, come nell'ottava sessione del Concilio laterano (ottobre 1513) in cui si era stabilito che "tutti coloro che aderiscono a queste asserzioni erronee devono essere puniti come detestabili e abominevoli eretici ed infedeli, che diffondono esecrabili eresie e oltraggiano la fede cattolica". In effetti la Chiesa, più che dal contenuto eretico di tali scritti, era preoccupata che essi servissero a diffondere un'incauta utilizzazione delle possibilità operative dell'uomo sulle forze della natura. E in realtà questa utilizzazione già veniva praticata da parte del popolino stesso, specie nelle campagne, come sopravvivenza di antiche credenze nei poteri magici di certi elementi naturali e nella capacità di talune persone di servirsene, in bene o in male. E i teologi non capirono che, caso mai, quei nuovi studiosi miravano proprio a sradicare la superstizione, dimostrando scientificamente che le proprietà degli elementi sono tali per natura e non per influssi soprannaturali. Ma alla Chiesa faceva comodo accusare gli umanisti dell'esistenza di guaritori empirici, maghi, streghe, fattucchiere, per poter colpire gli unì e gli altri. Proprio già un anno prima che Pico della Mirandola nelle sue tesi distinguesse tra magia nera e magia naturale, nel 1484, papa Innocenzo VIII Aveva emanato la bolla Sumtnis desiderantes affectibus in cui lamentava che "molte persone, dimentiche della propria salvezza, e deviando dalla fede cattolica, si danno in braccio ai diavoli e mediante incantesimi, scongiuri, sortilegi, fanno morire i parti nel seno delle madri, le figliate degli animali, i prodotti della terra, e rendono gli uomini impotenti e le donne inabili al concepimento".
210 Era inutile ogni sforzo di studiosi: la Chiesa non poteva rinunciare allo spauracchio dei diavoli per tenere nell'ignoranza e nella sottomissione le masse. Siccome era stato segnalato a Innocenzo che tali misfatti avvenivano soprattutto nei territori di Brema, Colonia, Magonza, Salisburgo e Treviri, egli affidò ai "diletti figli" Heinrich Kramer e Jacob Sprenger, domenicani, il compito di "restituire la pace e la salute a quelle sventurate genti", ed essi nel 1486 compilarono il terribile trattato contro le streghe, Malleus maleficarum. Alcuni vescovi lamentarono l'eccessiva severità di torture proposte dai due inquisitori, che atterriva i fedeli, anche innocenti. Ma senza risultato. La persecuzione della magia e stregoneria, che già nel Trecento aveva mietuto innumerevoli vittime, ora s'intensificava e si estendeva. Furono mandati al rogo, indiscriminatamente, dopo averli sottoposti a interrogatori estenuanti e crudeli torture, denudati per cercare sul loro corpo il marchio di Satana, non solo studiosi, come Gilles de Rais, che era stato compagno d'armi di Giovanna d'Arco, poi ritiratosi nel proprio castello in Borgogna per dedicarsi a ricerche alchimistiche, accusato di aver fatto morire centinaia di bambini per soddisfare ì propri istinti diabolici e condannato a morte per strangolamento, ma anche modeste guaritori di paese, che si servivano di unguenti e impiastri fatti con le erbe. Sarebbe impossibile menzionare tutte le persone che subirono il rogo per magia e stregoneria nel secolo XV. Fu una strage che, aggiunta a quella del secolo precedente, comprende alcuni milioni di vittime. Basterà, per il Quattrocento, indicare il numero dei roghi fatti accendere da uno solo tra i molti inquisitori di quell'epoca: il domenicano Tomas de Torquemada, eletto a quell'incarico per la Spagna da Ferdinando d'Aragona, col benestare di papa Sisto IV: soltanto nella città di Tolosa, nel solo anno 1489, arsero per suo ordine 6.687 roghi! La paura del diavolo fece immaginare che egli si servisse non solo di maghi e streghe per compiere i suoi malefici, e gli ecclesiastici non si limitarono a preghiere e scongiuri, ma impostarono anche veri e propri processi ad animali che ritenevano suoi strumenti. Già nei secoli precedenti la mentalità morbosa soprattutto di monache, estenuate da penitenze e digiuni, faceva loro credere di essere tormentate da demoni sotto aspetto di cani o altri animali, ma ora, negli archivi vescovili di parecchie città si trovavano verbali di processi
211 a locuste che infestavano i campi, come a Berna nel 1479, e in parecchie altre occasioni a maiali accusati di omicidio, a ratti, topi, eccetera. Era costume acchiappare alcuni esemplari di questi animali e tradurli davanti al banco della giustizia, per poi ucciderli dopo regolare processo, estendendo la maledizione a tutta la loro specie. Un eminente giurista francese, Bartolomé Chassenée, scrisse per questo scopo un manuale De excommunicatione animalium insectorum. L'inquisitore Torquemada fu anche l'inventore degli auto da fé, ossia spettacolari processi pubblici, che terminavano con l'accompagnamento dei condannati al supplizio in una solenne processione di sacerdoti e fedeli, durante la quale coloro che in extremis recitavano un "atto di fede" appunto, dichiarandosi pentiti, ottenevano la concessione di venire strozzati prima di essere posti sul rogo. Né la caccia alle streghe distolse dalla persecuzione di altre forme di eresia. Lo stesso Torquemada estese la propria attività ai moriscos, cioè ai musulmani residenti in Spagna, restii a convertirsi al cattolicesimo, e agli ebrei. E papa Innocenzo Vili non si dimenticò dei sempre odiati valdesi. Anzi, nel 1487 pensò addirittura di sollevare contro di loro una crociata popolare, emanando una bolla, con la quale incitava: "Tutti i fedeli insorgano contro i Valdesi e li calpestino come vipere velenose, senza tralasciare alcun sforzo per lo sterminio e la distruzione di questi eretici: opera santa e assolutamente necessaria". Alla fine del secolo, la scoperta dell'America cominciò a porre altri gravi problemi ai teologi: la redenzione di Cristo riguardava anche le sconosciute popolazioni del nuovo continente? Gli indios d'America si dovranno considerare dannati, essendo vissuti fin ora fuori della fede cristiana? Per il momento i conquistadores potevano impunemente sterminarli o farli schiavi, in quanto pagani. Più tardi verrà organizzata un'intensa attività missionaria, condotta da gesuiti, per convertirli, naturalmente con pieno disprezzo della loro cultura e delle loro diverse tradizioni religiose, con feroci sterminii di coloro che non accettavano la nuova fede. Il domenicano spagnolo Bartolomé de Las Casas, che aveva accompagnato Cristoforo Colombo, per alcuni anni combattè anch'egli contro gli indios, impiegandoli come schiavi nelle sue piantagioni, ma nel 1510 si ricredette e intervenne presso l'imperatore Carlo V a loro favore, cominciando anche a scrivere un gran numero di opere in cui denuncia i misfatti dei conquistadores. Tra l'altro riferisce che, avendo il re degli Incas in
212 una data circostanza, l'uso di offrire ai propri dignitari una fetta di pasticcio rotondo fatto con granoturco (la polenta), in onore al dio Sole, a cui alludono la forma e il colore del pasticcio, e poi distribuire calici di succo di agave, i gesuiti, scandalizzati, sostennero che era quella una parodia della comunione cristiana, suggerita dai diavoli per disprezzo del cristianesimo, e ne trassero motivo per giustificare lo sterminio degli indios. Nel 1547, Las Casas, egli stesso accusato di eresia e di tradimento, amareggiato, si ritirerà in un convento, fino alla morte. DOCUMENTI.
1. Girolamo da Praga.
Pochi giorni dopo il mio ritorno a Costanza, si cominciò a discutere pubblicamente la causa di Girolamo da Praga, che dicono eretico. Ho deciso di '.. riferirtene, sia per la gravità dell'avvenimento, sia, soprattutto, per L'eloquenza e la dottrina dell'uomo. Confesso di non avere mai visto nessuna che, specialmente in una causa capitale, si avvicinasse di più all'eloquenza di quegli antichi che tanto ammiriamo. Era mirabile cosa a vedersi con quali accenti, con quale eloquenza, con quale aspetto, con quale fiducia, rispondeva agli avversali e infine perorava la sua causa; tanto che è da rimpiangere che un ingegno così nobile ed eccellente si volgesse all'eresia, se è poi vero quello di cui l'accusano ... Essendogli stato permesso di parlare: "Io so" disse "o dottissimi uomini, che molti, pur eccellenti, soffrirono cose indegne della loro virtù, rovinati da falsi testimoni, condannati da giudici iniquissimi". E, cominciando, ricordò Socrate che, ingiustamente condannato dai suoi concittadini, non volle fuggire, pur potendolo, per togliere agli uomini il timore delle due sventure che sembrano le più dure: la prigionia e la morte. Parlò quindi della prigionia di Piatone, di Anassagora, e delle torture di Zenone, della fine di Rutilio, di quella di Boezio ... Finalmente venne a lodare Giovanni Huss, condannato al rogo, chiamandolo buono, giusto e santo, e non meritevole di quella morte. E nel lodare Giovanni Hus, disse che nulla egli aveva sostenuto contro la Chiesa, ma contro l'abuso dei preti, contro la superbia,
213 il fasto e la pompa dei prelati. Infatti, poiché i patrimoni ecclesiastici sono dovuti innanzi tutto ai poveri, poi ai pellegrini, quindi alla fabbrica delle chiese: a quell'uomo buono era sembrato indegno che venissero sperperati con meretrici, in banchetti, in cani, cavalli, vesti e altre cose indegne della religione di Cristo. La sua voce era soave, chiara, sonante, accompagnata da un dignitoso gestire oratorio, esprimente l'indignazione o suscitante la pietà, che tuttavia egli né cercava né desiderava ottenere. Stava impavido, intrepido, non solo spregiando la morte, ma desiderandola, tanto che l'avresti detto un secondo Catone. O uomo degno tra gli uomini di eterno ricordo! Non intendo lodarlo per quel che sentisse in contrasto con la Chiesa, ma ammiro la dottrina,l'eloquenza, la dolcezza del dire. Con volto sereno affrontò la morte, non ebbe paura del rogo, non del genere del tormento, non del trapasso. Nessuno stoico mai andò con tanta serenità verso la morte. Mentre il rogo bruciava, cominciò a cantare un inno, che solo il fumo e le fiamme poterono interrompere. E quando il littore volle accendere il rogo alle sue spalle, perché non vedesse, esclamò: "Vieni qua e brucialo davanti ai miei occhi. Se ne avessi avuto paura non sarei mai venuto qua dal momento che potevo fuggire". Così arse quell'uomo, egregio oltre ogni credenza. Né quel famoso Muzio lasciò bruciare la sua mano con la serenità con cui questi lasciò bruciare 201 il suo corpo. Né con tanta prontezza Socrate bevve il veleno, con quanta egli salì sul rogo. [Poggio Brecciolini, Opera, in E. Garin, il Rinascimento italiano (1941), pp. 31314.I 2. Gli articoli chiliastki di Tábor (1420).
Anzitutto, in questo nostro tempo vi sarà la fine dei secoli, cioè l'estirpazione di ogni male in questo mondo. Parimenti, questo tempo non è più il tempo della grazia e della misericordia, né della clemenza verso i malvagi, nemici di Dio. Parimenti questo tempo è ormai il tempo della vendetta e del castigo sui malvagi, con la spada o con il fuoco, così che tutti i nemici della legge divina devono essere uccisi con la spada o col fuoco, oppure messi a morte in altro modo. Parimenti è maledetto colui che impedisce alla propria spada di spargere
214 il sangue carnale dei nemici di Dio. Parimenti, in questo tempo della vendetta i fratelli di Tábor sono gli angeli di Dio, mandati a condurre i buoni dalle città, dai villaggi e dai luoghi fortificati, sulle montagne, come Lot da Sodoma. Parimenti ogni cappella, chiesa o altare eretto in onore del Signore Dio o nel nome di un santo deve essere distrutto o bruciato come segno di idolatria. Parimenti ogni casa di parroci, canonici e cappellani, o ogni altra casa sacerdotale data loro in abitazione, deve essere bruciata o distrutta. Parimenti, in questo tempo di vendetta resteranno soltanto cinque città e soltanto in esse saranno salvati coloro che saranno fuggiti colà; tutte le altre città, villaggi e luoghi fortificati, insieme con tutti coloro che vi dimorano, devono essere distrutti o bruciati come Sodoma. Parimenti, a Tábor niente è mio e niente è tuo, ma hanno tutto in comune, così sempre tutto deve essere in comune per tutti e nessuno deve possedere qualcosa di proprio; altrimenti chi possiede qualcosa di proprio commette peccato mortale. Parimenti già ora in questo tempo della fine dei secoli, che si chiama giorno della vendetta, Cristo è venuto in segreto per vincere da sé o con gli angeli sopra detti la casa avversa e per provocarne la fine con la morte, vendetta per spada o fuoco, ma particolarmente per fuoco; poiché come un tempo il mondo fu rinnovato da un diluvio, così in questo tempo il mondo intero deve essere rinnovato dal fuoco terreno, e per questo tutte le città, villaggi e luoghi fortificati devono essere bruciati. Parimenti già ora alla fine dei secoli discenderà dal cielo nella sua persona corporale Cristo, che ogni occhio scorgerà, per prendere possesso qui in terra del suo regno, e appronterà una grande cena alla sua sposa, la santa chiesa, qui sulle montagne terrene, scendendo fra i commensali come un re, e sprofonderà nelle tenebre profonde tutti coloro che non porteranno la veste nuziale, insieme con rutti i malvagi che non si troveranno sulle montagne. Parimenti sulla terra non deve essere eletto re alcuno, perché Cristo stesso ormai deve regnare. Parimenti in questo tempo coloro che resteranno vivi genereranno carnalmente figli e nipoti in santo e puro matrimonio, qui in terra, sulle montagne. Parimenti in questo tempo non vi sarà sulla terra alcun regno o dominazione o sudditanza e tutte le imposte e tasse cesseranno, né alcuno costringerà a qualcosa un altro, perché tutti saranno uguali, fratelli e sorelle. Parimenti i peccatori non sono obbligati a mantenere le sacre confessioni
215 ai preti, poiché è sufficiente se il peccatore si confessa nella sua mente direttamente al signore Dio. Parimenti nessuna istituzione terrena, né qualsiasi invenzione dei sacerdoti, quali sono le ore canoniche e i messali e i libri per gli altri servizi divini, il segnarsi, il bacio del pacificale, i paramenti, la consacrazione dell'olio, dell'acqua, del sale, dei calici, del vino, del pane e delle altre cose, la rasatura del mento e la tonsura, l'incenso, l'aspersione, la benedizione, né altre invenzioni umane devono essere conservate, in quanto sono invenzioni dell'Anticristo. Parimenti nulla deve essere creduto e tenuto per fermo dai cristiani, che non sia esplicitamente detto e scritto nella Bibbia. Parimenti oltre alla Bibbia nessun scritto dei santi dottori o di qualsivoglia altri maestri e saggi deve essere letto o insegnato o predicato, poiché sono uomini che potevano errare. [F. Palacky, Archiv Cesky III, in M. T. Beonio Brocchieri Fumagalli, La Chiesa invisibile, pp. 164-79).] 3. Il processo a Giovanna d'Arco.
Giovanna fu in special modo stretta da' suoi giudici con innumerevoli dimande intorno alle sue visioni: "La voce che voi udiste era quella di un angelo?" "Erano le voci di s. Caterina e di s. Margherita. Se voi ne dubitate, mandate per informarvene a Poitiers, ove un giorno fui già interrogata su questo." "Come potete sapere che son queste due sante? Come le riconoscete l'una dall'altra?" "Le riconosco al suon della voce e al saluto, perché esse medesime si nominano quando cominciano a parlarmi." "Quale delle due vi è apparsa la prima?" "Lo sapevo un tempo, ma l'ho dimenticato ... Un gran conforto io l'ho avuto anche dall'arcangelo Michele." "Quale fu la prima voce che giunse a voi quando avevate circa tredici anni?" "Fu san Michele che io vidi dinanzi ai miei occhi." "Che aspetto aveva san Michele?" "Non mi è lecito rispondervi." "Siete sicura che colui che vi apparve fosse l'angelo Michele e non piuttosto uno spirito diabolico?" Il mito di una religione a misura d'uomo Se il nemico degli uomini mi apparisse sotto la forma di un angelo io lo
216 distinguerei molto bene da san Michele!" "San Michele, quando vi appariva, era nudo?" "Credete voi che Dio non abbia di che vestirlo?" "Aveva capelli?" "E perché glieli avrebbero tagliati?" "Sono codeste voci che vi hanno ordinato di portare vesti da uomo?" "Le vesti non sono nulla. È cosa secondaria. Le vesti da uomo nessuno al mondo mi ha consigliato di portarle. Io non ho indossato queste vesti, non ho fatto nulla, se non per consiglio delle mie voci." In una sala del castello di Roano, attigua alla prigione, il canonico Pietro Maurice lesse a Giovanna i capi di imputazione, tutti d'un fiato, traducendoli di volta in volta: "Tu, Johanna, dixisti... tu, Giovanna, hai detto che dall'età di tredici anni avesti rivelazioni ed apparizioni di angeli e delle sante Caterina e Margherita. Quantum ad istum punctum... quanto a questo articolo i dotti dell'Università di Parigi hanno ritenuto trattarsi di menzogne, seduzioni e male opere di spiriti maligni e demoni. "Item tu dixisti... tu hai pure detto che per ordine di Dio hai portato e tuttora porti vesti da uomo e i capelli tagliati corti sopra le orecchie, nulla lasciando sulla tua persona che rivelar o dimostrar possa il sesso femminile. Quanto a questo articolo, i dotti ritengono che tu bestemmi Dio." Il luogo dell'esecuzione era già stivato di popolo. Giovanna si era gettata in ginocchio e invocava con fervore l'assistenza delle sue care sante. Poi ella dimandò una croce per averne vigore e conforto. Un pietoso inglese gliene compose tantosto una col proprio bastone, ed essa la prese col maggior rispetto e serrolla al seno. Due garzoni del carnefice si approssimarono a lei, per accompagnarla al rogo. Quando Giovanna fu giunta appiè del rogo, le fu cinta al capo la solita fascia, ov'eran scritti i pretesi delitti di lei: "Eretica, recidiva, apostata, idolatra". Giovanna montò sul rogo, ove fu legata ad un gran palo. Sin che ebbe vita, in mezzo alle fiamme, sostenne sempre a voce alta la sua innocenza. Quando fu morta si fece ritirare il fuoco, affinchè il popolo si assicurasse ch'ella non era più viva, e non si dicesse che l'aveva scampata in maniera miracolosa. [L. DeCharmettes, Storia di Giovanna d'Arco, in M. Craveri, Sante e streghe, pp. 108-09.]
217 4. La falsa donazione di Costantino.
Qual delitto io imputo ai romani pontefici? Un delitto per vero grandissimo, commesso o per supina ignoranza o per sconfinata avarizia, che è una forma di soggezione a idoli, o per vano desiderio di dominare, cui sempre si accompagna la crudeltà. Essi, per tanti secoli, o non compresero la falsità della Donazione di Costantino o crearono essi stessi il falso; altri, seguendo le orme degli antichi pontefici, difesero come vera quella donazione che sapevano falsa, disonorando così la maestà del papato e la religione cristiana e causando a tutto il mondo stragi, rovine, infamie. Prima di confutare il testo della donazione, unica difesa di costoro, difesa non solo falsa ma stolta, dimostrerò che Costantino e Silvestre non erano giuridicamente tali da poter legalmente l'uno assumere, volendolo, la figura di donante e poter quindi trasferire i pretesi regni donati, e l'altro da poter accettare legalmente il dono; né del resto lo avrebbe voluto, ma gli avrebbe detto: "Più che importante è la causa per cui non posso accettare i tuoi doni io, cui il Signore ha detto: Curate gli infermi, risuscitate i morti, curate i lebbrosi, cacciate i demoni; ed io commetterò la colpa di non ubbidire ai comandi di Dio? e macchierò il mio buon nome? È meglio per me, come diceva Paolo, morire anziché qualcuno sminuisca la mia gloria. E poi, come potrà restare incolume l'innocenza dei sacerdoti tra ricchezze, magistrature, nell'amministrazione di beni terreni? A che servirebbero a me potenza e ricchezza, a me cui la voce del Signore impone di non essere sollecito del domani? a me cui è stato detto: non tesorizzate sulla terra, non possedete oro, argento e denaro nelle vostre cinture? Perciò, o Cesare, sia detto con tua buona pace, non diventare per me diavolo col comandare a Cristo, e quindi a me, di ricevere da te i regni di questo mondo". Ma esaminiamo il testo della donazione. Si dice al principio: "Giudicammo utile con tutti i nostri satrapi e tutto il senato, gli ottimati e tutto il popolo romano sottoposto alla Chiesa romana, che i pontefici ottengano, concesso da noi e dal nostro impero, il vicariato del principe degli apostoli e un potere sovrano, ecc". O scellerato e malvagio! La storia narra che per molto tempo nessun senatore volle accogliere la religione cristiana e che Costantino sollecitò i poveri al battesimo con dei premi. Ed ora tu osi dire che il senato, gli ottimati, i satrapi, divenuti quasi tutti cristiani, abbiano preso con l'imperatore la decisione di onorare la Chiesa di Roma. E che c'entrano i satrapi?
218 Chi ha sentito mai parlare di satrapi nelle assemblee dei Romani? Non ricordo di aver letto mai di satrapi non solo a Roma ma neppure nelle province romane. Ma costui li antepone addirittura al senato! E perché parla degli ottimati? o intende dire i principali uomini dello Stato, o intende quelli che non sono demagoghi ansiosi di procacciarsi il favore del popolo, seguaci del partito dell'ordine, come Cicerone spiega in un'orazione? Ma non sono scelti a deliberare codesti ottimati, più di quanto non lo siano i democratici o altri uomini in vista! Ma a che meravigliarci che siano stati interrogati gli ottimati, quando, a stare a sentire il falsificatore, tutto il popolo deliberò con l'imperatore? // popolo soggetto alla Chiesa romana: quale popolo? il romano? perché non lo chiama semplicemente popolo romano anziché "popolo soggetto"? Costantino, prima che sottomettesse il popolo al pontefice romano, come poteva chiamarlo "soggetto"? E non è barbara anche l'espressione "da noi e dal nostro impero", come se l'impero abbia l'animo e il potere di concedere qualcosa? Né gli bastò dire obtineant, ma aggiunge anche concessum, come se fosse altra cosa. A Silvestre trasferiamo il palazzo Lateranense del nostro impero, e poi il diadema, cioè la corona del nostro capo, e insieme il frigio e anche il superhumerale, cioè quella specie di fascia che suole circondare il collo dell'imperatore, e anche la clamide di porpora e la tunica scarlatta e tutti gli indumenti imperiali." O Gesù santo, non risponderai, tempestandolo, a costui che scrive roba simile? "Trasferiamo il diadema" dice, e come se non comprendessero i presenti, interpreta: "Cioè la corona"; e qui non aggiunge "di oro", ma dopo, ripetendo le stesse cose dice: "Di oro purissimo e di gemme preziose". Non sapeva, uomo incolto, che il diadema è di stoffa o anche di seta? "Insieme il frigio e anche il superhumerale, cioè quella specie di fascia che suole circondare il collo dell'imperatore." Chi ha sentito mai parlare in latino di frigio? Dice poi che il superhumerale è una specie di fascia (lorum) ma non sa bene che cosa sia il lorum stesso. Il lorum è una cintura di cuoio, e non vorrai pensare che se ne potesse adornare l'imperatore, mettendogliela attorno al collo! Per essere di cuoio, noi chiamiamo lora anche le redini e le fruste, e si capisce perché si parli talvolta anche di lora aurea, cioè di redini con borchie d'oro che si sogliono porre al collo dei cavalli o di altri animali: io credo che questo modo di dire lo abbia ingannato e che quando pretende che un lorum si metta al collo di Costantino e di Silvestro, di un imperatore
219 e di un papa fa un cavallo o un asino. Ma che dovrò io fare: star dietro alla stupidità delle parole o a quella dei pensieri? A lui sembra che suoni più dolce il periodo se enuncia la stessa cosa ora col presente ora col perfetto: decernimus e decrevimus, promulgamus e promulgavimus. E si trova usato exstat invece di est, quando exstare significa "eccellere" o "superare". Adopera nempe invece di scilicet, e concubitores invece di contubernales. Concubitores sono "quelli che dormono insieme" e si congiungono: sarebbe come dire "meretrici". Costantino gli da quindi anche con chi dormire, perché non si spaventi - ritengo io - dei fantasmi notturni. E il documento termina: "Convalidando con firma di propria nostra mano il foglio che contiene questo nostro decreto, l'abbiamo depositato sul venerando corpo di san Pietro". Ormai voi vedete chiaramente le arti maliziose del pessimo Simone. Poiché da lui non può essere portato alla luce il testo della Donazione, dice che esso non è su tavole di bronzo, ma su carta, e che è nascosto con il corpo del santissimo apostolo, perché o non osiamo andare a frugare in una tomba così venerabile o, se andassimo a frugare e non lo trovassimo, possa dire che è stato mangiato dai topi. Eppure, come vediamo, si mostra una copia della carta. Chi la trasse, temerario, dal grembo del santissimo apostolo? Nessuno, io credo, fece ciò. Donde è venuta la copia? Si dovrebbe dimostrare che la conosceva qualcuno degli antichi scrittori. Invece non se ne cita nessuno. Affermo dunque con ogni forza non solo che Costantino non fece sì larga donazione, e non solo che il romano pontefice non ne beneficia, ma anche che, se pure l'uno avesse donato e l'altro ne beneficiasse, i due diritti sarebbero estinti per i delitti dei possessori, quando vediamo che da un sol fonte sono scaturite la rovina e la distruzione di tutta l'Italia e di molte provincie. Se amaro è il fonte, lo sarà anche il fiume. Io posso ben dire e gridare ad alta voce (non ho paura degli uomini, protetto come sono da Dio) che ai miei giorni non vi è stato sommo pontefice che abbia amministrato con fedeltà e saggezza. Il papa, proprio lui, porta guerre a popoli tranquilli, semina discordie tra le città e i principi, ha sete delle ricchezze altrui e, al contrario, succhia fino in fondo con le sue stesse ricchezze. Il papa fa mercato non solo dello stato, ma mercanteggia persino le cose della Chiesa e lo stesso Spirito Santo! Perfino a Simon Mago desterebbe esecrazione! Sperpera le ricchezze mal tolte ai buoni, paga truppe a cavallo e a piedi che fanno tanto male dappertutto, mentre Cristo muore affamato e nudo in migliaia e migliaia di poveri. Non c'è più religione; nessuna cosa più è santa; non vi è più timore di
220 Dio: ho orrore a dirlo, ma tutti i malvagi scusano i loro delitti con l'esempio del papa. In lui e nei suoi satelliti è ogni esempio di delitti: possiamo ben dire con Isaia e Paolo: per causa vostra è bestemmiato il nome di Dio tra i popoli. [Lorenzo Valla, De falso eredita et bene ementita Cmstantini donatione.)
221 VII. FRANAMENTO DELL'UNITÀ CATTOLICA CON LA RIFORMA PROTESTANTE (SEC. XV)
Erasmus posuit ova, Lutherus eduxit pullos.
Il movimento riformatore non si spense in Italia con il rogo di Girolamo Savonarola, ma riprese fin dagli albori del Cinquecento, per opera di Erasmo da Rotterdam, laureatosi a Torino, dopo essere stato educato a Oxford da maestri insigni, John Collet e William Grocyn, che erano stati i primi a introdurre l'umanesimo italiano in Inghilterra. Erasmo seppe felicemente innestare il platonismo degli umanisti fiorentini col biblicismo di Wycliffe e dei lollardi, fin dalla sua prima opera, Y Enchiridion mìlitis christiani, in cui addita nei Vangeli la fonte unica e immediata della verità cristiana, auspicandone la diffusione in mezzo al popolo e l'interpretazione diretta da parte dei fedeli. "Vorrei" egli scrive "che anche le donne leggessero il Vangelo e le Epistole di san Paolo; vorrei che il contadino e l'artigiano li cantassero mentre lavorano; vorrei che il viaggiatore li recitasse per alleviare la stanchezza del viaggio. Perché mai la conoscenza della dottrina dovrebbe essere riservata soltanto a pochi, teologi e monaci, che costituiscono solo la minima parte della cristianità e spesso si preoccupano maggiormente delle loro terre e delle loro ricchezze? La vera teologia è posseduta da chiunque sia ispirato e guidato dallo spirito di Cristo, sia egli uno sterratore o un tessitore." Della critica testuale di Lorenzo Valla, che era il suo autore preferito, Erasmo si servì per dimostrare, tra l'altro, che l'unico riferimento alla Trinità contenuto nel Nuovo Testamento è apocrifo, e se ne servì pure per confutare l'inaridimento della fede compiuto dalla teologia cattolica con l'introduzione di dogmi formali. Da Gerolamo Savonarola egli ereditò lo sdegno per la corruzione del clero e soprattutto della corte papale, ma nel suo Encomion Moriae seu laus stultitiae Elogio della pazzia; 1511) seppe sostituire al linguaggio ' lento e appassionato del frate fiorentino l'arma assai più efficace dell'ironia. [Vedi Documenti n. 1.] La perfezione ormai raggiunta dall'arte della stampa, inventata pochi anni prima che Erasmo nascesse (uno dei suoi primi editori fu il noto stampatore veneziano Aldo Manuzio) e l'uso del latino che grazie agli umanisti era diventato lingua internazionale per i dotti, permisero
222 una rapida diffusione dei suoi scritti, e i suoi lettori costituirono nei primi decenni del secolo XVI l'élite intellettuale d'Europa" UEnchiridion, pubblicato la prima volta nel 1504, ebbe numerose ristampe, ] ed entusiasmò molti lettori, tra cui il teologo francese Jacques Lefèvre d'Etaples, che su ispirazione di esso scrisse nel 1512 un Commentari in epístolas Sancii Pauli, sostenendo l'autorità suprema del santo nell'interpretare la fede quale abbandono totale a Dio, negando che le opere possano concorrere in qualche modo alla salvezza, e in accordo con Erasmo propone la diffusione dei Vangeli tra il popolo, tradotti in lingue moderne. Intanto il sacerdote Fran ois Rabelais, ispirato dall'Elogio della pazzia, criticava la Chiesa usando l'arma della satira. In Inghilterra l'insegnamento di Erasmo fu recepito soprattutto da Thomas More (Tommaso Moro) grande umanista, che già nel 1515-16 scrisse in latino l'Utopia: invenzione di un'isola inesistente in cui vive una società regolata secondo un modello di organizzazione razionale, tollerante e pacifica. Convinto della necessità di una vera democrazia, nel 1534 egli si opporrà, come membro del parlamento, all'Atto di supremazia che faceva del re d'Inghilterra anche il capo della Chiesa anglicana, e sarà perciò, dietro ordine di Enrico Vili, decapitato come traditore il 6 luglio 1535. In Italia, suggestioni erasmiane sono evidenti nella disincantata visione della Chiesa nel De cardinalatu (1509) del teologo Paolo Cortese, nel discorso di padre Egidio da Viterbo, generale degli agostiniani, all'apertura del Concilio lateranense (3 maggio 1512). Ammiratori di Erasmo furono apertamente Bartolomeo Cerretani, che scrisse di lui un elogio nel 1520, intitolato Storia in dialogo ed Emilio de' Migli, che nel 1529 ne tradusse Y Enchiridion. A Erasmo s'ispirarono anche l'umanista, giureconsulto e insegnante universitario Andrea Alciati, il cancelliere della corte di Carlo V, Mercurino Gattinara, e anche Francesco Pucci, che nel 1534 si addottorò all'Università di Oxford, dove Erasmo aveva studiato, e aderì all'anglicanesimo; ma poi, appena tornato in Italia, venne condannato dal Santo Uffizio, decapitato nelle carceri di Tor di Nona a Roma, e il suo cadavere bruciato in Campo dei fiori nel 1537. Franamento dell'unità cattolica con la riforma el 1516 l'Enchiridion conquistò la Germania e contribuì, con il Commento a san Paolo di Lefèvre d'Etaples, a orientare la crisi religiosa di Martin Lutero (Luther).
223 Si suol dire che "Erasmo pose le uova da cui Lutero covò i pulcini", ma in realtà Erasmo non approvò mai il fanatismo di Luterò e anzi polemizzò con lui circa l'interpretazione del libero arbitrio, anche se, caldamente pregato di scrivere contro di lui, si rifiutò con nobile sdegno: "Non lo farò, e se lo facessi scriverei in modo tale che i farisei desidererebbero che avessi taciuto". Generalmente si fa cominciare la lotta di Luterò per la riforma, dal 31 ottobre 1517, data di pubblicazione delle sue 95 tesi contro la bolla di papa Leone X che concedeva indulgenze plenarie da ogni peccato a tutti coloro che avessero versato ai collettori incaricati dalla Chiesa somme proporzionate alle proprie possibilità economiche: come se la travolgente riforma dottrinale di Luterò fosse imputabile a una occasionale protesta per un ennesimo scandalo della Chiesa di Roma. In realtà, la riforma di Luterò ebbe motivazioni ben più gravi. Di temperamento mistico, e forse "nevrotico" come l'ha definito il gesuita Hartmann Grisar, suo moderno biografo, Martin Luterò era angosciato fin dai primi anni di vita monastica nel convento agostiniano di Erfurt dal timore di non essere degno della salvezza, e la lettura della polemica tra sant'Agostino e Pelagio aumentava i suoi dubbi. Il suo professore Staupitz lo esortava a trovar pace nella rassegnazione che l'uomo è per natura peccatore e nell'abbandono fiducioso alla misericordia divina: "Dio è vicino a coloro che si tormentano della propria indegnità". Ma chi, allora, può dirsi giustificato da Dio?, era l'inquietante interrogativo di Luterò. Se la peccabilità dell'uomo è radicata nella sua stessa natura, nemmeno i sacramenti possono annullarla; né le buone opere, se chi le compie non è meritevole della salvezza di per se stesso. Allora, la "giustizia di Dio" consiste solo nel punire i cattivi? "Odiavo questa parola: giustizia di Dio" scriverà Luterò "perché mi era stato insegnato a intenderla in senso filosofico come giustizia attiva, in virtù della quale Dio punisce i peccatori e gli ingiusti". Il superamento della crisi avvenne per Luterò in quella che si suole chiamare l'"esperienza della torre", in quanto risultato di meditazioni nella propria cella, in un settore a forma di torre del convento di Wittenberg dove si era successivamente trasferito. Lo strumento della salvezza - fu il suo ragionamento - non va cercato nell'uomo stesso e nelle sue opere ma è offerto gratuitamente da Dio, per la sua grande misericordia. Quando san Paolo dice: nel Vangelo si rivela la giustizia di
224 Dio per mezzo della fede (Rm 1,17), egli non intende "giustizia" nel senso di "giudizio" dei buoni e dei cattivi, ma nel senso che Dio, nella sua bontà, ritiene "giustificato", ossia "assolto", il peccatore, purché questi possieda la fede, cioè riconosca che soltanto Dio, tramite Gesù Cristo, lo può salvare. La fede in Dio è la fede nell'amore con cui Egli accoglie il figlio perduto nelle proprie braccia paterne, sebbene sia peccatore. "Il giusto è colui che si accusa, che è consapevole della propria imperfezione: simul Justus et peccator." L'esperienza della torre, solitamente collocata dagli studiosi tra il 1513 e il 1516, secondo le indicazioni di Luterò stesso (e non c'è motivo di mettere in dubbio le sue parole) è avvenuta invece due anni dopo la discussione delle tesi contro le indulgenze. Fino a quell'epoca egli non aveva alcuna intenzione di venire a una rottura con la Chiesa. Piuttosto, come molti altri eretici che lo avevano preceduto, sperava di condurre le alte gerarchie ecclesiastiche a provare vergogna della loro corruzione. Molti erano gli esempi che avevano indignato il giovane monaco: nel 1503 l'elezione simoniaca (cioè acquistata con denaro) al soglio pontificio del cardinale Giulio della Rovere, col nome di Giulio II; nel 1510 la scomunica del papa stesso, da parte del Concilio di Pisa, come "notoriamente perturbatore, nemico della Chiesa, autore di scismi". Nel 1511, quando Luterò era stato mandato a Roma dai suoi superiori per lamentare il rilassamento dei costumi nell'ordine agostiniano, lo aveva scandalizzato la frettolosità con cui i sacerdoti celebravano la messa, facendo urgenza anche a lui: "Presto, presto! Spicciati a mandare a quel paese il figlio di Maria!", e la scurrilità dei loro discorsi, l'empietà con cui recitavano al momento della consacrazione: "Panis es et panis manebis, vinum es et vinum manebis", e le volgari bestemmie che lo stesso papa Giulio II pronunciava. La corruzione della corte pontificia si rifletteva anche sul basso clero. Per supplire alla mancanza di credibilità presso le masse popolari durante la celebrazione del rito pasquale, soprattutto in Germania, i preti ricorrevano a un espediente che aveva già scandalizzato Erasmo: si dimenavano davanti ai fedeli con gesti osceni, fingevano di masturbarsi o di violentare un chierichetto. Quest'usanza era detta risus paschalis, e forse era giustificabile come volontà di suscitare gioia e allegrezza, in coincidenza con la resurrezione di Cristo, esaltando il piacere sessuale: l'unica forma di felicità per le masse condannate alla
225 miseria e all'abbandono. L'usanza si era divulgata anche in Italia, cofranamento dell'unità cattolica con la riforma e fanno fede, per esempio, le deprecazioni del Sínodo di Napoli nel 1563 e di Mazara, in Sicilia, nel 1584. Comunque lo sdegno di Luterò era già giunto al colmo nel 1517, in seguito alla pubblicazione del 13 settembre di una bolla di Leone X che concedeva indulgenza plenaria ai fedeli di venticinque province della Germania se contribuivano con offerte in denaro alla costruzione della basilica di San Pietro. La bolla stabiliva che si raccogliessero i doni nelle singole chiese sotto il controllo dell'arcivescovo di Magonza e dell'inquisitore domenicano Johann Tetzel. Costui doveva rilasciare ai fedeli una ricevuta di questo tenore: "In virtù del potere apostolico che mi fu conferito, io ti assolvo da ogni ecclesiastica censura, da ogni giudizio e da ogni pena che hai potuto meritare. E ti assolvo da tutti gli eccessi, peccati e delitti che hai potuto commettere, per grandi che siano e per qualsiasi ragione, fossero anche rivolti contro il Santissimo Padre e la Chiesa apostolica. Ti rimetto le pene che avresti dovuto subire nel Purgatorio e ti incorporo nella comunione dei santi, ti ritorno all'innocenza e alla purezza che hai acquistato nel tuo battesimo, in modo che, nel momento della morte, la porta per cui si entra nel luogo dei tormenti e delle pene ti sarà chiusa, e per l'opposto spalancata quella che conduce al Paradiso. In nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo. J. Tetzel". Il 31 ottobre, Martin Luterò appese nella cattedrale di Wittenberg 95 tesi in cui invitava i teologi alla discussione sulla liceità delle indulgenze. Gli rispose immediatamente lo stesso Tetzel, evitando però di confutare le obiezioni di Luterò, ma limitandosi ad affermare il diritto del pontefice di concedere le indulgenze che avesse ritenuto opportuno, e concludendo: "Nella certezza della verità sottopongo queste mie dottrine all'esame di Sua Santità apostolica. E se l'autore delle tesi non si sottomette pubblicamente e per iscritto al giudizio del Papa, della Santa Sede e delle Università non sospette, io non scriverò più nulla contro di lui, ma lo riterrò degno della massima pena". Papa Leone X comandò immediatamente al vescovo di Ascoli di citare Luterò per esaminarlo sulla fede. Luterò non si presentò, mettendosi sotto la protezione del principe elettore di Sassonia. Con un breve del 23 agosto 1518, Leone X diede allora ordine al cardinale
226 Caetani, suo legato in Germania, di arrestare Luterò. Ma l'elettore di Sassonia Federico III e l'Università di Wittenberg ottennero che egli venisse prima ascoltato. Convocato a Lipsia l'anno seguente, Luterò fu confutato dal teologo Johann Eck, che estrasse dalle sue tesi gli errori di eresia e lo denunciò al papa per la scomunica. Eppure le novantacinque tesi non proponevano alcuna dottrina nuova: manifestavano solo la preoccupazione che la massa dei fedeli si adagiasse nella convinzione di poter ottenere il condono dei peccati col denaro, non col sincero pentimento. Nel 1520, l'Exsurge Domine di Leone X offriva ancora a Luterò la possibilità di evitare una condanna se avesse ritrattato le proprie critiche. Luterò diede pubblicamente alle fiamme il documento pontificio, pretendendo di essere prima ascoltato in un Concilio. Venne scomunicato, e fu questo l'inizio clamoroso del suo distacco da Roma. L'anno stesso, infatti, scrisse De libértate Christiana, sostenendo il diritto di ogni battezzato di considerarsi membro della Chiesa, senza distinzioni gerarchiche, e, in quanto tale, di interpretare direttamente ("libero esame") la parola evangelica senza la mediazione di un sacerdote. Poi, con un appello An den Christlichen Adel deutscher Nation (Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca), esortava i principi laici ad attuare la riforma della Chiesa, che il papa rifiutava di fare, organizzando i fedeli in comunità indipendenti. [Vedi Documenti n. 2.] Due mesi dopo Luterò si rivolgeva ai teologi con De captivitate babylonica, in cui denunciava la corruzione della curia romana e i suoi abusi di potere, ed esponeva i principi fondamentali della propria dottrina: i soli sacramenti direttamente istituiti da Gesù sono il battesimo e l'eucarestia, i quali però non devono essere intesi come strumenti di salvezza, ma solo segni della grazia divina. Senza rendersi conto delle drammatiche conseguenze del suo gesto, il papa con la bolla Decet Romanum Pontificem colpì di anatema Luterò, che poté evitare l'arresto per il tempestivo intervento dell'elettore di Sassonia, che lo nascose nella fortezza di Wartburg. Qui, nei sedici mesi di semireclusione, Luterò tradusse la Bibbia in lingua tedesca. Nel 1524-25, in polemica con Erasmo, che sosteneva la tesi del "libero arbitrio", ossia della responsabilità personale nella scelta tra il bene e il male, scrisse il De servo arbitrio, sostenendo che il destino dell'uomo è "determinato" da Dio, e si salva solo chi è stato prescelto. Le proposte riformatrici di Luterò dilagarono rapidamente, subendo
227 però interpretazioni devianti, come quella di Silvestro Pierias, che fu molto polemico con lui. Il luteranesimo non era ancora costituito in modo definitivo, e già nascevano in esso le eresie. Negli stessi anni 1524-25, Ulrich von H tten, ex monaco di Fulda, rilanciò l'appello di Luterò ai principi per la riforma della Chiesa, ma lo tradusse in un incitamento a un'azione di forza onde svincolare l'impero germanico dalla sudditanza politica ai cattolici, e la sua lettera, allontanandosi dai propositi di Luterò, contiene frasi che fanno rabbrividire, tanto precorrono il linguaggio nazista dei nostri tempi. A Zurigo intanto il canonico Ulrich Zwingli, e con lui Johann Hausschen (Ecolampadio) cominciarono anch'essi a sostenere il ricorso alla Bibbia quale unico fondamento di verità e il rifiuto dei dogmi cattolici, ma ben presto Zwingli entrò in polemica con Luterò, affermando nel De vera et falsa religione che la presenza di Cristo nell'ostia è puramente simbolica (mentre Luterò credeva nella "consustanziazione") e che la salvezza non consiste nella "giustificazione" dei peccati, ma nella "santificazione" del credente tramite la sua fede in Dio. Ancora più dissidente da Luterò, Ecolampadio sosteneva che le parole di Gesù "questo è il mio corpo" si devono intendere "questa è l'immagine del mio corpo". Intanto Zwingli, in Svizzera, con l'appoggio della borghesia cittadina, teneva continue dispute, inimicandosi non solo i cattolici ma anche gli anabattisti e gli stessi luterani. Poi, insieme a Ecolampadio, cogliendo l'invito di Hiitten, Zwingli bandiva addirittura una guerra armata con truppe di riformati contro i cattolici dei cantoni svizzeri, nel territorio di Kappel: una prima volta conclusasi con una tregua (26 giugno 1529), la seconda, nel 1531, terminata con la sconfitta dei protestanti, e nella quale cadde morto lo stesso Zwingli e il suo cadavere fu orrendamente dilacerato dai nemici cattolici. Inutilmente aveva cercato di far da mediatore tra Luterò e i due suddetti dissidenti l'ex domenicano Martin Butzer (Bucero), il cui cognome era veramente Kuhhorn, grecizzato con bus (bue) e kéras (corno), riuscendo nel 1536 a far firmare i Capitoli di concordia da luterani tedeschi e riformati svizzeri. Ma poi, scomunicato dalla Chiesa cattolica, fuggì in Inghilterra e aderì all'anglicanesimo, collaborando
228 alla stesura del Prayer Book. Già nella stessa Wittenberg, durante la permanenza di Luterò nel castello di Wartburg, si era creata una scissione tra i suoi discepoli. Mentre il giovane Philipp Schwarzerd (Melantone) dirigeva il gruppo di fede evangelica, mantenendosi ligio alle dottrine del maestro, Andreas Bodenstein (Carlostadio) di Karlstadt tentava di introdurre riforme più radicali. Nel 1522, dopo un'aspra polemica con Luterò stesso, tornato dall'esilio, Carlostadio finì con l'abbandonare Wittenberg per stabilirsi a Zwickau, paese di artigiani e di minatori, invitato da due tessitori del luogo, Nicholas Storch e Markus Stùbner, che si dicevano dotati del dono profetico e intendevano preparare l'istituzione dì una Chiesa di eletti. Ai profeti di Zwickau si unì anche il curato del paese, Thomas M ntzer, prendendone la direzione spirituale, e predicando che gli eletti di Dio sono i poveri, sui quali agisce direttamente, santificandoli, lo Spirito Santo, tanto che a loro è persino superflua la conoscenza delle Scritture. La predicazione di M ntzer ebbe grande successo anche in Boemia, dove egli si recò a far propaganda, perché, rifacendosi agli ideali rivoluzionari dei taboriti, incitava alla lotta per la realizzazione immediata del regno di Dio, e già alcuni boemi, una decina di anni prima, avevano partecipato alla rivolta sociale capeggiata da Gyòrgy Dózsa nella vicina Ungheria. Il sogno di Thomas M ntzer parve avverarsi nel 1524, allorché a M lhausen la popolazione minuta insorse, guidata dall'ex monaco Heinrich Pfeiffer, impadronendosi del governo della città. M ntzer proclamò che quello era l'inizio del Regno millenario di Cristo, e con Pfeiffer organizzò lo stato popolare: uguaglianza sociale di tutti i cittadini, comunità dei beni, confisca e secolarizzazione dei patrimoni ecclesiastici, e cominciò la predicazione in diversi centri contadini, incitando all'insurrezione contro i nobili, i prelati e i peccatori. La rivolta dilagò ben presto in tutta la Germania sudoccidentale. Luterò si rese conto, con preoccupazione, del pericolo che rappresentava quella guerra dei contadini, i quali avrebbero presto capito quanto fossero assurde e illusorie le loro speranze in un Regno dei poveri, e nel maggio 1525 la sconfessò con un violento libello, Wider die rauberischen undmôrderischen Rotteti der Bauern (Contro le empie e scellerate bande dei contadini), in cui, rinnegando le sue precedenti dichiarazioni
229 di tolleranza e la sua condanna della legislazione cattolica a carico degli eretici, incitava i principi a stroncare la rivolta con la forza delle armi. Egli ottenne anche che M ntzer venisse espulso da M lhausen, chiamandolo "lupo feroce" e "falso profeta", e tra i due riformatori ebbe luogo una lotta a base di insulti e accuse. M ntzer, trasferitosi a Norimberga, attaccò "l'impudente monaco di Wittenberg" come "traditore del popolo", per essersi alleato con la nobiltà. I principi tedeschi, sia cattolici sia luterani, alla testa di eserciti professionalmente preparati, ben presto ebbero la meglio sugli insorti. Nello stesso mese di maggio del 1525, la battaglia di Frankenhausen, nella Turingia, segnò la fine cruenta della guerra dei contadini: oltre ai numerosi che morirono nello scontro, tra i quali gli eroici Georg Metzler e l'ungherese Flórian Geyer, circa ventimila contadini, che si erano arresi, furono sgozzati, e gli stessi M ntzer e Pfeiffer, fatti prigionieri, dopo alcuni giorni di torture vennero decapitati. I superstiti raggiunsero Michael Gaismar, già segretario del vescovo di Bressanone, che nel Tirolo e nell'Alto Adige stava organizzando un'analoga rivolta. Gaismar aveva in mente la creazione di una libera repubblica democratica, e il suo Ordinamento regionale del Tirolo prevedeva la nazionalizzazione della proprietà terriera e delle miniere, l'istituzione di scuole pubbliche, di ospedali, di ricoveri per i vecchi, e naturalmente l'abolizione della Chiesa e di tutti i riti e sacramenti, lasciando a ogni fedele l'interpretazione personale dei Vangeli e delle Lettere apostoliche. Gli insorti del Tirolo resistettero a lungo agli eserciti della nobiltà austriaca, e anche i contadini e i minatori di Trento e di Bolzano si schierarono al loro fianco. Gaismar sperava anche in un aiuto da parte della Repubblica di Venezia, con cui aveva preso contatti, ma l'aiuto tardò a venire, ed egli dovette desistere. La conseguenza più grave di questi moti fu la delusione che nacque nel cuore di Martin Luterò, col rammarico di essere stato egli stesso, involontariamente, la causa di tanti eccessi, e quindi la sua decisione di ricorrere all'autorità dei principi, come l'unica in grado di garantire l'ordine sociale, dando così loro un'arma potente nella lotta che conducevano contro Carlo V. L'imperatore, in contrasto col papa per motivi politici - per punirlo di aver aderito alla Lega di
230 Cognac con i francesi, i veneziani e i milanesi, nel 1527 mandò a Roma un esercito di quattordicimila lanzichenecchi che per otto giorni misero a sacco la città - era avverso al luteranesimo perché capiva che la richiesta dei principi di istituire chiese nazionali indipendenti era un primo passo per sottrarsi alla soggezione dell'Impero, ma dovette cedere. Nel 1530 fu costretto ad affrontare il problema, convocando una dieta ad Augusta, e quantunque alla fine delle discussioni non approvasse la riforma, concesse ai protestanti una dilazione di un anno e ascoltò la lettura della confessione (detta "Confessione d'Augusta") presentata da Melantone, che diceva, prudentemente: "Le nostre Chiese non dissentono dalla Chiesa cattolica in nessun articolo di fede, solo rimuovono alcuni pochi abusi che vi si sono infiltrati per errori dei tempi". Nel 1555 una seconda dieta di Augusta lasciava libertà ai principi tedeschi di adottare o meno il luteranesimo, secondo il principio cuius regio, eius religio: cioè ogni principe può adottare nel suo Stato la religione che preferisce. In Italia per lungo tempo continuò a circolare un'immagine distorta di Luterò, chiamato Lutro o Utero, detto "aborto mostruoso di una vacca, un frate lurido, maestro di iniquità". Soltanto i valdesi del Piemonte e la loro colonia calabrese (fin dal secolo XII Sempre perseguitati) aderirono alla Riforma dopo alcuni incontri con Ecolampadio e Bucero tra il 1526 e il 1532, quando fu stipulato un patto di alleanza, nel Sinodo di Chanforan, in valle d'Angrogna. Saranno poi massacrati nel 1561, questa volta come "luterani". Solo nel 1527, dopo il sacco di Roma, si udì qualche voce a favore di Luterò, come quella del medico fiorentino Girolamo Buonagrazia, che lo definì: "Il giustiziere inviato da Dio a punire la Chiesa". Ma nel 1532 il cardinale Carlo Carafa indirizzò a papa Clemente VII la proposta De Lutheranorum haeresi reprimenda, e di conseguenza Buonagrazia venne incarcerato. Due anni dopo veniva inquisito a Firenze il letterato Antonio Brucioli, perché "leggeva ad alcuni giovani le cose di Martin Luter publice". Si scrissero anche confutazioni del luteranesimo, naturalmente piene di acrimonia e ignoranza dei veri contenuti della Riforma, tra cui il libretto del frate minore Giovanni da Fano, Opera utilissima vulgare contro le pernitiosissime heresie Lutherane per li semplici, nel 1532, e nel 1544 il più ampio scritto di Ambrogio Politi Catarino Compendio
231 d'errori et inganni luterani. Ma entro la fine del secolo vi saranno anche in Italia numerose conversioni al luteranesimo, con la conseguenza di altre persecuzioni e di fughe in esilio nei paesi protestanti. Gli anabattisti.
Dai radicali di Zurigo raccolti intorno a Zwingli, già fino dal settembre 1524 si staccò un gruppo di riformati che non approvavano i suoi tentativi di compromesso, per fondare una fratellanza evangelica con l'intenzione di un ritorno integrale alle radici cristiane, senza riti, senza culti esterni, senza istituzioni ecclesiastiche, attenendosi strettamente e unicamente alla parola dei Vangeli, quindi ugualmente distanti sia dalla Chiesa cattolica, con tutti i suoi dogmi, sia da quella riformata, che si appoggiava soprattutto sulla teologia di san Paolo. L'unico sacramento che essi ammettevano, anzi consideravano necessario come segno di appartenenza e fedeltà alla fratellanza evangelica, era il battesimo, naturalmente nella forma tramandata dai Vangeli, quale cioè era stato ricevuto dallo stesso Gesù e dai primi convertiti ai tempi degli apostoli: un battesimo per immersione e in età adulta. Pertanto essi negavano ogni valore a questo sacramento ai bambini, giudicandoli non ancora in grado di capire il significato di tale atto di fede. Per questo motivo essi vennero chiamati, con ironia e disprezzo, gli anabattisti (i "ribattezzatori"). Infatti battezzavano nuovamente i cristiani che intendevano aderire alla fratellanza. Siccome contemporaneamente anche i profeti di Zwickau e M ntzer stesso professavano opinioni analoghe, ancora oggi molti studiosi sono incerti se attribuire le origini dell'anabattismo a costoro o ai radicali di Zurigo. Comunque i due movimenti finirono col fondersi e le tendenze pacifiste degli zurighesi si integrarono con quelle rivoluzionarie dei seguaci di M ntzer. Già nel gennaio del 1525 gli anabattisti di Zurigo battezzarono in pubblico trentacinque nuovi fratelli, tutti contadini e braccianti agricoli di Zollichon, a tre chilometri da Zurigo. Espulsi per ordine di Zwingli, dopo un'inutile discussione, si sparsero per diffondere la loro dottrina in altri centri della Svizzera, e di li in Austria, in Germania, in Moravia e in Ungheria.
232 Konrad Grebel battezzò a Sciaffusa, nelle acque gelide del Reno, Hans Bròtli nella vicina Hallau, unendosi a un ebanista del luogo, certo Hans Rueger, che l'anno prima aveva capeggiato un'insurrezione di vignaioli e di pescatori, e insieme convertirono all'anabattismo tutti gli abitanti del paese. Contemporaneamente Wolfgang Ulimann conferiva il battesimo per immersione, nel fiume Steinach, ai cittadini di San Gallo. Intanto Felix Mantz e Jorg Blaurock, un ex prete, appena ribattezzato da Grebel, operavano nei Grigioni, dove venne a contatto con loro Michael Gaismar che - come abbiamo già riferito - pochi mesi dopo formerà nel Tirolo un nucleo di rivoluzionari con l'intento di costituirvi una repubblica laica. Wilhelm Reublin e Balthasar Hubmaier, un dotto teologo, già vicerettore dell'Università di Ingolstadt, fondarono una fiorente comunità anabattista a Waldshut, al di là dei confini svizzeri, nella Germania occidentale, battezzando trecento persone nella sola giornata di Pasqua. Poi essi, dopo aver partecipato alla guerra dei contadini con M ntzer, portarono l'anabattismo anche in Moravia. Hans Denck cominciò la sua attività di battezzatore ad Augusta, poi andò a continuarla a Strasburgo e a Worms. Il rilegatore di libri Hans Hut, battezzato da Denck ad Augusta, si presentò come profeta, predicendo che entro il 1528 sarebbe tornato Gesù Cristo a giudicare il mondo e a instaurare il millennio di fratellanza universale. A Rottenburg battezzò Michael Sattler, ex priore dei benedettini in un convento presso Friburgo, mentre Christoph Schroeder, che Luterò aveva nominato cappellano a Eperies (Ungheria), predicò le dottrine anabattiste nella propria chiesa, finché non venne espulso per ordine dello stesso Luterò. Si costituirono così comunità anabattiste in paesi già riformati e in paesi ancora cattolici, perseguitate perciò sia dalla Chiesa di Roma sia da quelle di Luterò e di Zwingli. Per la Chiesa cattolica la motivazione con cui condannare come eretici gli anabattisti poteva essere trovata in un rescritto dell'imperatore Teodosio che nel 413 aveva definito eretici i donatisti, i quali pretendevano che si dovessero di nuovo battezzare i fedeli se il loro primo battesimo era stato impartito da preti indegni. Luterò e Zwingli mascherarono invece le loro misure repressive sotto l'accusa di disubbidienza civile. Già nel marzo 1526, Grebel, Mantz e Blaurock, caduti nelle mani della forza pubblica di Zurigo con altri quindici neoconvertiti, furono imprigionati, per ordine di Zwingli. Riuscirono a evadere ma, eccetto
233 Grebel che morì pochi mesi dopo di peste, gli altri vennero di nuovo arrestati e giustiziati. Mantz fu affogato nella Limmat, che scorre accanto a Zurigo, per malvagio scherno della sua credenza nel battesimo per immersione. Blaurock due anni più tardi sarà mandato al rogo con un proprio discepolo. Nel 1527 ad Hallau furono catturati, con un gruppo di anabattisti, i due predicatori Hans Bròtli e Hans Rueger: il primo riuscì a evadere dal carcere, il secondo morì decapitato. Ad Augusta l'inquisizione cattolica giustiziò Hans Hut, appiccandogli il fuoco, seduto su di una sedia nel cortile della prigione. Michael Sattler, arrestato dall'inquisizione austriaca a Rottenburg con la propria moglie e con la moglie di Reublin, madre di un bimbo di diciotto mesi, insieme a una ventina di altri anabattisti, fu arso sul rogo dopo una orrenda tortura: mozzatagli la lingua e incatenato a un carro, durante il tragitto dal tribunale al luogo dell'esecuzione, gli furono strappati dal corpo sette pezzi di carne con tenaglie arroventate. Le due donne e il bambino furono invece affogati nel fiume Neckar. A Salisburgo l'inquisizione cattolica mandò sul rogo nove anabattisti nel mese di ottobre, e a novembre altri quattro furono arsi con la casa nella quale si trovavano riuniti. L'anno seguente un'analoga sorte toccò ad Hans Brótli che pochi mesi prima era riuscito a evadere dal carcere. Dalla Moravia, dove era stato arrestato con la moglie e altri anabattisti, venne tradotto a Vienna Balthasar Hubmaier e condannato al rogo con alcuni seguaci. Anche in questo caso i carnefici cattolici risparmiarono alla donna le sofferenze del fuoco gettandola nelle acque del Danubio con una pietra legata al collo. Lo stesso anno 1528 vide il martirio di Franamento dell'unità cattolica con la riforma olfgang Ulimann e l'anno dopo quello di Jorg Blaurock per mano degli zwingliani. A Basilea, il pastore luterano Ecolampadio, che aveva appena introdotto la riforma, arrestò e condannò a morte undici anabattisti. Naturalmente la persecuzione non colpì soltanto i capi. Tra il 1525 e il 1529 si calcola che siano stati giustiziati circa duemila eretici. E tuttavia, dappertutto, la cerimonia del battesimo continuava a suscitare ogni volta entusiasmi mistici e crisi di delirio religioso: uomini e donne pregavano, con gli occhi rivolti al cielo, piangevano, chiedevano ad alta voce perdono dei propri peccati. A Zollichon, un
234 certo Ulrich Bolt, appena uscito dall'acqua, non solo si sentì rigenerato, ma quasi beatificato: "Io sono Dio" si mise a gridare. "Io sono Cristo! Sono diventato Dio! Sono sicuro che non potrò mai più peccare!" A San Gallo due giovani donne proclamarono, in estasi, di essere divenute Marta e Maddalena. Fu agevole ai giudici trovare un pretesto per chiuderle in carcere: esse erano due prostitute! Né gli anabattisti erano trattenuti dalla paura delle fiamme. A Kassa, in Ungheria (oggi Kosice, in Cecoslovacchia), nel 1528, narra un testimone, "tre uomini e due donne, con straordinaria fermezza, ridentes et cantantes rogum ascenderunt". La contemporaneità della diffusione degli anabattisti con le rivolte popolari non fu casuale: la partecipazione di molti di loro alla guerra dei contadini, all'insurrezione del Tirolo e ad altre agitazioni, dimostra lo stretto legame tra i due avvenimenti. Ancora una volta, come già nei moti millenaristici e pauperistici dei secoli precedenti, l'esperienza religiosa veniva calata nella vita collettiva quotidiana; ma ora non più soltanto come giustificazione morale delle rivendicazioni economiche e sociali, bensì come forza di coesione delle classi più umili e fondamento ideologico per una nuova società basata sull'uguaglianza e la giustizia. Hans Hut, tra gli altri, aveva profetizzato il prossimo inizio di un millennio di fratellanza universale e incitato i ribattezzati a rifiutarsi di pagare le tasse, come dimostrazione di rifiuto anche delle autorità civili. Ideali irenistici moderati erano invece sostenuti, dopo il 1529, dal mistico Kaspar Schwenckfeld, canonico luterano a Liegnitz. Deluso dallo snaturarsi del luteranesimo in forme esteriori, egli cominciò a predicare la necessità di una fede come esperienza personale, con l'abbandono a Dio. Luterò lo chiamò "pazzo insensato", "posseduto dal demonio", fece ardere pubblicamente i suoi scritti, e lo costrinse ad andare in esilio, peregrinando senza meta, perché lo considerava un istigatore alla ribellione. In verità Schwenckfeld era ben lontano dal desiderare qualche azione violenta. Tale fu, al contrario, l'estremo espediente degli anabattisti radicali, a cominciare dai seguaci di Melchior Hofmann, un ex mercante sassone, che nel 1529 battezzò trecento persone a Emden, ai confini della Germania con l'Olanda, proclamando che nel 1533, anniversario della morte di Cristo, sarebbe cominciata la nuova era, e che occorreva prepararla. Quando egli fu gettato in carcere a vita, i discepoli
235 ne diffusero la predicazione anche in Olanda, finché due di essi, Jan Beukels o Bockelson (detto Giovanni di Leida) e Jan Matthys, ritennero che la capitale eletta per la nuova cristianità fosse M nster, in Westfalia, dove già, distaccandosi molto dagli insegnamenti del maestro, il cappellano luterano Bernhardt Rothmann aveva dato inizio a riforme radicali, e là si trasferirono. Jan Matthys apparve a M nster accompagnato da dodici apostoli e da una bellissima ragazza e si diede a predicare che la "nuova Sion" era ormai una realtà visibile. Bernhardt Rothmann e altri millequattrocento abitanti di M nster si fecero subito battezzare, e il loro fanatismo eccitò la maggior parte degli altri cittadini. Ma i cattolici e i luterani che, non essendosi convertiti, erano stati espulsi, tentarono di rientrare con la forza, e lo stesso Matthys morì in battaglia. Respinti gli aggressori, Giovanni di Leida si proclamò "novello David, re di Sion" e costituì a M nster un governo popolare, con la comunione dei beni, l'uguaglianza sociale di tutti i cittadini, l'abolizione dei riti e dei culti, il permesso della poligamia. [Vedi Documenti n. 3.] Migliaia di anabattisti da ogni parte accorsero a M nster per divenirne cittadini. Allora i principi tedeschi, sia cattolici sia protestanti, inviarono truppe a stringere d'assedio la città, che fu presto ridotta alla fame. Invano Giovanni di Leida organizzò militarmente i cittadini, con dure imposizioni, e fece giustiziare quarantotto anabattisti che manifestarono il loro dissenso. Dopo mesi di assedio, nel giugno del 1535, un traditore, approfittando di un violento temporale, aprì le porte ai nemici. Per tre giorni consecutivi i soldati cattolici e luterani massacrarono la popolazione di M nster. Giovanni di Leida, risparmiato dalla carneficina, l'anno dopo fu processato, sottoposto a torture, poi, dopo avergli perforato la lingua con un pugnale e strappate le carni con tenaglie roventi, inviato al rogo. Intanto gli anabattisti, decimati nei paesi germanici, rifiorivano in Olanda, dove però, più prudenti, i due nuovi capi, Menno Simonsz e David Joris, avviarono una predicazione a carattere più moderato. Franamento dell'unità cattolica con la riforma Vedi Documenti n. 4.] Da Menno Simonsz, gli anabattisti olandesi presero il nome di mennoniti e lentamente si diffusero in altri paesi (Francia, Austria) continuando a rifiutare il battesimo ai bambini, ma esortando all'ubbidienza alle autorità civili.
236 In Italia, primi influssi di anabattismo si ebbero nel Veneto, data la vicinanza territoriale coi luoghi in cui era nato. Ma, lontani dall'enfatizzare i riti battesimali per immersione, praticati in Austria e Svizzera, gli italiani erano semplicemente insofferenti della sottomissione a una Chiesa corrotta e rifiutavano di presenziare alle funzioni, surrogandone il magistero con una condotta di vita esemplare, in perfetta armonia, amore del prossimo, e lettura diretta dei Vangeli. Le prime notizie sicure riguardano il processo a Brescia, nel 1527, del frate carmelitano apostata Giovanni Battista Pallavicini. A Modena verrà accolto con grande interesse, nel 1547, il Trattato del battesimo e della cena dell'ex frate Camillo Renato. Una descrizione dell'anabattismo italiano è offerta, nel 1550, dalla confessione di un pentito, il prete marchigiano Pietro Manelfi, il quale dichiara all'inquisitore di essere stato convertito da un certo fra Hieronimo Spinazzola, e poi di aver frequentato altri anabattisti a Padova, a Treviso, a Imola: studenti, medici, maestri di scuola, un ciabattino, un sarto, un fabbro, uno straccivendolo, che tutti professavano "non essere lecito battezzare gli fanciulli, se prima non credono, gli sacramenti non conferire gratia alchuna, tenere la Chiesa romana essere diabolica et anticristiana". Che la Chiesa condannasse codesti dissidenti anche solo per la non osservanza dei sacramenti e delle prescrizioni liturgiche apparve evidente, tra l'altro, dalla condanna, nel 1564, del francescano Tommaso di Mileto, che venne rinchiuso tra quattro mura, senza via di uscita, solo perché "aveva idee eretiche sul non mangiare carne il venerdì, sul culto delle immagini, sull'indulgenza, sull'autorità del papa, e sulla presenza reale nell'eucarestia". Calvinisti, ugonotti, anglicani.
Il 21 maggio 1536, giorno di domenica, gli abitanti di Ginevra, convocati con lo squillo delle fanfare sulla piazza principale, levando alta la mano destra giurarono che da quel momento essi accettavano di vivere "secondo il Vangelo e la parola di Dio", cioè fuori della Chiesa cattolica. Così, con un referendum popolare, la forma di votazione più democratica possibile, venne introdotta la Riforma in
237 Svizzera. Questa conversione generale era il risultato dell'appassionata attività svolta dal predicatore Guillaume Farei, formatosi al Circolo evangelico di Meaux con l'erasmiano Lefèvre d'Etaples, ma era anche favorita dallo sdegno dei ginevrini per la perduta autonomia comunale da quando, nel 1517, la città era stata venduta dal vescovo cattolico ai duchi di Savoia. Pochi mesi dopo, nell'autunno 1536,. Guillaume Farei scongiurava il giovane Jean Cauvin (Giovanni Calvino), di passaggio a Ginevra, di rimanere con lui e aiutarlo a organizzare la nuova Chiesa: "Dio ti maledirà, se non accetti!" gli disse per convincerlo. Calvino, educato anch'egli nel Circolo evangelico di Lefevre d'etàples, si era già segnalato tre anni prima, nel novembre 1433, scrivendo il discorso che l'amico Nicolas Cop, rettore dell'Università di Parigi, lesse all'inaugurazione dell'anno accademico: le idee riformiste d'ispirazione erasmiana espresse nel discorso, avevano costretto Calvino a fuggire da Parigi per evitare la condanna come eretico. Era poi tornato nascostamente l'anno dopo per regolare i suoi interessi, e nuovamente aveva corso un grosso pericolo: nella notte tra il 17 e il 18 ottobre erano apparsi affissi ai muri per le vie della città alcuni placards ingiuriosi contro "il papa e tutta la canaglia di cardinali, vescovi, monaci e preti", e tra i numerosi arrestati (quaranta dei quali finirono sul rogo) vi era pure il suo amico Etienne de la Forge, che lo ospitava nella propria casa. Perciò Calvino fuggì, inorridito e andò a stabilirsi a Basilea, dove il luteranesimo si era già imposto. Lì egli, accettando in parte le tesi di Luterò, compose una prima stesura della sua grande opera Institutio Christianae Religionis, pubblicata dallo stampatore Flatter. Quindi Calvino scese per un breve soggiorno a Ferrara, ospite della duchessa Renata d'Esté, sua connazionale (era la secondogenita di re Luigi XII). Essa gli permise di predicare nel suo palazzo (il che le costerà più tardi la segregazione permanente per intervento dell'inquisizione). A Ferrara Calvino conobbe il poeta Clément Marot, che si era rifugiato sotto la protezione della duchessa, perché più volte a Parigi era stato accusato di eresia per il suo indifferentismo religioso, e incarcerato nel 1526 "per avere mangiato lardo di quaresima", e ultimamente anch'egli implicato nell'affare dei placards. Nel maggio del 1536, mentre stava tornando a Basilea, di passaggio a Ginevra, Calvino si lasciò convincere da Farei, e vi rimase, ufficialmente
238 con l'incarico di lettore delle Sacre Scritture. Pur derivando da Luterò, la dottrina di Calvino ha più differenze che analogie con quella luterana. Con la sua Institutio Christianize Religionis, concepita a Basilea nel 1526, ma più volte riveduta fino al 1559, Calvino costruì un sistema religioso-politico assai più radicale. ]JInstitutio non è soltanto la summa teologica della riforma calvinista, ma il fondamento ideologico della moderna società borghese. Luterò aveva fatto riemergere dall'autorità delle Sacre Scritture le autentiche verità della fede primitiva, da cui la Chiesa cattolica si era via via allontanata; Calvino costruì su quelle verità un proprio sistema dottrinale. Diversamente dal cristocentrismo di Luterò, secondo il quale Gesù Cristo con il suo sacrificio ha riconciliato con Dio tutta l'umanità peccatrice, e quindi la "giustificazione" è la certezza soggettiva di essere perdonati mediante la fede, per Calvino assai più strettamente coerente al pensiero dell'apostolo Paolo - la "salvezza" è l'assenso positivo di Dio, un suo dono gratuito che santifica oggettivamente chi Dio ha "predestinato" indipendentemente dai suoi meriti. Di conseguenza, anche la dannazione dei reprobi dipende, come la salvezza degli eletti, dal volere imperscrutabile di Dio. Dice un passo della Institutio: "Noi diamo il nome di predestinazione all'eterno decreto di Dio, per cui Egli decide da sé la sorte di ogni individuo: ad alcuni è riservata in precedenza la vita eterna, ad altri l'eterna dannazione". La fede è l'illuminazione dello Spirito, che da la speranza di essere tra coloro che Dio ha predestinato alla beatitudine, e tale speranza induce l'uomo a vivere in questo mondo in maniera conforme al modello divino insegnato da Gesù Cristo: perché, sebbene le buone opere non costituiscano un merito per ottenere la salvezza (che è già decisa da Dio), la disposizione a compierle è un segno che si è tra gli eletti, e una vita virtuosa è un atto di glorificazione di Dio. Mentre, al contrario, la disposizione a peccare è un'offesa a Dio ed è il segno che si è tra i dannati. Così, il successo o l'insuccesso nel mondo, il benessere economico o l'indigenza, sono la prova del favore o sfavore divino. E forse eccessivo attribuire a Calvino - sia che si voglia fargliene un merito, sia che si voglia fargliene una colpa - la responsabilità di aver creato, con questa sua dottrina, "lo spirito del capitalismo moderno", ma è indubitabile che essa risultò un potente impulso alle iniziative e alle operosità mondane. La certezza dell'elezione da al
239 credente calvinista anche la fiducia della protezione divina nei suoi impegni terreni. Tale fiducia è quindi stimolo per i calvinisti a una vita attiva e operosa, aliena da divertimenti, da vizi e debolezze terrene. Ciò spiega la rigidezza dei costumi vigente nella repubblica di Ginevra ai tempi di Calvino, sotto il controllo severo di una costituzione che tendeva a evitare ai cittadini ogni possibilità di caduta nel peccato, il che avrebbe indicato di non essere nella grazia divina; abolite le osterie e gli altri luoghi di divertimento, vietata qualsiasi specie di gioco, con le carte o i dadi; obbligo di ritiro in casa al coprifuoco. All'opposto, per chi si lasciava tentare da qualche mancanza: disperazione, certezza di essere tra i reprobi destinati da Dio alle pene dell'inferno. Per questi motivi, il calvinismo ebbe un'immediata diffusione soprattutto tra la borghesia cittadina, dopo la Svizzera anche in Francia, con un netto rifiuto delle strutture cattoliche e monarchiche. È importante anche il fatto che Calvino approvasse il prestito a interesse (che la Chiesa cattolica condannava), favorendo la speculazione bancaria. In pratica, quindi, nella vita quotidiana, gli eletti risultavano i ricchi, e i dannati i poveri. A Ginevra, però, nei primi due anni, certe innovazioni che Calvino, d'accordo con Farei, voleva introdurre, come i quattro "articoli" in cui, ritenendo se stesso e il collega responsabili di regolare la vita religiosa della città, attribuiva a sé e a Farei il diritto di scomunicare i peccatori impenitenti e di controllare la vita privata dei cittadini, provocarono malumore tra i borghesi e ostilità da parte del consiglio comunale, che si vide esautorato, e perciò li destituì, costringendoli a lasciare Ginevra entro tre giorni. Farei andò a stabilirsi a Neuchâtel, e Calvino a Strasburgo, dove i riformati erano retti dall'infaticabile Martin Butzer (Bucero), ex domenicano, che si era unito a Luterò fin dal 1521 e che proprio nel 1536 aveva convinto luterani e protestanti svizzeri a firmare i Capitoli di concordia. A Strasburgo, Calvino ebbe l'incarico di pastore dei luterani francesi colà rifugiati, e poi di insegnante di esegesi biblica presso la scuola superiore. Ma nel 1541 l'assemblea popolare di Ginevra li richiamò di nuovo, e da quel momento cominciò a funzionare la repubblica ginevrina calvinista. Le Ordonnances ecclésiastiques di quell'anno costituirono il codice della vita pubblica e privata dei cittadini. Secondo Calvino, lo Stato si identifica con la comunità di tutti i fedeli, obbligati a vivere nell'osservanza delle leggi morali che si fondano sulle Scritture.
240 Sull'esempio della Chiesa riformata di Strasburgo, retta da Butzer, furono istituiti i ministeri dei pastori e diaconi per il culto, dei dottori per l'insegnamento, e degli anziani per la vigilanza dei costumi privati. Questi ultimi erano autorizzati a inquisire, anche con ispezioni di giorno o di notte, nell'interno delle case, a controllare abiti e ornamenti femminili, con la proibizione dei balli, delle feste in famiglia, dei giochi alle carte, con gravi pene, fino alla morte, per i trasgressori. Calvino fu anche implacabile nel condannare coloro che, accettata la sua interpretazione della fede cristiana, ne minacciavano poi l'integrità, con opinioni eretiche. Nel 1543, l'umanista Sébastien Castellion, fuggito da Lione, perché scosso dalle esecuzioni di protestanti alle quali aveva assistito, dopo una breve permanenza a Strasburgo, si trasferì a Ginevra, e il concistoro propose la sua nomina a predicatore, ma Calvino non ne volle sapere, perché non approvava la traduzione della Bibbia da lui fatta, e perché la sua affermazione che il Cantico dei Cantici è una poesia d'amore, non un'allegoria religiosa, andava contro l'ortodossia. L'intolleranza di Calvino raggiunse il massimo nel 1553, allorché fece giustiziare sul rogo l'umanista spagnolo Miguel Serveto, che aveva cercato la sua protezione. Costui, che già qualche anno prima aveva fatto scandalo tra cattolici e protestanti, pubblicando a Lione l'opera De Trinitatis erroribus in cui negava il dogma della Trinità, dimostrando che esso non si trova mai espresso nelle Sacre Scritture ma era stato formulato soltanto dal Concilio di Nicea, e pertanto è un'arbitraria invenzione della teologia cattolica, nel 1553 compose una Christianismi Restitutio nella quale confutava la Institutio di Calvino, sostenendo la necessità di ricostruire il cristianesimo sui suoi fondamenti autentici. Calvino, venutone a conoscenza, indignato, lo fece denunciare all'inquisizione cattolica dall'amico Guillaume de Trie. Arrestato a Lione, Serveto riuscì a fuggire e - ignaro del tradimento di Calvino - andò a rifugiarsi proprio a Ginevra. Qui, Calvino ordinò immediatamente il suo arresto e dopo un rapido processo lo fece condannare al rogo. L'esecuzione di Serveto sollevò l'indignazione generale. Sébastien Castellion criticò Calvino per la sua intolleranza: "L'accusa è stata di aver interpretato liberamente le Sacre Scritture, ma è forse il solo, tra i protestanti, che abbia fatto ciò? Lo stesso Calvino non ha forse innovato più lui in dieci anni che la Chiesa cattolica in sedici secoli?
241 Chi ha dato, infine, a Calvino l'autorità di giudicare ciò che è vero e ciò che è falso? È orgoglio ritenere di possedere la certezza del vero. Da che mondo è mondo, tutti i mali sono venuti dai dottrinari che hanno preteso che il loro sistema fosse l'unico". La difesa di Calvino fu assunta dal suo fedele collaboratore, Théodore de Bèze (Beza), il quale rispose con irritazione a Castellion: "Meglio avere un tiranno che una licenza tale che permetta a ciascuno di operare a suo arbitrio. Pretendere che non si debbano punire gli eretici è come dire che non si devono punire gli uccisori del padre e della madre, dato che gli eretici sono ancora peggiori". Ma in quell'epoca in cui la tolleranza era ugualmente respinta da tutte le confessioni religiose, nel timore che venisse scambiata per indifferenza rispetto alle verità di fede e alla legge morale, e in cui le persecuzioni dei cattolici erano ben più feroci di quelle calviniste, e per di più i fedeli dei paesi cattolici vivevano col continuo spettacolo di ingiustizie sociali, corruzioni e scandali, la repubblica di Ginevra appariva pur sempre una "nuova Gerusalemme" ai cristiani di pura fede anelanti a una società migliore, e a Ginevra continuavano ad affluire a migliaia gli esuli da ogni parte dell'Europa cattolica. A Ginevra l'ordinamento del sacerdozio universale dei laici permetteva a tutti i membri della chiesa di vivere in quella solidarietà d'amore che Cristo aveva predicato, e stimolava a compiere, gli uni per gli altri, quel servizio di illuminazione e di rinnovamento morale di cui Gesù aveva incaricato gli apostoli. Il rigore di Calvino contro le deviazioni dottrinali era dettato dal suo desiderio di unificare la cristianità riformata in un credo religioso concorde, e questo suo ecumenismo ebbe buoni frutti nel Consensus Tigurinus, stipulato a Zurigo assieme al successore di Zwingli, Heinrich Bullinger, nei suoi contatti con i valdesi delle vallate alpine francopiemontesi, e soprattutto nell'intensa propaganda svolta in Francia, per risvegliare la tiepidezza di coloro che egli accusava di nicodemismo, cioè di mancanza di coraggio (dal nome del fariseo Nicodemo che, secondo il Vangelo di Giovanni, andava nascostamente, di notte, a discutere con Gesù, per non compromettersi con i propri correligionari). Codesti nicodemiti, che si trovavano soprattutto tra i seguaci di Lefevre d'Etaples, continuavano infatti a mescolarsi coi papisti, partecipando ai culti cattolici e facendo battezzare i propri figli, con la scusa che la loro adesione
242 puramente formale non li impegnava spiritualmente. Ma una tale ambiguità di comportamento ripugnava a Calvino, che seppe gradualmente creare in loro una più salda coscienza e facilitò la loro organizzazione. Nel 1545 esisteva già una comunità calvinista a Parigi; e cominciarono subito le persecuzioni. Per controbattere le "eresie" di Calvino e di Luterò fu riesumata un'opera scritta nel secolo XI dall'abate di Cluny, Pietro il Venerabile, Tractatus adversus Petrobrusianos, trovando analogie tra le dottrine allora professate da Pietro di Bruys e quelle dei moderni protestanti. Nel 1546 i cattolici trassero un respiro di sollievo per la morte di Martin Luterò, e un teologo scrisse che Franamento dell'unità cattolica con la riforma tutti i demoni erano accorsi al suo funerale, come al loro profeta e fedele cooperatore, dato che aveva sedotto moltissime persone per l'inferno". Lo stesso anno, l'8 settembre, fu fatta a Parigi una retata di calvinisti. Cinquanta di essi vennero sottoposti alla tortura, e quattordici puniti col taglio della lingua in quanto bestemmiatori, e poi bruciati sul rogo in quanto eretici. Nonostante ciò, nel 1560, le chiese calviniste in Francia raggiungevano già le due migliaia. Come era successo in Germania col luteranesimo, anche in Francia furono le condizioni politiche a favorire la diffusione del calvinismo. I principi di Condé e di Navarra, esclusi dal potere regio, si valsero dell'appoggio della borghesia calvinista, formando il partito che fu detto degli ugonotti (forse dal tedesco Eidgenossen, "confederati", che era stato il nome preso dai ginevrini quando avevano difeso la loro autonomia comunale contro i duchi di Savoia). La reazione del partito cattolico, capeggiato dai Guisa, fu violenta, e culminò nella strage di Vassy, compiuta da Francesco di Guisa e dai suoi cavalieri nel gennaio del 1562, e nell'ancora più orribile macello, ordinato dieci anni dopo da Caterina de' Medici, in cui furono trucidati, nella notte di san Bartolomeo, ben quarantamila ugonotti. [Vedi Documenti n. 5.] Intanto, nel 1547, il calvinismo, sebbene in forma attenuata, entrava anche in Inghilterra per iniziativa dell'arcivescovo di Canterbury, Thomas Cranmer che aveva già rotto con la Chiesa cattolica fin dal 1533, prendendosi l'arbitrio di sciogliere il matrimonio di Enrico VIII con Caterina d'Aragona e di riconoscere il re capo supremo della Chiesa anglicana. Allora non vi erano state innovazioni dottrinali,
243 ed Enrico VIII, come aveva fatto giustiziare molti sacerdoti cattolici che non approvavano il distacco dalla Chiesa di Roma, altrettanto aveva perseguitato protestanti di qualunque tendenza, tra cui William Tyndale, traduttore della Bibbia in inglese, che tentò la fuga all'estero ma, su richiesta di Enrico VIII all'imperatore Carlo V, fu catturato nel 1536 dalle truppe imperiali a Bruxelles e arso sul rogo. Anche nel 1539 Enrico VIII respinse la richiesta di introdurre la Riforma in Inghilterra, pubblicando il Six Articles Act (che i riformati chiamarono lo "statuto sanguinario") in cui si dichiarava che sarebbero stati puniti con la morte e la confisca dei beni tutti coloro che avessero negato la transustanziazione (del corpo di Cristo nel pane e nel vino) o che avessero richiesto la comunione sotto le due specie (con un frammento di pane e un sorso di vino) o preteso il matrimonio del clero. Tra le vittime fece particolarmente compassione la giovane venticinquenne Anne Askew che cacciata di casa dal marito, ricco borghese di South Kelsey, per la sua conversione religiosa, si recò a Londra, dove venne subito arrestata e condannata al rogo per eresia nel 1546. L'anno dopo, con la salita al trono di Edoardo VI, la riforma divenne ufficiale in Inghilterra, e nel 1549 fu adottato come testo fondamentale dell'anglicanesimo il Book of Common Prayer compilato da Thomas Cranmer, che conservava i sacramenti cattolici, la gerarchia ecclesiastica e le norme liturgiche, ma dogmaticamente assumeva una posizione di chiara impronta calvinista. Naturalmente la situazione si rovesciò, con l'inizio di persecuzioni ai riformati, molti dei quali emigrarono in America, quando, nel 1553, a Edoardo successe sul trono d'Inghilterra Maria Tudor, figlia legittima di Enrico VIII e di Caterina d'Aragona, educata alla religione cattolica e moglie del cattolicissimo infante di Spagna, Filippo II. Essa ristabilì il cattolicesimo, meritandosi il titolo di Maria la Cattolica, e pertanto condusse un'intensa repressione di riformati, tanto da ottenere da questi il nome di Maria la Sanguinaria. L'elenco dei più notevoli personaggi dissidenti che furono fatti giustiziare da questa regina, ci sarà fornito nel 1863 dalla preziosa opera del pastore anglicano John Foxe, il Book of Martyrs: fra i tanti, il già citato Thomas Cranmer, arcivescovo di Canterbury, il predicatore Hugh Latimer, il vescovo di Londra Nicholas Ridley. In totale vi furono ottocento roghi e vennero deposti dodicimila sacerdoti che durante il regno di Edoardo si erano
244 sposati. Poi la Chiesa anglicana ebbe di nuovo il suo assetto, questa volta definitivo, con Elisabetta, succeduta a Maria la Cattolica nel 1558. Essendosi il papa Paolo IV rifiutato di riconoscere la sua elezione, in quanto figlia illegittima di un divorziato, e anzi avendola scomunicata, Elisabetta, per quanto poco interessata di questioni religiose, si inasprì e subito revocò gli editti di Maria a favore del cattolicesimo, liberò i protestanti prigionieri, e si dichiarò capo della Chiesa anglicana, respingendo qualsiasi intromissione da parte della curia romana. Sotto Elisabetta l'anglicanesimo si fondò su elementi luterani e calvinisti, ma anche con forti influenze umanistiche, soprattutto risalenti a Erasmo. In tal modo si ridusse la distanza tra il clero e il mondo dei laici, e grazie ai principi calvinisti che riconoscevano nell'attivismo e nella fortuna negli affari una prova dell'elezione divina, si intensificò la mercatura specialmente con l'America, facendo concorrenza alla navigazione spagnola, anche con l'ausilio della pirateria. Nel 1570 Elisabetta approvò la compilazione dei Trentanove artico- Franamento dell'unità cattolica con la riforma i di fede, che costituiscono ancora oggi la piattaforma dottrinale dell'anglicanesimo: respinto il dogma della transustanziazione; accolto il credo luterano che la fede sola giustifica, ma che si manifesta, secondo il calvinismo, con le opere; precisato che le Sacre Scritture sono l'unica autorità in materia di fede. La costituzione anglicana di Elisabetta, tuttavia, parve ancora troppo blanda ai calvinisti, che si imposero soprattutto in Scozia, per opera particolarmente di John Knox, parroco di Edimburgo, che durante il regno di Maria era fuggito a Ginevra, sfuggendo agli inquisitori, i quali, come già era avvenuto per altri, lo bruciarono sul rogo in effige. Anche in seno all'anglicanesimo si formarono alcune sette, diversificate secondo la maggiore o minore adesione alle regole dettate dalla regina Elisabetta. I più rigidi furono i puritani sorti nel 1580 per reazione alla permanenza di preghiere a carattere cattolico nel Prayer Book, e battendosi per una sua revisione calvinista. Perseguitati dall'alta commissione ecclesiastica, creata dagli anglicani nel 1583, essi emigrarono in gran numero in Olanda e poi nell'America del Nord.
245 Evangelici, sociniani, antitrinitari e unitariani.
Mentre le rivoluzioni riformistiche degli anabattisti, dei luterani, dei calvinisti, modificavano non solo la vita religiosa ma anche le strutture sociali di gran parte dell'Europa centrale e settentrionale, nei paesi rimasti cattolici, soprattutto in Spagna e in Italia, le aspirazioni a un rinnovamento continuavano a essere contenute nei limiti di un evangelismo di marca erasmiana, oscillando tra l'ortodossia e l'eresia. In Spagna, per esempio, lo slancio mistico che porterà alla santificazione una Teresa d'Avila e un Giovanni della Croce, e che fu proprio, nei suoi primi tempi, anche di Ignazio di Loyola, non era altro che una derivazione delle credenze eretiche degli alumbrados (gli "illuminati") della prima metà del Cinquecento. Anche per Teresa d'Avila e Giovanni della Croce la pratica dell'orazione e della meditazione erano le sole vie di accesso a un'unione quasi fisica con Cristo, facendo a meno dei sacramenti. "Cristo è nel nostro interiore" essi dicevano "e non nell'ostia consacrata." Ambedue, e prima di loro Ignazio di Loyola quando ancora non aveva messo al servizio della Chiesa la sua Compagnia di Gesù (i gesuiti), furono sospettati di eccessivo misticismo. Ignazio, sceso a Roma nel 1538 per chiedere l'autorizzazione a fondare un ordine religioso con i giovani che si erano raccolti intorno a lui per una vita ascetica, venne denunciato all'inquisizione dall'agostiniano Mainardi, che credette di riconoscere nelle sue prediche delle proposizioni eretiche. A malapena, nel processo, Ignazio riuscì a dimostrare la propria ortodossia. Poi, infatti, sarà addirittura fatto santo. Più tardi, nel 1576, Teresa d'Avila e Giovanni della Croce saranno temporaneamente imprigionati a Toledo, dietro segnalazione dei carmelitani, e alla fine si sottometteranno alla Chiesa e saranno anch'essi santificati. Più avventurosa fu la vita di Juan de Valdés. Dopo essere incappato due volte nell'inquisizione, nel 1531 riuscì a riparare in Italia, ottenendo l'incarico di archivista alla corte spagnola di Napoli. Per merito suo l'evangelismo entrò in Italia. A Napoli egli compose infatti per la sua protettrice, Giulia Gonzaga, il dialogo ascetico Alphabeto christiano, che entusiasmò alcuni religiosi della città, i quali presero a frequentarlo e ad ascoltarlo, costituendo con lui un circolo. Tra i più assidui Bernardino Odiino, vicario generale dei cappuccini,
246 e che godeva fama di ottimo predicatore, Pier Martire Vermigli, priore del convento agostiniano, Pietro Carnesecchi, il quale era stato segretario di papa Clemente VII, e l'umanista Marcantonio Flaminio. Alle loro riunioni a volte intervenivano anche il marchese Galeazzo Caracciolo e Vittoria Colonna che, rimasta vedova nel 1525 del marchese di Pescara, Ferdinando d'Avalos, era stata colta da crisi religiosa e scriveva anche delicate poesie, in corrispondenza con Michelangelo Buonarroti che era di lei platonicamente innamorato. Poi il Vermigli si trasferì a Lucca, dove creò un proprio cenacolo con gli agostiniani Celio Secondo Curione, Agostino Mainardi, Girolamo Zanchi, e più tardi Aonio Paleario. Ma nel 1542, la ristrutturazione del sistema inquisitoriale, con la creazione del Santo Uffizio (Sacra Congregano Romanae et Universalis Inquisitionis seu Sancii Officii) sotto la presidenza dello spietato cardinale Gian Pietro Carafa (futuro papa Paolo IV) fece sciogliere sia il Circolo napoletano (Valdés era già morto l'anno precedente) sia quello di Lucca, e mise in fuga in paesi protestanti la maggior parte dei membri. Alcuni di essi, tuttavia, non avendo possibilità di salvarsi altrimenti, si piegarono all'abiura, ricevendo l'assoluzione. E non devono essere condannati per debolezza, perché i duri metodi dell'inquisizione rendono comprensibile il loro comportamento, che peraltro era spesso soltanto una finzione, come nel caso del Paolo Ricci, che, profugo nel 1542, continuò a propagandare in Svizzera le proprie opinioni. Una dolorosa conseguenza della fuga in Svizzera di Celio Secondo Curione fu che, essendo stato generosamente ospitato in casa del famoso pittore belga Jean Joris, anch'egli rifugiatosi a Basilea sotto lo pseudonimo di Giovanni di Bruges, quando l'artista morì, nel 1556, il cognato lo denunciò per aver ospitato un eretico, e l'inquisitore fece disseppellire e ardere sul rogo il suo cadavere. Il rischio di manifestare propositi di riforma, pur senza prendere l'iniziativa di una rottura con la Chiesa, fu comunque corso anche da autorevoli membri della stessa corte pontificia, tra i quali il cardinale Gaspare Contarini, morto però proprio nel 1542, quando l'inquisizione romana stava diventando troppo sospettosa. Così pure Pier Paolo Vergerio, nunzio apostolico in Germania e vescovo di Capodistria, che alla fine, nel 1549, farà il gran passo, facendosi pastore luterano in Svizzera, e a coloro che lo biasimavano per il suo tradimento
247 ritorceva l'accusa contro l'ipocrisia della curia romana: "Anche Gesù Cristo e gli apostoli fuggivano per evitare le persecuzioni dei farisei". Indicativo del comportamento nicodemista è che uno dei gruppi di contestatori più vivaci e attivi, cioè il Circolo di Viterbo, che aveva raccolto anche qualche membro del disperso Circolo napoletano, usava riunirsi attorno al famoso cardinale Reginald Pole, fuggito dall'Inghilterra nel 1541, dopo che sua madre e suo fratello erano stati giustiziati da Enrico Vili per le loro opinioni riformiste, e che pertanto, venuto in Italia, godeva grande credito per un certo alone di martirio ed era stato subito eletto come legato al patrimonio di san Pietro (1541), poi anche al Concilio di Trento (1545) e nel 1549, nel conclave adunato per eleggere il successore di papa Paolo III, per un solo voto gli mancò la maggioranza (due terzi) per la nomina a pontefice. Il Circolo di Viterbo, presieduto dal Pole, era frequentato anche dal governatore generale dello stato pontificio, Camillo Orsini, ma non era però omogeneo nell'indirizzo dottrinale, sebbene i temi fossero pur sempre quelli degli altri Circoli evangelici: la necessità di un ritorno alle fonti genuine dei Vangeli, la libera interpretazione da parte di ciascun fedele dei suoi rapporti con Dio. Il cardinale Reginald Pole ebbe la fortuna - come già il Contarini - che il suo comportamento eretico venisse scoperto soltanto poco prima della morte, quando ormai era tornato in patria e, divenuto consigliere della cattolica Maria Tudor, la Sanguinaria, si era fatto egli stesso persecutore dei riformati. Quanto al principe Orsini, conosciamo dalla relazione di un prelato della Santa Sede "che era sulla medesima via di eresia che era il cardinale de Inghilterra, et era non solo lui ma tutta la casa sua fin alle donne che sono simile, di modo che si va dubitando che non solo Sua Santità habbi da abbracciare questi figliuoli, ma che portino anche pericolo di essere inquisiti". Già non molti anni prima Camillo Orsini si era compromesso avendo scritto al duca di Ferrara, Ercole II, in favore degli eretici di quella città, ossia dei membri di un circolo riformista, che si era formato per iniziativa del benedettino Giorgio Siculo, ed era composto di religiosi, maestri e studenti dello studio ferrarese. In esso Giorgio Siculo andava predicando che Gesù gli era apparso e gli aveva rivelato che la salvezza era per tutti coloro che credevano nella parola
248 del Vangelo, indipendentemente dalla loro sottomissione all'autorità della Chiesa e all'accettazione dei sacramenti. Sempre, dunque, ancora influssi erasmiani e luterani. Nel 1551 il Santo Uffizio farà sciogliere il circolo e molti membri saranno arrestati e processati, e Siculo condannato all'impiccagione. Tuttavia, il Trattato del Battesimo e della Cena, che Siculo aveva pubblicato anni prima sotto lo pseudonimo di Camillo Renato, in cui sosteneva la tesi anabattista della validità del battesimo solo per gli adulti e il significato puramente simbolico dell'eucarestia, negando il dogma della transustanziazione del corpo e del sangue di Cristo, ispirò un gruppo di umanisti del Veneto, tra cui Lelio Socini (o Sozzini): già autori di esegesi bibliche, Giovanni Valentino Gentile, i due medici piemontesi Giovanni Paolo Alciati e Giorgio Biandrata, il benedettino Francesco Negri e i due professori dell'Università di Padova, Matteo Gribaldi e Francesco Stancare. A quei tempi la Repubblica di Venezia godeva fama di una certa libertà e tolleranza, e ospitava infatti un buon numero di anabattisti sfuggiti alle persecuzioni di altri paesi. Tra costoro gli amici del Circolo di Lelio Socini, distinguendosi dagli altri riformatori, portarono la loro voce, predicando la necessità di un rinnovamento religioso sulla base dell'autentico contenuto del Vangelo. In altre parole, il socinianesimo, pur ammettendo l'ispirazione divina delle Scritture, respingeva le conseguenze dogmatiche che ne traevano i cattolici (i sacramenti, l'istituzione della Chiesa ecc.) e sosteneva che nei Vangeli è soltanto indicata la via della salvezza in senso puramente etico, e che ognuno è libero di interpretarla secondo le proprie esigenze senza bisogno del magistero della Chiesa e di una guida da parte del clero. Il socinianesimo era quindi avverso a tutte le dispute teologiche e propugnatore di una larga tolleranza religiosa. Ciò che preoccupava la Chiesa, e che la indusse a una condanna dei sociniani, era che appunto quella tolleranza portasse al lassismo, all'indifferenza devozionale. Nel 1550 i nuovi eretici parteciparono con gli anabattisti a un grande Sinodo a Venezia, nel quale si formulò alla fine un "atto di fede" che oltre a sostenere il principio anabattista della necessità di ribattezzare gli adulti, non essendo valido quello imposto agli infanti incapaci di volere e di decidere, accoglieva anche la dottrina antitrinitaria: esiste un solo Dio, unico e assoluto; Gesù era soltanto un
249 uomo, ispirato da Dio; dalle Sacre Scritture non è possibile ricavare il dogma della Trinità, che infatti è un'arbitraria invenzione cattolica, risalente al Concilio di Nicea dell'anno 325. Quest'affermazione era già stata fatta da altri, isolatamente, ma ora, per la prima volta, diventava precetto di fede di un'intera setta di eretici, i quali ricevettero pertanto il nome di antitrinitari. Poiché nel Sinodo di Venezia i predicatori più radicali si erano anche impegnati a operare per l'istituzione di una "Chiesa dei poveri", ispirata alla comunità primitiva di cui parlano gli Atti degli Apostoli, e perciò fondata sull'uguaglianza di tutti i fedeli e la comunione dei beni, il governo della Repubblica veneta si insospettì, come di "nemici delli magistrati et delli Principi, volendo per la sua setta che tutti sian liberi", e aprì un'inchiesta mettendone in carcere alcune decine e giustiziandone altri. I superstiti dovettero fuggire all'estero per evitare la cattura. Intanto, già fin dal 1542, in seguito all'istituzione del Santo Uffizio, alcuni membri del Circolo sociniano erano riparati in Svizzera, contando sulla protezione di Calvino, dove trovarono accoglienza e furono incaricati di insegnamento in varie Università. Ma quando nel 1553 Calvino fece giustiziare Miguel Serveto, che si era permesso di confutare la sua Institutio, anche gli italiani Giovanni Gentile, Matteo Gribaldi e Celio Secondo Curione espressero le proprie rimostranze per il comportamento dispotico di Calvino che s'indignò, accusandoli di "derivare da Ario, anzi, più in là, da Satana". Gentile, denunciato oltre a ciò per comportamento osceno da una cameriera della casa in cui era inquilino, venne posto sotto processo. Lo si riconobbe colpevole di eresia perniciosa e di bestemmia, e fu costretto ad andare per ammenda scalzo, in camicia, a testa scoperta, con una torcia accesa in mano, a inginocchiarsi davanti ai sindaci, implorando mercé da Dio, e quindi gettare egli stesso sul fuoco i propri scritti fino a ridurli in cenere. Ancora una volta gli antitrinitari dovettero emigrare e parve loro che la sede ideale dovesse essere la Moravia dove, si diceva, "vi è la Chiesa santa, immaculata, separata da' peccatori, senza ruga né macchia, la quale sì come era al tempo degli apostoli, così è hora". In Moravia, infatti, si trovava ancora una forte Comunità di fratelli boemi, costituitasi fin dal 1467, mentre una parte di essi, perseguitati dagli Asburgo, nel 1548 si erano trasferiti in Polonia.
250 In Moravia, in Polonia e poi di lì nella Transilvania, il movimento antitrinitario divenne particolarmente attivo, fondendosi con gli anabattisti e gli hussiti a formare le varie comunità di quelli che si definirono unitariani. In Transilvania la loro esistenza era particolarmente sicura per le speciali condizioni politiche. Occupata dai turchi nel 1526, la casa di Asburgo ne aveva dovuto riconoscere l'indipendenza e, con la piena approvazione della Porta, la nobiltà del luogo aveva eletto re il voivoda János Szápolyai, il cui dominio si estendeva anche in parte della bassa Ungheria. La tolleranza dei turchi (anzi la loro indifferenza) per le questioni religiose dei cristiani, lasciava perciò ampia libertà agli eretici unitariani. Qui si distinse specialmente, come abile organizzatore, il piemontese Giorgio Biandrata, nativo di Saluzzo. Laureatosi in medicina a Pavia nel 1540, quando aveva appena cominciato a praticare la sua arte aveva avuto l'onore di assistere, per un non grave malore, la regina di Polonia Bona Sforza che era venuta a far visita ai suoi parenti, ed essa, grata del suo intervento, l'aveva invitato a seguirla a Varsavia come suo medico personale. Egli era rimasto in Polonia fino al 1544 quando era stato richiesto in Transilvania, ad Alba Iulia (oggi Gyula Fehérvár), dalla figlia Isabella di Bona Sforza e di re Sigismondo di Polonia. Questa era rimasta vedova di János Szápolyai, sola con un bambino di quattro anni, un po' gracile e bisognoso di cure continue. Ad Alba Iulia, Biandrata era stato subito riconosciuto come il capo della comunità e riverito da tutta la popolazione locale, appagata nel suo desiderio di una fede più semplice, accessibile a tutti, la cui umanizzazione di Gesù lo avvicinava maggiormente al cuore dei fedeli, che vedevano nel riscatto dal peccato non un avvenimento operato dall'alto ma il risultato della predicazione e il sacrificio della propria vita di un uomo come loro. L'umiltà e sottomissione alla legge del bene che gli unitariani praticavano e insegnavano acquistava Franamento dell'unità cattolica con la riforma l valore di partecipazione personale a meritare il premio della salvezza. Biandrata aveva anche fondato ad Alba Iulia una tipografia che stampava opere religiose a uso dei membri della comunità e da spedire ai connazionali in patria, e anche relazioni delle frequenti dispute che avvenivano tra gli eretici e teologi calvinisti o luterani.
251 Nel vicino centro di Koloszvár (oggi Cluj), un'altra comunità di unitariani era retta dagli ungheresi András , ex vescovo cattolico in Dalmazia, e dall'ex luterano Ferencz David, Negli anni successivi la comunità transilvana fu accresciuta di altri autorevoli membri: Dario Senese, il medico Niccolo Paruta, e l'erudito Giacomo Paleólogo, che scrisse ad Alba Iulia, e la tipografia di Biandrata stampò, una specie di romanzo avventuroso che narrava di un certo Telefo, indio del Sudamerica che, dopo varie vicende, era giunto in Transilvania e si compiaceva di trovare finalmente chi lo capisse e non lo disprezzasse. "Sono nato e cresciuto" diceva "in un paese che non ha mai sentito parlare di Dio, di Cristo, della Chiesa, ma ho sempre saputo che cos'è l'onestà, l'amore del prossimo, la giustizia. Perché dovrei farmi cristiano?" La pacifica convivenza degli unitariani in Transilvania fu turbata nel 1571, quando, alla morte del re Szigmund Szápolyai, che era succeduto al padre János, gli intrighi degli Asburgo riuscirono a far insediare come re il principe Cristoforo Báthory, fervente cattolico, che introdusse nel regno i gesuiti, creando per loro collegi ad Alba Iulia e a Koloszvár, e affidando persino al loro padre provinciale, Antonio Possevino, l'educazione del proprio figlio di sei anni. Non solo: irritato dalla predicazione del Biandrata, confiscò i tre villaggi che gli erano stati donati dallo Szápolyai e in cui ospitava i correligionari, per darli ai gesuiti, e gli impose di desistere dall'attività di riformatore per dedicarsi solo alla pratica della medicina. La presenza dei gesuiti ostacolò notevolmente la vita degli unitariani, e anche la popolazione locale che li aveva accolti con una grande simpatia cominciò a essere perseguitata, col pretesto che i loro riti agricoli, di antichissima derivazione pagana, e la loro abitudine di servirsi di donne dotate di esperienza come guaritrici, venivano interpretati come stregoneria. Nel 1585 fu celebrato un lungo processo a tre presunte streghe, le quali furono naturalmente arse sul rogo. Anche gli unitariani ebbero le loro vittime. Primo fra tutti Ferencz David, imprigionato in un tetro carcere, dove morì entro l'anno, soprattutto a causa delle gravi conseguenze sul suo fisico del rigido cuma invernale. Intanto altre comunità di unitariani, oltre a quelle della Trans vania, erano sorte
252 in diversi altri luoghi dell'Europa orientale. Un prezioso documento del Seicento, la Bibliotheca Antitrinitariorum di Christophorus Sandus (Sand) ci da una succinta Narratio de vita eorum qui docuerunt solum Patrem esse illum verum seu altissimum Deum, e oltre a Biandrata, Gentile e Ochino (che abbiamo già visto tra i componenti del Circolo napoletano di Juan de Valdés) nomina altri propagandisti unitariani: Piotr Goniazde (Pietro Gonesio), che fondò la prima chiesa unitariana polacca a Wegrov, di tendenze moderate; Gregor Pawel, altro unitariano polacco; Fausto Sodili, nipote di Lelio che era stato il capo degli antitrinitari d'Italia; Marcion Krowicki, a Pinczov; Martin Czechowic, che con il bielorusso Szymon Budny fu il capo degli unitariani di Vilna, nella Lituania, con influssi ortodossi russi, e i già nominati Ferencz David e Andrés Dudith impegnati in Transilvania, nonché il tedesco Johann Sommer, ex prete luterano. Tra i vari gruppi di unitariani vi furono senza dubbio divergenze di opinioni: attese millenaristiche per alcuni, negazione del battesimo anche agli adulti per altri, ma concordemente grande rispetto delle idee altrui, comune fiducia nella fratellanza umana, rifiuto categorico della violenza. [Vedi Documenti n. 6.] Di tendenze anabattiste e unitariane si formarono anche comunità nell'Europa occidentale. Particolare cenno merita l'azione in Inghilterra, poco dopo la metà del Cinquecento, di Heinrich Niclaes nativo di Munster, che organizzò gli esuli anabattisti e unitariani della propria patria, fondando a Ely, nella contea di Cambridge, la Famiglia dell'amore: una comunità che si proponeva appunto di vivere, in amore fraterno e nelle stesse condizioni di uguaglianza sociale, la semplice vita dei primi apostoli. Alla sua morte, il successore, Christopher Vitéis, continuò a predicare l'esistenza di un unico Dio supremo, la non divinità ma la semplice umanità di Gesù, la necessità del battesimo in età adulta, come segno di accettazione cosciente della fede. La Famiglia dell'amore, definita dai teologi cattolici "un'orribile setta", accusata di "promiscuità sessuale", perché in essa i matrimoni erano celebrati dagli anziani senza far ricorso alla benedizione sacramentale dei sacerdoti, subì persecuzioni, torture, condanne al rogo. Ma la fede unitariana non si spense, e la sua Chiesa in tempi meno difficili uscirà dalla clandestinità. Attualmente essa raccoglie parecchie
253 migliaia di adepti, soprattutto in Gran Bretagna, in Olanda e negli Stati Uniti d'America, dopo aver avuto la sua costituzione definitiva, alla metà del Seicento, proprio in Gran Bretagna, per opera di John Riddle, che per questo motivo era stato dapprima esiliato dagli anglicani nelle isole Scilly, poi imprigionato a vita. Altra figura eminente sarà l'umanista ceco Jan Amos Komensky (Comenius) che, rifugiatosi in Polonia dopo le devastazioni della guerra dei Trent'anni, nel 1631 pubblicherà la sua maggiore opera poetica, Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore, e più tardi la Pansofiae, in cui espone il manifesto politico-religioso di una fratellanza universale, fondata sul concetto mistico che l'uomo è un "microcosmo", immagine di Dio. DOCUMENTI.
1. Erasmo: la pazzia dei teologi.
Essi spiegano a loro talento gli arcani più misteriosi della fede. Per esempio, con qual criterio sia stato creato e ordinato il mondo; per quali motivi la macchia del peccato originale sia discesa sino alla posterità, in qual modo, in qual misura e per quanto tempo Cristo si sia formato nel seno della Vergine, o come nell'eucarestia gli accidenti sussistano senza soggetto. Ma son cose fritte e rifritte. Vero è poi che vi son ben altre questioni, degne espressamente di teologi grandi e, come dicono, illuminati, dinanzi alle quali il loro spirito si ridesta, come: "Esiste un istante nella generazione divina? In Cristo vi sono più filiazioni? È possibile la seguente proposizione: Iddio Padre odia il Figlio? Avrebbe potuto Dio prendere forma di donna, o del diavolo, di un asino, di una zucca, di una pietra? E in tal caso, come avrebbe una zucca parlato al popolo e fatto miracoli? Come sarebbe stato crocifisso? Se san Pietro avesse detto messa, allorché il corpo di Cristo pendeva sulla croce, che cosa avrebbe consacrato? E, in quello stesso tempo, Cristo poteva essere chiamato uomo? Sarà lecito, dopo la resurrezione, mangiare e bere?". Già sin d'ora, si vede, si preoccupano della loro fame e della loro sete futura! Ma intanto, al colmo della beatitudine, gongolano fra se stessi e si applaudono,
254 talché tutti presi, come sono, giorno e notte, dalla dolcezza di queste cantilene, non resta loro un po' di tempo per sfogliare, anche una sola volta, il Vangelo o le Epistole di san Paolo. E blaterando con siffatte vuotaggini per le scuole, si illudono che, altrimenti, la Chiesa universale crollerebbe e che son essi a sorreggerla col sostegno dei loro sillogismi, non altrimenti che Atlante, a dir de' poeti, regge sulle sue spalle il cielo. Credete, poi, che sia poca felicità plasmare e riplasmare a piacimento le sacre scritture, come fossero di cera? Pretendere che le loro conclusioni, perché già accettate da alcuni scolastici, valgano più delle leggi di Solone? Che, se per disgrazia, c'è qualcosa che non s'accorda, punto per punto, con le loro conclusioni, esplicite ed implicite, essi, quali censori dell'universo mondo, costringono l'imprudente alla palinodia, pronunciando come per bocca dell'oracolo la sentenza: "Questa proposizione è scandalosa, quest'altra poco reverenziale, questa puzza di eresia, quest'altra suona male". [Erasmo da Rotterdam, Encomian Morae seu laus stultitiae.] 2. La corruzione della Chiesa di Roma.
È orribile e spaventoso a vedersi che il capo della cristianità, che si prodama vicario di Cristo e successore di san Pietro, viva in tale pompa e magnificenza mondana che l'uguale non lo può pretendere né raggiungere un re o un imperatore; e mentre si fa appellare "santissimo" e "spirituale" è un essere più terreno di quel che non sia la stessa terra. Porta una triplice corona, mentre i più grandi re ne portano una semplice; si paragona alla povertà di san Pietro, e questo è invero nuovo e singolar paragone. Gridano all se si parla contro di lui, ma non vogliono intendere che un simile costume è anticristiano e antidivino. A Roma, altro non è che un comprare, vendere, barattare, frodare, mormorare, altro non è che lussuria, fornicazione, ribalderia e dispregio di Dio in tutte le forme, talché non sarebbe possibile all'Anticristo governare in maniera più iniqua e scellerata. Venezia, Anversa, il Cairo, non sono niente appetto a cotesta fiera e mercimonio romano, senza contare che laggiù ragione e diritto sono mantenuti in vigore, qui invece, la va come piace al diavolo. E da quel mare si riversano ora per tutto il mondo le medesime virtù. Non è dunque comprensibile che gente di tal fatta abbia paura della riforma e d'un libero Concilio? Chi può sopportare che vengano tratte alla luce tali
255 iniquità? Da ultimo il papa, oltre a tutte coteste sue nobili attività, ha fondato una sua casa di vendite, che è la casa dei datarii a Roma. Ivi devono rivolgersi tutti coloro che fanno commercio di feudi e benefici, ivi puoi comprare le glosse ed i rimaneggiamenti del diritto e puoi ottenere facoltà di esercitare tali arciribalderie. Nei tempi andati a Roma il diritto si comperava e si tacitava a buon mercato; ma ora essa è diventata tanto esosa che non concede più a nessuno il permesso di compiere soprusi, a meno di non sborsarle una bella somma. E se questo non è un bordello peggiore di tutti i bordelli che uno possa figurarsi, allora non so più che cosa voglia dire bordello. Là vengono infranti i voti, là concessa licenza ai monaci di abbandonare gli ordini, là è in vendita ai sacerdoti il matrimonio, là i figli di puttane possono divenire legittimi, là ogni vergogna e disonore può assurgere a dignità e ogni vizio ed inclinazione iniqua diventar nobile. Ora, come il papa ha strappato con la violenza e l'ingiustizia l'impero romano, ovvero il nome d'impero romano, al suo legittimo imperatore, per trasferirlo a noi tedeschi, così è manifesto che Dio si è servito in ciò della malizia del papa per concedere alla nazione tedesca tale impero. E sebbene noi non avessimo dato materia alcuna in ciò alla malizia del papa, né comprendessimo la sua avidità e le sue prave intenzioni, tuttavia, a cagione di tale sua malizia, col sangue versato a fiumi, con l'oppressione della nostra libertà, con la consegna e il latrocinio di tutti i nostri beni, col sopportare diaboliche frodi e onte, abbiamo pagato purtroppo ben caro cotesto regno. Noi possediamo il nome dell'impero, ma il papa possiede i nostri beni, l'onore, i corpi, la vita, le anime, e tutto quello che abbiamo. Questo è un ingannare i Tedeschi, e un ingannare per mezzo dei tedeschi: questo hanno cercato i papi, che avrebbero bramato di essere imperatori, e poiché non poterono ottenerlo, si posero al disopra degli imperatori. [M. Luterò, An den Christlichen Adel deutscher Nation, in G. Panzìeri Saija (a cura di), Scritti politici.] 3. Gli articoli degli anabattisti dì Munster (1533).
Art. 1: il battesimo dei bambini è un misfatto davanti a Dio. Art. 2: l'olio, l'acqua, i rami, le erbe, le candele accese e tutte le altre cose
256 che i preti usano per il battesimo e gli altri sacramenti sono invenzioni del Diavolo e dell'Anticristo, ossia del papa romano, per turpe guadagno. Art. 3: nessun cristiano deve entrare nelle chiese degli infedeli. Art. 4: l'ostia consacrata sull'altare è la grande Baal. Art. 5: con gli empi e con i gentili non si deve avere alcun rapporto. Art. 6: si deve festeggiare come giorno del Signore il Sabato, che è stato a ciò destinato da Dio, e non la Domenica, che è stata stabilita dagli uomini. Art. 7: papisti e luterani sono empi. Essi mangiano, bevono, fornicano e vanno contro la parola di Dio. Gli anabattisti, infatti, sono denigrati non soltanto dai cattolici ma anche dai luterani, sebbene traggano da loro la propria origine. Per questo Rothmann il giorno dopo Pentecoste del 1533 ha scritto, tra l'altro, ad Hermann Regeward, predicatore di Warendorf: "Non potrei descrivere compiutamente quanto ci perseguitino i luterani, cercando di annientarci: ma noi non abbiamo paura, e nutriamo un'incrollabile fiducia che Dio concederà felice esito alla nostra causa". Art. 8: gli infedeli, che credono alle fandonie dei preti, sono degli sciocchi, dei cittadini o contadini ingenui. Art. 9: da millecinquecento anni non è esistito in tutto il mondo un vero cristiano, e non è vero che dopo l'ascensione di Cristo sono stati istituiti i sacerdoti: anche gli apostoli non erano sacerdoti, ma servitori di Dio, che annunciavano la sua parola; Cristo soltanto è stato l'ultimo sacerdote. Art. 10: non si deve ubbidire all'autorità degli infedeli. Art. 11: non si deve istruire nessun infedele ai segreti della verità prima che venga il tempo stabilito da Dio. Fino ad allora il mondo dovrà soffrire le più grandi afflizioni a causa dei suoi peccati, e gli empi dovranno perire con la violenza della spada: dopo, i giusti che sopravviveranno saranno chiamati a far parte del regno di Dio. Art. 12: Cristo non ha assunto da Maria la natura umana. Art. 13: ogni matrimonio contratto fra cristiani deve intendersi abolito, perché prima del nuovo battesimo i matrimoni non sono validi. Art. 14: sono veri cristiani coloro che prima credono in Cristo e allora vengono battezzati nel suo nome. Art. 15: le donne devono chiamare i loro uomini "signore". Art. 16: i servi e le serve, che sono credenti, non devono contrarre matrimonio con i gentili infedeli e neppure prestare servizio presso di loro, ma solo presso i credenti. Art. 17: nessun cristiano deve presentarsi di fronte a un tribunale a testimoni
257 a re in favore di un empio. Art. 18: nessun cristiano deve praticare l'usura, né deve percepire alcuna rendita o doverla pagare: ma tutto dev'essere in comune, secondo l'esempio degli apostoli. Art. 19: ogni cristiano deve continuare il cammino che ha intrapreso, senza fermarsi e senza guardare indietro, affinchè non gli sia chiusa la porta. Quindi, se anche suo padre, sua madre, sua sorella o chiunque altro del suo parentado non volesse accogliere questo insegnamento e accettare il segno della nostra alleanza, tutto ciò non deve rendere esitante un buon cristiano, ma egli deve restare sempre costante nella sua fede. [In J. Macek, La riforma popolare, pp. 71-73.J 4. La conversione di Menno Simonsz.
Le povere pecorelle smarrite, che vagavano come pecore senza il proprio pastore, dopo molti crudeli editti, supplizi e massacri, si raccolsero in un luogo vicino alla mia residenza, chiamato Oude Klooster. E, ahimè!, attraverso le empie dottrine di Munster e in contrasto con lo Spirito, la Parola e l'esempio di Cristo, sguainarono la spada per difendersi, la spada che il Signore ordinò a Pietro di riporre nella sua guaina. Dopo che questo si fu manifestato, il sangue di questa gente, benché traviata, cadde così caldo sul mio cuore, che non potei sopportarlo né trovar pace nella mia anima. Riflettevo sulla mia impura vita carnale e anche sull'ipocrita dottrina e idolatria che ancora praticavo quotidianamente con apparente devozione, ma senza piacere. Vedevo questi zelanti fanciulli, benché in errore, donare volentieri le loro vite e i loro beni per la loro dottrina e fede. E io ero uno di quelli che avevano rivelato loro gli abominii dell'istituzione papale. Ma io, da parte mia, continuavo nella mia vita comoda e conoscevo semplicemente gli abominii, di modo che potevo godere dei beni materiali ed evitare la croce di Cristo. Riflettendo su queste cose, la mia coscienza mi tormentava talmente che non potei più a lungo sopportare. Cominciai a predicare pubblicamente dal pulpito, nel nome del Signore, la parola della vera penitenza, a indicare alla gente lo stretto sentiero e, nella potenza della Sacra Scrittura, a biasimare apertamente ogni genere di peccato e di malvagità, ogni idolatria e falso culto, e a mostrare il culto vero, come pure il vero battesimo e la cena del Signore, in accordo con la dottrina di Cristo, nella misura in cui, in quel tempo, avevo la grazia del Signore.
258 Così io, senza costrizione, rinunciai all'improvviso a tutta la mia reputazione mondana, nome e fama, ai miei abominii non cristiani, alle mie messe, al battesimo degli infanti, e alla mia comoda vita, e mi sottoposi volentieri al dolore e alla povertà sotto la pesante croce di Cristo. [In J. Macek, op. cit., p. 95.] 5. La notte di san Bartolomeo.
Stabilite tutte le cose, la sera venendo il giorno vìgesimoquarto d'agosto, dì di domenica e destinato alla festività di san Bartolomeo, il duca di Guisa uscito di corte nell'oscurità della notte, andò per commissione del Re a trovare il presidente Charrone preposto dei mercanti, commettendogli che mettesse all'ordine duemila uomini armati, i quali portassero una manica di camicia nel braccio sinistro ed una croce bianca sopra il cappello, co' quali si potesse ad un'ora medesima eseguire gli ordini del Re, e che a' botti della campana dell'orologio del Palazzo fossero subitamente pronti. All'ora determinata, egli, accompagnato da monsignor d'Angolemme, fratello naturale del Re, e con altri soldati e capitani al numero di trecento, andò alla casa dell'Ammiraglio Coligny e trovata tutta in arme la compagnia di Cossein, posta per innanzi a questa guardia, sforzarono la porta del cortile custodita da pochi alabardieri e da' famigliari di casa, i quali furono senza remissione tutti uccisi. Entrati nel cortile, salirono alla camera dell'Ammiraglio. Egli, sentito il romore, levato in piedi, ed appoggiato al letto s'era prostrato ne' ginocchi. Arrivarono i percussori, e riconosciuto l'Ammiraglio, si voltarono verso di lui, al quale atto egli rivolto a Berne che gli aveva sfoderata la spada contra, gli disse: "Giovane, tu dovresti riverire queste mie chiome canute, ma fa quello che vuoi, che di poco m'averai accortata la vita". Dopo le quali parole, Berne gli diede la spada nel petto, e gli altri, finito che ebbero d'ammazzarlo co' pugnali, lo gettarono dalla finestra nel cortile, e subito fu trascinato in una stalla. Nel medesimo palazzo furono ammazzati Teligny, genero dell'Ammiraglio, Guerchy suo luogotenente, i colonnelli Montaumar e Rouray, il figliolo del barone di Sant'Adrets, e tutti quelli della sua corte. Il Re intanto, passato nella camera della Regina sua madre, fece chiamare il re di Navarra ed il principe di Condé, i quali v'andarono con gran terrore vedendo che alcuno de' loro gentiluomini né dei serventi non era lasciato
259 passare; e nell'istesso tempo il maestro di campo della guardia del Re cominciò a chiamare ad uno ad uno i principali Ugonotti che erano nel Louvero, i quali nell'entrare in cortile erano tutti ammazzati da' soldati, che in due lunghi ordini stavano con l'arme apparecchiate. Nel medesimo tempo si diede il segno al Preposto de' mercanti con la campana dell'orologio del Palazzo, e quelli che erano preparati per questo fatto si diedero ad ammazzare gli Ugonotti per gli alloggiamenti, e per le case nelle quali erano sparsi, e se ne fece grandissima strage, non si distinguendo né età, né sesso, né condizione. Il Louvero tutto il giorno seguente si tenne chiuso; ed intanto il Re e la Regina confortavano il re di Navarra ed il principe di Condé, mostrando che erano costretti a fare quello che tante volte l'Ammiraglio aveva tentato di fare a loro, ma che essi, a' quali, condonando molto alla strettezza del sangue, si riservava la vita, sarieno per l'avvenire amati e tenuti cari, quando vivessero nella religione cattolica ed ubbidissero il Re. Ma il principe di Condé, o per l'inconsiderazione dell'età, o per la naturale ferocia, derivata da' suoi maggiori, mostrò di voler rispondere ed opponersi a questo comandamento, dicendo ch'egli domandava di non esser violentato nella coscienza; onde adirato il Re, agramente lo riprese, chiamandolo più volte I rio, arrabbiato, contumace, traditore, ribello, e lo minacciò di levargli la vita, ' se nel termine di tre giorni non si faceva cattolico. Per la città il primo ed il seguente giorno ne furono uccisi più di diecimila, e tra questi più di cinquecento baroni e cavalieri, e uomini che nella milizia avevano tenuti i primi gradi, essendo convenuti con grande studio da tutte le parti del regno per onorare le nozze. Il corpo dell'Ammiraglio cavato a furia di popolo dalla stalla ov'era stato riposto, fattone prima infiniti strazi, fu dalla moltitudine infuriata contro il suo nome, dopo d'avergli spiccata la testa e tagliate le mani, strascinato per le strade fino al luogo della giustizia, e quivi lasciato per uno de' piedi impiccato alla forca, e dopo non molti giorni, plaudendo e giubilando tutto il popolo, acceso fuoco alla medesima forca, restò mezzo abbruciato, non si trovando fine agli scherni del suo cadavere. Il giorno seguente alla morte dell'Ammiraglio, il duca d'Angiò uscì fuori del Louvero, ed accompagnato dal reggimento delle guardie tutto in arme, andò per la città e per i borghi per far aprire le case di chi avessero voluto far resistenza; ma tutti gli Ugonotti o erano di già morti, o spaventati avevano preso il contrassegno della croce bianca sopra il cappello, come portavano
260 i Cattolici, e procuravano, nascondendosi, di scampare la vita; ma mostrati a dito da qualcuno per le strade, o in qualche altro modo riconosciuti, erano senza remissione lacerati dal popolo. Il giorno che precedette questa terribile esecuzione, il Re spedì molti corrieri in diverse parti del regno comandando a' governatori delle città e delle provincie che dovessero fare l'istesso; e la medesima sera e i giorni seguenti ad Orléans, a Roano, a Burges, ad Anger, a Tolosa, ed in molti altri luoghi, ma sopra tutti a Lione, si fece strage grandissima degli Ugonotti non si perdonando né a sesso, né ad età, né a qualità di persone. Gravi e terribili accidenti si potrebbero ancora raccontare, ma la maniera che abbiamo fin qui tenuta di seguire succintamente i fatti non ci permette diffonderci nella tragica narrazione. [A.C. Da vila, storia delle guerre civili di Francia (1630), lib. V, in A. Rohrbacher, Storia universale della chiesa cattolica (1874), vol. XII, pp. 325 sgg.J 6. Gli articoli della Chiesa di Rakow.
Sul battesimo, due sono le cose da prendere in considerazione: 1: se sia un comandamento di Cristo; 2: quale sia il suo scopo. Circa il Io punto, si nega che il battesimo dell'acqua sia un comandamento di Cristo. La conclusione è che non esiste comandamento né esempio secondo cui debbano essere battezzati o che siano stati battezzati coloro i quali avevano prima professato pubblicamente la religione di Cristo. Circa il 2 punto, scopo del battesimo dell'acqua è la pubblica professione del nome di Cristo. Nel battesimo dell'acqua è adombrata, non concessa, la remissione dei peccati. Il ministro che battezza adombra che nel nome di Dio i peccati verranno rimessi al battezzato; il battezzato adombra che egli abbandonerà i peccati. Ma tuttavia non è necessario questo modo di professare il nome di Cristo. Infatti può essere più insigne: come, per esempio, una vita innocente, la sopportazione delle sventure e della morte per Cristo. Se sia lecito far guerra. Ai Cristiani non è lecito poiché non è stata promessa loro nessuna terra determinata in questo mondo, com'era stata promessa sotto il Vecchio Testamento. Che pensare, dunque, durante una campagna militare generale? È lecito fare tutte quelle cose che non contrastano coi comandamenti
261 di Cristo. Perciò armarsi, andare armato nel luogo dove ci sarà il sacrificio lustrale e mettersi armato in marcia con gli altri, aggregati all'esercito, tutto questo non sembra essere vietato. Infatti non sembra che nessuna di codeste cose repugni apertamente coi comandamenti di Cristo. Nondimeno un uomo cristiano deve in tal caso cercare, se possibile, di evitare ogni scandalo e turbamento, e precisamente di riscattare col denaro codesta partenza per la guerra. Comunque, quando si è giunti alla battaglia, un Cristiano può trovarcisi, ma non uccida né pensi di uccidere nessuno. Non rechi ingiuria o danno ad alcuno, per quanto minimo possa dirsi. Sull'ufficio dei pastori. I pastori che ora si chiamano ministri sono tenuti a pascolare le loro pecorelle con la celeste e salutare dottrina di nostro Signore Gesù Cristo. Si deve poi pascolare pubblicamente perché la dottrina salutare sia esposta al popolo cristiano, e privatamente affinchè il pastore faccia presente ora a questo ora a quello il suo dovere. Nel diffondere la dottrina si preoccupi di dire quelle cose che sono necessarie alla salvezza degli uomini. Ma soprattutto si sforzi di intendere bene l'articolo della giustificazione e di esporlo agli altri. Questo infatti è avvolto in tanta tenebra che niente lo è di più, ed è colmo di tanta simulazione che gli empi, non avendo ben inteso codesto mistero, hanno mille nascondigli. Poi, siccome il papato ha grandissime forze e può generare negli uomini atrocissime tentazioni, bisogna che i suoi crassi errori siano confutati affinchè gli ascoltatori non siano facilmente condotti al papato a causa della loro ignoranza. Sulla successione papale. Quando i papisti, per provare che la loro chiesa è vera e che, per conseguenza, è vera la loro dottrina, affermano la successione perpetua degli apostoli medesimi, bisogna rispondere: che la chiesa sia vera non si può provare dalla successione delle persone e dei luoghi, ma solo dalla successione della dottrina, cosicché se uno provasse che i vescovi della Romana Chiesa hanno sempre posseduto la stessa dottrina che possedevano gli apostoli e l'hanno sempre professata, da questo si concluderebbe la necessità che la loro chiesa è vera. Altrimenti niente si può concludere, nulla vietando che perduri la successione perpetua delle persone negli stessi luoghi e che tuttavia si verifichi un mutamento della dottrina, come i papisti stessi sono costretti ad ammettere in innumerevoli luoghi nei quali alla vera dottrina è succeduta la falsa. ["Biblioteka pisarzy reformacyjnych", in J. Macek, La riforma popolare, pp. 96101.)
262 VIII. LA DIFFICILE LOTTA CONTRO L'OSCURANTISMO NELL'ETÀ DELLA CONTRORIFORMA (SEC. XVI-XVII)
La Controriforma e i protestanti.
Sarebbe stato dovere della Chiesa di Roma, fin dal primo apparire dei movimenti riformistici, di indire un Concilio ecumenico per tentare di risolvere le divergenze. Luterò stesso nel 1518 e nel 1520 lo aveva chiesto; pochi anni dopo la dieta di Norimberga l'aveva nuovamente invocato; lo stesso imperatore Carlo V non si era stancato di rivolgere continue istanze a un papa dopo l'altro. Ma i pontefici e le alte gerarchie ecclesiastiche avevano sempre evitato questa soluzione, temendo che ne risultasse scossa la loro autorità e apertamente condannata la loro corruzione. Quando finalmente, nel 1545, papa Paolo III, non potendo più sottrarsi a un'ennesima sollecitazione di Carlo V, si era deciso per la convocazione di un Concilio a Trento (allora in territorio germanico), l'orientamento della corte pontificia non era stato quello di cercare un ormai impossibile recupero delle masse passate al protestantesimo, ma neppure di prendere in esame le istanze di rinnovamento che salivano dagli stessi ambienti mistici ed evangelici cattolici. La linea che fu seguita nel Concilio di Trento, protrattosi per ben diciotto anni, con varie interruzioni, fu invece un'aperta reazione alla Riforma, senza nulla recepire delle critiche mosse, ma ribadendo tutte le posizioni di arretratezza che erano state il motivo della protesta e riconfermando l'infallibilità di un sistema che era la causa del suo fallimento reale. Un documento di prima mano sopra questi gravi errori della Chiesa è la famosa Istoria del Concilio Tridentino del servita Paolo Sarpi, pubblicata nel 1618. [Vedi Documenti n. 1.] Non quindi una "riforma cattolica", come amano definirla gli scrittori al servizio della Chiesa, quella che uscì dal concilio di Trento, bensì un irrigidimento dogmatico e disciplinare. Furono infatti riaffermati tutti i dogmi contestati dalla Riforma, nella definizione tradizionale, senza tenere alcun conto dei difetti di sostanza e di forma che erano stati rilevati: il credo di Nicea sulla Trinità, la dottrina del peccato originale, la transustanziazione, l'ambiguo compromesso tra la grazia e le opere, il valore dei sacramenti, la necessità del
263 battesimo ai bambini, la liceità delle indulgenze, della venerazione di santi e martiri, di immagini e reliquie, il celibato sacerdotale, eccetera. Inoltre si dichiarò che l'unico testo delle Scritture ammesso era la Vulgata, cioè la traduzione latina eseguita da san Gerolamo nel secolo IV, e si condannò l'uso di qualsiasi altra traduzione in lingue moderne e, naturalmente, la libera interpretazione dei Vangeli da parte dei singoli. Le "novità", ossia le deliberazioni del Concilio di Trento che secondo gli studiosi cattolici rappresentarono un reale intervento "positivo" a favore di una riforma della Chiesa furono l'istituzione del Santo Uffizio, già in atto dal 1542, per una più oculata e severa repressione delle eresie, l'istituzione dell'Indice dei libri proibiti, perché contenenti proposizioni eretiche o contrarie alla morale, la compilazione di un catechismo, a domande e risposte, con formule da accettare senza discutere - ancora oggi in uso - per facilitare l'indottrinamento dei fedeli, l'obbligo dell'insegnamento della religione nelle scuole, la creazione dei seminari per una più agguerrita preparazione del clero nella teologia dogmatica, l'approvazione di nuovi ordini religiosi come strumento di propaganda e di vigilanza, il più potente dei quali non tardò a rivelarsi quello dei gesuiti, fondato già nel 1540 da Ignazio di Loyola, col fine dichiarato di essere una milizia agli ordini del pontefice, pronta a tutto, fino a "spogliarsi della propria volontà, perirtele ac cadaver" (sono parole dello stesso Ignazio): "per rivestirsi di quella del superiore, interprete della volontà divina" e introdursi nelle case dei laici sotto mentite spoglie di precettori, di cocchieri, di servi, di amici, per spiare e denunciare. Il 26 gennaio 1564, la bolla Benedictus Deus di papa Pio IV rendeva esecutive le deliberazioni del Concilio che, si diceva in essa, era stato convocato "ad plurimas et perniciosissimas haereses extirpandas, ad corrigendos mores et ad restituendam ecclesiasticam disciplinam". Quella data segnava l'inizio di un tristissimo periodo di oscurantismo, con la soppressione di ogni libertà di pensiero e l'arresto del progresso scientifico e culturale e dell'evoluzione sociale. L'Index librorum prohibitorum, dopo un primo elenco che conteneva alcuni titoli, tra cui il Decameron di Giovanni Boccaccio e l'Orlando furioso di Ludovico Ariosto, uscì in seconda edizione già nel marzo dello stesso 1564 con una premessa in cui si ricordava che dovevano essere vietati e distrutti: tutti i libri già condannati da pontefici e
264 concili dalle origini della Chiesa fino al 1515; i libri di eresiarchi riconosciuti dopo tale data; tutte le versioni in lingue moderne delle Sacre Scritture; tutti i libri in volgare sulle controversie teologiche tra cattolici ed eretici; tutti i libri che trattassero argomenti lascivi e osceni. Qualunque detentore di opere di questo genere che avesse omesso di consegnarle agli inquirenti correva rischio di essere arrestato e condannato. Il decreto portò alla distruzione col fuoco di tanti volumi che, dice uno storico dell'epoca, "se si fossero recati in una sola catasta, sarebbe stato un incendio pari a quello di Troia". Le norme, poi, dettate ad artisti, pittori e scultori, perché si attenessero ai soggetti biblici o all'illustrazione dei dogmi, col divieto di particolari "contrari al pudore", condussero a incredibili eccessi, come quello di far ricoprire con drappeggi i nudi del Giudizio universale affrescato nella cappella Sistina, il che, tuttavia, impedì almeno che il capolavoro michelangiolesco venisse completamente imbiancato, come era stata intenzione di papa Paolo IV e poi anche di Pio IV e di Clemente Vili. [Vedi Documenti n. 2.] Dopo la celebrazione edonistica della vita, fatta dal Rinascimento, è comprensibile come questa improvvisa caduta nella negazione degli istinti naturali e nella paura del sesso ingenerasse tormenti e angosce, fino a condurre allo squilibrio mentale, come nel caso di Torquato Tasso, che giunse ad autoaccusarsi di eresia. Ancor più grave, per le sue conseguenze, appare l'occlusione della Chiesa di fronte alle scoperte scientifiche. Per questi motivi, la Chiesa si rese responsabile dell'arretratezza morale e culturale dei paesi cattolici. Tenute lontane da ogni possibilità di formarsi un giudizio critico, anzi sottomesse a un'unica interpretazione dei problemi, le masse furono ricondotte verso modelli di comportamento infantile, affascinate con cerimonie fastose, processioni nelle quali un clero pittorescamente abbigliato sfilava a passi lenti, dietro il vescovo benedicente, sotto un baldacchino ricamato, o si indulse ai loro istinti primitivi - anziché educarle al ripudio dell con la convinzione - facendole assistere allo spettacolo dei feroci supplizi di condannati. Particolarmente raffinati erano gli auto da fé di cui si compiacque anche il fanatico Filippo II, salito al trono nel 1556, che fu il più scrupoloso alleato della Chiesa nell'eseguire gli ordini del Concilio tridentino. Il fatto che il suo impero si stendesse, oltre che
265 sulla Spagna, su gran parte dell'Italia, sull'Artois, le Fiandre, il Portogallo, l'America Centrale e Meridionale, le asiatiche isole Filippine, le colonie portoghesi nell'Africa, favorì un ampio trionfo della Controriforma, comprendendo nelle persecuzioni anche i moriscos di Granada e gli ebrei. Anche i sovrani francesi e i signori d'Italia non furono da meno. Già nel 1545, pochi mesi prima che s'inaugurasse il Concilio di Trento, il re di Francia, Francesco I, bandì una crociata contro i valdesi delle Alpi franco-piemontesi, a proposito della quale nella sua /stona del Concilio Tridentino il già citato Paolo Sarpi parlerà di ben quattromila persone trucidate e seicento cacciate in prigione, tra cui donne, ragazzi di tredici-quattordici anni, vecchi di ottant'anni, con la distruzione di ventidue paesi. Nel 1554, su pressione del papa Paolo III, il duca di Ferrara, Ercole II, dopo aver espulso dalla città tutti i protestanti, fece esaminare dal capo dell'inquisizione francese, Ory, la propria moglie Renata, che a suo tempo aveva ospitato Calvino ed era tuttora con lui in rapporti epistolari, e per ordine dell'inquisitore le impose di rimanere segregata nel palazzo ducale. Alla morte del marito, nel 1559, Renata per sfuggire anche all'ostilità del figlio Alfonso II si ritirerà in Francia, nel castello di Montargis, continuando a proteggere i calvinisti durante le guerre di religione. A Firenze, fu Cosimo I, cugino di Caterina de' Medici, a consegnare all'inquisizione Pietro Carnesecchi e Aonio Paleario, che finirono sul rogo. La loro condanna mise in fuga da Siena e da Lucca una ventina di famiglie di riformati, tra cui quelle di Michele Burlamacchi e di Pompeo Diodati, che ripararono dapprima a Montargis, presso Renata d'Esté, e poi a Ginevra. Spesso bastò un semplice sospetto o una delazione per far mandare sul rogo o in carcere. Tale fu il destino, nel 1556 e 1557, dello studente padovano Pomponio Algerio, denunciato perché teneva in casa libri proibiti; del cardinale Giovanni Morene, imprigionato in Castel Sant'Angelo per essersi dimostrato troppo mite coi luterani tedeschi nella dieta di Augusta del 1555, in cui era delegato pontificio; di Bartolomé Carranza, arcivescovo di Toledo, arrestato dall'inquisizione spagnola per aver criticato l'abuso delle indulgenze, e processato a Roma. Nel 1560 la Sorbona di Parigi condannò diciotto proposizioni del teologo belga Michel Bay (Baio), che in una sua
266 opera aveva commentato favorevolmente la dottrina della predestinazione di sant'Agostino, ora sospetta di eresia, perché coincidente con quella di Calvino. Il Baio fu tenuto lunghi anni in prigione, e so- nel 1580 papa Gregorio XIII si ricorderà di mettere all'Indice le sue opere, confutandole con la bolla Provisionis nostrae, in cui si dichiarava perentoriamente che la salvezza è premio delle buone Opre, e che non esiste predestinazione. Sempre nel 1560, oltre al teologo Baio, fu imprigionato a Romar perché accusato di eresia - probabilmente a torto dal poeta Annibali Caro con cui aveva avuto una disputa letteraria - lo studioso modenese Ludovico Castelvetro, la cui unica colpa era forse di aver commentato con rigoroso razionalismo critico la Poetica di Aristotele, secondo un'interpretazione edonistica della vita. Ma egli riuscì a evadere dalla prigione, riparando in Svizzera, e gli inquisitori dovettero accontentarsi di arderlo sul rogo in effige. Già nel 1557 il letterato e filosofo trentino Jacopo Aconcio, segretario , a Milano del cardinale Cristoforo Mandruzzo, era dovuto fuggire in Inghilterra per aver aderito al luteranesimo e scritto una violenta protesta contro i metodi dell'inquisizione, dal titolo Stratagemata Satanae. Nel 1561, per ordine del cardinale Ghislieri (futuro papa Pio V), ora prefetto del tribunale dell'inquisizione, si organizzò in Calabria massacro dei valdesi che si erano là rifugiati. San Sisto, paese di seimila abitanti, fu totalmente distrutto dalle fiamme, Guardia Piemontese ebbe duemila vittime arse sul rogo, milletrecento messe in prigione, e alcune centinaia rincorse e ammazzate per le campagne, mentre tentavano di fuggire. [Vedi Documenti n. 3.] Anche fuori d'Italia la persecuzione non ebbe tregua. Nel 1562, alcuni calvinisti francesi emigrati in America dopo la strage di Vassy, e divenuti coloni nella Florida, furono sorpresi dall'inquisitore spagnolo Méndez de Avilez e impiccati tutti, con la scritta: "Non in quanto francesi, ma in quanto calvinisti". Ancora più atroce fu, nel 1567, lo sterminio dei protestanti delle Fiandre. Il 5 aprile dell'anno precedente si erano presentati a Margherita di Parma reggente delle Fiandre e sorella del re di Spagna Filippo II, quattrocento nobili per chiedere la revoca degli editti dell'inquisizione, ed essa, chiamandoli spregevolmente gueux (pezzenti) li aveva cacciati via. Allora essi, non avendo ottenuto soddisfazione,
267 avevano sollevato una rivolta popolare. Per placare la sommossa Filippo II spedì nelle Fiandre Fernando Alvarez de Toledo, duca d'Alba, con ventimila soldati. Questi condusse la repressione istituendo il consiglio dei torbidi, che in pochi mesi giudicò e mandò a morte diciassettemila protestanti. In quell'occasione Filippo II non risparmiò nemmeno il proprio figlio, don Carlos, accusandolo di eresia per aver simpatizzato con gli insorti delle Fiandre, mentre, probabilmente, il giovane principe aveva solo manifestato la propria indignazione per le atrocità che si commettevano in nome della religione. Nacque anche la diceria di un amore segreto fra don Carlos e la matrigna Isabella, che sarà poi sfruttata dall'Alfieri, da Schiller e da altri poeti romantici per aggiungere un particolare patetico alla triste vicenda. Nel giugno del 1572, la morte di Giovanna di Navarra, vedova di quell'Antonio di Borbone che aveva introdotto il calvinismo nel proprio regno, sollevò l'indignazione degli ugonotti francesi, perché si seppe che era morta avvelenata in seguito a una congiura della corte di Francia e dei legati papali. Di fronte alla minaccia di un'insurrezione, il re Carlo IX e la madre Caterina de' Medici ordinarono il massacro degli ugonotti nella notte di san Bartolomeo, tra il 24 e il 25 agosto, che da Parigi si estese poi anche ad altre città della Francia. L'8 settembre, il papa Gregorio XIII celebrò una solenne cerimonia di ringraziamento per la strage, con una processione di trentatré cardinali osannanti e un folto seguito di sacerdoti e di fedeli. Venne anche fatta coniare una medaglia commemorativa, e il pittore Giorgio Vasari rappresentò l'avvenimento in un affresco nella sala regia. Nello stesso anno 1572, invece, il pittore Paolo Veronese fu processato e condannato per aver introdotto nell'Ultima cena della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, delle figure sconvenienti: un nano, dei soldati tedeschi, eccetera. Nel 1587, giustiziata in Inghilterra Maria Stuarda per i suoi tentativi di introdurre in Scozia la restaurazione cattolica, il papa rinnovò la scomunica alla regina Elisabetta sciogliendo i sudditi dal giuramento di fedeltà. Il cardinale Tolomeo Gallo, segretario della corte pontificia, così scrisse al nunzio di Madrid, parlando di Elisabetta: "Chiunque la levasse dal mondo col fine debito del servitio di Dio, non solo non peccaria, ma anzi meriteria. E non incorrerà in nessun peccato". Il decreto del papa e queste parole del suo segretario spronarono
268 Filippo II di Spagna al folle tentativo di una guerra contro l'Inghilterra, per punire l'eretica Elisabetta e ricondurre gli inglesi al cattolicesimo. Ma la sua Invencible Armada sarà clamorosamente sconfitta e per di più le navi in fuga quasi tutte distrutte da una tempesta. In questo modo, facendo ricorso a una violenza cieca e brutale, la Chiesa cattolica e i principi a lei devoti si illudevano di stroncare la Riforma, eliminando fisicamente i protestanti. Comunque il protestantesimo non fu l'unica forma di devianza e di opposizione che la Chiesa si vide impegnata a combattere in gli anni. Dalla magia alla scienza.
La rivalutazione della natura compiuta dagli umanisti e l'affermazione della possibilità dell'uomo di agire direttamente in essa, orgogliosamente sostenuta tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento da un Marsilio Ficino o Pico della Mirandola o Pietro Pomponazzi diedero, durante il Rinascimento, uno straordinario impulso alla magia e alla stregoneria, appunto come mezzi di intervento sulle forze naturali. Esse non furono più soltanto considerate, come nel Medioevo pratiche occulte con cui scongiurare o propiziare le forze diaboliche operanti nel mondo, secondo gli insegnamenti della stessa teologia cristiana, ma divennero uno strumento di conoscenza e di dominio della natura, quasi con carattere scientifico. A livello popolare ciò si riduceva ancora, come già in passato, alla composizione di unguenti, filtri e decotti: ma ora la loro efficacia era ricercata sperimentalmente nelle reali proprietà degli elementi impiegati; e sebbene queste proprietà fossero pur sempre ritenute dipendenti da poteri misteriosi, si sapeva che erano poteri insiti nella natura. Il cristianesimo non ha mai contrastato - anzi ha sempre favorito la credenza superstiziosa nei poteri conferiti dalla divinità a taluni elementi, come l'acqua, l'olio, il sale, la cenere, la saliva, se consacrati e usati dal clero come oggettivazione di un intervento sacramentale, allo stesso modo in cui se n'erano serviti Gesù e gli apostoli. Ma il ricorso a elementi naturali indipendente dal magistero della religione, per i teologi continuava a essere l'oggettivazione di un intervento demoniaco,
269 opera di stregoneria. L'haeresis maleficarum, l delle streghe, quindi, non era solo un segno di rifiuto dell'autorità sacramentale della Chiesa, ma un empio sacrilegio, perché operava con l'aiuto del demonio. L'unguento di "olio e sugo di erbe" di cui si era servita, ad esempio, Francesca Bussi di Roma, per curare i malati, era molto simile ali'"olio fiorito" usato da certa Bellezza Orsini di Collevecchio, ma la prima ebbe l'accortezza di attribuire i risultati alle proprie preghiere e alla fede dei pazienti, e fu santificata; Bellezza Orsini invece credeva alle proprietà delle erbe che essa studiava su di un libro di botanica avuto in dono da un medico per cui era stata a servizio, e fu arrestata, torturata, e condannata come strega. Per molte donne del popolo l'attività di guaritrici, delle persone e del bestiame, era un mezzo di sostentamento e una forma di riscatto dalla inferiorità sociale ed economica, e anche in questo esse contravvenivano alle leggi della Chiesa che volevano la donna sottomessa al maschio. Oltretutto molte di esse facevano parte di sette eretiche e di altri movimenti di contestazione. Ben presto risultò che anche i protestanti non erano affatto più tolleranti dei cattolici. Luterò dichiarò che le streghe dovevano essere bruciate vive, e tra il 1540 e il 1594 in Germania ne furono arse sul rogo una quarantina. Anche Calvino si espresse negli stessi termini, tanto che in Svizzera tra il 1537 e il 1597 si giustiziarono centocinquanta streghe. Per i cattolici il testo fondamentale sui metodi dell'inquisizione era l'opera del gesuita Martin Antonio Del Rio: Disquisitionum magicarum libri VI (1599). Nel periodo della Controriforma la persecuzione delle streghe fu più accanita di tutte le altre persecuzioni di eretici. Purtroppo gli archivi dell'inquisizione sono andati in massima parte distrutti, ma i pochi verbali di processi sopravvissuti e le notizie che hanno lasciato di sé alcuni inquisitori o i loro biografi sono sufficienti a darci un'idea della vastità di tale repressione. Se si calcola che in Europa, dal Trecento in poi, sono state giustiziate circa nove milioni di presunte streghe, almeno un terzo spetta al Cinquecento e al Seicento. Benedikt Carpow, inquisitore a Wittenberg, si vantò di averne mandate a morte ventimila tra il 1566 ed il 1596; l'inquisitore della Lorena, Nicole Remy, di averne bruciate ottocento in cinque anni; a Treviri se ne giustiziarono settemila in un anno; a Bordeaux centoventi
270 in un solo giorno; nei paesi baschi oltre duemila in poco più di tre mesi; nel Canton Ticino il vescovo di Milano, Carlo Borromeo, tra il 1565 e il 1583 presenziò a processi ed esecuzioni di centinaia di fattucchiere, suo cugino e successore Federigo Borromeo andò di persona a piantare una croce a Chiari, ritenuta luogo di convegno per i sabba delle streghe, e - racconta un suo biografo - i diavoli si vendicarono suscitandogli contro una tempesta. Ciò tuttavia non gli impedì poi, nel 1630, di sostenere che la peste, scoppiata quell'anno, era dovuta, come dice il Manzoni nei Promessi Sposi, ad "arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a spargere la peste per mezzo di veleni contagiosi e di malìe", e di far processare anche i presunti untori. Invano protestarono contro la caccia alle streghe persone di buon senso, come i gesuiti Adam Tanner e Friedrich Spee, il quale ultimo era incanutito nel 1627, essendogli stato comandato di preparare per il rogo duecento imputate di stregoneria, tra cui fanciulle in giovanissima età. La paura delle streghe fu pure ereditata dai paesi protestanti, ed è noto, anche per la pubblicità che ne hanno fatto la letteratura e il nema, il processo intentato l'anno 1692 a Salem, nell'America puritana, contro una sessantina di supposte streghe, che erano state create dalla fantasia morbosa di diciannove fanciulle (le vergini di Salem) tra i dodici e i venti anni, dietro suggestione dei loro confessori e parenti, per motivi di rivalità economiche. Comunque dalla credenza nella magia non erano immuni nemmeno le persone colte. Ancora lontani dal riconoscere nella vita dell'universo il puro intervento di fenomeni naturali, molti studiosi di fisica, di alchimia, di medicina, di astronomia, vi ricercavano manifestazioni di influssi astrali, di radiazioni di pietre e metalli con poteri di talismani, e credevano nella divinazione, nel significato dei numeri. A questo proposito, essi facevano pure ricorso alla cabbala, come gli umanisti che li avevano preceduti, ma con maggior interesse per i fenomeni naturali in se stessi e nei loro effetti sull'uomo che per le loro cause soprasensibili. "Per mezzo dei numeri" affermava il matematico e cabbalista inglese John Dee verso la metà del Cinquecento "noi abbiamo la via per l'investigazione di tutto lo scibile." John Dee fu processato e imprigionato nel 1566 con l'accusa di praticare l'esorcismo e, con l'aiuto di un segretario, di evocare gli
271 spiriti per conoscere da loro i segreti della natura. Ma già l'anno prima era uscito postumo il Paragranum del medico e filosofo svizzero Paracelso (Theophrasrus Bombast), un condensato delle sue esperienze scientifiche, specie in campo medico, circa le influenze del mondo esterno (macrocosmo) sull'organismo umano (microcosmo), senza far ricorso alle indicazioni della cabbala. Paracelso, che era stato allievo di Johann Tritheim (Tritemius), uno dei più geniali studiosi di tutti i tempi, aveva scoperto, con paziente sperimentazione, le proprietà officinali di erbe e di minerali, e aveva fissato i principi fondamentali dell'omeopatia, soprattutto nell'impiego di medicamenti a base di prodotti minerali. Si deve al suo insegnamento se l'alchimia, ancora fondata su presupposti religiosi, sarebbe diventata la chimica. Paracelso ammetteva che le proprietà degli elementi fossero state riposte in essi da Dio, ma sosteneva che però l'uomo è libero di scoprirle da sé e utilizzarle secondo la sua volontà, e giustificava il suo interesse per la medicina a chi gli rimproverava di occuparsi del corpo e non dell'anima, dicendo: "Il corpo è la casa dell'anima, e quindi la perfezione dell'uomo consiste nell'armonia tra anima e corpo". La fiducia di poter controllare i fenomeni naturali e soprattutto di poter calcolare gli effetti degli influssi astrali su di essi, faceva persino credere di essere in grado di prevedere gli accadimenti futuri. Di una tale fiducia fu, per esempio, entusiasticamente infiammato il francese Guillaume Postel, geniale autodidatta, maestro di scuola a tredici anni, poi professore di cosmografia, espulso per le sue idee eretiche dalla Compagnia di Gesù dallo stesso Ignazio di Loyola da cui aveva ricevuto gli ordini. Di tempo in tempo in prigione, e relegato come pazzo, Postel riuscì tuttavia a tradurre lo Zohar e a scrivere opere affascinanti, come la Restitutio rerum omnium conditarum, del 1552, in cui egli "rivela" tutti i segreti nascosti dopo la creazione del mondo e ricava la conclusione che con la conoscenza delle leggi di natura e il loro sfruttamento l'umanità potrà giungere a un'era felice. Lo incoraggiava in questo suo millenarismo una suora, illetterata, da lui conosciuta in un ospedale a Venezia, madre Giovanna, la quale gli profetizzava il prossimo avvento di un papa angelico. Assai più note di quelle di Postel, le profezie contenute nelle Centurie di Nostradamus (Michel de Notredame), pubblicate nel 1555 e più volte ristampate e commentate, anche di recente. Dai calcoli sugli
272 influssi astrali e sulle congiunzioni dei pianeti, Nostradamus compose previsioni di avvenimenti futuri, anche molto lontani nel tempo, tanto che alcuni fatti importanti della storia dei nostri giorni sono ritenuti da diversi studiosi anticipati nelle sue profezie se opportunamente interpretate. Sul finire del XVI secolo, nel 1589, fu data alle stampe un'opera enciclopedica, che riassumeva tutte le ricerche magiche e cabbalistiche fatte fino ad allora: le Magiae naturalis di Giambattista Della Porta, più noto ai letterati per le brillanti commedie che scriverà in seguito. L'opera che il Della Porta aveva iniziato fin da quando era appena quindicenne è il risultato - piuttosto caotico - di una viva curiosità per tutti i fenomeni naturali più straordinari, che l'autore chiama "i miracoli della natura", proponendosi appunto di dimostrare che non hanno nulla di miracoloso nel senso teologico della parola, e contiene anche stupefacenti anticipazioni: la descrizione della lanterna magica, del cannocchiale - di cui Della Porta rivendica l'invenzione - e del termometro. Interessante è anche il suo scritto, De humana physiognomia, pubblicato nel 1586 dopo lunghe noie di censura. Con essa l'autore si propone di offrire "un metodo nuovo e facilissimo per cui chiunque può penetrare le forze riposte delle piante, degli animali, dei metalli, e finalmente di tutte le cose, da un esame dell'aspetto esterno". Nonostante l'imprimatur ottenuto dall'inquisizione, l'opera, sebbene non nominata specificamente, viene condannata, lo stesso anno 1586, dalla bolla di papa Sisto V insieme a tutte quelle "dei matematici e astrologhi che pretendono con la loro scienza di trovare! leggi utili per l'agricoltura, la medicina, l'arte della navigazione". Circa negli stessi anni Bernardino Telesio lavorava alla sua opera fondamentale: De rerum natura iuxta propria principia. L'edizione definitiva, in nove volumi, apparve anch'essa nel 1586, ma fu posta all'Indice soltanto dieci anni dopo. Come già anticipato dal titolo dell'opera, studiare la natura iuxta propria principia significa liberare la scienza da ogni apriorismo metafisico e da ogni sottomissione alla teologia, e quindi, per tale via, non solo si conseguirà la conoscenza di tutte le cose della natura ma si creeranno anche le premesse per l'instaurazione del regnum hominis, perché questa conoscenza includerà in prospettiva il dominio e lo sfruttamento da parte dell'uomo delle forze naturali. Secondo Telesio, la natura è costituita da una massa inerte e
273 indistruttibile pervasa da due forze animatrici: il "caldo", che dilata i corpi, e il "freddo" che li restringe. Dalla tensione polare tra queste due forze si genera la vita dell'universo. E sono due forze naturali, non soprannaturali: il calore ha la propria sede nel sole, e il freddo nella terra stessa. Ogni essere esistente in natura è in qualche misura animato da una propria energia, ma codesta "anima" non ha nulla di spirituale: è soltanto quello spirito vitale, quel nefesh in cui credevano già gli ebrei: la possibilità di muoversi, di respirare, di agire. Il privilegio degli uomini, rispetto agli altri esseri viventi, è solo di ordine quantitativo. L'organo di tutte le conoscenze sono i sensi, i quali in definitiva non sono altro che manifestazioni diverse dell'unico senso fondamentale, che è il tatto. L'intelligenza non è altro che "memoria" del già sentito e sua combinazione con ciò che si sente in quel dato momento. In tutte le sue azioni l'uomo, come ogni altro essere vivente, è guidato solo dall'istinto di autoconservazione, e il piacere e il dolore sono le uniche forze motrici della sua condotta. A questa sua costruzione - di per sé autosufficiente - Telesio, forse per un prudente, quanto inutile, desiderio di compromesso con la teologia al fine di evitare persecuzioni da parte della Chiesa, aggiunge il concetto di un Dio personale, trascendente, creatore e ordinatore dell'universo, e un'"anima spirituale, sovrapposta nell'uomo allo spirito-calore". Il più entusiasta sostenitore di Telesio e della sua concezione del La difficile lotta contro l'oscurantismo aldo e del freddo come principi fondamentali della vita naturale è il suo conterraneo, il domenicano Tommaso Campanella, che, diversamente, già nel 1589 nell'opera Philosophia sensibus demonstrata, supera il compromesso del maestro con la teologia, in una specie di panteismo, identificando Dio con "l'anima del mondo", dispensatrice del calore, a cui si contrappone passivamente la materia terrestre, facendo da ostacolo al dispiegarsi del calore, quindi corrispondendo al freddo. La possibilità operativa dell'uomo consiste nel penetrare, tramite la magia, nell'anima regolatrice del mondo e conoscerne i misteriosi disegni. Subito incarcerato e condannato a "salutari penitenze", con l'imposizione di abbandonare le opinioni telesiane, Campanella ricade nell'errore ed è nuovamente tenuto in carcere per cinque anni, dal 1594 al 1598, "de vehementi haeresis suspicione". Pochi mesi di libertà,
274 poi è un'altra volta arrestato, perché coinvolto in una congiura politica in Calabria, "volendo" dice la sentenza "predicare contro la tirannide di Principi et Prelati, et fare di detta provintia una Repubblica et dare nuove leggi et nuovo modo di vivere col favore delli Cieli, per astrologia". Sottoposto a torture come reo politico ed eretico, evita la morte fingendosi pazzo ed è condannato al carcere a vita. Dopo ventisette anni, gli è concesso di vivere a Roma in libertà vigilata. Durante la prigionia, allontanandosi dalla filosofia di Telesio, Campanella si mostra, nei suoi scritti, sempre più affascinato dalla magia e dall'astrologia, crede così saldamente nell'influsso degli astri sulla vita umana che, quando saprà che anche Galileo è stato imprigionato, s'informerà sulla sua data di nascita per fargli l'oroscopo. E dopo la liberazione dal carcere, negli anni di permanenza a Roma, nonostante la sua fama di eretico, Campanella viene consultato persino da papa Urbano Vili. Ossessionato dalla paura della morte il papa si appartava di notte con Tommaso Campanella e, chiusa ermeticamente la stanza perché non entrassero con l'aria i "semina pestifera", la cospargevano con essenze aromatiche, quindi, accese sette candele che simboleggiavano i pianeti, interrogavano i "fati siderali". La smisurata fiducia nel determinismo astrologico portò addirittura il Campanella, mentre era ancora in prigione, a dare forma concreta a quel progetto di Repubblica per cui era stato condannato. Nacque così la sua Città del Sole: la descrizione utopistica di una perfetta comunità vivente nell'isola di Taprobane, i cui membri "niuna creatura adorano di latria, oltre che Dio sotto la insegna del Sole e gli angeli buoni che stanno nelle stelle" e tutti i momenti della loro vita, anche privata, persino i rapporti intimi tra mariti e mogli, sono regolati con le indicazioni favorevoli o sfavorevoli degli astri. In pratica, Dio trascendente del cristianesimo viene calato a livello del sistema solare, e il codice morale non è più stabilito da una verità rivelata, ma da una legge cosmica, immanente negli astri. La suprema direzione della comunità viene esercitata da un sommo sacerdote di nome HohJ il Metafisico, assistito da tre capi: Pon, Sin e Mor, che si occupano rispettivamente dell'esercito, degli studi, della generazione e della puericultura. La società descritta dal Campanella vive comunisticamente, perché non vi è ammessa la proprietà privata, che, suscitando l'amor proprio ed
275 egoismo, danneggerebbe tutta quanta la comunità. Pertanto nella Città del Sole non esistono servi e padroni, i bambini! sono educati da appositi maestri fin dalla più tenera età, e i matrimoni vengono preparati da una commissione, in modo da regolare il miglioramento fisico e morale della popolazione. Nonostante la grande importanza attribuita da Campanella al Sole, per la vita della terra e dell'umanità, la sua concezione non si discostava ancora dalla tradizionale cosmografia tolemaica, che poneva il nostro pianeta al centro dell'universo, tutti i corpi celesti rotanti attorno a esso. Tuttavia, già il polacco Copernico (Nikolaj Kopernik), nell'opera De revolutionibus orbium coelestium, pubblicata nel 1543, proprio l'anno della sua morte, pur accettando ancora la concezione tolemaica di un universo perfettamente sferico e finito, con un moto circolare e uniforme delle sfere cristalline, proponeva, nella convinzione di una maggior "dignità" del Sole rispetto agli altri astri, che esso, e non la Terra, fosse al centro del sistema: "Nello splendido tempio del cielo, chi porrebbe questa Lucerna del mondo in luogo altro e migliore di quello dal quale si può illuminare tutto? È così infatti che il Sole, come riposando su un trono regale, governa la famiglia degli astri che lo attorniano". I riflessi di questa intuizione copernicana - che doveva ancora essere dimostrata scientificamente - sarebbero stati molto gravi per la teologia: la Terra, su cui si predicava che Dio si era incarnato, non era dunque che uno dei tanti pianeti rotanti attorno al Sole. Perché era stata privilegiata sugli altri? Se anche quelli erano abitati, come era avvenuto in essi il mistero della salvezza? E infine, se è la Terra a ruotare attorno al Sole, e non viceversa, come si spiega l'episodio biblico (Gs X,10) del Sole che si ferma per prolungare la durata del giorno e permettere agli israeliti di fare strage degli amorrei? per tutti questi motivi, la teoria di Copernico venne subito condannata da Luterò e da Calvino, mentre la Chiesa cattolica continuava a ignorarla, forse perché Copernico era canonico, segretario del proprio zio, il potente vescovo di Ermeland, e nel 1514 era stato interpellato dal Concilio lateranense circa la progettata riforma del calendario. Copernico sarà confutato per la prima volta soltanto nel 1615 dal cardinale Roberto Bellarmino, in una lettera di biasimo al carmelitano Paolo Antonio Foscarini, insigne matematico, che aveva accettato la
276 teoria copernicana come "ipotesi" meritevole di attenzione, e che perciò vide i suoi lavori immediatamente messi all'Indice. Ma ormai la teoria era già stata scientificamente dimostrata dall'astronomo tedesco Johannes Kepler (Keplero), che l'aveva però corretta convenientemente nella sua opera Astronomia nova del 1609, con la precisazione che in realtà le orbite dei pianeti non sono circolari, bensì ellittiche. E poco dopo la sua scoperta verrà sostenuta anche da Galileo. Invece, l'astronomo danese Tycho Brahe, ancora nel 1563, osservando una congiunzione tra Giove e Saturno, confutava Copernico, tornando alla concezione che la Terra fosse al centro dell'universo, tuttavia con un compromesso: che il Sole sta invece al centro degli altri pianeti, i quali si muovono con orbite proprie. Ma, superando tutte queste discussioni, e anticipando le scoperte scientifiche di Keplero e di Galileo, il geniale filosofo Giordano Bruno, con le sue intuizioni e con la profondità del suo pensiero morale e filosofico, avvicinandosi assai più di loro alle moderne concezioni dell'universo, aveva saputo dare agli uomini il senso preciso della loro dignità e nello stesso tempo la coscienza dei propri limiti. Già sospetto di opinioni eretiche fin da quando era novizio nel convento domenicano di Napoli, nel 1566, poi di nuovo nel 1576, per aver negato l'opportunità di venerare le immagini dei santi e perché teneva presso di sé testi proibiti di Erasmo da Rotterdam, Giordano Bruno finì col deporre l'abito monacale, per dedicarsi ai propri studi, sempre in fuga da una città all'altra d'Italia, a Ginevra, in Francia, in Inghilterra, a Praga, in Germania, e da ultimo a Venezia, ospite del nobile Giovanni Mocenigo, che però lo tradì consegnandolo all'inquisizione. Mentre la teoria copernicana, pur avendo rivoluzionato la struttura dell'universo ponendo il Sole al suo centro, continuava tuttavia a considerarla chiusa e finita, la scienza astronomica di Bruno, già dal 1583, con l'opera De l'infinito, universo et mondi, andò ben oltre, intuendo ciò che noi oggi sappiamo: che l'universo è infinito e che nemmeno il Sole è al suo centro, poiché l'infinito non ha alcun centro. La conclusione, che offendeva la teologia, era che neanche Dio ha una dimora nei cieli, ma è uno spirito, un flatus, che aleggia infinitamente dappertutto. [Vedi Documenti n. 4.] Questo significò spalancare agli uomini un campo inaspettato di
277 indagini, sfatando il mito di una creazione avvenuta nel tempo e limitata alla Terra e al suo cielo, ma anche abbattere la presunzione degli uomini di essere, essi soli, creature privilegiate, al centro del cosmo, quindi farli più umili, richiamarli alle modeste proporzioni di una missione terrestre. La deduzione più rivoluzionaria è, per Bruno, che la religione va sostituita dalla verità e dalla giustizia, che sono entrambe figlie della sapienza, mentre ogni fideismo religioso è una superstizione avvilente, che serve solo a mantenere la massa nell'ignoranza e quindi sottomessa. Questi suoi concetti lo portarono alla morte sul rogo. Il 20 gennaio del 1600, mentre a Roma si celebrava l'inizio del giubileo, con una coreografica "sacra rappresentazione", ossia una sfilata di carri allegorici (Gesù sopra un asino, Gesù nell'orto di Getsemani, la scena dell'Ecce homo, il Crucifige), papa Clemente VIII ordinò che Giordano Bruno fosse consegnato al braccio secolare. Il 17 febbraio, condotto in Campo dei fiori, spogliato nudo e legato a un palo, veniva arso vivo. Con pari fermezza, non molti anni dopo, subiva il taglio della lingua e poi il rogo, il carmelitano Lucilio Vanini, sotto accusa di ateismo, per aver affermato che l'uomo non è diverso dagli altri animali e che l'anima non è immortale. Intanto, perfezionato il suo cannocchiale, Galileo Galilei, già insegnante di matematica a Pisa e poi a Padova, nel 1609 cominciava a puntarlo verso il cielo, annotando "con infinito stupore" ciò che via via andava osservando su di un piccolo libro che vedrà la luce l'anno seguente con il titolo Sidereus Nuncius: "II messaggero del cielo stellato" dice la presentazione "che manifesta grandi e altamente ammirabili vedute, le quali da Galileo Galilei, patrizio fiorentino, mediante l'occhiale da lui testé ritrovato sono state osservate nella faccia della Luna, nelle Stelle fisse innumerevoli, nella Via Lattea, nelle nebulose, principalmente poi in quattro pianeti che intorno alla stella di Giove a intervalli e periodi dispari con celerità meravigliosa si avvolgono...". L'osservazione che "la superficie della Luna non è affatto liscia e uniforme, ma al contrario disuguale, scabra, non altrimenti che la faccia stessa della Terra", indica a Galileo la diversità tra pianeti e stelle. La scoperta dei satelliti di Giove gli conferma l'esattezza della
278 teoria copernicana. Studiosi di tutto il mondo, tra i quali Keplero e Francesco Bacone (Francis Bacon) esprimono a Galileo la loro ammirazione. A Roma, dove si reca nel 1611, non gli mancano manifestazioni di stima e di consenso da parte di eminenti cardinali e dello stesso papa Paolo V. Ma il trionfo di Galileo dura poco. Nel 1615 il cardinale Roberto Bellarmino confuta la dottrina di Copernico; il domenicano Niccolo Lorini denuncia Galileo al Santo Uffizio. Interrogato nello studio dello stesso Bellarmino, Galileo si difende affermando che sostenere la rotazione della terra attorno al sole non contraddice le Sacre Scritture, ma spiega, con il lume della scienza, una verità che le Sacre Scritture hanno adombrata o fraintesa. La sua risposta solleva aspre critiche. Il cardinale Cesare Baronio gli fa argutamente osservare che lo Spirito Santo, dettando le Scritture, si è preoccupato di insegnare agli uomini "in che modo si vada al cielo, e non in che modo vada il cielo". La buona fede di Galileo gli evita una condanna, ma gli inquisitori lo congedano avvertendolo di desistere dall'insegnare la dottrina copernicana, perché "è stolto e assurdo in filosofia e formalmente eretico dire che il cielo sii centro del mondo et per conseguenza immobile, ed è erroneo quanto alla fede dire che la terra non è centro del mondo né immobile". La condanna della teoria copernicana coinvolge anche il famoso astronomo Keplero, che l'aveva accettata già nel 1609. Ora, nel 1619, egli vede messi all'Indice e bruciati i suoi scritti. Pochi mesi dopo gli muore la madre, da alcuni anni in prigione con l'accusa di eresia. Quanto a Galileo, l'elezione a pontefice, col nome di Urbano VIII, nell'agosto del 1623 del cardinale Maffeo Barberini che aveva sempre mostrato benevola attenzione ai suoi lavori, gli da la speranza di una maggiore libertà d'insegnamento. Subito comincia la stesura del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Tre sono gli interlocutori: Simplicio, l'aristotelico sostenitore del sistema tolemaico, fedele alla tradizione, convinto che i cieli siano mossi da "angeli"; Salviati, dotto difensore del sistema copernicano, che confuta Simplicio con precise argomentazioni; Sagredo, che rappresenta il pubblico, desideroso di sapere, e muove obiezioni all'uno e all'altro. L'opera, terminata e pubblicata nel 1632, provoca l'immediata reazione del Santo Uffizio. Non riesce difficile agli avversari di Galileo convincere Urbano Vili che nel personaggio di Simplicio, sostenitore
279 dell'"angelica dottrina", vi è l'evidente volontà di farsi beffe del papa. Il 12 aprile del 1633 ha inizio il processo. Fisicamente e moralmente prostrato dagli sfibranti interrogatori, esortato dall'amico Nicni, che è ambasciatore di Firenze a Roma, "di finirla più presto, di curare di sostenere le sue opinioni, e di sottomettersi a quel che ve che possibile desiderare che egli creda", Galileo ha la debolezza di sottoscrivere un'abiura. [Vedi Documenti nn. 5 e 6.] Ciò gli evita la condanna a morte, ma non quella della prigione a vita, poi commutata nell'imposizione di vivere il resto dei suoi giorni nella propria casa di Arcetri "con ritiratezza e senza ammettervi ' molte persone insieme a discorsi né a mangiare". Come è noto, il progresso moderno degli studi astronomici, la conferma delle scoperte scientifiche di Galileo, anche in seguito all'approdo di cosmonauti americani e sovietici sulla Luna, hanno) finalmente indotto, nel 1982, l'attuale pontefice Giovanni Paolo II (Wojtyla) a una doverosa riabilitazione (sebbene a denti stretti) del ; grande inventore del Seicento, senza per questo modificare assolutamente le fantasiose credenze religiose sulla conformazione dell'universo. Il non-conformismo nelle Chiese protestanti.
Durante la seconda metà del secolo XVI e parte del XVII, anche le Chiese protestanti si trovarono impegnate a combattere contro devianze e movimenti nonconformisti, che sorgevano o per esasperazione di alcune tesi fideistiche o per reazione all'intolleranza delle Chiese costituite e all'assolutismo dei governi nazionali che le rappresentavano. Nella Germania luterana, l'intérim di Lipsia del 1548, approvato anche da Filippo Melantone, che introduceva una liturgia e una organizzazione simili a quelle cattoliche, provocò un diverbio tra i filippisti, seguaci di Melantone, i gnesioluterani, ossia i luterani autentici, fedeli all'insegnamento originale di Luterò, e gli antinomiani, capeggiati da Agricola (Johannes Schneider), i quali rifiutavano persino l'osservanza della legge evangelica, sostenendo che la fiducia nella salvezza non nasce dalla fedeltà al decalogo, impossibile da rispettare sempre, ma dalla certezza della misericordia divina. Poco dopo Andreas Osiander (Hosemann), pastore e professore a Kònigsberg, contestò egli pure la dottrina luterana della giustificazione, coll'affermare
280 che questa non è sforzo di avvicinamento a Dio da parte del credente, ma consiste nel fatto che, tramite la fede, Cristo stesso viene ad abitare nel cuore del credente. La difficile lotta contro l'oscurantismo a disputa durò a lungo, lacerando l'unità luterana, con accuse reciproche di eresia, ed ebbe pure le sue vittime, come il teologo Gaspar peucer, genero di Melantone, che per "criptocalvinismo" nel 1574 venne incarcerato dall'elettore di Sassonia e torturato dagli inquisitoli luterani con pinze arroventate, per costringerlo ad abiurare. Si verrà a una soluzione solo nel 1580, con la Formula di concordia sottoscritta da più di ottomila teologi e accettata dalla maggior parte degli Stati evangelici (cinquantun principati e trentotto comuni). All'opposto, in Olanda, la Chiesa ufficiale si trovò a combattere contro tendenze volte a mitigare il rigido predestinazionismo calvinista, con accostamenti al luteranesimo. Nel 1593 nacque una polemica tra Franois Gomar, professore di teologia a Leida, il quale superava lo stesso Calvino, insegnando che Dio aveva decretato la predestinazione supra lapsutn, cioè prima ancora che Adamo cadesse nel peccato, e Arminio (Jakob Hermanzoon) che gli opponeva la possibilità per l'uomo di meritarsi la grazia per mezzo della fede. La contesa proseguì anche dopo la morte di Arminio (1609) sostituito da Jan Uytenbogaert e Jan van Oldenbarnevelt, e l'Olanda si divise in due schieramenti, sui quali influirono però interessi politici e sociali, e non soltanto religiosi. L'arminianesimo, infatti, era professato dalla borghesia affarista, per opposizione alle pretese assolutiste dello stathouder Maurizio di Orange-Nassau, che sosteneva invece il gomarismo e aveva l'appoggio delle masse popolari, non certo favorevoli al crescente potere dei borghesi. Nel 1618, il Sinodo di Dordrecht segnò il trionfo del partito gomarista e la condanna dell'arminianesiino, con la decapitazione di Jan van Oldenbarnevelt e l'espulsione del celebre giurista Ugo Grozio (Huig de Groot). Frattanto in Germania il luteranesimo prendeva sbocchi mistici e teosofici. Nel 1609 ebbe grande risonanza l'Amphitheatrum aeternae sapientiae del mistico Heinrich Khunrath, in cui si affermava la necessità di conoscere Dio mediante la comprensione della sua potenza infusa nella materia, fino ad ascendere alla contemplazione. Nel 1612, Jakob Bohme, calzolaio di Gòrlitz, venticinquenne, si sentì "illuminato" nel vero senso della parola, osservando i raggi del sole
281 che si riflettevano in una bacinella di stagno: "Vidi la luce confondersi con la materia; vidi come la luce di Dio fosse in tutte le cose, e da allora volli soltanto interpretare le cose alla luce di Dio", così egli stesso racconta la propria esperienza nell'opera Aurore, oder die Morgen ròthe im Aufgang (Aurora o il rosseggiare del mattino in ascesa), nella quale espone la sua dottrina della conoscenza di Dio per mezzo dell'intuizione mistica. Il pastore di Gòrlitz, Gregorio Richter, lo attaccò violentemente predicando dal pulpito: "Via di qui, Satana all'inferno!", ma Bòhme aveva già molti discepoli, che lo descrivevano ; con ammirazione: "Era piccolo di statura, gli occhi grigi, la barba corta e rada, ma la sua voce era un incanto". Incompreso dal clero ' ufficiale, fu arrestato e processato a Dresda nel 1624. Morì poco dopo, e gli fu negata la sepoltura religiosa. Nel 1897, il municipio di Gòrlitz gli erigerà un monumento. Fu Johann Georg Gichtel, sessant'anni dopo la morte di Bòhme, a scoprirne i manoscritti e a pubblicarli, riprendendone la predicazione e fondando anche una setta, i Fratelli della vita angelica, che si proponevano di far ritorno alla purezza di Adamo, prima della caduta. Ma, ancora vivente Bòhme, un altro movimento mistico sorse nella Germania luterana, destinato ad assai più vasta risonanza. Fu nel 1614, a Kassel, città del langraviato di Assia, allorché apparve un manifesto anonimo, che invitava alla "Riforma universale e generale di tutto il mondo", spiegando l'esistenza e gli scopi di una società segreta, l'ordine di Rosacroce, la quale sarebbe stata fondata da un mago di nome Cristiano Rosenkreutz, iniziato ai misteri da una setta di illuminati a Damasco. Studi recenti attribuiscono però tale iniziativa, per allora anonima, a Johann Valentia Andreae, forse solo con l'intento di una piacevole invenzione fantasiosa. Ma l'anno appresso il manifesto fu ristampato con l'aggiunta di una Fama fraternitatis che chiamava a raccolta "i sapienti e i cuori fedeli" di tutto il mondo per la realizzazione di un programma di religione universale, fondato sul fraterno legame di quanti volessero unitamente operare per un mondo migliore. Nel 1616 il medico e teosofo Robert Fludd diede una più ampia esposizione degli scopi della setta con uno scritto dal titolo Apologia dei Rosacroce, e immediatamente in vari centri della Germania, poi nei Paesi Bassi e in Francia sorsero conventicole di rosacrociani. Costoro si dedicavano soprattutto allo spiritismo e a discussioni di argomento mistico, convinti di preparare una più alta atmosfera di spiritualità
282 come esempio e modello per gli altri uomini. Intanto, in tutta Europa, i protestanti dovevano anche sostenere l'intolleranza dei cattolici, che spesso provocava persecuzioni e guerre aperte. Nell'impero germanico, i contrasti tra i riformati e la Lega cattolica capeggiata da Massimiliano di Baviera degenerarono in guerra armata nel 1618, quando il principe ereditario, Ferdinando di Stiria, ordinò la chiusura delle chiese non cattoliche e proibì il culto riformato. Per protesta, a Praga, un gruppo di riformati gettò dalla finestra della cancelleria due consiglieri imperiali e il loro segretario (seconda defenestrazione di Praga), il conte Mattia di Thurn alla testa di trentamila uomini marciò contro Vienna e a lui si unì Gabor Bethlen con settantamila ungheresi. Fu l'inizio della guerra dei Trent'anni, che ebbe uno dei suoi momenti culminanti nel 1629, con la vittoria della Lega cattolica, soprattutto per merito del condottiero Wallenstein, che permise all'imperatore Ferdinando II di emanare un editto di Restituzione, in forza del quale i protestanti dovevano rendere ai cattolici i beni ecclesiastici loro tolti. La città di Magdeburgo, che si era rifiutata di ubbidire, venne assediata e distrutta col ferro e col fuoco dal generale Tilly, provocando l'intervento, in difesa dei protestanti, del re di Svezia Gustavo Adolfo. In Francia la guerra di religione non ebbe tregua, particolarmente dopo il 1622, mentre era al potere il cardinale Richelieu. Appoggiando la politica francese di persecuzione degli ugonotti, anche i duchi di Savoia condussero crociate sanguinose contro i riformati delle vallate piemontesi. Nel 1618 Carlo Emanuele I fece stanare un gruppo di eretici calvinisti che avevano il loro centro ad Acceglio, presso Cuneo. Due loro capi, Pietro Marchisio e Maurizio Monge, furono arrestati e processati a Saluzzo dove morirono sul rogo, non avendo voluto rinnegare la loro fede. Assai complesse furono le vicende delle chiese anglicane e della loro lotta contro i dissidenti. La pubblicazione del Prayer Book, nel 1559, nella revisione della regina Elisabetta, aveva scontentato, perché troppo "cattolicizzante", coloro che erano di tendenze calviniste, e gli anglicani li chiamarono, per irrisione, i puritani, nome che essi conservarono come titolo d'onore. Tra questi, nel 1580, staccandosi definitivamente dall'anglicanesimo, Robert Browne fondò a Norwich la prima Chiesa congregazionista, che rivendicava il carattere della
283 Chiesa stessa quale "congregazione" di credenti, autonoma dallo Stato. Ma già nel 1593 si ha notizia di puritani che scomunicati da vescovi anglicani furono arrestati e impiccati. Dopo la morte di Elisabetta, nel 1603, il successore Giacomo I, figlio di Maria Stuarda ma educato dai presbiteriani scozzesi, fu avverso a cattolici e a puritani e a chiunque disapprovasse il suo dispotismo. Ciò gli attirò l'odio degli unì e degli altri e gli fece, come rivalsa, inasprire le persecuzioni. Nel 1605 furono i cattolici a prenderlo di mira con una congiura detta "delle polveri", perché nei sotterranei di Westminster si scoprirono trentasei barili di esplosivo, destinati a far saltare in aria il re, la sua famiglia, i lord e i deputati riuniti per l'apertura del parlamento. I congiurati furono puniti con vari supplizi, e l'incidente offrì il pretesto per una legge che privava tutti i cattolici dei diritti politici e di gran parte dei diritti civili. Nel 1608 furono i puritani a subire le maggiori persecuzioni. Alcuni di ] essi emigrarono in altri paesi, anche in Italia, ed è interessante, al riguardo, la lettera con cui, quell'anno, il vescovo di Caserta informava il viceré di Napoli della "pericolosa presenza" nella sua diocesi di eretici inglesi che facevano propaganda, e "spesso si dissimulano catholici et li viene creduto, et sotto quella veste di catholicismo attendono a due cose: l'una di spargere più sicuramente il veleno, l'altra di andar osservando tutti gli andamenti de li veri catholici inglesi che si trovano in Italia e ne danno conto alli capi degli heretici che sono in Inghilterra, servendo così di spie all'heresia". Nel 1612 a Londra furono condannati al rogo, per eresia, Bartholomew Legate ed Edward Witghtman, detti ranters (predicatori esaltati) perché esortavano i fedeli ad ascoltare Cristo entro loro stessi, negando ogni autorità alla Chiesa. Tra le vittime più illustri di Giacomo I va ricordato il pensatore e scrittore Francesco Bacone, cancelliere del parlamento, ma in aperta opposizione al potere regio, e con la sua opera più nota, il Novum Organum, fondatore e teorico della scienza moderna, che egli proclamava doversi basare sulla ricerca sperimentale, sgombra dai pregiudizi (gli idolo) sia individuali sia sociali e culturali. Costretti dalla persecuzione anglicana a rifugiarsi in Olanda, nel 1620 un centinaio di puritani, sotto la guida di John Robinson e di William Bradford, si imbarcarono sulla nave Mayflower e, giunti in America, fondarono nel Massachusetts la città di Plymouth, gettando
284 le basi della Comunità dei padri pellegrini. La rigidezza morale dei puritani, esasperata dal continuo timore della dannazione se fossero caduti anche in una minima forma di peccato, ha influito notevolmente sulla cultura della società americana. Per il momento essa li portò a conflitto con altri gruppi di dissidenti che venivano a popolare il Nuovo Mondo. Tra questi, negli anni 1636 e 1637, andarono a stabilirsi proprio nel Massachusetts gli antinomiani che, a somiglianza dei seguaci luterani tedeschi di Agricola, si proponevano una Chiesa sottoposta soltanto alla predicazione dei passi evangelici riguardanti il problema della salvezza mediante la grazia divina, poiché escludevano la possibilità per gli uomini di un'osservanza totale dei comandamenti. Questa concezione contrastava con il rigoroso rispetto della legge da parte dei puritani, che perciò li perseguitarono in tutti i modi. È rimasta, oltre ai verbali di un processo alle streghe, la relazione di un processo contro antinomiani, celebrato a Boston dal novembre 1637 La difficile lotta contro l'oscurantismo l marzo 1638. L'imputata principale, Anne Hutchinson, la quale era giunta dall'Inghilterra da poco tempo, fu riconosciuta colpevole di deviazionismo religioso, di vilipendio della fede, di condotta immorale e di stregoneria. [Vedi Documenti n. 7.] Nel 1639 dai puritani del Massachusetts si staccò un'altra scheggia: espulso per il suo non-conformismo, Roger Williams si trasferì con altri fedeli nel Rhode Island, fondandovi la Chiesa dei battisti basata sul principio anabattista del battesimo agli adulti, come atto consapevole di accettazione della fede in Cristo. Le persecuzioni del Seicento in Inghilterra erano la conseguenza della politica del nuovo sovrano, Carlo I, deciso a instaurare una monarchia assoluta, anche con il controllo della religione, tanto che nel 1636 aveva fatto votare dal parlamento leggi molto severe che prevedevano pene crudeli per i dissidenti, tra cui il marchio di fuoco, il taglio delle orecchie, l'impiccagione. La libertà, troppo a lungo compromessa, prese la sua rivincita nel 1642, con l'inizio di una rivoluzione scoppiata non solo per motivi politici ma anche religiosi perché, mentre Carlo I aveva l'appoggio degli anglicani, gli insorti erano nella massima parte calvinisti, puritani e dissidenti, che si battevano soprattutto per la libertà di coscienza. Animatore della rivoluzione, che si concluse nel 1649 con la condanna
285 del re alla decapitazione e l'istituzione del Commonwealth, era stato Oliver Cromwell, già deputato del parlamento e sempre strenuo difensore della giustizia contro gli arbitri del re e dell'episcopato. Divenuto arbitro delle sorti del paese, Cromwell si mostrò tollerante verso tutte le confessioni religiose - eccetto il cattolicesimo - e nel 1655 aiutò anche i valdesi italiani, trucidati da Carlo Emanuele I con un orrendo massacro passato alla storia sotto il nome di "Pasque piemontesi", facendo stanziare dal parlamento la somma di dodicimila sterline annue come sovvenzione ai sopravvissuti. In quell'occasione il famoso poeta John Milton inviò una nota di protesta al duca savoiardo e compose un'ispirata ode che cominciava col verso: "Vendica, o Dio, dei massacrati santi l'ossa disperse". Ma Cromwell non poté accogliere il programma di riforme, troppo estremista, propostogli da John Lilburne, che era stato imprigionato già durante la guerra con Carlo I per i suoi violenti libelli contro il clero anglicano, e aveva creato il movimento dei levellers (i livellatori), proponendosi l'abolizione delle decime, la distribuzione delle terre incolte ai poveri, l'approvazione dell'assoluta libertà di coscienza. Il testo del programma, che Lilburne fece avere a Cromwell dalla torre in cui era incarcerato con altri levellers, dal titolo Agreement of the People, farà da modello ai rivoluzionari francesi della fronda, sarà poi letto con ammirazione da Mirabeau e dai giacobini, commentato da storici russi ostili allo zarismo nel secolo XIX. Anche un altro rivoluzionario, Gerard Winstanley, presentò invano a Cromwell il proprio programma, in base al quale aveva fondato il movimento dei diggers (gli scavatori), che nel 1649 erano giunti a un'aperta violazione dei diritti di proprietà privata, occupando terre incolte nel Sussex, col proposito di affidarle ad associazioni di pii contadini, i già "santi" che avrebbero dovuto anticipare, vivendo nel rispetto di rigide leggi morali, l'attesa millenaristica del regno di Dio. In quegli stessi anni, il ripudio della chiesa ufficiale - "la casa col campanile" come egli la chiamava - venne predicato da George Fox, che fondò la Società degli amici, battezzati spregiativamente dagli anglicani con il nome di quaccheri (dall'inglese to quake, "tremare"), per il monito che lo stesso Fox, in uno dei numerosi processi che dovette subire, aveva rivolto al magistrato inquirente, esortandolo a "tremare al nome di Dio", o secondo altri perché durante le loro riunioni, uomini, donne e bambini, colti da estasi mistica, perdevano a
286 volta i sensi, tremavano in tutto il corpo, e cadevano a terra respirando faticosamente. Teologicamente senza dubbio i quaccheri sostenevano tesi eretiche, sia rispetto alle dottrine anglicane sia a quelle puritane, predicando il libero rapporto di ogni singolo con Dio e basando la loro liturgia unicamente sul commento dei Vangeli che qualunque membro, uomo o donna, poteva sentirsi ispirato a fare, durante le riunioni, derivandone profezie. Ma l'opposizione dei compatrioti inglesi e ancor più di quelli americani, allorché anche i quaccheri fondarono colonie nel nuovo continente, era dovuta soprattutto al fatto che questi avevano adottato rivendicazioni sociali molto radicali, per esempio negando il "voi" alle persone di ceto superiore, proteggendo e nascondendo gli schiavi fuggiti dalle piantagioni del Sud, e prodigandosi per l'abolizione della schiavitù e l'istruzione dei negri. A partire dall'anno 1656, le cronache registrano numerosi casi di quaccheri perseguitati e condannati a pene orribili. Forse la prima vittima fu il giovane James Nayler che, eccitato dalla predicazione di Fox, creò un proprio seguito nella città di Exeter. Lo dicevano "bello come un Dio". Imprigionato, digiunò per un mese. Quando fu scarcerato, una folla di fedeli lo scortò, e due donne, ai suoi lati, reggeva- La difficile lotta contro l'oscurantismo 267 no le briglie del cavallo, gridando: "Santo, santo, santo!". Fu poi di nuovo arrestato, messo alla berlina e infine ucciso. Nel 1657 a Londra, venne pure processato per empietà un altro profeta, il sarto Lodowick Muggleton che, insieme al cugino John Reeve, da qualche anno in concorrenza con Fox si era messo a predicare il prossimo avvento del regno di Dio, dichiarandosi unico intermediario di Dio. Muggleton aveva narrato le "rivelazioni" avute direttamente da Dio, che gli era apparso con un corpo reale, come uomo, nel libro // divino specchio. In quegli stessi anni, anche la Chiesa ortodossa russa si trovò impegnata a perseguitare una setta millenaristica: i chlysti (flagellatori), che attendevano la discesa dello Spirito Santo, invocandolo con mortificazioni corporali, rifiutavano i sacramenti, seguivano come loro guide delle sacerdotesse chiamandole "madri di Dio". Un tentativo di rinnovamento spirituale fu pure fatto in Russia dallo stesso patriarca Nikita Minov, detto Nikon, nel 1653, anche col
287 ritorno all'antico rituale greco. Ma la sua riforma incontrò l'opposizione dei preti tradizionalisti, capeggiati dall'arciprete Avvakum, che crearono la comunità dissidente degli antichi credenti. Mandato in esilio in Siberia dal Sinodo di Mosca, al suo ritorno, nel 1682, Avvakum sarà scomunicato e arso vivo sul rogo con tre compagni "per le sue grandi bestemmie". Ugualmente, per il suo orientamento chiliastico, e per le sue visioni del "corpo e del sangue celeste" di Cristo, finì la vita sul rogo a Mosca, nel 1689, Quirinus Kuhlmann, nativo di Breslavia. Ma il movimento più serio e consapevole di reazione a un cristianesimo cristallizzato nei dogmi e immiserito dalle dispute teologiche e dalle pratiche esteriori del culto fu il pietismo, per il suo intento di tradurre il sentimento religioso in azione vivificante, mettendo in pratica le massime evangeliche della pietà e della carità. Fu il predicatore luterano Jakob Spener a dare inizio al movimento nel 1670, fondando a Francoforte sul Meno i collegia pietatis, comunità di fedeli, i quali, oltre a dedicarsi all'assistenza dei poveri e dei malati, si riunivano per discussioni religiose, letture collettive a scopo di mutua edificazione spirituale dei testi sacri e di opere di devozione. Per questo motivo nel 1675 Spener ripubblicò i Die Bûcher vont Wahren Christhentum (I quattro libri del vero cristianesimo), composti dal mistico luterano Johann Arndt, morto già da alcuni anni, facendoli precedere da una sua introduzione: Pia desiderici. Un discepolo di Spener, August Hermann Francke, fondò ad Halle un orfanotrofio e un istituto biblico. Poi il pietismo dilagò in tutta la Germania, per merito di ap entusiasti, quali Johann Kaspar Schade, Johann Porst, Gustav Reinbeck e Johann Konrad Dippel. Quest'ultimo, però, commise l'errore ' di attaccare troppo violentemente il conformismo luterano, facendosi imprigionare per sette anni. In stretta relazione con il pietismo, ma fortemente impregnato anche di misticismo derivato da Jakob , il calzolaio di Gòrlitz morto nel 1624, fu - originariamente in Inghilterra, poi anche in Germania - il movimento dei filadelfi, ossia la Philadelphian society (Società dell'amicizia), creata a Londra dal pastore anglicano John Pordage, che si diceva soggetto a straordinarie illuminazioni e visioni Nel 1668 Pordage incontrò Jane Lead, essa pure visionaria, e si unì a
288 lei in un'unione del tutto spirituale, che farà da modello agli altri soci del circolo filadelfiano. Il tema della loro predicazione era sostanzialmente questo: che, avendo Dio abbandonato il mondo alle forze demoniache, si sarebbe salvata solo la chiesa spirituale dei cristiani rinati, che si votavano a spargere un messaggio d'amore tra gli uomini. Nel 1694, dopo la morte di Pordage, Jane Lead assunse come figlio adottivo e segretario Francis Lee, un insigne erudito, che per influenza del pietismo tedesco tendeva a fare dei filadelfi una chiesa separata. Per questo motivo, i rapporti con l'anglicanesimo furono sempre piuttosto tesi. In Germania la Chiesa dei filadelfi sarà diffusa soprattutto da Johann Peterson e Johann Samuel Carl, con centro a Berleburg. La lotta contro il gesuitismo.
Anche il mondo cattolico conobbe nel Seicento vivaci reazioni contro la mortificazione della fede nata dalla Controriforma, che aveva educato i fedeli all'esteriorità del culto, alla certezza di esser salvi mediante la passiva accettazione dei sacramenti e la totale soggezione al magistero della Chiesa. Soprattutto era stridente il contrasto tra l'intransigenza e la violenza anche fisica nei riguardi dei "dissidenti" e il lassismo tollerante e benevolo verso i fedeli sottomessi, introdotto dai gesuiti persino con l'estrema facilità dell'assoluzione dei peccatori in base alla dottrina dei "casi di coscienza", secondo la quale, nei confronti di coloro che si confessavano pentiti, si doveva tenere conto della reale intenzione di peccare, delle circostanze, delle occasioni che si erano loro presentate, come attenuanti della colpevolezza. La lotta per il rinnovamento di un rigoroso spirito religioso e morale si tradusse perciò in un lungo, incessante conflitto con la Compagnia di Gesù, sempre spalleggiata senza riserve dalla curia romana. Non era estraneo all'ostilità verso i gesuiti anche il monopolio che essi detenevano ormai della cultura laica, attraverso un'efficientissima rete di scuole pubbliche, e la loro grande influenza politica sulle classi dirigenti dei paesi cattolici, ottenuta grazie alla potenza economica da essi acquistata soprattutto tramite uno sfruttamento coloniale senza scrupoli, in Asia e nell'America del Sud attraverso le missioni.
289 La lotta iniziò nel 1588, con una polemica tra gesuiti e domenicani, quando il gesuita Luis Molina nella Concordia liberi arbitrii cum gratiae donis confutò violentemente l'opera del domenicano belga Michel Bay (Baio), che era stato imprigionato nel 1560 e messa all'Indice la sua opera nel 1580. Baio aveva rilanciato la dottrina della predestinazione, indipendente dai meriti, che era stata elaborata da san Paolo e poi da sant'Agostino; Luis Molina gli controbattè che la predestinazione è in effetti una "previsione" dei meriti: Dio prevede l'uso che ciascun uomo farà della grazia, concessa a tutti, quindi prestabilisce il premio o il castigo. In difesa di Baio si mossero altri teologi domenicani, e la controversia durò per un decennio, fino a quando il papa Clemente Vili nominò una speciale congregazione De auxiliis, per esaminare e dirimere la questione, e i domenicani furono costretti al silenzio. La polemica fu ripresa pochi anni dopo dall'olandese Giansenio (Cornelius Jansen), anch'egli teologo a Lovanio, come Michel Bay, e poi vescovo di Ypres, sempre fiero avversario del lassismo gesuitico. Egli dedicò al problema della grazia un poderoso studio, YAugustinus, rimasto tuttavia inedito fino al 1640, due anni dopo la sua morte. Ma intanto, tramite il suo amico ed ex condiscepolo, l'abate di SaintCyran (Jean Duvergier de Hauranne), le idee di Giansenio erano già note, e particolarmente discusse a Parigi, nel celebre convento femminile di Port-Royal, già riformato con rigida austerità per opera di madre Angélique Arnauld, che ne era divenuta badessa nel 1602, appena tredicenne. Allorché il Saint-Cyran fu da lei scelto come padre spirituale, la sede di Port-Royal de Champs, non più abitata dalle monache e dalle educande, cominciò a essere sede di ritiri di meditazioni e discussioni religiose di "solitari", tra i quali Antoine Arnauld, fratello minore di madre Angélique, che trovavano stimolo nelle tesi gianseniste del Saint-Cyran. Già alcuni suoi opuscoli, che sostenevano l'inutilità delle opere per ottenere la salvezza, compresi i voti di astinenza e di castità, avevano scandalizzato Richelieu, allora praticamente sovrano assoluto della Francia, e nel 1638 Saint-Cyran era stato imprigionato. Ma fu la pubblicazione dell'Augustinus, nel 1640, curata dagli amici di Giansenio, a segnare gli inizi di una vera e propria lotta destinata a trascinarsi fino all'Ottocento. Il pessimismo di Giansenio sulla natura umana superava quello di Agostino: il peccato originale
290 - era la sua dottrina - ha comportato l'intima corruzione dell'uomo, per cui egli, costantemente in preda a tendenze peccaminose, non può far nulla per la propria salvezza ma solo confidare nella grazia di Dio; colui al quale Egli vorrà concederla, si salverà, altrimenti sarà sempre schiavo del peccato. Già due anni dopo la pubblicazione, su denuncia dei gesuiti, l'opera di Giansenio fu condannata dal papa Urbano Vili, con la bolla In eminenti, senza nemmeno indicarne i motivi. Poi, nel 1653, la bolla Cum occasione di Innocenzo X rinnovò la condanna, citando cinque proposizioni dell'Augustinus, ritenute eretiche perché negavano il libero arbitrio e sostenevano che Gesù non è morto per tutti ma solo per i predestinati. Subito risposero Antoine Arnauld e Pierre Nicole, che era insegnante nelle Petites Ecoles istituite a Port-Royal per l'educazione delle fanciulle, dimostrando che le cinque proposizioni risultavano eretiche solamente perché isolandole dal loro contesto il significato veniva distorto, e mettendo in dubbio l'infallibilità della Chiesa nel giudicare il vero senso delle parole di un autore. Il risultato fu che l'Arnauld venne espulso dalla Sorbona, il cui sindaco (il rettore) ottenne da papa Alessandro VII un'altra condanna dell'Augustinus con la bolla Ad Sanctam beati Vetri sedem. Fu a questo punto che intervenne in appoggio ai giansenisti anche il già famoso scienziato Blaise Pascal. Pascal, dopo trent'anni di vita dedicati allo studio e alla ricerca scientifica, che l'aveva condotto a geniali scoperte ma anche alla frequentazione dei salotti mondani, nel gennaio del 1655, in seguito a un'improvvisa conversione e a un'estasi avuta - come egli stesso racconterà nel suo Memorial - dopo essere scampato miracolosamente a un incidente stradale, si ritirò a Port-Royal, dove già era suora sua sorella Jacqueline, e cominciò a scrivere Les provinciales, una serie di diciotto lettere in cui, con fine ironia, attaccava i gesuiti per le loro dottrine teologiche, la loro ambiguità morale, il loro lassismo. [Vedi Documenti n. 8.] Immediatamente fatte condannare dal parlamento di Aix, come La difficile lotta contro l'oscurantismo libello diffamatorio", le Provinciali di Pascal ebbero tuttavia una larga diffusione, e furono tradotte anche all'estero. La tensione tra gesuiti e giansenisti divenne tragica nel 1661, quando l'assemblea del clero di Parigi intimò ai membri di Port-
291 Royal e anche alle monache del convento, oltre che a tutti i sacerdoti cattolici della diocesi, di firmare un formulario di condanna di Giansenio. L'Arnauld e Nicole erano sul punto di cedere all'intimazione, ma Pascal li esortò a mostrarsi intransigenti, anche perché turbato dall'improvvisa morte della sorella Jacqueline, che non aveva saputo resistere al dolore per i tragici avvenimenti. Anche la nuova badessa del convento, Agnès Arnauld, sebbene in precedenza si fosse sempre dichiarata poco favorevole alle idee gianseniste, ora, con le altre suore, rifiutò di sottoscrivere il formulario. Per ordine della curia romana, le Petites Ecoles furono soppresse, alle settantacinque suore di Port-Royal fu fatto divieto di ospitare alunne e convittrici, e quattro anni dopo, nel 1665, esse saranno anche costrette ad abbandonare il convento di Parigi, che occupavano dal 1626, e a ritornare nella vecchia sede di Les Champs, a dieci chilometri da Versailles. Il formulario era stato fatto firmare da tutti i membri del clero, anche giovani novizi che non conoscevano nemmeno le opere di Giansenio, e questo fatto provocherà poi rimorsi, come nell'allora diciottenne Nicolas Malebranche, divenuto in seguito un noto filosofo e teologo: egli ritratterà la propria adesione al formulario con una lettera che sarebbe stata letta soltanto dopo la sua morte. Nel 1670 gli amici di Port-Royal si decisero a pubblicare, con il titolo Pensées, gli appunti di un'Apologia della religione cristiana, alla quale stava lavorando Pascal, quando era stato colto dalla morte. Ne risultò un profondo libretto di meditazioni sul destino umano. L'anno seguente uscirono anche le Réflexions morales del giansenista Pasquier Quesnel, amico di Antoine Arnauld, alla morte del quale, nel 1694, egli sarà riconosciuto come il principale esponente del giansenismo, sebbene costretto a vivere in esilio, ancora soggetto a persecuzioni. Nel 1703, infatti, il sequestro dei documenti dell'agenzia giansenista di Roma portò all'arresto del Quesnel, nel Belgio, e solo dopo qualche mese egli riuscirà a evadere e a fuggire a Utrecht. Intanto il gruppo di Port-Royal tentava un atto di conciliazione con la Chiesa, dichiarando in una lettera aperta, intitolata Un cas de conscience, che per ubbidienza si accettava la condanna delle cinque proposizioni attribuite a Giansenio, anche se, in coscienza, essa era ritenuta ingiusta. Con la bolla Vineam Domini, del 1705, il papa Clemente XI rifiutò questa soluzione del "rispettoso silenzio", e il re di Francia,
292 XIV, che cominciava a temere le interferenze dei giansenisti nella politica mirante a ottenere, senza urtarsi con Roma, una costituzione più autonoma per la Chiesa gallicana, nel 1709 ordinò che il convento di PortRoyal venisse raso al suolo, i religiosi che erano in esso dispersi dalla polizia, e i capi giansenisti imprigionati. Con Roma la disputa durò ancora fino al 1713, anno in cui, con ' l'occasione di confutare le Reflexions morales del Quesnel, la bolla Unigenitus di papa Clemente XI ribadiva la condanna globale del giansenismo. Le proposizioni incriminate nel volume del Quesnel venivano definite "false, capziose, malsonanti, offensive per pie orecchie, scandalose, perniciose, temerarie, ingiuriose per la Chiesa e la sua prassi, e non solo contro la Chiesa, ma anche contro il potere civile contumeliose, sediziose, empie e blasfeme, sospette di eresia o aventi aperto carattere di eresia, e inoltre tali da indurre all e allo scisma, altre erronee e prossime all'eresia, altre decisamente eretiche, soprattutto quelle che manifestamente rinnovano le famose proposizioni di Giansenio, che già furono condannate". Per fare un esempio: si contesta che la frase "indubitable effet suit le vouloir de Dieu", la quale riporta parole di san Prospero, è "falsa", in quanto non corrisponde agli ipsissima verba (le precise parole) di san Prospero, dato che egli aveva scritto in latino e cioè: "Indubitabilis effectus sequitur voluntatem Dei"! Senza dubbio la frustrante situazione in cui, secondo Giansenio, Pascal e gli altri giansenisti, si trova l'umanità, sottomessa a un Dio né giusto né buono, arbitro prepotente nella scelta dei propri favoriti, contrasta con l'idea cattolica di un Dio padre provvidenziale, e non poteva essere accettata dalla Chiesa che avrebbe visto annullata ogni sua funzione di dispensatrice della salvezza; e non era nemmeno condivisa dalle masse, che riconoscevano riflessa nel dio dei giansenisti l'immagine del dispotismo politico e dell'ingiustizia sociale. Il giansenismo trovò invece il suo terreno naturale nelle famiglie dell'alta borghesia, che vedevano nella scelta di una fede individualizzata, al di fuori di ogni apparato autoritario, e nella lotta contro i gesuiti che ne erano lo strumento, un parallelo al loro processo di liberalizzazione sul piano economico e politico. L'opposizione al gesuitismo, oltre che dai giansenisti, fu condotta, nella seconda metà del Seicento, anche da altri religiosi, che volevano
293 dare alla fede il carattere di confidente e fiducioso avvicinamento a Dio. Tra questi, il già citato Nicolas Malebranche, il cui Traité de morale, scritto nel 1683, si attirò gli attacchi polemici dei gesuiti e la condanna, perché si fondava sul cartesianesimo. La conoscenza del bene e del malesi diceva in esso - può venir solo dalla ragione, la quale è il "lume" concesso da Dio all'uomo perché intenda la sua saggezza di legislatore. Poiché Malebranche affermava, a questo proposito, che l'uomo "vede" direttamente in Dio, il Santo Uffizio lo accusò di "quietismo". In realtà il quietismo era tutt'altra cosa: un movimento mistico, sorto anch'esso come reazione all'esteriorità del culto e al rilassamento della fede, ma la cui soluzione consisteva in un annichilimento totale, un abbandono a Dio, mediante la preghiera mentale di "quiete", al di là della meditazione e della contemplazione suggerite dai grandi mistici del passato. A cominciare dalla Pratique facile pour élever l'âme à la contemplation, pubblicato nel 1664 da Fran ois Malaval, cieco dalla nascita, e perciò sempre rimasto chierico senza mai ottenere la promozione a sacerdote, i trattati di mistica quietista si susseguirono in gran numero fino alla fine del secolo. Ma il teorico più accreditato del movimento fu considerato lo spagnolo Miguel de Molinos, che dirigeva a Roma una confraternita di suoi connazionali. Il suo Breve tratado de la comunión quotidiana e la sua Guía espiritual, apparsi nel 1675, in cui si insegnava la pratica della contemplazione "infusa", cioè di un abbandono passivo dell'anima a Dio fino a rimanere insensibili anche agli eventuali disordini dei sensi, furono immediatamente tradotti in italiano e in altre lingue ed ebbero grandissima diffusione. Ma gli costarono anche la persecuzione dei gesuiti, primo fra i quali Paolo Segneri, noto autore di prediche e di quaresimali in enfatica prosa barocca. Nel 1682 esce dal Santo Uffizio la prima condanna ufficiale del quietismo di Miguel de Molinos. La Instructio Sancti Officii contra errores quietismi ricorda che è un considerare inutile la preghiera fatta a voce; è un errore disprezzare coloro che in chiesa non fanno meditazione e non si sforzano di pervenire alla contemplazione; la contemplazione quietista è un perché porta a dimenticare l'incarnazione e la passione di Gesù Cristo; è un disprezzare il culto delle immagini di Gesù, di Maria, e dei santi.
294 Nel 1685 Miguel de Molinos venne arrestato dalla polizia pontificia, pare dietro pressioni fatte sulla curia dal cardinale d'Estrées, che si trovava a Roma in missione diplomatica per conto del re Luigi XIV (minacciato di scomunica a causa dei quattro articoli della Chiesa gallicana da lui emessi). In casa del de Molinos gli inquisitori requisirono circa dodicimila lettere di penitenti che gli chiedevano! consigli. Due anni dopo, la costituzione pontificia Caelestis Pastor ribadì la condanna del quietismo, e il tribunale dell'inquisizione che stava processando Miguel de Molinos chiese la sua abiura. Ai primi di settembre, nella chiesa della Minerva, assiepata di curiosi, Molinos lesse l'atto di abiura e venne condannato al carcere a vita. I testimoni affermarono che corse tra la folla un mormorio di disappunto, poiché si era sperato di assistere a una esecuzione. Generalmente si suole ricollegare il quietismo di Molinos alle precedenti esperienze mistiche degli alumbrados spagnoli, attraverso Teresa d'Avila e Giovanni della Croce; ma lo stesso Molinos rifiuta tale paternità nella sua Defensa de la contemplación, scritta in prigione, e rimasta inedita fino al 1974, anno in cui fu scoperta nella Biblioteca vaticana dallo studioso José Ángel Valente. [Vedi Documenti n. 9.] Le pratiche quietiste degenerarono facilmente in manifestazioni di fanatismo, con visioni, estasi, perdite dei sensi, e - specie da parte delle donne - con crisi isteriche e perversioni. Tipico fu il caso della mistica Antoinette Bourignon, nativa di Lilla, ma vissuta ad Amsterdam, la quale lasciò diciannove volumi di confessioni delle proprie esperienze. Ma più nota, un trentennio dopo, fu Jeanne Marie Guyon che, rimasta vedova da un matrimonio infelice con un marito assai più anziano e malato di gotta, cominciò verso il 1681 a essere ispirata da visioni ed estasi, ma anche da tentazioni di demoni che la percuotevano, smuovevano nottetempo il suo letto, e quindi decise di sottoporsi a mortificazioni volontarie, come rotolarsi nelle ortiche, inghiottire gli sputi di persone malate, eccetera. Poi, in compagnia del proprio confessore, il barnabita Fran ois Lacombe, compì un lungo viaggio per l'Europa, fermandosi a Ginevra, Grenoble, Marsiglia, Torino e Vercelli, per esporre al pubblico le proprie esperienze e dare consigli, che nel 1685 condenserà in un Moyen court et très facile pour l'oraison, a causa del quale l'arcivescovo di Parigi le ordinerà di ritirarsi, come internata, nel convento delle orsoline, mentre
295 il suo amico Fran ois Lacombe verrà messo in prigione e poco dopo impazzirà. Durante la sua segregazione nel convento delle orsoline, Madame Guyon ebbe l'insperata fortuna, nel 1688, di fare la conoscenza del noto prelato Fran ois Fénelon, famoso scrittore, precettore di giovinette dell'aristocrazia, direttore di un collegio di rieducazione delle fanciulle convertite dal protestantesimo al cattolicesimo, che diventò subito suo grande ammiratore e la introdusse addirittura a La difficile lotta contro l'oscurantismo 275 corte, con il favore della marchesa Fran oise de Maintenon, l'amante di Luigi XIV. Ma l'ammirazione di Fénelon per la visionaria, oltre a suscitare la gelosia della Maintenon, provocò anche l'indignazione del suo ex maestro, il vescovo Jacques Bénigne Bossuet, stimato oratore e polemista. Nel 1694, su richiesta di Madame Guyon, Fénelon e Bossuet si incontrarono a Issy, insieme con monsignore de Noailles, vescovo di Chalón, per discutere il problema del quietismo. I colloqui di Issy rivelarono un'inconciliabile discordanza di vedute tra Fénelon e Bossuet, che incrinò definitivamente la loro vecchia amicizia. Su denuncia del Bossuet, Madame Guyon fu arrestata e internata nella Bastiglia. Nel 1697 Fénelon scrisse una Explication des maximes des Saints sur la vie intérieure, che ricalcava molte opinioni quietiste. Bossuet la confutò immediatamente con una Instruction sur les états d'oraison, provocando la condanna di Fénelon, che fu destituito dalla diocesi e mandato in esilio. Due anni dopo fu colpito anche dalla scomunica papale. Innocenzo XII, nel breve Cum alias ad apostolatus enumera gli errori della sua opera: che nello stato contemplativo si perde ogni motivo di timore o di speranza, ogni capacità di desideri volontari e deliberati, e avviene come una separazione tra la parte superiore dell'anima e la parte inferiore: gli atti di quest'ultima risultano ciechi e involontari. DOCUMENTI.
296 1. Gli scopi e i risultati del Concilio di Trento.
Racconterò le cause e li maneggi d'una convocazione ecclesiastica, nel corso di ventidue anni per diversi fini e con vari mezzi da chi procacciata e sollecitata, da chi impedita e differita, e per altri anni diciotto ora adunata, ora disciolta, sempre celebrata con vari fini, e che ha sortito forma e compimento rutto contrario al disegno di chi l'ha procurata e al timore di chi con ogni studio l'ha disturbata: chiaro documento per rassignare li pensieri in Dio e non fidarsi della prudenza umana. Imperocché questo Concilio, desiderato e procurato dagli uomini per riunire la Chiesa che principiava a dividersi, per contrario ha così stabilito lo scisma ed ostinate le parti, che ha fatto le discordie irreconciliabili; e maneggiato dai principi per riforma dell'ordine ecclesiastico, ha causato la maggior disformazione che sia mai stata dopo che il nome cristiano si ode; e dalli vescovi adoperato per riacquistar l'autorità episcopale, passata in gr parte nel solo pontefice romano, gliel'ha fatta perder tutta intieramente, edrf interessati loro stessi nella propria servitù; ma temuto e sfuggito dalla corte di Roma, come efficace mezzo per moderare la esorbitante potenza, da piccoli principi pervenuta, con vari progressi, ad un eccesso illimitato, gliel'ha ) talmente stabilita e confermata sopra la parte restatagli soggetta, che mai fu tanta né così ben radicata. __ Quanto all'estirpazione delle eresie e alla riforma della Chiesa, già il cardinal Soderino ricordava al pontefice non esservi speranza di confondere ed estirpare i luterani con la correzione dei costumi della corte, anzi questo essere : un mezzo d'aumentare a loro molto più il credito, imperocché la plebe, che sempre giudica dagli eventi, quando per l'emenda seguita resterà certificata che con ragione il governo pontificio era ripreso in qualche parte, si persuaderà finalmente che anco l'altre novità proposte abbiano buoni fondamenti. Che, leggendo le passate istorie, da' tempi che sono state eccitate eresie contra l'autorità della Chiesa romana, si vedrà tutte aver preso pretesto ' dalli costumi corrotti della corte. Con tutto ciò mai nessun pontefice riputò utile mezzo di riformarli, ma sibbene indurre i Principi a proteggere la i Chiesa. Nessuno aveva mai estinto l'eresie con riforme, ma con le crociate e , con eccitare i principi e popoli all'estirpazione di quelle. Si ricordasse che , Innocenzo III con tale mezzo oppresso felicemente gli Albigesi di Linguadoca, i pontefici seguenti non con altri modi estinsero in altri luoghi i Valdesi, Poveri di Lione, Arnaldisti, Speronisti e Patarini, sicché al presente resta solo
297 il nome... ; Nessuna riforma inoltre potersi fare, la quale non diminuisca notabilmente l'entrate, le quali avendo quattro fonti: le rendite dello Stato ecclesiastico, l'indulgenze, le dispense, e la collazione de' benefici, non si può otturare alcuno di questi, che l'entrate non restino tronche di un quarto. [P. Sarpi, Istoria del Concilio Tridentino.) 2. Occorre celar le parti vergognose de le sacre figure.
Ben dirò che dai pittori sono state trovate alcune finzioni per cagione dell'onestà, le quali sono lodevoli, e questo sono il celar con qualche bel garbo le parti vergognose de le sacre figure; il che Michelagnolo ha fatto al Salvator nostro et ala gloriosa Vergine, et anco a molt'altre figure. Ma n'ha fatte molte, d'uomini e di donne, tutte nude, del che penso che la maggior parte de' riguardanti se ne scandelezzino, anzi che diletto ne piglino. E vero che tutti hanno da risuscitar nudi, e che in quel tempo non si conoscerà che sia vergogna, come fu innanzi che i primi nostri padri peccassero; perché tutti saranno celesti, avendo l'uomo racquistata quella innocenza che fu perduta in Adamo. Però io dico che, se quelle parti consideriamo in piccioli fanciulletti, non ci scandalezziamo, avendo riguardo a l'innocenza e purità di quelli, senza malizia e peccato. Ma se le miriamo negli uomini e ne le donne, n'arreca vergogna e scandolo, e più quando le veggiamo in perso- La difficile ne et in luoghi ove vedere non si doverebbe, perché ne' santi, oltra l'erubescenza, ne da non so che di rimorso ne l'animo, considerando che quel santo non solo ad altri mostre non l'arebbe, ma né anche esso stesso miratele, perché dunque il pittore, contra quella legge de la santità e de l'onestà e del decoro, piglia ardire de in contrario ritorcerle con gesti tali sconvenevoli? In questi casi dunque io lodo coloro che con qualche bella finzione celano le parti vergognose a le loro figure e spezialmente a le sacre. E non vale a dire: "Sono uomini dipinti", perché anco le pitture edificano e scandolezzano. I pittori che furono avanti Michelagnolo non fecero mai la figura de la gloriosa Vergine nuda, né quella di alcun santo, eccetto ne' martirii, et allora gli velavano le parti vergognose. Quella del Signor nostro, da la fanciullezza, dal battesimo, da la flagellazione e crucifissione e resurrezione in poi, non mai. Per mostrare l'istorico la purità, la castità e la riverenza della religione, deve fare con la penna e con le parole l'orecchie caste di chi legge, et i
298 pittori col pennello e coi colori gli occhi casti di chi mira; dal che ne nasce il decoro de la pittura, la lode de l'artefice e la devozione de' popoli. [G.A. Gilio, Degli errori e degli abusi de' pittori (1564).] 3. Orrendo macello dei valdesi in Calabria.
Occorre dire come oggi a buon'ora si è ricominciato a far la orrenda iustizia di questi luterani, che solo in pensarvi è spaventevole: e così fan questi tali come una morte di castrati; li quali erano tutti serrati in una casa, e veniva il boia e li pigliava a uno a uno, e gli legava una benda avanti agli occhi, poi lo menava in un luogo spazioso poco distante da quella casa, e lo faceva inginocchiare, e con un coltello gli tagliava la gola, e lo lasciava così. Di poi pigliava quella benda insanguinata e col coltello insanguinato ritornava a pigliar l'altro e faceva il simile. Ha seguito quest'ordine fino al numero 88; il quale spettacolo quanto sia stato compassionevole lo lascio pensare e considerare a voi. I vecchi vanno a morire allegri, e gli giovani vanno più impauriti. Si è dato ordine, e già son qua le carra, e tutti si squarteranno e si metteranno di mano in mano per tutta la strada che fa il procaccio fino ai confini della Calabria; se il Papa et il signor Viceré non comanderà al signor Marchese che levi mano. Tuttavia fa dar della corda agli altri. Si è dato ordine far venire oggi cento donne delle più vecchie, é quelle far tormentare, e poi farle giustiziare ancor loro, per poter far la misura perfetta. Ve ne sono sette che non vogliono vedere il Crocifisso, né si vogliono confessare, i quali si abbruceranno vivi. Di Mont'Alto, alii 11 di Giugno 1561. ["Lettere sui Riformati di Calabria", in Antologia degli scrittori italiani (1846), voi. IX,pp.194sgg.] 4. Giordano Bruno: i mondi sono infiniti.
Non sono fini, termini, margini, muraglia che ne defrodino e suffragano la infinita copia de le cose. Indi feconda è la terra ed il suo mare; indi perpetuo è il vampo del sole, sumministrandosi eternamente esca a gli voraci fuochi ed umori a gli attenuati mari; perché dall'infinito sempre nova copia ( materia sottonasce. Di maniera che meglioramente intese Democrito ed Epicuro
299 che vogliono tutto per infinito rinnovarsi e restituirsi, che chi si forza di salvare eterna la costanza dell'universo. Or provedete, signori astrologi, con li vostri pedissequi fisici, per que' vostri cerchi che vi descriveno le fantasiose nove sfere mobili! Conosceremo che sì grande imperatore non ha sedia sì angusta, sì misero solio, sì arto tribunale, ] sì poco numerosa corte, sì piccolo ed imbecille simulacro, che un fantasma parturisca, un sogno fracasse, una magia ripare, una chimera disperda ... ma è un grandissimo ritratto, mirabile imagine, figura eccelsa, vestigio altissimo, infinito ripresentante di ripresentato infinito, e spettacolo conveniente all'eccellenza ed eminenza di chi non può essere capito, compreso, appreso. Cossi si magnifica l'eccellenza de Dio, si manifesta la grandezza de l'imperio suo: non si glorifica in uno sole, ma in soli innumerabili: non in una terra, un mondo, ma in diecimila, dico in infiniti Quello che voglio conchiudere è questo: che il famoso e volgare ordine degli elementi e corpi mondani è un sogno ed una vanissima fantasia, né per raggione si prova ed argumenta. Resta dunque da sapere ch'è un infinito campo e spacio continente, il qual comprende e penentra il tutto. In quello sono infiniti corpi simili a questo, de quali l'uno non è più in mezzo de l'universo che l'altro, perché questo è infinito, e però senza centro e senza margine, benché queste cose convengano a ciascuno di questi mondi, che sono in esso con quel modo ch'altre volte ho detto e particolarmente quando abbiamo dimostrato essere certi, determinati e definiti mezzi, quai sono ì soli e i fuochi, circa gli quali discorreno tutti gli pianeti, le terre, le acque, qualmente veggiamo circa a questo a noi vicino marciar questi sette erranti; e come quando abbiamo parimente dimostrato che ciascuno di questi astri o questi mondi, voltandosi circa il proprio centro, caggiona apparenza di un solido e continuo mondo che rapisce tanti quanti si veggono ed essere possono astri, e verse circa lui, come centro dell'universo. Di maniera che non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole; ma tanti son mondi quante veggiamo circa di noi lampade luminose, le quali non sono più né meno in un cielo ed un loco ed un comprendente, che questo mondo, in cui siamo noi, è in un comprendente, luogo e cielo. [G. Bruno, De l'infinito, universo et mondi.] 5. Dire che la terra gira è cosa pericolosa.
300 Volere affermare che il sole stia nel centro del mondo, e solo si rivolti in se stesso senza correre dall'oriente all'occidente e che la terra stia nel terzo cielo e giri con somma velocità intorno al sole, è cosa pericolosa non solo d'irritare tutti i filosofi e theologi scolastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante. Dico che, come lei sa, il Concilio prohibisce esporre le Scritture contra il commune consenso de' Santi Padri, e se la P. V. vorrà leggere non dico solo li Santi Padri, ma li commentarii moderni sopra il Genesi, sopra li Salmi, sora l'Ecclesiaste, sopra Giosuè, trovará che tutti convengono in esporre ad fjteram ch'il sole è nel cielo e gira intorno alla terra con somma velocità, e che la terra è lontanissima dal cielo e sta nel centro del mondo, immobile; Consideri hora lei, con la sua prudenza, se la Chiesa possa sopportare che si dia alle Scritture un senso contrario alli Santi Padri et a tutti li espositori greci e latini. Né si può rispondere che questa non sia materia di fede, perché se non è materia di fede ex parte obiecti, è materia di fede ex parte dicentis; e così sarebbe herético chi dicesse che Abramo non habbia havuti due figliuoli e Iacob dodici, come chi dicesse che Christo non è nato di vergine, perché l'uno e l'altro lo dice lo Spirito Santo per bocca de' Profeti et Apostoli. Aggiungo che quello che scrisse: Oritur sol et occidit, et ad locum suum reuertitur, etc., fu Salomone, il quale non solo parlò ispirato da Dio, ma fu huomo sopra tutti gli altri sapientissimo e dottissimo nelle scienze humane e nella cognitione delle cose create, e tutta questa sapienza l'hebbe da Dio. [R. Bellarmino, "Lettera a padre Paolo Antonio Foscarini" (1615).] 6. Abiuro la falsa opinione che il Sole sia centro del mondo.
Io Galileo, fig.lo del q. Vine. Galileo di Fiorenza, dell'età mia d'anni 70, constitute" personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la Repubblica Cristiana contro l'eretica pravità generali inquisitori; avendo davanti gl'occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l'aiuto di Dio crederò per l'avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S. Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off., per aver io, dopo essermi stato con precetto dall'istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il Sole sia centro del mondo e che non si muova, e che la Terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo,
301 né in voce né in scritto la detta falsa dottrina, e dopo d'essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l'istessa dottrina già dannata, e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d'eresia, cioè d'aver tenuto e creduto che il Sole sia centro del mondo e imobile e che la Terra non sia centro e che si muova. Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e d'ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l'avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all'Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò. Giuro anche e prometto d'adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off. imposte; e contra- L venendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da' sacri canoni e a) tre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte " promulgate. Così Dio m'aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con ] proprie mani. Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la* presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in nel convento della Minarva, questo dì 22 giugno 1663. [In F. Flora, il processo a Galileo (1954).] 7. Il processo di Anne Hutchinson dinanzi alla Corte generale di Boston.
John Winthrop (governatore): Mrs. Hutchinson, voi siete stata qui convocata come una delle maggiori responsabili dei recenti disordini pubblici, in parte a causa delle opinioni erronee da voi espresse e divulgate fra noi, in parte incoraggiando e appoggiando quanti seminavano la sedizione, coprendo di biasimo i fedeli ministri di questo paese e il loro ministero, col risultato di indebolire il loro braccio a servizio del Signore e di suscitare nel
302 cuore del gregge diffidenza nei loro confronti; e in parte indicendo pubbliche riunioni settimanali a casa vostra, a scandalo dell'intero paese e a detrimento di molte famiglie. Anne Hutchinson: Che cosa ho detto o fatto di male? J.W.: Quanto alle azioni, ecco cos'avete fatto: avete ospitato e sostenuto coloro che appartengono a quella fazione di cui avete sentito parlare... A.H.: Qual è la legge che trasgrediscono? J.W.: La legge di Dio e dello Stato. A.H.: E precisamente? J.W.: Non intendiamo star qui a discorrere con una del vostro sesso. Quel che conta è che voi appartenete a quel gruppo e che di fatto vi adoperate a vantaggio di esso, e così facendo venite meno al rispetto dovuto a noi magistrati. Thomas Dudley (vice governatore): Andrei un po' più oltre, per quanto riguarda Mrs. Hutchinson. Circa tre anni fa, eravamo tutti in pace. Da quando è arrivata qui Mrs. Hutchinson non ha fatto altro che disturbare l'ordine; e una persona che giunse con la sua stessa nave mi disse che razza di tipo era, appena sbarcata. Io, che ero allora governatore in carica, mi recai dal pastore e dall'insegnante di Boston e li pregai di assumere informazioni su di lei: e mi ritenni soddisfatto allorché seppi che le sue dottrine non erano diverse dalle nostre. Ma nel giro di sei mesi aveva già espresso parecchie opinioni strane e aveva creato delle fazioni nel paese, e adesso risulta chiaro che Mrs. Hutchinson si è talmente accaparrata la testa di molti cittadini, che ormai ha un partito molto forte nel paese. E questo non può essere tollerato! A.H.: Benedico Dio che mi ha concesso di saper distinguere ciò che è giusto da ciò che è errato. Nowell (giudice): Come avete fatto a capire che si trattava dello spirito di Dio? H.: Come ha fatto Abramo a capire che era Iddio che gli ordinava di sacrificare suo figlio? Dudley: Attraverso la diretta voce di Dio. A.H.: Ebbene, così è stato anche per me: attraverso una voce diretta. Dudley: Come? Una rivelazione diretta? A.H.: Sì, la voce del suo santo spirito nell'anima mia. J.W.: Vedo che è una meravigliosa provvidenza di Dio a condurre le cose a una svolta simile. La misericordia divina ha risposto ai nostri desideri, costringendo costei a mettersi a nudo e a dichiarare che all'origine di tutti questi disordini vi sono delle rivelazioni... Oh sì, è veramente la più folle e disperata presunzione di questo mondo! Di tutte le rivelazioni di cui ho letto e di quelle di cui non ho letto, l'origine è sempre la stessa: diabolica.
303 Dudley: Non ho mai visto rivelazioni simili se non fra gli anabattisti: i disordini che sono successi in Germania partivano sempre dalla base delle rivelazioni, giacché quelli che le manifestavano e le comunicavano agli altri hanno sobillato chi li ascoltava a impugnare le armi contro il proprio principe e a sgozzarsi a vicenda. Ecco i frutti delle rivelazioni. Perciò sono assolutamente convinto che Mrs. Hutchinson è in preda a un inganno del demonio, perché lo spirito di Dio dice la verità solo allorché parla per bocca dei suoi ministri. J.W.: La corte si dichiara soddisfatta di quanto ha udito circa la turbolenza di mente di costei e il pericolo rappresentato dalla sua presenza fra noi. Perciò, se la corte ritiene che Mrs. Hutchinson non sia idonea a far parte della nostra società, e se la corte ritiene che debba venir privata dei diritti civili e imprigionata sino a che non la si manderà altrove, i giudici alzino la mano in segno di assenso. (Tutti alzano la mano, meno tre) J.W.: Mrs. Hutchinson, il verdetto della Corte che ora udite ordina che siate bandita dal nostro territorio in quanto siete persona non idonea a far parte della nostra società, e che veniate trattenuta in carcere sino a che non sarete mandata altrove. A.H.: Desidero sapere dove vengo confinata. J.W.: Basta, non avete diritto di parola! [In I. Vivan, Caccia alle streghe nell'America puritana, pp. 279-88.] 8. La morale dei gesuiti.
a) Venne a farmi visita N., nostro vecchio amico, e capitò proprio a proposito per la mia curiosità, perché è informatissimo delle questioni di attualità, e conosce perfettamente le manovre dei gesuiti, con i quali, e con i principali dei quali, bazzica sempre. Sono venuto a sapere, in poche parole, che la divergenza, per quanto riguarda la grazia sufficiente, sta in ciò: che i gesuiti sostengono che ci sia una grazia data generalmente a tutti gli uomini, sottomessa al libero arbitrio in modo tale che esso può renderla efficace o inefficace a sua scelta, senza alcun nuovo aiuto da parte di Dio, e perciò la chiamano sufficiente, perché essa sola basta per agire; i giansenisti, al contrario, vogliono che non ci sia alcuna grazia sufficiente in atto la quale non sia anche efficace. Informandomi poi della dottrina dei nuovi tornisti: "È strano," mi disse
304 "essi sono d'accordo con i gesuiti nell'ammettere una grazia sufficiente data a tutti gli uomini, ma sostengono altresì che gli uomini non agiscono mai con questa sola grazia, ma occorre che Dio dia loro anche una grazia efficace che determina realmente la loro volontà". "Come mai dunque," gli chiesi "i gesuiti si sono uniti a loro? Perché non li combattono alla pari dei giansenisti?" "I domenicani sono troppo potenti," rispose "e la Compagnia di Gesù è troppo politica per urtarli apertamente." [B. Pascal, l s provinciales, Lettera) b) Seguendo il suo consiglio, andai a trovare un buon casuista della Compagnia, e dopo aver discorso un po' del più e del meno, presi l'occasione del tempo di quaresima in cui siamo per chiedergli qualcosa sul digiuno. Gli confessai che facevo fatica a sopportarlo. Egli mi esortò a farmi violenza, ma siccome continuavo a lagnarmi, si commosse, e alla fine gli venne in mente di chiedermi se non facevo fatica a dormire senza cenare. "Sì," gli dissi "padre: e ciò mi obbliga spesso a far colazione a mezzogiorno e a cenare la sera." "Sono proprio contento," rispose "di aver trovato questo mezzo di liberarvi senza peccato: via, non siete affatto obbligato a digiunare. Non voglio che mi crediate sulla parola: venite in biblioteca." Vi andai; e là, prendendo in mano un libro, mi disse: "Eccone la prova, e Dio sa quale! È Escobar". Poi, dopo aver cercato il passo relativo al digiuno: "Eccolo" disse. "Colui che non può dormire se non ha cenato, non è obbligato a digiunare". "È proprio un brav'uomo questo Escobar" gli dissi. "Tutti lo amano," rispose il padre "fa delle così belle questioni! Guardate questa, nello stesso punto: Se un uomo crede di non aver ancora ventun anni è obbligato a digiunare? No. Ma se compio i vent'anni questa notte, all'una, e domani è giorno di digiuno, domani sarò obbligato a digiunare? No, perciò potrete mangiare quanto vi piacerà da mezzanotte all'una, perché non avrete ancora ventun anni." "Come è divertente!" gli dissi. Il buon padre, vedendo che mi ci divertivo, fu tutto contento e continuò: "Colui che si è stancato in qualche cosa, come a correr dietro a una ragazza, (ad insequendam amicam), è obbligato a digiunare? No. Ma se si è stancato apposta per essere in tal modo dispensato dal digiuno, vi sarà obbligato? Anche se l'ha fatto con questo proposito, non vi sarà obbligato. L'avreste creduto?" mi chiese. "In verità, padre," gli risposi "stento ancora a crederlo. Ma come! Non è
305 peccato il non digiunare quando lo si può? È permesso il ricercare le occasioni di peccare, o non si è piuttosto obbligati a fuggirle? Sarebbe molto comodo." "No, non sempre. Secondo" disse. La difficile lotta contro l'oscurantismo Secondo che cosa?" chiesi. "Ma insomma" ribattè il padre "e se si ricevesse qualche danno dallo sfuggire le occasioni, secondo voi vi si sarebbe obbligati? Per lo meno non secondo il padre Bauny; ecco, p. 1084: Non si deve rifiutare l'assoluzione a coloro che restano in occasioni prossime di peccato se non sono in situazione tale che non possano abbandonarle senza dare alla gente motivi di chiacchiere." "Veramente," osservai "mi sembra di sognare, quando sento dei religiosi parlare in questo modo!" [B. Pascal, Jésuites. Sur la morale et ta politique de ces pères.] 9. Difesa della contemplazione quietista.
Per sapere quando Dio toglie l'anima allo stato della meditazione e lo pone in quello della contemplazione, e per non abbandonare la meditazione anzitempo, e così non ci si trattenga in essa più del necessario, non dobbiamo aspettarci che Dio lo riveli e faccia un miracolo, stando a vedere se venga l'angelo ad avvertirci. Bastano i segnali, gli indizi e gli effetti che l'anima sperimenta per conoscere con sicurezza questa divina vocazione. I segnali che la maggior parte dei santi e dei maestri insegnano per riconoscere quando Dio desidera che l'anima abbandoni la meditazione per passare all'orazione di quiete sono: prima, non aver gusto e sugo di devozione nel meditare ma anzi provare difficoltà, tedio e ripugnanza ... La seconda è quando si vede che non si ha nessun desiderio di porre l'immaginazione o il sentimento in altre cose particolari. La terza è se l'anima prova gusto a starsene sola con amorosa attenzione a Dio, in pace interiore, quiete e riposo, senza atti né esercizi delle potenze: memoria, intendimento, volontà. Affinchè si giudichi pienamente di questa sicura verità, si vedrà ora l'errore degli illuminati (alumbrados), il loro ozio, la loro sospensione e quiete. I settari di questa setta condannata dicevano di dover rimanere oziosi senza far nessuna orazione, né alta né bassa, standosene come un mero, ozioso strumento che si lasci maneggiare dall'artefice, perché dicevano che qualsiasi loro opera o azione era un ostacolare Dio. Così eliminavano ogni virtù o azione, da non voler rendere lodi o grazia a Dio, da non conoscere né volere né amare né pregare né desiderare, pensando che tutto ciò che potessero
306 desiderare o chiedere già l'avessero. Inoltre, secondo il loro intendimento e giudizio, sovrastavano a tutte le virtù giungendo a uno stato di ozio puro. Questo stato ozioso dicevano più difficile ad acquistare delle altre virtù e così volevano godere già in esso la libertà senza ubbidire a nessuno, né a prelato né a vescovo né al Papa né a nessun altro. Dicevano altresì che mentre l'anima si dava all'esercizio delle virtù, non poteva peccare avendo consegnato lo spirito a Dio. Da quest'ozio e dal non poter più peccare deducevano anche che tutto ciò che il gusto e l'appetito carnale volessero fosse lecito, per lascivo e turpe che fosse, se resistendo si turbava l'ozio e la quiete, e così al loro impuro e carnale appetito concedevano tutto ciò che desiderasse, affinchè il riposo e l'ozio non soffrissero la minima inquietudine. Col che si vede chiaramente quanto diverso sia quell'ozio degli illurti dall'orazione di quiete e di contemplazione che i santi e i mistici inseguono. Tutto lo scopo degli illuminati è di procurare il diletto dell'appetito naie, restando in un ozio, in una quiete vana, sensuale e diabolica. O demenza e dissennatezza! La gran differenza che corre fra l'uno e l'altro ozio si scopre a sufficienza: quello era ozio e riposo della carne, impuro e sensuale, un cercare il proprio gusto e se stessi e nient'affatto Dio. Ma quell'altro, proprio dei mistici e dei santi, è una spirituale quiete con culi l'anima attende a Dio adorandolo, credendolo e sperandolo. [M. de Molinos, Defensa de la contemplación, in "Conoscenza religiosa", pp. 275,' 281-282.1
307 IX. IL MITO ILLUMINISTA DI UNA RELIGIONE RAZIONALE (SEC. XVII-XVIII).
...e l'uomo creò Dio a sua immagine.
Furono certamente le sconvolgenti scoperte astronomiche dei copernicani che, rivelando le leggi regolatrici del cosmo, facevano nascere dubbi sul mito cristiano di un continuo intervento soprannaturale nella vita del mondo, e fu l'avviamento a una conoscenza scientifica della natura e dell'uomo, iniziato dagli umanisti e codificato da Bacone, a favorire, già fino dalla metà del secolo XVII, un atteggiamento scettico, da parte di alcuni pensatori, nei riguardi della religione cristiana e della sua morale. Vi fu persino chi, come Pierre Gassendi, prevosto a Digne, poi professore all'Università di Aix e al Collegio di Parigi, riscoprì, attraverso la lettura del De Rerum Natura di Lucrezio, la concezione del mondo come continuo associarsi e dissociarsi di atomi in eterno movimento nello spazio senza confini, e rilanciò il conseguente epicureismo, come fondamento di una moralità naturale, tendente alla soddisfazione dei bisogni necessari per mantenere l'equilibrio degli atomi componenti il corpo umano. Su questa via si pose anche Chapelle (pseudonimo dello studioso Claude Luillier) che cercò di conciliare l'epicureismo greco con le esigenze dei tempi moderni. Più generico, Fran ois de La Mothe le Vayer, istruttore di Luigi XIV, poi consigliere di Stato, celebrò la superiorità delle virtù pagane su quelle cristiane. Gassendi, Chapelle, de La Mothe sono tra i maggiori rappresentanti degli esprits forts, come essi stessi si definirono, ossia Liberi pensatori o libertini, come altri li battezzarono. Di qui l'identificazione - da parte dei loro detrattori ecclesiastici, sempre pronti alle insinuazioni calunniose - di "libertinismo" con "libertinaggio". A questi primi accenni a una critica razionale della religione, si aggiunse in quegli stessi anni il grande contributo dato al razionalismo dal filosofo e scienziato Cartesio (René Descartes), soprattutto col Discours de la méthode, un ammonimento ad accettare soltanto i concetti ai quali corrisponda una realtà oggettiva verificabile. Per quanto riguarda la religione, Cartesio definiva Dio una "idea innata":
308 l'idea della perfezione assoluta, dell'onnipotenza e dell'onniscienza, che è connaturale all'uomo come alterità alla propria imperfezione e limitatezza. Secondo Cartesio, l'idea di Dio è l'unica non verificabile, tuttavia le corrisponde ugualmente una realtà oggettiva: cioè Dio esiste davvero. Non tutti i Liberi pensatori si accontentarono di accettare questa eccezione unica, ma vollero verificare anche come l'idea di Dio e della legge morale sia nata e si sia formata nell'uomo. Il vero salto di qualità, inteso a dare anche al problema religioso una spiegazione razionale, non fu però compiuto in Francia, ancora soffocata da pregiudizi cattolici (lo stesso Gassendi, pur ammettendo la concezione democritea dell'universo, pensava che gli atomi fossero stati creati da Dio), ma in Inghilterra, in Olanda e in Svizzera, tre paesi calvinisti. Non è però più accettabile la tesi, enunciata al principio del nostro secolo da Max Weber, che sia stato il calvinismo la molla del progresso moderno: esso rappresentò, è vero, la sovrastruttura ideologica della nascente borghesia e quindi un motivo propulsore, ma non va trascurata la riserva, avanzata più di recente (intorno al 1960) da Devor-Roper, che non i calvinisti ortodossi, bensì quelli dissidenti, e cioè i Liberi pensatori, i razionalisti atei, furono i creatori del moderno pensiero. Questa fu l'origine di quel movimento che più tardi i suoi stessi rappresentanti chiameranno illuminismo: per essi, inizio gioioso di una nuova era di libertà dello spirito; per i conservatori un'esecrabile incarnazione dell'immoralità corrosiva. L'illuminismo, che Immanuel Kant definirà: "L'uscita dell'uomo dalla sua colpevole minorità, cioè incapacità di servirsi della propria ragione senza la guida di un altro", diventò un atteggiamento determinante della vita, sia di fronte ai problemi religiosi e morali sia a quelli di convivenza politica e sociale. Ma la lotta per illuminare gli uomini e far trionfare la ragione e il buon senso fu lunga e difficile, né vennero dissipate del tutto le tenebre dell'oscurantismo, dovute all'ignoranza delle masse e alla volontà delle classi dominanti e della Chiesa di tenerle in tale stato. Già nel 1667, al filosofo inglese Thomas Hobbes, un bill della camera dei fi mito femuminista di una religione razionale omuni proibì di continuare a scrivere, per le concezioni ateistiche espresse nel Leviathan: gli uomini, curiosi di indagare le cause della
309 loro buona o cattiva fortuna, tormentati dalla preoccupazione per il futuro, dalla paura della morte e di ogni altra sciagura, ma incapaci a darsi una risposta a causa della loro ignoranza, si immaginano esseri superiori dotati di poteri invisibili. La religione quindi non nasce da una ricerca razionale, ma è frutto fantasioso dell'inquietudine e dell'ignoranza. Una decina di anni dopo, Baruch Spinoza, nato ad Amsterdam da una famiglia di ebrei profuga dal Portogallo per sfuggire alla persecuzione antisemitica, già cacciato dalla sinagoga ed espulso dal "popolo di Israele", si meritava anche negli ambienti cristiani la fama di uomo empio e maledetto, per aver svolto più compiutamente l'intuizione di Hobbes, nel trattato, in latino, Ethica ordine geometrico demonstrata: il Dio dell'Antico e Nuovo Testamento non è altro che la rappresentazione antropomorfica dell'unica realtà infinita, l'essenza divina della natura, che è natura naturans, cioè principio e ragione di tutti i mutevoli aspetti dell'universo, e nello stesso tempo è natura naturata nella molteplicità delle cose esistenti. Dio è pertanto un principio impersonale, non una realtà oggettiva, ed è un pregiudizio degli uomini credere che questa entità astratta diriga le cose a un determinato fine e che le si debbano rivolgere preghiere e prestare culto. Nell'ultimo decennio del secolo XVII il discorso sulla religione fu riaperto dall'Essai/ Concerning Human Understanding (1690) e poi da On the Reasonableness of Christianity (1695) di John Locke, il quale polemizzava sia contro l'innatismo cartesiano dell'idea di Dio e dei principi morali, sia contro l'opinione di Hobbes che essa sia il riflesso della paura e dell'ignoranza. Anche l'idea di Dio e i concetti morali - è il parere di Locke - derivano da una "riflessione" basata sull'esperienza, e non sono uniformi e generali per tutta l'umanità ma variano secondo il grado di cultura e secondo i luoghi. Quanto al cristianesimo, esso è stato l'insegnamento di una legge morale accessibile alla nostra ragione e al nostro buon senso comune, e il valore della "rivelazione" consiste nel fatto che Gesù ha usato una forma di persuasione immediata, adatta anche alle persone illetterate. Se nemmeno grandi filosofi come Cartesio, Hobbes, Spinoza, Locke, riuscivano a liberarsi dal pregiudizio che l'idea di Dio, o innata o panteísticamente immanente nella natura o derivata per riflessione razionale, fosse spontanea nell'uomo, e che la religione fosse indispensabile quale guida morale, fu col calvinista francese Pierre Bayle che si giunse a una
310 vera critica materialista e antropologica, immune da ogni preconcetto teologico. Già nel 1682, con i suoi Pensées sur la comète de 1680, pubblicati in Olanda, e poi continuati nel 1704, l'autore dimostrava l'assurdità di credere che i fenomeni atmosferici, come la recente apparizione di una cometa, abbiano influenza sulle vicende umane, e da questo prendeva spunto per insinuare il dubbio che la religione sia stata un prodotto artificioso di governatori e legislatori allo scopo di tenere le popolazioni nel timore e nella soggezione. [Vedi Documenti n. 1.] Poi, nel 1697, la critica di Pierre Bayle si faceva ancora più acuta nel Dictionnaire historique et critique, osservando come l'esistenza di popoli atei, confermata dalle testimonianze di viaggiatori, escluda sia l'innatismo di un'idea di Dio, sia la necessità di un consenso universale della ragione umana, e che, quand'anche si ammettesse l'esigenza razionale di una religione, questa non dovrebbe affatto coincidere con quella tradizionale, che si basa sul meraviglioso, sul miracoloso, sul soprannaturale. A chi dice che la religione è un fatto "naturale" per l'umanità si può obiettare che proprio ciò ne dimostra la dannosità, poiché la natura umana produce solo passioni viziose. Da questo fermento di studi prese le mosse l'attività dei freethinkers, i Liberi pensatori inglesi: attività definita poi deismo, perché, pur sempre postulando l'esistenza di un Essere Supremo, ordinatore e legislatore del mondo, si riprometteva di costituire le fondamenta di una fede basata su principi chiaramente convincenti e accettabili dal consenso di tutti gli uomini ragionevoli, individuando, per intanto, quanto nella rivelazione cristiana fosse razionale e quanto invece frutto di superstizione o introdotto dai detentori del potere sacerdotale per altri motivi. Proprio un anno dopo la pubblicazione di On the Reasonableness of Christianity di Locke, nel 1696, destò scalpore e sollevò scandalo negli ambienti religiosi il Christianity not Mysterious di John Toland, un cattolico irlandese convertito al protestantesimo ed ex studente di teologia all'Università di Leida, che per le tesi eretiche sostenute nei suoi scritti verrà cacciato dal proprio paese. Toland non accetta la concezione lockiana che la "rivelazione" abbia un'evidenza dimostrativa sufficiente per le persone illetterate: a nessuno possono essere imposte idee "rivelate" e preconcepite da altri; anche l'idea di Dio e i principi morali devono sottostare al processo di verifica e rispondere
311 ai criteri di chiarezza e di evidenza come tutte le altre conoscenze. Il contenuto della rivelazione va dunque inteso solo come "mezzo d'informazione", la cui validità è pari a quella di ogni altra razionale testimonianza storica: "Non l'autorità di colui che parla, ma il chiaro concetto che io mi formo di quanto dice, è il fondamento della mia persuasione". Su questa base, Toland sfronda le Scritture del loro contenuto "misterioso", e quindi non razionale, denunciandolo come un voluto inganno da parte dei sacerdoti. [Vedi Documenti n. 2.] Qualche anno più tardi, nel 1704, Toland, nelle Letters to Serena, affronterà l'analisi del sentimento religioso e delle sue origini: è il primo ad affermarne il carattere di superstizione, nata dall'ignoranza degli uomini primitivi che attribuivano poteri soprannaturali ai fenomeni atmosferici e agli astri, divinizzavano re, legislatori, eroi, e dall'abile sfruttamento che di tali pregiudizi fece la casta sacerdotale. Toland conclude indicando la necessità di un'operazione critica da parte dell'uomo che lo porti a una presa di coscienza autonoma e razionale. Anthony Collins, amico di Locke e di Toland, membro di una Società di Liberi pensatori che usavano riunirsi in un caffè londinese, si incaricò di difendere le opinioni dei due amici, aprendo una polemica con il teologo anglicano Samuel Clarke, il quale li aveva confutati proponendo una forma conciliante di "razionalismo etico": è vero che l'esistenza di Dio dev'essere verificata dalla ragione, ma ciò è possibile se la si deduce a priori dall'idea di un Essere eterno, di cui già la scoperta newtoniana ci permette di conoscere gli attributi: l'infinità dello spazio e del tempo. La polemica tra Collins e Clarke sconfinò poi sul problema dell'immortalità dell'anima. Dopo che Collins ebbe pubblicati, nel 1707, gli opuscoli contenenti la discussione avuta con Clarke, intervennero altri teologi anglicani, alcuni dei quali, facendo anch'essi qualche concessione ai razionalisti, finirono col cadere nell'eresia. Così avvenne al vescovo di Killala (in Irlanda), Robert Clayton, il cui Essay on Spirit divenne oggetto di controversia perché tentava di esaminare alla luce della ragione il dogma della Trinità. Così fu per il pastore anglicano Thomas Woolston, il quale scrisse un certo numero di discorsi, stampati poi nel 1729, per dimostrare che i miracoli attribuiti a Gesù non sono razionalmente accettabili, in quanto violazione dell'armonia universale e delle leggi naturali stabilite da Dio fin dalla creazione. Rientra invece decisamente nel novero dei Liberi pensatori il filosofo
312 Anthony Ashley Cooper, conte di Shaftesbury, titolo sotto cui pubblicò le proprie opere. Già nel 1711 egli raccolse in tre volumi miscellanei vari suoi opuscoli di carattere deista. In essi Shaftesbury controbatte l'opinione dei tradizionalisti secondo cui l'affermarsi di una morale "razionale" al di fuori del timore religioso implicherebbe il decadimento stesso della morale: esiste nell'uomo un senso morale spontaneo che va coltivato con l'educazione all'amore del bello, del vero e del bene, e la valutazione del giusto e dell'ingiusto; la riflessione razionale gli chiarirà quindi il valore della sua scelta. Due anni dopo, Collins pubblicava un Discourse of Freethinking, che è considerato la Magna charta dei Liberi pensatori. Il Discorso comincia con una chiara definizione: "Per libero pensiero intendo l'uso dell'intelletto nella ricerca del significato di qualsiasi proposizione, nella considerazione dell'evidenza o meno di essa, e nella formulazione di un giudizio in base a tale evidenza". Importante è anche la tesi di Collins che l'uso del libero pensiero non è solo un'applicazione meccanica delle facoltà intellettive individuali ma un'attività che si acquisisce attraverso la cultura, in ogni campo del sapere, ed è un patrimonio non solo dei singoli ma di tutta la società. Più propriamente sul problema del cristianesimo, Anthony Collins tornerà nel 1724 con A Discourse of the Grounds and Reasons of the Christian Religion, un esame critico delle dipendenze del cristianesimo dal giudaismo, che vuol dimostrare quanto sia fallace la pretesa della religione cristiana di fondarsi sulla tradizione dell'Antico Testamento, destinata a un popolo e a un ambiente diverso, e quanto siano arbitrarie le interpretazioni allegoriche dei teologi nello sforzo di "cristianizzare" tale tradizione. Ma la vera "bibbia dei deisti", come fu definita qualche anno dopo, è l'opera Christianity as Old as the Creation, pubblicata a Londra nel 1730, di Matthew Tindal, membro dell'Ali Souls College, annesso all'Università di Oxford, già autore di alcuni scritti politici e anticlericali. L'opera, meglio di ogni altro precedente studio, separa nettamente la "rivelazione" dalla "religione naturale", una religione fondata sulle leggi di natura, alla quale la rivelazione cristiana non ha aggiunto nulla di nuovo: "Come Dio ha sempre fatto conoscere agli uomini, mediante i loro sensi, ciò che è utile o dannoso alla salute fisica, così Egli ha concesso loro, in ogni epoca, mediante la luce dell'intelletto, di capire quanto occorre per il bene delle loro anime",
313 quindi la rivelazione del Vangelo è stata di per se stessa superflua, e comunque ha ripetuto nei suoi principi fondamentali la religione naturale; tutto il resto, dogmi, forme di culto, superstizioni, sono aggiunte inutili. La scelta di ciò che nel Vangelo è valido e di ciò che è superfluo può avvenire soltanto attraverso un criterio di verifica, ossia un confronto con la legge naturale. Il discorso si allargava dal cristianesimo alle altre religioni. Una operetta, che era rimasta a lungo anonima, cominciò a circolare col titolo Traité des trois imposteurs e fece molto scandalo in quanto metteva su di uno stesso piano, come "impostori", Mosè, Gesù e Maometto, fondatori di tre religioni "rivelate", altrettanto dirette a inculcare pregiudizi e superstizioni nelle masse ignoranti, a tutto beneficio delle caste sacerdotali e dei detentori del potere politico. [Vedi Documenti n. 3.] Tutta questa attività critica minacciava di stagnare in un'inutile polemica, se non fosse intervenuto il genio speculativo di David Hume, che elaborò in modo definitivo il meccanismo del pensiero umano, svegliando i filosofi - come dirà Kant - dal "sonno dogmatico" e spiegando in termini convincenti anche l'origine del sentimento religioso, che pertanto cessava di essere oggetto di critica demolitrice, per diventare un problema antropologico e psicologico. Nel suo -Treatise on Human Nature, il filosofo scozzese, dopo essersi occupato della gnoseologia, affermando che alla base della conoscenza stanno le impressioni naturali (per esempio la sensazione di un dolore fisico, una reazione di collera), di cui le idee sono un riflesso, che si forma in seguito a rapporti associativi con altre impressioni (la somiglianza, la causa, gli effetti), nel secondo libro analizzava la dipendenza dei concetti razionali dalle impressioni stesse (per cui anche l'idea di Dio è effetto di impressioni di paure e di ansietà per il futuro), e concludeva nel terzo libro, fondando tutta la vita morale sul sentimento della "simpatia". Ma è soprattutto in The Natural History of Religion, del 1757, che David Hume riprende e sviluppa il tema della religione. Rifacendosi a Hobbes, egli sostiene che la matrice del sentimento religioso è l'ignoranza e la paura; ma a differenza di Hobbes, che parlava di timore per la carenza di cose necessarie, l'antropologia di Hume si fonda piuttosto sull'ansia che nasce nell'uomo per l'incapacità di comprendere e di dominare "i vari e contraddittori eventi della vita", come la nascita, la morte, le malattie. Di qui l'autore deriva la convinzione
314 che, all'origine, tutte le religioni abbiano avuto una forma politeistica, come divinizzazione di fenomeni naturali, e che all'idea di un unico essere onnipotente si è arrivati in seguito, come conseguenza di una cultura più evoluta: ma anche questa è pur sempre una superstizione, che dimostra come la ragione umana non abbia ancora raggiunto la propria autonomia. [Vedi Documenti n. 4.] Umanitarismo e religione.
La stringente analisi dei deisti e razionalisti inglesi sull'origine e sulla natura del sentimento religioso non sfociò necessariamente nell'ateismo. La rivelazione non era rinnegata ma considerata come ogni altro insegnamento un mezzo d'informazione, che doveva i sere chiaro e razionalmente attendibile. Perciò, purificando il cristianesimo dagli inganni di una teologia mirante a perpetuare l'ignoranza e la soggezione delle masse, si voleva inserirlo nel contesto di un'etica universale, che esaltasse gli ideali più nobili dell'animo!] umano. In fondo, la ricerca di una religione liberatrice, fuori dell'assolutismo delle Chiese ufficiali, era sempre stata la prospettiva dei moti dissidenti, sia cattolici sia protestanti, e continuò a esserlo anche nel Settecento. Talvolta influì su di essi il nascente sentimento laico dell'umanitarismo, e la critica dei deisti all'acquiescenza delle masse stimolò * un risveglio di religiosità più intima e profonda, e portò addirittura : a scavalcare il cristianesimo per un ritorno al suo ceppo originario, l'ebraismo. Nel mondo cattolico, soprattutto in Spagna, dove l'opprimente peso della Chiesa era esercitato in modo capillare attraverso più di tremila conventi, con ottantacinquemila frati e monache, sessantaseimila ecclesiastici, venticinquemila tra accoliti e sacrestani, il risveglio del giudaismo fu anche una forma di ribellione, da parte degli ebrei, forzatamente convertiti al cattolicesimo, perché era anche un mezzo per conservare la propria identità etnica in un mondo ostile e straniero. Con un capzioso ragionamento, essendo ormai essi di fatto "cattolici", sebbene contro la loro volontà e senza convinzione, il loro ritorno alla religione dei padri fu considerato un e perseguitato come tale.
315 Nella prima metà del Settecento anche in Polonia fu scoperta una setta di giudaizzanti, fondata da un certo Jacob Frank, e un'altra in Bulgaria, detta dei subbotniki o sabbatisti, per il loro ripristino del sabato quale giorno del Signore; e persino a Montpellier, dove nel 1723 furono sorprese una quindicina di persone che, riunite nell'abitazione di certa Annie Robert, stavano celebrando davanti a un tabernacolo, secondo il rito giudaico, e predicando l'attesa del Messia. Nel processo essi furono definiti col nome di "giudaizzanti manichei" e si mosse loro persino l'accusa che a Pasqua avrebbero usato praticare il sacrificio rituale di un bambino. Queste sette avevano un dichiarato contenuto messianico sociale, che saldava l'antica attesa degli ebrei, prima di Cristo, con le attese dei nuovi tempi. Chiaramente ispirato alla visione illuministica di un fondamento comune di tutte le confessioni religiose, e rivolto pertanto a intenti ecumenici e comunitari, fu il conte Nikolaus Ludwig Zinzendorf, proveniente da nobile famiglia austriaca, che, rimasto orfano in te- Il mito illuminista di una religione razionale era età, era stato allevato dalla nonna pietista e poi affidato al collegio di Halle, fondato dal pietista Francke. Nel 1723, Zinzendorf ospitò nelle campagne della propria contea, a Bethelsdorf, un gruppo di hussiti esuli dalla Boemia e con essi formò la comunità dei Fratelli moravi. I suoi principi erano veramente rivoluzionari: abolì la servitù, instaurando una vita in comune, in cui tutte le distinzioni sociali erano soppresse e tutti obbligati a lavorare e a "mangiare il proprio pane", salvo i vecchi e gli invalidi, ai quali provvedeva la comunità. Sperando di evitare il rischio che i Fratelli moravi venissero perseguitati, con l'accusa di scismatismo, nel 1734 Zinzendorf si fece nominare pastore luterano e poi vescovo della propria comunità. Ma non sfuggì ugualmente all'ostilità dei luterani ortodossi e degli stessi pietisti, e nel 1736 fu messo al bando dalla Sassonia. Allora il suo zelo si rivolse a una intensa attività missionaria in terra straniera, e fondò colonie nelle isole danesi, in Groenlandia e quindi nell'America settentrionale. Qui, in un ambiente composito, formato da dissidenti di diverse confessioni religiose, sfuggiti alle persecuzioni della madrepatria già avvezzi al pluralismo delle idee e già avviati verso ideali di libertà e di indipendenza politica, che si concretizzeranno nella rivoluzione del 1773 - i movimenti comunitari trovarono un terreno assai
316 favorevole. Sorsero molte nuove sette, in gran parte legate spiritualmente al pietismo, ma con un più forte accento di riscatto sociale, come quella di Johann Kelpius, immigrato olandese, vicino a Filadelfia, nella Pennsylvania, i cui membri praticavano il comunismo dei beni e vivevano dello sfruttamento agricolo della terra, e come continuazione di essa - la comunità di Ephrata, dell'ex pietista tedesco Johann Conrad Beissel. Ma il movimento più vasto e più durevole di umanitarismo sarà il metodismo, sorto anch'esso nel 1738 nel fermento del Nordamerica, per opera dei fratelli John e Charles Wesley. Educati in un collegio pietista, essi si sentirono, ancora giovanissimi, chiamati a un'attività missionaria per l'elevazione spirituale e sociale delle masse lavoratrici e il riscatto dall'ignoranza e dall'abbrutimento a cui le condannava lo sfruttamento della nascente società industriale. Il nome "metodismo" derivava dall'appellativo scherzoso con cui i compagni di collegio dei due fratelli Wesley avevano definito la regolarità metodica con cui essi si applicavano a pratiche di devozione. Inizialmente con una coloritura di profetismo, i metodisti erano avversi ai mistici, che consideravano i nemici più pericolosi del vero cristianesimo, con la loro "religione malinconica che ordina di credere al di là di ciò che si può vedere". John, in particolare, fu instancabile nella sua attività. Visse fino a ottantotto anni di età, senza mai cessare di scrivere, di fondare scuole e gruppi di fedeli. Pronunciò quarantamila sermoni, predicando "il trionfo della ragione sulla materia", soprattutto fra la gente del popolo, nei distretti minerali, evangelizzando i negri della Georgia e gli indiani delle riserve, ma sempre rispettoso della libertà di coscienza. "Entrambi" lasciò scritto in un suo sermone "dobbiamo agire secondo come siamo assolutamente convinti. Io, per esempio, penso di non dover proibire il battesimo e di dover mangiare il pane e bere il vino a ricordo del mio maestro morto, ma se tu non sei persuaso di questo, agisci secondo la luce che è in te. Non voglio aver contrasti con nessuno." Una trasfigurazione dello sforzo illuministico di dare vita a una religione universale fondata sulla ragione, fu invece, in Europa, il tentativo di raggiungere lo stesso fine attraverso l'esoterismo alchemico e teosofico. Se, in origine, e specie durante il Rinascimento, l'alchimia era stata piuttosto di carattere scientifico e pratico (ricerca
317 della pietra filosofale, capace di nobilitare i metalli trasformandoli in oro, ricerca dell'elisir di lunga vita) ora divenne soprattutto spirituale: una via d'intuizione dell'essenza di Dio nella perfezione della materia, del mondo celeste con la scoperta delle virtù angeliche preposte al moto degli astri, fino a trovare le leggi della concordia universale e della apocatastasi (il giorno finale di tutti gli esseri creati al primitivo stato di innocenza), la riconquista del paradiso perduto. Una delle opere classiche dell'ermetismo alchemico, che mezzo secolo più tardi sarà testo fondamentale per la preparazione di Wolfgang Goethe all'occultismo, fu l'Opus mago-cabbalisticum et theosophicum dell'erudito tedesco Georg von Welling, pubblicato nel 1735. L'autore conosce la cabbala e il linguaggio alchimistico, la negromanzia e la teurgia, spiega la composizione del mondo come un continuo campo di battaglia tra spiriti angelici e demoni. Qualche anno dopo il medico tedesco Franz Mesmer ebbe grande rinomanza, soprattutto a Parigi, per la scoperta di un magnetismo che secondo lui esisterebbe in tutti gli esseri animati, nei metalli, e anche nei corpi celesti. A Parigi aprì uno studio medico molto frequentato per la guarigione delle malattie nervose per mezzo del fluido magnetico. Tale fluido aveva naturalmente per Mesmer il significato di un'essenza divina che legava il mondo celeste con quello terrestre. Ma il più celebre di tutti i teosofi del Settecento fu lo svedese Emanuel Swedenborg. Noto scienziato, autore di studi di tecnica mineraria e di fisica, dopo una serie di visioni e di esperienze paranormali cui era andato soggetto intorno al 1745, abbandonò la propria attività scientifica per dedicarsi ad annotare le sue esperienze e a ricavarne interpretazioni religiose. Nella sua prima opera, De cultu et amore Dei, Swedenborg afferma di aver attinto in stato di trance la conoscenza della lotta tra gli angeli e i demoni che popolano l'universo, influendo a vicenda sull'animo umano. L'uomo - dice Swedenborg - deve respingere le tentazioni dei demoni, affidandosi agli angeli buoni; la stessa vita e morte di Gesù sono state un esempio di questa lotta e della vittoria finale delle forze del bene. Swedenborg, tuttavia, non volle mai staccarsi ufficialmente dalla Chiesa luterana. Saranno poi alcuni suoi discepoli e ammiratori a fondare una Chiesa separata, la Nuova Gerusalemme, che è tuttora
318 fiorente negli Stati Uniti in Inghilterra e in Germania. Nel 1766, in una delle sue primissime opere, Traume eines Geistersehers (I sogni di un visionario), Kant confuterà Swedenborg, facendo notare la pericolosità di tentare una soluzione del problema religioso con simili fantasticherie da allucinati. L'illuminismo in Europa.
Dall'Inghilterra il razionalismo dei filosofi e dei deisti passò in Francia, e di lì poi si diffuse in tutto il continente, sotto il nome comune di illuminismo. Ma mentre in Inghilterra un relativo regime di tolleranza aveva permesso al nuovo pensiero uno sviluppo equilibrato (e altrettanto avverrà nella Germania luterana), in Francia, per impaziente anelito alla mancante libertà, l'illuminismo prese un carattere disgregatore e rivoluzionario. Gli inglesi avevano avuto modo di verificare le loro dottrine politiche, sociali e religiose nella pratica quotidiana; gli illuministi francesi furono invece letterati e filosofi immersi nelle proprie teorie, senza possibilità di sperimentarle, spesso costretti a celarsi sotto l'anonimato o a mimetizzarsi in un finto conformismo. Così fece un anticipatore degli illuministi francesi, il curato Jean Meslier, vissuto oscuramente in un piccolo villaggio e morto nel 1729, lasciando ai posteri, ancora inedito, un violento attacco (pubblicato soltanto di recente, nel 1972) contro ogni specie di religione, in quanto supporto della tirannia politica e delle ingiustizie Così il primo dei philosophes, Charles de Montesquieu, che pubblicò anonima ad Amsterdam nel 1721 una delle opere più corrosive i quei tempi per vivezza satirica, le Lettres persanes: un romanzo epistolare in cui l'autore immagina che due persiani, Usbek e Rica, stabilitisi a Parigi, scrivano agli amici le loro impressioni sul modo i vivere e di pensare dei parigini. Con il pretesto dello stupore dei due stranieri, Montesquieu affronta ironicamente i temi delle istituzioni! politiche, delle leggi, della religione; un argomento che riprenderà più tardi nel De l'esprit des lois, pubblicato anch'esso anonimo a Ginevra nel 1748, e messo all'Indice tre anni dopo, con una motivazione in cui tra l'altro si dice: "Da una valutazione della religione unicamente come fenomeno sociale, il che, invece di ben condurci per le;
319 vie del vero, gonfia le menti umane di quell'orgoglio da cui l'apostolo delle genti san Paolo tanto raccomandò ai cristiani di cautelamente guardarsi". Si celò invece sotto pseudonimo Fran ois Marie Arouet, firmandosi Voltaire, che è un anagramma di Arovet l(e) j(eune), già noto nel 1726 per alcuni libelli contro il reggente Filippo d'Orléans e un poemetto celebrativo degli ugonotti, a causa dei quali fu due volte rinchiuso nella Bastiglia e infine costretto a emigrare in Inghilterra, dove rimarrà fino al 1728: tre anni assai fecondi per la sua formazione culturale. Montesquieu, Voltaire, e gli altri philosophes francesi rischiarono condanne e scomuniche, perché si sentivano investiti di una missione sociale: riscattare il prossimo dalla schiavitù delle opinioni accettate passivamente per ignoranza e indolenza e dalla sottomissione ai poteri costituiti - Stato e Chiesa - per condurlo a una riforma radicale della società, basata sulla ragione. Ci si domanda che cosa li animò a questo impegno. Fu la convinzione che la nascente società borghese non poteva fondarsi se non sopra il consenso unanime circa le forme di convivenza civile, politica e morale, consenso che sarebbe stato possibile soltanto se tutti i cittadini fossero stati in grado di fare una scelta consapevole. Di qui la necessità di "illuminare" la gente con l'esame critico delle istituzioni e delle opinioni correnti. Il linguaggio caustico di Voltaire si esercitò soprattutto nel compito costante di écraser l'infame, schiacciare l'intolleranza e il fanatismo in campo religioso. E ne aveva sotto gli occhi esempi ben evidenti. Proprio un anno o due prima che apparissero le sue Lettres philosophiques o Lettres sur es Anglais (pubblicate in inglese nel 1733, in francese nel 1734), in cui si elogiava la tolleranza religiosa degli in- Il mito illuminista di una religione razionale lesi e si auspicava l'avvento di una religione dell'"umanità", al di sopra di ogni fanatismo, i giansenisti parigini avevano fatto parlare di sé accreditando l'isterismo collettivo di centinaia di persone che si dicevano miracolate sulla tomba del giansenista Fran ois Paris, sepolto da due o tre anni nel cimitero di Saint Médard. Si contavano oltre duecento guarigioni, e i "convulsionari di san Medardo" continuavano ad affollare il cimitero, urlando, chiedendo aiuto, cadendo in estasi. Essi resistevano persino alla polizia quando cercava di disperderli, sopportando le percosse date loro con spranghe di ferro. I giansenisti fomentavano questo fanatismo distribuendo opuscoli in
320 cui erano via via descritte le guarigioni miracolose compiute dal santo. Nel gennaio del 1732 il re stesso era dovuto intervenire, ordinando la chiusura del cimitero, e i giansenisti indignati avevano fatto appendere all'ingresso un epigramma che diceva: "De par le roi, défense a Dieu/ de faire miracles en ce lieu". Contro simili assurdità si batte Voltaire, specialmente nelle voci con cui collaborò alla famosa Encyclopédie, iniziata nel 1750 sotto la direzione di Denis Diderot e di Jean d'Alembert, che ne scrisse il Discorso preliminare. L'uscita del primo volume dell' Encyclopédie, che si proponeva di essere un dizionario generale delle scienze e delle arti e di metterle in discussione alla luce delle nuove idee progressiste, in una forma facile e divulgativa, sollevò subito indignazione e rabbia negli ambienti religiosi. Il primo collaboratore che venne colpito con la scomunica fu Jean Martin de Prades, appena addottoratosi in teologia con una tesi su Hobbes e Locke, approvata ed elogiata dalla Sorbona. Messo sotto inchiesta per la sua partecipazione ai lavori dell'Encyclopédie, la tesi che gli aveva procurato il titolo di dottore venne riesaminata e definita eretica in dieci punti, e il de Prades fu condannato con questa motivazione: "Figlio della perdizione, che ha tradito il suo Dio, la sua religione, la sua patria, che si è venduto agli operatori di iniquità e si è fatto loro strumento per propagandare e difendere il sacrilego sistema del deismo, con una tesi pubblica, sostenuta nella capitale del regno, al cospetto della prima e più celebre Università del mondo, la quale è inorridita di vedere nel proprio seno un tale mostro e si è affrettata a respingerlo con orrore". Dal 1750 collaborò ali' Encyclopédie anche Etienne Condillac, che portò agli estremi il "sensismo" degli illuministi, dapprima nel Essa sur l'origine des connaissances humaines (1746), sostenendo che le fonti della conoscenza sono la sensazione e la riflessione, la quale ultima è "l'operazione dell'anima", che organizza le idee secondo le leggi che regolano i rapporti delle cose nell'universo fisico. Poi esamina scientificamente l'origine del linguaggio e la sua evoluzione in base alle condizioni naturali (ambiente, razza) e poi a quelle sociali. Quindi, nel 1754, con maggior rigore, nel Traité des animaux, ammette come base della conoscenza la "sensazione": l'Io, dalla somma delle sensazioni (l'olfatto, il gusto, la vista, il tatto, l'udito), si forma un patrimonio di conoscenze, che la "memoria" rende stabili e definitive.
321 Tra gli altri collaboratori dell'Encyclopédie fu molto attivo anche Claude Adrien Helvétius, da giovane stimato appaltatore generale alla corte francese di Luigi XV, che alla voce Esprit, poi ripubblicata in volume col titolo De l'esprit (1758) ripete con Condillac che le fonti della conoscenza sono solamente i sensi, e che l'unico fine è la soddisfazione dei bisogni; ma vi aggiunge la considerazione che l'educazione e le leggi possono indirizzare gli interessi individuali a un interesse collettivo. Appena uscito il suo libro, per intervento dei gesuiti, esso viene condannato dal vescovo di Parigi, poi dal papa e dal parlamento, ed Helvétius è costretto a riparare all'estero. Ma sarebbe troppo lungo enumerare tutti gli enciclopedisti che furono colpiti da condanne e scomuniche con l'accusa di eresia e di ateismo. Accusa, in realtà, giustificata solo dal fatto che essi rifiutavano qualunque verità rivelata, se non fosse sottoposta al vaglio della ragione. Ma nessuno di loro rinnegò mai la credenza in un Essere Supremo, e nemmeno gli altri illuministi. Già nel 1748 Charles de Montesquieu dichiarava con evidente orgoglio: "Lavoro da venticinque anni a un libro di diciotto pagine che conterrà tutto ciò che sappiamo sulla metafisica e sulla teologia" e lo dedicava a Dio, sotto. il titolo Esprit des lois, con questa entusiastica espressione di gratitudine: "Dio immortale! Il genere umano è la vostra più degna opera. Amarlo, significa amare voi, e finendo la mia vita consacro a voi questo amore". Né l'anticlericalismo che nel 1764 ispirò Voltaire alla trattazione, nel Dictionnaire philosophique, in tono faceto e spregiudicato, di settantatré argomenti diversi (anima, bellezza, Dio, ebrei, fanatismo, gesuiti, guerra, inquisizione) lo allontanò dal riconoscere nell'insegnamento genuino di Gesù, prima che fosse deformato dalla teologia della Chiesa, la vera fonte di moralità che anche la ragione può totalmente accettare. [Vedi Documenti n. 5.] Il fervore di pensiero degli illuministi francesi produsse qualche frutto anche in Italia. Pietro Giannone fu scomunicato nel 1723 e costretto a fuggire a Vienna per aver dichiarato nella sua Istoria civile del Regno di Napoli che la Chiesa aveva sempre rappresentato una forza regressiva e oscurantista e predicato la necessità di ritornare alla purezza del cristianesimo dei tempi apostolici, si sfogò negli anni seguenti con libelli polemici anticlericali, concludendo poi nel Triregno con la proposta
322 di abolire il papato. Arrestato e rinchiuso nella cittadella di Torino dove si era rifugiato, vi rimase dal 1736 per dodici anni, fino alla morte. Nel 1746, su invito di Celestino Galiani, prefetto agli studi nel Regno di Napoli, l'illuminista Antonio Genovesi ottenne la cattedra di etica all'università; ma per un'accusa anonima di affermazioni eretiche, come la seguente: "Quando la teologia non tende a fare gli uomini più giusti e più umani, è inutile e nociva", fu invitato dal Santo Uffizio a sottoporre i suoi manoscritti alla censura, e quindi esonerato dall'insegnamento. Nel 1749, Girolamo Tartarotti di Rovereto, che era stato fino all'anno prima segretario a Roma di un cardinale, aprì un'interessante discussione tra gli eruditi italiani, con la pubblicazione di uno studio dal titolo Del congresso notturno delle làmie, in cui faceva notare la differenza che corre tra la stregoneria, frutto di ignoranza e di paura, e infatti diffusa tra le classi più umili, e la magia, che è invece praticata dalle persone colte. La sua conclusione era che la stregoneria non deve essere punita ma sradicata educando le persone che vivono nell'ignoranza e nella superstizione, mentre la magia va perseguitata, essendo una forma di eresia, perché tenta di penetrare i misteri della creazione. Gli rispose Scipione Maffei, letterato ed erudito di vasta dottrina, con L'arte magica dileguata, confutando l'ambiguità della sua tesi: stregoneria e magia appartengono entrambe alle invenzioni assurde e superstiziose che le persone civili e di buon senso dovrebbero ormai abbandonare. Tartarotti cadde in disgrazia delle autorità ecclesiastiche, e il suo libro fu bruciato sul rogo. Alla sua morte, gli abitanti di Rovereto, dove egli era nato, decisero di erigergli un busto, e la città fu colpita da interdetto. Nel 1766, il Santo Uffizio decretò che fosse messo all'Indice il libro di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, pubblicato appena due anni prima, perché, battendosi per la riforma del sistema penitenziale e per l'abolizione della tortura, dell'inquisizione e della pena di morte, l'autore affermava che un delitto comune non è un'offesa fatta a Dio, ma solo un danno arrecato alla società o a un singolo. Nelle discussioni religiose degli illuministi italiani s'inserì pure, con i principi di Scienza Nuova, già composti nel 1725, poi più volte rifatti, fino all'edizione definitiva del 1744, pochi mesi dopo la
323 morte, il filosofo napoletano Giambattista Vico. Egli, però, rimane"! va fedele alla concezione di un intervento provvidenziale nella storia dell'umanità, pur riconoscendo l'origine della religione nella paura e ignoranza dei primi "bestioni", e perciò le attribuiva una funzione positiva: aver fatto nascere il pudore, le leggi morali, i rapporti civili. Vico passò ignorato dai suoi contemporanei, mentre ebbe grande fortuna la tesi, opposta alla sua, di Paul Henri d'Holbach, tedesco di origine ma naturalizzato francese, che nel suo Système de la nature, definito "la bibbia del materialismo ateo", muovendo dall'indagine di David Hume sull'origine del sentimento religioso, stabiliva una teoria sistematica dei caratteri della religione stessa: in quanto proiezione della paura e dell'ignoranza degli uomini, essa sarà sempre necessariamente rivolta a cercar di placare un presunto Dio, dispotico e crudele; pertanto qualunque tentativo di fondare una religione razionale è una contraddizione. [Vedi Documenti n. 6.] La fiducia illuministica nella cultura e nella scienza quali mezzi di incivilimento e di progresso, fu tuttavia profondamente scossa dall'originale intuizione del ginevrino Jean Jacques Rousseau. Egli si era già fatto conoscere vincendo, nel 1750, un concorso bandito dall'Accademia di Digione, con un rivoluzionario Discours sur les sciences et les arts, in cui sosteneva che le scienze e le arti non mirano affatto ad appagare l'anelito degli uomini alla felicità, perché sono sempre coltivate per motivi di interesse personale: il lucro, l'ambizione, il desiderio di primeggiare. Nel 1755, di nuovo su di un tema proposto dall'Accademia di Digione, scrisse il Discours sur l'origine et les fondaments de l'inégalité parmi les hommes. Lo stato perfetto dell'umanità - sostiene Rousseau - era lo stato di natura degli uomini primitivi, libero e selvatico, non ancora corrotto della società, la quale è colpevole di aver fatto nascere la proprietà privata, le relazioni di dipendenza sociale, i privilegi, il dispotismo, e tutte le altre ingiustizie. Nasceva così il mito del "buon selvaggio", vissuto in una condizione di esistenza febee e innocente. Si sente spesso ripetere che questa tesi di Rousseau sostanzialmente riproduce soltanto in chiave laica la dottrina cristiana dell'innocenza di Adamo nel paradiso terrestre e della sua caduta per aver gustato appunto il frutto dell'albero della conoscenza: ma la verità è che, al contrario, Rousseau ha ingegnosamente scoperto le cause storiche
324 della corruzione umana, che la teologia ebraico-cristiana raffigurava in forma religiosa come disubbidienza a Dio. Il mito illuminista di una religione razionale el Du contrat social del 1761, Jean Jacques Rousseau sviluppa e porta alle estreme conseguenze le tesi già esposte nei due precedenti discorsi: il passaggio dallo stato di natura allo stato sociale dovrebbe essere - non, come è avvenuto, con ingiustizie e sopraffazioni - un atto di libera sottomissione a una norma che garantisca a tutti la giustizia e l'uguaglianza, quindi il risultato di una volontà generale. Particolarmente interessante, per i limiti di questa nostra ricerca, l'ultima delle quattro parti dell'opera, in cui Rousseau, attirandosi i fulmini delle autorità ecclesiastiche, fissa il minimo di credenze religiose richieste come condizione stessa del contratto sociale: credere all'esistenza di un Dio che premia i buoni e punisce i cattivi. Tutto il resto, dogmi, riti, culti, è superfluo. Rousseau pensa pertanto che si debbano educare i sentimenti dell'uomo all'amore del bene e della giustizia come concetti razionali e senza imposizioni, e ne 'Étnile, ou de l'éducation, pubblicato l'anno stesso del Contratto sociale, esemplifica la propria tesi esponendo la formazione libera e spontanea di un fanciullo a contatto con la natura e attraverso la sua diretta esperienza, non intralciata dalla guida di un pedagogo, non corrotta da interessi egoistici, e ponendo come ultima esigenza l'educazione religiosa o meglio il sentimento della voce della coscienza. Naturalmente l'Emilio procurò a Rousseau le ire dei benpensanti e la condanna delle autorità ecclesiastiche e anche civili, che lo costrinsero a fuggire per evitare l'arresto. Trascorse gli ultimi quindici anni di vita in un continuo peregrinare, sempre in preda alla paura della persecuzione, evitando incontri con altre persone, fino al punto di non ricevere Vittorio Alfieri, suo grande ammiratore, che desiderava conoscerlo personalmente. Il primato che Rousseau attribuiva al "sentimento" fece di lui un precursore del Romanticismo, con opere di profonda sensibilità, come La Nouvelle Hélo se, un romanzo epistolare tra una giovane aristocratica, Giulia d'Etanger, e il suo precettore, Saint-Preux, la storia di un amore appassionato e infelice, che mette in evidenza la virtù della costanza, della fedeltà, del sacrificio, e sarà modello per il Werther di Goethe e lo Jacopo Ortis del Foseólo. La condanna globale dell'illuminismo francese da parte della
325 Chiesa venne infine nel 1775, con l'enciclica Inscrutabili divinae sapientiae di papa Pio VI. [Vedi Documenti n. 7.] Ma intanto le nuove idee si erano introdotte anche in Germania, dove l'illuminismo prendeva il nome corrispondente di Aufklarung. Uno dei primi a farle proprie fu il vescovo Johann Nikolaus Hontheim, che pubblicò nel 1763, sotto lo pseudonimo Febronio (da cui il nome di febronianismo alla sua proposta, condivisa anche dal altri) un'opera dal titolo De praesenti statu ecdesiae, in cui sosteneva! la necessità di attribuire alle autorità civili i diritti giurisdizionali sul i clero, onde subordinare le leggi morali e religiose agli interessi della società. Il libro di Febronio fu messo all'Indice l'anno seguente. Ma l'apostolo più autorevole delle idee innovatrici fu il filosofo ebreo Moses Mendelssohn, promotore della "filosofia popolare" tedesca, che s'impegnava nel rendere chiari alle masse i fondamenti dell'illuminismo, con un linguaggio semplice, accessibile a tutti. Alla figura di Mendelssohn, come a quella venerabile di un maestro, si ispirò nel 1779 il grande poeta ed erudito Gotthold Ephraim Lessing per il protagonista del dramma filosófico Nathan der Weise (Nathan il Saggio), e l'anno successivo per gli aforismi dell'opera Die Erziehung des Menschgeschlechts (L'educazione del genere umano), il più maturo sforzo di storicizzazione delle religioni. In quest'opera Lessing argomenta che, come nell'educazione dei singoli la conoscenza della verità viene gradualmente comunicata in modi adeguati alle varie età degli educandi, così la rivelazione religiosa si è espressa di volta in volta nella storia in maniera conforme al grado di evoluzione del genere umano. Ne consegue che per Lessing le religioni storiche hanno sempre avuto una funzione illuminante e progressista nel momento in cui sono apparse, poi sono scadute, di fronte a una nuova fase di rivelazione. In particolare, la rivelazione dell'Antico Testamento corrispose all'infanzia dell'umanità, quella del Nuovo Testamento alla sua adolescenza, e ora è prossima a venire quella della maturità: che è la capacità degli uomini di fare il bene e fuggire il male consapevolmente, per convinzione razionale. Tra il 1774 e il 1778 Lessing aveva pubblicato sette frammenti da lui trovati manoscritti nella biblioteca dei duchi di Braunschweig, nel castello di Wolfenb ttel (Hannover), di contenuto veramente esplosivo. I frammenti appartenevano a un'opera inedita dell'orientalista Hermann Samuel Reimarus, morto nel 1768, e due di essi, soprattutto,
326 sollevarono indignazione generale e violente reazioni. Il primo, ber die Auferstehungsgeschichte (Sulla storia della risurrezione), mediante un acuto esame comparativo delle fonti evangeliche, dimostrava come la risurrezione di Gesù sia un mito, sorto per un inganno dei suoi discepoli. L'altro, Von dem Zivecke fesu und seiner unger (Del fine di Gesù e dei suoi figli), interpretava Gesù in una luce e in una prospettiva veramente storica: un ebreo, che aveva riproposto ai suoi connazionali l'attesa messianica, politico-sociale, tradizionale per i figli d'Israele, fatto uccidere dai Romani che avevano inteso la sua predicazione come un incitamento alla rivolta contro il loro governo, e quindi trasformato dal fanatismo dei discepoli nel Cristo, latore di una nuova religione. L'opera di Reimarus è stata solo di recente (nel 1972) pubblicata per intero. Pochi anni dopo, tutto il pensiero illuminista tedesco cominciò ad avere sistematica collocazione - e superamento - negli scritti del celebre filosofo Immanuel Kant. Già nel 1784, in un pubblico elogio rivolto al re di Prussia Federico II, per i suoi intenti riformistici, Kant esaltava l'illuminismo come "l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità" e diceva, a proposito della religione: "Io pongo proprio nella materia religiosa il punto culminante dell'illuminismo, perché la minorità in materia religiosa è fra tutte le forme di minorità la più dannosa e anche la più umiliante". Poi, nella Kritik der praktischen Vernunft (Critica della ragion pratica; 1788), chiariva come la condotta morale debba essere un adeguarsi consapevole e volontario della ragione a una norma assoluta, e finalmente, nel 1794, con Vorlesungen iiber die philosophische Religionslehre (Lezioni di filosofia della religione), concludeva la sua indagine sul primato della ragion pratica anche in campo religioso: Dio è, per così dire, la stessa legge morale personificata, un concetto astratto di perfezione che la mente umana oggettiva antropomorficamente; e i miti del peccato originale, della lotta tra angeli e demoni, del regno di Dio non sono che simboli della tensione degli uomini tra la coscienza della propria imperfezione e un ideale di perfezione che essi si formano col ragionamento. Profondo ammiratore di Kant, Friedrich Hegel, tra il 1793 e il 1796, quando non aveva ancora formulato una propria filosofia, compose, ma non pubblicò, un Leben Jesu (Vita di Gesù) in cui Gesù appariva maestro e modello di perfezione morale e infiorava persino
327 i propri discorsi con frasi derivate dalle opere di Kant. Anche Johann Gottlieb Fichte partiva dall'indagine kantiana per porre le basi del suo idealismo etico, che gli costava la sospensione dall'insegnamento per ateismo. Tutta questa intensa attività degli illuministi in difesa della libertà da ogni forma di imposizione autoritaria, del diritto di fondare la convivenza civile e i rapporti sociali su norme volontariamente accettate perché ritenute opportune dalla ragione, cominciò a produrre i suoi frutti nella seconda metà del Settecento, stimolando re e governi ad adottare misure meno repressive nei propri Stati e a concedere qualche riforma. È evidente che essi dovettero piegarsi a ciò di fronte alle istanze riformistiche dei loro sudditi, pur di non perdere del tutto la propria autorità se avessero accettato una partecipazione democratica alla cosa pubblica. "Lavorare per il popolo, ma non con il popolo", era il loro motto. Comunque Federico di Prussia confutò addirittura la tesi macchiavellica del Principe assoluto, dichiarando che invece la norma del governante dev'essere la bontà e la giustizia. Maria Teresa d'Austria diede inizio a una rigenerazione materiale e intellettuale nei proprri possedimenti. Così avvenne nei ducati di Toscana, di Parma, di Modena, e nel Regno di Napoli. Più tardi, Caterina di Russia si fece apertamente protettrice di illuministi, accogliendo alla sua corte Diderot e Voltaire. Avversati dalla Chiesa, che vedeva in tal modo venir meno il supporto del potere politico, i principi approfittarono, a proprio vantaggio, ; dell'ondata di consenso popolare, esautorando dal monopolio delle scuole e, soprattutto, dallo sfruttamento delle colonie, la Compagnia di Gesù. Furono specialmente gli abusi e gli scandali di cui i gesuiti si rendevano colpevoli nelle colonie, esercitandovi il monopolio dei commerci, con la creazione di magazzini, zuccherifici, immensi poderi, nei quali non esitavano a sfruttare disumanamente gli schiavi, a far nascere una tenace opposizione alla Compagnia. La scintilla finale fu offerta da un attentato, fatto dai gesuiti contro Giuseppe, re del Portogallo, appunto per le limitazioni da lui imposte alle loro speculazioni nelle colonie americane. In risposta, il ministro Pombal, il 17 settembre del 1759, dichiarò soppressa la Compagnia, fece arrestare e processare molti padri gesuiti, confiscò i loro beni.
328 L'enciclica Apostolicum pascendi di Clemente XIII, che difendeva i gesuiti dalle accuse e deplorava le persecuzioni alle quali erano andati soggetti, non arrestava la campagna contro di loro. Nel 1767 i gesuiti venivano espulsi anche dalla Spagna e dal Regno delle due Sicilie. Infine nel 1773 i regnanti borbonici di quegli Stati fecero pressioni sul nuovo pontefice, Clemente XIV, perché prendesse provvedimenti in merito e, avuta risposta negativa, Ferdinando IV di Napoli fece occupare militarmente Benevento e Luigi XV di Francia occupò Avignone, ambedue possedimenti della Chiesa. Allora, il 2 luglio dello stesso anno, Clemente XIV, sebbene a malincuore, dovette piegarsi a emanare il breve Dominus ac Redemptor noster che ratificava la soppressione della Compagnia di Gesù. Il generale dell'ordine, padre Lorenzo Ricci, venne imprigionato in castel Sant'Angelo. Ancor più grave, nei riguardi della Chiesa, fu la presa di posizione di Giuseppe II d'Asburgo dopo che, a partire dal 1781, con la morte della madre Maria Teresa, rimase unico detentorc del potere sovrano. Con l'editto di Tolleranza (Toleranzpatent) egli fece cessare in tutto l'impero le persecuzioni religiose e abolì la tortura e la condanna alla pena capitale; proponendosi poi di conservare solamente il clero che svolgesse qualche funzione socialmente utile, alla soppressione dell'ordine dei gesuiti aggiunse anche quella degli altri ordini che non avevano né attività d'insegnamento, né di assistenza ospedaliera, come i cappuccini, i camaldolesi, i certosini, le Clarisse e le carmelitane. I beni che furono requisiti a tali ordini costituirono i "fondi di religione" per il mantenimento del clero ammesso e delle scuole parrocchiali. Invano il papa Pio VI tentò di farlo recedere da questi provvedimenti, recandosi personalmente a Vienna (il "pellegrinaggio apostolico"). Ispirato dalla politica dell'imperatore Giuseppe II, il fratello Pietro Leopoldo, granduca di Toscana, favorì l'iniziativa del vescovo di Firenze, Scipione de' Ricci, di convocare a Pistoia, nel 1786, un Sinodo del clero toscano, nel quale, denunciato l'oscurantismo della Chiesa, vennero formulati cinquantasette articoli di una riforma con cui il granduca avrebbe potuto "ricondurre nelle Chiese Etnische il lustro, il candore, lo spirito degli aurei secoli del cristianesimo". Ma il dispotismo illuminato dei sovrani europei fu un vano tentativo di stornare la tempesta che si stava addensando sul loro capo.
329 Già nel 1776, terminata vittoriosamente la rivoluzione per l'indipendenza degli Stati Uniti d'America, il 4 luglio il congresso di Filadelfia approvava una Dichiarazione, redatta da Thomas Jefferson, che non avrebbe mancato di influire anche sui rivoluzionari d'Europa: "Noi riguardiamo come incontestabili ed evidenti per se stesse le seguenti verità: che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, e che tra questi diritti sono in primo luogo la vita, la libertà e la ricerca della felicità". Nel 1777, coerente con gli ideali illuministici e pieno di anelito per la libertà, Vittorio Alfieri scriveva "d'un sol fiato" il trattato Della Tirannide, in cui individuava nella "paura", anche da parte degli oppressori, l'origine di ogni sopraffazione politica e religiosa, e incitava alla ribellione. E a partire dal 1789, la rivoluzione francese, salutata con entusiasmo dallo stesso Immanuel Kant, andò realizzando le prime conquiste dell'illuminismo: l'abolizione dei privilegi feudali, l'elezione di un'assemblea democratica, la costituzione civile del clero. L'abate Henri Grégoire, curato a Embermesmil, in Lorena, fu il primo a incitare il basso clero a unirsi al terzo stato: "Come curati abbiamo dei diritti. Da dodici secoli probabilmente non si è mai presentata un'occasione tanto favorevole per far valere questi diritti e per onorare il sacro ministero di cui siamo sostanzialmente una parte costitutiva. Mai i curati raccolti in simile numero hanno trovato una occasione tanto favorevole per riconquistare i loro diritti conculcati dal regime episcopale". Poiché non si trattava soltanto di questioni dottrinali, ma erano in gioco interessi economici e di potere, questa volta la reazione della Chiesa fu immediata e particolarmente dura. [Vedi Documenti n. 8.] Ma intanto in Francia, il progresso per l'istituzione di una religione razionale, culminato nel novembre del 1793 con la celebrazione, nella cattedrale di Notre-Dame, del culto della Dea Ragione, veniva arrestato da Robespierre con un ritorno al deismo. L'8 giugno 1794, egli infatti, proclamava la festa dell'Ente Supremo, e fungendo egli stesso da gran sacerdote pronunciava un discorso in cui diceva, tra l'altro: "Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo. L'ateismo è aristocratico; invece l'idea di un Grande Essere che veglia sull'innocenza oppressa e punisce il delitto è del tutto popolare. Il sentimento
330 dell'esistenza di un Dio è scolpito in tutti i cuori puri: esso incoraggiò in ogni tempo i più magnifici difensori della libertà; esso sarà una consolazione nel cuore degli oppressi, fino a che in qualche paese esisteranno tiranni. L'idea dell'Ente Supremo e dell'immortalità dell'anima è un richiamo continuo alla giustizia: essa è dunque sociale e repubblicana". Anche questa involuzione del pensiero di Robespierre fu una causa della sua caduta. Estremisti radicali furono invece Gracco Babeuf e i suoi seguaci, considerati i padri del comunismo perché avevano in programma l'uguaglianza dei salari, la comunione dei beni, la distribuzione dei frutti della terra in parti uguali, e naturalmente l'abolizione delle autorità civili e del clero, la religione sostituita dallo spirito di solidarietà sociale. Queste idee libertarie trovarono eco, anche fuori della Francia, presso altri utopisti. Interessante è, tra costoro, l'ex pastore anglicano William Godwin che già nella sua prima opera Enquiry Concerning Political Justice del 1793, addossando al cristianesimo tutta la colpa di aver perpetuato la società classista, lo sfruttamento del proletariato, l'ignoranza e la paura, ritiene che il problema fondamentale per il rinnovamento della società sia l'educazione, soprattutto quella morale, a questo riguardo riprende la tesi roussoiana che l'uomo allo stato di natura è buono, e che quindi l'educazione deve tener conto delle eterne leggi della natura. Una figlia di Godwin, di nome Mary, diverrà più tardi la moglie del poeta Percy Bysshe Shelley, e una figliastra l'amante di George Byron: tutti e quattro apertamente di idee anarchiche. Questo fermento di pensiero rivoluzionario preoccupò non soltanto la Chiesa ma anche i sovrani d'Europa. I principi che erano stati riformatori, tornano a essere reazionari e, sollecitati da Pio VI, coalizzano contro la Francia. Quando, nel 1797, Napoleone, sconfitte le armate austriache nell'Italia settentrionale, scese nello Stato pontificio, il clero, con la retorica della religione offesa, organizzò processioni, tridui, esposizione di reliquie, nella fiducia che il Cielo intervenisse con un miracolo a salvare Roma e il papa dal "demonio". L'anno dopo,, in seguito ai continui scontri che avvenivano a Roma tra i patrioti filofrancesi e le milizie pontificie, culminati il 28 dicembre
331 precedente con l'uccisione dell'ambasciatore di Francia Duphot - e già nel 1793 era stato ucciso il legato Ugo Basville - il generale Berthier presidiò militarmente la città. Il 15 febbraio venne proclamata la Repubblica romana e il papa invitato a ritirarsi in Toscana. Di qui, nel mese di aprile Pio VI venne condotto a Valence, per impedirgli di continuare a tramare segretamente, e morì pochi mesi dopo. Il Moniteur di Parigi aveva commentato con queste parole la nascita della Repubblica romana: "Da ben quattordici secoli l'umanità domandava la distruzione di un potere antisociale qual era quello della Chiesa cattolica. Quale anima è tanto apatica da rimanere insensibile di fronte a uno spettacolo così glorioso? Chi può non trasalire ascoltando il racconto del risveglio del popolo romano?". La massoneria.
La massoneria fu una delle prime forme di organizzazione spontanea che assunsero nel Settecento i ceti borghesi progressisti. E innegabile la funzione positiva che essa svolse nell'attuazione pratica dei principi illuministici, soprattutto in campo politico; tanto è vero che a essa appartennero gli artefici della guerra d'indipendenza americana: Franklin, Washington, La Fayette, e i teorici della rivoluzione francese, Montesquieu, Diderot, Voltaire, Rousseau. I massoni rivendicavano la loro derivazione dal movimento dei rosacroce, creatosi nei primi anni del Seicento e, in effetti, finalmente si può vederne un legame nel comune proposito di promuovere "una generale riforma di tutto il mondo" mediante la fratellanza di ogni spirito libero. Il Grande Oriente di Francia aveva infatti come primo articolo del suo statuto: "La libera Massoneria, istituzione essenzialmente filantropica, filosófica e progressista, ha come oggetto la ricerca della verità, lo studio della morale, la pratica del] solidarietà. Essa opera per il miglioramento materiale e morale e il perfezionamento intellettuale e sociale dell'umanità". Ma storicamente la massoneria era una trasformazione - con l'assunzione di questi fini umanitaristici - di gilde medievali, corporazioni di mestiere tra muratori specializzati, che conservavano il segreto dei loro sistemi di lavorazione e difendevano i loro interessi economici. Il nome, infatti, deriva
332 dall'inglese Freestone masons (levigatori di pietre per costruzioni), tradotto imperfettamente in francese Francs-ma ons e in italiano, come traslitterazione, Fra massoni o Liberi Muratori. I simboli della massoneria sono, ancora oggi, gli strumenti dell'arte muratoria: il triangolo, il compasso, la squadra, la cazzuola, la livella, il grembiulino; i gradi degli adepti riproducono le gerarchie delle vecchie corporazioni di mestiere: l'apprendista, il compagno o fratello, il maestro; e naturalmente il simbolo supremo è il Grande Architetto dell'Universo, nel quale i credenti possono vedere il loro Dio personale, i deisti l'Ente Supremo, i non credenti un ideale astratto di perfezione o del principio di unità universale. In Inghilterra, l'ingresso di membri onorari (Accepted Masons) estranei all'arte muratoria, aveva già trasformato a mano a mano tali corporazioni di mestiere in club di solidarietà politico-religiosa, e quindi dalla fase "operativa" (di costruttori manuali) si era passati a quella "speculativa". Nel 1717, quattro club di massoni, che prendevano nome dalle osterie in cui i membri usavano riunirsi (Goose and Gridiron, Apple Tree, The Rummer and Grapes, Crown Ale House) decisero di fondersi insieme e di costituire la Grande Loggia massonica di Londra. Nella stessa occasione, venne eletto Gran Maestro un ugonotto francese, Jean Théophile Desaguiliers, che fin dall'infanzia era emigrato con la famiglia in Inghilterra e attualmente era professore di filosofia sperimentale all'Università di Oxford. Nel 1723 il nuovo Gran Maestro della loggia di Londra, l'ex pastore anglicano James Anderson, ne dettò il primo statuto, The Charges of a Freemason: "Il massone è obbligato dalla sua professione di appartenenza alla Loggia a ubbidire alla legge morale... Egli non è costretto a credere in una particolare religione, se non in quella nella quale con- credono tutti gli uomini: e cioè basta essere buoni e veritieri, gente d'onore e proba. In tal modo la massoneria diverrà il centro di unione e il mezzo onde creare un'autentica fratellanza fra le persone". Rapidamente sorsero logge analoghe in America, in Germania e in Francia. Il rifiuto dell'ateismo e la tolleranza per qualsiasi confessione religiosa attrassero alla massoneria anche dei cattolici. Nel 1737 lo scozzese André Michel Ramsay, passato dall'anglicanesimo al cattolicesimo e amico di Fénelon, introdusse in Francia la massoneria di "rito scozzese", con un chiaro carattere cristiano-misticheggiante. Con
333 l'appoggio di Fénelon, egli chiese protezione per la sua loggia al cardinale Fleury, ma questi e lo stesso re erano assolutamente contrari alla creazione di sette e associazioni di qualsiasi genere, e perciò la massoneria in Francia dovette mantenersi nella massima segretezza. Anche in Gran Bretagna i massoni cattolici si staccarono dalla loggia di Londra, creando i Modern Masons, ma più per motivi politici che di fede religiosa. Essi, infatti, erano favorevoli a un ritorno sul trono dei discendenti di Giacomo II Stuart, che era stato deposto nel 1688, mentre i protestanti rimanevano fedeli alla dinastia di Guglielmo III d'Orange. Proprio nel 1737, gli orangisti fondarono una loro loggia anche in Italia, nella città di Firenze, e si sospettò - probabilmente non a torto - che intendessero svolgere attività spionistica ai danni, appunto, del pretendente cattolico Giacomo Edoardo Stuart, residente a Roma, la cui restaurazione sarebbe stata naturalmente gradita alla Santa Sede. E difatti la bolla di Clemente XII In eminenti apostolatus specula, che già l'anno seguente condannava per la prima volta la massoneria, accusava in modo specifico i massoni di minacciare "la sicurezza e la tranquillità degli Stati temporali". In conseguenza della condanna della Chiesa, ribadita nel 1751 da papa Benedetto XIV, la massoneria nei paesi cattolici divenne clandestina, e accentuò il proprio carattere di esoterismo, identificandosi non solo con i rosacroce del Seicento ma, molto più addietro nel tempo, con gli antichi gnostici, come i martinisti, un rito massonico fondato a Parigi dallo spagnolo Pasqualis (o de Pasqually) Martínez, nel 1754, secondo il quale l'uomo era in origine un puro spirito, caduto nella materia per un atto di superbia, e per tornare al primitivo stato di innocenza doveva mettersi in comunicazione, mediante sedute spiritiche, con il mondo ultraterreno. Invece Jean Baptiste Willermoz, egli pure di origine martinista, trovò un legame tra la segretezza massonica e i riti e cerimoniali di iniziazione che erano stati propri dell'ordine dei templari, soppresso da Filippo il Bello nel 1312, e fondò a Lione nel 1771 la Società di stretta osservanza dei templari (sot) con la collaborazione degli alsaziani Friedrich Saltzmann e i due fratelli Jean e Bernard Turckheim. L'accostamento ai templari fece nascere l'idea della seguente equazione: il progetto massonico di costruire un nuovo culto dell'Ente Supremo è uguale a quello di Salomone di costruire il grande tempio di Gerusalemme. La massoneria si appropriò delle
334 parole dell'Antico Testamento: "Per questo Tempio che mi stai costruendo, se camminerai nei miei precetti, se vivrai secondo le mie leggi, io abiterò in mezzo al tuo popolo". Si inventò la leggenda di Hiram (in realtà re di Tiro che aveva fornito il materiale da costruzione a Salomone), mentre secondo i massoni era stato invece il Maestro dei costruttori del tempio, ucciso dai compagni perché non aveva voluto rivelare il segreto della sua arte, e poi risuscitato dai fedeli per mezzo di riti speciali. La parola hiram nel linguaggio massonico significa il segreto dell'ordine. Nel 1784 Willermoz fece la conoscenza di Cagliostro (Giuseppe Balsamo), celebre avventuriero, dotato di poteri ipnotici che però non aderì all'ordine dei templari ma con l'aiuto della moglie, Lorenza Feliciani, si acquistò discepoli e creò un proprio "rito egiziano", ispirato ai culti dell'antico Egitto, con i suoi simboli Akh (la forza divina) e Ka (la vita eterna), e il mito di Osiride, assassinato e poi risuscitato. Nel 1791 Cagliostro tentò di introdurre il proprio rito anche a Roma, ma venne arrestato e processato dal Santo Uffizio come "mago ed evocatore di anime di defunti". La condanna a morte gli fu commutata in carcere perpetuo. Rinchiuso nella fortezza di San Leo, impazzì per i maltrattamenti subiti. Accuse del genere (magia, stregoneria, pratiche occulte, riti diabolici) servirono alla Chiesa per perseguitare i massoni e gettare su di loro il discredito popolare. Ma essa riuscì anche a combatterli con una tattica più sottile: favorendo la nascita di associazioni concorrenti, con una struttura simile a quella delle logge massoniche e una apparente segretezza, ma con fini ben diversi. Tale fu l'Amicizia cristiana, fondata a Torino nel 1778 dall'ex gesuita Nikolaus Joseph von Diessbach, con l'intento di ricostruire, per mezzo di questo sotterfugio, la disciolta Compagnia di Gesù, raccogliendo quanti più possibile ex gesuiti, e diffondendo opuscoli polemici contro i massoni, "nemici della religione"; tali anche Y Amitié e Y Ordre des Chevaliers de la Foi, create a Parigi negli anni immediatamente successivi, sempre da ex gesuiti. piuttosto, la massoneria subì un'involuzione in senso reazionario, sia per una spontanea acquiescenza della borghesia alla generale tendenza al conservatorismo, dopo la rivoluzione francese, sia per l'introduzione in essa di elementi disgregatori. Tale fu l'ingresso, verso la fine del secolo, nell'Alleanza dei martinisti del cattolicissimo politicante
335 conte Joseph de Maistre, avversario intransigente dell'illuminismo e teorico della restaurazione dell'Ancient régime, che la orientò in direzione fideistica e monarchica. Ambasciatore del regno di Sardegna a Mosca, il de Maistre cercò, dopo il 1812, di influire sul misticheggiante zar Alessandro I, allora in pieno trionfo per l'orgoglio di essere stato il fattore determinante della caduta di Napoleone e la vanità di ritenersi eletto dalla provvidenza divina a unire tutto l'orbe cristiano in un'unica fratellanza religiosa e politica. Ma l'oltranzismo cattolico del de Maistre non fu bene accetto allo zar, che subì invece il fascino delle idee di due autorevoli membri della società massonica degli Illuminatenorden, fondata in Baviera già nel 1776 da Adam Weishaupt, e che aveva avuto tra i suoi iniziati personaggi celebri, come i poeti Wolfgang Goethe e Gottfried Herder. I due illuminati che diedero un indirizzo al grandioso progetto di Alessandro I furono lo scienziato e scrittore Johann Heinrich Jung-Stilling e soprattutto la baronessa di origine russa Varvara Julija Kr dener, all'approvazione della quale lo zar sottopose il programma della Santa Alleanza, prima di presentarlo all'imperatore d'Austria e al re di Prussia. Nella Rivoluzione francese, stranamente, si può riscontrare la presenza dei massoni in due posizioni contrastanti. Era certamente massone Pierre Gaspard Chaumette, uno dei capi dell'insorgente Comune parigina dell'agosto 1792, quanto il generale vandeano Fran ois Charette, vecchio ufficiale di marina, e anche perché il duca d'Orléans, divenuto Philippe Egalité, si servì dell'influenza della massoneria per agevolare i propri intrighi politici. La massoneria si riscatterà - almeno in parte - con il risorgere di sentimenti libertari e anticlericali, proprio in contrasto alla Santa Alleanza, nelle sette dei carbonari, che ne muteranno l'organizzazione e avranno un instancabile animatore e coordinatore in Filippo Buonarroti, già membro della società massonica dei sublimi maestri perfetti, più volte processato e incarcerato per la sua attività rivoluzionaria. DOCUMENTI 1. Ateismo e religione Già gli antichi non ignoravano che vi erano popoli i quali vivevano senza Dio e non avevano mai avuto una religione. Le relazioni di viaggiatori di questi ultimi tempi ci offrono una quantità di altri esempi. La religione è una cosa che, una volta stabilitasi in un paese, deve durarvi in eterno. Vi si è legati per motivi di interesse, per la felicità temporale e
336 per quella eterna. Ci si aspetta dagli dei la fertilità dei raccolti, il successo delle iniziative: si teme che essi possano mandare la sterilità, le pestilenze, le tempeste e varie altre calamità, e di conseguenza si osservano i culti pubblici della religione, indotti sia dalla paura che dalla speranza, e ci si da premura di cominciare di qui l'educazione dei bambini e di raccomandare loro la religione come cosa di fondamentale importanza, fonte di ogni felicità o sciagura a seconda che gli onori che spettano agli dei siano resi loro con diligenza o con negligenza. Sentimenti di tal sorta, succhiati insieme col latte, non si cancellano dallo spirito di una nazione; possono modificarsi in diversi modi, si possono cioè mutare cerimonie e dogmi, ma quei sentimenti non spariranno mai del tutto, tenuto conto soprattutto del fatto che chi vuoi costringere un popolo in materia di religione non lo fa mai per condurlo all'ateismo, bensì sempre per sostituire ai formulari che non piacciono, nel culto e nella credenza, formulari diversi. Poiché dunque vi sono popoli che non ammettono nessuna divinità, bisogna concludere che si sono trovati in quello stato fino dalle origini e fino a che la provvidenza non ha promosso persone singolari che hanno formato le repubbliche, le hanno stabilite e le hanno adornate di belle leggi. L'opera di queste persone ha civilizzato gli uomini selvaggi e ha dato loro un gusto nuovo con l'introduzione delle arti e delle scienze, e soprattutto del culto degli dei; ma qualche popolo è rimasto privo di questo vantaggio. Può davvero la voce della natura farsi sentire sotto questo grosso cumulo di arti e di scienze, di leggi e di mode, di statuti e di costumi, e di cento altre invenzioni dello spirito umano? Non c'è forse da temere che una voce che deve passare attraverso tanti canali sia piuttosto la voce dell'artificio che non quella della natura? Non vi è forse motivo di sospettare che lo stesso legislatore abbia cominciato a insegnare il culto degli dei? (P. Bayle, Pensées sur la comète de 1680, in A. Minerbi Belgrado, Materialismo e origine della religione nel '700.] 2. Gli inganni dei sacerdoti
Io cerco di parlare in modo molto comprensibile, e oso sperare che le mie affermazioni porteranno con sé la loro luce. Questo lavoro, lo ammetto, non
337 è di alcuna utilità per i filosofi, ma costituisce un vantaggio considerevole per la gente comune, che io sono ben lontano dal trascurare, come fanno coloro che in ogni prefazione dicono di non cercare il suo favore e di non preoccuparsene. Mi chiedo come chiunque possa parlare in questo modo, specialmente fra coloro il cui compito è di essere al servizio del popolo e risparmiargli la fatica di uno studio lungo e difficile, che le sue comuni occupazioni non consentono. I laici pagano per i libri e il mantenimento degli ecclesiastici a questo scopo. E nessuno può dedurre, da questo compito del clero, che il popolo debba accettare implicitamente le sue imposizioni arbitrarie, così come io non sono obbligato a cedere la mia ragione a colui che impiego per leggere, trascrivere o raccogliere per me. Il sapiente non crederà alla bontà del pane o della birra in base alla parola del fornaio o del birraio, se essa è in contrasto con l'esperienza del proprio gusto, per quanto sia ignorante del loro mestiere. E perché la gente comune non può in modo analogo giudicare circa il vero significato delle cose religiose, anche se non comprende le lingue dalle quali sono tradotte per il suo uso? La verità è sempre e dovunque la stessa: e un'affermazione incomprensibile o assurda non deve essere rispettata solo per la sua antichità e stravaganza, per essere stata originariamente scritta in latino, in greco o in ebraico. I poveri, che si ritiene non comprendano i sistemi filosofici, presto colsero la differenza tra i semplici e convincenti insegnamenti di Cristo e gli intricati e inutili discorsi degli scribi. I rabbini ebrei, divisi in quell'epoca in sette stoiche, platoniche e pitagoriche, ecc, con la libertà folle delle loro interpretazioni allegoriche adattavano infatti la Scrittura alle speculazioni sfrenate dei loro numerosi maestri. Facevano credere al popolo, che non capiva nulla delle loro osservazioni cabalistiche, che questi fossero tutti profondi misteri; e così gli insegnavano la sottomissione a riti paganeggianti, mentre riducevano a nulla la legge di Dio. Nessuna meraviglia, dunque, se le persone disinteressate e i più onesti tra i governanti rifiutarono queste superstizioni assurde per una religione adatta alle capacità di tutti, delineata e predetta dai profeti e rivelata da Cristo. Ma, come ho detto sopra, la sola rivelazione non è un motivo che renda necessario un consenso, ma è un mezzo d'informazione. Non dovremmo confondere il modo in cui veniamo a conoscenza di una cosa con le ragioni
338 che abbiamo per credervi. Una persona può informarmi su mille cose di cui non ho mai sentito parlare prima, a cui non penserei affatto se non mi fossero state dette; tuttavia non credo a nulla in base alla sua sola parola, se manca la evidenza delle cose stesse. Invece i teologi antichi, come molti dei loro successori moderni, amavano troppo i loro ridicoli sistemi di avvolgere ogni frase nel mistero e adornarla con qualche figura retorica, non considerando che solo le argomentazioni false e insulse hanno bisogno dell'aiuto di discorsi attraenti per confondere o divertire. Essi si vantavano della loro abilità nel persuadere pro o contro ogni cosa. E come era stimato miglior oratore colui che faceva apparire giusta ai giudici la causa peggiore, così il miglior filosofo era colui che riusciva a far passare per dimostrazione il più stravagante paradosso. Essi si occupavano solo della propria fama e del guadagno, che non potevano assicurarsi se non ingannando il popolo con la loro autorità e abilità sofistica: e con la scusa di istruire, lo mantenevano abilmente nella più! grossolana ignoranza. Q. Toland, Christianity not Mysterious.] : 3. Trattato dei tre impostori Tutti quelli che ignorano le cause fisiche sono naturalmente in preda alla paura che procede dall'inquietudine e dal dubbio circa l'esistenza di un Essere o di una potenza che abbia il potere di nuocere loro o di conservarli. EH qui l'inclinazione a immaginarsi cause invisibili, che non sono null'altro che i fantasmi della loro immaginazione, invocati nell'avversità e lodati nella prosperità. Alla fine se ne fanno degli dei, e questa chimerica paura delle potenze invisibili è l'origine delle religioni che ciascuno si plasma a suo modo. Coloro che avevano interesse a che il popolo fosse contenuto e frenato da simili fantasticherie hanno coltivato questo germe della religione, ne hanno fatto una legge, e alla fine, grazie al terrore del futuro, hanno ridotto i popoli ad obbedire ciecamente. I fondatori delle religioni, rendendosi conto chiaramente che la base delle loro imposture era l'ignoranza dei popoli, pensarono di mantenerveli attraverso l'adorazione delle immagini, fingendo che gli dei vi risiedessero; e questo fece cadere sui loro preti una pioggia d'oro e di benefici, ritenute cose sacre, perché destinate all'uso dei ministri consacrati. Per meglio ingannare il popolo, i preti si presentarono come profeti, indovini, ispirati capaci di penetrare il futuro, si vantarono di intrattenere rapporti con gli dei; e poiché è naturale che si desideri conoscere il proprio destino, quegli impostori si fecero premura di non trascurare una circostanza così favorevole al loro progetto.
339 [Traité des trois imposteurs, in A. Minerbi Belgrado, Materialismo e origine dello religione nel '700, pp. 50 e 52.] 4. L'origine della religione, secondo Hume La credenza in un potere invisibile e intelligente è stata sempre diffusa largamente nella razza umana, in tutti i luoghi e in tutte le età, ma non è mai stata così universale da non ammettere eccezioni, né ha suggerito idee del tutto uniformi. Si è scoperto qualche popolo privo di sentimenti religiosi, se c'è da credere a quel che dicono i viaggiatori e gli storici; e non esistono due popoli, e nemmeno due uomini qualsiasi, che siano perfettamente convinti della medesima opinione. Sembra dunque che questi preconcetti non sorgano da un istinto o da un impulso spontaneo della natura, come quello donde nascono l'amor proprio, l'affezione tra i due sessi, l'amore dei figli, la gratitudine, il risentimento: giacché ogni istinto di questo genere risulta per esperienza assolutamente universale in tutti i popoli e in tutte le età. I primi principi religiosi debbono essere secondari, poiché varie cause e accidenti possono pervertirli, e anche i loro effetti, in alcuni casi - per un concorso straordinario di circostanze - possono essere totalmente pervertiti. Quali siano i principi che danno luogo alla credenza originaria, e quali te cause e gli accidenti che ne guidano le manifestazioni, sarà argomento di questa nostra indagine. Considerando il progresso della società umana dalle sue rozze origini ad oggi condizione di maggior perfezione, ne deduco che il politeismo e l'idolatria fu, e necessariamente dovette essere, la prima e la più antica religione del genere umano. Atteniamoci alla chiara testimonianza della storia. Quanto più rimontiamo verso l'antichità, tanto più troviamo il genere umano immerso nei politeismo. Nessun sogno, nessun sintomo di una religione più perfetta. Sembra certo, secondo il progresso naturale del pensiero umano, che il volgo ignorante debba avere nozioni elementari circa le potenze supreme, prima di elevare i suoi concetti all'essere perfetto che ordinò rutta la struttura del mondo. Immaginare che l'uomo abbia abitato palazzi prima di abitare capanne, oppure che abbia studiato la geometria prima dell'agricoltura, sarebbe altrettanto ragionevole quanto pensare che la divinità gli sia apparsa come uno spirito puro, onnisciente, onnipotente e onnipresente, prima che come un essere potentissimo, anche se limitato, fornito di passioni, appetiti, membra e organi umani. La mente risale gradualmente dal basso verso l'alto. Operando astrazioni su ciò che è imperfetto, si forma un'idea di perfezione. Un animale barbaro e bisognoso, qual è l'uomo all'origine
340 della società, pressato da bisogni e da passioni molteplici, non ha agio di ammirare l'ordinato assetto della natura e di far ricerche sulla causa degli oggetti cui si è gradualmente assuefatto fin dall'infanzia. Quanto più la natura sarà regolare e uniforme, tanto più egli si famigliarizzerà con essa, e sarà meno incline a scrutarla e a esaminarla. Un parto mostruoso eccita la sua curiosità e gli appare un prodigio. Lo allarma la sua novità, e subito si da a tremare, a far sacrifici, a pregare. Possiamo quindi concludere che in ogni nazione che abbia abbracciato il politeismo le prime idee religiose non nacquero dalla contemplazione della natura, ma dall'interesse per gli eventi della vita, dalle speranze e dai timori incessanti che assediavano lo spirito umano. Non si può supporre che agisse su tali barbari alcunché di diverso da una passione corrente nella vita umana: l'ansiosa brama di felicità, il timore della miseria futura, il terrore della morte, gli appetiti naturali che inducono a ricercare il cibo e le altre cose necessarie. Agitato da speranze e timori di questa natura - specialmente dai timori - l'uomo scruta con curiosità tremebonda il corso delle cause future, ed esanima gli eventi vari e contraddittori della vita. E in questa scena confusa scorge, con occhi ancor più confusi e attoniti, le prime oscure tracce della divinità. La religione primitiva del genere umano nasce dunque anzitutto dall'ansia riguardo agli eventi futuri. È facile immaginare quale idea l'uomo si possa fare dei poteri invisibili e ignoti, quando sia soggiogato da ogni sorta di cupi terrori. Immagini di vendetta, severità, crudeltà, malizia d'ogni genere si impongono e accrescono l'orrore che opprime e sbigottisce il devoto. Una volta che il panico ha invaso la sua mente, la fertile fantasia moltiplica sempre più i motivi di terrore; mentre l'oscurità profonda, o ancor peggio la luce incerta che lo circonda, gli rappresentano gli spettri della divinità sotto le più spaventose sembianze immaginabili. E non ci sarà abbietta perversità che il devoto terrorizzato non possa attribuire, senza scrupolo, al suo Dio. Tale, da un primo punto di vista, lo stato naturale della religione. Ma se si considera d'altra parte lo spirito apologetico e propiziatorio inevitabilmente presente in tutte le religioni, tipica conseguenza di tali terrori, dovremo attenderci che abbia il sopravvento un sistema teologico assolutamente diverso. Ogni virtù, ogni eccellenza sarà attribuita alla divinità, e nessuna esagerazione sarà giudicata degna delle perfezioni di cui appare dotata. Qualunque '' esaltato panegirico di essa sarà immediatamente accolto, senza alcuna verifica empirica o razionale. V'è dunque contraddizione tra i diversi principi della natura umana che si combinano nella religione. I terrori naturali ci presentano l'idea di una
341 divinità diabolica e malvagia. La tendenza all'adulazione ce ne fa concepire una eccellente e divina. [D. Hume, The Naturai History of Religion, in A. Minerbi Belgrado, Materialismo e origine della religione nel '700, pp. 57-59 e 63.] 5. Come dovrebbe essere la religione Dopo la nostra santa religione, che senza dubbio è la sola buona, quale sarebbe la meno cattiva? Non sarebbe forse la più semplice? Non sarebbe quella che insegnasse molta morale e pochissimi dogmi? Che tendesse a rendere giusti gli uomini senza obbligarli a credenze assurde? che non ordinasse di credere a cose impossibili, contraddittorie, ingiuriose per la divinità e dannose al genere umano, e non osasse minacciare di pene eterne chiunque preferisce tenersi al senso comune? Non sarebbe forse una religione che non sostenesse con la sua influenza dei sanguinari tiranni, e che non inondasse la terra di sangue a causa di sofismi incomprensibili? Una religione nella quale un equivoco, un gioco di parole e due o tre documenti falsificati non potessero eguagliare a un sovrano e a un Dio un prete magari incestuoso, omicida e avvelenatore? Una religione che non pretendesse di sottomettere i governi a questo prete? Che insegnasse soltanto ad adorare Iddio, e la giustizia, la tolleranza e l'umanità? Tutto ciò che va oltre l'adorazione di un Essere Supremo e la sottomissione del cuore ai suoi ordini eterni, è superstizione. Noi rimproveriamo agli antichi i loro oracoli e i loro troppi prodigi: se essi ritornassero al mondo, e riuscissero a contare i miracoli della Madonna di Loreto per paragonarli a quelli della loro Madonna d'Efeso, in favore di chi penderebbe la bilancia? Così, i sacrifici umani sono stati nel rito di quasi tutti i popoli antichi, ma molto rari nell'uso: fra gli Ebrei abbiamo soltanto la figlia di Jefte e il re Agag, perché Isacco e Gionata non furono mai immolati; tra i Greci la storia di Ifigenia non è neppure certa; e tali sacrifici risultano rarissimi tra i Romani. In sostanza, la religione pagana è costata pochissimo sangue, mentre la nostra ne ha fatti versare dei fiumi. La nostra è senza dubbio la sola buona/ la sola vera; ma noi abbiamo fatto tanto male per mezzo suo, che, quando parliamo delle altre religioni, ci converrebbe osservar la modestia. Alla Borsa di Amsterdam, di Londra, di Surat, o di Bassora, il guebro, il baniano, l'ebreo, il maomettano, il deista cinese, il bramino, il cristiano greco, il cristiano romano, il cristiano protestante, il cristiano quacchero, trafficano tutto il giorno assieme: e nessuno leverà mai il pugnale sull'altro per
342 guadagnare un'anima alla sua religione. E perché allora noi ci siamo scannati quasi senza interruzione a partire dal primo Concilio di Nicea? Costantino cominciò col dare un editto che permetteva tutte le religioni, e finì persecutore religioso. Prima di lui ci si scagliò contro i cristiani solo perché essi cominciavano a comporre una specie di stato nello Stato. I Romani permettevano tutti i culti, persino quello degli Ebrei e quello degli Egizi, che pure avevano il loro disprezzo. Ma gli Egizi, e gli stessi Giudei, non cercavano di distruggere l'antica religione dell'Impero, non correvano per terra e per mare allo scopo di fare dei proseliti: pensavano solo a guadagnar denaro. Invece i cristiani volevano che la loro religione fosse la dominante. San Tommaso ebbe la lealtà di confessare che, se i cristiani non detronizzarono gli imperatori, è perché non lo poterono. La loro opinione era che tutta la terra deve essere cristiana: essi erano dunque necessariamente nemici di tutta la terra, fino a che non riuscissero a convertirla. Essi erano poi nemici fra di loro, su tutti i punti controversi della loro religione. Bisogna cominciare a considerare Gesù come un Dio? Quelli che dicono di no, sono anatemizzati. Alcuni di loro vogliono che tutti i beni siano in comune, come si sostiene che fossero ai tempi degli apostoli? I loro avversari li chiamano "nicolaiti", e li accusano dei delitti più infami. Altri tendono ad una devozione mistica? Vengono chiamati "gnostici" e perseguitati con furore. Insensati, che non avete mai saputo adorare con purezza d'animo il Dio che vi ha creati! San Paolo ha avuto ragione quando ha detto che la carità val meglio della fede e della speranza. [Voltaire, Dictionaire philosophique.] 6. La bibbia del materialismo ateo Se non fosse esistito alcun male al mondo, l'uomo non avrebbe mai pensato alla divinità. Se la natura gli avesse concesso di soddisfare facilmente tutti i suoi bisogni, e di provare soltanto sensazioni piacevoli, i suoi giorni sarebbero trascorsi in una perpetua uniformità e non avrebbe avuto nessun motivo di ricercare le cause ignote delle cose. Se l'uomo fosse sempre pago si preoccuperebbe solo di godere del presente, di percepire gli oggetti che di continuo lo farebbero consapevole della sua esistenza, in un modo cui egli necessariamente assentirebbe. Niente metterebbe il suo cuore in apprensione. Invece, indipendentemente dai bisogni che ad ogni istante si rinnovano nell'uomo e che spesso non può soddisfare, ciascuno ha provato una quantità di guai; ha sofferto per l'inclemenza delle stagioni, le carestie, le epidemie, gli incidenti, le malattie ecc. Perciò tutti gli uomini sono paurosi e diffidenti. L'esperienza del dolore ci
343 rende apprensivi di fronte a tutte le cause ignote, di cui cioè non si sono ancora provati gli effetti. E quanto più l'uomo è ignorante, o privo di esperienza, tanto più soggiace al terrore. Tale ignoranza era certo più grande ancora nelle epoche remote, quando lo spirito umano, nella sua infanzia, non aveva ancora compiuto le esperienze e i progressi che oggi vediamo. Tutte le cause dovettero quindi essere misteri per i nostri selvaggi antenati; tutto ciò che videro dovette apparire loro inusitato, strano, spaventoso. Alle origini, vedendosi spesso afflitti e maltrattati dalla natura, gli uomini supposero negli elementi o negli agenti celati che li regolavano volontà, intenzioni, bisogni, desideri analoghi a quelli dell'uomo. Di qui i sacrifici immaginati per nutrirli, le libagioni per abbeverarli, fumo e incenso per pascerne l'odorato. Dapprima si offrirono i frutti della terra, in seguito si servirono carni, si immolarono agnelli, giovenche, tori. Vedendoli quasi sempre irritati contro l'uomo, si passò, a poco a poco, a sacrificare loro bambini, uomini. Alla fine il delirio dell'immaginazione fece credere che l'agente sovrano che presiede alla natura disdegnasse le offerte tratte dalla terra e potesse essere placato solo dal sacrificio di un Dio. L'idea di un Dio unico nacque in conseguenza dell'opinione che faceva di questo Dio l'anima dell'universo, e tuttavia non poté essere che il frutto tardivo delle meditazioni umane. Lo spettacolo degli effetti diversi e spesso contraddittori che si operavano nel mondo dovette creare la convinzione che vi fossero un gran numero di potenze o di cause distinte e reciprocamente indipendenti: ammisero dunque molteplici cause o molteplici dei agenti in base a principi diversi, e videro negli uni potenze amiche, negli altri potenze nemiche del genere umano. Tale l'origine del dogma così antico e universale che suppone nella natura due principi o potenze mossi da interessi opposti e in perpetua guerra, con cui si credette di spiegare la mescolanza costante di beni e di mali, di prosperità e di sciagure, le vicissitudini insomma cui il genere umano soggiace in questo mondo. Tuttavia, a forza di meditare, alcuni pensatori sono giunti a non ammettere nell'universo che una sola divinità, la cui potenza e saggezza bastassero a governarlo. Ciononostante, fin dai primi passi, il loro spirito dovette cadere nel più grande imbarazzo per le contraddizioni di cui si dovette supporre che questo Dio fosse autore, si fu quindi costretti ad ammettere in questo Dio monarca qualità contraddittorie, incompatibili, disparate. Nel supporre un Dio unico autore di tutte le cose non si poté fare a meno di attribuirgli una bontà,
344 una saggezza, un potere illimitato, ma d'altro canto, come non attribuirgli malizia, imprudenza, capriccio, nel vedere i frequenti disordini e i mali innumerevoli di cui il genere umano è così spesso vittima e il mondo teatro? Perciò vediamo gli adoratori di un Dio indicato sempre come il modello della bontà, dell'equità e di tutte le perfezioni, abbandonarsi alle stravaganze più crudeli. Tutti i sistemi religiosi degli uomini, i sacrifici, le preghiere, le pratiche e le cerimonie non hanno mai avuto altro scopo che quello di stornare il furore della divinità, prevenirne i capricci e stimolare in lei il sentimento della bontà da cui la si vedeva allontanarsi ad ogni momento. Tutti gli sforzi, tutte le sottigliezze della teologia non hanno avuto altro scopo che quello di conciliare, nel sovrano della natura, le idee discordi che essa stessa aveva fatto sorgere nello spirito dei mortali. In una parola la teologia include tra le qualità di Dio il privilegio di agire contro tutte le leggi della natura e della ragione, mentre proprio sulla ragione si dovrebbe fondare il culto che gli dobbiamo e la morale. [P.H. d'Holbach, Syistème de la nature, in A. Minerbi Belgrado, Materialismo e origine della religione nel 700, pp. 73-74, 79 e 85.] 7 Questi filosofi sciagurati... Qualcosa di molto grave esige un Nostro discorso o piuttosto rivendica le Nostre lacrime più abbondanti, e cioè quel morbo pestilenziale, che la malvagità dei nostri tempi ha dato alla luce; affinchè unanimemente, e riunendo tutte le nostre forze, apprestiamo la medicina necessaria, perché per nostra negligenza tale peste non si conservi e non cresca nella Chiesa fino a divenire incurabile. Sembra infatti in questi giorni che sovrastino quei "tempi pericolosi", che profetizzò l'apostolo Paolo, nei quali gli uomini ameranno se stessi, saranno tronfi di superbia, bestemmiatori, traditori, amanti dei piaceri più che di Dio, sempre in atto d'imparare e non mai in grado di possedere la conoscenza della verità, non privi di una specie di religione, ma rifiutando di riconoscerne il valore. Questi si erigono a maestri "quanto mai menzogneri", come li chiama il primo apostolo Pietro, e diffondono dottrine di perdizione; e negano quel Dio che li riscattò, attirandosi una rapida rovina. Dicono di essere sapienti, e sono invece divenuti stolti, e oscurato è il loro pazzo arzigogolare. Voi stessi [i vescovi] che siete posti come vedette nella casa del Signore, vedete bene quanti trionfi può vantare quella filosofia piena d'inganni, cioè quella filosofia
345 che nasconde la propria empietà sotto la grande onestà di questo nome, e con quanta facilità attragga a sé e inviti i popoli in folla. Chi potrà dire o immaginare la malvagità dei dogmi e le perfide stravaganze che va mettendo di moda? Tali uomini, mentre vogliono far mostra di cercare la sapienza, "poiché non la cercano devotamente, cadono in errori così grandi che non conservano neppure più la sapienza comune". E arrivano fino al punto d'inventare, con la massima empietà, o che Dio non esiste, o che è ozioso e sfaccendato, che non si prende per nulla cura delle cose nostre e che non rivela nulla agli uomini; e perché non ci sia da meravigliarsi se qualcosa è santo o divino, blaterano che è stato inventato ed escogitato dalla mente degli uomini inesperti, sbigottiti da futile timore dell'avvenire, e allettati da una vana speranza di immortalità. E questi filosofi sciagurati, spargendo queste tenebre e strappando dal cuore la religione, aspirano anche a questo: che gli uomini sciolgano tutti quei legami dai quali sono uniti fra loro e ai loro superiori, e sono vincolati al loro dovere; essi vanno gridando e imprecando fino alla nausea che l'uomo nasce libero e non è soggetto a nessuno; e che quindi la società è una folla di uomini inetti, che stupidamente si prosternano dinanzi ai sacerdoti, dai quali sono ingannati e dinanzi ai re, dai quali sono oppressi, tanto è vero che l'accordo tra i sacerdoti e i monarchi non è altro che una gigantesca cospirazione a danno della libera natura dell'uomo. Chi non vede che tali follie, e altre consimili, coperte da molti strati di menzogne, apportano tanto maggior pericolo alla tranquillità e alla quiete pubblica, quanto più si tarda a reprimere l'empietà di coloro che ne sono autori; e che tanto più danneggiano le anime redente dal sangue di Cristo, quanto più si diffonde la loro parola subdola, simile al cancro, e si introduce nelle pubbliche accademie, nelle case dei principali personaggi, nei palazzi dei re, e si insinua, cosa mostruosa, persino nei luoghi sacri? [Pio VI, Inscrutabili divinae sapientiae consilio (25 dicembre 1775), in C Falconi, Storia delle encicliche, pp. 31-33.] 8. La fatale costituzione civile del clero Nessun fedele può dubitare che questa nuova costituzione del clero è stabilita su principi eretici, quindi eretica essa stessa in più punti e opposta ali dogma cattolico; che in altri punti è sacrilega, scismatica, distruttrice dei diritti di primato della Nostra Sede e dei diritti in generale della Chiesa, contraria alla disciplina antica e nuova; concepita e pubblicata nell'intento di abolire completamente la religione cattolica. : Benché abbiamo dimostrato con ogni
346 evidenza tutti i vizi di questa "fatale costituzione", Ci siamo tuttavia astenuti finora dallo scagliarci contro coloro che l'hanno data alla luce. Decisi a non allontanarci dal sentiero di una dolce moderazione, non li abbiamo ancora strappati dal seno della Chiesa; ma nello stesso tempo abbiamo dovuto ripeter loro che se non detestavano gli errori dei quali Noi avevamo fatto sentir loro il pericolo, saremmo stati obbligati, per quanto a malincuore, per seguire l'uso costante della Santa Sede in simili occasioni, a dichiarare scismatici gli autori di quella costituzione, quelli che avessero giurato di conformarvisi, i Pastori eletti che fossero stati consacrati e quelli che li avessero consacrati. Noi, più che disposti ad assecondare i voti dell'illustre Nazione Francese in quel che non sarà contrario al dogma e alla disciplina universale della Chiesa. [Pio VI, Chantas quae (16 aprile 1791), in C. Falconi, Storia delle encicliche, pp. 37-38.]
347 X. BORGHESIA E POPOLO DI FRONTE ALLA RELIGIONE NEL SECOLO DEL PROGRESSO TECNOLOGICO (SEC.XIX).
Il dolore del secolo crudele.
Questo sottotitolo è parte di un verso del poemetto Il Trionfo della Libertà scritto nel 1801 dal quindicenne Alessandro Manzoni, appena uscito di collegio, per esaltare la vittoria della libertà e della uguaglianza sociale sul dispotismo monarchico e sul fanatismo religioso. Ma dieci anni più tardi egli si convertirà improvvisamente e diventerà, con gli Inni Sacri, il celebratore dei miti del cristianesimo e del valore universale dei precetti evangelici. Nello stesso anno 1801 il poeta Friedrich von Schiller nel dramma Die Jungfrau von Orléans (La pulzella d'Orléans) deformava la vicenda di Giovanna d'Arco, facendone la vittima di un crudele dovere religioso, che la obbligava a rinunciare all'amore e al diritto di vivere. L'anno dopo, mentre a Parigi veniva pubblicato Le génie du Christianisme, di Fran ois René Chateaubriand, una enfatica apologia della religione cristiana come "la più poetica, la più umana, la più favorevole alla libertà, alle arti, alle lettere", a Jena il giovane filosofo Friedrich Hegel scriveva sul "Kritisches Journal der Philosophie": "La cultura si è sollevata al di sopra della vecchia opposizione tra ragione e fede. Che la ragione debba essere ancella della fede è un'espressione ormai superata. La ragione si è talmente fatta valere sulla religione, che persino una discussione sui miracoli o su cose del genere non ha più alcun senso. Sorge però il dubbio se la ragione vincitrice non abbia avuto in sorte il destino che la forza vittoriosa dei barbari ebbe sulla debolezza delle nazioni più civili: cioè di ottenere il dominio esteriore, ma di restare suddita dei vinti per quanto riguarda lo Spirito...". Sempre nel 1802, il naturalista Jean-Baptiste Lamarck elaborava la prima teoria evoluzionistica, cioè dell'adattamento all'ambiente (le! giraffe hanno dovuto a mano a mano allungare il collo per raggiungere le foglie più alte, e l'allungamento è divenuto ereditario) suggerendo che questo potrebbe anche essere vero per il comportamento morale dell'uomo. Lamarck fu subito smentito clamorosamente dal collega Georges Cuvier, il quale difendeva invece la fissità della specie,
348 stabilita "nell'opera mirabile e perfetta della creazione" e l'immutabilità delle leggi morali dettate da Dio. Nel 1803 Friedrich Ernst Daniel Schleiermacher, teologo pietista affermava che la religione può essere solo un "sentimento di dipendenza" che l'uomo prova nei confronti dell'infinito, e che quindi qualunque concetto tradizionale di Dio come persona costituisce solo un ostacolo all'espressione di tale libero sentimento. Nel 1804 Friedrich Schelling esponeva le proprie teorie misticopanteistiche, ma già tre anni dopo finiva coll'ammettere la dottrina del peccato originale, della caduta dell'uomo, della redenzione. Questi contrasti di opinioni, questi dubbi, queste conversioni improvvise, sono solo alcuni indizi del disorientamento spirituale in cui era caduta la borghesia al principio del nuovo secolo. La protesta contro l'arido razionalismo illuminista già cominciata con il noto movimento preromantico dello Sturm una Drang, era culminata negli anni 1799-1800 con la polemica dei redattori della rivista "Athenàum", intesa a rivalutare le passioni, i sentimenti spontanei, l'irrazionale, lo stupore di fronte all'inconscio, come più vivi e connaturali all'uomo che non il freddo raziocinio. Proprio allora, nel gruppo dell'"Athenàum" Friedrich Novalis lasciava, morendo, il suo capolavoro Die Christenheit oder Europa (La cristianità ovvero l'Europa), un sogno poetico-teologico sull'unità europea nel segno della fede, con un'amara critica della irreligiosità illuminista. [Vedi Documenti Ii. 1.1 Il rilancio della fede era però orientato secondo il processo di secolarizzazione della religione, caratteristico delle società industrializzate, che continua ancora nei nostri giorni: non un'accettazione integrale del cristianesimo con i suoi dogmi e il suo culto, ma un vago sentimento di dipendenza dall'infinito, come diceva appunto Schleiermacher, e di fratellanza con il prossimo, che nei riguardi delle classi più umili si traduceva però piuttosto in un non disinteressato atteggiamento paternalistico. Il popolo andava guidato ed educato moralmente, il che voleva dire indotto all'ubbidienza delle autorità e al senso del dovere, come cooperante con la borghesia al benessere economico. Era anche una forma di difesa della borghesia contro l'ostilità delle masse popolari - il quarto stato - che dopo aver dato il loro appoggio pieno e fiducioso alla rivoluzione e bagnato del proprio sangue i campi di battaglia al seguito di Napoleone, si vedevano estromesse dalle conquiste politiche e civili.
349 Anche Napoleone capì, appena ebbe il potere nelle sue mani, quanto gli sarebbe stato utile, come sostegno per tenere a freno le masse irrequiete, l'appoggio della religione. Non poteva tradire del tutto quelle che erano state le conquiste della rivoluzione, concedendo di nuovo il predominio alla Chiesa, ma ricorse ad astuti compromessi per dimostrare un certo rispetto della religione, senza però venir meno alla propria autorità. Così, nel concordato del 1801, patteggiato col cardinale Consalvi a nome di Pio VII, ristabilì in Francia la libertà di culto ma riservò a se stesso la designazione dei vescovi e non restituì i beni che erano stati confiscati al clero. Un'altra abile mossa di Napoleone fu quella di chiedere al papa, nel 1804, l'incoronazione a imperatore: ma non scese a Roma, e Pio VII subì l'umiliazione di dover accorrere lui, a Parigi, per la cerimonia. Per di più, nel momento in cui, alla presenza di una gran folla che assiepava Notre-Dame, il pontefice si accingeva a incoronarlo, Napoleone gli tolse di mano il diadema e se lo pose egli stesso in capo, quindi incoronò anche la moglie Giuseppina. Ciò non impedì al papa di spingere il proprio servilismo fino a salutare Napoleone con le stesse parole che mille anni prima Leone III aveva rivolto a Carlo Magno: "Vivat in aeternum semper Augustus". Questo umiliante comportamento - che provocò lo sdegno della curia romana - diede al papa qualche effimero vantaggio: se non altro la soddisfazione di costringere immediatamente alle dimissioni, con il breve Post multos labores, i cinquantanove vescovi francesi che a suo tempo avevano accettata la Costituzione civile del clero o erano stati eletti in base a essa, e quindi di deporre, con la bolla Qui Christi Domini, i trentasei vescovi, anche italiani, che si erano indignati per la sua arrendevolezza al dittatore. Ma fu una magra vittoria. I dissidi con Napoleone sorsero nuovamente già l'anno dopo l'incoronazione. Pio VII si rifiutò di riconoscere Giuseppe Bonaparte re di Napoli e di licenziare il reazionario cardinale Consalvi e Napoleone, irritato, fece invadere gli Stati pontifici e trarre in arresto il papa, relegandolo a Savona. Nel 1806 cominciò a essere adottato nelle scuole dell'impero un nuovo catechismo, in cui si leggevano, tra le altre, domande e risposte come: "Quali sono i doveri dei cristiani verso il loro imperatore?"; "I cristiani devono all'imperatore Napoleone amore, ubbidienza, e fedeltà, per la conservazione e difesa del suo trono"; "Perché abbiamo verso l'imperatore tutti questi doveri?"; "Perché Iddio che crea i regni e
350 li distribuisce a suo piacimento ha colmato di beni ili nostro imperatore in pace e in guerra, e di lui ha fatto il nostro sovrano e la sua immagine in terra"; "Ma non ci sono ragioni speciali che ci debbano legare in modo particolare a Napoleone, nostro imperatore?"; "Sì, giacché è lui che Dio ha risvegliato in mezzo a circostanze difficili, per far risorgere il pubblico culto e la santa religione dei nostri padri ed esserne il costante protettore. Con l'unzione ricevuta dal papa, egli è diventato l'Unto del Signore". Quali fossero le reazioni di Napoleone I di fronte alle rimostranze di Pio VII, appare evidente da questa lettera che egli inviò il 22 luglio del 1807 a Beauharnais, viceré d'Italia: "Nella lettera che Sua Santità ti ha indirizzato, ho veduto che il papa mi minaccia. Crede egli dunque che i diritti del trono siano meno sacri che quelli della tiara? Essi vogliono - dicono - pubblicare tutto il male che io ho fatto alla religione. Stolti! Non sanno che non vi è angolo del mondo dove io non abbia fatto molto più bene alla religione che il papa non vi abbia fatto di male. Essi vogliono denunciarmi alla cristianità: questo pensiero ridicolo non può che appartenere a una profonda ignoranza del secolo in cui viviamo. Il papa che trascorresse a tanto, cesserebbe di essere papa ai miei occhi; io non lo considererei che come l'Anticristo mandato per mettere il mondo sottosopra. Se così fosse, io separerei i miei popoli da ogni comunicazione con Roma. Che può fare Pio VII denunciandoci alla cristianità? Porre l'interdetto sul mio trono? Scomunicarmi? Crede che le armi cadranno allora dalle mani dei miei soldati? Io non temerei di unire la chiesa gallicana, italiana, allemanna, polacca in un Concilio, per fare i miei affari senza papa". Le vicende successive sono note. Nel 1808, per la protesta del papa, l'occupazione dello Stato pontificio da parte delle truppe francesi; nel 1809 la bolla di scomunica Quum memoranda ilia die; nel 1812 Pio VII trasferito da Savona a Fontainebleau. La situazione si rovesciò alla caduta di Napoleone. Il Congresso di Vienna del 1815, tenuto da uomini tutti dell'antico regime, non poté che confermare il ritorno dell'Europa all'assetto precedente la rivoluzione. La Chiesa trionfò. Furono ripristinati ovunque il Codice canonico, la Compagnia di Gesù, l'inquisizione. Per evitare che il clero francese si lasciasse prendere da qualche tentazione di autonomia gallicana si formò un movimento intransigente detto ultramontanismo perché sosteneva il diritto assoluto di controllo della società
351 da parte della Chiesa di Roma, chiamata "la Chiesa al di là dei monti". Già questa posizione era stata presa nel 1808 nell'opera Réflexions sur l'état de l'église en Trance, pubblicata dall'abate Felicité de Borghesia e popolo di fronte alla religione amennais, con riferimento alle pretese gallicane. Ora viene assunta anche da altri, e l'ultramontanismo diventa un atteggiamento di fiducia nella pacificazione della società mediante un ritorno generale, di tutti gli uomini, alla fede cattolica e all'ubbidienza della Chiesa. Joseph de Maistre, che abbiamo già ricordato per i suoi tentativi disgregatori in seno alla massoneria, scrive nel 1819 Du Pape, rivendicando al papa il diritto a un potere assoluto su tutti i sovrani della terra. Escono in Francia e in Italia giornali cattolici intransigenti che constatano "la traviata disposizione degli spiriti rispetto alla religione", facendone colpa alla propaganda dei protestanti, dei giansenisti e dei giacobini. Nel 1822 Alexis Jordansky, canonico di Esztergom, in Ungheria, invia al papa la petizione che si richieda ufficialmente ai protestanti l'abiura dalla loro religione che è "un effettivo delitto di eresia". Nel 1823 suscita molto interesse un nuovo libro dell'abate Lamennais, Essai sur l'indifférence en matière de Religion, che polemizza contro ogni forma di deismo e di indifferentismo. Vi è una generale tendenza da parte dei cattolici più ferventi a trasferire il problema religioso dal piano individuale al piano sociale: come l'individuo, così la società dovrà dar conto a Dio del suo comportamento. La restaurazione degli antichi regimi e l'alleanza "trono e altare" provocano forti reazioni di malcontento nella classe borghese, che si vede annullate tutte le conquiste, sociali, politiche e spirituali. Essa, che ormai maneggia la grande arma del capitale, è convinta di essere nel pieno diritto di disporne come meglio crede e sa che la sua intraprendenza è ormai la forza economica di ogni paese. Si trova perciò impegnata un'altra volta a difendere la propria libertà e i propri diritti e cerca di nuovo di sensibilizzare l'opinione pubblica, adombrando i suoi scopi con affermazioni di fratellanza universale, in nome di una religiosità di matrice massonica, ma mimetizzata sotto forme cristianeggianti. Si formano le società segrete dei carbonari, che riconoscono san Teobaldo come protettore e chiamano Gesù "nostro cugino". Ma la propaganda liberale ha poco successo tra le masse popolari, che non ne vedono motivazioni veramente democratiche. Persino Claude Henri Saint-Simon, considerato il padre del socialismo
352 utopistico, non sognava nemmeno di far partecipare alla cosa pubblica le classi proletarie ma, presago degli sviluppi della rivoluzione industriale ormai iniziata, proponeva di affidare il potere politico a scienziati, imprenditori e banchieri, e quello spirituale ai filosofi. E, in Le Nouveau Christianisme, uscito postumo nel 1825, egli si diceva convinto che 1'"associazione" di scienza e filosofia avrebbe condotto a realizzare un "nuovo cristianesimo", una religione universale al di fuori di ogni chiesa e di ogni dogma. Nella società tecnico-industriale, il Saint-Simon avvertiva l'antagonismo tra classe borghese e classe proletaria e andava alla ricerca di una legge morale comune che risolvesse i contrasti, al di sopra della lotta economica e sociale. [Vedi Documenti n. 2.] Anche Giuseppe Mazzini, in un primo tempo sotto la diretta influenza delle idee sansimoniane, riconosceva alla borghesia un ruolo di mediazione tra Dio e popolo. Di qui provengono le concezioni che rimarranno centrali nel suo pensiero: il compito di guida che spetta agli intellettuali nel movimento rivoluzionario e nella società; il nesso indissolubile tra pensiero e azione; l'idea di una religiosità immanente nella vita sociale e nella storia. Il suo cristianesimo si converte così in una non ben definita "religione dell'umanità". La Chiesa non si lasciò illudere da questa copertura religiosa di interessi politici ed economici. Nel 1821 Pio VII con l'enciclica Ecclesiam a Jesu Christo condannò le società segrete in genere e in particolare la carboneria, richiamandosi alle bolle di Clemente XII e di Benedetto XIV contro la massoneria "di cui la Società dei carbonari" dice l'enciclica "è certamente un'imitazione, se essa non ne è forse un germoglio". Nel 1825, papa Leone XII, succeduto a Pio VII, ribadì la condanna delle società segrete con la bolla Quo graviora e conferma cinquecentotredici condanne (di cui sette alla pena di morte, poi condonata) inflitte dal grande inquisitore, cardinale Agostino Rivarola, a guelfi, adelfi, filadelfi, maestri perfetti (tutte società che erano sorte fino dal 1799 contro il cesarismo napoleonico), Società della turba, della Siberia, dei fratelli artisti, dei figli di Marte, degli ermolaisti, dei massoni riformati, dei bersaglieri americani. A queste si aggiungerà, a suo tempo, anche la condanna della Giovine Italia mazziniana. [Vedi Documenti n. 3.] Il cattolicesimo liberale trova intanto la sua più felice espressione letteraria ne I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, già nella prima
353 stesura del 1827, per la profonda simpatia verso gli umili. Ma le sue concezioni democratiche non divergono per nulla da quelle tradizionali della religione cattolica: Dio non s'incarna nel popolo ma nella Chiesa, il popolo deve essere guidato e consigliato dal clero, né deve ribellarsi contro le ingiustizie ma aver fiducia nella provvidenza divina. All'opposto, Lamennais, partito da posizioni ultramontaniste, nelle sue Réflexions del 1808, poi ancora confermate nel 1823 dall'Essaur l'indifférence, cominciò a sostenere, in modo sempre più aperto, la tesi del disimpegno politico da parte della Chiesa, per un'azione molto più viva e profonda entro la società. In questo nuovo spirito fondò, nel 1830, il giornale "L'Avenir", insieme con Jean-Baptiste Lacordaire, teologo domenicano, e Charles Montalembert. "Noi crediamo che oggi la religione debba essere totalmente separata dallo Stato e il prete dalla politica" scriveva Lamennais su "L'Avenir" del 18 ottobre 1830. "L'affievolimento della fede è dovuto in parte, lo diciamo con dolore, alla mancanza di zelo e all'assenza del vero spirito sacerdotale tra i pastori." Ciò discordava talmente con le pretese teocratiche della Chiesa, che i redattori de "L'Avenir" cominciarono a essere visti con sospetto. La loro condanna venne nel 1832, in conseguenza di due articoli scritti da Lamennais negli ultimi mesi dell'anno precedente. Nel primo, in data 15 novembre, Lamennais rivolgeva un invito ai cattolici liberali di Francia, Belgio, Irlanda, Polonia e Germania, perché si costituisse un grande movimento cristiano europeo per la rigenerazione della società: invito che fu interpretato dalla curia romana come istigazione contro l'autorità della Chiesa. Nel secondo Lamennais denunciava il tradimento fatto da Gregorio XVI ai cattolici polacchi, i quali, ribellatisi alle violazioni della loro libertà di fede da parte dello zar Nicola I e perseguitati anche di persona, erano stati ammoniti dal pontefice con l'ordine di rimanere ubbidienti ai legittimi sovrani e di non dare ascolto a "spregiudicati agitatori". L'enciclica Mirari vos accusava Lamennais di "liberalismo" e di "indifferentismo" ed elencava cinquantasei proposizioni desunte da suoi scritti come passibili di scomunica. Amareggiato per l'enciclica del papa e abbandonato dai collaboratori, che fecero atto di sottomissione, Lamennais deplorò che la gerarchia ecclesiastica avesse ormai "divorziato dal Cristo, salvatore del genere umano, per fornicare con tutti i suoi carnefici". Dice il padre
354 Marie-Joseph Le Guillou, insegnante di teologia all'Institut Catholique di Parigi: "È esattamente dall'assassinio della Polonia e dalla presa di posizione della gerarchia contro la libertà che si può storicamente datare l'inizio di una crisi religiosa che dovrà condurre il Lamennais anzitutto verso un doloroso isolamento, poi, per coerenza alla sua concezione della libertà, per rispetto verso la propria coscienza, alla sua tragica rottura con il cattolicesimo". Il documento che attesta questa rottura, non con la fede religiosa ma con la Chiesa cattolica, è un opuscolo, Paroles d'un croyant, pubblicato da Lamennais nel 1833, e subito condannato come "piccolo di mole ma immenso di perversità" dall'enciclica Singulari nos del 25 giugno 1834. Il libro, invece, in cui si trovano frasi come queste: "Chi si accalca-1 va intorno al Cristo per udirne la parola? Il popolo. Chi lo seguiva sulla montagna e nei deserti per ascoltare il suo insegnamento? Il popolo. Chi invece lo interrogava con malizia e gli tendeva insidie per perderlo? Gli Scribi e i Farisei", recupera dal Vangelo il concetto di un riscatto sociale per le classi più umili e disperate. Fu per questo motivo che l'opera trovò entusiastici consensi da parte del Mazzini e dei socialisti, coi quali da quel momento il Lamennais fu in costante contatto. Sinistra e destra hegeliana.
Proprio l'anno in cui le Paroles d'un croyant di Lamennais, "un grido di fosca bellezza all'indirizzo delle masse oppresse per chiamarle alla rivolta nel nome del Vangelo", come è stato di recente definito dallo studioso cattolico René Taveneaux, segnava una conquista decisiva nella storia del liberalismo cattolico. Nella Germania luterana l'eredità di Hegel, morto nel 1831, veniva contesa dai suoi discepoli, divisi in due tendenze opposte su di un vivace dibattito cristologico. La discussione fu aperta, nel 1835-36, dalla pubblicazione, a Tubinga, dei due volumi Das Leben Jesu kritisch Bearbeitet (Storia di Gesù criticamente elaborata) di David Friedrich Strauss, non diretto allievo di Hegel, ma di un suo continuatore, Ferdinand Christian Baur, e ora egli stesso professore di teologia all'Università di Tubinga. Il lavoro era il risultato della preparazione di un corso di lezioni
355 su Gesù, in cui Strauss si proponeva, dopo aver confutato le concezioni tradizionali, di dimostrare come Gesù rappresentasse "la coscienza del divino oggettivata nella forma di un uomo reale", in altre parole, come il sentimento religioso degli apostoli avesse trasformato la figura di Gesù, personaggio reale, predicatore di un messaggio di moralità perfetta, in un "mito", simboleggiante la tendenza universale dello spirito umano a prospettarsi un modello di perfezione assoluta. L'autore focalizzava poi l'attenzione sull'idea di "divinità" attribuita a Gesù, soprattutto con la sostituzione del concetto greco di "figlio di Dio" a quello giudaico di "messia". Era così genialmente superato, con la categoria hegeliana di "mito", il preconcetto di Reimarus - del quale abbiamo a suo tempo parlato - che i discepoli di Gesù si fossero ingannati interpretandone la messianità politica in senso religioso. Non solo, ma venivano anche confutate le puerili teorie dei razionalisti, come Karl Heinrich Venturini, autore nel 1806 di un Natiirliche Geschichte des grofien Propheten von Nazareth (Storia naturale del grande profeta di Nazareth) in quattro volumi, ed Heinrich Paulus che aveva scritto nel 1828 un Das Leben Jesu (Vita di Gesù) in tre volumi, poiché essi, esagerando le tesi di Reimarus, erano del parere che l'attribuzione della divinità alla persona di Gesù fosse effetto del fanatismo dei discepoli, fanatismo che aveva loro permesso di interpretare come avvenimenti soprannaturali, indicanti in Gesù un essere divino, quelli che erano fatti banali: per esempio l'apparizione del sole tra le nubi, o di un tuono, e il volo di una colomba, all'atto del battesimo di Gesù, come la voce di Dio dai cieli e la discesa dello Spirito Santo, e il miracolo di Gesù che cammina sul lago come un effetto ottico. L'opera di Strauss fu immediatamente confutata da Bruno Bauer e da altri tradizionalisti, i quali, convinti di aver capito meglio di lui il pensiero di Hegel, ne citavano soprattutto un passo: "C'è anche una storia che è storia divina, e anch'essa storia nel vero senso della parola. La storia di Cristo non è semplicemente storia d'immagini, ma è costruita come qualcosa di realmente storico, anche se ha per contenuto il divino". Essi fondarono un giornale di teologia speculativa sulle cui colonne continuarono i dibattiti, mentre, a causa dello scandalo sollevato con il suo libro, Strauss fu allontanato dall'insegnamento. Fu lo stesso Strauss che, prendendo a modello il parlamento francese, diviso in destra e sinistra, cioè in membri conservatori e membri
356 progressisti, propose di distinguere in uguale modo gli avversali (la destra hegeliana) da se stesso e da coloro che assentivano alle sue idee (la sinistra hegeliana), e si difese, citando a propria conferma un altro passo delle Lezioni di filosofia della religione di Hegel: "Con il procedere della storia, il formarsi ed estrinsecarsi dello spirito del mondo, si è sentita la necessità di conoscere Dio come essere spirituale, di infinità inesauribile. Questo bisogno ha prodotto l'esigenza che l'infinito spirito di Dio si manifestasse nella forma di un uomo reale. La storia di Cristo è stata raccontata da quelli su cui già si era riversato questo spirito. I suoi miracoli e la sua risurrezione appartengono alla fede, e la certezza della fede non si fonda su testimonianze storiche". Anche Bruno Bauer, dopo averlo in un primo tempo criticato, si accostò ben presto a Strauss, anzi assunse posizioni ancora più radicali nel violento Das entdeckte Christentum (Il cristianesimo svelato), fatto sequestrare dal governo mentre era in corso di stampa, che denunciava il cristianesimo di essere una religione passiva e frustrante, di ostacolo al progresso dello spirito. Bauer giunse persino a osteggiare le proposte governative di emancipazione degli ebrei (tra i quali vi erano ricchi finanzieri che facevano molto comodo alla borghesia imprenditoriale prussiana) con un libello, Die Judenfrage (La questione ebraica), in cui adduceva a giustificazione del proprio odio per gli ebrei il fatto che dal loro popolo era uscita la setta fanatica che aveva dato origine al cristianesimo, una deformazione dell'idea religiosa. Comunque, questo accenno all'ebraismo quale culla del cristianesimo stimolò anche altri ad approfondire lo studio dei rapporti tra le due religioni. Già quando era apparso il discusso libro di Strauss, il teologo Christian Hermann Weisse, pur confutandolo, aveva concesso che sul fondamento messianico ebraico si era innestata un'altra fede, e che, in molti casi, nel racconto storico degli evangelisti si era mescolato il mito. Con maggior precisione scientifica, più tardi, il maestro di Strauss, Ferdinand Christian Baur, individuava nel cristianesimo il sincretismo di due opposte tendenze: quella di Pietro, giudaizzante e nazionalistica, e quella di Paolo, ellenizzante e universalistica, e ne indicava anche le ragioni storiche, cioè la necessità di adattamento all'ambiente. Intanto, un altro discepolo di Hegel, Ludwig Feuerbach, tra i maggiori esponenti della sinistra, sospeso anch'egli dall'insegnamento
357 per le proprie concezioni eretiche in materia religiosa, con un'opera di fondamentale importanza, Das Wesen des Christentums (L'essenza del cristianesimo), del 1841, apriva nuovi orizzonti non solo agli studi sul cristianesimo, ma alla filosofia e all'antropologia. Feuerbach capovolgeva l'astratto idealismo del maestro in un concreto materialismo: non è lo Spirito Assoluto che si oggettiva in un modello umano di perfezione ma, al contrario, è il pensiero umano che esteriorizza i propri concetti morali, i propri ideali di perfezione, le proprie aspirazioni al bene, in un modello astratto inesistente, che chiama Dio. Quindi Dio è una proiezione dell'uomo, è ciò che l'uomo vorrebbe essere. L'esperienza religiosa ha profonde radici nella natura umana, in quanto è una presa di coscienza, da parte dell'uomo, della sua aspirazione a un superamento delle proprie imperfezioni. Ma - fa notare Feuerbach - essa è anche un'alienazione: la fittizia elaborazione di un mondo in cui l'uomo immagina realizzati i suoi ideali, e ha un carattere illusorio e reificante, perché egli si subordina all'idea di Dio, che lui stesso ha creato, concependolo come un Essere reale, superiore, e tende in definitiva a considerare se stesso assoluta negatività e impotenza. Da ciò derivano tutte le conseguenze negative che limitano l'azione umana. Compito della filosofia è convincere l'uomo di questa alienazione da lui operata, dargli consapevolezza di se stesso e farlo passare dall'amore per un Dio immaginario all'amore per l'umanità, per la giustizia e per il bene in sé, con rinnovata fiducia nella propria azione. [Vedi Documenti n. 4.] La teologia diventa così antropologia, e sebbene Feuerbach non abbia ancora intuito le motivazioni sociali ed economiche dell'alienazione religiosa, sulla sua scorta la filosofia dell'idealismo hegeliano, debitamente rovesciata, calando "l'infinito nel finito", apriva la strada al materialismo marxista. Ma già si avvertivano i fermenti della rivoluzione liberale, che sarebbe scoppiata in tutta Europa nel 1848, e la sinistra hegeliana dava sempre più spazio ai dibattiti politici, preparandosi alle epiche giornate del riscatto. La questione sociale.
Il 1848 fu un anno determinante non solo per la storia politica
358 dell'Europa ma anche per la questione sociale, e di riflesso per la religione. L'insurrezione parigina del 22-24 febbraio, nata come moto spontaneo delle masse popolari per la insostenibilità delle loro condizioni di vita (settecentocinquantamila erano i disoccupati in Francia a causa di un ristagno della produzione industriale che durava già da due anni), e quelle che subito seguirono a Vienna, Berlino, Milano, Venezia e Budapest, sebbene immediatamente strumentalizzate dalla borghesia per ottenere riforme a proprio vantaggio e spingere alla guerra contro l'Austria, con lo sbandieramento di ideali di patria e d'indipendenza, dimostrarono quanta fosse la forza che poteva sprigionarsi dal proletariato. A Roma, addirittura, l'appoggio popolare permise ai liberali borghesi la costituzione di una repubblica laica, costringendo il papa alla fuga. La Chiesa cattolica si trovò a dover fronteggiare due gravi minacce: una da parte della borghesia, l'altra da parte del proletariato. La borghesia, cercando di far crollare l'assolutismo monarchico, per reazione al Vaticano che ne era il sostegno, si orientava sempre più verso l'anticlericalismo e l'indifferentismo religioso. Il popolo rimproverava alle autorità ecclesiastiche il disinteresse per i suoi problemi. Segni di disorientamento erano chiari tra gli stessi membri del clero che, mossi dalla buona intenzione di ridare credibilità al cristianesimo, propugnavano un aggiornamento democratico del Vaticano o, al contrario, le suggerivano di arroccarsi ancora più decisamente nel fideismo cieco, cioè nella negazione di ogni diritto alla libertà individuale e al progresso culturale laico. Gli uni e gli altri furono ' sconfessati dal Santo Uffizio Tra i primi, l'abate Vincenzo Gioberti, che già nel 1843 col Primato morale e civile degli Italiani, pubblicato a Bruxelles, aveva esortato a un rinnovamento, ora, proprio nel 1848, dava alle stampe l'edizione definitiva del suo Gesuita Moderno, aperta e documentata denuncia della politica reazionaria dei gesuiti. Anche nel 1848, una critica all'immobilismo della Chiesa e al tradimento della sua missione sociale per la permanenza di una mentalità medievale e l'eccessivo distacco del clero dalla massa dei fedeli, era espressa da un altro abate, Antonio Rosmini, nel libro Delle cinque piaghe della Santa Chiesa. Due anni dopo usciva a Parigi Le ver rongeur, dell'abate Gaume, in cui si dichiarava che il tarlo roditore era la grande ignoranza del clero, e si chiedeva una riforma degli studi nei seminali. A suo sostegno intervenne
359 anche il giornale cattolico "L'Universo". Tra coloro che scelsero la negazione di ogni libertà Louis Bautain e Augustin Bonnetty, ambedue teologi, esageravano il disprezzo per la cultura. Altri ancora, come George Hermes, professore di teologia a Bonn, già messo all'Indice nel 1835, l'austriaco Anton G nther, e il sacerdote Jakob Frohschammer, insegnante di teologia all'Università di Monaco, volevano cercare un punto d'incontro tra la religione cattolica e la filosofia moderna. Tutti vennero confutati dai gesuiti, censurati e messi all'Indice dall'autorità del Santo Uffizio, sospesi dall'insegnamento, e alcuni costretti all'esilio, a mano a mano che le loro opere apparivano, e globalmente condannati come eretici dal breve Singulari quidem di Pio IX del 17 marzo 1856, che denunciava soprattutto i danni del "putidissimo errore" dell'indifferentismo, "sistema scaturito dalle tenebre, con cui gli uomini vengono distolti dalla verità", e del razionalismo, cioè "l di coloro che non si vergognano e non temono di opporre e privilegiare la ragione all'autorità della parola di Dio stesso". Se questi erano i turbamenti che venivano alla Chiesa da parte della classe borghese, ben più gravi erano i motivi di dolore perché le masse popolari si lasciavano corrompere dal materialismo ateo. Già nel 1846, cinque mesi dopo l'elevazione al pontificato, Pio IX con l'enciclica Qui pluribus aveva condannato le nuove dottrine "perverse" del comunismo [vedi Documenti n. 5]; ma quando, nel febbraio del 1848, il movimento operaio cominciò a organizzarsi concretamente sotto lo stimolo del Manifest des Kommunistischen Partei (Il manifesto del partito comunista), redatto a Londra da Karl Marx e Friedrich Engels, la disperazione della curia romana non ebe più limiti. La Chiesa, che anche mezzo secolo più tardi, occupandosi per la prima volta della questione sociale, dimostrerà la propria arretratezza di vedute, tanto più ora, all'uscita del Manifesto, non aveva ancora preso atto del problema. Eppure non poteva non essere a conoscenza dei fatti, e sarebbe bastato che facesse appello a quella che doveva essere la sua missione: stare dalla parte dei miseri. Tra il 1801 e il 1840, Parigi era passata da mezzo milione a un milione di abitanti; Londra da un milione a due; centri industriali minori avevano avuto in proporzione una crescita ancora più
360 impressionante: da settanta-ottantamila abitanti a trecentomila e oltre, senza che vi fosse stato un adeguato sviluppo edilizio. Gli operai e le loro famiglie si ammassavano nella banlieue parigina, negli slums di Londra e nelle periferie delle altre città, in spaventose condizioni di miseria, con tutte le tristi conseguenze: denutrizione, alta mortalità infantile, tubercolosi, alcolismo, delinquenza, prostituzione. Ma l'enciclica di Pio IX, Noscitis et nobiscum dell'8 dicembre 1849, dopo aver inveito contro "i perduti amici della verità, che sputano le proprie turpitudini e mirano ad agitare i popoli alla sovversione dell'ordine costituito", ammoniva le masse: "I poveri e i miserabili ricordino che Cristo ha dichiarato che sarebbero poi fatti a loro i benefici futuri, nel dì del giudizio. Essi non hanno ragione di rattristarsi: la loro povertà spiana la via della salvezza, purché essi sopportino pazientemente la loro indigenza. Se si ribellano, tesoreggiano per se stessi presso il divino giudice i tesori della vendetta". Concepita durante l'esilio di Pio IX a Gaeta, finché durò a Roma la repubblica, esce a Napoli nel 1850 la rivista dei gesuiti "Civiltà cattolica" che poco dopo trasferisce la propria sede a Roma: una rivista retriva e oscurantista, che ancora oggi con aggressività e volgarità di linguaggio rappresenta il pensiero dell'ala più reazionaria della curia pontificia. Fin dai primi numeri i suoi redattori, tra i quali padre Luigi Taparelli, fratello di Massimo d'Azeglio, attaccarono violentemente liberali e socialisti. Nel corso dello stesso anno vennero posti all'Indice i Canti di Giacomo Leopardi (morto nel 1837) per il loro materialismo ateo e specialmente per aver nella "Ginestra" denunciato l'oscurantismo clericale. Sempre nel 1850 il cattolico piemontese Emiliano Avogadro della Motta dava alle stampe un Saggio intorno al socialismo, nel quale si affermava: "Il socialismo è la grande eresia dei tempi moderni, e si riallaccia a tutte le eresie precedenti. Affermando il principio del libero giudizio di ciascuno in materia di fede ha avanzato le premesse di una deificazione dell'uomo e pretende di contrapporsi al cattolicesimo come una vera e propria religione". Effettivamente si ripeteva una situazione di contrasto tra una religiosità laica e quella della Chiesa, simile al contrasto che si era già verificato al tramonto del Medioevo, nel passaggio dall'economia feudale all'economia artigianale. E, come allora, c'era persino una sfumatura di millenarismo nelle attese dei socialisti: lo stesso Marx
361 prevedeva molto prossima la fine della società capitalistica e l'instaurazione di una società senza classi. Tuttavia non fu solo la paura di un sovvertimento dell'ordine sociale a spingere la Chiesa alla condanna del marxismo come eresia, ma il pretesto principale fu la concezione materialistica della realtà e il suo ateismo. A dire il vero, questo fu allora - e continua a essere volutamente frainteso. Non vi è nel marxismo una negazione preconcetta di Dio, né l'intento di sradicare dal cuore degli uomini il sentimento religioso, pur considerandolo filosoficamente una sovrastruttura ideologica, "una consolazione della coscienza", come dirà Friedrich Engels in un articolo sul "Sozialdemokrat" di Zurigo. Egli, anzi, proprio nel 1848, già da qualche anno stava lavorando a un più lungo saggio, Zur Ceschichte des Urchristentums (Sulla storia del cristianesimo primitivo), in cui riconosceva l'importante funzione rivoluzionaria svolta nei primi secoli dal cristianesimo, in quanto "religione degli schiavi e dei liberti, dei poveri e dei senza diritti"; e per il fatto che anche il cristianesimo si era proposto, come il socialismo, "un riscatto degli umili dalla schiavitù e dalla miseria", Engels riteneva possibile un confronto fra i due movimenti. A ogni modo, l'aver attirato l'attenzione sopra le ingiustizie sociali servì a sensibilizzare la coscienza di alcuni sacerdoti, che si fecero promotori di iniziative democratiche, pur consapevoli di incorrere nelle sanzioni delle autorità ecclesiastiche. Nel mondo cattolico, l'unico esempio è forse quello di Wilhelm Emmanuel Ketteler, vescovo di Magonza dal 1850, che fu animatore del movimento cristiano sociale nella regione renana, visto con sospetto dalla curia di Roma, mentre più tardi papa Leone XIII - convinto di essere un vero democratico - chiamerà Ketteler "suo precursore". Numerosi furono invece i membri del clero protestante che si proposero di ricondurre il cristianesimo alle caratteristiche delle sue origini o si impegnarono in una encomiabile attività assistenziale e di riscatto delle asse. Uno dei primi era già stato lo scozzese Edward Irving: espulso nel 1832 dalla Chiesa presbiteriana per i rimproveri che rivolgeva a tutte le chiese cristiane di aver abbandonato il modello neotestamentario, ne fondò una propria, la Chiesa apostolica, che conta attualmente un mezzo milione di adepti in Inghilterra e negli Stati Uniti, e dalla quale dopo il 1860 nacque in Germania la Comunità dei neoapostolici. L'irvingismo consisteva appunto nella costituzione
362 di una chiesa retta da dodici apostoli, dotati di doni profetici, che predicavano ai fedeli la seconda venuta di Cristo per salvare l'umanità dalla corruzione del capitalismo. Irving era particolarmente aspro nei suoi sermoni contro i ricchi borghesi: "O peccatore, che cosa, che cosa, che cosa può salvarti, salvarti, salvarti, dal giudizio di Dio? Oh, nulla, nulla! Nessuno ti può strappare dalle sue mani!". In Germania, nel 1841, fu processato e imprigionato il pastore luterano Johann Wilhelm Ebel, che aveva costituito una comunità pietista, denominata popolarmente dei Mucker (baciapile), che si basava sull'amore e sulla fratellanza dei fedeli, anche di sesso diverso, e per questo motivo accusata di immoralità. Nel 1845 fece scalpore // Vangelo di un povero peccatore di Wilhelm Weitling, che proponeva un sistema comunistico ispirato al cristianesimo primitivo, da attuare con un colpo di stato. Intorno al 1850 il pastore anglicano John Nelson Darby, convinto della prossima fine delle varie chiese cristiane per la loro devianza dai veri principi della fede, creò la comunità detta dei Fratelli di Plymouth o darbisti, tuttora esistente in Inghilterra e in America, i cui fedeli si impegnano a una vita molto austera come esempio di purezza in mezzo alla corruzione della società. Contemporaneamente un altro pastore anglicano, Charles Kingsley, fondò in Inghilterra i Christian Socialists, fortemente avversati dal gruppo di teologi che, attorno al pastore John Newman convertitosi al cattolicesimo nel 1845, e più tardi nominato cardinale, formavano il Movimento di Oxford di tendenze conservatrici; tanto che proprio nel 1850 Pio IX osò rivolgere un appello al primo ministro inglese lord Russell per l'istituzione di nuovi episcopati cattolici in Gran Bretagna. La maggior parte del clero anglicano considerò la lettera del pontefice una specie di insulto. Anche la reazione popolare fu negativa: a Londra e a Greenwich alcuni cittadini vestirono dei fantocci da papa e da cardinali e li bruciarono sul rogo. Ancora in Inghilterra, il pastore anglicano Henry Prince si ritirò con la propria famiglia e altri seguaci nelle campagne del Somersetshire, costituendo la setta degli agapemoniti, che nel 1860 erano già una sessantina, in attesa e preparazione di una nuova era. Inizialmente con impegno filantropico e assistenziale, a partire dal 1858 si dedicò a un intenso apostolato fra gli abitanti dei quartieri più poveri di Londra, con la collaborazione della moglie e dei figli,
363 il metodista William Booth, portandovi conforto non solo spirituale, ma anche materiale, convinto che il miglioramento delle loro condizioni sociali ed economiche fosse premessa indispensabile di una redenzione morale e religiosa. Con l'aggiunta di altri volontari si creò la Missione cristiana, che più tardi, specie per merito della figlia di William, Evangeline, prendendo il nome di Esercito della salvezza, diverrà un'organizzazione di tipo militare, con generali, ufficiali, cadetti e soldati, tutti in servizio attivo per raggiungere, con un contatto diretto nelle strade e nei locali pubblici, richiamando l'attenzione con canti e suoni di una banda musicale, le masse abbandonate a se stesse dalle altre Chiese. Ancora oggi l'Esercito della salvezza assolve un'importante funzione sociale con i suoi circa duemila centri di assistenza per alcolizzati, prostitute, ex carcerati e drogati, con luoghi di ricovero, mense popolari, uffici di collocamento. Il messianismo e il millenarismo sociale ebbero però particolare sviluppo negli Stati Uniti d'America, ormai avviati a diventare il più grande paese industrializzato del mondo. Nella prima metà dell'Ottocento sorsero le comunità Zoar nell'Ohio, Harmony, che poi prese il nome di Economy, in Pennsylvania, Oneida Creek nel Tennessee, Amana nello Iowa, Adonai shomo ("Il Signore è vicino") e altre minori, i cui membri, nell'attesa della parusìa, vivevano isolati dal mondo, rifiutando anche di prestare servizio militare, sostenendosi con il proprio lavoro e mettendo i beni in comune. Nel 1840 morì, linciato dai proprietari terrieri dell'IUinois, che egli deprecava perché schiavisti, Joseph Smith, il quale già dal 1830 aveva dato vita alla comunità dei mormoni. Un angelo gli avrebbe rivelato dov'erano nascoste certe tavolette d'oro su cui un presunto Mormon aveva scritto che Gesù Cristo, dopo la morte, era apparso in America e aveva istituito tra gli indiani la sua vera Chiesa, e che adesso erano prossimi gli ultimi giorni. [Vedi Documenti n. 6.] Il nuovo capo, Brigham Young, condusse allora i mormoni sulle rive del Lago Salato, dove essi fondarono Salt Lake City, ancora ai nostri giorni sede della comunità. Nel 1860, però, un gruppo di dissidenti si separò, raccogliendosi con a capo il figlio primogenito di Smith, anch'egli di nome Joseph, nella Chiesa dei santi dell'ultimo giorno. a negazione del peccato originale e del battesimo agli infanti, la comunione con pane e acqua, la mescolanza nella dottrina di elementi pantelstici e gnostici, la poligamia, allontanano notevolmente
364 la Chiesa dei mormoni dal cristianesimo ufficiale. Essa tuttavia conta ancora oggi più di un milione di membri negli Stati Uniti. Anche William Miller, che cominciò a predicare nel Massachusetts verso il 1840, in base a una profezia di Daniele (Vili 13-14) credeva imminente il ritorno del Messia, e una sua discepola, Ellen Gould Harmon White, scrisse nove volumi di "rivelazioni", tra cui una fattale da Gesù stesso, per annunciarle che era cominciato l'ultimo millennio. Nacquero così gli avventisti, poi suddivisi in cinque Chiese diverse, che ancora oggi continuano a spostare in avanti la data del millennio, senza scoraggiarsi. Nel 1879, la signora Mary Eddy Baker fondò il Movimento della Christian science, che vuoi convincere i fedeli che con la fede non si guariscono solo i mali spirituali, ma anche quelli fisici. Intanto, già dal 1874, Charles Taze Russell aveva creato la setta dei testimoni di Geova, prendendo spunto da Isaia: "Voi siete i miei testimoni, oracolo di Jahve" (is XLIII10), che negano la Trinità, la divinità di Cristo, l'immortalità dell'anima, mentre il loro credo si basa unicamente nell'attesa millenaristica. Convinti, dapprima che il millennio apocalittico fosse cominciato nel 1914, con l'inizio della prima guerra mondiale, anch'essi continuano a rimanere in attesa della battaglia finale tra Satana e Jahve, quando la terra diventerà il soggiorno dei sopravvissuti e dei morti risuscitati e Cristo allontanerà i cattivi dai suoi fedeli "testimoni". Un altro movimento religioso dissidente è quello dei pentecostali, fondato esso pure negli Stati Uniti nel 1886, con un contenuto luterano: l'uomo si salva mediante la fede e non le opere, è obbligatorio il battesimo da adulti, mediante immersione totale, e in quel momento lo Spirito viene ad abitare nell'uomo e gli da una forza soprannaturale e il dono di parlare le lingue (come Gesù lo diede agli apostoli a Pentecoste), ed essi, infatti, nei momenti di estasi, si esprimono con suoni e vocaboli inesistenti, convinti di essere ispirati. Persino nella Chiesa islamica e in quella ortodossa orientale si avvertì il contraccolpo dei fermenti sociali e religiosi dell'Europa e dell'America. A Teheran fino dal 1844 il predicatore Mirza 'Ali Muhammad, detto Bab (la Porta), cominciò a battersi per rivendicare un'evoluzione dei costumi del proprio paese, l'emancipazione della donna, l'abolizione del velo, l'instaurazione di una maggiore uguaglianza fra gli
365 uomini. A Bab, arrestato e fucilato a Tabriz nel 1850, successe, come capo del movimento religioso da lui creato, un nuovo profeta, Mirza Jusayn, salutato Baha 'Ullah (Gloria di Dio) e riconosciuto come l'ultima incarnazione del Figlio di Dio dopo Mosè, Gesù e Maometto. La nuova religione, sopravvissuta alle persecuzioni feroci della Chiesa islamica e del governo, poi di nuovo messa al bando da Khomeini, è un tentativo di adattare i principi morali comuni all'ebraismo, al cristianesimo e all'islamismo alle esigenze dei nuovi tempi. In Russia, nella Chiesa ortodossa, vi furono, a partire dal 1857, fermenti di risveglio sociale e religioso per opera del gruppo degli slavofili, soprattutto Alexei Khomiakov, Yuri Samarin, Ivan e Piotr Kireevskij, intellettuali religiosi che, osteggiati e sconfessati dalla Chiesa ufficiale, diffidati dal governo come "liberi pensatori", si riunivano per le loro discussioni in salotti privati, sostenendo la purezza della tradizione ortodossa di una Chiesa unita nell'amore collettivo, contro la tendenza all'autoritarismo di tipo cattolico. "Ci domandavamo" scrive uno di essi, Yuri Samarin "se è bene che la cultura russa sia sempre più sommersa dall'Occidente o se non dovrebbero i Russi penetrare più a fondo nell'ortodossia e scoprirvi le fondamenta di una nuova cultura universale." Molti di essi erano anche vivamente sensibili al problema del riscatto sociale delle masse. Furono certo anche le parole degli slavofili a influire, nel 1861, sullo zar Alessandro II per l'emancipazione dei servi della gleba. Invece la Chiesa di Roma continuò a rimanere nell'immobilismo e ad avversare ogni richiesta di rinnovamento democratico. Un unico tentativo, per affascinare ancora le masse con la superstizione, venne fatto nel 1854 con un gesto tanto inutile quanto assurdo. L'assemblea concistoriale composta da centonovantacinque tra cardinali e vescovi di tutta Europa, riunita a Roma da Pio IX, approvò un nuovo dogma, proposto dal pontefice: il dogma dell'Immacolata concezione di Maria, cioè che anche Maria, madre di Cristo, per straordinario privilegio divino sarebbe stata concepita monda dal peccato originale. Tale proclamazione fu naturalmente accolta con stupore, e anche molti vescovi protestarono perché il dogma non poggia su alcun passo scritturale. Ma incorsero nel peccato di eresia, poiché Pio IX spiegò che gli era stato ispirato direttamente dallo Spirito Santo. Anzi, la Chiesa fece confermare il dogma "personalmente" dalla
366 Madonna stessa, che I'11 febbraio del 1868 apparve a Lourdes a una pastorella del luogo, dicendole: "Io sono l'Immacolata Concezione"; frase che tra l'altro contiene un errore di linguaggio, perché Maria, se mai, avrebbe dovuto dire: "Io sono l'Immacolata Concepita". Quanto al dilagante laicismo della borghesia e all'aperta ostilità dei vari Stati liberali che andavano costituendosi, la Chiesa non fece alcuno sforzo per tentare almeno le vie del compromesso, ma rispose contrattaccando con estrema violenza. Nel 1856 Pio IX scomunicò le Cortes di Spagna, il governo del Messico e quello del Regno Sardo per aver soppresso gli ordini religiosi e incamerato i beni ecclesiastici. "La società" commentò il pontefice "è tormentata da una grande eresia, causa di scismi, di guerre, di usurpazioni e ribellioni; eresia sociale e religiosa nello stesso tempo, che considera gli uomini indipendenti da ogni legge spirituale e gli Stati indipendenti da ogni autorità superiore, non eccettuata quella di Dio stesso." Né la Chiesa si limitò a questo rammarico. Capi di governo e ministri, tra cui Urbano Rattazzi, ministro degli Interni dello Stato piemontese, dovettero lamentare gravi atti di ritorsione da parte del clero: rifiuto del battesimo a figli di liberali, rifiuto del matrimonio, minacce alla confessione, imposizioni di ritrattazioni ai morenti. Quando, nel 1859, scoppiò la seconda guerra d'indipendenza e anche i liberali dello Stato pontificio furono in fermento, la Chiesa inorridì per il timore di perdere anche il potere temporale. Appena a Perugia venne scacciata la guarnigione papale, i tumulti furono repressi con così feroci persecuzioni che tutti i giornali liberali, in Italia e in Francia, espressero la propria indignazione. Ma Pio IX rispose con un anatema: "Guai a coloro che hanno provocato questi avvenimenti! Che tutti gli anatemi della Chiesa, tutte le maledizioni del Cielo ricadano sul loro capo! Mentre noi riproviamo apertamente questi atti di ribellione, e apertamente dichiariamo essere necessario a questa santa sede il civile principato, in sì grande turbamento dichiariamo che soffriremo qualunque pericolo piuttosto che abbandonare questa suprema sede del principe degli apostoli, rocca e baluardo della fede cattolica". Cominciate poi le annessioni al Piemonte degli Stati dell'Italia centrale, il 29 marzo Pio IX pubblicò la bolla di scomunica degli invasori e usurpatori, accusando il governo subalpino di "aver estorto il suffragio popolare col denaro, le minacce, il terrore e altri astuti artifici" e ritenendolo responsabile di
367 sacrilegio. Quindi Pio IX trasferì la sede pontificia dal Quirinale al Vaticano. Positivismo, evoluzionismo, socialismo.
Mentre il messianismo e il millenarismo religioso mettevano in crisi la funzione di guida della Chiesa, il contemporaneo progresso 1 scientifico minava addirittura i fondamenti della teologia naturale e ' morale del cristianesimo. Il positivismo di Auguste Comte, indirizzo dominante del pensiero europeo nella seconda metà dell'Ottocento, non si presentava so* lo come un metodo di conoscenza della realtà, ma come un ambizioso programma di perfezionamento umano: le scienze naturali servono anche a studiare il comportamento degli uomini, e come la loro applicazione permette lo sviluppo tecnico-economico, così deve permettere lo sviluppo sociale e morale dell'umanità. Alla teologia si sostituiva la sociologia, studio delle esigenze umane e del modo di soddisfarle, studio delle relazioni umane nelle situazioni ambientali e del modo di indirizzarle per il bene comune. Al culto di Dio si sostituiva il culto dell'Umanità, la cui legge morale doveva essere "vivere per gli altri", procedendo per gradi: devozione alla donna (madre, moglie), alla famiglia, al prossimo, a tutta l'umanità. A tale proposito, Auguste Comte nel 1852 elaborò un Catéchisme positiviste nel quale fissava le norme rituali, un calendario liturgico, i modi di formazione dello speciale sacerdozio. Poco convinto di questo orientamento della filosofia di Comte, che pur partendo da premesse scientifiche approdava ancora alla creazione di un sistema religioso, John Stuart Mill sostenne che fondamento della condotta morale umana non è l'altruismo, ma è sempre e soltanto l'utilitarismo personale. I principi generali di un bene sociale e umanitario possono rientrare nelle scelte utilitaristiche individuali soltanto se vi è la convinzione che anch'essi in ultima analisi ridondano a interesse personale. Queste tesi Stuart Mill approfondì negli Essays on Religion, in cui esamina appunto la natura della religione. [Vedi Documenti n. 7.] Anche il riconoscimento di un'utilità della religione, fatto da Stuart Mill, fu rifiutato da Emile Littré, il quale si battè sulla "Revue
368 de philosophie", da lui fondata nel 1867, per un cauto agnosticismo e, coerente con i principi filosofico-scientifici del positivismo, sostenne l'origine organica della morale. Era questa del Littré una prima deduzione dalla scoperta che pochi anni prima aveva fatto lo scienziato inglese Charles Darwin, esponendola nel tanto dibattuto e controverso On the Origin of Species (1859), la cui prima edizione andò esaurita in un solo giorno. La teoria dell'evoluzionismo di Darwin completava quella del Lamarck (adattamento all'ambiente), sostenendo invece la selezione naturale. La legge darwiniana, secondo cui tra gli individui modificati fisiologicamente per adattamento all'ambiente sopravvivono, per selezione naturale, soltanto i meglio dotati, smentiva clamorosamente il dogma cristiano della creazione una tantum da parte di Dio di individui già perfettamente caratterizzati. L'opera di Darwin trovò subito sostenitori entusiasti in Marx, Engels, nel celebre fisiologo Thomas Huxley, che fu il primo a studiare la possibilità di una derivazione dell'uomo dalle scimmie, e da numerosi altri scienziati, come il professor Filippo de Filippi, insegnante di zoologia all'Università di Torino, che venne esonerato dall'incarico per aver tenuto una conferenza, nel 1864, sull'argomento: Uomo e scimmia. La motivazione della condanna lo definì "uomo così empio da istillare massime scellerate nell'animo degli studenti". Ancora molti anni dopo, nel 1891, verrà violentemente attaccato dalla rivista dei gesuiti, "Civiltà cattolica", lo scrittore Antonio Fogazzaro per aver tenuto delle conferenze sui rapporti tra cristianesimo e darwinismo. Avendo gli archeologi messo alla luce antichissimi resti di antropoidi, certi cattolici dissero che si trattava di "prove" fatte da Dio prima della creazione di Adamo! Un altro grave pericolo, derivante dalle teorie darwiniane, fu l'idea di esaminare se analoghe modificazioni e trasmissioni genetiche potevano aver luogo anche nelle qualità morali della specie umana. L'applicazione della legge evoluzionistica al campo psicologico ed etico venne fatta già nel 1861 dal sociologo Herbert Spencer, il quale nell'opera Education: Intellectual, Moral and Physical, affermò che il processo evolutivo della morale muove dal rapporto tra le nostre azioni e le loro conseguenze, quindi con una motivazione utilitaristica, ma con una sempre maggiore componente di altruismo. Tuttavia Spencer concludeva che la realtà
369 ultima e assoluta del Bene rimarrà sempre inconoscibile all'uomo, e che ciò legittima la religione. Queste discussioni sul fondamento utilitaristico del comportamento umano e sulla selettività evoluzionistica, che fa emergere gli individui meglio "dotati", riaprivano il problema dell'essenza stessa della morale e dell'esistenza o meno di uomini che la possedessero nel suo grado più alto. Già nel 1841 Thomas Carlyle nella sua opera On Heroes, Hero-Worship and the Heroic in History aveva celebrato, attraverso la biografia di grandi personaggi che avevano dato un'impronta determinante alla storia del progresso umano (Luterò, Shakespeare, Maometto, Dante, Burns, Napoleone), il concetto di "energia personale" quale dote caratteristica che permette agli uomini di emergere. Un decennio dopo, l'americano Ralph Waldo Emerson, sulla traccia di Carlyle, in Representative Men aveva elencato gli uomini più significativi nella storia di tutti i tempi, individuando però la causa della loro superiorità nelle doti morali e nello sforzo di adeguare la propria condotta alle leggi di Dio. Ora, nella seconda metà dell'Ottocento, questo compromesso tra moralità naturale e moralità cristiana venne applicato da Ernest Renan nella sua Vie de Jésus (1863; in seguito ritoccata e ampliata fino alla 13a edizione definitiva, del 1867). In un certo senso, il Gesù di Renan appartiene anch'egli alla categoria delle figure rappresentative: è un uomo, unicamente un uomo, ma eccezionale per la santità di vita, la bontà e la dolcezza, doti che fanno di lui un modello e maestro di una legge morale per tutti. Messa all'Indice e stroncata dalla critica cattolica, per aver fatto di Gesù Cristo soltanto un uomo, l'opera di Renan ebbe invece immensa fortuna popolare, perché oltre a inserirsi nelle concezioni filosofiche dell'epoca, la figura di Gesù era costruita anche secondo i canoni romantici: bellissimo fisicamente, affascinava le donne, carezzava i bambini. Una radicale negazione del cristianesimo sarà, invece, alcuni anni dopo, in tutte le opere del filosofo Friedrich Nietzsche, il quale riconoscerà il "superuomo" in colui che sappia autoaffermarsi con la propria volontà, scavalcando tutti i valori morali tradizionali. La sua più nota opera, Also sprach Zarathustra (Così parlò Zarathustra), del 1885, attraverso aforismi di intonazione biblica, sarà una caustica analisi della morale comune che avvilisce l'uomo e frena il suo impulso vitale ad affermarsi al di sopra della massa, e due anni dopo, in Zur Genealogie
370 der Moral (Sull'origine della morale), Nietzsche scriverà: "La morale cristiana è una morale da schiavi, nata dal risentimento degli individui inferiori per gli individui più dotati e dal proposito di frenare la loro volontà di potenza, facendoli succubi di dottrine che prediligono la mansuetudine e l'uguaglianza fra gli uomini". Tutte queste filosofie, dall'utilitarismo di Stuart Mill al superomismo di Nietzsche, non facevano che confermare la supremazia della classe borghese come classe dirigente, e la religione, quando non era negata, era solo concepita come strumento di conservazione dell'ordine sociale esistente. Esse influirono anche in scrittori e poeti come Johann August Strindberg, autore di romanzi in gran parte autobiografici, che scavano con profondo pessimismo nella natura umana fino al suo fondo primitivo e brutale. Decisamente misogino, nel 1885 la denuncia della Lega svedese per l'emancipazione della donna fu processato e venne assolto a stento. Per un certo periodo, dal superomismo di Nietzsche fu influenzato anche Gabriele d'Annunzio. Da tutte queste innovazioni le masse popolari non ebbero alcun beneficio, né spirituale né materiale, e dopo qualche anno di riorganizzazione, ammaestrato dai fatti del 1848, il movimento operaio riprese vita nell'alveo del socialismo. Il 28 settembre 1864, in occasione di un comizio di solidarietà con il popolo della Polonia che stava combattendo per la propria indipendenza, si creò a Londra la prima Associazione Internazionale degli operai. Lo stesso Karl Marx ne redasse l'indirizzo inaugurale, che realizzava sul piano organizzativo la Prima Internazionale, con l'appello del Manifesto: "Proletari di tutto il mondo, unitevi". La Chiesa, scossa in quegli anni anche dai tentativi del governo sabaudo di occupare Roma e dalle leggi anticlericali del Cavour, l'8 dicembre dello stesso anno fece sentire la sua voce di riprovazione sia delle filosofie borghesi sia del socialismo, nell'enciclica di papa Pio IX, Quanta cura, che comincia appunto con le parole: "Con quanta cura e pastorale vigilanza i romani pontefici nostri predecessori non abbiano mai tralasciato di nutrire l'universale gregge del Signore e rimuoverlo dai pascoli attossicati, è a voi tutti ben chiaro e manifesto". Pertanto è logico che Pio IX si proponeva di seguirne l'esempio, difendendo il gregge del Signore dalle "nefande macchinazioni di uomini iniqui che, schizzando come flutti di un mare procelloso le spume delle loro fallacie, con le loro opinioni ingannevoli
371 e coi loro scritti perniciosissimi si sono sforzati di sconquassare le fondamenta della religione cattolica e della civile società, di levare di mezzo virtù e giustizia, di depravare gli animi e le menti di tutti, e di sviare dalla retta disciplina dei costumi gli incauti e massimamente l'inesperta gioventù, di guastarla miseramente, di irretirla nei lacci degli errori, e per ultimo di strapparla dal seno della Chiesa cattolica". L'enciclica era seguita dal Sillabo, un elenco di ottanta errori che comprendevano confusamente il panteismo, il naturalismo, il razionalismo, l'indifferentismo, il socialismo, il comunismo, le società segrete e quelle clerico-liberali, le dottrine contrarie al potere temporale dei pontefici e ai diritti della Chiesa come Stato, contrarie al matrimonio religioso e alla morale cristiana. L'oscurantismo del documento papale sollevò l'indignazione dell'intero mondo civile, e anche alcuni sacerdoti furono puniti per aver osato criticarlo, come il noto teologo gesuita Carlo Passaglia, che venne sospeso a divinis. A tutti coloro che misconoscevano al pontefice l'autorità e la competenza di legiferare su argomenti così svariati, papa Pio IX rispose convocando a Roma, l'8 dicembre 1869, il Concilio ecumenico vaticano primo per proporre ai settecento vescovi venuti da ogni parte del mondo non solo l'approvazione della sua competenza a esprimere giudizi su argomenti di filosofia, di scienza e di politica, ma addirittura l'infallibilità di tali suoi interventi. Perduta anche l'ultima isola di effettivo potere temporale (il Concilio fu sospeso dalle truppe piemontesi che il 20 settembre 1870 occuparono Roma), il papa intendeva dare una clamorosa affermazione della propria autorità assoluta su tutto il mondo cattolico. La presentazione dello schema De summo pontífice sulla infallibilità del papa fu preceduta nel Concilio dalla discussione di un altro argomento, De Ecclesia Christi, che ne poneva, in un certo senso, il fondamento legale: il riconoscimento di Cristo Re, del quale il pontefice di Roma si considerava legittimo successore. Lo schema non era altro che la ripetizione di una tesi dogmatica già ribadita centinaia di volte nel corso dei secoli, e la discussione procedette rapidamente, dando a Pio IX gli elementi per emanare poco dopo, il 12 aprile 1870, la costituzione Dei Filius, un'ennesima condanna di tutti coloro che mettevano in dubbio la divinità di Gesù e non ne riconoscevano la regalità.
372 Il secondo schema fu invece molto dibattuto, perché la proposta di Pio IX violava la concezione tradizionale della Chiesa come organismo oligarchico, facente capo ai vescovi, dei quali il papa doveva essere soltanto considerato primus inter pares. Scontri tra la pretesa dei papi di esercitare l'assolutismo monarchico e la volontà dei vescovi di attribuire a tutto il Concilio episcopale la responsabilità delle decisioni, soprattutto in materia dottrinale, si erano verificati spesso, fin dai primi secoli del cristianesimo, ma ora diventava particolarmente delicato l'aspetto politico e sociale della questione: il riconoscimento dell'infallibilità pontificia avrebbe dato ai papi un'arma potente per intromettersi nei difficili rapporti tra i vescovi e le autorità civili dei loro episcopati. Così infatti si esprimerà, nel luglio 1870, l'enciclica Pastor aeternus nel suo articolo fondamentale: "Se qualcuno afferma che il pontefice romano ha solamente l'ufficio di ispezione e di direzione, ma non la piena e suprema potestà di giurisdizione su tutta la Chiesa, non solamente nelle cose che riguardano la fede e i costumi, ma anche in quelle che riguardano la disciplina e il governo della Chiesa diffusa in tutto il mondo, o che egli abbia soltanto la parte più importante ma non tutta la pienezza di questa suprema potestà, sia anatema". Circa un centinaio di vescovi, soprattutto della Germania, della Francia, dell'Austria e dell'Ungheria, protestarono e diedero voto contrario, ma i vescovi dell'Italia, della Spagna, dell'Irlanda e dell'America del Sud, che erano in maggioranza, furono favorevoli quasi all'unanimità. Ancora prima delle votazioni alcuni dei primi abbandonarono il Concilio. In Germania i dissidenti si raccolsero attorno al vescovo Ignaz Dòllinger, costituendo il Gruppo dei vecchi cattolici, che continueranno ad avere vita fino ai nostri giorni, concependo la Chiesa - similmente ai protestanti - come unione alla pari di tutti i fedeli. Il vescovo Dòllinger osò denunciare le pretese assolutistiche di Pio IX con un duro attacco sulla rivista "Allgemeine Zeitung": "Il papa è schiavo della sua ambizione, si preoccupa solo della propria gloria" e ciò gli valse l'immediata scomunica. I Vecchi cattolici tedeschi ebbero naturalmente la piena approvazione del cancelliere Ottone di Bismarck, il quale, trionfante per la vittoria riportata nella guerra franco-prussiana, nel gennaio 1871, con la caduta di Napoleone III, poteva cominciare la sua "lotta per la civiltà", la Kulturkampf, che consisteva nella laicizzazione dello Stato
373 borghese: abolizione degli ordini religiosi, soppressione dei seminari, scuole affidate unicamente a insegnanti laici, espulsione dei gesuiti, divieto ai preti di fare propaganda politica dal pulpito, adozione del matrimonio civile e abolizione dell'obbligo del battesimo, soppressione degli articoli relativi alle prerogative della Chiesa, contenuti nella costituzione prussiana del 1850. Le drastiche misure adottate da Bismarck crearono drammatici conflitti e circa seicento ecclesiastici finirono in prigione. Ma nel 1875 Bismarck e il partito clericale capirono che era nel loro interesse unire le forze contro il comune pericolo, rappresentato dal movimento socialista, e Bismarck, dimenticando gli anatemi che erano stati lanciati contro di lui da Pio IX, ritirò le leggi anticlericali. D'altra parte questo era ormai l'orientamento generale in Europa. Soffocata nel sangue, con trentacinquemila vittime, la Comune di Parigi, che era stata nel 1871 il primo esempio di governo proletario, la borghesia francese aveva placato le masse con la lusinga di un'alleanza socialdemocratica, che in effetti assicurava a se stessa le leve del governo, e anche negli altri Stati la borghesia era divenuta di fatto la detentrice del potere. Pertanto la Chiesa, che fino ad allora aveva osteggiato la lotta dei liberali contro i governi aristocratici, si rese conto che ora le conveniva cercare di attirare a sé la borghesia con un legame che sostituisse quella che era stata in precedenza l'alleanza trono-altare, e difenderla dal pericolo del comunismo. Tale era l'avversione per le aspirazioni innovatrici di socialisti e comunisti, che persino le iniziative a carattere religioso che tendessero a finalità socialitarie venivano perseguitate dallo Stato come infrazioni alle leggi civili e dalla Chiesa come eresie. La prima vittima del connubio tra Chiesa e Stato borghese fu un intraprendente profeta italiano, Davide Lazzaretti, un barrocciaio di Arcidosso, sul monte Amiata, che già fin dal 1868, in seguito a visioni, precedute da febbri violente, aveva sentito la vocazione di farsi predicatore contro la corruzione dei costumi, ed era stato ricevuto da Pio IX e incoraggiato dalla curia romana, ma poi aveva cominciato a destar sospetti perché, in nome dei Vangeli, nel 1871 aveva fondato una Santa lega o Fratellanza cristiana per l'assistenza dei malati, dei poveri e delle vedove. Venerato dai contadini delle campagne toscane, come un secondo Messia, l'anno seguente Lazzaretti creò la Società delle famiglie cristiane: una comunità di ottanta famiglie che gestivano in
374 comune terreni e bestiame, vestivano un uguale abito di lana grigia, con un cordone a tre giri attorno alla vita. Davide Lazzaretti aveva sulla fronte un tatuaggio o una cicatrice a forma di simbolo 3TC che diceva essergli stato impresso dalla mano di san Pietro. Fu arrestato per vagabondaggio; dopo la scarcerazione, si rifugiò per qualche tempo in Francia, dove una suora, Marie Grégoire, riconobbe in lui "l'eletto da Dio" per restituire la nazione francese alla monarchia, e lo fece predicare in pubblico. Tornato in Italia, Lazzaretti sul finire del 1877 fondò la Nuova chiesa davidica, spiegando nel Libro dei Sette Sigilli che era prossimo l'avvento dello Spirito Santo, il quale avrebbe rigenerato il mondo, stroncando anche tutti gli abusi della Chiesa cattolica. Denunciato al Santo Uffizio, la curia romana lo additò come sovversivo al prefetto di polizia di Grosseto, e questi ordinò il suo arresto, con il grave sospetto di essere affiliato all'Internazionale socialista. Il 18 agosto del 1878, mentre guidava una processione di fedeli, a capo dei suoi apostoli, dei santi penitenzieri e delle figlie di Maria, Davide Lazzaretti venne fermato da un gruppo di carabinieri, e poiché rifiutò di sciogliere il pacifico corteo, i carabinieri aprirono il fuoco. Lazzaretti e tre contadini rimasero uccisi sul colpo. A quella data, già dal febbraio 1878, era sul soglio pontificio Leone XIII, che continuò, per tutto il tempo del suo pontificato, a legiferare sulla questione sociale e sui nuovi rapporti tra la Chiesa e il moderno Stato laico, dimostrando un'arretratezza di vedute e una pretesa egemonica che non tarderanno ad alienare maggiormente dalla Chiesa sia le masse lavoratrici sia la borghesia e ad aprire il campo ad altre contestazioni eretiche da parte di cattolici progressisti. Appena un mese dopo la nomina, il 21 aprile 1878, Leone XIII, che era già stato, quando era vescovo di Perugia, uno dei principali ispiratori del Sillabo, con l'enciclica Inscrutabili Dei consilio riconosceva che era dovere della Chiesa occuparsi del problema sociale, ma si limitava, a questo proposito, a una puntigliosa denuncia di tutti gli errori già condannati dal suo predecessore, e il 28 dicembre dello stesso anno rincalzava, con la Quod apostolici muneris, prendendo di mira particolarmente "la micidial pestilenza che serpeggia per le intime viscere della società e la riduce all'estremo pericolo di rovina", e cioè "la setta di coloro che con nomi barbari e diversi si chiamano socialisti, comunisti, nichilisti e simili, sparsi per tutto il mondo
375 e tra sé legati coi vincoli d'iniqua cospirazione" e invitava i poteri superiori dello Stato a tenerli a freno, accennando al proposito della Chiesa di appoggiare la loro azione: "La dottrina della Chiesa cattolica non consente ai privati di insorgere a proprio talento contro di essi, affinchè non sia vieppiù sconvolta la tranquillità dell'ordine". Nel 1884 Leone XIII tornava a interessarsi del problema sociale, con l'enciclica Auspicato concessum, che al solito non proponeva alcuna valida soluzione ma riconosceva soltanto - in base alla tradizionale dottrina cattolica - che i poveri dovrebbero essere contenti della loro sorte privilegiata ("Beati i poveri"), la quale permetterà loro di guadagnarsi il cielo con la pazienza e la sofferenza. L'anno seguente, l'enciclica Immortale Dei riguardava invece i rapporti tra Chiesa e Stato, non facendo altro che applicare ai tempi moderni la concezione medievale: lo Stato e la Chiesa costituiscono due società altrettanto perfette nell'ordine proprio, ma di diverso valore e grado, in ragione delle rispettive finalità, quindi il potere temporale deve subordinarsi a quello spirituale. In particolare l'enciclica deplorava non solo il laicismo di taluni governi, ma anche la loro tolleranza di altri culti diversi dal cattolicesimo, della libertà di stampa e di pensiero, e rivendicava il diritto della Chiesa a intervenire nella censura anche dell'operato politico degli Stati. Nel 1888 ancora un'enciclica "sociale", la Libertas, nella quale il papa metteva in guardia contro le orribili dottrine socialiste, assicurando i lavoratori che per essi la vera conquista della libertà consisteva nella volontà di risparmiare sul salario, conducendo una vita proba e parsimoniosa. Finalmente, con la Rerum Novarum del 15 maggio 1891 (ritenuta la parola definitiva della Chiesa sull'argomento, e alla quale, d'allora in poi, faranno sempre riferimento i pontefici, con poche varianti), Leone XIII suggeriva una conciliazione tra lavoratori e datori di lavoro, facendo perno, ancora una volta, sul sentimento di cristiana rassegnazione alla miseria da parte dei lavoratori e sul sentimento di cristiana misericordia da parte dei padroni, che non doveva comunque andare oltre alla concessione di un salario "non inferiore al sostentamento dell'operaio, frugale, s'intende, e ben costumato", per concludere che, risparmiando su tale "minimo" salario (appena sufficiente al loro sostentamento), rutti i lavoratori avrebbero potuto acquistare per se stessi e le loro famiglie almeno "una piccola proprietà"! Le risposte dei
376 borghesi e dei proletari alle encicliche di Leone XIII furono immediate. Nel 1885, il Gran Maestro delle logge massoniche d'Italia, Adriano Lemmi, divulgò la seguente circolare: "L'edificio che i Fratelli stanno costruendo nel mondo può essere considerato a buon punto. L'impresa avanza rapidamente in Italia. Noi abbiamo applicato lo scalpello all'ultimo rifugio della superstizione, e la fedeltà del Fratello 33 [Crispi] che è alla testa del potere politico ci è garante che il Vaticano cadrà sotto il nostro mazzuolo vivificatore. Il Grande Oriente invoca il genio dell'umanità, affinchè tutti i Fratelli lavorino con tutta la loro energia a disperdere le pietre del Vaticano, per poter costruire con esse il Tempio della Nazione emancipata". A maggio dello stesso anno, il partito comunista anarchico belga pubblicò a Bruxelles il primo numero del giornale "Ni Dieu ni Maître", in cui si commemoravano le vittime della Comune di Parigi del 1871 e si dava giustificazione del titolo del giornale: "Né Dio né padrone: questo motto, creato da Luis Auguste Blanqui, è il rifiuto di ogni superstizione, di ogni autorità, una dichiarazione di anarchismo. Esso è l'ideale di tutti coloro che lavorano per l'emancipazione completa dell'individuo, per la sua intera indipendenza da altri. Noi neghiamo Dio, perché la liberazione intellettuale che ci ha apportato la scienza ce lo mostra sotto la sua vera luce: uno strumento di terrore per mantenere gli ignoranti nell'obbedienza, un feticcio destinato ad assicurare il dominio dei padroni, il corollario indispensabile dell'autorità. Noi neghiamo tanto il Dio della teologia che quello della metafisica, perché la sua idea implica forzatamente l'abdicazione della ragione umana e mette capo necessariamente alla negazione della libertà, quindi alla schiavitù". Anche la reazione di sacerdoti e laici cattolici di idee progressiste non tardò a farsi sentire. Nel 1886, il filosofo francese Jean Marie Guyau pubblicò il saggio L'irréligion de l'avenir in cui, richiamandosi alla dottrina evoluzionistica dello Spencer, prevedeva che il progresso dell'umanità avrebbe condotto a una perfetta e armoniosa integrazione sociale, per cui la religione - che era solo un momento dell'evoluzione della socialità - sarebbe divenuta del tutto inutile. Nel 1887, la congregazione dell'Indice inserì tra i libri proibiti l'opera del sacerdote spagnolo Celestin de Pazos, El proceso del integrismo, una vivace polemica contro la tendenza della Chiesa di subordinare tutti i valori della vita a una visione religiosa. Lo stesso
377 anno, un decreto Post obitum di Leone XIII ribadì la condanna, già stabilita trent'anni prima, allo scritto di Antonio Rosmini, Le cinque piaghe della santa Chiesa, soprattutto per la seguente proposizione, che denunciava l'abissale distacco creatosi tra il clero superbo e arrogante e la massa dei fedeli, e quindi il disinteresse della Chiesa per il problema sociale: "Ingiurioso al divino autore della Chiesa mi parrebbe pensare che Quegli che pregò l'Eterno Padre di rendere "tutti i discepoli suoi una cosa sola" permettesse poi che per sempre fra la plebe e il clero durasse un tanto muro di separazione, e che tutto ciò che si dice e si fa nelle celebrazioni dei divini misteri riuscisse pieno di finzioni, e che il sacerdozio, segregato dal popolo, quasi a un'altezza ambiziosa perché inaccessibile, e ingiuriosa perché ambiziosa, degenerasse in un patriziato diviso dalla società". Sempre nel 1887, l'arcivescovo di Baltimora, James Gibbons, recatosi a Roma per completare le cerimonie della propria investitura, e invitato a partecipare alla riunione del Santo Uffizio che stava esaminando la richiesta del cardinale di Quebec di sconfessare, come società segreta, la confederazione operaia americana dei Knights of Labor, si oppose energicamente, acquistandosi subito la cattiva reputazione di "amico dei lavoratori". Nel 1888, un certo Jules Doinel dichiarò di essere stato visitato, in estasi, da Gesù Cristo che lo aveva consacrato vescovo gnostico, e pertanto fondò subito una propria Chiesa gnostica, che si basava su di una specie di gnosi restaurata con elementi sociologici, perché individuava il dualismo del Bene e del Male nella distinzione sociale tra le masse popolari, sfruttate, e la borghesia e il sacerdozio, che le sfruttavano. Una particolare forma di eresia fu, in quegli anni, l'indirizzo mistico teosofico introdotto in certi ambienti intellettuali soprattutto per iniziativa della russa Elena Blavatsky, poi continuato da Annie Besant, che, dopo un lungo viaggio in India, era tornata in Europa per predicare la religione induista e scrivere opere sulla reincarnazione, e presentava come nuovo messia il giovane indiano Jidu Krishnamurti. Aderendo a questa corrente, nel 1889 Edouard Schuré scrisse un'opera che ebbe grande successo, Les grands initiés, nella quale si faceva di Mosè, Gesù Cristo, Buddha e Maometto i profeti ispirati di un'unica eterna religione. Quell'anno medesimo, il lorenese Stanislas de Guaita, appartenente alla massoneria martinista, fondò l'ordine cabbalistico dei
378 Rosacroce, evidenziando i caratteri esoterici del cristianesimo, e sorse anche la rivista teosofica "L'iniziazione", che cominciò a raccogliere scritti di esoteristi di tutta Europa e mantenne stretti legami con i poeti simbolisti dell'epoca. Contemporaneamente Albert Jounet diede vita alla rivista "L'Etoile" tentando di operare una sintesi tra l'esoterismo e il messianesimo sociale. I fermenti dell'Europa occidentale protendevano la loro eco fino alla Russia, sensibilizzando ai problemi di riscatto sociale e di ammodernamento delle credenze religiose i numerosi movimenti mistici esistenti già fin dai tempi di Pietro il Grande e l'intellighenzia, gli intellettuali riformisti. Basterà ricordare l'efficace azione di risveglio della coscienza sociale operata da apostoli come Dostoevskij, Tolstoj, Merezkovskij e Solovev. Fèdor Dostoevskij, già noto per la sua attività politica, che gli aveva fatto soffrire l'ergastolo e il confino in Siberia, scrisse nel 1880 l'ultimo romanzo, I fratelli Karamazov, nel quale denunciava l'egoismo e la violenza dei suoi tempi. Nel racconto "La leggenda del Grande Inquisitore", che l'autore immagina scritto da uno dei personaggi del romanzo, si parla di Cristo che, sceso nuovamente sulla terra per dare agli uomini libertà e amore, viene condannato a morte come eretico dal Grande Inquisitore (la Chiesa cattolica o qualsiasi altra Chiesa), che pure lo ha riconosciuto, perché non può permettere che il nuovo ordine, fondato sul potere e sull'autorità, sia sconvolto dall'anarchismo evangelico. Lev Tolstoj, in seguito a una profonda crisi religiosa, a partire dal 1882 si dedicò alla predicazione di un evangelismo impostato sulla fratellanza universale e sulla non resistenza al male e alle offese, e nel 1893 pubblicò una delle sue opere religiose più profonde, // regno di Dio è in voi, che gli costerà, nel 1901, la scomunica del Santo Sinodo di Mosca perché sosteneva l'inopportunità del clero. Dmitrij Merezkovskij iniziò nel 1892 la grande trilogia su Cristo e Anticristo, con chiare allusioni ai tempi moderni, con le loro contaminazioni del semplice messaggio di Gesù. Vladimir Solovev, già nei primi scritti, del 1889, prospettava la speranza di una Chiesa universale, con l'idea di Cristo, presente nel mondo sotto forma di sapienza rigeneratrice.
379 DOCUMENTI
1. l'illuminismo, morte della religione
La Riforma era stata un segno del tempo. Era stata cosa importante per tutta l'Europa, anche se era scoppiata apertamente solo nella veramente libera Germania. Le menti migliori di tutte le nazioni erano segretamente divenute maggiorenni e, nell'ingannevole sentimento della loro missione, si ribellavano tanto più arditamente contro l'ormai decaduta costrizione. Il dotto è nemico per istinto del clero così come tradizionalmente lo si concepisce; la classe intellettuale e quella ecclesiastica, quando siano separate, devono condurre una guerra di sterminio, perché combattono per un'unica posizione. Questa separazione si accentuò sempre più, e i dotti guadagnarono tanto più terreno quanto più la storia dell'umanità europea si avvicinava all'epoca dell'erudizione trionfante, e la scienza e la fede entravano in più decisa antitesi. Nella fede si ricercò l'origine del ristagno generale, e si sperò di superarlo con la diffusione del sapere. Dappertutto il sentimento religioso soffrì sotto le molteplici persecuzioni della sua forma tramandata, della sua personalità temporale. Il risultato del modo di pensare moderno lo si chiamò filosofia, in essa comprendendo tutto ciò che fosse contrario all'antico, e in primo luogo, quindi, ogni idea contraria alla religione. L'odio personale, inizialmente nutrito per la fede cattolica, si trasformò a poco a poco in odio per la Bibbia, per la fede cristiana, e alla fine addirittura per la religione. Di più: l'odio per la religione si estese molto naturalmente e conseguentemente a tutti gli oggetti dell'entusiasmo, sconsacrò fantasia e sentimento, morale e amore dell'arte, speranze e tradizioni; a stento conservò l'uomo a capo della gerarchia degli esseri naturali, e la musica dell'universo inesauribilmente creatrice ridusse allo strepito monotono di un enorme molino che, mosso dalla corrente del caso e natante su di essa, doveva venire considerato come un molino in sé, senza costruttore né mugnaio, come un vero e proprio perpetuum mobile, come un molino che macini se stesso. Un solo entusiasmo era stato generosamente lasciato al misero genere umano, rendendolo indispensabile come pietra di paragone della più alta cultura: l'entusiasmo per questa stupenda e grandiosa filosofia e in particolare per i suoi sacerdoti e mistagoghi. [F. Novalis, Die Christenheit oder Europa.]
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2. Il nuovo cristianesimo sansimoniano
Nel nuovo cristianesimo tutta la morale sarà dedotta direttamente da questo principio: Gli uomini si debbono comportare come fratelli gli unì verso gli altri. E questo principio, che appartiene al cristianesimo primitivo, dovrà subire una trasfigurazione: per merito di essa sarà presentato come lo scopo attuale e necessario di tutti gli sforzi religiosi. Questo principio rinnovato si presenterà in questa maniera: La religione deve dirigere la società verso il grande scopo del miglioramento più rapido possibile delle condizioni della classe più povera. Il nuovo cristianesimo è chiamato a riunire tutti i popoli in uno stato di pace permanente, alleandoli tutti contro quella nazione che mirerà al suo bene particolare a spese del bene generale della specie umana, e coalizzandoli contro ogni governo che sia tanto poco cristiano da sacrificare gli interessi nazionali agli interessi privati dei governanti; esso è chiamato a unire insieme gli scienziati, gli artisti e gli industriali per farne i direttori generali della specie umana, salvaguardando gli interessi particolari dei popoli che la compongono; esso è chiamato a porre le belle arti, le scienze e le industrie, al primo posto tra le conoscenze sacre, al contrario dei cattolici che le hanno abbassate al rango di conoscenze profane; esso è chiamato infine a condannare la teologia e a classificare come empia ogni dottrina che abbia per scopo di insegnare agli uomini altri mezzi per ottenere la vita eterna che non siano il lavoro assiduo e gli sforzi costanti per migliorare l'esistenza dei propri simili. [Cl.-H. de Saint-Simon, Le Nouveau Christianisme, in T. Giglio, p. 3.] 3. Le società segrete alleate di Satana
Noi abbiamo veduto il principe di questo mondo, Satana, cominciare il suo impero sulla terra con la menzogna e l'omicidio. Egli sedusse a bella prima i nostri padri: "No, no, voi non morrete di morte mangiando il frutto vietato, per lo contrario voi sarete come dei", sottintendendo dei come noi, angeli scaduti diventati demoni. Per questa menzogna del vecchio serpente la morte è entrata nel mondo. Questo gran mentire di Satana si continua e si propaga nelle eresie, negli scismi e nelle opinioni che ad esse si accostano. Guardatevi bene, o popoli cattolici dell'Europa e dell'universo, guardatevi
381 bene, perché gli angeli delle tenebre si trasformano spesso in angeli di luce per meglio sedurre le anime poco vigilanti. Le società segrete, che oggi si formano per distruggere la società pubblica, principalmente la società universale o Chiesa cattolica, uniscono sempre in sé i caratteri di Satana: la menzogna e l'impurità. Ve ne sono due principali ai nostri giorni, la setta dei franchi-muratori e quella de' carbonari. La prima, nata in Inghilterra sotto il protestante e regicida Cromvello, ne ha portato lo spirito in Francia e nel resto dell'Europa. Diversi principi, per antipatia contro la società universale del cattolicesimo, hanno favorito questi nemici della società pubblica e dei troni. La seconda setta, de' carbonari, che ha il medesimo scopo, si è formata fra gli italiani sotto il pretesto di procurare la libertà dell'Italia. Il capo attuale è un carbonaro genovese, l'avvocato Giuseppe Mazzini, che le ha dato una nuova forma sotto il nome di Giovane Italia, la quale non doveva essere che un ramo della Giovane Europa. La Giovane Italia differisce dal carbonarismo quanto ai principi religiosi. I carbonari professano l'indifferenza in materia di religione, l'avvocato Mazzini, per lo contrario, fa pompa di una certa religione politica, di un panteismo protestante. Questa eresia o empietà nuova è già vecchia. È l'antico gnosticismo che confonde Dio con la creatura e la creatura con Dio. Quando l'avvocato Mazzini e i suoi pari sopprimono la divinità di Gesù Cristo e lo chiamano semplicemente un grand'uomo, un filosofo, essi non sono che l'eco di Maometto e dell'Anticristo. Dove il Mazzini e gli altri settari si accordano ugualmente bene col falso profeta della Mecca è in un altro carattere di Satana: di essere omicida. I membri della Giovane Italia sono tenuti ad armarsi di un fucile e di un pugnale. Quelli che mancano all'obbedienza verso il capo della società o ne palesano i segreti sono messi a morte senza remissione. [In A. Rohrbacher, Storia universale della chiesa cattolica (1874), vol. XV, p. 38081.] 4. L'alienazione della religione
Come l'uomo pensa, quali sono i suoi principi, tale è il suo dio: quanto l'uomo vale, tanto, e non più, vale il suo dio. La coscienza che l'uomo ha di Dio è la coscienza che egli ha di se stesso; la conoscenza di Dio è la conoscenza che l'uomo ha di sé. Tu conosci l'uomo dal suo dio e, reciprocamente,
382 Dio dall'uomo; l'uno e l'altro si identificano. Per l'uomo, è Dio il proprio spirito; ciò che è la sua anima, il suo cuore, quello è il suo dio: Dio è l'intimo rivelato, l'essenza dell'uomo espressa; la religione è la solenne rivelazione dei tesori celati dell'uomo, la pubblica professione dei suoi segreti d'amore. Ma da quanto abbiamo detto non si deve dedurre che l'uomo religioso sia direttamente consapevole che la coscienza che ha di Dio sia la stessa autocoscienza del suo proprio essere, poiché appunto il non essere consapevole di ciò è il fondamento della vera e propria essenza della religione. Per evitare questo equivoco diremo meglio: la religione è la prima ma indiretta autocoscienza dell'uomo. Perciò la religione precede sempre la filosofia nella storia dell'umanità, così come nella storia dei singoli individui. L'uomo sposta il suo essere fuori da sé, prima di trovarlo in sé. In un primo tempo egli è consapevole del proprio essere come di un altro essere. La religione è l'infanzia dell'umanità: il bambino vede il proprio essere, l'uomo, fuori da sé, ossia oggettiva il proprio essere in un altro uomo. Perciò il progresso storico delle religioni consiste appunto nel considerare in un secondo tempo come soggettivo e umano ciò che le prime religioni consideravano come oggettivo, e adoravano come dio. Le prime religioni sono idolatrie per le religioni posteriori; queste riconoscono che l'uomo ha adorato il proprio essere senza saperlo. In ciò consiste il loro progresso, e di conseguenza ogni progresso nella religione è per l'uomo una più profonda conoscenza di se stesso. Ma ogni religione particolare che definisce idolatrie le sue più antiche sorelle, esclude se stessa - ed invero necessariamente, altrimenti non sarebbe più religione - da questo destino, da questa natura universale della religione; soltanto alle altre religioni attribuisce ciò che rimane pur sempre - se pure in modo diverso - il vizio della religione in generale. Per il fatto di avere un altro contenuto, per il fatto di avere superato il contenuto delle religioni anteriori, immagina di essersi innalzata al di sopra delle leggi necessarie ed eterne sulle quali si fonda l'essenza di ogni religione, immagina che il suo oggetto, il suo contenuto, sia soprannaturale. Ma ciò che la religione da se stessa non può fare, cioè studiare la sua natura come un qualsiasi oggetto, può farlo il pensatore, che perciò penetra nell'essenza della religione e ne rivela ogni segreto. Il nostro compito è appunto di mostrare che la distinzione fra il divino e l'umano è illusoria, cioè che null'altro è se non la distinzione fra l'essenza dell'umanità e l'uomo individuo,
383 e che per conseguenza anche l'oggetto e il contenuto della religione cristiana sono umani e niente altro che umani. La religione non fa che rispecchiare la natura umana. Tutto ciò che è, necessariamente si compiace, gode di sé, si ama, e si ama a buon diritto; rimproverare a un essere di amarsi è rimproverargli di esistere. Esistere significa asserirsi, affermarsi, amarsi. Quando perciò il sentimento non è respinto e represso, come negli stoici, quando gli si concede di esistere, gli si attribuisce anche una forza e un significato religioso, lo si innalza cioè al grado di potersi rispecchiare e riflettere in sé, di potersi mirare in Dio. Dio è lo specchio dell'uomo. [L. Feuerbach, Das Wesen des Christentums.] 5. La perversa dottrina del comunismo
A nessuno di voi sfugge, venerabili fratelli, come in questa nostra deplorevole età si stia conducendo contro la Chiesa cattolica una terribile guerra da parte di uomini che, congiunti insieme in una malvagia società, cercano di evocare dalle tenebre mostruose dottrine e di disseminarle tra il volgo. Inorridiamo nell'animo e siamo affranti da acerbissimo dolore, nel vedere questi artefici d'inganno estinguere dagli animi di tutti ogni sentimento di pietà, di giustizia, di onestà, corrompere i costumi, sconvolgere ogni diritto umano e divino, cercar di sradicare la religione cattolica e abbattere la società civile. E per ingannare più facilmente i popoli e illudere gli incauti e gli imperiti, dicono che essi soli conoscono i mezzi per giungere alla felicità, e non esitano ad arrogarsi il titolo di filosofi, come se la filosofia dovesse respingere quelle verità che Dio, supremo e clementissimo autore della natura, si è degnato di rivelare. Questa perversa dottrina del Comunismo, come essi la chiamano, che viene propinata alla gioventù come fiele di un dragone nel calice, accettata la quale, sarebbero aboliti i diritti, le cose, le proprietà di tutti, sarebbe distrutta l'umana società; tenebrose insidie di uomini che, in veste di agnello, mentre dentro sono lupi rapaci, si intrufolano tra gli umili, blandamente li attirano, nascostamente li uccidono, distolgono gli uomini da ogni culto religioso, disperdono e massacrano il gregge del Signore. [Pio IX, Qui pluribus iam, (9 novembre 1846) in C. Falconi, Storia delle
384 encicliche, p. 63.] 6. Le rivelazioni del libro di Mormon
Ed accadrà che il Signore Iddio vi farà pervenire le parole d'un libro e saranno le parole di coloro che sono morti. Ed il libro sarà sigillato; e nel libro vi sarà una rivelazione di Dio, dal principio alla fine del mondo. Perciò gli scritti che sono sigillati non saranno svelati nei giorni della malvagità e delle abominazioni del popolo. Pertanto il libro sarà loro tenuto celato. a il libro sarà affidato a un uomo, ed egli svelerà le parole del libro, parole che vengono da quelli che dormono nella polvere, ed egli confiderà queste parole ad un altro uomo. Ma non svelerà le parole che sono sigillate, né pubblicherà il libro. Poiché il libro sarà sigillato dal potere divino, e la rivelazione ivi sigillata sarà tenuta nascosta nel libro fino al tempo che è noto al Signore, allorché potrà apparire. E viene il giorno in cui le parole sigillate del libro saranno lette sui tetti delle case; e saranno lette per il potere di Cristo; ed ogni cosa sarà rivelata ai figliuoli degli uomini, ciò che è stato e ciò che sarà fra gli uomini, fino alla fine del mondo. Così dunque il Signore Iddio farà sì che vengano alla luce le parole del libro; e stabilirà la Sua parola per mezzo di testimoni, quando Gli parrà opportuno; e guai a colui che rigetta la parola di Dio! Avverrà infatti in quei giorni che le chiese che saranno state fondate, e non per il Signore, diranno l'una all'altra: Ecco, io sono la chiesa del Signore; e le altre: Io, io sono del Signore; così dirà ognuno di quelli che avranno fondato una chiesa, e non per il Signore. E si disputeranno gli unì cogli altri; ed i loro sacerdoti saranno in conflitto gli unì con gli altri, ed insegneranno con il loro sapere e negheranno lo Spirito Santo, che da potere d'esprimersi. E negheranno la potenza di Dio, e diranno al popolo: Ascoltateci e udite i nostri precetti; poiché oggi non vi è Dio, dato che il Signore e Redentore ha già compiuto la sua opera e ha dato il Suo potere agli uomini. Sì, e molti diranno: Mangiate, bevete e datevi alla gioia, poiché domani morremo e tutto andrà bene per noi. Ma verrà presto il tempo in cui il Signore Iddio distruggerà i malvagi; e
385 risparmierà il suo popolo, sì, persino se dovesse distruggere i malvagi col fuoco. E la giustizia sarà la cintura dei suoi lombi, e la fedeltà la cintura dei suoi reni. Ed allora il lupo dimorerà con l'agnello; e il leopardo giacerà col capretto, e il vitello e il leoncino insieme al bue grasso; ed un fanciullo li condurrà. Non si nuocerà né si distruggerà su tutta la mia santa montagna, poiché la terra sarà piena della conoscenza del Signore come le acque ricoprono il mare. Perciò tutte le cose che sono state rivelate ai figliuoli degli uomini saranno rivelate in quel giorno, e Satana non avrà più potere sui cuori degli uomini. Ed io prego il Padre, in nome di Cristo, che molti di noi, se non tutti, possiamo essere salvati nel Suo regno in quel grande ed ultimo giorno. U Smith, Il libro di Mormon, pp. 83-85.] 7. Utilità della religione
Si è soliti attribuire alla religione come tale il complesso dei poteri inerenti a qualsiasi sistema di doveri morali, inculcati dall'educazione e imposti dall'opinione. Indubbiamente l'umanità si troverebbe in condizioni deplorevoli se non si fosse insegnato pubblicamente o privatamente alcun principio o precetto di giustizia, di verità, di carità, o se queste virtù non fossero state incoraggiate, e repressi i vizi opposti, mediante la lode o il biasimo, i sentimenti favorevoli o contrari degli uomini. E poiché quasi tutto quel che si fa in questo campo lo si fa in nome della religione; e poiché a tutti coloro ai quali si insegna una qualsivoglia forma di moralità, la si insegna come religione e la si inculca loro per tutta la vita principalmente come avente questo carattere, l'effetto che tale insegnamento produce in quanto insegnamento, si presume che lo produca in quanto insegnamento religioso, ed alla religione viene accreditata tutta l'influenza nelle faccende umane che appartiene invece a qualsiasi codice generalmente accettato per la guida e il governo della vita umana. Poche persone si sono rese sufficientemente conto di quanto quest'influenza sia grande; quale vasta efficacia appartenga naturalmente a qualsiasi dottrina approvata a quasi completa unanimità, e impressa nell'animo come
386 un dovere fin dalla prima infanzia. Basterà un po' di riflessione, io credo, per farci concludere che questo è in realtà il grande potere morale sulle faccende umane, e che la religione sembra così potente soltanto perché questo immenso potere è al suo servizio. Si consideri, per prima cosa, l'enorme influenza che l'autorità ha sulla mente umana. Mi riferisco qui all'influenza involontaria, all'effetto sulle convinzioni degli uomini, sulle loro persuasioni, sui loro sentimenti involontari. È appoggiandosi sull'autorità che la massa degli uomini crede tutto quel che essi ritengono di conoscere, eccetto i fatti percepiti dai loro propri sensi. È in base ad essa che anche i più saggi accettano tutte quelle verità della scienza, o tutti quei fatti della storia o della vita, dei quali non hanno personalmente esaminato le prove. Per l'immensa maggioranza delle persone, l'accordo generale dell'umanità su una qualsiasi opinione, risulta onnipotente. Tale essendo il potere esercitato sugli uomini dalla semplice autorità, dalla mera fede e dalla testimonianza dei propri simili, teniamo ora presente quanto risulti enorme il potere dell'educazione, ed indicibile l'effetto di allevare le persone fin dall'infanzia in una fede, e nelle abitudini su di essa fondate. Abbiamo fino a questo punto considerato due poteri: quello dell'autorità e quello dell'educazione impartita nei primi anni, i quali operano sulle credenze, sui sentimenti e sui desideri involontari degli uomini, e che la religione ha finora sostenuto essere sua prerogativa quasi esclusiva. Consideriamo ora un terzo potere, il quale opera direttamente sulle loro azioni, sia che implichi o no i loro sentimenti involontari. È questo il potere dell'opinione pubblica, della lode o del biasimo, del favore o del disfavore da parte dei propri simili; ed esso è una sorgente di forza inerente a qualsiasi sistema di fede morale, purché adottato da tutti, sia esso o no associato con la religione. chiunque consideri l'argomento con equità e imparzialità, troverà ragionevole di credere che questi cospicui effetti sull'umana condotta, comunemente ascritti a motivi derivati in via diretta dalla religione, hanno in massima parte per causa prossima l'influenza dell'opinione pubblica. La religione è stata potente non per sua forza intrinseca, ma perché essa ha avuto nelle sue mani questo ulteriore e più efficace potere. L'effetto della religione è stato immenso nell'imprimere direzione all'opinione pubblica, la quale ne è stata, sotto molti importantissimi aspetti, completamente determinata. Ma senza le sanzioni aggiuntevi dalla pubblica opinione, le sanzioni specifiche della religione non hanno mai, salvo su caratteri eccezionali o in particolari condizioni di spirito, esercitato un'influenza molto potente, dopo i tempi ormai lontani in cui si supponeva che la divinità si servisse abitualmente di
387 compensi e di punizioni temporali. Allorquando l'uomo credeva fermamente che, se violava la santità di un certo tempio, sarebbe stato colpito a morte sul posto, o soggetto a una malattia mortale, egli senza dubbio poneva ogni cura nell'evitare siffatto castigo: quando si trovò uno che ebbe il coraggio di sfidare il pericolo, e restò immune, l'incantesimo fu rotto. Con l'attribuire un'origine sovrannaturale alle massime accettate della moralità si causa, d'altro canto, un male effettivo. Quell'origine divina le consacra nel loro complesso, ed impedisce che vengano discusse o criticate. Cosicché, se fra le dottrine morali accettate come facenti parte della religione, ve ne sono di imperfette, o perché erronee fin da principio, o perché non esattamente limitate o controllate nella loro espressione, oppure ancora perché, pur essendo un tempo ineccepibili, non si rivelano più adatte ai mutamenti verificatisi nelle relazioni umane (ed è mia ferma convinzione che nella cosiddetta morale cristiana si trovino esempi di tutti questi casi) tali dottrine imperfette sono considerate altrettanto impegnative per la coscienza quanto i precetti più nobili, più duraturi e più universali di Cristo. Ogniqualvolta la moralità è supposta essere di origine sovrannaturale, essa diviene stereotipata, proprio come la legge del Corano lo è per i suoi seguaci. La fede nel sovrannaturale, per quanto grandi siano stati i servizi che essa ha reso negli stati primitivi dello sviluppo umano, non si può adunque più considerare necessaria, sia per porci in grado di conoscere ciò che è bene e ciò che è male nella morale sociale, sia per fornirci motivi di agire bene e di astenerci dal male. Una fede siffatta non è pertanto necessaria per scopi sociali. [J.S. Mill, Essays on Religion, in L. Geymonat, Saggi sulla religione.]
388 XI. L'EROSIONE DEL CRISTIANESIMO CONVENZIONALE (SEC XX).
Americanismo e modernismo.
Nonostante i loro limiti, le encicliche sociali di papa Leone XIII avevano aperto i cuori di molti sacerdoti alla speranza di potere - se non altro - rendere fecondo con il proprio impegno nel mondo l'appello a una pacificazione della società. Fu l'episcopato cattolico degli Stati Uniti d'America a dare i primi segni di vitalità, particolarmente i vescovi John Keane, John Ireland e Denis O'Connell, che si fecero banditori di un attivismo pratico, "fuori delle sacrestie, in mezzo alla gente", come disse lo stesso Ireland in una conferenza per giovani preti nel 1894. Quell'anno fu anche pubblicata a New York The Life of Father Hecker di Walter Elliot, che esaltava come precursore delle nuove tendenze democratiche il sacerdote Isaac Thomas Hecker, morto da pochi anni, fondatore della congregazione missionaria di San Paolo e della prima rivista cattolica sociale americana, "The Catholic World". Ciò significava meno dogmi, meno riti e vita contemplativa, e maggior partecipazione ai problemi concreti della società; meno virtù passive, e più amore per il prossimo. La rivista dei gesuiti, "Civiltà cattolica", nel numero del 4 gennaio 1896 attaccò i vescovi americani progressisti, riconoscendoli colpevoli di eresia pelagiana (valore preminente delle opere sulla fede); certo Charles Maignen, prete della Società di san Vincenzo, scrisse su "La Vérité" una serie di articoli a confutazione della biografia di padre Hecker, e poi li raccolse in volume sotto il titolo Le père Hecker est-il un Saint?, riassumendone così le dottrine eretiche: errata nozione dell'attività dello Spirito Santo, distinzione non opportuna tra virtù attive e virtù passive, ignoranza dei precetti cristiani fonda- L'erosione del cristianesimo convenzionale mentali. La sacra Congregazione cercò di frenare lo slancio dei vescovi progressisti, dapprima non sconfessandoli apertamente ma proibendo a tutti i cattolici americani l'iscrizione ad associazioni sindacali di qualunque genere; poi, in seguito alle proteste del cardinale James Gibbons che approvava le iniziative dei vescovi suoi connazionali,
389 cominciò a colpirli singolarmente: John Keane fu rimosso dalla carica di rettore dell'Università cattolica di Richmond, monsignor Denis O'Connell fu costretto a dimettersi da direttore del Collegio americano, John Ireland fu trasferito in altra sede. Infine, il 22 gennaio 1899, Leone XIII, con la lettera "Testem benevolentiae" indirizzata al cardinale Gibbons, condannò definitivamente l'americanismo e la biografia di padre Hecker, che, già tradotta in francese dall'abate Félix Klein, aveva suscitato vivo interesse. La lettera del papa stroncava il generoso tentativo di attivismo non solo in America ma anche in Europa. Qui, tuttavia, ai sacerdoti più evoluti non mancò la speranza di poter almeno operare, se non un adattamento della loro missione alle esigenze del secolo, in contrasto con le direttive della Chiesa, un rinnovamento della Chiesa stessa, per ricondurla alla consapevolezza della sua funzione sociale, che essi vedevano compromessa dalla connivenza coi ricchi. Fu quindi un'attività più apologetica che pratica, condotta da individui che per lo più agivano separatamente, con idee talora contrastanti, e che solo dopo la condanna globale dei loro sforzi da parte della Chiesa sotto la generica definizione dispregiativa di modernismo (usata per la prima volta dalla rivista cattolica "Miscellanea" nel 1904), presero coscienza del comune proposito che li ispirava. Il recupero dell'autentico messaggio evangelico veniva fatto dai modernisti mediante un'erudita esegesi storica degli scritti neotestamentari, sulla scorta di quanto già da anni andavano facendo le scuole teologiche protestanti, soprattutto in Germania. Qui Adolf von Harnack aveva dato inizio a una serie di testi critici, monumento imperituro della ricerca filologica e storica, e fin dal 1892 il teologo Martin Kàhler aveva proposto agli studiosi la distinzione tra il "Gesù della storia" e il "Cristo della fede". Diceva il modernista Salvatore Minocchi nel 1901: "Nei più tristi momenti di reazione del papato alla scienza, quando Pio IX, già deluso del suo effimero liberalismo, preparava il Sillabo, i tedeschi protestanti sostenevano che bisognava, e si poteva oggi, specialmente con l'archeologia, le iscrizioni e le scoperte storiche, ricostruire il cristianesimo, scrostarlo di tutte le leggende e falsità con cui la tradizione lo aveva ricoperto, e ne sarebbe risultata una religione vera, ben diversa dalle arbitrarie asserzioni della Chiesa romana". Il primo a mettersi su questa via fu il sacerdote Alfred Loisy, professore
390 all'Istituto cattolico di Parigi, che esordì nel 1893 con una Histoire critique du texte et des version de A. T., e fu immediatamente sospeso dall'insegnamento per aver indicato numerose contraddizioni tra i Vangeli, che la Chiesa pretendeva ugualmente ispirati a un'identica verità. "La grande, la sola difficoltà" scriverà più tardi lo stesso Loisy nei suoi Mémoires "è l'autorità, o più esattamente la tirannia, che nel cattolicesimo romano ha soppiantato la Scrittura e che vuole tutto dominare: pensiero, storia, politica." A suo conforto gli giunse dall'Inghilterra una lettera piena di ammirazione di Friedrich von H gel, il cui padre era stato ambasciatore austriaco a Firenze. Nacque tra loro una profonda amicizia e poco dopo von H gel finanzierà la "Revue d'histoire et de littérature religieuses", diretta da Loisy. Ma proprio il 18 novembre del 1893, l'enciclica di Leone XIII, Providentissimus Deus, infelicemente ambigua come tutte le altre sue encicliche, pur ribadendo l'origine divina, l'inerranza e l'integrità delle Sacre Scritture e condannando come "mostri di errore" i metodi di ricerca storico-critici, i quali "distruggono la sacrosanta verità dei libri divini, anche ricorrendo al ludibrio e agli scherzi osceni", pareva autorizzare una certa liberalizzazione dell'esegesi biblica, o almeno così fu ottimisticamente interpretata dai modernisti. In effetti era evidente il desiderio del papa che gli studiosi cattolici, attraverso un esame apologetico delle Sacre Scritture, riuscissero a confutare le "eresie" dei teologi protestanti. Loisy confutò - infatti - l'opera del teologo luterano Adolf von Harnack, Das Wesen des Christentums, in cui si sosteneva che l'essenza del cristianesimo consiste in una legge morale valida per questo mondo e nell'idea fondamentale della paternità di Dio, ma la sua confutazione giunse a esiti ancora più radicali. Loisy approvava la conclusione di Harnack che "Gesù ci dischiude la prospettiva di una società umana in cui regni l'amore e il nemico sia vinto con la dolcezza", ma nella sua opera L'évangile et l'Eglise, pubblicata nel 1902, faceva osservare che l'idea di una filiazione divina di Gesù non apparteneva però all'insegnamento di Gesù stesso, e che i passi evangelici sui quali Harnack si era appoggiato per dedurre la sua affermazione erano aggiunte posteriori: la coscienza che Gesù aveva di essere figlio di Dio non era altro che il concetto che egli aveva di Dio come padre di tutte le creature. Il "Livre rouge" di Loisy, come venne chiamato
391 dal colore della copertina, fu accolto con indignazione come tale da "troubler gravement la foi des fidèles", poiché negava addirittura il dogma fondamentale della divinità di Gesù. "Civiltà cattolica" lo attaccò violentemente e il Santo Uffizio lo mise all'Indice, in quanto eretico, perché l'autore si arrogava il diritto di criticare le verità di fede e di attribuire alle scuole filosofiche posteriori all'età di Cristo influenza nella definizione dei dogmi, e infine violava la stessa persona di Gesù oscurandone l'unione ipostatica con il Verbo di Dio. Fino al 1907, anno della condanna globale, l'attività dei modernisti fu intensa ma poco organica, anche per divergenza e di opinioni. Filosoficamente facevano tutti capo a Maurice Blondel, che nel saggio L'Action, sua tesi di dottorato nel 1893, trovava un significato della fede nell'attivismo concreto: le nostre concezioni religiose egli sosteneva - hanno valore in quanto si esprimono nel nostro essere e nel nostro comportamento. Egli collaborava agli "Annales de philosophie chrétienne", diretti da Lucien Laberthonnière, la cui contestazione alla Chiesa consisteva nel proporre, invece del tomismo insegnato nei seminari, la teologia di sant'Agostino: la ricerca di Dio entro di noi. Il gesuita irlandese George Tyrrell, convertito al modernismo dalla lettura di Loisy e di Laberthonnière, era del parere che "la religione dev'essere pratica di vita" e che "i dogmi sono formule di cui ci serviamo per esprimere la nostra coscienza, ma non hanno fondamento storico". Salvatore Minocchi, con la rivista "Studi religiosi", fondata nel 1901, stimolava il clero a un orientamento critico nell'esame dei testi biblici, riconoscendo con Blondel la legittimità di uno sviluppo progressivo dell'idea di Cristo da parte della Chiesa. Sospeso a divinis nel 1907, l'anno dopo depose spontaneamente l'abito talare. Di studi biblici si occuparono anche Albert Houtin di Angers, e Joseph Turmel, il quale per le sue idee moderniste era stato sospeso dall'insegnamento nel seminario di Rennes fin dal 1892. Mare Sangnier, divenuto nel 1902 direttore di "Le Sillon", originariamente rivista letteraria, la trasformava in un battagliero organo della sinistra cattolica soppresso poi nel 1910 con una lettera di Pio X ai vescovi di Francia. Analoghi interessi pratici e concreti aveva in Italia Romolo Murri,
392 che, fin dal 1893, attraverso le riviste "Via Nova" e poi "Cultura sociale", da lui fondate, si faceva promotore di un intervento diretto delle forze cattoliche nella vita politica. Ma già il 18 gennaio 1901, papa Leone XIII, preoccupato delle tendenze democratiche dei modernisti, con l'enciclica Graves de communi aveva esplicitamente condannato ogni pretesa da parte dei cattolici di intervenire attivamente nella vita politica e, richiamandosi alla sua Rerum Novarum del 1891, ribadiva che l'unica attività permessa ai cristiani per un miglioramento della vita sociale è l'osservanza dei precetti evangelici di carità per i poveri. Perciò, quando il sacerdote Romolo Murri, in un convegno internazionale cattolico tenutosi a San Marino nell'agosto 1902, denunciò la politica clericale conservatrice e tornò a proporre che i cattolici si impegnassero nella lotta per la conquista del governo, al fine di combattere il laicismo e l'indifferentismo borghese, subito fu redarguito. A settembre "Civiltà cattolica" commentò il suo discorso, definendolo "riprovevole e degno di censura". Il cardinale Rampolla, segretario di stato dello Stato pontificio, ne informò il cardinale Giuseppe Sarto, patriarca di Venezia (che proprio l'anno dopo sarà eletto papa): "La Santa Sede deplora il cammino per cui si è messo quel sacerdote ed è vivamente preoccupato di ciò che deve fare per richiamarlo a miglior senso". Giuseppe Sarto, divenuto papa il 4 agosto 1903 col nome di Pio X, si dimostrò subito ancora più deciso del suo predecessore nello stroncare i nuovi orientamenti progressisti e le critiche alla Santa Sede. Come primo atto egli impose al Santo Uffizio di richiamare telegraficamente in patria i sacerdoti Salvatore Minocchi e Giovanni Semeria, che si erano recati in Russia a fare visita a Lev Tolstoj, e "Civiltà cattolica" commentò aspramente la loro iniziativa, sebbene Minocchi, in un articolo del 14 agosto: "Visita a L. Tolstoj in Jasnaija Polijana", si difendesse esponendo impressioni alquanto moderate sul grande scrittore russo e sul suo evangelismo socialista. Anche contro Alfred Loisy l'organo dei gesuiti entrò in polemica e il 16 dicembre 1903 le sue opere vennero messe all'Indice, con l'imputazione che "erano tali da turbare la fede dei fedeli sui dogmi fondamentali dell'insegnamento cattolico e in particolare sull'autorità delle Sacre Scritture e della tradizione, sulla divinità di Gesù Cristo e sull'istituzione divina del pontificato". Loisy annoterà sconsolato nei propri Mémoires: "Mi sono dato
393 una gran pena per nulla. Ho preso sul serio la mia vita e la Chiesa, ed è per questo che ho perduto l'una e turbato l'altra. Cercare la verità non è mestiere da uomo, e per un prete è grande pericolo ... Quale debba essere la sorte futura del cattolicesimo, io non ci posso far niente. Cosa sarà la religione dell'avvenire, io l'ignoro. Il cattolicesimo romano come tale è destinato a morire, e non meriterà rimpianti". Nel 1905 fu messo sotto accusa monsignor Michele Faloci Pulignani, professore e bibliotecario del seminario di Foligno, per aver osato dubitare dell'autenticità di una reliquia: le viscere di san Francesco, conservate nella basilica di Santa Maria degli Angeli, ad Assisi. Il 3 dicembre dello stesso anno, il "Corriere della Sera" pubblicò una "Lettera confidenziale a un professore di antropologia" firmata da George Tyrrell, nella quale era contenuta la pericolosa asserzione che molti dogmi sono dimostrati falsi dalla critica storica e che comunque il compito della religione è di essere guida alla pratica della vita, senza bisogno di tante formulazioni teologiche. Immediatamente Tyrrell venne scomunicato ed espulso dalla Compagnia di Gesù a cui apparteneva. Influenzato dalle discussioni dei modernisti, lo scrittore Antonio Fogazzaro, dopo aver tenuto varie conferenze, nel tentativo di favorire negli ambienti della borghesia intellettuale un'apertura alle questioni sociali e religiose, sempre attaccato da "Civiltà cattolica" che non gli riconosceva il diritto, in quanto laico, di "usurpare le funzioni dei sacerdoti" e di "aprire cattedra di religione", sul finire del 1905 diede alle stampe il romanzo Il Santo, il cui protagonista è un giovane prete, deciso a condurre una riforma della Chiesa su basi cattolico-liberali. "Civiltà cattolica" lo recensì immediatamente e quando il romanzo fu posto all'Indice, nel novembre del 1906, i gesuiti approvarono il provvedimento commentandolo con quest'assurda accusa: "La conseguenza più funesta del cattolicesimo progressista, quale fu delineato dal Fogazzaro nel suo romanzo, si è d'impedire ai cattolici militanti l'organizzazione sociale del popolo sul terreno costituzionale, che è l'opera più urgente e più importante per l'avvenire della Chiesa e della religione". Subito dopo cominciò una nuova ondata di persecuzioni contro i modernisti. Il 17 aprile 1907, in un concistoro per l'elezione di nuovi cardinali, papa Pio X ricordò con voce accorata: "Vi sono purtroppo ribelli, i quali professano e diffondono, sotto forme subdole, errori
394 mostruosi sull'evoluzione dei dogmi, sul ritorno al Vangelo, vale a dire sfrondato dalle spiegazioni della teologia, dalle definizioni dei dogmi, dalle massime dell'ascetica. Voi ben vedete, venerabili Fratelli, se Noi, che dobbiamo difendere con tutte le forze il deposito che Ci venne affidato, non abbiamo ragione di essere in angustie di fronte a questo attacco, che non è un'eresia, ma il compendio e il ve- leo di tutte le eresie, che tende a scalzare i fondamenti della fede ad annientare il cristianesimo". Nello stesso mese di aprile, Romolo Murri venne sospeso a divinis e Giovanni Genocchi dimesso dall'insegnamento all'Apollinare di Roma. Intanto era stato appena pubblicato Dogme et critique, il primo studio di un insospettabile professore di filosofia, il francese Edouard Le Roy, con argomentazioni chiaramente moderniste. E fu forse questa l'ultima goccia che fece traboccare il vaso della pazienza pontificia. Il 4 luglio 1907, l'enciclica di Pio X, Lamentabili sane exitu, condannava , sessantacinque proposizioni eretiche desunte dalle opere di Le Roy e di Loisy. Ad agosto, istituiti dal papa, i visitatori ecclesiastici cominciarono le loro ispezioni nei seminari e nei conventi. Quasi sempre già prevenuti raccolsero per testimonianze anche calunnie infondate e pettegolezzi, come avvenne per esempio nella visita al seminario di Perugia, che costò la destituzione, per simpatie con le idee di Romolo Murri e Giovanni Semeria, del direttore don Umberto Fracassini e del vicedirettore don Pietro Pizzoni. Finalmente, l'8 settembre dello stesso anno 1907, papa Pio X pronunciò la condanna definitiva e assoluta del modernismo, con l'enciclica Pascendi dominici gregis, nella quale, usando ufficialmente il termine modernismo, si dichiarava che tutte le sue espressioni sottintendono direttamente o indirettamente un atteggiamento agnostico, relativistico e immanentistico, perché considera il sentimento religioso immanente nella coscienza morale, perché elimina dai testi sacri il soprannaturale, perché afferma che dogmi e riti sono soltanto modi occasionali di esprimere la fede e che un sentimento religioso maturo può farne a meno. A novembre, col motuproprio Praestantia Scripturae, Pio X comminava la scomunica a tutti coloro che fossero ricaduti negli errori indicati dall'enciclica Pascendi. La prima conseguenza fu l'immediata scomunica del sacerdote
395 Ernesto Buonaiuti, profondo studioso di storia e filosofia religiosa, uno degli esponenti più notevoli del movimento modernista, direttore della rivista "Ricerche religiose" che aveva osato sfidare il papa pubblicando anonimo Il programma dei modernisti: una nobile ed elevata difesa dei cosiddetti "ribelli". Nel gennaio 1908 toccò la sospensione a divinis a don Salvatore Minocchi, e a marzo la scomunica ad Alfred Loisy, il quale, gravemente amareggiato, e credendosi in punto di morte, si fece confessare da un sacerdote amico, a cui confidò di essere ormai giunto all'estrema e più grave di tutte le eresie: la negazione della stessa divinità. "Je ne crois" egli disse "ni en un Dieu personnel, ni à un Divine impersonnel, ni à plusieurs dieux, ni à une vie future." Nel mese di giugno del 1908, in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo, fu coniata una medaglia che raffigurava papa Pio X con un piede posato sopra l'idra modernista. Poco dopo egli approvò la creazione di un sodalizio, che dal suo nome fu detto Sodalitium Piànum: un'organizzazione segreta di spionaggio in funzione antimodernista, così riprovevole che nel 1950 se ne farà poi carico negativo al papa stesso durante il processo per la sua canonizzazione. Direttore del Sodalitium fu monsignor Umberto Benigni. Da quel momento la persecuzione divenne implacabile. Sui modernisti si abbatterono esoneri dall'insegnamento, proibizioni di scrivere, sospensioni a divinis, scomuniche. Furono messi all'Indice gli scritti del teologo tedesco Hermann Schell, della fine dell'Ottocento, per "le sue idee progressiste", perché chiedeva una modernizzazione della Chiesa. Fu messo all'Indice l'opuscolo Adveniat regnum tuum, che era solo la traduzione in lingua italiana della liturgia eucaristica, per renderla comprensibile al popolo, fatta nel 1905 dalla scrittrice Antonietta Giacomelli, grande ammiratrice di Romolo Murri e degli altri modernisti del suo gruppo. La motivazione fu che la lingua ufficiale della Chiesa è il latino, e le Sacre Scritture non si possono esprimere in lingua italiana! La rabbia del Santo Uffizio infierì anche su persone che con il modernismo non avevano nulla a che vedere. Nel 1909 venne scomunicato il gesuita inglese Henry Bremond, semplicemente per aver celebrato funerali cattolici all'amico George Tyrrell, che era stato espulso dalla Compagnia di Gesù e pertanto avrebbe dovuto essere sepolto in terra sconsacrata e senza funzioni, in quanto eretico.
396 Furono esonerati dall'insegnamento, perché non si erano dimostrati abbastanza severi contro il modernismo, il gesuita tedesco Franz Hummelauer, noto orientalista, e l'italiano Enrico Gismondi, già insegnante presso l'Università San Giuseppe di Beirut, e ora alla Gregoriana di Roma, egli pure gesuita e orientalista, che per punizione venne mandato a fare il parroco in un rione di Napoli. Nel marzo 1909 ricevette la scomunica anche Romolo Murri, a causa di un suo libro, / problemi dell'Italia contemporanea, che era già stato posto all'Indice. Ma poiché il libro era stato accolto con favore dalla critica di alcuni giornali laici, la Chiesa comprò il silenzio del "Corriere della Sera" e della "Tribuna". Indignata, la scrittrice Antonietta Giacomelli esortò gli amici di Murri a dimostrare la loro solidarietà con lui, dopo la scomunica, prendendo ancora più decisa posizione contro l'indirizzo persecutorio della Chiesa. Essa stessa scrisse, in data 3 aprile 1909, a un sacerdote amico: "Noi sogniamo la Chiesa libera da ogni umiliazione di parte, da ogni alleanza coi ricchi e i potenti, non più sostegno di immoralità di governi. Rivendichiamo la distinzione tra religione e politica". Per tutta risposta, il 21 aprile dello stesso anno, l'enciclica Communium rerum ribadiva la condanna di "quel semenzaio di errori e di perdizione, che dalla smania di malsane novità ebbe volgarmente il nome di modernismo". Alla fine dell'anno fu costretto a sospendere le pubblicazioni "Il Rinnovamento", un giornale di tendenze giobertiane, che era stato fondato a Milano da Tommaso Gallarati Scotti, Alessandro Casati e Alberto Alfieri, perché aveva accolto anche articoli di Murri, di Tyrrell e di Fogazzaro. Il 25 agosto 1910, attraverso una Lettera apostolica ai vescovi francesi, papa Pio X condannò anche la rivista "Le Sillon" e il suo direttore, Mare Sangnier, con questa motivazione: "Perché si propone il riscatto e la rigenerazione delle classi operaie, mentre, per la perfetta armonia della società, è volere di Dio che esistano differenze sociali". In data 7 settembre, un decreto del Santo Uffizio mise all'Indice i Manuali di scienze religiose, una collana di studi esegetici, appena iniziata da Ernesto Buonaiuti, e la sua "Rivista storico-critica di scienze teologiche". Contemporaneamente, con diversa motivazione, venne messo all'Indice un altro romanzo di Antonio Fogazzaro, Leila, e anche
397 le opere di Gabriele d'Annunzio. L'anno seguente, 1911, per liberarsi della loro scomoda presenza, il Vaticano mandò Giovanni Genocchi come missionario in Brasile e padre Giovanni Semeria fu trasferito a Bruxelles. Poi vennero epurati i commenti biblici del domenicano Albert Lagrange, direttore della "Revue biblique" di Gerusalemme, perché si era servito dei metodi storicocritici usati dai modernisti. Fu quindi messa all'Indice la Histoire ancienne de l'Eglise dell'abate Louis Duchesne, direttore della Ecole fran aise di Roma, perché non metteva sufficientemente in luce il carattere soprannaturale della Chiesa. Furono fatte sospendere le pubblicazioni degli "Annales de philosophie chrétienne", diretti dal Laberthonnière, con proibizione a lui di continuare a scrivere su qualunque altra rivista. Poi fu messo sotto accusa il cardinale Pietro Maffi, direttore dell'Osservatorio astronomico di Roma, perché negava l'antinomia tra scienza e fede. Nello stesso modo furono accusati il generale della Compagnia di Gesù, Franz Wernz, e il suo assistente per la Germania, Wlodzimierz Lodochowski, perché tentavano di adattare la Compagnia alle esigenze dei nuovi tempi, e fu ammonito don Luigi Orione, fondatore dei Figli della Divina Provvidenza, apostolo eroico di assistenza e carità per i poveri, e perciò in sospetto di tendenze socialiste. L'elezione nell'ottobre del 1914 del nuovo papa Benedetto XV, successore di Pio X, fece sperare ai sacerdoti progressisti una coraggiosa condanna della guerra che già cominciava a insanguinare l'Europa, e di concrete applicazioni disciplinari e spirituali, o almeno una programmazione del futuro assetto pacifico nel dopoguerra. Invece l'enciclica Ad beatissimi Apostolorum principi, con la quale il Io novembre del 1914 Benedetto XV inaugurava il suo pontificato, era un'analisi per lo meno inopportuna in quel momento - dei motivi di disordine della convivenza sociale: il disprezzo delle autorità da parte delle masse popolari, la cupidigia di beni materiali, ritenuti unico scopo della vita, e l'inosservanza del magistero della Chiesa. La rivista "Civiltà cattolica" promise anche di svelare "una tenebrosa congiura modernisticoprotestante", ma poi la notizia fu smentita. Dopo la guerra, il modernismo cominciò a decadere, sopraffatto dai nuovi avvenimenti politici. In Francia, Sangnier, divenne deputato dopo aver creato un partito di democrazia cristiana, gradito alla
398 borghesia. Analoga evoluzione politica avvenne in Italia. Luigi Sturzo, nel 1919, fondò il partito popolare cattolico, con un vasto programma di riforme, ma sempre deciso a mantenere la propria autonomia dalle gerarchie ecclesiastiche, che pertanto lo sconfessarono, ma quando, il 28 ottobre 1922, la marcia su Roma dei fascisti segnò l'inizio di una dittatura, che si presentava tra l'altro con caratteri anticlericali, la Chiesa, per non lasciarsi sopraffare, venne meno ai ripetuti propositi di non partecipazione alla vita politica, e autorizzò il partito popolare a presentarsi alle elezioni per il governo. Don Sturzo rifiutò decisamente questo compromesso, e il Vaticano lo costrinse a dare le dimissioni e a ritirarsi in esilio, lasciando il posto al più arrendevole Alcide De Gasperi. A tenere alta la bandiera del modernismo rimase solo Ernesto Buonaiuti, e le ire della Santa Sede continuarono ad abbattersi sul suo capo. Il 25 settembre 1920 anche papa Benedetto XV era intervenuto sulla questione degli studi biblici affermando, come già i suoi predecessori, l'ispirazione divina dei libri santi, la loro "immunità e assenza di ogni errore e ogni inganno", e condannando pertanto "gli studiosi moderni" che non si preoccupavano di tale verità. Egli suggeriva di applicare nello studio delle Sacre Scritture il criterio seguito ' a suo tempo (nel secolo IV!) da san Girolamo: cioè dimostrare l'interdipendenza dei singoli Vangeli, in quanto tutti facenti capo a ' un'unica rivelazione, e di cercar di concordare le "apparenti" discordanze, ' ' che sono solo differenze di stile e di lingua, non di sostanza. Continuando i suoi studi, Buonaiuti non seguì certo questo ingenuo suggerimento, e nel gennaio del 1921 ricevette la scomunica con questa imputazione: "Considerato che il sac. Ernesto Buonaiuti insegna da molti anni e con pertinacia propugna proposizioni teologiche erronee e anche manifestamente eretiche, che, più volte ammonito, S contrariamente alle sue ripetute proteste di sottomissione, non ha '' dato segni di vera e sincera resipiscenza, ed anzi di recente nel periodico "Religio" ha osato negare apertamente il dogma della presenza reale di N.S. Gesù Cristo nella SS.ma Eucarestia, la Suprema Sacra Congregazione del Santo Uffizio, nell'adunanza plenaria del ; 12 gennaio 1921, coll'approvazione del Santo Padre, ha dichiarato e dichiara il sopraddetto incorso nella scomunica a termini di diritto". Avendo egli poi, al momento dell'elezione di Pio XI (6 febbraio 1922) espresso su "Il Mondo" un giudizio piuttosto negativo riguardo
399 alle doti intellettuali e alle capacità del nuovo pontefice, il 30 marzo del 1924 "L'Osservatore Romano" si compiacque di ripubblicare il decreto della sua scomunica e della sua sospensione a divìnis, rifacendosi ai suoi precedenti. Nel 1926 gli fu nuovamente comminata la scomunica maggiore. L'anno dopo, per compiacente intervento del ministro fascista della Pubblica istruzione, i gesuiti ottennero il suo esonero dall'insegnamento nell'Università statale di Roma. Nel 1929 nel noto Concordato tra la Chiesa e lo Stato fascista venne inserito un articolo che serviva espressamente per l'espulsione definitiva del Buonaiuti da ogni insegnamento, anche in scuole non universitarie: "Nessun ecclesiastico può essere assunto o rimanere in un impiego o ufficio dello Stato italiano senza il nullaosta dell'ordinario diocesano". Nel 1931, per aver rifiutato di giurare fedeltà al governo fascista, perderà anche il diritto alla pensione. Continuamente offeso e umiliato, Ernesto Buonaiuti non cessò l tuttavia di lottare, scrivendo ancora opere fondamentali, come la Storia del cristianesimo, e il suo insegnamento e il suo esempio hanno lasciato segni imperituri. Quando egli era stato sospeso dall'insegnamento universitario, nel 1927, gli era successo l'alunno prediletto, Ambrogio Donini, continuandone il pensiero. Divenuto poi militante comunista, Donini fu costretto all'esilio dal 1928 al 1945, quando, caduto il fascismo, riebbe la carica d'insegnante all'Università di Bari. Demitizzazione ed esistenzialismo.
Mentre nei paesi cattolici si infieriva contro i modernisti e si frenava la libertà di studiare criticamente i testi sacri, le scuole teologiche protestanti continuavano le loro ricerche, raggiungendo risultati così straordinari da scalzare le tradizionali concezioni sull'origine del cristianesimo e la sua stessa struttura. Taluni di codesti risultati apparvero in un primo momento "eretici" persino a molti teologi protestanti, naturalmente tra i più conservatori. La Religion sgeschichtli che Schule, chiamata in Italia scuola comparativa, scoprì sorprendenti somiglianze tra le credenze, i miti, le forme di culto del cristianesimo e quelle di altre religioni, appartenenti a civiltà dello stesso grado di cultura, ma senza rapporti reciproci,
400 il che confermò la tesi che qualsiasi religione è il prodotto di un bisogno esistenziale umano, di una sua "invenzione", per spiegare ciò che gli è misterioso e per darsi una legge morale. In particolare, già fin dal 1919, il Formgeschichtliche Méthode, dal nome che gli diede l'iniziatore tedesco Martin Dibelius, riconosceva che i Vangeli contengono varie forme di linguaggio che erano tipiche dell'ambiente giudaico-ellenistico dei tempi in cui furono composti. Se ne deduceva che parabole, miti, racconti di miracoli, non sono - come avevano pensato Bauer e Strauss e gli altri razionalisti - un travestimento fantastico di fatti naturali ma, al contrario, la rappresentazione di un'attesa religiosa in termini accessibili alla mentalità degli uomini di quel tempo. Per esempio i racconti delle guarigioni di ciechi e di storpi e delle risurrezioni di morti sono la dimostrazione, sotto l'apparenza di fatti visibili e concreti, degli effetti soprannaturali della fede: aprire gli occhi alla verità, far camminare rettamente secondo la morale, dare fiducia in una vita eterna. Occorreva quindi sceverare dai testi evangelici le varie forme di linguaggio, studiare quale era stata la situazione vitale (Sitz im Leben) che le aveva create, e disporle in ordine cronologico, secondo i momenti della diffusione del cristianesimo. Per esempio i detti e le parabole raccontate da Gesù, derivano evidentemente dal patrimonio religioso giudaico; le sue guarigioni e i miracoli ricalcano analoghi prodigi compiuti da personaggi dell'Antico Testamento, e persino da divinità pagane: il che dimostra che la composizione dei Vangeli risente già della presenza dei cristiani nell'ambiente greco-romano. Pertanto Rudolf Bultmann, il maggiore rappresentante della scuola demitizzante, poteva sostenere nel suo jesus, del 1926, che i Vangeli non contengono alcun elemento storico, ma sono testi teologici, il cui scopo non è la descrizione della vita e dell'attività di un uomo reale, ma la trasmissione di un messaggio religioso, in cui gli interventi della divinità a favore dell'umanità sono descritti concretamente come azioni di un uomo, eletto da Dio come suo messaggero. Mentre la teologia liberale, e parzialmente anche i modernisti, si erano preoccupati di mettere in risalto la figura umana di Gesù, enucleandola dalle sovrastrutture mitiche, Bultmann rovesciava la questione, dimostrando che proprio quella figura "umana" era il risultato di una "costruzione" della fede. Non si doveva quindi parlare per il cristianesimo di "divinizzazione dell'umano", ma di "umanizzazione
401 del divino". La conseguenza pratica di tale scoperta fu, per Bultmann, la necessità di "demitizzare" il messaggio evangelico, ossia di interpretare ciò che i Vangeli hanno detto sotto forma di immagini mitiche, per adattarlo alla nostra moderna situazione vitale. Così, mentre sarebbero a noi oggi incomprensibili i miracoli di Gesù come azioni di un uomo dotato di poteri magici, sono invece ben accettabili come prove di un misterioso intervento divino a nostro favore, esemplificato in forme concrete, accessibili alla mentalità di uomini ancora immersi nella superstizione. Altrettanto si può dire riguardo all'attribuzione di poteri sacramentali a certi elementi naturali: si tratta di un'interpretazione puramente allegorica. L'acqua del battesimo "purifica" dal peccato, come serve a purificare oggetti sporchi; l'olio lenisce la sofferenza della morte, come lenisce, coi massaggi, i dolori muscolari; il sale da sapore alle nostre parole come lo da al cibo, l'ostia è simbolo di "vittima", dal latino hostia eccetera. Con questo adattamento dell'esperienza di fede ai nuovi contesti sociali e culturali, Bultmann si inseriva in certo modo nella filosofia dell'esistenzialismo, ma con una problematica diversa, per esempio, da quella di Karl Barth, noto soprattutto per un profondo ed erudito commento all'Epistola ai Romani, pubblicato nel 1919, e poi sostanzialmente rifatto nel 1922, per il quale la nostra presenza nel mondo è "angoscia continua e consapevolezza della nostra peccaminosità" che ci fa pensare a Dio come a un "totalmente altro" (ganz anders) da noi. Diverso anche il pensiero di Bultmann dall'esistenzialismo ateo di un Oswald Spengler e di Jean-Paul Sartore, per i quali il nostro "essere" nel mondo è sempre una libera scelta, di cui noi soli siamo responsabili. Più rispettoso della tradizione, ma egli pure preoccupato di adattare il cristianesimo alle esigenze dei tempi moderni, il teologo tedesco Friedrich Heiler, già cattolico modernista, poi passato al luteranesimo e insegnante di storia delle religioni all'Università di Marburg, che nel 1920 tenne un corso di lezioni assai polemico sul concetto di religione, sostenendo che l'idea di Dio dev'essere considerata solo come "tramite" mediante il quale il nostro amore raggiunge il prossimo. Ma l'esistenzialismo radicale, ossia la riflessione concreta sull'uomo come individuo non predeterminato al momento del suo apparire al mondo, ma crea il proprio destino con sua libera scelta, e che pertanto è responsabile di se stesso, comincia a presentarsi chiaramente
402 in Sein una Zeit (Essere e tempo;1923) di un altro insegnante di Marburg, Martin Heidegger. Nel suo linguaggio ricorre il termine Dasein (esserci), nel senso che l'uomo è calato in un'esistenza anonima e sa che il suo è un "essere per la morte", dopo la quale sarà l'esistenza autentica, e perciò da vivo, 1'"angoscia" come intuizione del "nulla" della vita terrena e quindi la necessità di formarsi un "progetto" come scelta di vita. Anche Paul Tillich, protestante, cappellano per quattro anni sul fronte occidentale durante la prima guerra mondiale, costretto all'esilio in America nel 1933 dal regime nazista, insiste sull'idea di Heidegger dell'"angoscia" di vivere e della necessità che l'uomo, riconoscendosi "alienato" (nel senso biblico di "soggetto al peccato") trovi in Dio il "fondamento dell'essere". Codeste tesi esistenziali pongono anche il problema dell'"ermeneutica", cioè dell'interpretazione del linguaggio religioso. Era già l'impegno di Bultmann con la sua indagine sulle "forme" linguistiche dei Vangeli, ma ora il concetto viene ampliato nel senso di una ricerca globale sul significato della fede come valore esistenziale. Sarà soprattutto intorno agli anni Cinquanta che due eminenti discepoli di Bultmann, Ernst Fuchs e Gerhard Ebeling, affronteranno questo argomento. Fuchs riconosce che la lettura dei Vangeli ci porta a constatare come Gesù si sia servito del linguaggio quotidiano per annunciare la presenza di Dio, e che quindi la storia di Dio non è altro che la storia della sua "parola" incarnata in Gesù: la parola che si rivolge all'uomo, quindi un evento linguistico. Ebeling aggiunge all'ermeneutica di Fuchs che la parola (Wort) di Dio esige da parte dell'uomo una risposta (Antwort), e questa risposta è la fede, la fiducia nell'efficacia della parola. Più profonda è la teologia di Wolfhart Pannenberg, il quale si concentra sulla figura di Gesù che con il suo insegnamento ha reso visibile e accessibile a tutti quella che nell'Antico Testamento era solo una "fiducia", un'"attesa". Con Gesù essa è diventata "certezza". Alla risoluzione dell'evento salvifico in una pura esigenza metastorica, data dalla teologia esistenziale, si oppongono molti altri teologi. Ciò che i suddetti esistenzialisti trovano in quello che chiamano "appello implicante una decisione", questi altri lo trovano proprio nelle azioni del Gesù storico: egli ha operato nel tempo la nostra salvezza, quindi questa non è soltanto un'esperienza soggettiva, ma
403 una realtà già in atto. Ne consegue che la Chiesa viene rivalutata coi suoi dogmi, e ciò significa un ripiegamento sulle posizioni del cattolicesimo tradizionale. Uno dei maggiori rappresentanti di questo nuovo indirizzo è il protestante francese Oscar Cullmann, il quale provoca l'indignazione di Bultmann nella recensione del suo libro Christus und die Zeit (Cristo e il tempo; 1946), poiché sostiene che la cristologia non si può fondare su interpretazioni filosofiche, ma dev'essere desunta dal Nuovo Testamento e che quindi "fondamento di ogni cristologia è la vita di Gesù". Altrettanto esplicito è il tedesco Jurgen Moltmann: "Non si deve più andare dal generale al particolare parlando della divinità di Gesù, ma partire dal basso, prendendo come regola d'interpretazione la figura storica di Gesù", e anche il gesuita olandese Piet Schoonenberg per il quale "Cristo era una persona umana: tutti ne hanno la certezza. Era influenzato dalla volontà divina, ma comunque è nel suo agire come uomo che noi troviamo la sua dimensione salvifica". Contestazioni sociali ed etniche.
Al di là delle sopraccitate speculazioni teologiche, intanto, il bisogno di adattare il messaggio evangelico alle mutate situazioni vitali si arricchiva di motivazioni etniche e politiche, e il messaggio religioso veniva sostituito da dottrine più conformi alle esigenze concrete. È appena il caso di ricordare la propaganda per l'ateismo sostenuta nell'Unione Sovietica nei primi decenni dopo la rivoluzione bolscevica del 1917, con la persuasione che il comunismo realizzi i principi di uguaglianza sociale predicati da Cristo, e quindi la necessità di difendere la costituzione socialista dal sabotaggio del clero ortodosso. Attivo militante di questo impegno fu Emeljan Jaroslavskij, autore di un arguto, sebbene ingenuo, libro che "demitizza" l'Antico Testamento, dal titolo La Bibbia per i credenti e i non credenti, del 1925. Assai più profonda e priva di pregiudizi la Storia di Roma di S.I. Kovalev, che considera l'origine del cristianesimo come conseguenza del riscatto sodale delle plebi, sfruttate dai romani nel periodo della decadenza dell'impero: una "liberazione", quindi, soprattutto morale e spirituale dalla loro esistenza oppressa. Ma non solo nell'Unione sovietica e, ancora prima della sua costituzione,
404 nei paesi cattolici e protestanti, in Europa, in America e in Africa, sorsero appropriazioni sociali e politiche del messaggio cristiano. Assai sofferto era già, fin dai primi decenni del nostro secolo, il fermento che agitava le popolazioni indigene sottomesse all'impero coloniale degli europei, tra gli indios e i negri d'America, per un ridimensionamento della fede cristiana imposta dai missionari senza tener conto delle loro tradizioni e delle loro esigenze. Le nuove forme di culto che ne sorsero - una contaminazione di elementi cristiani con le originarie credenze pagane - risultavano una trascrizione, in chiave religiosa, dell'anelito di quelle genti all'indipendenza politica e alla riappropriazione della loro identità etnica. Tale il pejotismo degli indiani d'America: un culto notturno agli dei celesti, con il ricorso a sentenze bibliche, culminante in una "comunione" collettiva con l'ingestione di pejote, alcaloide derivato da un cactus, che ha effetti lievemente allucinogeni. Un'assunzione del mito cristiano in forma di protesta sociale era anche la cerimonia, praticata per anni, con mistico delirio, dalla comunità creola dei Penitenti di Sangre de Cristos, nel Nuovo Messico e nel Colorado: l'alienazione dalle sofferenze quotidiane attraverso l'imitazione e l'identificazione con il Gesù crocifisso e sepolto. Lungamente perseguitati dai vescovi cattolici, i Penitenti giunsero soltanto nel 1947 a un compromesso con la Chiesa. [Vedi Documenti n. 1.] Apertamente carichi di rivendicazioni etniche e politiche anche i movimenti religiosi dell'Africa, sorti nei primi anni del secolo. La salvezza delle anime predicata dai missionari veniva trasferita sul piano politico e sociale, e il messia materializzato in un profeta vivente, capace di realizzazioni concrete. Di questo genere il movimento ngunzista (ngunzi significa "profeta"), detto anche kimbangista dal fondatore nel Congo, nell'anno 1921, Simon Kimbangu, un indigeno educato da missionari battisti, per la creazione di un monoteismo fondato sulla fede in un Dio dei negri, con finalità irredentistiche contro i colonizzatori bianchi. Arrestato e messo in prigione a vita, nel 1930, Kimbangu fu subito sostituito da André Matsua, e questi, a sua volta, da Pierre Mpali. Il movimento, nel 1956, fece conoscere le proprie rivendicazioni inviando all'ONU un memorandum con la richiesta che si abolisse il governo coloniale, e la sua attività ha contribuito alla costituzione di una repubblica comunista. Memorabile anche l'impegno del pastore negro americano Martin
405 Luther King, fondatore nel 1955 di un'Associazione per l'emancipazione dei negri degli Stati Uniti, che ottenne nel 1964 il premio Nobel per la pace, ma morì assassinato nel 1968 da un sicario. Tra i bianchi, cattolici e protestanti, che non hanno rivendicazioni etniche da presentare, l'umanizzazione del divino si è manifestata, durante la prima metà del secolo, soprattutto nell'imitazione di Cristo sollecito della sorte dei poveri e di Cristo taumaturgo. A parte la costituzione, per opera di Leonard Ragaz, di un vero movimento socialista cristiano, per lo più i sacerdoti si limitarono a iniziative individuali di conforto ai poveri o a un'attività taumaturgica per i malati. Due aspetti che la Chiesa cattolica combatteva, perché riteneva il primo un impegno confinante col socialismo, il secondo una presunzione di doni carismatici da parte di persone semplicemente in possesso di doti naturali di guaritori, che poteva indurii a errate pretese di santità. Tra gli eretici di questo tipo fu padre Pio da Pietrelcina (Francesco Forgione), segnato fin dal 1918 da stigmate, adorato da migliaia di malati che riacquistarono la salute al contatto delle sue mani, mentre un profumo di rose si spandeva all'intorno. Nel 1925, la Chiesa, preoccupata per la fama di santità di cui godeva il cappuccino, e irritata perché egli aveva rifiutato di sovvenzionare la Santa Sede con le offerte che riceveva dai suoi fedeli, cominciò a perseguitarlo. Padre Agostino Gemelli dell'Università Cattolica di Milano, incaricato di visitarlo, riferì che, a suo parere, le stigmate erano solo frutto di isterismo. Nell'aprile 1926, il Santo Uffizio proibì ai fedeli di ricorrere a padre Pio e di avere con lui anche soltanto rapporti epistolari, e mise all'Indice una sua biografia in cui - secondo il rapporto di teologi gli erano attribuiti "pretesi miracoli e altri fatti straordinari". Nel 1930, a Sannicandro Garganico, non distante da San Giovanni Rotondo, sede di padre Pio, si presentò come indovino e guaritore un certo Donato Manduzio, il quale asseriva che gli era apparso Jahve a ordinargli di restaurare l'antica religione di Israele, accusando di falsità "i pastori del Nuovo Precetto", ossia il clero cattolico. La sua casa divenne una sinagoga, centro di raduno di fedeli, che si riconoscevano negli antichi contadini palestinesi in attesa del compimento del Regno. Queste eresie, sospette alla Chiesa, erano in realtà reazioni di sconforto per l'atteggiamento assunto dal pontefice in seguito al
406 Concordato col fascismo del 29 febbraio 1929, che rappresentava per i fascisti un appoggio considerevole presso le masse, e per la Chiesa immediati benefici, col riconoscimento di tutte le sue istituzioni, possibilità d'indottrinamento dei giovani con l'insegnamento religioso nelle scuole, libertà di persecuzione delle minoranze ebraiche e protestanti (a cui infatti venne proibito il culto pubblico) e infine la certezza di trovare nel fascismo un valido strumento contro il comunismo. Non per nulla, il papa definì pubblicamente Mussolini "l'uomo della Provvidenza"! Perciò la Chiesa intensificò anche le condanne alle nuove dottrine sociali. Il 13 maggio 1931, quarantesimo anniversario della Rerum Novarum, papa Pio XI emanò l'enciclica Quadragesimo anno, che appositamente ribadiva le soluzioni proposte allora da Leone XIII: difesa della proprietà privata contro gli errori del socialismo, appello al buon cuore dei datori di lavoro. Quell'anno stesso un'autorevole protesta venne espressa dal filosofo Piero Martinetti nel libro Gesù Cristo e il cristianesimo, che, in polemica aperta con la Chiesa, celebrava il cristianesimo degli apostoli, dei martiri, degli eretici pauperisti e dei perseguitati. Ma anche da parte del clero minore si continuava a condurre una lotta aperta per il ritorno alle origini del cristianesimo, e la Chiesa continuava a condannarla. Nel 1934 fu messo all'Indice il libro La più bella avventura, un'interpretazione in chiave sociale della parabola del figliol prodigo, opera di don Primo Mazzolari, che nella sua modesta parrocchia di Bozzola (Mantova) già dal 1929 si prodigava per i compaesani bisognosi e non si peritava di criticare il connubio della Chiesa con il fascismo, scontando la sua franchezza con accuse, rimproveri dei superiori, e persino un tentativo di assassinio da parte di fanatici fascisti. Ma egli dichiarava apertamente il proprio pensiero: "A un mondo che muore di fame, di miseria, che gli egoismi più feroci divorano, le parole non bastano. Occorre che qualcuno esca e pianti la tenda dell'amore, accanto a quella dell'odio". Nel 1937 la lettera di papa Pio XI, Mit brennender Sorge (Con cocente dolore), diretta ai cattolici tedeschi, deplorava gli errori antireligiosi che si erano diffusi in Germania, evitando però di riconoscere le responsabilità di Hitler e dei nazisti, e senza far cenno alle leggi antisemitiche già emanate. Ciò che stava a cuore al pontefice erano
407 soltanto le apostasie religiose dei cattolici. Ben più violenta ed esplicita la sua condanna del comunismo con l'enciclica Divini Redemptoris, appena di cinque giorni posteriore alla lettera suddetta: "Il comunismo spoglia l'uomo della sua libertà, toglie ogni dignità alla persona umana e ogni ritegno morale contro l'assalto degli stimoli ciechi... L'asservimento dell'uomo, il rinnegamento dell'origine trascendente dello Stato, l'abuso orribile del potere pubblico a servizio del terrorismo collettivista, sono il contrario di ciò che corrisponde all'etica naturale e alla volontà del Creatore". Sulla stessa linea di papa Pio XI continuò a mantenersi il suo successore, Pio XII, che fin dalla prima enciclica, Summi Pontificatus del 20 ottobre 1939, pochi mesi dopo la sua elezione, ribadiva che "la radice profonda e ultima dei mali della società moderna sta nella negazione ; e nel rifiuto di una norma di moralità universale, nell'oblio della legge che trova il suo fondamento in Dio, creatore e padre di tutti". Gli storici gli imputeranno in seguito "gli imperdonabili silenzi" sulle dittature fasciste in Germania, Italia e Spagna e sull'orribile genocidio degli ebrei. Nonostante l'infuriare della seconda guerra mondiale, ancora più terribile della prima, per l'uso delle armi chimiche, i bombardamenti aerei sulle città inermi, i campi di concentramento, le camere a gas, i dispersi nelle gelide pianure della Russia o nei soffocanti deserti dell'Africa, il Vaticano deluse le attese dei fedeli, occupandosi di problemi secondari come, per esempio, la contestazione del già nominato Primo Mazzolari, di cui nel 1942 il Santo Uffizio vietò la lettura del recente libro Tempo di credere, dedicato "alla legione degli smarriti, sempre più vicina al mio cuore". Nel 1943 papa Pio XII si abbandona a barocchismi nell'enciclica Mystici Corporis, identificando la Chiesa con il "corpo" di Cristo e i fedeli con le sue "membra", e lo stesso anno, mentre gli animi di tutti sono afflitti da ben più gravi problemi, con l'enciclica Divino afflante Spirita ribadisce che i Vangeli non possono errare, in quanto scritti sotto diretta ispirazione dello Spirito Santo. Nel 1944, su richiesta dell'arcivescovo cileno José Carlos Rodriguez, un decreto del Santo Uffizio specificava che era vietato predicare - come ancora fanno certi sacerdoti del Cile - il "millenario mitigato" , che è stato sostenuto da don Manuel de Lacunza y Diaz, nell'opera Venida del Mesías en gloria y majestad, cioè che Cristo sarebbe ;
408 tornato in terra per regnare corporalmente, e subito dopo vi sarebbe stata la risurrezione dei giusti. Il 20 febbraio 1946 venne messo all'Indice un altro libro del già perseguitato Primo Mazzolari: Vangelo del reduce. Il compagno Cristo, con l'ordine di ritirarlo dal commercio e l'imposizione all'autore di, una penitenza di cinque giorni di esercizi spirituali e il divieto di celebrare la messa. Questo atteggiamento della Chiesa provocò nuove apostasie e scismi. Nel 1947, don Georges Roux di Montfavet, in Provenza, si scopriva guaritore e si proclamava il Cristo taumaturgo, tornato in terra per salvare gli uomini. Raccolto un buon numero di seguaci tra i suoi "miracolati" fondava con loro la Chiesa cristiana universale. Due anni più tardi scenderà in Italia con un variopinto seguito di suoi cardinali e profetesse biancovestite, con l'intento di scomunicare il papa, "la gran bestia dell'Apocalisse". Addirittura, il sacerdote francese Michel Collin si autonominava antipapa col nome Clemente XV, ed erigeva la sua Nouvelle Eglise nel basso Reno, che avrà tosto diramazioni in altri paesi. Alla sua morte gli succederà il parroco italiano Rino Ferrara, che morirà nel 1978 e sarà tenuto dai fedeli per alcuni mesi semi-imbalsamato in un alloggio di Rovereto oggetto di venerazione. E già era fiorente nel mondo anglosassone il movimento contestatore del New Age creato nel 1944 da Alice Bailey, a cui era poi successo come capo David Spangler. Nel 1948 il Santo Uffizio deplorò l'iniziativa di don Zeno Saltini, che da due anni aveva creato nei pressi di Modena il villaggio di Nomadelfia dove raccoglieva bambini abbandonati, orfani di guerra, famiglie dissestate, poveri e disoccupati, per una vita in comune. "Siamo" egli diceva "una grande famiglia creata da Dio. Le masse popolari sono state bistrattate finora: hanno diritto di assicurarsi un migliore e più cristiano trattamento", e ancora: "Borghesia e preti borghesi sono un infetto cadavere. Fratelli lavoratori, i vostri rappresentanti li troverete voi stessi tra voi". Ciò che scandalizzò la Chiesa era la calunnia che a Nomadelfia fosse ammessa la promiscuità dei sessi; ma ciò che la spaventò era l'appello ai lavoratori, alla vigilia delle elezioni politiche, a votare per i partiti di sinistra. Invece le elezioni si conclusero con una strepitosa vittoria della democrazia cristiana, che lasciò sbalorditi i progressisti.
409 La delusione dettava una nuova iniziativa a don Mazzolari: il 15 gennaio 1949 usciva a Modena il primo numero di "Adesso", quindicinale di impegno sociale cristiano, da lui fondato, che portava come motto: "Adesso chi non ha la spada venda il mantello e ne compri una", che è una frase del Vangelo di Luca (XXII 36). Il primo numero conteneva passi roventi, come: "Se il cardinale Schuster di Milano regala un anello per i senzatetto, il papa dovrebbe disfarsi degli ori e degli argenti per dare una casa a chi l'ha perduta con la guerra", e ancora: "Un industriale non pulisce il suo denaro donando qualche milione alla parrocchia o alle acli". Il Vaticano celebrava invece la vittoria del partito cattolico pubblicando sul!'"Osservatore Romano" del 15 luglio un decreto che comminava la scomunica ai comunisti e l'esclusione dai sacramenti a chi aveva votato per i candidati di tale partito, perché: "Il comunismo è anticristiano; e i dirigenti, benché a parole qualche volta dichiarino di non combattere la religione, di fatto, però, con la teoria e con l'azione si dimostrano ostili a Dio, alla vera religione, e alla Chiesa di Cristo". A partire dal gennaio 1950, il gesuita Riccardo Lombardi, detto "il megafono di Dio", perché girava di città in città, ritto sulla propria automobile, urlando nelle piazze slogan anticomunisti, esortava i fedeli, in prospettiva delle nuove elezioni, con frasi di questo genere: "Italia di san Francesco, di santa Chiara, di santa Caterina, di san Bernardino, Italia di san Pio V, ancora una volta drizzati in piedi". Don Zeno Saltini teneva allora con lui un contraddittorio, predicando a Modena, a Ferrara, a Verona, a Torino: "Padre Lombardi dice sempre: i ricchi devono dare. Sta a sentire: perché non insegni alla gente che deve prendere? Noi non siamo contro nessuno. È il governo che è contro di noi. È un governo cattolico quello che lascia maneggiare miliardi agli speculatori?". Don Saltini criticava anche l'opportunismo politico del partito di Alcide De Gasperi: "Sventola a Roma una croce che non è quella di Cristo. Prima si trattava di una croce uncinata, ora di uno scudo crociato". Il Santo Uffizio lo fulminava con la scomunica, definendolo: "Come uomo un esaltato, come politico un rivoluzionario, come sacerdote un eretico". Nel 1951, il ministro degli Interni Mario Scelba, decretò la soppressione
410 della Comunità di Nomadelfia. Don Saltini protestava, a nome di tutti i suoi assistiti, che torneranno ad andare dispersi: "Questa povera Chiesa è dilaniata da empi". Il giovane sociologo laico, Danilo Dolci, che aveva dedicato a Nomadelfia la sua attività di educatore, si stabiliva in Sicilia, prendendo a cuore le condizioni dei braccianti dell'isola, scrivendo eloquenti documentan sullo stato di miseria, ignoranza e fanatismo a cui era abbandonata la gente del Sud, e guidava di persona i contadini all'occupazione delle terre incolte, sopportando per loro le conseguenze dell'arresto e della prigione. Intanto, il 12 agosto 1950, papa Pio XII aveva emanato l'enciclica Humani generis, che come il Sillabo di Pio IX nel 1864, condannava confusamente "le pericolose tendenze della odierna filosofia", e cioè: il materialismo dialettico, l'evoluzionismo, l'agnosticismo, il pragmatismo, l'idealismo, l'immanentismo, lo storicismo, l'esistenzialismo! e pertanto esortava i teologi cattolici a combattere queste eresie con tutte le loro forze. Nel 1954 la Chiesa venne messa in allarme dai risultati dell'esperimento dei preti operai iniziato nel 1941 in Francia, diffuso poi in altri paesi. L'incontro di questi generosi missionari con il proletariato aveva reso molti di loro consapevoli dell'insufficienza dell'ideologia cristiana a risolvere tanti gravi problemi, e alcuni si erano convertiti addirittura al comunismo. Un gruppo di questi aveva indirizzato al cardinale Maurice Feltin, già arcivescovo di Parigi, che si era prodigato durante la guerra a proteggere gli ebrei e i perseguitati, una "Memoria", in cui si diceva: "Abbiamo imparato che la lotta di classe non è un'ideologia che si può accettare o respingere, ma un fatto brutale che è imposto alla classe operaia: è la lotta condotta contro la classe operaia dal partito dei possidenti, del quale anche la Chiesa fa parte". Immediatamente, Pio XII vietava l'attività dei preti operai. Ma gli apostoli del rinnovamento sociale della Chiesa non si persero di coraggio. Nel 1958, don Lorenzo Milani, che nel piccolo villaggio di Barbiana, dove era stato confinato per le sue idee "socialiste", aveva fondato una scuola per i poveri, diede alle stampe Esperienze pastorali, un libretto che mise in agitazione la curia romana, perché denunciava l'abbandono in cui la Chiesa lasciava i suoi figli più bisognosi. Il libro venne subito messo all'Indice e don Milani venne ammonito, in quanto "falso prete, ribelle e comunista". I
411 quotidiani d'informazione sfruttarono l'avvenimento, facendone una notizia scandalistica. Un redattore della "Stampa" di Torino si domandava se egli avrebbe lasciato l'abito talare. Don Milani rispose per iscritto: "Noi la Chiesa non la lasceremo perché non possiamo vivere senza i suoi sacramenti e senza il suo insegnamento. Accettiamo da lei ogni umiliazione, anche, se sarà necessario, di inginocchiarci davanti a Gedda [presidente dell'Azione Cattolica], il caudillo d'Italia. Ma ce lo dovrà imporre il papa con un atto solenne che ci impegni nel dogma, non il giornale della hat". Un altro motivo di preoccupazione per la Chiesa fu, nel 1956, l'iniziativa dell'abate francese Marc Oraison, già rimproverato e messo all'Indice nel 1953 per la sua ardita tesi di laurea sui rapporti tra cristianesimo e sessualità, che ora subiva l'interdizione e la sospensione a divinis per aver fondato una clinica psichiatrica a cui ricorrevano seminaristi e sacerdoti in crisi sessuale, che a volte egli consigliava di lasciare la vita clericale e prendere moglie. Ma egli continuò a battersi per una più umana comprensione da parte della * Chiesa di quel grave problema. Nell'ottobre del 1958 una promessa di cambiamento parve essere data dall'elezione del nuovo pontefice, Giovanni XXIII. Infatti la sua prima enciclica, agli inizi del 1959, Ad Vetri cathedram, conteneva nelle parole "verità", "unità", "pace" le linee programmatiche di un rinnovamento, sebbene ancora troppo vaghe per essere interpretate veramente come indice di una svolta. Poi, il 14 luglio 1961, la pubblicazione dell'enciclica Mater et magistra (che portava però la data del ' 15 maggio) stupì per il nuovo linguaggio e il nuovo orientamento che veniva dato alla questione sociale: "Per la grande maggioranza degli uomini il lavoro è l'unica fonte da cui traggono i mezzi di sussistenza, e perciò la sua rimunerazione non può essere abbandonata al gioco meccanico delle leggi del mercato", e ancora: "Il nostro animo è preso da profonda amarezza dinanzi allo spettacolo di numerosissimi lavoratori, ai quali viene corrisposto un salario che costringe essi stessi e le loro famiglie a condizioni di vita infraumane". Perciò il papa faceva appello (è doveroso riconoscerlo) alle responsabilità dei ricchi nei riguardi dei poveri; ma è evidente che un semplice richiamo al sentimento di "carità cristiana" dei ricchi (non sempre necessariamente cristiani) non poteva pretendere di risolvere in modo definitivo un problema di giustizia economica e sociale.
412 Tuttavia l'11 ottobre dell'anno seguente l'apertura del Concilio ecumenico vaticano secondo fece sperare in un effettivo cambiamento di rotta, già nelle parole che ne annunciavano il proposito: "Non di condannare degli errori, ma di presentare la dottrina cristiana in modo che risponda alle esigenze dei nuovi tempi, tendendo la mano, per un comune impegno di apostolato, anche ai fratelli separati, ' protestanti e ortodossi". E l'11 aprile 1963, mentre ancora era riunito il Concilio, Giovanni XXIII ne scavalcò le eventuali conclusioni con l'enciclica Pacem in terris, che affrontava con decisione il problema dell'ecumenismo. Rivolgendosi "a tutti gli uomini di buona volontà" e riducendo a pochi cenni i riferimenti teologici, l'enciclica mostrava chiaramente desiderio di trovare una base d'intesa con tutte le forze desiderose di pace e di giustizia nel mondo. L'intenzione del papa era un incontro sincero anche con i non credenti, purché ugualmente illuminati dal sentimento del bene. Il papa specificava come anche le false dottrine ; sulla natura dell'uomo, quale il materialismo marxista, non vadano identificate e confuse con i movimenti storici e politici che a esse ' si ispirano, "perché le dottrine, una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse, mentre i movimenti suddetti, agendo sulle situazioni storiche, incessantemente evolventisi, non possono non subirne gli influssi e quindi non possono non andare soggetti a mutamenti anche profondi. E inoltre, chi può negare che in questi movimenti, nella misura in cui si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi meritevoli di approvazione?". A testimonianza dell'apertura di papa Giovanni XXIII verso le idee socialiste sta anche il suo invito alla pace e alla distensione in occasione della crisi di Cuba, nell'ottobre 1962, e l'udienza accordata a Adjubej, direttore del quotidiano sovietico "Izvestija" e genero del capo dello stato Kruscev, e l'elogio della grande impresa dei cosmonauti sovietici Nikolaev e Popovic nel 1962. Non stupisce pertanto che nel mese di giugno del 1963, l'improvvisa morte del "papa buono" sia stata accolta con un sospiro di sollievo dalle gerarchie ecclesiastiche conservatrici, la maggioranza, che avevano assistito con spavento alla sua opera di demolizione dell'autoritarismo della Chiesa e alla sua apertura al dialogo persino con i comunisti.
413 Il Concilio aveva appena approvato il primo punto all'ordine del giorno: la facoltà di adattare la liturgia alle esigenze locali e di sostituire il latino con le lingue moderne. Fu quindi facile al nuovo papa, Paolo VI, frenare lo slancio innovatore di Giovanni XXIII prima che si giungesse alle votazioni finali, e far rientrare perciò la Chiesa nell'alveo della sua tradizione secolare. Alla riapertura delle sedute del Concilio, il discorso inaugurale, tenuto dal cardinale Amieto Tondelli, dimostrò subito le intenzioni di Paolo VI: "Al nuovo pontefice occorre fortezza d'animo e costanza per confermare apertamente i dogmi cattolici, e coi medesimi respingere gli opposti errori dell'eresia". Infatti a settembre il papa, parlando ai padri conciliari, notò "con stupore e apprensione" che si stava rischiando di mettere in discussione certe strutture che nel corso dei secoli erano state costituite dalla comunità cattolica. Fu negato il potere decisionale del collegio dei vescovi, quindi la libertà di parola a tutti i membri della Chiesa. Fu ribadita la condanna del "comunismo ateo" e di tutte le opere di teologi e filosofi con interpretazioni eretiche. Fra queste fu messo all'Indice il dramma La tragèdie du nouveau Christ, scritto verso il 1940 dal francese Stephan Saint-Georges de Bouhelier, in cui si immagina che Gesù, tornato in terra tra gli uomini del nostro tempo, viva da vagabondo tra miserabili e falliti e donne perdute, maledicendo la società ed esecrando i ricchi, tanto che i suoi discepoli, eccitati da quelle parole, appiccano il fuoco alla città, attirandosi la furia del clero, delle autorità civili e della polizia. Allora Gesù, sentendosi responsabile, si lascia arrestare e lapidare. Furono messe all'Indice le opere di molti contestatori, tra cui gli studi storico-critici del teologo tedesco Robert Kaiser. Si vietò alla cattolica Loyola University di Chicago il progettato conferimento della laurea ad honorem al cardinale Augustin Bea, che era stato rettore del Pontificio istituto biblico (1930-49), fatto cardinale da papa Giovanni XXIII e poi nominato presidente del Segretariato per l'unione dei cristiani, e che quindi si era prodigato per il dialogo con i protestanti. Durante la seconda sessione del Concilio venne attaccato un intervento distensivo del teologo Oscar Cullman, uno dei più ragguardevoli tra i rappresentanti del protestantesimo, che Giovanni XXIII aveva invitato al Concilio.
414 Nel corso della terza sessione del Concilio, a Paolo VI riuscì persino d'imporre una sua concezione del dogma dell'infallibilità pontificia: "Il Romano Pontefice ha sul corpo episcopale una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente". L'indignazione dei cattolici progressisti non tardò a manifestarsi contro questo atteggiamento dittatoriale. Già nel 1964 il gesuita tedesco Karl Rahner, solitamente moderato, denunciò nell'opera Das freie Wort in der Kirche (La libera parola nella Chiesa) l'eventualità che se essa non si fosse aggiornata i veri cristiani si sarebbero ridotti in breve a una setta separata, come a loro tempo gli hussiti o i valdesi [vedi Documenti n. 2], e il teologo inglese Martin Marty offrì gli spunti per un'attività contestatrice, riconoscendo nel suo libro Varieties of Unbelief: "Sia all'interno che all'esterno della Chiesa si trovano persone che condividono sostanzialmente gli stessi intenti umanitari, ed esse sono schierate contro le forze oscure della repressione, dell'odio e dell'autoritarismo che operano sia all'interno che all'esterno della Chiesa". Ma le direttive di papa Paolo VI continuarono a essere impostate a un rigido conservatorismo. L'enciclica Ecclesiam suam del 6 agosto 1964 dichiarava ancora esplicitamente che la Chiesa non acconsente alla ricerca della verità con altri, ma propone il dialogo per persuadere "gli altri" che essa sola è depositaria e interprete infallibile della verità. Il 31 marzo dell'anno dopo, il papa deplorava in un'allocuzione "coloro che non sanno offrire alla vita cattolica altro che l'apporto di una critica amara, dissolvente, sistematica", e nel mese di agosto, parlando al Concilio faceva notare "la risorgente eresia del modernismo" e osava sostenere - mentendo - che Giovanni XXIII non aveva mai autorizzato un dialogo con i comunisti. Lo stesso anno 1965, il cardinale Franziskus Kònig, presidente del Segretariato per i non credenti, quindi con il compito specifico di spiarne eventuali attività contro la Chiesa, condannò il libro Marxismo e cristianesimo del salesiano Giulio Girardi, che, in verità, illustrava solo una possibilità di dialogo tra cattolici e marxisti, riconoscendo anche a questi ultimi effettivi e seri interessi per un'equa soluzione dei problemi sociali. Ma il compendio delle contestazioni sociali durante il pontificato di Paolo VI, il documento ufficiale con cui, facendo proprie le istanze
415 di tutto il mondo cattolico, la Chiesa d'Olanda provocava un vero e proprio scisma da Roma, fu il Nuovo Catechismo olandese, ossia De nieuwe Katechismus. Geloofserkondiging voor Volwassen (Annuncio della fede per gli adulti), pubblicato il 9 ottobre 1966, con l'imprimatur di Bernard Alfrink, arcivescovo di Utrecht e primate d'Olanda. Lungamente elaborato da valenti teologi, con la collaborazione di psicologi e sociologi, il Nuovo Catechismo dava una interpretazione moderna, adatta alla mentalità e ai bisogni esistenziali dell'uomo di oggi, delle verità di fede e dei dogmi tradizionali. Paolo VI denunciò subito "il grande scandalo" e condannò il domenicano belga Edward Schillebeeckx, insegnante di teologia dogmatica all'Università di Nimega, che papa Giovanni XXIII aveva invitato al Concilio, perché era stato l'ispiratore e il maggior responsabile del catechismo olandese. Il Santo Uffizio esaminò il documento e vi riscontrò dieci grandi eresie e altre quarantotto piccole eresie. Un'altra importante secessione avvenne in Spagna, a Palmar de Troya, dove il sacerdote Juan Caballero si autonominò papa Gregorio XVII, eleggendo cardinali alcuni giovani seminaristi, tra i quattordici e i vent'anni, dando loro giurisdizione anche su un convento di suore. Nell'aprile del 1967 fu decretato l'esonero dall'insegnamento di padre Charles Curran, professore di teologia morale all'Università Cattolica di Washington, per le sue "idee progressiste", nonostante che, per solidarietà con lui, si fossero messi in sciopero quarantaquattro professori e seimilaseicento studenti. Anche quell'anno il cardinale Paul Emile Léger, arcivescovo di Montreal, in Canada, criticato per il suo dissenso dalla Chiesa di Roma, rinunciò alla diocesi e si trasferì in Africa come semplice missionario in un ospedale di lebbrosi. Pure il teologo tedesco Joachim Kahl si spretò e scrisse una pungente requisitoria sulla miseria del cristianesimo, intitolata appunto Das Elend des Christentum. (La miseria del cristianesimo). Nel mese di settembre fu soppresso dal Vaticano il monastero di Cuernavaca, nel Messico, perché ventun monaci avevano rinunciato ai voti per fondare una nuova comunità basata su concezioni di vita apostolica. A ottobre e novembre vennero respinte le petizioni di ventinovemila suore olandesi e cinquecentoquaranta suore del Cuore Immacolato di Maria, a Los Angeles, le quali avevano supplicato Paolo VI di proporre una riforma degli ordini religiosi femminili. A
416 dicembre monsignor Jerónimo José Podestà, vescovo di Avellaneda, presso Buenos Aires, fu costretto a dare le dimissioni con l'accusa di idee social-progressiste. Lo stesso anno, gruppi di cattolici del dissenso, in tutta Europa, organizzarono manifestazioni di protesta e scrissero lettere aperte a Paolo VI, indignati perché era stato da lui ricevuto in Vaticano il guerrafondaio presidente degli usa, Johnson. Tutto il mondo cattolico era dunque in agitazione. Era nata l'assurdità di una Chiesa sotterranea dentro la Chiesa ufficiale: una Chiesa del dissenso costretta a operare clandestinamente. I caratteri distintivi di questa Chiesa si possono trovare in tre generi di attività: dogmatica: revisione delle strutture dottrinarie, evidenziando che "Dio è un dio che non sottomette gli uomini, che non vuole esercitare diritti su di loro, ma vuole mostrarsi un dio d'amore"; carismatica: affermazione che la Chiesa è riunione di tutti i fedeli per incontri di preghiera spontanea e di discussioni, con la possibilità individuale di interpretare una situazione secondo una personale ispirazione divina; escatologica: testimonianza di fiducia nella volontà oggettiva di tutti i fedeli a sentirsi impegnati nel compito storico di liberazione dell'uomo da ogni struttura repressiva, con la lotta contro le ingiustizie sociali. Fu un vasto movimento di clero e di popolo, che si espresse nell'occupazione di chiese e cattedrali come luogo di raduno per celebrare in modo nuovo i riti, in denunce verbali e scritte del disinteresse della Chiesa romana per i problemi del momento, manifestazioni di protesta, individuali e collettive, pubblicazioni di inchieste sugli ingenti patrimoni del Vaticano, impiegati anche in speculazioni capitalistiche, e cortei contro la connivenza della curia di Roma con le dittature di Franco, con i governi di Kennedy e di Johnson, con i vari tiranni sudamericani e con gli sfruttatori delle colonie africane. Teologia della rivoluzione.
Può sembrare strano, ma fu proprio una frase dell'enciclica del papa Paolo VI, nel 1967, la Populorum progressio (frase subito dopo smentita dal papa stesso), a dare la speranza a sacerdoti progressisti dei paesi extraeuropei di avere la Chiesa dalla loro parte nel caso di
417 un'azione di forza. Effettivamente l'enciclica deplorava l'egoismo degli sfruttatori capitalisti, ma faceva appello per la cessazione delle ingiustizie proprio ai "poteri pubblici", che erano l'espressione e il sostegno del capitalismo stesso, con elogi all'ONU e al mec, negando la possibilità di una soluzione che s'ispirasse "alla filosofia materialistica e atea" e che prevedesse il ricorso a una rivoluzione popolare. Tuttavia, a questo proposito, l'enciclica faceva un'eccezione: "Salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona, e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese". Il fermento rivoluzionario era già cominciato fin dal febbraio 1966, quanto la curia romana aveva dovuto intervenire contro un gruppo di sacerdoti catalani che avevano chiesto le dimissioni del reazionario vescovo di Barcellona Gonzales Martin. Poco dopo nell'America Latina si era formato il celam (Consiglio episcopale latinoamericano) in seno al quale, inizialmente, si fronteggiavano elementi progressisti ed elementi conservatori. Ma subito erano prevalsi i primi, tra i quali monsignor Helder Cámara, arcivescovo di Recife nel Brasile, monsignor Méndez Arceo, di Cuernavaca, nel Messico, e monsignor Luis Larrain, di Talea, nel Cile, i quali firmarono un Manifesto dei vescovi del Terzo Mondo, che ammetteva il socialismo come mezzo di riscossa e invitava i cattolici latinoamericani a "stimolare le riforme di strutture necessarie per una più ampia partecipazione della popolazione alla vita politica, economica, sociale e culturale". Ma già in Colombia era iniziata un'insurrezione popolare, a cui si erano associati sacerdoti progressisti. Animatore del Fronte unito colombiano era il giovane sacerdote Camilo Torres, che morì assassinato dalle milizie governative nello stesso anno 1966. Il suo motto: "Il dovere di ogni cristiano è di essere rivoluzionario. Il dovere di ogni rivoluzionario è di fare la rivoluzione", divenne il motto di tutti gli altri guerriglieri. [Vedi Documenti n. 3.] Anche il teologo Ivan Mich, che dopo aver svolto compiti pastorali a New York tra i portoricani di Brooklyn, e poi essere stato vicedirettore dell'Università cattolica di Portorico, si era stabilito a Cuernevaca, nel Messico, fondandovi un battagliero Centro Intercultural de Documentación per la preparazione politica dei missionari sudamericani,
418 portava il suo prezioso contributo, anche dopo essere stato convocato a Roma e sottoposto a un processo che fece scalpore sulla stampa di tutto il mondo. Nei primi mesi del 1968, monsignor Helder Cámara, con i diciannove vescovi della sua arcidiocesi, pubblicava un manifesto di condanna del dittatore Castel Branco. Durante l'estate incominciarono fermenti in vari paesi del Sudamerica. Nell'agosto del 1968, preparandosi la Conferenza episcopale internazionale, che avrebbe dovuto aver luogo proprio in Colombia, i delegati del Celam, prevedendo che ne sarebbero uscite soluzioni reazionarie, si riunirono a Medellin, nella Colombia stessa, per pronunciarsi sull'impiego della lotta armata per avere finalmente quei cambiamenti sociali, che con le sole proteste verbali non si riuscivano a ottenere. Ottocento sacerdoti del Sudamerica inviarono ai delegati del celam un'eloquente documentazione sulle piaghe della fame e del sottosviluppo: 70 di bambini denutriti; 50 di analfabeti; 35-40 anni l'età media della popolazione. Su questi dati, i delegati compilarono un Documento del trabajo preparatorio, in cui si diceva tra l'altro: "Il centro del disegno salvifico è Gesù Cristo, che con la sua morte e risurrezione ha trasformato l'universo e reso possibile l'accesso degli uomini alla loro pienezza umana", di conseguenza, concludeva il Documento, "la salvezza non è un fatto ultramondano, ma un fatto concreto, in questo modo". Nasceva così la teologia della rivoluzione, che fu tosto accolta da altri sacerdoti progressisti in tutto il mondo. Momentaneamente, proprio nel mese di agosto del 1968, la tempestiva visita di Paolo VI a Bogotà e i suoi pubblici discorsi sconfessarono l'entusiasmo dei militanti. Alla loro delusione parteciparono anche molti fedeli d'Europa dove pure erano sorti comitati di Cristiani per la rivoluzione, che nel febbraio del 1968 avevano tenuto conferenze a Parigi e ad Abidjan, e a maggio sessantaquattro sacerdoti europei si erano riuniti alla "rivoluzione culturale" parigina, e per questo motivo erano stati sospesi a divinis. Non per questo venne meno l'impegno generale di una protesta contro la politica reazionaria del Vaticano. Già nel gennaio del 1967, il vescovo di Bologna, monsignor Giacomo Lercaro, aveva dato le dimissioni dopo aver pubblicamente deplorato il silenzio del papa sui bombardamenti americani nel Vietnam. Altrettanto fece monsignor José Albez, parroco di Belem, presso Lisbona, che aveva denunciato
419 lo "stalinismo clericale" di Paolo VI, e anche il vescovo di Graz, Joseph Schoiswohl, che si ritirò come cappellano in una parrocchia operaia. Anche quarantotto dirigenti dell'"Azione Cattolica" spagnola si dimisero per protesta contro la connivenza della Chiesa con il regime di Franco. A settembre scoppiò un grave conflitto tra il vescovo di Firenze, Ermenegildo Fiorini, e il Gruppo dell'Isolotto, fondato nel quartiere operaio della città dal parroco contestatore don Enzo Mazzi, e il motivo del conflitto fu che il Gruppo aveva inviato un messaggio di solidarietà ad alcuni giovani cattolici di Parma che avevano occupato, con un atto rivoluzionario, il Duomo della città per intimorire il clero di tendenze conservatoci. Il papa deplorò l'accaduto e chiese le dimissioni di don Mazzi; ma questi rifiutò, denunciando invece "i compromessi della Chiesa con il capitalismo". Il conflitto si aggravò a novembre, quando uscì il libro di don Mazzi: Incontro a Cristo, noto anche come Il catechismo dell'Isolotto, nel quale il messaggio cristiano della salvezza veniva interpretato come riscatto dallo sfruttamento delle masse e dall'oppressione politica. Non solo in Italia, ma in tutta l'Europa cattolica la contestazione avveniva in seno alla Chiesa stessa; innumerevoli furono le attestazioni della nuova fede rivoluzionaria. Così scrisse per esempio il domenicano Chenu nel suo libro L'évangile dans le temps: "La scossa dell'evangelo investe la realtà economico-politica. La povertà evangelica va vissuta nell'interno della costruzione del mondo, all'interno di una liberazione degli uomini, da condurre nel corso di questa costruzione... Cristo non ha forse usato del suo potere per nutrire una folla affamata?... L'urgenza delle situazioni umane ci impone di misurare la profondità rivoluzionaria iscritta nelle beatitudini". Così si espresse il Gruppo del Cenacolo: "Gesù è solidale con i poveri perché la povertà non è condizione naturale dell'uomo, ma è frutto dell'ingiustizia, è effetto dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo". E, ancor più eloquentemente, il Gruppo Mounier di Verona: "Oggi non possiamo più dire e sentire la parola "Gesù" senza un senso di repulsione causato dagli sdolcinati e falsi attributi che un certo tipo di pietà gli ha affibbiato, mentre è proprio nell'uomo Gesù che s'incentra la nostra fede e sul messaggio liberatore del suo Vangelo". Anche nel 1967 gli strali del Santo Uffizio si abbatterono sui francescani
420 di San Bernardino (presso Verona) che avevano rinunciato a molte inutili cerimonie liturgiche, e sette frati furono espulsi, tre sospesi' dall'esercizio sacerdotale, e due esclusi dai sacramenti. Nel 1968 la tensione tra la Chiesa e i sacerdoti progressisti fu resa ancor più acuta da un altro intervento autoritario di Paolo VI. Mentre scienziati e medici discutevano i mezzi per combattere il problema della crescita della popolazione e sostenevano la necessità di legalizzare l'aborto, il papa, contro ogni aspettativa, il 29 luglio, con l'enciclica Humanae vitae, vietava in modo assoluto il controllo delle nascite, in nome di un pregiudizio religioso (l'anima entra nel nascituro all'atto della fecondazione) indifferente alla piaga del sovrappopolamento, delle condizioni miserabili di milioni di famiglie numerose, ai pericoli dell'aborto clandestino. Anche le Chiese protestanti conobbero quell'anno una contestazione di massa e quella di singoli teologi, pastori e predicatori, per la complicità delle Chiese stesse con le istituzioni civili nella discriminazione razziale, nella politica bellicista, nella tolleranza di speculazioni finanziarie, scandali e delitti. Già nel 1965 negli Stati Uniti era morto assassinato il predicatore Malcolm X (Malcolm Little), figlio di un pastore battista, che in difesa dei negri era diventato leader dei Black Muslims, cioè dei musulmani neri, e aveva sottratto al controllo delle Chiese migliaia di persone di colore. Ora, nel 1968, fece un'analoga fine il pastore negro Martin Luther King, che si era dedicato alla causa dell'integrazione dei negri nella società americana e alla predicazione della nonviolenza. Tale fermento rivoluzionario degli anni 1968-69 ebbe come teorici eminenti personaggi della cultura teologica, che espressero le loro prospettive sotto nomi diversi: teologia della rivoluzione, teologia della speranza, teologia secolare, teologia escatologica. Jurgen Moltmann nel 1969, con l'opera Théologie der Hoffnung (pubblicato in Italia con il titolo Religione, rivoluzione, futuro), rilanciava la sua "teologia della speranza", dicendo: "La questione di Cristo si apre al nostro futuro, ci sfida a impegnarci per un futuro diverso: quindi la cristologia conduce alla politica". Analogamente, Wolfhart Pannenberg, pur rimanendo fedele all'interpretazione luterana dell'intervento di Dio tramite suo figlio Cristo alla salvezza dell'uomo, non pensava alla salvezza "ultramondana", ma si diceva convinto che a partire dalla risurrezione di
421 Cristo è già iniziata la salvezza "in questo mondo": cioè l'uomo è liberato dai legami del presente in una nuova libertà. più esplicito, Richard Shaull, meditando sulla rivoluzione dell'America Latina, ne traeva la convinzione che Dio, già in Cristo, "assumendo forma umana nella concretezza della vita storica, ci ha chiamati a seguirlo in questa strada: un impegno autenticamente rivoluzionario per far saltare le vecchie strutture e creare una società in cui regni la libertà perfetta". Sempre nel 1968, il 17 dicembre, uscì il primo fascicolo di una nuova rivista internazionale di teologi, vigorosamente polemica, dal titolo "Concilium", a cui collaboravano teologi di grande rinomanza, come Edward Schillebeecks di Nimega, e Karl Rahner di Monaco, e con loro Roger Aubert di Lovanio, Hermann Vogt di Tubinga, Pierre Benoit di Gerusalemme, Yves Congar di Strasburgo e molti altri. Come primo atto, essi, insieme ad altri ventiquattro collaboratori, indirizzarono a Paolo VI una Lettera, in cui manifestavano il loro disappunto per la mancata attuazione della riforma discussa nel Concilio sotto la spinta iniziata da papa Giovanni XXIII. Come risposta Paolo VI li fece sottoporre a inchiesta per accertare eventuali eresie, e a due di loro, Karl Rahner e Yves Congar, revocò l'attesa nomina a cardinali. La morte di Dio.
La teologia esistenzialista e quella della rivoluzione si erano andate sempre più evolvendo a partire dalla metà del secolo, incentrando il problema della salvezza sulla responsabilità dell'uomo e non come un dono gratuito da parte di Dio, quindi vedendo in Gesù il modello e il maestro di questa conquista. Già nel 1959 il domenicano Edward Schillebeeckx, poco sopra citato, aveva scritto nella sua opera Christus, Gìaubens sakrament (Cristo, sacramento dell'incontro con Dio): "Un tempo ci si aspettava da Dio e dalla Chiesa quello che oggi ci possono procurare la scienza e la tecnica: una vita più confortevole, più degna, più felice". E allora il teologo tradizionalista van de Poi si domandava preoccupato: "Che ne è dunque di Dio?" e la sua amara risposta era: "Nulla è accaduto a Dio, ma qualcosa è accaduto all'uomo".
422 Certo. Era accaduto qualcosa all'uomo che gli faceva modificare il concetto che aveva sempre avuto di Dio. Veramente, l'idea di Dio come creatore e reggitore dell'universo era cominciata ad apparire opinabile fin da quando le scoperte scientifiche del Rinascimento, poi di Copernico e di Galileo, e quindi le ipotesi di Kant e Laplace, avevano sconvolto la visione cosmologica fino ad allora accettata. Essa aveva poi ricevuto altre smentite dalle teorie evoluzionistiche dell'Ottocento, ed era stata messa in crisi dalle scoperte successive. L'idea di Dio inoltre come Signore assoluto non concordava con le nuove forme di vita associata democratica, e quella di Dio come padre provvidenziale era resa superflua dalla laicizzazione della morale. Pertanto, tra i due estremi - costringere l'uomo all'accettazione di verità di fede non più credibili o lasciarlo cadere nella negazione radicale della religione - si inserì la vasta attività di teologi e filosofi, preoccupati almeno di interpretare la religione alla luce della cultura attuale e di renderla adatta alle esigenze spirituali dell'uomo di oggi. Ma, sebbene rivolta proprio a rinvigorire la fede, la novità delle loro idee fu condannata dalle Chiese ufficiali, sia quella cattolica sia le protestanti, interessate a mantenere inalterato il proprio patrimonio dogmatico e a conservare la propria autorità. Già intorno agli anni Cinquanta erano apparse le opere, pubblicate postume, del teologo protestante tedesco Dietrich Bonhoeffer, vittima dei nazisti nel 1945, impiccato in un campo di concentramento. In polemica con i teologi esistenzialisti, egli si domandava quale significato concreto si possa dare oggi al cristianesimo, perché svolga ancora una funzione utile in questo mondo, e concludeva: "Dobbiamo vivere nel mondo etsi Deus non daretur. Dio stesso ci costringe a questo riconoscimento. Dio ci fa sapere che dobbiamo vivere come uomini che se la cavano senza Dio". Quasi rispondendo a Bonhoeffer, nel 1952, il teologo protestante tedesco Friedrich Gogarten, nell'opera Der Mensch zwischen Goff una Welt (L'uomo tra Dio e il mondo) sosteneva: "Gesù Cristo ha reso l'uomo adulto, consapevole di se stesso e dei suoi doveri, e lo ha fatto signore del mondo. Cristo è detto nella Scrittura "primogenito di molti fratelli", perché ogni uomo, sul suo modello, abbandonandosi a Colui che gli si è rivelato come Padre, diventa suo figlio. E non è solo un rapporto di devozione filiale: è il figlio, ma non è più un bambino, è un uomo adulto".
423 Con maggior prudenza anche il teologo cattolico olandese Piet Schoonenberg affermava nel 1960 che Gesù Cristo si deve intendere solo come persona umana, altrimenti la sua fusione con la divinità ne vanifica l'azione che volle svolgere a favore dell'uomo. Concetti non diversi appaiono l'anno seguente anche in Introduction to faith dell'anglicano Arthur Michael Ramsey. Questa graduale svalutazione della presenza di Dio diventa esplicita nel pensiero del pastore episcopale statunitense Paul van Burén, che nel 1963 si propose di identificare la teologia con l'etica, riducendo le proposizioni teologiche su Dio a proposizioni etiche sulla condotta dell'uomo: "Noi non sappiamo che cosa sia Dio e non possiamo comprendere certe asserzioni come "Dio creò il mondo" e "Dio ama gli uomini come figli", perché sono asserzioni non verificabili. La fede cristiana non consiste in codeste affermazioni metafisiche, ma è una prospettiva per l'uomo, un certo modo di considerare la situazione umana, derivante dall'esempio di "uomo libero" data da Gesù". Lo stesso anno in cui Buren dava alle stampe negli Stati Uniti il suo lavoro sul significato secolare del Vangelo, a Londra usciva un esile libretto dal titolo Honest to God, tradotto arbitrariamente in italiano Dio non è così, del prelato anglicano John A.T. Robinson, vescovo di Woolwich nell'East londinese. Mentre van Buren, pur ammettendo la difficoltà di definirla, non metteva in dubbio l'esistenza reale di Dio, Robinson arrivava ad affermare, come già i kantiani dell'Ottocento, che l'idea di Dio è soltanto una "proiezione" delle nostre esigenze, e faceva propria l'osservazione di Bultmann che l'immagine biblica di un universo a tre piani (il cielo, la terra e gli inferi) è puramente simbolica, per cui, in luogo di un Dio che sta "lassù in cielo", nel senso letterale e fisico della parola, noi abbiamo poi assunto l'idea, del tutto arbitraria, di un Dio "al di fuori del mondo". Ma l'avvento dell'era spaziale sta distruggendo anche questa immagine di un Dio al di là dello spazio. Robinson ne traeva la conseguenza che è assurdo pensare Gesù come figlio di Dio e Dio egli stesso: né, d'altra parte, Gesù ha mai dichiarato di essere tale. Nel suo linguaggio "figli di Dio" sono tutti gli uomini. Pochi anni dopo, nel 1967, Robinson specificherà meglio la propria cristologia, nell'opera Il volto umano di Dio: Gesù era figlio di genitori umani (Maria e "n.n.") e ha avuto una vita normale. Unico
424 aspetto eccezionale la sua ubbidienza totale a Dio, in cui credeva, e la sua dedizione al prossimo. Ma: incarnazione, redenzione, risurrezione, sono tutti miti. La funzione di Gesù è stata quella di insegnare la pratica dell'amore puro e disinteressato, che egli presentava come rivelazione di Dio. Ma intanto, nel 1963, contemporaneamente a Honest to God di Robinson, erano uscite numerose altre opere, anche più interessanti, di questi nuovi teologi della "morte di Dio" The Death of God), che furono poi perfezionate nel 1966. Tra queste, The Gospel of Christian Atheism di Thomas J.J. Altizer in cui si legge, tra l'altro: "Gesù è il nome dell'amore di Dio, un amore che muore eternamente per l'uomo. E per il cristiano radicale il nome di Gesù e il nome di Dio sono in definitiva uno solo. Se il cristianesimo radicale congeda il Dio primordiale, allora una nuova radicale teologia deve tendere a comprendere che l'unico nome dì Dio è il nome Gesù Cristo". Anche William Hamilton, in The New Essence of Christianity (1961) è dello stesso parere: la morte di Dio è per lui motivo di ottimismo, perché, dice: "Non dobbiamo più pregare per il nostro prossimo, ma piuttosto lottare accanto a lui per pane, la libertà, il futuro, imitando Cristo". Esplicitamente, Herbert Braun in Jesus (1969) riduce Gesù di Nazareth a un semplice uomo, i cui titoli "Signore, Figlio di Dio, Salvatore" sono soltanto strumenti finalizzati a una sua comprensione nella fede, ma il suo significato si esprime essenzialmente nell'apertura verso il prossimo. Non molto diverso il pensiero di Gabriel Vahanian e Joel Carmichael, che intitolavano i loro saggi decisamente: The Death of God (1961 e 1962). Nel 1966 si allea ai teologi del cristianesimo ateo anche Harvey Cox, professore di teologia presso l'Università di Harvard, e nel suo libro The Secular City, dice chiaramente: "La Chiesa deve rivolgersi all'uomo non per insegnargli la vita religiosa, ma al contrario per incoraggiarlo a diventare pienamente maturo, abbandonando le abitudini infantili. Per raggiungere tale scopo, forse per un certo tempo sarà necessario non parlargli nemmeno di Dio". Quello stesso anno il teologo Mark Novack in The Open Church ribadisce gli stessi concetti, aggiungendo che al posto di rivolgere la mente a Dio sarebbe più opportuno tenere presente come modello di azione la persona di Gesù.
425 Ancora in quell'anno si inserisce nel contesto della teologia della morte di Dio anche la teologa tedesca Dorothée Sòlle, con una riflessione più complessa e più profonda in Steilvertretung. Ein Kapitel Théologie nach dem Tode Gottes (Rappresentanza. Un capitolo della teologia dopo la morte di Dio; 1966). Essa trova un collegamento tra la teologia della demitizzazione di Bultmann e quella della morte di Dio, che essa esamina in chiave strettamente politica, cioè "dalla demitizzazione si passa alla critica dell'ideologia, a cui vengono sottoposti non soltanto i residui del mito, ma anche le formazioni ideologiche cristiane, molto più pericolose, che si possono indagare in rapporto al concetto di ubbidienza". E appunto essa prende decisamente posizione contro l'etica dell'ubbidienza: il comportamento dell'uomo dev'essere libera scelta consapevole. Nello stesso 1966 si associa alle concezioni della morte di Dio anche l'autore di questo volume, Marcello Craveri, con una Vita di Gèa, che ottiene un grande successo soprattutto negli Stati Uniti, e l'iscrizione a socio onorario nel movimento God is dead. Nel 1969, la Sòlle insieme ad altri teologi, convinti che fede e politica siano inseparabili, da vita a Colonia a una iniziativa particolare: le preghiere politiche notturne, consistenti nella discussione dei fatti politici e religiosi di attualità. Al movimento da la propria adesione anche il famoso scrittore Heinrich Boll. Nel 1970 sulle posizioni della teologia della morte di Dio si collocherà anche James M. Robinson, secondo il quale si può riscontrare dalla lettura dei Vangeli che Gesù ha lasciato un messaggio valido per gli uomini del suo tempo, che però ora va tradotto per quelli di oggi: "L'evangelo non è una risposta definitiva da applicare automaticamente: piuttosto ha un senso nella vita concreta perché opera una continua, interminabile, trasformazione"; "Il dio della Bibbia è morto, e l'insegnamento di Gesù va inteso in altro modo". Simili discorsi permettono facilmente di capire come i teologi più avanzati di questa corrente abbiano cercato anche un incontro con i marxisti, per un impegno più radicale, che non fosse soltanto la contestazione della mitologia cristiana, ma il desiderio di giovare all'umanità, recuperando dal marxismo le indicazioni di uguaglianza, fratellanza e giustizia sociale. Questo, tra gli altri, era già il pensiero della Sòlle nel suo scritto del 1968: Atheistich an Goti glauben? (Credere ateisticamente in Dio?). "Oggi è possibile il dialogo con i
426 comunisti, perché le frontiere del pensiero passano oltre le linee di confine dei blocchi politico-ideologici, e con la "questione Gesù" sia i comunisti che i non comunisti intendono la trasformazione del mondo in direzione della realizzazione della pace, dell'amore e dell'umanità." Ancora più radicalmente Ernst Bloch, sebbene inviso ai marxisti, i quali lo costrinsero a fuggire dalla Germania Orientale dopo che già era stato esule negli Stati Uniti durante la dittatura nazista, da al problema una soluzione in chiave marxiana in Atheismus in Christentum (Ateismo nel cristianesimo; 1966): "Una lettura demistificante della Bibbia rivela il filo rosso [der rote Faden] di una speranza tesa a realizzare su questa terra un regno di giustizia e di uguaglianza sociale. Il cristianesimo dovrebbe aiutare l'uomo a tale realizzazione". In definitiva questi teolo