La natura del riconoscimento. Riconoscimento naturale e ontologia sociale in Hegel, 1801-1806 9788857500966 [PDF]


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Premessa

Parte Prima:
RICONOSCIMENTO EPISTEMICO

I. Scetticismo, riconoscimento, autocoscienza.
Introduzione epistemologica al problema

1. Osservazioni preliminari
2. Antinomia scettica e riconoscimento
3. Critica della gnoseologia moderna: il mito del dato
4. Critica del soggetto propriocettivo e dell’autocoscienza monologica
5. Il riconoscimento scettico e la struttura logica della razionalità
6. Riconoscimento e antropologia
7. Capacità umane e ontologia sociale del riconoscimento

II. Anerkennung: evoluzione lessicale e differenziazione concettuale

1. Un’analisi lessicografica
2. Usi teoretici. Appercezione, Wiedererkennung e Recognition
3. Memoria e riconoscimento. Le lezioni di Kant, Baumgarten, Wolff
4.Il riconoscimento teoretico nei Philosophische Aphorismen di Ernst Platner
5. La Rekognition nel manoscritto di psicologia
e filosofia trascendentale. Hegel tra Platner e Kant

III. Gli usi dell’Anerkennung nei primi scritti critici e
nelle recensioni di Hegel

1.Riconoscimento logico nella Differenzschrift e nel Verhältnis des Skeptizismus zur Philosophie


Parte Seconda:
RICONOSCIMENTO NATURALE

IV Naturphilosophie del riconoscimento

1.Osservazioni metodologiche: da un approccio lessicografico e per costellazioni storico-teoretiche ad una ricostruzione interna
2.Luce e polarità sessuale. La Differenzschrift (1801) e la teoria schellinghiana delle potenze
3. La teoria del riconoscimento naturale del 1802-3
4. Genesi naturale della coscienza. La filosofia della natura del 1803-4

.
V. Riconoscimento universale e seconda natura

1. La coscienza come medio riconoscitivo
2. Il processo teoretico. Sensazione, linguaggio e olismo semantico
3. Il processo pratico. Individuazione tramite conflitto ed esperienza semantica del mondo
4. Il ‘noi’ dello spirito del popolo e il riconoscimento universale

Parte Terza:
ONTOLOGIA SOCIALE DEL RICONOSCIMENTO

VI. La mediazione inferenziale dell’autocoscienza. L’intelligenza nella filosofia dello spirito del 1805-6

1. La forma sistematica della filosofia
dello spirito del 1805-6
2. L’intelligenza. Dalla coscienza all’autocoscienza

VII. Dal riconoscimento naturale al riconoscimento spirituale. La sfera della volontà nella filosofia dello spirito del 1805-6

1. Autorelazione pratica e sillogismi del volere
2. La costituzione riconoscitiva del conoscere
3. Excursus. Conoscere e riconoscere nella Logik und Metaphysik del 1804-5
4. Riconoscimento naturale e riconoscimento spirituale
5. Genesi delle istituzioni sociali

VIII. La comunità riconoscitiva

1. Eticità e spirito reale
2. Il potere riconoscitivo della legge
3. La costituzione: consenso implicito e critica del contrattualismo


Bibliografia

1. Hegel: opere, edizioni e sigle utilizzate
2. Lessici e vocabolari
3. Fonti
4. Letteratura critica

Indice dei nomi
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La natura del riconoscimento. Riconoscimento naturale e ontologia sociale in Hegel, 1801-1806
 9788857500966 [PDF]

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LA SCIENZA RICERCATA SAGGI E TESTI: LA FILOSOFIA E LA SUA STORIA N. 17 Sezione diretta da Luigi Ruggiu I testi pubblicati sono sottoposti a uno processo di peer-review COMITATO SCIENTIFICO

Franco Biasutti (Università di Padova) Silvana Borutti (Università di Pavia) Giuseppe Cantillo (Università Federico II di Napoli) Franco Ferrari (Università di Salerno) Massimo Ferrari (Università di Torino) Elio Franzini (Università Statale di Milano) Hans-Helmuth Gander (Albert-Ludwigs-Universitaet Freiburg) Jeff Malpas (University of Tasmania, Australia) Salvatore Natoli (Università di Milano-Bicocca) Stefano Poggi (Università di Firenze) Ramon Garcia Rodriguez (Universidad Complutense de Madrid)

ITALO TESTA

LA NATURA DEL RICONOSCIMENTO Riconoscimento naturale e ontologia sociale in Hegel (1801-1806)

MIMESIS La scala e l'album

Il presente volume è stato pubblicato grazie al contributo del MIUR nell’ambito del Progetto di rilevante Interesse Nazionale (PRIN 2007), coordinatore nazionale prof. Mario Ruggenini.

© 2010 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana: La scala e l'album, n. 17 www.mimesisedizioni.it / www.mimesisbookshop.com Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono e fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected] Via Chiamparis, 94 – 33013 Gemona del Friuli (UD) E-mail: [email protected]

INDICE

Premessa

p.

9

p. p. p. p.

35 35 40 48

p.

65

p. p. p.

70 73 83

p. p.

87 87

p.

97

Parte Prima:

RICONOSCIMENTO EPISTEMICO

I. Scetticismo, riconoscimento, autocoscienza. Introduzione epistemologica al problema 1. Osservazioni preliminari 2. Antinomia scettica e riconoscimento 3. Critica della gnoseologia moderna: il mito del dato 4. Critica del soggetto propriocettivo e dell’autocoscienza monologica 5. Il riconoscimento scettico e la struttura logica della razionalità 6. Riconoscimento e antropologia 7. Capacità umane e ontologia sociale del riconoscimento II. Anerkennung: evoluzione lessicale e differenziazione concettuale 1. Un’analisi lessicografica 2. Usi teoretici. Appercezione, Wiedererkennung e Recognition 3. Memoria e riconoscimento. Le lezioni di Kant, Baumgarten, Wolff 4. Il riconoscimento teoretico nei Philosophische Aphorismen di Ernst Platner 5. La Rekognition nel manoscritto di psicologia e filosofia trascendentale. Hegel tra Platner e Kant

p. 105 p. 115 p. 136

III. Gli usi dell’Anerkennung nei primi scritti critici e nelle recensioni di Hegel 1. Riconoscimento logico nella Differenzschrift e nel Verhältnis des Skeptizismus zur Philosophie

p. 143 p. 143

Parte Seconda:

Riconoscimento naturale

IV. Naturphilosophie del riconoscimento 1. Osservazioni metodologiche: da un approccio lessicografico e per costellazioni storico-teoretiche ad una ricostruzione interna 2. Luce e polarità sessuale. La Differenzschrift (1801) e la teoria schellinghiana delle potenze 3. La teoria del riconoscimento naturale del 1802-3 4. Genesi naturale della coscienza. La filosofia della natura del 1803-4

p. 163

V. Riconoscimento universale e seconda natura 1. La coscienza come medio riconoscitivo 2. Il processo teoretico. Sensazione, linguaggio e olismo semantico 3. Il processo pratico. Individuazione tramite conflitto ed esperienza semantica del mondo 4. Il ‘noi’ dello spirito del popolo e il riconoscimento universale

p. 239 p. 239

p. 163 p. 177 p. 189 p. 221

p. 256 p. 276 p. 299

Parte Terza:

ontologia SOCIALE del riconoscimento

VI. La mediazione inferenziale dell’autocoscienza. L’intelligenza nella filosofia dello spirito del 1805-6 p. 1. La forma sistematica della filosofia dello spirito del 1805-6 p. 2. L’intelligenza. Dalla coscienza all’autocoscienza p. VII. Dal riconoscimento naturale al riconoscimento spirituale. La sfera della volontà nella filosofia dello spirito del 1805-6 p.

317 317 320

351



1. Autorelazione pratica e sillogismi del volere 2. La costituzione riconoscitiva del conoscere 3. Excursus. Conoscere e riconoscere nella Logik und Metaphysik del 1804-5 4. Riconoscimento naturale e riconoscimento spirituale 5. Genesi delle istituzioni sociali

p. 352 p. 360 p. 367 p. 371 p. 377

VIII. La comunità riconoscitiva 1. Eticità e spirito reale 2. Il potere riconoscitivo della legge 3. La costituzione: consenso implicito e critica del contrattualismo

p. 393 p. 393 p. 408

Bibliografia 1. Hegel: opere, edizioni e sigle utilizzate 2. Lessici e vocabolari 3. Fonti 4. Letteratura critica

p. p. p. p. p.

Indice dei nomi

p. 491

p. 420 445 445 448 450 459

A Elena

Premessa

Che cos’è il riconoscimento? Quale è la sua natura? Si tratta di un fenomeno normativo di costruzione sociale e istituzionale che prende inizio da se stesso, si autoavvia, oppure esiste anche una dimensione naturale del riconoscimento che ci rivela qualcosa di importante sulla natura animale e sulla socialità umana? E in che misura una lettura di Hegel può contribuire ad articolare questa domanda ed eventualmente a rispondervi in un senso determinato? 1. La svolta riconoscitiva La nozione di «riconoscimento», a partire dalla seconda metà degli anni Novanta del Novecento, ha cominciato ad emergere quale paradigma interpretativo della costellazione contemporanea1. In tal senso si può affermare che una svolta ‘riconoscitiva’ ha interessato la filosofia politica e sociale messe a confronto con i problemi e con le opportunità delle società multiculturali. Nello stesso tempo è andata crescendo la consapevolezza delle matrici hegeliane di questa problematica e in tal senso la nozione di Anerkennung ha iniziato a guadagnare terreno negli studi specialistici sulla filosofia classica tedesca. Se si prescinde dalla posizione eccentrica di Alexander Kojève, che già negli anni Trenta aveva utilizzato il riconoscimento nel contesto di una lettura antropologica e filosofico-storica della Phänomenologie des Geistes2, la nozione di Anerkennung non aveva infatti trovato per lungo tempo alcuna trattazione tematica, tanto da non figurare neppure nei 1 2

Cfr. N. Fraser, From Redistribution to Recognition? Dilemmas of Justice in a ‘Postsocialist Age’, in «New Left Review», 212 (July-August 1995), pp. 68-93. Cfr. A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel. Leçons sur la Phénoménologie de l’esprit, professées de 1933 à 1939 à l’École des Hautes Études, réunies et publiées par Raymond Queneau, Gallimard, Paris, 1947. 9

lessici hegeliani. La proposta teorica di Jürgen Habermas, il quale nel 1967 aveva avanzato una lettura della concezione del Geist dello Hegel jenese quale medio di linguaggio, lavoro e interazione3, ritenendo però che Hegel avesse subito abbandonato questo approccio a favore di un’impostazione coscienzialista e monologica, si incontrerà alla fine degli anni Settanta con la corrente esegetica e storica degli studi hegeliani – rinnovata dalla stagione di studi sui manoscritti jenese dello Hegel-Archiv grazie al lavoro di Ludwig Siep e alla sua proposta di fare dell’Anerkennung il principio generale della filosofia pratica di ispirazione hegeliana4. Ma sarà solo con la prima metà degli anni Novanta che questa idea riceverà nuovo impulso teorico con Axel Honneth, il quale, ricollegandosi agli spunti habermasiani e agli studi di Siep sugli scritti jenesi di Hegel, contribuirà con il suo Kampf um Anerkennung (1992) all’affermazione nella filosofia sociale e politica contemporanea di questo nuovo paradigma interpretativo5: un paradigma che, nello stesso anno della pubblicazione del lavoro sistematico di Honneth, Habermas e Charles Taylor lanceranno all’interno del nascente dibattito sul multiculturalismo6. Ed è proprio in questi stessi anni che il nuovo hegelismo americano, soprattutto grazie ai lavori di Robert Pippin e Terry Pinkard7, inizia ad imporre all’attenzione della critica una lettura pragmatista, normativa e sociale della concezione hegeliana del Geist nella Fenomenologia, incontrando su questo terreno un importante filone della 3 4 5

6 7

Cfr. J. Habermas, Arbeit und Interaktion. Bemerkungen zu Hegels Jenenser ‘Philosophie des Geistes’, in H. Braun, M. Riedel (a cura di), Natur und Geschichte. Karl Löwith zum 70. Geburtstag, Kohlhammer, Stuttgart, 1967, pp. 132-155. Cfr. L. Siep, Der Kampf um Anerkennung. Zu Hegels Auseinandersetzung mit Hobbes in den Jenaer Schriften, in «Hegel -Studien», 9 (1974), pp. 155-207; Id., Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie, Alber Verlag, Freiburg, 1979. Cfr. A. Honneth, Kampf um Anerkennung. Zur moralischen Grammatik sozialer Konflikte, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1992. Nello stesso anno esce sulla sponda americana il primo lavoro di Robert Williams sull’etica del riconoscimento: cfr. R.R. Williams, Recognition. Fichte and Hegel on the Other, State University of New York Press, Albany, 1992; Id., Hegel’s Ethics of Recognition, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, New York,1997. Cfr. Ch. Taylor, A. Guttmann (a cura di), Multiculturalism and the ‘Politics of Recognition’, Princeton University Press, Princeton, 1992. Cfr. in particolare Cfr. R. Pippin, Hegel’s Idealism. The Satisfactions of SelfConsciousness, Cambridge University Press, Cambridge, 1988; T. Pinkard, Hegel’s Phenomenology. The Sociality of Reason, Cambridge University Press, Cambridge, 1994. Per un confronto critico con queste letture cfr. L. Ruggiu, I. Testa (a cura di), Hegel contemporaneo. La ricezione americana di Hegel a confronto con la tradizione europea, Guerini e Associati, Milano, 2003; L. Ruggiu, I. Testa (a cura di), Lo spazio sociale della ragione. Da Hegel in avanti, Mimesis, Milano, 2009. 10

filosofia analitica e postanalitica sellarsiana – rappresentato principalmente da Richard Rorty, Robert B. Brandom e John McDowell – e insistendo in particolare su un’interpretazione normativa dell’Anerkennung8. 2. Problemi di un paradigma emergente Modello interpretativo di Hegel e della contemporaneità, il riconoscimento rimane tuttavia un paradigma solo emergente e ancora tutto da svolgere. Articolata quasi esclusivamente nell’ambito pratico-politico, la nozione di riconoscimento attende ancora oggi una messa a punto teorica complessiva, che possa dar conto dei diversi livelli del fenomeno rispondendo insieme alla domanda sulla sua natura. In secondo luogo non esiste tuttora una storia generale dell’evoluzione lessicale e concettuale di tale nozione. Mancanza tanto più urgente per quanto riguarda la costellazione della filosofia tedesca di fine Settecento, che per l’emersione e l’affermazione del riconoscimento sembra costituire un momento chiave. In terzo luogo, anche per quanto riguarda gli studi hegeliani manca tuttora una ricostruzione dettagliata non solo della genesi di tale nozione all’interno della costellazione dell’epoca – se si fa eccezione per i rapporti con Johann Gottlieb Fichte9 – ma anche della sua portata complessiva per il progetto teorico di Hegel. Il pionieristico lavoro di Siep è rimasto in tal senso l’unico vero e proprio punto di riferimento per la letteratura storico-filosofica, in particolare per quanto riguarda il periodo jenese, di decisiva importanza per l’appropriazione hegeliana dell’Anerkennung. Essendo centrato su una ricostruzione interna della filosofia pratica di Hegel, il testo di Siep non poteva tuttavia dar conto dell’estensione complessiva della questione del riconoscimento in Hegel né delle sue ramificazioni nella costellazione dell’epoca. In quarto luogo, le nuove interpretazioni americane, se per un verso hanno contribuito a rinnovare la lettura di Hegel sul piano teoretico, mettendo 8 9

Cfr. R. Pippin, What is the Question for which Hegel’s Theory of Recognition is the Answer?, in «European Journal of Philosophy», 8, 2 (2000), pp. 155-172. Cfr. In particolare A. Wildt, Autonomie und Anerkennung. Hegels Moralitätskritik im Lichte seiner Fichte-Rezeption, Klett-Cotta, Stuttgart, 1982; E. Düsing, Intersubjektivität und Selbstbewußtsein. Behavioristische, phänomenologische und idealistische Begründungstheorie bei Mead, Schütz, Fichte und Hegel, Dinter, Köln, 1986; R.R. Williams, Recognition. Ficthe and Hegel on the Other, cit.; F. Fischbach, Fichte et Hegel. La reconnaissance, PUF, Paris, 1999. 11

di nuovo in gioco le soluzioni hegeliane nel dibattito contemporaneo, per altro si sono concentrate quasi esclusivamente sulla Fenomenologia dello spirito e sulle opere della maturità, trascurando la fecondità dei potenziali argomentativi ancora racchiusi nei lavori jenesi. A fronte di tale situazione, ci è parso che per poter soddisfare almeno alcune di queste esigenze occorresse ripercorrere di nuovo il cammino che condusse Hegel ad appropriarsi della nozione di Anerkennung. Di qui la decisione di concentrare la nostra analisi sul periodo jenese (1801-6) che condurrà alla Fenomenologia, indagandone di nuovo la genesi a partire dai manoscritti bernesi e francofortesi e quindi operando una ricostruzione della storia lessicale e concettuale dell’Anerkennung all’interno della costellazione storico-teorica entro cui Hegel si accosta a tale nozione. Nel corso dell’indagine la questione dell’Anerkennung ci è parsa poter costituire il filo conduttore dell’intero cammino di Hegel e in tal senso il nostro lavoro presenta un’interpretazione a tutto campo, anche se non esaustiva, degli scritti jenesi che precedono la Fenomenologia. 3. Un nuovo approccio all’Anerkennung La tesi cui ha condotto la nostra ricerca è che il pensiero di Hegel offra una risposta globale alla domanda sulla natura del riconoscimento. Il riconoscimento è in tal senso un modello che caratterizza la specificità dell’approccio hegeliano ai vari ambiti del sapere filosofico e non si limita alla sola dimensione pratico-politica. Lo scopo generale del nostro lavoro è quindi di mostrare che – esiste una teoria complessiva del riconoscimento: la filosofia di Hegel è tale teoria. Tale tesi è supportata da una nuova interpretazione degli scritti jenesi di Hegel, centrata sulla nozione di ‘riconoscimento naturale’. Di qui la tesi interpretativa secondo cui – il riconoscimento naturale è l’elemento chiave per comprendere la teoria hegeliana dell’Anerkennung. La scoperta della dimensione naturale del riconoscimento – sino ad ora non tematizzata nelle letture di Hegel – consente di ampliare l’estensione del fenomeno riconoscitivo catturato dalle riflessioni hegeliane. La rispo12

sta hegeliana alla domanda circa la natura del riconoscimento comporta dunque la messa a tema della questione filosofica della natura nel suo legame con il problema antropologico della natura umana. In particolare la dinamica del riconoscimento naturale si rivela decisiva per comprendere l’articolazione dei vari livelli del fenomeno riconoscitivo e in tal senso getta una nuova luce sulla concezione hegeliana del Geist. L’assunzione del riconoscimento quale filo conduttore dovrebbe poi contribuire ad una rilettura dell’intinerario jenese di Hegel. Le analisi complessive di questo periodo, infatti, per impulso dell’impresa dell’edizione critica dei manoscritti e delle ricostruzioni dei collaboratori dello Hegel-Archiv, sono state prevalentemente orientate dalla questione metafilosofica dell’evoluzione dei progetti di sistema hegeliani e dal problema della progressiva affermazione nello Hegel jenese – diversamente datata dai vari interpreti – del paradigma teorico della soggettività assoluta o del monismo dello spirito10: un’ipotesi teorica, quest’ultima, in ultima analisi abbracciata, in modi differenti, anche da Habermas, Siep e Honneth, secondo i quali la concezione intersoggettiva non riguarderebbe l’epistemologia e l’ontologia di Hegel, ma si limiterebbe alla filosofia pratica, per essere a un certo qual punto espunta anche da quest’ultima. Centrando la nostra ricostruzione del periodo jenese sul problema del riconoscimento, e vedendo in quest’ultimo un principio organizzatore dell’intera riflessione hegeliana, crediamo da un lato di poter mostrare un elemento di continuità sostanziale nell’itinerario di Hegel che travalica i diversi approcci sistematici adottati. D’altro lato ci sembra che da questa angolatura si possa mostrare concre10 Si vedano almeno i saggi, paradigmatici per il dibattito sul periodo jenese e per le ricostruzioni di tale periodo, di H. Kimmerle, Das Problem der Abgeschlossenheit des Denkens. Hegels System der Philosophie in den Jahren 1800-1804, «HegelStudien», Beiheft 8 (1970, 19872), Bouvier, Bonn; R.-P. Horstmann, Probleme der Wandlung in Hegels Systemkonzeption, in «Philosophische Rundschau», 19, 1-2 (1972), pp. 87-118; O. Pöggeler, Hegels Jenaer Systemkonzeption, in Id., Hegels Idee einer Phänomenologie des Geistes, Alber, Freiburg-München, 1973, pp. 110-169; K. Düsing, Idealistische Substanzmetaphysik. Probleme der Systementwicklung bei Schelling und Hegel in Jena, in D. Henrich, K. Düsing (a cura di) Hegel in Jena, «Hegel-Studien», Beiheft 20 (1980), Bouvier, Bonn, pp. 25-44, e la ripresa recente di tali problematiche in K. Düsing, Von der Substanzmetaphysik zur Philosophie der Subjektivität. Zum Paradigmenwechsel Hegels in Jena, in H. Kimmerle (a cura di), Die Eigenbedeutung der Jenaer Systemkonzeptionen Hegels, Akademie Verlag, Berlin, 2004, p. 185-200. Quanto al problema della progressiva «chiusura» del sistema hegeliano, a scapito della concezione intersoggettiva (e protomaterialistica) dei primi abbozzi, l’opera di riferimento per la letteratura successiva rimane H. Kimmerle, Das Problem der Abgeschlossenheit des Denkens, cit. 13

tamente che – la concezione riconoscitiva organizza anche l’epistemologia e l’ontologia e non è mai stata effettivamente abbandonata da Hegel, improntando la stessa nozione di spirito a partire dalla sua genesi. Infine, l’esplicitazione del contenuto dei testi jenesi alla luce della questione concettuale del riconoscimento dovrebbe poterne rendere disponibili diversi potenziali argomentativi e introdurli nel dibattito aperto dalle nuove interpretazioni pragmatiste. In tal senso la nostra interpretazione di Hegel fa capo ad una ricostruzione razionale, nella misura in cui ci crediamo che – la teoria hegeliana dell’Anerkennung permette di profilare un modello teorico che può offrire una soluzione valida ad alcuni problemi in cui incorrono le concezioni contemporanee del riconoscimento. In particolare tali modelli, essendo centrati sulla dimensione normativa e pratica, e non tematizzando il legame di quest’ultima con la dimensione naturale del riconoscimento, finiscono o per essere circolari o per introdurre il riconoscimento quale un mero presupposto, come un colpo di pistola (un fenomeno di bootstrapping) con cui inizierebbe dal nulla il mondo sociale normativamente articolato. La prospettiva hegeliana, invece, se esplicitata in un vocabolario contemporaneo e integrata alla luce dei nuovi problemi che sorgono nella costellazione contemporanea, potrebbe costituire il punto di partenza per un approccio alternativo. 4. Metodologia e piano dell’opera La presente indagine prende dunque ad oggetto la teoria hegeliana del «riconoscimento[Anerkennung]» e si propone il triplice compito di delinearne l’evoluzione – in particolare tra il 1801 e il 1806 – di esplicitarne il contenuto concettuale, e di indicare insieme alcune linee di una sua possibile riattualizzazione teorica. La trattazione è suddivisa in tre sezioni: nella prima si illustra in chiave epistemologica la questione del riconoscimento in rapporto al problema dello scetticismo negli scritti francofortesi e jenesi e si indaga l’evoluzione lessicale e concettuale del termine; nella seconda parte si ricostruisce analiticamente la concezione hegeliana del ‘riconoscimento naturale’ negli scritti jenesi che precedono la Phänomenologie des Geistes; nella terza parte si analizza in dettaglio la concezione evolutiva del 14

riconoscimento spirituale e della costituzione del mondo sociale che Hegel espone nelle lezioni di filosofia dello spirito del 1805-6. Da un punto di vista metodologico nel nostro modo di procedere vengono a convergere le seguenti impostazioni. In primo luogo (prima parte, primo capitolo) seguiamo la metodologia esplicitante (to make explicit) messa a punto da Brandom sulla scorta di Hegel e riteniamo che, adottando per così dire dall’esterno un vocabolario filosofico contemporaneo, sia possibile articolare contenuti di pensiero di un autore che sino ad ora erano rimasti impliciti e non disponibili 11. Questo metodo di di ricostruzione razionale – per usare una nozione che nella filosofia tedesca contemporanea, da Hermann Cohen a Jürgen Habermas, ha improntato su diverse sponde filosofiche l’approccio sistematico a questioni storiche – ci dovrebbe permettere di ricavare e sviluppare gli argomenti teorici più forti compatibili con il testo12. Poiché intendiamo adottare il metodo ricostruttivo all’interno di una ricerca di tipo storico-filosofico, abbiamo però anche l’onere di mostrare che l’aspetto inedito che emerge da tale approccio non è semplicemente calato dall’esterno ma corrisponde ad un bisogno teorico che era presente già all’interno dell’oggetto trattato ed è compatibile con il suo aspetto testuale. Per rispondere a tale esigenza facciamo innanzitutto ricorso (prima parte, primo e terzo capitolo), sulla scorta delle ricerche di Dieter Henrich, al metodo d’indagine per costellazioni storico-problematiche13. Si tratta in questo caso di ricostruire la posizione di un autore all’interno della costellazione teorica del dibattito che a quel tempo si svolgeva sul medesimo argomento. Ciò può consentire, attraverso il ricorso ad autori anche minori, di riportare alla luce questioni teoriche che, con il mutare dei paradigmi concettuali, sono state in seguito dimenticate ed il cui profilo può essere ricuperato anche attraverso una riformulazione del loro contenuto in un linguaggio attuale. All’indagine per costellazioni riteniamo poi di poter affiancare un’analisi di tipo lessicografico (prima parte, secondo capitolo) volta a delineare l’evoluzione e la differenziazione, nel linguaggio comune 11 Cfr. R.B. Brandom, Making it Explicit. Reasoning, Representing and Discursive Commitment, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1994; Id., Tales of the Mighty Dead. Historical Essays in the Metaphysics of Intentionality, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 2002. 12 Per un’elaborazione dell’idea di razionalità ricostruttiva rinviamo a I. Testa, Brandom’s Reconstructive Rationality. Some Pragmatist Themes, in Towards an Analytic Pragmatism. Workshop on Bob Brandom’s Recent Philosophy of Language, edited by C. Penco, C. Amoretti and F. Pitto, CEUR Workshop, Aachen, 2009: http://ceur-ws.org/Vol-444, pp. 1-7. 13 Cfr. D. Henrich, Konstellationen. Probleme und Debatte am Ursprung der idealistischen Philosophie (1789-1795), Klett-Cotta, Stuttgart, 1991. 15

e specialistico del tempo, dei termini «Anerkennen» e «Anerkennung» – entrati in uso proprio alla fine del Settecento –, il che ci dovrebbe aiutare a far riemergere altri aspetti del fenomeno riconoscitivo. Quindi, sulla base di un’esplicitazione – dapprima dall’esterno – del contenuto teorico della nozione di riconoscimento, e di una giustificazione di tale procedimento attraverso la riscoperta all’interno del dibattito e nel lessico dell’epoca del medesimo problema teorico dischiuso attraverso la ricostruzione razionale, procediamo (seconda e terza parte) a giustificare testualmente la nostra interpretazione attraverso una ricostruzione storico-genetica dell’evoluzione dell’Anerkennung nel periodo jenese di Hegel. Epistemologia del riconoscimento naturalizzato Entrando nel merito dell’indagine, nella prima parte la questione del riconoscimento viene messa a tema in una prospettiva epistemologica. Nella letteratura su Hegel per lo più si è visto nella teoria dell’Anerkennung una risposta alla domanda circa le condizioni di formazione dell’identità pratica dell’autocoscienza: risposta rilevante nel campo della morale, dell’etica, del diritto e della politica. A nostro avviso invece, anche per comprendere l’effettivo significato del riconoscimento pratico, è opportuno comprendere preliminarmente che la teoria del riconoscimento è anche una risposta a problemi di teoria della conoscenza e sorge in relazione all’interesse manifestato dal giovane Hegel circa il rapporto tra scetticismo antico e scetticismo moderno. Il primo capitolo, che funge da introduzione complessiva, pone alcune tesi generali che guideranno tutta l’indagine ed abbraccia così, sub specie scepticismi, l’intero percorso storico che sarà trattato analiticamente nella seconda parte. La nostra chiave di lettura epistemologica viene suffragata storicamente ponendo in luce come sia proprio nel dibattito sorto intorno alle conseguenze scettiche del kantismo che si è imposta storicamente la questione dell’intersoggettività. D’altra parte si mostra come all’interno di questa costellazione scettica Hegel, sin dal periodo di Francoforte, maturi un’originale comprensione della filosofia come metodo antinomico, ispirato allo scetticismo antico, e sulla cui base egli pensa la struttura logica del riconoscimento come relazionalità degli opposti. Inoltre si mostra come Hegel si serva negli anni successivi di tale concezione per criticare i presupposti dualistici che stanno alla base dell’epistemologia moderna e le cui conseguenze ultime sono la scepsi circa il mondo esterno e le altre menti. Il contenuto teorico dell’attacco hegeliano all’epistemologia moderna vie16

ne esplicitato nelle seguenti tesi: 1) Hegel naturalizza le questioni epistemologiche; 2) per far ciò critica il fondazionalismo in quanto teoria della conoscenza empirica e 3) in quanto teoria della giustificazione epistemica; 4) la critica al fondazionalismo si lega ad una critica della corrispondente teoria rappresentazionalista della percezione, rispetto alla quale Hegel delinea un modello alternativo di tipo pragmatico-interazionale; 5) ciò si lega ad una critica delle teorie monologiche dell’autocoscienza e allo sviluppo di un modello esso stesso pragmatico-interazionale del sorgere del sapere autocosciente; 6) Hegel sintetizza queste vedute epistemologiche in una teoria del conoscere in quanto riconoscere; 7) il riconoscimento non ha solo un’articolazione sociale ma è anche un fenomeno naturale e in quanto tale non è identico all’intersoggettività strutturata linguisticamente; 8) la concezione hegeliana dell’Anerkennung va dunque ricostruita entro la relazione dialettica tra riconoscimento naturale e riconoscimento spirituale, prima e seconda natura, e può essere esplicitata in chiave ontologico-sociale come una teoria che indaga la genesi e la struttura delle disposizioni e delle capacità che rendono possibile l’istituzione di un mondo sociale. Un’analisi lessicografica e per costellazioni: il caso della Recognition Nel secondo capitolo, dopo aver guadagnato lo sfondo epistemologico entro il quale si collocano le ricerche giovanili di Hegel, si tenta di delineare la genesi lessicale del termine «anerkennen» e dei suoi derivati e l’evoluzione dei concetti filosofici ad essi legati nella lingua tedesca: ciò dovrebbe consentirci di riscoprire anche su di un piano storico quella dimensione logico-gnoseologica del riconoscimento che Hegel ha certamente colto ma che è stata successivamente obliata, sino ai giorni nostri, a favore di una comprensione unilateralmente pratica di tale fenomeno. Il composto «anerkennen» viene introdotto nell’uso in campo giuridico per differenziare quei casi in cui «erkennen» implica il riconoscere la validità di norme, accezione che nel clima post-kantiano – in cui i concetti saranno compresi come regole – verrà a convergere con il riconoscimento logico in quanto riconoscimento della verità di un giudizio. Il termine viene inoltre ad assumere accezioni assiologiche di tipo pratico e morale, ove riconoscere significa apprezzare, stimare. Se Fichte è ritenuto generalmente colui che, intorno al 1793, muovendo dall’accezione giuridica – resa di uso pubblico da Goethe – avrebbe introdotto il termine in campo filosofico, la nostra ricostruzione mostra invece come già da prima Ernst Platner avesse usato il termine 17

«Anerkennung» in accezione pratico-morale nel campo di un’indagine sulle inclinazioni sensibili dell’uomo. In secondo luogo la nostra ricerca permette di identificare alcuni usi teoretici del termine che non provengono direttamente da Fichte e che si legano essenzialmente a due questioni, vale a dire alla reidentificazione nella memoria e alla teoria dell’appercezione. Ciò ci conduce a ricostruire la parentela tra «anerkennen», «wiedererkennen» e «recognisieren» e ad appuntare la nostra attenzione sulla teoria kantiana della «Recognition». Se il termine tedesco «Recognition» risulta essere un neologismo kantiano, non altrettanto vero ci sembra che tale vocabolo sia assente dal lessico filosofico precedente. Infatti, è possibile ricostruirne l’origine nella psicologia associazionista – in particolare Charles Bonnet – e la parentela con la teoria wolffiana della memoria come «Recognitio». Su questa strada incontriamo di nuovo Ernst Platner come colui che, anche all’interno di un confronto con Immanuel Kant, ha utilizzato la nozione di «Anerkennen» come chiave di volta della comprensione delle facoltà conoscitive e come punto di collegamento tra la questione della memoria e quella dell’autocoscienza: e in tal senso la teoria platneriana dello Streben des Anerkennens si rivela anche la fonte nascosta della dottrina hegeliana della Begierde. Platner così porta in luce per primo in modo esplicito il fenomeno teoretico del nesso tra riconoscimento delle immagini, reminescenza e riconoscimento di sé. Quindi cerchiamo di mostrare come la posizione di Platner possa aver influenzato Fichte e lo stesso Hegel, nel cui giovanile Manoscritto di filosofia e psicologia trascendentale si può chiaramente cogliere la connessione tra teoria della memoria, «Recognition» kantiana e «Anerkennen» nel senso di Platner – e con ciò un primo movimento verso l’integrazione dei diversi piani strutturali del fenomeno riconoscitivo. Nel terzo capitolo appuntiamo la nostra attenzione sugli scritti hegeliani del primo biennio jenese, cercando di mostrare come già in essi si riscontri un’estensione della problematica del riconoscimento rispetto all’uso fichtiano. Se, come abbiamo sostenuto nel primo capitolo, vi è un legame tra il problema del riconoscimento e la questione scetticoantica dell’antinomia/equipollenza, allora diventa importante accertare anche quale ruolo giochi la famiglia lessicale legata al riconoscimento in autori dell’epoca, oggi considerati minori – in particolare Friedrich Bouterwek, Wilhelm Traugott Krug, Johann Friedrich Christian Werneburg – con le cui posizioni Hegel entrò in contatto nei primi anni jenesi e che si confrontavano contemporaneamente con il problema della scepsi e con la teoria dell’autocoscienza. In particolare questa indagine ci per18

mette di identificare nel dialogismo di Werneburg un’interessante e sino ad ora non riconosciuta fonte di alcune concezioni hegeliane. La teoria hegeliana del riconoscimento naturale Nella seconda parte del nostro lavoro affrontiamo invece una ricostruzione interna dell’evoluzione del concetto di «Anerkennung» negli scritti jenesi dal 1801 al 1803-4. L’interesse teorico sotteso alla nostra esposizione è quello di capire in che senso Hegel negli anni jenesi abbia formulato una teoria generale del riconoscimento che prende le mosse dalla dimensione naturale dell’Anerkennung. Nel quarto capitolo iniziamo ad affrontare tale questione a partire dalla filosofia della natura di Hegel. Infatti Hegel, già nel periodo francofortese, comprende l’autocoscienza come una forma di organizzazione della vita e, almeno a partire dalla Differenzschrift, intende il riconoscimento anche come un fenomeno che riguarda la prima natura biologica e che è già presente nelle interazioni animali. Pur senza trascurare l’influenza sulle concezione hegeliana dell’«Anerkennung» tradizionalmente attribuita dalla critica alla Grundlage des Naturrechts di Fichte, riteniamo tuttavia di poter identificare in Rousseau e soprattutto nella Naturphilosophie di Friedrich Schelling le più importanti fonti della teoria del riconoscimento naturale. In seguito vengono illustrate le conseguenze che la concezione naturale del riconoscimento ha per la teoria della conoscenza e della coscienza di Hegel. In particolare ci si sofferma sulla concezione dell’organismo nelle lezioni di filosofia della natura del 1803-4, mostrando come in esse venga delineata una storia naturale dell’evoluzione della relazione cosciente a sé a partire dalle interazioni che un sé organico dotato di capacità riconoscitive e comunicative detiene con i suoi simili – in particolare all’interno delle relazioni sessuali – e con l’ambiente. Il riconoscimento primo naturale di tipo sessuale è così l’esito più alto del processo naturale di individuazione, nel quale si manifesta il carattere intimamente sociale della natura, e nello stesso tempo il punto di partenza della Bildung umana: a questo livello emerge quindi la connessione dialettico-evolutiva tra prima natura biologica e seconda natura culturale. Vi è così in Hegel un piano riconoscitivo che precede l’istituzione dell’intersoggettività umana linguisticamente mediata e normativamente articolata. Proprio per questo motivo la teoria del riconoscimento hegeliana può spiegare la costituzione dell’intersoggettività a partire dall’interazione senza già presupporla; e ciò non sarà privo di conseguenze anche per la filosofia dello spirito e per la comprensione hegeliana dell’agire sociale. La concezione hegeliana del 19

riconoscimento naturale viene quindi indagata, nella dimensione della seconda natura etica, in relazione alla nozione di «eticità naturale» utilizzata negli scritti etico-politici del 1802-3, entro i quali si rintraccia una concezione dell’umano come «potenza» riconoscitiva che consente di pensare al riconoscimento in termini di disposizioni e capacità. Nel quinto capitolo ci si sofferma in particolare sulla teoria della coscienza e sull’analisi del processo teoretico e pratico, entrambe contenute nelle lezioni di filosofia dello spirito del 1803-4. Qui Hegel mostra come l’intersoggettività umana si costituisca attraverso una riorganizzazione, ad un nuovo livello di complessità – che implica una strutturazione assiologica forte e insieme normativa – di quei processi naturali intimamente sociali che erano già stati identificati nella vita animale; con ciò egli può dar conto di come la coscienza animale sia ripresa nella coscienza umana e dia luogo alla seconda natura del sapere autocosciente mediato linguisticamente. In secondo luogo Hegel ha l’esigenza di mostrare che, una volta assunto il punto di vista imprescindibile della coscienza, questo non deve essere tuttavia assolutizzato – come accade invece nell’idealismo gnoseologicosoggettivo ma anche in Kant e in Fichte: piuttosto, tale punto di vista deve essere condotto dall’interno a riconoscere la sua strutturale mediazione riconoscitiva e così a trascendersi. La coscienza, in ultima analisi, è un «medio» di medi. Ciò non significa che la coscienza sia ciò da cui ora Hegel deduce quei medi – il riconoscimento, il lavoro, il linguaggio – che nel 1802-3 aveva posto come costitutivi dell’eticità: piuttosto, la coscienza è medio dei medi in quanto essa è costituita dai medi come il momento in cui tale costituzione assume la forma di un sapere. Da questo punto di vista riteniamo di poter fornire qualche argomento contro le interpretazioni che vedono invece nell’assunzione della tematica della coscienza una ricaduta nel ‘coscienzialismo’ da parte di Hegel e quindi l’inizio della chiusura del sistema. Seguendo questa problematica abbiamo anche modo di riprendere le questioni di tipo epistemologico sollevate nell’introduzione e di esplicitare in questa luce il significato della dottrina della coscienza. Hegel, pensando la coscienza come medio costituito all’interno di processi riconoscitivi naturali e sociali né soggettivi né oggettivi, può render conto dell’unità di riferimento a sé, riferimento agli altri e riferimento oggettivo. La costituzione riconoscitiva della soggettività cosciente e dell’intersoggettività è così nello stesso tempo la costituzione dell’oggettività cui tale soggettività può riferirsi. Infine prendiamo in esame la teoria dello spirito che Hegel sviluppa a partire dalla comprensione della coscienza come medio: con lo spirito Hegel mette a tema la dimensione specificamente universale e concettuale dell’interazione riconoscitiva e con ciò esplicita 20

anche le condizioni di costituzione del sapere di sé e del mondo sociale. In particolare si mostra che Hegel, prendendo in esame la relazione pratica, vede nel conflitto riconoscitivo ciò che media sia l’individualizzazione delle coscienze sia la loro inclusione nella comunità sociale. Anche per questo il linguaggio discorsivo non può per Hegel esaurire il significato della razionalità riconoscitiva, giacché esso da un lato presuppone il riconoscimento naturale; dall’altro non può abbracciare la sfera di negatività che è propria del conflitto; in terzo luogo, per la sua intrinseca volatilità, non può produrre da sé nessun «riconoscimento reale», stabilizzato in abiti individuali e istituzioni. Dalla prima alla seconda natura Nella terza parte della nostra indagine si analizza quindi la teoria del riconoscimento spirituale presente negli scritti del 1805-6 e se ne illustra il ruolo sistematico e riassuntivo, mostrando come Hegel, attraverso la sua teoria della genesi della coscienza, della costituzione interazionale dell’autocoscienza e della sua articolazione spirituale, abbia formulato in questi scritti una concezione che ricomprende in modo unitario i vari livelli (naturale, cognitivo, pratico-assiologico, logico-normativo, istituzionale) del fenomeno riconoscitivo. Nel sesto capitolo l’oggetto della nostra indagine è la sezione «intelligenza» delle lezioni di filosofia dello spirito. Qui poniamo in luce come Hegel sviluppi ora la concezione della coscienza come medio in termini logici, interpretando la struttura mediazionale attraverso una lettura speculativa del sillogismo. Poiché la mediazione sillogistica verrà esposta come struttura generale dello spirito – consistente nell’unità oppositiva di riferimento a sé e riferimento ad altro – la coscienza risulterà essere solo un caso specifico di tale mediazione. Anche per questo motivo Hegel, trattando la potenza teoretica, non avrà più bisogno di analizzarla come un processo oggettivo di mediazione coscienziale: egli potrà indagare da subito la costituzione della coscienza individuale senza con ciò temere di cadere in una prospettiva solipsistica e dualistica. Per questo stesso motivo Hegel potrà infine tematizzare esplicitamente quella nozione di autocoscienza che era rimasta sullo sfondo nel 1803-4 ed in base ad essa portare a compimento la sua critica delle teorie contemporanee dell’appercezione trascendentale e dell’io assoluto. Nello stesso tempo cerchiamo di mostrare come nella sezione «intelligenza» emerga anche quel nesso tra reidentificazione, memoria e autocoscienza che avevamo ricostruito nella prima parte attra21

verso l’analisi della storia dei termini «anerkennen», «wiedererkennen» e «Recognition». Quindi sosteniamo che Hegel, pur mettendo in luce i limiti del linguaggio, nello stesso tempo valorizza la funzione categoriale che la mediazione simbolica, proprio in quanto discorsiva, detiene rispetto all’esperienza di oggetti e all’esperienza autocosciente di sé come di un io. Ciò non fa però capo ad una forma di idealismo linguistico, perché il medio linguistico è a sua volta mediato sia alle sue spalle dai processi naturali e sociali sia in avanti dall’articolazione olistica di tipo logico-concettuale propria del pensiero. Nel settimo capitolo passiamo invece ad analizzare la sfera della volontà nelle lezioni del 1805-6. Questo è anche il luogo in cui Hegel formula nel modo più chiaro – proprio a partire dalla tematizzazione del riconoscimento naturale tra i sessi come sfera in cui emerge l’intersoggettività umana – l’idea che «conoscere è riconoscere»: il riconoscimento è così il processo in cui le modalità della conoscenza oggettiva, della conoscenza di sé e della conoscenza degli altri sono istituite simultaneamente. In tal senso va a nostro avviso interpretata in termini hegeliani la tesi circa la priorità genetica e concettuale del riconoscimento sulla conoscenza oggettiva. A questo passaggio, decisivo per la nostra lettura dell’Anerkennung hegeliana, dedichiamo una ricostruzione dettagliata, mettendo anche in luce come questa dottrina si connetta alla Logik und Metaphysik elaborata da Hegel nel 1804-5. La sfera della volontà segna però anche il passaggio dalla determinazione logico-gnoseologica del riconoscimento alla sua posizione concreta quale principio di comprensione dell’interazione sociale: il riconoscimento è propriamente ciò che permette di comprendere la fondamentale unità di queste due sfere, dunque l’unità di autocoscienza teoretica e autocoscienza pratica. In questo contesto abbiamo così modo di osservare quale sia il significato della transizione dialettica dal riconoscimento primo naturale, inteso come una forma di interazione che interviene tra sé organici e sensibili, al riconoscimento spirituale o secondo naturale – nel quale sono coinvolti individui dotati di superiori capacità cognitive e pratiche – e di come questo passaggio sia decisivo per comprendere la teoria hegeliana della personhood. Dal punto di vista degli individui, ciò comporta l’emergere, attraverso il conflitto, di una capacità assiologica forte di riconoscere sé e gli altri non più solo come esseri particolari sensibili, ma anche nel valore di esseri universali, per sé, di persone in grado di riconoscere norme e di vincolarsi autonomamente ad esse. Se il sé naturale è comunque una componente imprescindibile dell’individuo, si deve però anche poter dar conto di come gli uomini apprendano ad identificare e ad apprezzare se stessi e gli altri con predicati normativi e di come 22

ciò sia costitutivo dell’essere persona. A questo fine rispondono le analisi che Hegel ora offre dell’educazione e, sul piano sociale, della lotta per il riconoscimento, la quale esprime il momento dialettico della transizione dalla prima alla seconda natura – un transizione che pertanto deve sempre di nuovo essere ripercorsa e che non è mai di per sé garantita. Nello stesso tempo questa teoria serve anche come ricostruzione ontologico-sociale della genesi dell’istituzione del diritto, in quanto essa esplicita il tipo di capacità cognitive e pratiche che sono richieste per poter costituire, utilizzare e attribuire il concetto giuridico di persona. A ciò corrisponde una capacità riconoscitiva di tipo non solo reidentificativo e assiologico ma avente anche una struttura di validità, in quanto rivolta ad oggetti sociali che devono poter essere riconosciuti anche nella loro validità di norme o nella loro capacità di vincolarsi a norme. All’interno della sfera della volontà il riconoscimento normativo – quale aspetto del riconoscimento spirituale – è visto per lo più nei termini di interazioni diadiche tra individui: sarà invece nell’eticità che Hegel potrà prendere in considerazione quel tipo di interazioni amministrate collettivamente che sono mediate dal noi comunitario e che pertanto riguardano il rapporto dei cittadini con le istituzioni già formate. L’ontologia sociale del riconoscimento Nell’ottavo capitolo si prendono infine in esame le sezioni delle lezioni del 1805-6 dedicate allo «spirito reale» e alla «costituzione» e se ne esplicita il significato per l’ontologia sociale del riconoscimento. Qui abbiamo modo di osservare come Hegel ampli e differenzi quella nozione di riconoscimento universale che egli già nel 1803-4 aveva utilizzato per descrivere la costituzione della sfera dell’essere sociale. Riprendendo il riconoscimento universale all’interno della categoria del «riconoscimento spirituale», Hegel può ricostruire la genesi delle istituzioni sociali a partire dall’interazione ed esplicitare i diversi livelli assiologici e normativi di organizzazione del mondo sociale che così emergono: livelli che vanno dall’universalità immediata del diritto all’universalità concreta della comunità statale. Dopo aver ricostruito la genesi del diritto a partire dalla lotta per la vita e la morte, Hegel ora considera il diritto nel nesso con le interazioni sociali del lavoro e dello scambio. Analizzando la struttura riconoscitiva di tali interazioni, Hegel mostra come esse siano coordinate da atti di riconoscimento attraverso i quali i partecipanti all’azione – intesi quali valutatori pratici, soggetti assiologici – istituiscono un consenso 23

normativo. In tal modo Hegel ha anche modo di delineare la genesi sociale della nozione di validità, ricostruendo quel nesso tra riconoscimento e validità di norme che emergeva dall’origine giuridica dell’«anerkennen» e servendosene più in generale per caratterizzare il carattere normativo del significato linguistico. Quindi mostriamo come Hegel, ponendosi il problema di come possano essere garantite la validità e il rispetto del consenso istituito nelle relazioni di diritto, introduca una nozione di «legge» intesa come un potere intersoggettivo di tipo riconoscitivo. Con questo passaggio Hegel inizia a considerare non più soltanto interazioni diadiche tra individui intenzionali bensì interazioni triadiche ove il rapporto tra gli individui è nello stesso tempo mediato da un’intenzionalità condivisa ed esprime così un rapporto alle istituzioni, intese come un universale che gli individui riconoscono come vigente ed entro al quale sono a loro volta riconosciuti. Il successivo percorso delle lezioni di Hegel mostra quindi come l’universale riconoscitivo della legge sia in ultima analisi il medium oggettivo della vita e del sapere di un popolo vivente, di una comunità intersoggettiva che esprime modi d’agire comuni organizzati politicamente. Qui Hegel ha anche modo di portare a compimento la sua concezione del sapere autocosciente e dell’identità personale: l’identità autocosciente di soggetti autonomi ed unici può svilupparsi come tale solo in quanto la base primo naturale del sé, costituita nelle interazioni primarie, può sviluppare abiti secondo naturali d’interazione stabilizzati entro processi istituzionali di formazione. Nel seguito si indaga la presenza del riconoscimento all’interno dell’analisi hegeliana della genesi della costituzione statale, mostrando come la critica di Hegel al contrattualismo sorga dal fatto che a suo avviso il consenso normativo proprio del contratto presuppone una forma riconoscimento naturale e assiologico di tipo pre-contrattuale. Nell’ultima parte sosteniamo quindi che l’organizzazione gerarchica che Hegel conferisce allo Stato in primo luogo non è dovuta, come sostenuto invece da più parti, all’abbandono finale di un paradigma intersoggettivo a favore di una teoria autoreferenziale dello spirito assoluto, quanto piuttosto al fatto che Hegel non introduce le relazioni conflittuali come elemento costitutivo della vita politica ma le pone invece come pre-condizioni dell’istituzione dello Stato e come modalità di relazione tra Stati sovrani. In secondo luogo la scelta a favore di una organizzazione gerarchica dello Stato è dovuta al fatto che nell’organizzazione interna della costituzione statale Hegel fa prevalere, con un’opzione realista, le relazioni di riconoscimento reciproco diseguali su quelle caratterizzate dal requisito dell’uguaglianza. Infine si sostiene che alla fine delle lezioni arte, religione e scienza sono comprese da Hegel come quelle pratiche sociali simboliche in cui si articola il sapere sociale 24

oggettivato nei nessi di interazione comunitaria. Il divenire consapevole di se stesso da parte dello spirito assoluto, già presente in sé nello Stato, non è quindi in tal senso una revoca finale dell’intersoggettività in una sorta di monologo originario, come sostenuto dai critici del sapere assoluto hegeliano, bensì è il modo in cui il sapere accumulato e oggettivato nei processi di interazione sociale viene esplicitato e reso disponibile espressivamente. 5. Un confronto con Ricoeur e Honneth Questa indagine riprende in forma rielaborata le prime due parti della dissertazione di dottorato «Riconoscimento naturale e autocoscienza sociale. Ricostruzione e ripresa della teoria hegeliana dell’Anerkennung», discussa nel Febbraio 2002 presso l’Università di Venezia: la terza parte di quel lavoro, intitolata «Verso una teoria generale del riconoscimento», e dedicata ad una riattualizzazione sistematica della teoria del riconoscimento naturale entro la discussione contemporanea, ha nel frattempo preso la forma di uno studio autonomo che uscirà come secondo volume de La natura del riconoscimento14. La pubblicazione, nel 2004, degli studi di Paul Ricoeur dedicati alla tematica del riconoscimento15, ha corroborato su un altro terreno la tesi, da cui prendeva le mosse anche il nostro lavoro, circa la necessità di estendere il fenomeno del riconoscimento al di fuori dell’ambito pratico-politico in cui sembra essere stato sino ad ora confinato, per porre quindi le basi per una teoria generale del riconoscimento che ne abbracci insieme l’aspetto teoretico e quello pratico. L’esortazione di Ricoeur a percorrere il terreno, a suo avviso inesplorato, di una teoria comprensiva del riconoscimento, è stata così uno stimolo alla pubblicazione della nostra ricerca, il cui ap14 Alcune parti di questo lavoro sulla tematica del riconoscimento naturale nella costellazione contemporanea sono state anticipate nei seguenti articoli: I. Testa, Riconoscimento naturalizzato. Una soluzione scettica al dibattito sull’autocoscienza tra Henrich, Tugendhat e Habermas, in P. Costa, M. Rosati, I. Testa (a cura di), Ragionevoli Dubbi. La critica sociale tra universalismo e scepsi, Carocci, Roma, 2001, pp. 67-90; Id., Familiarità con sé e relazione ad altri. Sulle aporie dell’autocoscienza riflessiva, in «La società degli individui», 17, 2 (2003), pp. 33-50; Id., Naturalmente sociali. Per una teoria generale del riconoscimento, in A. Bellan, I. Testa (a cura di), Hegel e le scienze sociali, in «Quaderni di Teoria Sociale», 5 (2005), pp. 165-217. 15 P. Ricoeur, Parcours de la reconnaissance. Trois études, Stock, Paris, 2004, trad. it Percorsi del riconoscimento, a cura e con una nota introduttiva di F. Polidori, Cortina, Milano, 2005. 25

proccio metodologico e i cui risultati ci sembrano ora poter essere misurati anche in relazione alle analisi del filosofo francese. In Parcours de la reconnaissance Ricoeur prendeva le mosse dalla constatazione della strana situazione per cui, all’assenza di una teoria filosofica propriamente detta, corrisponde, nel linguaggio, una ben regolata polisemia lessicale della famiglia di vocaboli che nella lingua francese ruotano attorno alla fenomenologia del riconoscimento16. Per questo l’esplorazione del fenomeno del riconoscimento deve essere preceduta per Ricoeur da un’analisi lessicografica che consenta una prima mappatura del campo e quindi spiani la strada per l’edificazione di una teoria filosofica ad esso relativa. L’assenza, nell’orizzonte contemporaneo, di una simile teoria, è però a nostro avviso più l’indice di una soluzione di continuità nella coscienza filosofica del problema che non della mancanza di consapevolezza a tale riguardo nella storia del pensiero. In particolar modo la filosofia jenese di Hegel ci sembra il primo luogo in cui storicamente la globalità del problema del riconoscimento – quindi non soltanto la sua sfera pratico-morale e politica, la cui scoperta Ricoeur, in linea con la tradizione interpretativa, attribuisce appunto al filosofo tedesco – viene rispecchiata e compresa da uno sforzo sistematico di teorizzazione. Da questo punto la filosofia jenese di Hegel non è solo uno dei tanti torsi che una archeologia di aspetti parziali del riconoscimento può allineare nella sua galleria – che nel caso di Ricoeur comprende essenzialmente Cartesio, Kant, Hegel e Bergson. Per liberare quanto di implicito ancora rimane nel discorso di Hegel e per riprendere il filo – spezzato dalla successiva frattura nella coscienza filosofica del problema e della ricezione dimidiata dell’eredità del filosofo tedesco –, è a nostro avviso necessario un lavoro teorico che ridefinisca la negletta sfera epistemologica del riconoscimento e quindi proceda a ricostruire la costellazione storico-problematica entro la quale la primitiva visione hegeliana era venuta articolandosi. Questi due piani dell’indagine si incrociano a nostro avviso proprio sul campo di una analisi lessicografica. A differenza dell’analisi di Ricoeur – condotta sul Littré del 1859-1872 e sul Grand Robert del 1985 –, che riguarda la lingua francese corrente ed è fondamentalmente sincronica, il nostro lavoro segue la pista diacronica di una ricostruzione della genesi e dell’evoluzione della famiglia lessicale dell’Anerkennung nella lingua tedesca del Settecento. A tal fine è necessario allargare l’indagine dai lessici generali ai lessici filosofici – aspetto che nell’indagine di Ricoeur resterà precluso a causa dell’assunto che non sia esistita sino ad ora una teoria filosofica del ricono16 P. Ricoeur, Parcours de la reconnaissance, cit., trad. it. p. 31. 26

scimento –, seguendo anche una parte delle vicende del lessico riconoscitivo proprio delle tradizione filosofica inglese e francese, del cui apporto si nutre la filosofia tedesca del Settecento. Questo approccio consente, come si vedrà nel corso dell’analisi, di confermare in alcuni casi, e di criticare in altri, l’archeologia del riconoscimento tracciata da Ricoeur, aprendo insieme piste differenti d’indagine. Così la distinzione sistematica tracciata da Ricoeur tra tre principali accezioni lessicali del «reconnaître» nella lingua francese – identificare, ammettere come vero, essere riconoscenti – e tre dimensioni strutturali della teoria del riconoscimento ad esse collegabili – riconoscimento come identificazione oggettuale, riconoscimento di sé come attestazione, riconoscimento reciproco17 – potrà essere messa alla prova nella sua consistenza su di un’area linguistica e in una famiglia filosofica diversa rispetto a quello delimitata dalla ricostruzione del filosofo francese. Per altro verso l’eidetica del riconoscimento fissata da Ricoeur è insieme un importante banco di prova per valutare la fondatezza della nostra tesi per cui una teoria del riconoscimento abbracciante i vari livelli del fenomeno sarebbe già presente nel lavoro jenese di Hegel. Va poi osservato che il filo conduttore scelto da Ricoeur per rendere intelligibile la dinamica del riconoscimento, vale a dire il motivo che governa la transizione da una dimensione strutturale all’altra – il passaggio dal senso attivo del riconoscere alla declinazione passiva del verbo, legata principalmente all’accezione del riconoscere come essere riconoscenti e quindi al livello sistematico della mutualità, cui viene assegnata così priorità normativa in senso teleologico – sembra essere in qualche modo ispirato al bisogno di riconoscimento enucleato dalla dialettica dell’autocoscienza nella Fenomenologia di Hegel18. Quest’ultimo, tuttavia, nella ricerca di Ricoeur viene ancora collocato esclusivamente all’interno dell’archeologia della sfera riconoscitiva di tipo pratico-morale. La ricostruzione complessiva della sfere riconoscitive abbracciate da Hegel dovrebbe così consentirci pure di valutare se un filo conduttore analogo a quello scelto da Ricoeur governi la dinamica della teoria hegeliana o se invece l’elemento attivo – come avremo modo di sostenere – non risulti invece ineliminabile anche per la dimensione strutturale della reciprocità e non debba così essere analizzato nella sua articolazione normativa e reso prioritario rispetto all’esperienza di passività della gratitudine privilegiata da Ricoeur. La nostra analisi dello Hegel jenese ci porterà così a ripensare in profondità l’articolazione e la dinamica dell’Anerkennung, con conseguenze a nostro 17 Ivi, pp. 21 e sgg. 18 Ivi, pp. 4 e 23-25. 27

avviso importanti per chi voglia elaborare nella costellazione contemporanea una teoria generale del riconoscimento. In particolare arriveremo a stabilire che il riconoscimento si sviluppa e organizza evolutivamente su due livelli: riconoscimento naturale e riconoscimento spirituale (o secondo naturale). Su entrambi i livelli la struttura intenzionale del riconoscimento può avere tre distinte modalità oggettive: un oggetto esterno, il sé intenzionale, un altro sé intenzionale. Nel riconoscimento possiamo distinguere le seguenti dimensioni strutturali: identificativa; assiologica, logica, deontica. La dimensione logica e la dimensione deontica (a proposito della loro integrazione parleremo di dimensione logico-normativa) si sviluppano solo con il riconoscimento spirituale, all’interno del quale la dimensione assiologica si ristruttura come valutazione forte. I piani del riconoscimento sono quindi tre: autoriferimento monologico, reciprocità duale, interazione triadica. Mentre i primi due piani sono propri sia del riconoscimento naturale sia del riconoscimento spirituale, il terzo, pur presente oggettivamente nella relazione naturale del genere, si sviluppa attraverso l’implementazione deontica del riconoscimento. Infine, nel fenomeno del riconoscimento possono essere analizzate e distinte più sfere: epistemica, naturale, pratico-morale, politico-istituzionale, di cui le prime due interessano entrambi i livelli, mentre le ultime due interessano eminentemente, se non esclusivamente, il livello spirituale. Dalla nostra analisi risulterà quindi che la tassonomia di Ricoeur non mette a tema il primo livello del riconoscimento e identifica le modalità oggettive con le dimensioni strutturali e con i piani del riconoscimento, nella misura in cui in Ricoeur la coscienza percettiva di oggetti esterni viene a coincidere con la dimensione identificativa e con il piano monologico; la coscienza di sé con l’autoriferimento e il piano assiologico dell’attestazione; la coscienza d’altri con il piano della reciprocità, in cui confluiscono in modo indistinto le dimensioni assiologiche e deontiche. Per conseguenza Ricoeur, oltre a non mettere a tema la sfera naturale del riconoscimento, non ci sembra in grado di enucleare nemmeno il piano triadico del riconoscimento e le sue specifiche dimensioni assiologiche e deontiche. Un risultato teorico a nostro avviso interessante dell’analisi di Ricoeur consiste invece nell’avere connesso teoricamente il riconoscimento di sé con la dimensione assiologica dell’attestazione e per questo tramite al registro delle capacità. Così l’analisi del riconoscimento di sé prende la forma di una teoria dell’azione – o di una antropologia o ontologia dell’umano fondamentale – che individua in una lista di capacità, di modi d’essere – nel senso della dynamis aristotelica – dell’azione individuale19. Questa 19 Ivi, pp. 108 e sgg. 28

posizione ci sembra supportata dalla nostra ricostruzione della genealogia storica della nozione di riconoscimento. Quest’ultima, infatti, già nella psicologia assiociazionista inglese e francese, così come presso il fondatore dell’antropologia filosofica – Ernst Platner –, fa capo ad una capacità autonoma che Hegel tradurrà nel registro della potenza. Nello stesso tempo la concezione hegeliana, incrociando la questione del riconoscimento come capacità con la sfera – non indagata da Ricoeur – del riconoscimento naturale, ci sembra fornire un argomento teorico a favore dell’estensione della nozione di capacità anche al riconoscimento come identificazione oggettiva e al riconoscimento come mutualità – di cui sono capaci anche gli esseri semplicemente naturali, non interamente iniziati alla seconda natura spirituale, in quanto dotati di un apparato percettivo e di capacità praticovalutative con le quali riconoscono e apprezzano l’ambiente e i loro simili. Dalla ‘naturalizzazione’ hegeliana del riconoscimento si può così ricavare a nostro avviso una metacritica della teoria delle capacità individuali, le quali devono essere intese anche come sviluppo di modi d’essere naturali. Un ulteriore stimolo e un importante terreno di confronto è venuto da alcuni saggi, pubblicati tra il 2003 e il 2005, in cui Axel Honneth si è soffermato in chiave contemporanea – in particolare sulla scia di Martin Heidegger, John Dewey e Stanley Cavell – sul rapporto tra conoscenza e riconoscimento20. Honneth, che nella sua ricostruzione dello Hegel jenese – sui cui risultati lo stesso Ricoeur si appoggia essenzialmente – legge il riconoscimento in chiave esclusivamente pratico-morale, guarda qui invece al riconoscimento come ad un esistenziale, avente la struttura di una disposizione pratica originaria, connotata affettivamente21. Nello stesso tempo Honneth, seguendo su questo versante Cavell, afferma la priorità sia genetica sia concettuale del riconoscimento sulla modalità epistemica della conoscenza oggettiva22. L’oscillazione, riscontrabile negli ultimi contributi di Honneth, tra una posizione che colloca il riconoscimento risolutamente oltre la conoscenza e una posizione che ne fa una forma più originaria di conoscenza – che renderebbe possibile anche le altre forme di rapporto epistemico al mondo – dipende a nostro avviso dal fatto che l’estensione dell’interesse per il fenomeno riconoscitivo non poggia su una qualche teoria complessiva dell’Anerkennung che sia in grado di dar conto della relazione tra i vari livelli, modalità, dimensioni, piani e sfere del fenomeno. 20 Cfr. A. Honneth, Unsichtbarkeit, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2003; Id., Verdinglichung, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2005, trad. it. Reificazione, Meltemi, Roma, 2007. 21 Cfr. A. Honneth, Verdinglichung, cit., cap. 3. 22 Ibid. Sul tema si veda anche A. Honneth, Unsichtbarkeit, cit., cap. 1. 29

Questa era invece la pretesa della teoria hegeliana, per come cerchiamo di ricostruirla. In tal senso crediamo che la concezione hegeliana per cui «conoscere è riconoscere» – trascurata da Honneth, che in tal senso continua a proporre una recezione dimidiata dell’eredità di Hegel – possa fornire un punto di partenza più vantaggioso per esplorare la sfera epistemologica dell’Anerkennung. D’altro lato Hegel, come cercheremo di provare, radicando il riconoscimento epistemico entro la dialettica di riconoscimento naturale e spirituale, prima e seconda natura, può aiutarci a meglio comprendere sia lo spessore antropologico delle disposizioni riconoscitive che Honneth qualifica heideggerianamente come «originarie», sia il ruolo ontologico-sociale che l’Anerkennung può giocare per una teoria della costituzione del mondo sociale o dello spirito oggettivo. Alcune delle idee contenute in questo libro sono state presentate in occasione di convegni e seminari, tra i quali voglio ricordare almeno il workshop Antifundamentalismus, Skepsis und ‘offenes System’ bei Hegel (Siena, 20-21 Aprile 2001), il 24° Congresso della Hegel-Gesellschaft (Jena, 28 agosto-1 settembre 2002), le giornate di studi Anerkennung. Vom Leben eines hegelschen Begriffs (Basel, 22-23 Ottobre 2004), il convegno 200 Jahre Phänomenologie des Geistes (Jena, 23-28 ottobre 2006), il seminario dello Harvard Hegel Reading Group (Cambridge, Mass., 21 novembre 2008), il colloquio Hegel et les Esquisses de système d’Iéna (Lyon, 13 novembre 2009). In diverse fasi della gestazione di questo lavoro ho potuto poi beneficiare del dialogo con molte persone, che desidero qui ringraziare. Nella fase di avvio ho potuto contare sul consiglio di Walter Jaeschke e dei suoi collaboratori per le ricerche condotte presso lo Hegel-Archiv nell’anno accademico 1998-1999. In occasione di due differenti soggiorni, nel 19992000 e nel 2005-2006, presso la Goethe-Universität di Francoforte, ho potuto discutere diverse delle mie idee con Axel Honneth e i partecipanti al suo seminario. In particolare ho potuto beneficiare del dialogo con Heikki Ikäheimo su questioni relative alla teoria del riconoscimento e a Hegel. Lo stimolo che mi è venuto in numerose occasioni da Robert Brandom a proseguire su questa via è stato poi di fondamentale importanza. Vincent Descombes e Jean-François Kervégan mi hanno gentilmente accolto presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales e presso il centro Normes, sociétés, philosophie dell’Université Paris I Panthéon-Sorbonne nell’anno che mi ha permesso di congedare materialmente il volume. A più riprese ho potuto discutere alcune delle mie idee con gli amici del Seminario di teoria critica di Venezia e del Seminario di Urbino e valermi del confronto filosofico con i sodali della redazione de La società degli individui. Gli studenti 30

di un corso tenuto presso l’Università di Parma nel 2005-2006 sono stati poi un importante banco di prova per le tesi sostenute nella terza parte del libro. Sono particolarmente grato a Lucio Cortella per aver incoraggiato sin dall’inizio le mie ricerche sul riconoscimento e per averle appoggiate nel corso di un assegno di ricerca nel biennio 2004-2006 presso l’Università Ca’ Foscari, e a Mario Ruggenini per aver sostenuto questa pubblicazione. Ma la mia riconoscenza va soprattutto a Luigi Ruggiu, che ha sostenuto questo progetto in tutte le sue fasi, dalla tesi di dottorato sino alla pubblicazione, e mi ha avviato già da studente alla lettura dello Hegel jenese.

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Parte prima Riconoscimento epistemico In conclusione il sapere si fonda sopra il riconoscimento. (L. Wittgenstein, On Certainty, § 378)

I. SCETTICISMO, RICONOSCIMENTO, AUTOCOSCIENZA Introduzione epistemologica al problema

1. Osservazioni preliminari In questa prima parte della ricerca si mette a tema il nesso tra scetticismo, teoria del riconoscimento e autocoscienza negli scritti francofortesi e jenesi di Hegel: attraverso l’analisi del rilievo epistemologico delle indagini hegeliane, svolta sullo sfondo della costellazione storica e teorica segnata dalla crisi scettica di fine Settecento, si indaga in che misura la teoria del riconoscimento, in quanto teoria interazionale dell’autocoscienza, sia la risposta hegeliana ai problemi scettici della gnoseologia moderna (mondo esterno, altre menti)1. Ciò è possibile nella misura in cui la nozione di riconoscimento è il filo conduttore non solo della teoria della mente autocosciente e della personhood, bensì anche della teoria della conoscenza e della razionalità. In questa sua funzione la nozione di riconoscimento, mentre contribuisce ad una critica dello scetticismo gnoseologico moderno, recupera anche elementi essenziali dello scetticismo tropologico antico2. Isolando lo sfondo epistemologico della ricerche di Hegel e gettando qualche rapido sguardo anche sul punto di arrivo del suo cammino jenese, vale a dire la Phänomenologie des Geistes, riteniamo così di poter illuminare lo sfondo teorico che guida la nostra ricostruzione della genesi della 1

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Alcuni paragrafi del presente capitolo sono stati sinteticamente anticipati in: I. Testa, Conoscere è riconoscere. L’epistemologia hegeliana del riconoscimento e il passaggio dalla prima alla seconda natura, in «Giornale di Metafisica», 27, 1 (2005), pp. 121-144. Nelle note si utilizzano alcune sigle, riportate in bibliografia accanto all’autore e al titolo dell’opera. Nel caso di Hegel si omette generalmente il nome dell’autore e si cita l’opera mediante la sigla riportata in bibliografia e il corrispondente volume delle Gesammelte Werke (es.: [D], in GW4, p. 51, trad. it. p. 61). La traduzione italiana citata, se presente, è indicata in bibliografia sotto al titolo della corrispondente opera originale. Ove non è citata alcuna edizione italiana, la traduzione italiana è nostra. 35

teoria hegeliana del riconoscimento, cui sono dedicati i successivi capitoli, nei quali avremo modo di tornare più in dettaglio su molte delle questioni affrontate ora a livello generale. Al fine di chiarire il problema che intendiamo affrontare in questa introduzione epistemologica, occorre innanzitutto illustrare teoricamente il nesso tra i tre concetti di scetticismo, autocoscienza e riconoscimento. Prenderemo le mosse dal concetto chiave, il riconoscimento – indicato da Hegel per lo più con il termine «Anerkennung». Il riconoscimento è un fenomeno complesso all’interno del quale si possono distinguere diverse modalità: si può parlare di riconoscimento di oggetti, come identificazione percettiva di oggetti e delle loro proprietà; si può parlare di riconoscimento di soggetti, intersoggettivo (identificare qualcuno come un soggetto autocosciente, attribuire intenzionalità); si può riconoscere la validità di una proposizione, riconoscere qualcosa come vero. Come tale il fenomeno del riconoscimento tocca problemi quali l’identificazione percettiva, la memoria, l’identificazione di sé e degli altri, il problema della verità. Vi può essere poi un livello morale del riconoscimento – che sembra presupporre comunque il riconoscimento come atto cognitivo – ove per riconoscere s’intende in generale approvare, accettare: in modo più specifico, si può riconoscere qualcuno come un soggetto autonomo e lo si può riconoscere come un’individualità unica, autentica. Nella letteratura su Hegelsi è dato per lo più particolare rilievo alla celebre lotta per il riconoscimento tra servo e padrone esposta nella Phänomenologie, vedendo nella teoria dell’Anerkennung una risposta alla domanda circa le condizioni di formazione dell’identità pratica dell’autocoscienza, risposta rilevante nel campo della morale, dell’etica e del diritto3. Con ciò 3

Tra gli studi sul tema dell’intersoggettività e del riconoscimento in una prospettiva hegeliana si vedano M. Theunissen, Der Andere. Studien zur Sozialontologie der Gegenwart, De Gruyter, Berlin, 19772; Id., Die verdrängte Intersubjektivität in Hegels Philosophie des Rechts, in D. Henrich, R.-P. Horstmann (a cura di), Hegels Philosophie des Rechts, Klett-Cotta, Stuttgart, 1982, pp. 317-281; J. Habermas, Arbeit und Interaktion, cit.; H.S. Harris, The Concept of Recognition in Hegel’s Jena Manuscripts, «Hegel-Studien», Beiheft 20 (1977), Bouvier, Bonn, pp. 229248, rist. in Hegel’s Dialectic of Desire and Recognition, ed. by J. O’Neill, Suny, Albany, 1996, pp. 233-252; L. Siep, Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie, cit.; A. Wildt, Autonomie und Anerkennung, cit.; V. Hösle, Hegels System, Bd. 2: Philosophie der Natur und des Geistes, Meiner, Hamburg, 1987; A. Honneth, Kampf um Anerkennung, cit.; E. Düsing, Intersubjektivität und Selbstbewußtsein, cit.; R.R. Williams, Recognition, cit.; Id. Hegel’s Ethics of Recognition, cit.; Th.M. Schmidt, Anerkennung und absolute Religion. Formierung der Gesellschaftstheorie und Genese der spekulativen Religionsphilosophie in 36

è stato preso in considerazione per lo più il livello pratico-morale del fenomeno. Elementi per una lettura non unilateralmente pratica possono essere rintracciati in alcuni scritti di Paul Redding e Terry Pinkard, e in alcuni saggi di Habermas e Brandom: quest’ultimo, in particolare, ha utilizzato il riconoscimento come concetto guida di una teoria semantica inferenzialistica e pragmatica4. Da ultimo Ricoeur ha attribuito notevole rilievo al riconoscimento come fenomeno cognitivo di identificazione, senza però connettere la concezione epistemica del riconoscimento alle sue origini idealistiche – come accade anche nei più recenti lavori di Honneth – e in tal modo riducendo di nuovo l’Anerkennung di Hegel ad una accezione pratico-politica5. A nostro avviso invece, anche per comprendere l’effettivo significato del riconoscimento pratico e l’eventuale rilevanza semantica di tale nozione, è opportuno mettere in luce che la teoria hegeliana del riconoscimento è una risposta a problemi di teoria della conoscenza: si tratta di capire in che senso Hegel ha formulato una teoria generale del riconoscimento che, assumendo come guida il riconoscimento intersoggettivo, si sviluppa come una teoria evolutiva della conoscenza che sistematizza

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Hegels Frühschriften, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1997; S. Della Valle, Freiheit und Intersubjektivität. Zur historischen Entwicklung von Hegels geschichtsphilosophischen und politischen Auffassungen, Akademie Verlag, Berlin, 1998; F. Fischbach, Fichte et Hegel, cit.; R. Pippin, What is the Question for which Hegel’s Theory of Recognition is the Answer?, cit.; A. Honneth, Leiden an Unbestimmtheit, Reclam, Stuttgart, 2001; H. Ikäheimo, On the Genus and Species of Recognition, in «Inquiry», 45, 4 (2002), pp. 447-462; Id., On the Role of Intersubjectivity in Hegel’s Encyclopaedic Phenomenology and Psychology, in «The Bulletin of the Hegel Society of Great Britain», 49/50 (2004), pp. 73-95; N. Fraser/A. Honneth, Redistribution or Recognition: A Political-Philosophical Exchange, Verso Books, London/New York, 2003, trad. it. Redistribuzione o riconoscimento, Meltemi, Roma, 2007; L. Ruggiu, Spirito assoluto, intersoggettività, socialità della ragione, in «Giornale di Metafisica», 25, 2 (2003), pp. 393-418; E. Renault, L’expérience de l’injustice. Reconnaissance et clinique de l’injustice, La Découverte, Paris, 2004. Cfr. T. Pinkard, Hegel’s Phenomenology, cit., pp. 57-62; P. Redding, Hegel’s Hermeneutics, Ithaca and London, Cornell University Press, 1996; J. Habermas, Wege der Detranszendentalisierung, Von Kant zu Hegel und zurück, in Id., Wahrheit und Rechtfertigung. Philosophische Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1999, pp. 186-229; R.B. Brandom, Some Pragmatist Themes in Hegel’s Idealism: Negotiation and Administration in Hegel’s Account of the Structure and Content of Conceptual Norms, in «European Journal of Philosophy», 7, 2 (1999), pp. 164-189; R.B. Brandom, La struttura del desiderio e del riconoscimento. Auto-coscienza e auto-costituzione, in Lo spazio sociale della ragione, cit., pp. 261-289. Cfr. P. Ricoeur, Parcours de la reconnaissance, cit., trad. it. p. 185; A. Honneth, Verdinglichung, cit. 37

mediante questo principio i vari livelli del fenomeno riconoscitivo. Ciò ci condurrà ad enucleare alcuni tratti della teoria hegeliana della conoscenza: e qui cercheremo di dare conto dell’affermazione hegeliana, poco valorizzata, per cui «conoscere è riconoscere». Per cogliere le conseguenze sull’epistemologia hegeliana dell’idea per cui conoscere è riconoscere, occorre innanzi tutto comprendere in che senso Hegel assume come dimensione primaria del fenomeno del riconoscimento quella relativa alla costituzione dell’intersoggettività. L’Anerkennung è in tal senso il meccanismo genetico attraverso il quale l’autocoscienza singola si costituisce nella sua capacità d’autoriferimento – di riferimento a sé – e insieme di riferimento ad altri: la capacità d’autoriferimento non è una proprietà originaria, spontanea del soggetto; per potermi riferire a me stesso, per potermi autoriconoscere, devo potermi riconoscere nell’altro ed essere dall’altro riconosciuto, devo cioè imparare, in un processo mutuo, a rispecchiarmi nell’altro con cui interagisco – a sapermi e ad intuirmi in lui. Come tale il riconoscimento media la costituzione dell’autocoscienza singola e dell’intersoggettività: la conoscenza di sé non è logicamente indipendente dalla consapevolezza delle altre menti. Nello stesso tempo il riconoscimento istituisce la possibilità del riferimento oggettivo al mondo: infatti, secondo l’argomentazione che si può ricavare dalle prime tre sezioni della Phänomenologie, posso riferirmi agli oggetti con cui interagisco causalmente – essere cosciente di essi – solo in quanto sono capace d’autoriferimento – solo in quanto soggetto autocosciente – ma posso essere autocosciente solo attraverso la mediazione riconoscitiva di altre autocoscienze. Con ciò la teoria del riconoscimento fornisce in Hegel una risposta unitaria al triplice problema scettico dell’accessibilità del mondo esterno, delle altre menti e della propria mente: l’evoluzione della capacità di riconoscimento istituisce unitariamente la possibilità del riferimento a sé, del riferimento ad altri e del riferimento oggettivo. Il riferimento a un mondo comune di oggetti pubblici è dunque possibile solo grazie alla mediazione di capacità riconoscitive possedute naturalmente e articolate socialmente. Tali capacità rendono possibile, per esprimerci con Donald Davidson6, la triangolazione tra sé, il mondo e gli altri: il contenuto dei miei pensieri non 6

Cfr. D. Davidson, Rational Animals, in «Dialectica», 36, 4 (1982), pp. 318-327, rist. in E. Lepore e B.P. McLaughlin (a cura di), Actions and Events. Perspectives on the Philosophy of Donald Davidson, Basil Blackwell, Oxford, 1985, pp. 473480; Id., Three Varieties of Knowledge, in A. Ayer, Memorial Essays, a cura di A. Philipps Griffiths, Cambridge University Press, Cambridge, 1991, pp. 153-166; Id. Epistemology Externalized, in «Dialectica», 45, 2-3 (1991), pp. 191-202. 38

è idiosincratico ma è determinato dall’interazione comunicativa con altri e per ciò stesso accessibile pubblicamente. Ciò è possibile nella misura in cui la teoria del riconoscimento è, come si vedrà, il filo conduttore di una critica alla teoria della conoscenza moderna e nello stesso tempo il punto di partenza per un approccio alternativo. In base a tale approccio la conoscenza non procede dal soggettivo all’oggettivo, come nell’impostazione cartesiana che causa lo scetticismo moderno: conoscenza di sé, conoscenza delle altre menti e del mondo esterno sono connesse olisticamente e strutturate intersoggettivamente mediante le capacità cognitive di riconoscimento7. Questa soluzione, a nostro avviso esposta sistematicamente nelle prime tre sezioni della Phänomenologie8, può venire compresa nel suo rilievo gnoseologico solo ricostruendo l’evoluzione del pensiero hegeliano in quell’arco di tempo in cui egli si è più direttamente confrontato con la scepsi, cioè a partire dal 1797, con l’inizio del periodo francofortese – quando Hegel ha iniziato a interessarsi di questioni gnoseologiche – sino alla fine 7

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Axel Honneth, affermando sulla scorta della psicologia evolutiva, e quindi delle analisi di Stanley Cavell, la tesi della priorità genetica e concettuale del riconoscimento sulla conoscenza oggettiva (cfr. A. Honneth, Verdinglichung, cit., cap. 3), sostiene che dunque la possibilità degli atteggiamenti epistemici avrebbe come sua condizione di possibilità l’assunzione dell’atteggiamento non epistemico del riconoscere, inteso quale disposizione pratico-affettiva a reagire ai comportamenti degli altri come a richieste, pretese. Si deve però notare che Cavell, pur connotando l’Acknowledgment in termini pratici e affettivi, non lo intende come un atteggiamento non epistemico, ma piuttosto come una forma di conoscenza differente rispetto alla conoscenza oggettiva (cfr. S. Cavell, Knowing and Acknowledging, in Id., Must We Mean What We Say?, Scribner, New York, 1969, pp. 238-266, trad. it. Conoscere e riconoscere, in «La società degli individui», 32, 2 (2008), pp. 104-132; per una prospettiva sul riconoscimento ispirata a Cavell si veda in particolare D. Sparti, L’importanza di essere umani. Etica del riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 2003). In tal senso ci sembra che la teoria dell’Acknowledgment di Cavell possa essere piuttosto utilizzata a favore di una estensione della nozione di conoscenza. La tesi di Hegel per cui «conoscere è riconoscere» è però più impegnativa rispetto a quella di Cavell, in quanto non si limita ad affermare che v’è un’altra modalità di conoscenza accanto alle altre, ma intende altresì dar conto in termini riconoscitivi di tutte le forme di rapporto epistemico e pratico con il mondo. E’ però interessante notare, sia da un punto di vista storico-filosofico che teoretico, che anche Cavell, pur all’interno di una diversa costellazione, è stato spinto ad affrontare il problema dell’Acknowledgment proprio da quel problema scettico che già aveva messo Hegel e i suoi contemporanei sulle tracce dell’Anerkennung. Per una lettura in questo senso cfr. I. Testa. Ragione e relazione. La Fenomenologia di Hegel come tropologia, in «Giornale di Metafisica», 25, 2 (2003), pp. 371-392. 39

del periodo jenese, che va dal 1801 al 1807 e si conclude con la stesura della Phänomenologie. In questo periodo le carte sono per così dire ancora in tavola e l’articolazione sistematica delle dottrine hegeliane non copre il terreno d’origine delle questioni cui Hegel intende dare soluzione con il suo sistema. Ciò dovrebbe consentire anche di contrastare su di un duplice terreno l’opinione, diffusasi dopo l’attacco di George Edward Moore e Bertrand Russell, secondo la quale Hegel sarebbe una sorta di delinquente epistemologico e il corso della teoria della conoscenza rispettabile si fermerebbe con Kant: da un lato il nostro approccio dovrebbe riconnettere Hegel alle questioni della gnoseologia moderna, dall’altro mostrare come le soluzioni hegeliane possano essere di rilievo anche per la contemporanea filosofia della conoscenza post-empiristica. 2. Antinomia scettica e riconoscimento Tra Francoforte e Jena (nel periodo 1797-1802) Hegel elaborò un concetto di filosofia il cui procedimento risultava determinato come metodo scettico-antinomico, consistente nell’opporre ad ogni determinazione la determinazione opposta, mostrando in tal modo che ciascuna determinazione finita non può sussistere in quanto tale, bensì implica essenzialmente ciò che esclude9. Mentre in Kant l’antinomia – secondo la lettura avanzata a Jena nella Differenzschrift (1801) e in Glauben und Wissen (1802) – esprime l’assoluta opposizione tra finito e infinito, cioè l’ «assoluto dualismo»10, in Hegel invece l’antinomia è portata a riconoscere che, proprio laddove si pone la massima opposizione, si manifesta la relazionalità degli opposti. Se già Kant aveva formulato la sua nozione di antinomia ispirandosi indirettamente, attraverso la mediazione di Pierre Bayle11, alla scepsi antica, da par9

Su di ciò si veda I. Testa, Hegel critico e scettico. Illuminismo, repubblicanesimo e scetticismo alle origini della dialettica, Il Poligrafo, Padova, 2002, part. pp. 239313; Id. Riconoscere l’antinomia, in M. Cingoli (a cura di), L’esordio pubblico di Hegel. Per il bicentenario della ‘Differenzschrift’, Guerini, Milano, 2004, pp. 333-346. 10 Cfr. G.W.F. Hegel, Glauben und Wissen[GuW], in Gesammelte Werke[GW], in Verbindung mit der Deutschen Forschungsgemeinschaft, herausgegeben von der Reinisch-Westfälichen Akademie der Wissenschaften, Felix Meiner Verlag, Hamburg, 1968 sgg., Bd. 4[GW4], Jenaer Kritische Schriften, hrsg. v. H. Buchner und O. Pöggeler, 1968, pp. 337-338, trad. it. Fede e sapere, in Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Mursia, Milano, 1971, 19902, pp. 152-153. 11 Cfr. G. Tonelli, Kant und die antike Skeptiker, in Studien zu Kants philosophischer Entwicklung, Georg Olms, Hildesheim, 1967, pp. 93-123; a favore di una 40

te sua Hegel trasformò immanentemente il metodo di Kant alla luce dello stesso principio scettico-antico dell’equipollenza (=antinomia=isostenia), secondo il quale ad ogni ragione-determinazione si oppone una ragionedeterminazione equivalente: con ciò Hegel fece ritorno alla fonte diretta, cioè a quel Sesto Empirico che nelle sue Pyrrhoniarum hypotyposeon aveva sostenuto che il significato fondamentale degli argomenti scettici consiste nel mostrare la relazionalità delle determinazioni12 (in tal modo esplicitando anche quello che – secondo Hegel – era il pensiero fondamentale del Parmenide di Platone)13. Il metodo scettico-antinomico è già in atto nel frammento francofortese Glauben und Sein (1797), per poi venire applicato estesamente nel testo più programmatico di questo periodo, il Systemfragment (1800), trovando infine una messa a punto storico-teoretica nell’articolo jenese Verhältnis des Skeptizismus zur Philosophie (1802). Prendendo le mosse da questo percorso interno all’evoluzione del concetto di filosofia tra Francoforte e Jena, intendiamo ricostruire sub specie scepticismi il pensiero hegeliano del periodo jenese. Ciò non significa tematizzare esclusivamente l’impianto gnoseologico della filosofia di Hegel. Infatti, è proprio attraverso la rielaborazione scettica dell’antinomia che Hegel ha posto le basi per la sua personale appropriazione del concetto – messo a punto da Fichte nella Grundlage des Naturrechts (1796) – di «riconoscimento[Anerkennung]»14. ll procedimento scettico della filosofia conduce infatti, già nel frammento francofortese Glauben und Sein (1797), a «riconoscere[erkennen]» la relazionalità delle determinazioni poste nell’antinomia15. D’altronde, già in un testo del 1793, il cosiddet-

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conoscenza diretta hanno portato recentemente prove J.C. Laursen e R. Popkin in Sources of Knowledge of Sextus Empiricus in Kant’s Time: a French Translation of Sextus Empiricus from the Prussian Academy, 1779, in «British Journal for the History of Philosophy», 6, 2 (1998), pp. 261-268. Sextus Empiricus, Pyrrhoniarum hypotyposeon, I, 36-39, trad. it. di O. Tescari rivista da A. Russo, Laterza, Roma-Bari, 1988, p. 12. Plato, Parmenides, 146 b 2-3, trad. it. di M. Migliori, testo greco con edizione critica a cura di C. Moreschini, Rusconi, Milano, 1994, p. 141. Cfr. J.G. Fichte, Grundlage des Naturrechts nach Principien der Wissenschaftslehre, Gaber, Jena u. Leipzig, 1796, in Id., Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften[GA], hrsg. v. R. Lauth und H. Jacob, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1966, I.3, pp. 313-460, I.4, pp. 55-165, trad. it. di L. Fonnesu, Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza, Laterza, Roma-Bari, 1994. Hegels theologische Jugendschriften[TJS], nach den Handschriften der Kgl. Bibliothek in Berlin, hrsg. v. H. Nohl, Mohr, Tübingen, 1907, unveränderter Nachdruck, Minerva GmbH, Frankfurt am Main, 1966, p. 382, trad. it. Scritti teologici giovanili, a cura di N. Vaccaro e E. Mirri, Guida, Napoli, 1972, 19893, p. 41

to Tübinger Fragment, Hegel aveva indicato che la ragione, in analogia con l’amore, consiste essenzialmente in un ritrovare se stesso nell’altro, in un «riconoscersi[sich selbst erkennen]» in ogni essere razionale16. Hegel, venendo in contatto già nel primo periodo jenese con la nozione fichtiana – ma, come vedremo, la nostra ricostruzione storica mostrerà anche che Fichte non è l’unica fonte di Hegel – indicherà nella Differenzschrift (1801) il ristabilimento dell’antinomia mediante la riflessione razionale con il termine «Anerkennung»17, utilizzando teoreticamente il concetto pratico di Fichte, laddove prima egli aveva impiegato il verbo meno determinato «erkennen». Mentre la letteratura critica ha insistito generalmente sulle radici pratiche dell’appropriazione hegeliana dell’ «Anerkennung» fichtiana, la chiave di lettura che proponiamo consente di identificare anche la matrice teoretico-gnoseologica del riconoscimento e di identificare inoltre l’influenza di altri autori. In questa prospettiva viene in luce come proprio l’incontro con la scepsi abbia spinto Hegel a liberarsi da ogni impostazione solipsistica e a ricostruire a tutti i livelli la ragione – a partire da una teoria intersoggettiva dell’autocoscienza – come una relazione fondata sul riconoscimento (che è appunto il meccanismo attraverso cui s’istituisce la struttura interpersonale-intersoggettiva dell’autocoscienza). Questa tesi può apparire paradossale al senso comune filosofico, che tendenzialmente identifica la scepsi con il problema del mondo esterno e delle altre menti (dunque con il solipsismo), e nello stesso tempo intende Hegel sulla scia dell’idealismo gnoseologico (idealismo soggettivo). Al contrario – come si avrà modo di mostrare – Hegel ha definito la sua nozione di «vero scetticismo» e parimenti di «vera filosofia»18 proprio attraverso la critica dei 561: «per unificare, i membri dell’antinomia[Antinomie] devono essere sentiti e riconosciuti[erkannt werden] come contraddittori, ed il loro rapporto reciproco[ihr Verhältnis zueinander] come un’antinomia». 16 Cfr. G.W.F. Hegel, GW, Bd. 1[GW1], Frühe Schriften. Teil 1, hrsg. v. F. Nicolin und G. Schüler, 1989, Text 16, p. 101, trad. it. Scritti giovanili, I, trad. it. a cura di E. Mirri, Guida, Napoli, 1993, p. 187: «principio fondamentale del carattere empirico è l’amore [Liebe] che ha qualche analogia con la ragione [etwas analoges mit der Vernunft hat], poiché l’amore ritrova se stesso negli altri e, quasi dimenticandosi, si pone fuori della propria esistenza, vive, sente, è attivo per così dire negli altri, così come la ragione, in quanto principio di leggi universalmente valide, si riconosce [sich selbst erkennt] in ogni essere razionale, come cittadino di un mondo intelligibile». 17 Cfr. G.W.F. Hegel, Differenz des Fichte’schen und Schelling’schen Systems der Philosophie[D], Jena, 1801, in GW4, p. 51, trad. it. a cura di R. Bodei, in Primi scritti critici, cit., p. 61. 18 Cfr. G.W.F. Hegel, Verhältnis des Skeptizismus zur Philosophie[VSP], in GW4, pp. 207-208, trad. it. Rapporto dello scetticismo con la filosofia, a cura di N. 42

presupposti della scepsi moderna impostata solipsisticamente, rispetto alla quale egli ha rivendicato la superiorità della scepsi antica. 2.1. La costellazione scettica: autocoscienza, mondo esterno, altre menti Il nesso tra i problemi logico-gnoseologici posti dalla scepsi e la teoria dell’autocoscienza riguarda non solo la ricostruzione interna dello sviluppo argomentativo del pensiero hegeliano nel periodo jenese, bensì si colloca entro una costellazione storico-problematica che intendiamo qui delineare nelle sue linee portanti. La genesi dell’idealismo tedesco è profondamente legata alla crisi scettica della ragione kantiana innescata negli anni Novanta del Settecento dall’Aenesidemus di Gottlob Ernst Schulze (1792). Enesidemo-Schulze con le sue obiezioni intendeva mostrare che le posizioni di Kant e Karl Leonhard Reinhold – quest’ultimo avvertito all’epoca come colui che stava dando forma sistematica al criticismo – potevano ben essere ricondotte, nonostante gli sforzi in senso contrario dei loro autori, alla scepsi fenomenistica di Hume (dalla cui presa, secondo Schulze, il criticismo non riuscirebbe a divincolarsi, essendo incapace di dimostrare la validità oggettiva della conoscenza)19. È proprio in risposta a Schulze, la cui critica a Kant assume come valida, che Fichte, a partire dalla sua recensione del 1794 all’Aenesidemus20, edifica il progetto di una Wissenschaftslehre. Schelling, nei suoi scritti fichtiani del 1794-5 (Über die Möglichkeit einer Form der Philosophie überhaupt, Vom Ich)21 comprese molto bene la centralità di questo confronto con la scepsi, e indicò nell’autoposizione dell’io il principio che garantisce l’accessibilità conoscitiva dell’oggetto negata da Schulze. All’interno di questa costellazione storico-teorica il problema dell’accessibilità dell’oggetto conoscitivo investirà non solo la questione scettica del mondo esterno, ma anche quella delle altre menti. In tale contesto va compreso anche il problema posto da Fichte (e riscoperto Merker, Laterza, Bari, 1970, 19842, pp. 77-78. 19 Cfr. G.E. Schulze, Aenesidemus oder über die Fundamente der von dem Herrn Professor Reinhold in Jena gelieferten Elementar-Philosophie. Nebst einer Verteidigung des Skeptizismus gegen die Anmaßungen der Vernunftkritik, 1792 (ora in id. Aenesidemus, hrsg. v. M. Frank, Meiner, Hamburg, 1996). 20 Cfr. J.G. Fichte, Über Aenesidemus, in «Allgemeine Literatur-Zeitung» (11-12 Februar 1794), ora in GA, I.2, pp. 31-67. 21 Cfr. F.W.J. Schelling, Über die Möglichkeit einer Form der Philosophie überhaupt, 1794, ora in Friedrich Wilhelm von Schellings Sämtliche Werke [SSW], hrsg. v. K.F.A. Schelling, Cotta, Stuttgart, Augsburg, 1856-1861, I.1, pp. 85-112; Id., Vom Ich als Princip der Philosophie oder über das Unbedingte im menschlichen Wissen, 1795, in SSW, I.1, pp. 149-244. 43

nel suo rilievo storico-teoretico dalle ricerche di Henrich22) di una spiegazione non paradossale dell’autocoscienza riflessiva: se l’autocoscienza consiste nell’atto con cui essa si volge indietro a se stessa come all’oggetto della sua conoscenza, come può tale autocoscienza riconoscersi nell’oggetto che ha di fronte (in cui in un certo senso si specchia, si riflette come in uno specchio) senza già presupporre una conoscenza di sé? Il principio fichtiano dell’autoposizione dell’io era un tentativo di risolvere in modo unitario il problema dell’accessibilità cognitiva sia dell’oggetto esterno – come si è già detto – sia di quel particolare oggetto che è l’autocoscienza per se stessa: l’autocoscienza non sarebbe presupposta circolarmente dato che l’atto con cui si autoconosce (e attraverso il quale accede allo stesso mondo oggettuale) è lo stesso atto in cui essa, unitamente al suo oggetto, si pone come esistente. A molti contemporanei la teoria egologica dell’autocoscienza di Fichte sembrò però incapace di una spiegazione non circolare e quindi esposta alle obiezioni scettiche da cui intendeva sottrarsi. Il principio fichtiano venne a sua volta revocato scetticamente dalle obiezioni di numerosi autori, che diedero luogo ad un dibattito che Hegel poteva seguire sulle riviste dell’epoca, in particolare sui Beyträge di Georg Gustav Fülleborn e sul Philosophisches Journal di Friedrich Immanuel Niethammer23 – dibattito cui presero parte numerosi personaggi con i quali Hegel stesso venne a diverso titolo in contatto (tra gli altri, Emanuel Zeender24, lo storico dello scetticismo Carl Friedrich Stäudlin25 e Carl Immanuel Diez26). Particolare rilievo spetta in questo quadro ai sodali francofortesi di Hegel, cioè Friedrich Hölderlin e Isaac von Sinclair, i quali, 22 Cfr. D. Henrich, Fichtes ursprüngliche Einsicht, Klostermann, Frankfurt, 1967; Id., Selbstbewußtsein: kritische Einleitung in eine Theorie, in R. Bubner (a cura di), Hermeneutik und Dialektik, I, Mohr, Tübingen, 1970, pp. 257-284. 23 Sull’attività filosofica di Niethammer all’interno della costellazione di Tubinga e di Jena, nel periodo compreso tra il 1791 e il 1804, cfr. D. Henrich, Grundlegung aus dem Ich. Untersuchungen zur Vorgeschichte des Idealismus. Tübingen – Jena (1790-1794), Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, Bd. II, pp. 945-1060. 24 E. Zeender, De notione et generibus scepticismi et hodierna praesertim ejus ratione, Berna, 1795. Su Zeender e Hegel cfr. L. Hasler, Aus Hegels philosophischer Berner Zeit, in «Hegel-Studien», 11 (1976), pp. 205-211; I. Testa, Hegel critico e scettico, cit., pp. 95, 244 e 311. 25 C.F. Stäudlin, Geschichte und Geist des Skeptizismus, vorzüglich in Rücksicht auf Moral und Religion, Leipzig, 1794. Sulle posizioni assunte da Stäudlin all’interno del dibattito teologico dello Stift cfr. D. Henrich, Grundlegung aus dem Ich, cit., Bd. I, part. pp. 45-48. 26 C.I. Diez, Briefwechsel und Kantische Schriften, Wissensbegründung in der Glaubenskrise Tübingen-Jena, (1790-1792), hrsg. v. D. Henrich, Klett-Cotta, Stuttgart, 1997. Un ampio affresco della posizione di Diez è ora disponibile in D. Henrich, Grundlegung aus dem Ich, cit., Bd. I, part. pp. 95-933. 44

nei loro scritti e frammenti teorici, mostrarono come l’Io fichtiano – e con ciò la conoscenza teoretica in generale, che a loro avviso aveva trovato la sua più compiuta forma nella Wissenschaftslehre – non possa sottrarsi al fenomenismo di Schulze27. Tale crisi scettica riguardava anche il problema della certezza della presenza epistemica degli altri soggetti per il soggetto, ora pensato in termini di autocoscienza: la questione dell’intersoggettività nasce proprio in questo periodo, come trasformazione sotto le condizioni di una filosofia dell’autocoscienza del problema cartesiano delle altre menti. A questo proposito i diversi modelli intersoggettivi proposti si precisano in rapporto alle questioni scettiche sollevate dalle critiche a Kant e a Fichte, conoscendo un ampio spettro di soluzioni. Lo stesso Fichte, nella Grundlage des Naturrechts (1796), ripropone in relazione alla filosofia pratica e alla questione della libertà il paradosso dell’autocoscienza ed introduce, per risolverlo, l’intersoggettività come condizione trascendentale dell’autoggettivazione del soggetto pratico, anche se la relazione tra le autocoscienze viene così dedotta a partire dall’autocoscienza isolata. Tale soluzione vale comunque solo all’interno della sfera pratico-giuridica, entro la quale l’intersoggettività – costituita in termini di «Anerkennung»28 reciproca tra autocoscienze – funge da presupposto del diritto. Sempre in rapporto critico con Fichte, Friedrich Henrich Jacobi29 giunge a sostenere che l’intersoggettività (al 27 Sull’argomento si vedano almeno H. Hegel, Isaak v. Sinclair zwischen Fichte, Hölderlin und Hegel, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main, 1971; R. Bodei, Un documento sulle origini dell’idealismo. Le note filosofiche di Isaak v. Sinclair, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 3, 2 (1972), pp. 703-735; Ch. Jamme, Ein ungelehrtes Buch. Die philosophische Gemeinschaft zwischen Hölderlin und Hegel in Frankfurt 1797-1800, «Hegel-Studien», Beiheft 23 (1983), Bouvier, Bonn; G. Varnier, Lo scetticismo nella evoluzione della dialettica. Sul suo significato logico e gnoseologico nel primo pensiero jenese di Hegel, in «Giornale critico della Filosofia italiana», 66 (1987), pp. 282-312; Id., Ragione, negatività, autocoscienza, Guida, Napoli, 1990; M. Frank, Unendliche Annäherung. Die Anfänge der philosophischen Frühromantik, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1997; K. Vieweg, Philosophie des Remis, Fink, München, 1999. 28 Cfr. J.G. Fichte, Grundlage des Naturrechts, GA, I.3, § 3, pp. 340-349, trad. it. pp. 28-35. 29 Sul dibattito tra i due si veda: F.H. Jacobi, Jacobi an Fichte, Hamburg, 1799, in Transzendentalphilosophie und Spekulation. Der Streit um die Gestalt einer Ersten Philosophie (1799-1807). Quellenband, hrsg. v. W. Jaeschke, Meiner, Hamburg, 1993, pp. 3-43, trad. it. parz. in F.H. Jacobi, Idealismo e Realismo, De Silva, Torino, 1948, pp. 167-200. Tra i contemporanei si veda poi: Jean Paul, Clavis Fichteana, in Transzendentalphilosophie und Spekulation, cit., pp. 81109. 45

pari del mondo esterno) non può essere ricondotta a principi ulteriori e deve essere data come immediata entro una relazione io-tu; inoltre, Jacobi giunge a sostenere, con argomenti anche teologici, il primato del tu sull’io – invertendo così la polarità dell’idealismo fichtiano – scrivendo ad esempio nelle Briefe che «Conosci te stesso, secondo Socrate e il Dio di Delfi, è il più alto comandamento, e non appena viene messo in pratica l’uomo si accorge che senza il Tu divino non vi è alcun Io umano e viceversa»30. Sempre nel contesto di un confronto con il primo idealismo e di una critica alla «Herrschaft» dell’io fichtiano, Hölderlin, pur prendendo in considerazione la soluzione proposta da Fichte nella Grundlage – come risulta ad esempio dal frammento Über die Religion (1796)31 – finirà per ritenere che le aporie scettico-riflessive possono essere risolte solo sul piano estetico del colloquio poetico, inteso come relazione tra l’io ed un’alterità – secondo la soluzione prefigurata nel frammento Über die Verfahrungsweise des poetischen Geistes (1800)32. 2.2. Hegel: il compimento della scepsi critica kantiana Le posizioni di Hegel, in relazione sia al problema dello scetticismo sia al problema dell’autocoscienza, maturano attraverso il confronto diretto e indiretto con gli autori che si muovono entro tale costellazione storicoargomentativa33. Per quanto riguarda più specificamente la crisi scettica, 30 F.H. Jacobi, Über die Lehre des Spinoza, in Briefen an den Herrn Moses Mendelssohn. Erweiterung der dritten Auflage (1819), in Id., Werke, hrsg. v. K. Hammacher und W. Jaeschke, Bd. 1.1, hrsg. v. K. Hammacher und I.-M. Piske, Meiner-FrommannHolzboog, Hamburg Stuttgart-Bad Cannstatt, 1998, pp. 348-349. 31 F. Hölderlin, Sämtliche Werke[SW], Grosse Stuttgarter Hölderlinausgabe, hrsg. v. F. Beißner u. A. Beck, Stuttgart 1943-19, 4.I, pp. 275-281, trad. it. in Scritti di estetica, a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano, 1996, pp. 56-61. 32 F. Hölderlin, SW, 4.I, pp. 241-265, trad. it. in Scritti di estetica, cit., pp. 98-120. 33 Sulla questione dello scetticismo in Hegel si vedano in particolare, oltre agli studi già citati: H.F. Fulda, Das Problem einer Einleitung in Hegels Wissenschaft der Logik, Klostermann, Frankfurt am Main, 1965; H. Buchner, Zur Bedeutung des Skeptizismus beim jungen Hegel, «Hegel-Studien», Beiheft 4 (1965), Bouvier, Bonn, pp. 49-56; H.H. Ottmann, Das Scheitern einer Einleitung in Hegels Philosophie, Anton Pustet, München und Salzburg, 1973; Ch. Wildt, Philosophische Skepsis, Königstein, Hain, 1980; G. Gérard, Critique et Dialectique. L’itinéraire de Hegel à Iéna (1801-1805), Faculté Universitarie, Bruxelles, 1982, pp. 72-81; H. Röttges, Dialektik und Skeptizismus, Athenaeum, Frankfurt am Main, 1987; M.N. Forster, Hegel and Skepticism, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1989; H.F. Fulda, R.-P. Horstmann (a cura di), Skeptizismus und spekulatives Denken in der Philosophie Hegels, Klett-Cotta, Stuttgart, 1996; F. D’Agostini, Hegel e la filosofia analitica: scetticismo e platonismo, in L’esordio pubblico di Hegel, 46

l’originalità della strategia di Hegel consiste nel tentativo di superare la scepsi attraverso la scepsi medesima. Per Hegel la filosofia critica può uscire dalla crisi fenomenistica e portare a compimento il suo programma solo nella misura in cui si libera dai presupposti che ancora la legano alla scepsi moderna di matrice cartesiana, nel frattempo radicalizzando ciò che la lega alla scepsi antica. In tal senso nelle Dissertationi Philosophicae de Orbitis Planetarum Praemissae Theses discusse a Jena nel 1801, nelle quali Hegel riassume icasticamente le concezioni filosofiche sino ad allora maturate – in un confronto che coinvolge soprattutto Reinhold e Kant – , egli definisce il criticismo come una «forma imperfetta di scetticismo» (VII tesi), indicando nell’«idealismo» (VI tesi) la filosofia che porta a compimento l’istanza scettica, in quanto ne sviluppa il contenuto autenticamente speculativo, vale a dire l’antinomia-equipollenza34. Nella definizione del rapporto tra scepsi e filosofia Hegel si riallaccia all’elemento anti-cartesiano presente nella concezione kantiana del rapporto tra scepsi e filosofia. Mentre Cartesio propugna un’autofondazione della filosofia attraverso la confutazione totale del dubbio scettico (che poggia in ultima istanza su di un fondamento ultimo metafisico, il cogito inteso come sostanza), al contrario in Kant la filosofia, in quanto «scepsi critica», non è più il risultato di un’esclusione assoluta del dubbio scettico, bensì risulta da una correzione interna della scepsi stessa. Il criticismo, in quanto scepsi critica, come risulta dalla Kritik der reinen Vernunft – e ancor più dagli appunti delle lezioni universitarie di Kant – integra «metodo dogmatico» e «metodo scettico» in quanto, sulla base della riflessione trascendentale, da un lato nega scetticamente la possibilità di un uso incondizionato della ragione, dall’altro mostra la legittimità del suo uso condizionato35. Il programma hegeliano di cit., pp. 293-332; K. Vieweg, Skepsis und Freiheit. Hegel über den Skeptizismus zwischen Philosophie und Literatur, Fink, München, 2007; D.H. Heidemann, Der Begriff des Skeptizismus. Seine systematischen Formen, die pyrrhonische Skepsis und Hegels Herausforderung, De Gruyter, Berlin, New York, 2007. 34 Cfr. G.W.F. Hegel, Dissertationi Philosophicae de Orbitis Planetarum Praemissae Theses[DOP], in GW, Bd. 5[GW5]: Schriften und Entwürfe (1799-1808), unter Mitarbeit von Th. Ebert, hrsg. v. M. Baum und K.R. Meist, 1998, p. 227, trad. it. Le orbite dei pianeti, a cura di Antimo Negri, Laterza, Roma-Bari, 1984, pp. 88-95. Per l’interpretazione delle tesi si veda anche: C. Ferrini, Oltre il dubbio: il rapporto tra scetticismo e filosofie da Hegel a Kant, in « Problémata», 2 (2002), pp. 79-109. 35 Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Id., Gesammelte Schriften[GS], hrsg. von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, De Gruyter, Berlin, Bd. III, 1911, pp. 335 e 502, trad. it. a cura di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Critica della Ragion pura, Laterza, Roma-Bari, BUL, 19916, p. 321-322 e p. 476 sgg. In una recensione del 1801 Hegel (cfr. GW4, pp. 95-104) prende invece le 47

un compimento della scepsi critica – delineato nelle Praemissae Theses e svolto negli scritti critici jenesi – mira a radicalizzare la riflessione kantiana, mostrando come essa sia in ultima analisi ancora irriflessa, quindi troppo poco critica. Il criticismo kantiano poggia ancora su di un presupposto dogmatico poiché – come si sostiene nella Differenzschrift – finisce per assolutizzare il punto di vista finito (l’uso condizionato della ragione, dunque uno degli opposti): esso si risolve pertanto in un dogmatismo soggettivo, che poggia sull’assolutizzazione del sapere del soggetto finito, restando così in ultima istanza prigioniero dell’impostazione cartesiana. ll punto di vista dal quale Hegel svolge questa critica è definito nella Differenzschrift «riflessione come ragione[Reflexion als Vernunft]»36: riflessione razionale, il cui principio metodico è l’antinomia, in quanto essa consiste nel porre in opposizione le determinazioni e nel dissolverle come finitamente poste. La «riflessione razionale» è dunque il compimento scettico della riflessione trascendentale kantiana e corrisponde – funzionalmente e terminologicamente – a quanto nel Verhältnis des Skeptizismus zur Philosophie (1802) viene indicato come il «vero scetticismo» che è unito intimamente alla vera filosofia come suo «lato libero» e «negativo»37. Infatti, per Hegel il cuore del vero scetticismo è il principio teorizzato da Sesto Empirico – ma già presente nel Parmenide – dell’antinomia-equipollenza, dunque lo stesso principio della riflessione razionale38. L’equipollenza pertanto, se da un lato conserva l’eredità kantiana in quanto critica, dall’altro, liberando la criticità di tale critica, si svolge come critica esaustiva del finito (il punto di vista che Kant infine aveva sottratto alla critica), vale a dire come critica di ogni determinazione posta unilateralmente astraendo dal suo opposto. 3. Critica della gnoseologia moderna: il mito del dato L’assunzione del punto di vista scettico-antinomico consente a Hegel di identificare e confutare i presupposti epistemologici che conducono alla scepsi moderna: in tal senso la critica a Schulze di cui si fa carico l’articolo sul Verhältnis non è solo una testa di ponte per un attacco a Hume39, ma

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distanze dall’interpretazione del «metodo scettico» offerta da F. Bouterwek (cfr. Id., Anfangsgründe der spekulativen Philosophie, Göttingen, 1800). [D], GW4, p. 16, trad. it. p. 18. [VSP], GW4, pp. 207-208, trad. it. pp. 77-78. Su Hegel e il Parmenide si veda F. Chiereghin, Il Parmenide di Platone alle origini della dialettica hegeliana, in «Verifiche», 24, 3-4 (1995), pp. 243-272. Cfr. G. Della Volpe, Logica come scienza positiva, Messina-Firenze, 1950, rist. 48

investe anche i fondamenti cartesiani della gnoseologia moderna: e ciò è ancora più evidente se si analizzano anche gli scritti minori e le recensioni di questo periodo, che vedono Hegel coinvolto nel confronto con autori – come Krug e Bouterwek – presso i quali la questione scettica si presenta ancora una volta in termini cartesiani. Già nell’articolo Über das Wesen der philosophischen Kritik (1801), scritto per l’introduzione al Kritisches Journal der Philosophie, edito assieme a Schelling nei primi anni jenesi, Hegel aveva esplicitamente indicato nella «filosofia cartesiana» la fonte filosofica del dualismo imperante nella cultura moderna e con ciò l’oggetto contro cui la filosofia avrebbe dovuto indirizzare i suoi sforzi critici40. Nei lavori apparsi nel 1802 sullo stesso giornale, Hegel approfondì quindi la sua analisi epistemologica di tale dualismo indicandone la connessione con lo scetticismo. In Glauben und Wissen Hegel aveva sostenuto che tutta la moderna filosofia dualistica della riflessione fondata da Cartesio si raccoglie nella coppia empirismo/scetticismo (=idealismo soggettivo)41, intesi come due facce di una stessa medaglia, consistendo entrambi in un’assolutizzazione del finito (che nel primo caso viene assunto positivamente, nel secondo negato immediatamente e quindi presupposto come assoluto). Nel Verhältnis Hegel fa un passo avanti e, secondo una strategia che fu in parte già di Thomas Reid – e che nel nostro secolo è stata ripercorsa da filosofi quali Ludwig Wittgenstein, Wilfrid Sellars, John Austin e Hilary Putnam42 –, ricostruisce analiticamente le assunzioni cartesiane il cui estremo esito è lo scetticismo empirista di Schulze. La scepsi moderna è per in Opere, IV, a cura di L. Ambrogio, Editori Riuniti, Roma, 1972; N. Merker, Le origini della logica hegeliana, Feltrinelli, Milano, 1961; L. Colletti, Lo scetticismo in Hegel, in Id., Il marxismo e Hegel, Laterza, Bari, 1969, pp. 231-246. 40 Cfr. G.W.F. Hegel, Über das Wesen der philosophischen Kritik überhaupt (1802) [UWK], GW4, p. 126. 41 Cfr. [GuW], GW4, p. 320, trad. it. p. 130. 42 Cfr. W. Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind, in Minnesota Studies in the Philosophy of Science, vol. 1, ed. by H. Feigl and M. Scriven, University of Minneapolis Press, Minneapolis, 1956, ristampato in: W. Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind, with an introduction by R. Rorty and a study guide by R. Brandom, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1997; J.L. Austin, Sense and Sensibilia, Oxford University Press, London, 1962, trad. it. di W.L. Antuono, Senso e sensibilità, Lerici, Roma, 1969; L. Wittgenstein, On Certainty, a cura di G.E.M. Anscombe e G.H. von Wright, Basil Blackwell, Oxford, 1969, trad. it. di M. Trinchero, Della Certezza, Einaudi, Torino, 1978; H. Putnam, Sense, non Sense and the Senses: An Inquiry into the Powers of Human Mind, in «Journal of Philosophy», 91, 9 (1994), pp. 445-517. 49

Hegel il risultato di un dualismo assoluto di soggetto e oggetto e insieme di un’impostazione fondazionalista43 che pretende di far poggiare tutta la conoscenza empirica su di un Grund, un fondamento autogiustificativo: tale dualismo fondazionalista poggia sull’assunzione dogmatica dell’immediatezza e indubitabilità dei fatti coscienziali (ciò che Hegel, con riferimento a Reinhold e a Schulze, chiama «die Tatsachen des Bewußtseins]»)44. ll dogmatismo soggettivo ha quindi la sua radice nella teoria cartesiana delle idee: quest’ultima, assumendo il primato epistemico della prima persona (io)45, pone i contenuti mentali (idee, percezioni, impressioni, rappresentazioni, sense-data) – assunti come trasparenti e incorreggibili – come il limite della nostra cognizione e rende quindi impossibile raggiungere conoscitivamente in modo diretto l’oggetto esterno che causa tali dati percettivi interni (lo scetticismo circa il mondo esterno e le altre menti è alla fine l’unico esito coerente cui conduca la pretesa di fondare la conoscenza su 43 Sul fondazionalismo in relazione all’epistemologia cfr. R. Audi, Epistemology, Routledge, London, 1998, pp. 178-210; J. Dancy, Introduction to Contemporary Epistemology, Blackwell, London, 1998, pp. 53-65; A. Pagnini, Teoria della conoscenza, Tea, Milano, 1997, pp. 30-36; sul rapporto tra fondazionalismo e scetticismo moderno cfr. D. Davidson, The Myth of the Subjective, in Relativism, Interpretation and Confrontation, ed. with an introduction by M. Krausz, University of Nôtre Dame Press, Nôtre Dame, Indiana, 1989, pp. 159-171; M. Williams, Unnatural Doubts, Princeton University Press, Princeton, 1996, pp. 114-120; L. Floridi, Scepticism and the Foundation of Knowledge. A Study in Metalogical Fallacies, E.J. Brill, Leide-New York-Köln, 1996. 44 La critica all’assolutizzazione dei fatti della coscienza e correlativamente dell’io empirico è portata avanti da Hegel non solo nello scritto contro Schulze ma anche nei coevi interventi, apparsi nel Kritisches Journal e nella Erlanger-Literatur Zeitung, sulla filosofia di W.T. Krug. Qui Hegel mette in luce da un lato che la filosofia di Krug è condotta dal «punto di vista dello scetticismo[Standpunkt der Skepsis]», laddove lo stesso Krug comprendeva la sua filosofia come attacco scettico all’idealismo trascendentale di Fichte. D’altra parte, tale scetticismo anti-idealista si rivela subito legato ad una forma di dogmatismo, e in questa direzione Hegel mette in questione la pretesa di Krug di confutare la scepsi vera semplicemente appellandosi all’evidenza dei dati coscienziali: cfr. Wie der gemeine Menschenverstand die Philosophie nehme, - dargestellt an den Werken des Herrn Krug’s[gMV], in «Kritisches Journal der Philosophie», I, 1 (1802), ora in GW4, pp. 174-187; Rezension von Krugs Entwurfs eines neuen Organons der Philosophie[RK], 1801, GW4, pp. 111-112. 45 Sul senso in cui l’autorità della prima persona non debba essere intesa come un primato epistemico, cfr. D. Davidson, First Person Authority, in «Dialectica», 38, 2-3 (1984), pp. 101-111. 50

di una datità ultima)46. La teoria «ideaista»47 della percezione si lega nella tradizione epistemologica moderna ad una teoria del soggetto, in base alla quale vi sarebbe un io, una prima persona, la quale avrebbe un accesso privilegiato ai propri contenuti interni percettivi: è appunto rispetto a tale punto di vista interno che questi contenuti si presentano in modo trasparente (se un contenuto cognitivo è dato, esso è necessariamente noto all’io) e incorreggibile (senza possibilità d’errore). Questi sono appunto i presupposti – ridescritti attingendo ad un linguaggio contemporaneo – di quella posizione che Hegel critica in quanto dogmatismo soggettivo (teoria del soggetto propriocettivo) dei fatti coscienziali (teoria immediatistica della percezione). Per Hegel dunque la crisi scettica non può essere risolta semplicemente attraverso la posizione di un principio a priori (Kant, Reinhold, Fichte) che rimanga legato a quella forma di soggettività già presente nel dogmatismo soggettivo dell’epistemologia moderna, né attraverso il richiamo all’immediatezza (Jacobi) e neppure attraverso il passaggio dalla dimensione teoretica a quella pratica (Fichte stesso, Sinclair, Hölderlin). In tutti questi casi, infatti, le premesse del dogmatismo soggettivo – vale a dire la teoria del soggetto, il richiamo all’immediatezza percettiva – rimangono intatte. Si tratta piuttosto di far emergere i presupposti dogmatici che stanno alla base dell’impostazio46 In tal senso Hegel, descrivendo lo scetticismo di Schulze, dice che esso consiste in una «filosofia che non andrebbe oltre la coscienza». Quindi Hegel mostra come l’assunzione dell’indubitabilità dei contenuti interni sia legata all’assunzione della certezza epistemica della prima persona: «l’esistenza di ciò che è dato nella cerchia[Umfang] della nostra coscienza ha certezza innegabile [unleugbare Gewißheit], poiché, dal momento che è presente nella coscienza, possiamo dubitare della sua certezza altrettanto poco che della coscienza stessa. Ma voler dubitare della coscienza è assolutamente impossibile, perché un tale dubbio, non potendo aver luogo senza la coscienza, distruggerebbe se stesso e sarebbe quindi nullo. Quel che è dato nella coscienza sono i fatti della coscienza e di conseguenza essi sono l’innegabile realtà a cui occorre riferire tutte le speculazioni filosofiche e ciò che attraverso siffatte speculazioni vi è da far spiegare o da far comprendere» (cfr. [VSP], GW4, p. 202, trad. it. p. 70). 47 Per questa definizione della teoria della percezione post-cartesiana come «ideaismo» cfr. A. Musgrave, Common Sense, Science and Scepticism, Cambridge University Press, Cambridge, 1993, trad. it. di P. Napolitani, Senso comune, scienza e scetticismo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995, pp. 105-106. Per una difesa contemporanea di un punto di vista scettico di matrice cartesiana cfr. B. Stroud, The Significance of Philosophical Scepticism, Clarendon Press, Oxford, 1984. Per una critica allo scetticismo moderno da un punto di vista wittgensteiniano cfr. M. McGinn, Sense and Certainty: a Dissolution of Scepticism, Blackwell, Oxford, 1989. 51

ne epistemologica che causa la scepsi moderna e nello stesso tempo – senza abbandonare il piano teoretico – di delineare un approccio alternativo a tali questioni. Con ciò la nascente filosofia di Hegel prende le mosse da un’istanza fortemente antiidealistica, istanza che, paradossalmente, trae impulsi decisivi dalla scetticismo antico. La scepsi antica è per Hegel superiore a quella moderna (cioè all’idealismo gnoseologico) proprio in quanto non solo non assume l’indubitabile evidenza delle apparenze soggettive, ma anzi mette a punto gli strumenti per una critica radicale di tale punto di vista. Tale è per Hegel il senso ultimo dei tropi scettici, cioè di quei modi d’argomentazione che devono condurre secondo Sesto Empirico alla sospensione del giudizio. I dieci tropi più antichi48 sono volti contro la coscienza che tiene fermo il «dato[das Gegebene]» (il «fatto[die Tatsache]» il «finito[das Endliche]»)49 come un qualcosa di certo – trasparente e incorreggibile – e mostrano l’instabilità di tale pretesa evidenza: come cioè ogni finito, variando secondo la costituzione animale, gli organi di senso, il tempo, il luogo ..., è condizionato da altro, è cioè soltanto nella relazione ad altro. Egualmente i cinque tropi più tardi (diversità, infinito, rapporto, ipotesi, diallele)50, se applicati contro il 48 Hegel leggeva Sesto Empirico sulla edizione apparsa a Lipsia nel 1718 a cura del Fabricius (Sextus Empiricus, Opera, graece et latine... edidit et emendavit A. Fabricius, Lipsiae, 1718). Così Sesto enumera i dieci modi più antichi dello scetticismo, riportandoli sotto la categoria generale della relazione: «Dagli scettici più antichi sono comunemente tramandati dieci modi, per mezzo dei quali pare effettuarsi la sospensione del giudizio e che chiamiamo, anche, con vocaboli sinonimi, regole e figure. E si riferiscono: 1° alla varietà che si nota negli animali; 2° alle differenze che si riscontrano negli uomini; 3° alle diverse costituzioni dei sensi; 4° alle circostanze; 5° alle posizioni, agli intervalli, ai luoghi; 6° alle mescolanze; 7° alle quantità e composizioni degli oggetti; 8° alla relazione; 9° al verificarsi continuamente o di rado; 10° alle istituzioni, costumanze, leggi, credenze favolose o opinioni dogmatiche. Accettiamo questa serie, dandole un valore convenzionale. Ma ci sono tre modi che comprendono tutti questi: quello che dipende dal giudicante, quello che dipende dal giudicato, e un terzo che dipende da entrambi. A quello che dipende dal giudicante si riducono i primi quattro (ché ciò che giudica è animale o uomo o sensazione o si trova in una qualche circostanza); a quello che dipende dal giudicato si riducono il settimo e il decimo; al terzo, risultante da ambedue, il quinto, il sesto, l’ottavo, il nono. A loro volta questi tre si riconducono a quello della relazione, talché il modo della relazione sarebbe il più generico, i tre sarebbero specifici e i dieci si ridurrebbero a sottospecie» (cfr. Sextus Empiricus, Pyrrhoniarum hypotyposeon, cit., I, 36-39, trad. it. p. 12). 49 [VSP], GW4, p. 215, trad. it. 1970, p. 92. 50 Così Sesto Empirico espone il contenuto della seconda serie dei tropi scettici: «gli scettici più recenti invece tramandano questi cinque modi della sospensione del giudizio: 1° quello che dipende dalla discordanza; 2° quello che rimanda 52

dogmatismo dei fatti coscienziali, sono strumenti della riflessione razionale, giacché essi mettono in campo l’opposto dal quale ogni determinazione finita astrae e con ciò «ristabiliscono l’antinomia[die Antinomie herstellen]»51. Va notato che la funzione distruttiva dei tropi antichi è volta da Hegel non solo contro i dati immediati della coscienza ma anche contro la concezione della soggettività che ad essa si lega: ciò era particolarmente evidente già nello scritto Über das Wesen der philosophischen Kritik (1801), ove Hegel, subito dopo aver indicato nella filosofia cartesiana la fonte epistemologica del dualismo, ne identificava gli eredi in quelle filosofie contemporanee che connettono l’assunzione della «immediata certezza[unmittelbare Gewißheit]» della «coscienza» con la posizione dell’«autocoscienza pura[das reine Selbstbewußtsein]» quale «punto d’inizio», e in quanto tale come immediatamente opposta all’autocoscienza empirica52. Alludendo così all’appercezione kantiana e ai suoi sviluppi in Fichte e in Reinhold, Hegel indicava la forma dualistica dell’autocoscienza e la identificava come un mero presupposto che in quanto tale è soggetto all’attacco dei tropi scettici e della riflessione razionale; lo stesso tipo di obiezione veniva poi avanzata contro quei filosofi – Krug ad esempio – che assumevano quale principio primo l’io empirico anziché l’io puro, ricadendo così in una forma di dualismo ancor più grezzo53. La strategia complessiva di Hegel nell’affrontare il problema dello scetticismo moderno, per come l’abbiamo ricostruita, consiste dunque preliminarmente nello sferrare un radicale attacco a quello che con Sellars e McDowell potremmo chiamare il «mito del dato[myth of the given]», o dell’immediatezza, per ricorrere a un termine più tipicamente hegeliano – e non a caso lo stesso Sellars, nel suo confronto con l’epistemologia e la filosofia della mente empiristica del nostro secolo, riteneva di accogliere nella sua critica istanze di diretta provenienza hegeliana54; nello stesso tempo, come si è cercato di mostrare, l’attacco al dogmatismo dei fatti coscienziali, per esprimerci con Davidson, unisce la critica al mito del dato alla critica

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all’infinito; 3° quello che dipende dalla relazione; 4° l’ipotetico; 5° il diallele» (cfr. Sextus Empiricus, Pyrrhoniarum hypotyposeon, cit., I, 164, trad. it. p. 37). V. Verra in particolare ha sottolineato la rilevanza della seconda serie dei tropi per la concezione hegeliana della scepsi: Cfr. V. Verra, Hegel e lo scetticismo antico: la funzione dei tropi, in Id., Letture hegeliane. Idea, Natura, Storia, il Mulino, Bologna, 1992, pp. 69-79. [VSP], GW4, p. 219, trad. it. 1971, p. 98. Cfr. [UWK], GW4, pp. 123-124. Cfr. [gMV], GW4, pp. 182-183. Cfr. W. Sellars, Empiricism and the Philosophy of Mind, cit., pp. 13-14; J. McDowell, Mind and World, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1994, trad. it. di C. Nizzo, Mente e mondo, Einaudi, Torino, 1998. 53

al «mito del soggettivo[myth of the subjective]»55, svolgendosi come critica delle teorie dell’autocoscienza edificate su tali basi epistemologiche. 3.1. L’attacco al fondazionalismo La riscoperta del ruolo epistemologico e argomentativo della filosofia di Hegel, e in particolare della Phänomenologie, di cui erano ben consapevoli i primi hegeliani (ad esempio Wilhelm Purpus56), si deve nel nostro secolo ad Hans Friedrich Fulda57. Ora, nell’ottica di Fulda, in ciò seguito da Henning Ottmann, la Phänomenologie, proprio per la sua funzione introduttiva, rientra pienamente nell’impostazione cartesiana della fondazione assoluta, rispondendo all’esigenza di assicurare la verità e indubitabilità della logica, mettendola al riparo da ogni dubbio scettico. Di contro a questa lettura, altri interpreti vedono nella Phänomenologie la dimostrazione dell’infondatezza del sapere filosofico, in quanto in questa opera si mostrerebbe che nell’impresa filosofica non vi è assolutamente alcun criterio che si possa presupporre come valido58. Sulla base della nostra lettura degli scritti pre-fenomenologici, che sotto questo aspetto crediamo stiano in continuità con la strategia epistemologica sviluppata nella Phänomenologie, si può senz’altro sostenere che Hegel rifiuta il fondazionalismo epistemologico, almeno se con fondazionalismo si intende l’assolutizzazione del soggetto finito come fondamento metafisico 55 Cfr. D. Davidson, The Myth of the Subjective, cit., p. 166; Id., What is Present to the Mind, in The Mind of Donald Davidson, ed. By J. Brandt and W. L. Gombocz, in «Grazer Philosophische Studien. Internationale Zeitschrift für analytische Philosophie», 36 (1989), pp. 3-18. 56 Cfr. W. Purpus, Die Dialektik der sinnlichen Gewißheit bei Hegel, dargestellt in ihrem Zusammenhang mit der Logik und der antiken Dialektik, Nürnberg, 1905; Id. Zur Dialektik des Bewußtseins nach Hegel. Beitrag zur Würdigung der Phänomenologie des Geistes, Berlin, 1908. 57 Cfr. H.F. Fulda, Das Problem einer Einleitung in Hegels Wissenschaft der Logik, cit.; H.H. Ottmann, Das Scheitern einer Einleitung in Hegels Philosophie, cit., il quale si appoggia sulla tesi sostenuta in positivo da Fulda per criticare Hegel da un punto di vista ermeneutico. 58 Cfr., oltre agli autori già citati in proposito, R.D. Winfield, Overcoming Foundations, New York, Columbia University Press, 1989; K. Dove, Hegel’s Phenomenological Method, in New Studies in Hegel’s Philosophy, ed. by W. Steinkraus, Holt, Rinehart & Winston, New York, 1971; W. Maker, Philosophy without Foundations: Rethinking Hegel, Suny, New York, 1994. Per una lettura insieme soggettivista e anti-fondazionalista cfr. G. Varnier, Versuchte Hegel eine Letztbegründung? Bemerkungen zur wissenschaftlichen Skepsis als Einleitung und zum Begriff einer ‘skeptischen Wissenschaft’, in Skeptizismus und spekulatives Denken in der Philosophie Hegels, cit., pp. 285-330. 54

e insieme – seguendo Sellars –– l’assunzione, come nel caso della «knowledge by acquaintance» di Russell, del «mito del dato», cioè dell’immediatezza dei dati sensoriali quale base di ogni conoscenza empirica. La critica della scepsi moderna attraverso la scepsi antica rispondeva appunto all’esigenza di porre fuori gioco qualsiasi strategia fondazionalista di questo tipo. Va poi ricordato che la crisi scettica del kantismo innescata da Schulze – il contesto in cui matura la strategia epistemologica hegeliana – era anche l’effetto della svolta fondazionalista di Reinhold. Quest’ultimo, accortosi che la filosofia critica poggiava su dei presupposti inindagati – che cioè in essa il metodo trascendentale non era giustificato –, aveva ritenuto che tale giustificazione si potesse dare in un sistema unificato dal riferimento ad un unico fondamento indubitabile: cioè la coscienza (capacità rappresentativa). Con ciò Reinhold, come si vede nel suo scritto Über das Fundament des philosophischen Wissens (1791)59, tentava di innestare la filosofia critica, ben oltre le intenzioni di Kant, sul tronco del fondazionalismo cartesiano60. La radicalizzazione hegeliana della scepsi, pur muovendo dalla stessa constatazione di Reinhold circa la presenza di presupposti inindagati nella filosofia di Kant, va invece in direzione contraria: essa mostra, infatti, come si è visto a proposito del Verhältnis, che l’elemento ancora dogma59 Cfr. K.L. Reinhold, Über das Fundament des philosophischen Wissens, Jena, 1791. Di Reinhold è da tenere in considerazione, per il dibattito in questione, anche il saggio che egli premise alla traduzione tedesca dell’Enquiry di Hume: cfr. K.L. Reinhold, Über den philosophischen Skeptizismus, Vorwort zu: David Humes Untersuchung über den menschlichen Verstand, trad. ted. a cura di M.W.G. Tenneman, Jena, 1793. 60 La critica hegeliana al fondazionalismo reinholdiano, e alla connessa pretesa di fornire una giustificazione lineare a partire da un solo principio assoluto, ci sembra segnare una netta distanza rispetto alla posizione post-kantiana contrassegnata da D. Henrich come monismo metodologico – che secondo questo interprete sarebbe stata intrapresa, sulle orme di Reinhold, ma a partire dal nuovo punto di vista dell’attività dell’Io, da Fichte e dal giovane Schelling (cfr. D. Henrich, Grundlegung aus dem Ich, cit., Bd. II, part. pp. 1700-1710). La critica hegeliana al fondazionalismo di Reinhold e di Fichte, al contrario, sembra collocarsi, almeno nella pars destruens, nella contesto teorico di posizioni quali quelle di Diez, Erhard e Hölderlin, con il loro peculiare uso di mezzi scettici per revocare le pretese di fondazione della filosofia trascendentale. Neppure ci sembra che si possa accogliere, per motivi analoghi, la lettura di Hegel, riaffermata di recente da M. Quante, nei termini di un monismo ontologico, quantunque metodologicamente olistico, che alla fine giocherebbe il ruolo epistemologico di una fondazione assoluta ancora compromessa, nonostante gli accenti esternalisti della teoria fenomenologia dell’autocoscienza, con l’internalismo cartesiano (cfr. M. Quante, Spekulative Philosophie als Therapie? In Ch. Halbig, M. Quante, L. Siep (a cura di), Hegels Erbe, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 2004, pp. 324-350, part. pp. 347-349). 55

tico di Kant sta proprio in quel fondamento (il dogmatismo soggettivo) che Reinhold vuole porre. Tutto ciò è poi particolarmente evidente nella Differenzschrift ove, con riferimento a Reinhold, si critica il filosofare che parte da principi e da presupposti, a ciascuno dei quali, secondo il quarto tropo, se ne può opporre legittimamente un altro61. L’attacco di Hegel al fondazionalismo riguarda a nostro avviso anche la specifica concezione che tale corrente ha della giustificazione epistemica. Il fondazionalismo è legato al modello lineare di giustificazione secondo il quale la conoscenza empirica avrebbe la struttura di una piramide in cui la giustificazione si trasmette linearmente e unidirezionalmente a partire da un principio primo che, autogiustificandosi, non ha a sua volta bisogno di giustificazione e che dunque funge da fondamento di tutta la conoscenza – quello che Hegel nel Verhältnis chiama «richiesta di un fondamento[Forderung eines Grundes]»62. Contro ogni tentativo di fondazione a partire da un principio Hegel si serve esplicitamente della seconda serie dei tropi dello scetticismo antico, i cosidetti tropi di Agrippa: tali tropi mostrerebbero che ogni tentativo di fondazione non può sottrarsi al trilemma forzoso del regresso all’infinito nella giustificazione, dell’assunzione arbitraria di un principio primo che arresti la catena del regresso, oppure della circolarità. Hegel dissolve dunque i presupposti della scepsi moderna mediante il ricorso alla scepsi antica: la scepsi moderna è in verità una forma di dogmatismo fondazionalista; la vera questione scettica con cui la filosofia deve confrontarsi è quella posta dai tropi di Agrippa, cioè il problema della giustificazione epistemica. 3.2. Giustificazione epistemica e olismo Queste considerazioni sulla critica del fondazionalismo nella filosofia di Hegel devono tenere tuttavia conto della pretesa di giustificazione argomentativa che la filosofia di Hegel avanza. La critica ad un certo tipo di fondazionalismo non equivale di per sé ad una forma d’irrazionalismo, ad una concezione della filosofia come un’impresa che si sottragga ad obblighi d’argomentazione razionale. Poiché Hegel, nonostante la sua critica al fondazionalismo, intende comunque giustificare il procedimento filosofico, egli già nella Differenzschrift – come poi in tutte le opere successive – sostituisce il modello di giustificazione lineare – che parte da un principio primo autoevidente e deriva da esso delle conseguenze – a favore di un modello di giustificazione olistica. In filosofia non è l’inizio che trasmette 61 [D], GW4, pp. 83-87, trad. it. pp. 102-106. 62 [VSP], GW4, p. 220, trad. it. mod. 1970, p. 99. 56

la giustificazione a ciò che segue; la giustificazione può darsi invece solo entro la totalità del sistema delle proposizioni conoscitive che si supportano mutuamente in modo dialettico-antinomico, innescando una circolarità in cui è il risultato a giustificare l’inizio. La giustificazione olistica del sapere filosofico è inoltre il risultato dell’integrazione nella struttura dell’assoluto dei tropi scettici della relazione e del circolo: la prestazione dei tropi scettici, come Hegel ribadisce più volte, è la critica della «richiesta di un fondamento[Forderung eines Grundes]»63, cioè della giustificazione lineare – critica il cui risultato positivo è la posizione della relazionalità come struttura costitutiva del sapere filosofico. Con ciò la filosofia hegeliana si configura come un sistema olistico relazionale64. Questa posizione, che in ultima analisi fa leva in positivo sul tropo scettico del circolo65 e del rapporto, è intesa da Hegel come un’integrazione razionale del vero scetticismo, cioè dello scetticismo antico. L’olismo confuta la scepsi moderna ma non quella antica, in quanto il processo di sviluppo del sistema olistico altro non è che lo «scetticismo che viene a maturazione[der sich vollbringende Skeptizismus]», secondo la formula che sarà impiegata nella Phänomenologie: una forma di scetticismo metaepistemologico che mostra come ogni giustificazione epistemica finita sia fallibile e destinata a dissolversi. Lo scetticismo antico, il cui principio dell’equipollenza/antinomia – ad ogni proposizione se ne contrappone una equipollente – era già stato assunto nel periodo di Francoforte come principio della filosofia, viene dichiarato nel Verhältnis come unito con la vera filosofia, in quanto suo momento negativo. L’antinomia è per Hegel però essenzialmente il «riconoscimento[Anerkennung]» della relazionalità degli opposti66: sicché nella filosofia, in quanto autoconoscenza della ragione, la ragione si autoconosce olisticamente come avente una struttura essenzialmente riconoscitiva. Lo scetticismo antico gioca a questo livello un ruolo costruttivo nella definizione della teoria hegeliana della razionalità: così Hegel sviluppa sistematicamente l’intuizione giovanile, risalente agli anni di Tubinga, secondo la quale la ragione, come l’amore, consiste 63 [D], GW4, p. 65, trad. it. p. 99. 64 L’interpretazione della filosofia di Hegel come sistema olistico relazionale, articolata qui sul piano epistemologico della giustificazione, è stata esposta in termini semantici da Robert Brandom (Cfr. R. Brandom, Olismo e idealismo nella Fenomenologia di Hegel, in Hegel contemporaneo, cit., pp. 247-289). 65 Sulla circolarità come motivo epistemologico della Differenzschrift cfr. T. Rockmore, Hegel’s Circular Epistemology, Indiana University Press, Blooomington, 1986. 66 [D], GW4, p. 51, trad. it. p. 61. 57

essenzialmente nel riconoscersi in ogni essere razionale67. Se dunque la questione è posta in questi termini, allora non dovrebbero sussistere motivi per classificare Hegel come un fondazionalista cartesiano, il che sarà anche confermato dalla critica al dubbio metodico contenuta nella «Einleitung» alla Phänomenologie – dubbio al quale Hegel imputerà di essere carico di presupposti inindagati e di essere una finzione che nasconde un’assunzione dogmatica. La nostra lettura della critica hegeliana al fondazionalismo non portano nemmeno all’accoglimento immediato delle intepretazioni antifondazionaliste, perlomeno se per antifondazionalismo si intende una forma di decostruzionismo post-moderno oppure l’abbandono dell’argomentazione razionale. Queste letture trascurano il fatto che la critica hegeliana al fondazionalismo, dai primi scritti jenesi sino alla Phänomenologie, se da un lato mostra che non vi è a1cun criterio positivo, nello stesso tempo non esime la filosofia da un compito di giustificazione, legittimando il sapere filosofico proprio attraverso l’integrazione razionale della confutazione scettica. La lettura antifondazionalista non prende dunque in giusta considerazione la struttura scettico-confutativa della giustificazione hegeliana. La struttura confutativa del sapere filosofico non è però volta in Hegel a mostrare l’inevitabilità di un principio (ad esempio il principio di non-contraddizione, il cogito), ma fa capo piuttosto ad una forma nuova di giustificazione olistica. In questa prospettiva l’intento di Hegel era piuttosto quello di andare oltre la dicotomia tra fondazionalismo e antifondazionalismo68. Perciò egli, riferendosi alla filosofia unita intimamente con la scepsi, e dunque alla propria filosofia, parla di essa come della «terza filosofia»69, che supera l’opposizione tra dogmatismo e 67 GW1, Text 16, p. 101, trad. it. p. 187. Sul nesso tra amore, ragione e riconoscimento negli scritti giovanili Cfr. I. Testa, Hegel critico e scettico, cit., pp. 255-269. 68 Paul W. Franks ha offerto di recente un affresco complessivo dell’idealismo tedesco come tentativo di rispondere al trilemma scettico di Agrippa, rivitalizzato da Kant, attraverso una forma di monismo olistico di derivazione spinoziana che cerca però di sottrarsi alle conseguenze nichilistiche paventate da Jacobi e intende quindi ripensare l’individualità non più in termini di proprietà intrinseche – come accadeva ancora sul piano trascendentale nell’individualismo monadologico di Kant – bensì in termini di proprietà relazionali (Cfr. P.W. Franks, All or Nothing. Systematicity, Transcendental Arguments and Skepticism in German Idealism, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), London, 2005, pp. 8-10 e 129 sgg.). La caratterizzazione in termini monistici del sistema olistico – inteso come fondazione a partire da un principio – ci sembra per un verso difficilmente compatibile con la critica hegeliana della fondazione a partire da un Grund. D’altra parte l’olismo idealistico, per come lo ricostruisce Franks, non è solo un metodo di giustificazione ma anche una dottrina ontologica. 69 [D], GW4, p. 50, trad. it. p. 81. 58

scetticismo, dimostrazione fondante e infondatezza. In ciò Hegel si fa erede ancora una volta di un impulso profondo della filosofia di Kant, il quale pensava alla sua filosofia critica come ad un ‘tertium’ rispetto alla scepsi e al dogmatismo70 – sebbene per Hegel il ‘tertium’ kantiano abbia ancora una forma dogmatica. 3.3. La teoria della percezione e il problema del mondo esterno Se nel Verhältnis vengono identificati e confutati i principi epistemologici della scepsi postcartesiana e nella Differenzschrift viene avanzata una teoria olistica della giustificazione, nelle Vorlesungen del 1803-4 e del 1805-6 sulla filosofia dello spirito il progetto di un attacco ai fenomeni speculari dell’idealismo gnoseologico e dell’empirismo viene sviluppato in positivo, attraverso il tentativo di delineare una teoria della percezione ad essi alternativa. Nel Fragment 20, dal titolo Potenz der Sprache (1803-4)71, e nella sezione «Intelligenz» della Philosophie des Geistes del 1805-672, Hegel svolge una critica della teoria della percezione in quanto teoria delle idee, che riduce la percezione ad una mera ricettività, all’accoglimento passivo di un ordine dato di contenuti immediati ed incorreggibili: tale è appunto la teoria rappresentazionalista della percezione che si connette al fondazionalismo epistemologico producendo così i dilemmi della scepsi moderna73. Invece per 70 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, GS, III, pp. 328-329, trad. it. pp. 315-316. 71 Il frammento 20 è parte delle lezioni del 1803/04 Zum Organischen und zur Philosophie des Geistes[PdG I], in G.W.F. Hegel, Jenenser Realphilosophie, I. Die Vorlesungen von 1803/04, aus dem Manuskript hrsg. v. J. Hoffmeister, Leipzig, 1932. Le lezioni sono state pubblicate in edizione critica in G.W.F. Hegel, GW, Bd.6: Jenaer Systementwürfe I. Das System der spekulativen Philosophie[GW6], hrsg. v. K. Düsing und H. Kimmerle, 1975, pp. 210-331. Una traduzione italiana dei frammenti 15-22 si trova in G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, a cura di G. Cantillo, Laterza, Roma-Bari, 1983, pp. 1-65. Cfr. Fragment 20, [PdG I], GW6, pp. 282-300, trad. it. pp. 20-37. 72 Philosophie des Geistes[PdG II], in GW8, Jenaer Systementwürfe III. Naturphilosophie und Philosophie des Geistes, unter Mitarbeit von J.H. Trede hrsg. v. R.-P. Horstmann, 1976, pp. 185-201, trad. it. pp. 69-86. 73 Sul carattere rappresentazionalista dell’epistemologia moderna cfr. R. Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton University Press, Princeton, 1979; D. Davidson, Knowing one’s own Mind, in The Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association, 60 (1987), pp. 441-458, rist. in SelfKnowledge, ed. by Q. Cassam, Oxford University Press, Oxford, 1984, pp. 43-64. Spunti in direzione di una lettura antirappresentazionalista di Hegel si trovano poi in R. Rorty, Transzendentale und holistische Methoden in der analytischen Philosophie. Zur Einführung, in Kant oder Hegel, hrsg. v. D. Henrich, Stuttgart, Klett-Cotta, 1983; Id., Dewey between Darwin and Hegel, in Truth and Progress. Philosophical Papers, Volume 3, Cambridge University Press, Cambridge, 1998, 59

Hegel ciò che ho dinanzi non è una mera esteriorità data, immediata, bensì un prodotto mediato, una sintesi di contenuto ed io operata all’interno di un processo sociale di mediazione: soprattutto nell’analisi del vedere Hegel tenta di mostrare che la percezione ha un carattere attivo, è sempre legata all’azione ed implica un discriminare, un distinguere. Perciò lo stesso linguaggio viene introdotto nella sfera dell’«intelligenza[Intelligenz]» in relazione alla funzione costitutiva che esso svolge rispetto alla conoscenza empirica del mondo, e cioè nel senso che il nostro rapporto percettivo con il mondo non è eminentemente passivo, bensì è sempre concettualmente e linguisticamente mediato. In tal senso Hegel – non lontano dalla critica di William James e Charles Peirce alla teoria moderna della percezione74 – individua in una concezione pragmatica e interazionale della percezione la premessa per un’alternativa epistemologica all’impostazione che conduce alla scepsi moderna. L’accessibilità del mondo esterno costituisce un problema sino a che si ritiene che l’io possa avere accesso diretto solo ai suoi contenuti interni e che solo di questi sense-data, proprio perché accolti passivamente, possa avere una conoscenza infallibile, mentre la relazione di tali contenuti con il mondo esterno di oggetti che li causa rimarrebbe accessibile solo in modo indiretto, congetturale, pertanto esposto al dubbio. Hegel aveva già attaccato frontalmente tale concezione dualistica nello scritto sullo scetticismo, criticando le filosofie che contrappongono le «cose» al «conoscere»; in tal senso egli scriveva che «secondo questo modernissimo scetticismo la capacità conoscitiva umana è una cosa[Ding] fornita di concetti[Begriffe], e non avendo essa se non concetti non può nemmeno uscire ad incontrare le cose che stanno all’esterno; non le può insomma né esaminare né esplorare, – poiché i concetti e le cose […] sono specificamente diversi; e dunque nessuna persona ragionevole si illuderà di possedere, con il possesso della rappresentazione[Vorstellung] di qualcosa, anche insieme questo stesso qualcosa»75. Così Hegel indicava in un’impostazione rappresentazionalista, la quale intende i contenuti mentali come indubitabili fatti coscienziali, la causa di un dualismo tra i concetti e le cose che rende in ultima analisi inafferrabile il mondo esterno. Tale concezione rappresentazionalista ha tipicamente il suo correlato in una forma di realismo metafisico, in base al quale si suppone che le cose stiano là fuori, in sé determinate in tutte le loro proprietà indipendentemente dalla loro concepibilità. Senza scomodare la nota critica hegeliana alla cosa in sé kantiana, pp. 290-306. 74 Sulla critica di James e Peirce alla teoria moderna della percezione cfr. H.Putnam, Il Pragmatismo: una questione aperta. Lezioni Sigma-Tau, trad. it. di M. Dell’Utri, Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 75-76. 75 [VSP], in GW4, p. 225, trad. it. p. 107. 60

dobbiamo qui osservare come nell’attacco a Schulze Hegel metta in luce il nesso tra scetticismo moderno, rappresentazionalismo e realismo metafisico. Nello scetticismo schulziano, infatti, le cose opposte ai concetti sono intese come «cose che stanno oltre la nostra coscienza, come qualcosa di esistente e comunque di opposto alla coscienza»76; e in modo ancora più chiaro, qualche riga più avanti, Hegel sottolinea come la scepsi del mondo esterno nasca da una concezione per la quale noi dovremmo guadagnare con i concetti «una conoscenza di cose le quali giacerebbero nascoste dietro alle ombre degli oggetti presentateci dalla naturale conoscenza umana». Se in alternativa alla teoria rappresentazionalista si nega, con Hegel, che il nostro rapporto ai dati interni sia passivo e che essi siano noti in modo incorreggibile, si perde l’infallibilità – relativa ai contenuti interni – ma nello stesso si assicura il rapporto con il mondo, dato che viene meno ogni ragione per tener ferma quella distinzione tra accessibilità diretta e indiretta – e quella separazione tra concetti e cose – che creava il problema del mondo esterno. Per questo l’attacco alla teoria «inglese» della percezione fa il paio, nelle lezioni jenesi, con una teoria della costituzione intersoggettiva e linguistica dell’oggettività che serve a costruire un’alternativa al realismo metafisico77. Ciò cui ci riferiamo conoscitivamente, per Hegel, non sono i 76 Ivi, p. 201, trad. it. p. 69. Sulla questione del realismo in Schulze, ma non in riferimento ad Hegel si veda: Th. Grundmann, Polemic and Dogmatism: the Two Faces of Skepticism in Aenesidemus-Schulze, in The Skeptical Tradition around 1800. Skepticism in Philosophy, Science and Society, ed. by J. v. der Zande and R.H. Popkin, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, Boston, London, 1998, part. pp. 141. Per contro A. Engstler ha argomentato che a suo avviso non vi sarebbe in Schulze l’assunzione dogmatica di una teoria realista della verità: cfr. A. Engstler, Commentary: Reading Schulze’s Aenesidemus, in The Skeptical Tradition around 1800, cit., pp. 159-172. 77 Sulla compatibilità tra critica del realismo metafisico e salvaguardia del realismo del senso comune, nel senso di Putnam, e sulla fondamentale convergenza di questa idea con una lettura anti-rappresentazionalistica dell’analisi hegeliana della scepsi cfr. I. Testa, Scetticismo, mondo, autoriflessione. Il superamento della scepsi moderna del mondo esterno tra Moore, Wittgenstein, Austin e Apel (passando per Hegel), in «Fenomenologia e Società», 20, 3 (1997), pp. 94-121; Id., Ragione e relazione, cit., pp. 371-392; Id., Conoscere è riconoscere, cit., part. pp. 127-130. A favore della conciliabilità tra realismo quotidiano e idealismo assoluto nell’Enzyklopädie hanno argomentato, sulla scia delle tesi di McDowell circa l’omogeneità ontologica tra mente e mondo, anche L. Siep, Ch. Halbig e M. Quante in Direkter Realismus. Bemerkungen zur Aufhebung des alltäglichen Realismus bei Hegel, in R. Schumacher (a cura di), Idealismus als Theorie der Repräsentation?, Mentis, Padeborn, 2001, pp. 127-164. Il realismo hegeliano salvaguarderebbe secondo questi autori l’idea – condivisa dai soggetti finiti – che la realtà non dipenda dal soggetto che conosce e agisce, distinguendosi così dall’idealismo 61

nostri contenuti mentali interni bensì il mondo degli oggetti identificabili e riconoscibili mediante i «nomi». Nelle lezioni del 1805-6 Hegel scrive in tal senso che «mediante il nome, dunque, l’oggetto nasce venendo fuori come essente […] l’uomo parla alla cosa come alla sua, e vive in una natura spirituale, nel suo mondo, e questo è l’essere dell’oggetto»78. Il mondo dell’esperienza umana è così definito come un mondo di «significati» esterni (il nome è inteso appunto da Hegel come esteriorizzazione del significato), accessibili intersoggettivamente e con ciò sottratti alla presa del dubbio scettico moderno circa il mondo esterno. Indicando la struttura semantica della nostra esperienza oggettuale, Hegel ha inoltre modo di superare quel dualismo tra concetti e cose che, nella sua diagnosi, stava alla base dello scetticismo del mondo esterno79. Per Hegel, infatti, il significato soggettivo che confonde l’atto psicologico con il contenuto logico del pensiero (ivi, p. 158). L’antirappresentazionalismo di Hegel è qui ricavato da un’analisi del livello ontologico della teoria hegeliana piuttosto che da una ricostruzione della teoria della percezione e della funzione meta-epistemologica della scepsi: anche per tale motivo ci pare che gli autori non apprezzino adeguatamente in tale contesto l’apporto della scepsi antica all’argomentazione hegeliana, da loro caratterizzata invece come risolutamente antiscettica. K. Westphal aveva invece cercato invece di ricostruire l’argomentazione della Phänomenologie des Geistes come una forma di realismo epistemologico di stampo pragmatista (cfr. K.R. Westphal, Hegel’s Epistemological Realism, Kluwer, Dordrecht, 1989). Sull’idea che il programma dell’epistemologia hegeliana si fondi su un’ontologia normativa – e su di una concezione ontologica della verità, per cui una cosa è vera in quanto corrisponde al suo concetto – , si veda invece: Ch. Halbig, Objektives Denken. Erkenntnistheorie und Philosophy of Mind in Hegels System, Fromann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt, 2002; Id., Das >Erkennen als solches autocoscienze indipendenti secondo il loro concetto. Ma l’unico rapporto proprio di essi in quanto autocoscienze indipendenti è però appunto quella di togliere questa rapporto: exeundum e statu naturae. In tali rapporti essi non hanno alcun diritto e dovere l’uno per l’altro, ma li acquistano solo mediante l’abbandono di tali rapporti54.

Hegel argomenta la sua affermazione finale in due modi distinti: 1) attraverso una definizione formale del significato del concetto di «diritto»; 2) attraverso una ricostruzione della genesi di tale nozione. In entrambi in casi egli mostra che il diritto non è una proprietà naturale degli individui ma è intrinsecamente costituito da interazioni riconoscitive. 5.1.1. Definizione formale del diritto Gli aspetti centrali della definizione hegeliana del diritto possono essere ricostruiti nel modo seguente. I) La nozione di «diritto[Recht]» presuppone quella di «persona giuridica[rechtsfähige Person]», vale a dire la nozione di un sogget53 Hobbes introduce la nozione di diritto naturale, anche se non in senso giuridico, già all’interno dello stato di natura – quindi indipendentemente dall’interazione riconoscitiva – ed è in ciò oggetto della critica di Hegel. Va però notato che il diritto naturale degli individui è in ultima analisi identificato da Hobbes con il diritto soggettivo all’autoconservazione. Quindi Hegel in un certo senso radicalizza l’idea hobbesiana che, se tutti hanno diritto esclusivo a tutto, allora è come se non vi fosse alcun diritto (De cive, I, 11). In Hobbes la natura umana è in un certo senso duplice e conosce una sorta di contraddizione interna, che si riverbera nella struttura sia del desiderio sia della ragione (l’uomo in base alla sua natura desiderante si comporta in modo antisociale ma in base alla sua stessa natura desidera uscire dallo stato di natura; la ragione naturale certifica il diritto di tutti ma insieme prescrive di cercare la pace). Hegel ridescrive tale contraddizione interna alla natura umana attraverso la teoria del riconoscimento, che in tal senso esplicita la logica oggettiva sottesa alla dottrina hobbesiana per cui occorre uscire dallo stato di natura (De cive, I, 13). 54 [PdG II], GW8, p. 214, trad. it. mod. pp. 98-99. 379

to titolare di diritti in quanto giuridicamente capace. II) Perché si dia diritto, è necessario innanzitutto che degli individui siano riconosciuti innanzitutto come persone («il diritto implica la pura persona, il puro esser riconosciuto[reines Anerkanntsein]»55). III) L’esser persona per Hegel non è una proprietà intrinseca degli individui, bensì uno status istituito dagli stessi atteggiamenti riconoscitivi. Infine, IV) il diritto è propriamente un certo tipo di relazione riconoscitiva tra persone cui è attribuita capacità giuridica: «la relazione della persona nel comportarsi verso l’altra persona[die Beziehung der Person in ihrem Verhalten zur anderen]»56, ove tale relazione è «una relazione riconoscitiva[Anerkennende Beziehung]». Il diritto è dunque un certo tipo di relazione tra agenti, caratterizzato dal fatto che tali agenti si riconoscono reciprocamente lo status di persone giuridiche, vale a dire di legittimi titolari di diritti. Pertanto, il diritto non può essere definito come una proprietà naturale dei singoli individui, bensì unicamente all’interno di un’interazione in cui avvengono atti riconoscitivi reciproci tra individui di un certo tipo. Da ciò segue che i) la nozione di diritto è parte di una teoria dell’azione ed è intrinsecamente intersoggettiva, presuppone cioè un contesto di interazione sociale in cui si producono relazioni di riconoscimento (ciò che Hegel chiama «la relazione della persona nel comportarsi verso l’altra persona»); ii) la concezione del diritto implica una teoria dell’essere persona e delle sue capacità come ciò che sta alla base della capacità giuridica57; iii) il diritto presuppone così una modalità di riconoscimento normativo che sopravviene sul riconoscimento naturale: una forma di attribuzione reciproca di status attraverso cui i sé naturali dotati di poteri riconoscitivi si costituiscono come persone. 5.1.2. Necessità del riconoscimento Nel contesto del diritto l’individuo si riconosce ed è riconosciuto non semplicemente come sé naturale, bensì come persona, «libero sé» capace di agire autonomamente vincolandosi a norme e responsabile delle azioni 55 Ivi, p. 214n, trad. it. p. 98n. 56 Ivi, p. 215, trad. it. p. 99. 57 Da questo punto di vista l’ontologia sociale di Hegel non si limita a ricostruire la costituzione degli oggetti istituzionali nei termini dell’imposizione di funzioni di status. A differenza di Searle, che in ultima analisi presuppone la nozione di persona come qualcosa di primitivo, Hegel intende altresì dar conto dell’ontologia delle persone in termini di status riconoscitivi imposti sulle funzioni del sé naturale, ricostruendo in tal senso le caratteristiche dell’autocoscienza intenzionale teoretica e pratica come proprietà relazionali che emergono olisticamente dal contesto globale dell’interazione naturale. 380

di cui è titolare. In tal senso Hegel, in un passo estremamente significativo, scrive che nel riconoscere[im Anerkennen] il sé cessa di essere questo singolo Sé[dies Einzelne]; nel riconoscere esso esiste giuridicamente[es ist rechtlich im Anerkennen], cioè non è più nel suo esserci immediato. Il riconosciuto è riconosciuto come avente immediatamente valore[das Anerkannte is anerkannt als unmittelbar geltend], mediante il suo essere – ma questo essere è appunto prodotto dal concetto; è essere riconosciuto[es ist anerkanntes Sein]; l’uomo viene necessariamente riconosciuto ed è necessariamente riconoscente[der Mensch wird notwendig anerkannt und ist notwendig anerkennend]. Questa necessità è la sua propria, non la necessità del pensiero in opposizione al contenuto. In quanto riconoscente[als anerkennend] l’uomo è egli stesso il movimento, e questo movimento toglie appunto il suo stato di natura; l’uomo è il riconoscere[er ist anerkennen]; il naturale è soltanto; esso non è lo spirituale.

Il riconoscimento, dunque, è qualificato come la capacità umana essenziale, riprendendo con ciò la definizione dell’uomo come «potenza» riconoscitiva che era stata presentata già nel System der Sittlichkeit. La natura dell’uomo viene definita in termini riconoscitivi («l’uomo è il riconoscimento») e la capacità riconoscitiva è qualificata come una proprietà necessaria dell’individuo entro le interazioni umane. Il riconoscimento, che con Bonnet aveva iniziato ad autonomizzarsi come facoltà, diviene così il principio centrale di comprensione dell’attività cognitiva e pratica. Il riconoscimento, in quanto fenomeno dinamico che conosce uno sviluppo, è inoltre in Hegel essenziale per l’antropogenesi. È da notare che Hegel in tal modo si discosta dalla classica definizione dell’uomo come essere razionale o parlante. Hegel definisce l’uomo attraverso una capacità d’interazione, il riconoscimento, che si riscontra anche, seppure solo ad un certo livello, nel mondo animale. Il passaggio dalla forma di vita animale alla forma di vita umana è qualificato innanzitutto con il fatto che il riconoscimento, che nella vita animale è ancora un meccanismo contingente, diventa ora «necessario». L’uomo è necessariamente riconoscente e riconosciuto proprio nel senso che la sfera del riconoscimento compenetra tutta la sua vita, mentre nel caso dell’animale si limita alla riproduzione sessuale e al grido di morte. La natura riconoscitiva è quindi ciò che fa da ponte tra l’animale e l’umano, la natura e la cultura, e costituisce proprio per ciò la base naturale su cui si innesta geneticamente l’autocoscienza umana in quanto forma massimamente complessa di autorganizzazione della vita. La natura linguistica e razionale dell’uomo emerge quindi dalla capacità riconoscitiva come sua modalità superiore. Nell’argomentazione di Hegel viene riaffermato inoltre il nesso tra rico381

noscimento naturale e riconoscimento spirituale: il riconoscimento naturale è un necessario presupposto e il riconoscimento spirituale è il processo del toglimento della mera naturalità e dell’universalizzazione del riconoscere (si ricordi l’importanza, nelle lezioni del 1803-4, del movimento di universalizzazione del riconoscimento). La genesi del diritto è un momento di tale sviluppo del riconoscimento spirituale, in quanto con l’istituzione della persona giuridica si stabilizza una forma di riconoscimento che ha ad oggetto non più semplicemente il sé nella sua singolarità e nei suoi poteri naturali, bensì il sé nel suo status normativo di persona giuridica. Da questa analisi del riconoscimento giuridico si possono infine ricavare alcuni aspetti qualificanti del riconoscimento spirituale. La struttura del riconoscimento spirituale si intreccia con la questione assiologia del valore e con quella deontica della validità: il riconoscimento della persona giuridica implica da un lato l’apprezzamento assiologico del valore della persona («il riconosciuto è riconosciuto come avente immediatamente valore[das Anerkannte is anerkannt als unmittelbar geltend]»); dall’altro implica l’atto logico-deontico del riconoscimento della validità di norme. Il riconoscimento spirituale presupposto dalla relazione giuridica implica infatti l’attribuzione alla persona così riconosciuta della capacità normativa di seguire ed applicare regole: la capacità giuridica è in tal senso una forma determinata di esercizio della capacità normativa. In tal senso le diverse modalità del riconoscimento che avevamo individuato attraverso la nostra ricostruzione storica e lessicale (identificazione e individuazione, apprezzamento, riconoscimento di validità) sono per Hegel da intendersi come differenzazioni di una radice comune58. 58 H. Hikäheimo introduce la dimensione assiologica e la dimensione deontica come due dimensioni distinte del riconoscimento dell’esser persona proprio degli esseri umani (cfr. Riconoscimento e persona, cit.). La dimensione assiologica del riconoscimento è quella per cui ci riconosciamo come esseri che attribuiscono valore, apprezzano, tengono a qualcosa (sulle capacità valutative cfr. H. Frankfurt, Freedom of the Will and the Concept of a Person, «Journal of Philosophy» 68 (1971), pp. 5-20; Ch. Taylor, The concept of Person, in Id., Human Agency and Language: Philosophical Papers vol. 1, Cambridge University Press, Cambridge, 1985, pp. 97-114, trad. it. Il concetto di persona, in Id., Etica ed umanità, Vita e Pensiero, Milano, 2004, pp. 127-149). La dimensione deontica è quella per cui ci riconosciamo come esseri normativi, capaci di istituire e autorizzare norme e insieme di riconoscerci reciprocamente come co-autori e co-gestori di tali norme (sulle capacità deontiche cfr. R.B. Brandom, Some Pragmatist Themes in Hegel’s Idealism, cit.; J. Searle, The Construction of Social Reality, cit.). Si noti che invece nel nostro uso la dimensione assiologica non è intrinsecamente legata al riconoscimento dell’esser persona, in quanto emerge già all’interno della relazione pratica intenzionale propria del riconoscimento naturale. Da questo 382

5.1.3. Il confronto con Kant e Fichte Tornando alla definizione formale del diritto, Hegel applicherà in seguito lo stesso schema argomentativo all’analisi di un diritto fondamentale: il diritto di «proprietà[Eigentum]»59. Perché si affermi legittimamente la proprietà di una cosa, non è sufficiente «aver preso possesso[Besitznahme]» di essa senza che nessuno la rivendichi ed avervi apposto un «segno[Zeichen]». Qui Hegel sembra confrontarsi criticamente con la Metaphysik der Sitten, perlomeno nella misura in cui Kant, muovendosi nella scia di Locke, dà l’impressione che per fondare la proprietà basti la volontà di colui che per primo si è impadronito di un oggetto e ha contrassegnato il suo possesso con un segno60. Kant, pur pensando intersoggettivamente il diritto come unificazione di volontà sotto il dominio della legge, concepisce infatti la «presa di possesso[Erwerbung]» originaria come un atto unilaterale. Hegel, che in ciò sta più dalla parte di Hobbes che da quella di Locke61, sottolinea per contro come non si può avere legittima proprietà sino a che la presa di possesso non è riconosciuta dagli altri mediante un «contratto[Vertrag]»: «la presa di possesso […]», scrive Hegel, «deve trasformarsi nell’applicazione giuridica mediante il riconoscimento[sie hat durch Anerkennung zur Rechtlichen zu werden]»; «poiché «qualcosa è riconosciuta dagli altri, essa è mia proprietà»62. Perché la proprietà diventi un diritto occorre che essa sia riconosciuta reciprocamente tramite una norma (il contratto): ma ciò non è possibile nello stato di natura, ove non vi sono relazioni riconoscitive

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punto di vista la dimensione assiologica non ci distingue di per sé dagli animali, visto che già la Begierde animale è una forma di valutazione che attribuisce valore pratico alle cose. La capacità riconoscitiva delle persone, unendo la dimensione assiologica e quella deontica, fa di noi piuttosto dei valutatori forti, in grado di apprezzare qualcosa di per sé, di darle valore intrinseco: e in particolare di dare valore intrinseco all’essere per sé, alla capacità autonormativa della persona. [PdG II], GW8, p. 215, trad. it. p. 100. Cfr. I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, 1. Teil: Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, in Id., GS, VI, Berlin 1907, Neudruck 1914, pp. 203-372, trad. it. La Metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari, 1989, §§ 10, 14, 15, pp. 258-260, 263 e 264-266. Hobbes pensa che la proprietà sia il possesso legittimamente riconosciuto dalle leggi e dal potere supremo da cui emanano: per cui il diritto di proprietà non è naturale ma può essere istituito solo all’interno dello stato civile (Cfr. De cive, VI, 15). L’istituzione del diritto di proprietà presuppone quindi in Hobbes il riconoscimento in un duplice senso costitutivo: da un lato presuppone l’interazione riconoscitiva orizzontale degli individui che tramite contratto hanno istituito il potere supremo; dall’altro presuppone il riconoscimento verticale del potere supremo che in ogni istante può revocare il diritto così concesso. [PdG II], GW8, p. 216, trad. it. p. 100. 383

normative. Ponendo un nesso intrinseco tra diritto e riconoscimento, Hegel si richiama a Fichte anziché a Kant. In Kant, infatti, il concetto di diritto, pur strutturato intersoggettivamente ed implicando una reciprocità tra le volontà, non è dedotto bensì posto all’inizio della dottrina del diritto come un principio evidente della ragione; né Kant mostra come si costituisca la reciprocità delle volontà incluse nel diritto. Invece Fichte nel suo scritto sul Naturrecht ha percorso la via di una deduzione intersoggettiva del concetto stesso di diritto, ponendo un nesso interno tra riconoscimento reciproco, libertà e diritto. Fichte aveva sostenuto, con una formulazione analoga a quella che ritroviamo nella filosofia dello spirito di Hegel, che il «reciproco riconoscimento[gegenseitiges Anerkennen]» è ciò che muta il possesso in diritto di proprietà63. Per altro verso la concezione fichtiana conosce già nello Hegel jenese una profonda trasformazione. In primo luogo, come si era visto nell’analisi della Differenzschrift, il diritto in Hegel non si lega ad una concezione della libertà come limitazione reciproca e dell’intersoggettività come restrizione. Per Hegel la libertà, costituendosi nell’interazione riconoscitiva, conosce nell’intersoggettività non una limitazione quanto piuttosto un’espansione. Attraverso la lotta per il riconoscimento, infatti, Hegel ricostruisce sia la costituzione del diritto sia il primo livello della costituzione dell’autocoscienza libera e razionale mediante il suo rapporto con le altre autocoscienze. In secondo luogo Hegel, ricostruendo il nesso tra diritto e riconoscimento attraverso la lotta per il riconoscimento, detrascendentalizza l’approccio fichtiano: mentre in Kant il riconoscimento, come abbiamo visto, era un presupposto trascendentale del diritto, in Hegel è invece il processo di interazioni concrete tra esseri naturali a partire dal quale si istituiscono relazioni giuridiche64. 63 Cfr. J.G. Fichte, Grundlage des Naturrechts nach Principien der Wissenschaftslehre, GA, I.3, p. 418, trad. it. p. 115: «ogni proprietà si fonda sul riconoscimento reciproco, e questo è condizionato da una dichiarazione reciproca». 64 Sul rapporto tra Hegel e Fichte in rapporto a questo tema, e in particolare sull’empiricizzazione che la teoria della costituzione del diritto conosce in Hegel si vedano in particolare L. Siep, Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie, cit., pp. 22-23; R.R. Williams, Recognition, cit., p. 84 sgg. La concezione riconoscitiva del diritto di Hegel ha destato attenzione non solo nel campo degli studi sull’idealismo ma anche nell’ambito della teoria del diritto. Y. Seo ha ricostruito la teoria del diritto di Hegel delle Grundlinien quale Dasein der Freiheit ([RPh], § 29) nei termini di una ontologia regionale in cui il diritto quale esserci della libertà si determina come riconoscimento reciproco. Il riconoscimento reciproco è in tal senso da un lato il fondamento ontologico del diritto (cfr. Id., Rechtsontologie und Hegels Rechtsbegriff. Zur Rekostruktion der Rechtsontologie 384

5.2. Genesi riconoscitiva del diritto Alla definizione del concetto di diritto segue, per connessione interna, l’esposizione, da parte di Hegel, della sua genesi riconoscitiva. Egli si impegna a mostrare in quale tipo di interazioni gli individui iniziano ad essere riconosciuti come persone. In questo contesto Hegel critica direttamente il diritto naturale, affrontando in una prospettiva originale – che nelle lezioni del 1803-4 non era stata sviluppata – la questione dell’uscita dallo stato di natura e dell'entrata nello stadio del diritto: e questo passaggio è un momento decisivo della transizione, sul piano sociale, da forme di riconoscimento naturale a forme di riconoscimento spirituale. In tal senso Hegel scriveva, come si è visto, che «in quanto riconoscente l’uomo è egli stesso il movimento, e questo movimento toglie appunto il suo stato di natura; l’uomo è il riconoscere; il naturale è soltanto; esso non è lo spirituale65». Il diritto, dunque, riim Hegelschen Rechtsverständnis als Anerkennung, Peter Lang, Frankfurt am Main, 2004, pp. 94 e 161 sgg.); per altro verso, seguendo in ciò la lettura di K. Seelman, il riconoscimento è anche la giustificazione normativa diritto, in quanto la norma (pregiuridica) di reciprocità intrinseca al riconoscimento avrebbe funzione fondativa rispetto alla normatività giuridica (cfr. Id., Anerkennungsverlust und Selbstsubsumtion. Hegels Straftheorie, Alber, Freiburg-München, 1995). Prendendo le mosse specificamente dalla filosofia jenese di Hegel, B. Romano ha ricostruito la relazione giuridica come relazione di riconoscimento tra parti mediata dalla terzietà del diritto, e avente valore costitutivo per ogni altra tipologia di interazione (cfr. Id., Riconoscimento e diritto. Interpretazione della filosofia dello spirito jenese 1805-6 di Hegel, Bulzoni, Roma, 1975; Id., Filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2002). Muovendo anch’egli dalla filosofia jenese, L. Di Carlo sostiene che il diritto, inteso quale medio privilegiato di integrazione tra i vari sottosistemi sociali (famiglia, lavoro, morale, politica), è insieme costitutivo e correttivo rispetto all’intersoggettività: da un lato il riconoscimento giuridico è inteso quale condizione di possibilità e orizzonte ultimo di ogni interazione; dall’altro esso interviene attraverso la sanzione a fluidificare comunicativamente i vari sottosistemi sociali (Cfr. Id., Sistema giuridico e interazione sociale in Hegel. Dagli scritti jenesi ai Lineamenti di filosofia del diritto, ETS, Pisa, 2006, p. 41). Questa interpretazione per un verso contribuisce a mettere in luce la centralità del diritto per l’implementazione istituzionale del riconoscimento. Va però osservato che il diritto è una relazione costitutiva a sua volta costituita, in quanto si inserisce, come sua differenziazione interna – e dunque regionalmente – nel processo più ampio della genesi delle strutture istituzionali del riconoscimento spirituale: da questo punto di vista il riconoscimento giuridico è solo una parte del riconoscimento fenomenologico e non coincide con quest’ultimo. Se si trasforma il riconoscimento giuridico in un medio che assorbe la pluralità dei medi costitutivi della sfera dello spirito, esso diventa un orizzonte trascendentale dell’interazione: di conseguenza il procedimento dialettico hegeliano risulta ridotto al metodo fichtiano della deduzione trascendentale del diritto. 65 [PdG II], GW8, p. 215, trad. it. p. 100. 385

manda nel suo concetto al riconoscimento proprio in quanto il fatto del diritto è istituito dallo sviluppo normativo del processo del riconoscimento. Poiché il movimento del riconoscimento normativo è una fuoriuscita dallo stato di natura, per Hegel non può essere accettato il punto di vista giusnaturalistico secondo il quale diritti e doveri sono una proprietà degli individui entro il Naturzustand. La ricostruzione della genesi riconoscitiva del diritto funge in tal senso da argomento contro il diritto naturale. È a questo punto che Hegel inizia ad introdurre la lotta per il riconoscimento per descrivere l’insorgenza, a partire da processi conflittuali, di relazioni riconoscitive normative. Lo stato naturale, come si è visto, è per Hegel lo star l’una contro l’altra delle famiglie (intese come individui naturali che al loro interno sono articolate da rapporti riconoscitivi d’amore e parentali). In tal modo tra le unità familiari sussiste una relazione negativa, un esser l’uno per l’altro di tipo escludente, in cui esse «non si riconoscono ancora»66: manca cioè il lato positivo del sapersi l’uno nell’altro. Qui ritorna, in termini dinamici, la questione della «presa di possesso[Besitznahme]» e della «proprietà[Eigentum]». Di contro alle posizioni che affermano la proprietà come un diritto di natura, per Hegel la famiglia, in quanto individuo naturale, non ha un diritto naturale di proprietà. Hegel mostra come nel Naturzustand la presa di possesso di un terreno da parte di un individuo familiare non possa essere riconosciuta come una proprietà di qualcosa. Infatti, prendendo possesso del bene, di un pezzo di terra che lavora e contrassegna come suo, l’individuo familiare esclude gli altri individui familiari da esso, in quanto, anche se questo bene non è stato sottratto, esso avrebbe potuto diventare il possesso di un altro. Nello stato di natura non vi è affatto la questione di quali diritti e doveri abbia chi possiede il terreno e chi ne è escluso. Quest’ultimo avverte tale esclusione non come un legittimo diritto dell’altro, bensì come una forma di misconoscimento del suo «sentimento di sé[Selbstgefühl]» – del sentimento del proprio valore – e a sua volta non riconosce il possesso del bene da parte dell’altra famiglia. Nello stato di natura, dunque, non possono esservi relazioni riconoscitive positive come quelle che il diritto presuppone: le relazioni riconoscitive si presentano solo in modalità negativa, come un esser l’uno per l’alto escludente, in cui cioè sussiste solo il lato oppositivo della relazione e non viene colto l’elemento positivo dell’unità degli opposti, vale a dire il loro sapersi in uno e la reciprocità di tale sapersi. Pertanto, contrariamente a quanto postula il diritto naturale di matrice lockiana, nello stato di natura non possono esservi diritti e doveri a regolare normativamente i comportamenti degli individui in lotta. 66 Ivi, p. 215, trad. it. p. 100. 386

5.2.1. Lotta per il riconoscimento Il bisogno di riconoscimento, che per Hegel è il bisogno fondamentale dell’uomo, motiva la seconda famiglia, esclusa dal possesso, a comportarsi in termini reattivi, con un atto a sua volta negativo. L’esclusione dal possesso, avvertita come misconoscimento e lesione del sentimento di sé, induce la seconda famiglia a ledere il possesso della prima e a tentare di impadronirsene. La relazione negativa di misconoscimento diventa in tal modo, come si era visto accadere anche in Rousseau, una relazione tra «offensore[Beleidiger]» ed «offeso[Beleidigte]»: la seconda famiglia offende infatti il possesso della prima, la quale a sua volta avverte in questo atto un misconoscimento non semplicemente del suo possesso, ma anche del suo senso del sé. La stessa famiglia offesa, dunque, reagisce sempre sulla base del bisogno di riconoscimento. Infatti, sia nel caso dell’offensore che nel caso dell’offeso, ad essere ferito non è il «vuoto sentimento di sé», bensì quel sentimento di sé che «pone il suo Sé in un altro, nel sapere di un altro[das Wissen eines Anderen]»67: vale a dire, quel sentimento di sé che può svilupparsi positivamente solo in quanto si sa riconosciuto. Si innesca in tal modo tra le due famiglie una lotta per l’onore, in cui ciascuna di esse, mirando alla morte dell’altra, cerca di ristabilire attraverso l’affermazione violenta quel riconoscimento che le è stato negato nella relazione. La reazione della famiglia il cui bene è stato violato non è volta a ristabilire meramente la naturalità, l’immediatezza del possesso: giacché essa avverte che in quella lesione ne va del suo volere e del suo onore. «L’attività», scrive Hegel, «non è volta sulla cosa, sul negativo, bensì sul sapere di sé dell’altro»68. L’individuo familiare non mira dunque essenzialmente al possesso della cosa, ma piuttosto ad essere riconosciuto nel suo valore dall’altro: «ognuno», scrive Hegel, «vuole avere valore per l’altro[jeder will dem Anderen gelten]; ognuno ha come scopo quello di intuire sé nell’altro»69. (Su questo punto – oltre che per la diversa collocazione sistematica in rapporto al diritto – la formulazione del 1805-6 della lotta per l’onore differisce da quella del 1803-4, ove ciascuna coscienza mirava ad affermarsi come una «totalità dell’escludere» anziché come un «sapere di sé»). In tal modo la lotta fa emergere ulteriormente la dimensione assiologica del riconoscimento come apprezzamento di valore. Tornando al testo del 1805-6, ogni contendente è qui disposto ad im67 Ivi, p. 219, trad. it. p. 103. 68 Ibid. 69 Ivi, p. 219, trad. it. p. 104. Cfr. Ivi, p. 220, trad. it. p. 105: «egli è proteso non più a ristabilire il suo esserci, bensì il suo sapere di sé, cioè ad essere riconosciuto». 387

pegnarsi in una lotta senza esclusione di colpi, una «lotta per la vita e la morte[Kampf auf Leben und Tod]». In tale lotta ognuno ha apparentemente di mira la morte dell’altro, mentre in realtà, avendo come scopo profondo l’essere riconosciuto dall’altro nel suo valore di essere per sé, dunque come un essere libero dalla propria naturalità immediata, egli vuole dimostrare di essere indifferente alla morte (alla naturalità) e di saperne affrontare il rischio70. Pur di riaffermare il suo onore, la dignità del suo sé misconosciuto, è disposto a mettere a rischio la vita stessa (e quindi la possibilità stessa di usufruire del possesso). A lui, in quanto coscienza questo appare come un aver di mira la morte dell’altro, ma in realtà egli va incontro alla propria morte, [è] un suicidio, dal momento che egli si espone al pericolo, affronta il rischio71.

La lotta per la vita e la morte, se la sua dinamica corrisponde al modo in cui Hegel la descrive, è allora una lotta per il riconoscimento del proprio valore. In un passo che icasticamente sintetizza molti degli elementi in gioco in queste pagine, Hegel scrive che il riconoscimento[das Anerkennen] è dunque il primo, ciò che deve divenire. Ovvero gli individui sono l’amore, questo essere riconosciuto[dies Anerkanntsein] senza opposizione del volere, in cui ognuno sarebbe l’intero sillogismo, in cui essi sono presenti soltanto in quanto caratteri, non in quanto libere volontà[freie Willen]. Un tale essere riconosciuto deve divenire. Deve divenire per essi ciò che è in sé. Il loro esser l’uno per l’altro è l’inizio di ciò72.

La lotta, dunque, è nello stato di natura il processo attraverso il quale gli individui, già socializzati nella famiglia come caratteri naturali, si elevano al di sopra della loro mera naturalità: infatti, tale lotta è motivata dal 70 Cfr. Ibid: «esso è volontà, l’essere per sé in quanto tale; la sua realtà ha il significato di essere riconosciuto dall’altro, di valere per lui come assoluto[als absolut zu gelten]. Ma perché l’essere per sé valga come assoluto, è necessario che presenti se stesso assoluto, come volontà, cioè come un tale essere per sé per il quale non vale più il suo esserci, che aveva come possesso, bensì vale questo suo saputo essere per sé, il cui essere ha il puro significato del sapere di sé e così viene all’esistenza». 71 Ivi, p. 221, trad. it. p. 105. Si noti che nel testo del 1803-4 Hegel indicava ciò come un mirare alla morte dell’altro ma non come un «suicidio», sebbene egli non mancasse di mostrare il carattere autodistruttivo di tale processo. L. Siep riporta questa diversa formulazione alle differenze sistematiche tra i due testi: cfr. Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie, cit., pp. 65-66. 72 [PdG II], GW8, p. 210, trad. it. pp. 102-103. 388

bisogno di essere riconosciuti non solo come individui naturali, ma anche come individui spirituali, cioè nel valore di esseri liberi, «esseri per sé», «libere volontà». La lotta induce ad astrarre dal proprio mero esserci naturale, mettendone a rischio la sussistenza (il «rischio» della «morte») pur di ottenere un riconoscimento di sé come libera volontà. La lotta, portando gli individui ad affrontare il rischio della morte, ha come esito, per gli individui che la hanno affrontata, la possibilità di intuire infine il loro essere per sé. Con la lotta, dunque, sembra emergere, sopravvenendo sulla base del riconoscimento naturale, una nuova capacità riconoscitiva, costituita attraverso l’interazione reciproca degli individui: vale a dire la capacità di sapere e apprezzare sé e gli altri come esseri liberi e razionali. 5.2.2. Persona e riconoscimento normativo Infine, la lotta per il riconoscimento ricopre una funzione importante anche nello sviluppo sistematico dell’argomentazione che Hegel porta avanti dall’inizio della sezione sulla volontà. Tale argomentazione è volta a provare la necessità di superare l’opposizione tra sfera dell’intelligenza e sfera della volontà. Ripercorrendo sinteticamente il cammino svolto sino a questo punto, Hegel scrive: la volontà consapevole deve compiersi α) come [volontà] dell’amore, con il sapere dell’immediata unità dei due estremi, di essi in quanto privi-di-sé; β) con il riconoscimento, con essi in quanto liberi Sé; quello è il compimento dell’estremo universale, questo dell’estremo singolo; cioè il suo trasformarsi nell’intero sillogismo; questo sillogismo ha in lui gli estremi nella forma dell’essere per sé. Quel conoscere diviene riconoscere[jenes Erkennen wird Anerkennen]. Gli estremi sono [essenti] che si sanno come essenti per sé – così essi sono separati. Il movimento è la lotta per la vita e la morte. Da questa lotta ognuno vien fuori in modo tale che ognuno [ha] visto l’altro come puro Sé, e ciò è un sapere della volontà; ed in modo tale che la volontà di ognuno è una volontà consapevole, cioè completamente riflessa in sé, nella sua pura unità.

La lotta per il riconoscimento fa emergere le condizioni cognitive e pratiche perché l’opposizione tra intelligenza e volontà sia concretamente tolta. Il risultato della lotta per il riconoscimento è, infatti, il prodursi di un «sapere della volontà[Wissen des Willens]»73 in cui le volontà in lotta si sanno l’una nell’altra come esseri per sé e ogni volontà è una «volontà consapevole[wissender Willen]» che si sa come tale. Con ciò quel sapersi e apprezzarsi reciproco, che nell’amore si presentava in forma immediata e naturale, si ripresenta ora ad un livello superiore di mediazione. 73 Ivi, p. 221, trad. it. p. 106. 389

La lotta per il riconoscimento è dunque il «movimento[Bewegung]» che, producendo il reciproco sapersi come esseri per sé da parte delle volontà, porta a compimento quel processo, iniziato con l’amore, in cui il riconoscimento, come Hegel scriveva poco prima, deve divenire («il riconoscimento è dunque il primo, ciò che deve divenire»). Questa affermazione investe anche la tesi, incontrata già nell’analisi dell’amore, per cui conoscere è riconoscere. Il conoscere, allora, secondo quanto dice ora Hegel, diviene concretamente riconoscere laddove, passando attraverso l’interazione conflittuale della lotta, si istituisce un sapere della volontà che è insieme volontà consapevole: e tale volontà consapevole è come tale una «volontà universale», che consiste nell’«esser riconosciuto della persona» e nel riconoscere gli altri e se stessi come tali. L’essere della volontà consapevole – della persona – non è così indipendente dall’attribuzione reciproca con cui le volontà si sanno e apprezzano reciprocamente come tali. In tal senso Hegel definisce riconoscitivamente l’essere della persona – o esser per sé – come una proprietà relazionale degli individui che è costituita tramite i loro poteri riconoscitivi. Con la nozione di «persona» è stabilita così una nuova forma dell’esser riconosciuto e del riconoscere, vale a dire una forma universale e astratta di riconoscimento, che in quanto tale si differenza dal riconoscimento immediato e sensibile che si manifestava nell’amore, implementando i poteri individuali naturali, facendo dell’uomo un valutatore forte, in grado di attribuire valore intrinseco, per sé. Attraverso la lotta per il riconoscimento Hegel non ricostruisce dunque solo la genesi sociale del diritto a partire dalle interazioni conflittuali dello stato di natura, bensì descrive anche l’insorgenza di quelle capacità che costituiscono il presupposto cognitivo dell’attribuzione del concetto giuridico di persona. Inoltre, tale analisi travalica le questioni giuridiche e precisa la teoria hegeliana della personhood. In base a tale teoria, l’individuazione del sé può dispiegarsi compiutamente, sviluppando la capacità di riconoscere gli altri e sé come volontà libere, solo nella misura in cui il sé naturale, il carattere, riconosciuto come tale nelle interazioni affettive e di cura dell’amore, si socializza all’interno di una sfera più ampia di interazioni assiologiche forti e normative in cui solo si può apprendere a riconoscere e riconoscersi come essente per sé74. 74 Robert Pippin ha parlato, a proposito dello Hegel maturo, di una teoria istituzionale della libertà, in base alla quale la libertà è una capacità che non si può sviluppare se non all’interno di contesti istituzionali, come una competenza normativa che consiste essenzialmente nella capacità di seguire le regole (ed eventualmente criticare sulla base di tale competenza) di un contesto istituzionale dato. Cfr. R. Pippin, Hegel e la libertà istituzionale, in Hegel contemporaneo, cit., pp. 97128. Sulle matrici umanistiche dell’istituzionalismo di Hegel, e su come esso si connetta ad una teoria ricorsiva della libertà, si veda invece A. Patten, Hegel’s 390

Da un lato, sono con ciò poste le categorie che servono a comprendere l’unità dell’autocoscienza teoretica e dell’autocoscienza pratica all’interno del processo sociale di individuazione75. D’altro canto Hegel, oltre a portare avanti la sua teoria dell’autocoscienza, sviluppa ulteriormente la sua teoria della conoscenza come riconoscimento. Infatti, se la conoscenza è riconoscimento, e dunque non è disgiungibile dall’interazione intersoggettiva, allora una teoria compiuta della conoscenza deve esplicitare anche le condizioni sociali della conoscenza stessa, deve cioè tematizzare quei contesti di interazione sociale interindividuale (come ad esempio l’interazione conflittuale della lotta) ed istituzionale (come il sistema del diritto) che rappresentano il contesto dello sviluppo della conoscenza e nello stesso tempo la sua oggettivazione. Infine, Hegel, al termine di quest’analisi, può introdurre, unitamente alla sua teoria della conoscenza e dell’autocoscienza, anche la sua teoria della razionalità. Con l’emergere del riconoscimento spirituale dell’esser per sé, dell’apprezzamento della persona, l’individuo è riconosciuto come «ragione[Vernunft]», una forma di riconoscimento che Hegel qualifica anche come «astratto, universale»76. Hegel introduce dunque la razionalità in stretta connessione con la capacità di riconoscimento normativo: il riconoscimento assiologico della persona riguarda qui la sua capacità di vincolarsi a norme. Con ciò si può ben dire che, nella sezione sulla volontà, il movimento che conduce dall’amore come riconoscimento naturale al riconoscimento dell’esser per sé come riconoscimento razionale e normativo, consiste in una ripresa e in uno sviluppo dialettico dell’intuizione tubinghese per cui nell’amore la struttura del ritrovare sé in altro è l’analogon dell’universalità della ragione. In altri termini, l’universalità della ragione ha una struttura riconoscitivo-normativa.

Idea of Freedom, Oxford University Press, Oxford, 1999, part. pp. 97 e sgg., 166 e sgg. 75 E in tal senso è da rifiutare la tesi di Tugendhat su cui torneremo in seguito, il quale vede la coscienza teoretica come un fenomeno distinto rispetto alla coscienza pratica. Cfr. Selbstbewußtsein und Selbstbestimmung, cit., trad. it. p. 26. 76 [PdG II], GW8, p. 223n, trad. it. p. 108n. 391

VIII. LA COMUNITÀ RICONOSCITIVA

Nelle sezioni della filosofia dello spirito del 1805-6 dedicate allo «spirito reale» e alla «costituzione» Hegel ricostruisce l’istituzione dei diversi livelli di riconoscimento spirituale secondo i quali si articola la vita sociale. Con ciò la nozione di «Anerkennung» viene ora ad interessare non più soltanto interazioni diadiche tra individui, bensì anche relazioni triadiche in cui il rapporto io-tu è mediato dal ‘noi’ della comunità e dalle sue espressioni istituzionalizzate. In questo contesto Hegel, nell’ambito di un’analisi del contratto e dello scambio, ha anche modo di ricostruire quel nesso tra riconoscimento, consenso e validità normativa che avevamo visto essere all’origine stessa della storia del termine «anerkennen». La nostra analisi, dopo essersi soffermata su questi temi, cercherà di mostrare come il riconoscimento permei anche la concezione hegeliana della costituzione statale. Sosterremo quindi che alcune conseguenze non accettabili delle visioni politiche espresse nella filosofia jenese non sono dovute al presunto abbandono dell’impostazione intersoggettiva in favore di una teoria della soggettività assoluta, bensì ad opzioni di altra natura. Infine si tenterà di mostrare che la stessa nozione di sapere assoluto con cui termina la filosofia dello spirito altro non è che l’autocoscienza sociale del sapere comunitario oggettivato delle interazioni riconoscitive. 1. Eticità e spirito reale Il risultato della lotta per la vita e la morte era il sapersi degli opposti come volontà consapevole. Questa volontà consapevole è tale solo in quanto è riconosciuta. Il soggetto che in tal modo riconosce ed è riconosciuto si costituisce così come persona, vale a dire come un singolo la cui volontà è insieme individuata e, proprio perché titolare di riconoscimento, universale. Questa condizione, in cui «la volontà del singolo è la volontà universale e l’universale è la volontà singola» è definita da Hegel 393

«eticità, in generale[Sittlichkeit überhaupt], ma immediatamente diritto»1. Sotto questo punto di vista la lotta per il riconoscimento è lo strumento concettuale attraverso il quale Hegel ha sintetizzato il concetto kantiano del diritto come relazione intersoggettiva con la teoria fichtiana della costituzione del diritto mediante reciproco riconoscimento e quindi con la concezione roussoviana della volontà universale. La volontà universale, che a questo livello si manifesta solo come universalità del riconoscimento dell’esser-persona, con il procedere della filosofia dello spirito sarà determinata sempre più in termini sociali e quindi come volontà politica, in quanto espressione della intenzionalità pratica condivisa di un popolo. Con la nozione di eticità Hegel inizia a prendere in considerazione l’insieme delle forme di vita associata, innestate da abitudini, costumi, modi di vita, che si sviluppano storicamente e che sono l’espressione di orientamenti comuni della volontà. Già la famiglia, come si era visto, era stata definita come una forma naturale d’eticità. La famiglia, quale comunità di bisogni, che ha il suo principio di integrazione nell’amore, è quindi la radice naturale di tutte le forme superiori di vita comune e intenzionalità condivisa. Tuttavia, l’amore può valere, come Hegel aveva appreso già a Francoforte, come principio d’integrazione riconoscitiva solo per una comunità ristretta: perché si diano le condizioni di sussistenza di una comunità politica sarà allora necessario che si producano forme più comprensive di integrazione. La lotta per la vita e la morte è in tal senso un tentativo di mostrare come, a partire da interazioni conflittuali tra nuclei comunitari integrati da forme d’amore, si produca il riconoscimento spirituale come modalità cognitiva e pratica che sta alla base dell’istituzione integratrice del diritto. Il diritto è dunque la forma immediata dell’eticità e proprio in quanto tale è la prima manifestazione, nella terminologia hegeliana, dello «spirito reale[wirklicher Geist]». Il diritto, infatti, istituzionalizzando alcune relazioni riconoscitive degli individui, costituisce un’oggettivazione del riconoscimento spirituale. Perciò lo spirito reale si dà nell’elemento dell’«universale[allgemein] esser-riconosciuto», vale a dire si riproduce attraverso la mediazione di processi riconoscitivi assiologici e normativi. Con il diritto la ragione, nella sua struttura riconoscitiva e universale, non è più soltanto una componente dell’interiorità e delle relazioni tra individui, ma diventa essa stessa una parte dell’arredo del mondo, concretizzandosi in un insieme di abitudini, costumi, interazioni istituzionalizzate. L’eticità, dunque, come realtà dello spirito, è anche la piena realizzazione dell’unità di quelle sfere dell’intelligenza e della volontà che Hegel, con un’astrazione 1

[PdG II], GW8, p. 222, trad. it. p. 107. 394

metodologica, aveva analizzato distintamente nella loro struttura interna. Lo spirito, infatti, «è reale non in quanto intelligenza, né in quanto volontà, bensì in quanto volontà che è intelligenza»2. Come nella volontà si era tolta l’astrattezza dell’intelligenza, così nella sfera dello spirito reale si toglie l’astrattezza della volontà: elemento cognitivo e pratico sono posti nella concretezza del loro operare reale. Mentre nelle lezioni del 1803-4 la lotta per il riconoscimento serviva per operare in generale la transizione allo spirito del popolo e al riconoscimento universale come linguaggio, lavoro e proprietà, nelle lezioni del 1805-6 la lotta conduce invece al diritto come forma immediata dell’eticità che si svolge nell’elemento dell’«universal-essere riconosciuto». Ciò dipende anche dal fatto che nelle lezioni del 1805-6 Hegel sviluppa una teoria più articolata della struttura interna dell’eticità: analizzando i diversi gradi dell’eticità Hegel potrà anche differenziare e graduare sistematicamente i diversi fatti istituzionali costituiti mediante riconoscimento universale (proprietà, lavoro, scambio, denaro...) che avevano già fatto la loro comparsa nel testo del 1803-4. 1.1. Il diritto come istituzione riconoscitiva Hegel si è servito della lotta per la vita e la morte per criticare il giusnaturalismo e per descrivere le condizioni necessarie per il sorgere del diritto. Tuttavia Hegel non ha ancora descritto in modo esaustivo tali condizioni e neppure ha appropriatamente analizzato in modo sistematico la struttura interna delle istituzioni del diritto. Ciò è dovuto anche al fatto che egli ha sino ad ora analizzato la funzione che la lotta per il riconoscimento ricopre nella genesi del legame sociale, ma non ha ancora preso in considerazione processi sociali più complessi – quali il lavoro, lo scambio, il denaro – in relazione ai quali si precisa e si determina la funzione specifica del diritto. Nel prosieguo del testo Hegel si dedicherà a questo compito giungendo, in rapporto alla determinazione del concetto di diritto, ai seguenti risultati: a) perché si diano relazioni di diritto non è sufficiente che sia presente la capacità di riconoscere qualcuno come persona titolare di diritti, ma bisogna anche che i partner si riconoscano reciprocamente come tali e che si attribuiscano la titolarità a un qualche diritto specifico, in particolare al possesso; b) vi deve essere un consenso preliminare perché i partner possano riconoscersi reciprocamente la titolarità di tale diritto; c) è necessario che tale consenso e reciproco riconoscimento siano sanciti nella loro validità mediante un contratto. Ma per poter ottenere questi risultati teorici Hegel deve passare attraverso l’introduzione di una serie di categorie che 2

Ivi, p 222, trad. it. p. 108. 395

non ha sino ad ora preso in considerazione. 1.1.2. Lavoro e intersoggettività La categoria del lavoro era già stata introdotta nella sfera dell’intelligenza come attività cognitiva ordinatrice, e nella volontà come agire strumentale che soddisfa in modo mediato il bisogno e quindi come lavoro della famiglia per conservare e incrementare il patrimonio. Poiché Hegel, al livello dello spirito reale, considera la comunità umana nel suo complesso, la categoria del lavoro viene presa di nuovo in esame nella sua funzione sociale – vale a dire in rapporto alla sua capacità di creare legame – e in rapporto all’universalità del riconoscimento. Infatti, se l’«universale essere riconosciuto» è il medio attraverso il quale lo spirito reale si riproduce, per Hegel il lavoro rappresenta la forma immediata in cui si presenta tale universalità riconoscitiva (l’«immediato esser riconosciuto[unmittelbares Anerkanntsein]»3). Il lavoro è visto in primo luogo come ciò in cui si concretizza l’esser riconosciuto in quanto persona. La persona si dà innanzitutto come soggetto di godimento e di lavoro ed in ciò la sua singolarità ha una base stabile: l’esser riconosciuto è realtà immediata[unmittelbare Wirklichkeit], e nel suo elemento [si dà] la persona, dapprima come essere per sé in generale; essa è nel godimento e nel lavoro […] qui, per la prima volta, l’individuo ha esistenza come singolo[einzelnes Dasein]4.

Mentre l’animale si manifesta come un singolo solo nel momento della malattia e della morte, dando a riconoscere il suo sé attraverso il grido di dolore – ma si tratta di una singolarità dileguante, che vive solo nell’attimo del grido –, l’uomo ha invece un’esistenza stabile come singolo proprio perché tale esistenza è necessariamente, e non solo puntualmente, mediata da rapporti di riconoscimento («l’uomo è necessariamente riconoscente e necessariamente riconosciuto»). Il lavoro è, in questa prospettiva, l’attività che dà consistenza materiale immediata a tali relazioni attraverso la produzione di oggetti aventi valore sociale. Perciò il lavoro è un momento decisivo anche per la stabilizzazione di quelle strutture coscienziali che, in quanto riconoscitive, sono intrinsecamente sociali: il lavoro, scrive Hegel «è il farsi cosa della coscienza[das sich zum Dinge machen des Bewußtseins]»5. Il lavoro, dunque, è il primo fattore di individuazione sociale, ciò in 3 4 5

Ivi, p. 223, trad. it. p. 109. Ibid. Ivi, p. 224, trad. it. p. 110. 396

relazione a cui le persone sono riconosciute e possono riconoscersi per il valore della loro funzione all’interno dello spirito reale. Pertanto Hegel aggiunge un ulteriore elemento alla sua concezione dell’identità personale. Il lavoro è un elemento costitutivo dell’identità autocosciente degli individui, sia per come essi percepiscono e apprezzano sé, sia per come sono riconosciuti dagli altri: il lavoro contribuisce in modo essenziale alla costruzione sociale dell’autocoscienza. In secondo luogo Hegel tratta il modo in cui il lavoro crea legame sociale, connettendo gli uomini tra di loro in relazione ai loro bisogni. Hegel mostra come ogni individuo, lavorando per sé alla soddisfazione dei suoi bisogni, si connette per ciò stesso agli altri individui. Il lavoro, come per primo ha mostrato Habermas, è indagato come una forma specifica di interazione che realizza determinate forme di relazioni intersoggettive6. Mentre nello scritto sul Naturrecht e nelle lezioni del 1803-4 la sfera economica era posta aristotelicamente all’esterno di quella politica (nell’elemento dell’inorganico, al di fuori del vivente), nel 1805-6 invece il lavoro, come prima espressione della dimensione economica della società, viene valorizzato – anche in seguito alla ricezione dell’economia politica scozzese – proprio in quanto esso crea nessi d’interazione costitutivi della dimensione politica della comunità umana. In terzo luogo Hegel, mentre espone la funzione individualizzante e socializzante del lavoro, ne riprende in modo più articolato un aspetto che era emerso già nella sfera della volontà, vale a dire la sua capacità di stabilire una forma mediata, non meramente animale, di soddisfazione dell’impulso. In tal senso Hegel descrive l’evoluzione del lavoro sociale come processo di astrazione universalizzante e di quantificazione. Ad essere quantificato è in prima istanza il bisogno: non si hanno più semplicemente dei bisogni, bensì una certa quantità di essi deve essere soddisfatta mediante il prodotto del lavoro. La socializzazione del lavoro è fattore centrale di questo processo di astrazione e quantificazione: infatti, con lo sviluppo della società si crea un numero sempre maggiore di bisogni la cui soddisfazione richiede una crescente differenziazione di compiti. Ciò dà luogo ad una crescente divisione del lavoro, che si esplica sia in una differenziazione tra diverse professioni (artigiani, contadini, commercianti) sia in una divisione interna dei compiti all’interno di una singola professione. Ora ciascuno preso singolarmente lavora per soddisfare i suoi bisogni e tuttavia, laddove il lavoro 6

Cfr J. Habermas, Erkenntnis und Interesse, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 196873, trad. it. di G.E.Rusconi e E. Agazzi, Conoscenza e interesse, Laterza, Bari, 1970 (1983), p. 37 sgg. 397

viene diviso, il singolo non lavora direttamente gli oggetti che andranno a costituire il suo consumo personale (ad esempio, l’operaio che lavora producendo chiodi non soddisferà direttamente con questi il bisogno della sua famiglia). «Ogni singolo» scrive Hegel, «lavora per un bisogno; il contenuto del suo lavoro trascende [però] il suo bisogno; egli lavora per il bisogno di molti – e così [fa] ognuno»7. In tal senso il contenuto del lavoro di ciascuno trascende il suo bisogno, giacché i suoi prodotti saranno l’oggetto del consumo di altri. Il lavoro, in tal modo, realizza un esser l’uno per l’altro dei lavoratori; ciascuno, lavorando per sé – per poter soddisfare i bisogni suoi e della sua famiglia – sta già in rapporto agli altri, in quanto lavora effettivamente alla soddisfazione dei loro bisogni, producendo quei beni di cui essi necessitano e che non sono in grado di produrre direttamente: «ognuno soddisfa, dunque, i bisogni di molti, e la soddisfazione dei suoi molteplici bisogni particolari è il lavoro di molti altri»8. Il lavoro socialmente diviso, proprio per questa sua caratteristica, ha una componente astratta, universale. Ed è in virtù di questa astrattezza che esso produce intersoggettività, creando nessi di dipendenza reciproci tra gli individui, perché ciascuno ora non è più autosufficiente, ma dipende, per la soddisfazione dei suoi bisogni, dal lavoro degli altri. Per altro verso il prodotto del lavoro, nel suo carattere astratto, è un oggetto il cui valore sociale è costituito mediante l’interazione riconoscitiva. Con ciò si comincia a comprendere perché il lavoro è indicato come l’elemento in cui l’universalità dell’esser-riconosciuto ha la sua prima realtà immediata. In tal senso, scrive Hegel, nel suo lavoro astratto egli intuisce l’universalità di se stesso, della sua forma, ovvero ciò che è per altro; egli, dunque, vuole porre ciò – comunicare ad altri[mitteilen] […] l’io [è] agire verso un altro io, e invero in quanto riconosciuto da lui9.

I nessi di reciprocità che il lavoro crea sono spesso diseguali, dato che il lavoro crea dipendenza e quindi può condurre al dominio di pochi su molti. Per altro verso, l’astrazione del lavoro si esplica anche come scomposizione dell’attività lavorativa in molti lati astratti, cioè in tanti compiti specifici, parcellizzati. Quanto più tali compiti sono analizzati e scomposti in parti semplici, tanto più l’attività lavorativa diventa meccanica, fino a poter essere automatizzata, in molti casi, con l’introduzione di macchine: e questa astrazione del lavoro significa anche un impoverimento della vita 7 8 9

[PdG II], GW8, pp. 224-225, trad. it. p. 110. Ivi, p. 225, trad. it. p. 110. Ivi, p. 226n, trad. it. mod. p. 111n. 398

del lavoratore ridotto ad un’appendice vitale della macchina. 1.1.3. Scambio e consenso La descrizione del lavoro sociale, per essere completa, deve mostrare come è possibile che i singoli lavoratori, inseriti nell’astrazione della divisione del lavoro, giungano a soddisfare i loro bisogni concreti10. Per fare ciò Hegel ha bisogno di introdurre una categoria ulteriore che possa dare conto di come avvenga l’allocazione dei beni prodotti, in modo da esprimere in maniera più articolata i meccanismi sottesi a quella sfera di interdipendenza che il lavoro pone in essere. La categoria che Hegel introduce è quella dello scambio: «il ritorno alla concretezza, al possesso, è lo scambio[Tausch]»11. Lo scambio è appunto la sfera sociale che consente a ciascuno di approvvigionarsi di quei beni da lui non direttamente prodotti ma di cui ha bisogno per soddisfare i propri bisogni. Lo scambio, dunque, è una forma ulteriore di interazione e, come tutte le relazioni intersoggettive, è mediato da atti di riconoscimento. In questa direzione Hegel scrive che ognuno dà il proprio possesso, toglie il suo esserci, e in modo che in ciò egli è riconosciuto, l’altro ottiene ciò con il consenso[Einwilligung] del primo: essi sono riconosciuti12.

Lo scambio si presenta innanzitutto come un passaggio di possesso da parte di un detentore di un bene ad un altro attore. Esso si distingue dal passaggio di possesso che si era incontrato nel Naturzustand in quanto non avviene mediante l’offesa del furto o della rapina – come nel caso della lotta tra clan familiari, sul modello della razzia – bensì all’interno di una cornice di accordo e di consenso. Lo scambio è dunque un’interazione consensuale mediata da atti di reciproco riconoscimento, mentre nella lotta tra famiglie si assisteva ad un’interazione conflittuale mediata da atti di misconoscimento. Il consenso che media l’interazione dello scambio è inoltre un consenso sul valore della cosa scambiata. Per poter scambiare due beni, bisogna che i due partner in primo luogo attribuiscano agli oggetti un valore («l’opinione

10 Ivi p. 225, trad. it. p. 111: «tra questi molteplici, astratti prodotti deve ora aver luogo un movimento mediante il quale essi diventano di nuovo il bisogno concreto, cioè il bisogno di un singolo». 11 Ivi, pp. 225-226, trad. it. p. 111. 12 Ivi, p. 226, trad. it. p. 111. 399

dell’altro[die Meinung des Anderen]»13, «la mia opinione della cosa [meine Meinung von der Sache]»14): o in altri termini una funzione di status che gli oggetti non possono esplicare soltanto in virtù delle loro proprietà fisiche ma che per esistere richiede essenzialmente il riconoscimento. Quindi è necessario che i partner stabiliscano una relazione d’equivalenza tra i beni, relazione in base alla quale viene attribuito agli oggetti un eguale valore. In ciò è implicito un atto riconoscitivo reciproco, vale a dire il riconoscimento dell’attribuzione di valore dell’altro e dell’equivalenza di valore dei beni. Il denaro, la nuova categoria che Hegel introduce a questo punto, è appunto l’oggetto sociale che incorpora la relazione di equivalenza che viene stabilita nella sfera dello scambio («questo valore in quanto cosa è il denaro»15; «l’uguaglianza di entrambi in quanto riconosciuti. Valore, significato della cosa»16). Dunque, se lo scambio è il movimento attraverso il quale l’astrattezza del lavoro ritorna alla concretezza del bisogno, il momento astratto-universale si presenta in esso sotto forma di «valore[Wert]». Così nello scambio si precisa e si determina ulteriormente la dimensione assiologica del riconoscimento universale che ha già cominciato ad emergere nei momenti precedenti. Il consenso su cui si basa lo scambio è istituito dunque dall’atto con cui ciascuno dei contraenti a) riconosce l’altro come partner di uno scambio e in cui b) entrambi riconoscono all’altro il legittimo possesso del bene che viene così scambiato; c) entrambi riconoscono l’attribuzione di valore dell’altro alla cosa; d) entrambi riconoscono l’uguaglianza di valore dei beni che vengono così scambiati. Con ciò l’arbitrio, l’unilaterale prendere possesso, cui si era assistito nel Naturzustand, è tolto nell’universalità dell’essere riconosciuto. A questo punto sono state poste quasi tutte le categorie perché si possa parlare non più di semplice possesso, bensì di proprietà; la proprietà, infatti, è un possesso consensualmente riconosciuto: proprietà[Eigentum], quindi un immediato avere che è mediato attraverso l’essere-riconosciuto – ovvero il suo esserci è l’essenza spirituale. Qui è tolta la casualità del prender-possesso; io ho ogni cosa mediante il lavoro, e mediante lo scambio, nell’essere riconosciuto17.

13 14 15 16 17

Ibid. Ivi, p. 228, trad. it. p. 113. Ivi, p. 225, trad. it. p. 111. Ivi, p. 207n, trad. it. p. 111n. Ivi, p. 227, trad. it. p. 112. 400

1.1.4. Contratto e validità Nello scambio la cosa scambiata si presenta come una oggettivazione della relazione di riconoscimento assiologico che media tale interazione: il valore della cosa scambiata dunque, se da un lato esprime l’universalità dell’essere riconosciuto (il suo essere mediato dall’altro), d’altro canto, oggettivando questa relazione ad altro, ne toglie l’immediatezza18. Con il toglimento dell’immediatezza dell’universalità dell’essere riconosciuto, la nozione di riconoscimento va incontro ad un’ulteriore «differenziazione [Unterscheidung]», in seguito alla quale emerge la dimensione di validità del riconoscere. Hegel inizia dunque a tematizzare la dimensione propriamente logica del riconoscimento. Nello scambio i due partner attribuiscono valore alla cosa e riconoscono la validità dell’attribuzione di valore fatta dall’altro: «la mia volontà è riconosciuta come valida[geltend] non solo per me, bensì per l’altro»19. Gli atti riconoscitivi che mediano lo scambio non sono più, dunque, semplici atti di identificazione e reidentificazione (il senso propriamente cognitivo del riconoscimento, che è parte di ogni ulteriore atto riconoscitivo), e nemmeno soltanto atti di apprezzamento del valore di qualcuno o qualcosa (il senso assiologico pre-morale del riconoscimento, che era implicito già nell’amore e che si è presentato in forma esplicita con la categoria di persona), bensì atti logici attraverso i quali si assume positivamente o negativamente una pretesa di validità avanzata da qualcun altro. A questo proposito va ricordato che in base alla nostra analisi della storia del termine «anerkennen» è risultato che questo verbo è stato introdotto proprio per differenziare in casi in cui «erkennen» implica il riconoscimento della validità di qualcosa. Tale connessione ritorna anche nella concezione hegeliana dell’Anerkennung: attraverso l’analisi del contratto e dello scambio Hegel propone appunto una ricostruzione della genesi della validità a partire dall’interazione consensualmente mediata. Nell’analisi dello scambio emerge dunque la dimensione logico-normativa del riconoscimento, su cui, come si è visto, Hegel si era già soffermato nello scritto del 1801 sulla critica filosofica. Non a caso nell’analisi dello scambio la questione del riconoscimento viene a toccare quella della proposizione e del giudizio20, vale a dire della più piccola unità logico-linguistica 18 Ivi, p. 228, trad. it. p. 113: «questo esser riconosciuto nello scambio, che è divenuto oggetto, ovvero la mia volontà è esserci, come la volontà dell’altro. L’immediatezza dell’essere riconosciuto si è spezzata». 19 Ibid. 20 Ivi, p. 228, trad. it. p. 114: «è una coscienza, una differenziazione del concetto dell’essere-riconosciuto, [la] volontà del singolo è volontà comune, proposizione 401

cui si possano connettere pretese di validità. È attraverso l’introduzione di una categoria ulteriore, vale a dire il «contratto[Vertrag]», che Hegel può aggiungere ulteriori determinazioni alla sua esposizione. Il contratto, infatti, è l’atto mediante il quale questo riconoscimento normativo viene espresso e così oggettivato linguisticamente. Come tale il contratto esprime il «sapere» implicito nella differenziazione del riconoscimento di cui abbiamo trattato («questo sapere è espresso nel contratto[dieses Wissen ist im Vertrag asugesprochen]»21). Il contratto ha innanzitutto la forma di uno scambio ideale: in esso si assiste ad uno scambio di «dichiarazioni[Erklärungen]» in cui ciascun contraente scambia la sua «parola[Wort]». Nel contratto, quindi, prima ancora che delle cose, ad essere scambiate immediatamente sono delle parole, sotto forma di proposizioni dichiarative. Ciascuno dei contraenti, mediante la parola con la quale sottoscrive il contratto, «aliena» la sua volontà, la fa essere nell’altro: ciascuno mediante la sua parola – avente il carattere performativo di una «prestazione[Leistung]» – riconosce la volontà dell’altro e fa riconoscere la propria. Il contratto, dunque, presuppone un consenso tra due volontà ed è propriamente l’atto con cui il reciproco riconoscimento tra due volontà viene sancito. Ciò che in tal modo viene sancita è proprio la dimensione di validità del riconoscimento: «la volontà ha validità come tale: con ciò è stabilita per la prima volta una volontà comune[gemeinsamer Willen]». Con il contratto, inoltre, emerge la dimensione linguistica del riconoscimento normativo («la mia volontà pura in quanto tale è nel linguaggio; in ciò essa ha ripreso sé dall’esserci immediato dello scambio»22). Nel contratto, infatti, ciascuno attribuisce e riconosce validità a delle unità linguistiche. L’unità minima cui si collega una pretesa di validità è l’unità proposizionale della dichiarazione. La «volontà singola» di ognuno dei due contraenti «ha valore in quanto tale[gilt als solcher]»23 e può porsi come «volontà comune» nella misura in cui ha il potere di pretendere che la sua parola debba valere – dunque, nella misura in cui ha il potere di collegare alla performatività della sua dichiarazione una pretesa di validità generale. Tale dichiarazione ha poi la struttura normativa dell’assunzione di impegni: la volontà singola si pone come volontà comune, avanza una pretesa generale di validità, proprio nella misura in cui si impegna a che la sua parola debba valere24. A questo 21 22 23 24

o giudizio[Satz oder Urteil]». Ibid. Ivi p. 231, trad. it. p. 116. Ivi, p. 229, trad. it. p. 115. Si veda, a proposito dell’impegno, anche il seguente passo: «nel contratto la mia parola ha il significato della cosa; ma contratto sulla persona sarebbe 402

proposito è importante notare come Hegel stesso sottolinei che egli analizza la dichiarazione in termini di sottoscrizione di impegni non per «ragioni morali», bensì perché ritiene che la struttura interna di questi atti linguistici, proprio in quanto riconoscitiva, sia deontica: la mia parola deve [muss] valere; non per ragioni morali, per le quali io debba [solle] conservarmi interiormente coerente con me stesso, e non debba mutare i miei principi, la mia convinzione e così via; al contrario, io posso mutare tutto questo; ma la mia volontà c’è solo in quanto riconosciuta, io non soltanto mi contraddico, ma contraddico il fatto stesso che la mia volontà è riconosciuta; non si può fare affidamento sulla mia parola, cioè la mia volontà è soltanto mia, mera opinione25.

La volontà che si esprime in una dichiarazione pretende che sia riconosciuta la validità della sua affermazione, e proprio perciò assume un impegno verso il contenuto dell’affermazione stessa come verso una norma cui intenda attenersi26. 1.1.5. Il delitto e la lotta per il diritto Attraverso il contratto il volere inizia a manifestarsi come struttura comunitaria. La dimensione sociale dello spirito è dunque mediata nella sua costituzione da interazioni riconoscitive che presuppongono un consenso sul piano della validità di norme. Il «noi», la «volontà comune» che si produce espressivamente mediante il contratto, è tuttavia ancora esteriore e dipendente dalle volontà singole che nel contratto si esprimono. Nel contratto ciascun singolo è riconosciuto nell’universalità della sua volontà la mia stessa parola, il mio stesso puro essere immediato che io impegnerei. Qui non si dà niente di vincolante – cioè l’esserci determinato è servizio personale». Cfr. Ivi, p. 232, trad. it. p. 117. Per un’analisi delle pratiche linguistiche come impegni proposizionali di tipo discorsivo cfr. R.B. Brandom, Making it Explicit, cit., pp. 141-198; D.N. Walton e E. W. Krabbe, Commitment in Dialogue. Basic Concepts of Interpersonal Reasoning, State University of New York Press, Albany (NY), 1995. Sulla nozione di impegno all’interno della logica dialogica e della teoria dell’argomentazione cfr. anche P. Cantù e I. Testa, Teorie dell’argomentazione. Un’introduzione alle logiche del dialogo, Bruno Mondadori, Milano, 2006, cap. 5. 25 [PdG II], GW8, p. 230, trad. it. pp. 115-116. 26 Sul nesso tra riconoscimento, norme e validità in chiave contemporanea cfr. L. Siep, Zur Dialektik der Anerkennung bei Hegel, in Id., Praktische Philosophie im Deutschen Idealismus, cit., pp. 172-181; K.H. Ilting, Grundfragen der praktischen Philosophie, hrsg. v. P. Becchi und H. Koppe, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1994. 403

singola e la volontà comune, il consenso, ha valore solo in quanto ha valore la volontà singola: dipende dal fatto di essere riconosciuta come tale dalle volontà singole. C’è contratto perché due singoli si accordano e riconoscono una volontà comune, ma il loro essere come singoli non dipende dalla volontà comune (mentre è vero il contrario): nel contratto la volontà comune ha un significato, un valore positivo solo per la mia volontà, e così questa per quella, esse concordano. Ma esse possono anche non concordare; io posso violare unilateralmente il contratto; giacché la mia volontà singola ha valore in quanto tale; non solo in quanto è volontà comune; al contrario, la volontà comune è tale solo in quanto ha valore la mia volontà singola27.

Nel contratto tra singoli la validità della volontà comune non ha di per sé una forza vigente, ma dipende dal potere riconoscitivo dei singoli agenti intenzionali che con un atto di attribuzione riconoscono la vigenza del contratto. Hegel sta considerando per ora la situazione di un contratto tra privati, la cui validità non è garantita attraverso il riconoscimento pubblico e la forza vigente della legge, ma dipende unicamente dal riconoscimento dei singoli. Di qui sorge la possibilità che volontà singole e volontà universale non concordino e che quindi una delle due volontà violi unilateralmente il contratto, venendo meno alla parola data: con queste violazioni ha luogo ciò che Hegel analizza nella figura del «delitto[Verbrechen]». Il delitto, come l’«offesa[Beleidigung]» nel Naturzustand, è «una violazione del riconoscimento[Verletzung des Anerkennens]»28. Tuttavia nel delitto ad essere violato non è il riconoscimento naturale, bensì il riconoscimento in quanto universale, vale a dire il riconoscimento strutturato normativamente e sancito nel contratto. Hegel non si limita a differenziare la diversa struttura concettuale dell’offesa dal delitto ma, analizzando dinamicamente la logica di quest’ulitmo, riscontra in esso una contraddizione interna di cui si serve per esporre una teoria motivazionale che fa emergere anche l’elemento di continuità tra offesa e delitto. Nel contratto è in quanto essere particolare che ciascuno pone la volontà comune: ad essere scambiato è un bene particolare; per converso, ciascuno nel contratto è riconosciuto – «rispettato[respektiert]» – non come essere particolare, ma come quella persona giuridica, quella volontà universale pura capace di atti deontici che si esprime nella parola della dichiarazione29. D’altra parte, secondo il suo concetto la «forza 27 [PdG II], GW8, p. 229, trad. it. pp. 114-115. 28 Ivi, p. 229, trad. it. p. 114. 29 «Nel contratto «ciò che è divenuto è l’esserci di me in quanto pura persona, e così ora mi presento come un [soggetto] riconosciuto secondo la mia pura volontà». 404

del contratto[Kraft des Vertrags]» medesimo – la sua capacità costrittiva – deve investire la volontà pura, la persona giuridica, dato che è come tale che il singolo è riconosciuto e rispettato. Di fatto, però, è in quanto volontà singola, particolare, che uno dei due contraenti può violare il contratto. Facendo leva sulla disuguaglianza interna tra momento particolare e momento universale – sul contraddittorio mescolarsi di questi momenti che si manifesta in tutti gli aspetti dell’analisi del diritto e del contratto – Hegel formula una teoria che riguarda la motivazione intersoggettiva del delitto stesso. La coercizione si esercita su entrambi i lati dell’io, quindi non solo sulla persona nella sua struttura normativa astratta, bensì sull’esserci, sull’universale che ha un essere determinato: «nella costrizione[Zwang] si fa presente proprio questo – non viene costretta questa particolarità bensì vengo costretto io stesso»30. Con ciò la coercizione viene ad investire l’io come un intero, in quanto riflesso in sé (unione «diseguale[ungleich]» di particolarità e universalità, esserci e persona): dunque non solo l’io nella sua particolarità dell’essere proprietario di qualcosa, bensì anche come proprietario che è insieme persona capace di apprezzamento valoriale (nel suo «intero, onore e vita[Ehre und Leben]»). La coercizione, dunque, colpisce l’io nella sua interezza – nel complesso sue compomenti naturali, assiologiche e normative – e lo stesso accade a colui che, essendo stato privato della proprietà, subisce un delitto: con la sua proprietà è stato leso anche l’universale riconoscitivo della sua persona. In un passo molto denso questi diversi aspetti sono così compendiati: io, la mia pura volontà, non è separata dal mio esserci, ma l’una e l’altro [sono il] medesimo – proprio questo è contraddetto dalla costrizione[Zwang] e dalla violenza, giacché esso nel mio esserci offende me stesso. Io sono offeso, come nel movimento del riconoscere; l’altro ha violato il mio possesso, non solo immediatamente la mia forma come nel movimento del riconoscere, bensì la mia volontà riconosciuta come tale, che egli stesso riconosceva nel senso che fosse nell’esserci, inseparabilmente legato con questo. Io mi ritengo offeso, e invero in quanto persona, secondo il concetto31.

A Hegel preme qui sottolineare che sono proprio la costrizione e il delitto, con le loro conseguenze interpersonali, a far divenire cosciente la disuguaglianza/contraddizione – implicita nei momenti precedenti – tra momento particolare e momento universale e a porre la necessità dell’uoCfr. Ivi, p. 232, trad. it. p. 118. 30 Ivi, p. 231, trad. it. p. 117. 31 Ivi, pp. 232-233, trad. it. p. 118. 405

mo come intero, unità riflessa di particolarità e universalità. Il contratto, infatti, come universale giuridico, riconosceva l’uomo solo come persona e non come esserci singolo (sebbene fosse quest’ultimo ad attribuire, con la sua «prestazione» performativa, validità al contratto), mentre la coercizione investe la persona proprio come essere singolo. In questa luce il delitto può trovare la sua motivazione riconoscitiva proprio nel fatto che chi viola il contratto avverte da un lato l’astrattezza normativa del diritto come un’«offesa» del suo «onore», un misconoscimento della sua particolarità individuale; e dall’altro avverte nella costrizione del diritto – che agisce sul suo esserci – un’offesa della sua universalità: contro la costrizione io ristabilisco, dunque, il mio essere-per-me; non il mio io offeso in quanto generale – come nel movimento del riconoscere, bensì il mio io offeso in quanto io riconosciuto. Io voglio dimostrare all’altro che egli non potrà costringermi, cioè che il mio io legato alla prestazione determinata e la costrizione, che in ciò io ho subito, costituivano una violazione del mio puro io. Io trovo oltraggiato il mio onore32.

Il delitto, dunque, nelle sue diverse forme (ingiuria, rapina, furto, violenza, assassinio) sarebbe una reazione all’offesa che la costrizione giuridica arreca alla volontà singola ad essa sottomessa33: l’interna scaturigine[die innere Quelle] del delitto è la costrizione del diritto[die Zwang des Rechts]; il bisogno, lo stato di necessità e simili sono cause esteriori, che appartengono al bisogno animale, mentre il delitto come tale va contro la persona come tale34.

Il delitto, in quanto reazione alla costrizione, assume la forma di una «vendetta[Rache]» contro l’altro: e ciò perché il diritto – esistendo nell’elemento dell’universale essere riconosciuto – trae la sua forza costrittiva proprio dalla presenza d’altri che ne riconoscono la vigenza (a questo stadio Hegel non ha ancora introdotto lo Stato, sicché la costrizione del diritto non è ascrivibile al sistema giuridico, bensì all’altro individuo con cui si interagisce). L’altro rappresenta dunque la potenza dell’universale, contro la quale il delinquente vuol fare valere la potenza della sua particolarità. Il delitto sarebbe dunque motivato da quel bisogno di essere riconosciuto nella propria volontà particolare che si era già incontrato nel Naturzustand sotto forma di 32 Ivi, p. 233, trad. it. pp. 118-119. 33 Cfr. A. Honneth, Kampf um Anerkennung, cit.; A. Wildt, Autonomie und Anerkennung, cit., p. 364. 34 [PdG II], GW8, p. 235, trad. it. p. 120. 406

lotta per l’onore. Solo che, mentre la lotta per l’onore era uno scontro di due volontà particolari che si offendevano a vicenda – e che proprio nella lotta manifestavano il bisogno di essere riconosciute come universali –, ora invece il delinquente si sente offeso dall’altro proprio in quanto l’altro rappresenta la volontà universale; in secondo luogo il delinquente ha ora bisogno che la sua volontà singola sia posta nell’elemento dell’universale essere riconosciuto, mentre nello lotta per l’onore, mettendo a rischio la vita, voleva essere riconosciuto solo nell’universalità del suo essere per sé, dimostrando di poter fare a meno del proprio esserci, della propria determinatezza singola. In terzo luogo va notato che colui che delinque, proprio nella misura in cui offende l’essere dell’altro attraverso una violazione del diritto, già «riconosce in sé» l’altro. Insomma, a differenza che nello stato di natura, ora tutto il processo intersoggettivo dell’offesa è mediato dal diritto, o, per dirla con Hegel, «tutto si svolge nell’elemento dell’essere-riconosciuto, del diritto»35. Anche per questo Hegel presta particolare attenzione a quella forma di offesa che è l’ingiuria verbale. Si tratta in questo caso di una lesione dell’altro che consiste in un misconoscimento linguistico, dunque un’offesa che viene operata con il linguaggio. Questo atto simbolico, pur avendo l’apparenza di qualcosa di non violento, è qualificato da Hegel come il «crimine universale». Infatti, l’offesa linguistica ha la capacità di porre l’altro «nell’universale come un che di tolto»36. Il linguaggio, dunque, per il suo carattere universale, ha il potere di offendere l’essere dell’altro nella sua totalità: l’universalità del linguaggio può cancellare l’altro in quanto esso è un essere riconosciuto nell’universalità del suo essere per sé. Sempre nell’elemento dell’universale deve essere intesa pure la funzione della punizione che il delinquente deve subire: la «pena[Straf]», infatti, piuttosto che essere un deterrente o ricoprire una funzione rieducativa, serve invece a ristabilire la vigenza dell’universale esser-riconosciuto che il delitto – pur riconoscendolo in sé – aveva leso esteriormente: la pena, scrive Hegel è «ripristino della validità [della volontà] in 35 Ivi, p. 235, trad. it. p. 121. Si deve osservare che le analisi hegeliane sulla dialettica del diritto, così come le pagine francofortesi sulla potenza del destino, mettono in luce il carattere limitato e unilaterale della relazione giuridica rispetto al tutto della vita e del processo riconoscitivo. Ciò sembra dare sostegno alla tesi che il diritto sia per Hegel un sottosistema che, se sganciato dal mondo vitale di sfondo e autonomizzato rispetto agli altri medi sociali di integrazione, può distorcere l’intesa comunicativa piuttosto che correggerla e fluidificarla (per questa lettura del diritto cfr. J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1981, trad. it. Teoria dell’agire comunicativo, il Mulino, Bologna, 1986, I, pp. 191 sgg.). 36 [PdG II], GW8, p. 234, trad. it. p. 120. 407

quanto volontà universale»37. Come tale la pena «è vendetta, ma in quanto giustizia»38, giacché, come la vendetta, consiste in un contrappasso, e tuttavia tale contrappasso serve a ripristinare l’integrità della relazione riconoscitiva universale precedentemente violata. 2. Il potere riconoscitivo della legge Attraverso le determinazioni della costrizione, del delitto e della punizione, si è in un certo modo ripresentata una forma di lotta per il riconoscimento, che questa volta non ha più direttamente la forma di una lotta per la vita e la morte in cui è in gioco l’onore, quanto piuttosto la forma di una lotta per il diritto. Mentre la lotta per la vita e la morte segnava il passaggio dal riconoscimento particolare/naturale al riconoscimento universale, questa seconda lotta toglie l’astrattezza che l’universale-esser riconosciuto ha nelle determinazioni meramente formali del diritto, e lo realizza in termini oggettivi. Sino ad ora Hegel ha considerato una relazione duale di interazione tra due volontà: la stessa coercizione del diritto era avvertita come esercizio, da parte dell’altra volontà, della potenza universale. Con la reazione al reato si pone l’esigenza di riaffermare, sotto forma di un potere comune istituito intersoggettivamente, le relazioni riconoscitive negate. Con ciò emerge la figura oggettivata della legge, intesa come prescrizione negativa sostenuta da una forza di sanzione. Hegel quindi, introducendo la legge e poi lo Stato in quanto potere dotato di tale forza di sanzione, passa così a considerare il diritto come diritto positivo, vale a dire come rapporto formale tra persone giuridiche mediato dal sistema giuridico statale. Si è visto come nel contratto tra singoli la validità della volontà comune, del consenso intersoggettivo, non aveva di per sé una forza vigente, ma dipendeva dal potere riconoscitivo dei singoli che con un atto di attribuzione riconoscevano la vigenza del contratto ed erano liberi di rispettarlo o meno. Le singole volontà potevano sapere le loro azioni come supportate dal consenso di tutti, ma tale consenso non aveva una validità indipendente da coloro che lo riconoscevano. Con la nuova categoria che Hegel ora introduce come risultato della lotta per il diritto, vale a dire la «legge che ha potere[gewalthabendes Gesetz]», il consenso della volontà comune assume un’oggettività e una forza di sanzione indipendente39. 37 Ivi, p. 235, trad. it. mod. p. 121. 38 Ivi, p. 235, trad. it. p. 121. 39 Si veda, a proposito del nesso tra volontà singola, consenso e oggettività della 408

La legge che ha potere, oggettivando il nesso di validità che le relazioni intersoggettive hanno istituito e sostenuto con il consenso dei singoli, viene a realizzare nel medium riconoscitivo la dimensione condivisa dell’esistenza umana. In tal senso Hegel scrive che la legge che-ha-potere [in quanto realizzazione dell’essere comune] è la sostanza della persona e ha in essa questi momenti: che la sostanza α) è la mediazione della persona con lei stessa secondo il suo esserci immediato; la sostanza della sua esistenza, che si fonda interamente sulla comunità[Gemeinschaft] con gli altri, quindi l’assoluta necessità di questi40.

La comunità è dunque una sfera della volontà la cui struttura cognitiva si fonda sul fatto che ognuno sa se stesso nel suo esser-altro: l’intenzionalità condivisa di questo «intelligente esser comune[Gemeinwesen]»41 della comunità trova la sua realizzazione tangibile e la sua implementazione nel fatto istituzionale del «potere vigente[gewalthabende Macht]» della legge. La forza della legge pone infatti come una «sostanza[Substanz]» – un «in sé» – la validità riconoscitiva istituita nel consenso delle volontà. Per questo la legge è qualificata da Hegel come la «sostanza della persona», perché include il singolo sia «secondo il suo esserci[Dasein]» sia «secondo il suo sapere[Wissen]». Da un lato, la legge è oggettivazione di quella comunità in cui ogni essere umano ha la sua esistenza e sussistenza materiale; dall’altro, la legge oggettiva i nessi riconoscitivi di tale comunità. Includendo sia l’esserci sia il sapere della singola volontà, la legge che ha potere riconosce la volontà particolare nella sua universalità: «egli sa che il suo essere particolare è immediatamente l’universale»42. Questo è esattamente il tipo di riconoscimento che la volontà non riusciva a trovare nel diritto e che pertanto la spingeva alla forma reattiva del delitto. La legge, essendo un universale riconosciuto che media l’esistenza e il sapere del singolo, è quindi un essere riconosciuto sostanziale e «inlegge, il seguente passo: «distinzione, dove la volontà comune deve dapprima effettuarsi mediante il consenso e una specifica dichiarazione (matrimonio e contratto) e dove essa è immediatamente un aver valore [gelten] (eredità), essere. Legge – α) il semplice conservare, esistenza della volontà comune realizzata; β) dove non c’è alcuna volontà, assunzione del concetto come in-sé – gradi di parentela, contenuto della legge; γ) la legge è l’in-sé esistente, subentra al posto dei viventi, tutela; afferma il diritto del singolo in quanto tale». Cfr. Ivi, p. 237n, trad. it. p. 123. 40 Ivi, pp. 236-237, trad. it. pp. 122-123. 41 Ivi, 236n, trad. it. p. 122n. 42 Ivi, p. 236n, trad. it. p. 122n. 409

telligente», in cui può trovare riconoscimento la personalità vivente del singolo, che può a sua volta riconoscersi in essa. Nella legge si esprime così la struttura riconoscitiva dell’intenzionalità condivisa che sta alla base dei modi d’agire comunitari. Siamo qui in presenza di un asse del riconoscimento che non riguarda più soltanto le interazioni diadiche tra individui, bensì la relazione di riconoscimento tra il singolo e la volontà universale (nelle diverse forme in cui quest’ultima si incarna – il noi della comunità, della legge, del popolo, dello Stato)43. Questa forma di riconoscimento istituzionale era in verità già presente, ma diventa ora tematica; per converso, relazioni riconoscitive interpersonali continuano ad essere presenti anche in queste pagine, intrecciandosi con le prime, come nel caso di relazioni triadiche in cui la relazione tra l’io e il noi avviene nel contesto diadico di un’interazione io-tu (riconoscendosi reciprocamente si riconosce la propria appartenenza ad una comunità). 2.1. La famiglia, lo Stato e la socializzazione degli individui La comunità iscritta nella potenza della legge inserisce nel medio di un concreto riconoscimento universale sia l’esistenza sia il sapere dei singoli. Nell’universale concreto il singolo può conservare la sua esistenza, ottenendo mediante la legge la protezione della sua vita e della sua proprietà; nello stesso tempo in tale medio il singolo si può formare culturalmente – Bildung – cioè essere iniziato a sapere l’universale in quanto tale e a sapersi come universale: «l’esistenza del singolo nel potere è ora il divenire in lui stesso l’universale, la cultura[die Bildung]»44. Per questo suo carattere sostanziale, l’universalità concreta che si manifesta nella legge ha, per la sfera pubblica, una funzione etica analoga a quella che la famiglia ricopre nella sfera delle interazioni private: solo che ora la naturalità della radice etica della famiglia è mediata in termini 43 Ludwig Siep ha basato la sua analisi del riconoscimento sulla distinzione tra questi due livelli, intendendo mostrare che entrambi sono articolati internamente dalla dialettica di amore e lotta (cfr. Ludwig Siep, Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie, cit., pp. 53-54). Va però notato che la distinzione non è netta e che la dialettica di amore e lotta, anche se sempre presente, non basta di per sé a chiarire la struttura interna degli atti riconoscitivi. Sulla distinzione tra relazioni intersoggettive diadiche e triadiche si veda inoltre R.R. Williams, Recognition, cit., p. 255, sgg., ove si sostiene che nella Fenomenologia di Hegel il passaggio dalla sostanza al soggetto e quindi al sapere assoluto non va inteso come riduzione della sostanzialità sociale all’autorelazione solipsistica dell’io, ma piuttosto come transizione ad un modello di intersoggettività e di ontologia sociale triadica (io-tu-noi). 44 [PdG II], GW8, p. 237, trad. it. p. 123. 410

riflessivi e ciò che nella famiglia si presentava come riconoscimento naturale si caratterizza invece come riconoscimento intelligente. Per questo motivo Hegel ora riprende le determinazioni riconoscitive della famiglia che erano già emerse nell’analisi della volontà inserendole nel medio di una comunità di legge. Soffermandosi sulla famiglia, Hegel ha modo di ribadire la sua concezione di essa come di una totalità di relazioni affettive, istituite da vincoli d’amore, in cui il singolo è immerso come nel suo «intero naturale» ed è riconosciuto e apprezzato come essere particolare bisognoso di «cura[Sorgfalt]» e non ancora come persona. In quanto tale la famiglia conserva una radice interazionale di tipo pre-contrattuale anche quando, passando nel medio della legge, dà luogo all’istituzione sociale del matrimonio. Il matrimonio, come istituzione legale, ha certamente una parte contrattuale: è un contratto tra i coniugi relativamente alle loro proprietà – ma non nel senso kantiano della proprietà del corpo, in quanto libero uso reciproco delle parti genitali45. La sua validità, come in ogni contratto, poggia sul consenso libero dei suoi contraenti in quanto persone. Proprio su quest’ultimo punto fa leva la legislazione che vieta i matrimoni tra consanguinei: i parenti, cresciuti nella medesima totalità di relazioni riconoscitive immediate, non si riconoscono come persone, soggetti indipendenti e liberi, ma sono l’uno per l’altro esseri dipendenti, bisognosi di cura. D’altronde, nello stesso diritto matrimoniale l’autonomia delle persone conosce un’importante limitazione, perché il libero consenso delle due persone è legato al consenso delle famiglie. Il matrimonio, così come il diritto relativo all’eredità del patrimonio, alla tutela dei figli, ecc., è in ultima analisi una «commistione della personalità e della impersonalità del naturale»46, in cui sono reciprocamente in gioco pura vitalità e pura legge – e ciò non senza contraddizioni, che si manifestano ad esempio in relazione alla questione della scindibilità del contratto matrimoniale, e che una rigida legislazione non è per Hegel in grado di districare. Queste pagine, dal punto di vista dell’argomentazione generale che Hegel sta svolgendo nelle sue lezioni, hanno la funzione di mostrare in primo luogo come le interazioni familiari si inseriscano dialetticamente nel contesto più ampio della totalità sociale mediata dalla legge; in secondo luogo di dar conto della funzione specifica che la famiglia, come prima radice etica e 45 Hegel si riferisce precisamente a I. Kant, Die Metaphysik der Sitten, I. Theil: Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre, §§24-27, in Id., GS, VI, pp. 277280. 46 [PdG II], GW8, p. 239, trad. it. p. 125. 411

agente di socializzazione primaria, ricopre per la formazione dei legami e degli abiti di interazione comunitari. In terzo luogo, uno scopo non secondario dell’esposizione di Hegel riguarda di nuovo la teoria dell’identità personale e dell’individuazione: si tratta di mostrare come la formazione del sapere autocosciente – rispetto al quale si era visto già il contributo che la socializzazione primaria della famiglia fornisce attraverso l’«educazione[Erziehung]» – si compia nella dimensione pubblica della formazione («cultura[Bildung]») dei costumi secondo-naturali di una comunità. Dall’insieme di questi fattori si può capire anche perché Hegel introduce la categoria dello «Stato[Staat]» proprio sviluppando la questione delle leggi che regolano l’educazione dei figli nella famiglia. La tutela della legge sui rapporti tra genitori e figli ha per Hegel una funzione integrativa, essa vale cioè ad assicurare una funzione di sostegno in quei contesti in cui il supporto relazionale della famiglia si estingue (e si ricordi che per Hegel l’educazione era la morte dei genitori, morte in primo luogo metaforica, nel senso che nel processo educativo il singolo fuoriesce dallo spazio relazionale della famiglia). In questi stessi termini viene introdotto lo Stato: come la famiglia è la «sostanza e la necessità del singolo»47, così lo Stato, con la sua legge, «è l’inconscia tutela[bewuβtlose Vormundschaft] sul singolo la cui famiglia si è estinta». 2.2. Potenza della legge e teoria hegeliana del significato Lo Stato è dunque il contesto di relazioni riconoscitive universali istituzionalizzate entro il quale il singolo, essendovi immerso in modo dapprima inconscio, può formarsi come soggetto indipendente e come persona individuata. Hegel ricapitola ora di nuovo quelle forme post-familiari dell’universale esser riconosciuto che egli aveva esposto prima dell’introduzione dello Stato, guardando soprattutto all’aspetto per cui esse sono una «inconscia esistenza[bewuβtlose Existenz] nell’universale», vale a dire all’aspetto per cui esse sono per il singolo una sostanza in cui esso è immerso dalla nascita pre-riflessivamente come in una seconda natura48. Nella legge dello Stato ha potere vigente l’universale riconoscitivo del diritto formale che ora, nella sua veste sostanziale di istituzione secondo 47 Ivi, p. 242, trad. it. p. 128. 48 Nelle Grundlinien, in particolare nel § 228, l’immersione dell’individuo nelle istituzioni come «inconscia esistenza nell’universale» sarà ulteriormente esplicitata nei termini della teoria della seconda natura, mostrando che le strutture istituzionali dello spirito operano sull’individuo in maniera inconsapevole, esibendo prima facie una necessità analoga a quella dei processi primo naturali, ma che tuttavia è posta dall’attività stessa degli individui. 412

naturale, tutela vita, possesso, proprietà e scambio dell’individuo come persona giuridica49. Sempre nella legge dello Stato si manifesta quella forma di universale astratto che si era già incontrata nei rapporti riconoscitivi del lavoro: se prima Hegel aveva visto nel carattere astratto del lavoro ciò per cui esso crea nessi intersoggettivi di dipendenza, ora invece guarda all’aspetto per cui tali nessi estraniati si presentano al singolo lavoratore come una necessità cieca: una seconda natura reificata da cui egli dipende fisicamente e spiritualmente. Emerge così il carattere alienante della divisione del lavoro e l’elemento di casualità cui la vita del singolo lavoratore è esposta all’interno di un sistema economico le cui leggi, determinando un processo di pauperizzazione di molti a fronte dell’accumulo di grandi ricchezze da parte di pochi, richiedono un riequilibrio da parte dello Stato mediante una legislazione sul lavoro50. Dopo aver considerato la legislazione fiscale come ciò attraverso cui lo Stato conserva e incrementa il patrimonio della collettività, Hegel giunge a prendere in esame il modo in cui il potere della legge si applica alla questione già toccata della costrizione, del delitto e della pena. Con il «potere giudiziario» lo Stato si manifesta in quanto «potenza del diritto», vale a dire come una forma di amministrazione collettiva delle norme che, con il suo potere di sanzione, tutela la proprietà e garantisce che il contratto venga realizzato. È importante far osservare, nell’ottica da cui si è scelto di leggere le lezioni jenesi di Hegel, che tale potere giudiziario è caratterizzato da Hegel come una forma di potere riconoscitivo: «il permanere, l’esser-riconosciuto come avente valore». Conferendo forma stabile e forza sanzionatoria al consenso intersoggettivo istituitosi nel contratto, la legge dello Stato toglie l'asimmetria tra volontà singola e volontà comune che era emersa in precedenza: asimmetria per cui la volontà comune dipendeva, per la sua istituzione, dagli atti riconoscitivi della volontà singola, ma quest’ultima non era a sua volta vincolata dal consenso che nella volontà comune si era espresso. Si noti che Hegel, con un procedimento 49 In tal senso Hegel nelle Grundlinien definirà esplicitamente l’istituzione giuridica come struttura spirituale oggettiva secondo-naturale nei seguenti termini: «il sistema giuridico è il regno della realtà realizzata, è il mondo dello spirito prodotto, come una seconda natura, dallo spirito stesso» ([RPh], § 4, trad. it. mod. p. 87). 50 Hegel si era soffermato già nel System der Sittlichkeit sul modo in cui l’interdipendenza della sfera dei bisogni agisce come un destino cieco cui i singoli sono sottomessi. Sebbene Hegel pensasse che in sé il mercato fosse un meccanismo autoregolato, egli riteneva tuttavia che per mantenere la coesione sociale e la fiducia nell’universale etico fosse necessario non solo un intervento regolatore da parte dello Stato, ma anche una responsabilità etica da parte degli individui secondo la loro appartenza cetuale. Cfr. [SS], GW5, p. 350 sgg., trad. it. p. 240 sgg. 413

non privo di incoerenze, sembra talvolta dimenticare che, senza il potere riconoscitivo degli individui, non si istituirebbe alcun consenso né vi sarebbe alcun riconoscimento collettivo della validità di norme. Sebbene Hegel affermi da un lato esplicitamente il nesso tra il potere della legge e le prestazioni riconoscitive degli individui – «potere della legge che io riconosco[Macht des Gesetzes, das ich anerkenne]» –, per altro verso in alcuni aspetti della sua costruzione sembra mancare una qualche forma significativa di retroazione del potere riconoscitivo degli individui sulla potenza oggettivata della legge: di qui il carattere non democratico della concezione dello Stato cui Hegel giungerà. Ma questo esito non sembra affatto scontato e determinato dalla cosa stessa: non si vede, infatti, perché la necessità di stabilire una dimensione di validità oggettiva del riconoscimento non possa essere conciliata con la necessità di tener fermo nel suo diritto il potere riconoscitivo degli individui. Se anche vi è una dimensione oggettiva – il riconoscimento naturale e la sostanzialità etica – in qualche modo presupposta dalle relazioni riconoscitive spirituali e interpersonali, è pur sempre vero che sono queste ultime ad istituire la dimensione collettiva di consenso sulla validità di norme. Sicché la potenza dello Stato non dovrebbe essere scambiata per la scaturigine stessa della validità delle norme. Ma questo discorso esula in parte dalla prospettiva della nostra indagine, che non riguarda la dimensione politica della teoria del riconoscimento, bensì la sua funzione in prima istanza cognitiva. Tutto ciò ha anche un interessante risvolto linguistico. Nel contratto tra due singoli il senso dell’accordo veniva a dipendere dal significato che ciascuno dei due vi conferiva con la sua «prestazione» – con la performatività della sua dichiarazione. I due contraenti non riconoscevano l’uno nell’altro la prestazione stessa, bensì il «significato[Bedeutung]» della volontà comune così espressa: ed era questo significato ad avere validità. Tuttavia poteva accadere, a causa della dipendenza del significato dalla prestazione, che in seguito una delle due volontà ritirasse il suo assenso, conferendo un significato diverso alla volontà comune. Ora invece, con l’oggettività della legge, la validità del significato comune viene fissata normativamente: «la legge è questo significato», scrive Hegel, e come tale permette di distinguere il significato della volontà comune dal significato particolare che ciascuno può attribuirvi. Queste considerazioni travalicano la questione del potere giudiziario e, se ha senso parlare di una semantica in Hegel, investono la teoria del significato. Il significato pubblico, intersoggettivo, di espressioni linguistiche è modellato da Hegel sullo statuto delle norme: il significato, è una norma oggettiva e ciò rende possibile distinguere la norma dalle sue interpretazioni, il seguire una regola dal credere di seguire 414

una regola. Se la natura del significato è modellata su quella delle norme, la comprensione del significato consisterà allora nel riconoscimento della validità di norme. Per comprendere in modo più dettagliato questa concezione, è opportuno ripercorrere brevemente i termini in cui la questione del significato si è presentata nelle lezioni sulla volontà. La questione della natura del significato linguistico emerge in vari punti delle lezioni sulla volontà e sullo spirito reale, e ciò del resto non deve stupire, se si considera come Hegel, per il suo metodo peculiare, riprenda e arricchisca continuamente determinazioni che aveva introdotto in precedenza. Trattando dello scambio e del lavoro astratto51 Hegel definiva il «valore[Wert]», inteso come la relazione di uguaglianza tra le cose che venivano così scambiate, come il «significato[Bedeutung] della cosa». Tale relazione di eguaglianza si istituisce in un nesso riconoscitivo tra i due individui che attribuiscono tale valore alla cosa scambiate e riconoscono ad esse lo stesso valore: «l’io [è] agire verso un altro io, e invero in quanto riconosciuto da lui». Prendendo in esame il «contratto», Hegel considera come in esso i due contraenti attribuiscano significato al contenuto della dichiarazione dell’altro e vi riconoscano una validità condivisa. Nel contratto, infatti, scrive Hegel, la «mia volontà è rappresentata come valida[als geltend] non solo per me, bensì per l’altro»52. Più avanti Hegel chiarisce che le due volontà si riconoscono reciprocamente come valide nella misura in cui si accordano su di un significato comune da attribuire, come contenuto proposizionale, all’atto linguistico dichiarativo da esse espresso nel contratto: «nel contratto la volontà comune ha un significato[Bedeutung], un valore positivo solo per la mia volontà, e così questa per quella, esse concordano»53. Le due volontà, dunque, in tanto si accordano, in quanto attribuiscono alla «prestazione[Leistung]» linguistica dichiarativa dell’altro un contenuto semantico indipendente dalla determinatezza della prestazione stessa: «proprio nel fatto che la volontà ha valore in quanto tale consiste l’indifferenza rispetto all’esserci e al tempo. Questo è un senso[Sinn]»54; «nel contratto la mia parola ha il significato[Bedeutung] della cosa»55. Hegel tuttavia mette in luce i problemi che una teoria meramente contrattualista del significato oggettivo di enunciati linguistici presenta. Nel contratto ogni individuo ha il potere di attribuire un contenuto condiviso al significato degli enunciati e di riconoscerne la validità. Il senso ha un 51 52 53 54 55

[PdG II], GW8, p. 226n, trad. it. p. 111n. Ivi, p. 228, trad. it. p. 113. Ivi, p. 229, trad. it. p. 114. Ivi, p. 230, trad. it. p. 115. Ivi, p. 232n, trad. it. p. 117. 415

contenuto oggettivo solo nella misura in cui gli individui coinvolti lo riconoscono come intersoggettivamente comune: ma essi potrebbero anche fare altrimenti; le volontà «possono anche non concordare; io posso violare unilateralmente il contratto; giacché la mia volontà singola ha valore[gilt] in quanto tale; non solo in quanto è volontà comune; al contrario, la volontà comune è tale soltanto in quanto ha valore la mia volontà singola»56. Dunque, i due individui possono ritrarre il loro riconoscimento e modificare la loro attribuzione di significato. Ciò vuol dire, per converso, che l’oggettività del significato ha il carattere di un dovere[sollen], è cioè assicurata unicamente dall’impegno che ciascuno assume vincolandosi a tale contenuto. Il problema nasce quindi da ciò che Hegel chiamerà l’«ambiguità[Zweideutigkeit] del dovere»57: la possibilità per gli individui di discostarsi dal significato comune – possibilità che deve essere preservata – sembra minare in tale modello la costituzione stessa di un significato oggettivo. Passando a considerare la nozione di «legge[Gesetz]», Hegel presenta più avanti un modello in cui questa ambiguità dovrebbe essere superata. Viene di nuovo ribadito che, nel momento dell’accordo in un contratto, i due individui si intendono su di un significato: «l’altro mi riconosceva sì come operante la prestazione, ma nel singnificato della volontà comune»58. Bisogna però che la validità oggettiva di tale contenuto semantico, sebbene internamente connessa al potere attributivo e riconoscitivo degli individui che così si accordano, possa essere in qualche modo anche indipendente dall’atto puntuale con cui due individui la riconoscono. Perché il significato possa avere questa caratteristica, il suo statuto deve essere modellato sullo statuto delle norme: «questo significato vale nella legge – il significato[Bedeutung] è l’interno – la pura persona, la legge è questo significato»59. Solo se concepito come una norma la cui validità deve poter essere ricosciuta dagli individui che ad essa si vincolano, ma il cui contenuto non è posto dallo stesso atto che lo riconosce come valido, il significato può essere concepito effettivamente come «il significato della volontà comune». Solo se concepito sul modello di una norma cha ha un potere vincolante può essere possibile distingure tra il «significato universale[allgemeine Bedeutung]», cioè il contenuto oggettivo transoggettivo, e il «significato particolare[besondere Bedeutung]» che ciascuno può attribuire a tale norma, dunque tra la regole e le interpretazioni della regola. Il potere vincolante della norma non impli56 57 58 59

Ivi, p. 229, trad. it. pp. 114-115. Ivi, p. 246, trad. it. p. 132. Ivi, p. 247, trad. it. pp. 132-133. Ivi, p. 247, trad. it. p. 133. 416

ca una forma di «assoggettamento[Unterwerfung]» passivo da parte degli individui alla norma stessa: infatti, la «costrizione[Zwang]» della norma non è una mera forma di potere autoritario, bensì «potere della legge che io riconosco[Macht des Gesetzes, das ich anerkenne]». 2.3. La giustizia e l’amministrazione delle norme Dopo aver visto come il potere della legge conferisca carattere vincolante al diritto e consenta di distinguere tra applicazioni corrette e scorrette, Hegel si pone il problema della sanzione delle applicazioni scorrette, vale a dire di quelle interpretazioni della legge che attribuiscono ad essa un significato particolare, deviante rispetto a quello universale. Hegel introduce a tal fine l’«amministrazione della giustizia e il procedimento[die Rechtspflege und der Prozeβgang]»60, e vede in questi due momenti l’effettiva «realizzazione del diritto[Ausführung des Rechts]. Il diritto è compiuto, e il suo contenuto effettivamente comune, solo si stabilisce una forma di amministrazione delle norme che rende possibile distinguere tra applicazioni corrette e applicazioni scorrette. Nella concezione dialettica di Hegel tale possibilità di distinguere tra applicazioni corrette e scorrette poteva essere posta solo passando attraverso una dimensione di conflitto: una lotta che è anche, come si è visto a partire dalla lotta per il diritto, un conflitto tra differenti interpretazioni della norma, tra differenti «opinioni[Meinungen]» e presunzioni di diritto61. La «giustizia penale[peinliche Rechtspflege]» è la categoria in cui le diverse fasi della lotta per il diritto trovano una loro composizione ed in cui emerge una nozione non più astratta, bensì vivente della legge. Con ciò Hegel, per così dire, istituzionalizza quella concezione della legge che negli scritti francofortesi era espressa nella figura della legge come destino. Nella giustizia penale, infatti, la legge agisce pienamente in quanto sostanza dell’individuo che include sia il suo esserci sia il suo sapere – sostanza di cui Hegel aveva parlato introducendo la figura della «legge che ha potere». La legge della giustizia penale non è dunque la legge formale, bensì la legge attraverso cui si esercita il potere legittimo della comunità: questo potere su ogni esserci, proprietà e vita, e parimenti sul pensiero, sul diritto e sul bene e sul male è l’esser comune, il popolo vivente. La legge è vivente, è vita completa, vivente, autocosciente62. 60 Ivi, p. 249, trad. it. p. 134. 61 Cfr. T. Pinkard, Hegel’s Phenomenology, cit., pp. 53-62. 62 [PdG II], GW8, pp. 249-250, trad. it. p. 135. 417

La legge, come giustizia penale, è sostanza del singolo in quanto è «potere della legge sulla vita del singolo»63. La legge, infatti, protegge il singolo contro la violenza sulla sua proprietà, sul suo fare ed agire e sulla vita in generale. Il singolo ottiene però questa protezione perché «egli ha affidato sé come vivente e come volontà al potere dello Stato». Questo affidamento del singolo al potere dello Stato assume la forma di una «alienazione[Entäußerung]», in cui il singolo rinuncia alla sua «presunzione di diritto[Meinen von Recht]». Qui va notato che nel testo hegeliano si oscilla ambiguamente tra rinuncia alla vita, al diritto tout court e rinuncia alla presunzione di diritto. Quest’ultimo caso, inteso come rinuncia all’attribuzione di un significato particolare alle norme giuridiche e come accettazione del carattere vincolante del loro significato pubblico, era quanto richiesto dalle varie lotte per il diritto, ma non sembra comportare di per sé la necessità di una rinuncia pura e semplice all’individualità. Ciò sembra essere il caso quando Hegel adotta una metaforica sacrificale – già presente in forma più cruda nelle lezioni del 1803-4 – ove la rinuncia alla presunzione di diritto viene intesa come un’alienazione in cui l’individuo si sacrifica alla totalità e con ciò si autosupera. Tale metafora non rende però del tutto giustizia allo sviluppo concettuale effettivo dell’argomentazione di Hegel: infatti, va notato che la rinuncia alla presunzione di diritto è anche ciò attraverso cui il singolo «si presenta come puro essere-riconosciuto, ha valore[gilt] come tale»64. Dunque, nella legge vivente il singolo è riconosciuto come persona – quel tipo di riconoscimento la cui mancanza motivava alla lotta per il diritto. In tal caso il riconoscimento non è ottenuto soltanto da un’altra persona, come nelle interazioni interpersonali duali di cui Hegel aveva dato conto in precedenza; il riconoscimento qui si presenta invece nella sua forma triadica istituzionale, in quanto mediato dalla sostanza etica della legge. D’altro lato il singolo, proprio in quanto si aliena nella legge e rinuncia alla sua presunzione di diritto, riconosce l’universale della legge come la sua sostanza. Così il singolo dunque viene riconosciuto 63 Ivi, p. 249, trad. it. p. 135. 64 Ivi, p. 228n, trad. it. p. 137n. J. Taminiaux ha osservato che la dottrina hegeliana dell’alienazione riprende l’idea del giving up di Hobbes e della aliénation di Rousseau, ma insieme le corregge speculativamente, giacché l’individuo hegeliano non aliena semplicemente il suo diritto e potere nella volontà universale come in un potere assoluto esterno rispetto al quale l’individuo sta in un rapporto di sottomissione (cfr. Naissance de la philosophie hégélienne de l’Etat, cit., pp. 57-58 e 142-143). L’alienazione, nel quadro dell’identità speculativa di universale e particolare, non è solo negazione del sé singolare, ma insieme un’affermazione di esso sotto un’altra forma (universale). 418

dall’universale istituzionale e si afferma e riconosce in esso nella sua forma universale. In tal senso Hegel aveva detto già all’inizio di questa parte che la legge che ha potere è l’esser-riconosciuto intelligente che include in sé il sé del singolo in quanto ognuno nella legge sa, riconosce se stesso. Il problema a questo proposito non è tanto il fatto che questa forma di riconoscimento nella legge non sia più di tipo simmetrico – il che potrebbe anche ben darsi senza costituire di per sé uno scoglio – o che, come alcuni hanno inteso, sia una forma monologica di autoriconoscimento dell’assoluto65. Mentre quest’ultimo tipo di obiezioni può essere superato sulla base dello stesso testo hegeliano, non si può non vedere che in alcuni momenti per Hegel il riconoscere l’universale come la propria essenza implica la disponibilità a rinunciare alla propria vita di fronte all’universale. Proprio perché affida completamente la sua vita all’universale, incluso il diritto di togliere la vita stessa, il singolo può essere riconosciuto dall’universale e ottenere da esso protezione. Ma questo schema hobbesiano opera una sovrapposizione pericolosa tra una questione – la rinuncia alla presunzione del diritto – che riguarda la struttura di validità delle norme e la loro forza vincolante, ed una questione che investe tout court l’integrazione etico-politica, cui Hegel per altri versi mira, dei valori dell’autonomia e dell’inviolabilità individuale (e procedendo su questa china scivolosa Hegel introdurrà anche la pena di morte come pena legittima). Inoltre in ciò si insinua una concezione duramente realista. Nel diritto la sostanza, lasciandosi intuire come «essenza pensata, ottiene per sé rispetto[Achtung]»66, vale a dire viene riconosciuta nel suo valore. D’altro lato il singolo, il cittadino, che si riconosce e si sa riconosciuto in tale sostanza, si sa come «degno di rispetto»: ma quest’ultimo lato è definito da Hegel come un «inganno[Betrug]» in cui la sostanza irretisce le opinioni dei singoli. Infine, la funzione della pena è ricondotta da Hegel, come già nelle pagine sulla pena come contrappasso, alla necessità di ripristinare il tessuto di relazioni riconoscitive lese dall’infrazione della legge. La violazione della legge si configura ora come una separazione dall’universale, un misconoscimento della potenza della legge da parte del singolo. Questi, esercitando violenza nelle sue più diverse forme sugli altri singoli, sino all’estremo dell’uccisione, non solo infrange e misconosce la legge, ma misconosce anche se stesso. Uccidendo l’altro, egli uccide se stesso, come Hegel aveva già affermato a Francoforte, poiché l’altro, secondo la concezione intersoggettiva dell’identità, è uguale a lui. La pena, per poter essere riconci65 Cfr. J. Habermas, Wege der Detranszendentalisierung, cit., p. 219 sgg. 66 [PdG II], GW8, pp. 252-253, trad. it. p. 136. 419

liatrice, deve quindi ristabilire l’integrità della relazione riconoscitiva sia tra i singoli – come si era già visto in precedenza – sia tra il singolo che ha violato la legge e l’universale. In quest’ultimo caso, da un lato, bisogna che il delinquente, il quale misconoscendo l’altro come persona ha misconosciuto se stesso, reintegri l’immagine di sé così violata: e qui Hegel, proprio per la presenza di quella concezione sacrificale che abbiamo visto, vede nella pena di morte la punizione che in certi casi è più idonea per rendere giustizia e riconoscimento all’esser-persona del criminale. D’altro lato, bisogna che la potenza della legge si possa riconoscere nel singolo che l’ha violata e che ha compiuto il male. Proprio perché essa è padrona della vita e della morte del singolo, la potenza della legge può riconoscersi anche nell’assoluto altro del male e riconoscerlo come se stesso: di qui la possibilità della grazia, che rende l’azione non avvenuta. Siamo dunque in presenza di un livello del riconoscimento che non interessa direttamente gli individui, bensì l’universale concreto la cui costituzione è mediata dalle interazioni riconoscitive degli individui. 3. La costituzione: consenso implicito e critica del contrattualismo Alla sezione dedicata allo «spirito reale» segue, nelle lezioni del 1805-6, una sezione intitolata «Costituzione[Konstitution]», nella quale la problematica del riconoscimento gioca ancora un ruolo importante. Nelle pagine sulla «legge che ha potere» Hegel ha progressivamente mostrato come l’universale riconoscitivo delle norme diventi il medium oggettivo della vita e del sapere di una comunità intersoggettiva istituzionalizzata di persone («popolo vivente»). Ora Hegel intende invece mostrare come il potere riconoscitivo istituzionale diventa oggetto a se stesso, autoconservandosi mediante un processo di differenziazione e di organizzazione interna di diverse pratiche sociali. In tal senso Hegel scrive: così questo spirito è l’assoluto potere su tutto, che vive in se stesso, e darsi ora l’intuizione di se stesso come tale, ovvero trasforma se stesso nel fine. In quanto potere esso è soltanto il singolo, il fine, ovvero l’astratto del singolo; ma la sua autoconservazione[Selbsterhaltung] è la organizzazione[Organisation] della sua vita, lo spirito di un popolo, ha di mira se stesso67.

Hegel esporrà ora la costituzione interna delle differenti sfere di potere come pratiche sociali attraverso le quali il popolo vivente si sviluppa. Cia67 Ivi, p. 254, trad. it. p. 141. 420

scuna di queste sfere, viste come manifestazioni organiche della totalità, coopera alla conservazione dell’insieme, organizzandosi internamente in modo relativamente autonomo: ciascuna coopera al fine dell’intero proprio in quanto persegue il suo fine particolare. Hegel dunque, dopo aver illustrato la la genesi del potere istituzionale come differenziazione del potere riconoscitivo, si volge ora alla ricostruzione delle sfere istituzionali dello spazio sociale costituite tramite questi poteri. L’intersoggettività dell’essere comune, nella misura in cui diventa oggetto a se stessa, si costituisce quindi come una singolarità vivente che dà luogo a processi di autoorganizzazione materiale e spirituale – ciò che Hegel chiama il «movimento dei poteri[Bewegung der Gewalten]»68 – la cui logica interna non è riducibile a quella delle interazioni riconoscitive tra individui esposte in precedenza. D’altra parte, il movimento dei poteri si articola in processi riconoscitivi di nuovo tipo, il cui funzionamento è mediato essenzialmente dai poteri riconoscitivi che gli individui singoli esplicano nelle loro interazioni reciproche. Il «divenire dei poteri[Werden der Gewalten]» è, infatti, in primo luogo il prodotto della «cultura[Bildung]»: un processo di «alienazione[Entäußerung]» del loro sé immediato da parte dei singoli individui che acquisiscono così una seconda natura etica69. Il processo di formazione è così per Hegel la sfera che media la relazione dialettica tra seconda natura esterna e seconda natura interna. Nella Bildung, infatti, la seconda natura socialmente data delle istituzioni è il presupposto e insieme il risultato del processo individuale di interiorizzazione degli abiti di interazione attraverso il quale prende forma lo spirito come seconda natura dell’individuo. Perciò l’universale vivente dei poteri non è indipendentemente dagli individui e dalle loro relazioni intersoggettive, ma piuttosto è posto e animato da queste: l’universale è la lettera, la morta lettera – la sua vita, la sua volontà è il Sé degli individui. Gli individui sono il suo potere, gli individui tutti lo soccorrono, esso può contare sull’assistenza di tutti70. 68 Ivi, p. 254, trad. it. p. 142. 69 A tale proposito Hegel scriverà nello Zusatz al § 151 delle Grundlinien: «Die Pädagogik ist die Kunst, die Menschen sittlich zu machen: sie betrachtet den Menschen als natürlich, und zeigt den Weg, ihn wiederzugebären, seine erste Natur zu einer zweiten geistigen umzuwandeln, so daß dieses Geistige in ihm zur Gewohnheit wird». Mentre nelle Grundlinien Hegel si soffermerà piuttosto sulla dimensione oggettiva e esterna delle abitudini secondo naturali intese come sfere istituzionali, nella filosofia dello spirito soggettivo dell’Enzyklopädie (cfr. [ENZ], § 410) ne analizzerà invece in dettaglio la struttura interna e soggettiva come sviluppo di poteri individuali. 70 [PdG II], GW8, p. 255, trad. it. mod. p. 142. 421

In forza di questa alienazione vivificante, il divenire dei poteri è insieme il «divenire dell’universale[Werden des Allgemeinen]» e il «farsi-universale del singolo[Werden des Einzelnen zum Allgemeinen]». L’alienazione in questione non consiste cioè in un cieco processo di assoggettamento alla «necessità» dell’autoconservazione dell’intero, bensì in una «necessità mediata dal sapere», proprio perché è articolata da processi conoscitivi la cui logica interna è intimamente riconoscitiva. L’alienazione, infatti, è un sapersi del singolo nel potere dell’universale come nella sua essenza comunitaria («il potere dell’universale viene saputo come essenza») e viceversa un essere riconosciuto da parte del singolo nella volontà comune71. In tal senso il rapporto di riconoscimento che sussiste tra il singolo e l’universale è un rapporto di costituzione reciproca: il singolo si riconosce negativamente nell’universale come ciò in cui si aliena, ma nello stesso tempo si riconosce positivamente in esso giacché l’universale è reale solo nella coscienza e nei poteri degli individui. Questa reciprocità costitutiva della relazione riconoscitiva che sussiste tra l’individuo e l’universale prova il fatto che Hegel, anche nella trattazione del rapporto individuo-Stato, non ha abbandonato il terreno del riconoscimento intersoggettivo a favore di una teoria monologica dello spirito. Nello stesso tempo, è anche chiaro che nella teoria hegeliana delle istituzioni la reciprocità tra individuo e universale è una relazione costitutiva, ma non intrinsecamente simmetrica: per questo non viene utilizzata come principio normativo di organizzazione dello Stato e della vita politica. Nella duplicità di tale processo sono poste tutte le condizioni concrete perché ogni individuo possa acquisire la coscienza come coscienza di se stesso. In tal senso siamo anche in presenza dell’ultimo livello di quella teoria dell’identità personale e dell’individuazione che Hegel è andato sviluppando nel corso delle sue lezioni: per Hegel, in definitiva, l’identità autocosciente di soggetti autonomi e unici (universali nella singolarità) può essere tale solo in quanto la sua base naturale costituita nelle interazioni 71 Cfr. Ivi, p. 255, trad. it. pp. 142-143: «nel fatto che io ho il mio Sé positivo[positives Selbst] nella volontà comune consiste l’esser-riconosciuto[Anerkanntsein] come intelligenza, come saputo da me, in quanto la volontà comune è posta da me; nel fatto che io ho in ciò il mio Sé [es] negativamente [consiste l’esser-riconosciuto] come mia potenza, come l’universale che è il negativo di me, mediante l’intuizione della sua necessità, ovvero mediante l’alienazione». La teoria contrattualista dell’alienazione è quindi errata dal punto di vista ontologico, in quanto presuppone l’individuo come una sostanza positiva e non è in grado di dar conto del fatto che la sua costituzione è mediata attraverso il processo del riconoscimento: «nel fatto che io ho il mio Sé positivo[positives Selbst] nella volontà comune consiste l’esser-riconosciuto[Anerkanntsein]». 422

primarie ha modo di svilupparsi entro processi istituzionalizzati di formazione culturale. Dopo aver posto queste premesse generali, Hegel affronta il problema del rapporto tra la formazione intersoggettiva della volontà e il potere politico. Si tratta di rendere conto da un lato della volontà universale come «volontà di tutti e di ciascuno» – vale a dire come volontà che risulta dal processo intersoggettivo di formazione del volere cui ogni individuo partecipa. D’altro lato occorre rendere conto di quell’aspetto per cui la volontà universale è una volontà condivisa: la volontà di un popolo che, prendendo se stessa ad oggetto, è un centro autonomo d’autorità e potere decisionale. La costituzione dello Stato è in tale prospettiva il primo momento del processo di auto-oggettivazione del volere universale che Hegel descrive in questa sezione. Per questo Hegel prende poi in esame la questione della genesi e della giustificazione del legame e del potere politico statale, confrontandosi criticamente, anche se non in modo liquidatorio, con la prospettiva contrattualista. La strategia di Hegel consiste in primo luogo nel mostrare che il vincolo che istituisce la comunità politica non è il frutto di un contratto tra individui isolati, bensì si radica in relazioni riconoscitive precontrattuali in cui gli individui sono immersi sin dalla loro nascita. In questo contesto Hegel riprende direttamente dalla Politica di Aristotele il tema della priorità del tutto sulla parte, e lo ricostruisce nei termini della problematica del riconoscimento72. Per Hegel la totalità di relazioni dell’eticità naturale precede dunque e rende possibile quel tipo di relazioni di negoziazione tra individui di cui parla il contrattualismo. In secondo luogo Hegel sembra distinguere la questione della «costituzione» ontologico-sociale dei legami politici intersoggettivi dal problema della «fondazione[Stiftung]» storica dello Stato e quindi dal problema della giustificazione razionale della sua autorità. Hegel definisce innanzitutto il contrattualismo come una teoria in base alla quale si ritiene che la comunità, l’unione statale si fondi[bestehe] su di un contratto[Vertrag] originario al quale si presume che ognuno abbia dato tacitamente il suo assenso[Eigenwilligung] – a rigore, però, in modo esplicito[ausdrücklich] – e che questa sia la condizione di ogni successiva azione della comunità. E questo sarebbe il principio dello Stato vero, dello Stato libero. Così la moltitudine degli [individui] viene rappresentata come costituente la comunità[das Gemeinwesen konstituierend] 73. 72 Cfr. Ivi, p. 257n, trad. it. p. 144n. Il passo cui Hegel si riferisce è il seguente: Aristoteles, Politica, I, 2, 1253a 20. 73 [PdG II], GW8, p. 257, trad. it. p. 144. 423

Questa formulazione riprende l’impostazione del contrattualismo che Hegel poteva trovare nel Contrat Social di Rousseau74 e quindi nel System der Sittenlehre di Fichte75. Secondo tale punto di vista, la comunità si costituirebbe entro una negoziazione contrattuale tra individui: dunque entro un’interazione che presuppone un consenso mediato da atti in cui gli individui si riconoscono reciprocamente e riflessivamente come contraenti a pari titolo e nello stesso tempo riconoscono l’universale cui conferiscono l’autorità politica. Si era visto che nel contratto tra singoli la validità della volontà comune, del consenso intersoggettivo, non aveva di per sé una forza vigente, ma dipendeva dal potere riconoscitivo dei singoli che con un atto di attribuzione riconoscevano la vigenza del contratto ed erano liberi di rispettarlo o meno. Si riproduce a questo proposito un problema analogo a quello che Hegel aveva affrontato analizzando la validità di norme che risultano dal contratto tra individui e che era stato risolto, sul piano giuridico, attraverso l’introduzione della «legge che ha potere». Hegel riformula ora il problema in rapporto non più all’autorità delle norme giuridiche, bensì in rapporto all’autorità politica, nei seguenti termini: qui gli individui compaiono come singoli reali, ognuno dei quali vuole sapere/ riconoscere[Wissen] il suo positivo volere nel volere universale; ma la loro positiva singolarità, poiché non è ancora una singolarità alienata, ovvero non ha la negatività in se stessa, è un’accidentalità per l’universale, e questo [è] un reale altro rispetto ad essa; non c’è alcuna necessità che tutti vogliano la stessa cosa, non c’è alcun obbligo che la minoranza si assoggetti alla maggioranza, bensì ognuno – essendo posto, riconosciuto[anerkannt] come singola volontà positiva – ha il diritto di dissentire e di dissociarsi, e di accordarsi con altri su qualche altra cosa76.

Hegel non intende affatto negare legittimità all’idea, propria del contrattualismo, che in una società razionale i singoli reali debbano poter riconoscere il loro positivo volere nel volere universale: vale a dire all’idea che il potere politico debba poter essere giustificato dal consenso liberamente conferito dagli individui. La volontà universale può essere giustificata riflessivamente dal riconoscimento politico delle volontà singolari, ma non può 74 Cfr. J.J. Rousseau, Du contrat social, ou principes du droit politique, Amsterdam, 1762, I, 7, trad. it. di R. Mondolfo, Del contratto sociale, in Opere, cit., trad. it. pp. 277-346, part. pp. 285-286. 75 Cfr. J.G. Fichte, Das System der Sittenlehre nach den Principien der Wissenschaftslehre, Jena und Leipzig, 1798, in GA, I.5, §32, pp. 310-314, trad. it. a cura di C. De Pasquale, Il sistema di etica secondo i principi della dottrina della scienza, Laterza, Roma-Bari, 1994, pp. 331-337. 76 [PdG II], GW8, p. 257, trad. it. mod. p. 145. 424

essere costituita riflessivamente da esse. Per Hegel, infatti, i singoli in tanto sono capaci di prestare liberamente il loro assenso al contratto originario e di riconoscervi il loro positivo volere, in quanto la loro positiva volontà singolare è già «in sé» una volontà universale: in quanto la loro positiva volontà è una «singolarità alienata». D’altra parte la volontà universale può divenire tale solo in quanto posta e con-costituita dal potere riconoscitivo degli individui. Il rapporto di costituzione reciproca tra il singolo e l’universale non va però esplicitato in termini razionalistici. Ciò significa che i legami pre-contrattuali della comunità, istituiti pre-riflessivamente nelle interazioni naturali e sociali, precedono e rendono possibili i legami razionali e giustificativi di cui sono capaci solo dei singoli già socializzati. Gli individui autonomi, che liberamente riconoscono la validità dell’assenso su cui si basa il contratto, sono infatti individui le cui capacità autocoscienti cognitive e morali si sono costituite attraverso il processo di alienazione e formazione di una seconda natura tipico della cultura. Pertanto, vi è un consenso preliminare implicito, di tipo pre-contrattuale, attraverso il quale gli individui già «riconoscono[anerkennen] la volontà universale»77 prima di poter «riconoscere[Wissen] il loro positivo volere nella volontà universale». Il consenso esplicito e giustificativo del contratto interviene dunque eventualmente a ratificare un consenso implicito in cui gli individui si sono costituiti come a loro volta costituenti. Il consenso contrattuale è dunque una forma di riconoscimento spirituale e normativo che deve presupporre forme di riconoscimento più elementari, non strutturate in termini di giustificazione razionale, e che tramite il processo della Bildung devono stabilizzarsi in una seconda natura. Il contrattualismo, anche ammesso che possa fornire un modello di giustificazione razionale consensuale dell’autorità politica, sembra a Hegel inadeguato come teoria che possa pretendere di dare un resoconto storicamente plausibile della fondazione storica dello Stato. A questo proposito è opportuno distinguere la questione ontologico-sociale della «costituzione[Konstitution]» dei legami politici a partire da interazioni radicate in un’eticità precontrattuale, dalla questione storica della «fondazione[Stiftung]» di un singolo Stato78. In quest’ultimo caso, secon77 Ivi, p. 258, trad. it. p. 145. 78 Si noti che Hegel aveva poco prima (cfr. Ivi, p. 256, trad. it. p. 143) distinto tre modalità di rapportarsi, da parte dell’individuo, all’universale: vale a dire «paura[Furcht]», «fiducia[Vertrauen]» e sentimento dell’esser «sovrano[Regent]». A queste modalità corrispondono tre aspetti con cui l’universale si pone di fronte all’individuo: vale a dire «signoria[Herr]», «potere pubblico[öffentliche Gewalt]» e «sovranità[Regent]». La signoria è la relazione negativa di paura che l’individuo 425

do Hegel, l’evento fondativo che sta alla base della nascita di uno Stato determinato è riportabile spesso all’azione di un «grande uomo» che, con un atto decisionale di signoria, riunisce una moltitudine dispersa o, in circostanze eccezionali di pericolo, difende l’integrità della comunità79. È importante osservare che qui non siamo in presenza di una concezione autoritaria o decisionistica del potere politico. Gli esempi di Hegel si riferiscono alla fondazione dello Stato democratico ateniese da parte di Teseo e quindi alla conservazione della repubblica francese da parte di Robespierre. Lo stesso riferimento al Principe di Machiavelli80 – autore di cui Hegel aveva del resto ben compreso, attraverso la mediazione del Contrat social di ha verso l’universale come verso la necessità da cui tutto il suo essere dipende: di questo tipo è il rapporto con il fondatore dello Stato, la cui tirannia è appunto una forma di Herrschaft. Il secondo tipo di relazione è la fiducia che l’individuo ha nella volontà comune in cui è riconosciuto come intelligenza: l’universale si manifesta qui come il «potere pubblico» il cui «diritto» è riconosciuto dagli individui che vi acconsentono in quanto in esso si riconoscono. Questo tipo di relazione emerge nel consenso del contratto. Il terzo tipo di relazione è quello che si ha verso l’universale nella misura in cui quest’ultimo detiene la sovranità politica in base ai due aspetti precedenti. 79 Anche Hobbes sostiene che il libero consenso intersoggettivo tra uguali che si riconoscono reciprocamente non è sufficiente per costituire uno stato civile, poiché la garanzia della sicurezza dei patti richiede ulteriormente la presenza di un potere – una potestà comune (cfr. De cive,V, 6). La costituzione del potere comune è tuttavia ricostruita da Hobbes di nuovo sul modello del consenso razionale che lega gli individui in un patto unitivo in cui essi si obbligano reciprocamente a sottomettersi alla volontà di uno solo come alla volontà che esprime l’unica volontà comune. Anche Hobbes ha in tal senso una teoria riconoscitiva del potere, giacché la costituzione di quest’ultimo presuppone atti di riconoscimento e accettazione da parte degli individui. Hegel critica però la concezione razionalistica della costituzione riconoscitiva del potere sottesa al modello hobbesiano. Si noti però che Hobbes ritiene che il potere comune possa sorgere o dall’azione degli individui che, per timore reciproco, si riuniscono intenzionalmente e per loro libera volontà in una assemblea e stringono un patto esplicito attraverso il quale istituiscono il potere statale (origine per istituzione), oppure che esso possa sorgere naturalmente (origine naturale) laddove alcuni, essendo in guerra con altri, si sottomettono a questi ultimi per aver salva la vita e stringono così un patto con cui riconoscono l’autorità del signore che li ha uniti (De cive, V, 12). Da un lato Hegel critica la teoria dell’origine per istituzione come inadeguata da un punto di vista ontologico-sociale e da un punto di vista storico; dall’altro la concezione hegeliana della «fondazione» storica dello Stato da parte del grande uomo è in un certo senso una ripresa, mediata con altri elementi e fonti, della teoria hobbesiana dell’origine naturale del potere comune. 80 Cfr. [PdG II], GW8, p. 258, trad. it. p. 146. Hegel si riferisce in particolare ai capp. VIII e XV di N. Machiavelli, Il Principe, Roma e Firenze, 1532. 426

Rousseau81, il sentimento patriottico-repubblicano – è motivato dalla condizione storica della Germania. Hegel, infatti, già negli anni francofortesi, con la redazione dei primi frammenti della Verfassung Deutschlands aveva considerato simile la situazione della sua Germania a quella dell’Italia di Machiavelli: in entrambi i casi ci si trovava di fronte ad una moltitudine dispersa che non riusciva a costituirsi in uno Stato nazionale a causa dei particolarismi locali. Il potere superiore del grande uomo che Hegel invoca, oltre ad essere l’ultima spiaggia cui come tedesco poteva in quel momento storico votarsi, è comunque esplicitamente inteso come potere «tirannico» la cui legittimità può essere giustificata solo da circostanze eccezionali, ma che deve essere revocato non appena tali circostanze vengano meno. La «tirannia[Tyrranei]», quindi, viene giustificata in relazione alle circostanze eccezionali, ma non consiste in una giustificazione di una forma dispotica di potere: e questo proprio perché, come si è già visto82, il divenire dei poteri è per Hegel un processo in cui la necessità del potere deve poter essere saputa dagli individui, nel senso che ad essa si deve obbedire non come ad un «padrone/signore[Herr]» che comanda, bensì come ad un potere la cui forza vincolante è tale perché riconosciuta legittima. Per questo, se anche un potere tirannico può rendersi necessario in alcuni momenti, quando tale tirannia diventa superflua bisogna che alla signoria del tiranno si sostituisca la «signoria delle leggi[Herrschaft des Gesetzes]». Avendo affrontato il problema storico della fondazione della polis e dopo aver introdotto il concetto repubblicano della «signoria della legge», Hegel ha posto le condizioni per esaminare la democrazia greca e la repubblica romana. La sezione sulla «costituzione», dunque, oltre a prendere in esame la costituzione ontologica e storica del legame politico, si sofferma anche sulla nozione di «costituzione» in senso più proprio come legge fondamentale di un popolo. Passando attraverso la costituzione precontrattuale del legame e la fondazione storica puntuale dello Stato, Hegel ha inteso descrivere anche le condizioni di individuazione del potere universale del Gemeinwesen, ovverosia come tale volontà universale (la volontà di tutti e di ciascuno) diventi una volontà individuale. Ora la repubblica antica si presenta appunto come quest’immediata unità dell’individualità e dell’universale. In essa da un lato il «popolo è dissolto nei cittadini e nello stesso tempo è un unico individuo, il governo»83; dall’altro ciascun individuo ha immediatamente presente il fine universale e lavora per esso. La volontà universale del popolo non si 81 Cfr. J.J. Rousseau, Du contrat social, cit., III, §6. 82 Cfr. [PdG II], GW8, pp. 254-255, trad. it. p. 142. 83 Ivi, p. 262, trad. it. p. 149. 427

«costituisce[konstituiert]» qui, come nel modello contrattualista, attraverso un’espressione a-priori di assenso generale ad un contratto, bensì attraverso «l’espressione determinata e la votazione dei singoli»84. Qui emerge un altro aspetto dell’insufficienza del contrattualismo. Il modello puramente razionalistico del contrattualismo non riesce, secondo Hegel, a risolvere il problema di come siano possibili l’obbedienza alla legge e la lealtà verso una costituzione. Infatti, se l’assenso di ognuno al contratto originario fosse la condizione di ogni successiva azione della comunità, e non semplicemente un modello di giustificazione razionale a posteriori del patto politico, allora resterebbe inspiegabile come sia possibile l’obbedienza alle leggi e alle decisioni del governo nel caso in cui queste possano andare contro le contingenti opinioni del singolo oppure laddove, trattandosi di decisioni prese a maggioranza da un’assemblea, la minoranza debba assoggettarsi alla risoluzione presa in termini proceduralmente corretti dalla maggioranza. Questo tipo di problema non sembra porsi per la costituzione democratica antica, proprio perché, sebbene in essa la volontà universale si produca in modo discorsivo attraverso l’assemblea, tuttavia l’obbedienza da parte di tutti (anche di coloro che ritengano di dover protestare e dissentire da tali decisioni) alla costituzione e alle decisioni dell’assemblea è motivata da un tipo di riconoscimento dell’autorità legittima dell’universale che precede il riconoscimento intelligente proprio del consenso contrattuale e che si radica in ciò che Hegel chiama l’«eticità antica», vale a dire una forma di fiducia immediata che si alimenta di una vicenda comune di relazioni condivise. In tal senso Hegel chiama tutto ciò il «regno dell’eticità», scrivendo che in esso ognuno è costume [Sitte], immediatamente uno con l’universale; qui non ha luogo alcun protestare; ognuno si sa immediatamente come universale85.

Hegel non nega che ciascuno abbia il diritto di protestare e manifestare il suo dissenso circa le decisioni che non condivide; il protestare non può però aver luogo a proposito del patto fondamentale tra i cittadini, che si radica nell’eticità immediata della loro comunità. E tale eticità immediata è istituita da nessi riconoscitivi primo naturali analoghi a quelli naturali dell’amore, giacché, così come l’amore è riconoscimento dell’unità mediante la rinuncia a sé, altrettanto nell’eticità antica ognuno si sa immediatamente come universale, rinunciando alla sua particolarità e senza saperla come tale. 84 Ivi, p, 261, trad. it. p. 148. 85 Ivi, p. 262, trad. it. p. 149. 428

Quest’ultimo punto è di decisiva importanza anche per capire in che senso l’argomento con cui Hegel, subito dopo, afferma l’inapplicabilità nel mondo moderno del modello costituzionale democratico-antico, abbia una motivazione interna alla teoria del riconoscimento sviluppata nell’arco di tutte le lezioni. Nell’antichità la bella vita pubblica era l’ethos condiviso immediatamente da tutti e come tale cementava naturalmente e storicamente il legame tra i cittadini e il riconoscimento della forza vincolante del potere politico. Nelle condizioni di «scissione[Entzweiung]» del moderno però compare il principio nordico dell’interiorità, dell’individualità consapevole di sé che, con questa sua conquistata indipendenza di pensiero, non può più attuare quella rinuncia alla sua particolarità che era richiesta perché si instaurassero le condizioni dello spirito pubblico antico. In questo caso Hegel legge l’eticità antica attraverso la lente della Repubblica di Platone86, intesa non come un’enunciazione di un ideale, bensì come la comprensione profonda della natura dello Stato del suo tempo. La repubblica platonica è appunto «lo scomparire della individualità consapevole di sé»: sicché, una volta comparso sulla scena il principio dell’interiorità, anche tale modello politico diviene obsoleto. A questo punto il problema è per Hegel come sia possibile nelle condizioni del moderno ristabilire una forma di eticità condivisa che, come una seconda natura, incorpori gli atteggiamenti riflessivi e critici nelle abitudini degli individui, e in cui ciascuno possa sapersi come universale, senza rinunciare con ciò alla sua particolarità e alla sua consapevolezza. L’emergere dell’individualità che sa se stessa non spinge però Hegel a descrivere il profilarsi, a partire dalla rottura dell’unità senza opposizione del riconoscimento ‘amoroso’ dell’eticità antica, di una serie di lotte per il riconoscimento il cui risultato avrebbe potuto essere la formazione di una comunità politica democratica moderna intesa come unità nell’opposizione. Ciò è dovuto, oltre ad una serie di motivi politici contingenti, anche al fatto che Hegel tende sistematicamente a collocare la lotta per il riconoscimento piuttosto nel contesto dello stato di natura che in quello dei processi storici. Inoltre, la prefigurazione di una qualche forma futura di governo democratico non avrebbe potuto farsi carico del duplice problema che Hegel doveva affrontare: ovverosia da un lato il problema teorico della legittimazione dell’autorità del potere politico; dall’altro il problema, storicamente urgente per la Germania, di addivenire, dopo la delusione francese, alla fondazione di un’unità statale. La soluzione che Hegel abbraccia è infine quella di una costituzione mista monarchico-costituzionale. Quando 86 Per i riferimenti a Platone cfr. [PdG II], GW8, pp. 263-264, trad. it. pp. 150-151. In particolare Hegel si richiama al libro VI della Repubblica. 429

l’eticità non può più garantire l’unità immediata del popolo e l’autorità del suo governo, laddove, come nel moderno, i singoli individui sanno se stessi nella loro indipendenza, il centro individuale del potere statale deve per Hegel essere impersonato dall’individualità immediata di un sovrano al quale il potere passa naturalmente per eredità familiare. Se da un lato questa unità naturale del monarca è ciò che garantisce il potere esecutivo del governo – e si noti che qui Hegel riprende l’idea hobbesiana che la persona del sovrano sia l’unica che rimanga nello stato di natura87 –, d’altra parte nel modello hegeliano la formazione discorsiva della volontà universale gioca tuttavia un ruolo centrale, nella misura in cui il «legame spirituale» della comunità politica (a differenza di quello naturale, che resta ora confinato alla sfera privata della famiglia) viene identificato nell’«opinione pubblica». Quest’ultima è in tal senso «il vero corpo legislativo dello Stato». La validità delle norme giuridiche è dunque riportata da Hegel al processo intersoggettivo di formazione della volontà ed al riconoscimento razionale. D’altra parte, il corpo legislativo cui Hegel pensa è sì di tipo rappresentativo, ma è costituito da rappresentanze di ceto e di corporazione anziché da individui. 3.1. I ceti come contesti sociali di riconoscimento A questo punto dell’analisi ritorna il problema che abbiamo anticipato all’inizio del precedente paragrafo, vale a dire quello della costituzione interna delle diverse sfere sociali e dei diversi poteri in cui si articola lo Stato moderno. In tal senso la teoria hegeliana del «movimento dei poteri» come differenziazione istituzionale del potere riconoscitivo è una soluzione al problema, posto dalla crisi dell’immediatezza primo naturale del modello antico, di come sia possibile riprodurre nelle condizioni del moderno una forma di eticità riflessiva secondo naturale che riproduca mediatamente le condizioni d’immediatezza del costume e garantisca la coesione sociale. Una soluzione istituzionale di tale problema sarò dunque possibile nella misura in cui le istituzioni moderne sapranno incorporare le strutture riflessive del riconoscimento traducendole in abiti d’azione condivisi. Secondo la teoria di Hegel, dunque, così come agli individui moderni è riconosciuta autonomia, indipendenza e libertà di pensiero, altrettanto i diversi poteri, a loro volta espressione di differenti ceti, si svilupperanno ed organizzeranno internamente secondo un loro principio interno. I diversi poteri istituzionali – lavoro concreto dell’agricoltura, lavoro astratto e produzione di fabbrica, commercio, sfera del diritto, amministrazione ed esercito 87 Cfr. Th. Hobbes, De cive, VII, 13. 430

– sono per Hegel le «membra[Glieder]» in cui si articola funzionalmente il processo materiale di riproduzione della compagine statale. I differenti ceti che esercitano tali poteri si formano ciascuno un diverso «modo di sentire interiore[Gesinnung]» – uno specifico abito etico condiviso dagli individui che vi appartengono – e sono quindi l’elemento in cui l’aspetto spirituale può prendere la forma di un sapere autocosciente88. Lo spirito che in tal modo diventa socialmente autocosciente è l’insieme di legami affettivi e razionali che si forma intersoggettivamente nelle pratiche dello «spirito di un popolo» e che, con l’articolazione dei poteri e la differenziazione dei «ceti[Stände]», assume forme sempre più riflessive e complesse89, fino a divenire oggetto a se stesso nell’arte, nella religione e nella filosofia. Hegel non si sofferma poi particolarmente sulla struttura interna dei poteri90 – anche perché egli ha già introdotto molte determinazioni in proposito trattando della volontà e dello spirito reale –, ma si concentra soprattutto sulla loro manifestazione spirituale: la parte «A» della sezione sulla «costituzione» ha appunto ad oggetto «gli stati; ovvero la natura dello spirito che si articola in se stesso»91. In tal modo Hegel, dopo aver esposto la costituzione politica in quanto struttura oggettiva dell’universale, prende in considerazione quel processo di Bildung dei singoli attraverso il quale essi, riconoscendosi come membri di un ceto, e formandosi le abitudini ad esso appropriate, divengono consapevoli dell’essere comune[Gemeinwesen] 88 Sul rapporto tra le nozioni di «Gesinnung» e di «costituzione[Verfassung]» nei successivi scritti di Hegel e in relazione al dibattito contemporaneo, si veda L. Siep, Gesinnung und Verfassung. Bemerkungen zu einem nicht nur Hegelschen Problem, in L. Siep, Praktische Philosophie im Deutschen Idealismus, cit., pp. 270-284. Sull’analogia tra la successione delle facoltà teoretiche (intuizione, immaginazione e segno) e la struttura cetuale cfr. J. Taminiaux, Naissance de la philosophie hégélienne de l’Etat, cit., p. 69. Sul rapporto tra articolazione dei ceti, concezione del nome e dello Stato, cfr. A. Sartori, Hegel a Jena, cit., pp. 93-100, il quale mostra in modo interessante come il linguaggio, nel suo carattere teoretico, fornisca il modello per l’analisi della struttura sociale e del potere, senza con ciò stesso fornire il paradigma di una filosofia sociale critica e normativa. 89 Cfr. [PdG II], GW8, p. 265n, trad. it. p. 153n: «lo stato e lo spirito di uno stato; è propriamente questo spirito determinato che si sviluppa dalla rozza fiducia e dal lavoro fino al sapere di se stesso dello spirito assoluto. Lo spirito è dapprima la vita di un popolo in generale. Da questa esso deve liberarsi». 90 Sulla partizione interna delle pagine che seguono cfr. Th. Häring, Hegel. Sein Wollen und Sein Werk. Eine chronologische Entwicklugsgeschichte der Gedanken und der Sprache Hegels, Teubner, Leipzig, Berlin, p. 465; G. Cantillo, L’arte nella filosofia dello spirito della Jenaer Realphilosophie, in Id., Le forme dell’umano, cit., pp. 119-176, part. pp. 128-129. 91 [PdG II], GW8, p. 266, trad. it. mod. p. 153. 431

come della loro essenza. I ceti costituiscono pertanto le forme di vita specifiche entro cui i singoli vengono socializzati e sviluppano un sapere autocosciente. Il «mododi-sentire» specifico di ciascun ceto è quel sentimento di sé che si forma entro tali contesti di pratiche sociali e abitudini d’azione e rappresenta la forma specifica di riconoscimento sociale in cui tali interazioni sono mediate. Questo tipo di riconoscimento è specificamente sociale nel senso che consiste in una forma di apprezzamento del contributo solidale che ogni singolo apporta svolgendo il proprio compito all’interno del suo ceto: il sentimento di sé è appunto l’identità sociale in cui ciascuno può riconoscersi proprio in quanto è apprezzato e riconosciuto dagli altri. Nello stesso tempo, cooperando in modo solidale all’interno del suo ceto, ogni singolo coopera all’intero sociale e si forma un concetto dell’universale comunitario. Vi sono così tre livelli sui quali Hegel vede articolarsi la presenza dello spirito in ogni singolo ceto – vale a dire cooperazione solidale all’interno del ceto, sentimento di sé come sentimento di appartenenza ed inclusione in tale ceto, sapere dell’universale: lo spirito […] forma la sua coscienza – è primariamente solo spirito vero, in sé [an sich]; in ogni ceto esso ha un lavoro determinato, un sapere del suo esserci e agire in questo, e un concetto particolare, un sapere dell’essenzialità92.

Il terzo livello è propriamente quello in base a cui Hegel organizza gerarchicamente la sua esposizione dei ceti e della loro collocazione nell’intero. Così i primi tre ceti – contadini, ceto dell’industria, ceto commerciale – sono posti come inferiori perché in essi la coscienza dell’universale è nel particolare, mentre i ceti dei funzionari, dei dotti e dei soldati – che insieme formano il «ceto dell’universalità» – sono posti ad un livello superiore perché qui la coscienza prende ad oggetto l’universale in guisa universale e si incarna in una serie di disposizioni etiche eminentemente riflessive. Il primo ceto è quello dei contadini[Bauernstand]. Questi, svolgendo un lavoro concreto – privo cioè di quel lato di astrattezza con cui Hegel aveva qualificato il lavoro dell’industria –, si trovano immersi in una forma di vita in cui prevalgono interazioni di tipo sensibile con la natura e con i loro simili, e pertanto sviluppano un sentimento e apprezzamento di sé che ha 92 Ibid. D’ora in poi si tradurrà «Stand» con «ceto» piuttosto che con «stato». Giustamente G. Cantillo fa qui notare che «Stand» può indicare in alcuni casi anche il «corpo territoriale» o «una dieta o un parlamento»: tuttavia, per ragioni interne all’interpretazione che proponiamo, riteniamo di optare per il termine «ceto». 432

la forma della «immediata fiducia[Vertrauen]». Prevalgono qui dunque le relazioni di riconoscimento meramente primo naturali e assiologiche – e si noti che la fiducia immediata è il tipo di sentimento relazionale che lega gli amanti – mentre sono ancora sottodeterminate quelle forme di riconoscimento spirituale articolate concettualmente che implicano il riconoscimento della validità di norme. In tal senso, nella caratterizzazione di Hegel – evidentemente influenzata dallo stato semi-feudale in cui nell’area tedesca versava la condizione dei contadini – il contadino generalmente si lascia imporre il diritto, non esige cioè di comprendere la norma e di riconoscerne la validità, bensì la accetta come un fatto naturale e «paga imposte e tasse, perché è proprio così»93. Il «ceto dell’industria[Stand des Gewerbs]» è invece caratterizzato dal lavoro astratto, una forma di interazione regolata da rapporti di diritto. Il sentimento di sé del borghese – la «rettitudine[Rechtschaffenheit]» – si sviluppa pertanto in una forma di vita in cui emergono forme di riconoscimento normative di livello superiore, specificamente giuridico. Il borghese, dunque, non solo dà forma alla sua identità mediante l’attività formativa del lavoro («la forma, il Sé dell’opera è il Sé dell’uomo»94) ma si sa anche «determinato come proprietario, e non solo perché possiede, ma perché questo è il suo diritto»95. Nell’unità di questi due momenti il borghese «sa se stesso in quanto riconosciuto[als Anerkannter] nella sua particolarità e imprime ovunque il sigillo di questa». La coscienza della rettitudine, proprio in quanto consiste in questo riconoscere e saper riconosciuta la propria particolarità nell’universale del proprio ceto, determina una specifica forma positiva e appagante di relazione assiologica a sé – «la presunzione di se stesso[Einbildung von sich selbst]». La presunzione di sé è quindi una forma di «presunzione del proprio valore[Einbildung seines Wertes]», ove tale valore è inteso in termini di apprezzamento sociale: il godimento in cui consiste tale relazione positiva a sé è di tipo emulativo e consiste nel fatto che uno può mostrare a se stesso «che vale quanto un altro, che è riuscito a giungere a quel punto». Per il terzo ceto – il «ceto dei mercanti[Kaufmannstand]» – il lavoro vale invece solo come «puro scambio». Lo scambio è una forma di interazione che si svolge puramente nell’elemento del riconoscimento spirituale e che astrae dalla naturalità del lavoro concreto e dal carattere formativo del

93 [PdG II], GW8, p. 267, trad. it. p. 154. 94 Ivi, p. 268, trad. it p. 156. 95 Ivi, p. 269, trad. it. p. 156. 433

lavoro astratto96. Nello scambio l’elemento spirituale – il «valore[Wert]», il «significato[Bedeutung]» – si oggettiva nel «denaro». Pertanto il riconoscimento sociale in cui si forma il sapere di sé del mercante è unicamente legato alla realtà dell’avere e all’elemento meramente universale del valere. Di conseguenza, il sentimento di sé del mercante – che Hegel qualifica come «durezza di spirito», «diffidenza[Mißtrauen]» verso il particolare – si legherà ad una presunzione di valore diversa da quella del borghese. Mentre per il borghese «è il ceto come tale che vale» – egli sente di valere in quanto si sa riconosciuto nell’universale specifico della storia, dei costumi e della moda del suo ceto –, per il mercante invece il valore è solo quello del denaro, ed egli si sa riconosciuto in base alla quantità di denaro accumulata. A Hegel interessa però anche il fatto che qui emerge la forma pura del riconoscimento spirituale in quanto riconoscimento di valore e validità. Hegel gioca ancora sull’ambiguità – e in tal senso fornisce una genealogia della validità – dei termini «gelten» e «Wert», che possono indicare sia la validità di norme sia il valore in termini di scambio di una cosa. Così il ceto dei mercanti prepara la transizione al livello gerarchico superiore dei ceti. Infatti, secondo Hegel, con il ceto dei mercanti lo spirito è divenuto, nella sua astrazione, a sé oggetto – come il privo-di-Sé, l’interno. Ma questo interno è l’io stesso97.

Nella coscienza di sé del mercante si fanno dunque presenti le strutture riflessive dello spirito e dell’io in quanto esso è ciò in cui le relazioni spirituali si riferiscono a sé. Questo è un momento importante nella formulazione della teoria hegeliana della razionalità: con la coscienza mercantile, come Hegel espressamente dichiara, viene portato in luce il «principio formale della ragione[Vernunft]». In tale coscienza, in primo luogo, si presentano in forma pura la struttura assiologica di valore e la struttura normativa di validità del riconoscimento. In secondo luogo, emergendo la fondamentale «unità dell’essenza e della cosa», diventa consapevole la struttura fondamentalmente semantica della razionalità e della realtà nella loro unità (in quanto la realtà è la realtà costruita dalle relazioni sociali spirituali), quella dimensione per cui «qualcosa ha valore puramente e soltanto per il suo significato[Bedeutung]». In tale direzione, sempre parlando della coscienza mercantile, egli dice più 96 Cfr. Ivi, p. 269, trad. it. p. 157: «Lo scambio è il movimento, l’elemento spirituale, il medio, ciò che si è liberato dall’uso e dal bisogno, così come dal lavoro, dall’immediatezza». 97 Ivi, p. 270, trad. it. p. 157. 434

avanti che in essa è posto «il concetto formale dell’unità del Sé e della realtà, della spontanea, immediata unità – Io=cosa – loro significato concreto»98. Con ciò non sono state ancora descritti tutti i requisiti della razionalità (ciò avverrà solo al termine del capitolo su arte, religione e scienza), ma è già chiaro che per Hegel la razionalità è una forma di riconoscimento spirituale superiore – normativo, valoriale e semantico – che si può sviluppare come tale entro le condizioni oggettive di una totalità sociale ed emergendo da forme più elementari di riconoscimento. Il «ceto dell’universalità»99 costituisce il livello superiore di articolazione in se stesso della natura dello spirito e della sua coscienza. Qui la coscienza non è più nel particolare del bisogno concreto, della proprietà e del guadagno, ma il suo oggetto diviene l’universale stesso, lo Stato. L’universale concreto della comunità politica è dunque per tale ceto il fine stesso del suo agire e della sua coscienza: il ceto dell’universalità è in tal senso il «ceto pubblico[der öffentliche Stand]», vale a dire il corpo sociale che si occupa direttamente della cosa pubblica. La scomparsa dell’eticità immediata della repubblica antica – ove ogni cittadino operava immediatamente in vista della comunità politica – e l’insorgenza moderna della scissione e del principio dell’interiorità hanno convinto Hegel che la necessaria mediazione dell’universale statale nell’attività e nella coscienza individuale è ancora possibile solo se di essa si fa carico un ceto specifico che sviluppa determinati abiti riflessivi. Il ceto universale, disponendo di una forma di «saggezza[Weisheit]» pratica, è in grado di applicare e di introdurre lo spirito dell’universale in ogni singolo ramo della vita collettiva. Il ceto pubblico, attraverso i suoi provvedimenti, fluidifica tutte le forme di vita particolari (i ceti) che all’interno della comunità politica si riproducono perseguendo fini ristretti e le reimmette nel corso dell’universale adeguandole ai fini collettivi. I rami particolari in cui il ceto dell’universalità si articola sono il «ceto dei funzionari», il ceto dei «dotti» e il «ceto-dei-soldati». Il «ceto dei funzionari[Geschäftsstand]» è costituito da coloro che sono addetti ai sistemi particolari dell’amministrazione pubblica, dell’amministrazione della giustizia e della polizia. Il funzionario lavora per l’universale, ma in forma limitata, svolgendo un compito specifico, e perciò il modo di sentire del funzionario consiste in una specifica disposizione interiore riflessiva: la «moralische Gesinnung», la pura coscienza del compiere il proprio dovere. Tale Gesinnung è quindi caratterizzata da Hegel come una specifica modalità di riconoscimento sociale formalistico, in cui il funzionario rimane 98 Ivi, p. 271, trad. it. p. 158. 99 Ivi, p. 270, trad. it. p. 158. 435

soddisfatto dall’aver semplicemente portato a termine il compito cui il proprio ceto è preposto, indipendentemente dal contenuto particolare del compito stesso: «avere l’essere-riconosciuto in se stesso[das Anerkanntsein an sich selbst haben]; ognuno secondo questa moralità consente nel fatto che egli fa quello che corrisponde al proprio ceto»100. Il sapere del dovere proprio del funzionario è un sapere dell’universale, ma privo di contenuto. Il sapere del «dotto[Gelehrte]» è invece un sapere che ha un contenuto, così come il sapere dei ceti inferiori; tale contenuto non è però un oggetto cui egli si rapporti in base ad un bisogno o ad un interesse, bensì un «oggetto disinteressato» e scelto liberamente. Il sapere dei dotti non è più un sapere limitato dell’universale, bensì un sapere dell’universale in quanto tale. L’oggetto del sapere dei dotti ha pertanto natura concettuale: «è il concetto[Begriff] di una cosa determinata». Con il sapere dei dotti emerge la dimensione propriamente concettuale e riflessiva del Gemeinwesen e delle sue strutture riconoscitive. Qui, infatti, il pensiero, prendendo ad oggetto dei concetti, intenziona se stesso, la sua propria essenza. Nel sapere dei dotti, a differenza di quanto accadrà con la filosofia, l’essenza concettuale dello spirito è data comunque ancora come qualcosa di esterno al pensiero, come un concetto indipendente dal pensiero che lo pensa. La Gesinnung riflessiva propria del dotto è quindi una forma di presunzione del proprio valore che Hegel caratterizza come «vanità del suo Sé[Eitelkeit seines Selbsts]»101: cioè la pretesa di essere riconosciuto nell’universalità del proprio valore intellettuale, indipendentemente dalla propria posizione sociale all’interno di un ceto (come nel caso della presunzione del borghese) o dal proprio avere (come nel caso del mercante). È opportuno notare che i dotti costituiscono un ceto in un senso diverso dagli altri casi, dato che dotti possono essere anche uomini appartenenti ad altri ceti (Hegel fa l’esempio del funzionario). A ciò si connette il fatto che per Hegel è al sapere dei dotti che si lega quel processo riflessivo di formazione intersoggettiva della volontà consapevole che va sotto il nome di «opinione pubblica». L’opinione pubblica, cui si partecipa come dotti, è per Hegel un momento necessario della vita dell’universale, di cui il governo saggio deve tener conto, giacché essa è quella coscienza critica riflessiva in cui vengono a consapevolezza gli elementi obsoleti e negativi del processo dello spirito e in cui si prepara quindi ogni mutamento sociale e politico. L’ultimo ramo in cui si articola il ceto pubblico è il «ceto dei soldati[Soldatenstand]». Nel sapere dei dotti l’universale sociale si era pre100 Ivi, p. 273n, trad. it. p. 160n. 101 Ivi, p. 266, trad. it. p. 154. 436

sentato nella sua struttura concettuale. Nel ceto dei soldati invece l’universale non compare più in quanto tale, bensì in forma individuata. Il popolo è qui come una individualità rispetto alla quale i soldati sono dei singoli reali negati. Il lavoro del soldato, infatti, consiste nell’affrontare il rischio della morte. Affrontando tale rischio, egli si espone al sacrificio reale del suo sé, e proprio con ciò consente che si affermi l’individualità del suo popolo: concezione, questa, che Hegel mutua dalla morale repubblicana antica. Anche il sentimento di sé del soldato è caratterizzato da Hegel in termini di riconoscimento. La Gesinnung del soldato, infatti, è l’«onore[Ehre]», cioè quel tipo di pretesa di riconoscimento naturale che, come si era già visto, viene avanzata laddove la propria sussistenza è messa a rischio in una lotta per la vita o la morte. L’onore del soldato è però, rispetto all’onore del clan familiare, un onore interiorizzato riflessivamente e formalizzato – l’onore del duello – e riguarda la pretesa di esser riconosciuto nella purezza della propria intenzione. In tal senso Hegel definisce il ceto dei soldati come «ceto dell’onore» e ne caratterizza il riconoscimento sociale, in contrapposizione a quello del borghese, nel modo seguente: «ceto dell’onore, del vivere nel puro essere-riconosciuto dell’intenzione – non della proprietà e del diritto»102. In coda alla trattazione dei differenti ceti e delle loro Gesinnungen, Hegel, avendo posto la determinazione dell’universale nella sua individualità di popolo, ha modo di affrontare un ulteriore livello della problematica riconoscitiva, vale a dire quello che interessa i rapporti tra i differenti popoli. Secondo Hegel gli Stati si rapportano tra di loro come «individui indifferenti l’un l’altro» e pertanto si trovano nella condizione propria dello stato di natura. Riprendendo la concezione hobbesiana per cui il potere statale è l’unico individuo che resta nello stato di natura, Hegel descrive così le relazioni tra Stati nei termini di un conflitto riconoscitivo endemico, che rimane bloccato alla dimensione naturale. Hegel non sembra comunque ritenere che la guerra sia necessariamente la modalità di relazione tra i popoli, ma prevede anche la possibilità che tra gli Stati vi sia un quieto sussistere l’uno indipendente dagli altri o che si stringano trattati e accordi. La guerra è una possibilità sempre presente nella relazione tra Stati, ma non è necessariamente la modalità del loro rapportarsi. È legittimo chiedersi perché Hegel non preveda la possibilità di un riconoscimento spirituale tra Stati, anche perché questa domanda può contribuire all’esplicitazione di alcuni aspetti della sua posizione. In primo luogo Hegel, intendendo l’universale come la realtà comunitaria di un popolo, sembra ritenere che non vi sia alcuna base oggettiva sulla quale si potreb102 Ivi, p. 272n, trad. it. p. 159n. 437

bero sviluppare relazioni reciproche di riconoscimento spirituale tra Stati. In altri termini, non vi è di fatto, al tempo di Hegel, alcuna comunità etica mondiale che possa costituire il contesto oggettivo in cui possano emergere tali relazioni. Diversa è la questione se, in base al modello dello Hegel jenese, vada esclusa in linea di principio la possibilità che in futuro si dia una simile comunità: e questa domanda potrebbe anche avere per noi una risposta differente rispetto a quella di Hegel. Vi è poi un secondo aspetto che va preso in considerazione e che comporta il ripresentarsi di quella questione del carattere vincolante delle norme già emersa a proposito dell’analisi del contratto. Hegel sostiene che la relazione tra Stati è quella del Naturzustand – il che esclude la possibilità di una contrattuale unione universale per la pace perpetua – proprio perché ritiene che non vi sia un «potere esistente» che possa garantire il carattere vincolante di tale contratto. Stando così le cose, la pace universale potrebbe essere garantita o dal dominio di un popolo su tutti gli altri oppure se vi fosse un solo popolo mondiale. Va notato che Hegel, sebbene profondamente scettico in proposito, non esclude qui in linea teorica una possibilità simile, che potrebbe far capo ad una «monarchia universale»: e questo fatto potrebbe suggerire una risposta positiva alla domanda che prima si è lasciata aperta. Dopo aver posto le determinazioni dei ceti e delle loro Gesinnungen – oggetto della parte «A» della sezione sulla «Costituzione» – Hegel, passa alla parte «B. Governo – Lo spirito della natura certo di se stesso». Con il ceto dei soldati è già stato posto il popolo in quanto intero individuale che si realizza come assoluto sé e negatività dei singoli. La guerra è il lato della necessità dell’universale comunitario, l’aspetto di pura potenza, attraverso cui esso si mantiene sussistente subordinando a sé tutti i momenti. Per Hegel la necessità dell’universale deve tuttavia essere mediata nel sapere: la pienezza della vita individuale del popolo si dà allora come «governo», inteso come «volontà autocosciente» e «spirito certo di se stesso». La comunità politica è effettivamente realizzata allora solo in quanto governo, e come tale essa è insieme l’attuazione del diritto e della libertà. 3.2. Arte, religione, scienza: il sapere di sé dell’universale comunitario La comunità intersoggettiva istituzionale dello Stato moderno è la realizzazione dello spirito come struttura oggettiva di nessi riconoscitivi e nello stesso tempo la forma di vita entro la quale l’uomo, venendo educato all’universale, sviluppa un sapere autocosciente e diventa un essere razionale. L’autocoscienza teoretica e pratica è dunque possibile nella sua forma dispiegata solo entro un contesto oggettivo di nessi riconoscitivi stabilizzati nella seconda natura di abitudini individuali e istituzioni sociali. Per que438

sto motivo la razionalità di tale autocoscienza è intrinsecamente sociale e non consiste soltanto in puri criteri formali. La razionalità umana è, infatti, costitutivamente radicata in nessi concreti di interazione corporea, affettiva e simbolica che vincolano gli individui tra di loro e si istituiscono nella totalità del processo sociale su diversi livelli di relazioni riconoscitive. Il sapere che si dispiega attraverso l’educazione degli uomini all’interno dei diversi ceti è un sapere dell’universale proprio nel senso che in esso emerge la struttura intersoggettiva e comunitaria del sapere umano. Questo sapere, al quale i singoli individui sono educati all’interno della loro forma di vita, non è del resto un mero contenuto coscienziale, ma si oggettiva in abiti individuali e in complesse pratiche simboliche. Dopo aver terminato l’esposizione della costituzione politica dello Stato, Hegel si volge all’analisi dell’arte, della religione e della scienza, tematizzando appunto quelle attività culturali in cui si articola il sapere sociale oggettivato. Tali attività possono sorgere soltanto all’interno della comunità reale e in tal senso ne sono il prodotto storico: nello stesso tempo tali attività sono il medio attraverso il quale l’universale diventa consapevole di sé e della propria struttura condivisa. Così in tali attività l’universale, che sino ad ora era stato preso ad oggetto della coscienza dei differenti ceti, diviene finalmente oggetto a se stesso, diviene soggetto e spirito certo di sé. Lo spirito assoluto, già presente in sé nello Stato, diventa ora consapevole di se stesso. Questo sapere di sé dell’assoluto è quindi lo stesso sapere di sé dell’universale comunitario come coscienza del noi. In tal senso, la struttura di autoriferimento di tale sapere altro non è che il modo attraverso il quale il sapere condiviso accumulato ed oggettivato nei processi di interazione sociale diventa autoriflessivo e si tematizza. Come tale, il sapere di sé dell’assoluto non è una revoca finale, in una sorta di monologo originario, dell’intersoggettività riconoscitiva dello spirito, quanto piuttosto il riconoscimento culturalmente oggettivato di tale intersoggettività riconoscitiva e delle forme di intenzionalità condivisa che essa produce espressivamente. D’altro lato, contrariamente a quanto sostenuto da molti interpreti, neppure l’organizzazione gerarchica dello Stato è dovuta al fatto che Hegel alla fine farebbe prevalere la teoria autoreferenziale dello spirito assoluto sull’impostazione intersoggettiva dello spirito oggettivo, organizzando lo Stato come una serie di livelli gerarchici attraverso cui l’assoluto pone se stesso. Ciò si può spiegare invece se si tiene conto che per Hegel vi sono relazioni intersoggettive sia diadiche sia triadiche ed inoltre relazioni intersoggettive di conflitto, reciproche ma anche diseguali ed asimmetriche (senza che queste ultime siano necessariamente conflittuali). Il modello politico cui Hegel aderisce nelle sue lezioni jenesi rimane all’interno di una concezio439

ne intersoggettiva della vita pubblica, ma fa prevalere nell’organizzazione politica dello Stato le relazioni reciproche diseguali su quelle simmetriche e le relazioni triadiche su quelle diadiche. D’altronde va osservato che, se per quanto riguarda le interazioni tra individui è sensato presupporre che si debba trattare di relazioni di riconoscimento tra pari e quindi tra eguali, non sembra altrettanto sensato concepire la relazione tra l’individuo e le istituzioni come una relazione tra pari, almeno in quanto l’istituzione non è un individuo in senso proprio. Inoltre Hegel non introduce le relazioni conflittuali come elemento costitutivo della vita politica, bensì unicamente come precondizioni dell’istituzione dello Stato e come modalità del rapporto tra Stati. Quindi, per quanto spesso non condivisibili da un punto di vista politico democratico, le opzioni di Hegel non sono motivate dall’abbandono di un modello intersoggettivo, ma piuttosto da una determinata descrizione dell’intersoggettività politica. Tornando al corso principale della nostra analisi, si è già detto che arte, religione e scienza si producono all’interno del contesto sociale e politico dello Stato e ne sono il risultato storico. Ciò non significa però che tali attività, in cui lo spirito diventa consapevole di sé, non dispongano di un livello indipendente di organizzazione interna e non siano articolate da una loro logica propria e non riducibile. In tal senso Hegel all’inizio della sua esposizione scrive che lo spirito assolutamente libero, che ha ripreso in sé le sue determinazioni, produce ora un altro mondo, un mondo che ha la forma [Gestalt] di se stesso103.

Arte, religione e scienza non sono certamente un oltre-mondo che si aggiunge all’unico esistente, quanto piuttosto dei sistemi autonomi di significati in cui si articola il sapere di sé dello spirito ed in cui si oggettiva la sua razionalità. La forma immediata di tale sapere con cui si produce il mondo spirituale dei significati è costituita dall’arte, nella quale il sapere di sé dello spirito si dà in forma intuitiva, come un qualcosa di creduto piuttosto che di vero. Nell’arte la vita interna dello spirito si autoproduce in forma individuale, nella singolarità dell’artista e nella particolarità del contenuto artistico. La religione è definita da Hegel «l’arte nella sua verità[die Kunst in ihrer Wahrheit]»104, in quanto «la verità degli spiriti singoli è di essere un movimento dell’intero – sapere dello spirito assoluto di sé come spirito assoluto». Come tale, la religione ha lo stesso contenuto dell’arte, solo che in essa lo 103 Ivi, p. 277, trad. it. p. 164. 104 Ivi, p. 280, trad. it. p. 167. 440

spirito assoluto diviene a sé oggetto come assolutamente universale e nella forma dell’immediato sé e di un sapere. Nella religione dunque può essere articolata espressivamente la forma comunitaria della vita autocosciente singola e insieme la sua natura di io pensante: Dio, è appunto «il Sé di tutti». Così l’incarnazione per Hegel vuol dire che, se Dio è diventato un uomo reale, allora «la natura divina non è un’altra natura da quella umana». La religione è però ancora soltanto una «rappresentazione[Vorstellung]» di questa verità e contiene un lato dualistico, giacché in essa tale contenuto è posto come l’immagine di un mondo altro dal mondo reale. Proprio in virtù di questa natura rappresentativa, la religione ha però la funzione civile di consentire ad ogni uomo, indipendentemente dalla sua appartenenza sociale e dalla sua educazione, di innalzarsi all’intuizione del contenuto universale: nella rappresentazione religiosa «ognuno è uguale al principe – è il sapere di sé come dello spirito – ognuno vale Dio quanto ogni altro»105. Lo spirito della comunità è quindi il contenuto speculativo che nella religione assume la forma rappresentativa del regno di Dio ma che ha la sua realtà nella dimensione condivisa dello Stato («la realtà del regno del cielo è appunto lo Stato»106). Con ciò Hegel riprende e riformula la sua concezione giovanile della funzione civile della religione come forma di mediazione sensibile, entro la vita della polis, del contenuto razionale. Inoltre, Hegel riprende e sviluppa la lettura antropologica del Regno di Dio come ideale di una comunità umana di spiriti liberi e razionali cui si era ispirato già dagli anni di Tubinga. Nella nostra prospettiva è importante notare che ora l’ideale di un’intersoggettività politica libera e razionale espressiva di un modo d’agire comune è riformulato in termini prettamente riconoscitivi. In questa luce sono illuminanti i passi che Hegel, già nella trattazione della volontà, aveva dedicato al rapporto tra amore, riconoscimento naturale e idea di Dio. Hegel, infatti, proprio nei luoghi dove si era impegnato a definire il conoscere come riconoscere, aveva scritto che Dio è l’amore – gioia, perché il naturale è riconosciuto […] Dio è l’amore, nel senso che egli è l’essenza spirituale, supremo conoscere, conoscere del conoscere»107.

Il contenuto dell’idea di Dio è quindi la stessa struttura riconoscitiva dell’intenzionalità condivisa dello spirito comune: il riconoscimento spirituale riconosce il riconoscimento naturale come sua parte e nello stesso 105 Ivi, p. 281, trad. it. p. 169. 106 Ivi, p. 284, trad. it. p. 172. 107 Ivi, pp. 210n e 211n, trad. it. p. 95n. 441

tempo lo integra in una forma ampliata di conoscenza che è possibile solo nell’universalità concreta come espressione del suo esser-comune108. Anche quest’idea era già stata anticipata, sebbene in un contesto non politico, negli scritti francofortesi: qui Hegel aveva osservato che l’elemento comune tra l’amore e la religione consiste proprio nella struttura del riconoscimento, e che quindi l’esperienza religiosa è una esperienza d’amore nella misura in cui il rapporto tra l’uomo e Dio è relazione di riconoscimento tra eguali109. La scienza, infine, è l’attività entro la quale il contenuto medesimo della religione viene compreso in forma concettuale: sicché nella filosofia, in quanto scienza assoluta, lo «spirito pensante», che nella religione era dato immediatamente come oggetto di una rappresentazione, giunge infine a pensare se stesso e a penetrare la sua natura concettuale e mediata. Nella filosofia tale sapere di sé dello spirito assoluto è il sapere di un io, ma non più di un io rappresentato come trascendente, bensì di «questo» io, dell’io umano in quanto «inseparabile connessione del singolare e dell’universale». L’io, come unità singolare dell’autocoscienza pratica e teoretica, è allora costituito oggettivamente entro i processi riconoscitivi di interazione naturale, sociale e politica, ed è nello stesso tempo la struttura entro la quale questi stessi processi sono portati ad espressione in forma concettuale e mediata. Il contenuto del sapere assoluto dell’io è infatti lo stesso processo in cui emerge e si costituisce espressivamente l’universale comunitario, vale a dire quel processo attraverso cui la natura è il divenire lo spirito in sé. Attraverso l’arte, la religione e la filosofia Hegel ha avuto modo di esporre le forme fondamentali e paradigmatiche in cui si articola il sapere intuitivo, rappresentativo e concettuale depositato oggettivamente nello spirito di un popolo, nelle sue pratiche e nei suoi modi d’agire condivisi. L’insieme di tali forme è la radice dell’identità e della razionalità umana: la scienza, e in particolare la scienza filosofica, articola in forma argomentativa il contenuto dell’essere-comune e nello stesso tempo è l’attività attraverso la quale l’essere-comune conosce il senso stesso della sua razionalità. La razionalità concettuale e inferenziale si manifesta così come la forma più alta e complessa di attività riconoscitiva, e propriamente come quella forma di riconoscimento riflessivo attraverso il quale lo spirito può esplicitare 108 Ciò sembra in contrasto con l’interpretazione avanzata da L. Siep, secondo il quale, nella sezione sulla «costituzione», il riconoscimento dell’individualità naturale non gioca più alcun ruolo (cfr. Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie, cit., p. 97). 109 Cfr. [TJS], p. 377, trad. it. p. 557: «la religione è una con l’amore. L’amato non ci è opposto, è uno con la nostra essenza: in lui vediamo solo noi stessi, e tuttavia non è noi: miracolo che non siamo in grado di capire». 442

i livelli fondamentali di relazioni cognitive naturali, sociali e politiche che lo costituiscono come tale. In tal senso, il fatto che le lezioni del 1805-6 si concludano con l’arte, la religione e la filosofia non ci sembra provare, come sostenuto da Honneth, che Hegel abbia ormai abbandonato l’impostazione intersoggettivistica a favore di una teoria dell’autoriferimento dello spirito assoluto 110. Per la stessa ragione non può essere accolta neppure la tesi di Habermas, secondo il quale a Jena la teoria del riconoscimento sarebbe un momento necessario della teoria dello spirito come insieme di medi (lavoro, linguaggio, interazione), mentre successivamente Hegel, pur espandendo il riconoscimento a tutti i livelli del sistema, lo modellerebbe nello stesso tempo sul rapporto monologico dello spirito con se stesso piuttosto che sull’interazione dialogica tra un io e un tu111. In verità, il risultato della nostra analisi dovrebbe mostrare che il riconoscimento già a Jena opera su tutti i livelli d’articolazione del sapere, senza che ciò venga ad inficiare la fondamentale intersoggettività della sua struttura.

110 Cfr. A. Honneth, Kampf um Anerkennung, cit., pp. 55-56. 111 Cfr. J. Habermas, Arbeit und Interaktion, cit., trad. it. pp. 42-44. 443

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