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Italian Pages 253 Year 2004
PARTE PRIMA L’INCIDENTE
1. IL PIÙ CRUDELE DEI MESI "E lei come si chiama?" "Aspetti, ce l'ho sulla punta della lingua." Tutto è cominciato così. Mi ero come risvegliato da un lungo sonno, e però ero ancora sospeso in un grigio lattiginoso. Oppure, non ero sveglio ma stavo sognando. Era uno strano sogno, privo di immagini, popolato di suoni. Come se non vedessi, ma udissi voci che mi raccontavano che cosa dovessi vedere. E mi raccontavano che non vedevo ancora nulla, salvo un fumigare lungo i canali, dove il paesaggio si dissolveva. Bruges, mi ero detto, ero a Bruges, ero mai stato a Bruges la morta? Dove la nebbia fluttua tra le torri come l’incenso che sogna? Una città grigia, triste come una tomba fiorita di crisantemi dove la bruma pende slabbrata dalle facciate come un arazzo... La mia anima detergeva i vetri del tram per annegarsi nella nebbia mobile dei fanali. Nebbia, mia incontaminata sorella... Una nebbia spessa, opaca, che avviluppava i rumori, e faceva sorgere fantasmi senza forma... Alla fine arrivavo a un baratro immenso e vedevo una figura altissima, avvolta in un sudario, la faccia del candore immacolato della neve. Mi chiamo Arthur Gordon Pym. Masticavo la nebbia. I fantasmi passavano, mi sfioravano, si dileguavano. Le lampadine lontano luccicavano come i fuochi fatui in un camposanto... Qualcuno cammina al mio fianco senza rumore, come se avesse i piedi nudi, cammina senza tacchi, senza scarpe, senza sandali, una falda di nebbia mi striscia su la gota, una frotta di ubriachi urla laggiù, in fondo al traghetto. Il traghetto? Non lo dico io, sono le voci. La nebbia arriva su piccole zampe di gatto... Cera una nebbia che sembrava che il mondo l’avessero tolto. Eppure ogni tanto era come se aprissi gli occhi, e vedessi dei lampi. Sentivo delle voci: "Non è coma vero e proprio, signora... No, non pensi all'encefalogramma piatto, per carità... C'è reattività..." Qualcuno mi proiettava una luce negli occhi, ma dopo la luce era di nuovo il buio. Sentivo la puntura di uno spillo, da qualche parte. "Vede, c'è motilità..." Maigret si immerge in una nebbia talmente fitta che non vede neppure dove mette i piedi... la nebbia pullula di forme umane, brulica di una vita intensa e misteriosa. Maigret? Elementare, caro Watson, sono dieci piccoli indiani, è nella nebbia che scompare il mastino dei Baskerville. La cortina di vapori grigi andava a poco a poco perdendo le sfumature grigiastre, il calore dell'acqua era divenuto fortissimo, e la sfumatura di latte più intensa... Poi siamo stati trascinati nelle fauci della cateratta dove un baratro immane si spalancava per inghiottirci. Sentivo gente che parlava attorno a me, volevo gridare e avvertirli che ero lì. C'era un ronzio continuo, come se fossi divorato da macchine celibi dai denti acuminati. Ero nella colonia penale. Sentivo un peso sulla testa, come se mi avessero infilato la maschera di ferro. Mi pareva di vedere luci azzurre. "C'è asimmetria dei diametri pupillari." Avevo frammenti di pensieri, certo mi stavo svegliando ma non potevo muovermi. Se solo potessi stare sveglio. Ho dormito di nuovo? Ore, giorni, secoli? Era tornata la nebbia, le voci nella nebbia, le voci sulla nebbia. Seltsam, im Nebel zu wandern! Che lingua è? Mi sembrava di nuotare nel mare, mi sentivo vicino alla spiaggia ma non ce la facevo a raggiungerla. Nessuno mi vedeva e la marea mi riportava via. Per piacere ditemi qualcosa, per piacere toccatemi. Ho avvertito una mano sulla fronte. Che sollievo. Un'altra voce: "Signora, ci sono storie di pazienti che si svegliano di colpo e se ne vanno via con le loro gambe."
Qualcuno mi disturbava con una luce intermittente, con il vibrare di un diapason, era come se mi avessero posto sotto il naso un vasetto di senape, poi uno spicchio d'aglio. La terra ha un odore di funghi. Altre voci, ma queste da dentro: lunghi lamenti di vaporiera, preti nella nebbia informi che vanno in riga a San Michele in Bosco. Il cielo è di cenere. Nebbia su per il fiume, nebbia giù per il fiume, nebbia che morde le mani della piccola fiammiferaia. I passanti dai ponti dell'Isola dei Cani guardano un infimo cielo di nebbia, avvolti essi stessi nella nebbia come in una mongolfiera sospesa sotto la nebbia bruna, ch'io non credea che morte tanta n’avesse disfatta. Odore di stazione e fuliggine. Un'altra luce, più leggera. Mi sembra di intendere, attraverso la nebbia, il suono delle cornamuse scozzesi che si rinnova nella brughiera. Altro lungo sonno, forse. Poi una schiarita, sembra d'essere in un bicchiere di acqua e anice... Lui era davanti a me, anche se lo vedevo ancora come un'ombra. Mi sentivo la testa arruffata, come se mi fossi svegliato dopo aver bevuto troppo. Credo di aver mormorato qualcosa a fatica, come se incominciassi a parlare in quel momento per la prima volta: "Posco reposco flagito reggono l'infinito futuro? Cujus regio ejus religio... è la pace di Augusta o la defenestrazione di Praga?" e poi: "Nebbia anche sul tratto appenninico dell'Autosole, tra Roncobilaccio e Barberino del Mugello..." Mi ha sorriso con comprensione: "Ma ora apra bene gli occhi e provi a guardarsi intorno. Capisce dove siamo?" Ora lo vedevo meglio, aveva un camice - come si dice? bianco. Ho girato lo sguardo, e riuscivo a muovere anche la testa: la stanza era sobria e pulita, pochi mobiletti di metallo e colori chiari, io ero a letto, con una cannula infilata nel braccio. Dalla finestra, tra le veneziane abbassate, passava una lama di sole, primavera d'intorno brilla nell'aria e per i campi esulta. Ho sussurrato: "Siamo... in un ospedale e lei... lei è un dottore. Sono stato male?" "Sì, è stato male, poi le spiego. Ma ora ha ripreso conoscenza. Coraggio. Sono il dottor Gratarolo. Scusi se le faccio qualche domanda. Quante dita le sto mostrando?" "Quella è una mano e quelle sono dita. E sono quattro. Sono quattro?" "Certo. E quanto fa sei per sei?" "Trentasei, è ovvio." I pensieri mi rimbombavano in testa ma venivano quasi da soli. "La somma delle aree dei quadrati... costruiti sui cateti... è pari all'area del quadrato costruito sull'ipotcnusa." "Complimenti. Credo sia il teorema di Pitagora, ma al liceo avevo sei in matematica..." "Pitagora di Samo. Gli elementi di Euclide. La disperata solitudine delle parallele che non s'incontrano mai." "Sembra che la sua memoria sia in ottimo stato. A proposito, e lei come si chiama?" Ecco, lì ho esitato. Eppure ce l'avevo sulla punta della lingua. Dopo un attimo ho risposto nel modo più ovvio. "Mi chiamo Arthur Gordon Pym." "Lei non si chiama così." Certamente Gordon Pym era un altro. Lui non è più tornato. Ho cercato di venire a patti col dottore. "Chiamatemi... Ismaele?" "No, lei non si chiama Ismaele. Faccia uno sforzo." Una parola. Come sbattere contro un muro. A dire Euclide o Ismaele mi veniva facile, come dire ambarabà cicci cocco tre civette sul comò. A dire chi ero era invece come voltarsi indietro ed ecco il muro. No, non un muro, cercavo di spiegare: "Non è che senta qualcosa di solido, è come andare nella nebbia." "Com'è la nebbia?" ha chiesto. "La nebbia agli irti colli piovigginando sale e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar... Com'è la nebbia?"
"Non mi metta in imbarazzo, sono solo un dottore. E poi siamo in aprile, non gliela posso far vedere. Oggi è il 25 aprile." "Aprile è il più crudele dei mesi. " "Non sono molto colto ma credo sia una citazione. Poteva dire che oggi è il giorno della Liberazione. Sa in che anno siamo?" "Di sicuro è dopo la scoperta dell'America..." "Non si ricorda una data, una data qualsiasi prima... del suo risveglio?" "Qualsiasi? Millenovecentoquarantacinque, fìnte della seconda guerra mondiale." "Troppo poco. No, oggi è il 25 aprile 1991. Lei è nato, mi pare, alla fine del 1931, ed ecco perché ora va per i sessantanni." "Cinquantanove e mezzo, neppure." "Ottimo per quanto riguarda le capacità di calcolo. Vede, lei ha avuto, come dire, un incidente. Ne è uscito vivo, congratulazioni. Ma evidentemente c'è qualcosa che ancora non va. Una piccola forma di amnesia retrograda. Non si preoccupi, talora durano poco. Sia gentile, risponda ancora a qualche domanda. Lei è sposato?" "Me lo dica lei." "Sì, è sposato, con una amabilissima signora che si chiama Paola, e che l'ha assistita giorno e notte, solo ieri sera l'ho obbligata ad andare a casa, altrimenti crollava. Ora che lei si è svegliato la chiamo, ma dovrò prepararla, e prima dobbiamo ancora fare altri controlli." "E se poi la scambio per un cappello?" "Come dice?" "C'è un uomo che scambiò sua moglie per un cappello." "Ah, il libro di Sacks. Un caso famoso. Vedo che lei è un lettore aggiornato. Ma non è il caso suo, altrimenti avrebbe già scambiato me per una stufa. Non si preoccupi, forse non la riconoscerà ma non la scambierà per un cappello. Torniamo a lei. Dunque, lei si chiama Giambattista Bodoni. Questo le dice niente?" Ora la mia memoria volava come un aliante tra monti e valli, per l'orizzonte interminato. "Giambattista Bodoni era un celebre tipografo. Ma sono sicuro che non sono io. Io potrei anche essere Napoleone e sarebbe come Bodoni." "Perché ha detto Napoleone?" "Perché Bodoni era di epoca napoleonica, più o meno. Napoleone Bonaparte, nato in Corsica, primo console, sposa Giuseppina, diventa imperatore, conquista mezza Europa, perde a Waterloo, muore a Sant'Elena, cinque maggio 1821, ei fu siccome immobile"' "Dovrò tornare da lei con un'enciclopedia, ma per quanto ricordo lei ricorda bene. Però non ricorda chi è." "È grave?" "A essere onesto, bello non è. Ma lei non è il primo a cui capita una cosa del genere, ne verremo fuori." Mi ha chiesto di alzare la mano destra, e di toccarmi il naso. Capivo benissimo che cosa fossero la destra, e il naso. Centrato. Ma la sensazione era nuovissima. Toccarsi il naso è come avere un occhio sulla punta dell'indice e guardarsi in faccia. Io ho un naso. Gratarolo mi ha picchiato sul ginocchio e poi qua e là sulla gamba e sui piedi con una specie di martelletto. I dottori misurano i riflessi. Pare che i riflessi fossero quelli giusti. Alla fine mi sentivo spossato, e credo di essermi riaddormentato. Mi sono risvegliato in un posto e ho mormorato che sembrava la cabina di un'astronave, come nei film (quali film, ha chiesto Gratarolo, tutti, ho risposto, in genere, poi ho nominato Star Trek). Mi hanno fatto cose che non capivo con delle macchine mai viste. Credo mi guardassero dentro la testa, ma io lasciavo fare senza pensare, cullato da lievi ronzii, e ogni tanto mi assopivo di nuovo. Più tardi (o il giorno dopo?), quando è tornato Gratarolo, stavo esplorando il letto. Tastavo le lenzuola, leggere, lisce, piacevoli da toccare; meno la coperta, che pungeva un poco i polpastrelli; mi voltavo e battevo la mano sul cuscino, godendo del fatto che sprofondasse dentro. Facevo ciac ciac e mi divertivo molto. Gratarolo mi ha
domandato se ce la facevo ad alzarmi dal letto. Con l'aiuto di un'infermiera ce l'ho fatta, stavo in piedi, anche se mi girava ancora la testa. Sentivo i piedi premere sul pavimento, e la testa in alto. È così che si sta in piedi. Su un filo teso. Come la sirenetta. "Coraggio, provi ad andare in bagno e a lavarsi i denti. Dovrebbe esserci lo spazzolino di sua moglie." Gli ho detto che non ci si lava mai i denti con lo spazzolino di un estraneo, e ha osservato che una moglie non è un'estranea. In bagno mi sono visto nello specchio. Almeno, ero abbastanza sicuro di essere io perché gli specchi, si sa, riflettono quello che hanno davanti. Una faccia bianca e scavata, la barba lunga, due occhiaie così. Andiamo bene, non so chi sono ma scopro di essere un mostro. Non vorrei incontrarmi di sera in una strada deserta. Mister Hyde. Ho identificato due oggetti, uno si chiama certamente dentifricio e l'altro spazzolino. Bisogna cominciare col dentifricio e spremere il tubetto. Piacevolissima sensazione, dovrei farlo sovente, ma a un certo punto bisogna fermarsi, quella pasta bianca all'inizio fa plop, come una bolla, ma poi esce tutta come le serpent qui danse. Non spremere più, altrimenti fai come Broglio con gli stracchini.. Chi è Broglio? La pasta ha un ottimo sapore. Ottimo, disse il duca. È un wellerismo. Questi sono dunque i sapori: qualcosa che ti accarezza la lingua, ma anche il palato, però sembra che quella che avverte i sapori sia la lingua. Sapore di menta - y la hierbabuena, a las cinco de la tarde... Mi sono deciso e ho fatto quello che fanno tutti in quei casi, rapidamente senza pensarci troppo: mi sono spazzolato prima su e giù, poi da sinistra a destra, poi sulla chiostra. È interessante sentire le setole che entrano tra due denti, credo che d'ora in poi mi laverò i denti tutti i giorni, è bello. Ho passato le setole anche sulla lingua. Si sente come un brivido ma alla fine se non si preme troppo va bene, ed era quello che ci voleva perché avevo proprio la bocca impastata. Ora, mi sono detto, ci si risciacqua. Ho versato dal rubinetto dell'acqua in un bicchiere e me la sono passata in bocca, gaiamente stupito del rumore che faceva, meglio ancora se si rovescia la testa e la si fa... gorgogliare? Il gorgoglìo è buono. Ho gonfiato le guance e poi tutto fuori. Sputato tutto. Sfrusssc... cateratta. Con le labbra si può fare di tutto, sono mobilissime. Mi sono voltato, Gratarolo era lì che mi osservava come se fossi un fenomeno da baraccone, e gli ho chiesto se gli andava bene. Perfetto, mi ha detto. I miei automatismi, ha spiegato, sono a posto. "Sembra che qui ci sia una persona quasi normale,” ho osservato, "tranne che forse non sono io." "Molto spiritoso, e anche questo è un buon segno. Si rimetta sdraiato, ecco, l'aiuto. Mi dica: che cosa ha appena fatto?" "Mi sono lavato i denti, me lo ha chiesto lei." "Certo, e prima di lavarsi i denti?" "Ero su questo letto e lei mi parlava. Mi ha detto che siamo in aprile, 1991." "Giusto. La memoria a breve termine funziona. Mi dica, si ricorda per caso la marca del dentifricio?" "No. Dovrei?" "Per nulla. Lei certamente la marca l'ha vista, nel prendere in mano il tubetto ma, se dovessimo registrare e conservare tutti gli stimoli che riceviamo, la nostra memoria sarebbe una bolgia. Perciò scegliamo, filtriamo. Lei ha fatto quello che fanno tutti. Però provi a ricordare la cosa più significativa che le è accaduta mentre si lavava i denti." "Quando mi sono passato lo spazzolino sulla lingua." "Perché?" "Perché avevo la bocca impastata, e dòpo mi sono sentito meglio." "Vede? Ha filtrato l'elemento più direttamente associato alle sue emozioni, ai suoi desideri, ai suoi scopi. Lei ha di nuovo delle emozioni." "Bella emozione spazzolarsi la lingua. Ma non ricordo di essermela mai spazzolata prima." "Ci arriveremo. Vede, signor Bodoni, cerco di spiegarmi senza parole difficili, ma certamente l'incidente ha interessato alcune zone del suo cervello. Ora noi, benché ogni giorno esca un nuovo studio, sulle localizzazioni cerebrali non ne sappiamo ancora
quanto vorremmo. Specie per quanto riguarda le varie forme di memoria. Oserei dire che se quello che le è accaduto fosse accaduto tra dieci anni, sapremmo come gestire meglio la sua situazione. Non mi interrompa, ho capito, se invece le fosse accaduto cento anni fa lei sarebbe già in manicomio, e fine della storia. Oggi ne sappiamo di più, ma non abbastanza. Per esempio, se lei non riuscisse a parlare saprei subito quale area è stata interessata..." "L'area di Broca." "Bravo. Ma l'area di Broca ha più di cent'anni. Invece dove il cervello conservi i ricordi è ancora materia di dibattito, certamente le cose non dipendono da una sola area, Non voglio tediarla con termini scientifici, che oltretutto le aumenterebbero la confusione che ha in testa - sa, quando il dentista le ha fatto qualcosa in un dente lei per qualche giorno continua a toccarselo con la lingua, ma se io le dicessi, che so, che non sono tanto preoccupato per il suo ippocampo quanto per i suoi lobi frontali, e forse per la corteccia orbito-frontale destra, lei cercherebbe di toccarsi lì, e non è come esplorare la bocca con la lingua. Frustrazioni a non finire. Quindi dimentichi quello che le ho appena detto. Inoltre ogni cervello è diverso dagli altri, e il nostro cervello ha una straordinaria plasticità, può accadere che nel giro di qualche tempo sia capace di affidare a un'altra area quello che l'area offesa non riusciva più a fare. Mi segue, sono abbastanza chiaro?" "Chiarissimo, vada avanti. Ma non fa prima a dire che sono lo smemorato di Collegno?" "Vede che si ricorda dello smemorato di Collegno, un caso classico? È solo di lei, che non è classico, che non si ricorda." "Preferirei essermi dimenticato di Collegno e ricordare dove sono nato." "Sarebbe un caso più raro. Vede, lei ha individuato subito il tubetto del dentifricio, ma non si ricorda di essere sposato - e infatti ricordare il giorno del proprio matrimonio e individuare il dentifricio dipendono da due reti cerebrali diverse. Noi abbiamo diversi tipi di memoria. Una si chiama implicita, e ci permette di eseguire senza sforzo una serie di cose che abbiamo appreso, come lavarsi i denti, accendere la radio o annodarsi la cravatta. Dopo l'esperimento dei denti sono pronto a scommettere che lei sa scrivere, forse sa persino guidare la macchina. Quando ci aiuta la memoria implicita, non siamo neppure consci di ricordare, agiamo automaticamente. Poi c'è una memoria esplicita, quella per cui ricordiamo e sappiamo che stiamo ricordando. Ma questa memoria esplicita è duplice. Una è quella che ora si tende a chiamare memoria semantica, una memoria pubblica, quella per cui si sa che una rondine è un uccello, e che gli uccelli volano e hanno le piume, ma anche che Napoleone è morto quando... quando ha detto lei. E questa mi pare che lei ce l'abbia in ordine, oddio, forse anche troppo, perché vedo che basta darle un input e comincia a collegare ricordi che definirei scolastici, o ricorre a frasi fatte. Ma questa è la prima che si forma anche nel bambino, il bambino impara presto a riconoscere una macchina, un cane, e a formarsi degli schemi generali, per cui se una volta ha visto un cane lupo e gli hanno detto che è un cane dirà cane anche quando vede un labrador. Invece il bambino ci mette più tempo a elaborare il secondo tipo di memoria esplicita, che chiamiamo episodica, o autobiografica. Non è subito capace di ricordare, magari vedendo un cane, che il mese prima era stato nel giardino della nonna e aveva visto un cane, e che è sempre lui quello che ha avuto le due esperienze. È la memoria episodica a stabilire un nesso tra quello che siamo oggi e quello che siamo stati, altrimenti quando diciamo io ci riferiamo solo a quello che sentiamo adesso, non a quello che sentivamo prima, che si perde appunto nella nebbia. Lei non ha perso la memoria semantica ma quella episodica, vale a dire gli episodi della sua vita. Insomma, direi che lei sa tutto quello che sanno anche gli altri, e immagino che se le chiedessi di dirmi qual è la capitale del Giappone..." "Tokyo. Bomba atomica su Hiroshima. Il generale Mac Arthur..." "Basta, basta. È come se lei ricordasse tutto quello che si apprende per averlo letto da qualche parte, o sentito dire, ma non quello che è associato alle sue esperienze dirette. Lei sa che Napoleone è stato sconfitto a Waterloo, ma provi a dirmi se si ricor-
da di sua madre." "Di mamma ce né una sola, la mamma è sempre la mamma... Ma la mia mamma non la ricordo. Immagino di avere avuto una madre perché so che è una legge della specie ma... ecco... è la nebbia. Sto male, dottore. È orribile. Mi dia qualcosa per addormentarmi di nuovo." "Adesso le do qualcosa, ho già preteso troppo da lei. Si sdrai bene, ecco, così... Le ripeto, succede, ma si guarisce. Con molta pazienza. Le farò portare qualcosa da bere, un té per esempio. Le piace il té?" "Forse che sì forse che no." Mi hanno portato il té. L'infermiera mi ha fatto sedere appoggiato ai cuscini e mi ha messo davanti un carrello. Ha versato dell'acqua fumante in una tazza con dentro una bustina. Faccia adagio che brucia, ha detto. Adagio come? Annusavo la tazza e sentivo un odore, mi veniva da dire, di fumo. Volevo provare il sapore del té, ho afferrato la tazza e ho ingollato. Atroce. Un fuoco, una fiamma, uno schiaffo in bócca. Questo è dunque il té bollente. Dev'essere così anche col caffè o la camomilla, di cui tutti parlano. Ora so che cosa vuole dire bruciarsi. Lo sanno tutti, che non bisogna toccare il fuoco, ma non sapevo in quale momento si può toccare l'acqua calda. Devo imparare a capire il limite, il momento che prima non potevi e dopo puoi. Macchinalmente ho soffiato sul liquido, poi vi ho rimescolato con il cucchiaino, sino a che ho deciso che potevo tentare di nuovo. Ora il té era tiepido ed era buono berlo. Non ero sicuro di quale fosse il sapore del té e quale quello dello zucchero, l'uno doveva essere aspro e l'altro dolce, ma quale è il dolce e quale l'aspro? Però l'insieme mi piaceva. Berrò sempre il té con lo zucchero. Ma non bollente. Il té mi ha dato un senso di pace e di rilassamento, e mi sono addormentato. Mi sono risvegliato di nuovo. Forse perché nel sonno mi stavo grattando l'inguine e lo scroto. Sotto le coperte ho sudato. Piaghe da decubito? L'inguine è umido, ma a passarci le mani in modo troppo energico, dopo una prima sensazione di piacere violento, si sente una frizione sgradevole. Con lo scroto è più bello: lo si passa tra le dita, direi delicatamente, senza arrivare a premere sui testicoli, e si sente qualche cosa di granuloso, e leggermente peloso: è bello grattarsi lo scroto, non è che il prurito vada via subito, anzi diventa più forte, ma così dà più gusto a continuare. // piacere è la cessazione del dolore, ma il prurito non è un dolore, è un invito a procurarsi piacere. // solletico della carne. Ad accondiscendervi si commette peccato. Il giovane provveduto si addormenta supino con le mani incrociate sul petto per non commettere atti impuri nel sonno. Strana faccenda, il prurito. E i miei coglioni. Sei un coglione. Quello ha un paio di coglioni così. Ho aperto gli occhi. Davanti a me c'era una signora, non giovanissima, oltre i cinquanta, mi è parso, dalle piccole rughe intorno agli occhi, ma con un viso luminoso, ancora fresco. Qualche ciocca bianca, quasi impercettibile, quasi l'avesse fatta schiarire apposta, una civetteria, come a dire non voglio passare per una ragazza ma porto bene i miei anni. Era bella, ma da giovane doveva essere stata bellissima. Mi stava accarezzando la fronte. "Yambo," mi ha detto. "Iambo chi, signora?" "Tu sei Yambo, così ti chiamano tutti. E io sono Paola. Sono tua moglie. Mi riconosci?" "No signora, scusa, no Paola, mi dispiace tanto, il dottore ti avrà spiegato." "Mi ha spiegato. Non sai più quello che è accaduto a te, ma sai ancora benissimo quello che è accaduto agli altri. Siccome io faccio parte della tua storia personale, non sai più che siamo sposati da più di trent'anni, Yambo mio. E abbiamo due figlie, Carla e Nicoletta, e tre meravigliosi nipotini. Carla si è sposata presto e ha avuto due bambini, Alessandro di cinque anni e Luca di tre. Giangio, Giangiacomo, il figlio di Nicoletta, ne ha lo stesso tre. Cugini gemelli, dicevi tu. E sei stato... sei... sarai ancora un nonno meraviglioso. Sei stato anche un buon padre. " "E... sono un buon marito?"
Paola ha alzato gli occhi al cielo: "Siamo ancora qui, no? Diciamo che in trentanni di vita ci sono alti e bassi. Tutti ti hanno sempre considerato un bell'uomo..." "Stamane, ieri, dieci anni fa nello specchio ho visto una faccia orrenda." "Con quello che ti è successo è il minimo. Ma sei stato, sei ancora un bell'uomo, hai un sorriso irresistibile e qualcuna non ha resistito. Neppure tu, dicevi sempre che si può resistere a tutto tranne che alle tentazioni." "Ti chiedo scusa." "Ecco, come quelli che tiravano i missili intelligenti su Baghdad e poi si scusavano se morivano un poco di civili." "I missili a Baghdad? Non c'è nelle Mille e una notte" "C'è stata una guerra, la guerra del golfo, ora è finita, o forse no. L'Iraq ha invaso il Kuwait, gli stati occidentali sono intervenuti. Non ricordi nulla?" "Il dottore ha detto che la memoria episodica - quella che pare mi sia andata in tilt - è legata alle emozioni. Forse i missili su Baghdad sono stati una cosa che mi ha emozionato." "Eccome. Tu sei sempre stato un pacifista convinto e questa guerra ti aveva messo molto in crisi. Quasi duecento anni fa Maine de Biran distingueva fra tre tipi di memoria, idee, sensazioni e abitudini. Tu ricordi idee e abitudini ma non le sensazioni, che poi sono state le cose più tue." "Come fai a sapere queste belle cose?" "Faccio la psicologa, di mestiere. Ma aspetta un momento: hai appena detto che la tua memoria episodica è andata in tilt. Perché hai usato quell'espressione?" "Si dice così." "Sì, ma è una cosa che succede col flipper e tu vai... andavi pazzo per il flipper, come un bambino." "So cos'è un flipper. Ma non so chi sono io, capisci? C'è nebbia in val Padana. A proposito, dove siamo?" "In val Padana. Viviamo a Milano. Nei mesi invernali si vede da casa nostra la nebbia nel parco. Tu vivi a Milano e fai il libraio antiquario, hai uno studio di libri antichi." "La maledizione del faraone. Se facevo Bodoni e mi hanno battezzato Giambattista non poteva che finire così." "È finita nel modo giusto. Sei considerato bravo nel tuo mestiere, non siamo miliardari ma viviamo bene. Ti aiuterò, ti rimetterai poco per volta. Dio mio se ci penso, potevi non svegliarti più e questi dottori sono stati molto bravi, ti hanno preso in tempo. Amore mio, posso darti il bentornato? Pare che tu mi incontri per la prima volta. Bene, se t'incontrassi io, ora, per la prima volta, ti sposerei lo stesso. Va bene?" "Sei molto cara. Ho bisogno di te. Sei l’unica che mi può raccontare i miei ultimi trentanni. " "Trentacinque. Ci siamo incontrati all'università, a Torino, tu stavi per laurearti e io ero la matricola sperduta nei corridoi di Palazzo Campana. Ti ho chiesto dov'era una certa aula, tu mi hai agganciato subito e hai sedotto la liceale indifesa. Poi, una cosa e l'altra, io ero troppo giovane, tu hai poi passato tre anni all'estero. Dopo ci siamo messi insieme dicendo che era per prova, alla fine sono rimasta incinta e ci siamo sposati, perché tu eri un gentiluomo. No, scusa, anche perché ci volevamo bene, davvero, e poi ti piaceva diventare padre. Coraggio, papa, ti farò ricordare tutto, vedrai." "A meno che non sia tutto un complotto, io in verità mi chiamo Felicino Grimaldelli e faccio lo scassinatore, tu e Gratarolo mi state contando un sacco di palle, che so, forse siete dei servizi segreti, avete bisogno di costruirmi un'identità per mandarmi a spiare oltre il Muro di Berlino, Ipcress Files, e..." "Non c'è più il Muro di Berlino, l'hanno buttato giù e l'impero sovietico sta andando a carte quarantotto..." "Gesù, volti la testa un momento e guarda cosa ti combinano. Va bene, scherzavo, mi fido. Che cosa sono gli stracchini di Broglio?" "Come? Lo stracchino è un formaggio molle, ma lo si chiama così in Piemonte, qui a Milano si chiama crescenza. Perché parli degli stracchini?"
"È stato schiacciando il tubetto del dentifricio. Aspetta. C'era un pittore che si chiamava Broglio, non riusciva a campare coi suoi quadri ma non voleva lavorare perché diceva che aveva la nevrosi. Pare fosse una scusa per farsi mantenere dalla sorella. Finalmente gli amici gli trovano un impiego in una azienda che faceva o vendeva formaggi. Lui passava davanti a una grande pila di stracchini, tutti avvolti in pacchetti di carta cerata semitrasparente, e non riusciva a resistere alla tentazione, per via della nevrosi (diceva): li prendeva a uno a uno e ciacc, li schiacciava facendo uscire lo stracchino dal pacchetto. Dopo che ha rovinato un centinaio di stracchini è stato licenziato. Tutto per colpa della nevrosi, diceva che per lui sgnaché i strachèn era una libidine. Perdio, Paola, ma questa è una memoria d'infanzia! Non ho perso la memoria delle mie esperienze passate?" Paola si è messa a ridere: "Adesso mi viene in mente, scusa. Certo, è una cosa che hai saputo da piccolo. Ma sovente raccontavi questa storia, era diventata un pezzo del tuo repertorio, per così dire, facevi sempre ridere i tuoi commensali con la storia degli stracchini del pittore, e quelli poi la raccontavano ad altri. Tu non stai ricordando una esperienza tua, purtroppo, sai semplicemente una storia che hai recitato molte volte, e che per te è diventata (come posso dire?) un bene pubblico, come la storia di Cappuccetto rosso." "Mi stai già diventando indispensabile. Sono contento di averti per moglie. Ti ringrazio di esistere, Paola." "Mio Dio, ancora un mese fa avresti detto che era un'espressione Kitsch da teleromanzo..." "Mi devi scusare. Non riesco a dire nulla che mi venga dal cuore. Non ho sentimenti, ho solo detti memorabili." "Povero caro." "Anche questa mi pare una frase fatta." "Stronzo." Questa Paola mi vuole bene davvero. Ho passato una notte tranquilla, chissà cosa mi aveva messo in vena Gratarolo. Mi sono destato a poco a poco, e dovevo avere ancora gli occhi chiusi perché ho sentito la voce di Paola che sussurrava, temendo di svegliarmi: "Ma non potrebbe essere un'amnesia psicogena?" "Mai escluderlo," rispondeva Gratarolo, "all'origine di questi incidenti possono sempre esserci delle tensioni imponderabili. Ma lei ha visto le cartelle, le lesioni ci sono." Ho aperto gli occhi e ho detto buongiorno. C'erano anche due donne e tre bambini, mai visti, ma immaginavo chi fossero. È stato terribile, perché pazienza la moglie, ma le figlie, Dio mio, sono sangue del tuo sangue e i nipoti più ancora, a quelle due ragazze brillavano gli occhi di felicità, i bambini volevano salire sul letto, mi prendevano la mano e mi dicevano ciao nonno, e io niente. Non era neppure la nebbia, era, come dire, l'apatia. O si dice l'atarassia? Come guardare animali allo zoo, potevano essere scimmiette o giraffe. Certo sorridevo e dicevo parole gentili, ma dentro ero vuoto. Mi è venuta in mente la parola sgurato, ma non sapevo che volesse dire. L'ho chiesto a Paola: è un termine piemontese che vuole dire quando lavi bene una pentola e poi ci rigiri dentro quella specie di paglia di metallo, per rimetterla come a nuovo, lucida lucida e che più pulita non si può. Ecco, mi sentivo completamente sgurato. Gratarolo, Paola, le ragazze mi stavano ficcando in testa mille particolari della mia vita, ma era come se fossero fagioli secchi, a muovere la pentola ci scivolavano dentro ma rimanevano crudi, non si diluivano in nessun brodo e in nessuna crema, niente che mi solleticasse il gusto, nulla che volessi assaporare di nuovo. Apprendevo cose accadute a me come se fossero successe a un altro. Accarezzavo i bambini e sentivo il loro odore, senza poterlo definire, salvo che era molto tenero. Mi veniva soltanto in mente che ci sono profumi freschi come carni di bimbi. E infatti la mia testa non era vuota, vi vorticavano memorie non mie, la marchesa uscì alle cinque nel mezzo del cammin di nostra vita, Ernesto Sabato e la donzelletta vien dalla campagna, Abramo generò Isacco Isacco generò Giacobbe Giacob-
be generò Giuda e Rocco i suoi fratelli, il campanile batte la mezzanotte santa e fu allora che vidi il pendolo, sul ramo del lago di Corno dormono gli uccelli dalle lunghe ali, monsieurs les anglais je me suis couché de bonne heure, qui si fa l'Italia o si uccide un uomo morto, tu quoque alea, soldato che scappa arrestati sei bello, fratelli d'Italia ancora uno sforzo, l'aratro che traccia il solco è buono per un'altra volta, l'Italia è fatta ma non s'arrende, combatteremo all'ombra ed è subito sera, tre donne intorno al cor e senza vento, l'inconscia zagaglia barbara a cui tendevi la pargoletta mano, non chiedere la parola impazzita di luce, dall'Alpi alle Piramidi andò in guerra e mise l'elmo, fresche le mie parole nella sera pei quei quattro scherzucci da dozzina, sempre libera sull'ali dorate, addio monti sorgenti dall'acque ma il mio nome è Lucia, o Valentino Valentino storno, Guido io vorrei che al ciel si scoloraro, conobbi il tremolar l'arme gli amori, de la musique où marchent des colombes, fresca e chiara è la notte e il capitano, m'illumino pio bove, benché il parlar sia indarno li ho visti a Pontida, settembre andiamo dove fioriscono i limoni, qui comincia l'avventura del Pelide Achille, tintarella di luna dimmi che fai, in principio la terra era siccome immobile, Licht mehr Licht uber alles, contessa cos'è mai la vita? tre civette sul comò. Nomi, nomi, nomi, Angelo Dall'Oca Bianca, Lord Brummell, Pindaro, Flaubert, Disraeli, Remigio Zena, Giurassico, Fattori, Stràparola e le piacevoli notti, la Pompadour, Smith & Wesson, Rosa Luxemburg, Zeno Cosini, Palma il Vecchio, Archaopterix, Ciceruacchio, Matteo Marco Luca Giovanni, Pinocchio, Justine, Maria Goretti, Taide puttana dall'unghie merdose, Osteoporosi, Saint Honoré, Bacta Ecbatana Persepoli Susa Arbela, Alessandro e il nodo gordiano. L'enciclopedia mi cadeva addosso a fogli sparsi, e mi veniva da battere le mani come in mezzo a uno sciame d'api. E intanto i bambini dicevano nonno, sapevo che avrei dovuto amarli più di me stesso e non sapevo chi chiamare Giangio, chi Alessandro e chi Luca. Sapevo tutto di Alessandro il grande, e niente di Alessandro il piccolino mio. Ho detto che mi sentivo debole e che volevo dormire. Sono usciti, e piangevo. Le lacrime sono salate. Dunque avevo ancora sentimenti. Sì, ma freschi di giornata. Quelli di un tempo non erano più i miei. Chissà, mi chiedevo, se sono mai stato religioso: certamente, comunque fosse, avevo perduto l'anima. La mattina dopo, c'era anche Paola, Gratarolo mi ha fatto sedere a un tavolino e mi ha mostrato una serie di quadratini colorati, tantissimi. Me ne porgeva uno e mi domandava che colore è. Din din din scarpetta rossa, din din din che colore è? Color pisolin, color ciclamin, esci fuori o garibaldin! Ho riconosciuto a colpo sicuro i primi cinque o sei colori, rosso, giallo, verde e così via. Ho detto naturalmente che A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu, voyelles, je dirais quelque jour vos naissances latentes, ma mi sono accorto che il poeta o chi per lui mentiva. Che cosa vuoi dire che A è nero? Piuttosto era come se scoprissi i colori per la prima volta: il rosso era molto gaio, rosso fuoco, ma persino troppo forte - no, forse era più forte il giallo, come una luce che mi si accendesse di colpo davanti agli occhi. Il verde mi dava un senso di pace. Il problema è arrivato con gli altri quadratini. Cos'è questo? Verde, dicevo, ma Gratarolo insisteva, che tipo di verde, in che senso è diverso da quest'altro? Boh. Mi spiegava Paola che uno era verde malva e l'altro verde pisello. La malva è un'erba, rispondevo, e i piselli verdure che si mangiano, rotondi dentro un baccello lungo e bitorzoluto, ma non avevo mai visto né malve né piselli. Non si preoccupi, diceva Gratarolo, in inglese ci sono più di tremila termini di colori ma di solito la gente ne sa nominare al massimo otto, in media noi riconosciamo i colori dell'arcobaleno, rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto, ma già tra indaco e violetto la gente non sa distinguere bene. Ci vuole molta esperienza per saper discriminare e nominare le tinte, e un pittore lo sa fare meglio, che so, di un tassista, che basta riconosca i colori del semaforo. Gratarolo mi ha dato della carta e una penna. Scriva, mi ha detto. "Che diavolo devo scrivere?" ho scritto, e mi pareva di non aver mai fatto altro, il pennarello era soffice e scorreva bene sulla carta. "Scriva quello che le viene in mente," ha detto Gratarolo.
Mente? Ho scritto: amor che nella mente mi ragiona, l'amor che muove il sole e l'altre stelle, meglio sole che male accompagnate, spesso il male di vivere ho incontrato, ahi vita ahi vita mia ahi core di questo core, al cuore non si comanda, De Amicis, dagli amici mi guardi Iddio, o Dio del ciel se fossi una rondinella, s'i fossi foco arderei 'l mondo, vivere ardendo e non sentire il male, male non fare paura non avere, la paura fa novanta ottanta settanta milleottocentosessanta, la spedizione dei Mille, mille e non più mille, le meraviglie del Duemila, è del poeta il fin la maraviglia. "Scrivi qualcosa della tua vita," ha detto Paola. "Che cosa facevi a vent'anni?" Ho scritto: "Avevo ventanni. Non permetterei a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita" II dottore mi ha domandato quale fosse stata la prima cosa che mi era venuta in mente quando mi ero risvegliato. Ho scritto: u Quando Gregor Samsa si svegliò una mattina si trovò trasformato nel suo letto in un immenso insetto" "Forse basta così, dottore,” ha detto Paola. "Non lo lasci troppo andare con queste catene associative, altrimenti mi diventa matto." "Già, perché ora vi sembro sano?" Quasi di colpo Gratarolo mi ha ingiunto: "E adesso firmi, senza pensarci, come fosse un assegno." Senza pensarci, ho tracciato un "GBBodoni", con lo svolazzo finale e poi un puntino rotondo sulla i. "Vede? La sua testa non sa chi è, ma la sua mano sì. Era prevedibile. Facciamo un'altra prova. Lei mi ha parlato di Napoleone. Come era?" "Non riesco a evocare la sua immagine. Basta la parola." Gratarolo ha chiesto a Paola se sapevo disegnare. Pare che non sia un artista, ma me la cavi a scarabocchiare qualcosa. Mi ha chiesto di disegnargli Napoleone. Ho fatto qualcosa del genere.
"Non male," ha commentato Gratarolo, "ha disegnato il suo schema mentale di Napoleone, il tricorno, la mano nel panciotto. Adesso le mostro una serie di immagini. Prima serie, opere d'arte." Ho reagito bene: la Gioconda, l'Olimpia di Manet, questo è un Picasso o qualcuno che lo imita bene. "Vede che li riconosce? Adesso passiamo a personaggi contemporanei." Seconda serie di fotografìe, e anche qui, salvo qualche volto che non mi diceva nulla, ho risposto in modo soddisfacente: Greta Garbo, Einstein, Totò, Kennedy, Moravia, e che mestiere facevano. Gratarolo mi ha domandato che cosa avevano in comune. Che erano famosi? No, non basta, un'altra cosa. Esitavo. "È che tutti sono ormai morti," ha detto Gratarolo. "Come, anche Kennedy e Moravia?" "Moravia è morto alla fine dell'anno scorso, Kennedy è stato assassinato a Dallas nel 1963." "O poveretti, mi dispiace." "Che non si rammenti di Moravia è quasi normale, è morto da poco, si vede che non aveva fatto in tempo a consolidare l’evento nella sua memoria semantica. Non capisco invece Kennedy, che è una storia vecchia, da enciclopedia." "Era stato molto toccato dall'affare Kennedy," ha detto Paola. "Forse Kennedy è
andato ad amalgamarsi con le sue memorie personali." Gratarolo ha tirato fuori altre fotografie. In una c'erano due persone, e la prima ero certamente io, pettinato e vestito da cristiano, col sorriso irresistibile che aveva detto Paola. Anche l'altra aveva una faccia simpatica, ma non sapevo chi fosse. "È Gianni Laivelli, il tuo migliore amico," ha detto Paola. "Compagni di banco dalle elementari al liceo." "Chi sono questi?" ha domandato Gratarolo sfilando un'altra immagine. Era una foto vecchia, lei con una pettinatura anni trenta, un abito bianco pudicamente scollato, un nasino a patatina piccina piccina picciò, e lui con una scriminatura perfetta. forse un poco di brillantina, un naso pronunciato, un sorriso molto aperto. Non li ho riconosciuti (artisti? no, poco glamour e poca messa in scena, sposini forse), ma ho sentito come una presa alla bocca dello stomaco e - non so come dire - un gentile deliquio. Paola se ne è accorta: "Yambo, sono il tuo papa e la tua mamma il giorno delle nozze." "Sono ancora vivi?" ho chiesto. "No, sono morti da tempo. In un incidente d'auto." "Lei si è turbato guardando questa foto," mi ha detto Gratarolo. "Certe immagini le risvegliano qualche cosa dentro. Questa è una strada." "Ma che strada, se non sono neppure capace di andare a ripescare papa e mamma in quel buco nero del diavolo," ho gridato. "Voi mi dite che questi due erano mia madre e mio padre, ora lo so, ma è un ricordo che mi avete dato voi. D'ora in poi ricorderò questa foto, non loro." "Chissà quante volte, in questi ultimi trent'anni, lei si è ricordato di loro anche perché continuava a vedere questa foto. Non pensi alla memoria come a un magazzino dove lei deposita i ricordi e poi li ripesca così come si erano fissati la prima volta," ha detto Gratarolo. "Non vorrei essere troppo tecnico, ma il ricordo è la costruzione di un nuovo profilo di eccitazione neuronale. Poniamo che in un certo posto le sia accaduta un'altra esperienza sgradevole. Quando, dopo, lei ricorda quel posto riattiva quel primo pattern di eccitazione neuronale, con un profilo di eccitazione simile ma non eguale a quello che era stato stimolato originariamente. Quindi ricordando proverà un senso di disagio. Insomma, ricordare è ricostruire, anche sulla base di quello che abbiamo saputo o detto tempo dopo. È normale, è così che noi ricordiamo. Le dico questo per incoraggiarla a riattivare dei profili di eccitazione, non mettersi ogni volta a scavare come un ossesso per trovare qualcosa che sia già là, fresco come crede di averlo messo da parte la prima volta. L'immagine dei suoi su questa foto è quella che le abbiamo mostrato noi e che vediamo noi. Lei deve partire da questa immagine per ricomporre qualcosa d'altro, e solo questo sarà il ricordo suo. Ricordare è un lavoro, non un lusso." "I lugubri e durevoli ricordi" ho recitato, "questo strascico di morte che noi lasciamo vivendo..." "Ricordare è anche bello," ha detto Gratarolo. "Qualcuno ha detto che il ricordo agisce come una lente convergente in una camera oscura: concentra tutto, e l'immagine che ne risulta è assai più bella dell'originale." "Ho voglia di fumare," ho detto. "Segno che il suo organismo sta riprendendo un andamento normale. Ma se non fuma è meglio. E, tornando a casa, alcool con moderazione, non più di un bicchiere a pasto. Ha dei problemi di pressione. Altrimenti domani non la lascio uscire." "Lo fa uscire?" ha domandato Paola un poco spaventata. "È il momento di tirare le somme. Signora, suo marito, dal punto di vista fisico, mi pare abbastanza autonomo. Non è che a lasciarlo andare ci cade dalle scale. A tenerlo qui lo sfiniamo con una caterva di test, sono tutte esperienze artificiali, e ormai sappiamo cosa ne viene fuori. Credo gli faccia bene ritornare nel suo ambiente. Talora aiuta di più risentire il sapore di un cibo familiare, un odore, che so? Su queste cose la letteratura ci ha insegnato più della neurologia..." Non è che volessi fare il saccente, ma insomma, se mi rimaneva solo quella maledet-
ta memoria semantica, che almeno la usassi: "La madeleine di Proust," ho detto. "Il sapore dell'infuso di tiglio e della focaccia lo fa trasalire, sente una gioia violenta. E riaffiora l'immagine delle domeniche a Combray con la zia Léonie... Pare vi sia una memoria involontaria delle membra, le gambe e le braccia sono piene di ricordi intorpiditi... E chi era quell'altro? Niente costringe i ricordi a manifestarsi come gli odori e la fiamma. " "Sa di cosa parlo. Anche gli scienziati talora credono più agli scrittori che alle loro macchine. Lei, signora, è quasi del ramo, non è neuroioga ma è psicoioga. Le darò pochi libri da leggere, alcuni celebri resoconti di casi clinici, e capirà subito quali sono i problemi di suo marito. Credo che stare vicino a lei e alle sue figlie, tornare al lavoro, l'aiuterà più che restare qui. Basta che passi da me una volta alla settimana, e seguiremo i suoi progressi. Torni a casa, signor Bodoni. Si guardi intorno, tocchi, annusi, legga i giornali, guardi la televisione, vada a caccia di immagini." "Ci proverò, ma non ricordo immagini, né odori né sapori. Ricordo solo parole." "Non è detto. Tenga un diario delle sue reazioni. Lavoreremo su quello." Ho incominciato a tenere un diario. Il giorno dopo ho fatto i bagagli. Sono sceso con Paola. Si vede che in ospedale doveva esserci l'aria condizionata, perché ho capito di colpo, e solo allora, che cosa sia il calore del sole. Il tepore di un sole primaverile ancora acerbo. E la luce: ho dovuto stringere gli occhi. Non si può fissare il sole: Soleil, soleil fante éclatante... Arrivati alla macchina (mai vista) Paola mi ha detto di provare. "Sali, metti subito in folle, poi accendi. Sempre in folle, accelera." Come se non avessi mai fatto altro, sapevo subito dove mettere le mani e i piedi. Paola mi si è seduta accanto e mi ha detto di innestare la prima, togliere il piede dalla frizione, premere appena appena sull'acceleratore, così da muovermi solo di un metro o due, poi frenare e spegnere. Tanto, se avessi sbagliato, al massimo finivo contro un cespuglio del giardino. È andata bene. Ero molto fiero. Per sfida ho fatto anche un metro di marcia indietro. Poi sono sceso, ho lasciato la guida a Paola, e via. "Come ti pare il mondo?*' mi ha domandato Paola. "Non so. Dicono che i gatti, quando cadono dalla finestra e battono il naso, dopo non sentono più gli odori e, siccome vivono di olfatto, non sanno più riconoscere le cose. Sono un gatto che ha battuto il naso. Io vedo delle cose, capisco di che si tratta, certo, laggiù dei negozi, qui sta passando una bicicletta, ecco degli alberi, ma non... non me li sento addosso, è come se cercassi di infilarmi la giacca di un altro." "Un gatto che cerca di infilarsi una giacca con il naso. Devi avere ancora le metafore fuori posto. Bisognerà dirlo a Gratarolo, ma passerà." La macchina andava, io mi guardavo intorno, scoprivo i colori e le forme di una città sconosciuta.
2. IL FRUSCIO CHE FAN LE FOGLIE
"Dove andiamo ora, Paola?" "A casa, a casa nostra." "E poi?" "E poi ci entriamo, e ti metti a tuo agio." "E poi?" "E poi ti fai una bella doccia, e la barba, e ti vesti in modo decente, e poi mangiamo, e poi... cosa vorresti fare?" "È proprio questo che non so. Io ricordo tutto quello che è accaduto dopo il risveglio, so tutto di Giulio Cesare, ma non riesco a pensare a quello che viene dopo. Sino a stamattina non mi preoccupavo del dopo, caso mai del prima che non riuscivo a ricordare. Ma ora che andiamo a... verso qualcosa, vedo nebbia anche davanti, non solo dietro. No, non è una nebbia davanti, è come se avessi le gambe molli e non potessi camminare. È come saltare." "Saltare?" "Sì, per saltare devi fare un balzo in avanti, ma per farlo devi prendere la rincorsa, e quindi devi tornare indietro. Se non torni indietro non vai in avanti. Ecco, ho l'impressione che per dire cosa faccio dopo debba avere molte idee su quello che facevo prima. Ti prepari a fare una cosa per cambiare qualcosa che c'era prima. Ora, se mi dici che mi devo fare la barba so perché, mi passo la mano sul mento, lo sento ispido, devo togliergli questi peli. Lo stesso se dici che devo mangiare, mi ricordo che l'ultima volta che ho mangiato era ieri sera, minestrina, prosciutto e pera cotta. Però un conto è dire che mi faccio la barba o che mangio e un conto dire che cosa farò dopo, alla lunga, intendo. Non capisco che cosa voglia dire alla lunga, perché mi manca qualcosa alla lunga che stava prima. Mi spiego?" "Mi stai dicendo che non vivi più nel tempo. Noi siamo il tempo in cui viviamo. Ti piacevano molto le pagine di sant'Agostino sul tempo. Hai sempre detto che è stato l'uomo più intelligente tra quanti ne siano mai vissuti. Insegna molte cose anche a noi psicologi d'oggi. Noi viviamo nei tre momenti dell'attesa, dell'attenzione e della memoria, e l'uno non può fare a meno dell'altro. Non riesci a tendere verso il futuro perché hai perso il tuo passato. E sapere quello che ha fatto Giulio Cesare non ti serve a sapere quello che dovrai fare tu." Paola ha visto che irrigidivo la mascella. Ha cambiato discorso: "Riconosci Milano?" "Mai vista." Ma quando siamo arrivati a uno slargo ho detto: "Castello Sforzesco. E poi c'è il Duomo. E il Cenacolo, e la Pinacoteca di Brera." "E a Venezia?" "A Venezia c'è il Canai Grande, e il ponte di Rialto, e San Marco, e le gondole. So tutto quello che c'è scritto nelle guide. Magari a Venezia non ci sono mai andato e a Milano ci vivo da trent'anni, ma per me Milano è come Venezia. O come Vienna: Kunsthistorisches Museum, il terzo uomo, Harry Lime sulla ruota del Prater dice che gli svizzeri hanno inventato l'orologio a cucù. Mentiva: l'orologio a cucù è bavarese."
Siamo entrati in casa. Un bell'appartamento, coi balconi sul parco. Ho davvero visto una distesa di alberi. La natura è bella come dicono. Mobili antichi, evidentemente sono una persona agiata. Non so come muovermi, dove sia il soggiorno, dove la cucina. Paola mi presenta Anita, la peruviana che ci aiuta in casa, la poveretta non sa se farmi festa o salutarmi come un visitatore, corre avanti e indietro, mi mostra la porta del bagno, continua a dire: "Pobrecito el senor Yambo, ay Jesusmaria, ecco gli asciugamani freschi, signor Yambo." Dopo l'agitazione della partenza dall'ospedale, il primo contatto col sole, il tragitto, mi sentivo sudato. Ho voluto annusare le mie ascelle: l'odore del mio sudore non mi ha disturbato, non credo fosse molto forte ma mi faceva sentire animale vivo. Tre giorni prima di tornare a Parigi Napoleone mandava un messaggio a Giuseppina dicendole di non lavarsi. Mi sono mai lavato prima di fare all'amore? Non oserò chiederlo a Paola e poi chissà, magari con lei sì e con altre no - o viceversa. Mi sono fatto una bella doccia, mi sono insaponato la faccia e rasato con lentezza, c'era un dopobarba dal profumo leggero e fresco, mi sono pettinato. Ho già un'aria più civile. Paola mi ha condotto nel guardaroba: evidentemente mi piacciono i pantaloni di velluto, giacche un po' ruvide, cravatte di lana dai colori pallidi (malva, pisello, smeraldo? i nomi li so, ma non li so ancora applicare), camicie a quadretti. Ma sembra abbia anche un vestito scuro per matrimoni e funerali. "Sei bello come prima," ha detto Paola, quando mi sono messo in casual. Mi ha fatto passare per un lungo corridoio coperto da scaffali pieni di libri. Ne guardavo i dorsi, e per la maggior parte li riconoscevo. Voglio dire, riconoscevo titoli, I promessi sposi, L'Orlando furioso, II giovane Holden'. Per la prima volta avevo l'impressione di trovarmi in un posto in cui mi sentivo a mio agio. Ho tirato fuori un volume, ma prima ancora di guardare la copertina l'ho preso per la costa con la destra e con il pollice sinistro ho fatto scorrere rapidamente le pagine all'indietro. Mi piaceva il rumore, l'ho fatto più volte, e ho chiesto a Paola se non avrei dovuto vedere un calciatore che tirava il pallone. Paola ha riso, pare fossero dei libriccini che circolavano nella nostra infanzia, una sorta di cinema per i poveri, il calciatore cambiava di posizione a ogni pagina, e scorrendo le pagine in fretta lo si vedeva muovere. Mi sono assicurato che lo sapessero tutti: volevo ben dire, non era un ricordo, era solo una nozione. Il libro era Papa Goriot, Balzac. Senza aprirlo ho detto: "Papa Goriot si sacrificava per le figlie, una si chiamava Delfina, mi pare, entrano in scena Vautrin alias Collin e l'ambizioso Rastignac, Parigi a noi due. Leggevo molto?" "Sei un lettore instancabile. Con una memoria di ferro. Sai un sacco di poesie a memoria. " "Scrivevo?"' "Niente di tuo. Sono un genio sterile, dicevi, a questo mondo o si legge o si scrive, gli scrittori scrivono per disprezzo verso i colleghi, per avere ogni tanto qualche cosa di buono da leggere." "Ho tanti libri. Scusa, abbiamo." "Qui sono cinquemila. E c'è sempre il solito imbecille che entra e dice quanti libri ha lei, li ha letti tutti?" "E io che rispondo?" "Di solito rispondi: nessuno, altrimenti perché li conserverei qui, lei tiene forse da parte le scatolette di carne dopo averle svuotate? I cinquantamila che ho già letto li ho regalati alle carceri e agli ospedali. E l'imbecille barcolla." "Vedo molti libri stranieri. Credo di sapere alcune lingue." I versi mi sono venuti da soli: "Le brouillard indolent de Vautomne est épars... Unreal City, - under thè brown fog o/a winter dawn, - a crowd flowed over London Bridge, so many, - I had not thought death had undone so many... Spàtherbstnebel, kalte Tràume, - uberfloren Berg und Tal, - Sturm entblàttert schon dieBàume, - undsie schaun gespenstig kahl... Pero el doctor no sabia," ho concluso, "que boy es siempre todavia..." "Curioso, su quattro poesie, tre parlano della nebbia."
"Lo sai, mi sento nella nebbia. Solo che non riesco a vederla. So come l'hanno vista gli altri: S'illumina a uno svolto un effimero sole, un cespo di mimose nella bianchissima nebbia" "Tu eri affascinato dalla nebbia. Dicevi che ci eri nato dentro. E da anni quando t'imbattevi su un libro in una descrizione della nebbia te la segnavi a margine. Poi via via ti facevi fotocopiare la pagina allo studio. Credo che tu laggiù ritroverai il tuo dossier nebbia. E poi basta aspettare, la nebbia tornerà. Anche se non è più quella di un tempo, a Milano c'è troppa luce, troppe vetrine illuminate anche di sera, la nebbia scivola via lungo i muri." “ La nebbia gialla che strofina la schiena contro i vetri, il fumo giallo che strofina il suo muso lungo i vetri, lambì con la sua lingua gli angoli della sera, indugiò sulle pozze stagnanti negli scoli, lasciò che gli cadesse sulla schiena la fuliggine che cade dai camini, s'arricciò attorno alla casa e cadde in sonno" "Questa la sapevo anch'io. Ti lamentavi che le nebbie della tua infanzia non ci sono più." "La mia infanzia. C'è un posto qui dove tengo i libri di quand'ero bambino?" "Non qui. Saranno a Solara, nella casa di campagna." Ho dunque appreso la storia della casa di Solara, e della mia famiglia. Sono nato lì, per sbaglio, durante le vacanze di Natale del 1931. Come Gesù Bambino. Nonni materni mòrti prima che nascessi, nonna paterna scomparsa quando avevo cinque anni. Rimaneva il padre di mio padre, e noi eravamo l’unica cosa che era rimasta a lui. Il nonno era uno strano personaggio. Nella città dov'ero nato teneva una bottega, quasi un magazzino di libri vecchi. Non libri antichi e di pregio, come me, soltanto libri usati, e molte cose dell'Ottocento. In più amava viaggiare, e andava all'estero sovente. A quell'epoca andare all'estero voleva dire Lugano, massimo massimo Parigi o Monaco di Baviera. E lì raccoglieva cose dalle bancarelle, non solo libri ma anche manifesti del cinema, figurine, cartoline, vecchie riviste. Allora non c'erano tutti quei collezionisti di nostalgie, come oggi, diceva Paola, ma aveva qualche cliente affezionato, o forse raccoglieva per gusto suo. Non guadagnava molto, ma si divertiva. E poi sin dagli anni venti aveva ricevuto in eredità da un prozio la casa di Solara. Una casa immensa, vedessi Yambo, solo i solai sembrano le grotte di Postumia. C'era molta terra intorno, data a mezzadria, e il nonno ne ricavava abbastanza per vivere senza affannarsi a vendere troppi libri. Pare che là abbia passato tutte le estati della mia infanzia, e le vacanze di Natale e di Pasqua, e molte altre feste comandate, e due anni di fila tra il quarantatré e il quarantacinque, quando in città erano iniziati i bombardamenti. E lì ci dovevano essere ancora tutte le cose del nonno, e i miei libri di scuola e i miei giocattoli. "Non so dove, perché era come se tu non volessi più vederli. I tuoi rapporti con quella casa sono sempre stati bizzarri. Il nonno è morto di crepacuore quando i tuoi genitori sono scomparsi in quell'incidente d'auto, più o meno quando tu stavi finendo il liceo..” "Che cosa facevano papa e mamma?" "Tuo padre lavorava in una ditta d'importazioni, alla fine ne era diventato il direttore. Tua madre stava a casa, come facevano le signore per bene. Tuo padre era riuscito finalmente a comprarsi la macchina, una Lancia, addirittura, ed è successo quello che è successo. Non sei mai stato troppo esplicito su quella storia. Stavi per andare all'università, e tu e tua sorella Ada perdevate in un colpo solo tutta la vostra famiglia." "Ho una sorella?" "Più giovane di te. È stata presa in casa dal fratello e dalla cognata di tua madre, perché questi zii erano diventati i vostri tutori legali. Però Ada si è sposata presto, a diciottenni, con uno che l'ha subito portata a vivere in Australia. Vi vedete poco, capita in Italia una volta ogni morte di papa. Gli zii avevano venduto la vostra casa di città, e quasi tutta la terra di Solara. Col ricavato hai potuto mantenerti agli studi, ma dagli zii ti eri reso subito indipendente vincendo una borsa per il collegio universitario, e sei andato a vivere a Torino. Da quel momento hai come dimenticato Solara. Ti
ho costretto io, dopo che erano nate Carla e Nicoletta, ad andarci d'estate, c'era aria buona per i bambini, ho sputato sangue a rimettere a posto l'ala in cui stiamo. E ci andavi malvolentieri. Le ragazze l'adorano, è la loro infanzia, anche ora ci passano tutto il tempo che possono, con i piccoli. Tu ci tornavi per loro, stavi due o tre giorni, ma non rimettevi piede in quelli che chiamavi i santuari, la tua camera di un tempo, quelle dei nonni e dei genitori, i solai... D'altra parte con tutte le stanze che ci sono possono viverci tre famiglie senza incontrarsi mai. Passeggiavi un poco per le colline e poi c'era sempre qualcosa di urgente che ti obbligava a tornare a Milano. È comprensibile, la morte dei tuoi ha come diviso la tua vita in due parti, prima e dopo, forse la casa di Solara ti evocava un mondo che era sparito per sempre, hai dato un taglio. Ho sempre cercato di rispettare quel tuo imbarazzo, anche se certe volte la gelosia mi ha fatto pensare che fosse una scusa, che tornassi a Milano da solo per altre faccende. Ma glissons." "Il sorriso irresistibile. Ma perché sei andata a sposare l'uomo che ride?" "Perché ridevi bene, e mi facevi ridere. Da piccola nominavo sempre un mio compagno di scuola, e Luigino di qua e Luigino di là, ogni giorno tornavo a casa raccontando qualcosa che aveva fatto Luigino. E mia mamma sospettava che ci fosse del tenero, così un giorno mi ha domandato perché mi piacesse tanto Luigino. E io ho risposto: perché mi fa ridere." Le esperienze si ricuperano in fretta. Ho provato il sapore di alcuni cibi - quelli dell'ospedale sapevano tutti nello stesso modo. La senape sulla carne bollita è molto stuzzicante, ma la carne è filacciosa e s'infila tra i denti. Conoscere (riconoscere?) l'azione dello stuzzicadenti. Potersi frugare nei lobi frontali, togliere le scorie... Paola mi ha fatto assaggiare due vini, e del secondo ho detto che era incomparabilmente migliore. Sfido, ha detto lei, il primo è vino da cucina, serve al massimo per lo stufato, il secondo è un Brunello. Bene, ho detto, la mia testa sarà quel che è, ma il palato funziona. Ho passato il pomeriggio a tastare le cose, a provare la pressione della mano su un bicchiere da cognac, a seguire come sale il caffè nella caffettiera, a toccare con la lingua due qualità di miele e tre tipi di marmellata (prediligo quella di albicocche), a stropicciare le tende del soggiorno, a spremere un limone, a immergere le mani in un sacchetto di semolino. Poi Paola mi ha portato a fare un breve giro nel parco, ho accarezzato la scorza degli alberi, ho avvertito il fruscio che fan le foglie (del gelso?) nella man di chi le coglie. Passando da un fioraio in largo Cairoli, Paola si è fatta fare un mazzo che pareva un arlecchino, che il fioraio diceva che non si fa, ma a casa ho cercato di distinguere il profumo di fiori ed erbe diverse. E vide che tutto era un gran bene, ho detto sollevato. Paola mi ha chiesto se mi sentivo Dio, ho risposto che citavo tanto per citare, ma certamente ero un Adamo che scopriva il suo giardino dell'Eden. Ma pare sia un Adamo che impara in fretta, infatti su una mensola ho visto bottigliette e scatole di detersivi e ho subito compreso che non dovevo toccare dell'albero del bene e del male. Dopo cena mi sono seduto in soggiorno. C'è una sedia a dondolo e d'istinto mi ci sono lasciato andare sopra. "Lo facevi sempre," ha detto Paola, "e qui ti prendevi il tuo whisky serale. Credo che Gratarolo te lo concederebbe." Mi ha portato una bottiglia, Laphroaig, e me ne ha versato una buona porzione, senza ghiaccio. Mi sono fatto girare il liquido in bocca prima d'inghiottire. "Squisito, solo che sa un poco di petrolio." Paola era entusiasta: "Sai che dopo la guerra, all'inizio degli anni cinquanta, solo allora si è incominciato a bere whisky, oddio forse prima lo bevevano i gerarchi fascisti a Riccione, ma la gente normale no. E noi verso i vent'anni abbiamo cominciato a bere whisky, di rado perché era caro, ma era come un rito di passaggio. E i nostri vecchi ci guardavano e dicevano come si fa a bere quella cosa lì che sa di petrolio." "Guarda, i sapori non mi evocano nessuna Combray." "Dipende dai sapori. Tu continua a vivere, e scoprirai quello giusto." Su un tavolinetto c'era un pacchetto di Gitanes, papier mais. Ho acceso, ho aspirato
golosamente, ho tossito. Ho tirato ancora qualche boccata e ho spento. Mi sono lasciato dondolare lentamente, sino a che non ho iniziato a prender sonno. Mi hanno risvegliato i rintocchi di una pendola, e quasi rovesciavo il whisky. La pendola stava dietro di me, ma prima di averla identificata i rintocchi erano finiti e ho detto: "Sono le nove." Poi, a Paola: "Sai che cosa mi è successo? Ero assopito, la pendola mi ha svegliato. I primi colpi non li ho sentiti distintamente, voglio dire che non li avevo contati. Ma non appena ho deciso di contare mi sono accorto che ce n'erano già stati tre, e ho potuto contare quattro, cinque eccetera. Ho capito che ho potuto dire quattro, e aspettare il quinto, perché c'erano stati uno, due e tre, e in qualche modo lo sapevo. Se il quarto colpo fosse stato il primo di cui avessi avuto coscienza, avrei creduto che fossero le sei. Credo che la nostra vita vada così, solo se richiami alla mente il passato puoi anticipare quello che verrà. Io non posso contare i rintocchi della mia vita perché non so quanti ce ne siano stati prima. D'altra parte, mi sono assopito perché la sedia dondolava da tempo. E mi sono assopito a un certo momento, perché c'erano stati i momenti precedenti, e perché mi lasciavo andare aspettando il momento successivo. Ma se non vi fossero stati i primi momenti a mettermi nella disposizione giusta, se avessi iniziato a dondolare in un momento qualsiasi, non avrei atteso quello che doveva venire. Sarei restato sveglio. Anche per addormentarsi bisogna ricordare. O no?" "È l'effetto palla di neve. La valanga va verso valle, ma scende sempre più in fretta perché a mano a mano s'ingrossa e si porta dietro il peso di quello che era prima. Altrimenti non c'è valanga, rimane sempre una piccola palla di neve che non scende mai." "Ieri sera... all'ospedale, mi annoiavo, e mi sono messo a canticchiare una canzoncina. Mi veniva fuori da sola, come lavarsi i denti... Ho cercato di capire perché la sapevo. Ho ricominciato a cantarla, ma a pensarci sopra la canzone non mi veniva più fuori da sola, e mi sono fermato su una nota. L'ho tenuta lunga, per almeno cinque secondi, come fosse una sirena, o una nenia. Bene, dopo non sapevo più andare avanti, e non sapevo andare avanti perché avevo perduto quello che veniva prima. Ecco, io sono così. Mi sono fermato su una nota lunga, come un disco che si è inceppato, e siccome non posso ricordare le note d'inizio non riesco a finire la canzone. Mi chiedo cosa mai dovrei finire, e perché. Mentre cantavo senza pensarci io ero io proprio nel durare della mia memoria, che in quel caso era la memoria... come dire, della mia gola, con i prima e i dopo che si legavano insieme, e io ero la canzone completa, e ogni volta che l'iniziavo le mie corde vocali si preparavano già a fare vibrare i suoni che dovevano venire. Credo faccia così anche un pianista, suona una nota e prepara già le dita per battere sul tasto che verrà dopo. Senza le prime note non si arriva alle ultime, si stona, e si va dalle prime alle ultime solo se dentro di noi c'è già in qualche modo la canzone completa. Io la canzone completa non la so più. Sono... come un legno che brucia. Il legno brucia ma non ha coscienza di quando era un tronco intatto, né ha modo di sapere che lo era, e quando abbia iniziato a prendere fuoco. Quindi si consuma e basta. Io vivo in pura perdita." "Non esageriamo con la filosofia," ha sussurrato Paola. "No, esageriamo. Dove tengo le Confessioni di sant'Agostino?" "Su quello scaffale ci sono le enciclopedie, Bibbia, Corano, Lao Tze e i libri di filosofìa." Sono andato a individuare le Confessioni e ho cercato nell'indice le pagine sulla memoria. Dovevo averle lette perché erano tutte sottolineate. Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, quando sono là dentro evoco tutte le immagini che voglio, alcune si presentano all'istante, altre si fanno desiderare più a lungo, quasi vengano estratte da ripostigli più segreti... Tutte queste cose la memoria accoglie nella sua vasta caverna, nelle sue pieghe segrete e ineffabili, nell'enorme palazzo della mia memoria dispongo di cielo e terra e mare insieme, là incontro anche me stesso... La facoltà della memoria è grandiosa, Dio mio, la sua infinita e profonda complessità ispira quasi un senso di terrore, e ciò è lo spirito, e ciò sono io stesso... Nei campi e negli antri, nelle caverne incalcolabili della memoria, incalcolabilmente popolate da specie incalcolabili di cose, per tutti questi luoghi io trascorro, ora volo qua e là, senza trovare limiti da nessuna parte... "Vedi Paola," ho detto, "tu mi hai raccontato del nonno, della casa di campa-
gna, tutti cercate di restituirmi delle notizie, ma a raccoglierle così, per popolare davvero queste caverne dovrei metterci tutti i sessantanni che ho vissuto sinora. No, non è così che si può. Io devo penetrare nella caverna da solo. Come Tom Sawyer. " Non so cosa mi abbia risposto Paola, perché continuavo a far dondolare la sedia e mi sono appisolato di nuovo. Credo per poco, perché ho sentito suonare, ed era Gianni Laivelli. Il mio compagno di banco, eravamo i due dioscuri. Mi ha abbracciato come un fratello, era commosso, sapeva già come trattarmi. Non preoccuparti, mi ha detto, ne so più io della tua vita che te. Te la racconterò per filo e per segno. Gli ho detto grazie no, ma intanto Paola mi ha spiegato la nostra storia. Insieme dalle elementari sino al liceo. Poi io sono andato studiare a Torino, e lui economia e commercio a Milano. Ma a quanto pare non ci siamo persi di vista, io vendo libri antichi, lui aiuta la gente a pagare le tasse, o a non pagarle, avremmo dovuto andarcene ciascuno per conto proprio e invece siamo come una famiglia, i suoi due nipoti giocano coi miei, e Natale e Capodanno li facciamo sempre insieme. Grazie no, gli avevo detto, ma Gianni non poteva stare zitto. E siccome ricordava lui, pareva non capisse che io non ricordavo. Ti ricordi, diceva, quel giorno che abbiamo portato un topo in classe per spaventare la professoressa di matematica, e quando abbiamo fatto la gita ad Asti per vedere l'Alfieri e al ritorno abbiamo saputo che era caduto l'aereo del Torino, e quella volta che..” "No, non ricordo, Gianni, ma racconti così bene che è come se ricordassi. Chi era più bravo di noi due?" "Naturalmente tu in italiano e filosofia e io in matematica, vedi come siamo finiti." "Già, Paola, in che cosa mi sono laureato io?" "In lettere, con una tesi sulla Hypnerotomachia Poliphili. Illeggibile, almeno per me. Poi sei andato a specializzarti in storia del libro antico in Germania. Dicevi che col nome che ti avevano appioppato non potevi fare diversamente, e poi c'era l'esempio del nonno, una vita tra gli scartafacci. Al ritorno hai messo su lo studio bibliografico, dapprima in una stanzetta e col poco capitale che ti era rimasto. Poi ti è andata bene." "Ma lo sai che vendi dei libri che costano più di una Porsche?" diceva Gianni. "Sono bellissimi, a prenderli in mano e sapere che hanno cinquecento anni e la carta ti fa ancora crac crac sotto le dita come se fossero appena usciti dal torchio..." "Calma, calma," diceva Paola, "del lavoro incominciamo a parlare nei giorni prossimi. Adesso lasciagli prendere confidenza con la casa. Un whisky, che sa di petrolio?" "Petrolio cosa?" "È una faccenda tra me e Yambo, Gianni. Stiamo ricominciando ad avere dei segreti." Quando ho riaccompagnato Gianni alla porta, lui mi ha preso per il braccio e mi ha sussurrato in tono complice: "E così non hai ancora rivisto la bella Sibilla..." Sibilla chi? Ieri sono venute Carla e Nicoletta con la famiglia intera, anche i mariti. Simpatici. Ho passato il pomeriggio coi bambini. Sono teneri, incomincio ad affezionarmi. Ma è imbarazzante, a un certo punto mi sono accorto che li sbaciucchiavo, me li stringevo al collo, sentivo il loro odore di pulito, latte e borotalco, e mi sono chiesto che cosa facevo con quei bambini sconosciuti. Sarò mica un pedofilo? Li ho tenuti a distanza, abbiamo giocato insieme, mi avevano chiesto di fare l'orso, cosa diavolo fa un nonno orso, poi mi sono messo carponi facendo arwf roarr roarr, e quelli mi saltavano addosso. Calma, ho una certa età, mi fa male la schiena. Luca mi ha fatto pum pum con una pistola ad acqua, e ho pensato che era saggio morire, a pancia all'aria. Ho rischiato il colpo della strega ma è stato un successo. Sono ancora debole e nel rialzarmi mi girava la testa. Non devi fare così, mi ha detto Nicoletta, lo sai che hai la pressione ortostatica. Poi si è corretta: "Scusa, non lo sapevi più. Bene, adesso lo sai di nuovo." Nuovo capitolo per la mia vita scritta da esso. Anzi, no, da essi. Continuo a vivere di enciclopedia. Parlo come se stessi appoggiato alla parete, e
non posso mai voltarmi indietro. Le mie memorie hanno la profondità di poche settimane. Quelle degli altri si distendono per secoli. Sere fa ho assaggiato un nocino. Ho detto: " Caratterìstico odore di mandorle amare" Nel parco ho visto due poliziotti a cavallo: "O cavallina cavallina storna" Ho picchiato la mano contro uno spigolo, e mentre mi succhiavo una piccola graffiatura e cercavo di gustare il sapore del mio sangue, ho detto: "Spesso il male di vivere ho incontrato" C'è stato un acquazzone e alla fine ho giubilato: "Cessata è la tempesta" Di solito vado a dormire presto e commento: "Longtemps je me suis conche de bonne heure" Me la cavo coi semafori, ma l'altro giorno ho attraversato la strada in un punto che sembrava tranquillo, e Paola ha fatto appena in tempo a tenermi per un braccio, perché stava arrivando una macchina. "Ma ho calcolato la distanza," ho detto, "ce la facevo." "No che non ce la facevi, quella andava veloce." "Suvvia, sono mica un pollo," ho reagito. "Lo so benissimo che le automobili travolgono i pedoni, e anche le galline, e per evitarle si frena e viene fuori un fumo nero che poi bisogna scendere per riavviare la macchina con la manovella. Due uomini in spolverino con grandi occhiali neri, e io con le orecchie che arrivano al cielo." Da dove ho preso quell'immagine? Paola mi ha guardato. "Ma lo sai a che velocità massima può andare un'automobile?" "Beh, ho detto, anche ottanta all'ora..." Pare che invece ora vadano assai più veloci. Si vede che conservo solo le nozioni di quando avevo preso la patente. Sono stupito perché attraversando largo Cairoli incontro ogni due passi un negro che vuole vendermi un accendino. Paola mi ha portato a fare un giro in bicicletta nel parco (vado in bicicletta senza problemi) e mi sono stupito di vedere intorno a un laghetto tanti negri che suonavano il tamburo. "Ma dove siamo?" ho detto, "a New York? Da quando ci sono tanti negri a Milano?" "Da un pezzo," ha risposto Paola. "Ma non si dice più negri, si dice neri." "Che differenza fa? Vendono gli accendini, vengono qui a suonare il tamburo perché non devono avere un lira per andare al bar, o forse là non li vogliono, mi pare che questi neri siano disperati come negri." "Insomma, ora si dice così. Lo facevi anche tu." Paola ha notato che quando provo a parlare inglese faccio errori, e non ne faccio quando parlo tedesco o francese. "Mi sembra ovvio," ha detto, "il francese devi averlo assorbito da piccolo e ti è rimasto nella lingua come ti è rimasta la bicicletta nelle gambe, il tedesco lo avevi studiato sui manuali quando facevi l'università, e tu dei manuali sai tutto, l'inglese invece lo hai imparato viaggiando, dopo, fa parte delle tue esperienze personali degli ultimi trent'anni, e ti si è attaccato alla lingua solo in parte." Mi sento solo ancora debole, riesco ad applicarmi a qualcosa per mezz'ora, un'ora al massimo, poi vado a sdraiarmi un poco. Paola mi porta ogni giorno dal farmacista a misurare la pressione. Bisogna stare attenti anche alla dieta: poco sale. Ho preso a guardare la televisione, è la cosa che mi stanca meno. Vedo dei signori ignoti che sono presidente del consiglio e ministro degli esteri, il re di Spagna (non c'era Franco?), ex terroristi (terroristi?) pentiti e non capisco bene di che cosa parlino, ma imparo un mucchio di cose. Moro lo ricordo, le convergenze parallele, ma chi lo ha ammazzato? O è caduto con un aereo a Ustica sulla Banca dell'Agricoltura? Alcuni cantanti s'infilano anellini al lobo dell'orecchio. E sono maschi. Mi piacciono le storie a puntate con tragedie famigliari nel Texas, i vecchi film con John Wayne. I film d'azione mi disturbano, perché ci sono fucili mitragliatoli che con una raffica mandano all'aria una stanza, fanno ribaltare un'automobile che esplode, gente in canottiera che tira un pugno e l'altro va a sfondare una vetrata e precipita a picco sul mare, tutto insieme, stanza, auto, vetrata, in pochi secondi. Troppo veloci, mi ballano gli occhi. E perché tanto rumore?
L'altra sera Paola mi ha portato a un ristorante. "Non preoccuparti, ti conoscono, tu chiedi il solito." Molte feste, come sta dottor Bodoni, è un pezzo che non si fa vedere, che cosa prendiamo di bello stasera. Il solito. Il signore sì che se ne intende, ha canterellato il padrone. Spaghetti con le vongole, grigliata di pesce, Sauvignon, poi crostata di mele. Paola ha dovuto intervenire per impedirmi di chiedere il bis della grigliata. "Perché, se mi piace?" ho domandato. "Possiamo permettercelo, mi pare, non costa una fortuna." Paola mi ha guardato soprappensiero, poi, prendendomi la mano, ha detto: "Vedi Yambo, tu hai conservato tutti i tuoi automatismi, e sai benissimo come tenere coltello e forchetta o versarti da bere. Ma c'è qualcosa che noi acquisiamo per esperienza personale, a mano a mano che diventiamo adulti. Un bambino vuole mangiare tutto quello che gli piace, a costo poi di avere il mal di pancia. La mamma gli spiega a poco a poco che deve controllare i suoi impulsi, così come deve fare con la voglia di fare pipì. E così il bambino, che se dipendesse da lui continuerebbe a farsi la popò nei pannolini, e mangerebbe tanta Nutella da finire all'ospedale, apprende a riconoscere il momento in cui, anche se non si sente sazio, deve smettere di mangiare. Diventando adulti si impara a fermarsi, per esempio, dopo il secondo o il terzo bicchiere di vino, perché si sa che quella volta che se ne era bevuta una bottiglia intera poi non si era riusciti a dormire. Quindi devi imparare di nuovo a stabilire un rapporto corretto col cibo. Ragioni bene e lo imparerai in pochi giorni. Comunque, basta con i bis." "Naturalmente un calvados" ha concluso il padrone portando la crostata. Ho atteso un cenno di consenso da Paola, ho risposto: "Calva sans dire." Si vede che quello conosceva già il mio gioco di parole, perché ha ripetuto: "Calva sans dire" Paola mi ha chiesto che cosa mi richiamava il calvados, ho risposto che era buono ma tutto si fermava lì. "Eppure te ne eri intossicato durante quel viaggio in Normandia... Pazienza, non pensarci. Comunque il solito è una buona formula, c'è un sacco di posti qui intorno dove puoi entrare e dire il solito, così ti senti a tuo agio." "Ormai è chiaro che coi semafori te la sai cavare," ha detto Paola, "e hai imparato come vanno svelte le auto. Devi tentare una passeggiata da solo, intorno al castello e poi in largo Cairoli. C'è una gelateria all'angolo, tu adori il gelato e vivono praticamente alle tue spalle. Prova con il solito." Non ho neppure dovuto dire il solito, il gelataio ha subito riempito il cono di stracciatella, ecco qua come al solito, dottore. Se mi piaceva la stracciatella avevo ragione, è buonissima. È piacevole scoprire la stracciatella a sessantanni, come dice quella barzelletta di Gianni sull’Alzheimer? Il bello è che ogni giorno incontri un sacco di gente nuova... Gente nuova. Avevo appena finito il gelato, senza mangiare il cono sino in fondo e buttando via l'ultima parte - perché? Paola mi ha poi spiegato che era una vecchia mania, sin da piccolo mia mamma mi aveva insegnato che non bisogna mangiare la punta perché è quella che il gelataio ha tenuto con le sue mani poco pulite, cose di un tempo che i gelati li vendevano col carrettino -, quando ho visto avvicinarsi una donna. Elegante, forse sulla quarantina, un viso un poco sfrontato, mi è venuta in mente la Dama con l'Ermellino. Già da lontano mi ha sorriso e mi sono preparato, un bel sorriso anch'io perché Paola dice che il mio sorriso è irresistibile. Mi è venuta incontro afferrandomi per entrambe le braccia: "Yambo, che sorpresa!" Ma deve avere colto qualcosa di vago nel mio sguardo, il sorriso non basta. "Yambo, non mi riconosci, sono dunque invecchiata tanto? Vanna, Vanna..." "Vanna! Sei sempre più bella. È che sono appena stato dall'oculista e mi ha messo quella cosa negli occhi per dilatare la pupilla, per qualche ora avrò la vista confusa. Come stai, dama con l'ermellino?" Dovevo averglielo già detto, perché ho avuto l'impressione che le si inumidissero gli occhi. "Yambo, Yambo," mi ha sussurrato accarezzandomi il viso. Sentivo il suo profumo. "Yambo, ci siamo perduti. Volevo sempre rivederti, per dire che sarà stato breve, forse è stata colpa mia, ma per me sarai sempre un ricordo dolcissimo. È stato... bello." "Bellissimo," ho detto, con qualche sentimento, e l'aria di chi rievoca il giardino
delle delizie. Superba interpretazione. Mi ha baciato sulla guancia, mi ha sussurrato che il suo numero era sempre lo stesso, e se ne è andata. Vanna. Evidentemente una tentazione a cui non avevo saputo resistere. Gli uomini, che mascalzoni! Con De Sica. Maledizione, che gusto c'è ad avere avuto una storia se poi non si può, non dico raccontarla agli amici, ma nemmeno riassaporarla ogni tanto, nelle notti di tempesta mentre ti crogioli sotto le coperte? Sin dalla prima sera, sotto le coperte, Paola mi faceva addormentare accarezzandomi la testa. Mi piaceva sentirla vicino. Era desiderio? Finalmente ho superato il pudore e le ho chiesto se facessimo ancora all'amore. "Con moderazione, più che altro per abitudine” mi ha detto. "Senti voglia?" "Non so, lo sai che ho ancora poche voglie. Ma mi chiedo se..." "Non chiederti, cerca di dormire. Sei ancora debole. E poi, a nessun costo vorrei che tu facessi all'amore con una donna che hai appena conosciuto." "Avventura sull'Orient Express." "Orrore, non siamo in un romanzo di Dekobra."
3. FORSE QUALCUNO TI DISFIORERÀ So muovermi fuori casa, ho anche imparato a comportarmi con chi mi saluta: si misurano il sorriso, i gesti di sorpresa, la letizia o la cortesia osservando sorrisi, gesti e cortesie dell'altro. L'ho provato coi condomini, sull'ascensore. Il che dimostra che la vita sociale è solo finzione, ho detto a Carla che si complimentava con me. Dice che questa storia mi rende cinico. Per forza, se non incominci a pensare che è tutta una commedia, ti spari. Insomma, mi ha detto Paola, è ora che vai in ufficio. Da solo, ti vedi con Sibilla e vedi che cosa t'ispira il tuo posto di lavoro. Mi è tornato in mente quel sussurro di Gianni sulla bella Sibilla. "Chi è Sibilla?" "La tua assistente, la tua factotum, è bravissima e ha mandato avanti lo studio in queste settimane, oggi le ho telefonato ed era molto fiera per non so quale ottimo affare che ha combinato. Sibilla, non chiedermi il cognome perché nessuno lo sa pronunciare. Una ragazza polacca. Si stava specializzando a Varsavia in biblioteconomia, e quando laggiù il regime ha incominciato a incrinarsi, prima ancora della caduta del Muro di Berlino, è riuscita a ottenere un permesso per un viaggio di studio a Roma. È carina, anche troppo, e deve avere scoperto il modo di commuovere qualche pezzo grosso. Sta di fatto che una volta arrivata qui non è più tornata e si è cercata un lavoro. Ha trovato te, o tu hai trovato lei, e sono quasi quattro anni che ti aiuta. Oggi ti aspetta, sa quello che ti è accaduto e come deve comportarsi. " Mi ha dato l'indirizzo e il numero di telefono dell'ufficio, dopo largo Cairoli s'imbocca via Dante e prima della Loggia dei Mercanti - che è una loggia si vede a occhio nudo - si svolta a sinistra e si è arrivati. "Se hai un problema entri in un bar e le telefoni, o mi telefoni, invieremo una squadra di pompieri, ma non credo ce ne sarà bisogno. Ah, tieni presente, con Sibilla avevate iniziato a parlare francese, quando lei non sapeva ancora l'italiano, e non avete mai smesso. Un gioco tra voi due." Tanta gente in via Dante, è bello passare accanto a una serie di estranei senza essere obbligato a riconoscerli, ti dà sicurezza, ti fa capire che anche gli altri al settanta per cento sono nelle tue condizioni. In fondo potrei essere qualcuno che è appena arrivato in questa città, si sente un po' solo ma si sta ambientando. Salvo che io sono appena arrivato sul pianeta. Qualcuno mi ha salutato dalla porta di un bar, nessuna richiesta di agnizione drammatica, ho agitato la mano in un cenno di saluto ed è filata liscia. Ho individuato la via e lo studio come un boy scout che vince la caccia al tesoro: una targhetta sobria da basso, Studio Biblio, non dovevo avere una gran fantasia, ma in fondo fa serio, come potevo chiamarlo, Alla Bella Napoli? Ho suonato, sono salito, al primo piano c'era la porta già aperta, e Sibilla sulla soglia. "Bonjour Monsieur Yambo... pardon, Monsieur Bodoni..." Come se fosse lei ad aver perduto la memoria. Era davvero molto bella. Capelli biondi lisci e lunghi che le incorniciavano l'ovale purissimo del viso. Non un filo di trucco, forse qualcosa appena appena sugli occhi. L'unico aggettivo che mi è venuto in mente è stato dolcissima (uso stereotipi, lo so, ma è grazie a loro che posso muovermi tra gli altri). Indossava un paio di jeans e una maglietta di quelle con una scritta sopra, Smile o qualcosa del genere, che metteva in risalto, con pudore, due seni adolescenti. Eravamo imbarazzati entrambi. "Mademoiselle Sibilla?" ho chiesto. "Oui," ha risposto, poi rapidamente, "ohui, houi. Entrez." Come un delicato singhiozzo. Emetteva il primo oui in modo quasi normale, poi subito il secondo come inspirando, con un breve colpo di gola, e quindi il terzo espirando di nuovo, con un impercettibile tono interrogativo. Il tutto faceva pensare a un imbarazzo infantile e al tempo stesso a una timidezza sensuale. Si è fatta da parte per lasciarmi entrare. Ne avvertivo il profumo educato.
Se avessi dovuto dire come fosse uno studio bibliografico avrei descritto qualcosa di molto simile a quello che vedevo. Scaffalature in legno scuro, cariche di volumi antichi, e volumi antichi anche sul tavolo quadrato, pesante. Un tavolinetto con un computer in un angolo. Due mappe colorate ai lati della finestra, dai vetri opachi. Luce soffusa, ampie lampade verdi. Oltre una porta, un lungo sgabuzzino, mi è parso un laboratorio per impacco e spedizione dei libri. "Dunque voi siete Sibilla? O devo dire Mademoiselle cosa, mi dicono che avete un cognome impronunciabile..." "Sibilla Jasnorzewska, sì, qui in Italia pone dei problemi. Ma voi mi avete sempre chiamato Sibilla e basta." La vedevo sorridere per la prima volta. Le ho detto che volevo ambientarmi, volevo vedere i libri di maggior pregio. La parete là in fondo, mi ha detto, e si è avviata per mostrarmi lo scaffale giusto. Camminava silenziosa sfiorando il pavimento con le scarpette da tennis. Ma forse era la moquette che ne attutiva i passi. Su te, vergine adolescente, sta come un ombra sacra, stavo quasi per dire ad alta voce. Invece ho detto: "Chi è, Cardarelli?" "Cosa?" ha domandato voltando la testa e facendo ondeggiare i capelli. "Niente," ho risposto. "Fatemi vedere." Bei volumi dal sapore vetusto. Non tutti avevano un tassello sul dorso che dicesse cos'erano. Ne ho estratto uno. Istintivamente l'ho aperto per cercare il frontespizio col titolo e non l'ho trovato. "Incunabolo, dunque. Rilegatura cinquecentesca in scrofa con impressioni a freddo." Passavo le mani sui piatti, provando un piacere tattile. "Leggermente stanco alle cuffie." L'ho sfogliato toccando le pagine con le dita per vedere se crocchiavano come diceva Gianni. Crocchiavano. "Fresco e marginoso. Ah, lievi gore marginali alle ultime carte, tarlo all'ultima segnatura, che non affetta il testo. Bella copia." Sono andato al colophon, sapendo che si chiama così, e ho sillabato: "Venetiis mense Septembri... millequattrocentonovantasette. Ma potrebbe essere..." Sono tornato alla prima pagina: lamblichus de mysteriis Aegyptiorum... È la prima edizione del Giamblico di Ficino, no?" "È la prima... Monsieur Bodoni. La riconoscete?" "No, non riconosco nulla, dovete imparare questo, Sibilla. Semplicemente so che il primo Giamblico tradotto da Ficino è millequattrocentonovantasette. " "Vi chiedo scusa, devo abituarmi. È che voi eravate così fiero di questa copia, davvero splendida. E avete detto che per ora non la si vende, ce ne sono pochissime in giro, lasciamo che appaia a qualche asta o in qualche catalogo americano, che quelli sono bravi a fare lievitare i prezzi, poi mettiamo in catalogo la nostra copia. " "Sono un avveduto mercante, allora." "Io dicevo che era una scusa, che volevate tenervela un poco per voi, per guardarvela ogni tanto. Ma siccome vi eravate deciso a sacrificare l'Ortelius, vi do una bella notizia." "Ortelius... Quale?" "La Plantin 1606, 166 tavole a colori e il Parergon. Legatura d'epoca. Eravate così contento di averla scovata comperando per poco l'intera biblioteca del commendator Gambi. Vi eravate deciso a metterla in catalogo, finalmente. E mentre voi... mentre voi non stavate bene sono riuscita a venderla a un cliente, uno nuovo, non mi pareva un vero bibliofilo, piuttosto uno di quelli che comperano per investimento perché gli hanno detto che ora i libri antichi aumentano in fretta." "Peccato, copia sprecata. E... a quanto?" Sembrava spaventata a dire la cifra, ha preso una scheda e me l'ha fatta vedere. "Avevamo messo in catalogo Prezzo a Richiesta ed eravate preparato a trattare. Io ho detto subito il massimo e quello non ha neppure chiesto uno sconto, ha firmato l'assegno e via. Sull'unghia, come si dice a Milano." "Siamo ormai a questi livelli..." Non avevo più nozione dei prezzi correnti. "Complimenti, Sibilla, a noi quanto era costato?" "Direi nulla. Cioè, col resto dei libri della biblioteca Gambi a poco a poco rientriamo tranquillamente della cifra che avevamo pagato per tutto, a forfait. Ho provveduto a versare l'assegno in banca. E poiché sul catalogo non c'era il prezzo, credo che se il
dottor Laivelli aiuta, sul piano fiscale ne usciamo molto bene." "Sono dunque di quelli che evadono il fisco?" "No, Monsieur Bodoni, fate quello che fanno i vostri colleghi, in genere dovete pagare tutto ma su certe operazioni fortunate ci si da, come si dice, un colpo di pollice. Voi siete un contribuente onesto al novantacinque per cento." "Dopo quest'affare lo sarò al cinquanta. Ho letto da qualche parte che un cittadino deve pagare le tasse sino all'ultimo centesimo." Mi è parsa umiliata. "Non ci pensate, comunque," le ho detto paternamente, "ne parlo io con Laivelli." Paternamente? Ho detto in modo quasi brusco: "Ora lasciatemi vedere un poco gli altri libri." Si è tirata indietro ed è andata a sedersi al computer, silenziosa. Guardavo i libri, li sfogliavo: una Commedia per Bernardino Benali 1491, un Liber Phisionomiae dello Scoto, 1477, un Quadripartito di Tolomeo, 1484, un Calendarium del Regiomontano del 1482 - ma anche per i secoli successivi non ero proprio sfornito, ecco una bella prima edizione del Nuovo teatro dello Zonca, e un Ramelli che era una meraviglia... Conoscevo ciascuna di quelle opere, come ciascun antiquario che conosca a memoria i grandi cataloghi, ma non sapevo di averne una copia. Paternamente? Tiravo fuori i libri e li rimettevo a posto, ma in realtà pensavo a Sibilla. Gianni mi aveva fatto quell'accenno, indubbiamente malizioso, Paola aveva tardato a parlarmene sino all'ultimo momento, e aveva usato alcune espressioni quasi sarcastiche, anche se il tono era neutro, carina anche troppo, un gioco tra voi due, niente di particolarmente astioso, ma mi era parsa a un pelo dal dire che era un'acqua cheta. Posso avere avuto una storia con Sibilla? La fanciulla sperduta che arriva dall'Est, curiosa di tutto, incontra un signore maturo - ma quando è arrivata avevo quattro anni di meno -, ne sente l'autorità, in fondo è il boss, sa sui libri più cose di quante ne sapppia lei, lei impara, gli pende dalle labbra, lo ammira, lui ha incontrato l'allieva ideale, bella, intelligente, con quel oui oui oui a singhiozzo trepido, s'incomincia a lavorare insieme, tutti i giorni e tutto il giorno, soli in questo studio, complici in tante piccole e grandi trouvailles, un giorno ci si sfiora sulla porta, è un attimo e comincia una storia. Ma come, alla mia età, sei una ragazzina, cercati un ragazzo della tua età perdio, non prendermi sul serio, e lei no, è la prima volta che provo una cosa così, Yambo. Stavo riassumendo un film che tutti conoscono? Allora continua come nei film, o nei romanzi: Yambo ti amo ma non potrei continuare a guardare in faccia tua moglie, così cara e gentile, hai due figlie e sei nonno - grazie che mi ricordi che già puzzo di cadavere, no non dire così sei l'uomo più... più... più che ho mai conosciuto, i ragazzi della mia età mi fanno ridere, ma forse è giusto che me ne vada -, aspetta, possiamo continuare da buoni amici, basta vederci ancora tutti i giorni - ma non capisci che è proprio vedendoci tutti i giorni che non potremo mai rimanere amici -, Sibilla, non dire così, ragioniamoci su. Lei un giorno smette di venire in studio, io le telefono che m'ammazzo, lei mi dice non essere infantile, tout passe, ma poi è lei che ritorna, non ce l'ha fatta. E così va avanti per quattro anni. O non va più avanti? Sembra che conosca tutti i cliché, ma non so combinarli in modo credibile. Oppure queste storie sono terribili e grandiose proprio perché tutti i cliché s'intrecciano in modo inverosimile e non li dipani più. Ma, quando un cliché lo vivi, è come fosse la prima volta, e non provi pudore. Sarebbe una storia verosimile? In questi giorni mi pareva di non avere più desideri, ma appena l'ho vista ho imparato che cosa sia il desiderio. Dico, con una appena incontrata per la prima volta. Figurati a frequentarla, seguirla, vedertela scivolare intorno come se camminasse sulle acque. Naturalmente dico per dire, non darei mai inizio, ora nello stato in cui sono, a una storia del genere, e poi con Paola sarei proprio l'ultima delle carogne. Questa per me è come fosse la Vergine Immacolata, neppure col pensiero. Ottimo. Ma lei? Lei potrebbe ancora essere nel pieno della storia, forse voleva salutarmi col tu o col nome e basta, per fortuna che in francese si usa il vous anche quando si va a letto, forse voleva saltarmi al collo, chissà quanto ha penato anche lei in questi giorni, ed ecco che mi vede arrivare bello come il sole, come va Mademoiselle Sibilla, vi prego lascia-
temi guardare i libri, grazie molto gentile. E capisce che non potrà mai raccontarmi la verità. Forse è meglio così, è la volta che si trova un ragazzo. E io? Che io non sia proprio a posto è scritto nelle cartelle cliniche. Che cosa vado rimuginando? Con una bella ragazza in studio è ovvio che Paola reciti la parte della moglie gelosa, è solo un gioco tra vecchi coniugi. E Gianni? Gianni ha parlato della bella Sibilla, forse è lui che ci perde la testa, viene sempre in studio con la scusa delle tasse, e poi si ferma facendo finta di incantarsi sulle pagine crocchianti. È lui che si è preso la cotta, io non c'entro. È Gianni, a un'età che già puzza di cadavere anche lui, che cerca di sottrarmi, che mi ha sottratto la donna della mia vita. Ci risiamo: la donna della mia vita? Credevo che ce l'avrei fatta a convivere con tanta gente che non riconosco, ma questo è lo scoglio più duro, almeno dal momento che mi sono messo in testa queste fantasie senili. Quello che mi fa male è che potrei farle male. Vedi, dunque... No, è naturale che non si voglia fare del male alla propria figlia adottiva. Figlia? L'altro giorno mi sentivo pedofilo e ora mi scopro incestuoso? E infine, gran Dio, ma chi ha detto che abbiamo fatto all'amore? Forse è stato solo un bacio, una volta sola, forse un'attrazione platonica, l'uno capiva quello che l'altra sentiva e viceversa, ma nessuno dei due ne ha mai parlato. Amanti da Tavola Rotonda, abbiamo dormito per quattro anni con la spada nel mezzo. Oh, ho anche una Stultifera navis, non mi pare che sia la prima edizione, e poi non è una gran bella copia. E questo De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico? Tutto rubricato da cima a fondo, peccato che la rilegatura sia moderna, uso antico. Parliamo d'affari. "Sibilla, la Stultifera navis non è la prima edizione, vero?" "Purtroppo no, Monsieur Bodoni, la nostra è la Olpe del millequattrocentonovantasette. La prima è sempre Olpe, Basilea, ma del 1494, però in tedesco, Das Narren Shyff. La prima edizione latina, come la nostra, appare nel novantasette, ma in marzo, e la nostra se guarda nel colophon fa agosto, e in mezzo ce ne sono una di aprile e una di giugno. Ma non è tanto la data, è la copia, lo vedete che non è poi tanto appetibile. Non dico che sia una copia di studio, però non è da suonarci le campane." "Quante cose sapete, Sibilla, cosa farei senza di voi?" "Me le avete insegnate voi. Per lasciare Varsavia mi ero fatta passare per una grande savante, ma se non v'incontravo rimanevo stupida come quando ero arrivata." Ammirazione, devozione. Sta cercando di dirmi qualcosa? Mormoro: "Les amoureux fervents et les savants austères..." La prevengo. "Nulla nulla, mi veniva in mente una poesia. Sibilla, è meglio chiarirci le idee. Forse se andiamo avanti vi sembrerò quasi normale, ma non lo sono. Tutto quello che mi è accaduto prima, tutto capite, proprio tutto, è come se fosse una lavagna su cui hanno passato la spugna. Sono di una immacolata nerezza, se mi perdonate la contraddizione. Voi dovrete comprendermi, non disperarvi e... starmi vicina." Ho detto bene? Mi pareva perfetto, poteva essere inteso in due sensi. "Non vi preoccupate, Monsieur Bodoni, ho capito tutto. Io sono qui e non me ne vado. Aspetto..." Sei davvero un'acqua cheta? Dici che aspetti che mi rimetta in sesto, come è ovvio che facciano tutti, o che aspetti che io ricordi di nuovo quella cosa? E se è così cosa farai per ricordarmela, nei giorni a venire? O vorresti con tutta l'anima che ricordassi, ma non farai nulla, perché non sei un'acqua cheta, sei una donna che ama, e tace perché non vuole turbarmi? Soffri, non lo dai a vedere perché sei l'essere meraviglioso che sei, ma stai dicendoti che questa è finalmente l'occasione buona per rimettere la testa a posto, tu e io? Ti sacrifichi, non farai mai nulla per farmi ricordare, non cercherai di toccarmi quasi per caso la mano una sera, perché io assapori la mia madeleine tu che con l'orgoglio di tutti gli amanti sai che forse gli altri non riescono a farmi sentire odori alla Sesamo apriti, ma tu solo a volere potresti, ti basterebbe sfiorarmi la guancia coi tuoi capelli, mentre ti chini a darmi una scheda. O dire di nuovo, quasi per caso, quella frase banale che mi hai detto la prima volta, sulla quale abbiamo ricamato a lungo per quattro anni, citandola come una formula magica, quella di cui tu e io soltanto conoscevamo il significato e il potere, isolati nel nostro segreto? Tipo:
Et mon bureau? Ma questo è Rimbaud. Cerchiamo almeno di chiarire una cosa. "Sibilla, forse voi mi chiamate Monsieur Bodoni perché è come vi incontrassi appena oggi, e invece lavorando insieme abbiamo preso a darci del tu, come accade in questi casi. Come mi chiamavate?" È arrossita, ha emesso ancora quel modulato tenero singhiozzo: uOui, oui, oui in effetti ti chiamavo Yambo. Hai cercato subito di mettermi a mio agio." Gli occhi illuminati dalla felicità, come se si fosse tolta un peso dal cuore. Però darsi del tu non vuole dire niente, anche Gianni - siamo andati l'altro giorno nel suo ufficio con Paola - si dà del tu con la sua segretaria. "E allora!" ho detto con allegria. "Ricominciamo esattamente come prima. Tu sai che ricominciare tutto come prima può aiutarmi. " Che cosa avrà capito? Che cosa vuole dire per lei ricominciare come prima? A casa ho passato una notte insonne, e Paola mi accarezzava la testa. Mi sentivo un adultero, eppure non avevo fatto nulla. D'altra parte non stavo preoccupandomi per Paola, ma per me. Il bello di aver amato, mi dicevo, sta nel ricordare di avere amato. C'è gente che vive di un unico ricordo. Eugenia Grandet, per esempio. Ma pensare di avere amato e non poter ricordare? Peggio ancora, avere forse amato, non ricordarselo, e avere il sospetto di non avere amato. Oppure, nella mia vanità non avevo messo in conto un'altra storia, io pazzamente innamorato che faccio un'avance, e lei mi mette a posto, con gentilezza, dolcezza e fermezza. Poi rimane perché io sono un gentiluomo e da quel giorno mi comporto come se nulla fosse accaduto, lei in fondo si trova bene allo studio, forse non può permettersi di perdere un buon lavoro, magari è stata lusingata dalla mia mossa, non se ne rende neppure conto ma la sua vanità femminile è stata toccata, non lo confessa nemmeno a se stessa ma avverte di avere su di me un certo potere. Un’allumeuse. Peggio, quest'acqua cheta mi ha mangiato un sacco di soldi, mi ha fatto fare quello che voleva lei, è evidente che ho lasciato tutto in mano sua, compresi gli incassi e i versamenti e forse i prelievi in banca, io ho cantato il chicchiricchì del professor Unrath, ero un uomo finito, ormai non ne uscivo più - ne uscirò forse con questo fortunato malanno, non tutto il male viene per nuocere. Che miserabile che sono, come posso insudiciare a tal punto tutto quello che tocco, magari è ancora vergine e ne sto facendo una puttana. Comunque sia, anche il solo sospetto, rinnegato, peggiora le cose: se non ricordi di avere amato non sai neppure se chi amavi era degno del tuo amore. Quella Vanna incontrata mattine fa, quello era un caso chiaro, un flirt, una notte o due, poi magari qualche giorno di delusione, ed era finita. Ma qui sono in gioco quattro anni della mia vita. Yambo, stai forse innamorandotene adesso, magari prima niente, e ora corri verso la tua rovina? Solo perché immagini di esserti dannato allora e vuoi ritrovare il tuo paradiso? E dire che ci sono dei folli che bevono per dimenticare, o prendono la droga, ah se potessi vorrei scordare tutto, dicono. Io solo so la verità: dimenticare è atroce. Esistono droghe per ricordare? Forse Sibilla... Ecco che ricomincio. Se ti veggo passare a tanta regale distanza, con la chioma sciolta e tutta la persona astata, la vertigine mi si porta via. Il mattino dopo ho preso un taxi e sono andato da Gianni nel suo ufficio. Gli ho chiesto fuori dai denti che cosa sapeva di me e Sibilla. Mi è parso cadere dalle nuvole. "Ma Yambo, tutti siamo un po' invaghiti di Sibilla, io, i tuoi colleghi, molti dei tuoi clienti. C'è gente che viene da te solo per vedere lei. Ma è uno scherzo, una cosa da collegiali. Ci prendiamo in giro a vicenda, e sovente abbiamo preso in giro te, mi sa che c'è qualcosa tra te e la bella Sibilla, dicevamo. E tu ridevi, talora facevi la scena, come a far intendere cose dell'altro mondo, e talora dicevi di smetterla, che poteva essere tua figlia. Giochi. Per questo quella sera ti ho chiesto di Sibilla, credevo l'avessi già rivista, volevo sapere che impressione ti aveva fatto." "Non ti ho raccontato mai niente di me e Sibilla?" "Perché, c'è stato qualcosa?" "Non fare il furbo, lo sai che sono uno smemorato. Sono qui a chiedere a te se ti ho
mai raccontato niente." "Niente. E dire che delle tue avventure mi dicevi sempre, forse per farmi provare invidia. Della Cavassi, della Vanna, dell'americana al salone del libro di Londra, dell'olandesina bella che sei andato tre volte ad Amsterdam apposta, della Silvana..." "Evvia, quante storie ho avuto?" "Tante. Troppe per me che sono stato sempre monogamo. Ma di Sibilla, ti giuro, non mi hai detto mai niente. Che cosa ti sei messo in testa? Ieri l'hai vista, ti ha sorriso, e hai pensato che era impossibile averla vicino e non farci un pensierino. È umano, avrei voluto ben vedere che dicevi chi è 'sto scorfano... E poi, nessuno di noi è mai riuscito a sapere se Sibilla abbia una vita sua. Sempre serena, pronta ad aiutare chiunque come se facesse un piacere solo a lui, si può essere civette proprio perché non si fanno le mossette. La sfinge di ghiaccio." Gianni era probabilmente sincero, ma questo non voleva dire niente. Se con Sibilla era nata la cosa più importante di tutte le altre, la Cosa, era evidente che non lo avevo raccontato neppure a Gianni. Doveva rimanere un delizioso complotto tra me e Sibilla. Oppure no. La sfinge di ghiaccio, fuori orario, ha la sua vita, magari sta già con qualcuno, affari suoi, lei è perfetta, non mescola il lavoro con la vita privata. Morso dalla gelosia per un rivale sconosciuto. Pure qualcuno ti disfiorerà, bocca di sorgiva, qualcuno che non lo saprà, un pescatore di spugne avrà questa perla rara. "Ho una vedova per te, Yambo," mi ha detto Sibilla strizzandomi l'occhio. Prende confidenza, che bello. "Una vedova che?" ho chiesto. Mi ha spiegato che i librai antiquari del mio rango hanno alcuni modi di procurarsi i libri. C'è il tipo che ti capita in studio chiedendoti se quel libro vale qualcosa, e se vale qualcosa dipende da quanto sei onesto, ma certo cerchi di guadagnarci su. Oppure il tizio è un collezionista in difficoltà, conosce il valore di quello che ti offre, e al massimo puoi tirare un po' sul prezzo. Un altro modo è comprare alle aste internazionali, e lì fai l'affare se sei il solo a esserti accorto quanto vale quel libro, ma non è che i tuoi concorrenti siano degli sciocchi. Quindi il margine è minimo, e diventa interessante solo se puoi metterlo a un prezzo molto alto. Poi comperi dai colleghi, perché uno può avere un libro che al suo tipo di cliente interessa poco, e tiene il prezzo basso, e tu invece conosci l'amatore assatanato. Infine c'è il metodo dell'avvoltoio. Individui le grandi famiglie decadute, col palazzo antico e la biblioteca vetusta, aspetti che muoia il padre, il marito, lo zio, che gli eredi abbiano già tanti problemi con la vendita dei mobili e dei gioielli e non sappiano come valutare quella caterva di libri che non hanno mai aperto. Si dice vedova per dire, può essere il nipote che vuole realizzare pochi, maledetti e subito, meglio se ha affari di donne, o di droga. Allora vai a vedere i libri, passi in quelle sale ombrose due o tre giorni, e decidi la tua strategia. Quella volta era proprio una vedova, Sibilla aveva ricevuto una dritta da qualcuno (sono i miei piccoli segreti, diceva compiaciuta e maliziosa) e pare che con le vedove io ci sappia fare. Ho chiesto a Sibilla di accompagnarmi, perché da solo rischiavo di non riconoscere il libro. Che bella casa signora, grazie sì, forse un cognac. Poi, via a frugare, bouquiner, browsing... Sibilla mi sussurrava le regole del gioco. La norma è che trovi due o trecento volumi che non valgono niente, riconosci subito le varie pandette e le dissertazioni di teologia, e queste finiscono sulle bancarelle alla fiera di sant'Ambrogio, o i dodicesimi settecenteschi con le Avventure di Telemaco e i viaggi utopici, tutti rilegati uguali, vanno bene per gli arredatori che li comperano a metraggio. Poi tante cose del Cinquecento in piccolo formato, Ciceroni e retoriche a Erennio, roba da poco, che finiscono sulle bancarelle di piazza Fontanella Borghese a Roma, e li comperano per il doppio di quel che valgono quelli che poi dicono di avere delle cinquecentine. Però, cerca e cerca, e lì me ne sono accorto anch'io, ecco un Cicerone, sì, ma in corsivo aldino, e addirittura una Cronaca di Norimberga in stato perfetto, un Rolewinck, un’Ars magna lucis et umbrae di Kircher con le sue splendide incisioni e solo poche pagine brunite, che per la carta dell'epoca è raro, e persino un delizioso Rabelais Chez Jean Frédéric Bernard, 1741, tre volumi in quarto con le vignette di Picart, splendida rilegatura in marocchino rosso, piatti incisi in oro, nervi e decorazioni
in oro al dorso, controsguardie in seta verde con denteile in oro - che il defunto aveva premurosamente sovraccoperto con carta azzurra per non rovinarli, e a prima vista non facevano alcuna figura. Certo non è la Cronaca di Norimberga, mi mormorava Sibilla, la rilegatura è moderna, ma da amatore, firmata Rivière & Son. Il Fossati lo prenderebbe subito - ti dico dopo chi è, colleziona rilegature. Alla fine avevamo individuato dieci volumi che a venderli bene ne avremmo tirato fuori almeno cento milioni a dir poco, solo la Cronaca da sola poteva renderne minimo minimo cinquanta. Chissà perché erano lì, il defunto faceva il notaio e la biblioteca era uno status symbol, ma doveva essere sparagnino e comperava solo se non c'era da spendere molto. I libri buoni doveva averli acquistati per caso quarantanni prima, quando te li tiravano dietro. Sibilla mi ha detto come si fa in questi casi, io ho chiamato la signora, ed era come se avessi sempre fatto quel mestiere. Le ho detto che lì c'era tanta roba, ma tutta di scarso valore. Le ho sbattuto sul tavolo i libri più infelici, pagine arrossate, macchie di umidità, giunti deboli, il marocchino dei piatti come se fosse stato passato alla carta vetrata, tarli come una trina, guardi questo dottore, diceva Sibilla, così imbarcato non torna più allo stato normale nemmeno sotto una pressa, io ho citato la fiera di sant'Ambrogio. "Non so neppure se riesco a collocarli tutti, signora, e lei capisce che se rimangono in casa le spese di magazzino salgono alle stelle. Le offro cinquanta milioni per tutto il lotto." "Lo chiama il lotto?!" Ah, no, cinquanta milioni per quella splendida biblioteca, suo marito ci aveva messo una vita per metterla insieme, era una offesa alla sua memoria. Passaggio alla seconda fase strategica: "Allora signora, guardi, a noi interessano al massimo questi dieci. Voglio venirle incontro e le offro trenta milioni solo per questi." La signora calcola, cinquanta milioni per una immensa biblioteca è un'offesa alla santa memoria dello scomparso, trenta per soli dieci libri è un buon affare, per il resto troverà un altro libraio meno schizzinoso e più munifico. Affare fatto. Siamo tornati in studio allegri come ragazzini che avevano appena combinato una marachella. "È disonesto?" ho domandato. "Ma no, Yambo, così fan tutti." Anche lei cita, come me. "In mano a un tuo collega prendeva anche meno. E poi hai visto i mobili e i quadri e le argenterie, è gente piena di soldi che dei libri non gli importa niente. Noi lavoriamo per quelli che ai libri ci vogliono davvero bene." Come farei senza Sibilla. Dura e soave, astuta come la colomba. E ho ricominciato a fantasmare, rientrando nella maledetta spirale dei giorni prima. Ma per fortuna la visita alla vedova mi aveva tolto ogni forza. Sono tornato subito a casa. Paola ha osservato che da qualche giorno le sembravo più sfuocato del solito, mi stavo stancando troppo. Meglio andare in studio un giorno sì e un giorno no. Mi sforzavo di pensare ad altro: "Sibilla, mia moglie dice che raccoglievo testi sulla nebbia. Dove sono?" "Erano fotocopie orribili, ho trasferito tutto a poco a poco sul computer. Non ringraziare, era molto divertente. Guarda, ti cerco la cartella." Sapevo che esistono i computer (come sapevo che esistono gli aeroplani), ma naturalmente ne toccavo uno per la prima volta. È stato come con la bicicletta, ci ho messo sopra le mani e i miei polpastrelli ricordavano da soli. Sulla nebbia avevo raccolto almeno centocinquanta pagine di citazioni. Doveva davvero starmi a cuore. Ecco Flatland di Abbott: un paese a due sole dimensioni, dove vivono solo figure piane, triangoli, quadrati e poligoni. E come riconoscersi tra loro se non si possono vedere dall'alto e percepiscono solo linee? Grazie alla nebbia. "Dovunque ci sia una buona dose di Nebbia, ecco che gli oggetti a una distanza, diciamo, di un metro, sono sensibilmente meno nitidi di quelli che si trovano a novantacinque centimetri; di conseguenza, con l'esperienza di un'attenta e costante osservazione della maggiore o minore nitidezza, siamo in grado di dedurre con grande precisione la configurazione dell' oggetto osservato." Beati questi triangoli che vagano nella bruma e vedono qualcosa, ecco un esagono, ecco un parallelogramma. Bidimensionali, ma più fortunati di me.
Mi sentivo di poter anticipare a memoria la maggior parte delle citazioni. "Come mai," ho chiesto poi a Paola, "se ho dimenticato tutto quello che mi riguarda? La raccolta l'ho fatta io, con un investimento personale." "Non è che le ricordi," mi ha detto, "perché le avevi raccolte, le hai raccolte perché le ricordavi. Sono parte dell'enciclopedia, come le altre poesie che mi hai recitato il primo giorno qui in casa. " Comunque le riconoscevo a prima vista. Iniziando da Dante: Come quando la nebbia si dissipa, lo sguardo a poco a poco raffigura ciò che cela il vapor che l'aere stipa, così forando l'aura grossa e scura... D'Annunzio ha belle pagine sulla nebbia nel Notturno: "Qualcuno che cammina al mio fianco senza rumore, come se avesse i piedi nudi... La nebbia entra in bocca, occupa i polmoni. Verso il Canalazzo fluttua e s'accumula. Lo sconosciuto diventa più grigio, più lieve; si fa ombra... Sotto la casa dov'è l'antiquario, egli scompare all'improvviso." Ecco, l'antiquario è come un buco nero: quel che vi cade dentro non riemerge più. C'è Dickens, il classico inizio di Bleak House: "Nebbia ovunque. Nebbia su per il fiume, che fluisce tra isolette e prati verdi; nebbia giù per il fiume che scorre insudiciato tra le file di navi e le sozzure che giungono alla riva di una grande (e sporca) città..." Trovo Emily Dickinson: "Let us go in; the fog is rising" "Non conoscevo Pascoli," diceva Sibilla. "Senti che bello..." Ora mi era proprio vicina per vedere lo schermo del computer, avrebbe davvero potuto sfiorarmi la guancia con i capélli. Ma non l'ha fatto. Abbandonato il francese, pronunciava l'italiano con una molle cadenza slava: Immobili tra la leggiera caligine gli alberi: lunghi lamenti di vaporiera. Nascondi le cose lontane, tu nebbia impalpabile e scialba, tu fumo che ancora rampolli, su l'alba... Si è fermata sulla terza citazione: "La nebbia... gemica?" "Gemica." "Ah." Pareva eccitata di aver imparato una nuova parola: La nebbia gemica, tira una buffa ch'empie di foglie stridule il fosso; lieve nell'arida siepe si tuffa il pettirosso; sotto la nebbia vibra il vocale
canneto un brivido quasi febbrile; sopra la nebbia lontano sale il campanile... Buona nebbia in Pirandello, e dire che era siciliano: "La nebbia s'affettava... Attorno a ogni fanale sbadigliava un alone” Ma allora meglio la Milano di Savinio: "La nebbia è comoda. Trasforma la città in una enorme bomboniera, e i suoi abitanti in altrettanti canditi... Passano nella nebbia donne e ragazze incappucciate. Un fumo leggero alita intorno alle narici e alla bocca socchiusa... Ritrovarsi in un salotto prolungato dagli specchi... abbracciarsi odorosi ancora di nebbia, mentre la nebbia fuori preme sulla finestra e l'inopaca discreta, silenziosa, protettiva..." Le nebbie milanesi di Vittorio Sereni: Le portiere spalancate a vuoto sulla sera di nebbia nessuno che salga o scenda se non una folata di smog la voce dello strillone - paradossale - il Tempo di Milano l'alibi e il beneficio della nebbia cose occulte camminano al coperto muovono verso di me divergono da me passato come storia passato come memoria: il venti il tredici il trentatré anni come cifre tranviarie... Ho raccolto di tutto. Ecco King Lear ("che sia avvolta nella nebbia che il sole suscita dalle paludi!"). E Campana? "Dalla breccia dei bastioni rossi corrosi nella nebbia si aprono silenziosamente le lunghe vie. Il malvagio vapore della nebbia intristisce tra i palazzi velando la cima delle torri, le lunghe vie silenziose deserte come dopo il saccheggio." Sibilla s'incantava su Flaubert: "Una giornata biancastra passava attraverso la finestra senza tendine, s'intravedevano le cime degli alberi, e più lontano la prateria per metà annegata nella nebbia che fumava al chiaro di luna." O su Baudelaire: "Ora un mare di nebbia bagnava gli edifizi, e gli agonizzanti nel fondo degli ospizi." Pronunciava parole altrui, ma per me era come se sgorgassero da una polla. Forse qualcuno ti disfiorerà, bocca di sorgiva... Lei era lì, la nebbia no. Altri l'avevano vista e disciolta in suoni. Forse un giorno la nebbia avrei potuto penetrarla davvero, se Sibilla mi avesse condotto per mano. Ho già fatto alcuni controlli da Gratarolo, ma in generale ha approvato quello che ha fatto Paola. Ha apprezzato che ormai sia quasi autonomo, si eliminano almeno le prime frustrazioni. Ho passato molte sere con Gianni, Paola e le ragazze a giocare a Scarabeo, dicono che era il mio gioco preferito. Trovo facilmente le parole, specie le più astruse come acrostico (attaccandomi a un acro) o zeugma. Incorporando una i e una u ballerine in apertura di due parole verticali, partendo dalla prima casella rossa della prima riga orizzontale ho raggiunto la seconda, realizzando enfiteusi. Ventun punti moltiplicati per nove, più cinquanta di premio per avere usato tutte e sette le mie lettere, duecentotrentanove punti in un colpo solo. Gianni si è arrabbiato, e meno male che sei
smemorato, gridava. Lo fa per infondermi fiducia. Non solo sono smemorato, ma forse ormai vivo memorie fittizie. Gratarolo aveva accennato al fatto che, in casi come il mio, qualcuno si inventava brandelli di passato che non aveva mai vissuto, tanto per avere l'impressione di ricordare. Ho forse preso Sibilla come pretesto? Dovevo uscirne in qualche modo. Stare in studio era diventato un tormento. Ho detto a Paola: "Lavorare stanca. Vedo solo e sempre lo stesso pezzo di Milano. Forse mi farebbe bene fare un viaggio, lo studio va avanti da sé e Sibilla sta già preparando il nuovo catalogo. Potremmo andare, che so, a Parigi." "Parigi è ancora troppo faticoso per te, viaggio e tutto. Lasciami pensare." "Giusto, Parigi no, a Mosca, a Mosca..." "A Mosca?" "È Cechov. Sai che le citazioni sono i miei soli fanali nella nebbia."
4. SOLO ME NE VO PER LA CITTÀ Mi hanno mostrato tante foto di famiglia, che ovviamente non mi hanno detto nulla. D'altra parte ci sono solo quelle da quando ho conosciuto Paola. Quelle dell'infanzia, se ce ne sono, saranno da qualche parte a Solara. Ho parlato al telefono con mia sorella, a Sidney. Quando ha saputo che ero stato male avrebbe voluto venire subito, ma ha appena subito un'operazione abbastanza delicata e i dottori le hanno proibito di fare un viaggio così disagevole. Ada ha tentato di rievocare qualcosa, poi ha smesso e si è messa a piangere. Le ho detto, quando viene, di portarmi in regalo un ornitorinco da tenere in soggiorno, chissà perché. Per quelle che sono le mie conoscenze, avrei potuto dire anche un canguro, ma evidentemente so che in casa sporcano. Sono andato in studio solo per qualche ora al giorno. Sibilla sta preparando il catalogo e naturalmente si muove bene attraverso le bibliografie. Do una rapida occhiata, dico che va a meraviglia, poi dico che ho appuntamento col dottore. Mi guarda uscire con apprensione. Mi sa malato, non è normale? O pensa che la voglio sfuggire? Posso mica dirle "non voglio prenderti a pretesto per rifarmi una memoria fittizia, povero amore caro"? Ho chiesto a Paola quali erano le mie posizioni politiche: "Non vorrei riscoprirmi, che so, nazista." "Sei quello che si dice un buon democratico," ha detto Paola, "ma più per istinto che per ideologia. Ti dicevo sempre che a te la politica ti annoia - e tu per polemica mi chiamavi la pastinarla. Come se ti fossi rifugiato nei libri antichi per paura, o per disprezzo del mondo. No, sono ingiusta, non era disprezzo, perché ti infiammavi sui grandi problemi morali. Sottoscrivevi gli appelli pacifisti e non violenti, t'indignavi sul razzismo. Ti sei persino iscritto a una lega contro la vivisezione." "Animale, immagino." "Naturalmente. La vivisezione umana si chiama guerra." "E sono stato... sempre così anche prima di incontrarti?" "Su infanzia e adolescenza glissavi. D'altra parte non sono mai riuscita a capirti in queste cose. Sei sempre stato un misto di pietà e cinismo. Se c'era una condanna a morte da qualche parte firmavi contro, mandavi soldi per una comunità antidroga, ma se ti dicevano che erano morti diecimila bambini, che so, in una guerra tribale nell'Africa centrale, ti stringevi nelle spalle, come a dire che il mondo è riuscito male e non c'è nulla da fare. Sei sempre stato un uomo gioviale, ti piacevano le belle donne, il buon vino, la buona musica, ma a me davi l'impressione che questa fosse una crosta esterna, un modo di nasconderti. Quando ti lasciavi andare, dicevi che la storia è un enigma sanguinoso, e il mondo un errore." "Niente potrà togliermi dalla mente che questo mondo sia il frutto di un dio tenebroso di cui io prolungo l'ombra. " "Chi l'ha detto?" "Non lo so più." "Dev'essere qualcosa che ti ha coinvolto. Però ti sei sempre fatto in quattro se qualcuno aveva bisogno di qualcosa, quando c'è stata l'alluvione a Firenze sei andato volontario a tirar fuori dal fango i libri della Biblioteca Nazionale. Ecco, eri pietoso sulle cose piccole e cinico su quelle grandi." "Mi pare giusto. Si fa solo quello che si può. Il resto è colpa di Dio, come diceva Gragnola." "Chi è Gragnola?" "Anche questo non lo so più. Si vede che una volta lo sapevo." Che cosa sapevo una volta? Una mattina mi sono svegliato, sono andato a farmi il caffè (decaffeinato) e mi sono
messo a canticchiare Roma non far la stupida stasera. Perché mi è venuta in mente quella canzone? Buon segno, ha detto Paola, ricominci. Dunque, pare che ogni mattina facendomi il caffè cantassi una canzone. Nessuna ragione per cui mi fosse venuta in mente quella piuttosto che un'altra. Tutte le ricerche (che cosa hai sognato stanotte, di che cosa avevamo parlato ieri sera, che cosa hai letto prima di addormentarti?) non avevano mai prodotto una spiegazione attendibile. Magari, che so, il modo d'infilarmi i calzini, il colore della camicia, un barattolo intravisto con la coda dell'occhio mi risvegliavano una memoria sonora. "Solo che," ha notato Paola, "hai sempre cantato solo canzoni dagli anni cinquanta in avanti, al massimo regredivi a quelle dei primi festival di Sanremo, Vola colomba bianca vola o Papaveri e papere. Non andavi mai indietro, nessuna canzone degli anni quaranta, o trenta, o venti." Paola mi ha accennato a Sola me ne vo per la città, la grande canzone del dopoguerra, anche lei che all'epoca era proprio bambina ce l'aveva nelle orecchie perché la radio la suonava sempre. Certo, mi sembrava di conoscerla, ma non ho reagito con interesse, era come se mi avessero cantato casta diva, e infatti pare che non sia mai stato un fanatico dell'opera lirica. Niente in paragone con Eleanor Rigby, per dire, o Que sera sera, whatever will be will be, o Sono una donna non sono una santa. Quanto a quelle vecchie, Paola attribuiva il mio disinteresse a quella che lei chiamava la rimozione dell'infanzia. Aveva anche notato nel corso degli anni che ero un buon competente di musica classica e di jazz, andavo volentieri ai concerti, ascoltavo dei dischi, ma non avevo mai voglia di accendere la radio. Al massimo la sentivo in sottofondo se l'aveva accesa qualcun altro. Evidentemente la radio era come la casa di campagna, faccenda d'altri tempi. Ma la mattina dopo, svegliandomi e facendomi il caffè, ho cantato: Sola me ne vo per la città passo tra la folla che non sa che non vede il mio dolore cercando te, sognando te} che più non ho... Io tento invano di dimenticar il primo amore non si può scordar è scritto un nome, un nome solo in fondo al cuor ti ho conosciuto ed ora so che sei l'amor, il vero amor, il grande amor. La melodia veniva fuori da sola. E mi si sono inumiditi gli occhi. "Perché proprio questa?" ha chiesto Paola. "Così. Forse perché s'intitolava In cerca di te. Di chi, non so." "Hai superato la barriera degli anni quaranta," ha riflettuto Paola, incuriosita. "Non è questo," ho risposto, "è che mi sono sentito dentro qualcosa. Come un brivido. No, non come un brivido. Come se... Sai Flatlandy lo hai letto anche tu. Bene, quei triangoli e quei quadrati vivono in due dimensioni, lo spessore non sanno che cosa sia. Ora immagina che qualcuno di noi, che viviamo in tre dimensioni, li tocchi dall'alto. Avvertirebbero una sensazione mai provata, e sarebbero incapaci di dire che cosa sia. Come se qualcuno venisse da noi dalla quarta dimensione e ci toccasse da dentro, mettiamo al piloro, delicatamente. Che cosa senti se uno ti solletica il piloro? Io direi... una misteriosa fiamma." "Cosa vuoi dire una misteriosa fiamma?" "Non lo so, mi è venuto da dire così." "È lo stesso che hai sentito quando hai visto la foto dei tuoi genitori?" "Quasi. Cioè no. Ma in fondo, perché no? Quasi lo stesso." "Questo è un segnale interessante, Yambo, bisogna prenderne nota." Lei spera sempre di redimermi. E io magari sentivo la misteriosa fiamma pensando a Sibilla.
Domenica. "Vai a fare un giro," mi ha detto Paola, "ti fa bene. Non uscire dalle strade che conosci. In largo Cairoli c'è quella bancarella con i fiori che di solito rimane aperta anche quando è festa. Fatti fare un bel mazzo primavera, oppure delle rose, questa casa sembra un mortorio." Sono sceso in largo Cairoli e la bancarella era chiusa. Ho bighellonato per via Dante sino al Cordusio, ho girato a destra verso la Borsa, e ho visto che alla domenica lì si danno appuntamento i collezionisti di tutta Milano. Per via Cordusio bancarelle di francobolli, lungo tutta via Armorari vecchie cartoline, figurine, poi l'intera crociera del Passaggio Centrale occupata da venditori di monete, soldatini, immaginette sacre, orologi da polso, addirittura schede telefoniche. Il collezionismo è anale, dovrei saperlo, la gente è pronta a collezionare di tutto, anche tappi di Coca-Cola, in fondo le schede telefoniche costano meno dei miei incunaboli. In piazza Edison, a sinistra bancarelle con libri, giornali, manifesti pubblicitari e di fronte persino alcune che vendono paccottiglia varia, lampade Liberty, certamente false, vassoi a fiori su fondo nero, ballerine di biscuit. In una bancarella c'erano quattro contenitori cilindrici, sigillati, dove in una soluzione acquosa (formalina?) stavano in sospensione sagome color avorio, vuoi rotonde, vuoi come fagioli, legate da filamenti bianchissimi. Erano creature marine, oloturie, brandelli di polipo, coralli sbiaditi, e avrebbero anche potuto essere il parto morboso della fantasia teratologica di un artista. Yves Tanguy? Il padrone mi ha spiegato che erano testicoli: di cane, di gatto, di gallo e di un'altra bestia, completi di reni e quelle cose lì. "Guardi, è roba di un laboratorio scientifico dell'Ottocento. Quarantamila l'uno. Solo i contenitori valgono il doppio, è roba che ha almeno centocinquant'anni. Quattro per quattro sedici, io glieli dò tutti e quattro per centoventimila. Un affare." Quei testicoli mi affascinavano. Per una volta era qualcosa che non avrei dovuto conoscere per memoria semantica, come diceva Gratarolo, e neppure avevano fatto parte della mia esperienza passata. Chi ha mai visto dei testicoli di cane, voglio dire, senza il cane intorno, allo stato puro? Mi sono frugato in tasca, avevo quarantamila in tutto e non è che a una bancarella puoi pagare con un assegno. "Prendo quelli del cane." "Fa male a lasciare gli altri, era un'occasione unica." Non si può avere tutto. Sono tornato a casa con le mie palle di cane e Paola è sbiancata: "È curioso, sembra davvero un'opera d'arte, ma dove lo teniamo? In soggiorno, che ogni volta che offri a un ospite degli anacardi o delle olive ascolane quello ci vomita sul tappeto? In camera da letto? Scusa, no. Lo terrai in studio, magari accanto a qualche bel libro secentesco di scienze naturali." "Credevo di avere fatto un bel colpo." "Ma ti rendi conto che sei l'unico uomo al mondo, l'unico sulla faccia della terra da Adamo in avanti, che la moglie lo manda a comperare delle rose e torna a casa con un paio di coglioni di cane?" "Se non altro è una cosa da Guinness dei Primati. E poi lo sai, sono malato." "Scuse. Eri matto anche prima. Non è mica un caso se hai chiesto un ornitorinco a tua sorella. Una volta volevi metterci in casa un flipper degli anni sessanta che costava come un quadro di Matisse e faceva un rumore d'inferno." Ma quel mercatino Paola lo conosceva già, anzi dice che avrei dovuto conoscerlo anch'io, una volta ci avevo trovato la prima edizione del Gog di Papini, copertine originali, intonso, per diecimila lire. Così la domenica seguente ha voluto accompagnarmi, non si sa mai, ha detto, rischio che mi torni a casa con testicoli di dinosauro e bisogna chiamare un muratore ad allargare la porta per farli entrare. Francobolli e schede telefoniche no, ma m'incuriosivano i vecchi giornali. Roba della nostra infanzia, ha detto Paola. E io: "Allora lasciamo perdere." Ma a un certo punto ho visto un albo di Topolino. D'istinto l'ho preso in mano. Non doveva essere roba vecchia, era una ristampa degli anni settanta, come si deduceva dal retro della copertina e dal prezzo. L'ho aperto a metà: "Non è un originale, perché quelli erano stampati a due colori, con una sfumatura di rossi mattone e marroncini, e questo è stampato in bianco
e blu." "Come lo sai?" "Non so, lo so." "Ma la copertina riproduce quella originale, guarda la data e il prezzo, 1937, lire una e cinquanta."
Il tesoro dì Clarabella, campeggiava sulla copertina a vari colori. "E si erano sbagliati d'albero," ho detto. "In che senso?" Ho sfogliato in fretta l'albo, e sono andato a colpo sicuro sulle inquadrature giuste. Ma era come se non avessi voglia di leggere quello che c'era scritto nei palloncini, come se fossero scritti in un'altra lingua, o le lettere si fossero impiastricciate tutte insieme. Ho piuttosto recitato a memoria. "Vedi, Topolino e Orazio sono andati a cercare con una vecchia mappa il tesoro sepolto dal nonno o dal prozio di Clarabella, a gara col viscido signor Squick e il perfido Gambadilegno. Sono arrivati sul posto, hanno consultato la mappa, si doveva partire da un albero grande, tirare una linea verso un albero più piccolo, e triangolare. Scavano scavano e non c'è niente. Sino a che Topolino non ha una illuminazione, la mappa è del 1863, sono passati più di settantanni, impossibile che ci fosse già quell'albero piccolo, dunque l'albero che ora appare grosso è il piccolo di allora, e il grande è caduto, ma forse ce ne sono in giro ancora i resti. E infatti, cerca cerca, ecco un pezzo di tronco, rifanno le triangolazioni, riscavano ed ecco lì, proprio in quel punto, il tesoro."
"Ma tu come fai a saperlo?" "Lo sanno tutti, no?" "No che non lo sanno tutti," ha detto Paola eccitata. "Questa non è la memoria semantica. Questa è memoria autobiografica. Tu stai ricordando qualcosa che ti ha impressionato da bambino! E te lo ha evocato questa copertina." "No, non l'immagine. Caso mai il nome, Clarabella." "Rosebud." Naturalmente abbiamo comperato l'albo. Ho passato la sera su quella storia, ma non ne cavavo fuori più niente. La sapevo, ed era tutto lì, nessuna misteriosa fiamma. "Non ne uscirò più, Paola. Non entrerò mai nella caverna." "Ma hai ricordato di colpo la faccenda dei due alberi." "Almeno Proust ne ricordava tre. Carta, carta, come tutti i libri in questo appartamento, e quelli dello studio. Ho una memoria di carta." "Sfrutta la carta, visto che le madeleines non ti dicono niente. Non sei Proust, va bene. Neanche Zasetskij lo era." "Cameade chi era costui?" "Me ne ero quasi dimenticata e me lo ha fatto venire in mente Gratarolo. Col mestiere che faccio non potevo non avere letto Un mondo perduto e ritrovato, un caso classico. Solo che era stato tanto tempo fa, e per interesse accademico. Oggi l'ho riletto con partecipazione, è un delizioso libretto che si scorre in due ore. Dunque Lurija, il grande neuropsicologo russo, ha seguito il caso di questo Zasetskij, che durante l'ultima guerra mondiale viene colpito da una scheggia con danni alla regione occipito-parietale sinistra del cervello. Si risveglia, anche lui, ma in un caos terribile, non riesce neppure a percepire la posizione del suo corpo nello spazio. Qualche volta pensa che alcune parti del suo corpo siano cambiate, che la sua testa sia divenuta smoderatamente grande, che il suo tronco sia estremamente piccolo, che le sue gambe si siano spostate sulla testa." "Non mi pare il caso mio. Le gambe sulla testa? E il pene al posto del naso?" "Aspetta. Pazienza le gambe sulla testa, gli succedeva solo ogni tanto. Il peggio era la memoria. Ridotta a brandelli, come se si fosse polverizzata, altro che la tua. Anche lui non ricordava né dov'era nato né il nome di sua madre, ma neppure sapeva più leggere e scrivere. Lurija si mette a seguirlo, Zasetskij ha una volontà di ferro, impara di nuovo a leggere e scrive, scrive, scrive. Per venticinque anni registra non solo tutto quello che dissotterra nella caverna devastata della sua memoria, ma anche quello che gli accade giorno per giorno. Era come se la sua mano, con i suoi automatismi, riuscisse a mettere in ordine quello che la testa non ce la faceva. Come a dire che quello che scriveva era più intelligente di lui. Così, sulla carta, si è ritrovato, a poco a poco. Tu non sei lui, ma quello che mi ha colpito è che lui si è rifatto una memoria di carta. E ci ha messo venticinque anni. Tu la carta ce l'hai già, ma evidentemente non è quella che c'è qui. La tua caverna è nella casa di campagna. Ci ho pensato molto in questi giorni, sai. Hai chiuso a chiave troppo decisamente le carte della tua infanzia, e della tua adolescenza. Forse là c'è qualcosa che ti tocca da vicino. Ora tu mi fai il santo piacere e te ne vai a Solara. Da solo, primo perché io non posso lasciare il lavoro, secondo perché devi fare tutto da solo. Tu e il tuo passato remoto. Te ne stai laggiù quanto basta, e vedi che cosa ti succede. Al massimo avrai perso una settimana, magari due, e avrai preso aria buona che male non ti fa. Ho già telefonato ad Amalia." "E chi è Amalia, la moglie di Zasetskij?" "Sì, sua nonna. Ti ho mica raccontato tutto di Solara. Sin dai tempi di tuo nonno c'erano lì i mezzadri, Maria e Tommaso detto Masulu, perché allora la casa aveva molta terra intorno, soprattutto vigne, e abbastanza bestiame. Maria ti ha visto crescere e ti voleva un bene dell'anima. Ma anche Amalia, la figlia, avrà avuto un dieci anni più di te, e ti ha fatto da sorella maggiore, da tata, da tutto. Eri il suo idolo. Quando i tuoi zii hanno venduto le terre, compresa la cascina a monte, rimanevano ancora una piccola vigna, il frutteto, l'orto, il porcile, la conigliera e il pollaio. Non
aveva più senso parlare di mezzadria, e tu avevi lasciato tutto a Masulu, come fosse roba sua, col patto che la famiglia accudisse alla casa. Poi anche Masulu e Maria se ne sono andati, Amalia non si è mai sposata - non è mai stata una gran bellezza - e ha continuato a vivere lì, vende le uova e i polli in paese, il norcino viene al momento giusto ad ammazzarle il maiale, dei cugini l'aiutano a dare il verderame alle viti e a fare una sua piccola vendemmia, insomma è contenta, tranne che si sente un po' sola e quindi è felice quando ci vanno le ragazze con i bambini. La si paga per quello che si consuma, uova, polli o salame, per frutta e verdura non c'è verso - è roba vostra, dice. Una donna d'oro, una cuoca che vedrai. All'idea che tu vai là non stava nella pelle, il signorino Yambo di qua e il signorino Yambo di là, che bellezza, vedrà che la sua malattia gliela faccio passare io con la salata che piace a lui..." "Il signorino Yambo. Che lusso. A proposito, perché mi chiamate Yambo?" "Per Amalia sarai il signorino anche a ottant'anni. E quanto a Yambo me lo aveva spiegato proprio Maria. Lo avevi deciso tu da piccolo. Dicevi io mi chiamo Yambo, quello col ciuffettino. E sei diventato Yambo per tutti." "Col ciuffettino?" "Si vede che allora avevi un bel ciuffo. E non ti piaceva Giambattista, posso anche capirlo. Ma lasciamo da parte i problemi anagrafici. Tu parti. Non è che puoi andare in treno perché dovresti cambiare quattro volte, ma ti accompagna Nicoletta, che tanto deve ritirare delle cose che aveva dimenticato lì a Natale, poi torna subito indietro e ti lascia nelle mani di Amalia che ti coccola, sa essere lì quando ne hai bisogno e scomparire quando vuoi stare solo. In casa da cinque anni abbiamo messo il telefono e possiamo sentirci in ogni momento. Prova, ti prego." Ho chiesto qualche giorno per pensarci. Ero io che avevo parlato per primo di un viaggio, per sfuggire ai pomeriggi allo studio. Ma volevo davvero sfuggire ai pomeriggi allo studio? Ero in un labirinto. Qualunque direzione prendessi non era quella buona. E poi da dove volevo uscire? Chi aveva detto Sesamo apriti, voglio uscirei Io volevo entrare, come Ali Babà. Nelle caverne della memoria. Ci ha pensato Sibilla a risolvere il mio problema. Un pomeriggio ha emesso un singulto irresistibile, si è coperta di un lieve rossore {nel sangue, che ha diffusioni di fiamma sulla tua faccia, il cosmo fa le sue risa), ha tormentato per qualche secondo un mazzo di schede che aveva davanti e ha detto: "Yambo, devi essere il primo a saperlo... Mi sposo." "Come, ti sposi?" ho reagito, quasi a dire "come ti permetti?" "Mi sposo. Hai presente quando un uomo e una donna si scambiano l’anello e gli altri gli gettano il riso?" "No, voglio dire... e mi lasci?" "E perché? Lui sta in uno studio d'architettura ma non guadagna ancora tantissimo, dovremo lavorare tutti e due. E poi, io, potrei mai lasciarti?" Gli piantava il coltello nel cuore e ve lo girava due volte. Fine del Processo, anzi, fine del processo. "Ed è una cosa... che dura da molto?" "Non da molto. Ci siamo incontrati qualche settimana fa, sai come vanno queste cose. È un bravo ragazzo, lo conoscerai." Come vanno queste cose. Forse prima c'erano stati altri bravi ragazzi, forse ha approfittato del mio incidente per farla finita con una situazione insostenibile. Magari si è gettata sul primo che le è passato davanti, un salto nel buio. Nel qual caso le ho fatto del male due volte. Ma chi le ha fatto del male, imbecille? Sta andando tutto come va di solito, è giovane, incontra uno della sua età, s'innamora per la prima volta... Per la prima volta, d'accordo? Pure qualcuno ti disfiorerà, bocca di sorgiva, e gli sarà grazia e fortuna il non averti cercata... "Dovrò farti un bel regalo." "Ma c'è tempo. L'abbiamo deciso ieri sera, ma vorrei attendere che tu ti sia rimesso, così posso prendermi una settimana di vacanza senza rimorsi."
Senza rimorsi. Che delicatezza. Com'era l'ultima scheda sulla nebbia che avevo visto? Quando giungemmo alla stazione di Roma, la sera di Venerdì Santo, ed ella si allontanò nella vettura fra la nebbia, mi parve d'averla perduta per sempre, senza riparo. La storia finiva da sé. Per tanto che fosse accaduto prima, tutto cancellato. Lavagna nera di zecca. D'ora in poi, solo come una figlia. A questo punto potevo partire. Anzi, dovevo. Ho detto a Paola che sarei andato a Solara. Era felice. "Vedrai che ti troverai bene." "Rombo rombetto, che principe sei - fosse per me non lo vorrei, - ma è quella strega della mi moglie - della mi moglie che ha tutte le voglie. " "Sei proprio perfido. In campagna, in campagna." Quella sera, mentre Paola a letto mi faceva le ultime raccomandazioni prima della partenza, le ho accarezzato il seno. Ha mugolato con tenerezza, e ho provato qualche cosa che assomigliava al desiderio, ma misto a dolcezza, e forse riconoscenza. Abbiamo fatto all'amore. Come con lo spazzolino da denti, evidentemente il mio corpo aveva serbato la memoria di come si faceva. E stata una cosa calma, a ritmo lento. Lei ha avuto il suo orgasmo per prima (sempre così, mi ha detto poi), io poco dopo. In fondo era per me la prima volta. È davvero bello come dicono. Non ne ero stupito: ma era come se lo sapessi già, di testa, e col corpo scoprissi solo allora che era vero. "Non è male," ho detto abbandonandomi supino, "ora ho capito perché la gente ci tiene tanto." "Gesù," ha commentato Paola, "mi è toccato anche di sverginare mio marito a sessantanni." "Meglio tardi che mai." Ma non ho potuto evitare, addormentandomi con la mano di Paola nella mano, di chiedermi se con Sibilla sarebbe stata la stessa cosa. Imbecille, mi mormoravo nel perdere lentamente coscienza, tanto non lo saprai mai. Sono partito. Nicoletta conduceva, e io la guardavo, di profilo. A giudicare dalle mie fotografie all'epoca del matrimonio, il naso era il mio, e anche il taglio della bocca. Era davvero mia figlia, non mi avevano appioppato il frutto della colpa. (Essendosi lievemente aperta la scollatura, le scorse improvvisamente sul seno un medaglione d'oro con una Y finemente cesellata. Gran Dio, disse, chi ve l'ha dato? L'ho sempre avuto con me, Signore, e già lo avevo al collo quando fui esposta infante sulla scalinata del convento delle Clarisse di Saint-Auban, diss'ella. Il medaglione della duchessa tua madre, m'esclamai! Hai forse tu quattro piccoli nei in forma di croce sulla spalla sinistra? Sì, Signore, ma come potete voi sapere ciò? Ma allora, allora tu sei mia figlia e io sono tuo padre! Padre, padre mio! No, che tu, casta innocente, non perda ora i sensi. Andremmo fuori strada!) Non parlavamo, ma avevo già capito che Nicoletta è laconica per natura, e in quel momento era certamente imbarazzata, temeva di accennarmi a qualcosa di cui mi ero dimenticato, e non voleva turbarmi. Le chiedevo solo in che direzione stessimo andando: "Solara è al confine tra Langhe e Monferrato, è un posto bellissimo, vedrai, papa!” Mi piaceva sentirmi chiamare papa. All'inizio, usciti dall'autostrada, vedevo segnali che mi parlavano di città note, Torino, Asti, Alessandria, Casale. Poi ci siamo inoltrati per strade secondarie dove i cartelli citavano paesi mai uditi. Dopo alcuni chilometri di pianura, fatta una cunetta, ho intravisto da lontano il profilo azzurrino di alcune colline. Ma a un tratto il profilo è scomparso perché avevamo di fronte una muraglia di alberi, e la macchina vi si è infilata procedendo in un corridoio frondoso, che mi faceva pensare a una foresta tropicale. Que me font maintenant tes ombrages et tes lacs? Ma, percorso il corridoio, con l'impressione di procedere sempre in pianura, già
eravamo in una conca sovrastata dalle colline di fianco e di dietro. Evidentemente eravamo penetrati nel Monferrato facendo una impercettibile e continua salita, le alture ci avevano circondato senza che me ne accorgessi, e già entravo in un altro mondo, in una festa di vigneti ancora giovani. Erano, visti a distanza, cocuzzoli di varia altezza, alcuni che appena spuntavano tra dossi più bassi, altri più ripidi, molti sovrastati da costruzioni, chiese o grandi casali, e sorte di castelli, che vi si arroccavano con invadenza sproporzionata e, anziché completarli con dolcezza, gli davano come una spinta verso il cielo. Dopo un'ora circa di viaggio tra quelle colline, dove a ogni svolta si apriva un diverso paesaggio, come se di colpo passassimo da una regione all'altra, a un certo punto ho visto un cartello che diceva Mongardello. Ho detto: "Mongardello. Poi Corseglio, Montevasco, Castelletto Vecchio, Lovezzolo, e ci siamo, no?" "Come fai a saperlo?" "Lo sanno tutti," ho detto. Ma evidentemente non era vero, su quale enciclopedia si parla di Lovezzolo? Che incominciassi a penetrare nella caverna?
Parte Seconda UNA MEMORIA DI CARTA
5. IL TESORO DI CLARABELLA
Perché da adulto non andassi volentieri a Solara proprio non capivo, mentre mi stavo appressando ai luoghi della mia infanzia. Non era tanto Solara in sé, poco più di un paesone, che si sfiorava lasciandolo nella sua conca in mezzo a vigneti su colline basse, ma dopo, quando si saliva. A un certo punto, dopo vari tornanti, Nicoletta aveva imboccato una stradina secondaria ed eravamo andati avanti almeno per due chilometri lungo un ciglione largo appena da lasciar incrociare due macchine, e che declinava da ambo i lati, mostrando due diversi paesaggi. A destra quello monferrino, fatto di dossi morbidissimi infestonati di filari, che mollemente si moltiplicavano, verdi contro un cielo limpido di prima estate, nell'ora in cui (sapevo) imperversa il demone meridiano. Dall'altro erano già le prime propaggini delle Langhe, a rilievi più crudi e meno modulati, come una fila di catene una dopo l'altra, ciascuna in prospettiva marcata di una tinta diversa, sino a svanire nell'azzurrognolo delle più lontane. Scoprivo quel paesaggio per la prima volta, e tuttavia lo sentivo mio e avevo l'impressione che, a gettarmi a corsa pazza giù per le valli, avrei saputo dove mettere i piedi e dove andare. In un certo senso era come essere riuscito a guidare, uscito dall'ospedale, quell'automobile che non avevo mai vista. Mi sentivo a casa. Ero in preda a una indefinita letizia, a una smemorata felicità. Il ciglione si prolungava in salita per il fianco di un colle che improvvisamente lo sovrastava, ed ecco, dopo un vialetto di ippocastani, la casa. Ci siamo arrestati su una sorta di corte, chiazzata di aiuole fiorite, e s'intravedeva dietro la costruzione un colle di poco più alto dove si stendeva quella che doveva essere la piccola vigna di Amalia. All'arrivo era difficile individuare la forma di quel casamento con grandi finestre al primo piano, che si presentava con un vasto corpo centrale, dalla bella porta di quercia incassata in un arco a tutto sesto, sotto un balcone, immediatamente di fronte al vialetto, e due ali laterali più corte e dall'ingresso più modesto. Ma non si capiva quanto la casa si estendesse sul lato posteriore, verso la collina. La corte si apriva, alle mie spalle, sui due paesaggi che avevo appena ammirato, e per centottanta gradi di visuale, perché il vialetto d'arrivo si era elevato a poco a poco, e la strada che avevamo percorso scompariva verso il basso, senza impedire la vista. È stata una breve impressione, perché tra alte grida di giubilo è subito sbucata una donna che, da quel che mi era stato descritto, non poteva essere che l'Amalia, corta di gambe, alquanto robusta, di età incerta (come mi aveva preannunciato Nicoletta, tra i venti e i novant'anni), col viso di castagna secca illuminato da una gioia incontenibile. Insomma, cerimonia del benvenuto, baci e abbracci, pudiche gaffe, subito seguite da un gridolino mozzato da una mano portata rapidamente alla bocca (si ricorda signorino Yambo questo e quello, riconosce nevvero, e via dicendo, con Nicoletta alle mie spalle che doveva farle gli occhiacci). Un turbine, poco spazio per ragionare o chiedere, appena il tempo di metter giù i bagagli e portarli nell'ala di sinistra, che era quella in cui si era insediata Paola con le ragazze e in cui avrei potuto dormire anch'io, a meno che volessi abitare il corpo centrale, quello dei nonni e della mia infanzia, che era rimasto sempre chiuso, ma come un santuario ("lo sa che io ci vado sovente per fare la polvere e dare aria ogni tanto, ma proprio solo ogni tanto, a evitare che si formino brutti odori, senza disturbare quelle stanze che per me è come se fosse in chiesa"). Ma al pianterreno quelle stanzone vuote rimanevano aperte perché lì si stendevano le mele, i pomodori, e tante altre cose buone, a maturare e a conservarsi al fresco. E infatti, mossi alcuni passi in quegli androni, si sentiva il profumo pungente di spezie e frutti e verdure, e su un tavolone c'erano già i primi fichi, proprio i primi, e non ho potuto rifiu-
tarmi di assaggiarne uno e di azzardare che quell'albero era davvero sempre prodigioso - ma l'Amalia gridava "come, quell'albero, quegli alberi, sono cinque, lo sa bene, e uno è una bellezza più che l'altro! " Scusi Amalia mi ero distratto, e si figuri con tutte quelle cose importanti che ha per la testa signorino Yambo - grazie Amalia, avessi davvero tante cose così per la testa, il guaio è che sono volate via, pfff, una mattina di fine aprile, e un fico o cinque fichi per me pari sono. "C'è già l'uva nella vigna?" ho chiesto, tanto per mostrarmi attivo di mente e sentimenti. "Ma l'uva adesso sono ancora grappolini mingherlini che sembrano un piccinino nella pancia della mamma, anche se quest'anno col caldo che fa è maturato tutto più presto del solito, e speriamo che piova. Farà in tempo a vederla, l'uva, perché vorrà bene rimanere qui sino a settembre. Dunque lei è stato un po' malato e la signora Paola mi ha detto che devo tenerla su, cose sane e nutrienti. Per stasera ho preparato quello che piaceva a lei da ragazzo, l'insalatina col bagnetto di olio e sugo di pomodoro, i pezzettini di sedano e i cipollotti tritati fini, e tutte le erbe che Dio comanda, e ho il pane che ci piaceva a lei, quei bei biciulan che ci fa la puccia nel bagnetto. E poi un pollastro dei miei, mica quelli del bottegaio che li ingrassano con le porcherie, o se preferisce il coniglio con il rosmarino. Coniglio? Coniglio, vado subito a menare un colpo sul coppino al più bello, pover bestiulin, ma l'è la vita. Ossignur, davvero la Nicoletta se ne va via subito? che peccato. Non importa, restiamo qui noi due e lei fa quello che vuole che io non ci ficco il naso. Mi vede solo al mattino quando le porto il caffellatte e all'ora del mangiare, per il resto lei la va e la gira come ci pare." "Dunque papà," mi ha detto Nicoletta mentre caricava la roba che era venuta a prendere, "sembra che Solara sia distante, ma dietro alla casa c'è un sentiero che porta giù direttamente in paese tagliando via tutti i tornanti della strada. C'è una discesa un po' ripida, ma con una specie di gradinata, e poi sei subito in pianura. Un quarto d'ora per andare e venti minuti per tornare in salita, ma hai sempre detto che fa bene per il colesterolo. In paese trovi i giornali e le sigarette, ma se lo dici ad Amalia va lei alle otto di mattina, ci va in ogni caso per tutte le sue faccende e per la messa. Però devi scriverle su un foglietto il nome dei giornali, e ogni giorno, altrimenti se lo dimentica e rischi che ti porta lo stesso numero di Gente o di Stop per sette giorni. Davvero non hai bisogno d'altro? Vorrei rimanere con te ma la mamma dice che ti farà bene stare da solo tra le tue vecchie cose." Nicoletta è partita, Amalia mi ha mostrato la camera mia e di Paola (odore di lavanda). Ho messo a posto le mie cose, mi sono cambiato con robaccia comoda che ho raccattato in giro, comprese delle scarpe scalcagnate che avevano almeno vent'anni, proprio da possidente terriero, e sono stato per mezz'ora alla finestra a guardare le colline del versante langhigiano. Sul tavolo della cucina c'era un giornale, del periodo natalizio (eravamo stati lì l'ultima volta per le feste), e mi sono messo a leggerlo mentre mi versavo un bicchiere del moscato, pronto in un secchiello d'acqua gelida del pozzo. Da fine novembre le Nazioni Unite avevano autorizzato l'uso della forza per liberare il Kuwait dagli irakeni, erano appena partiti per l'Arabia Saudita i primi equipaggiamenti americani, si parlava di un ultimo tentativo statunitense per trattare a Ginevra con i ministri di Saddam e convincerlo a ritirarsi. Il giornale mi aiutava a ricostruire alcuni eventi e lo leggevo come se fossero le ultime notizie. A un tratto mi sono reso conto che al mattino, nella tensione della partenza, non ero andato di corpo. Sono andato in bagno, ottima occasione per finire di guardare il giornale, e dalla finestra ho visto la vigna. Mi ha colto un pensiero, meglio, una voglia antica: fare i miei bisogni tra i filari. Mi sono messo in tasca il giornale e ho aperto, non so se a caso o per virtù di un mio radar interno, una porticina sul retro. Ho attraversato un orto molto ben tenuto. Dalla parte dell'ala colonica c'erano dei recinti in legno e, dal chiocciare e il grufolare che si sentivano, doveva essere il pollaio con le
conigliere e gli stabbi dei maiali. Al fondo dell'orto c'era il sentiero per salire nella vigna. Amalia aveva ragione, le foglie delle viti erano ancora piccole e gli acini sembravano bacche. Ma mi sentivo in una vigna, con le zolle sotto le suole malandate, e ciuffi di erbacce tra un filare e l'altro. Ho cercato istintivamente con gli occhi degli alberi di pesco, ma non ne ho visti. Strano, avevo letto su qualche romanzo che tra i filari - ma ci devi camminare scalzo col tallone un po' calloso, sin da piccolo - ci sono delle pesche gialle che crescono solo nelle vigne, si spaccano con la pressione del pollice, e l'osso ne esce quasi da solo, pulito come dopo un trattamento chimico, salvo qualche vermiciattolo grasso e bianco di polpa che vi rimane attaccato per un atomo. Puoi mangiarle senza quasi sentire il velluto della pelle, che ti fa correre i brividi dalla lingua sino all'inguine. Per un attimo ho sentito il brivido all'inguine. Mi sono accovacciato, nel gran silenzio meridiano, rotto solo da alcune voci d'uccelli e dal frinire delle cicale, e ho defecato. Silly season. He read on seated cairn above bis own ristng smell. Gli esseri umani amano il profumo dei propri escrementi ma non l'odore di quelli altrui. In fondo sono parte del nostro corpo. Stavo provando una soddisfazione antica. Il movimento calmo dello sfintere, tra tutto quel verde, mi richiamava confuse esperienze precedenti. O è un istinto della specie. Io ho così poco di individuale, e tanto di specifico (ho una memoria da umanità, non da persona) che forse stavo semplicemente godendo di un piacere già provato dall'uomo di Neandertal. Lui doveva avere meno memoria di me, non sapeva neppure chi fosse Napoleone. Quando ho finito, mi ha colto il pensiero che avrei dovuto pulirmi con delle foglie, doveva essere un automatismo. Ma avevo con me il giornale, e ho strappato la pagina dei programmi televisivi (tanto erano vecchi di sei mesi e, in ogni caso, a Solara la televisione non c'è). Mi sono rialzato e ho guardato le mie feci. Una bella architettura a chiocciola, ancora fumante. Borromini. Dovevo avere l'intestino a posto, perché si sa che ci si deve preoccupare solo se le feci sono troppo molli o addirittura liquide. Vedevo per la prima volta la mia cacca (in città ti siedi sulla tazza e poi tiri subito l'acqua senza guardare). La stavo ormai chiamando cacca, come credo faccia la gente. La cacca è la cosa più personale e riservata che abbiamo. Il resto possono conoscerlo tutti, l'atteggiamento del viso, lo sguardo, i gesti. Anche il tuo corpo nudo, al mare, dal dottore, mentre fai l'amore. Persino i pensieri, perché di solito li esprimi, oppure gli altri te li indovinano da come guardi o ti mostri imbarazzato. Certo, ci saranno anche pensieri segreti (Sibilla, per esempio, ma poi mi ero in parte tradito con Gianni, e chissà che lei non avesse intuito qualcosa, forse si sposa proprio per questo), ma in genere anche i pensieri si manifestano. Invece la cacca no. Salvo che per un periodo brevissimo della tua vita, quando è la mamma a cambiarti i pannolini, dopo è soltanto tua. E siccome la mia cacca di quel momento non doveva essere così diversa da quelle che avevo prodotto nel corso della mia vita passata, ecco che in quell'istante mi ricongiungevo col me stesso dei tempi dimenticati, e provavo la prima esperienza capace di rinsaldarsi con innumerevoli altre precedenti, anche quelle di quando bambino facevo i miei bisogni nelle vigne. Forse se mi guardavo bene intorno trovavo ancora i resti della cacca che avevo fatto allora e, triangolando nel modo giusto, il tesoro di Clarabella. Ma qui mi fermavo. La cacca non era ancora il mio infuso di tiglio - e avrei voluto ben vedere, come potevo pretendere di condurre la mia recherche con lo sfintere? Per ritrovare il tempo perduto non ci vuole la diarrea ma l'asma. L'asma è pneumatica, è soffio (sia pure faticoso) dello spirito: è per i ricchi che possono concedersi stanze tappezzate di sughero. I poveri, nei campi, non vanno d'anima, vanno di corpo. Eppure non mi sentivo diseredato bensì contento, dico veramente contento, in modo mai provato dopo il risveglio. Le vie del Signore sono infinite, mi sono detto, passano anche attraverso il buco del sedere. La giornata è terminata così. Ho vagolato per un poco nelle stanze dell'ala sinistra, ho
visto quella che doveva essere la camera dei nipotini (uno stanzone con tre letti, bambolotti e tricicli abbandonati ancora negli angoli), in camera da letto c'erano gli ultimi libri che avevo lasciato sul comodino, niente di particolarmente significativo. Non mi sono azzardato a entrare nell'ala antica. Calma, dovevo prendere confidenza con il posto. Ho mangiato nella cucina di Amalia, tra vecchie madie, tavoli e sedie ancora dei suoi, e l'odore delle teste d'aglio appese alle travi. Il coniglio era squisito, ma l'insalatina valeva tutto il viaggio. Provavo gusto a intingere il pane in quel bagnetto rosato maculato di zone oleose, ma era il piacere della scoperta, non del ricordo. Dalle mie papille non dovevo attendermi alcun aiuto, lo sapevo già. Ho bevuto abbondantemente: il vino di quelle parti vale tutti i vini francesi messi insieme. Ho fatto conoscenza con gli animali di casa: un vecchio cane spelato, Pippo, ottimo per la guardia, come asseriva Amalia, anche se ispirava pochissima fiducia, vecchio, cieco da un occhio e rimbesuito come pareva, e tre gatti. Due erano scontrosi e tignosi, il terzo era una sorta d'angora nero, col pelame folto e morbido, e sapeva chiedere cibo con grazia, grattandomi i pantaloni e accennando a un brontolio seducente. Amo tutti gli animali, credo (non mi ero iscritto a una lega contro la vivisezione?), ma alla simpatia istintiva non si comanda. Ho prediletto il terzo gatto e gli ho passato i bocconi migliori. Ho chiesto ad Amalia come si chiamavano i gatti, e ha risposto che i gatti non si chiamano, perché non sono cristiani come i cani. Ho domandato se potevo chiamare il gatto nero Matù, e ha risposto che potevo, se non mi bastava fare miciu miciu miciu, ma aveva l'aria di pensare che quelli di città, persino il signorino Yambo, avevano dei grilli per la testa. I grilli (quelli veri) facevano da fuori un gran baccano, e sono andato nella corte ad ascoltarli. Ho guardato il cielo, sperando di scoprirvi figure note. Costellazioni, solo costellazioni da atlante astronomico. Ho riconosciuto l'Orsa Maggiore, ma come una di quelle cose di cui avevo tanto sentito parlare. Ero venuto sin lì per apprendere che le enciclopedie hanno ragione. Rede in ìnteriorem hominem e troverai il Larousse. Mi sono detto: Yambo, hai una memoria di carta. Non di neuroni, di pagine. Forse un giorno inventeranno una diavoleria elettronica che permetterà al computer di viaggiare attraverso tutte le pagine scritte dall'inizio del mondo a oggi, e di passare dall'una all'altra con un colpo di polpastrello, senza più capire dove ti trovi e chi sei tu, e allora tutti saranno come te. Nell'attesa di avere tanti compagni di sventura, sono andato a dormire. Mi ero appena appisolato quando ho sentito qualcuno che mi chiamava. Mi invitava alla finestra con uno "psssht psssht" insistente e biascicato. Chi poteva chiamarmi da fuori, appeso alle persiane? Le ho spalancate di colpo e ho visto nella notte fuggire un'ombra biancastra. Come mi ha spiegato Amalia la mattina dopo, era un barbagianni: quando le case sono vuote a quelle bestie piace abitare non so se i sottotetti o le grondaie, ma appena si accorgono che c'è gente in giro cambiano rifugio. Peccato. Perché quel barbagianni in fuga nella notte mi ha fatto avvertire di nuovo quella che con Paola avevo definito la misteriosa fiamma. Quel barbagianni, o uno della congrega, evidentemente mi apparteneva, mi aveva svegliato altre notti, e altre notti era fuggito nel buio, fantasma goffo e ciulandario. Ciulandario? Anche questa parola non potevo averla letta nelle enciclopedie. Quindi mi veniva da dentro, o da prima. Ho dormito sonni agitati e a un certo punto mi sono svegliato con un forte dolore al petto. A tutta prima ho pensato all'infarto - si sa che inizia così -, poi mi sono alzato e senza riflettere sono andato a cercare la borsa delle medicine che Paola mi aveva dato, e ho preso un Maalox. Maalox, dunque gastrite. Si ha un attacco di gastrite quando si è mangiato qualcosa che non si doveva. In realtà avevo semplicemente mangiato troppo: Paola me l'aveva detto di controllarmi, sino a che lei mi era vicino mi stava addosso come un cane da guardia, ora bisognava imparare a fare da solo. Amalia non mi avrebbe aiutato, per la tradizione contadina mangiare tanto fa sempre bene, si sta male solo quando da mangiare non ce n'è. Quante cose dovevo ancora imparare.
6. IL NUOVISSIMO MELZI Sono sceso in paese. Un po' duro risalire, ma è stata una bella passeggiata, e tonificante. Meno male che ho portato con me alcune stecche di Gitanes perché lì hanno solo le Marlboro Light. Gente di campagna. Ho raccontato ad Amalia la storia del barbagianni. Non ha riso quando ho detto che credevo fosse un fantasma. Si è fatta seria: "I barbagianni no, brave bestie che non fanno male a nessuno. Ma laggiù - e accennava al versante langhigiano - laggiù ci sono ancora le masche. Che sono le masche? Ho quasi paura a dirlo, ma lei dovrebbe saperlo perché il mio povero papà a lei ci raccontava sempre queste storie. Stia tranquillo che qui non vengono, loro vanno a spaventare i contadini ignoranti, non i signori che magari sanno la parola giusta per farle scappare coi capelli dritti sulla testa. Le masche sono delle donne cattive che vanno di notte. E se c'è nebbia o tempesta meglio ancora, si sentono nel loro brodo." Non ha voluto dire di più, ma aveva nominato la nebbia, e le ho chiesto se lì ce n'era molta. "Molta? Gesummaria, anche troppa. Certe volte non si vede dalla mia porta al principio del vialetto, ma cosa dico, da qui non vedo il davanti della casa, e se c'era qualcuno dentro di sera appena appena si scorgeva la luce che veniva da una finestra, ma come se era una candela. E anche quando sin qui non arriva, vedesse la scena verso le colline. Magari non si vede niente sino a un certo punto, poi spunta qualcosa, un bricco, una chiesetta, e poi ancora bianco e bianco da dietro. Come se avessero rovesciato laggiù il secchio del latte. Se lei è ancora qui a settembre risica che la vede già, perché da queste parti, di nebbia, salvo tra giugno e agosto, ce n'è sempre. C'è giù in paese il Salvatore, un napuli che è venuto a lavorare qui venti anni fa, sa, da loro l'è una gran miseria, e non si è ancora abituato, lui dice che da loro fa bello anche alla Pifanìa. Sapesse le volte che si è perso nei campi che a momenti cascava nel torrente e sono andati a cercarlo di notte con le pile. Mah, sarà brava gente, io non dico, ma non sono come noi." Mi recitavo in silenzio: E guardai nella valle: era sparito tutto! sommerso! Era un gran mare piano, grigio, senz’onde, senza lidi, unito. E c’era appena, qua e là lo strano vocìo di gridi piccoli e selvaggi: uccelli spersi per quel mondo vano. E alto, in cielo, scheletri di faggi, come sospesi, e sogni di rovine e di silenziosi eremitaggi. Ma per il momento rovine e romitaggi di cui andavo in cerca, se c'erano, erano lì, in pieno sole, non meno invisibili, perché io la nebbia ce l'avevo dentro. O forse dovevo cercarli all'ombra? Il momento era giunto. Dovevo entrare nell'ala centrale. Ho detto ad Amalia che volevo andarci da solo, ha scosso la testa e mi ha dato le chiavi. Pare che le stanze siano molte, e l'Amalia le tiene tutte chiuse perché non si sa mai che girasse qualche malintenzionato. Quindi mi ha dato un mazzo di chiavi grandi e piccole, alcune arrugginite, dicendomi che lei le sapeva tutte a memoria ma se proprio volevo andar per conto mio dovevo ingegnarmi di provarle tutte ogni volta. Come per dire: "Piglia su, visto che fai ancora i capricci come da piccolo." Amalia doveva essere passata lassù la mattina presto. Il giorno prima le persiane erano serrate e ora erano semiaperte, quel tanto per lasciare penetrare luce nei corridoi e nelle stanze, e vedere dove si mettevano i piedi. Anche se Amalia veniva a dare aria
di tanto in tanto, era rimasto un odore di chiuso. Non cattivo, come se trasudasse dai mobili antichi, dalle travature del soffitto, dai teli bianchi stesi sulle poltrone (non doveva esserci seduto Lenin?). Lasciamo perdere l'avventura, il prova e riprova delle varie chiavi, che mi pareva di essere il capocarceriere di Alcatraz. La scala d'accesso immetteva in una sala, una specie di anticamera ben ammobiliata, con le poltrone da Lenin, appunto, e alcuni orribili paesaggi a olio, di stile ottocentesco, ben incorniciati alle pareti. Non conoscevo ancora i gusti del nonno, ma Paola me lo aveva descritto come collezionista curioso: non poteva amare quelle croste. Dunque dovevano essere cose di famiglia, forse gli esercizi pittorici di qualche bisnonno o bisnonna. Peraltro, nella penombra di quell'ambiente, si notavano appena e facevano macchia sulle pareti, e forse era giusto che fossero lì. La sala immetteva da un lato sull'unico balcone della facciata, e dall'altro su due corridoi, che correvano lungo il retro della casa, ampi e ombrosi, dalle pareti quasi completamente coperte di vecchie stampe colorate. Nel corridoio di destra c'erano pezzi di Imagérie d'Epinal, che raffiguravano eventi storici, Bombardement d'Alexandrie, Siège et bombardement de Parispar les Prussiens y Les grandes journées de la Révolution Frangaise, Prise de Pékin par les Alliées, e altri erano spagnoli, una serie di piccoli esseri mostruosi, Los Orrelis, una Colección de monos filarmonicos, un Mundo al revés, e due di quelle scale allegoriche con le varie età della vita, una per gli uomini e l'altra per le donne, la culla e i bambini con le dande al primo gradino, e poi via via sino all'età adulta al sommo, con i personaggi belli e radiosi su un podio olimpionico; quindi la lenta discesa di figure vieppiù anziane che si riducevano all'ultimo gradino, come voleva la Sfinge, a esseri con tre gambe, due tremuli stecchi piegati e il bastone, accanto a una immagine della morte in attesa.
. La prima porta dava su una vasta cucina all'antica, con una grande stufa e un immenso camino in cui pendeva ancora un paiolo di rame. Tutte suppellettili d'altri tempi, magari già ereditate dal prozio del nonno. Oramai era tutto antiquariato. Dai vetri trasparenti della credenza vedevo dei piatti a fiori, delle cuccume, delle tazze da caffellatte. Ho cercato istintivamente un portagiornali, e dunque sapevo che c'era. C'era, appeso in un angolo verso la finestra, in legno pirografato, con grandi papaveri fiammeggianti su un fondo giallo. Se durante la guerra mancavano legna e carbone, la cucina doveva essere l'unico posto riscaldato, e chissà quante sere ho passato in quella stanza... Dopo veniva la stanza da bagno, vecchio stile anche quella, con una vasca enorme di metallo, e i rubinetti ricurvi che sembravano fontanelle. Anche il lavabo pareva un'acquasantiera. Ho provato ad aprire l'acqua, e dopo una serie di singulti è venuta giù della roba gialla che ha cominciato a schiarirsi solo dopo due minuti. Tazza e sciacquone mi hanno fatto venire in mente delle Terme Reali di fine Ottocento. Oltre il bagno, l'ultima porta introduceva a una camera con pochi mobiletti in legno
verdolino decorato a farfalle, e un lettino a una piazza, dove contro il cuscino sedeva una bambola Lenci, leziosa quanto può esserlo una bambola di panno in stile Novecento. Era stata certamente la stanza di mia sorella, come testimoniavano anche alcuni vestitini in uno stipo, ma sembrava che l'avessero svuotata di ogni altra suppellettile e chiusa per sempre. Sapeva solo di umido. Dopo la camera di Ada, il corridoio finiva con un armadio sul fondo: ho aperto, si sentiva ancora un forte odore di canfora, e vi stavano in buon ordine lenzuola ricamate, coperte e una trapunta. Ho ripercorso il corridoio sino all'anticamera e ne ho imboccato la parte di sinistra. Qui ai muri c'erano delle stampe tedesche, di fattura molto, precisa, Zur Geschichte der Kostume, splendide donne del Borneo e belle giavanesi, mandarini cinesi, slavi di Sebenico con le pipe lunghe quanto i baffi, pescatori napoletani e briganti romani col trombone, spagnoli di Segovia e Alicante, ma anche costumi storici, imperatori bizantini, papi e cavalieri d'epoca feudale, templari, dame del Trecento, mercanti ebrei, moschettieri del re, ulani, granatieri napoleonici. L'incisore tedesco aveva colto ciascun soggetto con l'abito delle grandi occasioni così che non solo i potenti si esibivano appesantiti da monili, armati di pistole dal calcio rabescato, armature da parata, dalmatiche sontuose, ma anche l'africano più pezzente e il popolano più diseredato apparivano con sciarpe multicolori alla vita, mantelli, cappellacci piumati, turbanti variopinti.
. Forse, prima che su molti libri di avventure, ho esplorato la policroma pluralità delle razze e popoli della terra su quelle stampe, incorniciate quasi a filo, molte ormai sbiadite per anni e anni di luce solare che le avevano rese ai miei occhi epifanie dell'esotico. "Razze e popoli della terra," mi sono ripetuto ad alta voce, e ho pensato a una vulva pelosa. Perché? La prima porta era quella di una sala da pranzo, che al fondo comunicava anche con l'anticamera. Due buffet finto Quattrocento, dalle antine coi vetri multicolori, a cerchio e a losanga, alcune savonarole proprio da Cena delle Beffe e un lampadario in ferro battuto a picco sul grande tavolo. Mi sono detto "cappone e pasta reale", ma non sapevo perché. Più tardi ho chiesto ad Amalia, perché nella sala da pranzo dovesse esserci sul tavolo cappone e pasta reale, e che cos'era la pasta reale. Mi ha spiegato che a Natale, ogni anno che Nostro Signore mandava in terra, il pranzo di Natale contemplava il cappone con la mostarda dolce e piccante, e prima la pasta reale, che erano dei pallini gialli che s'inzuppavano nel brodo di cappone, e poi si disfacevano in bocca. "Come era buona la pasta reale, un delitto che non la faccino più, forse perché hanno mandato via il re, povera creatura anche lui, vorrei bene andare io a dire due parole al Duce!"
"Amalia, il Duce non c'è più, e questo lo sanno persino quelli che hanno perso la memoria..." "Io di politica non me ne intendo, ma so che l'avevano mandato via una volta e poi è tornato. Ce lo dico io, quello è lì che aspetta da qualche parte e un giorno non si sa mai... Comunque, il suo signor nonno, che Dio l'abbia in gloria, al cappone e alla pasta reale ci teneva, se no non era Natale." Cappone e pasta reale. Me li hanno fatti venire in mente la forma del tavolo, il lampadario che doveva avere illuminato quei piatti a fine dicembre? Non avevo ricordato il gusto della pasta reale: solo il nome. Come in quel gioco enigmistico che si chiama il Bersaglio: tavola deve collegarsi con sedia o mensa o minestra. A me faceva venire in mente la pasta reale, sempre per associazione tra parole. Ho aperto la porta di un altro vano. Era una stanza matrimoniale, e ho avuto un momento d'esitazione nell'entrarvi, come se fosse un luogo proibito. Le sagome dei mobili mi apparivano immense nella penombra e il letto ancora a baldacchino sembrava un altare. Forse era la stanza da letto del nonno, in cui non si doveva mettere piede? È morto lì, consumato dal dolore? E io c'ero, a dargli l'ultimo saluto? Anche la stanza dopo era una camera da letto, ma di un mobilio di epoca indefinibile, uno pseudobarocchetto, senz'angoli e tutto curve, e curve erano le ante laterali del grande guardaroba a specchio e del comò. Lì mi ha preso un groppo al piloro, come quando in ospedale avevo visto la foto dei miei il giorno delle nozze. La misteriosa fiamma. Quando avevo cercato di descrivere il fenomeno al dottor Gratarolo, lui mi aveva chiesto se era come un'extrasistole. Sarà, ho risposto, ma accompagnata da un tepore che sale in gola - e allora no, aveva detto Gratarolo, le extrasistoli non sono così.
È che avevo intravisto un libro, piccolo, rilegato in marrone, sul marmo del comodino di destra ed ero andato dritto ad aprirlo dicendomi "riva la fìlotea". Riva la filotea, come a dire, in dialetto, che arriva... che cosa? Ho avuto la sensazione che quel mistero mi avesse accompagnato per anni, con la domanda in dialetto (ma parlavo dialetto?) La riva?Sa ca l'è eia riva? Cosa sarà mai che arriva, una filotea, un filobus, un tram che va di notte, una teleferica misteriosa? Ho aperto il libro, con la sensazione di commettere un sacrilegio, ed era La filotea del sacerdote milanese Giuseppe Riva, 1888, una antologia di preghiere, pie meditazioni, con elenco delle feste e calendario dei santi. Il libro era ormai quasi slegato, e i fogli si spezzavano sotto le dita appena a toccarli. L'ho ricompattato religiosamente (è pur sempre il mio mestiere trattar con cura i libri antichi), ma ho visto che sulla costa era stampato in un tassello rosso, a lettere d'oro ormai sbiadite, "Riva La Filotea". Doveva essere il libro di preghiere di qualcuno, che io non avevo mai osato aprire ma che, con quella dicitura ambigua, senza distinzione tra autore e titolo, mi annunciava l’imminenza di qualche inquietante diligenza attaccata per un pennone a un
filo elettrico. Poi mi sono voltato, e ho visto che sui lati ricurvi del comò si aprivano due sportelli: mi sono precipitato con un qualche batticuore ad aprire quello di destra, guardandomi intorno come se temessi di essere spiato. C'erano dentro tre ripiani, anch'essi a superficie ricurva, ma vuoti. Mi sentivo turbato come se avessi commesso un furto. Forse di antico furto doveva trattarsi: io andavo a curiosare in quei ripiani perché forse vi era contenuto qualcosa che non avrei dovuto toccare, o vedere, e lo facevo di nascosto. Ormai ne ero sicuro, per inferenza quasi poliziesca: quella era la stanza dei miei genitori, la filotea era il libro di preghiere di mia madre, in quei ripostigli del comò io andavo a metter mano su qualcosa di intimo, che so, vecchia corrispondenza, o un portamonete, o buste di fotografie che non potevano andare nell'albo di famiglia... Ma se quella era la stanza dei miei, siccome Paola mi aveva detto che ero nato lì in campagna, era la camera dove ero venuto al mondo. Che uno non si ricordi la stanza dove è nato è naturale, ma quella che per anni ti hanno fatto vedere dicendo che eri nato lì, su quel lettone, dove pretendevi certe notti di dormire tra papà e mamma, dove chissà quante volte, ormai svezzato, hai voluto odorare ancora il profumo del seno che ti aveva allattato, quella almeno avrebbe dovuto lasciare una traccia in quei miei maledetti lobi. No, anche in quel caso il mio corpo aveva conservato solo la memoria di alcuni gesti più volte ripetuti, e basta. Come a dire che, se volessi, potrei ripetere d'istinto il movimento di suzione della bocca che afferra una mammella, ma poi tutto finirebbe lì, senza saper dire di chi fosse il seno, e come fosse il sapore del latte. Vale la pena di essere nato, se poi non te lo ricordi? E, tecnicamente parlando, ero mai nato? Lo dicevano gli altri, come al solito. Per quello che sapevo io ero nato a fine aprile, a sessantanni, nella stanza di un ospedale. Il signor Pipino nato vecchio e morto bambino. Che storia era? Dunque, il signor Pipino nasce in un cavolo a sessant'anni, con una bella barba bianca, inizia una serie di avventure, ogni giorno ringiovanendo di un poco, sino a che ridiventa ragazzo, poi lattante, e si spegne mentre lancia il suo primo (o ultimo) vagito. Dovevo aver letto quella storia su un libro della mia infanzia. No, impossibile, l'avrei dimenticato come il resto, l'avevo vista citata magari a quarantanni su una storia della letteratura infantile non sapevo tutto dell'infanzia di Vittorio Alfieri e nulla della mia? In ogni caso dovevo lanciarmi alla riconquista della mia anagrafe lì, nell'ombra di quei corridoi, almeno per poter morire in fasce vedendo alfine il volto di mia madre. Oh Dio, e se fossi spirato vedendo il volto di una levatrice grassa, coi baffi da direttrice didattica? Garcia l'Orca. Al fondo di quel corridoio, dopo una cassapanca sotto l'ultima finestra, c'erano due porte, una sul fondo e una a sinistra. Ho aperto quella di sinistra e sono entrato in un ampio studio, acquoreo e severo. Un tavolo di mogano, dominato da una lampada verde, di quelle da biblioteca nazionale, era illuminato da due finestre dai vetri colorati, che davano sul retro dell'ala sinistra, sulla parte forse più silenziosa e riservata della casa, e offrivano un paesaggio superbo. Tra le due finestre, il ritratto di un signore anziano, coi baffi bianchi, in posa come se si offrisse ancora a un Nadar campagnolo. Impossibile che la foto ci fosse già quando il nonno era ancora in vita, una persona norma-
le non tiene il proprio ritratto davanti agli occhi. Non potevano averla messa i miei genitori, se il nonno era morto dopo di loro, e proprio per il dolore della loro scomparsa. Forse gli zii, nel liquidare la casa di città e i campi intorno, avevano riorganizzato quella stanza come un cenotafio. E infatti nulla rivelava che fosse stata un luogo di lavoro, un posto abitato. La sobrietà era mortuaria. Alle pareti un'altra serie di Images d'Epinal, con tanti soldatini dalle uniformi blu e rosse, Infanterie, Cuirassiers, Dragons, Zouaves.
Mi ha colpito la libreria, anch'essa in mogano: scorreva lungo tre pareti ma era praticamente vuota. Su ciascun ripiano erano stati disposti solo due o tre libri, per decorazione, come fanno appunto i cattivi architetti che provvedono al committente un pedigree di cultura fasulla, lasciando spazio per vasi Lalique, feticci africani, piatti d'argento, bocce di cristallo. Ma lì non c'erano neppure questi pezzi di bigiotteria costosa: solo vecchi atlanti, una serie di riviste francesi in carta patinata, il Nuovissimo Melzi del 1905, vocabolari di francese, inglese, tedesco, spagnolo. Impossibile che il nonno libraio e collezionista vivesse davanti a una libreria vuota. Ecco infatti che su un ripiano, in una cornice argentata, si vedeva una foto, presa evidentemente da un angolo della stanza mentre il sole entrava dalle finestre e illuminava la scrivania: il nonno sedeva con aria un poco sorpresa, in maniche di camicia (ma col gilè) e quasi s'infilava tra due ammassi di scartafacci che ingombravano il tavolo. Dietro di lui, gli scaffali erano affollati di libri, tra i libri si elevavano pile di giornali, accatastati in disordine. Nell'angolo, per terra, s'intravedevano altri mucchi, forse riviste, e scatole piene d'altro materiale cartaceo che pareva sbattuto lì proprio per non buttarlo via. Ecco, così doveva essere la stanza del nonno quando era vissuta, il magazzino di un salvatore d'ogni materiale tipografico che altri avrebbero gettato nella pattumiera, la stiva di un vascello fantasma che trasportava documenti dimenticati dall'uno all'altro mare, un posto da perdercisi, a voler frugare in ogni fascio o catafascio. Dov'erano andate tutte quelle meraviglie? Vandali rispettosi avevano evidentemente fatto sparire tutto quello che poteva fare disordine, via tutto. Tutto venduto a un miserabile robivecchi? Forse è dopo questo repulisti che non ho più voluto vedere quelle stanze, che ho cercato di dimenticare Solara? Eppure in quella stanza, anno per anno, dovrei aver passato ore e ore con il nonno a scoprire con lui chissà quali portenti. Anche quell'ultimo appiglio al mio passato mi era stato sottratto? Sono uscito dallo studio e sono entrato nella stanza al fondo del corridoio, assai più piccola e meno austera: mobili più chiari, fatti forse da un falegname locale, alla buona, che dovevano bastare a un ragazzo. Un lettino in un angolo, molte scansie, praticamente vuote, salvo una fila di belle rilegature rosse. Su un tavolinetto da studente, bene ordinato con una cartella nera al centro, un'altra lampada verde, c'era una copia usurata del Campanini Carboni, il vocabolario di latino. A una parete, attaccata con due chiodini, una immagine che mi ha provocato un'altra misteriosissima fiamma. Era la copertina di una partitura musicale, o la réclame di un disco, Vorrei volare, ma sapevo che rimandava a un film. Riconoscevo George Formby, il suo sorriso cavallino, sapevo che cantava accompagnandosi con lo ukulele, e me lo rivedevo penetrare con una moto ormai fuori controllo in un pagliaio, uscendo dall'altra parte tra uno starnazzare di galline, mentre al colonnello sul sidecar piombava in mano un uovo, un cocco bello per te - e poi vedevo Formby precipitare a vite con un aereo d'altri tempi in cui si era infilato per
sbaglio, quindi cabrare, innalzarsi e cadere di nuovo in picchiata - oh che ridere, da morire dal ridere, "me lo sono visto tre volte, me lo sono visto tre volte", quasi gridavo. "Il cinema più da ridere che ho mai visto," mi ripetevo, e dicevo cinema, con l'accento sulla e, come evidentemente dicevano a quei tempi, almeno ancora in campagna.
Era stata certamente la mia camera, letto e studiolo ma, tranne quel poco, il resto era spoglio, come se fosse la stanza del grande poeta nella casa natìa, un'offerta all'ingresso, e messa in scena in modo da far sentire il profumo di una inevitabile eternità. Qui è stato composto Canto d'agosto, L’Ode per le Termopili, L'elegia del barcaiolo morente... E lui, il Grande? Lui non c'è più, consuntosi di mal sottile all'età di ventitré anni, proprio su quel letto, e guardi il pianoforte, ancora aperto come l'aveva lasciato Lui, l'ultimo giorno passato su questa terra, vede? Sul la centrale c'è ancora la traccia della macchia di sangue che gli è caduta dalle labbra pallide mentre suonava il Preludio della goccia. Questa stanza soltanto ricorda il breve suo passaggio terreno, chino sulle sue sudatissime carte. Ma le carte? Quelle sono rinchiuse alla Biblioteca del Collegio Romano e si possono vedere solo col consenso del Nonno. E il Nonno? È morto. Furibondo, sono tornato in corridoio e mi sono affacciato alla finestra sulla corte, chiamando Amalia. Ma possibile, le ho domandato, che in queste stanze non ci siano più né libri né altro, che nella mia camera non trovi i miei giocattoli? "Ma signorino Yambo, lei stava ancora in quella stanza quando era studentino di sedici o diciassett'anni. E voleva tenerci ancora i suoi giocattoli? E com'è che ci tornano in testa adesso dopo cinquantanni?" "Lasci perdere. Ma lo studio del nonno? Doveva essere pieno di cose. Dove sono finite?" "Su in solaio, tutto in solaio. Se lo ricorda il solaio? Sembra un cimitero, a me mi fa malinconia di andarci, e ci salgo solo per mettere in giro i piattini col latte. Perché? Ma perché ci faccio venir voglia ai tre gatti della casa di salire là su, e una volta che sono lì si divertono a dar la caccia ai topi. Era stata una idea del suo signor nonno: in solaio c'è molta carta e bisogna tenerci lontani i topi che sa, in campagna, per tanto che uno fa... A mano che lei diventava grande, le cose di prima andavano a finire in solaio, come le bambole di sua sorella. E dopo, quando i suoi zii hanno messo le mani qui dentro, beh io non voglio criticare, ma potevano almeno lasciare in giro quel che c'era. Niente, come fare i lavori per le feste. Via tutto su in solaio. Naturale che quel piano dove c'è lei adesso è diventato un mortorio e quando lei ci è tornato con la signora Paola nessuno ha voluto metterci le mani e per questo siete andati a stare nell'altra ala, più meschina ma più facile da tenere a posto, e la signora Paola l'ha aggiustata da cristiani..." Se mi aspettavo nell'ala grande la caverna di Ali Babà con tutte le sue anfore piene di monete d'oro, diamanti grossi come una nocciola, e i tappeti volanti pronti per il decollo, avevamo sbagliato tutto, Paola e io. Le stanze del tesoro erano vuote. Bisognava forse andare di sopra in solaio e riportare giù tutto quello che vi avrei scoperto, per restituirle al loro stato originario? Già, ma avrei dovuto ricordare com'era lo stato originario, e invece dovevo fare tutta quella manfrina proprio per ricordarlo. Sono rientrato nello studio del nonno e mi sono accorto che su un tavolinetto d'angolo c'era un giradischi. Non un vecchio grammofono, ma un giradischi con cassa incorporata. Dal disegno doveva essere degli anni cinquanta, solo per i settantotto giri. Il nonno dunque ascoltava dischi? Li raccoglieva, come tutte le altre cose? E dov'erano? In solaio anche quelli? Ho incominciato a sfogliare le riviste francesi. Erano riviste di lusso, di gusto floreale, con pagine che sembravano miniature, dai bordi istoriati e illustrazioni a colori di stile preraffaellita, pallide dame a colloquio con cavalieri del Santo Graal. E poi racconti e articoli, anch'essi in cornici dalle volute liliali, e pagine di moda, già di stile Art Déco, con signore filiformi, capelli alla maschietta, e abiti di chiffon,
o di seta ricamata, dalla vita bassa, colli nudi e ampie scollature sulla schiena, labbra sanguinanti come una ferita, lunghi bocchini dai quali trarre pigre volute di fumo azzurrino, cappellini con la veletta. Questi artisti minori sapevano disegnare l'odor di cipria.
Le riviste alternavano il ritorno nostalgico a un Liberty appena trascorso e l'esplorazione di ciò che era alla moda, e forse il richiamo a bellezze appena appena desuete conferiva una patina di nobiltà alle proposte dell'Eva futura. Ma su un'Eva da poco, evidentemente, fuori moda, mi sono soffermato con un battito al cuore. Non era la misteriosa fiamma, era tachicardia bella e buona, sussulto da nostalgia del presente. Era un profilo femminile, con lunghi capelli d'oro, un velato sentore di angelo caduto. Mi sono recitato mentalmente: E lunghissimi gigli dal sacrale pallore morian tra le tue mani come dei ceri spenti. Spiravi dalle dita dei profumi languenti nell’alito sfinito del supremo dolore. Dalle tue chiare vesti si esalavan via via l'amore e l’agonia. Perdio, io quel profilo dovevo averlo visto, da bambino, da ragazzo, da adolescente, forse ancora alla soglia della stagione adulta, e mi si era impresso nel cuore. Era il profilo di Sibilla. Io dunque conoscevo Sibilla da un tempo immemorabile, io un mese fa in studio l'avevo semplicemente riconosciuta. Ma il riconoscimento, anziché gratifi-
carmi e muovermi a tenerezze rinnovate, mi raggrinziva ora l'animo. Perché in quel momento mi rendevo conto che, vedendo Sibilla, io avevo semplicemente ridato vita a un cammeo della mia infanzia. Forse così avevo già fatto quando l'avevo incontrata per la prima volta: l'ho subito pensata come oggetto d'amore perché oggetto d'amore era stata quella immagine. Poi, quando l'ho reincontrata dopo il risveglio, ho attribuito a noi due una vicenda che era solo quella vagheggiata quando avevo i calzoni corti. Tra me e Sibilla non c'era stato altro che quel profilo? E se niente altro che quel volto vi fosse stato tra me e tutte le donne che ho conosciuto? Se non avessi fatto altro che inseguire il viso che avevo visto nello studio del nonno? Improvvisamente la ricerca a cui mi stavo accingendo in quelle stanze assumeva un'altra valenza. Non era solo il tentativo di ricordare quello che ero stato prima di lasciare Solara, bensì anche quello di comprendere perché avessi fatto quello che avevo fatto dopo Solara. Ma era davvero così? Non esageriamo, mi dicevo, in fondo hai visto una immagine che ti ha evocato una donna incontrata appena ieri. Forse questa figura a te fa venire in mente Sibilla, solo perché è esile e bionda, e a un altro farebbe venire in mente, che so, Greta Garbo, o la ragazza della porta accanto. Sei tu che sei ancora assatanato e come quello della barzelletta (me l'aveva raccontata Gianni quando gli dicevo dei test in ospedale) vedi sempre quella cosa là in tutte le macchie d'inchiostro che ti mostra il dottore. Ma insomma, sei qui per reincontrare tuo nonno e pensi a Sibilla? Via le riviste, le avrei guardate dopo. Mi ha subito attratto il Nuovissimo Melzi del 1905, 4260 incisioni, 78 tavole di nomenclatura figurata, 1050 ritratti, 12 cromolitografie, Antonio Vallardi, Milano. Appena l'ho aperto, alla vista di quelle pagine ingiallite dai caratteri in corpo otto e piccole figure all'inizio dei lemmi più importanti, ho subito cercato quello che sapevo di dovervi trovare. Le torture, le torture. E infatti eccola, la pagina con i vari tipi di supplizi, il bollimento, la crocifissione, l'aculeo, con la vittima issata e poi lasciata cadere coi glutei su un cuscino di spuntoni di ferro acuminati, il fuoco, con arrostimento delle piante dei piedi, la graticola, l'interramento, la pira, il rogo, la ruota, lo scorticamento, lo spiedo, la sega, atroce parodia di uno spettacolo di prestidigitazione, col condannato in una cassa e i due carnefici con una grande lama dentata, salvo che qui alla fine il soggetto veniva veramente segato in due tronconi, lo squartamento, quasi come il precedente, tranne che qui una lama azionata a leva doveva presumibilmente dividere l'infelice per il lungo, e poi il trascinamento, col colpevole legato alla coda di un cavallo, la vite ai piedi e, il più impressionante di tutti, il palo - e all'epoca non dovevo sapere nulla delle foreste di impalati ardenti alla luce dei
quali cenava il voivoda Drakula, e via via, trenta tipi di tortura, l'ima più efferata dell'altra.
Le torture... Chiudendo gli occhi, subito dopo essere capitato su quella pagina, avrei potuto citarle una per una, e il blando orrore, la quieta esaltazione che stavo provando, erano i miei di quel momento, non quelli di un altro che non conoscevo più. Quanto dovevo aver indugiato su questa pagina. Ma quanto anche sulle altre, alcune a colori (e vi arrivavo senza neppure affidarmi all'ordine alfabetico, come se seguissi la memoria dei miei polpastrelli): i funghi, carnosi, e più belli di tutti quelli velenosi, la tignosa dorata dal cappuccio rosso picchiettato di bianco, l'agarico sanguigno di un giallo pestifero, la bubbola bianca, il boleto malefico, la rossola come un labbro carnoso aperto in una smorfia; e poi i fossili, con il megaterio, il mastodonte e il moa; gli strumenti antichi (il ramsinga, l'olifante, la buccina, il liuto, la ribecca, Tarpa eolica, e Tarpa di Salomone); le bandiere di tutto il mondo (con paesi che si chiamavano China e Cocincina, Malabar, Kongo, Tabore, Marates, Nuova Granata, Sahara, Samoa, Sandwich, Valacchia, Moldavia); i veicoli con Tomnibus, il faeton, il fiacchere, il landeau, il coupé, il cab, il sulky, la diligenza, il carro etrusco, la biga, la torre elefantina, il carroccio, la berlina, il palanchino, la lettiga, la slitta, il carrucolo, il baroccio; i velieri (e io che credevo di avere assorbito da chissà quali racconti di avventure di mare termini come brigantina e mezzana, contromezzana, belvedere, gabbia, maestro, trinchetto, parrocchetto, velaccino, trinchettina, fiocco e controfiocco, boma, picco, bompresso, coffa, murata, orza la randa nostromo del diavolo, corpo di mille bombarde, tuoni d'Amburgo, molla il pappafico, tutti alla murata di babordo, fratelli della Costa!); e ancora, le armi antiche, la mazza snodata, il flagello, lo spadone da giustiziere, la scimitarra, il pugnale a tre lame, la daga, l'alabarda, l'archibugio a ruota, la bombarda, l'ariete, la catapulta; e la grammatica dell'araldica, campo, fascia, palo, banda, sbarra, partito, spaccato, trinciato, inquartato, grembiato... Questa era stata la prima enciclopedia della mia vita e dovevo averla sfogliata a lungo. I margini delle pagine erano consunti, molti lemmi erano sottolineati, talora apparivano a fianco rapide annotazioni in una calligrafia infantile, più che altro per trascrivere termini difficili. Questo volume era stato usato sino allo spasimo, letto e riletto e sgualcito, e molti fogli si stavano ormai staccando. Qui si era formato il mio primo sapere? Spero di no, ho sogghignato dopo che ho iniziato a leggere alcune voci, e proprio quelle più sottolineate: Piatone. Ins. filos. greco, il più grande dei filos. dell'antichità. Fu discep. diSocrate, del quale espose la dottrina w/Dialoghi. Riunì una bella collezione di suppellettili ant. 429347 av. C Baudelaire. Poeta parig., stravagante ed artificiale nell'arte. Evidentemente ci si può liberare anche da una cattiva educazione. Poi sono cresciuto in età e sapienza, e all'università ho letto quasi tutto Piatone. Nessuno mi ha mai più confermato che avesse messo insieme una bella collezione di suppellettili antiche. Ma se fosse vero? E se per lui questa fosse stata la cosa più importante, e il resto era per guadagnarsi il pane e permettersi quel lusso? In fondo quelle torture ci sono state, non credo che i libri di storia che circolano nelle scuole le insegnino, ed è male, dobbiamo ben sapere di che pasta siamo fatti, noi stirpe di Caino. Sono dunque cresciuto pensando che l'uomo fosse irrimediabilmente malvagio e la vita un racconto pieno d'urla e furore? Per questo Paola diceva che scrollavo le spalle quando morivano un milione di bambini in Africa? È il Nuovissimo Melzi che mi ha reso dubitoso della natura umana? Continuavo a sfogliarlo: Schumann (Rob.) Cel. compos. ted. Scrisse //Paradiso e la Peri, molte Sinfonie, Cantate, ec. 1810-1856 - (Gara). Distinta pianista, vedova delpreced 1819-18%.
Perché "vedova"? Nel 1905 erano entrambi morti da tempo, forse si dice che Calpurnia era la vedova di Giulio Cesare? No, ne era la moglie, anche se gli è sopravvissuta. Perché vedova solo Clara? Ma santiddio, il Nuovissimo Melzi era sensibile anche ai pettegolezzi, ed è dopo la morte del marito, e forse anche prima, che Qara ha avuto una relazione con Brahms. Si leggano le date (il Melzi come l'oracolo di Delfì non dice e non nasconde, ma accenna), Robert muore quando lei ha appena trentasette anni, destinata a campare per altri quaranta. Che doveva fare a quell'età una bella e distinta pianista? Clara appartiene alla storia come vedova, e il Melzi lo registrava. Come ho saputo, dopo, la storia di Clara? Forse perché il Melzi mi aveva scatenato una curiosità a proposito di quel "vedova". Quante parole so perché le ho imparate lì? Perché so anche ora, con adamantina certezza, e in barba alla mia tempesta cerebrale, che la capitale del Madagascar è Antananarivo? Lì ho incontrato termini dal sapore di una formula magica, awittolato, baciabasso, belzuino, caccabaldole, cerasta, crivellaio, dommatica, galiosso, granciporro, inadombrabile, lordume, mallegato, pascolarne, postemoso, pulzellona, sbardellare, speglio, versipelle, Adrasto, Allobrogi, Ritciù, Caffiristan, Dongola, Assurbanipal, Filopatore... Ho sfogliato gli atlanti: alcuni erano vecchissimi, prima ancora della guerra del '14-18, e in Africa, di un colore grigio azzurro, c'erano ancora le colonie tedesche. Dovrei aver frequentato in vita mia molti atlanti - non avevo appena venduto un Ortelius? Ma lì alcuni nomi esotici assumevano un'aria familiare, come se da quelle carte dovessi partire per ricuperare altre carte. Che cosa univa la mia infanzia alla Deutsch-Ostafrika, alle Nederlandsch-Indie, e soprattutto a Zanzibar? Comunque era indubbio che lì a Solara ogni parola ne evocava un'altra. Sarei risalito per quella catena sino alla parola finale? Quale? "Io"? Ero tornato nella mia stanza. Una cosa mi è parso di sapere senza esitazioni. Sul Campanini Carboni non c'è la parola merda. Come si dice in latino? Che cosa esclamava Nerone quando per attaccare un quadro si schiacciava il dito col martello? Qualis arti/ex pereo? Da ragazzo quelli dovevano essere problemi seri, e la cultura ufficiale non dava risposte. Allora si ricorreva ai dizionari non scolastici, penso. E infatti ecco che il Melzi registra merda, merdaio, merdaiuolo, merdocco, "impiastro per levare i peli, adoperato specialmente dagli Ebrei" - mi sarò domandato quanti peli avevano dunque gli Ebrei. Ho avuto come un lampo, e ho udito una voce: "H vocabolario di casa mia dice che una pitana è una donna che fa il suo commercio da sé." Qualcuno, un compagno di scuola, era andato a scovare su un altro dizionario quello che non c'era neppure sul Melzi, aveva nelle orecchie la voce proibita in forma semidialettale (la parola doveva essere piitanna), e deve avermi intrigato a lungo quel "fare il suo commercio da sé". Cosa poteva esserci di così proibito nel commerciare, come dire, senza commesso o ragioniere? E chiaro, la puttana del prudente dizionario faceva commercio di sé, ma il mio informatore aveva tradotto mentalmente nell'unico modo che per lui avesse il senso di un'allusione maligna, di quelle che ascoltava in casa: "Eh, furba quella là, fa tutto il suo commercio da sé..." Ho rivisto qualcosa, il luogo, il ragazzo? No, era come se riaffiorassero frasi, sequenze di parole, scritte su un racconto letto una volta. Flatus vocis. I libri rilegati non potevano essere miei. Me li ero fatti dare certamente dal nonno, o gli zii li avevano trasportati lì dallo studio del nonno, per ragioni scenografiche. La maggior parte erano cartonnés della Collection Hetzel, tutte le opere di Verne, rilegatura in rosso con fregi dorati, copertine variopinte con decorazioni in oro... Forse ho appreso il mio francese su quei libri, e anche lì andavo a colpo sicuro alle immagini più memorabili, il capitano Nemo che dal grande oblò del Nautilus vede il polipo gigantesco, la nave aerea di Robur il Conquistatore, irta di pennoni tecnologici, il pallone che precipita sull'Isola Misteriosa {Risaliamo? - No, al contrario, discen-
diamo! - Peggio ancora, signor Ciro, precipitiamo!), l'enorme proiettile che punta verso la luna, le grotte del centro della terra, Keraban l'ostinato e Michele StrogofL. Chissà quanto mi hanno inquietato quelle figure che emergevano sempre da un fondo scuro, delineate per sottili tratti neri alternati a ferite biancastre, un universo privo di zone cromatiche campite in modo omogeneo, una visione fatta di graffi, striature, riflessi abbacinanti per assenza di traccia, un mondo visto da un animale con una retina tutta sua, forse così lo vedono i buoi e i cani, o le lucertole. Un mondo spiato di notte attraverso una veneziana dalle strisce sottilissime. Attraverso queste incisioni entravo nel mondo chiaroscurato della finzione: alzavo gli occhi dal libro, ne uscivo, venivo ferito dal pieno sole, poi - di nuovo giù, come un subacqueo che si immerga in profondità dove non si distinguono più i colori. Avranno tratto da Verne dei film a colori? Che cosa diventa Verne senza quelle bulinature, quelle abrasioni che generano luce solo là dove lo strumento dell'incisore ha scavato o lasciato in rilievo la superficie? Il nonno aveva fatto rilegare altri volumi dello stesso periodo, ma salvando le vecchie copertine illustrate, II birichino di Parigi, II conte di Montecristo, I tre moschettieri, e altri capolavori del romanticismo popolare.
Ecco in due edizioni, l'italiana Sonzogno e la francese, II capitano Satana ovvero Les ravageurs de la mer di Jacolliot. Stesse incisioni, chissà in quale versione l'avevo letto. Sapevo che a un certo punto dovevano svolgersi due scene terribili, prima il malvagio Nadod che, con un solo colpo d'ascia, fende la testa del buon Harald e uccide suo figlio Olaus, poi alla fine il giustiziere Guttor, che afferra la testa di Nadod e si mette a stringerla gradatamente con le sue mani possenti, sino a che il cervello del miserabile sprizza sino al soffitto. In questa illustrazione gli occhi della vittima e quelli del carnefice schizzano quasi fuori dall'orbita.
La massima parte delle vicende si svolge in mari gelati coperti di foschia boreale. Sono cieli di madrcperla, che le incisioni rendono nebbiosi in contrasto col biancore dei ghiacci. Una cortina di vapori grigi, una sfumatura lattea ancora più intensa... Una polvere bianca finissima, simile a cenere, che ricade sulla canoa... Dalle profondità dell'oceano si leva un riflesso luminoso, una luce irreale... Un diluvio di cenere bianca, con squarci momentanei tra i quali s'indovina un caos di forme malcerte... E una figura umana infinitamente più alta di ogni altro abitatore terrestre, avvolta in un sudario, la faccia del candore immacolato della neve... No, che dico, queste sono memorie di un'altra storia. Congratulazioni, Yambo, hai una bella memoria a breve termine. Non erano le prime immagini, o le prime parole che avevi ricordato al momento del risveglio in ospedale? Deve essere Poe. Ma se queste pagine di Poe si sono incise così a fondo nella tua memoria pubblica, non sarà perché da piccolo avevi visto in privato i mari pallidi del capitano Satana? Sono rimasto a leggere (rileggere?) il libro sino a sera, mi sono accorto che avevo iniziato in piedi e poi mi ero accovacciato con le spalle contro il muro, il libro sulle ginocchia, immemore del tempo, sino a che è venuta a risvegliarmi da quella trance l'Amalia, gridando: "Ma si farà male agli occhi, glielo diceva sempre la sua povera mamma! Ossignur bel, invece di andar fuori, che oggi è stato un pomeriggio di una bellezza che basta. E non mi è venuto neppure a mangiare a mezzogiorno. Avanti, via via, che è ormai ora di cena! " Dunque avevo ripetuto un rito antico. Ero stremato. Ho mangiato come un ragazzo che deve farsi il sangue e crescere, poi sono stato preso da un gran sonno. Di
solito, diceva Paola, ho sempre letto a lunga prima di addormentarmi, ma quella sera niente libri, come se me lo avesse comandato la mamma. Mi sono assopito subito, e ho sognato terre e mari del Sud fatti di strisce di crema distribuite per lunghi filamenti su un piatto di marmellata di more. 7. OTTO GIORNI IN UNA SOFFITTA Che cosa ho fatto negli ultimi otto giorni? Ho letto, in gran parte in solaio, ma il ricordo di una giornata s'impasta con quello dell'altra. So solo che ho letto in modo disordinato e furioso. Non ho letto tutto per filo e per segno. Certi libri, certi fascicoli li ho scorsi come se sorvolassi un paesaggio, e nel trasvolarli sapevo già di sapere che cosa c'era scritto. Come se una sola parola ne rievocasse altre mille, o fiorisse in un riassunto corposo, come quei fiori giapponesi che si mettono a sbocciare nell'acqua. Come se qualcosa andasse da sola a depositarsi nella mia memoria, per tenere compagnia a Edipo o a Hans Castorp. Altre volte il cortocircuito mi era attivato da un disegno, tremila parole per un'immagine. Altre volte leggevo lentamente, assaporando una frase, un brano, un capitolo, avvertendo forse le stesse emozioni provocate dalla prima e scordata lettura. Inutile dire della gamma di misteriosissime fiamme, lievi tachicardie, subitanei rossori che molte di quelle letture suscitavano per un breve istante - e poi si dissolvevano com'erano venute, per lasciar posto a nuove ondate di calore. Lungo otto giorni, per godere della luce mi alzavo presto, salivo su, e ci restavo sino al tramonto. A mezzogiorno Amalia, che la prima volta si era spaventata non trovandomi più, mi portava un piatto con pane e salame, o formaggio, due mele e una bottiglia di vino ("Signur Signur, questa creatura si ammala di nuovo e poi cosa ci dico alla signora Paola, lo faccia almeno per me, la smetta che mi diventa cieco!"). Poi se ne andava piangendo, io mi scolavo quasi tutta la bottiglia e continuavo a scartabellare in stato di ebbrezza, ed è ovvio che non riesca più a collegare i prima e i dopo. Talora scendevo con le braccia cariche di libri e andavo a infrattarmi altrove, per non restare prigioniero del sottotetto. Prima di salire avevo telefonato a casa, per dare notizie. Paola voleva sapere delle mie reazioni ed ero stato cauto: "Prendo confidenza coi luoghi, il tempo è splendido, faccio passeggiate all'aperto, Amalia è un amore/' Mi ha domandato se ero già andato dal farmacista del paese a farmi misurare la pressione. Dovevo farlo ogni due o tre giorni. Con quello che mi era successo non dovevo scherzare. E soprattutto le pillole, al mattino e alla sera. Con qualche rimorso, ma con un solido alibi professionale, subito dopo avevo telefonato in studio. Sibilla era ancora occupata dal catalogo. Avrei potuto avere le bozze entro due o tre settimane. Con molti e paterni incoraggiamenti ho messo giù. Mi sono chiesto se provassi ancora qualcosa per Sibilla. È strano, ma i primi giorni a Solara avevano già proiettato tutto in una prospettiva diversa. Ora Sibilla stava incominciando a diventare come un lontano ricordo d'infanzia, mentre quello che stavo via via scavando tra le nebbie del passato diventava il mio presente. Amalia mi aveva spiegato che si sale in solaio dall'ala sinistra. Mi immaginavo una scala a chiocciola, in legno, e invece erano scalini in pietra comodi e praticabili - altrimenti, ho poi capito, come avrebbero fatto a trasportare di sopra tutto quello che ci avevano cacciato? Per quel che ne sapevo, non avevo mai visto un solaio. Nemmeno una cantina, a dire il vero, ma ci sono idee diffuse sulle cantine, sotterranee, oscure, umide, fresche in ogni caso, da andarvi con una candela. O una face. Il romanzo gotico è ricco di sotterranei dove cupo si aggira Ambrogio il Monaco. Sotterranei naturali come le caverne di Tom Sawyer. Il mistero del buio. Tutte le case hanno una cantina, non tutte hanno un solaio, specie in città, dove hanno un attico. Ma davvero non c'è letteratura sui solai? E che cos'è allora Otto giorni in
una soffittai II titolo mi è tornato alla mente, ma solo quello. Anche a non percorrerli tutti in una volta, si capisce che i solai della casa di Solara corrono per tutte e tre le ali: si entra in uno spazio che va dalla facciata al retro dell'edificio, ma poi si aprono passaggi più stretti e appaiono paratie, assiti messi per dividere i settori, tracciati definiti da scaffalature in metallo o vecchi cassettoni, svincoli di un labirinto senza fine. Avventuratomi per un corridoio a sinistra, avevo girato ancora una o due volte, e mi ero ritrovato di fronte alla porta d'ingresso. Sensazioni immediate. Il caldo, anzitutto, come è naturale in un sottotetto. Poi la luce: proviene in parte da una serie di abbaini, che si vedono anche guardando la facciata, ma in gran parte ostruiti all'interno da robaglia ammassatavi contro, così che talora il sole filtra appena, formando lame gialle in cui si vedono agitarsi infiniti corpuscoli, che rivelano come anche nella penombra circostante danzi una moltitudine di monadi, semi, atomi primordiali impegnati in scaramucce browniane, corpi primi brulicanti nel vuoto - chi ne parlava, Lucrezio? Talora quei fendenti vanno a fare la gibigianna sui vetri di un qualche buffet sconnesso, o su una specchiera che, da un altro angolo visuale, sembra una superficie opaca qualsiasi appoggiata al muro. E poi ogni tanto dei lucernari, appannati da decenni di detriti pluviali incrostatisi all'esterno, ma ancora capaci di formare sul pavimento una zona più chiara. Infine, il colore dominante. Il colore del solaio, dato dalle travi, dalle casse qua e là ammucchiate, dagli scatoloni di cartone, dai rimasugli di canterani dissestati, è un colore da falegnameria, fatto di tante sfumature di marrone, dal giallastro del legno non verniciato alle tenerezze dell'acero, sino alle tonalità più cupe di comò dalle vernici ormai scrostate, passando per l'avorio delle carte che debordano dalle scatole. Se una cantina annuncia gli inferi, un solaio promette un paradiso un poco fané, dove i corpi morti si danno in una pulverulenta chiarità, un eliso vegetale che, nell'assenza di verde, ti fa sentire in un bosco tropicale rinsecchito, in un canneto artificiale dove ti immergi in una sauna molto blanda. Pensavo che le cantine simboleggiassero l'accoglienza dell'utero materno, con i loro umidori amniotici, ma ecco che quell'utero aereo suppliva col suo calore quasi medicamentoso. E in quel dedalo luminoso, che bastava scoperchiare due tegole per trovarsi a cielo aperto, aleggiava un odore complice di chiuso, un odore di silenzio e di quiete. D'altra parte dopo un poco non sentivo neppure più il caldo, preso com'ero dalla frenesia di scoprire tutto. Perché certamente il mio tesoro di Clarabella era lì, salvo che avrei dovuto scavare a lungo e non sapevo da dove cominciare. Ho dovuto lacerare molte ragnatele: i gatti si occupavano dei topi, aveva detto Amalia, ma Amalia non si era mai preoccupata dei ragni. Se non avevano invaso tutto era per selezione naturale, una generazione moriva e le loro tele si sbriciolavano, e via così di stagione in stagione. Ho cominciato a frugare in certi ripiani, rischiando di far cadere lo scatolame che vi si ammassava. Perché il nonno evidentemente collezionava anche scatole, specie se di metallo, e multicolori. Scatole di latta istoriata, i biscotti Wamar con degli amorini in altalena, l'astuccio dei cachet Arnaldi, o quello dal bordo dorato e dai motivi vegetali della brillantina Coldinava, la bomboniera dei pennini Perry, il cofano sontuoso e lucido delle matite Presbitero, ancora tutte allineate e intonse, come una dotta cartucciera, e finalmente il barattolo del cacao Talmone, coi Due Vecchi - lei che offre tenera la digeribile bevanda a un avo sorridente, ancien regime,
ancora vestito in culottes. Mi è venuto spontaneo di identificare nei due vegliardi il nonno e la nonna, che dovrei avere appena conosciuto. Mi è poi capitata tra le mani una scatola, di stile fine Ottocento, dell'Effervescente Brioschi. Alcuni gentiluomini assaggiano deliziati calici di acqua da tavola offerti da una graziosa cameriera. Le prime a ricordare sono state le mie mani. Si prende la prima bustina, con una polvere bianca e soffice, e la si versa lentamente nel collo della bottiglia piena d'acqua del rubinetto, e si agita un poco il recipiente, perché la polvere si sciolga bene e non resti rappresa nel collo; poi si prende la seconda bustina, dove la polvere è granulosa, di piccolissimi cristalli, e si versa anche quella, ma rapidamente, perché subito l'acqua inizia a ribollire, e si deve chiudere in fretta il tappo a molla, e attendere che il miracolo chimico si compia in quel brodo primordiale, tra gorgoglii e tentativi del liquido di fuoriuscire per bollicine dagli interstizi della guarnizione di gomma. Alfine la tempesta si calma, e l'acqua frizzante è pronta da bere, acqua da tavola, vino dei bambini, minerale fatta in casa. Mi sono detto: Yacqua visct. Ma dopo le mie mani qualcosa d'altro si è attivato, quasi come quel giorno di fronte al Tesoro di Ciambella. Cercavo un'altra scatola, certamente d'epoca posteriore, che tante volte avevo aperto prima che ci sedessimo a tavola. D disegno avrebbe dovuto essere un poco diverso: sempre gli stessi gentiluomini, che sempre
assaporavano in lunghi calici da champagne l'acqua meravigliosa, però sul tavolo si scorgeva nitidamente una scatola uguale uguale a quella che si aveva in mano; e su quella scatola erano raffigurati gli stessi gentiluomini che bevevano davanti a un tavolo dove appariva un'altra scatola di acqua da tavola, anch'essa con gentiluomini che... E così per sempre, sapevi che sarebbe bastata una lente o un microscopio potentissimo per vedere altre scatole raffigurate sulle scatole, en ahimè, a scatole cinesi, a matrioska. L'infinito, percepito dagli occhi di un bambino prima di aver saputo del paradosso di Zenone. La corsa per raggiungere una meta irraggiungibile, né la tartaruga né Achille sarebbero mai arrivati all'ultima scatola, agli ultimi gentiluomini e all'ultima cameriera. Si imparano da piccoli, la metafisica dell'infinito e il calcolo infinitesimale, solo che non si sa ancora quello che si sta intuendo, e potrebbe essere l'immagine di un Regresso Senza Fine, oppure, al contrario, l'orrida promessa dell'Eterno Ritorno, e del volgere degli evi che si mordono la coda, perché arrivati all'ultima scatola, se un'ultima ci fosse stata, si sarebbe forse scoperto al fondo di quel vortice se stessi con in mano la scatola dell'inizio. Perché ho deciso di fare il libraio antiquario se non per risalire a un punto fisso, il giorno in cui Gutenberg ha stampato la prima Bibbia a Magonza? Almeno sai che prima non c'era nulla, o meglio c'era altro, e sai che ti puoi fermare, altrimenti non saresti più libraio ma decifratore di manoscritti. Si sceglie un mestiere che impegna solo su cinque secoli e mezzo perché da bambini si fantasticava sull'infinito delle scatole dell'acqua viscì.
Tutta la roba accumulata in solaio non poteva stare nello studio del nonno né altrove nella casa, quindi, anche quando lo studio era popolato di scartafacci, molte cose erano già lassù. Dunque era lassù che avevo tentato tante mie esplorazioni infantili, lassù c'era la mia Pompei dove andavo a disseppellire reperti remoti che risalivano a prima della mia nascita. Come stavo facendo ora, lì annusavo il passato. Quindi stavo ancora celebrando una Ripetizione. Accanto alla scatola di latta c'erano due scatole in cartone, piene di bustine e astucci di sigarette. Anche quelle raccoglieva, il nonno, e gli era certo costata non poca fatica andarle a rubacchiare a viaggiatori, chi sa dove e da dove, perché a quei tempi il collezionismo di cose minime non era organizzato come oggi. Erano marche mai udite, Mjin Cigarettes, Makedonia, Turkish Atika, Tiedemann's Birds Eye, Calypso, Cirene, Kef Orientalske Cigaretter, Aladdin, Armiro Jakobstad, Golden West Virginia, El Kalif Alexandria, Stambul, Sasja Mild Russian Blend, astucci sontuosi, con immagini di pascià e kedivé e odalische orientali, come sui Cigarrillos Excelsior De la Abundancia, oppure marinai inglesi acchittatissimi in bianco e blu, con la barba curata di un re Giorgio forse quinto, e poi delle scatole che mi pareva di riconoscere, come se le avessi viste in mano a delle signore, quelle bianco avorio delle Èva, e le Serraglio, e infine bustine cartacee, acciaccate e accartocciate, di sigarette popolari, come le Africa o le Milit, che nessuno aveva mai pensato di conservare, e cara grazia se chissà chi ne aveva raccolta una nella spazzatura, a futura memoria. Mi sono soffermato almeno dieci minuti sul rospo spiaccicato e sbrindellato di Nc 10 Sigarette Macedonia, lire 3, mormorando: "Duilio, le Macedonia ti fanno venire i polpastrelli gialli..." Di mio padre non sapevo ancora nulla, tranne che ormai ero sicuro che fumasse quelle Macedonia, e forse proprio quelle di quel pacchetto, e che mia madre si lamentava di quei polpastrelli gialli di nicotina, "gialli come una pastiglia di chinino". Indovinare l'immagine paterna attraverso una pallida tonalità di tannino non era molto, ma abbastanza da giustificare il viaggio a Solara.
Ho riconosciuto anche i prodigi della scatola accanto, cui mi attirava un afrore di profumi da pochi soldi. Si trovano ancora, ma carissimi, li avevo visti poche settimane prima sulle bancarelle del Cordusio, erani i calendarietti da barbiere, così insopportabilmente profumati da conservare ancora un qualche sentore anche a cinquanta e più anni di distanza, una sinfonia di cocotte, di dame in crinolina ma discinte, di bellezze in altalena, di amanti perduti, di danzatrici esotiche, di regine d'Egitto... Le Pettinature Femminili Attraverso i Secoli, Le Damine Portafortuna, II Firmamento Italiano con Maria Denis e Vittorio De Sica, Sua Maestà la Donna, Salomè, Almanacco Profumato Stile Impero con Madame Sans Gène, Tout Paris, il Grand Savon Quinquine, sapone universale per toelette, antisettico, preziosissimo nei climi caldi, contro lo scorbuto, le febbri malariche, l'ezema secca (sic) - col monogramma di Napoleone, Dio sa perché, ma nella prima immagine appare l'Imperatore che riceve da un turco notizia della grande invenzione, e l'approva. Anche un calendarietto col Vate D'Annunzio - i barbieri non avevano pudore. Annusavo con qualche riserbo, come l'intruso in un regno proibito. I calendarietti da barbiere potevano accendere morbosamente la fantasia di un bambino, forse mi erano interdetti. Forse in solaio avrei compreso qualcosa sulla formazione della mia coscienza sessuale.
Il sole ormai batteva a picco sui lucernari, e non ero pago. Avevo visto tante cose, ma non un oggetto che fosse stato davvero e soltanto mio. Ho girato a caso e sono stato attirato da un canterano chiuso. L'ho aperto, ed era pieno di giocattoli. Avevo visto nelle settimane precedenti i giocattoli dei miei nipotini, tutti in plastica colorata, la maggior parte elettronici. Di un motoscafo nuovo che gli avevo regalato, Sandro mi aveva subito detto di non buttar via la scatola, perché sul fondo doveva esserci la batteria. I miei giocattoli di un tempo erano di legno e di latta. Sciabole, fucilini a tappo, un piccolo casco coloniale del tempo della conquista dell'Etiopia, una intera armata di soldatini di piombo, e altri più grandi di materiale friabile, chi ormai senza testa, chi senza un braccio, ovvero col solo spuntone di fil di ferro attorno a cui si reggeva quella sorta di creta verniciata. Dovrei avere vissuto con quei fucili e quegli eroi mutilati giorno per giorno, in preda a furori guerreschi. Per forza, all'epoca un bambino doveva essere educato al culto della guerra. Sotto c'erano delle bambole di mia sorella, che forse le aveva passato mia madre, e lei le aveva ricevute da mia nonna (dovevano essere tempi in cui i giocattoli si ereditavano): carnagione di porcellana, boccuccia di rosa e guance infocate, il vestitino di organza, gli occhi che si movevano ancora languidamente. Una, scuotendola, aveva ancora detto mamma. Rovistando tra un fucile e l'altro ho rinvenuto dei soldatini curiosi, piatti, di legno sagomato, il képi rosso, la giubba blu e i pantaloni lunghi, rossi con una banda gialla, montati su rotelline. I tratti non erano marziali, bensì grotteschi, coi nasi a patata. Ho pensato che uno di quelli era il capitano La Patata del reggimento dei Soldatini di Bengodi. Ero certo che si chiamavano così. Infine ho tirato fuori una rana di latta, che a schiacciarle il ventre emetteva ancora un era era appena percettibile. Se non vuole le caramelle al latte del dottor Osimo, ho pensato, vorrà vedere la rana. Che cosa c'entrava il dottor Osimo con la rana? A chi volevo farla vedere? Buio pesto. Occorreva rifletterci su. Guardando e toccando la rana, mi era venuto spontaneo di dire che Angelo Orso doveva morire. Chi era Angelo Orso? Che rapporto aveva con la rana di latta? Sentivo vibrare qualcosa, ero sicuro che sia la rana che Angelo Orso mi legavano a qualcuno, ma nell'aridità della mia memoria puramente verbale non avevo altri appigli. Ovvero, ho mormorato due versi: "Va a iniziare la sfilata, - capitano La Patata." Poi più nulla: ero di nuovo nel presente, nel silenzio nocciola del solaio. Il secondo giorno era venuto a farmi visita Matù. Mi era salito subito sulle ginocchia mentre mangiavo, e si era meritato delle croste di formaggio. Dopo la bottiglia di vino ormai d'ordinanza, sono andato a caso, sino a che non ho visto due grandi armadi traballanti che stavano ritti di fronte a un abbaino per via di certi rudimentali cunei di legno inseriti per mantenerli più o meno verticali. Ho fatto qualche fatica ad aprire il primo, sempre sul punto di crollarmi addosso, e come l'ho aperto una pioggia di libri mi è caduta ai piedi. Non riuscivo a trattenere quella rovina, sembrava che quei gufi, pipistrelli, barbagianni imprigionati da secoli, quei geni nella bottiglia, non attendessero che un imprudente che gli desse una vendicativa libertà. Tra quelli che mi si accumulavano ai piedi e quelli che cercavo di estrarre in tempo perché non precipitassero, era un'intera biblioteca che scoprivo - che dico, probabilmente lo stock della vecchia bottega del nonno che gli zii avevano liquidato in città. Non ce l'avrei mai fatta a vedere tutto, ma già ero fulminato da agnizioni che s'illuminavano e si spegnevano in un istante. Erano libri in lingue diverse, e di epoche diverse, certi titoli non mi suscitavano nessuna fiamma, perché appartenevano al repertorio del già noto, come tante vecchie edizioni di romanzi russi, salvo che, al solo scorrere le pagine, mi colpiva un italiano stranito, dovuto - come dicevano i frontespizi - a signore con un doppio cognome, che evidentemente traducevano i russi dal francese, perché i personaggi avevano nomi con desinenze in ine, come a dire Myskine e Rogozyne.
Molti di questi volumi, solo a toccare i fogli, mi si sfarinavano in mano, come se la carta, dopo decenni di oscurità tombale, non riuscisse a sopportare la luce del sole. Di fatto non sopportava il tocco delle dita e per anni aveva giaciuto nell'attesa di segmentarsi in brandelli minutissimi, frantumandosi ai margini e agli angoli in lamelle sottili. Sono stato attratto dal Martin Eden di Jack London e sono andato macchinalmente a cercare l'ultima frase, come se le mie dita sapessero che doveva essere là. Martin Eden, al colmo della gloria, si uccide lasciandosi scivolare in mare dall'oblò di un transatlantico, sente l'acqua che gli penetra lentamente nei polmoni, capisce in un ultimo barlume di lucidità qualcosa, forse il senso della vita, ma "appena lo seppe, cessò di saperlo". Occorre davvero pretendere l'ultima rivelazione, se poi una volta che la si è avuta si sprofonda nel buio? Quella riscoperta aveva gettato come un'ombra su quello che stavo facendo. Forse avrei dovuto fermarmi, visto che la sorte mi aveva già donato l'oblio. Ma ormai avevo iniziato e non potevo che continuare. Ho passato la giornata a leggiucchiare qui e là, talora intuivo che grandi capolavori che ritenevo avere assorbito nella mia memoria pubblica e adulta li avevo avvicinati per la prima volta nelle riduzioni per ragazzi della "Scala d'Oro". Mi suonavano familiari le liriche di II cestello, poesie per l'infanzia di Angiolo Silvio Novaro: Che dice la pioggerellina di marzo che picchia argentina sui tegoli vecchi del tetto, sui hruscoli secchi dell'orto? Oppure, Primavera vien danzando, vien danzando alla tua porta, sai tu dirmi che ti porta? Ghirlandette di farfalle, campanelle di vilucchi. Sapevo allora che cosa fossero i vilucchi e i bruscoli? Ma immediatamente dopo mi sono capitate sotto gli occhi le copertine della serie di Fantomas, che mi parlavano del Pendu de Londres, della Vespa rossa o della Cravatta di canapa, con le loro vicende oscure di inseguimenti per le fogne di Parigi, di fanciulle emergenti da un avello, di corpi squartati, teste mozzate, e la figura del principe del delitto in marsina, sempre pronto a resuscitare e a dominare con la sua risata beffarda una Parigi notturna e sotterranea.
E insieme a Fantomas ecco la serie di Rocambole, altro signore del delitto, dove ad apertura di pagina di Le miserie di Londra, leggevo questa descrizione: All'angolo sud-ovest di Wellclose-square v'è una stradetta larga circa tre metri; a mezza via s'erge un teatro, i cui posti migliori si vendono a dodici soldi, e si entra in platea per un penny. Il primo attore è un negro. Là si fuma e si beve durante lo spettacolo. Le prostitute che vanno nei palchetti sono scalze; la platea è composta di ladri. Non sono riuscito a resistere al fascino del male e a Fantomas e Rocambole ho dedicato il resto della giornata, tra letture erratiche e folgoranti, mescolandole con le storie di un altro criminale, gentiluomo però, Arsenio Lupin, e di un altro più gentiluomo ancora, l'elegantissimo Barone, aristocratico ladro di gioielli dai molteplici travestimenti, e dall'immagine esageratamente anglosassone - credo di un disegnatore italiano e anglofilo.
Fremevo di fronte a una bella edizione di Pinocchio, illustrata da Mussino nel 1911, dalle pagine slabbrate e macchiate di caffellatte. Tutti sanno che cosa racconta Pinoc-
chio, di Pinocchio mi era rimasta una immagine gaiamente fiabesca, e chissà quante
volte Pavrò raccontato ai nipotini tenendoli allegri, eppure ho provato un brivido di fronte a illustrazioni terrificanti, giocate su due soli colori, giallo e nero o verde e nero, che nelle loro volute liberty mi assalivano con la barba fluviale di Mangiafuoco, con gli inquietanti capelli turchini della fata, con le visioni notturne degli Assassini o con il rictus del Pescatore Verde. Mi sono forse rannicchiato sotto alle coperte, le notti di temporale, dopo avere guardato quel Pinocchio} Settimane fa, quando chiedevo a Paola se tutti quei film di violenza e di morti viventi in televisione non facessero male ai bambini, lei mi aveva detto che uno psicologo le aveva rivelato che in tutta la sua carriera clinica non aveva mai incontrato bambini nevrotizzati da un film, tranne una volta, e questo bambino, irrimediabilmente ferito nel profondo, era stato rovinato da Biancaneve di Walt Disney. E d'altra parte ho scoperto che da visioni altrettanto terrifiche proveniva il mio nome stesso. Ecco Le Avventure di Ciuffettino di tale Yambo, e di Yambo erano altri libri di avventure, con disegni ancora art nouveau e scenografie oscure, manieri che si stagliavano su un picco, neri nella notte buia, boschi fantasmatici con lupi dagli occhi di fiamma, visioni sottomarine da Verne casalingo e postumo, e Ciuffettino, bambino piccolino e graziosetto dal ciuffo di bravaccio fiabesco: "Un ciuffo immenso di capelli che gli dava un'aria curiosa, e lo faceva somigliare a uno spolvera-mobili. E lui ci teneva, sapete, al suo ciuffo !" Lì era nato il Yambo che sono, e che mi sono voluto. Beh, in fondo, meglio che identificarmi con Pinocchio. Questa è stata la mia infanzia? O peggio? Perché frugando ancora ho riportato alla luce (queste avvolte in carta da zucchero blu e fermate con elastici) varie annate del Giornale Illustrato dei Viaggi e delle Avventure di Terra e di Mare. Erano fascicoli settimanali, e la raccolta del nonno conteneva numeri dei primi decenni del secolo, più qualche copia francese del Journal des Voyages. Molte copertine rappresentavano prussiani feroci che fucilavano zuavi valorosi, ma in gran parte si trattava di avventure di spietata crudeltà nei paesi più lontani, coolìes cinesi impalati, vergini discinte inginocchiate davanti a un incupito consiglio dei dieci, file di teste decapitate issate su pali aguzzi davanti ai contrafforti di qualche moschea, massacri di fanciulli compiuti da scorridori tuaregh armati di scimitarre, corpi di schiavi dilaniati da tigri immense - sembrava che la tavola delle torture del Nuovissimo Melzi avesse ispirato disegnatori perversi, presi da una innaturale frenesia di emulazione: era una rassegna del Male sotto tutte le sue forme. Di fronte a tanta abbondanza, anchilosato dalle mie sedute in solaio, mi ero portato i fascicoli nello stanzone delle mele a pianterreno, perché in quei giorni il caldo si era fatto insopportabile, e avevo l'impressione che le mele allineate sul tavolone fossero tutte ammuffite. Ma poi ho capito che l'odore di muffa veniva proprio da quei fogli. Come potevano sapere d'umidità dopo cinquant'anni nell'atmosfera secca del solaio? Forse nei mesi freddi e piovosi il solaio non era poi così secco, e assorbiva umidità dai tetti, forse quei fascicoli prima di arrivare lì erano stati per decenni in qualche cantina con l'acqua che colava dalle pareti, dove il nonno li aveva scovati (anche lui doveva corteggiare le vedove), e si erano talmente imputriditi da non perdere l'odore neppure sotto il calore che li aveva incartapecoriti. Solo che, mentre leggevo di vicende atroci e vendette spietate, la muffa non mi evocava sentimenti di crudeltà, bensì i Re Magi e Gesù Bambino. Perché, quando mai avevo avuto a che fare coi Re Magi, e che c'entravano i Re Magi con le stragi del mar dei Sargassi? Per il momento il mio problema era tuttavia un altro. Se avevo letto tutte quelle storie, se avevo certamente visto tutte quelle copertine, come potevo accettare che primavera vien cantando? Avevo forse una istintiva capacità di scindere l'universo dei buoni sentimenti famigliati da quelle avventure che mi parlavano di un mondo crudele modellato sul Grand Guignol, un universo di dilaniamenti, scorticature, roghi e impic-
cagioni?
Il primo armadio era stato completamente svuotato, anche se non avevo potuto vedere tutto. Il terzo giorno mi sono provato col secondo, meno stipato. Lì i libri erano stati allineati in buon ordine, non come vi avessero provveduto rabbiosamente gli zii, intenti a stivare robaglia di cui volevano disfarsi, bensì il nonno, tempo prima. O io. Erano tutti libri più adatti all'infanzia, e forse appartenevano alla mia bibliotechina privata. Ho tirato fuori l'intera collezione della Biblioteca dei miei Ragazzi di Salani, di cui riconoscevo le copertine, e recitavo i titoli prima ancora di aver estratto il volume, con la stessa sicurezza con cui si individuano sui cataloghi dei colleghi, o nella biblioteca dell'ultima vedova, i libri più noti, la Cosmographia di Miinster o il De sensu rerum et magia di Campanella: II fanciullo che venne dal mare, L'eredità dello zingaro, Le avventure di Fiordi-sole, La tribù dei conigli selvatici, I fantasmi maliziosi, Le prigioniere di Casabella, Il carretto dipinto, La torre del nord, II braccialetto indiano, II segreto dell'uomo di ferro, II circo Barletta... Troppi, a stare in solaio mi sarei rattrappito come il gobbo di Notre-Dame. Ne avevo preso una bracciata, ed ero sceso. Potevo andare nello studio, sedermi in giardino, e invece oscuramente volevo altro. Passato sul retro della casa, ero andato verso destra, là dove avevo sentito il pri-
mo giorno grufolare i maiali e ciangottar le galline. Lì, sul retro dell'ala di Amalia, c'era un'aia proprio come quelle di una volta, dove razzolavano i polli, e più avanti si vedevano le conigliere e gli stabbi. Al pianterreno c'era un grande stanzone pieno di attrezzi agricoli, rastrelli, forconi, badili, secchi per la calcina, vecchi tini. In fondo all'aia, un sentiero portava a un frutteto, davvero ricco e freschissimo, e la prima tentazione era stata di salire sul ramo di un albero, a cavalcioni, e mettermi a leggere lì. Forse così avevo fatto da ragazzo, ma a sessantanni la prudenza non è mai troppa, e poi i miei piedi già mi stavano portando altrove. Ho imboccato tra la verzura una scaletta in
pietra e sono disceso in uno spazio circolare, circondato da muretti ricoperti d'edera. Proprio di fronte all'accesso, contro il muro, c'era una fontana, con l'acqua che chioccolava colando. Spirava un vento leggero, il silenzio era totale, e mi sono accovacciato su una sporgenza di pietra, tra la fontana e il muro, disponendomi alla lettura. Qualcosa mi aveva portato là, dove forse andavo proprio con quei libri. Ho accettato questa scelta dei miei spiriti animali, e mi sono immerso nei miei volumetti. Sovente mi tornava in mente tutta la vicenda attraverso una sola illustrazione. Certuni, dai disegni abbastanza anni quaranta, e dal nome dell'autore, si capiva che erano italiani, come La teleferica misteriosa o Saettino puro sangue meneghino, e molti erano ispirati a sentimenti patriottici e nazionalistici. Ma la maggior parte erano tradotti dal francese, scritti da tali B. Bernage, M. Goudareau, E. De Cys, J. Rosmer, Valor, R Besbre, C. Péronnet, A. Bruyère, M. Catalany - una insigne schiera di ignoti di cui forse l'editore italiano ignorava persino il nome di battesimo. Il nonno aveva raccolto anche degli originali, apparsi nella Bibliothèque de Suzette. Le edizioni italiane erano uscite con uno o più decenni di ritardo, e le illustrazioni rimandavano come minimo agli anni venti. Da lettore bambino avrei dovuto respirare un clima amabilmente stagionato, e tanto meglio: si proiettava tutto in un mondo di ieri, favoleggiato da signori che avevano tutta l'aria di
essere signore, che scrivevano per giovinette di buona famiglia. Alla fine mi pareva che quei libri raccontassero tutti la stessa storia: di solito tre o quattro ragazzi di nobile schiatta (con i genitori chissà perché sempre in viaggio altrove) arrivano presso uno zio in un antico castello, o in uno strano possedimento agricolo, e incappano in appassionanti e misteriose avventure, per cripte e torrioni, scoprendo poi un tesoro, la manovra di un intendente infedele, il documento che restituisce a una famiglia decaduta le proprietà usurpate da un cugino fellone. Lieto fine, celebrazione del coraggio dei ragazzi, osservazioni bonarie degli zii o dei nonni sui pericoli della temerarietà, foss'anche generosa. Che le storie fossero di ambientazione francese, lo si vedeva dai camiciotti e dagli zoccoli dei contadini, ma i traduttori avevano fatto miracoli di equilibrio per volgere i nomi in italiano e fare apparire che la vicenda si svolgesse in qualche regione nostrana, a dispetto del paesaggio e dell'architettura, ora bretone, ora alvergnate. Avevo due edizioni di quello che era evidentemente lo stesso libro (di M. Bourcet), ma nell'edizione 1932 s'intitolava L’erede di Ferlac (e i nomi dei personaggi erano francesi) e nell'edizione 1941 era diventato L'erede di Ferralba, coi protagonisti di casa nostra. Era chiaro che nel frattempo qualche disposizione superiore o una censura spontanea avevano imposto di italianizzare le vicende. Ed ecco finalmente spiegata quell'espressione che mi era passata per il capo mentre entravo in solaio: della serie faceva parte Otto giorni in una soffitta (avevo anche l'originale, Huit jours dans un grenier), deliziosa vicenda di ragazzi che ospitano per una settimana nel solaio della loro villa Nicoletta, una bambina fuggita di casa - e non sapevo se l'amore per il solaio mi fosse venuto da quella lettura o se avessi trovato quel libro proprio girando per il solaio. E perché ho chiamato Nicoletta mia figlia?
Nel solaio Nicoletta stava con il gatto Matù, una sorta di angora nerissimo e maestoso, ed ecco da dove mi era venuta l'idea di avere un Matù tutto per me. I disegni raffiguravano fanciulli minuti e ben vestiti, talora con pizzi, i capelli biondi e i lineamenti delicati, e non da meno erano le madri, capelli alla maschietta ben curati, vita bassa, gonna sino alle ginocchia a triplice volan, seno aristocratico pochissimo pronunciato. In due giorni presso la fontana, quando la luce scemava e potevo solo individuare le figure, pensavo che sulle pagine della Biblioteca dei miei Ragazzi avevo certamente educato il mio gusto al fantastico, ma vivendo in un paese in cui, anche se l'autore si chiamava Catalany, i protagonisti dovevano chiamarsi Liliana o Maurizio. Era questa l'educazione nazionalistica? Capivo che quei ragazzi che mi venivano presentati come piccoli e coraggiosi compatrioti del mio tempo erano vissuti in un ambiente straniero decenni prima della mia nascita? Tornato in solaio, alla fine di quella vacanza presso la fontana, avevo ricuperato un pacco legato con lo spago che conteneva una trentina di dispense (centesimi sessanta cadauna) con le avventure di Buffalo Bill. Non erano riunite nell'ordine di pubblicazione e la vista della prima copertina mi ha provocato una scarica di fiamme misteriose. Il medaglione di brillanti: Buffalo Bill, coi pugni tesi all'indietro, sta per scagliar-
si con l'occhio fosco contro un fuorilegge dalla camicia rossastra che lo minaccia con una pistola. Ma mentre guardavo quel numero 11 della serie, sapevo anticipare altri titoli, II piccolo corriere, Le grandi avventure della foresta. Bob il selvaggio, Don Ramiro lo schiavista, L’estancia maledetta.,. Mi ha colpito che le copertine recitassero Buffalo
Bill – L’eroe della prateria mentre l'intestazione all'interno diceva Buffalo Bill - L’eroe italiano della prateria. La vicenda - almeno per un libraio antiquario - era chiara: bastava vedere il primo numero di una nuova serie, del 1942, dove
una vistosa nota in neretto diceva che William Cody si chiamava in realtà Domenico Tombini ed era romagnolo (come il Duce, anche se la nota sorvolava pudicamente su questa prodigiosa coincidenza). Nel 1942 eravamo già entrati in guerra - mi pareva - con gli Stati Uniti, e questo spiegava tutto. L'editore (Nerbini di Firenze) aveva stampato le copertine in un'epoca in cui William Cody poteva essere tranquillamente americano, poi si era deciso che gli eroi dovevano essere sempre e solo italiani. Non restava che mantenere, per ragioni economiche, la vecchia copertina a colori e ricomporre solo la prima pagina. Curioso, mi ero detto addormentandomi sull'ultima avventura di Buffalo Bill: venivo abbeverato con materiale avventuroso francese e americano, ma naturalizzato. Se era questa l'educazione nazionalistica che riceveva un ragazzo durante la dittatura, si trattava di educazione abbastanza blanda. No, non era stata blanda. Il primo libro che ho preso in mano il giorno seguente era Ragazzi d'Italia nel mondo, di Pina Ballano, dalle illustrazioni moderne, nervose in un gioco di campiture nere e rosse.
Qualche giorno prima, quando nella mia cameretta avevo visto i libri di Verne e di Dumas, avevo avuto la sensazione di averli letti rannicchiato su un balcone. Allora non ci avevo fatto caso, era stato solo un lampo, una semplice impressione di déjà vu. Però ora riflettevo che un balcone si apre davvero al centro dell'ala del nonno, e si vede che lì avevo consumato quelle avventure. Per fare l'esperienza del balcone, ho deciso di leggere lì Ragazzi d'Italia nel mondo, e così ho fatto, cercando persino di sedermi con le gambe che spenzolavano giù, infilate negli interstizi della ringhiera. Ma le mie gambe, ormai, da quelle strettoie non passavano più. Mi sono arrostito per ore sotto il sole, sino a che l'astro ha doppiato la facciata, rendendola più temperata. Ma così sentivo il sole andaluso, o come dovevo averlo inteso allora, anche se la vicenda si svolgeva a Barcellona. Un gruppo di giovani italiani, emigrati con la famiglia in Spagna, venivano sorpresi dalla ribellione anti-repubblicana del generalissimo Franco, tranne che nella mia storia gli usurpatori sembravano i miliziani rossi, avvinazzati e sanguinari. I giovani italiani riguadagnavano la loro fierezza fascista, percorrevano impavidi in camicia nera una Barcellona in preda a moti di piazza, salvavano il gagliardetto
della Casa del Fascio che i repubblicani avevano chiuso, e il coraggioso protagonista riusciva persino a convertire il padre, socialista e beone, al verbo del Duce. Una lettura che avrebbe dovuto farmi bruciare di orgoglio littorio. Mi identificavo con questi ragazzi d'Italia, coi piccoli parigini di tale Bernage o con un signore che in fin dei conti si chiamava ancora Cody e non Tombini? Chi abitava i miei sogni di bambino? I ragazzi d'Italia nel mondo o la fanciulletta della soffitta? Un ritorno al solaio mi ha donato altre due emozioni. Anzitutto, L’Isola del tesoro. Ovvio che ne riconoscessi il titolo, è un classico, ma avevo dimenticato la storia, segno che era diventata parte della mia vita. Ho impiegato due ore a percorrerlo d'un fiato, ma di capitolo in capitolo mi veniva in mente quello che doveva seguire. Ero tornato nel frutteto, dove avevo intravisto, verso il fondo, dei cespugli di nocciole selvatiche e lì, seduto per terra, alternavo la lettura a una scorpacciata di nocciole. Con un sasso ne rompevo tre o quattro alla volta, soffiavo via i frammenti dei gusci, e mi infilavo il bottino in bocca. Non avevo il barile di mele in cui si era ficcato Jim per orecchiare i conciliaboli di Long John Silver, ma davvero dovrei aver letto quel libro così, biascicando cibi secchi, come si fa sulle navi. La storia era la mia. Sulla base di un esile manoscritto, via alla scoperta del tesoro del capitano Flint. Verso la fine mi ero andato a prendere una bottiglia di grappa che avevo scorto nella credenza di Amalia, e alternavo quella storia di pirati a lunghe sorsate. Quindici uomini sul corpo del morto, yo-ho-ho, e una bottiglia di rum. Dopo L’Isola avevo individuato la Storia di Pipino nato vecchio e morto bambino, di Giulio Granelli. Come mi era riemerso alla memoria qualche giorno prima, tranne che il libro mi narrava di una pipa ancora calda, abbandonata su un tavolo accanto alla statuetta in creta di un vecchietto, che decideva di dar calore a quella cosa
morta per farla nascere, e ne nasceva un piccolo vegliardo. Puer senex, un luogo comune antichissimo. Alla fine Pipino muore infante in culla, e ascende in cielo a opera delle fate. Era meglio come me l'ero ricordato io, Pipino nasceva vecchio in un cavolo, e moriva lattante in altro. In ogni caso il viaggio di Pipino verso l'infanzia era il mio. Forse, tornando al momento della nascita, mi sarei dissolto nel nulla (o nel Tutto) come lui. Quella sera ha chiamato Paola, preoccupata perché non mi facevo più vivo. Lavoro, lavoro, ho detto, non preoccuparti per la pressione, tutto normale. Ma il giorno dopo ero di nuovo a frugare nell'armadio, c'erano tutti i romanzi di Salgari, dalle copertine floreali, dove tra volute gentili apparivano cupo e spietato il Corsaro Nero, dalla chioma corvina e la bella bocca rossa finemente disegnata sul suo viso malinconico, il Sandokan delle Due tigri, con la sua testa feroce di principe malese innestata su un corpo felino, la voluttuosa Surama e i prahos dei Pirati della Malesia. Il nonno aveva raccolto anche delle traduzioni spagnole, francesi e tedesche.
Era difficile dire se riscoprissi qualcosa o semplicemente attivassi la mia memoria cartacea, perché di Salgari se ne parla sempre ancora oggi, e critici sofisticati gli dedicano articolesse grondanti di nostalgia. Anche i miei nipotini, le settimane scorse, cantavano "Sandokan Sandokan" e pare lo avessero visto in televisione. Avrei potuto scrivere una voce per piccola enciclopedia, su Salgari, anche senza venire a Solara. Naturalmente dovevo aver divorato quei libri da piccolo, ma se memoria individuale c'era da riattivare, si confondeva con quella generale. I libri che forse avevano più segnato la mia infanzia erano quelli che mi rimandavano senza scosse al mio sapere adulto e impersonale.
Sempre guidato dall'istinto ho letto gran parte di Salgari nella vigna (ma poi mi ero portato dei volumi in camera da letto, sui quali ho trascorso le notti seguenti). Anche tra le viti faceva molto caldo, ma le vampe solari mi conciliavano con deserti, praterie e selve in fiamme, mari tropicali dove cabotavano i pescatori di trepang, e tra i viticci e gli alberi che spuntavano al bordo della collina, alzando ogni tanto lo sguardo per tergermi il sudore, intravedevo baobab, pombos colossali come quelli che circondavano la capanna di Giro-Batol, paletuvieri, cavoli palmisti con la loro polpa farinosa dal sapore di mandorla, il banano sacro della giungla nera, quasi udivo il suono del ramsinga e mi attendevo di veder spuntare tra i filari un bel babirussa da girare allo spiedo tra due rami forcuti infissi al suolo. Avrei voluto che Amalia mi preparasse per cena del blaciang, di cui son golosi i malesi, miscuglio di gamberetti e pesci tritati insieme, lasciati marcire al sole e poi salati, dall'odore che persino Salgari voleva immondo. Che delizia. Forse per questo, come mi aveva detto Paola, amavo la cucina cinese, e in particolare le pinne di pescecane, i nidi di rondine (raccolti tra il guano) e l'abalone, tanto più ghiotto quanto più sa di putrido. Ma, a parte il blaciang, che cosa accadeva quando un ragazzo d'Italia nel mondo leggeva Salgari, dove gli eroi erano sovente di colore e i bianchi malvagi? Erano odiosi non solo gli inglesi, ma anche gli spagnoli (quanto dovrei avere esecrato il marchese di Montelimar). Però, se i tre corsari Nero, Rosso e Verde erano italiani, e conti di Ventimiglia per giunta, altri eroi si chiamavano Carmaux, van Stiller o Yanez de Gomera. I portoghesi dovevano apparire buoni perché erano un poco fascisti, ma non erano fascisti anche gli spagnoli? Forse il mio cuore pulsava per il valoroso Sambigliong, che sparava cannonate di chiodaglia, senza che io mi chiedessi da quale isola della Sonda venisse. Kammamuri e Suyodhana potevano essere l'uno buono e l'altro cattivo anche se entrambi indiani. Salgari doveva avere confuso abbastanza i miei primi approcci all'antropologia culturale. Poi ho tratto dal fondo del mobile riviste e volumi in inglese. Molti numeri dello Strana Magazine, con tutte le avventure di Sherlock Holmes. All'epoca certamente non sapevo l'inglese (Paola mi aveva detto che l'avevo imparato solo da adulto), ma per fortuna c'erano anche molte traduzioni. Però la massima parte delle edizioni italiane non erano illustrate, quindi forse leggevo in italiano e andavo poi a cercarmi le figure corrispondenti sullo Strand.
Ho trascinato tutto Holmes nello studio del nonno. Era più adatto per rivivere in un ambiente civile quell'universo dove al
caminetto di Baker Street signori compiti sedevano intesi a pacate conversazioni. Così diverso dai sotterranei umidicci e dalle macabre cloache in cui scivolavano i personaggi dei feuilletons francesi. Le poche volte che Sherlock Holmes appariva con una pistola puntata contro un criminale era sempre con la gamba e il braccio destro tesi, in posa quasi statuaria, senza perdere aplomb, come si conviene a un gentleman. Mi ha colpito il ritornare quasi ossessivo di immagini di Sherlock Holmes seduto, con Watson o con altri, in uno scompartimento ferroviario, in un brougham, davanti al fuoco, su una poltrona ricoperta di stoffa bianca, su una sedia a dondolo, accanto a un tavolinetto, alla luce forse verdastra di una lampada, davanti a un cofano appena aperto, o in piedi, mentre legge una lettera, o decifra un messaggio criptato. Quelle figure mi dicevano de te fabula narratur. Sherlock Holmes era me, in quello stesso momento, intento a rintracciare e ricomporre eventi remoti di cui prima non sapeva nulla, stando in casa, al chiuso, forse persino (a controllare tutte quelle pagine) in un solaio. Anche lui, come me, immobile e isolato dal mondo, a decifrare puri segni. Lui poi arrivava a far riemergere il rimosso. Ci sarei riuscito io? Per lo meno avevo un modello. E come lui dovevo battermi con e nella nebbia. Bastava aprire a caso Uno studio in rosso o Il segno dei quattro: Era una sera di settembre, e non erano ancora le sette, ma la giornata era stata tetra, e una nebbia densa e umida era calata sulla grande città. Nubi color fango si afflosciavano tristemente sulle strade fangose. Lungo lo Strand i fanali non erano altro che chiazze brumose di luce diffusa che gettavano un debole barlume circolare sul selciato melmoso. Il riverbero giallo delle vetrine fluttuava nell'aria piena di vapori e gettava un chiarore limaccioso e mobile attraverso la grande via affollata. C’era, secondo me, qualcosa di misterioso e fantomatico in quella processione senza fine di volti che s insinuavano attraverso le strette strisce di luce - volti tristi e gai, stravolti e lieti.
Era una mattina opaca e nebbiosa. Un velo grigiastro pendeva dal tetto delle case e appariva come il riflesso del grigiore fangoso delle strade. Il mio amico era di ottimo umore, e andava chiacchierando sui violini di Cremona e le differenze tra uno Stradivario e un Amati. Quanto a me, ero silenzioso, perché quel tempo uggioso e il melanconico affare in cui ci eravamo impegnati mi deprimeva Vanimo. Per contrasto, alla sera, a letto, avevo aperto Le Tigri di Mompracem di Salgari: La notte del 20 dicembre 1849 un uragano violentissimo imperversava sopra Mompracem, isola selvaggia, di fama sinistra, covo di formidabili pirati, situata nel mare della Malesia, a poche centinaia di miglia dalle coste occidentali del Romeo. Per il cielo, spinto da un vento irresistibile, correvano come cavalli sbrigliati, e mescolandosi continuamente, nere masse di vapori, le quali, di quando in quando, lasciavano cadere sulle cupe fortezze dell’isola furiosi acquazzoni... Chi mai vegliava in quell’ora e con simile bufera, nell'isola dei sanguinari pirati?... Una stanza di quell’abitazione è illuminata, le pareti sono coperte di pesanti tessuti rossi, di velluti e broccati di gran pregio, ma qua e là sgualciti, strappati e macchiati, e il pavimento scompare sotto un alto strato di tappeti di Persia, sfolgoranti d'oro... Nel mezzo sta un tavolo d'ebano intarsiato di madreperla e adorno di fregi d'argento, carico di bottiglie e di bicchieri del più puro cristallo; negli angoli si rizzano grandi scaffali in gran parte rovinati, zeppi di vasi riboccanti di braccialetti d'oro, di orecchini, di anelli, di medaglioni, di preziosi arredi sacri contorti o schiacciati, di perle provenienti senza dubbio dalle famose peschiere di Ceylon, di smeraldi, di rubini e di diamanti che scintillano come tanti soli sotto i riflessi di una lampada dorata appesa al soffitto... In quella stanza così stranamente arredata un uomo sta seduto su una poltrona zoppicante: è di statura alta, slanciata, dalla muscolatura potente, dai lineamenti energici, maschi, fieri e di una bellezza strana. Chi era il mio eroe? Holmes, che leggeva una lettera davanti al camino, reso educatamente attonito dalla sua soluzione al sette per cento, o Sandokan che si lacerava furiosamente il petto pronunciando il nome dell'adorata Marianna? Ho poi raccolto altre edizioni in brossura, stampate su cartaccia, dove probabilmente io avevo fatto il resto, ciancicandole attraverso riletture molteplici, scrivendo il mio nome a margine di molte pagine. C'erano libri completamente slegati che stavano insieme per miracolo, altri erano stati rabberciati probabilmente da me incollandovi un dorso nuovo con carta da zucchero e colla da falegname. Non ce la facevo più a guardare neppure i titoli, ed erano otto giorni che stavo in quella soffitta. Lo sapevo, avrei dovuto rileggermi tutto per filo e per segno, ma quanto ci avrei messo? Calcolando che avessi imparato a compitare alla fine del mio quinto anno di vita, e che avessi vissuto tra quei reperti almeno sino agli anni del liceo, ci sarebbero voluti almeno dieci anni, altro che otto giorni. Senza contare che tanti altri libri, specie se illustrati, mi erano stati raccontati dai genitori o dal nonno quando ero ancora analfabeta. Se volevo rifare tra quelle carte tutto me stesso, sarei diventato Funes el Memorioso, avrei rivissuto momento per momento tutti gli anni dell'infanzia, ogni stormire di foglie ascoltato di notte, ogni profumo di caffellatte annusato alla mattina. Troppo. E se fossero rimaste solo e sempre e ancora parole, a confondere ancor più i miei neuroni malati senza azionare lo scambio ignoto che avrebbe dato via libera ai miei ricordi più veri e nascosti? Che fare? Lenin sulla poltrona bianca della sala d'ingresso. Forse ho sbagliato tutto, e ha sbagliato tutto Paola: senza tornare a Solara sarei rimasto soltanto svanito, tornandovi potevo uscirne pazzo. Ho rimesso di nuovo tutti i libri nei due armadi, poi ho deciso di abbandonare il solaio. Ma nel tragitto ho scorto una serie di scatoloni che portavano un'etichetta, scritta in una bella calligrafìa quasi gotica: "Fascismo", "Anni 40", "Guerra"... Quelle di sicuro erano scatole collocate ancora dal nonno. Altri scatoloni parevano più recenti, gli zii dovevano aver usato senza criterio contenitori vuoti rinvenuti lassù, Azienda Vinicola Fratelli Bersano, Borsalino, Cordial Campari, Telefunken (c'era una radio a Solara?).
Non ce la facevo ad aprirli. Dovevo uscire di lì e andare a fare delle passeggiate su per le colline, ci sarei tornato dopo. Ero ormai allo stremo. Forse avevo la febbre. Si appressava l'ora del tramonto e Amalia già chiamava a gran voce annunciando una finanziera da leccarmi le dita. Le prime vaghe ombre, che invadevano gli angoli più riposti del solaio, mi promettevano l'agguato di un qualche Fantomas che attendeva che crollassi per gettarmisi addosso, legarmi con un canapo e sospendermi nell'abisso di un pozzo senza fondo. Più che altro per dimostrare a me stesso che non ero più il bambino che avrei voluto essere di nuovo, ho indugiato impavidamente per dare un'occhiata alla zona meno illuminata. Sino a che sono stato assalito di nuovo da un odore di muffa antica. Ho tirato fuori, verso un abbaino da cui provenivano ancora le ultime luci del tardo pomeriggio, una grande cassa, dall'imbocco accuratamente protetto con carta da pacchi. Scartata quella copertura impolverata, mi sono capitati tra le dita due strati di muschio, muschio vero, anche se disseccato - tanta penicillina da poter mandare a casa in una settimana tutta la colonia della Montagna incantata, e addio alle belle conversazioni tra Naphta e Settembrini. Erano come zolle erbose, raccolte col terriccio sottostante che le teneva unite, e a metterle l'una accanto all'altra se ne poteva fare un prato vasto come il tavolo del nonno. Non so per quale miracolo, forse per una zona d'umidità che si era creata sotto la protezione della carta, per grazia di tanti inverni, e giornate in cui il tetto del solaio veniva battuto da pioggia, neve e grandine, il muschio aveva conservato qualcosa del suo afrore pungente. Sotto il muschio, imballati da trucioli arricciati, da spiumare via a poco a poco per non rovinare ciò che avviluppavano, una capanna in legno o cartone, intonacata in gesso colorato, con il tetto di paglia compressa, di paglia e legno un mulino, dalla ruota che ancora girava a stento, e tante piccole casette e castelli in cartone dipinto, che alla capanna dovevano far da sfondo su una qualche altura, in prospettiva. E infine, tra truciolo e truciolo, ecco le statue, i pastori con l'agnellino sulle spalle, l'arrotino, il mugnaio con due asinelli, la contadina dal cesto di frutti sulla testa, due zampognari, un arabo con due cammelli, e i Re Magi - eccoli lì - odorosi di muffa anch'essi più che di incenso e mirra, e alla fine l'asino, il bue, Giuseppe, Maria, la cuna, il Bambino, due angeli dalle braccia spalancate, irrigiditi in un gloria che durava da almeno un secolo, la cometa dorata, un telo arrotolato che all'interno era blu trapunto di stelle, una bacinella di metallo riempita di cemento in modo da formare l'alveo di un fiumiciattolo, con due fori di uscita ed entrata per l'acqua e, ciò che mi ha fatto ritardare la cena di mezz'ora, per pensarci su, una strana macchina fatta di un cilindro di vetro da cui si dipartivano lunghi tubi di gomma. Un presepio completo. Non sapevo se nonno e genitori fossero credenti (forse mia madre, se teneva la Filotea sul comodino) ma certamente verso Natale qualcuno riesumava quella cassa e in qualche stanza di sotto si faceva il presepio. Commozione da presepio: questo mi pareva di sentire, ma temevo che fosse reazione a un altro luogo comune. E però quelle statuine mi stavano richiamando non un altro nome ma una immagine, che non avevo visto in solaio, ma che forse doveva essere da qualche parte, vivida come mi stava colpendo in quell'istante.
Che cosa significava per me il presepio? Tra Gesù e Fantomas, tra Rocambole e il Cestello, tra la muffa dei Re Magi e quella degli impalati del Gran Visir, con chi stavo io? Ho capito che quei giorni nella soffitta erano stati spesi male: avevo riletto pagine che avevo sfogliato a sei o a dodici anni, altre a quindici, commovendomi volta per volta su vicende diverse. Non è così che si ricostruisce una memoria. La memoria amalgama, corregge, trasforma, è vero, ma raramente confonde le distanze cronologiche, uno deve sapere benissimo se una faccenda gli è accaduta a sette o a dieci anni, anch'io ora sapevo distinguere il giorno del risveglio in ospedale da quello della partenza per Solara, e sapevo benissimo che tra l'uno e l'altro c'era stata una maturazione, un mutare d'opinioni, un confronto di esperienze. E invece in quelle tre settimane avevo assorbito tutto come se da piccolo l'avessi ingollato in una sola volta e d'un fiato - e per forza avevo l'impressione di essere stato stordito da un intruglio inebriante. Quindi dovevo rinunciare a quella grande bouffe di vecchie carte, rimettere le cose per ordine e centellinarle secondo il fluire dei tempi. Chi poteva dirmi quello che avevo letto e visto a otto piuttosto che a tredici anni? Ci ho pensato un poco e ho capito: era impossibile che tra tutti quei contenitori non ci fossero i miei libri e i miei quaderni di scuola. Quelli erano i documenti da rintracciare, bastava seguire la loro lezione, lasciandomi tenere per mano. A cena ho interrogato Amalia sul presepio. Eccome se ci teneva, il nonno. No, lui non era di chiesa, ma il presepio era come la pasta reale, se non c'era non era Natale, e se non avesse avuto i nipotini forse lo avrebbe fatto per se stesso. Iniziava a lavorare a inizio dicembre, a guardar bene in solaio sarebbe venuta fuori tutta l'incastellatura a cui si applicava il telo del cielo, con tante piccole lampadine all'interno del boccascena che facevano luccicare le stelle. "Che bello il presepio del suo signor nonno, me mi veniva ogni anno da piangere. E l'acqua scorreva davvero nel fiume, tanto che una volta è sbordata fuori, ha bagnato tutto il muschio che era arrivato fresco fresco quell'anno, e il muschio ha fatto sbocciare tanti fiorellini azzurri e quello è stato davvero il miracolo del Bambino, è venuto persino il parroco a vedere che non ci credeva ai suoi occhi." "Ma come faceva a scorrere l'acqua?" Amalia è arrossita e ha borbottato qualcosa, poi si è decisa: "Nella cassa del presepio, che aiutavo io ogni anno dopo la Pifanìa a mettere via tutto, ci deve essere ancora una cosa, come un bottiglione di vetro senza collo. L'ha visto? Bene, forse adesso questa roba lì non si usa più, ma era una macchina, parlando con licenza, per fare il clistere.. Sa cos'è il clistere? Meno male, così non devo spiegare, che mi fa vergogna. E allora, il suo signor nonno gli era venuta la bella idea che a mettere sotto al presepio la macchina del clistere, e a girare i tubi nel modo giusto, l'acqua veniva fuori e poi tornava sotto. Uno spettacolo, ci dico io, altro che il cinema."
8. QUANDO LA RADIO Dopo gli otto giorni in soffitta mi ero deciso a scendere in paese e farmi misurare la pressione dal farmacista. Troppa, centosettanta. Gratarolo mi aveva dimesso dall'ospedale con l'impegno di mantenerla sui centotrenta, e centotrenta era quando ero partito per Solara. Il farmacista diceva che, se me la facevo misurare dopo essere sceso per la collina sino al paese, per forza che era alta. Se me la fossi misurata al mattino appena alzato sarebbe stata più bassa. Storie. Io sapevo che cosa era stato, avevo vissuto giorni e giorni da invasato. Ho telefonato a Gratarolo, mi ha chiesto se avevo fatto qualcosa che non dovevo, e ho dovuto ammettere che avevo trasportato delle casse, bevuto almeno una bottiglia a pasto, fumato venti Gitanes al giorno, e mi ero provocato molte tenere tachicardie. Mi ha rimproverato: ero un convalescente, se la pressione andava alle stelle poteva ripetersi l'incidente e magari quella volta non la passavo liscia come la prima. Gli ho promesso che mi sarei riguardato, mi ha alzato la dose delle pillole e ne ha aggiunte altre per farmi evacuare sale attraverso le urine. Ho detto ad Amalia di salare meno i cibi, e lei ha detto che durante la guerra per avere un chilo di sale si dovevano fare i salti mortali, e dar via due o tre conigli, dunque il sale è una grazia di Dio che quando manca le robe non sanno più di niente. Le ho detto che me l'aveva proibito il medico e lei ha ribattuto che i dottori studiano tanto e poi sono più bestia che gli altri e non bisogna starli a sentire - guardare lei, mai visto un dottore in vita sua ed eccola che a settanta suonati si sderenava tutto il santo giorno in mille lavori, non ci aveva nemmeno la sciatica come tutti gli altri. Pazienza, avrei eliminato il suo sale con le mie urine. Piuttosto occorreva interrompere le visite al solaio, fare un po' di moto, distrarmi. Ho telefonato a Gianni: volevo sapere se tutto quello che avevo letto in quei giorni diceva qualcosa anche a lui. Pare che abbiamo avuto esperienze diverse - lui non aveva un nonno collezionista di materiale fuori moda - ma molte erano state le letture comuni, anche perché ci prestavamo i libri a vicenda. Su Salgari ci siamo sfidati per mezz'ora in trivial games, come in un programma televisivo. Come si chiamava il greco, anima dannata del rajah dell'Assam? Teotokris. Qual era il cognome della bella Honorata che il Corsaro Nero non poteva amare perché era la figlia del suo nemico? Van Guld. E chi sposa Darma, la figlia di Tremal-Naik? Sir Moreland, il figlio di Suyodhana. Ho anche provato con Ciuffettino, ma a Gianni non diceva nulla. Lui leggeva piuttosto i fumetti, e lì si è rifatto, mitragliandomi con una raffica di titoli. I fumetti avrei dovuto averli letti anch'io, e alcuni nomi che Gianni mi citava mi suonavano familiari, la Banda Aerea, Fulmine contro Flattavion, Topolino e Macchia Nera, soprattutto Cino e Franco... Ma non ne avevo trovato traccia in solaio. Forse il nonno, che amava Fantomas e Rocambole, considerava i fumetti robaccia che rovinava i bambini. E Rocambole no? Ero cresciuto senza fumetti? Inutile imporsi lunghe soste e forzati riposi. Mi si stava riattivando la frenesia della ricerca. Mi ha salvato Paola. Quella stessa mattina, verso mezzogiorno, è arrivata di sorpresa, con Carla, Nicoletta e i tre bambini. Non era rimasta convinta dalle mie poche telefonate. Una scampagnata, tanto per abbracciarti, ha detto, ripartiamo prima di cena. Ma mi scrutava, mi soppesava. "Sei ingrassato” mi ha detto. Per fortuna non ero pallido, con tutto il sole che avevo preso sul balcone e nella vigna, ma dovevo essermi appesantito un poco. Ho detto che erano le cenette di Amalia, e Paola ha promesso di richiamarla all'ordine. Non le ho detto che da giorni stavo raggomitolato da qualche parte, senza muovermi per ore e ore.
Una bella passeggiata, ci vuole - ha detto - e via con tutta la famiglia verso il Conventino, che conventino non era ma appena una cappella che si profilava a pochi chilometri su un bricco. La salita era continua, e quindi quasi impercettibile, salvo poche decine di metri alla fine, e mentre prendevo fiato incitavo i piccoli a raccogliere un mazzolin di rose e viole. Paola mi invitava burbera a odorare i profumi e non a citare il Poeta - anche perché il Poeta mentiva, come tutti quelli della sua razza, le prime rose fioriscono dopo che le viole sono andate in ferie, e in ogni caso rose e viole non si possono legare in un unico mazzo, provare per credere. Per mostrare che non ricordavo solo brani di enciclopedia, ho sfoderato alcune delle storie che avevo appreso in quei giorni, e i bambini mi caracollavano intorno a occhi spalancati, perché quelle storie non le avevano mai sentite. A Sandro, più grandicello, ho raccontato L'Isola del tesoro. Gli ho detto come, partendo dalla locanda "All'Ammiraglio Benbow", mi fossi imbarcato sull’Hispaniola, con Lord Trelawney, il dottor Livesey e il capitano Smollett, ma pare che i due più simpatici gli riuscissero Long John Silver, per via della gamba di legno, e quello sciagurato di Ben Gun. Spalancava gli occhi eccitato, intravedeva pirati in agguato tra gli arbusti, diceva ancora ancora, e invece era basta, perché una volta conquistato il tesoro del capitano Flint la storia finiva. In compenso abbiamo cantato a lungo Quindici uomini sul corpo del morto, yo-ho-ho, e una bottiglia di rum... Per Giangio e Luca ho dato del mio meglio rievocando le furfanterie di Giannino Stoppani del Giornalino di Gian burrasca. Quando io ho innestato il bastone sul fondo del vaso del dittamo di zia Bettina, e ho pescato il dente del signor Venanzio, non la finivano più di ridere, per quello che potevano capirne a tre anni, e forse i miei racconti sono piaciuti di più a Carla e Nicoletta, a cui nessuno di Gian Burrasca, triste segno dei tempi, aveva mai detto niente.
Ma per loro mi è parso più affascinante raccontare di come, nei panni di Rocambole, per eliminare il mio maestro nell'arte del delitto, Sir William, ormai cieco ma ancora testimone imbarazzante del mio passato, lo rovesciavo per terra e gli piantavo nella nuca un lungo spillone acuminato, facendo poi scomparire la piccola macchia di sangue che si era formata tra i suoi capelli, in modo che tutti pensassero a un colpo apoplettico. Paola gridava che non dovevo fare sentire queste storie ai bambini, e fortuna che ai giorni nostri per la casa non girano più spilloni, altrimenti finiva che ci provavano col
gatto. Ma più che altro era intrigata dal fatto che avevo raccontato tutte quelle vicende come se fossero accadute a me. "Se lo fai per divertire i bambini,” mi diceva, "è un conto, altrimenti ti stai immedesimando troppo in quel che leggi, e questo è prendere a prestito la memoria di qualcun altro. Hai chiara la distanza tra te e queste storie?" "Ma andiamo," dicevo, "smemorato sì ma matto no, lo faccio per i piccoli!" "Speriamo," ha detto. "Però sei venuto a Solara per ritrovare te stesso, perché ti sentivi oppresso da una enciclopedia fatta di Omero, Manzoni, o Flaubert, e sei entrato nell'enciclopedia della paraletteratura. Non è ancora un guadagno." "Sì che lo è," rispondevo, "prima di tutto perché Stevenson non è paraletteratura, e secondo perché non è colpa mia se quel tale che voglio ritrovare mangiava paraletteratura, e infine sei stata proprio tu, con la faccenda del tesoro di Clarabella, che mi hai mandato qui." "E vero, scusami. Se senti che ti serve, va' avanti. Ma con cautela, non farti intossicare da tutto quello che leggi." Per cambiare discorso ha chiesto della pressione. Le ho mentito: ho detto che l'avevo appena misurata ed era centotrenta. Ne era felice, povera cara. Tornati dalla gita Amalia aveva preparato una bella merenda, e acqua e limone fresca per tutti. Poi sono ripartiti. Per quella sera ho fatto il bravo e sono andato a dormire con le galline. Il mattino dopo ho ripercorso le stanze dell'ala antica, che in fondo avevo visitato molto in fretta. Sono rientrato nella camera da letto del nonno, che avevo appena guardato, preso da un reverente timore. Anche lì c'erano il comò e il grande guardaroba a specchio come in tutte le camere da letto di un tempo. Ho aperto, e ho avuto la grande sorpresa. Sul fondo, quasi nascosti da abiti appesi, che conservavano un sentore di naftalina defunta, c'erano due oggetti. Un grammofono a tromba, di quelli con la carica manuale, e una radio. Erano stati coperti entrambi coi fogli di una rivista che ho rimesso insieme: era il Radiocorriere, una pubblicazione dedicata ai programmi radio, un numero degli anni quaranta. Sul grammofono c'era ancora sopra un vecchio settantotto giri, ma impastato da uno strato di sporcizia. Ci ho messo mezz'ora a pulirlo, sputando sul fazzoletto. Il titolo diceva Amapola. Ho messo il grammofono sul comò, l'ho caricato, e dalla tromba è uscito qualche suono confuso. Si riconosceva appena la melodia. Il vecchio arnese era ormai in stato di demenza senile, niente da fare. D'altra parte doveva essere già da museo quando ero ragazzo io. Se volevo sentire musica di quel tempo dovevo usare il giradischi dello studio. Ma i dischi, dov'erano? Avrei dovuto domandare ad Amalia. La radio, benché protetta, in cihquant'anni si era comunque coperta di polvere, da poterci scrivere ^sopra con il dito, e ho dovuto nettarla con cura. Era una bella Telefunken color mogano (ecco il perché dell'imballo che avevo visto ih solaio), con l'altoparlante ricoperto di una stoffa a fili grossi (che forse serviva a far risuonare meglio la voce). A fianco dell'altoparlante, il riquadro con le stazioni, buio e illeggibile, e sotto tre manopole. Era evidentemente una radio a valvole, e agitandola si udiva qualche cosa traballare all'interno. C'era ancora il filo con la spina. Me la sono portata nello studio, l'ho posata con cura sul tavolo e ho attaccato la spina alla presa. Mezzo miracolo, segno che a quei tempi si costruivano cose solide: la lampadina che illuminava il riquadro delle stazioni, sia pure fiocamente, funzionava ancora. Il resto no, evidentemente le valvole erano andate. Ho pensato che da qualche parte, forse a Milano, potevo scoprire uno di quegli appassionati che sanno riattivare questi ricevitori, perché hanno un magazzino di vecchie componenti, come i garagisti che rimettono in sesto le automobili d'epoca, usando i pezzi buoni di quelle inviate allo sfasciacarrozze. Poi ho pensato a quello che poteva dirmi un vecchio elettricista pieno di buon senso popolare: "Non voglio rubarle dei soldi.
Guardi che, se gliela faccio ancora funzionare, non sente le cose che trasmetteva allora, ma quelle che trasmettono adesso, e allora tanto vale che si compri una radio nuova, e le costa meno che a riparare questa." Diavolo di un uomo. Stavo giocando una partita perduta in partenza. Una radio non è un libro antico, che lo apri e trovi quello che hanno pensato, detto e stampato cinquecento anni fa. Quella radio mi avrebbe fatto udire, in modo più gracchiante, dell'orrenda musica rock o come la chiamano oggi. Come pretendere di risentire sulle papille il tocco frizzante dell'acqua viscì bevendo della San Pellegrino appena comperata al supermercato. Quella scatola rotta mi prometteva suoni perduti per sempre. Poterli far rinascere, come le parole congelate di Pantagruele... Ma se la mia memoria cerebrale avrebbe potuto un giorno ritornare, questa fatta di onde hertziane era ormai irrecuperabile. Solara non poteva aiutarmi con alcun suono, tranne il rumore assordante dei suoi silenzi. Però rimaneva il riquadro luminoso con i nomi delle stazioni, gialli per le onde medie, rossi per le onde corte, verdi per le onde lunghe, nomi su cui devo aver strologato a lungo, spostando l'indice mobile e cercando di udire suoni inconsueti da città magiche come Stoccarda, Hilversum, Riga, Tallin. Nomi mai prima uditi, che forse associavo a Makedonia, Turkish Atika, Virginia, Al Kalif e Stanbul. Ho sognato di più su un atlante o su quell'elenco di stazioni e sui loro sussurri? Ma c'erano anche nomi domestici come Milano e Bolzano. Mi sono messo a canterellare: Quando la radio trasmette da Torino Vuol dir stasera ti attendo al Valentino, ma se ad un tratto si cambia di programma questo vuoi dire: attento c’è la mamma. Radio Bologna, vuoi dire il cuor ti sogna, Radio Milano, ti sento di lontano, Radio Sanremo, stasera forse ci vedremo... I nomi delle città erano ancora una volta parole che richiamavano altre parole. L'apparecchio risaliva, a occhio, agli anni trenta. All'epoca una radio doveva costare cara, e certo era entrata in famiglia solo a un certo momento, come simbolo di status. Volevo riuscire a sapere che cosa si faceva con una radio tra gli anni trenta e quaranta. Ho richiamato Gianni. All'inizio ha detto che dovevo pagarlo a cottimo, visto che lo usavo come un subacqueo per riportare a galla anfore sommerse. Poi però ha aggiunto con voce commossa: "Eh, la radio... Da noi è arrivata solo intorno al 1938. Costavano care, mio padre era un impiegato, ma non come il tuo, lavorava in una piccola azienda e guadagnava poco. Voi andavate in vacanza d'estate e noi restavamo in città, la sera si andava a prendere il fresco ai giardini pubbliche il gelato una volta alla settimana. Mio padre era un uomo taciturno. Quel giorno è tornato a casa, si è seduto a tavola, ha mangiato in silenzio, poi alla fine ha tirato fuori un cartoccio di paste. Come, se non è domenica? ha chiesto mia madre. E lui: così, mi è venuta voglia. Abbiamo mangiato le paste e poi lui, grattandosi la testa, ha detto: Mara, pare che in questi mesi le cose siano andate bene e oggi il padrone mi ha regalato mille lire. Mia madre ha avuto come un colpo, si è portata le mani alla bocca e ha gridato: oh Francesco, ma allora ci comperiamo la radio! Così. In quegli anni circolava Se potessi avere mille lire al mese. Era la canzone di un piccolo impiegato, che sognava uno stipendio di mille lire, con cui comperare tante cose a una mogliettina^ giovane e carina. Quindi mille
lire erano l'equivalente di un buon stipendio, forse erano più di quel che prendeva mio padre, in ogni caso erano come una tredicesima che nessuno si aspettava. Così ci è entrata la radio in casa. Lasciami pensare, era una Phonola. Una volta alla settimana c'era il concerto operistico Martini e Rossi, e un'altro giorno la commedia. Eh, Tallin e Riga, ci fossero ancora sulla mia radio d'adesso, che ha solo numeri... E poi con la guerra, l'unica stanza riscaldata era la cucina, la radio si è spostata lì, e alla sera, a volume basso basso se no si andava in galera, si ascoltava Radio Londra. Chiusi in casa con i vetri coperti di carta azzurrina, quella da zucchero, per l'oscuramento. E poi le canzoni! Quando torni se vuoi te le ricanto tutte, persino gli inni fascisti. Sai che non sono un nostalgico, ma certe volte mi viene voglia degli inni fascisti, per sentirmi di nuovo come quelle sere accanto alla radio... Come diceva una pubblicità? La radio, la voce che incanta." Gli ho chiesto di smetterla. È vero, glielo avevo chiesto io, ma ora stava inquinando la mia tabula rasa con le sue memorie. Dovevo rivivere quelle sere da solo. Sarebbero state diverse: lui aveva una Phonola e io una Telefunken, e poi forse lui si sintonizzava su Riga e io su Tallin. Ma si riusciva davvero a prendere Tallin, per sentire poi parlare estone? Sono sceso a mangiare e, in barba a Gratarolo, ho bevuto, ma solo per dimenticare. Proprio io, dimenticare. Ma dovevo scordare le eccitazioni dell'ultima settimana, e farmi venire voglia di dormire nell'ombra pomeridiana, sdraiato sul letto con Le tigri di Mompracem, che forse allora mi teneva sveglio sino alle ore piccole ma nelle due ultime serate si era rivelato beneficamente soporifero. Però, tra una forchettata a me e un avanzo per Matù, ho avuto un'idea semplice ma luminosissima: la radio trasmette quello che mettono in onda ora, ma un grammofono ti fa sentire quello che c'era su un disco di allora. Sono le parole congelate di Pantagruele. Per avere l'impressione di ascoltare la radio di cinquantanni prima, avevo bisogno dei dischi. "I dischi?" ha mugolato Amalia. "Ma pensi a mangiare, piuttosto, non pensi ai dischi che 'sta buona roba le va tutta di traverso e diventa tossico e poi va dal dottore! I dischi, i dischi, i dischi... Ma santapulenta, non sono mica in solaio! Quando i suoi signori zii hanno messo tutto via, io li ho aiutati e... aspetti aspetti... mi sono detta che quei dischi che c'erano nello studio, se dovevo portarli tutti su, mi scappavano dalle mani e finiva che li rompevo per la scala. E allora li ho infilati... li ho infilati... scusi sa, non è che non ho più memoria, anche se alla mia età sarebbe giusto, ma sono ben passati cinquantanni suonati e non è che sono rimasta qui per cinquantanni a pensare sempre a quei dischi. Ma ecco, che testa! Devo averli ficcati nella cassapanca che sta davanti allo studio del suo signor nonno! " Ho saltato la frutta e sono salito a identificare la cassapanca. Non vi avevo fatto gran caso nel corso della mia prima visita: Tho aperta ed ecco i dischi, uno sull'altro, tutti buoni vecchi settantotto giri con la loro busta protettiva. Amalia li aveva messi giù come veniva, e c'era di tutto. Ho impiegato mezz'ora a trasportarli sul tavolo dello studio e ho iniziato a riporli in qualche ordine nella libreria. Il nonno doveva essere un amante della buona musica, c'erano Mozart e Beethoven, arie d'opera (persino un Caruso) e tanto Chopin, ma anche spartiti di canzoni dell'epoca. Ho guardato il vecchio Radiocorriere: aveva ragione Gianni, c'erano un programma
settimanale di musica operistica, le commedie, qualche raro concerto sinfonico, i giornali radio, e per il resto musica leggera, o melodica, come si diceva allora.
Dovevo dunque riascoltare le canzoni, e quello doveva essere stato l'ammobiliamento sonoro in cui ero cresciuto - magari il nonno stava in studio ad ascoltarsi Wagner, e il resto della famiglia a sentire le canzonette dalla radio. Ho individuato subito Se potessi avere mille lire al mese, di Innocenzi e Soprani. Il nonno aveva messo su molte custodie una data, non so se quella dell'apparizione della canzone o quella dell'acquisto del disco, ma potevo capire approssimativamente Fanno in cui la canzone veniva eseguita già, o ancora, alla radio. In questo caso Fanno era il 1938, Gianni ricordava bene, la canzone era apparsa quando a casa sua comperavano la Phonola. Ho provato ad attivare il giradischi. Funzionava ancora: l’altoparlante non era un prodigio, ma forse era giusto che tutto gracidasse come una volta. Così, col riquadro della radio illuminato, come se l’apparecchio fosse vivo, e il giradischi avviato, ascoltavo una trasmissione dell'estate 1938: Se potessi avere mille lire al mese, senza esagerare, sarei certo di trovar, tutta la felicità! Un modesto impiego, io non ho pretese, voglio lavorare per poter alfin trovar tutta la tranquillità! Una casettina in periferia, una mogliettina, giovane e carina, tale e quale come te. Se potessi avere mille lire al mese, farei tante spese, comprerei fra tante cose le più belle che vuoi tu! Mi ero domandato nei giorni precedenti quale fosse Fio diviso di un bambino esposto a messaggi di gloria nazionale mentre al tempo stesso fantasticava sulle nebbie di Londra, dove incontrava Fantomas che si batteva contro Sandokan, tra una gragnuola di chiodaglia che sfondava i petti e stroncava le braccia e le gambe dei compatrioti educatamente perplessi di Sherlock Holmes - e ora apprendevo che negli stessi anni la radio mi proponeva come ideale di vita un contabile di poche pretese che vagheggiava solo la tranquillità di una periferia. Ma forse questa era un'eccezione. Dovevo riordinare tutti i dischi, e per data, quando c'era. Dovevo ripercorrere anno per anno il formarsi della mia coscienza attraverso i suoni che ascoltavo. Nel corso del mio riordino, alquanto forsennato, tra una serie di amor amor portami tante rose, no tu non sei più la mia bambina, bambina innamorata, c'è una chiesetta amor nascosta in mezzo ai fior, torna piccina mia, suona solo per me o violino tzigano, tu musica divina, un'ora sola ti vorrei, fiorellin del prato e ciribiribin, tra le esecuzioni delle orchestre di Cinico Angelini, Pippo Barzizza, Alberto Semprini e Gorni Kramer, su dischi che si chiamavano Fonit, Carisch, La Voce del Padrone, col cagnolino che ascoltava col muso puntato i suoni che uscivano dalla tromba di un grammofono, mi sono imbattuto in dischi di inni fascisti, che il nonno aveva riunito con uno spago, come a volerli proteggere, o segregare. Il nonno era fascista o antifascista, o nessuno dei due? Ho fatto nottata ascoltando cose che non mi suonavano estranee, anche se di alcuni canti mi venivano alle labbra solo le parole, e di altri la sola melodia. Non potevo non conoscere un classico come Giovinezza, credo fosse l'inno ufficiale di ogni
adunata, ma non potevo neppure ignorare che probabilmente la mia radio me lo faceva udire a poca distanza di tempo da // pinguino innamorato, cantato, come recitava la copertina del disco, dal Trio Lescano. Mi sembrava di conoscere da gran tempo quelle voci femminili. Riuscivano a cantare in tre per intervalli di terza e di sesta, con un effetto di apparente cacofonia, che risultava gradevolissimo all'orecchio. E mentre i ragazzi d'Italia nel mondo m'insegnavano che il massimo privilegio era essere italiano, le sorelle Lescano mi raccontavano dei tulipani d'Olanda. Ho deciso di alternare inni e canzoni (probabilmente era così che mi arrivavano attraverso la radio). Sono passato dai tulipani all'inno dei Balilla, e non appena ho messo il disco, ho seguito il canto, come se recitassi a memoria. L'inno esaltava quel giovane coraggioso (fascista in anticipo, visto che, come sanno le enciclopedie, Giovan Battista Perasso era vissuto nel Settecento) che aveva lanciato il suo sasso contro gli austriaci scatenando la rivolta di Genova.
Al fascismo non dovevano dispiacere i gesti terroristici, e nella mia versione di Giovinezza avevo anche ascoltato dell'Orsini ho qui la bomba - col pugnale del terrore, e mi pare che Orsini avesse cercato di ammazzare Napoleone III. Ma, mentre ascoltavo, era scesa la notte, e dall'orto o dalla collina o dal giardino proveniva un forte odore di lavanda e d'altre erbe che non conosco (timo? basilico? non credo di essere mai stato forte in botanica - e poi ero pur sempre quello che, inviato a comperare delle rose, aveva portato a casa testicoli di cane - forse erano tulipani d'Olanda). Profumavano altri fiori che Amalia mi aveva insegnato a riconoscere, le dalie o le zinie? È apparso Matù, e si è messo a strofinarsi contro i miei pantaloni, facendo le fusa. Avevo visto un disco con un gatto in copertina, e l'ho sostituito all'inno dei Balilla, abbandonandomi a quella trenodìa felina. Maramao, perché sei morto? Ma davvero i Balilla cantavano Maramao? Forse dovevo tornare agli inni del regime. A Matù non doveva importare gran che, se cambiavo canzone. Mi sono seduto comodo, me lo sono preso sulle ginocchia grattandogli l'orecchio destro, ho acceso una sigaretta e ho fatto una full immersion nell'universo di un Balilla. Dopo un'ora di ascolto la mia mente era un impasto di frasi eroiche, d'incitamenti all'assalto e alla morte, di profferte d'ubbidienza al Duce, sino al sacrificio supremo. Fuoco di Vesta che fuor dal tempio irrompe con ali e fiamme la giovinezza va una maschia gioventù con romana volontà combatterà ce ne fregammo un dì della galera ce ne fregammo della triste sorte per preparare questa gente forte che se ne frega adesso di morir il mondo sa che la camicia nera s'indossa per combattere e morir per il Duce e per l'Impero eja eja alala salve o Re Imperator nuova legge il Duce die al Mondo e a Roma il nuovo Imper io ti saluto e vado in Abissinia cara Virginia ma tornerò ti manderò dall'Africa un bel fior che nasce sotto il ciel dell'equator Nizza Savoia Corsica fatai Malta baluardo di romanità Tunisi nostra sponde monti e mar suona la libertà. Volevo Nizza italiana o mille lire al mese, di cui non conoscevo il valore? Un ragazzo che gioca coi fucili e coi soldatini vuole liberare la Corsica fatai e non maramaldeggiare tra tulipani e pinguini innamorati. Tuttavia, Balilla a parte, ascoltavo // pinguino innamorato mentre leggevo II capitano Satana, e immaginavo allora pinguini nei mari ghiacciati del Nord? E seguendo il Giro del mondo in ottanta giorni, vedevo Phileas Phogg viaggiare tra campi di tulipani? E come mettevo d'accordo Rocambole col suo spillone e il sasso di Giovan Battista Perasso? Tulipan era del 1940, quando era iniziata la guerra: certamente allora cantavo anche Giovinezza, ma chi mi diceva che il capitano Satana, e Rocambole, non li avessi invece letti nel 1945, a guerra finita, quando dei canti fascisti si era perduta ogni traccia? Occorreva proprio ricuperare a ogni costo i miei libri scolastici. Lì avrei avuto sotto gli occhi le mie vere prime letture, le canzoni con la data mi avrebbero detto con che suoni le accompagnavo, e forse si sarebbe chiarito il rapporto tra ce ne fregammo della triste sorte e i massacri con cui mi tentava il Giornale Illustrato dei Viaggi e delle Avventure. Inutile impormi alcuni giorni di tregua. D mattino dopo dovevo risalire in solaio. Se il nonno era metodico, i libri di scuola non dovevano essere lontani dalle casse dei libri dell'infanzia. Se gli zii non avevano rimesso tutto in disordine. Per il momento ero stanco di richiami alla gloria. Mi sono affacciato alla finestra. Mentre il profilo delle colline si stagliava scuro contro il cielo, la notte senza luna era trapunta di stelle. Perché mi era venuta in mente quella espressione slabbrata dall'uso? Veniva da una canzone, certamente. Stavo vedendo il cielo come l'avevo sentito cantare un tempo. Mi sono messo a frugare tra i dischi e ho scelto tutti quelli che nel titolo lasciavano pensare alla notte e a qualche spazio sideralè. Il giradischi del nonno era già di quelli che si potevano preparare tanti dischi impilati l'uno sull'altro, in modo che, finito uno, l'altro cadeva sul piatto. Proprio come se la radio mi cantasse da sola, senza
che io dovessi girare le manopole. Li ho fatti partire e mi sono lasciato cullare, al davanzale, davanti al cielo stellato sopra di me, al suono di tanta buona cattiva musica che doveva risvegliare qualcosa dentro di me. Stanotte le stelle che brillano a mille... Una notte, con le stelle e con te... Parlami, parlami sotto le stelle, dimmi le cose più belle, nel dolce incanto d'amor... Là sotto il cielo delle Antille, dove le stelle son scintille, scendono a mille gli effluvi dell’amor... Mailù, sotto il cielo di Singapor, in un sogno di stelle d'or è nato il nostro amore... Sotto un cielo di stelle che ci stanno a guardar, sotto un cielo di stelle io ti voglio baciar... Con te, senza te, noi cantiamo alle stelle e alla luna, chissà che per me non arrivi la buona fortuna... Luna marinara l'amore è bello se non s'impara, Venezia la luna e tu, con te soli soli nella notte, con te canticchiando una canzon... Cielo d'Ungheria, sospir di nostalgia, con infinito amor io penso a te... Vado a zonzo dove il cielo è sempre blu, odo i passeri che svolazzano sopra gli alberi, e cinguettan di lassù... L'ultimo disco dovevo averlo messo per sbaglio, non aveva nulla a che fare con il cielo, era una voce sensuale, come di un sassofono in calore, che cantava: Lassù, a Capocabana, - a Capocabana la donna è regina la donna è sovrana... Mi ha turbato il rumore di un motore lontano, forse un'auto che passava a valle, ho provato un accenno di tachicardia e mi sono detto: "È Pipetto! " Come se qualcuno si presentasse puntuale al momento atteso, e tuttavia la sua venuta m'inquietasse. Chi era Pipetto? È Pipetto, dicevo, ma erano soltanto, ancora una volta, le mie labbra a ricordare. Solofldtus vocis. Chi fosse Pipetto non lo sapevo. Ovvero, qualcosa in me lo sapeva, salvo che quel qualcosa si crogiolava sornione nella regione ferita del mio cervello. Ottimo soggetto per la Biblioteca dei miei Ragazzi, J7 segreto di Pipetto. Era forse l'adattamento italiano di, che so, II segreto di Lantenac? Mi arrovellavo sul segreto di Pipetto e forse non c'era alcun segreto, salvo quello sussurrato a chiunque da una radio a tarda sera.
9. MA PIPPO NON LO SA
Ci sono stati altri giorni (cinque, sette, dieci?) i cui ricordi si amalgamano, e forse è bene, perché quello che mi è poi rimasto è stato, come dire, la quintessenza di un montaggio. Ho incollato testimonianze disparate, tagliando, collegando, vuoi per naturale sequenza delle idee e delle emozioni, vuoi per contrasto. Quello che mi è rimasto non è più quello che avevo visto e sentito in questi giorni, e neppure quello che potevo aver visto o sentito da bambino: era il figmento, l'ipotesi elaborata a sessantanni di quello che avrei potuto pensare a dieci. Poco, per dire "so che è avvenuto così", abbastanza da riesumare, su foglie di papiro, quello che presumibilmente potevo aver provato allora. Ero tornato in solaio, e incominciavo a temere che delle cose scolastiche non fosse rimasto nulla, quando mi è caduto l'occhio su uno scatolone, chiuso con un nastro adesivo, su cui appariva la scritta "Elementari e Medie Yambo". Ce n'era anche un altro con "Elementari e Medie Ada". Ma non dovevo riattivare anche la memoria di mia sorella. Avevo abbastanza da fare con la mia. Volevo evitare un'altra settimana di alta pressione. Ho chiamato Amalia e mi sono fatto aiutare a trasportare lo scatolone nello studio del nonno. Poi ho pensato che le elementari e le medie dovevo averle fatte tra il trentasette e il quarantacinque, e ho portato giù anche gli scatoloni su cui c'era scritto "Guerra", "Anni 40" e "Fascismo". Nello studio, ho svuotato tutto e l'ho ordinato su diversi ripiani. Libri delle elementari, manuali di storia o di geografìa delle medie, e poi molti quaderni, con il mio nome, Tanno e la classe. C'erano molti giornali. Pareva che il nonno, dalla guerra d'Etiopia in avanti, avesse conservato i numeri importanti, quello con lo storico discorso del Duce per la conquista dell'Impero, quello con la dichiarazione - di guerra del 10 giugno 1940, e via via, sino al lancio della bomba atomica su Hiroshima e la fine della guerra. Poi c'erano cartoline, manifesti, opuscoli, alcune riviste. Ho deciso di andare avanti col metodo di uno storico, controllando le testimonianze per confronto reciproco. Vale a dire che se leggevo libri e quaderni della quarta elementare, 1940-41, degli stessi anni sfogliavo i giornali e, per quanto ho potuto, degli stessi anni mettevo sul giradischi le canzoni. Mi ero detto che, se i libri erano di regime, di regime dovevano essere anche i giornali e si sa che, per esempio, la Pravda dei tempi di Stalin non dava ai buoni sovietici le notizie giuste. Ma mi sono dovuto ricredere. Per quanto bolsamente propagandistici, i giornali italiani, persino in tempo di guerra, permettevano di capire che cosa stesse succedendo. A distanza di tempo il nonno mi stava dando una grande lezione, civile e storiografica insieme: bisogna saper leggere tra le righe. E tra le righe egli leggeva, sottolineando non tanto i titoli a caratteri di scatola quanto piuttosto gli stelloncini, i trafiletti, le notizie che potevano sfuggire a una prima lettura. Un Corriere della Sera del 6-7 gennaio 1941 diceva nel titolo: "Sul fronte di Bardia la battaglia è
continuata con grande accanimento". In mezza colonna il bollettino di guerra (ve n'era uno al giorno, ed elencava burocraticamente persino il numero degli aerei nemici abbattuti) diceva con distacco che "altri capisaldi sono caduti dopo una strenua resistenza delle nostre truppe, che hanno inflitto all'avversario perdite notevoli". Altri capisaldi? Dal contesto si capiva che Bardia, in Africa Settentrionale, era caduta in mano inglese. Comunque a margine il nonno aveva segnato in inchiostro rosso, come in molti altri numeri, "RL, persa B. 40.000 prig." RL voleva dire evidentemente Radio Londra, e il nonno confrontava le notizie di Radio Londra con quelle ufficiali. Non solo si era perduta Bardia, ma quarantamila nostri soldati si erano dovuti consegnare al nemico. Come si vede, il Corriere non mentiva, al massimo dava per scontato quello su cui era reticente. Lo stesso Corriere, il 6 febbraio, titolava: "Contrattacchi delle nostre truppe sul fronte nord dell'Africa Orientale". Qual era il fronte nord dell'Africa Orientale? Mentre su molti numeri dell'anno prima, quando si dava notizia delle prime nostre penetrazioni nella Somalia Britannica e nel Kenya, apparivano cartine precise, per far capire dove stavamo vittoriosamente sconfinando, in quella notizia sul fronte nord la cartina non c'era, e solo andando a cercare su un atlante si capiva che gli inglesi erano penetrati in Eritrea. Il Corriere del 7 giugno 1944 aveva titolato vittoriosamente su nove colonne: "La massa di fuoco della difesa germanica batte le unità alleate sulle coste della Normandia". Che ci facevano tedeschi e alleati sulle coste della Normandia? È che il 6 giugno c'era stato il famoso D-Day, l'inizio dell'invasione, e il giornale, che non poteva certo averne parlato il giorno prima, dava la faccenda per sottintesa, salvo precisare che il maresciallo von Rundstedt non si era certo lasciato sorprendere e la spiaggia era piena di cadaveri nemici. Non si poteva dire che non fosse vero. Potevo procedere con metodo e riconoscere la successione degli eventi reali, grazie alla stampa fascista letta come si doveva fare, e come probabilmente tutti facevano. Ho acceso il quadrante della radio, ho avviato il giradischi, e ho rivissuto. Naturalmente era come rivivere la vita di un altro. Primo quaderno di scuola. A quei tempi si insegnava anzitutto a fare le aste, e si passava alle lettere dell'alfabeto solo quando si era capaci di riempire una pagina con righe bene allineate, tutte dritte. Educazione della mano, e del polso: la calligrafìa contava qualcosa, quando la macchina per scrivere l'avevano solo negli uffici. Sono passato al Libro della prima classe, "compilato dalla signorina Maria Zanetti, illustrazioni di Enrico Pinochi", Libreria dello Stato, Anno XVI.
Nella pagina dei primi dittonghi, dopo io, ia, aia, c'erano Eja! Eja! e un fascio littorio. L'alfabeto si apprendeva al suono di aEja Eja Alala! ", per quel che ne so un grido dannunziano. Per la B c'erano parole come Benito, e una pagina dedicata a Balilla. Proprio mentre la mia radio cantava invece un'altra sillabazione, ha, ba, baciami piccina. Come avrò imparato la B, visto che il mio Giangio la confonde ancora con la V e dice berme invece di verme} Balilla e Figli della Lupa. Una pagina con un ragazzo in divisa, camicia nera e una sorta di bandoliera bianca incrociata sul petto con una M al centro. "Mario è un uomo," diceva il testo. Figlio della Lupa. È il 24 maggio. Guglielmo indossa la bella divisa nuova, la divisa di Viglio della Lupa. "Babbo, anch'io sono un soldatino del Duce, non è vero? Diventerò Balilla, porterò il gagliardetto, avrò il moschetto, diventerò Avanguardista. Voglio fare anch'io gli esercizi come i soldati veri, voglio essere il più bravo di tutti, voglio meritare tante medaglie..." Subito dopo una pagina che assomigliava alle images d'Epinal, ma non erano zuavi o corazzieri francesi bensì le divise delle varie formazioni giovanili fasciste.
Per insegnare il suono gì il libro portava a esempio gagliardetto, battaglia, mitraglia. A bambini di sei anni. Quelli che primavera vien cantando. Però verso la metà del sillabario mi si insegnava qualcosa sull'Angelo Custode: Cammina un bimbo per la lunga strada, solo soletto e non sa dove vada... Piccolo è il bimbo e grande la campagna: ma un Angelo lo vede e l’accompagna. Dove doveva condurmi l'Angelo? Là dove cantava la mitraglia? Per quel che sapevo, tra Chiesa e Fascismo era stata firmata da tempo la Conciliazione, e dunque ormai ci dovevano educare a diventare Balilla senza dimenticare gli Angeli. Sfilavo anch'io in divisa per le vie della città? Volevo andare a Roma e diventare un eroe? La radio ora cantava un inno marziale che evocava l'immagine di una sfilata di giovani Camicie Nere, ma subito dopo il panorama cambiava, e per la strada passava ora tale Pippo, poco dotato da madre natura e dal suo sarto personale, che sopra il gilè portava la camicia. Pensando al cane di Amalia, ho visto questo viandante con un volto avvilito, le palpebre cadenti sopra due occhi acquosi, il sorriso ebete e sdentato, due gambe disarticolate e i piedi piatti. Ma se aveva gambe e piedi doveva essere un altro Pippo; mi pareva avesse a che fare col tesoro di Clarabella, ma non riuscivo a vederlo. E quale rapporto c'era tra Pippo e Pippetto? Il Pippo della canzone portava la camicia sopra il gilè. Ma le voci della radio non pronunciavano "camicia", bensì "cam-iciàa" (sopra il cappotto porta la giacca - e sopra il gilè la cami-ciàa...). Doveva essere per far quadrare le parole con la musica. Avevo come la sensazione di avere fatto la stessa cosa, ma in altro contesto. Mi sono ricantato Giovinezza, che avevo ascoltato la sera prima, ma dicendo Per Benito e Mussolini, Eja Eja Alala. Non cantavamo Per Benito Mussolini ma Per Benito e Mussolini. Quella e era evidentemente eufonica, serviva a dare maggiore energia al Mussolini. Per Benito e Mussolini, sopra il gilè la camiciàa. Ma chi passava per le vie della città, i Balilla o Pippo? E la gente di chi rideva? Forse il regime avvertiva nella vicenda di Pippo una sottile allusione? Era forse la saggezza popolare che
ci consolava con tiritere quasi infantili di quella retorica dell'eroismo che si doveva subire a ogni istante? Quasi pensando ad altro, sono arrivato a una pagina sulla nebbia. Una immagine: Alberto e il suo babbo, due ombre che si stagliano contro altre ombre, tutte nere, insieme profilate contro un cielo grigio, nel quale emergono, di un grigio un po' più scuro, le sagome della case cittadine. Il testo mi diceva che nella nebbia le persone sembrano ombre. Era così la nebbia? Quel grigio del cielo non avrebbe dovuto avviluppare, come latte, o come acqua e anice, anche le ombre umane? Per quello che diceva la raccolta delle mie citazioni, nella nebbia le ombre non si stagliano contro, ma nascono da, si confondono con -, la nebbia fa vedere ombre anche dove non c'è nulla, e nulla là dove dopo emergeranno ombre... Il libro della prima classe elementare mi mentiva dunque anche sulla nebbia? In effetti terminava con una invocazione al sole bello, che venisse a diradare la nebbia. Mi diceva che la nebbia era fatale, ma indesiderabile. Perché m'insegnavano che la nebbia era cattiva, se poi me ne è rimasta l'oscura nostalgia? Oscura, oscuramento. Parole che richiamano parole. Durante la guerra, mi aveva detto Gianni, la città era immersa nel buio, per non essere identificata dai bombardieri nemici, e non doveva trasparire neppure un filo di luce dalle finestre delle case. Se era così, si benediceva allora la nebbia, che stendeva su di noi il suo manto protettivo. La nebbia era buona. Certo dell'oscuramento non poteva parlarmi il libro della prima classe, che portava la data del 1937. Parlava solo di nebbia uggiosa, come quella che saliva agli irti colli. Ho sfogliato i libri delle classi successive, ma non c'erano accenni alla guerra neppure in quello di quinta, che pure era del 1941 - e la guerra era iniziata da un anno. Era ancora una edizione degli anni precedenti, e vi si parlava solo di eroi della guerra di Spagna e della conquista dell'Etiopia. Non era bello parlare sui libri scolastici dei disagi della guerra, e ci si sottraeva al presente per celebrare le glorie passate. Sul libro della quarta classe, 1940-41, ed eravamo nell'autunno del primo anno di guerra, c'erano solo storie di azioni gloriose della prima guerra mondiale, con immagini che mostravano i nostri fanti sul Carso nudi e muscolosi come gladiatori romani.
Ma in altre pagine apparivano, per conciliare il Balilla con l'Angelo, racconti sulla notte di Natale, pieni di dolcezza e bontà. Siccome avremmo perduto tutta l'Africa Orientale Italiana solo alla fine del quarantuno, quando quel libro ormai circolava
nelle scuole, vi campeggiavano ancora le nostre fiere truppe coloniali, e quello che vedevo era un Dubat somalo, nella sua bella divisa caratteristica, adatta ai costumi di quegli indigeni che stavamo civilizzando, a torso nudo salvo una fascia bianca che andava ad annodarsi alla cartucciera. Poesia di commento, l'Aquila legionaria spicca il volo - sul mondo: solo Iddio la fermerà. Ma la Somalia era già caduta in mano inglese da febbraio, forse mentre stavo leggendo per la prima volta quella pagina. Lo sapevo, leggendo? In ogni caso nello stesso sillabario leggevo anche il Cestello riciclato: Addio rabbia di tempesta! - Addio strepito di tuoni! - Vanno in fuga i nuvoloni - e pulito il cielo resta... - Consolato il mondo tace. - Su ciascuna afflitta cosa - come un balsamo si posa - la serena amica pace. E la guerra in corso? Sul libro della quinta c'era piuttosto una meditazione sulle differenze razziali, con un capitoletto sugli ebrei e l'attenzione che si doveva porre a questa stirpe infida, che "astutamente infiltratasi dalla parte degli Ariani... aveva inoculato nei popoli nordici uno spirito nuovo fatto di mercantilismo e di sete di guadagno". Negli scatoloni avevo individuato anche alcuni numeri di La difesa della Razza, una rivista nata nel 1938, e non so se il nonno^avrebbe mai permesso che mi cadesse tra le mani (ma si sa, prima o poi ero andato a curiosare dovunque). V'erano foto di aborigeni comparate a quelle di una scimmia, altre che mostravano il risultato mostruoso dell'incrocio tra una cinese e un europeo (ma erano fenomeni di degenerazione che pare avvenissero solo in Francia). Si parlava bene della razza giapponese e si evidenziavano le stimmate imprescindibili della razza inglese, donne con pappagorge, gentiluomini rubizzi col naso da alcolizzato, e una vignetta mostrava una donna con l'elmetto britannico, impudicamente ricoperta solo da alcuni fogli del Times arrangiati a tutù: la donna si guardava nello specchio e Times, al contrario, dava Semit. Quanto agli ebrei veri e propri, non c'era che da scegliere: era una rassegna di nasi adunchi e barbe incolte, di bocche porcine e sensuali coi denti sporgenti, di crani brachicefali, di zigomi segnati e occhi tristi da Giuda gerosolimitano, di epe incontinenti di pescecani in frac, con la catena dell'orologio d'oro sul gilè, le mani rapaci tesi sulle ricchezze dei popoli proletari. Il nonno, credo, aveva inserito tra quelle pagine una cartolina di propaganda in cui un semita ripugnante, sullo sfondo della Statua della Libertà, protendeva le mani adunche verso chi guardava. In ogni caso ce n'era per tutti perché un'altra cartolina mostrava un negraccio ubriaco col cappello da cowboy che ciancicava con manacce unghiute l'ombelico bianco della Venere di Milo. Il disegnatore aveva dimenticato che
avevamo dichiarato guerra anche alla Grecia, e quindi che doveva importarci se quel bruto smanazzava una ellenica mutilata, il cui marito girava in gonnellino e con il pompon sulle scarpe? Per contrasto, la rivista mostrava i profili puri e virili della razza italica, e se Dante e alcuni condottieri non avevano proprio un naso piccolo e diritto si parlava in quei casi di "razza aquilina". Se poi il richiamo alla purezza ariana dei miei compatrioti non mi avesse del tutto convinto, sul mio libro di lettura avevo una forte poesia sul Duce (Quadrato è il mento e più quadrato il petto. - Il passo di colonna che cammini. La voce morde come Vacqua al getto) e la comparazione tra i tratti maschi di Giulio Cesare e quelli di Mussolini (che Cesare, poi, andasse a letto coi suoi legionari l'avrei saputo solo dopo, dalle enciclopedie). Gli italiani erano tutti belli. Bello Mussolini che da un numero di Tempo, rivista illustrata, appariva in copertina a cavallo con la spada tesa (era una foto, vera, non una invenzione allegorica - andava dunque in giro con la spada?), a celebrare l'entrata in guerra; bella la camicia nera che
proclamava vuoi Odiate il nemico, vuoi Vinceremo!, belle le spade romane protese verso il profilo della Gran Bretagna, bella la mano rurale che piegava il pollice verso una Londra in fiamme, bello l'orgoglioso legionario che si stagliava sulle rovine dell'Amba Alagi distrutta rassicurando: Ritorneremo! Ottimismo. La radio mi continuava a cantare era alto così, era grosso così, lo chiamavan Bombolo, si provò di ballar, cominciò a traballar, fece un capitombolo, ruzzolò di qua, rimbalzò di là come fa una palla, per destin fatai cadde in un canai e rimase a galla.
Ma soprattutto erano belle su tante riviste e manifesti pubblicitari le ragazze di pura razza italiana, dal seno grosso e dalle curve morbide, splendide macchine per far figli opposte alle ossute e anoressiche miss inglesi, e alla donna-crisi di plutocratica memoria. Belle erano le signorine che apparivano impegnate nella gara Cinquemila lire per un sorriso, belle le signore procaci, col sedere ben sagomato dalla gonna galeotta, che attraversavano con passo falcato un manifesto pubblicitario mentre la radio mi assicurava che saran belli gli occhi neri, saran belli gli occhi blu, ma le gambe, ma le gambe, a me piacciono di più.
Bellissime erano le ragazze delle canzoni, vuoi bellezze italiche e molto rurali, "le prosperose campagnole", vuoi bellezze urbane come la "bella piccinina" milanese che col visino mezzo incipriato girava per il corso più affollato, o le bellezze in bicicletta, simbolo di una femminilità ardita e scapigliata dalle gambe snelle tornite e
belle. Brutti ovviamente i nemici e su alcune copie del Ballila, il settimanale per i ragazzi della Gioventù Italiana del Littorio, apparivano le tavole di De Seta con le storie che irridevano al nemico, sempre animalescamente caricaturale: Per paura della guerra - Re Giorgetto d'Inghilterra - chiede aiuto e protezione - al ministro Ciurcillone, e poi intervenivano gli altri due cattivi, Rusveltaccio e il terribile Stalino, l'orco rosso del Cremlino. Gli inglesi erano cattivi perché usavano il Lei, mentre i bravi italiani dovevano usare solo, anche nei rapporti interpersonali, l'italianissimo Voi. Per quel poco che si sa delle lingue straniere, sono inglesi e francesi che usano il Voi (you, vous) e il Lei è molto italiano, al massimo un residuo spagnolesco, ma con gli spagnoli franchisti oramai eravamo pappa e ciccia. D'altra parte il Sie tedesco è un Lei o un Loro, non un Voi. Comunque, forse per scarsa conoscenza dello straniero, così si era deciso in alto loco, e il nonno aveva conservato ritagli molto espliciti e assai fiscali in>materia. Aveva avuto anche l'arguzia di conservare l'ultimo numero di una rivista femminile, Lei, dove si annunciava che col numero seguente essa si sarebbe intitolata Annabella. Era evidente che il titolo della rivista non rappresentava un appellativo rivolto alla lettrice ideale ("scusi Lei signora"), ma era un riferimento al pubblico femminile (parliamo di Essa, di Ella, di Lei, non di lui). Ma tant'è, il Lei, anche se con altra funzione grammaticale, era diventato tabù. Mi chiedevo se l'episodio avesse fatto ridere anche le lettrici di allora, però il fatto era avvenuto e tutti lo avevano digerito. Poi c'erano le bellezze coloniali, perché i tipi negroidi assomigliavano alle scimmie e gli abissini erano minati da malattie molteplici, ma si faceva un'eccezione per la bella abissina. Cantava la radio Faccetta nera, beWabissina, aspetta e spera che già l'ora s'avvicina, quando saremo vicino a te, noi ti daremo un'altra legge e un altro Re. Che cosa si dovesse fare della bella abissina lo dicevano vignette a colori di De Seta, quello di Ciurcillone, dove si vedevano legionari italiani che comperavano morette seminude a un mercato di schiavi e le spedivano in patria agli amici, come un pacco postale.
Ma le bellezze muliebri d'Etiopia venivano vagheggiate sin dall'inizio della campagna di conquista con un canto triste, nostalgico e dovutamente carovaniero: Vanno - le carovane del Tigrai, - verso una stella che oramai - brillerà e più splenderà d'atnor E io, in questo vortice di ottimismo, che pensavo? Me lo dicevano i miei quaderni dei primi cinque anni. Bastava guardarne le copertine, che già invitavano a pensieri di ardimento e vittoria. Salvo alcuni, di una carta bianca e robusta (dovevano essere i più cari) che recavano al centro il ritratto di qualche Grande (dovrei avere arzigogo-
lato intorno alla faccia enigmatica e sorridente e al nome di un signore chiamato Shakespeare, e certamente lo avrò pronunciato così come si scrive, visto che avevo ricalcato a penna le lettere, come per interrogarle o memorizzarle), per il resto erano immagini del Duce a cavallo, di eroici combattenti in camicia nera che gettavano bombe a mano contro il nemico, di motosiluranti esilissime che affondavano enormi corazzate nemiche, di portaordini dal sublime spirito di sacrificio che, le mani maciullate da una granata, continuavano a correre sotto il crepitare della mitraglia avversaria portando il messaggio tra i denti. Il maestro (perché maestro e non maestra? Non so, mi era venuto da dire "signor maestro") ci aveva dettato i brani fondamentali dello storico discorso del Duce il giorno della dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940, inserendovi, seguendo i resoconti dei giornali, le reazioni della folla oceanica che lo ascoltava in piazza Venezia: Combattenti di terra, di mare e dell'aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del regno d'Albania! Ascoltate! Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata (acclamazioni, grida altissime di "Guerra! Guerra!") agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell'Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l'esistenza medesima del popolo italiano... Secondo le leggi della morale fascista, quando si ha un amico si marcia con lui sino in fondo (grida di Duce! Duce! Duce!). Questo abbiamo fatto e faremo con la Germania, col suo popolo, con le sue meravigliose Forze armate. In questa vigilia di un evento di una portata secolare, rivolgiamo il nostro pensiero alla Maestà del Re Imperatore (la moltitudine prorompe in grandi acclamazioni all'indirizzo di Casa Savoia), che, come sempre, ha interpretato l'anima della Patria. E salutiamo alla voce il Führer, il capo della grande Germania alleata (il popolo acclama lungamente all'indirizzo di Hitler). L'Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai (la moltitudine grida con una sola voce: "Sì! "). La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo! (il popolo prorompe in altissime acclamazioni). Era in quei mesi che la radio doveva aver messo in circolazione Vincere, facendo eco alle parole del Capo: Temprata da mille passioni la voce d'Italia squillò! "Centurie, coorti, legioni, in piedi che l'ora suono'! Avanti gioventù! Ogni vincolo, ogni ostacolo superiamo! Spezziam la schiavitù che ci soffoca prigionieri nel nostro mar! Vincere! Vincere! Vincere! E vinceremo in cielo in terra in mare! È la parola d'ordine d'una suprema volontà Vincere! Vincere! Vincere! ad ogni costo! nulla ci fermerà.! I nostri cuori esultano nell'ansia di obbedir!
Le nostre labbra giurano: o vincere o morir! Come posso aver vissuto l'inizio di una guerra? Come una bella avventura, iniziata a fianco del camerata germanico. Si chiamava Richard, e me lo diceva nel 1941 la radio: Camerata Richard, benvenuto... Come vedessi in quegli anni di gloria il camerata Richard (che la metrica ci obbligava evidentemente a pronunciare alla francese, Richard, e non alla tedesca, Richard) me lo diceva una cartolina dove lui appariva accanto al camerata italiano, entrambi di profilo, entrambi maschi e decisi, con lo sguardo fisso sul traguardo della vittoria. Ma la mia radio, dopo Camerata Richard, stava ormai trasmettendo (ormai mi ero convinto di essere in presa diretta) un'altra canzone. Questa era in tedesco, era una nenia triste, quasi una marcia funebre che mi pareva di ritmare con impercettibili sussulti delle mie viscere, cantata da una voce femminile profonda e roca, disperata e peccatrice: Vor der Kaserne, vor dem grofeen Tor - stand eine Laterne Mnd steht sie noch davor...
Il nonno aveva quel disco, ma io allora non potevo avere seguito la canzone in tedesco. E infatti ho ascoltato subito dopo il disco italiano, dove la traduzione era piuttosto
una parafrasi, o un adattamento. Tutte le sere sotto quel fanal presso la caserma ti stavo ad aspettar. Anche stasera aspetterò, e tutto il mondo scorderò, con te Lili Marleen, con te Lili Marleen. Quando nel fango debbo camminar sotto il mio bottino mi sento vacillar. Che cosa mai ne sarà di me? Ma poi sorrido e penso a te, a te Lili Marleen, a te Lili Marleen. Là dove le parole italiane non lo dicevano, quelle tedesche facevano sorgere quel fanale tra la nebbia, Wenn sich die spàten Nebel drehn, mentre la nebbia fumiga. Ma a quell'epoca in ogni caso non potevo comprendere che, sotto il fanale (probabilmente il mio problema era solo come si potesse accendere un fanale durante l'oscuramento), quella voce triste nella nebbia era quella della misteriosa pitana, donna che faceva il proprio commercio da sé. Per questo, anni dopo, mi sarei annotato da Corazzini: Torbido e tristo nella solitària - via, davanti la porta del postribolo, - saffioca il buono incenso del turibolo, - forse è la nebbia che fa opaca l’aria. Lili Marleen era apparsa non molto dopo l'eccitato Camerata Richard. O noi eravamo più ottimisti dei tedeschi, o nel frattempo era successo qualcosa, il povero camerata si era intristito, e stanco di camminare nel fango sognava solo di tornare sotto quel fanale. Ma mi stavo rendendo conto che la stessa sequenza delle canzoni di propaganda poteva dirmi come si era pervenuti dal sogno della vittoria a quello del seno accogliente di una puttana disperata come i suoi clienti. Dopo i primi entusiasmi ci si era abituati non solo all'oscuramento e, immagino, ai bombardamenti, ma anche alla fame. Perché altrimenti si doveva raccomandare al piccolo Balilla, nel 1941, di coltivare sul proprio ballatoio un orticello di guerra, se non per potere ricavare quattro ortaggi anche dal più piccolo spazio? E perché il Balilla non riceve più notizie dal padre al fronte? Caro Papa ti scrivo e la mia mano quasi mi trema, lo comprendi tu. Son tanti giorni che mi sei lontano e dove vivi non lo dici più. Le lacrime che bagnano il mio viso son lacrime di orgoglio, credi a me. Ti vedo che dischiudi un bel sorriso, e il tuo Balilla stringi in braccio a te. Anch'io combatto, anch'io fo la mia guerra, con fede con onore e disciplina desidero che frutti la mia terra e curo rorticello ogni mattina... Il orticello di guerra! E prego Iddio che vegli su di te babbuccio mio.
Carote per la vittoria. D'altra parte ho letto su un quaderno un'altra pagina dove il maestro ci faceva annotare che i nostri nemici inglesi erano il popolo dei cinque pasti. Dovrei aver pensato che ne facevo cinque anch'io, caffellatte con pane e marmellata, spuntino alle dieci a scuola, pranzo, merenda e cena, ma forse non tutti i bambini erano fortunati come me, e un popolo che mangiava cinque volte al giorno doveva suscitare risentimento in chi doveva coltivare pomodori sul ballatoio. E allora perché gli inglesi erano così magri? Perché su una cartolina raccolta dal nonno, sopra la scritta Tacete! appariva un inglese maligno che cercava di spiare notizie militari che
l'improvvido camerata italiano si lasciava sfuggire magari al bar? Ma com'era possibile, se tutto il popolo era corso come un sol uomo alle armi? C'erano italiani che facevano la spia? I sovversivi non erano stati sconfitti, come mi spiegavano i racconti del libro di lettura, dal Duce con la Marcia su Roma? Varie pagine dei quaderni parlavano della vittoria ormai imminente. Ma mentre leggevo era capitata sul piatto del giradischi una canzone bellissima. Raccontava l'ultima resistenza di un nostro caposaldo nel deserto, Giarabub, e la vicenda di quegli assediati, alla fine vinti per fame e mancanza di munizioni, assurgeva a dimensioni epiche. Avevo visto qualche settimana prima alla televisione, a Milano, un film a colori sulla resistenza di Davy Crockett e Jim Bowie nel fortino di Alamo. Nulla è più esaltante del topos del fortino assediato. Immagino di aver cantato quell'elegia triste con l'emozione di un ragazzo che segua oggi un film del West. Cantavo che la fine dell'Inghilterra doveva cominciare da Giarabub, ma la canzone avrebbe dovuto richiamarmi Maramao perché sei morto, perché era la celebrazione di una sconfitta - e me lo dicevano i giornali del nonno: l'oasi di Giarabub era caduta in Cirenaica, dopo una bella resistenza, proprio nel marzo del quarantuno. Elettrizzare un popolo su una disfatta mi pareva una risorsa alquanto estrema. E quest'altra canzone, dello stesso anno, che prometteva la vittoria? Adesso viene il bello! Si prometteva il bello per aprile, quando avremmo perduto Addis Abeba. In ogni caso, "adesso viene il bello" si dice quando fa brutto tempo e si spera che le cose cambino. Perché doveva (in aprile) venire il bello? Segno che in quell'inverno in cui la canzone era stata cantata per la prima volta si auspicava un rovescio di fortuna. Tutta la propaganda eroica di cui venivamo nutriti alludeva a una frustrazione. Che cosa voleva dire il ritornello "Ritorneremo!" se non che si auspicava, si sperava, si confidava di tornare là dove si era stati sconfitti? E di quando era l'inno dei Battaglioni M? Battaglioni del Duce, Battaglioni della morte, creati per la vita, a primavera s'apre la partita, i continenti fanno fiamme e fior! Per vincere ci vogliono i leoni di Mussolini armati di valor.
Battaglioni della morte, Battaglioni della vita, ricomincia la partita, senza l'odio non c’è amor "M" rossa uguale sorte, fiocco nero alla squadrista noi la morte Vabbiam vista
con due bombe e in bocca un fior. Secondo le date del nonno doveva essere del 1943, e parlava ancora di un'altra primavera, di due anni dopo (in settembre avremmo firmato l'armistizio). A parte l'immagine, che deve avermi affascinato, della morte accolta con due bombe e in bocca un fior, perché la partita si doveva riaprire a primavera, perché doveva ricominciare? Si era dunque arrestata? Eppure ce lo facevano cantare, in spirito di immarcescibile fiducia nella vittoria finale. L'unico inno ottimistico che la radio mi ha proposto è stato la Canzone dei Sommergibilisti'. "Andar pel vasto mar ridendo in faccia a Monna Morte ed al Destino..." Ma quelle parole me ne richiamavano altre, e sono andato a cercare la canzone, Signorine non guardate i marinai. Questa non potevano farmela cantare a scuola. Evidentemente la trasmetteva la radio. La radio trasmetteva e l'inno dei sommergibilisti e l'appello alle signorine, sia pure in ore diverse. Due mondi.
Anche ad ascoltare le altre canzoni, sembrava proprio che la vita scorresse su due binari, da un lato i bollettini di guerra, dall'altro la continua lezione di ottimismo e gaiezza diffusa a piene mani dalle nostre orchestre. Iniziava la guerra di Spagna, e gli italiani morivano da una parte e dall'altra, mentre il Capo ci lanciava messaggi infuocati per prepararci a un conflitto più grande e sanguinoso? Luciana Dolliver cantava (che dolcissima fiamma) non dimenticar le mie parole, bimba tu non sai cos'è l'amore, l'orchestra Barzizza suonava bambina innamorata, stanotte t'ho sognata, sul cuore addormentata, e sorridevi tu, mentre tutti ripetevano fiorin fiorello l'amore è bello vicino a te. U regime celebrava la bellezza campagnola e le madri prolifiche ponendo una tassa sul celibato? La radio avvertiva che la gelosia non è più di moda, è una follia che non s'usa più. Scoppiava la guerra, bisognava oscurare le finestre e stare attaccati alla radio? Alberto Rabagliati ci sussurrava abbassa la tua radio per favore se vuoi sentire i palpiti del mio cuore. Iniziava malamente la campagna in cui avremmo dovuto "spezzare le reni alla Grecia", e le nostre truppe incominciavano a morire nel fango? Niente paura, non si fa all'amore quando piove. Davvero Pippo non lo sapeva? Quante anime aveva il regime? Infuriava sotto il sole africano la battaglia di El Alamein, e la radio intonava voglio vivere così col sole in fronte e felice canto, beatamente. Entravamo in guerra con gli Stati Uniti, i nostri giornali celebravano il bombardamento giapponese di Pearl Harbor, e andava in onda sotto il cielo delle Hawai, se in una notte scenderai, il paradiso sognerai (ma forse il pubblico della radio non sapeva che Pearl Harbor era nelle Hawai e che le Hawai erano territorio americano). Paulus si arrendeva a Stalingrado tra cataste di cadaveri da ambo le parti, e noi ascoltavamo ho un sassolino nella scarpa, ahi, che mi fa tanto tanto male. Iniziava lo sbarco alleato in Sicilia e la radio (con la voce di Alida Valli!) ci ricordava che l'amore no, l'amore non si può
disperdere con l'oro dei capelli. Avveniva la prima incursione aerea su Roma e Jone Caciagli cinguettava notte e dì soli soli, con le mani nelle tue mani sino all'alba dell'indomani. Gli alleati sbarcavano ad Anzio e alla radio furoreggiava Besame, hesame mucho, c'era il massacro delle Fosse Ardeatine e la radio ci teneva allegri con Crapapelata e Dove
sta Zazà, Milano era martoriata dai bombardamenti e Radio Milano trasmetteva La gagarellà del Biffi Scala.... E io, io, come vivevo questa Italia schizofrenica? Credevo nella vittoria, amavo il Duce, volevo morire per lui? Credevo nelle frasi storiche del Capo che il maestro ci dettava: è l'aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende, noi tireremo diritto, se avanzo seguitemi se indietreggio uccidetemi? Ho trovato un tema in classe, su un quaderno della quinta elementare, 1942, Anno XX dell'Era Fascista: ARGOMENTO - "O fanciulli, voi dovete essere per tutta la vita le guardie della nuova eroica civiltà che l'Italia sta creando" {Mussolini). TRATTAZIONE - Ecco avanzare sulla strada polverosa una colonna di bimbi. Sono i Balilla che, fieri e gagliardi sotto il tepido sole della nascente primavera, marciano disciplinati e obbedienti ai comandi secchi impartiti dai loro ufficiali; sono quei ragazzi che a ventanni lasceranno la penna per impugnare il moschetto per difendere l'Italia dalle insidie nemiche. Quei Balilla che si vedono sfilare per le vie al sabato e studiar chini sui banchi della scuola gli altri giorni, diventeranno all'età giusta fedeli e incorruttibili guardiani dell'Italia e della sua civiltà. Chi avrebbe immaginato, vedendo sfilare le legioni della "Marcia della giovinezza' che quei giovani imberbi, molti dei quali ancora Avanguardisti, avrebbero già arrossato col loro sangue le sabbie infuocate della Marmarica? Chi immagina, vedendo quei ragazzi allegri e sempre in vena di scherzare, che tra pochi anni potranno anche morire sul campo col nome d'Italia sulle labbra? Il mio assillante pensiero è sempre stato questo: quando sarò alto farò il soldato. Ed ora che per radio apprendo gli infiniti atti di coraggio, di eroismo e di abnegazione compiuti dai nostri valorosi soldati, questo desiderio si è ancora più incatenato nel mio cuore e nessuna forza umana potrà da esso sradicarlo. Sì! Sarò soldato, combatterò e se l'Italia vorrà morrò, per la sua nuova, eroica, santa civiltà che apporterà benessere al mondo e che Iddio ha voluto fosse realizzata dall'Italia. Sì! I Balilla allegri e scherzosi da alti diventeranno leoni nel caso che un nemico osasse profanare la nostra santa civiltà. Combatterebbero come belve scatenate, cadrebbero e si rialzerebbero per combattere ancora, e vincerebbero facendo trionfare ancora una volta lltalia, l'immortale Italia. E con il ricordo animatore delle glorie passate, con i risultati di quelle presenti, e colla speranza di quelle future, che saranno date dai Balilla, i ragazzi di oggi, soldati di domani, l'Italia continua il suo glorioso cammino verso l'alata vittoria. Ci credevo davvero o ripetevo frasi fatte? Che cosa dicevano i miei genitori vedendomi portare a casa, con un ottimo voto, quei testi? Forse dovevano crederci anche loro, perché frasi simili avevano assorbito anche prima del fascismo. Per quel che la gente ne sa, non erano nati e cresciuti in un clima nazionalista in cui si inneggiava al primo conflitto mondiale come a un lavacro purificatore, non dicevano i futuristi che la guerra era la sola igiene del mondo? E tra i libri del solaio mi era capitata in mano una vecchia copia del Cuore di De Amicis, dove, tra gli eroismi del piccolo patriota padovano e gli atti generosi di Garrone, avevo letto una pagina in cui il padre di Enrico così scrive al figlio, in elogio del Regio Esercito: Tutti questi giovani pieni di forza e di speranze possono da un giorno all'altro essere chiamati a difendere il nostro Paese, e in poche ore essere sfracellati tutti dalle palle e dalla mitraglia. Ogni volta che senti gridare in una festa: viva l'Esercito, viva l'Italia, raffigurati, al di là dei reggimenti che passano, una campagna coperta di cadaveri e allagata di sangue, e allora l'evviva dell'esercito ti escirà più profondo dal cuore, e l'immagine dell'Italia ti apparirà più severa e più grande.
Dunque non solo io, ma i miei maggiori erano stati educati a concepire l'amore per la propria terra come tributo di sangue, e a non inorridire ma anzi a eccitarsi di fronte a una campagna allagata di sangue. D'altra parte, non cantava cent'anni prima il mitissimo Poeta O venturose, care e benedette - le antiche età che a morte - per la Patria correan le genti a squadre} Ho compreso come anche i massacri del Giornale Illustrato dei Viaggi e delle Avventure non dovessero suonarmi affatto esotici, perché nel culto dell'orrore si veniva cresciuti. E non si trattava solo di culto italiano, perché proprio nei racconti del Giornale Illustrato avevo letto di altre esaltazioni guerresche e di redenzione attraverso il bagno di sangue, pronunziate da eroici poilus francesi, che facevano dell'onta di Sedan il loro mito rabbioso e vendicatore, come noi l'avremmo fatto con Giarabub. Nulla eccita di più all'olocausto che il rancore per una sconfitta. Così ci veniva insegnato a vivere, padri e figli, raccontandoci come fosse bello morire. Ma quanto volevo davvero morire e che cosa sapevo della morte? Proprio sul libro di lettura della quinta classe si leggeva un racconto, Loma Valente. Le pagine erano le più spiegazzate di tutto il volume, il titolo era segnato con una croce a matita, molti brani sottolineati. Era un episodio eroico della guerra di Spagna: un battaglione di Frecce Nere è appostato di fronte a un cocuzzolo, una loma in spagnolo, duro e scabro, che offre scarsa presa all'attacco. Ma un plotone è comandato da un atleta bruno di ventiquattro anni, Valente, che in patria studiava lettere e scriveva poesie, ma aveva anche vinto i Littoriali per il pugilato, e si era arruolato volontario in Spagna, dove c'era "da combattere anche per i pugili e per i poeti". Valente comanda l'attacco conscio del pericolo, il racconto descrive le varie fasi di questa eroica impresa, i rossi ("maledetti, dove sono? perché non vengono fuori?") sparano con tutte le loro armi, a scroscio, "come buttassero acqua su un incendio che dilaga e si avvicina". Valente fa ancora pochi passi per conquistare la cima, e un colpo secco e improvviso in fronte gli riempie gli orecchi di un terribile frastuono: Poi buio. Valente ha il viso sull'erba. Il buio ora è meno scuro; è rosso. Inocchio dell'eroe più vicino a terra vede due o tre fili d'erba grossi come pali. Si avvicina un milite, sussurra a Valente che la cima è conquistata. Per Valente ora parlava l'autore: "Che cosa significa morire? È la parola, di solito, che fa paura. Ora che muore, e lo sa, non sente né caldo, né freddo, né dolore." Sa solo che ha fatto il suo dovere e che la loma che ha conquistato porterà il suo nome. Dal tremore che accompagnava la mia rilettura adulta capivo che quelle poche pagine mi avevano raccontato per la prima volta la vera morte. Quell'immagine dei fili d'erba grossi come pali sembrava avere abitato la mia mente da tempo immemorabile, perché leggendo quasi li vedevo. Anzi, avevo l'impressione di aver ripetuto varie volte, bambino, come un rito sacro, una discesa nell'orto, dove mi sdraiavo prono, con il viso quasi schiacciato contro qualche erba odorosa, per vedere davvero quei pali. Quella lettura era stata la caduta sulla via di Damasco che mi aveva segnato forse per sempre. Era negli stessi mesi in cui scrivevo il tema che mi aveva tanto turbato. Possibile tanta doppiezza? O forse avevo letto la novella dopo il tema, e da quel momento tutto era cambiato? Ero giunto alla fine dei miei anni delle scuole elementari, che si concludevano con la morte di Valente. I libri delle medie erano meno interessanti, se parli dei sette re di Roma, o dei polinomi, fascista o no, devi dire più o meno le stesse cose. Ma delle medie c'erano dei quaderni di "Cronache". C'era stata qualche riforma dei programmi, e non si davano più temi a soggetto fisso, evidentemente eravamo incitati a raccontare episodi della nostra vita. Ed era cambiata l'insegnante, che leggeva ogni cronaca e con la matita rossa ne appuntava non un voto bensì un commento critico, sullo stile o sull'inventiva. Da certe desinenze di quegli appunti ("sono stata colpita dalla vivacità con cui...") si capiva che avevamo a che fare con una donna. Certamente una donna intelligente (forse l'adoravamo, perché leggendo
quei messaggi in rosso sentivo che doveva essere giovane e bella e, Dio sa perché, amante dei mughetti), che cercava di spingerci a essere sinceri e originali. Una delle cronache più elogiate era questa, in data dicembre 1942. Avevo ormai undici anni, ma scrivevo solo nove mesi dopo il tema precedente: CRONACA - II bicchiere infrangibile. La mamma aveva comperato un bicchiere infrangibile. Ma di vetro proprio, vetro vero, e di questo me ne stupivo perché, quando accadde questo fatto il sottoscritto contava appena pochi anni, e le sue facoltà mentali non erano ancora tanto sviluppate da poter immaginare che un bicchiere, un bicchiere simile a quelli che cadendo fanno trinn! (procurando una buona dose di scappellotti) potesse essere infrangibile. Infrangibile! Mi sembrava una parola magica. Riprova una, due, tre volte, il bicchiere cade, rimbalza con un fracasso indiavolato, e si ferma intatto. Una sera vengono dei conoscenti e vengono offerti dei cioccolatini (notare che allora quelle leccornie esistevano ancora; e a profusione). Con la bocca piena (non ricordo più se di (