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Italian Pages 64 Year 2011
Valerio Massimo Manfredi. LA TOMBA DI ALESSANDRO.
L'enigma.
La gloria è il sole dei morti. Honoré De Balzac.
INDICE.
Premessa. 1° Ritorno a Babilonia. 2° Il re muore. 3° Le cause della morte. 4° Il corpo. 5° La sepoltura. 6° La tomba di un re. 7° Illustri visitatori. 8° Da Menfi ad Alessandria. 9° Le fonti antiche. 10° Eclissi di un mito. 11° Du el Karnayn. 12° Il faraone scomparso. 13° Cacciatori di tombe. 14° Cimitero latino. 15° Dov'è Alessandro? Conclusione.
PREMESSA.
Questo libro ripercorre l’avventura di una tomba, quella del più famoso personaggio dell'antichità, Alessandro Terzo di Macedonia chiamato "il Grande", e il mito che attorno ad essa si formò e si sviluppò attraverso i secoli anche oltre la fine del mondo antico. Fu la tomba più venerata e visitata per sette secoli e oscurata in parte solo da un'altra, quella ritenuta di Gesù di Nazareth, da sempre vuota perché simbolo del mistero della Resurrezione, identificata dalla nuova religione cristiana a Gerusalemme nel Quarto secolo della nostra era. Il sepolcro di Alessandro, eretto da Tolomeo 1° nella città che ne portava il nome, Alessandria, scomparve misteriosamente quasi d'improvviso circa nello stesso periodo, come a indicare la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra. Di un monumento tanto famoso e tanto frequentato in pochi anni si persero completamente le tracce: inondazioni, terremoti, eventi bellici, turbolenze, lotte di religione ne cancellarono prima le vestigia e poi la memoria. Eppure il fantasma di Alessandro continuò ad aleggiare sulla sua città e la sua immagine a circolare come talismano al collo di uomini e donne già cristiani dalla nascita. Riprese forza quando Alessandria era ormai divenuta musulmana e per parecchi secoli la tradizione popolare indicò la tomba del Macedone in vari punti della città, sotto chiese e moschee, dove sorgevano le ultime colonne dell'antica metropoli ormai anch'essa sepolta, finché all'inizio dell'era contemporanea, con il risveglio della cultura e delle scienze dell'antichità, fu cercata con incredibile entusiasmo e ostinazione dagli archeologi e dagli studiosi dell'antichità, ma anche da avventurieri, cacciatori di tombe e di tesori, così come da gente comune, incolta e ingenua, affascinata dalla figura di un giovane invincibile, luminoso e fosco, pensoso e feroce, incarnazione dello splendore e della paura e di
tutte le contraddizioni del genere umano. Studi importanti e autori di prestigio si sono occupati dell'ardua investigazione: li troveremo citati in queste pagine. Chi scrive ha cercato di seguirne il percorso verso una meta enigmatica e sfuggente come i miraggi del deserto, e di portare osservazioni e spunti di riflessione ovunque se ne presenti l'occasione. Quando gli scrittori cristiani si trovarono a descrivere l'uomo nuovo e a illustrare i valori del mondo cristiano contrapposto a quello pagano, Alessandro fu particolarmente preso di mira perché uomo simbolo di un'era dominata dal maligno. Orosio, nel suo Adversus paganos, ne fa un ritratto agghiacciante e tutto negativo di un essere violento e sanguinario, insaziabile di guerra e di potere, sovvertitore di ordini consolidati, distruttore implacabile. Eppure questo non valse a deturparne la figura. In lui i posteri hanno continuato a vedere l'eroe, il guerriero arcaico che tutti portiamo inconsciamente nella memoria, ma anche il costruttore di mondi nuovi e di saperi sconosciuti. L'instancabile ricerca dell'ultima sua reliquia è la prova dell'immortalità del suo fascino e del suo carisma.
1°
RITORNO A BABILONIA
La morte di Alessandro Magno, come quella di Gesù, di Giulio Cesare, di Socrate, è uno di quegli eventi in sé negativi che però ebbero un impatto enorme nella storia dell'umanità. Tre su quattro di questi personaggi vennero considerati dopo la morte, anche se in modo e con significati diversi, delle divinità. La scomparsa di questi uomini insomma non venne accettata dai contemporanei e si volle credere in una loro diversa e più alta esistenza dopo la fine della loro avventura umana. Fra costoro solo Gesù è tuttora considerato Dio da grandi moltitudini di persone, perché il suo messaggio di amore, di perdono, di pace, di visione eterna del divenire umano e per di più il rinvenimento del suo sepolcro vuoto, attestato dalle fonti evangeliche tre giorni dopo la sua morte in croce, ne hanno caricato la figura di potentissime valenze mistiche ed escatologiche. Socrate, benché solo ed esclusivamente umano, gli è in qualche modo vicino in quanto pensatore intenso e profondo, uomo non violento ed egli pure martire di una violenza immotivata e cieca. Il discorso è diverso per Cesare, fondatore di un impero plurisecolare, e ancora di più per Alessandro, che morì giovane e al colmo della gloria e della potenza dopo aver compiuto imprese sovrumane, innescando una leggenda destinata a durare per millenni. La Bibbia stessa lo nomina nel libro dei Maccabei con parole di attonita ammirazione: Et siluit terra in conspecto eius, "E la terra ammutolì al suo cospetto." Nessuno prima di lui aveva compiuto simili imprese, nessuno si era mai spinto con un esercito a tale distanza dal suo paese, nessuno aveva mai concepito un disegno politico di quelle proporzioni e infine nessuno era mai stato consapevole come lui delle conseguenze che quel disegno avrebbe avuto nel futuro dell'umanità. La sua morte precoce e al colmo della fortuna scatenò l'immaginario collettivo e suscitò una serie di interrogativi su come sarebbe stato il mondo se egli avesse potuto consolidare la sua costruzione e riunire la maggior parte del genere umano sotto la sua egida. L'eco delle sue imprese si moltiplicò a dismisura fino a risuonare nei poemi medievali e nelle canzoni dei griot della Guinea, la sua immagine scolpita nel marmo, dipinta negli affreschi, risplendente nei mosaici, invase tutto il mondo di allora. L'arte da lui promossa e diffusa era ancora riconoscibile tre secoli dopo nelle valli impervie dell'Afghanistan e dell'Hindu Kush: lo stile Gandhara. E ancora oggi fra le tribù montane si tramanda che i cavalli di quelle terre sono
discendenti di Bucefalo, lo stallone di Alessandro. Esiste una tradizione secondo la quale ancora pochi decenni fa nelle notti di tempesta le donne delle isole greche, in attesa angosciosa dei mariti rimasti al largo sulle loro barche, si portavano sulla riva del mare e gridavano a gran voce per superare il fragore dei frangenti: «Pou ine o Megalexandros?», «Dov'è il grande Alessandro?». E rispondevano con la stessa forza: «Zi ke vasilevi!», «Vive e regna!», come se quel nome possente avesse la forza di calmare la furia dei marosi. Né Achille, né Teseo o Eracle, non Romolo o Enea né tantomeno Cesare o Scipione ebbero mai un simile tributo dal popolo. Quale ne fu dunque la causa? La morte prematura, come si è detto prima, proprio nel momento in cui si apprestava a completare la sua opera, la consapevolezza che egli fosse l'unico in grado di condurla a compimento, la fede nell'idea che un mondo da lui plasmato sarebbe stato migliore di qualunque altro, ma soprattutto il carisma, il dono di natura che faceva sì che tutti lo amassero: gli uomini come le donne, i cani e i cavalli, e gli dèi se esistevano. La sua capacità di sognare e di innamorarsi del suo sogno al punto di rinunciare a tutto pur di renderlo vero e credibile, inclusa la sua patria di origine, tanto da stabilirsi nell'immota calura di una capitale acquitrinosa, distesa sulle rive di un fiume fangoso, e da dimenticare per sempre gli abeti azzurri e le fonti cristalline delle sue montagne. E ancora il coraggio temerario, la forza inesauribile con cui aveva abbattuto sul campo avversari molto più prestanti di lui, la resistenza sovrumana che gli aveva permesso di sopravvivere a ferite devastanti che avrebbero stroncato chiunque. A queste verità si aggiungeva l'agiografia: il naturale profumo della sua pelle ancora percepibile dopo giorni che giaceva senza vita sul suo cataletto, l'armonia della voce, l'occhio nero e l'occhio blu che avrebbero ispirato i versi di un poeta quasi ventitré secoli dopo: Piange dall'occhio nero come morte. Piange dall'occhio azzurro come cielo.
Illustri accademici hanno dichiarato in privato che se il mondo fosse stato quello di Alessandro anziché quello di Augusto l'umanità avrebbe conosciuto una civiltà dell'armonia e dell'arte, della fantasia e dell'equilibrio, un mondo in cui l'agonismo avrebbe sostituito la violenza, la filosofia avrebbe regnato al posto della legge. Sogni, anche questi, inconfessabili sulle pagine della comunicazione scientifica, pensieri che se da un lato hanno forse un fondo di verità, dall'altro sono comunque sintomo di una fede più che di una scienza. Si ha fiducia negli uomini ma si ha fede solo negli dèi. Per tutte queste ragioni e anche per l'immagine che Alessandro da vivo seppe forgiare e diffondere di sé, la cura meticolosa ch'egli ebbe delle proprie sembianze fisiche, affidata a geni come il pittore Apelle e lo scultore Lisippo, la sua persona assunse dopo la morte il carattere di una reliquia malinconica, simbolo del rimpianto per un mondo mai costruito e solo sognato, di un impero smembrato e distrutto prima di nascere, di un bambino fragile e indifeso nelle cui vene scorreva il suo sangue e che se fosse sopravvissuto si sarebbe chiamato Alessandro Quarto. Attorno al suo corpo, crisalide disseccata, si sviluppò un culto; nacque una dinastia fondata da uno dei suoi generali che se ne proclamò custode nella terra d'Egitto nella città da lui fondata e che portava il suo nome: Alessandria. Tolomeo, primo di quei re, compagno e guardia del corpo dell'eroe conquistatore fu l'autore della più importante e accreditata biografia di Alessandro e della sua impresa. La tomba sorgeva a poca distanza dal suo palazzo, nella necropoli reale, e ogni volta che Tolomeo entrò solo in quel mausoleo e contemplò pensoso le sembianze dell'amico spento, del re mummificato, dovette sovvenirgli
delle visioni febbrili che avevano popolato la sua mente, del lampo insostenibile dei suoi occhi, della voce imperiosa nel comando e soave nella conversazione, stridula nella collera infrenabile. Dovette stupire e provare vertigine per la sterminata distanza che separava il tumulto impetuoso di una vita che aveva conosciuto e condiviso, dall'assoluta, arida immobilità della morte che aveva davanti. Eppure mentre egli ogni giorno invecchiava e si rendeva conto che neppure lui sarebbe più tornato in patria, mai avrebbe rivisto gli abeti curvi sotto il peso della neve né sentito il profumo delle rose di Pieria in primavera, Alessandro restava giovane come tutti gli eroi, per sempre nella memoria di chi l'aveva conosciuto, amato, invidiato, odiato forse. Scrisse la sua storia, la migliore e più accurata fra quante ne furono scritte, perché a quel punto della sua vita, alla testa del più potente fra i regni dei Successori, Tolomeo poteva permettersi di essere ragionevolmente sincero. Venne anche per lui il momento di essere tumulato nella necropoli reale, non lontano dal suo amico che già vi riposava da quasi quarant'anni. La storia della tomba di Alessandro e delle infinite fantasie che la circondarono è la storia di un mito consegnato all'eternità nel buio del sepolcro, leggenda fino al giorno d'oggi, simbolo dell'illusione che quel corpo si possa ancora ritrovare. Queste pagine raccontano la storia di quel mito, del lungo oblio che cadde sul luogo che ospitava il sepolcro e del suo rinascere dopo la campagna napoleonica dell'Egitto alla fine del Settecento. Il mito originò dalla sua morte, che lo colse inaspettatamente al suo ritorno dalla gigantesca campagna d'Oriente. Alessandro arrivò a Babilonia all'inizio dell'estate del 324 a.C., un'estate afosa e umida in una metropoli gremita e soffocante. Aveva concluso la sua impresa. Al di là di ogni aspettativa e immaginazione il giovane re aveva sottomesso tutti i grandi regni del mondo conosciuto e si era fermato solo quando il suo esercito, sulle rive dell'Ifasi in India, si era rifiutato di proseguire. I soldati, sfiancati dal clima tropicale, dalle piogge monsoniche, dai parassiti, dai combattimenti continui, da marce estenuanti, da ferite e malattie, non ce la facevano più a seguire i sogni e le chimere del loro condottiero. Alessandro, benché anch'egli gravemente segnato da ferite in ogni parte del corpo e da dieci anni di strapazzi inauditi, aveva acconsentito a riportarli indietro dopo un lungo braccio di ferro e a malincuore, ma anche il ritorno non era stato certo cosa da poco. Mentre la flotta di Nearco navigava lungo la costa meridionale della Persia, l'esercito avanzava attraverso il deserto salato di Dasht-e-kabir, ancora oggi durissimo ed estremamente pericoloso. La flotta perse ben presto contatto con l’esercito che dovette così diventare completamente autosufficiente per i rifornimenti di cibo e di acqua e affrontare difficoltà terribili a ogni tappa del lunghissimo viaggio. Si sarebbero ritrovati alla fine, per puro caso, quando due gruppi in avanscoperta, uno dalla flotta e uno dall'esercito, si incontrarono sulla spiaggia. Alessandro perdette ancora migliaia di uomini in quell'impresa impervia, ma condivise con loro la fame e la sete, gli stenti, le veglie, gli scontri. Il tipo di comportamento che avrebbe alimentato la sua leggenda e per il quale i suoi uomini l'avevano seguito per anni e anni senza discutere né lamentarsi. Giunto a Babilonia il re trovò una situazione non facile. Molti dei suoi governatori macedoni si erano abbandonati a ogni tipo di eccessi: arbitrii, malversazioni, corruzione, prevaricazioni, pensando evidentemente che Alessandro non sarebbe mai più tornato dalle profondità dell'Asia. Il suo tesoriere Arpalo fuggì addirittura con una parte del tesoro reale. Alessandro punì i colpevoli in modo esemplare e pose mano a una serie di riforme che avrebbero portato a integrare nell'esercito macedone e nella burocrazia amministrativa gli indigeni persiani e babilonesi. Poi decise di congedare i veterani macedoni, che sarebbero stati sostituiti da persiani, ma questo atto venne vissuto
dall'esercito come un'umiliazione intollerabile e scoppiò un ammutinamento. Per giorni Alessandro rifiutò di ricevere i rappresentanti dei suoi soldati, poi si decise a parlare. Fu un discorso memorabile, aspro per tanti aspetti, ma pronunciato con una partecipazione emotiva che colpì i suoi uomini direttamente al cuore. Alessandro voleva in realtà congedare solo i veterani malati o feriti o in qualche modo non più abili al combattimento, ma non poteva tollerare di dover rendere conto ai suoi sudditi delle proprie decisioni. In ogni caso nella sua autodifesa egli aveva un elemento fortissimo e incontrovertibile da mettere in evidenza: "... Non ho preso niente per me, e nessuno può rinfacciarmi che io nasconda dei tesori... io mangio lo stesso cibo che mangiate voi... mi sveglio prima di voi mentre voi ancora dormite tranquilli nelle vostre brande. Qualcuno di voi poi potrebbe pensare che mentre voi avete fatto queste conquiste con fatiche e sofferenza io me ne appropriavo senza alcuno sforzo. Ma chi di voi è convinto di aver durato più fatiche per me che non io per lui? Guardate, chi di voi ha delle ferite si spogli e le mostri. Anche io mostrerò le mie. Perché non c'è una parte del mio corpo, almeno davanti, che non ha cicatrici; non c'è arma corta o da lancio da lontano che non mi abbia lasciato un segno. Sì, sono stato ferito di spada in corpo a corpo. Sono stato trafitto da frecce, colpito da una catapulta, battuto da pietre e mazze, per voi, per la vostra gloria e per la vostra ricchezza. Vi ho guidato vittoriosi attraverso ogni terra, ogni fiume, montagna e pianura... e finché io vi ho guidati nessuno di voi è morto fuggendo...". Si rinchiuse di nuovo, corrucciato, nel suo alloggio. Il suo rapporto con l'esercito era di tipo molto personale, si potrebbe dire passionale. Nessuno dei due poteva vivere senza l'altro, anche se l'esercito non era una persona singola, era una pluralità molto articolata e variabile. Il fatto che Alessandro non volesse parlare con i suoi soldati, che non volesse riceverli divenne per loro intollerabile. Dopo cinque giorni di angoscia alla fine si recarono da lui, senza armi, rivestiti della sola tunica, come dei servi, un modo per umiliarsi ai suoi occhi, per chiedere perdono. Alla fine Alessandro cedette e parlò di nuovo. Garantì loro una pensione per il resto della loro vita, una decorazione al valore militare che potevano portare nelle occasioni ufficiali, il diritto di sedere nelle prime file a teatro o alle corse o ai giochi. Garantì alle vedove dei suoi soldati caduti in battaglia un decoroso sostentamento, ai loro orfani il mantenimento finché non fossero giunti alla maggiore età. Così Alessandro li salutò mentre partivano per tornare a casa. Erano partiti insieme dalla loro terra: grandi pianure attraversate da fiumi di acqua limpida, montagne coperte di abeti, boscaglie di querce e di frassini da cui erano state ricavate le aste delle loro invincibili picche; loro sarebbero tornati affrontando l'ultima marcia di quasi tremila chilometri: la Caldea, l'Arabia, la Siria, la Fenicia, la Cilicia, la Cappadocia, la Frigia, la Misia, la Caria, la Troade, la Tracia... Alessandro no. Lui non sarebbe mai più tornato. Ma i suoi soldati, una volta fatto ritorno, avrebbero diffuso la sua leggenda in ogni villaggio, in ogni casa, in ogni porto. Ognuno di loro avrebbe raccontato le imprese del proprio reparto e quelle del condottiero, di come lo aveva visto, ascoltato, seguito, acclamato, amato e maledetto. Mesi prima, mentre attraversava la Persia sudorientale, il suo guru indiano Kàlanos (impossibile ricostruire il nome indù originale) fu preso da un malessere strano, più spirituale che fisico, a quanto sembra. Un male che non gli dava tregua, una sorta di acuta sofferenza del vivere. Nulla valeva contro quel malessere misterioso. Al punto che un giorno Kàlanos decise di morire. Fece innalzare una pira, si fece adornare e profumare, porre collane di fiori attorno al collo e poi condurre su una portantina fino al luogo del funerale. Là fu posto sulla pira e ordinò di appiccare
il fuoco. E dicono le fonti che mentre le fiamme lo avvolgevano, rivolto ad Alessandro avrebbe gridato: «Ci rivedremo a Babilonia! ». Una profezia post eventum, si dirà. Può darsi, come può darsi che l'episodio per come è stato tramandato possa rivelare il senso di un diffuso malessere, di un cupo presentimento che gravava come una cappa sull'esercito e sui generali. Poco dopo Alessandro perdette anche Efestione, il suo amico e amante, probabilmente per una appendicite che oggi sarebbe risolta senza grandi problemi e che a lui fu fatale. Come lo fu per il medico che lo lasciò solo per andare alle corse dei cavalli. Alessandro lo fece passare per le armi. Poi celebrò un funerale grandioso, innalzando una pira alta come un palazzo di sette piani adorno di pannelli scolpiti con scene mitologiche, con protomi di animali e di mostri fantastici. Tutto sarebbe stato arso; in pochi minuti l'immensa costruzione si sarebbe dissolta in cenere e faville e il suo teatrale dolore avrebbe rafforzato e trasmesso un messaggio propagandistico più volte ribadito: Alessandro era il nuovo Achille come Efestione il nuovo Patroclo. Anche se Patroclo era morto in battaglia indossando le armi del suo amico ed Efestione invece per essersi ingozzato di cibo e di vino quando avrebbe dovuto osservare una dieta rigorosa. Finalmente Alessandro entrò a Babilonia, nonostante i sacerdoti caldei gli dicessero di tenersene lontano. La morte dei grandi è sempre preceduta da cupi presagi.
2° IL RE MUORE
Tutte le fonti sono concordi nel riportare una serie di eventi forieri di sventura verificatisi durante il periodo in cui Alessandro si trovò a Babilonia, e cioè nel giugno del 323 a.C. Alcuni di questi eventi appaiono di carattere religioso, altri hanno l'aspetto di fatti reali che avrebbero anche potuto accadere ma che, alla luce di quanto si verificò in seguito, vennero definitivamente interpretati come prodigi e presagi di sventura. Plutarco, che scrive all'età di Adriano (quattrocento anni dopo i fatti) ma legge fonti d'epoca, racconta che alcuni caldei, forse dei maghi, misero in guardia Alessandro, tramite il suo ammiraglio Nearco, dal mettere piede in Babilonia.l Gli riferirono anche, quasi con l'intenzione di fare una denuncia, che il comandante del presidio di Babilonia con funzione di governatore, Apollodoro, aveva sacrificato agli dèi al fine di conoscere il destino di Alessandro. La cosa in sé poteva essere sospetta sotto diversi punti di vista. Se immaginiamo per esempio che qualcuno avesse intenzione di assassinare il re (c'erano già state altre congiure), far precedere il fatto da un presagio di sventura avrebbe scaricato la responsabilità sul fato ineluttabile piuttosto che sui colpevoli. Alessandro sembrò non far caso a questo aspetto della faccenda, ma convocò subito un indovino di nome Pitagora a cui chiese quale fosse stato l'esito del sacrificio. Gli fu risposto che era stato trovato il fegato delle vittime senza lobi. Alessandro avrebbe esclamato: «Che brutto presagio!»2 e si astenne dall'entrare in città. Restò all'accampamento a parecchie miglia di distanza e si mise a navigare sull'Eufrate. La nostra fonte riporta altri eventi dal significato sinistro: un asino abitualmente mitissimo uccise a calci il più bello e il più grande dei suoi leoni addomesticati. Il leone era il re degli animali come Alessandro lo era degli uomini: un evento casuale e facilmente spiegabile per noi moderni poteva (sempre post eventum) essere interpretato come un presagio di morte. Un giorno Alessandro si lasciò convincere dagli amici a giocare una partita a palla. Si tolse mantello e diadema, li appoggiò su uno scranno e si mise a giocare. Nella foga della partita nessuno si accorse di nulla ma quando, finito il gioco, Alessandro andò per riprendere i
suoi attributi reali vide che uno sconosciuto li aveva indossati e stava seduto sullo scranno, muto e immobile. «Chi sei?» gli chiese il re profondamente turbato. Ma quello non rispose. Solo più tardi avrebbe detto di essere originario della Messenia e di essere un prigioniero in attesa di venire giudicato. Il dio Serapide gli era apparso, gli aveva sciolto i ceppi, lo aveva condotto lì e gli aveva detto di sedersi sul trono in silenzio. Questo episodio risente quasi certamente di rielaborazioni più tarde ed è infiltrato da elementi soprannaturali che lo caricano di mistero e di stupore. Più credibile sembra invece la versione riportata da Arriano che cita come fonte Aristobulo, autore di una storia della spedizione e ingegnere capo di Alessandro. Qui non siamo su un campo da gioco dove sembra strano che Alessandro si fosse presentato con mantello e diadema, ma in un accampamento militare. I suoi generali Peucesta, Filosseno e Menandro avevano portato contingenti indigeni dalla Persia e da altre regioni dell'interno per addestrarli e integrarli nei ranghi dell'armata macedone e il re stava presiedendo all'operazione da un podio. Assetato, Alessandro si allontanò dal podio forse per cercare un posto più ombreggiato oltre che dell'acqua, lasciando il trono vuoto e incustodito. Accanto c'erano i seggi con piedi d'argento dei suoi compagni che pure si erano alzati per seguire il re. A quel punto un individuo, probabilmente un prigioniero agli arresti, passò attraverso le linee dei ciambellani e si sedette sul trono. I ciambellani, tutti eunuchi di corte, non si opposero, ma secondo l'uso orientale, testimoniato anche dalla Bibbia, si stracciarono le vesti e si batterono il petto e il volto come se si fosse verificata una catastrofe. Alessandro fece torturare l'uomo per scoprire se dietro quel gesto ci fosse qualche complotto, ma l'uomo rispose che aveva agito di sua iniziativa. Perciò quello che oggi verrebbe percepito come il gesto di uno squilibrato, come probabilmente in realtà fu, venne interpretato dagli eunuchi come segno di una tremenda disgrazia incombente. Una versione analoga è riportata anche da Diodoro ma ambientata nel palazzo reale. Alessandro si faceva massaggiare con l'olio dopo aver deposto il diadema e il mantello sul trono. E allora che uno sconosciuto, tenuto prigioniero dalle guardie, si liberò spontaneamente dai ceppi, attraversò il palazzo e andò a sedersi sul trono e lì rimase, impassibile. Appena Alessandro lo venne a sapere lo interrogò. Voleva capire perché avesse fatto una cosa simile, ma quello non rispose. I sacerdoti, consultati, interpretarono l'evento come un cattivo presagio. Gli consigliarono di offrire sacrifici propiziatori agli dèi, cosa che il re fece ripetutamente. Al fine di stornare il sinistro presagio il misterioso personaggio venne ucciso per ordine dello stesso Alessandro. Diodoro riferisce altri presagi: quando era morto Efestione Alessandro aveva ordinato ai persiani di spegnere il fuoco sacro di Ahura Mazda in segno di lutto, cosa che fu fatta senza che i macedoni si rendessero conto che quell'atto veniva compiuto solo quando un re moriva. Un ultimo episodio, inoltre, sembra ricalcare quello del personaggio seduto sul trono del re e poi messo a morte. Alessandro, racconta ancora Diodoro, manifestò il desiderio di visitare le paludi a sud di Babilonia e si imbarcò con una flottiglia insieme ai suoi amici. Durante il viaggio la sua imbarcazione perse contatto con le altre per diversi giorni tanto che il re temette di non uscire vivo da quel labirinto di canali, barene e bassifondi. Mentre avanzava lungo uno stretto canale coperto da una fitta vegetazione il diadema gli rimase impigliato in uno stelo di vimini e poi cadde in acqua. Uno dei rematori si tuffò prontamente, lo recuperò e poi, per poter nuotare a mani libere, se lo mise in testa tornando indietro. Alessandro riuscì a ritrovare la via per rientrare alla base dopo tre giorni, e di nuovo interrogò i sacerdoti e gli indovini sul significato di quell'evento e questi gli consigliarono ancora di offrire sontuosi sacrifici agli dèi e
di mandare a morte il rematore che si era messo il diadema sulla testa. Questi eventi finirono per allarmarlo al punto che cominciò a sospettare di chiunque. È abbastanza plausibile che alcuni dei fatti riportati dalle fonti siano effettivamente accaduti in quanto appaiono verosimili e, alla nostra mentalità di moderni, del tutto casuali. Ovviamente assunsero la valenza di presagi dopo che si fu verificata la morte del sovrano macedone. Da questo momento in poi gli eventi precipitarono e le nostre fonti principali descrivono gli ultimi giorni di Alessandro con abbondanza di particolari. La quasi totalità si fonda sul testo, per noi perduto, di Eumene di Cardia, che teneva con scrupolo il diario di corte. È una relazione drammatica che con il passare del tempo assume le caratteristiche di un vero e proprio bollettino medico sulle condizioni sempre più critiche del sovrano. Tutto cominciò con la solenne cerimonia sacrificale che il re officiò seguendo il consiglio degli indovini e a cui fece seguito una festa che si prolungò fino a tarda notte. Quando Alessandro, ormai stanco, si accingeva a ritirarsi fu invitato a un altro banchetto da un amico di nome Medio, e la baldoria proseguì per il resto della notte. Esausto, verso mattina fece il bagno e andò a dormire finché non venne ora di cena. Alessandro di nuovo vi prese parte sempre in casa dell'amico. Trascorse la notte bevendo senza ritegno vino schietto. Le fonti specificano questo particolare perché i greci erano soliti aggiungere notevoli quantità d'acqua al vino e consideravano cosa da barbari bere vino non annacquato. Erodoto pensava che una simile abitudine provocasse la pazzia. Questa è la successione degli eventi. Primo giorno. A un certo punto della notte, riferisce Diodoro Alessandro riempì una coppa enorme e la tracannò in un fiato, ma subito avvertì un dolore acuto al fianco come se fosse stato trafitto da un colpo di lancia e urlò di dolore. I ciambellani lo assistettero immediatamente e chiamarono i medici che constatarono che aveva la febbre molto alta. Poco dopo cercò sollievo in un bagno, poi mangiò qualcosa e andò a dormire spossato lì dove si trovava, e cioè in casa di Medio secondo Arriano (che si basa su Tolomeo). Diodoro invece riferisce che i suoi amici lo portarono a braccia ai suoi appartamenti. Torneremo più oltre su questo sintomo del dolore acuto al fianco riferito solo da Diodoro, ma sicuramente di importanza fondamentale per capire le cause della morte di Alessandro. Da questo momento in poi la relazione di Diodoro si fa succinta e giunge a conclusione in poche righe. Arriano invece riferisce in modo esplicito di riportare fedelmente il diario e il bollettino medico del giornale di corte redatto da Eumene. Sfortunatamente il medico personale di Alessandro, Filippo, che già lo aveva salvato da una pericolosa congestione dieci anni prima, era in quel momento assente, ma se anche fosse stato presente non avrebbe certo potuto fare gran che. Secondo giorno. Alessandro si fece portare in lettiga sul luogo in cui doveva officiare i sacrifici, poi si fece ricondurre nei suoi appartamenti dove tenne una riunione dello stato maggiore dando disposizioni per la partenza della spedizione destinata a conquistare l'Arabia. L'esercito di terra avrebbe dovuto mettersi in marcia tre giorni dopo, la flotta invece dopo quattro giorni. Dal luogo dove si trovava fu portato disteso sul suo giaciglio dall'altra parte del fiume in barca fino al parco della reggia dove fece il bagno e riposò fino a notte. Terzo giorno.
Alessandro officiò nuovamente un sacrificio poi rientrò e conversò sdraiato sul letto con l'amico Medio. Si può supporre che si sentisse meglio e che la febbre gli concedesse una tregua. Convocò di nuovo la riunione dello stato maggiore per il giorno dopo di buon mattino. Venuta l'ora di cena mangiò qualcosa. Lo riportarono poi in camera da letto, dove passò la notte con la febbre alta. Quarto giorno. Alessandro prese un bagno, officiò il consueto sacrificio, quindi tenne la riunione con i suoi ufficiali e spiegò loro come si sarebbe svolta la spedizione in Arabia e ne discusse con Nearco mantenendo inalterato il giorno della partenza. Forse pensava ancora di poter guarire. Forse l'esame delle interiora delle vittime aveva lasciato qualche spiraglio di speranza. Quinto giorno. Alessandro fece ancora il bagno e offrì un altro sacrificio, mentre la febbre non accennava a calare. Nonostante le sue condizioni convocò ancora gli ufficiali facendo loro presente che tutto era pronto per la partenza della spedizione arabica. Prese un altro bagno nel pomeriggio ma subito dopo le sue condizioni si aggravarono. Questa frequenza dei bagni era probabilmente dovuta al tentativo di abbassare la temperatura corporea cui si aggiungeva la grande calura del clima locale. Ancora oggi a Baghdad in estate la temperatura può facilmente raggiungere i quaranta gradi di giorno.
Sesto giorno. Il re venne condotto al luogo dove si celebravano i sacrifici e dove c'era anche la piscina per il bagno. Stava molto male ma nondimeno continuò le riunioni con lo stato maggiore per la messa a punto della spedizione arabica. Settimo giorno. A stento si fece portare fuori per il sacrificio e continuò a istruire gli ufficiali riguardo alla spedizione. È probabile che i suoi geografi e gli addetti alla logistica avessero pronto un lungo promemoria che veniva comunicato con delle riunioni successive dal re in persona, che evidentemente non intendeva dare segno di volersi arrendere alla malattia. Ottavo giorno. Le sue condizioni continuavano a peggiorare, ma offrì ugualmente il sacrificio e ordinò che i generali lo aspettassero nella corte e gli ufficiali superiori davanti alle porte. Stava malissimo e fu portato dal parco dove aveva offerto il sacrificio e dove abitualmente faceva il bagno dentro alla reggia. Quando i generali entrarono li riconobbe ma non riuscì a pronunciare parola. Per tutta la notte la febbre non gli diede tregua. Nono giorno. Febbre altissima che si protrasse fino a mattina. Alla fine il male stava avendo la meglio sulla sua fibra e sulla sua indomabile voglia di vivere.
Decimo giorno. Febbre altissima, senza remissione alcuna. Intanto i soldati facevano ressa fuori dal palazzo. Volevano assolutamente vederlo temendo che fosse già morto e che i suoi compagni (li chiamavano guardie del corpo) tenessero segreto il suo decesso. Furono ammessi nella sua camera da letto e sfilarono uno dopo l'altro, muti e con le lacrime agli occhi davanti al re morente. Alessandro non poteva più parlare, ma per ognuno ebbe un cenno, uno sguardo. Alcuni fra i suoi generali, Attalo, Peithon, Demofonte, Peucesta con Cleomene, Menida, e Seleuco vegliarono tutta la notte nel tempio di Serapide e chiedevano ai sacerdoti se non fosse più opportuno portare il re dentro al tempio perché il dio lo guarisse. Ma un oracolo dei sacerdoti disse che era meglio che restasse dove si trovava. Evidentemente il bollettino medico arrivava anche al tempio e non lasciava spazio per guarigioni miracolose. Poco dopo Alessandro spirò.
3°
LE CAUSE DELLA MORTE
I corrieri partirono da Babilonia in tutte le direzioni e ben presto il mondo restò attonito alla notizia della morte di Alessandro. Un evento che nessuno si aspettava e per il quale nessuno si era preparato. Alessandro non aveva ancora compiuto trentatré anni e nemmeno lui si aspettava di morire. Lo prova il fatto che continuò fino all'ultimo a riunire lo stato maggiore e a preparare la spedizione in Arabia. Come abbiamo anticipato, soltanto un anno prima durante l'assalto alla roccaforte dei Malli, una popolazione dell'odierno Pakistan, era stato ferito gravemente a un polmone ed era rimasto tra la vita e la morte per circa tre mesi. Anche allora l'esercito aveva preteso di vederlo perché non credeva più alle parole dei suoi compagni che assicuravano che era ancora vivo. Alessandro dovette passarli in rassegna a cavallo reggendosi a malapena in sella. Purtroppo per lui, e si potrebbe dire per il mondo, questa volta il suo fisico non resse e la sua gigantesca opera restò incompiuta. Già da allora ci si interrogò sulle cause della morte di un giovane che sembrava immortale, sopravvissuto a molte e gravi ferite, che aveva affrontato fatiche immani e stravizi non meno devastanti per il suo organismo. In dieci anni di campagne ininterrotte aveva percorso a piedi e a cavallo diciassettemila chilometri, attraversato catene montuose ritenute invalicabili, affrontato situazioni climatiche estreme: le sabbie ardenti dei deserti africani, le steppe del Medio Oriente, le cime innevate dell'Hindu Kush, le interminabili piogge monsoniche dell'India. Più volte era caduto ammalato, ma sempre si era ripreso. Sembrava che nulla potesse piegarlo. Si pensò quindi subito al veleno. Diodoro, le cui fonti sono molteplici e non sempre identificabili, riferisce che secondo alcuni Alessandro sarebbe stato avvelenato per ordine di Antipatro, il suo luogotenente in Europa. Il re infatti aveva incaricato Cratero di riportare in patria i soldati congedati e di trasmettere ad Antipatro l'ordine di raggiungerlo a Babilonia con un nuovo esercito reclutato in Macedonia e in Grecia. L'ordine poteva suonare strano. Perché mai affidare al suo viceré in Macedonia un incarico tanto banale come un semplice trasferimento di truppe? Antipatro sapeva bene che la regina madre Olimpiade lo odiava e scriveva continuamente lettere al figlio per lamentarsi delle umiliazioni che riceveva da lui. Non era quindi da escludere che il re volesse dare soddisfazione alla madre sacrificando il vecchio e sempre fedele generale. Il veleno avrebbe viaggiato nascosto nello zoccolo di un mulo, l'unico contenitore adatto per quella sostanza corrosiva e sarebbe stato
portato dal figlio di Antipatro Iolla, o dall'altro figlio Cassandro. Si sarebbe trattato di un veleno ad azione lenta per non destare sospetti. Una fonte molto più tarda, Paolo Orosio, accetta pure l'ipotesi del veleno attribuendo la morte di Alessandro all'azione della sostanza tossica. Alessandro, resosi conto della cosa, avrebbe tentato di vomitare e uno dei suoi compagni per aiutarlo lo avrebbe solleticato in gola con una penna anch'essa però intrisa di veleno. Un'altra diceria identificava addirittura Aristotele nel mandante di Iolla. Il movente sarebbe stato l'intenzione di punire Alessandro per aver fatto uccidere suo nipote Callistene. In realtà la gran parte delle fonti antiche, comprese quelle più affidabili, respingono l'ipotesi come improbabile, anche se non sono in grado di spiegare le cause della morte di Alessandro. Noi moderni, potendo contare sul bollettino medico di corte che è presumibilmente esatto, possiamo invece tentare una diagnosi perché le nostre conoscenze scientifiche sono immensamente più avanzate di quelle dei medici di Alessandro. I moderni, come gli antichi, sono divisi fra alcuni (pochi) che credono al veleno e altri (i più) che pensano a una causa naturale. Più di venti anni fa una biografia di Alessandro di Mario Attilio Levi portava in appendice l'analisi del professor Antonio Pecile, il quale illustrava le caratteristiche tossicologiche dell'anidride arseniosa, un composto dell'arsenico noto già nell'antichità. L'arsenico, al contatto con l'umidità dell'aria, può dare origine all'anidride arseniosa, che ha l'aspetto di una polvere bianca impalpabile di fatto inodore e quasi insapore, facile quindi a confondersi nei cibi e nelle bevande di sapore più deciso. In dosi piccole, fra i quaranta e i sessanta milligrammi dà sintomi non molto evidenti. In dosi più forti, fra i sessanta e i centoventi milligrammi, produce reazioni più violente con vomito e diarrea e conduce in tempi abbastanza brevi alla morte. Per quanto riguarda il nostro caso si sarebbe trattato di una somministrazione reiterata che avrebbe provocato un "effetto a caduta" e cioè ad accumulo progressivo. Il professor Pecile non afferma che Alessandro sarebbe morto avvelenato con l'arsenico, ma è evidente che ritiene l'eventualità possibile sulla base dei sintomi riferiti dalle fonti. In particolare gli sembra che la comparsa di febbre alta sia propria dell'avvelenamento da arsenico, spesso scambiato per un'infezione. Inoltre ritiene che una certa remissione dei sintomi fra il terzo e il quarto giorno dalla comparsa del primo malessere sia propria di quel tipo di avvelenamento. Il vomito e la diarrea possono infatti espellere buona parte del veleno e dare l'impressione che il paziente stia meglio. A volte, si verificano addirittura manifestazioni di una certa euforia. La somministrazione di altre dosi porta però all'aggravarsi della patologia con forme anche di delirio e poi alla morte. Questa ipotesi appare, nella fattispecie, poco convincente. In primo luogo bisogna considerare che Alessandro aveva già scoperto almeno due congiure per assassinarlo ed è immaginabile che si cautelasse contro il veleno. Il fallimento delle prime congiure e quindi il rischio mortale di un ulteriore tentativo doveva poi dissuadere chiunque: perché affrontare il rischio di essere scoperti e torturati a morte quando in fondo la vita con Alessandro portava ai suoi compagni più vantaggi che svantaggi? Senza contare che molti dei suoi amici lo amavano e gli erano sinceramente fedeli. Le nostre fonti poi non fanno riferimento a vomito e a diarrea e nemmeno parlano di delirio, ma semplicemente di un dolore improvviso e così acuto da far urlare Alessandro, quindi la febbre sempre più alta fino al coma e alla morte. Esiste anche un'altra ipotesi di avvelenamento dovuta, si suppone, all'assunzione in dosi eccessive di elleboro, un farmaco usato nell'antichità contro molti mali, che diventa tossico quando si assume in dosi eccessive. L'ipotesi è puramente speculativa e di fatto infondata, poco più che una trovata giornalistica. Ma allora che cosa uccise Alessandro? Le ipotesi sono più di una. Secondo alcuni avrebbe
contratto una forma di malaria perniciosa mentre navigava nelle zone paludose del sud. Ma come mai non risulta che nessun altro dei suoi compagni che lo avevano seguito fosse stato infettato dalla malattia? Altri ancora pensano che Alessandro avesse contratto l'infezione anni prima nell'Asia centrale e che l'ultima ricaduta gli sarebbe stata fatale, debilitato com'era sia dalle fatiche sopportate in dieci anni di campagne sia dagli stravizi a cui si era abbandonato a Babilonia. Si tratta di teorie plausibili ma non dimostrabili. Un'altra ipotesi è stata recentemente avanzata da Philip A. Mackowiak, direttore del dipartimento di Medicina del Baltimore Veterans Affairs Medical Center, nell'ambito di una sua curiosa ricerca che tenta di svelare le cause di morte di famosi uomini del passato: da Erode il grande a Mozart, passando per Pericle, Alessandro, Napoleone. In particolare a causare la morte del condottiero macedone sarebbe stata una febbre tifoidea. Anche in questo caso il tifo avrebbe dovuto causare diarrea violenta e vomito, mentre questi sintomi non risultano dalle fonti. Il diario di corte riferisce dei pasti leggeri presi da Alessandro ma non dice altro. L'unico accenno al vomito è quello già riportato che avrebbe dovuto essere provocato da una piuma e che non è il nostro caso. Il dottor J.S. Marr del Department of Health di Richmond, Virginia, ha notato una testimonianza di Plutarco che racconta di un altro presagio di sventura: mentre Alessandro si trovava nei pressi di Babilonia vide un gruppo di corvi aggredirsi l'un l'altro e alcuni cadere morti ai suoi piedi. Un fenomeno anche questo del tutto naturale e che il dottor Marr interpreta come un'infezione aviaria del virus West Nile, trasmesso dalle zanzare agli uccelli e da questi, forse, agli umani. Benché confinato a un'area a ovest del Nilo, il virus si è diffuso anche in altre zone e il dottor Marr ebbe modo di osservarlo anche negli Stati Uniti. Il comportamento degli uccelli infetti era come quello descritto da Plutarco, ma nel caso di passaggio del virus a esseri umani provoca una febbre altissima che a sua volta genera encefalite che conduce in alcuni giorni alla perdita della vista e della parola, poi al coma e infine alla morte. Le osservazioni del dottor Marr sono abbastanza convincenti e coincidono in parte con la sintomatologia descritta dalle nostre fonti. In più il particolare dei corvi che cadono morti ai piedi di Alessandro è molto suggestivo, ma anche qui ci troviamo di fronte a una grave malattia infettiva che avrebbe dovuto contagiare altri, fatto di cui non c'è assolutamente traccia nella testimonianza dei testi antichi. Lo stesso dottor Charles Calisher, che si è dedicato alla ricerca insieme a Marr, dichiara che questa diagnosi non può essere fatta con precisione e che l'encefalite è un'ipotesi come un'altra. Ciò che provocò la morte di Alessandro insomma riguardò lui e lui soltanto. Torniamo allora alla descrizione di Diodoro. Alessandro ha trascorso una giornata di intensi festeggiamenti mangiando e bevendo smodatamente, e quando si accinge a ritirarsi esausto arriva un messo da parte dell'amico Medio che lo invita a un'altra festa a casa sua: Alessandro accetta e continua a fare baldoria anche per la notte successiva. A un certo punto beve in un fiato "la coppa di Eracle", ossia un enorme boccale di vino schietto. Subito dopo urla come se avesse ricevuto un colpo fortissimo ed è condotto via a braccia dagli amici nei suoi appartamenti dove viene messo a letto, ma il dolore aumenta anziché diminuire e vengono chiamati i medici. È da questo episodio, a nostro avviso, che comincia il decorso della malattia mortale di Alessandro e non da altro. È interessantissimo ciò che racconta Plutarco al proposito. Nell'intento di confutare questa testimonianza, la cita in modo ancora più preciso di quanto non faccia Diodoro: ... E lo prese un attacco di febbre. Non è vero che aveva bevuto la tazza di Eracle, né lo aveva preso all'improvviso un dolore di schiena paragonabile a un colpo di lancia come poi alcuni hanno ritenuto
di dover scrivere quasi volessero costruire la fine tragica e di un grande dramma.
dolorosa
Aristobulo invece ci dice che in preda a una febbre violenta, colto da gran sete, Alessandro continuò a bere vino perciò entrò in delirio e morì... La fonte che Plutarco vuole confutare è probabile sia la stessa che Diodoro invece accetta e che riferisce di un dolore simile a un colpo di lancia. Per noi comunque la testimonianza di Aristobulo da lui citata come affidabile non ha senso. Per lui la causa della morte è il fatto che Alessandro beve vino per placare la sete che la febbre gli procura, ma non si chiede il perché aveva la febbre. D'altra parte Aristobulo era un ingegnere e non un medico. Dunque se prendiamo invece per buono il fatto del dolore improvviso e fortissimo come un colpo di lancia alla schiena, dobbiamo pensare a un evento acuto e traumatico estremamente doloroso che poi avrebbe procurato la febbre alta. Quel sintomo, cioè la sensazione di essere trapassati da una lama, è stato descritto esattamente a quel modo dai pazienti colpiti da pancreatite acuta. E questa, con ogni probabilità, la patologia che ha condotto a morte il sovrano macedone e l'ipotesi è stata sostenuta da diversi autori fra cui, recentemente, C.N. Sbarounis dell'Hippokration Hospital di Thessaloniki. Vediamo come. Alessandro durante i festeggiamenti del primo giorno mangia e beve smodatamente, si potrebbe dire fino al limite della sopportazione, tanto che si sente esausto e vuole coricarsi, ma giunge l'invito di Medio e non sa resistere. Continua quindi a ingerire cibo in quantità esagerate e vino schietto a fiumi, e alla fine l'ultima bravata: la coppa di Eracle. Già stimolato all'eccesso nell'attività enzimatica a quel punto il pancreas si liquefa e il succo pancreatico anziché riversarsi nel duodeno si spande nella cavità peritoneale e la aggredisce. Ecco il dolore lancinante come un ferro di lancia che penetra nella carne. La percezione del dolore alla schiena è spiegabile con il fatto che il pancreas ha collocazione retroperitoneale e quindi il dolore viene percepito più verso la schiena che verso la parete anteriore dell'addome. La conseguenza quasi immediata è quella di una peritonite acuta, ma poi, con il passare dei giorni, gli enzimi del pancreas attaccano anche l'intestino perforandolo, sicché il suo contenuto si versa nella cavità addominale provocando una infezione devastante da cui la febbre altissima che non gli dà mai tregua. Alla fine la perdita della parola, il coma e la morte. Un'altra ipotesi plausibile potrebbe essere la rottura della colecisti, che coincide con il fortissimo dolore al fianco destro, e un ittero evidente. Cosa di cui non si trova traccia nelle fonti, anzi il suo colorito viene descritto sempre come roseo e immutato anche dopo la morte. Può essere un particolare agiografico, ma può anche essere un'osservazione realistica. Uno studioso inglese, W.W. Tarn, ha detto di Alessandro: Alla fine morì di una malattia che avrebbe potuto risparmiarlo se lui avesse saputo mai risparmiare se stesso. Nulla di più vero se consideriamo che la causa della sua morte sia stata quella che abbiamo appena descritto. Il condottiero macedone veniva da dieci anni di strapazzi inauditi, di fatiche sovrumane, di ferite e traumi di ogni genere, non solo fisici ma anche psicologici. Un comportamento più misurato gli avrebbe evitato probabilmente la morte. Almeno quel tipo di morte. A quanto ci risulta, durante le campagne militari Alessandro era di fatto molto austero, nel cibo, nel vino e forse anche nel sesso. La tensione emotiva e lo stress lo tenevano concentrato soltanto sull'obiettivo. Quella tensione doveva essere tanto spasmodica che quando veniva a cessare tutti i freni inibitori sparivano e perdeva di fatto il controllo di sé. E’ famoso l'aneddoto presente nella maggior parte delle fonti, e quindi presumibilmente vero, che riferisce le sue ultime parole. Essendo ormai chiaro che non si sarebbe più ripreso,
Perdicca gli gli avrebbe «Al migliore forte". Una
avrebbe chiesto: «A chi lasci il tuo regno?». Alessandro consegnato il suo anello con il sigillo reale rispondendo: ». T..tsf, che significa "al migliore" ma anche "al più risposta ambigua come chi l'aveva pronunciata.
4° IL CORPO
Quando Alessandro morì la regina Sisigambi, madre di Dario Terzo, che da lui era sempre stata trattata con il massimo onore e rispetto, si chiuse in un lutto strettissimo, rifiutò il cibo e l'acqua finché morì in capo a cinque giorni, come dice Diodoro, dolorosamente ma non in modo inglorioso, parole lapidarie, probabilmente non sue. Da questo momento in poi Diodoro è lo storico più importante nel seguire le vicende del corpo di Alessandro, a parte un breve capitolo conclusivo della biografia di Plutarco che fa presente come la maggior parte delle fonti rigetti l'ipotesi del veleno. Per dimostrare l’implausibilità di questo evento riferisce che, mentre i generali dell'esercito si fronteggiavano minacciosamente ognuno per far prevalere la propria posizione e il proprio interesse, il corpo di Alessandro era stato dimenticato e benché si trovasse d'estate in luoghi caldi e umidi era rimasto intatto e non aveva dato alcun segno di decomposizione e quindi di avvelenamento? Si riteneva infatti che il corpo di un uomo ucciso dal veleno si decomponesse molto rapidamente e ne mostrasse i segni evidenti. Il corpo dell'eroe che non si corrompe e conserva invece nell'afa di giugno a Babilonia il suo naturale profumo è il primo elemento della nascita della leggenda di Alessandro. Ancora oggi nelle procedure di canonizzazione di un santo è prevista la ricognizione del corpo per verificare se si sia mantenuto incorrotto. La testimonianza è stata invece da alcuni presa in considerazione seriamente nel tentativo di trovare una spiegazione razionale: il corpo del condottiero macedone non si sarebbe corrotto semplicemente perché Alessandro non era ancora morto ma era solo in coma profondo. Questo comunque non era stato il solo elemento straordinario che aveva caratterizzato la fine del sovrano. Gli viene attribuita anche una sorta di profezia (peraltro non difficile data la situazione) sulle aspre lotte che sarebbero scoppiate fra i suoi compagni per la successione. "Ci sarà un grande combattimento fra i miei amici e questi saranno i miei giochi funebri." Era uso infatti che in occasione dei funerali di un grande personaggio avessero luogo dei combattimenti di tipo gladiatorio di solito fra prigionieri di guerra. Poco dopo la nostra fone ricorda i preparativi per il funerale affidati a un tale Arrideo, da non confondersi con Filippo Arrideo, fratellastro di Alessandro a cui era stata affidata la reggenza sotto la supervisione di Perdicca finché non fosse nato un erede da Roxane. Si sarebbe dovuto costruire un carro funebre per il trasporto del corpo di Alessandro al santuario di Amon nell'oasi di Siwa in Egitto. E senza alcun dubbio la fonte di Diodoro afferma che dopo due anni di lavoro per costruire il carro funebre il convoglio lasciò Babilonia diretto in Egitto. È un'affermazione che potrebbe avere un senso per il viaggio di Alessandro al santuario di Amon in mezzo al deserto, ma lascia comunque perplessi e in parte, come vedremo, è contraddetta da altri. D'altro canto, se da un lato è accettabile l'idea che Alessandro volesse essere sepolto al santuario di Amon dove aveva ricevuto una investitura divina, è ipotizzabile che Perdicca, che allora aveva la reggenza del regno, volesse tumularlo nella necropoli reale dell'antica capitale macedone di Ege, la stessa in cui vent'anni fa fu trovata da Manolis Andronikos la tomba inviolata poi attribuita a Filippo Secondo, padre di Alessandro. Per la leadership macedone di quel tempo l'Egitto era pur sempre un paese straniero e barbaro secondo il concetto greco e Alessandro non
avrebbe dovuto esservi inumato. Torneremo sull'argomento nei capitoli successivi. Per ora le nostre fonti ci trasmettono l'immagine desolata del corpo di Alessandro abbandonato e incustodito mentre i suoi compagni si azzuffano per far prevalere ciascuno il proprio interesse sulla successione. La prima forma di accordo fra i compagni di Alessandro intervenne quando Roxane diede alla luce un maschio cui fu imposto il nome di Alessandro Quarto Tale accordo prevedeva che a ognuno di loro sarebbe stato affidato il governo di una delle province, mentre Perdicca avrebbe tenuto la reggenza dell'impero in attesa che il bambino raggiungesse la maggiore età. Non sappiamo quanto tempo trascorse prima che qualcuno si prendesse cura della spoglia mortale del grande condottiero. Plutarco dice alcuni giorni, il tempo necessario a Perdicca per stabilizzare la propria leadership anche se in via provvisoria. Una leadership che aveva un significato politico e ideologico fondamentale: l'unità dell'impero. Quando questo fu chiaro si pensò a prendersi cura del corpo di Alessandro per il semplice motivo che era il simbolo fisico di quell'unità. Del resto l'iniziale abbandono era forse dovuto anche all'incertezza sul futuro assetto dello stato. Anche la decisione di riportarlo in patria perché venisse sepolto nella necropoli reale di Ege sarebbe stata importante da questo punto di vista: avrebbe significato che l'impero era uno ed era sostanzialmente macedone. Va ribadito tuttavia che allo stato attuale delle nostre conoscenze non è possibile stabilire con certezza quale fosse la destinazione del feretro di Alessandro. Si iniziò dunque a organizzare il funerale e a costruire il carro funebre che avrebbe dovuto ricondurlo alla sua ultima dimora, forse anche in patria. Il corpo nel frattempo venne imbalsamato da imbalsamatori caldei ed egiziani e ricoperto di sostanze aromatiche forse per prepararlo a un lungo viaggio. La descrizione del carro funebre è impressionante e deriva forse da Ieronimo di Cardia, un funzionario della cancelleria di Alessandro che era quasi certamente presente a Babilonia in quei giorni e assistette ai lavori. Questa è probabilmente la sua descrizione che ci giunge tramite Diodoro: Innanzitutto fu realizzato un sarcofago in lamina d'oro martellato a misura del corpo di Alessandro che vi venne deposto e sommerso con grande abbondanza di spezie per conservado e profumarlo. Sopra vi fu posto il coperchio pure d'oro massiccio perfettamente adattato all'orlo del sarcofago. Sul coperchio venne deposto un drappo di porpora ricamato d'oro e su questo la sua armatura ... il carro che doveva portarlo fu dotato di una volta d'oro rivestita di scaglie. Attorno alla base di questa volta c'era una cornice pure d'oro adorna di teste di ariete dalle quali pendevano degli anelli d'oro che reggevano un festone a vivaci colori. Alle estremità c'erano delle nappe di rete da cui pendevano delle campane, di modo che quando il carro si muoveva il loro suono potesse essere udito a grande distanza. In ogni angolo della volta da ogni parte c'era una Vittoria d'oro che reggeva un trofeo. La volta era poi sorretta da un colonnato in stile ionico. All'interno del colonnato c'era una rete d'oro ... dalla quale pendevano quattro quadri decorati, congiunti l'uno all'altro in sequenza, e ognuno delle dimensioni del lato in cui si trovava. Su una di queste tavole era rappresentato un carro decorato con ornamenti in rilievo e sopra c'era Alessandro con in mano un magnifico scettro. Intorno al re c'erano gruppi di armati, uno di macedoni, un secondo di persiani ... della guardia del corpo. Il secondo pannello mostrava degli elefanti bardati da guerra guidati dai loro mahout indiani e dietro truppe macedoni in pieno assetto e con il loro equipaggiamento al seguito. Nel terzo pannello si vedevano reparti di cavalleria in formazione di battaglia. Nel quarto pannello era rappresentata una squadra navale in assetto di combattimento. Accanto all'ingresso della cella che conteneva il sarcofago c'erano due leoni ... inoltre sulle
colonne c'erano dei racemi di acanto che si estendevano fra la base e il capitello. Alla sommità di questa costruzione, in piena aria, c'era uno stendardo di porpora che portava come stemma una corona di olivo in oro di grande dimensione che brillava al sole con così grande splendore che si poteva vedere lampeggiare da grande distanza. Il carro aveva due assi su cui giravano quattro ruote persiane con i mozzi e i raggi dorati ... le parti sporgenti degli assi erano a forma di teste di leone che tenevano fra i denti dei ferri di lancia. Al centro ognuno degli assi aveva un ammortizzatore piazzato in modo che anche su terreno accidentato il feretro non subisse contraccolpi. C'erano quattro stanghe e a ognuna di esse erano aggiogate quattro mute di quattro muli ciascuna, in tutto sessantaquattro selezionati accuratamente per la loro forza e dimensioni. Ognuno aveva una corona dorata attorno al capo, due campanelle d'oro pendenti ai lati della testa e un collare ornato di pietre preziose. Benché molti particolari tecnici siano ancora poco chiari e l'interpretazione di certi termini non sicura, l'impressione che si ricava da questa descrizione è comunque quella di una grande macchina barocca decisamente Kitsch per i nostri gusti di moderni, un vero e proprio tempio semovente costruito per stupire coloro che lo vedevano passare. Il problema vero però è un altro. Se è attendibile la descrizione che ci è pervenuta, non si capisce come un simile arnese avrebbe mai potuto viaggiare. Difficile immaginare come potessero trovare spazio fra le stanghe sessantaquattro muli e soprattutto come si potessero manovrare. Calcolando che il traino fosse di sedici muli ogni fila, sarebbe stato largo almeno diciotto metri e lungo otto-dieci, il che è palesemente impossibile. Nessuna strada di allora era così larga. Ma se anche immaginiamo che i muli fossero aggiogati a coppie avremmo comunque una larghezza di nove-dieci metri, concepibile in certe strade urbane di grandi metropoli come Babilonia ma non certo per le strade che attraversavano il territorio. Anche la lunghezza del traino sarebbe stata eccessiva: da un minimo di una decina di metri nella prima ipotesi a un massimo di una ventina nella seconda. Possiamo immaginare che i muli fossero in realtà divisi in due mute di trentadue che si davano il cambio (assai più probabile), da cui risulta una situazione più ragionevole di quattro coppie di muli ogni stanga, ma siamo sempre di fronte a un veicolo molto difficile da gestire. Inoltre, visto che il corpo centrale del feretro era 5,6 x 3,7 metri e il carro in totale doveva essere non molto più grande, l'uso di sessantaquattro muli per il traino appare quindi di gran lunga sproporzionato se consideriamo un peso complessivo che non doveva essere maggiore di due tonnellate supponendo, come è logico, che il colonnato ionico fosse di legno. In sostanza, se la descrizione di quel carro è più o meno veritiera, non possiamo immaginare come avrebbe potuto viaggiare fino in Macedonia attraverso zone montagnose e spesso impervie o addirittura attraversare le Porte Cilicie dove per unanime ammissione di tutte le nostre fonti poteva transitare solo un cammello per volta, a meno che il carro non venisse smontato ogni volta che c'era questo tipo di problema e trasportato a pezzi. Meno problematico sarebbe invece supporre un itinerario verso l'Egitto, perché il territorio è più o meno tutto pianeggiante, ma gli ostacoli non mancano di certo: le zone paludose dei Laghi Amari e del Delta, i quattrocento chilometri di deserto rovente e di pista quasi certamente insabbiata in più tratti che congiungeva il Mediterraneo all'oasi di Siwa, se è là che il carro era diretto. Ci troviamo di fronte a un rompicapo da qualunque parte vogliamo considerarlo. Forse l'unico significato di quell'immenso treno era comunicare l'idea che su quel carro viaggiasse la spoglia di un essere sovrumano. Purtroppo non conosciamo con precisione l'itinerario e non sappiamo nemmeno quale destino ebbe il carro, visto che da quel momento in poi non se ne sente
più parlare. Forse viaggiò solo per un certo tratto, forse a partire da un certo punto -non sappiamo dove- fu smantellato e il corpo di Alessandro proseguì il suo viaggio in modo più discreto. In altre parole il carro sarebbe stato preparato in maniera tanto spettacolare per l'uscita da Babilonia e per un primo tratto di strada e in seguito ridotto all'essenziale così che quattro coppie di muli per volta sarebbero bastate a trainarlo. Gli altri muli avrebbero potuto trasportare le parti smontate da riassemblare in seguito al momento di giungere al luogo della sepoltura. In questo modo il corpo di Alessandro avrebbe potuto arrivare dovunque, anche in Macedonia. Senza contare la possibilità di un trasporto per mare già dagli scali della Cilicia. Un'osservazione particolare merita la serie di pannelli (pinakes) che circondavano, nascondendolo, il feretro, decorati con scene che evocavano i trionfi e la potenza di Alessandro. Quella specie di tempio su ruote, che poi sarebbe stato imitato nella copertura di molti sarcofagi tanto greci quanto romani soprattutto in età imperiale, doveva anche essere il veicolo di propaganda della grandezza del condottiero divinizzato, mostrando a chiunque lo vedesse la sua potenza e la vastità del dominio che aveva conquistato sia per terra sia per mare. Lo scampanio continuo ne annunciava il passaggio e il grande stendardo di porpora con la corona d'olivo in oro che lampeggiava in lontananza doveva simboleggiare la gloria delle sue vittorie insieme alle statue in oro di Nike, dea della Vittoria, che si ergevano ai quattro angoli. Il tutto doveva suscitare meraviglia e stupore, e l'autore stesso dice che qualunque descrizione era inadeguata rispetto al suo reale impatto visivo. La testimonianza di Diodoro, a dire il vero, ci permette di seguire il feretro per un certo tratto, anche se la descrizione dell'itinerario è vaga. Dice che la fama di questo tempio funebre semovente richiamava una grande folla: gli abitanti delle città in cui stava per arrivare uscivano incontro al convoglio per scortarlo a destinazione e di là in seguito per un certo tratto in direzione della città successiva. Ma a sostegno di quanto finora abbiamo osservato risulta che il carro, per avanzare, avesse bisogno di uno stuolo di meccanici e di stradini. La parola greca per questi ultimi è óSo~oloí, che letteralmente significa "costruttori di strade", oltre, ovviamente, a una nutrita scorta armata. Questo significa che letteralmente si costruivano o si allargavano o riparavano le strade a mano a mano che il carro avanzava. Se furono necessari due anni per approntare il carro, non è immaginabile quanti ne sarebbero stati necessari per permettere a un trasporto -è il caso di dirlo- tanto eccezionale di giungere a destinazione. E proprio per quanto concerne la destinazione, come si è visto, le testimonianze sono discordi. Per Diodoro -che comunque si rifà a una fonte più antica- la destinazione è senz'altro l'oasi di Siwa. Pausania invece dice che prima della morte di Perdicca, assassinato dalla sua guardia del corpo mentre stava per invadere l'Egitto, Tolomeo andò incontro al feretro e convinse poi i macedoni incaricati di portare a Ege il corpo di Alessandro a consegnarlo a lui. Dunque la destinazione secondo Pausania era senz'altro Ege. Anche un frammento di Arriano giunto a noi tramite una citazione lascia chiaramente intendere che il corpo non doveva andare in Egitto. Meno chiaro è Strabone, che descrivendo il sito della tomba di Alessandro (su questo torneremo in seguito), dice che Tolomeo lo aveva portato là sottraendolo a Perdicca mentre questi lo portava con sé da Babilonia e stava per entrare in Egitto allo scopo di impadronirsene. Non si dice quindi dove Perdicca stesse andando, ma si direbbe che quella verso l'Egitto fosse una specie di deviazione per occupare la terra dei faraoni. Da Diodoro sembra invece di capire che Tolomeo fosse venuto a prendere in consegna il corpo ai confini con la Siria per portarlo alla sua ultima destinazione. A quel punto erano trascorsi due anni e mezzo dalla morte del re.
5°
LA SEPOLTURA
Abbiamo considerato una serie di testimonianze che conducono in due direzioni diverse: una verso la Macedonia, l'altra verso l'Egitto. Il loro esame mette comunque a fuoco i termini del problema. Primo: Alessandro ha davvero chiesto sul suo letto di morte di essere sepolto all'oasi di Siwa? E se sì, quale ne sarebbe stato il motivo? Secondo: dov'era diretto il carro funebre, in Macedonia o in Egitto? Terzo: Tolomeo aspettava ai confini della Siria di prendere in consegna il corpo di Alessandro o se ne è impadronito con la forza? Perdicca era alla testa del corteo come dice Strabone o c'era qualcun altro? Possiamo tentare di dare risposte verosimili a queste domande. Secondo Curzio Rufo e Diodoro, Alessandro sul letto di morte avrebbe chiesto ai suoi compagni di essere sepolto in Egitto al santuario di Amon. Si trattava di un tempio oracolare del dio con la testa d'ariete, che si trovava nell'oasi di Siwa nel cuore del deserto del Sahara ai bordi della depressione di el Qattara, circa quattrocento chilometri a sud dell'attuale el Alamein. Un luogo magico, di straordinario fascino, un miracolo della natura in mezzo a un mare di sabbia incandescente, con sorgenti termali, un immenso palmizio, una vasta laguna, imponenti rocce di calcare bianchissimo che si stagliano nelle notti di luna contro un cielo blu cobalto. I grandi santuari dell'antichità, basti pensare a Delfi, si trovano sempre in luoghi dove le manifestazioni della natura sono così spettacolari da far pensare a una presenza fisica degli dèi. Dieci anni prima Alessandro, al suo primo arrivo in Egitto, vi si era recato con una lunga e pericolosa marcia nel deserto e lì aveva avuto la risposta che cercava. Il dio lo aveva riconosciuto come suo figlio e questo faceva di lui il faraone d'Egitto. Come tale sarebbe stato rappresentato sui piloni dei templi e ricordato nelle iscrizioni. Prima di recarvisi aveva fondato sul braccio canopico del Nilo attorno a una rada chiusa da una lunga isola una città con il suo nome, Alessandria, destinata a un futuro di splendore e di incredibile prosperità e sviluppo. E possibile che egli volesse davvero essere sepolto in quell'oasi nel cuore del deserto? Può essere, ma non è così probabile. Nemmeno da morto Alessandro avrebbe voluto che avvenisse di lui qualcosa che non avesse un senso preciso. Essere sepolto a Siwa non avrebbe comportato nessuna conseguenza apprezzabile. Né è immaginabile che volesse soltanto riposare vicino al padre divino per motivi religiosi. Alessandro era del tutto consapevole che suo padre si chiamava Filippo, e non lo aveva mai dimenticato. Proprio all'oracolo di Amon aveva chiesto per prima cosa se gli assassini di suo padre erano stati tutti sterminati o se qualcuno era sopravvissuto. Inoltre la cronaca che le fonti ci tramandano concordemente dei suoi ultimi giorni descrive un uomo che, finché ha un poco di energia, continua a tenere le riunioni di stato maggiore per la sua spedizione in Arabia, poi piomba in una condizione di totale prostrazione in cui forse si può accettare che abbia pronunciato, e a stento, le poche parole di risposta alle domande di Perdicca. Altri discorsi suonano posticci e aggiunti in seguito. E se le cose stanno così sarebbe giusto chiedersi da chi e cercare un cui prodest: a chi conveniva. A Tolomeo? È un dato di fatto che Tolomeo, il più intelligente fra i compagni di Alessandro, voleva l'Egitto e a quella condizione aveva riconosciuto la supremazia di Perdicca. Non aveva mai creduto che l'impero potesse sopravvivere alla morte di Alessandro ed era convinto che l'unica cosa saggia da fare fosse spartirselo nel modo più tranquillo possibile e che a lui dovesse toccare l'Egitto, per sempre, come re, come faraone. L'Egitto che era la terra più ricca, più antica, più prestigiosa e più civile, uno scrigno di tesori infiniti, il corpo possente di una grande civiltà
indigena su cui innestare una testa greco-macedone: la sua. E quella dei suoi discendenti che si sarebbero chiamati tutti come lui, nessuno escluso. Morto Alessandro, Tolomeo si oppose a quanti volevano affidare tutto l'impero ad Arrideo figlio di Filippo e fu il maggior responsabile della divisione dei popoli in regni diversi. Passato in Egitto, egli uccise Cleomene al quale Alessandro aveva affidato la satrapia... Queste le parole di Pausania. Per condurre a compimento quel piano gli serviva un simbolo immortale, un segno che era un corpo, quello di Alessandro. Forse Tolomeo si mise d'accordo con l'uomo incaricato di guidare il corteo funebre, qualcuno dovette avvertirlo che era partito da Babilonia ed egli si fece trovare là dove sarebbe passato, per rendergli onore come riferisce Diodoro e poi per prenderlo in consegna in ottemperanza alle ultime volontà del re scomparso. Secondo un frammento pervenuto di Arriano Perdicca, venuto a sapere della cosa, inviò Attalo a intercettare il convoglio, mala cosa non riuscì e Tolomeo portò il corpo di Alessandro in Egitto. Una terza possibilità, come già sappiamo, è quella riferita da Strabone secondo il quale era Perdicca in persona a guidare il convoglio, la cui destinazione però non è dichiarata, e aveva con sé i re, sia Filippo Arrideo che Roxane con il piccolo Alessandro Quarto Tolomeo riuscì a sottrargli il corpo di Alessandro. Perdicca invase l'Egitto con l'intenzione di annetterlo, ma morì in seguito all'ammutinamento dei suoi soldati che lo trafissero con le sarisse. Il fatto che con Perdicca ci fossero i re farebbe pensare che si andasse in Macedonia, tant'è che loro proseguirono dopo la sua morte per quella destinazione. Se questo è vero si dovrebbe ipotizzare che Tolomeo attaccò proditoriamente il convoglio impadronendosi del corpo di Alessandro. Perdicca lo attaccò in Egitto ma fu ucciso. Il corpo di Alessandro sarebbe rimasto per sempre nella terra del Nilo. Non a Siwa però. Il che fa pensare che la sottrazione della salma non rispondesse alla esigenza di dare corso alle ultime volontà del sovrano ma a un punto molto importante dell'agenda di Tolomeo: il corpo del grande conquistatore avrebbe dovuto essere il simbolo di un nuovo mondo il cui centro sarebbe stato Alessandria. Esiste, a questo proposito, anche un'altra teoria più recente che interpreta questi eventi in modo del tutto opposto Non sarebbe stato Tolomeo a dirottare il feretro di Alessandro, bensì Perdicca: il convoglio era regolarmente diretto in Egitto, secondo la volontà del sovrano defunto approvata da tutti. Saputo che la regina Olimpiade gli offriva in sposa sua figlia Cleopatra, ossia la sorella di Alessandro rimasta vedova, Perdicca avrebbe capito che ciò poteva significare per lui l'investitura ufficiale alla successione dinastica e pertanto avrebbe cambiato idea decidendo che lui in persona avrebbe dovuto ricondurre il corpo del re a Ege in Macedonia. Da cui l'invio di Attalo per fermare il convoglio con ciò che seguì. È una teoria interessante, mala testimonianza di Strabone può benissimo essere interpretata nell'altro senso: il carro funebre stava andando in Macedonia quando Tolomeo "precedette" o forse meglio "sorprese" Perdicca e si impadronì del corpo. In seguito, o forse anche nello stesso tempo, Tolomeo avrebbe fatto circolare la diceria che l'ultima volontà del sovrano era di essere sepolto in Egitto, e quella versione dei fatti sarebbe stata definitivamente consacrata nella sua storia della spedizione di Alessandro. D'altra parte pare strano che Arriano, di solito molto vicino a Tolomeo, se ne scosti proprio in questo punto se non fosse perché non crede alla sua versione dei fatti. Dal canto suo Diodoro dichiara che Tolomeo per fare onore ad Alessandro andò incontro al feretro con un esercito e gli eserciti servono prima di tutto a combattere. Per gli onori una scorta come quella che accompagnava il feretro sarebbe stata sufficiente. Come in parte abbiamo anticipato, il corpo del re non fu trasportato a Siwa secondo la supposta sua volontà, ma prima a Menfi e poi, in via definitiva, ad Alessandria. E anche questo ribadisce il fatto che non si stava rispettando la volontà del
defunto, ma quella di Tolomeo. Un'altra diceria riportata da Pausania e con ogni probabilità diffusa dalla propaganda alessandrina nell'ambito della stessa operazione ideologica raccontava che Tolomeo non era affatto figlio di Lago se non di nome. Sua madre infatti sarebbe stata data in moglie a Lago da Filippo Il quando era già incinta di lui. Questo ulteriore elemento ci fa capire che Tolomeo, pur ritenendo impossibile mantenere unito politicamente un impero che si estendeva dal Danubio all'Indo, dall'Adriatico al Golfo Persico e che non era per nulla stabilizzato, aspirasse comunque a una sorta di leadership che potremmo definire morale e culturale e che questa leadership sarebbe stata rappresentata da Alessandria come vera e propria capitale del nuovo mondo nato dall'incontro fra Oriente e Occidente e dalla presenza del corpo-simbolo di Alessandro, che quel mondo aveva creato senza peraltro poterne vedere l'evoluzione. E infine dalla Grande Biblioteca e dal Museo che ne incarnavano l'eccellenza culturale. Alle due destinazioni antagoniste di quel corpo, Ege e Siwa, ne va aggiunta una terza, quella di Babilonia che pare Alessandro meditasse di fare capitale del suo impero. Era una scelta logica perché la metropoli mesopotamica era in una posizione centrale rispetto alle estreme province indiane e alla ancestrale e periferica Macedonia. Di fatto è molto probabile che una tomba sia stata eretta a Babilonia per i due anni che furono necessari ad approntare il carro funebre, o meglio a stabilizzare l'accordo fra i compagni del re, e durante quei due anni forse i persiani premettero affinché quella fosse la tomba del sovrano, per sempre. Senza esito. La storia del carro sembra comunque un pretesto. Dal momento che era una struttura componibile dividendo le singole parti fra un numero adeguato di artigiani avrebbe potuto essere portato a termine in pochi mesi. A meno che, anche su come avrebbe dovuto essere quel carro, non si sia discusso molto a lungo. Se Babilonia interessava ai persiani e ai caldei non poteva interessare a Perdicca che non aveva mai capito l'idea ecumenica di Alessandro e che difendeva l'unità dell'impero solo perché era stato creato dal re dei macedoni e il re era uno. Tanto meno interessava a Tolomeo. La sepoltura babilonese, se vi fu, dovette avere carattere provvisorio. Un episodio riportato da Eliano, benché abbia un carattere evidente di aneddoto che lo rende poco credibile all'autore stesso (Se dobbiamo credere alla storia), è però interessante e a suo modo significativo. Vale la pena richiamarne la conclusione: ... (Aristandro) dunque disse che Alessandro fra tutti i re della storia era stato il più fortunato, sia in vita che in morte. Gli dèi gli avevano rivelato che la terra che avesse ricevuto il suo corpo, la prima sede della sua anima, avrebbe goduto della più grande fortuna e sarebbe stata invincibile attraverso i secoli. A quel punto i presenti cominciarono a contendersi il corpo che fino ad allora era stato trascurato volendo conquistare quel privilegio, ma Tolomeo lo rubò e in gran fretta lo portò ad Alessandria in Egitto. Perdicca si gettò al suo inseguimento e quando i due eserciti giunsero a contatto ci fu una grande battaglia per la salma del re. Alla .fine Perdicca ebbe la meglio, ma presto si rese conto che Tolomeo lo aveva ingannato mettendo su un carro persiano meravigliosamente ornato con oro, argento e avorio un manichino vestito e truccato come Alessandro mentre il vero corpo era già lontano. Quando Perdicca si accorse dell'inganno era già troppo tardi. E probabile che ci troviamo di fronte a una storia divertente elaborata in ambiente egiziano per mettere in contrasto l'astuzia di Tolomeo e la dabbenaggine di Perdicca. L'aspetto interessante è che vi si parla di un combattimento, di uno scontro violento che ebbe luogo per il possesso della salma di Alessandro, e questa potrebbe essere comunque la memoria di un fatto realmente accaduto. Tolomeo portò poi il corpo a Menfi come attestano Curzio Rufo
e Pausania. Curzio racconta che, quando finalmente i compagni di Alessandro a Babilonia avevano deciso di occuparsi della sua salma, gli egiziani e i caldei avevano ricevuto l'ordine di preparare il cadavere al loro modo, il che farebbe pensare che fosse stato imbalsamato con la tecnica delle mummie egiziane, mala relazione di Curzio si vale di elementi misti della tradizione come il fatto che il sarcofago fu riempito di spezie e sostanze aromatiche per conservare e profumare il cadavere. La scelta di Menfi, capitale dell'Antico Regno, come vedremo fu provvisoria ma nondimeno prestigiosa, essendo probabilmente collocata non lontano dalle piramidi di Gizah. Pausania comunque aggiunge che il re fu sepolto secondo il costume macedone, il che potrebbe significare "secondo il rituale macedone" oppure in una tomba di tipo macedone, ossia a camera sormontata da un tumulo. La notizia della sepoltura a Menfi è confermata da un breve passo del Marmor Parium, una iscrizione su marmo proveniente dall'isola di Paro che riporta la tavola cronologica degli eventi della storia dei greci dal mitico re Cecrope fino alla metà circa del Terzo secolo a.C. In una data corrispondente al 321-320 a.C. vi si dice che "Alessandro fu collocato a Menfi e Perdicca, avendo condotto una spedizione contro l'Egitto, morì".
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LA TOMBA DI UN RE
"Alla maniera macedone" sarebbe dunque stato sepolto Alessandro a Menfi. E tutto fa pensare che non si sia trattato soltanto di un rituale liturgico, ma di un complesso di elementi funerari che avevano a che fare con la forma, i materiali, la struttura e l'arredo della tomba stessa. Qui siamo all'inizio del progetto politico di Tolomeo e in questo periodo il suo esercito, il suo stato maggiore, e la sua stessa reputazione erano strettamente legati al mondo macedone, alle tradizioni e agli usi che noi oggi chiameremmo "occidentali". Violarli, specie in presenza dell'esercito sarebbe stato sconsigliabile. Né dobbiamo dimenticare che i momenti più critici dell'impresa di Alessandro si verificarono quando adottò i costumi della corte achemenide che l'esercito e i compagni rifiutavano nella maniera più assoluta. Questo tipo di mentalità si sarebbe propagato nei secoli e avrebbe avuto un peso determinante nelle guerre civili di Roma tardo-repubblicana nel duello fra Marco Antonio e Ottaviano. La carta vincente di Ottaviano fu il mettere le mani sul testamento di Marco Antonio e leggerne in pubblico il passo in cui dichiarava di voler essere sepolto ad Alessandria con i riti della liturgia egizia e lasciava eredi di tutto i figli avuti dalla regina egiziana Cleopatra. Questo gli alienò completamente il favore popolare che prima era in gran parte a suo vantaggio. Tolomeo era troppo accorto per cadere in un simile errore, e quindi seppellì il corpo di Alessandro con gran pompa tributandogli un culto eroico ma non ancora divino e seguendo i canoni del rito funerario macedone. Menfi era la capitale storica dell'Antico Regno e nelle vicinanze sorgeva la necropoli monumentale che si estendeva per quasi quindici chilometri dalla piana di Gizah a Saqqara e al deserto di Dashur, dove le più antiche piramidi si ergevano dalle sabbie dorate cosparse di ciottoli di alabastro lucidati dal vento come pietre preziose. Le fonti non ci dicono dove venne sepolto e i moderni hanno fatto varie supposizioni, fra le quali una in particolare sembra avere un certo peso. Secondo questa ipotesi Alessandro sarebbe stato sepolto nei pressi del Serapeo, ossia la catacomba monumentale di Osiride-Apis dove si conservavano le mummie di centinaia di tori Api, considerati l'incarnazione di Osiride? Ma com'era "la maniera macedone"? La documentazione in nostro possesso è vasta e ricca e si moltiplica a mano a mano che procede l'esplorazione archeologica delle necropoli di
Macedonia. Un ritrovamento, in particolare, avvenuto nell'ultimo quarto del secolo scorso, ha destato enorme impressione e, almeno nel mondo scientifico, un interesse forse secondo solo alla scoperta della tomba di Tutankhamon a opera di Carter e Carnarvon il novembre 1922. Esattamente cinquantacinque anni dopo, l'8 novembre del 1977, il mondo intero fu scosso dalla notizia che l'archeologo greco Manolis Andronikos aveva scoperto a Verghina (l'antica Ege dei re macedoni) la tomba di Filippo Secondo, il padre di Alessandro. Era un successo straordinario e unico che coronava quindici anni di ricerche e di sforzi, e la scoperta si era verificata quasi alla fine della campagna di scavo con i fondi ormai agli sgoccioli e la cattiva stagione che incombeva. Andronikos aveva deciso questa volta di abbassare la trincea di scavo nettamente sotto il piano di campagna del Quarto secolo a.C. e di dirigersi verso il centro del tumulo. Dopo aver incontrato tracce di offerte funerarie e di piccoli animali sacrificati intercettò prima un muro di contenimento e poi una struttura a volta, inconfondibilmente appartenente a una grande tomba a camera. La presenza al centro della volta dell'ultimo blocco di chiusura, la chiave di volta, appunto, con la sua malta di cementazione intatta, rivelava senza ombra di dubbio che si trattava di una tomba inviolata. L'emozione era incontenibile. Uno degli assistenti di Andronikos si calò all'interno con una fune per vedere se ci fosse spazio libero per appoggiare una scala a pioli senza fare danni, dopo di che anche l'archeologo poté scendere nell'ipogeo, primo essere umano a toccarne il pavimento dopo quasi ventiquattro secoli. In quel momento l'emozione aveva ceduto il passo al senso di responsabilità: l'ambiente si era conservato tale e quale, solo l'azione del tempo aveva portato mutamenti: le armi di bronzo ossfidate di verde, la corazza di ferro così corrosa dalla ruggine che ne erano coperte anche le finiture in lamina d'oro, la kline funeraria ridotta in briciole, il materasso polverizzato, le applique in avorio e oro sparse in piccoli frammenti, un grande scudo cerimoniale tutto in avorio con figurine a bassorilievo di squisita fattura e motivi a greca frantumato in tanti pezzi, un puzzle minuto e affascinante che lasciava al momento solo intuire la visione dell'intero ricomposto. Presso la porta il rivestimento di una faretra in oro puro sbalzato di evidente impronta tracio-scitica, forse preda di guerra, forse dono di un qualche capo vassallo di area danubiana, fasci di frecce ancora uniti da nastri d'oro. Ogni movimento falso avrebbe potuto compromettere una situazione irripetibile e unica al mondo in assoluto, ogni minimo errore avrebbe potuto avere conseguenze disastrose. Una coppia di schinieri sbalzati, in bronzo dorato, un gruppo di vasi d'argento di squisita fattura... dovunque volgesse gli occhi Andronikos si trovava davanti oggetti di sconvolgente bellezza. A un tratto uno in particolare attirò la sua attenzione: una testina in avorio di un paio di centimetri che, vista a distanza ravvicinata, rivelò le fattezze di Filippo Secondo così come appariva nel medaglione di Taso. Possibile? A poca distanza un altro minuscolo ma stupendo ritratto che quasi certamente riprendeva le fattezze di Alessandro. Andronikos si sentì quasi venir meno per l'emozione: anche se non poteva ancora dirlo con certezza, sentiva di trovarsi nella camera sepolcrale di Filippo Secondo di Macedonia, il padre di Alessandro Magno. E proprio Alessandro doveva averla eretta dopo che il padre era stato assassinato nel 336 a.C. Seppellire un re era come affermare il proprio diritto alla successione, e il giovane principe non aveva certo perso tempo. Aveva probabilmente assistito al rogo, aveva dato ordine di eseguire la deposizione e forse, senza nemmeno attendere che la tomba venisse sigillata, era corso al galoppo a Pella per presentarsi davanti all'esercito. In fondo, addossato al muro, c'era il sarcofago coperto da una lastra di pietra. Andronikos lo aprì e restò sbalordito alla vista di un'urna d'oro massiccio che portava a rilievo la stella argeade a dodici punte. All'interno le ossa bruciate del re,
su cui si era stampata la tinta del drappo di porpora con cui erano state avvolte e del vino con cui erano state lavate, e una corona d'oro di foglie di quercia. E quando in seguito fu in grado di liberare la facciata del mausoleo si trovò di fronte un fregio affrescato con una scena di caccia sullo sfondo di un paesaggio invernale. Un dipinto di una bellezza impressionante, opera di un grande maestro: Filippo a cavallo in atto di trafiggere un leone con un colpo. di lancia, dall'altra parte Alessandro distinguibile dal diadema che gli cingeva la fronte, e poi alberi scheletriti dal gelo e un cielo liquido, trasparente, una luce algida e diffusa, un'atmosfera irreale. Nel vestibolo della tomba c'era un altro sarcofago con un'urna d'oro simile alla prima ma più semplice e meno ornata. Le ossa erano quelle di una giovane donna fra i ventitré e i ventisette anni. Andronikos la identificò con l'ultima moglie di Filippo Secondo, Euridice (Cleopatra in altre fonti), fatta assassinare subito dopo la morte di Filippo dalla regina madre Olimpiade. Oppure una delle sue mogli "barbare" che avrebbe potuto essere stata sacrificata sulla tomba del marito come era nelle loro usanze. Una seconda tomba intatta, rinvenuta a poca distanza dalla prima, conteneva i resti di un giovinetto di età fra i tredici e i sedici anni. Fu chiamata perciò la "Tomba del principe". La datazione agli anni 315310 a.C. ha fatto pensare che potrebbe trattarsi del giovane Alessandro Quarto, fatto assassinare da Cassandro nel 310 a.C. quando aveva quattordici anni. Le tombe macedoni fin qui trovate sono una sessantina, ma solo pochissime sono state rinvenute intatte e con il loro corredo in situ, ed è ciò che ci ha permesso di identificare con precisione il rituale di sepoltura dei sovrani e le caratteristiche delle tombe. Dunque ecco il rituale alla maniera macedone, una tomba a camera, sormontata da un tumulo di terra, una facciata che riproduce un edificio o un tempio, un vestibolo e poi la camera sepolcrale in cui è collocato il sarcofago con l'urna cineraria. Davanti la kline funeraria, ossia il letto da simposio, non necessariamente realizzato per il funerale, ma già in uso nel palazzo reale, che diventava il divano per il banchetto eterno del defunto. Unica differenza: il corpo di Alessandro era stato imbalsamato. Questa potrebbe essere una ragione a favore dell'ipotesi che il corpo fosse diretto in Egitto e perciò era stato mummificato, ma il trattamento conservativo del corpo potrebbe essere spiegato con il fatto che doveva percorrere una lunga distanza fino in Macedonia, e quindi doveva essere preservato finché non si celebrasse il rito funebre e non venisse cremato sulla pira prima di essere sepolto a Ege nella necropoli reale. L'incinerazione in ogni caso non è il solo rito funebre sia in Macedonia sia in Grecia dove non di rado veniva praticata anche l'inumazione del corpo intero. C'è stato un periodo a partire dagli scavi archeologici dei primi dell'Ottocento in cui si associava il rito funerario a una etnia specifica ma ben presto ci si rese conto che l'ipotesi non reggeva e che ambedue i riti erano praticati all'interno della stessa cultura. D'altra parte ancora oggi nella nostra società si pratica sia l'inumazione che l'incinerazione senza un motivo specifico. In ogni caso, quando arrivò in Egitto, Tolomeo dovette decidere di conservarlo com'era, così che divenne famoso come il 6w~a, "il corpo". Una sorta di reliquia carica di un significato ideologico intensissimo che rendeva sacro il luogo che la ospitava e ne faceva il centro del mondo nuovo. Questo premesso, si può presumere che fosse stata costruita a Menfi una tomba a camera sormontata da un tumulo, che all'interno fosse stato disposto il sarcofago, la kline funeraria e i doni. Ma quella era per Alessandro soltanto una sepoltura provvisoria benché illustre e prestigiosa. Fino a quel momento Tolomeo si era mosso con straordinario tempismo e con eccezionale abilità. Aveva giocato Perdicca sottraendogli il corpo di Alessandro grazie a una impeccabile azione di intelligence che gli aveva permesso di sapere esattamente quando il carro sarebbe transitato dalla Siria verso Damasco, dove, si suppone, avrebbe preso la
direzione nord attraverso le Porte Siriache e le Porte Cilicie. Aveva dirottato il convoglio dopo aver persuaso, con le buone o con le cattive, i capi della scorta contando comunque sulla superiorità schiacciante dal suo esercito. Perdicca, dal canto suo aveva commesso l'errore di allontanarsi troppo dal teatro degli eventi, partendo per una spedizione in Cappadocia che avrebbe ben potuto rimandare ad altro momento. Si era dimostrato troppo incerto quando aveva ricevuto le due proposte di matrimonio, una da parte di Antipatro viceré in Macedonia per sua figlia Nicea, l'altra dalla regina madre Olimpiade per Cleopatra sorella di Alessandro, non calcolando quale conseguenza avrebbe avuto l'una o l'altra scelta. Dopo era seguita la sciagurata spedizione in Egitto, culminata con una sconfitta cocente che la splendida vittoria del suo fedele alleato Eumene contro Antipatro non era riuscita a ribaltare. Perdicca era un ottimo combattente e ne aveva dato prova più volte, ma era anche uno sventato, e di questo aveva avuto modo di pentirsi ma senza mai imparare la lezione. Purtroppo Tolomeo, che aveva tutte le qualità di un leader, audacia, cinismo, intelligenza, sangue freddo, mancava di ciò che l'avrebbe veramente reso grande: il cuore, l'entusiasmo, la capacità di pensare in grande, le qualità di Alessandro. A lui bastava il sicuro dominio della regione più ricca, più compatta, più sicura, difesa dal deserto e dal mare. L'idea di controllare sterminati territori, deserti roventi, montagne ghiacciate, foreste impenetrabili non solo non gli diceva nulla, ma addirittura gli ripugnava. L'idea di rintuzzare continuamente la turbolenza di tribù barbare e selvagge annidate in sedi inaccessibili gli era insopportabile: lo aveva fatto per anni e anni seguendo il suo amico che cavalcava Bucefalo. Aveva passato i quarant'anni, voleva realizzare il suo scopo. Ma per dare importanza al suo territorio, di più, per dare un senso a quella scelta comunque rinunciataria, gli serviva un simbolo così forte che nulla avrebbe potuto stargli a fronte, nessuno avrebbe potuto metterlo in discussione: il corpo stesso del conquistatore, le spoglie del più grande che fosse mai esistito. Ora l'aveva. Alessandro era sepolto in terra d'Egitto proprio là dove per la prima volta aveva reso onore agli dèi di quel paese diventandone egli stesso parte a tutti gli effetti. Ammesso che Alessandro avesse veramente espresso il desiderio di essere sepolto a Siwa presso l'oracolo di Amon, comunque non sarebbe stato esaudito. Il suo corpo imbalsamato non era meno inerte e impotente del pupazzo con cui si diceva che Tolomeo avesse ingannato Attalo, ma aveva una valenza ideologica infinita. A Siwa sarebbe stato dimenticato o sarebbe divenuto oggetto di un culto sporadico, officiato da sacerdoti distratti, mendicanti di offerte. Occorreva che fosse collocato in un luogo nevralgico e carico di energia, in un corpo vivo e palpitante: la città che Alessandro stesso aveva fondato dieci anni prima e mai più rivisto; la città delle meraviglie, la perla del Mediterraneo, il luogo più affascinante e turbolento, il più magico e il più eccitante, quello in cui tutto era possibile e tutto poteva accadere: Alessandria!
7°
ILLUSTRI VISITATORI
Già prima del regno di Tolomeo circolava in Egitto una storia curiosa che riguardava la nascita di Alessandro. Questa storia narrava che l'ultimo faraone Nectanebo Secondo, sconfitto da Artaserse Terzo Ocho imperatore dei persiani nel 343 a.C. e scomparso misteriosamente, era in realtà migrato in Macedonia e si era presentato come un possente mago egiziano alla regina Olimpiade durante un periodo in cui il re Filippo Secondo era lontano, impegnato in una campagna militare. Le aveva annunciato che il dio Amon (che i greci identificavano con Zeus)
l'avrebbe visitata e insieme avrebbero concepito un figlio. Poi, camuffato da Amon, era apparso nella sua camera da letto. Da quell'unione era in seguito nato Alessandro. Si tratta di una storia bizzarra e grottesca sicuramente elaborata in ambiente egiziano, forse nel primo periodo dopo la visita di Alessandro a Siwa. Il condottiero macedone sapeva bene che per regnare in Egitto era necessario diventare egiziani. Sapeva quante sanguinose rivolte i persiani avevano dovuto domare e per questo si era recato a Siwa, dove aveva probabilmente fatto doni molto generosi ai sacerdoti di quel tempio e dove era stato proclamato dall'oracolo figlio di Amon e non di Filippo. Poi, allo scopo di far accettare definitivamente al popolo un dominatore straniero, si era voluto rafforzare il concetto. Si era così costruita la storiella dell'avventura magico-erotica dell'ultimo faraone indigeno d'Egitto e ultimo della Trentesima dinastia, Nectanebo Secondo, in terra macedone. In virtù di questa storia Alessandro diveniva il bastardo di un faraone, ma pur sempre rampollo di sangue egiziano, e quindi in qualche modo accettabile come sovrano della terra del Nilo. D'altra parte era già accaduto che uomini di sangue non propriamente nobile, saliti al trono per meriti militari o di altro genere, avessero fatto circolare la storia di essere figli naturali dell'ultimo legittimo sovrano. Anche nella Roma imperiale accadde qualcosa di simile quando Settimio Severo lasciò che si diffondesse la notizia di essere figlio naturale di Marco Aurelio. Si potrà osservare che in questa storia la regina Olimpiade non fa una bella figura e men che meno il re Filippo e che neppure l'immagine di Nectanebo Secondo esce particolarmente nobilitata da una simile prodezza da guitto di strada, ma l'importante era il risultato. Viene da chiedersi se Alessandro ne sia mai stato al corrente o se abbia tollerato in qualche modo, se non approvato, una simile versione del suo concepimento. Per quanto ci consta la sua origine divina non è mai stata accettata dai suoi compagni e in taluni casi le fonti ci riportano motti di spirito e sarcasmi al riguardo, ma non è da escludere che la cultura popolare in Egitto potesse accettare una simile versione dei fatti che poi sarebbe entrata a far parte del celebre Romanzo di Alessandro dello Pseudo Callistene, una storia perlopiù fantasiosa dell'avventura del macedone che sarebbe stata assai nota anche durante il nostro Medioevo. È verosimile che Tolomeo incoraggiasse anziché reprimere questo tipo di aneddoti nel tentativo di rafforzare la legittimità del potere macedone in Egitto, tanto più che il possesso della mummia di Alessandro veniva a costituirne il simbolo fisico e ideologico. Non sappiamo per quale motivo avesse voluto prima seppellire il corpo del re a Menfi: forse per vere il tempo di costruire la tomba ad Alessandria dove restò per almeno cinque secoli oggetto di visite e pellegrinaggi, di venerazione, di grandiose cerimonie commemorative. La sepoltura a Menfi è attestata da Pausania ("alla maniera macedone") e Curzio Rufo con poche parole, ma è accettata come vera dalla maggior parte degli studiosi. Anche lo Pseudo Callistene attesta il trasporto del corpo di Alessandro a Menfi, ma non la sepoltura: Questo responso (dell'oracolo di Zeus Amon) mise fine alle questioni: tutti convennero con Tolomeo di trasportare il corpo alla città di Menfi, dopo averlo imbalsamato. Il sacerdote di Menfi, però, pronunciò un oracolo sfavorevole dicendo che la città che avesse ospitato quel corpo sarebbe stata travagliata da molte guerre e battaglie. Allora Tolomeo lo portò ad Alessandria e fece costruire un monumento funebre, nel tempio che fu chiamato "Soma ('corpo') di Alessandro". Colà dunque fu collocata la sua salma. Il trasporto ad Alessandria sarebbe avvenuto invece dopo pochi anni a detta di Curzio Rufo, mentre Diodoro afferma Egli (Tolomeo 1°) decise per il momento di non mandarlo ad Amon (Siwa) ma di seppellirlo nella città
che Alessandro aveva fondato... là preparò un recinto sacro degno della gloria di Alessandro in dimensioni e architettura. Seppellendolo in questo luogo e onorandolo con sacrifici del tipo di quelli che si offrono agli eroi e con magnifici giochi funebri, si conquistò la gratitudine non solo degli uomini ma anche degli dèi... È un'affermazione in aperto contrasto con ciò che dicono Rufo e Pausania. Non c'è traccia in Diodoro della sepoltura a Menfi e l'inumazione del corpo ad Alessandria sembra avvenire poco prima dell'invasione di Perdicca. Il testo di Diodoro continua poi dicendo che Tolomeo, per la sua generosità e nobiltà d'animo si ingraziò la popolazione e molti accorsero ad arruolarsi al suo fianco benché l'esercito reale stesse per assalire quello di Tolomeo. È interessante notare che secondo la versione di Diodoro, che ha una fonte filo-tolemaica, il popolo stava dalla sua parte anche se si trattava di combattere contro i re eredi diretti di Alessandro. Si vede insomma che gli egiziani lo consideravano un sovrano legittimo: Tolomeo si identificava con Alessandro che era il figlio di Amon e la sua presenza nella città era fonte di legittimità per il suo potere. Abbiamo qui anche un accenno al luogo della sepoltura: si tratta di un témenos, ossia di un recinto sacro in cui viene innalzata la tomba, una struttura di origini molto antiche che troviamo già nella necropoli dell'età del bronzo presso la Porta dei Leoni a Micene. Quanto alle cerimonie di culto, sono quelle tributate agli eroi, ossia ai semidèi, come Eracle o Achille suoi antenati, ma non a un dio. Perfino Alessandro aveva voluto chiedere al santuario oracolare di Siwa se si potessero tributare onori divini a Efestione; e Tolomeo non poteva fare diversamente, soprattutto per la presenza delle sue truppe macedoni che forse non avrebbero accettato un culto divino. È anche interessante notare che la tomba di Alessandro non è qui associata a nessun'altra come accade per esempio in Strabone, probabilmente perché la sua era la prima, e questo deporrebbe a favore del fatto che fu Tolomeo I a seppellirlo ad Alessandria e non Tolomeo 2°. Zenobio, un raccoglitore di proverbi greco vissuto nel Secondo secolo d.C., dice che fu Tolomeo Filopatore, cioè Tolomeo 4°, a costruire il monumento funerario "nel centro della città" o "in mezzo alla città" che poi venne chiamato serra ("segno"), e che lì venne sepolto Alessandro. Da questo momento coloro che hanno investigato sulla tomba di Alessandro cominciano a considerare le testimonianze di fonti in un certo senso dirette, ossia di autori che personalmente hanno visto o sentito parlare delle caratteristiche e dell'ubicazione del monumento in tempi a loro più vicini o contemporanei: dobbiamo infatti tenere presente che nessuna delle numerose fonti contemporanee ad Alessandro è sopravvissuta e che tutto ciò che abbiamo risale come minimo a tre secoli dopo. Una testimonianza molto interessante è quella di Lucano, il poeta latino nipote di Seneca morto a soli ventisei anni di età, costretto al suicidio da Nerone per i suoi sentimenti repubblicani e per aver preso parte alla congiura dei Pisoni per assassinarlo. Di lui ci rimane il poema epico intitolato Pharsalia che narra la guerra civile fra Cesare e Pompeo e dedica lcuni versi alla sepoltura di Alessandro e dei Tolomei. È un passo cui gli studiosi prestano attenzione perché lo zio di Lucano, Seneca, aveva trascorso del tempo in Egitto e aveva scritto un'opera dedicata agli edifici sacri: Lucano poteva averla consultata o aver parlato direttamente con lo zio. In questo passo il poeta narra della tomba di Alessandro e di quelle dei Tolomei che dovevano essere nei pressi, sormontate da piramidi e mausolei. Non bisogna qui pensare a piramidi vere e proprie, ma a imitazioni di dimensioni ridotte come dovevano essere quelle che ispirarono la piramide Cestia che ancora si può vedere incorporata nel tratto delle mura Aureliane vicino a Porta San Paolo. Per quanto riguarda i mausolea, si deve invece pensare a monumenti funebri di tipo greco che prendevano il nome dalla grandiosa
sepoltura di Mausolo, dinasta di Caria, che era stata da poco costruita quando Alessandro conquistò Alicarnasso e di cui non ci rimane praticamente nulla. Era annoverata fra le sette meraviglie del mondo. Lucano in un altro passo della Pharsalia descrive Cesare che, trascurata ogni altra meraviglia della città di Alessandria, discende nella tomba dell'eroe macedone: effossum ... cupide descendit in antrum, "impaziente discese nella tomba sotterranea". Effossum significa infatti "scavato" e dovremmo quindi intendere che la camera sepolcrale in cui riposava la mummia del condottiero fosse sotto, scavata rispetto al piano di campagna. Siamo quindi sempre nella tipologia messa in luce da Manolis Andronikos a Verghina. Come è noto, Cesare, sconfitto Pompeo a Farsalo nel 48 a.C., lo inseguì in Egitto dove il giovane re Tolomeo Quattordicesimo lo aveva fatto uccidere su consiglio e iniziativa dei suoi ministri e generali pensando di fargli cosa gradita. Cesare ne fu molto contrariato e subito si insediò ad Alessandria, dove però rimase intrappolato per diversi mesi, assediato dalle milizie egiziane fedeli alla dinastia, e più volte rischiò di morire. L'opera che racconta questi eventi, il Bellum Alexandrinum, fa parte del corpus cesariano ed è attribuita a uno dei suoi generali, Aulo Irzio che sarebbe morto nel 43 a.C. nella guerra civile di Modena mentre rivestiva il consolato, ma l'attribuzione è tuttora discussa. Stupisce comunque il silenzio totale di questa fonte sulla tomba di Alessandro e sul fatto che Cesare possa averla visitata. Infatti, come vedremo in seguito, la tomba doveva essere situata nella zona del palazzo reale dove Cesare era asserragliato. Si può dire che la cosa è altamente probabile, masi tratta di un evento che possiamo soltanto immaginare. Si dice che Cesare, quando era questore in Spagna, lamentasse di non avere ancora compiuto alcuna impresa significativa, mentre Alessandro molto più giovane aveva già sottomesso gran parte del mondo conosciuto. Forse quelle parole gli vennero in mente mentre contemplava le sembianze del grande conquistatore. In un altro passo del poema$ si parla di un extructus mons che sormontava la tomba e anche questo ci riconduce alla tipologia delle tombe reali di Verghina. Dunque, integrando Diodoro e Lucano, possiamo pensare a un recinto in muratura che delimitava un'area sepolcrale in cui sorse dapprima il solo sepolcro di Alessandro, costituito probabilmente da un dromos (corridoio di accesso) o da un vestibolo e da una camera sepolcrale che conteneva il sarcofago d'oro ed era sormontato da una collinetta artificiale, l'extructus mons ricordato da Lucano. Il prossimo visitatore illustre attestato dalle fonti è Ottaviano, che raggiunse l'Egitto in modo analogo a quello di Cesare e cioè inseguendo il rivale Antonio dopo aver vinto la battaglia di Azio. Non ci fu un vero e proprio scontro. Gli uomini di Antonio passarono al nemico e a lui non restò che suicidarsi. Sua moglie Cleopatra, ultima sovrana della dinastia tolemaica, lo seguì poco dopo nella tomba essendosi fatta mordere, come vuole la tradizione, da un aspide. Si era nel settembre del 30 a.C. Ottaviano era il signore incontrastato di tutto il mondo romano e poteva anche dedicarsi a visitare Alessandria, forse a quell'epoca una delle più belle e avanzate città del mondo, ed è qui che Svetonio nella sua biografia di Augusto, descrive la visita alla tomba di Alessandro: In quello stesso tempo, fatta tirar fuori dalla tomba l'arca con il corpo di Alessandro, lo guardò a lungo, quindi vi pose una corona d'oro e vi sparse fiori e poi richiesto se volesse vedere anche quelle dei Tolomei rispose che era venuto per vedere un re, non dei morti. Dione Cassio narrando lo stesso episodio racconta che Augusto toccò la mummia di Alessandro in modo tale che gli ruppe il naso. Non volle invece vedere la salma di Tolomeo, nonostante le insistenze degli alessandrini, dicendo che era venuto a vedere un re e non dei morti. Evidentemente sia Svetonio che Dione Cassio attingono dalla stessa fonte
perché riportano la stesso sa risposta di Ottaviano a chi gli vuole mostrare le tombe dei Tolomei (o di Tolomeo). Dione in più riferisce il particolare della rottura del naso, che qualcuno pensa sia avvenuta mentre Ottaviano cercava di appoggiare sul capo della mummia la corona. Dalle parole di Svetonio sembra di capire che la necropoli reale fosse sorta tutto attorno al serra, ossia al recinto in cui si trovava il tumulo di Alessandro, ma ne fosse separata. Anche Dione Cassio sembra distinguere la sepoltura di Tolomeo da quella di Alessandro. Fra gli illustri visitatori della tomba è spesso annoverato anche l'imperatore Caligola (Caio Giulio Cesare Germanico) sulla base di un passo di Svetonio. In realtà il passo non autorizza necessariamente a pensare che Caligola non si sia mai recato ad Alessandria, ma che semplicemente si sia fatto portare la corazza del conquistatore per indossarla: Portò con frequenza le insegne trionfali e talora anche la corazza di Alessandro Magno fatta togliere (repetitum) dalla sua tomba. Un gesto in qualche modo spiegabile: suo padre Germanico si era atteggiato più volte come un nuovo Alessandro e gli storici individuano in lui quel tipo di comportamento e di cura della propria immagine che viene chiamato imitano Alexandri: è plausibile che il giovane Caligola dovette restarne impressionato. Sappiamo comunque che sul sarcofago d'oro di Alessandro era stata posta la sua armatura durante il viaggio del convoglio funebre da Babilonia. È probabile che vi fosse rimasta fino al momento in cui Caligola la fece prelevare. Dopo di questo non abbiamo altre notizie. Non sappiamo quindi se il prezioso ci melio sia stato restituito o sia andato perduto. Se non sparì durante i tumulti dei pretoriani che seguirono il suo assassinio il 24 gennaio del 41 d.C., non si può escludere che il successore Claudio l'abbia discretamente fatta riportare indietro. Claudio era un appassionato di antichità e uno studioso di notevole livello e la cosa non sarebbe inverosimile. Dopo di che non abbiamo notizia diretta di altri illustri visitatori fino a Settimio Severo, di cui diremo in seguito. È però assai probabile che altri imperatori romani vi abbiano fatto visita nei loro soggiorni alessandrini: quasi sicuramente Adriano, che di Alessandro fu un fervente ammiratore e che proprio in Egitto perdette l'amato Antinoo, annegato nel Nilo in circostanze non chiare. Conviene comunque, a questo punto, tornare per un momento indietro agli anni fra il 24 e il 20 a.C. quando Strabone, famoso storico e geografo dell'età augustea (di lui ci è pervenuta soltanto l'opera geografica) si trovò ad Alessandria ed ebbe modo di visitare e poi descrivere la tomba di Alessandro. In quel momento Alessandria era una delle città più grandi e cosmopolite del Mediterraneo ed erano trascorsi soltanto pochi anni dalla morte dell'ultima regina d'Egitto, Cleopatra Settima.
8°
DA MENFI AD ALESSANDRIA
Non sappiamo dove esattamente e per quanto tempo il corpo di Alessandro sia stato sepolto a Menfi, ma possiamo ritenere che vi sia rimasto per diversi anni, come abbiamo già detto. C'è chi pensa che la sua collocazione fosse nei pressi del Serapeo, ossia nel santuario di Serapide, un dio di nuova invenzione il cui nome era la crasi di OsirideApis (Serapis) in quanto nei suoi sotterranei erano sepolte, in giganteschi sarcofagi di pietra, le mummie dei tori Api venerati come incarnazione di Osiride. Alla nuova personificazione del dio fu dato anche un aspetto certo più accettabile per i greci: cioè quello di un dio dal volto solenne e maestoso con folta barba e baffi e florida chioma, molto simile a Zeus. Solo il copricapo a forma di cesto (kjàlathos) gli conferiva un'allure orientalizzante ed esotica Qui furono rinvenuti i frammenti di una decina di statue di filosofi greci:
per questo si pensò alla sepoltura di Alessandro, ma si tratta di una eventualità non dimostrabile. Questa dimora transitoria delle spoglie di Alessandro potrebbe essere dovuta all'incertezza di dove stabilire la capitale del nuovo Egitto tolemaico. Lo scontro con Perdicca e la vittoria inattesa di Tolomeo avevano fatto del vincitore il vero padrone dell'Egitto, mala situazione richiedeva prudenza. In teoria i generali di Alessandro erano e restavano governatori delle province dello sterminato impero, formalmente sottomessi al povero Filippo Terzo Arrideo infermo di mente, in attesa che il piccolo Alessandro Quarto raggiungesse la maggiore età e succedesse a suo padre a tutti gli effetti. In realtà nessuno di loro lo credeva, nemmeno quelli che erano sostenitori dell'unità dell'impero. Perdicca era morto, ma se avesse vinto, unendosi a Cleopatra sarebbe divenuto membro della famiglia reale e avrebbe quasi certamente mirato a diventare il successore di Alessandro, ma quanti avrebbero accettato di sottomettersi a lui? Tutti da anni erano abituati all'autorità e al carisma di una sola persona: Alessandro. Nella migliore delle ipotesi poteva esserci chi pensava di essere l'unico in grado di mantenere l'unità dell'impero. Gli altri non aspettavano altro che l'immensa e debole compagine andasse in pezzi per spartirsene le spoglie. Tolomeo, forse il più realista fra i Successori, aveva già fatto la sua scelta anche se non la dichiarava. Il corpo di Alessandro in quella situazione così precaria aveva un peso e un valore enormi, per cui andava amministrato con estrema cautela: ogni suo spostamento veniva ad assumere un significato, poteva suscitare inquietudini, sospetti, diffidenze e perfino reazioni pericolose. Nulla si poteva dare per scontato: lo spirito del re era ancora presente, era lui la fonte di tutto, era per lui che ognuno dei Successori poteva aspirare a una eredità. Il ricordo dell'impresa impossibile e l'eco dell'epos erano ancora vivi e, benché la cosa possa sembrare incredibile, gli ex compagni di mille avventure, pur combattendo gli uni contro gli altri aspramente, mantenevano spesso la memoria della passata e non ancora estinta amicizia. Nella battaglia sugli Stretti Eumene cercò di recuperare il corpo di Cratero maciullato dagli zoccoli dei cavalli e di rianimarlo in virtù dell'antica amicizia e al primo vertice di Babilonia, quando i convenuti erano sull'orlo della rissa, lo stesso Eumene gettò sul trono vuoto di Alessandro il suo mantello e il suo scettro e si fece silenzio nella sala, come per miracolo. Qualche anno dopo Tolomeo accolse con amicizia in Egitto Seleuco fuggiasco e anche durante le successive "guerre siriache" permase fra i due il ricordo dei vecchi tempi e un comportamento cavalleresco. Menfi era la capitale dell'Egitto antico, l'Egitto rurale che viveva con il respiro del suo grande fiume, ma Tolomeo guardava ad Alessandria, ancora in costruzione sul piano voluto da Alessandro e realizzato da Dinocrate sulla striscia di terra distesa fra la palude Mareotide e il Mediterraneo, schermata dall'isola di Faro su cui un giorno sarebbe sorta la gigantesca torre di segnalazione per i naviganti. Una città che guardava a nord, a est e a ovest, al mondo dei traffici e delle esplorazioni, alle nuove tecnologie, ai nuovi giganteschi vascelli da carico e da guerra. Quella città avrebbe avuto un cuore prima o poi: il corpo del suo stesso Fondatore che l'avrebbe resa sacra, forte, invincibile, ma anche accogliente, tentatrice, affascinante. Tolomeo doveva mantenersi in equilibrio fra mondo greco e mondo indigeno, doveva tener conto che lui e i suoi erano per il momento un piccolo gruppo alieno rispetto alla grande nazione nilotica; doveva prima consolidare la sua posizione, le sue relazioni con il clero e con la classe dirigente, conquistarla, cooptarla e alla fine costruire la tomba per Alessandro e riportarlo nella sua città perché vi rimanesse per sempre. Tutto però in modo graduale. Le nostre fonti sono estremamente avare a questo proposito: alcune, come abbiamo visto, nemmeno conoscono il soggiorno menfitico, altre ne sono informate ma non ci danno alcuna notizia sul trasferimento
definitivo della salma. Altre sono in contraddizione fra loro: Curzio Rufo nelle ultime righe della sua operai afferma che dopo pochi anni il corpo fu trasferito ad Alessandria e quindi -dobbiamo presumere- durante il regno di Tolomeo Primo. Pausania invece afferma esplicitamente che fu il figlio Tolomeo Secondo Filadelfo (così detto perché sposò la sorella Arsinoe) a trasportare ad Alessandria il corpo di Alessandro e a tumularlo nella sua tomba definitiva. Una risposta conclusiva non c'è e ci sono ottime ragioni sia per optare a favore di Tolomeo 1° che a favore di suo figlio Tolomeo Filadelfo. La cosa comunque più importante è che alla fine sicuramente il corpo di Alessandro fu sepolto nella sua tomba monumentale ad Alessandria dove rimase per diversi secoli. La gradualità con cui fu realizzato questo ultimo collocamento della salma dipese quindi dal tempo necessario a completare l'opera urbana e a conferire alla città una dignità che almeno potesse avvicinarsi a quella del Fondatore, cosicché il trasferimento della salma consentisse l'identificazione della dinastia regnante con la figura di Alessandro. A quel punto il ruolo della nuova città come capitale del paese sarebbe stato evidente nonostante la sua situazione eccentrica rispetto al resto del territorio. L'operazione fu condotta magistralmente e in tempo tutto sommato molto limitato. Una volta stabilita questa identificazione, i Tolomei procedettero per tappe prima a deificare Alessandro e a tributargli onori divini, poi a divinizzare anche se stessi. L'iconografia divenne fondamentale e molto caratterizzante. Sui monumenti egizi i nuovi sovrani si fecero rappresentare in tutto e per tutto come faraoni, mentre sulle monete destinate alla circolazione "internazionale" si fecero rappresentare come greci con fisionomie realistiche e con il capo cinto da un semplice diadema (nastro). Questi attributi vennero assunti e manifestati solo dopo che Cassandro, figlio di Antipatro, ebbe assassinato la madre di Alessandro Olimpiade nel 316 a.C. e poi nel 310-9 prima Roxane e poi il piccolo Alessandro Quarto. Poco dopo diede ordine a uno dei suoi generali di avvelenare Alessandro Eracle, il figlio di Alessandro e Barsine. A quel punto, estinta l'intera famiglia reale, la strada era spianata per i Successori: prima Tolomeo e poi tutti gli altri si proclamarono re delle rispettive satrapie. È ora fondamentale capire la struttura della città di Alessandria se vogliamo tentare di comprendere la collocazione della tomba che per tanti secoli è stata cercata da scienziati, sognatori e avventurieri. Alessandro la fondò mentre si recava a Siwa nel 332-331 a.C. e probabilmente non la rivide mai più. Racconta Vitruvio che mentre si trovava accampato nei pressi del mare gli si presentò un tale con una pelle di leone sulle spalle e disse di chiamarsi Dinocrate e di essere un architetto. Aveva da proporre ad Alessandro un progetto: una statua gigantesca scolpita nella rupe del Monte Athos, che lo rappresentava in atto di versare in mare una libagione da una tazza riempita da una sorgente a tale scopo incanalata, che poi avrebbe originato una cascata. Nell'altra mano egli avrebbe tenuto una nuova città che avrebbe portato il suo nome. Alessandro rispose che la cosa gli sembrava eccessiva e che si sarebbe accontentato di un progetto più semplice. Si tolse la clamide macedone, un mantello a forma di trapezio, e la distese per terra a indicare la forma della città distesa lungo il mare. Quello avrebbe dovuto essere lo schema urbanistico della nuova città, la prima a chiamarsi con il suo nome. Dinocrate obbedì di buon grado e disegnò la città come gliel'aveva richiesta il committente. Si verificò però un inconveniente increscioso. Avendo esaurito il gesso per tracciare la pianta della città, gli operai utilizzarono della farina, ma gli uccelli scesero in frotta e la mangiarono tutta. Alessandro preoccupato del presagio consultò gli indovini che diedero un responso incoraggiante: il presagio era che la città sarebbe diventata ricchissima e avrebbe attirato visitatori e mercanti da tutto il mondo. Vero o falso, l'aneddoto ebbe una grande fortuna nell'antichità e
comunque la città sorse rapidamente sulla striscia di terra fra la palude Mareotide e un vasto golfo delimitato a nord da un'isola stretta e lunga, l'isola di Faro. Aveva una pianta di tipo ippodamico e cioè una griglia di strade perpendicolari con andamento est-ovest, nord-sud che s'intersecavano con incroci ad angolo retto. Gli assi principali erano dei veri e propri boulevard e si calcola che l'asse più importante, la via Canopica, con andamento est-ovest fosse largo trenta metri. Il circuito delle mura era di circa quindici chilometri per cui la città era fra le più grandi del Mediterraneo se calcoliamo l'impianto urbano in sé. Già al tempo di Tolomeo 1° si cominciò a costruire l’Eptastadion, un molo lungo più di un chilometro che collegava la terraferma all'isola di Faro portando anche un acquedotto e dividendo il golfo in due porti: il porto grande a est e l’Eunostos ("porto del buon ritorno") a ovest. L'ingresso del porto grande era piuttosto stretto, fra il promontorio Lochias su cui sorgeva il complesso dei palazzi reali e la punta orientale dell'isola di Faro. Qui fu innalzata la torre di segnalazione marittima che prese il nome dall'isola e che ha dato il suo nome alle torri da cui risplende la luce per i naviganti nel mondo fino a oggi: il Faro. Era alta centotrentacinque metri su tre piani: il primo a forma di parallelepipedo rastremato in alto, il secondo a forma di prisma esagonale, il terzo cilindrico. Sulla cima una statua reggeva uno specchio parabolico in grado di riflettere il fuoco del braciere a quasi cinquanta chilometri di distanza. All'interno c'era una rampa elicoidale che consentiva agli asini carichi di legna di raggiungere la sommità e poi di scendere. Il Faro era una specie di grattacielo dall'aspetto spettacolare e fu annoverato fra le sette meraviglie del mondo. All'interno dell'insediamento urbano c'erano una quantità di giardini, parchi con uccelli esotici e fontane, e spesso vi compariva l'immagine gloriosa di Alessandro, quella canonizzata dal suo scultore personale, Lisippo. Più grande del naturale, con il collo leggermente piegato, gli occhi grandi e profondi, i capelli mossi e il ciuffo alto sulla fronte e scriminato in due, la mitica anastolé. Sul promontorio Lochias, che si estendeva dirimpetto alla punta orientale di Faro, sorse il quartiere reale con i palazzi dei sovrani, poi con il passare del tempo, ma forse già durante il regno di Tolomeo 1°, fu costruita la Grande Biblioteca e accanto il Museo, il primo istituto di ricerca scientifica pura di cui si abbia conoscenza nel mondo antico. La Biblioteca, tuttora uno dei grandi miti culturali dell'Occidente, rappresentò il sogno di raccogliere in un unico luogo tutto lo scibile umano e raggiunse il numero per quei tempi inverosimile di settecentomila volumi fra cui la stessa Bibbia tradotta in greco dai "Settanta", Alessandria incarnava lo spirito stesso del suo Fondatore: iperbolica, turbolenta, audace, sognatrice, ma anche colta, ordinata, razionale; la città nasceva per attirare talenti da ogni parte del mondo perché si presentava come il luogo in cui tutto era possibile, in cui ogni sogno poteva diventare realtà. Qui la presenza di Alessandro non era quella di una mummia incartapecorita, ma di uno spirito forte, vibrante, ispiratore. Il suo sepolcro si ergeva a poca distanza dal più frequentato incrocio della città, dai quartieri più eleganti e pulsanti di vita, dai luoghi dove si progettava il futuro del mondo e dove se ne custodiva la memoria. L'incredibile progresso della nuova metropoli mediterranea è ben percepibile nella pagina di Diodoro: Egli (Tolomeo) decise per il momento di non mandarlo ad Amon ma di seppellirlo nella città che era stata fondata da Alessandro stesso e che mancava poco non fosse la più rinomata del mondo abitato. Alessandria non era priva di problemi: la sua posizione era molto eccentrica rispetto al resto del paese, alle spalle aveva solo il deserto, l'ingresso al porto grande, piuttosto angusto, nei giorni di vento poteva essere rischioso, le comunicazioni con il resto dell'Egitto
non facili, tanto che si progettò subito un canale che collegasse la palude Mareotide al braccio occidentale del Nilo. Inoltre era priva di acqua potabile che veniva fornita dal Nilo. Per questo nel corso dei secoli furono scavate decine e decine di cisterne, strutture sotterranee colonnate e voltate comunicanti l'una con l'altra, dove l'acqua torbida del canale poteva decantare più volte fino a diventare più o meno limpida. L'oscurità impediva il proliferare di alghe. Il Bellum Alexandrinum, che descrive la situazione al tempo dell'occupazione di Cesare (47 a.C.), dice che le cisterne erano numerosissime, ma che l'acqua veramente potabile vi rimaneva scarsa tanto che Cesare stesso fece scavare diversi pozzi risolvendo parzialmente il problema. In una situazione non molto diversa la visitò Strabone lasciandoci una descrizione della tomba di Alessandro che rappresenta il punto di riferimento più affidabile per la sua localizzazione. L'aspetto moderno di Alessandria è notevolmente mutato a causa del tumultuoso sviluppo edilizio degli ultimi cinquant'anni, ma prima, quando era molto più ridotta di dimensioni, lasciava meglio intuire la sua configurazione originaria. L'Eptastadion, a causa delle sedimentazioni marine, si è trasformato in un istmo che forma un tutt'uno con l'isola di Faro; il porto orientale ha assunto una forma quasi circolare e ha un imbocco più largo che in passato per il fatto che parte del Lochias è andato sommerso. Del Faro non rimane oggi quasi nulla ma si sa che restò in funzione fino al 1300 quando fu distrutto da due successivi terremoti (1303-1323). Tolomeo 1° l'aveva fatto costruire per segnalare le secche e i bassifondi sparsi poco lontano dall'ingresso del porto ed è probabile che, qualora sia vera la testimonianza di Flavio Giuseppe che parla di una gittata di una cinquantina di chilometri, gli scienziati alessandrini avessero fatto uso di specchi parabolici. Il Faro mandava segnali anche di giorno con l'uso di grandi specchi concavi lucidati. Nel luogo in cui si ergeva la grandiosa torre sorge ora il forte Qaitbey dal nome di Ashraf Qaitbey che lo fece costruire fra il 1477 e il 1480. Recenti esplorazioni subacquee hanno individuato sul fondo tutto attorno al forte una quantità di elementi architettonici e di statuaria antica risalenti all'epoca tolemaica che molto probabilmente dovevano appartenere al Faro o al porticato che lo circondava. Per la maggior parte sono stati recuperati e restaurati, mala ricerca prosegue anche nell'area del promontorio Lochias dove sorgevano i palazzi reali.
9°
LE FONTI ANTICHE
È arrivata fino a noi la tomba di Ciro il Grande, ancora integra sull'altopiano di Pasargade, combinazione fra una ziggurat mesopotamica e una tenda nomade; è arrivata quella di Augusto, benché spogliata e ridotta a una nuda mole cariata, è giunta quella di Adriano, di Tamerlano, del Cid Campeador, di Maometto il Conquistatore, quella intatta del faraone Tutankhamon e quella di Antioco I, piccolo re di Commagene, alta su un monte di duemila metri, vigilata da quattordici giganti di pietra e tuttora inviolata, a parte i guasti perpetrati dagli archeologi; pare impossibile che quella di Alessandro si sia dileguata nel nulla. Eppure la tomba del più grande uomo del mondo antico è di fatto perduta e la documentazione che la riguarda si riduce in tutto a pochissime righe. Oltre a ciò nessuna delle fonti a noi pervenute la descrive in modo esauriente, come se si trattasse di un oggetto di scarso interesse, specie se consideriamo l'abbondanza di particolari con cui è stato descritto il carro funebre dell'eroe da Ieronimo di Cardia, che leggiamo in trasparenza dietro le pagine di Diodoro. Per ironia della sorte, le misere testimonianze che ci restano sono vaghe e contraddittorie a parte quella di Strabone che ha veduto il monumento e
ne ha parlato con un minimo di cognizione di causa. Ma anche qui ci si sente quasi beffati leggendo da una parte la descrizione del sito e della baia di Alessandria talmente precisa, estesa e dettagliata da reggere il confronto con una qualsiasi relazione tecnica moderna, e dall'altra le poche, avare parole, dedicate al mausoleo di Alessandro. È quasi certo che descrizioni più ricche e particolareggiate esistessero o, addirittura, che il progetto architettonico fosse conservato negli archivi reali o negli scaffali della Grande Biblioteca. Fatto sta che dobbiamo accontentarci di ciò che abbiamo e soprattutto evitare la tentazione di colmare i vuoti con l'immaginazione. Più di un commentatore pensa a una costruzione grandiosa, stupefacente, ma ciò contrasta in modo stridente con l'avarizia descrittiva delle fonti e con l'assenza pressoché totale, in una civiltà del meraviglioso, di una memoria adeguata. L'epoca che seguì fu proprio quella dei prodigi e delle meraviglie: la più grande biblioteca del mondo, la più grande nave mai costruita, la statua più alta mai fusa nel bronzo, la torre d'assedio semovente, l'organo idraulico, gli specchi ustori, le gru basculanti, la macchina a vapore di Erone e la colomba volante, la stessa torre di Faro sorta proprio ad Alessandria, in uso ancora nel 13° secolo, e l’Eptastadion, sempre ad Alessandria, lungo più di un chilometro, con due varchi per la navigazione interna scavalcati da due ponti e da un acquedotto. Perché il monumento funebre del Fondatore di quell'epoca straordinaria fu tale da non impressionare l'immaginario collettivo se non per il fatto di essersi perduto nel nulla? Ma torniamo alle nostre fonti, le stesse da cui tutti i commentatori cercano di ricavare le informazioni possibili: alcune le abbiamo già citate, altre le citeremo ora e le porremo a confronto per vedere che cosa ci dicono e che cosa ci tacciono e quanto di verità sono ancora in grado di trasmetterci e come sono state interpretate. Conviene ovviamente partire innanzitutto da Strabone, da noi in parte già citato, che si recò ad Alessandria fra il 24 e 1120 a.C. e vi soggiornò a lungo: ... E il corpo di Alessandro fu portato via da Tolomeo e sepolto ad Alessandria dove ancora oggi giace, non comunque nello stesso sarcofago di allora perché quello di oggi è va~,ívr~ (yaline) mentre quello in cui lui lo pose era d'oro. Se ne impadronì infatti Tolomeo (Undicesimo) quello chiamato Kokkes o anche Pareisactos ("illegittimo") che arrivò dalla Siria e fu subito cacciato via cosicché non ebbe alcun profitto dal suo furto. Annota giustamente il Warmington nel suo commento all'edizione Loeb che quel "subito" deve essere riferito alla sostituzione del sarcofago e non alla salita al trono perché Tolomeo Undicesimo regnò a lungo, dall'80 al 58 a.C. Nella stessa edizione la traduzione di H.L. Jones rende yaline con glass, "vetro", riportando però in nota: or, possibly, alabaster ("o, forse, alabastro"). Una versione -la seconda- che ci sentiamo di preferire perché una fusione di vetro di quelle dimensioni avrebbe presentato problemi tecnici insormontabili a quell'epoca pur tecnicamente avanzatissima. Dunque il sarcofago doveva essere di alabastro o al massimo di cristallo di rocca. Quanto al sarcofago in cui Tolomeo 1° lo pose, era d'oro e non c'è motivo per dubitare che fosse quello stesso in cui il corpo di Alessandro era giunto da Babilonia. Questo ha fatto pensare ad alcuni che il carro funebre sia arrivato prima a Menfi e poi addirittura ad Alessandria, anche se di quella che dovette essere una cerimonia memorabile non rimane alcuna traccia in nessuna fonte pervenuta. Ora è pur vero che il silenzio delle fonti giunte fino a noi non implica di per sé che un evento non si sia verificato, ma può essere significativo se si associa ad altri elementi indiziali. Strabone, nella sua bellissima descrizione di Alessandria, poche righe prima dice: ... e la città contiene splendide aree pubbliche e anche i palazzi reali che occupano un quarto o forse addirittura un terzo dell'intera estensione
urbana perché ognuno dei re per amore di splendore ha voluto aggiungere altri ornamenti ai pubblici monumenti e anche ha voluto dedicarsi a proprie spese a costruire una residenza in aggiunta a quelle già esistenti... tutte comunque sono collegate l'una all'altra e anche con il porto. Anche il Museo è parte dei palazzi reali... anche il Sema, come viene chiamato, è una parte dei palazzi reali ed è il recinto in cui c'erano le tombe dei re e quella di Alessandro. Dunque Strabone ci dice che Alessandro fu sepolto da Tolomeo 1° ad Alessandria dove ancora oggi giace. E già qui v'è chi ha posto un problema: quel "dove" (opou) significa esattamente "nello stesso luogo" o semplicemente ad Alessandria? Ossia è possibile che Alessandro fosse stato sepolto dapprima in un luogo differente della città? Non pochi studiosi lo sostengono e alcuni danno questo fatto per acquisito Strabone, che non ne fa menzione, lo avrebbe dato per sottinteso in quanto sarebbe stata una cosa risaputa, ma il fatto risulterebbe evidente sulla base della testimonianza di Zenobio, vissuto nel Secondo secolo d.C. Scrive costui: Avendo Tolomeo Filopatore posto sotto custodia la madre Berenice nel palazzo e avendola affidata a Sosibio da sorvegliare, quella non sopportando la punizione bevve (l'infuso di) un'erba mortale e avendo bevuto il veleno morì. Sconvolto dagli incubi, costruì in mezzo alla città il rnemoriale che ancora oggi è chiamato Sema e vi depose, assieme a lei, tutti gli antenati e anche Alessandro il Macedone, e a lei costruì un tempio sulla riva del mare che chiamavano di Berenice Salvatrice. Questo passo è interpretato abitualmente come risolutivo: Tolomeo Quarto Filopatore, alla fine del Terzo secolo, decise di seppellire la madre, morta suicida per colpa sua, in una nuova area monumentale in cui depose tutti i suoi antenati e Alessandro di Macedonia. Questo implicherebbe che Alessandro prima si trovava altrove, molto probabilmente in una zona centrale della città che avrebbe preso il suo nome. Secondo questa ipotesi si sarebbe trattato di una costruzione gigantesca, forse ispirata addirittura al Mausoleo di Alicarnasso oppure non troppo dissimile dalla pira di Efestione che forse avrebbe dovuto servire da modello per il monumento funebre che non venne mai eretto. Di questa costruzione si sarebbe persa ogni traccia nel volgere di meno di cento anni e anche la memoria. Una interpretazione delle fonti così elaborata è riuscita a convincere anche studiosi di grande spessore scientifico che accettano l'idea che Alessandro abbia avuto due tombe nella sua città. Tutto ciò anche grazie alla confusione che genera la comparsa nei testi antichi di due nomi spesso letti come intercambiabili: soma (corpo) e serra (segno, monumento). A complicare ulteriormente le cose uno dei nomi nelle edizioni critiche può apparire nel testo e l'altro in nota a piè di pagina come lettura alternativa, cosicché può accadere che uno studioso accetti l'una piuttosto che l'altra versione a seconda che sia più o meno funzionale alla propria teoria. Sembra comunque difficile credere che un monumento (la supposta prima tomba di Alessandro) che doveva essere grandioso e imponente, e in una posizione centrale dove poteva essere visto da tutti, sia stato completamente dimenticato in un tempo tanto breve. E comunque l'ipotesi contraddice l'idea che Strabone non ne faccia parola perché pensa che tutti lo sappiano. In realtà si sa che la tomba dell'ecista, ossia del fondatore, era spesso in un'area pubblica della città (di solito l'agorà), in quanto oggetto di venerazione da parte dei discendenti dei coloni; è il caso di Cirene e di Poseidonia, per esempio, ma per Tolomeo la tomba di Alessandro doveva avere un significato ideologico profondamente diverso: Alessandria non era la fondazione di un gruppo di coloni in cerca di fortuna, ma il centro di un impero il cui sovrano (Tolomeo 1°) doveva stabilire un concetto di legittimità dinastica collegando la propria famiglia al sovrano che
ufficialmente era stato dichiarato dall'oracolo di Amon come suo figlio, ossia come faraone d'Egitto. Per questo la sua tomba doveva prima di tutto essere collegata al centro del potere, all'area del palazzo. Strabone, come aveva fatto notare Achille Adriani, ha sentito il dovere di ricordare che il sarcofago in cui era deposto Alessandro al tempo della sua visita ad Alessandria non era quello originale in oro massiccio, ma quello di alabastro con cui l'aveva sostituito Tolomeo Undicesimo. Come avrebbe potuto Strabone passare sotto silenzio il cambiamento tanto più importante, quello dell'intero sepolcro? L'archeologo italiano attivo ad Alessandria negli anni Trenta ritiene che Alessandro sia sempre rimasto inumato in quella che in seguito fu la necropoli reale e che Tolomeo 4° Filopatore, meno di cento anni dopo, in occasione della morte drammatica della madre Berenice Secondo ristrutturò. E questo collima perfettamente con l'aneddoto riportato da Svetonio circa la visita di Ottaviano al sepolcro di Alessandro. Il rifiuto di visitare anche le tombe dei Tolomei rivela tutto il suo disprezzo per la dinastia per lui corrotta e decadente che aveva avuto come ultima rappresentante l'odiata Cleopatra. Qui Adriani cita poi due passaggi della Pharsalia di Lucano, cui già abbiamo fatto riferimento. Ciò che colpisce nel suo poema è l'accanito disprezzo che ostenta per Alessandro rappresentato come un predone sanguinario e fortunato cui quegli stessi persiani (parti) che avevano massacrato i legionari di Crasso a Carre obbedivano invece docilmente e gli si prostravano davanti. Abbiamo già fatto presente il sorprendente silenzio del Bellum Alexandrinum sulla tomba di Alessandro, ma a Lucano non è sfuggita l'occasione di evocare l'incontro fra i due grandi conquistatori rappresentando Giulio Cesare che scende, impaziente, nella camera sepolcrale del grande sovrano scavata sotto terra: Effossum tumulis cupide descendit in antrum. In precedenza aveva ricordato ancora la tomba di Alessandro: ... Mentre custodisci presso di te in una grotta consacrata il Macedone, e le ceneri dei re riposano sotto un monte artificiale. Sono due brevi passaggi ma degni di attenta considerazione. Chugg prende in esame la possibilità che Lucano avrebbe potuto durante il suo viaggio ad Atene tornare via Alessandria e visitare la tomba di Alessandro, cosa che sembra poco probabile proprio per il profondo disprezzo che il poeta ostenta per la figura del conquistatore macedone. Più probabile che abbia attinto all'esperienza dello zio, il filosofo Seneca, che aveva soggiornato in Egitto e aveva scritto un'opera, per noi perduta, sui santuari del paese del Nilo. Dai particolari che ricorda, l'effossum antrum, cioè la camera scavata sotto terra, e l’extructus mons, ossia il monte artificiale, non abbiamo dubbi nell'identificare la più classica delle tombe macedoni a camera, sormontata da un tumulo come quella di Filippo Secondo che già abbiamo descritto. E sulla base di quanto abbiamo visto nello scavo di Manolis Andronikos, possiamo a ragione immaginare che all'interno vi fosse la kline funeraria per il banchetto eterno del re. Era questo il "modo macedone" che probabilmente si era praticato anche a Menfi, dove lo stesso Lucano ricorda un culto ad Alessandro: summus Alexander regum quem Memphis adorat, "il più grande dei re, Alessandro, che Menfi adora". V'è chi pensa che l'espressione di Lucano extructus mons significhi semplicemente la mole architettonica che sovrastava la camera funeraria. Ma è qui che sta il problema. Le tombe a tumulo sono antichissime e sono diffuse dall'Europa fino alla Cina attraverso i Kurgan delle steppe. Sono state in uso presso gli etruschi, i lidi, i frigi i traci, i macedoni, i celti, gli sciti, i mongoli, i cinesi e una quantità di altre popolazioni. Sostanzialmente rappresentano la monumentalizzazione del semplice tumulo che resta sul terreno dopo che si è interrata una salma, come a indicare che la collina artificiale che appare alla vista sovrasta il corpo di un gigante, di un uomo superiore, di un sovrano o di un semidio. Se dunque le parole di Diodoro dicono che
Alessandro fu dapprima sepolto a Menfi secondo la maniera macedone e se lo scavo di Verghina ci dimostra esplicitamente di che cosa si sta parlando, se la descrizione di Lucano ci conferma in pieno un sepolcro costituito da una tomba a camera sotto scavata rispetto al piano di campagna e sormontata da un tumulo, come si spiega una interruzione della continuità rituale e ideologica fra la prima e la terza tomba? Perché Tolomeo 4° già molto permeato dalla civiltà egizia avrebbe abbandonato una tipologia di architettura grandiosa e monumentale come quella del Mausoleo di Alicarnasso per tornare a una più modesta tomba a tumulo? Non sappiamo forse che gli altri Tolomei furono sepolti sotto "piramidi e mausolei"? Perché mai solo alla tomba di Alessandro sarebbe stata riservata la tipologia più arcaica? E in tono minore per giunta rispetto al primo mausoleo alessandrino? Non è più facile pensare che le tombe dei primi Tolomei e quella di Berenice Secondo siano state raggruppate attorno a quella del Fondatore all'interno del recinto che veniva così a creare una sorta di parco memoriale per i primi sovrani della dinastia? Ma c'è un'espressione nei precedenti versi di Lucano che va spiegata, là dove ricorda le ceneri dei re che riposano sotto la mole di un monte artificiale. A cosa si riferisce quel plurale? Se riteniamo con Adriani che Tolomeo Filopatore abbia ristrutturato la necropoli reale, si può pensare che nella tomba di Alessandro trovassero posto anche i primi fra i Tolomei (anche nella tomba di Filippo a Verghina c'è una seconda camera con un'altra urna cineraria), mentre gli altri sarebbero stati collocati nelle "piramidi e mausolei" nel resto della necropoli, piramidi che possiamo immaginare simili alla piramide Cestia a Roma. Nel configurare l'aspetto della tomba di Alessandro Adriani si spinge oltre pensando che il mausoleo di Augusto a Roma potrebbe in qualche modo esservi stato ispirato: una struttura interna in muratura in cui avrebbe trovato posto l'imperatore con i suoi famigliari (il primo a esservi sepolto fu il nipote Marcello) sormontata da un grande tumulo. Il mausoleo di Augusto, che ebbe un'evoluzione ancora più monumentale in quello di Adriano (oggi Castel Sant'Angelo), secondo alcuni studiosi si ispira anche alla tipologia dei tumuli etruschi su tamburo di pietra che possiamo vedere a Cerveteri o a Populonia. Si potrebbe ancora retrocedere nel tempo fino alla tomba di Lavinium che gli antichi credevano l’heroon di Enea e che fu scavata negli anni Ottanta da Sommella e Guaitoli non lontano da Pratica di Mare. Si trattava in realtà della tomba a cassone sotto un tumulo, di un capo indigeno dell'età del ferro monumentalizzata in seguito tra il Quarto e il Terzo secolo a.C. Il fatto che il mausoleo di Augusto fosse preceduto da due obelischi è segno comunque chiaro della grande moda egittizzante, sia a livello monumentale che a livello religioso e culturale, che pervase Roma dopo l'annessione dell'Egitto come provincia romana. In realtà la domanda degli alessandrini ad Augusto se volesse vedere anche le tombe dei Tolomei non avrebbe molto senso se già si fossero almeno in parte trovate nella stessa tomba di Alessandro e a questo punto ha forse più senso pensare come fa il Chugg a un problema testuale e leggere regem anziché regum. A Verghina la tomba di Filippo passò inosservata per secoli proprio per il suo aspetto esterno poco appariscente. Mutatis mutandis qualcosa di simile potrebbe essere successo anche a ciò che rimaneva della tomba di Alessandro, quando si trovò ad attraversare un lungo periodo di abbandono. Se accettiamo l'ipotesi che il serra menzionato da Strabone fosse il recinto architettonico entro il quale sorgevano il tumulo di Alessandro e i monumenti funebri dei Tolomei, ci si deve porre il problema di dove collocarlo. E qui tutti gli studiosi si rifanno alla testimonianza di un autore, Achille Tazio, vissuto all'età dell'imperatore Adriano, che scrisse un romanzo intitolato Le avventure di Leucippe e Clitofonte, una storia d'amore ambientata ad Alessandria. Abbiamo quindi uno sfondo scenografico per l’avventura del protagonista che entrato dalla Porta
del Sole, ossia dalla porta orientale della via Canopica, imbocca il grande boulevard longitudinale a doppio senso di circolazione che attraversava la città da una parte all'altra. Il protagonista parla in prima persona e racconta di essersi trovato, dopo aver percorso pochi stadi, nel luogo che prende il nome da Alessandro, in mezzo ai colonnati. Anche qui, come vediamo, gli elementi di identificazione sono estremamente scarni, ma tuttavia preziosi nel panorama generale della nostra documentazione. Si ritiene comunemente che "il luogo che prende il nome da Alessandro" dovesse essere quello della sua tomba, che non doveva quindi essere lontano dal grande incrocio fra la via Canopica e la traversa principale comunemente denominato R1 dai topografi dell'antica Alessandria. Ciò non esclude che non esistesse anche un santuario dedicato al culto di Alessandro che però si sarebbe trovato in un altro luogo, forse nell'agorà o in una vasta area pubblica. La tomba di Alessandro è di nuovo menzionata da Dione Cassio quando descrive il ritorno ad Alessandria di Settimio Severo dopo la sua campagna vittoriosa contro i parti: (Settimio Severo) indagò su tutto, incluso tutto ciò che era accuratamente nascosto. Era infatti il tipo di persona che non trascura di investigare su qualunque cosa sia umana che divina. Di conseguenza fece rimuovere da quasi tutti i santuari tutti i libri che poté trovare che contenessero qualunque storia segreta e sigillò la tomba di Alessandro. Questo perché nessuno in futuro potesse né vedere il corpo di Alessandro o leggere ciò che c'era scritto nei libri di cui si è detto. Si tratta di una notizia assai enigmatica, e non meno enigmatiche sono le espressioni dell'autore che ci trasmette la notizia. C'è chi collega le due azioni dell'imperatore in una sola, per cui il brano che abbiamo citato andrebbe inteso nel senso che i libri confiscati sarebbero stati rinchiusi nella tomba di Alessandro? Siccome un simile atto sembra privo di significato è possibile che si sia trattato di due provvedimenti separati. Che cosa significhi qui "sigillare" è difficile a dirsi: forse il dromos venne bloccato e l'accesso ostruito o forse la porta di accesso venne semplicemente sbarrata con chiavistelli. Forse l'imperatore romano si rese conto che la custodia del recinto delle tombe reali non era efficiente e pensò che potesse essere violata o vide una situazione di abbandono. Forse la grande diffusione di ogni sorta di superstizioni in una città dove convivevano non senza problemi molte religioni ed etnie diverse poteva ritorcersi contro la mummia di Alessandro che avrebbe potuto essere danneggiata dal prelievo di amuleti e reliquie. L'imperatore, così sensibile alle memorie del passato da volere con sé nella spedizione contro i parti, eredi dei persiani, gli ultimi discendenti degli Uguali di Sparta (sia pure come mossa propagandistica), fece quello che poteva per proteggere un simbolo che per cinque secoli aveva tenuto in vita un concetto unico e straordinario di civiltà.
10°
ECLISSI DI UN MITO
Non è chiaro se i sigilli di Settimio Severo furono rispettati quando, quattro anni dopo la sua morte, intervenuta nel 211 a York in Britannia, suo figlio Caracalla, fanatico ammiratore e grottesco imitatore di Alessandro, visitò prima il Serapeo, principale santuario di Alessandria dove fece offrire sontuosi sacrifici, poi la sua tomba e su di essa posò il suo manto di porpora, i suoi anelli con pietre preziose, le sue cinture in segno di omaggio. Anche nella pagina di Erodiano che narra l’evento abbiamo, ancora una volta, un termine vago, "tomba" (ià~os), per cui possiamo pensare sia che Caracalla abbia forzato i sigilli per
entrare nella camera sepolcrale, sia che abbia posato i suoi doni all'esterno su un altare per le offerte. Dato il suo fanatismo è più probabile la prima ipotesi. Da questo momento in poi non sappiamo più nulla della tomba di Alessandro il Grande se non per una notizia in negativo che ricaviamo da una omelia di San Giovanni Crisostomo che datiamo verso la fine del Quarto secolo d.C., anni in cui ebbe l'incarico di predicare nella cattedrale di Antiochia, sede importantissima perché prima cattedra di Pietro secondo la tradizione apostolica. Dov'è, dimmi, la tomba (sema) di Alessandro? Mostramela, e dimmi in che giorno morì! La citazione compare ovviamente in tutti gli studi sulla tomba di Alessandro ed è quella che, se ci si passa la tautologia, mette la pietra tombale sulla vicenda del corpo del fondatore di una delle più grandi civiltà del nostro mondo. Che cosa possiamo dedurre da queste poche ma tanto significative parole? Innanzitutto il fatto che il termine sema è definitivamente consolidato con il significato di mausoleo, o di complesso funerario come abbiamo visto dalle precedenti considerazioni. E poi il fatto che verso la fine del Quarto secolo nessuno sapeva più dove fosse la tomba stessa di Alessandro o anche, non volendo prendere la frase di Crisostomo alla lettera, che pochi lo sapevano e se ne curavano. Giovanni Crisostomo insiste con un'altra domanda: qualcuno sa in che giorno morì? Certo lui lo sapeva e lo ricordava benissimo, male sue parole recano qui un duplice messaggio: il primo è che la gloria umana è effimera, chi è stato venerato come un dio è poi del tutto dimenticato. Il secondo che questo oblio completo è il segno del trionfo della nuova fede che ha oscurato e cancellato i valori e i simboli del mondo pagano. Che cosa era successo alla tomba di Alessandro? Sappiamo che l'intera area dei palazzi reali aveva subito, anche dopo la visita di Caracalla, danni gravissimi in varie circostanze. Caracalla aveva creato una enclave fortificata chiamata Bruchion e circondata da mura possenti che includeva anche il Bema. Durante l'assedio di Aureliano e la riconquista di Alessandria occupata dalla regina Zenobia e poi dal ribelle Firmo il Bruchion aveva subito seri danni: dopo molti anni, sotto l'impero di Aureliano, allorché degenerarono le lotte civili in conflitti mortali e vennero distrutte le mura, perdette la maggior parte del distretto chiamato Bruchion che per lungo tempo fu residenza di personaggi illustri, il Museo era stato quasi completamente distrutto e forse anche la grande Biblioteca e un certo numero di edifici e di monumenti. In teoria nessuno fra i contendenti aveva interesse a danneggiare la tomba di Alessandro ma in situazioni di grande confusione può succedere di tutto e il fatto che la nostra fonte non ne parli non significa né che il monumento fosse illeso né che esistesse ancora. Altri gravi danni la città subì durante l'assedio di Diocleziano e la violenta persecuzione anticristiana nel 297. Ci avviciniamo ormai all'età di Costantino e quindi al lungo processo che vide il cristianesimo diventare in poco più di mezzo secolo da religione perseguitata a religione di stato con tutto ciò che questo comportò. Dapprima l'imperatore fece convocare il concilio di Nicea per stabilire con il Credo il principio dell'ortodossia e in seguito la persecuzione sia dei pagani che degli eretici. Per far in modo che la nuova religione si radicasse solidamente, Costantino volle ancorarla a dei luoghi fisici che divenissero punto di attrazione per la pietà popolare e per i culti canonici. Incoraggiò quindi, per così dire, il patriarca di Gerusalemme Macario a dedicarsi alla ricerca del sepolcro di Cristo, prontamente portato alla luce, e all'erezione di una serie di basiliche nei luoghi identificati come teatro delle più famose manifestazioni del potere divino del Cristo.
Saunders propone una sua brillante intuizione, e cioè che il vescovo Osio di Cordova gli avesse dato un preciso suggerimento in tal senso dopo essere passato da Alessandria e aver visto quanto importante era per i pagani la tomba con il corpo di Alessandro. Ciò ovviamente implicherebbe che la tomba esistesse ancora, del che non siamo affatto sicuri, ma è un dato di fatto che sia Costantino sia i membri più autorevoli del clero si resero conto che una religione del tutto spirituale avrebbe stentato a conquistare le masse. Fu quindi trovato il sepolcro di Cristo, l'unico, come abbiamo detto nel primo capitolo di questo libro, che nei secoli a venire e fino ai nostri giorni abbia avuto una importanza e un impatto sulla nostra cultura superiore a quello di Alessandro. Il motivo lo conosciamo bene: la superiorità del sepolcro di Cristo consiste nel fatto che era vuoto. L'esistenza di un piano preciso in questo senso è provata dal successivo, rapido rinvenimento da parte dell'imperatrice madre Elena della croce di Gesù, e in seguito dall'introduzione dei luoghi santi nella topografia ufficiale dell'impero. La Tabula Peutingeriana, l'unica mappa in nostro possesso risalente a un originale romano di probabile età adrianea, reca la traccia degli interventi di completamento di Quarto secolo con l'aggiunta della basilica di San Pietro a Roma, del monte degli Ulivi e del monte Sinai. Abbiamo ancora notizia da Ammiano Marcellino di un grande cataclisma che investì Alessandria nel 365. La descrizione è impressionante e coincide perfettamente con quanto accadde con lo tsunami nel 2004 a Sumatra. Dapprima il mare si ritirò e molti si avvicinarono incuriositi alla spiaggia, poi si scatenò un maremoto. Un'onda anomala gigantesca devastò le zone costiere, rase al suolo interi quartieri di Alessandria e scaraventò le imbarcazioni sui tetti delle case. Una nave di grosso tonnellaggio fu trovata a diversi stadi di distanza nell'entroterra. Una simile catastrofe dovette anche interessare il serra che non era molto distante dal mare, ma non sappiamo quali fossero le condizioni della necropoli reale una volta che il mare si fu ritirato né quali fossero le condizioni della mummia e del sepolcro di Alessandro che era sotto, scavato rispetto al piano di campagna. È da pensare che il tutto sia stato ridotto in stato di totale degrado e che il tumulo sia stato in parte spianato, il che non significa necessariamente che se ne sia subito perduta la memoria. In ogni caso non v'è dubbio che l'affermazione finale del cristianesimo sia stata determinante per il suo abbandono se non addirittura per la sua distruzione definitiva. Gli dèi e gli eroi possono esistere soltanto finché gli uomini vi credono. Con l'editto di Tessalonica promulgato da Graziano e Teodosio nel 380 d.C. il cattolicesimo divenne religione ufficiale dell'impero e credo obbligatorio per tutti. I pagani vennero chiamati dementes atque vesanos, "pazzi e dementi", e venne loro proibito di offrire sacrifici agli dèi. In seguito un altro editto del 391 estese le proibizioni anche ad Alessandria che godeva di speciali esenzioni. A quel punto il vescovo della città, Teofilo si ritenne autorizzato ad abbattere i santuari antichi e guidò la distruzione del Serapeo iniziando lui stesso la demolizione della statua colossale di Serapide. Poi fu la volta della biblioteca del tempio, una specie di succursale della Grande Biblioteca che andò completamente perduta. Come si è detto prima, non sappiamo quali fossero le condizioni della tomba di Alessandro né se il furore dello zelo cristiano abbia distrutto ciò che di essa era rimasto.Sappiamo che vi furono a varie riprese atti di vandalismo nei confronti delle sedi della civiltà "pagana" e vi furono gravissime violenze contro i suoi esponenti culturali, come l'uccisione di Ipazia nei primi anni del Quinto secolo a opera di un gruppo di monaci e di fanatici facinorosi cristiani guidati da un tale Pietro detto il Lettore. Ipazia, accusata di impedire la riconciliazione fra il prefetto Oreste e il vescovo Cirillo era in realtà odiosa perché scienziato, filosofo e donna bellissima e perché teneva scuola, allevava un gruppo
di solidi intellettuali che avrebbero a loro volta trasmesso i valori di una civiltà ritenuta manifestazione dell'Errore. Fu strappata dal suo carro, denudata e trascinata nel Cesareo, il tempio che Cleopatra aveva dedicato al culto di Cesare, ora chiesa cristiana, e massacrata. Il suo corpo fu scarnificato con cocci acuminati di vasi, gli ostraka (secondo alcuni quando era ancora viva) e poi bruciato. La cosa più verosimile è che tali violenze e atti vandalici abbiano coinvolto in varie e diverse situazioni anche l'area delle tombe reali qualora ancora esistessero. Quel luogo era pieno di simboli, di immagini, di memorie di una civiltà ritenuta corrotta e simbolo del dominio del Maligno. V'erano sepolti i re cui era stato tributato un culto divino che era di per sé una bestemmia e v'era la tomba di Alessandro. La potenza simbolica e semantica che per molti secoli era stata l'inespugnabile presidio di quel monumento ne era ora l'estrema debolezza. C'è solo una fonte che sembra alimentare l'ipotesi di una sopravvivenza della tomba di Alessandro: un passo di Libanio. Questo straordinario intellettuale che visse dal 314 al 394 d.C., audace voce critica e di dissenso, fu amico e consigliere dell'imperatore Giuliano, noto con il nome di Apostata, e poi maestro di retorica ad Antiochia dove contò fra i suoi allievi alcuni dei personaggi di più alta statura intellettuale e morale del suo secolo: due padri della Chiesa, Basilio di Cesarea e Giovanni Crisostomo, e il grande storico Ammiano Marcellino. In una delle sue orazioni inveisce contro la corruzione dei pubblici funzionari che avendo mano libera contro i templi e i santuari pagani ne approfittano per accumulare enormi ricchezze, e questo accade dovunque: E questa peste ... è universalmente diffusa: a Palto o ad Alessandria dove è esposto il corpo di Alessandro o a Balanae o nella nostra stessa Antiochia. Come dire nelle grandi metropoli come nei piccoli centri. Ed eccoci di nuovo a fronteggiare un enigma: che cosa significano quelle parole? Che il sepolcro del conquistatore macedone aveva resistito alle devastazioni degli uomini e della natura, ai terremoti e maremoti, alle incursioni e ai saccheggi, alle guerre e il suo corpo poteva ancora essere visto alla fine del Quarto secolo? Non sapremo mai se questa frase deve essere presa alla lettera o è solo una forma di epiteto della città di Alessandria o se Libanio si esprime in questo modo perché non ha notizie da molto tempo. Eppure la fonte della catastrofe del 365 era Ammiano Marcellino, un suo discepolo... alla fine bisogna ammettere che il caso ha selezionato per noi la sopravvivenza di fonti così esigue e isolate che la loro interpretazione è straordinariamente ardua. Sarebbe bello pensare che i sigilli di Settimio Severo fossero stati tali da proteggere il sonno dell'eroe o che qualche sacerdote ne avesse nascosto il corpo per difenderlo dalla profanazione proprio come avvenne agli antichi faraoni portati via dalle loro tombe in segreto e nascosti nelle grotte di Deir el Bahri, ma gli scenari più probabili sono assai meno suggestivi. Il corpo di Alessandro fu distrutto in un modo o nell'altro, la sua tomba spogliata e forse anche smembrata nelle sue componenti architettoniche per essere riusata in qualche altro modo. Giovanni Crisostomo poté così chiedere dal suo pulpito di Antiochia: «Dov'è Alessandro?». Una domanda che a distanza di tanti secoli continuiamo a porci.
11°
DU EL KARNAYN
La fine del mondo antico è simboleggiata da eventi passati quasi sotto silenzio ma di enorme portata. Fu una fine violenta imposta per decreto. Certo i cristiani non avevano dimenticato le persecuzioni, le torture, le morti atroci cui erano stati condannati i martiri di Cristo e aspettavano il loro momento. All'inizio, con Costantino avevano goduto
della libertà di culto a lungo negata, ma quando raggiunsero finalmente le leve del potere e la conseguente impunità ai tempi di Teodosio si comportarono di conseguenza. Come abbiamo già detto, il 16 giugno del 391 d.C. ad Alessandria il vescovo Teofilo distrusse il Serapeo, il più grande santuario della città. Nel 392 con un altro decreto e sulla base di un principio coercitivo ammesso anche da Agostino venne comminata la pena di morte a chiunque fosse sorpreso a offrire sacrifici agli dèi. Nel 393 fu posta fine per ordine dell'imperatore Teodosio e forse per ispirazione di Ambrogio ai Giochi Olimpici. I grandiosi santuari dell'Altis vennero devastati, le statue abbattute o sfigurate. A Roma venne spento il fuoco sacro che ardeva nel santuario di Vesta da più di mille anni, il collegio delle Vergini Vestali venne disciolto. Il tempio oracolare di Delfi, il più sacro e venerando di tutto il mondo antico, venne chiuso. Il suo immenso patrimonio di conoscenze che serbava memorie risalenti fino al Miceneo andò quasi certamente disperso. Pochi decenni prima aveva dato all'imperatore Giuliano l'ultimo vaticinio con cui profetizzava la propria stessa fine. Invano a Roma Simmaco supplicò l'imperatore di non rimuovere dal senato l'altare e la statua della Vittoria, simbolo della gloria di Roma Ambrogio fu irremovibile e l'imperatore fece eseguire l'ordine. Di quel monumento non rimane oggi che il basamento all'interno della Curia Giulia. Non mancarono i linciaggi e le esecuzioni sommarie come quella, atroce, che abbiamo già ricordato, di una persona nobilissima e innocente come Ipazia di Alessandria, denudata, trascinata a pugni e calci per le vie della città e infine massacrata e scarnificata all'interno del Cesareo ora trasformato in cattedrale cristiana della città e in mattatoio. Quale può essere stata in un simile clima la sorte della tomba di Alessandro? Le parole già citate di Giovanni Crisostomo inducono a pensare che non se ne sapesse più nulla, ma è pur sempre il punto di vista di un vescovo cristiano. Ciò che colpisce è che l'ombra del sovrano macedone continuò ad aleggiare sulla città che portava il suo nome, anche durante il periodo dell'occupazione islamica, a partire dal 642 d.C. Il motivo, secondo gli studiosi, sta nel fatto che Alessandro era citato nel Corano (se è giusta l'identificazione) quasi come un profeta con il nome Du el Karnayn, "Il signore dalle due corna". In realtà il personaggio del Corano, citato in una delle sure più venerate del libro, la Diciottesimo, non era necessariamente Alessandro-Iskander e anzi la sua identità originaria rimane abbastanza misteriosa. L'identificazione prese piede sia da immagini che lo raffiguravano coronato da una luna crescente e forse anche dall'immagine molto frequente e diffusa sulle monete che lo ritraeva con le corna di ariete simbolo di Amon o anche con lo scalpo di elefante con le zanne rivolte verso l'alto a ricordare le sue campagne indiane? D'altra parte anche la Bibbia lo ricorda all'inizio del libro dei Maccabei con parole solenni e impressionanti. E stupisce anche la descrizione che i cronisti sia cristiani che arabi fanno di Alessandria come di una città delle meraviglie con centinaia di palazzi e teatri, colonnati di marmo, bagni, nonostante i terribili danni subiti da invasioni, guerre, catastrofi naturali, lotte intestine. D'altra parte il destino di Roma e anche di Bisanzio-Costantinopoli-Istanbul non fu molto dissimile. Le grandi città che continuano a vi vere attraverso i secoli e i millenni continuano anche a riciclarsi. I materiali dei monumenti antichi vengono reimpiegati in forme spesso non meno impressionanti degli originali smantellati. Le chiese e le basiliche cristiane avevano sostituito o trasformato i templi degli dèi, poi il paesaggio era di nuovo cambiato con moschee e minareti che svettavano sulla città che si andava però sempre riducendo di dimensioni con il passare del tempo. La nuova capitale era diventata il Cairo, il commercio (soprattutto esportazione di grano) con l'impero bizantino che le aveva garantito una certa prosperità ora languiva e l'area urbana si riduceva mano a mano entro una nuova e più ristretta cinta di mura fatta
costruire dal sultano Ibn Tulun nel Nono secolo. La città aveva perso gradualmente di importanza durante la sua lunga storia pur con periodi di relativa prosperità e non aveva mai più raggiunto le dimensioni e lo splendore della capitale dei Tolomei, anche se l'Egitto, con l'avvento al potere di Ibn Tulun, conobbe una certa ripresa essendosi liberato dal pesante tributo al califfato abbaside. Con il periodo di stabilità e di pace che venne a determinarsi anche la cultura ebbe modo di svilupparsi e le memorie del passato greco-romano ripresero vigore. Fraser cita una lista delle moschee di Alessandria opera di Abdul Hakim da cui risulta esistere una moschea di Du el Qarnayn nei pressi della porta della città. Una notizia ripresa verso la metà del secolo successivo da Al Massoudi. Proprio questo scrittore ci sorprende con un racconto che sembra la contaminazione della testimonianza di Strabone da noi più volte citata su Tolomeo Undicesimo. Secondo lo scrittore arabo Alessandro morente avrebbe chiesto a Tolomeo di inviare il suo corpo alla madre che stava ad Alessandria. Costei, quando ebbe visto il sarcofago d'oro, lo fece sostituire con uno di marmo per timore che il prezioso sepolcro attirasse la cupidigia di predoni e invasori e il corpo fosse di conseguenza profanato. Fece poi deporre il sarcofago su un basamento di blocchi di marmo che al suo tempo, cioè nel 954 d.C., era ancora visibile e veniva chiamato "la tomba di Alessandro". Alessandro è ormai inglobato nella cultura musulmana come un natii, ossia un profeta o comunque un grande uomo che può stare a petto degli altri grandi profeti del Libro, Gesù incluso. D'altra parte ad Alessandria erano ancora presenti delle vivaci comunità ebraiche e greche, anche se l'élite bizantina aveva abbandonato la città con le sue proprietà quando si era avvicinato l'esercito di Amr ibn al As nel settembre del 642 d.C. E c'erano i giacobiti, ossia cristiani copti che ancora oggi esistono in Egitto e sono considerati sostanzialmente i discendenti della popolazione indigena del paese. La città aveva una tradizione plurisecolare di convivenza non sempre pacifica fra diverse etnie e religioni, ma è comunque comprensibile una contaminazione-assimilazione di differenti tradizioni culturali. Ciò che colpisce è la forza con cui il mito di Alessandro e della sua tomba sopravvissero a ogni tipo di rivolgimenti e di calamità, mentre non è detto che la collocazione di questa moschea marcasse necessariamente il luogo della sua antica tomba. E questo non è l'unico accenno. Un'altra notizia dell'esistenza della tomba di Alessandro ad Alessandria è riportata in un'opera scritta in italiano da un arabo, un personaggio straordinario e pittoresco le cui fattezze sembra siano state ritratte da Sebastiano del Piombo: Della descrizione dell'Africa e delle cose notabili che quivi sono per Giovan Lioni Africano, pubblicato da Ramusio a Venezia nel 1550. Nato in Spagna, subito dopo la fine del califfato di Granada, migrò con i genitori in Marocco, poi viaggiò con vari incarichi nell'Africa sahariana, poi nel Maghreb, in Arabia, finché non fu catturato da una nave spagnola e condotto in Italia dove fu tenuto prigioniero a Castel Sant'Angelo. Come Giuseppe nelle prigioni del faraone, il nostro avventuroso personaggio fece pervenire la fama della propria dottrina fino alla corte pontificia dove, saputo della sua grande esperienza il papa Leone Decimo lo volle conoscere e poi battezzare in San Pietro nel 1520 imponendogli il proprio stesso nome. In quest'opera Leone dichiara che in mezzo alla città di Alessandria fra altre rovine c'è una piccola casa con una cappella che contiene una tomba in cui sta sepolto Alessandro il Grande, profeta e re. E che la tomba è visitata da una moltitudine di viaggiatori da ogni parte. Altri due viaggiatori, C. Marmol e G. Sandys, fra la metà del Sedicesimo e l'inizio del Diciassettesimo secolo ricordano la stessa cappella in cui sarebbe la tomba di Alessandro, forse sulla base si direbbe di Leone Africano. Marmol ne parla subito dopo aver descritto una chiesa di San
Marco ma senza metterle in relazione una con l’altra. L'annotazione è comunque interessante perché San Marco è in qualche modo l’ecista sostituto della città in quanto a lui si attribuiva la fondazione della Chiesa di Alessandria e se ne indicava la sepoltura nella sua basilica. Di là, nel corso del Nono secolo le sue spoglie sarebbero state avventurosamente "traslate", come recita l'eufemismo edificante, da due mercanti veneziani "sulla loro isola" nella basilica che ancora porta il suo nome. La nuova fondazione, quella della rinascita nella fede e nel messaggio evangelico doveva sostituire quella del fondatore fisico della città, il cui fantasma continuava però a ripresentarsi di tanto in tanto fra i quartieri e i ruderi di Alessandria. La "tomba" di Abdul Hakim risultava nei pressi di una Porta, quella di Leone nel mezzo della città fra le rovine, e pertanto non dovevano essere la stessa cosa. Evidentemente il tema della tomba perduta del grande sovrano e profeta affascinava ancora e diffondeva fra la gente dicerie di ogni genere. Una di esse sarebbe divenuta particolarmente famosa perché riguardava un antico sarcofago egizio di breccia verde coperto di geroglifici riciclato forse come vasca per le abluzioni all'interno della moschea Attarine che sorgeva sul sito dell'antica chiesa di Sant'Atanasio. Per qualche motivo che ignoriamo (a meno di non pensare al racconto di Al Massoudi che parlava di un sarcofago d'oro sostituito dalla regina Olimpiade con uno di marmo), fra i musulmani che frequentavano la moschea si era diffusa la convinzione che lo aveva attribuito al più famoso fra i personaggi della città: il suo fondatore. La storia dovette prendere piede tanto che altri visitatori la videro e la descrissero, anche se nessuno, a quello che consta, ne ha dato descrizione come di una vasca per le abluzioni. La notizia che nella moschea Attarine c'era la tomba di Alessandro si diffuse anche in Occidente, cosicché molti cercarono di vederla suscitando anche la diffidenza delle autorità locali che finirono per proibire l'ingresso ai non musulmani. Con l'avvento del secolo dei lumi le notizie che riguardavano così importanti reperti del passato affascinavano le intelligenze, la semplice curiosità del viaggiatore per gli aspetti esotici e misteriosi diventava sempre di più qualcosa di simile alla curiosità scientifica. Quando l'inglese William Browne vide e descrisse il sarcofago nel 1792, in Italia erano già cominciati da quasi mezzo secolo, anche se in forma non scientifica e principalmente allo scopo di recuperare oggetti preziosi, gli scavi di Pompei per ordine del re di Napoli Carlo di Borbone. Di lì a sei anni con la campagna napoleonica dell'Egitto sarebbe nata l'Egittologia moderna e poco più di vent'anni dopo Champollion avrebbe decifrato il geroglifico della stele di Rosetta. È quindi verosimile che i visitatori europei di Alessandria in quel periodo si rendessero perfettamente conto che ciò che si diceva sulla tomba di Alessandro e sulle sue possibili collocazioni erano soltanto storie prive di fondamento. E la ragione principale di tutto ciò era che il mondo antico era morto con l'affermazione definitiva del cristianesimo come religione di stato e poi con l’avvento dell'Islam in Nord Africa, per cui ogni trasmissione diretta delle tradizioni era di fatto impossibile e la memoria storica intesa come patrimonio culturale che spontaneamente passa di generazione in generazione era da secoli estinta. Quanto al sarcofago di breccia verde della moschea di Attarine, si deve probabilmente riconoscere nella menzione che ne fa uno studioso ed esploratore scozzese, Richard Pococke, che in una sua relazione ricorda che i musulmani pensano di custodire il corpo di Alessandro Magno in una moschea di Alessandria 9 Se Pococke riferisce sostanzialmente delle dicerie, alcuni decenni più tardi altri studiosi prendono il discorso molto sul serio fino a ritenere che la moschea Attarine fosse in realtà il soma di Alessandro. Altri ancora credettero di riconoscerlo nelle rovine del Serapeo, sulla base forse di una fonte
copta che ricordava una grande colonna che reggeva la sua statua e che qualcuno pensava di riconoscere nella cosiddetta colonna di Pompeo, in realtà innalzata da Diocleziano e ancora esistente. Secondo questa testimonianza Alessandro era seppellito in un sarcofago che recava inciso il suo nome da cui si può forse pensare alla contaminazione di due versioni, quella del Serapeo e quella del sarcofago di breccia della Attarine, che fu finalmente visto e studiato con l'attenzione necessaria una volta che Napoleone fu sconfitto ed esiliato e gli inglesi prepararono il suo trasporto al British Museum dove tuttora si trova. Della cosa venne incaricato Edward D. Clarke che si recò ad Alessandria poco dopo la sconfitta della flotta francese ad Aboukir. Il racconto di Clarke esposto in un libro che pubblicò nel 1805 è affascinante. Appena arrivato fu accompagnato all'interno della moschea Attarine, detta anche moschea di Sant'Atanasio dalla prima consacrazione dell'edificio. Il minareto con la sua forma prima esagonale, poi quadrangolare e infine cilindrica sembrava riecheggiare il Faro; all'interno, in un angolo del vasto porticato moresco, sorgeva un piccolo santuario quadrangolare dagli angoli smussati (per cui c'è chi lo considera esagonale) sormontato da una cupola e con quattro aperture ad arco moresco su ciascuno dei quattro lati. Clarke venne subito avvicinato dai notabili locali che gli espressero tutto il loro entusiasmo nel poter servire gli inglesi dopo la sconfitta di Napoleone e gli fecero presente che i francesi avevano la tomba di Alessandro che prima stava all'interno del santuario e chiesero se lui si stesse interessando a questa cosa. Clarke rispose di sì, che anzi quello era proprio lo scopo del suo viaggio. A quel punto gli dissero che sapevano esattamente dove i francesi lo avevano nascosto dopo averlo sottratto al santuario. Si trovava su una nave ospedale all'interno del bacino portuale. Clarke prese una barca e raggiunse la nave: il sarcofago era là, pieno di sporcizia e coperto dagli stracci dei malati che stavano a bordo. Quando finalmente Clarke poté contemplarlo nella sua imponenza ne fu profondamente impressionato. Nessuna meraviglia che potesse essere creduto quello di Alessandro: era splendido, di breccia verde, pesante sette tonnellate, coperto di geroglifici, arrotondato dal lato della testa e purtroppo trapanato da dodici fori nella parte inferiore. I suoi accompagnatori gli dissero che la cosa era praticamente certa, che da molto tempo venivano in visita molti viaggiatori e pellegrini da ogni parte del vicino oriente, dall'Anatolia e finanche da Costantinopoli, per contemplare il sepolcro. Il sarcofago diventò proprietà inglese secondo una clausola del trattato francobritannico del 1802; recuperato e restaurato fu inviato al British Museum. Clarke pubblicò The Tomb of Alexander che riscosse molto interesse, dove identificava il complesso della moschea come il soma e la cappella centrale con il sarcofago come il sepolcro vero e proprio. Ora, mentre è stato giustamente osservato che la piccola casa in forma di cappella descritta da Leone Africano era la stessa cosa del santuario che conteneva il sarcofago di breccia verde della moschea Attarine, gli argomenti portati da Clarke non convinsero gli studiosi perché si basavano prevalentemente sulle testimonianze e le affermazioni che l'autore raccolse sul luogo. In ogni caso il sarcofago avrebbe riservato comunque una sorpresa e costituito un enigma quando, di lì a poco, la stele di Rosetta e la decifrazione del geroglifico avrebbe consentito di leggere il testo inciso sulle sue pareti.
12° IL FARAONE SCOMPARSO
Nel 1822 Jean François Champollion pubblicò la decifrazione della scrittura geroglifica, impresa resa possibile dalla consapevolezza che il copto non era altro che la trascrizione greca dell'antico demotico, che a sua volta era una forma semplificata della scrittura ieratica (geroglifico), un paradigma che poté essere verificato appieno con la scoperta dell'iscrizione della stele di Rosetta (anch'essa consegnata al British Museum) redatta in tre diversi linguaggi: il geroglifico, il greco e il demotico. Nasceva così l'Egittologia scientifica, che in capo a pochi anni conobbe uno sviluppo straordinario grazie anche al gran numero di specialisti e di studiosi che avevano seguito Napoleone nella sua spedizione egiziana. Fu così possibile tradurre il testo inciso sul sarcofago della moschea Attarine e scoprire che si trattava del sepolcro di Nectanebo Secondo, l’ultimo faraone indigeno dell'Egitto, sconfitto dai persiani di Artaserse Terzo Ocho nel 343 a.C. e scomparso misteriosamente. Il suo nome era in qualche modo collegato alla saga di Alessandro tramite un mito elaborato e diffuso in area alessandrina e confluito nelle pagine dello Pseudo Callistene che narrava gli eventi miracolosi connessi alla nascita di Alessandro. Il faraone, come già abbiamo raccontato, sotto le mentite spoglie del dio Amon, si era congiunto alla regina Olimpiade che aveva concepito il conquistatore del mondo. L'identificazione del sarcofago destò stupore perché dalle fonti risultava che il faraone sconfitto era fuggito prima a Menfi, poi di là si era rifugiato nell'Alto Egitto e quindi in Nubia dove se ne erano perse definitivamente le tracce. Lo stesso Fraser considerò il problema di interpretazione costituito da un sarcofago di quell'importanza e di quelle dimensioni ad Alessandria e per giunta costruito per un faraone che, stando alle fonti, non vi era mai stato seppellito e inoltre collegato al mito sia pure tardo, della nascita di Alessandro. Poteva essere forse stato utilizzato per seppellirvi lo stesso Alessandro? La cosa era stata presa in considerazione dal Wace, il quale pensava che Rakhotis, la città che preesisteva ad Alessandria e ne diventò in seguito il quartiere egiziano, fosse abbastanza importante da ospitare la sepoltura di Nectanebo Secondo, e che quando il faraone si perdette nell'Alto Egitto e in Nubia avrebbe potuto essere utilizzato per la sepoltura di Alessandro, fatto dal quale deriverebbe la tradizione collegata alla moschea Attarine. Fraser tuttavia respinse sia l'una che l'altra possibilità: non c'erano ragioni per cui Nectanebo Secondo fosse sepolto a Ralchotis e men che meno un simile sarcofago avrebbe potuto essere usato per Alessandro. D'altra parte la grandiosità e bellezza del manufatto e le sue imponenti dimensioni proprio per le premesse stabilite da Fraser escludono anzitutto che si fosse sempre trovato dove lo vide Clarke e prima di lui anche altri viaggiatori. Ciò, come è stato giustamente osservato, avrebbe comportato, prima della fondazione di Alessandria, addirittura l'esistenza di una necropoli reale in un centro periferico come Rakhotis. Poiché questo era chiaramente impossibile il sarcofago di Nectanebo doveva essere stato portato appositamente ad Alessandria e con un trasferimento non di poco conto dato il peso esorbitante del manufatto. Ma per chi e da chi? Come abbiamo già ricordato, Chugg non ritiene impossibile che in fin dei conti il sarcofago, mai usato dal faraone per cui era stato costruito, sia stato impiegato in effetti per il corpo di Alessandro nel suo temporaneo soggiorno menfitico. La presenza nella zona del Serapeo di statue greche e di due leoni scolpiti alla maniera greca (simboli di regalità) sembrerebbe confermare questa ipotesi, e il sarcofago avrebbe potuto trovare posto in una camera laterale del santuario funebre di Nectanebo, scavato da Auguste-Edouard Mariette, il fondatore del Museo egizio del Cairo e del Servizio delle Antichità. Inoltre questo accostamento avrebbe potuto ispirare la favola della paternità egizia di Alessandro. Si suppone quindi che successivamente il corpo di Alessandro, da Menfi dove era rimasto sepolto due o tre anni, sarebbe giunto fino ad
Alessandria dentro a una bara pesante sette tonnellate la cui estrazione dal primitivo mausoleo sarebbe stata operazione decisamente impegnativa. A parte la poca praticità di un simile trasporto, resta il fatto che dovremmo dimenticare ciò che dice Strabone, e cioè che al tempo di Tolomeo Undicesimo Kokkes il corpo del sovrano macedone riposava ancora nello stesso sarcofago d'oro massiccio in cui aveva viaggiato da Babilonia, e che solo allora fu deposto in un più economico sarcofago di alabastro. Una cosa è certa: un trasporto così complesso non fu fatto per nulla e sicuramente fu utilizzato o per una sepoltura reale o per qualche altro scopo di non minore importanza. D'altra parte il sarcofago di breccia verde era da tempo avulso dal suo contesto originale quando fu recuperato da Clarke, quindi avrebbe potuto provenire da luoghi e situazioni che possiamo solamente circoscrivere, con una certa approssimazione, alla necropoli reale del Lochias. Il solo collegamento alla leggenda di Nectanebo e Olimpiade e a una diceria locale di matrice islamica, vecchia al massimo di due o tre secoli, non è sufficiente per una attribuzione di tale importanza. Una prima possibilità è, a nostro avviso, che il sarcofago sia stato trasportato ad Alessandria per servire da sepoltura a qualche importante personaggio, ma difficilmente per un re che ne avrebbe perso in prestigio. Più probabilmente per servire da ciò che in realtà era: un cenotafio in memoria dell'ultimo sovrano dinastico della terra del Nilo, dell'ultimo faraone che si era battuto con tutte le forze contro il nemico invasore e meritava di essere ricordato. Portare il suo sepolcro ad Alessandria avrebbe potuto essere un altro modo per la nuova dinastia venuta da un paese lontano di legittimare il proprio potere e legare per sempre il proprio destino alla terra del Nilo. Con l'inizio dell'Egittologia e delle prime esplorazioni scientifiche si scatenò un'autentica caccia al tesoro in ogni angolo del paese. Pochi erano gli scienziati mentre pullulavano personaggi pittoreschi: predoni, sensitivi, appassionati di magia, cacciatori di tombe e di tesori, che si muovevano in lungo e in largo su incarico dei musei europei e in seguito di quelli americani, e anche di singoli privati ansiosi di arricchire le proprie collezioni di antichità. Uomini come Giovanni Battista Belzoni, un gigante italiano che si esibiva nei circhi in prove di forza, giunto in Egitto per vendere una pompa idraulica di sua invenzione al khedivé del Cairo e divenuto invece il più grande esploratore di antichità del suo tempo, eccitavano la fantasia popolare. Non c'erano regole allora, non c'erano strutture pubbliche di protezione del patrimonio archeologico e ognuno poteva fare più o meno ciò che voleva. Nei primi anni dell'Ottocento Lord Elgin era riuscito a smontare l'intero fregio di scuola fidiaca della cella del Partenone con la processione delle panatenee e a portarlo a Londra. Si cercò addirittura di smantellare l’Eretteo per rimontarlo sempre nella capitale inglese, e per poco non subì la stessa sorte il bassorilievo dei leoni sulla porta nord di Micene. L'imperialismo europeo poteva permettersi quasi tutto, e infatti interi monumenti furono smontati e trasportati a migliaia di chilometri di distanza per essere esposti nei musei: basti pensare all'Altare di Pergamo e alla Porta di Ishtar di Babilonia rimontata oggi al Pergamon Museum di Berlino, ai fregi e ai rilievi frontonali del tempio di Atena Aphaia di Egina ora al Museo di Monaco di Baviera. Perpetrarono dei furti e degli arbitrii inconcepibili ai nostri giorni, ma in molti casi salvarono la memoria di momenti irripetibili della nostra civiltà che sarebbero altrimenti andati perduti. Gran parte di questa passione si rivolgeva all'Egitto faraonico per cui Alessandria rimase in un certo senso più nell'ombra, ma non il mito del suo fondatore. L'interesse per la sua tomba si concentrò a quel punto sulla moschea di Nabi Daniel distante dalla Attarine cinque o seicento metri in linea d'aria e in direzione sud-est e posta sul lato ovest dell'altura di Kom el Demas (poi Kom el Dick): "la collina dei corpi" o "delle sepolture", un toponimo
indubbiamente suggestivo . Nabi Daniel significa "profeta Daniele" e pertanto viene spontaneo collegarlo con il noto personaggio biblico che visse con il suo popolo in Mesopotamia durante l'esilio babilonese seguito alla distruzione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor nel 587 a.C. In realtà le imprese attribuite dalla tradizione al personaggio sepolto nella moschea in una sorta di camera ipogea sono tali che non può corrispondere al profeta dell'esilio d'Israele. Le vicende del supposto Nabi Daniel ci sono pervenute tramite il racconto di due astronomi arabi del Nono secolo d.C., al Farghani e Abu Mashar. Secondo loro Nabi Daniel aveva conquistato l'Asia e fondato Alessandria, il che lo farebbe indubbiamente coincidere con Alessandro, tanto più che il racconto ha a che fare con la sua sepoltura e sembra un'altra contaminazione del passo di Strabone su Tolomeo Undicesimo. Nabi Daniel, come Alessandro, sarebbe stato sepolto in un sarcofago d'oro che poi gli ebrei avrebbero sostituito con uno di pietra usando il metallo per fare delle monete. Anche Ventesimo usò il sarcofago per coniare monete d'oro con cui pagare i mercenari e se si eccettua il particolare degli ebrei, tradizionale bersaglio della xenofobia in Alessandria, in qualunque epoca il racconto sembra coincidere molto bene con quello di Strabone, come peraltro il racconto di Al Massoudi che già abbiamo citato. Ovviamente non si può pensare che una semplice tradizione orale si sia perpetuata per tanti secoli e l'unicità della notizia di Strabone esclude che vi siano di mezzo altre fonti a noi note. Non resta che ritenere con Saunders che durante il Medioevo Strabone sia stato conosciuto in Oriente molto prima che in Occidente, dove poté essere letto solo nel Rinascimento insieme ad altri importanti testi della classicità greca. Non sono molti in effetti gli elementi che legano la moschea di Nabi Daniel ad Alessandro, a parte la posizione vagamente nel centro della città e il ricordo di una preesistente "chiesa di Alessandro"; vista l'impossibilità assoluta per il profeta Daniele di essere mai stato ad Alessandria, che ai suoi tempi non esisteva, sembrerebbe più probabile che si sia trattato di un sant'uomo di questo nome proveniente da Mosul, che fondò una scuola coranica in quel luogo dove poi sarebbe stato seppellito e dove è ancora visibile il suo sarcofago coperto da un panno verde. È stato anche messo in relazione il toponimo di Kom el Demas ("collina dei corpi") con il soma (corpo) di Alessandro, ma anche qui la connessione è troppo debole e vaga. Di fatto l'equivoco potrebbe essere nato da quanto attestava Leone Africano che ricordava i molti pellegrini che si recavano sulla tomba del grande conquistatore che sorgeva nei pressi della chiesa di San Marco. Le interpretazioni ottocentesche di questa testimonianza tenevano quindi conto della presenza di una chiesa copta di San Marco a pochissima distanza da Kom el Dick e dalla moschea di Nabi Daniel. Per confermare l'identificazione del sito, che peraltro anche topograficamente non coincide con l'antico grande incrocio fra la via Canopica e la R1 e con la figura di Alessandro, si è inventato di tutto, persino che sia il profeta Daniele sia il sovrano macedone fossero ambedue morti ad Alessandria. Eppure, nonostante la confusione degli indizi, la vaghezza dei collegamenti, l'imprecisione topografica l'ipotesi radicò al punto da convincere studiosi seri e reputati a considerare Nabi Daniel come il luogo della tomba di Alessandro ancora nel Ventesimo secolo. Fra essi l'archeologo italiano Annibale Evaristo Breccia, direttore del Museo greco-romano di Alessandria d'Egitto dal 1904 e accademico dei Lincei, e l'ingegnere e topografo egiziano Mahmoud Bey el Falaki, autore per conto dell'imperatore Napoleone Terzo di una mappa dell'antica Alessandria che godette di grande considerazione. A maggior ragione si può immaginare quanto si siano fatti suggestionare gli ingenui da ciarlatani e avventurieri. Famoso l'episodio di Ambrose Schilizzi, dragomanno del consolato russo di Alessandria che pare
facesse la guida ai visitatori della città nel suo tempo libero. La parola dragomanno viene dal turco targiuman che significa "interprete" e con essa si indicavano le persone che prestavano servizio nelle ambasciate straniere facendo da tramite con le autorità locali in virtù della loro conoscenza della lingua araba. Ora questo Schilizzi (o Skilitzi) intorno al 1850 dichiarò a certi visitatori europei di essere sceso nei sotterranei della moschea di Nabi Daniel e di essersi trovato a un certo momento davanti a una porta tarlata e di aver sbirciato nell'interno. Ciò che aveva visto lo aveva letteralmente paralizzato per la meraviglia: davanti a lui stava il corpo di un uomo assiso in trono dentro a una teca di cristallo. Portava un diadema sul capo e tutto attorno era pieno di rotoli di papiro. Schilizzi avrebbe voluto condurre a termine la sua esplorazione, ma ne venne impedito dai religiosi che custodivano la moschea. Un racconto molto meno bislacco di quanto non sembri: Chugg ha giustamente fatto osservare che l'uomo era decisamente colto e la sua visione si basava sulla contaminazione di Strabone (la teca di cristallo -yaline), di Svetonio (la corona posta da Augusto sul capo della mummia di Alessandro) e di Dione Cassio per l'episodio di Settimio Severo che rinchiuse (se così si vuole interpretarlo) tutti i libri proibiti e di magia dentro la tomba di Alessandro. Va dato atto al dragomanno di aver voluto almeno vendere una storia culturalmente accettabile e quasi credibile per chi avesse letto le fonti. In realtà la moschea era troppo a sud e troppo a ovest per potersi candidare come punto di riferimento per il soma di Alessandro. Ma i miti sono duri a morire, e benché questo fosse al massimo di origine medievalerinascimentale per molti anni ancora vi furono avventurieri ma anche uomini di scienza e fior di accademici che si misero alla ricerca della tomba perduta fra Nabi Daniel e Kom el Dick. Perfino il grande Schliemann, lo scopritore della civiltà micenea e della rocca di Ilio, sbarcò nel porto grande nel 1889 con il preciso intento di trovare la tomba di Alessandro. Purtroppo i primi saggi furono deludenti: il piccone di Schliemann intercettò solo resti di età romana e siccome le pratiche per le concessioni di scavo di altri siti andavano per le lunghe piantò tutto e se ne andò. L'anno dopo sarebbe morto a Napoli colto da un malore mentre camminava per le vie della città pensando ai suoi prossimi scavi. I successi clamorosi a cui si era abituato o forse il presagio di una fine imminente dovevano averlo reso impaziente e ogni intoppo doveva sembrargli una perdita di tempo insopportabile. Quelli furono anni irripetibili per Alessandria. Al tempo dello sbarco di Napoleone la città era ridotta a un villaggio di pescatori di cinque-seimila abitanti, quasi tutti raggruppati sull'istmo che si era creato con i sedimenti che avevano inglobato l’Eptastadion. Il resto della città si sarebbe potuto scavare senza problemi essendo in stato di quasi totale abbandono; in particolare la zona del promontorio Lochias e dei palazzi appare quasi del tutto sgombra nella mappa napoleonica del 1798 . In realtà qualcosa si fece, ma in scala ridotta e senza risultati particolarmente eclatanti. Non mancarono invece nei decenni successivi le polemiche fra gli archeologi e particolarmente fra i topografi: nel 1895 David George Hogarth ed Edward Frederick Benson della Scuola archeologica britannica di Atene stabilirono che la carta di Alessandria redatta da Mahmoud Bey non era affidabile e contestarono la collocazione e il tracciato della via Canopica che invece venne confermato dai successivi sondaggi di Freddrich Noack nella zona orientale dell'antica città. Le cose sarebbero cambiate (ma solo fino a un certo segno) con la costituzione del Museo greco-romano della città in cui giocarono un ruolo importante gli archeologi italiani. Purtroppo a quel tempo siamo ormai ai primi del Novecento la città era già cresciuta di quasi dieci volte rispetto alle sue dimensioni in epoca napoleonica. Molte informazioni e testimonianze fondamentali erano perdute per sempre.
13° CACCIATORI DI TOMBE
Schilizzi non fu certo il solo né l'ultimo ad affermare di aver scoperto la tomba di Alessandro, anzi si può dire che i cercatori di tombe si moltiplicarono senza sosta soprattutto nel secolo successivo. Un altro famoso mistificatore fu un tale Joannides, greco di Alessandria, che dichiarò di aver scoperto nella necropoli di Shatby sia la tomba di Alessandro sia quella di Cleopatra, rispettivamente a una profondità di sedici e di dodici metri, e le aveva descritte: porte di bronzo con inciso in greco il nome di Alessandro, sarcofago con piedi a zampa di leone, papiri (forse qui era influenzato dalla narrazione di Schilizzi?) e una quantità di preziosi. La notizia fu pubblicata sui giornali, ma tutto finì in una bolla di sapone. Fra l'altro il luogo del presunto ritrovamento era completamente fuori dalla cerchia delle mura tolemaiche. Il fenomeno comunque è ben spiegabile: la presenza di Alessandro era di gran lunga l'elemento fantastico più potente nella città da molto tempo periferica e di importanza limitata ed era tale da eccitare la fantasia della gente. Le dicerie, le favole prese per verità, il gusto del narrare e dell'ascoltare, il sogno di mettere le mani su un favoloso tesoro o di divenire famosi per aver fatto la scoperta del secolo facevano il resto. Fino a pochi decenni fa non c'era villaggio si può dire in Europa dove non si raccontassero storie di tesori sepolti, di passaggi segreti, di castelli infestati da fantasmi. La narrazione, la consolidata tradizione popolare conferivano poi al racconto un crisma di autenticità o quanto meno di probabilità. In un luogo così carico di memorie come Alessandria il fenomeno si moltiplicava a dismisura. Purtroppo il pullulare di tanti cacciatori di tombe dilettanti finì per gettare discredito sull'oggetto stesso delle ricerche, un po' come accade adesso per certi feticci mistericoarcheologici come il Graal o il tesoro dei Templari. Nondimeno anche uno studioso illustre come Annibale Evaristo Breccia, divenuto direttore del Museo greco-romano di Alessandria a soli ventotto anni, si lasciò affascinare dalla tradizione) e ritenne che il soma di Alessandro si dovesse cercare sotto la moschea di Nabi Daniel. Breccia non era un ingenuo, tutt'altro: scavando a Ossirinco fu protagonista di scoperte straordinarie come i frammenti dei papiri degli Aitia di Callimaco, di Eschilo e delle famose Elleniche di Ossirinco, un'opera del cui autore ancora si ignora l'identità, ma che si rivelò importante per capire alcuni momenti della storia greca. La collocazione del soma di Alessandro sotto la moschea di Nabi Daniel aveva comunque alcuni elementi a favore. Si trovava nelle vicinanze di Kom el Dick, un tumulo che sorgeva al centro della città, già spianato al tempo di Adriani e che quindi poteva coincidere con l'indicazione di Zenobio (.. µ... t.p.e.), "in mezzo alla città"). Nei pressi doveva esserci un'altra piccola altura, Kom el Demas ("la collina dei corpi"), il cui nome faceva pensare che fosse luogo di sepolture e quindi indicativo della presenza del µ..µa, il "memoriale" in cui Tolomeo 4° Filopatore aveva riunito le sepolture di sua madre Berenice, dei suoi predecessori e dello stesso Alessandro. Ma c'è la possibilità che i due tumuli Kom el Dick e Kom el Demas fossero in realtà uno solo o che se ne confondessero i nomi nelle antiche cronache con una certa facilità. Inoltre poneva in relazione il toponimo di Kom el Demas con il nome di un'antica chiesa chiamata Daymas dove si diceva fosse stato trovato un tesoro dell'epoca di Alessandro. Nelle vicinanze c'era la chiesa copta di San Marco che si faceva corrispondere a una più antica chiesa dell'Evangelista, che il Marmol in qualche modo metteva in relazione con la tomba di Alessandro; a questo
profeta Daniele si attribuivano nella tradizione islamica azioni proprie di Alessandro-Du-el-Karnayn, come la conquista dell'Asia e la fondazione della città. Il tumulo poi ricordava il monte artificiale di Lucano sul quale già ci siamo soffermati, e infine c'era una quantità di testimonianze "oculari" come quella di Ambrose Schilizzi e numerosi altri fra cui addirittura lo stesso Mahmoud Bey, che sarebbe disceso nei sotterranei della Nabi Daniel e avrebbe visto dei corridoi che conducevano alla tomba di Alessandro. Anche a lui prima che a Schilizzi i custodi della moschea avrebbero proibito di condurre a termine la sua ricerca. Tanto comunque era bastato a Breccia per affermare con sorprendente sicurezza che Kom el Dick era il luogo della sepoltura di Alessandro e che le strutture sotterranee della moschea di Nabi Daniel corrispondevano a quelle delle tombe macedoni. Per quanto riguarda l'associazione della chiesa di San Marco con Kom el Dick o el Demas, A.M. Chugg ritiene invece che si fosse trattato di un abbaglio. La chiesa di San Marco non poteva essere nei pressi di Nabi Daniel o di Kom el Dick e Marmol doveva invece essersi riferito alla moschea Attarine che conservava il sarcofago di Nectanebo Secondo. In realtà la chiesa di San Marco di cui si parlava doveva trovarsi più a est, vicino alla Porta di Rosetta, dove la collocava la mappa cinquecentesca di Braun e Hogenberg di cui l'autore dà una riproduzione da uno dei pezzi della sua straordinaria collezione privata. Subito dietro le mura si vede infatti la sagoma inconfondibile di una chiesa cristiana con un campanile sul fianco destro che reca la scritta: sub hoc lapide corpus sancti Marci inventum et Venetia est delatum, "sotto questa pietra è stato trovato il corpo di San Marco e portato a Venezia". Pare strano l'errore del nome Venetia in ablativo anziché in accusativo, a meno che il segno dopo la "a" finale simile a due punti non si debba leggere come una "m". L'osservazione di Chugg, come vedremo, è foriera di una ipotesi tanto audace quanto stupefacente. Dall'altra parte della cinta muraria riprodotta nella mappa si legge la scritta Porte du Caire, "Porta del Cairo", ossia Porta di Rosetta. Il meccanismo intellettuale per cui qualunque nuova ipotesi tende a coagularsi attorno a una tradizione consolidata somiglia al principio della gravitazione per cui un corpo di massa sufficientemente grande tende ad attrarre tutti i corpi più piccoli che intersecano la sua orbita e distaccarsene diventa sempre più arduo. Adriani riporta inoltre una serie di altre testimonianze che in una diversa situazione non avrebbero avuto il minimo peso e che invece contribuirono a rafforzare l'ipotesi che la moschea di Nabi Daniel nascondesse la tomba di Alessandro. Si diede importanza perfino all'osservazione di un operaio che era stato incaricato di certi lavori di restauro nei sotterranei della moschea, il quale aveva affermato che le gallerie sotterranee erano di età antica e pagana. Una considerazione quanto mai vaga e di poco senso. La tradizione sarebbe poi continuata con altri pittoreschi personaggi praticamente fino ai nostri giorni, quando è ancora possibile calarsi nel sotterraneo della moschea e visitare parte delle cavità che si dipartono dal mausoleo. Il più famoso di questi cacciatori di tombe è senza dubbio Stelios Komoutsos, un cameriere dell'Elite café bar di Alessandria che nel 1956 iniziò una instancabile e appassionata ricerca della tomba di Alessandro e la continuò caparbiamente per quasi tutta la vita, essa stessa un romanzo. Il suo convincimento si basava su un libro che affermava di aver ereditato e che lui chiamava Il libro di Alessandro. Da questo libro egli dichiarava di essere in grado di identificare la tomba del sovrano macedone. La notizia dilagò sui giornali ed ebbe una tale risonanza che le autorità furono costrette quasi a furor di popolo a concedergli un paio di volte permessi di sondaggi di scavo che finanziava con il suo lavoro e le mance che molti avventori gli elargivano per simpatia e che mai approdarono ad alcunché. Nel 1961
Komoutsos incontrò finalmente nel suo caffè il professor Peter Fraser, il cui lavoro è tuttora la miglior base di partenza per chiunque voglia addentrarsi in un problema di topografia dell'antica Alessandria, inclusa la ricerca del soma, e gli mostrò finalmente il suo tesoro, il suo Libro di Alessandro. Seduti a un tavolino erano testa a testa il luminare di Oxford e il cameriere, l'instancabile cercatore della tomba, sorbendo una tazza di tè. Il grande studioso si aspettava di poter trattenere presso di sé il libro ed esaminarlo con la dovuta attenzione e per il tempo necessario, ma Komoutsos era molto geloso del suo tesoro e glielo lasciò appena sfogliare. Ci volle poco a Fraser per rendersi conto che il libro era una volgare e grossolana contraffazione, un'accozzaglia di elementi incongruenti ispirati a iscrizioni già note agli studiosi, forse addirittura false esse stesse, e a temi iconografici malamente imitati, e pubblicò un articolo$ in sede scientifica per sgombrare il campo da ogni dubbio sull'autenticità del supposto reperto. Si rese però anche conto che Komoutsos non era un imbroglione, ma piuttosto un ingenuo, e si sentì male a disilludere un uomo che inseguiva un sogno con tale totalizzante passione. Komoutsos comunque non si arrese e continuò inflessibile la sua ricerca sia per vie legali che clandestine. Jean Yves Empereur, che ha consultato gli archivi della soprintendenza alessandrina, ha trovato nel fascicolo ufficiale delle sue richieste di autorizzazioni ben 322 documenti a partire dal 1956. La sua passione e la sua fede incrollabile erano tali che in città divenne una specie di eroe popolare a prescindere dalla consistenza delle sue ipotesi e dai risultati ottenuti dalle sue ricerche, spesso basate su poco più che dicerie che raccoglieva fra i frequentatori del caffè in cui lavorava. In due casi identificò il sito della tomba in aree dove anticamente c'era il mare; esempio unico, commenta sarcastico Empereur che ha fatto soprattutto prospezioni sul fondo della baia, di tombe subacquee. Una volta che aveva circoscritto l'area della sua ricerca attorno alla chiesa copta di San Marco non lontano dalla moschea di Nabi Daniel di cui già abbiamo parlato, non potendo ottenere il permesso per fare un sondaggio s'introdusse nottetempo nel giardino del patriarcato e si mise a scavare al punto che il patriarca, allarmato da quell'attività notturna, dovette chiamare la polizia per scacciare l'intruso. In un racconto a lui attribuito si narrava di un tale Mohammed Aly el Toraby che da giovane aveva imboccato un corridoio sotto la moschea di Nabi Daniel che conduceva alla tomba di Alessandro e che, dopo aver vagato nel buio completo alla ricerca della tomba, era rimasto a letto tre giorni per riprendersi dalla paura. Era disposto a raccontare al direttore del Museo il passaggio segreto. Komoutsos proseguì la sua ricerca per tutta la vita senza mai ottenere il minimo risultato: ma forse il suo scopo non era di ottenere risultati, il suo scopo era la caccia stessa, la possibilità di coltivare l'illusione, forse addirittura la speranza che l'ombra di Alessandro avrebbe finito per guidarlo sul luogo dove il suo corpo giaceva, dove forse nessuno avrebbe mai immaginato di cercarlo. Morì nel 1991 in povertà dopo aver tentato di vendere gli appunti sulle sue ricerche in cambio di un piccolo vitalizio e una Mercedes. Stranamente neppure il suo nome sembra aver pace: Koumatsos per Saunders, Komoutsos per Chugg, Coumoutsos per Empereur, Kamoutsos per Adriani... Jean Yves Empereur, l'autore di uno dei più spettacolari salvataggi di reperti archeologici nella baia di Alessandria e nella zona del Faro, si è preso la briga, come abbiamo detto, di consultare gli archivi della Direzione delle Antichità scoprendo che vi erano state quindici richieste di scavo solo negli ultimi venticinque anni. Ha constatato che i fanatici di Alessandro erano un esercito fra cui figuravano operai, impiegati, persino un'infermiera. Un tale riferiva la scoperta fatta dal suocero: una cavità che portava a un corridoio rivestito di marmo. Il luogo era situato a un chilometro a est delle mura tolemaiche, ma evidentemente la cosa non
aveva la minima importanza. Non bisogna stupirsi. Mentre nessuno si sognerebbe mai di fare per diletto il neurochirurgo nel tempo libero o l'avvocato penalista o l’anatomo-patologo, moltissimi invece pensano di potersi improvvisare archeologi e tacciano di ottusità chi, abituato al rigore di un metodo, non è così pronto ad abbracciare la prima bislacca teoria che gli venga sottoposta, sia pure con entusiasmo. Fra il 1925 e il 1930 Breccia condusse una serie di sondaggi di scavo nella moschea e nelle sue immediate vicinanze e la pubblicazione delle sue campagne suscitò un enorme interesse nel mondo intero in quanto lo studioso era serio e tutti sapevano che cosa stava cercando. Nel 1931 fu costretto a lasciare il suo posto per motivi di salute e a interrompere le sue attività di scavo che peraltro si sarebbero rivelate deludenti. Oggi siamo in grado di affermare che nessuno degli elementi architettonici che furono posti in luce ed esaminati nella zona della moschea di Nabi Daniel si possono far risalire a un periodo anteriore all'età romana e nulla è mai stato trovato che possa ricondurre alla città dei Tolomei che è a una profondità molto maggiore. Eppure un sarcofago di Alessandro era già stato trovato : non ad Alessandria ma in Libano, nell'antica Sidone, una delle due più grandi città della Fenicia, nel 1887 quando quella regione era ancora parte dell'impero ottomano. Era stato un artista turco di nome Osman Hamdi, appassionato di antichità, a trovarlo insieme a una serie di altri stupefacenti sarcofagi miracolosamente intatti, alcuni in stile egittizzante altri invece scolpiti chiaramente secondo i canoni dell'arte greca del Quarto secolo. Alcuni portavano e portano tuttora chiarissime tracce dei colori originali. Fra questi il più spettacolare era quello che rappresentava in una serie di altorilievi, quasi a tutto tondo, scene di battaglia tra greci e persiani e di caccia al leone, nelle quali Alessandro Magno, riconoscibilissimo per la foggia dell'elmo oltre che per le sue già canonizzate fattezze, è il protagonista assoluto su ognuna delle bande scolpite sui lati del sarcofago. Il sepolcro è di prezioso marmo pentelico, lo stesso di cui è fatto il Partenone, ha la forma di un'arca e il coperchio riproduce il tetto di un tempio a due spioventi adorno di acroteri e di antefisse, elementi decorativi in forma di palmette o di maschere. L'esecuzione è di altissima qualità, l'efficacia delle rappresentazioni impressionante. Quel sarcofago non era il solo, ve ne erano altri di straordinaria bellezza e tutti quanti vennero imbarcati e spediti a Istanbul dove il Museo archeologico fu realizzato espressamente per ospitarli. Gertrude Lowthian Bell, nobildonna inglese, scrittrice, archeologa, e probabilmente agente segreto di Sua Maestà Britannica, uno dei personaggi più affascinanti fra fine Ottocento e primi Novecento, molto vicina per stile, atteggiamenti, gusto romantico per l'esotismo a T.E. Lawrence, meglio conosciuto come Lawrence d'Arabia, vide il sarcofago nel 1889 e ne rimase folgorata. Non ebbe dubbi che si trattasse del sarcofago di Alessandro Magno e che il cranio trovato all'interno fosse il suo.Noi sappiamo che non è vero e che l'opera risale probabilmente alla fine del Quarto secolo a.C., forse realizzata intorno al 310 da artisti greci o per un sovrano seleucide o per un principe locale. C'è chi ha voluto riconoscere nel committente un personaggio di cui parlano Curzio Rufo e Giustino. Si chiamava Abdalonimo ed era un umile operaio. Alessandro aveva incaricato Efestione di cercare una persona retta a cui affidare il trono di Sidone e lui si era dato da fare. Passando per le vie della città aveva visto un bellissimo giardino ed era entrato. Era un posto meraviglioso e come fuori dal mondo, con fiori e piante di ogni specie, tenuto con cura attenta e amorevole da un solo uomo. Efestione gli chiese chi fosse e quello rispose di essere Abdalonimo, il giardiniere. Efestione si informò allora di dove fosse il padrone e quello rispose che di lui non aveva più notizie da tanto tempo; tuttavia, anche senza essere pagato, custodiva e coltivava il suo giardino perché lo trovasse
impeccabile quando fosse tornato. La ricerca di Efestione era giunta a termine: l'uomo che con tanta onestà e fedeltà aveva assolto al suo dovere avrebbe saputo reggere la città allo stesso modo con cui aveva tenuto il giardino. Lo fece re di Sidone. Era stato lui, Abdalonimo, a farsi costruire quel magnifico sarcofago che narrava le imprese del suo nuovo signore? E un'ipotesi suggestiva che ha preso piede presso alcuni studiosi, anche se sembra troppo bella per essere vera. Non dobbiamo mai dimenticare che la nostra possibilità di fare collegamenti fra fonti letterarie e archeologia è sempre fortemente condizionata dal poco che sappiamo e dal pochissimo che è giunto fino a noi. Meglio sarebbe pensare come rispondere ai nostri interrogativi se non ci fosse giunta la storia, anzi la parabola di Abdalonimo, il giardiniere. Non soltanto Tolomeo aveva bisogno di legare strettamente il suo diritto dinastico all'eroe, tutti i Successori derivavano l'ideologia del loro potere dalla figura di Alessandro, dalla sua vittoria sull'Asia e sul Mondo.
14°
CIMITERO LATINO
Alla fine anche Evaristo Breccia, una volta preso atto dei risultati dei suoi scavi, dovette arrendersi. Non c'era nulla nell'area della moschea di Nabi Daniel, né a livello dei sotterranei né dei dintorni e nemmeno a Kom el Dick che si potesse riferire alla città tolemaica e quindi il capitolo per lui era chiuso. Può darsi che, anche in quell'area, a differenti livelli, sarebbe stato possibile incontrare tracce dell'insediamento ellenistico, male difficoltà di una simile impresa sarebbero state di fatto insormontabili. Questo non comportò l'archiviazione del caso Nabi DanielKom el Dick, anzi, le ricerche a vario titolo e a vari livelli di preparazione continuarono ugualmente. Anche la stampa di settore come "Archeologia Viva" continuò ad avvalorare l'ubicazione della tomba di Alessandro alla moschea di Nabi Daniel. D'altra parte, per chi operava sul campo era venuto il momento di guardare altrove, verso est, verso l'incrocio fra la via Canopica, o L1, e la principale trasversale, la R1, nell'area che si estendeva alla base del promontorio Lochias che avrebbe dovuto contenere il mnema, il parco funerario con la tomba di Alessandro e quella dei primi Tolomei. Fu il successore di Breccia nella direzione del Museo greco-romano, l'archeologo Achille Adriani, a muoversi in quella direzione e a formulare un'ipotesi che rompeva decisamente con il passato. Nel cimitero latino di Alessandria, nella zona a sud della penisola del Lochias, erano stati portati in luce, già agli inizi del secolo scorso, i resti di un edificio monumentale di straordinaria qualità e imponenza che in seguito erano stati dimenticati per lungo tempo. Evaristo Breccia li aveva notati e soprattutto aveva descritto, ma purtroppo non fotografato né rilevato, anche altri elementi che ora non esistono più: un recinto molto vasto, di andamento trapezoidale costituito da un muro di blocchi di calcare, "alto e largo parecchi metri"? lo stesso calcare, si suppone, che formava il piano di appoggio del monumento stesso. Inoltre mancano quelli che egli definì "i resti di un naos" (ossia di un tempietto votivo?) e dell'architrave di una porta che doveva essere quella nord ora del tutto mancante. Dove siano finiti questi materiali nessuno lo sa, ma la cosa desta non pochi interrogativi visto che non è facile demolire e poi trasportare strutture così grandi e pesanti senza che ne rimanga traccia. L'unica cosa certa è che la loro perdita è inestimabile ai fini della formulazione di una ipotesi forse definitiva sulla tomba di Alessandro. Breccia, anche se pare molto strano, non aveva mai avuto tempo né possibilità, assorbito com'era da una quantità di altri impegni sia amministrativi che scientifici, di occuparsene. Achille Adriani invece si applicò già nei primi anni del suo incarico a
restaurarli e successivamente a studiarli. Si trattava di quattro blocchi monolitici giganteschi di alabastro del peso di varie tonnellate che, una volta riassemblati, costituirono una struttura coerente e di grande imponenza. Sostanzialmente i blocchi formavano un vano con un ingresso a porta dal lato sud e del tutto aperto verso nord (a causa della sparizione del secondo architrave). Non potevano esserci dubbi sul fatto che fossero coerenti fra di loro, perché il blocco che ne formava il soffitto era inciso all'interno con la parte superiore della cornice della porta che continuava sul blocco verticale sottostante nei due stipiti dell'apertura. La parte superiore della cornice di tipo dorico era marcata da un listello in lieve aggetto. All'interno i blocchi erano levigati accuratamente rivelando meravigliose venature e disegni a macchie con coloriture vivaci, dal color avorio fino all'ocra e al rossiccio, che oggi si evidenziano molto bene inumidendo la superficie con un po' d'acqua e che nell'antichità dovevano essere valorizzate da una lucidatura a cera. L'esterno dei blocchi era invece del tutto grezzo, nel senso che non c'era nemmeno una minima sgrossatura e presentava una superficie quasi naturale con visibili i bulbi creati dalla percolazione delle acque e un colore grigio chiaro. Il manufatto era stato rinvenuto a poca distanza dalla necropoli di Shatby sul lato orientale della città, in una zona che doveva anticamente trovarsi all'interno dell'area dei palazzi reali e delle loro immediate adiacenze e con ogni probabilità doveva aver fatto parte di una tomba. Da testimonianze raccolte Adriani, come già si è detto, si rese conto che parti del monumento erano state asportate per altri usi o reimpieghi non meglio specificati. La stessa sorte che era toccata, secondo la descrizione che ne lasciò Breccia al "peribolo" trapezoidale. Ed è curioso qui notare come Breccia utilizzi, forse inconsapevolmente, lo stesso termine straboniano che definiva il recinto sacro della tomba di Alessandro. Una volta che Adriani ebbe terminato il restauro nel 1936 risultò una camera rettangolare mancante della parete nord e con una porta di passaggio nella parete sud che forse era stata anch'essa di alabastro con cardini e cornici in bronzo. Questa porta dava quasi certamente su un altro ambiente che Adriani suppone la vera e propria camera funeraria. Restano sul pavimento di calcare le sedi dei cardini a testimoniare questa situazione. Breccia intuì subito di trovarsi di fronte a un monumento funerario e pensò al Nemeseion fatto costruire da Cesare durante il suo turbolento soggiorno alessandrino per seppellirvi la testa di Pompeo fatto uccidere a tradimento e decapitare da Tolomeo 14° Di fatto, osserva Adriani, non esisteva alcun consistente supporto a una simile ipotesi se non una vaga coincidenza topografica con l'area in cui si identificava a quel tempo il luogo che Cesare avrebbe scelto per esprimere il suo cordoglio per colui che era stato suo genero e poi rivale assassinato. Il suo gesto fu visto allora come una manifestazione di ipocrisia, mentre è possibile che egli avvertisse un sincero disgusto per l'azione vile di un regolo di nessuna statura umana e politica contro un grande uomo e un grande romano. Il concetto del parce sepulto per cui la morte interrompeva immediatamente qualunque animosità per lasciare spazio alla pietas era inoltre profondamente radicato nella mentalità di Cesare che l'aveva dimostrato più volte. Ma quel monumento sembrava troppo lussuoso e troppo importante per costituire solo la parte di un sacello quale dovette essere il tempietto funerario eretto da Cesare, che per di più in quella situazione disponeva di assai poco tempo. Adriani ebbe un'intuizione rivoluzionaria che espose prima con una certa cautela e poi con maggiore convinzione adducendo una quantità di indizi di carattere storico, documentale, tipologico-architettonico e topografico estremamente significativi e in ultima analisi convincenti. Il segnale più importante era di carattere tipologico: quella camera era stata costruita per essere coperta da un terrapieno; in quel modo si spiegava la superficie esterna completamente grezza, inoltre l'enormità
dei blocchi, veri e propri macigni, dimostrava che il terrapieno soprastante doveva essere imponente. In altri termini doveva trattarsi di una tomba di tipo macedone. Proprio come quella di Filippo a Verghina, cui lo stesso Adriani fa riferimento, pur con qualche riserva sull'identità di chi vi era sepolto. Chi dall'interno osserva attraverso la porta sud la scala che scende dal livello superiore ha l'impressione di vedere la scena che immaginò Lucano nel suo poema, quella di Cesare che scende ansioso nella camera sotterranea per contemplare le fattezze di Alessandro. Sulla camera poi doveva ergersi l’extructus mons, ossia il tumulo, il che giustifica la potenza della struttura portante della camera e l'enormità dei blocchi. Se così stavano le cose è molto più verosimile che la sepoltura di Alessandro all'interno del mnema di Tolomeo 4° Filopatore dovesse essere, esclusa quella di Menfi, la prima e l'ultima. Non si spiegherebbe per quale motivo la supposta prima tomba di Alessandro nella sua città dovesse essere di tipologia monumentale e, si suppone, ispirata a mausolei come quello di Alicarnasso e quella costruita successivamente nel mnema di Tolomeo 4° Filopatore della tipologia più antica, per non dire arcaica. Adriani riteneva quindi che la struttura in alabastro del cimitero latino fosse il vestibolo che portava, attraverso una seconda porta ora mancante, in una camera più interna, ossia in quella del sarcofago dove si trovava anche la kline funeraria come in quella di Verghina. Adriani inoltre adduceva un indizio di carattere topografico, ossia l'insistenza della tomba di Alessandro nella necropoli reale che era certamente annessa al grande distretto dei palazzi. In effetti, ciò che aveva guidato tanti ricercatori fino a Breccia a cercare nelle vicinanze della moschea di Nabi Daniel erano elementi non determinanti: in primo luogo l'affermazione di Zenobio che poneva il soma en mese te polei, non è detto si debba prendere alla lettera nel senso di "nel centro della città", ma semplicemente nel senso di "in mezzo alla città", non fuori dove di solito stavano le necropoli, e poi quella di Achille Tazio. La posizione del cimitero latino inoltre non è così periferica: se osserviamole ultime ricostruzioni ideali della città di Alessandria in età tolemaica è tutto sommato abbastanza vicino al centro. La descrizione in Achille Tazio della "passeggiata" del suo eroe a partire dalla Porta orientale non confligge con una collocazione a sud della penisola del Lochias. Per quello che riguarda l'uso del materiale Bonacasa , su autorizzazione della Direzione del Museo greco-romano, ha fatto effettuare delle accurate analisi mineralogiche su un piccolo campione prelevato dall'esterno della tomba. La struttura e la composizione chimica del materiale è stata poi confrontata con quella delle cave antiche presenti nel medio Egitto e si è arrivati in un primo momento a circoscrivere la possibile provenienza da un gruppo di cave alla base del delta: Bosra, Gizah, Wadi Gerrawi, Wadi Sannur, Sheikh Said e Zawiet Sultan, per concludere che i grandi blocchi della tomba potrebbero verosimilmente essere derivati da quest'ultima. L'alabastro è comunque presente su quasi tutto il percorso del Nilo ed è spesso visibile in superficie in forma di bellissimi ciottoli levigati di tutti i colori, dall'avorio all'ocra al rossiccio come per esempio nell'area di Dashur. Non stupisce quindi che Tolomeo Undicesimo abbia utilizzato questo materiale così bello e abbondante per realizzare il secondo sarcofago di Alessandro dopo essersi impadronito del primo di oro massiccio, e non si può escludere che questa scelta sia stata suggerita dal fatto che il resto della tomba era già costruito in questo prezioso materiale. In una situazione generale così complessa il problema non può certo dirsi risolto e vi è chi continua nella ricerca convinto che sia ancora possibile trovare la tomba o addirittura il corpo di Alessandro o ciò che resta di lui. Una di queste ipotesi in particolare è effettivamente impressionante per quanto è audace e volendo concludere
una panoramica dello stato della ricerca e dei risultati conseguiti conviene esaurire, nei limiti che ci siamo dati, l'argomento.
15°
DOV'È ALESSANDRO?
Abbiamo visto come la tomba di Alessandro sia stata cercata un po' dovunque ma sempre nei quartieri di Alessandria. C'è chi l'ha segnalata in luoghi dove ai tempi dei Tolomei c'era l'acqua del mare e chi nei sotterranei della moschea di Nabi Daniel, altri l'hanno cercata alla moschea Attarine dove c'era il magnifico sarcofago di Nectanebo Secondo. Proprio a questo proposito sappiamo che A.M. Chugg aveva pensato che il sarcofago fosse stato il primo contenitore del corpo di Alessandro nel Serapeo di Menfi-Sagqara e nel sepolcro scavato da Mariette aveva anche individuato un vano in grado di contenerlo. Il recente studio di N.J. Saunders avanza un'ipotesi interessante sulla provenienza di quel sarcofago. Esaminando i fori praticati nella vasca si rende conto che sono più larghi verso l'esterno e più stretti verso l'interno e ne deduce che questo servisse ad aumentare dall'interno la pressione del getto e a dilatarlo nella sua uscita esterna creando un effetto scenico notevole. Non intravede quindi una destinazione funzionale a questo oggetto, ossia per le abluzioni rituali dei fedeli della moschea ma una funzione estetica. Il sarcofago sarebbe stato riutilizzato nel soma di Alessandro come vasca ornamentale all'interno di un ninfeo nel parco funerario della necropoli reale. Questo sulla base del fatto che i Tolomei avevano spesso riutilizzato e riciclato elementi architettonici sottratti ad altri complessi monumentali. Plinio racconta di un grande obelisco di Nectanebo Secondo (Nechtebi) trasportato da Heliopolis ad Alessandria con una nave. Non c'è dubbio che cose del genere avvenissero di frequente e in tutte le epoche, mentre mi sembra più difficile che addirittura il sarcofago del presunto padre di Alessandro venisse trapanato per farne una -sia pur sacra - fontana. Ho già espresso il mio parere in proposito e in ogni caso mi sembra una spiegazione accettabile che nei fori esterni più larghi praticati nel sarcofago venissero inseriti dei rubinetti in legno o in fusti di canna che regolavano il flusso per le abluzioni. La svasatura avrebbe potuto servire per alloggiarvi un qualche tipo di guarnizione o una ghiera di raccordo con il tubo in uscita. Bisogna immaginare che in un ninfeo quale Saunders ipotizza la vasca venisse alimentata continuamente da un getto che arrivava dall'alto. In questo caso poi, visto che i fori erano praticati sui quattro lati della vasca, significherebbe che doveva essere visibile da ogni lato e questo rende molto difficile la realizzazione di un getto di alimentazione che avesse un vettore così lungo da permettere di lasciare un grande spazio per la visibilità anche dalla parte posteriore. Oggetti di questo genere di solito stanno all'interno di un'esedra dove facilmente possono essere alimentati da un primo getto che sgorga dal muro di fondo e i getti di scarico della vasca sono soltanto sul davanti. Più facile invece immaginarlo riutilizzato come vasca delle abluzioni posta al centro del sacello della moschea Attarine per cui i fedeli potevano sedersi tutto attorno e fare la rituale lavanda dei piedi. Mi sembra quindi proponibile l'idea che potesse in origine trattarsi di una sorta di cenotafio, ossia di una tomba vuota collocata all'interno del peribolo del Bema di Alessandro in occasione della sua ristrutturazione a opera di Tolomeo 4°. Quando in realtà e da chi siano stati praticati questi fori ha comunque un'importanza relativa; quello che più interessa è il fatto che il sarcofago pesante sette tonnellate di un faraone che fu intimamente collegato dai Tolomei alla loro dinastia tramite Alessandro fu trasportato per vie d'acqua fino ad Alessandria perché il legame fosse fisicamente visibile. Fino a
ora abbiamo visto che la tomba di Alessandro è stata cercata o situata all'interno della città o nelle sue immediate vicinanze, sia nel Medioevo sia nelle età successive fino al giorno d'oggi. Vi è però chi ha cercato Alessandro ben lontano dalla città da lui fondata. Sono due ricercatori: un'archeologa greca di nome Liana Souvaltzi che sosteneva si trovasse nell'oasi di Siwa, e lo studioso inglese A.M. Chugg, da noi più volte citato, che ritiene potrebbe trovarsi a Venezia. Liana Souvaltzi dichiarò nel 1989 in un contributo al sesto convegno internazionale di Egittologia a Torino che a Siwa c'era una tomba macedone che quasi certamente era di Alessandro. La cosa ebbe una risonanza limitata, mala signora si preparava a mettere il mondo a soqquadro con dichiarazioni ancora più esplosive. Liana Souvaltzi si rivolse alla stampa nel 1992 affermando di avere individuato nel tempio dorico di Bilad el Rum nell'oasi di Siwa la tomba di Alessandro Magno e pubblicò nell'anno successivo il suo contributo al convegno di Egittologia. L'edificio cui faceva riferimento era già noto ai visitatori ottocenteschi di Siwa, fra cui il console tedesco Heinrich von Minutoli che lo descrisse nel 1820, un anno prima che la Grecia iniziasse la sua guerra d'indipendenza. La prima ricognizione sistematica con una serie di sondaggi venne condotta nel 1938 da Ahmed Fakhry che pubblicò il monumento nel 1944. Proprio in quell'edificio Liana Souvaltzi riconobbe la tomba di Alessandro Magno e nel 1995 dichiarò senza alcuna riserva di aver trovato la sepoltura del condottiero macedone. Una simile sicurezza indusse un gruppo di esperti egiziani a controllare quali carte la Souvaltzi avesse in mano per fare una simile clamorosa affermazione. L'archeologa greca diceva di aver individuato, incisi su un blocco di calcare, delle foglie di quercia, che indubitabilmente richiamavano quelle della corona di Filippo nella tomba scavata da Andronikos a Verghina, e inoltre la stella argeade a otto punte, che chiaramente indicavano la presenza di un personaggio di rango reale in quel luogo. E di chi altri poteva mai trattarsi se non di Alessandro che aveva esplicitamente disposto prima di morire di essere sepolto nell'oasi di Amon? Il fatto che le fonti antiche fossero concordi nel riportare la tomba di Alessandro ad Alessandria sembrava non impensierirla, e quella sua spavalda certezza finì per far breccia anche sulle autorità egiziane. Ormai la notizia era rimbalzata sui giornali più importanti del mondo con grandi articoli con richiamo dalla prima pagina e molti spedivano i loro inviati a Siwa. Giornalisti delle pagine culturali di molte testate e troupe televisive si stavano precipitando a Siwa per accertarsi se davvero l'enigma millenario della tomba di Alessandro Magno fosse veramente e definitivamente risolto. Per di più la Souvaltzi scoprì del tutto le sue carte calando gli assi, ossia delle inconfutabili, a suo avviso, prove epigrafiche, tre diverse iscrizioni: una sarebbe stata di Tolomeo 1° che dichiarava che Alessandro era stato avvelenato e che la sua mummia era stata portata in quel luogo, un'altra era la prova di una visita alla tomba del sovrano macedone dell'imperatore Traiano. Una terza era stata scritta da un altro ignoto personaggio. Il gruppo di esperti si recò all'oasi avvalorando in sostanza ciò che aveva detto la Souvaltzi. Su molti giornali la cosa venne recepita come una conferma e la scoperta della tomba di Alessandro veniva data per probabile con buona pace delle fonti antiche, ma il grande scoop era rimandato di almeno un mese. Il Ramadan ferma lo scavo della Souvaltzi titolò il "Corriere della Sera" e l'aspettativa montò fino al parossismo. Esperti e archeologi venivano interpellati al telefono e intervistati per esprimere qualificati pareri e questi, non ancora in possesso di una comunicazione scientifica, non potevano che rispondere
che bisognava attendere. La Souvaltzi dal canto suo si mostrava invece tranquilla: non c'era dubbio che presto la sepoltura di Alessandro sarebbe venuta alla luce. L'unica cosa su cui si diceva incerta erano le condizioni in cui la mummia sarebbe stata rinvenuta. Dopo il primo shock le reazioni del mondo accademico non tardarono a farsi sentire: il ministero greco della cultura inviò degli esperti che visitarono il sito e ripartirono molto perplessi non avendo trovata plausibile alcuna delle prove annunciate, mentre la Souvaltzi accusava la delegazione di ingerenza indebita nel suo scavo e senza il suo permesso. A quel punto la Direzione generale delle Antichità egiziana, resasi conto della inconsistenza delle prove, non poté che gettare acqua sul fuoco richiamando tutti a una condotta più seria e prudente. Anche il modo in cui lo scavo era stato condotto fu considerato poco professionale e tale da produrre più danni che risultati. Le tre iscrizioni erano di fatto una sola e di età imperiale romana, e la lettura scientifica del testo demolì senza difficoltà la teoria dell'archeologa greca, che per giunta venne definita dai suoi stessi compatrioti come poco affidabile e di fatto sconosciuta alla comunità scientifica. Voci su alcune sue affermazioni da cui sembrava che avesse avuto rivelazioni o misteriosi segni premonitori contribuirono, nonostante le smentite dell'interessata, a smontare, nella generale delusione, sia le sue affermazioni sia l'intero circo mediatico che su di esse si era mobilitato. Le autorità egiziane rifiutarono di prorogare la concessione di scavo e il silenzio calò finalmente sull'intera, imbarazzante vicenda. Mala speranza è dura a morire e molti ferventi sostenitori della teoria della Souvaltzi rimasero incrollabili nella loro fede. Io stesso sono stato testimone di un episodio significativo. Durante un mio viaggio prima al cimitero latino di Alessandria e poi a Siwa ebbi modo di alloggiare in un albergo dell'oasi. Era una notte di luna piena; il bianco del calcare e della luce lunare diluiva il blu cupo del cielo in una atmosfera azzurrina, magica e fuori dal tempo. La mensa, ricavata all'aperto in un blocco di nudo calcare era apparecchiata con lini, argenti e cristalli e la persona che ne aveva la gestione apparve a salutare me e gli amici con cui viaggiavo. Era una signora di straordinario fascino, drappeggiata in una lunga tunica di foggia etnica e contribuiva a sua volta a intensificare l'impressione che tutti avevamo di un luogo incantato. La conversazione cadde ben presto sul tema della tomba di Alessandro e la signora si rivelò una convinta sostenitrice della teoria di Liana Souvaltzi. Cercai di farle presenti tutti gli argomenti che, a mio avviso, la rendevano improbabile, ma senza convincerla. Mi disse che ero troppo freddo e attaccato a pregiudizi accademici e mi invitò a leggere il romanzo di uno scrittore italiano sulla vita di Alessandro Magno che l'aveva emozionata per scoprire una dimensione diversa che mi avrebbe aperto la mente e suggerito un diverso approccio al problema. Per caso avevo con me un mio romanzo, quello a cui, evidentemente, la signora si riferiva, e le mostrai la quarta di copertina con la mia foto, dimostrandole che due atteggiamenti tanto diversi potevano convivere in una stessa persona ma in modo nettamente distinto. Lei restò del suo parere, pur apparendo molto sorpresa di una simile coincidenza. Il caso era chiuso, ma non la perenne ricerca della tomba di Alessandro. L'ultima e più sorprendente ipotesi è invece di uno studioso scrupoloso e serio benché non specialista della materia: il già citato A.M. Chugg. La sua ipotesi è che ciò che resta del corpo di Alessandro si trovi nella basilica di San Marco a Venezia, anzi esattamente dentro l'urna che da più di mille anni si ritiene contenga le reliquie dell'evangelista. La sua ricerca muove dalle fonti antiche che testimoniano come San Marco fosse il fondatore della chiesa di Alessandria e che già alla fine del Quarto secolo la Storia Lausiaca racconta di un pellegrinaggio al martyrion (ossia al luogo del martirio)
dell'evangelista$ che si sarebbe trovato sul mare dalla parte orientale del promontorio Lochias. Secondo la tradizione il corpo di San Marco non sarebbe stato distrutto dall'incinerazione e sarebbe stato deposto in una chiesa probabilmente più ampia e di certo più recente di quella originale. Il fatto che il corpo non fosse stato incenerito potrebbe forse implicare che la reliquia era costituita da una mummia. Là comunque avrebbe riposato in pace fino agli inizi del Nono secolo d.C. in piena età islamica quando due mercanti veneziani, Buono di Malamocco e Rustico di Torcello, giunsero ad Alessandria e visitarono la chiesa di San Marco. Lì trovarono il clero molto preoccupato per l'integrità delle reliquie perché i musulmani stavano depredando la chiesa di alcuni marmi preziosi per costruire un altro edificio. Di buon grado quindi i resti di San Marco furono consegnati ai due mercanti che li portarono a Venezia. Più probabile è che i due avessero convinto con una generosa offerto i custodi del santuario a cedere il loro tesoro. Poi, per superare l'ispezione delle autorità portuali, coprirono le reliquie con carne di maiale: i doganieri musulmani, inorriditi, si guardarono bene dal fare ulteriori controlli. La scena è rappresentata nell'intradosso di un arco della basilica a Venezia, dove il corpo del santo che viene traslato appare intero e con tanto di barba, anche se poco dopo vediamo i due mercanti passare con una cesta mentre i doganieri, come in un fumetto, gridano (vociferantur): kanzir, kanzir!, "maiale, maiale!". Chugg si domanda se il fatto che il corpo è rappresentato intero nel mosaico non significhi che forse era una mummia, ma poi diventerebbe difficile spiegare come le reliquie siano state portate via in una cesta coperte con carne di maiale: il corpo era forse stato fatto a pezzi? La cosa sicura è che sia le testimonianze iconografiche che cartografiche segnalano la presenza di una chiesa di San Marco vicina alla porta orientale della città islamica, il che la porrebbe nella vicinanza del luogo in cui, secondo non pochi studiosi, era anticamente il serra di Alessandro. Secondo Chugg dunque la chiesa di San Marco non solo avrebbe rimpiazzato e di fatto sostituito il mausoleo di Alessandro, ma sarebbe sorta anche nello stesso posto. L'idea di una sostituzione di per sé è più che plausibile. Era usanza della Chiesa sostituire i culti pagani con culti cristiani, non soppiantarli semplicemente. Nelle nostre campagne ancora adesso le edicolette della Madonna si trovano sempre all'incrocio di tre vie perché sostituirono nel passato la triplice immagine di Ecate trivia; il Natale ha preso il posto della festa del Deus Sol invictus; i santi in coppia, Cosma e Damiano per esempio, hanno sostituito talvolta i dioscuri Castore e Polluce, la Madonna in altri casi ha sostituito Iside e così via. Nulla di più facile che la Chiesa alessandrina per eradicare il culto pagano del Fondatore della città lo abbia sostituito con un altro fondatore e cioè colui che aveva dato vita alla prima comunità cristiana ad Alessandria, cioè San Marco. Più difficile è dimostrare perché mai il corpo stesso di Alessandro sarebbe stato spacciato per quello di San Marco. Chugg pensa a qualche suo ammiratore cristiano, un alto esponente del clero forse che avrebbe voluto salvare le sue spoglie mortali dalla furia iconoclasta scatenatasi in seguito agli editti teodosiani del 391 che diedero di fatto mano libera ai fanatici che volevano distruggere ogni traccia della religione antica. Il nostro personaggio quindi con un colpo solo avrebbe salvato il corpo di Alessandro dalla distruzione e creato una nuova importantissima reliquia destinata a divenire il fulcro attorno a cui avrebbe ruotato la nuova città cristiana. In realtà questi ragionamenti servono a spiegare all'autore ciò di cui è già convinto sulla base di indizi che ritiene determinanti. Fra questi indizi ve n'è uno fondamentale: una pietra rinvenuta durante i lavori in basilica nel 1963 per realizzare le vasche idriche per l'impianto antincendio. La pietra, del peso di una tonnellata e mezzo, era posta praticamente in testa alla basilica nella fondazione dell'abside e fu pubblicata da Ferdinando Forlati, ingegnere
e Proto della basilica di San Marco, che la considerò un blocco di trachite, elemento della tomba di un soldato romano. In effetti la mancanza assoluta di materiali da costruzione nelle isole della laguna, tutte di sedimentazione fluviale, indusse i veneziani a cercarli fra le rovine di Altino, sulla costa. Si riciclarono non solo marmi e pietre ma anche mattoni. Su alcuni è possibile leggere il bollo laterizio che identifica la fornace che li produsse. La pietra, ora nel chiostro di Santa Apollonia, reca rilievi sulla facciata principale che rappresentano la stella argeade a otto punte, due schinieri e una lunga lancia, probabilmente una sarissa. Su uno dei lati una spada appesa a un balteo, identificata come una kopis, la tipica spada macedone. Dopo la pubblicazione del Forlati la pietra giacque praticamente dimenticata per anni finché nel 1977 la stella argeade ricomparve improvvisamente sull'urna d'oro della tomba reale di Verghina attribuita da Andronikos a Filippo Secondo risvegliando così l'interesse per la pietra emersa dalle fondamenta di San Marco. È questo il punto nevralgico della costruzione di A.M. Chugg: in San Marco c'è un oggetto appartenente a una tomba reale macedone proveniente quasi certamente da Alessandria e di fatto pertinente alla prima basilica di San Marco, fatta costruire per disposizione testamentaria dal doge Giustiniano Particiaco, e quindi quasi coeva alla "traslazione" delle reliquie dell'evangelista a Venezia, insomma un frammento lapideo del Bema di Alessandro. Da qui ad associare anche la reliquia trafugata da Rustico di Torcello e Buono di Malamocco al corpo stesso del macedone il passo è breve. La teoria di Chugg che, secondo Maria Bergamo, ha provocato una spettacolarizzazione più mediatica che scientifica, in realtà ha portato anche seri approfondimenti. In primis le analisi della pietra che non è risultata trachite come aveva detto Forlati bensì pietra di Aurisina, un marmo che si estrae nella località omonima non lontano da Trieste. In un convegno tenuto a Padova al palazzo del Bo nel settembre 2006 Monica Centanni ha annunciato di avere chiesto una expertise al professor Lorenzo Lazzarini del laboratorio di analisi dei materiali antichi all'Istituto Universitario di Architettura di Venezia, il quale ha dato tramite email e su richiesta di Alessandra Coppola dell'Università di Padova il seguente responso: Sì, ho eseguito io lo studio petrografico di un campione della stele su richiesta della collega Monica Centanni: il risultato indica senza ombra di dubbio che la stele è stata scolpita nella pietra di Aurisina, un calcare che ancora si estrae nella località omonima in provincia di Trieste. Naturalmente non so rispondere per ciò che riguarda la datazione del manufatto a cui sta lavorando un gruppo di ricerca che fa capo a Monica. In realtà aveva già risposto Eugenio Polito in un suo studio del 1998 dove confermava che la pietra di Santa Apollonia era da considerarsi come un manufatto ellenistico: Il blocco doveva appartenere a un grande monumento collocabile genericamente fra il Terzo e gli inizi del Secondo secolo a.C. A questo punto la situazione si complicava perché se da un lato la datazione proposta da Polito contribuiva ad appoggiare la teoria di una possibile derivazione alessandrina del blocco, dall'altra la provenienza della pietra di cui era fatto lo rendeva altamente improbabile. Chugg non si arrese e riuscì a venire a conoscenza che in una località prossima al braccio occidentale del delta esisteva una pietra che aveva una composizione analoga ed era contraddistinta dallo stesso fossile presente nella pietra di Aurisina. Ma non sta solo qui il problema: Nicholas Saunders ritiene di dedurre da Strabone che il serra fosse più probabilmente nella parte nord-orientale della città e più vicino ai palazzi reali piuttosto che al grande incrocio. Inoltre fa presente l'estrema difficoltà a localizzare con precisione la chiesa di San Marco costruita in età romana dopo la morte dell'evangelista: insomma non c'è alcuna prova che il soma di Alessandro e il martyrion di San Marco sorgessero nella stessa zona. In più Saunders ritiene che non ci sia motivo per cui
il misterioso prelato ammiratore di Alessandro avrebbe dovuto trasportare nella nuova dimora insieme al suo corpo anche una lastra pesante una tonnellata e mezza solo perché portava incisa la stella argeade di cui quasi certamente ignorava il significato, e men che meno se ne sarebbero curati i due mercanti veneziani che portarono via le ossa di San Marco A dire il vero non si può escludere in assoluto che i due spregiudicati cacciatori di reliquie avessero preso la pietra solo perché era a portata di mano (il che implicherebbe che il soma non era poi così lontano) usandola come zavorra per la loro nave, un'abitudine diffusissima fra i marinai veneziani, ma resta sempre da risolvere il problema del materiale che fino a prova contraria non viene da Alessandria o dai suoi dintorni. Certo il suggerimento di Chugg di sottoporre a esami scientifici i resti attribuiti a San Marco sarebbe in teoria da seguire, e la Chiesa cattolica che ha permesso il test del radiocarbonio 14 sulla sindone di Torino ha dimostrato di non aver paura dei responsi della scienza. Tuttavia l'assai lontana probabilità di scoprire che si trattava di Alessandro invece che dell'evangelista Marco dovrebbe essere pagata con la dissoluzione di un intero universo mitico, quello costruito dalla Serenissima in metà del Mediterraneo. Nell'itinerario che abbiamo cercato di seguire sia sul piano delle fonti antiche che su quello degli studi moderni è risultato evidente quanto aleatoria possa essere stata la sorte di reliquie così importanti. Le ricerche che hanno buone probabilità di portare nuovi contributi devono essere condotte a termine, e quindi ben venga un'analisi scientifica dei resti contenuti nell'urna conservata nella basilica di San Marco. Qualunque ne sia l'esito, i due grandi miti non cesseranno comunque di vivere: il Leone di San Marco continuerà a ruggire dall'alto dei suoi piedistalli e il corpo perduto del più grande personaggio dell'antichità ad affascinare sempre nuove generazioni tenendo viva la memoria di una civiltà straordinaria e irripetibile.
CONCLUSIONE
Non più tardi di tre o quattro mesi fa ricevetti la telefonata di un amico greco che mi annunciava molto eccitato che finalmente si poteva affermare dove era sepolto Alessandro e che la scoperta si poteva considerare acquisita. Si trattava, lo seppi in seguito, di un'idea del tenente generale Papazois che si era dedicato con grande passione allo studio dei resti rinvenuti nell'urna d'oro della tomba reale di Verghina da Manolis Andronikos nel 1977. Confrontando lo stato di quelle ossa con ciò che raccontano le fonti riguardo alle ferite patite da Filippo ne deduceva che non si potevano vedere né il segno della ferita che gli aveva tolto la vista all'occhio destro, né di quella che lo aveva reso zoppo. In realtà quell'urna d'oro conteneva le ossa di Alessandro. In Egitto c'era andato un manichino, un pupazzo che ne riproduceva le sembianze mentre la sua salma era stata riportata segretamente nella necropoli degli antenati a Ege, in patria. Abbiamo già visto da dove viene questa storia del pupazzo e quanto alla teoria è una delle tante e certo non fra le più convincenti. L'aspetto più evidente è quello di una volontà molto forte di riportare Alessandro in Macedonia quale simbolo potente di orgoglio e di identità nazionale. Ricordo che proprio verso la fine degli anni Novanta fui invitato a Salonicco a tenere una conferenza solo perché ero intervenuto con un articolo su "il Giornale" nella diatriba contro il nuovo stato macedone e il suo diritto a utilizzare il nome di Macedonia. Ancora N.J. Saunders pensa che questo sia il fine vero di quella teoria: il radicare ancora di più in Macedonia il senso di identità del paese, restituendole il suo figlio
più illustre proprio in reazione alla pretesa del nuovo stato balcanico di assumere la stessa identità e addirittura appropriarsi della stella argeade come simbolo nella bandiera nazionale. La gelosia dei greci e in particolare dei greco-macedoni per il loro eroe è enorme: Quando uscì il film di Oliver Stone Alexander ci fu in America fra gli emigrati ellenici una levata di scudi e una reazione scandalizzata per le scene, peraltro castissime, che rappresentavano l'amore fra Alessandro ed Efestione e vennero minacciate azioni legali per salvaguardare l'onore del condottiero.
Ciò che più colpisce anche nel caso dell'ipotesi di Papazois è l'immenso valore che viene attribuito alla figura, alla memoria e, se fosse possibile, alle reliquie di Alessandro. Ricordo con quanta passione il mio amico mi chiedeva di interessarmi a questa teoria, e non si può non restare stupiti di fronte alle incredibili avventure di Stelios Komoutsos che dedicò inutilmente la sua vita a cercare la tomba del sovrano macedone. Eppure l'ombra di Alessandro è ancora presente nella sua città, la sua presenza è percepita da qualche parte nei meandri sotterranei che si estendono dovunque. Jean Yves Empereur ricorda un episodio impressionante. Una sera, mentre un gruppo di cittadini faceva la fila davanti a un cinema, si aprì improvvisamente una voragine e inghiottì una donna che non venne mai più ritrovata. Si disse che Alessandro la desiderava e se l'era presa. Il fascino dell'invincibile condottiero ha conquistato i grandi in tutte le epoche: un fenomeno che gli studiosi chiamano imitano Alexandri, "imitazione di Alessandro". Contagiò Scipione, Cesare e Pompeo, Germanico, Caligola e Traiano e poi Caracalla e perfino Shapur I re di Persia, Maometto Secondo e infine Napoleone: finché si pensò che il sepolcro di Nectanebo fosse quello di Alessandro sembra che il sarcofago sarebbe stato destinato ad accogliere le sue spoglie mortali quando fosse giunto il momento. E l’imitatio Alexandri contagiò addirittura Fidel Castro, che scelse mentre combatteva nella Sierra Maestra il nome dì battaglia di Alejandro. Il mausoleo sulla Piazza Rossa, monumentale contenitore della mummia di Lenin, è in fondo una riedizione moderna del soma di Alessandria e l'eco di quella città straordinaria si percepisce nella torre centrale dell'Università di Mosca, così simile al Faro, settima meraviglia del mondo che vigilava l'ingresso fra l'isola omonima e la punta del Lochias. Ma quali sono i motivi di questa passione? Perché tanta gente si illude tuttora di trovare il suo corpo disseccato da qualche parte nei sotterranei di Alessandria o pensa che potrebbe trovarsi nell'immensa necropoli di Baharya in Egitto dove giacciono forse diecimila mummie? Perché anche studiosi distaccati e professionali non rinunciano del tutto alla speranza di ritrovarlo?
Trovare una risposta è quasi impossibile perché non tutto nella storia è spiegabile a causa delle sue poderose componenti caotiche: si pensa alla morte prematura che stroncò il più grande progetto strategico-ideologico di tutti i tempi, la combinazione straordinaria e dirompente riunita nella sua persona di guerriero e filosofo, la giovane età in cui fu vinto dalla morte dopo averla sfidata mille volte e fino alla fine ignorata, l'impressionante capacità demiurgica di fondere insieme mondi lontani e diversi, l'indomabile coraggio, la resistenza quasi sovrumana alle fatiche, alle ferite, alla fame, alla sete, al gelo e alle veglie, la capacità rarissima di pensare in grande senza limiti e senza confini, la fede cieca nel proprio destino, la capacità di comportarsi allo stesso tempo come un dio e come un uomo, il razionalismo e la furia cieca e barbarica. E infine il carisma del suo sguardo di tigre e del suo volto apollineo per cui chiunque lo vedesse era pronto a seguirlo
fino all'inferno. Tutto questo certo, e anche qualche cosa d'altro che rimane inspiegabile. La ricerca del suo corpo è in definitiva la ricerca di una chimera, dell'enigma che cercavano di capire tutti coloro che affluivano a visitare il soma, è la curiosità e l'inquietudine che spinse molti grandi del passato a contemplarne le fattezze, a scendere nell'oscurità dell'antro sotterraneo sotto la mole del tumulo immenso per restare soli a tu per tu con il mistero. È l'illusione che qualora arrivassimo un giorno e per assurdo a toccarlo, come Cesare, come Ottaviano, potremmo, chissà, finalmente capire.